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Title: Documenti Umani
Author: De Roberto, Federico, 1861-1927
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Documenti Umani" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



                            F. DE ROBERTO

                           DOCUMENTI UMANI



             MILANO.--FRATELLI TREVES, EDITORI.--MILANO.


       ROMA                TRIESTE              BOLOGNA
  Corso, N.° 389.    presso G. SCHUBART.    Angolo Via Farini.


    LIPSIA, BERLINO, VIENNA, presso F. A. BROCKHAUS.
    BUENOS-AYRES, presso la LIBRERIA  ITALIANA, Calle Florida, 266.
    PARIGI, presso J. Boyveau, 22, rue de la Banque.



                           DOCUMENTI UMANI.



                            F. DE ROBERTO

                           DOCUMENTI UMANI



                                MILANO

                       FRATELLI TREVES, EDITORI

                                1888.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA

                     _Riservati tutti i diritti._



                        Tip. Fratelli Treves.



PREFAZIONE.


_Gentilissimo signor Treves_,

Compiono oramai quasi due anni dacchè Ella, rispondendo all'offerta
che io le avevo fatta della mia _Sorte_, mi disse, con molte
lusinghiere espressioni per la mia attitudine al novellare, di non
poter pubblicare quei racconti perchè non ne approvava il genere. «Non
si descrive--diceva la sua lettera--che quel che vi è di brutto, di
marcio, di sensuale nella società. Poi, tutti i personaggi sono
antipatici. È possibile che una società sia tutta formata a quel modo?
E lo fosse pure, è egli artistico dipingere i quadri tutti di un
colore, sopprimere i contrasti di colore, come quelli di passioni, di
sentimenti? Il color rosa fu giustamente deriso, ma almeno era
allegro; il nero, il tutto nero, ha gli stessi torti, più quello di
essere triste.... Racconti simili--soggiungeva--non voglio più
pubblicarne. Ho parecchi peccati editoriali sulla coscienza; non
intendo aumentarli, diffondendo un genere che io considero assai
pernicioso, non solo per il senso morale, ma anche per il buon gusto
delle nuove generazioni. Una cucina letteraria composta tutta di
droghe non può che rovinarlo.»

Quantunque mi rincrescesse di non poter affidare il mio libro ad una
Casa come la sua, il rifiuto--Ella già lo prevedeva--non mi distolse
dal pubblicarlo. Ma il successo dette ragione a lei. Se Ella ebbe la
curiosità di tener dietro ai giornali che parlarono delle mie novelle,
potè vedere come la maggior parte di essi non facessero se non delle
parafrasi del giudizio che, alla lettura del manoscritto, Ella ne
aveva dato. «Uomo avvisato, mezzo salvato,» pareva che Ella avesse
voluto dirmi; io non le diedi retta, ed accadde quel che doveva
accadere.

Mi crederà se io le dico che, prima ancora del giudizio dei critici,
prima ancora del Suo ammonimento, io avevo previsto la sorte--senza
giuochi di parole--che era riserbata al mio volume? Se avessi potuto
farmi illusione, l'esperienza dei miei maestri ed amici mi avrebbe
aperto gli occhi. Parlo di Giovanni Verga e di Luigi Capuana, di due
scrittori nei quali i critici della _Sorte_ hanno trovato i miei
modelli, facendomi con questo il più grande elogio che io potessi
ambire. E rimontando ancora più su, al maestro dei maestri, ad Emilio
Zola, che cosa non gli era toccato di sentirsi dire? Per poco non lo
avevano fatto passare come un bevitore di sangue! Figuriamoci quel che
avrebbero detto a me!

Nondimeno, malgrado ogni sorta di scettiche previsioni e di immediate
difficoltà, io mi ostinai a metter fuori quelle novelle. Questo potrà
forse dimostrarle che io ero guidato da una chiara idea e che sapevo
quel che facevo--o per lo meno quello che avevo avuto l'intenzione di
fare... Io avevo avuto l'intenzione di fare un'opera d'arte.
Descrivendo una società repugnante? mettendo in iscena dei personaggi
odiosi? riuscendo ad un'impressione di pessimismo?... Che importa!
L'interessante, ciò che costituisce il valore specifico dell'opera
d'arte, non mi pareva la qualità del soggetto preso a trattare o
dell'impressione da conseguire, bensì il modo con cui il soggetto era
trattato e l'impressione conseguita.

Sapevo che mi avrebbero fatta una colpa del mio naturalismo, ma
credevo--e credo tuttavia--che tutte coteste antipatie e simpatie di
scuola dovrebbero essere perfettamente estranee al giudizio critico.
L'arte è una, come una è la realtà che essa si propone di riprodurre;
i metodi e gli obbiettivi sono diversi, come diversi sono i
temperamenti degli artisti che li scelgono. Accade un fatto; cento
persone vi assistono, nessuna di esse ne darà una versione del tutto
corrispondente a quella del vicino. Se in mezzo vi è un morto, uno
esclamerà: «Che disgrazia!» un altro sentenzierà: «La solita storia!»
un terzo dirà: «Vi è un morto,» senza commenti.

La vita che i romanzieri e i novellieri si propongono di ritrarre, è
quella che è; la diversità consiste nell'organismo che la osserva.
Quando una persona qualunque compie un'azione purchessia, non si sente
una voce, dall'alto o dal basso, che giudica quell'azione,
inappellabilmente; ognuno di noi si forma invece di quell'azione un
concetto relativo ai proprii mezzi d'indagine, al proprio carattere ed
al proprio interesse.

In arte, si vogliono distinguere due scuole: la naturalista e
l'idealista. Non badiamo, se le piace, ai nomi; i nomi sono sciocchi,
dicono molto di meno e molto di più di quel che dovrebbero dire.
Badiamo ai fatti. Nel fatto, i naturalisti sono accusati di veder
tutto nero, di deprimere tutto; gl'idealisti di veder roseo e di
esaltare ogni cosa. So benissimo che tanto gli uni quanto gli altri si
ribellano a queste accuse, che tutti sono convinti di veder la vita
com'è; ma non ci occupiamo di questo. Io dico che la realtà non avendo
caratteri specifici, non essendo definibile assolutamente, le visioni
contraddittorie delle due scuole sono egualmente legittime. Voi dite
invece che la realtà ha dei caratteri definiti, che essa è, per sè
stessa, in un certo modo determinato? Allora tanto chi disprezza per
partito preso, quanto chi ad ogni costo accarezza, sono, per
esagerazione, nel falso. Quindi: se naturalisti e idealisti sono, per
il loro modo di vedere, o entrambi nel vero, o entrambi nel falso, il
loro modo di vedere è una qualità sopprimibile, come quantità
sopprimibili, nei due membri di un'equazione, sono i termini eguali.
Che cosa resta? Resta il _quid_ artistico, l'_x_ da trovare.

Lasciamo stare l'algebra. Molte persone dicono: «Sta bene,
riconosciamo il valore artistico delle opere naturaliste; siamo anche
disposti ad ammettere la superiorità di questo metodo; ma, in ragione
di questa stessa superiorità, domandiamo che dei mezzi così efficaci
di rappresentazione non siano unicamente adoperati per dipingere il
brutto ed il pravo. Fate del naturalismo artistico, ma dell'idealismo
etico al tempo stesso; in altre parole: descrivete _naturalmente_ il
_bello_ ed il _buono_.» Chi ragiona così dimentica che ogni metodo
d'arte porta con sè la sua propria filosofia, che un modo di scrivere
è anche un modo di vedere, che ad ogni contenuto s'impone una forma
determinata--e reciprocamente. Un idealista, perchè idealista, sceglie
degli argomenti nobili, presenta dei caratteri elevati, perviene a
conclusioni confortanti, attenua con la simpatia il suo pessimismo. Se
egli si trova dinanzi a qualcosa di urtante, di brutale, lo modifica,
lo purifica--lo _idealizza_. Reciprocamente: i personaggi simpatici
dei naturalisti hanno tutti il loro lato debole, volgare, violento; le
azioni generose i loro moventi indegni. Quando io ho scelto un
argomento, mi trovo di aver scelto nello stesso tempo il mio metodo;
viceversa: se io mi propongo di conseguire certi effetti, non sono più
libero di scegliere un soggetto qualunque: il mio campo è
circoscritto. Abbracciare un sistema, in arte come in politica,
importa negare certe cose e crederne delle altre, rinunziare a certe
categorie di emozioni e di opinioni, non vedere più che in un modo
determinato. Realismo e idealismo sono al tempo stesso delle dottrine
etiche e dei metodi estetici, sistemi filosofici e partiti artistici.
Un romanzo idealista nell'ispirazione e naturalista nell'esecuzione--o
viceversa--non è possibile: Zola ci si è provato, ed ha fatto il
_Sogno_....

Da un'altra parte, il pubblico generalizza troppo facilmente. Se in un
libro si descrivono soltanto delle miserie, delle vergogne, delle
crudità, che ragione ha la gente di rimproverare all'autore: «Voi
rinnegate le nobiltà, le delicatezze, gli eroismi?» Se un altro libro
è tutto pieno di queste cose che mancano all'altro, c'è ragione di
pigliarsela con l'autore perchè spazia sempre nell'alto? A volere che
uno scrittore dia un'adeguata imagine del mondo materiale e morale,
bisognerebbe dargli, per lo meno, un po' di tempo! «Dio mio!--esclamò
una volta Luigi Capuana--non si può mettere l'universo in sette
novelle!...» Supponiamo che un pittore faccia un quadro rappresentante
una tempesta; lo accuserete voi di negare il sole e l'azzurro? Tutto
ciò che potrete domandare è che egli dipinga bene il suo quadro.
Quest'altra volta egli farà un mare tranquillo... se non farà un'altra
tempesta, per disposizione naturale dello spirito, per una preferenza
tecnica, per una ragione qualunque che egli potrebbe anche non
dire....

Discorrendo parecchi anni or sono col Capuana di queste, cose--portavo
allora intatta la mia verginità letteraria--pensando alla facilità con
cui si formano i giudizii di questo genere, io feci all'amico mio una
proposta. «Vi incolpano di non sapervi aggirare se non nei bassi fondi
sociali? di non avere delicatezza, fantasia, simpatia? Scrivi un
romanzo idealista, in cui siano soltanto passioni esaltate, caratteri
nobili, azioni generose; in cui ritrarrai un ambiente elevato, i cui
personaggi porteranno dei titoli sonori o rappresenteranno
l'aristocrazia dell'ingegno; in cui non si sentirà l'_odore del
popolo_ zoliano, ma quello degli estratti doppii alla moda.... Scrivi
un romanzo _romantico_, secondo vuole lo stile, dimostra come sia
molto più facile che non lo scriverne uno naturalista; è probabile
che, dopo, ti lasceranno in pace!» L'idea piacque al Capuana, e con la
felice versatilità dell'ingegno che gli ha permesso di passare da
_Giacinta_ a _C'era una volta_, dallo _Spiritismo_ ai _Semiritmi_,
egli avrebbe sicuramente fatto del Feuillet da confondersi col
genuino; la storia delle sue contraffazioni avrebbe contato un gustoso
capitolo di più.... Altre cure gl'impedirono di porre ad effetto
questo disegno; io lo ricordai quindi naturalmente dopo la
pubblicazione del mio libro, allorchè accuse simili a quelle fatte al
Capuana si fecero a me; allorchè Ella, dimostrandomi l'alta
stima--furono sue parole--in cui teneva il mio ingegno, mi disse che
avrebbe voluto vederlo impiegato in modo migliore.

Ecco come è nata la prima idea di quel _Documenti umani_ che le ho
mandati. Come Ella avrà visto, la prima novellina dimostra le mie
intenzioni. Documenti umani si sono chiamati i fatti che comprovano le
realità miserabili e lamentevoli? Chiamiamo _Documenti umani_ un libro
di novelle ispirate alle più alte idealità. Forse i lettori non mi
accuseranno più di rinnegarle, forse il signor Treves mi stamperà....

Non le nascondo--sarebbe inutile, Ella se ne sarà accorta da sè--che
in quei racconti io ho un poco qua e là calcata la mano, con un
partito preso di distinzione, di lindura, di levigatezza _quand même_.
Vi è in questo un movimento di reazione giustificabile, se non giusta,
dinanzi alle accuse che mi si fecero. _Abyssus abyssum invocat_, e le
esagerazioni in un senso provocano naturalmente le esagerazioni in un
senso opposto. Se vi sentirete rimproverare da ogni parte di appestare
i vostri vicini con l'odore dell'aglio, sarete molto probabilmente
tentati di procurargli un'accapacciatura a furia di _opoponax_....
Quando la nuda semplicità della _Nedda_ sollevò, in un certo mondo
letterario, quegli scandali che Ella conosce, Giovanni Verga ebbe la
tentazione di una solenne canzonatura: un rifacimento arcadico della
sua novella, nel quale il famoso e scandaloso raglio dell'asino doveva
essere sostituito dai gorgheggi dell'usignuolo.... Questo non vuol già
dire che l'autore dei _Malavoglia_ non creda all'esistenza
dell'usignuolo; come le esagerazioni alle quali io mi sono lasciato
andare non significano che io non creda all'esistenza dei sentimenti
raffinati e dei caratteri scelti che ho rappresentati. Io credo che
tutto possa essere--ma credo del pari che l'artista, in mezzo
all'infinita varietà dei fatti umani, abbia piena ed intera la libertà
della scelta e della interpretazione. Scegliere, fra questi fatti
quelli che rappresentano il lato seducente dell'umanità, è certo
accaparrarsi un più largo consenso; se, dunque, molti artisti vi
rinunziano, per appigliarsi a quegli altri fatti che rappresentano il
rovescio della medaglia, più che il biasimo non crede Ella che
meritino una lode per il coscienzioso disinteressamento di cui dànno
prova? Ma, dirà Ella, perchè scegliere l'altro lato?... Arrivati a
questo punto, le teoriche non hanno più che farci: la scelta, il modo
di vedere, sono quistioni di temperamento, di gusti, di educazione, di
disposizioni permanenti o transitorie, di attitudini speciali: tutti
elementi personali, variabilissimi, che non è possibile, e si potrebbe
fino a un certo punto anche aggiungere non è lecito, di rintracciare.
Se una dimostrazione filosofica o gli ammaestramenti di una esperienza
mi inducono a credere che i sentimenti più alti e più rari si
risolvono negl'istinti primitivi della bestia, io farò oggetto della
mia rappresentazione artistica dei fatti dai quali questo concetto
scaturisca. Se la mia esperienza mi avrà detto invece che gl'istinti
meglio radicati sono domati da qualcosa di più potente e di più puro,
io vedrò le cose in tutt'altro modo, la mia scelta sarà diversa. E la
scelta è poi libera:--meglio: c'è vera scelta, o sotto l'illusione
della libertà si nasconde una rigorosa predeterminazione?...

Non passiamo i confini del campo letterario. Se i soggetti presi a
trattare dai naturalisti non sono di quelli che più piacciono alla
massa dei lettori, io vorrei dimostrare la ragione tecnica di questo
fatto. Naturalista è chi vuol riuscire naturale, cioè chi cerca di
dare alla finzione artistica i _caratteri_ del vero. Ora, non tutti
gli oggetti veri sono egualmente _caratteristici_, riconoscibili e
starei per dire individualizzabili. È quindi evidente che lo scrittore
naturalista darà la preferenza a quelli che, per avere dei tratti più
salienti, un aspetto più distinto, più accidentato, assolutamente
proprio, gli forniscono il mezzo di conseguire il suo intento. Ora, la
virtù e la salute sono più uniformi, più semplici, più monotone del
vizio e della malattia; questi offrono una più grande varietà ed una
più grande particolarità di manifestazioni; e lo scrittore naturalista
in traccia di fatti significativi, ne trova, negli ambienti corrotti,
nei tipi degenerati, nei casi patologici, una più ricca messe. Questa
è pure la ragione perchè, in una gran parte di casi, il mondo dei
naturalisti è quello della povera gente. I lettori domanderebbero di
assistere a scene della vita elegante, di vedere in azione delle
grandi dame e dei gran signori; le descrizioni di catapecchie dove si
aggirano dei miserabili in cenci sono, _a priori_, condannate.
Lasciamo stare se questa antipatia è giusta o pur no, se essa risponde
ai principii ispiratori della morale cristiana o dell'ideale
democratico.... È così, e basta. Ma se gli scrittori naturalisti non
contentano questi desiderii, egli è che a misura che si scende nella
gerarchia sociale, le differenze si accrescono e i tipi si determinano
più nettamente. Un contadino, un operaio, un marinaio, un minatore
hanno dei caratteri esclusivamente proprii, specifici, nella
fisonomia, nell'abito, nel modo di fare e di parlare, da renderli
riconoscibili a cento miglia lontano; la folla elegante che popola un
salone è più uniforme, offre meno presa all'osservazione. Ella mi
dirà, che le preferenze dei naturalisti si risolvono così nella
ricerca di ciò che loro riesce più agevole; nè io le darò torto. Fare
della _realtà elegante_--l'espressione è di Edmondo de Goncourt--ecco
l'impresa che si vorrebbe tentata. La quistione è, però, che molto
probabilmente l'eleganza di un naturalista procurerebbe dei disinganni
agli eleganti di professione. Non bisogna dimenticare che il fatto
rettorico è connesso al fatto psicologico, che forma e contenuto
s'impongono vicendevolmente; così, il naturalista avvezzo a veder
brutto, troverebbe delle imagini brutte per ritrarre le cose belle,
come quell'eroe di Karl Huysmans agli occhi del quale i fiori più
smaglianti si paragonavano naturalmente a piaghe, ad escrescenze, ad
erosioni patologiche....

Tornando all'ordine di idee interrotto dianzi, un'altra accusa fatta
ai nostri novellieri naturalisti è quella del regionalismo. «Voi mi
date dei marinai di Aci-Trezza, dei mulattieri di Licodia, dei
contadini di Viagrande: che geografia è cotesta? Come volete che io
m'interessi ad una gente che non so neppure dove stia di casa?» La
quistione è che se voi non potete interessarvi a questi ignorati, lo
scrittore non può conseguire una fedeltà di rappresentazione se non
mettendosi innanzi dei modelli; ora, se io sono vissuto in Sicilia,
non posso pigliare i miei modelli nel Friuli! Ed una quistione
strettamente connessa con questa, è l'altra dello stile che i
novellieri regionalisti sono costretti a foggiarsi per la necessità
di quel che si potrebbe chiamare il _colore locale_ della
rappresentazione artistica. I popolani di Sicilia parlano un loro
particolare dialetto; quando io li introduco in un'opera d'arte ho
due partiti dinanzi a me: il primo, che è l'estremo della realtà,
consiste nel riprodurre tal'e quale il dialetto--come hanno tentato
per le loro regioni il D'Annunzio, lo Scarfoglio, il Lemonnier--il
secondo, che è l'estremo della convenzione, consistente nel farli
parlare in lingua, con accento toscano e con sapore classico. Ora,
se nel primo caso io rischio soltanto di non farmi comprendere dai
lettori che ignorano il dialetto, nel secondo rischio addirittura di
farli ridere tutti. Fra i due partiti estremi, io tento, con
l'esempio del Verga, una conciliazione; sul canovaccio della lingua
conduco il ricamo dialettale, arrischio qua e là dei solecismi,
capovolgo dei periodi, traduco qualche volta alla lettera, piglio di
peso dei modi di dire, cito dei proverbii, pur di conseguire questo
benedetto colore locale non solo nel dialogo, ma nella descrizione e
nella narrazione ancora.

Per venire ai presenti _Documenti umani_--Ella troverà che ho divagato
un po' troppo--questa che io chiamerei _localizzazione_ artistica vi
manca. In alcuni racconti non è neppur detto il luogo dove l'azione si
svolge; là dove è detto, potrebbe essere spostato impunemente. È
naturale: se si vuole un modello che convenga a tutti, bisognerà
sacrificare la precisione. E vede come la differenza dei punti di
partenza si trascina dietro la differenza dei processi? Nelle novelle
realiste della _Sorte_ io dovevo descrivere delle varietà di costumi:
i miei personaggi erano diversi, necessarii, tipici, l'osservazione
esteriore era minuziosa; in queste novelle ideali ho dovuto notare
delle gradazioni di sentimenti: i personaggi sono dei prestanome, si
rassomigliano un po' tutti; l'analisi psicologica soverchia ogni cosa.

L'analisi psicologica! Se ne ragionassimo un poco? In che cosa
consiste essa? Essa consiste nell'esposizione di tutto ciò che passa
per la testa ai personaggi, delle loro sensazioni, dei loro sentimenti
e delle loro volizioni. Dato un personaggio con un certo carattere e
messo in presenza di una certa situazione, l'analisi psicologica
consiste nel rintracciare tutti i movimenti interiori di questo
personaggio, come egli apprezzi questa situazione, che cosa essa gli
suggerisca, quali partiti gli si presentino per uscirne, e per quale
trafila di impulsi e di ragionamenti egli si apprenda all'uno
piuttosto che all'altro. Alcuni scrittori eccellono in questo genere:
Paolo Bourget specialmente, pel cui ingegno io professo una
grandissima stima. Quando però si è letta una di queste pagine così
precise, in cui l'azione del personaggio è legittimata da cento motivi
uno più sottile e più profondo dell'altro, vien fatto istintivamente
di domandare all'autore: «Come li avete saputi? Il vostro personaggio
vi ha egli raccontato tutto ciò ch'egli ha provato, sentito,
ricordato, previsto, trascurato, ponderato? Se no, come avete fatto ad
entrare nel suo cervello ed a leggervi quel che vi si passava?...»
Victor Hugo, nell'_Homme qui rit_, ha un'epica descrizione del
naufragio di una nave di Baschi, nessuno dei quali però si salva.
Ragazzo, appena finito di leggerla, io domandavo a chi ne sapeva più
di me: «O come ha fatto Victor Hugo a risaper tutto quel che è
avvenuto a bordo della _Mattutina_ dal momento della partenza fino al
naufragio, se nessuno è sopravvissuto per dargliene la notizia e se
nessun altro poteva esser presente, in mezzo al mare?» E quelli che ne
sapevano più di me, mi rispondevano: «È tutta forza di fantasia e di
imaginazione!»

Ora, l'analisi psicologica è anch'essa il prodotto di un particolar
genere d'imaginazione: l'imaginazione degli stati d'animo. In un sol
caso essa può essere il prodotto reale dell'osservazione immediata, ed
è quando lo scrittore fa argomento della propria analisi sè stesso.
Mettendosi direttamente in iscena, o prestando la propria coscienza ad
uno dei suoi attori, egli potrà sviscerare gli stati d'animo più
complessi, più delicati e più rari che nel campo di quella coscienza e
sotto la propria diretta percezione si svolgono. Ma in tutti gli altri
casi, quando studia dei caratteri dissimili dal suo, e specialmente in
tutta la grande categoria dei caratteri femminili, ciò che cade sotto
la sua diretta osservazione non sono che gli atti, le parole, i gesti.
Ora, se si riflette che non solamente il numero dei gesti, delle
parole e degli atti non è proporzionato al numero infinito dei
pensieri--che, per dir meglio, non hanno numero, essendo una
successione continua ed omogenea--ma che i medesimi atti, le medesime
parole, i medesimi gesti servono a diversissimi uomini, per
diversissimi motivi in diversissime circostanze, si vede quanta poco
probabilità di successo vi sia nel desumere dagli indizii esteriori il
processo latente che si svolge nelle singole coscienze. Se si riflette
ancora che noi stessi non ci sappiamo spesso dar conto di _noi
stessi_, l'impresa apparisce in tutta la sua ingrata difficoltà. Le
ricostruzioni psicologiche dei romanzieri, pertanto, sembrano poggiate
sopra una base poco solida e risultanti da induzioni più o meno
possibili; e, in fondo, anche quando lo scrittore non parla di sè
stesso, la sua analisi altruistica si risolve nel prevedere
simpaticamente ciò che, nella pelle dei suoi personaggi, egli stesso
proverebbe e penserebbe. I realisti, invece, presumendo di dar
l'impressione del reale, fanno agire i loro personaggi, riproducono
ciò che in essi è apparente, lasciando ai lettori l'imaginare quel che
vi si passa internamente; tal'e quale come nella realtà, in cui noi
vediamo degli uomini e delle donne che parlano e che si muovono, e non
delle anime messe a nudo e starei per dire scorticate. Cercando di
fare intravedere le modificazioni interiori dai segni esterni,
rappresentando una situazione d'animo con un gesto o con una parola
che la riassumono, si può ben dire che i realisti, invece dell'analisi
psicologica, procedono per mezzo della sintesi fisiologica.

Molte di queste cose, in forma diversa, sono state recentemente dette
da Guy de Maupassant, con l'autorità che gli viene dalla forte
produzione, nella prefazione di _Pierre et Jean_. Ma il Maupassant,
pure ammettendo la legittimità dei varii metodi, tiene troppo al suo e
lascia intravedere assai chiaramente le sue preferenze. Per essere
veramente disinteressati, dopo la critica dell'analisi psicologica,
bisognerebbe farne la difesa. Un analista, infatti, potrebbe
rispondere: «Ciò che preme sopra tutto è l'anima umana. Noi non
possiamo leggervi dentro, ma vale per noi infinitamente di più la
ricostruzione verosimile di uno stato psicologico, che tutti i fatti e
gli atti più veri. Il fatto, la parola, il segno esteriore non sono
che dei momenti; il pensiero, che non è, ma _diviene_ continuamente, è
quello che caratterizza l'individuo e che importa conoscere. Ciò è
tanto vero, che le azioni possono essere, e sono spesso, contrarie
alle intenzioni: sono questi contrasti quelli che vanno studiati. Del
resto, se voi presumete che i vostri lettori possano ricostrurre i
processi intimi dagli indizii che voi ne date, noi non facciamo che
metterci al posto dei vostri lettori, e scriviamo le nostre
ricostruzioni. Del resto ancora, se è vero che ciascun uomo ha una
psiche diversa, è ancor vero che la natura umana è una, ha un fondo
uniforme, e che le differenze da uomo ad uomo non sono determinate se
non dal diverso sviluppo che certe facoltà e certe tendenze prendono
in seguito a circostante speciali e riconoscibili. Nulla, in tutto
ciò, che precluda la via all'analisi degli stati d'animo più
disparati.» E non sarebbero neanche necessarie tante dimostrazioni:
basterebbe che gli analisti dicessero: «Noi siamo fatti in modo da
analizzare!» Stendhal, che ha un'imaginazione psicologica, scrive la
_Certosa_ e _Armanzia_; Flaubert, che ne ha una tutta fisica, scrive
_Salammbô_ e la _Tentazione di Sant'Antonio_....

Siamo sempre lì: i metodi sono molteplici, l'arte è una. Chi vuol
rappresentare degli stati d'animo deve naturalmente ricorrere
all'analisi psicologica; l'analisi psicologica essendo la narrazione
del pensiero, ne deriva come nuova conseguenza che lo scrittore è
costretto ad adoperare una forma tutta personale. Altra grossa
quistione: Obbiettivismo, subbiettivismo; accademia forse!... Se la
lasciassimo lì? Ella imagina già quel che io vorrei dire: si possono
conseguire degli effetti di prim'ordine coll'un metodo e con l'altro,
nè i metodi sono arbitrarii: lo psicologo sarà sempre subbiettivo; il
naturalista, volendo limitarsi a riprodurre quel che vede, sarà
necessariamente impersonale....

Riassumendo perciò questo lungo discorso--era proprio tempo--se io
potei prevedere i rimproveri che i critici avrebbero fatto alla mia
_Sorte_, sono oggi ancor meglio in grado di indovinare le accuse che
toccheranno a questi _Documenti umani_. Vuol vedere se sbaglio? Mi
diranno che le favole sono troppo romantiche, che i personaggi sono
troppo convenzionali, che lo stile è troppo artificioso. Nella _Sorte_
s'incontravano troppi _mastri_, _don_ e _comari_; qui vi saranno
troppi artisti, cavalieri e contesse. Quelli erano troppo sciatti,
questi saranno troppo preziosi. Lì ero troppo indifferente, qui
esprimerò troppe opinioni. La _Sorte_ era troppo vera; i _Documenti
umani_ saranno troppo inverosimili....

Si metta ora un poco nei miei panni e consideri che bell'impiccio! Lei
mi dirà: «Non si preoccupi della critica!» Ma si fa presto a dire! I
critici sono o non sono i giudici naturali di noi poveri autori? sono
o non sono i supremi custodi della legge dell'Arte? Se cominciamo a
discutere la loro autorità, sa come potrebbe finire? Che un bel giorno
essi pianteranno lì la loro missione; e allora addio garbo, misura,
buon gusto, buon senso: tutti i freni saranno sciolti, a scempio del
bello, del buono e del vero!

Tolga Iddio che io contribuisca a tanta sciagura! Io sono un autore
timorato ed ossequente alla critica costituita. La _Sorte_ era
naturalista? Ecco qui delle novelle ideali. Sono troppo ideali? Ed io
mi metto a scrivere un romanzo a modo mio.... Me lo stamperà?

Mi stamperà, innanzi tutto, questa lettera? A discorrere solo, uno si
persuade presto d'aver ragione; però, dopo aver riletto queste pagine,
comincio a persuadermi che probabilmente le mie teorie non avranno
persuaso niente affatto lei. Lasci correre lo stesso; tanto, a
discutere, si finisce per confermarsi nella propria opinione. Guardi
come il pubblico resta incrollabile nella sua, che è quella di non
darci retta!


         Catania, Ottobre 1888.

                                      _Di lei cordialissimamente_
                                            F. DE ROBERTO



DOCUMENTI UMANI.


I.

«Quando voi leggerete queste pagine, io sarò morto. Non voglio, non
voglio andarmene nel silenzio e nell'ombra, senza dirvi tutto quello
che ho in cuore, senza mostrarvi tutta l'opera spaventevole compita da
voi, senza lasciarvi--ultimo ricordo della nostra _tenera
amicizia_--l'eterno rimorso del male che voi avete commesso.

«Io non sono generoso?... Ah! bisognava che apprendessi alla vostra
scuola la generosità!... Sentite: la mamma mia dorme di là, nella
camera attigua; ella riposa un istante dopo una giornata
d'inquietudine, passata a spiare ogni mio movimento, quasi presaga
della sciagura che le pende sul capo. Domani, a quest'ora, ella non
riposerà. Le sorelline mie sono venute a baciarmi, come ogni sera, e
sognano ora i loro sogni giocondi. Domani, a quest'ora, esse non
sogneranno. Domani, la desolazione sarà entrata in questa casa;
domani, la vita ricomincerà ad ordire la tela delle sue più dolorose
difficoltà intorno ai miei cari, che io abbandono, vilmente. Del mio
coraggio che cosa ne avete voi fatto?... Ma, nell'abiezione in cui
sono caduto, un barlume di nobiltà mi era rimasto finora; ed io avrei
voluto--vedete--scomparire per sempre senza che nessuno sospettasse la
miseria mia, senza che voi la sospettaste! senza aver l'aria di
mendicare la vostra pietà! senza farvi sentire le mie grida ed il mio
pianto!... Del mio orgoglio, della mia dignità, che cosa ne avete voi
fatto?... No, no: è più forte di me; voi mi ascolterete, voi leggerete
questa confessione, queste pagine su cui, silenziose, grosse, roventi,
cadono di tratto in tratto le mie lacrime. Le lacrime di un uomo! le
lacrime di chi non ha pianto fra i disinganni più amari, fra i dolori
più atroci! è una cosa molto triste, ditelo: non è vero?...

«Se voi sapeste quello che io ho sofferto! Se sapeste i torrenti di
tristezze che hanno allagato il mio cuore! Se sapeste di che forza ho
dovuto armarmi per sostenere questa feroce battaglia della vita;
quante volte ho disperato, quante volte il vento della pazzia ha
soffiato sulla mia fronte! Solo, senza un aiuto, senza il conforto
neanche di una chimera, con la certezza che tutto è invano, io ho
saputo resistere e persistere! Nelle strette del bisogno, fra l'ostile
indifferenza del volgo, fra l'invidia, la doppiezza, la malvagità
degli altri, dubitando di tutto e di tutti--primo di me stesso--io ho
saputo compiere quello che gli uomini nominano il Dovere--e si
limitano a nominare soltanto.... Ed avevo conseguita la pace, la meta
più sospirata! il porto invocato durante le tempeste! ed avevo
composto in un'urna le ceneri ben fredde delle mie illusioni....
quando voi siete venuta.... Non lo negate: siete stata voi!

«Ah! io ero _curioso_, io ero _interessante_; bisognava vedere com'era
fatto questo _filosofo_, questo _anacoreta_, quest'essere a parte, di
cui nessuno fra quelli che vi circondavano aveva potuto ancora darvi
un'idea! Bisognava provare su di lui la sottile magìa dei vostri
profumi, la dolcezza del vostro sorriso, la melodia della vostra voce,
la soavità della vostra mano!... E quando, già preso dalle prime
vertigini, egli tentava di sfuggirvi, e qualcosa, nei suoi sguardi,
domandava pietà per lui, bisognava ancora strapparlo ai suoi rifugi,
trascinarlo nel vortice che vi si aggira dintorno, legarlo ben forte a
voi invocando il suo appoggio, l'aiuto della sua _amicizia_!... E
quando, smarrito, incapace di resistervi più, egli tentava di
soffocare il grido che stava per rompergli dal petto, bisognava ancora
fargli perdere quel resto di ragione, bisognava ubriacarlo con
l'assenzio della speranza, come la spia ubriaca il colpevole per
strappargli la confessione del delitto!...

«Ma che colpa ho io commesso? Perchè infliggermi questo gastigo? Che
cosa ho io fatto a voi, od ai vostri?... Dicono che la gelosia sia un
orribile tentatore, un truce consigliere; no, non lo credete! dite a
tutti che non è vero! Ecco: il rispetto tremante, l'angoscia paurosa
che io provo dinanzi a voi, si ridestano in me, sempre, alla presenza
dell'uomo che voi amate. Ah! il sorriso di Dio si è posato su di lui!
Scorgerlo da lontano mi fa battere il cuore! Io vorrei baciare la
traccia dei suoi passi! Non lo sapete? Io l'ho difeso, a rischio di
qualcosa di più della mia vita--a rischio del mio onore--quando un
pericolo lo ha minacciato! Io, io stesso, l'ho ricondotto a voi, una
volta che egli stava per isfuggirvi, ve ne ricordate?... Io vorrei
soltanto spaccare il suo petto, strappargli il cuore dal petto,
rompere il suo cuore, per farvi vedere, disgraziata, che mai! mai!
mai! egli vi ha portata nel cuore!... Io vorrei soltanto scavare i
suoi occhi, squarciare il suo cervello, per vedere che cosa nei suoi
sguardi, che cosa nelle sue parole vi ha parlato per lui!...

«E voi credete di conoscere l'amore? Oh, povera ignorante, che cosa ne
sapete voi? Che cosa sapete dei ruggiti feroci che finiscono in
pianto? dei mortali languori che sono un tripudio immortale? dell'ora
che comprende la Eternità? delle parole che sono baci, dei baci che
sono marchi roventi, del tormento che è delizia ineffabile? Chi
avrebbe potuto farvi soltanto sospettare tutto questo? Avete voi
incontrato soltanto un'Anima sul vostro cammino? Che pietà! che pietà!
Io conosco tutta la vostra miseria! Io conosco tutte le prove per cui
voi siete passata, tutti i vostri smarrimenti, tutte le vostre cadute.
Sentite: vi sono delle infamie nella vostra vita. Ah, io non studio le
mie espressioni; non me ne resta più il tempo! Io conosco tutti quelli
che voi avete voluti: quale nausea invincibile! Venite qui, vicino,
molto vicino, che nessuno possa sentire: sapete come _essi_ parlano di
voi? sapete come vi chiamano?... E quando io ho taciuto, compreso d'un
infinito rispetto, pauroso di offendervi perfino col pensiero, voi
avete riso!... E quando io ho pianto, ed i miei occhi gonfii ed
arrossiti hanno tradito le mie mute angoscie, voi avete riso!... E
quando finalmente io sono caduto in ginocchio, stanco, stremato,
febbricitante, mortalmente colpito, e quando ho pregato, ho
supplicato, ho gridato, mi sono trascinato per terra, mi sono morse le
mani, voi avete riso!... La mia vendetta! la mia vendetta! La vendetta
che io ho vagheggiata, che io ho sognata nelle notti dell'incubo!
Vedervi caduta nel fango, perduta per sempre, non conservare della
donna che il nome! Vedervi trascinare al mio lato, supplicante,
miserabile, indegna, e pagarvi e respingervi....

«Signore, che cosa ho detto? Compassione, compassione di me! O
Madonna, per l'amore che vi ho portato, per l'amore che vi porto,
perdonerete voi il bestemmiatore? Non v'accorgete che io vaneggio? Non
v'accorgete che io sono un pazzo, un povero pazzo moribondo,
doppiamente lamentevole e degno di pietà? O Madonna misericordiosa,
avrete pietà di me? Perchè non mi farete ancora la carità che io vi
chieggo? Infine, sono molto esigente? Che cosa imploro da voi? che mi
tolleriate, che vi lasciate adorare, che mi lasciate respirare nella
vostra aria, umile come uno schiavo, fedele come un cane, muto come
una cosa! Oh, no! io v'inganno! non mi credete! non è possibile! la
tenerezza trabocca dal gonfio mio cuore; sgorga dagli occhi in lacrime
non più amare, dolcissime! irrompe dalle labbra con parole susurranti,
carezzanti, più dolci delle lacrime! O vaga, o bella, o gentile, o
soave, o sogno della mia morente giovinezza, o sorriso di poesia, o
amor mio immortale, conosci tu i nomi con cui ti ho chiamata nella
solitudine delle mie notti? Sai tu che nessuna, nessuna! ha mai
sentito quei nomi da me?... Bisogna credere, non è vero, alle parole
di chi muore! Ed io ti giuro, per te! che il mio cuore è rimasto
vergine; che tra i fatali esperimenti della vita una cura gelosa ha
fatto la guardia del mio cuore; che tu, tu sola, mi sei entrata nel
cuore!... Come a lungo ti ho aspettata! Io _sapevo_ che tu dovevi
apparire. Quando la natura è stata in festa, quando il profumo dei
fiori, come un incenso, è salito nel cielo clemente, e la gioia ed il
tripudio hanno visitato le povere anime umane, io sono rimasto solo,
ad aspettarti! Quando i tappeti delle foglie morte si distendono al
suolo, ed invitano le coppie innamorate a vagare sotto le cupole d'oro
dei boschi, tenendosi per mano, bevendo gli ultimi aliti del sole
agonizzante, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Le notti che il
vento geme, che la pioggia scroscia, che il freddo sferza, quando è
così buono riscaldarsi sopra un seno adorato, io sono rimasto solo, ad
aspettarti! Non hai tu dunque mai sentito avvincerti lievemente, come
da un essere invisibile? Erano le mie braccia che si protendevano
verso di te! Non hai tu mai sentito sfiorarti la bocca, come da una
invisibile foglia di rosa? Erano le mie labbra, che si avanzavano
verso le tue! Non hai tu mai sentito un tepore penetrarti tutta, come
una fiamma invisibile? Era l'anima mia, che se ne andava verso di
te!.... Come a lungo ti ho aspettata! Avevo perfino perduto la
speranza di incontrarti mai! Ma tu sei apparsa, ed ecco: i geli si
sono distrutti, i veli funerei si sono strappati, le fredde ceneri
hanno dato nuove vampe. O miracolosa, tale è la potenza del tuo
sguardo! O deliziosa, vieni! vieni con me! lascia che il mondo dica;
che cosa c'importa del povero mondo? Dimentica il mondo;
dimentichiamolo entrambi: la vita comincia appena oggi per noi! Vieni,
vieni con me! Vieni dove so io, dove è luce, armonia ed esultanza!...

«Ah!... l'ora batte, fredda, monotona, spietata, ed ogni colpo mi
picchia qui, sul cervello! Il giorno odiato già spunta; un canto
risuona per la via.... Ho sognato ancora! ed il risveglio è così
crudele! Ma è forse tua colpa se il sogno non si converte in realtà?
No, povero amore, la colpa non è tua. La colpa è di un Altro, o di
nessuno! La colpa è della vita assurda, della sorte cieca, della
disdetta fatale che pesa su noi tutti! Di resistere ancora io non mi
sento la forza. Ho finalmente bisogno di oscurità e di silenzio. Ma
ora, quando l'istante non è più lontano, ascoltami: io voglio dirti
l'ultima mia parola, la parola che ti accompagnerà dovunque, la parola
che tu più non scorderai. Se il voto di un morente val pure qualcosa,
per la gioia che mi hai dato, per il male che mi hai fatto, ora e
sempre, sii benedetta.» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


II.

--Vedete?--disse l'ingegnere Ferrieri al suo giovane amico Paolo
Dinolfi, appena questi ebbe finito di leggere.--Vi sono anche dei
documenti umani che depongono per l'esaltazione, per il lirismo, per
l'idealità, per tutto ciò che voi fate presto a negare quando avete
esclamato: rettorica!

--Permetta,--interruppe il Dinolfi, ripiegando con cura il manoscritto
e posandolo sul tavolo.--Io non ho negata la rettorica; ho detto
soltanto che la rettorica non è la verità!

--Oh, bene! E se noi cominciassimo a intenderci sul significato dei
vocaboli? La verità! Quale verità? Vi è una verità reale, e ve n'è
una ideale.... A vostra volta voi mi domanderete di spiegarvi queste
altre grosse parole. È semplicissimo; io non uscirò dai limiti
dell'etimologia. Reale è il mondo delle cose, ideale è il mondo
delle idee. Ora una idea, un sentimento, un fatto psichico è nel
vero allo stesso titolo di una cosa, di un avvenimento, di un fatto
fisico. Una concezione spirituale esiste con lo stesso diritto di un
oggetto materiale; si potrebbe anche dire: con un diritto più
legittimo--poichè il mondo esteriore non ci si rivela che per via di
imagini interne....

--Una lezione di psicologia?

--Avete ragione; ma perchè avete torto! Torniamo all'argomento. Io ho
letto, per esempio, tutti i vostri libri; essi lasciano un sapore
molto amaro--vi hanno perfino fatto una colpa del vostro pessimismo!
Ora, che cosa direste voi se io affermassi che questo vostro
pessimismo deriva da una _persuasione_ di dolore, non da un dolore
_veramente_ provato? Mi rispondereste che _credere_ di soffrire val
quanto soffrire _realmente_! Non è vero? E voi mi dareste causa
vinta!... Perchè di tutte queste dolci e torturanti credenze,
dell'amore, della poesia, dell'ideale, noi siamo tutti capaci; perchè
vi sono dei momenti in cui tutta la nostra anima vibra come se fosse
per spezzarsi, in cui soltanto l'inverisimile è vero; perchè, malgrado
i nostri capelli bianchi, malgrado la severità dei nostri studii, noi
_piangiamo_ se una canzone echeggia da lontano, nell'ora del tramonto,
e daremmo--che cosa?--per poter fare ancora della _rettorica!..._

Paolo Dinolfi guardò un momento negli occhi l'ingegnere Ferrieri.

--Lei può dunque garantirmi l'autenticità di questo documento?

--Ne dubitate ancora? Ma io non posso darvi che la mia parola! È
un'antica storia, ignorata da tutti. La donna è morta, sono molti
anni....

--E l'uomo?--interruppe l'altro.

--L'uomo,--rispose l'ingegnere, dopo un momento di esitazione--l'uomo
che passava quella notte a scrivere la sua confessione, e che,
all'alba, dopo aver baciato lievemente in fronte i suoi cari, usciva
armato del suo revolver, ben deciso a farla finita appena avrebbe
provveduto al recapito della sua lettera, l'uomo è qui, dinanzi a
voi.... Oh, per carità, non sorridete; mi fate male!... Ascoltate; io
vi dirò ancora qualcosa, da cui potrete argomentare la mia
sincerità!... Non sapete dunque, caro romanziere, che noi proponiamo,
ma che bisogna fare, in ogni circostanza, la parte del Caso? Nel
ritardo di un minuto può esservi la perdita o la salvezza di un uomo.
Ora, un minuto si può perdere in un modo volgarissimo; basta, per
esempio, una saccoccia sdrucita, una lettera che vi caschi dalla
saccoccia, una persona che vi corra dietro a riportarvi la vostra
lettera.... E se questa lettera è stata da voi scritta col cuore
sanguinante e con la mente smarrita, potrà nascere in voi la
tentazione di rileggerla quando la freschezza pungente del mattino
avrà sedato la vostra esaltazione.... Allora, in mezzo al ridestarsi
delle attività umane dopo la salutare tregua della notte; allora,
dinanzi allo spettacolo della più minuta e prosaica realtà--le vacche
della lattaia, il carro delle immondizie--voi potrete sentire come una
doccia ghiacciata sferzarvi la schiena, e giudicare precisamente
_rettorica_ le vostre lacrime della notte.... Voi non le avrete meno
versate per questo! Voi non le sentirete meno gonfiarvi gli occhi
quando, molti anni dopo, rimesterete tutte queste cose intime e
dolorose dinanzi a un amico....

