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Title: Castel Gavone - Storia del secolo XV
Author: Barrili, Anton Giulio, 1836-1908
Language: Italian
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(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



                            CASTEL GAVONE



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      D'IMMINENTE PUBBLICAZIONE:

      Racconti e Novelle.--Vol. II. L'olmo e l'Edera,
      Il libro nero, Una ogni mille.



                            CASTEL GAVONE

                         STORIA DEL SECOLO XV

                                  DI

                         ANTON GIULIO BARRILI



                                MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1875.



                     Stabilimento Fratelli Treves



A Santo Saccomanno.


_A te, valoroso artista, il cui scalpello sa infondere nel marmo tanta
parvenza di vita, io dedico questo libro, in cui mi sono ingegnato di
rinfrescare la vita e le costumanze d'un tempo trascorso. È una storia
paesana e per me quasi domestica, poichè si ragguarda alla terra ove
mio padre ha passati gli anni della studiosa adolescenza, ove mia
madre è nata, e dove io medesimo ho vissuto tanti bei giorni.

Fanciullo ancora, io mi aggirai per quelle valli, consolate da un'aria
così pura; mi commisi a quel mare tinto, in azzurro da un così limpido
cielo; m'inerpicai su quei greppi, dove annidano i falchi e donde
l'anima si eleva così libera e franca. Colà non è palmo di suolo che
io non abbia corso, con quella pienezza di gaudio che ti fa parere
come in casa tua, e con quel senso intimo di pace, che ti fa gustare
la poesia delle solitudini. Il culto delle antiche memorie io lo
derivo da quella terra così varia e così nobile, colle sue caverne
ospitali ai prischi uomini della Liguria, co' suoi ponti romani, colle
sue torri severe, cogli archi a sesto acuto e le finestre partite a
colonnini, donde egli sembra che tuttavia ci guardi il passato,
mestamente amoroso.

Tra le storie che illustrano questo mio diletto suolo materno, ho
amato raccontar questa dello assedio sostenuto dai vecchi marchesi del
Finaro, contro le armi di Genova, così onorevole pei combattenti
dell'uno e dell'altro campo, Liguri tutti, antenati nostri, e, se ne
togli ciò che è vizio particolare dei tempi, uomini esemplari per rara
fortezza d'animo e singolar gentilezza di costume. O m'inganno, o il
segreto di quella nobiltà di sentire, che è di presente patrimonio
comune, ha da cercarsi in quelle stirpi di cavalieri del medio evo; i
quali però non sono soltanto i mal ricordati progenitori di degeneri
schiatte, ma i padri di tutti noi, gl'istitutori de' forti caratteri e
dei cuori gentili.

E tu che le cose gentili e le forti imprimi sicuro nel marmo,
gradirai, se non altro, le buone intenzioni, che io, scultore a mio
modo, pongo oggi sotto il patrocinio della tua cara amicizia._

ANTON GIULIO BARRILI.



CASTEL GAVONE



CAPITOLO I.

Nel quale si narra di due viaggiatori che amavano saper molto e dir
poco.

A' dì 26 novembre dell'anno 1447 della fruttifera incarnazione (così
dicevasi allora, nè io mi stillerò il cervello a rimodernare la
frase), due cavalieri, che pareano aver fretta, galoppavano in sulle
prime ore del mattino per la strada maestra che, svoltate le rupi di
Castelfranco, lunghesso la marina del Finaro, risale verso il borgo.

Che risalga è un modo di dire, trovato da noi, i quali abbiam sempre
la mente alle carte geografiche, e ci raffiguriamo il settentrione su
in alto e l'ostro umilmente segnato nel basso. La strada di cui parlo
era per contro ed è tuttavia in pianura, come la spiaggia che rasenta
e come la valle in cui piega. Questa valle, che per amore del Medio
Evo io dirò del Finaro, ma che i lettori possono, senza scrupoli di
coscienza, chiamar di Finale, è stretta, ma piana, e la si abbraccia
tutta quanta in un colpo d'occhio. Essa è conterminata da tre
montagne; due la fiancheggiano, accompagnandola cortesemente fino al
mare; un'altra la chiude a tramontana, o, per dire più veramente, la
divide in convalli, dandole in tal guisa la forma di una ipsilonne, il
cui piede si bagna nel Tirreno e le braccia si allungano verso il
padre Appennino, che in quei pressi per l'appunto incomincia,
spiccandosi dall'altura del Settepani, ultimo anello della catena
delle Alpi marittime.

Nella inforcatura dell'ipsilonne (poichè ho presa a nolo questa
inutilissima tra le lettere dell'alfabeto, ne spremerò tutto il sugo)
si alza il monte del Castello, che ha il borgo del Finaro alle falde.
Due torrenti, Aquila da levante e Calice da ponente, scendono dalle
convalli, circondano il borgo, si maritano sotto le sue mura (stavo
per dire sotto i suoi occhi), pigliano il nome di Pora e in un letto
che è lungo un miglio, o poco più, consumano le nozze modeste,
vigilate in sulla foce dalle due montagne accennate più sopra;
Monticello a levante, che finisce poco lunge dalla spiaggia nei dirupi
bastionati di Castelfranco, e Caprazoppa a ponente, ruvida schiena di
monte che s'inarca a mezza via, indi si abbassa, si prolunga a
dismisura verso mezzogiorno e coll'estremo suo ciglio si getta a
piombo nel mare.

Tra questi due monti, e lungo la spiaggia, si stende ora una piccola
ma ridente città, che porta il nome di Finalmarina. Al tempo di cui
narro, si diceva in quella vece la Marina del Finaro e non era che
un'umil terra di duecento fuochi; laddove il borgo feudale, murato in
capo alla valle, ne noverava ben quattrocento, e, coronato dal suo
castel Gavone, dimora e sede di giustizia ai marchesi Del Carretto,
comandava su tredici borgate minori, sparsa sui greppi che gli
sorgevano intorno, e per le valli che gli serpeggiavano da tergo.

Intanto che io tengo a bada il lettore benevolo, i due cavalieri hanno
avuto il tempo di varcar la Marina, offrendo spettacolo di sè ad
alcune frotte di pescatori, che traggono a terra le reti, e dando una
sbirciata a due galere, che stanno sulle ancore in un cantuccio della
rada, coi provesi legati agli argani della spiaggia. Giunti a poca
distanza dal torrente, hanno voltato a destra, verso la valle, dalla
cui apertura una severa ma bella veduta si affaccia loro allo sguardo.

La Caprazoppa, co' suoi massi enormi, sporgenti da ripide falde
scarsamente vestite di umili cespugli ed erbe di facile contentatura,
riceve ed ammorbidisce nella sua tinta rossigna, qua e là chiazzata
d'azzurro, la vivida luce del sole. Laggiù, in capo alla valle, il cui
fondo è ancora a mezzo velato dall'ombra della costiera di Monticello,
s'innalza il dorso alpestre, su cui è murato il castello Gavone,
superba mole solitaria, fiancheggiata da quattro torri, che siede a
custodia dei passi sottostanti. Veduto a quella distanza, così solo in
mezzo alle balze digradanti, il nobile edifizio comanda l'ammirazione
e la riverenza. Lo si direbbe un avvoltoio, posato alteramente sulla
sua rupe, in atto di spiare intorno e meditare da qual parte abbia a
calarsi veloce, per afferrar la sua preda. Non lunge dal castello, la
rupe si deprime un tal poco, indi risale, si gonfia e tondeggia in
ampio dorso sassoso. È questa la roccia di Pertica, che, veduta da
settentrione, apparisce dirupata, inaccessibile, come una di quelle
rocche incantate che vide e ritrasse la fantasia dell'Ariosto. La
vetta del monte, le bianche torri di Castel Gavone e i sottoposti
declivii, risplendono al sole; il borgo del Finaro non si vede, ascoso
com'è dietro un colmo di piante, ma lo s'indovina dalla merlatura di
qualche torrione, o dalla guglia di qualche campanile, che sbuca dal
verde.

I due cavalieri s'erano avviati per una stradicciuola sulla riva
sinistra del torrente. Poco o nulla, inoltrandosi, potevano più
scorgere di quella scena meravigliosa, che, allo svoltare della
Marina, s'era parata dinanzi a loro. Il luogo era piuttosto basso; la
prospettiva chiusa da alberi frequenti, da siepi e casolari. Ma
eglino, a quanto pareva, non si curavano molto di godere la bella
veduta, bensì di trovare un certo edifizio, che doveva esser meta, o
stazione, del loro viaggio.

Ora, sebbene da quelle parti là non fossero mai stati, tale era la
forma, e così chiara l'insegna del luogo cercato, che essi non ebbero
mestieri di pigliar lingua da alcuno, per ritrovarlo. La forma era
comune, anzi rustica a dirittura, ma notevole per un largo terrazzo
sormontato da una pergola, su cui alcuni ceppi di vite, serpeggiando
lunghesso i muri, erano saliti ad intrecciare i nodosi lor tralci, che
per la stagione inoltrata apparivano spogliati di fronde. L'insegna,
poi, era un ramo di pino, sporgente sull'angolo dell'edifizio, vicino
ad un muro di cinta, nel quale si apriva il portone, per dar àdito
alla casa e all'orto attiguo.

Giusta le apparenze, il padrone del luogo, o fittaiuolo che fosse,
raccoglieva nella sua persona le due dignità di ortolano e di ostiere.

I due cavalieri giunsero davanti al portone spalancato, che lasciava
scorgere un'aia pulita e lucente, sebbene non d'altro fosse composta
che di terra battuta, con un frascato in aria, all'altezza del primo
piano, e qua e là alcune rozze tavole e panche niente più
appariscenti, secondo il costume delle osterie di campagna. Di là
dall'aia, e proprio di rincontro al portone, si dilungava un
pergolato, che risaliva tra due file di pilastri sul fianco della
collina.

--Dovrebbe esser qui;--disse il più vecchio dei due, uomo intorno ai
sessanta, dal volto abbronzato e dalle membra poderose, strette in un
farsetto di pannolano, su cui era buttato alla scapestrata un corto
mantello.--Questa veduta risponde benissimo a ciò che vi ha detto il
magnifico messere Ambrogio Senarega. C'è il terrazzo colla pergola,
c'è la frasca sull'uscio, il viale coperto in fondo dell'aia....

--E l'insegna che dice tutto!--interruppe il compagno, d'una ventina
d'anni più giovine e più nobilmente vestito.--Vedi, Picchiasodo; qui
sul portone sta scritto a lettere da speziali: «_Fermatevi all'Altino;
c'è buona l'accoglienza, e meglio il vino_.»

--L'oste si vanta;--rispose il Picchiasodo;--ma gli darò io una
ripassata al suo vino, e se non mi va, il primo pezzo di muro che
mando a rotoli, vuol esser questo, dov'egli ha posto l'insegna.--

Intanto, erano entrati sotto il portone.

L'oste, faccia contenta e grulla (così almeno portava l'apparenza), si
fece innanzi premuroso, con un ragazzone e una nidiata di bambini alle
spalle.

--Entrate, magnifici messeri!--gridò egli, cavandosi umilmente la
berretta e mettendo inchini su inchini.--Maso, piglia i cavalli e
conducili in istalla.

--No, non occorre:--disse il più giovine dei due viaggiatori, che in
quel mezzo scendeva d'arcione.

--Metteteli soltanto al coperto; ci si ferma per poco.

--E se il tuo vino non è buono, si parte subito!--aggiunse
quell'altro, che rispondeva al nome di Picchiasodo.

--Ah, per questo,--rispose l'oste con aria di sicurezza profonda,--non
ho niente paura. Vedrete, messere, sentirete che vino! Non fo per
dire, ma ci ho il meglio della vallata. Soltanto alla tavola del
nostro magnifico Marchese si può bere il compagno.

--Vedremo.... confronteremo!--disse gravemente messer Picchiasodo.

Ed era per aggiunger dell'altro; ma il suo compagno gli diede
un'occhiata, che ebbe il potere di arrestargli la parola tra i denti.

--Venga dunque il tuo vino!--ripigliò l'oratore interrotto.--E siccome
io m'immagino che voi, messer Pietro, non vi disporrete a mandarlo giù
così di buon mattino, senza un briciolo d'accompagnatura....

--No certo;--ribadì l'altro sollecito.--Non ci sei che tu, per ber
vino ad ogni ora, come se fosse acqua di fonte.

--Ah, baie! Io e lui siamo amici vecchi, messere, e si sta come pane e
cacio. A proposito di cacio, hai tu qualcosa da ungere il dente? Di'
su!

--Comandate, magnifici messeri!--fu pronto a dir l'oste, a cui erano
rivolte le ultime parole del Picchiasodo.--C'è pane e cacio, uova da
farne una frittata in un batter d'occhio, e se vi piace, posso anche
ammannirvi un pollo allo spiedo....

--Ottimo amico! Ostiere degno della mia stima e della mia
pratica!--gridò con burlesco fervore quell'altro.--Portaci il pollo,
la frittata, il cacio, il pane, tutto quello che hai!--

L'oste, serviziato per indole e giubilante per quella mattutina
ventura, non se lo fece dire due volte, e, comandato al Maso che
accompagnasse i due forastieri al pian di sopra, ov'era luogo più
degno di loro, entrò difilato in cucina, per ammannire alla svelta
tutto il meglio della credenza. La moglie si diede a pelare un pollo,
ostia innocente, acciuffata in quel punto sull'aia e messa a morte
senza processo; il figlio più grandicello a rattizzare il fuoco e
disporre il menarrosto; un altro a raccattare nell'orto due talli
d'indivia e due carciofi primaticci; egli a trar fuori dall'armadio il
pane, il cacio, il vasellame e tutto l'altro che bisognasse. Volea
fare le cose a modo, mastro Bernardo; dare in tavola i principii,
servire per bene i suoi ospiti, che gli pareano persone d'assai.

--Per altro, diceva egli (e qui faceva capolino la natural diffidenza
del campagnuolo), o come va che due cavalieri di quella fatta, avviati
al Finaro, si fermino qua, all'insegna dell'Altino? Capisco che alla
Marina non abbiano trovato il fatto loro; ma qui siamo a cento passi
dal borgo, e, con quelle cavalcature vistose, in quattro salti erano a
casa.--

Onesta considerazioni mastro Bernardo le faceva ad alta voce, in
quella che spicciava le sue faccende. Il Maso, che tornava in quel
punto da apparecchiare la tavola, lo intese e da buon cortigiano entrò
a dire la sua.

--Padrone, o che credete, che l'Insegna dell'Altino la non ci abbia il
suo buon nome per tutto il paese? Chi non lo sa, che il miglior vino
di Calice viene a farsi bere nella nostra osteria? E non sono già soli
i terrazzani, che ci hanno la divozione a questo santo, ma anco i
forestieri, che pure non avrebbero a risaperne gran cosa. Vi
ricordate, padrone, quel pezzo grosso di genovese, che c'è capitato
due volte e non c'era luogo al mondo che gli piacesse di più?

--Uhm!--brontolò mastro Bernardo, che in sulle prime aveva fatto bocca
da ridere.--Brutta gente, quei genovesi! E se questi due fossero della
pasta di quell'altro, meglio sarebbe dar loro acquetta, che vino di
Calice!

--Ho dunque a portar loro l'acquetta?--chiese il ragazzone, con aria
che volea parere melensa.

--Di che acquetta mi vai tu novellando?

--Non sapete, mastro Bernardo? quel vinello fiorito, che è sempre in
fin di botte, perchè oramai nessuno lo vuole?

--Ehi, bada a te, mascalzone! Vuoi forse trincartelo tu, che fai
sempre a screditarlo? Ci ho a fare un nipotino ancora, prima che tu ne
assaggi!

--Un nipotino su quel vinello? Sarà acqua schietta, allora--notò il
Maso tra sè.

E raumiliato in vista, ma contento d'aver detto la sua, andò a
spillare il migliore, per servir degnamente i due forastieri; indi,
colmate le bottiglie, si affrettò a portarle di sopra, insieme col
pane e i camangiari.

Si affrettò, dico, ma non fu tanto sollecito a ritornare, come al
padrone pareva che egli ragionevolmente dovesse; epperò n'ebbe da
mastro Bernardo un'altra ripassata delle solite.

--Diamine!--sclamò il Maso.--Come ho a fare? Cinquantadue scalini non
si salgono e non si scendono mica in un batter d'occhio!

--Cinquantadue! Tanti ce n'ha dal pian terreno al terrazzo.

--E appunto lassù ho dovuto apparecchiare. Hanno voluto così.--

Mastro Bernardo rimase lì a mezzo, colla mano sullo schidione e le
ciglia inarcate.

--Che diavolo!--gridò egli sbalordito.--Sul terrazzo? in fin di
novembre?

--La giornata è bella;--notò il ragazzo.--I due messeri hanno detto
che par primavera e vogliono profittarne per godersi la vista....

--Della Caprazoppa!--interruppe l'ostiere.

--Eh, già, della Caprazoppa;--soggiunse il Maso.--Voi stesso, padrone,
non dite che la valle è stretta, ma bella a vedersi? E poi, non si
vede soltanto la Caprazoppa, di qua. Si guarda a manca, e si vede il
mare; a destra, e si vedono le case del borgo, il castel Gavone e la
roccia, di Pertica, Così l'hanno intesa i due forastieri, e, scambio
di mettersi a tavola, sono andati a sedersi sul murello, per
contemplare il paese.

--Uhm! uhm!--borbottò mastro Bernardo.--Che fossero davvero due
genovesi? Bisognerà sincerarsene.

--Padrone,--ripigliò il Maso,--s'ha a darlo in tavola, il pollo?

--Non ancora; lo porterò io, quando sarà rosolato per bene. Va intanto
lassù, moccicone, e vedi se non hanno mestieri di te.--

Cuoceva assai più del suo pollo, l'ostiere. Natura l'avea fatto
curioso; amore della sua terra lo facea sospettoso per giunta. E qui
cade in acconcio un cenno storico, il più breve che per me si potrà,
donde il lettore benevolo avrà qualche lume intorno alla diffidenza di
mastro Bernardo.

Quel tratto di paese, che dopo il 1100 formò il marchesato del Finaro,
era compreso per lo innanzi nel marchesato di Savona, e facea parte
del patrimonio di quel famoso Abramo, che la leggenda disse nato
d'ignoti pellegrini e rapitore d'una figliuola di Ottone I, ma che la
storia chiarisce figlio d'un conte Guglielmo, venuto di Francia, con
trecento lance, in aiuto al marchese Guido di Spoleto.

Di questo Aleramo, che ben potè avere ottenuta in moglie l'Adelasia
della leggenda, poichè egli appare esser stato carissimo ad Ottone I,
e da lui fatto signore di largo dominio, nacquero i marchesi di
Monferrato e, ramo minore, ma non manco rigoglioso ed illustre, i
signori Del Carretto, marchesi di Savona e d'altre terre
sull'Appennino. Venuto a morte nel 1268 Giacomo Del Carretto, sesto
della discendenza d'Aleramo, l'eredità sua andò spartita in tre figli,
e l'ultimo d'essi, Antonio, ebbe per suo terziere, e trasmise ai suoi
successori, il Finaro.

Congiunti d'antico parentado ai marchesi di Monferrato, prossimi
consanguinei dei marchesi di Millesimo, di Ponzone, di Cortemiglia e
via via, di tutti i borghi delle Langhe, ultimi rimasti sulla Riviera
di ponente a rappresentarvi il feudalismo invasore delle regioni
settentrionali d'Italia, non potevano i marchesi del Finaro esser
veduti di buon occhio dalla genovese Repubblica, che, utilmente pei
futuri destini dalla penisola, sebbene non sempre con mezzi leciti e
con nobiltà d'intento, mirava al dominio di tutta Liguria. Però non
istettero molto a nascere e ad infierir le contese. E Genova, fattasi,
nel 1305, per cessione sforzata d'uno tra que' marchesi, padrona di
una parte del territorio, a viemmeglio assicurarsene il possedimento,
innalzava sollecitamente sulla marina del Finaro la ròcca di
Castelfranco, che aveva a perder di poi.

Ma Castelfranco e i diritti di Genova sulla terza parte del Finaro,
avevano cionondimeno a rimanere continuo argomento di litigio tra la
Repubblica e i marchesi Del Carretto. La quistione sarebbe stata
presto risolta colla peggio di questi, se le intestine discordie
genovesi non avessero condotta la città in gravi distrette e travolto
il suo reggimento in balìa dei signori di Milano. E i marchesi del
Finaro ne fecero lor pro, alleandosi coi nemici di Genova,
accogliendone ad onore i fuorusciti, dando aiuto ai capitani di
ventura, mandati a guerreggiarla, e quinci e quindi occupando le terre
circonvicine, che ella aveva per sue.

In questa maniera di guerra, si chiarì più audace de' suoi antecessori
il marchese Galeotto, uomo d'animo grande oltre lo stato, e, ne' suoi
avvedimenti contro Genova, sovvenuto dal patrocinio di Filippo Maria
Visconti, signor di Milano. E appunto nella primavera di quell'anno,
che fu, siccome si è detto, il 1447, una nave del Finaro,
impadronitasi d'una nave genovese de' Calvi, l'avea tratta come buona
preda al marchese. Dolse ai genovesi lo sfregio sul mare, più che non
avessero potuto gli altri danni molteplici in terra; perciò fu
deliberato di trarne vendetta sollecita, e tanto più allegra, in
quanto che, essendo al termine di sua fortuna, e altresì di sua vita,
il Visconti, ed ospite di Galeotto essendo il fuoruscito Barnaba
Adorno, antico doge, balzato di seggio da Giano Fregoso in quell'anno,
i vecchi nodi coi nuovi pareano stringersi al pettine, e molti torti
si vendicavano in uno.

Per altro, infiammati i genovesi alla guerra, Giano Fregoso mirava a
sfruttare quello sdegno cittadino per utile suo; e copertamente faceva
proposta di pace a Galeotto, chiedendogli in moglie Nicolosina, la sua
bella figliuola, e in balìa l'ospite Adorno, il cui riscatto, già
fermato in diecimila genovini d'oro, prometteva egli di costituire in
dote alla sposa. Disdegnò le celate proposte il marchese, mentre pure
incalzavano le intimazioni della Repubblica, aperte queste e solenni.
E in quelle proposte di Giano, e in queste intimazioni del Doge,
parecchie ambascerie s'erano spese, tra il marzo e il novembre, ma
tutto senza alcun frutto presso il marchese. Egli, o fidasse
nell'aiuto de' consanguinei, stretti in lega con lui, o dal medesimo
spesseggiar dei messaggi argomentasse debolezza ne' suoi nemici, o non
pigliasse consiglio che dal suo animo prode, si tenne saldo nel niego.

E pronto si teneva altresì alla prova dell'armi. Il borgo era munito
d'ogni maniera di difese; Castelfranco, scolta avanzata del Finaro,
mentendo alle ragioni per cui era stato costrutto, si mostrava
preparato a sostener l'urto de' suoi fondatori. Senonchè, i genovesi
parevano piuttosto propensi a minacciare, che a muover guerra risoluta
e gagliarda. L'ultima ambasceria, quella di messere Ambrogio Senarega,
non avea l'aria di recare ai Del Carretto le ultime ragioni della
Repubblica; epperò se ne aspettava un'altra, con grande molestia dei
finarini, i quali vedevano le loro valide braccia rapite all'utile
lavoro dei campi o delle officine, per aspettare un nemico che non
veniva mai, e tutti li costringeva a quell'uggioso stato di
aspettazione, che non è guerra, nè pace, e non dà modo di godere i
frutti di questa, nè di sperare imminenti le conseguenze, buone o
triste, di quella.

E adesso il lettore intenderà di leggeri con che animo mastro
Bernardo, da buon cittadino e da oste a cui premeva il suo traffico,
paventando il futuro, si facesse a considerare il presente, e con che
po' di sospetto dovesse badare a que' due forastieri, i quali, in
cambio di starsene in una camera al caldo, andavano a far sosta sul
terrazzo, e più assai che di gustare i principii di tavola, si
mostravano teneri di studiar prospettiva.

L'impazienza rosolava mastro Bernardo, ben più che i carboni ardenti
non rosolassero il pollo. Ne avvenne, che egli si tenesse ancora nelle
dita una serqua di giratine, e messo il pollo in un vassoio di terra
savonese (che cominciava allora a soppiantare le terre cotte di
Majorica), lo portasse egli in persona a' suoi ospiti.

Erano ambedue seduti sul murello dell'altana, quando l'ostiere
comparve dall'abbaino, col suo piatto fumante tra mani.

Picchiasodo fu il primo a vederlo,

--Degno ostiere!--gridò egli, tirando dentro una gamba, che tenea
cavalcioni sul muricciuolo.--Tu hai fatto le cose alla spiccia.

--Magnifici messeri,--disse Bernardo inchinandosi, nell'atto di
deporre il vassoio in mezzo alla tavola,--temevo non aveste a
spazientirvi e a prendere in uggia l'Altino....

--In uggia? che diavol dici? in uggia questo paradiso terrestre? Io ci
ho succhiato una dozzina di olive indolcite, e stavo per isfogliarci
un carciofo, davanti a questa bella veduta.

--Un po' chiusa....--notò timidamente l'ostiere.

--Tu sei modesto, mio caro.... A proposito, il tuo nome?

--Bernardo, ai vostri comandi.

--Diciamo dunque mastro Bernardo. Ora, vedi (e frattanto Picchiasodo
con certi colpi di trinciante, che non erano da scalco, faceva a
spicchi il pollo infilzato nel forchettone, per darne il meglio a
messer Pietro), a me piacciono quei monti, che chiudono la vista....
quei monti che calano addosso al paese, come falconi sulla preda.

--Ci sarà una strada;--entrò a dire con piglio di mezza domanda il
compagno.

--Una strada? sicuro;--rispose l'ostiere;--quella che voi facevate,
messeri.

--Eh, quella, si sa; ma un'altra su quella costiera, o qui, dall'altra
banda.... Queste montagne non saran mica inaccessibili.

--Occhio alla pentola, Bernardo!--disse l'ostiere tra sè.--Son
genovesi, costoro, o ch'io non so più a quanti dì è san Biagio.

E ad alta voce soggiunse:

--No, magnifici messeri; ci sono alcuni passi, ma da non farne conto;
buoni per menare al pascolo le capre, e nient'altro.

--Male!--sclamò il Picchiasodo, battendo le labbra.--Strade ci
vogliono, mastro Bernardo; strade ci vogliono, perchè la gente a modo
non abbia a scavezzarsi il collo.

--Le strade larghe tirano i nemici in casa,--sentenziò l'ostiere,
temperando l'agro dell'osservazione con un suo riso melenso.

--E la strette non invitano gli amici;--replicò il più giovine e il
meno loquace dei due forastieri.--Per ventura nostra, abbiam fatto il
giro più lungo, a venir qua, ed abbiamo azzeccato una strada da amici.

--Amici! Beato chi ne ha!

--E ne ha sempre chi merita. Ne ha, verbigrazia, in buon dato il tuo
magnifico marchese, messer Galeotto, che è un cortese e liberal
cavaliere.

--Dite anche giusto ed umano,--soggiunse mastro Bernardo con
impeto,--che in tutta la nobilissima stirpe dei signori Del Carretto
non è il più leale, il più degno dell'amore e della venerazione del
popolo.

--Tu lo ami molto, a quel che pare.

--Messere, che dirvi? Siam povera gente e si conta nulla; ma se
bisognasse buttarci nel fuoco per lui....

E mastro Bernardo fece l'atto di dar la capata.

--Qualche volta riesce un po' duro di pagare la taglia;--notò il Maso,
che si rodeva da un pezzo di non poter dire la sua.

--Che c'entri tu, mascalzone? Ti paion cose da dirsi, coteste? Eh,
mastro Bernardo,--soggiunse l'altro, stringendosi nelle spalle,--non
vi lagnate voi qualche volta, e non avete detto ancora l'altro dì....

--Che tu se' un pendaglio da forca o ch'io vo' lardellarti la lingua,
per farne vivanda regalata al diavolo, tuo padrone. Va via, e vedi se
la Rosa ha in pronto la frittata. Perdonate, magnifici messeri! Quel
tristanzuolo mi ha fatto perdere la tramontana, colle sue invenzioni.
Non dico che qualche volta.... Sicuro, i tempi son grami e le riprese
scarse; ma io ho sempre pagato volentieri la taglia, la decima, e
tutte l'altre gravezze.... perchè, già, il castello e la chiesa non
son mica fatti d'aria, e di qualcosa hanno pure a campare.

--Sta di buon animo!--disse gravemente il Picchiasodo.--Se tu hai
qualche volta mormorato del fisco, hai anche puntualmente pagato. La
penitenza cancella il peccato, e noi non ne diremo nulla al tuo ottimo
signore. Alla sua salute intanto,--aggiunse il solenne bevitore,--e
ogni cosa gli vada com'io di gran cuor gli desidero.

--Non son genovesi!--notò mastro Bernardo tra sè.--Indi, a voce alta
proseguì:

--Vedo che voi, magnifici messeri, siete amici del nostro Marchese,
che Iddio prosperi e innalzi su chi gli vuol male. Di certo siete qua
venuti per fargli una sorpresa....

--Vedi il destro arcadore! Ei l'ha imberciata alla prima. Sicuro,
siamo venuti a fargli una sorpresa, e sarà più contento egli di veder
noi, che non tu di buscarti un genovino d'oro.

--Moneta del nemico, è sempre buona a pigliarsi;--si fece a dire
quell'altro, che il Picchiasodo chiamava rispettosamente messer
Pietro;--e anche non amando i genovesi, si possono avere in pregio i
genovini.

--E' sono il meglio di quella gente là!--rispose mastro Bernardo,
ridendo liberamente, da uomo che non aveva più sopraccapi.--Ma ecco la
frittata, magnifici messeri;--soggiunse, vedendo tornare il Maso e
levandogli di mano il piatto, con quel disco appetitoso nel
mezzo;--guardate se non par d'oro anche questa.

--Or ora ne faremo il saggio;--disse il Picchiasodo.--Ma guardate,
messer Pietro, voi che siete così vago della bella natura; guardate
com'è bene indorata dal sole quella vetta laggiù. Di' su, amico
ostiere, come si chiama?

--È la roccia di Pertica,--rispose mastro Bernardo.

--La è proprio a cavaliere del castello;--notò il Picchiasodo.--Io,
per me, se fossi nei panni del Marchese, temerei sempre di vedermi
cascare di lassù un genovese sulla groppa.

--Sì, se un genovese avesse l'ali!--disse asciuttamente mastro
Bernardo.

--Che? non ci si sale, fino a quel colmo?

--Che io mi sappia, non ci ha mai posto piede anima nata. E' bisogna
vedere la roccia alle spalle, là dalla parte di Calice. Gesummaria! Se
un negromante non ci scava i gradini nel vivo, gli è come volersi
aggrappare ad uno specchio.

--Uhm!--borbottò il Picchiasodo.--E quell'altro cocuzzolo sulla
Caprazoppa?

--È la roccia dall'Aurèra.

--Mi pare di vederci un segno di strade.

--Strada romèa, messere; ma ora la è guasta per modo che nessuno più
se ne giova. Per altro, a che servirebbe, lassù?

--Adagio a' ma' passi!--gridò il Picchiasodo.--Qui ti vien meno il tuo
senno, degnissimo ostiere. Non mi dir male de' romani! Non c'eran che
loro, per capir certe cose. Vedi; una strada su quel monte la ci
voleva, come un bicchier di vino su questo boccone. Strade sui monti,
dico io; in pianura, quasi quasi se ne potrebbe far senza; uomo, o
macchina, o bestia da soma, tutto ci passa a bell'agio; ma su per
l'erta d'un monte, sul fianco d'una costiera, e va dicendo, s'ha a far
come Annibale, lavorar coll'aceto. Ne hai tu dell'aceto?

--Padrone,---entrò a dire il Maso,--c'è quella botte di vinello
fiorito, che potrebbe....--

Così disse il ragazzo, ma non continuò il discorso, poichè mastro
Bernardo con una occhiata furibonda gli troncò le parole, e con una
pedata non meno espressiva gli fe' prendere il volo verso l'abbaìno.

--Ne avrete fatto, di strada;--disse l'ostiere, tornando a' suoi
ospiti e cercando di ravviare la conversazione;--ne avrete fatto
molta, messeri, pervenire fin qua!

--Molta;--rispose il Picchiasodo, colla bocca impacciata da un boccone
più grosso degli altri.

--E.... se è lecito il chiedervi....

--Ostiere!--interruppe quell'altro, con piglio tra il burbero e il
faceto.--Che diavol ti piglia, di voler sapere il nostro itinerario?

--Scusate, magnifico messere.... volevo dire.... Siccome so che il
nostro Marchese aspetta per l'appunto qualcuno....--

Il Picchiasodo era per dirgli dell'altro in quella medesima chiave; ma
messer Pietro, più accorto, indovinò il profitto che si poteva
ritrarre da quelle mezze parole dell'oste, e vogò destramente sul remo
al compagno.

--E chi aspetta, di grazia?--domandò egli a mastro Bernardo.--Ne hai
già imbroccata una, dicendo che siamo venuti per fare una sorpresa al
tuo nobilissimo signore; vediamo dunque; indovina quest'altra!

--Ma....--disse l'ostiere, gonfiandosi a quella lode (e se avesse
avuto un cencio di coda, si sarebbe provato a fare la ruota)--si parla
in paese d'un certo matrimonio....

--E di chi? Va innanzi!--prosegui messer Pietro, ugnendogli le
carrucole.

--Eh, meglio di me lo saprete voi, magnifico messere. Io non lo
conosco, ma dicono sia un uomo d'assai, che ha terra e castella ed
ogni ben di Dio, là dalle parti di Torino....

--E la sposa? Che ne dici tu?

--Madonna Nicolosina? Ah, quella è un occhio di sole.... un bottoncino
di rosa!... Diecisette anni, messere, diecisette anni a san Nicola,
che casca tra dieci dì, salvo errore, ed è già una meraviglia di
bellezza, che vengono già da tutte le parti, solo per vederla a
passare per via. E buona, per giunta, come il pane, e costumata, poi,
e dotta, che nemmanco il parroco di san Biagio ne sa quanto lei.
Insomma, una perla, messere, una perla, come madonna Bannina, sua
madre, che Iddio conservi lungamente alla casa dei nostri signori.


--Godo che un suo vassallo me la lodi così!--esclamò messer Pietro,
con aria tra umile e contenta.

--È lui! è lui! non c'è dubbio;--disse mastro Bernardo tra se.--Non
sono io il solo a lodarla,--ripigliò quindi, per dar la giunta alla
derrata,--ma tutti i ventimila abitanti del Marchesato l'hanno in quel
conto che ella si merita, per la sua bellezza e per la sua virtù, che
non han la compagna. E come le son fioccati i partiti! Ce n'è uno che
la voleva ad ogni costo, e seguita a volerla.... messer lo Doge di
Genova.... Ma sì, gli ha da appiccar la voglia all'arpione, costui!
Madonna Nicolosina non è boccone pei Fregosi....

--Ah sì? e perchè mò?--interruppe messer Pietro, facendo bocca da
ridere.--Perchè son genovesi?

--Non già per questo;--rispose l'ostiere, con un certo
sussiego.--Parliamo suppergiù la medesima lingua e si potrebbe vivere,
sto per dire, da buoni fratelli, se qualche volta non ci avessero il
ruzzo di spadronare in casa d'altri. Ma vedete, messeri; su quella
gente là non ci si può far conto. Potevano essere, sia detto con
vostra licenza, il primo popolo del mondo, stimati da per tutto e
temuti la parte loro.... Ma no; con mille discordie si sono guastati
il sangue, e non possono durarla tre mesi in pace con sè medesimi. Va
via di lì, ci vo' star io, è la regola di tutti que' maggiorenti, che
dovrebbero invece adoperarsi per la tranquillità e per la grandezza
del popolo. E si bisticciano sempre, non so da quanti anni, e fanno a
rubarsi il comando; oggi Adorno, domani Fregoso, posdimani Adorno da
capo, sempre su e giù, si arrabbattano come fagiuoli in pentola. Erano
padroni in casa loro, che non li comandava nemmeno l'imperatore; e
adesso, vedete, son roba di tutti, che la è una miseria a pensarci. E
ancora s'impuntano a dar molestia ai vicini; e vogliono far l'omo
addosso a noi altri! Si mettano in pace tra loro, si mettano; comandi
chi può e obbedisca chi deve. Che ve ne sembra, messere?

--Mi sembra che tu abbia ragioni da vendere!--rispose messer Pietro,
aggrottando le ciglia.

In quella che mastro Bernardo, ringalluzzito del suo trionfo oratorio,
si disponeva a meritarsene un altro, ricomparve il Maso sull'altana.

--Padrone!--gridò egli ansimante--Venite giù subito!

--Che c'è egli di nuovo?--dimandò stizzito l'ostiere.

--C'è messer Giacomino che ha mestieri di voi.

--Aspetti; or ora ci andrò.

--Ha premura;--incalzò il ragazzo,

--Se ne vada, allora; potevi dirgli che ci ho forastieri.

--Se gliel ho detto! Ma egli vi vuole ad ogni costo.

--Ha da essere un pezzo grosso, il vostro messer Giacomo!--notò il
Picchiasodo.--Va dunque e vedi di contentarlo.

--Oh, gli è un giovinotto, mezzo villano e mezzo soldato, che si crede
dappiù di chi si sia, perchè il nostro Marchese lo vede di buon
occhio; un superbioso, che va sempre col capo nelle nuvole, e qui non
ha mai bevuto un bicchiere.

--Ragione di più per scendere; vedrai che stavolta ti asciuga la
cantina.

--Del resto,--soggiunse messer Pietro.--oramai siamo satolli e si
parte. Fa intanto stringer le cinghie ai cavalli.

--Sarete serviti, magnifici messeri; e caverò fuori un fiaschetto di
malvasia, che vien proprio da Candia, pel bicchier della staffa.

--Sta bene; e tu piglia questo per l'opera tua; credo che basterà.--

Così dicendo, messer Pietro gli pose in mano un genovino d'oro.

--Corbezzoli, se basta!--gridò l'ostiere, facendo tanto d'occhi a quel
lucicchìo.--Tornateci domani, sul conto, e doman l'altro, se vi piace;
l'Altino è vostro, messere.

--Se non ci avesse a costare che questo,--borbottò il Picchiasodo,--e'
sarebbe a straccia mercato.--

Il genovino d'oro, valeva allora quindici grossi, che erano intorno a
tredici lire della nostra moneta presente, ma che, fatto il conto dei
tempi diversi e dei mutati prezzi delle derrate, potrebbero
ragguagliarsi al doppio di questa valuta. E ciò spieghi la meraviglia
della contentezza di mastro Bernardo; il quale si avviò gongolante
all'abbaino, per dove era già scomparso il ragazzo.

--Che matrimonio ha da essere!--andava dicendo l'ostiere tra sè.--Non
è più di primo pelo, ma e' ci ha un'ariona da principe, questo
messere.... A proposito; la Rosa mi aveva pur detto il suo nome!
Tamburlano? No. Canterano? Nemmeno. Certo comincia in _ca_.... Vediamo
un poco!

Messer Pietro si era mosso dalla tavola, alla volta del murello, e
pareva volesse dare un'ultima occhiata al paese. Picchiasodo, da uomo
più materiale, era ancora al suo posto, e mostrava cogli atti di voler
vedere il fondo all'orciuolo del vino.

--Scusate, messere;--disse mastro Bernardo, avvicinandosi a lui;--il
nome del vostro compagno?

--Perchè?--dimandò il Picchiasodo, inarcando le ciglia.

--L'ho sulla punta della lingua;--prosegui mastro Bernardo, senza
badare al piglio scontento di quell'altro.--Vedete, messere; sono un
povero diavolo d'oste, ma ci ho entratura al castello. Mia moglie è
sorella della madre di Gilda, la cameriera di madonna Bannina, e il
nome dello sposo io l'ho risaputo. Ca.... Casche.... Aiutatemi a dire!

--Casche....--ripetè il Picchiasodo, per contentarlo.

--Sicuro, Casche.... Ma se non mi date voi una mano...

--Ti cascherà l'asino, lo capisco.

--Ah, bravo! Cascherà.... Ci sono; Cascherano, Grazie tante! Messer lo
conte di Cascherano,--soggiunse allora mastro Bernardo, volgendosi a
messer Pietro e sprofondandosi fino a terra,--la grazia vostra!

--Per chi vi piglia costui?--chiese il Picchiasodo a messer Pietro,
mentre quell'altro si allontanava.

--Lascialo dire;--rispose messer Pietro.--Egli è venuto quassù per
farci cantare, ed ha cantato lui per tutti, il baggèo!--



CAPITOLO II.

Dove messer Giacomo Pico impara che il torto è degli assenti.


Stropicciandosi le mani in segno di contentezza, tronfio, invanito di
quel colloquio, in cui aveva fatto prova di tanta penetrazione, mastro
Bernardo scese le scale; indi, comandato al ragazzo che stringesse le
cinghie alle cavalcature dei due forastieri, e alla Rosa che pigliasse
in cantina un fiaschetto di malvasia, entrò in cucina, dove stava il
nuovo venuto impaziente ad attenderlo.

Era costui un giovinotto di forse venticinque anni, che tale lo
dinotava l'aspetto, fiorente della prima virilità, alto della persona,
di membra robusto e di belle sembianze, quantunque infoscate un tal
poco dalla torbida guardatura degli occhi cilestri e dallo
aggrovigliarsi della chioma rossigna in ciocche scompigliate sul
fronte. Semplice era la foggia del vestire; portava calze di lana
divisata e scarpe di cuoio ruvido, alla guisa dei montanari; in capo
aveva un'umil berretta e sulle spalle una cappa di bigello, alla
borghigiana; ma il farsetto di cordovano e l'impugnatura d'una brava
misericordia, che facean capolino dallo sparato, insieme colla punta
d'una spada che usciva fuori ad una rispettabile lunghezza dal lembo
della cappa, lo chiarivano un uomo d'armi, per allora fuor di
servizio, ma non al tutto fuori d'arnese.

Il suo nome era Giacomo Pico, figliuol d'Antonio, della terra di
Bardineto. Lo si chiamava dimesticamente messer Giacomino, sendo egli
venuto in tenera età alla corte del Marchese; ancora lo dicevano il
Bardineto, senz'altro, dal suo luogo natale, posto a forse dodici
miglia di là, in mezzo ai monti, presso le scaturigini del Bormida.
Bardineto apparteneva ai signori Del Carretto, e ad essi molto
affezionata era la famiglia dei Pico; singolarmente caro a Galeotto il
loro ultimo rampollo, che dapprima eragli stato donzello, indi
compagno nelle aspre fatiche di guerra e salvator della vita. Però
Galeotto lo teneva sempre al suo fianco, più amico assai che vassallo,
e lo adoperava in ogni faccenda che richiedesse fedeltà e segretezza a
tutta prova.

Ragioni queste perchè mastro Bernardo avesse a fargli servitù. Ma,
oltrechè non gli sapea menar buono quel suo fare fantastico e il non
essersi mai seduto davanti a' suoi fiaschi, quel giorno a mastro
Bernardo pareva di aver piantato l'insegna accanto a più gran
personaggio che non fosse messer Giacomo Pico.

Epperò, mentre questi, vedutolo entrare in cucina, si muoveva ansioso
verso di lui, quel vanaglorioso d'un oste gli fece a mala pena di
berretta.

--Ve ne prego messer Giacomino, spicciatevi;--soggiunse egli tosto,
dopo quell'atto un po' sbrigativo;--ho da offrire il bicchier della
staffa a due cavalieri.

--Erano da te!--sclamò il Bardineto.--Ed io che li cerco da
un'ora!....

--Eh, eh, capisco;--ripigliò mastro Bernardo, con aria di chi sa e
vuol lasciarsi scorgere;--il nostro magnifico Marchese li aspetterà.

--Se li aspetterà! Lo credo io! Sono annunciati certamente da due ore.
Io era appunto in volta verso Calvisio,... A mala pena arrivato
stanotte!...

--A proposito, siete stato in viaggio....

--E lungo; e ho avuto appena il tempo di far la mia relazione al
Marchese, ch'egli mi ha mandato fino a Pia per vedere la nuova
compagnia di balestrieri che ha presa in condotta testè. Ero salito a
Calvisio per dare un'occhiata alla guardia; torno al passo della
fiumana e mi dicono che due cavalieri sono discesi verso Castelfranco,
avviati pel Borgo. Mi metto sulle loro pedate e non li trovo; alla
porta di San Biagio nessuno li ha visti. Rifò la strada, piglio
lingua, e sento che si erano fermati all'Altino. Che è ciò? A due
passi dal borgo, perchè smontano essi da te?

--Eh, l'ho detto ancor io; perchè smontare da me? Ma che volete,
messer Giacomino? Avran veduto l'insegna: _Fermatavi all'Altino, c'è
buona l'accoglienza e meglio il vino_. E l'han trovato buono,
credetemi, quantunque non l'abbiate mai assaggiato. Dopo tutto, o che?
dovevano presentarsi al castello a stomaco digiuno, come due
pellegrini affamati?

--Che uomini sono?--dimandò il Bardineto, per metter fine a quella
intemerata dell'oste.

--Non lo indovinate?

--Eh, forse; due genovesi, dei soliti, che vengono qua, sotto colore
d'ambasceria, per curiosare, scoprir terreno e macchinar tradimenti in
casa nostra.

--Che!--sclamò mastro Bernardo, facendo le cocche colle dita,--Più su
sta monna Luna!

--Come? e che altro hanno ad essere?

--Due pezzi grossi, vi dico io. Cioè, no, dico male; uno grosso
soltanto di corporatura, e gli ha da essere lo scudiere, o alcun che
di somigliante; ma l'altro....

--L'altro?

--Eh, un uomo per la quale, che è aspettato dal Marchese e gli farà
molto piacere il vederlo capitare al castello.

--Non genovese?--ripicchiò il Bardineto, stringendosi nelle spalle.

--Non genovese; piemontese.

--Capitano di ventura?

--Altro ci è; signore di terre e castella. Ma scusatemi, messer
Giacomino; e' son qua che scendono le scale.--

E senza aspettar altro, l'ostiere si mosse, per andare incontro a'
suoi ospiti.

IL Bardineto, rimasto solo in cucina, si accostò alla finestra, che
dava sull'aia, ov'erano già i due cavalli, tenuti per le redini dal
Maso, e vide poco stante i due forastieri che salivano in arcione.

Uno, il più vecchio e il più tarchiato, gli parve per l'appunto uno
scudiere, o un famiglio. L'altro, era un bell'uomo tra i trenta e i
quaranta, biondo di capegli, dal volto un po' arsiccio, ma bianco di
carnagione, di leggiadre fattezze e di nobilissimo aspetto. Anche a
non voler badare alla sua cappa di scarlatto verde foderata di vaio e
al suo cavallo palafreno, la cui gualdrappa e gli altri arnesi erano
filettati d'argento, si capiva ch'egli era un uomo di grande affare, e
che mastro Bernardo aveva ragione a notare in lui un'ariona da
principe.

--Chi diamine sarà costui?--andava almanaccando tra sè il
Bardineto.--Non genovese, perciò non nemico; capitano di ventura
nemmanco. Fosse uno del parentado! Ma io li conosco tutti, i signori
della lega, e questi mi giunge affatto nuovo alla vista.

Intanto, mastro Bernardo s'era fatto innanzi col suo fiaschetto di vin
prelibato e profferiva ai due viaggiatori il bicchier della staffa.

--Grazie!--disse il più giovine accettando il bicchiere e rendendolo
dopo avervi a mala pena intinte le labbra.

Non così il Picchiasodo, che, recatosi il bicchiere all'altezza degli
occhi, ne contemplò amorosamente il liquido topazio, indi lo accostò
alle labbra, ne assaporò un sorso, tornò da capo a guardare, mentre,
alla maniera de' buongustai, batteva la lingua contro il palato, e
finalmente, arrovesciando gli occhi in segno di beatitudine, mandò giù
l'abbeverato e succiò l'orlo del bicchiere per giunta.

--Se tu cominciavi da questo,--diss'egli all'oste nell'atto di
restituire il bicchiere,--non si andava più via dall'Altino.

--Eh eh!--rispose mastro Bernardo ridendo.--Per altro, a messer lo
conte non è piaciuto.

--A me?--dimandò messer Pietro, vedendo che l'oste accennava a
lui.--Anzi, gli è nettare, non vino; ma con quest'amicone non bisogna
far troppo a fidanza.

--Con vostra licenza, messere, berrò io le vostre bellezze. Alla
salute degli sposi.

E mastro Bernardo, contento di metter le labbra al bicchiere del suo
ospite, tracannò il rimanente d'un fiato.

Messer Pietro sorrise, salutò e spinse il cavallo fuori del portone.
Il Picchiasodo spronò a sua volta, e lo seguì sulla strada.

--Costui vi vuol vedovo, messer Pietro;--gli disse frattanto a mezza
voce.--Povera madonna Bartolomea!--

A mala pena furono sulla strada i due viaggiatori, il Bardineto si
serrò addosso a mastro Bernardo.

--E adesso mi dirai.... Prima di tutto, che andavi tu novellando di
sposi?

--Non avete capito?--disse l'ostiere, mentre, levato di pugno al Maso
il fiaschetto prezioso, lo andava a riporre nell'armadio.--C'è un
matrimonio in aria e quello è lo sposo; il magnifico conte di
Cascherano, che si è degnato, bontà sua....

--Sposo! di chi?--interruppe il Bardineto, facendosi bianco nel viso
come un cencio lavato.

--Eh, non già di madonna Bannina, nè della mia Rosa, che hanno i loro
uomini vivi e sani!

--Ma, alla croce di Dio, parla; di chi?

--Di madonna Nicolosina, perdinci! O che, venite dal mondo della
luna?--

A messer Giacomo Pico venian meno le forze, e si offuscava la vista.

--Impossibile!--esclamò egli, con voce soffocata dalla
commozione.--Impossibile!

--E perchè mo'? A San Nicola fa i diecisette, quantunque, a dir vero,
mi paia che la sia nata ier l'altro. Ma, pur troppo, i giorni passano
e gli anni van di conserva. O che? l'avrebbe da starsene a spulciare
il gatto? È bella, è savia, è di nobil casato; e qui, con nostra buona
pace, non c'è nessuno per lei. Al Fregoso, quantunque doge, non
l'hanno voluta mostrare nemmeno dal buco della toppa; e' bisognava
dunque far capo più lunge; a Cascherano, verbi grazia. Cascherano! bel
nome! E lo sposo n'ha un altro, per giunta alla derrata; ma ora e' non
mi vien sulle dita.--

Il Bardineto sudava freddo, e per un tratto non aveva potuto aprir
bocca.

--Ma come sai tutto ciò, che io ignoro affatto?....

--Eh, lo capisco? se voi andate a fare l'ambasciatore! Da quanto tempo
mancate?

--Da due settimane; cioè a dire, da quando è partito l'ultimo oratore
dei Genovesi, messere Ambrosio Senarega. Sono stato a Cosseria, a
Millesimo, a Cortemiglia, a Ponzone; ho dato infine una scorsa a tutte
le castella delle Langhe.

--Orbene, e in questo mezzo s'è accozzato il negozio. Io sono stato il
primo ad averne fumo, in paese. Sapete pure, messer Giacomino; madonna
Bannina, che Iddio la prosperi sempre, n'ha fatto un cenno alla Gilda.
La Gilda l'ha rifischiato a sua zia; e sua zia, che è poi nostra
moglie, indegnamente, l'ha rapportato a me, com'era debito suo. Ma ora
che ci penso, badate, gli era un segreto da tener sotto chiave, e voi
da me non sapete nulla, intendiamoci; io non ho fiatato, acqua in
bocca! me lo promettete?--

Messer Giacomo Pico non gli dava più retta; uscito in sull'aia, aveva
infilato il portone, e via come una saetta.

--Ehi, dico, messer Giacomino, vi prego, non mi fate pasticci!--andava
gridando l'ostiere.--Che diamine! ci ha il fuoco alle calcagna. E
perchè mo'? Quella notizia l'ha messo fuori dei gangheri. Egli
forse.... cotto di madonna Nicolosina? Eh, non mi farebbe meraviglia;
la donna è un certo guaio! Quando t'ha fatto perdere il lume degli
occhi, non badi più se la è imperatrice o villana. Orvia, se la è
così, un bel malanno l'ho fatto! Ma già, maledetta lingua! La Rosa me
lo dice spesso, che non so tenermela a freno! E poi? che male c'è?
Tanto e tanto s'aveva a sapere. Il Cascherano non è forse arrivato? E
come l'avranno a battezzare, quando capiterà al castello e farà il su'
inchino alla sposa? Andiamo, via; delle mie ragazzate, non è questa la
peggio.--

Con questo po' di sollievo, mastro Bernardo si ritirò nella sua tenda,
dove noi lo lasceremo ad aspettare gli avventori quotidiani, men
nobili o meno degni della nostra attenzione.

Il Bardineto, con quel passo che ho detto, s'era avviato verso il
Borgo. Giunto alla porta di san Biagio, varcò il ponte levatoio
gittato sul torrente dell'Aquila, ed entrò sotto l'androne, dov'era
scolpito in marmo il carretto, tirato da due leoni aggiogati, con
suvvi lo scudo listato a fascie diagonali d'argento in campo rosso.

Per la prima volta, guardando quella insegna de' suoi signori,
l'occhiata fu torva. Egli per fermo non se ne addiede, non n'ebbe
coscienza; ma fu torva la sua guardatura, piena di stizza, se non
forse di mal talento e di rabbia.

Ah! diceva quell'occhiata; sposa Nicolosina ad un altro! Era forse
quella la ricompensa che egli si riprometteva de' suoi fedeli servigi?
Non già che l'attendesse; non già che l'avesse per suo certo diritto!
Ma egli, adolescente, quasi fanciullo, era venuto alla corte del
Finaro, come donzello del marchese Galeotto, e da lui tenuto in conto
di figlio. Vassalli erano i Pico, ma pur sempre i primi di Bardineto;
questo sentivano di sè medesimi, e l'onesta alterezza del casato erasi
accresciuta nell'animo del giovinetto, per quel suo lungo vivere in
corte, dimestico ai grandi, per modo da parergli non pure di essere
uno dei loro, ma di non essere stato mai altro. E un bel giorno i
vincoli della consuetudine s'erano ristretti anche più, per aver egli
campato il marchese dalle mani dei genovesi, che in uno scontro di
pochi anni addietro già l'avean posto a mal partito, sui monti alle
spalle di Albenga.

E al suo ritorno in corte, che era egli mai avvenuto? Lui audacissimo
tra i migliori del Finaro, lui salvator suo e primo sostegno della sua
casa, celebrava il marchese; però, tra le lodi e i plausi universali,
madonna Bannina, la virtuosa castellana, o la sua lieta figliuolanza,
gli aveano fatto gran festa. Nicolosina, l'ultima nata, ricciutella
innocente, gli si era sospesa al collo e gli aveva coperto di baci il
volto abbronzato dal sole dei campi. Bambinesco era l'atto, e naturale
in quel punto; pure l'aveva commosso più che ogni altra dimostrazione
d'affetto e di gratitudine de' suoi signori più innoltrati negli anni.

Nè quelle infantili carezze erano state le sole. Da quel dì, la bionda
fanciullina non ebbe amico più caro del suo Giacomo; lui aspettava
ansiosa; lui sgridava, se tardo a giungere per aver parte a' suoi
giuochi; lui abbracciava; a lui scompigliava con vezzo fanciullesco le
chiome, più che non avessero fatto le aure dell'Appennino; e i parenti
a ridere, a compiacersi di quelle tenerezze, in cui non pure vedevano,
ma eziandio caldeggiavano una testimonianza del loro animo grato e del
loro affetto paterno per lui.

Senonchè, un giorno (e' doveva pur giungere!) la fanciulla non gli era
più corsa incontro come soleva; non gli si era gettata al collo, non
lo aveva più baciato; nemmanco gli aveva profferta con soave atto la
fronte, come usava co' suoi genitori. Lo aveva in quella vece accolto
con una certa gravità impacciata, che la faceva due cotanti più bella;
lo aveva salutato con un «buon dì, messer Giacomo» profferito a mezza
voce, ed aveva arrossito dal sommo della fronte fino alla radice del
collo.

Ed egli si era inchinato, come solea fare colla madre di lei; nè aveva
trovato cosa a ridire intorno alla novità delle sue accoglienze; ma
quel riguardoso saluto e quel rossore, che tradiva i casti segreti
della pubertà nascente, gli avevano recato arcane commozioni nel
sangue, dischiuso un mondo ignoto allo spirito.

Da quel giorno aveva pensato; più del bisognevole e del ragionevole
aveva pensato al nuovo aspetto di quella fanciulla, de' cui baci
infantili erano calde tuttavia le sue guance. E una gran sete di quei
baci improvvisamente cessati gli riardeva le labbra. Ma non erano più
i baci della fanciulla, non erano più i casti baci fraterni, che egli
ripensava in quel punto.

Da quel giorno si fece più grave; da quel giorno il suo volto, gli
atti, i pensieri, i modi del suo vivere, assunsero quel non so che di
bizzarro e di fantastico, donde la gente volgare toglieva indizio di
alterigia, non dicevole punto al suo umile stato di vassallo. Presso i
famigliari del marchese dicevasi in quella vece che la guerra avea
fatto del giovine un uomo, del donzello un capitano. Ed uomo e
capitano, messer Giacomo Pico era più bambino che mai. Del suo futuro
non aveva un concetto, un proponimento formato; viveva alla giornata;
lieto quando gli fosse dato vedere il suo conforto, triste ed uggioso
quando ne fosse lontano.

La corte dei marchesi del Finaro aveva nelle sue consuetudini alcun
che della vita patriarcale. Però, in quella beata intrinsichezza della
famiglia, le occasioni di vedere Nicolosina e di starle accanto eran
molte e frequenti. Per altro, erano anche in buon dato le occasioni di
lontananza. Il marchese Galeotto, pari in cotesto a tutti gli animi
grandi, quando aveva messo l'amor suo in alcune, non conosceva misura.
E grato al Bardineto della conservata libertà, fors'anco della vita,
in lui aveva riposto ogni sua fede, con lui si consigliava in ogni più
grave bisogna, lui, come suo messo fidato, o come un altro sè stesso,
mandava di sovente d'una in altra villata a recarvi i suoi ordini, a
chieder ragguaglio d'ogni novità che occorresse. Conosciuto dovunque
come il più caro amico del marchese, messer Giacomino (così
dimesticamente lo chiamavano i terrazzani) era ossequiato ed obbedito
da tutti.

Così viveva il Bardineto, senza por mente al domani. Amava, senza
proporsi una meta, senza sperar nulla di certo; amava, ecco tutto, e
fidava alle onde tranquille il fragile schifo della sua giovanile
fortuna. Però, quando Giano Fregoso, fattosi pur dianzi signore e doge
di Genova, ebbe mandato Bartolomeo Cecere a dimandar la mano di
Nicolosina, per la prima volta il povero Bardineto tremò, sentì come
una mano di ferro che gli agguantasse il cuore. E non cessò lo spasimo
suo, fino a tanto non ebbe udite dal labbro del marchese queste
consolanti parole:

--«A Giano, prestantissimo uomo, rendo, o messere, le grazie che per
me si posson maggiori, che in ciò liberale si mostra ed amicissimo
mio. Senonchè, la figliuola mia è troppo giovine per andarne a marito,
e in cosiffatti negozi occorre maturità di consiglio. Ben so a qual
patto vecchi nemici possano raccostarsi; però consentite, messere, che
di cotesto io m'abbia a dare più lunga e meditata risposta in
iscritto».

Così era bellamente pagato il Fregoso. Ma egli, inteso l'animo
dell'avversario, tosto aveva adunato il Consiglio e messo mano a più
saldi argomenti. E poco dopo l'ambasciata del Cecere, andavano alla
corte di Galeotto, oratori non più di Giano Fregoso, privato
cittadino, bensì del Doge e del Consiglio, un Giacomo di Leone e un
Galeazzo Pinello.

--«Marchese Galeotto,--avean detto costoro,--i Genovesi, quanto è in
poter loro, detestano le inimicizie e meglio in pace coi vicini amano
vivere, che in guerra. Esortano te a volere il medesimo, e a mostrarne
il desiderio, ritenendo ciò che è tuo, restituendo l'altrui. Possiedi
Castelfranco, già da essi murato e ad essi appartenente quasi per gius
di dominio. Sai una terza parte del Finaro doversi ai Genovesi, e come
soggetta e come venduta. Sai esser Giustenice loro dominio del pari.
Tutto ciò, dunque, ripetono essi da te, e ti pregano ad amar meglio di
concederlo pacificamente, anzichè di doverlo rendere per forza di
guerra. Inoltre, sarebbe fuori dalle consuetudini d'amicizia e di pace
che presso te rimanesse ospite più a lungo messer Barnaba Adorno, già
doge, oggi nimico della Repubblica. A te il vedere che cosa ti
convenga di fare; se mandarlo a Genova, o voler guerra da lei».

Vivaddio, era questo un alzar la visiera, e di nozze non si facea più
discorso. Giacomo Pico aveva dato un respiro di consolazione. Non era
uno sposo temuto, quegli che minacciava la guerra.

E l'aveva di grand'animo accettata il marchese.

--«Io ben so che me la farete,--aveva egli risposto,--se ciò che dite
pensate, e se più oltre su voi comanderanno i Fregosi. Così fosse la
puntaglia soltanto tra essi e me, che agevolmente la condurrei a buon
termine! Invero, aver guerra co' Genovesi mi duole; ma sappiatelo,
messeri; avrei caro il morire, anzichè far cosa veruna contro la
dignità del mio nome, e l'onore di buon cavaliere. Signore di Genova
era Filippo Maria Visconti, per propria dedizione dei cittadini; a lui
lecito di disporre a sua posta d'ogni possedimento di Genova. Egli mi
donò Castelfranco e Giustenice; nè di ciò, e molto meno della terza
parte del Finaro, mi tengo io debitore ai Genovesi. Credete il
contrario? Orbene, facciamo giudice del piato l'imperator de' Romani,
o il re di Francia, o l'Università degli studi di Bologna, o quella di
Pavia; venga da principe, o da collegio di giureconsulti, il giudizio
sarà legge per me. Niente farò io di Barnaba Adorno; intorno a ciò,
arrossisco di avervi a rispondere, più che voi di avermene a chiedere.
Ch'io manchi alla mia fede! Ch'io tradisca un prestantissimo uomo, qua
venuto a rifugio come in terra neutrale, e lo dia in mano a' suoi
nemici! Non lo sperate da me. Guerra minacciate; e sia; il cielo
provvederà. Voi questo rispondete al Consiglio: prima verrà meno a
Galeotto ogni altra cosa che l'animo.»--

Nobili parole, sebbene un genovese d'allora avrebbe potuto trovarci
alcuna cosa a ridire. Ben s'era commessa la Repubblica alla signorìa
del Visconti, ma per essere tutelata dalle intestine discordie, non
tradita a' suoi nemici; infine, scosso da dodici anni il giogo di lui,
doveva ripetere tutti i suoi diritti sugli altri, nè riconoscere
donazioni e larghezze del suo a coloro che, come appunto il marchese
del Finaro, si adoperavano sempre a' suoi danni. Ma di ciò non occorre
dir altro; che ad entrare nel pro e nel contro della ragion di stato
d'allora, si dovrebbe dare ad ognuno la sua parte di torto. Va in
quella voce notato che alla corte del marchese Galeotto piacque la
fiera risposta, e più assai che ad ogni altro, a Giacomo Pico, il
quale intravvedeva nella prossima lotta occasione di gloria.

Eppure, come già conosce il lettore, non la era anche finita colle
ambasciate. Dopo i due oratori della Repubblica, erano venuti Ladislao
Guinizzo e Francesco Caito, inviati di Giano, a chieder da capo
Nicolosina in moglie. Della dote mettevano questo patto: mandasse a
Genova messer Barnaba Adorno; da lui i Fregosi, come da nimico
prigione, avrebbero pigliato il riscatto di diecimila genovini d'oro,
che sarebbero andati in dote alla sposa.

A cosiffatta proposta, più che alla ostinatezza di Giano, si sdegnò
grandemente il marchese.

--Mi turba la dimanda,--rispose,--e peggio ancora, mi muove lo
stomaco. Tristo è Giano e tristo mi crede. A tal uomo, e di tali
nefandezze capace, io non sarei per concedere mai la figliuola mia,
anco se molto maggior dote le costituisse del suo.--

Così avevano avuto fine le pratiche celate presso il marchese. Ma ben
altro tentavano ancora i Fregosi presso il parentado di lui, per
rimuovere i Carretti delle Langhe dal proposito di aiutare il loro
consanguineo. Il quale, di certo, per assegnamento fatto su questi,
più che per fidanza vera nelle sue forze, mostrava animo tanto
deliberato a resistere.

Era in quel tempo tra tutti i signori Del Carretto come un patto
d'alleanza, per cui, se ad uno di loro si recasse alcun danno, a tutti
si reputasse ugualmente recato, e tutti avessero a mettersi in armi
per vendicare i torti di un solo. L'antica divisione dell'eredità di
Enrico Guercio in tre parti e le altre divisioni avvenute in processo
di tempo, che avevano di soverchio sminuzzate le forze di que'
discendenti d'Aleramo, chiarivano di per sè necessario quel patto di
famiglia. Dicevasi la lega dei Carretti; e invero, se fosse stata così
salda nel fatto come nella mente de' suoi fondatori, grandezza d'animo
dei collegati, fede provata dei popoli loro, copia di attinenze e
asprezza di luoghi, avrebbero potuto renderla formidabile alle difese.

Congregavasi la lega nella torre detta di Oddonino, presso la corte di
Millesimo. Capitano della lega era in quel mezzo il magnifico messere
Francesco, signor di Novelli, tra i Carretti d'allora il più innanzi
nella prudenza e negli anni. A lui n'andò Veneroso Doria, amico e
fautore dei Fregosi, come tutti gli altri del suo casato, e ottenuta
la presenza dei collegati, espose, in nome di tutti i Doria, la sua
ambasciata. Rammemorata l'antica amicizia delle due genti e i
maritaggi che tratto tratto erano sopraggiunti ad unirle in parentado,
non dubitò di noverare alcune recenti e vicendevoli offese. Colpevoli
i Doria di essere stati primi a molestare i Carretti; colpevoli
questi, nelle persone di due dei loro, Galeotto del Finaro e Giorgio
di Zuccarello, di aver mosso guerra e fatto devastazioni gravissime
nella valle di Oneglia, dominio amplissimo e rispettato dei Doria.
Questi, per altro, memori dei profferti appigli, aver comportato con
animo grande l'offesa; non così poter sofferire che Giorgio e Galeotto
s'ostinassero a tener come proprie le castella occupate. La Lega, se
aveva in alcun pregio l'amicizia dei Doria, comandasse la restituzione
del maltolto; se no, sarebbero stati costretti i Doria a procacciar
l'utile proprio e dare orecchio a' nemici dei Carretti, che fino a
quel punto non aveano voluto ascoltare.

