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Title: Tre racconti sentimentali
Author: Bettoni, Paolo
Language: Italian
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TRE RACCONTI SENTIMENTALI

DI

PAOLO BETTONI



_Proprietà letteraria dei Tipografi-Editori._



Illustrazione: --Signore, rispose Antonio.... io suono per la prima
volta e forse per l'ultima....

                          BETTONI. _Vizio, miseria e virtù_, Pag. 34.



  TRE RACCONTI SENTIMENTALI


  1.°
  VIZIO, MISERIA E VIRTÙ

  2.°
  UN GENTILUOMO MENDICO

  3.°
  UN AGNELLO FRA DUE LUPI

  DI

  PAOLO BETTONI

  MILANO
  PER BORRONI E SCOTTI

  1855.



VIZIO, MISERIA E VIRTÙ


In un viottolo poco lungi dalla Piazza Castello in Milano avvi una
casaccia coi muri qua e là screpolati e puntellati, una casaccia
umida, o scura, immonda e dotata di tutte le qualità necessarie per
destare ribrezzo in chiunque non abbia i sensi ottusi e grossolani
affatto. Questa schifosa e pericolosa catapecchia è abitata da dieci o
dodici inquilini, tutta gente miserabile, che sta in armonia col
luogo, gente cenciosa, di cattivo odore e di sinistro o malaticcio
aspetto. Pare impossibile che vi sia un uomo abbastanza sfrontato da
confessarsi proprietario di un tale ammasso di pietre guaste, di
legnami tarlati e di ferramenta corrose dalla ruggine. Si crederebbe
che questo lurido albergo fosse per vergogna abbandonato in perpetuo a
chi ha il coraggio di abitarlo. Ma non facciamo paradossi, nè strane
osservazioni a danno della verità. Non vi è cosa materiale al mondo, e
sia pur vile e spregevole, purchè utile, la quale non appartenga ad un
padrone, sempre pronto con tutte le sue forze a difenderla dalle
usurpazioni, e far valere i suoi diritti di proprietà. Anche la casa
in proposito ha dunque un padrone, il quale è visibile alle scadenze
per riscuotere il danaro degli affitti, danaro scaturito in complesso
da tre fonti, vale a dire dal lavoro, dall'elemosina e dal delitto. Al
padrone non importa un cavolo di queste provenienze: egli bada
soltanto se le monete sono di buona lega e di giusto valore. Chi non
paga puntualmente la pigione deve sloggiare senza misericordia. Per
verità non sarebbe un castigo l'abbandonare quella fetida tana, ma il
guajo si è che bisogna lasciarvi i mobili. Mio Dio, i mobili! Sì, sì,
questa parola indica tanto la bella e preziosa suppellettile del
ricco, quanto i vecchiumi e gli stracci del povero. Ci vorrebbero due
nomi diversi per significare due cose diverse. I morbidi letti, gli
specchi dorati, le intarsiature, i vasi del Giappone, i divani e le
poltrone di velluto sono arnesi differenti dai grossolani pagliericci,
dai rappezzati e smilzi materassi, dalle tavole greggie e dondolanti,
dalle cassapanche rovinate, e dalle scranne di paglia dure e
zoppicanti. La parola _mobili_ pare alle volte uno scherno, quando non
si voglia considerarla come la parola _uomo_, che esprime tanto il
principe quanto il facchino. Ma non proponiamo inutili riforme, e
seguitiamo a chiamar mobili quelli del ricco e quelli del povero
indistintamente. Sarebbe piuttosto da impedire che il secondo non ne
fosse molte volte spogliato, come il primo è sicuro di non esserlo
mai. Bello, ma impossibile voto finchè vi saranno pigionali che non
possono pagare, e padroni che vogliono essere pagati. Quello della
casa screpolata e puntellata è il più feroce e inesorabile dei
padroni. Ad ogni ricorrenza di Pasqua e San Michele vi sono mobili per
suo conto sequestrati e venduti all'incanto. Così per suo conto vi
sono poveretti che piangono, o sloggiano denudati delle cose più
necessarie.

Il pigionale anziano di questa casa, colui che ha veduto succedervi
molti cambiamenti, colui che non è disturbato nel possesso di due
stanze, perchè paga esattamente il suo fitto, è un uomo di
sessant'anni soprannominato Tribolo, un vecchietto svelto, allegro,
sorridente e garbato quanto mai. Egli vive per dare una mentita ai
fisionomisti lavateriani. Il suo volto presenta tutti i caratteri
della bontà, ed è il volto di un fino e consumato briccone. Tribolo è
usurajo, mezzano, falsario e compratore di roba rubata. Non si dà
tristizia che egli non sia capace di commettere per amore del
guadagno. Nondimeno i suoi modi e la sua cera non rivelano punto il
suo carattere odioso, e le malvagie abitudini nelle quali è indurato.
Sia pur vero e stabilito che il vizio e le turpitudini dell'animo
stampano più o meno il loro marchio nella fisonomia dell'uomo: Tribolo
è un'eccezione alla regola, una verità meravigliosa, un fenomeno
singolare. Egli domanda il sessanta per cento con una gentilezza
ammirabile, accompagna una proposizione diabolica con uno sguardo
soave, nega la verità con un suono di voce armonioso, e ordisce una
furfanteria senza alterare la serenità della fronte. Neppure i rabuffi
e gli strapazzi ai quali è soggetto possono intorbidirlo; e dare ai
suoi lineamenti una contrazione disgustosa. Quando è chiamato in
giustizia, egli si atteggia sempre come un pover uomo calunniato, come
una vittima innocente e rassegnata. Le varie condanne che ha subito
non valsero ad emendarlo, ma a renderlo più cauto e più sbirbato nelle
sue imprese. Tribolo esercita l'usura in piccolo, vale a dire impresta
delle somme sottili e restituibili a brevi scadenze, ma l'interesse
non manca di essere enorme. Un povero falegname, per esempio,
abbisogna di trenta lire onde comperare delle assi? Tribolo gli dà le
trenta lire, col patto che in capo a due settimane avrà la
restituzione di quaranta. Imprestando il lunedì dodici lire ad un
cenciajuoio, ne riceve quindici il sabato, compreso il prezzo del suo
servigio. Una serva, un cameriere d'osteria, un garzone di caffè o
altro tale individuo che aspetta un collocamento, ricorre a Tribolo
per avere una sovvenzione sul suo futuro salario, e Tribolo pieno di
compiacenza lo contenta alle condizioni che potete indovinare dietro
le norme che vi ho date. Voi non potreste però indovinare le
condizioni riguardanti le somme che egli impresta alle donne di mal
affare per comperarsi uno sciallo, un cappellino od altro oggetto di
vestiario, di cui dicono avere urgenza. Allora l'usura è favolosa,
incredibile, senza esempio. Tribolo non perde quasi mai il suo danaro,
grazie al tatto sopraffino che egli ha per conoscere le persone a cui
lo presta, e le circostanze in cui si trovano. Per indurlo a sborsare
un fiorino bisogna che egli veda chiaro quali mezzi di guadagno o
quali future risorse abbia il debitore da offrirgli come garanzia. Un
raccoglitore d'immondizie è sicuro di ottenere un prestito, purchè si
mostri proprietario libero ed assoluto d'una certa quantità di letame
da vendersi prossimamente.

Quali sono gli altri abitatori attuali di questa casa? Un conciatore
di pelli, un sarto che aggiusta e trasforma abiti frusti, un
fruttajuolo ambulante, un beccamorti, un suonatore girovago, due o tre
cialtroni oziosi, altrettante donne di vita problematica, e qualche
vecchietta che fila o lavora di calze. A questa ciurmaglia
appartengono dodici o quindici ragazzi d'ambo i sessi, creature mal
nutrite, sucide, pezzenti, riottose, piene di audacia e di malizia. La
maggior parte non vanno a scuola nè a bottega, ma birboneggiano il dì
e la sera sulla Piazza Castello e nei dintorni. Uno di costoro, che ha
appena nove anni, è il più tristo monello che si possa immaginare. Con
una cassetta di zolfanelli sospesa al collo egli gira i caffè e le
osterie, vendendo la sua mercanzia e domandando l'elemosina a chi gli
pare di benevolo aspetto. Se l'occasione si presenta, egli trae
leggermente un fazzoletto dalla tasca altrui. Non di rado si ferma con
altri piccoli furfanti a trafficare il soldo al giuoco, e quasi sempre
li spoglia dopo averli ingannati e battuti per giunta. Egli non
rientra mai prima della mezzanotte, e guai a lui se non presenta a suo
padre molti avanzi di sigari raccolti qua e là da terra, o domandati
ai fumatori stando alla porta dei teatri.

Le bestemmie e le imprecazioni che si odono, le baruffe e gli scandali
che succedono nel cortile e sopra le loggie di questa casa, le scene
di violenza, di vizio e di miseria che hanno luogo nelle camere, i
ceffi paurosi che s'incontrano negli anditi ammuffiti e lungo le scale
anguste, le figure abbrutolite dall'inedia o dall'abuso dei liquori
che vanno e vengono per questa porta metterebbero i brividi e la
confusione fra gli ottimisti che magnificano la civiltà e le dolcezze
dell'attuale progresso. No, signori ottimisti e panegiristi del
benessere e della moralità del popolo, voi dipingete le cose come se
fossimo tornati al secol d'oro, ai tempi beati dell'innocenza e della
felicità universale. Suvvia, non esagerate il bene, e non dissimulate
il male. Certamente Milano ha una quantità di stabilimenti
filantropici e di buone istituzioni che nessun'altra possiede. I
ricoveri dei bambini lattanti, gli asili dell'infanzia, le scuola
elementari dominicali, quelle di arti e mestieri, gli orfanatrofi, gli
ospizi d'ogni maniera, il patronato pei liberati dal carcere, i luoghi
di ritiro per la gioventù pericolante, gl'istituti elemosinieri, ed
altre emanazioni della carità milanese sono invero sante provvidenze e
meritevoli d'ogni benedizione. Tuttavia siamo lontani che tutti i
bisognosi possano o vogliano parteciparne, e quindi lontani che la
miseria e il mal costume siano distolti. Su tale argomento non bisogna
dunque illudersi nè illudere gli altri. Lodiamo pure la generosità di
chi ha innalzato e di chi mantiene questo grande edificio della
pubblica beneficenza. Diciamo pure i mali che previene, i disordini
che ripara, e le lacrime che asciuga, ma nello stesso tempo facciamo
noto che il rimedio non è abbastanza efficace nè generale. Molto
rimane a fare per vantaggio della classe povera, e le sue condizioni
materiali e morali non arrivano ancora a quel grado di miglioramento
che si può ragionevolmente sperare. Questa verità si deve dirla
francamente, non per fare uno sterile lamento, ma per illuminare i
benefattori del popolo sulle piaghe ancora esistenti, e per
infervorarli sempre più nella santa opera di risanarle.

Al S. Michele del 1854 un muratore venne ad abitare due camere in
questa casa, non sapendo probabilmente come fosse infetta e
malaugurata. Egli aveva la moglie, due figli maschi dai cinque ai
sette anni, ed una femmina di sedici. Inoltre ricoverava da qualche
tempo il padre di sua moglie, un vecchio indebolito di vista che non
poteva più lavorare del suo mestiere di canestrajo. Era una buona e
quieta famiglia che viveva col pane della fatica, ma condito dalla
pace e dall'amore. Stabilitasi appena nel nuovo albergo, il più
terribile infortunio venne a piombarla del lutto e nella desolazione.
Il povero muratore cadde dal ponte di una fabbrica, e rimase morto sul
colpo. È inutile il dire le scene di pianto e di disperazione che
accaddero fra i superstiti all'annunzio ed in seguito di tanta
sventura. Ecco una famiglia rimasta priva del sostegno che la faceva
vivere col frutto del suo mestiere. Oh, le lacrime sono doppiamente
amare quando si piange la perdita d'una persona cara, ed i mezzi di
sussistenza che vengono a mancare con lei! Quali risorse rimanevano a
questi tapini? Il lavoro della madre e della figlia, lavoro di donne
che rende generalmente uno scarso guadagno. La prima faceva treccie di
paglia colle quali si compongono stuoje, e la seconda era operaja
nella fabbrica dei tabacchi, guadagnando fra tutte due un trenta soldi
al giorno. Quell'epulone che è solo, e cui non bastano cento lire al
giorno, mi dica egli come possono vivere cinque persone con trenta
soldi, principalmente oggidì che tutto costa caro? Quell'epulone si
scuote nelle spalle, e risponde che egli medesimo per vivere senza
stento avrebbe bisogno del doppio di quanto ha.

La grama famiglia tirava innanzi come Dio vel dica, ricevendo di
quando in quando un sussidio dal parroco, e impegnando o vendendo nei
giorni di maggior penuria qualche capo di rame o di biancheria. Il
povero vecchio gemeva secretamente di essere a carico della figlia e
della nipote, e si rimproverava di togliere loro il pane di bocca.
Alle volte fingeva di non aver fame per mangiar poco, o per
astenersene del tutto. Queste privazioni lo costringevano poi ad un
atto, pel quale aveva grandissima ripugnanza e vergogna. Dopo aver
condotto i due fanciulli alla scuola infantile, il che era sua
incombenza, girava una contrada remota, o si appostava sotto una
porta, aspettando al varco qualche persona ben vestita per domandarle
con voce tremante un poco di carità. Egli cercava pure di occuparsi in
qualche faccenda permessa dalle sue deboli forze e da' suoi occhi poco
veggenti, ed era tutto lieto quando gli riusciva di mettere in mano a
sua figlia alcuni soldi guadagnati portando un fardello, scopando un
cortile, o facendo altri servigi di questa sorta. Se il tempo era
buono, usciva ancora della città a raccogliere pei campi e lungo le
siepi dei fuscelli di legna, ed era per lui un'altra cagione di
contentezza quando ne portava a casa un bel fascio.

Ma perchè mai Tribolo mostra tanto interessamento per questo meschino?
Perchè lo saluta e gli sorride amichevolmente? Perchè gli offre sempre
una presa di tabacco, e lo chiama il suo caro Antonio? Egli spinge non
di rado la cortesia fino ad invitarlo nelle sue stanze a bere un
bicchierino di liquori. E queste dimostrazioni di cordialità
principiarono dal giorno che morì suo genero il muratore. La cosa è
molto strana, e fuori del naturale. Antonio medesimo, che sa di non
avere alcun titolo a questo trattamento, ne fa le più alte meraviglie,
e conchiude che ciò non può essere altro che un effetto della bontà
straordinaria di Tribolo. Costui gli disse un giorno, dopo averlo
regalato di rosolio: Caro Antonio, se io fossi in grado, vorrei darvi
qualche soccorso, perchè siete un uomo dabbene, e perchè le vostre
disgrazie mi destano compassione. Ma io sono povero quasi come voi, e
non posso donare agli altri quello che basta appena per me. Nondimeno
le mie finanze mi permettono d'imprestarvi un pajo di talleri, senza
un centesimo d'interesse, e dandovi tutto il tempo che vorrete per
farmene la restituzione. Eccovi le due monete, che vi prego di
accettare. Antonio restò commosso a questo tratto di amicizia, ma
rispose che ne avrebbe approffittato nel solo caso di un'estrema
necessità. La maggior parte dei bisognosi, a cui si offrissero danari
in prestito, accetterebbero sul momento senza pensare al come poterli
restituire. Costoro tirerebbero in lungo il debito fino all'infinito,
colla scusa sincera della propria impotenza a pagare, o coll'audace
pretesto che essi non avevano già domandato di farsi debitori. Antonio
avrebbe accettato un'elemosina, ma pensava che un prestito gli avrebbe
turbata la quiete e levato il sonno. Dopo alcuni giorni accadde che
sua figlia si ammalò in conseguenza del troppo lavoro, e dell'affanno
sofferto per la morte del marito. Egli si sentiva straziare l'animo al
vederla priva di cibi sostanziosi, con una coperta leggera sul letto e
coi lenzuoli laceri, perchè i buoni erano stati messi in pegno. Allora
si ricordò dell'offerta fattagli da Tribolo, e non potè resistere alla
tentazione di giovarsene per provvedere ai bisogni dell'ammalata.
Contraendo questo debito, egli si proponeva di nasconderlo alla
famiglia, e di pagarlo quando avrebbe radunata la somma col deporre in
un salvadanajo ciò che potrebbe spizzicare da' suoi eventuali
guadagni. Ci voleva molto tempo a mettere insieme due talleri soldo a
soldo, ma egli si ricordava altresì di potersi pigliar comodo alla
restituzione. I due talleri furono sborsati da Tribolo con un piacere,
che Antonio non provò l'eguale a riceverli. E sì che il buon vecchio
vedeva in quelle monete il mezzo di confortare la sua cara figlia.
Giacchè non voleva dire d'averle avute in prestito, bisognava che
inventasse una favola per giustificare la loro provenienza. Egli entrò
dunque facendole ballare in mano, e dicendo tutto allegro che la
provvidenza gli aveva fatto vincere un ambo al lotto. Sì, un ambo al
lotto, replicò egli per dissipare l'incredulità della figlia. Io non
giuoco mai, è vero, ma questa volta mi venne l'inspirazione di
giuocare i numeri di un sogno, e la fortuna mi ha favorito. Grazie a
tale fandonia, l'ammalata si consolò, i lenzuoli furono disimpegnati,
e per qualche giorno v'ebbe in casa provvigione del necessario.

Cecilia, la nipote di Antonio, l'operaja alla fabbrica dei tabacchi è
una bella fanciulla, bionda di capegli, bianca di carnagione, e
delicata di forme come una figlia di nobile razza. Non dispiaccia alle
contessine e alle marchesine questa mia asserzione, e non l'abbiano
per ardita e profana, essendo una verità incontrastabile. Anzi vi sono
contessine e marchesine meno bianche e meno delicate di lei. Se
vogliono assolutamente aversene a male del paragone, pensino per
calmarsi, che Cecilia porta i zoccoli di legno ed una veste di cotone
rattoppata, che mangia pane bigio quando ne ha, e che lavora a fare
quei sigari che per avventura sono fumati dai galanti giovinotti che
aspirano alle loro grazie.

La venuta di Cecilia in questa casa aveva destato la curiosità, la
maraviglia e l'interessamento di tutti i pigionali. Uomini e donne
parlavano della giovinetta bionda, spiavano l'occasione di vederla, di
salutarla e di fare la sua conoscenza. Dire i pettegolezzi, i comenti
e le supposizioni fatte pro e contro di lei, sarebbe cosa impossibile.
Della sua bellezza tutti convenivano, e della sua virtù i buoni
soltanto. Chi era cattivo, la somigliava a sè stesso, per la sola
ragione che abitavano sotto il medesimo tetto. I buoni si consolavano
di aver comune con lei l'abitazione, parendo loro che la sua presenza
ne avrebbe purificato l'atmosfera infetta. I cattivi volgevano
nell'animo pensieri e disegni proprj della loro natura. Due mariuoli
si proponevano di sedurla, ciascuno per suo conto, e principiarono
sfacciatamente le loro manovre. Una vecchia peccatrice le sorrideva e
cercava di amicarsela colla mira di darla in braccio a qualche
libertino che pagasse bene il servizio. I più discreti si
contentavano, incontrandola, di farle un vezzo villano, e di dirle
certe parolaccie che la facevano arrossire come una bragia. Povera
colomba, fra quali corvi era caduta!