In quel momento, una voce argentina squillò nella grande stanza da
studio.--È permesso?--e una bambina di circa dieci anni, un mucchio di
rose fra carnagione e vestito, si fermò sull'uscio tenendo un grosso
rotolo di carte fra le braccia, interdetta alla vista di un estraneo.

--Avanti, Vannina; su via! Hai paura dei miei amici?

--Hanno portato questo per te--e la piccola miniatura di donna non
levava gli occhi curiosi di dosso a Paolo Dinolfi.--E dice la mammina
che lei è pronta per andar fuori....

--Prega la mammina di andar sola per oggi--rispose l'ingegnere, dopo
aver dato un'occhiata alle carte.--Ho qui un bel da fare. Tu le terrai
buona compagnia.

E l'ingegnere Ferrieri, attirando a sè la figliuola, le stampò due
grossi baci sulle guancie.

--Non ha un altro bambino?--chiese premurosamente il Dinolfi che a
quella piccola scena si era sentito intenerire.

L'ingegnere si passò una mano sulla fronte.

--È morto, compie ora un anno! Me l'ha portato via la malattia che
infierisce in questo povero paese, la stessa che portò via la mia
buona mamma. Non sapete che noi siamo qui ogni giorno in pericolo di
vita? È urgente provvedere al rimedio, e questo è ora il mio gran da
fare; un progetto di sistemazione del sottosuolo della città, in modo
da evitare l'inquinamento delle acque. Bisognerà adottare un nuovo
tipo di fogne.... Ecco la prosa che viene a interrompere la poesia
della nostra comunione spirituale.... Vedete, mio caro romanziere?
Esse sono nel vero entrambe!



IL PASSATO.


I.

Ella glie lo aveva detto:

--Non ne sarai geloso?

Ed Andrea le era caduto ai piedi, sollevando verso di lei uno sguardo
luccicante di passione.

--Geloso del tuo passato? Ma vi è un passato per te?... per me?... Non
siamo noi nati appena da pochi giorni, dal giorno benedetto che io ti
confessai l'amor mio? Il bacio che io ti diedi in fronte non è stato
il battesimo tuo?... E il mondo esisteva forse prima che io ti
incontrassi? C'era un sole, c'era un mare, c'erano dei fiori? Tutto
questo non è stato creato per noi?... Di quale passato mi parli, amor
mio infinito? Non esiste che il presente, l'istante adorabile che
fugge e ritorna incessantemente: l'imagine dell'eternità!

Ella si lasciava cullare dalla musica di quelle parole, rovesciando la
testa, socchiudendo gli occhi, abbandonando lungo i fianchi le
braccia, che l'amante ricopriva di lunghissimi baci.

--Come sei buono! e come sono felice!

Però il giorno che era venuto a portarle l'_alliance_ su cui erano
incisi i loro nomi e una data: _Costanza ed Andrea, 14 marzo 1887_,
egli le aveva preso la mano, cercando di toglierle l'anello nuziale.

--Che cosa fai!--aveva esclamato lei, tentando di svincolarsi da
quella stretta--Lasciami, mi fai male....

--Ecco, ti lascio.... Ma togli quell'anello, Costanza; spezza il
simbolo d'una catena già rotta. Tu sei mia, mia soltanto, comprendi?
ed io non potrò più baciare la tua mano, se le mie labbra rischiano
d'incontrare la freddezza metallica di quell'anello!

--Ma non è possibile, povero amore!... V'è un giuramento dinanzi a
Dio; e il giuramento è una cosa sacra.... dillo tu stesso, se è una
cosa sacra....

Accortamente, ella gli aveva preso l'_alliance_ e l'aveva passata al
mignolo della destra.

--Vedi, Andrea? l'anello tuo io lo porterò qui, sempre, sempre! E
l'altro....

Ad un tratto egli l'aveva afferrata per le braccia, stringendo con
tutta la sua forza, e mormorando per la concitazione;

--Togli quell'anello.... o restituisci il mio! Restituiscilo, hai
inteso? o ti rompo le braccia! Restituiscilo, ch'io lo spezzi, ch'io
lo calpesti, ch'io lo butti nel mare....

-Ah, tu m'uccidi!

Ella era tutta sbiancata in viso, e le labbra fatte violacee erano
scosse da un lungo tremore. Subitamente, egli l'aveva lasciata e s'era
messo in ginocchio portando le mani alla testa e scompigliando i suoi
capelli grigiastri.

--Perdono, Costanza; perdonami, sono un pazzo, lo vedi! Ma sei tu che
m'hai fatto ammattire! A quarant'anni passati, e da un pezzo! Se io ti
dicevo.... quella cosa, è perchè--vedi!--io ti voglio bene.... in un
altro modo!... Costanza, mi hai tu perdonato?...

-Sì, sì! Guarda, io bacio il tuo anello, guarda; così! così! Bacialo
anche tu, così! E ti giuro che l'altro....

Allora egli le aveva chiusa la bocca con la mano, sorridendo
tristamente fra le lacrime, e dicendole pianissimo, da farsi appena
sentire:

--Silenzio!... Non dir nulla!... Non mi ricordar nulla!... Quello che
è stato è stato!... Lasciami morire così, ai tuoi piedi!...

Ed ogni volta che veniva a trovarla, appena entrato nel _santuario_,
egli si metteva in ginocchio, congiungendo le mani in attitudine di
preghiera, divorando cogli occhi la dolce figura di donna spiccante
sul fondo bianco del panneggiamento che guarniva un angolo della
stanza. Poi si trascinava fino a lei e si buttava per terra ai suoi
piedi. Ella tentava di opporsi, ma nulla resisteva alla volontà di
quell'uomo diventato capriccioso come un fanciullo e che per niente
passava dall'eccesso della tenerezza umile agli impeti irresistibili
d'un cieco furore.

--Lasciami fare, Costanza, letizia mia! Calpestami sotto i tuoi piedi!
Morire per te è la sola cosa degna di essere ambita!

Poi, con una curiosità sempre nuova si guardava attorno, girava per la
stanza, passando una mano sul raso dei divani, delle poltrone, degli
sgabelli, odorando tutti i fiori, rimuovendo tutte le fotografie,
tutti i gingilli; esaminando come se li vedesse per la prima volta i
quadri, le ceramiche, le terracotte, gli specchi, i ventagli
artisticamente disposti intorno sul fondo rosso ciriegia della
tappezzeria. Tutto quello che le apparteneva, le cose più minute, le
cose più comuni acquistavano ai suoi occhi un valore straordinario; il
thè che ella preparava e gli offriva nella preziosa ciotoletta della
China aveva per lui un aroma speciale, introvabile altrove; il profumo
di _chypre_ vagamente errante nell'aria lo riempiva di turbamento; il
fazzoletto di merletto che ella lasciava qualche volta cadere era per
lui una cosa sacra, intangibile, che non si decideva a raccogliere se
non con le labbra, gettandosi carponi per terra....


II.

Nell'uomo già presso alla soglia della vecchiezza, la passione era
divampata subitanea, irresistibile, divorante.

Quando era stato presentato alla baronessa Costanza di Fastalia, in
quello splendido pomeriggio di marzo, alla Villa Nazionale, mentre il
golfo sorrideva col suo azzurro più puro, e dalla folla festante
pareva sollevarsi un sospiro di contento, Andrea Ludovisi aveva
sentito come un urto nel vivo cuore. Avrebbe quasi voluto evitarla;
un'istintiva paura, un secreto presentimento lo avvertivano sordamente
che quella donna avrebbe esercitata un'influenza su tutta la sua vita.
Subito dopo, un'esultanza gli era entrata nell'anima. Conosceva dunque
da vicino, e avrebbe d'ora innanzi potuto vedere spesso, intimamente,
la donna di cui aveva tanto sentito parlare da un mese soltanto che
aveva posto piede a Napoli, ed alla quale si era spesso sorpreso di
pensare con un segreto sentimento di desiderio, con una vaga
aspirazione, come verso una creatura superiore, più degna e più capace
di amore fra tutte quelle vane ombre che gli erano sfilate dinanzi?...

Credutosi fin lì al sicuro da nuove passioni, certo di aver chiuso da
molto tempo e per sempre l'êra delle pazzie, era bastato il dolcissimo
sguardo che la baronessa gli aveva rivolto, il soavissimo suono delle
parole che gli aveva dette, per gettarlo in una specie di esaltazione
lirica, in una sovraeccitazione di tutte le potenze dell'anima e del
corpo, che gli amici incontrati al passeggio, al teatro, al circolo
avevano subito notato con meraviglia.

Più tardi, la prima volta che egli si presentò a Villa Valdonica, a
Posillipo; quando entrò in quello che doveva chiamare il suo
_santuario_; quando bevve l'incanto della grazia di quella donna, del
suo spirito, della sua simpatia; quando l'accompagnò per le vie, col
braccio deliziosamente intorpidito dal braccio che ella vi appoggiava,
la passione di Andrea Ludovisi non conobbe più limiti. E insieme con
l'amore, con un amore timido, rispettoso, di cui l'uomo avvezzo a
prendere _son bien_ dove lo trovava, senza scrupoli o riguardi, non
aveva ancora un'idea, sorgeva in lui un sentimento ancora più nuovo,
una specie di rimorso di contribuire alla perdita di quella donna,
contro la quale aveva sentito scatenarsi il disprezzo, le derisioni,
le malignità di tutta Napoli.

Che cosa vi era stato nella vita della baronessa? Andrea Ludovisi non
lo sapeva con precisione; sapeva che era da molti anni divisa dal
marito, che si parlava di parecchi amanti, che era stata a lungo fuori
di Napoli, dove il soggiorno le era divenuto, un tempo, impossibile.
Di più il Ludovisi non sapeva, non voleva sapere. Una volta che, al
Gran Caffè, fra una comitiva di conoscenze, il discorso era caduto su
di lei, egli fu visto andar via di furia, senza salutare nessuno.
L'infinita tristezza che aveva sorpreso nell'accento, nelle parole,
nelle altitudini della baronessa Costanza, l'espressione di
indiscutibile sincerità che ella aveva messo nel confessargli i dolori
provati, il vuoto fattosi nel suo cuore, la finale inutilità della sua
vita, lo avevano guadagnato alla sua causa, se non fosse già bastato
l'amore. E a misura che cresceva in lui la compassione ed il rispetto
per l'infelicissima donna, più gigante si faceva l'amor suo; e, per un
fenomeno sincrono, più assurda diventava ai suoi occhi l'idea di
confessarglielo.

Dichiarare un amore, è meno offrirlo che domandarne il ricambio; e
Andrea Ludovisi non aveva più l'ingenuità che presume contentarsi di
una muta ed unilaterale adorazione. Bisognava far dunque la corte alla
baronessa, ottenerne l'amore, affinchè il giorno dopo tutta Napoli
fosse piena dell'avventura; affinchè la gente sorridesse più
malignamente al passaggio della donna adorata, affinchè il suo nome
fosse trascinato nel fango!... Egli, che aveva votato un culto quasi
religioso alla baronessa Costanza; egli, che le aveva innalzato un
altare ai cui piedi, come un incenso, vaporava tutta l'anima sua;
egli, egli stesso, avrebbe determinata la sua completa, definitiva ed
irreparabile rovina!

E la tortura dell'uomo si acuiva, si raffinava, a misura ch'egli
scopriva, in Costanza di Fastalia, i segni non dubbii di una viva
simpatia per lui. Era gratitudine per il rispetto di cui si vedeva
circondata? Era ammirazione per l'ingegno dell'artista che faceva
parlare di sè in quel momento tutta l'Italia? Era, più semplicemente,
amore per l'uomo? Nessuno avrebbe potuto dirlo; il fatto è che Andrea
Ludovisi sentiva di non esserle indifferente, e vedeva accrescersi il
proprio tormento a misura che egli vedeva frapporsi meno ostacoli al
conseguimento del proprio sogno. Cadevano gli ostacoli, ma uno solo
persisteva, formidabile: la idea di completare la perdita di quella
donna; il bisogno prepotente di saperla rispettata a quell'identico
modo con cui la rispettava egli stesso.

Andrea Ludovisi avrebbe passata l'intera sua vita come in quei dolci e
fugaci giorni, dedicando tutti i suoi pensieri, i più intimi, i più
reconditi, alla baronessa Costanza, soffocando la parola scottante che
gli saliva incessantemente alle labbra, trattenendo il pianto che gli
metteva un nodo alla gola, se ciò che egli aveva temuto da molto tempo
non fosse finalmente successo.

La baronessa di Fastalia era forse, fra le signore napoletane, una
delle più circondate. La sua bellezza, il suo spirito, il suo nome,
erano altrettante attrattive, alle quali si univa, più potente e più
rara, quella della sua completa libertà. Divisa dal marito, che per
giunta non viveva a Napoli; senza figli, visitata solo di tanto in
tanto dal suo vecchio zio, il principe di Marciano, suo solo parente,
la baronessa si trovava in tali condizioni che farle la corte era la
prima idea dei frequentatori del suo salotto. Erano bastate poche
visite perchè Andrea Ludovisi se ne accorgesse. Giovani ed uomini
maturi, tutti assumevano, vicino alla baronessa, un tono di ostentata
galanteria, di confidenza autorizzata, che non formava il minor
tormento di Andrea, non solo per la sorda gelosia e per la mal
repressa indignazione che tutto ciò gli procurava; ma anche per la
paura che l'espressione del suo affetto vivo e profondo, potesse un
giorno essere appresa come una imitazione di quelle sconvenienti
attitudini di cui egli era spettatore. Talvolta, quando l'impeto della
passione era meno frenabile, egli credeva di persuadersi a vedere in
questa circostanza una difficoltà di meno, una ragione per non aver
tanti scrupoli. Immediatamente, si pentiva di questo pensiero; con
quel bisogno inconfessato, ma comune ad ogni uomo, di accrescere le
difficoltà d'una cosa per accrescerne allo stesso tempo il valore.

Una sola, fra le persone che frequentavano Villa Valdonica, si
sottraeva a quella specie di posa obbligatoria per gli altri: il duca
di Majoli. Giovane, colto, elegante, un dramma domestico lo aveva
precocemente maturato. L'espressione abituale della sua fisonomia era
una grande serietà, dalla quale non si dipartiva se non qualche volta,
nella intimità della baronessa alla quale era legato da un'amicizia
fatta di simpatia, di rispetto e di protezione.

Andrea Ludovisi gli voleva molto bene, e la sua amicizia per lui si
accrebbe quando potè conoscere i suoi sentimenti per la donna amata, e
quando gli vide dividere il proprio dolore per lo sconveniente
contegno che i conoscenti della baronessa di Fastalia assumevano in
presenza di lei, salvo però a denigrarla per i primi appena fuori di
casa sua o del suo palco.

Qual era il sentimento che persuadeva la baronessa a tollerarli? Il
bisogno di distrazione, per grande che potesse essere nella infelicità
dei suo isolamento, non spiegava abbastanza. Una situazione
eccezionale non si affronta coscientemente senza l'impulso di
circostanze eccezionali; ed era infatti una specie di sfida a quella
società ipocritamente timorata da cui ella si sentiva messa al bando
immeritamente, era una specie di ostentazione di successi, di
corteggiamenti, di attrattive irresistibili, quella con cui ella
intendeva rispondere all'ostilità delle donne in situazioni legittime.
Soltanto, come sempre quando la passione fa velo alla mente, ella
conseguiva senza accorgersene, o meglio senza volersene accorgere, un
opposto risultato, fornendo ella stessa nuove armi ai suoi avversarii.

Andrea ne soffriva profondamente, e per una antipatia impulsiva ed
invincibile tutto il disdegno provato per quella gente frivola,
inetta, malvagia, si era concentrato verso uno solo: il cavaliere di
Sammartino, un siciliano spavaldo, provocatore, la cui splendida
esistenza era un enimma per tutti. In verità, egli non era fra i più
assidui attorno alla baronessa; ma in questa stessa specie di
indifferenza metteva una malignità maggiore, con quell'aria di
fastidio che egli prendeva in sua presenza, quasi gli fosse finalmente
venuta a noia quella relazione e non la spezzasse per un sentimento di
dovere increscioso, ma inevitabile. Fuori, egli era uno dei più
accaniti denigratori della baronessa.

Andrea Ludovisi lo sapeva, e il suo disprezzo per quell'uomo non
faceva che crescere. Malgrado lo evitasse come una disgrazia, una
specie di fatalità volle che egli si trovasse presente il giorno che
Sammartino, in pieno caffè, insultò atrocemente il nome della
baronessa di Fastalia.

Si parlava delle prossime villeggiature, e si enumeravano le signore
che sarebbero fra poco andate via; qualcuno annunziò la partenza della
baronessa.

--Una di più, una di meno!...--disse il Sammartino, scuotendo la
cenere del sigaro col mignolo, dove luccicava un grosso brillante.--A
Napoli non ne mancano, delle donne della sua risma!

Bisogna dire che Andrea Ludovisi non conoscesse ancora la forza
d'animo di cui disponeva, o che piuttosto l'amore lo avesse
trasformato, se egli fu capace, lì per lì, di non aggrottare neanche
le ciglia a quella sferzata. Ma il sangue gli bolliva nel cuore, le
sue mani avevano contratto un tremito irrefrenabile, la sua mente si
era smarrita, nè egli rientrò in uno stato di calma relativa se non
prima, con un pretesto abilmente colto, ebbe il destro di provocare
l'insultatore.

Recatosi dal duca di Majoli perchè lo assistesse, ne aveva avuto un
rifiuto, amichevole, ma reciso.

--Io conosco il motivo per cui ti batti--gli aveva detto il
duca.--Bada; tu sei sopra una falsa strada. Vuoi difendere qualcuna,
che tu riuscirai invece a compromettere orribilmente....

Era troppo tardi. Il duello ebbe luogo egualmente; il cavaliere di
Sammartino, tiratore di primo ordine, fu ferito leggerissimamente alla
mano.

Il giorno dopo, malgrado tutte le precauzioni di Andrea Ludovisi, la
vera causa del dissidio fu propalata per ogni dove. Col cuore
sanguinante, senza far conoscere a nessuno la propria destinazione,
senza tentar di rivedere la baronessa, a cui aveva solo fatto
pervenire un biglietto con questa parola: _Perdonatemi_, egli lasciò
Napoli, malgrado i gravi affari che ve lo trattenevano, per Firenze,
dove un suo dramma aveva suscitato un grande entusiasmo.

Una settimana dopo, mentre sfogliava i giornali nella sala di lettura
dell'_Hôtel de la Grande Bretagne_, in quel momento deserta, sentì
schiudersi l'uscio. Era la baronessa Costanza di Fastalia.


III.

Egli aveva voluto tornare a Napoli, rivederla in quel quadro dove
prima gli era apparsa, rifare a passo a passo--ora--il cammino
percorso dal giorno che l'aveva conosciuta. Ella assecondava tutti i
suoi capricci, non aveva più volontà propria; gli si era data tutta,
anima e corpo, il giorno che aveva indovinato ciò che era passato nel
cuore di quell'uomo, la religione che le aveva dedicata dal profondo
dell'anima; il giorno che, dopo tanto accumularsi di tristezze, la
passione di quell'uomo l'aveva fatta rinascere all'amore.

A Napoli, ella aveva completamente mutato il suo sistema di vita; con
abili pretesti si era sbarazzata della folla che prima le stava
attorno; evitava le visite, i teatri, ogni luogo di riunione. Suo zio
di Marciano e il duca di Majoli erano le sole persone che ancora
vedesse. Vecchio, un po' sordo, vivente con lo spirito in un tempo che
non era più il suo, il principe di Marciano non dava ai due amanti
fastidio di sorta.

Quanto al duca, non una parola, non un accenno aveva dimostrato che
egli conoscesse quel che era accaduto; non una contrazione aveva
rivelata l'angoscia che gli stringeva il cuore.... Era dunque vero?
Egli amava la baronessa? L'amava d'amore? La sua esperienza non lo
aveva dunque avvertito che quell'amicizia avrebbe dovuto dar luogo ad
un sentimento diverso?... No; egli non se ne accorgeva ora soltanto;
non se ne accorgeva soltanto al dolore di cui la felicità di Andrea
Ludovisi gli era cagione; da molto, da lungo tempo, scendendo
nell'intimità della propria coscienza, egli aveva scoperto quel
sentimento più dolce, più forte, più grande, che vi germinava
nascostamente. Però, il predominio che egli aveva imparato ad
esercitare su di sè stesso, la nitidezza di percezione che aveva
acquistata nelle cose del cuore, a prezzo di sangue, lo avevano retto,
impedendogli di spinger oltre l'avventura; di fare, con la propria,
l'infelicità di quella donna.

Al punto in cui i dolori provati lo avevano ridotto, non rimaneva in
lui che una sola, ma grande capacità sentimentale: la commiserazione
pietosa per tutte le miserie umane. Ora, nella calma relativa in cui
sapeva la baronessa, gli sarebbe parso un tradimento, un delitto, il
tentar di turbarla; e perchè, se non per soffrire nuovamente egli
stesso? V'erano troppe amarezze nella vita di quella donna che, presto
o tardi, avrebbero avvelenata ogni possibile gioia; e la pena provata
dal duca dinanzi alla trionfante passione di Andrea, in cui la
baronessa aveva riposta l'ultima fede della sua vita, si risolveva più
nella previsione dei nuovi tormenti che le si preparavano, che nella
sua personale contrarietà.

Già quando Andrea Ludovisi si era rivolto a lui, nell'occasione del
duello col cavaliere di Sammartino, egli non aveva potuto nascondere
il proprio rammarico, vedendo le cose avviarsi per una china fatale.
Ed aveva rifiutato di assistere l'amico, quasi pauroso di farsene
complice. Dinanzi alla felicità degli amanti, più tardi, egli si
domandava qual dritto finalmente avesse a costituirsene giudice; e
dimenticava la propria pena nello spettacolo dell'altrui esultanza. Ma
la ripresa delle ostilità, nel mondo, contro la baronessa, aveva ben
presto fatto rinascere in lui i più tristi presentimenti sul prossimo
avvenire dei due amanti; ed una volta, discutendo con Andrea, in un
modo generale e teorico, sulla sincerità umana, gli aveva dette delle
parole che suonavano come un'ammonizione.

--Sì, noi crediamo ogni giorno di esser sinceri; soltanto non vogliamo
accorgerci che la credenza di oggi fa a pugni con quella di ieri....
Oggi, che tu credi di amare qualcuno, lo stimi; le sue stesse
debolezze ti sembrano interessanti, te lo fanno più caro; lascia
mutare per poco la tua disposizione di spirito, e ti parrà la cosa più
naturale il rinfacciargliele come una colpa.

--Sta bene, quando la disposizione di spirito è capace di mutare. Ma
vi sono dei sentimenti che non si possono spegnere se non a costo
della stessa vita....

--Allora si soffre, e si fa soffrire. La saggezza consisterebbe
appunto nel soffocarli a tempo.

Andrea Ludovisi guardò curiosamente il duca di Majoli. Aveva compresa
l'allusione, e non supponendo che quel giudizio potesse essere
disinteressato, sospettò un momento che glie ne volesse per la sua
riuscita presso Costanza di Fastalia; che fosse, infine, un poco
geloso.... Poi scacciò il suo sospetto, rimproverandosi di averlo
concepito. La più grande dirittura si leggeva negli sguardi
dell'amico; egli ne conosceva l'antica nobiltà dell'animo, ed aveva
potuto apprezzare tutta la delicatezza, il rispetto, la stima, la
protezione di cui aveva circondata la baronessa.

Perchè, intanto, il duca non voleva credere--era evidente--alla
sincerità dell'amor suo? Perchè la stessa Costanza aveva talvolta
l'aria di dubitarne?

--Come è possibile,--diceva ella,--che tu mi ami così?... Come sono
indegna dell'amor tuo!...

--Tu, indegna?...--ed aveva dato in uno scoppio di risa.--Ah! ah!...
Ma non vedi dunque che è incredibile per me quel che succede? Che non
è vero, che non può esser vero che tu mi ami, poichè io non ho nulla
per essere amato da te? Tu, indegna, tu?...

--Ah, se sapessi....

Ma, come ogni volta che ella accennava al proprio passato, Andrea
Ludovisi le chiudeva la bocca con un bacio.

--Taci, taci!... Che cosa vorresti dirmi? di chi vorresti parlarmi?...
Non esiste che una sola Costanza, la Costanza mia....

Nel salotto, sul tavolo di legno intarsiato e ornato di borchie
metalliche, il ritratto della baronessa Costanza stava esposto,
insieme con altri di famiglia, nel porta-ritratti di _peluche_ rosso
aperto a foggia di paravento. Egli le diceva:

--Guarda dunque: questa non sei tu, è un'altra donna, completamente
diversa. Dov'è il sorriso che ora ti luce negli occhi?... È un'altra
donna!... Io vorrei il tuo ritratto; ma come sei ora, ora che sei mia,
comprendi?...

Avevano convenuto di incontrarsi da Montabone, come per caso; ma come
Andrea Ludovisi andò a trovare la baronessa, dopo averle espresso quel
desiderio, ella gli si fece incontro con un'aria festosa.

--Una sorpresa!

Costanza dischiuse il piccolo cofanetto di raso azzurro dalla chiave
dorata, che stava sull'_étagère_.

--Ecco l'imagine ridente.... di quella che fui una volta!

Andrea guardava il ritratto, la figura quasi infantile di quella donna
in veste bianca, circonfusa di veli; e alzando gli occhi verso di lei,
chiese con un accento di incredulità:

--Questa?... Sei tu?...

--Ero.... quindici anni or sono! È il ritratto fatto durante il mio
viaggio di nozze.

Con un sospiro, era andata a gettarsi sul divano semicircolare
disposto in un angolo del salotto. Stette a lungo, pensosa, con la
testa appoggiata sulla palma della destra. Poi, scuotendosi, visto che
egli non veniva a raggiungerla, chiamò:

--Andrea!

Non ottenne risposta. Immobile, tutto nero sullo sfondo luminoso della
finestra, egli guardava ancora il ritratto.

--Andrea!...--e, levatasi, gli si avvicinò. Mute, grosse, luccicanti,
le lacrime gli sgorgavano dagli occhi spalancati, gli rigavano le
guancie, cadevano una dopo l'altra sulle mani leggermente tremanti.

--Andrea!.... Andrea mio!... Guardami, che cosa è stato?... Ma
guardami!

Più grosse, più spesse, le lacrime continuavano a sgorgargli dalle
palpebre gonfie. Ora, dei singhiozzi gli salivano alla gola, lo
scuotevano tutto, gli scomponevano il viso.

--Lasciami.... lasciami....

--Ma perchè, Signore Iddio, perchè?

Ella lo aveva trascinato verso il divano, dove era caduta di peso,
quasi piangente anche lei. Allora egli le si era messo in ginocchio
dinanzi, asciugandosi gli occhi con la sua veste, un lembo della quale
portava di tratto in tratto alle labbra.

--Perdonami!... Ti ho fatto male?... Ma il vedere quel ritratto....
l'imagine della Costanza di un altro.... Ora è finito, guarda; è
proprio finito.

--Allora, dammi quel ritratto.

--Ah, no!

Egli lo aveva portato con sè, lo aveva nascosto gelosamente, e un
irresistibile impulso lo persuadeva a rivederlo. Dinanzi a quella
figura, la crisi di pianto si rinnovava, ogni volta. Una tenerezza
amara lo vinceva al pensiero di quella sposa, di quella vergine che
entrava appena nella vita, lieta, confidente, e che un tenebroso
avvenire insidiava. Quali sogni dorati avevano spiegato le loro
seduzioni dietro quella fronte purissima? Quali gioconde visioni si
erano svolte dinanzi a quegli occhi ridenti?... Ahi! uno spettacolo di
miserie, di tristezze, di dolori, si era presentato in cambio dei
lieti sogni; e come lungamente, come amaramente quegli occhi fatti per
rispecchiare il sorriso dei cieli avevano pianto!... E non poter nulla
contro tutto ciò; non poter nulla lui che avrebbe dato la vita per
vederla sorridere!... Se fosse stato possibile tornare indietro cogli
anni, rivedere vivente quella figura che cominciava a sbiadirsi;
amarla e farsene amare, dedicarle tutto sè stesso!... Ahimè, ciò che
era stato, era stato fatalmente, irremediabilmente. Qualcuno, _un
altro_, aveva colto il candido fiore di quell'anima, lo aveva
profanato, lo aveva calpestato....

E poi?


IV.

Qualche volta egli lasciava pesantemente cadere la testa, stringendosi
la fronte tra le mani. La baronessa tentava di leggergli negli occhi
il segreto di quelle angoscie improvvise; ma egli si ostinava a tener
giù il capo ripiegato sul petto.

--Ma guardami, Andrea!...

Egli rispondeva sordamente:

--No!

--Dimmi almeno, per pietà! che cosa ti passa per la fantasia!...

--Non posso!... Non voglio!...

--O cattivo, perchè? perchè offuscare la nostra felicità? Se sapessi
come non oso muovermi per timore che essa mi sfugga! Come ho paura di
ripiombare in quel mare d'infinite amarezze....

A quelle parole, egli si era sollevato subitamente, l'aveva stretta
con impeto fra le braccia, esclamando:

--Non lo dire!... Non lo dire un'altra volta!... Sono un pazzo, un
miserabile; ma ti amo, ti amo, ti amo....

--Oh, sì; ti credo!

--No, no!... Le parole sono vuote, sono un suono effimero, non dicono
nulla. Che cosa bisogna fare, Costanza, per provarti l'amor mio?

--Ma nulla, bambino! Amarmi ancora, amarmi sempre!

Bambino, egli lo era ridiventato. Le più strane, le più rischiose
fanciullaggini erano state da lui poste ad effetto. Fermo dinanzi alla
sua carrozza, egli le strappava un lembo della guarnizione di
merletto; sotto la piccola cupola dell'ombrellino rosso, a
Capodimonte, col rischio di esser veduto, le aveva rubato un bacio di
una dolcezza infinita. Egli avrebbe fatte delle vere pazzie per
sentirsi dire bambino da lei, per cogliere nel suo sguardo
l'espressione di amoroso rimprovero e di segreta compiacenza che ella
metteva nel pronunziare quella parola.

Ma un'altra volta che, nel _santuario_ di Villa Valdonica, egli era
stato ripreso da una di quelle repentine tristezze, mentre la
baronessa aveva già cominciato a rimproverarlo dolcemente, alzò ad un
tratto la testa, prendendo tutt'e due le mani di lei.

--Costanza, io vorrei domandarti soltanto una cosa. Sei stata mai
amata così?

--Che domanda!... Perchè?

--Non importa, rispondi: sei stata amata così?...

Ella stette un istante silenziosa, cogli sguardi perduti in non so
quale visione. Poi, abbassando lentamente le palpebre, con voce
fievolissima, rispose:

--Una volta.... fui molto amata....

--Ah!

--Andrea! Perchè non mi guardi?... Che cosa ti ho detto?... Ti ho
fatto male? Oh, non sei stato tu che l'hai voluto?... Andrea, io non
ti conoscevo, allora!... Ne è passato del tempo!... Io sono vecchia;
il torto è tuo, di esserti innamorato di una vecchia!... Ma ridi,
parla, guardami una buona volta, in nome di Dio!...

Egli restò a guardarla a lungo, muto, immobile. La baronessa non
poteva sostenere la fissazione di quello sguardo. Due volte, tre
volte, ella aveva fatto battere le palpebre sugli occhi stanchi, ma
tutte le potenze dell'uomo parevano concentrate nella facoltà visiva.
Poi, lentamente, egli avvicinò le labbra alla fronte di lei, vi depose
un bacio lievissimo; e, chiudendole la bocca con la mano per impedire
che ella nulla dicesse, uscì.

Quella bocca era stata baciata! Quella fronte era stata baciata!
Quelle mani erano state baciate! Quegli occhi avevano visto altri
uomini in ginocchio dinanzi a quelle forme adorate! Dietro quella
fronte, dei ricordi d'amore--di altri amori!--si svolgevano
nell'istante preciso ch'egli metteva tutta l'anima nel parlarle
dell'amore di lui! Quelle orecchie avevano sentite altre parole
d'amore! Quelle labbra ne avevano pronunziate delle altre!... Ah! non
era vero ch'ella fosse nata soltanto il giorno che era stata sua! Il
passato esisteva, e fatale, irreparabile! Ah! ella aveva bene
indovinato, prevedendo ch'egli sarebbe stato geloso del suo passato!
Geloso egli lo era, e tanto più tormentosamente, quanto più
inafferrabile era l'oggetto della sua gelosia. Disputarla ad un rivale
presente, dare tutto il proprio sangue per conquistarla: che cosa
sarebbe mai stato di fronte alla tortura del saperla stata già di
altri, di non poterle cancellare dalla memoria il ricordo di altri?
Egli non era più solo nel suo pensiero! Chi erano, quanti erano questi
_altri_? Impossibile ancora saperlo; più presto egli si sarebbe fatta
strappare la lingua, che chiederlo a qualcuno, che chiederlo a _lei_.
Come infliggere alla donna idolatrata il tormento di rievocare una
storia di pianto? Come sopportarne lui stesso il racconto? E
perchè?...

Noti od ignoti, i fantasmi inafferrabili di quegli uomini vagavano
ancora intorno a lei; per le stanze, nel _santuario_ suo, egli sentiva
che la chiamavano: Costanza--come lui! che le parlavano di tu, come
lui! Egli li vedeva, in attitudini familiari, avvicinarsi a lei!
abbracciarla! baciarla!... Egli aveva paura di sedere dove quegli
_altri_ si erano seduti, di muoversi come gli altri si erano mossi, di
parlare come avevano parlato. Con la sua sola presenza, egli
contribuiva a ridestare più chiari, più netti, i ricordi di lei! E tra
i ricordi del passato e le impressioni del presente un paragone doveva
necessariamente determinarsi! L'amor suo infinito veniva dunque
misurato, in ogni parola, in ogni gesto, in ogni bacio!...

Dal posto dove se ne stava abbandonata, la baronessa lo attirava a sè;
ma tutte le volte uno sforzo formidabile su sè stesso poteva soltanto
deciderlo ad avvicinarsi a lei. Quando egli le si avvicinava, i
fantasmi si frapponevano, glie la disputavano, lo afferravano con la
loro gelida mano, facevano morire il suo bacio, scioglievano le sue
braccia allacciate intorno alla vita di lei. E come più cresceva lo
strazio dell'uomo dinanzi alla propria impotenza contro quella
persecuzione, più lamentosa si faceva la voce della donna:

--Andrea, tu non mi ami più!


V.

--Non ti amo, sì, è vero! Non ti amo, perchè tu non mi hai mai amato!
Non ti amo, perchè le parole che tu mi hai dette sono una fredda
ripetizione di quelle che hai dette ad altri....

Abbandonata sul divano, con la faccia nascosta fra i cuscini, la
baronessa reprimeva un'esclamazione di dolore straziante.

--È orribile!... È orribile!...

Era orribile! L'idea fissa aveva finalmente compita la propria opera
devastatrice. Se quel passato e quel presente fossero tutt'uno per
lei? Se avesse avuto ragione la gente che la giudicava una donna
leggiera, capace soltanto di fugaci capricci, passante dalle braccia
dell'uno a quelle dell'altro con la stessa facilità con cui si stringe
la mano? Se ella doveva dimenticarlo, come aveva dimenticato quegli
altri? Se avesse avuto ragione quell'odioso cavaliere di Sammartino,
che ora si dava l'aria di aver rotto con lei?...

--No, non ti amo, perchè tu sei incapace di amore! No, non ti amo,
perchè io non voglio il _rifiuto_--e la voce di Andrea aveva preso un
accento di profondo disprezzo--perchè io non voglio il _rifiuto_ degli
altri!

--Ah!

Ella gridava dallo spasimo, si torceva le braccia, si mordeva le dita.
Accanto alla finestra, gualcendo le tendine con mano nervosa, egli
stette un istante a guardarla.

Repentinamente, le fu vicino, gridando;

--Basta!... basta!... Sono un pazzo!... Non mi dare ascolto!... Non si
ascoltano i pazzi!...

--No, che non basta!... Scostati!... Tu devi ora ascoltarmi!... Tu
devi sapere tutta la mia vita! Tu non devi.... tu non hai il diritto
di spezzarmi il cuore!....

E scoppiò in singhiozzi, disperatamente.

--Costanza, non piangere! Per pietà, non piangere, se non vuoi veder
piangere me! Ti ho detto delle cose cattive? Ma è perchè ti amo, non
lo vedi? perchè ti amo oggi più di ieri, perchè ti amerò domani più di
oggi!... Andiamo, Costanza, basta!... La tua vita, io non voglio, non
posso saperla. Che cosa mi apprenderesti? Che hai sofferto? Ma le tue
sofferenze bisogna invece dimenticarle; io ci sono per questo!...

--Ah, che male!... che male mi hai fatto!...--e le sue parole erano
rotte dai singhiozzi che ancora la scuotevano tutta.

--Perdono! perdono! Io ti credo, io ho fiducia in te! Non si mentisce,
con quegli sguardi! Se tu non mi amassi, sarebbe stato impossibile che
tu avessi fatto quello che hai fatto per me!...

--È vero? è vero?

--Sì, è vero! Povero amore, prima che t'incontrassi, quali diritti
avevo io su di te? Come sono sciocco.... Tu dici che sei vecchia? Ma
io sono, veramente, un bambino!

Come un raggio di sole dopo la tempesta, un sorriso splendeva negli
occhi della baronessa, ancora tutti umidi di lacrime.

Che mano disgraziata egli aveva! Avrebbe voluto riscattare a prezzo di
sangue le lacrime un tempo da lei versate, e invece glie ne faceva
spargere di nuove! A qualunque costo, bisognava farle dimenticare le
amare, le tristi parole.

Perchè dunque quell'accanimento di tutti contro la disgraziata
creatura? Per quel passato!... Se l'idea pertinace di quel passato
funesto aveva, a poco a poco, scossa la fiducia di _lui_, come non
sarebbe accaduto altrettanto, e peggio, tra la folla degli
indifferenti! Ancora, sempre, lo spettro di quel passato gli
amareggiava la vita!..

Ora, egli faceva di tutto perchè nessuno di quegli angosciosi pensieri
trapelasse dalle proprie parole. Raddoppiava d'affetto, circondava la
baronessa di ogni cura e di ogni premura, pareva tornato alla serena
felicità dei primi giorni. Ed i suoi sforzi erano compensati dalle
mille prove d'amore che ella gli dava tuttodì. Non vi era un'ora della
sua vita di cui ella non gli giustificasse l'impiego, e tutta la sua
vita era impiegata per lui. Lavorare attorno a dei regalucci che gli
erano destinati, studiare la musica che gli piaceva, vestirsi degli
abiti che preferiva, passare per i luoghi dove erano stati insieme,
ricordargli tutte le date salienti del loro romanzo, scrivergli e
leggere e rileggere le lettere di lui: ella non sapeva far altro.


VI.

Un giorno, come egli entrava a Villa Valdonica e cercava di vedere se
ella fosse sotto gli _eucaliptus_, dove soleva aspettarlo, se la vide
a un tratto dinanzi. In un leggerissimo abito chiaro guarnito di
nastri azzurri e dalle maniche aperte che lasciavano vedere le belle
braccia nude, ella aveva un'aria tutta gioconda.

--Vedi questa? È la chiave del mio archivio che oggi ho messo
finalmente in ordine. Vieni con me....

Tutto il piccolo armadio della stanza da letto era stato dedicato a
lui; le sue lettere erano riunite in piccoli fasci annodati con nastri
rosei, i suoi fiori erano racchiusi in un sacchetto di raso bianco, e
i libri, i giornali, la carta con le loro cifre intrecciate, gli altri
minuti oggetti che egli le aveva regalati erano tutti disposti in
bell'ordine nelle cassette odorose.

Chino dinanzi il piccolo mobile, egli le baciava la mano, sul dorso,
sulla palma, lungamente, mormorando dolci parole per esprimerle la
gratitudine di cui era pieno.

--Guarda quante lettere, in due mesi appena!--disse ella prendendo uno
dei fasci.--Addirittura un epistolario!

Andrea lasciò cadere quella mano che aveva tenuta fra le sue. Come una
nebbia di tristezza gli aveva velato la fronte.

--Set già pentito di avermele scritte?

Egli tentava d'allontanar l'improvvisa visione, ma essa persisteva:
tutte le _altre_ lettere che ella aveva ricevute, che aveva disposte
con identica cura, che aveva mostrate, com'ora....

--Andrea!...

Con voce bassa, le chiese:

--Quante altre ne conservi?

Ella fece con le labbra un piccolo movimento di disdegno.

--Non ne conservo più nessuna. Oggi stesso le ho tutte sepolte, dentro
una vecchia valigia, in fondo a un sotto-scala.

--Perchè non le hai bruciate?

--Perchè sono molte, e se ne sarebbe accorta la gente di casa.

Ad un tratto, come un fanciullo che, dopo una finta indifferenza,
manifesta il proprio capriccio, egli le disse rapidamente:

--Me le fai leggere?

--Oh, no!

E ad una ad una, risolutamente, richiuse le cassette dell'armadio.

Egli fece un giro per la stanza, andò a guardare prima le acqueforti
disposte nell'angolo accanto alla finestra, poi la grande ceramica
istoriata dell'angolo opposto, rimosse il canestrino di raso sostenuto
dal tripode di bambù, e le si fece nuovamente vicino.

--Perchè non mi vuoi far leggere quelle lettere?

--Perchè te ne pentiresti, tu stesso, per il primo....

--Se te ne pregassi?

--Andrea!... Ricordati dunque quello che hai sofferto quando ho
risposto soltanto ad una tua domanda!... La mia vita, te l'ho detto,
tu hai il diritto di conoscerla, vuoi?... Ma quelle lettere....

--Voglio leggerle.... qualcuna almeno....

La baronessa si passò una mano sulla fronte.

--Senti, io potrei dirti che vi è una mancanza di fiducia in quello
che tu pretendi; una mancanza di fiducia molto dolorosa per me. Potrei
dirti ancora che il segreto di quelle lettere non mi appartiene per
intero.... Ma non importa: io ti dico, io ti ripeto soltanto che è per
risparmiarti un dolore, per risparmiarne un altro a me, che io mi
oppongo al tuo desiderio.

--Ed io ti dico,--rispose freddamente Andrea, incrociando una gamba
sull'altra e guardando la punta delle sue scarpe--ed io ti dico che tu
ti opponi al mio desiderio, perchè c'è qualcuno che ti scrive ancora.

--Oh!

La baronessa ebbe un istante di esitazione. Poi, risolutamente, si
avvicinò ad Andrea.

--Andrea!... Perchè mi dici delle cose tanto cattive? Che cosa ho
fatto perchè tu dubiti ancora di me? Guardami in viso: sono capace di
mentirti, di nasconderti qualche cosa?...

Guardandola fissamente, gli occhi gli si inumidirono.

--No, no.... ti credo!... Ma se sapessi di che tristezza mi si gonfia
il cuore, quando io penso al tuo passato! Come vorrei cancellarlo!
Come avrei voluto conoscerti quindici anni più presto, quando tu non
eri ancora entrata nella vita! Come avrei saputo farla lieta e felice
a quella vergine adorata! Come tutto avrebbe dovuto sorriderti
attorno!...

Egli reclinava la testa sul seno di lei, aspirandone avidamente il
profumo.

--Lo so, lo so, come mi avresti amata! Come ora, bambino! E il passato
non è sepolto, scordato per sempre?

--Per sempre?

--Ne dubiti ancora?

--Giuralo....

La baronessa si rizzò in piedi, guardandolo fisso.

--Te lo giuro!...

Anch'egli s'era levato, facendosele vicino, vicino da sfiorarle la
fronte con la sua, scottante e imperlata di sudore.

--Giuralo per la memoria dei tuoi morti!

--Andrea!... Lo giuro!

Egli portò le mani alla faccia, quasi per soffocare le proprie parole:

--Ebbene, no! non ti credo!...

Un'espressione di grande serietà si dipinse in volto alla baronessa.
Pallida, muta, ella uscì dalla stanza.

Andrea non fece un passo per trattenerla. Si sentiva soffocare. Quelle
parole gli avevano bruciato la gola. Non sapeva ancora come aveva
fatto a pronunziarle. Cento volte aveva tentato, ma non gli era ancora
riuscito. Il pensiero di addolorare, di offendere anche con dubbii
atroci la donna amata gli era stato insostenibile. Come dire a colei
che gli confessava in tutti i momenti il proprio amore: Tu pensi ad
altri? Egli intuiva che non era vero; che, se vera, sarebbe stata una
cosa mostruosa, da spegnere, non che l'amore, la stima; ma di quella
cosa mostruosa egli era arrivato ad ammettere la possibilità. Il
passato di quella donna era una macchia, e quella macchia si
allargava, si diffondeva, la ricopriva tutta. Fatalmente, il dubbio,
il dubbio atroce, insinuante, rinascente non sì tosto scacciato, gli
era penetrato nell'anima, non gli dava più quiete.... Ella diceva di
amarlo; quali prove, infine, glie ne aveva dato? Era venuta a cercarlo
quando egli era fuggito.... Per qualcun altro ella aveva disciolta una
famiglia, abbandonata una posizione, sfidata una intera società!...