Ponderavano i Carretti, siccome era naturale che facessero, le gravi
ragioni esposte da messer Veneroso. E Francesco, il vecchio capitano
della lega, avea già proposto di rispondere: niente amar meglio i
Carretti che vivere in pace coi Doria; non doversi ascrivere
l'invasione di quel d'Oneglia, nè a Galeotto del Finaro, nè a Giorgio
di Zuccarello, bensì ad espresso comando del signor di Milano, che a
tutti soprastava. Per altro, a dimostrar meglio l'animo loro alieno da
ogni litigio, come da ogni offesa ad amici e vicini, avrebbero
esplorata la mente del Visconti e fatto il poter loro perchè le
castella occupate nella valle d'Oneglia fossero restituite ai loro
signori.

Senonchè Galeotto, il quale scorgeva nella intromissione dei Doria un
artifizio del suo nemico inteso a sbigottirlo, volle si rispondesse in
altra maniera. Ricordino i Doria, disse egli, ricordino quanto abbiano
sovvenuto di consiglio e d'armi i Fregosi, allorquando Battista e
Spinetta, di questa gente, vennero sulla Pietra, per assediarmi e
impadronirsi di me. E il loro intento avrebbero essi raggiunto, se
l'invincibile Filippo Maria Visconti non avesse mandato in mio
soccorso messer Guido Torello, con grossa mano di cavalli e di fanti.
Ricordino i Doria come abbiano essi favoreggiato i Fregosi, nella
condotta di quel Baldazzo che lungamente guerreggiò il Finaro, e mancò
poco non mi desse in balìa de' miei giurati nemici. Mai furono rette
le intenzioni, mai schietti i diportamenti dei Doria verso di noi;
smettano dunque di ricordare l'antica benevolenza; ricordino piuttosto
l'antichissimo odio e il mal talento loro contro la nostra casata.
Nulla sperate da noi; date pure liberamente ascolto ai nemici; cotesto
vi tornerà per fermo più agevole e caro. Che cosa si stia macchinando
tra voi, ci è noto, o messeri. Ma tutto non v'andrà, come pensate, a
seconda; me prima torrete di vita che di animo.

In quella guisa fu risposto ai Genovesi. Ma eglino, o fosse per
guadagnar tempo, o perchè sperassero di smuovere dalla lega alcuno nei
Carretti, o finalmente perchè in tutto quel viavai d'ambasciatori
mirassero a pigliar cognizione dei luoghi e dello stato degli animi,
non si tennero paghi di quella risposta dettata dal marchese Galeotto,
e vollero averne l'intiero.

Però mandarono in volta a tutte le famiglie dei Carretti un altro
oratore, accortissimo uomo, che fu messere Ambrogio Senarega. Doveva
egli apertamente ricordare i vecchi diritti di Genova sulla terza
parte del Finaro, su Castelfranco e sulla terra di Giustenice, posta
ai confini occidentali del marchesato; chiedere che Giustenice e
Castelfranco fossero restituiti, e per la terza parte del Finaro si
riconoscesse Galeotto feudatario della repubblica; a ciò volesse la
lega persuaderlo, o, dove questi si ostinasse nel niego, abbandonar le
sue parti. Certamente, poi, doveva in privati colloqui scandagliare i
propositi e tentar la fede di tutti; che certo, e per antiche ruggini
e per essere eglino in troppi, non dovevano vivere in così calda
amicizia e comunanza d'interessi, come il fatto della lega mostrava.
Del resto, provvedessero, come stimavano meglio, all'utile loro; ma
ricordassero che Filippo Maria Visconti, protettore e amico a Galeotto
era morto, e Milano rivendicata in libertà non avrebbe spalleggiato i
nemici della repubblica genovese.

Anche in quella occasione la risposta della lega fu data da messer
Francesco di Novelli. A difesa di Galeotto si ricordava la donazione
di Filippo Maria; a discolpa di tutti i signori della lega si ripeteva
non aver essi altro desiderio che di vivere in pace e in amicizia con
Genova; del resto, avrebbero combattuto, se ella a ciò li astringeva,
e resistito con ogni lor possa; che bene dovevano essi andare in
soccorso di Galeotto, a cui erano stretti da vincoli d'alleanza e di
sangue.

Queste le parole; ma i fatti voleano esser diversi. La morte di
Filippo Maria Visconti improvvisamente avvenuta nell'agosto, e i
torbidi che n'eran seguiti in Lombardia, d'onde più speravano aiuto in
quel loro bisogno, avevano scosso la baldanza dei collegati marchesi.
Bene avevano mandato lettere e messaggi a tutti i signori circonvicini
per chieder consiglio e procacciarsi amicizie; ma in pari tempo (e qui
era da vedersi il frutto delle pratiche di Ambrogio Senarega)
disegnavano di mandare un oratore a Genova, per rabbonire i Fregosi.

Ora, vedete bel caso, quest'oratore fu bensì uno di loro, ma figliuolo
a Marco, signore di Osiglia, che tra tutti i collegati era il meno
amico a Galeotto e il più tiepido nei consigli di guerra.

Questi, che avea nome Abate, recatosi a Genova, mentre il Senarega
scendeva da Osiglia al Finaro per abboccarsi con Galeotto e far le
viste di raccomandargli la pace, mostrò ai Genovesi esser tra loro
discordi i signori della lega. Rammentò come suo padre Marco e un suo
cugino Gherardo di Santo Stefano, discendessero da quei due, Emanuele
ed Aleramo, che avevano venduto la loro terza parte del Finaro, e
come, nell'atto di volerla ricuperare, molti anni addietro, fossero
stati presi ed imprigionati dalla madre di Galeotto, ed avessero
perduto per giunta Calizzano; riandò tutte le vecchie ragioni
d'inimicizia che covavano in seno a quel parentado; lasciò intendere
come i Carretti avrebbero potuto, parte voltarsi contro, parte non
dare al congiunto quel valido aiuto che egli si prometteva da essi;
una sola cosa dimandò: che, frutto dei mutati consigli fosse a Marco
suo padre la ricuperazione del dominio perduto.

Non è a dire se i Fregosi accogliessero di buon animo le confidenze di
Marco e del figliuol suo, e come gli fossero larghi di promesse.
L'orso di Castel Gavone era ancora da prendere; si poteva impegnarne
senza tanti riguardi la pelle.

Queste cose, siccome è agevole argomentare, ignorava Galeotto. E
frattanto, poichè egli, messo al punto di dover provvedere alle sue
difese, non poteva muoversi dal marchesato, e gli premeva in pari
tempo di saper l'esito dell'ambasceria del figliuolo di Marco ai
Genovesi, aveva disegnato di spedire Giacomo Pico alla torre di
Oddonino e alle altre castella de' principali tra' suoi consanguinei.
Nè a ciò si ristringeva la commissione del Pico. Egli, udito delle
pratiche di Abate presso i Fregosi e di ciò che il capitano della
lega, messer Francesco di Novelli, avesse deliberato di fare, doveva
altresì, procedendo di corte in corte, raccogliendo i pareri e
indagando gli animi di tutti, giungere fino alle rive del Tanaro, per
recare un messaggio a Tommaso di Bagnasco.

Era questo messer Tommaso un onorevole cavaliere, della casata dei
marchesi di Ceva. Quella gente erano guelfi, laddove i Carretti erano
ghibellini; ma, oltre che i tempi delle acerbe nimicizie partigiane
erano trascorsi e più assai importava a quelle schiatte marchionali
vivere in pace tra loro e assodare la loro signoria, Tommaso di
Bagnasco aveva sempre dimostrato a Galeotto la più schietta amicizia e
s'era in parecchie occasioni profferto all'amico, per servirlo, come
dicevasi allora, di coppa e di coltello.

E messer Giacomo Pico era andato, con che animo sel pensi il lettore.
Si allontanava un tratto da madonna Nicolosina, ma, a ben guardare la
sostanza delle cose, per avvicinarsi di più alla meta de' suoi
desiderii. Diffatti, se la guerra inevitabile coi Genovesi mandava già
a monte un temuto matrimonio, quella importantissima ambasceria
commessa a lui dal marchese, ristringeva i vincoli dell'antica
dimestichezza, aggiungeva servizio a servizio, gratitudine a
gratitudine, dava esca e fondamento a più salde speranze. Al suo
ritorno, poi, utile al suo signore per delicatissimi negoziati, come
gli era stato caro per consuetudine antica e per aiuti personali, il
Bardineto avrebbe operato tali miracoli di valore da farsi armar
cavaliere sul campo e da meritare tal grazia appo i signori del
Finaro, che a lui si sarebbe conceduta Nicolosina, o a nessuno, fosse
pure conte, marchese, duca, o figlio di re.

Galeotto era ben lungi dal sospettare che nuova specie di fantasie
girasse per lo capo al suo antico donzello. Ad altro aveva egli la
mente: ai vassalli chiamati in armi da tutte le borgate; a due
compagnie di balestieri che avea tolte in condotta; alle lancie che
gli mancavano ancora; al suo tesoro, che di molto si sarebbe scemato,
e senza speranza di ricattarsene, anco vincendo la prova. Imperocchè,
quella era una guerra di difesa contro un potente nimico lontano, e,
per arricchire delle sue spoglie, sarebbe bisognato stravincere. Ora,
di stravincere, il marchese Galeotto non nutriva speranza per fermo.
Bene lo assicurava Barnaba Adorno, con gli altri fuorusciti di Genova,
ospiti suoi, che, tornata la fazione loro alla somma delle cose,
largamente sarebbe stato compensato di ogni suo danno; ma quella
fortuna era di là da venire e poteva anche restarsi per via; laddove
la guerra soprastava al Finaro, e quella lì non c'era speranza pur
troppo di allontanarla, nè sarebbe tornato a guadagno il tenerla in
sospeso.

Ma, per tornare a Giacomo Pico, che le centomila necessità del
racconto mi fanno ogni tanto lasciare in disparte, è da stringere in
poche parole che egli aveva sollecitamente adempiute, in quel modo che
poi si dirà, le incombenze a lui date, ed era di ritorno al Finaro due
settimane dopo la sua partenza, e proprio in quel giorno 26 novembre
dell'anno 1447. Il cuore gli battea forte nello avvicinarsi al
castello. Aveva veduto per pochi istanti Nicolosina, e gli era parsa
un'altra donna. Effetto naturale delle lontananze, anche brevi, da chi
siamo usi vedere ogni giorno, che ci si sente subito come stranieri
alla casa. E perchè poi? Perchè eravamo avvezzi a sapere ogni più
lieve atto, ogni più riposto pensamento dei nostri famigliari, e la
fragil catena di tutti quei preziosi nonnulla si è malamente spezzata.

Per altro, egli non era il momento di trattenersi su quelle frasche.
Mandò giù la ingrata sensazione di quel primo incontro con lei; la
ebbe anzi per una fisima del suo cervello ammalato, e si presentò al
marchese, per dargli ragguaglio della sua legazione. Tra le altre
cose, narrò come il figlio di Marco niente avesse ottenuto dai
Fregosi, e nemmanco fosse tornato da Genova; donde per avventura, si
poteva conchiudere che le speranze d'un accordo non fossero tuttavia
dileguate.

Ma intorno a ciò il marchese Galeotto non istava più in forse e ben
sapeva che cosa pensarne, cioè che i Genovesi si studiavano di
tenergli a bada la lega, e frattanto si disponevano con ogni diligenza
ad assalirlo, sperando di averlo atterrato, innanzi che gli altri si
fossero mossi a difenderlo. Ora, che la lega del parentado fosse per
aiutarlo, non dubitava il marchese; anche pur dianzi, al suo inviato,
tutti ad una avevano fatto le più solenni promesse. Quanto a sè ed
alle forze raccolte nel Finaro, egli si teneva abbastanza sicuro, da
credere che i Genovesi avessero per quella volta fatto male i lor
conti. Questo era l'essenziale. Piuttosto, gli doleva del Bagnasco,
così largo promettitore in principio, e adesso, secondo gli riferiva
Giacomo Pico, tanto irresoluto e difficile a muoversi per un verso o
per l'altro. Ma forse, pensava Galeotto (e questo pensiero lo
consolava un tratto) la guerra, incominciata che fosse, anche al
lontano amico avrebbe sgranchiato le gambe.

E la guerra stava appunto per rompere. Là, a poche miglia discosto,
sulla spiaggia di Vado, che è tra Noli e Savona, i Genovesi facevano
gente. Da un momento all'altro, chi sa, potevano anche apparire i
primi scorridori dell'esercito nemico sulle alture della Briga, e
scendere in valle di Pia. Ed era questa la nuova, che dava a messer
Giacomo Pico di Bardineto il marchese Galeotto, in ricambio alle molte
del suo messaggiero.

Il quale, d'ambasciatore rifattosi uomo d'armi in un subito, uscì dal
borgo, varcò il torrente dell'Aquila, e, per la via più spedita, che
s'inerpicava alle spalle di Monticello, corse a vedere se fossero bene
asserragliati i passi di monte Tola e Calvisio. E di là, attraversata
la valle di Pia, già era sulle mosse per risalire fino a Verzi, dove
stavano le prime vedette del Finaro, allorquando gli venne udito di
que' due cavalieri, che, provenienti dalla parte d'Isasco e delle
Magne (per dove correva la via maestra da Noli al marchesato) erano
discesi al guado della fiumana di Pia.

Argomentando che fossero avviati al Finaro, era corso dietro a loro.
Ma egli a piedi, e quei due a cavallo; nè aveva potuto raggiungerli.
Giunto a Castelfranco, li seppe andati oltre alla Marina; giunto alla
Marina, udì che aveano proseguito alla volta del Borgo. Andò al Borgo;
nessuna novella di loro. Erano dunque rimasti a mezza strada.

Così, pigliando lingua da ogni banda, aveva trovati i due forestieri
all'Altino e gli era occorso con mastro Bernardo quel dialogo
maledetto, che gli aveva a dar fumo di tante novità dolorose. In due
settimane di lontananza, madonna Nicolosina promessa ad un altro e
quest'altro già arrivato per farla sua! Ma, già; hanno il torto gli
assenti!



CAPITOLO III.

Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni, Tommaso
Sangonetto avrebbe potuto dar de' punti a Boezio.


Che torbidi pensieri menassero la ridda nel cervello di Giacomo Pico,
è più facile argomentare che dire. Chiunque ha fieramente patito per
amore, e per amore dispregiato o negletto, ci metta qualcosa dei suoi
ricordi particolari e di ciò che ha veduto, udito, o letto degli
altri; mescoli, aggiunga un pizzico d'acerbo, come l'hanno in gioventù
i caratteri chiusi, e dopo i trent'anni ogni nato di donna, e s'avrà
formato un concetto di quella stizza profonda in cui si crogiuolava lo
spirito del nostro innamorato.

Sconvolto, rabbioso, tormentato da cento pazzi disegni, aveva preso a
furia la strada del borgo ed era entrato per la porta di san Biagio.
La meta della sua corsa doveva essere a tramontana, verso l'erta su
cui torreggiava il castello; senonchè, giunto ad un crocicchio in
mezzo all'abitato, parve essersi pentito; poichè, fatto un gesto di
sdegno, svoltò rapidamente a sinistra e andò ad uscire da un'altra
porta, che metteva sulla strada di Calice.

Pervenuto colà e data una torva occhiata su in alto, dove non gli era
parso dicevole andare, varcò il ponte antichissimo che cavalcava il
torrente. Quel ponte era di costruzione romana, e in ogni altro caso
Giacomo Pico si sarebbe fermato, come spesso soleva, a contemplarne i
poderosi piloni, che da forse millequattrocent'anni sfidavano l'ira
del tempo e doveano sfidarla altri quattrocento di poi, per essere
divelti in quella vece da un capriccio degli uomini. Ma allora, e' non
li degnò neppur d'uno sguardo, e passato sull'altra sponda del Calice,
si avviò verso la ripida costa della montagna, con passo concitato e
gagliardo, come se volesse pigliare d'assalto la roccia dell'Aurera,
che ne incoronava la cima.

Salire al castello non aveva voluto; dal mezzo del ponte, lo aveva
anzi guardato a squarciasacco; tuttavia, non sapeva allontanarsene
troppo, e, risalendo la costiera di rincontro, non rifiniva di guatare
lassù, verso quel nido d'avvoltoi; che tale gli pareva in quel punto
il castello de' suoi signori. E dire che quelle mura gli pareano pur
dianzi un nido di colombe, e che egli, per tanti giorni lontano, tra
le feste, le oneste accoglienze e gli svaghi naturali del viaggio,
altro non aveva in mente, altro non desiderava che di tornare a quel
nido! Così facilmente mutano aspetto le cose ai nostri occhi, secondo
che porta l'amore o l'odio, la benevolenza o lo sdegno!

Il Bardineto si era fermato a metà dell'erta, colle braccia incrociate
sul petto e lo sguardo teso verso il castello, probabilmente divisando
nell'animo tutti i particolari dell'arrivo del Cascherano, le cortesie
del suocero, gli amabili rossori della sposa e i lieti conversari
della nobile brigata, allorquando gli venne udito poco lunge uno
stormire di frasche, come per guizzar di ramarro attraverso i
cespugli.

Si volse in soprassalto, confuso e scontento, a guisa di chi si trovi
colto in mal punto. Diffatti, egli non era un ramarro, nè altro
animale che striscia per terra, il turbatore della sua pensosa
solitudine; e bene glielo avevano indicato per un suo simile certe
risa sguaiate che accompagnavano il repentino fruscìo.

Quegli che rideva in tal guisa era un uomo di fresca età, sebbene il
volto avvizzito e di fattezze non belle, nè brutte, ma semplicemente
volgari, potesse farlo apparire più presso ai confini della maturità
che non a quelli della beata giovinezza. Indossava un farsetto di
ruvido cuoio; portava la berretta alla scapestrata, come a dire sulle
ventitrè ore e tre quarti, un coltellaccio a fianco, e sulle spalle un
archibugio, specie di balestro da caccia, per la cui canna si faceva
scattare, a forza d'arco, una pallottola, od un sassolino.

Il Bardineto, che a prima giunta avea fatto quella faccia scontenta,
si rabbonì, com'ebbe raffigurato quell'altro.

--Tommaso!--esclamò egli.--Sei tu?

--Io, non altri, perdiana! E tu probabilmente sei Giacomo Pico,
marchese di Bardineto, e d'altre castella nel paese dei sogni?

--Sì, canzonami, lingua tabana! Così foss'io marchese, o conte, da
senno:

--Eh, eh!--soggiunse l'altro ridendo.--Sulla strada ci sei. Co'
marchesi e coi conti ci bazzichi la tua parte, e saprai che chi va col
lupo.... A proposito di lupi, io ti facevo ancora di là dai monti.


--Son tornato stamane.

--Con che aria lo dici! e con che sospirone di rincalzo!--esclamò
Tommaso, tirandosi indietro in atto di meraviglia.

Il Bardineto, che già s'era padroneggiato oltre le forze, si lasciò
cadere sulla sporgenza d'un masso che ingombrava mezza la strada, e si
nascose il volto tra le palme, tentando di soffocare un singhiozzo.

--Tommaso mio,--gridò egli,--così non fossi tornato!--

L'amico stette immobile un tratto a guardarlo; quindi posò
l'archibugio e andò a sederglisi gravemente da lato.

--Ah, ah! c'è del grosso in aria!....--diss'egli.--Giacomo, vuoi tu
dirmi che hai? ma chetati, perdiana! Non sei più un bambino da latte.
Lascia pianger le donne, che piangono spesso, perchè piangono bene.

--Tu ridi!--notò amaramente il Bardineto crollando il capo e traendo
un altro sospiro dal profondo del petto.

--Ma sì, rido;--rispose quell'altro, scaldandosi;--rido, come ha
sempre riso Tommaso Sangonetto, e come riderà fino all'ultimo, perchè
niente c'è al mondo che meriti d'esser pigliato sul sodo. E riderò di
te, fino a tanto non m'avrai dimostrato.... Ma già, che potresti tu
dirmi di nuovo! Io t'ho capito e da un pezzo; ella non t'ama.--

Il Bardineto trasaltò.

--Chi, ella? E come sai tu?

--Sicuro, non ho da saper nulla, io, quando tutti ne sanno e ne
parlano! O dimmi, per chi ci hai pigliati? che un marito, od un padre,
sia l'ultimo ad avvedersi, ed anco non si avveda mai più, concedo; ma
gli altri... eh, via! dovrebbero esser ciechi dalla nascita. Come se,
alla tua età, il non cercar donna alcuna tra le tue pari, il fuggire
ogni occasione di sollazzo, lo starti poi sempre ristretto ai fianchi
di quella gente lassù (c'intendiamo!), non fossero già segni bastanti!
Ah, vedi? chini la fronte; capisci anche tu che tutto il paese ha fumo
delle tue ambizioni?

--Tutto il paese!--ripetè Giacomo Pico sgomentito.--E adesso....

--E adesso... lo so anch'io; siamo in un ronco, e la è dura di dover
dare indietro, al cospetto di tutti. Ma infine, non sarai tu il primo
a cui è capitato il somigliante. Papi e imperatori, principi e
capitani ti offre la storia in buon dato, che hanno dovuto, un giorno
della lor vita, appender la voglia all'arpione. E non si son mica
guastati il sangue per così poco; hanno aspettato la volta loro, ed
hanno messa a più certo segno la mira. Impara anche tu; lascia di
trarre in arcata e lontano; mira da vicino e traggi di punto in
bianco; è buon colpo. Fa a modo mio, Giacomo, e non avrai sopraccapi.
Sai donde vengo? Da caccia, ti dirà l'archibugio; ma, in fede mia, non
ho tirato nemmanco a uno scricciolo. Vengo dalla Nena di Verezzi. Ma
già, tu non la conosci, ed hai torto. Una forosetta, un bel tocco di
donna, che non ha la compagna in tutto il marchesato, e cui non piace
la sputi. Ruvida di modi, non nego, e manesca anzi che no; gli è il
suo diletto. Le ho fatto una carezza e m'ha reso un urtone; son caduto
ad arte, ella su me e siamo ruzzolati ambidue. Ah! ah! se per fortuna
non ci tratteneva un letto di timo, si tombolava giù giù fino alle
Arene candide.--

E fatto questo discorso, Tommaso Sangonetto si cacciò a ridere
sgangheratamente. Aveva ragione, poichè doveva ridere per due.

--Tommaso!--esclamò il Bardineto, con accento di rimprovero.--E tu
puoi mettere il capo in questi amorazzi volgari?

--Ma sì! ma sì!--rispose l'altro con impeto.--Del resto, che intendi
tu per amorazzi volgari? Volgo è quantità; e nel numero, lo capisco,
ci si trova del buono e del gramo. Ma sappi, chi la guarda in ogni
penna non farà mai nido, come chi guarda ad ogni nuvolo non farà mai
viaggio. Così dicono i vecchi. A che si tende, poi? che si vuole? Io
vado senz'altro alla meta e per la strada più corta; magàri ci fosse
un tragetto! A fartela breve, non vo' moccicose, nè superbiose, nè
schizzinose, nè altrimenti noiose, le quali mi diano pastocchie,
speranze ed erba trastulla.

--Ma quali donne son dunque le tue!

--Eh via, quali donne! Son tutte compagne. Lisciate, contigiate,
razzimate, il più delle volte t'ingannano; le hai per fior di farina,
e gran mercè se alla seconda stacciata riescono a darti cruschello.
Quali donne! dirò io delle tue. Bada a me, Giacobino; le mie non hanno
tante trappolerie; rustiche sono e male ad arnese; ma egli c'è questo
di buono, che il vino non mente all'insegna e tu non resti gabbato
nella bontà della merce.

--Sarà;--disse il Bardineto, per metter fine al discorso.

Ma il Sangonetto era in vena, e proseguiva.

--Eh, già, capisco; a te quella superba ha fatto dar volta al
cervello.--

Giacomo Pico scosse il capo in atto d'impazienza.

--E non la perdi di vista, a quel che pare!--incalzò il
Sangonetto.--Tu guardi sempre lassù.

--Tommaso!--proruppe scorrucciato quell'altro,--Per l'anima di....

--Orbene!--ripiccò Tommaso, alzando la voce a sua volta.--Chiama i
morti dallo inferno e i santi del paradiso, fin che ti piace. Io ti
amo, non so perchè; vedo che soffri; sono il tuo medico e ti curo a
modo mio. Sapevo il tuo segreto; e metti pure che io non dovessi
saperlo, nè altri; tu stesso me lo hai sciorinato poc'anzi. Ed ora, io
non ti ho domandato che cosa tu sperassi per lo addietro da lei: ti
domando in quella vece che cosa speri adesso, poi che ella ti ha
richiamato alla tua condizione di vassallo.

--Non ella,--gridò il Bardineto,--non ella, il destino. Vedi,
Sangonetto, tu ti sei giudicato da te. V'hanno cose che tu non
intendi, nè verresti a capo d'intendere. Sì, io l'ho amata; ma potevo
io forse operare diverso? Fanciullo mi han tratto al castello; è
cresciuta sotto i miei occhi; la vedevo ogni giorno suo padre mi è
debitor della vita; ella mi ha abbracciato...

--E baciato; storia antica!--interruppe Tommaso.--E tu, povero amico,
hai pigliato i bisantini per oro di coppella. Bacio di bocca cuore non
tocca, o non dovrebbe toccare. Comunque sia,--aggiunse il Sangonetto a
mo' di correzione,--pensa che la era una bambina, o giù di lì. Ma più
tardi, ti ha ella mai incuorato a sperare?

--Che ne so io? Si può egli mai dir d'una donna, anche alla vigilia di
farla tua, o di perderla per sempre, ch'ella t'abbia incuorato ad
amarla?

--Eh, per un pazzo, non ragioni poi male! A me, per esempio, la Nena
di Verezzi, che non è una Luccrezia romana, non ha forse data la più
rustica gomitata, proprio un momento prima di andar ruzzoloni? Ah, ah!
Ma, torniamo al caso: tu se' in male acque, mio povero Giacomo! Ma che
diamine, dico io, t'è saltato in mente di andar così in alto coi
desiderii? Meglio sarebbe stato per te d'inerpicarti sull'ultima balza
della Caprazoppa, là dalla parte del mare, per cogliervi i falchi nel
nido. Vedi, siamo vassalli. Il notaio David, lo sputasentenze, nel cui
studio ho passato i begli anni della mia giovinezza, te le dirà lui
per filo e per segno, le nostre delizie. Censuarii, aldioni, coloni,
servi della gleba, soggetti a taglia e soggetti a prestazione, la è
tutta una beva, e non c'è altra differenza che del più o del meno.

--Io sono libero uomo!--ripiccò alteramente il Bardineto.

--Uhm!--disse Tommaso.--Libero! e chi lo è? Tu appartieni alla classe
dei commendati. I tuoi vecchi erano _boni homines_, i quali, per
custodire da ogni insidia di potenti il tranquillo possesso del loro
lembo di terra, lo proffersero in podestà del signore, ne riconobbero
da lui l'investitura e diventarono censuarii, come il primo _quidam_
che da lui avesse ottenuto un poveretto a livello. La terra è serva, e
chi v'ha stanza, del pari. Non c'è modo di uscirne; qui l'aria rende
servi coloro che la respirano. Commendati, ligii, o censuarii
(chiamali con quel nome che vorrai) e' son tutti soggetti a
prestazioni e a tributi, e non hanno un'ora di bene. Una volta e' sono
richiesti di riparare le fortificazioni del castello; un'altra volta
di battere il grano e di trasportare il vino del padrone; un'altra
sono chiamati per la guardia notturna; un'altra ancora per ferrare i
cavalli. Un dì si paga censo di grani, di farina, di miele, di vino;
un altro di capponi, un altro di pane, carni e prosciutti. Ottieni
un'esenzione? Paghi. Un diritto di pascolo? Paghi. Un diritto di
pesca? Paghi. Dimori in una borgata e ci capita il marchese colla sua
masnada? Devi dargli l'alloggio e fargli la spesa, uno o più giorni
dell'anno, o pagarne in moneta il riscatto. Il marchese marita sua
figlia? C'è taglia sopra i vassalli. È preso in guerra? C'è taglia.
Arma cavaliere il figliuolo, o cavalca fuori del marchesato? Taglia,
sempre taglia. A te muore il padre? Paghi, per potergli succedere. Ti
ammogli? Devi dare al marchese un presente, perchè consenta alle
nozze, e riscattarti con una somma non lieve da un certo diritto
fastidioso, ch'egli ha, di levar le primizie.--

Qui il Sangonetto si fermò per pigliar fiato e per vedere che senso
facevano le sue argomentazioni sul suo malinconico sozio. Ma Giacomo
Pico, o non gli desse retta, o non credesse di doverlo contraddire,
taceva. E allora Tommaso, con quell'aria di trionfo che già s'è
notata, proseguì l'invettiva.

--Questo è il caso nostro; eccoti la sorte serbata a noi, _boni
homines_, uomini liberi, sotto la signoria dei nobili discendenti di
Aleramo. Non entro in tutte le miserie, a gran pezza più gravi, dei
servi della gleba a delle mani morte, taglieggiabili a misericordia,
cioè, a dire, fin dove piace ai nostri magnifici signori di aggravare
il _summum jus_ del loro talento. E servi, come siamo, tenteremmo di
pareggiarci ai nostri padroni, di entrare, puta caso, in parentado con
essi? Alla men trista, se siamo giovani, di bell'aspetto e di buona
voglia, possiamo riuscire donzelli, o scudieri, meritarci le grazie
segrete d'una annoiata castellana e le segrete prigioni e i
trabocchetti d'un castellano rabbioso. Ora, io non son bello, nè
giovane, e non ho voglia di mettermi in questi ginepreti. Il mio
esempio t'insegni; la mia filosofia ti persuada, o Giacomo Pico, e ti
basti l'essere meglio accetto di me, ma sempre come soggetto, ai
signori del luogo. A noi tocca di obbedire, e gran mercè se si può
farlo men che si può. I nostri diritti di signori esercitiamoli sui
casolari; non c'impuntiamo a voler l'impossibile. Di belle ragazze, e
meglio in apparenza che non sia la giovine castellana, è pieno il
Finaro. Vedi, a me piace due cotanti di più la Gilda, la nipote di
mastro Bernardo; e se non fossa che le buone grazie di madonna Bannina
e della sua smancerosa figliuola l'hanno fatta montare in superbia....

--Anche su quella avevi posto gli occhi?--dimandò Giacomo Pico,
meravigliato di tanta facilità amatoria del suo faceto compagno.

--Sicuro; e perchè no?--disse a lui di rimando il Sangonetto.--Sono
uomo libero in ciò, e dove mi vien fatto darla ad intendere, pianto a
dirittura le insegne.

--Sta bene; notò Giacomo Pico, stringendosi nella spalle;--ma se
madonna Bannina avesse mai fumo de' tuoi disegni--che certo non
saranno fior d'innocenza....

--Oh, potresti giurarlo, nol sono;--interruppe Tommaso, ridendo
sgangheratamente.--E perciò, vedi, mi tengo alla larga. Il castello mi
dà noia, e i begli occhi della Gilda non mi faranno mai perdere la
tramontana; la selvaggina mi piace, e se la mi capita a tiro
d'archibugio, povera a lei, le scatto un colpo; se no, no, Che
diamine! Non amo le frustate, io; e quei di lassù sarebbero capaci di
farmi pigliar la misura delle spalle. Questo, io lo intendo, ti parrà
un ragionar da filosofo; ma, mio caro, per un'ora di sollazzo non è da
comperarsi un monte di guai. Si ha una vita sola, a questo mondo;
perchè farla arrangolata e tapina? Io non vo' grattacapi. Pur troppo
ne avremo, e non cercati da noi. Che te ne pare di questa burrasca che
è in aria? Non è forse ella il colpo di grazia? Ed anche questa ci
bisognerà parare; ma alla croce di Dio, non vo' pigliarmi fastidi
oltre il bisogno.

--Che dici tu mai?--esclamò il Bardineto, con un accento da cui
trasparivano lo stupore e lo sdegno.--Si combatte per casa nostra.

--Ah sì, casa nostra!--replicò sogghignando quell'altro.--Casa dei
Carretti, vuoi dire! Bada a me, Giacomo Pico; noi siamo quei leoni
aggiogati che ci ha sulla insegna il marchese. Si rode il freno
d'acciaio, e, spinte o sponte, si tira il carro simbolico, lo scudo e
l'elmo coronato dei nostri amati signori. Questa è la nostra sorte, e
non vedo che possa farsi migliore. Da un pezzo io la vengo
rimuginando, questa bellissima sorte, e la paragono a quella di Noli e
di Savona, città vicine, città marinare, che un tempo rodevano il
freno come noi, tiravano il carro simbolico come noi, e più avvedute,
più audaci e per conseguenza più fortunate di noi, hanno rotto il
freno, e piantato il carro in mezzo alla strada. Son liberi, i nostri
compagni di servitù; fanno essi le leggi loro, provvedono di per sè ai
loro bisogni; soli noi la duriamo con questo ignobil giogo sul collo.
E sia pure, dacchè non si ardisce di scuoterlo; ma perchè ci
scalderemmo il sangue? perchè ci metteremmo noi ad ogni sbaraglio, per
chi ci vuol servi? perchè faremmo nostri i suoi litigi con questo
quello de' suoi particolari nemici?--

Il Bardineto era stato ad udirlo con molta attenzione. E come Tommaso
ebbe finito, così prese a rispondergli:

--Sai che t'ho a dire?

--Di' su!

--Che quando si pensa come tu pensi, e' bisogna far altro da quel che
tu fai. La si rompe col suo signore e si muove a tumulto il popolo
contro di lui; ma non si aspetta che egli abbia guerra con altri, per
venir meno al debito di vassalli verso di lui, di cittadini verso la
patria.

--Gli è questo un sentire nobilmente,--replicò il Sangonetto con
piglio sarcastico,--e il tuo signore e nimico te ne ricambia a misura
di carbone, facendoti trar calci all'aria, penzoloni dai merli della
torre più alta del suo castello, che tu non hai potuto pigliare
d'assalto. La non m'entra, sai, la non m'entra, questa tua nobilissima
temerità, e preferisco il mio prudente consiglio. Di nulla io mi tengo
debitore ai nostri padroni; taglia e prestazione, tributo di borsa e
tributo di persona, tutto io pago per forza, e il meno che mi vien
fatto. Anch'io, vedi, sono stato al pari di te alle impresa di guerra;
ma in quella che tu, cavaliere audacissimo, facevi prodezze e menavi
strage entro le file di Baldazzo, io, bandieraio della salmeria,
serbavo la pancia pe' fichi. Brutta cosa, dirai. Ma tu, che ci hai
guadagnato a fare il paladino, e correre il rischio d'un verrettone
nel cuore, o d'una mazzata sul capo?

--Oh, fosse venuta allora!--sclamò il Bardineto chinando gli occhi a
terra e mettendo un sospiro.

--Affediddio, non ci mancherebbe altro che aver dato la vita a chi te
la stima sì poco! E invero, perchè dici tu questo? Perchè ti hanno
pagato di quella buona moneta che sai. La fiducia del marchese! Grazie
infinite; che è dessa? Leviamo la buccia, e consideriamola ignuda.
T'hanno sperimentato di buona pasta, ti adoprano, ti spendono in ogni
loro bisogno, come si spende un castaldo, un procuratore, un ser
faccenda, un ceccosuda. Tu se' un arnese del castello. Giovi? ti si
leva dal dimenticatoio. Non giovi più? ti si mette in disparte. È
questo il tuo stato; non sperare di più. Ma tu sei uomo, hai occhi per
vedere, cuore per desiderare, servigi da metter fuori, a fondamento
delle tue ambizioni. Orbene, la è finita per te. Ami la figlia del tuo
signore; chi non se n'era avveduto? e chi, guardando alla sostanza,
non t'avrebbe riputato un buon partito? Tu fedel servitore della casa,
tu valoroso cavaliere, tu messaggiero accorto e sicuro, tu anima
d'ogni più malagevole impresa, che non dovevi riprometterti, in
ricompensa dell'opere tue? Ma no; tu eri e resti un vassallo e la
donna che desideri, che credi di aver meritato, te la ruba il primo
venuto, perchè gli è nobile e signor di castella.

--Ah, tu sai?....

--Certamente; un Cascherano, conte di Osasco, che è un borgo di là da
Torino. Questo matrimonio è una sorta di rifugio, e il marchese
Galeotto, alla disperata, l'ha scelto. Poteva dare la figliuola ad uno
di questi Adorni, che, cacciati da Genova, sono venuti ad appoggiar la
labarda da noi e a congiurare contro la patria loro. Ma questo era il
peggio dei peggi. L'ha negata a un Fregoso, che è doge, ma che
potrebbe essere rovesciato da oggi a domani; non poteva pensare a un
Adorno, che, anco tornando in alto posdimani, potrebbe dar la capata a
sua volta. Quella è gente instabile e non c'è da far conto sovr'essa;
meglio un nobile di là dai monti, che ha meno grandezza di nome e più
sicurezza di stato. E ad un di costoro, che niuno sapeva chi fosse, si
sacrifica il valore, la divozione, l'amore infinito di Giacomo Pico.
Donde tu devi vedere che sorte di virtù siano queste tue, e come ben
collocate!

--Ah, io ne morrò!--prorruppe il Bardineto, cacciandosi a furia le
mani nei capegli.

--E dàlli,--soggiunse Tommaso.--O non ci hai proprio nient'altro da
fare? Ma sai che mi faresti uscire dai gangheri? Infine, che cosa
desideri? per che cosa ti arrovelli? Per una donna che ti piace.
Orbene, da Adamo in poi ciò è capitato a più d'uno, e non so che
alcuno abbia perso il lume degli occhi, prima di averne l'intiero.
Pensaci un tratto; o le piaci tu pure, o non le piaci. Se non le vai a
genio, ci hai il tuo conto saldato; puoi mandarla a quel paese, o
aspettarla al varco e far vendetta allegra; ad ogni modo, egli non c'è
da desiderarsi la morte per una donna che non ti abbada. Se in quella
vece la ti vede di buon occhio, aspetta, perdiana; il tuo giorno
verrà. O che credi, perchè la diventa contessa d'Osasco, t'abbia a
fare il viso dell'arme? Il non esser buono per marito, non vuol già
dire.... che anzi!.... In questi casi, un rifiuto io l'avrei per
grazia profumata. La donna, amico mio, è una gran bella cosa e ci ha i
suoi dolci momenti, che la getteresti sopra ogni altra delizia del
mondo; ma guai a chi l'avesse sospesa al braccio tutte le
ventiquattr'ore del giorno; e' ci sarebbe da pregarsi il fistolo! Or
dunque, Giacomo Pico, sta di buon animo, e non ti lasciar scolorire le
ultime rose sul volto, che non abbia a parer meglio di te il
Cascherano, quando verrà a fare il mogliazzo.

--È già venuto;--mugghiò il Bardineto.

--Ah, ah! non si perde tempo? E sia pure e ci resti, in sua malora! Tu
non mi fare il poeta; che saresti ridicolo, e chi fa ridere ha perso
la causa. Ti piace la donna! tienti sull'orma e aspetta il buon punto.
Chi sa? Non t'eri accorto, e forse la tua stella è già apparsa
sull'orizzonte. Ma sopratutto, bada, non ti guastare il sangue, non
pigliar nulla a scesa di testa; è l'essenziale. A proposito di scesa,
o che, si sta qui fino a notte? Io ho fame, e tu non devi rimanere
quassù, a far l'uomo salvatico. Si scende, dunque?

--No, Tommaso; non per di qua!--disse Giacomo Pico, torcendo gli occhi
in atto supplichevole.

--No? Orbene, come ti pare. Largo ai canti e scendiamo alla Marina.--


Ciò detto, e per mandare i fatti di costa alla parole, il Sangonetto,
che già s'era alzato da sedere, diè di piglio al suo archibugio e se
lo gittò in spalla; con un colpo della palma distesa si acciaccò la
berretta sul capo e, per uno di que' sentieruoli che serpeggiavano
lunghesso i fianchi della montagna, s'avviò alla discesa.

Giacomo Pico si mosse dietro di lui, non rassegnato affatto, nè
affatto sconsolato, bensì pieno di maltalento contro di sè, contro di
tutti, pronto ad affogare la sua rabbia nel vino, come a sfogarla in
una mareggiata di sangue.

Accadeva al Bardineto ciò che spesso accade a molti infelici suoi
pari, che la compagnia e i conforti d'un uomo volgare mutano indirizzo
al loro tormento. Sia che un intimo senso li ritenga dal commettere un
alto dolore in piena balìa di chi non è nato ad intenderlo, o sia che
la medesima volgarità del compagno pigli il sopravvento sulla fibra
umana (già, per istinto, volgare, e non mai delicata, nè nobile, se
non per eccesso, che non è naturale nell'uomo), o sia finalmente che
la vostra vanità messa al punto, s'inalberi e comandi agli atti nostri
una apparenza di fortezza, egli è un fatto che il dolore, almeno fino
a tanto che duri quella nuova maniera di contrasto, non pure fa le
viste di cedere, ma veramente si scema, o si addorme nel profondo
dell'anima. Ripiglierà forse vigore, crescerà d'intensione più tardi,
troverà le occasioni a romper fuori, tanto più impetuoso, quanto più è
rimasto compresso ed inerte; ma tace, frattanto, e qualche volta, fra
mezzo alle cento cure svariate del vivere, agli aspetti diversi delle
cose, ai ragionari delle liete e noncuranti brigate, lascia libero il
campo alle più discordi sensazioni, financo a quella che ci sforza di
ridere. Cose che non si spiegherebbero altrimenti, senza questa
mobilità somma detta umana natura.

Del resto, è anche vera un'altra cosa, ed accade agli animi deboli,
che sono poi il maggior numero della figliolanza di Adamo. Ci si apre
con un gentile ascoltatore, con un virtuoso consigliere, e si piange o
si è sconfortati, ed è nobile sfogo che ci eleva lo spirito ad altezze
o non prima vedute, o non reputate accessibili all'uomo. Si commettono
i proprii dolori ad orecchio volgare; da labbro volgare si aspettano i
conforti e i consigli; ma gli uni e gli altri ci affondano nel pantano
dei sensi ingenerosi; crassi vapori c'involgono e ci nascondono il
sereno de' cieli; il dolore, fatto ira e bestemmia, bramosia di
vendetta, di mal per male, non ci affina lo spirito, lo ingombra, lo
accieca, vi attossica le sacre fonti del bene.

I due amici scendevano, come si è detto, lungo la costa del monte.
Giacomo Pico era taciturno e grave; ma tratto tratto scuoteva il capo
e sbuffava a guisa di toro ferito. Il Sangonetto taceva del pari, e
certo non facea bocca da ridere; ma chi gli fosse stato dinanzi e lo
avesse veduto a dondolare il capo e ad aggrinzare di tanto in tanto le
labbra, avrebbe detto che il consolatore di Giacomo Pico se la rideva
dentro di sè, di quel riso tacito e profondo che fa tanto buon sangue.
Gongolava, il Sangonetto; e perchè? Perchè la era finita una volta,
quella cuccagna del Bardineto; perchè gli era finalmente caduto, quel
superbioso, che si struggeva di salire tant'alto; perchè sprofondava
nella mota comune, quel sognatore, quel pazzo, che cavalcava così
alteramente le nuvole.

E non era crudele, il nostro Tommaso; non odiava già il Bardineto; che
anzi lo amava, come poteva egli amare qualcuno, per consuetudine
antica, e perchè non gli era venuta mai occasione di scontro. Sì,
certo, gli era parso qualche volta noioso, con quel suo starsene in
dimestichezza coi grandi, così felice in apparenza tra le bellezza del
castello Gavone, libero di profferire i suoi omaggi a madonna Bannina,
bellezza matura, o a madonna Nicolosina, bellezza nascente, o alla
Gilda, bellezze di mezzo, ma più franca, secondo lui, e più
attrattiva. Per altro, pensandoci su, il Bardineto non corteggiava la
Gilda; era cotto, per sua disgrazia, della giovine castellana; gli era
un uomo spacciato; non era da invidiarsi poi troppo. Lo amava dunque,
sì lo amava; ma ora, poi, dieci cotanti di più, sapendolo giù d'ogni
speranza e d'ogni superbia. Donde quel giubilo interno, quel gongolo,
che gli facea dimenare il capo e aggrinzare le labbra. Anima umana!

In questi pensieri, i due compagni, erano giunti ai piedi del monte,
e, valicato il Pora su certi passatoi disposti a giuste distanze sul
pelo dell'acqua corrente, entravano in una viottola, che risaliva
verso levante, ad incontrare la strada maestra dalla Marina al Borgo.
E pochi passi avevano fatti in quella stretta, allorquando venne loro
udito un calpestìo, insolito per que' luoghi e in quell'ora.

Giacomo Pico, che era stato il primo a notarlo, affrettò il passo,
stese la mano sul braccio del Sangonetto, come per trattenerlo, e
stette coll'orecchio teso in ascolto.

--Cavalli!--soggiunse egli, rispondendo ad un gesto del compagno, che
si era voltato stupefatto a guardarlo.

--Cavalli, sicuro;--disse di rimando Tommaso;--e poi?

--Non hai indovinato? Son essi.

--Essi? Pronome, e nient'altro;--ripigliò il Sangonetto;--io non
t'intendo.

Giacomo Pico crollò le spalle in atto d'impazienza.

--I cavalieri di questa mane;--aggiunse egli poscia;--il conte
d'Osasco e il suo amico, o famiglio che sia.

--Ah, ah!--sclamò il Sangonetto, mettendosi finalmente
sull'orma.--Buon viaggio a loro! Ma ora che ci penso, o come vuoi che,
giunti a mala pena, già se ne tornino via dal castello? Il tratto, in
fede mia, non sarebbe cortese.

--Ma! che ne so io?--rispose Giacomo Pico.--D'una cosa son certo; che
sono costoro. Me lo dice il cuore....--aggiunse con accento di
profonda amarezza.--Seguimi; or ora vedrai.

E senz'altro aspettare si mosse con rapido passo alla svolta. Il
Sangonetto fu pronto a seguirlo.

Il cuore del Bardineto non si era ingannato. Erano proprio loro,
messer Pietro e il Picchiasodo, che venivano di buon trotto per la
strada maestra, con quel fare spigliato e contento di chi s'è sciolto
d'ogni molestia e non ha più a darsi pensiero che di arrivare alla
posta.

A Giacomo Pico la vista del più giovine dei due cavalieri diede una
scossa fortissima al cuore. Era quegli il suo fortunato rivale, il suo
nimico giurato. E gli prese in quel punto una maledetta voglia di
buttarsi al pettorale del palafreno, di rovesciare il cavaliere e di
finirlo d'un colpo.

La via era stretta, e, per andar oltre, con quell'intoppo dei due
sopraggiunti, a messer Pietro convenne di spronare il cavallo e farsi
innanzi da solo.

Il Bardineto lo divorava degli occhi. Era bello, messer Pietro, ed
ilare in volto; due cose che lo rendevano uggioso a quell'altro.

Senza por mente all'effetto che cagionava la sua presenza, messer
Pietro, cortese per consuetudine di gentiluomo e più ancora per la
contentezza del momento, nell'atto di cansarsi col suo palafreno dai
due viandanti, fece un gesto a mo' di saluto, che certo credeva gli
fosse ricambiato in quel punto.

Frattanto, Giacomo Pico, innanzi che il Sangonetto potesse indovinare
le sue intenzioni e trattenerlo, si faceva in mezzo alla strada e,
afferrando lo redini del cavallo, salutava il suo avversario con
queste parole:

--Messer cavaliere, mi consentite voi pochi istanti di colloquio?--



CAPITOLO IV.

Nel quale si veda messer Pietro perdere la pazienza, il Sangonetto la
ciarla, il Picchiasodo l'occasione, Giacomo Pico il tempo e mastro
Bernardo la scrima.


All'atto insolito e inaspettato, il primo pensiero di messer Pietro fu
di metter mano alla spada e di castigar l'arrogante che ardiva
afferrare le redini del suo palafreno.

Senonchè, a lui, come un giorno ad Achille, la sapiente Minerva
dovette susurrar qualche cosa nell'orecchio. O piuttosto, senza andare
a scomodare gli Dei dell'Olimpo, che dormono da mille cinquecent'anni
il gran sonno, è da credere che messer Pietro fosse di animo pronto a
vedere per ogni lato le cose, come audace di mano ad operarle. E in
quel punto egli certamente pensò che quei due sopraggiunti non erano
assassini di strada, che alla più trista si era a numero pari, e che,
finalmente, in paese nuovo e nemico, la prudenza non era mai troppa,
nè mai gli avrebbe nociuto un pochino di calma. Dopo tutto, che ne
sapeva egli? Poteva anch'essere usanza patriarcale di quei popoli, di
trattare con tanta dimestichezza la gente.

E messer Pietro ristette, spianò le sopracciglia, che s'erano a tutta
prima aggrondate; fe' un gesto da fianco per chetare il Picchiasodo,
che egli colla coda dell'occhio avea visto dare un sobbalzo in arcione
e spronare avanti il cavallo; quindi componendo le labbra ad un
risolino tra cortese ed ironico, disse a Giacomo Pico:

--Parlate, messere, quantunque non sia luogo nè momento da ciò; son
tutto orecchi ad udirvi.--

Parlare! era presto detto; ma il farlo non era la più agevole impresa.
Il Bardineto ci aveva bensì avuto la forza del primo impeto; ma lì sui
due piedi, senza aver meditata la possibilità d'una conversazione
tranquilla, tirato in sul falso da quella urbana risposta, non trovò
più il filo. E balbettando un poco, e stizzito con sè medesimo di non
averci pensato prima, uscì in questa dimanda:

--Come va che tornate via così presto? Il castello non ha avuto potere
di trattenervi?--

Messer Pietro lo guardò stupefatto; ma non uscì di misura.

--Che dite mai?--ripigliò, col medesimo accento di prima.--È luogo
stupendo, il castello, e fo conto di tornarci prestissimo.

--Ah!--sclamò il Bardineto, fremendo di rabbia,--E quando si faranno
le nozze?--

Messer Pietro fu ad un pelo di uscire dai gangheri. Per altro, gli
venne il sospetto di aver da fare con un pazzo, e si volse, con aria
trasognata, al Picchiasodo. Il suo vecchio compagno rideva.

--Messere,--disse il Picchiasodo, affrettandosi a commentare il suo
riso,--la notizia si è sparsa, non c'è più verso di tenerla celata.
L'oste dell'Altino ha cantato.--

L'altro ricordò allora le supposizioni di mastro Bernardo, e un
sorriso venne a sfiorargli le labbra; ma fu pronto a reprimerlo. Non
era più un pazzo, bensì un insolente, colui che lo aveva fermato per
via e lo interrogava in tal guisa.

--Via, per l'andata, poteva correre; pel ritorno, non già!--rispose
egli, facendosi grave.

Indi, rivolto a Giacomo Pico, gli parlò asciuttamente così:

--Messere, io fo nozze quando mi torna, e non dò ragguagli per via al
primo che capita.

--Avete fatto il conto senza di me!--soggiunse Giacomo Pico,
digrignando i denti, e facendo l'atto di afferrare da capo le redini.

--Giù quelle mani!--tuonò messer Pietro, in quella che facea dare
indietro due passi al suo palafreno.--E spulezzami tosto, o ch'io
lascio al mio cavallo di tritarti come paglia, villano!--

Giacomo Pico, che il pronto inalberarsi del cavallo avea fatto
desistere dal suo tentativo, si morse le labbra all'udire quelle
superbe parole, ma non diede già indietro d'un passo. Incrociò in
quella vece le braccia sul petto; rispose con una crollata di spalle
al Sangonetto che gli raccomandava di non far ragazzate e di pigliare
dal consiglio d'un nemico quel che c'era di buono; indi, misurando ad
una ad una le frasi, che gli uscivan sibilando dalle labbra contratte,
così rimbeccò il suo avversario:

--Non son villano, e le opere mie, in attesa di altre prove, potranno
chiarircene largamente. Voi, a cavallo, messere, potete sbarattarci
d'un salto e darvi alla fuga; lo vedo, e lo temo. Ma dove sarebbe
allora la differenza tra voi, conte di Osasco, e il più vile de'
vostri vassalli? e quale rimarrebbe la vostra fama agli occhi dalla
donna che amate?

--Conte di Osasco!--ripetè messer Pietro, voltandosi al
Picchiasodo.--Ah, mi ricordo;--soggiunse a bassa voce,--lo sono, a
quel che pare, e non posso disdirmi.--

Indi, rivolto il discorso a Giacomo Pico, gli chiese, con quel suo
piglio sarcastico:

--E chi sei tu? Forse il duca Namo di Baviera, tornato tra i vivi? O
forse Guerrino il Meschino, cercator d'avventure?

--Rattenete la lingua, per utile vostro!--replicò il Bardineto,
impallidendo dallo sdegno.--Son tale che ha diritto sopra un tesoro, e
non consentirà che altri glielo rubi. Son tale che desidera di vedere
alla prova se la vostra spada è degna della vostra arroganza.

--Per san Giorgio, gli è questo un audace linguaggio,--disse a lui di
rimando quell'altro,--e per la prima volta ch'io l'odo, mi piace.

--Vi piaccia, o no, gli è il mio, e lo udrete più d'una volta al
Finaro, se vi piglierà il ruzzo di tornarci.

--Per Dio, se ci tornerò! Non foss'altro, per vedere di quanti palmi
t'avranno scavato profonda la fossa!

--Di ciò parleremo;--borbottò Giacomo Pico.--Vi piaccia intanto
calarvi d'arcione.

--Volentieri, se m'indicherete un luogo dove possiamo sbrigare i fatti
nostri meglio che sulla strada maestra.

--Qui presso, nei greti della fiumana.

--Ottimamente; insegnate la strada.--

E così dicendo, messer Pietro, sempre ilare e disposto alla celia,
spronò il cavallo per tener dietro a Giacomo Pico. Ma la faccenda non
garbava punto al Picchiasodo, a cui era balenato un pensiero più
vasto.

--Non già!--entrò egli a dire sollecito.--Con vostra licenza, messer
Pietro, padron mio colendissime, abborro l'acqua, e ricordo in buon
punto che siamo lontani appena un cento di passi dall'insegna
dell'Altino. Questi degni messeri lo sapranno benissimo, che sono del
paese; c'è buona l'accoglienza....

--E meglio il vino!--rincalzò, chiudendo la frase, il Sangonetto.

--Ah, bravo!--ripigliò il Picchiasodo.--Veniteci in aiuto anche voi,
messere dell'archibugio. Siamo dunque intesi; si va a sbrigar la
faccenda all'Altino. L'aia è piana e lucente come uno specchio, e sul
battuto c'è posto pel giuoco di quattro lame. Che ve ne pare? Voi
certo avete pratica del luogo. Non ci si è abbastanza liberi in
quattro?--

Tommaso Sangonetto lo guardò con aria melensa. La proposta di quel
vecchio barbone, che ci avea un paio di spalle e un torace da fare
alle forze con Ercole, non gli andava a fagiuolo. Chinò la testa in
atto di chi vuol dire e non dire; ma dentro di sè fece atto di
contrizione per la sua lingua, che era stata un po' troppo latina.

--Andiamo dunque laggiù!--disse il Bardineto, avviandosi primo.

I due cavalieri incontanente lo seguirono. Tommaso, quantunque di mala
voglia, si messe al suo fianco.

--Ah, Giacomo! Giacomo!--gli andava intanto bisbigliando
all'orecchio.--L'hai fatta grossa!

--Che!--rispose il Bardineto, crollando superbamente le spalle.--Mi
sfogo, perdio!

--Ma pensa al poi, te ne prego! E che dirà il marchese, quando verrà a
risaperlo?

--Dirà.... dirà quel che gli parrà meglio di dire. Già, sentimi,
Tommaso; o morto io, o morto quest'altro, s'è sciolto finalmente ogni
nodo.

--Uhm! Mi pare che tu ne aggiunga, di nodi; e guai se vengono al
pettine.

--Vattene, allora!--ripiccò spazientito il Bardineto.

--Ma.... lasciarti così solo?... Un testimone ti sarà pur
necessario!--entrò a dire accortamente Tommaso.

--Un testimone! E per che farne?

--Eh, quel che si fa d'un testimone, perdiana! Il testimone vede e può
all'occorrenza far fede. Inoltre, la sua presenza può tenere in
soggezione gli avversarii. Capisco che non s'ha da appiccar zuffa in
quattro, essendo voi due soli alle prese, e che io, pure volendo, non
lo potrei, per non tirarmi addosso lo sdegno del castello, a cui non
sono in grazia, come tu sai; ma infine, un amico presente....

--Capisco anch'io; non dirmene altro!--interruppe il Bardineto, che
vedeva l'amico inteso a fermar chiaramente i patti della sua
accompagnatura all'Altino.--Io non ho bisogno d'aiuto; la quistione è
mia, tutta mia; tu non c'entri. E adesso, se ti piace venir testimone
allo scontro, fa come t'aggrada; io non ci ho nulla a vedere.--

Il Sangonetto chinò la testa, in atto di chi si rassegna, suo
malgrado, ai voleri d'un amico. E col cuor più tranquillo, e per
conseguenza col passo più spedito di prima, si fece innanzi alla
comitiva.

In quelle chiacchiere, erano giunti presso all'Altino. Lo scalpitar
dei cavalli avea fatto correre il ragazzo dell'osteria sull'uscio di
strada.

--Padrone! ohè, padrone!--aveva egli gridato.--Presto, fatevi innanzi;
son qua di ritorno i gentiluomini di questa mattina.

--Che diavol dici?--esclamò mastro Bernardo, uscendo sull'aia.--O che
ci verrebbero a fare?

--Eh, che so io?--disse il Maso, impenitente nella sua celia.--Forse
ad assaggiare quel vinello fiorito....

--Zitto là, mascalzone! Oh, magnifici messeri....--

Come è facile argomentare da questo trapasso dell'oste, entravano
allora Giacomo Pico e Tommaso Sangonetto a piedi, lasciando scorgere
dietro di loro messer Pietro e il Picchiasodo a cavallo.

Mastro Bernardo, confuso e giubilante ad un tempo di quella nuova e
non più sperata ventura, corse sollecito per tenere le redini a messer
Pietro, che fu pronto ugualmente a balzar giù di sella.

--Che buon vento, messeri....--andava dicendo frattanto l'ostiere;--e
come va che io sono onorato....

--Mastro Bernardo,--gridò il Picchiasodo, troncandogli i suoi
complimenti a mezzo,--non lo sai tu l'adagio: chi n'assaggia ci torna?
A te, ragazzo; tieni i cavalli.

--Ve li metto al coperto? disse il Maso, pigliandoli per le briglie.


--No, no, tirati là in fondo, ed aspetta,

Il ragazzo afferrò le briglie e, superbo di prestare i suoi servigi a
così nobili bestie, menò i cavalli in fondo dell'aia.

--Che fortuna per l'osteria dell'Altino!--ripigliò mastro Bernardo,
che non aveva posto mente alle ultime parole del Picchiasodo,
profferite a voce più bassa.--E dite, magnifici messeri; poichè il
numero è cresciuto, s'ha egli da metter due polli allo spiedo?

--Ah, ci vuol altro che spiedo! Or ora vedrai;---gridò il Picchiasodo
con aria beffarda.--Per un bicchiere di vino, intanto, non si dice di
no. Almeno....--soggiunse dopo essersi guardato dattorno e aver veduto
le facce rannuvolate de' suoi compagni,--io lo bevo, e posso fare
anche la parte degli altri.

--Vado subito;--disse l'ostiere;--e sarà di quel tale, ve lo prometto.

--Sta bene, e non mi tradire!--aggiunse burlescamente il
Picchiasodo.--Porta il fiasco incignato, che già sappiamo che cos'è, e
non avrà avuto tempo A pigliare lo spunto.--

Mastro Bernardo, tutto nella sua beva, entrò in casa, senza aver
capito nulla di quell'improvviso ritorno, nè pigliato sospetto dalla
presenta del Bardineto, che due ore innanzi era andato via così in
furia.

Più accorto di lui a gran pezza, il Maso aveva odorato l'aria, e
aspettandosi qualcosa di grosso, stava là rincantucciato in mezzo ai
cavalli, con tanto d'occhi a guardare la scena.

--Or dunque, a noi!--sclamò messer Pietro, poichè i quattro arrivati
furono soli sull'aia.

E così dicendo, si tolse di dosso la sua cappa di scarlatto verde,
foderata di vaio, e la gittò sulla sella del suo palafreno.

Giacomo Pico, a sua volta, si tolse la cappa di bigello, e rimase,
come il suo avversario, in farsetto.

E già erano, per tacito accordo, intesi a pigliar campo e metter mano
alle spade, allorquando il Picchiasodo entrò a dire la sua.

--Un momento, messeri, di grazia!--

I due avversarii si fermarono a tempo, e stettero guardando il vecchio
soldato, aspettando che volesse parlare.

Ma il Picchiasodo non aveva da fare un lungo discorso.

--Come si combatte?--dimandò egli brevemente, ma con un certo
sussiego.

--O come?--ripiccò messer Pietro.--Che novità è questa tua? Si
combatte con questa, e chi ne assaggia un palmo rimane sul terreno.

--Un palmo! grazie tante!--mormorò il Sangonetto tra sè.

--Certo,--proseguiva messer Pietro,--se fossimo in campo chiuso, con
giudici e testimoni, il vincitore avrebbe le spoglie, e si potrebbe
anco stabilire il riscatto del vinto; Ma qui non siamo nel caso; ci si
ricambia quattro colpi alla svelta e chi l'ha tocche son sue.

--Così l'intendo ancor io, con vostra licenza, messer Pietro,--replicò
il Picchiasodo.--Ma scusate, io volevo domandare se di questo sollazzo
non ce n'ha ad esser per tutti. In quattro ci siamo incontrati; ora,
dico io, in quattro si avrebbe a combattere.--

Il Sangonetto fece a quelle parole una smorfia.

--Infine!--proseguì il Picchiasodo, con quel suo piglio tra rispettoso
e faceto.--Non mi par bella che due se la godano e gli altri due
debbano stare a vedere. Voi, messer Pietro.... signor conte
degnissimo, ve la farete con chi vi ha provocato, e sta bene; ma noi,
noi due, seguaci delle parti in contesa, per che altro ci troveremmo
qui, a fare il paio, se non per seguire l'esempio?--

Messer Pietro si strinse nelle spalle e crollò il capo in atto di
dire: accomodatevi, io non ci vedo alcun male.

--Animo dunque; a voi, messere dell'archibugio,--disse il vecchio
soldato, volgendosi a Tommaso Sangonetto;--dite la vostra opinione.

--Io?... Ah!...--rispose questi confuso, come se cascasse dalle
nuvole.--Eh, certo, sarebbe una bella pensata! Ma ecco, per incrociare
le spade, ci vorrebbe un _quid_... la _causa agendi_....

--Che diamine m'andate voi latinando?--gridò il Picchiasodo
imbizzarrito.--Sareste voi chierico, per avventura?

--Eh! un pochino;--rispose quell'altro, facendo bocca da ridere, ma
senza averne gran voglia.--Ho scombiccherato qualche foglio di carta
presso un notaio, e mi capirete....

--Sì, capisco alla prima che ci avete inchiostro per sangue, dentro le
vene.

--Oh, mi meraviglio!...--sclamò il Sangonetto; rizzando la testa.

--Orbene, vediamo dunque che cos'è; fuori lo spiedo!--

E così dicendo il Picchiasodo trasse la spada dal fodero.

--Fuori, e sia; fuori dunque!--ripetè il Sangonetto, che già più
sapeva a qual santo votarsi.

E messe mano al suo coltellaccio. Ma qui per fortuna gli venne trovata
la gretola.

--Ecco il mio spiedo!--diss'egli, con aria di trionfo.--Voi ci avete
la spada d'Orlando, e vi fa comodo di metterla fuori; io, colto alla
sprovveduta, non ci ho che un coltello da caccia; vedete!--

Il Picchiasodo rimase lì grullo per un istante a guardarlo. Ma egli
non era uomo da smarrirsi per così poco, e trovò subito uno spediente
da rimediare allo sconcio.

--Oh, non importa!--rispose.--Date a me il coltello; io cedo a voi la
spada d'Orlando.

--Ma....--balbettò il Sangonetto.--Non ci sarebbe generosità....

--Eh via! Non temete; con quel coltellaccio tra mani io mi riprometto
di tagliarvi la punta del naso che avete rossa e lucente come una
ciliegia marchiana.--

Fu questo per Tommaso Sangonetto il caso di vedersi perduto. Con quel
diavolo d'uomo non la si potea vincere nè impattare.

Buon per lui che messer Pietro gli venne in aiuto.

--Anselmo!--diss'egli severo.--Lascialo stare; non c'è bisogno di
combattere in quattro, dove la lite è soltanto tra due.

--Già, diteglielo voi, messere;--ripigliò il Sangonetto, ritornando da
morte a vita.--Che bisogno c'è? Se ci fosse una ruggine tra noi, non
direi di no... si potrebbe anche vederlo, questo taglio del naso. Ma
la ruggine non c'è, come non c'è la ciliegia, con vostra licenza. Del
resto, siamo sacri alla patria. Se foste un nemico.... un genovese....

--Ah! con quelli là ti sentiresti proprio di combattere?--domandò il
Picchiasodo, con piglio sarcastico.

--Ma, sicuramente!--rispose il Sangonetto, facendo l'uomo a sua posta.

--Ci ho gusto, perbacco!--disse a lui di rimando il vecchio
soldato.--Han da tremare, povera gente, quando ti vedranno in prima
fila, colla tua cerbottana da passeri!--

Volea replicare, il prode Sangonetto; ma sì, a farne la prova! Quel
maledetto vecchio lo guardava con certi occhi da spiritato!

Così perdette la ciarla Tommaso Sangonetto, come il Picchiasodo avea
perso l'occasione di misurarsi con lui. Frattanto i due avversarii,
che già stavano colle spade sguainate, si fecero in mezzo dell'aia,
pronti a impegnare il combattimento.

