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Title: La Campagna del 1796 nel Veneto
Author: Barbarich, Eugenio, 1868-1931
Language: Italian
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Di prossima pubblicazione:[1]

La Campagna del 1796 nel Veneto.

PARTE II.--Dal ponte di Lodi alla manovra
            di Lonato e Castiglione.

EUGENIO BARBARICH

Capitano di stato maggiore

----

LA CAMPAGNA DEL 1796

NEL VENETO

----

PARTE PRIMA

LA DECADENZA MILITARE DELLA SERENISSIMA

UOMINI ED ARMI

ROMA ENRICO VOGHERA, EDITORE

----

1910

Roma, 1909.--Tip. E. Voghera

INDICE

   I.--Le fonti della milizia veneta
  II.--L'amministrazione centrale della guerra.
       Savio di terraferma alla scrittura e le magistrature
       militari
III.--Ufficiali grandi e piccini
  IV.--Le truppe assoldate
   V.--Le milizie paesane
  VI.--L'artiglieria veneziana
VII.--Il corpo degli ingegneri militari
VIII.--La cavalleria veneta. Le armi nel loro complesso, il governo ed
       il riparto difensivo e territoriale. I veterani
  IX.--L'addestramento della truppa veneta
   X.--Dei bilanci militari
  XI.--Conclusione

           IN MEMORIA

                DI

          FRANCESCO PESARO

  TENACE PROPUGNATORE NEL VENETO SENATO
         D'UNA VENEZIA FORTE.



PREMESSA

                 Ayez les choses de première main;
                 puisez à la source!....

                 (LA BRUYÈRE.--_Maximes_)


Il presente studio non vuol essere che una prefazione intesa a far
conoscere l'ambiente militare ed i personaggi che accompagnarono la
_Serenissima_ al sepolcro. Perchè, se esiste qualche opera di indubbio
valore intorno all'armata della Veneta Repubblica, poco o nulla di
edito si trova relativamente al suo esercito, quasi che fosse
argomento trascurabile nella vasta trama delle politiche vicende dello
Stato nato sul mare e per il mare.

Ora questa presunzione non è equa. Qualunque ramo dell'attività
pubblica merita riguardo e considerazione, e soltanto il giudizio
particolare sopra ciascun ramo dell'attività medesima può mettere capo
ad una sintesi illuminata e completa.

Al caso concreto poi dell'attività militare veneta, cimentata nei
tempi dello splendore alle tenaci e vittoriose lotte contro i Turchi
in difesa della Cristianità, dei commerci e dell'incivilimento contro
la barbarie, sembra argomento cospicuo di studio l'esame
dell'evoluzione di questa attività giunta al termine del suo ciclo ed
il coglierla quando sta per accasciarsi sopra sè stessa come una
persona fatta decrepita, pavida ed intransigente.

Questo dal lato puramente soggettivo della speculazione storica. Ma
v'ha ancora un altro argomento di peculiare interesse che può spingere
all'indagine intorno alla decadenza militare della Veneta Repubblica.

L'ambiente della storia presenta ricorsi di singolare rilievo,
suggestioni forti e spontanee sulle quali, a determinati periodi di
tempo, non sembra nè vano nè inutile riportare il contributo positivo
degli studi e della meditazione, affinchè traccino a loro volta norma
ad un nuovo ricorso di fatti.

E Venezia, con gli svariati suoi atteggiamenti della politica, dei
commerci, dell'arte, dell'incremento economico e marinaro, è soggetto
che volentieri s'impone oggigiorno allo spirito ed alla fantasia e li
occupa con l'inesauribile fascino di una figura dalle perfezioni
classiche. L'opera del Molmenti sulla storia di Venezia nella vita
privata simboleggia l'espressione più bella ed alta di questi sensi.

Per le cose della decadenza e della rovina militare della
_Serenissima_ i documenti non scarseggiano. V'ha anzi plètora, come
per solito accade dei periodi storici e sociali di debolezza e di
dissolvimento, i quali sono pur sempre anche i più loquaci e
papirofili, perchè appunto sono i meno attivi e materiati di fatti.

E questi documenti assai numerosi e del tutto inesplorati nelle grosse
filze del _Senato militar_ e dei provveditori Foscarini e Battagia
all'Archivio di Stato dei Frari in Venezia, oltre che illustrare il
periodo storico singolarmente considerato, gittano per riverbero nuova
luce sulle operazioni dell'esercito francese e del generale
Buonaparte, da Lodi a Leoben.

Sicchè studiando questo brano di storia militare inedita nel campo
pratico delle vicende storiche e militari nostrane, si stende la mano
a quella meravigliosa messe di studi e di documentazione delle guerre
napoleoniche che ci viene d'oltre Alpe, e che con i volumi del
capitano Fabry spinge innanzi la bella marcia delle indagini fin sulla
soglia degli Stati Veneti, all'Adda ed all'Oglio nella primavera
dell'anno 1796[2].

Roma, dicembre 1909.

E.B.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Non può essere copiosa, una nota bibliografica quando gli argomenti
dell'indagine si riferiscono pressocchè esclusivamente all'inedito.
Nondimeno occorre citare a questo punto qualche opera di interesse
generale utile per inquadrare la materia particolare dello studio
presente.

La documentazione inedita, riferita più specialmente alla raccolta
«_Deliberazioni Senato Militar_» e «_Deliberazioni Senato Militar in
Terraferma_», si trova singolarmente descritta per ogni argomento di
trattazione.


L. CELLI.--_Le ordinanze militari della Repubblica Veneta nel secolo
XVI_.--Nuova Antologia--Vol. LIII--Serie III--Fascicoli del 1
settembre e 1 ottobre 1894.

F. NANI MOCENICO--_Giacomo Nani--Memorie e documenti_--Venezia, Tip.
dell'_Ancora_, 1893:

V. MARCHESI.--_Tunisi e la Repubblica di Venezia_.--Torino, Roux edit.

A. MENEGHELLI.--_Vita di Angelo Emo_.--Padova, 1836.

M. FERRO.--_Dizionario del Diritto comune e Veneto_.--Venezia, Santini
Edit. 1845.

S. ROMANIN.--_Storia documentata di Venezia_--Vol. IX, Venezia, 1850.

8. ROMANIN.--_Lezioni di storia veneta_.--Firenze, Le Monnier, 1876.

P. MOLMENTI.--_Storia di Venezia nella vita privata_--Parte Terza--Il
decadimento.--Bergamo, Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1908,

CASONI.--_Forze militari_ (in _Venezia e le sue lagune_, Vol I).

A. RIGHI.--_Il conte di Lilla e l'emigrazione francese a Verona_.
(1794-1796)--Perugia, Bertelli edit., 1909.

E. PESENTI.--_Angelo Emo e la Marina Veneta del suo tempo_.--Venezia.
Naratovich, 1899.

LA CAMPAGNA DEL 1796 NEL VENETO

PARTE PRIMA

LA DECADENZA MILITARE DELLA SERENISSIMA [Blank page]



CAPO I.

Le fonti della milizia veneta.


La sera del 2 giugno 1796 deve essere stata assai tragica per i
senatori veneziani convenuti al casino del _procuratore_ Pesaro, alla
Canonica[3], per deliberare intorno a gravi oggetti concernenti la
Repubblica. Il _provveditore generale in Terra Ferma_, Nicolò
Foscarini, aveva avuto il dì avanti, sotto Peschiera, un colloquio
burrascoso con il generale Buonaparte, nè gli era riuscito a
rabbonirlo che a prezzo di dolorose abdicazioni per la dignità della
vetusta Serenissima. E l'uomo nuovo, con la visione dinanzi agli occhi
di sconfinati orizzonti di gloria, si era trovato di fronte all'uomo
del passato, che vedeva chiudersi per la sua patria quegli orizzonti
medesimi sotto il velo grigio e melanconico del tramonto.

Il generale Buonaparte aveva accusato il Senato Veneto di tradimento
per avere permesso giorni avanti agli Austriaci di occupare Peschiera,
di slealtà per avere dato asilo in Verona al conte di Lilla, di
parzialità colpevole--come egli diceva--per male corrispondere alle
pressanti esigenze di vettovaglie e di carriaggi da parte
dell'esercito francese, di neutralità violata infine in vantaggio dei
nemici suoi, gli Austriaci.

Ora, di tutto questo, Buonaparte aveva dichiarato al vecchio Foscarini
di doverne trarre aspra vendetta per ordine del Direttorio,
incendiando Verona e marciando contro Venezia. Il rappresentante
Veneto, atterrito, era riuscito alla fine a indurre il focoso generale
a più umani consigli ed a salvare Verona, ma più con l'aspetto della
sua desolata canizie che con la virtù della parola, a condizione però
«che le truppe «del generale Massona fossero ammesse in città,
occupassero «i tre ponti sull'Adige, avvertendo che le minime
rimostranze «che si imaginassero di fare i veneti riuscirebbero il
segnale «dell'attacco[4]».

Tra l'incendio e l'occupazione militare non era dubbia la scelta, ed
al Foscarini fu giocoforza di cedere. Duramente Buonaparte aveva
rifiutato al vecchio provveditore perfino il tempo necessario, per
prendere gli ordini dal Senato e lo aveva accomiatato «con i modi che
il vincitore detta leggi al vinto[5]».

Era il principio della fine della Serenissima. All'udire i dolenti
messaggi del Foscarini, l'accolta dei senatori veneti alla _Canonica_,
pavida, discorde, sfiaccolata, non trovò altro rimedio al male che
spacciare due Savi del Collegio a Verona per assistere il provveditore
in altri colloqui con il generale Buonaparte, quasi che il loro
mandato fosse quello di sorreggere con le dande gli estremi passi del
valetudinario diplomatico e della agonizzante Repubblica.

La fiducia nelle arti della parola e del protocollo rappresentava
ancora, agli occhi dei contemporanei, l'ultima àncora di salvezza,
perchè i tempi di Sebastiano Verniero e di Francesco Morosini erano
trascorsi da un pezzo. Ed i due nuovi eletti in quella tumultuaria
adunanza notturna per implorare mercè al vincitore di Dego, di
Millesimo e del ponte di Lodi, furono Francesco Battagia e Nicolò
Erizzo I. Essi partirono sùbito alla volta del campo francese sotto
Verona, recando seco «40 risme di carta di buona qualità, 12 risme di
carta piccola da lettere _lattesina_, 2000 penne, 3000 bolini grandi
ed altrettanti piccioli, 36 libbre di cera Spagna, un barilotto di
inchiostro, 6000 fogli di carta imperiale, registri, spaghi e
spaghetti in grande quantità».[6] La burocrazia aulica della
Serenissima, in difetto di soldati e di armi, così provvedeva alla
difesa delle sue città murate e del suo territorio.

A quel tempo, l'esercito veneto si era oramai consunto per vecchiezza.
I lunghi e sfibranti periodi di pace e di neutralità in cui l'inazione
suonava colpa e l'assenteismo politico della Repubblica, prolungata
offesa alla dignità del vecchio e glorioso Stato italico, l'abbandono,
lo scadimento d'ogni istituto, lo scetticismo e l'indifferenza,
avevano siffattamente prostrata la milizia veneziana da imprimere sul
suo volto, un tempo già gagliardo e raggiante per le vittorie d'Italia
e d'Oriente, le rughe più squallide della decrepitezza ed il marchio
più profondo della dissoluzione.

La bella e radiosa visione del monumento a Bartolomeo Colleoni, fiera
ed energica come il suggello di una volontà prepotente, stupenda come
l'annunzio di una vittoria pressochè astratta dall'ordine dei tempi,
grado a grado si era dileguata nell'esercito della Serenissima, come
svanisce un sogno carezzato alla luce di una triste realtà.
     *
    * *

Il nerbo degli armati della Serenissima traeva origine da due
provenienze distinte: i _mercenari_ e le _cerne_. E queste e quelli,
per la comunanza del servizio sul mare, ritraevano un tal carattere
anfibio che imprimeva alla milizia veneta fisionomia ed atteggiamenti
del tutto diversi dalle altre milizie contemporanee.

Queste due fonti si erano nel passato così bene intrecciate assieme,
da dar vita ad un fiume ricco d'acque e poderoso nel quale, in
determinati e non infrequenti periodi della storia, si erano come
trasfuse tutte le tradizioni militari dei Comuni e degli Stati
dell'Italia.

Il _mercenarismo_ rampollava dalle antiche compagnie di ventura e ne
aveva dapprincipio tutto il sapore e tutto lo spirito, considerate le
forme repubblicane della Serenissima e le tendenze della sua società
aristocratica e marinara. Questo spirito, a grado a grado, si era
modificato e quasi plasmato sotto il ferreo stampo fortemente unitario
degli istituti veneziani del Rinascimento; sicchè il mercenarismo,
tratto fuori dal martellare delle passioni partigiane e dall'angusta
cerchia delle passioni cittadine, aveva alla fine assunto in Venezia
una individualità più piena, lineamenti più decisi e sicuri da
organismo di Stato.

Infine la medesima stabilità ed unità degli ordini oligarchici veneti,
l'èsca dei largheggiati premi, il miraggio delle accumulate ricchezze,
il cemento glorioso del sangue prodigato per un vincolo mistico e
positivo insieme--quello della fede e della pubblica economia
rivendicate sotto i fieri colpi del Turco--avevano contribuito ad
imprimere a quel vecchio istituto militare del _Trecento_ una
fisionomia veneta. schiettamente originale, che sembrava quasi fusa
dentro l'orma formidabile del leone di San Marco.

Nel frattempo il periodo eroico della guerra di Cambrai, delle lotte
di Candia e delle campagne del Morosini erano volti al tramonto.[7] La
Serenissima divenuta più sollecita di conservare che di conquistare,
aveva stimato savio consiglio quello di fare più largamente partecipi
de' suoi beni i propri soldati, specie i mercenari dalmati, allo scopo
di meglio stringerseli dattorno con i vincoli della gratitudine e
dell'interesse, con quei legami di amorevolezza che suscitano il
reggimento paterno e la coscienza della solidarietà delle fonti del
comune benessere.

Questo cammino, che sapeva del romano antico, pareva bello e fiorito
ma celava non pochi rovi e non poche spine. La Serenissima, fatta
vegliarda, largheggiò per troppa debolezza in autonomie, in franchigie
e donativi a benefizio de' suoi soldati di mestiere, ed apparecchiò
fatalmente a sè medesima ed alle istituzioni militari quella rovina
che, in altri tempi, aveva annientato il vigore delle colonie
legionarie di Roma. Anzitutto, quella continua e gagliarda corrente di
forze fresche e nuove che, dal littorale dalmata, rifluiva ai dominî
di Terraferma e di Levante per rinsanguare le schiere dei così detti
reggimenti di _Oltremarini_--levati in origine per servire sulle
navi--cominciò ad inaridire pel tralignare degli ordini feudali in
Dalmazia e pel diffondersi del benessere nelle repubbliche marinare e
nei municipi liberi. Infine, il difetto di stimolo alle audaci
imprese--primo incentivo allo spirito di ventura--e le lunghe paci, lo
asfissiarono e l'uccisero come sotto le distrette di una enorme
camicia da Nesso. Le angustie finanziarie compirono l'opera.

Così le truppe levate per ingaggio tanto Oltremare che in Italia
principiarono a morire a sè medesime. Francesco Morosini già da tempo
aveva avvisata questa lenta ruina, quando per mantenere a numero il
suo esercito del Peloponneso aveva dovuto ricorrere ai rifiuti di
pressocchè tutti i mercati d'uomini d'armi d'Europa ed incettare, coi
Toscani e Lombardi, anche gli Svizzeri, gli Olandesi, i Luneburghesi
ed i Francesi; di guisa che con cosiffatta _genia_--come egli
disse--corse rischio non già di dettare legge al nemico bensì di
riceverla dai suoi soldati medesimi[8].

Nel 1781, come risulta dai _piedilista_, ruoli organici e stanza dei
corpi insieme delle milizie venete redatti dall'_inquisitore ai
pubblici rolli_, mancavano 654 _oltremarini_ nei presidi di Levante,
353 in quelli di Dalmazia, 263 in quelli del Golfo e 42 infine in
quelli d'Italia. In totale 1312 soldati oltremarini mancanti, su 3449
che dovevano essere presenti alle armi in quell'anno, suddivisi in 99
compagnie ed 11 reggimenti.[9]

In questo intervallo i nobili dalmati--feudatari un tempo, poi
condottieri eroici e devoti delle milizie venete di ventura,
modificate e migliorate nel senso di cui sopra è cenno--si erano
venuti imborghesendo grado a grado [10]. L'antico privilegio loro di
levare e di vestire i propri fanti con le vistose casacche cremisine e
di donarli poscia, come in simbolo di fede ardente e di accesa
devozione alla Serenissima, era degenerato col tempo e diventato un
mercimonio tra le mani venali degli ingaggiatori, dei capi-leva e
degli ingordi _racoleurs_.

La Serenissima tentò dapprima di ravvivare i sopiti spiriti bellicosi
di quella nobiltà, un po' distratta dalle fortune commerciali della
Repubblica ragusèa, dalle libertà comunali di Spàlato e di Zara e
dalle autonomie di Poglizza, col largire nuovi privilegi, decime,
concessioni e _bacili di formento_. Ma la prodigalità attizzò alla
fine l'avarizia e non accese i desiderati spiriti di patriottismo,
talchè i _deputati et aggionti alla provvigion del dinaro_ nell'agosto
del 1745 si videro obbligati a porre un freno alla disastrosa ed
infruttuosa corrività della Repubblica verso la nobiltà dalmata;
corrività che minacciava, di rovinare le «camere (_tesorerie_) di
quelle province, costringendo per questo oggetto a farsi più
abbondanti et frequenti le missioni di pubblico danaro per le esigenze
di quelle parti» [11].

Nè più valeva a risollevare l'intisichito spirito di ventura tra i
Dalmati--i mercenari per eccellenza--l'imagine della forza e della
potenza guerriera della Serenissima. Le parvenze esterne dell'imperio,
alle quali si affidava buona parte del suo prestigio presso le
popolazioni soggette, erano precipitate a quel tempo in uno stato di
abbandono colpevole. «Le fortificazioni di Levante, della Dalmazia e
dell'Albania--scriveva nel 1782 il brigadiere degli ingegneri Moser de
Filseck al Doge--sono in uno stato di desolazione tale da commuovere a
riguardarle... A Zara, ogni parte delle opere componenti i recinti e
le fortificazioni è in rovina... Spàlato è in decadimento, ed un
nemico può eseguirvi un colpo di mano, a suo talento... Lo stato
infine del forte S. Francesco a Cerigo fa rabbrividire pel decoro del
Principato»[12].

Le armi vecchie e rugginose avevano dunque disamorato i venturieri a
detergerle in Italia, ed Oltremare. Restava soltanto qua e là per la
Dalmazia ed in Levante qualche guizzo del fulgore antico, raccomandato
ad un sentimento di gratitudine giammai sopito nel cuore delle genti
d'altra riva dell'Adriatico verso la Veneta Repubblica, che le aveva
raccolte sotto le proprie ali nei tempi più travagliati della
Cristianità e difesi contro il Turco. Ed a questi sentimenti, le
ultime compagnie di ventura italiane avevano raccomandato i loro
estremi giorni di vita a Venezia.

   *
  * *

L'altra fonte delle milizie venete era rappresentata dalle _cerne _,
che fornivano soldati dei luoghi ordinati con previdenze territoriali,
specie di _Landwehr_ che si levava in tempo di guerra o di neutralità
a rincalzo dei mercenari, cioè dei _provvisionati_. Le _cerne_ venete,
o soldati d'_ordinanza_, emanavano adunque direttamente dal pensiero
politico e militare di Nicolò Macchiavelli, che volle l'istituto delle
milizie nazionali tratto dal popolo pedestremente armato[13].

Costituiva il nerbo delle cerne l'elemento rurale dei domini di
Terraferma e d'Oltremare, cui la Serenissima aveva fatto larghe
concessioni per rinfrancarlo nel suo innato spirito conservatore ed
adescarlo a servire, lietamente ed in buon numero, nella milizia
regionale. Di queste prime pratiche conservò memoria il Bembo.

«Deliberò il Senato--egli scrisse--che, nel Veronese, l'anno 1507, un
certo numero di contadini che potessero armi portare, si scegliesse e
descrivesse; i quali all'arte militare si avvezzassero, e costoro
liberi da tutte gravezze fossero, acciò più pronti alle cose della
guerra essere potessero, e chiamati alle loro insegne incontanente
v'andassero. Il qual raccoglimento di soldati di contado agli altri
fini della Repubblica (come suole l'uso essere di tutte le cose
maestro) in breve passò e si diffuse. Il perchè ora le ville ed i
ragunamenti degli uomini del contado di ogni città, parte de' suoi
hanno che a questa cosa intendono, di essere armati ed apparecchiati
di maniera che, senza spazio, alla guerra subitamente gire e trovarsi
e servire alla Repubblica e per lei adoperare si possono. E queste
genti tutte _soldati di ordinanza_, o _cernite_, si chiamarono»[14].

La guerra della lega di Cambrai, combattuta per l'integrità dei domini
della Signoria, consolidò questa milizia paesana e la fece popolare,
ad onta dei tentativi fatti per denigrarla--più che tutto dopo lo
sbaraglio di Vailate--per opera dei troppo interessati fautori delle
milizie assoldate, gli industriali della guerra d'allora. In sostanza,
si voleva rovesciare sopra i soldati di _ordinanza_ un po' di quel
discredito e di quella noncuranza di cui gli eserciti regolari furono
sempre prodighi verso le «guardie nazionali».

Il grande vantaggio delle cerne consisteva, anzitutto, nel loro costo
sensibilmente minore in confronto del necessario per mantenere un
eguale numero di soldati di mestiere. Toccava infatti al comune di
descriverle, di armarle e d'inquadrarle in centurie; laddove questo
còmpito, per i soldati di mestiere, toccava ai capi-leva che ne
ritraevano un utile per sè e per la compagnia. Anche i gradi delle
cerne, fino a quello dei _capi di cento_ incluso, si attribuivano di
massima per elezione nei villaggi che contavano il maggior numero di
_descritti_.

Gli obblighi di questi ultimi erano limitati a cinque mostre o
rassegne annuali (_mostrini_), oltre a talune riviste straordinarie
(_generali_) in luoghi designati, con il comune consenso dei soldati
medesimi, escluse però le fortezze, le terre murate, i castelli ed i
grossi villaggi. Epperciò le rassegne si compievano d'ordinario in
rasa campagna.

Le cerne dovevano presentarsi alle rassegne con le armi che avevano
personalmente in consegna dai comuni, come si pratica per lunga
tradizione nella Svizzera: le assenze erano punite con la _descrizione
a galeotto_, oppure con la multa di 5 ducati[15]. In queste rassegne
le cerne ricevevano la polvere da moschetto, il piombo e la corda
occorrenti per confezionare _li scartocci_, i quali erano poi
verificati dai capitani alla presenza dei _capi di cento_.

Con queste munizioni i soldati si esercitavano al _palio_, vale a dire
al tiro a segno nei campi appositamente stabiliti.

Dal lato economico adunque le cerne rappresentavano un notevole
vantaggio per le finanze della Signoria, una vàlvola di sicurezza
all'aprirsi delle guerre, perchè esse esimevano lo Stato dal
ricorrere--sotto la pressione del bisogno e sotto il giogo della
domanda--al mercato sempre sostenuto dei soldati di mestiere.

   *
  * *

Ma il vantaggio delle milizie paesane non era solo d'indole
economica--cosa per certo non disprezzabile tenuto conto delle
angustie finanziarie in cui versava la Serenissima verso la sua
fine--ma anche di natura morale. Lo schietto spirito di regionalità di
cui erano come impregnate le cerne, il quale traeva origine dai sani e
vigorosi succhi della terra, conferiva loro molto prestigio e dava
affidamento di moralità grande, laddove i soldati di mestiere, rifiuto
della società del tempo, erano rappresentati dal generale veneto
Salimbeni come «_sentina d'ogni vizio_».

Dalle cerne infatti erano esenti i capi di famiglia, per un
patriarcale riguardo riferito alle cose della guerra e nelle famiglie
stesse non si _descriveva_ più di un soldato per ognuna, tenendo fermo
il concetto di non ammettere in questa milizia che sudditi genuini
della Repubblica. Dalle cerne erano inoltre esclusi i servitori, i
girovaghi, i condannati ed i galeotti, sicchè l'elemento di esse era
incomparabilmente migliore di quello dei soldati di mestiere, tra i
quali si accoglievano «tutti gli oziosi ed i vagabondi che dalla
Terraferma si spediscono in castigo nelle province di Oltremare, per
cui cresce la massa dei vizi e delle corruttele nella truppa, e sono
cagione della poca disciplina e del fisico deperimento di essa»[16].

Passate quindi le guerre unicamente ispirate al concetto della difesa
dei dominî italici, prese il sopravvento la presunzione dei riguardi
dovuti in uno Stato marinaresco e repubblicano alla libertà
individuale dei propri sudditi, che si voleva completamente arbitra di
esplicarsi, senza restrizione alcuna, secondo il miglior rendimento
delle energie di ciascuno di essi. La tolleranza dei pubblici uffizi,
il benessere diffuso, il vezzo delle neutralità ripetute
invariabilmente allo aprirsi di ciascuna campagna, a partire dalla
sciagurata pace di Bologna (1530), invogliarono le genti già
disamorate delle armi a colorire codeste teorie di liberismo militare
con le tinte più accese dell'arte tizianesca. E la presunzione, oppure
la consuetudine, per l'ignavia degli uomini e per la debolezza dei
tempi acquistò alla fine vigore di legge. La Repubblica, ricca ed
imbelle, poteva ben concedersi anche il lusso di comperare i soldati
di cui abbisognava per la difesa de' propri domini.

Principiò così a diffondersi la costumanza delle tasse militari, o
_tanse_, cioè del prezzo di riscatto dal servizio dovuto nelle cerne,
con il cui prodotto componevasi un fondo destinato ad assoldare
altrettanti mercenari. Gli artieri ne approfittarono subito, poi i
barcaiuoli veneziani e gli ascritti alle scuole di Santa Barbara, da
cui levavansi i cannonieri dell'esercito della Serenissima. E le
_tanse_ acquistarono fin d'allora la denominazione di _insensibili_,
perchè essendo ripartite per _arte_ su tutte le persona che le
componevano, ne venivano a risultare delle quote d'affrancazione
individuale dal servizio molto tenui; vale a dire quasi insensibili.

Cresciuto il favore delle tanse, crebbe in parallelo la corrività
delle _cassazioni_, cioè delle esonerazioni tra le cerne, e divenne
facile l'esimersi dal servizio facendosi sostituire per denaro da un
altro soldato tratto dalla medesima milizia. Le rassegne caddero col
tempo in dissuetudine, si trascurò la vigilanza da parte dei comuni, e
questo primo e magnifico esempio di _landwehr_ veneta principiò a
languire ed a morire[17].

Nella Dalmazia le cerne furono introdotte da Valerio Chierigato
intorno all'anno 1570, e si denominarono _craine_ o _craicinich_. Ma
per gli stessi motivi dianzi esposti, esse erano scadute sul finire
della Repubblica anche da quelle parti e le loro sorti si erano già
accomunate con quelle dei soldati _oltremarini_ o di mestiere.

Così delle due fonti essenziali della milizia veneta--eredità
dell'arte italica del Cinquecento--i soldati prezzolati e le cerne,
gli uni sopravvivevano ancora alle ingiurie dei tempi ma tutti
squassati e ridotti come una larva di sè medesimi, le altre erano
pressochè scomparse dalla scena della vita militare veneziana, o si
consideravano tutto al più come un rudere di un vetusto edifizio
abbandonato da gran tempo. In questa guisa delle due grandi correnti
che alimentavano le vecchie armi della Serenissima e formavano,
insieme commiste, un fiume regale gonfio d'acque e fecondo d'energie,
non era rimasto che l'ampio alveo, tutto pantani ed acquitrini dai
quali emanavano miasmi e malaria.



CAPO II.

L'amministrazione centrale della guerra. Il Savio di terraferma alla
scrittura e le magistrature militari.


Come il rendimento di una macchina ottimamente costituita si commisura
dalla somma di attriti che riesce a vincere, sicchè il suo lavoro
procede rapido, silenzioso e produttivo, così l'opera proficua di uno
Stato si arguisce dall'armonia degli sforzi de' suoi organi direttivi
e dal loro coordinamento, in modo che tutte le energie abbiano impiego
e non si smarriscano in sterili conati, o per superfluità di uffizi o
per contraddizione di còmpiti.

Ora la macchina statale veneta della decadenza era complicata e
rugginosa, epperciò assai pigra e poco produttiva. Aveva addentellati
con molteplici sopravvivenze feudali, intrecci con privilegi
oligarchici, vincoli con un proteiforme organismo amministrativo
burocratico e cancelleresco onusto d'impiegati; sì che tutto
impaludava nello apparecchio e nelle forme e poco o nulla rendeva
nella sostanza[18]. L'amministrazione della guerra poi--che per il suo
istituto più risentiva delle sopravvivenze del passato--era così
multiforme e farraginosa da incontrare attriti ed intoppi ad ogni
passo.

Le cose della guerra mettevano capo al _Collegio_, ossia al Consiglio
dei ministri della Repubblica, composto di 16 membri, o _Savi_[19].Di
questo Collegio facevano parte il _Savio di terraferma alla scrittura_
ed il _Savio di terraferma alle ordinanze_; i due centri esecutivi
dell'amministrazione delle milizie di mestiere e delle milizie
paesane, cioè delle cerne.

Il Savio alla scrittura era preposto, oltre che all'ordinamento delle
milizie stanziali, anche a quello delle fortificazioni, delle
artiglierie e delle scuole militari, e traeva il nome dall'antico suo
ufficio di tenere cioè al corrente i ruoli dei soldati ingaggiati.
Era, in sostanza, il ministro della guerra della Serenissima.

Il Savio alle ordinanze sopravvegliava invece al governo delle cerne e
corrispondeva ad un vero e proprio ministro alle _Landwehr_, cioè ad
un centro organatore della difesa territoriale.

Queste supreme magistrature militari, come le altre del Collegio,
erano elettive. Più antica--per ragione di precedenza storica delle
milizie prezzolate sulle paesane--era la carica di Savio di terraferma
alla scrittura, il cui istituto venne riordinato al principio del XVI
secolo, quando cioè le armi della Serenissima più sfolgoravano per i
domini d'Italia ed oltremare[20]. Più recente era invece il _saviato_
alle ordinanze, largamente citato nella riforma di quelle milizie
dettata da Giovanni Battista Del Monte (1592).

Il Savio alla scrittura (come gli altri membri del Collegio) durava in
carica un semestre, ma poteva essere rieletto quando fosse spirato un
intervallo di sei mesi almeno dal decadimento dell'ultimo mandato. Ne
derivava perciò una specie di oligarchia politico-amministrativa,
vincolata o ad una determinata consorteria oppure ad un monopolio nei
pubblici affari. La molteplicità degli uffici burocratici accentuando
i danni di tale esclusivismo rendeva la macchina statale rigida, lenta
ed improduttiva.

Per le cose della milizia questo monopolio politico ed amministrativo
doveva essere temperato, in origine, dalla carica del generale in
capo. Straniero, di regola, esso era destinato ad impiegare le truppe
in guerra--sotto la responsabilità dei provveditori del Senato
incaricati di sorvegliarlo a mo' dei commissari della Repubblica di
Francia--ed in pace a suffragare della sua autorevole esperienza
l'apparecchio delle armi e degli armati.[21] Il generale in capo
doveva essere infatti una specie di responsabile tecnico, mentre il
Savio alla scrittura non era altro che un semplice amministratore dei
fondi destinati dalla Serenissima al mantenimento ed all'armamento dei
propri soldati. Ed essendo la carica di generale in capo vitalizia,
non pareva gran male che gli uffizi amministrativi si alternassero
attorno ad essa, con vicenda più o meno frequente, emanando da una
ristretta base nella scelta delle persone a ciò deputate.

Ma poichè si resero sempre più rare le guerre ed il vezzo delle
neutralità le confinarono alla fine tra i ferrivecchi, la benefica
influenza moderatrice del generale in capo sulle magistrature
militari, politiche e burocratiche, cominciò a scadere, fintantochè
scomparve del tutto. Rimasero i danni ed i pericoli delle consorterie,
senza argine e senza riparo.

Dopo lo Schoulemburg, distinto generale sàssone cui la Signoria aveva
conferito il titolo di maresciallo e l'incarico della difesa di Corfù,
nel 1716; dopo i generali Greem e Witzbourg--tutti stranieri ed eletti
generali in capo delle forze venete--per amore di economia[22] o per
mal concepite diffidenze verso una carica che sembrava oramai
destituita di ogni significato pratico, essa passò in dissuetudine con
il tacito consenso del Collegio, del Senato e del Doge. Da quel punto,
il Savio alla scrittura si rinchiuse senza controllo nelle sue
funzioni burocratiche e cancelleresche e diventò, alternatamente, o
una carica monopolizzata dalle medesime persone---salvo l'intervallo
legale nella rielezione--quando si trovavano coloro che volentieri la
disimpegnassero; oppure un caleidoscopio di persone diverse prive di
competenza e di pratica[23]--

Sulla cooperazione del collega alle _ordinanze_ non v'era oramai più
da contare alla fine della Serenissima, perchè questa magistratura si
era completamente atrofizzata. Per formarsi un'idea circa l'attività e
l'importanza di quel Savio, basta citare alcune cifre relative al
maneggio che esso faceva del pubblico denaro per l'amministrazione
dipendente. Nel bilancio _pel militar_ dell'anno 1737, solo 9511
ducati e _grossi_ 21 erano assegnati al Savio alle ordinanze per le
cerne, e ducati 309 e _grossi_ 17 per le loro _mostre_ e _mostrini_; e
ciò sopra una spesa totale di 2,060,965 ducati e _grossi_ 11
effettivamente fatta in quell'anno dalla Signoria per le cose della
milizia [24].

I migliori Savi avvicendatisi nell'amministrazione veneta della
guerra, non mancarono di levare la loro voce contro la soppressione
della carica di comandante in capo; mancanza che abbandonava quei
magistrati a sè medesimi senza l'appoggio di spiccate capacità
militari che rappresentassero la continuità nello apparecchio degli
uomini e delle armi; e più che tutti, Francesco Vendramin, il miglior
Savio alla scrittura della decadenza della Repubblica. Questi nel 1785
dichiarava infatti al Doge che il malessere dell'esercito dipendeva
dalla rinunzia, fatta da tempo, «di eleggersi un commandante supremo,
dalla cui sapienza e virtù si possano ritrarre quei lumi e direzioni
che valghino a sistemare in buon modo le truppe» [25].

Ma, ad onta di queste franche parole--come sempre le usava il Savio
Vendramin--il generalissimo tanto invocato non venne a rialzare i
depressi spiriti militari dei Veneti, e rimase la burocrazia che non
passa [26]. Questa intensificò anzi l'opera sua, così da avvolgere il
Savio alla scrittura in una rete inestricabile di intralci e di
formalità innumerevoli.

Esaminiamo in particolare codesto viluppo, congegnato a bella posta
per troncare i nervi ad ogni energia. Il Savio alla scrittura
nell'esercizio delle sue funzioni aveva rapporti con tutte le
magistrature politiche, marinare e civili d'Italia e d'oltremare.
Quanto al reclutamento ed agli assegni in ordine alla forza
bilanciata, egli aveva relazioni con l'_Inquisitore ai rolli_, con il
_Savio Cassier_ e con i _magistrati sopra camere_, o tesorerie
provinciali: quanto al reclutamento ed all'ordinamento delle cerne,
egli doveva accordarsi con il collega deputato ad esse. Per le cose
attinenti il servizio anfibio dell'esercito sulle navi armate, egli
doveva intendersi con i _Savi agli ordini per le milizie_, con i
_Provveditori generali da Mar_, con quelli in _Dalmazia ed Albania_,
con i _Provveditori att'Arsenale_ ed, infine, con il _Capitanio del
Golfo_ (contado delle Bocche di Cattaro).

Per il riparto ed il servizio territoriale delle truppe, il Savio alla
scrittura doveva prendere accordi con i _capitani e podestà_ delle
province, con il _magistrato_ e con il _sopraintendente
all'artiglieria_, con il _provveditore alla cavalleria_, con il
_sopraintendente del genio_ e con i _provveditori alle fortezze._

Lo. sfruttamento dell'industria privata--usato sempre in buona misura
dalla Serenissima per le cose della guerra--obbligava inoltre il Savio
competente ad una continua vigilanza sui _deputati alle miniere_, per
quanto si riferiva l'industria metallurgica della Bresciana e del
Bergamasco, e sui capi delle maestranze per le industrie estrattive
dell'alto Cadore.[27]

Oltre a ciò, per quanto riguardava il servizio sanitario,
l'amministrazione della guerra era in rapporti continui con i
_provveditori_ agli ospedali e con i capi religiosi di talune
confraternite incaricate dell'assistenza degli infermi[28]; per quanto
concerneva il servizio di commissariato, con i _magistrati sopra biade
e frumento_, con i _Savi alla mercanzia_ e con i _provveditori
all'agricoltura_; per quanto rifletteva infine l'amministrazione della
giustizia, con il _missier grande_, o capo della polizia esecutiva, e
con i _governatori alle galere dei condannati_.