Il più astuto e maligno di questi corvi era Tribolo, il quale per
circuire ed insidiare una preda nessuno lo superava. Non è già che
egli fosse invaghito di Cecilia, e che operasse per soddisfare una sua
voglia amorosa. Tribolo non aveva nessuna inclinazione per le donne, e
fossero pur belle come Venere, non gli destavano il più piccolo
desiderio. La sua grande ed unica passione, quella che gli teneva
luogo di tutte, era l'amore del danaro. Egli dunque insidiava Cecilia
per commissione altrui; era il bracco del cacciatore. Un ricco
bottegajo dei dintorni aveva veduto la fanciulla, e concepito
un'ardente brama di possederla a suo modo. Costui apparteneva alla
specie di quegli attempati libertini, che la morte soltanto può
guarirli della lussuria. Uomo dai quarantacinque ai cinquant'anni,
grosso e tarchiato, colla faccia salsedinosa e bernoccoluta, goffo di
parole e di maniere, non aveva altro mezzo di vincere una donna
fuorchè quello delle monete. Laonde tutte le sue conquiste erano fatte
nella classe delle giovani bisognose, e per mezzo ancora di torcimani,
che parlassero in suo favore, e le disponessero alla caduta. Questi
preliminari erano indispensabili, altrimenti volendo mettere innanzi
la sua figura e trattare da sè la propria causa, non sarebbe riuscito
a nulla. Eppure questo fauno ributtante non si contentava di roba
mediocre, ma voleva avere fior di bellezze e di gioventù. Tribolo, che
lo aveva servito in altre occasioni, si preparava adesso a servirlo di
nuovo, e con zelo maggiore, a motivo che la ricompensa promessa era
larga più del consueto. Questo aumento avvenne in parte perchè il
bottegajo trovò la fanciulla molto di suo genio, e in parte perchè
Tribolo espose i grandi ostacoli che bisognava superare per vincere la
sua virtù. I grandi ostacoli esistevano realmente, quantunque il
mezzano, volendo presentare l'impresa come difficile per farsi pagar
meglio, li avesse dichiarati prima ancora d'averne fatta la prova.
Egli cominciò a tendere le sue reti a Cecilia, guardandola coll'occhio
e col sorriso della bontà, volgendole parole garbate e facezie oneste
ogni volta che s'imbatteva in lei, e le volte erano frequenti e non
procurate dal caso. Abitando essa il piano superiore a quello di lui,
doveva necessariamente passare dinanzi al suo uscio quando andava e
tornava per le sue faccende. L'uscio era aperto, e il vecchio si
trovava occupato ora a spazzolare il suo vestito, ora a nettare le sue
scarpe, ed ora a stuzzicare il suo merlo in gabbia, senza parere che
pensasse ad altro. Ecco belle e naturali occasioni di fermare la
fanciulla, di cambiare parole seco lei, e d'invitarla a venir dentro
per vedere il suo piccolo appartamento. Come poteva essa non
corrispondere alle gentilezze di un vecchio così affabile, così lieto
d'umore, e così onesto d'aspetto? Egli era il solo uomo in quella casa
che le fosse simpatico, e col quale s'intrattenesse volentieri.
Infatti, mentre gli altri la guardavano avidamente, le mormoravano
propositi indecenti, e le mettevano le mani addosso, egli solo si
mostrava rispettoso nel contegno e nel discorso. Quando Tribolo si
ebbe in tal modo procurata la sua confidenza, cambiò linguaggio e
tentò bel bello il colpo della seduzione. È un peccato, diceva, che
una sì bella tosa debba vivere nella miseria. Tu meriteresti uno stato
di prosperità, e te lo desidero di tutto cuore. Io sarei contento di
vederti meglio nutrita e meglio vestita di quello che sei. Quale
risalto darebbero alla tua bellezza un abito di stoffa non ordinario
ed uno sciallo confacente all'abito! Come starebbero bene i tuoi
piccoli piedi calzati in un pajo di stivaletti alla moda! Altro che
zoccoli! Eppure io conosco alcune ragazze che erano povere e mal in
arnese al pari di te, e che ora vestono pulitamente, mangiano di buoni
bocconi, ed hanno la borsa ben provveduta di danaro. E come avvenne
questo cambiamento? Avvenne perchè ciascuna di esse ascoltò le
proposizioni di un amante ricco e generoso, che sovviene ai loro
bisogni e le fa vivere comodamente. Io non le condanno se per uscire
dalla miseria, che è tanto dura e insopportabile, si sono appigliate a
questo partito, che certi bacchettoni chiamano vergognoso. La vergogna
sarebbe di avere molti amanti, ma quando si tratta di uno solo, si può
accettare il suo amore e i suoi beneficj senza scrupolo. E perchè tu
medesima non potresti fare altrettanto? Se tu vuoi ascoltarlo, io
conosco un galantuomo che ti ama, e che volentieri ti si farebbe
amico, pagando largamente la tua compiacenza. Di più si prenderebbero
tutte le misure necessarie perchè nessuno sapesse mai il secreto della
vostra relazione.--Così parlava Tribolo a Cecilia ogni volta che
poteva averla a quattr'occhi; ma la fanciulla, turbata e
scandalizzata, gl'imponeva silenzio, protestando che non voleva
saperne di tali proposizioni, e che si sarebbe seco lui disgustata,
quando non tralasciasse quell'argomento. Tribolo conobbe che l'impresa
era malagevole, ma non pertanto desistette dalle tentazioni finchè la
fanciulla se ne liberò coll'evitare possibilmente il suo incontro.
Allora il vecchio malvagio pensò di attaccarla con altre armi, e di
vincerla colle minaccie. Ecco perchè offrì ad Antonio il prestito di
due talleri, colla quale astuzia si preparava un mezzo di spaventare
Cecilia nella sua giovanile semplicità. Una sera che costei era
discesa per attingere acqua, la fermò sul pianerottolo, e così le
disse:--Giacchè sei ostinata a ricusare la fortuna che ti si offre,
non parliamone altro, e seguita pure a vivere nella tua indigenza.
Sappi soltanto che quel galantuomo non cessa dalle sue intenzioni di
giovarti, ogni qualvolta tu ti disponga ad ascoltare il suo amore. Il
tuo rifiuto non lo ha distolto dal pensare a te, e quando tu mutassi
consiglio, è sempre pronto a fare il tuo bene. Io non ti dico di più
su tale proposito, e tu sei libera della tua volontà. Siccome però in
faccia all'amico tu mi fai passare per un uomo da nulla, ed incapace
di rendergli un servigio, e siccome il mio amor proprio è molto
irritato, così ho deciso di vendicarmi collo spogliarti di ciò che hai
di meglio in casa. Io voglio essere pagato dei due talleri che ho
imprestati a tuo nonno. Questo malanno accaderà ben tosto, e tu avrai
a rimproverarti di non averlo impedito mentre lo potevi, giacchè era
mia intenzione di assolvere il debitore, se tu fossi stata docile a
quanto ti veniva proposto.

Cecilia se ne andò tutta intimorita per la minaccia di Tribolo,
pensando con sorpresa al debito del nonno, che essa ignorava. Tuttavia
non disse nulla in casa, perchè delle afflizioni e dei guai ve n'erano
abbastanza. Da cinque o sei giorni la mancanza d'ogni cosa necessaria
si faceva crudelmente sentire. La madre si era alquanto ristabilita in
salute, ma il lavoro le era venuto meno. Antonio, per quanto
s'ingegnasse, non riusciva a procurarsi che pochi centesimi, e Cecilia
riscuoteva la scarsa mercede del suo lavoro in fine di settimana. Il
freddo era rigoroso, e si penuriava di legna, di vestito e di
calzatura. Il pane a rigor di termine mancava. Cecilia diventò
pensierosa, taciturna, e sbandì affatto il riso dalle labbra. La
poveretta paventava di vedersi da un momento all'altro sequestrata,
per ordine di Tribolo, la poca roba buona che ancora rimaneva in casa.
Essa pensava che avrebbe potuto allontanare quella nuova sventura, e
rimediare in parte alle altre che travagliavano la sua misera
famiglia. Quantunque abborrisse da questa idea vergognosa, pure doveva
ascoltarla suo malgrado, perchè le assediava la mente in casa, lungo
la strada e durante il lavoro.

Una sera, verso la fine di gennajo, la fanciulla, tremante dal freddo
e colla fame in corpo, veniva dalle sue occupazioni ed entrava nella
sua squallida camera, sperando di scaldarsi un poco e di sedere alla
povera cena consueta. Non vi era nè fuoco nè cibo di sorta. I due
fanciulli non erano andati quel giorno alla scuola infantile per la
molta neve caduta e per le loro scarpe estremamente sdruscite. Laonde
avevano perduta la solita minestra dello stabilimento, e piangevano di
fame. La madre, che pativa per sè medesima e per essi, procurava di
consolarli, dicendo loro che la provvidenza non avrebbe tardato a
venire. La provvidenza era il nonno Antonio, che fino dal mattino
lavorava a sgombrare le strade della neve per guadagnarsi una lira dal
Municipio. Cecilia stette seduta alquanto in un angolo, col cuore
angosciato e col capo nascosto in grembo. Quivi si levò
improvvisamente, e disparve della camera. Quando rientrò, dopo cinque
minuti, parve lieta ed espansiva, fece coraggio alla madre, baciò i
fratellini, e disse che il domani le cose sarebbero andate meglio.
Questo buon umore non durò che pochi istanti per dar luogo al più
tristo abbattimento. La fanciulla impallidì, ricadde nel silenzio e,
grado grado, passò dai sospiri al pianto. La madre, stupefatta ed
inquieta di tale contegno, si fece ad interrogarla ora con dolce ed
ora con severa insistenza, e venne a sapere la verità. Cecilia, nella
sua disperazione, era corsa da Tribolo per dirgli che il giorno
vegnente si sarebbe venduta all'uomo che la chiedeva. Qui ebbe luogo
tra la madre e la figlia una scena delle più commoventi. Nè l'una nè
l'altra non avevano più fame nè freddo, ma strettamente abbracciate
piangevano quelle lacrime sante che il pentimento di un obbrobrioso
consiglio, l'idea della virtù in pericolo, e l'orrore di una colpa non
ancora consumata fanno versare alle anime buone. La madre sentiva di
non aver mai tanto amato la sua figlia come in quel momento solenne
che la teneva ancor pura fra le braccia, e salva della caduta. La
figlia sentiva più vivo l'affetto verso la madre, perchè le aveva
aperto gli occhi e compatita del suo traviamento. Non vi era bisogno
di rimproveri, giacchè la fanciulla col rossore del viso, col tremito
della persona e colla voce spezzata dai singulti, manifestava
abbastanza il suo pentimento, e faceva credere che anche di proprio
impulso avrebbe rigettata quel reo partito preso in un istante di
disperazione. Intanto comparve Antonio mezzo intirizzito, ma tuttavia
sorridente e contento di poter deporre sulla tavola due grossi pani di
mistura, alquanti pomi di terra cotti, tre once di zucchero ed
altrettante di formaggio. La carta che involgeva lo zucchero non aveva
nulla da invidiare per grossezza e grandezza a quella che involgeva il
formaggio. Sì l'una che l'altra dovevano pesare un quarto della merce
contenuta. I signori pizzicagnoli e droghieri non si fanno scrupolo di
vendere così la carta dieci volte più del suo valore, e di affibbiarne
la maggior parte ai poveretti che sogliono comperare i generi al
minuto.--Ecco qua, disse il buon vecchio mostrando la provvigione,
ecco qua la spesa fatta col guadagno delle mie braccia, che hanno
ammucchiato non poca neve. Domani e l'altro vi sarà lo stesso impiego,
giacchè non cessa di fioccare allegramente. Ogni giorno di lavoro una
svanzica, e per bacco non c'è male, quantunque si abbiano le mani ed i
piedi gelati durante dieci ore. Animo dunque, prepariamo la cena. Tu,
figlia mia, ti farai un po' di caffè e latte per riscaldarti lo
stomaco, e noi, che siamo sani mangieremo pane, formaggio e pomi di
terra. Un tantino di caffè ed un bicchiere di latte ci debbono essere
ancora, e queste sono tre once di zucchero greggio, colla solita carta
turchina, che, in fede mia, potrebbe contenerne il doppio. Suvvia,
diamo mano alla faccenda ... ma voi non avete acceso il fuoco, mi
pare. Sebbene io sia mezzo orbo, dovrei pure veder luccicare qualche
cosa là verso il focolajo. Sì, sì, oscurità perfetta, da quella parte,
nulla che somigli ad una bragia. Ma voi non dite una parola? Oimè! vi
asciugate gli occhi? In nome del cielo, perchè piangete quando io
venga a casa coll'occorrente per la cena? Che cosa vi è accaduto?
Parlate.--.Antonio si lasciò andare sopra ima sedia, e stette ad
ascoltare l'accaduto.

--Gesummaria! esclamò egli dopo udita la rivelazione, alzandosi tutto
sconvolto ed agitato. La mia Cecilia ha potuto inclinare l'orecchio
alla voce della seduzione, e consentire di perdere la sua innocenza!
Non era il vizio, è vero, che ti persuadeva al passo disperato, ma il
dolore delle tue e nostre sofferenze. Nondimeno era egualmente una
tentazione del demonio, e la tua caduta non avrebbe avuto
giustificazione alcuna presso la gente dabbene, perchè si deve
piuttosto morire che diventare colpevoli ed infami. Come avresti tu
potuta godere un bene procurato col traffico della tua virtù? Con qual
animo avresti offerto a tua madre, ai tuoi fratelli, a tuo nonno un
sussidio procacciato con tal mezzo obbrobrioso? Ah! sia lodato Iddio
che ti abbiamo salvata dal precipizio. Mai più, Cecilia, mai più una
simile tentazione. Sfidiamo la miseria, sopportiamo le privazioni, ma
restiamo innocenti e senza rimorsi di coscienza. Finalmente nessuno
muore di fame, e la Provvidenza arriva per tutti, un po' tardi qualche
volta, ma sempre in tempo di consolarci. Ah! dunque il signor Tribolo
colla sua cera onesta e colle sue belle parole è un pessimo uomo, che
voleva fare la tua rovina. Sì, io debbo confessare che ho tolto in
prestito da lui due talleri, e che ho detto la bugia di averli
guadagnati al lotto. Ma egli mi ha quasi costretto a riceverli, ed ora
capisco il motivo delle sue istanze. Egli però si è ingannato ne' suoi
artificj, ed io pagherò il mio debito un poco alla volta, come siamo
convenuti. Non parliamo più di questo brutto affare, che mi ha messo
lo spavento addosso. Cari fanciulli, lasciate stare i cartocci, e
aspettate un poco.... Suvvia, se avete fame, vostra madre vi darà
subito un pezzo di pane ed un pomo di terra per ciascheduno. Figlia
mia, contenta questi piccini, che io accenderò il fuoco.... Ah,
diamine, non abbiamo legna. Niente paura. Questo coperchio di un
vecchio coffano, che non serve a nulla, io lo riduco in liste e
scheggie che arderanno come torcie di resina. Qua il pestalardo, che
servirà di scure. Una, due, tre, quattro.... per bacco, si fende giù
dritto e facilmente come il sambuco. Si può ben dire che è stagionato
questo combustibile. Ecco supplito per adesso.... domani poi avremo
della vera legna, se mi riesce Un certo progetto di guadagno.... È un
progetto bizzarro, ma ho speranza che riuscirà. Ora non vi dico
altro.... Qua i zolfanelli e una manata di paglia. Bisogna convenire
che io sono un uomo industrioso, perchè trovo rimedio a tutto. Ah, che
fiamma superba! ditemi bravo, chè lo merito davvero. Figlia mia, vieni
colle tue creature a godere questo bel fuoco, e poi mangiate tutti in
santa pace. Io vado a tentare il mio progetto, e voi non siate
inquieti sulla mia assenza d'un pajo d'ore, o poco più.

Antonio si mise in tasca un pezzo di pane, ed uscì con premura dalla
stanza, lasciando le due donne a fantasticare sul suo misterioso
progetto. Egli montò all'ultimo piano della casa, e battè ad un uscio
logoro, macchiato, e pieno di spiragli turati coi cenci e colla carta.
Una voce rispose debolmente: Entrate. Antonio si trovò in una specie
di bugigattolo rischiarato appena da un lumicino a olio. Un uomo
calvo, magro, e ravvolto in un lacero arnese, che pareva un capotto da
militare, stretto ai fianchi da una corda stava seduto dinanzi al
cammino, covando alcune bragie prossime alla consunzione. Un gatto gli
era accosciato sulle ginocchia, e gli serviva col suo calore di
supplemento a quel fuoco in miniatura.

--Come va, Simone, disse Antonio accostandosi e mettendo una mano sul
grosso e benefico gatto. Come vi trattano i vostri reumatismi?

--Caro voi, mi fanno guaire dolorosamente, rispose Simone toccandosi
il collo e le spalle. Ecco il terzo giorno che non posso uscire di
casa a guadagnarmi il pane.

--Vi compiango di vero cuore, come un mio confratello di miseria.
Volete acconsentire ad una proposizione?

--Udiamo quale,

--Imprestatemi il vostro organetto, e questa sera andrò io a suonare
dinanzi i caffè e le osterie. Metà per uno del prodotto.

--Ma.... voi mi proponete una cosa.... Ci ho le mie difficoltà di
acconsentirvi. Voi non avete pratica collo strumento, e temo che lo
guastiate.

--Eh, giusto! Quando fosse un violino od una chitarra voi potreste
aver ragione. Ma qui si tratta soltanto di menare un manubrio. Voi mi
credete ben dappoco e mi fate torto.

--La cosa non è facile come vi pare.

--Scusatemi, Simone, io vedo tutto giorno ragazzi e donnette che
trattano questo strumento colla massima disinvoltura e guardandosi
attorno sbadatamente. Questo è segno che si può suonare con grande
facilità.

--Inoltre ci vogliono molti riguardi nel portarlo in volta, nel
caricarlo sulle spalle, e nel deporlo sopra il cavalletto. Se fosse
sulle ruote, non occorrebbero queste attenzioni.

--Via via, state sicuro che farò le cose come si deve. Da bravo, caro
Simone, rendetemi questo servigio, datemi il mezzo di raggranellare
qualche soldo, perchè il bisogno in questi giorni mi angustia
ferocemente.

--Or bene, io mi arrendo al vostro desiderio, perchè noi, povera
gente, dobbiamo ajutarci in tutto quello che possiamo. Venite qua,
Antonio, e badate ad alcune mie istruzioni. Ahi! ahi! che trafitture
lungo il filo della schiena. Ogni volta che mi muovo è uno spasimo.
Ecco lo strumento, che ora è alquanto scordato, ma che tant'e tanto fa
l'ufficio suo. Questo è il così detto registro, che serve a mutare la
posizione del cilindro pel cambiamento delle suonate, le quali sono
cinque, cioè due valtzer, due polke, ed un'aria dei Puritani.
Osservate bene come si tocca il registro. Avete capito?

--Perfettamente.

--Suonate per lo più le due polke, perchè sono le meglio intuonate e
le meglio gradite dagli ascoltatori. Vi raccomando di condurre il
manubrio con eguale andamento, e non a strappate senza misura,
altrimenti il tempo musicale sarebbe difettoso, e le suonate
riuscirebbero come chi cammina a salterelli e sbalzi disordinati. Vi
avverto ancora che il manubrio si applica e si distacca ad ogni
stazione, e che si porta in mano per non perderlo nei tragitti.
Finalmente abbiate la diligenza di assicurare ben bene lo strumento
sopra il cavalletto, e di collocarlo rasente il muro, affinchè, mentre
voi siete nella bottega a raccogliere le offerte, non abbiano i
passanti a gettarlo per terra come ingombro del marciapiede. Prendete
il piattello di latta che si porge ai benevoli contribuenti, e
mettetelo in tasca. Abbiate l'aria umile e rispettosa, e non insistete
dinanzi a chi non vi bada, o vi dice di non aver moneta. Questa frase
significa per lo più: non vi voglio dar nulla; e noi dobbiamo
sopportarlo in pace. Ora andate, e la fortuna vi sia propizia.

Antonio sottopose le spalle alla cassa armonica, infilò le cinghie, a
cui è raccomandata, tolse in mano il cavalletto, e trasformato in
Orfeo, andò a spargere i suoni e l'allegria per le strade di Milano.
Intanto che egli fa i primi esperimenti della nuova arte, vediamo ciò
che succede in un'osteria situata sul corso di Porta Comasina. I
bevitori vi sono in gran numero, vuotano bicchieri a profusione,
giuocano alle carte e alla mora, e fanno un baccano che assorda il
luogo, contaminato da un fumo denso e pestifero di tabacco. Sieno pure
i tempi infelici e caro fin che si vuole il vino, ma gli ubbriaconi
trovano sempre il modo di soddisfare il vizio. In una stanza appartata
siedono ad una tavola due personaggi con davanti un gran fiasco di
vino, un piatto di salame, un pollo arrosto, un pezzo di torta, ed
altre squisitezze gastronomiche. L'uno è Tribolo, e l'altro il ricco
bottegajo, che celebrano la buona riuscita della loro impresa. Tribolo
ha l'aria gioiosa e trionfante di chi ha riportato una vittoria. Egli
mangia con tanto appetito e gradimento, che è un piacere a vederlo.
Fra un boccone e l'altro mostra dello spirito, e dice una barzelletta
allusiva alla prossima felicità del suo anfitrione, il quale è tutto
ringalluzzito, e schizza faville dagli occhi infiammati e dalle
guancie porporine. Costui mangia poco a motivo dell'amoroso vulcano
che gli arde di dentro. L'idea che domani stringerà fra le braccia una
fanciulla di sedici anni, bella e pura come una colomba, lo agita
tutto quanto, e gli fa perdere l'appetito.

«E perchè si è fatta tanto pregare quella cara tosa, domandò egli
movendo le grosse labbra come se assaporasse qualche cosa di
delizioso. Sai tu che sono quaranta giorni che sospiro per lei?

«Lo so, rispose Tribolo, dopo aver vuotato un bicchiere colmo fino
all'orlo, e preparandolo ripieno per una nuova ed imminente libazione.
Lo so certamente, perchè io medesimo ho sospirato tutto questo tempo
per una ragione, ben intesi, diversa dalla vostra. Quanti raggiri ho
dovuto adoperare, quanta fatica mi ha costato il persuaderla! Voi
domandate perchè si è fatta tanto pregare? Andate là, che siete anche
troppo fortunato. Credevate voi di aver a che fare con una di quelle
ragazze che sanno già il vivere del mondo? Cecilia è un boccone raro e
prelibato che andava ottenuto a forza di arte, di pazienza e di
aspettazione. Certe creaturelle son ritrose a lasciarsi vincere più di
quello che si pensa. Voi sapete come ho lottato con costei per
domesticare la sua salvatichezza. Il numero dei bomboni, dei
manicaretti, dei nastri e delle cianciafruscole di cui l'ho regalata è
stato grande, ve ne assicuro. E tutto questo coll'apparenza di
un'onesta liberalità, col pretesto di favorire e rallegrare
semplicemente la giovinetta, senza insospettirla de' miei secondi
fini.

«Ah, il vecchio mariuolo che tu sei!

«Questi regalucci complessivamente mi avranno costato non meno di
cinquanta lire.

«Io te ne ho già date più di cento.

«E spero che me ne darete ancora, perchè ho meritato molto. Voi mi
fate fare di quelle cose.... In verità che la coscienza mi rimorde.

«Udite il briccone che parla di coscienza!

«Se non fosse il desiderio che ho di servirvi, la speranza che ho
posta nella vostra generosità....

«Basta basta, furfante matricolato. Tu avrai un'altra sommetta quando
Cecilia sarà mia.

«Un diminutivo! dite piuttosto una somma. Vi raccomando di allargare
la mano, perchè i miei bisogni sono grandi. Voi avete il danaro a
bizzeffe.

«Il bel sesso, ed i furbi tuoi pari me ne divorano la maggior parte.
Orsù, ripetimi l'intelligenza che hai fatta colla ragazza.

«Domani sera quando ritorna dal lavoro, Cecilia entrerà nelle mie
stanze. Voi ci sarete ad aspettarla per dirle il fatto vostro, e
stabilire seco lei gli articoli dell'amorosa corrispondenza. Che
momento felice per voi. L'ora vi tarda di poter toccare il cielo col
dito, non è vero? Via via, moderate l'ardore, e non fate quegli occhi
sfavillanti e bramosi. Io voglio credere che il vostro non sarà un
capriccio passeggiero. Voi legherete con Cecilia una relazione ferma,
e profittevole alla sua povertà.

«Ciò dipenderà da lei. Quando sia seducente nei modi, come lo è nella
persona, quando corrisponda di buona grazia al mio amore non avrà a
lagnarsi della mia instabilità.