Ella aveva avuto degli altri amanti, prima di lui, quando ancora non
lo conosceva: che cosa importa? Come credere alla sincerità delle
parole che gli diceva, se parole simili, se forse quelle stesse parole
erano state dette ad altri? Come aver fede nella sincerità attuale di
quella donna, se ella aveva giudicato di essere stata amata, una
volta, come ora, più di ora?... Egli l'amava ciecamente, con tutte le
forze d'un'anima rimasta giovane malgrado l'avanzarsi degli anni,
aveva sofferto per lei fino al pianto, fino alla pazzia, dei suoi
dolori e delle sue gioie le aveva dato le prove più eloquenti, e
quando egli le aveva chiesto se era stata mai amata così, gli aveva
risposto: Sì.... Una volta! Una volta! Come se non fosse già stato
troppo! Ancora, sempre, malgrado tutti i suoi sforzi, lo spettro del
passato gli sorgeva dinanzi, minaccioso, inevitabile. Come lottare
contro l'invisibile potenza di un ricordo, se tutto quello che egli
aveva fatto per lei non era bastato a vincerlo, ad eclissarlo? Quali
altre prove di amore doveva egli darle per dimostrarle che si era
ingannata, che mai era stata amata così?... Una volta!... E le altre?
Le altre volte, dunque, non era stata amata; lo riconosceva
implicitamente lei stessa! E la figura del cavaliere di Sammartino
appariva ad un tratto, tanto più odiata quanto meno inverisimile
diventava la sua presuntuosa vanteria.... Ed era dunque possibile?
Ella sarebbe discesa fino a quell'essere abietto? Ed egli avrebbe
amata una donna che era stata del Sammartino?... No, no; non era
possibile, era un'aberrazione dello spirito ammalato, era un incubo
prodotto dalla impotente gelosia di quel passato incancellabile.
Dov'era, dov'era Costanza, la sua Costanza, perchè ella dissipasse con
una sola parola l'infame sospetto?...

Allora, le parole del duca di Majoli gli tornavano alla memoria, come
un rimprovero, come un'accusa. «Crediamo sempre d'esser sinceri, ma la
sincerità di oggi fa a pugni con quella di ieri.» Colui aveva dunque
ragione? Perchè gli aveva dette quelle parole? Era anch'egli stato un
amante della baronessa?... Ah! delirava, impazziva!...

Sì, il duca aveva ragione; egli aveva creduto di esser sincero quando
pensava che il passato di Costanza non esisteva per lui; che glie la
rendeva, se mai, più cara--sì, le stesse parole di colui--ed era
sincero anche in quel momento che le rinfacciava il suo passato come
una colpa!... Come dunque accadeva, e perchè?... Perchè il suo amor
proprio non ammetteva che un altro avesse potuto amarla più di lui,
che ella avesse fatto per un altro più di quello che aveva fatto per
lui!... Era dunque un egoista; nient'altro che un egoista
sofisticatore?... No; era che egli non la sentiva più sua, più tutta
sua; che qualcuno aveva ancora un posto nella memoria se non nel cuore
di lei; che i fatti dai quali era stata ridotta nella condizione in
cui l'aveva trovata erano di quelli che lasciano indelebili traccie.
Era finita, l'amore non era più possibile; quella donna era indegna
d'un amore come il suo; a momenti avrebbe voluto metterla alla tortura
per farle confessare che Sammartino era stato il suo amante, per avere
il diritto di disprezzarla, per abbandonarla a colui....

--No! No!... Costanza mia!...

La baronessa riappariva in quel momento. Malgrado il suo braccio
destro fosse irrigidito per lo sforzo di sostenere una vecchia valigia
polverosa, ella entrò nella stanza con passo affrettato, con una
risolutezza in tutti i suoi movimenti. Gettò la valigia per terra,
s'inginocchiò per aprirla con una piccola chiave che teneva già in
mano, e rialzandosi:

--Ecco le lettere,--disse ad Andrea, freddamente.--Fatene quel che
volete.

D'un movimento istintivo egli si era gettato sulla valigia come sopra
una preda. Erano dunque lì le prove materiali di quel passato che egli
aveva cominciato per non curare, e che, suo malgrado, gli si era
imposto inesorabilmente, fino a farlo dubitare di quell'amore che
aveva formato il suo più grande orgoglio! Più tangibile, più reale,
più fatale ora esso gli appariva, dinanzi a quei documenti
irrefutabili, dinanzi a quelle indelebili traccie che si era lasciato
dietro.... E quando pure egli avesse stracciato ad una ad una quelle
lettere, quando pure le avesse bruciate, quando pure ne avesse
disperso al vento le ceneri, avrebbe egli abolito quel passato
funesto? Quand'anche egli avesse strappato con le proprie mani il
cuore della donna, quand'anche egli si fosse strappato il suo proprio
cuore, lo avrebbe abolito ancora? Nulla poteva egli, nulla poteva
nessuno contro quella fatalità. Chi, chi mai ne era stato la causa?...
Ah! avere fra le mani uno di quegli uomini, avventarglisi alla gola,
strozzarlo: ecco solo quello che avrebbe potuto ridargli la pace!

Cogli occhi accesi, febbrilmente, Andrea si era messo a disfare i
pacchi, di cui la valigia era piena. Le lettere ricascavano da tutte
le parti, si sparpagliavano, si confondevano; ma Andrea Ludovisi non
pensava a leggerne nessuna. Preso da una specie di furore, di smania
distruttrice, egli si accaniva contro quei pacchi, non riusciva a
sciogliere i nodi dei lacci, li spezzava con le mani, coi denti, non
avvertendo neanche il dolore che quegli sforzi gli cagionavano. Come
li ebbe tutti disfatti, sostò un momento, alzando gli occhi.

Con la persona curvata, il collo teso come in attesa di un colpo
mortale, gli occhi stranamente spalancati e fissi, le braccia protese
indietro, le mani strettamente intrecciate, la baronessa aveva una
tale espressione di angoscia e di smarrimento, che Andrea Ludovisi si
rialzò di scatto. Il suo primo pensiero fu che ella era impazzita.

--Costanza! Costanza!

E fece per avvicinarsi.

Ella gridò, indietreggiando:

--Non mi toccare!--E mostrando le lettere, con un gesto
imperioso:--Leggile!

--Non voglio!... Non ne ho bisogno....

Prima ancora che ella avesse potuto pensare a sfuggirgli egli l'aveva
presa per lo braccia. Con una forza di cui non sarebbe stata mai
creduta capace, la baronessa si sciolse da quella stretta, fuggendo
per la camera. Egli la raggiunse.

Allora cominciò una lotta feroce, tra la donna che tentava di
liberarsi e l'uomo che stringeva le bellissime forme scosse da lunghi
fremiti, in preda a contorcimenti serpentini. Col viso di porpora, le
nari aperte, gli occhi sfavillanti, la baronessa era bella d'una fiera
e selvaggia bellezza. Al colmo dell'indignazione, ella balbettava
confuse parole.

--Ah, no!... ah, no!... è un'infamia!... le lettere!... le lettere!...

Caddero, l'una sull'altro, sopra il divano; e traendo profitto della
sua momentanea superiorità, ella abbassò un braccio per prendere una
delle lettere sparpagliate per terra.

--Leggile!... è un'infamia!... leggile!

--Costanza, soffoco!... Non voglio, ti credo.... perdono!--E con la
mano rimasta libera, le strappò la lettera.

Una seconda volta ella si curvò, per prenderne un'altra.

--È un'infamia!... Leggile!...

Come ella gli mise sotto gli occhi la busta, Andrea Ludovisi lesse:
_Alla baronessa Costanza di Fastalia, sue adorabili mani_. Era il
carattere del cavaliere di Sammartino.

In quello stesso momento s'intese il cigolio dell'uscio
dell'anticamera, e il cameriere entrò annunziando:

--Il signor principe di Marciano.


VII.

Il duca di Majoli e il Giussi, incontratisi alla Villa Nazionale,
salivano la scaletta augusta della sezione napoletana del _Reale Yacht
Club italiano_--una vera scala di bastimento--e si fermavano ogni due
gradini.

--Dunque, è proprio inevitabile?--chiedeva ancora il Giussi.

--Pur troppo!

--Ma questa è già la seconda questione fra loro!

--Sammartino aveva giurato di vendicare la prima ferita.

--Una scalfittura!

--Non importa, per uno spadaccino come lui, un po' _guappo_, anzi
_mafioso_, come dicono in Sicilia.

--Ludovisi è forte?

--Debolissimo. Ma non lo può soffrire; l'antipatia è una forza.

--E questa antipatia?

--Chi sa!

--_Cherchez la femme!_

Con una scossa del capo, il duca aveva troncate le indiscrete
interrogazioni del suo compagno. Era proprio la donna che bisognava
cercare! egli non lo sapeva che troppo, e le sue tristi previsioni si
avveravano tutte!...

Aspettando i padrini dell'avversario, in quella piccola sala deserta,
mentre veniva dall'aperto il ronzio della folla che passeggiava per i
viali della Villa e i mille diversi rumori del Caffè di Napoli, il
duca sentiva un'agitazione interiore crescere in lui di momento in
momento. Perchè aveva accettato di rappresentare Andrea Ludovisi in
quella partita d'onore? Perchè non aveva trovata la forza di
rifiutarsi, come si era rifiutato una prima volta? Perchè si era
lasciato vincere dal pianto dell'amico?... Ah! le lacrime, i palpiti,
i singhiozzi: egli non conosceva che questi!... E rivedeva la disfatta
figura di Andrea, quando, non più sorretto dall'eccitazione che lo
aveva spinto a sfidare ad un tratto le sorde provocazioni del
Sammartino, gli aveva confessato tutta la propria miseria, il
contrasto dell'amore, della gelosia, della disistima; l'impossibilità
di durare in quella tortura di tutti gl'istanti.... E risentiva le
parole con le quali gli aveva dato ragione: «Sì, sì; non bisognava
amarla, bisognava soffocare quel sentimento fino dal nascere; ma non
aveva potuto! non poteva! ed era un miserabile, e voleva farsi
ammazzare da un altro miserabile suo pari!...»

Allora il duca imaginava i due uomini, armati, scagliarsi l'uno contro
l'altro; vedeva il sangue scorrere, e un tremito nervoso gli passava
per tutto il corpo. Il sangue ed il pianto!... L'eterna vicenda
ricominciava ancora una volta; e quale fatalità condannava gli uomini
a scontare in tal modo l'incerto, il fugace piacere? Perchè la
fantasticata asportazione del cuore, l'abolimento di ogni sensibilità
non doveva esser dunque possibile?... Ah! tutto quel che si poteva di
più, era il soffrir da soli, in secreto! il soffrire come egli stesso,
in quel momento, al pensiero della catastrofe che aspettava la
disgraziata, soffriva....

Un'esclamazione del Giussi lo richiamò ad un tratto alla coscienza del
presente.

--Ecco quei signori.

Erano il barone De Falco e il giornalista Andritti. Scambiati i
saluti, i quattro rappresentanti presero posto intorno a un tavolo, su
cui la lampada gettava una viva luce.

Il duca di Majoli prese la parola, seccamente.

--Sarebbe inutile ricordare il motivo che ci riunisce stasera.
L'offesa fatta dal signor Sammartino....

Il barone De Falco interruppe:

--Se il signor duca permette....

--Ella vuol dire che l'offeso è il suo primo? Reclama per lui la
scelta delle armi?

--Perfettamente!

--Noi abbiamo mandato di accettare qualunque condizione.

Un nuovo silenzio. E, a un tratto, echeggiarono i primi accordi della
marcia del _Faust_.

--Alla spada e a discrezione del ferito,--disse il barone De Falco.

--Sta bene. Ciascuno porterà le proprie armi; si tirerà a sorte.

--Hanno in vista un locale?

--A Villa Bisani, a Portici.... se loro accomoda.

--A meraviglia. Allora, per domani?

--Senza dubbio.

--Alle sei del mattino?

--Alle sei.

Come ebbero preso congedo dai rappresentanti avversarii, il duca di
Majoli e Vittorio Giussi scesero al caffè, in quell'ora popolatissimo.
Si guardarono attorno, a lungo, attentamente; Andrea Ludovisi non
c'era.

--Cerchiamo dalla parte della musica,--disse il Giussi.

Dopo pochi passi, sotto la viva riverberazione dei fanali elettrici,
esclamò:

--Eccolo lì.

Fermo accanto alla _victoria_, col bastone dal manico d'argento sotto
l'ascella, infilando lentamente un guanto, Andrea Ludovisi conversava
con la baronessa di Fastalia, che si sporgeva verso di lui con dei
movimenti d'una eleganza lenta e squisita.

Vittorio Giussi si avanzò, col cappello in mano.

--Se la signora baronessa permette, il duca avrebbe da dirti qualcosa
di urgente.

--Facciano pure, facciano.... E quella risposta, Ludovisi, quando me
la date?

--A momenti, signora baronessa, se ella non va via....

E come i due amici si avanzavano, il duca di Majoli li raggiunse.

--È tutto fatto. Domani, alle 6, tienti pronto.

--La spada?

--La spada.

Andrea Ludovisi trasse un sospiro di sollievo.

--Grazie! Mi volete ora aspettare cinque minuti?

E andò a raggiungere la carrozza della baronessa.

--Che cosa è stato?

--Una buona notizia. I miei debitori si mettono in regola, riavrò
tutto il mio; nulla mi trattiene più a Napoli. Costanza, Costanza,
sono libero! Andremo via, lontano, nei paesi più belli, od anche nei
brutti; che cosa importerà per noi!...

--Non è vero?

In quel momento la musica incominciava il _Wiener blut_; i suoni
giocondi volavano per l'aria, mettevano un tripudio tutt'intorno.
Cogli occhi socchiusi, assorta in un sogno di felicità, la baronessa
faceva oscillare lievemente la testa, in cadenza col ritmo della
danza.

Egli mormorò a bassa voce:

--Costanza, ti amo!

La baronessa portò le mani al cuore.

--È possibile? Mi par di sognare! dopo la tempesta di ieri!...

--Perchè ricordarla?

--A proposito: e quella risposta? Che cosa bisogna fare delle lettere
rimaste sotto il divano?

--Bruciarle!... A domani, dunque....--E scostandosi d'un passo, col
cappello abbassato, a voce più forte;--Signora baronessa, faccia una
buona passeggiata!

Lentamente, la carrozza si allontanò. Il duca di Majoli e il Giussi si
avvicinarono. Andrea Ludovisi si mise in mezzo agli amici, e
terminando di abbottonare il suo guanto:

--Ora--disse--andiamo a vedere le armi.


VIII.

Benchè fossero appena le undici, la baronessa di Fastalia,
passeggiando dalla stanza da letto al salottino, andava a guardare
ogni momento l'orologio. Prima del tocco, Andrea Ludovisi non sarebbe
certamente venuto, e come erano lunghe, come erano eterne quelle ore
d'attesa! Ella presentiva che da quel colloquio sarebbe dipesa la sua
felicità avvenire. La sera innanzi Andrea le si era mostrato così
affettuoso, così confidente, così lieto, da far supporre che ogni
traccia della passata tempesta fosse oramai cancellata. Pure la
baronessa non si sentiva ancora perfettamente sicura. Ferma dinanzi
all'uscio fin dove ella lo aveva accompagnato, quando, all'arrivo di
suo zio, dopo aver nascosto precipitosamente le lettere e la valigia,
egli si era congedato, Costanza di Fastalia sentiva ancora sulle mani
le labbra di Andrea che baciavano e mormoravano insieme parole di
perdono e di amore.... Ora, ella si pentiva della durezza di cui aveva
dato prova. Non conosceva dunque abbastanza di quale natura
impressionabile, di quale anima vibrante ad ogni alito più lieve,
Andrea Ludovisi fosse dotato? Non sapeva ella ancora che quei
subitanei ed irrefrenabili trasporti erano la prova più evidente della
passione che ella aveva acceso nel petto di quell'uomo? Non vi era, in
quella gelosia del passato, in quel bisogno di possedere, di aver
posseduto sempre e solo il cuore di lei, un sentimento di tenerezza
triste e di amore prepotente che avrebbe dovuto colmarla di gioia
orgogliosa?... Sì, sì; ella non era stata mai amata a quel modo; ella
non aveva mai incontrata un'anima così amante; ella avrebbe dovuto
accorgersene prima, molto prima, dirlo prima ancora che ne fosse stata
richiesta!... Ma quello che non aveva fatto, non era forse ancora in
suo potere?... Deludendo l'impazienza dell'attesa lunghissima, la
baronessa pensava in qual modo avrebbe confessato ad Andrea il proprio
inganno, con quali parole dolci come carezze gli avrebbe confessato
che mai ella era stata amata come da lui, che nessuna donna avrebbe
potuto mai sognare un amore più forte, più vivo, più caldo.... E
quelle lettere rimaste in fondo al divano, non bisognava dunque
bruciarle, dinanzi a lui, fino all'ultima, perchè se ne disperdesse
anche la memoria? Che cosa ne avrebbe ella fatto? Non le ricordavano
esse una storia di dolori? Un'amara voluttà aveva ben potuto essere da
lei cercata, un tempo, nel rievocare quei tristi ricordi, nel contare
tutte le menzogne che le erano state dette, nel misurare la malvagità
di quanti l'avevano perseguitata con l'espressione di speranze che
erano altrettanti insulti; ma ora, ora che ella si sentiva rinascere,
ora che un avvenire di insperata felicità le si schiudeva dinanzi, che
cosa avrebbe fatto di quei documenti d'un passato aborrito?... Però,
quel passato bisognava assolutamente che Andrea lo conoscesse. Ella
aveva compreso e rispettato da principio i motivi di delicatezza che
lo avevano fatto opporre a tutti i suoi tentativi di confessione; ma
ora che ella aveva avuto una dimostrazione dolorosamente eloquente
delle lotte che si combattevano nel cuore di Andrea, il tacere più a
lungo sarebbe stata una colpa. Se egli si opponeva ancora?... Ella gli
avrebbe scritto! Come un lampo, questa idea le aveva illuminato lo
spirito. Perchè non le era venuta più presto? Così bisognava fare; se
più tardi, se fra un'ora egli non le avrebbe permesso di parlare,
bisognava scrivergli tutto. E, avvampando d'impazienza, insofferente
di ogni indugio, ella andò a uno stipetto, tolse da una cassetta
alcuni fogli della _loro_ carta, e passando allo scrittoio, vi prese
posto.

Si era appena seduta che il campanello elettrico squillò.

--Andrea!

Come non aveva previsto che quel giorno egli sarebbe venuto più
presto? Come era stata sciocca di non correre più presto in giardino,
per aspettarlo sotto gli _eucaliptus_? Rapidamente, ella passò
nell'anticamera. Il cameriere si avanzava in quel momento.

--Il signor duca di Majoli....

--Avete detto?...

--Il signor duca di Majoli insiste per essere ricevuto un istante
dalla signora baronessa.

--Fate dunque entrare....

Non era lui!... Che cosa avrebbe potuto volere, a quell'ora, il duca
di Majoli?... Quantunque fosse una delle pochissime persone che ella
vedeva meno malvolentieri dacchè amava Andrea Ludovisi, pure in quel
momento quella visita la contrariava; Andrea poteva apparire da un
momento all'altro....

--Signora baronessa... mi voglia perdonare....

Il duca era molto pallido in viso e la sua mano tremava un poco nel
reggere il cappello.

--Duca!... Che cos'ha?

--Sono davvero imperdonabile... di presentarmi a quest'ora... ma io
vengo da parte... di Andrea Ludovisi....

--Andrea? Avete detto?... Ma che cosa avete? Perchè evitate di
guardarmi?

--Oh nulla... assolutamente! Dovevo dirle soltanto che Andrea...
desidera vederla...

--Vedermi? Come vedermi? Se io l'aspetto qui... cioè.... O duca, per
l'amor di Dio, che cosa è successo?...

--Suvvia, val meglio dirle la verità, che non ha nulla di allarmante.
Andrea si è battuto....

La baronessa, scomposta in volto, aveva portato le mani ai capelli.

--Signore Iddio!... Ed è ferito?...

--Oh!... una cosa da nulla.

--Duca, in nome di Dio! ve lo domando in ginocchio! ditemi la verità;
non mi fate impazzire!...

--Ma se le dico, nulla!... Una scalfittura alla spalla, senza nessuna
importanza....

--Oh mio Dio!... E dove?... Con chi?... Avete almeno una carrozza?...

--È qui abbasso.

In un attimo, la baronessa corse a gettarsi uno scialle addosso; tornò
rapidamente balbettando confuse parole dall'ansia, dal turbamento, ed
uscì a braccio del duca, che la sentiva tremare da capo a piedi. La
carrozza partì di corsa.

--E con chi? Non me lo avete ancor detto....

--Con Sammartino.

--Un'altra volta!

Una crisi di dolore la abbattè. Ella lacerava il fazzoletto, si
infiggeva le unghie sulla testa, si torceva le mani, soffocando le
grida che le salivano alle labbra.

--E non prevederlo, iersera!... Non prevederlo!... Disgraziata, la
colpa è mia!...

Poi, repentinamente, afferrando il braccio al duca di Majoli,
fissandolo cogli occhi atterriti:

--Ma è moribondo... dite la verità! Non mi avreste chiamato se non
fosse una ferita mortale!...

E prima ancora d'aver ottenuto risposta, acquistata quella certezza,
ruppe in un singhiozzo lacerante.

Il duca le aveva presa una mano, tenendola stretta fra le sue. Una
parola gli saliva alle labbra, convulsamente: «Povera!... povera!...»
con un impetuoso bisogno di mescere le proprie lacrime a quelle di
lei; ma uno sforzo violento, un irrigidimento di tutti i nervi
ricacciava indietro la parola ed il pianto.

--Fa presto!... Più presto!...--ordinava al cocchiere, sporgendo
automaticamente il capo dallo sportello; ma avrebbe voluto piuttosto
gridargli: «Torna indietro!... Torna a casa!...» per evitare ai due
disgraziati una crisi mortale.... Così dunque finiva l'illusione della
gioia; era quello il terribile risveglio: quello spasimo,
quell'agonia!

La carrozza correva, correva per le vie popolose; delle grida
echeggiavano, le cornette dei _tram_ squillavano di tratto in tratto,
e il sole splendeva nel cielo giocondo. «Sferza!... Più presto!...» Ma
per fuggire lontano, per fuggire sempre, per mettere di mezzo lo
spazio ed il tempo, per apprestare i grandi, i soli rimedii: la
lontananza, la stanchezza, l'oblio....

Al cancello, Vittorio Giussi aspettava. La baronessa gli corse
incontro, con le braccia tese, interrogando con lo sguardo.

--Si faccia animo!... Non sarà nulla!...

--Ah!

E la donna si slanciò avanti, di corsa. I due amici la raggiunsero,
cercando di trattenerla. Ella si svincolò e passò ancora innanzi. Ma
nella sala, il dottore l'arrestò.

--Signora, sia prudente; rinunzii a vederlo, per ora....

--È morto!...

--Ma no, ma no; morirà se non gli si risparmia un'emozione. L'abbiamo
chiamata per farlo contento; ma sta a lei ad esser prudente, a
rinunziare....

Ad un tratto s'intese una voce debole, ma chiara, che chiamava:

--Costanza!

Ella si precipitò nella stanza.

Pallidissimo, come di cera, col busto sorretto da un monte di
origlieri, la camicia squarciata e sanguinosa che lasciava vedere una
larga fasciatura, le braccia abbandonate da una parte e dall'altra,
Andrea Ludovisi ripetè, più debolmente:

--Costanza!

Ella era caduta in ginocchio accanto al letto, aveva presa la sua mano
fredda e sbiancata, stringendola fra le sue, coprendola di baci fra i
singhiozzi che le spezzavano le parole.

--Andrea!... Andrea mio!... Che hai fatto!... Andrea mio!... Oh,
Signore!... pietà!...

Cercando di liberare la sua mano, egli disse:

--Calmati, Costanza... calmati... se mi vuoi bene! Alzati, fatti più
vicina... così... che io ti veda tutta... che io ti baci... purchè tu
non pianga, Costanza....

--Ma perchè, Signore! perchè?...--e, parlando, ella gli passava una
mano sui capelli, lievissimamente--perchè hai fatto questo?....

Andrea Ludovisi chiuse un istante gli occhi.

--Senti... io non potevo vivere con l'idea che quell'uomo... ti
avesse... amata.

Ella si rialzò con un tremore in tutta la persona.

--Oh... ancora! Andrea, per quel Dio che ci vede, per quel Dio che
deve ridarti all'amor mio, no! non è vero! non è stato mai!...

--Allora... quella lettera?

--Ma quale? Quale lettera?...

--Una di quelle, la lettera che tu volesti mostrarmi....

Un sorriso sfiorò la bocca della baronessa, mentre, curva di nuovo sul
ferito, ella tornava ad accarezzarlo.

--Ma come quelle ve ne sono tante altre, povero amore!... Tu, amore,
non l'hai letta!... Perchè non l'hai letta?... Sono delle
dichiarazioni con le quali mi hanno perseguitata da per tutto!... Se
sapessi quante me ne ha mandate colui!... Se sapessi da quante parti
me ne sono piovute, da gente che non conoscevo neanche di nome!... Se
sapessi come si tratta una donna nella mia posizione! Come tutto pare
possibile, come tutto pare permesso!... Ma non era che questo,
bambino?... Perchè non lo hai detto prima?

E nella gioia di vedere dissipato il malinteso che era stato causa di
quella tragedia, ella quasi ne dimenticava le conseguenze.

--Povera Costanza!--esclamò Andrea, rivolgendole uno sguardo di
compassione profonda.

--Oh, sì, povera, povera tanto! Quante amarezze, quante umiliazioni!
Quanta codardia in tutti questi uomini che ci circondano!... Tu solo,
tu solo sei nobile e generoso, tu solo mi hai amata....

--È vero?

Strettamente abbracciati, gli occhi negli occhi, pareva che essi
volessero trasfondere le anime in quello sguardo supremo.

--Sì, è vero: tu solo! Tu, che hai avuto paura di confessarmi l'amor
tuo! Tu, che mi hai rispettata prima di amarmi! Tu, che hai esposto la
tua vita per me! Tu, che sei stato geloso dei miei pensieri e dei miei
ricordi! Tu, che non hai mai voluto conoscerli!...

--Ancora!... ancora!...

--Tu, Andrea, che mi hai fatto rinascere; tu, che mi hai fatto credere
a tutte quelle cose di cui avevo disperato, alla bontà, alla
sincerità, alla fede, all'amore.... No, io non sono mai stata amata
così! Non sono stata amata niente! Non lo sai? Mio marito mi ha
lasciata otto giorni dopo il nostro matrimonio! Mi ha presa per la mia
fortuna, che ha rovinata a metà! Mi hanno data a lui, perchè ero di
peso in casa, e perchè aveva un nome! Ed ho subito gl'insulti più
atroci, le vergogne più innominabili. Allora, capisci, io non ero
corazzata d'acciaio contro le seduzioni... Feci....

--Costanza!... te ne scongiuro!...

--Zitto, bambino! Lascia fare a me.--E riprese, rapidamente:--Feci...
come molte altre. Credetti d'avere incontrata la felicità;
_credetti_--hai capito?--Fu una tregua soltanto. L'amore di... colui,
finì presto... se pure cominciò mai... No, no; hai ragione, non
cominciò mai!... Un sentimento di falso dovere non gli fece dir nulla;
e, in cambio, mi oltraggiò... capisci come? preferendomi una... delle
altre. Mi sentii sferzata a sangue. Vidi tutto abietto intorno a me;
in quell'abiezione volli cadere anch'io, per vendetta, per rabbia
impotente.... Fu una volta sola, e fu abbastanza... Andrea, te lo
giuro, per l'amor nostro!... Andrea!... Andrea, che cos'hai?...

Egli si era fatto ancora più pallido, spaventosamente, ed aveva
portato una mano al petto.

--Il sangue! il sangue! il sangue di Andrea! il sangue generoso
versato per questa indegna!

E accostate le mani alla fasciatura tutta madida, le portò al viso.

--Che io mi lavi nel tuo sangue, ch'io lavi le mani, ch'io lavi la
fronte, ch'io lavi la bocca, che io mi lavi tutta, ch'io mi
purifichi--è questo?--sì, così... così....

--Tu sei redenta....

Al contatto di quelle labbra ghiacciate che si posavano sulle sue mani
sanguinose, ella sentì un brivido passarle per tutto il corpo.

--Lasciami... ch'io chiami....

--Non ancora, Costanza!...

Un silenzio. A un tratto s'intese la pendola suonare le due. Egli
rivolse alla donna uno sguardo pieno di passione, e disse, con voce
che si sentiva appena:

--A quest'ora.... sotto gli _eucaliptus_....

Ella non fece a tempo a contenere uno scoppio di pianto.
Disperatamente, si lasciò cadere in ginocchio, mettendosi in bocca,
per frenare i singhiozzi, un lembo del lenzuolo pendente.

Ad un tratto, si sentì chiamare:

--Costanza... soffoco... l'aria....

Ella corse a schiudere la finestra. Come si voltò vide gli occhi di
Andrea rovesciarsi e la bocca contorcersi un poco....

Al sordo rumore di un corpo che cadeva di peso, gli aspettanti si
precipitarono nella stanza; e mentre il dottore, con un gesto
disperato, accertava la morte, il duca di Majoli si curvava sulla
irrigidita Costanza di Fastalia, sollevandola paternamente.



UNA DICHIARAZIONE.


I.

  Al signor Guglielmo Valdara,
              _Castellammare_.

                                                Hôtel Royal.

  _Mon cher_,

Ah, que c'est drôle! Ah, que c'est drôle! Permettete, j'étouffe! O
povero amico mio, quelle mine piteuse! Scusate, non vi avrei mai
creduto capace di una cosa simile! Francamente, non ve ne faccio i
miei complimenti. Ma è una lettera à dormir debout, la vostra
lettera!...

Dunque, voi mi amate? Avrei voluto voir ça, che non me lo aveste
detto, dopo un mese che prendiamo posto alla stessa table d'hôte e che
vediamo, dalla stessa terrazza, arrivare e partire diciotto treni il
giorno--oltre i facoltativi. Li avete contati? Io sì. Ecco qua: treni
omnibus alle 7 e 5, 8 e 5, 12 e 35, 3 e 20, 6 e 40, 9 e 25; diretti
alle 10 e alle 5 e 25, misto alle 7 e 40. Questo per gli arrivi.
Quanto alle partenze... brisons là-dessus. Ma quale cantoniera non
farei! J'y songe: perchè non mi avete offerto di andare a fare i
cantonieri, in fondo a una linea poco frequentata? Noi avremmo una
piccola casetta gialla, con un grosso numero nero, e un giardinetto
pas plus grand que ça, con molti geranii e qualche robinia. I passeri
cinguetterebbero sopra le nostre tegole, e noi sotto.... Voi
ispezionereste la linea ed io vi suonerei ogni tanto il corno!... En
voilà une idée! Enfoncés, la «capanna e il tuo cuore!...» Decisamente,
amico mio, voi non siete all'altezza del vostro secolo. Nel secolo dei
treni-lampi, voi mettete un mese a dirmi che siete innamorato di me!
C'est on ne peut plus petite vitesse! Almeno, aveste evitato i
deraillemens! Nossignore; pare che sia di vostro gusto arrischiare ad
ogni momento l'osso del collo. «Vi è un'angoscia indicibile nell'idea
che la divorante passione resterà eternamente ignorata dalla persona
che ha saputo destarla!» E voi partite di qui, per buttarvi a occhi
chiusi sotto il tunnel dell'analisi psicologica: «L'anima ha bisogno
di comunione; che cosa importa se un'altra anima non le risponderà?
Confessare il proprio tormentoso secreto è renderlo più sopportabile;
lo sanno i malfattori che un irrefrenabile istinto spinge a
rivelare....» Lanterna rossa: ferma! assez! stop!... A chi dicono? Voi
non vedete il pericolo, e finalmente: patatrac... eccovi andato a
gambe per aria! «La misteriosa voce delle cose... l'universale
rispondenza delle forme e degli esseri... la complice dolcezza di
questa natura....» Quel baragouinage! Rimettetevi, mon cher; su via!
Ripigliate fiato, così, animo!

Sapete che siete un bell'originale? Vi faccio un po' timbré, my poor
fellow! Est-ce que si scrive sul serio a quel modo, nel vostro paese?
Io mi ero lasciata dire che l'Italia è il paese della rettorica; ma
voi siete, ma foi, incredibile!... Ah, j'y suís! Voi mi volete dare un
aperçu di ciò che sarà la vostra compagnia, se io «colmerò» i vostri
«voti più fervidi». Tutto il giorno a roucouler intorno a questo
«Sorriso del Cielo!...» Salvo quando vi accenderete d'ira tremenda e
mi «soffocherete nelle vostre braccia». C'est ça; poichè voi non siete
fatto come tutti gli altri, voi! «Non sapete di quale amore io amo? Io
amo come il mare ama la riva: dolcemente e furiosamente!» Bravo, very
well, vortrefflich! «Nei giorni della calma esso la bacia, lieve,
sussurrante, carezzante, quasi pauroso di farle del male. Quando il
soffio dell'aquilone lo gonfia, esso l'assale, terribile, e la morde,
la flagella, la seppellisce!» Ah, que c'est drôle! Ah, que c'est
drôle! Così, quando voi siete gonfiato, voi mordete la gente? Ma
andate allora da M. Pasteur, o fatevi mettere la museruola!

Ditemi un po' una cosa: v'imaginereste, per caso, di essere il primo a
dirmi delle storie simili?... Connu, connu, povero amico!... Perchè
non v'innamorate dunque di cotesti signori? Ciascuno di loro possiede
il segreto dell'Amore (con un A maiuscolo), il segreto del Grande
Amore!... «Associatevi» dunque, al loro «Destino!...» Probeblatt
gratis!... Chi non respinge il primo numero si ritiene abbonato!... Io
torno à mon idée: facciamo i cantonieri!

Sul serio: voi avete preso ciò che qui si dice una cantonata. Sapete
che cosa ho fatto? Ho contato quante volte nella vostra lettera avete
scritta la parola _amore_. È come pei treni; che cosa volete! Quando
l'on s'ennuie, tutto è buono. Dunque, voi avete scritto _amore_
trentasette volte. Zur Güte, mi sapreste dire qu'est-ce-que c'est que
ça? R. S. V. P... Sentite dunque; qualcuno si è tirato, per me, un
colpo di pistola al cuore, o, più esattamente, sotto la clavicola. La
palla è penetrata fra la terza e la quarta costola, ha intaccato il
polmone, e non si è potuta cavar fuori. L'individuo è stato un mese
tra la morte e la vita; finalmente il s'est tiré d'affaire. Je ne m'en
porte, come voi vedete, nè meglio nè peggio. If you please, non
partite di qui per tirarvi un colpo di revolver alla tempia, che è le
bon endroit, come dice Dumas fils nella _Boîte d'Argent_ (l'avete
letta?). Ce serait grand dommage! Lo _Stabia's Hall_ verrebbe privato
di uno dei suoi frequentatori più charmants. Voi vedete che io sono
equa, e che faccio onore ai vostri talents d'agrément.

Torniamo dunque, come voi dite, in carreggiata. Cercando bene, ho
trovato nella vostra lettera una definizione, ou presque, dell'amore;
il quale sarebbe il «sacrifizio di _tutto_.» Di _tutto_, e pas plus
que ça? Ma è troppo poco!... Tenez, vi ricordate di quel signore
polacco che mi presentarono domenica passata al _Pozzano_, e che mi
strinse la mano con la sinistra? Era una conoscenza delle mie, vous en
doutiez vous? Quel signore ha avuto tagliato il braccio destro in
seguito a un colpo di pistola che gli ha spezzato il radio. Je m'y
connais, in anatomia! Il colpo di pistola lo ha preso in duello, col
signor principe Dimitri Borischoff, governatore di Kiew ed anche un
po' mio marito. Quel signore non può più tornare in Russia, dopo
essere stato sorpreso a tricher al Circolo Imperiale di Mosca, e dopo
aver commessi due piccoli falsi, rien che per potermi seguire da un
capo all'altro dell'Europa, dal Ladoga a Biarritz. Vi ricordate che
era en grand deuil? Era per suo padre, buttatosi per la
vergogna--dicono--e pel dolore, sotto un treno diretto. Si deve esser
fatto un male orribile! Aussi, che modo selvaggio di spedirsi
all'altro mondo! Ne peut-on s'y prendre con più garbo? Voi, per
esempio, mio caro idealista, vi anneghereste in un lago azzurro, una
notte azzurra, da una barca azzurra.... A Capri, per esempio; ça vous
va-t-il? Già, voi avete un penchant per gli annegamenti. Non mi avete
scritto che lasciate annegare la vostra anima «al suono della mia
voce» ed «al profumo dei miei capelli?» Pardon, della mia «nebbia
d'oro.» Perchè i miei capelli sono della «nebbia» e questa «nebbia» è
per giunta «d'oro!» Ciò mi ricorda un poetino, morto poitrinaire
laggiù in Russia--per me, on prétend--il quale chiamò una volta i miei
occhi dei «diamanti neri.» Dire che il povero maestrino non ne aveva
visti nè neri nè bianchi, in fondo a quel villaggio della Siberia dove
mi confinarono le cure del principe Dimitri Borischoff, governatore di
Kiew ed anche un po' mio marito!

Voi non conoscete il principe Dimitri? Avete torto. Per voi, che fate
professione di scrittore, sarebbe un tipo interessantissimo. Qu'à cela
ne tienne; posso darvi qualche renseignement; je me flatte di
conoscerlo abbastanza. Dunque, il principe Dimitri è un russo; ma quel
che si dice un russo puro sangue. Voi non conoscete la Russia? Avete
torto ancora. È una terra vergine; non v'immaginate però di andarla a
conoscere nelle _Terres vierges_ di Turguenieff. Per tornare al
principe Dimitri, rappresentatevi, al fisico, un cane bull-dog, un
bull-dog in giubba e cravatta bianca, che si tenga raide sur ses
pattes, e ne avrete un'idea sufficiente. Quando era nella diplomazia,
feu M. de Gortschiakoff ne faceva un grandissimo conto, e il n'était
pas dans son tort. Pieno di forme--per esempio!--corretto, digne,
impeccabile! Avec ça, egli è molto attaccato alle patrie tradizioni,
ragione per cui è ben visto a Corte, e tiene in grande onore lo knut.
Ne avete sentito parlare? È uno strumento, my dear fellow, del quale a
noi russe non bisogna parlar male. Catulle Mendès ha molto torto di
chiamar mostro quella ragazza, che avendo vista una esecuzione di
knut, si sostituì alla serva condannata a 25 colpi, per farseli dar
lei. Voialtri latini avete la rettorica nel sangue. Perchè _mostro_?
Non sapete dunque che tous les goûts sont dans la nature? Non nego che
applicato sulle spalle d'un idealista come voi, lo knut farebbe
guarire ipso facto (un po' di latino non guasta) le più strane
fantasie. Ma io son grata al principe Dimitri di avermelo fatto
conoscere. Egli ne era professore, et je ne regrette pas le sue
lezioni. Bisogna tâter un po' di tutto. Però, siccome tutto si paga in
questo basso mondo, dopo una lezione di knut non si può andare, per
esempio, en grand décolleté al ricevimento dell'ambasciata, e si
soffre qualche poco al circolo dell'imperatrice. Non importa!... La
vita in Russia, col principe Dimitri, governatore di Kiew ed anche un
po' mio marito, è piena di distrazioni. La villeggiatura in Siberia,
per esempio, in inverno, è on ne peut plus divertita. D'inverno, in
Siberia? domanderete voi. Sì, mio caro, quistione di temperatura e
di... temperamento. Voi dovete sapere che il principe Dimitri ha
sempre presso di sè il dottor Baribine, al quale è affidata la vostra
salute. Quando il principe domanda: Pietro, come sta la principessa?
Pietro risponde: la principessa ha bisogno di un clima freddo. E il
principe Dimitri vi manda in Siberia. Regola generale: quando il
principe Dimitri s'informa della vostra salute, il dottor Baribine ha
pronta la sua ordonnance. Un'altra volta il principe domanda: Pietro,
di che cosa soffre la principessa? Baribine risponde: la principessa
ha bisogno di riposo. E il principe vi manda nel castello di
Paliskaja, dove non entra e di dove non esce âme qui vive. Un bel
giorno si sentono delle fucilate; sono gli uomini del principe che
tirano contro un cacciatore curioso, sorpreso a guardare alle
finestre, e lo stendono morto. In questo castello di Paliskaja, si
sentono la notte--histoire di non dormir troppo--dei rumori strani,
gemiti sordi come di persone a cui si applichi la question; è il
vento--rien que ça--il vento che s'ingolfa sotto le arcate, per le
coulisses, e che fa stridere le girouettes! Ah, un gran dottore, il
dottor Pietro Baribine! Dopo eseguite le sue ordonnances, voi tornate
completamente rifatto; voi potete andare ogni sera dans le monde; e
gare a mancare un solo invito! Il principe Dimitri si avanza verso di
voi, col suo sorriso di bull-dog che scopre le sue zanne... e voi vi
alzate subito, andate a fare un petit bout de toilette, sedotto da
tanta amabilità.

Ah! ah! ah! Voilà che ricomincia! Ah! ah! ah! Sapete a che cosa penso?
Alla vostra lettera, amico mio, alla vostra lettera famosa, colossale,
gigantesca! «Voi non sapete che io vi porto nel cuore? Come è mai
avvenuto, buon Dio, che io abbia messo tanto tempo a dirvelo?... Egli
è che voi siete sola, che voi non avete nessuna forza presso di voi
che possa difendervi; egli è che sarebbe stato offendervi il parlarvi
d'amore, che le grandi parole avrebbero potuto nascondere il calcolo
vigliacco di pervenire a voi per mezzo della vostra debolezza...» Ah!
ah! Parfait! Voi siete tutto ciò che v'ha di più moyen âge! Come un
cavaliere errante, voi andate in cerca di avventure... oh, pardon! è
venuto da solo; io non l'ho fatto exprès!... Eh, «buon Dio!» voi avete
una grande inclinazione per le vie di traverso! Assolutamente, non
sapete dove metter le mani!... Bisogna che io completi la vostra
educazione mondaine, volete? Temo soltanto di dover spezzare
«l'ideale» che vi siete formato di me. Incolpatene vous-même; voi
sapete che cosa dice la saggezza delle nazioni: la plus belle fille du
monde ne peut donner... quel che non ha più!

Quanti anni avete?... Sono sicura di non essere indiscreta; voi siete
così giovane che per dieci anni ancora non sarà la pena che ne
nascondiate qualcuno. Ventotto anni? Trenta? C'est la fleur même de
l'age! Volete sapere l'età mia? Con tutta la buona volontà del mondo,
l'affare non sarà così facile. Se il tempo ha le ali, io faccio del
mio meglio per corrergli dietro. È un combattimento ad armi corte; ma
vi assicuro che non ho aucune envie di fare la vieille garde!...
Quando sarà venuto il momento psicologico (.... per modo di dire) io
mi arrenderò, con armi e bagagli. Toujours est-il che sono ancora
presentabile, am I not? E voi avete il toupet di non «domandarmi
nulla» di voler soltanto «vivere nella mia ombra» contento soltanto se
le mie mani saranno «pietose alle ferite del cuore!» Honny soit qui
mal y.... pense!... O merveille! o stupore! Messieurs et mesdames;
entrate! Ecco l'uomo che non domanda nulla; toccatelo: è di carne e
d'ossa; on ne triche pas, quoi! L'uomo che non domanda nulla! On ne
paie qu'en sortant!... Sapete dunque di chi mi avete l'aria? Di quei
giovanotti e di quelle ragazze che se ne vanno a far delle copie al
British Museum, e si attaccano un écriteau, dove dice: visitors are
requested not to stand round the student!... E i borghesi della City,
le loro mogli, la loro discendenza e le loro serve si dispongono
intorno allo studente, che si studia d'essere studiato! Qua la mano:
vi facevo più spirito; parole d'honneur!

Dopo tutto!... A guardarci de près, io m'accorgo di essere ingrata
verso di voi. Sapete che cominciavo ad annoiarmi, con questo golfo
sempre dinanzi, con questo verde sempre di dietro, con questi
mannequins sempre d'intorno? Ah, la noia, la noia vasta, profonda,
irresistibile; la noia che vi afferra le mâchoires e che ve le
disloca, la noia che vi inchioda in fondo a una causeuse, e che non vi
dà guère l'envie de causer, e che vi mette una cappa di piombo sulle
spalle e sul petto, come ai dannati del vostro Dante! Ah, la noia che
vi accompagna dovunque, come la vostra ombra; che si attacca a voi,
che vi penetra tutto, che finisce per diventarvi quasi indispensabile!
Qual è stato l'uomo di spirito che ha scritto questa confessione
profonda: Mi annoio tanto, che se non mi annoiassi, mi annoierei?
Tenez, lo abbraccerei, se fosse qui! J'ai vécu, caro mio. E ne ho
viste, come voi dite, di crude e di cotte. Quasi quasi je regrette lo
sport knutesque di cui è professore il principe Dimitri Borischoff,
governatore di Kiew ed anche un po' mio marito. Quasi quasi vorrei
ricorrere alle ordonnances del dottor Baribine.... Tenez, sbadiglio!
Come ho fatto a scrivere tanto? Je n'en reviens pas encore! Domani,
meno male; avrò la curiosità di vedere quelle mine voi farete; ma dopo
domani, que vais-je devenir? Tutto sommato, me ne andrò a Loèche. Di
li passerò a Londra, per la season. A luglio sarò in Normandia, a
Honfleur o al Tréport, c'est selon. In agosto verrò un'altra volta a
casa vostra; passerò una quindicina di giorni sui laghi.