Nè si arrestava a questo il frantumamento delle autorità militari
venete, spesso discoste l'un l'altra ed animate da interessi
contradditori, e l'intralcio con le magistrature civili. Nei rapporti
aulici e cancellereschi, era deputato ogni settimana un Savio
designato a turno nel Collegio--epperciò detto _Savio di
settimana_--per esporre al Senato le proposizioni ed i decreti
deliberati dal Consiglio. Tale costumanza, per certo assai comoda, non
era però in pratica molto giovevole per la trattazione degli
affari--specie dei militari--rimettendo il patrocinio di essi a mani
del tutto inesperte o ignare.

     *
    * *

Consideriamo ora un poco questa mastodontica macchina burocratica in
azione. Nel 1784, solo per riformare alcune parti del vestiario e
dell'equipaggiamento della fanteria veneta, riputate o troppo incomode
o troppo costose, convennero assieme in più conferenze il Savio alla
scrittura _attuale ed uscito_ [29], i Savi alla mercanzia in numero di
cinque ed il magistrato _sopra camere_. Ciò nondimeno, dodici anni
dopo, la riforma non era ancora del tutto attuata tra le file
dell'esercito veneto.

Fino dal 1775 il Savio alla scrittura e l'Inquisitore ai _rolli_,
concordi, deploravano in Collegio e presso il Principe le tristissime
condizioni in cui versavano le artiglierie e le armi portatili, alle
cui deficienze non era più in grado di porre rimedio il vetusto
Arsenale di Venezia. Soltanto sette anni dopo il grido d'allarme venne
raccolto da Francesco Vendramin, in una delle sue riconferme al
Saviato alla scrittura, e la questione venne finalmente da lui posta
dinanzi al Doge con criteri da industria di Stato meglio che moderni.

L'industria militare privata aveva tenaci e floridissime radici a
Venezia, e le armi bianche venete, assai pregiate nella tempra e nel
lavoro del cesello, [30] avevano una fama incomparabile. Cresciuto poi
il favore delle armi da fuoco, degli archibugi e delle artiglierie
navali e terrestri, le fucine della Bresciana vennero procacciandosi
nell'industria manifatturiera quel nome che si è tramandato fino ai
giorni nostri.

La trasformazione decisa e cosciente dell'industria militare privata
in industria di Stato, avrebbe quindi corrisposto in modo mirabile
alle esigenze economiche e tecniche della Serenissima, poichè avrebbe
consentito di ridurre con immenso vantaggio economico l'improduttivo
organismo dell'Arsenale e di sostituire al suo lavoro, o lento o
negativo, quello più proficuo delle maestranze dei metallurgi e degli
artieri, organizzati e disciplinati in forme corporative tradizionali,
vigilate per di più di continuo dalle magistrature apposite.

Così fu concluso, nel 1782, un contratto con la _Società mercantile_
di Girolamo Spazziani, mediante il quale essa si assumeva
l'obbligo--usufruendo delle due migliori fonderie e miniere dal
Bergamasco--[31] di fornire alla Serenissima entro 14 anni, in lotti
proporzionali, le artiglierie di cui abbisognava; e cioè 35 cannoni da
30 libbre,[32] 52 da 14, 24 da 12, oltre le munizioni, gli attrezzi e
gli armamenti necessari. Lo Stato si sarebbe garantito della buona
qualità delle forniture, obbligando la ditta Spazziani ad uniformarsi
strettamente nella fondita dei pezzi alle regole all'uopo prescritte
dal maresciallo Schoulemburg, e con l'assoggettare le bocche da fuoco
a speciali prove _forzate_ da compiersi al Lido, a spese esclusive
della società assuntrice ed alla presenza del magistrato
all'artiglieria.

Queste prove dovevano essere da due a quattro per ogni pezzo da
collaudarsi, ed i pezzi rifiutati si dovevano restituire alla ditta
per essere rifusi e nuovamente esperimentati. Nel contratto infine
erano comminate penalità e multe alla ditta Spazziani, al caso di
inosservanza di impegni da parte della medesima.[33]

L'artiglieria veneta, con il concorso dell'industria privata, poteva e
doveva quindi rinnovarsi tra il 1782 ed il 1796. In questo periodi di
tempo dovevano inoltre rifondersi o ristaurarsi le bocche da fuoco
dichiarate inservibili, e non erano poche in quel tempo: 82 cannoni di
diverso calibro, 85 colubrine, 63 sacri e passavolanti, 180 petrieri,
5 mortai, 9 trabucchi ed 1 bastardo.[34]

Se così fosse stato, la Serenissima all'aprirsi della campagna del
1796 avrebbe avuto 536 bocche da fuoco disponibili, nuove del tutto o
riparate; e non si sarebbero visti sui rampari di Verona «i pezzi così
malandati, i _letti_ (affusti) così rôsi dal tempo... che se fosse
occorso di maneggiarne taluno non si saprebbe come eseguire
l'ordine».[35]

     *
    * *


Ma per assicurare tali vantaggi all'esercito sarebbero occorsi
continuità di vedute nell'amministrazione della guerra, preparazione,
vigore di energie da parte delle persone elevate all'ufficio di Savio
alla scrittura, accordo infine deciso e cosciente di tutti
nell'attuare una riforma finanziaria ed industriale che avrebbe legato
il nome della Serenissima ad un grande e razionale progresso nella
pubblica economia.

Ora la vecchia e già tanto sapiente Repubblica, ridotta a lottare
indarno contro la morte vicina, non poteva più trovare nel consunto
organismo lo rinnovate energie capaci di redimerla dalla triste
eredità del passato. Fino al 1786, cioè durante il periodi delle
riconferme al Saviato di Francesco Vendramin--il ministro riformatore
della decadenza militare veneta--le consegne della ditta Spazziani
procedettero con ordine e regolarità, ma da quell'anno in avanti gli
impegni cominciarono ad allentarsi finchè non ne rimase più traccia.
Ai lagni in materia delle pubbliche cariche militari si rispondeva
invariabilmente con delle buone promesse, con _caute direzioni_, con
voti e parole, mentre i mali reclamavano urgentemente fatti, mentre
gli ufficiali attestavano «che in Dalmazia ed in Levante vi sono
ancora compagnie di fanti armate ancora dei fucili dell'ultima
campagna[36]... si che il solo smontarli e rimontarli, ogni volta che
pulir si debbono, basta a renderne un gran numero fuori di
servizio».[37]

Vero è che per i fatti, oltre che alla ferma e cosciente volontà dei
deputati a compierli, occorre anche il danaro; e questo, come succede
del sangue in ogni organismo indebolito, è il primo a scarseggiare nei
governi travagliati dalla decadenza. Alla fine della seconda
neutralità d'Italia--cioè subito dopo la guerra per la successione di
Polonia--lo _sbilanzo, o deficit_ delle finanze veneziane, era infatti
salito a 770-784 ducati all'anno, ed all'amministrazione della guerra
toccò di scontare queste falle con sacrifizi e con lesinerie le quali
finirono per annientare del tutto la compagine materiale e morale
dell'esercito.

«Con queste riduzioni--diceva un rapporto al Principe--il corpo
delle truppe non può oramai più supplire con la propria forza agli
essenziali bisogni dello Stato... e quindi occorre sia tolto da
quel languore e miseria in cui presentemente esso si trova,
somministrandogli i mezzi di cui ha bisogno»[38].

Ma anche sa questo punto la voce del Savio Vendramin predicò invano,
ed i denari non vennero--ironia del caso--se non quando si trattò non
già di apparecchiare armi ed armati in difesa della Repubblica, ma di
mantenere lautamente due eserciti sul suo suolo, nemici l'uno
dell'altro, della Serenissima, ed entrambi emuli nell'opera triste di
taglieggiarla e di calpestarla.

Ma ritorniamo al Savio alla scrittura ed alla sua fisionomia
burocratica.

Quale magistrato supremo alla milizia esso, di regola, non abbandonava
la _Dominante_--cioè Venezia--se non per compiere l'annuale visita al
Collegio militare di Verona, in Castelvecchio, dal quale uscivano i
giovani ufficiali di artiglieria e genio della Repubblica. Era questa
una comparsa periodica all'epoca degli esami finali, che circondavasi
a bella posta di solennità, sia nell'intento di lasciar traccia
nell'animo dei futuri ufficiali delle milizie venete, sia in quello di
ravvivare, a scadenza fissa, il prestigio ed il nome del Savio alla
scrittura nella principale fortezza dei domini d'Italia. Ma le
apparizioni erano troppo rapide e, sovratutto, affogate sotto il
cumulo delle formalità proprie del manierismo incipriato del tempo.

Di una di queste visite si conserva traccia nel diario del Collegio
militare di Verona. «Il Savio Alvise Quirini--dice il diario--partì da
Venezia un mercoledì dopo pranzo del luglio 1787, alle ore 20, per
Mestre. Aveva seco due staffieri ed un _furier_. Il legno era pronto a
Marghera, con quattro cavalli ed il _furier_ davanti, pure a cavallo.
Al Dolo si cambiarono i cavalli: a Padova il Savio pernottò nel
palazzo Quirini ed il provveditor straordinario di colà, Zorzi
Contarini, gli diede scorta di due soldati a cavallo. Il giorno
appresso (giovedì), alle ore 22 suonate, il Savio arrivò a
Verona»[39].

In quella città un ufficiale della guarnigione venne subito comandato
a disimpegnare la carica di _aiutante_ presso il Savio Alvise Quirini,
ed un'ora dopo l'arrivo di questi il tenente Zulatti, _ufficiale di
guardia alla piazza_, venne a felicitarsi seco lui per l'ottimo
viaggio compiuto e ad esibirsi, cioè a profferire servigi. Ma il Savio
alla scrittura, congedati bellamente gli ufficiali venuti per fargli
onore, andò ad alloggiare in casa del cugino Marin Zorzi, e la «tavola
fu servita per quella sera dal locandier alle _Due Torri_[40], essendo
stato convenuto il prezzo di tutto dal brigadier Mario Lorgna,
governatore militare del Collegio. La sera stessa venne il brigadiere
Lorgna a fare ossequio al Savio alla scrittura, e si combinò subito
per verificare la scuola ed incominciare gli esami lo stesso giorno
seguente. La sera poi il Savio andò alla comedia al _Nobile Teatro_ ed
il vescovo mandò il suo _nome_ a casa Zorzi».[41]



CAPO III.

Ufficiali grandi e piccini.


Perduto è quell'organismo il cui cuore si attarda di spingere il
sangue nelle vene. Ed il cuore ed il cervello si erano da tempo
intorpiditi nell'esercito della Serenissima nelle persone de' suoi
generali.

Quando il brigadiere Fiorella[42] nella notte dell'8 agosto 1796,
all'avanguardia della divisione Serurier, reduce dalla vittoria di
Castiglione si riaffacciava a Verona abbandonata giusto una settimana
innanzi per rioccuparla d'ordine di Buonaparte, il generale Salimbeni
comandante di quella piazza indugiò alquanto nel riaprire ai Francesi
la porta di San Zeno. Il brigadiere Fiorella l'abbattè allora con
alcune volate di mitraglia, e si trovò comoda scusa per il ritardo dei
Veneti di rovesciare la colpa sulla tarda vecchiaia del Salimbeni.

Questo generale--si disse--oramai ottuagenario, incapace di montare a
cavallo, costretto a servirsi di un _carrozzino_[43], non poteva
trovarsi ovunque in quel trambusto della notte dell'8 agosto. E
Buonaparte lieto delle riportate vittorie e del riacquisto di Verona,
non fece gran caso di questi fiacche scuse dei Veneti, ondeggianti tra
gli Austriaci padroni dell'interno della città ed i Francesi padroni
delle campagne, oscitanti tra i vincitori ed i vinti.

La vecchiaia dei generali veneti esisteva nondimeno, e grave. Il Savio
alla scrittura Francesco Vendramin l'aveva denunciata al Principe come
il male precipuo che rodeva l'esercito, e scongiurava di provvedervi
in tempo:

«Di eguale impedimento--egli così scriveva nel 1785--alle buone
disposizioni della milizia in genere si è pure l'impotenza di non
pochi ufficiali, specie delle cariche generalizie, che giunti alla più
fredda vecchiaia, ritenuti dalle viste del proprio vantaggio, vogliono
ancora continuare nel servizio sino alla fine della vita.....Sicchè,
malgrado quella riverenza che si conviene alle pubbliche
deliberazioni, mi è forza dire che, spesse volte, questo Augusto
Governo è più commosso dalla pietà che dal proprio interesse, cui
talvolta antepone le convenienze particolari di coloro che godono la
distinta fortuna di essergli soggetti» [44].

Non si pensò però con questo a svecchiare gli alti gradi dell'esercito
Veneto.

Fino dal 1786, allo scopo di ripartire in modo equo e vantaggioso per
il servizio i beni ed i mali delle diverse guarnigioni d'Italia e
d'oltremare, il Senato aveva stabilito un _turno di generali_; ossia
un determinato ordine di successione dei generali medesimi al comando
dei quattro grandi _riparti militari_ in cui si suddivideva il
territorio della Repubblica[45].

Fu assegnato allora in Levante il sergente-generale Maroti, con i
sergenti maggiori di battaglia Bubich e Craina; in Dalmazia il
sergente generale Salimbeni--ricordato più sopra--con i sergenti
maggiori di battaglia Nonveller ed Arnerich; in Italia il tenente
generale Pasquali, con i sergenti maggiori di battaglia Stràtico e
Bado. Dopo quattro anni questi generali dovevano mutare residenza, ma
nel 1790--cioè allo spirare del primo quadriennio dacchè la
determinazione fu presa--il sergente maggiore di battaglia Arnerich
faceva sapere al Savio alla scrittura che egli non era più in grado di
muoversi dalla Dalmazia, perchè diventato più che nonagenario.

E non soltanto i generali erano incapaci di viaggiare dall'Italia,
oltremare e viceversa. Nello stesso anno 1790 anche i colonnelli
brigadieri Macedonia e Gazo si dovettero lasciare alle rispettive
guarnigioni, stante _la loro tarda vecchiezza._

La gerarchia generalizia era poi troppo ristretta in confronto degli
aspiranti. La piramide gerarchica nell'esercito Veneto si restringeva
talmente verso il vertice da rendere necessaria una longevità
pressochè biblica per raggiungerla. Nel 1781 i quadri dello _stato
generale_ erano: 1 tenente generale, 2 sergenti generali, 6 sergenti
maggiori di battaglia, oltre ai sopraintendenti del genio e della
cavalleria con il grado di colonnelli brigadieri. Il tenente generale
era Alvise Fracchia-Magagnini di 85 anni, di cui 68 di continuato
servizio; i sergenti generali erano Pasquali e Rade-Maina, vecchi
colonnelli dei _fanti oltramarini_; i sergenti maggiori di battaglia
Arnerich, Salimbeni, Maroli, Nonveller, Rado e Stràtico.

Non pochi di questi occupavano ancora le cariche generalizie nel 1796,
vale a dire che erano infeudati nell'ufficio da oltre tre lustri.
     *
    * *

Teoricamente i metodi per la elevazione degli ufficiali agli alti
gradi dell'esercito dovevano essere di garanzia sicura per la
bontà dei quadri. La procedura per la nomina delle cariche
generalizie--esclusivamente devolute alla scelta--era infatti
assai minuta, abbenchè non scevra di sospetti di favoritismo. A
tenore della così detta legge di _Ottazione_, cioè di avanzamento
[46], le vacanze nei gradi dovevano ripianarsi entro tre mesi
dacchè avvenivano; tempo più che necessario per una scrupolosa
valutazione dei titoli dei concorrenti, ma anche più che
sufficiente per dar modo alle consorterie di raggiungere i propri
fini.

I titoli presentati dai candidati formavano, nel loro assieme, i così
detti _piani di prova_. Vi figuravano i lunghi e buoni servigi
prestati sotto la vermiglia bandiera della Repubblica, le ferite, le
malattie sofferte a motivo del contagio, le azioni di merito e--ove ne
era il caso--anche le prigionie passate sotto i Turchi, i naufragi
patiti e la perdita degli averi. Gli ultimi tempi imbelli della
Serenissima avevano naturalmente assottigliato di molto il bagaglio
eroico di codesti titoli, surrogandoli con i più modesti e comuni
dell'anzianità e della età dei candidati, e su questi titoli si
esercitava la retorica degli ufficiali concorrenti.

Il sergente maggiore di battaglia Antonio Maroli così faceva, ad
esempio, nel 1782 l'apologia di sè medesimo, aspirando al grado del
valetudinario Rade-Maina collocato finalmente a riposo:

«Fino dai primi anni Antonio Maroli si incamminò alla professione
delle armi. Passato per la trafila dei vari gradi, con l'assiduità del
servizio e con la provata sua abilità giunse, nell'anno 1768, ad
occupare il grado di colonnello. Le attestazioni delle primarie
cariche da Mar e degli ufficiali dello Stato generale e di molti altri
graduati, rilevano di avere egli utilmente servito nel laborioso
carico di sergente maggiore nella importante piazza di Corfù,
impiegandosi pure, per varî anni, nella istruzione del reggimento,
negli esercizi e nella militare disciplina anche in pubblici
bastimenti in mar.

«Imbarcato sopra la nave _San Carlo_ che tradusse a Tenedo il fu
Ecc.mo Kav. Correr, _bailo_[47], si fermò sulla medesima in attenzione
dell'arrivo dell'altro Ecc.mo _bailo_ Francesco Foscari, ed in questo
frattempo attaccatasi grave epidemia nell'equipaggio di detta nave si
maneggiò egli presso i comandanti turchi per avere ricovero in
terra... Nel sostenere i governi delle armi (_comandi di presidio_) di
alcune città e fortezze nei differenti riparti di terra e di mar,
eguale fu la di lui attenzione ed attività, che gli conciliò
approvazione. Molto fu poi riconosciuta la di lui direzione nel
seguito ammutinamento di prigionieri di Brescia per metterli a dover,
nel quale malagevole incontro per 18 ore sostenne con coraggio il
fuoco degli ammutinati, e gli toccò vedere ai suoi piedi ucciso un
caporale e ferito un soldato»[48].

Le apologie più salienti dei _piani di prova_ erano pubblicate per le
stampe dai candidati più audaci o facoltosi, e diffuse per la
Dominante ad apparecchiare terreno per le deliberazioni finali del
Savio alla scrittura e del Senato. Era una specie di gara a foglietti,
dai tipi vistosi e dalla studiata mostra delle benemerenze personali;
una vera rassegna pubblica alla quale dovevano interessarsi non poco
gli spettatori dell'epoca ciarliera e spensierata dei _casini_, dei
_caffè_ e delle _gazzette_.

Per troncare gli effetti della mala pianta il Senato, nel 1783, volle
abolite codeste costumanze alquanto teatrali. Vietò ai candidati di
rimanere a Venezia durante le elezioni delle cariche generalizie, e
nel periodo di tempo immediatamente anteriore, ed in luogo dei _piani
di prova_ commise al Savio alla scrittura di compilare delle apposite
_note personali_, da produrre alla Consulta _al caso di ciascuna
vacanza_. La Consulta poi, avuto l'elenco dei migliori candidati,
votava o _ballottava_ su ciascuno di essi, in _Pien Collegio_, con
quattro quinti dei voti e l'elezione si confermava da ultimo in
Senato.

Eletto il nuovo generale, con le _ducali_ di nomina se ne fissava
anche lo stipendio.

     *
    * *

Scendiamo ora dal vertice della piramide gerarchica verso la grande e
massiccia sua base. Gli ufficiali veneti erano troppi per i soldati
che avevano da comandare e per le attribuzioni che dovevano compiere.

Nel 1776 si trovavano nei reggimenti attivi 33 colonnelli, altrettanti
tenenti colonnelli, 30 sergenti maggiori, 203 capitani, 31
capitani-tenenti, 184 tenenti, 237 alfieri o cornette per la
cavalleria e 163 cadetti. In totale, 964 officiali sull'effettivo di
10,605 _fazionieri_ o _comuni_ che contava l'esercito veneto di quel
tempo; e ciò senza tener conto degli ufficiali in servizio sedentario,
alle fortezze, al corpo del genio, all'Arsenale, ai governatorati
delle armi, alle scuole e di quelli infine con riserva di anzianità.

In sostanza, i quadri degli officiali della Serenissima avevano tutta
l'aria di un grande stato-maggiore a spasso.

Il grosso di questo stato-maggiore proveniva dalla _trafila_ della
troppa, come ne fa fede lo scarso numero dei cadetti presenti alle
armi nel 1776. Delle scuole militari esistenti a quell'epoca, il
collegio di Verona provvedeva al reclutamento dei corpi di artiglieria
e genio: quello di Zara, per la fanteria oltremarina, era ancora allo
stato rudimentale.

Riformatisi in appresso questi due istituti, quello di Verona nel 1764
e quello di Zara nel 1784, una nuova ondata, di formidabili
competitori venne ad affiancarsi alla vecchia corrente dei provenienti
dalla troppa nello aspirare ai gradi, di ufficiale[49].

Dal _Militar Collegio_ di Verona--come è noto--uscivano gli alfieri
dell'artiglieria e del genio ed, accessoriamente, anche quelli di
fanteria e di cavalleria. In queste ultime armi si transitavano però
quegli allievi che, al termine dei corsi, riportavano una
classificazione inferiore alla minima ritenuta necessaria per servire
nelle armi dotte, o coloro infine che--per mancanza di posti--non
trovavano più luogo nelle armi medesime. In questo caso i diseredati
dalla sorte potevano aspirare a far ritorno alle armi cui aspiravano,
concorrendo in turno ogni anno con i nuovi licenziati dall'istituto
veronese.

Dal collegio militare di Zara uscivano gli alfieri dei reggimenti
oltremarini e le cornette dei reggimenti di cavalleria. L'istituto
esisteva fin dal 1740, ma per difetto di concorrenti aveva vissuto una
vita stentata ed anemica fino al 1784, perchè la massa dei Dalmati
aspiranti ai gradi dell'esercito preferiva la via più lunga ma più
avventurosa del servizio anfibio sui pubblici legni e verso i confini
turcheschi, a quella più tediosa e nuova degli studî e dei riparti
d'istruzione.

Ma poiché--sotto l'impulso di Angelo Emo e del Savio Francesco
Vendramin--l'amministrazione veneta della guerra accennò a battere
nuove vie, ed il reclutamento degli ufficiali usciti dalle scuole
parve destinato a soppiantare ogni altra provenienza, il conflitto tra
il vecchio ed il nuovo, tra la pratica e la teoria, scoppiò clamoroso
ed inevitabile. Si accese allora la guerra tra i fautori del
tirocinio, dell'esperienza e dei titoli acquisiti, e quelli delle
accademie delle prove e degli esami. I tempi grigi e fiacchi non
offrendo verun'altra distrazione, fecero sì che gli ufficiali
dell'epoca si ingolfassero in queste lotte sterili ed acerbe con
l'ardore che proviene dall'ozio.

Mèta del tirocinio nei gradi di truppa era l'_alfierato_. Ad esso si
perveniva pel tramite dei cadetti, da parte dei giovani provenienti
dalle scuole, o per quello dei sergenti per parte dei borghesi e dei
gregari di truppa. Gli aspiranti alla carriera delle armi usciti dalle
buone famiglie veneziane, per essere ammessi nelle file dell'esercito
quale cadetti dovevano contare almeno 14 anni di età. Per raggiungere
lo stesso grado nella truppa occorrevano invece dai sei agli otto
anni.

Dopo tre anni di _buon servizio_ come cadetto, questi era promosso
alfiere, se di fanteria e cornetta se di cavalleria; e con l'alfiere,
detto per antonomasia il _primo grado di goletta_, cominciava il lungo
e faticoso calvario dell'ascesa ai gradi di ufficiale[50].

Questi si conferivano nell'interno del reggimento fino al grado di
sergente-maggiore. Ed i gradi erano quelli di tenente, di
capitano-tenente, o comandante della _compagnia del colonnello_, di
capitano, di sergente-maggiore, o comandante di battaglione: i gradi
di tenente colonnello e di colonnello si conferivano a ruolo unico
sulla totalità della rispettiva arma o riparto[51].

Per progredire nella carriera si doveva tenere conto delle prove
comparative, dell'_abilità_, del _merito_ e della _anzianità_ dei
singoli concorrenti [52]; requisiti tutti codesti domandati sia dalle
anteriori leggi di _ottazione_, compilate da Francesco Morosini, sia
da quelle redatte dal generale Molin (1695).

Nella pratica delle cose però l'anzianità ed il merito avevano la
preminenza, comprendendosi sotto questo ultimo titolo le campagne di
guerra, le ferite e le «occasioni vive», come dicevasi a quel tempo
con vocabolo comprensivo per dinotare tutte le benemerenze dei
candidati dovute comunque al rischio personale.

Ma cresciuto il favore delle scuole professionali, il merito e
l'anzianità dovettero cedere di fronte all'abilità comprovata dagli
esami, e con questi e per questi il Savio si proponeva di svecchiare i
quadri dell'esercito.

L'alfiere doveva dar saggio di comandare in modo inappuntabile tutti
gli esercizi della compagnia, in presenza del sergente maggiore, del
colonnello e del tenente colonnello del reggimento. Egli doveva
inoltre rispondere a tutte le interrogazioni che i detti ufficiali
avessero creduto di rivolgergli sul _Libretto Militar_, ossia
catechismo degli esercizi, e sul servizio in campagna compilato dal
maresciallo Schoulemburg. Infine doveva rivelarsi provetto nel
maneggio delle armi, della picca e della _sargentina_, conoscere la
suddivisione del reggimento in _plotoni, divisioni, ali, centro_, dare
ragione di tutti i _tocchi_ di tamburo e superare alcune prove sulle
matematiche elementari e sul disegno. Il tenente--oltre che
dimostrarsi come l'alfiere idoneo nel maneggio del fucile e della
picca--doveva saper compilare _polizze di scansi_, ossia liste di
deconto individuale, redigere quietanze dei depositi di danaro che,
eventualmente, i soldati gli avessero confidato, tenere al corrente la
_vacchetta_, o giornale di presenza della compagnia, infine comprovare
un'abilità professionale pari alla richiesta nelle prove degli
alfieri.

In questi semplici esperimenti s'accanì quindi la lotta tra
conservatori e novatori in materia di avanzamento, quando i programmi
furono rimaneggiati con criteri restrittivi, specie per i gradi
superiori. Nel giugno 1785, rendendosi vacante il posto di
sergente-maggiore nel reggimento di fanti italiani _Marin Conti_,
aspirarono ad esso tre capitani del corpo medesimo. Il verbale
_giurato_ di idoneità a sostenere le prove di uno dei candidati così
si esprimeva:

«Facciamo fede, con nostro giuramento et vincolo di onore, noi qui
sottoscritti graduati nel reggimento _colonnello Marin Conti_, dei
fanti italiani, come il capitanio Michiel Antonio Gosetti ha sempre
adempiuto alle parti tutte del suo dovere, con puntualità ed abilità
in tutto quello che appartiene al pubblico servizio. Come anche nella
subordinazione et obbedienza con i suoi superiori e con nostra intera
soddisfazione egli non è mai incorso in verun militar castigo, nè si
abusò di licenze per stare lontano dal proprio reggimento, adornato
essendo di onorati costumi, degno adunque delle nostre veridiche
attestazioni, per cui gli rilasciamo la presente perchè possa
valersene»[53].

     *
    * *

Gli esami da capitano a sergente-maggiore erano insieme pratici e
teorici. Nei primi il candidato doveva sottoporsi alle prove seguenti:

«1°) Riconoscerà il battaglione in tutte le sue parti e lo ripartirà
con i bassi uffiziali--2°) Farà la disposizione degli uffiziali e li
manderà in parata--3°) Farà passare ufficiali e sottufficiali in coda
per il maneggio delle armi--4°) Ordinerà e comanderà il maneggio delle
armi, con li necessari avvertimenti--5°) Ordinerà due raddoppi di
file, uno sulla sinistra in avanti, per mezzo-battaglione, l'altro che
le divisioni delle ali raddoppino quelle del centro--6°) Si ridurrà in
istato di battaglia--7°) Farà fuoco con quattro plotoni, principiando
dalli quattro plotoni del centro--8°) Farà fuoco con due mezze
divisioni dalle ali al centro--9°) Staccherà la marcia per
mezze-divisioni in fianco, e si ridurrà in divisioni con passo
francese (accelerato)--10°) Formerà il quadrato in marcia--11°) Farà
una scarica generale--12°) Disfarà il quadrato e ridurrà il
battaglione in istato di parata»[54].

Gli esami teorici comprendevano i doveri degli ufficiali di ogni
grado, cominciando da quelli dell'alfiere e terminando con quelli del
sergente maggiore, tanto nel reggimento che nella brigata. Le tesi
trattavano del giornaliero servizio di piazza, del modo di accampare
ed acquartierare il reggimento, di marciare con il reggimento da un
luogo ad un altro, di imbarcarlo e di sbarcarlo in buon ordine, della
maniera di tenere disciplinati gli ufficiali, i sottufficiali e la
truppa, dei sistemi di redigere _piedilista, dettagli_, di _passar
rassegne_, di distribuire infine i riparti nei quartieri e di
raccoglierli nelle piazze d'armi[55].

Più caratteristiche erano le prove per l'arma di cavalleria, in quanto
quest'arma poteva considerarsi esotica in un esercito a base
marinaresca come era quello della Serenissima, anche nei tempi dello
splendore. Così, nel marzo del 1795, rendendosi vacante in Verona il
posto di sergente-maggiore[56] nel reggimento dei dragoni _Colonnello
Giovanni Antonio Soffietti_, si presentarono candidati alle prescritte
prove sei degli otto capitani comandanti di compagnia, e ad essi
furono proposti i seguenti quesiti, da estrarsi a sorte in numero di
quattro per ogni esaminando:

«1°) Data una distanza di 100 miglia, data la premura del comandante
che il nostro squadrone arrivi quanto più presto possibile ad unirsi
ad un'altra cavalleria colà esistente, e data infine la qualità del
cammino, si ricerca in quanti giorni, _senza troppo disagio_, sarà
compiuta la marcia e di quali avvertenze abbia a far uso durante il
viaggio--2°) Acquartierata la cavalleria in una grossa terra in
prossimità del nemico, quali saranno le precauzioni contro le
sorprese--3°) Con quali avvertenze si custodiscono i prigionieri di
guerra mentre si conducono al luogo loro assegnato--4°) In qual modo
si scorta un convoglio di vittuarie passando per i luoghi
sospetti--5°) Come si marcia alla _sordina_--6°) Contromarce per
righe--7°) Come si mettono in contribuzione i villaggi nemici, vigente
sempre il timore che il nemico ci sia alle spalle--8°) Se lo squadrone
arrivasse ad un fiume inguadabile, che ripieghi si farebbero--9°) Lo
squadrone, in colonna di divisioni, si trova su di una strada dove i
cavalli non possono che marciare di passo: esso è forzato a ritirarsi
facendo fuoco. Si effettui la relativa ritirata--10°) Modo di caricare
contemporaneamente il nemico sulla fronte e sulle ali: la parte più
forte sulla fronte, due parti minori sulle ali--11°) Attacco di
cavalleria in un bosco--12°) Come si fa a foraggiare--13°) Cammin
facendo, se si trovasse uno staccamento (_distaccamento_) nemico
trincerato che ci impedisse di marciare, quale sia il partito
migliore»[57].

Esaminiamo da ultimo le prove prescritte per l'artiglieria, allo scopo
di formarci un giudizio esatto sull'entità degli esperimenti e sul
grado, di istruzione degli ufficiali Veneti del tempo. Nel 1782, per
gli aspiranti al posto vacante di capitano-tenente nel _Reggimento
Artiglieria_ si richiedevano le prove seguenti:

«1°) Le quattro prime operazioni aritmetiche, frazioni, radici
quadrate e cubiche, regola del tre diretta ed inversa--2°) Sui primi
sei libri della geometria--3°) Sulla trigonometria piana--4°) Sull'uso
delle tavole balistiche per i tiri orizzontali ed obliqui--5°) Sopra
la proprietà della parabola relativamente ai tiri di bomba--6°)
Sull'uso della tavoletta pretoriana--7°) Sopra i vari generi di
calibri dell'artiglieria--8°) Come si prendono le misure di un pezzo
di artiglieria per farvi un letto (_affusto_)--9°) Quali sono gli
apprestamenti usati nell'artiglieria veneta per il servizio delle
artiglierie navali, murali e campali--10°) Quale è il modo di numerare
le palle, bombe, granate, unite in piramide o in altra figura--11°)
Come disporre le cose spettanti all'artiglieria sopra i legni armati
al caso di combattere--12°) Come si forniscono le racchette ad uso di
segnali e le candele ardenti ad uso delle minute artiglierie, le
spolette e le bombe ad uso dei cannoni, mortai ed obusieri--13°) Come
si misura il tempo in cui una bomba percorre un dato spazio--14°)
Esercizi campali ed evoluzioni del _Reggimento Artiglieria_, giusta le
istruzioni del brigadiere conte Stràtico» [58].

Per gli aspiranti al grado di sergente-maggiore nell'arma[59] alle
menzionate prove si aggiungevano esami di meccanica, di stàtica, di
resistenza delle bocche da fuoco, di potenza degli esplosivi, oltre ad
esperimenti sulle manopere di forza e relativi comandi, sulle opere
difensive e di fortificazione.[60]

     *
    * *

Si spiega adunque come col crescere di tale florilegio scientifico,
sbocciato come un'oasi nel campo uniforme degli umili fiori campestri
dell'anzianità e delle _occasioni vive_, i giovani ufficiali usciti
dalle scuole venete del tempo si trovassero in condizioni
spiccatamente favorevoli in paragone dei canuti colleghi passati per i
gradi inferiori di truppa. Molti di questi erano invecchiati nelle
scolte sui diruti rampari della Repubblica, a Corfù, a Parga, a Zante
ed a Cefalonia, si erano temprati ai miasmi mortiferi dì Prevesa, di
Vonizza e di Butrinto, avevano scritto infine l'ultimo capitolo--per
quanto assai mutato nel decoro guerresco--dell'epica lotta accesasi
tra la Cristianità ed il Turco, dalle crociate a Lepanto e da Candia
in Morea, vigilando come sentinelle perdute verso i confini musulmani
sui lontani castelli di Dernis, di Clissa e di Knin.

Ed il bilancio del servizio di queste scolte fedeli--quasi fatte
simbolo di una potenza della quale più non rimaneva che il nome--era
solenne come un piccolo monumento di storia individuale. Storia dei
tempi, fatta non già di novità sibbene di lunga e paziente attesa.

Sfogliamo un poco tra le pagine di codesti titoli vetusti. Dagli
stati di servizio prodotti dai capitani Zorzi Rizzardi e Donà
Dobrilovich al Senato per ottenere la loro giubilazione, risulta
che il primo di questi era soldato dal 1734, cadetto nel 1740,
alfiere nel 1753, tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1778,
capitano nell'anno medesimo; vale a dire che aveva impiegato ben
51 anni di servizio per ottenere quest'ultimo grado, dei 68 di età
che contava il postulante. Il collega Dobrilovich era soldato dal
1733, caporale nel 1739, sergente nel 1742, alfiere nel 1745,
tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1773 e capitano pure nello
stesso anno: gli erano quindi occorsi 51 anni per raggiungere la
desiderata mèta di comandante di compagnia, accumulando per via il
fardello di ben 68 anni di età.

Nè gli _accademici_, per dir così, erano i soli a far concorrenza ai
vecchi soldati della Repubblica. Oltre ad essi si dovevano contare gli
ufficiali _sopranumerari_, cioè quelli il cui _rollo_ di anzianità era
per un motivo qualsivoglia sospeso, i provenienti dai nobili e dai
figli degli ufficiali, ed infine i _titolati_, cioè coloro che in
virtù di una grazia sovrana, per benemerenze personali o di famiglia,
ricevevano un grado ed i relativi emolumenti senza però disimpegnarne
gli uffici.

Ingrossata così la schiera dei competitori--talchè i cadetti nel 1781
erano cresciuti a 605, laddove nel 1776 toccavano il centinaio e mezzo
appena--il malcontento dei vecchi ufficiali non ebbe più ritegno.