Durante questa conversazione, Antonio aveva suonato la cassa armonica
davanti l'osteria, e raccolto le offerte nella sala del baccano. Ora
si avanzava, per fare altrettanto nella camera dove stavano coloro, e
pochi altri individui ad una tavola separata.--Oh oh! chi vedo!
esclamò Tribolo. Il nostro caro Antonio si è fatto suonatore di non so
che? Eravate dunque voi che strimpellava lì fuori? Me ne consolo
infinitamente. Animo, bevete questo bicchiere di vino, e poi vi farò
la mia offerta abbondante.--Antonio, corto di vista com'era, gli aveva
sporto il piattello senza ravvisarlo, ma appena lo riconobbe, scappò
via sdegnosamente, ricusando il vino ed il danaro, e lasciandolo col
compagno ad interpretare il motivo del suo rifiuto. Questo incidente
disturbò alquanto la loro allegria, e sparse dei dubbj sulla certezza
del loro trionfo.--È strano davvero il contegno di Antonio, diceva
Tribolo con una certa inquietudine. Ricusare un regalo prezioso, un
bicchiere di vino squisito, egli che non ne beve mai di nessuna sorta!
Che ragione può avere per usarmi ora questo dispregio, mentre è sempre
stato umile e garbato con me, ed ha gradito infinitamente i miei
bicchierini di rosolio? Che avesse scoperto il nostro secreto? Che
Cecilia si fosse lasciata indovinare? No, no, è più probabile che essa
gli abbia parlato dei due talleri, di cui ho finto di volere quanto
prima la restituzione. Scommetterei che il fatto sta appunto così. Il
vecchio mi terrà il broncio per quella mia intenzione.

Antonio si era diretto verso il centro della città, tormentato
fieramente nell'anima e nel corpo. Dopo aver lavorato tutto il giorno
in mezzo alla neve, camminava la notte sopra un suolo sdrucciolevole,
coi piedi gonfi dal freddo e dalla stanchezza, portando un peso sulle
spalle, e sbocconcellando per tutto ristoro un pezzo di pane nero ed
asciutto. Il suo stato morale era ben più doloroso ancora. Sebbene
facesse pompa di buon umore e di coraggio in famiglia, aveva dentro di
sè la tristezza e l'affanno, che non sempre riusciva a padroneggiare
quando era solo. L'agguato teso a Cecilia, e l'idea che potesse
rinnovarsi il pericolo corso, e trovarla più debole e disposta a
soccombere, mettevano il colmo alle sue afflizioni e davano dei fieri
crolli alla sua paziente e rassegnata natura.--Io sono indurato ai
patimenti della miseria, pensava egli tentennando sotto il carico
dello strumento, ma tutti gli eccessi finiscono collo stancare. Che
abbiamo noi fatto al cielo per meritarci questa vita così dura e
travagliosa? Che abbiamo non fatto agli uomini, perchè debbano
insidiarci il solo bene posseduto, la virtù della nostra Cecilia,
dell'angelo della nostra casa? La povera creatura si è ravveduta in
tempo, ma chi mi assicura che una volta o l'altra non venga meno a'
suoi buoni sentimenti, e alla confidenza che ho posta in sua madre? La
miseria è consigliera di triste cose, e ci vorrebbe un santo per
resistere sempre ai suoi suggerimenti. Ahimè; se avessi un giorno a
veder piangere la mia Cecilia di un tardo ed inutile pentimento!
Peggio ancora se la vedessi lieta e sfrontata nella colpa, compiacersi
del guadagno che ne avrebbe ricavato. No, no, mio Dio, allontanate da
me e da mia figlia questo flagello, che ci farebbe morire di
crepacuore e di disperazione. Voi mi esaudirete, mio Dio, in riguardo
dei tanti altri mali che sopportiamo da sì lungo tempo. Una voce
secreta mi conforta a credere che la nostra Cecilia si conserverà
buona e degna di noi. Ah ah, il signor Tribolo stava gozzovigliando
forse coll'uomo che gli aveva ordinato una sì bella impresa. Egli
voleva darmi da bere, e poi mettermi nel piattello la sua offerta
abbondante. Grazie dell'una e dell'altra cosa. Se io fossi stato
giovane, gli avrei pestato ben bene quella sua faccia da impostore.
Quanto ai due talleri, mi dia tempo un mese, e li radunerò quand'anche
dovessi limosinarli quattrino a quattrino stando sulla porta di una
chiesa. Solo che non si attenti mai più di fare simili uffici presso
Cecilia, altrimenti le forze mi basteranno ancora per dargli un
ricordo di santa ragione. Chi avrebbe mai creduto che colui fosse
capace di un tiro così birbo e maledetto? Fidatevi di certi uomini
dalla fisonomia ridente e dai discorsi edificanti. Sono lupi vestiti
da agnelli, come diceva un predicatore. Ma io era in buona fede, e
credeva che le sue cortesie fossero un effetto della sua umanità e
della compassione che io gli destava. Quale inganno! Però io sono
stato un balordo, bisogna confessarlo. Un uomo accorto avrebbe
sospettato che gatta ci covasse sotto quelle amichevoli gentilezze.
Che merito aveva io dinanzi a lui perchè mi facesse sedere al suo
fuoco, mi regalasse di liquori, e mi offrisse danaro in prestito? Ora
l'enigma è spiegato. Il traditore mi carezzava onde farsi strada
presso Cecilia. Quando si è amico del nonno, avrà pensato, si ha un
titolo per legare conoscenza colla nipote. Io scommetto che a
guardarlo bene in volto si deve scoprire qualche segno disgustoso
sotto quella maschera di uomo simpatico. È impossibile che chi trama
di cotali birbanterie non mostri alcun indizio visibile della
bruttezza del suo animo. E poi questo suo nome di Tribolo, suona
piuttosto male e mi pare che non si debba trovare nel calendario.
Quanto a quell'altro signore, sarà un poco di buono ed un indegno non
meno di lui, se voleva disonorare una povera fanciulla. Avrei piacere
che l'individuo seduto con Tribolo all'osteria fosse stato appunto
quel tale. Per bacco, la mia condotta deve aver messo loro una pulce
nell'orecchio. Da bravi, state là intanto a lambiccarvi il cervello
per indovinare la cosa. Domani poi capirete tutto chiaramente.

Antonio si fermò dinanzi ad un modesto caffè nella contrada del
Broletto, vi fece udire due suonate, e poscia entrò a fare la
questua. Bisogna che io noti che il pover uomo suonava assai male, ad
onta della sua presunzione e dei suggerimenti datigli dal
proprietario dello strumento. Fosse il braccio intirizzito dal
freddo, o partecipe dell'interna convulsione, il fatto sta che il
manubrio andava celere e lento tutt'insieme, e produceva una tiritera
di suoni affatto incomposti. E così era accaduto in tutti i luoghi
dove aveva fino allora fatto posta. Nessuno però badava a
quell'inconveniente, e chi era ben disposto gli dava tant'e tanto il
suo obolo. Anzi vi furono alcuni che glielo diedero appunto per aver
badato a quell'inconveniente; senza di che non si sarebbero
incomodati. Costoro nel metter mano alla borsa dissero ciascuno alla
sua volta: Pigliate, ma col patto di non suonare più oltre. Gente
burlona, o dotata di un'estrema irritabilità musico-nervosa. Antonio
aveva già radunato circa sedici soldi, e si prometteva di aumentare
ben bene la somma allorquando suonerebbe dinanzi ai caffè sontuosi e
popolati di signori. Egli arriva ad uno di questi, ma lo passa via
perchè sente che non ardirebbe di entrare in una magnifica sala
ornata di specchi, di dipinti e di dorature, e rischiarata
splendidamente dal gas. La stessa soggezione lo prende dinanzi al
secondo ed al terzo caffè, dove pensa che tremerebbe soltanto nello
spingere le imposte, per paura di rompere i grandi cristalli che vi
stanno incastrati.--Eh, perbacco, se io seguito così perderò le
migliori occasioni di far danaro, disse tra sè in un momento di
coraggiosa risoluzione. Cacciamo via la timidità, e facciamo come gli
altri suonatori, che penetrano da per tutto senza tanti riguardi. Io
guarderò bene dove metto i piedi e le mani, e spero che non mi
accaderanno disgrazie. Finalmente queste superbe botteghe sono luoghi
pubblici, e qualunque persona, anche mal in arnese, che abbia cinque
soldi da spendere, può entrarvi a dare degli ordini, può sedere a suo
agio sopra i morbidi cuscini, e stare a compiacersi in mezzo a tanto
lusso. Ecco appunto che io mi avvicino ad un caffè dei più sfarzosi
della città. È dunque deciso che io non passerò oltre senza aver dato
prove là entro della mia intrepidezza.--Antonio pose lo strumento sul
cavalletto, vi applicò il manubrio, e suonò una polka guastando il
tempo come al solito. Anzi questa volta fece peggio che mai, perchè
alle altre cagioni di tremito si aggiungeva l'idea di dover comparire
in quella ricca sala, di cui guardava intanto lo splendore attraverso
i vetri. I suoi proponimenti di voler essere intrepido andarono
dunque in fumo, come era da aspettarsi, giacchè non si può comandare
alle impressioni dei sensi nè alle commozioni dell'animo. Per altro
si può sfidarle e voler agire sotto il loro impero, ciò che appunto
fece Antonio. Battuti più volte i piedi per terra e scossa dai panni
la neve, egli entrò nel caffè colle timide cautele e cogl'impacci dei
profani che entrano per la prima volta in una reggia. Una trentina di
avventori sedevano in crocchi separati intorno ai tavolini,
sorseggiando bevande più o meno squisite, e tenendo discorsi più o
meno insipidi. Alcuni leggevano i giornali politici, e pensavano che
Sebastopoli è un osso duro da rodere. Altri leggevano i giornali
letterarii, e pensavano che non vi è più letteratura sopportabile nel
giornalismo. Un giovane ed elegante signore sedeva isolato in un
angolo, fumava un sigaro, e pensava ad altra cosa. I conoscenti e gli
amici non lo accostavano, perchè il suo saluto breve e fuggitivo
significava chiaramente: Lasciatemi tranquillo in questo momento. Chi
è sopraggiunto da una sventura o da una prosperità sente il bisogno
di star solo coll'affanno o colla gioia che lo possiede, almeno nei
primi istanti del sinistro o del fausto avvenimento. Non era la
sventura che avesse visitato quel giovane, e fattolo bramoso di
starsene in disparte muto e raccolto in sè medesimo. Infatti non
aveva alcun segno di mestizia in volto, anzi la sua fronte era lieta,
i suoi occhi brillavano di serenità, e le sue labbra si componevano
ad un sorriso di compiacenza. Il molle abbandono della persona, la
gamba che teneva sovrapposta e dondolante sull'altra, la giocosa
maniera con cui mandava in aria i buffi di fumo, tutto insomma diceva
che gli passavano per la mente immagini rallegranti, e che assaporava
il diletto della propria felicità. Sì, egli era compiutamente felice,
e considerava quel giorno come il più bello della sua vita. Quel
giorno aveva acquistato la certezza di essere riamato dalla donna del
suo cuore, e le prove avute erano le più infallibili e le più
soddisfacenti. Non vi cada in animo che avesse ottenuto i favori
lungamente sollecitati di qualche fanciulla o vedova restia, o che
fosse riuscito a burlarsi di qualche marito creduto generalmente
invulnerabile. No, egli non si dilettava di amori colpevoli e di
tresche vergognose. La sua fiamma era pura come la vergine che
gliel'aveva inspirata, e santi erano i suoi voti. Questo giovane
signore è nel novero dei pochi distinti per coltura d'ingegno, per
altezza di sentimenti, e per nobili qualità di cuore. Egli si toglie
dalla pluralità di coloro pei quali le ricchezze sono stimolo
all'ozio, alla dissipazione, alla burbanza, e alla nullità della
vita. Non è già che abbia rinunciato ai piaceri della sua età, nè ai
gusti nè alle abitudini proprie dei signori. Egli segue le mode,
guida cavalli sul corso, frequenta i teatri ed i convegni del bel
mondo, ma di questa occupazioni non fu l'unico e serio affare della
sua esistenza. La maggior parte del tempo lo impiega nello studio
delle arti geniali, della letteratura e d'ogni nobile disciplina. La
sua conversazione non può essere più sensata, più amabile e più
spiritosa. Nessuno poi lo supera in bontà d'animo, in affabilità e
cortesia di maniere. Insomma io ve lo do per un modello di perfetto
gentiluomo. Antonio gli si fece peritoso dinanzi, e gli sporge il
piattello, come aveva fatto verso gli altri signori che erano nel
caffè. Il giovane lo guardò attentamente, e rimase colpito dal suo
povero arnese, dalla sua timida esitanza, e dall'espressione di
dolore che gli stava in volto.

--Voi mi sembrate un suonatore novizio, gli disse il giovane con un
fare confidente e con un tuono di voce che mette i piccoli a loro agio
e li anima alle risposte. Io non vi ho mai veduto entrare in questo
caffè.

--Signore, rispose Antonio commosso dalla degnazione e dalla benignità
di quella domanda, io suono per la prima volta, e forse per l'ultima
in vita mia. Lo strumento mi fu prestato da chi per ora non può
adoperarlo, ed io cerco questa sera di farne mio profitto nelle dure
angustie in cui mi trovo colla mia famiglia.

--Voi avete una famiglia che patisce e che spera nel prodotto della
vostra musica?

--È una sorpresa che io preparo a' miei poveri tribolati. Essi non
sanno che al presente io giro per la città, onde radunare un po' di
danaro a loro sollievo.

--Quanto avete raccolto finora?

--Più di venti soldi, e non ho per anco finito. Tra il guadagno del
suonare e quello dell'accumular neve, posso dire d'aver fatto oggi una
buona giornata.

--Voi avete anche lavorato a nettar le strade, voi così vecchio e mal
fermo sulle gambe! Ditemi, la vostra famiglia è numerosa?

--Io ho una figlia vedova e madre di tre creature, una delle quali,
ragazza di sedici anni, ci fu insidiata e andò a pericolo di perdere
la sua virtù. E stato un avvenimento per cui ho l'animo ancora tutto
sconvolto.

--Voi mi presentate l'aspetto di un uomo dabbene. Lo siete veramente?

--Signore, io non posso negarlo nè affermarlo. Dirò soltanto che io
procuro di non far male a nessuno.

--Dove state di casa?

--Vicino alla Piazza Castello.

--Andiamo. Io voglio conoscere la vostra famiglia, e accertarmi della
sincerità delle vostre parole. Se voi non mi avete mentito, io vi
regalerò come non lo fu mai nessun suonatore di organetto.

Il giovane si levò risolutamente, ed uscì della bottega. Antonio gli
tenne dietro, parendogli di sognare. Preso lo strumento che stava di
fuori, si avviarono verso la Piazza Castello, continuando a discorrere
quando non lo impediva l'incontro della gente e la difficoltà del
cammino. Era cosa molto strana che un giovane signore vestito con
eleganza attraversasse la città accompagnato da un miserabile
suonatore di organetto, e parlando con lui affabilmente senza
impedimento di umani riguardi. No, no, gli umani riguardi e le
precauzioni si adoperano da chi segue un lenone, guidatore prezzolato,
a qualche misteriosa e facile conquista. Il giovane signore seguiva
invece un onesto vecchio nella persuasione che lo conducesse al
soggiorno della miseria virtuosa, che egli si proponeva di consolare.
Gli animi ben fatti, quando sono posseduti dalla gioja, si sentono
doppiamente inclinati alla beneficenza, e bramano di darne prove con
qualche atto nuovo e straordinario. Ecco perchè il giovane volle
recarsi egli stesso a vedere la famiglia di Antonio, dietro la
favorevole opinione che questi gli aveva inspirata. Quando entrò nel
brutto viottolo plebeo, mal rischiarato e quasi impraticabile per la
neve che lo ingombrava, egli provò una specie di pauroso disgusto, che
andò crescendo allorchè pose il piede nella casaccia che abbiamo
descritta. Nondimeno superò quel sentimento di vaga inquietudine, e
tenne dietro ad Antonio che aprì l'uscio e lo introdusse nella misera
stanza. Le due donne restarono come interdette e smarrite di
confusione al vedere il vecchio sotto il peso di un organetto, e lo
splendido visitatore che lo seguiva. La stanza era fredda come se
fosse aperta ai quattro venti, e del fuoco improvvisato poco prima da
Antonio non esisteva che un debole rimasuglio. La madre e la figlia
stavano occupate a rattoppare certe camicie degne del compratore di
stracci, ed avevano per lume un moccolo di sego piantato in un ordigno
di legno e fil di ferro, che usurpava il nome di candelliere. I due
fanciulli giacevano addormentati sopra un pagliericcio, che un cane
mediocremente trattato avrebbe avuto a sdegno. Visto nelle ore
notturne, l'albergo del povero è ancor più tetro e squallido di quando
è penetrato dalla luce del giorno. Egli pare che il silenzio della
notte, il semibujo del luogo, le ombre fantastiche e tremolanti che
disegna un lumicino sulle pareti, ed altre indescrivibili cagioni
diano alla miseria maggior rilievo, e all'animo una stretta maggiore.
Il giovane si sentiva impietosito e insieme rabbrividito allo
spettacolo nuovo e miserando che lo circondava. Egli sapeva
all'ingrosso ciò che è la povertà; sulle norme di quanto ne vedeva in
pubblico e sulle idee che gli fornivano i libri, ma non mai l'aveva
ravvisata nel suo vero aspetto, nè colta sul fatto nella intimità
della sua dimora. Ecco perchè i ricchi, generalmente parlando, non
inclinano molto alla compassione del povero. Essi non hanno provato il
bisogno, e rifuggono dal vederlo in altrui. Se il primo motivo non è
una colpa, il secondo lo è certamente. Il giovane aveva avuto da
Antonio lungo la strada molti dettagli circa le disgrazie della sua
famiglia, ma principalmente circa la trama ordita contro la nipote.
Ora egli aveva dinanzi la fanciulla, che rossa di vergogna non osava
guardarlo in volto, nè quasi rispondere alle sue domande. La bellezza,
la gioventù e la infelicità di Cecilia gli destavano un vivo e
virtuoso interessamento. Egli pensava alla donna del suo amore,
giovane e bella essa pure, ma non infelice, e questo pensiero gli
faceva trovare dei rapporti gentili e naturali fra le due giovani, e
gli era come stimolo ad apprezzare e beneficare l'una in grazia
dell'altra. Questi squisiti riflessi e queste delicatezze di sentire
sono proprie soltanto delle anime elette prese d'amore. Per
quell'istinto che hanno i buoni di comprendersi fra loro, il giovane
signore fu persuaso che quella famiglia era degna del bene che egli si
preparava di farle. Nell'atto di congedarsi pose in mano ad Antonio
due pezzi da cinque franchi, e gli disse che il domani a mezzogiorno
si recasse dal curato della parrocchia, presso il quale troverebbe
dichiarate le sue disposizioni. Io lascio immaginare a chi legge la
consolazione dei beneficati, i loro sentimenti di gratitudine, e le
benedizioni che invocarono dal cielo sopra il giovane sconosciuto.
Antonio pareva ringiovanito di dieci anni, e andava esclamando, che
non bisogna mai disperare della provvidenza, che al mondo vi sono
delle anime d'oro, e che il volere di Dio lo aveva fatto imbattere in
quel generoso signore.--A proposito, disse egli sobbarcandosi allo
strumento che aveva deposto sopra la tavola, io vado a portarlo a
Simone, al quale voglio dare uno di questi pezzi da cinque franchi.
Noi siamo intesi di dividere il prodotto, e sebbene, a stretto rigore,
queste due monete non siano il frutto della musica, pure mi sono
venute in conseguenza dello strumento che mi fu prestato. Se il suo
padrone mi ricusava il servigio, io non sarei entrato in quel caffè, e
non avrei la fortuna che là dentro mi è capitata. Oh sì, viva Simone
ed il suo strumento.

Il giorno seguente, all'ora indicata, Antonio si presentò al curato
della sua parrocchia. Il giovane signore vi era stato poco prima ad
affidargli una bella somma di danaro, e l'incarico di eseguire le sue
benefiche disposizioni. La famiglia di Antonio fu subito traslocata in
una casa decente, provveduta di letti, di biancheria, e di quanto
occorre per uscire di stento. Altri sussidj periodici doveva trovare
in seguito depositati presso il medesimo parroco, al quale
particolarmente veniva raccomandata Cecilia, colla promessa di darle
una doterella quando si maritasse.

Il giorno stesso Tribolo fu chiamato dalla polizia a render conto
della sua azione, che gli valse una nuova condanna, da lui subita
colla solita rassegnazione dell'innocenza calunniata. Quanto al ricco
bottegajo, egli gettò il suo danaro e fece naufragio vicino al porto.
Se il suo nome è stato pronunciato in polizia, non è tanto delicato da
soffrirne macchia.

Il cielo accordi tutte le sue grazie al giovane signore, e
specialmente gli conceda di potersi unire alla fanciulla sospirata.
Sì, il cielo benedica il suo amore, sotto la cui influenza egli fu
inspirato a così bella opera di carità.


FINE.



IL GENTILUOMO MENDICO

REMINISCENZA DI UN VIAGGIO

DI

PAOLO BETTONI



IL GENTILUOMO MENDICO


Lungo un mio viaggetto pedestre nel Tirolo italiano m'incontrai al di
sopra di Rovereto in un giovane artista, che viaggiava egli pure colla
vettura di San Francesco. Due individui presso a poco della medesima
età, che hanno entrambi una valigia dietro le spalle ed un bastone in
mano, che portano una _blouse_ ed un berretto, e che vanno per la
medesima strada, sono obbligati di salutarsi e di entrare in discorso,
giusta le leggi dell'attrazione umana e della fratellanza universale.
Queste leggi si fanno sentire principalmente nella solitudine delle
montagne, lungo i cammini disastrosi, vicino ai burroni e alle cascate
d'acque, e più ancora dove non si vedono che nibbi e falchi
svolazzanti, da una roccia all'altra, e capre pascolanti sulle aeree
punte dei precipizi. Bisogna dunque assolutamente che i due individui
così ravvicinati dal caso si facciano dei complimenti, e si chiamino
fortunati di camminare in compagnia, a meno che uno di essi, o tutti
due, non siano ceffi paurosi, o misantropi selvaggi. Nè l'uno nè
l'altro di noi si trovava in queste condizioni antipatiche, e perciò
fu subito aperta la conversazione, e dato luogo alle debite
confidenze. Egli si dilettava di dipingere paesaggi, e peregrinava per
copiare le bellezze della natura montuosa. Io aveva la smania di fare
un erbolajo, e andava errando per raccogliere ciò che mi pareva nuovo
o raro nel regno della vegetazione tirolese. Ah! vivaddio, che
botanica follia, che delirio delle verdure scientifiche mi aveva
invaso in illo tempore! Ora ne sono guarito da un pezzo, e rido
pensando a quella farragine di erbe e di pianticelle di cui aveva
piena una camera, quasi fosse stata un fienile. Non dico poi dei
libroni che contenevano tra foglio e foglio le mie conquiste
classificate e diseccate. Il mio compagno imitava le produzioni della
natura, ed io toglieva alla natura le sue produzioni medesime. Ognuno
vede che il mio lavoro era molto più facile e meno pregevole del suo.
Ad onta però della distanza dei meriti noi diventammo amici, e per
otto giorni facemmo vita insieme. Intanto che egli disegnava una rupe
od una grotta, io strappava dai crepacci dello scoglio qualche tesoro
vegetale ignoto alla mia scienza. Un giorno egli mi trasportò a colpi
di matita e mi fece figurare come macchietta in un suo abbozzo, mentre
io prendeva d'assalto una specie di cardo singolare che sorgeva nella
frana d'un dirupo, audace ed eroica impresa. Questo tratto di
bizzarria artistica e d'inspirazione confidenziale mise il colmo alla
nostra amicizia. Era una ragione più che bastante per fare di noi un
Pilade ed un Oreste.