Giacomo Pico ne aveva una voglia spasimata. Così almeno mostravano gli
atti impazienti e le contrazioni del volto. Messer Pietro era a gran
pezza più calmo, e la faccia atteggiata al sorriso dinotava, non pure
il disprezzo del pericolo, ma eziandio la certezza della vittoria. E
la pugna in sè stessa e l'occasione dond'era venuta, parevano cosa da
scherzo per lui. Certo il valentuomo s'era trovato più volte a simili
scontri, fors'anco a più gravi, e quello doveva parergli la cosa più
naturale dal mondo.

Incrociarono le spade. Ma era scritto lassù che il combattimento non
dovesse aver principio così presto.

Un grido li rattenne in quel punto e li costrinse a smettere. Era
mastro Bernardo che compariva sull'uscio di casa, col vassoio de'
bicchieri in una mano e col suo fiasco prezioso nell'altra. Mai fiasco
e bicchieri furono raccomandati a più trepide mani, e ben se ne avvide
il Picchiasodo, che, voltatosi a quel grido improvviso, fu sollecito a
sostenere que' dolcissimi pesi.

--Per amor del cielo, messeri, che vuol dir ciò?--chiese l'ostiere,
con voce tremebonda.

--Animo, via, mastro Bernardo!--entra a dirgli il Picchiasodo, con
quel suo piglio burlesco.--Non si sforacchiano mica le tue botti, nè
la tua pancia, perbacco!

--Oh, Gesummaria! che cos'è stato? Ah capisco, ora!--soggiunse il
povero oste, ricordandosi.--Messer Giacomino.... Ah, maledetta lingua!
Ma spero che non andrete più oltre.... Nella mia osteria!... E che
dirà il magnifico marchese quando saprà che avete fatto uno sfregio a
suo genero.... al magnifico signor conte di Cascherano.... a un
gentiluomo di quella fatta? Nobilissimo signore, per carità, non date
retta alle offese di quel giovinastro. È un matto, credetelo.... e ai
matti non si presta orecchio.--

E intanto che così parlava a frasi spezzate, come voleva lo stato
dell'animo suo, mastro Bernardo, aiutato e costretto dal Picchiasodo,
gli veniva mescendo il vino nel bicchiere.

Giacomo Pico a cui rinfiammavano lo sdegno le allusioni matrimoniali
dell'oste, perdette a dirittura la pazienza al sentirsi dare di
giovinastro e di matto.

--Taci là, vecchio rimbambito!--gli disse, schizzando rabbia dagli
occhi.

--Rimbambito a me? Sciocco presuntuoso.... villan rifatto....
serpicina riscaldata, per amor di Dio, dai nostri signori...

--Ohe, dico, mastro Bernardo, non mi spandere il vino; e' sarebbe
peccato mortale!--gridò il Picchiasodo, affannandosi a rimettere in
equilibrio il vassoio, che andava di qua e di là, secondo i movimenti
impetuosi del vecchio stizzito.

--.... E v'hanno tirato su,--proseguiva mastro Bernardo, montando in
furore,--vi hanno rimpannucciato, messo all'onore del mondo, perchè vi
crescesse la superbia fino al punto di.... Ma vedete un po'
l'ambizione! Credersi degno di sposare la figlia del marchese!... Un
vassallo!... un servitore! Andate là, messer Giacomino; io sarò un
vecchio rimbambito, ma voi....

Messer Pietro gli troncò il filo dell'invettiva. Ed era tempo; chè
Giacomo Pico faceva già l'atto di correre colla spada addosso
all'ostiere.

--Orsù, smetti, alla croce di Dio,--gridò messer Pietro,--e lasciaci
aggiustare le nostre faccende come ci aggrada.--

A quelle parole di messer Pietro, l'ostiere chinò la fronte
raumiliato.

--Magnifico signor conte....--diss'egli;--voi lo volete; obbedisco.
Quanto a voi....--

E qui mastro Bernardo, che avea rivolta l'apostrofe al Bardineto, fece
un gesto di minaccia, che doveva mostrare a Giacomo Pico com'egli,
mastro Bernardo, non fosse per menargli buona così presto la sua pazza
sfuriata.

Il Picchiasodo finì di chetarlo.

--Alla tua salute, degnissimo ostiere! Ma bevi anche tu; questo è
contro la rabbia.

--Alla salute del signor conte!--rispose mastro Bernardo, alzando il
bicchiere, che gli avea messo in mano il vecchio soldato.

E bevve, per contentarlo, ma guardando tuttavia a squarciasacco il
Bardineto, che più non si curava di lui, intento com'era ad impegnare
la zuffa.

Giacomo Pico era agile e destro. Il furore ond'era tutto invasato gli
raddoppiava le forze. La sua lunga spada milanese balenava in alto e
ruotava, scendeva a rovina sulla spada dell'avversario, si ritraeva
veloce e tornava più veloce ancora all'assalto, cercando la via fino
al petto di messer Pietro e non trovandola mai. Il suo nemico,
immobile, sereno, quasi scherzevole, lo teneva a bada con fine
artificio. I movimenti del suo ferro erano così scarsi e misurati ad
un tempo, da lasciar credere ad uno spettatore inesperto che egli non
facesse davvero. Per fermo, tanta era la sicurezza dell'occhio e tanta
la perizia della mano, che l'una e l'altra consentivano a messer
Pietro di baloccarsi un tratto con quella furia del suo avversario.
Opponeva ai colpi il forte della lama; metteva a quell'altro di
continuo la punta della spada sugli occhi, e non profittava mai del
suo evidente vantaggio.

Il Sangonetto sudava freddo, si faceva piccin piccino, e di tanto in
tanto socchiudeva gli occhi, quasi per non vedere la botta che doveva
passare fuor fuori il suo malcapitato compagno.

In quella vece il Picchiasodo rideva. Egli conosceva il giuoco del suo
signore come il fondo del suo borsellino in fin di mese, e quel suo
riso tra beffardo e benevolo diceva chiaramente a tutti gli astanti:
aspettate, or ora vedrete; il buono ha ancor da venire. Frattanto, per
non rimetter nulla de' suoi godimenti, venia centellando il suo
bicchiere di malvasia, e attraverso alla sottil parete di vetro i suoi
occhi si godevano, anzi meglio, si succiavano quella scena deliziosa,
che facea sudar freddo il Sangonetto e tremar le gambe e battere i
denti a mastro Bernardo.

--Poveri a noi!--gli andava dicendo l'ostiere.--Che ne dirà il
marchese?

--Che vuoi ci abbia egli a ridire?--soggiunse il Picchiasodo.--La
ragazza, piuttosto, se ama quel tuo bell'arnese; poichè egli mi pare
un uomo spacciato.

--Ah, messere, e potreste crederlo? Madonna Nicolosina?... Nemmen per
sogno! Se ella avesse pensato mai a quel pazzo da catena, io, non fo
per dire, avrei a saperne qualcosa. Mia moglie è zia della Gilda.... e
per la Gilda non ci sono segreti. Vi giuro, messere, e voi ci potreste
mettere la mano sul fuoco, che la fanciulla pensa a messer Giacomino,
com'io a farmi frate, e le son tutte fisime che s'è messe in capo
costui.

--Tu mi consoli;--rispose gravemente il Picchiasodo;--perchè infine,
dico io, quando si prende moglie, bisogna avere un occhio al cane e
l'altro alla macchia. Menar donna non gli è mica come a fallar la
strada, che c'è sempre il rimedio di tornarsene indietro; una volta
fatto il pateracchio, addio fave! chi le ha, son sue. Or dunque tu
credi che madonna Nicolina.... come la chiami?

--Nicolosina, messere.

--Tu credi adunque che madonna Nicolosina non lo veda di buon occhio?

--Ma neanco per prossimo, starei per dire. Una savia e costumata
fanciulla, che quel che vuole suo padre vuol lei! E poi, come supporre
che una donnina a modo, e della sua levatura, si fosse invaghita di
quel tanghero?

--Eh, quanto a ciò, se ne son viste tante, e il conte di Cascherano
non sarebbe il primo.... Ma vedi il tuo messer Giacomino, come s'è
invelenito! S'affanna per la gloria, il poverino! E se, per caso, le
busca....

--Chi le ha, son sue!--sentenziò mastro Bernardo.

--Ah, bravo, tu mi fai l'eco!--ripigliò il Picchiasodo.--Ma guarda; le
ha tocche davvero e son sue, questa volta.--

Queste ultime parole del vecchio soldato avranno detto al lettore che
Giacomo Pico, dopo essersi lungamente e inutilmente affaticato per
ferire il suo avversario, toccava egli invece una botta.

Si era adoperato per quattro, il povero Giacomo Pico; aveva messo
l'ingegno e le forze, la rabbia e l'amor proprio alla prova, e non era
venuto a capo di nulla. Messer Pietro, come si è detto, parava
facilmente, senza scomporsi, senza riscaldarsi il sangue, e, contento
di mandar vani i colpi del Bardineto, non profittava del suo vantaggio
su lui. Sorrideva, frattanto sorrideva di continuo, come un vecchio
schermidore che avesse a sostenere gli assalti d'un bambino, o d'un
cieco. Ora, egli non è dire come quello eterno sorriso tornasse
molesto al Bardineto, che se lo vedeva sempre sugli occhi, tra un
guizzo e l'altro delle spade cozzanti. E non poter giungere fino a
quel volto! e non poter mutare quel riso sarcastico in un ghigno di
dolore! Venne un istante che egli, pur di cessare quel riso, avrebbe
amato una puntata nel cuore. Fu per dolersene ad alta voce; ma gli
parve viltà e si morse le labbra fino a dar sangue. Messer Pietro se
ne avvide ed ebbe compassione di lui. Intendiamoci, ne ebbe
compassione a modo suo, che tenero non era di cuore, e i tempi del
resto non comportavano certo delicatezza di nervi. A que' tempi si
dava il nome di misericordia ad una foggia di pugnale, e quello di
grazia ad un certo colpo che finiva l'avversario. Così, e non
altrimenti, fu compassionevole il cuore di messer Pietro, il quale,
cessati gl'indugi, pigliò a sua volta l'offesa, si serrò addosso al
nemico, e, sviato un maledetto fendente, che, giusta l'intenzione del
feritore, doveva spaccargli la testa, corse veloce con un soprammano
al costato di Giacomo Pico. Questi che troppo si era logorato le forze
nei molteplici assalti, perdette il tempo, e giunse alla parata che
già la punta nemica lo avea colto al sommo del petto.

La spada aveva forato il farsetto di cordovano come fosse di tela, e
tornando rapida indietro aveva aperto la via ad uno spruzzo di sangue.
Balenò un tratto il ferito, agitò con moto convulso le braccia, e
mugghiando ferocemente stramazzò sul battuto.

Il Picchiasodo, com'era stato il primo ad avvedersi del colpo, così fu
il primo ad accorrere verso il ferito.

Egli da tergo e il Sangonetto da piedi, lo sollevarono riguardosamente
da terra e lo adagiarono sopra una panca, che in fretta aveva tirato
innanzi mastro Bernardo.

--Ah, povero il mio Giacomo!--sclamò il Sangonetto, notando il pallore
che di repente invadeva la fronte e le guancie del Bardineto.--Egli è
morto!

--Eh, non tanta fretta a cantargli il deprofundis!--gridò il
Picchiasodo.--Scusate, veh, messere dell'archibugio; io penso che voi
non ne abbiate mai visto, de' morti.

--Sono stato alla guerra anch'io;--rispose il Sangonetto, mettendosi
in gota contegna;--e la mia parte....

--Sia pure;--interruppe il Picchiasodo;--voi dunque capirete che, per
sincerarsi della morte di un uomo, bisogna dargli la prova. Ohè,
mastro Bernardo, qua il vino!

--Eccolo, messere!,--disse l'oste, raccattando sollecitamente il
fiasco e un bicchiere da terra.

Il Picchiasodo prese il fiasco, e versò gravemente nel bicchiere
quattro dita di malvasia.

--Da bravo, a voi;--disse poscia al Sangonetto, che sorreggeva il
ferito;--sollevatelo un pochino, e mettetegli la mano sulla ferita,
che non versi altro sangue; mastro Bernardo porterà un pannilino
inzuppato d'acqua, d'aceto, di quel diavolo che vorrà.--

L'ostiere corse dentro ad eseguire il comando. Intanto il Sangonetto
rialzava tra le sue braccia l'amico, e guardava stupefatto il
Picchiasodo, non intendendo che diamine volesse egli fare di quel
vino.

Il vecchio soldato lo levò subito di pena. Accostato il bicchiere alla
faccia del Bardineto, gli messe l'orlo tra i denti e gliene fece andar
giù una sorsata.

--Guardate; questa è la prova del vino. La scuola antica porta così.
Ippocrate, capitolo quarto! Se il morto beve, gli è segno che vive.--


Per dar ragione ad Ippocrate, o, per dir più veramente, al suo
burlesco discepolo, che inventava di pianta, il ferito riaperse gli
occhi e diede in un gemito.

--Ah, lo vedete?--soggiunse il Picchiasodo, con aria di
trionfo.--State di buon animo, messere dell'archibugio. Levategli il
farsetto; chiudete per bene le labbra della ferita; fasciatelo
strettamente con questo pannilino; date un altro bicchiere al medico
(grazie, mastro Bernardo; questo lo bevo alla salute di tutta la
brigata), e sarà accomodata ogni cosa. Vediamo un po', giovinotto;
provatevi a respirare.--

Giacomo Pico, a cui erano rivolte le ultime parole del vecchio
soldato, trasse un respiro senza troppa fatica.

--Lo dicevo io; non gli è nulla.... un buco che si stopperà
facilmente! Io n'ho una mezza serqua seminati sulla pelle, e fo conto
di tirare innanzi dell'altro.--

Frattanto messer Pietro, ricacciata la spada nel fodero, e dato un
altro genovino all'ostiere, che non lo voleva a nissun patto, e che
forse perciò, mentre si tirava indietro colla persona, sporgeva
tuttavia la mano per prenderlo, si mosse alla volta del suo palafreno
e fu in sella d'un balzo.

--È tardi, e dobbiamo guadagnare il tempo perduto;--diss'egli al
Picchiasodo, che fu pronto a seguirlo.

Indi, accostando il cavallo alla panca su cui era adagiato Giacomo
Pico, e fatto della mano un cortese saluto al suo avversario, gli
disse:

--Messere, io vo' aiutare al vostro risanamento, più efficacemente che
non abbia fatto Anselmo Campora, detto il Picchiasodo, capo de' miei
bombardieri. Se voi foste stato più calmo quest'oggi, avreste di
leggieri capito che chi viene per tornarsene subito indietro, non è
certamente uno sposo.

--Che? come?--farfugliò il Sangonetto.

--Ah!--sclamò in pari tempo il ferito rizzando il capo e volgendo al
suo vincitore uno sguardo da cui trasparivano in pari misura la
curiosità e lo stupore.

--Sicuro;--ripigliò il cavaliere;--e avrei amato dirvelo, se non mi
aveste sbarrata la strada e afferrate le redini del cavallo, cosa che
non mi ha mai fatto impunemente nessuno. Ma basti di ciò. Avete
incrociato il ferro con Pietro Fregoso, capitano dei genovesi
all'impresa del Finaro. Se la vostra mala, sorte vi fa cadere in balìa
dei nemici, ricordate che la tenda del capitano è un fraterno rifugio
per voi, e che non vi bisogna riscatto.--

Con queste parole si accomiatò messer Pietro dall'osteria dell'Altino;
indi, spronato il cavallo, si mosse verso l'uscio di strada.

Fu quello un colpo di fulmine a ciel sereno. Giacomo Pico sbarrò gli
occhi, volle parlare, ma la commozione fortissima gli fece nodo alla
gola. Balbettò alcune parole vuote di senso, e ricadde svenuto nelle
braccia di Tommaso Sangonetto, che era rimasto mutolo, guardando ora
il Fregoso, ora il Picchiasodo, ora l'ostiere.

Quest'ultimo, che pur dianzi, tutto ilare in volto ed affaccendato
negli atti, si sprofondava in riverenze alla staffa di messer Pietro,
fece tre passi indietro, a quella improvvisa rivelazione; inarcò le
ciglia, strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca ad un grido, e rimase
là sbalordito, come se avesse visto la tregenda, o il diavolo in carne
ed ossa.

Il Picchiasodo diede alla sua volta di sprone, per farsi alla manca di
messer Pietro Fregoso, e si trovò per tal guisa a pari di quel
simulacro della melensaggine.

--Orbene, mastro Bernardo;--gli disse, appoggiandosi sulla staffa
verso di lui e assestandogli un buffetto sotto il naso;--che è ciò?
Hai forse perduto la scrima?--

Il povero ostiere, che era stato cagione di tutto quel guaio e si
vedeva canzonato per giunta, alzò sdegnosamente le spalle e torse gli
occhi da lui.

--Sta di buon animo, via!--proseguì il Picchiasodo.--Ho il tuo
ricapito e fo conto di ritornare. Tienmene in serbo un fiasco di
quest'ultimo, che abbiamo a bercelo tra noi due, ciaramellando da
buoni compari sul gotto.--

E ridendo a più non posso, Anselmo Campora, detto il Picchiasodo, capo
dei bombardieri dell'esercito genovese, uscì alla sua volta di là.

--Ah sì, a ciaramellare!--ripetè mastro Bernardo stizzito.--Mi si
tagli piuttosto la lingua!

--_Amen_!--soggiunse il Sangonetto, poichè furono soli.--E intanto,
vediamo di aggiustare questa mala bisogna.

--Ah, messer Tommaso, tutto quel che vorrete;--gridò mastro
Bernardo;--comandate, son qua. Maledetti! e dire che avevano un'aria
così candida! Mangiavano e bevevano con tanto gusto!

--E tu hai bevuto più grosso di tutti, Bernardo; e non hai capito che
coloro tiravano a scalzarti. E non basta; fors'anco pigliavano
cognizione dei luoghi, e tu....

--Ah, non me ne parlate, messer Tommaso! Parevano così innamorati del
paese! Segnatamente quel capo dei bombardieri.... oh, san Biagio
benedetto! Ma già, del senno di poi son piene le fosse; ed ora
bisognerà pensare a quello che si potrà dire di questo affaraccio.

--Già!--soggiunse Tommaso.--E che cosa diremo? Ah ecco? che il nostro
Giacomino aveva odorato il tradimento e non seppe portarselo in pace.
Capisci? Non gli è di buona guerra venir qua, sotto colore
d'ambasciata, per esplorare il terreno, e cavare i calcetti alla
gente. Per altro, innanzi di presentare la nostra invenzione,
bisognerebbe sapere che cosa è avvenuto al castello tra i due genovesi
e il marchese Galeotto.

--Sicuro, bisognerebbe saperlo;--disse mastro Bernardo;--ma come si
fa?--



CAPITOLO V.

Dal messaggio di Pietro Fregoso e di ciò che ne seguisse al castello
Gavone.


In quella che Tommaso Sangonetto sta almanaccando insieme coll'oste
dell'Altino, per trovar modo di sapere le cose avvenute e di foggiarvi
su una credibile invenzione, andiamo noi per la spiccia e vediamo che
ambasciata portasse messer Pietro Fregoso alla corte di Galeotto,
marchese del Finaro.

I due cavalieri genovesi (oramai l'arcano è svelato e l'incognito non
serve più a nulla) presentatisi alla porta di san Biagio e debitamente
fermati dalle scolte, si erano annunziati messaggieri dalla possente
repubblica e portatori di lettere d'alto rilievo al marchese. Il
comandante della porta, veduto il sigillo coll'arme di Genova, avea
dato loro il passo e la compagnia d'un drappelletto di balestrieri,
che, parte per onoranza e parte per custodia, li condussero oltre.
Così orrevolmente scortati, sotto gli occhi di un popolo curioso che
si affollava sul loro passaggio e della loro venuta non pronosticava
niente di buono, erano riusciti alla porta settentrionale del borgo;
d'onde, per una ripida strada serpeggiante sulla costiera del monte,
erano saliti in vista del castello Gavone, dove i marchesi del
Carretto, terzieri del Finaro, avevano corte e dimora.

Si è già detto che il castello Gavone era murato a cavaliere del
borgo, su d'un contrafforte della roccia di Pertica. Da quella
notevole altura il feudale baluardo dei Carretti guardava davanti a sè
il borgo anzidetto e tutto il corso del Pora fino alla spiaggia del
mare; sui lati, poi, vigilava le due valli del Calice e dell'Aquila,
quella che mette a Rialto e questa a san Giacomo. Era, per que' tempi,
fortissimo arnese. Quattro torri merlate lo munivano sugli angoli.
Lunghesso le mura si aprivano larghe finestre, partite a colonnini,
indizio di fasto all'interno; ma su quelle finestre correva un
poderoso cordone di pietra e poco sopra di questo una lunga balconata,
colle sue caditoie aperte sotto gli sporti, donde all'occorrenza si
facea piovere una gragnuola di sassi sui nemici che avessero ardito
accostarsi a pie' delle mura.

Grandiosa mole, che, a mezzo diroccata (dopo essere risorta un'altra
volta, insieme colla mutevole fortuna de' suoi signori) fa tuttavia
bella mostra di sè, e potrebbe anco tentare il più nobile dei capricci
che la ricchezza consenta ai fortunati del tempo nostro; il capriccio,
vo' dire, di restaurare il passato nella sua parte accettabile! I
marchesi del Carretto, ai quali era toccata quella porzione litorana
del retaggio aleramico, avevano innalzato il castel Gavone intorno al
1100. Uomini in continuo stato di guerra con vicini e lontani,
dovettero eleggere a loro dimora e presidio un luogo discosto dal mare
e manco accessibile alle incursioni dei barbari, che infestavano in
que' tempi le coste della Liguria. Epperò, da principio si
fortificavano in Orco, Verzi ed altre villate sui monti; indi, scemato
il pericolo, o cresciute le forze, calarono a Pertica, dove sorse
appunto il castel Gavone, due miglia distante dalla riva del mare.

Ci condurrebbe a troppo lunghe e, per giunta, non grate
considerazioni, il cercare qual parte della valle fosse da principio
abitata. Di certo, agricoltori e pescatori v'ebbero ugualmente dimora
da antichissimi tempi. I Romani segnavano in que' pressi una stazione
della via militare che correva tutta la spiaggia ligustica, e il nome
_ad Pollupices_ ci fu tramandato dall'itinerario di Antonino. L'altro
di _Finar_ comparve nell'età di mezzo, e certo era nome antico del
pari, a significare, non già la finezza dell'aria, come vollero certi
etimologisti sconclusionati (Liguria a _leguminum satione_, Arenzano
_ab äere sano_ e simili altre bambinerie), ma dall'essere colà
stabiliti i confini tra gl'Ingauni e i Sabazii.

E qui, prudenti, lasciamo da banda l'età romana, il basso impero e la
gran notte barbarica; chè il troppo amore delle minuzie archeologiche
non ci tragga fuori del seminato e, quel che sarebbe peggio, della
grazia vostra, o lettori. Il Finaro, nel 976, per investitura di
Ottone I, appartenne al marchese Aleramo; i cui discendenti, chiamati
Del Carretto, lo ebbero e lo signoreggiarono, confuso con altre terre
sotto il nome di marca savonese, fino al 1268; nel qual tempo, per la
spartizione avvenuta fra i tre figli di Giacomo, toccò ad Antonio Del
Carretto, da cui ebbe principio il ramo dei terzieri del Finaro.

Costoro, come ho detto più sopra, posero sede nel castello Gavone, a
cavaliere del Borgo, e comandavano di là su tredici villate, che tutte
dovevano concorrere all'incremento del capoluogo. Tra esse la Marina,
come più prossima, aveva le molestie più gravi. I marchesi mettevano
grosse multe a chi ardisse riparar case e murarne di nuove colà; ai
forestieri intanto concedeano privilegi, esenzioni ed ogni maniera
larghezze, purchè mettessero dimora nel Borgo. Donde appariva
manifesto il timore di que' castellani, che la gente non avesse a
dilungarsi di troppo dalla loro vigilanza, e l'intento di cansare la
sorte toccata ai loro consanguinei della marca di Savona, che questa
nobil città e la fortissima terra di Noli avevano sullo scorcio del
XII secolo malamente perdute. Già, popolo marinaro, popolo libero; la
tirannia non attecchisce sulle spiagge; però non si sta molto ad
ottenere consoli proprii e franchigie, in cui maturare ordini di
libertà popolana. Ora, questo pericolo miravano a stornare i
discendenti d'Antonio, tirando al Borgo il grosso dei vassalli e
afforzando sempre più il castello sovrastante.

Dicevasi castel Gavone, con vocabolo di controversa etimologia. Altri
lo deriva da giogo, come se anticamente si fosse detto Giovone, o
Govone. Io ricordo che dicevasi _gavone_ un ridotto delle nostre
vecchie galee, posto sotto coperta, così da prora, come da poppa, e
serviva per alloggio degli uffiziali e dei marinai, laddove le ciurme
dormivano sotto i banchi di voga. E questo gavone marinaresco e il
terrestre possono perciò derivarsi, con assai più verosimiglianza, dal
_cavum_ dei latini, nel significato di cavità custodita, murata, od
altrimenti rinchiusa.

Altri, per avventura, nell'informe e disforme vocabolario dell'età di
mezzo, troverà di che avvalorare questa etimologia, che ha già il
vantaggio, sull'altra, d'esser più ragionevole. Io frattanto,
ritornando alla storia, dirò che il castello Gavone era davanti e da
tergo reso inaccessibile, mercè due fosse profondamente stagliate nel
masso; che era afforzato da quattro torri sugli angoli; che ci si
entrava da un ponte levatoio e che sulla porta castellana, in una
tavola di pietra scuriccia, vedevasi scolpita l'arma dei signori Del
Carretto, cioè a, dire uno scudo, partito a fascie diagonali,
sormontato da un elmo di corona e tratto su d'una carretta simbolica
da due leoni aggiogati.

Quella nobil veduta si parò davanti ai due cavalieri genovesi, a mala
pena ebbero afferrata la cima del monte. Doveva esser quello il fine
dell'impresa futura; che peccato, in cambio di giungervi eglino soli e
in veste di messaggeri, non esservi già collo stendardo della
Repubblica e con buona mano d'armati!

Messer Pietro Fregoso, come uomo che delle grandezze umane s'intendeva
la sua parte, guardava ammirato quel forte e insieme leggiadro
edifizio. Il Picchiasodo non ci vedeva tante bellezze e dava in quella
vece la sua guardata alle balze circostanti, per vedere se ci fossero
strade, e come disposte. Le strade, si sa, erano il suo grattacapo, e
di queste delizie n'avrebbe volute in ogni luogo e per ogni verso,
come pur troppo occorre solamente delle molestie, in questo mondo
gramo.

Varcato il ponte levatoio, entrarono sotto l'androne, e, mentre il
capitano degli arcieri andava a dar notizia del loro arrivo al
marchese, erano fatti scender di sella per riposarsi in una sala
terrena, dove si diè loro acqua alle mani e rinfresco. Accettarono
l'acqua e l'aiuto dei famigli, per scuoter di dosso la polvere,
ricusando tutto l'altro che venia loro profferte; e immagini il
lettore con quanto sacrifizio e merito di Anselmo Campora, che non
avrebbe sgradito di paragonare la cantina del marchese con quella di
mastro Bernardo.

Poco stante, apparve sull'uscio un donzello a disse loro:

--Venite, messeri; il magnifico marchese è pronto a ricevervi.--,

Lo seguirono tosto, e, fatta una breve scala, furono introdotti in un
ampio salone, che appariva situato nel mezzo del castello, poichè
prendeva luce da una parte e dall'altra, pel vano di larghe ed alte
finestre, partite a colonnini e chiuse da intelaiature di legno e
vetri sigillati col piombo, a mo' di losanghe, come portava la foggia
del tempo. Una numerosa e orrevol brigata era accolta colà; molti
servitori e donzelli sui lati; nel mezzo un crocchio di gentiluomini;
seduto a uno scrittoio il vecchio cancelliere della corte; tutti, poi,
ordinati in guisa da far corona ad un seggio rilevato, su cui stava,
nobilmente composto, il marchese del Finaro. Gentildonne non erano in
quella adunanza; che bene il marchese aveva inteso non doversi quel
giorno ricevere ospiti d'allegrezza, sibbene messaggieri di guerra.

Era in quel tempo il marchese Galeotto un uomo di piacevole aspetto,
d'anni intorno ai cinquanta, ma di sembianza più giovane, la mercè
d'una carnagione rosata, degli occhi azzurri e scintillanti, della
barba e dei capegli biondi, che ancora dissimulavano abbastanza le
moleste fila d'argento. La figura sua, al primo vederla, lo diceva
bollente di spiriti e pronto ad infiammarsi, ma in pari tempo di senni
umani e cortesi, quanto il concetto della sua dignità e la logica
feudale d'allora potessero comportarne in un principe.

Egli accolse con un sorriso ed un gesto amorevole messer Pietro, che
s'inoltrò a capo scoperto e s'inchinò davanti a lui, con atto di
ossequio, non disgiunto da un sentimento di onesta alterezza. Il
Picchiasodo, per far conoscere la sua condizione più umile rispetto al
suo nobil compagno, si era fermato sui due piedi, ma colla berretta in
capo, da soldato e non da servitore, a poca distanza dall'uscio.

--Siate il benvenuto, messere;--disse il marchese Galeotto al nuovo
venuto, per offrirgli occasione a parlare;--e che cosa recate al
Finaro?

--Un messaggio dell'illustrissimo signor Doge e del comune di
Genova;--rispose Pietro Fregoso, togliendosi di cintura un rotolo di
pergamena, suggellato di piombo, colle armi della Repubblica.

--Ai quali auguriamo ogni prosperità, e grandezza che colla giustizia
si accordino;--ripigliò nobilmente il marchese.

Ciò detto, prese dalle mani di messer Pietro la pergamena, ruppe il
suggello e lesse. Cotesto faremo anche noi, dando una sbirciata allo
scritto.

«Al magnifico signor Galeotto, marchese del Finaro, salute.

«Sebbene a noi per lo passato fosse stata grandemente a cuore
l'amicizia vostra, perchè tra noi durasse la quiete, voi sempre
dell'amicizia e benevolenza nostre avete fatto stima mediocre. Per la
qual cosa, gli animi della città e della repubblica tutta si sono
straordinariamente accesi, volendo guerra contro di voi; e guerra
sarà, poichè non sembra esservi cara la pace. A questo per vero dire
ci disponiamo contro voglia e sforzati; che anzi, mai abbiamo cessato
di far pratiche, se per avventura avessimo potuto acquietare lo sdegno
di questo popolo, irritato dalla Signoria Vostra con somme offese
negli anni trascorsi; e ciò con ogni poter nostro abbiam procurato, nè
mai potuto ottenere.

«Ed ora, poichè ricordiamo avervi promesso che, quando fossimo per
rompervi guerra, vi avremmo avvisato della cosa, perchè non vi paresse
di esser còlto alla sprovveduta, vogliamo significarvi che dobbiate
aspettar guerra al Finaro a dì 5 del prossimo dicembre. Però, scorso
il giorno 4 di detto mese, sappiate non esservi più dato di vivere con
noi in quelle forme di pace e d'amicizia, che sono state finora. Così
portiamo speranza di larga vittoria su voi, come d'insegnare a tutti i
pari vostri che non abbiano a misurarsi in imprese siffatte con noi.
Inoltre quando vi piacesse far correre minor spazio di tempo alla
guerra, di quello vi abbiamo indicato, vogliate darcene avviso, e sarà
fatto secondo il piacer vostro.

«Data da Genova, addì 21 novembre 1447.

«GIANO FREGOSO.»

Messer Pietro, in quella che il marchese Galeotto leggeva la lettera,
stava immobile al suo posto e in apparenza sbadato; ma non perdeva un
moto, anco il più lieve, dell'aspetto di lui, e gli appariva manifesto
come quella lettura lo avesse colpito. La faccia del marchese era
divenuta ad un tratto del color della fiamma; le dita attrappite
tiravano per tutti i versi la povera pergamena, che non ne avea colpa
veruna; le labbra borbottavano confuse parole; come se dentro
dell'animo il marchese Galeotto stesse ad una ad una ribattendo le
argomentazioni del suo avversario.

Invero, a lui pareva di aver ragioni oltre il bisogno. La lettera di
Giano Fregoso era accortamente rigirata. Niente più curavano i
capiparte d'allora, fossero dogi, o pretendenti al dogato, che di
mescolare il popolo nelle loro private querele, ire e vendette di
famiglia. E a Galeotto cuoceva di veder tirare i genovesi in campo,
quasi fossero eglino, e non già i Fregosi, che voleano la guerra. Nè a
lui pareva di avere offeso mai Genova, destreggiandosi in mezzo alle
fazioni che l'avean lacerata; che quella era per lui la ragione di
Stato, e Genova a lui mettea conto vederla, non già nel governo dei
Fregosi, ma nella persona degli Adorni fuorusciti, e appunto di quel
Barnaba, doge scacciato, che stavasi allora al suo fianco.

E a Barnaba era corso il suo sguardo, in uno degl'intervalli da lui
posti in quella ingrata lettura. Ma Barnaba nel messaggero di guerra
avea ravvisato messer Pietro Fregoso, e non torceva gli occhi da lui.

--Bene sta;--disse Galeotto, poi ch'ebbe finito di leggere.--Messeri,
è un cartello di sfida, questo che Giano Fregoso ci manda.--

Un fremito corse per tutta l'adunanza; che sebbene da lunga mano
preveduto, non riusciva meno grave l'annunzio. C'era anzi taluno dei
soliti ragionatori alla grossa, che dalle antecedenti lentezze e
continue ambascerie genovesi aveva argomentato la poca voglia di
venire a mezza spada e tratto speranza pel Finaro d'una via di
salvezza. Non così Barnaba Adorno, che ben conosceva l'animo dei
Fregosi e la tenacità con cui avrebbero proseguito i loro disegni.
Costoro inoltre, non che a colpir Galeotto miravano a molestare in
quel suo rifugio la sbandeggiata famiglia Adorno, e lui più di tutti,
lui Barnaba, che pochi mesi addietro Giano Fregoso, improvvisamente
sbarcato a Genova e con un pugno di suoi partigiani impadronitosi del
palazzo ducale, aveva scacciato dal governo e dai confini della
repubblica.

Queste cose pensando, Barnaba Adorno aveva sempre creduto alla guerra,
e pur dianzi non gli era stato mestieri delle parole di Galeotto per
averne certezza, bastandogli il noto aspetto del messaggiero di
Genova. Però, quando il marchese ebbe accennato il cartello di sfida a
lui mandato dal Doge, egli, con ironico piglio, soggiunse:

--E Giano Fregoso non lo manda per mano d'un semplice cavaliere, bensì
a dirittura per quella di Pietro Fregoso, suo comandante d'esercito.--

Messer Pietro si volse stizzito e saettò d'una torva occhiata il
nemico.

--Non ancora;--diss'egli di rimando;--e voi, messer Barnaba Adorno,
usurpate, a mio credere, i diritti del marchese Galeotto. Io non sarò
capitano dell'esercito genovese all'impresa del Finaro, se non quando
egli avrà accettata la sfida.

--È vero;--notò con accento benigno, sebbene impresso d'una certa
amarezza, il marchese Galeotto.--Io non l'ho anche accettata. Ma come
potrei onestamente cansarmene? L'intimazione è chiara e recisa.
Leggete, o signori!--

Così dicendo, porse la lettera a Barnaba, intorno a cui si fece ressa
di gentiluomini, per leggere l'orgoglioso messaggio di Giano.

--Il mentitore!--sclamò l'Adorno.--Egli ha cercato di acquetare gli
sdegni del popolo!

--Rompe guerra sforzato; gli vincon la mano, al poveretto!--notò un
altro del crocchio.

--Non è Genova che vuol questa guerra,--soggiunse Barnaba Adorno,
infiammato di sdegno,--io lo attesto.

Pietro Fregoso stava per dargli risposta; ma Galeotto lo trattenne col
gesto.

--Sia Genova, o no,--diss'egli, per chetare gli spiriti,--imperano i
Fregosi colà; ad essi ci bisogna rispondere. E perchè l'esercito, che
si sta radunando a Savona,--aggiunse poscia, accompagnando la frase
con un cenno del capo, che voleva mostrare com'egli fosse di ogni cosa
informato,--perchè l'esercito non abbia ad aspettare di soverchio il
suo capitano, eccovi messer Pietro Fregoso, una pronta risposta.
Cancelliere, scrivete.--

E con voce alta e sicura, in mezzo ad un silenzio solenne, il marchese
Galeotto dettò la sua risposta allo scriba; rimessa in principio e
tranquilla, come portava il costume, indi man mano, per lo infiammarsi
a grado a grado del personaggio, più concitata ed altiera.

«Al magnifico signore Giano Fregoso, doge di Genova, salute.

«Tutto quanto mi significate nella vostra lettera, magnifico messere,
io ho chiaramente inteso. Mi dolse della opinione dei Genovesi, aver
io fatta poca stima della loro amicizia, che io sempre n'ho avuto
grandissima, nè mai ho trascurato veruna di quelle cose per le quali
ho udito e letto potersi conservare i vincoli della benevolenza tra
gli Stati; nè penso essere alcuno dei vostri vicini che siasi più
attentamente studiato di piacere a cotesta repubblica, perchè durasse
tra noi la consuetudine dell'antica amicizia. E ciò talvolta con mio
nocumento non lieve; laonde io debbo stupirmi di questa ira, che voi
mi dite, dei cittadini di Genova. Vi ringrazio tuttavia che abbiate
cercato di contenere e dissipare gli sdegni popolari, per istornarli
dalla guerra, provvedendo in tal guisa non meno alla quiete dei
Genovesi, che alla salute mia.

«Per rispondere alla lettera vostra, dirò che avrei amato meglio mi
significasse pace perpetua, anzi che guerra. Si affà la pace alle mie
consuetudini; alieno son io dalle guerre. Ma se infine è così statuito
nei consigli degli invidiosi e nemici miei, accetto la sfida, e di
grand'animo, confidando nel senno e nella potestà di quel giudice e
padrone, che è splendore e difesa dei giusti e terror dei malvagi, a
cui niente è nascosto. Egli invero conosce l'animo mio e
gl'intendimenti vostri, e sa quanto io con virtù, quanto voi con odio
vi facciate a contendere. Imperocchè io non sono, messer lo Doge, così
fuori di senno, da non sapere come da lunga pezza, e innanzi voi
perveniste a tal dignità, fosse stabilito d'intimar questa guerra.
Conosco l'animo vostro e di tutti i vostri contro me e contro tutti i
miei; ricordo con quanta moderazione e temperanza mi diportassi coi
Genovesi, pur di vivere in pace continua con esso loro, e so come
tutte queste cose, a mala pena entraste voi in Genova, niente abbiano
giovato a mutare i vostri propositi. Che se vi pensavate esser io
obbligato di alcun patto a cotesta illustra repubblica, il quale io
oggi negassi di mantenere, mancavano ancora le cagioni di guerra;
imperocchè io mi contentai, come mi contenterei anche oggi, che, o
l'imperator de' Romani, od altro principe, o comune, o studio di
giureconsulti, giudicasse della nostra querela. E nol voleste allora,
e nemmeno ora il vorrete, poichè siete infiammati, inaspriti, bramosi
di guerra; laonde, resta che con mani e piedi, con tutte le forze mie,
di congiunti, di amici e di quanti avrò meco, difenda questa terra e
il mio dritto. Facciano adunque i Genovesi come vogliono; resisterò
come potrò.

«Voi frattanto, Doge Giano Fregoso, io debbo pregiare assai più che
non facessi da prima, se avete pensato di me che io fossi uomo da
serbar la mia fede, e m'avete indicato il giorno in cui dovessi
aspettarmi la guerra; così facendo cosa dicevole ad ogni principe, e
in particolar modo a voi stesso. Spero di uscirne vincitore e di
potervi rimeritare, in ogni occasione, della vostra lealtà, se mai
avrete mestieri dell'opera mia.

«Data dal Finaro, addì 27 di novembre, 1447.

«GALEOTTO DEL CARRETTO.»

La lettera del marchese Galeotto era nobilissima, come ognun vede,
sebbene per avventura in alcuni passi ricisa ed aspra più del bisogno,
e condita nel fondo di sottile ironia. Ma queste cose erano da
condonarsi ad un principe, che metteva in quel punto a grave cimento
la quiete sua e la sicurezza de' suoi dominii. Del resto, e il pepe e
il sale di quella risposta piacquero in uguale misura a tutti i
gentiluomini della sua corte, e un bisbiglio d'approvazione e certi
sorrisi mal rattenuti commentarono prontamente le lodi alla lealtà di
Giano, che tutti ricordavano in qual modo fosse tornato a Genova e
salito ai sommi onori della repubblica.

Galeotto, così per debito dell'alto suo grado, come per atto di
cortesia verso l'inviato di Genova, era rimasto in contegno. Più saldo
e più chiuso di lui Messer Pietro, a cui l'uffizio di ambasciatore
comandava in quella occasione il silenzio e la calma. Per altro, la
torva guardatura e l'atteggiamento della persona fieramente appoggiata
al pomo della spada, significavano le represse pugne dell'animo e
promettevano alla corte del Finaro che ben presto la libertà del
capitano si sarebbe ricattata dei silenzi sforzati del messaggero di
Genova.

Finita la lettera e sigillata colle armi del marchesato, Galeotto la
prese dalle mani del cancelliere e la consegnò a messer Pietro.

--Eccovi la mia risposta all'illustrissimo Doge e al nobil comune di
Genova;--diss'egli frattanto.--Aspetterò la guerra in quel giorno che
mi è stato indicato; non posso desiderarla prima, perchè non la ho
provocata e aspetto ancora che vogliano i miei nemici tornare a più
miti consigli. Comunque sia, messer Pietro Fregoso, io vi prego di
render grazie in mio nome al Doge vostro cugino, che tanto ha fatto
stima di me e di tanto ha cresciuto la solennità della sfida,
mandandola per le mani di un così illustre capitano.--

Anche da queste parole, come già dalla lettera, traspariva un fil
d'ironia; ma messer Pietro non poteva adontarsene, e perchè l'ironia
era finamente condotta, e perchè, poi, quell'ufficio di messaggero,
non al tutto conveniente al suo grado, lo aveva voluto egli stesso.

Si accomiatò con garbo, diede un'ultima occhiata, in guisa di
arrivederci, a Barnaba e agli altri fuorusciti genovesi, indi si mosse
per uscir dalla sala. Galeotto lo accompagnò fino all'androne del
castello.

--Cavaliere,--gli disse, porgendogli cortesemente la mano,--la guerra
ha tristi vicende per tutti. Ricordatevi che Galeotto Del Carretto, se
è pronto e risoluto a respingere, è poi altrettanto umano in
accogliere. Il Finaro è luogo d'asilo ai disgraziati; perciò avete qui
veduti gli Adorni. Il giorno che sarà guerra tra noi, non avrete altri
avversarii che i Carretti; gli Adorni avranno, non pure licenza, ma
preghiera di ritirarsi da un rifugio, che non sarebbe quind'innanzi
più sicuro per essi.

--Nobilmente parlate, messere;--disse a lui di rimando il
Fregoso;--capitano dell'esercito genovese, io ricorderò queste vostra
parole. Ed ora, signor marchese, alla sorte delle armi!--

Le cortesie del commiato rasserenarono il volto di messer Pietro
Fregoso. Del resto, quella bisogna era fornita, ed egli facea ritorno,
come suol dirsi, nella sua beva.

--Animo, via!--disse ad Anselmo Campora, a mala pena furono usciti di
là.--I grattacapi sono finiti e adesso verrà il buono. Mi fermo
stassera a Vado, e tu proseguirai fino a Genova, per consegnare la
lettera.

Il Picchiasodo fece a queste parole una faccia scontenta, che nulla
più.

--Messer Pietro riveritissimo,--soggiunse egli poscia, veduto, che
l'altro non aveva badato a' suoi versi,--non perderò mica il mio posto
alla predica?

--E come potresti tu perderlo, se c'è tempo fino ai cinque del mese
venturo? Siamo oggi ai ventisette di novembre, mi pare, ed io non
leverò il campo dalla spiaggia di Vado che la mattina del due di
dicembre. Tu dunque domani arrivi a Genova; consegni la lettera al
Doge mio cugino; gli dai que' ragguagli di veduta che egli ti chiederà
certamente; aspetti le lettere e i comandi che vorrà darti per me, e
doman l'altro, il trenta, alla più trista, puoi essere al campo di
Vado.

--Eh, diffatti, se non mi fanno aspettare dell'altro, la cosa può
esser così come voi dite, padron mio reverito! Dopo tutto, non son io
il capo dei vostri bombardieri? Dee premere a loro di rimandarmi
libero, come a me di capitar primo all'osteria dell'Altino.

--Ah sì,--disse Pietro Fregoso, ridendo,--questa è la tua meta; ma
temo che la bisogna non sia per correre spedita come tu pensi.
Castelfranco non si piglia in un giorno.

--Lo capisco ancor io;--rispose il Picchiasodo;--ma questa è una
ragione di più per capitarci in tempo colle bombarde.--

In questi ragionari, oltrepassato il Borgo, s'erano avviati sulla
strada della Marina, dove aveva a trattenerli il tristo caso che
abbiamo narrato nel capitolo antecedente.

E adesso torniamo al castello, dove la sfida di Genova avea messo
tutti in trambusto. Il marchese Galeotto, prevedendo da lunga mano la
cosa, aveva, siccome ho già detto, raccolto gran gente nel marchesato;
ma egli bisognava spartire i comandi, sincerarsi che niente mancasse
nei luoghi più esposti a un primo assalto nemico, asserragliare i
passi più facili, e frattanto mandare l'annunzio della guerra
dichiarata al capitano della Lega, perchè incontanente spedisse gli
aiuti promessi al Finaro.

Per questo uffizio nessuno parve al marchese più adatto di Giacomo
Pico. Egli era tornato bensì quella stessa mattina dalla Langhe; ma in
lui Galeotto riponeva ogni sua fede; il negozio richiedeva la massima
speditezza nel messaggero e pari conoscenza dei luoghi, degli uomini e
delle cose; però fu mandato a cercare nelle sue stanze il Bardineto,
e, non essendo trovato colà, fu mandato a cercare nel Borgo.

Ora, in quella che lo si aspettava, e il marchese Galeotto
s'intratteneva co' suoi gentiluomini e colle donne della sua casa,
ecco giungere la Gilda, una vispa e leggiadra ragazza, e, avvicinatasi
a madonna Bannina, susurrarle alcune parole, che parvero turbar
grandemente costei e la sua gentile figliuola, che le aveva udite del
pari.

--Che c'è?--dimandò il marchese, notando il turbamento improvviso
delle sue dame.

--Giacomo Pico moribondo all'Altino;--rispose madonna Bannina al
marito;--questo è l'annunzio che ci ha recato la Gilda.

--Come? che è stato? e da chi lo sai?--ripigliò il marchese,
volgendosi alla ragazza con atto di profonda ansietà.

La Gilda, tutta confusa, ripetè allora ad alta voce come il Bardineto
avesse combattuto in duello pur dianzi col cavaliere di Genova e fosse
gravemente ferito all'osteria dell'Altino, dov'era accaduto lo
scontro. La notizia era stata portata a lei da Tommaso Sangonetto,
aiutante del notaio David, che stava ancora in anticamera, per
aspettare i comandi del marchese. Disse infine tutto quel che sapeva;
non già tutto quello che le aveva detto il nostro Tommaso, Egli
diffatti, in mezzo alle notizie dell'accaduto, aveva trovato modo di
schiccherarle una dichiarazione d'amore, che a lei era parsa
sconvenevole al sommo, in quella occasione, e glielo sarebbe parsa, ne
abbiam fede, in altre parecchie.

Ora, come si spiega cotesto, senza frugare un pochino negli arcani del
cuore? Veramente, i segreti d'una bella ragazza non s'avrebbero a
dire; ma noi siamo qui per raccontare, e non andremo fuori di
carreggiata dicendo che la Gilda ci aveva il suo e che un uomo le
aveva dato nell'occhio. Anche lei, cresciuta nella compagnia e nella
benevolenza dei castellani, era diventata ambiziosa, come Giacomo
Pico; per altro, siccome nel cuore d'una ragazza inesperta l'ambizione
non mette ancora troppo in alto la mira, gli occhi della Gilda non
s'erano levati fino ad un cavalier di corona; avevano fatto sosta
sulla persona di quell'altro ambizioso, che era Giacomo Pico. Il
giovinotto non le aveva mai detto nulla di singolare; nè occhiate, nè
sospiri, avevano fatte le veci di una accesa parola; ma egli era così
buono, così dolce, così grazioso con lei! Già si capisce che il
Bardineto fosse tale, o si studiasse di parerlo, con quante persone
attorniavano di consueto madonna Nicolosina. Epperò, fidandosi a
quelle apparenze, la Gilda aveva pigliato un granchio, come a tante
ragazze della sua età facilmente interviene. Egli è tuttavia da
soggiungere, a lode delle donne, che esse, pigliato il primo, non ne
pigliano più altri; li fanno pigliare.

Ciò posto in chiaro, si capirà come la Gilda fosse dolente per
l'annunzio recato dal Sangonetto e come dovessero parerle sconvenevoli
le digressioni da lui fatte per utile proprio. E non ne diciamo più
altro.

Udita la Gilda, il marchese Galeotto volle vedere il messaggiero, che
fu subito introdotto e raccontò, s'intende, l'accaduto a suo modo.
Giacomo Pico era andato con esso lui a diporto sulla Caprazoppa. Scesi
all'Altino, avevano udito di due cavalieri, che, prima di salire al
castello, s'erano intrattenuti a curiosare per via e a pigliar lingua
dei luoghi. Cotesto aveva insospettito il Bardineto; ambedue avevano
fiutato i genovesi e s'erano messi sulle orme loro. Nel risalire alla
volta del Borgo li avevano incontrati, ma già sul ritorno, e lì, una
parola ne tira un'altra (il Sangonetto non ricordava più come), erano
venuti alle grosse. Pico aveva la spada a sfidò a duello il Fregoso.
Egli, Sangonetto, non l'aveva, e non potè essere che testimone al
combattimento, che era finito colla peggio del suo povero amico.

--Fu un colpo disgraziato!--diceva il prode Tommaso.--Ed io non ho
potuto ricattarmi sul compagno del Fregoso, perchè non avevo meco che
questo coltello da caccia.

--Bravi giovani!--sclamò il dabben gentiluomo.--Ma dimmi, è così grave
la ferita, che il nostro Pico non possa muoversi dall'Altino?

--Oh, non dico questo, magnifico messere; su d'una lettiga si potrà
sicuramente portarlo via di laggiù.

--Va dunque; piglia quattro soldati alla porta di San Biagio e sia il
nostro Giacomo condotto al castello, dove gli sarà usata ogni cura.

--Padre mio,--entrò a dire timidamente quell'anima pietosa di madonna
Nicolosina,--se noi gli andassimo incontro?

--Perchè no?--soggiunse il marchese, assentendo del gesto.--È delle
dame aver cura ai feriti. Giacomo Pico ha salvato la vita a me; la mia
famiglia deve essergli grata. Andate dunque e veda il Finaro che le
sue castellane son pronte ad ogni ufficio di carità pei nostri fedeli
servitori e soldati. Ma ora che Pico è ferito, chi porterà l'annunzio
della sfida di Genova al capitano della Lega, a Millesimo?--

Tommaso Sangonetto, che stava coll'occhio alla penna, vide che quello
era momento da farsi avanti e acciuffar l'occasione.

--Magnifico signore,--diss'egli, inchinandosi,--non valgo io nulla per
obbedirvi? Son tutto vostro e se v'è cosa che io possa fare, in cambio
del mio povero amico, eccomi ai vostri comandi.

--Sì, puoi servirmi benissimo;--rispose il marchese Galeotto.--Si
tratta di portare una lettera a messer Francesco del Carretto, signor
di Novelli. Lo troverai a Millesimo, nella torre di Oddonino. Andando
a staffetta, potrai essere domani, all'alba, in Millesimo. Va dunque a
pigliare il nostro Giacomo e torna; ti metterai in viaggio tra
un'ora.--

Ed ecco il nostro Tommaso Sangonetto ambasciatore dell'esoso tiranno.
La fortuna capricciosa lo aveva innalzato a quel segno; ma la fortuna
egli l'avea anche aiutata con una mezza serqua di bugìe; non le era
dunque debitore di nulla. Per contro, egli poteva credersi obbligato
di qualche cosa alla disgrazia di un amico, e, pensando al povero
ferito che andava a togliere dall'osteria dell'Altino, aveva anche
ragione a considerare la profonda verità dell'adagio, che tutto il mal
non vien per nuocere. Disgrazia di cane, ventura di lupo, dicevano i
vecchi.

--Un bel garbuglio s'è fatto!--andava egli digrumando tra sè.--Giacomo
in di grosso ha capito quello che dee lasciar credere della sua
sfuriata contro il Fregoso. Mastro Bernardo, che è stato cagione di
tutto il guaio, non parlerà. Io ci ho guadagnato di poter dire una
parolina alla Gilda e di diventare un pezzo grosso alla corte. Non c'è
che dire; sono ambasciatore, o giù di lì; lascio la spada pel caducèo,
il panzerone per la guarnacca; _cedant arma togae_!--



VI.

Nel quale si vede come San Giorgio, invocato da due parti, non sapesse
a cui porgere orecchio.


Era un fiorito esercito quello che la repubblica genovese avea posto
sotto il comando di Pietro Fregoso, e che questi guidava dal campo di
Vado all'impresa del Finaro.

Come Genova avesse provveduto a radunar gente, s'è già accennato a suo
luogo. Seicento fanti dovea fare il vicariato di Chiavari,
quattrocento il vicariato della Spezia ed ottocento le tre podesterie.
La città di Genova dava quattrocento balestrieri, milizia sceltissima
e assai riputata; Varazze, Savona e Noli, davano mille fanti; Albenga,
i Doria d'Oneglia e i signori della Lengueglia, quattromila; Filippo
Doria, del Sassello, cinquanta balestrieri; Giovanni Aloise del Fiesco
e gli altri parenti suoi, si mettevano alla discrezione del Doge; gli
Spinola di Luccoli, così quelli che possedevano castella, come quelli
che non ne possedevano, erano obbligati a fornir per un mese dugento
balestrieri; quanto al Doge, ne metteva del suo quanti bisognassero. E
questi dovevano essere i più numerosi e più certi nel campo.

Invero, non si poteva a que' tempi far troppo assegnamento sulle forze
comandate, e questo non già per manco di prodezza nei combattenti,
bensì per la poca e varia durata del loro servizio. Comuni e
feudatarii non usavano imporlo che per breve stagione, talvolta di
trenta dì, come nel caso citato degli Spinola, tal altra di quaranta;
spirato il qual termine, le milizie in tal guisa raccolte lasciavano a
mezzo l'impresa meglio avviata e si sbandavano tosto. Bene per moneta,
o grazia speciale, si consentiva al comandante un servizio più lungo;
ma questo per privati accordi dovea stipularsi; ad ogni modo, egli non
era da farci a fidanza. Perciò, in ogni impresa, occorreva ai comuni
ed ai principi aver gente in altra maniera, e, a dirla in poche
parole, pigliar mercenarii in condotta.

Il nome solo di mercenarii è un doloroso ricordo per noi italiani. In
quelle soldatesche vaganti era la forza, e la loro prevalenza nelle
guerre del medio evo ci spiega come fosse possibile lo imperversare di
tante fazioni e il soverchiare di tante tirannidi. Piccoli comuni
inghiottiti dai grandi; questi oppressi dalla violenza di un solo, o
lacerati dalle gare di molti; discordie tirate innanzi fino alla
calata di un più possente nemico, che aggravi la sua mano di ferro
sulla contesa città; vicarii d'Impero e vicarii di Chiesa, con
tradimenti e raggiri, fatti padroni di vaste provincie, incautamente
preparate a stimolare la cupidigia di stranieri monarchi; questo ed
altro hanno procacciato i mercenarii all'Italia. Il bisogno, nei
comuni e nei principi, di guerreggiarsi l'un l'altro, aveva tirato
quella peste tra noi, e le grosse paghe avean fatto della milizia un
gradito mestiere; laonde privati cittadini e gentiluomini agli
sgoccioli radunavano spesso un certo numero di cavalieri e di fanti,
coi quali andavano a soldo del migliore offerente.

Forastieri in principio, furono italiani dappoi. Italiano, per citarne
uno fra tanti, era quell'Astorre Manfredi che comandava nel 1379
quella terribile compagnia della Stella, mandata da Bernabò Visconti a
molestare il territorio dei Genovesi. Questi, per altro, il 24 di
settembre di quel medesimo anno, la ruppero sulla spianata del
Bisagno, tuttochè forte di ben quattromila uomini e saldamente
appoggiata alla collina d'Albaro, menando prigione il maggior numero e
deputando un commissario a giudicarli. Aveva egli dal Comune il mero e
misto imperio e la podestà della spada, affinchè procedesse _juris
ordine servato et non servato_, cioè a dire che potesse giudicare
sommariamente. E così fece messer Giorgio Arduino, che tale aveva nome
il fiero magistrato, mandando tutti que' scellerati predoni alle
forche.

Ma lasciamo in disparte le grandi compagnie, che non entrano nel
nostro povero quadro, e ristringiamoci a parlare di quelle piccole
masnade di venturieri, che, datisi al mestiere dell'armi, cominciavano
ad essere caporali di lancia, e, venuti in fama di prodezza,
riuscivano a far manipolo di gente, che poi conducevano a' servigi di
questo e di quello. La loro condotta era di tre sorte. Dicevasi che un
condottiero serviva _a soldo disteso_, quando egli, con un dato numero
di cavalli e di fanti, militava operosamente sotto il comando del
capitano generale; era in quella vece condotto _a mezzo soldo_ quando,
senza obbligo di passare la mostra, e in forma di compagnia,
guerreggiava a suo bell'agio le terre sopra le quali era mandato; da
ultimo, stava _in aspetto_ quando, per certa piccola paga, il
principe, o comune che fosse, teneva impegnata a suo pro' la compagnia
del condottiero, per ogni caso di guerra.

A tal gente aveva fatto capo il Doge di Genova, per rafforzare
l'esercito d'un buon nerbo di cavalli e di fanti. E sotto il comando
di messer Pietro Fregoso erano venuti in condotta per tutto il tempo
che avesse a durare la guerra, Firmiano Migliorati con dugento fanti,
Francesco Bolognese con quattrocento, Vecchia da Lodi con cinquecento,
Santino da Riva, lombardo egli pure, con altri cinquecento, Bombarda
di Nè con trecento, Giovanni di Trezzo con trecento del pari e Pietro
Visconte con dugento cinquanta. Cinquecento ne aveva Bartolomeo da
Modena; dugento per ciascheduno Giovanni da Cuma, Soncino Corso e
Carlo del Maino; trecento Cipriano Corso, duecento Antonello da
Montefalco ed altrettanti il Vecchio Calabrese; cento il Giovine
Calabrese, cento Battista di Rezzo, come Carlino Barbo, Bertone
Maraviglia e Bertoncino il Poccio, da ultimo, ne aveva cinquecento
egli solo.

Parecchi portavano anche condotta di lancie. Cinquanta ne comandava
Firmiano Migliorati; venticinque Santino da Riva; dieci per
ciascheduno Bartolomeo da Modena e Giovanni da Cuma; venticinque
Beltramino da Riva.

E qui bisognerà fermarsi un tratto per dire che cosa fossero le
lancie. Parlo pei meno intendenti di queste astruserie militari, che
pure ricorrono tanto frequenti nelle storie italiane anteriori alla
prevalenza dei cannoni e degli schioppi maneschi.

Nella cavalleria, più che nei fanti, era a que' tempi il nerbo delle
battaglie. Questi, se arcadori e balestrieri, incominciavano la pugna;
i cavalieri vi facevano poscia lo sforzo decisivo. Sepolti, per così
dire, entro a montagne di ferro, portati da cavalli smisurati e
coperti anch'essi di ferro, correvano a furia gli uni sugli altri, e
vincitore era facilmente colui che levasse il nemico d'arcione. Il
ferire, essendo intatte le armature, non tornava agevole, salvo in un
punto, cioè sotto l'allacciatura dell'elmo. E a ciò, se il cavaliere
non reputava più utile imporre un riscatto al caduto, badavano i
serventi del vincitore e gli altri fantaccini accorsi nella mischia.

Così poderosamente armato e bisognoso d'aiuti, il cavaliere aveva
sempre un cavallo di riserbo, talvolta anche due, ed un manipolo di
pedoni con sè. Potevano esser quattro e cinque, non mai meno di tre
serventi, uno dei quali armato di balestra, e un altro di lancia, o di
partigiana. Costoro si chiamavano anche saccomanni; gli altri si
diceano paggi, o ragazzi, nel primo significato del vocabolo, che è
quello di servi, adoperati in umili esercizi. E tutta questa famiglia
dicevasi lancia, giusta il costume degl'inglesi venturieri calati in
Italia, che tolsero il nome dall'arma principale del combattente;
laddove, più anticamente, da noi i cavalieri erano detti militi, per
antonomasia, quasi i soli che meritassero tal nome, o barbute, o
elmetti, dalla più nobil forma dell'armatura del capo. Quest'elmo, un
panzerone di ferro e un'anima d'acciaio sul petto, bracciali, cosciali
e schinieri di ferro, erano le difese del cavaliere; daga, e spada
soda, lancia a posta sul piè della staffa, erano l'armi di offesa.


Nomi diversi, secondo i tempi e le fogge del loro armamento, avevano i
fanti. Portavano giaco e cervelliera di ferro, spada e mazza, oppure
una picca di smisurata lunghezza. Dicevansi tavolaccini e palvesarii i
balestrieri che combattevano al riparo d'un tavolaccio, o d'un
palvese, scudi alti quanto la persona e terminati in punta, che si
conficcavano in terra. Le balestre (chi nol sa?) erano aste di legno,
cui s'adattavano archi di ferro; le maggiori avevano un piede, di
guisa che il balestriere non durava altra fatica che di tenderle,
appuntarle e scoccarle; altre, più grandi, e dette balestroni, o
spingarde, specialmente adoperate nella difesa, o nell'assedio delle
fortezze, si montavano la mercè d'una girella e scagliavano tre
verrettoni, e all'occorrenza anco pietre.

L'argomentò mi tirerebbe a parlare eziandio delle macchine; ma il
troppo stroppia e fo punto. Tra fanti e cavalli, bombardieri, artefici
e bagaglioni, erano forse quindicimila sotto i comandi del Fregoso,
all'impresa del Finaro. Pochi erano i cavalieri in paragone degli
altri; ma i luoghi montuosi e ristretti in cui era portata la guerra,
non richiedevano gran nerbo di gente a cavallo. Del resto, in aiuto
alle lancie, militavano con messer Pietro molti nobili genovesi, e tra
essi quasi tutti i giovani della casata Fregosa.

Le prime bandiere giunsero in vista del Finaro il giorno che era stato
indicato, cioè a dire il 5 del mese di dicembre. Le vedette collocate
dal marchese al passo delle Magne, si ritrassero a Verzi e di là fino
al Calvisio, per dare avviso dell'approssimarsi del nemico. Galeotto
aspettava il Fregoso al passo di Val Pia, per sbarattare le prime
compagnie che si fossero perigliate laggiù. Ma messer Pietro non avea
fretta di calare nella valle; per quattro giorni intieri stette sul
poggio di Castiglione, aspettando l'arrivo di tutta la sua gente; e
frattanto gli artefici, per suo comando, prendevano a far bastita in
quel luogo.

Dicevasi bastita, o battifolle, quell'edifizio che un esercito
innalzava in prossimità del nemico, per comandare un passo
contrastato, o una città assediata, ed era alcun che di simile al
vallo degli antichi romani e al campo trincierato degli eserciti
moderni. Facevasi di legno e di pietre, munivasi di steccato, di
scarpa e di fosso tanto più profondo quanto più era consentito dal
tempo e richiesto dalla poca eminenza dei luoghi. Colà dentro riparava
l'esercito con tutte le sue salmerie ed ingegni di guerra, così per
custodirsi da un colpo disperato del nemico ed aver tempo a mettersi
in arme, come per tornarvi a rifugio e riordinarsi nel caso d'una
sconfitta.

Messer Pietro era uomo avveduto e non gli accadeva mai di badare ad un
negozio, che non ponesse mente in pari tempo a tutte quelle cose che
potevano aiutarne il buon esito. La sua bastita non appariva una delle
solite a farsi in somiglianti occasioni; capace era e fortissima, con
quattro torri sugli angoli, come se anche di là dond'era venuto
temesse egli un assalto. Que' monti, che scendevano dirupati fin
presso al mare, gli parean traditori, ed egli inoltre, quanto al senno
di poi, non voleva rimorsi.

Quella bastita, del resto, anche avanzandosi egli col grosso delle
schiere entro la valle del Finaro, doveva rimanere il suo ricettacolo,
il suo emporio, la sua piazza forte. Però l'aveva innalzata in luogo
così eminente e lontano, e fatta così ampia, così validamente munita.
I Finarini, che stavano spiando tutto ciò dalle loro beltresche e
battifredi rizzati sui colli di rimpetto, in cominciavano a beffarsi
di questo Fabio temporeggiatore, e delle sue fabbriche tanto lontane.

--Scenda,--dicevano essi,--venga alla prova sotto le mura di
Castelfranco e vedrà se, scompigliato al primo urto, gli riesce di
tornare in salvo su quella bicocca.--

E messer Pietro, la mattina del 14, bravamente discese. Santino da
Riva, colle sue lancie, correva sulla sponda sinistra del torrente di
Pia, per assicurare le spalle dell'esercito dalla imboscate nemiche. I
quattrocento balestrieri di Genova calarono in bell'ordine sotto il
comando di Nicola Fregoso, giovin cugino di Pietro, e s'avviarono
verso la foce del torrente. Giunti ad un luogo coltivato, che avea
nome di Vigna Donna, si fermarono, con gran meraviglia dei difensori
di Castelfranco, che si aspettavano un assalto e stavano ai parapetti,
pronti con verrettoni, sassi, e pece bollente, a respingerli. Questo
per la difesa del castello; ma dietro ai saglienti dei bastioni c'era
preparato dell'altro, per attaccar battaglia sul lido. Erano colà
forse due mila Finarini appostati, che dovevano piombare sul nemico, a
mala pena si fosse avventurato all'assalto.