Vous voyez; faccio di tutto per distrarmi; ma prevedo che incontrerò
difficilmente una persona che mi diverta più di voi. Senza rancore!

                                                 _Toute à vous_

                                             CATERINA P. BORISCHOFF.

_Post-scriptum_,--La vostra amabilità merita bene un premio. Mi
permetto di offrirvelo, sotto forma di un consiglio. Se volete
riuscire con le donne, non le fate ridere.

                                                              P. B.


II.

  Alla signora Caterina, principessa Borischoff,

                 _Castellammare_.

                                                Hotel Royal.


  _Signora_,

Sono mortificatissimo di doverle dire che Ella si è stranamente
ingannata sul conto di quel manoscritto da me inviatole. Oltremodo
sensibile all'interessamento che Ella mostrò di prendere alla nostra
letteratura, e per obbedire al desiderio espressomi di leggere
qualcosa di mio, mi recai ad onore di farle pervenire quella novellina
che, sotto il titolo di _Una Dichiarazione_ ella potrà rileggere--se
l'ha fatta ridere tanto--in un prossimo numero del _Fanfulla della
Domenica_. La colpa del curiosissimo equivoco è....--rida ancora!--del
litografo Richter. Se egli mi avesse mandato i biglietti che aspetto
da una settimana, ne avrei messo uno, con qualche parola di
accompagnamento, dentro la busta contenente il manoscritto. Così,
senza nessuna spiegazione, Ella lo ha preso per quel che non era, ma
che del resto avrebbe potuto essere! Non mi dica che faccio il
galante; la galanteria suppone--_de part et d'autre_--un piccolo fondo
di menzogna, e ciò che io le dico è l'espressione sincera del mio
pensiero. Una signora di spirito come lei, è capace di tutto, anche di
darne a chi non ne ha _de son chef_.

Chiamato da affari urgenti a Roma, mi rincresco infinitamente di non
poter venire a salutarla di persona. Ma giacchè Ella andrà ai laghi in
agosto, avrò l'onore di rivederla lì, quantunque sarà difficile che mi
vi anneghi secondo il suo desiderio. Ad ogni modo, trovi Ella qui
l'espressione dei miei più vivi ringraziamenti pei consigli materni di
cui mi è stata prodiga, insieme con l'attestato del mio più profondo
rispetto.

                                          _Devotissimamente_

                                              G. VALDARA.


III.

  TELEGRAMMA. _Guglielmo Valdara, Roma._

          Venite.



IL MEMORIALE DEL MARITO.


«.... Che cosa direi ai signori giurati?

«Io direi loro così:

«Prima di condannare un uomo bisogna ascoltarlo. Io so quel che ho
fatto e non cerco di sottrarmi alle conseguenze che pesano su di me.
Soltanto, giacchè il mio nome è uscito dalla oscurità in cui sempre si
mantenne, giacchè esso è stato dato in pascolo alla malsana curiosità
della folla, io ho il dovere, più che il diritto, di narrare tutta la
storia di cui si conosce il solo scioglimento, di enumerare tutti i
moventi che lo determinarono, di illuminare la coscienza pubblica
fuorviata da versioni partigiane od incomplete, perchè la verità, la
sola verità trionfi.

«Io non mi scuso, non mi giustifico. Io non faccio parlare per me un
uomo di legge. Spesso, l'uomo della legge è chiamato per impedire che
la legge abbia il suo corso. Le argomentazioni speciose, le
interpretazioni sottili, le citazioni significative, l'arte oratoria,
la competenza giuridica non fanno al caso mio. Io debbo esporre dei
fatti, tocca a voi apprezzarli.

«La mia parola sarà disadorna: tanto peggio, o tanto meglio. Se fossi
un letterato, scriverei un romanzo. Io non so scrivere, non so
parlare: e la folla mi sgomenta. La timidità è il fondo del mio
carattere. Bambino, io covavo dentro di me le mie piccole amarezze ed
i miei piccoli dolori. Avevo vergogna di farmi vedere piangente. Non
so se questa sia fortezza o debolezza d'animo; so che ero così. Poi,
anche un altro motivo contribuiva al mio mutismo: la persuasione del
nessun interesse che avrebbero avuto per gli altri le cose mie.

«Perchè mi avrebbero badato? Che cosa importava alla gente di quel che
io pensavo o sentivo? Erano cose insignificanti, puerili, senza
fondamento e senza valore. Puerili in sè stesse, e non perchè
concepite da un ragazzo. Quando fui molto più inoltrato negli anni, lo
stesso sentimento persisteva. Meno espansivo io ero, più confidenze
ricevevo. Non facevo che ascoltare, attentamente, religiosamente.
L'importanza che negavo alle cose mie, la trovavo nelle altrui. Chi
aveva una speranza da formulare, una gioia da espandere, un dolore da
alleviare, se ne veniva da me. Mi chiamavano la _spugna_. M'imbevevo
di confessioni. Ero credulo. Quelle speranze, quelle gioie, quegli
stessi dolori li invidiavo, e la mia piccolezza, la mediocrità mia mi
parevano più grandi.

«Divago; domando perdono. Questo è per far comprendere il mio
carattere, ma importa fino ad un certo punto.

«Per certo, io non credevo che un giorno avrei pigliato moglie. Nel
matrimonio, vedevo l'amore; e l'amore mi pareva una cosa molto
difficile e molto rara. Dapprima, avevo nutrito qualche speranza....
una di quelle speranze che non dicevo a nessuno, e che dico ora
soltanto. Leggevo dei versi, ed un'eco me ne restava dentro. Avrei
voluto farne, più belli, più sonori, più eterni; avrei voluto farli
per qualcuno.... Chimere. Chi è stato giovane, capirà. Ebbi una volta
un piccolo romanzo; siccome è molto corto, lo narrerò. Uno dei tanti
amici che mi avevano preso per confidente, aveva avuta una relazione
in Francia con una Americana. Come io sapevo l'inglese, oltre che da
confidente gli servivo da interprete e da segretario. Gli traducevo le
lettere che riceveva dall'amante, e rispondevo per lui. A furia di
leggere e di scrivere frasi di amore per conto d'altri, finii per
attribuirle e adoperarle per conto mio. Quando l'ignota corrispondente
mandò il suo ritratto, me ne innamorai addirittura. Ma un bel giorno
l'amico mio comperò una grammatica Ollendorf e prese un maestro
d'inglese. Allora il mio romanzo finì.

«In fondo, ragionavo. Mi avevano insegnato dei comandamenti--per
ubbidirli, supponevo. Uno di questi comandamenti diceva: Non
desiderare la moglie altrui. Quanto al desiderio--sono giusto--qualche
volta io lo avevo; come impedirlo? Non facevo però nulla per tradurlo
ad effetto. Non so se un casuista mi avrebbe assolto; ma io mi sentivo
in pace con la mia coscienza. Offendere un uomo, perdere una donna,
distruggere una famiglia mi parevano dei delitti che niente può
scusare. La _predestinazione_, il _colpo di fulmine_ mi facevano
l'effetto di pretesti belli e buoni. Io mi sentivo libero e padrone di
me stesso, in amore come nel resto. Quando vedevo molte donne riunite
in qualche posto, a teatro, per esempio, od alla passeggiata, io mi
domandavo; «Chi ameresti tu fra queste?»--E con una mano sulla
coscienza, mi rispondevo: «Tutte, meno le vecchie, le gobbe e le
troppo brutte.» Ora, perchè io ne amassi realmente qualcuna, perchè il
desiderio vago ed indeterminato si concretasse e fosse conseguito, che
cosa occorreva? Due cose: primo: che una di quelle donne amasse me;
secondo: che quell'amore fosse permesso. Per la prima cosa mi dicevano
timido; per la seconda, ingenuo. Io lasciavo dire.

«Dunque, la moglie d'altri: no. Restava una moglie per me. Ma, dicevo,
bisogna trovare una che mi ami; ed io non la trovavo. Poi, io non ero
esente da qualche inquietudine. La mamma non mi consigliava il
matrimonio. Era una donna di poche lettere, ma di molto buon senso. Il
babbo, felice memoria, faceva un gran conto dei suoi consigli e
dichiarava di essersene trovato sempre bene. Ora, la mamma mi diceva:
«Figliuolo mio, tu sei della stoffa con cui si fanno i mariti
disgraziati.» Come si vede, la santa donna non aveva peli sulla
lingua. Io le davo ragione; ma, naturalmente, non avevo nessun impegno
che glie la dessero i fatti....

«Così, passarono molti anni. Non vorrei intanto che mi si accusasse di
presunzione e di darmi a credere come un modello di virtù. Feci ancor
io qualcuna di quelle che si chiamano scappate forse perchè non ne
entra nulla: cose senza conseguenze, in cui niente di serio era
impegnato. Chi non è stato giovane, pronunzii la condanna....

«In questa calma trascorsi la mia gioventù. Poi, la mia buona mamma
passò a miglior vita. Fu il mio più grande dolore. Ragazzo, quando i
terrori notturni mi presentavano l'imagine della morte, pensando al
mio povero babbo che non avevo conosciuto, io pregavo fervidamente il
Signore di farmi morire nello stesso preciso momento della mamma; con
un terremoto, per esempio, che ci avrebbe sepolti, abbracciati, sotto
un monte di rovine. Non potevo assuefarmi all'idea di sopravviverle,
di restar _solo_ nella nostra casa. Pur troppo dovetti restarvi! Ma
allora, per la prima volta, provai il bisogno di una donna che mi
stesse al fianco. Dove trovarla?... Scorse dell'altro tempo. Avevo
trentacinque anni, una buona salute, una discreta fortuna, qualche
reputazione di intelligenza e di onestà, quando incontrai una
fanciulla alla quale non parvi indifferente. In che modo? Non saprei
ridirlo. Queste cose si fanno capire, più che non si dicano. Io però
non mi contentavo di capire soltanto; non potevo ingannarmi? Lasciavo
quindi che il tempo mi portasse la conferma o la smentita del fatto.
Non nascondo che la conferma mi sarebbe stata molto gradita; quella
fanciulla mi piaceva, al fisico ed al morale; ne ricercavo la
compagnia, l'amavo anche, se si vuole.... non tanto però da
incatenarla al mio fianco quando non fossi stato sicuro dei suoi
sentimenti a mio riguardo. Questi sentimenti non erano ostili; me ne
persuadevo sempre più. Come prima se ne presentò l'occasione, io le
tenni press'a poco questo discorso: «Signorina, io sono solo; vorrei
associare la mia vita a quella di un'altra persona. Sarei felicissimo
se questa persona foste voi. Ma, se non vi piaccio, è quasi certo che
non mi ammazzerò. Il vostro rifiuto non vi procurerebbe dunque dei
rimorsi. Ora, volete rispondermi?» Ella, di sua libera elezione, senza
pressioni di sorta, disse di sì.

«Ci furono di mezzo, naturalmente, i parenti. Io fui aggradito,
vennero sistemati gl'interessi e ogni cosa fu stabilita. La nostra
unione era fatta sul piede della più perfetta eguaglianza. Nessuno di
noi faceva una generosità all'altro, accettandolo. Nè io nè lei,
finanziariamente, fisicamente, intellettualmente e socialmente,
avevamo nulla di straordinario o di superiore. Essendoci conosciuti,
ci eravamo convenuti; nient'altro. La mia fidanzata non era nè bella
nè brutta, nè ignorante nè dotta, nè umile nè superba: così com'era,
mi piaceva. Se in vece sua avessi conosciuta un'altra donna, avrei
amato probabilmente quell'altra; ma avevo conosciuto lei, e glie lo
dicevo.

«Anch'ella mi amava; me lo ripeteva sempre, me lo scriveva
continuamente--malgrado ci vedessimo ogni giorno, aveva voluto che
ogni giorno ci scrivessimo. Ciò mi faceva piacere. Pensavo: c'è
qualcuno che si ricorda sempre di me, che sempre mi aspetta--e questo
pensiero mi colmava di tenerezza. Quando la vedevo, pensavo ancora: _È
mia_.... Per dir meglio: sarebbe stata.... Intanto si preparava il
corredo, la casa. Io le lasciavo la direzione di tutto. Tutto ciò che
faceva, era ben fatto. Che fosse contenta lei, questo era
l'interessante. Alla sottoscrizione del contratto, feci un piccolo
colpo di testa: le regalai dei gioielli di qualche valore; data la
nostra condizione economica, una pazzia. Che importava, purchè ella
fosse contenta? Ella ne fu contentissima; corse a guardarsi allo
specchio ornata di quei monili, i suoi occhi sfavillavano di gioia, e
non cessava dal prodigarmi ringraziamenti caldissimi. Questi mi
parevano superflui; se fossi stato più ricco, avrei certamente fatto
di più.

«La felicità m'irradiò tutto, quando fummo uniti per sempre. Allora io
capii che cosa volesse dire: _è mia_. Quell'essere, quella gioventù,
quella grazia mi appartenevano. Io potevo prenderla fra le mie braccia
quando volevo, carezzare i suoi capelli, baciare la sua fronte, le sue
mani, la sua bocca. Io la sentivo parlare, la vedevo andare e venire
per la casa--per la _nostra_ casa--ridere, vestirsi, dormire. Io
vedevo le cose che ella vedeva, toccavo ciò che ella toccava, usavo
gli stessi oggetti, leggevo gli stessi libri: una dolcezza
incredibile.

«Bambino, la mia felicità consisteva nel possedere una scatola di
soldatini di piombo, col comandante a cavallo, i tamburi e il
porta-bandiera. Io li schieravo sopra un tavolo, e li facevo manovrare
per due, per quattro, a plotoni contrapposti; ed il pensiero che tutte
quelle piccole imagini di esseri mi appartenevano, mi riempiva di
orgoglio e di contento. Ora, in cambio dei soldati, avevo una creatura
di carne e d'ossa, e non v'era bisogno di spingerla per farla
manovrare. Mia moglie non stava due minuti ferma in un atteggiamento,
mutava di abiti tre o quattro volte il giorno, si appoggiava al mio
braccio, mi sedeva sulle ginocchia. Io possedevo una cosa nuova,
meravigliosa, inapprezzabile: _una vita_.

«Come l'avevo acquistata? Dando in cambio la mia. Io ero tutto per
lei, nelle opere e nei pensieri. Vedevo delle altre donne, più belle
di lei, più seducenti, più corteggiate; ma mi trovavo dinanzi ad esse
nella posizione di uno che avendo già un mazzolino di viole
all'occhiello, ammira delle rose, dei giacinti, delle camelie, ma non
saprebbe che cosa farne. Il mio cuore e la mia casa erano vuoti; ella
li aveva popolati; non c'era più posto per nessuno. Il codice che il
signor sindaco ci aveva letto, parlava dei diritti del marito, degli
obblighi della moglie, e che so io. Queste cose mi parevano assurde.
In casa nostra non si comandava nè si ubbidiva. Con qual dritto avrei
ingiunto a mia moglie: Fai questo o quest'altro? Coi soldatini, passi;
li potevo schierare come volevo, raggrupparli, sbandarli, rovesciarli.
Ma i soldatini stavano sempre a spall'arme. Mia moglie aveva dei
muscoli, dei nervi, una volontà; e in ogni atto della vita la sua
volontà valeva quanto la mia. L'uomo e la donna mi parevano due esseri
diversi, ma equivalenti. Quando eravamo d'accordo, la questione era
risolta. Nel caso contrario, io mi uniformavo al suo giudizio.
Contrariarla, avrebbe forse potuto dispiacerle; secondarla, faceva
certo piacere a me.

«Io non sono un'aquila d'ingegno, tuttavia spesso, nelle nostre
discussioni, mi accorgevo della mia superiorità intellettuale. Ma
rinunziavo a sfoggiare il mio sapere per darla vinta a lei. Talvolta,
ella fraintendeva i miei ragionamenti e mi faceva la lezione;
preferivo passare per sciocco, anzichè dimostrarle che aveva torto.

«Quanto all'economia della casa, era stata lei a rifiutarne la
direzione; diceva che non vi aveva testa. Amministrando la sua dote,
io ne prendevo soltanto quel che rappresentava la quota di lei nelle
spese comuni; tutto il resto era a sua disposizione, veniva investito
in proprietà sua personale.

«Ella m'era riconoscente di tutto questo; mi diceva che mai più
avrebbe sperato di trovare un uomo come me. Io non credevo far nulla
di straordinario; avrei davvero voluto farlo per dimostrarle il bene
che le volevo. Certe mie fanciullaggini dei primi tempi le parevano
molto care; io ne trovavo sempre di nuove finchè mi accorsi che
cominciavano a stancarla. Infine, non era ragionevole che ella
passasse le sue serate in casa a sentirsi dire che l'amavo. Le visite,
gli spettacoli, il giuoco--che so io--tutta la vita esteriore aveva
poche o punte attrattive per me; per una signora la cosa era diversa.
Ella aveva delle relazioni da mantenere, una figura da fare. A teatro,
io soffrivo qualche poco nel vederla, con le braccia nude, la gola
scoperta, fatta segno agli sguardi indiscreti della folla. Volevo bene
che ella splendesse, ma sentivo una gran voglia di dire a quei
curiosi: «Imbecilli, che cosa state a guardare? Ella non è per voi.»
Ancora, ella aveva un certo modo di mettersi il mantello, dinanzi al
davanzale del palco, che mi pareva iniziasse la gente al mistero della
sua toletta; mi pareva che, vedendola coprirsi a quel modo, la gente
l'imaginasse che si svestiva....

«Al ballo, era peggio. Degli uomini potevano passarle un braccio alla
vita, tenerla per mano, parlarle all'orecchio. Avrei voluto una
restaurazione borbonica per essere ministro di polizia e proibire
quell'uso; non far ballare nessuno perchè non ballasse lei. Poi, mi
pareva che quanta più gente la conoscesse, quanta più gente potesse
sentire la sua voce, stringere la sua mano, entrare nella sua
intimità, tanto minor prezzo avrebbero avute queste cose, tanto meno
ella sarebbe stata mia. Tutto questo me lo tenevo per me; capivo che
erano delle fisime, ed ero anzi il primo a proporle di andare in
società. Non volevo increscerle con le mie gelosie; perchè le volevo
bene non era già una ragione che l'annoiassi.

«Dicono che i mariti sieno gli ultimi a sapere dei casi loro. Sarà; la
mia esperienza mi prova tutto il contrario. I miei casi, non solamente
io non li sapevo degli ultimi, ma li prevedevo. Vi era una persona che
io avrei voluto specialmente non far conoscere a mia moglie: un
ex-ufficiale che era stato mandato a casa per aver fatto dei torti
domestici ad un suo superiore, e che ora, dopo essere passato per il
giornalismo e per le lettere, si era dato alla politica. Non si
parlava che di lui, del suo coraggio, dei suoi duelli, del suo stile
affascinante, della sua meravigliosa eloquenza, dei suoi successi con
le donne. Non volevo che mia moglie si trovasse in presenza di costui.
Ella mi aveva domandato di presentarglielo. Le avevo promesso di sì,
ma finsi una malattia il giorno che si doveva andare ad una festa di
beneficenza organizzata da lui. Un'altra volta, al caffè, feci mostra
di non riconoscerlo. Mia moglie mi aveva chiesto: «Non è quello?» La
sua premura a notarlo mi aveva messo un verme nel cervello. Io avrei
voluto prenderla per mano, e dirle: «Vediamo: che cosa vuoi farne di
questa conoscenza? È un uomo pericoloso. Se tu sei sicura di te
stessa, vuol dire che ti è indifferente; se non sei sicura, bisogna
evitarlo.» Questa mi pareva logica, ma la tenevo per me. Le avevo
invece portati certi libri di quel tale, gonfii e vuoti come vesciche,
nell'idea ch'ella si persuadesse del loro valore. Dichiarò che erano
bellissimi, e innanzi alla gente insistette sulla diversità dei nostri
gusti. La cosa, ripetuta, era venuta necessariamente all'orecchio
dell'autore; egli mostrava di non badare a mia moglie, non ci salutava
quando eravamo insieme.

«Un giorno, ella lo incontrò da una sua amica. Tornando a casa, me lo
disse; io le manifestai la mia compiacenza. Dentro, mi rodevo. Mandavo
al diavolo quell'amica, avrei voluto partire immediatamente per
evitare che colui venisse in casa mia. Lasciò soltanto, dentro la
settimana, una carta di visita. Una seconda volta s'incontrarono, me
assente. Questa volta ella non me lo disse.

«La giustizia considera gli atti, non le intenzioni. Si arresta chi ha
commesso un crimine, non chi va a commetterlo. Ciò è giusto; però, se
si arrestasse prima, il crimine non sarebbe commesso. Così, per essere
troppo elementari, certe verità fanno ridere.... Quell'uomo, dunque,
voleva rubarmi mia moglie. Fingeva di non osservarla perchè lo
osservasse lei. Il suo giuoco riusciva. Se io fossi andato dal
procuratore del re, questi si sarebbe messo a ridere. «Lasciate che ci
sieno dei colpevoli, e la giustizia seguirà il suo corso.» Se io fossi
andato dal ladro, il ladro si sarebbe potuto offendere per giunta.
Avremmo potuto anche batterci. Probabilmente avrei avuto la peggio;
sarei stato ridicolo. Se lo avessi ferito, egli sarebbe stato
compianto. Restava mia moglie.

«Mia moglie diceva che i mariti hanno torto a prendersela cogli
amanti; questi non otterrebbero, anzi non domanderebbero nulla, se la
donna non fosse disposta a concedere, e se non lo facesse capire. Ella
aveva ragione. Il ladro fa il suo mestiere, che è quello di rubare.
Quando si tratta di un oggetto, ci sono le casse forti. Trattandosi di
una persona, bisogna che questa abbia l'intenzione di non lasciarsi
prendere. Ora, mia moglie aveva o non aveva questa intenzione. Se
l'aveva, i miei discorsi sarebbero stati inutili, anzi dannosi, perchè
la avrebbero offesa. Se non l'aveva, glie l'avrebbero fatta venire.

«Così diceva il ragionamento. Poi, io avevo voglia di strapparmi i
capelli. Io non volevo che mi rubassero mia moglie. Quell'altro aveva
avuto ed aveva molte donne, quante glie ne piacevano; io avevo lei
sola. Era la donna mia; mi apparteneva, perchè io le apparteneva. Io
non l'avevo rubata; io ero in regola con la mia coscienza, col mondo,
con lei; con tutto e con tutti.

«Non avevo il coraggio di dirle: «Tu pensi a tradirmi.» Mi pareva una
umiliazione per entrambi. Per risparmiarla a lei, mi umiliavo io.
Spiavo le mosse di quell'uomo, gironzavo intorno a casa mia,
intercettavo la posta. Un giorno trovai una lettera nascosta dentro un
giornale di mode sotto fascia. Mi parve d'impazzire. Presi la lettera
e la consegnai a lei senza aprirla. Le chiesi soltanto chi le
scrivesse. Ella arrossì, rispose di non conoscere il carattere, lesse
la lettera e la stracciò dicendo che era un anonimo impertinente.

«Mi dava ora maggiori dimostrazioni di affetto, mi parlava dei
pericoli a cui una donna si trova esposta, voleva che io la
sostenessi. Era il mio dovere ed il mio piacere. Per un poco, parvero
ritornati i tempi della luna di miele. Durò meno dell'altra. Ella era
divenuta inquieta, nervosa. Pareva l'avesse con me. Io non facevo
nulla da dispiacerle.

«Verso capo d'anno, fu annunziata la visita di quel tale. Io mi feci
coraggio; le dissi: «Non lo ricevere.» Rispose che sarebbe stata una
sconvenienza. Non passai di là; li lasciai soli.

«Egli faceva il suo mestiere di ladro; io non potevo afferrarlo pel
colletto e condurlo al posto di guardia. Vedevo la situazione
nettissimamente, non mi accecava nè l'amore, nè la fiducia, nè la
gelosia. Calcolando tutto, vedendo la freddezza crescente di lei,
indovinando il pericolo, un giorno le dissi press'a poco così: «Siamo
stati felici finora, nè io potrei esserlo più senza di te. Però, se tu
non mi vuoi più bene, se sei stanca di me, se ti dispiaccio, io non
voglio fare la tua infelicità. Non abbiamo figliuoli; ritorna a casa
tua. Resteremo buoni amici, serberemo un bel ricordo dei giorni
passati insieme.» Che cosa potevo fare?

«Ella protestò, commossa, che era sempre quella di prima, che le
facevo male parlando così. Allora le proposi di andar via insieme;
accettò. Partimmo. Il ladro ci venne dietro--come un ladro, di
nascosto, senza farsi vedere. Un giorno, lo incontrammo faccia a
faccia. Io dissi a mia moglie: «Hai visto chi ci ha seguito?»
Dapprima, parve non avesse capito; poi si mostrò offesa: chi mi aveva
dato il diritto di sospettare? Poteva dire alla gente di restarsene a
casa?

«A casa, ci tornammo noi. Poichè non riuscivo a sbarazzarmi di colui,
non valeva la pena di andar girando per il mondo. Io non amavo quella
vita instabile, pensavo alla tranquillità delle mie abitudini, alle
dolcezze del focolare domestico. Di queste dolcezze, mia moglie era
sempre la più grande; fuori di lì mi pareva che mi appartenesse meno.

«Passò così del tempo. Qualche volta, io ero triste per lei come al
pensiero di una persona cara che sia affetta da una malattia
incurabile.... Non avevo testa da far nulla, un freddo mi passava da
capo a piedi e mi pareva che il mondo stesse per finire. Vedevo quel
che si preparava, e temevo di comprendere che era lei a volerlo.
Allora, che cosa potevo farci?... Poi, mi persuadevo d'ingannarmi,
speravo che tutto questo fosse un prodotto della mia fantasia, della
mia paura. Ella non era nè triste, nè lieta; mi pareva un poco
annoiata. Con me, era piuttosto fredda; capivo che il pericolo sarebbe
stato nel caso contrario. Quell'uomo era ingolfato in affari politici,
agitava il paese, non aveva tempo da scrivere una lettera.

«Le lettere anonime sono una provvidenza. Data la fondamentale
vigliaccheria umana, è provvidenziale che si possa far risapere una
cosa o dare un consiglio senza arrischiar nulla. Mi scrissero che mia
moglie era andata, un certo giorno, in una certa casa, a trovare
quell'uomo.

«Quando si dice che una cosa è inverosimile, che non vi si può
credere, si fanno delle frasi. Io vi credetti subito. Mia moglie era
lì, dinanzi a me, e ad un tratto mi parve che ella fosse tutta
macchiata, tutta contaminata, e che se io l'avessi toccata soltanto
con un dito quella bruttura mi si sarebbe attaccata addosso.... Le
mostrai la lettera. Come ella mi vide gli occhi, si alzò di scatto. Io
le domandai che cosa avesse fatto quel giorno. Sostenne il mio
sguardo: perchè le facevo quella domanda? Le dissi io quello che aveva
fatto. Negò altamente, mi accusò di prestar fede alle calunnie.
Allora, io le ripetei tutti i particolari della lettera, e come li
enumeravo, ella si turbava. Finì per ricascare sulla sedia, col viso
tra le mani. Continuando, io le dissi: «Perchè hai fatto questo? Avevi
da lagnarti di me? delle rappresaglie da esercitare? Non mi accettasti
tu forse di tua libera elezione? Ti ho forse voluto bene meno di
prima? Non ti avevo lasciato libera di andartene? Che cosa ti ho
fatto?»

«Qui, mi cadde ai piedi, domandandomi perdono. Non c'era stato nulla
di male, me lo giurava dinanzi a Dio; era andata perchè quell'altro
minacciava di ammazzarsi, di fare uno scandalo, di provocarmi. Era
stata leggera, ne conveniva; avrebbe dovuto consigliarsi con me; se ne
pentiva amaramente, mi domandava perdono....

«Sì, il perdono.... Ero io sicuro che ella non avesse ragione, che non
l'avessi sospettata a torto?... Poi, io non potevo cacciarla via, io
non potevo vivere senza di lei....

«Di questo ella ora mi minacciava. I miei sospetti l'avevano offesa,
ed il perdono non era bastato. Ella era diventata irritabile,
insofferente, trovando ogni giorno una ragione di muover lite,
asserendo che morta la fiducia, la vita in comune non poteva più
durare. Io mi facevo sempre più umile, sempre più paziente, sempre più
premuroso; la vita senza di lei mi sarebbe parsa una nera cosa....
Poi, avrei voluto dirle che sapevo il motivo di quella sua
irritabilità, di quelle sue provocazioni, che il motivo era il
pensiero dell'altro, di cui ella non si era scordata.... ma non lo
dicevo, per non soffiare sul fuoco. Ero molto triste, ma nascondevo la
mia tristezza; se no, che merito avrei avuto del mio perdono?

«Un giorno, passando nella sua stanza da lavoro, le annunziai: «C'è di
là Filippo.» Filippo era il giardiniere; anche _quell'altro_ si
chiamava così. Come ella fece un moto repentino e mal represso, io le
dissi, tranquillamente, quasi ridendo: «Non è lui, è il
giardiniere....» Ella scattò in piedi, mi colmò di rimproveri, andò a
chiudersi in camera. Aspettavo impazientemente l'ora del desinare; ero
pentito di quel che avevo detto, volevo abbracciarla, domandarle
scusa, dirle infine che tutto questo non era ragionevole.... Quando fu
l'ora, ella non comparve. Era andata via da sua madre; la mia casa era
deserta....

«Quella casa, la _nostra_ casa, come aveva potuto lasciarla? Il colpo
fu duro; mi pareva come una morte, come quando la mamma se ne era
andata. Poi mi facevo una ragione: se non voleva più stare con me,
potevo obbligarvela con la forza?

«Un giorno, ricevetti la visita di sua madre. Mi annunziava che ella
aveva presentata domanda di separazione; che allo stato in cui erano
le cose era il meglio che si poteva fare. Sta bene, non mi sarei
opposto; domandavo soltanto, per curiosità, per quella curiosità che
gli ammalati hanno delle cause dei loro mali, che cosa ella aveva da
dire contro di me. Mi rispose questo: che io non l'amavo più.... «Ed è
lei che lo dice? e quale prova ne dà?» La prova era questa: che io non
ero geloso.... Mi venivano in bocca delle parole amare; le ingoiai. Le
recriminazioni mi sono sempre parse inutili, qualche volta un poco
ridicole per giunta.

«Comparimmo, dapprima separatamente, dinanzi al signor presidente per
l'esperimento della conciliazione. Dissi al magistrato tutta la
verità; la verità ha un accento che la fa riconoscere: egli comprese
che non mentivo. Condannava però il mio consenso alla separazione:
lasciata a sè sola, quella donna si sarebbe perduta. Fummo messi in
presenza l'uno dell'altra, la rividi.... Ella non potè sostenere il
mio sguardo; se lo avesse sostenuto, vi avrebbe letto un dolore
infinito.... Il presidente era deciso a spuntarla, vi metteva la sua
coscienza di uomo onesto ed il suo amor proprio di funzionario. Ella
era imbarazzata, confusa, intimidita. Ad uno ad uno, egli ribattè
tutti i suoi fiacchi argomenti, la fece convenire del suo inganno, e
la costrinse a confessare di essere stata messa su, di aver tutto da
perdere nel lasciarmi.... La riebbi.

«Credevo di aver fatto un brutto sogno. Ritrovandola al mio fianco, in
casa mia, come ai giorni lontani, mi sentivo tornare da morte a vita.
Ero stato pazzo di lasciarla libera di abbandonarmi! Riconoscevo la
mia parte di colpa. Ella aveva avuto ragione accusandomi di non esser
geloso; la gelosia è una prova d'amore. Io ero stato geloso in
silenzio, dentro di me, per timore di increscerle; avevo sbagliato. Le
donne, alle volte, vogliono essere dominate.

«Come le dimostrai la mia gelosia, come le dissi soltanto che
_quell'uomo_ era indegno di lei, si mostrò offesa, non mi parlò per
due giorni.... Ella mi aveva mentito: aveva dato retta a quell'uomo,
era stata da lui indotta a lasciare la mia casa, e non avendo
resistito alla prova del confronto dinanzi al magistrato, teneva ore
secrete conferenze con un avvocato, per riprendere il processo di
separazione....

«Non potevo più illudermi: era un'indegna, e non sapevo vivere senza
di lei. Misurando tutta la mia abiezione, presi un giorno il mio
revolver e pensai di uccidermi. Scrissi un testamento, che esiste
ancora, e fui per eseguire il mio disegno. Sul punto di morire, volli
tentare un ultimo passo. Chiamai mia moglie in camera mia e chiusi
l'uscio. Come mi vide fare quell'atto, come scorse il revolver ancora
sul tavolo, si slanciò verso la finestra, per chiamare aiuto.... Io
l'afferrai alla vita, le caddi in ginocchio, le baciai le mani,
dicendole tutta la stoltezza della sua paura. Parlai, parlai, parlai.
Le tenni il linguaggio dell'amore, della speranza, del comando, della
preghiera, della fede, del perdono; le ricordai il passato, la feci
libera dell'avvenire, le dissi che volevo uccidermi.... Ella si
scosse. Ancora una volta, avevo vinto.

«Mezz'ora dopo, andò fuori. Io rimasi in camera mia, a pensare. Sul
tardi, rincasò e mi venne incontro. L'avvocato era con lei. Veniva per
dirmi che voleva andarsene via, che non voleva restare con me.
Come?... ancora?... perchè?... Le domande mi si affollavano alla
mente. Non domandai nulla. Dissi: «Sia pure....»

«Come la vidi allontanarsi, mi slanciai contro di lei. Volevo almeno
abbracciarla un'ultima volta, volevo almeno vederla, se partiva per
sempre.... Ella dette un grido, chiamando al soccorso. Due guardie,
rimaste in sala, comparvero.

«Come vidi le guardie in casa mia, corsi al tavolo, afferrai il
revolver, l'uccisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Questo direi ai signori giurati, se l'avessi uccisa. Io non l'ho
uccisa, l'ho vista andare via per sempre, vivo da lunghi giorni nel
deserto di questa casa ancora tutta odorante di lei, apro ogni tanto
l'album che racchiude il suo ritratto, lo bacio e piango.»



IL RITRATTO DEL MAESTRO ALBANI.


Mentre Anastasio Natali dava gli ultimi tocchi al suo quadro della
_Ginestra_--un orrido e deserto paesaggio vulcanico, tutto asperità,
crepacci, lastroni, fra i quali, a mazzi, a ciuffi, a boschetti, i
gialli fiorellini mettevano come una nevicata d'oro--la tenda che
mascherava l'uscio d'entrata fu rimossa, e la figura del maestro
Albani apparve a metà.

--È permesso?

--Avanti.

L'Albani entrò, col cappello in mano; si avvicinò rapidamente al
cavalletto, e dato uno sguardo alla pittura, disse:

--Bellissimo, perfetto, meraviglioso, sublime.

Nel pronunziare questa progressione di aggettivi ammirativi, la sua
voce non era salita di un tono. Con maggiore espressione si sarebbe
detto: Buon giorno, ti saluto; stai bene?

Come restava lì, impalato, dietro le spalle del Natali, questi
cominciò a soffiare, e abbassando pennelli e tavolozza:

--Se non ti levi di lì--esclamò--non potrò fare più nulla.

--Sarebbe un peccato.

E, scostatosi, l'Albani si guardò attorno, in cerca di una sedia.
L'impresa non era agevole. Un'artistica confusione regnava nello
studio, e i drappi dai colori smaglianti, i costumi antichi, i libri
dalle ricche legature, gli album di fotografie, le scatole dei colori
si ammonticchiavano sopra le quattro o cinque sedie spaiate e di
vecchio modello che parevano perdute nella vastità dello stanzone.
Solo un teschio mancante delle mascelle troneggiava sopra uno sgabello
di legno scolpito, accanto alla mensola _rococo_. L'Albani si diresse
da quella parte, prese il teschio per le occhiaie e si mise a sedere.

Allora, il silenzio si fece profondo. Nascosto in fondo a un aranceto,
invisibile dalla stradicciuola per la quale i carri non potevano
passare, lo studio del Natali era un vero romitaggio.

--Ci siamo!--esclamò finalmente il pittore, dopo una mezz'ora di
lavoro silenzioso, e buttati da canto tavolozza e pennelli, levatosi
in piedi e indietreggiando di qualche passo con una mano sugli occhi a
guisa di visiera, si mise ad esaminare l'opera propria. Luigi Albani
lasciò anche lui di misurare in tutti i sensi il cranio che teneva
ancora sulle ginocchia, lo posò sulla mensola, vi adattò sopra il suo
cappello e si fece incontro all'amico.

--Dunque, ti piace davvero?--chiese il pittore.

--È un imbratto.

Il Natali lo guardò un istante. Poi, scrollando le spalle:

--Ah, sì; hai ragione! Dimenticavo di parlare col maestro Albani.

--Cioè, col critico più acuto dell'ex-regno delle Due
Sicilie,--rispose l'altro, senza scomporsi. E avvicinatosi al quadro,
accompagnando le proprie parole con gesti sobrii e compassati,
riprese:

--Prima di tutto, questa lava è di cioccolata; come _réclame_ nelle
scatole del Suchard sarebbe impagabile. Poi, il cielo è oleografico e
le nuvole sono di bambagia. Toccale, e vedrai che si sfilaccicano.
Ora, bisognerebbe parlare del soggetto....

--Eh! parliamone pure!--esclamò il pittore sorridendo. E accesa una
sigaretta, sedette incrociando una gamba sull'altra e guardando
curiosamente l'Albani.

--Il soggetto, a tuo vedere, dovrebbe essere pieno di filosofia; il
fiore nel deserto, l'antitesi eterna della natura che sorride mentre
tende le sue insidie, o che insidia mentre sfoggia i suoi sorrisi--a
piacere. Sta bene. Solamente, per maggiore intelligenza, ti
consiglierei di imitare quel pittore polacco che, esponendo un quadro
rappresentante _L'ultima composizione di Mozart_, faceva eseguire, da
suonatori nascosti dietro la tela, la _Marcia funebre_ del maestro. Se
vuoi, potrei declamare io stesso i versi del Leopardi.

E, passando dall'altro lato del cavalletto, il maestro Albani
cominciò:

    --Qui mira e qui ti specchia,
    Secol superbo e sciocco,
    Che il calle insino allora
    Dal risorto pensier segnato innanti
    Abbandonasti....

Non potè continuare. Anastasio Natali rideva a crepapelle, con le mani
ai fianchi, rovesciando indietro la sua forte testa dagli arruffati
capelli castagni.

--Ah! ah! ah!... bellissimo!... ah! ah! ah!... Non c'è che il maestro
Albani per avere di queste idee!...

L'altro lasciò il suo posto, e aspettato che l'amico si calmasse,
riprese a parlare passeggiando lentamente per lo studio:

--Tu ti credi moderno, ma sei più antico del tuo Leopardi, che si è
sbagliato di venti secoli. Con questo sistema delle antitesi e delle
allegorie, ti potrebbe finir male. Se vuoi fare della filosofia,
scrivi un trattato, non dipingere un quadro....

--Eh! il discorso non è poi tanto da matto!

--E se ti sta tanto a cuore l'espressione, cercala dove va cercata....

--Cioè?

--Nelle nobili fattezze del re del creato.

L'abituale freddezza d'accento di Luigi Albani si era fatta ancora più
grande, e nel tono strascicante con cui aveva pronunziate quelle
parole quasi ripetendo una frase mandata a memoria, v'era un'ironia
così sottile ed acuta, che il Natali si voltò a guardarlo. Ora, egli
si dirigeva in fondo allo stanzone, verso la mensola. Arrivato lì
vicino, ricominciò:

--Le nobili fattezze del re del creato sono ancora piene d'espressione
dopo distrutte. Ecco, per esempio, un quadro molto espressivo: questa
mensola Luigi XV, con questo cappello 1887 sopra un teschio che può
essere di tutti i tempi e di tutti i paesi.--Poi, preso il teschio e
mettendosi a considerarlo attentamente.--Ed ecco un altro quadro: il
problema d'Amleto, essere o non essere, cioè se è meglio.... Tu
dovresti fare il mio ritratto così.

Anastasio Natali scosse le spalle e si fregò fortemente le mani, segno
che stava per rimettersi al lavoro.

--A noi due, stravagante; ho un'ora perduta, e se mi prometti di star
buono e di lasciare in pace il teschio, ti butto giù un pastello.

--Vorrà essere una cosa molto originale.

Il Natali mise a sedere l'amico, dispose il cartone sopra una
tavoletta, prese la scatola dei pastelli, sedette anche lui, e
cominciò a tracciare, con la sua febbrile impazienza di meridionale
nervoso, le prime linee. Però, a misura che il suo lavoro avanzava,
l'attività dell'artista andava rallentando. Ora egli si fermava ad
ogni tratto, buttava il corpo indietro per giudicare dell'effetto,
guardava lungamente il modello, e aveva un piccolo aggrinzamento delle
guancie che dimostrava chiaramente il suo malcontento.

--Scusa, tirati più indietro.... no, più avanti.... Alza un poco il
capo.... così.... no, come prima.

Tornato al lavoro, ricominciarono le sue esitazioni. La figura era già
tutta abbozzata, la rassomiglianza in certo modo conseguita; mancava
una cosa soltanto: l'espressione.

--Apri un po' gli occhi.... non così, più chiusi.... insomma, non ti
sforzare.... E chiudi la bocca, se no c'entreranno le mosche!...

A poco a poco, il Natali cominciava a indispettirsi; gli pareva che
Luigi Albani si prendesse giuoco di lui.

--Insomma, vuoi star composto, o mando tutto per aria?

--Ti prego di credere che sono compostissimo.

Ed era quello, dunque, il suo atteggiamento naturale? Dacchè era
tornato da Roma, il Natali non aveva ancora guardato l'amico così
attentamente; non aveva ancora esaminati quegli occhi smorti, senza
sguardo, quei muscoli flaccidi, quasi cascanti, quelle labbra
leggermente dischiuse, quella carnagione scialba, quell'aria di
stanchezza, d'indifferenza, di noia, di vacuità diffusa sopra una
fisonomia impossibile a definire. Conosceva le sue bizzarrie, le sue
eccentricità che gli avevano fatta una reputazione di mattoide nei
cenacoli artistici; ma non lo sapeva ancora così strano, così
inafferrabile, come ora gli si rivelava non solo alla conversazione,
ma financo all'aspetto. Nondimeno, si rimise al lavoro, e dette ancora
alcuni tocchi; poi, ad un tratto, strappò il cartone e lo buttò da
canto.

--Cominciamo daccapo.

Era proprio impossibile ch'egli afferrasse quella fisonomia? Il Natali
ci si arrabbiava. A corto di risorse, egli mise in opera un espediente
disperato per uno come lui, avvezzo a non poter lavorare se non nel
più assoluto silenzio.

--Parla,--disse all'Albani,--racconta qualche cosa!

--Di che cosa vuoi parlare? d'arte?

L'Albani sviluppava le sue teorie, citava degli esempii, dava dei
consigli: ma nulla, nei suoi lineamenti, tradiva una qualunque
attività cerebrale; si sarebbe detto uno scolaro sonnacchioso in atto
di ripetere la sua lezione. Il pittore si era messo a contraddire
tutto quello ch'egli diceva, ad irritarlo, a provocarlo, nella
speranza che l'ardore della discussione mettesse almeno una scintilla
in quello sguardo. L'Albani non si dava per vinto, teneva testa alle
opposizioni, agli scherzi, ai sarcasmi dell'amico, ma il suo sguardo
restava freddo come la sua voce lenta, monotona, a momenti irritante.

Anastasio Natali non seppe più contenersi.

--Insomma, o sono imbecillito io, o sei tu che hai l'aria d'uno scemo.

Come un velo d'ombra passò sul viso del maestro Albani. Il pittore
alzò gli occhi al lucernario: era una nube che aveva oscurato il
sole?... La giornata era sempre tersissima.

--Che cos'hai? Ti senti male?

L'Albani si era passata una mano tremante sulla fronte.

--Non è niente, è che hai ragione.... Io sono stato un anno pazzo....

Il pittore stava per dire: «Un anno soltanto? vuoi dire un po'
sempre....» ma era tanta la tristezza dipinta in volto all'Albani, che
chiese invece premurosamente:

--Tu?

--Io stesso.

--E come?... perchè?... Mentre io sono stato fuori?... Nessuno me ne
ha detto niente.... E come?... perchè?...