Alla sera dello stesso giorno ci trovammo in un piccolo villaggio ai
piedi della montagna, dove esisteva un'osteria insperata e miracolosa,
alla quale domandammo alloggio e cena. O santa ospitalità, io ti
benedico e ti esalto anche quando sei vendereccia e mungi la borsa ai
pellegrini; anche quando imbandisci loro non altro che pane secco,
pomi di terra e cacio pecorino; anche quando li metti a giacere sopra
letti di equivoca nettezza e di durizia incontrastabile, esigendo
nondimeno il prezzo che valgono i delicati mangiari e le morbide
piume. Un tale trattamento è preferibile pur sempre al digiuno e alla
stazione sotto la cappa dei cielo. Fortunatamente che vicino al male
si trova il bene, e l'assioma si manifestò vero per la millionesima
volta. Noi avemmo un compenso al nostro disagio. Mentre stavamo in
cucina affrontando il gramo pasto, e pensando al giaciglio ancor più
gramo da affrontarsi dappoi, ecco nella camera attigua un violino e un
contrabasso che principiano a stridere confusamente colla buona
intenzione di montarsi al medesimo diapason. Erano come due amici che
gridano e contrastano più in apparenza che in sostanza, per fare
quindi la pace e camminare d'accordo nella stessa faccenda. A questo
miagolio disarmonioso tenne dietro una monferina tutta brìo da mettere
in gongolo un piagnone, e snodare le gambe d'un paralitico. Potenza
degli Dei, sarebbe mai vero che qui succede una festa da ballo? Era
vero come il magro pasto che avevamo finito, e come il duro letto che
ci aspettava. Noi balzammo in piedi, e il passare dalla cucina al
teatro delle danze fu un volo. Quattro coppie di ballerini erano già
in moto, e il sesso forte sgambettava e faceva salti da dare il capo
nel solajo. Altri giovinetti e altre forosette sopraggiungevano mano
mano finchè la camera fu piena. Quel giorno si era fatto uno
sposalizio, e l'oste aveva prestato il locale per la celebrazione di
una festa in onore di Tersicore montanina. I due orfei stavano sopra
l'eminenza di una tavola collocata in un angolo, e di là diffondevano
torrenti d'armonia, frase che io tolgo in prestito da una gazzetta
teatrale. Colui che dava vita al violino era il sarto del villaggio;
l'animatore del contrabasso era il sacristano della parrocchia, due
genj sorprendenti, due personaggi meravigliosi che sapevano unire i
talenti più disparati. Voi che ridete, trovatemi voi due uomini che
trattano gli strumenti di Sivori e di Bottesini colla stessa
disinvoltura con cui tirano l'ago e accendono le candele. Noi
pigliammo parte al divertimento con una lena straordinaria in chi si è
arrampicato tutto il giorno su pei monti. Ma la gioventù non sente
fatica quando si tratta di ballare. Quell'idea di stringere la mano ad
una fanciulla, di allacciarla mediocramente ai fianchi, di condurla in
giro, e di specchiarsi nel suo visetto, è un potente rimedio contro
ogni stanchezza. Ma qui non erano visetti pallidi e delicati che
miravamo, nè personcine smilze e fragili che cingevamo, come succede
nei balli sontuosi e profumati delle città. Erano pezzi di fanciulle
rigogliose e massiccie, coi volti parte brunotti e parte impastati di
rosa e latte, cogli occhi neri scintillanti, piene tutte di floridezza
e di vigore, tipi insomma della bellezza alpigiana. Questo era per noi
un'attraente novità, che aggiunta alla fortuna di lasciar vedovo per
molte ore il nostro letto ci rendeva al sommo contenti. Noi ballammo
lungamente e con tutte quelle care napee, compresa la bella sposa, che
non faceva smorfie nè ritrosìe vere o affettate, ma che palesava una
schietta letizia, velata alquanto dalle sue commozioni misteriose, e
dal contegno pudibondo di chi è fanciulla per l'ultimo giorno. Una
sorella di lei era per me la regina della festa, e aveva la preferenza
nelle mie attenzioni e ne' miei omaggi di galanteria. Io le custodiva
il posto da sedersi, e con premura la serviva di birra, il solo genere
di rinfreschi circolanti nella sala da ballo. In fede mia quella
ragazza mi avrebbe fatto fare pazzie, quando avessi continuato a
vederla per molti giorni. Era fiera ed imponente come Diana, della
quale aveva un poco i gusti e le abitudini silvestri. Tuttavia non
mancava di mansuetudine, e rideva graziosamente mostrando un tesoro di
denti bianchissimi, e facendo due pozzette che nulla di più vezzoso.
Aveva nome Bettina, e ballava la forlana che era un incanto. Il mio
compagno non si divertì meno di me, e inoltre come pittore e mezzo
poeta ebbe delle idee e delle inspirazioni che a me non vennero.
Quella rustica camera illuminata da quattro candele di sego, quel
fermento dei giovani ballerini, quella lieta tranquillità dei vecchi
spettatori, quelle voci di allegria miste ai suoni di quell'orchestra
singolare, gli facevano l'effetto di un quadro animato di Van-Dick o
di Rembrand. Io ebbi invece dei momenti di raccoglimento per
fantasticare intorno ad un vecchio vestito di abiti signorili, ma
logori e macchiati fino all'indecenza, che tutti chiamavano il signor
conte, che mostrava infatti una fisionomia e modi distinti, che aveva
ballato due volte con molta degnazione e allegramente come un
giovinetto. Per mancanza di agio, di motivi sufficienti, e di persone
di confidenza per farmi fare la sua biografia, rimasi per allora colla
mia curiosità in corpo. Il divertimento durò fin oltre la mezzanotte,
e quindi ognuno se ne andò a casa sua. Una camera qualunque, dove si è
fatta una festa da ballo, appena rimane deserta, fa male
all'immaginazione, ed inspira tristi e filosofici pensieri. Io stetti
un poco sulla soglia in atteggiamento di meditazione a guardare quella
camera vuota e silenziosa, che un momento prima echeggiava di suoni,
ed era il campo di tanta gioja rumorosa. Fu allora che principiai ad
accorgermi della fugacità e insufficienza dei piaceri umani, e mi
sentii alquanto sconfortato. Ah, non è a ventidue anni che si fanno di
queste gravi e barbute riflessioni. In gioventù quando un piacere
fugge, ne intravediamo un altro nel domani, e ci consoliamo. La vera
cagione del mio sconforto era Bettina, che non avrei più veduta, e che
mi andava girando nella fantasia. Il mio compagno intanto mi chiamò
dall'alto della scala di legno che conduceva al nostro dormitorio, il
quale era una specie di granajo dove in mezzo ai fagiuoli, alle fave e
alle patate sorgeva il nostro letto di Procuste. Il diavolo non è
brutto come si dipinge. Una volta entrati fra le lenzuola, spento che
fu il lume, e voltati che ci fummo cinque o sei volte sui fianchi,
discese sopra di noi il sonno benigno, e quando si dorme ogni letto è
buono. La mattina per tempo noi uscivamo dal villaggio, allorchè un
ostacolo per parte mia venne a ritardare alquanto il proseguimento del
nostro cammino. Io aveva le scarpe molto rotte. Questa disgrazia mi
era nota da due giorni, ma il male era allora nel primo stadio, e si
poteva sopportarlo. Un moralista qui direbbe: Noi dobbiamo riparare un
male, qualunque sia, appena si manifesta, affinchè non diventi
maggiore col trascurarlo. Un economo soggiungerebbe: Quando si rompe
un punto ad una scarpa, correte subito al rimedio, altrimenti una
piccola fessura si convertirà presto in uno squarcio. Mille grazie
all'uno e all'altro, ma i saggi avvisi non sempre si possono mettere
in pratica. Nel caso mio un pronto rimedio era impossibile, perchè al
manifestarsi del guasto io non avrei saputo dove trovare un calzolaio.
Eccomi giustificato della mia apparente incuria. Del resto niente di
più naturale che il rompere le scarpe allorchè si viaggia a piedi
tutto il giorno, e che per giunta si balla tutta la sera come
disperati. Coloro che viaggiano in carrozza sono sottoposti al malanno
di avere una ruota spezzata, ma è un caso molto più raro dell'altro, e
perciò se potessi io vorrei sempre viaggiare in carrozza. Dunque come
si fa quando le scarpe sono rotte? Quando non se ne hanno portate seco
delle altre da sostituirvi? Diamine, la cosa è chiara per sè medesima,
bisogna comperarne un pajo di nuove, oppure far rattoppare le vecchie
a meno che non vogliate tirare innanzi così, e farvi credere un
giramondo pezzente. Vi è anche la ragione di conservarsi i piedi
asciutti, e di chiudere la via ai sassolini che entrano pei buchi a
darvi fastidio. Lasciamo stare le scarpe nuove, io dico fra me
pensando all'economia, e facciamo mettere le mezze suole a queste qui,
che hanno ancora un buon tomajo. E poi dove trovare in questi luoghi
delle scarpe che non sieno di materia e di fattura grossolane, e di
peso enorme? Io mi guardo attorno, e vedo una botteguccia di
ciabattino che ha per insegna due forme infilate ad una corda e
penzolanti in aria. L'indicazione era equivoca, anzi del tutto falsa,
poichè invece di fabbricare scarpe, sembrava che là dentro si
fabbricassero forme. Suvvia, non andiamo a cercare la logica nè
l'esattezza dei simboli sopra le insegne delle botteghe. Il barbiere
tiene inalberato sulla sua tre piattelli di stagno o di ottone, e ciò
non vuol significare che egli sia artefice di quella sorta d'utensili.
Io entro dal ciabattino, e intanto il mio compagno va a copiare la
chiesetta del villaggio, bellamente situata sopra un'altura, e poi un
mulino a vento che sorgeva poco discosto di là, e che egli non prese
per un gigante, come avrebbe fatto Don Chisciotte di piacevole
memoria. Il ciabattino era un vecchiotto di circa sessant'anni,
grasso, rubicondo e colla bontà dipinta in faccia. Aveva una di quelle
fisonomie che si guardano volentieri, e per le quali si prova subito
simpatia. Egli mi disse, toccandosi la berretta, che m'avrebbe servito
nel mio bisogno, ma che non ci voleva meno di due ore a fare la
fattura come andava fatta. Vi era in quella bottega un odor di pece e
di cipolle che non rallegrava l'olfatto, ma i viaggiatori pedestri non
debbono essere schizzinosi, nè cadere in deliquio al più piccolo
disgusto dei sensi. Nondimeno, se avessi avuto un altro pajo di
scarpe, sarei andato volentieri a passeggiare e respirare liberamente.
Non potendo uscire di là, mi sedei sopra uno sgabello di paglia, e
stetti a guardare l'opera e l'operajo. Maestro Giacomo (si nominava
così) aveva principiato a battere il cuojo colla solita armonia dei
ciabattini, quando entrò in bottega il conte che io aveva veduto alla
festa da ballo. Il racconciatore delle mie scarpe si alzò
premurosamente, e tutto ossequioso lo invitò a seguirlo in una stanza
vicina. Colà si trattennero due o tre minuti, ed io senza volerlo
intesi qualche cosa di quel breve colloquio, tenuto non abbastanza
sommessamente. Maestro Giacomo chiamava illustrissimo il suo
interlocutore, e gli dava non so quale danaro, scusandosi che fosse
poco. L'illustrissimo diceva che era anche troppo, faceva i suoi
ringraziamenti, e si protestava obbligato di tanta bontà. Quindi
ricomparvero in bottega, e Giacomo, sempre riverente, accompagnò il
visitatore fino all'uscita sulla strada. Allora io notai che il
calzolajo era zoppo, e che rimettendosi a sedere aveva preso un'aria
di tristezza mal confacente al suo volto sereno e gioviale. Egli tornò
a battere il cuojo, ma con misura concitata e precipitata, non dicendo
parola, e mandando qualche sospiro. Ecco l'occasione, io pensai, di
cavarmi la mia curiosità di jeri sera, curiosità cresciuta
infinitamente dopo ciò che aveva allora inteso e veduto.

«Galantuomo, voi siete turbato da qualche dispiacere, dissi rompendo
il silenzio, e gettando via un ritaglio di pelle che io aveva
foracchiato colla lesina come per baloccarmi.

«Non signore, soggiunse egli richiamando sul volto la serenità di
prima. Io per me sono lontano da ogni fastidio, perchè ho buona
salute, mezzi da vivere, e tranquillità di coscienza. Alle volte però
mi dolgo dei mali altrui, e penso con rammarico a certe vicende
umane.... Ha ella veduto quel personaggio di poco fa?

«L'ho veduto, e credo anzi che vi siate disturbato per causa sua.

«Intanto che lavoro, se vuole ascoltarmi, io le racconterò la storia
di quell'uomo, ed anche un poco la mia insieme.

«Molto volentieri, giacchè le storie sono la mia passione. Narrate
pure, chè io vi ascolto senza perdere una sillaba.

Per difendermi i piedi dal freddo, li cacciai provvisoriamente in un
pajo di grosse scarpe da montanaro, che stavano li disoccupate e
malconce, aspettando anch'esse il rimedio alle loro ferite. Quindi mi
rassettai sullo sgabello, e delle tre o quattro posizioni convenienti
all'ascoltatore, presi quella che denotava maggiore attenzione.
Maestro Giacomo principiò a dire così:

«Quando io era giovane faceva il cacciatore di professione, e circa il
tirar giusto, pochi altri mi stavano al confronto. Non lo dico per
vantarmi, ma io trapassava un cappello collocato sopra un ramo
d'albero a cinquecento passi di distanza. Più di dieci volte riportai
il premio al tiro del bersaglio. Se avessi poi in un cumulo tutto il
selvaggiume che ho ucciso, basterebbe a riempirne.... che so io?....
la nostra chiesa parrocchiale fin sotto la vôlta. Ella ride? In
verità, non l'ho detta grossa. Il prodotto delle mie caccie è stato
assai grande, e d'altra parte la nostra chiesa parrocchiale è
piuttosto piccola.

«Io credo benissimo al prodotto assai grande delle vostre caccie. Solo
io rideva all'idea di una chiesa riempita di selvaggiume.

«Ah ah, sicuro, la cosa è proprio da ridere. Ma io non trovava subito
un altro recipiente un po' vasto.... Dio mi perdoni la mescolanza
delle cose sacre colle profane. Un giorno d'inverno io stava cacciando
in un bosco del nostro distretto, quando, sulla strada che lo
costeggia, si fecero udire dei gridi umani e degli urli di fiera.
Presentendo qualche disgrazia, io corro sul luogo e vedo uno
spettacolo terribile e meraviglioso insieme. Un cavallo ed il suo
cavaliere erano assaliti da un lupo smisurato e rabbioso per fame.
Benchè fossero due contro uno, l'assalto pareva più forte e impetuoso
della difesa, e senza il mio ajuto chi sa come l'affare sarebbe
terminato. Io lo terminai nel miglior modo possibile, cioè traforando
il collo a quel demonio di lupo con una palla di piombo scoccata dalla
mia carabina. Il cavallo tremava in tutte le membra come preso da
convulsione, e sbuffava dalle narici un vapore di fuoco. Il cavaliere
era più morto che vivo, ed ebbe appena fiato di dirmi il suo nome, e
d'invitarmi pel domani al suo castello di Belvedere, che sorgeva a tre
miglia del luogo della scena. L'uomo che io trassi da quel pericolo
era niente meno che il conte Roberto G. di Trento, un gran signore che
possedeva dei beni in diverse parti del Tirolo. Tutti gli uomini sono
eguali, e le loro vite hanno indistintamente il medesimo prezzo. Ciò è
vero senza dubbio, e quello che io ho fatto pel signor conte e pel suo
bel cavallo, l'avrei fatto egualmente per un carbonajo e per la sua
povera mula. Nondimeno io provai un piacere ed una soddisfazione che
probabilmente non avrei provato nel supposto caso del carbonajo. Sono
io perciò degno di biasimo?

«No, galantuomo. Giacchè confessate l'eguaglianza degli uomini, e le
vostre disposizioni a soccorrere tanto il grande come il piccolo, io
non vedo alcun male nella parzialità delle vostre compiacenze. Sapendo
di aver salvato un conte, vi brillò nella mente la speranza di un
premio, e la lusinga che il mondo avrebbe parlato con lode della
vostra azione, la quale ove si fosse trattato di un carbonajo, sarebbe
rimasta senza ricompensa, e quasi ignorata. La ricompensa di una buona
azione sta nel pensiero d'averla operata, come dicono quelli che
praticano la morale, e quelli che la predicano soltanto, in ciò siamo
d'accordo; ma anche una ricompensa materiale non è da disprezzarsi, e
l'idea di ottenerla ci fa essere contenti. insomma voi avete sentito
secondo la natura umana, che, riguardo al nostro amor proprio e al
nostro interesse, ci parla assai vivamente.

«Così è infatti. Egli pare che vostra signoria mi veda nell'animo, e
sa spiegare la cosa come farebbe un libro stampato. Il giorno seguente
io mi presento al castello di Belvedere, dove il conte m'accoglie con
molte dimostrazioni di benevolenza, mi regala una somma di danaro, e
vuole assolutamente che vada a star sempre con lui. Io gli espongo le
mie difficoltà di acconsentire all'ultimo articolo. Il rinunciare alla
libertà e all'abitudine di girare le selve per fare la vita del
servitore, e sia pure del servitore favorito, era una risoluzione che
non mi piaceva gran fatto. Ma il conte insistette fermamente, dicendo
fra le altre cose, che il mio mestiere di cacciatore era pericoloso, e
che egli aveva bisogno di vedere ogni giorno colui che gli aveva
salvata la vita. Sicchè io mi lasciai piegare alla sua volontà, e mi
posi al suo servizio in qualità di cameriere a condizioni molto
vantaggiose. Io guadagnava assai più che facendo il cacciatore, e
poteva così provveder meglio alla sussistenza de' miei vecchi
genitori. Ma le mie armi e la mia vita libera e avventurosa mi stavano
sempre nel pensiero. Io aveva venticinque anni quando lasciai il mio
primo stato, e ci volle del tempo per accomodarmi al nuovo, e per
cambiare la mia rozzezza nativa colle maniere garbate e proprie del
servitore. Il conte però era con me la stessa bontà, e tollerava le
mie goffaggini senza dar segno di avvedersene, o tutt'al più facendo
un certo sorriso piacevole, che esprimeva il compatimento e
l'indulgenza. Questo suo modo di sopportare la mia inettitudine mi
spronò ad impiegare tutto lo zelo e tutta l'attenzione di cui era
capace, e finii col diventare un abile servitore come qualunque altro.
Il conte era vedovo con un figlio unico, da lui amato ciecamente, vale
a dire di quell'amore che non lascia vedere i difetti della persona
amata e ne crea in lei di nuovi. Questo suo idolo era cresciuto fino
ai venti anni trascurato nell'educazione, e avvezzo a fare la propria
volontà quasi sempre capricciosa e irragionevole. Egli era caparbio,
impetuoso, amico dell'ozio e del darsi bel tempo. Ad onta di ciò, suo
padre non cessava di carezzarlo e di compiacerlo in ogni desiderio.
Qualche rara volta gli volgeva un'ammonizione od un consiglio, che
tanto valeva come il farne risparmio. Pare impossibile che un uomo di
senno su tutto il resto, fosse poi così imbecille su questo
particolare. Eppure se vi è cosa importante nella quale si debba
adoperare il proprio senno, è appunto nell'allevar bene i figli. Non è
egli vero, signore?

«Anzi verissimo, e questo conte al quale voi attribuite del senno, io
penso che non ne avesse punto se non vedeva, o vedendoli, non
correggeva i cattivi andamenti di suo figlio.

«Mi rincresce che vostra signoria abbia tirato questa sfavorevole
conseguenza, che d'altronde potrebbe essere giusta in generale. Io
però debbo credere che il signor conte fosse debole e inavveduto come
padre soltanto, perchè considerato come uomo, io ho mille prove del
suo retto giudizio. E poi, come dice il nostro dottore, vi sono dei
misteri e delle contraddizioni inesplicabili nella condotta e nelle
affezioni degli uomini.

«Bravo il vostro dottore, e bravo anche voi che ripetete la sua giusta
osservazione. Andate avanti.»