Ma messer Pietro non volle pigliarsi la briga di andarli a cercare.
Piantatosi a Vigna Donna, accennò di volervi attender battaglia, e,
poichè questa non gli fu data, di volervi dormire. E giunse difatti la
sera, senza che egli si fosse scostato di là. Il luogo doveva
piacergli di molto, poichè egli ci stava ancora la mattina vegnente;
anzi ci avea messo casa. Il principio d'uno steccato appariva in quel
luogo; il fosso era scavato in giro e il cavaticcio ammontato a
rincalzo dei pali, minacciosamente aguzzi e appuntati all'ingiù.
Quello era stato il lavoro di tutta la notte, e certamente messer
Pietro ci aveva fatto vegliare la metà dell'esercito. Di torri non
c'era ancor segno in quel luogo; chè sarebbero state opere inutili. Il
palazzo di Gandolfo Ruffini, murato in quella vigna, era parso la man
di Dio al prudente capitano, che n'avea fatto il mastio della sua
nuova difesa. Una strada coperta, tutta irta di punte, metteva dal
battifolle improvvisato fino alla bastita del poggio di Castiglione.

I difensori di Castelfranco incominciarono a capire il disegno di
messer Pietro. Voleva esser sicuro del fatto suo, il capitano
genovese, e dar battaglia colle spalle al coperto. E quanta riserva di
pali faceva portar tuttavia da lunghe file di bagaglioni! Ormai ce
n'erano tanti accatastati là dentro, da farne, non che una doppia, o
tripla stecconata, una selva.

Così passò la giornata del 15; i Genovesi lavorando senza posa a
rafforzare il battifolle e portando sempre nuovo legname; i Finarini
aspettando un assalto da alcune compagnie di fanti, che proteggendo i
lavori dei manovali, accennavano di avvicinarsi a Castelfranco. Erano
giunti a due balestrate dalle mura, nel luogo detto di San Fruttuoso,
poco stante dalla spiaggia del mare; ma non s'inoltravano di più.

--Che diavol fanno?--si chiedevano i difensori di Castelfranco l'un
l'altro.--Oramai, il battifolle di Vigna Donna è diventato una
legnaia.

--Provvedono forse ai casi loro per quest'inverno, che sarà freddo
laggiù.

--T'appiccherà il fuoco messer Galeotto, statene certi; e di qui ci
vogliamo goder la fiammata;--

Questi i ragionari sul parapetto. Intanto giungeva la notte,
senz'altro di nuovo per tutto quel dì, tranne qualche colpo di
balestra scambiato sul lido tra le vedette dei Finarini, appostati
sotto Castelfranco, e alcuni più audaci scorridori nemici.

La notte fu buia e tempestosa; soffiava il libeccio e il mare frangeva
rumoroso alla spiaggia. Tuttavia, dall'alto dei bastioni si udiva un
continuo rumore nel campo, un alternarsi di voci, un cozzar di ferri,
un cigolar di ruote, ed anche un picchiar di martelli e di badili, che
indicavano una strana assiduità di lavoro.

Messere Antonio del Carretto, che con sessanta animosi ed esperti
soldati difendeva il castello, venuto nel cuor della notte, com'era
debito di buon capitano, a fare la sua passeggiata lunghesso le mura,
non dubitò di attribuire quello strepito di carri allo avanzarsi delle
macchine da fuoco, che il giorno vegnente avrebbero preso a fulminare
la ròcca. Quanto ai badili e ai martelli, pensò che continuassero il
lavoro del giorno addietro, e non vi badò più che tanto.

--A domani, dunque!--diss'egli.--L'assalto è imminente.--

E in questa credenza, mandò un soldato ad avvisare il cugino Galeotto,
che i Genovesi portavano innanzi le artiglierie.

Venne finalmente l'alba, quantunque grigia, piagnolosa e svogliata. Ma
i suoi incerti barlumi non rischiararono nessun apparecchio di
macchine, e in quella vece si vide un nuovo steccato a San Fruttuoso,
come la mattina antecedente lo si era veduto a Vigna Donna. E l'uno
appariva collegato all'altro, come ambedue alla bastita di
Castiglione.

Capirono allora i difensori del castello che cosa significasse la
legnaia del giorno addietro, e stupefatti domandarono a sè stessi se i
Genovesi intendevano di andar oltre a quel modo, sotto i loro occhi,
fino alla vista della Marina.

La cosa non era del tutto improbabile. I Genovesi andavano meritamente
famosi in tutta la Cristianità, ed anco in Turcheria, per la loro
eccellenza nelle opere di legname usate alla espugnazione della città.
Quest'arte l'avevano ereditata da Guglielmo Embriaco, di cui ho
raccontato altrove le mirabili imprese.

Per altro, dal valoroso Capodimaglio avevano anche ereditato il
costume di menare arditamente le mani, e non era da credere che
volessero lavorar di accette e martelli più del bisogno. Certo, se
avevano fatte tre bastite in cambio d'una, egli c'era il suo bravo
perchè.

Ed erano riusciti una meraviglia, quei tre battifolli, quantunque
edificati all'infretta. Per una lunga diagonale, dal poggio di
Castiglione insino a San Fruttuoso, dove la spiaggia del mare
incomincia a restringersi sotto l'eminenza di Castelfranco, si
stendeva non interrotto un ciglione, protetto da fosso e steccato. Il
marchese Galeotto, che era accorso di buon mattino al castello, non
potè rattenersi dallo ammirare l'operosità e l'avvedutezza militare
del suo avversario.

Per contro, il non vedere le artiglierie sugli approcci, diè
grandemente da pensare al marchese. Il nemico se ne stava cheto nel
campo; solo erano usciti pochi drappelli di balestrieri, correndo un
tratto del lido, sulla fronte delle opere avanzate, e scambiando, come
il giorno addietro, qualche colpo co' suoi. Badaluccavano; e frattanto
messer Pietro proseguiva qualche suo alto disegno, che a lui non venia
fatto d'intendere. Forse non ne aveva alcuno; ma in guerra, e pel
nemico che deve indagare ogni cosa e fondarsi su tutti i possibili e
su tutti i probabili, averne e non averne è tutt'uno; sconcerta sempre
e fa rimanere sospesi.

Ora, l'incertezza non garbava punto al marchese Galeotto; il quale
volle averne l'intiero, andando sul nemico da due parti, di fronte e
di fianco, dalla Marina e dalla valle di Pia. Il Fregoso poteva non
aver altro in mente che di espugnare Castelfranco, chiave del
marchesato dalla parte del mare, e forse traccheggiava, vuoi per
compiere le sue opere di difesa, vuoi per aspettar gente, o
artiglierie che gli mancassero ancora. In questo caso, un assalto dei
nemici doveva tornargli molesto; ragion questa per testarlo di colta.
O meditava, tenendo a bada i nemici sulla Marina, di andarli a pigliar
dalle spalle sui monti, e l'assalto improvviso anche da quella banda
riusciva a guastargli il disegno. Pareggiate in una data misura le
forze, chi assalta ha sempre bel giuoco.

A pareggiare le forze, ed anche un pochino le sorti, che sogliono
quanto quelle aver peso nella bilancia, non parve a Galeotto esserci
partito migliore che quello di una incamiciata. Nel fitto delle
tenebre la pochezza del numero non faceva danno, anzi tornava a
vantaggio, purchè i meno avessero cuore; inoltre, nello scompiglio
d'un assalto non aspettato, una linea così lunga di accampamento si
difendeva men bene che a giorno chiaro, contro un numero tre volte
maggiore.

Così pensando, sceglie cinquecento de' suoi più animosi e provati; li
fa calare a tarda sera dal monte che corre alle spalle di Castelfranco
e si rovescia con essi sullo steccato di Vigna Donna. Dalla marina
altri ne escono in numero di forse trecento, e li comanda Barnaba
Adorno, che non ha voluto abbandonare il suo ospite, poichè il giorno
delle tristi prove è giunto ancora per lui. Questi e gli altri hanno
indossato una camicia sul giaco, per riconoscersi nella mischia a
vicenda.

Tutto andò francamente come avea disegnato il marchese. Prima a dar
dentro furono gli uomini di Barnaba Adorno, dalla parte di San
Fruttuoso. Giunsero senza intoppo sino all'orlo del fosso, lo
colmarono con fascine, tempestarono di colpi la stecconata, e fecero
impeto nel battifolle. Ma lì, a poca distanza dalle prime difese,
l'ingegno acuto di messer Pietro avea seminato i tranelli, facendo
scavare carbonaie e bocche di lupo, nelle quali cascarono molti
assalitori a rinfusa. Lo scompiglio fu grande e poco il danno degli
assedianti, che tosto si fecero addosso ai malcapitati ed appiccarono
la zuffa.

Messer Pietro, dati i comandi più urgenti a spronare il coraggio de'
suoi, e lasciato in quel luogo il cugino Nicola, si partì dallo
steccato di San Fruttuoso per correre indietro, a Vigna Donna. Il suo
disegno non era stato indovinato dal marchese, appunto perchè era il
più semplice. Pietro aspettava quell'assalto notturno, e volea trarne
profitto, per mostrare ai nemici la saldezza delle opere sue. Ora
l'assalto dato a San Fruttuoso, sulla fronte ristretta e quasi
cuspidata del campo genovese, non gli pareva che una finta, laddove il
gran colpo doveva esser ferito sul fianco, alla bastita di Vigna
Donna.

Nè s'ingannava. Sorprese e rovesciate la scolte, si scagliava appunto
allora il marchese sullo steccato. Rami, sarmenti, pietre, e quanto
poteano avere alle mani, tutto gittavano i suoi fanti animosi nel
fosso, per far la colmata. Incitandoli coll'esempio, fu egli il primo
a scrollare con braccio poderoso i pali, a romperne la traversa a
replicati colpi di scure, balzar dentro del varco, faticosamente
aperto nel palancato, e, menata a tondo l'arme villana, incignare
gagliardamente l'attacco.

Ma se per avventura fu terribile il colpo, non riuscì la difesa men
fiera. Al grido delle scolte, allo strepito dei nemici accorrenti, si
erano levati in armi i soldati genovesi e colle partigiane spianate
venivano incontro a quelle bianche fantasime, piombate allora nel
campo. Dàlli, dàlli! San Giorgio e Fregoso! Ammazza, ammazza! San
Giorgio e Carretto! E la mischia s'impegnò d'ambe la parti accanita.

Messer Pietro, uomo di partiti se altri fu mai, per mettere lo
scompiglio in mezzo ai nemici e far vedere in pari tempo alla sua
gente come pochi fossero costoro e in poco spazio ristretti, comandò
di portare innanzi fascine incatramate, appiccarvi il fuoco e gittarle
a tutta forza di là dalla chiusa. I molti che ancora non avevano
potuto penetrarvi e che facean ressa al palancato, sopraffatti da
quella pioggia di fuoco, dovettero dare indietro solleciti e
sparpagliarsi pei campi; intanto una torbida luce rischiarò gli
assalitori alle spalle e mostrò ai genovesi quanto poco di terreno
avessero, con tutto il loro impeto, guadagnato i nemici. Frattanto il
Picchiasodo, che non avea niente a fare del suo mestiere, e sempre si
doleva di stare colle mani alla cintola, imbattutosi in una catasta di
pali aguzzi che erano avanzati agli artefici, prese, colla fretta di
un uomo che lavorasse a cottimo, a sfrombolarne gli assalitori.
Volavano i tronchi l'un dopo l'altro, rombavano in aria, cadeano nel
fitto dei combattenti, ammaccavano le cervelliere, rimbalzavano sulle
braccia, chi coglievano di punta e chi di schiancio, facendo ognun
d'essi il lavoro di quattro soldati. Anche il marchese Galeotto ebbe a
saggiarne la forza, che uno di quegl'insoliti verrettoni gli portò via
netta la scure dal pugno. Anselmo Campora seguitava a picchiare (e
come sodo!) mostrando coi fatti di non averlo scroccato, il suo
soprannome di guerra. E intanto, dàlli, dàlli, ammazza, ammazza, le
grida cozzavano come i ferri; San Giorgio e Fregoso, San Giorgio e
Carretto s'incontravano in aria, accompagnati salivano al cielo.

Il povero santo delle battaglie sicuramente udì quelle invocazioni
notturne, dal luogo de' suoi celesti riposi; ma io porto opinione che
egli, per non sapere a cui porgere orecchio, tagliasse corto, dicendo
che la notte è fatta per dormire, e si voltasse dall'altro lato,
lasciando a' suoi divoti la cura di levarsi d'impaccio da sè.

Grande fu l'uccisione da ambe le parti. Ma gli uomini di Galeotto non
potevano, con tutta la loro maravigliosa prodezza, fare un passo più
oltre, serrati com'erano e oppressi da una moltitudine di nemici.
Oltre di che, dalla parte di San Fruttuoso era cessato il frastuono
delle voci e dell'armi; segno che Barnaba non avea potuto sfondare la
cerchia dei Genovesi e aprirsi l'adito fino ai compagni d'attacco.

Allora Galeotto comandò la ritirata, e, perchè non avesse a mutarsi in
dirotta, con un pugno de' suoi migliori la protesse egli medesimo fin
oltre il fosso; indi, col favor delle tenebre, nè volendo messer
Pietro arrisicare i soldati in una caccia notturna, potè ricondursi in
salvo a Calvisio. I Genovesi profittarono delle ore che ancora
avanzavano al romper dell'alba, per isgomberare il fosso e rifar lo
steccato.

Passarono quattro o sei dì senza cose notevoli. Messer Pietro faceva
le mostre di dormire. Sapeva prodi i Finarini e, da buon capitano,
mirava a stancarli, a condurli allo stremo, senza spreco de' suoi. Il
Picchiasodo solea dire che messer Pietro faceva come la gatta di
Masino, che chiudeva gli occhi per non veder passare i sorci; e
frattanto si struggeva di quella inerzia apparente.

Un giorno, usando di quella dimestichezza che aveva col capitano
generale (dimestichezza nata nel vivere un tal po' brigantesco, che
anni addietro aveva fatto con esso lui su quel di Novi) se ne lagnò
apertamente con messer Pietro, padrone suo riverito.

--I pigionali della colombaia,--diceva egli, accennando ai difensori
di Castelfranco,--son liberali a lor posta, mandandoci ad ogni tratto
qualche regaluccio coi màngani, e a me la mi cuoce, di non poterli
rimeritare con qualche pera zuccherina del nostro orto. Anche la
signora Ninetta ne ha, son per dire, uno spasimo, e se la mi crepa un
giorno o l'altro, state sicuro che gli è proprio di stizza.--

La signora Ninetta era, come il lettore arguto avrà indovinato alla
prima, una bombarda, e aggiungerò la più bella del campo e la
prediletta di Anselmo Campora, che amava caricarla e darle il fuoco
egli stesso, senza aiuto di valletti.

--Chètati, via;--gli disse di rimando messer Pietro;--c'è tempo a
tutto. Prima di metter mano alle artiglierie, dobbiamo impadronirci
della Marina e piantarci saldamente a cavallo. Che diresti di me se,
mentre tu fossi qua a sfrombolare quella colombaia, come la chiami tu
per dispregio, non ricordando che l'hanno murata i Genovesi tuoi
padri, io lasciassi calare quattromila uomini a far impeto sui tuoi
passavolanti, cortane e falconi, in un luogo dove non potrei certo
spiegare tutta la mia gente in battaglia?

--Voi dite sempre bene, messer Pietro, e meglio operate;--rispose il
Picchiasodo;--ma infine, sapete, amor di padre....

--Sì, sì, lo capisco;--interruppe l'altro ridendo,--Dirai dunque alla
signora Ninetta che stia di buon animo, e si risciacqui la bocca, che
presto avrà da usare tutti i suoi vezzi e le sua moine più dolci.--

E messer Pietro mantenne la parola. Nella notte sopra l'Avvento,
assicuratosi con una grossa guardia di fanti dalla parte di Calvisio,
che il nemico non s'attentasse di molestarlo sui fianchi, s'inoltrò
verso la Marina col grosso dell'esercito. Da Castelfranco udirono lo
scalpiccìo di quella grande passata; ma, per la notte buia non potendo
aggiustar la mira, poco o nissun danno arrecarono coi verrettoni e coi
sassi alle spedite compagnie del Fregoso.

Il marchese Galeotto, col fiore de' suoi combattenti, aspettava il
nemico alle prime case della Marina. Furioso lo scontro; accanita la
pugna; i Finarini fecero miracoli di valore per una intiera giornata.
Quivi si segnalò Paolo Adorno, nipote di Barnaba, combattendo a corpo
a corpo con Giovanni di Cuma, che fu balzato d'arcioni e campato a
fatica dai suoi serventi e compagni.

Vantaggio di quella giornata, in apparenza, nessuno. I Finarini, a
maggior sicurezza e fors'anco ad insidia, si ritrassero sotto le mura
del Borgo; i Genovesi, padroni della Marina, non ardirono di mettervi
il campo, e solamente vi collocarono alcuni drappelli per invigilare
il nemico.

Per altro, messer Pietro si sentiva oramai da quella parte aver le
mani più libere, e allora comandò ad Anselmo Campora di condurre
innanzi le artiglierie, per battere finalmente il castello.

Erano queste artiglierie, con nome vecchio, una cosa nuova, cioè vere
armi da fuoco, non più macchine da trarre per forza di contrappeso, o
di tensione, come usavasi dapprima. Una polvere infiammabile, che
alzava per la propria virtù esplosiva corpi leggieri in cui fosse
rinchiusa, era conosciuta dugento e più anni addietro; ma per assai
tempo si restrinse a far volare certi razzi, nè fu usata ad avventar
palle e saette, se non intorno al 1300. I cannoni, le spingarde, gli
schioppi, che furono le prime armi da fuoco, erano canne di bronzo, e
di non grave dimensione, adattate ad un fusto di legno. Semplici in
principio e quasi manesche, le nuove artiglierie s'ingrandirono man
mano e si fecero più complicate. La bombarda, ad esempio, che fu la
più grossa e che apparve dopo la prima metà del secolo XIV, constava
di due parti disuguali; l'anteriore, chiamata tromba, era una specie
di mortaio di forma conica, a cui s'adattava un gran sasso ritondato e
ravvolto in pelle, o tela cerata; la posteriore consisteva in un
cilindro, in cui si metteva la polvere, e dicevasi mascolo, per essere
in quella il maschio della vite che collegava i due pezzi. Nè sempre
la carica si faceva con un sasso, ma altresì con un cartoccio di
scaglia, fasci di verrettoni, fuochi artifiziati, bigonci di sassi,
canestre, sacchetti d'ogni minutaglia, o fosse di piombo, o di ferro.

Colla bombarda si apriva la breccia nelle muraglie e nei ripari
nemici; ma, essendone i tiri troppo rari, usavasi tener lontani dalla
breccia i difensori, facendo spesseggiare colà i colpi d'artiglierie
minori, che erano bombardelle, falconi, colubrine, cerbottane,
ribadocchini. Inoltre, una bombarda di mezzana grandezza dicevasi
cortana; passavolante la bombarda più lunga.

Toglievasi la mira con due traguardi, collocati alle due estremità
della tromba, e alzando e abbassando la parte anteriore del pezzo, con
piuoli, o zeppe di legno. La vite di mira doveva essere un trovato del
moltiforme ingegno di Lionardo da Vinci. La carica, poi, non si
accendeva colla miccia, bensì con ferro rovente, in forma di uncino,
che si accostava al focone. Ad ogni colpo fatto, la canna si
rinfrescava, ungendola d'olio, od anco di aceto; più tardi l'acqua
giustamente prevalse.

Usavasi anche il mortaio solo, senza la tromba, sotto il nome generico
di bombarda; e forse fu questa la sua forma più antica, che sottentrò
ai màngani, ai trabocchi, alle briccole, ingegni di vecchio stampo,
che tutti traevano, come il mortaio, in arcata.

La difficoltà di maneggiare queste armi, il tempo soverchio che si
spendeva a caricarle, ed anche in parte il pericolo che c'era a
trattare la polvere, furon cagione che l'uso di que' graziosi ordigni
per lunga pezza stentasse a volgarizzarsi e che per quasi tutto il
secolo XV l'arte della guerra non n'avesse mutamenti essenziali. In
molti luoghi i trabocchi e le briccole durarono a fronte delle
spingarde e dei falconetti. Genova, ad esempio, non ebbe bombarde fin
dopo la guerra di Chioggia. Il Giustiniani lo nota espressamente in
due luoghi, accennando la moltitudine delle bombarde veneziane
«ritrovate di nuovo per questo tempo (1379)» e, aggiungendo più sotto,
«l'uso delle quali non avevano ancora i Genovesi.»

Tre di questi ingegni poderosi furono adunque tirati avanti, per
comando del capitano generale, e il buon mastro dei bombardieri li
fece collocare di fronte al castello. Altri ne furono piantati lì
presso, ma di minor mole, detti cerbottane e falconi, e la mattina del
10 di gennaio incominciò la serenata, come il Picchiasodo la chiamava,
in quel suo stile faceto che i miei lettori conoscono.

Dominava il concerto la signora Ninetta, che ad ogni colpo gettava un
sasso di cinquecento libbre. Il suo primo saluto andò a dirittura a
cascare dentro il castello, come impromessa di altri, non meno
aggiustati ed efficaci, che dovevano uscire dalla sua bocca d'oro.


E questi non si fecero molto aspettare. Anselmo Campora (ho già detto
che il cavalier servente della signora era lui in persona) levò una
zeppa di legno di sotto alla gola della, bombarda, le abbassò il mento
d'altrettanto spazio, le fece posar tra le labbra una di quelle
giuggiole che ho detto di sopra, tolse l'uncino rovente dal braciere,
l'accostò al focone, e tonfete, mandò il secondo saluto al castello.
La palla imbroccò il parapetto e, rotolando giù dalla cortina, si
trasse dietro una rovina di pietre. Un lembo di parapetto, colle sue
caditoie, era spiccato dal sommo delle mura.

Intanto che questo accadeva sotto Castelfranco, il Vecchia da Lodi,
co' suoi cinquecento fanti e una ventina di cerbottane, portate dagli
scoppiettieri in ispalla e munite d'un piede da porle in terra quando
occorresse di trarre, s'inoltrò dalla Marina fino ai prati
dell'Altino, che sono a mezza via tra il Borgo e la spiaggia del mare.
I lettori hanno già pratica del luogo; io aggiungerò che il
Picchiasodo, saputo del comando dato al suo compagno d'armi, gli aveva
raccomandato di salutargli tanto e poi tanto un certo ostiere suo
amico, e di farsi dare un fiaschetto di quella malvasia, che teneva in
serbo, per gli uomini di conto.

Ohimè, povero mastro Bernardo, _quantum mutatis ab illo_! La frasca e
l'insegna ce le aveva tuttavia sul portone; ma da parecchie settimane
non vendeva più vino e l'accoglienza era triste. Gli ultimi fiaschi
glieli avevano bevuti gli uomini del marchese, tornando dal
combattimento alla Marina, e se egli non si era ritirato ancora nel
Borgo, ciò doveva attribuirsi ad amore del suo povero nido e ad una
tal quale superstiziosa idea che la sua fuga dovesse tornare di mal
augurio alla patria. Fino a tanto che io sarò qua, pensava egli nel
suo corto cervello, non ci verranno a squadronare i genovesi; e dopo
tutto, chi terrebbe d'occhio queste quattro panche e questi quattro
caratelli vuoti?

Fu un brutto quarto d'ora per mastro Bernardo quello in cui i soldati
genovesi comparvero all'Altino e fecero capo alla sua osteria. Ben si
provò il dabben uomo a sorridere e a fare inchini a tutte quelle facce
proibite (almeno, secondo lui, avrebbero dovuto esserlo in ogni paese
ben governato); ma quando il comandante di tutti que' diavoli
scatenati gli ebbe detti i saluti e l'imbasciata del Picchiasodo, di
quell'arnesaccio che lo aveva fatto cantare da quel babbio ch'egli era
e che oramai sentiva di essere, il povero mastro Bernardo fece a
dirittura una smorfia.

--Maledetta lingua!--borbottò egli tra i denti.

E borbottò ancora di più, quando, sotto pretesto di cercargli il vino
che non aveva, quei furfanti si sparpagliarono qua e là per la casa,
sguisciarono in cantina e gli sfondarono le botti, che non ci avevano
colpa.

Per contro, siccome ogni ritto ha il suo rovescio, mastro Bernardo
ebbe in quel medesimo giorno vendetta allegra di tanto dispetto. Sui
prati dell'Altino, il Vecchi da Lodi si scontrò nei soldati del Finaro
e lì, fino a tarda sera, altro che botti sfondate! Cento cinque
genovesi restarono, tra morti e feriti, sul campo. Dei Finarini, che
erano appostati in luoghi eminenti, o coperti, pochi furono feriti, e
questi dalle cerbottane, coi lor tiri di rimbalzo e lontani.

San Giorgio, come si vede, tirava innanzi a dormire.

La mattina vegnente, il Vecchio Calabrese co' suoi duecento uomini
andava in aiuto al Vecchia di Lodi, e ambedue, con impeto temerario,
s'inoltravano fin sotto le mura del Borgo. Simili spacconate eran
comuni in que' tempi. La grande mobilità delle fanterie leggiere, e la
nissuna delle nuove artiglierie, che sole avrebbero potuto tenere in
rispetto gli audaci, consentivano di correre molto paese innanzi e
indietro, senza fare e senza ricevere gran danno. Questo, come disse
il poeta, «era il costume dei braveggiatori, che fan poche faccende e
gran rumori.»

Senonchè, stavolta i braveggiatori s'erano spinti troppo sotto, e
balestroni, e spingarde, e cerbottane (che anco di quest'armi da fuoco
ne aveano qualcheduna al Finaro) mandarono un tale diluvio di roba
assaettata sui malvenuti, che questi furono costretti a voltar le
calcagna, e molti, anzi, non fecero a tempo.

Ma di queste e d'altre maggiori perdite d'uomini, poco importava al
capitano generale. Con simili scascamuccie e affrontamenti quotidiani,
egli teneva a bada il nemico, e, meglio ancora, lo aveva sempre sotto
la mano; frattanto serrava i panni addosso a quelli altri che
difendevano Castelfranco.

Nello spazio di otto giorni, la signora Ninetta e le due altre comari
che le facevano compagnia, gittarono su quel povero baluardo la
bellezza di cento sessantatre nespole. Per una bombarda, a que' tempi,
sei o sette colpi al giorno erano un bel trarre, e ne ho detto le
ragioni più sopra. Le mura erano così profondamente scombussolate, che
non poteano più reggersi; e ad ogni nuovo colpo ne crollavano con alto
frastuono larghissime falde. Già sui parapetti e lungo i ballatoi non
si poteva più stare.

Come il Fregoso vide in tal guisa avviato il lavoro del Campora, mandò
sotto le mura un araldo. Allo squillar della tromba, Antonio Del
Carretto, il difensore del castello, si affacciò sulle macerie.

--Per comando dell'illustrissimo capitano generale dei Genovesi, messer
Pietro Fregoso, vi è intimata la resa;--disse l'araldo;--fatelo, e sia
pel vostro meglio; se no, tra due ore si dà la scalata e non isperi
allora di aver salva la vita nessuno.

--Di ciò non mette conto parlare;--rispose Antonio, con piglio tra non
curante e faceto.--La guerra è cosiffatta, e cui non garba il giuoco
stia co' frati e zappi l'orto. Dite piuttosto, che patti ci fa il
vostro capitano, se noi si rende questo mucchio di pietre?

--Libera uscita,--soggiunse l'araldo,--e portando tutti con voi le
armature; ciò consente messer Pietro Fregoso, in segno d'onoranza al
valore.--

Il bravo Antonio rimase un tratto sopra pensiero. Gli cuoceva di dover
cedere e tuttavia ben vedeva di non poter resistere più a lungo. Per
sè, avrebbe forse rifiutato; ma il patto era onorevole pe' suoi
compagni, e certo, poichè la difesa avea toccato agli estremi, meglio
valeva portare a Galeotto cinquanta animosi soldati, che
seppellirglieli sotto le rovine d'un castello perduto.

Così pensando, chiese ancora che gli si concedesse tempo fino al
giorno di poi; avrebbe reso il castello, se nello spazio di
ventiquattr'ore non gli giungeva soccorso. Messer Pietro gli fu tanto
cortese da recarsi egli in persona sotto le mura, per rispondergli che
non poteva contentarlo. Galeotto era chiuso nel Borgo e i Genovesi
padroni della vallata; cedesse adunque, accettasse i patti larghissimi
da lui consentiti a un così prode nemico, e co' suoi occhi medesimi,
nel tragitto dalla Marina al Borgo, si sarebbe sincerato della sfidata
condizione in cui era.

Antonio ben vide che non gli restava altro scampo e si arrese. Ebbe
all'uscita tutti gli onori che un esercito vittorioso potesse rendere
al valore sfortunato, e mentre nel campo di San Fruttuoso le
bombardelle e i falconi facevano gazzarra per questo primo trionfo
delle armi genovesi, egli si ridusse malinconico al Borgo, coi suoi
sessanta compagni, la sera del 18 gennaio.

--E uno!--aveva detto il Picchiasodo, palpando amorosamente il collo
della signora Ninetta mentre i difensori di Castelfranco passavano
muti e dimessi davanti alla loro capitale nimica.--Or viene la volta
di castel Gavone.--

L'incontro di Antonio col marchese Galeotto alle porte del Borgo fu
commovente. Antonio, triste e raumiliato, quasi non ardiva alzar gli
occhi a guardare il cugino; ma Galeotto gli andò incontro con piglio
amorevole, lo abbracciò e di altro non ebbe cura che di confortarne lo
spirito.

--Di che vi accorate, cugino, quando io trovo nella vostra difesa
argomento a sperar bene del futuro? La resistenza di Castelfranco ci
ha fatto guadagnare un mese di tempo. La lega dei nostri congiunti ha
avuto agio a raccogliere gli aiuti, che mi si annunzia esser pronti a
Garessio. Anche di Francia ne aspetto. Noi qui possiamo tener saldo un
anno, e in un anno molte cose possono accadere a Genova e altrove.--

Le parole di Galeotto furono molto lodate, come quelle che facevano
testimonianza d'animo grande e in pari tempo avveduto.

A rinfrancare vieppiù lo spirito de' suoi, quella medesima notte egli
fece dal Borgo una vigorosa sortita generale. Antonio gli aveva detto
non esser gran gente nella vallata, e Galeotto ne approfittò.
Ributtate le prime schiere genovesi, piombò sulla Marina prima che il
nemico avesse potuto raccapezzarsi, e fu tale la furia, che egli
pervenne senza contrasto alla riva del mare, dov'erano tirate in secco
alcune feluche e fregate corriere. Tosto i soldati vi balzano dentro a
farvi bottino, e per fermo v'appiccavano il fuoco, se l'impresa non
portava via troppo tempo; indi, con larga preda e buon numero di
prigioni, se ne tornano indietro.

Comandava la spedizione Francesco del Carretto, figlio a Corrado e
cugino di quel Marco, signore di Osiglia, che segretamente se la
intendeva coi Genovesi. Galeotto lo aveva nominato suo capitano
generale, in omaggio alla Lega, di cui aspettava, siccome ho detto,
gli aiuti.

Con questo colpo audace si ricattarono i Finarini della resa di
Castelfranco. Già l'ho detto e ripetuto; san Giorgio ancora non avea
preso partito. E lo spirito conturbato di mastro Bernardo aveva, nel
giro di pochi dì, una seconda consolazione. A farlo pienamente felice
mancava tuttavia che un certo Anselmo Campora fosse preso e impiccato
per la gola.

Ma già, contenti in tutto, a questo mondo, trovarli!



CAPITOLO VII.

Come Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina e qual risposta ne
avesse.



Riposiamoci un tratto dai combattimenti e dai pensieri di guerra. Il
castello Gavone, lontano ancora da queste gravi molestie, c'invita.
Lassù, in una camera alta del torrione dell'Alfiere (che guarda alla
marina da ponente, come il torrione della Madonna a levante, mentre
gli altri due, del Marchese e della Polvere, guardano, nello stesso
ordine, dalla parte di tramontana) c'è il nostro Giacomo Pico, seduto
la maggior parte del giorno su d'una scranna a bracciuoli, nella
strombatura d'una smilza finestra, dond'egli beve la tiepida luce del
sole.

La perdita del sangue lo ha infiacchito, lo ha reso bianco in volto
come un cencio lavato; ma infine, quel che gli ha tolto di forza e di
fierezza, gli ha aggiunto, in una certa misura, di leggiadria. Dico in
una certa misura, intendiamoci; che non aveste a pigliarlo in iscambio
d'un fior di bellezza, nato lì per lì e sbocciato sotto la penna dello
scrittore, per comodità delle sue invenzioni. Vo' dire soltanto che il
ruvido giovinotto s'era in quella occasione raggentilito di molto e
che aveva fatto una ciera, da pigliarci amore le donne a cui piacciono
le pallidezze e i languori.

Madonna Nicolosina e madonna Bannina, figlia e madre, come sapete,
consolavano spesso di lor presenza il ferito. La Gilda andava e
veniva, aliava a guisa di farfalla, e trovava modo, ora con un
pretesto, ora con un altro, di essergli sempre dattorno. Nè ciò gli
sarebbe dispiaciuto (perchè una bella ragazza non fu veduta mai di mal
occhio da alcuno) se a lui da molti giorni non avesse pigliato la
smania di restar solo, almeno per dieci minuti, con madonna
Nicolosina.

E questo, per l'appunto, questo che desiderava più ardentemente, non
gli era anche riuscito. In quella vece, e più d'una volta, era rimasta
sola con lui la Gilda, desiderio e tormento del suo amico Tommaso
Sangonetto. La fortuna è cieca, avrebbe notato costui, se lo avesse
risaputo. Ma il lettore, che già conosce un cantuccio del cuore di
Gilda, penserà con ragione che non fosse tutta fortuna, quella che
faceva trovare la ragazza a quattr'occhi col ferito. Senonchè, la
povera Gilda sprecava ingegno e fatica; Giacomo Pico non le aveva mai
detto pur una di quelle parole, che ella si aspettava sempre da lui.

Se la Gilda avesse avuto un miccino d'esperienza degli uomini, avrebbe
saputo che quando uno di questi bipedi implumi è presso ad una donna
non brutta, nè spiacente, e non incomincia a coniugarle quel verbo,
gli è segno evidente che l'ha coniugato, o pensa di coniugarlo ad
un'altra, E la Gilda, a guardarsi nulla nulla dintorno, avrebbe capito
altresì dove fosse l'argomento delle coniugazioni di Giacomo Pico. Di
belle ragazze, al castello, non ce n'eran che due.

Tornando al ferito, il lettore avrà argomentato di leggieri che, se
egli poteva pensare ai colloquii e mandare dal profondo dell'anima le
sue giaculatorie alla giovine castellana, il suo non era un mal di
morte per fermo. Diffatti, la ferita, non essendo delle più gravi, si
andava rimarginando, e la gioventù, questa, gran medichessa che la sa
più lunga di tutto il dotto collegio, aveva secondato le cure del
cerusico Rambaldo, che era, per altro, la prima lancetta del
marchesato.

Ma ohimè, se una piaga si era risanata, un'altra s'era inciprignita; e
questa era la piaga fatta nel cuore di Giacomo dagli occhi
inconsapevoli di madonna Nicolosina.

Così, mentre il corpo si rinvigoriva di giorno in giorno, l'animo si
struggeva nel desiderio di potersi aprire alla donna de' suoi
pensieri, o almeno di conoscere che cosa pensasse ella di lui.
Amorevole e sollecita gli era parsa bensì in tutti que' giorni e più
assai che non fosse mai stata con lui negli anni andati, quando la
tenera età, non che scusare, consentiva ogni dimestichezza maggiore;
ma anche qui non c'era da cavarne un costrutto, essendo l'affettuosa
cura un uffizio di pietà, naturalissimo nella donna, per chi soffre
d'un male visibile, a cui ella possa portare rimedio, o sollievo. Ora,
se egli avesse potuto dirle di quell'altro suo male invisibile che
portava nel cuore, come sarebbe stata accolta la sua confessione da
lei? Questo era il busilli.

A tutta prima, vedendola giungere all'Altino, aveva argomentato in
cuor suo.... Che cosa? Nulla e tutto. Nicolosina era pallida, ansante,
confusa; una immensa pietà le traspariva dallo sguardo smarrito; una
ineffabile tenerezza governava i moti convulsi di quella labbra
smorte, che per lunga pezza non poterono profferire una parola, una
sola parola, E più tardi, quali cure affettuose! quale umanità più che
fraterna negli atti! come pendeva ansiosa dai responsi di messer
Rambaldo, che era venuto al letto del povero ferito! con quanta
sollecitudine gli occhi della leggiadra castellana si partivano dalle
labbra del discepolo d'Esculapio per andarsi a posare sul viso smorto
di lui!

Che pensare di ciò? Un giorno gli venne in mente che ella sapesse la
cagione del suo duello col Fregoso. Volea sincerarsene; ma le parole
gli morirono sul labbro. E poi, come si è detto, madonna Nicolosina
non era mai sola al suo capezzale.

E voleva altresì domandare del Cascherano. Che c'era egli di vero in
quella chiacchiera di mastro Bernardo, che aveva fatto nascere il
guaio? Di certo, l'ostiere, anco ingannandosi sul conto de' due
forastieri, non aveva inventato il personaggio e il matrimonio di
pianta. E forse, anzi senza il forse, la Gilda ne sapeva l'intiero. Ma
il chiederne a lei non avrebbe dato a divedere che troppo gli premeva
di madonna Nicolosina? Tanto faceva aprirsi a dirittura con questa e
dirle spiattellato: madonna, io muoio d'amore per voi.

Fosse almeno capitato il Sangonetto a trovarlo; si sarebbe
raccomandato a lui, che pigliasse lingua da alcuno. Ma il Sangonetto
aveva preso il largo; in vece sua, era diventato un pezzo grosso;
tornato a mala pena dalle Langhe colla promessa degli aiuti, aveva
spiccato il volo per altri lidi. Nessuno sapeva per dove; egli stesso,
andato per pochi istanti a vedere l'infermo e trovar modo di
bisbigliare una parolina alla Gilda (che lo vedea volentieri come il
fumo negli occhi) non ne avea pur rifiatato. Vanaglorioso ed ingrato,
il nostro Tommaso già sentiva la carica.

Diremo noi brevemente dove fosse andato; in Francia, alla corte di
Carlo VII, il re di cui avea detto Lahire, che perdeva «allegramente»
il suo regno, e a cui il fiore dei cavalieri francesi e una
meravigliosa pulzella dovevano riconquistarlo più tardi; ci era
andato, non già come ambasciatore, bensì col più umile e più sollecito
ufficio di corriere, e portava, da buon corriere, una lettera.

In essa, Galeotto rammentava l'ossequio dei Carretti e la loro
divozione ai reali di Francia; ricordava come un Nicolò, suo zio
paterno, combattendo per Carlo e pel nome francese, fosse stato ucciso
in battaglia dagl'Inglesi invasori; soggiungeva essere egli stato mai
sempre nemico acerbo ai Fregosi, i quali, essendo Barnaba Adorno doge
di Genova, avevano ingannato Sua Maestà, pigliandone molte migliaia di
fiorini contro la promessa d'impadronirsi di Genova e darla a lui; e
l'avevano presa e l'avevano tenuta per sè. Vendicasse adunque lo
scorno patito, soccorrendo il Finaro contro i Fregosi. Questi erano
odiatissimi a Genova, di guisa che sarebbe tornato agevole al re,
combattendo i Fregosi e avendo dalla sua il Finaro, insignorirsi di
quella repubblica. Anche Galeotto, come si scorge di qui, vendeva la
pelle dell'orso. Costume dei tempi!

Andava dunque il Sangonetto con grande celerità e presentava la
lettera. Essa piacque oltremodo al re, che s'era allacciata al dito la
gherminella di Giano Fregoso e stimò d'avere gran sorte, se poteva,
con poco disagio suo, dare a quel cattivo pagatore una grande
molestia. A pronta dimostrazione dell'animo suo verso il marchese
Galeotto, mandò subito al Finaro un prode italiano, allora ai servigi
di Francia, messer Giovanni Sanseverino, con venticinque lancie, ed
altri aiuti promise. Que' cavalli intanto dovevano essere la mano di
Dio pel marchesato, che molti invero non avrebbe potuto nutrirne, o
adoperarne in quelle strette sue gole, ma di un certo numero avea pure
mestieri, per contrapporli ai cavalli nemici e sostenere all'uopo gli
assalti dei fanti.

Ed ecco perchè Giacomo Pico non aveva più visto il Sangonetto, nè
potuto sciogliere uno dei nodi che più gli stavano a cuore. Intanto i
giorni passavano; la guerra, non pure era cominciata senza di lui, ma
vigorosamente condotta fino alla resa di Castelfranco, senza che egli
potesse ancora uscir fuori e nelle aspre fatiche del campo acquetare
un tratto le acerbe battaglie del cuore.

Ben presto, dal vano della sua alta finestra, potè vedere co' suoi
occhi il nemico. Una bastita per tutto l'esercito genovese era
innalzata da due giorni a Monticello, proprio alla vista del borgo, e
due grosse bombarde v'erano collocate a difesa. Tre battifolli subito
dopo erano edificati più avanti, l'uno sul poggio di Maria, l'altro
nella vigna di Nicolò Giudice, il terzo all'Argentara, sul fianco
stesso della terra assediata. Quest'ultimo, per altro, non fu
costrutto dai Genovesi senza grande spargimento di sangue.

Dicevasi allora che tante fabbriche militari si facessero per
arricchire i Fregosi. Nicola, cugino di messer Pietro, intascava per
ogni nuova bastita dugento fiorini, e questi in prezzo dell'opera sua,
mentre assai più gliene erano pagati per l'opera degli artieri, ai
quali non ne dava neanco cinquanta. Ma queste forse erano ciarle dei
malevoli. Anche i nemici dicevano che tante bastite non servissero a
nulla; eppure, la mercè di questi saldi ripari, l'esercito genovese
aveva potuto farsi tant'oltre, in luoghi così malagevoli per natura, e
pericolosi, poi, se tenuti da un forte e risoluto nemico.

In tal guisa era stretto il Finaro, che, a detta del Picchiasodo, non
poteva uscirne un uccello a volo, che nol vedessero i Genovesi, ed
egli inoltre poteva contare le casseruole e i tegami appesi alla
parete nelle cucine degli assediati.

Questo era forse un vanto soverchio; ma certo la vicinanza dei nemici
doveva parere già troppo molesta a Galeotto, che, insieme col fratello
Giovanni, usciva ogni giorno a battaglia. Francesco, il capitano
generale, non era più con esso loro; andato verso Garessio, per
affrettar la venuta degli aiuti che mandava la lega, avea fatto come
il corvo dell'Arca; non s'era più visto, e gli aiuti promessi,
nemmeno.

Tardi ricordò Galeotto che il suo capitano generale era cugino di
Marco, del tiepido signore di Osiglia; più tardi ancora riseppe che
Genova a Marco e ai cugini suoi prometteva di dare la parte loro del
marchesato, quella stessa che i loro antenati Emanuele ed Aleramo
avevano posseduta. E quando ciò seppe, argomentò che dai congiunti
suoi delle Langhe non aveva più nulla a sperare, e che le vie di
Calizzano e di Osiglia, donde si sentiva sicuro alle spalle, non gli
teneano più fede.

Non si smarrì tuttavia, non si perdette d'animo; che anzi, il sapersi
solo, accrescendogli la malleveria dell'impresa, gli aggiunse le forze
della disperazione. Sì, veramente, con mani e con piedi, come aveva
scritto al doge di Genova, era egli inteso a difendersi. E quella sua
baldanza inanimiva i Finarini, li incuorava non solo ad affrontare
arditamente i pericoli, ma a sopportare con fermezza i danni della
guerra.

E questi pur troppo erano gravi. Dal poggio di Maria, le cortane e le
spingarde nemiche gittarono trecento pietre nel Borgo; trecento ne
gittarono esse sole, e di gran peso, le tre bombarde maggiori, che
tutte traevano a giusta mira contro la torre della Rasana, la più
forte che fosse sulla cinta dei muri.

E Galeotto a rispondere con un'altra sortita, più vigorosa a gran
pezza delle altre, Barnaba e Paolo Adorno lo seguono; Giovanni suo
fratello, Giacomo figlio d'Oddonino, Lazzarino figlio d'Urbano, ed
altri giovani egregi del suo parentado, si tengono ad onore di
combattere, come semplici soldati, al suo fianco. Scende una grossa
schiera da Calvisio, per la valle di Pia, e molesta i Genovesi alle
spalle; si voltano essi per rincacciare gli audaci, ed ecco, sono
assaliti di fronte, al battifolle del poggio di Maria, a quello
dell'Argentara, con una furia che mai la maggiore. Basti il dire che
in questo parapiglia improvviso, Anselmo Campora fu ferito accanto
alla signora Ninetta di cui si fece riparo al corpo, mentre da solo
sosteneva l'assalto di cinque nemici. Ne uscì, per altro, ad onor suo,
con una di quelle che egli dicea graffiature e che altri avrebbe
chiamato sberleffi belli e buoni, quantunque non belli, nè buoni. Ma
la sua dama fu salva dalle ingiurie nemiche, e questo era per lui
l'essenziale.

Gran danni soffersero i fanti delle tre podesterie intorno a Genova e
dei vicariati di Spezia e di Chiavari. Il loro comandante, Carlino da
Voltaggio, fu preso e condotto prigione, malgrado gli sforzi fatti da'
suoi per liberarlo. I passi erano angusti e in molti uomini si facea
come in pochi; anzi, per la confusione che nasce dal numero, assai
meno che in pochi. Il battifolle del poggio di Maria fu corso e
ricorso dai Finarini; così quello dell'Argentara; prigioni potevano
farne non pochi; ma perchè avrebbero portato tante bocche inutili
dentro del Borgo? Li lasciarono adunque e tornarono nelle mura,
carichi di bottino e di gloria.

Messer Pietro Fregoso, per la prima volta dacchè era venuto
all'impresa del Finaro, si morse le labbra, e sino a far sangue; tanto
fu la sua stizza per l'audacia del marchese e per la nissuna vigilanza
de' suoi.

In quel mezzo, giungeva il Sanseverino colle venticinque lancie e la
promessa di nuovi aiuti di Francia. Galeotto, cresciuto mirabilmente
d'ardire, disegnò tosto in cuor suo una bellissima impresa; che era
quella di andare egli in persona a tentare un colpo su Noli, per
togliere quel fortissimo luogo alla protezione dei Genovesi e in pari
tempo impedir loro la ritirata, e intercettare le salmerie.

Ma qui, siccome col Sanseverino è tornato anche il nostro Tommaso
Sangonetto, e Giacomo Pico ha potuto avere qualche utile ragguaglio da
lui, sarà acconcio di tornare al castello Gavone e a quella camera
alta, che è nella torre dell'Alfiere.

Le notizie raccattate da Tommaso Sangonetto intorno alla faccenda del
Cascherano, erano più acconcie a mettere in pace, che non a turbare lo
spirito inquieto di Giacomo Pico. Quel giorno incominciava bene per
lui; il marchese Galeotto si disponeva a partire per alla volta di
Verzi, donde, col favor della notte, per la via meno battuta d'Isasco,
sarebbe piombato su Noli. Però non è a dire il rimescolamento che
c'era nel castello per tutti gli apparecchi della partenza, e lo
scompiglio che esso arrecava in tutte le consuetudini quotidiane della
famiglia. Basti notare che madonna Bannina, tutta intorno al marito,
non era comparsa nella torre dell'Alfiere, e madonna Nicolosina vi
andò sola, ad una cert'ora del giorno, per salutare l'amico di casa e
vedere se non avesse mestieri di nulla.

Il caso non poteva favorire meglio di così il nostro innamorato.

Madonna Nicolosina era un occhio di sole, l'ho già detto a suo luogo.
Bionda i capegli, bianca la carnagione e svelta della persona come
Diana, forse al pari della divina cacciatrice aveva il cuore muto
all'amore; all'amicizia non già, che questa è natural sentimento di
un'anima buona, laddove quello è singolare portato, rarissimo fiore,
nutrito di tutti i sensi più delicati e riposti, che solo un felice
concorso d'inesplorati e inavvertiti nonnulla può far muovere
d'improvviso e riardere in noi.

E buona era Nicolosina, onesta e sincera come un cavaliere senza
macchia e senza paura. Ho detto come un cavaliere, e giustamente;
diffatti, sotto quella bionda e rosea parvenza di donna, egli c'era
alcun che di virile; la lealtà, per esempio, e l'alterezza, spogliate
di quella grazia languida, che la natura ha dato, insidia innocente,
ma non meno pericolosa, alla più bella metà del genere umano.

Nata in altissimo stato, sentiva altamente di sè; superbia naturale e
scusabile, che del resto non aveva pure occasione a mostrarsi, in
mezzo ad un popolo di riverenti vassalli, i quali niente potevano
vedere di strano in una dignità d'apparenze così celestiali e
ammantata di tanta soavità, di tanta amorevolezza pietosa. Umana ed
affabile, come sono così utilmente per sè e per altri i grandi della
terra, quando si compiacciono d'esser tali, non c'era caso che la
giovine castellana facesse patire anima nata, per alcuno di que'
capricci e fantasie di comando, che pure son tanto frequenti nelle
giovani donne, male avvezzate, anche in condizioni più umili, da cieco
amor di congiunti, o da libero ossequio di cavalieri cortesi.

La bellissima fanciulla entrò nella camera di Pico, senza timore, o
peritanza di sorta. Non era ella in casa sua? Forse per la prima volta
andava da sola in quel luogo; ma come nella accompagnatura non c'era
stato mai un deliberato proposito, così nel giunger sola non ci poteva
essere un'ombra di vergogna, o di dubbio.

Bensì Giacomo Pico, al vederla comparir tutta sola, si scosse. Il
sangue turbato gli si ridusse con rapido moto al cuore, indi
risospinto gli corse più veloce alle tempie. Ebbe allora come un
bagliore negli occhi, diede in un grido di meraviglia, e,
appoggiandosi forte ai bracciuoli della scranna, si alzò da sedere.


--Ah, ah!--sclamò ella, ridendo del suo riso argentino.--Per la prima
volta, messer Giacomo, vi vedo un po' di buon sangue sul volto. Ma
sedete, vi prego; non vi scomodate per me.

--Non è più tempo di star seduti, madonna Nicolosina;--diss'egli
sospirando.--Tutti i giorni si combatte, laggiù, ed io sono stato già
troppo in disparte.

--Ma per giusta cagione, mi sembra; e con vostra buona pace, rimarrete
ancora per qualche giorno tranquillo, messer paladino!--incalzò la
fanciulla, con accento d'affettuoso rimprovero.--Il cerusico Rambaldo
lo vuole e lo vogliamo anche noi, che non aveste a far ricadute!

--Che serve, madonna?--ripigliò Giacomo Pico, crollando
malinconicamente la testa.--Sono un povero disgraziato a cui forse
metterebbe più conto il morire.

--E perchè?--dimandò ella ansiosa.--Forse alcuna cosa vi manca, per
viver felice tra noi? Parlate, messer Giacomo, parlate! Lo sapete
pure, come qui tutti vi amano.

--Tutti!--ripetè egli, sorridendo a fior di labbro.

--Sì, tutti; ne dubitate?--replicò la giovinetta, rizzando il capo,
con alto di leggiadra alterezza.--Sappiamo il debito nostro. Mio padre
non è debitore a voi della vita? E quanti hanno vita e stato da lui,
non vi sono obbligati del pari?

--Ah, non è di ciò che intendo parlare;--disse Giacomo Pico.--Non vo'
che mi si ami per gratitudine, io!

--Oh tristo!--sclamò Nicolosina, con accento di lieve corruccio.--E
non è un nobile sentimento forse?

--Sì,--rispose egli confuso;--ma infine....

--Infine,--proseguì ella,--voi siete l'amico nostro, il servitor più
fedele e più caro; mio padre....

--E sempre vostro padre!--interruppe Giacomo Pico, stizzito di non
poter uscire da quella cerchia di affetti tranquilli e di accenni al
suo umile stato.

Qui fu per madonna Nicolosina il caso di pigliare il broncio davvero.

--Messer Giacomo, e come?--chiese ella, tirandosi indietro un passo e
guardandolo severamente.--Non amereste par avventura mio padre?

--Voi mi uscite di proposito, madonna Nicolosina!--gridò il giovine,
riscaldandosi a sua volta.--Ah, questo è troppo ed io ho troppo
sofferto. Fossi morto almeno, di quella stoccata, più pietosa a gran
pezza delle vostre parole! E perchè, voi che mi parlate ora in tal
guisa, siete accorsa a togliermi di laggiù, ov'io sarei presto uscito
di pena?

--Non mi fate colpa di un uffizio di carità, ve ne prego;--rispose
ella turbata.--Chi soffre ha diritto alle nostre cure, e più ancora
quando egli soffre per nostro servizio.

--Ah,--soggiunse egli amaramente,--voi dunque non mi amate?--

La fanciulla lo guardò stupefatta. Egli incalzò la dimanda e fu per
afferrarle una mano; ma ella lo rattenne con un gesto severo.

--Messer Giacomo,--soggiunse poscia, con accento impresso di dignità e
di tristezza ad un tempo,--mi farete pentire d'esser venuta a darvi il
buon dì.--

Giacomo Pico, il ruvido soldato, fu scosso da quelle meste parole. Ma
non era della sua natura il trattenersi a mezzo di nessuna cosa che
avesse impreso a fare. Quella occasione, poi, egli l'aveva spiata con
tanta cura, attesa con tanto desiderio! Se egli l'avesse lasciata
sfuggire quel dì, sarebbe forse tornata? Non lo sperava egli per
fermo.

--Perdonate,--diss'egli, chiudendosi rabbiosamente sul petto quella
mano che la giovinetta aveva respinta da sè,--ma io vi amo, vi ho
sempre amata; eravate bambina ed io già vedevo in voi quella che siete
oggi per me, la più bella, la più cara, la più desiderata fra le
donne. Avevo sempre taciuto, sperando di ottenervi con opere eccelse,
come ricompensa dovuta al valore. Stolto! Il primo venuto, perchè
conte e signor di castella, mi aveva a vincer la mano! E quando, al
mio ritorno dai signori della lega, seppi che andavate sposa a questo
conte di Osasco, vedete, m'ha dato volta il cervello, non ho potuto
padroneggiarmi più oltre. Ah, così fosse stato egli, com'io lo
credevo, quando mi abbattei nel Fregoso; che forse in cambio d'esser
passato fuor fuori, l'avrei ucciso io, e dato un avviso salutare a
quanti ardissero ancora di contendervi a me.

--Ah!--esclamò la fanciulla, percossa.--Non era uno scontro col nemico
di mio padre?

--No, col mio nemico, col mio rivale. Così almeno ho creduto;--rispose
egli impetuoso.

Un senso di compassione profonda ricercò il cuore di madonna
Nicolosina.

--Fo male a dirvelo,--ripigliò ella gravemente,--perchè l'atto vostro,
se pensavate di far contro ai disegni di mio padre, non fu di amico,
quale egli sempre vi tenne. Ma infine, sappiatelo, io non andrò sposa
al conte di Osasco.

--Lo sapevo;--disse Giacomo Pico.

Nicolosina lo guardò, in atto di sorpresa.

--Lo sapevate?--dimandò ella,--Ma allora...?

--Oh, solamente stamane l'ho udito;--soggiunse egli tosto.--Il
marchese Galeotto lo ha liberato dalla sua parola, non potendo oggi,
in mezzo alle angustie e ai pericoli di una guerra, accettare
dicevolmente una domanda, che era stata fatta nei giorni della sua
prosperità.

--Così è per l'appunto;--diss'ella sospirando.--Povero padre.

--Ah, vostro padre ha nobilmente operato. Ma quell'altro, il vile, che
fu sul punto di ottenervi, s'è pure affrettato ad accettare lo scampo!

--Non parlate così, messer Giacomo! Sebbene è giusto che la cosa debba
aver questo fine, è debito nostro di dire che egli non ha risposto
nulla. Ed è brutto, assai brutto, accusare gli assenti.

--Voi dunque rimpiangete quelle nozze! Amavate dunque il conte di
Osasco, senza conoscerlo ancora?

--Messer Giacomo,--rispose la giovinetta offesa nella sua
verecondia,--io non ho a dirvi se l'amo, o no; bene ho a dirvi che una
fanciulla deve rispetto a' suoi genitori e al nome che porta, e che
voi dimenticate l'una cosa e l'altra in un punto.

--Ah sì!--sclamò il Bardineto, che sentiva la sferza e non era
d'indole da patirla, nè da riconoscere in cuor suo d'averla
meritata.--Io debbo tacere. Ama, povero sciocco, e taci! Servi,
vassallo, e taci! Combatti, oscuro soldato, e taci! È il debito tuo. I
tuoi padroni hanno voluto così; sul tuo corpo hanno diritto e
sull'anima tua, questi superbi signori. Dite, madonna, non è egli
proprio così?

--No, poichè chiedete il mio avviso, non è proprio così;--rispose
Nicolosina, con risolutezza di cui qualche ora prima non sarebbe stata
capace.--Avrei potuto partirmi di qui, fors'anco dovuto; rimango
invece per difender me e la mia casa contro la vostra ingiustizia. Che
sia il diritto dei signori sui loro vassalli e come stabilito, non so;
ho imparato dal libro di Dio che tutti siam pari davanti a lui, nella
speranza dei cieli, ma che ciò non muta e non scioglie i vincoli
d'autorità con cui si governa la terra. Qui, poi, non vi disprezza
nessuno; qui tutti vi son grati de' vostri alti servigi; nol
sarebbero, se vi tenessero in conto di un oscuro soldato, o di un vil
servitore. E, viva Dio, checchè diciate, messer Giacomo Pico, checchè
pensiate voi dei potenti (e come lo siamo vel dica la presenza de'
nostri giurati nemici alle porte di questo povero borgo) ingrati voi
non potete dire i discendenti di Aleramo e della figlia di Ottone.--

Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Giacomo. Ferito da quell'accenno,
che gli parve superbo, nè badando alla commozione vivissima che
accendeva il volto della fanciulla, o vedendola in quel rossore più
bella, così le rispose, infiammato d'amore e di sdegno.

--Sì, lo ricordo, lo vedo, quale distanza corre tra noi. E perciò
ricuso la gratitudine vostra, nobile e accetto presente tra uguali,
povera ricompensa ai minori, senza il suggello di quell'amore che
toglie ogni distanza.... che dico, la toglie?.... che non ne conosce
nessuna. Questo amore io v'ho chiesto, madonna; questo io vi chiedo
ancora, a mani giunte, in ginocchio. Credete che io non valga quanto
un cavalier di corona? Ma chi era il primo d'ogni illustre legnaggio,
se non per avventura un oscuro soldato, che col valore del suo braccio
incatenò la fortuna? Uditemi, Nicolosina; è nella vostra medesima casa
l'esempio, se pure la storia dice il vero di voi. Chi era Aleramo,
innanzi che egli piacesse agli occhi di Adelasia, della bella
figliuola di Ottone? E chi fu l'avo del primo imperator di Lamagna, se
non un barbaro discendente degli schiavi di Roma? Ho meditato
lungamente le storie, madonna, e non ho trovato la ragione per che io
debba esser da meno di chicchessia, poniamo d'un conte d'Osasco. E
notate; da me non aspetterete mai cosa di cui il mio breve passato non
sia impromessa sicura; ho il mio destino nel pugno. Ma voi mi siete
necessaria, Nicolosina, voi ricompensa e stimolo a più nobili imprese.
Così sta scritto lassù; perchè ricusereste l'ufficio che vi è
assegnato dal cielo?--

Così folleggiava il Bardineto, ebbro d'amore e di rabbia, allorquando
un improvviso fruscìo si udì per le scale. Madonna Nicolosina, che già
stava per dargli risposta, si rattenne e gli fe' cenno di non parlare
più oltre.

Poco stante, l'uscio si aperse e una donna comparve nel vano. Era la
Gilda.

La ragazza, che pure s'aspettava di trovare la sua giovine signora
nella torre dell'Alfiere, rimase lì tutta impacciata e confusa,
accorgendosi, con molta e non certamente grata sorpresa, d'essere
capitata in mal punto. Questo le era dimostrato aperto dall'aria
scontenta con cui la sua comparsa era stata accolta da Giacomo, e dal
rossore di madonna Nicolosina, che, giovine com'era e non avvezza a
quelle battaglie, non sapeva, e neppure cercava, nascondere il suo
turbamento.

Perciò, come ho detto, rimase impacciata sull'uscio, senza fare un
passo avanti, nè indietro, e balbettò, così per aver aria di dir
qualche cosa, alcune parole vuote di senso.

Non meno impacciata di lei, madonna Nicolosina ebbe mestieri di tutta
la virtù dell'animo suo in quel punto.

--Che cosa vuoi?--dimandò ella, in apparenza tranquilla, ma reprimendo
a stento la sua commozione.

--Niente, madonna;--rispose la Gilda umilmente.--Ero venuta a vedere
se messer Giacomo non avesse bisogno di nulla.

--Per ora no;--soggiunse Nicolosina;--ci sono io.... e debbo dire
qualcosa a messer Giacomo Pico.--

Questo aveva potuto il sentimento della propria dignità in quell'anima
vergine, di farle indovinare che il miglior modo di cansare il
pericolo di un falso giudizio era quello di affrontarlo con sicura
alterezza. Tanto è vero che le profonde commozioni temprano, meglio
dei lunghi insegnamenti, la umana natura. La fanciulla era morta quel
giorno; la donna nasceva.

La Gilda chinò il capo, in atto d'obbedienza, e si mosse. Una sua
occhiata furtiva al Bardineto voleva dire a lui tutti i dubbi che le
passavano per la mente; ma egli non vi badò più che tanto, e la povera
ancella se ne andò raumiliata.

Per altro, giunta a mezzo della scala, si pentì d'esser discesa. E
domandò allora a sè stessa che cosa avesse a dire la sua signora di
così grave a Giacomo Pico, che ella non potesse ascoltare, e che cosa
significasse quel turbamento di ambedue. Dimande queste che, nel
cervello di una ragazza innamorata e gelosa, non hanno mestieri di
aspettare a lungo una conveniente risposta.

Or dunque, è facile argomentare che cosa facesse la Gilda. Raccolti
prudentemente i lembi della veste, che non avessero a strisciare
lunghesso il muro, in punta di piedi e rattenendo il respiro, tornò
sopra i suoi passi, e giunta al pianerottolo, stette origliando alla
porta.

Frattanto il Bardineto, almanaccando a suo modo su quella risoluzione
di madonna Nicolosina, aveva dato una rifiatata di contentezza,
vedendo partire l'ancella invece della padrona, come da principio gli
era parso che dovesse accadere.

--Ah, rimanete?--diss'egli, esprimendo nel fervido accento tutte le
pazze speranze che gli grillavano d'improvviso nel cuore.

--Sì, rimango;--rispose la giovinetta con piglio solenne;--rimango,
checchè possa altri pensarne; rimango, perchè questo colloquio, giunto
per vostra cagione tant'oltre, non può, non deve restarsi interrotto.
Fu il primo; sarà anche l'ultimo.--

Giacomo Pico trasaltò. La sua allegrezza era in un punto svanita.
Volle parlare, ma ella gli ruppe le parole sul labbro.

--Lasciatemi finire. Io v'ho ascoltato; mi avete chiesto una risposta;
abbiatela ora, senza sdegno e senza ingiuria, da me. Io non ho avuto
finora e non vo' avere che amicizia per voi. Siatene amico, ve ne
prego. Vedete intanto il bel frutto delle vostre fantasie; che dirà di
noi quella povera fanciulla, che or ora è uscita di qui? Ella vi ama;
me lo ha confessato. Amatela anche voi, messer Giacomo; ella lo
merita; non fate che io, senza volerlo, senza pure saperlo, abbia
rapito il cuor vostro alla mia povera ancella.--

Il Bardineto alzò sdegnosamente le spalle.

--Di ciò soltanto vi duole?--gridò egli, che, nella stizza ond'era
tutto invasato, non doveva imbroccarne più una.--O forse mi date
l'ancella vostra a dispregio?

--Nè di ciò mi duole, nè io fo d'alcuno la poca stima che dite. Ma
via, non torniamo agl'ingrati discorsi. Ancora una volta volete
essermi amico?

--No;--rispose egli con ruvidezza;--o tutto o nulla. Questa impresa si
leggerà nel mio scudo, quando io ne porti uno inquartato, da
contendere di nobiltà coi più celebrati e superbi. E vedrò
allora....--soggiunse il Bardineto, infiammandosi,--vedrò allora se
non vorrete esser mia!

--Dimenticatemi, messer Giacomo Pico;--disse a lui di rimando
Nicolosina, più afflitta tuttavia che ferita da quelle acerbe
parole.--Siete violento e scortese. Se tutti gli uomini vi
rassomigliano, io non amerò nessuno sulla terra.

--Il primo che ardirà di amarvi, lo ucciderò come un cane!--gridò il
Bardineto, con piglio feroce.

--Mi farete la solitudine intorno?--replicò ella sdegnata, guardandolo
in aria di sfida.--Suvvia, tentate la prova!--

Il Bardineto non vedeva più lume.

--Voi amate qualcheduno;--le disse, con voce soffocata dalla
rabbia;--confessatelo!

--Sapete che non amo voi; ciò vi basti.--

In quelle asciutte parole l'animosa fanciulla aveva fatto il supremo
sforzo della sua alterezza offesa. Gli occhi le si offuscarono dalle
lagrime, si sentì venir meno, e le sue mani andarono instintivamente
contro la parete, a cercarvi un appoggio.

Egli le si accostò, come per sorreggerla.

--Non mi toccate!--gridò ella, respingendolo. E atterrita, spinse
l'uscio con tanta precipitazione che la Gilda si tenne perduta. La
poveretta ebbe a mala pena il tempo di rannicchiarsi in un angolo,
dietro il battente.

Giacomo Pico si morse le labbra, e freddo all'aspetto, ma coll'inferno
nell'anima, stette muto, accigliato, a guardarla, dopo essersi tirato
indietro d'un passo.

Fu per parecchi istanti tra i due giovani un alto silenzio. Si udiva
soltanto il respiro affannoso di madonna Nicolosina e lo scricchiolare
dalla scranna, di cui Giacomo aveva afferrato la spalliera, per
pigliare un contegno.

Finalmente la giovinetta si riebbe, scosse la sua bionda testa,
rasciugò le lagrime e così parlò, con accento mutato, al suo fiero
amatore.