--Perchè?... Per aver voluto innalzarmi da terra, per aver voluto
stringere delle nubi, per essermi dimenticato che ero la più
miserabile delle creature: un uomo!...

Dimenticando il suo pastello, Anastasio Natali esclamò:

--Allora, sentiamo.

                                  *
                                 * *

L'Albani lasciò cadere la testa sul petto, socchiudendo gli occhi.
Poi, scuotendosi:

--Ti aspetti tu forse qualcosa di straordinario? delle avventure rare
od intricate?... È una storia semplicissima, la storia di una passione
come se ne possono vedere tutti i giorni. Soltanto, era la mia prima
passione....

--O tua moglie?

--Mia moglie? Ah, tu credi che io l'abbia amata di amore? che io
l'abbia presa di mia propria volontà?.... Me l'hanno data a diciannove
anni, perchè era mia cugina, perchè avevano stabilito che dovesse
esser così.... Le ho voluto bene, in un certo modo. Che cosa sapevo
della vita fino a venticinque anni? Che cosa sapevo in quel miserabile
paese, dove un libro era un oggetto della più grande rarità? Eppure,
qualcosa bolliva dentro il mio cervello!... Si venne a Napoli.... Il
mio scontento, l'irrequietezza, l'aspirazione a qualcosa d'aspettato,
di quasi promesso, ma che non veniva ancora, diventava tormentosa.
Intorno a me, non sentivo parlare che di una cosa, del solo grande
affare della vita: l'amore.... E l'amore io non lo conoscevo se non di
nome o nelle fanciullaggini dei quindici anni....

Preso dall'interesse della narrazione, Anastasio Natali aveva
dimenticato il suo disegno, e coi gomiti sulle ginocchia e la testa
fra le mani, pareva pendere dalle labbra dell'amico.

--L'affetto di mia moglie--riprese l'Albani--mi irritava, come una
delusione, come una catena; non era mai stata bella, la maternità
l'aveva sciupata. Gli strilli dei bambini m'impedivano di studiare, le
poche volte che ne avevo voglia. L'arte mi pareva una finzione
suprema. Avevo già pronto il libretto di un gran melodramma, _Isaura
di Valenza_; non sapevo intanto mettere una nota dopo l'altra. Quella
poesia mi faceva l'effetto di una convenzione, di una menzogna, di una
ipocrisia.... Quando, un giorno, mi capitarono fra le mani i versi
dell'_Attesa_, ti ricordi?

    Ora dove sei tu, predestinata,
    Da tanto attesa e non trovata ancor?

Un lampo era passato negli sguardi del maestro Albani. Il Natali,
senza far rumore, si era alzato, aveva scelta una tela e dispostala
sul cavalletto si era nuovamente seduto dinanzi ad esso con la
tavolozza passata al pollice della mano sinistra.

--Sì che me ne ricordo!--e, preso posto dinanzi al cavalletto, si era
messo di nuovo a studiare la figura dell'amico.

--La romanza fu composta in un'ora--riprese l'Albani.--Dissero che era
una rivelazione; credo che abbia fatto il giro d'Italia. A che?... a
che?...--mi domandavo. Fu invece essa che mi dischiuse il paradiso
promesso. Mia moglie aveva regalato una copia della composizione ad
una sua amica, che io non conoscevo. Non volevo veder nessuno, fuggivo
le distrazioni, avevo la fama di un orso, di uno stravagante, di un
mattoide; non è vero?... Quest'amica volle conoscermi; cercai di
evitarla quanto più fu possibile; un giorno c'incontrammo. Credi tu
che vi possano essere degli sguardi coi quali un uomo e una donna che
non si conoscono, che si vedono per la prima volta, si dicano
immediatamente: Noi saremo l'uno dell'altra?... Uno di questi sguardi
brevi, profondi, fulminatori, fu quello che noi scambiammo.... Un mese
dopo, il 20 maggio, la nostra muta promessa era compiuta....

--Come fu?--chiese il Natali che, lavorando attorno alla sua figura,
non perdeva nè una parola nè un moto dell'amico.

--Che cosa importa?... Si doveva andare in giro, tutti e tre, con mia
moglie; all'ultima ora l'indisposizione d'un bambino la trattenne.
Andammo soli, fuori Grotta, a Pozzuoli, a Baja.... Che cielo! che
mare!... Conosci tu il boschetto che sta dietro il lago Lucrino, sulla
via della grotta della Sibilla? Il terreno è in pendenza; si procede a
caso, scostando i rami che vi sfiorano il viso. Attraverso il fogliame
del castagneto filtra una luce verde, fantastica, da _féerie_; par di
nuotare in mezzo allo smeraldo fluido.... Il 20 maggio!...

    Era de maggio e te cadeano 'nzino
    A schiocche a schiocche le cerase rosse....

Le rosse, le dolci, le fresche ciriegie erano le sue labbra....

Il maestro Albani si era alzato, di scatto, guardando fisso dinanzi a
sè, con un tremito in tutta la persona.

--Eccola lì, la simpatia, la leggiadria, la fantasia, la frenesia!...
il sogno fatto persona!... l'ideale conseguito!... Come l'amavo? Come
è impossibile dire!... L'arte? mia moglie? i miei figli? l'avvenire?
Dimenticato tutto, tutto! I pensieri di ogni istante, i sogni di tutte
le notti, erano per lei, per lei salute e morte mia! Le parole d'amore
che non avevo detto a nessuna, i baci d'amore che non avevo dato, i
tesori d'amore che avevo accumulato cupidamente in fondo all'anima, io
volevo spenderli per lei, tutti in una volta, con la pazza prodigalità
dell'avaro che guarisce del suo vizio! Io volevo darle tutto il mio
sangue! confondere la mia vita nella sua! inabissare eternamente il
mio essere nel suo!... O miseria! miseria!... Io dimenticavo di essere
un uomo, una creatura materiale soggetta alle miserabili leggi della
materia.... La mia fibra s'infiacchiva, la mia mente cominciava a
smarrirsi, i miei ricordi a confondersi; io ero malato, malato di
_lei_.... Mia moglie era messa a piangere in un cantuccio; io la
lasciavo, per andarla a trovare.... Il mio bambino agonizzava; io lo
lasciai per seguirla ancora.... A misura che il mio male cresceva, più
imperioso si faceva il bisogno di lei.... Che cosa avrei fatto della
salute, io che volevo annientarmi stringendola al mio petto, bevendo
il suo profumo, suggendo il miele delle sue labbra? O miseria! io non
potevo annichilirmi fra le sue braccia, io non potevo darle dell'amor
mio sconfinato quell'unica dimostrazione adeguata!...

Il maestro Albani si era nuovamente lasciato cadere sulla seggiola,
intanto che il Natali lavorava febbrilmente alla sua figura.

--Invece, i miei amici mi ammonivano, mi scongiuravano di fuggirla, di
tornare ai miei monti, per rifarmi, per combattere ancora le battaglie
dell'arte.... L'arte? Quale arte?... Un giorno mi condussero per forza
a S. Pietro a Majella; vi intesi dei frastuoni, delle cacofonie
irritanti.... Fuggirla? io? io che le stavo attaccato come l'ombra? io
che parlavo di lei a mia moglie, enumerandole le dolcezze dei _suoi_
baci, le furie delle _sue_ strette, i languori dei _suoi_ sguardi? io,
che al pensiero di lei mi mettevo a tremare da capo a piedi, come una
foglia?... Intanto, la vitalità che a poco a poco io perdevo, pareva
concentrarsi in lei; mai io l'avevo vista così floridamente bella, in
una così magnifica fioritura di tutto il suo essere.... Io sentivo ora
che sarei morto per lei; non come avevo sognato, ma d'una morte lenta,
continua, di tutti i giorni.... Sì, era questo! Che cosa importava?
Nessuna morte sarebbe stata più invidiabile!... Qualche volta,
subitamente ispirato, mi proponevo di scrivere qualcosa di grande, di
sublime, il canto del cigno, un'opera immortale che avrebbe attestato
alla posterità la forza di quella passione, ed in cui io sarei
sopravvissuto. Non era in quell'amore l'ispirazione attesa, affrettata
coi voti più ardenti, senza la quale il mio ingegno non avrebbe potuto
dare i frutti promessi?... E mi mettevo al pianoforte; ma le idee si
confondevano, una nausea mi vinceva, non ero buono a nulla; e davo dei
pugni sui tasti, delle pedate allo strumento, e stracciavo
rabbiosamente stampe e manoscritti... La gente che mi attorniava
raddoppiava d'insistenze, diceva delle menzogne: che ella era indegna
dell'amor mio! che ella mi tradiva!... Non mi davano più pace: una
persecuzione!... Come non capivano che facevano peggio? Che cosa
volevano da me? Non mi importava di perdere l'ingegno, non
m'importavano i suoi tradimenti, come dovevo dirlo?... E, infine, chi
erano tutti costoro?... Fuori!... via!... io non li conoscevo, non
sapevo che farmi di loro; _ella_ mi aspettava, comprendevano o no!...
Un giorno, arrivò mia madre. Appena mi ebbe visto, scoppiò in pianto.
Anche lei?... Perchè era venuta! Chi l'aveva chiamata? Chi aveva
bisogno di lei?... Afferrata al mio braccio, ella cercava di
trattenermi; io la urtai, violentemente.... Della gente mi afferrò; mi
dibattei, detti dei morsi, caddi....

                                  *
                                 * *

Stanco, sfinito, anelante, il maestro Albani tacque un istante.
Anastasio Natali non gli diè tempo di prender fiato:

--E poi?... e poi?...

--Poi, niente.... un gran vuoto nero, con qualche sprazzo di luce di
tratto in tratto.... Fui portato in una casa di salute.... Capisci?
aver sognato di non esser più in terra, di aver varcato le anguste
frontiere dentro cui si aggira l'umanità lamentosa, e risvegliarsi
paralizzato di corpo e di spirito, incapace di muoversi e di pensare,
ridotto un oggetto di compassione o di scherno!... Non ricordo più
nulla.... sì, il sorriso straziante di mia moglie, le grida festanti
dei miei bambini che giuocavano in giardino, le grida dei bambini
vestiti di nero.... perchè? Era la mamma che aveva finito di piangere
per me.... lo seppi più tardi, quando dissero che ero guarito....
Guarito? Io non avevo mai sofferto come allora. Io sonnecchiavo in una
incapacità spirituale che formava il mio tormento; passavo le mie
giornate a lottare con la memoria recalcitrante, con l'intelligenza
assonnata, con le visioni che venivano incessantemente a turbarmi....

Come l'Albani tacque ancora, Anastasio Natali che continuava
nervosamente nel suo lavoro, ripetè:

--E poi?... e poi?...

--Poi, ho finito.

--Ma la guarigione?

--Ah, sì! È avvenuta da qualche mese soltanto, e non è ancora, come
vedi, completa. Ero andato a passare qualche tempo al mio paese, a
respirare quell'aria balsamica, a riposare gli occhi nella
contemplazione del verde. Del mio paese io avevo dimenticato tutto: la
posizione, le strade, gli abitanti, la pronunzia. A poco a poco i miei
ricordi si districavano, si facevano meno confusi; mi sentivo tornare
alla coscienza di me stesso.

Un giorno, incontrai un compagno d'infanzia che non stentai molto a
riconoscere. Questa scoperta mi riempi di soddisfazione, e come
l'amico mi aveva pregato di andarlo a trovare, mi avviai verso la sua
casa. Aggirandomi per quelle viuzze strette, in salita, dove, ragazzo,
avevo tanto trottato, provavo una tenerezza, una contentezza, che
assaporavo deliziosamente, senza scoprirne la ragione. Come feci a
rintracciare la strada? Non lo so; io andavo, andavo, senza pensare
alla meta, ma sicuro di non mancarla.... Quando mi trovai nella via in
cui abitava l'amico, quando finalmente alzai gli occhi alla sua casa,
quello stato d'animo si fece più intenso. Che cosa mi dicevano quelle
mura? Niente, non sapevo dirlo; ma mi pareva che la Serenità dimorasse
lì. Salendo le scale, dovetti più volte fermarmi per dare ascolto a
ciò che sentivo dentro di me. Sai certi preludii chiari, freschi,
leggieri, che ti cullano, ti sollevano, ti trasportano lentamente su,
su, per gli spazii dell'etere? Dentro di me sentivo un che di simile.
Senza saper come nè perchè, ero nell'attesa di qualche cosa che mi
avrebbe colmato di gioia, ma in un'attesa che non aveva nulla di
tormentoso o di semplicemente irrequieto. Entrai.... Passavo di
meraviglia in meraviglia. Al preludio, era successo un canto sommesso,
delicatissimo, ineffabile. Io mi muovevo in mezzo a quelle vibrazioni
sonore.... Il mio amico si avanzava verso di me additandomi una donna
il cui viso restava nell'ombra. Come ella si voltò a guardarmi, il
canto cessò e una gran luce si fece in tutto il mio spirito.... Il mio
primo amore! la fanciulla che io avevo amata nella purezza
dell'adolescenza e che ora rivedevo, egualmente bella, egualmente
serena, cullare il suo bambino! la via di dove io ero passato tante
volte! la casa familiare! le scale che io avevo salito tremante, con
un mazzolino di fiori dei campi in mano! le finestre che io avevo
divorato cogli occhi, nell'attesa della diletta!... la casa che aveva
conservato il suo aspetto raccolto, sereno, mentre il fanciullo fatto
uomo ne derideva il ricordo e perdeva la ragione nel tumulto della
grande città!... Ella mi accolse come una sorella maggiore; aveva
saputo la mia storia, e mentre si girava per le stanze e si scendeva
in giardino, io sorprendevo in lei uno sguardo pieno di pietoso
interesse.... Io mi sentivo rivivere, sentivo la mente schiarirsi, gli
avvenimenti scordati rinascere nella memoria, i più piccoli, i più
insignificanti; mi pareva di essere tornato al tempo felice della mia
fanciullezza. Da quel momento, la pace si è cominciata a fare nel mio
spirito; da quel momento io sono ridiventato un uomo, e l'arte....

Anastasio Natali si alzò, di scatto, aprendo le braccia in croce con
un gran sospiro di sollievo.

--Ora, basta. Il ritratto è impostato....

All'esposizione della Promotrice, il ritratto del maestro Albani, la
cui _Isaura di Valenza_ era stato il successo della stagione, ottenne
il primo premio.



STUDIO DI DONNA.


I.

--La signora duchessa ha chiamato?

--Rimandate la carrozza. Portate via quei fiori. Non sono in casa per
nessuno, avete capito?

E come il cameriere si era inchinato a quegli ordini pronunziati con
voce breve e concitata, la duchessa di Neli si lasciò cadere sulla
_vénitienne_.

Una mezza luce filtrava delle stuoie abbassate ed il raccoglimento era
tutt'intorno profondo. I soffici tappeti, le tendine pesanti isolavano
ancora più completamente quel remoto _boudoir_ che la duchessa
preferiva per passare il suo tempo leggendo o lavorando, e dove ora
restava, abbandonata, con le mani sul viso, mentre l'ultimo romanzo
del Bourget mostrava il tagliacarte di tartaruga posto fra le pagine,
e un filo di seta partente da un canestrino e perdentesi sotto uno
sgabello tradiva ancora il gesto scomposto che aveva fatto ruzzolare
il gomitolo del ricamo.

A un tratto la duchessa si scosse, si levò in piedi e si diresse verso
lo specchio. Giunta lì dinanzi, sporse il capo; poi lo ritirò. Pareva
avesse una tentazione di guardarsi, ma ne fosse trattenuta dalla paura
di vedere uno spettacolo raccapricciante.... Ora teneva il gomito
appoggiato allo spigolo del caminetto, e l'indice fra le labbra,
rodendosi lentamente l'unghia e battendo con vivacità la punta del
piede. Ancora una volta si strappò alla sua cogitazione; avanzossi
verso la finestra, la schiuse e tirò su la stuoia. Alla chiara luce
che inondò il _boudoir_ azzurro ella si riaffacciò, questa volta
risolutamente, allo specchio e vi restò a lungo, guardandosi.

....Nessun dubbio era più possibile. Aveva sperato un momento che
fosse stata un'allucinazione, un giuoco di luce, un riflesso; ora il
dubbio non era più possibile. I suoi capelli imbiancavano, sulle
tempie, sulla fronte, dove si potevano meno nascondere! Da principio,
qualche anno innanzi, erano stati dei fili d'argento per cui si erano
destate in lei le prime vaghe malinconie del tramonto, ma che ella
aveva presto dimenticati dopo aver dato loro la caccia, strappandoli
dalla radice, con cura scrupolosa, senza dimenticarne uno solo. Per un
pezzo non erano ricomparsi. Poi, timidamente, nascosti, perduti tra le
selve folte e nerissime, i fili bianchi erano spuntati di nuovo; ma
così pochi, così radi, che ella, veramente, non se n'era curata. A
trentotto anni la marchesa Crollanza non ricorreva alle tinture? E la
piccola Annina Fiorelli, a diciotto anni--una bambina!--non era quasi
grigia? Che meraviglia dunque se, alla sua età, qualche filo d'argento
s'intrecciava fra le chiome corvine?... Però, da quella volta, non si
era più guardata attentamente, come di consueto; mentre la cameriera
la pettinava, ella volgeva altrove gli sguardi; un movimento istintivo
le faceva evitare di rivedere quelle macchie che le annunziavano la
prossima fine della propria bellezza. Ed ecco che quel giorno,
avvicinatasi inavvertitamente allo specchio accusatore, aveva scoperto
le ciocche bianche miste al lucente ebano della sua chioma!...

Il dubbio non era più possibile, l'illusione non era più permessa,
eppure ella non sapeva rassegnarsi alla triste scoperta.... Con un
gesto nervoso, portò le mani alla testa, buttò via il pettine a palo e
le forcine, e cominciò a disfare rapidamente il sapiente edifizio
della sua acconciatura. Dapprima le due grosse bande della nuca
caddero, disciolte, sulle spalle; poi quelle delle tempie le velarono
il viso. Visti così, un poco a distanza, in masse copiose, i suoi
capelli erano sempre meravigliosamente belli; bisognava avvicinarsi
allo specchio, bisognava prenderne delle ciocche in mano, dividerle,
allargarle, perchè i fili deturpatori apparissero. Quanti!...
Quanti!... Come non se ne era accorta finora? E ad ogni nuovo ciuffo
che ne scopriva, una vampa le saliva al viso. Avrebbe voluto chiudere
gli occhi, sottrarsi a quella vista angosciosa; ma non glie ne restava
la forza nella specie di fascinazione, di ipnotismo che le aveva
spalancato gli occhi e inchiodato lo sguardo.

Ella invecchiava! Fatalmente, inesorabilmente, il fiore della sua
bellezza intristiva, appassiva, moriva! Oggi erano i capelli che
imbiancavano, domani sarebbero state le rughe che si sarebbero scavate
nel marmo della fronte, nel velluto delle guancie; poi gli smalti dei
denti che si sarebbero scossi, che sarebbero caduti.... Era finita! Il
suo regno di donna cessava. Cessava allo stesso modo con cui era
cominciato: inutilmente....

--Inutilmente!

La parola, pronunziata con accento di profonda amarezza, si perdette
nel silenzio del _boudoir_. La duchessa di Neli si tolse dallo
specchio, e riannodati alla meglio i capelli andò a rovesciarsi sulla
sedia lunga. Ora tutta la sua vita, la sua vita monotona e vuota di
donna onesta le sfilava dinanzi. Meglio così!--si diceva--meglio la
vecchiaia! meglio la bruttezza! poichè bellezza e gioventù non erano
valse a nulla. Meglio che i suoi capelli imbiancassero: qualcuno forse
se ne sarebbe accorto, glie lo avrebbe detto! Che cosa avrebbe dunque
fatto di quella carnagione soave come polpa di frutta mature, di
quella bocca grande, vermiglia, odorosa, di quelle mani
aristocraticamente scarne, dalle dita lunghe e sfilate, di quelle
braccia forti e delicate ad un tempo, di quelle forme agili, eleganti,
piene di grazia; che cosa ne avrebbe fatto, lei che nessuno aveva
amato, che nessuno amerebbe? Avrebbe dovuto esser ancora bella per suo
marito, per quell'egoismo fatto persona, per quell'uomo che le
procurava tutti i fastidii della gelosia senza nessuno dei compensi
dell'amore?... Erano dieci anni che durava la sua condanna, dieci anni
durante i quali un coro di lodi e di ammirazioni le si era levato
dintorno. Il gran pro che ella aveva ricavato dalla sua onestà! La
gratitudine di cui l'aveva pagata suo marito, le avventure del quale
formavano la favola della provincia e la colmavano di ridicolo!...
Infine, le era diventata di peso quella inutile onestà! Una voce di
ribellione le saliva alle labbra. Erano dieci anni che durava la sua
condanna, ma ella ne aveva trentacinque, degli anni! Trentacinque, nè
più nè meno; perchè nasconderlo ancora? perchè mentire ancora a sè
stessa? con quale profitto? Non lo portava ora scritto nella persona,
in quei capelli bianchi che fra poco avrebbero preso il sopravvento? E
a trentacinque anni ella era ridotta ancora a fantasticare come a
quindici! Nell'età in cui le altre cominciavano a vivere di ricordi,
ella era condannata a nutrirsi di speranze, di speranze che si
facevano ogni giorno più chimeriche, e di cui presto ella stessa
avrebbe apprezzato tutto il ridicolo!

Ancora una volta, la duchessa di Neli si scosse dalla sua meditazione
e sollevò la testa. Una semioscurità regnava nella stanza. Ella si
alzò e si fece alla finestra. La giornata si era coperta; dei nuvoloni
grigiastri si rincorrevano, sospinti da un vento che scuoteva le
foglie appassite dagli alberi del viale, e le spargeva turbinosamente
dintorno. Non una carrozza, non un passante. Il grigio plumbeo di quel
cielo autunnale pareva pesasse sulla terra, la opprimesse, togliesse
il respiro ad ogni creatura vivente.

--Meglio così....--disse ancora a bassa voce la duchessa di Neli,
guardando quel cielo schiacciato, la cerchia ristretta dell'orizzonte,
gli alberi mezzo spogli, e trovando una secreta corrispondenza fra la
malinconia delle cose in quella stagione e la disposizione del proprio
spirito. Era l'autunno che oramai le conveniva, l'autunno in campagna,
dove è ancor più visibile il mancare del verde, il ritirarsi del sole,
tutti i sintomi dell'agonia della natura.

E come ella si compiaceva di aver fatto portar via il mazzo recatole
dal suo giardiniere, il domestico comparve di nuovo sull'uscio.

--La signora duchessa è servita.

Passata nella sala da pranzo, preso posto alla tavola dove il duca
batteva la marcia con le posate, fiutando ogni cosa, allungando la
testa da una parte e dall'altra come un ragazzo malavvezzo, la
duchessa disse, con voce breve:

--Domani andrò in villa.

Il marito la guardò, sorpreso da quell'insolito accento di
risoluzione. Ma un sentimento di soddisfazione gli si dipinse subito
in volto.

--Era quello....--Poi, quasi pentito.--Non è una bella stagione. Del
resto, fai come ti piace. Puoi dare gli ordini opportuni.


II.

Nulla dispone lo spirito alle lunghe fantasticherie, alle lente
evocazioni del passato, quanto certe grigie giornate d'ottobre,
allorchè le nuvole sfilano in processione, le une sulle altre, confuse
e nondimeno distinte, allo stesso modo che le imagini degli
avvenimenti trascorsi. Gli uni sugli altri, i ricordi passano pel
cielo della memoria e, lieti o tristi, è in essi sempre un'intima
malinconia, forse come effetto della stessa inazione in cui sono
lasciate le vive energie dell'organismo.

In un simile stato d'animo si trovava Guido Olderico nella spianata
del romitorio di San Francesco, sull'orlo della ripida scoscesa da cui
l'occhio dominava l'immensa verde vallata cosparsa di ville e di
casolari che, da quella distanza, prendevano l'aspetto di giocattoli
disseminati a casaccio dalla mano irrequieta d'un capriccioso
fanciullo. Il cielo era coperto, ma l'aria mite, e il verde degli
sterminati vigneti ancor fresco. Di tanto in tanto, da un campanile di
villaggio, arrivavano i suoni delle ore; dei galli cantavano nella
lontananza; nessun altro suono turbava la pace di quella solitudine.
Seduto sopra un sasso, coi gomiti appoggiati alla balaustra che girava
tutt'intorno alla spianata, l'Olderico pareva una statua, come il S.
Francesco che benediva dall'alto del cornicione della chiesetta. Nella
quiete della campagna, egli sentiva finalmente sedarsi l'agitazione
dei suoi nervi tormentati; e, vista da quella distanza, la vita
turbolenta della grande città, la ricerca compiacente delle sensazioni
raffinate ed acute alla quale egli si era dato, gli facevano un
effetto molto meschino. L'inverno si avvicinava, gli anni volavano
via, ed egli pensava che sarebbe ben presto arrivato il tempo in cui
la rinunzia a quel genere di vita non avrebbe avuto più nulla di
meritorio da parte sua. In quella disposizione dell'animo,
l'inoltrarsi dell'autunno in campagna non gli procurava nessuna
secreta angoscia; mentre, gli altri anni, il raggio di sole che si
raccorciava ogni giorno un poco sulla parete del suo salottino, gli
dava una stretta al cuore malgrado le mille distrazioni della città.

    «Sol di settembre, tu nel cielo stai
    Come l'uom che i migliori anni finì
    E guarda triste innanzi: i dolci rai
    Tu stendi verso i nubilosi dì.»

Egli si ripeteva i versi del Carducci, ma non più col muto strazio
d'una volta, sibbene con una specie di commiserazione per quella
natura che si sarebbe tra breve assiderata, per tutti gli esseri che
la morte aspettava e per sè stesso ancora....

A un tratto, s'intese un rumore di passi sull'acciottolato della
viottola. Come l'Olderico si voltò, vide due dame avanzarsi per la
spianata.

--Signora marchesa!

--Oh, voi, Olderico! Quale fortuna!... Ci accompagnerete fra gli
orrori di questo speco, non è vero? Noi veniamo a farci monaci, come
Eleonora nella _Forza del Destino_. Voi non vi conoscete? Il cavaliere
Guido Olderico.... la duchessa di Neli Valformio.... O da che parte si
va pel romitorio?...

--Ecco, da questa parte....

L'Olderico dava la destra alla duchessa, che restava così in mezzo.
Ella portava un abito grigio, di lana, semplicissimo; dei guanti
grigi, e una _cappottina_ grigia ancor essa. Non un gioiello, nè
orecchini, nè braccialetti. Una _broche_ a ferro di cavallo le fermava
soltanto il colletto un poco alto, che le dava un'aria quasi maschile.

--Se questi buoni frati--diceva la marchesa di Crollanza--mi dessero
un terno, un terno piccino piccino, io mi dichiarerei soddisfatta
della mia passeggiata. Non parlo del vostro incontro, Olderico, che è
un altro terno. Lo giocherete anche voi, quello dei frati; non è vero?
Io vorrei vincere un milioncino....

La duchessa guardava il paesaggio tutt'intorno, distratta, come un
poco infastidita da quel chiacchierio.

--Con Enrichetta si diceva che cosa si sarebbe fatto se trovassimo un
milioncino, in tanti biglietti, per terra, in mezzo alla strada. Per
me, dico la verità, mi farebbe molto comodo; lo intascherei!... Non
farebbe anche comodo a voi?

--Ohibò! Io lo consegnerei al signor questore e mi prenderei gli elogi
dei cronisti!...

Ma, ridendo con la marchesa, egli aveva gli occhi alla sua compagna,
sempre seria e un po' triste.

Come egli ebbe picchiato al portone, la figura di un fratello
dall'ispida barba nerissima si affacciò al finestrino.

--È permesso visitare il romitorio?

La testa scomparve, e il portone si schiuse a mezzo. Per la prima,
risolutamente, la duchessa di Neli entrò. La marchesa esitava, si
guardava attorno, guardava l'Olderico, quasi a rassicurarsi.
Finalmente raccolse la sua gonna di _peluche mousse_, a larghe bande
di ricamo a rilievo; chinò un poco la testa su cui portava un cappello
a larghe tese in feltro oliva, con una ricca guarnizione di piume
_mousse_ a sfumature cascanti da un lato, e si decise a seguire
l'amica.

Nella corte, le foglie secche dei castagni avevano formato un grosso
tappeto su cui le vesti femminili sfrusciavano. Il fratello, con la
schiena curva, il rosario ballante dalla cintura di cuoio, i piedi
nudi negli zoccoli di legno, faceva strada in silenzio. Dinanzi alla
scala, le paure della marchesa si rinnovarono. La sua amica era già
scomparsa, che ella non aveva ancora salito un gradino. Il suo
chiacchierio era completamente cessato.

--Che idea, quell'Enrichetta, di venire a cacciarsi qui dentro!
Olderico, statemi vicino.

Salendo, ella si fermava ogni tanto, e si voltava indietro ad
accertarsi ch'egli fosse lì. In quella sua paura, era seducentissima;
però il rumore dei passi della duchessa distraeva l'Olderico.

In cima alla scala, il corridoio lungo e stretto, dalle vôlte basse,
fiocamente illuminato dalla finestra posta all'altra estremità,
mostrava le due file di porticine vecchie, tarlate, controsegnate da
un numero. La duchessa andava sempre avanti, accanto al fratello che
narrava a bassa voce i miracoli di S. Francesco, cogli occhi per
terra, fermandosi ogni tanto a mostrare con la mano ossuta e callosa
un quadricino polveroso, dove si distingueva a stento un bastimento in
mezzo ad una tempesta, o degli uomini piagati, con una piccola imagine
del santo circondata di nubi in un angolo.

La marchesa avanzava lentamente, gettando intorno degli sguardi
ansiosi, e tenendosi vicino all'Olderico. Arrivati al crocicchio
formato da un altro corridoio che tagliava il primo ad angolo retto,
s'intese di scatto un rumor sordo, quasi un rantolo.

--Olderico!... datemi il braccio!...--e vi si abbandonò tutta.

Era un orologio invisibile, al quale scoccavano le ore.

Come i suoni cessarono, una porta si aprì, lontano, e una fila di
frati, con la testa china, passò biascicando incomprese preghiere.

--Ho paura!--disse ancora la marchesa al suo compagno--portatemi
via....

L'Olderico la sentì che gli si stringeva al fianco; ma egli era
sorpreso della propria indifferenza innanzi a quella seduzione; i suoi
occhi seguivano sempre la figura della duchessa che procedeva
serenamente, chinando la testa e facendo con la mano il segno del
bacio dinanzi alle imagini sacre.

Erano già in capo al corridoio. Come il fratello aprì la finestra,
l'Olderico esclamò:

--Guardi che bella vista!

La marchesa, che seguendo gli sguardi del suo cavaliere aveva scoperto
l'oggetto di quella attenzione, lasciò bruscamente il suo braccio.

--Proprio! Meravigliosa!--esclamò con una piccola intonazione di
dispettoso sarcasmo.

Il panorama era davvero bellissimo, assai più vasto che dalla
spianata, da cui il versante dei monti coperti di boschi in basso e di
nevi nell'alto non si scopriva.

Dinanzi al grandioso paesaggio, la duchessa di Neli non diceva nulla.
Un velo di malinconia pareva ricoprisse il suo volto, e un'espressione
di stanchezza era in tutta la sua persona.

Come Guido Olderico le si trovò di faccia, vicinissimo, scorse ad un
tratto i suoi capelli della fronte tutti filettati di bianco.


III.

--Verrà?... Non verrà?...

Passeggiando rapidamente da un capo all'altro della terrazza della sua
villa, la duchessa di Neli si rivolgeva per la centesima volta, da che
aveva incontrato l'Olderico, quella domanda. Ella aveva ancora dinanzi
la sua figura aristocratica, dai gesti agevoli e corretti; sentiva
ancora il suono della sua voce quando, al ritorno dal romitorio, preso
posto nel _landau_ della marchesa, si era intavolata una discussione
sulle cose dell'arte e della letteratura, ed egli aveva svolto delle
opinioni e manifestati dei gusti delicati, squisiti, quasi femminili.
Aveva ancora promesso di mandare dei libri alle signore, e la duchessa
contava su di questo perchè quella relazione si annodasse. Ora ella si
pentiva di non avergli dato ad intendere che la sua compagnia le
sarebbe stata molto gradita, e che lo avrebbe rivisto con piacere in
casa propria. Come era stata fredda, rigida, antipatica! Doveva
certamente aver fatto un effetto di repulsione invincibile. Già, era
così mal messa! Quella povera vesticciuola grigia!... Quella
_cappottina_ dell'altro anno!... Non aveva sorriso neppure una sola
volta, non aveva dischiuso abbastanza le labbra perchè, in mancanza di
gioielli, egli vedesse almeno le perle dei suoi denti.

--Verrà?... Non verrà?...

Malgrado i suoi timori e i suoi pentimenti, la duchessa serbava ancora
qualche speranza. Nella solitudine di quella villeggiatura fuori mano,
l'Olderico avrebbe probabilmente colta con premura l'occasione di
stringere una nuova relazione. E poi, e poi.... trentacinque anni, è
vero; dei capelli bianchi.... ma, con una mano sulla coscienza, la
duchessa sentiva di esser cento volte preferibile a quella povera
marchesa, che sprecava ormai invano tutta la sua civetteria!...
Sentiva però nello stesso tempo che ella non aveva ancora molto da
aspettare, e che bisognava decidersi. Per l'appunto, la rigida
sorveglianza del duca si era in quel momento rallentata. Suo marito la
lasciava lunghe giornate sola, per andare in città, dove lo chiamava
una sua tresca che era dappertutto il discorso del giorno. Egli non la
giudicava più pericolosa! La sua gelosia veniva meno, perchè egli non
credeva più che ella fosse desiderabile! Glie lo aveva detto, in uno
di quei suoi scherzi feroci di _enfant terrible_! Ah, ella era
vecchia? ella aveva i capelli bianchi?... Gli avrebbe fatto veder lei,
se tutti avrebbero giudicato a quel modo!

Ora, non ne poteva più; non si fidava più di durare in quel sacrifizio
lungo ed inutile. Quella sua virtù finiva per essere ridicola. Tutti,
dal primo all'ultimo, le avrebbero dato ragione, se ella fosse
caduta.... Caduta? Era dunque una colpa il reclamare la propria parte
di felicità, un poco d'amore?... E, ad una ad una, le si
ripresentavano alla fantasia le figure di uomini intraviste in un
salotto, in teatro, alle quali ella aveva pensato secretamente, nelle
notti insonni, o fra il vuoto chiacchierio d'una visita di
convenienza, o in chiesa, quando gli occhi fissi sul libro di
preghiere non vi sapevano più leggere.... Sempre, sempre, il caso, la
sua virtù, la sua disgrazia, la gelosia del marito, avevano arrestato
il romanzo al primo capitolo; romanzi ella non poteva farne, era
condannata a leggerli soltanto!... Suonava ad un tratto l'ora della
rivincita! Ella contava bene di non lasciar sfuggire questa volta
l'imprevista occasione.... E il dovere? Ah, se ella credeva che le
grandi emozioni dell'amore, che gl'incanti di una di quelle passioni
che fanno l'invidia del mondo, si potessero provare senza sacrificar
qualche cosa!...

La fantasia della duchessa correva, correva, ed ella aveva già
architettata l'avventura. Trovava tutto agevole, in quella campagna,
nell'assenza del marito; e l'illusione era così forte che ella provava
il rimorso del fallo non per anco commesso se non col pensiero. Poi,
per gastigo, si derideva, si faceva beffe di sè stessa per tanto
almanaccare sopra una semplice presentazione, sopra un avvenimento
comunissimo, come ne ricordava mille altri.

--Verrà?... Non verrà?...

Intanto, ella era venuta in campagna senza pensare alla sua toletta;
non aveva portato nulla: nè una veste da camera, nè un abito da
visita; nè un gioiello, nè una boccettina di profumi! Nulla, proprio
nulla, altro che quel miserabile vestitino grigio!... A poco a poco,
la sua passeggiata, o meglio la sua corsa per la terrazza s'era
rallentata. Ella avanzava ora con le mani dietro la schiena e la testa
un po' china. A un tratto rientrò, e seduta al suo tavolino cominciò a
scrivere sopra un foglio di carta la lista degli oggetti che le
occorrevano. Interrompendosi di tanto in tanto, ella guardava per aria
rodendo la punta del suo portapenne e mormorando:

--Verrà?... Non verrà?...


IV.

Giunto in vista della villa, Guido Olderico moderò la corsa del suo
cavallo. Da lontano, posta alle falde della collinetta arrotondata
come un'enorme mammella, circondata da un boschetto di pini e di
castagni, la villa della duchessa aveva un aspetto assai pittoresco
coi suoi padiglioni, le sue torricelle e i suoi tetti acuminati.

Intanto che il cavallo si avanzava al passo, scalpitando e mordendo il
freno, l'Olderico cercava di sorprendere, nella fisonomia dei luoghi,
qualche segno rivelatore dell'accoglienza che gli era riserbata. Senza
esser fatuo, sapeva che non poteva venir considerato come il primo
venuto; pure egli non era senza una certa inquietudine. L'impressione
procuratagli da quella donna non era ordinaria. Egli aveva molto
sentito parlare di lei, dell'austerità dei suoi costumi, del
sacrificio di tutta la sua vita, e non si era potuto difendere, ogni
volta che l'aveva intraveduta, o se ne era rammentato, da un movimento
di istintiva curiosità dinanzi a quella che tutti, amici e nemici,
chiamavano un'eccezione di donna. Però, il giorno della visita
all'eremitaggio, uno spiraglio si era aperto pel suo spirito. Da che
cosa poteva dunque dipendere la mestizia diffusa nella figura della
duchessa di Neli, se non dal vuoto della sua vita e del suo cuore?...
Egli la rivedeva, malinconica, nella semplicità quasi dimessa della
sua toletta, aggirarsi pei corridoi del romitaggio, e una secreta
corrispondenza gli pareva corresse tra quella figura di donna la cui
vita era stata una rinunzia, e il soggiorno di coloro che avevano dato
un addio al mondo, per sempre. Egli la rivedeva sotto il grigio di
quel cielo autunnale, alla terrazza del romitaggio, e non poteva
riuscire a difendersi da un sentimento di commiserazione pensando a
quei poveri capelli bianchi, a quel tramonto d'una bellezza invano
fiorita. Di quale amore tenero e forte ad un tempo doveva amare quella
donna! Che tesori di affetto aveva dovuto accumulare nel suo cuore,
così a lungo deserto! Come avrebbe egli voluto darle, nel breve tempo
che ancora le rimaneva dinanzi, tutte le dolcezze che le erano state
defraudate! Come avrebbe voluto che l'aurora dell'amore confortasse la
malinconia di quel tramonto! Con quale tenerezza avrebbe egli baciato
quei poveri capelli bianchi, con qual cura gelosa ne avrebbe composta
e custodita una piccola ciocca!...

Ad un tratto, il cavallo si arrestò. L'intelligente animale pareva
avesse compresa la distrazione del padrone e indovinata la mèta,
poichè s'era fermato da sè dinanzi il cancello della villa. L'Olderico
discese, legò le redini all'inferriata e s'avanzò pel viale. Dei cani
gli abbaiarono contro, un servo si avanzava.

--La signora duchessa?...

--Favorisca.

L'Olderico salì la breve scala di marmo, ornata di grandi vasi.
Sull'uscio, un cameriere gli fece strada. Traversarono una fila di
stanze semi-buie, dove i passi si attutivano sui tappeti; la duchessa
stava in un salottino ancora più scuro. Entrando, l'Olderico non
l'aveva scorta; com'ella si scosse sulla poltrona, le si fece
incontro.

--Signora duchessa....

--Buondì, cavaliere; è stato molto buono di ricordarsi di me! Sono
lieta di poterla ringraziare a voce dei bellissimi libri. Un vero
regalo. È tanto lungo il tempo in campagna, in questa stagione
uggiosa! Grazie a lei, ho passato delle ore piacevolissime....

--Mi permetta di credere che tocca a me ringraziarla....

Assuefatti gli occhi a quel dubbio chiarore, l'Olderico potè veder
meglio la duchessa. Ella portava una ricca veste da camera _loutre_
con largo _tablier_ a pieghe di _surah_ celeste pallidissimo;
guarnizioni di merletti e cascate di nastri _loutre_ e celeste. Da
tutta la persona esalava un profumo di _corilopsis_ così acuto, che
finiva per dare alla testa.

Senza saper bene perchè, l'Olderico si sentiva vincere da una
freddezza crescente; aveva creduto di trovare la donna incontrata al
romitaggio; ne aveva invece dinanzi un'altra. Come la duchessa parlava
della noia dell'autunno, delle promesse dell'inverno, egli finì per
darle ragione, contro genio, per darsi un contegno.

--Ecco il suo _Mont-Oriol_; sto per finirlo.

La duchessa prese il volume dallo sgabello vicino e stese un poco il
braccio. Le sue dita erano ricoperte di anelli, i brillanti gettavano
bagliori tutt'intorno.

Ora si parlava di letteratura; ella l'aveva contro i naturalisti,
trovando mal fatto che non si descrivessero le cose ricche, la vita
elegante, le passioni nobili e generose. L'Olderico, sempre più
impacciato, parlava a pena.

La duchessa si alzò.

--Ama i dolci, cavaliere?...

--Grazie, signora duchessa....

Com'ella prese la bomboniera sul caminetto, vicino la finestra, e
l'Olderico le si fece vicino, scorse la fronte di lei in piena luce. I
capelli bianchi? Scomparsi, spariti; invece, la pelle era
impercettibilmente macchiata di nero....

--E resterà ancora un pezzo in campagna?

--Oh, no, signora duchessa. Mi pare che ella abbia perfettamente
ragione. Quest'autunno non ha nessuna poesia. Ritornerò in città
domani l'altro.



IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.


I.

La prima messa, a San Giorgio, era poco frequentata: delle donne di
umile condizione, in vesti dimesse, inginocchiate dinanzi alle
seggiole; qualche vecchio seduto sulle panchette di legno; due o tre
beghine appartate in un angolo, riconoscibili al pallore clorotico del
viso, alla rigidità quasi meccanica del gesto col quale sgranavano i
loro rosarii: una trentina di persone, in tutto.

La chiesa era piccola, moderna, dall'architettura semplicissima, senza
nessuna di quelle rarità dell'arte che attirano nelle case della
preghiera l'irriverente processione dei curiosi, dei _touristes_ con
la guida sotto il braccio e il binocolo a bandoliera. Le pareti, quasi
nude, erano d'un candore abbagliante; il pavimento, di marmo, a grandi
lastre bianche e nere, aveva una lucentezza di specchio; e nell'ordine
rigido, nella severa nudità regnante tutt'intorno, si rivelava uno
spirito rifuggente da ogni pompa, sollecito solo della concentrazione
interiore e dell'adorazione.

Era padre Ladislao il rettore di San Giorgio, l'officiante di
quell'ora mattutina; e la figura del giovane ministro, austera nei
semplici paramenti, dalla fronte alta e spaziosa, dagli occhi ceruli,
dalla carnagione delicata, dalle mani bianchissime mirabilmente
modellate che toccavano leggerissimamente i sacri arredi dell'altare,
presentava un'intima, una completa corrispondenza con quell'ambiente
severo e luminoso ad un tempo.

San Giorgio era tutto un mondo per il padre Ladislao, l'oggetto delle
sue cure più assidue; e per continuare a regger quella chiesa, egli
ritardava volontariamente l'avanzamento che lo aspettava da molto
tempo nella gerarchia ecclesiastica.

L'anello piscatorio ed il pastorale sarebbero già toccati da tempo a
padre Ladislao Mantaldi dei principi di Valdiriva, e qualcuno andava
fino a predirgli il rosso cappello cardinalizio. Non erano soltanto le
tradizioni della grande famiglia, la sua potenza, le sue relazioni,
che gli spianavano così la via ai più alti gradi; era ancora, e più,
la vasta intelligenza, la varia cultura, lo zelo illuminato, la
modestia esemplare, la purità dei costumi, che facevano di questo gran
signore una delle speranze della chiesa napoletana. E bisognava
veramente stimare irresistibile quella vocazione che lo aveva fatto
rinunziare, in età giovanissima, alle seduzioni del mondo, alla
eccelsa posizione che egli vi era naturalmente chiamato a sostenere,
per l'umile nera veste del seminarista. Più tardi, quando era giunta
l'ora di pronunziare i voti irrevocabili, quando una sua sola parola
avrebbe deciso dell'intera sua vita, si era creduto che egli si
sarebbe arrestato dinanzi alla definitiva e irreparabile rinunzia. Ma
quella parola, Ladislao Mantaldi l'aveva pronunziata con voce ferma e
sicura; e tutto era stato detto, per sempre.