«Il conte aveva tolta di collegio e presa in casa sua nipote orfana,
colla mira di maritarla un giorno a suo figlio, che viaggiava allora
per divertimento in Inghilterra ed in Francia. Questa giovane era
piena di bellezza, di grazia e di bontà, e credo che sulla terra non
vi fosse una creatura più perfetta di lei. Donna Ernestina (la
chiamavano così) non aveva più veduto il cugino dal giorno che ora
entrata in collegio a undici anni, e ne contava allora diciotto
compiti. Essa ignorava pure i difetti e la poco lodevole condotta di
lui. Sapendo di essergli destinata in moglie, se lo dipinse nel
pensiero come adorno d'ogni virtù, e dietro le reminiscenze della
fanciullezza, bello di volto ed elegante di forme. In ciò aveva
indovinato, perchè il contino Federico era, come si dice, un beniamino
della natura. Quindi sulla fede di questa prevenzione essa lo amò
anticipatamente, e quando lo vide tornato in patria, dopo venti mesi
di assenza, ne rimase colpita, e il suo amore andò di galoppo. Anche
il contino parve tocco amorosamente dalla vista di lei. Questo
incontro ebbe per testimonio un personaggio, che badando al contegno
dei due giovani, ricevette egli pure nell'anima un colpo improvviso,
ma d'un genere tutto diverso. Qui io debbo dire che il contino aveva
fatto amicizia con un certo cavaliere Giordano, uomo di trenta anni,
senza beni di fortuna, ma capace d'ogni mala industria per
procurarsene. Era costui di aspetto e di maniere piacevoli, abile
parlatore, scaltro, simulato, e profondo nell'arte di adulare e di
sostenere i più opposti caratteri. Al conte padre era gradito perchè
divideva le sue opinioni politiche, giuocava con lui agli scacchi, e
lusingava la sua passione per le anticaglie. Il contino lo aveva
carissimo e non poteva vivere lontano da lui, che era, senza parerlo,
il fomentatore ed il compagno delle sue sregolatezze. Io dico senza
parerlo, perchè il briccone sapeva fare in modo che invece di
seduttore compariva come sedotto. Guai allorquando un uomo di questa
natura si mette al fianco di un giovane ricco, inesperto, e già
inclinato alla dissipazione. Egli è perduto senza rimedio, come la
preda che il serpente attortiglia nelle sue spire. Dio sa quale
profitto avrà ricavato il contino, e quali divertimenti avrà gustati
ne' suoi viaggi con un tale furfante che lo accompagnava! Tornato
dunque in patria, come dissi, e vista la bella e graziosa cugina, egli
ne restò incantato di ammirazione. Il cavaliere comprese subito il
pericolo che il contino potesse innamorarsi seriamente di lei, e farla
sua sposa. Ciò accadendo, si sarebbe cambiata la faccia delle cose, e
lo scapolo disordinato avrebbe probabilmente preso la condotta di un
savio marito. Questa idea spaventava il cavaliere, che vedeva così
perduta la sua influenza e rovinati i suoi interessi. Bisognava dunque
impedire questo matrimonio, e si pose all'opera con tutte le sue arti
sopraffine. Vi era in Trento una donna famosa per le sue galanterie e
civetterie, chiamata la Flora. Sebbene non fosse della prima gioventù,
conservava ancora tanta bellezza e tanto brio da sedurre gli uomini ed
allacciarli nelle sue reti. Il cavaliere era stato nel numero de' suoi
amanti, e sussisteva ancora fra loro un certo legame che non saprei
come qualificare. Era quell'abitudine di vedersi con indifferenza dopo
gli amori dileguati, quella famigliarità ora satirica ed ora scherzosa
di due tristi che si conoscono e si disprezzano a vicenda. Il
cavaliere si concertò con lei, ed un giorno le condusse in casa il
contino Federico, il quale morse all'amo e cadde nel trabocchetto.
Sugli uomini viziosi e corrotti possono più, io credo, i vezzi
artifiziosi d'una sirena, che le schiette attrattive d'una giovane
innocente. Il contino non badò più alla cugina, e tutti i suoi
pensieri furono rivolti alla Flora. Il padre non sapeva nulla di
questa tresca, e vanamente andava sollecitando il figlio perchè si
disponesse al divisato matrimonio. Dopo avere con varj pretesti menato
la cosa per le lunghe, il contino dichiarò che non amava la cugina, e
che ricusava di sposarla. Il padre montò sulle furie, e fu quella
l'unica volta che io lo vidi seriamente in opposizione col figlio. Ma
era troppo tardi per destarsi e far valere la sua autorità. Anche in
questa occasione egli dovette cedere e sacrificare le proprie
speranze. Donna Ernestina volle andare a nascondere in un monastero il
suo infelice amore e l'umiliazione di vedersi rifiutata. Lo zio tentò
indarno di distoglierla da tale proponimento, e di confortarla colla
promessa che le avrebbe trovato un altro e più splendido partito. La
povera signorina fu inconsolabile, e molte volte io la sorpresi che
sospirava e aveva gli occhi rossi dal pianto. Ferma nel suo
divisamento, essa entrò nel monastero della Visitazione, vi prese
l'abito e pronunziò i voti delle suore professe. Certamente la è una
bella cosa il consacrarsi a Dio, ma io avrei desiderato che donna
Ernestina si fosse data pace del suo mal collocato amore per
accenderne un altro più degno di lei, che era fatta per formare la
felicità di qualunque uomo egregio. Il disperarsi poi e l'abbandonare
il mondo a cagione di un poco di buono, è stata una stravaganza che io
non le ho mai perdonata. È ben vero che dopo qualche anno diventò
abbadessa del convento, ma io ripeto, che avrebbe fatto meglio a
diventare sposa di un signore virtuoso, e madre di cinque o sei figli
che somigliassero ai genitori. Dico io bene, signor mio?

«Dite benissimo, maestro Giacomo. Le belle e savie fanciulle devono
maritarsi e procreare dei figliuoli per adempire ai voti della natura,
ed ai bisogni della società. Vadano nei monasteri le difettose di
corpo, e quelle che per vocazione speciale sono chiamate alla vita
ritirata e contemplativa.

«Ho piacere che siamo d'accordo nella massima. L'anno medesimo della
monacazione di donna Ernestina venne a morire il conte Roberto per un
attacco violento di podagra alla quale era soggetto da qualche tempo.
Per amore della verità debbo dire che, durante la sua malattia, il
contino mostrò tutte le sollecitudini di un figlio affettuoso. Per
quindici o venti giorni egli fece tregua colle sue sregolatezze. Poche
volte usciva di casa onde rimanere presso il letto del padre, dando
segni di tristezza quando il male imperversava, e rallegrandosi quando
appariva qualche indizio di miglioramento. Questa dimostrazione
d'amore figliale voglio credere che fosse sincera, e avrà servito a
confortare gli ultimi giorni del vecchio conte, il quale spirò fra le
braccia di lui, che lo pianse amaramente. Ciò mi conferma nella
credenza che non avesse un cuore cattivo, e di più sono persuaso che
in quella occasione egli si sarebbe convertito al bene, se invece del
cavaliere avesse avuto per amico un uomo di proposito da consigliarlo
saviamente. Ma dominato da quel pessimo arnese, non che convertirsi,
andò sempre più ingolfandosi nel vizio. Anche il trovarsi padrone di
una ricca sostanza e libero dalla soggezione paterna contribuì non
poco a fargli rompere il freno alle sue voglie. Il lusso, il giuoco,
le orgie e le donne fecero un gran guasto nella sua fortuna. La sola
Flora gli cavò di mano la bontà di venti e più mila scudi, la qual
somma io non ho scrupolo di dire che venne divisa col cavaliere.
Costui aveva poi altre frodi e gherminelle per estorcere danaro dal
suo zimbello. Per esempio lo barava al giuoco, andava d'accordo cogli
usurai e coi fornitori di generi per giuntarlo, e fingeva bisogni e
disgrazie onde mettere a contribuzione la sua liberalità. La casa del
contino era il convegno di tutti i buontemponi e gli scapati della
città. Ivi succedevano canti, suoni, feste da ballo, splendide cene,
ed ogni sorta di divertimenti più o meno sbrigliati. La si figuri che
spese rovinose per andare innanzi con queste corti bandite. Al
contrario degli altri servitori, io non era ben veduto dal contino,
perchè col mio silenzio e colla mia serietà io disapprovava la sua
brutta e scandalosa maniera di vivere. Una sera lo incontrai che
montava lo scalone colla persona in disordine e barcollando per
ubbriachezza. Viva il cielo, egli avrà bevuto dello Sciampagna o del
Lacrimacristi, ma era ubbriaco nientemeno di un plebeo che avesse
bevuto del vino a dodici soldi ai boccale. Quello spettacolo
vergognoso mi fece torcere lo sguardo e brontolare qualche parola di
disgusto, che per mala sorte venne da lui intesa. Chiamatomi da
vicino, mi disse due o tre parolacce poco degne della sua nobiltà, e
poi mi congedò con un urtone, molto men degno ancora. Io perdetti
l'equilibrio e caddi a rotolone giù per la gradinata. Dopo questo bel
tratto egli entrò nelle sue stanze, ed io rimasi senza potermi alzare,
finchè vennero i miei compagni di servizio ad ajutarmi. Il fatto sta
che aveva una gamba rotta, e per coronar l'opera il chirurgo ignorante
me l'aggiustò in modo che riuscì quattro dita più corta dell'altra. È
ben vero che il contino si mostrò dolente della sua brutalità, e che
volle riparare il danno con una borsa di danaro, ma io ricusai la sua
offerta, e abbandonai il suo servizio, maledicendo il giorno che mi
persuasi ad indossare una livrea. Collocarmi in un'altra casa per
seguitare la stessa vita, era cosa che io non voleva fare. D'altronde,
chi avrebbe voluto prendere un servitore zoppo, quando pure fosse
stato dieci volte più galantuomo di un altro colle gambe dritte come
fusi? I servitori delle gran case debbono essere svelti, appariscenti,
e senza alcun difetto visibile.

«Sicuramente. Se hanno poi delle magagne nascoste, se sono furbi,
immorali e maldicenti dei padroni non importa. Basta che facciano
bella mostra delle loro persone, e che lusinghino per tal modo la
vanità di chi li paga.

«Io presi dunque il partito di tornarmene qui nel mio villaggio, e di
occuparmi in qualche altro mestiere. Alla caccia non bisognava più
pensarci, perchè oltre al buon occhio, ci voleva ancora buona gamba, e
poi i begli anni della gioventù erano andati. Laonde io misi nel
cappello due pezzetti di carta rotolati, sull'uno dei quali era
scritta la parola sarto, e sull'altro la parola calzolajo, e ne tirai
uno a sorte. Così fu che diventai calzolajo, come sarei diventato
sarto se la mano fosse caduta sull'altro pezzo di carta. Mi si dirà
che per esercitare un mestiere bisogna averlo imparato a tempo debito,
e che da un giorno all'altro non si acquistano le cognizioni. Io ne
convengo, ma con un poco d'ingegno e di entratura si riesce presto in
certe piccole faccende. Non si trattava già di trasformarmi in medico
nè in avvocato. Dopo un mese di studio e di pratica sulle mie proprie
scarpe, io fui in grado di racconciarne e farne di nuove ai miei
compaesani, che per verità non sono di molto difficile contentatura.
In seguito poi ho potuto perfezionarmi così che i miei lavori non
temettero più confronti, e persino il sindaco ed il curato mi diedero
la loro clientela. Guardi mo' se dico esagerazioni e millanterie. Una
delle sue scarpe è finita; esamini un po' che solature coi fiocchi sa
fare maestro Giacomo,

Egli mi porse la scarpa da esaminare. O amor proprio ingannatore! O
cieca stima di noi medesimi! O ignoranza delle nostre dappocaggini!
Quella scarpa era aggiustata orribilmente. Il nuovo non combaciava col
vecchio, i punti erano lunghi e disuguali, la suola mal ritagliata e
sporgente qua e là dal tomajo, un lavoro insomma da guastamestieri.
Quella scarpa mi fece dubitare dell'antica perizia di Giacomo
cacciatore. Non pertanto bisognava dire: va bene, tanto più che egli
stava lì colla faccia ridente in aspettazione d'una parola di lode.
Sebbene un poco stizzito, io non volli lamentarmi, nè distruggere la
confidenza che egli aveva nella propria abilità. Io gli dissi dunque:
Va bene, maestro Giacomo, in riguardo se non altro del piacere che mi
procurava il suo racconto. Soddisfatto della mia approvazione, benchè
non troppo ammirativa, egli continuò a dire.

«Io voleva avere un'occupazione; non tanto per guadagnarmi il pane
quanto per fuggir l'ozio che è il padre dei vizj, giusta un proverbio
colla barba. Grazie a' miei risparmj e alle liberalità del defunto
conte, io aveva già comperato questa casetta con un pezzo di terra che
vi è unito. Ah, così avessi potuto soddisfare un altro mio desiderio,
che era quello, di sposare una giovane da me grandemente amata. Quando
costei mi vide tornato al paese con questa mia imperfezione, cominciò
a raffreddarsi nella corrispondenza, e finalmente non volle più
saperne de' fatti miei. Guardi un po' che tristanzuola! Quasichè il
zoppicare mi dovesse impedire di volerle bene e di essere un buon
marito. Ella sposò uno che non zoppicava fisicamente, ma pur troppo
nel senso dei buoni costumi. Così ebbe a passare con lui delle tristi
vicende, e dopo tre anni di matrimonio morì di afflizione. Io non ho
mai potuto dimenticarla, e anche adesso, vecchio come sono, me ne
ricordo sempre con un misto di amore e di compassione. Ma io debba
raccontare, più che la mia storia, quella del contino Federico, il
quale d'ora in poi lo chiamerò conte a motivo della sua virilità
incominciata. Io non era più con lui per vedere da vicino le sue
follíe, ma la voce pubblica s'incaricò di farmele sapere. Ora si
parlava d'una gran somma di danaro perduta alle carte, ora di un
convito come quello di Baldassare, ora di due cavalli fatti venire
dell'Inghilterra, ed ora d'una collana di diamanti regalata ad una
ballerina. Un giorno si vociferò che avesse avuto un duello per un
intrigo amoroso, e che fosse rimasto ferito in una spalla. Tutto ciò
era la pura verità. Intanto il cavaliere diventava ricco a misura che
il conte si rovinava. Quel mariuolo aveva già comperato delle
possessioni, e collocato delle somme sopra la Banca dello Stato.
Allorquando vide che l'amico si riduceva a mal partito, e che poco o
nulla poteva più rubargli, andò a viaggiare in Germania sotto pretesto
di qualche affare, e lo piantò. Un colpo di fortuna inaspettato rifece
al conte le ricchezze che aveva dilapidate. Un suo vecchio zio
materno, che abitava in Baviera, venne a morire, lasciando un solo
figlio celibe di circa trent'anni. Costui, rimasto appena senza padre,
cadde un giorno da cavallo e perdette sull'istante la vita. Non avendo
fatto testamento, i suoi molti beni furono ereditati dal conte, che
era il solo suo parente. Non sarebbe stata questa una bella occasione
di aprire gli occhi sui proprj disordini, e di mettere giudizio? Ah,
quando le male abitudini sono radicate, non si dismettono più! Egli
incominciò a divertirsi come prima, anzi più di prima per compensarsi
delle strettezze e delle privazioni in cui aveva vissuto forzatamente
per qualche tempo. Il cavaliere, avendo saputo il fatto dell'eredità,
fece ritorno dalla Germania e si rimise al suo fianco per pelarlo di
nuovo. Così in pochi anni andò al diavolo anche il milione ereditato,
e allora il cavaliere disparve per sempre. Ecco il conte ridotto quasi
al verde, abbandonato dai parassiti e dalle donne, beffeggiato da
tutti, e per giunta malandato di salute. Egli poteva ancora cogli
avanzi della sua fortuna vivere mediocremente, ritirandosi dal mondo e
contentandosi del poco. Ma questa buona idea non gli passò neppure pel
capo. Al contrario gliene venne un'altra delle più stolide che si
possano immaginare, e la pose in effetto. Vedendosi al limitare della
vecchiaia e malaticcio, si persuase che non gli restavano tutt'al più
che tre anni di vita. Quindi egli divise in tre parti le ottantamila
lire che ancora possedeva, onde mangiarsele anno per anno, sperando
che la morte verrebbe a coglierlo quando fosse rimasto senza un soldo.
I tre anni passarono, e le ottantamila lire furono esattamente
consumate, ma la morte non comparve. Anzi durante quell'epoca il conte
ricuperò la salute, e già da cinque anni vive prosperoso nella
miseria. Egli è quel personaggio che venne qui poco fa.

«Io lo aveva indovinato. E perchè in capo ai tre anni non andò egli a
gettarsi in un fiume? Quando si assegna con tanta sicurezza il termine
della propria vita, bisogna fare che la morte dipenda dalla nostra
volontà.

«Oibò, il suicidio è un peccato, e il conte non avrà voluto
commetterlo, sebbene per verità ne abbia commessi tanti altri. Non so
se ci voglia più coraggio a uccidersi, o a vivere una vita infelice
come la sua. Non c'è pitocco nel nostro villaggio che non stia meglio
di lui. Almeno il pitocco non ha le memorie del passato splendore, non
ha i rimorsi di aver dissipato un'immensa sostanza, e mangia il pane
della carità senza arrossire.

«Ma questo conte sarebbe egli ridotto a limosinare?

«Qualche cosa di somigliante. Qui nei dintorni egli aveva un palazzo,
al presente trasformato in una filanda, nel quale il compratore gli
lascia godere due camerette finchè vive, non so se per contratto o per
compassione. Il povero diavolo va a desinare ora dal parroco, ora dal
sindaco, ed ora da qualche altro benevolo possidente. Alle volte
riceve un soccorso di danaro da certi suoi amici di Rovereto e di
Trento, che si ricordano di lui.

«E come sopporta la sua miseria?

«Piuttosto coll'indifferenza dello spensierato, che colla
rassegnazione dell'uomo mortificato e pentito che conosca i proprj
torti. Mi dispiace il dirlo, ma io sono persuaso che se gli toccasse
per miracolo un altro milione, tornerebbe da capo a divorarlo.
L'inclinazione ai piaceri, e dirò anche ai vizj, è in lui
irresistibile. Non potendo far altro, guarda le donne con occhio
bramoso, giuoca all'osteria un boccale di vino col primo che gli
capita, e si reca come spettatore ai balli campestri che succedono per
nozze, o per altre occasioni di allegria. Lo crederebbe? Egli è capace
perfino d'immischiarsi nelle danze.

«Come appunto ha fatto nella festa di jeri sera. Egli non ha dunque
nessuna dignità, nessun sentimento della propria nascita e del proprio
decoro.

«La poca educazione, le male pratiche, e la scompigliata sua condotta
lo hanno degradato e avvilito per sempre.

«Quantunque vi abbia rotta una gamba, voi gli fate del bene, maestro
Giacomo. Io ho udito testè, senza volerlo, come un ricambio di parole
fra il benefattore e il beneficato.

«In quanto alla gamba rotta, io gli ho già perdonato da un pezzo, e
non me ne ricordo più. Circa il fargli del bene, io non sono in grado
di dar molto, ma pure di quando in quando gli do un pajo di fiorini, o
presso a poco. Inoltre gli aggiusto le scarpe rotte, e gliene regalo
un pajo di nuove a Pasqua e a Natale. È un tributo che io gli pago in
riguardo alla memoria del suo buon padre. Per lui medesimo è poco
degno di essere beneficato, ma forse otterrebbe egualmente il mio
piccolo beneficio. Se si dovessero soccorrere soltanto quelli che
meritano, una gran parte dei bisognosi morrebbero di fame. Il conte è
infelice, e tanto basta. La sua indifferenza potrebbe essere studiata
per non dare altrui lo spettacolo della sua tristezza, e per parere un
filosofo che sa portare in pace l'avversità. Quando si trova solo
nelle sue squallide camere, deve pensare, voglia o non voglia, alla
sua misera condizione. Egli deve confrontare il passato col presente,
e, viva il cielo, non si scappa ai tormenti di questo paragone. Sicchè
io lo compiango, e lo ajuto come posso. Quando poi lo vedo all'osteria
con quelle sucide carte in mano giuocare colla gentaglia, io dico fra
me per cacciare la stizza, che egli ha la testa matta, o che si
comporta così a fine di stordirsi sui proprj mali.

«E come avete cominciato a beneficarlo? La vostra carità è domandata o
spontanea?

«Ecco qua il fatto. Un giorno egli venne a chiedermi in prestito otto
lire, dicendo che me le avrebbe restituite alla fine del mese. Passato
questo tempo, egli ricomparve, non già per fare la restituzione, ma
per domandarmi un'altra piccola somma, aggiungendo che mi avrebbe
rimborsato il tutto entro la settimana. Allora io gli risposi che non
voleva nessuna restituzione, e che anzi, se si degnava di accettare,
io gli avrei fatto di tempo in tempo qualche dono secondo che
permettevano le mie deboli forze. Egli non ricusò, ed io da quattro
anni e mezzo non manco alle mie promesse.

«Voi siete un uomo di buon cuore, da quanto ho veduto; voi trattate
ancora con ogni riguardo questo conte, che se ne mostra così poco
degno.

«Io sono stato suo servitore, ed ho l'abitudine di praticargli queste
rispettose esteriorità. Noi piccole genti non possiamo spogliarci mai
di quella riverenza, e direi quasi venerazione, che c'inspirano i
nobili ed i ricchi, quando pure non pregevoli per sè medesimi, o sieno
decaduti dalla loro altezza di fortuna. Hanno un certo prestigio di
superiorità imponente. Io ho un bel dirmi che il conte non è punto
stimabile, e che io sono dieci volte più ricco di lui, ma non per
tanto io potrei permettermi una parola od un atto che indicasse
confidenza o dispregio. Non so capire il perchè di questa forza
prepotente che mi domina mio malgrado.

«Ve Io dirò io il perchè. Quando vedete il conte, voi vedete insieme
gli stemmi della sua nobiltà, e i ritratti de' suoi avi collocati in
ordine sulle pareti. Voi vedete i mobili sontuosi, le argenterie, le
dorature, il lusso e lo splendore del suo palazzo. Voi vedete i suoi
cavalli e le sue carrozze, il suo scrigno, le sue ville, e quanto
insomma formava la corona abbagliante della sua grandezza. Tutto ciò è
dileguato, ma non importa; voi lo vedete ancora cogli occhi
dell'immaginazione. Voi non potete separare il passato dal presente,
nè l'uomo dalla cosa. Voi credete che sia il conte che v'impone
riverenza, e invece non è altro che la sua passata fortuna, da voi
incarnata nella sua persona.

«Per bacco, sono persuaso che il fatto sta come lei dice. Queste idee
esistevano in confuso nella mia testa, ma io non avrei saputo
disbrogliarle nè esprimerle debitamente. Ecco quello che ha guadagnato
il conte trascurando la sua educazione, dandosi ai cattivi compagni, e
battendo la strada dei vizj e dei piaceri. Egli non ha mai ottenuto nè
stima nè amicizia presso i buoni, ha disonorato la nobiltà della sua
stirpe, ha mandato in malora un ricchissimo patrimonio, e dopo una
vecchiaja trista e deserta morirà probabilmente all'ospedale, ultimo
rampollo della sua illustre casa. Laddove, se avesse pensato e agito
da vero gentiluomo, si sarebbe sposato ad una degna fanciulla sua
pari, avrebbe avuto dei figli che seguitassero le sue virtù, sarebbe
stato utile e distinto nelle società, e finalmente sarebbe morto
lasciando a' suoi posteri un nome onorato, e le ricchezze avute in
retaggio da' suoi maggiori. Quando penso a quest'uomo, mi vengono
cento buone inspirazioni sulla virtù e sulle regole della vita.

