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Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1
Author: Boccaccio, Giovanni, 1313-1375
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1" ***


(Images generously made available by Editore Laterza and
the Biblioteca Italiana at
http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)



  SCRITTORI D'ITALIA


  G. BOCCACCIO


  OPERE VOLGARI

  XII



  GIOVANNI BOCCACCIO

  IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
  E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE

  A CURA DI
  DOMENICO GUERRI

  VOLUME PRIMO


  BARI

  GIUS. LATERZA & FIGLI
  TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

  1918



  PROPRIETÁ LETTERARIA

  GIUGNO MCMXVIII--49326



  A
  PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI



I

VITA DI DANTE



I

PROPOSIZIONE


Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato,
e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara
testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,
spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare
sopra due piedi; de' quali, con matura gravitá, affermava essere il
destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro
ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose
giá dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si
servava, senza niun dubbio quella republica, che 'l faceva, convenire
andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi
certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.

Mossi adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevole
sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra di
marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di
triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti
onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date non
curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la
macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con
l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le
vestigie de' quali in cosí alti esempli, non solamente da' successori
presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male seguite, ma in
tanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiede
l'ambizione; per che, sí come e io e ciascun altro che a ciò con
occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione
d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a' luoghi eccelsi
e a' sommi ofici e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere
e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio,
coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: percioché
noi, piú bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della fortuna, ma
non della colpa partecipi. E, comeché con infinite ingratitudini e
dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose
verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio
principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa
fia poco o picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante
Alighieri. Il quale, antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto
per vertú e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il
mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se
in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che
esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.

Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esempio e di
futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e
furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de' paterni
beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima
fama, con false colpe gli fûr donate. Delle quali cose le recenti orme
della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole
per l'altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre
iniquitá fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio,
che veggono tutto, non dovrebbe quest'una bastare a provocare sopra sé
la sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia
onesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è il
presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra
toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai
manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono,
contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in
piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga
usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire,
o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d'alcuno nostro
passato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua
pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale
se a lungo andare non seguirá, niuno dubiti che la sua ira, la quale
con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto piú grave
tormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma, percioché, come
che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente
dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d'amendarle ingegnarci;
conoscendo io me essere di quella medesima cittá, avvegnaché picciola
parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltá e la vertú,
Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sí come ciascun altro
cittadino, a' suoi onori sia in solido obbligato; comeché io a tanta
cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultá,
quello ch'essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo
fatto, m'ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura,
delle quali è oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le
mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di
queste darò, accioché igualmente, e in tutto e in parte, non si possa
dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere
stata ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, peroché
piú alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma,
accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue opere,
non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette:
cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi, i costumi;
raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé
sí chiaro ha renduto a' futuri, che forse non meno tenebre che
splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia di mio
intendimento né di volere; contento sempre, e in questo e in
ciascun'altra cosa, da ciascun piú savio, lá dove io difettuosamente
parlassi, essere corretto. Il che accioché non avvenga, umilemente
priego Colui che lui trasse per sí alta scala a vedersi, come
sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debole
mano.



II

PATRIA E MAGGIORI DI DANTE


Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo che
l'antiche istorie e la comune opinione de' presenti pare che vogliano,
ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo aumentata, e di
popolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potente
cominciò a ciascun circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, o
contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi di
mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo
molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generale
guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o la
maggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltá
di sangue o per qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere la
ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si
crede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagione
di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale
altezza elevato Carlo magno, allora clementissimo re de' franceschi;
piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla
reedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e da
quegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol
cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe'
reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche
reliquie, che si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.

Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della
reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al
nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi
venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, e
nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe la
principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o dall'amore
della cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al
quale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da
altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuo
cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non
picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de'
loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che
quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli
Elisei. De' quali di tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tra
gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per senno
ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella
sua giovanezza fu data da' suo' maggior per isposa una donzella nata
degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per costumi, come per
nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di lei
generò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno,
sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare
il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolo
poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesse
Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero di
lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli
Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale,
comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli
discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il
cui nome fu Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sé
doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo
del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre
suo; comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, ed
oggi, per lo effetto seguíto, sia manifestissimo a tutti.

Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo
alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e
quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo,
nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e
dell'onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e
s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui
frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere,
e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il vedea divenuto. Della
qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di
tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí uno
figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome
chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si
vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.

Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel
Dante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio;
questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse,
sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del
fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar
parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesí
meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate,
lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto
dimostreranno.



III

SUOI STUDI


Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante
il romano imperio per la morte di Federigo giá detto, negli anni della
salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
papa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa
da assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che
allora correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando stare il
ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono della
futura gloria del suo ingegno, dico che dal principio della sua
puerizia, avendo giá li primi elementi delle lettere impresi, non,
secondo il costume de' nobili odierni, si diede alle fanciullesche
lascivie e agli ozi, nel grembo della madre impigrendo, ma nella
propia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle
liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo
insieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno, non a' lucrativi studi,
alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da una
laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando le
transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere aver piena
notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso dimostramento di
quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio,
d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; non
solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando,
s'ingegnò d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso
a suo tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere
vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma
sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche avere
nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e
naturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano
intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia
sotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno,
d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose
racchiuse dal cielo, niuna altra piú cara che questa trovandone in
questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine,
tutto a questa sola si diede. E, accioché niuna parte di filosofia non
veduta da lui rimanesse, nelle profonditá altissime della teologia con
acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l'effetto lontano,
percioché, non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, né
alcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere
della divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie quello che
per umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosí come in varie
etadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosí in vari
studi sotto vari dottori le comprese.

Egli li primi inizi, sí come di sopra è dichiarato, prese nella propia
patria, e di quella, sí come a luogo piú fertile di tal cibo, n'andò a
Bologna; e giá vicino alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, con
tanta gloria di sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo
ingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di
tanti e sí fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli:
percioché alcuni il chiamarono sempre «poeta», altri «filosofo» e
molti «teologo», mentre visse. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori,
giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso
mare costui, gittato ora in qua ora in lá, vincendo l'onde parimente
e' venti contrari, pervenisse al salutevole porto de' chiarissimi
titoli giá narrati.



IV

IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI


Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di
sollecitudine e tranquillitá d'animo disiderare, e massimamente gli
speculativi, a' quali il nostro Dante, sí come mostrato è, si diede
tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio
della sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e
importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilio
e povertá; l'altre lasciando piú particulari, le quali di necessitá
queste si traggon dietro: le quali, accioché piú appaia della loro
gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.



V

AMORE PER BEATRICE


Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti
la terra, e tutta per la varietá de' fiori mescolati fra le verdi
frondi la fa ridente, era usanza della nostra cittá, e degli uomini e
delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie
festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco
Portinari, uomo assai orrevole in que' tempi tra' cittadini, il primo
dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa a
festeggiare, infra li quali era il giá nominato Alighieri. Al quale,
sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a' luoghi festevoli,
sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora
finito, seguito avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua etá,
de' quali cosí maschi come femmine erano molti nella casa del
festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola etá
poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.

Era intra la turba de' giovinetti una figliuola del sopradetto Folco,
il cui nome era Bice, comeché egli sempre dal suo primitivo, cioè
Beatrice, la nominasse, la cui etá era forse d'otto anni, leggiadretta
assai secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
piacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modeste
che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le
fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una
angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la
disegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credo
primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro
Dante: il quale, ancoraché fanciul fosse, con tanta affezione la bella
imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai,
mentre visse, non se ne dipartí. Quale ora questa si fosse, niuno il
sa; ma, o conformitá di complessioni o di costumi o speziale
influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sí come noi per
esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la
generale allegrezza, per la dilicatezza de' cibi e de' vini, gli animi
eziandio degli uomini maturi, non che de' giovinetti, ampliarsi e
divenire atti a poter essere leggiermente presi da qualunque cosa che
piace; è certo questo esserne divenuto, cioè Dante nella sua
pargoletta etá fatto d'amore ferventissimo servidore. Ma, lasciando
stare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con l'etá
multiplicarono l'amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era
piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei. Per la qual
cosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava lá dovunque
credeva potere vederla, quasi del viso o degli occhi di lei dovesse
attignere ogni suo bene e intera consolazione.

Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe per
aggiugnimento di stipa fare le fiamme minori? Quanti e quali fossero
li pensieri, li sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime poi
in piú provetta etá da lui sostenute per questo amore, egli medesimo
in parte il dimostra nella sua _Vita nova_, e però piú distesamente
non curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non detto
trapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che per altrui, a cui fu
noto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu questo amore, né mai
apparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno libidinoso
appetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maraviglia
al mondo presente, del quale è sí fuggito ogni onesto piacere, e
abituatosi l'avere prima la cosa che piace conformata alla sua
lascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sí come
cosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sí lungo poté
il cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee potere
estimare lui essere stato avversario agli sacri studi e allo 'ngegno?
Certo, non poco; comeché molti vogliano lui essere stato incitatore di
quello, argomento a ciò prendendo dalle cose leggiadramente nel
fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e accioché li
suoi ardori e amorosi concetti esprimesse, giá fatte da lui; ma certo
io nol consento, se io non volessi giá affermare l'ornato parlare
essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.



VI

DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE


Come ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile in
questo mondo; e, se niuna leggermente ha mutamento, la nostra vita è
quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi abbiamo,
lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere a
non essere sanza difficultá ci conduce; né da questo gentilezza,
ricchezza, giovanezza, né altra mondana dignitá è privilegiata; della
quale comune legge la gravitá convenne a Dante prima per l'altrui
morte provare che per la sua. Era quasi nel fine del suo
vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, quando, sí come piacque a
Colui che tutto puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce,
n'andò a quella gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata.
Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, in
tante lagrime rimase, che molti de' suoi piú congiunti e parenti ed
amici niuna fine a quelle credettero altra che solamente la morte; e
questa estimarono dover essere in brieve, vedendo lui a niun conforto,
a niuna consolazione pórtagli dare orecchie. Gli giorni erano alle
notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si
trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantitá di
lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d'acqua
surgente, in tanto che piú si maravigliarono donde tanto umore egli
avesse che al suo pianto bastasse. Ma, sí come noi veggiamo, per lunga
usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel
tempo ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti
mesi apparò a ricordarsi, senza lagrime, Beatrice esser morta, e con
piú dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione, a
conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altra
cosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con piú pazienza
s'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua presenzia; né guari di
spazio passò che, dopo le lasciate lagrime, li sospiri, li quali giá
erano alla loro fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsi
sanza tornare.

Egli era sí per lo lagrimare, sí per l'afflizione che il cuore sentiva
dentro, e sí per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto
quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto
trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suo
aspetto, nonché negli amici, ma eziandio in ciascun altro che il
vedea, a forza di sé metteva compassione; comeché egli poco, mentre
questa vita cosí lagrimosa durò, altrui che ad amici veder si
lasciasse.

Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti
stare attenti a' suoi conforti; li quali, come alquanto videro le
lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al
faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciarono
a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora
avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le
cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che
intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi
parenti, accioché del tutto non solamente de' dolori il traessero, ma
il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar
moglie; accioché, come la perduta donna gli era stata di tristizia
cagione, cosí di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E,
trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con
quelle ragioni che piú loro parvero induttive, la loro intenzion gli
scoprirono. E, accioché io particularmente non tocchi ciascuna cosa,
dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, al
ragionamento seguí l'effetto: e fu sposato.



VII

DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO


Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti
mortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a' vostri
avvisi, e non sanza ragion le piú volte! Chi sarebbe colui che del
dolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno nelle cocenti
arene di Libia a rinfrescarsi, o dell'isola di Cipri, per riscaldarsi,
nelle eterne ombre de' monti Rodopei? qual medico s'ingegnerá di
cacciare l'aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell'ossa
col ghiaccio o con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che con
nuova moglie crederá l'amorose tribulazion mitigare. Non conoscono
quegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra
passione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli alle
sue forze, se egli ha ferma radice presa nel cuore di colui che ha
lungamente amato. Cosí come ne' princípi ogni picciola resistenza è
giovevole, cosí nel processo le grandi sogliono essere spesse volte
dannose. Ma da ritornare è al proposito, e da concedere al presente
che cose sieno, le quali per sé possano l'amorose fatiche fare
obliare.

Che avrá fatto però chi, per trarmi d'un pensiero noioso, mi metterá
in mille molto maggiori e di piú noia? Certo niuna altra cosa, se non
che per giunta del male che m'avrá fatto, mi fará disiderare di
tornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamo
addivenire a' piú, li quali o per uscire o per essere tratti d'alcune
fatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da altrui ammogliati; né
prima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, che
la pruova, sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n'ha data
esperienza. Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché le
lagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, comeché le
lagrime passassero, anzi forse eran passate, sí passò l'amorosa
fiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove cose e
assai poterono piú faticose sopravvenire. Egli, usato di vegghiare ne'
santi studi, quante volte a grado gli era, cogl'imperadori, co' re e
con qualunque altri altissimi prencipi ragionava, disputava co'
filosofi, e co' piacevolissimi poeti si dilettava, e l'altrui angosce
ascoltando, mitigava le sue. Ora, quanto alla nuova donna piace, è con
costoro, e quel tempo, ch'ella vuole tolto da cosí celebre compagnia,
gli conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuol
crescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, ma
lodare. Egli, costumato, quante volte la volgar turba gli rincresceva,
di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi speculando, vedere
quale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali che sono
in terra, quali sieno le cagioni delle cose, o premeditare alcune
invenzioni peregrine o alcune cose comporre, le quali appo li futuri
facessero lui morto viver per fama; ora non solamente dalle
contemplazioni dolci è tolto quante volte voglia ne viene alla nuova
donna, ma gli conviene essere accompagnato di compagnia male a cosí
fatte cose disposta. Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere,
di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci e amare il
pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose,
ma d'ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che 'l
mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore,
la tristizia esser del suo odio estimando.

Oh fatica inestimabile, avere con cosí sospettoso animale a vivere, a
conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire! Io voglio lasciare
stare la sollecitudine nuova e gravissima, la quale si conviene avere
a' non usati (e massimamente nella nostra cittá), cioè onde vengano i
vestimenti, gli ornamenti e le camere piene di superflue dilicatezze,
le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune;
onde vengano li servi, le serve, le nutrici, le cameriere; onde
vengano i conviti, i doni, i presenti che fare si convengono a'
parenti delle novelle spose, a quegli che vogliono che esse credano da
loro essere amate; e appresso queste, altre cose assai prima non
conosciute da' liberi uomini; e venire a cose che fuggir non si
possono. Chi dubita che della sua donna, che ella sia bella o non
bella, non caggia il giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chi
dubita che essa subitamente non abbia molti amadori, de' quali alcuno
con la sua bellezza, altri con la sua nobiltá, e tale con maravigliose
lusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza infestissimamente
combatterá il non stabile animo? E quel, che molti disiderano,
malagevolmente da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne non
bisogna d'essere presa piú che una volta, a fare sé infame e i mariti
dolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a casa la si mena, fia
sozza, assai aperto veggiamo le bellissime spesse volte e tosto
rincrescere; che dunque dell'altre possiamo pensare, se non che, non
che esse, ma ancora ogni luogo nel quale esse sieno credute trovare da
coloro, a' quali sempre le conviene aver per loro, è avuto in odio?
Onde le loro ire nascono, né alcuna fiera è piú né tanto crudele
quanto la femmina adirata, né può viver sicuro di sé, chi sé commette
ad alcuna, alla quale paia con ragione esser crucciata; che pare a
tutte.

Che dirò de' loro costumi? Se io vorrò mostrare come e quanto essi
sieno tutti contrari alla pace e al riposo degli uomini, io tirerò in
troppo lungo sermone il mio ragionare; e però uno solo, quasi a tutte
generale, basti averne detto. Esse immaginano il bene operare ogni
menomo servo ritener nella casa, e il contrario fargli cacciare; per
che estimano, se ben fanno, non altra sorte esser la lor che d'un
servo: per che allora par solamente loro esser donne, quando, male
adoperando, non vengono al fine che' fanti fanno. Perché voglio io
andare dimostrando particularmente quello che gli piú sanno? Io
giudico che sia meglio il tacersi che dispiacere, parlando, alle vaghe
donne. Chi non sa che tutte l'altre cose si pruovano, prima che colui,
di cui debbono esser, comperate, le prenda, se non la moglie, accioché
prima non dispiaccia che sia menata? A ciascuno che la prende, la
conviene avere non tale quale egli la vorrebbe, ma quale la fortuna
gliele concede. E se le cose che di sopra son dette son vere (che il
sa chi provate l'ha), possiamo pensare quanti dolori nascondano le
camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacitá
trapassi le mura sono reputati diletti. Certo io non affermo queste
cose a Dante essere avvenute, ché nol so; comeché vero sia che, o
simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta
da lei partitosi, che per consolazione de' suoi affanni gli era stata
data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che lá dove
egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di piú figliuoli egli
insieme con lei fosse parente. Né creda alcuno che io per le su dette
cose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il
lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a'
ricchi stolti, a' signori e a' lavoratori, e essi con la filosofia si
dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.



VIII

OPPOSTE VICENDE DELLA VITA PUBBLICA DI DANTE


Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi di
dietro. La familiar cura trasse Dante alla publica, nella quale tanto
l'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono,
che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate
redine, quasi tutto al governo di quella si diede; e fugli tanto in
ciò la fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a niuna si
rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si
faceva, niuna guerra publica s'imprendeva, e brievemente niuna
diliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, s'egli in
ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede,
in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umane
parevano esser fermate. Ma la Fortuna, volgitrice de' nostri consigli
e inimica d'ogni umano stato, comeché per alquanti anni nel colmo
della sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fine
al principio recò a lui, in lei fidantesi di soperchio.



IX

COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE


Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti
perversissimamente divisa, e, con l'operazioni di sagacissimi e
avveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto che
alcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere della
sottoposta. A volere riducere a unitá il partito corpo della sua
republica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,
mostrando a' cittadini piú savi come le gran cose per la discordia in
brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordia
crescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua fatica, e
conobbe gli animi degli uditori ostinati; credendolo giudicio di Dio,
prima propose di lasciar del tutto ogni publico oficio e vivere seco
privatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano favor
popolesco e ancora dalle persuasioni de' maggiori; credendosi, oltre a
questo, se tempo gli occorresse, molto piú di bene potere operare per
la sua cittá, se nelle cose publiche fosse grande, che a sé privato e
da quelle del tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori,
quanto sono le tue forze maggiori, che creder non può chi provati non
gli ha!): il maturo uomo e nel santo seno della filosofia allevato,
nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi i
cadimenti de' re antichi e de' moderni, le desolazioni de' regni,
delle province e delle cittá e li furiosi impeti della Fortuna, niun
altro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si poté dalla tua
dolcezza guardare.

Fermossi adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vana
pompa dei publici ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea una
terza parte tenere, la quale, giustissima, l'ingiustizia dell'altre
due abbattesse, tornandole ad unitá; con quella s'accostò, nella
quale, secondo il suo giudicio, era piú di ragione e di giustizia;
operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a'
cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le piú delle volte rimangon
vinti dalle forze del cielo. Gli odii e l'animositá prese, ancora che
sanza giusta cagione nati fossoro, di giorno in giorno divenivan
maggiori, in tanto che non senza grandissima confusione de' cittadini,
piú volte si venne all'arme con intendimento di por fine alla lor lite
col fuoco e col ferro: sí accecati dall'ira, che non vedevano sé con
quella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe piú
volte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una e
dell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della minacciante
fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falso
rapportatrice, nunziando gli avversari della parte presa da Dante, di
maravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di grandissima
moltitudine d'armati, sí gli prencipi de' collegati di Dante spaventò,
che ogni consilio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro,
se non il cercare con fuga la loro salute; co' quali insieme Dante, in
un momento prostrato della sommitá del reggimento della sua cittá, non
solamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo questa
cacciata non molti dí, essendo giá stato dal popolazzo corso alle case
de' cacciati, e furiosamente votate e rubate, poi che i vittoriosi
ebbero la cittá riformata secondo il loro giudicio, furono tutti i
prencipi de' loro avversari, e con loro, non come de' minori ma quasi
principale, Dante, sí come capitali nemici della republica dannati a
perpetuo esilio, e li loro stabili beni o in publico furon ridotti, o
alienati a' vincitori.



X

SI MALEDICE ALL'INGIUSTA CONDANNA D'ESILIO


Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria!
questo merito riportò Dante dell'affanno avuto in voler tôrre via le
discordie cittadine! questo merito riportò Dante dell'avere con ogni
sollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillitá de' suoi
cittadini! Per che assai manifestamente appare quanto sieno vòti di
veritá i favori de' popoli, e quanta fidanza si possa in essi avere.
Colui, nel quale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta,
ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senza
cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore, il
quale per addrieto s'era molte volte udito le sue laude portare infino
alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fu
la marmorea statua fattagli ad eterna memoria della sua virtú! con
queste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patria
scritto in tavole d'oro! con cosí favorevole romore gli furono rendute
grazie de' suoi benefici! Chi sará dunque colui che, a queste cose
guardando, dica la nostra republica da questo piè non andare
sciancata?

Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tu
continuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo,
Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichi
valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della
memoria caduti, questo ricente caso ti faccia con piú temperate redine
correr ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la
popolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglio
che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi
al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni splendori, nella
cui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere la
stabilitá di Colui che lui e le altre cose con ragione muove;
accioché, sí come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in
lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo
ingannati.



XI

LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO


Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale
egli non solamente era cittadino, ma n'erano li suoi maggiori stati
reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra
famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro,
percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de' prencipi della
parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andava
vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla
donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con
fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli
di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con
industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo
procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú duri a
lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover
esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare,
parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer
Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato
ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col
marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della
Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo
il tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi
se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo
si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la
via alla tornata, e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; non
solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che
quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a
Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della
teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse
per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo
studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo,
conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, il
quale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronato
imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per
soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá con
potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte
ragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza e
dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui la
sentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici di
fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere
s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia,
accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoi
nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o
piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di
tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto
il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato:
le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate
non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo
'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo
cammino. E come che in una parte e in altra piú cose facesse, assai ne
ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo
avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a
lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo
ritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in
Romagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva por
fine, l'aspettava.



XII

DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA


Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica cittá di
Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta;
il quale, ne' liberali studi ammaestrato, sommamente i valorosi uomini
onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano.
Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in
Romagna (avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo
valore) in tanta disperazione, sí dispose di riceverlo e d'onorarlo.
Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo,
considerata qual sia a' valorosi la vergogna del domandare, e con
proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dante
quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco
li piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri a un
medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo
sommamente a Dante la liberalitá del nobile cavaliere, e d'altra parte
il bisogno strignendolo, senza aspettare piú inviti che 'l primo, se
n'andò a Ravenna, dove onorevolemente dal signore di quella ricevuto,
e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente
le cose opportune donandogli, in quella seco per piú anni il tenne,
anzi infino a l'ultimo della vita di lui.



XIII

SUA PERSEVERANZA AL LAVORO


Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la
sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
né il miserabile esilio, né la intollerabile povertá giammai con le
lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da'
sacri studi; percioché, sí come si vederá dove appresso partitamente
dell'opere da lui fatte si fará menzione, egli, nel mezzo di qualunque
fu piú fiera delle passioni sopradette, si troverá componendo essersi
esercitato. E se, obstanti cotanti e cosí fatti avversari, quanti e
quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di
perseveranza riuscí chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare
ch'esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno
niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma
se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno
iddio.



XIV

GRANDEZZA DEL POETA VOLGARE-SUA MORTE


Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare
mai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio) piú anni sotto la
protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece
piú scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo
il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e
recò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra' latini.
Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi
trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero
delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, di
farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in
leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con
effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra
ogni altro fece il volgar nostro.

Ma, poiché la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli giá
nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e
secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente
e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa
da lui contra al suo piacere, sí come da uomo, riconciliatosi; del
mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dí che la
esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza
grandissimo dolore del sopradetto Guido, e generalmente di tutti gli
altri cittadini ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito;
il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua
nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo
bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente
vive in quella, alla cui felicitá fine giammai non s'aspetta.



XV

SEPOLTURA E ONORI FUNEBRI


Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti
poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra
gli omeri de' suoi cittadini piú solenni, infino al luogo de' frati
minori in Ravenna, con quello onore che a sí fatto corpo degno
estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca
lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa
nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume,
esso medesimo, sí a commendazione dell'alta scienzia e della vertú del
defunto, e sí a consolazione de' suoi amici, li quali egli avea in
amarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone; disposto, se
lo stato e la vita fossero durati, di sí egregia sepoltura onorarlo,
che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a'
futuri, quella l'avrebbe fatto.



XVI

GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE


Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu
manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesí
solennissimi in Romagna; per che ciascuno sí per mostrare la sua
sofficienzia, sí per rendere testimonianza della portata benivolenzia
da loro al morto poeta, sí per captare la grazia e l'amore del
signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi,
li quali, posti per epitafio alla futura sepultura. con debite lode
facessero la posteritá certa chi dentro da essa giacesse; e al
magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della
fortuna non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morí a Bologna;
per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si
rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi piú tempo appresso, e
veggendo loro avere avuto luogo per lo caso giá dimostrato, pensando
le presenti cose per me scritte, comeché sepoltura non sieno
corporale, ma sieno, sí come quella sarebbe stata, perpetue
conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole
quegli aggiugnere a queste cose. Ma, percioché piú che quegli che
l'uno di coloro avesse fatti (che furon piú) non si sarebbero ne'
marmi intagliati, cosí solamente quegli d'uno qui estimai che fosser
da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per
intendimento piú degni estimai che fossero quattordici fattine da
maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran
poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi
appresso scritti:



XVII

EPITAFIO


    _Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
      quod foveat claro philosophia sinu:
    gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
      hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
    qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
      distribuit, laicis rhetoricisque modis.
    Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
      Atropos heu laetum livida rupit opus.
    Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
      exilium, vati patria cruda suo.
    Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
      gaudet honorati continuisse ducis,
    mille trecentenis ter septem Numinis annis,
      ad sua septembris idibus astra redit._



XVIII

RIMPROVERO AI FIORENTINI


Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva,
quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il
tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o poscia
tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal
consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitá
dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti
rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a
ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo che
ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli
essere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale
non hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto
da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di
quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le
tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile e
caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno
nota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad
esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e
de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu,
continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la
quale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda
natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente
vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali,
percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te
della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con
tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la
tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile
fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con
alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno,
essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa
elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non
imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro
laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di
Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per
iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos,
ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda in
perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio
Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro,
tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono né
dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta
Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece
con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né
è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'una
come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra
cosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio
mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appo
tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in
molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che,
non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro
sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di
Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro
sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna
di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e
vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu
medesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue
operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del
nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno
conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual
cechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto da
te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i
Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli
Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te
fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino
Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma
l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del
tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio.
Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato
al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu
volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fosse
venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato.
Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente,
del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, che
la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque
se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi
difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre
fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria
fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi
aspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoi
cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e
punite.

Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di
qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te
medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti
d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir
madre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;
concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi
cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto;
rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua
memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, egli
sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che
per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della
tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio
fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti
prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua
iniquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li quali
troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, ma
per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l
mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma:
certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti.
Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto
Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo
che alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa del
primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E
come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e
Scipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle
quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante),
egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non
dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria
convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amenda
al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o
fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani,
li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che
fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se
Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea
trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea,
volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianse
lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo
Ovidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque
di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa
umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te
medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato.
Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti
sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata
crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi
morti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potesse
partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare.
Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché la
sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza
troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro
di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per
reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare
a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora
servino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde
insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero le
fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso
sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le
loro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori e
d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose,
ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue
dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come
è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il
mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è
tanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu
t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia per
l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo
primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi
onori lieta si glori tra' futuri.



XIX

BREVE RICAPITOLAZIONE


Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita
faticata da' vari studi; e, percioché assai convenevolemente le sue
fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilio
e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate,
giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo,
dell'abito, e generalmente de' piú notabili modi servati nella sua
vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di
nota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine
quanta di sopra brievemente è dichiarata.



XX

FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE


Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla
matura etá fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare
grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito
che era alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e il
naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle
grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore
era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre
nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno
in Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle sue opere, e
massimamente quella parte della sua _Comedia_, la quale egli intitola
_Inferno_, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando
egli davanti a una porta dove piú donne sedevano, una di quelle
pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non
fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va nell'inferno,
e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che lá giú
sono?--Alla quale una dell'altre rispose semplicemente:--In veritá tu
déi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno
per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Le quali parole udendo egli
dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne
venivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale opinione
fossero, sorridendo alquanto, passò avanti.

Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, e
in tutti piú che alcun altro cortese e civile.

Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sí in prenderlo all'ore ordinate
e sí in non trapassare il segno della necessitá, quel prendendo; né
alcuna curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li dilicati
lodava, e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, li
quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e
quelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali
non mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.

Niuno altro fu piú vigilante di lui e negli studi e in qualunque altra
sollecitudine il pugnesse; intanto che piú volte e la sua famiglia e
la donna se ne dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate, ciò
mettessero in non calere.

Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce
conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, lá dove si
richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta
prolazione.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a
ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e
ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato compose, le
quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.

Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giá
mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore
del suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare;
poi, per vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e di
gloria, sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passò
ciascuno suo contemporaneo, ma in tanto la dilucidò e fece bella, che
molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e fará vaghi d'essere
esperti.

Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti,
accioché le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure
alcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra
gente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai
infino a tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazione
avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte,
essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, e in
altre parti, domandato, gli avvenne.

Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si
disponea, in tanto che niuna novitá che s'udisse, da quegli il poteva
rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo
darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra
l'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno
speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, e
tra' valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non
avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca
che davanti allo speziale era, si pose col petto, e, messosi il
libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comeché
poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna
general festa de' sanesi si cominciasse da gentili giovani e facesse
una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da' circustanti
(sí come in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol
farsi), e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui a
vedersi, sí come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai
non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare
gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu
passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,
che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il
domandavano come s'era potuto tenere di riguardare a cosí bella festa
come davanti a lui s'era fatta, sé niente averne sentito; per che alla
prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a'
dimandanti.

Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacitá e di memoria
fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a
Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione _de quolibet_ che nelle
scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi
valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e
contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo
quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli
argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti
fu reputata.

D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sí come le
sue opere troppo piú manifestano agl'intendenti che non potrebbono
fare le mie lettere.

Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura piú che alla sua
inclita virtú non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto
umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? E per questa
vaghezza credo che oltre a ogni altro studio amasse la poesia,
veggendo, comeché la filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, la
eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per lo
mondo molti famosi: e la poesia piú essere apparente e dilettevole a
ciascuno, e li poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesí allo
inusitato e pomposo onore della coronazione dell'alloro poter
pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il
suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la fortuna
graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella
quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare;
accioché quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi
medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma cosí andò che,
quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni
parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea
pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è dell'acquistata
certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non
doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senza
il molto disiderato onore avere, si morí. Ma, percioché spessa
quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il poeta,
e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati i
poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di fare
alcuna transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari,
tornando, come piú tosto potrò, al proposito.



XXI

DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA


La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo
muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo
ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero,
e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenzia da
niun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente
avuta, s'immaginarono quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá»
nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano
servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nome
di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le quali ancora
estimarono fossero da separare cosí di nome, come di forma separate
erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e
nominaronle «templi». E similmente avvisarono doversi [ordinar]
ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana
sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per
maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri uomini, reverendi;
gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, in
rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie
forme magnifiche statue, e a' servigi di quella vasellamenti d'oro e
mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
a' sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa cotale potenzia
tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessitá rendere
propizia. E cosí come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra
cosa di nobilitá, cosí vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico
stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla
divinitá, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a
questo, accioché queste parole paressero aver piú d'efficacia, vollero
che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna
dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E
certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed
esquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci
appellano «_poetes_»; laonde nacque, che quello che in cotale forma
fatto fosse s'appellasse «_poesis_»; e quegli, che ciò facessero o
cotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti».

Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per
consequente de' poeti, comeché altri n'assegnino altre ragioni, forse
buone: ma questa mi piace piú.

Questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a
diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i
primi una sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne,
comeché quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il
principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,
Saturno, Giove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loro
effetti dando argomento alla loro deitá; e da questi vennero a
mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deitá
essere, sí come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle quali
tutte e versi e onori e sacrifici s'ordinarono. E poi susseguentemente
cominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con
un altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada
maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge,
ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, della
quale piú uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli
loro costumi ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendo
con le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e
a chiamarsi re; e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non
usati infino a que' tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e ultimamente
a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza
troppa difficultá avvenia; percioché a' rozzi popoli parevano, cosí
vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto
delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede
di quelle a impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti alla
loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forza
costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri,
li loro avoli e li loro maggiori, accioché piú fossero e temuti e
avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poterono
comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliare
la loro fama, sí per compiacere a' prencipi, sí per dilettare i
sudditi, e sí per persuadere il virtuosamente operare a ciascuno;
quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione
contrario, con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non
che a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipi
volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini,
gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel
vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da
questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli
degl'iddii; donde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e
gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli
degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra
dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E percioché molti non
intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un
fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essere
teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro si
coronino i poeti.



XXII

DIFESA DELLA POESIA


Se noi vorremo por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate,
tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito
santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
bocca di molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo
loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza
alcuno velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi
ragguarderemo ben le loro opere, accioché lo imitatore non paresse
diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che
stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano o
che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che,
come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma
solo al modo del trattare, al che piú guarda al presente l'animo mio,
ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le
parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della
poetica dir si puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando,
apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un'ora
coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha
in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello
onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga
sospese. Percioché pare essere un fiume, accioché io cosí dica, piano
e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il
grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare
delle cose proposte.

Intende la divina Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quando
con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando
con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai,
mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita
di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione
vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo
quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale
Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi
per la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti nelle loro opere, le
quali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii, quando
con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre
persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle
virtú e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, accioché
pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale
essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute
credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nel
quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitá
di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che dovea essere
abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la
concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle per
la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di piú metalli
abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte le
preterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra,
dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra,
divenire una cosa immobile e perpetua, sí come gli monti veggiamo.
Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem
dichiarare.

Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e
quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale
ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso di
tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi
figliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove, cioè l'elemento del
fuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere,
mediante la quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo è
Nettuno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e
ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa che
alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule
d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmente
volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,
l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto
piú simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e per
avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo esser
mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' campi
elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscuritá di
Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; accioché noi,
tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati,
seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che
in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con piú particulari
esposizioni queste cose, percioché, se quanto si converrebbe e
potrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú piacevoli ne
divenissero e piú facessero forte il mio argomento, dubito non mi
tirassero piú oltre molto che la principale materia non richiede e che
io non voglio andare. E certo, se piú non se ne dicesse che quello
ch'è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia
convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dico
quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna
parte: percioché il suggetto della sacra teologia è la divina veritá,
quello dell'antica poesí sono gl'iddii de' gentili e gli uomini.
Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera;
la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed
erronee e contra la cristiana religione. Ma, percioché alcuni
disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male
a niuna veritá consonanti avere composte, e che in altra forma che con
favole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a' mondani dare la
loro dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presente
ragionamento.

Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle d'Isaia,
quelle d'Ezechiel e degli altri del Vecchio Testamento con divina
penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né sará
fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'evangelista, piene
agl'intendenti di mirabile veritá; e, se niuna poetica favola si
truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella
corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i
poeti abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senza
dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in quanto la
loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei
passare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti
riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito,
il quale nulla altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquanto
intendo di soddisfargli.

Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere
alquanto piú di dolcezza che quella che vien senz'affanno. La veritá
piana, percioch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa
nella memoria. Adunque, accioché con fatica acquistata fosse piú
grata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto ad
essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, piú
che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li
quali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto
a sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo ch'essi sieno stati
uomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e non
sappiendo che, gli giudicano? Certo, no; anzi furono nelle loro
operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e
d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi
apparenti. Ma torniamo dove lasciammo.

Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove
uno medesimo sia il suggetto; anzi dico piú, che la teologia
niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che poetica
fizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello e
ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte,
le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano
le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi
alieno? il quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo
«allegoria». Dunque bene appare, non solamente la poesí essere
teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie
parole meritano poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; ma
credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, il
quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi
teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a
mostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della
corona dell'alloro conceduto fosse.



XXIII

DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI


Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte,
li greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la
filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essi
trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose
assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e
reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la
santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta;
e accioché la loro republica, la quale piú che altra allora fioriva,
diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e i
meriti ai valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra
gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il
precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di
frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e
gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica
aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la
cui virtú le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da
cui le divine eran trattate. E comeché di questo onore li greci
fossero inventori, esso poi trapassò a' latini, quando la gloria e
l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e
ancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, comeché rarissimamente
avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione piú il lauro che altra
fronda eletto sia, non dovrá essere a veder rincrescevole.



XXIV

ORIGINE DI QUESTA USANZA


Sono alcuni li quali credono, percioché sanno Danne amata da Febo e in
lauro convertita, essendo Febo e il primo autore e fautore de' poeti
stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di
quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato
preso esempio dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da
Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi
infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale
opinione non mi spiace, né nego cosí poter essere stato; ma tuttavia
me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono
coloro, li quali le virtú delle piante ovvero la loro natura
investigarono, il lauro tra l'altre piú sue proprietá n'ha tre
laudevoli e notevoli molto: la prima si è, come noi veggiamo, che mai
egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è, che non si
truova questo albore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro
leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sí
come noi sentiamo: le quali tre proprietá estimarono gli antichi
inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti e
de' vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viriditá di
queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di
coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre
dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali
essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore
della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai
queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la
celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' giá detti
per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a
chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e
odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi,
piú ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere
possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro
Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale
testimonia di tanta vertú, quale questa è a coloro, li quali degni si
fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare lá onde,
intrando in questo, ci dipartimmo.



XXV

CARATTERE DI DANTE


Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e
disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale
ad istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in
Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava,
né trovandosi a ciò alcun modo con coloro li quali il governo della
republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo:
che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna
solennitá publica fosse misericordievolmente alla nostra principale
ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ogni
condennagione per adietro fatta di lui; la qual cosa parendogli
convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in
altri: per che oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in
esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno
laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo
l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel
grembo della filosofia nutricato!

Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere,
secondo che li suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual
cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre ch'egli era
con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Che,
conciofossecosaché per coloro li quali erano depressi fosse chiamato,
mediante Bonifazio papa ottavo, a ridirizzare lo stato della nostra
cittá, un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia,
il cui nome fu Carlo; si ragunarono a uno consiglio per provedere a
questo fatto tutti li prencipi della setta, con la quale esso tenea; e
quivi tra l'altre cose providero, che ambasceria si dovesse mandare al
papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto
papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con
concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al
diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per
tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante,
alquanto sopra a sé stato, disse:--Se io vo, chi rimane? se io
rimango, chi va?,--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse,
e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e
raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito,
e però, passando avanti, il lascio stare.

Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversitá
fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o
animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu,
troppo piú che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non
volea che di lui per altrui si credesse. E accioché a qual parte fosse
cosí animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto piú
oltre scrivendo.

Io credo che giusta ira di Dio permettesse, giá è gran tempo, quasi
tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi: delle quali, onde
cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama «parte
guelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e
reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che,
per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il
contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita,
se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte
le cittá italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e
intra l'altre la nostra cittá, quasi capo e dell'uno nome e
dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli
maggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciati
di casa loro, ed egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i
freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato
è, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non potere
ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno piú fiero ghibellino e a'
guelfi avversario fu come lui; e quello di che io piú mi vergogno in
servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui
ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante
la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le
pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animositá
si visse infino alla morte.

Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di
cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il
richiede; percioché, se nelle cose meno che laudevoli in lui, mi
tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui
medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con
isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.

Tra cotanta virtú, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra
essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Il
quale vizio, comeché naturale e comune e quasi necessario sia, nel
vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sará
tra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza,
oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in
noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose?
Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre
cose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e
che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o
Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero; che, percioché poetiche
cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per
le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo piú
che una femmina quando il nostro primo padre, lasciato il comandamento
fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei?
Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente veduta
Bersabé, per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestá, e
adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere ch'egli
avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone, al cui
senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non
abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina
s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da
niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali
non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può
passare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumi
piú notabili avere contato.



XXVI

DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE


Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali
fare ordinata memoria credo che sia convenevole, accioché né alcuno
delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate
l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte
della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un
volumetto, il quale egli intitolò _Vita nova_, certe operette, sí come
sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui,
maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e
ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avean mosso, e
di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché egli
d'avere questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognasse
molto, nondimeno, considerata la sua etá, è egli assai bello e
piacevole, e massimamente a' volgari.

Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá
del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in
grandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse la
vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come
fossero pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, e
quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannando
gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli venne
nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in una
medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con
gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi onorare,
e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá è
mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera
estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che
fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al
mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere
secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversitá, la
vita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere,
cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa;
quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel
premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale
tutto intitolò _Comedia_. De' quali tre libri egli ciascuno distinse
per canti e i canti per rittimi, sí come chiaro si vede; e quello in
rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con sí
bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno
atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto,
coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono
vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve
tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosí
grande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti degli uomini e
i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati
racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al
suo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da molti e vari casi
della fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia
stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che
dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto lavorio si diede
infino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá,
non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica
continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti
intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.

Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá
della prima parte di quello, la quale intitola _Inferno_, aveva
composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile,
ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti
non fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga
che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa
abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici e
signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a
quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potere
operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla possa
dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a
lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state
fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la
ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta
vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante
composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero,
lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo
dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in
Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto
intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò
sí per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sí per la profonditá
del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva
sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore
di quegli, e sí ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò
quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella
essere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a
qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove
Dante fosse, e quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, se
possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E,
sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese
Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e
mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai
intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante
riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese
che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto
principio.--Certo--disse Dante,--io mi credea nella ruina delle mie
cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per
questa credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio
esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera
presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me gli ha
ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria
il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia.--E
reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata,
seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assai
manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera
intermessa conoscere.

Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondo
che molti estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse alla
fine, anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti
richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna
cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol
sopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta publicare la potesse. Egli era
suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea,
quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse,
mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro
uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia
a chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori
che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né
ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di
lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e
discepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se alla
sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li
canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che
Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo
rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare, non
trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.

Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era
dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere,
in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, accioché
imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto
piú che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non
solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove
fossero li tredici canti, li quali alla divina _Comedia_ mancavano, e
da loro non saputi trovare.

Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino,
lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della
morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo
«matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella
notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo
padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata
risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare
s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita,
non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora
domandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla
vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da
loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta
udire per risposta:--Sí, io la compie'--; e quinci gli parea che 'l
prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di
dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella,
dicea:--Egli è qui quello che voi tanto avete cercato.--E questa
parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono.
Per la qual cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a
significare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a cercare
nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria
aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli
avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di
notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono
una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nel
muro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né saputo
ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per
l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú state
vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole,
videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual
cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima
gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono
come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata,
si vide finita.

Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente una
quistione cosí fatta: che conciofossecosa Dante fosse in iscienzia
solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí alta materia e
sí notabile libro, come è questa sua _Comedia_, nel fiorentino idioma
si disponesse; perché non piú tosto in versi latini, come gli altri
poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda rispondere, tra
molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali
la prima è per fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altri
italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri
poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto
utile; scrivendo in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolse
il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del
nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e
intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto da
ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa.
Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamente
da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le
poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di
Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco
pregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egli
incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa
guisa:

    _Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
    spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt
    pro meritis cuicumque suis,_ ecc.

il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla
bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni
sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.

Questo libro della _Comedia_, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò
egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice
divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo
_'Nferno_, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in
Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte,
cioè il _Purgatoro_, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza
parte, cioè il _Paradiso_, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni
vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala;
ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamo
che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran
fatto che solenne investigazione ne bisogni.

Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è _Monarchia_,
il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre
libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben
essere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la prima
quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra
Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la seconda
quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello
'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo
vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.

Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messer
Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di
Lombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fu
però che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto
in re de' romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il
piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gli
ordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della
Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si
fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione,
egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e
di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la
qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne
molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li
suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi;
il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il
soprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretiche
contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare
dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria,
se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere
fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna,
dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta,
potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.

Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, le
quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra
volta è fatta menzione.

Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre
delle sue canzoni distese, comeché egli appaia lui avere avuto
intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, benché poi, o
per mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse,
piú commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò
_Convivio_, assai bella e laudevole operetta.

Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_, dove intendea
di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e
comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere
in ciò comporre quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non appariscono che due
solamente.

Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino,
delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese,
sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella
sua _Vita Nova_ appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial
menzione al presente.

In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il
chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e
publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimo
termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni
onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
di una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
vituperevoli fatiche annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol
consumarsi, o annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella per
alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta
certo non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici
addivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá del
suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerá
piú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastigli
l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo
non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.



XXVII

RICAPITOLAZIONE


Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e'
costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
donatore. Ben so, per molti altri molto meglio e piú discretamente si
saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, piú non gli è richiesto.
Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire a un
altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi
forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di
scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno
truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una
particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a
dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui
era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto piú brievemente saprò
e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.



XXVIII

ANCORA IL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE


Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo
alloro, allato a una chiara fontana partorire un figliuolo, il quale
di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache
di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran
pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era;
alle quali avere mentre ch'egli si sforzava, le parea ch'egli cadesse;
e subitamente non lui, ma di lui un bellissimo paone le parea vedere.
Dalla qual maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di
lui piú avanti, il dolce sonno.



XXIX

SPIEGAZIONE DEL SOGNO


La divina bontá, la quale _ab aeterno_, sí come presente ogni cosa
futura previde, suole, da sua propra benignitá mossa, qualora la
natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato
effetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno
o in sogno o in altra maniera farci avveduti, accioché dalla
predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel
Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione,
se ben si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di
sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che
con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che
della cosa mostrata doveva essere madre, anzi giá era? Certo a niuna.
Mostrollo dunque a lei, e quello ch'egli a lei mostrasse ci è giá
manifesto per la scrittura di sopra; ma quello ch'egli intendesse con
piú aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un
figliuolo, e certo cosí fece ella infra picciolo termine dalla veduta
visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il
partorisce, è da vedere.

Opinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertú
e influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi e
nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non
resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia
piú possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora che
alcun nasce, secondo quello cotal corpo piú possente, anzi secondo le
sue qualitá, dicono del tutto il nato disporsi. Per che per lo alloro,
sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi
pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella
sua nativitá, mostrante sé essere tale che magnanimitá e eloquenzia
poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, álbore di
Febo, e delle cui fronde li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra
è giá mostrato assai.

Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli
effetti da cosí fatta disposizione di cielo, quale è mostrata, giá
proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine,
da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè
ammaestrato il nostro Dante.

Il fonte chiarissimo, della cui acqua le parea che questi bevesse,
niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertá della
filosofica dottrina morale e naturale; la quale sí come dalla ubertá
nascosa nel ventre della terra procede, cosí e queste dottrine dalle
copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertá si possono dire,
prendono essenza e cagione: senza le quali, cosí come il cibo non può
bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può
alcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli
filosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che
ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la
filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache
delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come giá è detto, con
tutta la sua sollecitudine studiava.

Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo
ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in
brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a
divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò
bisognosi. E sí come assai leggermente ciascuno può comprendere, due
maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra
spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la
prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati
«pastori», cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o di qualunque
altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla
sollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati e
governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altri
suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire
di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li quali
pascolano l'anime de' viventi della parola di Dio; e questi sono i
prelati, li predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse
l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato
dimora: l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o
leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo
ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e
l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali
generalmente dottori, in qual che facultá si sia, sono appellati. Di
questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il
nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere
compilate da lui, riguardisi la sua _Comedia_, la quale con la
dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i
fanciulli e le femine; e con mirabile soavitá de' profondissimi sensi
sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e
pasce gli solenni intelletti.

Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha
nutricato, niun'altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da
lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla
altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali
frondi mentre ch'egli piú ardentemente disiderava, lui dice che vide
cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento
che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si
ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando piú la sua
laureazione disiava.

Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un
paone; per lo qual mutamento assai bene la sua posteritá comprendere
possiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente
vive nella sua _Comedia_, la quale, secondo il mio giudicio,
ottimamente è conforme al paone, se le propietá de l'uno e de l'altra
si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietá, per quello che
appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna
angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è ch'egli ha sozzi
piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribile
a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e
incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la _Comedia_
del nostra poeta; ma, percioché acconciamente l'ordine posto di quelle
non si può seguire, come verranno piú in concio or l'una ora l'altra
le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.

Dico che il senso della nostra _Comedia_ è simigliante alla carne del
paone, percioché esso, o morale o teologo che tu il déi a quale parte
piú del libro ti piace, è semplice e immutabile veritá, la quale non
solamente corruzione non può ricevere, ma quanto piú si ricerca,
maggiore odore della sua incorruttibile soavitá porge a' riguardanti.
E di ciò leggermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente
materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne
agl'intendenti.

Angelica penna dissi che copría questa carne; e dico «angelica», non
perché io sappia se cosí fatte o altramenti gli angeli n'abbiano
alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angeli
volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra
questi nostri uccelli piú bella, né piú peregrina, né cosí come quella
del paone, imagino loro cosí doverle avere fatte; e però non quelle da
queste, ma queste da quelle dinomino, perché piú nobile uccello è
l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si
cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella
superficie della lettera della _Comedia_ suona: sí come l'essere
disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni
degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le
lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi
salito in paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta: istoria
tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno piú non fu pensata
non che udita, distinta in cento canti, sí come alcuni vogliono il
paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti cosí
provvedutamente distinguono le varietá del trattato opportune, come
gli occhi distinguono i colori o la diversitá delle cose obiette.
Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.

Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le
quali cose ottimamente alla _Comedia_ del nostro autore si confanno,
percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga,
cosí _prima facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in
iscrittura composta si sostenga: e il parlare volgare, nel quale e
sopra il quale ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto
dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è
sozzo, comeché egli sia piú che gli altri belli agli odierni ingegni
conforme. L'andar queto significa l'umiltá dello stilo, il quale nelle
commedie di necessitá si richiede, come color sanno che intendono che
vuole dire «comedia».

Ultimamente dico che la voce del paone è orribile; la quale, come che
la soavitá delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima
apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderá,
ottimamente a lui si confá. Chi piú orribilmente grida di lui, quando
con invezione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle
de' preteriti gastiga? Qual voce è piú orrida che quella del
gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli a un'ora
colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la
qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può
dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai
appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto
paone, sí come credere si puote essere stato per divina spirazione nel
sonno mostrato alla cara madre.

Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco
essere assai superficialmente per me fatta; e questo per piú cagioni.
Primierarmente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si
richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la
principale intenzione nol patía; ultimamente, quando e la sufficienzia
ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non
essere piú detto che detto sia, accioché ad altrui piú di me
sofficiente e piú vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò
quello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare,
e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.



XXX

CONCLUSIONE


La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò
la proda partendosi dallo opposito lito: e comeché il peleggio sia
stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e
tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono
da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele.
Al quale con quella umiltá, con quella divozione, con quella affezione
che io posso maggiore, non quelle, né cosí grandi come si converrieno,
ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il suo nome e 'l
suo valore.



II

REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE

(PRIMO E SECONDO COMPENDIO)



AVVERTENZA

Nel testo si è dato il secondo compendio: le varianti del primo sono
riferite a piè di pagina.



I

PROPOSIZIONE


Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienza fu reputato, e
le cui sacratissime leggi sono ancora testimonianza dell'antica
giustizia e della sua gravitá, era, secondo che dicono alcuni, usato
talvolta di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra due
piedi; de' quali con maturitá affermava essere il destro il non
lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto
remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose mancava, senza
dubbio da quel piè la republica zoppicare.

Dalla quale laudevole sentenza mossi alcuni cosí egregi come antichi
popoli, alcuna volta di deitá, altra di marmorea statua, e sovente di
celebre sepoltura, di triunfale arco, di laurea corona o d'altra
spettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per opposito
agrissime pene a' colpevoli infligendo. Per li quali meriti l'assiria,
la macedonica e ultimamente la romana republica aumentate, con l'opere
li fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de'
quali non solamente da' successor presenti, e massimamente da' miei
fiorentini, sono mal seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, che
ogni premio di virtú possiede l'ambizione. Il che, se ogni altra cosa
occultasse, non lascerá nascondere l'esilio ingiustamente dato al
chiarissimo uomo Dante Alighieri, uomo di sangue nobile, ragguardevole
per scienza e per operazioni laudevole e degno di glorioso onore.
Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente mia
intenzione di volere insistere con debite riprensioni, ma piú tosto in
quella parte, che le mie piccole forze possono, quella emendare;
percioché, quantunque picciol sia, pur di quella [cittá] son
cittadino, e agli onor d'essa mi conosco in solido obbligato.

Quello adunque che la nostra cittá dovria verso il suo valoroso
cittadino magnificamente operare, accioché in tutto non sia detto noi
esorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con istatua o con
egregia sepoltura, delle quali è oggi dell'una appo noi spenta
l'usanza, né all'altra basterieno le mie facultadi, ma con povere
lettere a tanta impresa, volendo piú tosto di presunzione che
d'ingratitudine potere esser ripreso. Scriverò adunque in istilo assai
umile e leggiero, peroché piú sublime nol mi presta lo 'ngegno, e nel
nostro fiorentino idioma, accioché da quello che Dante medesimo usò
nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, le
quali esso di sé onestamente tacette, cioè la nobiltá della sua
origine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo appresso in uno
l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé chiaro ha renduto a' futuri.
Il che accioché compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui,
il quale di spezial grazia lui trasse, come leggiamo, per sí alta
scala a contemplarsi, che me al presente aiuti, e, in onore e gloria
del suo santissimo nome, e la debole mano guidi, e regga lo 'ngegno
mio.



II

PATRIA E MAGGIORI DI DANTE


Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo la generale
opinione de' presenti, ebbe inizio da' romani; e in processo di tempo
aumentata di popoli e di chiari uomini e giá potente parendo, o
contrario cielo, o i lor meriti, che in sé l'ira di Dio provocassero,
non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e general
guastatore quasi di tutta Italia, molti de' cittadini uccisi, quella
ridusse in cenere e in ruine. Poi, trapassato giá il trecentesimo
anno, e Carlomagno, clementissimo re de' franceschi, essendo
all'altezza del romano imperio elevato, avvenne che, o per propio
movimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli da
alcuni, che il detto Carlo alla reedificazione della detta cittá
l'animo dirizzò, e a coloro medesimi, li quali primi conditori n'erano
stati, la fatica commise. Li quali in piccol cerchio riducendola,
quanto poterono, sí come ancora appare, a Roma la fêr simigliante,
seco raccogliendovi dentro quelle poche reliquie che de' discendenti
degli antichi scacciati si potêr ritrovare.

Vennevi, secondo che testimonia la fama, tra' novelli reedificatori un
giovane, per origine de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, che
che cagion sel movesse, di quella divenne perpetuo cittadino; del
quale rimasi laudevoli discendenti ed onorati molto, non l'antico
cognome ritennero, ma, da colui, che quivi loro aveva dato principio,
prendendolo, si chiamâr gli Elisei. De' quali, di tempo in tempo e
d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliere
per arme e per senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida; il
quale per isposa ebbe una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara,
della quale forse piú figliuoli ricevette. Ma, come che gli altri
nominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di
fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi maggiori, e nominollo
Aldighieri; comeché il vocabol poi, per sottrazione d'alcuna lettera,
rimanesse Alighieri. Il valor del quale fu cagione a quegli, che
disceser di lui, di lasciare il titolo degli Elisei e di cognominarsi
degli Alighieri. Del quale, come che alquanti e figliuoli e nepoti e
de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federigo secondo
imperadore, uno ne nacque, il quale dal suo avolo nominato fu
Alighieri, piú per colui di cui fu padre che per sé chiaro. Questi
nella sua donna generò colui del quale dee essere il futuro sermone.
Né pretermise il nostro signore Iddio, che alla madre nel sonno non
dimostrasse cui ella portasse nel ventre. Il che allora poco inteso e
non curato, in processo di tempo e nella vita e nella morte di colui,
che nascer doveva di lei, chiarissimamente si manifestò, sí come con
la grazia di Dio mostreremo vicino al fine della presente operetta.

Venuto adunque il tempo del parto, partorí la donna questa futura
chiarezza della nostra cittá, e di pari consentimento il padre ed
ella, non senza divina disposizione, sí come io credo, il nominaron
Dante, volendone Iddio per cotal nome mostrare lui dovere essere di
maravigliosa dottrina datore.



III

SUOI STUDI


Nacque adunque questo singulare splendore italico nella nostra cittá,
vacante il romano imperio per la morte di Federigo, negli anni della
salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
papa quarto, ricevuto nella paterna casa da assai lieta fortuna:
lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora s'usava. E nella
sua puerizia cominciò a dare, a chi avesse a ciò riguardato, manifesti
segni qual dovea la sua matura etá divenire; peroché, lasciata ogni
pueril mollizie, nella propria patria con istudio continuo tutto si
diede alle liberali arti, e, in quelle giá divenuto esperto, non alle
lucrative facultadi, alle quali oggi ciascun cupido di guadagnare
s'avventa innanzi tempo, ma da laudevole vaghezza di perpetua fama
tratto, alle speculative si diede. E, peroché a ciò, sí come appare,
era dal ciel produtto, a vedere con aguto intelletto e le fizioni e
l'artificio mirabile de' poeti si mise; e in brieve tempo, non
trovandogli semplicemente favolosi, come si parla, familiarissimo
divenne di tutti, e massimamente de' piú famosi. E, come giá è detto,
conoscendo le poetiche opere non esser vane o stolte favole, come
molti dicono, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o
filosofiche aver nascosti, accioché piena notizia n'avesse, e alle
istorie e alla filosofia, i tempi debitamente partiti, si diede; e giá
divenuto di quelle e di questa esperto, cresciuta, con la dolcezza del
conoscere la veritá delle cose, la vaghezza del piú sapere, a voler
investigar quello che per umano ingegno se ne può comprendere delle
celestiali intelligenzie e della prima causa con ogni sollecitudine
tutto si diede. Né questi studi in picciol tempo sí feciono, né senza
grandissimi disagi s'esercitarono, né nella patria sola s'acquistò il
frutto di quegli. Egli, sí come a luogo piú fertile del cibo che 'l
suo alto intelletto disiderava, a Bologna andatone, non piccol tempo
vi spese; e, giá vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave
l'andarne a Parigi, dove, non dopo molta dimora, con tanta gloria di
sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora
narrandosi se ne maravigliano gli uditori. Di tanti e sí fatti studi
non ingiustamente il nostro Dante meritò altissimi titoli: percioché
alcuni assai chiari uomini in scienza il chiamavano sempre «maestro»,
altri l'appellavan «filosofo», e di tali furono che «teologo» il
nominavano, e quasi generalmente ogn'uomo il diceva «poeta», sí come
ancora è appellato da tutti. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
gloriosa quanto le forze del vinto sono state maggiori, giudico esser
convenevole dimostrare di come fluttuoso anzi tempestoso mare costui,
ora in qua e ora in lá ributtato, con forte petto parimente le
traverse onde e i contrari venti vincendo, pervenisse al salutevole
porto de' chiarissimi titoli giá narrati.



IV

IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI


Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozion di sollecitudine
disiderare e tranquillitá d'animo, e massimamente gli speculativi, a'
quali, sí come mostrato è, il nostro Dante, in quanto la possibilitá
permetteva, s'era donato. In luogo della quale rimozione e quiete,
quasi dallo inizio della sua puerizia infino allo stremo della sua
vita, Dante ebbe fierissima e importabile passion d'amore. Ebbe oltre
a ciò moglie; le quali chi 'l pruova sa come capitali nemiche sieno
dello studio della filosofia. Similmente ebbe ad aver cura della re
familiare e oltre a ciò della republica, e, sopr'a tutte queste,
lungamente sostenne esilio e povertá; accioché io lasci stare l'altre
particulari noie, che queste si tirano appresso. Le quali, per
mostrare quanta in sé superficialmente di gravezza portassono e
accioché per questo parte della promessa fatta s'osservi, giudico
convenevole sia alquanto piú distesamente spiegarle.



V

AMORE PER BEATRICE


Era usanza nella nostra cittá e degli uomini e delle donne, come il
dolce tempo della primavera ne veniva, nelle lor contrade ciascuno per
distinte compagnie festeggiare. Per la qual cosa infra gli altri Folco
Portinari, onorevole cittadino, il primo dí di maggio aveva i suoi
vicini nella propria casa raccolti a festeggiare, infra' quali era il
sopradetto Alighieri; e lui, sí come far sogliono i piccoli figliuoli
i lor padri, e massimamente alle feste, seguíto avea il nostro Dante,
la cui etá ancor non aggiungnea all'anno nono. Il quale con gli altri
della sua etá, che nella casa erano, puerilmente si diede a
trastullare.

Era tra gli altri una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, la
quale di tempo non passava l'anno ottavo, leggiadretta assai e ne'
suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue
parole con piú gravezza che la sua piccola etá non richiedea. La quale
riguardando Dante e una e altra volta, con tanta affezione, ancor che
fanciul fusse, piacendogli, la ricevette nell'animo, che mai altro
sopravvegnente piacere la bella imagine di lei spegnere né poté né
cacciare. E, lasciando stare de' puerili accidenti il ragionare, non
solamente continuandosi, ma crescendo di giorno in giorno l'amore, non
avendo niuno altro disidèro maggiore né consolazione se non di veder
costei, gli fu in piú provetta etá di cocentissimi sospiri e d'amare
lagrime assai spesso dolorosa cagione, sí come egli in parte nella sua
_Vita nuova_ dimostra. Ma quello che rade volte suole negli altri cosí
fatti amori intervenire, in questo essendo avvenuto, non è senza dirlo
da trapassare. Fu questo amor di Dante onestissimo, qual che delle
parti, o forse amendue, fosse di ciò cagione. Egli quantunque, almeno
dalla parte di Dante, ardentissimo fosse, niuno sguardo, niuna parola,
niun cenno, niun sembiante, altro che laudevole, per alcun se ne vide
giammai. Che piú? Dal viso di questa giovine donna, la quale non Bice,
ma dal suo primitivo sempre chiamò Beatrice, fu primieramente nel
petto suo desto lo 'ngegno al dovere parole rimate comporre. Delle
quali, sí come manifestamente appare, in sonetti, ballate e canzoni e
altri stili, molte in laude di questa donna eccellentissimamente
compose, e tal maestro, sospingnendolo Amor, ne divenne, che, tolta di
gran lunga la fama a' dicitor passati, mise in opinion molti che niuno
nel futuro esser ne dovesse, che lui in ciò potesse avanzare.



VI

DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE


Gravi erano stati i sospiri e le lagrime, mosse assai sovente dal non
potere aver veduto, quanto il concupiscibile appetito disiderava, il
grazioso viso della sua donna; ma troppo piú ponderosi gliele serbava
quella estrema e inevitabile sorte che, mentre viver dovesse, ne 'l
doveva privare. Avvenne adunque che, essendo quasi nel fine del suo
vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, piacque a Colui che tutto
puote di trarla delle temporali angosce e chiamarla alla sua eterna
gloria. La partita della quale tanto impazientemente sostenne il
nostro Dante, che, oltre a' sospiri e a' pianti continui, assai de'
suoi amici lui quel senza morte non dover finire estimarono. Lunghe
furono e molte [le sue lagrime], e per lungo spazio ad ogni conforto
datogli tenne gli orecchi serrati. Ma pur poi, in processo di tempo
maturatasi alquanto l'acerbitá del dolore, e facendo alquanto la
passion luogo alla ragione, cominciò senza pianto a potersi ricordare
che morta fosse la donna sua, e per conseguente ad aprir gli orecchi
a' conforti; ed essendo lungamente stato rinchiuso, incominciò ad
apparire in publico tra le genti. Né fu solo da questo amor passionato
il nostro poeta, anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altri
obietti in piú matura etá troviam lui sovente aver sospirato, e
massimamente dopo il suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine,
la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremo
della sua vita, nell'alpi di Casentino per una alpigina, la quale, se
mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E, per
qualunque fu l'una di queste, compose piú e piú laudevoli cose in
rima.



VII

MATRIMONIO DI DANTE


Agro e valido nemico degli studi è amore, come veramente testificar
può ciascuno che a tal passione è soggiaciuto; percioché, poi che con
lusinghevole speranza ha tutta la mente occupata di chi nel principio
non l'ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero, niuna
meditazione, niuno appetito in quella patisce che stea se non quelle
sole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti queste siano e come
contrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, sí
manifesto mi pare, che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo a
piú chiarirlo.

A questo stimolo un altro forse non minore se n'aggiunse; percioché,
poi che, allenate le lagrime della morte di Beatrice, diede agli amici
suoi alcuna speranza della sua vita, incontanente loro entrò
nell'animo che, dandogli per moglie una giovane, colei del tutto se ne
potesse cacciare, che, benché partita del mondo fosse, gli avea nel
petto la sua imagine lasciata perpetua donna: e, lui a ciò inclinato,
senza alcuno indugio misero ad effetto il lor pensiero.

Saranno per avventura di quegli che laudevole diranno cotal consiglio;
e questo avverrá perché non considereranno quanto pericolo porti lo
spegnere il fuoco temporal con l'eterno. Era a Dante l'amore, il quale
a Beatrice portava, per lo suo troppo focoso disiderio spesse volte
noioso e grave a sofferire; ma pur talvolta alcun soave pensiero,
alcuna dolce speranza, qualche dilettevole imaginazion ne traeva; dove
della compagnia della moglie, secondo che coloro afferman che 'l
pruovano, altro che sollecitudine continua e battaglia senza
intermission non si trae. Ma lasciamo star quello che la moglie in
qualunque meccanico possa adoperare, e a quel vegniamo che la presente
materia richiede.



VIII

DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO


Quanto le mogli sieno nimiche degli studi assai leggermente puote
apparire a' riguardanti. Rincresce spesse volte a' filosofanti la
turba volgare: per che, da essa partendosi e raccoltosi in alcuna
solitaria parte della sua casa, sé contra sé con la considerazion
trasportando, talvolta ragguarda quale spirito muove il cielo, onde
venga la vita agli animali, quali sieno delle cose le prime cagioni; e
talvolta nello splendido consistoro de' filosofi mischiatosi col
pensiero, con Aristotile, con Socrate, con Platone e con gli altri
disputerá della veritá d'alcuna conclusione acutissimamente; e spesse
fiate con sottilissima meditazione se ne entrerá sotto la corteccia
d'alcuna poetica fizione, e, con grandissimo suo piacere, quanto sia
diverso lo 'ntrinseco dalla crosta riguarderá. Né fia che non avvenga,
quando vorrá, che gl'imperadori eccelsi, i potentissimi re e prencipi
gloriosi con lui nella solitudine non si convengano, e con lui
ragionino de' governamenti publici, dell'arti delle guerre e dei
mutamenti della fortuna. Alle quali eccelse e piacevoli cose
sopravverrá la donna e, cacciata via la contemplazion laudevole e
tanta e tal compagnia, biasimerá il suo star solitario e 'l suo
pensiero, e spesse volte, sospicando, dirá questo non solergli
avvenire avanti ch'ella a lui venisse, e però assai manifestamente
apparire lui esser di lei pessimamente contento. E, postasi quivi a
sedere, non prima si leverá che, esaminati i pensieri del marito, lui
di piacevolissima considerazione in noiosa turbazione avrá recato. Che
dirò dell'odio ch'elle portano a' libri, qualora alcuno ne veggiono
aprire? che delle notturne vigilie, non solamente utili, ma opportune
agli studianti? Tutto a' suoi diletti quel tempo esser tolto,
lagrimando, confermano. Lascio le notturne battaglie, li loro costumi
gravi a sostenere, la spesa inestimabile che nelli loro ornamenti
richeggiono: tutte cose, quanto esser possono, avverse a'
contemplativi pensieri. Che dirò se gelosia v'interviene? che, se
cruccio che per lunghezza si converta in odio? Io corro troppo questa
materia, percioché bastar dee agl'intendenti averne superficialmente
toccato. Ma, chenti che l'altre si sieno, accioché io quando che sia
mi riduca al proposito, tal fu quella che a Dante fu data, che, da lei
una volta partitosi, né volle mai dove ella fosse tornare, né che ella
andasse lá dove egli fosse. Né creda alcuno che io per le sudette cose
voglia conchiuder gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il lodo, ma
non a tutti. I filosofanti, che 'l mio giudicio in questo
seguiteranno, lasceranno lo sposarsi a' ricchi stolti e a' signori e
similmente ai lavoratori; ed essi con la filosofia si diletteranno,
molto piú piacevole e migliore sposa che alcuna altra.



IX

CURE FAMILIARI E PUBBLICHE


Tirò appresso di sé lo stimolo della moglie al nostro poeta un'altra
quasi inevitabil gravezza, e questa fu la sollecitudine d'allevare i
figliuoli, percioché in brieve tempo padre di famiglia divenne; e,
strignendolo la domestica cura, quel tempo, che alle eccelse
meditazioni, soluto, soleva prestare, costretto da necessitá,
conveniva che egli concedesse a' pensieri donde dovessero i salari
delle nutrici venire, i vestimenti de' figliuoli, e l'altre cose
opportune a chi piú secondo la opinion del vulgo che secondo la
filosofica veritá convien che viva. Il che quanto d'impedimento alli
suoi studi prestasse, assai leggermente conoscer si dee da ciascuno.

Da questa per avventura ne gli nacque una maggiore; percioché
l'altiero animo avendo le minor cose in fastidio, e per le maggiori
estimando quelle potersi cessare, dalla familiar cura transvolò alla
publica: nella qual tanto e subitamente sí l'avvilupparono i vani
onori, che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con
abbandonate redine, messa la filosofia in oblio, quasi tutto della
republica con gli altri cittadin piú solenni al governo si diede. E
fugli tanto in ciò alcun tempo la fortuna seconda, che di tutte le
maggior cose occorrenti la sua diliberazion s'attendeva. In lui tutta
la publica fede, in lui tutta la speranza publica, in lui
sommariamente le divine cose e l'umane parevano esser fermate. Che
questa gloria vana, questa pompa, questo vento fallace gonfi
maravigliosamente i petti de' mortali; e gli atti e portamenti di
coloro, che ne' reggimenti delle cittá son maggiori, e il fervente
appetito, che di quegli hanno generalmente gli stolti, assai
leggermente agli occhi de' savi il possono dimostrare. E come si dee
credere che intra tanto tumulto, intra tanto rivolgimento di cose,
quanto dee continuamente essere nelle gonfiate menti de' presidenti,
deano potere aver luogo le considerazion filosofiche, le quali, come
giá detto è, somma pace d'animo vogliono? In queste tumultuositá fu il
nostro Dante inviluppato piú anni, e tanto piú che un altro, quanto il
suo disiderio tutto tirava al ben publico, dove quello degli altri o
della maggior parte tirannescamente al privato badava: per che, oltre
all'altre sollecitudini, in continua battaglia esser gli conveniva. Ma
la fortuna, volgitrice de' nostri consigli e inimica d'ogni umano
stato, assai diverso fine pose al principio. Al qual voler dimostrare,
un pochetto s'amplierá la novella.



X

COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE


Era ne' tempi del glorioso stato del nostro poeta la fiorentina
cittadinanza in due parti perversissimamente divisa, alle quali parti
riducere ad unitá Dante invano si faticò molte volte. Di che poi che
s'accorse, prima seco propose, posto giú ogni uficio publico, di viver
seco privatamente; ma, dalla dolcezza della gloria tratto e dal favor
popolesco, e ancora dalle persuasioni de' maggiori, sperando di
potere, se tempo gli fosse prestato, molto di bene adoperare, lasciò
la disposizione utile e perseverando seguitò la dannosa. E,
accorgendosi che per se medesimo non poteva una terza parte tenere, la
quale, giusta, la ingiustizia dell'altre due abbattesse, con quella
s'accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era meno di malvagitá.
E, aumentandosi per vari accidenti continuamente gli odii delle parti,
e il tempo vegnendo che gli occulti consigli della minacciante fortuna
si doveano scoprire, nacque una voce per tutta la cittá: la parte
avversa a quella, con la qual Dante teneva, grandissima multitudine
d'armati in disfacimento de' loro avversari aver nelle case loro. La
qual cosa creduta spaventò sí i collegati di Dante, che, ogni altro
consiglio abbandonato che di fuggire, non cacciati s'usciron dalla
cittá e, con loro insieme, Dante. Né molti dí trapassarono che, avendo
i lor nemici il reggimento tutto della cittá, come nemici publici
tutti quegli, che fuggiti s'erano, furono in perpetuo esilio dannati,
e i lor beni ridotti in publico o conceduti a' vincitori.



XI

LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO


Questo fine ebbe la gloriosa maggioranza di Dante, e da' suoi
cittadini le sue pietose fatiche questo merito riportaro. Lasciati
adunque la moglie e i piccioli figliuoli nelle mani della fortuna, e
uscito di quella cittá, nella qual mai tornar non dovea, sperando in
brieve dovere essere la ritornata, piú anni per Toscana e per
Lombardia, quasi da estrema povertá costretto, gravissimi sdegni
portando nel petto, s'andò avvolgendo. Egli primieramente rifuggí a
Verona. Quivi dal signor della terra e ricevuto e onorato fu
volentieri e sovvenuto. Quindi in Toscana tornatosene, per alcun tempo
fu col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marchese
Moruello Malespina in Lunigiana. E ancora per alcuno spazio fu co'
signori della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino. Quindi n'andò a
Bologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancor si ritornò a Verona.
Ma, essendo giá dopo la sua partita di Firenze piú anni passati, né
apparendo alcuna via da potere in quella tornare, ingannato trovandosi
del suo avviso, e quasi del mai dovervi tornar disperandosi, si
dispose del tutto d'abbandonare Italia; e, passati gli Alpi, come poté
se n'andò a Parigi, accioché, quivi a suo potere studiando, alla
filosofia il tempo, che nell'altre sollecitudini vane tolto le avea,
restituisse. Udí adunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, non
senza gran disagio delle cose opportune alla vita. Da questo il tolse
una speranza presa di potere in casa sua ritornare con la forza
d'Arrigo di Luzimborgo imperadore. Per che, lasciati gli studi e in
Italia tornatosi, e con certi rubelli de' fiorentini congiuntosi, con
loro insieme con prieghi, con lettere e con ambasciate s'ingegnò di
rimuovere il detto Arrigo dallo assedio di Brescia e di conducerlo
intorno alla sua cittá, estimando quella contro a lui non potersi
tenere. Ma la riuscita contraria gli fece palese il suo avviso essere
stato vano. Assediò Arrigo la cittá di Fiorenza; e ultimamente, vana
vedendo la stanza, se ne partí e, non dopo molto tempo passando di
questa vita, ogni speranza ruppe nel nostro poeta, il quale in Romagna
se ne passò, dove l'ultimo suo dí, il quale alle sue fatiche doveva
por fine, l'aspettava.



XII

DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA


Era in que' tempi signor di Ravenna, antichissima cittá di Romagna, un
nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta, ne' liberali
studi ammaestrato e amatore degli scenziati uomini. Il quale, udendo
Dante, cui per fama lungamente avanti avea conosciuto, come disperato
essersene venuto in Romagna, conoscendo la vergogna de' valorosi nel
domandare, con liberale animo si fece incontro al suo bisogno, e lui,
di ció volonteroso, onorevolmente ricevette e tenne, infino all'ultimo
dí di lui.

Assai credo che manifesto sia da quanti e quali accidenti contrari
agli studi fosse infestato il nostro poeta. Il quale né gli amorosi
disiri, né le dolenti lagrime, né gli stimoli della moglie, né la
sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
né il súbito e impetuoso mutamento della fortuna, né le faticose
circuizioni, né il lungo e misero esilio, né la intollerabile povertá,
tutte imbolatrici di tempo agli studianti, non poterono con le lor
forze vincere, né dal principale intento rimuovere, cioè da' sacri
studi della filosofia, sí come assai chiaramente dimostrano l'opere
che da lui composte leggiamo. Che diranno qui coloro, agli studi de'
quali non bastando della lor casa, cercano le solitudini delle selve?
che coloro, a' quali è riposo continuo, e a' quali l'ampie facultá
senza alcun lor pensiero ogni cosa opportuna ministrano? che coloro
che, soluti da moglie e da figliuoli, liberi posson vacare a' lor
piaceri? De' quali assai sono che, se ad agio non sedessero, o
udissero un mormorio, non potrebbono, non che meditare, ma leggere, né
scrivere, se non stasse il gomito riposato. Certo niuna altra cosa
potranno dire, se non che il nostro poeta, e per gli impeti superati e
per l'acquistata scienza, sia di doppia corona da onorare. Ma da
ritornare è alla intralasciata materia.



XIII

MORTE DI DANTE


Abitò adunque Dante in Ravenna piú anni nella grazia di quel signore,
e quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la quale
maravigliosamente esaltò. Ed essendo giá al cinquantesimosesto anno
della sua etá pervenuto, infermò, e come fedel cristiano
riconciliatosi, per vera contrizione e confessione delle colpe
commesse, a Dio, del mese di settembre, correnti gli anni di Cristo
MCCCXXI, il dí che la esaltazione della santa Croce si celebra, passò
della presente vita. La cui anima creder possiamo essere stata nelle
braccia della sua nobile Beatrice ricevuta e presentata nel cospetto
di Dio, accioché quivi in riposo perpetuo prenda merito delle fatiche
passate.

Fu la morte del nostro poeta al magnifico cavaliere assai gravosa. Il
quale, fatto il corpo del defunto ornare d'ornamenti poetici, e quello
porre sopra un funebre letto, sopra gli omeri de' piú eccellenti
ravignani il fece alla chiesa de' frati minori, con quello onore che a
tanto uomo si conveniva, portare, e quivi in una arca lapidea
seppellire, con animo di fargli una egregia e notabile sepoltura.
Quindi alla casa, nella quale era Dante prima abitato, tornandosi,
secondo il ravignan costume, esso medesimo, a commendazione del
trapassato poeta e a consolazione de' figliuoli e degli amici che dopo
lui rimanieno, fece uno esquisito e lungo sermone. Ma poi, infra
brieve spazio essendogli tolto lo Stato, cessò il proponimento della
magnifica sepoltura; per la qual cosa ancora in quella arca, dove fu
posto, le venerabili ossa dimorano.



XIV

GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE


Furono in que' tempi piú uomini nell'arte metrica ammaestrati, li
quali, sentendo che far si dovea al corpo di Dante una mirabile
sepoltura, fecero versi per porre in quella, testificanti e la scienza
e alcun de' piú memorabili casi di Dante, de' quali niun vi si pose
per lo sopradetto accidente. Nondimeno, piú tempo poi, me ne furono
monstrati: de' quali alquanti, fattine dal maestro Giovanni del
Virgilio, sí come piú laudevoli al mio giudicio, ne elessi; ed
estimando questa operetta quello testificare, che in parte avrebbe
fatto la sepoltura, di porglici diliberai come segue:

    _Theologus Dantes nullius dogmatis expers,
      quod foveat claro philosophia sinu:
    gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
      hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
    qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
      distribuit, laicis rhetoricisque modis.
    Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
      Atropos heu! laetum livida rupit opus.
    Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
      exilium, vati patria cruda suo.
    Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
      gaudet honorati continuisse ducis,
    mille trecentenis ter septem Numinis annis,
      ad sua septembris idibus astra redit._



XV

RIMPROVERO AI FIORENTINI


Sogliono gli odii nella morte degli odiati finirsi; il che nel
trapassamento di Dante non si trovò avvenire. L'ostinata malivolenza
de' suoi cittadini nella sua rigidezza stette ferma; niuna publica
lagrima gli fu conceduta, né alcuno uficio funebre fatto. Nella qual
pertinacia assai manifestamente sí dimostrò, i fiorentini tanto essere
dal cognoscimento della scienzia rimoti, che fra loro niuna distinzion
fosse da un vilissimo calzolaio ad un solenne poeta. Ma essi con la
lor superbia rimangansi; e noi, avendo gli affanni dimostrati di Dante
e il suo fine, all'altre cose che di lui, oltre alle dette, dir si
possono, ci volgiamo.



XVI

FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE


Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il
naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto,
che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e
gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la
barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. Per la qual cosa
avvenne un giorno in Verona (essendo giá divulgata per tutto la fama
delle sue opere, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne) che,
passando egli davanti ad una porta, dove piú donne sedevano, una di
quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era
non fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va in
inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che
lá giú sono!--Alla quale semplicemente una dell'altre rispose:--In
veritá egli dee cosí essere: non vedi tu come egli ha la barba crespa
e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Di che
Dante, perché da pura credenza venir lo sentia, sorridendo passò
avanti.

Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l'abito conveniente
alla maturitá, e il suo andare grave e mansueto, e ne' domestici
costumi e ne' publici mirabilmente fu composto e civile.

Nel cibo e nel poto fu modestissimo. Né fu alcuno piú vigilante di lui
e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse.

Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo
fosse.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e, per
vaghezza di quegli, quasi di tutti i cantatori e sonatori famosi suoi
contemporanei fu dimestico.

Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato, assai è dimostrato
di sopra.

Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studi, quel tempo che
lor poteva concedere, fu assiduo molto.

Fu ancora Dante di maravigliosa capacitá e di memoria fermissima, come
piú volte nelle disputazioni in Parigi e altrove mostrò.

Fu similmente d'intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e,
secondo che le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili
e pellegrine assai.

Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura piú che non si
appartiene a savio uomo. Ma qual vita è tanto umile, che dalla
dolcezza della gloria non sia tócca? Questa vaghezza credo che cagion
gli fosse d'amare sopra ogni altro studio quel della poesia, accioché
per lei al pomposo e inusitato onore della coronazion pervenisse. Il
quale senza fallo, sí come degno n'è, avrebbe ricevuto, se fermato
nell'animo non avesse di quello non prendere in altra parte, che nella
sua patria e sopra il fonte nel quale il battesimo avea ricevuto; ma
dallo esilio impedito e dalla morte prevenuto, nol fece. Ma, peroché
spessa quistion si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il
poeta, e donde questo nome venuto, e perché di lauro sieno coronati i
poeti, e da pochi pare esser mostrato, mi piace qui di fare alcuna
transgressione, nella quale questo alquanto dichiari, e quindi
prestamente tornare al proposito.



XVII

DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA


La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il ciel
moversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene aver certo
ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero
e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenza da niuna
altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta,
s'imaginaron quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá» appellarono,
con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano servigio
esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenzia di questa suprema
potenza, ampissime ed egregie case, le quali ancora estimaron fossero
da separare cosí di nome, come di forma separate erano, da quelle che
generalmente per gli uomini si abitano; e nominaronle «templi». E
similmente avvisaron doversi ministri, li quali fossero sacri e, da
ogni altra mondana sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi
vacassero, per maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri
uomini, reverendi; li quali appellaron «sacerdoti». E oltre a questo,
in rappresentamento della imaginata essenzia divina, fecero in varie
forme magnifiche statue, e a' servigi di quelle vasellamenti d'oro e
mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
a' sacrifici stabiliti per loro. E accioché a questa cotal potenzia
tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
d'alto suono essa deitá fosse da umiliare e alle loro necessitá render
propizia. E cosí come essi estimarono questa eccedere ogni altra cosa
di nobiltá, cosí vollono che, di lungi ad ogni plebeio o publico stile
di parlare, si trovasser parole degne di proferire dinanzi alla
divinitá, nelle quali, oltre alle sue lode, si porgessero sacrate
lusinghe. E oltre a questo, accioché queste parole potessero avere piú
d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri,
corrispondenti per brevitá e per lunghezza a certi tempi ordinati,
composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il
rincrescimento e la noia; e questo non in volgar forma o usitata, come
dicemmo, ma con artificiosa ed esquisita di modi e di vocaboli,
convenne che si facesse. La qual forma, cioè di parlare esquisito, li
greci appellan «_poetes_»; laonde nacque, che quello parlare, che in
cotal modo fatto fosse, «poesie» s'appellasse; e quegli, che ciò
facessero o cotal modo di parlare usassero, si chiamasson «poeti».

Questa adunque fu la prima origine della poesia e del suo nome, e per
conseguente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni forse
buone: ma questa mi piace piú.

Adunque questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse
molti a diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e,
dove i primi una sola deitá adoravano, stoltamente mostrarono a'
segnenti esserne molte, comeché quella una dicessero, oltre ad ogni
altra, ottenere il principato. Tra le quali molte, mostrarono essere
il Sole, la Luna, Saturno, Giove e qualunque altro pianeto, la loro
erronea dimostrazion roborando da' loro effetti. E da questi vennero a
mostrare, ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, in sé
occulta deitá conservare; alle quali tutte e versi e onori e sacrifici
divini s'ordinarono. E poi susseguentemente avendo giá cominciato
diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno e chi con un altro, a
farsi, sopra la moltitudine indòtta della sua contrada, maggiori e a
chiamarsi «re» e mostrarsi alla plebe con servi e con ornamenti, e a
farsi ubbidire, e talvolta a farsí come Dio adorare; li quali, non
fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le
religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i suggetti e a
strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli, li quali non vi
si sarebbon con le forze recati. E, oltre a questo, diedono opera a
deificare li lor padri, li loro avoli, li lor maggiori, o a dimostrare
sé figliuoli degli iddii, accioché piú fosson temuti e avuti in
reverenza dal vulgo. Le quali cose non si poterono commodamente fare
senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliar la lor fama, sí per
compiacere a' prencipi, sí per dilettare i sudditi, e sí ancora per
suadere agl'intendenti il virtuosamente operare, quello che con aperto
parlare saria suto della loro intenzion contrario, con fizioni varie e
maestrevoli, male da' grossi, oggi non che a quel tempo, intese,
facean credere quello che i prencipi voleano si credesse; servando
nelli nuovi iddii e negli uomini, li quali degli iddii nati fingevano,
quello medesimo stilo che in quello, che vero Iddio primieramente
credettero, usavano. Da questo si venne allo adequare i fatti de'
forti uomini a quegli degl'iddii: donde nacque il cantare con eccelso
verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini
mescolatamente con quegli degli iddii. Per che si può delle predette
cose comprendere uficio essere del poeta alcuna veritá sotto fabulosa
fizion nascondere con ornate ed esquisite parole. E, percioché molti
ignoranti credono la poesia niuna altra cosa essere, che semplicemente
un favoloso e ornato parlare; oltre al promesso, mi piace brievemente
mostrare la poesí esser teologia, o, piú propiamente parlando, quanto
piú può simigliante di quella, prima che io vegna a dichiarare perché
di lauro si coronino i poeti.



XVIII

CHE LA POESIA È SIMIGLIANTE ALLA TEOLOGIA


Se noi vorrem por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
che assai leggermente potrem vedere gli antichi poeti avere imitate,
tanto quanto all'umano ingegno è possibile, le pedate dello Spirito
santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
bocca di molti i suo' altissimi segreti rivelò a' futuri, facendo loro
sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcun
velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi riguarderem
bene le loro opere, accioché lo imitatore non paresse diverso dallo
imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che
fosse al lor tempo presente, o che disideravano, o che presumevano che
nel futuro dovesse avvenire, discrissono. Per che, comeché ad un fine
l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del
trattare, quello del poetico stilo dir si potrebbe che della sacra
Scrittura dice Gregorio, cioè che essa in un medesimo sermone,
narrando, apre il testo e il misterio a quello sottoposto; e cosí ad
un'ora con l'uno li savi esercita e con l'altro li semplici
riconforta, e ha in publico donde li pargoli nutrichi, e in occulto
serva quello onde assai le menti dei sublimi intenditori con
ammirazione tenga sospese. Percioché pare essere un fiume piano e
profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada e il
grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da verificar sono le cose
predette con alcune dimostrazioni.



XIX

DIMOSTRAZIONE DELLA PREDETTA SENTENZA


Intende la divina Scrittura, l'esplicazion della quale insieme con
essa noi «teologia» appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria,
quando col senso d'alcuna visione, quando con lo 'ntendimento d'alcuna
lamentazione, e in altre maniere assai, mostrarci molti secoli avanti
esser dallo Spirito santo a' futuri nunziato l'alto misterio della
incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse
nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile
ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati,
possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e
risurgendo ci aperse, lungamente stata serrata per la colpa del primo
uomo. Cosí i poeti nelle loro invenzioni, quando con fizioni di vari
iddii, quando con trasformazioni d'uomini in varie forme e quando con
leggiadre persuasioni ne mostrarono, sotto la corteccia di quelle, le
cagioni delle cose, gli effetti delle virtú e de' vizi e che fuggir
dobbiamo e che seguire, accioché pervenir possiamo, virtuosamente
operando, a Dio; il quale essi, che lui non debitamente conoscieno,
somma salute credeano. Volle lo Spirito santo monstrare nel rubo
verdissimo, nel quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente,
Iddio, la verginitá di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che
dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non
doversi per la concezione, né per lo parto del Verbo del Padre in
alcuna parte diminuire. Volle per la visione veduta da Nabucdonosor,
nella statua di piú metalli abbattuta da una pietra convertita poi in
un monte, mostrare tutte le religioni, leggi e dottrine delle
preterite etá dalla dottrina di Cristo, il qual fu ed è viva pietra,
[dovere essere sommerse; e la cristiana religione, nata di questa
pietra,] divenire una cosa grande, immobile e perpetua, sí come li
monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Ieremia l'eccidio futuro
di Ierusalem dichiarare, e quello, per la sua ingratitudine e crudeltá
in Cristo, avvenire.

Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno aver molti figliuoli, e
quegli, fuor che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
tal fizion farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni
cosa si produce; e come ella in esso è prodotta, cosí in esso, di
tutto corrompitore, viene al niente. I quattro figliuoli dal tempo non
divorati sono i quattro elementi, li quali niuna diminuzione avere per
lunghezza di tempo veggiamo. Similmente fingono li nostri poeti Ercule
d'uomo essere in Dio transformato, e Licaone re d'Arcadia transmutato
in lupo: nulla altro volendo mostrarci, se non che, virtuosamente
operando come fece Ercule, l'uomo diventa Iddio per participazione; e
viziosamente operando, come Licaon fece, cade in infamia, e,
quantunque nel primo aspetto paia uomo, quella bestia è dinominato, i
vizi della quale sono a' suoi simiglianti: Licaone, percioché rapace e
avaro e ingluvioso fu, vizi familiarissimi al lupo, in lupo
transformato si disse. Li nostri poeti ancora discrissero mirabile la
bellezza de' campi elisi, e in quegli dissono dopo la morte l'anime
de' pietosi uomini e valenti abitare: per li quali il cristiano uomo
meritamente potrá intendere la dolcezza del paradiso solamente alle
pietose anime conceduta. E, oltre a ciò, oscura ed orrida e nel centro
della terra finsero la cittá di Dite, e quivi sotto vari tormenti
l'anime de' crudeli e malvagi uomini tormentarsi: per la quale chi
sará che non prenda l'amaritudine dello 'nferno e i supplici de'
dannati tanto quanto piú esser possono rimoti da Dio? Nelle quali
fizioni assai chiaro mostrano d'ingegnarsi, con la bellezza dell'uno,
di trar gli uomini a virtuosamente operare per acquistarlo, e, con la
oscuritá dell'altro, spaventargli, accioché per paura di quella si
ritraggano da' vizi e seguitin le virtú. Io lascio il tritare con piú
particulari esposizioni queste cose, per non lasciarmi sí oltre nella
transgression trasportare, che la principale materia patisca [_a_], e
per venire a dimostrare perché di lauro si coronino i poeti.

[Footnote _a_: fidandomi ancora che gl'intendenti, per quello che
detto è, conosceranno quanta forza, piú trite, al mio argomento
aggiugnerieno. Assai adunque per le cose dette credo che è chiaro la
teologia e la poesia nel modo del nascondere i suoi concetti con
simile passo procedere, e però potersi dire simiglianti. È il vero che
il subietto della sacra teologia e quello della poesia de' poeti
gentili è molto diverso, percioché quella nulla altra cosa nasconde
che vera, ove questa assai erronee e contrarie alla cristiana
religione ne discrive: né è di ciò da maravigliarsi molto, peroché
quella fu dettata dallo Spirito santo, il quale è tutto veritá, e
questa fu trovata dallo 'ngegno degli uomini, li quali di quello
Spirito o non ebbono alcuna conoscenza o non l'ebbono tanto piena.]