«Quando--dice un'istanza avanzata al Senato dal tenente Teodoro
Psalidi, del Reggimento di Artiglieria--dovetti fare le prove anche
nelle scienze matematiche, volendo aspirare al grado di
capitano-tenente, e mi venne imposto di prestarmi in tali studi che
non mi erano mai stati prescritti, mai insegnati dai miei superiori,
cui infine non ebbi mai il tempo di applicarmi, mi cadde l'animo.
Pensi dunque l'E. V. quanto inaspettato mi giungesse il nuovo
precetto, grave e difficile, di immergermi in quei ardui studi nel
periodo ristretto di 18 mesi, termine alle prove assegnato, e quanto
fosse il mio svantaggio rimpetto ai giovani tenenti di me meno
anziani, che tratti recentemente dal Militar Collegio di Verona
avevano avuta la fortuna di essere da valenti maestri istrutti con
ottima disciplina in quelle scienze»[61].

Nelle armi di linea, si impugnava in luogo delle tesi scientifiche il
valore delle prescritte prove, per quanto si riferivano alla parte
teorica del regolamento di esercizi e di quello sul servizio delle
truppe in campagna. Il Senato ed il Savio, imbarazzati di fronte a
questa selva di proteste che rimpinzavano di suppliche e di lagni le
voluminose filze del carteggio, ordinarono infine alle commissioni
reggimentali di rassegnare i titoli dei candidati e le prove di esame
al Savio stesso, acciocchè questi potesse giudicare con uniformità, di
criteri, come in ultimo appello. Ma non per questo i lagni cessarono:
occorreva un rinnovamento profondo di uomini e di principi per porre
rimedio al male, e questo rimedio non poteva essere nelle mani della
vetusta Serenissima.

Era l'estate del 1796, quando il Savio alla Scrittura Leonardo
Zustinian--già denominato in alcuni reclami con il vocabolo giacobino
di _cittadino_--si risolse di proporre al Senato uno schema di
svecchiamento dell'esercito, mercè una larga applicazione del sistema
dei limiti di età, visto che quello degli esami aveva ormai dichiarato
la sua bancarotta.

«Occorre--diceva il Savio Zustinian al Principe--purgare una buona
volta la milizia dagli ufficiali inetti, di età troppo avanzata,
ovvero affetti da mali incurabili... prescrivendo la giubilazione di
questi con intera paga del rispettivo grado, a moneta di ogni riparto.
E le norme che sembrano da stabilirsi, sono quelle di 70 anni di età
per i _graduati_ (ufficiali superiori), di 60 anni per i capitani,
capitani-tenenti ed alfieri»[62].

Ma era troppo tardi. L'esercito Veneto cadeva giusto allora sotto la
rovina della Repubblica, ed i provvedimenti escogitati dal Savio alla
Scrittura Leonardo Zustinian non servirono ad altro che a formare
argomento di curiosità nella storia della vecchia organica militare
dei Veneziani, ed a fornire oltre a ciò un buon esempio atto a
comprovare come talvolta ad eguali difficoltà, o molto simili, ad onta
dei mutati tempi, si procura di far fronte con espedienti assai
affini.

   *
  * *

Sparpagliati nei diversi presidi d'Italia e d'oltremare, gli ufficiali
della Serenissima non erano tra loro in eguali condizioni d'istruzione
e di addestramento professionale. Quelli poi che soggiornavano nella
Dominante, per le loro occupazioni da guardia oligarchica e per i loro
contatti con le primarie cariche dello Stato, godevano di un prestigio
che non aveva riscontro con gli altri colleghi dell'esercito.

Lo stesso carattere della milizia veneta--prevalentemente levata per
ingaggio--contribuiva oltre a ciò a creare attorno agli ufficiali
stessi un ambiente molto affine a quello in cui trascorrono oggigiorno
la loro esistenza gli ufficiali di taluni eserciti delle libere
repubbliche d'America.

Nullameno, ad onta di queste circostanze poco favorevoli
dell'ambiente--cristallizzato nelle vecchie pratiche e nei vetusti
pregiudizi, sopravvissuti ancora dal tempo delle compagnie di ventura
e del Quattrocento--la decadenza militare della Serenissima brilla
ancora per il nome di qualche ufficiale, salito in fama unicamente per
virtù propria; ciò che è garanzia del suo merito indiscusso. E sono
nomi cari non soltanto nel ristretto cerchio della Repubblica oramai
moritura, ma eziandio in quello più vasto e luminoso della storia
militare italiana.

Tra essi primeggia il brigadiere del genio militare Anton Mario
Lorgna, da Cerea, fondatore di quel corpo; architetto, idraulico,
topografo e matematico di gran fama, il cui nome va indivisibilmente
congiunto alla riputazione del Collegio Militare di Verona, già grande
prima della caduta di Venezia, talchè non pochi eserciti stranieri
facevano a gara nel richiederne gli allievi al Senato[63] ed egregia
anche dopo la caduta, talchè non sdegnò di occuparsene il Foscolo.
Meritevoli di nota in questo periodo di tempo sono pure i nomi del
maggiore di artiglieria Domenico Gasparoni, veneziano, ordinatore del
Museo dell'Arsenale ed autore di una pregevole opera sull'artiglieria
veneta dedicata al doge Paolo Senior[64]; del sergente maggiore di
battaglia Stràtico, introduttore di considerevoli riforme nei
regolamenti militari Veneti, ed infine di Giacomo Nani, per quanto
quest'ultimo appartenga per provenienza alla marina, ma per anima e
per circostanze della gloriosa sua camera delle armi all'esercito,
intorno al quale scrisse il volume inedito dal titolo _Della Milizia
Veneta_[65] e l'opera perduta relativa alla difesa di Venezia[66].

Gli stimoli per suscitare una nobile gara di emulazione e di
benemerenze tra gli ufficiali Veneti erano ben pochi. Le stesse
ristrettezze del bilancio impedivano perfino di assolvere il
sacrosanto obbligo contratto dalla Serenissima verso i prodi
combattenti sotto le bandiere di Angelo Emo, assegnando loro quel
grado e quello stipendio che erano stati decretati dal Senato per
merito di guerra[67]. Per questo titolo--abbenchè con molta minor
frequenza--si assegnavano agli ufficiali anche delle medaglie d'oro,
con l'impronta del leone di San Marco, del valore medio di 30
zecchini[68].

Ma per l'assenza di clamorose imprese, verso la fine della Repubblica
anche questa costumanza, derivata dai tempi eroici, cadde in disuso,
sicchè se ne ricorda a mala pena qualche raro caso. Tale è quello del
capitano Gregorio Franinovich, del _Reggimento Cernizza_, decorato per
speciali benemerenze ed atti di valore compiuti dal detto ufficiale in
Levante[69].

E passiamo al rovescio della medaglia. Le punizioni degli ufficiali
Veneti avevano, in prevalenza, il carattere di coercizione morale.
Così l'_ammonizione_, l'_arresto semplice_, l'_arresto più lungo_, la
_sospensione dal grado_, la _notazione_ speciale sul libro-registro
del servizio--della quale si teneva conto a suo tempo per la
compilazione dei titoli di esame--infine l'esclusione o la sospensione
temporanea _dalle adunanze, o circoli di persone per grado e per
nobiltà distinte_[70].

     *
    * *

L'antica foggia di vestire degli ufficiali era stata riformata nel
1789 sull'esempio degli Austriaci e dei Prussiani. In seguito a questa
riforma introdotta dallo Stràtico, che compilò la relativa «_Ordinanza
contenente la prammatica e la disciplina relativa all'uniforme della
fanteria italiana_», tutti gli ufficiali veneti, dall'alfiere al
colonnello, dovevano indossare la nuova divisa, non soltanto in
servizio ma anche nelle presentazioni, negli spettacoli e nelle
pubbliche solennità. Erano comminate punizioni a chi non ottemperasse
a questi precetti o alterasse la foggia del vestire. E che tali
mancanze non fossero rare, lo attestano le minuziose cure con cui
l'_Ordinanza_ sopra citata prevedeva i relativi casi.

«Tutti--soggiungeva l'_Ordinanza_--dentro un triennio dovranno avere
la nuova uniforme, pena la sospensione dal servizio e la sottomissione
a _ritenute_, finchè la nuova uniforme non sia fatta, oltre le
notazioni da farsi sul _Libro Registro_, a pregiudizio dello
avanzamento».

La pettinatura degli ufficiali veneti era liscia, con due _bucali_
(riccioli), uno per parte delle tempia, sostenuti dalle forchette che
giungevano fino a mezza orecchia: i capelli dovevano essere bene
incipriati (_polverizzati_) e la chioma raccolta in una rete
(_fodero_) di pelle nera.

Il principale capo di vestiario della fanteria italiana era la
_velada_, o abito a coda di rondine di panno _blò_, foderato di _roè
bianco_,[71] guarnito di un _collarino_ e di _balzanelle_, o manopole,
pure di panno bianco, adorno di grossi bottoni di metallo dorato con
impresso, in cifre romane, il numero del corpo cui gli ufficiali
appartenevano[72]. Gli ufficiali dei fanti _oltramarini_ avevano
l'abito di panno cremisi, come i soldati, e quelli di artiglieria di
panno _gris di ferro_.

Nella stagione fredda si indossava da tutti un cappotto di panno
bianco, della stoffa di quello usato per il bavero della _velada_,
guernito di bottoni pure di metallo dorato e foderato assai spesso di
una buona pelliccia. I calzoni d'inverno erano di panno _blò_ e nella
stagione calda di _rigadino bianco_ forte.

L'abbigliamento degli ufficiali veneti era completato dal colletto di
pelle nera lucida, dai _manichini_ di buona tela _batista_, dai guanti
di pelle gialla _lavabile_, dagli stivali di _bulgaro cerato_, dagli
stivaletti di pelle nera da usarsi in estate, allacciati _dalle
cordelle_, e dal cappello a tricorno.

I distintivi di grado si portavano sul cappello. L'alfiere non recava
sopra di esso alcuna distinzione, i tenenti ed i capitani-tenenti si
riconoscevano invece per una _rosetta_, o coccarda, mista d'oro e di
seta azzurra, assicurata sull'ala sinistra del tricorno mediante un
bottone ed un'_asola_ (laccio) di seta nera. I capitani si
distinguevano per due rosette simili alle anzi descritte, assicurate
sopra ciascun'ala del copricapo: i sergenti maggiori, i tenenti
colonnelli ed i colonnelli infine recavano tutti, senza distinzione
alcuna, due rosette come i capitani, intessute però per intero _di
solo filo d'oro_. Oltre a ciò il bavero degli abiti degli ufficiali
superiori era ornato di un largo gallone d'oro mentre quello degli
ufficiali inferiori ne era sprovvisto.

Anche i _fiocchi delle spade e dei bastoni_ erano differenti per ogni
grado. I bastoni dei subalterni erano guerniti di un _pomo_ d'avorio,
quelli dei capitani di un _pomo_ di metallo liscio dorato: i bastoni
degli ufficiali superiori non avevano altro distintivo che un risalto
anulare disposto verso l'attacco del pomo alla canna. Le _cinture_ ed
i _pendoni_ (tracolle) delle spade erano di pelle bianca lucida, con
scudetti di metallo recanti in rilievo l'emblema del leone di San
Marco: gli scudetti degli ufficiali subalterni erano semplicemente
inargentati, quelli dei capitani inquartati dentro un ribordo dorato,
quelli degli ufficiali superiori infine erano tutti dorati [73].

Quanto alle armi, abolita definitivamente la picca nel 1790, le lame
delle spade, le fasce ed i puntali dei foderi dovettero, _in tutto e
per tutto_, uniformarsi al modello prescritto dall'_Ordinanza_ dello
Stràtico.

     *
    * *

 Prima di lasciare l'argomento degli ufficiali veneti, occorre
aggiungere ancora qualche cenno che valga a lumeggiare la loro
posizione interiormente ed esteriormente all'ambiente militare del
tempo.

I sistemi di ingaggio delle truppe--sopravvissuti a Venezia per lunga
tradizione fino dall'epoca delle compagnie di ventura--riflettevano di
necessità sugli ufficiali la fisionomia particolare di comandanti non
tanto d'uomini, quanto di custodi di merce acquistata a suon di
quattrini dalla Serenissima sul mercato dei soldati di mestiere.

Si spiega quindi come, dato tale ambiente, le occupazioni
dell'ufficiale fossero in prevalenza amministrative, anzichè tecniche,
educative e morali. Le tradizioni del reggimento, i ricordi dei
principali fatti di guerra--che solevano tramandarsi egregiamente in
Piemonte tra le milizie paesane--non avevano quindi un equivalente
riscontro morale tra i Veneti, neppure tra le cerne dei migliori tempi
della Serenissima. I soldati di mestiere avevano anzi smarrite tutte
queste tradizioni, a motivo dell'avvicendarsi dei nuovi ingaggiati nei
corpi, del frantumarsi dei riparti nelle varie guarnigioni e degli
atteggiamenti diversi assunti dalle milizie venete della decadenza,
divise di continuo tra il servizio di sentinella, quello ai daziere,
di guardia confinaria e campestre, oppure di rincalzo ai satelliti
degli _Inquisitori_ di Stato.

Epperciò, all'infuori del comandante di compagnia, il cui compito era
quello di amministrare il mezzo centinaio di uomini che la Repubblica
gli confidava, per essere equipaggiato, armato e nutrito, nessun altro
ufficiale aveva attributi speciali nell'ordine dell'educazione e dello
apparecchio morale dei propri dipendenti. Neppure il colonnello aveva
sotto questo riguardo particolari incarichi; che anzi, per l'uniforme
costume di ridurre tutto quanto aveva attinenza al soldato al
denominatore comune dell'amministrazione, seguendo la moda del tempo
anche nell'esercito veneto sopravviveva la _compagnia colonnella_,
alle cui funzioni contabilesche non potendo accudire di persona il
capo del reggimento venivano da lui delegate ad un tenente anziano,
detto perciò _capitano-tenente_. In analogia si regolava il tenente
colonnello ed il sergente maggiore, che avevano pure essi la
rispettiva compagnia, confidata figuratamente al governo di un
capitano che ne faceva in realtà le veci amministrative in tutto e per
tutto.

Dal capitano, comechè si trattasse di un vero e proprio possesso
individuale, prendevano poi nome le altre compagnie, la cui anzianità
e disposizione nelle manovra era fissata dall'anzianità del rispettivo
comandante, dopo la compagnia del colonnello e degli altri ufficiali
superiori del reggimento.

Il prevalente carattere mercenario delle milizie venete aveva inoltre,
da tempo, avvezzi i governanti a considerarle quale strumento ligio
all'oligarchia che le manteneva in vita; e tale modo di
essere--contrario ad ogni libero svolgersi delle attività morali--si
rifletteva necessariamente anche sul carattere degli ufficiali.
Valgano a questo proposito due ordini di concetti: quello di servirsi
degli ufficiali nelle operazioni poliziesche di maggior
rilievo,--quale l'arresto fatto dal colonnello Craina, dei fanti
oltremarini, del noto patrizio liberale Zorzi Pisani--e della
fiscalità continua esercitata sopra di essi--specie sui comandanti di
compagnia--in tutte le manifestazioni amministrative; ciò che
contribuiva a far ritenere gli ufficiali medesimi come asserviti di
continuo ad una specie di stato di tutela da parte delle maggiori
autorità e magistrature competenti.

Ma, ad onore degli ufficiali Veneti, conviene pure soggiungere a
questo punto che mai, nelle voluminose filze del carteggio militare
della decadenza, si trova citato un caso che giustifichi codesta
diffidenza fiscale, la quale d'altronde era connaturata nei tempi ed
in molti eserciti d'allora, e che si è tramandata per qualche traccia
perfino a giorni non lontani dai nostri [74].

      *
     * *

Se la grande massa degli ufficiali adunque--quelli di Linea--
trascorreva l'esistenza morale ed intellettuale in tale angusto
cerchio di attribuzioni e di consuetudini, fatto ancora più
uniforme dal grigio dell'inoperosità della decadenza repubblicana,
ciò non toglie che qualche altro corpo di ufficiali stessi--a base
più ristretta ed a reclutamento più omogeneo,--non intravedesse
degli spiragli verso orizzonti più audaci o verso aspirazioni che
precorrevano il futuro.

Il Collegio Militare di Verona, per le sue relazioni scientifiche con
l'Università di Padova, per l'indole e la nazionalità di taluni suoi
insegnanti, si prestava anzitutto da buon crogiuolo delle nuove idee
ed a propalarle nell'esercito. Fino dal 1764 si lamentava infatti dal
Savio alla Scrittura, che tra i giovani dell'istituto serpeggiassero
«_dei mali principi, pregiudicievoli alla buona morale, molto più
ancora contaminata dalle massime di libertà che vien fatto di credere
che si siano nel Collegio disseminate_».

Tale sospetto motivò un'inchiesta, eseguita dal Savio alla Scrittura
Marco Antonio Priuli, la quale accertò che tre ufficiali capisquadra
del Collegio, «consumavano il loro tempo con la lettura di romanzi e
di libri oltramontani, dei quali contribuiscono pure i giovani,
avendosi giurata deposizione che si fossero vedute nelle mani di
qualche alunno le opere di _Volter_ (_sic_), e venendo perfino
introdotto il sospetto che si leggessero quelle ancora di Niccolò
Macchiavello».[75]

Gli ufficiali modernisti vennero sfrattati dal Collegio di Verona, e
la mala pianta delle idee novatrici pareva del tutto spenta quando,
nella primavera del 1785, vi si scoperse una loggia di _Liberi
Muratori_, fondata da Giovambattista Joure, maestro di lingua francese
nell'istituto, allo scopo di diffondere tra i futuri ufficiali veneti
i principi delle nuove dottrine liberali, e «di restituire alfine
l'uomo alla prisca libertà naturale, da cui la teocrazia ed il
principato lo avevano allontanato».[76] A questa loggia «_muratoria_»
militare deve avere partecipato molto probabilmente anche il
colonnello Lorgna--poichè le adunanze degli affigliati si tenevano in
certe camere dal medesimo occupate in Castel Vecchio--e, certamente,
non pochi ufficiali della guarnigione di Verona appartenenti al corpo
di artiglieria, come risulta dagli interrogatori del processo, nei
quali sono spesso citati il maggiore alle fortezze Solidi e l'alfiere
conte Rambaldo, da Legnago.[77]

Scoperta l'associazione, gli Inquisitori[78] sfrattarono subito il
maestro Joure dagli Stati Veneti e sbandarono gli ufficiali ascritti
alla loggia di Verona in diverse guarnigioni di terraferma ed
oltremare. Nullameno, i germi diffusi dal Joure nel maggior istituto
militare della Repubblica lasciarono traccia oltre al rogo dei libri e
dei registri della loggia ordinato dagli Inquisitorì, ed essa traspare
nel continuo fermento cui andò soggetto il collegio, da quell'epoca
fino alla violenta sua soppressione accaduta per opera del generale
Rampon, a metà luglio del 1796. Il desiderio di riforme era dunque la
spinta principale di quei moti, intesi «_a sovvertire l'attuale
spirito di concordia, di pace e le leggi della sottomissione e del
buon ordine che furono naturalmente stabilite_» e di realizzare infine
«_delle novità nei metodi nello insegnare... non volendo ufficiali ed
alunni più vivere soggetti_».[79]

Pure anche questi germogli di giacobinismo, cresciuti come pianta
sporadica all'ombra delle torri merlate del castello Scaligero di
Verona, dovevano un giorno tornare utili alla Repubblica[80]. E ciò
avvenne quando si trattò di spedire i primi messaggeri di pace al
generale Buonaparte, sotto Brescia; messaggeri che il Senato volle
servilmente prescelti fra gli antichi allievi del Collegio Militare
veronese, nella speranza che il ricordo delle relazioni «_muratorie_»,
perseguitate un tempo e ritornate in onore per la circostanza, valesse
a propiziare loro ed alla Repubblica l'animo del conquistatore.[81] E
questi ufficiali furono il colonnello Giovanni Francesco Avesani ed il
capitano Leonardo Salimbeni, inviati il 27 maggio 1796 a Brescia con
il mandato di implorare grazia da Buonaparte per l'avvenuta
occupazione di Peschiera, fatta pochi giorni avanti di sorpresa dagli
Austriaci.

Di ufficiali inferiori dell'esercito infine, coimplicati in movimenti
politici, non si trova traccia nel carteggio della decadenza militare
veneta. E questo serve da conferma, tanto del carattere di guardia
oligarchica--conservato dall'esercito stesso fino alla rovina del
governo della Serenissima--quanto della infondatezza del timore da
alcuni nutrito che esso avesse potuto tralignare in mano di audaci e
di novatori.

L'espressione di questo sospetto di tradimento--naturale d'altronde in
ogni organismo inesorabilmente votato alla rovina--si trova in talune
«polizze» anonime trovate nei bossoli del Maggior Consiglio e del
Senato durante l'anno 1796[82]. Queste «polizze» insinuavano di
diffidare dell'ottuagenario tenente generale Salimbeni, comandante in
capo delle milizie venete raccolte sotto la piazza di Verona e dei
suoi figliuoli, tra i quali era il capitano Leonardo citato più sopra.

Uno di questi foglietti così diceva:

«Non prestar fede al generale Salimbeni».

Un altro ancora proclamava:

«Governo, nò ve fidè del generale Salimbeni, Recordève del
Carmagnola».

Un terzo riproduceva il rozzo disegno di una forca, con la scritta:

«_Per il general Salimbeni_».

Un ultimo infine insinuava:

«_Il tenente generale Salimbeni è giacobino coi figli ed adora solo
l'oro,

Governo, guardatevi che non vi tradisca essendo più francese che
suddito_».



CAPO IV.

Le truppe assoldate.


Tra il principio dell'assedio di Mantova e le giornate di Lonato e
Castiglione i fanti oltremarini, per comando espresso dal generale
Buonaparte, furono clamorosamente allontanati da Verona. Questi
soldati--denominati volgarmente _Schiavoni_--raccolti in buon numero
in quella città[83] andavano di certo a contraggenio al giovane
generale francese. Forse egli li riteneva una specie di guardia
pretoriana, ed imbevuto di studi e di prevenzioni sul governo
dispotico degli antichi Stati d'Italia, ne deve avere desiderato lo
scioglimento come un impegno civico commesso alla sua opera ed a
quella del Direttorio di Francia. Rispondendo ad analogo concetto il
generale Schèrer, sul finire del 1795, aveva imposto lo scioglimento
dei corpi còrsi alla Repubblica di Genova[84].

L'indisciplina degli _Schiavoni_ era d'altronde grande, documentata
perfino dalle attestazioni del generale Salimbeni. Essa poteva
prorompere ogni momento ad eccessi e costituire il focolare dei mal
repressi spiriti di malcontento che serpeggiavano tra le popolazioni
veronesi, taglieggiate, angariate, violentate nelle persone e negli
averi. Certo, sotto questi riflessi, Buonaparte divinava in qualche
misura l'esplosione cittadina delle _Pasque Veronesi_.

Anche le esigenze militari imponevano urgentemente ai Francesi di
premunirsi da tale minaccia. La fortezza di Verona era diventata, ai
primi di luglio del 1796, la loro principale base d'operazione contro
l'esercito mobile degli Austriaci e contro la piazza di Mantova, il
punto d'appoggio contro gli sbocchi dal Tirolo e dalla Val Sugana, la
tappa intermedia dal Milanese e dal Bresciano nella vagheggiata marcia
dei Francesi alla volta di Venezia, del Friuli e dei confini
occidentali dell'Impero[85].

Occorreva perciò rompere subito gli indugi ed in quest'arte Buonaparte
era maestro insuperabile. Il caso di un ufficiale francese ucciso per
le campagne di Villafranca, qualche borseggio, qualche rissa accaduta
fra gli oltremarini mal compresi dai soldati di Francia non famigliari
con l'idioma illirico, porsero l'occasione propizia per imporre al
Senato di sfrattare da Verona le casacche cremisine dei fidi dalmati.

Al generale Massena toccò di apparecchiare l'animo dei Veneti alla
grave rinunzia. «Il est temps enfin, monsieur le provvediteur»--così
scriveva quel generale a Nicolò Foscarini, il 4 luglio 1796--que les
assassinats que vos soldats ne cessent de commettre envers les miens,
finissent. Le général Rampon, commandant à Veronne, m'a dejà rendu
compte que plusieurs de nos volontaires avoient été assassinés a coups
de stilet, ou de sabre, par vos _Esclavons_»[86]. Tre giorni dopo
Massena ribadiva ancora la sua tesi con cresciuta insistenza e
protervia: «Par les piéces ci jontes Vous verrez que les assassinats
continuent, et que les ordres que je presume que Vous avez donné pour
les reprimer ne sont nullement suivis. Je Vous previens que si ces
horreurs ne finissent pas, je ne pourrai plus Vous répondre des suites
funestes q'elles causeront infalliblement»[86].

Infine, dopo il cupo rombo della tempesta lontana, venne il guizzo
della folgore.

L'8 di luglio Buonaparte indirizzava al provveditore Foscarini la
lettera che segue: «Il y a entre la troupe française et les
_Esclavons_ une animosité que des malveillaux, sans doute, se plaisent
à cimenter. Il est indispensable, Monsieur, pour eviter des plus
grands malheurs, ainsi facheux que contraires aux intéréts des deux
Republiques, que Vous fassiez sortir demain de Veronne, sous les
pretexes les plus specieux, les _bataillons_ d'Esclavons que Vous avez
dans la ville de Veronne»[87].

L'espressione della volontà del vincitore era chiara e precisa e non
ammetteva replica. Essa si fondava per di più sulla presunzione che il
contingente illirico stanziato a Verona fosse di molto superiore al
mezzo migliaio di dalmati che vi teneva effettivamente guarnigione sui
primi di luglio. Epperciò ogni tentativo per far recedere Buonaparte
dalla determinazione presa riuscì vano, ad onta che il provveditore
Foscarini, col collega Battagia, si fossero adoperati coi modi più
soavi ed insinuanti a produrre l'effetto bramato. «Ciò però non servì
ad altro--aggiungevano i provveditori--che a far prendere a Buonaparte
un tuono ancora più deciso, sicchè abbandonando quelle maniere
piacevoli colle quali ci aveva in prima accolti, disse che era tempo
oramai che cessassero tutti gli scandali, e che fosse tolta
radicalmente l'occasione a querele... e che senza dilazione di sorta
gli Schiavoni si rimpiazzassero con Italiani, in quel numero che fosse
piaciuto. Che egli poi (Buonaparte) non si curava di esaminare chi tra
gli Schiavoni o Francesi avesse ragione o torto, che non dovevamo però
ignorare che scambievole era tra queste due nazioni il livore e lo
spirito di vendetta. E facendoci intendere che era necessitato di
occuparsi di altri affari, ci obbligò subito a congedarci»[88].

Ai due rappresentanti di un potere oramai morituro messi così
duramente alla porta, tra la vergogna del sottomettersi e l'incertezza
dell'esito in una reazione improvvisata senza la ferma volontà di
rinsanguarla con il braccio e con la fede, il primo partito parve più
prudente e conforme alle necessità dell'ora. E gli _Schiavoni_,
all'alba del 9 di luglio--come Buonaparte aveva voluto--uscirono da
Verona di soppiatto, come fuggiaschi di fronte alla fatalità di un
destino che incombeva sul loro capo come su quello dei governanti
della Serenissima. Le casacche cremisi, che mai avevano indietreggiato
per lungo volgere di anni di fronte alla furia turchesca, cedevano ora
misteriosamente terreno come pressati dall'avvento delle nuove età.
Sotto questa oscura minaccia il passato, quasi fatto persona in quegli
ultimi soldati fedeli della Signoria, pareva ripiegarsi su sè
medesimo, come dentro le pieghe della vermiglia bandiera della
Repubblica.

Tre compagnie del reggimento oltremarino _Medin_ si trasferirono a
Vicenza e quattro a Padova, «_attendendo in quelle città gli ultimi
ordini dell'Ecc.mo Senato_». Lo stesso giorno 9 di luglio 1796, le
artiglierie del generale francese Rampon salivano indisturbate sui
rampari della fortezza di Verona e, con gesto violento, si surrogavano
alle armi paesane che vergognosamente si erano date alla latitanza.

Così uscirono gli _Schiavoni_ da Verona. Vi dovevano però ritornare
quasi un anno appresso, nel crepuscolo sanguinoso delle _Pasque
Veronesi_, per tingere di rosso quella scena drammatica con cui la
Serenissima doveva chiudere il suo lungo e glorioso dominio in
terraferma [89].

     *
    * *

Gli _oltremarini_ costituivano le milizie assoldate per eccellenza
della Repubblica. Corrispondevano un poco agli Svizzeri, con i quali
quei soldati di mestiere avevano comuni lo spirito di ventura, la
tenacia delle tradizioni militari e la religione della fede giurata;
sentimenti tutti che, saldamente ed atavisticamente, si trasmettevano
tra le milizie dalmate come un vero e proprio culto per la Signoria. E
la Signoria--quella dello splendore del Cinquecento--ben sicura di
questo lealismo e di questa fede, il cui eco non è ancora del tutto
spento sull'altra riva dell'Adriatico, aveva confidato agli
oltremarini la custodia e la difesa delle fonti della sua ricchezza e
della sua gloria: il presidio de' propri navigli quale fanteria di
marina, la guardia delle stazioni commerciali più esposte alle
incursioni musulmane, la difesa delle teste di tappa sulle strade
commerciali più sensibili e rimunerative per i traffici veneziani,
infine il servizio da scolta più disagioso e pericoloso sui castelli
sperduti in mezzo all'aridità delle Alpi Dinariche.

Gli oltremarini si distinguevano tra la milizia veneta per il loro
armamento pesante da arrembaggio, costituito da una grave e lunga
spada detta _palosso_--corruzione della _pallasch_ degli
Imperiali--munita di un'impugnatura a più else, e per la loro vistosa
assisa di panno _cremisino_, ornamento delle navi parate a festa nelle
solennità del _Bucintoro_ e segno da raccolta nelle mischie navali più
aspre e serrate. Si ingaggiavano, come tutti i soldati mercenari della
Repubblica, esclusivamente nei domini di oltremare, d'onde traevano il
loro nome da battaglia: illirico era il loro linguaggio ed i comandi
militari.

I _capi-leva_ si occupavano del loro reclutamento--edizione senza
confronto migliore e corretta dei _racoleurs_ dell'antico
regime--anzitutto perchè questo ufficio era disimpegnato da ufficiali,
in secondo luogo perchè era espressamente vietato nello ingaggiare le
reclute di usare lusinghe per indurle più facilmente ad imprendere il
pubblico servizio.

«Tutte le reclute--dicevano infatti le capitolazioni dei
capi-leva--dovranno essere volontarie e non ingaggiate con frode o con
ubbriacarle, sotto pena a chi avesse ingaggiato con frode alcuna
recluta, di essere casso immediatamente dal rollo della compagnia (di
leva) e spedito in Levanto per anni sei in figura di soldato; ed
essendo incapace del servizio, di essere condannato in prigione ad
arbitrio di S. E. il Savio alla Scrittura, dovendo i soldati
rimettersi ad incontrare il pubblico servizio di buon genio e di tutta
loro buona volontà»[90].

D'altronde le tradizioni militari dei Dalmati ed il prestigio che
aveva presso di loro il veneto governo, disimpegnavano ampiamente gli
ingaggiatori dal ricorrere a queste arti subdole. Tra i capi leva in
Dalmazia godeva anzi di bella fama, ai tempi di Angelo Emo, il tenente
colonnello Carlo Marchiondi[91].

I capi-leva si aggiravano per le borgate e le campagne di oltremare a
far l'incetta d'uomini, coadiuvati da provetti subalterni esperti
nella lingua illirica, e l'attività loro si esplicava rispetto allo
Stato pressochè nell'orbita di un vero e proprio appalto da
privative[92].

La levata regolavasi mediante apposite _capitolazioni_ accettate dalle
due parti contraenti, l'ingaggiatore a nome del governo e
l'ingaggiato. Le reclute dovevano contare «almeno 4 piedi ed 8 oncie
di statura, (metri 1,622216)[93] avere un'età compresa tra i 16 ed i
40 anni, essere sani, senza alcuna imperfezione di corpo, parlare
l'illirico, non essere disertori dalle pubbliche insegne, non avere
infine esercitato mai alcun mestiere infame[94]».

All'atto dell'ingaggio e dopo la visita «di un chirurgo stipendiato
dal pubblico o dalla comunità, il quale era tenuto inoltre a risarcire
in ogni caso la Signoria col suo stipendio di qualunque frode», la
recluta contraeva la. ferma di sei anni di servizio continuo sotto le
bandiere.

Ammassati--come si diceva allora--i nuovi oltremarini, si
suddividevano nei diversi riparti territoriali della Serenissima.
Quelli destinati alla Dalmazia erano nuovamente visitati dal
provveditore della provincia residente a Zara, quelli assegnati a
prestare servizio sulla squadra dal _Capitanio del golfo_, quelli
infine destinati alla Terraferma dal Savio alla Scrittura, al Lido di
Venezia. Non appena le anzidette autorità avevano riconosciuta la
piena attitudine al servizio de' nuovi inscritti, questi si
_descrivevano_ sui pubblici _rolli_, d'accordo con gli inquisitori
competenti, e da quel punto cominciavano a decorrere gli assegni in
conto della forza bilanciata della Repubblica. Con queste pratiche di
accentramento amministrativo e di controllo, l'esercito veneto andava
sicuramente esente dalla piaga dei _passavolanti_.

Gli assegni dei nuovi soldati erano di doppio ordine, verso i medesimi
e verso i loro _impresari_. Ogni ufficiale ingaggiatore riceveva
infatti per ciascuna recluta riconosciuta idonea 22 ducati, se
destinata alla Terraferma e 20 ducati se assegnata alla Dalmazia o al
Golfo.

Su questo premio poi si dovevano prelevare 12 ducati per l'uniforme
ordinaria la quale, in omaggio alla vecchia tradizione feudale
dalmata--che ancora sussisteva tra le sopravvivenze formali--doveva
essere fornita insieme al nuovo soldato dall'ufficiale capo-leva,
laddove l'uniforme cremisi di parata era somministrata dal rispettivo
comandante di compagnia.

Rimanevano così in attivo ai capo-leva dagli 8 ai 10 ducati di
guadagno per ciascuna recluta, vale a dire dalle 32 alle 40 lire, a
secondo del corso della moneta; ciò che costituiva il lucro di tali
operazioni.

   *
  * *

Seguiamo ora la nuova recluta oltremarina nelle sue peregrinazioni e
tra le strettoie della fiscalità amministrativa del tempo. I trasporti
a Venezia si eseguivano con le cosidette _manzere_, barche onerarie
della specie dei _trabaccoli_ e generalmente usate dai beccaj di
Venezia per trasportare colà i buoi da macello (_manzi_) dalle
province d'oltremare. Ordinariamente i trasporti si effettuavano dagli
scali di Spalato, di Traù, di Sebenico e di Zara.

Sul littorale del Lido--vera e propria caserma di passaggio dei
soldati della Serenissima [95]--i nuovi _Schiavoni_ ricevevano,
nell'attesa di essere _sbandati_ o assegnati ai corpi, un'istruzione
sommaria. Poi, per via d'acqua, si trasferivano a Fusina e Padova,
d'onde si iniziava il loro faticoso pellegrinaggio per raggiungere i
corpi cui erano stati destinati, nel Veronese, nel Bresciano e sui
lontani confini del Bergamasco.

La paga mensile era di 31 lire venete [96]--oltre il _biscotto per uso
di barca_ che gli Schiavoni ricevevano sempre in omaggio alle loro
tradizioni originali di servizio sulle pubbliche navi--laddove i fanti
italiani, ossia gli ingaggiati nei paesi di Terraferma, avevano il
pane. Con questa somma, pari a circa 16 lire odierne, [97] lo
_Schiavone_ doveva soddisfare le voraci brame del fisco, del proprio
comandante di compagnia, e provvedere infine al proprio vitto durante
il mese. Egli doveva cioè lasciare 8 lire venete per la massa
vestiario, 2 e mezza al comandante di compagnia che lo riforniva
dell'abito cremisi di parata, sborsare oltre a ciò l'importo dell'olio
per l'illuminazione delle camerate, della terrabianca (_bianchetto_)
per tenere monde e pulite le buffetterie e le parti bianche
dell'uniforme, comperare il grasso, il lucido per le scarpe e perfino
i piccoli oggetti di pulizia personale. Restavano così allo
_Schiavone_ poco più di 15 lire venete al mese per sfamarsi, eguali a
7 e mezzo delle attuali.