«Da bravo, maestro Giacomo, fatemi udire qualcuna delle vostre buone
inspirazioni. Io sono avido d'imparare.

«Bella avidità veramente, ma qui non è ad una scuola da poterla
saziare. Io sono maestro soltanto di calzoleria.

«E di morale ancora meglio. Voi siete capace di fare un sermone come
un pajo di scarpe.

«Vostra signoria mi burla, non è vero? Ella sì che debb'essere un
sapiente, sebbene in giovane età. Se non m'inganno, ecco un
semplicista, una sorta di medico, uno che conosce la virtù delle erbe
e ne compone dei rimedii salutari.

«Nulla di tutto questo. Io raccolgo erbe come un altro raccoglierebbe
conchiglie, pel solo piacere di conservarle diseccate fra le pagine
dei libri. Io non m'impaccio della loro virtù medicinale.

«Allora, mi scusi, non si può faticare nè perdere più inutilmente il
tempo, che è tanto prezioso.

«L'ho detto io che siete un buon moralista! Suvvia, tirate qualche
conseguenza istruttiva dal vostro racconto. Quali lezioni se ne
possono ricavare?

«Ella mi stuzzica non altro che per farmi dire, giacchè sa meglio di
me ciò che insegna la storia del conte. Prima di tutto i padri debbono
imparare che un cieco e malinteso amore pei figli è sommamente dannoso
e fatale alla loro buona educazione. Guai a quei padri che così amano
i figli, poichè senza saperlo si fanno fomentatori, e direi quasi
complici delle loro sregolatezze. Quando si avvedono del male, non
sono più in tempo di ripararlo, e non giovano a nulla i pentimenti nè
i rimorsi della coscienza. Il vero e utile amore paterno è quello che
veglia continuamente, onde incoraggiare le buone e combattere le
cattive inclinazioni che si manifestano nei figli. Se opera
altrimenti, il padre è colpevole dinanzi a Dio ed agli uomini d'aver
tradito il più sacro de' suoi doveri. La gioventù impari come sia
importante la scelta degli amici. Se la mia condotta è biasimevole, un
vero amico può raddrizzarla co' suoi consigli e col suo esempio, ma un
falso amico, di traviato che io era, mi rende tristo e mi rovina del
tutto. Veda la gioventù a quali estremi conduce una vita principiata e
proseguita nell'ozio e nell'ignoranza, una vita senza freno e dedita
non altro che ai sensuali piaceri. Veda la miseria, i mali, il
disprezzo e l'abbandono che aspettano l'uomo vizioso. I nobili sopra
tutto imparino a vivere saviamente ed esemplarmente, perchè hanno
maggiori obblighi degli altri, e perchè la voce dell'onore deve farsi
sentire in essi più vivamente. Un nobile che calpesta la sua dignità e
quella de' suoi antenati, che s'ingolfa nel fango dei vizj, e si
riduce infine mendico, mi pare una mostruosità, il colmo
dell'abbiezione umana. Ecco, signore, che ho terminato di moralizzare
e insieme di aggiustare l'altra sua scarpa.

Maestro Giacomo diede a tutte due una politura colla spazzola, come si
pratica dai calzolaj per coronar l'opera di un rattoppamento
qualunque. Io le calzai, e mi parve di essere ingrandito di un
pollice, tanto le suole erano grosse e favorevoli al mio innalzamento.
La racconciatura, come ho detto, era mal fatta, ma il prezzo fu
discretissimo e degno del lavoro. Non avvenne come all'osteria, dove
si mangiò e si ebbe ricovero pessimamente, e si pagò in ragione
inversa del trattamento. Infilate le braccia nelle cinghie della
valigia, ed il bastone nel fagotto delle erbe, salutai maestro
Giacomo, e andai a raggiungere il mio compagno.


FINE.



UN AGNELLO FRA DUE LUPI

RACCONTO

DI

PAOLO BETTONI



UN AGNELLO FRA DUE LUPI


I.

La scena è in una grande città d'Italia, non importa quale. Siamo in
una sala mobigliata riccamente, ma con poco buon gusto e manco
discernimento. L'insieme dei mobili non le dà un carattere proprio e
distinto. L'antico ed il moderno vi sono confusi stranamente, e
producono un'ingrata disarmonia. Le cose di vecchia forma contrastano
con quelle di attuale invenzione. Gli specchi, i sedili, i tavolini,
le pendole, i candelabri, i vasi di porcellana e tutto il resto sono
una collezione d'oggetti i più disparati e nemici fra loro. Le
finestre hanno le cortine di seta, ma di un colore e d'un disegno non
appropriati all'uso. Il pavimento è coperto d'un tappeto di lana,
tessuto da mano maestra, e rappresentante gruppi di suonatori e di
ballerini. Altra inconvenienza di camminare sui visi e sui corpi di
gente rispettabile che sta allegra. Egli è vero che si stampano sui
fazzoletti di naso i ritratti degli uomini grandi e che questa non è
la più bella maniera di celebrarli, ma un controsenso non giustifica
l'altro. Forse la stoffa di quel soppedaneo era destinata all'ufficio
di tappezzeria. Otto o dieci opere lodevoli di pennello e di bolino,
bellamente incorniciate, pendono qua e là dalle pareti, opere tutte di
sacro soggetto, come sarebbe un Ecce Homo, il Martirio di Santo
Stefano, e la Vergine Assunta. Fra lo spazio di due finestre avvi uno
scaffale di legno prezioso e squisitamente lavorato, nel quale sono
collocati libri di pietà, di filosofia cristiana, di storia
ecclesiastica, di Vite di Santi, ec., ec. in numero di trecento volumi
all'incirca. Nulla di profano si contiene in quello scaffale; un
prelato dei più ascetici non potrebbe avere una biblioteca meglio
edificante.

Un uomo non ancora di cinquant'anni passeggia la sala pensieroso, e
colle braccia incrociate sul petto, come faceva una volta Napoleone I,
e come fanno adesso gli staffieri che siedono sulla serpe accanto ai
cocchieri. Dopo alcune giravolte, si lascia cadere in una poltrona di
velluto bleu, e il suo volto si fa torbido e sereno a vicenda. Il
timore e la speranza, lo sconforto e la gioja vi si dipingono
alternamente, come sul volto di un negoziante che abbia in mare una
nave carica di ricche merci, e che ora la veda sommergersi, ed ora
entrare in porto. Quest'uomo è vestito signorilmente, ma d'una moda un
poco stantía, senza studio di eleganze, alla maniera delle persone
attempate e sode. Egli si chiama il signor Fabio, gode la bella
riputazione di galantuomo, e la rendita non meno bella di sessantamila
lire annuali e sicure. Adesso egli sta operando un colpo che deve
triplicare la detta sua rendita, e collocarlo fra i più ricchi del
paese. Il signor Fabio è di un carattere austero, di princìpi
illiberali e contrari al progresso, e soprattutto scrupoloso
sull'articolo della morale civile e religiosa. Egli legge soltanto
certi giornali di un certo colore, che hanno pochissimi associati, e
tuttavia fanno vivere lautamente i loro redattori. Nelle alte regioni
della società conta molti amici e conoscenti, che lo stimano, che
apprezzano i suoi consigli, e che dividono le sue opinioni.

Il signor Fabio levò di collegio e prese in casa un suo nipote orfano,
del quale diventò altresì il tutore per disposizione testamentaria
della defunta cognata, madre del giovinetto. Questo felice, o
piuttosto infelice mortale, possiede una sostanza di due milioni, che
il signor Fabio va procurando di legalmente appropriarsi. Ora è
appunto immerso nel pensiero di tale affare, e, secondo che si figura
l'esito certo o dubbioso, lo vediamo passare dalla letizia alla
tristezza. A trarlo dalle sue meditazioni entra nella sala un uomo
presso a poco della sua età, vestito pulitamente di nero, avente
un'aria disinvolta e una simpatica fisonomia. Il signor Fabio si
scuote, e domanda con una certa premura:

--Orbene, Leonardo, quali divertimenti jeri sera?

--Un'orgia un poco più spinta delle altre, rispose Leonardo mettendosi
a sedere. Molto selvaggiume, molti tartuffi, e molto vino di varie
qualità. Aggiungete a tutto questo un gran vaso di punch.

--Benissimo.... e donne?

--Due figliuole di Eva, le più gaje e vezzose del mondo.

--Briccone, sempre roba nuova, eh? disse il signor Fabio ridendo e
fregandosi le mani. Vi sarete sollazzati a dovere.

--In quanto a me, sono un filosofo che guardo con disprezzo le vanità
della vita. I folli piaceri non mi seducono, perchè lasciano in fine
il pentimento.

--Satanasso, come fai bene il beffardo! E Faustino era in vena?

--Se lo era! E come no a diciott'anni, e in tale compagnia? Egli morde
terribilmente all'amo e fa delle vere prodezze. Ben presto io te lo do
migliore di Don Giovanni Tenorio.

--No, sciagurato! Io non voglio nessuna celebrità in lui. Guardati
bene dagli scandali.

--Via via, ti rassicura. Tu non hai a che fare con un gonzo, e le tue
idee mi sono entrate perfettamente. La celebrità fa del rumore, e tu
vuoi il silenzio. Per acquistare la celebrità bisogna vivere alquanto
lungamente, e tu vuoi spicciarti di lui alle corte. Caro Fabio, dammi
del denaro.

--Quanto ti occorre?

--Più me ne dai, e più mi fai piacere. Se ne spende molto, amico mio.

--Prendi, due doppie di Spagna.

--Non è una grande liberalità, ma per ora mi contento. Abbi presente
che i piaceri costano assai caro. Per esempio, nel nostro baccanale di
ieri sera abbiamo speso cinquantasette lire, senza contare i regali
alle due convitate, che troppo bene li meritarono collo sfoggio delle
loro grazie. Faustino mi eccita a spendere largamente, ripetendomi che
appena andrà al possesso del suo patrimonio pagherà i debiti che crede
avere verso di me. Egli mi fa l'onore di considerarmi così ricco da
prestargli continuamente il denaro che gli occorre per divertirsi. Non
guardarla dunque pel sottile con tuo nipote. Finalmente egli ha una
rendita di quasi novantamila lire, che mediante la tua saggia
amministrazione sarà aumentata in pochi anni....

--In pochi anni! Smemorato che sei! disse il signor Fabio con un certo
riso sardonico molto significativo.

--Ah, tu hai ragione. Questa volta io pensava e parlava da balordo.
Per Faustino non vi debb'essere avvenire; la bella prospettiva è tutta
per te.

--Ah, Leonardo! riprese il signor Fabio dopo un momento di pausa, e
assumendo il tuono dell'ipocrisia; io ho delle inquietudini.

--Tu? delle inquietudini?

--L'opera che noi facciamo è un grave delitto. La coscienza mi
rimorde.

--Ah ah! proruppe a ridere Leonardo. La coscienza ti rimorde! Via con
queste celie.

--Se potessi dare addietro.... ma il male è troppo innoltrato.

--Quando tu voglia rimediarvi, siamo ancora in tempo. A me basta
l'animo di fare un santo di tuo nipote. Oggi, se ti garba, io assumo
una faccia compunta, un contegno grave ed un discorso edificante che
produrranno miracoli. Se fin qui ho sostenuto la parte del diavolo,
m'impegno di fare quind'innanzi quella dell'angelo custode. Non più
bagordi, non più intemperanze, non più dissolutezze. Io lo conduco
alle pratiche divote ed ai sermoni di chiesa. Se non potrò
restituirgli il candore e l'innocenza, avrà il pentimento e
l'emendazione. Così vedremo rifiorire in lui la salute, che in verità
comincia a guastarsi.

--Ti pare che egli sia dimagrato?

--Un poco sicuramente, e accusa già qualche doloruccio di petto.

--Aimè, che orribile passione è quella delle ricchezze! Vedi a quale
eccesso mi ha condotto.

--Non ischerzare, perchè a forza di fingere i rimorsi, tu finirai col
sentirli davvero.

--Tu sei più malvagio di me.

--Questo può darsi, ma dovrebbe giudicarne un terzo che ci conoscesse
a fondo l'uno e l'altro. Intanto io ho il vantaggio di comparire in
faccia tua come un povero galantuomo da te sedotto al male. Dopo dieci
o dodici anni di dimenticanza, tu sei venuto a stringermi la mano, e a
trarmi dalla mia pacifica inazione. Tu mi hai tastato bel bello per
accertarti se io era ancora quella buona lana dei nostri tempi di
gioventù. Mi hai trovato il medesimo, e per giunta quasi al verde del
mio patrimonio, due ottime circostanze perchè tu avessi a propormi
questo affare, e perchè io avessi ad accettarlo, mediante la
ricompensa di cinquantamila lire. Dunque non disputiamo sulla
preminenza dei nostri meriti rispettivi. Noi siamo due mariuoli che
abbiamo l'abilità di passare per uomini onesti.

--Però la mia riputazione di onestà....

--Sì, è più grande e più estesa della mia. Sai tu il perchè? Perchè io
non sono ricco, perchè non ho sublimi relazioni sociali, perchè non fo
elemosine a suono di tamburo, e perchè il mio nome non è scritto sugli
elenchi delle pie congregazioni. Di questa mia inferiorità mi consola
per altro il pensiero, che io sono il solo uomo al mondo che ti
conosca intimamente, e dinanzi al quale tu debba per forza levarti la
maschera. Credimi, che io provo un vivo piacere ed una soddisfazione
viva non meno al vederti discendere dal piedestallo della tua virtù
per avvoltolarti secretamente nel fango del delitto. Io solo vedo
sulla tua faccia dileguarsi l'impronta della venerabile austerità, e
comparirvi l'espression dei ribaldi sentimenti che covi nel fondo
dell'anima. Per me solo la tua bocca parla il linguaggio della
furfanteria, mentre per ogni altra persona si apre il linguaggio
dell'onore e della morale. Vivaddio, la è una metamorfosi molto
interessante, alla quale io solo ho il privilegio di assistere. Quando
ti vedo passare nella tua carrozza, o in quella di qualche semidio che
tu adori ed inganni, io dico mentalmente e ridendo sotto la barba:
Ecco là come sono fondate certe riputazioni di virtù e di santità.

--A che proposito queste insolenti invettive?

--Senza rancore, mio caro Fabio. Non è che io biasimi la tua
ipocrisia, perchè finalmente io pure sono tinto della stessa pece. Ho
voluto soltanto dirti, che non istà bene il vantarmi sul viso la
superiorità del tuo creditore la fortuna de' tuoi buoni successi
nell'arte dell'impostura. Sappi però che io sono Tartuffo e volpe più
di te.

--Lo so benissimo, caro mio. Appunto mi sono fidato di te per la tua
gran furberia e perizia nel saperla dare ad intendere. Tu adempi
benissimo l'ufficio pel quale ti ho collocato al fianco di Faustino.

--Tu mi rendi giustizia col lodare la sottigliezza del mio ingegno.
Faustino mi crede lo strumento passivo e quasi ritroso delle sue
volontà. Le mie insinuazioni sono così acute, che invece di seduttore
mi danno l'apparenza di sedotto. Egli deve applaudirsi in secreto
d'avermi saputo piegare a compiacerlo. Comandare fingendo di ubbidire,
guidare col farsi credere guidato, ecco il difficile dell'arte.

--Bravo, così va bene. Ti raccomando sempre la prudenza in faccia al
mondo. Guárdati soprattutto dal compromettermi nè punto nè poco in
questa faccenda. Io potrei essermi ingannato sul tuo conto, ma la mia
buona fede deve rimanere intatta. Guai se venissi sospettato della più
piccola intelligenza con te!

--Già già, ti comprendo benissimo. Tu vuoi restar sempre l'ottimo
tutore, l'amorevole zio, la perla degli uomini onorati, l'ammirazione
di tutta la città.

--Un giorno mi convertirò davvero, e meriterò la stima che ho finora
usurpata.

--Tu pensi per eccellenza. Eh, non saresti il primo che si converte
per progetto. Io conosco alcuni che dopo una serie di fortunate
bricconerie cessarono dal commetterne per paura di essere scoperti.
Siamo intesi che prima si prepararono un letto di fiori in cui
addormentarsi placidamente alla barba dei creduli e della propria
coscienza.

--Io comprerò un titolo di nobiltà, e farò uno splendido matrimonio,
che ho in vista da qualche tempo.

--Te ne fo le mie congratulazioni. Ah ah, tu sei ambizioso! Tu vuoi
rimaritarti! Tu hai il ticchio della nobiltà! Ben presto ti chiameremo
dunque il signor conte Fabio, o qualche cosa di somigliante. Vedete
come si fabbricano alcuni illustrissimi che menano gran rumore nel
mondo. Un Tizio od un Sempronio plebeo entra in fregola di avere un
blasone, e per ottenerlo spende una parte delle sue ricchezze
furfantate. Così egli prepara il lustro delle sue future generazioni,
le quali si vantano poi degli avi, compreso il capo stipite famoso.

---Vuoi finirla, briccone? Lingua maledetta?



II.


Chi è questo Leonardo? Come ha conosciuto il signor Fabio, e quali
rapporti vi sono stati fra loro? Leonardo porta il titolo di dottore,
ma non sappiamo in quale facoltà sia laureato. Nessuno lo ha mai
veduto scrivere una ricetta, nè difendere una causa. Eppure nelle
occasioni discorre giustamente di medicina e di giurisprudenza.
Inoltre è buon parlatore, e passa per uomo addottrinato in tutto. Egli
vive ristrettamente del poco che possiede, ma conserva la sua
indipendenza. Generalmente lo si crede un galantuomo, perchè nelle
finezze dell'ipocrisia nessuno lo pareggia, tranne il signor Fabio.
Egli però non ha bisogno di esercitare l'impostura in grande, nè di
farne giuocare tutte le molle, come pratica il suo compagno, che è
collocato in alto e aspira a salire sempre più. Leonardo nella sua
mediocrità adopera solo quel tanto d'impostura che basti a celare i
suoi vizj e le sue colpe secrete, e a mantenerlo nella buona opinione
de' suoi conoscenti. Egli non cerca nè spera nulla da chicchessia;
egli non vuol essere additato come un professore di virtù, ma si
contenta di non essere scoperto per quel furfante che è. Le sue
relazioni col signor Fabio datano fino dalla loro età giovanile.
Fecero gli studj alla medesima università, dove si conobbero meglio e
simpatizzarono per la somiglianza dei caratteri e delle inclinazioni.
La loro massima capitale e favorita era che si può commettere
tranquillamente ogni bricconeria, quando si abbia la destrezza di
farla rimanere occulta. Quindi baravano al giuoco, tendevano insidie a
chi avesse loro dispiaciuto, e si abbandonavano ad ogni genere di
dissolutezze. Tornati che furono a casa, continuarono a praticarsi e a
commettere secretamente e impunemente le loro ribalderie. Accadde che
il signor Fabio, essendosi maritato, diventò padre di un bambino.

La sua sposa, appena ebbe partorito, stette male in modo, che dopo tre
giorni di patimenti passò all'altra vita. Mentre i parenti e gli amici
stavano intorno al letto della moribonda, il signor Fabio sparì un
momento per recarsi nella stanza attigua dove giaceva in culla il
bambino depostovi poco prima dalla nutrice come addormentato. Un
sinistro presentimento lo aveva spinto a fare quella visita. Egli alza
il velo che copriva la culla, guarda il bambino, gli posa una mano
sulla fronte e la sente agghiacciata. Egli pure sente agghiacciarsi il
sangue e mancargli le forze. La neonata creatura era morta. Nessuno si
trovava alla custodia della culla, e quindi la sventura non doveva
essere ancor nota. Il signor Fabio chiama a sè Leonardo, che stava fra
gli altri al letto dell'agonizzante, e gli dice con voce affannata e
sommessa: Corri a prendere nascostamente il tuo bambino, imprestamelo
per alcune ore, altrimenti sono perduto. Io pagherò immensamente il
tuo servigio. Va, e vieni di volo. Leonardo comprese tutto, e si
prestò all'infame gherminella. Bisogna sapere che egli pure era
diventato padre, con questa differenza che il suo bambino aveva
quattro giorni di più, e che nasceva da una concubina. Intanto il
signor Fabio nascose il piccolo cadavere, e diede incumbenza altrove
alla nutrice per tenerla lontana dalla culla. Quindi con grande
ansietà e tumulto dell'anima aspettò il suo complice, passando un
momento al capezzale della sposa, e poi fuggendo di là col pianto agli
occhi, e protestando che troppo lo straziava l'assistere all'agonia
della sua diletta. Dopo un quarto d'ora comparve cautamente Leonardo.
Il bambino che teneva addormentato sotto il tabarro venne deposto
nella vuota culla, e i due birbanti passarono di nuovo a fare mesta
corona al letto della morente. Indi a poco il pianto e le querele di
tutti annunziarono che era trapassata. Il signor Fabio gemente e
disperato corse alla culla, si tolse fra le braccia il bambino, e
presentandosi alla compagnia, così esclamò con viva espressione di
dolore e di tenerezza: Aimè, io l'ho perduta per sempre! Mi rimane
almeno questo pegno del nostro amore per mitigare in parte la mia
afflizione. Il bambino, maneggiato sgarbatamente, si destò e proruppe
in vagiti, attestando così, come voleva il signor Fabio, la sua
sopravvivenza alla madre. Quando ebbe gridato per due minuti, si
tranquillò e riprese il sonno. Allora il signor Fabio, facendo le
viste di andare a deporlo dove l'aveva tolto, lo rimise invece a
Leonardo che gli teneva dietro, e il morto fu ricollocato in cuna. Il
colpo era fatto, e quando un'ora dopo si scoprì che il figlio aveva
seguito la madre, vi furono esclamazioni di dolorosa sorpresa, e
raddoppiamento di pietà e di querele. Con questa commedia scellerata
il signor Fabio si esentò dal restituire ai parenti della defunta una
dote di quattrocentomila franchi. Leonardo n'ebbe ventimila in premio
della sua complicità, e non si può dire che il servigio fosse pagato
male. Quando il signor Fabio non ebbe più bisogno di lui, trascurò la
sua relazione, non avendo nulla a temere circa il secreto di quanto
avevano operato insieme. Dopo molti anni di allontanamento si
ravvicinarono ancora per commettere un nuovo e più enorme delitto.