XIX^bis

PERCHÉ I POETI NASCONDONO IL VERO SOTTO FIZIONI


Io poteva per avventura procedere ad altro, se alcuni disensati ancora
un pochetto intorno a questo ragionamento non mi avessero ritirato.
Sono adunque alcuni li quali, senza aver mai veduto o voluto vedere
poeta (o, se veduto n'hanno alcuno, non l'hanno inteso o non l'hanno
voluto intendere), e di ciò estimandosi molto reputati migliori, con
ampia bocca dannano quello che ancora conosciuto non hanno, cioè le
opere de' poeti e i poeti medesimi, dicendo le lor favole essere opere
puerili e a niuna veritá consonanti; e, oltre a ciò, se essi erano
uomini d'altissimo sentimento, in altra maniera che favoleggiando
dovevano la loro dottrina mostrare. Grande presunzione è quella di
molti volere delle questioni giudicare prima che abbiano conosciuti i
meriti delle parti: ma, poiché sofferire si conviene, a questi cotali,
senza altro martirio, confesso le fizioni poetiche nella prima faccia
avere niuna consonanza col vero. Ma, se per questo elle sono da
dannare, che diranno costoro delle visioni di Daniello, che di quelle
di Ezechiel, che dell'altre del vecchio Testamento, scritte con divina
penna, che di quelle di Giovanni evangelista? Diremo, percioché
somiglianza di vero in assai cose nella corteccia non hanno, sieno,
come stoltamente dette, da rifiutare? Nol consentirá mai chi ficcherá
gli occhi dello 'ntelletto nella midolla. E questo voglio ancora che
basti per risposta alla seconda opposizione a questi giudici senza
legge: cioè che, se lo Spirito santo è da commendare d'avere i suoi
alti misteri dato sotto coverta, accioché le gran cose poste con
troppa chiarezza nel cospetto di ogni intelletto non venissono in
vilipensione, e che la veritá, con fatica e perspicacitá d'ingegno
tratta di sotto le scrupolose ma ponderose parole, fosse piú cara e
piú e con piú diletto entrasse nella memoria del trovatore; perché
saranno da biasimare i poeti, se sotto favolosi parlari avranno
nascosi gli alti effetti della natura, le moralitá e i gloriosi fatti
degli uomini, mossi dalle sopradette cagioni? Certo io nol conosco.

Perché sotto cosí fatta forma i poeti dessero la loro dottrina, oltre
a ciò che detto n'è, ne possono le ragioni essere queste: o per
imitare piú nobile autore, o perché forse in altra forma non erano
ammaestrati. Ma di questo non mi pare da dovere far troppo agra
quistione, conciosiacosaché ciascuno in cosí fatte elezioni piú tosto
il suo giudicio séguiti che l'altrui; e però piú tosto si potrá
dimandare se cotal tradizione è utile o disutile. Alla quale mi pare
che rispondere si possa questa utile essere stata, dove i nostri
giudici nel gridare la dimostrano disutile; e la ragione puote essere
questa. Certissima cosa è che, come gli ingegni degli uomini sono
diversi, cosí esser convengono diverse le maniere del dare la
dottrina. Assai se ne sono giá veduti, a' quali niuna sillogistica
dimostrazione ha potuto far comprendere il vero d'alcuna conclusione;
la qual poi per ragioni persuasive hanno subitamente compresa. Che
dunque con questi cotali varrá il sillogizzare d'Aristotile? Certo,
niente. Cosí al contrario alcuni vilipendono tanto le persuasioni, che
nulla crederanno essere vero, se sillogizzando non ne son convinti.
Sono altri, li quali solo il nome della filosofia, non che la
dottrina, spaventa, e che con sommo diletto alle lezioni delle favole
correranno, non estimando sotto quella alcuna particella di filosofia
potersi nascondere; ché, se 'l credessero, non le vorrebbono udire. Di
questi cotali, non è dubbio, giá assai, dalla novitá delle favole
mossi, divennero investigatori della veritá e domestici della
filosofia, del cui nome altra volta aveano avuto paura. In questi
cotali adunque non furono dannosi i poeti, né disutile il modo del
loro trattare, il qual per certo, a chi non lo intende, non può dare
altro piacere che faccia il suono della cetera all'asino. E questo al
presente basti; e vegniamo a mostrare perché i poeti si coronino
d'alloro. _Tra l'altre genti_ ecc.]



XX

DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI


Tra l'altre genti, alle quali piú aprí la filosofia i suoi tesori, i
greci si crede che fosser quegli li quali d'essi trassero la dottrina
militare e la vita politica, oltre alla notizia delle cose superiori;
e, tra l'altre cose, la santissima sentenzia di Solone nel principio
della presente operetta discritta; la quale ottimamente e lungo tempo
servarono, fiorendo la loro republica. Alla quale osservare,
considerati con gran diligenzia i meriti degli uomini, con publico
consentimento ordinarono che, per piú degno guidardon che alcuno
altro, sí come a piú utile e piú onorevole fatica alla republica, li
poeti dopo la vittoria delle lor fatiche, cioè dopo la perfezione de'
lor poemi, e, oltre a ciò, gl'imperadori dopo la vittoria avuta de'
nimici della republica, fossono coronati d'alloro; estimando dovere
d'un medesimo onore esser degno colui per la cui virtú le cose
publiche erano e servate e aumentate, e colui per li cui versi le ben
fatte cose eran perpetuate, e vituperate le avverse. La quale
remunerazione poi parimente con la gloria dell'arme trapassò a'
latini, e ancora, e massimamente nelle coronazioni de' poeti, come che
rarissimamente avvengano, vi dimora. Ma perché a tal coronazion piú
l'alloro, che fronda d'altro albero, eletto sia [_a_], pare la ragion
questa.

Vogliono coloro, li quali le virtú e le nature delle piante hanno
investigate, il lauro, sí come noi medesimi veggiamo, giammai verdezza
non perdere: per la quale perpetua viriditá vollero i greci intendere
la perpetuitá della fama di coloro che di coronarsi d'esso si fanno
degni. Appresso affermano li predetti investigatori non trovarsi il
lauro essere stato mai fulminato, il che d'alcuno altro albero non si
crede: e per questo vollono gli antichi mostrare che l'opere di
coloro, che di quello si coronano, esser di tanta potenza dotate da
Dio, che né il fuoco della 'nvidia, né la folgore della lunghezza del
tempo, la quale ogni altra cosa consuma, quelle debba potere
offuscare, rodere o diminuire. Dicono, oltre a ciò, i predetti quello
che noi tutto il giorno sentiamo, cioè il lauro essere odorifero
molto: e per quello vogliono intendere i passati, l'opere di colui,
che degnamente se ne corona, sempre dovere esser piacevoli e graziose
e odorifere di laudevole fama [_b_]. E perciò era non senza cagione

[Footnote _a_: non dovrá parere a udire rincrescevole.

Sono alcuni li quali credono, percioché Dafne, amata da Febo e in
lauro convertita, fu da lui eletta a coronare le sue vittorie, e i
poeti sono a lui consacrati, quindi tale coronazione avere origine
avuta: la quale opinione non mi spiace, né niego cosí poter essere
stato; ma tuttavia mi muove altra ragione. Secondo che _vogliono
coloro_, ecc.]

[Footnote _b_: Similemente una quarta proprietá, e maravigliosa, gli
aggiungono; e questa è che dicono essere una specie di lauro, la cui
pianta non fa mai che tre radici, delle frondi del quale qualunque
persona n'avesse alla testa legate e dormisse, vedrebbe veracissimi
sogni delle cose future mostranti: per la quale proprietá intesero i
nostri maggiori una dimostrarsene, la quale essere ne' poeti si vede.
Perciò i poeti, discrivendo l'operazioni d'alcuno, delle quali
solamente gli effetti nudi avrá uditi, cosí le particulari incidenzie
mai non vedute né udite discriverá, come se all'operazione fosse stato
presente; e percioché veridichi in ciò assai volte sono stati trovati,
parendo quella essere stata specie di divinazione, furono chiamati
«vati», cioè profeti, ed estimarono gli uomini loro di lauro coronare,
a mostrare la proprietá della divinazione, nella quale paiono al lauro
simiglianti. _E perciò_, ecc.] il nostro Dante, sí come merito poeta,
di questa laurea disioso. Della quale percioché assai avem parlato,
estimo sia onesto di tornare al proposito.



XXI

CARATTERE DI DANTE


Fu adunque il nostro poeta, oltre alle cose di sopra dette, d'animo
altiero e disdegnoso molto: tanto che, cercandosi per alcuno amico
come egli potesse in Firenze tornare, né altro modo trovandosi, se non
che egli per alcuno spazio di tempo stato in prigione, fosse
misericordievolmente offerto a San Giovanni, calcato ogni fervente
disio del ritornarvi, rispose che Iddio togliesse via che colui, che
nel seno della filosofia cresciuto era, divenisse cero del suo comune.

Oltre a questo, di se stesso presunse maravigliosamente tanto, che
essendo egli glorioso nel colmo del reggimento della republica, e
ragionandosi tra' maggior cittadini di mandar, per alcuna gran
bisogna, ambasciata a Bonifazio papa ottavo, e che prencipe
dell'ambasciata fosse Dante, ed egli a ciò in presenza di tutti
quegli, che sopra ciò consigliavan, richiesto, avvenne che,
soprastando egli alla risposta, alcun disse:--Che pensi?--Alle quali
parole egli rispose:--Penso: se io vo, chi rimane? e se io rimango,
chi va?--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse e per cui
tutti gli altri valessero.

Appresso, comeché il nostro poeta nelle sue avversitá paziente o no si
fosse, in una fu impazientissimo: egli infino al cominciamento del suo
esilio, come i suoi passati, stato guelfissimo, non essendogli aperta
la via a ritornare in casa sua, sí fuor di modo diventò ghibellino,
che ogni femminella, ogni piccol fanciullo, e quante volte avesse
voluto, ragionando di parte e la guelfa preponendo alla ghibellina,
l'avrebbe non solamente fatto turbare, ma a tanta insania commosso,
che, se taciuto non fosse, a gittar le pietre l'avrebbe condotto.

Certo io mi vergogno di dovere con alcun difetto maculare la chiara
fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna
parte il richiede, percioché, se nelle cose meno laudevoli mi tacerò,
io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimo
adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso
occhio d'alta parte del ciel mi riguarda.

Tra cotanta vertú, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopra
essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. E
questo basti al presente de' suoi costumi piú notabili aver contato, e
all'opere da lui composte vegniamo.



XXII

LA «VITA NUOVA» E LA «COMMEDIA» INCIDENTI OCCORSI NELLA COMPOSIZIONE
DI QUESTA OPERA


Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, tra le quali
si crede la prima un libretto volgare, che egli intitola _Vita Nuova_:
nel quale egli e in prosa e in sonetti e in canzoni gli accidenti
dimostra dell'amore, il quale portò a Beatrice.

Appresso piú anni, guardando egli della sommitá del governo della sua
cittá, e veggendo in gran parte qual fosse la vita degli uomini,
quanti e quali gli error del vulgo, e i cadimenti ancora de' luoghi
sublimi come fussero inopinati, gli venne nell'animo quello laudevol
pensiero che a' compor lo 'ndusse la _Comedia_. E, lungamente avendo
premeditato quello che in essa volesse descrivere, in fiorentino
idioma e in rima la cominciò: ma non avvenne il poterne cosí tosto
vedere il fine, come esso per avventura imaginò; percioché, mentre
egli era piú attento al glorioso lavoro, avendo giá di quello sette
canti composti, de' cento che diliberato avea di farne, sopravvenne il
gravoso accidente della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli,
quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni
con diversi amici e signori andò vagando.

Ma non poté la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne
adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura in
forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che
tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di
preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio,
nel quale scritti erano li predetti sette canti. Li quali con
ammirazion leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo dove erano
sottrattigli, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in rima, e
gliel mostrò. Li quali avendo veduti Dino, e maravigliatosi sí per lo
bello e pulito stilo, sí per la profonditá del senso, il quale sotto
la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo
quegli essere opera di Dante imaginò; e, dolendosi quella essere
rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante
in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malespina, non a
lui, ma al marchese, e l'accidente e il desiderio suo scrisse, e
mandògli i sette canti. Gli quali poi che il marchese, uomo assai
intendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali Dante
riconosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marchese
che gli piacesse di non lasciar senza debito fine sí alto
principio.--Certo--disse Dante--io mi credea nella ruina delle mie cose
questi con molti altri miei libri aver perduti; e perciò, sí per questa
credenza, e sí per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mio
esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa,
abbandonata. Ma, poiché inopinatamente innanzi mi son ripinti, e a voi
aggrada, io cercherò di rivocare nella mia memoria la imaginazione di
ciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi fia, cosí avanti
procederò.--Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciata
fantasia ritrovata; la qual seguitando, cosí cominciò:

    Io dico, seguitando, ch'assai prima, ecc.;

dove assai manifestamente, chi ben guarda, può la ricongiunzione
dell'opera intermessa riconoscere.

Ricominciato adunque Dante il magnifico lavoro, non forse, secondo che
molti stimano, senza piú interromperlo il perdusse a fine; anzi piú
volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea,
quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa,
interponeva; intanto che, piú avacciar non potendosi, avanti che tutto
il publicasse il sopraggiunse la morte. Egli era suo costume, come sei
o otto canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun gli vedesse,
mandare a messer Can della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro
uomo in reverenza avea; e, poi che da lui eran veduti, ne faceva copia
a chi la volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori che
gli ultimi tredici canti, mandati, ancora che questi tredici fatti
avesse, avvenne che senza farne alcuna memoria si morí; né, piú volte
cercati da' figliuoli, mai furon potuti trovare; per che Iacopo e
Piero, suoi figliuoli, e ciascun dicitore, dagli amici pregati che
l'opera terminasser del padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Ma
una mirabile visione a Iacopo, che in ciò piú era fervente, apparita,
lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzion levò, ma
mostrò dove fossero li tredici canti tanto da lor cercati.

Raccontava uno valente uom ravignano, il cui nome fu Pier Giardino,
lungamente stato discepolo di Dante, grave di costumi e degno di fede,
che dopo l'ottavo mese dal dí della morte del suo maestro, venne una
notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «mattutino», alla casa sua
Iacopo di Dante, e dissegli sé quella notte poco avanti a quell'ora
avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi
vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui;
il quale gli parea domandare se 'l vivea, e udire da lui per risposta
di sí, ma della vera vita, non della nostra. Per che, oltre a questo,
gli pareva ancor domandare se egli avea compiuta la sua opera avanti
il suo passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fosse
quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo
gli pareva similemente udir per risposta:--Sí, io la compie';--e
quinci gli parea che il prendesse per mano, e menasselo in quella
camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea, e toccando
una parte di quella, diceva:--Egli è qui quello che voi tanto avete
cercato.--E, questa parola detta, ad un'ora il sonno e Dante gli parve
che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non esser potuto
stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché
insieme andassero a cercare il luogo mostrato a lui, il quale egli
ottimamente nella memoria avea segnato, a vedere se vero spirito o
falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, comeché
ancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa nella
quale Dante quando morí dimorava; e, chiamato colui che allora in essa
stava e dentro da lui ricevuti, al mostrato luogo n'andarono, e quivi
trovarono una stuoia al muro confitta, sí come per lo passato
continuamente veduta v'aveano. La quale leggiermente in alto levata,
vidon nel muro una finestretta da niun di loro mai piú veduta, né
saputo che ella vi fosse, e in quella trovaron piú scritte, tutte per
l'umiditá del muro muffate e vicino al corrompersi se guari piú state
vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, vider segnate per
numeri, e conobbero quello, che in esse scritto era, esser de' rittimi
della _Comedia_: per che, secondo l'ordine dei numeri continuatele,
insieme li tredici canti, che alla _Comedia_ mancavan, ritrovâr tutti.
Per la qual cosa lietissimi quegli riscrissono e, secondo l'usanza
dell'autore, prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta
opera gli ricongiunson, come si convenía; e in cotal maniera l'opera,
in molti anni compilata, si vide finita.



XXIII

PERCHÉ DANTE COMPOSE LA «COMMEDIA» IN VOLGARE A CHI EGLI LA DEDICÒ


Muovon molti, e intra essi alcun savi uomini, una quistion cosí fatta:
che, conciofossecosaché Dante fosse in iscienza solennissimo uomo,
perché a comporre cosí grande opera e di sí alta materia, come la sua
_Comedia_ appare, si mosse piú tosto a scrivere in rittimi e nel
fiorentino idioma che in versi, come gli altri poeti giá fecero. Alla
quale si può cosí rispondere. Aveva Dante la sua opera cominciata per
versi in questa guisa:

    _Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
    spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
    pro meritis cuicumque suis,_ ecc.

Ma, veggendo egli li liberali studi del tutto essere abbandonati, e
massimamente da' prencipi, a' quali si soleano le poetiche opere
intitolare, e che soleano essere promotori di quelle; e, oltre a ciò,
veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solenni
poeti venute in non calere e quasi rifiutate da tutti, estimando non
dover meglio avvenir della sua, mutò consiglio e prese partito di
farla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni dei
prencipi odierni; e, lasciati stare i versi, ne' rittimi la fece che
noi veggiamo. Di che seguí un bene, che de' versi non sarebbe seguito:
che, senza tôr via lo esercitare degl'ingegni de' letterati, egli a'
non letterati diede alcuna cagion di studiare, e a sé acquistò in
brevissimo tempo grandissima fama, e maravigliosamente onorò il
fiorentino idioma.

Questo libro della _Comedia_, secondo che ragionano alcuni, intitolò
egli a tre solennissimi italiani: la prima parte di quello, cioè lo
_'Nferno_, ad Uguiccion della Faggiuola, il quale allora in Toscana
era signor di Pisa; la seconda, cioè il _Purgatorio_, al marchese
Moruello Malespina; la terza, cioè il _Paradiso_, a Federico terzo, re
di Cicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto a messer
Can della Scala; e io il credo piú tosto, per la maniera che tenne di
mandar prima a lui quello che composto avea che ad alcuno altro.



XXIV

ALTRE OPERE COMPOSTE DA DANTE


Compose ancora questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
imperadore un libro in latina prosa, nel quale, in tre libri distinto,
prova a bene esser del mondo dovere essere imperadore, e che Roma di
ragione il titolo dello imperio possiede, e ultimamente che l'autoritá
dello 'mperio procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti del
quale percioché usati furono in favore di Lodovico duca di Baviera
contro alla Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papa
ventiduesimo, da messer Beltrando cardinal dal Poggetto, allora per la
Chiesa di Roma legato in Lombardia, dannato sí come contenente cose
eretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun nol dovesse. E se
un valoroso cavaliere fiorentino, chiamato messer Pino della Tosa, e
messer Ostagio da Polenta, li quali amenduni appresso del legato eran
grandi, non avessero al furor del legato obviato, egli avrebbe nella
cittá di Bologna insieme col libro fatte ardere l'ossa di Dante[_a_].

Oltre a questi, compose il detto Dante egloghe assai belle, le quali
furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio.

Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre a
quelle che nella sua _Vita nuova_ si leggono.

E sopra tre delle dette canzoni, comeché intendimento avesse sopra
tutte di farlo, compose uno scritto in fiorentin volgare, il quale
nominò _Convivio_, assai bella e laudevole operetta.

[Footnote _a_: Se giustamente o non, Iddio il sa di vero. _Oltre a
questi_ ecc.]

Appresso, giá vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_; e comeché per
lo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo e
terminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
soprappreso, o che perduti sien gli altri, piú non appariscon che i
due primi.

In cosí fatte cose, quali di sopra narrate sono, consumò il
chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
amorosi sospiri, alle pietose lagrime, alle sollecitudini private e
publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
parte degli uomini usano oggi, cercando per qualunque via un medesimo
fine, cioè di divenir ricchi, quasi nelle ricchezze ogni bene, ogni
onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
d'un'ora separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
vituperevoli fatiche annullerá; e il tempo, nel quale ogni cosa si
suol consumare, o senza indugio recherá a niente la memoria del ricco,
o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Il che
del nostro poeta certo non avverrá; anzi, sí come noi veggiamo degli
strumenti bellici avvenir, che, usandogli, piú chiari diventano
ognora, cosí il suo nome, quanto piú sará stropicciato dal tempo,
tanto piú chiaro e piú lucente diventerá.



XXV

SPIEGAZIONE DEL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE


Mostrato è sommariamente qual fosser l'origine, gli studi e la vita e'
costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
donatore. Ma la mia fatica non è ancora al suo fine venuta,
rammemorandomi una particella nel processo promessa, cioè il sogno
della madre del nostro poeta, quando gravida era in lui, e il
significato di quello: nel quale se un pochetto mi stendessi, priego
pazientemente il sófferino i lettori.

Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella
gravidezza, della quale esso poi a debito tempo nacque, dormendo, le
parve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno altissimo alloro, allato
a una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale le
pareva il piú pascersi delle bache che dello alloro cadevano, e bere
disiderosamente dell'acqua di quella fontana; e da questo cibo
nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e divenisse pastore, e
nella vista grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle frondi di
quello alloro, le cui bache l'avean nutricato; e, sforzandosi d'aver
di quelle, avanti che ad esse giunto fosse, le pareva che egli
cadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di
lui le pareva vedere un bellissimo paone esser levato. Dalla qual
maraviglia la gentil donna commossa, senza piú avanti vedere, ruppe il
dolce sonno. Né tenne quello, che veduto aveva, nascoso, comeché,
recitatolo a molti, neuno ne fosse, che quello per quel comprendesse
che seguir ne dovea. Il che, poi che avvenuto è, piú leggiermente
conoscer si puote, sí come io appresso mi credo mostrare[_a_].

[Footnote _a_: Opinione è degli astrolagi e di molti filosofi
naturali, per la virtú e influenzia de' corpi superiori, gl'inferiori,
quali che essi si sieno, e producersi e nutricarsi, e ciascheduno,
secondo la qualitá della virtú infusa, essere piú utile ad alcuna o
alcune cose che al rimanente dell'altre: il che assai appare negli
uomini, se le loro attitudini guarderemo. Percioché noi tra molti ne
vedremo alcuno, che senza dottrina, senza maestro, senza alcuna
dimostrazione, sospinto solamente da uno istinto naturale, divenire
ottimo cantatore; e, se quanti fabbri furono mai gli fussono
d'intorno, non gli potrebbono insegnare tenere un martello in mano,
non che formare una spada; e, se pure, constretto, o per molta
consuetudine dell'arte fabbrile alcuna cosa imparasse o facesse, come
in suo arbitrio sará, al naturale suo intento, cioè al canto, si
tornerá, se da sé giá per forza della sua libertá non lasciasse il
canto, e al martello s'attenesse. Cosí alcuno altro nascerá a
disegnare e a intagliare sí disposto, che ogni piccola dimostrazione
il fará in ciò in brevissimo tempo sommo maestro, dove in qualunque
altra leggiera arte fia durissima cosa ad introdurlo. Che andrò io
della varietá delle singolari disposizioni degli uomini dicendo, se
non quello che il nostro poeta medesimo ne dice:

      Un ci nasce Solone, ed altro Xerse,
    altri Melchisedech, ed altri quello
    che, volando per l'aere, il figlio perse?

Appare adunque varie constellazioni a varie cose disporre gli ingegni
degli uomini; e però, considerato chi fu Dante e quale la sua
principale affezione, assai bene si conoscerá il cielo nella sua
nativitá essere disposto a dover producere un poeta. E, perché
l'alloro, come davanti avemo mostrato, è quello albero, le cui frondi
testimoniano nella coronazione la facoltá del poeta, meritamente
possiamo dire, l'alloro dalla donna veduto significare e la
disposizione del cielo nella nativitá futura di Dante, e la precipua
affezione e studio di colui che nascere dovea, sí come chiaramente
n'ha dimostrato quello che appresso la nativitá di Dante è seguito.
_L'essersi colui_, ecc.]

Possiamo adunque, riguardando, come di sopra è detto, l'alloro esser
de' poeti ornamento, per quello dalla donna veduto intendere la
disposizion celeste esser stata atta, nella concezion di Dante, a
dover producere un poeta.

L'essersi colui, che nato era, delle bache che dello alloro cadevano
nudrito, assai chiaramente dimostra quali dovevano essere gli studi di
Dante; percioché, sí come il corpo si nutrica e cresce del cibo, cosí
gl'ingegni degli uomini si nutricano e aumentano degli studi. E le
bache, che frutto son dell'alloro, non vogliono altro significare che
i frutti della poesia nati, li quali sono i libri da' poeti composti,
e da' quali Dante senza dubbio e nutricò e aumentò il suo ingegno.

Il chiarissimo fonte, del quale pareva alla donna che bevesse il suo
figliuolo, niuna altra cosa credo che voglia significare se non il
copioso e abbondantissimo seno della filosofia, del quale, ciò che
compor si vuole, è di necessitá che si prenda; e, sí come il poto è
ordinatore e disponitor nello stomaco del cibo preso, cosí la
filosofia, d'ogni cosa buona maestra verissima, con la sua dottrina è
ottima componitrice d'ogni cosa a debito fine. Nelle cui scuole, come
di sopra mostrammo, accioché sé e le sue invenzioni ordinare sapesse,
e intender compiutamente l'altrui, il nostro poeta bevve piú tempo
digestivo e salutevole beveraggio.

Appresso il parere pastor divenuto, la sublimitá del suo ingegno ne
mostra, per la quale in brieve tempo divenne tanto e tale, che non
solamente bastevole fu a governar sé, ma eziandio a mostrare agli
altri ingegni la sua dottrina. Sono, al mio giudicio, di pastori due
maniere: corporali e spirituali [_a_]. I corporali sono i pastor
silvani, li re e' padri delle famiglie; li spirituali

[Footnote _a_: Li corporali similmente sono di due qualitá, l'una
delle quali sono quegli che, per le selve e per gli prati, le pecore,
gli buoi e gli altri armenti pascendo menano; l'altra sono
gl'imperadori, i re, i padri delle famiglie, i quali con giustizia e
in pace hanno a conservare i popoli loro commessi, e a trovare onde
vengano a' tempi opportuni i cibi a' sudditi e a' figliuoli. Li
spirituali pastori similmente dire si possono di due maniere: delle
quali è l'una quella di coloro che pascono l'anime de' viventi di cibo
spirituale, cioè della parola di Dio, e questi sono i prelati, i
predicatori e i sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime
labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora;
l'altra è quella di coloro, li quali in alcuna scienzia ammaestrati
prima, poi ammaestrano altrui leggendo o componendo. E di questa
maniera di pastori vide la madre il suo figliuolo divenuto. Lo
sforzarsi ad aver delle frondi assai manifesto ne mostra essere il
desiderio della laureazione, peroché ogni fatica aspetta premio, e il
premio dello avere alcuna cosa poetica composta, è l'onore che per la
corona dello alloro si riceve. Ma séguita che cadere il vide, quando
piú a ciò si sforzava; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quel
cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire: il che a
lui avvenne quando giá avea finito quello per che meritamente la
laureazione gli seguiva. Seguentemente dicea che in luogo di lui vide
levarsi un paone; ove intender si dee che, dopo alla morte di
ciascuno, a servare il nome suo appo i futuri surgono l'opere sue. E
perciò in luogo d'Alessandro macedonico, di Iuda Maccabeo, di Scipione
Affricano, abbiamo le loro vittorie e l'altre magnifiche opere; in
luogo d'Aristotile, di Solone e di Virgilio, abbiamo i loro libri, le
loro composizioni, eterne conservatrici de' nomi e della presenzia
loro nel cospetto di que' che vivono; e cosí _in luogo di Dante_ ecc.]
sono i prelati e' sacerdoti e similmente i dottori, in qualunque
facultá de' quali il nostro Dante fu uno.

Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifestamente ne mostra
essere stato il disiderio della laureazione, nel quale mentre si
faticava cadde, cioè morí.

E vide la madre in luogo di lui levarsi un paone: per che intender si
dee che, dopo alla morte di ciascuno, a servare il nome suo appo i
futuri surgono l'opere sue. Laonde in luogo di Dante abbiamo la sua
_Comedia_, la quale ottimamente si può conformare ad un paone. Il
paone, secondo che comprendere si può, ha queste proprietá: che la sua
carne è odorifera e incorruttibile; la sua penna è angelica, e in
quella ha cento occhi; li suoi piedi sono sozzi, e tacita l'andatura;
e, oltre a ciò, ha sonora e orribile voce: le quali cose con la
_Comedia_ del nostro poeta ottimamente si convengono.

Dico adunque primieramente che, cercando in assai parti lo intrinseco
senso della _Comedia_, e in assai lo intrinseco e lo estrinseco, si
troverá essere semplice e immutabile veritá, non di gentilizio puzzo
spiacevole, ma odorifera di cristiana soavitá, e in niuna cosa dalla
religione di quella scordante.

Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella cento
occhi. Certo io non vidi mai alcuno angelo; ma, udendo che voli,
estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra questi
nostri uccelli piú bella né cosí peregrina, considerata la nobiltá di
loro, imagino che cosí la debbiano aver fatta, e però non da queste le
loro, ma queste da quelle dinomino; e intendo per quelle, delle quali
questo paon si cuopre, la bellezza della peregrina istoria che appare
nella lettera della _Comedia_; e il cambiare del color di quella,
secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna altra cosa esser
sento, se non la varietá de' sensi che a quella in una maniera e in
altra, leggendola, si posson dare. E i cento occhi, chi non intenderá
i cento canti di quella, ne' quali ella cosí è ordinata e distinta e
ornata, come ne' lor luoghi distinti mirabilmente gli occhi si veggono
nel paone?

Sono e al paone i piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose
ottimamente alla _Comedia_ del nostro autor si confanno; percioché, sí
come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, cosí _prima
facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura
composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale
ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto dell'alto e
maestrevole stilo letterale che usa ciascuno altro poeta, è senza
dubbio sozzo. L'andar quieto e tacito significa l'umiltá dello stilo,
il quale nelle comedie di necessitá si richiede, come color sanno che
intendon che vuol dir «comedia».

Ultimamente dico che la voce del paone è sonora e orribile; la quale,
comeché la soavitá delle parole del nostro poeta paia e sia molta,
nondimeno chi bene in alcune parti riguarderá, ottimamente conoscerá
confarsi con la voce della _Comedia_, e massimamente dove con
acerbissime invezioni grida ne' vizi d'alcuni, oppur, distesamente
procedendo, d'alcuni altri morde le colpe o gastiga i miseri
peccatori. E niuna è piú orrida voce di quella del gastigante, e
massimamente a colui che ha commesso o a colui che, a mandare i suoi
appetiti ad effetto, schifa l'ostacolo del riprensore. Per la qual
cosa e per l'altre di sopra mostrate assai appare, colui che fu,
vivendo, pastore, dopo la morte esser divenuto paone, sí come creder
si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla
cara madre[_a_].

[Footnote _a_: Questa esposizione del sogno della madre del nostro
poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per
piú cagioni. Primieramente, perché per avventura la sufficienzia, che
a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci
fosse, piú tosto altro luogo per sé richiedeva che questo, ad altra
materia congiunta; ultimamente, quando la sufficienzia ci fosse stata,
e la materia l'avesse patito, era ben fatto, piú che detto sia, non
essere detto da me, accioché ad altrui piú di me sufficiente e piú
vago di ciò alcun luogo si lasciasse di dire. _La mia picciola barca_,
ecc.]



XXVI

CONCLUSIONE


La mia picciola barca è pervenuta al porto, al quale ella drizzò la
proda partendosi dallo apposito lito; e, comeché il peleggio sia stato
piccolo e il mare basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza
impedimento è venuta, ne sono da render grazie a Colui che felice
vento ha prestato alle sue vele. Al Quale con quella umiltá e
divozione che io posso maggiore, non cosí grandi come si converrieno,
ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il nome suo.



III

COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»



PROEMIO


                                                                   [Lez. I]

«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá,
quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia,
nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunque
menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina
grazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderni
considerando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozione
a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra
operazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla
qual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo
quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del
prologo del suo _Timeo_, per sé dicendo: «_Nam cum omnibus mos sit et
quasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimis
aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nos
aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem
praestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevo
furore atque implacabili raptemur amentia?_». E, se Platone confessa
sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo
di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno
piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso molto
maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso
testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi
sotto il poetico velo della _Commedia_ del nostro Dante; e
massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá,
come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre
ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque,
accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimo
nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti
che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad
invocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi che
d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo,
poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi
che nel secondo del suo _Eneida_ scrive Virgilio:

    _Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,
    aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,
    da deinde auxilium, pater,_ ecc.

[Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne
presti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga,
estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglion
cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la
primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro;
la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di
filosofia sia il presente libro supposto.]

[Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la
efficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia,
cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima
cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro
quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni
sono, sí come manifestamente apparirá nel processo. È adunque il
suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte
de' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a
quello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggetto
secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio
meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire
obbligato. La causa formale è similmente doppia, percioch'egli è la
forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è
divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima
divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in
tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna
delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella
secondo la quale ciascun canto si divide in rittimi. La forma, o vero
il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e
transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo,
reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimo
autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso,
dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presente
opera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo stato
della miseria, allo stato della felicitá.]

[La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del
presente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la
_Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú
la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano
le cantiche della _Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino». La quale,
percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo di
questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche
della _Commedia_ di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare
dovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantiche
della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]

[Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli
scrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere di
doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo,
percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi
da tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio,
è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certe
dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá
di queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi
appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino
scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa,
volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa
qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se
medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí
come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi
d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è
consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per
che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quello
nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davanti
dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti
canti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé
contenente piú canti.]

[Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato
«commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche
narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira e
commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella
sola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal
convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramente
dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de'
comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autore
serva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi le
cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché
«commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da
«_comos,_», che in latino viene a dire «villa», e «_odos_», che viene
a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse
materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o
conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti e
costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose
narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone
eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e
virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli e
della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e
rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presente
opera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia,
nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato
e leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle
femmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il
peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e
piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar
latino che nel materno.]

[E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non
introducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie
persone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a
parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema
impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del
commedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé or
d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usano
comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema
assunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioni
infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno al
principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si
raccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque non
sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano:
la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i
peccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che
nella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è,
secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a
tutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie
«scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto
«scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie
persone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da
quelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma di
quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e
ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama
«canti» le parti della sua _Commedia_. E cosí, accioché fine pognamo
agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo
libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente
dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come
talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosaché
esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiami
commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia
commedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni
fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, lui
non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono,
ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato,
figurativamente parlando. Il tutto della commedia è (per quello che
per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può
comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno di
romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pace
e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro
presente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni
infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale
hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che
cosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.

[Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non
pure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi
sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi
non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «_Qui misere credit,
creditur esse miser_». E qual cosa è piú misera che credere al
patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'eretico
della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua
professione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e
gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da
prestare alle loro parole.]

[Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne
testimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra
cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni
infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della
qual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragioni
de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella
patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente
s'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso
si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere
appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere
stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e
geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato
ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita
filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene avere
saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimo
canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra
di quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi
voglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá essere
stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli
autori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi
princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta per
li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il
quale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu,
quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli,
datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo
«amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici,
a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura di
peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta
seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo
alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare
nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi,
e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali
in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi atti
scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime
laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna
riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etá
compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle sue
fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori
seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sí
come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá,
com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo
del _Paradiso_. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I
suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma,
percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello,
non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana
mente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole
testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata
nella sua _Commedia_ da lui recitata.]

[Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo
significato, il quale assai per se medesimo si dimostra; percioché
ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le
quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente
appellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nol
nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo
davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto
diletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevole
ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parve
eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta
sua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non
parve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parenti
gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono;
per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a due
eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle
quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale
carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di
purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee
credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme
questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A
confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte del
trentesimo canto del _Purgatorio_, nel quale essa, parlandogli, gli
dice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se
ella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbe
nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò,
soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá
registrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a tal
termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza
Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle
terrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominar
si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di
nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle
degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare
che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di
Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del _Paradiso_, lá dove
Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo
basti intorno al titolo avere scritto.]

[La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a
qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale,
secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica:
percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo,
non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion
dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]

[Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica
particolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello
_'Nferno_». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la
varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura
sopravverranno, il mio poco ingegno e la debolezza della mia memoria,
intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mi
venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá,
che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della
santa Chiesa me ne sommetto.]

[Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello
_'Nferno_»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el
n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso,
qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si
chiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il che
per molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per
Isaia, il quale dice: «_Dilatavit_ _infernus animam suam, et aperuit
os suum absque ullo termino_»; e Vergilio nel sesto dell'_Eneida_
dice: «_Inferni ianua regis_»; e Iob: «_In profundissimum infernum
descendet anima mea_». Per le quali autoritá appare essere inferno.]

[Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso
della Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamano
l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo
che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e
di peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «_Circumdederunt
me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me_»; e in altra
parte dice: «_Descendant in infernum viventes_»; quasi voglia dire
«nelle miserie della presente vita».]

[E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo
inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione,
dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essere
Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo
per lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare né
empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare
l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca;
volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze,
degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'esce
mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo
questo cane essere stato tratto da Ercule dello 'nferno, cioè questa
insaziabilitá de' disidèri terreni esser dal virtuoso uomo tratta
fuori del cuore di quel cotale virtuoso. Appresso dicono in questo
inferno essere Carone nocchiero e il fiume d'Acheronte: e per
Acheronte sentono la labile e flussa condizione delle cose disiderate
e la miseria di questo mondo; e per Carone intendono il tempo, il
quale per vari spazi le nostre volontá e le nostre speranze d'un
termine trasporta in un altro, o voglian dire che, secondo i vari
tempi, varie cose che muovono gli appetiti essere al cuore
trasportate. Dicono, oltre a ciò, sedere in questo inferno Minos, Eaco
e Radamanto, giudici e sentenziatori delle colpe dell'anime che in
quello inferno vanno; e a costoro questo uficio attribuiscono,
percioché grandissimi legisti furono e giusti uomini: per loro
intendendo la coscienza di ciascuno, la quale, sedendo nella nostra
mente, è prima e avveduta giudicatrice delle nostre operazioni, e di
quelle col morso suo ci affligge e tormenta. E appresso, a quali pene
ella condanna i peccatori, in alquanti tormentati disegnano.]

[Dicono quivi essere Tantalo, re di Frigia, il quale, percioché pose
il figliuolo per cibo davanti agl'iddii, in un fiume e tra grande
abbondanza di pomi, di fame e di sete morire; sentendo per costui la
qualitá dell'avaro, il quale, per non diminuire l'acquistato, non
ardisce toccarne, e cosí in cose assai patisce disagio, potendosene
adagiare. E senza fallo sono quello che Tantalo è interpretato secondo
Fulgezio, cioè «volente visione»; percioché gli avari alcuna cosa non
vogliono de' loro tesori se non vedergli.]

[Fingono ancora in quello essere Isione, il quale, percioché essendo,
secondo che alcuni vogliono, segretario di Giove e di Giunone,
richiese Giunone di voler giacer con lei; la quale in forma di sè gli
pose innanzi una nuvola, con la quale giacendo, d'essa ingenerò i
centauri; e Giove il dannò a questa pena in inferno, che egli fosse
legato con serpenti a' raggi d'una ruota, la quale mai non ristesse di
volgersi: volendo per questo che per Isione s'intendano coloro li
quali sono disiderosi di signoria, e per forza alcuna tirannia
occupano, la quale ha sembianza di regno, che per Giunone s'intende; e
di questa tirannia sopravvegnendo i sospetti, nascono i centauri, cioè
gli uomini dell'arme, co' quali i tiranni tengono le signorie contro
a' piaceri de' popoli: ed hanno i tiranni questa pena, che sono sempre
in revoluzioni; e, se non sono, par loro essere, con occulte
sollicitudini: le quali afflizioni per la ruota volubile e per le
serpi s'intendono.]

[Oltre a questi, vi discrivono Tizio: percioché disonestamente
richiese Latona, dicono lui da Apollo essere stato allo 'nferno
dannato a dovergli sempre essere il fegato beccato da avvoltoi, e
quello, come consumato è, rinascere intero; per costui sentendo quegli
che d'alto e splendido luogo sono gittati in basso stato, li quali
sempre sono infestati da mordacissimi pensieri, intenti come tornar
possano lá onde caduti sono; né prima dall'una sollicitudine sono
lasciati, che essi sono rientrati nell'altra; e cosí senza requie
s'affliggono.]

[Pongonvi ancora le figliuole di Danao, e dicono, per l'avere esse
uccisi i mariti, esser dannate ad empier d'acqua certi vasi senza
fondo; per la qual cosa, sempre attignendo, si faticano invano:
volendo per questo dimostrare la stoltizia delle femmine, le quali,
avendosi la ragion sottomessa (la quale dee essere lor capo e lor
guida, come è il marito) intendono con loro artifici far quello che
giudicano non aver fatto la natura, cioè, lisciandosi e dipignendosi,
farsi belle; di che segue le piú volte il contrario, e perciò è la lor
fatica perduta. O voglian dire sentirsi per queste la effeminata
sciocchezza di molti, li quali, mentre stimano con continuato coito
sodisfare all'altrui libidine, sé vòtano ed altrui non riempiono. Ma,
accioché io non vada per tutte le pene in quello discritte, che
sarebbono molte, dico che questo del superiore inferno sentirono i
poeti gentili.]

[Il secondo inferno, dissi, chiamavano mezzano, sentendo quello essere
vicino alla superficie della terra, il qual noi volgarmente chiamiamo
limbo, e la santa Scrittura talvolta il chiama il seno d'Abraam: e
questo vogliono esser separato da' luoghi penali, vogliendo in esso
essere istati i giusti antichi aspettanti la venuta di Cristo. E di
questo mostra il nostro autore sentire, dove pon quegli o che non
peccarono o che, bene adoperando, morirono senza battesimo. Ma questo
è differente da quello de' santi, in quanto quegli che v'erano,
disideravano e speravano, e venne la loro salute, e quegli, che
l'autor pone, disiderano, ma non isperano.]

[Estimarono ancora essere un inferno inferiore, e quello esser luogo
di pene eterne date a' dannati. E di questo dice il Vangelo: «_Mortuus
est dives, et sepultus est in inferno_». Ed il salmista: «_In inferno
autem quis confitebitur tibi?_». E che questo sia, si legge nel
Vangelio, in quella parte ove il ricco seppellito in inferno, vedendo
sopra sé Lazzaro nel grembo d'Abraam, il priega che intinga il dito
minimo nell'acqua, e gittandogliele in bocca, il rifrigeri alquanto. E
di questo inferno tratta similmente il nostro autore dal quinto canto
in giú.]

[Domandavasi appresso, dove sia l'entrata ad andare in questo inferno;
conciosiacosaché l'autore quella, nel principio del terzo canto,
scrivendo, dove ella sia in alcuna parte non mostra: della qual cosa
appo gli antichi non è una medesima oppenione. Omero, il quale pare
essere de' piú antichi poeti che di ciò menzione faccia, scrive nel
libro undicesimo della sua _Odissea_, Ulisse per mare essere stato
mandato da Circe in oceano per dovere in inferno discendere a sapere
da Tiresia tebano i suoi futuri accidenti; e quivi dice lui essere
pervenuto appo certi popoli, li quali chiama scizi, dove alcuna luce
di sole mai non appare, e quivi avere lo 'nferno trovato. Virgilio, il
quale in molte cose il séguita, in questo discorda da lui, scrivendo
nel sesto del suo _Eneida_ l'entrata dello 'nferno essere appo il lago
d'Averno tra la cittá di Pozzuolo e Baia, dicendo:

    _Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,
    scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris;
    quam super haud ullae poterant impune volantes
    tendere iter pennis: talis sese halitus atris
    faucibus effundens supera ad convexa ferebat:
    unde locum Graii dixerunt nomine Avernum,_ ecc.

E per questa spelunca scrive essere disceso Enea appresso la Sibilla
in inferno. Stazio, nel primo del suo _Thebaidos_, dice questo luogo
essere in una isola non guari lontana da quella estremitá d'Acaia, la
quale è piú propinqua all'isola di Creti, chiamata «_Traenaron_»: e di
quindi dice essere, a' tempi d'Edipo re di Tebe, d'inferno venuta nel
mondo Tesifone, pregata da lui a mettere discordia tra Etiocle e
Pollinice, suoi figliuoli, cosí scrivendo:

    ......._illa per umbras,
    et caligantes animarum examine campos
    Traenareae limen petit irremeabile portae,_ ecc.

E con costui mostra d'accordarsi Seneca tragedo, _in tragoedia
Herculis furentis_, dove dice Cerbero infernal cane essere stato
tratto d'inferno da Ercule e da Teseo per la spelunca di Trenaro,
dicendo cosí:

    _Postquam est ad oras Traenari ventum, et nitor
    percussit oculos lucis,_ ecc.

Pomponio Mela, nel primo libro della sua _Cosmografia_, dice questo
luogo essere appo i popoli, li quali abitano vicini all'entrata nel
mare maggiore, scrivendo in questa forma: «_In eo primum Mariatidinei
urbem habitant, ab Argivo, ut ferunt, Hercule datam, Heraclea
vocitatur. Id famae fidem adiecit: iuxta specus est Acherusia, ad
manes, ut aiunt, pervius; atque inde extractum Cerberum existimant_»,
ecc. Altri dicono di Mongibello, e di Vulcano e di simili, quello
affermando con favole non assai convenienti alle femminelle.]

[La forma di questo inferno, parlando di lui come di cosa materiale,
discrive l'autore essere a guisa d'un corno il quale diritto fosse, e
di questo fermarsi la punta in sul centro della terra, e la bocca di
sopra venire vicina alla superficie della terra; in quello,
aggirandosi l'uomo intorno al voto del corno a guisa che l'uomo fa in
queste scale ravvolte, che vulgarmente si chiamano «chiocciole»,
discendersi; benché in alcuna parte appaia questo luogo, se non quanto
allo spazio della via onde si scende, essere in parte cavernoso e in
parte solido: cavernoso, in quanto vi distingue luoghi, li quali
appella «cerchi», e ne' quali i miseri son puniti: e alcuna volta vi
discriva scogli e alcuni valichi e fiumi, li quali non potrebbono per
lo vacuo, per quello ordine che egli discrive, discendere.]

[Serve lo 'nferno alla divina giustizia, ricevendo l'anime de'
peccatori, le quali l'ira di Dio hanno meritata, e in sé gli tormenta
e affligge, secondo che hanno piú o meno peccato, essendo loro eterna
prigione.]

[Ultimamente si domandava se altri nomi avea che «inferno»; il quale
averne piú appo i poeti manifestamente appare. Virgilio, sí come nel
sesto dell'_Eneida_ si legge, il chiama Averno, dove dice:

    _Tros Anchisiades, facilis descensus Averni._

E nominasi questo luogo Averno, _ab «a», quod est «sine», «vernus»,
quod est «laetitia»_: cioè luogo «senza letizia». E in altra parte nel
preallegato libro il chiama Tartaro: quivi:

    ......._tum Tartarus ipse
    bis patet in praeceps_, ecc.

E questo nome è detto da «tortura», cioè da tormentamento, il quale i
miseri in questo ricevono; ed è, secondo Virgilio, questo la piú
profonda parte dello 'nferno. Chiamalo ancora Dite nel preallegato
libro, dove dice:

    _Perque domos Ditis vacuas, et inania regna._

Ed è cosí chiamato dal suo re, il quale da' poeti è chiamato Dite,
cioè ricco e abbondante; percioché in questo luogo grandissima
moltitudine d'anime discendono sempre. Nominalo similmente Orco nel
libro spesse volte allegato, dove scrive:

    _Vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci._

Ed è chiamato Orco, cioè oscuro, percioché è oscurissimo, come nel
processo apparirá. Oltre a questo l'appella Erebo nel giá detto libro,
dicendo:

    _Venimus, et magnos Erebi transnavimus amnes._

E però è chiamato Erebo, secondo che dice Uguccione, perché egli
s'accosta molto co' suoi supplici a coloro, li quali miseramente
riceve e in sé tiene. Ed è ancora chiamato questo luogo Baratro, come
appresso dice l'autore nel canto ventiduesimo di questa parte, dove
dice: «Cotal di quel baratro era la scesa». E chiamasi Baratro dalla
forma di un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore
ampio e nella inferiore angusto. Chiamalo ancora Abisso, sí come
nell'Apocalisse si legge ove dice: «_Bestia quae ascendet de abysso,
faciet adversus illos bellum_»; e in altra parte: «_Data est illi
clavis putei abyssi, et aperuit puteum abyssi_». Il qual nome
significa «profonditá». Hanne ancora il detto luogo alcuni, ma basti
al presente aver narrati questi.]