Per iscoprire l'ignoto autore di un delitto, il magistrato possiede un
criterio ordinariamente sicuro: cercare se il delitto può avere
arrecato dei vantaggi, ed a chi. Coloro che si fossero rivolta una
simile domanda, dinanzi alla rinunzia di Ladislao Mantaldi, sarebbero
stati messi sulla via della verità. Dando un addio al secolo, egli
primogenito, era suo fratello minore che ereditava, col titolo del
nobilissimo casato, i beni terrestri; e la cieca passione che la
principessa madre aveva per il suo secondo figlio spiegava il
sacrifizio che Ladislao, col suo carattere mite, ossequente,
rassegnato, era stato persuaso a compire.

Pronunziando i suoi voti, egli non aveva inteso però di adempiere ad
una semplice formalità, con una di quelle restrizioni interiori così
frequenti che modificano e talvolta annullano gl'impegni che noi
affermiamo di prendere dinanzi a noi stessi. Nella sua nuova vita, a
cui l'educazione religiosa disposta dalla madre lo aveva preparato del
resto fin dagli anni più giovani, quando le sue passeggiate, sotto la
scorta d'un vecchio prete, avevano per meta un antico convento, e gli
stessi suoi giuochi consistevano in rappresentazioni sacre; in quella
sua vita Ladislao era entrato interamente, senza transazioni di sorta,
col fervore solo capace di attutire la sorda voce che diceva la
dolcezza delle gioie terrene.

Per il giovane imbevuto di precetti rigidamente impartiti, fuori di
ogni personale esperienza, era stato lungo tempo un argomento di
sconforto il ritorno frequente di questa voce, la visione ostinata di
quel che egli aveva già appreso a considerar come il Male. La purezza
nelle azioni gli pareva una cosa molto mediocre, se ad essa non avesse
corrisposto quella dei sentimenti, e con un terrore infinito egli si
vedeva impotente non che a domare, ma perfino a guidare il proprio
pensiero. In questa sua dolorosa incertezza, in quest'intima
impotenza, egli aveva temuto di andare incontro ad una perdizione
eterna, ingannando gli uomini e Dio con le aspirazioni ad una santità
che si vedeva incapace di conseguire là dove appunto sarebbe stata più
meritoria, nel dominio spirituale.

Lo spirito d'analisi, grandezza e tormento dell'uomo moderno, non
sarebbe che un effetto della legge cattolica dell'esame di coscienza?
Qualunque ne sia l'origine, il certo è che esso prende, in certe
nature superiori, uno sviluppo esorbitante, nel quale la sottigliezza
dell'indagine è in ragione inversa della nettezza dei risultati. A un
tale stato intimamente angoscioso la lunga pratica di scendere in
fondo alla propria coscienza aveva ridotto padre Ladislao, quando egli
era perfino arrivato a temere che quella sua ingenua persuasione di
indegnità potesse essere una suggestione perversa, un comodo pretesto
trovato per evitare la via della rinunzia e per conseguire il
sodisfacimento delle sue brame secrete.

Allora, la parola del vecchio maestro che aveva sorretto i suoi primi
passi, dell'umile prete venerato come un padre, lo aveva tratto da
quell'angoscia, con la dimostrazione della universalità di ciò che
egli aveva creduto un caso particolare, una specie di morbosa
impotenza di cui egli solo si trovava di essere vittima. Allora, egli
aveva misurato l'abisso che separa sempre l'azione dall'intenzione;
aveva compresa l'irriducibilità del pensiero, l'incoscienza con la
quale si compiono le operazioni dello spirito, e rassegnatosi quindi
alle inconfessate e spesso inconfessabili suggestioni della mente, la
sua vocazione si era fatta più salda, più sicura, col dovere che gli
si tracciava ora nettamente dinanzi, di illuminare le anime umane, di
guidarle, di sorreggerle con tanta maggiore sollecitudine quanto più
grande, più naturale era la probabilità della colpa.

Una reputazione di santità era il frutto di quella abnegazione; una
reputazione di cui egli avrebbe sorriso nel suo interno, con qualche
sfumatura di amarezza, se non fosse stato più forte in lui lo spirito
di compatimento per gli errori degli uomini.... Quel giorno, come
sempre allorquando egli dominava dall'altare la folla dei fedeli
sparsa qua e là per la chiesa, il pensiero del contrasto fra il
rispetto, fra la devozione un poco meravigliata che si leggevano negli
sguardi di quanti lo circondavano, e l'intima sfiducia di esserne
veramente degno, occupava la sua mente intanto che egli si preparava
ai mistero dell'elevazione. Se gli uomini avessero potuto leggergli
nell'anima in quell'ora; se avessero potuto sospettare il dubbio che
vi tenzonava, intanto che egli teneva chini gli sguardi sul messale e
le mani congiunte in segno di adorazione?.... In quei momenti, per
l'attenzione stessa di cui lo faceva oggetto, il dubbio s'ingigantiva;
egli si persuadeva della propria indegnità, dell'ipocrisia che vi era
da parte sua nel presumere di farsi curatore di anime, lui che aveva
pel primo bisogno di esser guidato! In una rapida evocazione,
riprovava allora le inquietanti impressioni dell'adolescenza, quando
veniva di tratto in tratto nel sontuoso palazzo degli avi, e come
dietro un sipario intravedeva il magico spettacolo del mondo e delle
sue attrattive; allora, l'acuto profumo dei fiori freschi, unica nota
vivace profusa su quegli altari quasi nudi, gli procurava un
turbamento profondo.... Un istante dopo, la crisi era superata; egli
aveva degli slanci interiori di sommessione, di sacrifizio, che lo
redimevano ai proprii occhi; mentre l'ostia si alzava, in un nembo
d'incenso, egli si prostrava con lo spirito, si faceva umile, si
annichiliva, e nel suo volto non si leggeva più che una pietosa
serenità....


II.

La messa era finita. Come le sacramentali parole furono pronunziate,
si levarono per la piccola chiesa dei rumori diversi: urti di sedie
rimosse, stropiccii di passi; e padre Ladislao, passato nella
sacrestia, si disponeva a spogliarsi dei suoi paramenti. Ad un tratto,
il giovane seminarista che aveva servito l'uffizio e che si era
attardato in chiesa, venne a raggiungerlo con un'animazione nel bel
volto bianco dagli occhi intelligenti.

--Padre Ladislao,--diss'egli, mostrando col braccio disteso la porta
di legno scolpito a bassorilievi,--vi è in chiesa una signora, una
signora entrata a momenti, che domanda di lei, per confessarsi....

--Ebbene?

--Che cosa debbo dirle?

--Che vengo subito.

Il seminarista scomparve, intanto che padre Ladislao finiva di
rivestirsi, con una lentezza un poco in contraddizione con la sua
risposta. In verità, egli non si sentiva molto disposto alla
confessione quel giorno; il suo spirito non aveva la necessaria
lucidità, delle nebbie erranti lo velavano. Nondimeno, come fu pronto,
rientrò in chiesa. Si era avanzato di qualche passo appena, quando
scorse la donna inginocchiata accanto ad un pilastro, col velo nero
come la veste gettato sulle spalle. Egli stese a un tratto un braccio
tremante, quasi in cerca di un appoggio, e si scolorì rapidamente in
viso.

Vistolo, ella gli s'era avvicinata, prendendogli una mano e portandola
alle labbra, prima ancora che egli avesse potuto pensare di opporsi a
quell'atto.

--Padre, se non la disturbo....

Era lei, la sua figura, la sua voce!... Il suo lontano sogno di
giovanotto improvvisamente riapparso, con l'intensità della vita
stessa, col materiale contatto di quelle labbra che gli bruciavano la
mano, malgrado egli tentasse di cancellarne con l'altra l'impronta....
Come mai la tentazione delle sue notti lontane gli veniva ancora
dinanzi, quand'egli giudicava di averla domata per sempre? E che cosa
voleva da lui, che aveva saputo custodire nel più profondo dell'anima
il proprio secreto?

--_Confiteor_....

Ma egli non poteva confessarla! Non poteva confessare nessuno, e lei
tanto meno! Egli era un uomo, debole, cieco, turbato, malfermo come
tutti gli uomini, ed in quel momento d'affanno più di tutti gli altri!
Perchè metterlo dunque alla prova; e quale mostruoso sacrilegio doveva
compirsi sotto quel confessionale, nella casa del Signore?...

Nessuno di quei varii sentimenti tumultuanti in lui si poteva rivelare
alla donna. Accasciata in ginocchio sulla predellina, dietro la
piccola finestra tutta simmetricamente forata, ella cominciava a
parlare con voce rotta dall'emozione, cercando stentatamente le
parole, con frequenti reticenze piene di turbamento. Ella diceva i
pericoli che la insidiavano, l'abisso della colpa che le si spalancava
dinanzi, che le dava le vertigini, e che l'attirava.... Unita contro
la propria volontà ad un uomo che non amava, ella non era libera di
soffocare la voce del cuore; poi, ella sapeva tutta la gratitudine di
cui quell'uomo che le aveva dato il suo nome ed il suo affetto--il
padre di sua figlia--era degno; la gratitudine, sì, qualcosa di più
del dovere.... ed ella si sentiva dilaniar l'anima, e la sua pace era
perduta, ed invocava una parola che la reggesse in quella lotta di
tutti gl'istanti, tanto più atroce quanto più intima.

--Padre, o padre! voi che tutti venerano come un santo, voi che
passate pel mondo sorretto da una forza divina, datemi voi un
aiuto.... Io non ho nessuno accanto a me; non ho più mia madre; mia
figlia è lontana, chiusa in un lontano convento.... Ditemi voi, padre,
come vincere in questa guerra....

Dietro la sottile parete di legno traforato, rispose la voce del
confessore, leggermente velata:

--L'aiuto che altri può dare non è mai così efficace come quello
prestato dalla propria coscienza. È ad essa che bisogna domandarlo;
essa non lo nega mai fin quando è viva. E che sia viva, lo prova
questa confessione, il contrasto provato, il pentimento prima della
colpa....

Ella balbettò:

--È orribile!... È orribile!

La voce tacque un istante, un rapido istante; poi riprese:

--Fin quando la colpa ispira quest'orrore, non bisogna disperare. Vi
sono delle leggi che regolano tutto: il mondo materiale come il mondo
spirituale, l'universo come la vita. Tutto ciò che offende la legge è
condannato naturalmente a perire; la colpa porta con sè il gastigo
immancabile.

--O padre, basterà dunque astenersi dal peccare per paura della
punizione?

---Bisogna ancora alzar gli sguardi in alto.... ma non tutti ne sono
capaci.

Vi era una impercettibile intonazione di durezza nella voce che aveva
pronunziate quelle parole e che, subito dopo, si era spenta. La donna
aveva preso a respirare affannosamente, rovesciando un poco la testa,
come in cerca d'aria. Poi, riavvicinandosi alla finestrella,
nascondendosi la faccia tra le mani, mormorò rapidamente:

--Misericordia.... misericordia di me! Perdono, Signore, pietà!...

Un silenzio di qualche momento, durante il quale non si sentiva altro
che il respiro affannoso della penitente. Dall'interno del
confessionale, nessun segno di vita, come fosse deserto. Poi, una voce
ne uscì, più profonda, più velata, trasformata così che non pareva più
quella di prima.

--Nessuno domanda invano pietà, nessuno si rivolge invano alla eterna
misericordia. Il pentimento è il lavacro di tutti gli errori; il
ritorno dell'anima che minacciò di smarrirsi è ancor più festeggiato
tra gli eletti....

La voce si faceva a poco a poco sempre più fievole, si spegneva,
moriva.

Ella si passava ora una mano sulla fronte ardente, ne scostava
nervosamente i riccioli dei bruni capelli.

--Sì, sì; io sono colpevole, più di quanto ho detto,--balbettava
ansiosamente.--Io non ho detto tutto, e questa è una nuova colpa....
Il peso del mio secreto mi soffoca, mi toglie il respiro.... Ho
giurato a due uomini..., ad uno dinanzi alla legge umana e divina;
all'altro dinanzi alla mia coscienza.... E non debbo, mio Dio!
ingannar l'uno, e non posso scordarmi dell'altro!... Come ho
resistito, quante volte ho pregato il Signore di darmi quella forza
che a poco per volta mi è venuta mancando, quante volte ho invocato la
generosità di quell'uomo sempre più insistente....

La voce disse, duramente:

--Non bisogna contare sulla generosità degli uomini.

--Ah, sì! è stato forse questo il mio errore; è per questo che mi sono
sentita trascinare sempre più vicino all'orlo della colpa, da
rasentarlo.... da esser considerata come perduta.... Ah, che dolore e
che vergogna, all'accusa menzognera! Perchè non è vero, padre! perchè
se ho peccato col pensiero, non ho peccato con le opere!... E non
esser creduta! E non aver nessuno al mio fianco, dinanzi a cui
piangere le lacrime dell'innocenza e del rimorso; dover comporre una
maschera di serenità dinanzi all'uomo che ho offeso: non trovarmi
accanto mia figlia... Io piangerei dinanzi ad essa, ma non sarei
costretta ad arrossire; lo giuro a Dio, sulla mia salute eterna....
Padre.... Padre, mi ascoltate voi?

La voce rispose, dolce e lieve:

--Ti ascolto, figlia mia, come ti ascolta tua madre di lassù....

Allora, ella ruppe pianamente in pianto. Gli occhi aridi, le guancie
ardenti, erano tutti irrorati dalle lacrime, l'eccitazione dello
spirito trambasciato si risolveva in quella crisi benefica.

--Madre mia!... Madre mia!... Che buona parola!... Come fa bene poter
piangere!... Sarò dunque perdonata?...

--Sempre che ne avrai la speranza....

--Il pianto non è dunque una debolezza, se io mi sento ora più forte
di prima, più disposta ad uscir vincitrice dalla lotta?... Che bene mi
avete fatto, padre mio!...

--Bisogna guardarsi dall'eccesso della fiducia dopo l'eccesso dello
sconforto. A sostenerti, riprendi tua figlia presso di te; il posto
delle figlio è accanto alle madri. Pensa che essa penserà a te, come
tu oggi pensi a tua madre; pensa che l'amore, l'odio, l'ambizione,
l'invidia, tutte le più forti passioni finiscono prima di noi, e che,
quando tutto è finito, una cosa resta: la soddisfazione del dovere
compiuto....

Parlava ancora, sotto voce, con una grande dolcezza, che ella io
interruppe:

--Sì, è vero, è giusto!... Grazie, padre; grazie del bene che mi avete
fatto.... E potrò ancora ricorrere a voi?

--Ogni volta che ne avrai bisogno.

Ella restò ancora un poco in orazione; poi si levò, traversò
lentamente la chiesa, bagnò le dita nella pila dell'acqua santa, si
curvò ancora voltandosi, ed uscì.


III.

Il seminarista, che aveva finito di mutare le tovaglie degli altari
per la prossima festa, vedendo che padre Ladislao non usciva ancora
dal confessionale, si avviò verso di lui.

Al rumore di quel passo, il confessore venne fuori. Era
straordinariamente pallido in viso, ed aveva uno sguardo incerto che
fece chiedere al piccolo chierico:

--Padre, la confessione l'ha stancato?

--No, no....

--Allora, si fa oggi la prova della cantata?

--Domani, Luigi; dirai che vengano domani. Oggi ho qualche cosa da
fare.

Diede ancora alcune disposizioni; poi uscì, dirigendosi verso la città
alta. Camminava rapidamente, col capo chino, senza guardare nessuno.
In breve, si lasciò dietro le ultime case, ed avanzò per l'erta della
collina. Gli alberi proiettavano il loro verde tenero sull'azzurro del
mare; un mare tranquillo come un lago, popolato qua e là di stormi di
piccole vele. La strada, nei suoi zig-zag, rasentava l'orlo della
scoscesa, difesa soltanto da un basso parapetto, e l'occhio, di lì,
dominava l'abisso.

Padre Ladislao procedeva sempre con passo eguale. A volte, un alitare
più forte della brezza gli avvolgeva fra le gambe la nera veste,
impacciando il suo andare. Egli sostava un momento, portava una mano
al cappello e spingeva uno sguardo lontano, all'orizzonte. Giunto
finalmente dinanzi ad un cancello arrugginito fra due pilastri di
mattoni dai quali l'intonaco era quasi tutto scomparso, lo spinse, ed
entrò nel grazioso podere, piantato a vigne dalla rigogliosa
vegetazione. Sulla piccola spianata della casetta, all'ombra d'una
tettoia, un prete vecchissimo stava seduto sopra una poltrona di
cuoio, reggendo un breviario con le mani scarne. Come i passi si
avvicinavano sempre più, egli volse un poco il capo, e posando il
libro sulle ginocchia, con le mani stese verso l'arrivante ed una
espressione di letizia nello sguardo, esclamò:

--Ladislao, ragazzo mio!...

Il nuovo venuto prese una di quelle mani, la portò alle labbra e la
baciò. Poi, curvandosi un poco, quasi in ginocchio e con la testa
bassa:

--Padre,--disse,--sono venuto per confessarmi.



UN CASO IMPREVISTO.

Come le carrozze si fermarono dinanzi alla porticina della casa in
costruzione, e ne cominciarono a discendere i padrini col fascio delle
sciabole avvolte in un vecchio panno verdastro di tavolo da giuoco, la
comitiva raccolta nel _Caffè della Stazione_, in fondo alla piazza lì
dirimpetto, si agitò.

--Eccoli!... Eccoli lì!

--Ci sono tutti?--chiese il Monterani.

--Manca ancora il marchese. Quello lì non è il dottor Salandri?

--E l'altro dottore?

--Non si vede. Sono già le tre.

Tutti gli occhi erano rivolti da quella parte; il cameriere, col
tovagliolo sotto il braccio, se ne stava fermo sull'uscio a curiosare.

--Ed il motivo di questo duello?--chiese l'avvocato Corsi.--Se ne sa
nulla?

--È semplicissimo. Luzzi annoiava il marchese con le sue assiduità
presso la moglie.

--Ed il marito non ha trovato di meglio che mandarlo a sfidare?

--A proposito,--interruppe il Monterani rivolgendosi a Baldassare
Gargano, che non aveva ancora aperto bocca.--Tu non sei stato pregato
dal marchese di rappresentarlo?

--Sì, ma non ho accettato.

--Hai delle ragioni speciali?

--Ho giurato, dopo l'ultima volta che presi parte ad una quistione
d'onore, di non fare più il padrino a nessuno.

--Perchè?... Che cosa ti è successo?

--Una scena che non dimenticherò mai più.

--Qualcuno dei combattenti è rimasto sul terreno?

--Al contrario; il duello non avvenne.

--Oh, allora?

--Racconta, racconta un poco!--insistettero tutti, ad una voce.

--Bisogna innanzi tutto sapere,--cominciò Baldassare Gargano,--i
motivi pei quali si scendeva sul terreno. Fu una sera, a..., al
Circolo dello Sport, dove mi ero recato per caso, per non sapere che
cosa fare di me. Avevo sfogliato dei giornali, scambiata qualche
parola con alcune conoscenze, ed ero passato nella sala dei bigliardi.
Stavo per sedermi, attirato dall'interesse di una partita impegnata
fra due delle più forti stecche, quando scorsi, appoggiato allo
stipite di una porta, quasi nascosto dalla tendina, il conte di
Bauern; sapete, il figlio del ministro di Sassonia?.... In altre
circostanze, quell'incontro non mi avrebbe fatto nè caldo nè freddo;
ma il conte era stato di fresco colpito da una grande sciagura: la
morte della sua giovane moglie adorata e pianta amarissimamente. Il
triste avvenimento, che aveva commosso tutti coloro dai quali la
contessa era stata conosciuta, non era molto recente, datava forse da
quattro o cinque mesi; nondimeno, era quella la prima volta che lo
sconsolato marito riappariva in pubblico. Questo fatto stesso vi potrà
dare un'idea dell'intensità di un dolore le cui traccie, appena io
ebbi scorto il conte, potei leggere sulla sua figura disfatta, nella
magrezza e nel pallore del viso che l'abito nero contribuiva a mettere
in ispicco, nello smarrimento degli sguardi nuotanti come in un vapore
di lacrime. Il lutto che aveva nelle vesti, era anche nell'anima--di
quanti vedovi credete voi che si possa dire altrettanto? Egli è che la
contessa di Bauern, la gentile creatura così rapidamente sparita,
riuniva tutte le condizioni per rendere felice un uomo--se la felicità
è possibile. Bellezza, grazia, cultura, nobiltà di nascita e di
sentimenti, austerità di costumi; ella aveva tutto; ed io non so se un
nuovo Pigmalione, foggiandosi da sè un essere destinato a dividere la
propria vita, avrebbe potuto farlo più perfetto. Per ogni dove, il
conte di Bauern era guardato con un sentimento di invidia, che la
possessione di un tale tesoro destava, ma che--pur troppo!--doveva
presto mutarsi in pietà, quando il rapido estinguersi di
quell'esistenza venne in certa guisa a dimostrare come essa non fosse
fatta per questa terra....

--Ecco, ecco il marchese!--interruppe il Monterani.

S'intese infatti il rotolare di un legno che venne anch'esso a
fermarsi dinanzi alla casa in costruzione. Erano tre le carrozze
stazionanti ora lì vicino, circondate da alcuni curiosi che
domandavano notizie ai cocchieri.

--Dicevo dunque--riprese il raccontatore--che vedendo per la prima
volta al Circolo il vedovo conte, non potei esimermi da un movimento
di curiosità. Senza essere molto intimo con lui, lo conoscevo
abbastanza. Al tempo della sua disgrazia, ero andato a lasciargli una
carta--formalità che ha il grande vantaggio, come tutte le formalità,
di dispensarvi da ogni altra cura; però, vedendolo al Circolo, notando
la sua tristezza, la curiosa espressione dei suoi occhi nei quali si
leggeva la ricerca della distrazione in lotta col bisogno di
concentrarsi nel proprio dolore, credetti conveniente di avvicinarlo.
Quando gli fui accanto, mi pentii della mia iniziativa. Il conte di
Bauern, presente col corpo in quella sala di bigliardo rischiarata
dalle sei lampade dai grandi riflettori, ne era lontano con lo
spirito--infinitamente lontano. Dove vagava esso? che cosa cercava?
quale visione seguiva? Non lo so; so questo: che ebbi appena l'agio di
stringergli la mano, di balbettare non ricordo più quali frasi di
convenienza, e passai in una sala vicina.

«Quando il diavolo ci mette la coda....

--Un'altra carrozza!... Il medico del Luzzi....

--Silenzio!--ingiunse l'avvocato, che l'interesse aveva già
preso.--Quando il diavolo ci mette la coda?

--Nulla può impedire il precipitare delle catastrofi. Giusto quella
sera, un'indisposizione della Nevosky aveva fatto sospendere lo
spettacolo, e un tempo orribile aveva reso problematico per molta
gente l'impiego della serata.

«A poco a poco, una comitiva rumorosa si formò nel Circolo, alla testa
della quale era Rodolfo Vialli, un capo scarico, un essere leggiero
più della cenere di questa sigaretta. Si chiacchierò, dapprincipio; si
commentò la malattia della cantante, si mise non so che scommessa, e a
un tratto il Vialli, pigliandosi sotto il braccio l'Ansaldi, un
dilettante di musica suo competitore, lo trascinò al bigliardo. La
curiosità mi spinse di nuovo da quella parte; il giuoco cominciò, fra
il sopravvenire continuo di nuova gente....

All'orologio del caffè scoccò la mezz'ora.

--Debbono già essere in guardia--disse qualcuno.

--State a sentire!--ingiunse di nuovo l'avvocato.

--Se voi volete--riprese il narratore--che io vi ridica in qual modo
da una questione d'arte il discorso sdrucciolasse a poco a poco nella
maldicenza, io non potrei contentare la vostra curiosità. Sapete come
avviene: una parola tira l'altra: si sa donde si parte, non si sa dove
si va a parare. Si parlava di uno scandalo scoppiato in una famiglia
dell'alta società, uno dei soliti drammi domestici: il marito che
scopre la colpa, la moglie che deserta la casa coniugale per seguire
l'amante.

«Povero Geppino,--esclamava il Vialli, parlando di quest'ultimo--che
tegola sul capo! Queste cose, da principio, sembrano il paradiso, come
all'amante di _Saffo_ pareva il paradiso salir le scale di casa
portando l'amica sulle braccia. Arrivato in cima, stava per morire
dalla stanchezza!...» Non so più chi osservò: «Quando si affronta una
situazione, si ha il dovere di subirne le conseguenze.»--«Non dico il
contrario--rispose lentamente il Vialli, studiando se gli convenisse
di tirare la sua palla sulla bianca o sulla rossa.--Non dico di no....
ma l'adempimento di un dovere non è sempre una cosa allegra....--E,
mancata la carambola: Il malanno al dovere!... La fortuna è di poter
rompere a tempo!...» L'Ansaldi, anche lui, sbagliò il suo colpo. «Alla
rivincita!...--disse il Vialli, ma irritato da un nuovo sbaglio:--Le
liberazioni,--esclamò,--come quella della Bauern non capitano tutti i
giorni!...»

«Amici miei, io non so ripetervi quel che provassi in quell'istante.
Che cosa voleva dire il Vialli? O avevo frainteso?... Automaticamente,
appena egli ebbe pronunziato quel nome, gli occhi mi andarono alla
portiera dove avevo visto il conte. Egli era ancora lì... scorsi
soltanto i suoi occhi, gli occhi lucenti come fossero di fosforo. Si
erano quegli altri accorti come me della sua presenza? Perchè nessuno
si alzò? perchè io stesso non mi alzai di scatto gridando al
malaccorto: Taci, sciagurato: non vedi tu chi ti ascolta?... Vi sono
dei momenti nei quali una tragica fatalità sembra pesare su di noi;
nei quali, con la nitida percezione di quel che ci avviene dintorno,
noi abbiamo, come negl'incubi, l'assoluta impossibilità di far nulla
per arrestare il corso delle cose.... Io vi dico tutto questo ora; in
quel momento non vi fu il tempo di pensarne una minima parte. «Augusto
Secchi--continuò il Vialli, sbattendo per terra la sua stecca--è stato
ben fortunato di liberarsene....

«Oh, che scena; che terribile scena! S'intese sul tavolato il rumore
di un passo, che fece voltare tutta quella piccola folla, e il conte
di Bauern, come un'apparizione fantastica, si avanzò verso il
Vialli. Nessuno si mosse; io non avevo fiato da respirare. Quando il
conte fu vicino al giuocatore, disse con voce d'una freddezza
stridente--lasciate pure correre l'espressione--che mi risuona
ancora all'orecchio: «Mentitore vigliacco!...» Come allo scatto di
una molla, il Vialli alzò la stecca; allora il conte, in un lampo,
glie la strappò di mano e mandando indietro l'uomo con un urto nel
petto, ruppe sul ginocchio il forte bastone come fosse un
fuscellino.... Cieco d'ira, il Vialli fece per slanciarsi su lui, ma
era troppo; il terrore da cui eravamo stati ammaliati svanì; dieci,
venti persone si slanciarono in mezzo, io fra questi; e, trovatomi
vicino al conte, lo trascinai in un'altra stanza....

«Egli era stato ammirabile di coraggio e di sangue freddo; ancora non
un tremito tradiva l'emozione che certo aveva dovuto essere
formidabile. Tutti, concordemente, condannavano il Vialli. Calunniare
una donna su cui nessuno aveva mai avuto nulla da dire, infamare la
memoria di una morta senza nessuna possibile scusa, e ciò dinanzi a
tanta gente, dinanzi al marito, era una leggerezza che rasentava la
colpa. «So che ho torto--esclamava egli nell'altra stanza--ma non sono
disposto a soffrire in pace gl'insulti.» Il fatto è che, non potendo
trovare padrini fra le persone presenti, fu costretto ad andarli a
cercar fuori. Il conte, da parte sua, mi pregò con una correttezza
impeccabile che in quel momento era ancor più notevole, di assisterlo
in questa circostanza, indicandomi il barone Narconi come testimonio.
«Accettino ogni patto; desidero solo che si faccia presto. Se è
possibile, domani stesso.» E andò via. Erano trascorsi pochi minuti,
che tornò l'altro coi suoi secondi. Avrei voluto stabilire ogni cosa
in poche parole; facevo i miei conti senza il signor Mendosa, il
padrino del Vialli. Un avvocato in tribunale, un diplomatico
incaricato di negoziare un trattato, non è più minuzioso, più
meticoloso, più circospetto, più attaccato alle forme di quel che egli
era. Io non avevo una gran pratica di queste cose; ma parevami che vi
fosse poco da discutere. La qualità delle offese, il modo con cui
erano state fatte, quale fosse la più grave, a chi toccasse la scelta
delle condizioni, le condizioni stesse: tutto fu soggetto di lunghi
dibattimenti. Prevedevo che, con quella specie di contradditore, avrei
avuto molto da fare sul terreno. Come Dio volle, si stabilì che lo
scontro, alla spada, a discrezione dei dottori, sarebbe avvenuto il
domani alle otto del mattino.

«Lasciai, la sera stessa, un biglietto dal portiere del conte, e il
domani, alle sette, insieme col barone Narconi, passai da casa sua.
Fummo introdotti in una sala di studio e il domestico passò ad
annunziarci. Aspettammo, aspettammo: non veniva nessuno. Ci guardavamo
l'un l'altro, non sapendo che cosa pensare. Ad un orologio vicino
suonarono le sette e un quarto. E non veniva nessuno. È difficile
farsi un'idea dell'imbarazzo in cui lo stranissimo caso ci metteva.
Bisognava prendere una risoluzione mi avvicinai ad un bottone di
campanello elettrico e suonai. Lo stesso domestico riapparve. «Avete
annunziata la nostra visita?»--«Immediatamente.»--«Il signor conte è
levato?»--«Signor sì.»--«Allora, ripassate a dirgli che non c'è tempo
da perdere....»--Dopo qualche minuto, la porta si schiuse, ed il conte
apparve. Si avanzò, lentamente, e con un tono di cerimonia, come
dinanzi a degli sconosciuti, ci disse: «In che cosa posso
servirli?...» Non mi perdo in commenti da darvi un'idea della nostra
stupefazione,--più che stupefazione, cominciava ad essere sdegno. «Ma,
scusi, iersera io le scrissi che lo scontro sarebbe avvenuto stamani
alle 8!»--«Ah!» fece egli, e pareva cascasse dalle nuvole! Aveva
ancora gli stessi abiti della sera, era evidente che tutta la notte
non si era svestito. «Tutto è pronto--disse il barone--e sono già le
sette e mezzo....» Il conte si passò una mano sulla fronte. «Dunque,
bisogna andare?...»

«Imaginatevi come rimanessi!--In carrozza, nessuno disse una parola.
Il conte guardava lo sfilare del paesaggio, e la sua destra passata
nello sparato dell'abito aveva un piccolo tremito. Io cominciavo a
sentire una viva inquietudine; quello che succedeva, mi faceva temere
di peggio quando saremmo stati sul terreno, con l'aggravante che
avremmo avuto da fare col terribile signor Mendosa. Il conte aveva
paura di battersi: questa era la persuasione che, malgrado la scena
drammatica a cui ci aveva fatto assistere la sera precedente, si
faceva nel mio spirito. Il ridicolo della cosa ricadeva su di noi, ed
io ero disposto a tutto, fuorchè a veder ridere il Mendosa alle mie
spalle.

«Si arrivò. Era una villa signorile, nella cui corte, al riparo da
ogni sguardo curioso, il combattimento doveva seguire. Il
combattimento! Ma il conte di Bauern pareva avesse tutte le voglie,
fuorchè quella di battersi. Guardava per aria, si pigliava la fronte
tra le mani, strappava delle foglie dalle piante--e tremava! È vero
che la mattinata era rigida. Malgrado la perdita di tempo, eravamo
arrivati i primi. S'intese una carrozza fermarsi: era il nostro
dottore. Alcuni istanti dopo, arrivarono tutti gli altri. Salutati
quei signori, mi voltai a cercare del conte. Il conte era scomparso!
Aveva oltrepassata tutta la corte ed era andato ad appoggiarsi ad un
angolo dell'inferriata del giardino. Mi avvicinai a lui e lo
ricondussi sul terreno, dicendogli con una concitazione che mi pareva
troppo giustificata: «Spero che il signor conte non perderà la sua
presenza di spirito!» Quegli altri si avanzavano anch'essi. Allora,
come il conte di Bauern scorse il Vialli, scoppiò in una risata....

--Il duello è finito!--esclamò ad un tratto il Monterani.--Ecco
Villardi che chiama la carrozza....

L'interruttore si alzò, per andare a chieder notizie, fra le proteste
degli altri ai quali l'interesse del racconto aveva fatto dimenticare
la curiosità che li aveva là radunati.

--Dicevi dunque?...

--Che il conte scoppiò ad un tratto, alla vista del Vialli, in una
risata. Dire l'impressione che quello scroscio di risa fece lì in
mezzo, non è possibile; lo scoppio improvviso di un tuono a ciel
sereno non avrebbe prodotto l'eguale. Ma la luce come di un lampo si
fece ad un tratto nel mio spirito: mi slanciai verso il conte.... Il
nostro dottore mi aveva prevenuto. Fermandomi con un gesto della mano,
e mostrando quella scomposta figura, le cui palpebre tratto tratto
battevano, dalla cui bocca uscivano mezze parole, egli disse
vivacemente «Questo duello è impossibile; il signore non gode delle
sue facoltà mentali....» E di subito, quasi a conferma di quella
sentenza, il conte si strappò violentemente il vestito, frugandosi con
una mano nel petto. Era impazzito....

--Oh! dalla paura?...--interruppe l'avvocato.

--No,--rispose Baldassare Gargano.

--E allora?

--Voi volete sapere perchè il conte di Bauern era impazzito?... Perchè
l'asserzione del Vialli nella sala dei biliardi era vera; perchè
Augusto Secchi era stato proprio l'amante della contessa....

--Che!...--esclamarono tutti.

--Pare incredibile, non è vero? Eppure era stato così!... Rientrando
in casa, quella sera, con le terribili parole ancora risuonanti
all'orecchio, che cosa aveva provato il conte di Bauern? Quale
sospetto rodente gli era entrato nel cervello? Per quali gradi
insensibili o per quale rapido passaggio, l'indignazione prodotta
dall'infame calunnia aveva dato luogo al dubbio tormentatore? Quali
prove, quali indizii, quali ricordi sorsero nella sua mente e presero
corpo? Nessuno potrebbe ridirlo. Non si possono accertare che i fatti;
ed il fatto accertato è questo: che, dopo la morte della moglie, il
conte passò, quella sera per la prima volta, nella stanza un tempo
occupata dalla defunta, e lasciata religiosamente nello stato in cui
si trovava quando era abitata. Nessuno seguì il conte in quella
stanza; ma, al nostro arrivo, il domestico aveva trovato lì il suo
padrone. In quella stanza, nascosta dentro un piccolo armadio la cui
chiave stava ordinariamente nel _nécessaire_ da lavoro della contessa,
il conte trovò la corrispondenza di Augusto con la propria moglie....
Centinaia di lettere, le prove palpabili--le più eloquenti, le più
irrefutabili!--di ciò che aveva asserito il Vialli! Quella relazione,
troncata dalla morte, durava da più di due anni; e nessuno--o ben
pochi--l'avevano sospettata, e il conte aveva votato tutto sè stesso
alla memoria della moglie idolatrata!... Che cosa accadde dentro di
lui alla improvvisa rivelazione? Dovette essere un crollo
spaventevole, una rovina terribile. Un ciclone che si abbatte sopra la
vostra casa, su tutto il vostro paese; un disastro che vi porta via
tutta la vostra fortuna e non vi lascia altro che gli occhi per
piangere; la morte d'una persona cara che isterilisce la sorgente
delle lacrime, dànno appena un'idea della miseria in cui il conte fu
repentinamente piombato. L'amor suo per la contessa era tutta la sua
vita; scomparsa la creatura reale, restava almeno nel suo cuore
l'immateriale figura, la pura idea; ed in quella religione d'oltre
tomba l'uomo trovava ancora una ragione--l'unica ragione di vivere.
Ora avveniva questa cosa orribile: la profanazione d'un ricordo, la
morte d'una fede!... Ad un tratto, quella imagine ideale portata
gelosamente nell'anima, adorata, divinizzata, invocata a tutti
gl'istanti come il supremo dei beni in tanta amarezza ed in tanta
solitudine, ad un tratto si dissolveva in putredine.... Che cosa posso
io dirvi ancora? Come poter seguire in tutte le sue fasi il processo
svoltosi nel secreto della coscienza di quell'uomo? Io ve ne ho detto
il risultato, lo smarrimento della ragione, preparato da lunghe ore di
un'agonia spirituale, affrettato dalla vista di colui che per il primo
gli aveva rivelata l'amara verità....

--Il marchese ha una spalla fracassata,--venne in quel momento a
riferire il Monterani.

--Ecco il giudizio di Dio!--esclamò l'avvocato Corsi.

--Non conosco cosa più buffa,--riprese Baldassare Gargano.--Ed il
comico di quella tragica scena, sapete voi qual era? Che il Mendosa,
alla dichiarazione del dottore, esclamò guardando in giro: «È un caso
imprevisto!...» Io non dimenticherò mai l'aria di meraviglia, di
sbalordimento, di curiosità, di indignazione, di incredulità, che alla
folle risata ed alle parole del medico gli si era dipinta sul viso: «È
un caso imprevisto!...»

«Una fede perduta, una ragione smarrita, un'esistenza spezzata, il
terribile dramma scoppiato in una coscienza, si riducevano per quel
signore ad un caso imprevisto nella giurisprudenza cavalleresca.
Evidentemente, il codice aveva una lacuna. Perchè non si dice in un
articolo che cosa bisogna fare se uno dei due avversari perde la
ragione sul terreno? E quali conseguenze diverse derivano, secondo che
l'impazzito è l'offeso o l'offensore? Come va fatto il verbale? E come
accertare la pazzia?...»

Vi era un grande umorismo nella serietà con cui Baldassare Gargano
diceva quelle cose.

--Avete ragione!--esclamò l'avvocato.--La verità,--aggiunse poi, a
modo di conclusione,--è che siamo dei matti un po' tutti.



DONATO DEL PIANO.


                                                9 settembre.

Ella parte!... Ella muore!...

Ella muore per me!... Io non la rivedrò più mai!... Quale strana,
quale fatale potenza si racchiude in questa parola breve ed acuta come
il grido che strappa il dolore? Io ne esamino la forma, ne studio il
suono, cerco di scoprirne il significato recondito: Mai! mai! mai!...

Ed è vero? ed è possibile?... Le divine emozioni che io ho provate
nella presenza di lei, la luce che si irradiava dai suoi occhi fin nei
recessi dell'anima mia, le sussurranti armonie della sua voce, la muta
comunione degli spiriti, tutto questo sta per finire?... Nulla di ciò
che si è destato in me, degli ardori, delle tenerezze, degli
entusiasmi, dei fremiti, dei delirii, degli sconforti, delle
esultanze, nulla, nulla di tutto questo resterà?... Come un bolide che
solca luminosamente l'oscurità dei cieli, e che si dissolve in una
pioggia d'oro, questo tumulto dell'anima amante si dissipa?...
svanisce?...

Mai! Mai! Mai!...

L'oscurità si fa tutt'intorno, un crespo avvolge tutte le cose. È
lutto nel cuore, è freddo nella natura.... O glorie di luce raggianti
nei crepuscoli estivi! O voci misteriose parlanti nelle paci delle
notti imbalsamate! O sospiri esalanti dai fiori oppressi di
voluttà!...


                                                      Notte.

Prima che ella parta, prima che ella muoia, prima che io la perda per
sempre, non troverò io la parola da tanto cercata? O voi, poeti
innamorati, o voi, sacerdoti prostrati nella polvere, o voi tutti che
nutrite un'aspirazione suprema, che rivolgete all'alto gli sguardi,
non mi suggerirete voi la parola finora indarno cercata?

Gl'istanti fuggono e il mio pensiero s'arresta. Nessuna idea più vi si
svolge, nessuna imagine più vi si affaccia. Io sono colpito da una
paralisi spaventevole: la paralisi della mente....


                                               10 settembre.

Ancora?... Avevo sognato che tutto fosse finito. Io ero rigidamente
composto nelle tenebre iperboree e il silenzio stagnava tutt'intorno.
Sul dubbio orizzonte un'ombra incorporea si allontanava, ed era come
se l'anima mia fosse legata a quell'ombra, ed al fuggire di
quell'ombra l'anima si distendeva, si distendeva, si distendeva come
una elastica corda, e le sue radici gemevano dentro il mio petto, ma
non per anco si strappavano; e come l'ombra correva all'infinito,
all'infinito l'anima si distendeva....

Il sole splende; la vita riprende il suo corso.

Ancora un giorno!


                                               11 settembre.


No, la Parola non esiste! Esistono delle parole, degli accozzamenti di
sillabe, delle successioni di suoni più o meno rapidi, che presumono
di esprimere l'idea, mentre ne sono separati da un abisso, da un
abisso infinitamente più grande di quello che separa i balbettamenti
del muto dalle parole.

Io non le ho detto mai nulla. Quando il prestigio della sua presenza
ha esaltate tutte le potenze della mia vita, quando il contatto della
sua mano ha trasfuso nelle mie vene nuovi torrenti di un sangue più
ricco, più rapido, più inebriante, quando tutte le cose hanno taciuto
per ascoltare il suono della sua voce, io non le ho detto nulla.

Che cosa le avrei detto? Che ella è l'adorazione costante dell'anima
mia? È troppo poco. Che vorrei avere mille vite per darle tutte per
lei? Che vorrei distruggere tutta la razza umana, perchè nessuno
respiri più l'aria che ella respira, perchè nessuno calpesti più la
terra che la sorregge, perchè nessuno contempli più il cielo che
impallidisce quando l'azzurro dei suoi occhi lo fissano? Che tutte le
anime dovrebbero gravitare intorno alla sua, come i minori astri
gravitano intorno al sole?

E dopo ciò? Che cosa saprebbe ella di quel che io provo per lei? Meno
che nulla....


                                                      Notte.

Nel tempio di Flora, in un meriggio d'estate. Si penetrava aprendosi
un passaggio tra gli arbusti dai rami strettamente allacciati, sotto
l'ombra delle acacie. Tutt'intorno si distendeva circolarmente una
parete di verzura, come un immenso merletto vegetale a cui l'azzurro
del cielo faceva da fondo. Nel centro, un gigantesco palmizio dal
fusto eretto come una colonna rôsa dal tempo, e i cui rami,
incurvandosi in alto, mettevano una cupola su quel verde recesso.
D'ogni intorno, null'altro che il verde: il verde scuro dei ligustri,
il verde cinereo degli eucaliptus, e il verde tenero, quasi giallo, di
certe robinie. A destra, un cantuccio d'Africa, una siepe di cactus
erti come pilastri, rampanti come rettili, orridi, contorti, spinosi;
e poi ancora le agavi, i banani, gli aloè. A sinistra, un angolo di
Norvegia; dei pini, degli abeti, una varietà di conifere dal fogliame
fitto e minuto come una nebbia.

Tutte queste sensazioni di verde compenetravano il cervello, lo
saturavano; ed era come se anche noi tenessimo alla terra per le
radici, se anche in noi scorressero le fresche linfe, se anche noi
vivessimo la vita immobile e silenziosa del verde. Allora, io ebbi un
istante di felicità piena ed intera: io sentiva che la parola umana mi
era fatta estranea, che il pensiero era abolito in me, che io esistevo
soltanto per lei, che io vivevo della sua vista, come l'elianto vive
della vista del sole.


                                               12 settembre.

Impressione ed espressione sono due termini fra i quali non sarà mai
possibile stabilire il segno dell'eguaglianza. Le più semplici
percezioni del mondo materiale sono immateriali, e nessuna materia
potrà mai rappresentarle. Come descrivere il profumo impercettibilmente
dolce di questa ciocca di lillà che muore nel calice di cristallo? Esso
mi riempie l'animo di un soave turbamento, mi ridesta mille confuse
imagini, mi procura delle vaghe, incoscienti aspirazioni, mi diletta e
mi opprime.... Come descriverlo? Come procurare ad un altro la
sensazione mia?... Come descrivere il colore di questi fiori? Dirò che
è celeste? Vorrà dire: colore del cielo. Ma come dare ad un cieco o ad
un minatore vissuto dalla nascita nelle profondità della terra, un'idea
di questo colore o di un colore qualsia?


                                               13 settembre.

La parola avrà tutt'al più un valore suggestivo, non mai espressivo. I
segni verbali, a cui s'è dato un convenzionale significato, potranno
destare, per associazione, l'idea ad essi attribuita, ma non
rappresentarla _direttamente_.

Io non voglio dirle che l'amo! io vorrei farle _vedere_ il mio
sentimento, tutti i moti dell'anima innamorata: io vorrei farle
leggere nella mia coscienza, farle assistere, come un altro _io_, a
tutto quello che nel campo della mia coscienza si svolge....


                                               14 settembre.

Che cosa importa? Da secoli e da secoli, il linguaggio serve ai
bisogni dell'umanità. Perchè ti preoccupi tu dell'imperfezione di
questo strumento? Quale movimento di superbia ti persuade a
disdegnarlo? Perchè non tentare di esprimere, bene o male, il
sentimento di cui tu vivi?


                                                       Sera.