III.


Un bellissimo fanciullo di quattordici anni piangeva un giorno al
letto di sua madre mortalmente inferma, la quale tenevagli il capo fra
le mani, e con voce affievolita gli diceva:«Mio diletto figliuolo, io
ti ho chiamato dal collegio per darti la mia benedizione, e farti
udire le mie ultime parole. Fra poco tu perderai la madre, come già
perdesti il padre, e resterai orfano sulla terra. Bisogna rassegnarsi
alla volontà di Dio. Fatti cuore, e preparati alla nostra separazione
in questa vita per unirci un giorno eternamente nell'altra. Abbi cara
la mia memoria, e dammi prova del tuo amore seguitando innanzi nella
via della bontà, dello studio, e della pratica de' tuoi doveri, come
hai fatto finora. Così mi compiacerò dal cielo, vedendoti incamminato
ad essere un uomo distinto, riputato e utile alla tua patria. E voi,
cognato mio, continuò volgendosi ad un uomo che stava lì presso in
atteggiamento da contristato, voi che siete il fratello di suo padre,
abbiate cura di lui, vegliate sulla sua educazione e sul suo avvenire.
Io vi trasmetto i diritti e l'autorità che la natura e le leggi
consentono ai genitori. Assumete la sua tutela, tenete presso di lui
le mie veci, e adempite le speranze che ho poste nella vostra bontà e
nella vostra onoratezza.» L'uomo contristato rispose che sarebbero
compiuti i di lei voti, e che egli avrebbe avuto pel nipote l'amore e
le sollecitudini d'un padre. Intanto singhiozzava e asciugavasi gli
occhi col fazzoletto. Il giorno dopo la povera madre morì, e il
fanciullo col cuore ingruppato ritornò in collegio a compiervi i suoi
studj. Non si dà al mondo creatura più interessante e più cara di un
giovinetto orfano, che abbia un'anima sensitiva ed un volto grazioso
sul quale viene a dipingersi la mestizia del suo sentimento di
solitudine e d'abbandono. Anche in mezzo alle distrazioni e ai
trastulli co' suoi compagni si vede in lui dominare una certa calma
malinconica, la quale ammorza l'impeto e la naturale baldanza della
sua età. S'indovina in lui lo sventurato, cui sono mancate le carezze
e l'amore dei genitori, e siamo mossi a vivamente compiangerlo. Tale
era appunto Faustino, il quale sentì in sommo grado la perdita fatta,
e per lungo tempo non seppe darsene pace. Dotato di molto ingegno e
d'indole soave, volonteroso dello studio, sussidiato da buoni maestri,
e memore delle raccomandazioni materne, andò crescendo nella
gentilezza, nell'istruzione e in tutti i pregi che rendono amabile e
degno di stima un giovinetto. I superiori, i condiscepoli e quanti lo
conoscevano, gli portavano affetto, e si promettevano di lui le sorti
più liete. Egli splendeva d'una rara bellezza, diremmo quasi
femminile, se il suono della voce, alcuni tratti caratteristici del
volto, e la nascente lanuggine del mento non avessero attestato il
contrario. I suoi occhi ammirabili nuotavano in un fluido etereo di
dolcezza e insieme di vivacità, ma celavano ancora l'eloquenza e
l'ardore che le passioni sogliono far nascere più tardi. Questo essere
prezioso, questo tesoro di purità e d'innocenza, toccato il
diciasettesimo anno, passò dal collegio alla casa del suo tutore e zio
insieme. Costui, secondo le leggi divine ed umane, secondo i dettami
del dovere e della coscienza, secondo gl'impulsi della ragione e
dell'onestà, e finalmente secondo la voce della natura e dell'amore,
avrebbe dovuto penetrarsi del suo importante ministero, e vegliare
gelosamente sul sacro deposito a lui affidato. Avrebbe dovuto
continuare a compiere l'educazione di Faustino, sviluppare in lui
maggiormente i doni dell'intelletto e del cuore, circondarlo di savie
persone, allontanarlo dai pericoli di seduzione, e iniziarlo
prudentemente alla pratica del mondo e all'esercizio delle acquistate
virtù. Che ha egli fatto invece? No, non potrebbe nessuna mente umana
concepire un bastevole orrore di ciò che ha fatto il signor Fabio,
come nessuna lingua umana potrebbe a sufficenza manifestarlo. Faustino
è caduto dal cielo all'inferno, e dopo un anno di soggiorno in casa
dello zio, non è quasi più riconoscibile. Egli ha perduta l'aria
candida, lo schietto sorriso, la tinta florida e virginale del volto
che formano il più bell'ornamento della giovinezza. I suoi occhi non
brillano più di quella luce viva e pura che tanto seduceva, ma errano
come incerti e smarriti da un oggetto all'altro, e qualche volta
pajono tocchi da stupidità. Alla scioltezza ingenua del contegno e
delle maniere successero la titubanza e l'impaccio. La sua
immaginazione è contaminata come il suo corpo; egli è caduto in balía
del vizio. Appagare i sensuali appetiti, ubbidire ai lenocinj del
piacere, ecco il suo struggimento. Egli presta appena un'attenzione di
convenienza ai maestri che lo zio gli ha procurati per rispetto del
mondo, e per salvare le apparenze.



IV.


Fantino entrò nella sala, e diede il buondì ai due interlocutori.

--Caro nipote, disse il signor Fabio in tuono di chi rimprovera
dolcemente, quest'oggi ti sei trattenuto a letto un po' troppo tardi,
e perciò io debbo sgridarti. Le ore del mattino sono preziose per lo
studio, e bisogna metterle a profitto. Lascia che ti guardi più da
vicino. Sì, tu sei alquanto smorto, e sotto gli occhi hai un certo
lividore.... ti sentiresti male?

--No in verità, rispose il giovane abbassando gli sguardi come un
colpevole.

--Tuo zio ti ama tanto che s'inquieta per nulla, disse Leonardo.

--Certo che io lo amo, e che voglio vederlo felice. Non è egli mio
nipote, anzi mio figlio? Non ho io incontrato la seria obbigazione di
fargli da padre? Io non mancherò, sicuramente al mio impegno, ma tu
pure dal canto tuo devi corrispondermi coll'obbedienza, colla buona
condotta, e coll'utile impiego del tempo. Via, siamo giusti. Le mie
premure fruttano abbastanza bene, e mi chiamo di te contento. E tu
puoi lagnarti di tuo zio?

--Tutto il contrario. Voi siete buono, affettuoso, compiacente.... io
non ho nulla a desiderare in casa vostra.

--Baroncello, tu mi conosci eh? Per bacco, io non so essere rigoroso
colla gioventù. Io acconsento che tu ti diverta, ma onestamente, non a
scapito de' tuoi doveri. Come ti è piaciuta la commedia di jeri sera?

--Moltissimo.... una commedia spiritosa, interessante....

--E soprattutto castigata e morale quanto si può desiderare, aggiunse
Leonardo.

--Va bene, ciò mi consola. Ti raccomando di nuovo, Leonardo,
l'attenzione su questo particolare. Io permetto a mio nipote di
frequentare il teatro, purchè vi si rappresentino cose conformi ai
buoni costumi. Pur troppo sento dire che oggidì molte composizioni
teatrali peccano di disonestà, e sono scuola di scandalo e di
corruzione.

--Io so il mio dovere, e m'informo preventivamente della commedia che
si deve recitare. Faustino non assisterà mai ad uno spettacolo,
dinanzi al quale la virtù debba arrossire. No, sicuramente, finchè
sarà in mia compagnia.

--È una vera fortuna, caro nipote, che io conoscessi un uomo di tanta
saviezza al quale affidare la tua custodia. Non ho voluto fin qui
lasciarti praticare co' tuoi coetanei, essendo difficile di trovare
buoni compagni fra una gioventù generalmente viziata e pericolosa.
Sappi però che vo' cercando qualche giovane dabbene e degno di te per
avvicinartelo. Io so benissimo che ognuno ama di conversare e
divertirsi co' suoi eguali. Abbi pazienza, e ti sarà procurata questa
consolazione.

--Finora non ne sento il bisogno. L'amicizia e la compagnia di
Leonardo mi bastano.

--Questa dichiarazione fa il suo elogio. Non è piccolo merito quello
di un uomo attempato che sappia cattivarsi a tal grado la simpatia di
un giovane, e rendersi a lui così pienamente accetto.

Un servitore venne ad annunziare che la carrozza era pronta. Il signor
Fabio prese il cappello, salutò, e disse che andava a visitare alcuni
stabilimenti di beneficenza posti sotto la sua protezione. Faustino,
rimasto solo con Leonardo, così parlò:

--Mio zio è una pasta di zucchero, un uomo pieno di buona fede. Quanto
ti sono obbligato che lo mantieni nella sua credulità!

--Bella obbigazione! Mi sarebbe più grato un acerbo rimprovero. Io
sono un colpevole che inganno quell'eccellente amico col farmi
complice delle tue scappate. Quando penso alla mia condotta, mi
salgono al viso le fiamme della vergogna. Non avrei mai creduto che
una leggera condiscendenza ad un tuo capriccio dovesse trascinarmi
così lontano. Sempre menzogne! Sempre soppiatterie! Dover
infinocchiare che jeri sera siamo stati alla commedia!

--Non è la prima volta che spacciamo una tale fandonia. Anche domani
faremo lo stesso.

--Questo poi no! Io pretendo che stassera si vada veramente al teatro,
oppure che si rimanga in casa.

--Leonardo! amico mio!

--Che vorresti tu dire?

--Io ardo di trovarmi con Marietta la bruna crestaja. Sono otto giorni
che non la vedo.

--No, è tempo di finirla con queste tresche. Bisogna fare giudizio.

--Sì, sì, lo farò sicuramente, ma per ora non posso. Le attrattive del
piacere sono più forti della mia volontà. Io capisco che è male il
rompere così il freno agli appetiti, ma mi sento incapace di resistere
alla loro violenza, finchè la sazietà non venga a rendermi facile la
vittoria.

--Uditelo come ragiona, e come difende abilmente la propria causa.

--Mio buono, mio caro Leonardo, te ne prego. Questa sera con
Marietta....

--Con nessuna, ti dico.

--Suvvia, contentami, non farmi penare.

--Non voglio saperne, m'intendi?

--Le mie preghiere sono inutili? Or bene, io anderò da me solo dove mi
piace. Fuggirò di casa nascostamente.

--No, non commetterai questa imprudenza. Aimè, in quale trista
situazione mi ha posto la mia sciagurata debolezza. Io sono costretto
a secondarti per impedire un male maggiore. Coll'essere teco io servo
almeno a tenerti in una certa misura, e a conservare il secreto sulla
tua condotta.

--Dunque mi compiacerai?

--Sì, e Dio me lo perdoni. Forse dovrò per te dannarmi l'anima. Tu mi
fai fare di quelle cose.... hai un tale potere sopra di me.... egli
pare che tu mi abbia stregato. Il vero si è che io ti amo grandemente,
e che nulla so ricusarti, neppure ciò che è male. Ma io credo
fermamente che, passata la foga giovanile, metterai un termine a
questi disordini, e riformerai la tua vita.

--Senza dubbio, tale è il mio proponimento. Siamo dunque intesi. Tu
farai che Marietta abbia l'avviso dal solito Mercurio.

--Ad un patto però, mio caro Faustino.

--E quale? Udiamo.

--Che tu debba occuparti un po' meglio dello studio. Tu non sei
attento abbastanza alle lezioni de' tuoi maestri. Che diamine, si può
conciliare benissimo l'amore dei libri con quello dei piaceri.

--Sì, sì, tu dici ottimamente. A proposito di libri, mi hai tu portato
quei tali....

--Bisognava pure che io te li portassi per liberarmi dalle tue
importunità. Eccoli. Ma non è a questa sorta di libri che tu devi
interessarti. Sono scherzi e frivolezze che servono tutt'al più a
divertire e far ridere per una mezz'ora.

--Grazie, Leonardo. Vediamo.... Novelle Galanti di Giambattista
Casti.... Quest'altro?... Convito dì Trimalcione di Petronio Arbitro.
In verità, sono curioso di leggere.... I titoli mi promettono cose
piacevoli.... Addio Leonardo, a rivederci.

--Adopera ogni precauzioni; affinchè nè tuo zio nè anima viva ti
sorprenda con quei libri in mano. Sventura a noi se ti fossero trovati
in casa!

--Sii tranquillo, e lascia fare a me. Tu sai pure che ho un
nascondiglio sicuro dove tengo i miei contrabbandi. Io sfido il
diavolo a scoprirli.

Faustino si ritirò nel suo appartamento, e lesse avidamente due
novelle del Casti, infiammandosi la mente colle lubriche immagini e
colle pitture allettevoli che abbondano in quelle pagine corrompitrici
della gioventù. Quindi nascose il libro in una specie di guardaroba,
serrata a chiave, dove stavano poesie, romanzi e racconti in gran
numero, tutte sconcezze stomachevoli, tutte produzioni di laide
fantasie. Vi era inoltre una raccolta d'incisioni e di miniature le
une più lascive delle altre, un insieme di brutture degne dei costumi
della Reggenza francese. Queste porcherie di libri e di stampe erano
regali che Leonardo faceva di quando in quando all'ardente giovane,
dopo avergliene con destrezza lasciato intravvedere l'esistenza, e
dopo essersi fatto pregare per concederle. Faustino aprì un altro
armadio che racchiudeva manicaretti e paste calorose, frutte macerate
nell'acquavite, bottiglie di vini forastieri e di liquori spiritosi in
quantità. Egli mangiò un pezzo di pane pepato, bevette un bicchiere dì
rhum, e poscia si sdrajò sull'ottomana a fumare un sigaro.
Quell'infelice aveva contratto tutti i vizi che istupidiscono
l'intelletto e limano il corpo. Consumato che ebbe metà del sigaro,
gettò via il rimanente, e si diede a passeggiare per la camera,
pallido in volto e col capo torbido e dolorosamente esaltato. Ebbe
bisogno d'aria aperta per riaversi, e discese in giardino. Quando
un'ora dopo venne il professore di filosofia a dargli lezione, lo
trovò distratto e sbadigliante come al solito. Gli parlò delle
operazioni dell'anima in generale, e di quella del pensiero in
particolare. Il discepolo ne approfittò per volare appunto col
pensiero al convegno che avrebbe luogo la sera, e durante la
spiegazione lo tenne rivolto intensamente a Marietta la bruna
crestaja. Il professore, da quel bravo filosofo che era, se ne andò
ripetendo in cuor suo: Egli è ricco, e non ha bisogno di filosofia. A
me basta che si paghi esattamente il mio lauto stipendio mensile. Così
dicevano presso a poco e con eguale rassegnazione i maestri di
letteratura, di lingua inglese, di musica e di pittura, i cui precetti
Faustino ascoltava col medesimo interessamento. Egli sentiva, è vero,
di quando in quando alcuni rimorsi di coscienza circa le sregolatezze
della sua condotta. Ciò è naturale in tutti, ma principalmente in un
giovane d'indole buona, che s'informò di principj virtuosi, e che
attese più anni all'acquisto di una savia educazione. Egli rammentava
le pratiche del collegio, le massime dei maestri e quelle dei libri,
gli avvertimenti di sua madre e di tutte le oneste persone colle quali
aveva conversato, e paragonava questo complesso di bene coi cattivi
andamenti della sua vita attuale. Ma erano riflessioni deboli e
passeggere, fatte soltanto in certe ore di disgusto e di malessere
dopo un eccesso d'intemperanza. Il pretendere che egli si ravvedesse
di proprio impulso sarebbe stata cosa impossibile e fuor di ragione.
Forse neppure i consigli e le ammonizioni altrui avrebbero operato la
sua conversione. Come mai persuadere un giovane a frenare le proprie
passioni una volta scatenate, e a rinunciare al piacere una volta
gustato, quando a ricercarlo maggiormente lo spinge il suo
temperamento e l'opera di un demonio che gli sta al fianco?

Fra le case situate in una contrada remota e poco frequentata, avvene
una senza portinajo, e non molto purgata rispetto alla qualità e
condotta degl'inquilini. Leonardo vi aveva preso in affitto due
camere, e fattele mobigliare decentemente, servivano di ritrovo a
Faustino colle sue amanze. Un ripostiglio praticato nel muro conteneva
una ricca provvigione di commestibili e di bevande, provvigione che
veniva rinnovata di mano in mano che si consumava. Quelle camere erano
il teatro della corruzione e delle orgie di Faustino. In esse aveva
dato l'addio alla sua innocenza. Quante ignote commozioni, e quanti
arcani turbamenti vi provò la sua anima! Quai dolci tremiti, e quali
ansie dilettose! Come arrossiva il suo volto alle carezze della prima
donna da lui avvicinata! Gli inviti della voluttà contrastavano nel
giovane colle ritenutezze del pudore. Era mille volte più bello della
donna invereconda e provocatrice. Ben presto le timide esitanze del
novizio fecero luogo all'arditezza dello sperimentato. Le più belle
giovani di facile conquista si avvicendavano da un anno a' suoi
piaceri, e avevano creato in lui, ciascuna coi propri vezzi
particolari, una somma d'impressioni e di memorie, che sogliono
accendere maggiormente la concupiscenza, e fare più acute le voglie.
Ad un'ora di notte Leonardo e Faustino comparvero in queste camere, e
si diedero a preparare la tavola per una delle solite cene. Indi a
poco si presentò Marietta saltellando e canticchiando una canzone.
Levatasi il cappellino e la mantiglia, lasciò vedere una chioma
corvina di stupenda abbondanza e lucentezza, e due spalle paffutelle e
graziosamente tornite. Questa creatura, di freschissima età, era il
tipo della bellezza vivace, ardente e risentita, aveva la carnagione
bruna, egli occhi neri scintillanti d'una spagnuola dell'Andalusia.
Era gaja e folleggiante al modo delle giovani perdute, e Faustino la
preferiva a tutte le altre. Il lettore, se vuole, dipinga a sè stesso
questa scena colla propria immaginazione. Tre ore dopo, Leonardo dava
il braccio a Faustino, che mal si reggeva sulle gambe, e lo
accompagnava a casa, facendolo salire al suo appartamento per una
scala secreta, affinchè i servitori non lo vedessero in quello stato
di vergognosa ebbrezza.



V.


Da qualche tempo si era operato in Faustino un cambiamento, che molto
sorprese ed inquietò i suoi due carnefici. Il giovane pareva stanco di
piaceri, vi si abbandonava più di rado, e senza la brama e la
smoderatezza di prima. Dinanzi alle sue belle era diventato freddo e
quasi astinente, come sobrio dinanzi alle stuzzicanti imbandigioni.
Egli stava pensoso, e mal volentieri usciva di casa. Poche volte si
accostava al nascondiglio dei liquori spiritosi, e a quello delle
stampe e dei libri disonesti. Eppure non era ancora malandato di
salute, nè si lagnava di alcun male. Questo rivolgimento non si poteva
dunque attribuirlo a cagioni fisiche, ma piuttosto all'influsso e agli
avvisi di qualche secreto consigliere, oppure alle inspirazioni del
cielo. Siccome il signor Fabio e Leonardo non credevano nelle
inspirazioni del cielo, così pensarono che un mortale nascosto
lavorasse alla conversione di Faustino, e tremavano di essere perduti.
Invano Leonardo aveva interrogato più volte il giovane, e cercato di
scoprire l'arcano del suo mutamento. Al fine gli cavò di bocca la
confessione che era innamorato. Ecco l'avventura. Un giorno si
affacciò ad una finestra della casa dirimpetto una giovinetta
sedicenne di figura veramente angelica. Faustino vide dalla sua
finestra quel miracolo di bellezza, e rimase estatico a contemplarlo.
Un solo minuto durò la contemplazione, poichè la giovinetta, accortasi
della presenza e degli sguardi di lui, si ritirò confusa e colorata
del più amabile rossore. Ma quel solo minuto valse a commoverlo tutto
quanto, e a stampargli nell'anima l'immagine di lei. Il sentimento che
provò era affatto nuovo, e nullamente paragonabile a quello provato
per le altre donne. Ogni giorno si appostava dietro le persiane
socchiuse, spiando le sue apparizioni, che già succedevano con qualche
frequenza, perchè essa pure era rimasta colpita dalla vista del
giovane avvenente. Quando con un libro od un lavoro femminile in mano
si presentava alla finestra e rimaneva delusa nel suo desío e
sconfortata, Faustino era là nascosto a bearsi dei biondi capegli, dei
vaghi occhi cerulei, e delle dolci e virginali sembianze di lei,
comprimendo a fatica i battiti violenti del cuore. Egli non avrebbe
mai voluto possederla al modo delle altre donne; da questa idea
abborriva come dal più nefando sacrilegio. Vagheggiarla come cosa
santa, starle da vicino per udire il suono della sua voce, e per
respirare l'aria da lei respirata, ecco ciò che gli sarebbe parso il
colmo della felicità. Faustino aveva conosciuto il puro e virtuoso
amore. Nella speranza di farlo dividere, apriva alle volte le imposte
e si manifestava alla fanciulla, che trasaliva e imporporava le
guancie, ma rimaneva al suo posto. Quando i loro occhi s'incontravano,
le loro bocche si componevano ad un lieve sorriso che destava in
ambedue le più care vibrazioni di gioja. Le loro anime si erano
intese. Faustino venne a sapere che la giovinetta si chiamava Luigia,
che apparteneva ad una ragguardevole e ricca famiglia, e che usciva
appena dal monastero nel quale era stata allevata. Per due mesi
continuarono a vedersi dalle rispettive finestre, palesandosi il loro
amore col muto ma eloquente linguaggio degli occhi. Il ricambiare
parole non era possibile a motivo della distanza che li separava, e
potendolo fare, non avrebbero forse osato. Una inclinazione del capo,
od un cenno della mano erano i saluti che si volgevano al principio e
alla fine delle loro tacite ma dilettose conversazioni.