[Vedute le predette cose, avanti che all'ordine della lettura si
vegna, pare doversi rimuovere un dubbio, il quale spesse volte giá è
stato, e massimamente da litterati uomini, mosso, il quale è questo.
Dicono adunque questi cotali:--Secondo che ciascun ragiona, Dante fu
litteratissimo uomo, e se egli fu litterato, come si dispuose egli a
comporre tanta opera e cosí laudevole, come questa è, in volgare?--A'
quali mi pare si possa cosí rispondere: Certa cosa è che Dante fu
eruditissimo uomo, e massimamente in poesia, e disideroso di fama,
come generalmente siam tutti. Cominciò il presente libro in versi
latini, cosí:

    _Ultima regna canam fluido contermina mundo,
    spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
    pro meritis cuicumque suis,_ ecc.

E giá era alquanto proceduto avanti, quando gli parve da mutare stilo:
e il consiglio, che il mosse, fu manifestamente conoscere i liberali
studi e' filosofici essere del tutto abbandonati da' prencipi e da'
signori e dagli altri eccellenti uomini, li quali solevano onorare e
rendere famosi i poeti e le loro opere: e però, veggendo quasi
abbandonato Vergilio e gli altri, o essere nelle mani d'uomini plebei
e di bassa condizione, estimò cosí al suo lavorío dovere addivenire, e
per conseguente non seguirnegli quello per che alla fatica si
sommettea. Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno
nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali
se alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere, e esso sia in latino,
tantosto il fanno trasformare in volgare: donde prese argomento che,
se volgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbe
schifato. E perciò, lasciati i versi latini, in rittimi volgari
scrisse, come veggiamo. Questo soluto, ne resta venire ecc., _ut
supra_.]



CANTO PRIMO


I

SENSO LETTERALE


                                                                  [Lez. II]

[Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alle
divisioni. Dividesi adunque il presente volume in tre parti
principali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimo
l'ha diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo al
presente, si divide in due parti, in proemio e trattato. La seconda
comincia nel principio del secondo canto. La prima parte si divide in
due: nella prima discrive l'autore la sua ruina; nella seconda
dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda comincia
quivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco». Nella prima fa l'autore
tre cose: primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appresso
mostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo;
ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover di
quello luogo uscire: la seconda quivi: «Io non so ben ridir»; la terza
quivi: «Ed ecco quasi».]

[Dice adunque cosí: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad
evidenzia di questo principio è da sapere, la vita de' mortali è,
massimamente di quegli li quali a quel termine divengono, il quale
pare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque
alquanti, e pochi, piú ne vivano, e infinita moltitudine meno, sí come
per lo salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice:
«_Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in
ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et
amplius eorum, labor et dolor_»; e perciò colui il quale perviene a
trentacinque anni, si può dire essere nel mezzo della nostra vita. Ed
è figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremitá del quale infino
al mezzo si salga, e dal mezzo infino all'altra estremitá si discenda;
e questo è stimato, percioché infino all'etá di trentacinque anni, o
in quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel
termine passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare che
l'autore pervenuto fosse, quando prima s'accorse del suo errore. E che
egli fosse cosí, assai bene si verifica per quello che giá mi
ragionasse un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da
Ravenna, il quale fu uno de' piú intimi amici e servidori che Dante
avesse in Ravenna; affermandomi avere avuto da Dante, giacendo egli
nella infermitá della quale e' morí, lui avere di tanto trapassato il
cinquantesimosesto anno, quanto dal preterito maggio aveva infino a
quel dí. E assai ne consta Dante esser morto negli anni di Cristo
1321, dí 14 di settembre: per che, sottraendo ventuno di cinquantasei,
restano trentacinque; e cotanti anni avea nel 1300, quando mostra
d'avere la presente opera incominciata. Per che appare ottimamente la
sua etá esser discritta dicendo: «Nel mezzo del cammin», cioè dello
spazio, «di nostra vita», cioè di noi mortali. «Mi ritrovai», errando,
«per una selva oscura»; a differenza d'alcune selve, che sono
dilettevoli e luminose, come è la pineta di Chiassi. «Ché la diritta
via era smarrita». Vuole mostrare qui che di suo proponimento non era
entrato in questa selva, ma per ismarrimento.]

[«E quanto a dir», cioè a discrivere, «qual era», questa selva, «è
cosa dura», quasi voglia dire impossibile, «esta selva selvaggia e
aspra e forte». Pon qui tre condizioni di questa selva: dice prima che
ell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcuna
umana abitazione, e per conseguente essere orribile; dice appresso
ch'ella era «aspra», a dimostrare la qualitá degli alberi e de'
virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi e
ravvolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e similemente
piena di pruni, di tribuli e di stecchi, senza alcuno ordine
cresciuti, e in qua e in lá distesi: per le quali cose era aspra cosa
e malagevole ad andare per quella; e in quanto dice «forte», dichiara
lo 'mpedimento giá premostrato, vogliendo per l'asprezza di quelli,
essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuori
uscirne. E questo dice esser tanto, «Che nel pensier», cioè nella
rammemorazione d'esservi stato dentro, «rinnova la paura». Umano
costume è, tante volte da capo rimpaurire quante l'uom si ricorda de'
pericoli ne' quali l'uomo è stato.]

[«Tanto è amara», non al gusto ma alla sensibilitá umana, «che poco è
piú morte». Ed è la morte, secondo il filosofo, l'ultima delle cose
terribili, intanto che ciascuno animale naturalmente ad ogni estremo
pericolo si mette per fuggirla. Adunque, se la morte è poco piú amara
che quella selva, assai chiaro appare lei dovere essere molto amara,
cioè ispaventevole ed intricata: le quali cose prestano amaritudine
gravissima di mente. «Ma, per trattar del ben ch'io vi trovai».
Maravigliosa cosa pare quella che l'autore dice qui, e cioè che egli
alcun bene trovasse in una selva tanto orribile quanto egli ha
mostrato esser questa; e, percioché egli nella lettera non esprime
qual bene in quella trovasse, assai si può vedere questo bene trovato
da lui convenirsi trarre di sotto alla corteccia litterale; e perciò,
dove di questa parte apriremo l'allegoria, chiariremo quello che qui
voglia intendere. «Dirò dell'altre cose», cioè che non sono bene,
«ch'io v'ho scorte», cioè vedute; e questo altresí si conoscerá
nell'allegoria.]

[«I' non so ben ridir com'io v'entrai». In questa parte mostra
l'autore donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo,
e primieramente risponde a una tacita quistione. Potrebbe alcuno
domandare:--Se questa selva era cosí paurosa e amara cosa, come
v'entrastú entro?--A che egli risponde sé non saperlo, e assegna la
ragione, dicendo: «Sí era pien di sonno in su quel punto, Che la
verace via», la quale mi menava lá dove io dovea e volea andare,
«abbandonai».]

«Ma poi ch'i' fui», errando e cercando come di quella uscir potessi,
«appiè d'un colle giunto», cioè pervenuto, «Lá dove terminava»,
finiva, «quella valle», nella quale era questa selva oscura, «Che
m'avea di paura il cor compunto», cioè afflitto, «Guardai in alto e
vidi le sue spalle», cioè la sommitá quasi, sí come le spalle nostre
sono quasi la piú alta parte della persona nostra, «Coperte giá de'
raggi del pianeta», cioè del sole, il quale è l'uno de' sette pianeti.
E perciò dice del sole, percioché esso solo è di sua natura luminoso,
e ogni altro corpo che luce, o pianeto o stella o qualunque altro, ha
da questo la luce, sí come da fonte di quella, sí come per esperienza
si vede negli eclissi lunari; e questa luce ha solo, non per la sua
potenza, ma per singular dono del suo Creatore, e hanne in tanta
abbondanza, che ad ogni parte dintorno a sé manda infinita moltitudine
di raggi, per li quali, ovunque pervenir possano, si diffonde
copiosamente la luce sua; e questi raggi, sagliendo il sole dallo
inferiore emisperio al superiore, le prime parti che toccano del corpo
della terra, alla quale, sagliendo il sole, pervengono, sono le
sommitá de' monti. Per la qual cosa appare qui che il giorno
cominciava ad apparire, quando l'autore cominciò ad avvedersi dove
era, ed a volere di quel luogo uscire; e di potere ciò fare gli venne
speranza, rammemorandosi che la luce di questo pianeto «mena diritto
altrui per ogni calle», cioè per ogni via, in quanto, essendo il sole
sopra la terra, vede l'uomo dov'e' si va, e ancora con miglior
giudicio si dirizza lá dove andar vuole, mediante la luce di costui.

E, per questa speranza presa, dice: «Allor fu la paura un poco queta»,
cioè meno infesta, «Che nel lago del cuor». È nel cuore una parte
concava, sempre abbondante di sangue, [nel quale, secondo l'oppinione
di alcuni, abitano li spiriti vitali], e di quella, sí come di fonte
perpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per
tutto il corpo si spande; ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra
passione: e perciò dice che in quella gli era perseverata la passione
della paura avuta. E perciò dice: «m'era durata, La notte ch'i' passai
con tanta pièta», cioè con tanta afflizione, sí per la diritta via la
quale smarrita avea, e sí per lo non vedere, per le tenebre della
notte, donde né come egli si potesse alla diritta via ritornare.

«E qual è quei, che con lena», cioè virtú, «affannata», affaticata.
«Uscito fuor del pelago alla riva»: come colui il quale rompe in mare,
che, dopo molto notare, faticato e vinto perviene alla riva, e
«Volgesi all'acqua perigliosa», della quale è uscito, «e guata»; e in
quel guatare, cognosce molto meglio il pericolo del quale è scampato,
che esso non cognosceva, mentre che in esso era, percioché allora,
spronandolo la paura del perire, a null'altra cosa aveva l'animo che
solo allo scampare; ma, scampato, con piú riposato giudicio vede
quante cose poteano la sua salute impedire e, quasi in esso fosse,
molto piú teme, che non facea quando v'era: e però séguita adattando
sé alla comparazione: «Cosí l'animo mio, ch'ancor fuggiva», cioè che
ancora scampato esser non gli parea, ma come se nel pericolo fosse
ancora, di fuggire si sforzava; e, cosí parendogli, «Si volse
indietro», come fa colui che notando è pervenuto alla riva, «a rimirar
lo passo», pericoloso della oscura selva, «Che non lasciò giammai»
uscire di sé «persona viva». Questa parola non si vuole strettamente
intendere [esser viva], percioché qui usa l'autore una figura che si
chiama «iperbole», per la quale non solamente alcuna volta si dice il
vero, ma si trapassa oltre al vero: come fa Vergilio, che, per
manifestare la leggerezza della Cammilla, dice ch'ella sarebbe corsa
sopra l'onde del mare turbato, e non s'arebbe immollate le piante de'
piedi. E perciò si vuole intender qui sanamente l'autore, cioè che di
quello pericoloso passo pochi ne sieno usciti vivi; percioché, se
alcuno non avesse vivo lasciato giammai, l'autore, che dice sé esserne
uscito, come sarebbe vivo?

«E poi ch'ebbi posato il corpo lasso», per la fatica sostenuta,
«Ripresi via per la piaggia diserta»; e cosí mostra avere abbandonata
la valle per dover salire al monte, cioè in sí fatta maniera andando,
«Sí che 'l piè fermo sempre era il piú basso». [Mostra l'usato costume
di coloro che salgono, che sempre si ferman piú in su quel piè che piú
basso rimane.]

«Ed ecco, quasi al cominciar dell'erta». In questa terza parte
dimostra l'autore qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dovere di
quel luogo uscire, e dice ciò essere stato tre bestie, per la fierezza
delle quali, non che salir piú avanti, ma egli fu per tornare indietro
nel pericolo del quale era incominciato ad uscire. Dice adunque: «Ed
ecco quasi al cominciar dell'erta», cioè della costa, su per la quale
salir dovea per partirsi della pericolosa valle, «Una lonza leggera e
presta molto, Che di pel maculato era coperta».

Poi, discritta la forma della bestia, dice: «E non mi si partía
dinanzi al volto». Appresso dice che questo stargli sempre davanti,
che essa «impediva tanto il mio cammino», per lo quale al monte salir
volea, «Ch'i' fui per ritornar», nella valle, «piú volte vòlto».

«Temp'era dal principio». Discrive qui l'autore l'ora che era del dí,
quando egli era da questa bestia impedito, e la qualitá della stagione
dell'anno; e quanto a l'ora del dí, dice ch'era principio «del
mattino»: il che assai appare per li raggi del sole, li quali ancora
non si vedeano se non nella sommitá del monte. «E 'l sol montava 'n
su», cioè sopra l'orizzonte orientale di quella regione, vegnendo
dallo emisperio inferiore al superiore; «con quelle stelle», in
compagnia, «Ch'eran con lui, quando l'Amor divino», cioè lo Spirito
santo, «Mosse da prima», cioè nel principio del mondo, «quelle cose
belle», cioè il cielo e le stelle. Dimostra qui l'autore per una bella
e leggiadra discrizione la qualitá della stagione dell'anno. Ad
evidenzia della quale è da sapere che gli antichi filosofi caldei, e
appresso loro gli egizi, furono li primi che per considerazione
conobbero il movimento dell'ottava sfera e de' pianeti, e similmente
quello che per gli movimenti de' corpi superiori negl'inferiori ne
seguiva; e per lunghe esperienzie avvedendosi che, essendo il sole in
diverse parti del cielo, evidentemente quaggiú si permutavano le
qualitá dell'anno, e queste qualitá essere quattro, cioè quelle che
noi primavera, state, autunno e verno chiamiamo; intesa giá qual fosse
nel cielo la via del sole, quella, secondo il numero di queste,
divisero in quattro parti eguali. E poi, perché sentirono ciascuna di
queste parti avere i principi differenti dalle fini, e 'l mezzo
sentire della natura del principio e della fine; ciascuna di queste
quattro parti divisero in tre parti equali; e cosí fu da loro la via
del sole divisa in dodici parti equali, e quelle chiamaron «segni». E,
accioché l'uno si cognoscesse dall'altro, immaginando figurarono in
ciascuna parte alcun animale [ornato di certa quantitá di stelle,
ingegnandosi di figurare, in quelle, animali], la natura del quale
fosse conforme agli effetti di quella parte, nella quale con la
immaginazione il figuravano. E, percioché la prima qualitá dell'anno
estimarono essere la primavera, quella vollero fosse il principio
dell'anno; e cosí quella parte del cielo, nella quale essendo il sole
questa primavera veniva, vollero che fosse la prima parte della via
del sole, e quivi figurarono un segno, il quale noi chiamiamo Ariete;
nel principio del quale affermano alcuni Nostro Signore aver creato e
posto il corpo del sole. E perciò, volendo l'autore dimostrare per
questa discrizione il principio della primavera, dice che il sole
saliva su dallo emisperio inferiore al superiore, con quelle stelle le
quali eran con lui, quando il divino Amore lui e l'altre cose belle
creò, e diede loro il movimento, il qual sempre poi continuato hanno;
volendo per questo darne ad intendere che, quando da prima pose la
mano alla presente opera, è circa al principio della primavera; e cosí
fu, sí come appresso apparirá. [Egli nella presente fantasia entrò a
dí 25 di marzo.]

«Sí ch'a bene sperar». Questa lettera si vuole cosí ordinare: «L'ora
del tempo e la dolce stagione m'era cagione a sperar bene di quella
fiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fiera
la gaetta pelle», si vuole ordinare cosí: «m'era cagione a sperar bene
la gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due lettere si
può sostenere, percioché sentenzia quasi non se ne muta. Reassumendo
adunque la lettera come giace nel testo, dice: «Sí che a bene sperar
m'era cagione Di quella fiera», cioè di quella lonza, «alla gaetta
pelle», cioè leggiadretta, percioché pulita molto è la pelle della
lonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di bene sperar»
di dovere ottenere la pelle di quella fiera (la quale esso intendea di
prendere, se potuto avesse, con una corda la quale cinta avea, secondo
che esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto sedicesimo,
dove scrive: «Io aveva una corda intorno cinta, E con essa pensai,
alcuna volta, Prender la lonza alla pelle dipinta») «L'ora del tempo»,
cioè il principio del dí, «e la dolce stagione», cioè la primavera.

Ma puossi qui domandare: che speranza poteva qui porgere di vittoria
sopra la lonza l'ora del mattino e la stagion della primavera?
Conciosiacosaché in questi due tempi soglia piú di ferocitá essere
negli animali, percioché l'ora del mattino gli suole generalmente
tutti rendere affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del
tempo gli soglia render innamorati piú che alcun altra stagion del
tempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per
venere, esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua
natura lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che si
conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí
rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali
bruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescere
il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire le
tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura,
nel tempo lucido veggono come possano l'arti del loro ingegno usare a
vincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti fuggire. E
il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla
compression sanguinea, e però in quella il sangue è piú chiaro, piú
caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci per
avventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.

«Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura non
mi desse La vista», cioè la veduta, «che m'apparve», appresso la
lonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me venesse» (e cosí
appare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo
cammino di salire al monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto si
mostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamente
da temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer ne
temesse», in quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone,
indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo mostrava,
impropriamente parlando, di aver paura di lui.

«Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salire
impediva) «che di tutte brame Pareva carca nella sua magrezza». Brama
è propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché oltremodo
pieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la
magrezza sua, della quale noi prosumiamo quello animale, in cui la
veggiamo, esser male stato pasciuto, e per conseguente magro e indi
bramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose.
«Questa» lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura
ch'uscía di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ella
porgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè di
poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea
veduti i raggi del sole.

«E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione ne
dimostra l'autore qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questa
bestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o altro, «che
volentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder lo
face», qual che sia la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne'
quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange e s'attrista;
Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual dice
esser animale senza pace, percioché la notte e 'l dí sempre sta
attenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che venendomi
incontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire,
«a poco a poco», tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il sol
tace», cioè nella oscura selva, della quale io era uscito. Ed è
questo, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usa
l'autore pur qui, ma ancora in altre parti in questa opera, sí come
nel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni luce muto».
Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcuno
luogo, de' quai dice qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo è
muto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser muto,
propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea un
dimonio addosso, e quello era muto): ma questo modo di parlare si
scusa per una figura, la qual si chiama «acirologia». Vuole adunque
dir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, il
ripignea lá dove il sol non luce, cioè in quella oscuritá, la quale
egli disiderava di fuggire.

«Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava la
seconda parte di questo canto, nella quale l'autor dimostra il
soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questa
parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio
quivi apparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senza
nominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è; poi l'autore,
estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare la
benivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò,
Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di
lei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autore
priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente,
movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed
egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta
quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui:--Poeta»; la
sesta quivi: «Allor si mosse».

Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «in
basso loco», cioè nella valle della quale era cominciato a partire,
«Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio parea
fioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí
rasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che le
parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in
quella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungo
silenzio, per alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tanta
umiditá viscosa in questa via, che similemente rende l'uomo meno
espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non
è. [Ma non credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, per
difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere intralasciati
giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta o
divenuta piú oscura che esser non solea.]

[«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran
diserto», cioè per quella tenebrosa valle, meritamente chiamata
dall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e priva
di luce; «-Miserere di me--gridai a lui». Sí come molte volte
gl'impauriti e sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto caso
soccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribile
bestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui
gridando:--Abbi misericordia di me,--quasi dicendo:--Aiutami,--come
piú innanzi si dichiarerá.]

«--Qual che tu sii, od ombra od uomo certo».--Non conosceva quivi
l'autore, per lo impedimento della paura, se costui, che apparito gli
era, era piú tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questo
parlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo
de' poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si
possono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che alcun corpo faccia. E,
percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, e
come l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che
ella abbia, quando talvolta n'appaiono, si tratterá, sí come in luogo
ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del _Purgatorio_, non curo
qui di farne piú luogo sermone.

«Risposemi:--Non uom». In questa seconda particella si dimostra chi
costui fosse che apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose
spettanti al domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare che
l'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'uno
dall'altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'anima
per sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé essere spirito giá
stato congiunto con corpo.

«E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima
si manifesta dalla regione nella quale nacque, in quanto dice, «furon
lombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgilio
lutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporre
diversi vasi di terra; e la madre di lui, secondo che dice Servio
_Sopra l'«Eneida»_, quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunque
che costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia
situata tra 'l monte Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avanti
che Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia, da' galli che quella
occuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse,
quella parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che
seguirono Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagione
perché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isola
di Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano,
chiamati dalle barbe grandi e da' capegli, li quali s'intorcevano
davanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo
lunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in
Ungheria, e in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a'
tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui un
suo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di
Sofia, moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che
richiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue,
sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe
venuto, percioché egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbe
di tessere in vita sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, con
una solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale
allora era re de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoi
popoli venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano.
Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete,
lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari,
in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e grandi, ne
venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tutto
il paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominarono
Lombardia, il qual nome infino a' nostri dí persevera.

«Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma,
percioché d'essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente,
qui non curo di piú scriverne.

«Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi
egli fosse dal tempo della sua nativitá. E' pare che l'autore voglia
lui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, la
qual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine della
dettatura di Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto
come fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, in
libro _De temporibus_, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperio
d'Ottaviano Cesare...[1], che fu avanti la nativitá di Cristo da
quattordici o quindici anni; e il predetto Eusebio scrive, nel detto
libro, della sua nativitá cosí: «_Virgilius Maro in vico Andes, haud
longe a Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus_»; il quale anno fu
avanti che Giulio Cesare occupasse la dettatura (la qual tenne quattro
anni e parte del quinto) bene venti anni.

«E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno
disposto e acuto agli studi, primieramente studiò a Cremona, e di
quindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e, avendo lo
'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto
d'Ottaviano accetti, se n'andò a Napoli, e quivi si crede sotto
Cornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sí
come egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo prima
composto la _Buccolica_, e racquistato per opera d'Ottaviano i campi
paterni, li quali a Mantova erano stati conceduti ad un centurione
chiamato Arrio, compose la _Georgica_. Poi, sí come Macrobio in libro
_Saturnaliorum_ scrive, mostra mentre che scrisse l'_Eneida_ si stesse
in villa: il dove non dice, ma, per quello che delle sue ossa fece
Ottaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, e
prossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [E
portò tanto amore a quella cittá che, essendo solennissimo astrolago,
vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia; percioché,
essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche,
di zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta
costellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quella
parte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano,
mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano.
Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far sano ogni

[Footnote 1: In bianco nei codd. [Ed.].] cavallo che avesse i dolori,
o altra naturale infermitá, avendo tre volte menatolo d'intorno a
questo. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, delle
quali l'una piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la quale
si chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato della porta, e l'altra
dall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua
vicenda a Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se egli
passava dalla parte della porta dove era posta quella che piagnea, mai
non potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure il
recava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava
dall'altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava la
bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che egli
talvolta vi usasse, questo è credibile.

«Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per
nazione della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri,
d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; il
quale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento gli
lasciò questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti
tutti coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, e
finite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e
molte nazioni aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti
ambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da' romani
conosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e,
oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e ad
Antonio; parendo a' romani questo essere maravigliosa cosa, il
vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosa
egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo della
republica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo cognominare
Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu cognominato
Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questo
libro si fa di lui menzione, per questa credo assai sia detto.
Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché, quantunque crudel
giovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe e
buono per la republica.

«Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii,
«_quia dii gentium daemonia_»: «bugiardi» gli chiama, percioché il
demonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è padre di menzogna.

                                                                 [Lez. III]

 «Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta»
piú all'autore; [intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciuto
da pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere donde
avesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, e
che onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da
invidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta»
venire da un verbo detto «_poio pois_», il quale, secondo che li
grammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto «_fingo fingis_»: il qual
«_fingo_» ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre»,
per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque
che dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che dal
detto verbo «_poio_» viene questo nome «poeta»; e percioché quello
suona «_poio_» che «_fingo_», lasciati stare gli altri significati di
«_fingo_», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire»,
conchiudendo, vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesima
cosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto
possono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di
sterminargli del mondo, nel cospetto del non intendente vulgo
gridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati delle
cittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damaso
papa _De filio prodigo_ questa parola: «_Carmina poëtarum sunt
cibus daemoniorum_»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita fronte
contra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomenti
le parole della Filosofia a Boezio, dove dice:--«_Quis--inquit--has
scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores
eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent
venenis?_»--E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a
nemici della repubblica, contro ad essi l'oppongono.]

[Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima
parte, cioè donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza
della qual cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messer
Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa,
gli antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo e
mutamento appo noi de' tempi dell'anno, e per altri assai evidenti
argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con
perpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e tra
loro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e sacrifici;
estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questi
sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, e
ancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non esser
degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi, l'uno
amico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo:
costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano,
queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono; e, per
farle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini,
artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle si
contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa
notizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli
sotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi greci
fu appellato «_poetes_»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisito
parlare»; e da «_poetes_» venne il nome del «poeta», il qual nulla
altra cosa suona che «esquisito parlatore». E quegli, che prima
trovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perché
ne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati non
solamente «poeti», ma «teologi»; e per le opere di costoro dice
Aristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E, se bene
si riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlare
differenti da' profeti, ne' quali leggiamo, sotto velamento di parole
nella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divina
potenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero
che si legge, il quale credo tutto esser vero, sí come da verace
dettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza
d'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i
loro errori estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Ma
i poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto il
loro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove
fingessero cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qual
cosa assai bene si può cognoscere per la _Buccolica_ del mio
eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá e
aprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione, troverá sotto
alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti; e
similmente nella presente opera, sí come io spero che nel processo
apparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere mentitori, come
gl'invidiosi e ignoranti li fanno.]

[Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assai
chiaro si può comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso
e ornato parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti si
troverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto,
è da intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione di
quegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna notizia
fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nelle
sue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimava
esser vere; percioché, se altro che quello, che vero avesse istimato,
avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]

[E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, ma
eziandio esaltatori dell'opere de' valorosi uomini, per li quali li
stati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre a
ciò, quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente
furono grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de' vizi:
estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i
principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo
la vittoria d'alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcun
singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che,
come l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da
conservare la lor fama. Le fatiche de' quali, se molto laudevoli non
fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo
apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse
quella ad un poeta conceduta, ch'egli concedette ad Affricano, a
Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni uomini:
la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno
avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire:--Noi
gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali sono da
schifare sí come erronee;--direi che da tollerar fosse, se Platone,
Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai,
cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente schifati; il che
non avvenendo, non si può forse altro dire se non che singular
malivolenzia il faccia fare.]

[Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte
contro a' poeti.]

[Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono da
esser cacciati delle cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. La
qual cosa negare non si può che Plato nel libro della sua _Republica_
non lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno
loro queste cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, e
avanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di
poeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore del
popolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri
e altre disoneste cose, state perpetrate dagli uomini, li quali la
stoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; e
queste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola
casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando
dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine,
della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio
di udire, quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedo
procedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni,
chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli atti
degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal commedo in
quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone, gli atti delle
quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonesti
che fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E, percioché
spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i commedi recitavano,
di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle
femmine, riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che i
buon costumi e le menti sane si corrompevano, e ad ogni disonestá
discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone, considerando,
se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e
meritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle cittá. Non
adunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle sentimento, che creda
che Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale è
dalle leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nello
estremo de' suoi dí, ogni altro studio lasciato, ferventissimamente
studiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente lo
scapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero i
costumi de' romani, giá cominciati a divenire grandi. Chi crederá
ch'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimi
riprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato il
venerabile mio maestro messer Francesco Petrarca, la cui vita e i cui
costumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro autore, la
cui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti
cacciasse, cui riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo
Evergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questa
obbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli
sí gran calca fatta da' poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omero
abitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come detto è,
in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogni
usanza d'uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo si
troverá di molti altri.]

[Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «_Daemonum
cibus sunt carmina poëtarum_». Le quali parole senza alcun dubbio son
vere. Ma chi avesse in questa medesima pístola letto, avrebbe potuto
vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nella
figura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de'
giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti giú i
vestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelita
per via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo la
figura intesa, avrebbero quelle parole contro a' poeti allegate. E,
accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la figura
posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Dio
dice dover fare, se non, una purgazione del paganesimo o d'altra setta
fatta, potere qualunque femmina nel matrimonio venir de' giudei: e
cosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare i
versi de' poeti non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da'
fedeli cristiani usare. E questa purgazione per la grazia di Dio si
può dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da san
Silvestro, diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitá
e sollecitudine dei papi e degli altri ecclesiastici pastori,
scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, par
questa poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli e
laudevoli rimasi, congiugnere con ogni cristiano.]

[Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predetta
pistola attende molto) che il prete o il monaco, o qual altro
religioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviario
posporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divino
oficio detto, non è peccare in Spirito santo il vedere gli onesti
versi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piú
religiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi
ritroverebbero questo cibo, il quale dicono de' demòni, non solamente
non essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per
avventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattato
e gustato da Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come appare
in quello libro, il quale esso appella delle _Mitologiae_, da lui con
elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. E
similmente troverebbono sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avere
avuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con solerte
vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcun
volesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo santo
uomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né quasi mai
nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]

[Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo,
maravigliosamente ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignoranti
si sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi non intendono, con
tanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, che
quasi paia nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro
fermata. E, se essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoi
libri, il prologo del libro il quale egli chiama _Hebraicarum
quaestionum_, e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se
esso spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio e
Orazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti.
Leggano, oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta a
sant'Agostino, e cerchino se in essa l'ammaestrato uomo pone i poeti
nel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di
confondere.]

[Appresso, se essi nol sanno, leggano negli _Atti degli apostoli_ e
troveranno se Paolo, vaso d'elezione, studiò i versi poetici, e quegli
conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in fastidio,
disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi,
d'usare la testimonianza de' poeti; e in altra parte avere usato il
testimonio di Menandro comico poeta, quando disse: «_Corrumpunt mores
bonos colloquia mala_». E similmente, se io bene mi ricordo, egli
allega un verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente si
potrebbe dire contro a questi sprezzatori de' poeti, quando dice:
«_Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri_». E cosí
colui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello,
che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato o
abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre a
tutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita,
discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro il
quale compose _Della celeste gerarchia_. Esso dice e proseguita e
pruova la divina teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intra
l'altre cose cosí: «_Etenim valde artificialiter theologia poëticis
sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram,
ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturali
reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctas
Scripturas_»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma
seguitano. E ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li quali
io potrei inducere incontro a questi nemici del poetico nome, non esso
medesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica
dottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parte
allo stilo comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla
sua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «_Durum est tibi
contra stimulum calcitrare_»? Ma sia di lungi da me che io creda
Cristo queste parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzio
prendesse. Assai mi basta a confermare la mia intenzione, il nostro
Signore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenzia
prolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia che del
tutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che adunque diranno
questi li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare il
nome poetico? Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamente
dannare, se non che co' versi poetici non si guadagnan danari, che
credo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nel
petto, perché a' loro desidèri non sono conformi.]

[Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in gran
parte deono esser rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza di
Platone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbia
cacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e
disoneste, e i conforti delle quali conducono chi l'ascolta, non a
sanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chi
reca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcun
dubbio vero la filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienze
e di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giaceva
della mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto
ricevuto, egli, sí come impaziente, avendo per quello cacciata da sé
ogni conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovare
i rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortuni
della presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non
liberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguente
mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave
operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla
filosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare il
passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi
dolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa
proceduto; e, peroché questo è esercizio de' comici di sopra detti (a
fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti,
chiama la Filosofia queste muse «_meretriculae scenicae_», non perché
ella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con questo
vocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le induce.
Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se il
fabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s'uccidono gli
uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi abile a
ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E
che le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudicio
dell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra la
Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato,
quando dice:--Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, e
lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla onestá e alla
integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli
mostrerò la veritá, la quale egli al presente non conosce, sí come
uomo passionato e afflitto.--Nelle quali parole si può comprendere non
essere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comici
disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitá
l'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare. Non adunque nel
disonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia
«meretricule», sono vituperate le muse, ma coloro che in disonesto
esercizio l'adoperano.]

[Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché in
altra parte piú distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo
averne detto al presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fu
adunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le
sue opere e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]

                                                                  [Lez. IV]

«E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»;
e la ragione in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché
«cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si puote
aggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non meno
esser mossa la ragione perché «cantare» si dicono i versi poetici, che
da quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e' nobili giovani
greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e
questi loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano
li lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono,
anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli
operazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere
nella fine del primo dell'_Eneida_ di Virgilio, dove, dopo la notabile
cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli
errori del sole e della luna, e la prima generazione degli uomini e
degli altri animali, e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco,
e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i
poetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sé
composte dice «cantai». Il qual non solamente compuose l'_Eneida_, ma
molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'_Ostirina_,
l'_Ethna_, il _Culice_, la _Priapea_, il _Cathalecthon_, le _Dire_,
gli _Epigrammati_, la _Copa_, il _Moreto_ e altri; ma sopra tutti fu
l'_Eneida_, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi da
Napoli, e andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il
detto _Eneida_, quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè a
Tucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti
la tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo
a Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca e
Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato
composto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienza
d'Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio,
ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma il
correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non
v'aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre,
potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare le
sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettato
di vivere, il fece seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli,
lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché esso quivi giacesse
morto, dove gli era dilettato di vivere.]

«Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilio
nel primo dell'_Eneida_ fa ad Ilioneo dire alla reina Dido queste
parole:

    _Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
    nec pietate fuit, nec bello maior et armis,_

nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della
schiatta de' re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco,
figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice, «che venne da
Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto,
alla quale è di ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, da
levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí dinominata da
Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fu
una cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittá
reale, e quella, secondo che Pomponio Mela scrive nel primo della sua
_Cosmografia_, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsa
e disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamo
e de' suoi predecessori.

E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore,
dicendo:--«Ma tu perché ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella
selva, della quale partito ti se';--e quinci segue e fanne
un'altra:--«Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio e
cagion di tutta gioia?».--

Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questa
seconda, nella qual dissi che con ammirazion l'autore rispondeva, e,
col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua benivolenza. E,
rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte
non sale, e il suo aiuto addimanda, e dice:--«Or se' tu quel Virgilio
e quella fonte, Che spande di parlar sí largo fiume?».--Commendalo qui
l'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendo
simigliante ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte».
Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo veduto in sí miserabile
luogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte del
viso prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si
può prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per la
fronte.--«O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio
è tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere di
Virgilio a' poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, il
quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce
dirizza i passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo.
«Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l'autore ha
poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo
bisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li quali
estima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice:
«Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'avere
l'opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'l
grande amore». E per questo intende mostrare un atto caritativo, che
fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,
averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'ha
fatto cercare il tuo volume», l'_Eneida_.

«Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio
chiamandolo «maestro», «e 'l mio autore». In altra parte si legge
«signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi,
vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore
aiutare. «Tu se' solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bello
stilo», del trattato, e massimamente dello _'Nferno_, «che m'ha fatto
onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendo
solecismo.

«Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto,
«per cui io mi volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui gli
risponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutami
da lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui
veramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suo
segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso
diventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano le
vene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avviene
quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae a
lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corpo
rimane vacuo di sangue, e freddo e palido.

--«A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa
l'autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della natura
di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli dimostra
Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa di
quello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuo
me'». Dice dunque:--«A te convien tenere altro viaggio», che quello il
quale di tenere ti sforzi,--«rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mi
vide,--Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio»,
come di sopra è dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagione
perché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quella
bestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandando
misericordia, «Non lascia altrui passar per la sua via», non della
lupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in una
maniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «natura
sí malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare,
«Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per queste
parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere
nell'autore, dicendo:--Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia la
fame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno animale e
pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero;--il qual
avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame che
pria».

«Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne.
Questo è fuori dell'uso della natura di qualunque animale,
congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma con alcuno assai
bestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa col
leopardo e la lupa col cane. E questo non è da dubitare che l'autore
non sapesse; per che, avendol posto, assai bene possiam comprendere
l'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona la
lettera, e cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa in
inferno: la sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «E
piú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá».
È il veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de'
quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará morir
con doglia».

«Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né
peltro». Peltro è una spezie vile di metallo composta d'altri. «Ma
sapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de' cani;
e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica
la lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro
vilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.

«Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama
«ironia», per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di
dimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto 'l dí
usiamo, dicendo d'un pessimo uomo:--Or questi è il buono uomo;--d'un
traditore:--Questi è il leale uomo;--e simili cose. Dice adunque: «Di
quella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È Italia una gran
provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di
Dardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto),
terminata dall'Alpi e dal mare Tirreno e dall'Adriano, contenente in
sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte di
questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «la
vergine Camilla».

Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimo
dell'_Eneida_, figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua
moglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre,
piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era
nel nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La
quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de'
privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non
avendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questa
piccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai privernati
seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale si
chiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciuto
molto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se notando il
volea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questa
fanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare di
lá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che, legatola e
dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a lei
botandola, se ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiume
ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e dall'altra parte
trovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa in
certe selve vicine, allevò questa sua figliuola alle poppe d'una
cavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una faretra alle
spalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettare
e gittar le pietre con la rombola, e correr dietro agli animali [e i
suoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi. Ne' quali
esercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu in
correre di tanta velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciasse
dietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio, iperbolicamente
parlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senza
immollarsi le piante de' piedi. Costei da molti nobili uomini
addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne volle udire, ma,
virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali era
stata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regno
paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di Turno con Enea, da
Turno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; dove
un dí, fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'una
saetta nella poppa da uno che avea nome Arruns; della qual fedita essa
morí incontanente.

«Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani
troiani, li quali in Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insieme
con Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del campo d'Enea, il
quale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popoli
circunvicini, avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose
Ascanio, per téma di non poter sofferire la forza di Turno, di far
sentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché di
tornare in soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fare
Niso si profferse, e ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo;
percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un
garzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí
fare che Eurialo nol sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialo
andasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio, convenendo
loro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando e
trovandogli tutti dormire, n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come i
garzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li quali uccisi
aveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una
grande quantitá di nemici, li quali come Niso vide, tantosto si
ricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egli
era rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esser
seco si avvide. Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, e
loro correntigli addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò a
gridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e
uccidesson lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse:
essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi morti
rimasero.

«Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnale
d'Amata, moglie di Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e di
gran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data Lavina sua
figliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui,
sdegnato, avea mosso guerra ad Enea, e per questo molte battaglie
aveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive nel fine del
dodicesimo dell'_Eneida_, soprastandogli Enea in una singular
battaglia stata fra loro, e veggendogli cinto il balteo, il quale era
stato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.

E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parte
d'Italia intenda, cioè di quella lá dove è Roma, con alcune piccole
circustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco il
voler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio
cessò però la romana superbia, perseverando in essa la sede
apostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose mano alla
presente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque
altiero signor fosse molto, parve per avventura ancor molto piú
all'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né alle domande
fatte da quegli della setta della quale fu l'autore.

«Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè
estermineralla del mondo, «Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá onde
invidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente si può
intendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosaché
manifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello non
poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita menare.

«Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta,
dice l'autore il consiglio preso da Virgilio per sua salute, e,
secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattare
in tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata la
natura di questa lupa che t'impedisce, «per lo tuo me', penso e
discerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E
trarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogo
eterno», cioè per lo 'nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghi
eterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in
quanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli
spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la morte
dell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essi
l'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le
pene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi
tengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non perciò,
potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione non
vorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamar
la seconda morte, sí come noi mortali spesse volte chiamiamo la prima;
la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a nostro potere la
fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piú
spezie di morte, delle quali è la prima quella della quale tutti
corporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte di miseria, la
qual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tanta
tribulazione e angoscia sono: e questo è quello che ciascun dannato
grida, non dimandandola, ma dolendosi.]

«E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice
«contenti», percioché quella penitenza, che non si facesse con
contentamento d'animo di colui che la facesse, non varrebbe alcuna
cosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito il
tempo della penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti,
«se tu vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di me
piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quella
di Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitá
del monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete, come nel
trentesimo canto del _Purgatorio_ si legge.] «Ché quello imperador»,
cioè Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fui
ribellante», non seguendola, «alla sua legge», a' suoi comandamenti,
«Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte
parti impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi
è la sua cittá», nel cielo, «e l'alto seggio», reale. «O felice colui,
cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono.--

«Io cominciai:--Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito il
consiglio di Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni,
dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «che
tu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nel
quale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni lá
ove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí ch'i' vegga la
porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta il
vicario di san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere,
«cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle pene eterne.--

«Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomo
disposto a quello di che è richiesto, che senza eccezione il mette ad
esecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei, che dissi esser
partita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni
dietro», cioè il seguitai.



II

SENSO ALLEGORICO


                                                                   [Lez. V]

«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia di
Dio, è quello, che secondo il senso litterale si può, dimostrato, è da
tornarsi al principio di questo canto, e quello che sotto la rozza
corteccia delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire e
dichiarare. Intorno alla qual cosa credo udirete cose per le quali vi
si potrebbe forse meritamente dire le parole che l'autore medesimo
dice nel secondo canto del _Paradiso_, cioè: «Que' gloriosi che
passâro a Colco, Non s'ammiraron, come voi farete, Quando vider Giason
fatto bifolco». Percioché allora per effetto potrete vedere quanto
d'arte e quanto di sentimento sia stato e sia nello stilo poetico,
oltre alla stima che molti fanno. E peroché gustando con lo 'ntelletto
il mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il velo del favoloso
discrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tanta
soavitá riposta, in guisa che senza difficultá aver non si puote; e
direte:--Perché non diedono i poeti la loro dottrina libera e aperta
ed espedita, come molti altri fanno la loro, sí che, chi volesse, ne
potesse prendere frutto piú tosto?--In risponsione della qual cosa si
possono due ragioni dimostrare: e la prima può esser questa.

Costume generale è, di tutte le cose meritamente da aver care, il
discreto uomo non tenerle in piazza, ma sotto il piú forte serrame
c'ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e ad
alquanti suoi amici, ma a pochi e rade volte, mostrarle; e questo fa,
accioché il troppo farne copia non faccia quelle divenire piú vili. Il
che per atto possiam tutto il dí vedere avvenire; e, se in ogni altra
cosa nascosa ci fosse questa veritá, guardiamo al sole, del quale
alcuna cosa sí bella, non che piú, veggiamo, né alcuna sí chiara
muoversi, non tirato né sospinto, se non dal divino ordine impostogli;
pieno di tanta luce, che ogni altro lucido corpo illumina, ogni
terrena cosa vivifica, accresce e nutrica e al suo fine conduce: il
quale, per troppo mostrarsi, è non solamente poco prezzato, ma son di
quegli che di vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo non
seguiti, non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion dire
che sia piú cara, piú da gradire e meglio da riporre e da guardare,
che sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimi
della divinitá. Questi, se negl'intelletti universalmente del vulgo
divenissero, in poco tempo ne seguirebbe che sarebbon pregiati meno
che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole delle
femminelle. E per questo lo Spirito santo, d'ogni cosa dottissimo, gli
alti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere,
nelle figure del _Vecchio Testamento_, nelle _Visioni_ di certi
profeti, e ancora nell'_Apocalissi_ di Giovanni evangelista, sotto
parole tanto nella prima faccia differenti dal vero e meno conformi
nell'apparenza a' sensi nascosi, che per poco piú esser non
potrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gli
umani ingegni seguir la divinitá, con ogni arte s'ingegnarono di
seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano piú degne sotto
favoloso parlare nascondendo, accioché dove carissime sono, non
divenissero vili ad ogni uomo, aperte lasciandole. Il che assai bene
pare ne dimostri Macrobio, nel primo libro _De somnio Scipionis_, cosí
dicendo: «_De diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustra
se, nec ut oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam
esse naturae apertam nudamque expositionem sui: quae, sicut vulgaribus
hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoque
subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari.
Sic ipsa mysteria figurarum cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptis
nudam rerum talium natura se praebeat, sed summatibus tantum viris,
sapientia interprete, veri arcani consciis. Contenti sint reliqui ad
venerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum_», ecc.

La seconda ragione può essere questa. Suole quello, che con difficultá
s'acquista, piacer piú e guardarsi meglio che quello che senza alcuna
fatica o poca si truova; e questo le grandi ereditá rimase a' nostri
giovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio
esser molta malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto al
fabuloso parlare, dee seguire essere incomparabile diletto, a colui
che, per suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamente
ogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza
nell'animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma, nella
memoria di colui che ritrovata l'ha, la veritá: dove quella che senza
alcuna difficultá s'acquista, come leggiermente venne, cosí
leggiermente si parte. Di che séguita che dell'avere faticato
s'acquista, dove del non avere studiato l'uomo si ritruova di scienza
vòto.

[La terza ragione mi pare dovere esser questa. E' non pare che alcun
dubbio sia li cieli, i pianeti e le stelle esser ministri della divina
potenza, e, secondo la virtú loro attribuita, i corpi inferiori
generare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e
quegli nutrire e nel lor fine menargli. E, percioché essi corpi
superiori sono in continuo moto e in diversi modi si congiungono e si
separano l'uno dall'altro, par di necessitá che gli effetti da lor
prodotti in diversi tempi e in materie diverse, debbano esser diversi
e a diverse cose disposti; e quinci par che séguiti la diversitá degli
aspetti degli uomini, de' quali non pare che alcuno alcun altro
somigli; e similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamente
essere, eziandio naturalmente, diversi negli uomini. Dalla qual cosa
mosso, dice il nostro autore nel _Paradiso_:

       Un ci nasce Solone, ed altro Serse,
    altri Melchisedech, ed altri quello
    che, volando per l'aere, il figlio perse.

E questo si dee cognoscere muovere dal divino intelletto, il quale
cognosce una universitá, come è quella dell'umana generazione, non
poter consistere in sé, se non avesse diversitá d'ufici. E perciò,
accioché dell'altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce
atto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia e alcuni altri
ad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita, quanto può
e sa, d'esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da Dio sia alle
nostre anime, le quali esso _immediate_ crea, data la ragione e il
libero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de' cieli, ciascun
può far quello che piú gli aggrada, pare che il piú seguitin gli
uomini quello a che essi sono atti nati. Laonde quegli che al poetico
oficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro che
quello che a tale oficio s'appartiene; e, percioché a quello oficio
s'appartiene quello che di sopra è detto, se egli in quello
laudevolmente s'esercita, non è per avventura da maravigliarsene]. E
perciò non si rammarichi alcuno, se dai poeti è sotto favole nascosa
la veritá, ma piú tosto si dolga della sua negligenza, per la quale e'
perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d'avere
ritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti avere
a questa parte risposto.