--Messer Giacomo Pico, io amo mio padre e non accrescerò i suoi
dolori, raccontandogli il nostro colloquio. Io stessa dimenticherò le
vostre parole; altro di voi non ricorderò che l'antica amicizia e i
servigi.--

Ciò detto e senza aspettare la risposta che stava per darle il
Bardineto, uscì dalla camera e scese con passo leggiero le scale.



CAPITOLO VIII.

Dove si vede che non arriva sempre tardi chi arriva dopo.

Come si rimanesse Giacomo Pico e che torbidi pensieri gli girassero
per la fantasia, lascio argomentare ai discreti lettori. Intanto
seguitiamo madonna Nicolosina, che triste, assai triste, ma col cuore
un tal po' sollevato, scende la scala dell'Alfiere.

Diffatti, quella partenza era una liberazione per lei, dopo la lunga
oppressura di tutto ciò che aveva dovuto udire e rispondere. Certo è
gran dolore il perdere un amico; ma questo dolore non è poi senza
conforti; dirò di più, è il solo che n'abbia uno sollecito, vo' dire
il conforto di avere finalmente conosciuto a parte a parte l'anima
della persona in cui s'era riposta ogni fede. Strana consolazione,
cotesta, di avere a conoscere pienamente il nostro simile, solo in
quel giorno che non possiamo più durarla nell'usata dimestichezza con
lui!

Posta in chiaro questa bisogna, niente premeva di più a madonna
Nicolosina che di sapere che cosa ne pensasse Gilda, quella sua povera
ancella, da cui pochi giorni addietro aveva udita la confessione di un
amore profondo per Giacomo. Dico che avrebbe desiderato sapere; ma
senza imbattersi così presto nella Gilda, a cui lì per lì non avrebbe
saputo che dire. La forza di mandarla via a mezzo del suo colloquio
col Bardineto, l'aveva avuta. Il suo diritto e la necessità di finirla
in una volta con lui, volevano pure così. Ma ora, a cose fatte, la
pietà ripigliava il suo posto nel cuore di Nicolosina, e non le
bastava l'animo di raccontare a quella povera ragazza i particolari di
un dialogo, che doveva tornarle sommamente spiacevole.

Il lettore sa che la Gilda, rispetto a ciò, non aveva più niente di
nuovo a conoscere. Ma la sua giovine padrona, che non l'aveva veduta
nel suo nascondiglio, poteva temere d'abbattersi in lei, prima di
essersi consigliata maturamente tra sè, intorno a quello che dovesse
raccontarle, o lasciarle indovinare, de' suoi discorsi col Pico.
Epperciò, fatte le prime scale, invece di ritirarsi nelle sue stanze,
ove forse poteva essere tornata l'ancella, tirò innanzi verso la gran
sala, dove sperava di trovare suo padre e di avere in altre cure un
momento di tregua allo spirito.

Il marchese Galeotto non era colà, dove la sua bella figliuola era
andata a cercarlo. Uscito fuori della postierla a tramontana del
castello, ordinava laggiù, al coperto da ogni vigilanza nemica, gli
uomini che aveva scelti a compagni nella impresa su Noli. Questo
diceva a madonna Nicolosina un donzello, da lei incontrato in quel
mentre sull'uscio.

Ed ella fu allora per tornarsene indietro. Ma appunto allora, sul
pianerottolo per cui doveva passare la fanciulla, compariva un
giovinotto, non mai veduto prima al Finaro.

Vestiva nobilmente, quantunque più da soldato che da uomo di corte. Ma
in que' tempi mal sicuri, chi non era, per necessità, o per elezione,
soldato? Egli poi doveva venire da lungi, e la polvere, ond'era
tuttavia coperto il suo mantello di scarlatto grigio, lo diceva da
pochi istanti sceso d'arcione. Giovanissimo, biondo i capegli e bianco
la carnagione, lo si sarebbe tolto per una fanciulla in abiti virili,
se non lo avessero chiarito del sesso forte le basette che gli
adombravano il labbro fine e vermiglio; per un paggio, se gli sproni
d'oro che gli fregiavano i talloni, non avessero fatto testimonianza
del suo grado di cavaliere. E così leggiadro all'aspetto, colla sua
spada al fianco e il biondo capo scoperto (che il tôcco di velluto,
onde usava coprirsi, lo aveva allora per mano) lo si sarebbe detto
piuttosto l'arcangelo Michele, venuto in un mezzo incognito a visitare
il suo buon servo Galeotto, marchese del Finaro, se al tempo di cui si
narra fosse durato il costume di simiglianti discese degli alati
figliuoli di Dio.

Madonna Nicolosina doveva passare dinanzi a lui, per ricondursi nelle
sue stanze; e passando, come il savio lettore indovina, doveva anche
vederlo. Ora il vederlo e il pensare tra sè ch'egli era un bellissimo
giovine, fu una cosa sola per lei, ed anche la più naturale del mondo.
Un bel viso, segnatamente se accompagnato da prestanza di membra e
impresso di quella serena nobiltà che spesso può stare da sola e far
anco piacere ad altri chi non somigli in tutto o in parte all'Apollo
dal Belvedere, un bel viso, io dico, ha sempre avuto una simile
accoglienza presso i cuori ben fatti.

Per altro, se madonna Nicolosina aveva il cuore ben fatto, era anche
d'animo riguardoso e severo. Epperciò, data una fuggevole occhiata al
forastiero e involontariamente pensato ciò che vi ho detto, raccolse
modestamente la ciglia a terra, mentre la sua bionda testolina
accennava ad un mezzo saluto.

Questa era cortesia necessaria, in risposta ad un leggiadro inchino
del forastiero. Il quale, del resto, nel curvare la fronte, non
abbassò altrimenti le ciglia, ma le tenne alte, ferme, diritte su lei,
come quegli che non volea perdere nulla di quella rara veduta.

Ho detto che madonna Nicolosina era bellissima tra le belle. Di lui
v'ho raccontato pur dianzi. Aggiungo per ambedue, che mai sulle porte
del paradiso si scontrò una coppia d'angioli più leggiadra di queste
due creature umane, ravvicinate dal caso su per le scale del castello
Gavone.

Che fanno gli angioli, allorquando s'incontrano per via? Spiriti
d'amore, debbono sentirsi fratelli, vedersi assai volentieri l'un
l'altro e dirselo cogli atti, se non colle parole, a vicenda. Forse (e
qui un povero profano par mio non può far altro che ragionare in via
d'induzione) si toccano leggermente, sfiorano col sommo delle ali la
casta dolcezza d'un bacio.

Ma là non erano angioli, bensì due figliuoli degli uomini, con tutti i
riguardi, con tutti i vincoli, con tutte le noie, che un cerimonioso
costume e una puntigliosa morale, detta con giusto rappicciolimento
etichetta, impongono ai bistrattati nipoti d'Adamo. Ed ecco perchè
madonna Nicolosina, abbassò gli occhi facendo un mezzo saluto al
forastiero, ed egli, dopo aver fatto un inchino, si tenne
rispettosamente indietro, ma guardandola senza misura, bisogna pur
dirlo, e divorandola quasi degli occhi.

La bella visione passò, cara e gioconda come un raggio di sole per
mezzo alle nuvole, inebbriante come una fragranza di gelsomini,
portata a noi dalla brezza. E come fu passata, il giovane forastiero
senti una stretta al cuore, e, colla stretta, un desiderio infinito di
rattenerla, di vedere anche una volta quel suo angelico viso, di udire
il suono della sua voce.

Non vi è egli mai girato per la fantasia, vedendo una bellissima donna
passarvi rasente per istrada, o soavemente composta a verecondia come
la Beatrice di Dante, o splendida di consapevoli vezzi come la
tormentatrice di Francesco Petrarca, non vi è egli mai girato per la
fantasia di bisbigliarle all'orecchio: fermati, angelo, o demonio, io
ti amo?

Io, per me, tengo che questo giuoco lo abbiano in tasca un po' tutti.
Senonchè, soltanto gli sciocchi ardiscono spiattellarlo sul volto ad
una sconosciuta che passa, col pretesto che ad ogni donna torni
gradita la giaculatoria, anche buttata là, a bruciapelo, come si
direbbe un'ingiuria. Gli assennati, in quella vece, guardano e
tacciono, pensando che, se la donna è di alto grado, sarebbe offesa un
omaggio così audacemente reso, e se non lo è, parrebbe atto di poca
stima, o nessuna, trattarla diversamente da una di quelle che vanno
per la maggiore.

Tutt'altro da questi che ho detto, appariva il caso del giovine
forastiero. Egli non era per istrada, ma in casa, e, secondo tutte le
più ragionevoli apparenze, in casa di lei. Colà, una parola sola
poteva considerarsi come appiglio ad una onesta dimanda. Avesse anche
detto dell'altro, poteva soggiungere il perchè e il percome della sua
ammirazione per lei. E poi, e poi, bisognava saper le cagioni della
sua venuta al castello; bisognava intendere che dubbi gli avesse fatti
nascere in mente l'apparizione di quella divina creatura; bisognava
capire come gli fosse mestieri di chiarirli senza indugio; indi, se
proprio era il caso, dargli biasimo del suo ardimento.

Imperocchè, già s'indovina, il giovinotto si disponeva a fare qualche
cosa d'insolito. Era stato in forse, aveva titubato un istante; ma il
desiderio aveva soverchiato la ragione, e si era mosso per tener
dietro a madonna. Ella forse dal canto suo si aspettava cotesto; senza
volerlo, senza avvedersene, aveva rallentato il passo. Arcani del
cuore!

--Perdonate!--disse il giovine, inoltrandosi verso di lei.

La fanciulla si volse, cortese in atto, a guardarlo, aspettando che
proseguisse. E così fece egli, dopo un istante di pausa, mettendo
nelle sue parole tutto il dolce che seppe.

--Madonna, è audacia senza pari la mia; fo male a trattenervi in tal
guisa; ma siete così bella!--

Un amabile rossore tinse d'improvviso le guancie della giovinetta, che
fu confusa, non adontata, da quelle inaspettate parole. Tanto è vero,
dopo tutto, tanto è vero quello che dicon gli sciocchi, che certi
omaggi non tornano mai sgraditi alle donne! ma intendiamoci, purchè
non siano buttati là da uno sciocco, e con sguaiata maniera.

--Non vi offendete, vi prego;--incalzò il giovine tendendo le mani in
atto supplichevole.--Ho a chiedervi cosa che troppo mi preme, ed una
vostra umana risposta mi è necessaria. Infine.... ecco lo stato
dell'anima mia. O voi siete madonna Nicolosina del Carretto, o ch'io
sono il più sventurato degli uomini.--

Queste parole furono dette con tanto candore e insieme con tanta foga
giovanile, che ella aperse, in uno scoppio d'ilarità involontaria, le
labbra e mostrò le trentadue perle orientali, legate nel solito
corallo da quei gioiellieri bizzarri, che sono sempre stati i
romanzieri e i poeti. Rise, a farla più spiccia; e in verità, a quelle
parole, e dette a quel modo, non potea dicevolmente far altro che
ridere.

Lo scoppio, dopo tutto, fu breve, come si conveniva a costumata
fanciulla, e si tramutò in un sorriso benevolo, come portava la
gentilezza dell'indole sua, e come richiedeva quell'aria malinconica,
ond'era impresso il volto del giovane forastiero.

--Sì, diffatti.--rispose ella, chetandosi,--mi chiamo Nicolosina del
Carretto. E in che poss'io tornarvi utile, messere?

--Ah, basta, se forse non ho detto già troppo;--ripigliò il cavaliere
arrossendo.--Grazie, madonna; grazie! A me non resta che di andare da
vostro padre, dal magnifico marchese del Finaro.

--Egli non è qui, ora;--soggiunse Nicolosina;--ma poco indugierà a
ritornare. Siate il benvenuto tra noi. Nella gran sala troverete
alcuno dei gentiluomini della sua corte, che vi farà compagnia.--

Così dicendo, gli additava la porta dond'ella era uscita pur dianzi.

Ma il giovine non si muoveva. Si sarebbe detto, a vederlo, che il
pavimento sotto di lui fosse tutto una pania. Senonchè, a guardare
madonna Nicolosina o que' suoi occhi divini, si capiva subito che la
pania non era per terra e che egli non era invescato dai piedi.

Il dialogo, per altro era lì lì sulle ventitrè ore, e di certo moriva,
se non giungeva un terzo interlocutore in aiuto. Era questi il
Picchiasodo, ma da lontano, con un colpo di bombarda, che fece
tremare, nella loro intelaiatura di piombo, i vetri onde pigliava luce
la scala. Traeva egli dal poggio di Maria contro le mura e le torri
del borgo sottostante. E cinque o sei di questi saluti erano mandati
ogni giorno dal ferreo labbro della signora Ninetta.

--Triste cosa la guerra!--esclamò il forastiero, notando un atto di
sgomento che ella non aveva potuto reprimere.

--Ah sì, messere, triste cosa!--rispose la giovinetta sospirando.--Il
Finaro, pur troppo, non fa lieta accoglienza a' suoi visitatori
cortesi.

--Madonna, e perchè?--diss'egli di rimando.--Ognuno di costoro si
recherebbe a ventura di partecipare ai pericoli e ai danni di questa
nobile terra, come ho fede che presto dovrebbe partecipare al trionfo
e alle gioie del vostro gloriosissimo padre. Inoltre, perchè tacerlo?
con voi, madonna, anche assalito da tutte le armi della potente
repubblica genovese, il castel Gavone sarebbe un luogo di delizie per
esso. Vi parlo liberamente, come vogliono i casi che qui mi hanno
condotto; non ve ne adontate! Che più? posso io dirvi tutto, aprirvi
il mio cuore?--

E la guardava, così dicendo, con occhi tanto amorevoli, che la povera
Nicolosina fu sul punto di lasciarlo proseguire. Un sentimento di
verecondia la rattenne.

--No, ve ne prego, messere;--rispose ella nobilmente.--E vi dirò cosa,
a mia volta, che parrà imitata dalle vostre parole di poco
fa;--soggiunse poscia, con un certo sorriso leggiadramente
malizioso;--o voi siete il conte d'Osasco, o ch'io vi ho già troppo
ascoltato.

--Lo sono;--diss'egli, arrossendo al pari di lei in quel punto;--e
come lo avete voi indovinato?--

Ingenua domanda! E come gli uomini più accorti, messi al cospetto
d'una semplice donna, tornano spesso fanciulli! Nicolosina avrebbe
potuto rispondergli che, ottocento sessant'anni prima di lei, un'altra
donna, la bella figliuola del duca di Baviera, aveva riconosciuto
Autari, il re dei Longobardi, tra que' medesimi ambasciatori che egli
mandava a chiederla in moglie; questo argomentando dal fatto, che il
mentito messaggiero aveva osato stringerle la mano, mentre ella gli
profferiva la coppa ospitale. Chi altri, se non il suo futuro sposo,
avrebbe ardito diportarsi seco lei in quel modo?

Nicolosina non gli rispose colla storia alla mano, che a dir vero non
l'aveva presente. Per altro, come era simile il caso, doveva riuscire
simigliante il concetto.

--Chi altri,--domandò ella per contro,--chi altri, se non il conte di
Osasco m'avrebbe parlato in tal guisa? Ma dite, messere, come siete
voi qui? Non avete ricevuto la lettera che v'ha mandata mio padre?

--L'ho avuta;--rispose egli inchinandosi,--ma potevo io accettare la
libertà che il marchese Galeotto così nobilmente mi offriva! Vi avevo
chiesta, o madonna, sulla fede della vostra bellezza ed ero grato ai
vostri di avere accolto con benevolenza la domanda di tale che non è
imperatore, pur troppo, nè principe, per reputarsi degno di voi. Sono
venuto a chiedervi ancora una volta, e sono felice, dopo avervi
veduta, che il mio cuore e il mio debito di gentiluomo non si trovino
oggi a contrasto, come sarebbero stati veramente, e con grave danno
del cuore, se la divina che ho incontrato pur dianzi non fosse stata
madonna Nicolosina del Carretto. Voi sorridete? È bello ora il vostro
sorridere e mi dà argomento a sperare. Or dunque, io porto la sua
lettera al marchese vostro padre e venti lancie, che spero non gli
torneranno sgradite. Anch'io combatterò pel Finaro; non mi concederete
voi il premio della vostra mano?--

Nicolosina stette un momento sovra pensieri. Le sovvenne del colloquio
avuto poc'anzi lassù, nella torre dell'Alfiere, e una nube di
tristezza scese ad offuscarle lo spirito. Ma ella era donna di sensi
gagliardi e si riebbe tosto di quello sgomento. Dopo tutto, che
avrebbe mai osato Giacomo Pico? E non avrebbe ella saputo custodire la
sua felicità contro ogni insidia, o minaccia?

--Conte di Osasco,--diss'ella, porgendogli la sua bella mano, su cui
egli fu pronto ad imprimere il più ardente dei baci,--se mio padre
accetta la vostra generosa profferta, anche domani, nella chiesa di
san Biagio, sotto i colpi delle artiglierie nemiche.--

Ed ecco per qual modo s'aguzza lo spirito alle ragazze da marito. I
grandi casi e le forti commozioni sono la più pronta e la più efficace
delle scuole.

Il conte d'Osasco, dal canto suo, aveva ragione a reputarsi felice. E
non sapeva tutto, ancora; non sapeva, verbigrazia, d'esser giunto dopo
un altro e di averlo al primo lancio superato. Del resto si giunga
prima, o poi, l'essenziale è di giungere in tempo. E Carlo di
Cascherano, conte di Osasco, giungeva in tempo altresì per
conquistarsi il cuore di Galeotto, a cui la sua venuta, dopo la
lettera che lo liberava dalla parola data, doveva parer generosa oltre
ogni dire.

Questi, che stava allora fuor del castello, a disporre la sua gente
per l'impresa di Noli, com'ebbe udito delle venti lancie che erano
venute al borgo per la strada di Cova, pensò che fossero un nuovo
presente del re di Francia, o d'alcuno de' suoi generi, che ne aveva
parecchi, e in alto stato; tra gli altri Onorato Lascaris, signore di
Ventimiglia e di Tenda, e Alberto Pio, principe di Carpi, allora in
Torino a' servigi del duca di Savoia. E per sincerarsi della cosa,
tornò subitamente al castello, dove gli venne veduto il conte
d'Osasco, un altro genero, sul quale egli non faceva assegnamento
veruno.

L'ebbe per augurio felice, e si compiacque eziandio con paterna
allegrezza del leggiadro aspetto del giovine, la cui bell'anima si
dipingeva sul bellissimo volto.

Una gioia mite, ma profonda, regnava in tutta la corte del Finaro. I
radi ma sicuri colpi della signora Ninetta non ottennero quel dì tutta
l'attenzione che il nostro infaticabile Anselmo Campora poteva con
giusto orgoglio ripromettersi. Barnaba Adorno, cogli altri fuorusciti
del suo casato, e i signori del Carretto, tra i quali Giovanni,
fratello a Galeotto, e madonna Bannina, festeggiavano tutti il giovine
Carlo, il leggiadro cherubino di Osasco. La gran sala del castello era
piena di tutti i gentiluomini che ufficio di guerra non trattenesse
alle mura, e le nobili dame gustavano in quell'ora di geniale convegno
un fugace riflesso dei loro trionfi cessati, degli ozi antichi e delle
memori splendidezze dal castello Gavone.

A un tratto, con alto stupore di tutti, non escluso Tommaso
Sangonetto, il quale, nella sua qualità d'ambasciatore posticcio, avea
creduto di potersi imbrancare co' grandi, comparve nella sala Giacomo
Pico.

La faccia del Bardineto era scura, aggrondato il sopracciglio, il
labbro chiuso, il portamento più contegnoso che l'occasione non
dimandasse, o che a lui vassallo non fosse consentito lassù. Ma il suo
pallore, che ricordava la pugna sostenuta e facea fede d'una lunga
malattia, non lasciava por mente a cotesto, e gli occhi della nobile
comitiva si volsero a lui, schiettamente amorevoli.

Primo, il marchese Galeotto lo salutò con un grido di lieta
meraviglia, e, andatogli incontro, lo prese per mano, facendogli le
più oneste accoglienze e congratulandosi seco lui del risanamento
ottenuto. E il Bardineto ne tolse appiglio a soggiungere che troppo
oramai era egli rimasto inoperoso e più di quello che veramente gli
bisognasse; però, con licenza del marchese, avrebbe ripigliato il suo
uffizio di soldato. Sapeva della partenza disegnata alla volta di
Noli; laonde, non avea voluto lasciarsi sfuggire la buona occasione e
domandava di entrare nel numero degli eletti, che stava per condurre
il suo signore a quella impresa, così piena di rischi e di gloria.


--Ed io pure, padre mio, che tale ben posso chiamarvi;--soggiunse il
Cascherano, con impeto di onesta baldanza.--Per aver parte a' vostri
pericoli sono appunto venuto, e, sebbene giunto l'ultimo tra questi
degni e fedeli gentiluomini vostri, mi dorrebbe di non essere il primo
a seguirvi.--

Giacomo Pico, diede un'occhiata sospettosa a colui che parlava in tal
guisa, chiamando il marchese Galeotto col nome di padre. Nicolosina,
che spiava attentamente, quantunque in aria di noncuranza, ogni atto
del Bardineto, notò quell'occhiata e il cuore le diede un sobbalzo.

--Gran giorno per me!--diceva frattanto il marchese, a cui splendevano
d'inusata luce i grandi occhi azzurri, che dovevano andar famosi nella
storia del suo tempo.--Giacomo Pico, il nostro valoroso compagno
d'armi, torna oggi a brandire la spada, e il conte di Osasco viene a
chiedermi la sua parte, non pure nelle allegrezze, ma altresì nei
pericoli della mia casa. Sì, Giacomo, tu verrai con me a questa
impresa, in cui la tua avvedutezza e il tuo braccio non saranno
soverchi. A voi, conte e figliuol mio, presento Giacomo Pico di
Bardineto, il più fedele dei miei servitori.--

Il sospetto di Giacomo si mutava per quelle parole in certezza. Per
altro, non fu molto sorpreso da quella improvvisa venuta. Respinto da
Nicolosina, tutto doveva egli aspettarsi, e niente aveva a recargli
stupore. Infine, e non era meglio così? In un giorno solo aveva udito
la sua sentenza da lei e veduto il suo fortunato rivale. Tristi cose
ambedue; ma almeno, ogni vana speranza andava in dileguo; ogni dubbio
svaniva. Soltanto chi vede intiero il suo danno può degnamente
provvedere a' suoi casi. E Giacomo Pico avea provveduto.

Carlo di Osasco fece un passo verso di lui e gli sporse amichevolmente
la mano. Giacomo fremeva un pochino e forse sarebbe rimasto freddo,
rispondendo al cortese invito con un mezzo inchino che non dicesse
nulla. Ma proprio in quel punto gli venne veduta madonna Nicolosina,
tranquilla in apparenza o noncurante di lui. Se l'avesse veduta in
atto supplichevole, chi sa? Il cuore umano è così bizzarro nei suoi
moti, che egli forse avrebbe vacillato ne' fieri propositi. Quella
apparente freddezza, quella inflessibilità marmorea della donna a cui
s'era umiliato poche ore prima nell'espansione dell'affetto e della
preghiera, lo raffermarono ne' suoi biechi disegni. E si avanzò allora
verso il conte d'Osasco, gli prese la mano e la strinse, la strinse
così forte, come se volesse stritolarla.

Parve quello al conte un saluto di soldato, ruvido sì, ma sincero. La
pallidezza del volto e l'aria contegnosa parvero agli altri effetto
della perdita del sangue e dell'impiccio di trovarsi in così numerosa
brigata, dopo esser rimasto forse due mesi nella solitudine della sua
cameretta. E nessuno pose più mente a lui, salvo chi aveva argomento a
temere di qualche sua sfuriata, e salvo Tommaso Sangonetto, che
conosceva il segreto dell'amor suo e s'aspettava anch'egli qualche
frutto della sua stravaganza.

Avvicinatosi a quest'ultimo, e col sorriso sul labbro, Pico gli parlò
sottovoce, mentre faceva le mostre di salutarlo.

--Stanotte saremo a Noli;--diceva.--Farò di salire con questo bel
forastiero sui merli. Chi sa che ad ambedue non tocchi la medesima
scala? La sorte e così capricciosa!

--Ah, Giacomo, non far ragazzate, ti prego!--rispose il Sangonetto,
con una ansietà, la cui espressione subitanea non isfuggì al vigile
sguardo di madonna Nicolosina.

--Non temere;--soggiunse Pico.--Vedrai!

--Già, non vedrò niente, io!--ripigliò Il Sangonetto.--Sono
ambasciatore, non uomo d'armi, e le scale a piuoli mi darebbero il
capogiro. Ho preso il tuo posto; non te ne lagnare. Io non sono
ambizioso; finita, bene o male, la guerra, torno ciliegia e tu sarai
da capo il fico dell'orto.

--Ah sì!--sclamò il Bardineto, digrignando i denti.--Se tu aspetti
ch'io serva ancora questa razza d'ingrati!...--

Mentre egli così parlava, Nicolosina aveva tratto in disparte suo
padre e gli venìa favellando, con aria d'affettuosa preghiera.

--Capisco;--rispose Galeotto ridendo;--tu non vuoi che il tuo
leggiadro sposo, appena giunto tra noi, vada a correre il rischio
d'una piombatura sul capo. E sia, lo pregherò; ma vorrà egli
accettare?

--Se tu glielo domandi, padre mio, perchè no? Non è egli uffizio
ragguardevole, e non l'hai tu fin qui lasciato, certo per mancanza di
uomini da ciò, a men degne persone?

--Per san Giorgio, figliuola mia, questo è un biasimo che mi date. E
invero, l'ho anche un po' meritato!--soggiunse Galeotto, accarezzando
con tenerezza paterna i biondi capegli di madonna Nicolosina.

E voltosi poscia al Cascherano, gli disse:

--Cavaliere, tra pochi momenti si parte. Ma se io ora vi chiedessi un
sacrifizio?

--Quale?--dimandò ansiosamente il Cascherano.

--Ho mestieri di un prode cavaliero,--soggiunse il marchese,--che
corra speditamente infino ad Asti, e con eloquente parola induca il
balìvo di Tresnay a venire colle sue genti in aiuto del Finaro, come
mi fu promesso dal buon re Carlo di Francia e ancora testè
dall'illustrissimo signor duca di Orleans, giunto a mala pena di qua
dalle Alpi. Per lo passato, in simiglianti negozi, mi fu utilissima
l'opera diligente e sollecita di Giacomo Pico. Lui ferito e costretto
al riposo, adoperai il nostro bravo Sangonetto; ma oramai colla buona
volontà di lui ho fatto già troppo a fidanza....

--Magnifico messere,--disse allora il conte d'Osasco,--se è cosa che
vi preme....

--Assaissimo;--interruppe il marchese;--e subito, se ci amate, dovrete
salire in arcione.--

Madonna Nicolosina respirò, vedendo l'atto di consentimento del
giovine. Giacomo Pico, in quella vece, si morse le labbra. Nel tardo
mutar di consiglio del marchese Galeotto egli scorgeva la mano di
Nicolosina e i sospetti che certo l'avevano guidata a chiedere
l'allontanamento del conte.

--Non ho io forse una maschera al volto?--diss'egli tra sè.--E deve
ella credere che io mi strugga d'amore e di rabbia per lei?--

La deliberazione improvvisa del marchese Galeotto non poteva piacere
nemmanco al nostro Tommaso, che vedeva andarsene in fumo tutte le sue
ambizioni. Imperocchè egli non era sincero col Bardineto, quando gli
diceva di dover tornare ciliegia.

--Magnifico messere....--balbettò egli, ingrullito;--ed io?

--Con me e col tuo valoroso amico all'impresa di Noli;--rispose
amorevole il marchese Galeotto.--È giusto che io non tolga ai miei
buoni vassalli l'occasione d'illustrarsi con qualche atto di singolare
prodezza. E tu, mio buon Tommaso, n'hai certo una voglia spasimata.

--Se l'ho, magnifico messere!... Certo, che l'ho; l'hanno
tutti!--farfugliò il Sangonetto, che non sapeva a qual santo
votarsi.--Ringrazio il mio illustre signore e la fortuna che mi ha
destinato ad accompagnarlo sul campo della gloria.--

Cotesto ad alta voce e cercando di dare nella rotondità della frase un
concetto della sua eloquenza d'ambasciatore fallito.

Ma dentro di sè, il prode Tommaso Sangonetto masticava ben altro.

--Ah per l'anima di.... L'ha a contare, le mie prodezze, il marchese!
Già, o come vuol fare? Dopo l'Avemaria, tant'è la tua come la mia, ed
egli non vedrà proprio un bel niente. Io le conosco, le mura di Noli;
ritte, puntigliose, accigliate, su quei loro greppi impraticabili, con
quelle torri che escon fuori di riga ad ogni cinquanta passi e vi
mandan giù l'ira di Dio!... No, no, l'appoggi un altro, la mia scala;
io sto a vedere chi casca. Dopo tutto, o che? io l'amo, quella
repubblica; si governano da sè; non ci hanno marchesi, nè conti; non
pigliano gatte a pelare; non domandano che di pescare tranquilli le
più saporite triglie di tutta l'Italia. Ottimi cittadini! Li piglio a
proteggere.--



CAPITOLO IX.

Qui si racconta di un nibbio, che rincorrendo una colomba s'abbattè in
una tortora.


Messer Galeotto, per celato cammino alle spalle di Verzi, conduce
l'eletta de' suoi fanti su Noli. Grande e mirabile impresa era questa,
di andare, egli assediato nella sua terra, a tentare l'assalto d'una
terra nemica. Per altro, anche i suoi luogotenenti si segnalavano in
simili atti d'incredibile audacia, e pochi giorni addietro un Enrico
da Calvisio, con un pugno di Finarini era piombato così alla
sprovveduta sul Borghetto, luogo murato sulla spiaggia del mare a
ponente del marchesato, che i terrazzani, fedeli allora alla signorìa
genovese, avevano avuto a mala pena il tempo di chiuder le porte. Il
Calvisio, non potendo altro, s'impadronì d'una galeotta che que' del
Borghetto tenevano ormeggiata alla riva, e preso il largo, avvistò
otto feluche genovesi, le quali portavano vettovaglie all'esercito.
Qui, senza darsi un carico al mondo della galèa nimica che incrociava
su que' paraggi e che doveva essere in quel mentre nelle acque
d'Albenga, navigò incontro ai nuovi venuti, e, fingendosi mandato dal
sopracòmito della anzidetta galèa, li condusse a pigliar terra
dov'egli voleva; così impossessandosi delle vettovaglie destinate al
nemico e introducendole, per la via di Verezzi, nel Borgo Della qual
cosa non è a dire come gli fosse grato e gli dèsse lode il marchese
Galeotto, prode tanto egli stesso e largo di encomio coi prodi.

Ora, innanzi di seguire quest'ultimo, vediamo Giacomo Pico che quel
cicalone di Tommaso Sangonetto s'ingegna di consolare a modo suo dei
rigori della sorte.

--Così è, Giacomo mio, siamo vassalli e bisogna recarsela in pace. Son
essi i padroni, noi gli umilissimi arnesi. Serviamo al caso loro? Ci
adoprano e ci hanno anche talvolta per la man di Dio, nel più forte
delle loro necessità. Non serviamo più a nulla? Ci buttano in
disparte, o si ricordano di noi, com'io delle prime calze che ho
smesso. Che forse c'è mestieri di gratitudine con noi? Che importa a
lui del tuo valore, a lei dello tue smanie amorose? Egli è il tuo
signore, intendi uccel di rapina; ed è suo, tutto suo, quanto egli
vede dall'alto di questa rupe allo intorno; ella, poi, nasce dal
padre; uccel di rapina anche lei, e uno spicchio di cuore
sanguinolento è il pasto più gradito a questa cara aquilina. Ah sì,
gente da volergli bene, cotesta, e da pigliarcisi una scarmana, come
ho risicato di far io nell'ultimo viaggio di Francia! Vedi un po' come
hanno trattato con me! Tu eri inchiodato in un letto, mio povero
Giacomo, ed io subito diventavo buono a qualcosa. Mi mandano
messaggiero alla Lega, e li servo di coppa e di coltello; sono
contenti di me, non c'è che dire, e me lo provano, mandandomi in
Francia. Vo come il vento; ritorno come il terremoto; porto loro gli
aiuti e le buone promesse del re. Che si voleva di più? Non ti par
egli che io dovessi credere la mia sorte assicurata? Ma no. Si tratta
ora di raccogliere i frutti della mia ambasceria, di mandare una
persona fidata incontro al balìvo di Tresnay. Chi dovrebbe andarci, se
non io? Chi ha da compier l'opera, se non chi l'ha cominciata? Ed
eccoti in cambio il cherubino, capitato tardi, ma sempre a tempo per
vogarti sul remo. Abbia lui la fanciulla meritata da Giacomo Pico;
vada lui frattanto per quel negozio che doveva toccare al Sangonetto.
Già, vedi carità pelosa! Sangonetto sarà stanco d'ambascierie, il
poverino; mandiamo questo bel chiavacuori in sua vece, ed egli invece
abbia l'onore di seguire all'impresa di Noli quel pazzo da catena d'un
marchese Galeotto, che va a cercare il male come i medici; si buschi
un verrettone, o una piombata sul _nomine patris_, quel caro Tommaso;
se no, povero a lui, lo fa colla voglia. Accidenti alla compassione!

--Va;--disse il Bardineto, masticando la stizza;--il tuo ladro è il
mio; fo due vendette in un colpo.

--In che modo?

--È il mio segreto; lascia fare e vedrai.--

Ora il segreto di Giacomo Pico era di correr dietro al Cascherano e di
freddarlo senz'altro. Questo egli aveva pensato, a mala pena lo
stratagemma di madonna Nicolosina era venuto a guastargli il suo primo
disegno. Senonchè, per mandare ad effetto quest'altro, gli bisognava
allontanarsi con qualche pretesto dal marchese Galeotto e trovare,
subito dopo, un cavallo. Ma anco a pescare la scusa per non
accompagnarsi col marchese Galeotto e la cavalcatura per andar
difilato sulla via di Melogno, che avea presa il Cascherano pur
dianzi, o non avrebbe quella sua fuga dal Borgo dato negli occhi alla
gente? E morto il rivale, non sarebbe stata attribuita a lui
l'uccisione? Grama vendetta, che gli avrebbe impedito di tornare al
castello, dove oramai teneva altre fila sicure, come a momenti dirò.
Smesse adunque il pensiero d'inseguire il rivale, e, divorando la sua
rabbia, andò col marchese Galeotto sulla via delle Magne.

Il Sangonetto aveva ragione. Noli era un osso duro da rodere, con quel
suo castello in vetta del monte e una lunga scesa di mura e di
torrioni per infino alla valle. Come un nido di aquilastri, piantato
nel fianco d'una rupe a sottosquadro, non teme insidia di cacciatori
quantunque animosi e valenti, Noli potea viver sicura dalla terra e
dal mare. Di lassù, dove le sue mura comandavano i serpeggiamenti
della via più faticosa che fosse mai, tornava impossibile un assedio,
e una sorpresa soltanto avrebbe potuto dare la città in balìa de'
nemici; di giù, alla marina, in mezzo a due ripide balze, si stendeva
una spiaggia irta di vele. I migliori marinai di Liguria nascevano
appunto colà. Noli aveva armato due galere per la prima crociata, e in
quella occasione s'erano stretti coi Genovesi i primi vincoli di
quella amicizia che aveva a durare inalterata pel corso di sette
secoli, cioè fino all'ultimo giorno di vita della serenissima
repubblica.

Giunsero a notte alta sotto le mura. Il marchese Galeotto aveva
sollecitato per modo il passo de' suoi, da poter loro concedere un
lungo riposo in prossimità della meta; e qui, poi, pena la morte,
aveva comandato il più stretto silenzio. Insomma, niente era stato da
lui pretermesso di ciò che deve curare in simili congiunture un buon
capitano; e, quantunque non lo reputasse necessario con uomini della
tempra de' suoi, più d'una volta era corso avanti e indietro, ed anche
rimasto un tratto in disparte ad osservare, perchè tutti ad un modo e
ordinati procedessero all'assalto.

Così e non altrimenti avvenne che il Sangonetto non potesse
svignarsela, come avea disegnato di fare. Il nostro Tommaso doveva
quella notte esser valoroso per forza. Tanto è vero che di notte ogni
gatto è bigio. Il che va inteso con discrezione e per l'apparenza
soltanto, da cui si cavano i giudizi umani e le storie; che quanto al
cuore, gli è un altro paio di maniche.

Ogni cosa fino al pie' delle mura andò secondo i desiderii del
marchese. E già erano rizzate le scale e chetamente appoggiate ai
merli. Il Sangonetto, adocchiatane una più lunga dell'altre, comandò
di appoggiarla a dirittura contro lo sporto di un torrione, e con atto
d'insigne temerità volle essere il primo a tentar la salita. Ora
siffatti onori si lasciano volentieri a cui piacciono, e i compagni
suoi non ci trovarono niente a ridire. Così saliva animoso, o gli
altri dietro a lui, ma alla distanza di due o tre piuoli, quasi per
ossequio a tanto valore. Ora mentre si tirano a fatica in alto, coi
loro palvesi imbracciati sul capo, ecco ad un tratto la scala
traballa, gira sopra uno dei pie'; chi è in tempo s'aggrappa al legno
malfido e si trattiene sospeso; chi stava in quel mentre colla mano
levata, a cercare il piuolo più alto, brancica l'aria e cade riverso
nel fitto dei compagni che erano pronti a seguirlo; grida involontarie
rompono dal petto di chi cade e di chi riceve il colpo inatteso, e più
delle grida torna molesto all'orecchio del capitano lo strepito delle
armature percosse.

--Sant'Eugenio!--gridò in soprassalto una voce dai
merli.--Sant'Eugenio e Noli! Cittadini, alle mura; il nemico, il
nemico!--

A questa voce un'altra rispose e un'altra ancora più lunge. In breve
gridarono accorr'uomo tutte le scolte e fu messo il castello a romore.
Ben volle Galeotto profittare dell'oscurità e dell'incertezza dei
difensori, spignendo quanti più poteva sui merli; ma già dalle
caditoie piombavano pietre, e una d'esse, rompendo a mezzo una scala,
fece ruzzolare un drappello de' suoi, tra i quali Giacomo Pico, che
per altro non n'ebbe alcun danno, salvo le ammaccature del suo
panzerone di ferro.

L'insidia era sventata; i Nolesi accorrevano in furia alle mura e le
lor grida empievano l'aria, facendoli parere i due cotanti del numero.
Niente era da farsi più oltre, e il marchese Galeotto, sebbene contro
sua voglia e scorrucciato oltre ogni dire, comandò di lasciare
l'impresa, prima che il nemico sapesse di certo chi gli avea dato
l'assalto.

Chi si dolse più forte di questa mala riuscita fu il prode Sangonetto,
sospeso tuttavia alla scala, a cui, da quel furbo ch'egli era, avea
dato volta con uno sforzo repentino di braccia. E volle farsi sentire,
il temerario guerriero, perchè lo sapessero tutti, che c'era lui,
proprio lui, appollaiato lassù; senonchè, a mala pena s'avvide, al
traballio della scala, che una mano nemica dal sommo dei parapetto
lavorava a dargli la spinta, lasciò di vociare, gittò lo scudo per
aver più spedite le mani, e lì spenzoloni fece le bracciate di due
piuoli, in cambio di uno.

--Peccato!--diss'egli nel ritorno a Giacomo Pico, e così ad alta voce
che il marchese Galeotto lo udisse.--Una così bella occasione fallita,
e per la balordaggine di due, o tre, venuti a romper l'ova in
sull'uscio! Ero già a due braccia dai merli, quando quegli arfasatti
m'hanno dato una volta alla scala, colla lor furia di corrermi tutti
alle calcagna. Benedetta gente, per non dirne altro! O non lo sanno il
proverbio, che la gatta frettolosa fa i catellini ciechi? Facevano a
rubarsi il posto, que' scimuniti guasta mestieri; come se in questa
nobile impresa con ci fosse stato tempo e luogo per tutti!--

Così, dopo aver provveduto alla sua vita, provvedeva il Sangonetto
alla fama, dando egli stesso una soffiatina nella tromba di questa
compiacente signora.

Nessuno, per altro, diè retta al nostro Tommaso, che altri pensieri
occupavano la mente di Galeotto e di Giacomo Pico. Taciti e spediti
rifecero la strada delle Magne e sul mattino seguente rimettevano il
piede entro le mura del Finaro, dove il marchese tornò alle cure della
difesa e Giacomo Pico a' suoi disegni di vendetta.

Per intendere i quali, bisognerà risalire alla mattina del giorno
addietro e proprio al momento in cui madonna Nicolosina, fortemente
commossa di sdegno e di tristezza, usciva dalla torre dell'Alfiere.

--Va e ricorda quel che ti pare, di me;--Aveva borbottato Giacomo
Pico, seguendola infino all'uscio;--va e racconta pure ogni cosa a tuo
padre!--

E guatando quella superba che scendeva le scale così grave negli atti
e padrona di sè, mentre egli non lo era stato e si sentiva vinto,
umiliato da lei, un odio feroce contro quella donna gli era nato
d'improvviso nel cuore. Egli avrebbe voluto essere in quel punto un
Dio, o un demonio, per vincere quella ritrosa, incatenarla colà,
vederla a' suoi piedi, impadronirsi, a suo malgrado, di lei.
Imperocchè l'amore nell'anima del Bardineto non poteva riuscire quel
delicatissimo affetto, e quasi celeste, che i poeti affermano essere
certamente inspirato da una donna gentile. L'amore anzitutto è
desiderio, e non sempre la nobiltà della persona amata può affinare
nella mente dell'uomo e trarre a fior di virtù spirituale questo che è
sempre ne' suoi cominciamenti un prepotente ardore di sangue.

Così imbestialiva il Bardineto, desiderando ed odiando. L'avrebbe di
gran cuore posseduta ed uccisa; e questo è dir tutto.

Ora, mentre egli la seguiva degli occhi, gli venne udito, a due passi
discosto da lui, un suono di rammarico, quasi un singhiozzo rattenuto
a fatica. Fu dietro l'uscio in un salto, e vi trovò la Gilda
rincantucciata, la Gilda più morta che viva.

Subito intese che la meschina era là, ascosa e piangente, per lui. Del
resto madonna Nicolosina gli aveva detto pur dianzi il segreto della
sua povera ancella. Ed egli non se n'era avveduto prima; assorto nella
bellezza gloriosa della giovine castellana, non avea mai chinato lo
sguardo indagatore sul viso della Gilda; non aveva pensato mai che la
sua bellezza, per essere in umile stato, non era già da meno di quella
che a lui l'ambizione e l'amore facevano apparir così grande.

Si chinò allora verso di lei, la rialzò tra le sue braccia e la trasse
di peso nella camera, senza che ella pur si provasse a resistere.


--Uccidetemi, messer Giacomo!--gli disse invece, dando in uno scoppio
di pianto.--Ho udito ogni cosa e mi è più caro morire, che soffrir
come faccio da un'ora.--

Giacomo Pico rimase immobile un tratto a guardarla, così abbandonata
nelle sue braccia, sciolta le chiome, il volto arrovesciato,
fiammeggiante, inondato di lagrime. Era bella, così; e lo amava, e
soffriva per lui.

S'inginocchiò, per sostenerla meglio e sollevarle la testa, ma più,
ancora per divorarla degli occhi e riscaldarla del suo alito ardente,
quella donna leggiadra, che si struggeva di vergogna e di amore.

--Hai udito ogni cosa?--le disse.--Hai dunque udito che siamo i loro
servi, i loro trastulli? Questi orgogliosi e malvagi signori, li
conosci ora anche tu?--

--Oh, Giacomo! che dite voi mai!....--gridò sbigottita la poveretta.

--Dico che tali son essi, e che altri dobbiamo esser noi da quelli di
prima, per loro;--ripigliò Giacomo, infiammato di sdegno;--dico che
bisogna odiarli.... e amarci tra noi;--soggiunse sottovoce e quasi
bisbigliandole la frase all'orecchio.

Alle inattese parole e al soffio infuocato delle labbra di Giacomo, la
Gilda trasaltò e volse su lui uno sguardo smarrito.

--Amarci tra noi, sì!--ripetè il Bardineto.--Non siamo noi quanto
loro? In che sei tu men bella di lei? E in che son io da meno di uno
sposo che ella conosce a mala pena per nome? Io e tu, fanciulla, siam
nati in umile stato; è questa l'unica differenza tra essi e noi. Ma
chi furono i loro antenati? E non potrebbe nascere da noi una stirpe
più nobile della loro e più generosa a gran pezza? Abbiamo dunque, noi
pure gli stessi diritti sulle gioie dell'esistenza; dobbiamo e
vogliamo liberarci da questa infame servitù, essere, come ci sentiamo,
uguali a costoro.

--Ah, messer Giacomo,--esclamò ella sbigottita,--voi parlate come
Tommaso Sangonetto.--

--Che ti ama!--notò il Bardineto con accento sarcastico.

--Sì,--rispose ella prontamente,--ma non quanto io lo detesto.--

--Fai bene, sai!--disse Giacomo, carezzandone accortamente i pensieri,
mentre la traeva dolcemente a sè, per ravviarle i capegli sulle
tempie.--Egli non intende l'amore; è di tempra volgare; desidera, non
ama. Ed io t'amo. Sei bella,--soggiunse, notando un misto di sorpresa
e d'incredulità che le traspariva dagli occhi,--sei bella come la
vergine Maria, che frate Angelico ha raffigurata, e che i nostri
signori custodiscono tanto gelosamente nella chiesa di San Giorgio.
Come torno io ad avvedermi di ciò, io che fui tanto smemorato per
giorni e per mesi? Vedi, Gilda, mia Gilda, sono stato cieco; che dirti
di più? Si è fuori di senno talvolta, come si è presi dal vino. Certo
la tua signora mi ha posto una malìa, per condurmi in mal punto, e
spezzare il tuo povero cuore. Imperocchè, vedi, io lo sentivo, di
essere amato da te. Erano le tue bianche mani che mi davano più grato
refrigerio, quando le s'accostavano a medicarmi la ferita. Laggiù
all'Altino, te ne rammenti? sei stata la prima a giungere, la prima a
toccarmi. E desiderai di rimanere eternamente colà, quando sentii il
tuo braccio scorrere lievemente sotto il mio capo per rialzarlo,
quando sentii sulle mie guancie l'alito della tua giovinezza. E poi,
quale follìa! Come ho potuto io uscir fuori di me? Credilo, fu una
malìa. Più ti guardo, e più vedo che nessuna donna ti vince in
bellezza. Occhi meravigliosi che han pianto tanto!...... Anche i miei,
Gilda, ma non piangeranno più, o piangeranno per te. Labbra porporine,
da cui mi sarà così dolce una parola di perdono! guancie morbide, che
non respingeranno i miei baci!....--

Accesa di quelle parole, gittata di balzo in un mondo così nuovo per
lei, Gilda trovò pure la forza di svincolarsi dalle strette del
giovine.

--Ah no, messer Giacomo;--gridò ella piangente;--non è così che si
ama.

--T'inganni;--le diss'egli, ma chetandosi tosto e persuadendola con
atti riguardosi a sedere daccanto a lui, mentre stringeva una mano che
ella non ebbe cuore di negargli;--t'inganni. L'amore è un'ebbrezza,
uno spasimo; qualche volta un martirio. Non l'hai sentita tu una spina
nel cuore, quando mi udivi, forsennato, implorar mercè da quella tua
vanitosa signora?

--Non parlate così di lei,--diss'ella scorrucciata, ritraendo la
mano,--o io crederò che l'amiate ancora.

Il Bardineto si morse le labbra.

--Ha ragione,--pensò egli tra sè,--ed io non sono ancora abbastanza
esperto in cosifatte battaglie.--

Indi, rivoltosi a lei, prosegui raumiliato:

--Sentimi, Gilda; e non merita essa il mio sdegno? Non è sua la colpa
di tutto ciò che è avvenuto? Se ella non mi avesse ammaliato,
lusingato, tirato a sè con quelle arti sottili che le sue pari
conoscono, avrei potuto io mai levar gli occhi e le speranze vane sino
a lei, sino alla figlia del marchese mio signore?

--Amore uguaglia!--disse con accento di amarezza la Gilda.

--Sì, quando si ama; e io non l'amavo. Forse potevo io rivolgermi a
lei, avendo dato a un'altra donna il mio cuore? Ed eri tu quella. Ne
dubiti ancora? Ma pensaci, o Gilda; dimentica un'ora di follìa;
ritorna colla mente al passato. Perchè mi hai amato, tu, se non perchè
sentivi in me un affetto che rispondeva al tuo?

--Ah, l'ho creduto!--esclamò la fanciulla, coprendosi il volto colle
palme.

--E avevi ragione; e così fu;--soggiunse il Bardineto.--Ma cotesto non
mettea conto alla maliarda. Voleva esser sola qui, regnar sola. Un
uomo giovine e prode viveva nella corte di suo padre; la vedeva, le
parlava ogni giorno, e non si curava altrimenti di lei? E i begli
occhi di una ancella avevano avuto più potere de' suoi? Un reo
capriccio le nacque allora nell'anima, di sviare quell'uomo, di ferir
questa donna nella sua onesta alterezza. Imperocchè tutti, in
qualsivoglia stato cresciuti, possiamo averci la nostra; e la tua, o
fanciulla, è giusta, è sacra, come l'alterezza d'una figlia di re. Sei
bella; è questa la tua nobiltà. I tuoi grandi occhi neri son gemme che
tutto l'oro del mondo non basterebbe a comprare; i tuoi capegli
corvini, morbidi e lucenti, che scendono amorosi a baciarti le spalle,
valgono un manto d'imperatrice, come questo ferro che io stringo
potrebbe valere uno scettro. Amiamoci, trionfiamo uniti dell'avversa
fortuna; io son tuo per l'amore che mi distrugge; tu sei mia per le
lagrime che io t'ho fatto spargere poc'anzi. Dimmi, Gilda, non
perdonerai tu a chi ha tanto sofferto? Vorrai tu che quella donna
m'abbia fatto impunemente il peggior male e goda di averci divisi per
sempre? Serviresti alla sua gelosia, non al tuo orgoglio di donna, che
ha già nelle mie supplicazioni il suo più largo trionfo. Perchè mi
guardi con quegli occhi smarriti? Ti sono io così odioso? Non
fuggirmi, no, non fuggirmi, te ne scongiuro! credi, alla sincerità
dell'amor mio, alla grandezza dal mio rimorso, o ch'io mi uccido a'
tuoi piedi.--

Così dicendo, con meditata progressione di affetto, Giacomo Pico aveva
sguainato il pugnale che gli pendeva al fianco, e fu tanta la foga con
cui lo brandì, rivolgendone la punta al suo petto, che la fanciulla fu
per vederlo già morto.

--Ah no, Giacomo, per amor del cielo, per l'amor mio, ve ne
prego!--gridò ella atterrita.

E levate le mani, colse in aria il pugnale. Lottarono disperatamente
un tratto, egli per ritenere, ella per istrappargli quell'arma
paurosa. E per fermo, debole com'era, non ne sarebbe ella venuta in
capo, se Giacomo, veduto scorrer sangue dalla mano di lei, non avesse
tosto abbandonato l'impugnatura.

--Per l'anima mia!--gridò egli a sua volta, impallidendo, mentre
tendeva le palme, per afferrar quella mano.--Ti ho ferita?

La fanciulla diede una rapida occhiata al suo braccio, che a tutta
prima avea ritirato, per tema non volesse egli riafferrare il pugnale,
e vide grondar sangue dal cavo della mano sul polso.

--Che importa?--diss'ella, sorridendo.

E innanzi di ridargli la mano, gittò il pugnale lungi da sè.

Ella era bella così, nel suo piantoriso, come un lieto raggio di sole
attraverso le nuvole, nell'aria ancor madida degli ultimi spruzzi del
nembo. Era bella nel gaudio della sua vittoria, nel sublime conforto
di aver salva la vita di Giacomo, di aver veduto nel suo disperato
proposito una certa testimonianza d'amore e di avergliene dato
un'altra a sua volta nell'ardimento con cui ella, timida fanciulla,
rifuggente dal lucicchìo delle armi, gli aveva strappato il pugnale,
insanguinando in quella lotta le sue povere mani.

Ogni altr'uomo si sarebbe commosso e avrebbe rispettata quella celeste
innocenza. Non così Giacomo Pico, anima bieca, indole travolta dalle
sue matte ambizioni, cuore inasprito dall'odio, nè più disposto a
vedere quel che ci fosse di buono o di santo dintorno a lui, se non
per farne pascolo e stromento a' suoi tristi furori.

Prese la mano della giovinetta e osservò la ferita. Vedevasi
attraverso il sangue sparso una scalfittura pel largo della palma, e
appariva essere stata fatta dallo scorrere della lama lungo le carni
invano ristrette per trattenerla.

Prese quella mano, dico, la osservò un tratto, indi con moto
rapidissimo se la recò alle labbra, suggendo avidamente quel sangue.


La Gilda tentò di ritrarsi, ma non le venne fatto.

--L'amore è una dolce schiavitù;--le disse allora Giacomo Pico,
volgendole una languida occhiata, che la turbò nel profondo
dell'anima;--il tuo sangue, o fanciulla, ha suggellato il patto della
mia sommessione. Per questo sangue, dolce come il più dolce liquore,
io ti giuro, amor mio, una eterna obbedienza. Da questo momento sarai
tu la regina del cuor mio; così mi assista la sorte, come ho fede che
il mio ferro ti conquisterà una corona.--

Ella non rispose parola; era vinta. Reclinò la sua bruna testa sul
petto di lui, nascondendogli così il suo rossore, e facendogli palese
il suo smarrimento.

Giacomo seguitava a parlare. Quel che dicesse, neppur egli sapeva. Nè
la fanciulla, venuta in quella confusione, potea più meditare le
parole di lui. Ne coglieva il suono indistinto e in quella musica
soave le si addormentava ogni spirito di resistenza. Anima candida,
credette al candore dei giuramenti di Giacomo; nè solamente dimenticò
quell'ora terribile in cui aveva provate tutte le trafitture della
gelosia; ma il passato, il presente e il futuro si confusero in quel
profondo oblìo di sè stessa, da cui si riebbe alla fine, ma
indissolubilmente legata a quell'uomo, perduta senza rimedio, innanzi
di aver visto il pericolo.

Era già tardi, e il marchese Galeotto non doveva indugiar molto a
mettersi in cammino per alla volta di Noli. Dalla finestra della
cameretta di Giacomo si udiva il suono di molte voci nella gran sala
del castello.

Il Bardineto si strappò dalle braccia di Gilda, per discendere, come
avea disegnato, alla presenza del suo signore. Voleva andare incontro
agli eventi, sostenere lo sguardo di tutti, mostrarsi forte, seguire
il marchese all'assalto di Noli e confermare in quella impresa il suo
buon nome di animoso soldato; voleva insomma un mondo di cose, delle
quali poco o nulla seppe intendere l'inesperta donna che tutto aveva
dimenticato per lui.

La poveretta sentì in quella vece, al dolore della separazione, quanto
ella già appartenesse a quell'uomo. Rimasta sola nella torre
dell'Alfiere, pianse lungamente, s'inginocchiò, chiese a Dio perdono e
soccorso, non senza pensare con raccapriccio ai suoi signori, così
amati da prima, ed ora così molesti al ricordo.

Finalmente, poichè tutto ha un termine quaggiù, anche il dolore, ella
si riebbe dal suo abbattimento e volle esser forte.

--Non mi ama egli?--chiese a sè stessa, rialzandosi e scuotendo la
bruna testa, madida ancora dei baci di Giacomo Pico.--Non lo ha
giurato? Non ha bevuto il mio sangue? Così gli bruci il cuore, se egli
dovesse tradirmi. Ma io saprò difendere l'amor mio; lo
ucciderò,--soggiunse, raccogliendo da terra il pugnale di Giacomo e
nascondendolo in seno,--lo ucciderò con questo ferro, se penserà
ancora a colei.



CAPITOLO X.

Nel quale si parrà l'accortezza del narratore, per annoiare il meno
possibile i suoi benigni lettori.


Così nell'arte della guerra come nell'arte della scherma, botta vuole
risposta e le finte non giovano più, se non a patto di precedere il
colpo. Ora la risposta di messer Pietro Fregoso al tiro di messer
Galeotto su Noli fu per l'appunto di stringere viemaggiormente
l'assedio del Borgo. Condotto l'esercito più sotto le mura che non
avesse fatto dapprima, il capitano genovese die' fiato a tutte le
artiglierie del suo campo, e per dieciotto dì e per altrettante notti
fu un trarre indiavolato di bombarde, falconi, ed altri consimili
ordegni. Basti il dire che, in quello spazio di tempo, trecento
novanta palle di bombarda furono gittate nella terra assediata, il che
torna a una razione di forse ventidue sassi da cinquecento libbre ogni
dì, senza mettere in conto le palle minori, cioè a dire quelle dei
falconi, delle colubrine, cerbottane, ribadocchini, e via discorrendo.

Fu, come i lettori di leggieri argomentano, una grande rovina per le
case del Borgo. Per contro, non n'ebbero molto strazio le vite. Morì
una povera vecchia, còlta da uno di que' sassi in sua casa; morirono
due altre donne, sorde e mute dalla nascita, le quali stavano lavando
i loro pannilini nel torrente di Calice, alle spalle del Borgo, e non
poterono udire l'avvertimento della campana posta sulla torre di
Bichignollo. Era questa la torre più alta della città e vi stava di
continuo un guardiano, con obbligo di dare un rintocco, ogni qual
volta nel campo nemico gli venisse veduto il lampo d'una scarica. In
tal guisa si custodivano gli abitanti della terra, e ad ogni avviso
del guardiano correvano a riparo sotto il portone più vicino.
Senonchè, questa guardia era efficace di giorno, che si potevano
allora tener d'occhio le artiglierie nemiche e i loro mutamenti di
luogo; laddove di notte il povero custode non ci avea mica gli occhi
del gatto, e gli avveniva che la più parte dei colpi, per non aver
egli veduto il lampo, fosse annunciata dal rombo, cioè, quando non
c'era più tempo a cansarsi.

Un gran rischio lo corse una sera messer Barnaba Adorno. Sedeva egli a
cena nel palazzo assegnato a lui e alla sua famiglia dalla ospitale
liberalità del marchese Galeotto, allorquando la campana di
Bichignollo diede un rintocco.

--Bene!--esclamò ridendo il giovine Paolo Adorno, nipote di Barnaba,
in quella che stava per recarsi il bicchiere alle labbra.--Ecco una
giuggiola per le frutte. A chi toccherà essa?--

Aveva egli a mala pena finito di parlare, che un frullo veloce si udì
per l'aria e subito dopo un fortissimo schianto. La colonnetta di
marmo che partiva la finestra si ruppe, mandando i frantumi e le
scheggie per tutta la camera, e in men che non si dice piombò sulla
tavola un regalo di Anselmo Campora, fracassando il vasellame e
mandando ogni cosa sossopra.

Parecchi dei commensali balzarono in piedi dallo spavento, e taluno di
essi con qualche ammaccatura per giunta.

--State, messeri, in nome di Dio!--gridò Barnaba Adorno.--La giuggiola
di Paolo è toccata alla nostra mensa; ma altro di peggio non può fare
oramai.--

--Raccattiamo almeno qualcosa!--disse Paolo, chinandosi a terra,
dov'erano sparpagliati tra i cocci gli avanzi della cena
interrotta.--Ecco giusto uno spicchio di pollo, che non me lo mandano
più a male i Fregosi, che il malanno li colga!

--_Amen_, cominciando da Giano!--soggiunse lo zio.

E la cosa finì in ridere, senz'altro danno per la nobile brigata che
quello di avere abbreviata la cena.

Intanto, più durava l'assedio, e più grande era il guasto, non
solamente nel Borgo, ma eziandio nelle campagne circostanti. I soldati
del Fregoso, segnatamente i non genovesi (che i genovesi furono sempre
buoni massai, e la roba altrui, quando si studiavano di averla,
trattavano già come fosse la loro) i soldati, dico, rompevano,
tagliavano, mettevano in pezzi, davano lo spianto a ogni cosa. Se
mastro Bernardo avesse potuto dare una sbirciata all'Altino, altro che
botti sfondate! Avrebbe visto il suo pergolato in terra, gli
anguillari divelti e il suo bel fico brigiotto, onore dell'orto, quel
maestoso fico dond'egli spiccava ogni anno cinquecento dozzine di
fichi prelibati, polputi e maiuscoli, pietosi a vedere per la buccia
screpolata e per la lagrima all'occhio, quel nobilissimo fico andato
in iscavezzoni, sotto i colpi bestiali d'una soldatesca, la quale non
prevedeva di dover essere ancora in que' luoghi alla stagione dei
frutti.

Poveri a noi! griderà qualche lettore spaventato; siamo a mala pena in
febbraio e dobbiamo ingoiarci tutti gli altri mesi per infino a
settembre? Sissignori; ma badate, gli è come a sorbire un uovo fresco;
l'autore è discreto e va per le spiccie; sicchè, non temete ch'egli
intenda abusare della vostra pazienza, come fece Catilina coi Romani,
se dobbiam credere a quella lingua tabàna di Marco Tullio dal Cece.

Per venir difilati alla storia, si dirà che in quel mezzo fu di
ritorno al Finaro il bel conte di Osasco. Aveva egli veduto in Asti il
balìvo di Trasnay e conduceva al marchese Galeotto i nuovi soccorsi di
Francia che erano dugento lancie, sotto il comando di sere Gaulois, e
colla giunta di due maravigliosi cavalieri di ventura, Ludovico Masson
e Gianni Fontaine, di soprannome l'Abate.

Questi soldati forastieri fecero di belle imprese al Finaro e
risollevarono alquanto gli spiriti abbattuti della difesa. Non si
veniva già a capo di rompere il nemico, ma con audaci sortite lo si
travagliava di continuo ne' suoi ridotti e segnatamente si tornava
molesti a que' capitani, venuti in condotta nell'esercito genovese, i
quali erano avvezzi alle guerre senza troppo spargimento di sangue.
Feroci in battaglia erano a que' tempi i francesi, e ciò forse perchè
inaspriti in quella giostra spietata, che da tanti anni avevano
sostenuta in casa loro, contro l'armi invaditrici d'Inghilterra.
Laonde, mentre i condottieri italiani si contentavano di balzare
d'arcioni il nemico, ponendogli taglia se era persona d'alto affare, o
d'alcun grado nella milizia, e levandogli in quella vece l'armatura e
rimandandolo in farsetto se soldato semplice, o di povera apparenza, i
francesi per contro usavano, ov'egli fosse caduto sotto il loro urto,
di calarsi a terra e di finirlo con un colpo di misericordia sotto
l'allacciatura dell'elmo.

In quel torno un Andrea Romanengo, che militava nelle file genovesi,
per esser egli ghibellino siccome erano i Carretti, piantò le insegne
de' suoi concittadini, e, andato a' servigi del marchese Galeotto,
incignò il suo passaggio al nemico guidando contro il campo genovese
cinquanta animosi soldati, e fu ad un pelo d'impadronirsi delle
bombarde postate sull'altura di Monticello; la quale impresa nessun
altri avrebbe potuto tentare fuor lui, che ben conosceva le vie
coperte, i tragetti, la forza delle guardie e tutti gli usi del campo.

Messer Pietro Fregoso gli mandò a dire, per uno de' prigioni fatti in
quello scontro e resi secondo il costume in cambio di altrettanti
genovesi, che badasse a custodir bene la sua persona o volesse dare
frattanto gli estremi conforti alla sua gola; imperocchè egli si
prometteva di farlo impiccare al trave dell'ultima torre che rimanesse
in piedi al Finaro.

Molti altri bei fatti d'arme intervennero, che per amore di brevità, e
perchè sottosopra tutti compagni, tralascio di raccontare. Bene
raccontano le cronache finarine della proposta fatta da Giovanni,
fratello del marchese Galeotto, di combattere egli solo contro un
campione di Genova e così por fine alla guerra; proposta che il
Fregoso non accettò, come quella che mettea conto solamente al nemico,
inferiore di tanto per numero e stremato di forze. Raccontano inoltre
della disfida che mandò Giacomo, figliuolo di Oddonino del Carretto, a
Nicolò e ad Antonio Fregoso; rifiutata la quale, con un pugno di
cavalieri fece una scorreria fin sotto le mura di Castelfranco.
Narrano di una zuffa che avvenne sopra l'ospedale di San Biagio,
proprio daccanto alle mura del Borgo, delle prodezze che vi operò
Giovanni Sanseverino e di quelle d'un cavalier francese che sostenne
da solo l'impeto di cinque nemici; uno ne uccise, gli altri ferì, ed
egli poi appiedato ebbe tronche le gambe da un colpo di colubrina.
Aggiungono che i genovesi, nel fare un'altra bastita, dovettero per un
giorno intiero far fronte ai ripetuti assalti della gente assediata, e
in quella occasione Gianni Fontaine, detto l'Abate, ebbe il fratello
malamente ferito e sepolto ancor vivo dai genovesi; la qual cosa
proverebbe invero una fretta soverchia e niente affatto lodevole, ma
altresì la buona intenzione dei genovesi e il costume che avevano di
rendere gli estremi onori ai caduti.

Raccontano.... Insomma, io non mi fermerò a pigliar nota di tutto.
Metterò in sodo che si pugnò lungamente e valorosamente da ambe le
parti; cosa che torna ad onore del buon nome italiano, dappoichè
finarini e genovesi, monferrini, lombardi, napoletani e quant'altri
combattevano, alleati, o assoldati, nei due campi del Finaro e di
Genova, erano tutti figliuoli d'una medesima patria.

E l'assedio intanto durava; nè ciò solamente per la singolare asprezza
dei luoghi e per la inaudita tenacità della difesa, ma eziandio per la
instabilità degli uomini nell'esercito genovese. Ho già detto come si
usasse allora far gente e come il nerbo dell'esercito posto sotto il
comando di Pietro Fregoso si componesse di forze comandate, tutte con
poca e varia durata di servizio; di guisa che, spirato il termine fino
a cui una data compagnia era obbligata a rimanere sotto le insegne,
questa si ritirava dal campo, foss'anco alla vigilia d'una pugna.
Anche i mercenarii, finita la loro condotta, e dove i patti nuovi non
fossero più larghi dei vecchi, od altrimenti accettevoli ai
condottieri, spulezzavano tosto; e talfiata anco passavano con arme e
bagagli alla parte contraria, se questa aveva trovato il verso
d'intendersi con esso loro e di offrire una paga più alta. Il
sentimento dell'onore per que'tempi era tale, e comandati e condotti
non si tenevano obbligati ad averne più in là del giorno assegnato.