I compensi dei soldati veneziani non erano quindi molto lauti. Invano
i Savi alla Scrittura avevano rappresentato al Senato la necessità di
aumentare l'assegno della truppa, ma le strettezze finanziarie lo
avevano vietato sempre.

Ed i comandanti di compagnia--tra l'incudine delle masse vestiario
oberate ed il martello delle cariche superiori che esigevano negli
_Schiavoni «velade»_ sempre fiammanti--picchiavano sul grigio del
ferro che tenevano tra le mani, cioè sulle masse dei loro dipendenti,
il cui peculio castrense di 7 lire e mezzo si assottigliava allora
ancora di più. Il Senato in molte di queste circostanze soleva venire
in soccorso, ma a beneficio dei comandanti di compagnia piuttosto che
dei soldati, specie al caso di _mostre straordinarie, di passaggi di
principi e di visite_. Così essendo di passaggio per Udine nel gennaio
del 1782 i principi imperiali di Russia, sotto il nome di principi del
Nord, e volendosi in quella circostanza che la compagnia del capitano
Borissevich, dei fanti oltremarini _Cernizza_, destinata loro per
scorta d'onore si presentasse _nella maggiore militare decenza_, il
Senato trovò giusto di compensare quel capitano delle maggiori spese
incontrate _nella circostanza_ per il corredo della truppa con 120
ducati di valuta corrente[98].

In queste strettezze, diventate sempre più acute verso la caduta della
Repubblica per l'abbandono deplorevole delle cose della guerra, la
merce uomo scadeva quindi sempre più sul mercato dei soldati di
mestiere. Così convenne transigere con le prescrizioni delle
_capitolazioni_ ed ammettere nella truppa schiavona «li vagabondi e li
malviventi, nonchè i banditi che disturbano ed infestano la Dalmazia,
provvedimento suggerito dell'attual Provveditore Generale con
plausibili argomenti di carità verso i sudditi e di sicurezza di
transito sulle pubbliche strade di quella provincia, ed in vista di
rendere utile in qualche modo allo Stato tale sorta di gente scorretta
ed indisciplinata»[99].

Il corpo dei _Travagliatori_--o compagnie di disciplina istituite nel
1785 per sfollare i riparti dai più torbidi elementi raccolti dai
capi-leva--alleviò alcun poco l'esercito della Serenissima da questo
còmpito d'istituto di correzione[100]

Ma il male aveva troppo salde e profonde radici perchè questo
provvedimento, escogitato dal Savio alla Scrittura Francesco
Vendramin, potesse sortire a buon esito. Anzitutto il male travagliava
le milizie prezzolate con il tarlo roditore delle diserzioni. Dal 1°
settembre 1780 al 1° febbraio 1784, abbandonarono le insegne nei
reggimenti oltremarini ben 662 soldati: dal 1° marzo 1785 al 1°
settembre 1789 ne disertarono altri 1129; e ciò sopra una media di
3500 uomini presenti in quel torno di tempo nei reggimenti
oltremarini[101].

Con queste cifre significative alla mano, si spiega il grido d'allarme
gittato non molto prima dell'arrivo dei Francesi nel Veneto dal
generale Salimbeni; grido che se parve a taluno troppo pessimista a
tal'altro sembrò perfino sospetto di fellonia. Ed i bossoli del
Maggior Consiglio e del Senato, come si è detto più sopra, ne sanno
qualche cosa.

«I nostri vecchi soldati--scriveva il Salimbeni al Savio alla
Scrittura Iseppo Priuli--sono oramai diventati sentina d'ogni vizio.
Bisogna separarli nelle fazioni della piazza (di Verona) dalle
cernide, ma non è possibile di separarli anche nei quartieri dove
hanno alloggio in comune»[102]. Ed il Salimbeni proponeva
sommessamente al Savio di allontanare gli _Schiavoni_ più facinorosi
da Verona, e più specialmente le compagnie dei capitani Missevich e
Valerio, «le quali venute dalla Dalmazia sono da sostituirsi con
altre... per preservare le cernide dal contagio dei vizi».

Il Savio Iseppo Priuli non ascoltò la proposta ed il destino serbava a
Buonaparte di farla accogliere con la forza.

   *
  * *

Gli Oltremarini erano ordinati in 11 reggimenti contrassegnati dal
nome del rispettivo comandante oppure da quello del circolo di
reclutamento più cospicuo. Nel _piedilista_ del 1° settembre 1776 quei
corpi erano descritti come segue: [103]

Reggimento Bubich, Selich, _Scutari,_ _Sinj,_ Matutinovich, Craina,
Minotto, Rado, Macedonia, Dandria e Bua. Ciascun reggimento contava di
regola 9 compagnie, o raccolte per intero in uno dei grandi riparti
territoriali della Serenissima, o suddivise tra i riparti medesimi e
le navi armate. Faceva però eccezione da questa regola il reggimento
degli oltremarini del circondario di Sinj, il quale contava 11
compagnie ripartite nelle province d'Italia e di Dalmazia. La maggior
forza di questo corpo era dovuta all'importanza militare del
territorio nel quale esso si levava, ed al valore e numero dei
castelli di frontiera che in esso esistevano (Spalato, Salona, Clissa,
Sinj ecc.).

Secondo le tabelle organiche di formazione, approvate dal Senato, il
reggimento di oltremarini non doveva superare la forza di 432 uomini,
ciò che stabiliva l'effettivo delle compagnie in una media di 54
presenti ognuna. Tale forza non era però mai effettiva, neppure nei
periodi di neutralità o durante i mesi del completo armamento delle
due squadre, _grossa_ e _sottile_, quando trattavasi cioè di
spedizioni marittime o di crociere di maggiore rilievo. Così nel 1787,
al tempo delle imprese di Angelo Emo, presero imbarco il 1° marzo del
detto anno sulle navi armate in guerra ben 19 compagnie di fanti
oltremarini, ma essendo tale contingente troppo scarso nella sua forza
complessiva di un migliaio di uomini appena, convenne ricorrere al
complemento dei reggimenti italiani, i quali fornirono altre 12
compagnie alla squadra, oltre alle 19 fornite dagli _Schiavoni_.

Alla vigilia dell'arrivo dei Francesi nel Veneto gli oltremarini
avevano 24 delle loro compagnie dislocate in Terraferma, con una forza
complessiva di 1648 uomini compresi i rinforzi dovuti alle _craine_
[104].

Tutte queste compagnie erano ripartite come segue: A Verona, Legnago e
Peschiera 9, a Brescia con il castello di Orzinovi 4 1/2, [105] a
Bergamo e contado 3, a Crema mezza compagnia, al Lido, con Chioggia e
Capo d'Istria 7 compagnie.

     *
    * *

I soldati del tempo oziavano molto, e nell'ozio sfibrante e prolungato
che li logorava gli elementi più torbidi degli ingaggiati avevano modo
di compiere un vero e proprio corso di perfezionamento. L'azione degli
ufficiali non rappresentava di certo alcun freno in questi moti,
perchè essa si limitava al controllo delle cifre sui registri, alla
sorveglianza del maneggio d'armi nei cortili delle caserme e dei
castelli, e si arrestava alla soglia delle camerate che perciò
restavano abbandonate a sè medesime ed ai propri inquilini in un vero
stato di abbiezione morale e di miseria materiale.

Al tocco del tamburo, che batteva la _diana_ ogni mattina all'alba,
cominciava il giornaliero servizio sulle navi armate e nelle caserme.
I soldati si levavano dai loro giacigli, composti di regola della
semplice _schiavina_, o rozza, coperta da letto gittata semplicemente
sulle nude tavole, o più spesso sul terreno sul quale essi dormivano
quasi sempre vestiti.

I _paglioni_, o pagliericci, vennero a mitigare la durezza di queste
vita dei soldati della Serenissima soltanto verso la sua fine, e più
precisamente a principiare dall'anno 1781; e furono limitati dapprima
ai presidi delle più notevoli fortezze ed in particolari circostanze
di servizio[106].

Le guardie rappresentavano il pensiero dominante della vita di
guarnigione, epperciò il soldato semplice era anche denominato con
l'appellativo di _fazioniere_, come che quello fosse il suo ufficio
esclusivo. Nel servizio territoriale era impiegato ordinariamente un
terzo della forza, del qual costume è rimasta traccia fino ai giorni
nostri nella norma regolamentare la quale prescrive che il soldato
debba avere almeno due notti libere per una passata in sentinella. Le
esigenze della società del tempo, il grande numero delle magistrature
militari e la frequenza delle risse tra i soldati moltiplicavano a
dismisura i posti di guardia. Così vi erano gran-guardie nelle
principali piazze delle città fortificate, guardie d'onore alle
primarie cariche militari del luogo, agli ufficiali superiori del
reggimento, e così via. Valga ad esempio il seguente specchio delle
guardie della città di Verona, nell'anno 1794 [107]:

  MUTE GUARDIE E PORTE
				       Capitani
					  Subalterni
					       Sergenti
						     Caporali
							 Tamburi e pifferi
							     Fazionieri
								  Totale

  _Artiglieri_
	   Guardia di S. E.
	   il capitano e podestà [108] --   2     1    2   2  37   44
  _Croati_
	   Guardia detta di
	   _cavalieri_
	   al medesimo.                --   --    --   1  --  11   12
  _Italiani_
	   Guardia di S. E.
	   il tenente generale
	   comandante [109]             1   2     1    1   2  24   31
	   Guardia alle bandiere
	   dei reggimenti              --  --    --    7  --  35   42
	   Picchetti dei reggimenti    --   5    --    6  --  36   47
	   Gran Guardia                 1   1     1    2   2  24   32
	   Porta Nuova                 --   1     1    1   1  20   24
	   Porta San Zeno              --   1     1    1   1  20   24
	   Porta Vescovo               --   1     1    1   1  20   24
  _Oltramarini_
	   Porta San Giorgio           --   1     1    1   1  16   20
	   N. 2 pattuglie              --  --     2    2   2  16   22
	   Castello San Felice         --  --     1    1  --   8   10
	     Id.    San Pietro         --  --    --    1  --   6    7
	   Ospedale delle Milizie      --  --    --    2  --   8   10
	   Guardia in _Ghetto_         --  --    --    1  --   5    6
				     ________________________________
				       2   14    10   30  12 279  355


Nè è forse fuori luogo ricordare a questo punto anche il servizio di
guardia che le truppe prestavano nelle isole e nell'estuario di
Venezia, nel 1792 [110].

Guardia al Lido, 44 uomini; appostamenti e feluche di sanità al Lido,
24; feluca S. Erasmo, 8; feluca Tre Porti, 8; Falconera, 8; Carvale,
8; Porto Quieto, 8; sciabecco del canale dei Marani, 12; feluca del
canale dei Marani, 12; due feluche a Poveglia, 16; feluca S. Pietro in
Volta, 8; feluca di Fisolo, 8; feluca _delle urgenze_ 8; fusta, 24;
sciabecco Po di Goro, 48; feluca Po di Goro, 8; feluca Malamocco, 8;
seconda feluca di Malamocco, 8; servizi vari di guardia alle reclute,
alle caserme ecc., 60. Totale, 308 uomini comandati a Venezia e
nell'estuario in giornaliero servizio da «fazionieri».

     *
    * *

Al distacco della guardia, fatto con solennità intorno al mezzodì,
tutta la truppa prendeva le armi. Si faceva l'appello per segnalare i
disertori, si leggevano gli ordini, si dava una sommaria occhiata alle
armi ed agli abiti, dopo la quale funzione la vita militare formale
cessava di regola per riprendersi l'indomani alla medesima ora.

Restava la grigia monotonia della vita di caserma. Con quei pochi
soldi che rimanevano ancora nelle mani dell'oltremarino, dopo il
passaggio sotto le forche caudine del fisco e del comandante di
compagnia, egli doveva rifocillarsi. E disinteressandosi ancora lo
Stato dal fornire il vitto ai propri soldati--all'infuori del biscotto
agli oltremarini e del pane agli altri--v'era taluno che lo surrogava
in quest'opera con ingordigia ed esosità, di guisa che il misero
peculio castrense dei soldati di mestiere veniva ad assoggettarsi per
questo ad una nuova ed estrema decimazione.

Esistevano all'uopo sulle navi armate e nelle caserme i così detti
_bettolini_, specie di vivanderie esercitate assai spesso da loschi
personaggi, nelle quali i soldati si provvedevano dei generi di prima
necessità ed anche delle vivande confezionate. A coloro poi cui le
strettezze non consentivano di procurarsi le vivande confezionate, i
bettolieri fornivano gli arnesi di cucina per apparecchiare di solito
la classica polenta ed un misero intingolo per companatico, e ciò
previo un piccolo compenso che lo scarso nucleo degli utenti
corrispondeva a titolo di noleggio degli arnesi stessi all'esercente
del _bettolino_.

Delle norme--ossia _terminazioni_--regolavano il servizio di queste
vivanderie, specie sulle pubbliche navi, ma l'ingordigia dei
bettolieri era assai spesso più forte anche delle _terminazioni_. Lo
sconcio era anzi giunto a tal segno, poco avanti alla caduta della
Repubblica, da indurre il generale Salimbeni a proporre al Savio alla
Scrittura dei provvedimenti radicali in materia:

«Bisognerebbe--egli diceva--assegnare ad ogni camerata di 10 soldati
almeno una caldaia da polenta, una secchia di larice cerchiata ed una
tavola per rovesciarvi di sopra la polenta stessa... Sarebbe inoltre
desiderabile, per liberare il soldato dall'obbligo che ora ha di
spendere la mòdica sua paga in una bettola, o _bettolino_, con grave
danno della disciplina e peso della sua sussistenza, di fornire anche
la legna necessaria per cucinare il cibo. Con questi mezzi si
potrebbero tener uniti i soldati, lontani dalle osterie, dove è forza
che dimentichino la loro nativa semplicità e contraggano il mal
costume»[111].

Il governo disciplinare risentiva fortemente degli effetti di questo
colpevole regime di abbandono e di trascuranza, acuito dalla
fiacchezza dei tempi. Abolita virtualmente la bastonatura sull'ultimo
quarto del secolo XVIII, restava la prigionia e la condanna al remo,
la punizione classica delle milizie della Repubblica marinara la quale
ne usava sempre con molta larghezza. La pena della _galera_ o del
_remo_ era solitamente inflitta ai disertori, ma anch'essa aveva
perduto sulla fine della Repubblica molta parte del suo prestigio, per
essersi assottigliato il numero delle navi armate e ridotta a poca
cosa la loro navigazione. La punizione alla galera era così diventata
un succedaneo della prigione ordinaria.

Circa questa bancarotta del governo disciplinare e dei suoi freni,
basti dire che molti disertori preferivano la condanna al remo al
servizio militare, triste preferenza che illumina l'ambiente
dell'epoca. «Considerano infatti i soldati--dice un documento--una
breve condanna al remo assai meno pesante della vita militare,
stentata, faticosa e prolungata per un più lungo periodo di
tempo»[112].

La disinvoltura, con cui affrontavasi questa pena appare infine nei
trucchi che solevano usarsi, alla caduta della Repubblica, per
gabellare al Savio alla Scrittura i premi promessi a colui che
restituisse alle insegne un disertore. Si accordavano per questo in un
medesimo corpo due soldati, l'uno s'infingeva di abbandonare le
bandiere, l'altro di scoprirlo in un rifugio convenuto in precedenza;
«sicchè colludendo notoriamente assieme _captori_ e _fuggiaschi_ tra
loro si dividevano il premio assegnatosi ai primi... Onde sarebbe
utile, in luogo di dare il premio a questi _captori,_ di servirsi al
caso dei metodi usati dagli esteri eserciti, cioè di obbligare le
terre, ville e paesi, ad arrestare i fuggiaschi e condurli senza
mercede alcuna alle pubbliche forze, con la cominativa che venendo
scoverto in qualsivoglia tempo e modo negletto il fermo di qualche
disertore, sarebbe obbligato il villaggio o terra a supplire alle
spese incontrate dalle pubbliche casse per il mantenimento e vestiario
di un altro soldato»[113].

Quanto si disse fino ad ora trattando più particolarmente degli
Oltremarini può riferirsi anche all'altra specie di milizia pedestre
ingaggiata, cioè agli _Italiani._ Questi si levavano nei domini della
Serenissima in Italia e nell'Istria Veneta e si raccoglievano al Lido
d'onde, accertata la loro idoneità alle armi, «_in tempo di pace, in
tempo di guerra, che Iddio non voglia, o di neutralità_» erano
«_sbandati_» nelle diverse guarnigioni di terraferma.

Gli itinerari delle nuove reclute erano minutamente stabiliti nei
capitolati dei capi-leva e circondati da cautele, tutte intese a far
giungere sicuramente a destinazione la preziosa merce dei soldati di
mestiere, incerti in questi primi passi tra la rude alternativa di
seguire una strada intrapresa di mala voglia, oppure di abbandonarla
al suo inizio medesimo. Drappelli di _croati_ o di _dragoni_, oltre la
scorta dei soldati delle _compagnie di leva,_ accompagnavano in queste
marce le giovani reclute che, così guardate, potevano rassomigliarsi
in tutto e per tutto ad un triste convoglio di prigionieri di guerra.
Partiti dal littorale del Lido, cioè dal deposito di reclutamento, i
nuovi fanti italiani facevano una prima tappa al Castello di Padova
che, in molti rispetti, funzionava da deposito succursale del Lido.
Dopo una breve sosta in quell'antico maniero, le reclute destinate a
proseguire il loro èsodo continuavano nel cammino fino agli estremi
presidi della Serenissima, cioè fin sulle rive dell'Adda e dell'Oglio.
Talvolta queste tappe erano abbreviate da qualche trasporto per via
d'acqua dal Lido a Chioggia, e di qui con i barconi (_burchi_) a
ritroso dell'Adige fino a Verona. Ma erano casi poco frequenti e
subordinati in ogni modo alla occasione di qualche grande trasporto
militare da Venezia alla grande piazza di terraferma.[114]

     *
    * *

La fanteria italiana surrogò nel 1775 il tricorno, che aveva portato
in giro con qualche gloria nelle campagne di Morea sotto il Morosini,
con un caschetto di pelle di vitello adorno di una «_placca de
otton._» In quella circostanza le compagnie di granatieri degli stessi
fanti--create assai tempo prima--ebbero dei berrettoni di pelle d'orso
sul modello francese, guarniti di fiocchi azzurri e della «_placca_»
con l'impronta del leone di San Marco.

Pure in quel torno di tempo il colore bianco degli abiti della
fanteria italiana--che ne era stato a lungo il distintivo
caratteristico, come il _cremisi_ lo era stato per gli oltremarini ed
il _grigio ferro_ per gli artiglieri--venne sostituito dal panno
azzurro. Così le vecchie _velade_ e _bragoni_ di panno bianco
cedettero il campo ad abiti di colore e di taglia alquanto più
succinta, chiusi sul davanti da bottoni metallici fin sotto alla
cravatta; e ciò per ovviare all'incomodo svolazzamento delle falde e
per meglio riparare il soldato nella cattiva stagione. Tale riforma
aveva anche una portata economica, perchè il nuovo abito meglio
serrato alla vita del fante rendeva possibile l'abolizione delle così
dette camiciole, o corsetti di colore che si usavano sotto la
«_velada._»

Il soldato portava una cravatta di pelle nera, due _incrociature_, o
bandoliere di bulgaro, una per sorreggere il tasco o bisaccia, l'altra
per sostenere la baionetta. Le cartucce--venti di regola--costituenti
il munizionamento del fante italiano erano riposte nel tasco.

Il governo amministrativo della fanteria italiana si differenziava in
qualche parte da quello dell'oltremarina. Un sostanziale divario
concerneva anzitutto il vestiario, che nell'italiana era fornito dallo
Stato e mantenuto dai comandanti di compagnia, laddove per gli
oltremarini--come è detto più sopra--era fornito dai capitani.

Al ramo delicato ed importante dell'amministrazione sopravvegliavano i
_magistrati sopra camere_, cioè i funzionari delle tesorerie locali,
impegnando a tal'uopo le somme che ciascuna di esse aveva disponibili
per le cose della milizia (_Casse al Quartieron_).

Le stoffe per le uniformi militari provenivano dall'industria
privata, ed erano fornite dalle fabbriche e lanifici di Schio,
Castelfranco[115] ed Alzano nel Bergamasco[116]. Anche Venezia si
distingueva in quest'arte con due stabilimenti di molta fama,
specie nella confezione dei panni colorati di scarlatto, di
cremisi e di azzurro, che si esportavano pure largamente in
Dalmazia e nelle contigue terre balcaniche.

Le merci che l'industria privata così offriva alla Repubblica erano
collaudate di regola presso i depositi al _Quartieron_, o magazzini di
equipaggiamento e di vestiario della truppa. I lanifici e le fabbriche
di cui sopra, erano oltre a ciò ispezionate ogni bimestre da due dei
cinque _Savi alla_ _mercanzia_, i quali dovevano vegliare sulla
qualità e sulla quantità delle lane da incettarsi per confezionare i
panni per _uso militar_. Queste lane dovevano essere tassativamente
della specie nominata _sacco, scopia o Puglia_[117].

Le medesime cautele vigevano per la fornitura delle buffetterie e dei
cuoî necessari per esse: _incrociature, taschi, pendoni_, o centurini
da sciabole, baionette, _palossi e palossetti_, che erano pure
somministrati dall'industria privata e più precisamente dai fratelli
Zaghis di Treviso.

I reggimenti di fanteria italiana alla caduta della Serenissima erano
in numero di 18. Per decreto del Senato, nel maggio 1790 i reggimenti
di cui sopra assunsero un numero progressivo fisso, oltre al nome
variabile derivato dal rispettivo colonnello comandante. E questi
numeri erano:

Reggimento _Veneto Real_ n. I del colonnello Alberti--reggimento n. II
del colonnello Mario Alberti--reggimento n. III del colonnello Marin
Conti--reggimento n. IV del colonnello Francesco Guidi--reggimento n.
V del colonnello Teodoro Volo--reggimento n. VI del colonnello
Giambattista Galli--reggimento n. VII del colonnello Lòdoli--
reggimento n. VIII del colonnello Pacmor--reggimento n. IX del
colonnello Marco Conti--reggimento n. X del colonnello Francesco
Covi--reggimento n. XI del colonnello Andrea Toffoletti--reggimento n.
XII del colonnello Marino Stamula--reggimento n. XIII del colonnello
Giacomo Sarotti--reggimento n. XIV del colonnello Francesco
Galli--reggimento n. XV di _Rovigo_--reggimento n. XVI di
Treviso--reggimento n. XVII di Padova--reggimento n. XVIII di
Verona[118].

Il numero di questi reggimenti era marchiato a caratteri romani sui
grossi bottoni di metallo dorato di cui erano adorni gli abiti dei
fanti italiani. Come gli _oltramarini_, anche reggimenti di _italiani_
si suddividevano in 9 compagnie ciascuno.[119] La loro forza
complessiva oscillava nel 1790 intorno ai 6276 uomini, ripartiti in
162 compagnie organiche. Di queste, 43 con 2712 uomini erano nelle
guarnigioni di terraferma, raccolte in massima parte nei presidi di
Verona, Legnago e Peschiera, quando a quelle terre venne ad
affacciarsi Napoleone Buonaparte.



CAPO V.

Le milizie paesane.


L'esercito assoldato del vecchio regime agonizzava adunque a Venezia
sotto il peso degli anni, degli errori e dell'universale indifferenza.
Indebolito nel principio di autorità, roso dal tarlo profondo
dell'indisciplina, conscio di essere diventato da ultimo uno strumento
inutile a sè medesimo, maleviso ai novatori come un'arma da tirannide
decrepita, trascurato dai medesimi governanti che ne sapevano tutta
l'intima debolezza organica e morale, l'esercito assoldato veneto più
non rappresentava alla caduta della Repubblica se non l'ombra di sè
medesimo, una sopravvivenza intristita che il primo soffio di fronda
sarebbe stato sufficiente a rovesciare nella polvere.

Causa dunque la pertinace riluttanza della Serenissima nel concedere
all'organismo nato ai bei tempi dei condottieri del Trecento le
riforme e l'evoluzione che esso richiedeva, l'organismo medesimo stava
per giungere all'ultima mèta del suo travagliato ciclo nella città
delle lagune.

Si spiega così come nello spirito dei migliori--per quanto pochi--si
rappresentasse la necessità di surrogare alla imminente rovina delle
armi _regolate_ venete qualche altro istituto che valesse a raffermare
nelle medesime quella fiducia che sembrava oramai spenta nei cuori. Ed
il rimedio meglio adatto alle esigenze pressanti dell'ora sembrava
consistere in una risurrezione delle vecchie _cernide_ veneziane, in
un adattamento cioè degli ordini di queste--nate in tempi non meno
travagliati per la Repubblica--alle condizioni militari, economiche e
sociali delle nuove età. Nella fede ancora superstite in questi
illusi, la maschia e vigorosa fondazione di Bartolomeo d'Alviano
pareva ancora sorridere, piena di promesse e di lusinghe, come dopo la
Ghiara d'Adda e la perdita dei domini Veneti di terraferma, nel 1794,
come al tempo della Lega di Cambrai. Alla perfine non si erano perduti
dai Veneti nè terreni, nè battaglie ordinate, e l'uniforme
tranquillità dell'epoca pareva propizia, purchè si volesse, a
restaurare la milizia secondo forme meno viete e più progredite.

Si trattava in sostanza di fare ritorno alla semplicità ed alla
spontaneità delle funzioni dell'istituto militare, reso pesante dagli
attriti, rugginoso dalla lunga e sfibrante inazione, improduttivo per
essersi ridotto--causa la sfiaccolata bontà dei governanti--a
disimpegnare insieme i còmpiti di istituto di beneficenza e di vasta
casa di correzione. Le cerne, vera e prima milizia territoriale ed
archetipo della _Landwehr_ di Stato, dovevano perciò evoluzionare
nelle forme e nella sostanza. Di conseguenza, al concetto della
_prestazione personale_ dei componenti di tale milizia derivato dalle
antiche compagnie del popolo, durante una campagna di guerra o un
determinato periodo di neutralità armata, doveva sostituirsi quello di
un _servizio temporaneo_ sotto le bandiere, anche all'infuori delle
dette eventualità; un criterio da coscrizione progressiva, una specie
di prefazione insomma al servizio personale individuale ed
obbligatorio. La riforma era dunque ardita perchè i tempi della
decadenza veneta repubblicana potessero accoglierla, comprenderla ed
attuarla.

Nondimeno, per qualche sintomo, essa poteva sembrare ancora possibile
a coloro che la vagheggiavano. Anzitutto il buon volere con cui, dopo
tanti anni di dissuetudine, le cerne erano accorse alle armi nella
primavera del 1794 per rimpolpare le scheletrite compagnie dei soldati
di mestiere, ed in secondo luogo l'arrendevolezza con cui le cerne
medesime si erano sottomesse agli _sbandi_ resi necessari per colmare
in modo uniforme le deficienze dei diversi presidi militari di
terraferma. In linea di diritto e di organica militare adunque
l'evoluzione aveva compiuto indubbiamente un grande passo.

L'elemento campagnuolo delle cerne rassicurava oltre a ciò i più
retrivi e timorosi del governo della Serenissima, coloro cioè che a
tutto si sarebbero rassegnati pur di non toccare di un punto il
vetusto e tradizionale edificio degli ordini repubblicani.

Il rinvigorimento delle cerne infatti, mentre poteva rafforzare i ben
noti spiriti conservatori della popolazione delle campagne,
affezionate all'antico ordine delle cose, ligie ai patrizi ed al
clero, poteva nel contempo costituire nelle mani di questi ultimi un
sicurissimo presidio da contrapporre a qualunque novità avesse potuto
arrecare l'avvenire.

I documenti di tali sensi di ossequio, come pure la presunzione che
essi avrebbero corrisposto al caso di una reazione improvvisata non
facevano difetto nelle masse rurali nelle quali le cerne si
reclutavano. Nella primavera del 1796 i contadini del Bergamasco,
sorpresi dalla mareggiata giacobina nelle loro campagne in fiore,
affluivano a torme al capoluogo della terra, si accalcavano allo
sbocco delle vallate, si armavano ed eccitavano il loro podestà
Ottolini ad organizzarli in vasta e tenace guerriglia e capitanarli
nel nome della patria in pericolo.

«Non sarà però molesto a V. E.--scriveva l'Ottolini al Doge, il 2
giugno 1796--se, con la mia solita ingenuità. confermo esser sempre
vivi i miei timori sulle direzioni della popolazione all'arrivo dei
Francesi. Ravviso anzi in generale una tale e tanta animosità contro
di essi, che attribuirò sempre ad un tratto di fortuna se non succede
inconveniente, sebbene dal canto mio faccia tutto il possibile per
evitarlo. Ho rinnovato quindi le commissioni di fare stare tutti
tranquilli ai capi dei comuni ed ai parroci della città e provincia,
ed impegnai i sacerdoti a secondarmi con tutto il fervore
possibile»[120].

Non molto tempo dopo, accompagnando lo stesso Ottolini una proposta
fatta dai campagnuoli bergamaschi al Doge, di levarsi cioè a massa,
quel magistrato soggiungeva:

«In relazione a quanto ebbi a rassegnare alla E. V. intorno alle
spiegate generose impazienze di numerose popolazioni delle vallate di
questo territorio, di esporre tutte volontarie le vite proprie per la
difesa e la gloria del Principato, precise come sono e confermate in
reale proposizione accolta dall'universale uniforme voto dei
rispettivi consigli, mi formo dovere di assoggettarla devotamente a
cognizione di V. E. raccolta nell'unita _parte_ (deliberazione) del
General Consiglio... con cui si offrono a pubblica disposizione 10,000
uomini riuniti delle loro armi, tutta gente scelta, capace e ben
diretta, che può prestare un ottimo servizio... desiderosa infine di
sacrificarsi per la perpetua e felice costituzione loro sotto il
Veneto dolcissimo impero» [121].

     *
    * *

Adunque, se a questo slancio delle popolazioni rurali soggette a
Venezia avesse corrisposto l'opera prudente e cosciente del governo
della Repubblica, si sarebbe per certo acceso sui fianchi e sul tergo
degli eserciti di Napoleone Buonaparte nella loro marcia dall'Adda
all'Isonzo un terribile incendio reazionario da Vandea[122].

In realtà, al tempo di cui si parla, la Serenissima aveva preso oramai
il suo partito riguardo alle milizie paesane ed alle cerne, il partito
grigio delle mezze misure, dei compromessi e dei destreggiamenti,
tutto proprio delle individualità e delle collettività fiacche e
malate. Alle prime novelle della rivoluzione di Francia, il Senato
aveva deciso di risciorinare la vecchia e comoda divisa della
neutralità armata, quella medesima che aveva servito così bene a
nascondere le magagne della Serenissima, nel 1701, nel 1735 e nel
1743.

Ma, dileguatasi alquanto l'impressione del primo momento, si vide che
quella vecchia e sdrucita zimarra della neutralità in armi si
rivestiva in circostanze ben diverse da quelle degli anni precedenti.
La Serenissima era minacciata questa volta da un lato dalla nuova
Francia nelle basi del suo reggimento politico e fors'anco nei suoi
domini, e dall'altro dall'Impero che, per ragioni di frontiere e di
militari interessi, poteva violare la proclamata neutralità ad ogni
occasione propizia. La Serenissima doveva quindi essere pronta a
tutelare un bene senza disporre della necessaria forza per allontanare
il male.

In questi frangenti l'unica forza e speranza erano le cerne. Per
rimetterle in valore si presentavano due partiti: l'uno derivato dalla
consorteria conservatrice militare veneta, l'altro dal piccolo nucleo
dei riformatori. Il primo caldeggiava un largo e fecondo innesto delle
cerne nelle truppe prezzolate, per scansarle dalla prossima morte
mediante una trasfusione di sangue rigoglioso in un corpo infermo, e
proponeva quindi un _amalgama_; il secondo partito mirava invece
decisamente a soppiantare i _regolati_ ed a surrogarli senza
compromessi di sorta con le milizie paesane.

Vinse il partito dell'amalgama, dopo molte discussioni accademiche sui
pregi di un metodo e sugli svantaggi dell'altro, mentre il vento di
fronda che veniva dalla Francia si era oramai tramutato in procella.

Fino dalla primavera del 1791, il Savio aveva esortato le primarie
cariche militari a riunirsi per concretare i provvedimenti più adatti
a riordinare le cerne.

Per questi studi mancavano però i dati di fatto, poichè la costumanza
delle _mostre generali_ e dei _mostrini_ era passata in dissuetudine
come un'anticaglia, sicchè convenne attendere ancora un'altra
primavera per riordinare i ruoli e raggranellare gli inscritti,
«essendo questi quasi tutti ammogliati, laonde si credono dispensati,
quantunque non cassi, oltrechè non sono poche le emigrazioni nel
territorio e le morti avvenute da tempo»[123].

Finalmente, nella primavera del 1794, le cerne riapparvero alla luce
in uno degli ultimi tramonti della Serenissima. La fusione di esse con
i _regolati_ era allora al sommo dei pensieri del Senato, «che si
proponeva, non già di ripetere da questo corpo una truppa agguerrita,
capace di marciar subito tutta unita e direttamente contro il nemico,
ma bensì un corpo da potersi, tutto o in porzione, prontamente unire
alle altre truppe... disposto ad essere in assai più breve tempo delle
reclute comuni istruito nelle militari evoluzioni, reso capace a
presidî, difese e battaglie. Tale essendo il servizio che da esso
corpo si propone di ritrarre il Senato, basterà disporre quello che
può essere atto a preparare ed ottenere dalle cerne subito
l'occorrente da poter divenire, con poche istruzioni, un ottimo
soldato»[124].

Ma per questo amalgama--compiuto per di più in evidente condizione di
inferiorità delle cerne rispetto ai _regolati_--occorreva una certa
misura tra gli elementi da fondersi, affinchè riuscisse una forte e
vigorosa combinazione non già un miscuglio instabile. Si addivenne
così al partito del sorteggio, ossia all'_estrazione_ tra le cerne, ed
all'adozione di una ferma biennale da attribuirsi a quei _descritti_
cui sarebbe toccato in sorte di amalgamarsi con _i regolati_.

La costumanza d'altronde aveva qualche precedente nei periodi delle
neutralità anteriori, specie nel 1703 e nel 1709[125], sicchè fu
accolta dalle masse campagnuole con uno spirito di rassegnazione che
parve superare le aspettative. L'esempio del piccolo ma forte
Piemonte--rievocato a proposito dal Fontana ambasciatore Veneto a
Torino--aveva persuaso alla fine anche i più scettici in materia di
cerne[126]. Quivi i reggimenti stanziali erano assai di frequente
rincalzati con uomini tratti dai reggimenti _provinciali_, cioè dalle
milizie paesane piemontesi, e mercè tale incorporamento periodico,
replicato a più riprese e quindi numeroso di elementi scelti del paese
obbligati temporariamente alle armi, ben sicuri di far ritorno alle
case al termine della ferma, il sistema di reclutamento dell'esercito
subalpino aveva fatto un grande passo verso i metodi in fiore ai
nostri giorni[127].

In queste buone predisposizioni ed in queste analogie organiche, i
novatori di cui sopra scorgevano da ultimo un indizio benaugurante per
la propria tesi.

     *
    * *

Adunque, nel maggio dell'anno 1794, dietro istanza del brigadiere
Stràtico--il miglior campione del partito conservatore militare veneto
del tempo--il Savio di Terraferma alla Scrittura Antonio Zen emanò un
decreto con il quale si prescriveva, «di effettuare l'_estrazione_ tra
le cerne dell'Istria e la _coscrizione tra le craine della Dalmazia,
di un competente numero di individui per essere imbarcati ed inoltrati
al Lido _per rinforzo occorrente ai soldati di Terraferma_»[128].

L'obbligo alle armi dei sorteggiati doveva essere di un _biennio_, i
compensi di 2 ducati a titolo di _donativo_ da corrispondersi all'atto
del loro _innesto_ nella milizia regolata, la paga eguale in tutto e
per tutto a quella dei soldati di mestiere, cioè a 31 lire venete
nominali.

In questo modo, nel maggio dell'anno sopra ricordato, si ingaggiarono
sull'altra sponda dell'Adriatico 500 reclute, e cioè 125 nell'Istria
Veneta e 375 nella Dalmazia, sorteggiate rispettivamente e
proporzionatamente sopra un contingente di 525 uomini atti alle armi
della prima provincia e 1375 nella seconda. Il mese successivo si
levarono altre 450 reclute tra le cerne di Terraferma e nell'agosto
altrettante in Dalmazia: in complesso 1400 uomini in 4 mesi. Erano
esenti da questa prestazione i comuni della Bresciana, per l'antico
privilegio loro di servire con la gente solo nell'interno della terra,
sicchè quelle cerne si incorporarono nei presidi della provincia e più
precisamente nelle due compagnie dei fanti italiani di presidio in
Orzinovi.