Fu adunque il nostro poeta, sí come gli altri poeti sono,
nasconditore, come si vede, di cosí cara gioia, come è la cattolica
veritá, sotto la volgare corteccia del suo poema. [Per la qual cosa si
può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi.
De' quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cose
significate per la lettera, sí come voi potete aver di sopra, nella
esposizion litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», e
cosí è. Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale,
accioché voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò in
questi versi: «_In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo
barbaro: facta est Iudea sanctificatio eius, Israël potestas eius_».
Da' quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente,
vedremo esserci significato l'uscimento de' figliuoli di Israel
d'Egitto al tempo di Moisé; e se noi guarderemo alla alligoria,
vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo; e se
noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la
conversione dell'anima nostra dal pianto e dalla miseria del peccato
allo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso anagogico,
vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dalla
corruzione della presente servitudine alla libertá della gloria
eternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente per vari
nomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare «allegorici»,
conciosiacosaché essi sieno diversi dal senso litterale o vero
istoriale: e questo è, percioché «allegoria» è detta da un vocabolo
greco, detto «_aileon_», il quale in latino suona «alieno», ovvero
diverso; e perciò dissi questo libro esser poliseno, percioché tutti
questi sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in
assai parti dare]. E per questo, agutamente pensando, forse potremmo
del presente libro dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de'
suoi _Morali_, della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «_Sacra
Scriptura locutionis suae morem transcendit, quia in uno eodemque
sermone dum narrat textum prodit mysterium, et sic mysterio sapientes
exercet, sic superficie simplices refovet. Habet in publico unde
parvulos nutriat, servat in secreto unde mentes sublimium in
admiratione suspendat. Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita
dixerim, planus et allus, in quo et agnus ambulet, et elephans
natet_», ecc.; percioché, recitando della presente opera la corteccia
litterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine e
umane, sotto quella artificiosamente nascose, e in questa maniera
intorno al senso allegorico si possono i savi esercitare, e intorno
alla dolcezza testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora
tanto non sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare:
cosí possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possa
gl'ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda
con ammirazione le menti de' piú provetti. E ancora, quantunque alla
Sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto di
quella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamente
parlando, dir si può di questo, quello esserne che san Gregorio
afferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e profondo,
nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso si
possono i rozzi dilettare e i gran valenti uomini esercitare.

Ma, avendo giá l'una delle due parti in questo primo canto mostrata,
cioè come quegli, che di minor sentimento sono, si possano intorno al
senso litterale non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lor
forze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla
quale si possano gl'ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa si
fará aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso.
Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte
del presente canto, dieci cose: delle quali la prima será il veder
quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale dice
che ricordar nol lascia come nella selva oscura s'entrasse; la
seconda, come noi in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse la
diritta via la quale per questo sonno dice d'avere smarrita; la
quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi
che esso avesse la diritta via smarrita; la quinta, perché piú nel
mezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la sesta, quello
che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto
dimostra esser quella nella quale dice si ritrovò; la settima, perché
piú nel principio del dí che ad altra ora scriva d'essersi ravveduto;
la ottava, quello che vuole s'intenda per li raggi del sole
apparitigli e per lo monte nella sommitá del quale gli apparvero; la
nona, quello che esso senta per la considerazione avuta, poi che
alquanto la paura gli cessò; la decima, quello che noi dobbiam sentire
per le tre bestie le quali lo impedivano a salire al monte. E, queste
vedute, procederemo alla seconda parte del presente canto.

La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, accioché il senso
allegorico, nascoso sotto la lettera della prima parte di questo
canto, si manifesti, è quello che il nostro autore voglia sentire per
lo sonno, il qual dice che ricordar nol lascia come egli entrasse
nell'oscura selva. Ad evidenzia della quale è da sapere che 'l sonno,
che alla presente materia appartiene, è di due maniere: l'una è sonno
corporale, l'altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due
maniere distinguere. Delle quali l'una è naturale, e puossi dire esser
quella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento e
conservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e quasi
oziose rende tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e le
intellettive, percioché, perseverante esso, né sentiamo né intendiamo
alcuna cosa; di che a' morti simili divegnamo. Ma, poi che la natura
ha preso per la sua indigenza quello che l'è opportuno a restaurazione
delle virtú faticate nella vigilia e in conforto della vegetativa
virtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noi
medesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú distesamente
diremo nel principio del quarto canto del presente libro. L'altra
maniera del corporal sonno è quella, dalla quale vinta ogni corporal
potenza, si separa l'anima dal corpo, e senza alcuna cosa sentire o
potere o sapere, immobili giacciamo, e giaceremo infino al dí
novissimo, senza poterci levare. E di questo intende il salmista,
quando dice: «_Cum dederit dilectis suis somnum_».

Il sonno mentale, allegoricamente parlando, è quello quando l'anima,
sottoposta la ragione a' carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze
temporali, s'addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e del
tutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna
cosa a nostra salute operare. E questo è quel sonno, dal quale ne
richiama san Paolo, dicendo: «_Hora est iam nos de somno surgere_». E
questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale è
quando ne' peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e il
salmista dice: «_Surgite postquam sederitis, qui manducatis panem
doloris_»; e in altra parte san Paolo, dicendo: «_Surge, qui dormis,
et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus_». E talvolta avviene
per sola benignitá di Dio che noi ci risvegliamo, e, riconosciuti i
nostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia levandoci, ci
riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei peccatori; e, a
lui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia, la ragione, sí
come donna e maestra della nostra vita, nella suprema sedia
dell'anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitando
e discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il quale, mentre
che ostinatamente ne' nostri peccati perseveriamo, ne sopraggiugne
l'ora ultima della presente vita, e in esso addormentati, nell'altra
passiamo, lá dove, non meritata la misericordia di Dio, in sempiterno
coi miseri in tal guisa passati, dimoriamo. Li quali si dicon «dormire
nel sonno della miseria», in quanto hanno perduto il poter vedere,
conoscere e gustare il bene dello 'ntelletto, nel qual consiste la
gloria de' beati. È adunque questo sonno mentale quello del quale il
nostro autor vuole che qui allegoricamente s'intenda; nel qual,
ciascuno che si diletta piú di seguir l'appetito che la ragione, è
veramente legato, e ismarrisce, anzi perde la via della veritá, alla
quale in eterno non può ritornare.

La seconda cosa che era da vedere dissi che era come noi in questo
sonno mentale ci leghiamo. E, percioché i lacciuoli sono infiniti, li
quali la carne, il mondo e 'l dimonio tendono alla nostra sensualitá,
pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d'uomo; ma ad un de'
modi, il quale è quasi universale, riducendoci, dico che, dalla nostra
puerizia, noi il piú dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, in
questi lacci, e, quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi che
la ragione abbiamo allora per guida), sí c'inveschiamo, che poi o non
ci sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultá, volendo, ce ne
sviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con ogni
sollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l'etá,
come detto è, è tenera e nuova e vaga, e la sensualitá è in essa
fortissima, percioché la ragione non v'è ancora assai perfetta; e,
secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla quale
quella etá è inchinevole, par che prenda inizio la nostra ruina. E la
ragione pare assai manifesta: sono generalmente i fanciulli vaghi del
cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento disidera; e
gustando, come spesso avviene, le saporite e dilicate vivande e i vini
esquisiti, a pian passo procedendo ed ausando il gusto a quello che
non gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli e fanciulli
sieno, ad aver men cari quegli cibi, che, quantunque rozzi, soleano
satisfare alla fame e alla sete loro, e i piú preziosi desiderano e
domandano, e dal disiderio ad ottenergli si sforzano; e con questo
nella etá piú piena procedendo, quasí come da naturale ordine tirati,
nel vizio della lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente i
giovani, ma i vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro con
tante e tali lusinghe diletica, che, potendo all'appetito la vigorosa
etá dell'adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissima
affezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. E
quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non
altrimenti assai sovente ornandosi, che se vender si volessono al
mercato de' poco savi. Le quali cose, percioché senza denari esercitar
pienamente non si possono, gli sospingono nel disiderio d'aver denari,
e, per quegli ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ogni
disonesto guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri,
barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piú
piena d'anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la
grandigia de' re, de' signori, de' gran cittadini, di quegli
s'accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosi
divengono. Le quali cose, e altre molte, cosí successivamente, e
talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi,
nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengon
sí stretti, che, quasi convertite in natura, per romore che fatto ci
sia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose accioché a'
lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i lor
figliuoli, ecc. (vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo il
principio). [Né è mia intenzione il modo da addormentare i miseri nel
sonno de' peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gli
avversari nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robusta
etá adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione di questa,
perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne' peccati; e por giú
l'abito preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l'uomo talvolta
dal peccare, con molta meno difficultá v'è rivocato colui che abituato
vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essa
memoria delle colpe giá commesse v'è ritirato.

La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia la
via la quale l'autore dice d'avere per questo sonno smarrita. Egli è
il vero che le vie son molte, ma tra tutte non è che una che a porto
di salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sé dice
nell'Evangelio: «_Ego sum via, veritas et vita_»; e questa via tante
volte si smarrisce (dico «smarrisce», perché poi chi vuole la può
ritrovare, mentre nella presente vita stiamo), quante le nostre
iniquitá dai piaceri di Dio ne trasviano, mostrandoci nelle cose
labili e caduche esser somma e vera beatitudine. E questa via, per la
quale i nostri avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo:
«_Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorum
non stetit_», ecc.; ed in altra parte dice pregando: «_Viam
iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei_». Chiamasi ancora
la vita presente «via»; e di questa dice il salmista: «_Beati
immaculati in via_»; e in altra parte: «_De torrente in via bibit_».

Ma, come detto è, accioché di molt'altre lasciamo istare il ragionare,
la prima è quella per la quale, se la gloria eterna vogliamo, ci
conviene andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale nel sonno
de' peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato,
lusinghevolmente sottentrano i vizi, e cominciano in etá nella quale
pienamente conosciuti non sono, dice l'autore non ricordarsí come
questa via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui che
pienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare?
Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e, quel
passato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza si
mettono.

La quarta cosa, la qual propuosi da essere da investigare, fu qual
cosa potesse esser quella che l'autor movesse a ravvedersi che esso
avesse la diritta via smarrita. E questa, senza alcun dubbio, si dee
credere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che non
ci amiamo noi medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il
che assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:

    _Nam pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii:
    carior est homo illis, quam sibi_, ecc.

Ma, accioché noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale
l'autore tócco si movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale la
mente sua era legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l'anima
sua è da sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esser
quattro grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostra
salute: delle quali la prima è chiamata grazia «operante», della quale
dice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»; la
seconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice san
Paolo medesimo: «La grazia di Dio non fu in me vacua»; la terza grazia
si chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «_Et
misericordia eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae_»; la
quarta grazia si chiama «salvante», della quale si legge
nell'Evangelio: «_De plenitudine eius omnes accepimus gratiam per
gratiam_». Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sí
come nel _Libro della sapienza_ si scrive: «_Verte ipsum, et non
erit_»; e san Paolo dice: «_Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem lux
in Domino_». La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; e
di ciò dice il salmo: «_Ibunt de virtute in virtutem_». La terza, cioè
la perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale dice
l'Evangelio: «_Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit_»;
nell'_Apocalissi_ si legge: «_Quicumque vicerit, dabo ei edere de
ligno vitae, quod est in paradiso Dei mei_»; e in altra parte
nell'_Apocalissi_ medesimo: «_Quicumque vicerit, faciam illum columnam
in templo Dei mei_». La quarta, cioè la salvante, secondo i meriti
guiderdona i faticanti; di che l'Evangelio dice: «_Quid hic statis
quotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit dabo
vobis_»; e san Paolo: «_ut recipiat unusquisque secundum ea quae
fecit_». Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto parlato,
percioché piú volte nel processo di questo libro se n'ará a ragionare,
piú diffusamente se ne vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti al
presente. E dico che la prima grazia senza alcun merito di colui che
la riceve si dona; di che dice san Paolo: «_Non secundum opera quae
fecimus nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit_». Le
qualitá delle quali grazie considerate, assai manifestamente appare la
prima delle quattro essere stata quella che al nostro autore (e
similemente a ciascun altro che in simile caso si truova), fu
conceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato conobbe.

Ma potrebbe alcun domandare: in che maniera tocca Domeneddio i
peccatori con questa sua grazia? Le maniere son molte, percioché a
tanto artefice, quanto Iddio è, non mancò mai modo a quello che egli
volesse adoperare. Dice il salmista: «_Dixit et facta sunt: mandavit
et creata sunt_». Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le
menti di coloro che di questa grazia hanno bisogno, sí come noi
leggiamo di Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietro
e san Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporal
sonno e dal mentale, quello seguí, e gli errori del paganesimo tutti
da sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san
Paolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questo
toccamento, che esso divenne subitamente, di lupo, agnello e vaso di
elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co' suoi messaggeri, sí
come fece David, il quale per l'omicidio d'Uria e per l'adulterio
commesso in Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogli
Nathan profeta, il fece riconoscere; il quale, piangendo, e in quel
salmo allora da lui composto, cioè «_Miserere mei, Deus_», la sua
misericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza; e
similemente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaia
profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita.
Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché gli
uomini, sentendosi affliggere nella perdita de' figliuoli e delle
possessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasi
desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d'uscire
della via delle tenebre e tornare alla luce. E quantunque saper non
possiamo qual si fosse, di queste o forse d'alcuna altra, la maniera
con la quale la grazia di Dio toccò l'autore addormentato dal sonno
mentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tócco;
giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la presente opera
incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè di
dover perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e di dovere
nelle proprie cose ricever danno. Per la qual cosa, da questa grazia
operante tócco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere le cose
presenti non avere alcuna stabilitá, esser piene d'invidia e di
pericoli, e nulla altra cosa in sé aver fermezza se non il servire e
amare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvola
della ignoranza, la quale infino a quella ora l'avea occupato, e
cominciò a conoscere la miseria dello stato de' peccati, e ad
avvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in quanto pericolo
esso fosse lungamente dimorato d'andare ad eterna perdizione.

La quinta cosa, che dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo della
nostra vita che in altra etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosa
è da sapere questo vocabol «mezzo» potersi prendere in due modi. L'un
modo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale;
il quale mezzo è dirittamente quel punto che igualmente è distante a
due estremitá. Verbigrazia: egli è una verga lunga due braccia, cioè
dall'una estremitá della verga all'altra sono due braccia; per che il
mezzo puntale di questa verga sara lá dove, dall'una estremitá
cominciandosi e andando verso l'altra la lunghezza d'un braccio, lá
dove egli finirá, sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo
ancor dire il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa,
quando alcun cerchio discriviamo; percioché questo in ogni parte del
cerchio è igualmente distante dalla circunferenza. La seconda maniera
del mezzo s'intende assai sovente ciò che si contiene intra due
estremi, o infra la circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio di
Tamech sopra il Tito Livio dice che Arno è un fiume posto nel mezzo
tra Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalem
essere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzo
puntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero. E perciò in questa
parte è da prendere la parola dell'autore, quanto alla persona sua,
per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra mostrammo, egli era di
etá di trentacinque anni, ch'è il mezzo puntale della vita nostra,
quando, tócco dalla grazia di Dio, si ravvide dove l'aveva la
ignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno uomo, in che etá egli si
sia, può avvenire, anzi avviene tutto il dí, che, abbandonata la via
della veritá, s'entra ne' vizi, e similemente, per la grazia di Dio,
il ravvedersi; si può per gli altri, i quali in altra etá che l'autore
si ravveggono, intender questo mezzo quello spazio che è posto in fra
il dí della nostra nativitá e il dí della morte. E puossi quel mezzo
il quale per l'autore s'intende, che è intorno all'etá de'
trentacinque anni, moralmente prendere, secondo che in quella etá ogni
corporale virtú è a sua perfezion venuta; e cosí, in qualunque tempo
l'uomo si ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, si
può dire ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosí
nella buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante,
perseverando, va di questa virtú in altra maggiore, e di quell'altra
in un'altra, tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera al
suo fine di venire.

La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello
ch'egli intendesse per quella selva oscura e malagevole nella quale
dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io posso
comprendere, lo 'nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella
quale ciascun peccatore cade ed entra, sí tosto come cade in peccato
mortale. E che ella sia lo 'nferno, la discrizion di quella il
dimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era «oscura», cioè
piena d'ignoranza (il che assai chiaro ne mostra Isaia quando dice:
«_Erravimus a via veritatis, et sol iustitiae non illuxit nobis_»),
considerata la qualitá di coloro che in essa dimorano: peroché, se in
loro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che non
cercasson tantosto d'uscirne. E chi è piú ignorante che colui il
quale, potendo schifare il fare contro a' comandamenti del suo
Creatore (ché può ciascun che vuole), si lascia tirare alle lusinghe
della carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? o che pure,
veggendosi per la nostra fragilitá tirato, non si sforza, avendo la
via, d'uscirne, ma, aggiugnendo l'una colpa sopra l'altra, piú se
medesimo inviluppa, e fa col continuo peccare piú tenebroso il suo
intelletto e piú forti le catene del suo avversario? Dice, oltre a
ciò, questa selva essere «selvaggia», sí come del tutto strana da ogni
abitazione umana: percioché nella prigion del diavolo, nella quale noi
medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanitá, né pietá, né
clemenzia, anzi è piena di crudelitá, di bestialitá e di iniquitá. Né
osta il dire: egli v'abitano gli uomini peccatori; percioché questo
non è vero; ché, come l'uomo ha commesso il peccato, egli diventa
quella bestia, li cui costumi son simili a quel peccato. Verbigrazia:
colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere, percioché la
lussuria per la sua bruttezza è simigliata al porco, esso diventa
porco, quantunque effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo,
perché il lupo è rapacissimo animale: e cosí quello luogo è salvatico,
sí come privato d'ogni umana stanza. È, oltre a questo, «aspra» per le
spine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de'
peccati, li quali, continuamente dai morsi della coscienza infestati,
dolorosamente pungono il peccatore. Ed è «forte», in quanto
tenacissimi sono i legami del diavolo, e massimamente negli ostinati,
li quali, poi che nel profondo delle colpe caduti sono, della divina
misericordia disperandosi, disprezzano Iddio e turano gli orecchi alli
ammonimenti de' giusti uomini e alla evangelica dottrina. E, per
queste qualitá, a colui il qual è tócco dalla divina grazia, ella pare
(e cosí è), piena di tanta amaritudine, che poco piú è la morte
eternale, nella quale alcuna dolcezza non s'aspetta giammai.

Nondimeno dice l'autore alcun bene aver trovato in essa. Per lo qual
bene niun'altra cosa credo che sia da intendere, altro che la
misericordia di Dio, la quale non ha luogo che ne' giusti s'adoperi; e
cosí ne' peccatori è tanto necessaria, che, se essa non fosse, alcun
nostro merito né lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinitá, del
peccato commesso. Ella adunque è quella, che, nella oscuritá della
nostra ignoranza e delle nostre colpe, colle braccia aperte si trova
presta a non guardare a' difetti commessi, ma solamente alla buona
affezione di chi a lei rivolger si vuole per doverla ricevere; questa
è quella, la cui benignitá riguardata, a sé dalla disperazion ci
ritira. Della quale, sí come di bene trovato lá ove ella è opportuna,
l'autore dice di voler trattare, sí come fa nel libro secondo della
presente _Commedia_, nel quale pienamente si posson comprendere e la
sua santissima liberalitá e pietosi effetti verso i peccatori,
quantunque essi abbiano incontro ad essa operato.

La settima cosa dissi era da vedere perché piú nel principio del dí
scriva l'autore d'essersi ravveduto che ad altra ora. Puossi intorno a
questa parte dire, quanto gli uomini involti ne' peccati dimorano,
tanto dimorare nelle tenebre della notte, cioè della ignoranzia; la
quale, come la notte toglie il poter conoscere o vedere le cose,
quantunque nel cospetto ci sieno, cosí toglie il cognoscere il vero
dal falso e le cose utili dalle dannose. E perciò, qualora avviene che
la grazia di Dio operante tocca il peccatore ed è da lui ricevuta,
cosí comincia a tornar la luce della conoscenza di Dio e di se
medesimo e del suo stato; e ognora che la luce apparisce, è di
necessitá che le tenebre della notte cessino; ed in quella ora che le
tenebre cessano, sí come manifestamente appare, è principio del dí, e
massimamente a colui il quale abbandona la notte della ignoranza,
sollecitato e sospinto dalla divina grazia. E di questo dice Osea
profeta in persona di Cristo: «_In tribulatione sua mane consurgent ad
me_». Ed il peccatore d'altra parte, come agli occhi dell'intelletto
gli apparisce la divina luce, giá le sue malvage operazioni
cominciando a cognoscere, può dire quelle parole del salmista: «_Mane
adstabo tibi et videbo: quoniam non Deus volens iniquitatem tu es_».
Dunque congruamente finge l'autore di mattina essere stato questo
ravvedimento, per lo quale si conobbe essere nella oscura selva dei
peccati e della ignoranza.

L'ottava cosa dissi era da vedere quello che l'autor vuol intendere
per lo sole che sopra il monte vide e per lo monte. Per li monti
intende la Scrittura di Dio spesse fiate gli apostoli; e questo,
percioché, come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del sole
materiale surgente, cosí gli apostoli furono i primi che ricevettero i
raggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesú Cristo, il quale è
veramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che
viene in questo mondo. E che esso sia vero sole, per molte ragioni si
dimostrerebbe, le quali al presente per brevitá ometto. E, secondo che
io estimo, nell'autore, sentita la grazia di Dio, venne quel
desiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il quale
quella grazia in sé riceve: cioè di conoscere pienamente le colpe sue,
e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed occorsegli
nella mente alcuna dottrina non potergli in questo suo disiderio
satisfare, come l'apostolica; rammemorandosi delle parole del
salmista, dove, parlando di loro, dice: «_Non sunt loquelae, neque
sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit
sonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum_». E però, fuggendo
la confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse, come
talvolta disse il salmista: «_Levavi oculos meos in montes, unde
veniet auxilium mihi_»; volendo in questo dire che egli levasse gli
occhi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dalla
quale sperava dovere avere aiuto al suo bisogno. Ed accioché questa
speranza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la sommitá di questo
monte coperta de' raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che
essa dottrina apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo,
il quale veramente mena altrui diritto per ogni calle; cioè, da che
che colpa l'uom si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E
che la dottrina degli apostoli sia santa e veramente piena de' doni
dello Spirito santo, appare per le parole d'Isaia, dove dice:
«_Requiescet super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientiae et
intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et
pietatis, et replebit cum spiritus timoris Domini_». Per che l'autore,
e qualunque altro, veggendosi cosí fatto rifugio apparecchiato
davanti, dove prender lo voglia, puote meritamente sperare, e,
sperando, minuire la paura della morte eterna, nella quale il fanno
dimorare le catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E, oltre
a ciò, veggendo sopra questo monte il sole scacciatore delle tenebre
eterne, e il quale è toglitore de' peccati, sí come noi di lui
leggiamo: «_Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi_»; puote
ancora maggiormente sperar salute, sospinto dalle parole d'Isaia, il
quale dice: «_Vobis, qui timetis Deum, orietur sol iustitiae_». E
perciò meritamente l'autore, conosciuto, lá dove era, esser valle di
miseria, sí si sforza di partir di quella e di voler salire al monte,
cioè alla dottrina della veritá, e a Colui il quale puote liberare
ciascuno, che con affetto vuole, delle mani dello 'nferno.

                                                                  [Lez. VI]

La nona cosa, la qual dissi considerar si volea, era quello che
l'autor sentisse per la considerazione avuta, poi che alquanto la
paura gli cessò; e appare per le sue parole essere stata del pericolo,
nel quale si vedeva essere stato la passata notte: per la quale
dobbiamo intendere il primiero atto dell'animo di colui che la passata
miseria della sua vita comincia a cognoscere. Il quale veramente non è
altro che paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce di
sentimento, per la qual possa discernere quante e quali possano essere
state quelle cose che in quelle miserie l'avrebbono, ciascuna per se
medesima, potuto far morire di perpetua morte: e massimamente
cognoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infiniti
benefici ha ricevuti, cognoscendo la sua giustizia, la quale, passato
il tempo della misericordia, è irrevocabile, né si può, come quella
de' mortali giudici, con prieghi né con lagrime piegare, né corromper
con doni o con eccezioni prolungare. Dalla quale considerazione si
levan presti coloro, li quali invano non ricevono la divina grazia, e
per la diserta piaggia a salire al monte muovono i passi loro. E dice
«diserta», percioché ancora è sterile e senza alcun virtuoso frutto
l'anima di colui che pure ora ora comincia a partirsi della via del
peccato.

La decima cosa, la quale da essere cercata dissi, è quello che noi
dobbiamo sentire per le tre bestie, le quali l'autor mostra che
impedivano il suo cammino. [Ed intorno a questo è da considerare
queste bestie altrimenti doversi intendere avendo riguardo solamente
all'autore, e altrimenti avendo riguardo generalmente a ciascun
peccatore, che vuole alla via della veritá ritornare, percioché non
ogni uomo igualmente è da una medesima passione impedito: e perciò
avviso l'autor ponesse quello che a lui sentiva s'appartenesse e di
che piú si conosceva passionato. E però primieramente quello dirò
ch'io sentirò per queste tre bestie appartenere all'autore; poi, se
niuna cosa v'avrò da mutare per riducerle al senso spettante
all'universitá dei peccatori, come saprò, il farò e dimostrerò].

Dice adunque che, essendo nella predetta meditazione, diliberato di
lasciare la valle oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioè
alla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelle
che il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un
leone e una lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare
si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenzia di tutti, par che si
debbano intendere per questi: cioè per la lonza il vizio della
lussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa il
vizio dell'avarizia. E, percioché io non intendo di partirmi dal
parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi
animali a' detti vizi si possono appropriare; e poi, se all'autore
parrá di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno.

Sono adunque nella lonza, tra l'altre molte, quattro singolari
proprietá: ella primieramente è leggierissima del corpo, tanto, o piú,
quanto alcun altro quadrupede sia; appresso, la sua pelle è leccata,
piana e di molte macchie dipinta; oltre a questo, ella è
maravigliosamente vaga del sangue del becco; ultimamente, ella è di
sua natura crudelissimo animale.

Le quali quattro proprietá, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente
conformi al vizio della carne: percioché la sua leggerezza è a
dimostrare la levitá degli animi di quelle persone o che con
l'appetito o che attualmente con esso vizio s'inviscano; imperoché
essi alcuna volta ardon tutti, da fervente disiderio della cosa amata
accesi, e alcun'altra son piú freddi che la neve, cessando punto la
speranza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e
lamentansi e piangono, e cosí insuperbiscono subito, e subitamente
diventano umili; ora turbati garrono e gridano, e di presente mitigati
lusingano. Le quali levitá ottimamente discrive Plauto in una sua
commedia chiamata _Cistellaria_, dove un giovane, piú che uopo non gli
era, invescato in questa pania, dice cosí:

_Credo ego amorem primum apud homines carnificinam commentum, hanc ego
de me coniecturam domi facio, ne foras quaeram, qui omnes homines
supero, atque antideo cruciabilitatibus animi. Iactor, crucior,
agitor, stimulor, vexor vi amoris totus, miser._ _Exanimor, feror,
differor, distrahor, diripior: ita nullam mentem animi habeo: ubi sum,
ibi non sum: ubi non sum, ibi est animus: ita mihi omnia ingenia sunt.
Quod lubet, non lubet iam id continuo. Ita me amor lassum animi
ludificat, fugat, agit, appetit, raptat, retinet, iactat, largitur:
quod dat, non dat: deludit: modo quod suasit, dissuadet: quod
dissuasit, itidem ostentat. Maritimis moribus mecum expelitur: ita
meum frangit amantem animum neque, nisi quia miser ne eo pessum, mihi
ulla abest perdito pernities,_ ecc.

Oltre a ciò, questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e
salta tosto d'una cosa in un'altra: un muover d'occhi, un atto
vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una
lusinga, d'uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; e
ora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella che
ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lor
mente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero
affabile, mai piú non veduto, subitamente dimenticò il lungamente e
molto amato Sicheo; assai bene verificando quello che l'autore, nel
_Purgatorio_, delle femmine dice:

    Per lei, assai di lieve si comprende
    quanto in femmina fuoco d'amor dura,
    se l'occhio o 'l tatto spesso nol raccende.

Giasone dell'amor d'Isifile in brieve tempo saltò in quel di Medea, e,
lei abbandonata, poi si rivolse a Creusa. Le quali inconvenienze e
disordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza di questa
bestia co' miseri libidinosi dimostrano.

Appresso, la pelle sua leccata e di macchie dipinta, non meno che la
predetta, si confá co' costumi de' lascivi; percioché quegli, gli quali
da tal passione son faticati, quanto possono, o per pigliare o per
tenere, si studiano di piacere; per la qual cosa s'adornano di
vestimenti vari, pettinansi, lavansi e dipingonsi, specchiansi,
tondonsi, vanno e tornano, cantano, suonano, spendono, gittano, e, dove
di parer piú begli e piú accettevoli si sforzano, vituperevolmente di
disoneste ed enormi brutture si macchiano. Con queste armi e' prese e fu
preso Paris da Elena; con queste armi mise Dalila nelle mani de' suoi
nemici Sansone; con queste armi prese e irretí Cleopatra Cesare.

E, oltre a questo, questa bestia è maravigliosamente vaga del sangue
del becco. Intorno alla qual cosa si dee intendere in questo
dimostrarsi l'appetito corrotto di coloro li quali in questa bruttura
si mescolano: percioché, sí come il becco è lussuriosissimo animale,
cosí, per l'usare questo vizio, piú lussurioso si diviene. Per la qual
cosa alcuni miseramente, credendosi in cotal guisa sviluppare, non
accorgendosene, s'inviluppano; percioché non questo, come gli altri
vizi, per continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il che
ottimamente dimostrarono i poeti nella scrizione della battaglia
d'Ercule e d'Anteo. E, oltre a ciò, il becco è fiatoso animale e
olido, del quale questa bestia si diletta: in che si dimostra la
vaghezza dei libidinosi intorno al fiatoso e abbominevole atto
venereo, il quale è intanto al naso e agli occhi noioso e allo
'ntelletto umano, che se non fosse che la natura ha in quello posto
maraviglioso diletto, accioché l'umana specie per non generare non
venga meno, io sono d'opinione che ciascuno come fastidiosissima cosa
il fuggirebbe. E la dilettazione, la quale questa bestia ha del sangue
del becco, assai chiaro dimostra l'appetito che ciascuna delle parti
di quegli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del fine di
quello disonesto atto; nel quale il sangue de' miseri dannosamente
tante volte, quante per altro che per generare si versa, non meno
biasimevolmente, che se in una fetida sentina si gittasse, si perde.
Senza che, per questo i nervi indeboliscono, il veder ne raccorcia, i
membri ne diventan tremuli, e la nodosa podagra, con gravissima noia
di chi l'ha, tiene tutto il corpo quasi immobile e contratto; e cosí
non solamente se n'offende Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri la
persona. Per questo convenne a Gaio Antonio, poste giú l'armi,
militare con l'animo dietro a Catellina; e, come che piú non me ne
ridica or la memoria, non è da dubitare che i passati secoli non ne
sieno stati cosí copiosí come veggiamo l'odierno.

Ultimamente dissi questo animale essere crudele, per la qual crudeltá
è da intendere la crudeltá di questo peccato, il quale quegli, che piú
con lui si dimesticano e congiungono, le piú delle volte conduce a
crudelissime spezie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe
donne, mentre senz'alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito,
hanno giá la lor morte, dopo faticosa infermitá, avacciata? Quanti
ancora, non potendo sofferire né por modo al loro fervente disiderio
di pervenire a quello, hanno se medesimi disonestamente disfatti? Il
non potere aspettare Demofonte, suo amico, condusse Fillide ad
impiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad Artabano medo vittoria
sopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse Adone altro
che il soperchio coito con Venere, reina di Cipri, sua moglie?

Bene adunque si può questa bestia dire essere la concupiscenza
carnale, la quale, lusinghevole insino alla morte, con tutte quelle
mortali dolcezze ch'ella porge, facendosi incontro alla sensualitá
umana, qualora l'animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essa
partir si vuole e alle divine cose tornarsi, con non piccola forza
s'ingegna di ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal volto; quasi
voglia dire: rammemorando tutte quelle persone che giá sono state
amate, tutti quegli atti, tutte le parole che giá sono state piaciute;
le lagrime, la promessa fede, i rotti sacramenti con pietoso aspetto
ricordandogli; con false dimostrazioni suadendogli che questa castitá,
questo proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia ora perdere
quello che mai non dee potere recuperare. Con li quali conforti, e
altri molti a questi simiglianti, nel quarto dell'_Eneida_ mostra
Virgilio essersi Didone ingegnata di ritenere Enea e dalla gloriosa
impresa rivolgerlo, come giá assai dal buon principio hanno rivolti al
doloroso fine d'eterna perdizione.

Questa adunque si parò davanti al nostro autore, per doverlo fare
nelle abbandonate tenebre ritornare; il quale dall'ora del tempo e
dalla dolce stagione prese speranza di vincere questo vizio oppostosi
alla sua salute. Per la quale ora del principio del dí credo sia da
prendere l'ora o 'l tempo nel quale Cristo prese carne umana; il quale
prender di carne, fu senza alcun dubbio il principio della nostra
salute il principio della riconciliazione del nostro signore Iddio con
la nostra umanitá, il principio del tempo accettevole, il quale per
tante migliaia d'anni fu aspettato. E questo, percioché in quel
proprio dí fu, cioè di venticinque di marzo, nel quale, sí come
apparirá appresso, il nostro autore dice sé essere risentito dal sonno
mortale. E cosí vuole adunque l'autore darne a vedere che, di ciò
ricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di Colui,
senza la quale non si puote avere d'alcun vizio vittoria. La stagione
del tempo similmente gli die' buona speranza, conoscendo che in quella
stagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via alla
nostra salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della umana
generazione abbattuto: per che sperar si dovea di poter similmente
abbattere i suoi ministri.

La seconda bestia, la qual si fece incontro al nostro autore, fu un
leone, il quale dissi essere inteso per la superbia, alla quale, come
egli si confaccia, ne mostreranno alcune delle sue proprietá, a quelle
del vizio poi equiparate. È il lione non solamente audace ma
temerario; e appresso è rapace e soprastante; ed è ancora altisono nel
ruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine che
l'odono: e, come che assai piú ce n'abbia, queste tre bastino a
mostrare per lui ottimamente potersi intendere il vizio della
superbia.

Dissi adunque il lione essere non solamente audace ma temerario;
percioché, senza misurare le forze sue, non è alcuno animale sí forte
(che ne sono assai piú forti di lui), il quale egli non presuma
d'assalire; di che egli talvolta con gran suo danno è ributtato
indietro. Ed Aristotile nel terzo dell'_Etica_, lá dove parla della
fortezza, dice che l'esser temerario è vizio, in quanto il temerario
presume, oltre alle sue forze, quello che a lui non s'appartiene. E
questo vizio è il presumere alcuno di combattere con due o con tre o
con piú; conciosiacosaché ciascuno debba credere uno poter quanto un
altro, e con quell'uno mettersi a combattere è ardire e segno di
fortezza; dove l'andar contro a piú, potendogli schifare, è temeritá.
In questo l'uomo superbo è simigliante al leone, percioché il
disiderio del superbo è tanto di parer quello che egli non è, che cosa
non è alcuna sí grave, che egli non presuma di fare, quantunque a lui
non si convenga, sol che egli creda per quello essere reputato
magnanimo. E questa cechitá ha giá messo in distruzione molti regni,
molte province e molte genti; questa fu cagione al primo agnolo
d'esser cacciato di paradiso con tutti i suoi seguaci; questa fu
cagione a Capaneo d'esser fulminato e gittato dalle mura di Tebe in
terra; questa fu cagione a Golia d'essere ucciso da David, come la
Scrittura ne dice.

Dissi ancora che il lione era rapace e soprastante: la qual cosa è
quanto piú può propria del superbo, al quale, quantunque ricco sia,
non soffera l'animo d'esser contento al suo, ma continuamente prieme e
oppressa i minori, ruba l'avere, occupa le possessioni, batte e
ferisce i resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d'ogni
nequizia, e in ogni cosa vuol soprastare agli altri, estimando per
questo lo stato suo divenir maggiore, esser piú temuto e di piú
eccellente animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta, re di
Numidia, ad essere del sasso Tarpeio gittato nel Tevero; e Iezzabel ad
essere della torre sospinta, e da' cavalli e da' carri e dagli uomini
scalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaoth: e Antioco
re d'Asia e di Siria essere oltre al monte Tauro da' romani rilegato.

Similemente dissi che il leone era altisono nel ruggir suo e ch'egli
spaventa le bestie circunstanti; il che Amos profeta dice: «_Leo
rugiet, quis non timebit?_». Al qual romore il vizio della superbia è
evidentissimamente simigliante, in quanto l'uomo superbo sempre usa
parole altiere, spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempre
parla di sé e de' suoi gran fatti, e dilettasi e vuole che altri ne
parli; quello estimando d'essere che i paurosi ragionano per
piacergli. Per la qual bestialitá, Nabucdonosor, di se medesimo per
divina operazione ingannato, lasciato il solio reale, n'andò a pascer
l'erbe ne' boschi; Simon mago cadde d'aria e fiaccossi la coscia;
Roboam, re de' giudei, de' dodici tribi d'Israel ne perdé nove.

Le quali cose sanamente considerate, assai aperto dimostrano noi dover
potere per lo leone, al nostro autore apparito, intendere il vizio
della superbia, la quale all'uomo, che da lei e dall'altre nequizie si
vuol partire e tornare nel cammino delle virtú, si para dinanzi agli
occhi della mente, non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargli
che, dove egli la sua maggioranza, il suo altiero stato abbandoni,
egli diverrá un menomo plebeio; né sará mai ad alcuna gran cosa
chiamato, e intra' suoi di niuna reputazione avuto, sará dispettato, e
da coloro, li quali esso ha giá premuti, offeso e scalpitato, rubato e
spogliato; e, se egli ancora del suo stato scende, non vi potrá,
quando vorrá, risalire. [Para ancora la gloria della preminenza, la
potenza del levare in alto e d'abbassare secondo il suo volere, la
pompa degli onori, e simili cose assai.] Le quali cose senza alcun
dubbio hanno molto a muovere le tenere menti e a renderle timide di
cadere, e per conseguente a farle ritirare indietro dalla laudevole
impresa. Ma a queste due, dice l'autore essere ancora ad impedire il
suo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, piú che l'altre due,
averlo spaventato e ripintolo indietro.

La terza bestia, che davanti all'autore si parò, fu una lupa, fiero
animale e orribile, il quale, come davanti dissi, è inteso per
l'avarizia, con la quale come costei si convenga, come nell'altre due
abbiam fatto, alcune delle sue proprietá prese, e con quelle del vizio
conformatole, il mostreranno. Manifesta cosa è la lupa essere animale
famelico e bramoso sempre; appresso, quando quel tempo viene, nel
quale ella è atta a dovere concépere, avendo molti lupi dietro
continuamente, a quello il quale piú misero di tutti le pare, gli
altri schifati, si concede; e, oltre a ciò, il lupo è animale
sospettissimo, continuo si guarda d'intorno, e quasi in parte alcuna
non si rende sicuro, credo dalla coscienza sua medesima accusato.

Dico adunque la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel
medesimo essere l'uomo avaro; percioché, quantunque l'uomo avaro abbia
quello che gli bisogna, onestamente e in qualunque guisa ragunato,
forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel
contento; ma, da maggior cupiditá acceso e da nuova sete stimolato, in
ciascun suo esercizio piú che mai si mostra affamato; e, per sodisfare
a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestá, niuna
falsitá o altra nequizia, nella qual'e' non si mettesse. Per la qual
cosa Virgilio, nel terzo dell'_Eneida_, fieramente la sgrida, dicendo:

    _... Quid non mortalia pectora cogis,
    auri sacra fames?_

Secondariamente il vizio dell'avarizia si mette in uomini cattivi e
pusillanimi; il che appare, in quanto in alcun valente uomo o
magnanimo non si vede giammai; e che essi sieno cosí, le loro
operazioni il dimostrano. Metterassi l'avaro in una piccola casetta, e
in quella, in continua dieta per non spendere, dimorando senza
muoversi, dieci e venti anni presterá ad usura, vestirá male e calzerá
peggio, rifiuterá gli onori per non onorare, e, dove egli dovrebbe de'
suoi acquisti esser signore, esso diventa de' suoi tesori vilissimo
servo; e, quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhi
piú diritti all'altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sé
esser povero, e mostrasi; e, brievemente, facendosi dei beni della
fortuna tristissima parte, quanto l'animo suo sia piccolo e misero
manifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprendere
l'avarizia accompagnarsi con la piú misera condizione d'uomini che si
trovi, come la lupa col piú tristo de' lupi si congiugne.

Appresso questo, dissi il lupo essere sospettoso animale: la qual cosa
esser l'avaro, i suoi costumi il dimostrano. Esso con alcun suo amico
non comunica la quantitá de' suoi beni, sospicando non la gran
quantitá palesata gli generi agguati o invidia. E, oltre a ciò, niuna
fede presta all'altrui parole; sempre suspica che viziatamente gli sia
parlato per sottrargli alcuna cosa; in niuna parte estima essere assai
sicuro, e di ciascuno, che guarda la porta della sua casa, teme non
per doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero, né
riposata alcuna notte; ogni piccol movimento di qualunque menomo
animale suspica non andamento sia di ladroni; e, non fidandosi delle
casse ferrate, i suoi danari fida alle cave e fosse sotterranee. Chi
potrebbe assai pienamente narrare i sospetti de' miseri avari, li
quali tutti in sé convertono i lacciuoli, li quali giá hanno tesi ad
altrui?

E perciò, dovendo bastare quello che detto n'è, credo assai
convenientemente l'avarizia o l'avaro convenirsi alla lupa, la quale
piena di spavento si para davanti a colui, il quale i disonesti
guadagni e l'altre men che buone opere vuole lasciare, per dovere in
miglior via ritornare. E nel cuore gli mette cotali pensieri:--Che fai
tu, misero? ove vuo' tu andare? da qual parte comincerai tu a rendere
i furti, le ruberie e le baratterie e i denari in mille modi male
acquistati? vuo' tu lasciare quello che tu hai, per quello che tu non
sai se tu l'avrai? vuo' tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto,
quanto tu hai messo in ragunare? vuo' tu venire alla mercé degli
uomini? come faranno i figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame?
come fará la tua bella donna, e tu, misero, come farai? Tu diventerai
favola del vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vedere
né udire. Tu puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo'
tu lasciare il tuo a coloro da' quali tu l'hai avuto. Egli sará il
meglio che tu attenda a guadagnare.--

E con questa e con simili dimostrazioni, che il misero fa per
sudducimento e opera del dimonio, il quale alla nostra salute sempre
s'oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e, avuta poco a
prezzo la grazia di Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e per
conseguente in eterna perdizione ruiniamo. Né a guardarcene mai
c'induce l'etá piena d'anni; percioché, quantunque gli altri vizi
invecchino con gli uomini, solo l'avarizia inringiovenisce. E di ciò
furono verissimi testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo,
prima lei abbandonarono che essa da loro, vivendo, fosse abbandonata.

[Poterono adunque questi vizi essere all'autore in singularitá cagione
di resistenza e di paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questi
tre animali significhino in altri assai, che, dal vizio partendosi,
vogliono alla virtú ritornare? Nulla altra cosa m'occorre, alla quale
queste tre bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che è
a tutti comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne,
il mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondo
il leone, e 'l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano
e stanno intenti alla nostra dannazione. La carne ne lusinga con la
dolcezza de' diletti temporali, sotto a' quali è nascoso il veleno
infernale, il qual noi, come il pesce con l'ésca piglia l'amo, cosí
quasi sempre co' diletti prendiamo, e, di ciò velenati, miseramente
moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n'ammaestra e sollecita di
stare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «_Vigilate, et
orate: spiritus quidem promptus, caro autem infirma_». E san Paolo
similemente ne rende avveduti e cauti, quando dice: «_Spiritus
concupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum_»; vogliendone
per questo ammaestrare che noi siamo e avveduti e forti a resistere
alle tentazioni carnali. Il simigliante fa il mondo: questi ne para
dinanzi gli splendor suoi, gl'imperi, i regni, le province, gli stati
e la pompa secolare, gli onori e la peritura gloria; nascondendo sotto
la sua falsa luce i tradimenti, le violenze, gl'inganni, le guerre,
l'uccisioni, l'invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai,
senza le quali né pigliare né tenere si possono queste preeminenze,
questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e
ciascuna, n'ha a privare di pace e di riposo e della eterna
beatitudine. Susseguentemente il dimonio, rapacissimo ed insaziabile
divoratore, pieno d'ingegno e d'avvedimento nel male adoperare, ne
minaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della
sua via usciremo; attorniandoci sempre con agguati, non forse da
quelle volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue dimostrazioni
assai volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divina
misericordia, a volontaria morte c'induce: e cosí impedisce tanto chi
vuole alla via della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterne
il conduce. E queste sono le paure, questi sono gl'impedimenti e le
noie che preparate e date da' nostri nemici ne sono, e il nostro ben
volere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia della
lettera l'autore ne dimostra.]

«Mentre ch'io ruinava in basso loco». Nella precedente parte di questo
canto è stato dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore
aver conosciuto il suo stato, e disiderar d'uscir di quello, e tornare
alla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e, oltre
a ciò, quali sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta via
impediscono: in questa parte dimostra il divino aiuto al suo scampo
mandatogli, accioché, schifato lo 'mpedimento delli detti vizi, esso
possa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute.
E come questo mandato gli fosse, piú distintamente si mostrerá nel
canto seguente. E, percioché, come noi per esperienza veggiamo, coloro
i quali delle infermitá si lievano, esser deboli e male atanti della
persona; cosí creder dobbiamo esser l'anima, la quale dalla infermitá
del peccato levandosi, s'ingegna di tornare alla sua sanitá. E, come
il nostro corpo infermo, senza l'aiuto d'alcun bastone sostener non si
puote, né muoversi ad alcuno atto utile; cosí l'anima nostra, dal
peccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto della divina clemenza non
può cosa alcuna aoperare in sua salute. E perciò intende qui l'autore
di mostrarci come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietá
diritti a' nostri bisogni, ne mandi la sua seconda grazia, cioè la
cooperante, con l'aiuto e colla dimostrazione della quale noi prendiam
forza e noi medesimi ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento le
nostre colpe, nel timor di Dio torniamo, e della terza grazia,
perseverando, ci facciam degni, e quindi della quarta.

Le quali cose in questa parte l'autore sotto il velame de' suoi versi
intende, sentendo per Virgilio questa seconda grazia cooperante; e lui
prende come sofficiente, sí per discrezione, e sí per iscienza, e sí
ancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò,
percioché Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quella
medesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora,
percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un poeta
che alcuno altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto che alcun
altro, percioché egli tra' latini ottiene il principato.