A proposito di giorni, uno finalmente ne venne, e fu quello di San
Gregorio, ai 12 di marzo, che i genovesi levarono il campo. Già da due
dì il fuoco delle bombarde si era di molto allentato; di che gli
assediati aveano dato merito al tempo piovoso, che non tornava
propizio alla lunga e malagevole operazione della carica. Ora, la
mattina del 12, uscito il Sanseverino colle sue lancie francesi fuor
dalla porta di san Biagio per far correrìa lunghesso il torrente, ebbe
a meravigliar forte di non ricever molestia dai balestrieri nemici,
che solevano stare in agguato alle falde di Monticello.

Incontanente spiccò un uomo dalla cavalcata, perchè desse avviso di
quella novità al marchese Galeotto. Il quale fa pronto ad uscire con
grossa mano di fanti per tastare il terreno all'intorno, incominciando
dalle bastite dell'Argentara e del poggio di Maria. S'inoltrarono
guardinghi fino agli steccati, già per lo addietro così fieramente
contesi, e del nemico non ebbero indizio; le bastite erano
abbandonate. Salirono ai greppi di Monticello e niente trovarono;
ridiscesero al piano, e la valle apparve deserta. I genovesi nella
notte avevano levato l'assedio.

Messer Galeotto, che pizzicava di lettere, pensò allora alla fuga dei
Greci da Troia e sospettò d'una insidia. Ma dov'era egli il cavallo di
legno, od altro che ne tenesse le veci?

Per aver traccia dei genovesi, fu mestieri a Galeotto di giungere fino
alla Marina, donde si vedevano ormeggiate a poca distanza dal lido le
galere nemiche, e sotto a Castelfranco, dove la rocca incominciò a
piover sassi e il battifolle di san Fruttuoso a vomitar fuoco sulle
prime schiere dei finarini. Il nemico era andato a far testa colà,
come sul principio dalla guerra; Galeotto non volle saperne altro e
tirò indietro la sua gente, pensando che messer Pietro Fregoso non
tenesse fermo laggiù che per coprire la sua ritirata. I ricordi greci
occupavano quel giorno la mente di Galeotto, che si sovvenne allora di
Temistocle e dei suo detto memorabile: a nemico che fugge, ponte
d'oro.

Checchè ne fosse del partito preso dai genovesi, il fatto era che i
capi dell'esercito stavano appunto allora a consiglio presso il
capitano generale messer Pietro Fregoso, nella chiesa di Nostra Donna
in Val Pia, per avvisare il da farsi. E pare che la deliberazione
fosse appunto di lasciare l'impresa, poichè nella notte seguente le
artiglierie erano chetamente levate dai battifolli di San Fruttuoso e
di Vignadonna, e una grande fiammata annunziò ai finarini che quelle
bastite di Val Pia, e l'altra più forte e più vasta del poggio di
Castiglione, erano condannate a perire, essendo l'esercito genovese
già in salvo sulla via delle Magne.

Il marchese Galeotto si applaudì di aver seguitato il consiglio di
Temistocle e dimenticò i suoi primi sospetti intorno al cavallo di
Troia. Sì certamente, quella era la riprova del fatto; i suoi nemici
giurati, sebbene a malincuore (e questo egli se lo immaginava e lo
intendeva benissimo), aveano pur dovuto ritirarsi dal campo, stupiti
dalla tenacità del suo animo e della validità delle suo difese. E non
ragionava poi male; senonchè, mostrava di conoscer poco messer Pietro
Fregoso, uomo, come suol dirsi, tutto d'un pezzo, il quale avrebbe più
facilmente perduto un braccio, una gamba, od altra parte della
persona, che deposto un disegno della sua testa.

Invero, entro le mura del Finaro e proprio nella corte dei signori del
Carretto, c'era taluno che intorno ai consigli di messer Pietro poteva
saperla più lunga che non il marchese Galeotto. Ma quest'uno ci aveva
le sue brave ragioni per non dirne nulla al marchese e non turbare
l'allegrezza recata nel castel Gavone da un primo giorno di sole.

Quel lieto giorno il marchese Galeotto lo celebrò da par suo, col
matrimonio di madonna Nicolosina, Le nozze, durando l'assedio,
avrebbero dovuto farsi, malgrado l'animoso proposito della giovinetta,
nella piccola chiesa di san Giorgio, che era nel recinto di castel
Gavone, e per fermo sarebbero riuscite dimesse e malinconiche oltre
ogni dire, senz'altra musica che quella eterna e fastidiosa di Anselmo
Campora. Furono fatte in quella vece allegre e sontuose nella chiesa
di san Biagio, non più esposta ai colpi delle artiglierie genovesi,
dinanzi a tutta la corte ed al popolo, per doppia cagione festante.

Giacomo Pico era tranquillo e sereno all'aspetto; tanto sereno (senza
ilarità, s'intende, che sarebbe parsa soverchia, epperò simulata) che
madonna Nicolosina, dimenticato volentieri il doloroso colloquio avuto
con lui nella torre dell'Alfiere, gli si dimostrò cortese ed umana
come per lo passato. Egli per altro, se non isfuggiva, neanco cercava
le occasioni di vedersi trattare a quel modo da lei. Anche il conte di
Osasco, siccome interviene a tutti i felici, che non vedono mai più in
là d'una spanna, era entrato in grande amore per Giacomo Pico e lo
avea tolto a confidente delle sue allegrezze. Carlo d'Osasco era
giovine e doveva ancor molto imparare a sue spese. A testimonianza del
suo candore basti dir questo soltanto, che egli con quel nuovo amico
s'era aperto della sua più grande ventura, cioè del primo incontro
avuto con madonna Nicolosina, a mala pena arrivato al castello. Donde
il Bardineto avea tolto argomento ai dolorosi raffronti che tutti
indovinano, crogiolandosi sempre più nella sua rabbia nascosta e
fortificandosi ne' suoi disegni di vendetta.

In apparenza adunque Giacomo Pico si era meritata la stima di tutti.
Della fede che si riponeva in lui come soldato, neppur sarebbe
mestieri discorrere. Valoroso sempre, si era nelle ultime fazioni
dimostrato valorosissimo tra tutti i più famosi campioni del Finaro, e
Galeotto avea detto un giorno alla presenza di tutta la sua corte che,
se avesse avuto intorno a sè dodici uomini della prodezza di Giacomo
Pico, non avrebbe dubitato di ragguagliare sè stesso a Carlomagno,
tanto il buon esempio di dodici paladini avrebbe innalzato lui a
sostenere quel gran paragone. I cavalieri francesi erano a dirittura
innamorati di _Messire Picot de Bardinette_. In parecchi scontri aveva
cavalcato con esso loro, e, per la nobil presenza in arcioni, come per
la sua furia nel dar dentro ai nemici, s'era lasciati indietro i
migliori. Da essi poi aveva imparato a non dar quartiere, e ammazzava
i caduti, che gli era un gusto a vederlo. Gianni Fontaine, detto
l'Abate, un giorno che Giacomo si era tratto ad onor suo da un
manipolo di genovesi che gli si erano serrati ai fianchi e
minacciavano di farlo a pezzi, lo battezzò (se il verbo è consentito
in questa occasione) col nome di _Picot le Diable_. Donde gli altri
cavalieri cavarono per conseguenza esser verissimo il proverbio che
Dio li fa e poi li accompagna, _veu qu'un Abbé estoit au mieulx
avecque un Diable_.

Il Cascherano, colla sua modesta prodezza, non raccomandata agli
esaltamenti di amici chiassoni, che nel collega magnificavano in fin
de' conti sè stessi, il Cascherano, dico, era facilmente eclissato da
questa gloria del Bardineto. Non si tornava da un affrontamento al
castello, che non si levasse a cielo il valore, o qualche impresa
singolare di Giacomo Pico. E lui umile, schivo, anzi scontroso
senz'altro, a tirarsi in disparte, e, quanto più spesso poteva, a
nascondersi. Modestia, forse? I lettori conoscono il Bardineto per un
ambizioso di tre cotte, che volentieri rammentava le sue prodezze e i
suoi alti servigi alla gente. Eglino han dunque da credere che in
questa ritrosia del Bardineto ci entrasse un avanzo d'amarezza, o un
bieco disegno formato in mente pur dianzi, o tutt'e due le cose in un
punto.

De' suoi amori colla Gilda nessuno avea fumo. La poveretta sfioriva ad
occhi veggenti, e madonna Nicolosina argomentava che ne fosse cagione
la sua fiamma nascosta o sventurata per Giacomo; ma perchè non sapeva
come aiutarla in cotesto, o neanco poteva entrargliene a fine di
conforto amorevole, perchè da un pezzo l'ancella stava un po' grossa
con lei quanto il grado e l'ufficio suo consentivano, la bella e
pietosa Nicolosina non si era animata a dir nulla.

Il fatto si era che la Gilda, non pure serbava rancore contro la sua
signora per aver dato un giorno negli occhi al suo Giacomo, ma sentiva
altresì vergogna e rimorso della propria caduta e non si vedeva
abbastanza amata da lui, che voleva tener coperto di un velo sì fitto
ciò ch'ella avrebbe volentieri mostrato alla luce del sole. Il che,
per altro, va inteso con discrezione; imperocchè, se a lei, la più
parte del giorno, quando non era vicina al suo Giacomo, pareva di non
essere amata in quella guisa che pure avrebbe voluto e che sentiva di
meritare, in altr'ora i segreti colloqui, i giuramenti e gli ardori di
Giacomo, aveano potere di ridarle la speranza e la vita. Questa è
debolezza insieme e virtù della donna, tanto migliore e più scusabile
di noi, capricciosi e violenti rapitori della sua pace, quando non
siamo a dirittura brutali. E il Bardineto soleva riconfortare la
vittima, dicendo, che, a mala pena finita la guerra e pagato il suo
debito di vassallo al marchese, avrebbe chiesto commiato da esso lui e
la donna amata lo avrebbe seguito in altra terra, probabilmente in
Francia, ove di certo si sarebbe mutata la sua sorte. Il Sanseverino e
gli altri cavalieri francesi, lo avevano anzi stimolato a quel
viaggio, facendogli sicuro il favore e una lauta provvigione del re.

Le nozze di madonna Nicolosina furono splendide per isfoggio della
corte e per lieto concorso di popolo. Quanti fiori e fronde aveano
cansato negli orti e nei campi il cieco furore dell'esercito nemico,
tanti furono spiccati quel dì per mettere le fiorite in tutte le vie
donde aveva a passare la bellissima coppia. Veramente fu un giorno di
sole, pari a quelli che rinnovano l'aspetto della natura, dopo
parecchi altri di pioggia.

Ma i giorni si seguono e pur troppo non si rassomigliano l'un l'altro.
Il marchese Galeotto a cui le allegrezze domestiche non facevano uscir
di mente le cure più gravi de' suoi minacciati dominii, aveva mandato
esploratori in gran numero e per diversi sentieri, che codiassero il
nemico e gli dessero lume delle sue intenzioni, se veramente erano di
desistenza, com'egli credeva. Ora, il giorno dopo la festa, alcuni di
quei messaggieri gli aveano rapportato che l'esercito genovese,
scambio di proseguir cammino su Noli e Spotorno, per rifarsi al campo
di Vado o sciogliersi colà dove si era formato, piegava su in alto per
Magnone e per Vezzi, castello murato sulle falde dell'Appennino, e
signoreggiato da un Ansaldo Cicala, cavalier genovese; donde,
inoltrandosi per quegli alpestri sentieri, s'era sparso fino al monte
Porrino, di rincontro alla villata di Rialto.

Cotesto fu un sopraccapo non lieve per Galeotto; tanto più che i
nemici accennavano, col taglio e la riquadratura degli alberi, a voler
fare una bastita e metter campo lassù, certo per comandare i passi
dell'Appennino. E in questo giudizio lo confermarono i ragguagli del
giorno dopo, secondo i quali una parte dell'esercito nemico scendeva
speditamente su Gorra e Gottafrigia, proprio alla vista del castello
Gavone.

Qui prego il lettore a ricordarsi della ipsilonne, accennata nel primo
capitolo di questa povera storia. Ci siamo? La Marina del Finaro e il
breve corso del Pora sono il piede e la gamba di quella inutilissima
tra le lettere dell'alfabeto. Il Calice e l'Aquila, affluenti e
genitori del Pora, sono le due braccia che si prolungano in strette
convalli verso le falde appennine, chiudendo nella inforcatura il
Borgo, la vetta soprastante di castel Gavone e la roccia di Pertica,
che lo comanda, ma a che è inaccessibile dalla parte di tramontana.
Lungo la valle del Calice, che è il braccio occidentale, s'inerpica la
strada che mette in Piemonte, contornando il dorso del Settepani alla
torre di Melogno. Lungo la valle dell'Aquila, che è il braccio
orientale, risale un'altra via che mette in Monferrato, tagliando
l'Appennino sotto il monte di San Giacomo. Il castello di Vezzi è a
levante di questa via.

E adesso il lettore benevolo intenderà, spero, come l'esercito
genovese, lasciando il castello di Vezzi e varcando l'Aquila alle sue
scaturigini, potesse andar su Rialto, paesello di montagna presso alle
sorgenti del Calice, e lasciando la sponda orientale di questo, colle
villate di Carbuta e di Calice, che sono alle spalle di Pertica,
scendesse per le Vene e San Pantaleo a cercare la strada battuta, che
mette a Gorra o Gottafrigia, proprio alla vista di Pertica e del
castello Gavone. Al nome di Dio, ci siamo finalmente arrivati!

Detto il come, diciamo anche il perchè. Messer Pietro Fregoso aveva
potuto scorgere, durante l'assedio del Borgo dalla parte del mare, che
il marchese Galeotto, sebbene abbandonato dal grosso del suo
parentado, riceveva pur sempre dalla parte dei monti aiuto d'uomini e
di vettovaglie. Per tal modo, in fortissimo luogo com'era e combattuto
cogli scarsi ingegni di quel tempo, il suo nemico poteva durarla, non
che per mesi, per anni. Diffatti, anche distrutto il Borgo dalle
artiglierie genovesi, a Galeotto rimaneva il castello su in alto,
donde avrebbe tuttavia comandato i passi, per cui gli veniano gli
aiuti. Di là, dunque, di là bisognava andare ad offenderlo.

Cotesto gli era detto eziandio da una lettera cieca che un prigioniero
restituito aveva trovato nella tasca del suo farsetto, con tanto di
soprascritta al capitan generale. «A che vi ostinate di fronte?
Pigliate il vostro nemico alle spalle. La pianura davanti al Borgo dà
libero campo alla cavalleria, ed ogni avvisaglia, essendo voi così
sotto alle mura, mette a repentaglio le vostre bombarde, come di
recente è avvenuto. Inoltre, badate. Il duca d'Orleans ha comandato al
balìvo di Trasnay, suo governatore in Asti, di venire in aiuto al
Finaro. Il vostro Tommaso di Bagnasco a stento lo rattiene in Ceva,
mentre Spinetta del Carretto fa fuoco e fiamme perchè s'accosti a
Garessio, dove al marchese Galeotto riesca più agevole tirarlo a' suoi
fini.»

Piaceva il consiglio a messer Pietro, chè anzi da parecchio tempo lo
venia vagheggiando tra sè. Ma prezioso sopra tutto gli parve l'avviso
dell'ignoto corrispondente.

Avrebbe voluto andar subito a vedere co' suoi occhi il terreno. Ma
anche il campo richiedeva la sua vigilanza; però gli convenne studiare
il modo di spartire gli uffizi. E poichè Anselmo Campora era, come
suol dirsi, il suo occhio destro, mandò lui a specolare lassù, se
c'era verso di condurvi l'esercito.

Da questa savia risoluzione di messer Pietro ne avvenne che, mentre
sotto le mura del Borgo si continuava a badaluccare, i contrafforti
tutti dell'Appennino, sui confini settentrionali del marchesato, erano
diligentemente osservati da quel furbo compare del Picchiasodo, la cui
avvedutezza e le naturali inclinazioni corografiche sono oramai note
ai lettori. E a mala pena fu di ritorno costui, messer Pietro ordinò
la partenza.

Il colpo ebbe quell'esito che s'è detto più sopra e gli assediati non
ne sospettarono punto. Mercè quel trapasso, il Finaro veniva ad esser
più chiuso che dapprima non fosse. Il mare, si sa, apparteneva ai
genovesi per ragion di possesso. Teneano per Genova, il Borghetto, a
ponente, e Noli, la fortissima Noli, a levante. Restavano gli sbocchi
dell'Appennino, e questi oramai, col suo stratagemma di ritirata,
occupava l'esercito.

Tardi si avvide Galeotto dell'inganno, ma non volle altrimenti si
dicesse avergli ciò fatto perdere il tempo, e fresco ancora di quelle
sue domestiche allegrezze guidò il fiore de' suoi a sloggiare il
nemico da Gorra. E cotesto gli venne fatto di colta, poichè i genovesi
non erano ancora in numero bastante lassù, nè avevano avuto modo di
rafforzarvisi, con una delle solite bastite. È per altro da dirsi che
non patissero troppo di quella perdita, poichè dagli abbandonati
gioghi di Gorra e di Gottafrigia dilagavano facilmente a Giustenice,
luogo assai più occidentale di Gorra, da essi posseduto ab antico e
recentemente da essi accennato come appiglio di guerra nelle loro
ambascierie al Finaro.

Accorse a difendere la rocca di Giustenice l'animoso Giovanni,
fratello di Galeotto, con centocinquanta finarini. Erano seco lui,
Giacomo, figliuol di Oddonino, e l'Antonio, che abbiamo già veduto
rendere Castelfranco. I lettori superstiziosi avranno per malaugurio a
Giustenice la presenza di questo cavaliere sventurato. Difatti, poco
resse il luogo agli assalti, e dopo tre giorni di combattimenti
continui, in uno de' quali morì d'un colpo di balestra Beltramino da
Riva, condottiero di lancie nell'esercito dei genovesi, questi
penetrarono nella terra, e per una via coperta, che la repubblica
aveva fatta ne' primi tempi del suo dominio colà, si avvicinarono
tanto al castello, da atterrarne impunemente il primo muro di cinta.
Ne trovarono per altro un secondo, di più recente costruzione, più
saldo e più acconcio a difendere; laonde messer Pietro, per non aversi
a trattenere di soverchio davanti a quella bicocca, comandò di far
inoltrare un paio di bombarde.

E qui si fece onore, come potete immaginarvi, il nostro Picchiasodo.
Uno solo de' suoi colpi, mandando in rovina un pezzo di volta, uccise
nel castello quattordici uomini e parecchi altri ne ferì sconciamente.


Intanto messer Pietro, avuta sotto le mani la maggior parte
dell'esercito, ritornava su Gorra e, respinto il suo avversario, vi si
piantava più saldo che mai. Dolse del fatto a quei di Giustenice che
fino allora aveano sperato soccorsi, e che da due giorni, difettando
di pane, dovevano cibarsi di crusca. La quale eziandio venendo a
mancare, si arresero il 12 di aprile, e tosto, sotto buona scorta,
furono condotti alla Pietra e imbarcati per alla volta di Savona.
Pochi giorni di poi, una galera li portò fino a Genova, ove il doge
Giano Fregoso li voleva prigionieri per quindici giorni almeno; così
annullando i patti della resa, secondo i quali la valorosa schiera
avrebbe dovuto esser posta in libertà, con che promettesse di non
impugnare più oltre le armi contro Genova, per quanto tempo durasse la
guerra.

Colà, veduto il doge e uditone amare parole, a cui fieramente rispose,
Giovanni Del Carretto fu chiuso cogli altri nelle carceri Grimaldine;
donde passò con Giacomo suo cugino a meno squallida prigionia nel
castello di Lerici. Lo sventurato Antonio e il resto dei difensori di
Giustenice rimasero prigioni in Genova; e per gli uni e per gli altri
non furono quindici dì, ma dieciotto mesi di carcere. Non bella cosa
da parte di Giano; ma i tempi erano tali da consentirne di
simiglianti, e di peggiori per giunta.



CAPITOLO XI.

Dove è detto del Maso, ragazzo, come cangiasse stato e quante volte
padrone.


Domando una grazia ai lettori; ed è quella di ricordarsi d'un
personaggio umilissimo, apparso nei primi capitoli di questo racconto,
del Maso, a farla breve, del ragazzo che servì i due forastieri
all'osteria dell'Altino.

Ragazzo, servo adoperato a vili esercizii, come a dire stalliere,
guattero, o giù di lì; questo avea fatto di lui mastro Bernardo,
l'ostiere, dopo averlo raccattato per via, alla guisa dei trovatelli,
e tirato su a scapellotti; ma le sorti della patria, condotte allo
stremo, ne avean fatto un soldato. A malincorpo, se vogliamo;
imperocchè, qual è il negozio di qualche importanza che non si cominci
a farlo così? Ve n'ha che piacciono maledettamente, e cionondimeno
l'incignarli è stato un guaio de' grossi; testimone il gusto matto che
io provo adesso a ragionare coi popoli, dopo averci fatto il viso;
che, a dir vero, non fu la fatica d'un giorno.

Per altro, in quella guisa che mettendosi a tavola suol venir
l'appetito, la necessità aveva portato la consuetudine, e la
consuetudine un certo gusto alla vita soldatesca, in quel miscuglio di
balordaggine e di malizia che era il ragazzo dell'Altino. Già, egli
bisogna dire a sua scusa, che balordo lo avea reso il padrone, non gli
lasciando mai pace e rimeritando alla cieca con pan buffetto e cacio
scapezzone ogni bella e brutta cosa ch'egli dicesse, o facesse. Triste
vita pel Maso, sentirsi a trillare nel capo la sua vivace natura, e
doverla respingere nel più profondo del cuore! Aveva voglia di saltare
per la casa e doveva star cheto per la paura di qualche soprammano;
era mogio e doveva saltare in fretta, per cansarsi da un sottonsù che
gli era scoccato senza preamboli. Se ne ricattava con certi suoi
lazzi, smorfie e marachelle degne d'una bertuccia, di cui spesso
recitava il paternostro in qualche angolo della casa, quando avveniva
che i saluti del burbero padrone fossero giunti al loro ricapito.

Mastro Bernardo non era cattivo, bensì un tal poco fantastico. La
povertà inasprisce il carattere, e all'ostiere dell'Altino il non
poter sempre ragguagliare l'entrata con l'uscita facea spesso uscire
il cervello dai gangheri. Del resto era un buon diavolo, amava il suo
paese, la sua casa, la sua famiglia, e, quantunque a modo suo, anche
il ragazzo, bocca inutile, com'egli soleva chiamarlo. Quando vennero i
tristi giorni pel Finaro, fu egli che diede al Maso l'esempio delle
opere forti. Veduto lo spianto della sua casa e la impossibilità di
ripigliare il suo traffico di vin cristiano, era andato a mettersi
nelle mani della sua cara nipote; per intercessione di lei aveva
appoggiato la sua famigliuola al castello, e, indossato un vecchio
panzerone di ferro che si ricordava de' suoi vent'anni, aveva detto
tra sè: «crepi l'avarizia, quest'oggi il marchese avrà un soldato di
più».

Gli era venuto sulle prime il ghiribizzo di attaccare il Maso alla sua
guerresca persona; ma ricordò saviamente di essere tavolaccino e non
capolancia, e, data licenza al ragazzo, gli disse: va, accònciati con
qualche pezzo grosso e sii soldato fedele! Voleva anche dargli lo
scapellotto d'uso; ma questa maniera d'essere armato cavaliere non
facea comodo al Maso, che fu pronto a sbiettare.

Ed era andato, come gli raccomandava il padrone; e al tempo in cui lo
ritroviamo, era paggio, cioè a dire governava il cavallo di messer
Antonello da Montefalco, capitano dei finarini dopo la partenza di
Francesco del Carretto, il quale, come sanno i lettori, aveva imitato
il corvo dell'Arca.

A' servigi di quel provato uomo di guerra, il nostro Masuccio, se
ancora non aveva fatto prodezze, certo ne avea vedute e di molte. Esse
per altro non aveano tolto che i genovesi piantassero bastite per ogni
dove, a Gottafrigia, al poggio della Croce, che è presso Gorra, sul
dorso di Pian Marino, sulle alture di Melogno, a Orco, a Collamonica
presso Feglino, nel luogo di Corsi dirimpetto a Carbuta, facendo per
tal guisa alla terra assediata una corona di torri. In questo
frattempo il Maso aveva combattuto due volte a Rialto e aiutato alla
presa di Santino da Riva e di sessanta cavalieri, che sotto il suo
comando s'erano avventurati fin là.

Più tardi, essendo stretto da vicino il Borgo, avea combattuto a
Pertica e risicato di andar prigioniero, insieme col suo capolancia,
con Geronimo Doria, Spinetta del Carretto e il cavaliere Scalabrino.
Il colpo era fatto da una imboscata di pochi genovesi, e per fermo
riusciva, se le donne del Finaro, correndo a furia sul luogo e tolte
in iscambio d'un drappello a rinforzo, non avessero tratto i mal
capitati cavalieri dalle ugne dei nemici. Anche le donne combattevano,
od altrimenti uscivano fuori per dare una mano ai mariti. Madonna
Bannina, la vecchia marchesana, in quella che pietosamente si recava a
soccorrere i caduti, era stata colta da un verrettone sopra il
ginocchio; la qual ferita, perchè non potuta rammarginare, fu cagione
più tardi che la nobil donna morisse.

Queste prove di fortezza non erano soverchie. Il Finaro reggeva a
stento e pativa difetto d'ogni cosa. Ancora una speranza restava; ed
era che i francesi, per quel tempo signori del Piemonte, venissero da
senno in aiuto al marchese. Del balivo di Trasnay, che non si era
fatto avanti, ho già raccontato a suo luogo.

Aggiungerò che, andato a Cherasco il magnifico marchese Spinetta del
Carretto ed esposta la domanda del cugino all'illustrissimo signor
duca d'Orleans, n'ebbe licenza di pigliarsi Bonifazio Castagnola,
eccellente capitano ai servigi di Francia, il quale oziava allora in
aspetto, con gran numero di cavalli, a San Michele di Ceva.

L'aiuto era grande, e, col rinforzo di parecchie compagnie di fanti
levate da Millesimo e da altre castella del parentado, poteva riuscir
pari al bisogno, Senonchè, il punto difficile era quello di penetrare
nel marchesato, rompendo la cerchia fortificata dell'esercito
assediante. Il Castagnola sperò di venirne a capo, facendo massa su
Carcare; la qual cosa avrebbe persuaso ai nemici, che certamente
stavano alle vedette, di andargli a contendere il passo per la via di
San Giacomo, mentre egli con una marcia sforzata si sarebbe gittato a
ponente, sulla via di Melogno. E così fece, e l'impresa fino ad un
certo segno potè dirsi riuscita a bene; ma giunto alla torre di
Melogno e veduto come fosse guardato quel passo, gli venne manco
l'ardire. Che più? Inoltratosi per malagevoli sentieri a specolar
quelle vette, lo vide formicolar di nemici; la croce rossa in campo
bianco sventolava da per tutto. Che sarebbe egli andato a fare nel
Borgo, se non vinceva prima una battaglia in aperta campagna? E questa
battaglia, come poteva argomentarsi di vincerla, in mezzo a quella
selva di bastite, e in quelle gole tutte comandate da greppi, donde i
sassi eran difesa bastante contro un esercito anche due volte più
numeroso del suo?

Così lenteggiava il valentuomo, forse meditando in cuor suo di seguir
le pedate del balivo di Trasnay. Ma gli uomini di Millesimo, ligii al
marchese Galeotto, volevano fare ad ogni costo qualcosa, tentare
almeno d'introdur vettovaglie nella terra assediata. Perciò, caricate
dugento bestie da soma, si gittarono una notte alla ventura per certi
tragetti, e la fortuna arrise all'ardire. Del resto il capitano
Bonifazio aveva appoggiata la salmeria con una forte dimostrazione
delle sue schiere, la quale valse a sviare l'attenzione del nemico,
mentre il convoglio, protetto da un pugno di animosi cavalieri,
giungeva a riparo sotto le mura del Borgo.

Qualche tempo addietro, il Borgo era stato miracolosamente
vettovagliato dalla parte del mare. Onorato Lascari, conte di
Ventimiglia e di Tenda, desideroso di venire in aiuto al suocero
Galeotto, avea comperato una gran quantità di frumento in Arles, e da
Marsiglia su tre galere la condusse al Finaro. Lo sbarco era avvenuto
felicemente il 24 giugno; donde al popolo parve di dover arguire una
grazia particolare di san Giovanni Battista. I genovesi, per contro,
che ci avevano nel loro Duomo le ceneri del santo e non potevano
fargli il torto di credere che egli potesse sconoscere a quel modo gli
obblighi dell'ospitalità, attribuirono la fortuna dei loro nemici ad
un gagliardo vento di libeccio che non avea consentito alla _Grimalda_
e alla _Scarabina_ (due loro galee mandate ad impedire lo sbarco) di
svoltare in tempo il capo di Noli. Chi avesse ragione non so; lascio
la quistione in sospeso e tiro di lungo.

Seguirono per tutto l'autunno fazioni di poco rilievo; quella, tra
l'altre, di Bonifazio Castagnola, che pigliò Calizzano e fe' dire alla
gente che, non potendo il cavallo, s'era dato a picchiare la sella.
L'esercito genovese, scemato di alcune compagnie mercenarie, s'era
accresciuto di certe altre ed avea preso in condotta Gaspare di Monte
Brianzo e il famoso Pietro Torello, capitano lombardo, con cento e
cinquanta cavalli. Intanto si ciarlava di pace, ma così, fiaccamente,
senza scaldarcisi il sangue. I genovesi dovevano restituir
Castelfranco e mandar libero senza riscatto il marchese Giovanni,
cogli altri prigionieri fatti a Giustenice. Quanto al marchese
Galeotto, egli non ci aveva a rimettere un bruscolo.

Questo almeno credeva, e non era de' suoi errori il più grave;
dovendosi avere per tale la speranza in lui nata e cresciuta che
simili pratiche fossero fatte da senno. Ma egli s'era fondato sulla
morte di Giano Fregoso, avvenuta in dicembre, dopo una malattia di tre
mesi, e sulla elezione a doge del fratello di lui Ludovico,
generalmente creduto meno avverso ai Carretti. Ora di che tempra fosse
Ludovico Fregoso e che potesse Galeotto aspettarsene, sarà manifesto
tra breve.

Torno intanto al Maso, che questi discorsi m'han fatto lasciare in
compagnia di messer Antonello da Montefalco, mentre avrei dovuto già
raccontare com'egli cambiasse di bel nuovo padrone, e questa volta
senza molto suo gusto.

Ciò avvenne una mattina sullo scorcio di dicembre. Alcuni drappelli di
finarini erano usciti dalla porta di San Biagio a foraggiare nella
campagna di Pertica; dappoichè, non solamente difettavano le
vettovaglie pei combattenti, ma eziandio la paglia e lo strame per
quella moltitudine di cavalli che il marchese Galeotto aveva radunati
nel Borgo.

Messere Antonello da Montefalco guidava egli stesso quella importante
fazione. Epperò non ci mancava la persona del Maso, che si vedeva
marciare di costa al cavallo del capitano, colla sua balestra manesca
in ispalla.

Al Fregoso queste continue sortite degli assediati davano una molestia
incredibile e direi quasi superiore alla loro importanza. In fondo in
fondo, non recavano molto sollievo alla terra, che troppo aveva
serrati addosso i nemici; senonchè, per questa medesima angustia del
teatro della guerra, mettevano ogni volta a risico una parte
dell'esercito assediante, che era su tutti i punti costretto ad una
ugual vigilanza, e doveva, nella persona del suo comandante, viver
sempre in sospetto.

Per quella volta Antonello da Montefalco trovò il nemico, non pur
preparato a riceverlo, ma così forte da ributtarlo al primo scontro. E
peggio fu, quando dal colle dell'Argentara messer Pietro Fregoso mandò
una grossa mano di fanti, che pigliassero in mezzo la cavalcata
nemica. Rotte le ordinanze, gli uomini del Montefalco non pensarono
più ad altro che a mettersi in salvo; e tale era la confusione, che
finarini e genovesi per lungo tratto mescolati si spingevano sotto le
mura, mettendo i custodi della porta nel bivio più doloroso a cui si
trovassero mai soldati dabbene, o di alzare il ponte e chiuder fuori
gli amici, o di tenerlo calato e per salvar cinquecento perdere i
quattromila, e con essi dar la città in balìa dei nemici.

Fortunatamente sopraggiunse il marchese Galeotto, che, vista la mala
prova del Montefalco, fu pronto ad uscire, con quanta gente potè avere
alle mani, in sostegno del suo capitano. Per tal modo, rattenuta la
furia del nemico, i cavalieri ebbero agio a raccapezzarsi nel
parapiglia, a riunirsi e mettersi in salvo. Non così i fanti che
andavano con esso loro, i quali nella improvvisa ritirata erano
rimasti più indietro, facilmente avviluppati e travolti nella mischia.

Il Maso, tra gli altri, perduto di vista il capitano, era stato
pigliato in mezzo da un manipolo di nemici. Ben s'era adoperato colle
mani e co' piedi; uno avea morto e un altro ferito; ma sopraffatto dal
numero, non aveva potuto far altro. E si divincolava in quelle
strette, si scontorceva e smaniava, ma invano; due maledetti diavoli
lo avevano abbrancato, e non c'era verso, bisognava andare con essi.


--Che! non si scappa!--gli gridava un di costoro, che lo aveva
agguantato pel collo e gli faceva sentire il ginocchio nelle reni.--Tu
se' capitato nelle granfie del Tanaglino e puoi metter l'animo in
pace. A te, Vernazza; due giri di corda e legami questo ribaldo.--

Il soldato, che rispondeva al nome di Vernazza, si cavò di sotto il
farsetto la corda di ricambio della balestra e l'avvolse prontamente,
senza tanti riguardi, intorno ai polsi del Maso, che si trovò per tal
guisa ammanettato come un ladro in mezzo ai sergenti della giustizia.

--E adesso, vira di bordo!--gli gridò il Tanaglino, accompagnando
l'ordine con un colpo d'aiuto, che al Maso fece tornare in memoria le
carezze di mastro Bernardo.

Obbedì, e, come volle il Tanaglino, prese la strada dell'Argentara, a
passo giusto da prima, indi man mano più frettoloso, perchè i
balestrieri lo spingeano da tergo, incalzati com'erano d'improvviso
dalle schiere di riscossa condotte innanzi dal marchese Galeotto.

Ad una svolta del sentiero e già in vista dello steccato di Pertica
(che colaggiù erano calati i genovesi a piantar battifolle) comparve
messer Pietro Fregoso a cavallo, e comandò ai capitani delle compagnie
di far ritirare in fretta la gente, lasciando libera e sgombra la via
al nemico.

Obbedirono tutti, e, menando seco i prigioni che avevano fatti, si
gittarono pe' campi.

Il Maso colse il destro di quella conversione, per dare una sbirciata
dietro di sè. Il cuore gli fece un sobbalzo di contentezza, poichè non
molto lunge ondeggiava l'insegna del marchese Galeotto, e al grido di
«San Giorgio e Carretto» i suoi compagni d'arme muovevano spediti
all'assalto.

Ma ohimè, la gioia del Maso non durò che un istante. Dalla parte dello
steccato si vide un lampo, anzi una corona di lampi; si udì un rombo,
un tuono, uno schianto, che a lui smemorato fece traballare la terra
sotto i piedi; e in meno che non si dice fischiò nell'aria una rovina
di sassi, battè, saltellò, ruzzolò per la strada, mettendo lo
scompiglio nelle prime schiere che si facevano innanzi.

Quasi sarebbe inutile il dire che questo fuoco d'inferno arrestò il
corso dei nemici. Molti caddero, l'uno sull'altro, a rinfusa, urlando
o gemendo, bestemmiando o pregando, conforme portavano gli umori;
altri non ebbero il tempo di raccomandar l'anima a Dio che quella
grandine li colse e li sfracellò senza misericordia. Tosto, dai due
lati della strada, i balestrieri genovesi a spianar gli archi e
scoccar frecce in quella calca disordinata; nè mancarono i balestroni
e le briccole, per lanciare dallo steccato sugli assalitori una
minutaglia di pietre e verrettoni, così riempiendo gl'intervalli un
po' lunghi, che allora portava la difficoltà della carica, nel tiro
delle armi da fuoco.

Poco stante, il Maso, che oramai disperava di tornar salvo tra' suoi,
entrava, col Tanaglino ai fianchi, nello steccato nemico. Colà gli fu
dato veder da vicino que' brutti ordigni, donde tanta maledizione era
uscita pur dianzi. Un uomo era là, dietro i pezzi, che agli atti e al
contegno pareva il capo di quei ministri del fuoco. Alto di statura,
di membra poderose, nero in volto per lo imbratto del sudore e della
polvere, parea Satanasso in persona; e per tale lo avrebbe pigliato il
Maso, a ciò aiutando il mal animo con cui si sogliono guardare i
nemici, se in lui non avesse ravvisato un vecchio conoscente, e
proprio uno di que' due forastieri, che egli aveva serviti tredici
mesi addietro all'osteria di mastro Bernardo.

Si fermò allora, pensando tra sè come avrebbe potuto fare per dar
negli occhi a quell'uomo. Intanto il Tanaglino, che non aveva le
stesse ragioni per trattenersi, gli diede una spinta nelle reni.

Il Maso fu pronto a cogliere quella dolorosa occasione. Tanto è vero
che tutto il male non vien per nuocere.

--Oh insomma!--gridò egli, voltandosi, tra piagnoloso e stizzito.--Che
è ciò? Son forse un cane, da pigliarmi a pedate? Non voglio andare più
oltre; voglio parlare a quell'uomo delle bombarde.

--Quell'uomo!--sclamò il Tanaglino, mentre raddoppiava la
dose,--Messer Anselmo Campora, il capo dei bombardieri della
repubblica, tu lo chiami quell'uomo?

--Sicuro!--rispose il prigioniero, cansandosi.--Lo chiamavo
quell'uomo; ma ora che tu m'hai detto il suo nome, lo chiamerò come
va.--

E alzata la voce, mentre, inseguito dal Tanaglino, correva alla volta
delle artiglierie, si messe a gridare con quanto fiato ci aveva in
corpo:

--Messere Anselmo! ohè; messere Anselmo, di grazia!--

Il Picchiasodo volse la faccia da quel lato, non senza un tal po' di
malumore, perchè appunto allora stava mettendo una zeppa di legno
sotto la tromba della signora Ninetta, per alzarne un tratto la mira.


--Che c'è? chi mi chiama?--gridò egli con piglio impaziente.

--Son io, messere Anselmo; non mi conoscete?

--Io! persona, prima;--borbottò il Picchiasodo;--e che altro sei tu?

--Il Maso, messere; non mi abbandonate. Sono il ragazzo dell'Altino.

--Ah!--disse il vecchio soldato, inarcando le ciglia.--Diffatti, la
riconosco, quella tua faccia di capocchio. Vien qua, buona lana, e non
avertelo a male. Finisco di dire una parolina a' tuoi concittadini e
sono da te.--

Così dicendo, il buon Picchiasodo curvò amorosamente la testa
sull'òmero della sua dama, fece l'occhiolino nei due traguardi che le
ornavano il capo, e parve contento del fatto suo. Quindi, pigliato
dalle mani d'un servente l'uncino, ne accostò la punta arroventata al
focone. Un lampo incoronò la bocca della signora Ninetta in mezzo ad
una nuvola di fumo, e con fragore di tuono, partì fischiando una
bigoncia di sassi.

A mala pena ebbe dato fuoco alla bombarda, il Picchiasodo levò la
fronte e tese l'occhio verso la strada.

--Di punto in bianco!--gridarono poco stante i serventi, che stavano
alle vedette, quali inerpicati sulle traverse della stecconata, quali
in bilico sui carretti delle artiglierie.--Vedi che squarcio! E come
son ruzzolati! Ne hanno abbastanza, di treggèa; scantonano alla lesta,
come gatti scottati dall'acqua calda.

--Lo credo, io; s'è fatto miracoli;--disse il Picchiasodo ridendo.--La
signora Ninetta è una donnina di garbo, e adesso bisognerà darle una
secchiata d'acqua, per la sete. A proposito d'acqua, chi diavolo mi
parlava dell'Altino?

--Son io, messere Anselmo;--si affrettò a rispondere il Maso;--sono
io, il ragazzo dell'osteria.

--Ah sì, ora mi ricordo;--ripigliò il Campora;--«fermatevi all'Altino,
c'è buona l'accoglienza e meglio il vino». E dimmi, per caso, non ne
avresti portato un fiasco di quel buono? E' sarebbe proprio la man di
Dio.

--Gli è tutto andato, messere;--disse il Maso con aria contrita.--Ci
avete conciati davvero per le feste.

--Necessità di guerra; che farci, ragazzo mio? Non dovevate pigliarla
a dire con noi;--sentenziò il Picchiasodo, stringendo le spalle.--Ma
via, questi non sono discorsi da fare con te. Come sei qua? Ah,
perdinci, non ci avevo badato prima; tu se' legato come un cane.

--Necessità di guerra;--disse di rimando il Maso;--e in verità, son
capitato in certe mani....

--Capisco;--interruppe il buon capo dei bombardieri;--e tu ameresti
ora cambiar di padrone. Andate, voi altri;--soggiunse poscia,
voltandosi ai due balestrieri che accompagnavano il Maso;--questo
prigioniero rimane con me.--

Il Maso diede una rifiatata di contentezza. Ma quei due non si
muovevano ancora.

--Messere,--entrò a dire il Tanaglino,--la corda di balestra con cui è
legato, mi appartiene.

--E tu levala!

--Levala!--ripetè il Maso, mettendo i polsi sotto il naso del suo
aguzzino.

Indi, mentre il Tanaglino, tutto raumiliato, lavorava a slegarlo,
soggiunse:

--Che te ne pare? Son io ancora quel villano ribaldo di poco fa?

--Sarete un pezzo grosso,--borbottò il balestriere stizzito,--e a noi
due spetterebbe la taglia.

--Eccoti la taglia, furfante!--esclamò il Picchiasodo, appoggiandogli
una pedata.

--Ne valgo cento, di queste;--aggiunse il Maso, gongolando dalla
gioia;--fàtti dare il tuo giusto.--

Il Tanaglino, come i lettori avranno di leggieri argomentato, n'ebbe
abbastanza di una e non aspettò le novantanove che il Maso gli
consigliava di prendere.

--E così, ragazzo mio,--disse il Campora, come furono soli,--eccoti
fuori dal servizio di mastro Bernardo....

--E di messere Antonello da Montefalco, ai servigi del quale sono
accomodato come paggio.

--Di quel traditore, che in principio della guerra era con noi? Grama
casacca, quella che dentro l'anno si volta! Buon per te che non lo
servirai più. Vuoi restare con me?

--Messere,--rispose maliziosamente il Maso,--questo sarebbe un voltar
casacca ancor io.

--Oh, non dico già come paggio; sei prigioniero, e resti al mio
servizio fino al compimento di questa impresa maledetta. È il meno
ch'io possa fare per te. Avevo fame e tu m'hai portato un pollo; avevo
sete e non m'hai fatto aspettare un fiasco di vino. Ora dimmi, hai
fame tu? hai sete?

--Eh, non fo per dire.... Stamane siam venuti ad assalirvi prima di
far colazione.

--È una pittima cordiale, il vostro marchese! Far combattere i suoi
soldati a ventre digiuno!

--Gli è un buon massaio e tira allo sparagno;--rispose il Maso, che
volea dire e non dire.--Sapete, messere Anselmo? Lo sparagno è il
primo guadagno.

--Capisco, sì, capisco che siete agli sgoccioli.

--Oh questo poi! Messere Antonello, mio padrone, dice che il Borgo,
senz'altri aiuti di vettovaglie, può tener fermo ancora sei mesi.

--Sì, sì, dagli retta! Noi ci abbiamo intorno a ciò ben altri
ragguagli. Ma basti; tu hai fame e sete, tu; ed io, vedi, quantunque
da noi si abbia avuto cura di asciolvere, la fame l'ho ancora sui
denti e la sete l'ho sempre. Gli è un vizio che m'hanno lasciato i
vaiuoli.--

Con queste celie amichevoli, Anselmo Campora si era mosso di là, per
andare verso l'alloggiamento. Quella mattina la sua orchestra aveva
fatto buona prova e messer Pietro Fregoso doveva esser contento di
lui; frattanto il buon Picchiasodo se ne rallegrava da sè. La qual
cosa era naturalissima, ed io la raccomando, sull'esempio di lui, a
tutti i lettori; imperocchè l'esser contenti di noi medesimi è già un
buon punto per aspettare che gli altri lo siano del pari, o per
passarcene bravamente, se gli altri ci stanno sul tirato, come il più
delle volte interviene.

Aggiungete che l'allegria fa buon sangue e ci aiuta a veder tutto
bene, quello che è stato fatto dalla provvidenza, o dal caso. Però
argomentate come al Picchiasodo godesse l'animo di aver tra' piedi il
Maso e di fargli servizio. La vista di quel poveraccio gli ricordava
l'Altino, il teatro di una tra le sue più allegre bevute. Se gli fosse
capitato anche mastro Bernardo, che festa! di certo lo avrebbe
abbracciato.

L'alloggiamento del Picchiasodo, distante una balestrata dal fosso,
era, come si può argomentar di leggieri, una baracca e niente di più,
cioè a dire una capanna fatta con assi e coperta di frasche, breve
fatica de' suoi bombardieri, a mala pena erano calati a piantare le
artiglierie nella bastita di Pertica.

Non c'era che una camera, ma questa abbastanza capace. Il letto (se
letto può dirsi una cuccia di strame con suvvi una coperta di lana) si
vedeva in un angolo, e un lungo spadone appiccato alla parete vi
raffigurava indegnamente l'olivo pasquale. Tutto intorno fiaschi e
stoviglie, una rozza panca ed una rozza tavola, dinotavano che Anselmo
Campora non si raccoglieva in quel suo romitaggio per recitar
paternostri.

Giunti appena colà, il Maso ebbe le nari soavemente vellicate da un
odor di stufato, che dovea rosolarsi a lento fuoco in una cucina
posticcia, dietro la baracca del suo ospite. Nè meno grato gli giunse
un altro odore di basilico, aglio, maggiorana e cacio pestati insieme;
stillato, elettuario, nettare, ambrosia e tutto quel meglio che
vorrete, donde ogni naso ligustico fiuta le dolci impromesse di una
minestra maritata. E non mi faccian niffolo le signore lettrici, se
per avventura questo racconto ne ha; imperocchè tutto è buono, anche
una minestra maritata, e sto per dire anche per la bocca più
leggiadra, purchè capiti a tempo.

--Che te ne pare, eh?--dimandò il Picchiasodo, notando l'aria di
beatitudine che si diffondeva sulla faccia del Maso.--Non ti poteva
per avventura andar peggio?

--Ah, non me ne fate ricordare!--esclamò il Maso, pensando al
Tanaglino.--Questa è grazia di Dio, cucinata dal generalissimo dei
cuochi.

--La nostra gloriosa repubblica ha di cotali valentuomini al suo
servizio,--soggiunse gravemente Anselmo Campora, mettendosi a
tavola.--Siedi, amicone. Domani sarai l'aiutante del mio cuoco; oggi
sei il mio commensale. Lo hai meritato. Chi fa bene, abbia bene in
questa vita e nell'altra. Tu m'hai portato il migliore della tua
osteria, e Anselmo Campora non lo ha dimenticato. Bada a me, ragazzo;
porta sempre del vino buono al nemico; verrà giorno che egli potrà
ricambiartene. Assaggiami questo; è di Calice. Quest'anno lo abbiamo
svinato noi altri.

--Pur troppo!--disse il Maso tra sè.

E mandò dalla tavola del nemico un pensiero alla patria.



CAPITOLO XII.

Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre satollo.


Il Maso ha mangiato, anzi no, dico male, ha scuffiato, macinato a due
palmenti, il palmento della fame e quello della gioventù. Adesso sfa
facendo la sua meriggiata all'aperto, al riparo del sole, colla
schiena contro l'assito della baracca, mentre il paggio del suo
anfitrione sta rigovernando i tondini e le scodelle imbrattate.
Anch'egli si piglierà quella briga, ma cominciando dal giorno
vegnente; per ora sta a vedere e fa conto di schiacciare un
sonnellino, in onore dell'ospitalità ricevuta.

Anche il Picchiasodo si era posto a giacere nella sua cuccia di
strame, e già aveva legato l'asino a buona caviglia, allorquando
vennero ad annunziargli un prigioniero che aveva chiesto di parlargli
a quattr'occhi.

Il Maso, senza volerlo, aveva l'orecchio di contro al sottile
tramezzo. «Un prigioniero! a quattr'occhi!» Ragione per lui di aprirne
due; e magari ci avesse avuto i cento del mitologico guardiano di
Danae, che tanto li avrebbe messi tutti in opera, anco senza sapere il
cattivo servizio che rese ad Argo il non averne adoperati che
cinquanta nella sua famosa nottata.

Poco stante, il prigioniero entrò nella baracca di Anselmo Campora e i
due balestrieri che lo avevano scortato si ritrassero fuori. Il
paggio, intento a strofinare le sue stoviglie, dava le spalle al Maso;
e il nostro curioso ne profittò per dare una sbirciata tra le
commessure delle assi. Indi ripigliò la sua prima postura, ricacciando
in corpo un grido di meraviglia, che era ad un pelo di uscirgli. Aveva
in quell'attimo riconosciuto il Sangonetto; Maso avea visto Tommaso.

Non meno meravigliato di lui, il Picchiasodo inarcò le ciglia alla
vista del prigioniero che gli domandava un colloquio.

--Ah, ah!--diss'egli, facendo bocca da ridere.--Il messere
dell'archibugio?

--Ma sì, ma sì!--balbettò il Sangonetto, arrossendo.--Ve ne ricordate
ancora? Ho piacere che sia così, per pigliar animo a dirvi un mondo di
cose. Del resto,--soggiunse con un certo sussiego,--la mia presenza
qui vi dirà che non ero soltanto un cacciatore da passeri.

--Eh via!--sbuffò il Picchiasodo, rincalzando la frase con una alzata
di spalle.--Sareste per caso venuto a chiedere che io mi ripigli ciò
che vi ho detto? Amerei meglio farvi dire dell'altro da quella bella
milanese, che non avete voluto saggiare, nè dalla punta nè dal manico,
all'osteria dell'Altino.--

Così dicendo, Anselmo Campora accennava il suo spadone, che pendeva
dalla parete al posto della libbia pasquale. Ma il Sangonetto fece un
gesto contrito, come per dirgli che non aveva bisogno di tanto; la
qual cosa fece spianar le ciglia al suo ospite iracondo.

--Ah, meglio così!--soggiunse questi rabbonito,--Dicevamo dunque...
cioè, no, ero per dirvi che sono molto contento di vedervi in buona
salute. Me lo dice il vostro naso, che è sempre di un amabil colore. A
voi certo piace il vin buono. Ma sedete, perdinci; quella è la panca;
e adesso si metterà il becco in molle, perchè un mondo di cose, come
ci avete da dirmene, si sa, non lo si snocciola così su due piedi e a
labbro asciutto, come una mezza serqua di paternostri.--

E intanto che andava alla parete per un fiasco, Anselmo Campora
borbottava tra sè:

--To', to'! Quest'oggi mi capita qua mezza osteria dell'Altino. Che
vuol dir ciò?--

Il Sangonetto accettò il bicchiere che gli veniva profferto, e dopo
averne bevuto un sorso per cortesia, due altri per farsi coraggio,
così prese a incignare l'argomento:

--Giorni or sono avete ricevuto una lettera?...--

Il Picchiasodo, che stava allora per bere a sua volta, si trattenne,
col bicchiere a mezza strada, e guardò il suo ospite con aria che
voleva dirgli: tirate innanzi, risponderò poi.

--E nell'estate scorsa--proseguì il Sangonetto,--il vostro capitano
generale non ne ha ricavato un'altra, con utili notizie e consigli,
che ha incontanente seguiti?

--Ah, ah!--sclamò il Picchiasodo.--Eravate voi? Già, ci si vedeva la
mano di un chierico!--

Chierico dicevasi anticamente per uomo dotto, come laico per uomo
ignorante. E i lettori rammentano di certo che all'osteria dell'Altino
il Picchiasodo avea dato del chierico a Tommaso Sangonetto,
aggiungendo ch'egli doveva averci nelle vene inchiostro per sangue.

--Ero io quella volta e quest'altra;--rispose il Sangonetto:--e come
allora parve buono il consiglio, così ora... mi sembra...

--Eh, non dico di no. Sarebbe un bel colpo e il tentarlo piacerebbe a
più d'uno. Ma chi mi assicura che non fosse un tranello?

--Ma... la parola di Santino da Riva, vostro capitano e prigioniero
dei nostri...

--La parola, avete detto bene. Infatti, Santino da Riva è un buon
laico e lascia scriver chi sa. Capisco quello che mi potreste
rispondere. Se la prima lettera diede un buon consiglio...

--Ecco!--interruppe il Sangonetto, con aria di trionfo.

--Essa,--prosegui inflessibile il Picchiasodo,--non ci persuadeva già
un colpo temerario, ma un atto di accorgimento sopraffino, che a
messer Pietro Fregoso era venuto in testa più volte. Qui invece si
trattava di una mezza pazzia... che è poi quasi inutile, al punto in
cui sono le cose. Santino da Riva è un buon soldato, ma non ha il
diavolo in testa e nemmanco nell'ampolla; poteva dunque aver dato
nella pania.

--Ma adesso...--entrò a dire il Sangonetto.

--Sì, adesso lo so, che il consiglio viene da voi. Ma voi, chi siete?
che malleveria mi date? E prima di tutto, qual fine è il vostro? che
tornaconto ci avete a farci servizio?

--Grandissimo;--rispose il Sangonetto, con aria
maestosa.--Congiuriamo, al Finaro; Genova è republica; vogliamo
appartenere a Genova, perchè vogliamo la libertà.

--Bravi! mi piacete;--replicò il Picchiasodo.--La libertà è un'ottima
cosa, e Genova ve la darà; Ne ha da vendere; figuratevi, l'ha messa
per insegna fin sulle porte delle prigioni, con due grifoni per
custodirla. Ma bevete, compar Sangonetto; buon vino, favola lunga,
dice il proverbio. Voi dunque, congiurate; e in quanti?

--Oh, in parecchi; e il popolo, stanco di questa guerra che non lo
risguarda, di queste privazioni e di questi pericoli che non
serviranno ad altro fuorchè a ribadirgli le catene ai polsi, è quasi
tutto dalla nostra.

--Dalla vostra! di chi?

--Di me, vi ho detto; di Antonio Sturlino, vi posso aggiungere, che ha
molta autorità in paese e che l'altro giorno dopo aver preso a dirla
col marchese, è stato, per ira di popolo, liberato dalle mani dei
birri che lo menavano in carcere; di Bernardo Marchelli e di Giorgio
Battaglia, caporali di schiera; di Antonio Giudice e di Nicolò Valle,
uomini di legge; di Vincenzo Campi e di Nicolò Cavazzola, cittadini
che sono tra i più ricchi e i più ragguardevoli della terra; di
Giacomo Pico finalmente....

--Ah, ah! Pico, l'avversario di messer Pietro Fregoso all'osteria
dell'Altino?

--Lui, sicuro. Se ci son io mi pare....

--Ah, voi, si capisce; voi siete un personaggio delle storie antiche e
congiurate per la libertà. Ma lui, il braccio destro del marchese, a
quanto dicono, lui, che in queste fazioni ha sempre combattuto come un
eroe....

--Sì, questo è nell'indole sua, ma Giacomo Pico non fa oramai maggior
conto dei Carretti, pigliati a mazzo, con tutta la loro protezione, di
quello che voi ne facciate, sia detto con vostra licenza, messere
Anselmo riverito, d'un fondigliuolo di fiasco.

--Eh via, che ne sapete voi?--disse il Picchiasodo, ridendo del
paragone.--Se il vino non fa posatura, anche la fondata è buona da
bere. Vedete questo vino di Calice, come è chiaro e sfavillante,
sebbene già il piede vi faccia imbuto per entro.

--Sicuro,--replicò il Sangonetto,--ma supponete che nel calice dei
marchesi, nostri padroni, ci sia della feccia, e che Giacomo Pico sia
giunto a questo bivio, di gittare, o di bere.

--Spiegatevi meglio; ci vedo buio pesto, finora.

--Ecco! Rammenterete, io non dubito, la cagione dell'alterco di
Giacomo col vostro magnifico messer Pietro Fregoso.

--Sì; cioè, ricordo che non ce n'era, e che il vostro amico lo aveva
tolto in iscambio.

--Rivalità d'amore;--soggiunse Tommaso.--Il mio povero amico avea
perso la tramontana per madonna Nicolosina del Carretto.

--Sta bene; questo è il gran punto. Tirate innanzi.

--Madonna Nicolosina non voleva saperne di Giacomo Pico.

--Davvero? Eh, infatti,--soggiunse Anselmo Campora,--sappiamo che la
ci ha poi sposato il suo conte di Cascherano, Ma ciò non toglie....
che anzi!

--Eh, l'ho detto ancor io, da principio, quando non sapevo niente dei
loro segreti e pensavo che le malinconie di Giacomo gli venissero
tutte dal padre. Ma egli sembra che non fosse proprio così. Madonna
Nicolosina amava il Cascherano, o, per dire più veramente, non amava
il Bardineto, ed egli era disperato per due versi; pel padre, che non
gli avrebbe dato la figliuola; per la figliuola, che ci aveva in testa
più superbia del padre. Ora, voi m'intendete, messere Anselmo; un
grande amore può cangiarsi spesso nell'odio più acerbo.

--Capisco;--disse il Picchiasodo con gravità.--Del vino dolce si fa
l'aceto forte.

--Ci siete,--incalzò il Sangonetto,--ed ora capirete eziandio che sa
Giacomo Pico ricusa di bere la feccia del calice, ci ha le sue grandi
ragioni.

--Questo Pico,--notò il capo dei bombardieri col piglio di chi vede
molto lontano,--è un acquisto prezioso, per gli amici della libertà.
Ma che diavol c'è egli? soggiunse, con accento mutato e balzando dalla
panca.--Qualche topo mi rosica la parete; forse per giungere al cacio.
Ma gliene caverò io il ruzzo, perdinci!--

Non c'erano topi, il lettore lo ha già indovinato; e il Picchiasodo,
dal canto suo, parlava in metafora.

Il Maso, tutto orecchi da un'ora ad ascoltare quell'importantissimo
dialogo, nello stupore onde lo avevano compreso certe inaspettate
rivelazioni, non era stato saldo abbastanza. Si aggiunga che il paggio
di Anselmo Campora non era più là, testimone del suo sonno simulato,
avendo dovuto allontanarsi un tratto per certe faccende del suo
ministero. Così, pensando di esser più libero e non ricordando che la
parete era un semplice tramezzo di assi, il Maso aveva provato a
rivoltarsi sulle reni, per accostar meglio l'orecchio; e il rumore lo
aveva tradito.

Si pentì dell'atto, come in fin di vita non si sarebbe pentito de'
suoi peccati; ma il pentimento non gli serviva un frullo, poichè
Anselmo Campora s'era alzato da sedere ed accennava di voler uscire
dalla baracca. Ora il Maso fu pronto ad intendere che se il
Picchiasodo lo coglieva là dietro, anche in atteggiamento di chi
dorme, egli era un uomo spacciato. E intender ciò e pensare al
rimedio, fu un punto solo. Di colta fu in piedi, come se dentro ci
avesse avuto una molla; spiccò un salto da banda, indi un altro, a
guisa di scoiattolo, e trovato per sua ventura un carro di bagaglie,
si accoccolò dietro a questo, prima che il Picchiasodo fosse giunto
sul luogo d'onde gli era parso di sentire lo strepito.

Così fu salvo il mariuolo. Anselmo Campora venne dietro la capanna,
con quel suo cipiglio che non prometteva niente di buono; guardò tutto
in giro e non vide nessuno; svoltò la cantonata e si ricondusse
dall'altra parte fino all'ingresso della sua modesta abitazione, senza
vedere il prigioniero, nè il paggio.

--Che dire?--borbottò, stringendosi nelle spalle.--Avrò sognato ad
occhi aperti.

E tornò al suo colloquio col Sangonetto, che gli dovea premer di
molto, come il savio lettore argomenta.

Frattanto, il Maso ci avea avuto una gran battisoffia, che
l'allontanarsi del Picchiasodo non valse a chetargli d'un tratto. Però
stette lungamente nel suo nascondiglio; ci stette per ricogliere il
fiato ed anche un pochino per richiamare i pensieri a capitolo.

Non c'era da scherzare; egli, il Maso, umilissimo soldato, pur dianzi
ragazzo d'osteria, ci aveva in corpo un segreto da cui dipendeva la
sorte della sua terra. E non importa il dire che si trattava piuttosto
del marchese del Carretto e della sua discendenza; coteste distinzioni
il Maso non la conosceva, e se le avesse conosciute, di certo le
avrebbe lasciate ai curiali dei suo tempo, e ai politiconi di là da
venire.

Ora, che doveva egli fare? Svignarsela dal campo nemico, per dar
l'avviso nel Borgo? Questo era un punto difficile; ma il nostro
giovinotto non ci vedeva niente d'impossibile. Ci avrebbe pensato, e
al postutto, avrebbe tentato. Ma egli non poteva ancora pensarci; ma
egli non sapeva ancor tutto. Aveva capito che nel Borgo c'era una
fazione avversa ai signori del luogo e al proseguimento della guerra;
aveva capito che il Sangonetto e lo Sturlino, il Marchelli e il
Battaglia, il Giudice e il Valle, il Campi, il Cavazzola e il
Bardineto, congiuravano per dare la terra ai genovesi. Ma ciò non
bastava ancora. In che modo contavano essi di darla? Questo era il
busilli; questo bisognava sapere; e per saper questo bisognava tornare
laggiù contro l'assito della capanna, ad origliare la conversazione
del Sangonetto col Campora.

Come venirne a capo? A tornar là, ci risicava la vita; e questo
sarebbe stato il meno, per un ragazzo animoso com'egli, se, risicando
la vita, non avesse anche risicato di non portare più niente
all'orecchio degli assediati. Ci voleva dunque giudizio ed audacia,
audacia e giudizio, due cose che tra gli uomini, come tra i popoli,
sogliono andare così poco d'accordo.

Il Maso ci si provò. Quello che l'esperienza il più delle volte non
dà, lo aspettava egli dalla fortuna. Era giovine, e la fortuna li ama,
questi benedetti giovani. Suvvia, dunque; il Maso si tolse di dietro
al carro, non senza aver dato una prudente sbirciata per mezzo alle
ruote, e con passo leggiero, ma in apparenza sbadato, colle mani in
tasca e gli occhi in guardia, andò incontro al pericolo.

Mai volpe vecchia s'accostò più guardinga al pollaio insidiato, di
quello che il ragazzo dall'Altino a quella baracca di legno, in cui si
patteggiavano le sorti del suo luogo natale. Egli voleva esser pronto
ad apparire in atto di chi torni da una passeggiata, e per moto di
prudenza istintiva tenea corrugate le labbra e dondolava la testa per
zufolare in cadenza; ma il fiato lo chiudeva per bene tra i denti,
poichè, se gli venia fatto, voleva udire, non essere udito.

Così infatti gli avvenne. Non ho detto che la fortuna ama i giovani?

Anselmo Campora data la sua scorsa nei pressi della capanna, aveva
bandito per allora ogni sospetto e la conversazione proseguiva più
calda che mai.

--Già,--diceva il Sangonetto, quando il Maso riuscì a metter
l'orecchio da un altro lato del tramezzo,--la condizione sarebbe di
ucciderlo. Egli non consentirà a questi patti, se non gli si leva
d'innanzi quel terzo incomodo.

--Ucciderlo!--notò il Maso tra sè,--Diavolo! Chi sarà costui che si
condanna in tal modo, senza fargli il processo?--

Intanto il Picchiasodo rispondeva.

--Ah, quanto a ciò, non lo sperate, Messer Pietro è un gentil
cavaliere e non vi accetterà mai un tal patto.

--Manco male!--ripigliò il Maso, sempre tra sè,--Chiunque sia l'uomo
che si vuol morto, questo messer Pietro Fregoso incomincia a piacermi.


--Non lo accetterà;--proseguiva il Picchiasodo.--Tanto e tanto si
verrà a capo della vostra resistenza, o, per dir meglio, della
resistenza del marchese. Ci ho il mio disegno anch'io e messer Pietro
lo approva. Il vostro è più spicciativo, non nego; ma abbiatelo per
fermo, io conosco il capitano generale come il fondo delle mie tasche;
egli non vi venderà in compenso la vita di nessuno.

--Ma...--si provò a dire il Sangonetto.

--Ma infine, o non siete buoni voi altri, a far le vostre vendette?
Voi pratici dei luoghi; voi più al caso d'ogni altro di cavar profitto
da un'ora di trambusto; noi non ci avremo nulla a vedere. Del resto,
sarà buio, a quell'ora. Ma intendiamoci, non parlate di ciò a messer
Pietro; e' sarebbe capace di non volerne sapere, e allora, addio fave;
piuttosto, si potrebbe domandare un duello, e messer Pietro, che ama
questi combattimenti come un tordo la ginepra, ve lo consentirebbe
senza fallo. Proponete questo; è il partito migliore.

--Lo proporrò;--disse il Sangonetto, chinando il capo in atto di
assenso.

--Andiamo dunque;--soggiunse il Campora,--Messer Pietro sentirà e
risolverà secondo il suo savio consiglio. C'intenderemo, non dubitate;
io l'ho tanto per negozio conchiuso, che piglio per via un mio vecchio
compare, Giovanni di Trezzo, il più arrischiato capitano di tutto
l'esercito, a cui simili imprese vanno a sangue, come ai tordi... Ah
scusate, il paragone l'ho adoperato poc'anzi; dirò invece: come ad
Anselmo Campora il vostro vino di Calice.--

Il Maso non volle saperne altro, e mentre i due si alzavano da sedere,
corse difilato, come già avea fatto una volta, ad appiattarsi dietro
il suo carro.

E là, fingendo di dormir della grossa, il povero Maso s'immerse nelle
più profonde meditazioni intorno al modo di uscire di mano ai nemici e
di avvisare il Borgo del tradimento ordito a suo danno.