No! No! Qualcuno mi dà ragione.

Vi sono degli stati dell'animo troppo fini per essere nominati, troppo
spirituali per ammettere un'espressione sensibile. L'estasi è uno di
questi stati. Il puro Spirituale è escluso dal linguaggio umano.
(Bossuet).

Ed Ella è la più pura delle Spiritualità! L'amor mio è un'estasi
infinita! Che cosa possono le parole per me?...

No! No! Come i mistici in orazione, io non posso dirle che l'amo
altrimenti che amandola.


                                               16 settembre.

Pietà! Pietà!... È per oggi....

Sogno gentile, alata fantasia, ombra inafferrabile, non fuggire--per
pietà!--non fuggire lontano!... Come non hai tu indovinato ciò che io
non ti ho detto, ciò che io non ti _potevo_ dire?... Credi tu che
potrai un'altra volta essere amata come da me?... Oh, se esiste
qualcuno che sappia farti felice, possa il mio voto esser compiuto, se
non da me, almeno come io vorrei!...


                                                Mezzogiorno.

Pietà, Signore, pietà!... La mente si perde, la vita si spegne....
Tutto è sospeso in me, d'intorno a me. Io ho la sensazione
dell'arresto del tempo. Nel silenzio delle cose aspettanti, si ode il
battito lento del mio cuore così gonfio di sangue e di lacrime che sta
per scoppiare....

O Sogno! Sogno! Sogno!


                                                      Ore 2.

Che urlo! che urlo rauco, selvaggio, lacerante!... Il mostro ansava,
sbuffava, fremeva, sprizzava faville di fuoco--il mostro di ferro che
come un serpente si snodava e spariva....

Se dall'oppresso mio petto potesse esalare un simile urlo, rauco,
selvaggio, lacerante!... Che cosa hanno rovesciato sul mio petto? Una
valanga? una montagna?... Aiuto!... Soccorso!... Nessuno sente la mia
voce.... Io soffoco.... io sono sepolto vivo . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


                                               1.^o ottobre.

Quando Ella sedeva al piano, nei giorni felici di questa primavera
splendente nella memoria, i suoni dolci, carezzanti, giocondi, le
melodie lente, cullanti, gli accordi tristi, dolorosi come gemiti di
moribondi, le parlavano essi per me? Le ripetevano essi i gemiti sordi
che io soffocavo dentro il mio cuore? Le narravano essi le aspirazioni
dell'anima mia assetata d'amore? Le promettevano essi il paradiso di
felicità che spiegava ai miei occhi affascinati i suoi luminosi
miraggi?...


                                                  4 ottobre.

«Nessuna creatura umana è compresa da nessuna creatura umana.»
(Taine).

L'impossibilità di una tale comprensione deriva unicamente
dall'impossibilità dell'espressione. In un'ora di raccoglimento
interiore, a centinaia e a migliaia le aspirazioni, gl'impulsi, i
propositi nobili od abbietti; le persuasioni, i giudizii, i concetti
fondati o falsi; le imagini fantasmagoriche, i ricordi e le previsioni
col loro corteggio di pentimenti, di rammarichi, di delusioni, di
speranze, di compiacenze, sorgono nella mente, brillano più o meno a
lungo e si spengono nelle tenebre dell'incosciente. Quanti di siffatti
momenti psicologici, la cui serie costituisce il mio _io_, sono da me
manifestati--ammesso che la manifestazione sia adeguata? Una parte
infinitesimale. Di me non si conosce se non quello che io faccio--ed
un'azione apparentemente generosa può essere determinata da ignobili
moventi--e quello che io dico. Ora, le mie parole non rispondono mai
al mio pensiero--perchè sono parole; vuol dire qualcosa di
determinato, di concreto, di fisso, di immutabile; ed il pensiero
possiede le qualità perfettamente opposte; esso non _è_, ma _diviene,
si fa_, in una gestazione perenne.... Le parole non rappresentano se
non un fuggevole istante di questa rapidissima successione--ed è come
se uno, per dare l'imagine del movimento, rappresentasse il mobile
fermo in diversi punti della sua traiettoria.


                                                 15 ottobre.

Talvolta io fingo con me stesso, nell'intimità impenetrabile della mia
coscienza, e spesso non so dove finisce la sincerità, e dove comincia
la menzogna.

Se io non posso gettare uno scandaglio in questo baratro del mio
pensiero, come potrà altri esplorarlo per mezzo delle mie parole?


                                                      Notte.

Talvolta, io non l'amavo....


                                                 16 ottobre.

È un mese che io non parlo più, che dal mio labbro non escono se non
le poche parole necessarie ai brevi rapporti di questa mia vita
raminga. Quando io mi son deciso a parlare, nel tempo che pronunzio le
prime parole, il mio pensiero è già mille miglia lontano da quel punto
di partenza.

Io mi ripiego su me stesso, io vivo di me e per me: l'anima mia è un
mondo, e la vita cesserà prima che io ne abbia compiuta
l'esplorazione.

Leggo talvolta, e le voci dei grandi spiriti poetici, dei pensatori
profondi, risvegliano mille echi nelle più recondite pieghe della mia
mente.


                                                       Sera.

M'inganno ancora. La parola scritta risponde più imperfettamente
all'espressione del pensiero. Parlando, si è più ingenui, più fedeli,
più veri; la scrittura è un'arte--voglio dire un artifizio. Il periodo
non esce bello e foggiato dal cervello; esso è invece il frutto di
mille tentativi, di mille ricerche, di mille pentimenti; la sua
coesione è tutta opera dello studio, il pensiero è per sè stesso
ondeggiante, incoerente, indefinito....


                                                 17 ottobre.

Perchè prendo queste note su di me stesso? Se la parola traduce male
il pensiero, come pretendere di adattarla all'espressione del
sentimento?

Se le mie parole fossero come i rintocchi di un mortorio, in una
campagna spogliata e deserta, sotto un cielo plumbeo e opprimente come
il coperchio di una bara, esprimerebbero esse l'agonia dell'anima?


                                                 18 ottobre.

Nelle grandi emozioni, nei dolori cocenti, nelle gioie profonde, si è
muti. Le parole scorrono più abbondanti, più facili, quando il cuore è
tranquillo; se esso precipita o rallenta i suoi palpiti, non escono
dalle labbra che grida inarticolate.


                                                 19 ottobre.

«Nella conversazione, ordinariamente, s'inventa poco; più volontieri
si ripete ciò che si è già detto, imparato o pensato; la parola
interiore, al contrario, è il linguaggio del pensiero attivo,
personale, che cerca, che trova e che si arricchisce del suo proprio
lavoro.» (Egger).


                                                       Sera.


Quando io parlo ad alta voce, il pensiero interiore è per me
sensibile--ed io noto il disaccordo.


                                                 20 ottobre.

«Noi abbiamo più idee che parole. Quante cose sentite e che non sono
nominate! Di queste cose ve ne sono senza numero nella morale, senza
numero nella poesia, senza numero nelle belle arti.... Le parole non
bastano quasi mai per rendere precisamente quel che si sente.»
(Diderot).


                                                 22 ottobre.

Troverò io mai l'entusiastico slancio che destò in me un giorno la
marcia del _Tannhäuser_ eseguita da lei?... Come l'araldo annunzia
l'arrivo del corteggio, sfilano maestosamente i landgravi, i margravi,
i principi, i feudatari che vengono con le loro dame alla lotta dei
cantori nella Wartburg. Il sangue affretta il suo moto, l'anima si
esalta nell'aspirazione ad una vita più intensa, gloriosa ed
eroica....


                                                       Sera.

Quest'arte dei suoni è l'unica che sappia conseguire una diretta
espressione dei moti dell'anima. Il sentimento è un movimento, e nel
movimento consiste la principale virtù del suono. L'emozione, che
nessuna parola riesce ad esprimere, è per sua natura vaga, indefinita;
questo carattere è quello che la musica consegue mirabilmente.

Beethoven è il più grande psicologo. Qualche volta io sento di
arrossire, tanto a fondo scruta nell'anima mia.


                                                 25 ottobre.

Quando i miserabili accozzatori di parole hanno detto che una
sensazione od una emozione sono ineffabili, hanno detto tutto.

È una confessione d'impotenza.


                                                 26 ottobre.

«Io qui non esprimo abbastanza bene quanto le nostre anime erano in
comunicazione in quel momento. In generale, io non posso esprimere le
sfumature delicate, il profondo, il meglio delle cose, perchè i
termini mancano....» (Stendhal).


                                                 27 ottobre.

Lo svolgimento del periodo musicale imita ancora più da vicino lo
svolgimento del pensiero, coi due salienti caratteri di continuità e
di multiformità. Intorno alla frase principale altri motivi meno
distinti si affollano, come una congerie di idee e di imagini fa
corteggio al pensiero dominante.


                                                      Notte.

Io non andrò più a teatro. L'opera in musica è una profanazione.
L'elemento personale che gli esecutori vi portano offende la pura
spiritualità dell'armonia. Le parole che l'accompagnano, precisando
troppo il significato della rappresentazione, le tolgono quel
carattere di subbiettività che solo può renderla fedele.

Wagner che sdegna i drammi troppo umani della storia, per cercare i
suoi soggetti nella fantastica leggenda, è ancora schiavo del reale; i
suoi eroi sono ancora degli uomini. Wagner che sdegna il mondo
esteriore per cantare le crisi spirituali, non rinunzia abbastanza
alla materia mettendo il suo canto in bocca di odiosi personaggi
d'ossa e di carne.

Il poema sinfonico eseguito da suonatori invisibili è la sola forma
conveniente. Dove trovarla?


                                                 31 ottobre.

Se le mie parole potessero ripetere tutto, _tutto_ quello che mi passa
per il cervello, le processioni tumultuose di imagini, i pensieri
frammentari, le fulminee associazioni di idee per cui i termini più
lontani nel tempo e nello spazio sono ad un tratto ravvicinati, la
gente mi giudicherebbe _pazzo_....


                                                 2 novembre.

Grigia, minuta, a larghe falde, piove la cenere dal cielo ottenebrato,
e ricopre la terra, e seppellisce i viventi. Nei campi agguagliati,
piccole elevazioni indicano il posto di una tomba; ma ben presto
quelle pieghe si livellano anch'esse, e per l'immenso cimitero dei
mondo niun segno distingue più la cenere della terra dalla cenere
delle generazioni mietute...

Così cantava l'organo.


                                                 3 novembre.

Ecco quello che io cercavo.

Questo strumento monumentale, che si slancia a guglie come anelante
all'alto, dalla voce piena, grandiosa, possente, fatta di milioni e
milioni di vibrazioni sonore che si fondono in una; questo strumento
sul quale mani invisibili si esercitano, traendone suoni che errano
per la vastità delle navate, sotto il cielo delle cupole, in un
ambiente dove tutto è disposto per parlare della vita spirituale, è il
solo che valga la pena di essere ascoltato.


                                                 5 novembre.

L'organo di Donato del Piano è uno dei più mirabili di Europa. Ha
cinque tastiere, settantadue registri, e duemila novecento sedici
canne.

La chiesa è la più grande di Sicilia, il convento uno dei maggiori del
mondo. È tutta una piccola città. Vi sono corridoi lunghi come strade,
delle corti vaste come piazze, due giardini, un museo, una biblioteca.


                                                12 novembre.

Se l'idea mi costa, l'azione mi ripugna. Nulla di quanto mi circonda
può riuscire ad interessarmi. Il _vero_ reale è ciò che si passa nel
mio spirito: la finzione, l'illusione, è il mondo esteriore. Nulla
esiste, fuor che l'idea....


                                                15 novembre.

Nella mia cella, vi è un ritratto dell'abate del Piano. È
rappresentato con la sinistra sorreggente un libro sopra un tavolo; in
fondo l'organo e una imagine della Vergine che nasconde a mezzo una
corona d'alloro. La testa è piccola, molto modellata; occhi grandi,
naso profilato; rughe profonde solcano la fronte e le guancie.
L'iscrizione dice:

_Sac._ DONATUS DE PLANO _ortus Nivani in Diocesi Aversana--a
parentibus Thoma, et Vrsula Chiarello--claruit morum innocentia, et
virtutibus omnimodis, auctor musicorum organorum Monrii Cassinensium
S. Nicolai de Arenis Catinae, ubi diu commoratus obdormivit in Dno
pridie idus Junias An. 1785 aetatis vero suae 80 præter menses X et
dies VI atque in eo jacet._

Egli è sepolto sotto il suo capolavoro; fu l'unico compenso da lui
chiesto. Quest'organo gli costò dodici anni di fatiche; uscì _tutto_
dalle sue mani.

Quando l'aria s'ingolfa in quella foresta di canne vibranti, quando le
onde sonore se ne sprigionano allargandosi tutt'attorno, l'anima
dell'abate deve vibrare all'unisono.


                                                16 novembre.

Silenzio! silenzio!... che meraviglia!... ascoltate!

Basse, umili, incerte, delle voci si levano confusamente, in un limbo
di attesa angosciosa. In mezzo al coro, una finisce per emergere,
lunga, triste, narrante i dolori di tutti. Oppressi, circondati dalle
tenebre impenetrabili sono gli spiriti, e da tanto dura l'esilio,
ch'essi hanno perduto ogni speranza. Gli spiriti assentono, con gemiti
sordi.--O voi che il sole illumina, o voi che veste l'etere, non ne
avrete pietà?--Silenzio. Più debolmente:--O voi che veste l'etere, non
ne avrete pietà?--Silenzio. La voce muore. Allora il turbine degli
spiriti ripiglia la sua corsa, avvolgendosi a spire, scindendosi in
cerchi, cadendo incessantemente per un abisso senza fondo, dove le
tenebre sono sempre più fitte, dove il freddo è sempre più acuto. Lo
strazio è infinito; l'anima si schianta.... Un tuono formidabile che
scuote la terra dalle fondamenta. La caduta si arresta. Dall'alto,
brilla un punto luminoso che s'ingrandisce, s'ingrandisce,
s'ingrandisce, saettando raggi più vivi, allagando tutto di luce
gioconda. Un canto serafico di laudi e di trionfo. Su, su, di sfera in
sfera, agili, leggieri, balzano gli spiriti eletti; su, su, per
l'etere chiaro, nel fluido zaffiro, tra le danze degli astri
immortali....


                                                 6 dicembre.

Quando si schiude il registro della _voce umana_, qualcuno parla,
qualcuno chiama.


                                                   Dicembre.

Non ho ancor visto l'organista, nè voglio vederlo; non voglio neppure
conoscere la musica ch'egli eseguisce. Che cosa importa? Essa non ha
altro significato se non quello che io le do. La grandezza di
quest'arte è a patto della sua subbiettività.

L'oggetto non esiste se non in quanto è pensato da un soggetto. Le
cose sono nelle coscienze umane; abolite queste, tutto è abolito....


Nessuna notizia del mondo arriva più fino a me; ho perduta la misura
del tempo.

Io _so_ che Ella è morta.

Silenzio!... Ascoltate.

Nel mare della Serenità fila la nave con moto eguale; la pace è nel
cielo, la calma è nel mare. Perduto ogni vestigio di terra. Il
biancore plenilunare inonda di spazii, inargenta le acque dormenti.
Fila la nave con moto di culla e la sua corsa è lunga e senza mèta
come le vaghe aspirazioni umane. Al suo passaggio, grandi pieghe si
formano sulle superficie delle acque, e pare che le acque fuggano
guizzando. Ma se si leva all'alto lo sguardo, tutto rientra nella
silente immobilità, e solo l'insensibile moto della nave culla e
addormenta....

Notte. Tutto tace.

Il silenzio è pieno di rumori, di zufolii, di strepiti, di squilli, di
tintinnii. Talvolta si odono anche delle voci....

Chi mi chiama?

In mezzo ai corridoi, i lontani fanali proiettano delle ombre
smisurate, grottesche, spaventevoli. I quadri polverosi mostrano
confusamente le loro figure dagli sguardi immobili, insostenibili. Il
vento che passa per le fessure delle imposte, che s'ingolfa pei
corridoi, ha dei suoni gravi e lunghi come quelli dell'organo.

Che vista!

Nella notte profonda, le immense finestre della cupola si disegnano
vivamente illuminate. La luce non è eguale, ma vacillante come se
delle grandi ombre errassero tutt'intorno. Quale cerimonia si celebra
a quest'ora nella chiesa?...

La chiesa è vuota. Sono sceso dalla sacrestia, ho guardato da una
vecchia porta tarlata. Nessuno. La luce parte non so di dove. Le
lampade dei pilastri, le torcie degli altari, le candele delle lumiere
non ardono. L'organo canta....

Sono le anime che cantano, sono le anime che parlano il loro
immateriale linguaggio. Il canto è fievole, triste, doloroso, quando
esse dicono i ricordi della terrena esistenza; limpido, sereno,
giocondo il canto si effonde quando le anime narrano le paci ed i
tripudii della vita spirituale.

Cori d'armonie, torrenti di anime vibranti, prendetemi con voi,
trascinate con voi l'anima mia, perchè, appreso il vostro linguaggio,
essa esprima finalmente le sue angoscie e le sue esultanze.

Vi sono certi accordi chiari come fasci di luce penetranti nel buio.
Certi lenti tremolii sono pieni di silenzio....

Quando si schiude il registro della _voce umana_, qualcuno parla,
qualcuno chiama.

Il padre guardiano vuole distogliermi dal mio proposito; dice che
l'impresa è arrischiata, che bisogna avere il piè fermo e l'occhio
avvezzo alle vertigini del muratore o del marinaio.

La scala di ferro descrive un grande arco, adattandosi sull'emisfero
della cupola fino al lanternino.

Di lassù, la vista dev'esser più grandiosa, l'occhio deve abbracciare
un orizzonte immenso, il respiro deve trarsi più profondo, l'anima
deve spaziare liberamente...


                                                      Notte.

La chiesa è illuminata ancora, le finestre si incendiano
nell'oscurità. L'organo canta....

Dall'alto della cupola, l'effetto dev'essere meraviglioso. Le
vibrazioni delle anime, rinforzate tutt'intorno per la vuota sfera,
convergenti concentricamente in un punto, devono acquistare una forza
ed una fusione straordinaria.

Il padre guardiano mi ha fatto discendere a viva forza, minaccia di
chiudermi nella mia cella.

Non tenterò per ora. La porta aerea del campanile, da cui si va nella
cupola, è sempre aperta, giorno e notte....

Il terrore dei sogni; dei soli lividi, senza raggi, spaventosamente
immobili nel cielo tenebroso....

Ancora! La luce vacillante... i suoni dell'organo.... Ah! il registro
della _voce umana_!...

Ella si lamenta, fiocamente. Perchè la lasciai? Perchè non la seguii?
Come dolorosamente patì! Il pianto bruciava le sue gonfie palpebre,
struggeva le sue pallide guancie. Perchè la lasciai? Perchè non la
seguii?...

No! Ella si dà torto. La colpa non fu mia. Nella vita terrena avremmo
entrambi sempre sofferto! Nella vita terrena saremmo sempre stati
disgiunti!... Io non le dissi mai nulla; che cosa le avrebbe detto la
parola umana? Dal cielo spirituale dove Ella spazia, vede la miseria
nostra....

Ora mi compiange, s'impietosisce alla sorte mia. Io sono ancora tra i
lacci, io sono ancora nel buio. La sua voce si fa più tenera, più
dolce; mi sfiora la fronte come una mano materna. «Riposa, povero
amore, sogna un sogno felice.» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dall'alto della cupola, l'anima di Donato del Piano spicca i suoi voli
liberamente. La porta aerea è sempre dischiusa, il padre guardiano
dorme, la notte è profonda. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Silenzio! La _voce_ riprende.

Era un'alba di primavera: il primo apparire della luce sulla terra
dormente e silenziosa mentre le stelle impallidivano in cielo. Ella
moriva, e tutt'intorno risuonavano le nenie ed i lamenti. Perchè
piangevano? La gioia rientrava in lei a misura che l'istante si
avvicinava, e quando il primo raggio di sole lampeggiò come una spada,
l'anima sciolse il suo volo. Pura, gioconda, libera, volava incontro
al sole. Nelle chiarezze diafane, nelle luminosità iridescenti, le
anime volano eternamente, in cerca delle anime predestinate. Quando
s'incontrano, inni di trionfo risuonano per l'etere, echeggiano pei
cieli profondi.... «Vieni dove io ti aspetto, dove t'aspetta il
gaudio, dove ogni brama è paga. Ascolti tu queste voci?...» Dolci,
teneri, soavi, dei sussurri si levano intorno. Sono le anime amanti,
le disposate anime, che si dicono eterne cose. «Impara questo
linguaggio; che tu mi comprenda, che tu mi risponda. In alto! in alto!
in alto!...» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La porta aerea è dischiusa.... Vengo. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


Questo manoscritto si rinvenne in una cella del monastero dei
Benedettini di Catania, il giorno che un tedesco lì ospitato e affetto
da una mite pazzia, fu trovato cadavere informe sulla spianata del
campanile, dove la sua caduta dall'alto della cupola era stata
arrestata.



LA MORTA.


I.

.... Che cosa fare delle lettere d'amore prima di morire? Ogni altra
carta può legarsi agli eredi; essi custodiranno certamente le
importanti, e le inutili saranno distrutte. Ma che cosa faranno delle
lettere d'amore, quando la persona a cui furono dirette è spirata?
Sguardi profani percorreranno indifferentemente, forse con un
sarcastico sorriso, quelle linee che già fecero battere più forte un
cuore ora spento. Il secreto di quel cuore sarà profanato!... Da
un'altra parte, come rassegnarsi a distruggere con le proprie mani
quei documenti in cui è la prova che si è vissuto? Non sarebbe un
morire più presto?... Ricchezza inestimabile agli occhi di chi le
possiede, quelle carte perdono ogni valore per tutti gli altri, simili
in questo ai tesori di certe leggende diaboliche che si convertono a
un tratto in un mucchio di sassi e di cenere... Che cosa fare delle
lettere d'amore prima di morire?...

Seduto al suo scrittoio, col gomito appoggiato alla cassetta dischiusa
e la testa nella mano, Roberto Berni si rivolgeva da un'ora quella
domanda. Le sue lettere erano lì, riunite in piccoli fasci sui quali
erano tracciati dei segni convenzionali, ancora tutte odoranti d'un
profumo indefinibile di cui la cassetta era impregnata. Ed a quel
profumo, come per virtù d'una magica operazione, una figura sorgeva
dinanzi a Roberto, così viva, così presente, come se il tempo e la
morte non si fossero frapposti, come se una nuova vita non fosse
cominciata per lui. A momenti, egli stendeva la mano per prendere
qualcuna di quelle lettere: poi si arrestava, in preda ad uno
scrupolo. Il ritratto di sua moglie nell'antica cornice di bronzo lo
guardava coi begli occhi sereni, ed egli sentiva il sangue colorargli
le guancie dinanzi alla fermezza di quello sguardo. Gli pareva che
quel ritratto si sarebbe animato se egli si fosse deciso ad aprire una
di quelle lettere, se egli avesse finalmente ceduto all'imperiosa
tentazione di evocare una storia di cui aveva lì davanti le uniche
testimonianze.... Le uniche, no. Ve n'era un altro, dei ritratti, in
fondo alla cassetta, sotto il fascio delle lettere; un altro che egli
non aveva rivisto da anni e che ora lo chiamava, lo attirava con la
prepotenza di una nostalgia. Perchè non lo avrebbe rivisto?... Perchè
sarebbe stata una colpa!... Gli risuonava ancora all'orecchio
l'accento teneramente malfermo con cui, un poco prima, sua moglie gli
aveva annunciato che le sue speranze si confermavano, che la loro
unione sarebbe resa fra breve più intima dal più tenero e dal più
indissolubile dei legami. Provava ancora sulle labbra la freschezza
della fronte di lei, su cui aveva stampato, in premio della lieta
novella, un lunghissimo bacio. La sentiva ancora discutere gravemente
sulla scelta di un nome per la loro bambina--sarebbe stata una
bambina, la desiderava tanto! egli non se ne sarebbe avuto a male? gli
uomini sogliono preferire i maschietti!...--E come ella era andata via
a comunicare la notizia alla mamma, rovesciato sopra un divano, cogli
occhi socchiusi, egli s'era sentito travolgere da un turbine di idee e
d'imagini.

Vi è una specie di stratificazione dei sentimenti, come vi è una
stratificazione dei terreni di cui si costituisce la crosta del globo;
il cataclisma che mette a nudo le formazioni preistoriche trova il suo
riscontro nelle crisi della coscienza che sollevano l'antico fondo
sepolto sotto le impressioni di più fresca data. Uno sconvolgimento di
questo genere era quello operatosi in Roberto Berni; soltanto, esso
non era dovuto ad un urto repentino e violento. Insensibilmente, a
propria insaputa, un movimento di reazione interiore lo aveva rivolto
dalla presente adorabile realtà ad una lontana, tormentosa memoria.
Per la prima volta dopo tanto volger di tempo, dimenticando tutto ciò
che lo circondava, strappandosi alla sua fantasticheria, egli aveva
osato di rivedere le reliquie della sua giovinezza, di rimescolare gli
avanzi di una storia finita in una tomba precocemente ed
improvvisamente dischiusa. Ora, nel contrasto fra il bisogno di
evocare in tutti i suoi particolari quel passato in cui aveva lasciato
tanta parte di sè, e il dovere che egli sentiva incombergli di
dimenticarlo, il ritratto di sua moglie, su cui i suoi sguardi erano
inchiodati, si sbiadiva, si confondeva, si cancellava, e sugli
scomposti lineamenti un'altra figura si disegnava, più precisa, più
netta, più attraente: la figura della Morta.... Egli non aveva più
bisogno di cercare l'altro ritratto: la vedeva come se l'avesse
dinanzi! Sua moglie non lo guardava più, non avrebbe potuto più
rimproverarlo col suo immobile sguardo! E, risolutamente, dimenticando
tutti i suoi scrupoli, Roberto Berni disciolse uno dei fasci di carte.

Per il primo, un telegramma gli cadde sotto gli occhi, un telegramma di
città dal grosso carattere nero, così fresco come se fosse arrivato
soltanto il giorno innanzi, «_105 2000 3 24_ B.» Degli anni erano
passati, mille altre vicende avevano lasciato le loro traccie nel suo
cuore e nella sua mente; ma l'impressione di angosciosa inquietudine
destata da quel telegramma si rinnovava, e così scuotente come la prima
volta.... Aveva egli ben letto? Il convenzionale cifrario era stato
bene interpretato? «Domani, nell'ora e nel luogo consueti, a qualunque
costo, per un affare grave...» Che cosa voleva dire?... E ad un tratto
egli si rivedeva sulla strada maestra del villaggio, trascinato al
trotto serrato della carrozza che s'avviava verso la villa del conte
Des Fayolles; vedeva il paesaggio sfilargli rapidamente dinanzi senza
più distinguerne le particolarità che, nella frequenza di quelle gite,
gli si erano stampate nella memoria e con la loro successione prevista
gli indicavano l'avvicinarsi della meta sospirata. Ora i cavalli si
erano messi al passo nella ripida salita serpeggiante per il versante
della collina, e un'impazienza tormentosa s'impadroniva di
lui.--Sferza! più presto!--I cavalli acceleravano il passo un istante,
col collo teso, faticosamente; poi si abbattevano, lasciavano pendere
la testa, bianchi di sudore sotto la pioggia di fuoco di quel
pomeriggio d'agosto. Cogli occhi, con la forza del pensiero egli
spingeva la carrozza, cercava di farsi più leggiero sui cuscini
scottanti, metteva ad ogni istante il capo allo sportello, battendo i
piedi, torcendosi le dita, con un'angoscia crescente all'idea
dell'ignoto pericolo che gli sovrastava, che le sovrastava.... Uno
schioccar della frusta, ed il trotto riprendeva, più serrato, al
cessare dell'erta. La pieve di S. Lorenzo.... il _Belvedere_... il
crocevia della Pineta.... Finalmente! Egli saltava dalla carrozza non
ancora ben ferma e spariva per la viottola sassosa, incassata fra gli
alti muri da cui sporgevano l'edera e i rovi. Ah! la porticina del
parco!... Ella era lì, pallida, tremante... lo afferrava con una mano,
mentre portava con l'altra un fazzoletto alla bocca....--Che è stato?
In nome di Dio, che è stato?...--Ella non poteva parlare, in preda a un
moto convulsivo, che dal petto le saliva alla gola, soffocandola; pure
trovava la forza di toglierlo di lì, dove potevano essere scorti, e di
trascinarlo verso lo _chalet_ nascosto dietro la cinta delle araucarie
e dei cedri del Libano. Lo _chalet!_ l'angolo più remoto e silenzioso
del parco! il _paradiso terrestre!_ il luogo verso cui sempre volava il
suo pensiero, sulle ali del desiderio! il testimonio di una felicità
che egli aveva sperato inesauribile!...--Ma che cosa era dunque
successo?...--Inginocchiata sul tappeto di stuoia, con le braccia
distese verso di lui, ella balbettava disperatamente: È finita! È
finita!...--Come? perchè? chi poteva avere la forza di opporsi al loro
amore, di sciogliere i loro corpi da una stretta come quella che ora li
avvinceva, faccia a faccia, tremanti, ansiosi, smarriti?...--Mio
marito....--Ebbene?...--Ha tutto scoperto....--Non è che questo?--E
parte, domani! gli ordini sono dati, tutto è disposto.... Egli torna in
Bretagna, comprendi?... torna nelle lande delle Fayolles, a migliaia di
leghe da qui...--Repentinamente, egli si era disciolto da quella
stretta.--E tu lo segui?--O Roberto, che fare?...--Infatti!...--Ora
egli passeggiava per la stanza, in preda ad una cupa concitazione; uno
sgabellino di bambù lo fece inciampare; afferrarlo e spezzarlo fu
tutt'uno.--O Roberto--supplicava lei, accasciandosi--dici tu come fare!
Come resistere a quella volontà di ferro? Io ho paura di quell'uomo,
Roberto; come resistergli?...--Come? Lasciandolo! venendo via con me,
oggi, ora, sull'istante, per la porticina che mi hai dischiusa, nella
carrozza che mi ha condotto fin qui; venendo con me per sempre,
mettendo una fine a questa vita di palpiti, di angoscie, di
separazione, a questa morte lenta e continua; venendo con me per
realizzare il paradiso in terra, il paradiso vero, il paradiso eterno;
venendo via con me perchè tu sei mia e nessuno può avere la forza di
strapparti da me...--Sì, sì....--Ella si trascinava verso di lui, lo
afferrava alle ginocchia, rifugiando nel suo lo sguardo impaurito.--Sì,
sì!... portami via... quell'uomo mi ucciderà!... Portami via con te....
Ah! mia figlia....

E cadde di nuovo per terra. Egli le si era inginocchiato vicino,
sorreggendole la testa.--Ebbene, tua figlia? Non sei tu già separata
da lei?...--Ma egli la farà morire! me lo ha detto!... Se io non lo
seguo egli la farà morire!... No, Roberto; non fra le sue mani la
creatura mia!...--Allora?... Era proprio finita? era finita per
sempre? Non si sarebbero più rivisti? Non l'avrebbe egli potuta
seguire?--Dove? Tu non sai quale vita mi aspetta?...--Non avrebbe
almeno potuto provocare quell'uomo, ucciderlo o farsi uccidere?--Non
si batterà!--Ammazzarlo a tradimento, ammazzare tutta la sua razza?...
Ah, egli delirava! egli perdeva la testa!... Allora, era proprio
finita?... E con una forza sovrumana essi si erano avvinghiati l'uno
all'altro, così strettamente, così ferocemente come se avessero voluto
soffocarsi, come se avessero preferito morire in quel momento se da
quel momento non dovevano più rivedersi.... Un rumor di passi sulla
ghiaia del lontano viale....--Addio, Roberto... addio....

E poi? Che cosa era poi successo? La cascina, il parco, la porticina,
il sentiero, il crocevia della Pineta... egli non ricordava più nulla.
Come aveva fatto ad andarsene? Di dove era passato? Si ritrovava
dinanzi alla carrozza, senza sapere perchè lo aspettasse, perchè vi
prendesse posto. Ma come la frusta aveva sferzato l'aria fischiando e
i cavalli si erano mossi, un grido veemente gli era uscito dal petto;
«Arresta! Arresta!» E rapidamente, come impazzito, come inseguito,
avea ripreso la viottola del parco. Rivederla! Bisognava rivederla!
Come era possibile che egli l'avesse lasciata? A costo della propria
vita, a costo della vita di entrambi bisognava rivederla, non fosse
che un istante.... La porticina era chiusa; ogni sforzo per aprirla
riusciva vano. «Bianca!... Bianca!...» Il grido si perdeva nel
silenzio afoso del pomeriggio. «Bianca!... Soccorso!...» Tentò di
arrampicarsi sul muro, lacerandosi gli abiti, le mani, la faccia. A
mezz'altezza, cadde. «Bianca!...» Ebbe ancora la forza di sollevarsi,
si avventò di nuovo contro la porticina, vi dette su la testa....

Roberto Berni si era alzato di scatto. I ricordi si succedevano così
vivi come se la scena si svolgesse in quello stesso momento. Tutta
l'oppressione dei giorni tramontati si rinnovava, da togliergli il
respiro, da costringerlo a schiudere la finestra in cerca d'aria....

Così l'aveva perduta! Il domani della separazione fatale, destandosi a
casa sua dove il cocchiere lo aveva trasportato fuori dei sensi, un
altro telegramma dalla stazione di Bardonecchia gli ripeteva l'ultima
sua parola: «Addio!...» E poi, delle lettere rare, ad intervalli
sempre più lunghi, ed il tormento di non poterle scrivere, di non
poterle far pervenire nulla che le parlasse di lui.... E poi, un
silenzio di lunghi e lunghi mesi; e poi, una sera al Circolo,
l'annunzio brutale letto nelle _Nouvelles et Echos_ del _Gil Blas_,
fra uno scandalo parigino e la _réclame_ di un nuovo romanzo. «Nous
venons d'apprendre la mort de M.^me Bianca des Fayolles, la femme de
M. le comte Léopold des Fayolles, dêcédée à son château de Bretagne
des suites d'une maladie de coeur»....

Malgrado sapesse a memoria quelle poche parole, Roberto Berni
s'avvicinò di nuovo al suo tavolo e con mano tremante rovistò nella
cassetta. Il _Gil Blas_ era lì, gualcito, bucato, ingiallito nelle
pieghe. «Nous venons d'apprendre....» e come lesse il suo nome, il
nome di Bianca, il nome della sua Bianca morta e adorata, scoppiò in
pianto dirotto. Con labbra convulse, amaramente e disperatamente, egli
chiamava: Bianca! Bianca! Bianca!... e baciava le sue lettere su cui
le lacrime cadevano, grosse e roventi. Ora l'imagine di lei non si
stampava più sul ritratto di sua moglie, e lo sguardo di costei
tornava a fissarsi sereno come prima sul suo. Che cosa voleva? Che
cosa pretendeva? Non sapeva che quello era stato il suo amore, il suo
primo, il suo grande amore? Era gelosa della morta? Di che cosa era
gelosa, se lo aveva tutto per sè? Se qualcuno doveva essere geloso,
era la sua povera morta dimenticata, era la sua povera morta sulla cui
tomba egli non si era inginocchiato, non aveva pregato, non aveva
portato un sol fiore!... No, egli non se n'era scordato!... Il tempo
aveva rimarginata la piaga, ma essa ora si riapriva e il sangue ne
grondava!... La vita aveva potuto riprenderlo, distrarlo, creargli
altre cure; ma la miglior parte di sè era sepolta con lei!... Un'altra
donna aveva potuto sorridergli, amarlo e farsi amare; ma il ricordo di
Bianca, della sua morta, viveva ancora in lui, sarebbe sempre vissuto,
puro, ideale, immortale come una religione . . . . . . . . . . . . . .

Il fruscìo d'una veste. La signora Berni, avvolta in una mantiglia
luccicante di _jais_, le mani nascoste nel manicotto, il cappellino
ancora in testa, si avanzava verso il marito, affrettando il suo
piccolo passo.

--Roberto, Roberto, hai tu trovato?

Egli non aveva l'aria di intendere.

--No?... È un affare grave! La mamma non vuole assolutamente che si
chiami come lei. «Lucia! o dov'è Renzo?...» E rideva! A me non
dispiacerebbe, per via dell'affezione, capisci!... Intanto, se sarà un
maschietto, le difficoltà sono belle e troncate; si chiamerà Roberto;
il più bel santo del calendario!...

E gli passò una mano dietro la testa.

--Tu cosa fai? Sei molto occupato?...

Girando uno sguardo sul tavolo, scorse le lettere, un ritratto. Vide
che le sue labbra tremavano.

--Oh, scusa....

E balbettata confusamente quella parola, si avviò verso l'uscio.

Non si sentì richiamare.


II.

Ella sapeva tutto. Sapeva che dedicandogli tutta la verginità del suo
cuore non avrebbe potuto contare sul contraccambio. Sapeva che egli
aveva vissuto, che era stato di altri, che le rughe solcanti la sua
fronte segnavano il lutto del cuore. Che importava?... Ella lo aveva
amato di più per quella nebbia di malinconia che velava il suo viso,
per quel gran dolore che lo aveva atterrato e che sarebbe toccato a
lei di far dimenticare!...

La scossa prodotta dal lamentevole dramma non aveva soltanto inaridita
l'anima di Roberto Berni, aveva ancora offuscate le sue facoltà
intellettuali. A trentacinque anni, nel pieno rigoglio dello spirito,
pareva che egli avesse smarrita la via fino a quel tempo felicemente
battuta, e mentre si apprestava a dare, in un'opera da molto tempo
annunziata ed ansiosamente attesa, la piena misura del suo ingegno,
quell'ingegno si isteriliva!... Che cosa avrebbe potuto guarirlo se
non l'amore, un amore così felice da cancellare gli effetti dell'amore
disgraziato?

Ella aveva accettata la partita; gli aveva fatto il sacrifizio di
tutta sè stessa; aveva sperato che i suoi baci, le sue carezze, le sue
cure, le sue premure, la sua devozione, la sua umiltà, l'atmosfera di
affetto in cui lo avrebbe da ora innanzi fatto respirare, sarebbero
riusciti a guarirlo. Ed aveva vista la vittoria sorriderle da vicino.
Non pareva che egli avesse tutto dimenticato? Non le aveva dato cento
prove di amore caldo e sincero? Non era tornato, con forze cresciute,
al lavoro? Non aveva sorriso?... Quel giorno stesso, poche ore
innanzi, quando ella gli aveva annunziato, in un abbraccio, la fausta
notizia, il prossimo realizzarsi delle loro lunghe speranze, il nuovo
e più potente e più dolce vincolo che li avrebbe uniti, non l'aveva
egli stretta tenerissimamente, non gli aveva sussurrato fra i baci
interrotte parole d'amore e di gratitudine? Chi avrebbe potuto dirle
che più tardi, un momento dopo....

Abbandonata sopra una poltroncina, nella sua stanza da letto, con la
testa fra le mani ella chiudeva gli occhi dinanzi al crollo repentino
dell'edifizio pazientemente costrutto. Egli amava ancora la morta!
Egli non l'aveva mai dimenticata! Egli rileggeva le sue lettere,
baciava il suo ritratto, rievocava la sua memoria!... Egli non le
aveva dato ascolto quando gli aveva parlato della _loro_ creatura!
Egli avea pianto--per lei, per la morta!--quando avrebbe dovuto
sorridere alla nuova vita che si agitava nelle sue viscere!... Tutto
era stato inutile! Tutti i suoi sforzi erano stati invano sprecati!
L'amor suo non era bastato! Quando egli le aveva detto di amarla, non
aveva detto a lei; aveva detto all'altra, alla morta!... Che forza
aveva dunque costei, se dal fondo di un sepolcro lo attirava ancora,
lo possedeva più interamente, più saldamente che non l'avesse
posseduto viva?...

Il suo spirito si confondeva: ella non sapeva darsi una spiegazione
altrimenti che balbettando delle parole: l'amore!... la passione!....
con quella meraviglia che si prova dinanzi alle cose più strane. Che
cosa sapeva ella dell'amore, delle passioni? Che cosa sapea della
vita? Quel poco che egli le aveva rivelato. V'era stato qualcuno che
avesse mai pensato a lei, che si fosse interessato a lei?... Riandando
col pensiero la sua vita passata, ella si rivedeva fanciulla, nella
solitudine che l'aveva circondata fin dalla nascita, a curare i suoi
vecchi zii malaticci, a coltivare i suoi fiori, ad educare il suo
spirito alla disciplina di studii severi. Egli era venuto, e il sole
aveva sorriso!... Come pretendeva ella di giudicarlo? Si giudica
l'aria che vi mantiene in vita? Non viveva ella per lui, non era ella
la sua creatura, la sua cosa?... «L'amore!... le passioni!...» Ella
non intendeva quelle grosse parole; ella sapeva soltanto che egli era
il suo culto, che bisognava stargli innanzi in ginocchio, aspettando
l'elemosina di un suo sguardo benigno. Egli era fatto per una vita di
comando e di gloria; ella per l'abnegazione e per il sacrifizio. Egli
si era abbassato fino a raccoglierla, bisognava adorare quelle mani
che si erano tese verso lei. Che cosa aveva ella fatto per meritare
questo premio insigne? Quante la guardavano con invidia gelosa? Non
avrebbe egli avute tutte, tutte quelle che avrebbe desiderate?

No, egli non ne desiderava nessuna! La morta lo aveva preso con sè....
Come aveva dovuto amarlo!... Più di lei! di un amore più cieco ed
assoluto del suo, contro cui la gelosia nulla poteva, che si faceva
invece più saldo ora che si vedeva meno apprezzato!... Che cosa voleva
dire esser gelosi?... Ella avrebbe voluto amarlo come _lei_, avrebbe
voluto _essere lei_, sollevarla dalla bara in cui era stata composta,
spirarle la sua propria vita, per ridarla a lui, per farlo felice....
Ella se ne sarebbe andata lontano, in qualche parte; o piuttosto lo
avrebbe scongiurato di tenerla ancora con lui, in un angolo, per
servirlo, contenta dello spettacolo della sua felicità.... No, la
morta non era da compiangere; la morta era degna d'invidia! Ella
avrebbe voluto essere morta ed essere amata così, di un amore che
l'eterna lontananza della persona amata rendeva ancor più potente!...
No, la morta non era da compiangere; da compiangere era lui, ridotto a
combattere contro tutto ciò che cospirava per portargli via la sua
pietosa memoria. Infine, era una colpa se la povera morta aveva ancora
un posto nel suo cuore? Come essere gelosa di chi non era più?... Se
ella avesse osato!... Gli avrebbe parlato di _lei_, avrebbe ascoltato
tutto ciò che egli le avrebbe detto di _lei_, avrebbe saputo trovargli
un rimedio contro l'infinita amarezza del suo ricordo....

L'uscio si schiuse. Nella semi-oscurità che al sopravvenire del
crepuscolo aveva invaso la stanza, ella scorse la figura di Roberto.
Prima ancora che avesse avuto il tempo di ricomporsi, se lo vide
inginocchiato dinanzi nasconderle la testa in grembo.

--Emma! perdono....

Ella lo attirò a sè, lo baciò in fronte, lo accarezzò, passandogli e
ripassandogli una mano fra i capelli.

--Oh sì, Roberto... povero Roberto mio!...

Vi fu un istante di silenzio. La donna riprese:

--Senti, Roberto... io vorrei dirti una cosa....--Ella parlava
pianissimo.--Se sarà una bambina... nostra figlia si chiamerà...
Bianca....

--O buona!... o Emma mia buona!...

Le loro teste si confusero di nuovo. Come era già buio, egli non potè
vedere gli occhi di lei, dove luccicavano due lacrime.



LE DUE FACCIE DELLA MEDAGLIA.


L'egoismo, se dobbiamo esser sinceri, è il sostrato costante di tutti
i nostri molteplici sentimenti; nè, per verità, esso dovrebbe venirci
rimproverato, dipendente com'è da un'illusione di ottica morale comune
ad ogni uomo. Poichè tutti gli esseri e tutte le cose in tanto
esistono in quanto sono pensati da noi, è naturale che ciascuno di noi
si creda il centro intorno a cui gravita l'universo, e che le ragioni
dell'_io_ siano considerate come le sole attendibili. È presumibile
che se lo specchio avesse una coscienza, esso affermerebbe soltanto la
esistenza di ciò che vi si riflette; ma, siccome facendo riflettere
uno stesso oggetto in due o più specchi, ciascuno di questi lo
vedrebbe sotto un angolo necessariamente diverso, i giudizii che essi
darebbero sulla forma dell'oggetto non potrebbero mai essere identici.
Così è dei giudizii nostri. Per la doppia influenza del temperamento
iniziale e dell'educazione acquisita, il modo di vedere di ogni uomo
è, a proposito di tutto, nel mondo fisico e nel morale, più o meno
diverso da quello di ogni altro uomo; quando poi l'interesse personale
è in giuoco, il dissidio diventa ancora più grande.