E costui, dice, gli apparve «nel gran diserto», cioè in quella parte
dove l'anima sua, timida di non essere dalle lusinghe e dagli
spaventamenti de' suoi viziosi pensieri ritirata nel profondo delle
miserie, del quale del tutto era disposto d'uscire, si ritrovava senza
consiglio alcuno e senza conforto.

Ed è in questa parte da intendere in questa forma: che Virgilio, lá
dove bisogno será, nella presente opera s'intenda per la ragione a noi
conceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati «animali
razionali»; percioché la ragione è quella parte dell'uomo, nella quale
si dee credere questa seconda grazia ricevere e abitare,
conciosiacosaché essa ne sia da Dio data non solamente a cooperare con
l'altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e a
guidare ogni nostra operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa e
ammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da noi lasciata esser
donna e imperadrice de' nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per le
nostre colpe, la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragion
tace e diventa mutola, non comanda, non dispon piú secondo il suo
consiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi della
sensualitá era nell'autore lungo tempo giaciuta, si può dire che nel
primo muover delle sue parole paresse «fioca».

Questa adunque, come il disiderio della virtú torna, abbattuta la
sensualitá, risurge e torna nella sua sedia e manifestasi alla
destituta anima, constituta «nel diserto», cioè nel luogo d'ogni
virtú, d'ogni buona operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni
sua opportunitá: [e, avanti ad ogni altra cosa, fa in se medesima
maravigliar l'anima riconosciuta; per che, lasciando di salire a
Cristo, il quale è principio e cagione d'intera beatitudine, si lascia
dallo spaventamento dei vizi sospignere allo 'nferno. Della qual cosa
segue che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l'avarizia,
e qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale e
laudevole virtú, ella fia scacciata, superata e vinta, e in inferno
rimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita promessa
all'umana generazione, la trasse e menolla nel mondo, accioché per la
sua opera, l'anime, create ad essere beate, fossero laggiú traboccate,
onde ella era stata menata]. E di questo séguita che, poiché, per lo
impedimento dei vizi, quella via piú propinqua di salire a Dio gli era
tolta, che a lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscir
della via del peccato e a Dio ritornarsi, seguire la ragione,
dimostratrice della veritá, a vedere que' luoghi che nel testo si
leggono.

Intorno alla qual cosa è da sapere non essere senza misterio, volendo
uscire dello stato della miseria e ritornar nella grazia, tenere il
cammino che la ragion dimostra all'autore convenirsi tenere. E la
ragione può esser questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare
quello che detto è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali,
conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpe
punite, non è dubbio seguire nell'anima ben disposta il timor di Dio,
il quale è principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questo
timore di Dio incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione e
pentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che la
censura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e da
quella] alla satisfazione, dopo la quale si sale alla gloria, come
possiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro autore
tiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne
può la nostra ragion dimostrare; percioché tutti sono atti civili e
morali e reduttibili agli spirituali.

[Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tien
qui luogo della grazia cooperante, gli dá, cioè che egli per lo
'nferno, cioè per gli atti degli uomini terreni (li quali, a rispetto
de' corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e,
tra quegli, considerati quegli che la nostra ragione, le leggi
positive e la divina dannino: conoscerá quello da che astener si dee
ciascuno che secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol,
merita pena, e qual pena secondo le leggi temporali e secondo
l'eterne; conoscerá la giustizia di Dio, e meritamente avrá timore
dell'ira sua. E da questo luogo, giá delle cose men che ben fatte
pentendosi, venga a vedere coloro che son contenti nel fuoco, cioè
nell'afflizione della penitenzia; accioché quindi, dietro alla guida
della teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion non
può comprendere, salga purgato delle offese all'eterna beatitudine.]
Ed in questo mi pare consista la sentenza dell'allegoria di questo
primo canto.

Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale pare che dirizzi
l'animo ciascuno che il presente libro legge, e quella disidera di
sapere; cioè quello che l'autore abbia voluto sentire per quello
veltro, la cui nazione dice dovere esser «tra feltro e feltro». E, per
quello che io abbia potuto comprendere, sí per le parole dell'autore,
sí per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcun
sentimento, l'autore intende qui dovere essere alcuna costellazion
celeste, la quale dee negli uomini generalmente impriemere la vertú
della liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora persevera quella
del vizio dell'avarizia. Il che l'autore assai chiaro dimostra nel
_Purgatorio_, dove dice:

    O ciel, nel cui girar par che si creda
    le condizion di quaggiú trasmutarsi,
    quando verrá, per cui questa disceda?

cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s'intende il vizio
dell'avarizia. [Or non so io, se questo dovere avvenire, l'autore ne'
moti futuri de' superiori corpi si vide, o se per alcuna altra
coniettura ciò dovere avvenire s'è avvisato: è nondimeno assai chiaro
i costumi degli uomini mutarsi e d'una parte in altra trasportarsi.
Percioché, sí come ne mostrano le istorie de' gentili e ancora
dell'altre, lo 'mperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re,
fu molte centinaia d'anni sotto gli assiri, sotto i medi e sotto i
persi; e lungamente avanti v'era stata la religione e la scienza, le
quali, come prima lá erano state, cosí primieramente se ne partirono,
e vennerne in Egitto, e d'Egitto in Grecia; e poi da Alessandro re di
Macedonia fu d'Asia lo 'mperio trasportato in Grecia, donde la
scienza, la religione e l'armi poi partendosi ne vennero appo i
latini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui paiono andate inver'
ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli, e par giá che il
cielo ne minacci di portarle in Inghilterra: il che per avventura
potrá, se piacer fia di Dio, di questa costellazione che l'autor dice,
avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni del cielo conviene che
quaggiú s'inizino, e comincino ad apparere i loro effetti o per alcuno
uomo, o per piú; par l'autore qui sentire che per uno si debbano gli
alti effetti di questa impression dimostrare: il quale _metaforice_
chiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosí
contrari all'avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al
lupo.

E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua
debba essere tra feltro e feltro. E questa è quella parte dalla quale
muove tutto il dubbio che nella presente discrizion si contiene. La
qual parte io manifestamente confesso ch'io non intendo: e perciò in
questa sarò piú recitatore de' sentimenti altrui che esponitore de'
miei.

Vogliono adunque alcuni intendere questo veltro doversi intendere
Cristo, e la sua venuta dovere esser nell'estremo giudicio, ed egli
dovere allora esser salute di quella umile Italia, della quale nella
esposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma
questa opinione a niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale è
signore e creatore de' cieli e d'ogni altra cosa, non prende i suoi
movimenti dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altra
creatura, seguitano il suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e,
quando quel tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra nuova, e non
saranno piú uomini, ne' quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver
luogo; e la venuta di Cristo non sará allora salute né d'Italia né
d'altra parte, percioché solo la giustizia avrá luogo, e alla
misericordia sará posto silenzio, e il diavolo co' suoi seguaci tutti
saranno in perpetuo rilegati in inferno. E, oltre a ciò, Cristo non
dee mai piú nascere, dove l'autor dice che questo veltro dee nascere.
Né si può dire l'autore aver qui usato il futuro per lo preterito,
quasi e' nacque tra feltro e feltro, cioè della Vergine Maria, che era
povera donna, e nacque in povero luogo: ma questa ragione non
procederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che egli nacque, e, nei
tempi che nacque, era la potenza di questo vizio nelle menti umane
grandissima; né poi si vede, non che essere scacciata, ma né mancata.
Né si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vile nazione:
egli fu figliuolo del Re del cielo e della terra, e della Vergine, che
era di reale progenie. E se dire volessono: ella era povera; la
povertá non è vizio, e perciò non ha a imporre viltá nel suggetto;
percioché noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporali
poverissimi, e ricchissimi di virtú e di santitá. Perché dich'io tante
parole? Questa ragione non procede in alcuno atto.

Altri dicono, e al parer mio con piú sentimento, dover potere
avvenire, secondo la potenza conceduta alle stelle, che alcuno,
poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato (il che
paiono voler quelle parole «tra feltro e feltro», in quanto questa
spezie di panno è, oltre ad ogni altra, vilissima), potrebbe per virtú
e laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire e in tanta
eccellenza di principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni a
magnificenza, senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcuno
acquisto di reame o di tesoro, ed avendo in singulare abbominazione il
vizio dell'avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle cose
appartenenti alla magnificenzia, e la costellazione del cielo
essendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o potrá, muovere gli
animi de' sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie,
e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed,
essendo salute di quella umile Italia, la qual giá fu capo del mondo,
e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte, pare aver potenza,
sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e cosí, d'ogni parte
discacciatala, la rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e in
abusione, o vogliam dire in quella parte dove gli altri vizi son
tutti, e donde ella primieramente surse intra' mortali. E, a roborare
questa loro oppenione, inducono questi cotali i tempi giá stati, cioè
quegli ne' quali regnò Saturno, li quali per li poeti si truovano
essere stati d'oro, cioè pieni di buona e di pura semplicitá, e ne'
quali questi beni temporali dicon che eran tutti comuni; e per
conseguente, se questo fu, anche dover essere che questi sotto il
governo d'alcuno altro uomo sarebbono.

Alcuni altri, accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, danno
del «tra feltro e feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo sé
estimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi i
costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá,
doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello 'mperio di mezzo, lá dove
estimano essere adunate le maggiori [ricchezze e] moltitudini di
tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E
la ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che dicono
essere antico costume degli imperadori dei tartari (le magnificenze
de' quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo, essere
da alcuno de' loro servidori portata sopra un'asta, per la contrada
dov'e' muore, una pezza di feltro, e colui che la porta andar
gridando:--Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta di
tutti i suoi tesori;--e, poi che questa grida è andata, in questo
feltro inviluppano il morto corpo di quello imperadore; e cosí senza
alcun altro ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí: questo
veltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa
costellazione, nascerá in Tartaria, tra feltro e feltro, cioè regnante
alcuno di questi imperadori, il quale regna tra 'l feltro adoperato
nella morte del suo predecessore e quello che si dee in lui nella sua
morte adoperare. Questa oppinione sarebbero di quegli che direbbono
avere alcuna similitudine di vero; la quale non è mia intenzione di
volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è, in quanto dicono
quegli imperadori aver grandissimi tesori, e però quivi mostran che
istimino, dall'abbondanza dei tesori riservati, essendo sparti,
doversi la gola dell'avarizia riempiere e gli effetti magnifichi
cominciare. Il che mi pare piú tosto da ridere che da credere:
percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o sará, non avrebbe
forza di saziare la fame di un solo avaro, non che d'infiniti, che
sempre sopra la terra ne sono. Che dunque piú? Tenga di questo
ciascuno quello che piú credibile gli pare, ché io per me credo,
quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o senza, si
trasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto sopra il
primo canto, basti d'avere scritto [sempre a correzione di coloro che
piú sentono che io non faccio].

Possono per avventura essere alcuni, li quali forse stimano, non
solamente in questo libro, ma eziandio in ogni altro [e ne' divini],
ne' quali figuratamente si parli, ogni parola aver sotto sé alcun
sentimento diverso da quello che la lettera suona; e però, non essendo
nel precedente canto ad ogni parola altro sentimento dato che il
litterale, diranno, nell'aprire l'allegoria, essere difettuosamente da
me proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi 'l
dicesse, questi cotali sono della loro oppenione ingannati; percioché
in ciascuna figurata scrittura si pongono parole che hanno a
nascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa figurata non
ascondono, ma però vi si pongono, perché quelle che figurano possan
consistere: sí come per esemplo si può dimostrare in assai parti nella
presente opera. Che ha a fare al senso allegorico: «La sesta compagnia
in duo si scema»? che n'ha a fare: «Cosí discesi del cerchio primaio»?
che molte altre a queste simili? E, se queste se ne tolgono, come
potrá seguire l'ordine della dimostrazione che l'autore intende di
fare? come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono?
Se ogni parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere,
di soperchio avrebbe san Girolamo detto nel proemio dell'_Apocalissi_,
e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quante
son le parole; conciosiacosaché nell'_Apocalissi_ per eccellenzia
quello si creda avvenire, che in alcun altro libro della Sacra
Scrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú pienamente si creda non
ogni parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santo
Agostino nel libro _Dell'eterna Ierusalem_, dicendo: «_Non omnia, quae
gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed propter
illa, quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terra
proscinditur; sed, ut hoc fieri possit, etiam caetera aratri membra
sunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasis
musicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caetera
in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea,
quae percussa resonant, his connectuntur_», ecc. E perciò estimo che
molto piú onesto sia a credere ad Agostino che stoltamente opinare
quello che manifestamente si può riprovare; e quinci prendere
certezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa, quella non per
negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia l'allegoria,
essere stata intralasciata.



CANTO SECONDO



I

SENSO LETTERALE



                                                                 [Lez. VII]

«Lo giorno se n'andava, e l'aer bruno», ecc. Comincia qui la parte
seconda di questa prima cantica chiamata _Inferno_, nella qual dissi
l'autore cominciare il suo trattato. E, come che questa si potesse in
diverse maniere dividere, questa sola intendo che basti per
universale, cioè dividersi in tante parti, quanti canti seguitano;
percioché pare che ciascun canto tratti di materia differente dagli
altri. E questo canto dividerò in sei parti: nella prima si continua
l'autore al precedente; nella seconda, secondo il costume poetico, fa
la sua invocazione; nella terza muove l'autore a Virgilio un dubbio;
nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella quinta l'autore,
rassicurato, dice di volere seguir Virgilio; nella sesta ed ultima
l'autor mostra come appresso a Virgilio entrò in cammino. La seconda
comincia quivi: «O mese, o alto ingegno»; la terza quivi: «Io
cominciai:--Poeta»; la quarta quivi: «Se io ho ben la tua parola»; la
quinta quivi: «Quale i fioretti»; la sesta quivi: «E poi che mosso
fue».

Dico adunque che l'autore si continua alle cose precedenti; percioché,
avendo detto nella fine del precedente canto sé esser mosso dietro a
Virgilio, nel principio di questo discrive l'ora nella quale si
mossero, dicendo: «Lo giorno se n'andava», e questo per lo chinare del
sole all'occidente; «e l'aer bruno», cioè la notte sopravvegnente, la
qual sempre all'occultar del sole séguita. [Di che appare null'altra
cosa essere il dí, se non la stanza del sole sopra la terra; e questo
è quello che è cosí chiamato, cioè «dí» dalla luce. (E percioché, al
levarsi di quello, sempre la notte fugge, Pronapide, greco poeta e
maestro di Omero, racconta una cotale favola.) E vogliono gli
astrologi questo chiamarsi «dí artificiale», cioè quello spazio il
quale si contiene tra il levare del sole e l'occultare; e la ragione
è, perché essi, usandolo nelle loro elevazioni, d'ogni tempo il
dividono in dodici parti equali, e cosí fanno la notte. Il dí naturale
è di ventiquattro ore equali, e in questo è notte congiunta col dí; ma
dinominasi tutto dí dalla parte piú degna, cioè dalla parte splendida.
E chiamasi dí da «_Dios_» _graece_, il quale in latino viene a dire
«Iddio»; percioché, come Iddio sempre in ogni cosa buona ne giova e
aiuta, cosí nelle nostre operazioni ne aiuta il dí con la sua luce. E
potrebbesi dire che egli n'aiuta nelle buone, percioché chi fa male ha
in odio la luce.] E mostra, per questa discrizione del farsi notte,
che l'autore fosse stato, dal farsi dí infino al farsi notte di quel
dí, in quella valle, occupato da quelle tre bestie ed a ragionar con
Virgilio.

«Toglieva gli animai che sono in terra, Dalle fatiche loro».
Dimostrane qui l'autore una delle operazioni della notte, la quale
l'ordine della natura attribuisce al riposo e alla quiete degli
animali, degli affanni avuti il dí passato; percioché, se alcun tempo
al riposo non si prestasse, non sarebbe alcuno animale che nelle sue
operazioni potesse perseverare; e però dice l'autore che l'aer bruno
«toglieva», cioè levava, «Dalle fatiche loro». E séguita: «ed io sol
uno». Par che qui sia un vizio, il qual si chiama «_inculcatio_», cioè
porre parole sopra parole che una medesima cosa significhino, come qui
sono; percioché «solo» non può essere se non uno, e «uno» non può
essere se non solo; ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso del
parlare, il quale pare aver prescritto questo modo di parlare, contro
al vizio della inculcazione. O potrebbesi dire questo nome «solo»
fosse nome adiettivo, e «uno» fosse nome proprio di quel numero, e
cosí cesserebbe il vizio. «M'apparecchiava a sostener la guerra», cioè
la fatica, nemica e infesta al mio riposo, «sí del cammino», che far
dovea (in che mostra dovere il corpo esser gravato), «e sí della
pietate», cioè della compassione, la quale aspetta d'avere vedendo
l'afflizione e le pene de' dannati e di quegli che nel fuoco si
purgano. Ed in questo dimostra l'anima dovere esser faticata,
percioché essa è dalle passioni, che dalle cose esteriori vengono,
gravata e noiata essa, e non il corpo; quantunque ella sia ancor
gravata dalle passioni corporali. «Che tratterá», cioè racconterá, «la
mente», cioè la potenza memorativa, «che non erra»; e questo dice,
percioché si conosceva aver tenace memoria, per la qual cosa non
temeva dovere errare né nella quantitá né nella qualitá.

«O muse, o alto ingegno». In questa seconda parte l'autore fa la sua
invocazione, secondo il costume poetico. Usano i poeti in pochi versi
dire la intenzion sommaria di ciò che poi intendono di trattare in
tutto il processo del libro, e, questo detto, fare la loro
invocazione. E cosí fa Virgilio nel principio del suo _Eneida_:

	      _... at nunc horrentia Martis
    arma, virumque cano, Troiae qui primus ab oris,_ ecc.;

e, questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:

    _Musa, mihi causas memora; quo numine laeso,_ ecc.

E Ovidio, nel principio del suo maggior volume, dice:

    _In nova fert animus mutatas dicere formas
    corpora;_

ed incontanente invoca, dicendo:

	 _...dii coeptis, nam vos mutastis et illas,
    aspirate meis,_ ecc.

E talvolta i poeti, insieme con la invocazione, mescolano la sommaria
intenzion loro; e cosí, nel principio della sua _Odissea_, fece Omero,
li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio, dicendo:

    _Dic mihi, musa, virum, captae post tempora Troiae,
    qui mores hominum multorum vidit, et urbes._

Cosí similmente il venerabile mio precettore messer Francesco Petrarca
fece nel principio della sua _Africa_, dicendo:

    _Et mihi cospicuum meritis, belloque tremendum,
    musa, virum referas._

Ma il nostro autore s'accostò piú allo stilo di Virgilio, come in
ciascuna cosa fa, che a quello d'alcun altro; percioché, avendo sotto
brevitá nel precedente canto mostrato quello che intende in tutto il
libro suo di dire, lá dove dice: «E trarrotti di qui per luogo
eterno», ecc.; qui fa la sua invocazione, dicendo: «O muse, o alto
ingegno, or m'aiutate. O mente, che scrivesti», ecc. [Invoca adunque
in questo suo principio, sí come appare, le muse, come di sopra è
mostrato far gli altri poeti: per che pare di dover dichiarare che
cosa sieno queste muse e quante, e qual sia il loro uficio; e questo,
sí per piú pienamente dar lo intelletto del presente testo, e sí
ancora perché in piú parti del presente libro se ne fará menzione.]

[È adunque da sapere, secondo che i poeti fingono, che le muse son
nove, e furono figliuole di Giove e della Memoria: e la ragione perché
questo sia da' poeti, fingendo, detto, è questa. Piace ad Isodoro,
cristiano e santissimo uomo e pontefice, nel libro _Delle etimologie_,
che, percioché il suono delle predette muse è cosa sensibile, e che
nel preterito passa, e impriemesi nella memoria, però essere da' poeti
dette figliuole di Giove e della Memoria. Ma io, a maggior
dichiarazione di questo sentimento, estimo che sia cosí da dire: che,
conciosiacosaché da Dio sia ogni scienzia, come nel principio del
libro _Della sapienza_ si legge, e non basti a ricever quella
solamente l'avere inteso, ma che, a farla in noi essere scienza, sia
di necessitá le cose intese commendare alla memoria, e cosí divenire
in noi scienza (il che l'autore appresso assai bene ne dimostra, lá
dove dice:

    Apri la mente a quel ch'io ti paleso,
    e fermal dentro, ché non fa scienza,
    senza lo ritenere, avere inteso);

dobbiamo, e possiam dire, queste muse, cioè scienza, in noi giá
abituata per lo intelletto e per la memoria, potersi dire figliuole di
Giove, cioè di Dio Padre e della Memoria. E dico Giove doversi
intendere qui Iddio Padre, percioché alcuno altro nome non so piú
conveniente a Dio Padre che questo. E la ragione è che Giove si chiama
in latino _Iupiter_, il qual noi intendiamo «_iuvans pater_»: il qual
nome, se ben vorremo riguardare, ad alcun altro che a Dio Padre
dirittamente non s'appartiene, percioché esso solo dirittamente si può
dir padre; percioché, essendo senza avere avuto padre, è delle cose
eterne, ed eziando dell'altre, unico e vero creatore e padre; e, oltre
a ciò, ad ogni onesta operazione è veramente aiutatore, né si può
senza il suo aiuto alcuna cosa perfettamente ad effetto recare: e
cosí, quante volte in alcuno onesto atto Giove si nomina, possiamo e
dobbiamo di Dio onnipotente intendere. Cosí adunque, ritornando al
proposito, meritamente di Giove e della Memoria possiam dire le muse
essere state figliuole, in quanto egli è vero dimostratore della
ragione di qualunque cosa; le quali sue dimostrazioni, servate nella
memoria, fanno scienza ne' mortali, per la quale qui, largamente
prendendo, s'intendono le muse: e cosí sará la memoria, ricevitrice e
ritenitrice di questo santo seme, e poi riducitrice, quasi
partoritrice, madre delle muse. Le quali dice il predetto Isidoro, nel
libro preallegato, esser nominate «_a quaerendo_», cioè da «cercare»;
percioché per esse, sí come gli antichi vogliono, si cerca la ragione
de' versi e la modulazione della voce; e per questo, per derivazione,
viene dal nome loro questo nome di «musica», la quale è scienza di
sapere moderare le voci. E da questa ragione si può prendere la
cagione perché piú se l'hanno i poeti appropriate e fatte familiari
che alcun'altra maniera di scientifici.]

[Son queste muse in numero nove. E perché elle sieno nove, si sforza
di mostrare Macrobio nel secondo libro _Super somnio Scipionis_,
equiparando quelle a' canti delle otto spere del cielo, vogliendo poi
la nona essere il concento che nasce della modulazione di tutti e otto
i cieli; aggiugnendo poi le muse essere il canto del mondo, e questo,
non che dall'altre genti; ma eziandio dagli uomini di villa sapersi,
percioché da loro sono le muse chiamate «camene», quasi «canene», dal
«cantare» cosí nominate.]

[E, accioché voi intendiate che vuol dire questo canto del mondo,
dovete sapere che fu oppinione di Pitagora e di altri filosofi, che
ciascun cielo, di questi otto, cioè l'ottava spera e i sette de' sette
pianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire,
qual piú aguto e qual piú grave, sí, per divino artificio, di debiti
tempi misurati, che, insieme concordando, facevano una soavissima
melodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qual
noi, per l'udirla continuo, non ci curiamo, né vi riguardiamo. Ma
questa oppinione di Pitagora con manifeste ragioni è riprovata da
Aristotile.]

[Ma di questo rende Fulgenzio nel libro delle sue _Mitologie_ altra
ragione, dicendo per queste nove muse doversi intendere la formazione
perfetta della nostra voce: la qual voce, dice, si forma da quattro
denti, li quali la lingua percuote quando l'uomo parla; de' quali, se
alcun mancasse, parrebbe che piú tosto si mandasse fuori un sufolo che
voce. Appresso questo, dice formarsi la voce dalle due nostre labbra,
le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la comoditá
delle nostre parole; e cosí la lingua, col suo piegamento e
circunflessione, essere a modo che un plettro, il quale formi lo
spirito vocale; e quindi essere opportuno il palato, per la concavitá
del quale si proffera il suono. E ultimamente, accioché nove cose
sieno, s'aggiugne la canna della gola, la qual presta il corso
spirituale per la sua ritonda via. Ed oltre a questo, percioché da
molti si dice Apollo cantare con queste nove muse, non altrimenti che
servatore del concento al canto delle predette cose, è dal detto
Fulgenzio aggiunto il polmone, il quale, a guisa d'un mantaco, le cose
concette manda fuori e rivoca dentro. E, non volendo che in cosí
riposto segreto della natura a lui solamente paia di dovere esser
prestata fede di cosí esquisita ragione, induce per testimoni
Anassimandro lampsaceno e Zenofane eracleopolita, li quali conferma
queste cose avere scritte ne' libri loro; aggiugnendo ancora queste
medesime cose da molti chiarissimi filosofi essere affermate, sí come
da Pisandro fisico, e da Eussimene in quel libro il quale egli chiama
_Thelugumenon_.]

[Appresso, il detto Fulgenzio ad altro intelletto e piú divulgato
disegna gli effetti di queste muse, i loro nomi ponendo e quello per
ciascuno in particularitá si debba intendere. E cosí la prima nomina
Clio, e per questa vuole s'intenda il primo pensiero d'apparare;
percioché «_Clios_» in greco viene a dire «_fama_» in latino; e nullo
è che cerchi scienza se non quella nella quale crede potere prolungare
la dignitá della fama sua: e per questa cagione è chiamata la prima
Clio, cioè «pensiero di cercare scienza». La seconda è in greco
chiamata Euterpe, la quale in latino vuol dire «bene dilettante»,
accioché primieramente sia il cercare scienza, e appresso sia il
dilettarsi in quello che tu cerchi. La terza è appellata Melpomene
quasi «_melempio comene_» cioè «facente stare la meditazione»;
accioché primieramente sia il volere, e appresso che quello ti diletti
che tu vuogli, e, oltre a ciò, perseverare, meditando quello che tu
disideri. La quarta ha nome Talia, cioè capacitá, quasí come l'uom
dicesse «_Tithonlia_», cioè «pognente cosa che germini». La quinta si
chiama Polimnia, quasi «_poliumneemen_», cioè «cosa che faccia molta
memoria»; percioché noi diciamo che, dopo la capacitá, è necessaria la
memoria. La sesta è chiamata Erato cioè «_eurun comenon_», il qual noi
in latino diciamo «trovatore del simile»; percioché, dopo la scienza e
dopo la memoria, è giusta cosa che l'uomo di suo trovi alcuna cosa
simile. La settima si chiama Tersicore, cioè «dilettante
ammaestramento»: adunque, appresso la invenzione, bisogna che l'uomo
discerna e giudichi quello che esso truovi. L'ottava si chiama Urania,
cioè «celestiale»; percioché, dopo l'aver giudicato, elegge l'uomo
quello che egli debba dire e quello che egli debba rifiutare;
percioché lo eleggere quello che sia utile e rifiutare quello che sia
caduco e disutile, è atto di celestiale ingegno. La nona è chiamata
Calliope, cioè «ottima voce». Sará dunque l'ordine questo:
primieramente volere la dottrina; appresso dilettarsi in quello che
l'uom vuole; poi perseverare in quello che diletta; e, oltre a ciò,
prendere quello in che si dee perseverare; e quinci ricordarsi di
quello che l'uom prende; appresso trovare del suo cosa simigliante a
quello di che l'uom si ricorda; dopo questo, giudicar di quello di che
l'uom si ricorda; e cosí eleggere quello di che si giudichi; e
ultimamente profferere bene quello che l'uomo avrá eletto.]

[Dalle quali dimostrazioni, e spezialmente per le prime, si può
comprendere che cagione muova i poeti ad invocare il loro aiuto.
Nondimeno pare ad alcuno che le muse si debbano dinominare da
«_moys_», che in latino viene a dire «acqua». E questo vogliono,
percioché il comporre, e ancora il meditare alcuna invenzione e la
composta esaminare, si sogliano con meno difficultá fare su per la
riva di un bel fiume o d'alcun chiaro fonte che in altra parte, quasi
il riguardar dell'acqua abbia alle predette cose e muovere e incitar
gl'ingegni. E questo par che vogliano prendere da ciò che Cadmo re di
Tebe, sedendo sopra il fonte chiamato Ippocrene, trovò le figure delle
lettere greche, le quali essi ancora usano; come che da Palamede poi,
e ancora da Pittagora, ve ne fossero alcune aggiunte; e quivi
similemente meditò la loro composizione insieme, accioché, secondo
quello che era opportuno al greco idioma, per quelle si profferesse;
affermando ancora molti fonti, secondo l'antico errore, essere stati
alle muse consecrati, sí come il fonte Castalio, il fonte Aganippe ed
altri, questo rispetto avendo, che sopra quegli fossero gl'ingegni
umani piú pronti alle meditazioni che in alcun'altra parte.]

«O alto ingegno.» È l'ingegno dell'uomo una forza intrinseca
dell'animo, per la quale noi spesse volte troviamo di nuovo quello che
mai da alcuno non abbiamo apparato. Il che avere sovente fatto
l'autore in questo libro si trova, percioché, quantunque Omero e,
appresso lui, Virgilio dello scendere in inferno scrivessero, ancora
che in alcuna parte gli abbia l'autore imitati nello 'Nferno, nelle
piú delle cose tiene da loro cammino molto diverso: del quale peroché
alcuno altro scrittore non si truova che in quella forma trattato
n'abbia, assai manifestamente possiam vedere della forza del suo
ingegno questa invenzione e il modo del procedere essere premuto.

«Or m'aiutate»: percioché mi bisogna a questo punto la 'nventiva, e 'l
modo del procedere, e la sonoritá dello stilo.

«O mente». Non bastando solo lo 'ngegno, per la cui forza le
pellegrine inventive si truovano, invoca ancora la mente sua,
accioché, per l'opera di lei, quello possa servare e poi raccontare,
che avrá trovato. [Ed è questa mente, secondo che Papia scrive, la piú
nobile parte della nostra anima, dalla quale procede l'intelligenzia,
e per la quale l'uomo è detto fatto alla immagine di Dio; o è l'anima
stessa, la quale per li molti suoi effetti ha diversi nomi meritati.
Ella è allora chiamata «anima», quando ella vivifica il corpo; ella è
chiamata «animo», quando ella alcuna cosa vuole; ella è chiamata
«ragione», quando ella alcuna cosa dirittamente giudica; ella è
chiamata «spirito», quando ella spira; ella è chiamata «senso», quando
ella alcuna cosa sente; ella è chiamata «mente», quando ella sa ed
intende.] Questa sta nella piú eccelsa parte dell'anima, e perciò è
chiamata mente, perché ella si ricorda. Per lo quale effetto qui il
suo aiuto invoca l'autore; percioché, se in questo la mente non
l'aiutasse, invano sarebbe disceso o discenderebbe a vedere tante cose
e cosí diverse, quanto per opera della mente ne scrive.

«Che scrivesti», cioè in te raccogliesti, «ciò ch'i' vidi», nel
cammino da me fatto, «Qui», cioè nella presente opera, «si parrá la
tua nobilitate», cioè la tua sufficienza in conservare; percioché la
nobilitate della cosa consiste molto nello esercitar bene e
compiutamente quello che al suo uficio appartiene.

«Io cominciai:--Poeta». In questa terza parte del presente canto dissi
che l'autore moveva un dubbio a Virgilio: il quale, mosso da
pusillanimitá mostra di temere di mettersi nel cammino, il quale
Virgilio nella fine del primo canto disse di dovergli mostrare; e
dice: «Io cominciai», a dire:--«Poeta», Virgilio, «che mi guidi,
Guarda», cioè esamina, «la mia virtú», cioè la mia forza, «s'ella è
possente», a sostener tanto affanno, quanto nel lungo cammino e
malagevole, per lo quale tu di' di volermi menare, fia di necessitá di
sofferire; e fa' questo, «Prima che all'alto passo», cioè d'entrare in
inferno, «tu mi fidi», tu mi commetta. Quasi voglia dire:--Io vorrei
per avventura ad ora tornare indietro ch'io non potrei.--

«Tu dici». Qui vuole l'autore levar via una risposta, la qual
Virgilio, sí come egli avvisava, gli avrebbe potuta fare, cioè di
dire:--Non puo' tu venire, o non credi poter, lá dove andò Enea e
ancora lá dove andò san Paolo?--E comincia: «Tu dici», nel sesto libro
del tuo _Eneida_, «che di Silvio lo parente», cioè padre.

Ebbe Enea due figliuoli, de' quali fu l'uno chiamato Iulio Ascanio, e
questo ebbe di Creusa, figliuola di Priamo re di Troia; e l'altro ebbe
nome Iulio Silvio Postumo, il quale Lavinia, figliuola del re Latino,
essendo rimasa gravida d'Enea, partorí dopo la morte d'Enea in una
selva. Per la qual cosa ella il cognominò Silvio; e Postumo fu
chiamato, percioché dopo la umazione del padre, cioè poi che 'l padre
fu messo sotterra, era nato: e cosí si chiamano tutti quelli che dopo
la morte de' padri loro nascono.

«Corruttibile ancora», cioè ancora vivo (percioché chiunque nella
presente vita vive è corruttibile, cioè atto a corruzione), «ad
immortale», cioè eterno, «secolo», cioè mondo.

«Secolo», secondo il suo proprio significato, è uno spazio di tempo di
cento anni, secondo il romano uso: ma in questa parte non lo 'ntende
l'autore per ispazio di tempo, ma, seguendo l'uso del parlare
fiorentino, nel quale, volendo dire «in questo mondo», spesso si dice
«in questo secolo», rivolgendo il nome del tempo in nome del luogo
dove il tempo s'usa, cioè nel mondo, chiama «secolo» l'altro mondo,
cioè lo 'nferno, il quale noi similmente assai spesso chiamiamo
«l'altro mondo», il che la sacra Scrittura similemente fa alcuna
volta. [Il quale del presente mondo dicendo, dice san Paolo: «_Pie et
iuste viventes in hoc saeculo_»; e dell'altra vita parlando:
«_Nescimus in quos fines saeculi devenerunt_».]

«Andò, e fu sensibilmente»: volendo per questo s'intenda Enea, non per
visione o per contemplazione essere andato in inferno, ma col vero
corpo sensibilmente. E questo prende l'autore da ciò che Virgilio
scrive nel sesto dell'_Eneida_, nel qual dice che, essendo Enea, poi
che di Cicilia si partí, pervenuto nel seno di Baia, e quivi in assai
tranquillo mare, dando per avventura riposo a' suoi compagni, e
disideroso di sapere quello che di questa sua peregrinazione gli
dovesse avvenire; essendo andato al lago d'Averno, dove avea udito
essere l'oraculo della sibilla cumana ed essa altresí, la pregò che in
inferno il menasse al padre; e, dietro alla sua guida, vivo e con
l'arme discese: e, per quello passando, pervenne ne' campi Elisi, lá
dove quegli, che in istato di beatitudine, erano secondo l'antico
errore. E perciò dice l'autore che egli andò «sensibilmente».

«Perché, se l'avversario d'ogni male», cioè Iddio, «Cortese fu», di
lasciarlo andare senza alcuna offensione, non è maraviglia, «pensando
l'alto effetto Che uscir dovea di lui», cioè d'Enea, «e 'l chi, e 'l
quale», [cioè Cesare dettatore, o Ottaviano imperadore. De' quali
ciascun fu da molto, e ciascun si potrebbe dire essere stato fondatore
della imperial dignitá; percioché, quantunque Cesare non fosse
imperadore, egli fu dettatore perpetuo, e fu il primo, dopo i re
cacciati di Roma, il quale recò nelle sue mani violentemente tutto il
governo della republica. Del quale occupamento seguí il triumvirato di
Ottaviano e de' compagni; e da quello, essendo da Ottaviano, per loro
bestialitá, posti giú dell'uficio del triumvirato Marco Antonio e
Marco Lepido, e rimaso egli solo triumviro, ne seguí, o per tacita
forza, o pure per ispontaneo piacere del senato e del popolo di Roma,
l'essergli il governo della republica commesso, quando cognominato fu
Augusto; dopo il quale sempre fu servato poi, uno dopo l'altro, essere
in quella dignitá sustituiti e chiamati imperadori. E risponde qui
l'autore ad una tacita quistione. Potrebbe alcun dire:--Come déi tu,
che se' cristiano, credere che Iddio fosse piú liberale ad un pagano
di lasciarlo andare vivo in inferno, che a te?--A che egli e nelle
parole predette risponde e in quelle che seguono, dicendo:]

«Non pare indegno» l'avere Iddio sostenuto l'andata d'Enea «ad uomo
d'intelletto», il cui giudicio è ragionevole e giusto, e massimamente
avendo riguardo «Ch'ei», Enea, «fu dell'alma», cioè eccelsa, «Roma»,
la quale tutto il mondo si sottomise, «e dello 'mpero», cioè della
signoria di Roma, o vogliam dire della dignitá spettante a quelli che
noi chiamiamo imperadori, de' quali fu il primo Ottaviano, disceso per
molti mezzi della schiatta d'Enea, «Nell'empireo ciel», cioè nel cielo
della luce dove si crede essere il solio della divina maestá; [e
chiamasi «empireo», cioè igneo, percioché «_pir_» in greco, viene a
dire «fuoco» in latino: e vogliono i nostri santi quello dirsi
«empireo», percioché egli arde tutto di perfetta caritá;] «per padre
eletto». Vuol per questo sentir l'autore per divina disposizione
essere d'Enea seguito quello che leggiamo essere stato operato per li
suoi successori.

E dice qui Enea esser padre di Roma e dello 'mperio, percioché quegli
che di lui nacquero per sedici re, infino a Numitore, che fu l'ultimo
della schiatta d'Enea, regnarono in Alba per ispazio di quattrocento
ventiquattro anni. Poi, essendo di Numitore re nata Ilia, e Amulio,
fratello di Numitore, piú giovane d'etá, tolto a Numitore il regno,
fece uccidere un figliuolo di Numitore chiamato Lauso; e per torre ad
Ilia speranza di figliuoli, la fece vergine vestale, alle quali era
pena d'essere sotterrate vive, se in adulterio fossero state trovate.
Nondimeno questa Ilia, come che ella si facesse, [o con cui ella si
giacesse,] ella ingravidò, e partorí due figliuoli ad un parto, dei
quali l'uno fu chiamato Romolo e l'altro Remulo: li quali, essendo
giá, per comandamento di Amulio, Ilia stata sotterrata viva, furono
gittati, da persone mandate dal re a ciò, non nel corso del Tevero, al
quale, perché cresciuto era, non si poteva andare, ma alla riva: e 'l
fiume scemato, ed essi trovati vivi da una chiamata Acca Laurenzia,
moglie d'un pastore del re, chiamato Faustulo, furono raccolti e
nutricati, niente sappiendone il re, e cosí nominati da Faustolo. Li
quali cresciuti, ed avendo reale animo, ed essendo pastori e capitani
e maggiori di ladroni e d'uomini violenti, ed avendo da Faustulo
sentito cui figliuoli erano; composto il modo tra loro, fu l'un di
loro preso e menato davanti dal re e accusato; e l'altro, attendendo
il re ad udire la querela, feritolo di dietro, l'uccise, e a Numitore
loro avolo, che in villa si stava, restituirono il reame; ed essi,
tornatisene lá dove allevati erano stati, fecero quella cittá, la
qual, da Romolo dinominata Roma, divenne donna del mondo. Per la qual
cosa appare Enea essere stato padre di Roma.

Appresso, partitosi Iulio Proculo, il quale fu bisnipote di Iulio
Silvio e di Romulo, re d'Alba, e discendente, come detto è, d'Enea, e
venutosene con Romolo ad abitare a Roma; quivi fondò la famiglia de'
Giuli secondo che Eusebio, _in libro Temporum_, dice: li quali poi in
Roma, per continue successioni perseverando, infino a Gaio Iulio
Cesare pervennero. Il quale, non avendo alcun figliuolo, s'adottò in
figliuolo Ottaviano Ottavio [li cui antichi, secondo che dice
Svetonio, _De XII Caesaribus_, furono di Velletri], figliuolo d'una
sua sirocchia carnale, chiamata Iulia: ed in costui poi fu di pari
consentimento del senato e del popolo di Roma, come davanti è detto,
commesso il governo della republica, e fu cognominato Augusto; e fu il
primo imperadore, e de' discendenti di Enea. E cosí Enea fu similmente
padre dello 'mperio, cioè della dignitá imperiale.

«La quale», cioè Roma, «e 'l quale», imperio, «a voler dir lo vero,
Fûr stabiliti», ordinati per evidenzia da Dio, «per lo loco santo»,
cioè per la sedia apostolica, «U' siede il successor», cioè il papa,
«del maggior Piero», cioè di san Piero apostolo, il quale chiama
«maggiore» per la dignitá papale e a differenza di piú altri santi
uomini nominati Piero. E che questo fosse preveduto e ordinato da Dio,
appare nelle cose seguite poi, tra le quali sappiamo Costantino
imperadore, mondato della lebbra da san Silvestro papa, lasciò Roma e
la imperial sedia al papa, e andossene in Costantinopoli; e oltre a
questo, ordinò e fe' i suoi successori sempre con la loro potenza
esser presti contro a ciascheduno il quale infestasse o turbasse la
quiete della Chiesa di Dio e dei pastori di quella: per che
meritamente dice l'autore essere stabiliti e Roma e lo 'mperio per lo
santo luogo dell'apostolica sede. E però conoscendo Iddio, al quale
nulla cosa è nascosa, questo, non è da maravigliare se esso fu cortese
ad Enea di lasciarlo andare in inferno; e massimamente sappiendo che
esso dovea laggiú udir cose, le quali l'animerebbero a dover dare
opera a quello di che dovea questo seguire.

E poi soggiugne l'autore: «Per questa andata», di Enea in inferno,
«onde», cioè della quale, «tu mi dái vanto», cioè promessione, dicendo
di menarmi laggiú (benché in alcuni libri si legge: «Per questa
andata, onde tu gli dái vanto», ad Enea, commendandolo ed estollendolo
per quella, lá ove tu di' nel sesto dell'_Eneida_:

    _Noctes atque dies patet atri ianua Ditis
    sed revocare gradum superasque evadere ad auras,
    hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit
    Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
    Dis geniti potuere_:

per le quali parole estimo migliore questa seconda lettera che la
prima), «Intese cose», Enea, «che furon cagione Di sua vittoria», in
quanto, riempiendolo di buona speranza, il fecero animoso all'impresa
contro a Turno re de' rutuli, del quale avuto vittoria, e giá in
Italia divenuto potente, ne seguí l'effetto che poco avanti si legge,
cioè «del papale ammanto». Vuol qui l'autore per parte s'intenda il
tutto, cioè per lo papale ammanto tutta l'autoritá papale. Ed è da
intender qui che egli in quelle cose che da Anchise intese, come
Virgilio nel sesto dell'_Eneida_ mostra, cominciando quivi:

    _Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
    gloria_, ecc.,

non udí cosa alcuna del papale ammanto, ma udí cose le quali poi in
processo di tempo, come detto è, furon cagione che Roma divenisse
sedia del papa, come lungamente giá fu.

«Andovvi poi», cioè lungo tempo dopo Enea, «il vaso d'elezione», cioè
san Paolo, il quale non andò in inferno come Enea, ma fu rapito in
paradiso, lá dove tu di' che io andrò se io vorrò. La qual cosa è
vera, sí come egli medesimo testimonia, affermando sé aver vedute cose
delle quali non è lecito agli uomini di favellare: e percioché Iddio
l'aveva eletto per vaso dello Spirito santo, conoscendo il frutto che
delle sue predicazioni doveva uscire, non è mirabile se Iddio di cosí
fatta andata gli fu cortese, e massimamente considerando che egli
v'andò, «Per recarne», quaggiú tra noi, «conforto a quella fede»,
cristiana, «Ch'è principio alla via di salvazione». E questo è
certissimo, peroché, non possendosi gli alti segreti della divinitá
per alcuna nostra ragione conoscere, è di necessitá, innanzi ad ogni
altra cosa, che per fede si credano. Sí che ben dice l'autore la fede
cattolica esser principio alla via di salvazione; alla quale, ancora
debole e fredda nelle menti di molti giá cristiani divenuti, san
Paolo, con la dottrina appresa nel celeste regno, recò molto conforto,
riscaldando colle sue predicazioni e con l'epistole le menti fredde e
quasi ancora dubitanti.

«Ma io perché venirvi?» ne' luoghi ne' quali tu mi prometti di
menarmi, quasi dica:--per qual mio merito?--«o chi 'l concede?», cioè
che io in questi luoghi debba venire; volendo per questo intendere,
come appresso dimostra, esser temeraria cosa l'andare in alcun segreto
luogo, senza alcun merito o senza licenza.

«Io non Enea», al quale Iddio fu cortese per le ragioni giá mostrate.
Chi Enea fosse, ancora che a molti sia noto, nondimeno piú
distesamente si dirá appresso nel quarto canto di questo libro, e
però, quanto è al presente, basti quello che detto n'è.

«Io non Paolo sono». San Paolo fu del tribo di Beniamin, e fu per
patria di Tarso cittá di Cilicia: [e avanti che divenisse cristiano,
fu nelle scienze mondane assai ammaestrato, e fu ferventissimo
perseguitore de' cristiani. Poi, chiamato da Dio al suo servigio, fu
mirabilissimo dottore, e con le sue predicazioni molte nazioni
convertí al cristianesimo, molti pericoli e molte avversitá di mare e
di terra e d'uomini sostenne per lo nome di Cristo, e ultimamente,
imperante Nerone Cesare, per lo nome di Cristo ricevette il martirio;
e, percioché era cittadino di Roma, gli fu tagliata la testa, e non
fu, come san Piero, crocefisso. Di costui predisse Iacob, molte
centinaia d'anni avanti, in persona di Beniamin suo figliuolo, e del
quale egli doveva discendere: «_Beniamin, lupus rapax, mane devorat
praedam et vespere dividit spolia_». Il quale vaticinio appartenere a
san Paolo assai chiaramente si vede, percioché esso fu lupo rapace: e
la mattina, cioè nella sua giovanezza, divorò la preda, cioè uccise i
cristiani; e al vespro, cioè nella sua etá piú matura, divenuto
servidore a Cristo, divise le spoglie.] Il quale da Dio fu eletto per
conforto della nostra fede.

«Me degno a ciò». Quasi voglia dire: perché io non sia Enea né san
Paolo, io potrei per alcun altro gran merito credere d'esser degno di
venirvi, ma io non so; e, per questo, d'esser di venir degno «né io né
altri il crede».