Leonardo, appena ricevuta la confessione di Faustino, andò a rivelarla
al signor Fabio, il quale così parlò al nipote: Tu hai fatto male ad
innamorarti alla tua età troppo giovanile, quando non hai ancora
compito la tua educazione. Tu devi accasarti, siamo d'accordo. Tu devi
dotare il paese d'una nuova famiglia, che si distinguerà per decoro di
meriti, per dignità, e per lustro di ricchezze. Senza dubbio ti è
riserbato il destino di sposo e di padre felice, e già io principiava
a volgermi attorno per iscoprire una fanciulla degna di esserti data a
tempo debito per compagna. Meno male che nella tua imprudenza la
fortuna ti ha guidato con benignità, facendo che tu non collocassi
bassamente il tuo amore. Io non ti dico di soffocarlo, nè di
abbandonare la speranza. Seguita pure a nutrire questo sentimento, ma
colla moderazione di chi dubita di riuscire a buona fine. Io forò
conoscenza coi genitori della fanciulla, m'informerò circa le qualità
di lei, e vedremo se sarà possibile di conchiudere questo matrimonio.
Sii però ragionevole, e non lusingarti molto, perchè l'affare può
avere dei gravi ostacoli. Tu intanto farai un viaggio in Francia, che
servirà insieme ad istruirti nella conoscenza del mondo, e ad
impedire, colla distrazione, i progressi del tuo amore, progressi che
sarebbero sconsigliati e pericolosi, finchè la certezza del matrimonio
non venga a giustificarli. Leonardo ti accompagnerà.

I preparativi della partenza vennero fatti senza indugio. Faustino,
che a malincuore intraprendeva questo viaggio, s'ingegnò d'informarne
Luigia colla mestizia del volto e coll'azione della mimica, e vi
riuscì perfettamente. La fanciulla comprese tutto, e s'immestì come
lui. Ciò che Faustino avrebbe voluto farle sapere, ma che non tentò
neppure per l'impossibilità del buon successo, erano le favorevoli
disposizioni di suo zio, e le pratiche consolatrici che egli si
disponeva a fare presso i genitori di lei. Troppo ardire parevagli
quello di scriverle una lettera, e poi come fargliela pervenire? Si
contentò dunque di pensare che un giorno ella avrebbe saputo per altro
mezzo questa lieta novella, e le fece i suoi addio con tanta
commozione d'animo, che le lagrime gli rigavano il volto. La
giovinetta gli corrispose colla medesima tenerezza dolorosa, e
recandosi agli occhi il fazzoletto per asciugarvi il pianto. Le
finestre si chiusero, e dopo altri sguardi e saluti ricambiatisi
attraverso i vetri, gl'innamorati disparvero colmi del più amaro
affanno.



VI.


Parigi è certamente la città per eccellenza, dove l'amore dei piaceri
trova uno stimolo violento, e insieme un pascolo agevole. Tutte le
seduzioni e le raffinatezze del sibarismo, tutte le arti di allettare,
tutti i ritrovati che accarezzano i cinque sensi e riscaldano le
fantasie sono colà portati al grado di perfezione. Abbiate molta
salute, molta inclinazione ai godimenti e soprattutto molto danaro in
tasca, e voi vi create a Parigi un paradiso terrestre, colla
differenza però che quello di Adamo conteneva più semplici e più
innocenti delizie. Faustino serbava in cuore l'immagine di Luigia, ma
offuscata dal fumo delle dissolutezze, cui si era di bel nuovo e con
più lena abbandonato. Leonardo raddoppiava di furberia per nascondere
sempre meglio il suo ufficio diabolico d'instigatore al vizio. Appena
giunti a Parigi, egli tenne al giovane un lungo sermone morale, e gli
tracciò la linea di savia condotta che sarebbe obbligato di seguire.
Principiò col condurlo alla visita delle gallerie, delle biblioteche,
dei monumenti, e di quanto sogliono occuparsi coloro che viaggiano per
osservare e per istruirsi. Era un continuo passare da uno stabilimento
all'altro, un discorrere di archeologia, di belle arti, di commercio e
d'industria; un fare annotazioni sulle cose più interessanti e degne
di memoria. Leonardo voleva annojarlo, e in capo a pochi giorni
ottenne l'intento. Faustino, che realmente credeva d'aver fatto
prevaricare quella specie di suo ajo, e che sapeva di poterlo condurre
pel naso, dichiarò che non voleva sottomettersi ai patti stabiliti
senza il proprio consenso, e che egli non era venuto a Parigi per fare
la vita dello scienziato. Leonardo finse di opporgli una forte
resistenza, mise in campo i diritti e l'autorità di cui era investito,
la responsabilità che pesava sopra di sè, i rimordimenti della
coscienza, e passò perfino a parere sdegnato, e a tenergli il broncio.
Intanto le brame del giovane erano fatte dal contrasto vieppiù ingorde
ed impazienti di ritegno. Egli passava dall'umile pregare
all'imperioso volere, e finalmente Leonardo, come se cedesse a tante
importunità, gli fece alcune concessioni, che in breve si allargarono
senza misura. Faustino si paragonava in cuor suo al destriero che
prende il morso tra i denti e mena dove vuole il suo cavaliere. Le più
belle cortigiane maestre nelle blandizie, i pasti squisiti e copiosi
presso i celebri _ristoranti_, i concerti musicali, gli spettacoli
equestri del circolo Franconi colle sue amazzoni leggiadre, quelli dei
balli dell'Opera colle sue ninfe succinte e voluttuose, e quelli delle
danze popolari piene di movenze e di abbandoni indecenti occuparono
per sei mesi lo spirito ed il corpo di lui, tanto che la sua salute ne
fu rovinata. In sulle prime Leonardo non se ne diede per inteso, e
allora soltanto che il giovane cominciò a deperire troppo
evidentemente, egli aprì gli occhi e manifestò le sue inquietudini.
Parlò di riposo, di medico, di consulti e di medicine, ma Faustino non
volle saperne, e preferì di tornare in patria. Nella stanchezza dei
piaceri e nel malessere in cui era caduto gli parlava più che mai la
memoria di Luigia, e si sentiva spinto vivamente verso di lei.
Leonardo scrisse al signor Fabio, e n'ebbe in risposta una lettera che
pareva inspirata dal timore, dall'affanno e da tutti i sentimenti che
prova un padre affettuoso al quale si annunzia la malattia di suo
figlio lontano. Faustino leggendola, esclamava: Che ottimo cuore! Che
uomo eccellente! Quanto mi ama! Abbandonarono Parigi, e dopo cinque
giorni furono a casa. I disagi del viaggio avevano peggiorato lo stato
del giovane, il quale scendendo di carrozza colpì di doloroso stupore
coloro che stavano ad aspettarlo. Il signor Fabio medesimo, profondo
scellerato com'era, non potè esimersi dalla compassione quando,
nell'abbracciare il nipote, lo vide squallido, sfinito, cogli occhi
infossati e colle labbra smorte; compassione che durò quanto
l'abbracciamento. I malvagi e feroci istinti prevalsero subito alla
pietà, della quale non rimase che le apparenze nella umanità delle
parole e nella tristezza del volto. Il medico dichiarò che Faustino
era tisico, e pur troppo si appose al vero. Ciò che il medico non
seppe mai erano le cause della sua etisia. Il signor Fabio volle
informarlo egli stesso, come a modo di diagnosi, sulle antecedenze del
nipote, inventando falsità che potessero illudere la scienza e sviarla
nelle sue ricerche. Secondo lui, Faustino nasceva da una madre debole,
e morta di languore; il fanciullo partecipava della condizione
materna, e più volte fece temere di non sopravvivere alla genitrice.
In seguito parve fortificarsi, e venne posto in collegio, dove forse
lo studio e il sistema di vita colà praticato gli furono di
detrimento. Nondimeno vi stette per lo spazio di sei anni,
abbisognando però di riguardi a motivo della sua gracilità. Quindi,
nei due anni vissuti presso di lui, suo zio, aveva preso l'aspetto del
giovane sano e robusto, con maraviglia di quanti lo conobbero nella
sua fanciullezza. Ma ora che toccava l'età fatale ai disgraziati che
covano il germe della tisichezza, era caduto con rapido progresso in
tanto deperimento. Il medico fu pago di queste informazioni, non cercò
di più, e si diede a tentare la guarigione dell'ammalato. Prima di
mettersi a letto, Faustino aveva più volte riveduto Luigia alla solita
finestra, e tenuto con lei le solite conversazioni di cenni, di
sguardi e di sorrisi. Se non che gli sguardi ed i sorrisi erano
diventati malinconici da ambe le parti, ed esprimenti il dolore.
Luigia si affliggeva al vedere Faustino in quel misero stato, ed egli
al vederla afflitta, e al pensare alla propria infermità. Tutti due
poi si rattristavano di un amore che fino allora non aveva fondamento
di speranze.

Già da una settimana il giovane guardava il letto, e ubbidiva alle
mediche prescrizioni. Suo zio passava molte ore accanto a lui, e sotto
la larva della mestizia e del compianto, nascondeva un tripudio
feroce. Egli spiava con avido sguardo gli andamenti del male, e a
misura che aumentava il pallore e l'infossamento delle guancie, che
languivano gli occhi e scemavano le forze della sua vittima, cresceva
in lui la satanica gioja. I tisici quasi tutti non s'accorgono di
andare lentamente verso il sepolcro. Essi sperano sempre di guarire,
anche quando si trovano giunti agli estremi. Con un filo di voce
interrotta dalla tosse dicono di sentirsi bene, e fanno progetti e
assegnamenti sull'avvenire. Faustino domandò un giorno allo zio se
avesse parlato ai genitori di Luigia, come aveva promesso di fare. Il
signor Fabio non si era neppure sognato di entrare in questa pratica.
Nondimeno voleva rispondere all'infermo in modo da consolarlo, vale a
dire che le sue proposizioni non erano state disaggradite. Ma un lampo
d'inspirazione infernale fece sì che rispondesse: Mio caro Faustino,
io pensava di tacerti la cattiva novella, ma giacchè mi hai
interrogato, sappi che bisogna rinunciare all'idea di questo
matrimonio. Il padre della fanciulla, col quale mi sono abboccato, non
può acconsentire al nostro desiderio, perchè una promessa anteriore lo
tiene obbligato, e sua figlia senza ancora saperlo, è destinata ad
altre nozze. Ciò mi disse colla fermezza di chi renderebbe vano ogni
tentativo di farlo piegare a nuovi consigli. Vedi quello che ti ha
fruttato l'amare di nascosto e senza prima consultare tuo zio? Non
darti però travaglio, e lascia a me la cura di trovarti una sposa.
Intanto pensa a guarire, e fa di obbliare Luigia. Il giovane pianse
sommessamente e cadde in una profonda malinconia, che sempre più
aggravò la sua infermità. Quando lo zio non era in camera, egli si
alzava a stento e si trascinava alla finestra nella speranza di
vedervi Luigia, ma sempre vanamente. La fanciulla, sapendolo obbligato
al letto, aveva cessato dalle sue apparizioni, e se ancora ne faceva
alcuna, era per volgere un sospiro ed una mesta occhiata al luogo che
racchiudeva l'infelice oggetto del suo amore. Il caso fece che una
volta s'incontrarono, e fu l'ultima. Luigia rimase quasi tramortita,
giunse le mani, e guardò il cielo in atto di dolore e di
supplicazione. Erale parso di vedere un cadavere che si movesse.
L'amore e la pietà fecero al suo animo un crudele assalto, e non
permisero che avesse lo sfogo del pianto. Faustino la guardò con occhi
semispenti che più non potevano esprimere ciò che sentiva, alzò la
mano scarnata per fare il cenno di salutarla, e poi con estrema fatica
ritornò a coricarsi. Indi a poco entrò in camera Leonardo, che soleva
visitarlo almeno due volte al giorno. Egli avrebbe voluto non più
mostrarsi al letto di Faustino, ma bisognava che sostenesse fino al
termine la parte di amico premuroso e affezionato. Ad onta della sua
estrema perversità e del sangue freddo con cui aveva consumato un
lungo e barbaro delitto, non poteva vedere con indifferenza gli
effetti spaventosi dell'opera sua. Quel giovine sì bello e florido
poc'anzi, da lui ridotto come scheletro, eragli uno spettacolo
increscioso e svegliatore di rimordimenti. Non si dà uomo tanto
perverso e fracido nelle colpe, che non oda in certi momenti qualche
rimprovero di coscienza. Leonardo cercava di tranquillarsi col
pensare: In fine dei conti non è poi una morte dolorosa la sua. Io non
gli ho cacciato un pugnale nel petto, ma dolcemente l'ho condotto alla
tomba sopra un sentiero sparso di rose.

--Come va, Faustino mio? gli domandò inchinandosi sopra di lui, e
posandogli una mano sulla fronte che bolliva di febbre.

--Mi sento un poco debole, ma del resto non c'è male, rispose
l'infermo con languida voce. Che ti pare del mio aspetto?

--A dirti la verità è tristo, ma lo era di più i giorni passati. Mi
sembra che l'occhio sia meno appannato, e le labbra meno scolorate.
Questi sono buoni indizj. Coraggio, amico mio, e guarirai.

--Voglio sperarlo. Alle volte però mi cade l'animo, e penso che mi
sovrasta la morte.

--Malinconie! Il mio presentimento è che tu debba scamparla.

--Tanto meglio, caro Leonardo. Allora io farò una vita ben diversa
dalla passata, e metterò in opera le riforme che ti aveva promesse.
Intanto comincerò con un atto, che mi gioverà egualmente se vivo come
se muojo, e tu sei incaricato di eseguirlo. Domani farai sparire per
sempre i libri, le stampe e le bottiglie che tu sai, e queste sono le
chiavi dei ripostigli. Mi farai il favore?

--Certamente, rispose Leonardo mettendosi una mano sul petto, e
pigliando coll'altra le chiavi. Entro domani non vi sarà più traccia
di quelle cose.

--Sono contento, e ti ringrazio. Vivendo, non avrò più tentazioni in
casa, e morendo, non lascierò le prove rivelatrici de' miei peccati
nascosti. Ah, Leonardo, io mi persuado che l'abuso dei piaceri è la
vera causa della mia infermità. I medici non sanno e non indovinano
niente.

--Essi però ti curano bene, come se sapessero e indovinassero tutto.

--Ah, perchè non ho ascoltato le tue ragioni! Perchè mai ti ho
costretto a fare la mia volontà! L'amore che tu mi portavi ti ha
chiuso gli occhi e reso incapace di resistermi più fermamente. Ma io
ti assolvo della tua condiscendenza, e mi accuso come il solo
colpevole. Quando sarò guarito, non avverrà più che tu debba
secondarmi nelle mie intemperanze, perchè non voglio più commetterne.
Le sensualità, alle quali mi sono abbandonato, non meritano il nome di
piaceri, ma producono il disgusto ed il dolore. Ah, i veri piaceri
sono quelli di un amore virtuoso e conducente ad una santa e stabile
unione. Io mi prometteva di gustarli, ma la fortuna mi è stata
contraria al loro conseguimento. Tu non sai che Luigia è destinata ad
altri.

--Vi è luogo a sperare ancora.

--Che dici?

--Tuo zio non ha fatto il ragionamento che fo io. Potrebbe darsi che
il padre di Luigia, quando la saprà innamorata di te, cambiasse
consiglio per non renderla infelice. Bisognerà pur vedere il grado di
resistenza che opporrà la fanciulla ad un matrimonio contro suo genio.
La resistenza io credo che sarà grande come l'amore che ti porta. La
speranza dunque non ti abbandoni.

--Ah, quanto mi consolano le tue parole! Rimane a vedersi se io
guarirò.

--Senza dubbio tu guarirai. Nutri soltanto la fiducia, e tieni l'animo
in calma.

--Sappi che l'ho veduta un momento.

--Chi?

--Luigia.

--Dove? Quando?

--Alla finestra, poco prima della tua venuta. Io fui capace di
discendere dal letto, e di condurmi fin là.

--Imprudente! Io dovrei sgridarti per lo sforzo e per la commozione
che avrai sostenuto, ma sarebbe inutile dopo il fatto. Or bene?

--Or bene, ci siamo guardati e salutati colla più grande passione.
Aimè, quale angoscia il non poterci veder più da vicino, e dirci più
chiaramente quello che proviamo di piacere e di tormento. Se avessi
alcun che di lei, una sua memoria da tenermi sul cuore!

--Viva il cielo, te la procurerò io, esclamò Leonardo, come colpito da
un'idea felice. Era l'idea di confortare con una dolce illusione gli
ultimi giorni di Faustino. Era un nuovo suggerimento della coscienza e
della pietà che tardi e debolmente si risvegliarono. Egli prese le
forbici e tagliò una ciocca di capegli del giovane, soggiungendo:
Luigia riceverà questi tuoi capegli, e ne darà altrettanti de' suoi.

--Sarebbe mai possibile! disse Faustino animandosi per quanto gli era
concesso, e mutando il pallore del cadaverico volto in una rosea tinta
leggiera. Sarebbe mai possibile questo ricambio! Come riuscirai ad
effettuarlo?

--Mediante la cameriera di Luigia, che io conosco e che saprò
interessare a favorirci.

Il giorno dopo Leonardo si presentò al letto di Faustino con una
ciocca di capegli biondi soavemente profumata e ravvolta in finissima
carta. L'anima e le forze vitali del giovane si distribuirono nelle
mani, negli occhi e nelle labbra di lui, che tenevano, guardavano e
baciavano quel tesoro. Povero ingannato! Povero trastullo dei malvagi
anche sul limitare della fossa! Ma di quest'ultimo inganno poco
importa; egli non sentivasi per ciò meno felice. Egli credeva di
possedere e baciare i capegli di Luigia, e tanto bastava a procurargli
una gioja immensa. Il fatto sta che quei capegli appartenevano ad una
delle giovani svergognate che avevano contribuito alla sua rovina.
Questa baratteria, questo burlarsi dei sentimenti di un moribondo era
cosa degna del tristo e fraudolento Leonardo. Se non altro Faustino
aveva un talismano che serviva a mantenerlo nella gemina speranza
della sua guarigione e delle sue nozze con Luigia. Eppure al misero
non restavano che pochi giorni di vita. I soccorsi dell'arte non
potevano più nulla per lui; i medici avevano già dato la loro
sentenza, e lo visitavano ormai per solo atto di formalità. Il signor
Fabio pareva costernato, e ordinava preghiere e tridui nei santuarii
della città, onde impetrare il risanamento del nipote. Il manigoldo
prendeva a gabbo anche il cielo, domandandogli un miracolo che mai non
avrebbe voluto ottenere. Una sera sullo scorcio di ottobre Faustino
spirò senza agonia e così tranquillamente come se si fosse
addormentato. Tutti gli astanti piangevano quella morte immatura e
compassionevole. Chi lo crederebbe? Anche le lacrime del signor Fabio
e di Leonardo erano abbondanti, e quello che più fa stupire, erano
sincere e spremute da una specie di dolore. Ciò ricorda il detto
volgare che il coccodrillo uccide e poi piange le sue vittime. Egli è
vero che il loro dolore finì prestissimo, ma ripetiamo che non era una
finzione. Non si può ridere internamente, nè simulare il pianto che
per la morte di un nemico, di alcuno che si odiava. Il signor Fabio e
Leonardo non erano punto nemici di Faustino, nè gli portavano il più
piccolo odio. Anzi possiamo dire che lo amavano alla lor maniera. Con
tutto ciò si sarebbero guardati bene dal desiderarlo risuscitato, e
molto meno guarito. La sua morte fruttava a Leonardo il premio di
cinquantamila lire, e al signor Fabio l'eredità di capitali, case e
terreni per due grossi milioni. Egli era il solo parente di Faustino.

I funerali furono solenni per numeroso corteo e profusione di ceri.
Oltre un centinaio di preti, vi assistevano gli individui di molte
confraternite e case di beneficenza. Il signor Fabio fece distribuire
elemosine ai poveri della parrocchia affinchè pregassero per l'anima
del defunto. Fra la moltitudine accorsa nella chiesa addobbata di
nero, si vedeva Luigia e la sua governante inginocchiate in una
cappella appartata. La giovinetta gemeva secretamente e nascondeva
sotto il velo le sue lacrime acerbe. Povera angioletta! Povero cuore
sensitivo e piagato d'infelice amore! Quanti affanni, quanti sospiri,
quante notti insonni! Abbi pazienza, creatura bella, e il tempo
apporterà rimedio al tuo penare. A poco a poco la memoria di Faustino
sarà cancellata; non andrà molto che tu accenderai un altro amore, e
quello non sarà infelice.

Sul monumento funebre di Faustino sono registrate le ottime qualità
che aveva perdute, e le virtù di cui non possedeva che i germi
isteriliti per colpa de' suoi esecrabili pervertitori. L'epitaffio
dice che lo zio amava il giovane con affetto paterno, e che il dolore
della sua perdita sarà inconsolabile. Generalmente parlando le
iscrizioni mortuarie non meritano gran fede, ma come non credere a
quella dettata dal signor Fabio sul sepolcro di Faustino? Come
dubitare del suo amore verso il nipote, e della sua afflizione per
averlo perduto? Questi sentimenti non possono essere finti in un uomo
che professa la virtù, e che possiede la stima de' suoi concittadini.
Così nessuno li revoca in dubbio, e tutti prendono parte al suo
cordoglio.

Leonardo ha portato a casa le sue cinquantamila lire in tanto
bell'oro, e non vede più il signor Fabio, se non quando lo incontra
per caso. Di giorno egli è passabilmente allegro, ma la notte si
addormenta a stento, e fa dei sogni paurosi. Alle volte gli appare il
fantasma di Faustino che lo minaccia, e gli domanda conto del governo
che ha fatto di lui. Leonardo si risveglia tutto sudato, si frega gli
occhi e si lamenta della brutta visione. Per consolarsene, accende il
lume, apre la cassa del tesoro, e colle mani e cogli sguardi si
procura sensazioni e pensieri gradevoli.

Il signor Fabio egli pure stenta un poco a prender sonno, ed è
visitato qualche volta da due larve importune. Che avete voi fatto di
mio figlio? gli grida la cognata. Era questo l'amore che mi portavate?
gli grida il nipote. Cento altri rimproveri gli fanno udire quelle
povere anime tradite. Il signor Fabio si desta di sbalzo, si mette a
sedere sul letto, ed eccolo già tranquillo dal momento che si è
accertato non essere quello che un sogno. Di giorno egli è troppo
distratto dagli affari, e non ha tempo di pensare al suo assassinio.
Ora per giunta si occupa ad effettuare il suo progetto di nobilitarsi,
e di passare a seconde nozze con una ricca gentildonna. Ah, signor
Fabio, che altro manca alla vostra felicità?


FINE.





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