Ma, più che altrove, questi primi saggi di coscrizione avevano
incontrato grande favore sull'altra riva dell'Adriatico. «L'estensione
della Dalmazia--diceva la relazione di un piedilista dall'epoca--la
sua aperta e moltiplicata confinazione esigendo talora per l'indole
dei finitimi uno straordinario aggregato di individui, anche per una
sola occasione al servizio, così si arrolano ivi le _colletizie_, le
quali sono più adatte di ogni altro per la loro nascita ed educazione
a difendere i focolari ed il pubblico suolo. Armigeri per istituto,
essi non hanno bisogno di annui esercizî che li addestrino come i
sudditi della Terraferma e dell'Istria, ma cadono ben volentieri in
stipendio per il solo tempo del servizio che fanno nel corpo delle
_colletizie_ sotto i loro ufficiali che, stipendiati con costanti
tenuissime paghe, tengono una certa sopravveglianza sull'andamento dei
sudditi della _Sardarìa_ (o rispettivo contado), sono come accreditati
e riveriti dalla popolazione e preposti al caso a dirigerla con paghe
in tal caso corrispondenti al grado che dalla pratica è loro accordato
per rientrare, tosto che cada la ragion dell'armo, nel consueto
metodico loro piede»[129].

In quell'anno 1794 si ristabilirono pure le _mostre generali,_ si
completarono i ruoli sotto la responsabilità dei singoli
rappresentanti e capi di provincia nonchè di 2 _colonnelli_ delle
cernide oltre Mincio ed in Terraferma e di 4 ufficiali dello _Stato
Generale_ all'uopo prescelti dal _Savio alle Ordinanze_, pure _due per
di qua e due per di là del Mincio_; infine si ristamparono le norme
della «_Elementar istruzione ad uso delle cernide_» edite nel
1763[130].

Sempre però ligio al concetto fondamentale dell'amalgama--da attuarsi
cautamente e circospettamente--il Senato aveva prescritto di escludere
al possibile i _volontari_ dalle nuove coscrizioni, sia perchè il
vocabolo aveva troppo sapore di giacobinismo, sia perchè ammettendo i
volontari medesimi quella suprema magistratura temeva che l'istituto
tradizionale delle cerne tralignasse con troppo rapida vicenda nel
campo dei fautori delle nuove milizie.

Intanto su questo terreno delle mezze misure il tempo passava veloce.
Scoccati due anni dalla coscrizione delle prime cerne con ferma
biennale, nella primavera del 1796 convenne provvedere ad altre levate
in Terraferma ed Oltremare[131]. I ruoli _ben preparati dai merighi_,
o capi plotoni delle cerne, dovevano rimanere esposti nelle chiese per
8 giorni almeno prima della rassegna e del sorteggio, _onde aprire
l'adito ad ognuno di produrre i propri gravami_, o titoli di
esenzione. Per coloro che comunque avessero beneficiato di questi
ultimi, il Savio aveva in animo di adottare una speciale _tansa_, o
tassa militare alle ordinanze, sicchè riducendo i _gravami_ personali
allo stretto indispensabile, o magari sopprimendoli, il passo verso
una coscrizione regolare e perfino verso una leva in massa sarebbe
riuscito semplice ed agevole[132]. Ma il tempo per attuare tali
riforme mancò.

Per questa seconda grande levata delle cerne il Savio alla Scrittura
aveva promulgato non poche norme, da osservarsi scrupolosamente da
tutte le cariche cioè autorità militari competenti. I drappelli dei
congedandi della levata del 1794 dovevano essere riaccompagnati alle
rispettive case da ufficiali: tutti i mezzi di trasporto oltremare
dovevano sfruttarsi all'uopo, come tutte le lusinghe dovevano pure
adoperarsi nell'intento d'indurre le cerne più volonterose ad
assoggettarsi ad una riafferma con premio[133].

E ciò urgeva oltremodo. La proporzione delle cerne ai «_regolati_»,
causa l'inaridirsi delle fonti di reclutamento di questi ultimi,
minacciava di far traboccare il piatto della bilancia a favore delle
milizie paesane, ciò che se poteva sorridere ai novatori non poteva
talentare per certo ai conservatori. Sicchè le riafferme mantenendo
alle armi un certo numero di cerne che, sotto molti rispetti, potevano
considerarsi come «_regolati_», dovevano funzionare quasi da vàlvola
di sicurezza del sistema dell'amalgama.

     *
    * *

Le unità dei soldati permanenti, intristite dall'indisciplina,
scheletrite dalle diserzioni, si fondevano infatti come neve al sole.

«Devo infatti far presente alla E. V.--scriveva il 16 febbraio 1796 il
Savio alla Scrittura Priuli al Doge,--che presidiate essendo le
presenti piazze e fortezze d'Oltre-Mincio compresa Verona da fanteria
italiana, con teste 2712, artiglieri 173 e 1223 nazionali
(_Oltramarini_), eseguito lo _sbando_ tra giugno e novembre degli
Istriani, delle Craine e delle Cernide Italiane levate nell'anno 1794,
il totale delle pubbliche forze della Repubblica in Italia verrà a
ridursi a 4 compagnie di invalidi--in tutto teste 327--che formano il
presidio delle città di Palma, Udine, Treviso, Padova, Rovigo e
Vicenza, a 7 compagnie di cavalleria ed a 325 invalidi Oltremarini
disposti tra gli appostamenti del Lido, Istria e Padova, e finalmente
a 24 compagnie di Nazionali formanti teste 789, tra il Lido e la
Terraferma, oltre a 4 compagnie di cannonieri, con teste 141 ed
Italiani attive compagnie 13, con teste 325. In tutti, teste 2187, che
occorrer dovranno alle molteplici esigenze della sanità, biave, oltre
le guardie, i dazi etc.»[134]

A questi estremi si era oramai ridotto l'esercito della Serenissima.
Epperciò parlare ancora di amàlgama in tali frangenti come nella
primavera del 1794 sarebbe stato follia, dal momento che l'esercito
dei «_regolati_», il quale doveva funzionare da crogiuolo della
fòndita, più non esisteva se non di nome: ostinarsi a mantenere un
sistema di reclutamento che i tempi e le circostanze unanimi
designavano per anacronismo, sarebbe stato lo stesso che chiudere le
caserme per sciopero di soldati. Tutto questo avrebbe oltre a ciò
contrariate le viste politiche della neutralità armata, «non sospetta,
ma necessariamente richiesta dall'onore e dalla salute della
Repubblica,», come aveva pubblicamente dichiarato in Senato Francesco
Pesaro in una concione diventata poi memoranda[135].

Il partito militare novatore della Serenissima, il fautore cioè delle
milizie paesane in tutto e per tutto, aveva così vinta la propria tesi
mentre la Repubblica moriva. Le novelle di Francia, i metodi rapidi e
decisi delle guerre della Rivoluzione, i sistemi di leva in massa
avevano spinta la loro eco fino alla città delle lagune. L'ultimo
Savio di Terraferma alla Scrittura se ne era fatto persino il
portavoce, unitamente al Savio _uscito_ Bernardino Renier, a Francesco
Gritti Savio alle Ordinanze in carica ed a Domenico Almorò Tiepolo
Savio alle Ordinanze _uscito_, al tenente generale Salimbeni, e, tutti
insieme--come si costumava per le deliberazioni di maggior
rilievo--avevano proposto al Senato di adottare anche per l'esercito
Veneto un sistema di reclutamento per coscrizione, con ferma
triennale[136].

Un premio di due ducati doveva essere corrisposto subito agli
_estratti_ nelle rassegne delle cerne, il doppio a coloro che si
offrissero spontaneamente alle bandiere. Ai nuovi soldati si
prometteva oltre a ciò una licenza di almeno un mese all'anno, da
fruirsi alle proprie case durante il periodo invernale, e più
precisamente dal 1° novembre al 31 marzo. Al termine della ferma
triennale gli inscritti dovevano ricevere un donativo di 18 ducati
ognuno.

Questa fu l'ultima evoluzione delle vecchie cernide venete, conforme
al concetto che presiede al reclutamento degli eserciti odierni. Per
essa l'antico preludeva il nuovo, ed il passato di Vailate e di
Rusecco avrebbe schiuso la strada ad una nuova serie di memorande
imprese, se la Repubblica avesse avuto occhi per vedere e cuore per
intendere. E Giacomo Nani, l'ordinatore delle nuove milizie paesane in
battaglioni regolari vestiti ancora della fiammante divisa degli
_Oltremarini_,[137] avrebbe eguagliato per certo la fama di Bartolomeo
d'Alviano, se il popolo veneto che vide cadere la Repubblica come un
lògoro e vecchio castello di carte da giuoco davanti alla furia di
Napoleone Buonaparte, fosse stato pari in vigore e tenacia al popolo
della Lega di Cambrai.

     *
    * *

Ma i tempi, i condottieri e le buone milizie non si improvvisano,
perchè sono frutto dell'evoluzione lenta dei principi e, sopratutto,
della rude esperienza individuale e collettiva. Epperciò la vecchia
Repubblica doveva prima, perire e poscia rinnovarsi nell'anima del suo
popolo.

In queste condizioni di fatto, il fermento delle nuove età ed i sintomi
precisi e sicuri di un rinnovamento prossimo non potevano
manifestarsi--anche agli occhi dei più apparecchiati a comprenderli--se
non con contorni indecisi e mal definiti, come una linea di orizzonte
ampia e nubilosa alla luce dalla prima aurora. Di tali sentimenti fanno
fede alcune scritture dell'epoca, e specialmente è suggestiva una
dovuta alla meditazione, più che alla penna, di un antico allievo del
Militar Collegio di Verona discepolo del maestro Giambattista Joure,
cioè il capitano del genio Leonardo Salimbeni, figlio del tenente
generale comandante delle milizie venete concentrate a Verona:

«Mi sono fatto incontro al generale Buonaparte--dice quella
scrittura--verso la città di Brescia. Tutte le terre ed i villaggi
dello Stato Veneto per dove i Francesi si incamminano si mostrano
pieni di spavento e di terrore. Gli abitanti si ritirano con i loro
effetti nei paesi più lontani e lasciano deserte le case e le
campagne. Ho sentito qualche soldato francese lamentarsi di questo
(così lo chiamano) difetto di fidanza, epperciò io ho cercato di far
cuore agli abitanti delle terre per le quali sono passato... I soldati
francesi _sono tutti giovani e volonterosi_..... in una colonna forte
di 20.000 uomini almeno non ne ho veduto alcuno che giungesse all'età
di 40 anni. _Erano molto allegri_, cantavano di continuo canzoni
repubblicane, e mi si mostrarono persuasi della capacità e del
coraggio dei loro condottieri, lodando sopra tutto e _levando al cielo
il merito di Buonaparte_. Fui assicurato da molti che quei soldati non
disertano mai, da quelli infuori che temono imminente un qualche
severo castigo. _Infatti le loro marce senza le solite cautele per
impedire la diserzione_ mi hanno persuaso che ciò _sia proprio vero_;
ma non sarebbe forse così al caso che fossero battuti.

«Il vestiario di questi giovani soldati di fanteria consiste in un
paio di calzoni lunghi di panno bianco, o di tela, in un farsetto di
roba simile ed in una _velada_ turchina, del taglio ordinario, fornita
di mostre e di paramani bianchi. Hanno cappello in testa, buone
scarpe, camicie proprie e grosse cravatte al collo. Gli artiglieri
differiscono nel colore delle mostre e dei paramani, che sono di
rosso. La cavalleria è meglio vestita, ma in varie maniere. Non si
vede però alcuna eleganza di vestiario in nessun corpo di questa
armata, nè l'uniformità e la proprietà osservata dalle truppe
tedesche, sicchè si riscontrano molti soldati aventi i loro vestiti
affatto lògori e coi gomiti fuori.

«La fanteria è armata di fucile leggero con una lunga baionetta e di
una _sciabla_ al fianco. La cavalleria al solito, ma con carabine più
corte, ed è fornita di cavalli eccellenti. Gli artiglieri sono tutti a
cavallo in vicinanza dei loro pezzi, il che rende quanto mai spedito
il loro manneggio durante l'azione, sì volendo avanzare che in
ritirata. Nella colonna che ho incontrata non eravi che _artiglieria
leggiera_. Abbondano di pezzi da 8 del calibro francese e di obusieri
da 8 pollici, sicchè hanno per questo conto un vantaggio grande sopra
gli Austriaci i cui pezzi sono per la maggior parte di calibro minore.

«Un capitano mi ha permesso di esaminare i suoi pezzi e mi spiegò
tutte le innovazioni delle nuove artiglierie di Francia.

«Si ottiene tutto da essi con la civiltà e con la franchezza. _La
disciplina di questa armata è tutta di una nuova natura_, e non è
veramente in vigore se non quando i soldati si mettono sotto le armi.
Dormono sempre allo scoperto e senza tende, passano i fiumi di poca
larghezza sempre a nuoto ed i loro ufficiali di fanteria, fino al
capitano incluso, marciano a piedi alla testa dei loro uomini.
Ufficiali e soldati tutti portano delle bisacce sul dorso, essendo
assai piccolo il numero dei domestici permessi dalle loro ordinanze
militari....

«_Bisogna ora fare un succinto ritratto del generale Buonaparte_. La
sua statura è al disotto della mediocre, viso scarno e pallido, occhio
vivace, corpo esile. È assai composto di sua persona e molto
riflessivo. Egli dà ordini così chiari e precisi ai generali
subalterni, che ad essi poco o nulla rimane da aggiungere. Conosce
siffattamente la forza delle sue armate, anche nelle più diverse
posizioni di manovra, che a memoria ed in un istante egli ne ordina i
movimenti senza per ciò ricorrere ad altri aiuti.

«Buonaparte è fertile in progetti che sa condurre a fine sempre per li
modi i più semplici. È risoluto nell'operare ed ama in sommo grado la
gloria, e la lode.

«Così lo ho veduto e così me lo hanno dipinto i suoi ufficiali ed i
suoi soldati»[138].

Con questa confusa visione di un esercito dell'avvenire levato dalla
nazione e per la nazione, pulsante della vita, della volontà e della
forza cosciente di quest'ultima di cui rappresentava il fiore; con
l'imagine davanti agli occhi di un esercito condotto da un generale
come Napoleone Buonaparte, _amante al sommo della gloria e della
lode_, cadeva l'esercito veneto dei soldati di mestiere per lasciare
il posto al nuovo, sull'esempio di quelli che dalla Francia venivano
allora ad affacciarsi alle lagune di Venezia.



CAPO VI.

L'artiglieria veneziana.


La veneta repubblica, romanamente e saviamente, ha sempre prediletta
la massima _in pedite robur_. Sui 18 reggimenti di fanti italiani e
sugli 11 di oltramarini essa non contava infatti, alla caduta, che 4
reggimenti di cavalleria, 1 di artiglieria ed 1 di operai (il così
detto reggimento _Arsenal_), proporzione per certo assai favorevole
all'arma del popolo, qualora si consideri il fondamento oligarchico ed
aristocratico dello Stato e la necessità di ben presidiare i numerosi
castelli e fortezze che esso aveva sparsi, dall'Adda e dall'Oglio, giù
per il littorale dalmata, fino allo scoglio di Cerigotto. A cifre
tonde, a 262 compagnie di fanteria non facevano quindi riscontro che
43 compagnie, tra dragoni, corazzieri, croati e cannonieri.

La prevalente soverchianza numerica della fanteria sulle altre armi
non fece però dimenticar mai alla Serenissima la cavalleria e
l'artiglieria, e quest'ultima in particolar modo. Quale ramo
progredito dell'arte, l'artiglieristica vantava anzi a Venezia belle
tradizioni dottrinali e bibliografiche: basta sfogliare la cospicua e
diligente raccolta del Cicogna per convincersene[139].

Figurano in essa, tra le opere più conosciute, il _Breve esame da
sotto-bombardiere, capo e scolaro_, redatto sotto forma di dialogo,
l'_Esercizio dell'artiglieria veneta e maneggio del fucil_, oltre
all'opera classica del maggiore Domenico Gasperoni, ricordata più
sopra e dedicata al doge Paolo Renier.

Però, fino all'anno 1757, l'esercito veneto non ebbe un corpo di
artiglieria a sè, a somiglianza dei reggimenti delle altre armi. Nè la
specializzazione tattica dei cannonieri era giunta ancora a tal segno
da richiedere particolari provvedimenti a loro riguardo, sicchè la
Serenissima si compiaceva di conservare loro, al possibile, quella tal
veste di maestranza, rimasuglio di vecchi statuti e consorterie, dalla
quale il corpo medesimo, con poca spesa, ritraeva grande prestigio e
saldo vincolo organico. Al servizio ordinario nei castelli, nelle
fortezze e sui pubblici legni armati, provvedevano i così detti
_artiglieri urbani, bombardieri o bombisti_; propaggine delle cerne e
particolare aspetto delle Landwehr venete che, in origine, erano così
ricche di multiformi e fecondi atteggiamenti da milizia popolare.

Ai bombardieri appartenevano infatti per obbligo gli affigliati alle
maestranze ed alle _scuole_ devote al culto di Santa Barbara, il quale
rifletteva sulla consorteria uno spiccato carattere religioso
militante. Dopo il 1570 la confraternita si ridusse in _fraglia_, cioè
scuola o associazione laica, sotto la protezione della medesima santa,
con capitolari che prescrivevano ai componenti dell'arte alquanti
esercizi personali obbligatoli da compiersi al Lido. Il Consiglio dei
Dieci ed i Provveditori del Comun[140] dovevano scrupolosamente
vegliare all'assetto di questa scuola ed all'osservanza dei doveri
degli affigliati, d'accordo con il magistrato alle artiglierie[141] e
con «quello _alle fortezze_».

Ogni città fortificata o castello disponeva di un nucleo organizzato
di codesti bombardieri, istruito, disciplinato e condotto da ufficiali
medesimamente prescelti tra le maestranze. I bombardieri di Venezia,
dell'estuario e dei riparti Oltremare, con le rispettive scuole,
dovevano provvedere al servizio delle artiglierie sui pubblici legni,
oppure assoggettarsi al pagamento della relativa _tansa_, o tassa di
esonerazione come si è detto più sopra.

I bombardieri--secondo i capitolari dell'arte--dovevano presentarsi a
raccolta ad ogni _tocco di generala_, o assemblea, sottomettersi alla
_estrazion del bossolo_, cioè a dire al sorteggio, come praticavasi
con le cerne ove occorresse designare gli artigiani necessari per
servire le artiglierie sulle navi, formare pattuglie notturne nelle
città murate, montare dì guardia alle porte, scortare convogli di
polveri e di munizioni da guerra ed estinguere incendi nelle province
di terraferma. I bombardieri di Venezia infine, dovevano esercitarsi
nei pubblici bersagli di S. Alvise e del Lido, «onde ammaestrarsi nel
maneggio di tutte le armi che usar debbono in guerra, con cannoni ad
uso di mar e di terra, moschettoni a cavalletto, fucili e carabine,
lancio delle bombe e maneggio della spada».

Oltre a questo tirocinio, i bombardieri veneziani dovevano far mostra
di sè nelle pubbliche solennità, in quella dello _Sposalizio del
mare_, nelle feste dell'incoronamento del Doge ed all'atto
dell'ingresso dei patriarchi, procuratori e cavalieri della _Stola
d'oro_.Tutti questi servizi erano gratuiti--compreso quello di
pompiere cui erano astretti i bombardieri di Terraferma--salvo una
bonifica di 8 ducati, corrisposta annualmente dallo Stato per ogni
componente dell'arte a pro' della confraternita ed a titolo di
_maestranza perduta_[142].

     *
    * *

Col tempo queste costumanze derivate dalle età eroiche, da una
condizione semplicista ed arretrata dell'evoluzione industriale e
della compagine operaia, cominciarono prima a scadere e dopo a
degenerare. Molti bombardieri si svincolarono dal giogo del servizio
personale obbligatorio pagando le _tanse_, individuali dapprima,
collettive di poi--vale a dire le insensibili--quando cioè, con
l'insofferenza del servizio, crebbero l'avarizia ed il disamore alle
armi, ed il mestierantismo militare attecchì su questo terreno brullo
ed infecondo come una fioritura di erbàcce selvatiche.

Sulla seconda metà del secolo XVIII quasi tutte le compagnie venete
dei bombardieri si erano assottigliate in modo straordinario, e con
esse--ridotte in totale a poche centinaia di uomini--si doveva
provvedere al servizio dei 5338 [143] pezzi esistenti a quell'epoca
sui rampari e sui navigli della Repubblica. Quale truppa infine, i
seguaci di Santa Barbara si erano ridotti--come scriveva il maggiore
Domenico Gasperoni--_nè più nè meno che un branco di individui, la cui
uniforme e le stesse baionette erano quasi sempre impegnate o in
vendita ai cenciauoli_.

Urgeva quindi porre riparo a tanta rovina, resa ancor più grave dal
progresso cospicuo che altrove aveva realizzato l'arma d'artiglierìa
nella tecnica e nella tattica, mercè l'addestramento continuo ed
intenso dei cannonieri; laddove i bombardieri veneti dedicavano
all'arte di Santa Barbara soltanto il limitato tempo che le
giornaliere occupazioni loro concedevano, ed anche questo di
malavoglia o facendosi surrogare dai peggiori rifiuti della società.

Ebbe così vita, nel 1757, il primo nucleo del _Reggimento veneto
all'artiglieria_, reclutato con i soliti metodi delle milizie di
mestiere, mercè le cure del sopraintendente dell'arma di allora, che
era il brigadiere Tartagna, venuto al servizio della Repubblica
dall'Austria. Successivamente il brigadiere Saint-March ed il sergente
generale Patisson[144]) proseguirono l'opera del Tartagna, specie il
secondo che può considerarsi il vero e proprio riformatore
dell'artiglieria veneta della decadenza.

Tra il 1770 ed il 1778 il reggimento crebbe di forza e migliorò
d'assetto. L'istituzione del Collegio militare di Verona--avvenuta
pressochè al tempo della creazione del primo nucleo stanziale
dell'arma--doveva inoltre assicurare alla medesima una corrente
continua di ufficiali, tratti dal miglior ceto della società veneta,
convenientemente addestrati ed istruiti; uno stato maggiore insomma
degno dei migliori eserciti e dei più bei tempi della Serenissima.

In sei anni di corso si studiava infatti nel Collegio la grammatica
usando i libri di Fedro, i _Commentari_ di Giulio Cesare e le _Vite
degli uomini illustri_ di Plutarco, il latino, il francese, le
matematiche pure, _tanto teoricamente che in pratica_ ed infine le
matematiche miste, «quali sono adatte al matematico ed al fisico,
abbracciando perciò la meccanica, la balistica, l'idrostatica,
l'idraulica, l'ottica, la perspettiva, l'astronomia, l'architettura
civile e militare, la nautica e la geografia»[145].

E poichè era «scopo principale dell'istituto di rendere i giovani, al
possibile, perfetti nell'ufficio di artiglieri, di ingegneri e di
battaglisti», così si doveva, oltre alle materie teoriche di cui
sopra, «insegnare loro il modo di guerreggiare degli antichi, l'uso di
accamparsi, la condotta delle mine, l'arte teorica e pratica
dell'artiglieria ed il modo di guerreggiare presentemente in rapporto
con gli antichi».

Nel _piedilista_ del 1781 adunque il reggimento di artiglieria appare
di già adulto. Esso contava 681 cannonieri suddivisi in 12 compagnie,
quattro delle quali erano dislocate nei presidi di Levante, tre in
quelli di Dalmazia e le rimanenti cinque in Italia. Dai diversi presidi
poi si prelevavano in proporzione i contingenti necessari per il
servizio delle navi armate in guerra. Alla disciplina, all'istruzione
ed all'impiego dei cannonieri imbarcati sopravvegliavano a turno, due
degli otto capitani del reggimento residenti a Venezia, l'uno a bordo
della _nave capitana_, l'altro a bordo della _galera provveditrice
dell'armata_, e ciò durante il tempo in cui la squadra teneva il mare,
vale a dire ordinariamente dal giugno all'ottobre di ogni anno.

Il numero dei cannonieri imbarcati sulle navi era, di regola, di una
ventina per ogni fregata e di una dozzina per ogni sciabecco.
L'impiego delle batterie galleggianti verificatosi in quei tempi
gloriosi per le imprese coloniali dell'Emo, richiedeva oltre a ciò uno
speciale contingente anche per tali navigli, pari in forza a quello
che si usava sulle fregate.

All'infuori di questi còmpiti essenziali del reggimento, di servire
cioè sui pubblici navigli, esso funzionava da centro d'istruzione e da
istituto di collaudo dei materiali dell'arma. Queste pratiche si
eseguivano al tiro al bersaglio del Lido--l'antico _palio_ dello
splendore veneziano--dove si trovavano raccolti i falconetti ed i
cannoni, in prevalenza del calibro da 12 e da 16, necessari per
eseguire i tiri di prova, il saggio delle polveri e dei proiettili e
per verificare la resistenza dei materiali. Pure al poligono del Lido
si esperimentavano i prodotti della _Casa all'Arsenal_, l'officina
classica delle armi, degli arredi e degli strumenti guerreschi
veneziani, i _letti_ o affusti da cannone, gli attrezzi e gli
armamenti, e si collaudavano pure i lavori che l'industria privata
somministrava alla Repubblica, specie i cannoni forniti dalla ditta
Spazziani.

Le artiglierie e le munizioni--regolarmente apprestate per qualche
tempo dalla detta _casa mercantile_--erano assoggettate al Lido ai
prescritti tiri forzati, e così anche le canne dei fucili di nuovo
modello, tipo Tartagna, fucinate a Gardone in Valtrompia, le armi
bianche e da fuoco somministrate dagli stabilimenti metallurgici della
Bresciana.

Infine, al Lido ed a Mestre, i cannonieri del reggimento si
esercitavano nelle prove di traino con buoi e cavalli, e d'inverno si
adoperavano per riconoscere lo spessore dei ghiacci al margine della
laguna e nei canali navigabili, per determinare la capacità di
transito dei veicoli sopra le superficî congelate.

     *
    * *

Ma tutte le previdenze del sergente generale inglese Patisson e poscia
dello Stràtico, nominato sovraintendente delle _cose tutte
all'artiglieria_ nel 1786,[146] coadiuvato dal capitano Buttafogo
elevato alla carica di ispettore--non sarebbero state sufficienti per
assicurare al corpo degli artiglieri veneti quel prestigio che essi
toccarono alla caduta della Repubblica, senza l'opera del grande
contemporaneo Angelo Emo.

Occorre perciò menzionare a questo punto i progressi della tecnica
artiglieristica, realizzati per opera ed impulso dell'ultimo
ammiraglio veneto.

Prima di lui la decadenza batteva il suo pieno nell'Arsenale e sulle
navi armate. «Le sale di quel vecchio e grande edifizio--scriveva
Giovanni Andrea Spada--erano adorne a pompa, non a difesa, nè v'era in
esso quanto bastasse a l'armamento completo di tre reggimenti. I
cannoni quasi tutti di ferro e non adatti agli usi della nuova arte
della guerra, le palle in relazione..., le maestranze erano poi così
svogliate, ignoranti e corrotte, che un operaio lavorava alle volte un
solo giorno al mese».

Rimediò per primo a questa rovina il Patisson, spalleggiato dall'Emo,
grande e geniale ammiratore dell'arte e della disciplina marinara e
militare inglese, ch'egli vagheggiava introdotte a Venezie. «Le
polveri nostre sono umide--dichiarava il Patisson al Savio alla
Scrittura--e non si provvede a sostituirle che con altre ugualmente
cattive... Le artiglierie impongono urgenti provvedimenti per rendere
utili i pezzi che sono nelle cinque principali piazze di Oltremare,
cioè Corfù, Cattaro, Zara, Knin e Clissa, e validi i pezzi destinati
all'armo dei pubblici legni, nonchè all'attual sottile armata di 18
navi, 6 fregate, 5 sciabecchi, fissato con decreto del 1° agosto
1780... alla difesa dei forti della Dominante, per il treno di
campagna e per le altre eventualità»[147].

Il noto contratto con la ditta Spazziani doveva ovviare alla
gravissima crisi, unitamente ai provvedimenti organici adottati per
l'arma di artiglieria, alla abolizione delle _mezze paghe_ ai
cannonieri meno abili ed al trasferimento degli inabili nel corpo dei
veterani. Fu così possibile armare nell'estate del 1784 la squadra
veneziana destinata all'impresa di Tunisi[148]; sforzo assai modesto
se si riguarda il passato, ma tuttavia soddisfacente e lusinghiero se
si considerano le critiche contingenze del tempo, le trascuranze e gli
abbandoni degli istituti militari e marinari.

Nel seguente anno 1785 i cannonieri del reggimento artiglieria si
distinguevano nel violento bombardamento della cittadella di Sfax. La
bombarda _Distruzione_, nel combattimento del 30 luglio colpiva 31
volte il segno su 32 tiri, il 31 luglio 23 volte su 47, il 1° agosto
infine 39 volte su 47. La bombarda _Polonia_ il 1° agosto stesso
colpiva 55 volte il nemico su 61 colpi lanciati. Il porto di
Trapani--prescelto dall'Emo con sagace intuito militare e navale--per
servire da base eventuale di rifornimento della propria squadra e
delle artiglierie venete, ferveva allora di apparecchi guerreschi.
Quivi si apportavano gli ultimi ritocchi alle batterie galleggianti
protette, ideate ed allestite dal grande ammiraglio.

«La poca influenza delle navi--così egli lasciò scritto--sopra le
batterie rasenti del molo, suggerì alla mia imaginazione un espediente
alla prima apparentemente ridicolo... di formare cioè, con artificiosa
connessione, clausura e rivestimento della unita superficie di due
masse di venti botti, due zattere o galleggianti munite di un grosso
cannone da 40 ciascuno... protetto da parapetti formati da una doppia
riga di mucchi di sabbia... bagnata e rinchiusa da sacchi»[149].

Il 5 ottobre 1785 l'Emo, coadiuvato dai suoi cannonieri, impiegava per
la prima volta due di tali batterie blindate galleggianti nel
bombardamento della Goletta, «ed era molto cosa piacevole--scriveva un
testimonio oculare--nel veder da tutti i lati cadere fulminanti le
nostre bombe sopra la rinomata Goletta che, tutta fumante, mi sembrava
un Vesuvio»[150].

Queste batterie galleggianti--migliorate in seguito ed accresciute di
numero--ricevettero due cannoni ognuna, tra cui un obice, e quindi
appresso anche un mortaio da 200. Al comando dell'artiglieria di
ciascuna zattera blindata furono destinati due ufficiali del
reggimento, e le zattere stesse si denominarono _obusiere,
bombardiere_ o _cannoniere_, a seconda del tipo dei pezzi che recavano
a bordo.

Ma le imprese dell'Emo rappresentarono il canto del cigno della
morente grandezza militare e navale dei Veneziani. Morto questi, il 1°
marzo 1792, l'artiglieria veneta ripiombò nella sua rovina.

    *
   * *

Quale servizio prettamente tecnico, l'artiglieria faceva capo al
Reggimento così detto all'_Arsenal_ ed all'Arsenale medesimo; talchè
le due branche dell'attività artiglieristica--il tattico ed il
tecnico--trovavano nella pratica due enti destinati a rappresentarle,
cioè il reggimento suddetto e quello _all'artiglieria_.

Dopo i grandiosi ampliamenti introdotti nell'Arsenale ai tempi dello
splendore[151], l'aggiunta del braccio nuovissimo, del riparto delle
galeazze e della _casa del canevo_, ossia la corderia (denominata
comunemente la _tana_), la meravigliosa fabbrica dei veneziani era
caduta prima in abbandono e poscia in completa rovina.

La stupenda officina delle armi e dei navigli veneti, verso la caduta
della Serenissima si era quindi ridotta un'ombra di sè medesima, una
bellezza stanca e disfatta dall'opera demolitrice degli anni, la cui
fama richiamava ancora le genti a visitarla, ma più come un monumento
delle passate età che come cosa viva. Così la visitò Giuseppe II
nell'estate dell'anno 1769.

L'Arsenale conservava ancora a quel tempo oltre tre miglia di
circuito, e tutto intero il giro delle sue muraglie guarnite di
bertesche sulle quali, di continuo, vigilavano le sentinelle per
preservare il cantiere da ogni funesto accidente, specie dal fuoco.
Queste sentinelle erano in corrispondenza con una guardia centrale
posta in mezzo all'Arsenale, con cui, ad ora ad ora, esse scambiavano
alla voce il grido di _all'erta_ per sapere se vegliassero.

Dalla sera all'alba un drappello di soldati--Oltremarini in massima
parte--girava tutt'attorno al grande cantiere veneziano, ed anche
questi solevano chiamare dal di fuori l'attenzione di quelli che
vigilavano sull'alto delle mura, di guisa che l'incrocio delle voci
delle scolte era continuo e persistente. Dei due maggiori ingressi
dell'edifizio, quello detto _da mare_, d'onde entravano ed uscivano le
navi, era guardato sempre da un buon nerbo di truppa disposto presso
al ponte di legno. L'ingresso detto _da terra_, che si apriva sul
_Campo dell'Arsenal_, era invece custodito da un altro manipolo di
cannonieri e di _schiavoni_, i quali facevano la scolta sotto la
grande porta del leone alato, sopra alla quale troneggia la statua di
Santa Giustina.

Vicino alla porta _da mare_--segno manifesto della corruzione e della
decadenza dei tempi--sorgeva una _cantina_ o vascone che, «da tre
bocche versava vino in gran copia per dissetare a pubbliche spese
tutto quel popolo di operai[152], cresciuto tra l'ignavia universale e
fatto baldanzoso dalle debolezze dei governanti. E gli _arsenalotti_,
intorno all'anno 1775, ascendevano ancora a più di duemila, suddivisi
in squadre comandate da appositi capi detti _proti_, _sotto-proti_ o
_capi d'opera_, tutti vestiti con abiti talari [153].

Al riparto delle fonderie e dei metallurgi sopravegliava ancora a quei
tempi la dinastia degli _Alberghetti_, «membri della famiglia
benemerita di antico servigio la quale aveva mai sempre prodotto uomini
valenti nelle meccaniche ed inventori di nuove artiglierie»[154]. E tra
questi operai tutti si reclutava il grosso del _Reggimento Arsenal_,
più corporazione e confraternita del tipo degli antichi _bombisti_, che
corpo regolarmente ordinato. A tale arte facevano pure capo i lavori di
ristauro più delicati delle armi portatili, quali il rinnovo degli
_azzalini_ (acciarini), il calibramento delle canne e la trasformazione
dei fucili dall'antico modello (1715) al nuovo, del _campione_
Tartagna.

Al lavoro delle vele ed alla fattura dei cordami sottili attendevano
le donne «le quali, a togliere ogni sorta di scandalo, albergavano in
un luogo disgiunto affatto dagli uomini, custodite da altre donne
attempate e di buona fama, e con la sopraintendenza di un ministro di
età matura»[155].

Altri operai--pure ascritti al Reggimento Arsenal--si occupavano di
«filar canape e formarne gomene, alla qual cosa era destinato un luogo
che è bensì dentro il circuito dell'Arsenal, ma separato da esso in
modo che con quello non abbia comunicazione veruna»[156]. Questa era
la _Tana_ sopranominata, laboratorio, deposito di cànapi e magazzino
di legname da lavoro e di altri attrezzi marinareschi, governato dagli
appositi _visdomini_, o sottointendenti.

Era questa _Tana_ un vasto locale lungo 400 pertiche, governato di un
magistrato apposito, e non lungi da esso si ergeva il _real naviglio_
del Bucintoro, che una volta all'anno, la vigilia dell'Ascensione,
usciva fuori dell'Arsenale per far di sè bella mostra il dì seguente,
«nel più bello di tutti gli spettacoli che si possano mai vedere in
qualunque parte del mondo»[157].

     *
    * *

Il _magistrato all'artiglieria_ aveva giurisdizione sull'Arsenale
insieme agli altri colleghi[158], ma l'opera sua si esplicava più
particolarmente rispetto al reggimento _all'Arsenal_, mentre quella
del sopraintendente, o del brigadiere dell'arma, si riferiva in modo
speciale al reggimento artiglieria.