Appresso questo, conchiude al dubbio suo, dicendo: «Per che», cioè per
non esserne degno, «se del venire», lá dove tu mi vuoi menare, «io
m'abbandono», cioè mi metto in avventura, «Temo che la venuta», mia,
«non sia folle», cioè stolta, in quanto male e vergogna me ne potrebbe
seguire. E quinci rende Virgilio, al quale egli parla, attento a dover
guardare al dubbio il quale egli muove, in quanto dice: «Se' savio,
e», per questo, «intendi me' ch'i' non ragiono», cioè che io non ti so
dire.--E, appresso questo, per una comparazione liberamente apre
l'animo suo dicendo: «E quale è quei che disvuol», cioè non vuole,
«ciò ch'e' volle», poco avanti, «E per nuovi pensier», sopravvenuti,
«cangia proposta», quello che prima avea proposto di fare, «Sí che dal
cominciar tutto si tolle; Tal mi fec'io in quella oscura costa»;
percioché mostra non fossero ancor tanto andati, che usciti fossero
del luogo oscuro, nel quale destandosi s'era trovato. «Per che,
pensando»; mostra la cagione perché divenuto era tale, quale è colui
il quale disvuole ciò ch'e' volle, e dice che, pensando non fosse il
suo andare pericoloso, «consumai», cioè finii, «l'impresa», che fatta
avea di seguir Virgilio. «Che fu, nel cominciar, cotanto tosta», cioè
súbita, in quanto senza troppo pensare aveva risposto a Virgilio, come
nel canto precedente appare, pregandolo che il menasse.

                                                                [Lez. VIII]

--«Se io ho ben la tua parola intesa»--In questa quarta parte del
presente canto, dimostra l'autore qual fosse la risposta fattagli da
Virgilio: nella qual discrive come e da cui e perché e donde Virgilio
fosse mosso a dover venire allo scampo suo. Dice adunque: «Rispuose»,
a me, «del magnanimo quell'ombra», cioè quell'anima di Virgilio, il
quale cognomina «magnanimo», e meritamente, percioché, sí come
Aristotile nel quarto della sua _Etica_ dimostra, colui è da dire
«magnanimo», il quale si fa degno d'imprendere e d'adoperare le gran
cose. La qual cosa maravigliosamente bene fece Virgilio in quello
esercizio, il quale alla sua facultá s'apparteneva: percioché
primieramente, con lungo studio e con vigilanza, si fece degno di
dover potere sicuramente ogni alta materia imprendere, per dovere
d'essa in sublime stilo trattare; e, fattosene col bene adoperare
degno, non dubitò d'imprenderla e di proseguirla e recarla a
perfezione. E ciò si fu di cantare d'Enea e delle sue magnifiche
opere, in onore d'Ottaviano Cesare: le quali in sí fatto e sí eccelso
stilo ne discrisse, che né prima era stato, né fu poi alcun latino
poeta che v'aggiugnesse.--«Se io ho ben la tua parola intesa», cioè il
tuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso, «L'anima tua è da
viltate offesa», cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimitá, la
quale non che le maggiori cose, ma eziando quelle che a colui, nel
quale ella si pon, si convengono, non ardisce d'imprendere. «La qual»,
viltá, «molte fiate l'uomo ingombra», cioè impedisce, «Sí che d'onrata
impresa» [poi fatta] «l'arivolve», [dal]la sua misera e tiepida
oppinione, «Come», ingombra, «falso veder», parendo una cosa per
un'altra vedere (il che addiviene per ricevere troppo tosto nella
virtú fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta),
«bestia quand'ombra», cioè adombra, e temendo non vuole piú avanti
andare. E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «la quale molte fiate
ingombra l'uomo, come falso vedere fa bestia, quand'ombra, e d'onorata
impresa l'arivolve».

Poi séguita: «Da questa téma», la quale tu hai di venire lá dove detto
t'ho, «accioché tu ti solve», cioè sciolghi, sí che ella non ti tenga
piú impedito, «Dirotti perch'i' venni, e», dirotti, «quel ch'io
intesi, Nel primo punto che di te mi dolve», cioè che io ebbi
compassion di te.

«Io era tra color che son sospesi», in quanto non sono demersi nella
profonditá dello 'nferno, né nella profonda miseria de' supplici piú
gravi, come sono molti altri dannati; né sono non che in gloria, ma in
alcuna speranza di minor pena, che quella la qual sostengono. Poi
segue Virgilio: ed essendo quivi, «E donna mi chiamò beata e bella».
Dove, per mostrare piú degna colei che il chiamò, le pone tre epiteti:
prima dice che era «donna», il qual titolo, come che molte, anzi quasi
tutte, oggi usino le femmine, a molte poche si confá degnamente; e
dimostrasi per questo la condizione di costei non esser servile. Dice,
oltre a questo, che ella era «bella»; e l'esser bella è singular dono
della natura, il quale, quantunque nelle mondane donne sia fragile e
poco durabile, nondimeno da tutte è maravigliosamente disiderato;
senza che egli è pure alcun segno di benivole stelle operatesi nella
concezione di quella cotale, che questo dono riceve; e quasi non mai
sogliono i superiori corpi questo concedere, ch'egli non sia d'alcuna
altra grazia accompagnato: per la qual cosa paiono piú venerabili
quelle persone, che hanno bello aspetto, che gli altri. Appresso dice
che era «beata», nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le quali
debbano potere muovere a' suoi comandamenti qualunque persona
richiesta; peroché chi è beato non è verisimile dovere d'alcuna cosa,
se non onestissima, richiedere alcuno; e può chi è beato remunerare; e
dé' si credere lui esser grato verso chi a' suoi piacer si dispone. Le
quali cose Virgilio, sí come avvedutissimo uomo, conoscendo, dice:
ella era «Tal che di comandare i' la richiesi»; cioè offersimi, come
ella mi chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questa
donna esser degna di reverenza, quando tanto uomo, quanto Virgilio fu,
si proffera a lei.

Poi segue continuando il suo dire, e ancora piú degna la dimostra,
dicendo: «Lucevan gli occhi suoi piú che la stella». Dé'si qui
intendere l'autore volere preporre la luce degli occhi di questa donna
alla luce di quella stella ch'è piú lucente. «E cominciommi a dir»,
questa donna, «soave e piana»: nel qual modo di parlare si comprende
la qualitá dell'animo di colui che favella dovere essere riposata, non
mossa da alcuna passione, e, oltre a ciò, in questo disegna l'atto
dell'onesto, il quale in ogni suo movimento dee esser soave e
riposato. «Con angelica voce» aggiugne un'altra cosa, mirabilmente
opportuna nelle donne, d'aver la voce piacevole, né piú sonora né meno
che alla gravitá donnesca si richiede; e queste cosí fatte voci fra
noi sono chiamate «angeliche». E, oltre a questo, l'attribuisce
Virgilio questa voce in testimonio della beatitudine di lei, percioché
estimar dobbiamo alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato.
«In sua favella», cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio
fosse mantovano. Ed in ciò n'ammaestra alcuno non dovere la sua
original favella lasciare per alcun'altra, dove necessitá a ciò nol
costrignesse. La qual cosa fu tanto all'animo de' romani, che essi,
dove che s'andassero, o ambasciadori o in altri ufici, mai in altro
idioma che romano non parlavano; e giá ordinarono che alcuno, di che
che nazion si fosse, in senato non parlasse altra lingua che la
romana. Per la qual cosa assai nazioni mandaron giá de' loro giovani
ad imprendere quello linguaggio, accioché intendesser quello e in
quello sapessero e proporre e rispondere.

Ma potrebbesi qui muovere un dubbio, e dire:--Come sai tu che questa
donna parlasse fiorentino?--A che si può rispondere apparire in piú
luoghi, in questo volume, Beatrice essere stata una gentildonna
fiorentina, la quale l'autore onestamente amò molto tempo; e per
questo comprendere e dire lei in fiorentin volgare aver parlato.

E percioché questa è la primiera volta che di questa donna nel
presente libro si fa menzione, non pare indegna cosa alquanto
manifestare di cui l'autore, in alcune parti della presente opera,
intenda nominando lei, conciosiacosaché non sempre di lei
allegoricamente favelli. Fu adunque questa donna (secondo la relazione
di fededegna persona, la quale la conobbe, e fu per consanguinitá
strettissima a lei) figliuola d'un valente uomo chiamato Folco
Portinari, antico cittadino di Firenze: e, come che l'autore sempre la
nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice; ed egli
acconciamente il testimonia nel _Paradiso_, lá dove dice: «Ma quella
reverenza, che s'indonna Di tutto me, pur per B e per ice». E fu di
costumi e d'onestá laudevole quanto donna esser debba e possa, e di
bellezza e di leggiadria assai ornata; e fu moglie d'un cavaliere de'
Bardi, chiamato messer Simone; nel ventiquattresimo anno della sua etá
passò di questa vita, negli anni di Cristo milleduecentonovanta. Fu
questa donna maravigliosamente amata dall'autore. Né cominciò questo
amore nella loro provetta etá, ma nella loro fanciullezza; peroché,
essendo ella d'etá d'otto anni e l'autore di nove, sí come egli
medesimo testimonia nel principio della sua _Vita nuova_, prima
piacque agli occhi suoi. Ed in questo amore con maravigliosa onestá
perseverò mentre ella visse. E molte cose in rima, per amore ed in
onor di lei giá compose; e, secondo che egli nella fine della sua
_Vita Nuova_ scrive, esso in onor di lei a comporre la presente opera
si dispose; e come appare e qui e in altre parti, assai
maravigliosamente l'onora.

--«O anima». Qui cominciano le parole, le quali Virgilio dice essergli
state dette da questa donna, nelle quali la donna, con tre
commendazioni di Virgilio, si sforza di farlosi benivolo ed
ubbidiente, dicendo primieramente: «cortese», il che in qualunque,
quantunque eccellente uomo e onorevole, titolo è da disiderare,
percioché in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l'esser cortese;
quantunque molti vogliano che ad altro non si riferisca l'esser
cortese, se non nel donare il suo ad altrui; «mantovana», il che la
donna dice per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire e
dica, e non ad un altro; «La cui fama nel mondo ancora dura», cioè
persevera. E questa è la seconda cosa per la quale la donna si vuol
fare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso.

[È la Fama un romore generale d'alcuna cosa, la qual sia stata
operata, o si creda essere stata, da alcuno, sí come noi sentiamo e
ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, della
laudevole povertá di Fabrizio e della fornicazione di Didone e di
simiglianti: la qual finge Virgilio, nel quarto del suo _Eneida_,
essere stata figliuola della Terra e sorella di Ceo e d'Anchelado, e
lei la Terra, commossa dall'ira degl'iddii, aver partorita. Della qual
si racconta una cotal favola, che, conciofossecosaché, per desiderio
d'ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani, uomini
giganti, figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, che
tutti i figliuoli della Terra, li quali inimicavan Giove, furon dal
detto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore la Terra
commossa e disiderosa di vendetta, conciofossecosaché a lei non
fossero arme contro a cosí possenti nemici, accioché con quelle forze,
le quali essa potesse, alcun male contro agl'iddii facesse, costretto
il ventre suo, ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerate
operazioni degl'iddii. La forma della quale Virgilio nel preallegato
libro discrive, e dice:

    _Fama, malum quo non aliud velocius ullum_, ecc.,

seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, e
nella prima tema è piccola, ma poi se medesima lieva in alto, e quindi
va su per lo suolo della terra e il suo capo nasconde tra' nuvoli; e
ch'ella è in su i piè velocissima, e ha alie molto ratte, ed è un
mostro orribile e grande; e quante penne ha nel corpo suo, tanti occhi
n'ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante bocche le
quali continuamente parlano, e tanti orecchi li quali sempre tiene
levati; e vola la notte per lo mezzo del cielo e per l'ombra della
terra, stridendo, senza dormir mai; e 'l dí siede ragguardatrice sopra
la sommitá delle case, e spaventa le cittá grandi: tenace cosí de'
composti mali, come rapportatrice del vero.]

[Ma, se io, avendo la sua origine e la forma e gli effetti secondo le
fizion poetiche discritte, non aprissi quello che essi sotto questa
crosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso. Dico adunque
che gl'iddii, per l'ira de' quali la Terra si commosse e turbò, è da
intendere intorno ad alcuna cosa l'operazion delle stelle, le quali
gli antichi, erronei, chiamavano «iddii», avendo riguardo alla loro
eternitá e alla loro integritá, che alcuna corruzione non ricevea. Le
quali stelle e corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loro
attribuita dal creatore di quelle, adoperano in noi secondo le
disposizioni delle cose riceventi le loro impressioni; e da questo
avviene che il fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera è
aumentato, conciosiacosaché colui che invecchia sia diminuito, e
conciosiacosaché mai si scostino dalla ragione dell'ottimo e perfetto
governatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falso
giudicio de' mortali pare che abbino, sí come adirati, fatte, come
quando per loro opera muore un giusto re, un felice imperadore, un
caro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile ed
egregio cavaliere: e per questo, cioè per lo fare venir meno i solenni
uomini, pare che come adirati contro a loro faccino.]

[Dissono li poeti gl'iddii essere adirati, avendo uccisi coloro li
quali si doveano perpetuare; ma che di questo séguita che la Terra se
ne commuove, cioè l'animoso uomo (percioché tutti siamo di terra, e in
terra torniamo), e sforzasi d'adoperar quello di che nasca nome e fama
di lui, la quale sia vendicatrice della sua futura morte; accioché,
quando quello avverrá che i corpi superiori facciano venire al suo
fine il suo mortal corpo, viva di lui, per li suoi meriti (eziandio
non volendo i corpi superiori), il nome suo e la fama delle sue
operazioni, non altrimenti che esso vivo fosse. E in quanto dice
questa nella prima téma esser piccola, non ce ne inganniamo,
percioché, quantunque grandi sien l'opere delle quali ella nasce,
nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a spandersi.
Poi, in quanto dice Virgilio essa elevarsi ne' venti, niun'altra cosa
vuol dire se non essa divenire in piú ampio favellio delle genti; o
vogliam, per quel, sentire essa mescolarsi ne' ragionamenti delle
genti mezzane. E, in quanto poi discende nel suolo della terra,
intende il poeta lei mescolarsi nel vulgo; e cosí, quando mette il
capo ne' nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere mescolarsi ne'
ragionamenti de' prencipi e degli uomini sublimi. E l'avere l'alie e i
piè veloci assai manifestamente dimostra il suo presto trascorso d'una
parte in un'altra; e per gli occhi, li quali le discrive molti, sente
agli occhi della Fama ogni cosa pervenire, e cosí agli orecchi. E lei
non tacer mai, dove che ella si favelli, o in pubblico o in occulto, o
in un luogo o in un altro; lei non dormir mai, e volar la notte per lo
mezzo del cielo o per l'ombra della terra: non credo altro intendere
si debbia se non il suo continuo andamento di questo in quello e, per
li suoi rapportamenti vari e molti, metter tremore ne' popoli, e per
conseguente fare guardar le terre e alle porti e sopra le torri fare
stare le guardie e gli speculatori. E, percioché essa non cura di
distinguere il vero dal falso, è contenta di rapportare ciò che ella
ode. Ma, in quanto dicono costei dalla Terra essere generata per
dovere i peccati e le disoneste cose degl'iddii raccontare, per
alcun'altra cosa non credo esser stato fitto se non per dimostrare le
vendette degli uomini men possenti, li quali, non potendo altro fare
a' grandi uomini, s'ingegnano, parlando mal di loro, di farli venire
in infamia, e per conseguente in disgrazia delle genti. Figliuola
della Terra è detta, percioché dell'opere sole, che sopra la terra si
fanno, si genera la fama. E che essa non abbia padre credo avvenire da
questo: per lo non sapersi donde il piú delle volte nasca il principio
del ragionare di quello che poi fama diventa; il che se si sapesse,
direbbe l'uomo quel cotale essere il padre della fama.]

La qual cosa, quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, molto
piaccia, sopra a tutti gli altri piacque a' gentili, li quali non
avendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale Iddio
concede a coloro li quali adoperan bene, quegli cotali, li quali
virtuosamente adoperavano, a fine d'acquistar fama il facevano, e
quella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano.

Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si doveva
far benivolo Virgilio. E poi soggiugne la terza, dicendo: «E durerá»,
questa tua fama, «mentre il mondo lontana», ponendo qui il presente
tempo per lo futuro, in quanto dice «lontana» per «lontanerá», cioè si
prolungherá. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed è
questa terza cosa quella che piú piace a coloro li quali fama
acquistano, che essa dopo la lor morte duri lunghissimo tempo,
estimando che quanto piú dura, piú certo testimonio renda della virtú
di colui che guadagnata l'ha. Ed in questo la donna gli compiace, in
quanto gli dice quello che gli è grato ad udire; e, oltre a ciò,
dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui essere
stato per sua grandissima virtú degno d'eterna fama.

[Ma, percioché qui di questa fama si fa menzione, e ancora in piú
parti nel processo se ne fará, e di sopra abbiamo scritta la sua
origine, estimo sia commendabile il mostrare, anzi che piú procediamo,
che differenza sia tra onore e laude e fama e gloria, accioché, dove
nelle cose seguenti menzione se ne fará, s'intenda in che differenti
sieno; e questo dico, percioché giá alcuni indifferentemente posero
l'un nome per l'altro, de' quali forse furono di quegli che non
sapevano la differenza. Dico adunque che «onore» è quello il quale ad
alcuno in presenza si fa, o meritato o non meritato che l'abbia; come
che il meritato sia vero onore e l'altro non cosí: sí come a Scipione
Africano, il quale avendo magnificamente per la republica contro a
Cartagine adoperato, tornando a Roma, gli fu preparato il carro
triunfale e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano,
che eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtú di
colui che il riceveva s'acquistava. A dimostrazione della qual cosa è
da sapere che Marco Marcello, nel quinto suo consolato, secondo che
dice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Seragusa in
Sicilia, e botato in questa guerra un tempio alla Virtú e all'Onore,
fu per lo collegio dei pontefici giudicato a due deitá non potersi un
tempio solo farsi; percioché, se alcuna cosa miracolosa in quello
avvenisse, non si saprebbe a quale delle due deitá ordinare i
sacrifici debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato che a
ciascuna delle due deitá si facesse un tempio; li quali furono fatti
congiunti insieme in questa guisa: che nel tempio fatto in reverenza
dell'Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtú non
s'andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere che onore non si
poteva acquistare se non per operazion di virtú. È, oltre a questo,
fatto onore ad alcuni, li quali per loro meriti nol ricevono, ma per
alcuna dignitá loro conceduta, o per la memoria de' lor passati, o
forse per la loro etá: questi sono, andando, messi innanzi, posti
nelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le «laude», come
l'onore si fa in presenza a colui che meritato l'ha, cosí si dicono
lui essendo assente; percioché, se lui presente si dicessero, non
laude ma lusinghe parrebbono. La «gloria» è quella che delle ben fatte
cose da' grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e si
dicono, e l'essere con ammirazione della moltitudine riguardati e
mostrati e reveriti, come fu giá Giunio Bruto, avendo cacciato
Tarquinio re e liberata Roma dalla sua superbia, e Gaio Mario, avendo
vinto Giugurta e sconfitti i cimbri e i téutoni. «Fama» è quello
ragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d'alcun valente
uomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro li
quali in nota messe l'hanno, spandendosi per lo mondo e molti secoli
continuando; come ancora e udiamo e leggiamo tutto il dí di Pompeo
magno, di Giulio Cesare dettatore, d'Alessandro re di Macedonia e di
simiglianti.]

[Ma da tornare è alla intralasciata materia. E dico che,] avendo
questa donna captata la benivolenzia di Vergilio, gli comincia a
dichiarare il suo disiderio dicendo: «L'amico mio», cioè Dante, il
quale lei, mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamente
avea amata; e però, sí come l'autore nel _Purgatorio_ dice:

				  amore
    acceso da virtú, sempre altro accese,
    sol che la fiamma sua paresse fuore,

mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei; dal quale
onesto amore è di necessitá essere stata generata onesta e laudevole
amistá, la quale esser vera non può, né è durabile, se da virtú
causata non è: e cosí mostra che fosse questa, in quanto la donna, di
lui parlando, il chiama «suo amico». E qui non senza cagione, lasciato
stare il proprio nome, il chiama la donna «amico»: la quale è per
dimostrare, per la virtú di cosí fatto nome, l'autore le sia molto
all'animo e per mostrare in ciò che ella non venga a porgere i preghi
suoi per uomo strano o poco conosciuto da lei. E aggiugne «e non della
ventura», cioè della fortuna, percioché infortunato uomo fu l'autore;
e questo aggiugne ella per mettere compassion di lui in Virgilio, il
quale intende di richiedere che l'aiuti, percioché degl'infelici si
vuole aver compassione. «Nella diserta piaggia», della qual di sopra è
piú volte fatta menzione, «è impedito», dalle tre bestie, delle quali
di sopra dicemmo, «Sí», cioè tanto, «nel cammin, che vòlto è», a
ritornarsi nella oscuritá della valle, «per paura», di quelle bestie.

«E temo che non sia giá sí smarrito, Ch'io mi sia tardi al soccorso»,
di lui, «levata, Per quel ch'io ho di lui nel cielo udito», da Lucia.
E pone la donna queste parole per avacciare l'andata di Virgilio; e
appresso ancora il sollecita dicendo: «Or muovi, e con la tua parola
ornata» (commendalo qui d'eloquenza, la quale ha grandissime forze nel
persuadere quello che il parlatore crede opportuno), «E con ciò che è
mestiere al suo campare, L'aiuta», da quelle bestie che l'impediscono,
«sí», cioè in tal maniera, «ch'io ne sia consolata».

E, dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo: «Io son
Beatrice che ti faccio andare». E, detto il suo nome, gli dice onde
ella viene, per mandarlo in questo servigio, accioché Virgilio conosca
molto calernele; percioché senza gran cagione non è il partirsi alcuno
de' luoghi graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne' quali non è
altra cosa che dolore e miseria. E dice: «Vegno del luogo», cioè di
paradiso, «ove tornar disío». E quinci gli apre la cagione che di
paradiso l'ha fatta discendere in inferno, dicendo: «Amor» [grandi
sono le forze dell'amore: «_Aquae multae non potuerunt extinguere
charitatem_»] «mi mosse», lá onde io era, ed egli è quegli «che mi fa
parlare» e pregarti.

Appresso a questo, accioché Virgilio non sia tardo all'andare, come
persona che guiderdone non aspetta della fatica, si dimostra verso lui
dovere essere grata, dicendo: «Quando sarò dinanzi al Signor mio»,
cioè a Dio, «Di te mi loderò sovente a Lui»:--e cosí non una volta, ma
molte, nella multiplicazion delle quali si mostrerá esserle stato
gratissimo il servigio da lui ricevuto. E quantunque questo
guiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salute
di Virgilio, pur si dee credere piacergli; e questo è, percioché
s'egli gli è a grado che la fama di lui tra gli uomini favelli, quanto
maggiormente si dee credere essergli caro che una cosí fatta donna nel
cospetto di Dio il commendi e lodisi di lui?

«Tacquesi allora», detto questo, «e poi comincia' io», a dire, e
(_supple_) dissi:--«O donna di virtú, sola per cui», cioè per cui
sola, «L'umana spezie»: è l'umana generazione spezie di questo genere
che noi diciamo «animali»; «eccede», cioè trapassa di virtú, ed, oltre
a ciò, in tanto, che essi divengono atti a cognoscere e cognoscono
Iddio, il quale alcun altro animale non cognosce; «ogni contento»,
cioè ogni cosa contenuta, «Dal cielo, c'ha minor li cerchi sui», il
quale è quel della luna, che, percioché piú che alcun altro è vicino
alla terra, è di necessitá minore che alcuno degli altri, e perciò ha
i suoi cerchi, cioè le sue circonvoluzioni, minori, infra' quali gli
elementi ed ogni cosa elementata si contiene, e ancora i demòni e
l'anime de' dannati. Le quali cose tutte, per l'anima razionale e
libera, trapassa l'uomo d'eccellenza.

«Tanto m'aggrada 'l tuo comandamento». Qui si dimostra Virgilio assai
graziosamente disposto al comandamento della donna, mostrando che egli
non solamente disidera d'ubbidirla prestamente, ma dice: «Che
l'ubbidir», al comandamento, «se giá fosse», in atto, «m'è tardi». E
però segue; «Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento»; quasi dica:
assai hai detto, ed io son presto.

Ma nondimeno le muove un dubbio, dicendo: «Ma dimmi la cagion, che non
ti guardi Dallo scender quaggiú in questo centro», pieno di scuritá e
di pene eterne. E chiamasi «centro» quel punto il quale fa quella
parte del sesto, il quale noi fermiamo quando alcun cerchio facciamo:
e però chiama «centro» il corpo della terra, percioché, avendo
riguardo alla grandissima larghezza della circunferenza del cielo e
alla piccola quantitá del corpo della terra posta nel mezzo de' cieli,
qui si può dire centro del cielo. «Dall'ampio loco», cioè dal cielo,
«ove tornar tu ardi», cioè ardentemente disideri.

Al quale Beatrice dice cosí:--«Da poi che vuoi saper cotanto
addentro», cioè sí profonda ed occulta cosa, «Dirotti brevemente--mi
rispose--Perch'i' non temo di venir qua entro», in questo carcere
cieco. «Temer si dee sol di quelle cose, C'hanno potenza di fare
altrui male». Sí come Aristotile nel terzo dell'_Etica_ vuole, il non
temer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni, gl'incendi e'
diluvi dell'acque, le ruvine degli edifici e simili a queste, è atto
di bestiale e di temerario uomo; e cosí temere quelle che nuocere non
possono, come sarebbe che l'uomo temesse una lepre o il volato d'una
quaglia o le corna d'una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido e
rimesso. Le quali due estremitá questa donna tocca discretamente,
dicendo esser da temere le cose che possono nuocere. «Dell'altre no»,
cioè quelle «che non son poderose» a nuocere, e che non debbon metter
paura nell'uomo, il qual debitamente si può dir forte.

E quinci dimostra sé essere di quei cotali forti, dicendo: «Io son da
Dio; sua mercé»: quasi dica: non per mio merito; fatta «tale», cioè
beata, alla quale cosa alcuna noiosa, quantunque sia grande, non puote
offendere; «Che la vostra miseria», cioè di voi dannati, «non mi
tange», cioè non mi tocca, quantunque io venga qua entro; «Né fiamma
d'esto incendio», il quale è qui. E per questa parola nota quegli del
limbo essere in foco, quantunque nel quarto canto l'autore dica
quelli, che nel limbo sono, non avere altra pena che di sospiri. «Non
m'assale», cioè non mi si appressa.

«Donna è nel cielo». Vuole qui mostrare Beatrice non di suo proprio
movimento mandare Virgilio al soccorso dell'autore, ma con divina
disposizione, percioché in cielo alcuna cosa non si fa che dall'ordine
della divina mente non muova; e perciò vuol mostrare che «Donna è
lassú nel Ciel, che si compiange», cioè si rammarica. Né è questo da
credere che in cielo sia, o possa essere alcuno rammarichío, ma
conviene a noi da' nostri atti prendere il modo del parlare
dimostrativo, a fare intendere gli effetti spirituali; e percioché
l'effetto il quale seguí del venire Beatrice a Virgilio, venne da una
clemenzia divina quasi mossa, come le nostre si muovono, per alcuno
rammarichío; e però dice Beatrice, quella donna compiangersi, cioè
mostrare una affezione dell'impedimento dell'autore, come qui tra noi
mostra chi ha compassion d'alcuno. «Di questo impedimento, ov'io ti
mando», cioè alla salute dell'autore; «Sí che duro», cioè stabile e
fermo, «giudicio», cioè disposizione di Dio, «lassú», cioè in cielo,
«frange», cioè s'apre; e dimostra come le marine onde, cacciate
talvolta dall'impeto d'alcun vento, che vengono insino alla terra
chiuse, e quivi frangendo s'aprono: e cosí sta chiusa ed occulta la
divina disposizione, infino a tanto che di manifestarla bisogni.

«Lucia chiese costei», cioè questa donna chiese Lucia, «in suo
dimando», cioè nel suo priego. Il senso di questa lettera, quantunque
alquanto di sopra aperto n'abbia, non si può qui mostrare essere
litterale, e però è da riserbare quando si tratterá l'allegorico. «E
disse», questa donna:--«Ora ha bisogno il tuo fedele, Di te»;
percioché è in grandissima tribulazione, per la paura la quale ha
delle tre bestie, che il suo cammino impediscono; «ed io a te lo
raccomando»;--volendo dire, poiché suo fedele era, che ella nel suo
scampo s'adoperasse. «Lucia, nemica di ciascun crudele, Si mosse»,
udito questo, «e venne al loco dov'io era, Ch'i' mi sedea con l'antica
Rachele». Rachele fu figliuola di Laban, fratello di Rebecca moglie
d'Isach, e fu moglie di Giacob: la quale storia alquanto piú
distesamente si racconterá appresso nel quarto canto di questo libro.
«Disse:--Beatrice, loda», cioè laudatrice, «di Dio vera»; quasi voglia
per questo intendere essere vere, e non lusinghevoli né fittizie, le
parole con le quali Beatrice loda Iddio. «Che non soccorri quei che
t'amò tanto», avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa,
«Ch'uscí per te della volgare schiera?», cioè, che per piacerti,
lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazioni
laudevoli. «Non odi tu la pièta», cioè l'afflizione, «del suo pianto»,
il quale egli fa nella diserta piaggia? «Non vedi tu la morte, che 'l
combatte», cioè la crudeltá di quelle bestie, le quali con la paura di
sé il combattono e conduconlo alla morte, «Su la fiumana»: qui chiama
«fiumana» quello orribile luogo nel quale l'autore era da quelle
bestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paure
induca la fiumana, cioè l'impeto del fiume crescente, il quale è di
tanta forza, che dir si può «ove», sopra la quale, «'l mar non ha
vanto?»--cioè non si può il mare vantare d'essere piú impetuoso o piú
pericoloso di quella.

«Al mondo non fûr mai persone ratte», cioè fûr sollecite, «A far lor
pro», loro utilitá, «ed a fuggir lor danno, Com'io», sollecitamente,
«dopo cotai parole fatte, Venni quaggiú», in inferno, «del mio beato
scanno», cioè del luogo mio, lá dove io in paradiso sedea, «Fidandomi
del tuo parlare onesto»; qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo
il suo parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si può
dire; «Che onora te», Virgilio; e non solamente te, ma ancora «e quei
che udito l'hanno»,--e servato nella mente; percioché l'avere udito
senza averlo servato, e poi ad esecuzione in alcuno laudevole atto non
messo, non può avere onorato l'uditore. E mostra ancora in queste
poche parole precedenti l'ardente sua affezione verso l'autore, acciò
per quello faccia ancora piú pronto Virgilio al soccorso dell'autore.

«Poscia che m'ebbe», cioè Beatrice, «ragionato questo», che detto
t'ho, «Gli occhi lucenti lagrimosi volse», per avventura verso il
cielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione a
Virgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora piú d'affezion si
dimostra, dimostrandosi ancora un atto d'amante, e massimamente di
donna, le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale disiderino,
incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere
ardentissimo. Per la qual cosa dice Virgilio: «Per che mi fece del
venir piú presto: E venni a te», nella piaggia diserta, dove tu
rovinavi lá dove il sol tace, «cosí come ella vòlse»; quasi voglia
dire che altrimenti non sarei venuto. «Dinanzi a quella fiera», cioè a
quella lupa ferocissima, «ti levai, Che del bel monte», sovra 'l qual
tu vedesti i raggi del sole, «il corto andar ti tolse»; percioché, se
davanti parata non ti si fosse, in brieve spazio saresti potuto sopra
il monte essere andato; dove per lo suo impedimento, a volervi sú
pervenire, ti convien fare molto piú lungo cammino.

«Dunque, che è?» cioè quale cagion'è, «perché, perché ristai?» di
seguirmi; e reitera la interrogativa, per pungere piú l'animo
dell'uditore; «Perché», cioè per qual cagione, «tanta viltá», quanta
tu medesimo nelle tue parole dimostri, «nel cuor t'allette?», cioè
chiami colla falsa estimazione, la qual fai delle cose esteriori;
«Perché ardire e franchezza non hai?». E massimamente: «Poi che tali
tre donne benedette», quali di sopra detto t'ho, cioè quella donna
gentile, e Lucia e Beatrice, «Curan di te», cioè hanno sollecitudine
di te e procuran la tua salute, «nella corte del cielo», nella quale
sussidio non è mai negato ad alcuno che umilemente l'addomandi; e,
oltre a ciò, «E 'l mio parlar», al quale tu dovresti dare piena fede,
se tanto amore hai portato e porti alle mie opere (come davanti
dicesti: «Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore», ecc.), «tanto
ben ti promette?»--cioè di conducerti salvamente in parte, della qual
tu potrai, se tu vorrai, salire alla gloria eterna.

«Quale i fioretti». Qui dissi cominciava la quinta parte di questo
canto, nella quale l'autore, per una comparazione, dimostra il perduto
ardire essergli ritornato e il primo proponimento. Dice adunque cosí:
«Quale i fioretti», li quali nascono per li prati, «dal notturno gelo.
Chinati, e chiusi»; percioché, partendosi il sole, ogni pianta
naturalmente ristrigne il vigor suo; ma parsi questo piú in una che in
un'altra, e massimamente nei fiori, li quali per téma del freddo,
tutti, come il sole comincia a declinare, si richiudono: «poi che 'l
sol gl'imbianca», con la luce sua, venendo sopra la terra. E dice
«imbianca», per questo vocabolo volendo essi diventar parventi, come
paiono le cose bianche e chiare, dove l'oscuritá della notte gli
teneva, quasi neri fossero, occulti. «Si drizzan tutti»; percioché,
avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturno
chinare, ma, come il sole punto gli riscalda, tutti si drizzano,
«aperti in loro stelo», cioè sopra il gambo loro, «Tal mi fec'io»,
quale i fioretti, «di mia virtute stanca», per la viltá che m'era nel
cuor venuta; «E tanto buono ardire al cuor mi corse», per li conforti
di Virgilio, «Ch'io cominciai», a dire, «come persona franca», forte e
disposta ad ogni affanno:--«O pietosa colei», cioè Beatrice, «che mi
soccorse», col sollecitarti, e mandarti a me; «E tu», fosti, «cortese,
che ubbidisti tosto Alle vere parole, che ti porse!»; percioché, dove
venuto non fossi, io era veramente per perire. «Tu m'hai con disiderio
il cuor diposto Sí al venir con le parole tue», cioè con i tuoi ùtili
conforti e vere dimostrazioni, «Ch'io son tornato nel primo proposto»,
cioè di seguirti. «Or va', ch'un sol volere è d'amendue». Non si
potrebbe in altra guisa bene andare, se non fosser la guida e 'l
guidato in un volere. «Tu duca», quanto è nell'andare, «tu signore»,
quanto è alla preeminenza e al comandare, «e tu maestro»,--quanto è al
dimostrare; percioché uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e
il solvere de' dubbi.

«Cosí gli dissi: e, poi che mosso fue». Qui comincia la sesta ed
ultima parte di questo canto, nella quale l'autore mostra come da capo
riprese il cammino con Virgilio. «Entrai», con Virgilio, «per lo
cammino alto», cioè profondo, «e silvestro», percioché in quello luogo
né albergo né abitazione alcuna si trovava.



II

SENSO ALLEGORICO


«Lo giorno se n'andava e l'aer bruno», ecc. È stato dimostrato dalla
ragione, nella fine del precedente canto, qual via al peccatore tener
gli convegna, per dover salire alla beata vita e partirsi della
miseria della tenebrosa valle. Per la qual dimostrazione, essendosi
esso messo dietro alla ragione in cammino, per continuarsi alle
predette cose, discrive l'autore, nel principio di questo secondo
canto, l'ora nella quale in questo cammino entrarono, la qual dice
essere stata nel principio della notte. Sono adunque, intorno alla
allegoria del presente canto, principalmente da considerare tre cose:
delle quali è la primiera qual ragione possa essere per la quale esso
di notte cominci il suo cammino; appresso è da vedere donde potesse
nascere la viltá, la qual dimostra nel dubbio il quale muove a
Virgilio; ultimamente è da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
perché del limbo, a venire nel suo aiuto. Percioché, veduto questo,
assai chiaramente si vedrá per qual cagione da lui si rimovesse la
viltá sua.

È adunque intenzione dell'autore di dimostrare nella prima parte, che
dissi essere da considerare, che, quantunque l'uomo peccatore, tócco
dalla grazia operante di Dio, abbia tanto di conoscimento ricevuto,
ch'egli s'avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e per
quello in pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri di
ritornare alla via della veritá e d'acquistare salute, e per questo
messo si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonno
stata desta; non esser perciò incontanente tornato nello stato della
grazia, [se altro non s'adopera. E perciò, accioché in quella tornar
si possa, si vuole insiememente pregare Iddio col salmista, dicendo:
«_Domine, deduc me in iustitia tua: propter inimicos meos dirige in
cospectu tuo viam meam_»; e, oltre a questo, fare alcune altre cose,
secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono, come altra
volta ho detto, il conoscere pienamente i difetti della vita passata,
e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle braccia rimettersene
della Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene, disposto a satisfare.
E, questo fatto, potrá veramente credere sé essere nello stato della
grazia di Dio tornato, e le sue buone opere essere accettevoli e
piacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua salute. Ma, infino a
tanto che in questa grazia non è il peccatore ritornato, non può
andare per la via della luce, ma va per le tenebre notturno. E perciò,
per dovere tosto a quella grazia pervenire, dee il peccatore
ingegnarsi di fare ogni atto meritorio: far limosine, l'opere della
misericordia, usare alla chiesa, digiunare, orare, e simili cose
adoperare; percioché, quantunque senza lo stato della grazia a salute
non vagliano, sono nondimeno preparatorie a doversi piú prontamente e
piú prestamente menare a meritare e ad avere la divina grazia.] E
perciò, quantunque ad averla l'autore si disponga, percioché ancora
non l'ha, ne dimostra il principio del suo cammino cominciarsi di
notte.

Séguita di vedere, essendo l'autore giá entrato dietro alla ragione in
cammino, donde potesse nascere in esso la viltá d'animo, la qual
dimostra nel dubbio, il quale seco medesimo muove alla ragione: nel
quale assai manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazia
non esser tornato, e per questo aver avuto in lui forza il sospettare
de' consigli della ragione. Per la qual cosa in molti avviene che, in
se medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragione
disputano; e di questo, considerata la nostra fragilitá, non ci
dobbiamo noi per avventura molto maravigliare. E la ragione può esser
questa. Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nel
mutamento d'uno stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare e
stare in pendente, s'è il migliore o non è, dello stato nel quale si
trova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è alcun
dubbio che, stando l'uomo in pendente, che ogni piccola sospinta il
può muovere e farlo piú nell'una parte che nell'altra pendere. Avviene
adunque che quegli, i quali, come detto è, seco talvolta raccolti
sono, quantunque vere conoscano le dimostrazioni della ragione e santi
i suoi consigli, nondimeno d'altra parte, ascoltando le lusinghe della
blanda carne, i conforti del mondo, le persuasioni del diavolo, a poco
a poco cacciando della mente loro il fervor preso del bene adoperare,
non fermato ancora da alcun forte proponimento, intiepidiscono e
divengon vili e timidi; avvisando, per li conforti de' suoi nemici, sé
non dovere poter bastare a quello che il bene adoperare e lo stato
della penitenza richiede. Per la qual viltá, se da solenne aiuto
cacciata non è, assai leggiermente miseri volgiamo i passi e nella
nostra morte ci ritorniamo. La qual cosa all'autore avvenia, se le
pronte e vere dimostrazioni della ragione non l'avesser ritenuto e
confortato a seguitar l'impresa.

Ultimamente dissi che era da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
perché del limbo, a venire in aiuto dell'autore: alla qual
dimostrazione tiene questo ordine l'autore. E' pare essere assai
manifesto che ciascheduno, il quale, dalla grazia operante di Dio
tócco, si desta e vede la miseria nella quale le sue colpe l'hanno
condotto, e, cacciate le tenebre della ignoranza, conosce in quanto
mortal pericolo posto sia; che egli, dopo alcuna paura, disideri
fuggire il pericolo e ricorrere alla sua salute: il che, non che
l'uomo, ma eziandio ogni altro animale naturalmente procura. E questo
assai bene apparisce l'autore aver cominciato a fare nel principio
della presente opera, in quanto, desto e conosciuto il suo malvagio
stato, ha cominciato a fuggire il pericolo, e mostra di disiderare di
pervenire alla salute: e ora in questa parte ne mostra quale dee
essere quello che ciascuno, il quale questo disidera, dee, sí come piú
presto e piú al suo bisogno opportuno, fare. E ciò mostra dovere
essere l'orazione; percioché non si può cosí prestamente ricorrere
all'altre cose necessarie alla salute come a quella; e, come che
ancora questo si potesse, non pare ben si proceda, se questa non va
avanti. Alla quale eziandio la natura c'induce, sí come noi per
esperienza veggiamo, percioché, incontanente che alcuna cosa sinistra
veggiamo contro a noi muoversi, subitamente preghiamo per lo divino
aiuto. La qual cosa per avventura vuol mostrar d'aver fatta l'autore
in quelle parole del primo canto, dove dice: «Guardai in alto e vidi
le sue spalle»; percioché atto è di coloro, li quali adorano, levare
il viso al cielo, accioché in quell'atto parte della loro affezione
dimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne' nostri bisogni,
ne sollecita Gesú Cristo nell'Evangelio, dove dice: «_Pulsate et
aperietur vobis, petite et dabitur vobis_». È il vero che l'orazione
almeno queste due cose vuole avere annesse, fede e umiltá; percioché
chi non ha fede in colui il quale egli priega, cioè ch'egli possa fare
quello che gli è domandato, non pare orare, anzi tentare e schernire.
La qual fede quanto fervente e ferma fosse, apparve nella femmina
cananea, la quale, ancora che non fosse del popolo di Dio, nondimeno
tanta fede ebbe in Gesú Cristo, che istantissimamente il pregò che
liberasse la figliuola dal dimonio che la 'nfestava; e, non essendole
da Cristo alcuna cosa risposto, la intera fede la fece ferma e
costante di perseverare nel priego incominciato. Alla quale avendo
Cristo risposto che non si volea prendere il pane dei figliuoli e
darlo a' cani, non lasciando per questa repulsa, e sospignendola la
sua fede, continuò nel pregare. E, avendo affermato quello, che Cristo
avea detto, esser vero, disse:--Signor mio, e i cani, che si allevano
nella casa, mangiano delle miche che caggiono della mensa del signor
loro.--Volendo per questo dire:--Io cognosco che io non sono del popol
tuo, il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non debbo il pane de'
tuoi figliuoli avere; ma io sono uno de' cani allevato in casa tua;
non mi negare quello che a' cani si concede, cioè delle miche che
caggiono dalla mensa tua.--La cui ferma fede conoscendo Cristo, non le
volle, quantunque de' suoi figliuoli non fosse, negare la grazia
addomandata; ma, rivolto a lei, disse:--Femmina, grande è la fede tua:
va', e cosí sia fatto come tu hai creduto.--E quella ora fu dal
dimonio liberata la figliuola di lei.

Vuole adunque l'orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete,
con istanzia; percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, non
perché la liberalitá sua sia minore, o men volentieri faccia
l'addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore e
accioché piú caramente riceviamo quello che con istanzia impetriamo.
Vuole ancora l'orazione esser umile, percioché alcuna nobiltá di
sangue, né abbondanza di sustanze temporali, né magnificenza
d'imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra levare un
attimo. L'umiltá sola è quella che l'impenna, e falla infine sopra le
stelle volare e quella condurre agli orecchi del Signor del cielo e
della terra. Gran forze son quelle dell'umiltá nel cospetto di Dio: e
come che assai in ciascuna cosa che l'uom vorrá riguardare appaia,
nondimeno mirabilmente il dimostrò nella sua incarnazione; percioché
non real sangue, non etá, non bellezza, non simplicitá, ma sola umiltá
riguardò in quella Vergine, nella quale Egli, di cielo in terra
discendendo, incarnò e prese la nostra umanitá; sí come essa medesima
Vergine testimonia nel suo cantico, quando dice: «_Respexit
humilitatem ancillae suae_»; per che da questa parola degnamente essa
medesima segue: «_Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles_».

Fece adunque il nostro autore fedele ed umile orazione a Dio per la
salute sua: la quale, sí come esso medesimo scrive, salí in cielo nel
cospetto di Dio guidata dall'umiltá; percioché, come vedere abbiam
potuto nel precedente canto, l'autore non solamente avea cacciata da
sé la superbia, ma avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noi
credere la pietosa e divota orazione guidata dall'umiltá essere
ricevuta in cielo? Certo, non altrimenti che ricevuto fosse il
figliuol prodigo dal pietoso padre, del quale il santo Evangelio ne
dimostra. Fece il pietoso padre uccidere il vitello sagginato, fece
parare il convito, fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò e
fece festa di avere racquistato il suo figliuolo, il quale gli pareva
aver perduto. Cosí si dee credere l'onnipotente Padre aver fatto in
cielo, sentendo per la divota orazione colui alla via della veritá
ritornare, il quale del tutto partito se n'era e ogni sua grazia avea
dispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere averne fatta
gli angeli di vita eterna? la letizia de' quali è maggiore sopra un
peccatore che torni a penitenzia, che sopra novantanove giusti. Posta
dunque l'orazione nel cospetto di Dio, quivi, dolendosi del malvagio
stato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ella
priega scrive l'autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Lucia
e, come suo fedele e che ha di lei bisogno, a lei il raccomanda. E
cosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazione
fatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia la
divina clemenza, la divina misericordia, la divina benignitá, la qual
veramente è nimica di ciascun crudele, percioché in alcun crudele né
pietá né misericordia si trova giammai.

Appare adunque per questo che l'orazione dell'autore addomandasse
misericordia, per la qual sola noi possiamo, avendo peccato, nella
grazia di Dio ritornare; percioché egli è tanta la indegnitá e la
iniquitá del peccatore in adoperare contro a' comandamenti di Dio,
che, se la sua misericordia non fosse, alcun nostro merito mai ci
potrebbe nel suo amore ritornare.

Quinci, per le cose che seguitano, appare il Nostro Signore aver
prestati benignamente gli orecchi della sua divinitá a' prieghi fatti
dall'umile orazione, in quanto dice l'autore che Lucia, cioè la divina
misericordia, chiamò Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere in
atto il priego ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivi
la grazia salvificante o vogliam dire beatificante s'intende, alla
salute del pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divina
mente procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtú
della orazione, la quale, fatta in terra, adopera in cielo: il che qui
manifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato; percioché la
forza della sua orazione ha rotto e annullato il duro giudicio di Dio,
nel quale esso Iddio vuole che il peccatore sia punito; e l'umile
orazione ha tanto potuto che, rotto questo giudicio, al peccatore, in
luogo della pena, è conceduta misericordia; e non solamente
misericordia, ma ancora preparatagli e mostratagli la via da pervenire
a salvazione. Che adunque avviene? Che, per lo desiderio della salute
sua, la divina bontá fa che, per la grazia salvificante, si muove
Virgilio del limbo: il quale qui si prende per la ragione, per la
quale noi siamo detti «animali razionali», o vogliam dire, per la
grazia cooperante, o vogliam dire l'una e l'altra insieme;
conciosiacosaché alcuno piú atto luogo in noi io non cognosca, dove la
grazia cooperante mandatane da Dio si debba piú tosto ricevere che
nella sedia della ragione; conciosiacosaché essa, dopo la grazia
operante ben ricevuta, ogni bene in noi disponga e ordini, e con noi
insieme adoperi.