Ma questa gretola era più difficile a trovare che non sembrasse a
tutta prima. Osservare la forma dello steccato, le consuetudini delle
scolte, e quelle del Campora, trar profitto delle occasioni, avere un
occhio al cane e l'altro alla macchia; queste erano tutte cose
bellissime, che il Maso si disponeva a fare, ma colle quali non cavò
quel giorno, nè il giorno seguente, un ragno da un buco.

Bene andava egli mattina e sera col paggio del Picchiasodo ad attinger
acqua in un pozzo, che era in una certa forra a tramontana, poco lunge
dello steccato. Ma egli lavorava, e il paggio colla balestra stava a
fargli la guardia, come fa l'aguzzino alla ciurma. Anselmo Campora,
che non lo aveva veduto nella occasione del suo colloquio col
Sangonetto, saputo com'egli fosse andato da solo a pisolare in un
canto, aveva sgridato il paggio, ordinando che d'allora in poi non lo
perdesse più d'occhio. Ospite sì, ma prigioniero, e certi riguardi non
si dovevano smettere. Così fu tenuto alla lunga il falconetto
dell'Altino; ed ebbe un bel beccarsi i geti e dar l'anima al diavolo;
la sua inquietudine non gli fruttò che una vigilanza più stretta.

Il Sangonetto dopo essere andato dal capitano generale, non si era più
visto nella baracca del Campora. Certo era rimasto in custodia della
compagnia che lo aveva fatto prigione. Ma il terzo giorno ci fu gran
novità nel campo, per dare un altro grattacapo al nostro povero Maso.
Una scorribanda di cavalieri menava prigione entro il battifolle
messer Giacomo Pico.

Pallido in volto come un cencio lavato, gli occhi stravolti e i
capegli più rabbuffati del solito, messer Giacomo Pico avea l'aria
d'un uomo a cui grandemente cuocesse di quella umiliazione, assai
comune del resto agli uomini di guerra, la cui sorte è pur troppo di
dare e di ricevere.

--O come è egli possibile che costui sia un traditore?-- dimandò a sè
stesso il Maso, vedendolo a passare, colla fronte china e livida di
vergogna e di rabbia, in mezzo a un drappello di nemici.--Egli mi
sembra un cavallo generoso che morde il freno e sbuffa e si ribella
allo sprone.--

Intanto, si spargeva tra i crocchi la voce che il Bardineto, il
braccio destro del marchese Galeotto, era stato preso, mentre, con un
pugno di arditi cavalieri, tentava di attraversare la cerchia degli
assediati, per riuscire sulla via di San Giacomo. L'imboscata in cui
egli doveva cadere, era comandata da Giovanni di Trezzo.

Questo nome risvegliò i sospetti del Maso.

Giovanni di Trezzo! Ma questi era l'amico del Campora; l'uomo che egli
volea condurre dal Fregoso, due giorni addietro, come capitano
d'audacissime imprese, dopo la conversazione avuta col Sangonetto. E
poi, che volea dire questa sequenza di prigionieri? Prima il
Sangonetto; indi il Pico. Questa di certo non era l'opera del caso,
bensì la conseguenza d'un patto fermato tra loro; che anzi, o non
poteva il capitano generale, prima di pigliare per evangelio le parole
del Sangonetto, aver voluto alla sua presenza il più ragguardevole tra
tutti i congiurati?

Ma come? Il Sangonetto avea dunque potuto da lunge comunicare coi
sozi? mandare un messaggio al Borgo, anzi a castel Gavone, dove
abitava il Bardineto?

E a lui, Maso, non sarebbe riuscito di fare altrettanto? di fuggire
dal campo genovese e portare in tempo un salutare avviso al castello?

Quel pensiero s'impadronì di lui, mentre, con una bigoncia in bilico
sulla cervice, se n'andava per acqua al pozzo, accompagnato dal paggio
aguzzino. Avviandosi per quella forra, che, come ho detto, era poco
lunge dello steccato, il Maso guardava con desiderio infinito le
sovrastanti colline, di cui conosceva, meglio delle capre, ogni
sentieruolo, ogni ciglione, ogni solco. Quante volte non le aveva egli
corse e ricorse da bambino, per cogliervi le viole mammole, o per
tagliarsi un arco ne' pieghevoli rami dei frassini! E adesso, che
brutto divario! Una bigoncia sul capo e una balestra minacciosa alle
spalle.

Fattosi, alla bocca del pozzo, cavò di dentro alla bigoncia una
secchia e cominciò ad attingere, secondo il costume di tutti i dì. Ma
il povero Maso doveva quel giorno esser molto distratto, poichè, alla
terza calata, gli scivolò di mano la corda, e tuffete, secchia e corda
piombarono nell'acqua.

Il Maso, disperato, si messe le mani nei capegli, guardando con occhi
lagrimosi ora nel pozzo, ora in volto al custode.

--Lasagnone!--gridò costui, a mala pena si accorse dal guaio.

--Scusate, Falamonica, non l'ho fatto a posta;-- disse il Maso
umilmente.

--Eh, non ci mancherebbe altro che tu l'avessi fatto a posta!--replicò
il Falamonica, che così avea nome il paggio.--Va là, buono a nulla;
per colpa tua si perderà un'ora di tempo, e le ripassate toccheranno a
me.--

Frattanto si accostava al murello e guardava a sua volta nel pozzo.

--Ah, manco male!--soggiunse.--La secchia non ha bevuto e galleggia.
Ora dimmi, bertuccione; come faresti tu a cavarla dell'acqua?

--To'! disse il Maso.--La bocca del pozzo non è troppo larga; mi calo
dentro, aiutandomi colle mani e coi piedi...

--E dai un tuffo anche tu, babuasso!--interruppe il Falamonica.--Il
guaio non sarebbe dei grossi, per verità; ma tu potresti,
nell'affogare, mandarmi al fondo la secchia. Per fortuna, il mio
diavolo la sa più lunga del tuo. Stammi a vedere ed impara.--

Così dicendo, il Falamonica trasse di tasca la corda di ricambio della
sua balestra; l'annodò con quell'altra, che aveva avuto cura di
spiccare dai due capi del suo strumento di guerra, e v'adattò in fondo
il crocco, che era il gancio del martinello con cui si caricavano le
balestre, e serviva a tender la corda fino a quel punto del fusto, o
teniere, che dir si voglia, dove s'incoccava la freccia.

Il pozzo non era molto profondo, e il Falamonica, così ad occhio,
aveva misurato lo spazio che gli bisognava percorrere con quella
ságola posticcia. Le due corde annodate bastavano, solo che egli si
curvasse un pochino sull'orlo del pozzo, per calare il crocco fin
sotto l'anello della secchia, che si dondolava beatamente sul pelo
dell'acqua.

--Ripesco io?--disse il Maso, offrendosi a quella fatica.

--Sì, per gittarmi anche il crocco nel pozzo! Tirati in là, scimunito,
e tienmi piuttosto la balestra, ella non mi si sciupi nel fango.

--Dite bene, Falamonica; sono uno scimunito;-- borbottò il Maso,
crollando il capo e tirandosi col sommo delle dita un sentore, anzi
una voglia, di baffi.--Sono uno scimunito,--aggiunse poscia in cuor
suo,--se non cavo i piedi di qua.--

Il Falamonica intanto a calar la sua fune. Tutto andò com'egli aveva
immaginato. Il crocco dondolava, faceva le giravolte a due o tre
spanne dalla secchia. Bisognava dunque spenzolarsi sull'orlo del pozzo
e allungare il braccio, perchè il gancio arrivasse; pel resto, non si
trattava che di cogliere il punto buono e infilare il dente
nell'anello insidiato.

Il Maso guardava, e guardando pensava.

--Faccio, o non faccio?--chiese egli perplesso a sè medesimo.

La tentazione c'era; l'occhiata sospettosa in giro l'aveva già data, e
si vedeva solo nella forra, solo col suo aguzzino, il cui capo spariva
dietro le spalle, incurvate sulla bocca del pozzo.

--Animo, a te, lanternone senza moccolo!--disse il Falamonica,
sporgendo un braccio dietro di sè.--Dammi una mano, che son per
toccare.--

Il Maso alzò gli occhi al cielo, donde si fanno venire le cattive
ispirazioni, come le buone.

--Eccomi qua! diss'egli di rimando.

E poste le palme contro le reni al nemico, gli dette un spianta
gagliarda, che lo fe' andare a capo fitto nel pozzo.

--Tocca ora la secchia!--soggiunse.--Io tocco il cavallo.--

E lo toccò daddovero e lo fe' parere l'ippogrifo di Ruggero,
quantunque e' non foss'altro che il modesto cavalluccio di san
Francesco. Avea l'ali alle piante; saliva su per la collina, veloce
come un ramarro, e non c'era pericolo che si voltasse indietro, per
dare uno sguardo allo steccato di Pertica, e un saluto a quella
baracca, nella quale aveva mangiato e bevuto per quattro.

--Gratitudine di ventre satollo!--doveva dire il Picchiasodo, più
tardi.



CAPITOLO XIII.

Del giro che fece un segreto prima di uscire ad utile di qualcheduno.


L'ho detto; il Maso correva, volava come il dio Mercurio portalettere,
o come Iride, messaggiera d'Olimpo. Se egli pare soverchio ardimento
rassomigliarlo agli Dei, fo un passo indietro e lo imbranco tra gli
eroi, rassomigliandolo ad Ettore, quando scappò davanti all'ira di
Achille e prese più volte a tondo la misura di Troia. E se neppur
questo vi torna, lo paragonerò... Ma, Dio buono, che grattacapi mi
piglio? e che bisogno c'è egli di paragonarlo a qualcuno? Scappava, e
basta.

Così dandola a gambe, giunse alle viste dell'erta su cui torreggiava
il castello. Per altro, n'era ancora lontano un bel tratto, e gli
bisognava passare sotto il tiro dello beltresche, e delle bicocche,
guardiole di legno, rizzate su pali, donde le scolte avanzate
velettavano il nemico.

Il suo apparire sull'erta fu prontamente notato, e un verettone,
scagliato da mano maestra venne a fischiargli all'orecchio. Se in quel
punto e' non avesse dovuto cansarsi da un sasso che attraversava il
sentiero e perciò non si fosse tirato da banda, povero Maso! il suo
segreto era morto con lui.

--Canchero!--esclamò egli, fermandosi tosto e guardando la beltresca
più vicina, donde gli era venuto l'avviso.

E siccome la sua esclamazione ionadattica non gli sarebbe servita a
nulla col soldato in vedetta, che probabilmente incoccava un secondo
verrettone, il nostro Maso si affrettò ad alzar le mani e a
raccomandarsi coi gesti, gridando con quanto fiato aveva in
corpo:--San Giorgio e Carretto! Carretto e San Giorgio! Ohè, Finarino,
così ricevi gli amici?--

Il soldato lo udì, e per fermo lo riconobbe eziandio, poichè fu
sollecito a scendere la sua scaletta a piuoli.

Intanto il Maso si avvicinava di buon passo alla beltresca.

--Amici, perdio!--seguitava a gridare.--Sono il paggio di messer
Antonello da Montefalco, scampato or ora dalle ugne dei genovesi.

--Sì, ti ho riconosciuto, buona lana! Vien qua e ringrazia il cielo
che la mia mano non ha più venticinque anni.

--Ah, siete voi, mastro Bernardo? Vedete un po' il tiro che avete
risicato di fare! La m'è passata a una spanna dall'orecchio. Altro che
venticinque anni! Per fortuna io m'ero gittato da una banda; se no,
addio roba mia!

--Ma sì, ma sì, la mano mi serve ancora;--disse mastro Bernardo
ridendo,--Credevo di averti fallato per colpa mia, e tu mi consoli,
adesso. Vien qua, abbraccia il tuo vecchio principale, e raccontami,
come hai potuto cavartela dalle granfie di quei figli di cani?

--Eh, potaste chiamarli cani addirittura, senza tanti rigiri!--notò il
Maso, che voleva sempre dire la sua.--Tanto, non ci sentono, e
l'ultimo di loro, con cui ho avuto a discorrere è troppo occupato a
ber vino celeste.--

Qui il Maso, più brevemente che gli venne fatto, raccontò al suo
vecchio principale il perchè e il percome della sua fuga dal
battifolle di Pertica, cercando di ricordarsi tutte le frasi, chiare
ed oscure, del Sangonetto, nel suo segreto abboccamento col Campora.

Allorquando udì della caduta di Giacomo Pico in balìa de' nemici,
mastro Bernardo, che la vedeva in cotesto come il suo antico ragazzo
d'osteria, perdette proprio il lume degli occhi.

--Ah, l'avrei giurato!--gridò, serrando rabbiosamente le pugna.--Io
l'ho conosciuto da bel principio, quel villano rifatto! Serpicina
riscaldata, per amor di Dio, in seno ai nostri signori! Ed ecco ora
com'ei li rimerita!

--Oh, per questo, non dubitate;--disse il Maso a lui di rimando.--E
potrebbe darsi ancora che il Bardineto avesse fatto male i suoi conti.
Io me ne vo difilato da messere Antonello e gli spiffero ogni cosa.

Mastro Bernardo rimase un tratto sovra pensiero.

--No, no,--rispose egli poscia,--non lo fare! Chi è, dopo tutto,
questo messere Antonello? Un buon capitano, dicono; ma che altre
imprese ha egli fatto finora? Un giorno, te ne ricordi? se non ci
mettevano mano le nostre donne, e' si faceva pigliar prigioniero
insieme col cugino del nostro marchese, col magnifico Spinetta del
Carretto. Quell'uomo non mi quadra, affediddio, non mi quadra! Viene
dall'esercito genovese, ch'egli ha abbandonato per una differenza di
pochi fiorini; e chi ti dice ora?... No, no, ragazzo mio; fidarsi è
bene e non fidarsi è meglio. Già, vedi, se qui tradiscono i finarini,
saranno più saldi i forastieri?

--Ma... e come fareste voi?--disse il Maso perplesso.

--Io? Me ne andrei diritto diritto a parlare col marchese. Capisco, tu
non ci hai dimestichezza. Ma a questo c'è rimedio; ci vado io. Anzi,
vedi, ci corro. To' la balestra; piglia il mio posto alla vedetta; in
due salti son là, e se occorrono altri ragguagli, il marchese ti farà
chiamare.--

Il Maso fu scavalcato, così, alla sprovvista, e non s'addiede del tiro
che allorquando fu in terra. Borbottò un poco, sicuramente, poichè
l'atto gli parve mancino; ma in fondo in fondo, non si poteva negare
che nei sospetti di mastro Bernardo ci fosse una parte di vero, e si
chetò, da quel ragazzo dabbene ch'egli era. Al postutto, i suoi
sopraccapi per quel giorno li aveva avuti, e mentre egli ci guadagnava
un'ora di riposo, il suo vecchio principale, andando al castello, non
poteva mica tacere la fonte delle sue preziose notizie.

Perciò non disse altro, e, presa l'arma dalle mani di mastro Bernardo,
e datogli senza troppo corruccio il buon giorno, s'inerpicò sulla
beltresca.

Mastro Bernardo, dal canto suo, grave nel portamento come ogni uomo
che ci abbia le grandi cose in testa, s'avviò verso il castello.

Vi giunse, distribuendo in giro un saluto di protezione alle scolte, e
commise la sua gravità sul ponte levatoio che cavalcava il fosso, in
cospetto di due barbacani, muniti di feritoie, che proteggevano la
porta, sfondata nel muro di fronte, in mezzo a due delle quattro torri
che già i lettori conoscono. Varcata la soglia e l'androne, dove gli
parve che i suoi passi rimbombassero meglio di prima, entrò sotto la
saracinesca, altra porta piombante che difendeva l'ingresso del
castello, e finalmente pose il piede nelle scale, salutato da tutti i
soldati di guardia, che lo conoscevano come un vecchio camerata, ma
che dovevano (così gli bisbigliava la sua ambizione) vedere in lui un
pezzo più grosso del solito.

Se lo avessero fermato, chiedendogli dove andava, oh come ci avrebbe
avuto gusto a sfolgorarli con quattro parole: «porto gravi notizie al
marchese!» Ma nossignori, quella zotica soldatesca non capiva una
maledetta; lo vedeva passare accigliato e chiuso come una cornacchia
di campanile, e non si attendeva di dargli l'assaggio.

Privo di quella consolazione, mastro Bernardo volle procacciarsene
un'altra, andando a far pompa delle sue gravi notizie colla nipote. La
cosa era del resto naturalissima, imperocchè, senza mettere in conto i
riguardi dovuti alla Gilda, per cui intercessione aveva allogato la
sua famigliola fra i servi del castello, il nostro messaggiero pensava
di farsi introdurre dalla nipote presso il marchese Galeotto, col
quale, come v'immaginate, non ci aveva tutta quella dimestichezza che
aveva lasciato intendere al Maso.

Applaudendosi in cuor suo di quella profonda pensata, mastro Bernardo
salì prontamente le scale, e scambio di fermarsi alla gran sala, in
cui tenea corte e riceveva i suoi visitatori il marchese, proseguì
fino al piano superiore, dove, poco lunge dalle stanze di madonna
Nicolosina, era la cameretta della Gilda.

La bella nipote di mastra Bernardo appariva grandemente mutata da
quella vispa e rosea fanciulla che i lettori hanno conosciuta nei
primi capitoli di questo racconto. Una pallidezza estrema regnava su
quel volto, i cui grati contorni s'erano fatti più severi e ricisi,
come di statua; gli occhi scintillavano di luce più viva sotto l'arco
delle ciglia, ma si vedevano altresì più infossati nelle orbite, se
non per avventura dal piangere, certo da un'assidua cura che fosse
venuta struggendo quella sua giovinezza beata. Era bella sempre; forse
più di prima, per molti; ma non più come prima, e s'indovinava al solo
vederla che il dolore era passato sul fronte della povera Gilda. Così
l'ostro nemico, scaldato sulle arene dei deserti africani, brucia i
teneri germogli delle piante, alidisce le splendide corolle dei fiori.

Quali fossero da parecchio tempo i pensieri di Gilda, il savio lettore
ha già inteso. Si aggiunga a tante cagioni di tristezza, che ella
aveva avuto pur dianzi la nuova della prigionia di Giacomo Pico.

--Anche tu,--le disse mastro Bernardo, vedendola in quello
stato,--anche tu, mia povera ragazza, ti struggi di questi malanni che
sono piombati su casa nostra? Brutti giorni, figliuola! E anch'io
dovevo vederli a conforto della vecchiaia!

--Che farci, buon zio? Ci vorrà pazienza. Iddio è misericordioso, e
quando avremo patito abbastanza...

--Eh, mi pare che il tempo sarebbe venuto! Ma via, non mormoriamo;
forse son io l'umile strumento di cui la Provvidenza si serve per
metter fine alle sue prove.--

La Gilda guardò meravigliata suo zio, per sincerarsi a' suoi atti se
parlasse da senno, o non avesse per avventura dato il cervello a
pigione. L'aria d'importanza ond'era impresso il volto di mastro
Bernardo, faceva somigliare il bravo ostiere soldato ad uno del suoi
tacchini, ingrassati pel Natale, quando gli faceano la ruota sull'aia.

--Sai?--proseguì mastro Bernardo, rispondendo ad una domanda che Gilda
gli avea fatta cogli occhi.--C'è del nuovo. Notizie gravi! Non
tremare. Uomo avvisato, mezzo salvato; ed io vengo a salvare il
magnifico signor marchese. Ho pensato di parlarne prima con te, perchè
sei una buona figliuola ed hai fatto del bene alla mia Rosa, tua
povera zia, e a quattro ragazzi, che la guerra fa rimanere senza
l'aiuto del padre.

--Ho fatto il debito mio;--disse brevemente la Gilda.--Ma parlate, per
carità; che c'è egli di così grave, e qual è questo avviso di salvezza
che portate al castello?

--Chetati, e te le dico in poche parole. Bada; ti parrà strano, come
lo parrà al nostro magnifico signore. E se non fosse ch'io l'ho di
buon luogo... Ma via, non vo' tenerti sulla corda. Il Pico tradisce;
il Sangonetto tradisce; tutti tradiscono qui.

--Che dite voi mai?--gridò la Gilda, non badando che al nome del
Bardineto.--Giacomo?... Giacomo Pico un traditore? Ma lo pensate voi?
E potete voi aggiustar fede a chi gli vuol male? No, non può essere
altrimenti;--soggiunse ella, notando un atto di diniego dello
zio;--solo un nemico suo ha potuto calunniarlo in tal guisa. Ma dite,
ditelo voi, come potrebb'essere un traditore l'uomo che appunto
stamane, combattendo da valoroso, è stato colto in una imboscata dai
genovesi?

--Sì, si, l'imboscata!--ripetè mastro Bernardo scrollando il capo e
battendo le labbra.--Parliamone, dell'imboscata! Anche il Sangonetto,
il suo grande amico, è prigioniero dei genovesi da tre giorni, ed io
ne so quanto occorre, della loro prigionia.--

Qui, stretto, incalzato dalle domande di sua nipote, mastro Bernardo,
che non domandava altro, si fece a raccontarle tutto, per filo e per
segno, quello che aveva risaputo dal Maso; come il Sangonetto, datosi
spontaneamente prigione al battifolle di Pertica, si fosse abboccato
col Campora, proponendogli un colpo che dovea porre il Finaro in balìa
degli assediati; come dapprima il Campora e poscia il capitano
generale dell'esercito genovese volessero assicurarsi della sincerità
dell'offerta avendo prigioniero anche il capo della congiura; come
difatti il Pico cadesse due giorni dopo in una imboscata, a cui era
andato incontro con pochissimi uomini, certo per levarsi ogni obbligo
di resistenza; come tra i patti richiesti dal Pico ci fosse la morte
di un tale, di cui non s'era potuto intendere il nome, e il capitano
generale non avesse voluto saperne, proponendo in quella vece che il
Pico se ne potesse spacciare con un duello, dopo la presa della terra
assediata. Ora qual colpo si meditasse, e qual fosse il nemico di cui
si patteggiava l'uccisione, bisognava cercare; quanto al disegno e ai
patti fermati e alla imminenza del pericolo, non ci cascava più
dubbio.

A cosiffatte notule, che lasciamo immaginare ai lettori come le
tornassero dolorose, la Gilda non seppe più che rispondere. I commenti
che v'aggiungeva lo zio, commenti crudeli che le andavano come tante
pugnalate al cuore, rischiaravano a' suoi occhi un triste vero che da
lunga pezza ella sospettava, e che, paurosa o magnanima, non aveva
voluto vedere, accagionando del dubbio la sua gelosia irrequieta.
Giacomo Pico aveva sguainato la spada contro il Fregoso, credendo di
averla a dire col conte di Osasco. Il fatto e l'errore erano ricordati
in buon punto da mastro Bernardo. Il marito di Nicolosina del Carretto
era dunque il nemico di cui si chiedeva la morte. E la rabbia contro
un fortunato rivale, e il rancore contro una superba che lo avea
dispregiato, erano dunque le cagioni del tradimento di Giacomo?

Questo pensava la Gilda, e lo sdegno le traluceva dagli occhi, le
usciva in rotte parole dal labbro. Mastro Bernardo, che pure l'aveva a
morte col Bardineto, non intendeva perchè la sua cara nipote ci si
riscaldasse poi tanto.

--Orvia, chètati, figliuola; non mi far pentire di averti detto ogni
cosa. Sono un chiacchierone; ma già, chi l'ha nell'ossa, lo porta alla
fossa. Avrei dovuto andarmene difilato dal magnifico nostro marchese,
ed eccomi invece a dar molestia a te, che poverina, non ci hai nulla a
vedere.

--No, no, zio! avete fatto benissimo;--gridò la Gilda sollecita.--Dal
padrone ci vado io. Sapete? egli è quest'oggi di pessimo umore, e
potrebbe farvi una brutta accoglienza.

--Dici da senno?--chiese mastro Bernardo, con piglio scontento.--Mi
pare che chi porta notizie utili....

--Ma cattive come queste!--interruppe la Gilda.--Credete a me, zio, vi
accoglie male; non andate. Io sono di casa e con me non c'è pericolo
che si metta in collera.

--Ma io...--si provò a dire mastro Bernardo, sperando di rimettersi in
sella,--io posso dir cose che una donna, una ragazza senza esperienza,
non potrà mai mettere in chiaro come si bisogna. Io poi ci ho le
notizie di prima mano e tu...

--Mi fate pensare ad un altro pericolo;--interruppe la nipote.--Che
dirà dei fatti vostri il marchese, quando gli porterete voi le notizie
date da un altro? Il Maso le ha in prima mano, non voi. E se il
marchese vi chiedesse perchè non avete lasciato andare da lui il Maso
in persona, che cosa potreste rispondergli?

--Ma....--balbettò il povero ostiere.--Lì per lì non saprei.... Ci
penserò.

--No, bisognerebbe averci pensato. Vedrò io, farò io. Voi farete una
cosa più utile, di cui vi si darà lode e ricompensa domani.

--Che cosa? Parla, dilla su, poichè vuoi fare a tuo modo;--soggiunse
rassegnato lo zio.

--Ecco; stanotte, con quanti uomini potete, trovatevi sotto il
castello. Ci potrebb'essere bisogno di voi, e, mi capite? l'esserci
venuto spontaneamente vi tornerà a grandissimo onore.

--Che cosa prevedi già tu, nella tua testolina? Credi che ardiranno
salire al castello?

--Non credo niente, non prevedo niente. Venite, e basta. Domani
saprete ogni cosa.

--E sia; prenderò meco tutti gli amici che troverò. Quanti abbiamo ad
essere?

--Che so io? Venti, trenta, sessanta. Più numerosi sarete, tanto
meglio per tutti.

--Oh, per questo, se non vuoi altro, ti porto tutta la compagnia di
santa Caterina, il cui caporale è Antonio Cappa, mio buonissimo amico
e compare.

--Sta bene, venite e tenetevi pronti alla chiamata, qui sotto, nella
macchia delle roveri.

--Perchè da questa banda e non dall'altra?--domandò mastro Bernardo,
che voleva scoprir terreno.

--Perchè.... perchè.... volete saper troppo.

--Ma, non so niente, mi pare.

--Meglio per voi. Andate, buon zio, e fate com'io v'ho detto. Il
magnifico nostro signore e tutta la famiglia vi sapranno grado di
tutto, non dubitate.

--Basta, mi fido di te. Hai una certa testolina, che, sto per dire, se
comandassi io, ti metterei subito al posto di messere Antonello da
Montefalco. Ora, addio; vo a salutare la Rosa....

--No, no, la vedrete domani. Andate, è già tardi, e se avete da
cercare gli amici, non ci sarà tempo da perdere. Ma badate, giudizio,
e non una parola ad alcuno!

--Che! nemmen per sogno. Tu mi conosci, nipotina. Sono un po'
chiacchierone, l'ho detto, ma nelle cose di meno importanza. Qui poi,
acqua in bocca!

--Sì, dunque, andate. Io corro dal padrone.--

Con queste parole fu congedato mastro Bernardo, che uscì poco stante
dal castello, scavalcato a sua volta dalla Gilda, com'egli avea
scavalcato il Maso, e senza capire una maledetta dei disegni della sua
bella nipote.

La quale, poichè fu partito lo zio, non si mosse altrimenti dalla sua
camera. Muta, immobile, attonita, come chi, per malvagità di possenti
e implacati nemici, o per cieco volere del caso, si veda di balzo
gettato nel fondo di ogni miseria e sappia pur troppo che ogni scampo
gli è chiuso, la misera donna rimase là, contro la finestra della sua
camera, a cui s'era affacciata per veder scendere lo zio giù dai
tortuosi sentieri del castello. Rimase là, coi gomiti appoggiati sul
davanzale di pietra, il volto nelle palme, gli occhi torbidi e fisi di
rincontro a sè, sulla roccia dell'Aurera, salutata allora dagli ultimi
raggi pallidi d'un sole di febbraio, non curando il freddo rovaio che
già cominciava a soffiare dalle gole di Rialto, addensando in aria
negri e minacciosi drappelli di nuvole.

Niente guardava la Gilda, di niente si avvedeva, niente sentiva da
fuori; le forze tutte dell'anima sua s'erano concentrate in un
pensiero, l'infamia di Giacomo Pico. Imperocchè, ella avea pure inteso
il disegno di lui, per mezzo ai pochi cenni recati da suo zio. Il
colpo che si tentava era di dare il castello in mano ai nemici,
d'impadronirsi di madonna Nicolosina, di uccidere il Cascherano.
Quest'ultima parte del disegno di Giacomo Pico doveva andargli
fallita, poichè il conte di Osasco, quel giorno medesimo era disceso
nel Borgo, per custodire co' suoi uomini la porta di san Biagio; ma
questa assenza non tornava forse a vantaggio del Bardineto, caso mai
gli venisse fatto di penetrare nel castello in compagnia dei nemici?

Vitupero! Ed ella lo amava, quel traditore! E s'era data a lui, col
più sublime sagrifizio dalla sua alterezza, nel più generoso oblìo
d'una offesa recente! Ah, come s'era egli mostrato degno di quel
magnanimo affetto! E non era piuttosto meritevole di mille morti? Non
si doveva punirlo, avvisando i difensori del castello e cogliendolo al
laccio che egli stesso avea teso?

Sì, questo era il meglio; ma questo potea fare ogni altra donna, non
Gilda. Avrebbe ella venduto in tal guisa l'uomo a cui la legava il più
soave, o il più doloroso, ma certamente il più intimo dei vincoli?
Imperocchè, forse, tra breve ella non avrebbe potuto nasconder più
oltre lo stato suo. Egli, ancora il giorno addietro, la aveva
promesso, giurato, di condurla seco, a guerra finita. E poichè il
tempo stringeva, e l'assedio accennava a durare un bel pezzo, la
congiura di Giacomo non poteva essere un modo da lui immaginato per
farla finita d'un colpo?

Queste erano vane speranze, illusioni, chimere; lo sentiva anche lei.
Ma allora, qual vendetta efficace e condegna a tanta viltà sarebbe mai
stata quella di avvisare il marchese? Essa, essa, dovea vendicarsi,
non altri; essa, in quella casa, e per quella casa giunta a tale di
miseria o di vergogna oramai!

Tra queste incertezze, tra queste contraddizioni d'uno spirito
abbattuto, giunse rapidamente la notte. Le scolte si ricambiarono per
la prima volta il grido di vigilanza dalle loro beltresche, e quelle
grida si udivano al castello fioche e interrotte, come che di voci
lontane, tanto le soverchiava la furia del vento. Era una notte
minacciosa; il mare mugghiava al lido, il tuono rumoreggiava nella
gole dei monti.

Madonna Nicolosina, all'ora consueta delle altre sere, si ritirò nelle
sue stanze. La Gilda, come portava l'ufficio, era andata a servirla
nel suo spogliatoio, ma più rigida e più taciturna a gran pezza che le
altre volte non fosse stata colla sua giovin signora.

Il broncio dell'ancella (quasi sarebbe inutile di dirlo) era
cominciato dalla scoperta di una rivale, triste scoperta che ella avea
fatta nella torre dell'Alfiere. Madonna Nicolosina, dal canto suo,
vedendola così piena di cruccio, era stata in contegno, nè aveva
cercato occasione di rompere il ghiaccio. Anche trovata da lei a
colloquio col Bardineto, madonna Nicolosina si sentiva innocente e non
voleva scendere alle prove colla sua cameriera. Così erano rimaste
ambedue coll'amaro, l'una servendo a puntino, l'altra comandando con
garbo, ambedue fredde e guardinghe.

Tale la Gilda all'aspetto; ma il cuore avea gonfio di sospiri e di
lagrime. E s'era fatta innanzi, con un tal poco di sostenutezza, a
vestir la padrona. Ma quando fu al punto di toglierle la sopravveste,
la sua anima candida non seppe più contenersi, e la poveretta diede in
uno scoppio di pianto.

--Madonna!--gridò tra i singhiozzi che le facean nodo alla
gola,--Madonna, ve ne prego, concedetemi una grazia!

--Che cosa?--domandò Nicolosina, voltandosi stupefatta a guardare
l'ancella.

--Non dormite in questa camera!--proseguì con accento supplichevole la
Gilda.

--Perchè?

--Perchè...--(e qui la povera ancella si trovò molto
impacciata)--perchè temo non vi colga alcun male.. perchè io ve ne
scongiuro... infine, perchè vi amo.--

Madonna Nicolosina stette un tratto a guardarla in silenzio.

--Gilda,--la disse poscia con piglio grave, ma impresso di dolce
malinconia,--è questa la prima volta, da lunga pezza, che non mi
parlate così. Io vi ho perdonato ogni cosa, perchè vi ho creduta
infelice.

--Oh, grandemente, signora, senza fine infelice!--

E cadde, stemprandosi in lagrime, ai piedi della sua giovine signora.

--Suvvia, buona Gilda, parlate; che volete da me?--disse madonna
Nicolosina, rialzandola affettuosamente tra le sue braccia.

--Fatemi questa grazia, signora; non me la negate!-- soggiunse
l'ancella.--Non dormite qui; ritiratevi per questa notte nella camera
della vostra povera Gilda. Ho un triste presentimento...

--Ah!--sclamò Nicolosina.--Come mio padre!

--Che dite voi mai?--gridò la Gilda atterrita.

--Sì, così pure mi parlava stassera il mio povero padre. Una vecchia
donna è venuta a bella posta da Savona per dirgli che l'uomo, in cui
egli si affida di più, si disponeva a tradirlo.

--Ed egli?

--Ed egli ha risposto che la sua fede non si scema per le ciancie
delle donnicciuole; che ella, se sapeva alcun che di più certo intorno
alla infedeltà di Giacomo Pico...

--Ah!--interruppe la Gilda.--Di Giacomo Pico ella disse? Egli fu
dunque scoperto?

--Scoperto!--esclamò Nicolosina.--È egli dunque un traditore? Che ne
sapete voi, Gilda? Parlate; ve lo comando.--

L'ancella si pentì di aver troppo parlato.

--Signora, perdonatemi!--ripigliò, giungendo le palme.--Ho io detto
scoperto? Volevo domandare se si sospetta per avventura di lui. Sono
una povera fanciulla; non so parlare a modo. Abbiate compassione,
madonna. Io non ho che un presentimento di sventura; forse un'ubbìa di
donnicciuola, come quella che mi avete detta poc'anzi. Ma ve ne
supplico, mia dolce signora, non ridete de' miei timori; dormite
questa notte nella mia camera... È un luogo più sicuro, e nessuno
penserà ad andare là entro.

--C'è dunque qualcuno che può pensare a venir qua?--replicò madonna
Nicolosina con accento di collera.--Ogni vostra parola vi tradisce; e
sta bene. È forse nella vostra confusione un avvertimento del cielo.
Mio padre non ha creduto alla vecchia di Savona; eppure, anche
giudicandola pazza, non ha saputo vincere un senso di dubbio e di
sgomento. Lasciatemi, Gilda; io vado da lui e dalla mia povera
madre...

--Signora mia!

--Lasciatemi, vi dico! Già troppo male avete fatto a parlar così
tardi.--

Così dicendo, respinse la Gilda che le si era aggrappata alle vesti, e
andò verso l'uscio.

Ma, appunto in quel mentre, si udì nella sala del piano inferiore uno
strepito, come di armi percosse. Madonna Nicolosina ristette,
coll'orecchio teso e cogli occhi sbarrati dallo spavento. Non v'era
più dubbio; ignoti assalitori aveano scalate le mura del castello, si
spandeano per le sale.

La Gilda raccolse tutte le virtù dell'anima sua in uno sforzo supremo.

--Ah, non v'è più tempo, madonna! Nella mia camera, vi prego,
ritiratevi nella mia camera. E badate, ci sono i nostri finarini
appiattati nella macchia dei roveri. Chiamateli tosto... ho preparato
le lenzuola annodate... Ma andate, per la salute vostra, andate!--

Spinta dall'ancella, madonna Nicolosina uscì dalle sue stanze, corse a
rifugio nella camera di Gilda.

E Gilda, poichè l'ebbe veduta sparire per quella fuga di sale, si
ritrasse nella camera della sua signora, dove rimase, ansante e
spaventata, in ascolto.



CAPITOLO XIV.

Dove si vede che la notte non è sempre fatta per dormire.


Che era egli avvenuto?

Per chiarire aggiustatamente la cosa, ci bisognerà saltare indietro
un'ora ed un miglio, o giù di lì; non volendo io (e probabilmente
neanco i lettori) far cammino a ritroso, fino alla tenda di messer
Pietro Fregoso a' suoi abboccamenti, da prima col Sangonetto, indi con
Giacomo Pico.

Intorno ai quali, basterà il dire che la Gilda, guidata dal filo della
sua gelosia, aveva indovinato il loro disegno. Il Bardineto, per
vendicarsi delle ripulse di madonna Nicolosina, vendeva ai genovesi il
castello. Messer Pietro Fregoso, da buon capitano, profittava d'ogni
occasione che gli venisse profferta; e questa del Pico, che gli
agevolava di tanto il conquisto della terra assediata, doveva parergli
la man di Dio, senza più.

Il castel Gavone, murato in alto, come ho già detto, a cavaliere del
Borgo, su d'un contrafforte della roccia di Pertica, era un
validissimo arnese che ai nemici non poteva neppur girare per la
fantasia di pigliare d'assalto, almeno, fino a tanto non fossero
padroni del Borgo e liberi di voltargli contro tutto lo sforzo delle
loro soldatesche e dei loro ingegni di guerra. Anche dopo esser venuti
a stringer l'assedio del Finaro dalla parte dell'Appennino, dovevano
essi contentarsi di vedere da lungi quella mole solitaria e superba,
poichè la roccia di Pertica, che si rizzava alle sue spalle, era
inaccessibile ad un esercito; e quanto poi allo inerpicarsi sul greppo
del castello medesimo, per dare a questo una brava scalata, le
necessità quotidiane dell'assedio intorno alla città sottoposta, non
ne concedevano loro il tempo, nè il modo.

E ciò senza mettere in conto che un assalto a quelle mura di granito,
contro quelle torri di pietre sfaccettate a punta di diamante, non
sarebbe servito a nulla. Soltanto una sorpresa notturna avrebbe
approdato; ma questa richiedeva intelligenze segrete, amici, o a dirla
più veramente, traditori nel castello.

Ora, da questo lato, il marchese Galeotto dormiva tranquillo i suoi
sonni. E se non era che Santino da Riva, prigioniero dei finarini in
castel Gavone, avesse fiutato nel Sangonetto una schiuma di ribaldo,
se non era che Giacomo Pico, meditando del continuo vendetta, avesse
dato facile ascolto alle suggestioni del sozio, e tutti poi avessero
pigliato a pretesto della loro perfidia il malcontento di parecchi
cittadini del Borgo, a cui pesava la lunghezza dell'assedio, chi sa?
il marchese Galeotto avrebbe potuto ancor dire per mesi parecchi del
suo dominio, ciò che disse Enea della sua patria a Didone:

_Troiaque nunc stares, Priamique arx alta maneres!_

Ma pur troppo il castel Gavone, che non doveva avere un Virgilio a
cantare la sua misera fine, ebbe in quella vece il suo Sinone, come
Troia; anzi peggio di Troia, poichè esso ebbe un Sinone domestico, non
forastiero, a tradirlo. Vorrei qui proseguire il parallelo,
confrontando l'Elena del Finaro a quell'altra dell'antichità; ma oltre
a non essere Virgilio, siccome ho già detto, e come tutti sapevano,
prima della mia confessione, non sono neanche Plutarco (e ci corre!);
però, con quella discrezione, che dovrebb'essere la dote dei poveri
ingegni, mi tiro in disparte e lascio operare a lor posta i miei
personaggi.

Or dunque avvenne che l'accordo dei traditori con messer Pietro
Fregoso fosse compiuto la mattina del 5 febbraio, cioè a dire quando
Giacomo Pico si diede prigioniero, in pegno di sicurezza, ai nemici.
Il capitano generale credette allora che si potesse tentare l'impresa;
e Giovanni di Trezzo accettò di condurla.

Il Picchiasodo voleva pur dire qualcosa della fuga del Maso, che lo
metteva in sospetto. Ma già, il dado era gittato, e pel solo dubbio
che al castello fossero avvisati della trama, non si poteva mica
rimandarne l'esito a più tarda occasione. Del resto, ogni indugio non
avrebbe fatto altro che peggiorare le sorti dell'impresa. E poi, e
poi, se il Maso aveva potuto cogliere a volo qualche indizio e andarlo
a rifischiare al castello, la colpa non era tutta di lui, Anselmo
Campora, che, cedendo a un moto compassionevole della sua ruvida ma
schietta indole soldatesca, aveva pigliato a proteggere quel mariuolo
del Maso? La conseguenza di questo ragionamento si fu che il
Picchiasodo non rifiatò de' suoi dubbi ad alcuno, ma che egli promise
a sè stesso di partecipare ai pericoli di quella notturna sorpresa.


Ora, siccome il nostro bravo Campora solea mettere in tutte le cose
sue poco intervallo tra il pensare ed il fare, a mala pena ebbe
pigliata questa risoluzione, uscì dalla sua baracca per andarne a
chieder licenza a messer Pietro, padron suo riverito.

S'aspettava qualche po' di contrasto; ma, con sua gran meraviglia, non
ci fu nulla.

--Bravo!--gli rispose il capitano generale.--Stavo appunto per
mandarti a cercare e chiederti se volevi farmi compagnia.

--Che? come?--farfugliò il Picchiasodo, inarcando le ciglia.--Voi,
magnifico messere?

--Sì, io. Che ci trovi di strano?

--Eh, mi sembra che ce ne sia la sua parte. Gli è un colpo ardito,
quello che si tenta, con questi furfanti di tre cotte. E se ci andasse
a male? Se quei di lassù stessero in guardia? Se fossero stati
avvisati?

--Baie! Chi vuoi tu che li abbia avvisati? E fosse pur vero, che vuoi
tu che s'aspettino proprio stanotte da noi? E poi, vedi, Anselmo; chi
non risica... Lo conosci, il proverbio?

--Non rosica; lo capisco;--soggiunse il Picchiasodo, chinando la
fronte.

--Orbene,--proseguì messer Pietro,--ce n'è anche un altro che fa al
caso nostro. Dal farle tardi Cristo ti guardi! Ora, questa s'ha da far
subito, o mai. Genovese aguzzo, piglialo caldo.--

A queste parole il Picchiasodo non potè ritenersi dal ridere.

--Scusate, messer Pietro;--diss'egli, con piglio di rispettosa
dimestichezza;--siete tutto proverbi, stassera.

--Sì mio vecchio compare; perchè il cuore mi promette bene di questo
negozio; perchè sono in vena d'allegria. Ah, credi tu che, dopo un
anno di sopraccapi, di molestie d'ogni fatta, io non debba veder di
buon occhio questa congiuntura propizia? E poichè la si profferisce a
noi, e noi la cogliamo, non dovrei venirci io in persona, all'impresa,
per ispingerla avanti, se c'è modo di venirne a capo, per rimetterla
in sesto, se si fa un buco nell'acqua?

--È vero ciò che dite;--rispose il Picchiasodo;--ma dopo tutto, il
vostro risico...

--Che!--sclamò messer Pietro, scuotendo alteramente la testa.--Ci ho
la mia stella. Non ti rammenti di Gavi? Eppure, se non me l'hai
cantato e ricantato le mille volte: «messer Pierino, badate, noi ci
faremo impiccare come tanti assassini di strada!» Il che non
toglieva,--soggiunse messer Pietro ridendo,--che in ogni occasione tu
fossi il primo a seguirmi e negli scontri picchiassi più sodo degli
altri, come non tolse che io fossi restituito alla patria, reintegrato
in tutti gli onori della mia casa e fatto capitano generale della
repubblica. Statti dunque di buon animo, Anselmo, mio vecchio
compagno; il ferro che mi ha da colpire non è ancora entrato in
magona.--

A intendere per suo verso l'allusione di messer Pietro Fregoso,
bisognerà ricordare che egli, cinque anni addietro, essendo la sua
fazione sbandeggiata da Genova ed eletto doge Raffaele Adorno, era
stato dichiarato ribelle contro la repubblica. E allora, ridottosi
nella terra di Gavi, la quale aveva dianzi ottenuta dal duca Filippo
Maria Visconti, messer Pierino (come lo chiamavano ancora, a cagione
della sua giovinezza) radunò partigiani, corse il vicinato a sua
posta, recando alla repubblica quante più molestie potè. Monsignor
Giustiniani, che non lo ebbe in troppo buon concetto, narra di lui
negli Annali che «essendo di gran spirito e bisognoso di molte cose,
quasi che si mise alla strada e faceva de' mali assai. Tra i quali,
detenne cento venti some di mercanzia di gran valuta, che mulattieri
portavano in Francia; e fra l'altre cose vi erano alquante arme per la
persona del Re. Del qual fatto il duce Raffaello si risentì assai e ne
scrisse lettera a Sua Maestà».

La qual cosa, m'affretto a dirlo, non tolse che fosse un compìto
cavalliere, e che, il 3 di febbraio del 1447, tornata la fazione
Fregosa al governo della repubblica nella persona di Giano, messer
Pietro fosse restituito alla patria e fatto capitano generale della
città, indi deputato all'impresa del Finaro, e da ultimo eletto doge a
sua volta.

Ma non ci dilunghiamo dal nostro argomento. La notte è calata, notte
buia e fredda, siccome si è detto, e gravida di tempesta. Giovanni di
Trezzo e i suoi trecento fanti escono silenziosi dal battifolle di
Pertica, sfilano leggieri a guisa di ombre davanti a quel pozzo, in
cui, la mattina di quel medesimo giorno, aveva pigliato un bagno
freddo il povero Falamonica. Spartiti in dieci bandiere, ognuna delle
quali constava di trenta uomini, cioè a dire dieci balestre, dieci
picche e dieci pavesi, i soldati di Don Giovanni di Trezzo (la
dominazione aragonese nel reame di Napoli aveva già sparso l'uso del
titolo di _Don_ nella maggior parte dei condottieri italiani) si
avviarono per l'erta, seguendo il sentiero indicato loro da Giacomo
Pico e da Tommaso Sangonetto. Il quale, a dir vero, non ci andava di
buone gambe; ma oramai, volere o volare, bisognava uscirne con manco
disdoro e non esser nemmeno degli ultimi sulle mura, poichè il
Bardineto gli aveva promesso la sua parte di preda! Tommaso Sangonetto
se ne sentiva già correre l'acquolina alla bocca.

Il vento, che scendeva impetuoso dalle gole dei monti, cogliendo di
fianco i notturni viandanti, non consentiva loro di correre così
spediti come avrebbe desiderato messer Pietro; il quale venia dietro
alle schiere, col Campora a lato, e tutto chiuso nel suo mantello, per
non dar nell'occhio ai soldati, che dovevano vederlo soltanto ove ciò
fosse stato mestieri. Per altro, se il vento rallentava il corso della
gente, toglieva altresì che si potesse dall'alto udire il rumore dei
passi e lo strepito delle armature.

Le prime ordinanze giunsero per tal guisa sotto alla beltresca che
comandava il sentiero, deludendo la vigilanza del soldato di guardia,
il quale fu colto nel suo aereo covo, prima che avesse potuto dare ai
lontani compagni il grido di sveglia.

Povero Maso! Imperocchè gli era lui, proprio lui, piantato là, come
Olimpia sullo scoglio, dal suo vecchio principale. Mastro Bernardo,
tutto all'incarico che gli aveva commesso la sua bella nipote, nonchè
andarlo a rilevare, non si era più ricordato di lui.

--Povero a me!--disse il Maso in cor suo.

E crebbe la sua giusta paura, allorquando, dietro a quella lunga
processione di ombre che gli sfilava da vicino, gli parve di udire la
voce del Campora, che sollecitava i più tardi.

--Son fritto!--soggiunse egli, a mo' di conchiusione, mentre due di
quei manigoldi lo veniano legando per bene, come già avevano fatto tre
giorni addietro il Tanaglino e il Vernazza.

La masnada frattanto si accostava con passo guardingo alle mura.
Nessun rumore, nessun filo di luce, davano indizio di vigilanza nel
castello. Don Giovanni di Trezzo incominciava a meravigliarsi della
fortuna, che gli faceva guadagnare così agevolmente un premio di
trecento scudi d'oro del sole, a lui promesso dal capitano generale se
avesse condotta a buon fine l'impresa.

Il castel Gavone, lo rammenteranno i lettori, era munito di fosso da
due lati soltanto, cioè da fronte e da tergo, dove perciò era
stagliata ad arte la cresta del monte; laddove i fianchi, perchè
fondati a scarpa sul masso o abbastanza forti di lor natura, non
avevano alcuna di simiglianti difese.

Ad uno di questi fianchi, quello che guarda a levante, i soldati
genovesi accostarono le scale. Giacomo Pico fu il primo ad appoggiarne
una contro il davanzale di una finestra che metteva al secondo
pianerottolo dello scalone interno.

--Che fai?--gli domandò il Sangonetto all'orecchio.--La finestra è
chiusa, e a romperla daremo la sveglia.

--No;--rispose l'amico;--lascia fare. La notte scorsa ho tagliato una
lista di piombo nella intelaiatura dei vetri.--

Poscia, voltandosi verso Giovanni di Trezzo, che gli stava sempre alle
costole, soggiunse:

--Voi, messere, dovreste mandare una parte dei vostri uomini alle
spalle del castello, là, dietro la torre della Polvere. Io stesso,
appena entrato, andrò ad aprir loro la postierla.

--Sì, sì, non dubitate, compare!--gli rispose Giovanni di Trezzo.--Io
salirò con voi e v'accompagnerò io stesso alla porta. Ma prima di
tutto, aspettate; vo' fare un po' di rumore.

--Perchè?

--Il perchè va lo dico subito, A Venezia, dove ho servito qualche
anno, ci ho imparato una gran massima, che credo l'abbiano trovata in
Grecia, nella tomba dei sette Sapienti. «Da chi mi fido mi guardi
Iddio; da chi non mi fido mi guarderò io.» Ora, vedete, messer Pico;
io non vo' dar molestie a nostro Signore, e non mi fido mai di
nessuno.--

Così dicendo, l'astuto condottiero col pomo della spada venia battendo
sui muri del castello. Nessun rumore di dentro accennò che il suono
dell'arme fosse stato udito dagli abitatori del luogo. Del resto, a
quell'ora, null'altro si sarebbe potuto udire che il mugghio continuo
del vento nelle gole e il baturlo del tuono sulle montagne vicine.

--Sta bene; ed ora insegnatemi la strada;--disse Giovanni di Trezzo.

Il Bardineto ascese prontamente la scala; Giovanni, presa la spada tra
i denti, gli venne alle calcagna.

Frattanto un'altra scala era rizzata poco lunge da Tommaso Sangonetto.
I suoi capi poggiavano sul davanzale di una finestra, che Giacomo Pico
doveva aprirgli, a mala pena entrato nel castello.

L'ascensione fu compiuta senza ostacoli. Dietro al Bardineto e a
Giovanni di Trezzo s'erano inerpicati quattordici soldati. Poco stante
si udì un lieve scricchiolio. Giacomo Pico aveva potuto, mercè la sua
precauzione della notte antecedente, togliere una lastra di vetro dai
margini di piombo e giungere colla mano al paletto. L'imposta girò
lenta sui cardini, e il Bardineto e Giovanni di Trezzo, afferrando il
davanzale, sparivano prontamente nel vano. I quattordici soldati che
li seguivano su per la scala, ad uno ad uno, lesti come scoiattoli,
guizzarono dentro.

Il medesimo avvenne dei loro compagni che erano sull'altra scala,
poichè il Bardineto ebbe aperta la finestra all'amico. E tutto questo
in brevissimo spazio di tempo, senza strepito, o con pochissimo, che
il vento non lasciò giungere fino alla sala di guardia; la quale era
sulla fronte del castello, tra la saracinesca e il ponte levatoio,
secondo il costume d'allora.

Messer Pietro mandò allora una parte degli uomini rasente il muro, fin
dietro alla torre della polvere, in agguato alla postierla che doveva
esser loro aperta da Giacomo Pico.

Ogni cosa procedette a seconda. Ma se non si aveva ad udire lo
strepito di fuori, ben si ebbe ad udirlo quando fu dentro le mura e
pe' corridoi del castello. E fu appunto il saltar degli uomini dal
davanzale della finestra sul pianerottolo e il loro spandersi su e giù
per le scale, che diè nell'orecchio alle due donne su in alto.

Lo strano rumore fu udito altresì in una camera appartata del primo
piano, dov'era il più ragguardevole abitatore del castello e il più
interessato in quella bisogna, poichè il colpo degli assalitori
notturni era rivolto contro di lui.

Il marchese Galeotto si era da forse un'ora ridotto nelle sue stanze,
per prendere un po' di riposo da tante fatiche e sopraccapi del
giorno. Madonna Bannina, la fida compagna della sua giovinezza, ancora
travagliata dalla sua ferita, dormiva accanto a lui d'un sonno
leggiero, come soglion le donne e gl'infermi. In una cameretta poco
lunge da essi, riposava lo scudiero del marchese e suo consanguineo,
Antonio Porro, giovine robusto e valente, che molto amava Galeotto e
in cui questi a ragione riponeva ogni fede.

Era triste in quell'ora, il marchese Galeotto, e i neri presentimenti,
di cui aveva pur dianzi toccato madonna Nicolosina alla Gilda, gli
giravano per la fantasia, disviandogli il sonno. Sopra tutto, e con
una pertinacia di cui non poteva farsi ragione, gli tornavano in mente
le parole della vecchia di Savona, Giacomo traditore? Giacomo, il suo
antico scudiero, cresciuto al suo fianco, il suo compagno d'armi, il
suo salvatore, tradirlo? e perchè? Come poi l'avviso salutare doveva
egli venirgli così da lontano? Certo, taluno a cui sapea male di
quella sua fede in un semplice vassallo, non osando assalirlo da
vicino e di fronte, aveva soffiata quella calunnia negli orecchi alla
vecchia pazza; ed ella, pur di parere illuminata da uno spirito, era
corsa a recargli la malaugurata novella. E in mal punto, davvero;
poichè Giacomo Pico, l'uomo contro cui si muovevano così nefandi
sospetti, quel medesimo giorno, in servizio del suo signore,
combattendo da valoroso, era caduto nelle insidie nemiche.

Questo diceva la fede, dall'animo di Galeotto. Eppure, bisbigliava il
dubbio, eppure....

In quel mentre gli venne udito un insolito rumore, come d'uomini che
cautamente, ma senza, poter spegnere affatto il suono dei passi e il
tintinnio delle armi, battessero de' piedi sll'impiantito d'un
corridoio lontano.

Si rizzò tosto fuor delle coltri e stette coll'orecchio teso in
ascolto. Quello strepito continuava, anzi venia sempre crescendo;
laonde egli fu pronto a balzare da letto, per correre alla volta
dell'uscio.

Madonna Bannina si svegliò in soprassalto.

--Che è?--dimandò ella sbigottita, vedendo in quell'ansia il marito.

--Bannina mia, siamo traditi!--gridò egli, con voce tremante dallo
sdegno.

E uscito dalle sue stanze, s'imbattè in Antonio Porro, il quale, non
avendo ancora potuto pigliar sonno, stava al pari di lui in ascolto
sull'uscio della sua camera.

Antonio vide il marchese, e i loro occhi si ricambiarono i comuni
sospetti.

--Il nemico?--chiese Galeotto sommessamente ad Antonio.

--Chetatevi, mio signore! Vado a vedere.

--No, no! Ti faresti ammazzare senza alcun frutto. Non senti? Son già
nella gran sala.--

Antonio, che già era persuaso della inutilità dell'andare, e soltanto
si era profferto per divozione al marchese, si affrettò a sbarrare la
porta.

--Fuggite, dunque, messere! fuggite!--diceva egli frattanto.

--Fuggire! e come? e lascierò i miei.... la mia casa?

--Provvedete alla salvezza vostra, Galeotto!--disse madonna Bannina,
che lo aveva seguito.--Voi libero, niente è perduto. Accogliete il
consiglio di Antonio e la mia preghiera.--

Il marchese non sapeva risolversi. Darla vinta del tutto ai traditori
gli cuoceva; cadere in balìa dei genovesi gli parea troppo grande
vergogna. E in tal contrasto esitava.

--Orsù, egli non c'è tempo da perdere;--disse Antonio Porro.--Madonna,
vi prego, annodate le lenzuola del letto, il copertoio, quanto vi
capita alle mani. Io faccio la via.--

E si volse alla finestra dell'anticamera di Galeotto, nella quale si
erano in quel trambusto ridotti. Una inferriata diritta ne chiudeva il
vano. Antonio Porro afferrò le spranghe e le scosse con tutto il
vigore de' suoi polsi d'acciaio. Traballarono quelle; ma Antonio,
dalla resistenza che avevano fatta, giudicò che troppi scrolli
sarebbero bisognati a schiantarle, e in quelle strette ogni istante
era prezioso, per la salvezza del suo signore.

Perciò, mentre Galeotto lo venia guardando ansioso, e madonna Bannina
colla sollecitudine dell'affetto e dalla paura stava annodando i
pannilini della sua camera a foggia di corda, Antonio Porro si trasse
indietro alcuni passi, raccolse le membra, strinse le pugna sul petto,
e veloce, impetuoso, come un braccio di catapulta, si scagliò contro
l'inferriata con tutto l'urto delle sue spalle poderose.

Le sbarre percosse si piegarono in fuori, segno che parecchi dei capi
si erano smossi dai loro alveoli di piombo. Un nuovo urto, non meno
poderoso del primo, svelse a dirittura una parte dell'inferriata dal
suo stipite di pietra.

Intanto nelle mura del castello il frastuono cresceva. I soldati di
guardia, udito il rumore degl'invadenti nemici, erano accorsi a
difesa, e per le scale, pe' corridoi, dovunque gli uni negli altri
s'imbattevano, era una pugna cieca e feroce.

Antonio legò saldamente un capo delle lenzuola ad un tronco di sbarra,
che era rimasto infitto nel davanzale, e senza far motto indicò la via
di salvezza al padrone.

--Mio buon Antonio!--esclamò il marchese, con piglio amorevole.

--Andate, messere, andate!

--Raccomando alle tue cure la mia povera moglie!--soggiunse Galeotto,
colle lagrime agli occhi.

E stretta al seno la fedele compagna della sua vita, a baciatala in
fronte, si spiccò dalla camera, per raccomandarsi a quel fragile
sostegno, che dovea porlo in salvo a' piè delle mura.

--Corro al Borgo!--diss'egli, nell'atto di scavalcar la finestra.

--No, messere, non lo fate!--gridò Antonio Porro.--Chi vi assicura che
il Borgo non sia già caduto in potere dei nemici? Prendete la via dei
monti; correte a San Giacomo.

--Addio dunque, Bannina!--ripigliò Galeotto.--Ma no, a rivederci, tra
breve, in Millesimo, se mi sarà dato di giungere fin là. A te il
capitano dei genovesi concederà prontamente il riscatto, che non vorrà
infellonire contro una donna.--

Ciò detto, si aggrappò alla fune e si commise nel vuoto.

La discesa fu agevole e sicura fino a due terzi dello spazio che gli
bisognava percorrere. Ma giunto a poca distanza da terra, o perchè uno
di que' pannilini non fosse saldamente annodato, o perchè la bontà del
tessuto non soccorresse, la fune si ruppe, e il marchese Galeotto
percosse delle membra sui sassi, lacerandosi le piante, il petto e le
braccia, con cui aveva tentato di schermirsi nel buio.

Madonna Bannina, che si era fatta al davanzale per cogliere l'ultimo
saluto del fuggente, udì in quella vece il tonfo ed un gemito.

--Vergine santa! egli si è ferito!--gridò la nobil donna
raccapricciando.--Antonio, per carità, soccorretelo; andate con lui.
Io già non ho mestieri di nulla;--soggiunse, come per indurlo più
facilmente a quel passo.--I nemici verranno; che importa oramai? Sono
una povera vecchia e non ho niente a temere per me. Andate, Antonio,
vi supplico; egli ha bisogno d'aiuto.

Il giovine, che l'aveva intesa alle prime, s'inchinò senza dir verbo,
e d'un salto fu sul davanzale. Poco stante, facendo gran forza di
braccia, si calò fino all'ultimo lembo del suo aereo sostegno.

--Messere,--dimandò egli a bassa voce,--ove siete?

--Son qua, buon Antonio. Hai voluto scendere anche tu? Pon' mente; s'è
strappata la fune.

--Lo so. A che altezza da terra?

--Cinque, o sei braccia, mi pare. Ma bada a te; non ti gittar troppo
in fuori, che potresti ruzzolare dai greppi.

--Non dubitate; conosco il terreno.--

E pigliando le sue misure così a occhio e croce, l'animoso scudiere
spiccò il salto dalla parte opposta a quella donde aveva udito la voce
del suo signore.

Agile e forte com'era, fu a terra senza farsi alcun male, e corse
tosto in aiuto del marchese.

--Orbene?--gridò ansiosa madonna Bannina dal davanzale.

--State di buon animo, madonna. Qualche scalfittura, a cagione degli
sterpi, e nient'altro.

--Ah, sia lodato il Signore! Andate dunque. Essi giungono.--

E toltasi dalla finestra, la nobil donna corse nella sua camera, dove
stette in attesa.

Frattanto i nemici, giunti all'appartamento del marchese, tempestavano
l'uscio di colpi. A breve andare le imposte volarono in pezzi, fu
rotta la sbarra che ci avea posta a ritegno lo scudiero, e Giovanni di
Trezzo fu il primo a dar dentro, colla spada sguainata. Dietro a lui
una frotta di uomini, le cui facce iraconde e le armi erano
sinistramente illuminate dalla torbida fiamma di alcune torce a pugno,
intrise di pece.

Giunto che fu nella camera, e veduta la marchesana del Carretto, che
si alzava con piglio austero dal suo seggiolone per muovergli
incontro, Giovanni di Trezzo si fermò sui due piedi, tolse la spada
nella mano manca sotto l'impugnatura, e, mentre inchinava la fronte,
stese la mano in atto di cortese saluto.

La marchesa rispose con un cenno del capo.

--Che chiedete, messere?--diss'ella poscia, con accento tranquillo.

--Potete argomentarlo, illustre signora;--rispose Giovanni di
Trezzo.--Chiediamo del magnifico marchese Galeotto del Carretto, già
signore del Finaro.

--Egli lo è sempre per diritto ereditario de' suoi maggiori;--replicò
ella nobilmente.

--Non piatirò di titoli con voi. Son uomo di spada, non già di toga.
So che il castello Gavone per opera mia appartiene ora alla repubblica
genovese, e cerco il marchese Galeotto per condurlo prigione, com'egli
terrebbe me, se la fortuna delle armi non mi avesse assistito. Del
resto, non temete, madonna; siam cavalieri e ai prigioni e alle dame
non sarà torto un capello.

--Vi credo, e commetto alla vostra lealtà di soldato tante povere
donne che sono in vostra balìa. Il marchese Galeotto non è nel
castello; statevi pago, messere, di aver prigione sua moglie.--

Giovanni di Trezzo, che sapea far queste cose per bene, s'inchinò
profondamente e non aggiunse parola. Per altro, egli non poteva
capacitarsi di non aver trovato il marchese nelle sue stanze. Lo
scompiglio che si vedeva per la camera, gli dava sospetto bensì d'una
fuga; ma da dove poteva esser fuggito il nemico?

Uno de' suoi soldati, tornando dall'anticamera, gli disse
dell'inferriata rotta e delle lenzuola ancora sospese al davanzale.

--Ah, ah!--sclamò egli,--Il merlo è volato via. Ma la gabbia è nostra;
questo è l'essenziale.--

E pensava, così dicendo, ai trecento scudi d'oro del sole che gli
fruttava l'impresa.

Un alto fragore di combattenti, dall'altra parte dei castello, venne
in quel punto a rompergli il filo dello sue meditazioni e a
distoglierlo altresì dal pensiero di mandar gente sull'orme del
fuggitivo.

Che c'era egli di nuovo? Laggiù si picchiavano di santa ragione. Ma
d'onde erano sbucati i nemici? San San Giorgio e Carretto! San Giorgio
e Fregoso! Eran questa le grida che cozzavano insieme, come le mazze e
le spade, facendo un chiasso indiavolato.

--Vi pigli un canchero!--brontolò Giovanni di Trezzo.--Il premio
sarebbe ancora in sospeso?...--

E lasciata la marchesana del Carretto in custodia a due uomini, corse
colla sua gente dall'altra parte del castello, donde gli era giunto
all'orecchio il fragor della pugna.



CAPITOLO XV.

Qui si racconta delle valentie di due sozi, i quali non erano Teseo a
Piritoo.

Non credano i lettori benevoli che l'autore, avendo nel capitolo
precedente chiamata madonna Nicolosina l'Elena di Castel Gavone,
voglia venire in quest'altro a nuovi riscontri mitologici. Egli ha per
contro già, confessato nel titolo che i due sozi di cui parlerà non
erano da mettersi a paragone con Teseo e Piritoo, que' due famosi
rapitori di donne.

Compagni di ventura, il principe d'Atene e il re dei Lapiti, rubarono
Elena, ancor tenerella di età, la quale toccò in sorte al primo di
loro; e il patto essendo corso tra i due che il perdente fosse dal
vincitore aiutato a trovarsene un'altra, ne conseguì che Teseo
accompagnasse l'amico di là d'Acheronte, per dargli mano al ratto di
Proserpina; il secondo, e credo anche l'ultimo, attentato amoroso, di
cui fosse fatta argomento quella povera dea. Il primo, se ben
ricordate, fu commesso da Plutone, che poi consacrò la sua marachella
con un bravo matrimonio e con un permesso alla moglie di andare in
campagna da sua madre per sei mesi d'ogni anno.

Or dunque, s'avviarono i due amici all'impresa, ma senza aver fatto i
conti con Cerbero. Il quale avventatosi alla gola di Piritoo, lo
strangolò senza misericordia, dando tempo a Plutone di mettersi in
arme e di far prigione il compare, che fu, anni dopo, liberato a
stento da Ercole.

Ognun vede che questi non sono riscontri da farsi con Tommaso
Sangonetto e con Giacomo Pico. L'antichità riverente ci ha fatto due
eroi di Teseo e di Piritoo, forse perdonando, in ricompensa di più
nobili imprese, queste ed altre loro scappatelle di gioventù; laddove
i nostri due sozi, non che di lode, non sono pur degni di scusa.
Epperò si ha da credere, se non c'è sotto un qualche artifizio
acconcio a predisporre l'animo dei lettori, che i nomi de' due
antichissimi eroi siano tirati in ballo per mostrare in che razza di
dottrina è ferrato a diaccio l'autore di questo racconto, oramai
presso al suo termine.