Quel magistrato teneva infatti i ruoli dei «fonditori, carreri,
fabbri, tornitori ed altri uffiziali unicamente dipendenti da esso»,
aveva in consegna i parchi dei cannoni di bronzo e di ferro, le
munizioni, le bombe, gli apprestamenti d'ogni genere ed i salnitri.
Funzionava adunque, sotto questo punto di vista, da ufficio
burocratico ed amministrativo; còmpito non lieve nè facile quando si
pensi allo svariatissimo numero di bocche da fuoco che la Repubblica
manteneva ancora in servizio alla sua caduta, claudicanti sui _letti_
che invano attendevano l'opera riparatrice e rinnovatrice della ditta
mercantile Spazziani. Erano 24 modelli diversi di cannoni, tra bronzo
e ferro, 5 di falconetti, 6 di colubrine, 4 di petrieri, 13 di mortaj,
3 di obusieri, 3 di _obizzi_; senza contare le artiglierie di minor
calibro e le speciali, come gli _aspidi, i passavolanti, i
saltamartini, i trabucchi, le spingarde, gli organetti ed i
mortaretti_ per la prova delle polveri[159].

Ma il peggior lavoro da Sisifo in questa decadenza delle armi
veneziane si era per certo quello di resistere alle continue insidie
che si tendevano al _Deposito intangibile_, di cui il magistrato
all'artiglieria era responsabile coma prima autorità tecnica del
reggimento all'Arsenale. Questo deposito era costituito da una
cospicua raccolta d'armi d'ogni fatta, composte in alquante sale
dell'Arsenale medesimo, «le cui pareti erano tutte maestrevolmente
guernite, dall'alto al basso, di loriche, di elmi, di spade, di
archibugi e di altri militari strumenti. Alcuni di questi saloni
forniti erano di armi per 25,000 soldati, tali altri per 30,000, tali
altri ancora ne somministravano fino a 40,000: e ve ne erano ancora
altri per 25,000 o 30,000 galeotti. Le dette sale si vedevano ancora
adorne con le imagini di molti ed illustri capitani»[160].

Il deposito intangibile, ampliato e riordinato nella parte moderna dal
sopraintendente Patisson e nell'antica del maggiore Gasperoni[161],
era così detto perchè ad esso non si doveva ricorrere salvo che al
caso di estrema urgenza ed immediato pericolo di guerra, dappoichè
agli usi correnti dell'_armo_ o della _neutralità_ dovevano sopperire
altri depositi detti di _consumo_, pure stabiliti dentro la cinta
dell'Arsenale con annesse riserve di cannoni e di munizioni.

Ora un organismo come il veneto della decadenza, il quale consumava
senza produrre, doveva necessariamente intaccare il patrimonio del
passato senza reintegrarlo in alcuna guisa, e mordere dentro l'eredità
del deposito intangibile senza ricostituirla. Ed al magistrato
all'artiglieria toccò di assistere a questa lenta morìa delle armi
veneziane, registrandone a mano a mano i battiti decrescenti del
polso, assistendo inoperoso ed inutile a questo sfasciarsi, grado a
grado, di una potenza militare accumulata da secoli, la quale andava
sgretolandosi come sotto le percosse monotone ed uniformi di un mare
ondoso e profondo.

I registri del magistrato all'artiglieria rilevano tutto questo con
impassibilità e precisione. Il deposito intangibile faceva così
bancarotta, ed ogni fucile ed ogni spada che si toglieva da esso e non
si rinnovava, sembrava una nuova e fiera rampogna all'ignavia della
Serenissima.

Nel 1794 i presidi di Brescia, di Bergamo e di Verona, erano
sprovvisti di schioppi per armare le cerne pur allora arruolate, le
quali abbisognavano di 2300 fucili e di 66 moschetti da cavalletto. Il
Reggimento all'Arsenal non potendo fare fronte alle richieste con le
armi del deposito di consumo fu autorizzato, «a fare le relative
pratiche», cioè «a far passare dal deposito intangibile a quello di
consumo il numero dei fucili occorrenti, guarniti di bajonetta»[162].

Da quel punto la rovina non ebbe più ritegno. Nel 1796 il deposito di
consumo--secondo scrisse il colonnello Molari del Reggimento
Arsenale--si era ridotto a soli 360 fucili con bajonetta, a 199 senza,
a 200 _tromboni_ per uso delle navi, a 639 _palossi_ di bordo ed a 359
_palossetti_; vale a dire a nulla o pressoché[163].

Il deposito intangibile era pure disceso a quel tempo a 24,084 fucili
completi, a 7750 pistole poco atte al servizio e _difettose di
azzalini_, a 1558 _palossi_ e ad 89 moschettoni [164]. È bensì vero
che si trovavano oltre a ciò sparse alla rinfusa nelle sale 20.966
canne _da rimontarsi in fucili_, 7455 lame da _palosso_, 2624
_azzalini_, 11,862 guardie da _palosso_, 3366 lame da _palossetto_ e
2500 guardie corrispondenti; ma per adattare tutte quelle parti d'arme
occorrevano tempo, fede e lavoro, e così come si trovavano potevano
rassomigliarsi ai frantumi di una grande e meravigliosa nave sfasciata
dalla tempesta.

Pure, in mezzo a tanta dissoluzione, si rileva dai documenti la nota
semplice ed ingenua, cioè l'offerta fatta da taluni abitanti
dell'estuario veneziano di crescere, comunque, con le loro vecchie e
logore armi il deposito dell'Arsenale. Erano i cittadini di Burano che
in tali frangenti facevano omaggio al Principe di 20 schiopponi e di
25 schioppi da _brazzo_, «(braccio) serventi alla _cazza_ (caccia) dei
volatili»[165].

La piccola e modesta profferta se lumeggia il patriottismo dei bravi
Buranesi, rivela nondimeno la fatalità e la grandezza della rovina
militare della Repubblica, e riflette ancora molta luce sul modo di
intendere e di comprendere la guerra in quei tempi.



CAPO VII.

Il corpo degli ingegneri militari.


Quando nacque il corpo degli ingegneri militari veneti, esso legava il
suo nome ad un'opera che può sembrare benaugurante anche oggigiorno.
Nella primavera dell'anno 1771 il _Capitanio del Golfo_ segnalava al
Senato la necessità di ridurre _in quarto_ il grande disegno
topografico dell'Albania, e ciò per gli usi correnti e per conservarne
copia nella _Fiscal Camera_ delle Bocche di Cattato.

Il lavoro fu commesso dal Savio alla Scrittura al tenente colonnello
Lorgna, e questi l'affidò a sua volta ai migliori allievi del Collegio
Militare di Verona destinati ad uscire in quell'anno alfieri nel
nuovissimo corpo degli ingegneri militari; così quei giovani uscirono
dall'ombra delle scure torri scaligere al sole di una vagheggiata vita
di operosità e di studi guerreschi, con la visione davanti agli occhi
di quella grande provincia sulla quale, in altri tempi, si era
largamente e fortemente diffuso il nome e la gloria di Venezia.

La decisione di istituire un corpo di ingegneri militari giungeva
infatti in buon punto. Si poteva beneficiare delle tradizioni e della
pratica compiuta altrove, specie in Francia, dai corpi analoghi;
costituire un prezioso ausilio per l'esercito veneto, oltre che quale
organo tecnico anche come istituto direttivo, uniformandosi ai còmpiti
che gli altri corpi del genio militare esercitavano altrove
disimpegnando gli affici inerenti al servizio di stato maggiore [166].

Ma non basta. Il novello corpo del genio militare veneto avrebbe
potuto rendere grandi servigi anche nelle relazioni civili. Infatti le
condizioni speciali del suolo della Repubblica, il regime delle sue
acque costiere e rivierasche, la lotta continua e tenace sempre
impegnata con queste affine di conservare igienico e fruttifero il
suolo, portuosi gli scali, facili e spedite le vie fluviali di
transito ed i canali navigabili, avrebbero offerto una inesauribile
materia di attività e di lavoro fecondo agli ingegneri militari
veneti, una auspicata occasione insomma per bene meritare del pubblico
benessere.

Ma l'occasione desiderata di creare un cosiffatto strumento, utile
insieme all'esercito e dallo Stato, mancò per l'ignavia degli uomini e
per l'indifferenza dei tempi. Rimase solamente traccia del buon
proposito, della sua pratica assai tardiva, e, come simbolo, il
prestigio del nome di un illustre ufficiale degli ingegneri militari
veneti che, da solo, bastò alla deficienza di tutti gli altri. Tale fu
il brigadiere Giovanni Mario Lorgna [167]--più volte ricordato--la cui
sfera d'attività va indivisibilmente congiunta a quella di Bernardino
Zendrini [168], il celebre matematico della Repubblica che studiò e
costrusse _Murazzi_, ed a quella degli ingegneri idraulici che
sistemarono l'alveo del Brenta ed il suo _Taglio Nuovissimo_.[169]

Ma la fama militare del brigadiere degli ingegneri Lorgna va
sopratutto collegata alla pratica degli insegnamenti da lui professati
per sette lustri nella scuola d'applicazione di artiglieria e genio
della Serenissima in Verona, agli studi sull'impiego delle mine, sul
miglior rendimento degli esplosivi e sul tracciamento delle gallerie,
a qualche restauro ed ampliamento nelle fortezze di Mantova, di
Legnago e di Peschiera, ai rilievi topografici da lui intrapresi nel
territorio irriguo del Polesine, con il concorso dei suoi allievi, con
la cooperazione di Giacomo Nani e con l'aiuto delle tavolette
pretoriane commissionate, per iniziativa del Lorgna medesimo, in
Inghilterra[170].

Frutto di questi ultimi lavori fu la grande carta corografica della
regione del basso Adige, pubblicata però dalla Serenissima tanto tardi
che essa servì prima ai suoi nemici--Austriaci e Francesi--che ai
Veneti. Risultavano in questa carta chiaramente tracciati il corso dei
fiumi, dei canali, l'andamento degli scoli, degli argini e delle
strade rispetto alle province finitime, nonchè la postura delle chiuse
e delle conche. La scala era circa del 50.000.

Anche lo stato delle fortificazioni e dei castelli di Venezia e
d'Oltremare--dei quali si parlerà più avanti--ovunque in rovina,
richiedeva urgentemente l'opera riparatrice degli ingegneri militari.
A questo compito avevano atteso fino allora--però in modo
insufficiente ed inadeguato--il personale dei provveditori alle
fortezze, i quartiermastri alle fortificazioni e perfino gli
_ingegneri ai confini_, corpo di professionisti di Stato dipendenti
dalle _Camere ai confini_, incaricati in special modo del tracciamento
e della manutenzione della viabilità sulle frontiere della
Repubblica[171].

Con questi auspizî adunque, nel 1770, venne creato con apposito
senato-consulto il _Corpo degli Ingegneri militari_, unitamente al
Reggimento di Artiglieria[172]. Il grande favore, tutto proprio del
tempo, verso quanto di tecnica militare e navale proveniva
dall'Inghilterra, indusse il Savio alla Scrittura a ricercare da
quella parte anche il primo sovraintendente nel corpo novello--come si
era fatto per l'artiglieria--; e questi fu il colonnello Dixon,
scozzese di origine.

Gli organici degli ingegneri militari furono stabiliti come appresso:
1 colonnello, 1 tenente colonnello, 2 sergenti maggiori, 8 capitani, 8
tenenti ed altrettanti alfieri, da trarsi questi ultimi annualmente
dal Collegio Militare di Verona. In totale il corpo doveva contare sul
_primo piede_ 28 ufficiali senza alcun riparto di truppa.

L'uniforme era «di scarlatto, con fodera, giustacuore e calzoni
bianchi, con paramenti e mostre fino alla metà del vestito di velluto
nero, dragona d'oro alla spala, e spada con fioco uniforme»[173].

Adunque la buona volontà di costituire il corpo degli ingegneri
militari veneti non mancava, almeno alle apparenze. Ma, tra il detto
ed il fatto, le correlazioni non erano nè semplici nè rapide sotto la
decadenza del governo della Serenissima.

Il _Piano regolatore_ del corpo, studiato dal colonnello Dixon,
prescriveva che, «esaminato fosse il merito non solo degli ufficiali
già titolati come ingegneri e destinati a comporlo, ma degli altri
ancora da inserirsi nel medesimo». E poichè si constatò, con opportune
prove ed esami, che _nessuno_ dei candidati possedeva i necessari
requisiti di idoneità--all'infuori di uno--[174] il Senato deliberò
subito di rimandare a miglior epoca la definitiva costituzione del
corpo medesimo.

Trascorso un biennio, lo scozzese Dixon, contrariato dalle lungaggini
e dalle oscitanze verso quel corpo degli ingegneri che egli non aveva
fino allora comandato che sui lindi specchi dei _Piedilista_, nella
primavera del 1772 chiese ed ottenne di essere esonerato dallo sterile
servizio, e gli successe il colonnello Moser de Filseck, tirolese di
origine e proveniente dall'esercito austriaco. Pure tra il vecchio ed
il nuovo, tra lo scozzese che abbandonava la città delle lagune ed il
tirolese che gli subentrava, il Senato continuò a nicchiare, ad onta
che le istanze e le circostanze incalzassero per indurlo una buona
volta a dare corpo e vita al _Piano regolatore_ decretato fino dal
1770.

«È oramai tempo di decidersi--lasciò scritto il Savio nel 1779--e con
ciò noi non facciamo che rappresentare non già sciogliere i dubbi che
si affacciano su quest'argomento degli ingegneri militari, ma
giudicheremo tuttavia colpa tacere e ritenere alcune riflessioni in
merito e che lo zelo ci indica... La disciplina è l'anima dei
militari, e la differenza nei gradi rende più sicura la dipendenza ed
il buon ordine. Un sopraintendente degli ingegneri adunque, occupato
nelle generali riviste per tutto lo Stato, il colonnello ispettore,
costante e necessario al Collegio militare di Verona, esercitato per
di più ben di frequente in molteplici e varie commissioni... il corpo
senza ufficiali... tutto ciò insomma non giova a conservare l'armonia
nel medesimo. Bisogna decidersi!...»[175]

Finalmente, nel 1782, il corpo degli ingegneri militari cominciò a
contare qualche ufficiale ritenuto capace di disimpegnarne gli uffici.
Ma siccome quel numero era pur sempre esiguo e di gran lunga inferiore
all'organico, così si adottò un servizio promiscuo tra gli ingegneri
militari ed i colleghi _ingegneri ai confini_, una specie di
compromesso tra i due corpi tecnici veneti. Sulla fine di quell'anno
si trova infatti che i tenenti ingegneri Carlo Canòva e Francesco
Medin, unitamente al tenente colonnello Milanovich, prestavano la loro
opera nell'arginatura dell'Adige, alle dipendenze del magistrato al
detto fiume ed in collaborazione a taluni ingegneri civili[176].

Indi appresso, rendendosi sempre più frequenti i casi di questo
servizio cumulativo, particolarmente nelle province d'Oltremare, le
meno desiderate e le più trascurate, «per lo stato di desolazione di
tutte le caserme, opere interne ed esterne di fortificazione,
ospitali, magazzini, depositi, cisterne ed altro»[177], il Savio alla
Scrittura deliberò di meglio precisare i limiti della prestazione
comune dei due corpi, e stabilì «che l'aiuto dovesse essere per
l'avvenire reciproco, ma libero da ogni vincolo l'un l'altro»[178].

Il senso della disposizione non era molto chiaro. Rimase però inteso,
in tanta indeterminatezza di forme, che gli ingegneri ai confini
dovessero occuparsi più specialmente dei lavori stradali in genere, ed
in ispecie delle vie del Canale del Ferro, di Venzone, di Gemona, di
San Daniele, del _Taglio Nuovo_ di Palma, della prosecuzione dei
lavori in corso sull'Isonzo, a Porto Buso, nell'Istria, alli scogli di
Tessaròlo, lungo la strada di Campara in Val Lagarina, nel territorio
di Cremona e verso gli Stati del Pontefice; e che gli ingegneri
militari dovessero dedicare di preferenza la loro attività ai lavori
di carattere militare, cioè alle opere di fortificazione, ai castelli
ed alle caserme[179].

Cosicchè, soltanto nel 1785, vale a dire dopo circa quindici anni
dalla fondazione teorica del corpo degli ingegneri militari veneti,
questo principiava ad avere un inizio di vita, assicuratagli da nuove
cure e previdenze del brigadiere Lorgna, concretate nella riforma
delle «_Leggi, regole e scuole del Militar Collegio di Verona_».

     *
    * *

Era però troppo tardi. Rimediare al passato non era più possibile,
tanto era grande ed irreparabile la rovina del presente. Tra il 1782
ed il 1783 il brigadiere degli ingegneri Moser de Filseck, reduce da
un lungo e fortunoso viaggio d'ispezione nei domini Veneti di
Oltremare, così dipingeva al Principe il triste stato delle
fortificazioni della Repubblica:

«Prima di ogni altra cosa--così scriveva il Moser--voglia V. E.
consentirmi che, con il cuore veramente dolente, io mi lagni del
deperimento nel quale attrovai quasi ogni parte delle opere componenti
i recinti e le fortificazioni dei domini d'Oltremare... specie della
piazza di Zara, il più forte propugnàcolo della provincia di Dalmazia,
e delle riflessibili mancanze e bisogni riconosciuti nelle sue interne
militari fabbriche. Non mi sorprende però, Eccellentissimo Signore, le
grandiosi somme che occorrerebbero per un general restauro di esse
opere, bensì il riconoscere una grande parte dei danni medesimi
portati dalla malizia degli uomini e per difetto di convenienti
diligenze, che profittando delli primi intacchi in un'opera la
riducono in consunzione in breve spazio di tempo, senza alcun riguardo
nè timore. Tanto maggiore fu la mia sorpresa quando vidi considerabili
mancanze in situazioni che sono alla vista delle sentinelle e degli
stessi corpi di guardia. Il quartiermastro dovrebbe essere uomo di
fermissima attenzione ed attivo, avere registri esatti ed accompagnare
gli ingegneri nelle visite che essi dovrebbero fare.... ma invece
nulla avviene di tutto questo. Manca il ponte che traversa il fosso
capitale della piazza di Zara alla porta di Terraferma, unica
comunicazione con il continente, e per conseguenza la sola parte per
la quale si può entrare in Zara da tutta la estesa provincia, per la
via di terra; è rovesciato il molo dalla parte di mare. Vi si rimediò
con un ponte provvisionale, ma è bisognevole di restauro, ed il molo è
sfasciato dalla violenza delle onde»[180].

Nè in migliori condizioni di Zara--la Venezia della Dalmazia--erano
le altre piazze e castelli del littorale e dell'interno:
«Spalato--soggiungeva l'ora detta relazione--ha una situazione
stupenda per sè. L'imperatore Diocleziano vi eresse il suo palagio ed
ha per appoggi il castello di Clissa per proteggerne il commercio
verso l'interno e quello di Sign[181]. Ma Spalato è ora in
decadimento ed un nemico può eseguirvi un colpo di mano. Vale perciò
meglio per lo Stato di stabilire colà i soli depositi generali di
munizioni da bocca e da guerra, e fidarsi meglio degli appoggi di
Clissa e Sign, però bene appropriati.

«Per Sign, fu il veltz-maresciallo Schoulemburg che dimostrò la
necessità di fortificarla fino dal 1718. Ma il piano non ebbe seguito,
e la Repubblica parve allora contentarsi di fortificare, Clissa e
Dernis ed il passo di Roncislap, sulla Kerka[182]. Infine, nel 1752,
furono fatti pochi lavori a Sign... ed a Spalato non furono toccate
che poche rovine del vecchio forte e nulla più. Eppure Sign è luogo di
confine, vi si fermano le carovane dei Turchi prima di scendere a
Spalato e vi è una caserma confinaria.

«Clissa è disposta sull'erto di un greppo che domina il solo passo per
il quale, da Sign, si può entrare nel contado di Spalato. I recinti
della fortezza sono in buono stato e, con piccole aggiunte alle opere
attuali, si potrebbe ridurre quel posto molto forte. Clissa è
provvista di conservatorî da acqua (serbatoj), requisito assai
necessario per una piazza di guerra in queste regioni. Qualche
ristauro vi è però necessario, acciocchè possano contenere
quest'ultimo elemento nella qualità e nella quantità indispensabili...
Occorrono però ristauri anche sulla strada di Sign, per Clissa, fino a
Spalato[183]. In questa strada, a quattro miglia circa da Spalato
(dove sono ancora alcuni residui della città di Salona) è fissato un
appostamento per una compagnia di _Dalmatini_ (Oltramarini), il cui
quartiere è però così miserabile che opprime lo spirito entrando nel
medesimo».

Proseguendo nel triste pellegrinaggio, dalla Dalmazia alle terre
Levantine, le tinte del rapporto Moser si fanno ancora più fosche,
come che la vita pubblica veneta scemasse di vigore e di calore a
misura che si allontanava dalla Dominante e dalle province a questa
più vicine. «A Corfù--continua la ricordata relazione--le opere sono
tutte ingombre, i parapetti rovesciati, disfatte le _embrasure_
(feritoie) ... sicchè confesso che grande fu la mia sorpresa
nell'attraversare tanta rovina. A Cerigo ed Asso, la medesima
desolazione. Quivi i N.N. H.H.[184] rappresentanti, nelle loro
abitazioni, sono appena riparati dai raggi solari ed il vento e la
pioggia entra per ogni parte. Gli ufficiali di Cerigo pagano alloggio
di casa, essendo atterrate quelle che loro servivano da ricovero; i
soldati sono pessimamente posti nei corpi di guardia. Ad Asso infine
tutte le fabbriche militari sono in rovina. Le condizioni del forte di
San Francesco di Cerigo... mi hanno poi fatto rabbrividire, ed invoco
provvedimenti per il decoro del Principato. Li otto pezzi che quivi
sono nella casa di San Nicolò, 3 da 30 e 5 da 20, sarebbe più decoroso
che fossero interamente a terra, piuttostochè vederli appoggiati sui
fracidissimi rottami dei loro letti (affusti).

«A Cefalonia le due fortezze sono ora interamente disabitate...
Prèvesa acquistata nell'ultima guerra contro il Turco, nel golfo di
Arta, insieme a Voniza[185] esposta alle incursioni nemiche, è
fortezza solo di nome ma in realtà è un mal conservato trinceramento».

Ed il sopraintendente Moser dopo questa fiera requisitoria così
concludeva: «Si faccia presto a provvedere. Siano fornite le milizie
di quartieri e di ospitali che loro sono urgentemente necessari,
capitali i più preziosi per le convenienze del Principato. Se no, a
nulla servono le bene intese e solide fortificazioni, gli utensili,
gli attrezzi da guerra, armi di buona tempera e ben conservate, se non
vengono difese le une e maneggiate le altre da destro e robusto
braccio».

     *
    * *

Il triste spettacolo delle province d'oltremare in rovina, senza
difesa, senza cannoni, senza milizie, l'imagine delle residenze dei
rappresentanti della Repubblica sul punto di crollare; dei picchetti
di Oltremarini usciti fuori delle caserme per cercare miglior
sicurezza e riparo sotto le tende, presso le rive di quel mare che fu
già pieno del nome e della gloria di Venezia, quasi attendessero di
momento in momento di mutare dimora, deve avere per certo commosso lo
spirito del Senato Veneto. Ma poichè l'azione era a quel tempo assai
più ardua della commiserazione ed i mezzucci assai più facili delle
decisioni pronte e virili, si ricorse anche questa volta ai timidi
tentativi, tanto per ingannare il pericolo dell'ora.

Così avvenne che in risposta al disperato appello del Moser, la
Serenissima si contentò di istituire il corpo dei _Travagliatori del
genio_.

Taluni storici della Repubblica--ed il Romanin tra gli
altri[186]--vollero attribuire a quel corpo un significato moderno,
qualificandolo per precursore dell'odierna arma del genio. Ma il
paragone a tutto rigore di critica non regge. Al massimo i
_travagliatori_ veneti potevano rassomigliarsi alle compagnie di
_ouvriers_, che esistevano nell'esercito francese prima dell'anno
1776; compagnie che vennero poi surrogate dai _soldati pionniers_ con
precisi attributi di arma tecnica, ciò che significa che i
predecessori degli _ouvriers_ non possedevano i requisiti dei pionieri
o, quanto meno, in modo assai incompleto.

Ma anche facendo astrazione da questi còmpiti e da questi paralleli,
occorre mettere in rilievo qualche altro aspetto che meglio serva a
chiarire il valore militare e morale del nuovo corpo dei
_travagliatori_, e le differenze sostanziali con il corpo dei _soldati
pionniers_ di Francia, cui si vorrebbe troppo corrivamente ricollegare
le tradizioni organiche dei _travagliatori_ veneti.

Il Moser adunque, esponendo l'urgenza di far argine al decadere delle
fortificazioni veneziane, proponeva d'impiegare nei ristauri un
personale militare ordinato in compagnie, con reclutamento, còmpiti e
trattamento assai analoghi a quelli delle odierne compagnie di
disciplina. Era quindi una specie di stabilimento di correzione
militare che si trattava di istituire, realizzando con esso due
vantaggi precipui: quello cioè di purgare i corpi dai soggetti più
pericolosi e di impiegare la loro mano d'opera nei restauri delle
fortificazioni e delle caserme a prezzo più conveniente della mano
d'opera borghese.

Quest'opera di risanamento dal lato morale militare--particolarmente
caldeggiata dal Savio di Terraferma alla Scrittura in carica Niccolò
Foscarini--piacque al Senato che l'approvò anzitutto per tali viste.
«Per togliere i perniciosi effetti--come diceva la relazione premessa
dal detto Savio al decreto che ordinava la costituzione del corpo dei
_travagliatori_--derivati dalla introduzione nella truppa dì quelle
figure che, quantunque ree di non gravi delitti, chiamano tuttavia la
pubblica vigilanza ad impedire loro maggiori trapassi,... e
nell'intento precipuo di tenere aperta una via per allontanare dalla
Terraferma e dalla Dominante gli individui infesti alla comune quiete,
si assoggetta l'ora intesa scrittura.

«Ed essa si dirige a stabilire l'istituzione di due _Corpi di
Travagliatori_[187] che raccoglier abbiano le sopra indicate figure ed
inoltre quei soldati che, per indisciplina e scostumatezza, venissero
giudicati dalle pubbliche cariche d'Oltremare e Savio alla Scrittura
degni di tale correzione, per essere impiegati nelle fabbriche ed in
ogni altro pubblico lavoro d'Oltremare. Ed il Senato, che adatto ciò
riconosce alle viste del suo servizio ed alla tranquillità dei suoi
sudditi, avvalora il provvedimento con la sua approvazione.

«I soldati _travagliatori_ avranno la paga di soldato di fanteria
italiana, più una _diaria_ di cinque _gazzette_[188] nei giorni di
continuato lavoro, onde possano procurarsi una nutrizione adatta alle
fatiche: ai capi-squadra saranno corrisposte dieci _gazzette_. Il
vestiario dei _travagliatori_ deve esser fatto dal Magistrato sopra
Camere[189] e di due in due anni loro somministrato, giusta il modello
che l'esattezza della conferenza assoggetta, e che si rileva
corrispondere in un sessennio al valore di quello usato dalla truppa
italiana»[190]

Tale fu l'ordinamento del corpo di travagliatori Veneti suddiviso in
due compagnie: una destinata ai lavori di Levante, l'altra a quelli
della Dalmazia[191]. È chiaro adunque che l'idea di istituire un corpo
del genio militare era ben lungi ancora dalla mente dei governanti
veneti nel 1785. E come non bastassero ad attestarlo le espressioni
del senatoconsulto ora citato, v'ha ancora il libro dei _Doveri del
Corpo dei Travagliatori_, pronto a ribadire tale concetto. A custodia
delle principali residenze delle due compagnie--cioè la _Cittadella_
di Corfù ed il _Forte_ di Zara--erano stabiliti dei grossi picchetti
di guardia, ciò che dinota la condizione molto simile a quella dei
forzati in cui erano tenuti i componenti del corpo.

L'anzidetto libro dei _Doveri_[192] specifica ancora meglio tale
condizione pressochè ergastolana dei _travagliatori_ quando prescrive
che, «a far parte di _diritto_ dei detti corpi sono chiamati quegli
individui che, dai varî tribunali, uffizi, magistrati e reggimenti,
vengono _condannati_ a servire nella truppa. Non possono però
introdurvisi gli individui rei di gravi delitti ed infamanti, nè
incapaci al lavoro... Dietro parere delle primarie cariche delle
province di Oltremare e del Savio di Terraferma alla Scrittura, si
possono altresì _condannare a servire nei corpi dei travagliatori_
quei soldati che si mostrassero di mal costume, o indisciplinati, o
che meritassero almeno due anni di correzione. Spirati questi due anni
e non dando i soldati segni di ravvedimento termineranno quivi
l'ingaggio. I ravveduti termineranno invece lo ingaggio nella truppa
dove saranno nuovamente trasferiti».

I _travagliatori_ non erano adunque che tristi soggetti allontanati
dall'esercito, e la cura di liberarnelo al possibile primeggiava sopra
ogni altra, ad onta della rovina delle fortificazioni veneziane e
della fosca dipintura del sopraintendente Moser. Fu soltanto pochi
mesi prima della caduta della Serenissima che il generale Stràtico
richiese effettivamente al Savio alla Scrittura di istituire un corpo
del genio militare, con attributi e còmpiti da arma nel senso moderno;
«formando _finalmente_ un corpo di _guastatori_, istrutto nella
costruzione dei trinceramenti ed opere campali sotto la direzione
degli ufficiali ingegneri e nella gittata dei ponti per il passaggio
dei fiumi. Così ad ogni comando nulla verrebbe a mancare, tanto per
muovere la truppa contro l'oste nemica che per assicurarle una forza
superiore alla medesima».

Ma lo Stràtico scriveva così soltanto il 20 luglio 1796[193].



CAPO VIII.

La cavalleria veneta. Le armi nel loro complesso, il governo ed il
riparto difensivo e territoriale. I veterani.


Le glorie della cavalleria leggera _stradiotta_ erano sfiorite da gran
tempo. I fieri cavalieri albanesi--o _cappelletti_--al soldo della
Repubblica, vestiti di abiti succinti, armati di piccolo scudo, di
lancia e di spada, che avevano empito delle loro fulminee gesta i
campi d'Italia nel Cinquecento, si erano a grado a grado ammansiti.
Avevano dapprima smussate le unghie, poscia ripiegate le zanne e si
erano da ultimo confusi e perduti in un largo innesto nei più miti
cavalleggeri Dalmati e Croati. L'essenza dell'arte del combattere
leggero alla stradiotta, fatto di balenare d'incursioni, di tagli
ratti e violenti inferti sul corpo greve dell'avversario, di solchi
sanguigni e profondi vibrati sulle terre devastate dalla loro
rapacità, era esulata altrove sotto forme più disciplinate e conformi
al diritto delle genti, specie in Francia, dove si era raccolta e
tramandata, con qualche sapore di _venezianità_, sotto le insegne del
reggimento cavalleggeri _Royal Cravates_[194].

A Venezia rimase, come di tutto il bello ed il buono del passato,
soltanto l'eredità delle memorie. Trascorso il periodo delle grandi
guerre e delle lotte di conquista, nelle quali la cavalleria
stradiotta con il suo rapido dilagare parve quasi il simbolo e l'arma
per eccellenza; ripiegatasi la Serenissima in sè medesima, la
cavalleria divenne nell'esercito veneto un'arma esotica. Si restrinse
cioè al modesto compito di milizia addetta alla custodia dei confini,
alla scorta dei convogli di privative dello Stato[195] e delle
reclute, alla guardia d'onore delle missioni e delle alte cariche
governative; dedicò infine il proprio servizio al mestiere di
staffetta lungo le principali rotabili, per trasmettere con qualche
celerità lungo di esse le ducali e gli ordini più urgenti del Savio
alla Scrittura.

Sotto questo riguardo adunque la cavalleria veneziana prese la veste
di un pubblico servizio e si spogliò delle caratteristiche di arma
combattente.

Le esenzioni e le difficoltà dei pascoli, mentre tendevano a
raccoglierla in determinati centri meglio provvisti di foraggio,
obbligavano per contro a frazionarla in piccoli posti là dove questo
scarseggiava. E ciò anche per meglio soddisfare alle esigenze del
servizio di scorta e di staffetta. La campagna bresciana e la veronese
primeggiavano per floridezza dei pascoli e quivi i riparti di
cavalleria potevano stare più raccolti: la provincia del Friuli,
specie il circondario di Pordenone[196], pur essendo assai più ricca
di foraggi era nondimeno esente da ogni servitù, e ciò per antico
privilegio.

Nei dintorni del Chievo (_Clevo_) stava quindi alloggiato un buon
terzo della cavalleria veneta al tempo della decadenza, ed a Verona
risiedeva il suo sopraintendente. I possessori di quelle praterie
acclive e dei pingui pascoli sotto quella fortezza erano
obbligati--per vecchi statuti--a somministrare le decime dei loro
fieni alla cavalleria[197].

Ma quel vincolo--fatto di antiche schiavitù terriere--era diventato
insopportabile ai terrazzani veronesi della decadenza della
Repubblica, che ripetutamente ed acerbamente se ne dolevano,
offrendosi perfino di pagare la prescrìtta decima in denaro sonante.
Con ciò quei terrazzani intendevano piuttosto a liberarsi delle
guarnigioni che dell'onere che loro derivava per la presenza della
cavalleria nelle loro terre.

Ma il Senato, nel 1782, riconfermò nel modo più esplicito il pieno
vigore delle antiche servitù, «essendochè la fornitura delle decime
alla pubblica cavalleria è destinata alla comune salvezza di tutti,
per il mantien di quell'arma»[198].

A squadriglie, a drappelli, il rimanente della cavalleria era
suddiviso in parte nelle città e nel contado della Bresciana e del
Bergamasco, ed in parte tra i centri di Padova, Rovigo, Treviso, Udine
e Palmanova. Delle province di Oltremare, la sola Dalmazia aveva
cavalleria preferibilmente croata, oppure di corazze; e poichè a
questa specialità da tempo era affidato il servizio di vigilanza verso
le frontiere turchesche e nell'interno, i nomi di _corazze_ e di
_croati_ suonavano nei luoghi come sinonimi di gendarmi ed anche di
sgherri[199].

Inauguratosi poi, nel 1783, il sistema dei cambi di guarnigione o dei
_turni_--come si disse più avanti---fra i grandi riparti territoriali
della Serenissima, questa tradizione poliziesca andò a grado a grado
affievolendosi, ed il servizio di ordine pubblico fu indi appresso
egualmente ripartito tra le diverse specialità dell'arma che si
avvicendavano nei presidi d'Oltremare.

     *
    * *

I còmpiti della cavalleria veneta si esplicavano anzitutto nei servizi
mobili, cioè nella perlustrazione delle strade di maggior transito
insidiate dai malviventi, nella sorveglianza delle linee di confine,
nella protezione dei convogli di _biave_ (frumento) che dovevano
servire alla panificazione per la truppa[200] e nei servizi fissi di
guardia e di vigilanza locale; cioè nei così detti _appostamenti_
dell'arma stabiliti ai nodi stradali di maggior rilievo, nelle
vicinanze delle fortezze e dei castelli più importanti. Sotto
quest'ultimo aspetto, la cavalleria veneta si prestava all'occorrenza
anche al disimpegno del servizio di staffetta e di corriere, come si è
ricordato più sopra.

Il senso di cosiffatto servizio spigliato, disimpegnato a piccoli
nuclei, contribuiva nondimeno a rendere l'arma maneggevole, usa alle
fatiche e bene allenata. I frequenti contatti tra l'una e l'altra riva
dell'Adriatico avevano fatto inoltre acquistare alla medesima buona
pratica degli imbarchi, degli sbarchi e dimesticità nelle traversate
oltremare, abbenchè nessuna prescrizione regolamentare si occupasse
della materia e se ne lamentasse oltremodo il difetto[201]. I
trasporti si eseguivano di solito tra il Lido e Zara usando le
_manzere_, o barche per il trasporto dei bovini, ed in genere
«approfittando di tutti i legni in partenza, sia per armo che per
scorta delle reclute»[202].

Quanto al frazionamento della cavalleria esso era per certo molto
considerevole. Nel 1794, le quattro compagnie di _croati_ del
_Reggimento Colonnello Avesani_ e le quattro compagnie di _dragoni_
del _Reggimento Colonnello Soffietti_, che avevano stanza attorno al
Chievo, fornivano appostamenti a Mozzecane, Valeggio (Valeso), Sorgà,
Villanova, Castelnuovo, San Pietro in Valle, Caldiero, Cà de' Capri,
Sega, ed eventualmente anche posti di vigilanza attorno alle fortezze
di Legnago e di Peschiera[203]. Le rimanenti quattro compagnie di
ciascuno dei reggimenti sopra ricordati, che tenevano guarnigione
nella Bresciana, provvedevano a loro volta agli appostamenti di
Palazzolo, Ospedaletto, Ponte San Marco, Orzinovi, Àsola, Pontevico,
Salò e Crema. Infine, due compagnie del reggimento croati del
_Colonnello Emo_ distaccate nel Bergamasco, somministravano gli
appostamenti di Cavernago, di Vercurago, Lavalto, Sorta, Villadoda,
Cividale, Barican, Sola, Brambat, Lurano, San Gervasio, Romano e
Pontida[203].