E, a dichiarare come Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, come
giá dicemmo, esser due mondi: l'uno si chiama il maggiore e l'altro il
minore, sí come ne mostra Bernardo Silvestre in due suoi libri, de'
quali il primo è intitolato _Megacosmo_ da due nomi greci, cioè da
«_mega_», che in latino viene a dire «maggiore», e da «_cosmos_», che
in latino viene a dire «mondo»: e il secondo è chiamato _Microcosmo_,
da «_micros_», greco, che in latino viene a dire «minore», e
«_cosmos_», che vuol dire «mondo». E, ne' detti libri, ne dimostra il
detto Bernardo il maggior mondo esser questo il quale noi abitiamo, e
che noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l'uomo,
nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsi
tutti o quasi tutti gli accidenti che nel maggior mondo sono. Ed è del
maggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha sopra di
sé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della terra, o la
estrema superficie della terra che noi vogliam dire. E, quantunque
l'autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio essere nel
limbo, [cioè nell'uno] del maggior mondo, non è da intendere che
quindi fosse mossa la ragione da Beatrice, ma fu mossa dal limbo del
mondo minore, cioè dalla piú eminente parte dell'uomo, la quale è il
cerebro, sopra il quale nulla altra cosa è del nostro corpo, se non il
cranio e la cotenna; percioché in quello fu da Dio locata la ragione.
E questo, percioché ad essa è stata commessa la guardia di tutto il
corpo nostro, e, oltre a ciò, il dominio a dovere regolare i movimenti
della nostra sensualitá, sí come ad ottima distinguitrice delle cose
nocive dall'utili. E convenevole cosa è che colui al quale è commessa
la guardia d'alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte di
quella, accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosa
emergente, e a quelle cose, che fossero avverse alla cosa la qual
guarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi: la
qual cosa ne' sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nella
superiore parte di noi. Oltre a questo, come il savio re pone il suo
real solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser di
maggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via le
sedizioni e i movimenti inimichevoli, fu di bisogno la ragione esser
posta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che in tutto il
rimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché nella nostra
testa son gli occhi, gli orecchi, la bocca e tutti gli altri sensi del
corpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno della ragione. E
perciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere cose assai
dannose, dove dalla ragione sono oppresse e diminuite le forze loro. E
questa sedia della ragione essere nel nostro cerebro, e perché quivi,
ottimamente sotto maravigliosa fizione dimostra Virgilio nel primo
dell'_Eneida_, dove dice:

    _Aeoliam venit: hic vasto rex Aeolus antro_, ecc.,

e, appresso a questo, in piú altri versi.

È adunque nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo,
la ragione, e quindi la muove la grazia salvificante in soccorso del
peccatore. Il quale movimento non si dee altro intendere se non un
rilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenuta
l'aveano l'appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i piedi
delle loro scellerate operazioni tenendo, aveano occupata la sedia
sua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo oficio
esercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell'esser fioca
dimostrava la lunghezza della sua servitudine: e, cosí rilevatala, in
essa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo smarrito
intelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio che noi,
quante volte ci ravveggiamo delle nostre disoneste operazioni, tante
per divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i quali non siamo
quanto nella ignoranza de' peccati dimoriamo: anzi, avendo la ragion
perduta, siamo divenuti quegli animali bruti, a' quali, come altra
volta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il che se altra
dottrina non ci mostrasse, spesse volte ne 'l mostrano le poetiche
fizioni, quando ne dicono alcuno uomo essersi trasformato in lupo,
alcuno in leone, alcuno in asino o in alcun'altra forma bestiale. E
come la ragione dalla grazia salvificante è nella sua real sedia
rimessa, fatta donna e consultrice e aiutatrice del peccatore, il
toglie co' suoi ammaestramenti dinanzi a' vizi, li quali gli hanno
tolta la corta salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E
«corta» dice, percioché agli uomini, li quali in istato d'innocenzia
vivono, è il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmista
ne mostra, lá dove dice: «_Quis ascendet in montem Domini, aut quis
stabit in loco sancto eius?_». E rispondendo alla domanda, quello
n'afferma che io dico, dicendo: «_Innocens manibus et mundo corde, qui
non accepit in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo_»; ma
a coloro diventa molto lunga, i quali ne' peccati miseramente vivono.
E, oltre a questo, riprende e morde la viltá dell'animo di quegli, i
quali, tirati dalle mollizie del mondo, del divino aiuto mostran di
disperarsi; mostrando loro come, per loro [l']umile orazione, la
misericordia di Dio e la grazia salvificante procurin per loro nel
cospetto di Dio; mostrando ancora come sicuramente ad ogni affanno
metter si possano, avendo sé, cioè, la grazia cooperante, con loro e
in loro aiuto e consiglio.

Maraviglierannosi per avventura alcuni, e diranno:--A che era di
bisogno che la grazia salvificante movesse o rilevasse la ragione
nell'autore?--Alla qual domanda è la risposta prontissima. Vuole cosí
la ragion delle cose che, negli atti morali, sí come questo è, noi non
possiamo alcuna cosa bene adoperare né con ordine debito, se noi
primieramente non cognosciamo il fine al qual noi dobbiamo adoperare;
percioché la notizia di quello ha a causare i nostri primi atti, e di
quindi ad ordinare quegli che appresso a' primi e susseguentemente
deono seguire. Come comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisico
la sua medicina, se prima il cirugico non vede il malore, il fisico
l'umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a'
venti, se esso primieramente non avrá conosciuto e disposto in qual
contrada esso voglia pervenire? Come fará l'architetto fondare un
edificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramente
non sa che spezie d'edificio debba esser quello che far si dee?
Conciosiacosaché altra forma e altro maestro voglia un tempio che un
palagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. È
adunque di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi pognamo
alcuno nostro atto in opera. E perciò, se ben guarderemo, se il
disiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia salvificante
causativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute ci possan
perducere; e di queste nostre operazioni conviene che sia
dimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la prima
cosa causata dalla grazia salvificante, la quale l'autor mostra in
persona di Beatrice venire a muover Virgilio. E questo scendere non si
dee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la volontá di
Dio, provocata dall'umile orazione del peccatore a misericordia, è
causativa di questo rilevamento della ragione, in quanto in essa sta
il concedere la grazia salvificante. Adunque, avvicinandosi alla
conclusione, dico l'autore, per le riprensioni della ragione in lui
ritornata, e per gli ammonimenti di lei, avere la viltá, presa da'
malvagi conforti de' nostri nemici, posta giú e cacciata da sé;
riprende, per lo sano consiglio della ragione, il vigore e la forza
smarrita, e nel primo suo buono proponimento si ritorna, e, ad ogni
fatica per acquistar salute disposto, con la ragione insieme riprende
il cammino. E questa si può dire essere interamente l'esposizione
allegorica del presente canto. Né sia alcuno sí poco savio, che creda
queste cose, quantunque mostrino nel descriversi aver certe
interposizioni di tempo, non doversi poter fare senza la dimostrata
interposizione; percioché egli è possibile di muovere la divinitá, e
d'aver veduto ciò che l'autore dee nello 'nferno vedere, e di
pervenire alla porta di purgatorio, e ancora di salire in cielo, quasi
in un momento, pure che la contrizione sia grande e il fervore della
caritá ferventissimo e intero, come di molti abbiam giá letto essere
stato.



CANTO TERZO

I

SENSO LETTERALE


                                                                  [Lez. IX]

«Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta
l'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad
essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente
afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi
questo canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta
dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato;
nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e
vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».

Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del
precedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino,
dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno;
sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va
nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo
per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá,
percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto
ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno
dolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira di
Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché
alcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali
meritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e la
giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò
eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto
piú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la sua
prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti
quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto
Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre,
al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il
Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo
Spirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi
dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata
fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa
Iddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere
quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono
dannati.

«Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí
mostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato
l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato
poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono
eterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono
prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato
questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano
questo aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú
distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui
«eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso
si fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se
non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è
solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da
Dio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano,
percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire
«eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata da
Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che
immediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni
speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «_quia in inferno_ _nulla
est redemptio_», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come
fece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato da
morte spogliò il limbo.

«Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla
qualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritte
al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in inferno
s'entrava; «Perch'io» (_supple_) dissi:--«Maestro», Virgilio; e ben fa
qui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i
dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello
che dir vogliono, «m'è duro»,--cioè malagevole ad intendere.

«E quegli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose, «come persona
accorta», cioè intendente:--«Qui», cioè in questa entrata, «si convien
lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si convien
ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale
vuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sesto
dell'_Eneida_, dove la Sibilla dice ad Enea:

    _Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo_.

«Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del
quale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le genti
dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben
dell'intelletto»,--cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il
ben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci
fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].

«E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi
confortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso
noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che
dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto
e sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui
riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi
leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso di
Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago
Trasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che,
vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si
confortò tutto.

«Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi
mortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come i
tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e
invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle,
secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti di
santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.

«Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte
del presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello che
l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesi
questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti
dolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi
sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dalla
quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute
molte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo
fiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte un
nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta
gli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima
ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da un
baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed
egli a me:--Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che
riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi:
«Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio,--disse»; la
settima ed ultima quivi: «Finito questo».

Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno,
«sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si
fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel pianto
che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni
spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e
dolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioè
oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne
lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel
cominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue»,
cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, le
quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli,
come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che
garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di
dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il
profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o
circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si sogliono
molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno;
«Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per
lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far le
femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali
cose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci
misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il qual
s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto
l'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo
luogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senza
tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro
accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore,
per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi,
esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muovere
in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo
massimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi
effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinato
movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata
parte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in
alto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte a
parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende
moto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in
quella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi
il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la
esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per
certi intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo
vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone»
nella sua _Meteora_, dove chi vuole può pienamente vedere di questa
materia.

«Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè
intorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto;
«Dissi:--Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E
che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?»,--secondo che le
loro voci manifestano.

«Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara
Virgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed
egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Questo misero
modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime
triste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia
operazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno a
sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di
parlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza
lodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare è
detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.

Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene,
questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo
«mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcun
senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore
spento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi
si stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque
talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare;
di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza
infamia e senza lodo».

«Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro»
[si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura di
cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel
quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di
mezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due
significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, il
quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir
«coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello di
costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro,
ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo»
il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con
queste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tanto
sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo
della rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza
diliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero
come non doveano.

«Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè
«_aggelos_», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore»
o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioè
d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico
d'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti
dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loro
attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro
fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito
beato].

«Che non furon ribelli», (_supple_) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma
per sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.

[Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da
sapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro
ne dimostra nel secondo delle _Sentenzie_, e di queste due l'una non
peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò,
tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso
propinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi esserne
pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose
turbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi
dicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dalle
quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono
nondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad
infestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotali
spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza
essere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia
questi malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuole
l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie,
che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e
percioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intende
costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno
rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]

E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo:
«Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché,
cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed
intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula
di colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se
non purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue,
se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi
maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga,
essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli
riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro,
percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie
degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolica
veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono in
inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E
appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevuti
non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei»,
angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber
d'elli»,--veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. E
cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli
non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale
non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano avere
alleggiamento della pena loro.

«Ed io:--Maestro», (_supple_) dissi, «che è tanto greve», cioè qual
tormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?»--cioè sí amaramente.
«Rispose», cioè Virgilio:--«Dicerolti molto breve».

E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno
speranza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne;
«E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa»,
cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in
eterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno
come se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», di
peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che
chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di
ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidia
non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di
loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della
lettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani,
il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa»,
percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia
gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, che
impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la quale
sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí
dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le
piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggine
forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia
quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente
vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che la
primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire
quanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come
l'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte,
quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam di
lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti
è un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e,
guardando, «passa»--e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede
Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de'
riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da
alcuno veduta o conosciuta.

«Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui
discrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramente
si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando,
«correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí
velocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a
questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente»,
d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io
avessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioè
uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la
separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi,
resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insieme
fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento,
colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.

«Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non
nomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli
darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè:
«Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi
l'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si
fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice da
lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi
oggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale
senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato.
E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che,
essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone
in Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in
Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il
suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando
messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grande
animo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò a
mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio,
poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso
usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivano
nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati
da Dio fossero, dicevano:--Renunzia, Celestino! renunzia,
Celestino!--Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consiglio
col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale
gli disse:--Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nella
quale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinali
renunziare il papato.--Il quale come a doverla fare il vide disposto,
essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di
Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici
cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni
forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che,
rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali,
fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual
cosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali
italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò
che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato:
e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa,
venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoi
cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato.
Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu
eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo,
percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto
frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero
papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in
Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuni
affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in
montagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il
fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo
mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola
fuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa
profondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corpo
suo.

Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in
questa parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono
per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avere
errato e detto contro a quello articolo che si canta nel _Simbolo_,
cioè: «_Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam_»; in
quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioè
questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo,
il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che,
quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nel
qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá
il gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato;
percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro,
l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fu
canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni
vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fu
lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come è
di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per
conseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbe
oggi chi credesse quello esser vero.

Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice
che fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il
quale, essendo primogenito di Isac, come nel _Genesi_ si legge,
percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal
ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, la
benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli
tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo
desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi una
minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele:
Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle
ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa
Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e
concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender
d'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la
nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel _Genesi_ si legge, Esaú
fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e
fu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.

«Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi»,
dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a
quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a'
nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace
l'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «_quia non
sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est_»; cosí
dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si
esercitano in male adoperare.

«Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de'
gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle
significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona
e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá,
scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, erano
chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona
«sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è
ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano
ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali non
solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo;
«e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi»,
cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di
sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la
faccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si
discerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «_volo vis_»,
che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da
fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime
de' miseri cattivi.

«E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della
suddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi che
discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte
correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che
a riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume
degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di
veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi;
«Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi:--Maestro», a
Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'io
veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí
pronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume»,--cioè
per lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce la
chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della
luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Le cose»,
delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quando
fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera
d'Acheronte».--

Secondo che scrive Pronapide nel suo _Protocosmo_, Acheronte è un
fiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale è
nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e,
vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se
ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo:
come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno,
e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di
Celio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno a
Titano, temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piú
esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E
poi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la
moglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso del
ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove
occulta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico
lieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione:
quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al
luogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a
dimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro
autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá
nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume
e gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono di
fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta
nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e
degli altri.

«Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli
fosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar
mi trassi», cioè senza parlare mi condussi.

«Ed ecco verso noi». Questa è la quinta parte della suddivisione del
presente canto, nella quale l'autore mostra un dimonio venire verso
loro in una nave e passar gli altri, e lui non aver voluto passare. Ed
è questa parte presa da Virgilio, dove nel sesto dell'_Eneida_ scrive:

    _Portitor has horrendus aquas et flumina servat
    terribili squalore Charon_, ecc.

per ben ventun verso. Dice adunque: «Ed ecco verso noi venir per nave
Un vecchio bianco per antico pelo», [il quale per altro sarebbe paruto
nero, se gli anni non l'avessero fatto divenir canuto, percioché la
gente volgare stimano che il diavolo sia nero, percioché i dipintori
dipingono Domeneddio bianco; ma questa è sciocchezza a credere,
percioché lo spirito essendo cosa incorporea, non può d'alcun colore
esser colorato;] «Gridando:--Guai a voi, anime prave!», cioè malvage.
«Non isperate mai veder lo cielo»: il che vuole che elle intendano, in
perpetuo quindi non dovere uscire. «Io vegno per menarvi all'altra
riva», di questo fiume, «Nelle tenebre eterne, in caldo e 'n gielo. E
tu, che se' costí, anima viva», volgendo il suo parlare all'autore,
«Pártiti da cotesti, che son morti»;--quasi voglia dire: percioché con
loro tu non déi né puoi passare. «Ma, poi ch'e' vide ch'io non mi
partiva», per suo comandamento, «Disse:--per altra via», che per
questa, «per altri porti, Verrai a piaggia, non qui», donde io levo
l'altre, «per passare», dall'altra parte. «Piú lieve legno», cioè
nave; è «legno» tra' marinai general nome di qualunque spezie di
navilio, e massimamente de' grossi, come che qui per la sua barca, o
per un'altra, lo 'ntenda Carone; «convien che ti porti»,--cioè ti
valichi.

«E 'l duca», cioè Virgilio, «a lui:--Carón». Questo Carón, secondo che
Crisippo scrisse, fu figliuolo d'Erebo e della Notte (di questa favola
sará il significato nella esposizione allegorica) ed è posto a questo
uficio di passare l'anime dannate dall'una riva all'altra d'Acheronte,
come qui appare. «Non ti crucciare», e incontanente soggiunge la
cagione per la quale gli mostra non doversi crucciare, dicendo:
«Vuolsi cosí», cioè che costui vivo vada per questo regno de' morti, e
dov'e' si vuole, «colá, dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella
divina mente, percioché Iddio può ciò che vuole; «e piú non
dimandare»;--quasi voglia per questo dirgli: non è convenevole che a
te si dimostri la cagione della volontá di Dio. «Quinci», cioè dalle
parole da Virgilio dette, «fûr quete», cioè quetate, senza alcuna cosa
piú dire, «le lanute gote», cioè barbute, «Del nocchier della livida
palude», cioè di Carone. E chiama ora «palude» quello che di sopra
chiama «fiume», e questo fa di licenza poetica, per la quale
spessissimamente si pone un nome per un altro, sí veramente che quel
cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata, come è qui,
che il fiume è acqua e la palude è acqua, e talvolta in alcuna parte
corre il fiume sí piano, che egli par non men tosto palude che fiume.
«Livida» la chiama, a dimostrazione che l'acqua sia torbida, e quella
torbidezza sia nera ed oscura. «Che 'ntorno agli occhi avea di fiamma
rote», a dimostrare la sua ferocitá e il suo furore.

«Ma quelle anime, ch'eran lasse», per dolore, non per lunghezza di
cammino, «e nude», di consiglio e d'aiuto; «Cangiár colore», mostrando
l'angoscia di fuori, la quale dentro sentivano, «e dibattéro i denti»,
come coloro fanno li quali la febbre piglia, che innanzi lo 'ncendio
di quella tremano e battono i denti; «Tosto che 'nteser le parole
crude», dette da Carón di sopra («Io vegno per menarvi all'altra riva»
ecc.).

«Bestemmiavano Iddio». Fa qui l'autore imitare a quelle anime il
bestiale costume di molti uomini che, quando attendono o hanno alcuna
cosa la quale loro a grado non sia, disperatamente cominciano a
bestemmiare, quasi per quello non altramenti che se Dio spaventassono,
si debba diminuire o mitigare la fatica, la quale aspettano o la quale
hanno: «e' lor parenti», cioè i padri e le madri, li quali principio e
cagione dierono all'esser loro; «L'umana spezie», quasi volessero piú
tosto essere animali bruti, accioché col corpo si fosse morta l'anima;
«il luogo», (_supple_) bestemmiavano dove nacquero, «il tempo», nel
qual nacquero, «e 'l seme», del quale nacquero, «di lor semenza», cioè
bestemmiavano il seme di lor semenza, cioè della quale seminati
furono, «e di lor nascimenti», cioè bestemmiavano il luogo e 'l tempo
di lor nascimenti. «Poi si ritrasser tutte quante insieme»; quinci
appare loro quivi esser venute sparte; «Forte piangendo alla riva
malvagia», d'Acheronte, «Ch'attende ciascun uom, che Dio non teme»,
percioché tutti dichinan quivi coloro che, vivendo, non ebbono temor
di Dio, «Carón dimonio, con occhi di bragia», cioè ardenti e focosi;
«loro accennando, tutte le raccoglie», in su la sua nave; «batte con
remo», cioè con quel bastone col quale mena la sua nave, il quale i
marinai chiamano «remo», «qualunque», di quelle anime, «s'adagia», a
sedere o in altra guisa.

«Come d'autunno» cioè in quella stagione la quale noi chiamiamo
«autunno», da mezzo settembre infino a mezzo dicembre, «si levan le
foglie, L'una appresso dell'altra», cadendo, «infin che 'l ramo»,
sopra il quale erano, «Vede alla terra tutte le sue spoglie», cioè i
vestimenti, li quali, la stagione gli ha fatti cadere da dosso. Ed è
questa comparazione presa da Virgilio in quella parte del sesto libro
dell'_Eneida_, che di sopra dicemmo. «Similemente il mal seme
d'Adamo», il quale fu il primo nostro padre, e del quale noi siamo
tutti seme: ma parte di questo seme è buono, sí come sono i santi
uomini e i servanti i comandamenti di Dio, e parte n'è malvagio, sí
come sono i peccatori, li quali ostinati nelle loro colpe muoiono
nell'ira di Dio: e questa è quella parte che si raccoglie nella nave
di Carone. «Gittansi in quel lito», cioè d'in su quella riva, «ad una
ad una», quelle anime dannate, «Per cenni», da Carón fatti,
«com'augel» fa «per suo richiamo», cioè per lo pasto mostratogli.

«Cosí», raccolte, «sen vanno su per l'onda bruna», d'Acheronte, «E
avanti che sien», queste che pur mò salirono, «di lá», cioè dall'altra
riva, «discese, Anche di qua», da quest'altra parte, «nuova schiera»,
cioè quantitá d'anime non ancora statavi, «s'aduna». E in questo
dimostra l'autore continuamente molti morirne sopra il circuito della
terra, de' quali la maggior parte muoiono nell'ira di Dio, «_quia
multi sunt vocati, pauci vero electi_».

--«Figliuol mio,--disse» In questa sesta parte della suddivisione gli
apre Virgilio la cagione perché Caron non l'ha voluto passare, e
perché quelle anime son pronte a voler passare il fiume. E
dice:--«Figliuol mio»;--mostra in questa parola Virgilio paterna
affezione all'autore; «disse il maestro cortese». Ben dice «maestro»,
percioché, come qui appare, Virgilio gli solve il dubbio della domanda
fattagli da lui di sopra, dove dice: «Maestro, or mi concedi, Ch'io
sappia» ecc., e coloro che solvono bene i dubbi meritamente si possono
e debbon esser chiamati «maestri». «Cortese» il chiama, percioché
continuo in quello che al suo uficio appartenesse, gli fu
liberale.--«Quegli», uomini, o le loro anime a dir meglio, «che muoion
nell'ira di Dio», li quali son quegli che [senza contrizione, senza
confessione, veggendosi nel caso della morte,] consistono pertinaci
nelle loro nequizie, e cosí, senza riconciliarsi a Dio de' peccati
commessi, si muoiono; [e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto la
sua grazia racquistar non hanno voluto, seguendo gl'instituti della
cattolica Chiesa;] «Tutti convengon», cioè insiememente vengono,
«qui», a questo fiume, «d'ogni paese», di levante e d'occidente e di
ciascuna altra plaga del mondo, «e pronti sono a trapassar lo rio»,
cioè il fiume, il quale qui chiama «rio», tirato dalla consonanza del
verso. E séguita la ragione perché a questo son pronti: «Ché la divina
giustizia gli sprona», cioè gli costringe, «Sí che la téma», la quale
hanno delle pene eternali, «si converte in disio», di andar tosto a
quelle. «Quinci», cioè per la nave di Carone, «non passò mai anima
buona», cioè che al cielo dovesse ritornare, come déi tu, che non
vieni per rimanere. «E però, se Carón di te si lagna», cioè si duole,
e non ti vuol passare, «Ben puoi sapere omai che il suo dir
suona»,--avendo intesa la cagione del suo rammarichio.

                                                                   [Lez. X]

«Finito questo». Questa è la settima e ultima parte della suddivisione
del presente canto, nella quale l'autore mostra sé, per un tremore
della terra e per un baleno, vinto e caduto. Dice adunque: «Finito
questo», cioè la dichiarazione fattami da Virgilio della prontezza
dell'anime a trapassare il fiume, «la buia», cioè oscura, «campagna».
«Campagna» sono luoghi piani e larghi, i quali ivi non si dee credere
che sieno, ma usa il vocabolo largamente, _auctoritate poëtica_; e
dé'si intendere per la qualitá di quello luogo dove vuole dare ad
intendere che era, qual che si fosse, o montuoso o piano: «Tremò sí
forte».

Ma qui è da vedere che volle dire questo tremare, conciosiacosaché
l'autore niente ponga senza cagione; e perciò è da sapere l'autore in
ogni cosa porre quelli medesimi accidenti avvenire a' dannati, che a
coloro che in istato di grazia sono od in via di penitenzia. E quinci,
se noi riguarderem bene, come all'entrare d'ogni cerchio di purgatorio
si truova alcun agnolo, il quale, lietamente cantando, conforta chi
sale in quello; cosí ad ogni cerchio d'inferno si truova alcun
demonio, il quale orribilmente spaventa chi discende in esso. E cosí
come il monte del purgatorio, quando alcuna anima purgata sale al
cielo, tutto triema, e tutti gli spiriti di quello, sentendo il
tremore, ed intendendo ciò che significa, da caritá mossi, cantano e
ringraziano Iddio, che a sé quella anima beata chiama; cosí in
inferno, come anime di nuovo vi caggiono, come dalle trasportate da
Carón feciono, triema tutta la valle d'inferno: per la qual cosa
l'anime dannate, che ciò sentono, intendendo venire anime ad
accrescere la loro tristizia, tutte oltre al dolore usato si
contristano e piangono.] E cosí l'autore mostra di volere in questa
parte sentire, come che non sia cosa nuova, le parti intrinseche e
cavernose della terra talvolta tremare, per la revoluzione dell'aere
che in quelle è racchiuso e che vuole uscir fuori.

«Che dello spavento, La mente», cioè il ricordarmene, «di sudore ancor
mi bagna». Suole talvolta agli uomini subitamente spaventati,
rifuggire dalle parti esteriori dentro al cuore, sentendolo temere, il
sangue; e per questo coloro, alli quali questo avviene, rimangono
pallidi e deboli e quasi insensibili; ed esse parti esteriori, premute
dalla passione della paura, mandano per li pori fuori talvolta
un'acqua fredda, la qual noi diciamo «sudore»; e se tosto le parti
predette non recuperassero il sangue e le forze loro, caderebbe
l'uomo, e parrebbegli venir meno come se egli morisse; e forse
perseverando il sudore si morrebbe: ed hannone giá alcuni, essendo per
paura il sangue rifuggito dentro, perduti o debilitati alcuni membri
in guisa che mai poi operare non gli hanno potuti (e dicono i meno
savi questi cotali essere stati guasti dal dimonio) e per avventura
anche se ne son morti.

«La terra lacrimosa», cioè quella valle d'inferno, o per li molti
pianti che in quella si fanno, o per l'umiditá, la quale è nella
concavitá della terra generata dal freddo, il quale ha l'esalazioni
della terra calde e umide risolute in acqua: la quale primieramente
accostata alla terra fredda, è fatta in forma di lacrime, e cosí si
può dire l'inferno essere lacrimoso.

«Diede», cioè causò, «vento». Generansi i venti, secondo che ad
Aristotile piace nel secondo della _Meteora_, d'esalazioni calde e
secche della terra, cacciate sopra da sé da' nuvoli freddi o da alcun
freddo che nell'aere sia. Le quali cose come in inferno sieno, non so.
Estimo che 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare
che vi sia, causi alcuno impeto il quale muova quello aere, e l'aere
mosso paia vento.

«Che balenò una luce vermiglia». Questi non sono accidenti che la
natura soglia producere sotterra, e perciò è verisimile quello
movimento dell'aere, il quale ho detto essere stato, e, oltre a
questo, quello impeto, avere dalle parti inferiori seco recata qualche
vampa di fuoco, la quale in forma di un baleno apparve all'autore. «La
qual», luce, «mi vinse ogni mio sentimento»; segno è, per questo,
avere quella luce grandissimo stupore messo nell'autore, ed essere
stato tanto, che quello ne sia seguito che dice, cioè: «E caddi, come
l'uom cui sonno piglia».



II

SENSO ALLEGORICO


«Per me si va nella cittá dolente». Nel principio del presente canto
si continua l'autore alle cose dette nella fine del precedente, lá
dove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sé avere
la viltá dell'anima posta giuso e essersi ritornato nel proponimento
primo, e cosí, dietro alla ragione, essere rientrato nel cammino da
dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna
salute, come disiderava; e camminando mostra sé alla porta dello
inferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo
canto da considerare tre cose: la prima è quello che l'autore voglia
intendere per questa porta; la seconda, come si conformi il supplicio
dato a' cattivi con la colpa loro; la terza, quello che l'autore
voglia sentire per lo fiume d'Acheronte e per lo nocchiere, ed, oltre
a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e, queste vedute, assai
convenientemente s'avrá il senso allegorico veduto del presente canto.

Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta,
la quale l'autor discrive, e alla ampiezza di quella, e similmente
all'averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quella
essere la via della morte; conciosiacosaché il Nostro Signore dica
nell'Evangelio: «_Intrate per angustam portam, quia lata et spatiosa
via est quae ducit ad perditionem, et multi sunt qui intrant per
eam_»; e cosí per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna.
Ed è questa via ampia, a farne chiari agevol cosa essere il peccare, e
quello essere assoluto da ogni strettezza di regola; il che delle
virtú non avviene, le quali sono ristrette e limitate dalli loro
estremi. L'essere senza alcun serrame, ne mostra assai chiaro in ogni
ora, in ogni tempo essere a ciascuno, volendo, possibile d'entrare
nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. Ed ancora si
può per l'ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta
larghezza distendersi, che, in qualunque parte del mondo l'uomo pecca,
trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla
superbia dell'angiolo malvagio, il quale primieramente ardí di levare
la fronte contro a Colui che creato l'avea, né mai piú si richiuse.

Dentro alla quale, entrata l'umana considerazione, dietro a' passi
della ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e
inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna
aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da
vespe, e il sangue di questi dolenti esser ricevuto da putridi
vermini. Li quali perciò all'entrata della perduta vita dimostrati ne
sono, accioché da essi prendiamo quanto abbominevole colpa sia quella
della inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma
ancora a' diavoli dispiacere: e per questo siamo ammaestrati a
guardarci da quella, accioché in tanta miseria non divegnamo, che
igualmente a' buoni e a' malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo
vizio consistere in una freddezza d'animo, la quale, occupate non
solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene
coloro, ne' quali esso dimora, del tutto oziosi, intanto che,
brievemente, niuna opportunitá pare che muover gli possa ad alcuno
atto operativo; e per questo non come uomini, ma come bruti animali,
anzi come vermini pútridi e fastidiosi, menano la vita loro. Ed in
questo pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcun
diletto, il quale, percioché da viziosa cagione è preso, senza colpa
esser non puote. E però, spenta la loro sensual vita e tolta via la
gravezza del misero corpo consenziente alla viltá dell'animo, avendo
quel conoscimento assoluti che perduto avevan legati, dal vermine
della coscienza morsi, e per quello conoscendo sé niuno onesto segno
nella lor misera vita aver seguito, ora senza pro seco dicendo:--Cosí
dovremmo aver fatto;--non tardi né lenti, ma correndo, seguitano quel
segno che seco estimano dover vivendo aver seguito. E percioché questo
lor vermine non muore, il seguono in giro, a dimostrare che, come nel
cerchio non è alcun principio né fine, cosí questa lor fatica non
debba giammai avere requie né riposo. E a questo atto gli solletica il
vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li
quali continuamente li trafiggono. Li quali mosconi e vespe sono da
intendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle quali
nella loro dolorosa vita presero alcun piacere: le quali furono l'una
nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l'altra
nell'oziosamente vivere. [E queste si deono intendere, percioché i
mosconi sono generati da putredine d'acqua e di terra corrotte, e
questi intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la
quale ora conoscono e dispiace loro e, dispiacendo, senza pro gli
affligge e infesta; sí che assai bene dimostrano confarsi in questo la
pena con la colpa. Le vespe s'ingenerano dell'interiora dell'asino
similmente corrotte, e l'asino essere inerte, ozioso e torpente
animale, assai chiaro si conosce per tutti; e però per le punture
delle vespe, amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle, il
morso doloroso della rimembranza della loro oziositá, dalla quale sono
dolorosamente trafitti, come apparir può per lo sangue il quale cade
dalle punture.] Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto,
ha a rammemorare a questi dolenti che il sangue generato dalla
digestione de' cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne
in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose
assai bene pare si conformi con la colpa la pena di costoro. E questo
basti de' cattivi aver detto.

Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l'autore per lo fiume e
per lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire.
[E, secondo che io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare
come in inferno, oltre al fiume d'Acheronte, si discenda: e questo
mostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due maniere
trapassarsi, qui, sotto assai artificiosa fizione, discrive. Delle
quali dice esser la prima per la nave di Carón, nella quale, come
detto è, esso trapassa l'anime di quegli che in peccato mortale morti
sono. E però, avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere
quello che l'autore sente per questo fiume, che per lo nocchiere, che
per la nave e che per lo remo col qual dice che batte qualunque
s'adagia.]

Vuole adunque per questo fiume l'autore disegnare la vita presente, la
quale ottimamente dir si può simile ad un fiume; percioché, sí come il
fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare;
cosí la nostra vita, dal dí del nostro nascimento, sempre e con
velocissimo corso declina verso la morte, senza mai indietro
rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina
Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: «_Omnes morimur et quasi
aquae dilabimur in terram, quae non revertuntur_». Sono, oltre a ciò,
i fiumi, quando per abbondanza d'acque e quando per forza di venti,
tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene: percioché
alcuna volta addiviene, per troppa mondana felicitá, che noi gonfiamo
e divegnamo superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a' nostri
termini contenti, esondiamo, e, come i fiumi in danno de' campi vicini
talvolta traboccano, cosí noi in danno del prossimo e di noi medesimi
trabocchiamo, e similemente siamo da diversi impeti della fortuna
fieramente afflitti e infestati negli animi nostri. E, come il fiume
volge grandissime pietre nel suo fondo, cosí noi nel segreto del
nostro petto continuamente rivolgiamo gravissime e noiose
sollecitudini; e né altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzioni
talvolta trangugian le navi e' naviganti, cosí noi tranghiottisce la
circunvoluzione de' peccati e della bocca infernale. E, accioché io
faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte afflizioni porgono,
cosí la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual
cosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si
chiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino, quanto «cosa
senza allegrezza»: la quale per certo è del tutto rimossa dalla
presente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con
veritá possa dire sé avere avuto giammai un dí intero senza mille
angosce piú cocenti che 'l fuoco. E sopra questo fiume è una nave,
nella quale dall'una riva all'altra sono l'anime trasportate. [È
manifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza
molta acqua prendere, sopra essa dimorare]; per la qual mi pare si
possa sentire le nostre concupiscenze, le quali, leggieri e mutabili,
non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra
l'onde le navi, e seco d'uno appetito in un altro trasportano coloro,
li quali miseramente disiderano, né prima a riva gli pongono, che in
perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l'autore, che
Carón trasportava l'anime in perpetua doglia.

È, appresso, di questa nave nocchiere un demonio chiamato Carón,
bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere stato
figliuolo d'Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente veder
si puote intendersi il tempo, percioché il Tempo fu figliuolo d'Erebo,
cioè del profondo consiglio di Dio, il quale creò lui come l'altre
cose, e non essendo avanti la creazione del mondo alcuna luce
sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del
mondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dí
distinti, come nel principio del Genesi si legge; e quinci, perché
nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo
della Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale Servio, _Sopra
l'«Eneida»_ di Virgilio, dice esser «_'Charon' quasi 'chronos'_»; e
questo vocabolo in latino viene a dire tempo. Il quale l'autore dice
esser «bianco per antico pelo», discrivendolo dall'accidente della
vecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e per
questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè giá è lungo
spazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, percioché, secondo
si comprende _in libro Temporum_ d'Eusebio, egli è, dalla creazione
del mondo infino a questo anno, perseverato 6572 anni o in quel torno.
E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume, percioché dir si puote
il tempo esser quello che in sé il dí della nostra nativitá ne riceve,
e con le sue revoluzioni, avendone dalla riva del nostro nascimento
levati, ne mena per la presente vita, qual piú e qual meno, e
trasportalo all'altra riva, cioè al dí della morte. È vero che egli è
qui posto dall'autore a trapassare l'anime che muoiono nell'ira di
Dio, e ciò non è senza cagione; percioché quelle, che questa mortal
vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondo che i santi
dicono, morire, ma d'una vita trapassare in altra, e quella essere
eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; percioché
l'eternitá non patisce alcuna dimensione di tempo. De' dannati non si
può dir cosí, percioché di questa vita vanno in morte perpetua: e
perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d'anni o
di dí lo spazio della presente vita, la quale per rispetto della morte
perpetua fu a' dannati morte, in quanto finirono questa vita, la
quale, quantunque piena d'afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno
beata stata a' dannati, per rispetto di quella alla quale in morte
perpetua son trapassati.

[Ma da vedere è quello che intender voglia l'autore per lo remo di
questo nocchiere. È il remo un bastone lungo, col quale il nocchiere
fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d'un luogo ad un
altro. Col quale remo l'autor dice questo dimonio battere l'anime, le
quali s'adagiano nella sua nave, intendendo per questo la
sollecitudine di coloro li quali all'acquisto delle cose temporali son
tutti dati; percioché questa sollecitudine, dalla varietá del tempo e
dalla qualitá delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido
sentire alcun riposo, ma igualmente il dí e la notte o in pensieri o
in opera gli tiene occupati, e sempre con nuove dimostrazioni a varie
operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che
riposo prendere possano, ma elle non lasciano altrui avere spazio di
respirare. E, se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste,
lasciando stare la sollecitudine pastorale de' sommi pontefici e le
grandi imprese de' re, de' principi e de' signori, riguardate con
l'occhio della mente quelle de' mercatanti, co' quali noi
continuamente siamo: ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora
in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora in un
'altra, sollecitando, ricordando, avvisando, li fa scrivere, non
lettere, ma volumi a' lor compagni; e innanzi tratto sempre con
sospetto l'apportate ricevono; ogni vento gli tien sospesi a' lor
navili; né sí piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente
non temano delle mercatanzie messe in cammino, e quanti sensali parlan
loro, tanti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare
quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali
rompano, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna
scrittura è che appieno gli potesse mostrare. E cosí i dolenti, che
hanno torto il disiderio della eterna beatitudine alle cose che perir
debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui
trapassati alla perpetua.]

La cagione perché questo dimonio niega di passare l'autore, puote
esser questa: percioché egli non potrebbe ancora conducer l'autore
alla riva opposita, conciosiacosaché ancora venuto non sia l'ultimo dí
dell'autore, il quale ancora vivea; e appresso sentiva il dimonio
l'autore non essere in disposizione ch'egli volesse passare per dover
di lá dimorare, e perciò non apparteneva al ministro della divina
giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar
similmente quegli che malvagi non sono e vanno per esser buoni, sí
come l'autore andava. E però gli dice:--«Piú lieve legno convien che
ti porti»;--volendo per questo mostrare che, quando la colpa è piú
lieve, piú lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir piú
lievi, le quali talvolta si posson por giuso (come puote l'uomo, che
vive, por giú le sue colpe per la penitenza), che quelle che in eterno
non si posson metter giú, come quelle sono nelle quali l'uomo si
muore. E non è da credere che attualmente l'autore in inferno andasse,
o che questo fiume o questo nocchiere e l'altre cose, che qui e
altrove si pongono, vi sieno; ma conviensi a' nostri ingegni in questa
maniera parlare, accioché essi con minore difficultá possano dalle
cose attualmente discritte comprendere le spirituali, le quali per
opera d'immaginazione o di meditazione s'intendono. Non ha la divina
volontá bisogno d'alcuno uficiale: basta in lei semplicemente il
volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, sí come dice il
salmista: «_Dixit, et facta sunt; mandavit, et creata sunt_». Ma
questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non
ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, sí come
nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal
tempo menati alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati.
[E cosí possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che sia
per sentenza diffinitiva data da Dio, sí come da giudice il quale
esser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da
questa sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, _in rem
iudicatam_ sono trapassati, senza dovere sperare che mai per alcuna
cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare: quantunque
scioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo letterato
uomo, mostrasse di credere Iddio alla fine del mondo dovere, non che
d'altrui, ma eziandio de' demòni, aver misericordia, e perdonar loro e
menarnegli in vita eterna.]

[La seconda maniera del trapassare in inferno, cioè di valicare il
fiume d'Acheronte, par che l'autore voglia qui essere per una spezie
di sentenza, la quale si chiama «interlocutoria», la quale nostro
Signore dá in questa forma: che qualunque uomo cade in peccato
mortale, sia incontanente messo nella prigione del diavolo; ma
nondimeno esservi con questa condizione, che, se egli d'avere commesso
quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole
riconoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa cosí
uscire della detta prigione e ritornare in sua libertá; e, dove
riconoscer non si voglia, s'intenda in perpetuo esser dannato a dovere
stare in quella prigione, nella quale noi miseri tutto 'l dí caggiamo,
e all'unghie del diavolo di nostra volontá la gola porgiamo. La qual
cosa avvenire discrive l'autore sotto questa fizione.]

Dice adunque per se medesimo, e cosí ciascuno può per se medesimo
intendere, che «La terra lagrimosa», cioè la presente vita, la quale è
piena di lagrime e di miserie, «diede vento, Che balenò una luce
vermiglia», cioè uno splendore grande in apparenza, vano e fugace sí
come è il vento, il quale niuno può né pigliare né tenere e sempre
fugge. E questo splendore dice essere stato balenato da questa cosa
vana, a dimostrazione che dalla vanitá delle cose della presente vita
nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo súbito,
reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla, sí come
noi veggiamo avvenire de' fulgori temporali, che testé sono e testé
non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilitá di tanta forza,
che spesse volte occupano in tanto le menti d'alcuno, e con tanta
affezione disiderati sono, che, lasciata la debita notizia di Dio e
dello splendore eterno, per qual è via, e per li vizi e per le
malvagie operazioni, si trascorre in essi. Di che assai appare a
questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere
nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è
soprappreso dal sonno. E fa in questo l'autore debita comparazione:
percioché, quantunque, peccando mortalmente, nella infernal morte si
caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto
l'uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, sí
come nel principio del seguente canto mostra l'autore d'essere stato
desto, ma da grave tuono; la gravitá del qual tuono possiam dire
essere stata alcuna di quelle cose, con le quali davanti nel principio
del primo canto del presente libro dicemmo che Domeneddio toccava i
peccatori con la grazia operante, quando in alcuno la mandava. E
meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo
dicemmo, l'autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigion
del diavolo s'entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d'Acheronte;
ma, destandosi e trovandosi dall'altra parte del fiume, assai
leggiermente conoscer si può la sua colpa e la sentenza di Dio
avervelo trasportato. E questo trasportamento sarebbe stoltizia a
credere che corporale fosse stato. Fu adunque spirituale, come
spiritualmente intender si dee noi per lo peccato divenir servi del
diavolo. E, quantunque a quegli, che in questa forma trapassano in
inferno, sia licito, volendo, il poterne uscire, non posson però
uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono, percioché
per lo peccato non si può di peccato uscire, come quegli farebbono che
per quella via n'uscissono, per la quale v'entrarono; ma conviensene
uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra cosa è che
la penitenza. E a pervenire a questa via mostra l'autore essergli
convenuto tutto l'inferno trapassare, e di quello, per la parte
opposita a quella onde v'entrò, esserne uscito. E questa via, se noi
riguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dove
trova Catone, che a quella il drizza e sollecita.


FINE DEL PRIMO VOLUME.



INDICE

  I

  VITA DI DANTE

  I. Proposizione                                                   p. 3
  II. Patria e maggiori di Dante                                       6
  III. Suoi studi                                                      8
  IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi                           10
  V. Amore per Beatrice                                               10
  VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice                        12
  VII. Digressione sul matrimonio                                     14
  VIII. Opposte vicende della vita pubblica di Dante                  18
  IX. Come la lotta delle parti lo coinvolse                          18
  X. Si maledice all'ingiusta condanna dell'esilio                    20
  XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
  settimo                                                             21
  XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta                         23
  XIII. Sua perseveranza al lavoro                                    24
  XIV. Grandezza del poeta volgare. Sua morte                         24
  XV. Sepoltura e onori funebri                                       25
  XVI. Gara di poeti per l'epitafio di Dante                          26
  XVII. Epitafio                                                      27
  XVIII. Rimprovero ai fiorentini                                     27
  XIX. Breve ricapitolazione                                          32
  XX. Fattezze e costumi di Dante                                     32
  XXI. Digressione sull'origine della poesia                          36
  XXII. Difesa della poesia                                           39
  XXIII. Dell'alloro conceduto ai poeti                               43
  XXIV. Origine di questa usanza                                      44
  XXV. Carattere di Dante                                             45
  XXVI. Delle opere composte da Dante                                 48
  XXVII. Ricapitolazione                                              57
  XXVIII. Ancora il sogno della madre di Dante                        57
  XXIX. Spiegazione del sogno                                         58
  XXX. Conclusione                                                    63

  II

  REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE

  (PRIMO E SECONDO COMPENDIO)

  Avvertenza                                                          66

  I. Proposizione                                                     67
  II. Patria e maggiori di Dante                                      68
  III. Suoi studi                                                     70
  IV. Impedimenti avuti da Dante agli studi                           71
  V. Amore per Beatrice                                               72
  VI. Dolore di Dante per la morte di Beatrice                        73
  VII. Matrimonio di Dante                                            74
  VIII. Digressione sul matrimonio                                    75
  IX. Cure familiari e pubbliche                                      76
  X. Come la lotta delle parti lo coinvolse                           78
  XI. La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo
  settimo                                                             79
  XII. Dante ospite di Guido Novel da Polenta                         80
  XIII. Morte di Dante                                                81
  XIV. Gara di poeti per l'epitafio di Dante                          82
  XV. Rimprovero ai fiorentini                                        82
  XVI. Fattezze e costumi di Dante                                    83
  XVII. Digressione sull'origine della poesia                         85
  XVIII. Che la poesia è simigliante alla teologia                    87
  XIX. Dimostrazione della predetta sentenza                          88
  XIX bis. Perché i poeti nascondono il vero sotto fizioni            90
  XX. Dell'alloro conceduto ai poeti                                  91
  XXI. Carattere di Dante                                             94
  XXII. La «Vita nuova» e la «Commedia». Incidenti occorsi
  nella composizione di questa opera                                  95
  XXIII. Perché Dante compose la «Commedia» in volgare. A chi
  egli la dedicò                                                      99
  XXIV. Altre opere composte da Dante                                100
  XXV. Spiegazione del sogno della madre di Dante                    101
  XXVI. Conclusione                                                  107


  III

  COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»

  Proemio                                                            111

  Canto primo:
  I. Senso letterale                                                 127
  II. Senso allegorico                                               159

  Canto secondo:
  I. Senso letterale                                                 195
  II. Senso allegorico                                               227

  Canto terzo:
  I. Senso letterale                                                 237
  II. Senso allegorico                                               257





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