E per non indugiarci più oltre, facciamo ritorno alle due donne,
rimaste così sbigottite al primo indizio della scalata e dello
spandersi dei nemici entro le mura del castello Gavone. Vedremo più
tardi Don Giovanni di Trezzo e sapremo che diavol fosse quell'altro
tafferuglio che lo faceva accorrere con tanta fretta verso le scale.

Madonna Nicolosina, fortemente turbata, era corsa a rifugio nella
cameretta di Gilda. Modesta e linda cameretta, già così lieta dimora
di colei che chiamavano la più bella ragazza del Finaro, dopo la
figliuola del marchese, che era per le grazie della persona e per
l'altezza dei natali celebrata bellissima! Pochi e semplici in quel
breve spazio gli arredi; un forziere di noce intagliato a rabeschi,
nel quale la fanciulla custodiva le cose sue; una scranna, uno
specchio alla parete, una lampada sospesa, un letticciuolo, un
inginocchiatoio, su cui stava un picciol vaso di maiolica, con entro
un mazzolino di fiori, davanti ad un trittico d'avorio, nella cui
tavoletta di mezzo era dipinta la Vergine, e sulle altre due santa
Caterina e san Biagio, patroni del Borgo. Una volta (e non era corso
gran tempo) in quel vaso erano i fiori freschi ogni dì, anche nel cuor
dell'inverno; chè ogni stagione, in questi lidi benedetti dal cielo,
ne porta. Ma, da parecchie settimane, quel culto gentile era stato
posto in oblìo, nè più i fiori erano stati cambiati dinanzi alle
immagini dei santi. Sfioriva nel rimorso e nel dubbio la povera Gilda;
diseccavano i vecchi fiori dimenticati nel vaso.

Il primo pensiero di Nicolosina fu di aprir la finestra e di
spenzolare allo ingiù la lunga e salda appiccatura di lenzuola che
avea preparata la Gilda. Il vento soffiava e i suoi buffi gelati
entravano pel vano della finestra, facendo tremolare la fiamma nella
lampada sospesa. Ma ella non se ne addiede, che in quello stremo
d'angoscia niente più poteva ferirla. Gridò, chiamando i finarini, che
dovevano essere in quell'ora appiattati nella macchia delle roveri:
ma, o non l'udissero costoro, o ancora non fossero giunti, o la voce
loro non vincesse le folate del vento, la povera Nicolosina non
ottenne risposta al suo grido.

Incominciò allora a tremare. Il fragore dei nemici cresceva nel piano
inferiore del castello. Già saliano le scale. Non parevano molti;
erano due al più, i primi accorrenti; ma uno solo bastava ad
atterrirla, a gelarle il sangue nelle vene. La misera donna già si
vedeva dinanzi l'immagine di Giacomo Pico, del suo fiero amatore, non
più ginocchioni, in atto supplichevole, bensì ritto e minaccioso su
lei, prostrata, abbandonata, senza schermo e senza forza, a' suoi
piedi.

Quella orrenda visione la comprese di spavento ineffabile.
Entrando nella camera, aveva chiuso l'uscio dietro di sè. Ma
questa difesa non poteva bastarle. Nicolosina corse allora a
gittarsi sull'inginocchiatoio, e là, a mani giunte, lacrimosa,
con rotti accenti, pregò, supplicò la vergine Maria, tutti i
santi del paradiso, per suo padre, per sua madre, per sè. Pur
troppo non era da aspettarsi più nulla dagli uomini; se una
speranza di salute restava, questa non le appariva più che dal
cielo.

Un passo concitato risuonò allora nel corridoio. Il nemico procedeva
nelle tenebre, ma pronto e sicuro, come uomo che conosceva la via. Non
era un genovese, di certo; lui, dunque, lui? La povera donna levò le
braccia verso l'immagine di Maria; raccomandò, non più la sua vita,
l'onor suo, a quella donna che in suo vivente aveva tanto sofferto. Se
Dio accoglie la preghiera, sotto qualunque nome gli sia rivolta da
creature infelici, per fermo doveva udir quella.

Ma invano ella pregava. Un urto poderoso schiantò il serrame che
riteneva l'uscio alla parete. Il vento che s'ingolfò nella camera
avvertì la povera donna che ogni sua speranza era perduta e che il
nemico era giunto là dentro.

--Ah, ah!--disse una voce sarcastica.--La colombella s'è chiusa nel
nido?--

Nicolosina fremette, si aggrappò colle mani e coi gomiti
all'inginocchiatoio, come un naufrago alla sua tavola di salvezza.


--Per altro,--soggiunse la voce, che non era quella di Giacomo
Pico,--meglio era chiuder la finestra che l'uscio. Con questo freddo
morrebbe a ghiado l'amore, che pure è tutto di fiamma.--

E Tommaso Sangonetto (che era lui il nuovo venuto, come avranno già
indovinato i lettori) andò verso la finestra, per richiuder le
imposte.

--Ohe! che novità son queste?--proseguì, vedendo il nodo delle
lenzuola raccomandato al colonnino che partiva la finestra.--Si
lavorava a tirare il ganzo quassù? Ma bene! Questa non me l'avrei
aspettata. Del resto, per gl'innamorati voglion essere scale di seta,
o nulla. Stia al fresco, il babbione! Chi tardi arriva, male
alloggia.--

Così dicendo, Tommaso Sangonetto, che non pensava una parola di quel
che diceva, e bene aveva indovinato perchè ci fosse quella scala
posticcia sul davanzale, spiccò il nodo e gittò le lenzuola al vento;
indi richiuse le imposte.

--Ah; bene così!--ripigliò.--La lampada non darà più i tratti
dell'impiccato. E adesso, vi volgerete da questa banda, bella schifa
'l poco, donna sgargiante, anima dell'anima mia.

--Tommaso Sangonetto,--interruppe Nicolosina, balzando in piedi, tutta
fiammeggiante di vergogna e di collera,--rispettate la figlia del
vostro signore!--

A quella vista inaspettata, il Sangonetto diede un sobbalzo, che lo
ricondusse tre passi indietro, nella strombatura della finestra, da
cui si era mosso pur dianzi. Madonna Nicolosina! madonna Nicolosina là
dentro! che voleva dir ciò? O non era quella la camera della Gilda?
quella stessa camera in cui era venuto la prima volta a portarle la
nuova del duello e della ferita di Giacomo, e a sfrombolarle in pari
tempo la sua prima dichiarazione d'amore, accolta da lei con tanto
sussiego?

Senonchè, Tommaso Sangonetto non era uomo da perdersi d'animo davanti
ad una donna, nè per una sostituzione di donna. Pensò brevemente,
com'era consentito dall'urgenza dei casi, e disse tra sè: vedi,
Tommaso; o viene Giacomo, che s'è accorto del tiro, e noi si cambia
posto; o non viene.... e allora, che ci posso far io?--

Questo dilemma gli messe l'animo in pace. Quanto alla dignità di
Nicolosina, e a' suoi alti natali, se ne rideva quel poco! Ci aveva in
corpo un fiasco di vino, che doveva dargli coraggio come soldato, e lì
per lì se ne trovava d'avanzo.

--Oh, scusate, madonna!--aveva detto a tutta prima, nel colmo dello
stupore.--Credevo... non mi potevo immaginare...

Ma presto s'era rimesso in sella. Quel suo dilemma ne faceva
testimonianza.

--In fede mia,--soggiunse, dopo un momento di sosta e facendo bocca da
ridere,--qui c'è uno scambio. Non me ne lagno, perdinci, non me ne
lagno. Direi anzi che ci guadagno un tanto, mia bella contessa.

Nicolosina si ritrasse indietro due passi. Gli occhi luccicanti di
quell'uomo le faceano paura.--Sentite, madonna;--ripigliò il
Sangonetto, che aveva notato quell'atto di ribrezzo.--Facciamoci a
parlar chiaro. Per dare indietro che facciate, non uscirete di qui.
Ancora due passi e vi troverete al muro. Non vi schermite dunque
inutilmente; non guastate in vani contorcimenti la vostra serena
bellezza.

--Mio Dio! mio Dio!--mormorò la povera Nicolosina, giungendo le palme
sul seno e levando al cielo uno sguardo atterrito.

--Siete bella,--proseguì il Sangonetto--molto bella, troppo bella, ve
lo dico io, che me ne intendo, e, da vent'anni in qua, non fo che
studiare di questa importante materia. Non vi aspettavate la mia
visita, lo so; ma fuggivate quella d'un altro. Vi basti di averla
cansata e di averci, non fo per dire, guadagnato nel cambio. La Nena
di Verezzi, che ci ha, senza farvi torto, il primo paio d'occhi di
tutto il paese, dice che io sono il più bell'uomo del Finaro. Ah, ah!
che ne dite? Non ha, buon gusto la Nena?--

La misera donna fremeva di paura e di orrore insieme, a vedersi quel
ceffo dinanzi e a doverne udire le sconcie parole. Per fermo egli era
preso dal vino. L'alito impuro dallo stravizzo le offendeva la nari.

Per altro, e non era forse a vedersi in cotesto un aiuto del cielo?
che non avrebbe ardito prima d'allora il ribaldo, se i fumi del vino
bevuto non gli avessero offuscato il cervello? A questo pensiero un
fil di speranza le balenò nella mente, e, vincendo il raccapriccio
ond'era tutta compresa, tentò, col dargli risposta, di guadagnar tempo
su lui.

--Badate;--diss'ella.--Siam vittime di un tradimento e la vittoria di
un istante vi accieca. Ma i vostri concittadini, più fedeli di voi al
loro signore non tarderanno a giunger quassù. Non aggravate la vostra
colpa, Tommaso Sangonetto. Siete un ribelle; non diventate un infame.
Io stessa chiederò la vostra grazia a mio padre, e l'otterrò; ma
uscite; uscite, se vi è cara la vita.

--Ah, ah! bene, in fede mia, questo è parlar da padrona!--replicò il
Sangonetto, ghignando.--La mia grazia! Voi mi vendete il sol di
luglio, mia bella ritrosa. La vostra mi preme, e l'avrò, per amore, o
per forza; m'intendete? o per amore o per forza! Do la mia parte di
paradiso per voi. Siete mia, per dritto di guerra; non vi pensate di
sfuggire la taglia. Vi par dura? Avete il torto. Un po' per uno a
comandare; questa è l'uguaglianza. Eravamo noi i vassalli, noi i
censuarii, soggetti a tributo, noi le mani morte, taglieggiabili a
misericordia. Ora tutto è cangiato. Non ci son più signori.
Repubblica, mi capite? Comanda la repubblica di Genova e noi siamo i
suoi mandatari, ci vendichiamo, occhio per occhio e dente per dente.
Vi siete goduti per secoli e secoli ogni maniera di privilegi e
diritti; parecchi di questi, assai ghiotti pe' vostri padri e mariti.
Vivaddio, ne useremo un po' noi... E non c'è strilli che tengano!--

Nicolosina trovò nella sue braccia una forza di cui in ogni altra
occasione non si sarebbe creduta capace. Tanto può in gentil cuore
l'alterezza offesa e il ribrezzo che un tocco d'impure mani
gl'inspira. E non pure si sciolse da quel braccio che aveva ardito
posarsi su lei, ma colla veemenza d'un assalto improvviso fe' dare
indietro e barcollare un tratto l'insolente ribaldo.

--Ah sì?--sclamò egli, facendosi pavonazzo dalla rabbia e fischiando
le parole come un serpente il suo verso.--Dobbiam fare la guerra?
Facciamola! Tu cederai, smancerosa, ingannatrice lusinghiera,
dovess'io romperti le braccia, come rompo questa lampada che mi dà
noia.--

E gli atti seguendo la minaccia, il prode Tommaso strappò la lampa
dalla sua catenella e la mandò in pezzi sul pavimento.

Poco dianzi avea fatto quest'altra argomentazione tra sè:

--Giacomo non viene; dunque ha trovato il fatto suo; dunque a te,
Sangonetto, e fa conto d'essere andato per la prima volta a Verezzi.
Scivolata per scivolata, questa è la meno pericolosa di certo.--

E intanto che egli, non badando al grido di angoscia di Nicolosina, nè
ad un altro suono più degno della sua attenzione, ha gittato a terra
la lampada, e fatto buio pesto nella cameretta di Gilda, vediamo come
e perchè il suo degnissimo compare Giacomo Pico non corresse a dargli
la muta.

Salito con lui fino al secondo piano del castello, il Bardineto aveva
svoltato da solo verso le stanze di madonna Nicolosina. Il cuore gli
battea forte nel petto, così forte che sembrava dovesse ad ogni colpo
schiantarsi. Lo compresse rabbiosamente col pugno, ma invano; quel
battito gli suonava continuamente all'orecchio, e parea misurargli i
minuti che ancora gli restavano a diventare il più infame degli
uomini. Il tradimento consumato, la nefandità a cui si disponeva, e
senza la quale il suo tradimento sarebbe stato il più inutile tra i
delitti, gli turbinavano senza posa nell'anima, e, come le furie
antiche, istigatrici e punitrici ad un tempo, lo incalzavano e lo
inseguivano, gli toglievano il senno, ma senza levargli altrimenti
dagli occhi l'immagine della sua abbiettezza.

Ma che era egli ciò, contro un'ora di vendetta e di ebbrezza? Fosse
pur venuta a coglierlo in quel punto la morte! Tanto, egli lo
intendeva, che in quell'ora di ebbrezza e di vendetta era pieno il suo
vivere.

Sul limitare della camera di madonna, si fermò titubante. L'uscio era
socchiuso e la luce trapelava dal vano. Il Bardineto si fe' scorrer le
mani sulla fronte, come per cacciarne l'ultima vampa di rossore, ed
entrò.

Il letto a baldacchino, guernito di pizzi d'oro, scorgevasi in fondo
alla camera, ma vuoto, senza alcun segno di posatura recente. Giacomo
Pico, meravigliato di ciò, corse cogli occhi in giro, e là, ai piedi
del letto, ove la cortina pendente dal sopraccielo impediva la via
alla luce dei doppieri, immobile, bianca come uno spettro, di
rincontro al tappeto istoriato che copriva la parete, gli venne veduta
una donna. Immobile, ho detto, ma non come persona morta; che viva, e
agitata da una fiera tempesta di affetti, la dicevano gli occhi
fiammeggianti nell'orbite, le labbra rattratte da un moto convulsivo,
il pugno chiuso sul seno, perfino il tremito del braccio teso che si
appoggiava contro la spalliera del letto.

Giacomo Pico rimase come inchiodato al suo posto. Quella donna era la
Gilda.

Fu un lungo silenzio tra i due, rotto soltanto dall'ansia dei loro
petti frementi. Nessuno dei due abbassò gli occhi davanti agli occhi
dell'altro. Si guatavano fisi, e le occhiate si scontravano, torve
come folgori in un cielo tempestoso. Pure, nè l'uno nè l'altro avrebbe
voluto trovarsi colà; tanto era triste la condizione d'entrambi, tanto
sentivano nel lampo dei vicendevoli sguardi l'imminenza dello schianto
che doveva lacerarli ambedue.

Giacomo Pico tentò di svagarsi, inebriandosi della sua collera. Si
morse le labbra a sangue, diede in un ruggito di fiera e fu per
muovere contro di lei. Ma Gilda non gli diede il tempo da ciò.

--Sapevate di trovarmi qui?--gli disse ella con accento vibrato,
quantunque oppresso dall'ira.

La domanda poteva offrire uno scampo. Ma il Bardineto ricusò il
giovarsene.

--No!--rispose egli furente.

--E allora?....--gridò di rimando la Gilda, mal chiudendo in quella
sua reticenza la furia di mille rimproveri.--Badate, Giacomo Pico; voi
sareste un infame. Per chi venivate voi qua?

--Per lei!--rispose Giacomo, sbuffando a guisa di toro ferito.

--Ah, uditelo, demonii d'inferno!--proruppe ella con voce di
tuono.--Egli ardisce mostrarsi più nero, più malvagio di voi!

--Smettete i paroloni!--replicò il Bardineto.--Non vi ho amata mai;
orbene, sì, questo è il mio torto, di non averlo detto prima! È anche
vostra colpa di non averlo indovinato, di esservi abbandonata nelle
mie braccia come una femmina sciocca. Maledizione, maledizione per voi
e per me! dovevo io imbattermi in due donne, l'una così superba e
l'altra così debole?

--Non proseguire, Giacomo!---gridò la Gilda, impallidendo.--Se ami
qualcheduno o qualche cosa, al mondo, non proseguire!

Ma Giacomo Pico, riscaldato com'era, inebbriato della sua collera, non
le diè retta.

--Ah, voi credevate,--proseguì egli, mentre faceva per la camera le
volte del leone,--che io potessi dimenticar quella donna? che io
potessi acquetarmi a' suoi superbi dispregi? Mal conoscete il cuore
dall'uomo.

--Disgraziato, fermati!--gridò per la seconda volta la Gilda.--Vive
già nel mio seno una vita che ti può maledire!--

E mentre si contorceva nello spasimo, rasciugandosi con una mano il
sudor freddo che le stillava dalla fronte, brancolava coll'altra per
trovare un appoggio. In buon punto la spalliera del letto le sostenne
il fianco spossato.

Il Bardineto la vide e n'ebbe compassione. Ma era detto che le parole
sue non dovessero tornar di conforto a quella povera donna.

--È un acerbo dolore per voi; sì, pur troppo; ed una maledizione ch'io
merito. Ci siamo ingannati ambedue. Io stesso non vedevo in fondo al
mio cuore. È un abisso, credetelo, e più nero che voi non pensiate.
Amo io quella donna, o l'odio? Non lo so. Eppure, ella ha da esser
mia. È una rabbia in me, una feroce voluttà di vendetta. Sono un
traditore per lei, mi capite? un traditore. Voi non potreste dirmi
cosa che io già non abbia detto a me stesso. Traditore ed infame. A
lei la colpa, a lei la pena di ciò! Dove è dessa? dove l'avete
nascosta?

--Non la cercate;--rispose Gilda, con un filo di voce.

--Per l'anima tua, disgraziata, dimmi dov'è? Voglio saperlo,
m'intendi?

--Non lo saprete.... dal mio labbro.... mai! Vi basti di avermi
trovato qui, in vece sua, per salvarla da voi.

--Ah sì! Diffatti, perchè sei tu qui? e se tu sei qui nella sua
camera,--proseguì egli, illuminato da un improvviso raggio di
luce,--perchè non sarebbe ella andata a nascondersi nella tua?

--Ah!--sclamò ella, balzando in piedi e guardandolo in volto con occhi
atterriti.

--Sta bene!--disse Giacomo Pico.--La tua paura ti tradisce. Essa è là.
Ed ora, vedremo se ella mi sfugge.--

Così dicendo, Giacomo Pico andò verso l'uscio. Ma la Gilda, ritrovò in
un subito le forze smarrite.

--Voi non uscirete di qui!--gridò ella con piglio risoluto.

E veloce come la folgore, corse all'uscio, lo chiuse, trasse la
chiave, e, innanzi ch'egli avesse avuto tempo a raccappezzarsi, andò a
gittarla sotto un forziere, che stava in un angolo della camera.

L'arnese era di gran mole e appariva eziandio di tal peso da non
potersi smuovere così agevolmente; inoltre, la Gilda si era aggravata
colla persona contro la sponda del forziere, e, chiuse le mani intorno
agli spigoli, mostrava negli atti e nello sguardo scintillante di
esser pronta a resistere con ogni sua possa. Al solo vederla in quella
sua minacciosa postura, il drago, custode geloso dei tesori nascosti,
non sarebbe parso una favola.

Livido per rabbia impossente, Giacomo Pico ristette alquanto sopra sè.
Gli pareva impossibile che una donna avesse a fare così grave ostacolo
a' suoi disegni, alla sua volontà. Eppure, a tanto era giunta costei;
e Giacomo Pico, nella incertezza in cui l'avea posto l'atto audace e
repentino, cercava inutilmente il modo di romper gl'indugi, senza
macchiarsi in un'altra viltà, percuotendo una donna.

Ad un tratto, parve ricordarsi di qualche cosa. Il pensiero doveva
tornargli molesto oltremodo, poichè egli si cacciò a furia le mani nei
capegli e mise un urlo disperato.

--Maledizione! Sai tu che fai ora?--gridò, avventandosi all'uscio e
scuotendolo vigorosamente.

--Salvo la mia padrona!--rispose la Gilda, notando l'inutile sforzo di
lui.

--No, per la tua dannazione, tu non la salvi;--ruggì il furibondo.--Tu
fai un regalo a Tommaso Sangonetto. Ma se tu credi che questo serrame
possa arrestarmi....--

E smesso di urtare nell'uscio, Giacomo Pico ficcò le dita tra il
catenaccio e la parete, cercando di schiantare la staffa piantata nel
muro.

--Un regalo!.... al Sangonetto!....--ripetè macchinalmente la
Gilda.--Che hai detto Giacomo? Dov'è il Sangonetto?

--Nella tua camera, perdio!--urlò Giacomo Pico.--Hai inteso ora?

E proseguiva, così dicendo, a trarre il catenaccio con tutta la forza
delle sue dita ripiegate ad uncino.

--Nella mia camera!.... lui!....--sclamò la povera donna, a cui quelle
parole mostravano una verità a gran pezza più triste che ella non
avesse potuto immaginare da prima.--Ah vile, tre volte vile! Dio di
Giustizia, tu lo hai udito, tu lo hai condannato!--

E mentre il Bardineto, con un ultimo sforzo, veniva a capo di schiuder
l'uscio restìo, quella donna si scagliò furibonda come una tigre su
lui, e, tratto un pugnale di sotto alla cintura, glielo cacciò nelle
reni.

Era quello il pugnale che, il giorno della sua caduta, la povera Gilda
aveva strappato di pugno a Giacomo Pico.

Si voltò in soprassalto il ferito, sentendo il freddo acuto della lama
penetrargli nelle viscere. Voleva piombare su lei, e le sue mani si
spiccarono dall'uscio che avea ceduto in quel momento a' suoi sforzi.
Ma non gli venne fatto; e neppure gli bastò l'animo per sostenere lo
sguardo iracondo di quella Nemesi vendicatrice.

Rimase attonito; mille pensieri, mille immagini confuse gli
traversarono la mente. Il triste dramma della sua vita gli lampeggiò
nello sguardo, in quello sguardo così fiero da prima, e in ultimo così
raumiliato.

Sentì allora venir meno le forze. Con moto istintivo le mani si
stesero, per aggrapparsi al catenaccio, da cui si erano un istante
spiccate. Ma non fece più in tempo e cadde sulle ginocchia.

La Gilda buttò il pugnale lungi da sè, ruppe in un grido di terrore e
forsennata si gittò ai piedi di Giacomo.

--Hai fatto bene;--le disse egli con voce interrotta.--Sono un vile...
tre volte vile!... Eppure non ero nato per finire così!...

--Giacomo! Ed io ti ho ucciso! gridò ella con accento disperato,
strappandosi i capegli dalle tempia.

--No... hai fatto bene... ti dico.--soggiunse il morente, con voce
sempre più fioca.--Vile... tre volte vile!--

Così dicendo, girò attorno gli occhi smarriti, come cercando la luce
che gli sfuggiva. Mosse ancora le labbra, balbettando parole confuse;
allungò le braccia quasi volesse trattenersi anche un istante tra i
vivi; indi reclinò il capo sul petto e stramazzò, colle membra
prosciolte, sul pavimento. Giacomo Pico era morto.



CAPITOLO XVI.

Nel quale si narra come la signora Ninetta al disonore preferisse la
morte.


È tempo di dire, poichè vien proprio a taglio coi fatti che abbiamo
raccontati pur dianzi, da che avesse origine quel tafferuglio, che
aveva distolto da un ufficio di cortesia Don Giovanni di Trezzo.

Mastro Bernardo, coll'amico Antonio Cappa e colla sua compagnia di
finarini, s'era avviato per l'erta di castel Gavone, come aveva
promesso alla Gilda. Pervenuto, con quella maggior sollecitudine che
gli era consentita dalle tenebre, dal vento impetuoso e dalla asprezza
del cammino, sotto alla macchia dei roveri, aveva udito il grido
straziante di soccorso, che, come i nostri lettori già sanno, era
stato gettato da madonna Nicolosina. A lui, per altro, era parso di
riconoscere la voce della sua bella nipote. Rispose, con quanto fiato
ci aveva in corpo, e pensò di essere udito; senonchè, quel rovaio
indiavolato, che a lui portava i suoni dall'alto, impediva che
giungesse la sua risposta lassù. Ma questo era il meno; giungere
bisognava, e mastro Bernardo e il Cappa, sollecitati i loro uomini,
s'inerpicarono di buona gamba per la costiera, e trafelati, ma
contenti d'aver fatto quanto era in poter loro, afferrarono la cima
del poggio.

Colà, alzati gli occhi alle mura del castello, mastro Bernardo vide la
finestra della nipote, illuminata, ma chiusa. Stava per gridare; ma in
quel mentre, un soldato aveva veduto biancheggiare alcun che tra gli
sterpi. Era l'appiccatura delle lenzuola, per cui dovevano tirarsi in
casa, secondo l'indettatura di Gilda, ma che oramai non poteva servire
più a nulla.

Mastro Bernardo capì che quell'utile ordigno qualcuno lo aveva buttato
dalla finestra, e che questo messer qualcuno non era un tale a cui
mettesse conto la loro ascensione. E fin qui la prova della sua
intelligenza non offriva niente di strano. Ma il buono venne subito
dopo, e fu una vera alzata d'ingegno, che doveva raccomandare il suo
nome alla memoria dei posteri.

--Presto, ragazzi, a tôrre una scala!--gridò egli ai vicini.--Andate
dai Bonorini, dai figli della Rossa, che stanno qui presso. Presto,
una scala, due scale, vi dico; tre scale, anzi, quante scale si
trovano. Più saranno, meglio per tutti!--

I casolari a cui mastro Bernardo accennava, erano appunto a breve
distanza, giù per la costa del monte. Però le scale furono tratte al
piè delle mura, prima che il bravo ostiere dell'Altino avesse il tempo
di perdere la pazienza. Due di esse, legate insieme, raggiungevano a
mala pena l'altezza del davanzale; ma il valentuomo non desiderava
niente di più.

Per contro, vedendosi aiutato dalla fortuna, alzò l'animo a cose più
grandi. Gli veniva udito al primo piano del castello un insolito
tramestìo. I nemici entravano dunque allora dall'altra banda? E non si
poteva opporre sorpresa a sorpresa? Le scale c'erano, e per afferrare
una finestra del primo piano non ne occorreva che una. Su dunque; egli
al secondo, con pochi seguaci; il rimanente della compagnia, sotto il
comando del Cappa, si sarebbe introdotto da quella finestra nel primo.

Era questa, nello spazio di pochi minuti, la seconda alzata d'ingegno
di mastro Bernardo; ma ohimè, non così felice come la prima, epperò
(s'ha da metterlo in sodo, quantunque a malincuore) meno degna del
ricordo dei posteri. A scusa di mastro Bernardo non va dimenticato,
per altro, che questa è la sorte di tutte le umane intraprese; chi fa
falla, dice il proverbio, e non tutte le ciambelle riescono col buco.

Lasciamo il Cappa col grosso della compagnia, e seguitiamo mastro
Bernardo. Egli giunse, colla sua spada appesa sugli òmeri, all'altezza
della finestra di Gilda, proprio nel punto che si spegneva la lampada.
Egli stesso la udì rompersi sul pavimento ed ebbe ancora il tempo di
scorgere attraverso i vetri un'ombra nera, che si scagliava verso il
fondo della camera. Afferrare la colonna che partiva in due la
finestra, sfondare d'un pugno vigoroso la vetrata, urtar di spalle e
rovesciarsi dentro, insieme colla imposta atterrata, fu un punto.
Nicolosina n'ebbe animo e lena a respingere il suo assalitore; e il
prode Tommaso, capito in di grosso che quello non era più luogo per
lui, ebbe a mala pena il tempo di darla a gambe per l'uscio; e non
baciò nemmanco la toppa.

Mastro Bernardo alzatosi appena sulle ginocchia, e notato con grande
soddisfazione di non essersi levato di sesto, si diede in quelle
tenebre a chiamar la nipote; ma per lei, non senza meraviglia del
valentuomo, rispose la voce di madonna Nicolosina. Poche e rotte
parole chiarirono ogni cosa, e l'entrata dei nemici, guidati da due
traditori nel castello, e lo stratagemma della Gilda, e l'infame
attentato del Sangonetto. Ma la Gilda? ov'era la Gilda? Nelle stanze
della padrona, per fermo. E mastro Bernardo vi corse a furia,
brancolando a guisa di cieco, urtando della persona nei muri, guidato
dai cenni della contessa d'Osasco, non meno ansiosa, non meno
trepidante di lui.

L'uscio era aperto. Si gettarono dentro, egli, madonna Nicolosina e i
pochi che avevano seguito mastro Bernardo lassù. Un doloroso
spettacolo si offerse ai loro occhi in quel punto. La Gilda, pallida,
scarmigliata, noncurante di loro, stava acchiocciolata presso un
cadavere. Invano la chiamarono per nome, la scossero, la incalzarono
colle dimande; li guatava attonita, senza risponder parola; componeva
le labbra ad un riso melenso; indi tornava a guardare il cadavere.

Madonna Nicolosina chinò gli occhi a sua volta e ravvisò Giacomo Pico,
il suo fiero amatore; rabbrividì, pensando al pericolo ch'ella avea
corso, e a quel nero tradimento che, nella profondità delle sue
dolorose cagioni, nella fulminea prontezza del meritato castigo, e nei
lutti che si seminava d'intorno, attingeva una specie di cupa maestà,
siccome è dato anche al delitto di averla, quando esso derivi da una
grande sventura. E cadde allora, combattuta da tante sensazioni
angosciose; cadde a terra e pregò, colla fronte umiliata ai piedi di
Gilda, che or lei, ora il morto, guardava con occhio istupidito e
rideva.

Intanto, gli uomini che avevano seguito mastro Bernardo scendevano al
piano inferiore, rincorrendo giù per le scale il Sangonetto fuggente.
E là in cambio di trovar lui, che s'era accovacciato in qualche angolo
per aspettare il destro di uscirne, s'imbattevano nelle tenebre in una
masnada di gente, che diè loro addosso con furia. Era il grosso della
compagnia, guidato dal Cappa, che spandendosi per le sale e non
pensando agli amici del pian di sopra, li toglieva in iscambio,
assalendoli vigorosamente, al grido di San Giorgio e Carretto. Nè
valse a tutta prima il rispondere in quella medesima guisa; il furore
è cieco, e sordo per giunta, e la prudenza, poi, teme sempre
d'insidie. Allorquando i combattenti si persuasero d'esser tutti della
medesima insegna, non era più tempo di far opera utile; che la gente
di messer Pietro Fregoso era accorsa con impeto gagliardo ed alte
grida di guerra, dal pianterreno, ove già aveva fatto prigione lo
scarso presidio, e Giovanni di Trezzo giungeva dall'altra banda,
pigliando in mezzo i mal capitati soccorritori. Violento fu l'urto, e
più assai la confusione che la pugna. Le fiaccole portate dagli uomini
di Giovanni di Trezzo, illuminando le sale, diedero agio ai genovesi
di compir l'opera, cansando l'errore in cui erano incappati i nemici,
col picchiarsi alla cieca tra loro. Molti in questa occasione furono i
morti; i superstiti, come di leggieri s'argomenta, caddero tutti
prigioni.

Fornita questa bisogna, e padroni oramai del castello nella sua parte
più ragguardevole, i genovesi pensarono di occupare altresì il piano
superiore, per sincerarsi che non vi fossero altri difensori
appiattati. A tale impresa, che richiedeva, oltre il valore, un tal
po' di riguardo, imperocchè lassù dimorava il grosso della famiglia,
donne, la più parte, e innocuo servidorame, andò Giovanni di Trezzo in
persona, col fiore de' suoi.

In mal punto fu visto allora da Anselmo Campora il nostro prode
Tommaso Sangonetto, che si era poc'anzi imbrancato tra i combattenti.

--Animo, a voi, Sangonetto, che conoscete il castello; insegnate la
strada.--

Tommaso Sangonetto s'augurò in quell'ora d'essere almeno quattro palmi
sotterra. Pure, gli bisognò fare di necessità virtù, e si mosse cogli
altri verso le scale.

--Che diamine avete?--gli domandò il Picchiasodo, che nella allegrezza
della vittoria avea preso a trattarlo più dimesticamente, e saliva con
esso lui, appoggiandogli la sua larga mano sulle spalle.--Non mi
sembrate troppo saldo sulle gambe.

--Io? che, vi pare? sono un po' scombussolato;--balbettò il
Sangonetto.--Capirete bene.... in un momento come questo!... Neppur io
m'aspettavo che la dovesse andar così liscia.

--Eh, non dico di no. Del resto, ci avete dato un buon colpo d'aiuto,
e non dubitate; messer Pietro Fregoso vi compenserà a misura di
carbone.--

Il dialogo dei due amiconi fu interrotto da un cozzo improvviso di
spade là in alto. Mastro Bernardo ne faceva delle sue. Inviperito da
tante disgrazie, ed anche un po' riscaldato, innalzato dalle
circostanze a' suoi occhi medesimi, l'ostiere soldato menava colpi a
dritta e a manca, sull'ingresso dell'appartamento di madonna
Nicolosina, a cui i nemici, guidati dal chiarore dei doppieri, si
erano allora rivolti.

--Sotto! sotto! pigliatelo vivo!--gridò Giovanni di Trezzo.--Vo' farlo
impiccare per la gola, questo furfante, che s'ostina a resistere dove
comanda la repubblica genovese.

--No, perdio, non comanda la repubblica!--rispose fieramente mastro
Bernardo.--Comando io, qui; difendo due donne dai vostri tentativi
ribaldi.--

E seguitava a menar colpi a tondo, per tenere in rispetto gli
assalitori. La lotta, per altro, era troppo disuguale e non poteva
durare più molto.

Madonna Nicolosina si fece innanzi e trattenne il braccio del suo
furibondo campione.

--Smettete, vi prego;--diss'ella,--Colui che ha parlato è di sicuro il
comandante di questi soldati. Egli non vorrà certo recare offesa a due
donne.

--Ben dite, mia nobil signora;--fu pronto a rispondere Don Giovanni di
Trezzo.--Dove noi comandiamo, degli insultatori di donne si sogliono
caricar le bombarde.

--Ah, sì? Vediamo dunque la prova!--entrò a dire mastro
Bernardo.--Cercate pel castello il vostro amico e aiutante Tommaso
Sangonetto, che in qualche buco si sarà pure ficcato, e fategli fare
questa piacevolezza, che l'ha meritata davvero.

--Che dici tu ora?

--Dico, messere, che mentre voi facevate il vostro mestier di soldato
a pianterreno, il vostro aiutante è salito quassù a ruba di donne, e
già aveva ardito di mettere le sue sconcie mani sulla figliuola del
nostro marchese, sulla illustrissima contessa di Osasco.

--Se la cosa sta come tu la racconti,--disse Giovanni di Trezzo,--sarà
fatta giustizia.

--Ohè! che cos'è questo ch'io sento?--diceva intanto il Picchiasodo a
Tommaso Sangonetto.--Ma tu tremi a verga, furfante!

--Fate cercare quest'uomo!--gridò una voce imperiosa dal fondo, che
fece dare indietro i soldati e lo stesso comandante, per modo che il
passo fu subito sgomberato.--Madonna,--proseguì allora colui che aveva
parlato in tal guisa, nell'atto che s'inoltrava verso la contessa
d'Osasco,--vogliate condonare la poca vigilanza nostra ad un'ora di
trambusto. Non sarà mai detto che l'esercito comandato da Pietro di
Campo Fregoso sia contaminato da cosiffatte ribalderie. I miei soldati
hanno ordini severi e consuetudini oneste di pugna. Ora, se il
capitano si giova di tutti gli spedienti e accoglie ogni servizio che
lo conduca più prontamente al suo fine, egli non può altrimenti
sottrarre ad un castigo esemplare chi commette la viltà di oltraggiare
una donna. Contessa d'Osasco, il vostro offensore sarà giudicato
domani.

--O stamani,--mormorò il Picchiasodo,--perchè oramai si può cantar
mattutino.--

Il Sangonetto faceva in quel mentre un passo indietro, sperando di
mettersi lontano dal tiro e di darla a gambe non visto. Ma il
Picchiasodo ci aveva gli occhi nella collottola.

--Ehi, dico, non mi dare la volta! Qua, mal arnese, e sentimi questo
po' di tanaglia. A voi, dopo tutto; non cercate più altro, ecco
l'uomo!--

Da questo breve discorso il savio lettore argomenterà i gesti del
Campora, che io non mi fermo a descrivere. E nemmanco mi dilungherò a
raccontare come il Sangonetto, tirato a forza davanti a madonna
Nicolosina, che non voleva accusarlo, si buttasse vilmente ginocchioni
ai suoi piedi, e ne implorasse la intercessione presso il capitano
generale. Il lettore ne sarebbe stomacato come lo fu messer Pietro
Fregoso.

--Basta!--diss'egli, stizzito,--Levatemi questo codardo da' piedi!
Anselmo, tu sei pratico di queste faccende e sai che cosa ci voglia
per mantenere la disciplina e custodir l'onore di un esercito. Ti dò
questo briccone in governo; fanne giustizia a tuo senno.

--Eh! un bel regalo!--borbottò il Picchiasodo tra i denti.

Messer Pietro tornò poco stante alle cure del comando; chè, preso il
castello Gavone, non era già finita ogni cosa, ma bisognava tener
salda la preda e provvedere in pari tempo alla sicurezza
dell'esercito, contro ogni colpo disperato del Borgo.

Le precauzioni non erano inutili. Gente risoluta ce n'era in buon dato
nel Borgo, anche dopo la partenza, voluta a forza un mese addietro dal
marchese Galeotto, di messer Barnaba Adorno e degli altri della sua
casa; ai quali, perchè fuorusciti di Genova e mortalmente odiati dai
Fregosi, dovevasi risparmiare ad ogni costo il brutto quarto d'ora
d'una resa, oramai preveduta da tutti. Rimanevano adunque nel Borgo i
congiunti e i principali aderenti del marchese; e bene pensava messer
Pietro, che, pigliato di sorpresa il castello, bisognasse
assicurarsene il possesso, rafforzandolo con molta mano di soldatesche
e sussidio d'artiglierie, prima che i difensori del Borgo fossero per
riaversi dallo stupore.

Frattanto, il nostro bravo Giovanni di Trezzo conduceva madonna
Nicolosina, la madre e l'altre donne, a riparo nella chiesuola di San
Giorgio, che era dentro al castello, e colà usava ogni maniera di
cortesi trattamenti ad essa e agli altri ragguardevoli uomini di casa
Carretta, che erano stati colti in quella notte lassù.

Tra queste ed altre cure simiglianti, giunse il mattino, lieto per gli
uni, doloroso per gli altri, siccome avviene pur troppo di tutti i
giorni dell'anno. Anselmo Campora era già sulla spianata davanti al
castello, per mettere in sesto la signora Ninetta ed alcune
bombardelle tirate in fretta lassù dal battifolle di Pertica, mentre i
soldati di Trezzo e i mastri di legname, sparsi nei dintorni,
lavoravano ad asserragliare il poggio dalla parte del Borgo. Lavoro
arrangolato e sollecito, poichè si temeva che da un momento all'altro
potessero i finarini tentare un colpo disperato sull'erta.

--Aspettate;--diceva il Picchiasodo;--or ora manderemo a quegli
ostinati una nespola del nostro orto, e saprà loro d'acerbo. A
proposito, s'ha a far giustizia di quell'altro. Ohè, Falamonica, dov'è
il prigioniero?

--Sotto chiave nei fondi del castello, come avete ordinato;--rispose
il Falamonica, che i nostri lettori avranno creduto morto, laddove
egli non aveva preso che un bagno freddo.

--Orbene, vallo a pigliare e portalo qua. Quell'altro ha già avuto il
fatto suo dalla donna; al suo degnissimo sozio glielo daremo noi, in
lire, soldi e danari.--

Poco stante, un drappello di soldati conduceva sulla spianata Tommaso
Sangonetto, il prode Sangonetto, bianco il volto come un cencio
lavato, e già più morto che vivo.

--Messer Pietro mi ha posto un bel carico sulle braccia!--borbottò il
Campora, vedendo giungere quel disgraziato.--Che vi pare, amico
Giovanni? S'ha proprio a caricarne la bombarda, di quel batuffolo di
stracci?

--Perdio!--rispose Giovanni di Trezzo.--Fate come v'aggrada, Anselmo,
poichè il capitano generale v'ha lasciato in governo il panno e le
forbici. Ma io domanderò a voi che cosa si è sempre fatto delle spie,
dei disertori e dei furfanti pari a costui. Per me, ve lo dico
schietto; se fossi il mastro de' bombardieri, vorrei risparmiare una
palla.

--E sia;--ripigliò il Picchiasodo.--a voi dunque, signora Ninetta;
preparatevi a ricevere in casa un briccone.--

Il Sangonetto, come i lettori possono figurarsi, guatava con occhio
smarrito ora il Picchiasodo ora Giovanni di Trezzo, e ansimava, sudava
freddo e tremava; sopratutto tremava e gli battevano i denti, e gli si
piegavano le ginocchia. I soldati, più assai che tenerlo stretto nelle
ugne, dovevano reggerlo sotto le ascelle, che non avesse a cascare da
senno, come un batuffolo di stracci.

In quel mentre, il Falamonica si messe a gridare.

--Ah, cane! eccolo là!

--Chi?--domandò il Picchiasodo.

--Vedete, messere; il vostro cucco, il vostro prediletto, il mariuolo
che m'ha gettato nel pozzo.--

Colui che il Falamonica segnava a dito, era per l'appunto il Maso,
fatto prigioniero nella beltresca, riconosciuto da alcuni soldati pel
fuggitivo del giorno addietro, e condotto da essi al Campora, colla
speranza di averne la mancia.

Anche il Maso riconobbe il Falamonica, e se fu contento di non averlo
mandato a male, non si tenne altrimenti per salvo.

--Son fritto!--diss'egli un'altra volta in cuor suo.--Non c'è più
scappatoie.--

Per altro, nell'avvicinarsi alla comitiva, l'animoso giovinotto volle
ancor dire la sua.

--Ah, sia lodato il cielo, Falamonica! Siete voi, proprio voi, in
carne ed ossa!

--E nervi, per stringerti il nodo alla gola, assassino!--rispose il
Falamonica, guardandolo a squarciasacco.

Il Picchiasodo entrò in mezzo al discorso.

--Furfante!--diss'egli, aggrottando le ciglia o ingrossando la
voce.--Così hai risposto alle mie amorevolezze per te?

--Scusate, padron mio riverito;--rispose il Maso, facendo faccia
tosta;--ero prigione, ma non già sulla parola, nel campo vostro. Sono
fuggito, per tornarmene quassù, a fare il debito mio di finarino e di
soldato. C'è la storia del pozzo, lo capisco; ma il pozzo era poco
profondo, e difatti, ecco qua il Falamonica, più sano, e credo anche
meglio pasciuto di prima, mentre io non ho più messo altro in corpo,
dopo la vostra ultima minestra. Messere Anselmo, fatemi impiccare, se
ciò vi dà gusto e se è necessario alla vostra felicità; ma ditemi in
grazia una cosa: ne' miei panni, ieri, che cosa avreste fatto voi?


--Si domanda? Avrei dato fuoco alla baracca ed al campo;--rispose
il Picchiasodo alzando la spalle e facendo cipiglio, per
nascondere un sorriso che gli spuntava già sotto i baffi.--Dal
resto,--aggiunse,--siccome io non ero ne' tuoi panni, ieri, non
vorrei esserci oggi per tutto l'oro del mondo.

--Già, capisco;--borbottò il Maso;--puzzano d'impiccato un miglio
lontano.

--Torniamo a noi,--ripigliò il Picchiasodo,--e sbrighiamo anzitutto
quell'altro.

--Messere,--disse il Falamonica sottovoce al padrone,--sapete che la
bombarda è carica.

--Eh lo so, bighellone! Prima si manda la nespola al Borgo, e poi
metteremo dentro costui. Messere dell'archibugio,--soggiunse il
Picchiasodo, volgendosi al Sangonetto con una celia da camposanto,--o
quanto non era meglio per voi che vi foste fatto vivo con me, laggiù,
all'osteria dell'Altino? Ma già,--proseguì borbottando,--se voi foste
stato un uomo di polso, non vi sareste macchiato di tradimento e
d'infamia. Animo, a te, bombardiere! Avanti l'uncino, e fuoco!--

Il bombardiere obbedì, togliendo l'uncino arroventato dal braciere e
accostandolo al focone. Seguì un lampo e insieme col lampo un fragore,
uno schianto, come di folgore, che intronò le orecchie di tutti gli
astanti e a qualcheduno fe' peggio. La palla era uscita, ma in pari
tempo era andata in frantumi la canna. La signora Ninetta, la povera
signora Ninetta, amore e delizia di Anselmo Campora, era andata dove
vanno tutte le cose vecchie, e talvolta anco le giovani; e ben se ne
avvide il suo cavalier servente, quando fu diradata la nube che lo
scoppio della polvere aveva prodotta, e si udirono le strida di
parecchi soldati, feriti dalle scheggie del pezzo.

--Ah, per l'anima di!....--gridò il Picchiasodo, che non sapeva più in
nome di chi bestemmiare con frutto.--Birbe matricolate! La mia
bombarda! La regina delle bombarde! Vedete un po'! E stamane, poi,
proprio stamane! Ma che diamine avete voi fatto? Forse nel trarla
quassù l'avreste lasciata ruzzolare pei sassi?

--No, messere Anselmo; s'è portata con ogni cura e non le si è fatto
alcun male;--gridarono ad una voce i soldati.

--Già,--entrò a dire Giovanni di Trezzo,--tanto va la gatta al lardo
che vi lascia lo zampino. Anche le bombarde sono mortali, e voi
saprete quello che ha detto il poeta: Cosa bella e mortal...

--Sì, sì, ho capito!--interruppe il Campora.--Questa è opera del
Cattabriga, che, fedele alla sua praticaccia, mi avrà risciacquato la
bombarda coll'aceto.

Il Picchiasodo si apponeva; chè infatti il mal uso di lavar le
bombarde coll'aceto era spesso cagione di simili guasti, e non tutti
se ne volevano persuadere. Il Cattabriga, bombardiere a cui Anselmo
Campora avea dato cagione di quella disgrazia, era lì per rispondere,
chiedendo scusa al suo comandante, allorquando il Maso uscì fuori con
una delle sue solite arguzie.

--Messer Anselmo--diss'egli--credete a me, non è l'aceto. La signora
Ninetta è una bombarda per bene. Ha veduto il brutto coso con cui
volevate appaiarla, e al disonore ha preferito la morte.--

Il Picchiasodo lo guardò un tratto in silenzio, come se stesse in
forse, meditando la profondità dell'osservazione. L'amore per la sua
povera bombarda gli diede il tracollo.

--Tu hai colpito nel punto,--gridò,--ed ecco una osservazione che ti
salva la vita. A te! ami quest'uomo?--gli chiese, additandogli il
Sangonetto.

--Come il fumo negli occhi!--rispose il Maso.--È un traditore del mio
paese; faceva l'occhiolino ad una certa persona che è sempre piaciuta
a me; ha fatto, come sento or ora, un'azionaccia... Come volete che io
l'ami?

--Ti sentiresti di fartela con lui?

--Perdio!--sclamò il Maso.--Ve lo infilzo come un tordo allo spiedo.

--Sta bene, hai qui la mia spada. Tienla per amor mio, te la regalo. E
tu, mascalzone,--proseguì il Campora, contento di aver trovato una via
così spiccia,--levati di qua; vattene al Borgo, se ti ricevono, e se
questo giovinotto ti consentirà di arrivarci!--

Il Sangonetto cadeva, come suol dirsi, dalla padella nella brace.

--Messere,--balbettò egli, con voce piagnolosa,--chiudetemi in una
prigione per tutta la vita, vi supplico...

--No,--rispose il Picchiasodo,--mi faresti scoppiar la prigione dalla
vergogna. Va via! Fategli largo, voi altri! E tu, piglialo, da bravo!

--Ammazza! ammazza!--gridarono in coro i soldati, vedendo il
Sangonetto che batteva il tacco verso la china.

--Non dubitate,--gridò il Maso, correndogli sull'orme,--è un uomo
morto.--

I soldati del Campora e di Giovanni di Trezzo ebbero allora uno
spettacolo di corsa, che nel Circo massimo, ai giuochi gladiatorii,
non ebbe l'uguale il più famoso popolo della terra, Il Sangonetto,
veduto andargli a male la sua ultima speranza, s'era dato a fuggire, e
volava via come il vento. Come fu al ciglione del poggio, piegò
improvvisamente a dritta, e giù a fiaccacollo, guadagnando una
cinquantina di passi sul Maso che lo seguiva furente.

I soldati corsero sui greppi per averne l'intiero.

--Lo perde!--No, non lo perde!--Vedrete; là dietro alla macchia dei
roveri lo raggiunge di certo.--Che! vedetelo là, il furfante; va via come
una lepre.--Sì, ma l'altro è buon cane da giungere, e non gli dà troppo
campo.--Ah, diamine, eccoli là nel torrente!--Incespica!--Chi?--Il
giovinotto, perdiana! Ma ecco, si rialza; non s'è fatto nulla.--E
quell'altro, vedete un po'! Già, la fortuna aiuta i bricconi. Piglia la
via della Caprazoppa.--E qual'altra volete che pigli? Se va al Borgo, è
un uomo spacciato. Se volta a tramontana, intoppa nel battifolle di
Gorra.--O come? Non si vede già più?--Lo nascondono quei massi sporgenti.
Guardatelo ora, là tra quei due cespugli, che s'inerpica.--Ha da essere
stanco la parte sua. Ma l'altro, dov'è?--Guardate è là sotto, a cento
passi più giù.--Lo perde!--No, non lo perde. Vedete? lo fiuta da lunge, e
si rimette sull'orma.--

Questi i ragionari dei soldati, lungo la costiera occidentale di
castel Gavone. Intanto, era vero che il Sangonetto aveva fatto ogni
poter suo, e che il petto non gli reggeva più oltre a sostener quella
gara mortale. Giunto a fatica presso uno di que' massi biancastri che
sporgono fuor della ripida costa, sotto la roccia dell'Aurèra, si
gittò per morto a rifugio entro una fratta di arbusti e sterpi
intralciati. Colà ristette, trattenendo a forza il respiro, sperando
che il suo nemico avesse smarrito la traccia.

E ciò temettero dal canto loro i soldati genovesi. Il Campora già si
pentiva di aver fatto al briccone un così largo partito. Ma poco
stante comparve il Maso al piè dello scoglio; i soldati lo videro star
perplesso un istante, indi con passo guardingo inoltrarsi, strisciar
quasi a mo' di serpente lunghesso i fianchi scoscesi del masso. Quel
che seguisse, non fu dato ad essi di scorgere; bensì parve loro di
udire a qualche distanza un grido lamentevole. Indi a non molto, una
massa informe, come un sasso, o un batuffolo di cenci (la frase era
del Campora) precipitava da quel greppo, ruzzolava per la china
paurosa del monte.

--Animo, ragazzi!--gridò il Picchiasodo.--Ci abbiamo avuto un'ora di
svago. È tempo di tornare ai fatti nostri. E così vada bene ogni cosa
per noi, come questa c'è andata, coll'aiuto di Dio.

--_Amen_!--risposero i bombardieri, che vedevano il loro comandante di
buon umore e s'arrischiavano a far gazzarra con lui.



CAPITOLO XVII.

Che è il più breve, e che parrà anche, per virtù del commiato, il più
bello di tutti.

La mattina del 6 di febbraio 1449, i genovesi si erano impadroniti,
come ho raccontato, del castello Gavone. Il giorno 8 di maggio avevano
a discrezione le mura e gli abitanti del Borgo.

Questa vittoria, siccome i tre mesi di estrema resistenza dimostrano,
era costata sangue e fatica non lieve all'esercito. Gli assediati con
uno sforzo inaudito avevano tentato perfino di ricuperare il castello,
e in più d'uno scontro i genovesi si erano veduti a mal passo. Lo
stesso capitano generale, entrando alla riscossa ed esponendo la
persona, come del resto era suo solito in cosiffatti frangenti, toccò
la sua brava ferita. Ma finalmente, veduti mancare i soccorsi che il
marchese Galeotto cercava di raggranellare ne' suoi feudi d'oltre
Appennino, e che chiedeva, ora a Torino, ora alla corte di Francia, i
finarini si arresero, dopo quasi un anno e mezzo di lotta.

A Genova, tenendosi certa la vittoria, si era disputato nell'uffizio
di Balìa se fosse ben fatto assaccomannare e distruggere in tutto la
terra del Finaro; ma il consiglio deliberò (come dice quel candido
uomo di monsignor Giustiniani) la parte _più benigna ed umana_. «E fu
deliberato di dare a saccomanno solamente il borgo e di rovinare la
fortezza del Gavone. E perchè si era promesso, in caso della vittoria,
a Marco del Carretto e ai compagni la terza parte del Finaro, ovvero
l'equivalente, fu deliberato di satisfarlo. E, ai nove di maggio, gli
uomini del Finaro giurarono la fedeltà alla repubblica di Genova. E
poi, ai quindici d'agosto, la repubblica li fece capitoli e grazie,
come appàreno di tutte le predette cose autentiche scritture
nell'archivio del comune. Tra queste larghezze è forse da notarsi il
presente d'uno stendardo, che portava un leon d'oro in campo bianco,
con questa leggenda tra le fauci: «_Custos fidei sacrae populs
finariensis_».

Mario Filelfo, istorico di quella guerra per conto di casa Carretta,
racconta che addì 24 di maggio, essendo già tratti a Genova come
statichi cencinquanta dei più ragguardevoli cittadini, fu dato il
Borgo alle fiamme e smantellato il castello. Ed altro narra eziandio,
che non mi pare da credergli intiero; imperocchè, se di castel Gavone
può ammettersi la rovina, almeno nelle parti più atte a difesa, non
può credersi altrimenti che fosse distrutto il Borgo, ove il
bellissimo campanile di San Biagio, la chiesa di Santa Catterina col
suo convento di domenicani, la vôlta di Ramondo, e più altre fabbriche
medioevali, fanno fede ai tardi nipoti di una certa moderazione, anche
negli atti più vandalici, che erano pur troppo nel costume dei tempi.

Nè mancarono da parte di messer Pietro Fregoso gli atti umani e
cortesi. Prima ancora che avesse fine l'assedio del Borgo, madonna
Bannina e tutte le donne della sua nobil famiglia, tra le quali la
bella Nicolosina, furono mandate in libertà e accompagnate alle
Màllare, donde andarono a ricongiungersi col marchese Galeotto a
Millesimo. Dopo la resa, anche il conte di Cascherano fu libero di
andare a pigliarsi la moglie e di ricondursi seco lei al suo castello
di Osasco.

Inoltre (e questo io l'ho di buon luogo, sebbene non ne faccia motto
il Filelfo) Anselmo Campora, che si ricordava de' suoi amici, faceva
rimandare a casa sua il povero mastro Bernardo; e messer Pietro
Fregoso diede anche in regalo a lui e al Maso un bel gruzzolo di
monete; colle quali i nostri due amiconi rinnovarono i mobili,
l'insegna e la cantina, nell'osteria dell'Altino.

Insieme collo zio Bernardo e colla zia Rosa, si era ritirata
all'Altino la Gilda, non più pazza, nè scema di mente, come da
principio si temeva, ma assai giù dello spirito pei casi gravissimi
che l'avevano afflitta, e quasi esangue per una grave infermità che da
tanta commozione le era seguita. Dal tempo e dall'amor vigilante de'
suoi, aspettiamo il rimedio efficace ai mali della Gilda, della più
leggiadra ragazza del Finaro, ora che madonna Nicolosina è andata ad
abbellire di sua presenza il castello di Osasco, sfuggendo al nostro
tema e, come potete immaginare, anche alla nostra attenzione.

Il marchese Galeotto, poi ch'ebbe peregrinato qua e là in cerca di
aiuti, e risaputo con suo grave rammarico della morte di Bannina,
avvenuta a Millesimo in quel tempo che i genovesi entravano padroni
nel Borgo, si recò in Francia e vi rimase a lungo, pigliando parte, da
quel valentuomo ch'egli era, alle guerre di quel reame. Colà, in una
pugna navale sulle coste di Bretagna, un colpo di bombarda ebbe a
sconciargli un braccio per modo, che indi a non molto dovette morirne,
ma colla consolazione d'aver riveduto il fratello Giovanni, uscito
finalmente dalle prigioni di Genova.

Chi vuol saperne di più, intorno a questi due personaggi, faccia capo
ai Filelfo e si misuri col suo latino indiavolato. Leggerà eziandio
come Giovanni, aiutato dalle soldatesche dei cugini, da quelle de'
suoi aderenti e infine dai soccorsi di Francia, ripigliasse più tardi
il marchesato ai genovesi e desse opera a rifabbricare la città ed il
castello Gavone.

Egli e i suoi discendenti godettero senza disturbo (poichè Genova,
straziata dalle fazioni, aveva altro che fare) il loro marchesato
insieme co' feudi di Stellanello in val d'Andora, di Calizzano in val
di Bormida grande, di Massimino sul Tanaro, di Bormida, Pallare e
Carcare sulla Bormida d'Acqui. Senonchè (vedete, egli c'è un
senonchè!) un Alfonso II, o degenere da' suoi maggiori, o rifattosi
per cagion d'atavismo alle costumanze dei più antichi tra loro, uscì
in ogni maniera di prepotenze e di colpe. Dura infame la memoria di
lui nella terra, ed io mi dispenso dal ripetere tutto ciò che di lui
si racconta. Basti il sapere che fattosi senza licenza sua un
matrimonio nel borgo, andò furibondo a turbare la serenità d'un
convito nuziale e afferrata la sposa per le trecce, la tolse
sull'arcione e la portò via a galoppo in castello. Narrasi altresì che
usasse cavalcare a diporto verso la Marina, e di là fino a Pia, dove
entrava col cavallo nella chiesa di Santa Maria ed egli e i suoi
cortigiani, ritti sulle staffe, abbeverassero i cavalli nella pila
dell'acqua santa.

Noti so quale dei due fatti tornasse più ostico ai vassalli del
marchese. Cito a memoria cose udite da bambino, e non ho tempo a
dilungarmi in queste minutaglie della storia. Il certo si è che i
finarini perdettero la pazienza, e mentre Genova ne pigliava ansa a
tornare su Castelfranco, i maltrattati e disputati sudditi si
richiamavano contro il loro marchese e contro il doge di Genova, al
tribunale del sacro Romano Impero; che, imitando il giudice famoso
della favola esopiana, volle per sè il feudo aleramico e vi mandò
commissarii a governarlo in suo nome.

Ciò fu nell'anno 1568. Tre anni dopo vi si allogarono gli Spagnuoli,
per avere una rada sicura donde procurarsi la via più spedita al
milanese; e signoreggiarono il marchesato, spendendovi tesori, fino al
1713; nel quale anno Carlo VI lo vendè per sei milioni di lire alla
repubblica di Genova. Questa a sua volta lo tenne, quantunque
agognato, e per due anni anche carpito dai duchi di Savoia, fino al
giorno della ingloriosa sua morte.

Vedete mo' quante vicende in quattro palmi di terra! Ma altri luoghi
d'Italia ebbero peggio, e per le divisioni dei popoli, e per le gare
dei maggiorenti; donde le ambizioni dei condottieri, le male arti dei
principi e le armi straniere in casa nostra. L'esempio di ciò che
patirono gli avi, insegni la concordia e la temperanza ai nipoti.

Torno indietro fino al 1450, per dire ai lettori benevoli che questo
racconto può non aver annoiati del tutto, come le cure affettuose
d'una buona famiglia e la divozione sconfinata di un'ottimo
giovinotto, vincessero il male e confortassero lo spirito della povera
Gilda. La più leggiadra ed anco la più disgraziata donna del Finaro,
era ben degna di questo dono celeste, che è una stilla d'oblìo.

Anselmo Campora, visitatore quotidiano della famosa osteria, s'invitò
da per sè al modesto banchetto. Modesto, poi, si dica soltanto per la
qualità dei commensali, non già per quella dei cibi, e molto meno per
quella dei vini. Quel sornione di mastro Bernardo scovò ancora per la
solenne circostanza, da una certa buca fatta due anni addietro in
cantina, una mezza serqua di fiaschi di quella sua prelibata malvasia
di Candia, che faceva arrovesciar gli occhi, in segno di beatitudine,
al miglior bevitore dell'esercito genovese.

--Siete un brav'uomo, mastro Bernardo!--gridò il Picchiasodo, poi
ch'ebbe trincato alla salute di Gilda, del Maso, della zia Rosa, e, a
farla breve, di tutti gli astanti,--E vedo, stando qui di presidio,
che questo popolo è buono, come si è mostrato valoroso in tante
occasioni. Sentite ora un mio pensiero; _in vino veritas_, e se me ne
versate dell'altro, mi spiegherò ancora meglio. Grazie infinite! Io
dico dunque, che, come noi due non ci odiamo, perchè abbiamo potuto
ricambiarci qualche servizio, così non debbono odiarsi finarini e
genovesi. Che diamine? o non parliamo tutti lo stesso vernacolo?
Meditate su questo punto, mastro Bernardo, che mi par l'essenziale. E
non vi metta in pensiero qualche divario nella pronunzia, come a dire
un po' di cantilena che noi sentiamo nella vostra parlata, e un po' di
strascico che voi fiutate nella nostra. Son cose da nulla, e appunto
perchè son cose da nulla, mi stanno a riprova di quanto io v'ho detto.
Credete a me, mastro Bernardo; io non so che cosa avverrà di noi tra
qualche anno, ma son sicuro che un giorno i nostri figli
dimenticheranno queste bizze tra parenti, o non le metteranno in
tavola che per ricordare le prodezze comuni. Il Finaro è un bel paese,
ma Genova non gli sta di sotto, e ve lo provo. Voi ci avete il vino di
Calice; noi quello di Coronata; sinceri ambedue come i nostri cuori,
sfavillanti come i nostri occhi, generosi come l'indole nostra. A chi
non piace il vino, Dio gli tolga l'acqua! Chi non vede di buon occhio
l'amicizia e la fratellanza dei Liguri, abbia il canchero in casa.
Pensateci su, mastro Bernardo! Con Genova a capo, si può far la
Liguria, come è già stata una volta. E un giorno, chi sa?... Da cosa
nasce cosa, e il tempo la governa. Ho detto.--

Così il buon Picchiasodo alle frutte. Ed io ho raccolto con riverenza
queste briciole oratorie d'un capo di bombardieri, che precorreva di
mezzo secolo Nicolò Machiavelli.

FINE.



  INDICE

  CAP.  I. Nel quale si narra di due viaggiatori che amavano
          saper molto e dir poco...............................Pag. 1

   »   II. Dove messer Giacomo Pico impara che il torto
           è degli assenti..................................... »  24

   »  III. Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni,
           Tommaso Sangonetto avrebbe potuto
           dar de' punti a Boezio.............................. »  48

   »   IV. Nel quale si vede messer Pietro perdere la pazienza,
           il Sangonetto la ciarla, il Picchiasodo l'occasione,
           Giacomo Pico il tempo e mastro Bernardo la scrima... »  68

   »    V. Del messaggio di Pietro Fregoso e di ciò che
           ne seguisse al castello Gavone...................... »  91

   »   VI. Nel quale si vede come san Giorgio, invocato da
           due parti, non sapesse a cui porgere orecchio....... » 112

   »  VII. Come, Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina
           e qual risposta ne avesse........................... » 138

   » VIII. Dove si vede che non arriva sempre tardi chi
           arriva dopo......................................... » 159

   »   IX. Qui si racconta di un nibbio, che rincorrendo
           una colomba s'abbattè in una tortora................ » 176

   »    X. Nel quale si parrà l'accortezza del narratore, per
           annoiare il meno possibile i suoi benigni lettori... » 192

   »   XI. Dove è detto del Maso, ragazzo, come cangiasse
           stato e quante volte padrone........................ » 210

   »  XII. Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre
           satollo............................................. » 227

   » XIII. Del giro che fece un segreto prima di uscire ad
           utile di qualcheduno................................ » 244

   »  XIV. Dove si vede che la notte non è sempre fatta
           per dormire......................................... » 261

   »   XV. Qui si racconta delle valentie di due sozi, i quali
           non erano Teseo e Piritoo........................... » 279

   »  XVI. Nel quale si narra come la signora Ninetta al
           disonore preferisse la morte........................ » 295

   » XVII. Che è il più breve, e parrà anche, per virtù del
           commiato, il più bello di tutti..................... » 312



NOTA DEL TRASCRITTORE: i seguenti refusi sono stati corretti (tra
[parentesi] l'originale):

  --Vattene, allora!--ripiccò spazientito il Bardineto[Bardinetto].
  la ruggine non c'è, come non c'è la ciliegia[ciliega], con vostra
  davanti a lui, con atto di ossequio, non disgiunto[digiunto]
  Ma[Me] Barnaba nel messaggero di guerra avea ravvisato
  --Che diavol fanno?--si chiedevano i difensori[difensore]
  il cugino Galeotto[Galeottto], che i Genovesi portavano
  Tutto andò francamente[francamento] come avea disegnato il
  ecco perchè madonna Nicolosina[Nicosolina], abbassò gli occhi
  prime calze che ho smesso. Che forse c'è mestieri di gratitudine[gratudine]
  --Sarete un pezzo grosso,--borbottò[borbotto] il balestriere
  Bardineto[Bardinetto], il braccio destro del marchese Galeotto,
  Fattosi, alla bocca del pozzo, cavò di dentro alla bigoncia[bigoncio]
  --Madonna!--gridò tra i singhiozzi[sighiozzi] che le facean
  se non era che Giacomo Pico, meditando del continuo[contitinuo]
  esser nemmeno degli ultimi sulle mura, poichè il Bardineto[Bardinetto]
  le balenò[belenò] nella mente, e, vincendo il raccapriccio
  e[e e] di ebbrezza? Fosse pur venuta a coglierlo in quel
  per afferrare una finestra del primo piano non ne occorreva[occoreva]
  dire[diro] mastro Bernardo.--Cercate pel castello il vostro
  giustizia di quell'altro. Ohè, Falamonica[Filamonica], dov'è il prigioniero?
  bianco il volto come un cencio[cecio] lavato, e già più
  della morte di Bannina[Bennina], avvenuta a Millesimo





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