E le compagnie della cavalleria veneta a quel tempo, «detratti gli
ufficiali, bassi-ufficiali, _camerata_ (attendenti e piantoni di
scuderia) _selleri_, forier e marescalco, che non fanno servizio...»
si erano ridotte a soli 27 cavalieri ognuna[204],

Intorno a questo medesimo tempo l'arma si suddivideva in due
reggimenti di _croati_, in uno di _cavalleria dragona_ ed uno di
_cavalleria corazziera_. I reggimenti di croati e di dragoni avevano
la forza di otto compagnie ciascuno, quello di corazzieri ne contava
solamente sei.

Le compagnie di dragoni, croati e corazzieri, accoppiate due a due,
formavano uno squadrone agli ordini di un sergente maggiore.

I corazzieri, per vecchia tradizione nobilesca, costituivano anche
nella cavalleria veneta la milizia a cavallo più pregiata e
ragguardevole, e la legge di _Ottazione_ assicurava ai loro graduati
alcuni privilegi in confronto agli altri graduati della
Serenissima[205]. I dragoni erano destinati a combattere occorrendo
anche a piedi ed erano perciò armati di moschettoni[206]; i croati
infine formavano la cavalleria leggera.

Sulla fine della Repubblica era sopraintendente dell'arma il già
colonnello delle _corazze_ conte Giulio Santonini. Quando questi fa
elevato alla suprema carica della cavalleria veneta (1788) con
l'anzidetto titolo di sopraintendente e con il grado di sergente
maggiore di battaglia, il Santonini contava 52 anni di servizio e 67
di età, dedicati in massima parte al pubblico servizio nelle
guarnigioni di Dalmazia e di Levante[207].

     *
    * *

Il grande frazionamento delle truppe venete, le loro unità stremate di
gregari e decrepite nei quadri, il servizio anfibio che esse
prestavano tra terra e mare, tra le frontiere turchesche e le isole
sperdute dell'arcipelago ionico, rendevano assai rare le occasioni
utili per stabilire contatti reciproci di cameratismo, per affinare il
senso dell'arte, per esercitare insomma le truppe medesime in nuclei
di qualche rilievo, conforme a quanto si usava a quell'epoca nei campi
di manovra di Francia e dell'Impero. Richiamate poi a nuova vita le
cerne nel 1794, con il loro _innesto_ nei riparti di soldati del
_vecchio piede_ le unità si rinsanguarono alcun poco, sicchè le
compagnie anemiche dei fanti italiani ed oltremarini, da una trentina
di soldati appena salirono in media a circa il doppio.

Si presentava allora propizia l'occasione per addestrare le truppe
venete in qualche simulacro di campo o di manovra, ed il tenente
generale Salimbeni--il tacciato di giacobinismo nei bossoli del
Maggior Consiglio e del Senato--la colse ben volentieri a Verona, là
dove, sulla fine del detto anno, si trovavano raccolti ben 2507 tra
fanti e cannonieri, con 326 tra dragoni e croati[208].

«Il capitanio di Verona (Alvise Mocenigo) come pure il tenente
generale Salimbeni--così diceva una relazione del Savio al Doge--si
mostrano molto soddisfatti dei progressi della guarnigione nei campali
esercizî, ad onta del tempo non lungo scorso dalla prima raccolta
delle cernide e di qualche rèmora nelle successive. Nè per essere di
già terminata la stagione delle campali evoluzioni[209] si introdusse
l'inazione nella piazza. Mentre quel _comandante delle armi_ profitta
di questa stessa circostanza per stabilirvi il giornaliero servizio,
senza tenere di soverchio occupata la truppa che gode di altrettanto
riposo e coglie sempre le buone giornate per esercitarle anche
_riunite in corpo_, il medesimo si propone alla ventura primavera di
eseguire anche col presidio qualche evoluzione di tattica»[210].

Le buone intenzioni avevano adunque fruttato qualche cosa. Più tardi,
nel luglio del 1796, il sergente generale conte Stràtico--il fautore
di una artiglieria veneta da battaglia leggera e manovriera ed il
riformatore del regolamento di esercizi per le fanterie italiana ed
oltremarina--riaffermava ancora la necessità di queste manovre
d'assieme, nella premessa al ricordato regolamento e nel carteggio che
esso diede luogo tra lo stesso Stràtico ed il Savio di Terraferma alla
Scrittura in carica.

Con la visione oramai netta e precisa della patria violentata sul
margine delle lagune--come al tempo della guerra di Cambrai--quel
generale vagheggiava la costituzione di alcuni campi stabili sotto ai
forti di San Pietro in Volta e di Malamocco, presso i trinceramenti
della Motta detta di Sant'Antonio e presso il Lido, allo scopo di
formarne una scuola d'armi e d'armati sempre pronta ad ogni evenienza,
sempre desta ad ogni minaccia; di apparecchiare insomma un buon
istrumento di difesa per Venezia e per l'estuario. Giacomo Nani, con
il prestigio del suo nome, con la profondità delle sue dottrine, con
il suo patriottismo illuminato, aggiungeva a questi disegni forza e
decoro.

«È bene--scriveva lo Stràtico--che si radunino al più presto assieme
queste truppe e siano messe sotto le tende, come nella ultima
neutralità[211] al tempo del maresciallo Schoulemburg. Tale metodo è
poi molto utile nel formarsi in battaglia, nel marciare fuori dei
campi per qualche lungo tratto interrotto da fossi, da siepi e da
altri impedimenti, e finalmente per eseguire le grandi manovre. Da
questo primo passo dello attendamento è facile condursi poi a quegli
altri che formano la catena continua delle militari istruzioni; vale a
dire nel rendere in pari tempo ed in unione con la fanteria esercitati
gli artiglieri nella disposizione e nello esercizio dell'artiglieria
di corpo e del treno da campagna, di cui dovrebbero essere forniti i
progettati accampamenti, come anche la cavalleria che vi si volesse
assegnare sia nei finti assalti che in foraggiare, scortare convogli e
bagagli... Quanto poi riflette questa ultima arma, il maresciallo
Schoulemburg era del parere doversi armare i lidi di Venezia,[212]
specie i dipartimenti di Pellestrina e di Chioggia, con buoni corpi di
cavalleria per impedire gli sbarchi ed appoggiare occorrendo quelle
milizie che, da Venezia, fossero spedite in Terraferma. Converrebbe
quindi chiamare a questa parte almeno quattro compagnie di _croati_,
aumentando però la loro forza attuale fino a cento teste, formare con
esse tre buoni squadroni (di due compagnie ognuno) ed aggiungervene un
quarto di cavalleggeri». Così, mentre la Serenissima stava
agonizzando, si istituirono in tumulto gli ultimi campi di manovra
dell'esercito Veneto, sicchè essi uscirono alla luce del sole come
nati-morti.

     *
    * *

Il riparto militare della Repubblica comprendeva i quattro dipartimenti
territoriali d'Italia, di Dalmazia, del Golfo e del Levante. I tre
ultimi, per essere d'oltremare, avevano stretta correlazione con la
suprema magistratura politica, civile e marinara di ciascuna provincia
(_i provveditori generali_). Il primo dipartimento invece, quello
d'Italia, non avendo normalmente tale analogia di forme e di
reggimenti--a meno che speciali circostanze politiche non consigliassero
di nominare anche colà un provveditore--esercitava la propria
giurisdizione per mezzo dei _capitani_ e dei _podestà_.

Nel riparto di Levante[213] primeggiava l'isola di Corfù, per la sua
posizione geografica e per il ricordo degli ultimi fasti di guerra
della Serenissima (1716) indivisibilmente congiunti alla strenua
difesa del maresciallo Schoulemburg. E la fortezza corfiotta nel 1796
contava ancora sui rovinati rampari ben 512 bocche da fuoco di varia
specie e calibro. Dopo Corfù, in ordine d'importanza, si contava Santa
Maura (Levkàs) cui pendevano di continuo sul capo come scimitarra gli
orrori delle incursioni turchesche; Zante (Zakynthos) la boscosa e
feconda per i pingui pascoli, assai mal guardata dai suoi 21 cannoni
barcollanti sugli affusti tarlati; Prevesa la cittadella perduta in
fondo al promontorio aziaco, ricca di gloria romana ed anche un poco
orgogliosa per la recente fortuna dei Veneti[214], guardata da un
pugno di soldati macilenti per i miasmi dell'acquitrino ambracico.
Venivano ultime Vonizza, l'isola di Cefalonia con il presidio di Asso,
e li scogli perduti di Cerigo e Cerigotto.

Nel contado delle Bocche, cioè in parte della giurisdizione del
_Golfo_, aveva il primo posto la fortezza di Cattaro con 153 cannoni,
compreso l'armamento del _Forte Spagnuolo_ di Castelnuovo[215], quello
del castello di Budua e degli appostamenti di Zupa e del contado dei
Pastrovicchi. Frequenti erano le relazioni politiche e commerciali dei
governatori delle armi di queste due ultime fortezze con l'attiguo
territorio dei Montenegrini e dei pascià dell'Erzegovina[216].

Il riparto di Dalmazia aveva per capoluogo Zara. Non minore importanza
dopo questa città avevano i castelli di Knin, di Sign, di Spalato, di
Traù, le opere di Sebenico, quelle di Almissa e di Imoschi.
Nell'Istria Veneta primeggiava infine Capodistria armata con 12 pezzi.

Tra le piazze forti d'Italia aveva grande fama Palma, o Palmanova,
retta da uno speciale magistrato militare.

Il numero dei castelli e delle fortificazioni di Venezia e
dell'estuario era assai grande, e tale si trasmise pressochè in
integro, attraverso le dominazioni francese ed austriaca, fino al
1848. Tra le opere più notevoli si contavano, al tempo della caduta
della Repubblica, quelle del Lido, di Campalto, della Certosa, di San
Giorgio Maggiore, della Motta di Sant'Antonio, del Maltempo, di San
Pietro in Volta, degli Alberoni, di Chioggia, di Bròndolo, del
Castello di Sant'Andrea, di San Giovanni della Polvere, di San Giorgio
in Alga; oltre una folla di opere minori, batterie, trinceramenti,
ottagoni, palizzate ed appostamenti[217].

Sugli spalti di queste opere di Venezia e dell'estuario risultavano
collocate in complesso 2471 bocche da fuoco, comprese le disponibili
nell'Arsenale.

Caposaldo della difesa di Terraferma era la fortezza di Verona. In essa
si notavano il castello di San Pietro e quello di San Felice,[218]
entrambi ricchi di solide muraglie, di torricelle, di opere a corno e di
terrapieni d'ogni maniera, demoliti in buona parte in forza del trattato
di Luneville nel marzo 1801; Castel Vecchio di remota costruzione
Scaligera[219] con grossi parapetti, feritoie sui piloni del classico
ponte e merlature, opere deturpate anch'esse in virtù del detto
trattato; e la cinta murata con le numerose porte, cortine e bastioni
illustrati dall'arte del Sammichieli. Minore importanza avevano infine
la piazze di Legnago e di Peschiera--recentemente sistemate nei fossi
acquei e nelle mure dal colonnello Lorgna--il castello di Brescia, le
opere di Orzinovi (_Orzi-Novi_), di Crema, di Àsola, di Pontevico e di
Bergamo.

     *
    * *

L'alta giurisdizione territoriale militare sui riparti di Levante,
Dalmazia, Golfo ed Italia, era esercitata dai rispettivi sergenti
maggiori di battaglia, secondo i turni dei quali si disse più sopra.
Il comando effettivo delle fortezze competeva invece ai singoli
governatori delle armi, suddivisi in alquante categorie a seconda
dell'importanza delle fortezze medesime.

Ai governatori delle armi spettava un certo numero di _lance spezzate_
costituenti una piccola guardia del corpo. Successivamente però questo
diritto andò modificandosi e si trasformò, sul finire della
Repubblica, in una specie di indennità di carica da corrispondersi in
contanti.

A questi governatori delle armi nelle fortezze d'Oltre mare incombeva
un còmpito assai spesso difficile e pericoloso. Quello cioè di servire
da _ago della bilancia_ in mezzo alla violenza delle passioni
politiche delle genti contermini, e da scudo contro le incursioni e le
depredazioni delle vicine tribù turchesche. E l'uno e l'altro ufficio
essi dovevano assolvere con dignità e con fermezza, quasi sempre con
scarsissimi presidi, con armi spuntate e rugginose.

In quest'opera giovava ancora alcun poco il bagaglio delle antiche
memorie e del vecchio prestigio repubblicano rinverdito dopo le
campagne del 1716-17, ma più che tutto valeva l'intreccio dei vincoli
politici, sociali e feudali, solidamente ribadito dalla Repubblica nei
domini d'Oltremare tra i suoi stessi rappresentanti ed i maggiorenti
delle terre. Così, con fine accorgimento, la Serenissima soleva
scegliere non pochi dei governatori delle armi delle principali
fortezze di Dalmazia e di Levante tra gli ufficiali superiori degli
_Oltremarini_, vale a dire tra i conterranei medesimi; sicchè, per
tale riguardo, le genti entravano di leggeri in una tal specie di
convinzione di godere una autonomia propria, convinzione che gli
istituti repubblicani rafforzavano e corroboravano. Il crogiuolo delle
milizie regionali oltremarine serviva così da elemento unificatore, da
valido intermediario tra le libertà cantonali d'Oltremare ed il potere
centrale repubblicano, da scuola d'armi insieme e di pubblici poteri
dalla quale il dominio veneto usciva rafforzato e popolarizzato. Le
migliori famiglie dalmate quivi dovevano acquistare i titoli per
l'esercizio del governo sui conterranei, in nome della stessa
Serenissima, e questo automatico ricambio di uomini e di reggitori
raddolciva le suscettività individuali e collettive delle municipalità
dalmate e le cointeressava agli accorti fini politici della
Repubblica.

Nelle principali fortezze i governatori delle armi erano inoltre
coadiuvati dai così detti _maggiori alle fortezze_, tratti in buona
parte dal corpo degli artiglieri, con incarichi esclusivamente
sedentari. Non mancavano però degli strappi a tale consuetudine circa il
reclutamento di questi ufficiali, e tra gli altri merita particolare
rilievo quello che si verificò nel 1794 quando--nell'assoluta
impossibilità di trovare un posto agli ufficiali promossi per merito di
guerra da Angelo Emo--convenne trasferirli appunto nel personale delle
fortezze, senza riguardo di sorta all'ufficio ed all'arma di
provenienza.

I còmpiti di questi ufficiali alle fortezze erano assai simili a
quelli che, sotto la Francia del vecchio regime, erano attribuiti ai
_majors_ ed agli _aides majors généreaux des logis_[220].

Poche parole rimangono da dire intorno alla dislocazione effettiva
delle truppe venete. I documenti più autorevoli in materia sono per
certo i «_Piedilista generali di tutte le pubbliche forze_» compilati
all'Inquisitorato sull'amministrazione dei pubblici ruoli. Codesti
specchi, che servivano di base ai càlcoli relativi alla forza
bilanciata dell'esercito della Repubblica, comprendevano gli effettivi
sotto le armi, gli aumenti e le diminuzioni dei _fazioneri_ in
confronto del periodo di tempo immediatamente precedente, gli _amassi_
o risultati delle nuove leve, i _cassi_ o congedati per compimento
d'ingaggio o per inabilità fisica, i _fuggiti_ o disertori, i morti, i
_passati di riparto_ o trasferiti ad altra sede, ed infine i
_realditi_, o condannati la cui pena era sospesa momentaneamente per
revisione di processo[221].

Le modalità di tali _piedilista_ erano tassativamente fissate dalle
_Terminazioni degli Ill.mi ed Ecc.mi Signori Inquisitori sopra
l'amministrazione dei pubblici rolli_[222], e ad esse si dovevano
uniformare tutti i comandanti di truppa nello intento di evitare
brogli, peculati e tentativi di frode per via dei _passavolanti_[223].
Epperciò ogni ufficiale, sulla propria _fede di uomo d'onore_, doveva
redigere la copia del rispettivo _rollo_, o riparto, da trasmettersi
quindi agli inquisitori competenti, vidimata dalle autorità superiori.
Analoghe pratiche si osservavano per le truppe imbarcate sui pubblici
legni, disposte a guardia di lontani presidi e negli appostamenti. I
sergenti maggiori di battaglia, i capi dei riparti territoriali, gli
aiutanti di reggimento e di battaglione, dovevano sorvegliare con
somma cura la compilazione scrupolosa dei _piedilista_, che si
trasmettevano all'Inquisitorato semestralmente prima dell'anno 1790,
ed annualmente dopo di quell'anno[224].

     *
    * *

Dai _piedilista_ adunque--orgoglio e tormento della burocrazia
militare veneta dell'epoca--si rileva che la forza bilanciata sullo
scorcio di vita della Repubblica oscillava intorno alla dozzina di
migliaia di soldati, e che pochi anni prima della caduta questa forza
era timidamente salita sopra alle quindici migliaia di uomini[225].

Tale contingente di truppe era suddiviso pressochè in parti
proporzionali tra i quattro dipartimenti militari. Così nel 1780,
sopra un totale di 313 compagnie e 12,406 _teste_ a ruolo, compresi
gli invalidi, gli addetti all'Arsenale, alle scuole militari ed alle
compagnie di leva, spettavano a ciascuno dei grandi riparti gli
effettivi seguenti:

_Riparto di Levante_.--Presidi, numero 24[226]. A terra, uomini 3326.
Sulle navi, nomini 1683[227].

_Riparto di Dalmazia_.--Presidi, numero 49[228]. A terra, uomini 2761.
Sulle navi, uomini 255.

_Riparto d'Italia_.--Presidi, numero 43[229]. A terra, uomini 2141.
Sulle navi, uomini 453. _Riparto del Golfo_.--Presidi, numero 2[230].
A terra, uomini 197. Sulle navi, uomini 460.

Nell'interno dei corpi le guarnigioni di solito erano distribuite in
giusta misura, con senso di equità e di equilibrio tra i buoni ed i
cattivi distaccamenti, e con riguardo ai _turni_ destinati a
ristabilire l'equilibrio in questa necessaria altalena di «_bona mixta
malis_» delle guarnigioni degli eserciti a base nazionale. Pochi erano
invece i corpi che avevano tutte le compagnie raccolte in una medesima
sede, o riparto territoriale, e ciò dipendeva ordinariamente tanto da
necessità di transito da un riparto all'altro (Lido-Padova-Zara),
quanto da convenienze particolari d'arma (corazzieri, croati,
travagliatori, invalidi etc.).

Nel _piedilista_ del V settembre 1776[231]--uno dei più accurati della
specie--risulta infatti che, dei 18 reggimenti di _Fanteria Italiana_,
14 avevano le proprie compagnie tutte riunite nell'interno di uno
stesso riparto, che i rimanenti reggimenti le avevano frazionate, e
che tutti i corpi di Fanti _Oltramarini_ all'infuori di due[232] si
trovavano con le proprie unità sparpagliate tra la Dalmazia, il
Levante, l'Italia ed il Golfo.

Della cavalleria veneta, il _Reggimento di Corazze_ aveva le sue sei
compagnie tutte in Dalmazia, quello di _Dragoni_ era per intero
dislocato in Italia. Il reggimento _Croati_ del _Colonnello Begna_
presidiava la Dalmazia senza distaccamenti in altri riparti, quello
del _Colonnello Gregorina_ era tutto raccolto in Italia. Il
_Reggimento artiglieria_ infine era suddiviso con sei compagnie in
Levante, tre nella Dalmazia ed altrettante in Italia.

Questa dislocazione delle truppe venete si mantenne presso a poco
immutata fino alla caduta della Repubblica. Subì soltanto qualche
alterazione nel 1796 quando, a cominciare dai primi di giugno, dalle
province d'Oltremare furono chiamate alla _Dominante_ truppe per la
difesa delle lagune minacciate dagli eserciti di Francia. Allora, per
la seconda volta dopo la guerra di Cambrai, si videro raccolte milizie
in buon numero dentro l'abitato cittadino di Venezia, violando la
tradizionale consuetudine che ne le escludeva in via normale in
omaggio alle libertà repubblicane.

All'infuori di codesti casi eccezionalissimi, unici rappresentanti
della legge e della forza armata veneta dentro alla città delle lagune
erano i _birri_ ed i _fanti_, ministri questi ultimi al servizio del
Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato[233].

     *
    * *

Poichè l'esercito veneto della rovina repubblicana accentuò il proprio
carattere di istituto di beneficenza, pullularono come una fungaia i
corpi degli invalidi, o dei _benemeriti_, senza contare i nuclei di
militari fisicamente inadatti al servizio, non inquadrati in unità
sedentarie ma semplicemente mantenuti a ruolo e stipendio con il
benefizio delle così dette _mezze paghe_.

Di queste ultime si avvantaggiavano in particolar modo i cannonieri,
intendendo con ciò la Serenissima di conservarsi sotto mano--prima
della fondazione del Reggimento Artiglieria e subito dopo di essa--una
certa riserva di militari pratici delle artiglierie per far fronte
alle eventuali esigenze.

Ma poichè lo scandaloso costume delle mezze-paghe, che manteneva a
spese del pubblico erario una falange di fannulloni e di disadatti fu
abolita nell'anno 1777, un'ondata di postulanti e di malcontenti venne
a rifluire alle unità organizzate degli invalidi. Se ne rammaricava
inutilmente il Senato, rilevando il grave danno pecuniario che causava
tale corrività, eccitando il Savio alla Scrittura a provvedere:
«perchè questa caritatevole disposizione (_dei benemeriti_) non vada a
danno del dinaro pubblico, nè trovi il privato interesse una fonte di
illeciti vantaggi»[234]. La piaga però aveva troppo salde e profonde
radici, d'altronde le strettezze dell'erario non permettevano di
concedere giubilazioni che ai militari fatti decrepiti sotto l'assisa
repubblicana; e ciò non poteva accadere di solito che verso i 60 o 70
anni di età.

Nel 1790 esistevano nell'esercito veneto 7 compagnie o distaccamenti
di benemeriti. Una compagnia di essi era dislocata al Lido e nelle
opere contermini, una a Palmanova ed una nel Castello di Brescia. Un
distaccamento assai numeroso di quei vecchi soldati guardava il forte
di _San Pietro_ _dei Nembi_ sotto Zara, un altro quello del _Maltempo_
presso Venezia, i due ultimi infine erano dislocati a Zara e nel
Collegio Militare di Verona.

Principale còmpito di questi _benemeriti_ era il servizio di guardia
agli istituti ed edifizi militari affidati alla loro custodia, «senza
mai staccarsi dal posto sotto qualunque pretesto, per ubbidire ai
comandi che loro venissero impartiti e vietando l'asporto di pubblica
o di privata roba»[235].



CAPO IX.

L'addestramento della truppa veneta.


Cadeva la Repubblica quando, dopo una serie di reiterate istanze
intese a porre in rilievo la vetustà dei regolamenti tattici compilati
dal maresciallo Schoulemburg al principio del secolo XVIII--sui quali
era passato indarno tutto lo splendore dell'arte federiciana--il
Senato si induceva finalmente a nominare una commissione con
l'incarico di redigerne dei nuovi. Si trattava anzitutto di rendere
più agili e manovriere le forme tattiche della fanteria, anchilosate
ancora nella vecchia suddivisione di _ali_, di _divisioni_ e di
_plotoni_, di imprimere maggiore impulso al fuoco, scioltezza agli
ordinamenti e vigoria alle azioni da combattimento.

La circostanza che un buon nucleo di truppe venete si trovava raccolto
sotto Verona, e che il generale Salimbeni ed il governatore delle armi
di quella città avevano cominciato ad esercitarle in simulacri di
esercitazioni e di manovre, si presentava assai propizia per compiere
le necessarie esperienze della riforma dei regolamenti.

Nella primavera del 1795 una commissione composta dal detto generale
Salimbeni, dal sergente generale Stràtico e da altri ufficiali
inferiori, compiva infatti la prima metà dell'opera, cioè quella della
revisione della parte formale dei regolamenti tattici dal titolo
«_Esercizi personali per gli Uffiziali, bassi-uffiziali e soldati
della truppa veneta_», e la presentava al Savio di Terraferma alla
Scrittura Iseppo Priuli con una dotta relazione a corredo, acciocchè
questo magistrato la rassegnasse a sua volta al Doge.

La relazione faceva riserva, «che i detti benemeriti ufficiali
Salimbeni e Stràtico avrebbero fatta successivamente completa
produzione anche della seconda parte dell'opera... la quale abbracciar
deve i movimenti dei corpi, così avendo essi creduto di dividerla per
maggiore facilità e chiarezza»[236].

Questa prima parte del regolamento che vedeva allora la luce
comprendeva adunque il maneggio del fucile _del modello Tartagna_, i
movimenti con la bandiera per gli alfieri, con la spada per gli
ufficiali e le varianti ed aggiunte per la fanteria oltramarina. Nel
proemio si esprimeva il voto, «che il libro venisse stampato in
entrambe le lingue italiana ed illirica, due essendo le nazioni con
differente linguaggio che hanno l'onore di servire Vostra Serenità», e
prometteva di estendere gli studi e le esperienze anche alla
cavalleria, «la quale ha eguale e forse anche maggiore bisogno della
infanteria di regolazioni nello esercizio non solo, ma anche nella
tattica, usando ancora quelle che furono estese fino dal secolo
passato dal generale Stenau».

Ispirandosi a modernità di concetti, «come si deve» ed alle «nuove
pratiche introdotte ed usitate dalle nazioni più agguerrite», i
compilatori del nuovo regolamento esprimevano da ultimo la fiducia che
la «nazionalità veneta potrà, con esso, diventare mirabilmente
istrutta».

Le nuove ordinanze conservavano la formazione della fanteria su tre
righe, ponevano in rilievo la sempre crescente potenza del fuoco e
procuravano di disciplinare l'urto. Semplificavano oltre a ciò--nei
limiti del possibile--il maneggio dell'armi ed assottigliavano d'alcun
poco il pesante bagaglio delle evoluzioni, delle marce, delle
contromarce e delle colonne d'attacco.

     *
    * *

Per eseguire i movimenti con la spada, oramai definitivamente
sostituita alla picca fino dall'anno 1790[237], gli ufficiali dovevano
prendere la posizione di attenti, epperciò essi dovevano: «impiantarsi
con la vita dritta, petto in fuori, capo alto, tacchi tra loro
distanti di due dita, punte dei piedi in fuori, ginocchia tese,
braccia pendenti al naturale in giù, cappello che riposi sopra le
ciglia ma voltato un poco verso sinistra»[238].

I movimenti con la spada erano 17 e cioè: spada alla mano o in parata,
primo saluto, spada in parata, secondo saluto, spada in battaglia,
spada in parata, _spada all'orazion_, spada in parata, _spada a
funeral_, spada in parata, spada in riposo, spada in parata, spada in
battaglia, spada in riposo, spada in battaglia, spada in parata, spada
nel fodero.

Il saluto con la spada si rendeva dagli ufficiali veneti presso a poco
come si pratica oggigiorno e così si salutavano:

«L'Ecc.mo Savio di Terraferma alla Scrittura, i Provveditori Generali
da Mar, della Dalmazia e gli Ecc.mi Capi di Provincia in Terraferma».
Per rendere onore alle altre autorità militari il saluto con la spada
si arrestava al primo tempo dell'odierno saluto, e cioè «con la coccia
della spada dirimpetto al mento, alla distanza di un palmo, guardamano
voltato verso il lato sinistro e lama verticale e di piatto».

Questi modi di salutare le autorità militari superiori ed inferiori
surrogarono rispettivamente la _battuta_ della picca ed il levarsi del
cappello, quando la picca stessa costituiva l'ordinario armamento
dell'ufficiale.

Altre regole disciplinavano il modo di portare la spada _all'orazion_,
che stendevasi a quell'atto davanti al corpo con il braccio disteso e
la punta fin presso terra, mentre l'ufficiale ripiegava il ginocchio
destro sotto il sinistro, si toglieva di capo il cappello e lo
raccomandava alla mano sinistra; _a funeral_, nella quale positura la
spada si portava serrata contro il petto lungo il lato sinistro,
assicurata sotto l'avambraccio piegato all'altezza della mammella; _in
battaglia_ infine cioè con la spada stesa lungo il fianco destro,
«appoggiandola verticalmente nel vuoto della spalla, col filo in
fuori»[239].

Gli alfieri portavano normalmente la bandiera «sul fianco destro,
l'asta alquanto inclinata verso dritta e pendente in avanti, la lancia
(freccia) voltata in piano ed il calcio a terra». Nei tempi sereni e
senza vento la bandiera si lasciava «a drappo volante», nei piovosi
invece o con vento si prendeva «il canto (lembo) pendente del drappo e
con la mano destra si serrava all'asta». Nelle parate--senza eccezione
di tempo--la bandiera doveva essere sempre spiegata.

L'alfiere abbassava la bandiera davanti a quelle medesime supreme
cariche militari cui si rendeva dagli ufficiali il completo saluto con
la spada, «compiendo un ottavo di giro a dritta, poi con la mano
dritta abbassando l'asta della bandiera verso la parte sinistra,
finchè il piatto della lancia sia ad un palmo distante da terra...
nell'atto stesso si raccoglieva con la mano sinistra il drappo e si
impugnava per di fuori dell'asta». Per salutare tutti gli altri
superiori l'alfiere toglieva semplicemente di capo il cappello[240].

E passiamo agli esercizi con il fucile[241]. Poche premesse poste
innanzi alla descrizione dei relativi movimenti richiamavano
l'attenzione sul fatto, «che il maneggio del fucile deve compiersi dai
soldati con desterità e scioltezza... epperciò essi dovranno stare con
l'orecchio attento al comando, muovere le mani sempre in vicinanza del
corpo, eseguire con vigore ogni tempo di una _mozione_ restando poi
immobili da uno all'altro tempo». Per facilitare poi la simultaneità e
l'esatta esecuzione degli esercizi, si prescriveva che «essendo i
soldati in rango e fila, quelli di prima riga abbiano a guardare
attentamente il _campione_ (istruttore) e quelli delle due ultime file
quelli della prima, onde muoversi tutti contemporaneamente».

Tra il comando di ciascun movimento e l'esecuzione del primo tempo di
esso, il _campione_ doveva lasciar correre un intervallo bastevole per
contare a cadenza i primi tre numeri. Tra i tempi successivi questo
intervallo doveva essere prolungato di alquanto e diventare eguale
all'intervallo di tempo che è necessario per contare i primi sei
numeri. Si eccettuavano da questa regola mnemonica i comandi per i
fuochi e per ritirare le armi, i quali dovevano eseguirsi non appena
ordinati.

La posizione di base per eseguire il maneggio dell'armi era quella del
fucile collocato sulla spalla sinistra, con la canna in fuori,
sostenendo il calcio con la palma della mano sinistra appoggiata al
fianco, «sicchè il pollice premeva il calcio e le altre dita lo
stringevano per di sotto: il braccio sinistro non doveva essere nè
troppo teso nè troppo inarcato, col gomito daccosto alla vita in modo
tale che la mammella cadesse tra le due viti della piastrina»[242].

Il rigido formalismo dominante non si arrestava però a tali
prescrizioni e rilevando, «che vi sono uomini che hanno più anca che
spalla e di quelli che sono al contrario», presumeva di correggere
anche le differenze fisiologiche dei diversi attori con compensi e
temperamenti, in modo da ottenere che tutti i fusti dei fucili si
adagiassero in un medesimo piano inclinato, perfettamente uniforme.

«Se il soldato---diceva dunque il regolamento--ha più anca che spalla,
esso dovrà sostenere il fucile sulla spalla volgendo il pugno un poco
in dentro perchè la canna più si scosti dalla testa; e se al contrario
avesse più spalla che anca, allora volgerà il pugno un poco più in
fuori appoggiando maggiormente il calcio alla coscia per avvicinare di
più la canna alla testa. Con tale avvertenza si riuscirà a mettere
nello stesso piano tutti i fucili di una riga di soldati».

E sulla pratica di questi ripieghi i _campioni_ fondavano il supremo
segreto dell'arte, la ricetta che assicurava fortuna alla complicata
coreografia del maneggio dell'armi. I principali movimenti con il
fucile erano 34. La loro progressione cominciava col presentar l'arme,
la quale si sosteneva verticalmente davanti al corpo «in _candela_,
proprio dirimpetto al mezzo del capo, col vidone (_vitone_) del cane
contro il centurino... ed il piede destro tre dita dietro il piede
sinistro, in modo che il calcagno di questo guardi il mezzo dell'altro
piede, e ciò senza cangiare di fronte»[243].

Sull'esecuzione dei fuochi il regolamento richiamava «tutta
l'attenzione dei soldati... avezzandoli a mirare con franchezza, a non
torcere in verun modo la testa, a non muovere nè il corpo nè il
fucile, perchè ogni piccolo moto può alterare la direzione del colpo.
Allorchè poi questo vada a maggior distanza, si insegnerà ai soldati a
premere bene col calcio la spalla nell'atto di far fuoco»[244].

Gli esercizi del fuoco erano preceduti dal movimento di base del
preparatevi. A tale comando il fucile si portava presso a poco nella
positura di «presentat-arm» e da questa si armava il cane, premendo
con il pollice della mano destra sul vitone del cane medesimo. Ciò
fatto si passava al secondo movimento, cioè all'impostatevi, portando
il piede destro un palmo dietro al sinistro e volgendo il corpo verso
destra, in guisa da «metterlo a mezzo profilo». Così si spianava
l'arma «appoggiando la guancia destra sul calcio, chiudendo l'occhio
sinistro per potere aggiustatamente mirare col destro lungo la canna
l'oggetto che si vuole colpire.... Quando non sia determinato questo
oggetto da prendere di mira, il soldato farà cadere la bocca del
fucile al livello circa degli occhi».

I tempi della carica erano laboriosissimi. Al comando di _pigliate la
carica_ il soldato estraeva dal _tasco_ (cartucciera) una carica, bene
avvertendo «di aprirlo in mezzo e non da fianco per ritrovarla più
facilmente»; quindi portava la detta carica alla bocca, ne strappava
la carta con i denti sino a scoprire la polvere aiutandosi per ciò con
uno «sforzo della mano verso la sinistra». Ciò fatto si poneva mano al
focone chinando la testa per poterlo bene innescare, quindi si
chiudeva la _batteria_ e si impugnava con la destra il fucile verso la
bocca, «in modo che il calcio poggi a terra accosto al piede sinistro,
la cartella sia in fuori, il fucil tocchi la coscia sinistra e la
bocca resti dirimpetto alla spalla destra, impugnato con la detta mano
destra».

Da questa posizione, «dopo di aver soffregata con le due dita pollice
ed indice la sommità della carica per bene aprirla del tutto, si
versava la polvere in canna mandandole dietro la carta, e si intasava
da ultimo con la bacchetta stendendo naturalmente il braccio e
spingendola con forza dentro la canna stessa». Tutto ciò esigeva una
quarantina di _tempi_.

Non minor cura esigevano l'_armare le baionette_,[245] il disarmarle,
il _sostenere l'urto_[246] e portare il fucile _alla pioggia_,
assicurato con il calcio sotto l'ascella sinistra «la bocca in basso e
la bacchetta in sù»; il recare l'arma _alle bandiere_ cioè a
_fianc-arm_; a _funeral_, sotto l'ascella sinistra con il calcio
all'insù e davanti, la canna inclinata indietro tenendo il fucile con
la sinistra all'impugnatura e la destra dietro la schiena al mezzo di
essa; infine _all'orazion_, verticalmente davanti la spalla destra
mentre il soldato stava nella posizione di _in ginocchio_ con la mano
sinistra in atto di saluto _sul frontone del caschetto_.

Un'appendice agli _Esercizi personali_ regolava i movimenti speciali
della fanteria oltremarina per quanto riguardava il maneggio del
_palosso_ e recava, a mò di chiusa, un capitolo relativo alla visita
delle armi e delle monizioni.

     *
    * *

Tale fu la riforma dei regolamenti per la fanteria veneta. Con essa si
dovevano abbandonare d'un tratto i vincoli che collegavano i
regolamenti stessi all'arte del Principe Eugenio di Savoia, per
ravvicinarli decisamente alle tradizioni più recenti della scuola
francese e federiciana. Forse tali progressi sarebbero stati assai più
sensibili nella seconda parte che si attendeva, quella cioè, relativa
all'impiego tattico delle truppe, ma il tempo tolse non solo la
facoltà di pubblicare quest'ultima, ma ben anco il destro di
diffondere più largamente la prima oltre il ristretto cerchio delle
milizie che componevano il campo veneziano sotto Verona. La parte
formale degli _Esercizi personali_ non vide infatti neppure l'onore
delle stampe. Essa rimase allo stato di manoscritto tra le mani gli
ufficiali veneti che la sperimentarono, e così si tramandò pure ai
posteri confinata tra le polverose carte del Savio alla
Scrittura[247].

Restò così ancora in vigore, fino alla caduta della Serenissima, il
libretto del maresciallo Schoulemburg, l'ultimo capitano della
Repubblica.

Gli uomini delle tre righe erano disposti l'uno dietro all'altro alla
distanza di un passo. Gli esercizi erano comandati alla voce o con il
_tocco_ del tamburo, e si dovevano eseguire all'ultima parola del
comando che il _campione_ doveva pronunciare breve e forte, oppure al
termine del tocco seguendo l'esempio dei sottufficiali o dei campioni
medesimi. Gli esercizi del reggimento erano preceduti dal
_riconoscimento_, o formazione delle unità di manovra. Si pareggiavano
allora le file, si eguagliava la forza delle compagnie, si
suddividevano tra i riparti secondo l'ordine di precedenza gli
ufficiali ed i sottufficiali i quali, fuori delle righe, attendevano
in questo frattempo di prendere posto. La compagnia inquadrata perdeva
da quel momento ogni personalità e tutta la truppa si ripartiva in tre
divisioni, cioè il centro e le due _ali_. Tale formazione era pure la
normale per il combattimento[248].

Ogni divisione era comandata da un capitano o da un sergente maggiore:
si suddivideva in mezze divisioni, e queste ancora in plotoni di
manovra.

Le evoluzioni principali consistevano nel raddoppiare le file e le
righe, nel serrarle, nelle conversioni, nello spezzare la fronte, nel
formare le colonne ed i quadrati, nelle contromarce e nei fuochi.

Per raddoppiare le file i soldati di ciascuna fila si spostavano
lateralmente ed entravano nella distanza di circa un passo che
intercedeva di solito tra uomo ed uomo. Quando il movimento doveva
eseguirsi sulla destra si spostavano le file pari, se a sinistra si
spostavano invece le disparì.

Le conversioni si effettuavano a perno fisso e per ottenere il
necessario contatto facevasi assai spesso porre ai soldati le mani sui
fianchi, alla costumanza tedesca. Le contromarce facevansi per righe e
per file.

Per eseguire i fuochi si serravano le righe _da petto a schiena_, cioè
si annullava l'ordinaria distanza di circa un passo che esisteva tra
le righe medesime. V'erano fuochi così detti _di riga, di mezze
divisioni, di plotoni_, da fermo e marciando, cioè alternandosi le
righe nello sparare usufruendo all'uopo degli intervalli interposti.
Contro la cavalleria si formava il quadrato, sia da fermo che in
marcia, _armando le baionette e sostenendo l'urto._

Il libro del maresciallo Schoulemburg trattava oltre a ciò del
servizio territoriale, o _di piazza_, del modo di accampare e di
accantonare un reggimento e le unità inferiori ad esso, di porlo in
marcia con le misure di sicurezza e di scortare un convoglio. Però,
stante l'esiguità delle forze disponibili e l'abbandono degli esercizi
nei campi di manovra, queste pratiche non erano che semplici
attestazioni teoriche. Invece--come si disse altrove--era assai
deplorato il difetto di norme regolamentari circa l'imbarco e lo
sbarco di truppe a piedi o a cavallo sui pubblici legni; operazioni di
qualche frequenza nell'esercito della Repubblica specie dopo
l'adozione dei _turni_ di guarnigione[249].

Le evoluzioni della cavalleria erano più antiquate di quelle della
fanteria e risalivano alla fine del XVII secolo, cioè a dire alla
pratica del generale Stenau, altro capitano della Veneta Repubblica.
Anche la cavalleria--come la fanteria--si ordinava su tre righe e la
distanza tra queste era normalmente di cinque passi. Gli intervalli
tra fila e fila erano tali che i cavalieri potevano introdursi
liberamente in questi spazi senza toccarsi l'un l'altro.

Le evoluzioni consistevano nello sdoppiare e nel raddoppiare le file e
le righe, con procedimenti analoghi a quelli risati dalle armi a
piedi. Le conversioni--di 180 gradi--si eseguivano tanto a righe
aperte che serrate: si adoperavano per cambiare diametralmente
direzione di marcia e si compievano per divisioni, mozze divisioni,
per file ed anche individualmente per ogni singolo cavaliere.

L'esercizio con le armi consisteva, per le _corazze_ ed i _croati_,
nel maneggio della spada, della sciabola e dei pistoloni da arcione;
per i _dragoni_ inoltre nell'uso del moschetto armato di baionetta. Le
tendenze difensive diffuse nell'arma di cavalleria--a motivo della
importanza crescente del combattimento a fuoco--avevano accentuato
nella pratica degli esercizi l'impiego delle _colonne vuote di dentro_
e dei _quadrati._ La prima di queste formazioni si assumeva dagli
squadroni in colonna di divisione, «facendo che la testa stia ferma e
che conversino le mezze divisioni delle altre, dimodochè rivolgano la
fronte alla campagna», cioè verso il nemico[250]

I _quadrati_ si ottenevano invece dalla linea spiegata, ripiegando le
ali all'indentro e ripiegandosi ancora ciascuna metà di queste ultime
in sè medesime dopo effettuata la conversione verso l'interno, in
guisa da costituire nell'insieme il quarto lato della figura. Ciò
fatto tutti eseguivano una conversione individuale «verso la
campagna».

Le cariche si effettuavano di regola in modo avvolgente. In
quest'arte--tramandatasi tradizionalmente nella cavalleria veneta
dagli _stradiotti_ e dai _cappelletti_--si distinguevano ancora, sul
cadere della Repubblica, i _Croati_. Questi medesimi recavano ancora
la palma nel _foraggiare_, nel portare gli attacchi in terreni
intricati e scuri, nel passaggio dei corsi d'acqua ed infine nei
combattimenti temporeggianti e nelle ritirate. Le _corazze_
distinguevansi a loro volta nelle salve con i pistolonì, ed i dragoni
nei fuochi con i moschetti e nei combattimenti pedestri.

Gli esercizi campali e le evoluzione del _Reggimento artiglierìa_
erano infine regolate, sul tipo di quelle della fanteria, da un
libretto appositamente redatto dal brigadiere Stràtico.

La carica dei pezzi si eseguiva con la cucchiaia o con i cartocci. Con
il calcatoio si spingeva la polvere nella camera della bocca da fuoco
e vi si intasava, adoperando all'uopo un poco di strame palustre,
delle alghe di mare oppure della paglia aggrovigliata, fintantochè la
polvere stessa affiorava nello intorno del focone. Indi appresso si
introduceva nell'anima del pezzo la palla elevandone alquanto la
volata. Eseguito questo primo tempo della carica, con un fiaschetto si
colmava di polvere da innesco il focone, se ne spargeva un poco anche
nella parte posteriore di esso, ed il cannone era allora pronto per la
punteria e lo sparo.



CAPO X.

Dei bilanci militari.


Anche l'energia motrice di ogni organismo sociale, il denaro,
difettava grandemente al tempo della decadenza repubblicana. È perciò
necessario di toccare anche questa materia nelle sue relazioni con i
bilanci della guerra, per conoscere quanta parte della rovina nelle
armi venete tocchi ai fattori morali e quanta, non meno notevole, sia
da attribuirsi invece ai fattori materiali, al governo della lésina,
al metodico rifiuto dei mezzi necessari per mantenere in vita il
prezioso strumento della difesa della patria, all'ostinatezza infine
di negare ad esso le necessario riforme.

Importa dunque sfogliare anche il carteggio dei _Savi cassieri_--o
ministri veneziani delle finanze--quello dei _Magistrati sopra
Camere_, o sopraintendenti delle tesorerie provinciali, esaminare le
_pòlizze_ dei preposti al _Quartieron_, o cassa militare destinata a
sopperire ai bisogni della milizia stanziata nel territorio dipendente
da ciascuna _Camera_.. E da questa indagine emergerà una verità di
molto rilievo. Che cioè i primi allarmi nelle angustie finanziarie si
sogliono, con improvvido consiglio, far scontare alle milizie--come
che queste possano in ogni evenienza privarsi di tutto quasi arnesi
inutili e parassitari--e che questa decimazione mal frutta allo Stato
che la pratica nel momento del pericolo, quando cioè esso si accorge
troppo tardi di essersi apparecchiato lentamente e di proposito alla
rovina, all'umiliazione ed al servaggio.

Al caso concreto, Venezia negò ai propri soldati e marinai il
necessario per affilare le armi, tenere asciutte le polveri e validi i
propri navigli, ed il mal fatto risparmio andò profuso e sperduto nel
mantenere sul proprio suolo due eserciti, nemici tra di loro e pronti
a sovvertirla.

Ora vediamo un poco addentro a queste cifre. Alla fine della _Seconda
Neutralità d'Italia_ (1737) la Serenissima aveva accumulato un
sensibile _deficit_, o _sbilanzo_--come si diceva nel linguaggio
d'allora--epperciò si escogitarono riduzioni, falcidie ed economie,
atte possibilmente a colmarlo.

A quell'epoca le entrate annue della Repubblica erano valutate in
ducati 5,114,915, cioè a dire in lire 21,426,378 circa: le spese
complessive ammontavano a ducati 5,810,037, talchè lo _sbilanzo_ si
aggirava annualmente intorno a 705,722 ducati, cioè a 2,960,161 lire.

Da questo complessivo gèttito di pubblico danaro, le spese militari
(Esercito e Marina) prelevavano ogni anno due milioni e mezzo di
ducati, all'incirca[251].

Tali spese nell'anno 1737 erano ripartite come segue; Arsenale e
_Tana_, ducati 218,037 e grossi 6[252]; _Spese per l'armar_, comprese
le navi e le galere, ducati 46,836 e grossi 3; Fortezze, ducati 32,776
e grossi 12; Artiglierie, ducati 25,841 e grossi 15; per _formento_ ad
uso di lavoro dei forni, ducati 109,264 e grossi 19. Simile, per
_formento_ bonificato alle decime, ducati 215,165 e grossi 6; per le
milizie del Lido, ducati 215,107 e grossi 3; per il loro vestiario,
ducati 56,594 e grossi 22. Per capitoli varii, quali _spazzi_ (viaggi)
dei capi da Mar, sopracomiti etc., ducati 28,512 o grossi 17. Paghe e
_paghette_ alle predette autorità e serventi, ducati 28,348 e grossi
17. Per gli stipendi, compreso quello del _veltz-maresciallo_
Schoulemburg[253], ducati 31,296 e grossi 12. Totale per l'_ordine
militar_ nella Dominante, ducati 1,008,511 e grossi 23.

Il rimanente del bilancio era assorbito dalle truppe dislocate negli
altri riparti della Serenissima, distinto in analoghi capitoli di
spesa, e questa fu precisamente di ducati 2,060,965 e grossi 11[254].

Sempre nell'anzidetto anno, con questo bilancio la Serenissima
manteneva nelle armi 19,385 uomini.

Ma premendo ovunque le proteste e gli incitamenti ad assottigliare gli
apparecchi militari ed a porli in armonia con la politica di rinuncia
e di stretta neutralità dichiarate dalla Repubblica dopo la pace di
Passarowitz, il Senato nell'inverno del 1738 convocò, «una
_conferenza_ per meditare e far suggerire quei sollievi e risparmi che
conciliar si possano tra i riguardi della pubblica economia e quelli
della necessaria custodia degli Stati». Quali fossero i termini di
questa equazione vaghissima, a più incognite, solita a rinverdire ad
ogni crisi delle finanze e molto più ad ogni depressione di spirito ed
infrollimento della volontà collettiva delle nazioni, non è detto.
Certo si voleva che l'Esercito e la marineria veneta facessero le
spese dello _sbilanzo_ e lo risarcissero.

La navigazione più non allettava, il commercio veneziano era allora
arenato, l'impero coloniale scomparso miseramente: di questo ormai non
rimanevano superstiti che i pochi brandelli delle isole Ionie, del
Cerigo e di Cerigotto. I porti franchi di Trieste, di Livorno, di
Ancona e di Sinigaglia avevano soppiantato i traffici della
Repubblica, che si era ormai ridotta a dimenticare affogando le
memorie del passato nella vita spensierata, spendereccia e voluttuaria
del presente. Ed in quei frangenti di allegro consumo senza
un'equivalente produzione riparatrice, lo _sbilanzo_ cresceva.

Nondimeno il credito della Repubblica era ancora considerevole--una
bella facciata architettonica che imponeva pur sempre per quanta
rovina nascondesse nell'interno--ed il fratto degli antecedenti
risparmi poteva consentire di far ancora fronte alla situazione,
purchè si ponessero un poco all'incanto le armi e meglio si colorisse
con quest'atto la divisa assunta dallo Stato godereccio, scettico ed
imbelle.

Frutto adunque della conferenza indetta dal Senato Veneto si fu una
prima riduzione della forza bilanciata la quale, da circa 20,000
nomini, discese a meno di 16,000. Si sospesero inoltre le
_reclutazioni_ e le _giubilazioni_ e si incitò la conferenza anzidetta
a proseguire nelle riforme e nelle falcidie per realizzare nuovi e più
copiscui risparmi.

Nel 1738 il bilancio militare veneto si ridusse infatti ad 1,886,322
ducati; quello del 1739 discese ancora a 1,670,333 ducati; quello del
1740 infine precipitò a 1,592,784 ducati.

L'esercito o la marineria veneziani si erano adunque sacrificati alla
generale assenza d'ogni spirito di sacrifizio individuale e
collettivo, ed in questa bancarotta di sentimenti e di mezzi essi
avevano riportati dei colpi così fieri da non riaversi mai più.

Così la Repubblica cominciò a morire da quando decretò la liquidazione
dei propri armamenti. «_Va ben_--aveva esclamato il penultimo doge
Paolo Renier--_No gavemo più forze, non terrestri, non marittime, non
alleanze,.. Vivaremo dunque a sorte e per accidente!..._».

     *
    * *

Vennero ben presto nuove angustie derivate dal contegno che doveva
serbare la Repubblica all'aprirsi della guerra per la Successione
Austriaca. Il docile strumento dei bilanci guerreschi che sembrava
adattarsi all'infinito all'umile compito di _dare_ senza nulla mai
_chiedere_, di risarcire il patrimonio pubblico perchè altri
spensieratamente lo godesse senza ombra di preoccupazioni o di affanni
per l'avvenire, di servire da vàlvola di sicurezza dell'erario che si
avviava al fallimento, cominciò a farsi meno duttile e più prezioso.

Le diffidenze verso la Francia e verso la Spagna, l'aperto viso
dell'armi assunto dall'Austria, avevano richiamato alla realtà delle
cose con quella pavidità pronta ad ogni dedizione, con quella premura
decisa a troncare ogni imbarazzo e che potevano eguagliare la
spensieratezza imbelle con cui si era posto mano a disfare gli
armamenti. Pure conveniva apparecchiare qualche cosa, se non altro per
semplice mostra.

La Repubblica aprì allora docilmente la strada di Campara (_Val
Lagarina_) agli Austriaci--i nemici più vicini--per ingraziarseli;
suonò a raccolta per le cerne e racimolò qualche migliaio di vagabondi
tratti dai riparti d'Italia e d'Oltremare per innestarli
nell'esercito. Alle potenze più lontane offrì in pegno la
dichiarazione della sua _terza neutralità_ a mò di una presuntuosa
etichetta fatta per coprire una merce avariata. Ed il costrutto
positivo di tutte queste pratiche si fu quello di riallentare i
cordoni della borsa.

Nel 1741 i bilanci militari veneti risalirono ad 1,818,147 ducati,
nell'anno appresso--con la leva di due migliaia di cerne--crebbero
ancora sino a 2,845,481 ducati e si mantennero a questo livello per
tutto il rimanente periodo della terza neutralità d'Italia. Ma dopo la
pace di Acquisgrana il governo della lèsina riprese di bel nuovo il
sopravvento ed accompagnò senza interruzione le vicende militari della
Repubblica fino alla sua caduta.

L'esercito si ridusse daccapo prima alla forza bilanciata di circa una
quindicina di migliaia di uomini, poi ad una dozzina di migliaia,
compresi i non valori. Le compagnie di fanteria precipitarono alla
forza di una trentina di individui, quelle di cavalleria ad una
ventina, i bilanci militari al milione e mezzo di ducati ed anche
meno.

La bancarotta non poteva essere più completa. L'Arsenale ridusse
pressochè a nulla il proprio lavoro, le milizie incanutirono sugli
artificiosi _piedilista_, gli ufficiali furono obbligati a morire
ancora in servizio nella più tarda vecchiaia per mancanza di danari
necessari a giubilarli. Nondimeno la vetusta macchina della Repubblica
continuava a reclamare tutta la sua parte di dissipazione dell'erario,
senza che il più timido tentativo di riforma valesse ad alleviarne
l'insopportabile peso. La macchina lavorava unicamente a vuoto e
peggio.

A comprovare questo spèrpero di energie basta l'esame dei bilanci
dell'Arsenale veneziano, considerato come pietra angolare del vetusto
edifizio guerresco della Repubblica. Esso richiedeva in media per il
suo mantenimento--affatto parassitario--218,837 ducati all'anno,
46,836 ducati per l'anno dei pubblici navigli, 25,841 ducati per il
rabberciamento delle artiglierìe più sganghenate, 30,000 ducati per il
_Reggimento Arsenal_. In totale il maggior stabilimento marinaro dei
Veneti pesava adunque sulla pubblica finanza per 324,504 ducati
all'anno--cioè a dire per 1,356,426 lire odierne--senza contare le
giubilazioni, le spese ordinarie per i trasporti Oltremare, per le
esperienze ed altro.

E tutto ciò per lasciar marcire sugli _squeri_ (cantieri) navi più che
quarantenarie ed una perfino--la _Fedeltà_--impostata nel 1718 e
varata nel 1770; per lanciare in mare tra il 1717 ed il 1780 soltanto
28 legni, che venivano così a costare all'erario pressochè tre milioni
e mezzo ognuno, ammesso che questo prodotto di lavoro possa ritenersi
il solo veramente sensibile dello stabilimento durante il menzionato
periodo di oltre sessant'anni.

Il costo di produzione soverchiava adunque in modo inaudito il valore
del prodotto, nè v'erano fede ed energia capaci di metterli in
correlazione, amputando con sicurezza un organismo mastodontico di
consorterie, lento e parassitario. Occorreva perciò romperla con le
tradizioni corporative di una industria di Stato divenuta oramai un
anacronismo economico, sociale e politico; stendere la mano franca e
sicura all'industria privata che nella produzione delle armi aveva pur
fatto passi lusinghieri e decisi.

Ora i buoni propositi di giovare in questo senso l'amministrazione
della guerra attingendo alle floride officine della Bresciana, del
Bergamasco, del Salodiano, mettendo a contributo i servizi della
_compagnia mercantil_ dello Spazziani, le ferriere di Agordo, i
lanifici della Trevigiana e del Vicentino, tramontarono non appena si
dileguò al Saviato alla Scrittura il benefico influsso dell'opera
riformatrice di Francesco Vendramin[255].

     *
    * *

Rimase adunque nella sua integrità opprimente il bagaglio delle spese
e, per fronteggiarle, dopo di avere liquidato l'esercito e la flotta
convenne ricorrere alla rovinosa china del credito.

Subito dopo la pace di Acquisgrana venne aperto un _deposito_ o
prestito di quattro milioni di ducati, valuta corrente, di _soldo
vivo_ al tasso del 3,50 per cento. Il prestito doveva essere
_affrancabile_, cioè rimborsabile entro 40 anni mediante _estrazioni_
(premi e rimborsi) da effettuarsi per maggiore garanzia in _pien
Collegio_, e per la somma di centomila ducati ogni anno. Il pagamento
dei _pro_, cioè degli interessi, doveva compiersi semestralmente.

Questi nuovi aggravi esaurirono i bilanci militari e diedero il
tracollo alla moribonda milizia veneta. Il bilancio annuo della guerra
si restrinse allora sul milione di ducati, nè si provvide per questo a
sfrondare le spese inutili, allo scopo di rendere più efficaci e
produttive le scarse risorse superstiti. In tali angustie finanziarie,
in tanto disordine amministrativo, in tale ostinatezza nel persistere
negli antichi errori, nella primavera del 1794 vennero chiamate alle
armi le cerne. Indarno i _deputati ed aggionti sopra la provvision del
pubblico danaro_ ed il Savio Cassier moltiplicarono le interviste, per
far fronte alle nuove e più gravi esigenze e sollecitarono l'opera
degli _scansadori_[256].

Ad onta di tutto ciò si resero necessari altri centomila ducati per la
prima levata delle cerne, poi altri duecentomila e più, ed alla fine
di quell'anno il consuntivo delle spese maggiori per gli armamenti
della Repubblica era salito a 238,584 ducati e grossi 12, compresa la
cavalleria e qualche lavoro più urgente da praticarsi nelle
fortezze[257].

Fu perciò aperto un nuovo credito, il _nuovissimo_, e si convenne di
porre mano anche alla _Cassa del deposito intangibile_, così come si
porrà mano più tardi a quella del _Bagatin_ e si inaspriranno le
decime, come infine, per sopperire ai bisogni delle armi, si era
deciso di svaligiare senza remissione i magazzini dell'Arsenale[258].

L'anno terribile stava per scoccare. La commedia della finanza allegra
si avviava a diventare dramma e tragedia, ma prima dell'epilogo essa
doveva passare ancora sotto le forche caudine dei Commissari del
Direttorio, piegarsi davanti alla voracità insaziabile dei cassieri
dell'esercito francese incaricati di dimostrare alla Francia che la
Serenissima poteva pur dare ancora, e che la guerra si doveva
alimentare con la stessa guerra a qualunque costo, a spese degli
ignavi e degli imbelli.

Questa fanfara era già stata audacemente lanciata all'aria dallo
stesso generale Napoleone Buonaparte: «_Io_--aveva dichiarato al
colonnello Veneto Fratacchio, a Castiglione, il 12 Luglio
1706--_batterò gli Austriaci e farò che i Veneziani paghino tutte le
spesa di guerra!_»[259] Un mese dopo Bonaparte imponeva una
contribuzioue di tre milioni di franchi alla città di Brescia e
trattava col Battagia un prestito da imporsi alla Repubblica[260].



CAPO XI.

Conclusione.


La «Serenissima» si apparecchiava adunque a scomparire sotto una marèa
montante di contraddizioni tristi ed anche ridicole. Essa voleva
sinceramente la pace con tutti e si sforzava di preparare delle armi
lògore e spuntate; fidava palesemente nelle dichiarazioni di
neutralità e, privatamente, non si dissimulava le difficoltà di
mantenere il rispetto ai trattati in un periodo di violenze e di
usurpazioni in cui unico diritto sovrano era la forza; aveva
dichiarato la bancarotta nelle finanze insufficienti a mantenere in
vita persino il proprio esercito anemico e la propria flotta tarlata,
ed i Francesi e gli Austriaci ben rovistando con sfrontatezza e
rapacità nelle casse dello Stato e nelle tasche dei privati, si
apparecchiavano a trarne il necessario per mantenere e nutrire non
solo un esercito, ma ben anco tre, lautamente ed allegramente.

Triste stato dei deboli codesto, fatto di speranza e di timore, di
alternative di fiducia e di sconforto. La Repubblica, ridotta a
palleggiarsi delle responsabilità non sue, a stendere la mano capitale
al nemico ammesso a forza dentro il cerchio delle mura cittadine
doveva, da Verona, strizzare l'occhio all'altro nemico che stava
ancora fuori e voleva penetrarvi.

Obbligata a piatire in note diplomatiche, in richiami, in proteste, le
spinosità di una situazione politica, sociale e morale insostenibile,
poteva rassomigliarsi ad una dannazione di Procuste fatta persona.

Passava da Verona il 20 maggio 1796 il maresciallo Colli per ritrarsi
nel Tirolo, col livido in volto per le recenti sconfitte patite nella
Liguria e nel Milanese, e prometteva al provveditore generale
Foscarini: «pieno riguardo alle autorità venete, disciplina nelle
truppe, pagamento delle somministrazioni in contanti». E tutto ciò
mentre giungevano alte proteste dalle comunità venete, «per i violenti
modi con i quali si trattano i villici nel trasporto dei bagagli
austriaci per le vie di Campata, obbligati essendo a forza di
oltrepassare con i loro carriaggi i confini convenzionati...
asportandone gli Austriaci poscia perfino i bovi»[261].

Ed il Foscarini: «convinto essendo che tutto ciò sia contrario alle
intenzioni della Corte Cesarea ed agli ordini dei di Lei generali»
comandava «ai commissari ai Campara di rimostrare ai generali
austriaci le cose accennate, di interessarsi a rilasciare ordini
precisi onde tutto proceder avesse secondo le regole e le discipline
convenzionate per i passaggi a Campara medesima»[262].

I Francesi erano ancora lontani e la fiducia nell'equilibrismo era
ancora fresca e promettente. «I Francesi scriveva il 22 maggio
Foscarini al Doge, di cui ancora non conosco le forze sono--per quanto
la diligenza dell'eccellentissimo rappresentante di Brescia mi scrive
con sua lettera di ieri--a Robecco, da dove, staccato un uffiziale con
cinque soldati per passare il ponte sull'Olio entrarono nella terra di
Ponte Vico, ricercando se vi fossero altri ponti vicini o altri
_porti_, e quanto fondo il fiume avesse. Quindi, fatta ricerca a chi
appartenesse quella terra e conosciuta essere soggetta al dominio
Veneto, sono al momento retrocessi a Robecco»[263].

Buoni adunque parevano i principii della nuova avventura con i
Francesi, e tutta l'arte e tutte le speranze sembravano rivolte allo
scopo di propiziarsi gli Austriaci, quando il menzognero zeffiro che
veniva di Lombardia crebbe d'un colpo d'audacia e di violenza.

«I mali asprissimi--scriveva il 26 maggio Foscarini al Doge--che
l'attual guerra fa provare all'Italia cominciano a produrre non lievi
conseguenze. Già ho rassegnato i disordini occorsi a Crema per parte
delle truppe francesi... ma la vivacità di questa nazione ed il genio
intraprendente dei suoi generali lasciano oramai delusa ogni speranza.
In queste circostanze, ben volentieri avrei desiderato accorrere io
pure a confortar personalmente i sudditi di V. E. a quel paese... ma
coperte essendo le strade di armati delle belligeranti potenze, il
riguardo di non compromettere il decoro della pubblica rappresentanza
ha fatto sopprimere per ora in me stesso tale vivo desiderio».


     *
    * *

Fu l'avventura di Peschiera che scatenò l'uragano, occupata di
sorpresa dagli Austriaci di Beaulieu il 26 maggio come _res nullius_,
tanto che il Beaulieu stesso agli ufficiali veneti inviati a
protestare per questa rapina non si faceva scrupolo di dire: «che
lorquando le ragioni di guerra fanno credere necessaria una cosa a chi
la tratta... _non valgono le deboli ragioni del diritto e vengono
sforzati a tacere tutti i riguardi»[264].

Al danno si aggiungevano dunque l'ironia e le beffe.

Nella notte del 27 alla rapina di Peschiera seguì la violenza della
Chiusa d'Adige. Prima dell'alba del detto giorno si era presentato
davanti a quella fortezza un gruppo di ufficiali austriaci
accompagnato da una colonna di fanti, per imporre al governatore
veneto Bajo di aprire le porte. Questi rispose dal _chiavesin_ [265]
che quello «non era il luogo di passaggio e retrocedessero perciò a
Loman, ma gli ufficiali austriaci insistettero dicendo di aver lettere
di somma premura da consegnare alla posta di Volargne, dirette a
Verona». Sorpreso nella buona fede l'ingenuo Bajo introdusse allora
gli ufficiali austriaci dentro la Chiesa ma, «nell'aprire le
_bianchette_ erano appiattati i soldati, che sforzarono il
_chiaverino_ e si introdussero in più di duecento in fortezza, senza
il minimo sconcerto» (_sic_).

Così cominciò per la Serenissima il tristissimo calvario dei
disinganni, delle estorsioni e delle usurpazioni, senza forza di
ribellarsi al tormento del martirologio, senza fede per trovare in sè
medesima un'ultima stilla di energia capace di abbreviarlo con una
scossa suprema. Era il destino che fatalmente ed implacabilmente si
compieva sopra un organismo fiaccato dagli anni e rassegnato a morire.

L'occupazione di Peschiera da parte degli Austriaci fornì a Buonaparte
buon argomento per esigere un vistoso compenso nell'occupazione di
Verona--necessaria alla sua manovra con la linea dell'Adige e
Legnago--non appena i Francesi ebbero forzata la linea del Mincio (30
maggio).

In questo intento Buonaparte apparecchiò una di quelle
rappresentazioni a tesi delle quali egli era maestro. Atterrì il
Foscarini minacciando d'incendiare Verona, poi sembrò placarsi,
«purchè vi entrassero le sue truppe, occupassero i tre ponti
sull'Adige traversando la città e lasciando guarnigioni sugli stessi,
fino a che le ragioni della guerra lo esigessero». Il 1° giugno
infatti una colonna di 20,000 Francesi capitanata dal generale Massena
si affacciò alla Porta di San Zeno e penetrò in città minacciando
l'uso della forza in caso di resistenza[266].

Così cominciò la spoliazione della Repubblica che doveva avere il suo
classico epilogo ai preliminari di Leoben. Ma siccome per il momento
conveniva osservare ancora qualche parvenza di riguardo verso la
Serenissima--che pur non era ancora radiata dal novero degli
Stati--così, di buon accordo, si decise di continuare nella serie
delle reticenze parziali, delle contraddizioni, delle umiliazioni e
delle figure artificiose, come per ingannare l'estrema ora che stava
maturando. La speranza, dopo tutto, è sempre l'ultima dea a sgombrare
dall'orizzonte.

I Francesi pretesero un rifornimento giornaliero di 12,000 razioni.
Per salvare le apparenze della neutralità, la _ditta mercantile_
Vivante si prestò alla bisogna, figurando di dare con una mano agli
ospiti incomodi e di riceverne con l'altra il valsente; ma in realtà
la ditta non era pagata che dalla Serenissima la quale, per evitare
maggiori guai, si era docilmente adattata a mantenere il protervo
nemico sullo stesso suolo della patria che conculcava[267].

La commedia piacque e si diffuse largamente, come un allegro diversivo
in mezzo al trambusto della guerra ed alla concitazione bellicosa.
«Cinquantamila razioni di pane da 24 oncie l'una chiedono giornalmente
i Francesi sotto Peschiera--scriveva il 6 giugno il Foscarini--più 60
grossi bovi, 150 carra di fieno, prodigiosa quantità di vino, legna ed
altro»[268]. E la Repubblica compiacente faceva per questo scivolare
nelle tasche della ditta Vivante--che moltiplicava le sue
filiali--danaro sopra danaro, come una buona nonna passa di soppiatto
al nepotino capriccioso un balocco rifiutatogli dalla mamma severa.

Dopo le razioni, il pane ed i buoi, venne la richiesta delle armi,
cioè 2000 fucili per armare parte delle reclute del corpo di
Massena[269]. E poichè le rappresentazioni della _compagnia
mercantile_ Vivante riscuotevano il plauso generale, si pensò bene di
aggiungere alla piacente commedia qualche nuova scena ad effetto.

«Si sono concertati finalmente--scriveva il Foscarini al
Principe[270]--i modi più adatti per la consegna dei fucili. Abbiamo
perciò creduto opportuno di richiamare il _munizioniere_ del
territorio ed il Vela, l'agente noto della ditta Vìvante, ed imposto
ad essi _il più scrupoloso segreto_ con la minaccia di incorrere nella
pubblica disgrazia, prescrissimo[271] al primo di avere sul fatto a
cancellare dalli ricercati fucili le marche in essi impresse del
territorio e riponendoli in casse, con le loro baionette, di
trasportarli questa sera _in modo inosservato_ nel luogo dove il Vela
forma i magazzini per i suoi generi. Al Vela poi abbiamo ingionto che,
lorquando avrà a presentarglisi un commissario francese per parte del
generale Massena, abbia a dirgli che essendo stato da noi incaricato
di procurare da _mano privata la prestanza di duemila fucili_, era a
lui riuscito di averne mille subito e gli altri sarebbero
somministrati nei seguenti giorni, a diverse partite. E questa
dilazione abbiamo combinata perchè la ristrettezza del tempo conceder
non poteva di verificar tutto il travaglio di togliere dai fucili
l'impronta del territorio ed accomodare quelli che in qualche misura
ne abbisognano».

     *
    * *

Lunga sarebbe la serie di queste umiliazioni e di queste
mistificazioni, patite con eguale improntitudine dalla Serenissima per
opera dei Francesi come degli Austriaci. Ma importa ora di
conchiudere.

La ragione ultima di ogni debolezza, di ogni contraddizione, di ogni
transazione vergognosa, stava nel miserando stato di esaurimento
militare in cui versava la Repubblica. Questa, fiduciosa nei trattati
e nelle dichiarazioni di neutralità, nella politica di equilibrismo e
di opportunità spinta oltre ai limiti del ragionevole, spensierata,
allegra, disamorata della milizia, aveva creduto di trovare nei
trattati medesimi un'arma sempre valida e rispettata, una specie di
talismano, dimentica che la guerra li rompe e li calpesta quando così
piaccia al più forte.

In tale sfera di cieche confidenze, di ostentate omissioni, di
trascuranze ignobili, la milizia veneta si era appartata dal grande
organismo dello Stato, come vergognosa di essere, come desiderosa di
vivere semplicemente tollerata. E decadde ed intisichì in questo
abbandono come una pianta selvatica e parassitaria.

Quando la vecchia Repubblica fu destata dal lungo sonno dal rumore
delle armi nemiche sopra il suo suolo abbandonato alla mercè dello
straniero, essa cercò invano le armi proprie, ma non le trovò più,
perchè ben diceva Giacomo Nani che: «_non vi può essere piano militare
che sia acconcio a combattere una malattia puramente di ordine morale
e politico»[272].

Così la Serenissima, ostinata nel negare al proprio esercito quelle
riforme che l'avrebbero potuto salvare dalla rovina, lo aveva reso
organicamente un anacronismo, economicamente uno strumento di
dissipazione del pubblico danaro, militarmente un istituto incapace di
esplicare una forza qualunque. Esso poteva perciò rassomigliarsi ad
una personificazione grandiosa della statua di Laocoonte, paralizzata
dai molteplici intralci e viluppi dell'amministrazione faragginosa
dello Stato, sfibrata dalla specializzazione delle autorità, dai
controlli e dalle consorterie, schiacciata dalla sovrapposizione delle
autorità, dal bagaglio opprimente di un immenso macchinario di
pubblici poteri.

In questi intralci delle energie e delle volontà, in questa atrofìa
degli organi motori dell'amministrazione di Stato, il _mercenarismo_
potè sviluppare l'intera gamma delle proprie caratteristiche, fino
alle conseguenze estreme. Indifferenza cioè al contenuto morale della
patria, separatismo nella società, venalità, protervia nel chiedere,
pari alla debolezza nel cedere o nel promettere da parte
dell'organismo dello Stato che alimentava il mercenarismo medesimo.

Cosicchè mentre altrove--specie in Piemonte--l'evoluzione degli ordini
ed il largo appello alle milizie paesane permettevano di compiere
riforme decise nel tralignato organismo degli eserciti mercenari,
apparecchiando il trapasso verso gli odierni sistemi di reclutamento,
Venezia, cieca nella fede giurata alle sue costituzioni vetuste,
dimentica dell'eredità legatale dall'Alviano--che nelle cerne aveva
additata la fortuna militare della Repubblica--si ostinava pur sempre
a mantenere nelle caserme una larva di esercito che si dissolveva come
neve al sole.

Così fu possibile, anzi necessaria, la viltà suprema della Veneta
Repubblica nel 1796.

Nondimeno, tra il vecchio che cadeva a brandelli in rovina ed il nuovo
che maturava, ad onta delle volontà dei governanti e dei governati e
della pertinace immutabilità degli istituti, si apparecchiavano gli
eserciti odierni fatti con la nazione e per la nazione. Riguardare
quindi le vie del passato, riandare il cammino percorso per toccare lo
sviluppo d'oggi, non può qualificarsi opera vana, purchè si mediti
sulle circostanze che hanno accompagnata la grande evoluzione e sulle
contingenze particolari che l'hanno affrettata. Perché--ad onta di
ogni sapienza postuma di storia e di esperienza umana più generalmente
note--v'ha sempre qualche spunto a suggestioni molto proficue da
raccogliere, dimenticato lungo la grande ed ampia via maestra, come
assai spesso si notano sovra a' suoi cigli dei modestissimi fiori che
sfuggono alla vista dei più.





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