Nella pratica della vita, per le necessità stesse del consorzio
sociale, l'accordo sembra farsi sotto la vernice dell'ipocrisia, o si
fa realmente, qualche rara volta, per lo spirito di sacrificio; accade
però spesso, quando gli interessi impegnati sono troppo forti, che il
contrasto scoppii violentemente, e nulla è più curioso, per
l'osservatore spassionato, della ingenuità con la quale da ciascuna
parte si crede di essere solamente ed interamente nel giusto.

Ridotta ad una espressione rigorosa e si potrebbe quasi dire
scientifica, questa era la tesi che la signora Auriti sviluppava, con
le incertezze e le ripetizioni inevitabili della conversazione,
dinanzi ad Eugenio Darsi, e che trovava invece in costui un avversario
deciso.

I due erano soli nel grazioso salottino giapponese dove la signora
Auriti riceveva le sue visite; un silenzio assoluto regnava in
quell'estremità dell'antico palazzo prospettante in una via erta e
solitaria; e la conversazione, iniziata sopra un futile soggetto,
l'approssimarsi della stagione dei bagni, era caduta sulle cose del
sentimento.

Caduta non è forse la parola conveniente; poichè il Darsi,
attraversando, nei suoi rapporti con la signora Auriti, quel periodo
pericoloso in cui il secreto e vago desiderio che ogni uomo prova in
presenza della donna sia pure la più rispettata, comincia, date certe
circostanze, ad ingigantire e quindi a manifestarsi, aveva egli stesso
preparata la via a più intime espansioni.

Se non che, una virtù severa, o meglio forse le scettiche persuasioni
dell'esperienza, corazzavano la signora Auriti contro ogni seduzione
anche più potente di quella che tentava di spiegarsi sopra di lei; e
il freddo ragionamento, la logica inflessibile con cui ella aveva
risposto alle professioni di fede, un po' troppo vivaci per esser
tutte sincere, del Darsi, avevano ben presto fatto temere a
quest'ultimo che il suo gioco non venisse scoperto. Perfino la chiara,
la viva luce penetrante dalle finestre e temperata appena dalle
tendine tenuissime, gli procurava un certo fastidio, abituato com'egli
era alle propizie semi-oscurità dei salottini delle signore alla moda.

--Io le domando scusa--tentava nondimeno di insistere--ma lei non mi
persuaderà che due esseri non si possano comprendere, che l'accordo
sia impossibile, che il disinteresse non esista; non mi potrà
persuadere che sotto la spinta delle grandi passioni il nostro _io_
non scomparisca, non si annulli, per farci vedere, per farci sentire,
per farci vivere di un altro _io_....

--Sì, sì,--interruppe la signora Auriti, prendendo da un minuscolo
tavolinetto uno svelto calice di cristallo e odorando le violette di
Parma che vi suggevano nuova vita,--glielo concedo; ma fino a quando
quest'altro _io_ ci seconda. Aspetti però il giorno che sorgono le
contrarietà!... E poi, crede lei che l'accordo sia vero, o non è più
tosto apparente? Non è il nostro interesse che ci spinge a passar di
sopra ai malintesi quotidiani nell'attesa di un vantaggio avvenire,
fin quando questi malintesi non sono così grandi da nuocerci
immediatamente?...

--Si direbbe un professore di morale!--esclamò il Darsi, non senza una
piccola punta di ironia.

--La morale astratta, ha ragione, è spesso falsa e noiosa....

--Io non ho detto....

--Ma la moralità che scaturisce viva dai fatti non va disprezzata.
Guardi, per esempio....

La signora Auriti sembrò esitare un istante; poi, risolutamente:

--Ne vuole un esempio palpitante?--ripigliò.--Io non commetto una
indiscrezione, poichè lei non conosce le persone di cui si tratta....

E alzatasi, aperto un armadietto e frugatovi un poco, ne cavò una
lettera che venne a porgere al suo contradditore.

--Che cos'è questo?--chiese curiosamente il Darsi.

--Legga, legga; lo saprà subito.

Il Darsi spiegò la carta e lesse:


  «Cara signora,

«Ella non sa dunque rassegnarsi ancora a credere a quello che ho
fatto? Senta, non ci credo neppur io!... Sono proprio io che scrivo da
questa sala d'albergo, su questa carta intestata? Che cosa son venuto
a far qui?... Giro intorno uno sguardo: non un viso conosciuto, non
una persona con cui scambiare una parola. Fermo a questo tavolo, mi
pare che tutte le cose oscillino in giro, che il suolo si muova sotto
i miei piedi, che la mia testa vacilli; l'impressione precisa che si
prova a bordo di una nave. Dopo lunghe e lunghe ore di viaggio, di
immobilità ambulante, mi pare di essere ancora sospinto non so verso
dove. Ho nella testa un caleidoscopio di paesi e di figure, i nomi di
certe stazioni mi tornano stranamente alla memoria, come nel delirio:
_Oulx_, _Culoz_, e tanto repentino e radicale è il mutamento della mia
vita, che non posso credere che esso dati da qualche giorno soltanto.

«Qualche giorno addietro, dunque, io ero ancora costà, avevo una
sciabola al fianco, andavo a prendere gli ordini del mio colonnello,
venivo a far visita a lei? Che cosa debbo mettere in dubbio, i miei
ricordi del tempo trascorso o le impressioni del presente?... Non è
solo al fianco che io sento la mancanza di qualche cosa; qualche cosa
mi manca ancora qui, dentro il cervello!

«Ho troncata la mia carriera, ho abbandonato il mio paese che potevo
ancora servire, mi sono ridotto in questa terra d'esilio; e tutto ciò
è nulla! È l'aria che mi manca, è la gola che mi si stringe, è il
petto che mi si opprime.... Senta, dopo tutto è una provvidenza che
lei mi abbia scritto, che mi abbia offerta l'occasione di sfogarmi, di
buttar sulla carta una parte di ciò che mi tempesta nel cranio e che
minaccia di farmi ammattire!

«Allora, stia a sentire: bisogna che io le dica tutto, non è vero?
Ebbene, la prima colpa è un po' sua. Perchè si ostinò a farmi
conoscere quella donna? Perchè mise tanto zelo ad interessarmi a lei?
Si diverte dunque a far degli esperimenti in _anima vili_? Lei lo
sapeva bene quel che doveva accadere in me, il bisogno che io aveva di
un poco di cuore, malgrado il cinismo della caserma, malgrado la
facilità degli intrighi di guarnigione, che l'ordine di tramutamento
rompe, come rompe il contratto d'affitto delle camere mobiliate!...
Egli è che questo cinismo è una specie di obbligo; che a fare i
sentimentali si corre il rischio di esser messi in berlina dagli
ufficialetti freschi di spalline! Egli è che vi sono dei sentimenti
che si esprimono come si indossa l'uniforme d'ordinanza, perchè così
va fatto, per non essere consegnati e per non essere canzonati!

«Ebbene, quello che doveva accadere accadde! Io l'amai, quella donna;
l'amai subito che la vidi, l'amavo _prima_! Quando io ricordo i primi
tempi di questo amore muto, inconfessato, forse per ciò stesso più
intenso--no, dico male, più raro--quando io ricordo questi giorni che
non potranno ritornare mai più, è come se tutte le mie vene si
vuotassero.... Sarebbe stato molto meglio che si fossero vuotate
allora davvero!

«Perchè dunque colei mi fece capire che non le ero indifferente?
Perchè, invece di rafforzare la mia paura di offenderla, le sue
parole, i suoi sguardi, i suoi stessi silenzii mi spinsero alla
confessione? E quando io non potei più frenarmi, quando le ebbi fatto
leggere nell'anima mia come in un libro, sa Ella la risposta che mi
diede? «Mio Dio!... esclamò, che cosa ha fatto!» Dunque ella aveva
paura? Dunque mi amava!... Quale altra interpretazione potevano avere
quelle parole?... No, ella non aveva ragione di temere; io non le
domandavo nulla che non volesse accordarmi ella stessa. Che cosa mi
rispose ancora? Che solo così poteva essere amata, come una sorella;
che una fatalità pesava su di lei, che forse un giorno avrei tutto
saputo....

«Perchè quella reticenza? Che cosa poteva essere quella fatalità? Era
libera, era stato suo marito che l'aveva lasciata per la prima venuta:
lo avevo sentito ripetere da tutti. E nessuno dava una colpa a lei, nè
prima nè dopo quell'abbandono; neppure l'ombra d'un sospetto la
sfiorava. Allora? Aveva un amante ad insaputa del mondo? Ma se lo
aveva, perchè accettare la confessione dell'amor mio? perchè non dirmi
alle prime parole che non era libera?... Chi l'obbligava a fingere
quella paura: «Mio Dio, che cosa ha mai fatto?» Perchè non mi aveva
fatto mettere alla porta, o non si era messa a ridermi in faccia?

«Non v'ha di peggio che trovarsi dinanzi all'assurdo e sentire nello
stesso tempo la necessità imperiosa di trovargli una spiegazione.
Quando mancano le induzioni ragionevoli, le più pazze ipotesi si
presentano allo spirito. Dire tutte quelle che io formulavo e che dopo
un attimo respingevo, non è assolutamente possibile. Ma quell'ansioso
farneticamento, quell'assiduo lavorìo dell'imaginazione, se non mi
avanzava di un passo nella scoperta della verità, riusciva però ad
offuscare la figura della persona amata, gettava il dubbio su di lei,
menomava, contaminava l'idolo che io me ne ero formato!

«Questo, da una parte. Dall'altra, vedendola spesso, restando solo con
lei, respirando la sua stessa aria, stringendo la sua mano, il mio
martirio si raffinava; e se aveva voluto mettermi alla prova, qual
prova maggiore potei darle del rispetto timido di cui la circondai?

«Vi è un limite a tutto. Quando io non potei più oltre resistere, che
cosa feci? Le scrissi che non l'avrei più rivista; non avevo il
coraggio di dirglielo a voce. Ella mi richiamò, mi supplicò di
rivederla; _era necessario!..._ Mi amava! Era lei che lo scriveva! era
lei che me lo ripeteva, aggiungendo che un giorno mi avrebbe tutto
rivelato.... Che importava tutto il resto? Io non chiesi più nulla; me
le affidai; non sospettavo ancora gli abissi di doppiezza di cui un
cuore di donna è capace!

«Non chiesi più nulla. Avevo sete dei suoi baci, non volevo aver
l'aria di rubarglieli. Vi erano dei momenti in cui la mia ragione
minacciava di smarrirsi; allora ella gemeva: «È una colpa!...» Perchè
colpa? Se mi amava? Se io non avevo altri doveri, e se lei non ne
aveva più? Poteva esser l'idea del dovere astratto, della legge divina
che l'arrestava? Se era così, perchè non lo diceva?

«Un giorno, non so più come, io nominai suo marito. Si turbò tutta,
scongiurandomi di non parlare di lui. Comprendevo bene come il ricordo
di quell'uomo non dovesse riuscirle gradito; però le dissi:
«Fortunatamente egli è lontano...» Ella stette un momento guardando
dinanzi a sè; poi rispose: «È ancora troppo vicino!» E nascose la
faccia tra le mani. La luce d'un lampo traversò il mio spirito. Mi
sentii morire. Nondimeno tacqui.

«Al ballo del generale, qualche sera dopo, come il fascino di lei era
irresistibile, io le mormorai:

«Ebbene.... a quando la rivelazione?...»--«Anche ora! rispose;
bisognerà però avere molto coraggio.»--«È dunque molto triste a
sapere?»--«Anche a dire; credevo che avesse indovinato...» Allora io
sentii come una mano che mi afferrasse alla gola, che mi strozzasse,
che mi facesse schizzar gli occhi dalle orbite. Potei dire ancora:
«Suo marito?» Ella chinò la testa. Poi mi afferrò una mano: «Mi giuri
che non farà nulla, mi giuri che prima mi ascolterà...»

«Io non le rivelo delle cose nuove; sono tanto amiche! Quel marito che
l'aveva oltraggiata ed abbandonata, tornava ora da lei, pentito, ma
non abbastanza da riparare alla luce del giorno i propri torti! Veniva
a trovarla, di quando in quando; non si faceva veder da nessuno in
città, restava nascosto il giorno, passava le notti da lei.... Ah! ah!
non avevo io l'anima sua! «Che importa il resto?» ella mi domandava.
«Il resto non esiste!» rispondeva quest'uomo accomodante! E appena io
andavo via, quell'altro veniva ad esercitare i suoi diritti; faceva,
secondo ogni probabilità, le grasse risate alle mie spalle! E colei,
da economa esperta, dava l'anima a me, il resto all'altro! Io le
schiudevo le gioie del cuore, l'altro... Oh! in nome di Dio, io vorrei
scendere in istrada e fermare i passanti, il primo galantuomo che
passa; io vorrei domandare: Di qual nome è degna costei? Che perfidia
deve annidarsi nel suo petto, di quali transazioni è capace, se avendo
dei pretesi doveri da custodire, allettava me di lusinghe; se
giurandomi di non amare che me, non sapeva rinunziare a quell'altro;
se si ridava a chi l'aveva offesa, se vilipendeva il sentimento sacro
di cui le avevo fatto l'omaggio?... Come aveva mentito, sapientemente,
dal primo all'ultimo giorno! Come aveva dovuto prendersi beffe di
me!... In nome di Dio, perchè non mi aveva detto, se non era libera:
«Andatevene, io non sono per voi?» Perchè quando volli _io_ andarmene,
mi trattenne? Perchè non mi disse da principio, subito, la verità; e
mi derise invece con quella _fatalità_ assurda, inverosimile, da lei
stessa creata? Come mi accecai così; come caddi in tanto ridicolo?
Guardi, io piango di rabbia!

«Che cosa aspettava, dunque; che cosa sperava? Che una vampa di
desiderio mi avesse un giorno fatto perdere la ragione e che io avessi
preso i resti di quell'altro? Che mi fossi accomodato di questa
divisione amichevole?... Guardi, piango di umiliazione....

«Andiamo, via; ho torto di prendermela così calda. «Perfida come
l'onda» il giudizio è antico; ma sono soltanto gli ammaestramenti
della propria esperienza quelli che ci s'inchiodano nella mente. Ella
mi perdoni queste lunghe ed inutili geremiadi; ma gli ammalati non
provano una soddisfazione lor propria nel parlare del loro male?

«Io non so ancora quel che farò; il presente è incerto e l'avvenire
più tenebroso che mai. Si ricordi di me.»

Come il Darsi ebbe decifrato la firma: _Alessandro Morea_, la signora
Auriti domandò:

--Ebbene, che cosa ne dice?

--Ecco un uomo--esclamò vivacemente il Darsi, credendo di aver trovato
un argomento in suo favore--a cui la passione strappa accenti di una
grande eloquenza! Lei non mi sosterrà, credo, che quest'uomo non sia
sincero, che egli faccia delle frasi, se ha abbandonato il suo paese,
se ha distrutta la sua vita....

--Non è vero che egli ha ragione? Non pare anche a lei che sarebbe
difficile giustificare la parte avversa, e più difficile ancora
ritorcere le accuse contro di lui?... Stia dunque a sentire.

E questa volta, presa un'altra lettera dalla stessa cassetta
dell'armadio, la signora Auriti cominciò a leggere ella stessa:

«Amica mia,

«Partito? per sempre?... Egli è partito, dopo avermi giurato di
attendere dei mesi, degli anni, un'eternità? Di attendere la
confessione di tutta la mia vita, dello strazio dell'anima mia?
Partito, lui, senza ascoltarmi, abbandonandomi vilmente dopo aver
rubata la mia pace, la tranquillità del mio povero cuore che io
custodivo gelosamente, come il supremo dei beni?

«Ah, se potessi credere che non è vero, che sono vittima d'una
dolorosa allucinazione! Vorrei poterlo credere per me, ed anche per
lui, per non disistimare quell'uomo che avevo messo molto in alto, in
cima ai miei pensieri!... Non è possibile, è vero? La realtà è
schiacciante! Non è possibile neppure il pianto: gli occhi sono aridi,
lo sguardo è inebetito....

«Mio Dio, mio Dio! perchè ha egli fatto questo? Che cosa aveva da
rimproverarmi? Dici tu, amica, quali sono i miei torti? Non fui forse
sincera con lui fino all'eroismo? La confessione che gli avevo
promesso non mi avrebbe fatta l'anima a brani? La triste storia non mi
avrebbe bruciato le labbra?... Eppure, avevo deciso di farlo ad ogni
costo, come una espiazione, come un primo sacrifizio a quest'uomo che
mi aveva dischiuso degli arcani dolcissimi, che mi aveva richiamata
alla vita del cuore, mentre mi reputavo morta per essa!

«Quest'uomo che io stimavo tanto diverso dagli altri sulla fede delle
sue nobili parole, dei giudizii che gli altri, tu stessa per la prima,
ne davano, aveva destato in me una grande simpatia; ma se io non ero
padrona del mio sentimento, ero padrona della mia ragione; e può egli
dire di essere stato da me incoraggiato, sia pure con la più innocente
civetteria di cui nessuna donna va esente, a tentar di mutare la
natura dei nostri rapporti? Se egli mi avesse subito fatto comprendere
quali speranze nutriva, io avrei potuto farmi forza, disilluderlo fin
dal principio, non vederlo più; egli invece seppe abilmente aspettare
fino a quando io caddi in una fitta rete, quando la mia simpatia era
diventata amore, amore potente, del quale non potevo più fare a meno,
come non si fa a meno dell'aria che si respira!... E, ciò malgrado,
che cosa gli risposi io? Chiedilo a lui stesso; mi affido alla sua
coscienza, se ne ha una; che cosa gli risposi? Gli diedi forse allora
qualche speranza vaga, lontana? Io gli dissi che non doveva concepirne
nessuna, che non potevo amarlo se non come un amico, come un fratello;
che una fatalità pesava sulla mia vita!

«Una fatalità, la più triste, la più terribile: essere legata,
indissolubilmente, a chi non si ama e non si può amare; esser libera
agli occhi di tutti e sentire tutto il peso del dovere nell'intimo
della coscienza! Tu lo sai, tu che sei stata presente alle mie
dolorose vicende dal momento che fui legata a quell'uomo fino ad oggi,
tu lo sai quel che mi fece soffrire! Ebbene, per ragione di queste
sofferenze medesime, potevo io cacciarlo da me quand'egli era tornato
pentito, umile, supplice, quando a sua volta tradito, invocava il mio
perdono, quando io stessa avevo apprezzate tutte le tristi conseguenze
della mia falsa posizione, i sospetti che la malignità sempre desta
andava gettando su di me?

«Il mio cuore era libero, allora; io non conoscevo ancora _lui_; avevo
creduto che tutto fosse finito per me; non ebbi la forza di respingere
mio marito che veniva in nome del nostro passato, che prometteva di
riparare pubblicamente, alla luce del giorno, tutti i suoi torti, di
smentire per ciò stesso le voci malvagie di cui ero l'oggetto.
Quand'anche l'avessi avuta, questa forza, come resistere a lungo? Non
aveva egli il diritto dalla sua parte? Non era mio marito?... Fu
allora che conobbi _lui_, e puoi tu imaginare un tormento più grande
del mio, spinta com'ero a gettarmi ai piedi dell'uomo amato, e
incatenata intanto a chi avevo giurata la fede? Non erano tanto più
grandi i miei doveri verso costui, quanto più grande era la mia
apparente libertà, quanto più ero sottratta alla sua sorveglianza?...
E non lo ingannavo, intanto? non gli mentivo? non avevo dato l'anima
mia a quell'altro? Avrebbe quell'altro forse voluto che io mi fossi
divisa fra loro due?...

«Io non so; la mia mente si turba, la mia ragione si smarrisce! Quando
io gli dissi che un triste secreto mi pesava sul cuore, che un giorno
lo avrebbe saputo (non volevo, non dovevo confessarmi a lui?) io gli
chiesi se avrebbe avuta la forza di affrontare una posizione
tristissima, di contentarsi di quel che solo gli potevo dare. Che cosa
rispose? «Non sa che forza la sicurezza di essere amato può dare ad un
uomo!» Egli m'ingannava; traeva profitto del mio accecamento, contava
presto o tardi di vincere in un modo o in un altro! Un galantuomo
avrebbe detto: «Questa forza io non l'ho; mi si chiede l'impossibile!»

«Ed ancora, non gli avevo io chiesto di aver fede in me? Non aspettavo
l'occasione propizia da un istante all'altro di dire a mio marito:
Mantenete la vostra promessa, riprendetemi con voi dinanzi a tutti, o
rinunziate per sempre a me? Non ero io quasi sicura ch'egli avrebbe
esitato, nuovamente sedotto com'era da quella donna che lo aveva
ammaliato, non più bisognante di me; che egli mi avrebbe presto
lasciata libera, questa volta davvero, e per sempre?... Giurava di
aver fede in me, _lui_, e mentiva; e quand'era il tempo di provarla,
questa fede, mi abbandonava vilmente; vilmente, lo ripeto ancora, non
mi stancherei di ripeterlo!... Dunque, il martirio che io sopportavo,
i rimorsi di ogni natura che mi laceravano il cuore in tutti i sensi,
la posizione di una donna che è sull'orlo della colpa, i mille
pericoli cui andavo incontro, tutto questo era dunque nulla? Per chi
mi aveva presa egli dunque?...

«Ah, io mi lamento a torto! È forse provvidenziale che sia finita
così! Egli mi avrebbe forse abbandonata dopo avermi avuta, come una
cosa inutile ormai!... Mi ha lasciata prima; anche questa è una specie
di lealtà di cui bisogna tenergli conto!

«Non è men vero per ciò, amica mia, che vi sono delle nature
predilette dalla sventura. Ed io sono del numero. Amami tu, per tutti
gli altri, lascia che io versi nel tuo seno la piena del dolore;
vieni, vieni presto, vieni a soccorrermi.»

La signora Auriti ebbe un piccolo sorriso di trionfo dinanzi al Darsi
che restava un poco interdetto.

--Vede se io avevo ragione? Sente come suona diversa l'altra campana?
Mi parli dell'intesa, della compenetrazione delle anime, adesso!...

--Ebbene!--esclamò il Darsi, che non si voleva arrendere.--Ciò prova
che vi sono nella vita delle situazioni complesse, che ammettono per
ciò stesso diverse soluzioni, tutte fino ad un certo punto legittime.
Ma se queste persone giudicavano così diversamente della loro condotta
di fronte al sentimento che li dominava, ella converrà meco che,
almeno in questo sentimento, essi si accordavano del tutto, gettati
com'erano per esso in preda al più disperato dolore...

--Oh, non lo creda!--interruppe la signora Auriti, con un nuovo
sorriso.--Non lo creda completamente. Certo, la scossa dovette esser
sensibile; ma io penso che la previsione, in ciascuno di essi, del
dolore dell'altro, dovesse essere più forte che non la personale
sensazione dolorosa.

--Come può dirlo?

--Sa che cosa fece la mia amica, il giorno stesso in cui apprese la
rottura? Andò a pranzo in casa di lady Dalty, dalla quale aveva già
ricevuto un invito, dopo aver fatto un'accurata toletta. Per
confessione stessa di lei--badi, io non metto una parola di
mio--fattasi allo specchio, la sua meraviglia fu grande nel rivedersi
la stessa, anzi più bella; il sangue affluito alla testa aveva acceso
il suo volto, fatto come di bragia, coi grandi occhi sfavillanti. Quei
preparativi di festa, i profumi dell'_Ixora_ e della _veloutine_, le
infusero quasi un benessere; a poco a poco una strana reazione si
operò in lei; ebbe l'agio di trovare che il suo abito _mauve_,
guernito di trine _écrues_ e di _jais_, le stava a pennello...

--Oh!

--Aspetti ad esclamare. Per le vie, ella scambiava graziosi saluti e
sorrisi, si sentiva ammirata da tutta quella folla; le pareva quasi
che con quell'ammirazione le si rendesse giustizia... Esclami, amico
mio; esclami pure; in quel momento ella pensava certo--questa è
l'induzione mia, non me l'ha detto lei--alla disperazione dell'uomo,
allo sconforto mortale a cui doveva essere in preda; e trovava giusto
che egli soffrisse per lei e che lei si distraesse così... Egoismo, e
del più puro! L'uomo invece...

--L'uomo?...

--Telegrafava ad un amico, per avere del danaro; il soggiorno di
Parigi, anche quando ci si va per raccogliere un'eredità (suo fratello
maggiore era stato colpito da paralisi, egli non fece che affrettare
le sue dimissioni) non è una misura di economia. Da Milano a Torino
fece il viaggio coi Marnengo; la signora conserva un gradevole ricordo
dell'amabilità del capitano. Intanto che egli sfoggiava la sua più
squisita galanteria, pensava probabilmente all'ambascia della donna,
al rimorso che doveva divorarla, come la più giusta delle punizioni.
Se gli avessero detto che in quell'ora precisa ella era a pranzo da
lady Dalty, si sarebbe pentito di aver avuta tanta fretta!...

--È disperante!--disse il Darsi, che vedeva l'inutilità dei suoi
tentativi e cercava di lanciare un gran colpo.--Ella dunque crede che
tutto sia finzione? Se io le provassi...

--Mio Dio, vuol dire che non ho saputo ancora spiegarmi. Io dico che
tutto è relativo, che tutto può esser vero e falso al tempo stesso,
secondo il punto di vista. Lei, per esempio, è qui, nel mio salotto, a
sostenere il disinteresse, l'altruismo, il sacrifizio. Questo, non è
vero? è un concetto...

--Del quale io non domando che darle la prova!

--Allora, consideri un poco: non potrebbe anche essere un calcolo?



UNA VOCE.


«La solitudine ed il silenzio mi circondano. Gli uomini fuggono il mio
consorzio. Io sono diventato un oggetto di scherno e di pietà per i
miei simili. Essi non ascoltano le mie parole, il vento dell'oblio le
disperde come il turbine del tempo disperde via, l'uno dopo l'altro, i
giorni irrevocabili....

«La neve antica imbianca i miei rari capelli; fu un tempo che essi
biondeggiavano folti come spiche mature. Le mie messi son fatte, ed
un'altra Falciatrice ha compito dintorno a me l'opera sua. Tutta la
stirpe dei miei è scomparsa; simigliante alla quercia che il novembre
ha spogliato di ogni sua fronda, io resto, rigido tronco torcente le
braccia sotto il cielo impassibile.

«Quanti inverni hanno scavato le rughe della mia fronte? Quante vite
si sono spente dinanzi a me?... Non ne conosco più il numero. Le fila
di mille avvenimenti trascorsi si tessono nella mia memoria; io ho
visto le guerre e le paci, le feste dei potenti e le rivoluzioni dei
deboli, le carestie e le abbondanze, gli esodi e le pestilenze; ho
visto siccidi inverni ed estati piovose, vizii premiati e virtù
neglette; ho visto il cieco avvampare delle passioni, l'accorto
tramare degli interessi, le lacrime unirsi ai sorrisi, gli eroismi
alle viltà; ma ho visto sopra ogni cosa uno spettacolo uniforme,
quotidiano, immancabile: l'eterno spettacolo della morte.

«I miei parenti, l'uomo che mi generò, la donna che mi portò nel suo
grembo, questi esseri che mi dettero la vita, che mi trassero dalla
notte profonda dell'Inesistente, che mi trasfusero il loro sangue, che
mi soffiarono il loro spirito, questi esseri sono spariti, io li ho
visti l'uno dopo l'altro morire. I miei figli, le creature che sono
uscite da me, la mia stessa vita continuata in un'altra compagine di
muscoli e d'ossa, i miei figli sono scomparsi; io li ho visti uno dopo
l'altro morire. Da una parte e dall'altra il filo che mi legava ad
esseri viventi si è rotto; quelli che sorressero i miei primi passi,
quelli ancora i cui primi passi io sorressi, chiusero gli occhi al
sorriso del sole. E intorno a me ogni altra vita si è spenta: i miei
fratelli, compagni della mia fanciullezza; la donna che io elessi fra
tutte, la madre dei miei figli; i miei amici, fratelli del cuore;
tutti, tutti scomparsi.

«Nei giorni remoti della gioventù, tra il primo agitarsi della
attività dello spirito, alzando gli occhi lontano, sulle alture della
maturità; più lontano, più lontano ancora, sulle vette della
vecchiezza, io mi domandavo quali meraviglie si sarebbero offerte
all'avido sguardo, quali infiniti orizzonti mi si sarebbero dischiusi,
che fantastici miraggi avrebbero popolato gli spazii. A quelle alture
lontane io pervenni; più su, alle ultime cime che parevano
inaccessibili la rapida età mi ha innalzato più presto che dal piano
l'occhio inesperto non giudicasse; e appena se sopra tanta altezza il
sole getta i suoi ultimi raggi. Su per l'erta faticosa, che cosa ho
veduto? Io ho veduto i miei compagni cadere. A quando a quando, fra
l'una e l'altra dipartita, un panorama più vasto ma più confuso mi si
è presentato dinanzi: il vento, la pioggia, le nebbie, le nevi hanno
più spesso distratta la mia ammirazione.

«Sull'eccelsa vetta ove son giunto, un freddo polare agghiaccia il mio
sangue, il disco del sole già rasenta l'orizzonte, e l'ombra
livellatrice invade la sottoposta pianura. Se io chino gli sguardi
alla strada percorsa, se aguzzo gli sguardi, io distinguo le tombe di
cui essa è disseminata, le tombe disposte in lunghissime file, come
colonne miliari. Là sotto la terra greve, oppresse, schiacciate,
stanno le forme esanimi nella rigida posa in cui le mirai per l'ultima
volta....

«Voi che passate gonfii di superbe speranze, leggieri d'anni e di
cure, udite; io ho visto i sudori delle agonie imperlare le pallide
fronti; io ho visto le labbra bagnarsi di spume; io ho visto gli
immobili sguardi degli occhi stravolti sotto le ciglia vischiose; io
ho visto le bocche aperte come per l'avida sete dell'aria; io ho visto
le rigide pieghe delle lenzuola ricoprenti i corpi accasciati.... Io
ho passate le lunghe notti delle veglie alla triste luce dei ceri
consunti, io ho udito il cupo martellare sulle bare che si chiudono,
io ho aspirato l'acre odore della terra frescamente rimossa per
ricettar le sue prede....

«Voi avete occhi e non vedete; voi avete orecchi e non udite. Sul
vostro cammino, se voi incontrate un convoglio funerale, voi torcete
lo sguardo; voi non pensate che fra le assi inchiodate un cadavere è
disteso con le braccia raccolte sul petto, voi non pensate che
l'oscurità circonda quegli occhi pur dianzi dischiusi alla luce, che
l'aria manca a quelle labbra pur dianzi aperte al respiro....

«Si muore! Nella tarda età o nella fresca, in alto e nel basso,
l'Impassibile falcia le sue spiche con moto uniforme; e che cosa sono
le diecine degli anni dinanzi all'eternità del sepolcro?

«Si muore! Tutte le gioie e tutti i dolori, le speranze, gli
sconforti, le passioni, i fastidi, tutto finisce nell'ultimo sonno; e
perchè degnare di pensieri e di cure ciò che è condannato a perire?

«Si muore! E sapete voi soltanto ciò che diverrà di voi quando il
vostro cuore avrà cessato di battere, quando il vostro sangue si
aggrumerà nelle vene?...

«La vita è il transitorio, è il contingente; la vita è l'ora che
scocca e che passa, è l'onda che spira alla riva, il lampo che brilla
e si spegne. Voi che vi afferrate ad essa, voi che ne ricercate
avidamente la poca gioia bevendone la tanta amarezza, voi siete nel
falso.--O figli degli uomini, canta il salmista, fino a quando vi
starete col cuore aggravato? E perchè amate la vanità e andate in
cerca della menzogna?

«Non un giorno, non un'ora voi fissate lo sguardo all'avvenire
immancabile, voi meditate il problema del vostro destino. Voi non vi
dite l'unica cosa memorabile: la morte mi aspetta, io sono destinato a
perire, il mio spirito, questo specchio che riflette l'universo, sarà
distrutto.... voi non v'inquietate del minaccioso _poi_; e deridete
chi per voi se ne inquieta....

«Il sonno verace, il sonno rivelatore vi ammonisce talvolta; voi
sentite un freddo guadagnarvi ogni fibra, la spaventosa immobilità
cadaverica impietrarvi le membra, il respiro esalare, la tenebra fosca
avvolgervi tutti.... Voi siete morti, e un lungo, un infinito terrore
preme sui vostri petti; eterno è il buio ed il silenzio.... Non appena
destati, non appena il primo raggio di luce sorrida, la vita vi
riprende, la menzogna torna a sedurvi; l'orgoglio invade le anime già
timide, una sfida superba sale alle labbra già mute....

«Se l'ora dell'angoscia scocca per voi, se l'unghia del dolore vi
lacera le carni; ecco ogni ardire si fiacca, la viltà vostra vi fa
abbassare la fronte e piegare i ginocchi; allora, allora soltanto voi
tendete le mani congiunte ad un cielo prima schivato.... Cessi il
dolore, scomparisca il pericolo, lo scettico o l'indifferente sorriso
errerà nei vostri sguardi.

«O ciechi affidamenti! o folli aberrazioni! Dal primo istante di vita,
voi portate il vostro proprio lutto; fin dalla culla i vostri piedi
stanno sulle soglie della morte. Il tempo v'inghiotte istante per
istante; come le goccie d'acqua della clepsidra i vostri giorni se ne
vanno l'un dopo l'altro; invano tentereste di arrestarne uno solo, voi
potete soltanto contarli--e quando essi saranno tutti trascorsi,
saranno fatti eguali all'attimo alato. Voi chiederete appena: Qual'ora
è?--e la voce dell'Ignoto risponderà: L'Eternità....

«O uomini, o miei fratelli, mettete la vostra mano nella mia. Essa è
scarna e tremante; nondimeno non chiede un appoggio. Io voglio
guidarvi, io voglio farvi mirare uno spettacolo nuovo.

«Nella solitudine nuda, quando nessuna cosa attrae l'occhio sulla
terra, gli sguardi amano errare per le plaghe del cielo. Le nuvole
vagabonde v'intrecciano i loro corsi: ed ecco in quelle forme ed in
quelle colorazioni sono tutte le imagini del mondo. Tal fiocco
leggiero naviga tranquillamente nell'azzurro, come nave cui sieno
propizie le onde; tali plumbei ammassi spumosi sono un mare flagellato
dalla tempesta. All'alba, piccole forme dorate, come alati
messaggieri, dispiegansi alla luce saliente; al tramonto, fosche vampe
si slanciano dall'occidente, si perdono in una caligine densa, come se
l'orbe s'incendiasse. E sono ancora candori abbaglianti, come di campi
nevosi, come di giogaie iperboree; e sono ancora immense fuliggini,
come tediose tele di ragni colossali; e sono ancora monti di porpora e
d'oro, miserabili cenci sdruciti, scaglie opaline di madreperla,
ghirlande di rose, mucchi di sassi. Sorgono dall'ampia cerchia
dell'orizzonte mutevoli forme: linee ondulate di lontane colline,
picchi superbi, rocche munite; aerei ponti si slanciano arditi, lunghi
fiumi serpeggiano, isole e continenti si formano. Non reclinereste voi
la stanca testa su quel morbido, voluttuoso guanciale? Qual pastore
guida quell'armento sterminato? Di che sangue è tinta quell'immensa
spada gocciolante?... Cozzano formidabili Titani, gonfi d'odio e di
livore; s'intrecciano ali leggere che l'amore sospinge.... E tutto
questo è un po' di vapore, un soffio: i monti s'adeguano, le rocche
crollano, le rose si sfrondano, le spade si spezzano; tutto svanisce e
tutto ricomincia.... Simigliante è lo spettacolo della vita; nel mare
dell'essere tutto è soffio, è parvenza....

«Anch'io, anch'io misi un gran prezzo a tutto ciò che vi preme di più,
anch'io amai e odiai, anch'io sognai la potenza e la gloria. Un po'
del mio cuore è rimasto da per tutto lungo la strada, e la mia memoria
è popolata e rumorosa come un alveare.... Dov'è la casa che mi vide
nascere, il tetto che riparò la mia culla, il focolare intorno al
quale il mio spirito cominciava a destarsi, sognando di fantasmi e di
eroi? Distrutta, lontano! Dove sono i fiori che l'amore falciava nella
stagione felice? Appassiti, dispersi.... O lacrime invano versate! O
più vani sorrisi! Che cosa avanza di tante energie? Delle rughe sulla
mia fronte, che in breve spariranno con me....

«Come nel profondo silenzio i suoni più flebili acquistano una
straordinaria intensità: l'aliare di un insetto, il cader d'una
fronda; così all'occhio di chi vede la morte vicina le cose più
trascurate hanno sole un alto valore. Non più gl'interessi che si
chiamano grandi, non più le passioni che si dicono forti hanno
seduzioni per me. Savio era Lemminkainen, l'eroe che, partito ad
espugnar la Pojola, vinto a mezza via dalla noia, dalla paura e dal
dolore, si fabbricò un nero cavallo fatto di fastidii, con una briglia
composta di giorni tristi ed una sella d'angosce, e se ne tornò presso
la madre. La madre è la natura, e sono le sue semplici vicende, il
nascere e il morire del giorno, il germogliare e l'appassire del
verde, le cangianti voci del vento e del mare, le sinfonie delle
colorazioni, l'accendersi e lo sfolgorare degli sguardi astrali che lo
spirito mio ansioso segue.

«Interrogate, o voi cui morde l'enimma, questa infinita natura, sempre
varia ed identica sempre: forse intorno a voi purissime essenze
aleggiano irrequiete, dolenti della vostra trascuranza; forse in ogni
atomo vibra una vita che vuol esser compresa.

«Interrogate, interrogate la storia, chiedete ad ogni religione la sua
filosofia, aspirate ad un olimpo, ad un nirvana, ad un paradiso. Mille
risposte si son date all'enimma, e chi sarà tanto ardito da dire: Io
solo sono nel vero?

«Qualcuno esiste.

«Qualunque sia il nome dato alla sovrana potenza, essa permane,
eternamente immutabile. Microscopici insetti annaspanti sopra un grano
di miglio, noi siamo nella sua piena balìa. Un soffio ci disperde, un
turbine travolge col nostro miriadi di mondi, di su, di giù, per gli
spazii infiniti.... La notte è formidabile; nell'oscurità formicolante
di astri uno sguardo pertinace, inflessibile, sembra pesar su di noi.

«Ma, ignoranti, noi abbiamo una grande scienza; deboli, disponiamo
d'una forza grandissima. Essa è la Preghiera, Che importa la natura e
la forma del Dio, se possiamo intrattenerci con lui, se possiamo
fargli l'olocausto dell'anima?

«La Preghiera è divina: la Parola che s'innalza al trono di Dio
partecipa della sua divinità. Nel cielo di Brahma essa si confonde con
lui.--Io son la regina, canta negli inni del Rik; io porto Mitra,
Indra, Agni, gli dei Asvini e gli altri tutti. Per mezzo degli Dei io
sono presente in tutte le cose e penetro tutte le cose.

«Che cosa sarebbe rinunziare al mondo, mortificarsi, vestire di cenci
cuciti insieme e raccattati nei cimiteri o fra le immondizie, vivere
di elemosine non chieste, soffocare ogni istinto, per amore
dell'eterna salute?... Ebbene, basterà che preghiate. In ginocchio,
pregate! Pregate per voi e pei vostri fratelli, pei morti e pei
nascituri! La preghiera sarà la colonna di vapore e di fuoco che vi
guiderà giorno e notte, sarà il Sinai sul quale la Legge vi verrà
rivelata.... Siate umili, fatevi più piccoli ancora di quel che non
siete; accettate ciò che è, benedite le gioie ed i dolori, soffrite la
vita, adorate la mano che vi accarezza e che vi flagella. E le vostre
inquietudini svaniranno, voi sarete affrancati dai vostri terrori.
Venga ora la morte, essa non avrà virtù di turbarvi; sereni voi vi
chinerete sulla faccia dell'abisso....

«Bestemmiate ancora, ribellatevi se vi credete zimbello d'uno stolto
potere, se stimate che vi fu data una vista illusoria poichè la verità
è stata inescrutabilmente nascosta! La bestemmia è una preghiera al
rovescio, ribellarsi è un modo di credere, l'angelo caduto ha
anch'esso la sua grandezza, e tutto, tutto è preferibile alla
limacciosa indifferenza dove s'impantanano le anime vostre....

«Guai a voi che nessuna cura del futuro non morde! Guai, guai al
secolo che non scruta il problema dei destini! Quando l'ora fatale
sarà scoccata, quando voi sarete per naufragare nel mare
dell'immensità, non sarà il vostro orgoglio, non sarà la vostra
potenza terrena, non saranno i vostri vani piaceri che vi daranno
soccorso! Nel commercio della vita, nel cozzo delle passioni, non
saranno essi che vi additeranno la diritta via!

«Ascoltatemi ancora; io voglio dirvi ciò che orecchio umano non ha
ancora saputo; voglio confessarmi a voi, tutto. Come potrei aspirare
ad essere seguito, se fossi sospettato di non esser sincero?...
Ascoltate: io peccai. Sollecitato da brame violente, assicuratomi
della umana impunità, col tradimento più nero, io armai la mia mano.
Odo ancora i gemiti del caduto, fuggo ancora nella notte tremenda....
Ed era come se le mura, gli alberi, i monti, tutta la terra si
rovesciasse dietro di me, perseguitandomi. La fuga era inutile;
nessuno m'inseguiva, nessuno mi aveva scorto. Io portavo fra gli
uomini la mia fronte alta e serena, la mia mano era ancora stretta
dalle mani leali. Solo io leggevo un'accusa in ogni sguardo, in ogni
parola, in tutte le cose; un'accusa sorda, implacabile.... Non era
un'allucinazione della mente turbata? Tutto procedeva come di
consueto, e nessuno mi rimproverava nulla.

«Internamente, il rimorso mi assiderava; io mi chiedevo tremante; qual
gastigo mi è riserbato? e stavo sempre nell'attesa di mali terribili,
delle più spaventose miserie del corpo e dello spirito.... Il gastigo
non veniva, la vita scorreva egualmente, con le stesse vicende.

«Io mi chiedevo ancora, con più profondo terrore: Sarà forse la morte
che mi colpirà, presto, prima che io abbia compita la mia carriera?...
Ed io l'aspettavo da un momento all'altro; un triste sorriso
m'increspava le labbra quando mi si parlava del domani. E la morte
veniva; ma invece di colpir me, si abbatteva intorno a me, mi isolava
in un cimitero sempre più vasto. Vecchi, giovani e piccoli, tutti se
ne andavano; io solo persistevo, che avrei dovuto pagare pel primo;
persistevo a misurare l'orrore dell'inutile colpa, la malvagità della
speme bugiarda, il precipizio della nostra miseria; persistevo a
misurare la terribilità del gastigo e la giusta sovrana che
l'infliggeva; invocando come una liberazione la morte temuta, ansioso
di entrare finalmente nel Vero....

«Come me, voi tutti siete colpevoli; il giusto pecca sette volte il
giorno; nessuno di voi è senza peccato! Nel profondo della vostra
coscienza, inconfessata a voi stessi, è la storia delle vostre colpe;
e che importa che esse non sieno state materialmente compiute, se esse
sono state _pensate_? Il pensiero è infame.... Come me, voi tutti
avete bisogno di redenzione!...

«Io so la vostra risposta, io so la derisione di cui mi fate oggetto,
per lo smarrimento in cui credete che il rimorso e l'età abbiano
gettato la mia mente.... Siete voi, ciechi, stolti, miserabili, che mi
fate pietà; è per voi, per riscattarvi, che io vorrei dare il poco
sangue che ancora mi resta, che io vorrei salire un calvario e spirar
sulla croce, se dall'alto d'una croce la mia parola fosse ascoltata.

«Nessuno mi ascolta. La solitudine ed il silenzio mi circondano, il
vento dell'oblio disperde le mie parole, come il turbine del tempo
disperde via l'un dopo l'altro i giorni irrevocabili....»



EPILOGO.


Alle cinque della sera, dopo una giornata di lavoro indefesso,
cominciato a tavolino con l'alba, proseguito nelle aule affollate di
San Firenze, ripreso a casa fra il succedersi dei clienti, Carlo
Landini si sentiva vinto da quella specie di stanchezza morbosa
particolare ai lavoratori del pensiero.

L'esercizio prolungato dei muscoli, il consumo fisiologico, sono certo
causa di sensazioni penose; ma basta che lo sforzo si arresti, che
l'organismo sia abbandonato all'inerzia, perchè un profondo benessere,
un sollievo quasi voluttuoso guadagni tutte le fibre. Il lavoro dello
spirito non conosce queste tregue ristoratrici; l'attività cerebrale,
una volta destata, non si può più arrestare; le idee succedono alle
idee, le imagini alle imagini, secondo una legge di associazione
incosciente; e la volontà non è solo impotente a frenare questo
movimento, ma spesso ancora a dirigerlo. Un malessere fisico
ordinariamente ne deriva, come effetto dell'afflusso del sangue al
cervello, ed in questo stato irritante la stessa riparazione del sonno
tarda a venire.

Carlo Landini, con la fronte scottante, la vista intorbidata dalle
lunghe letture dei voluminosi processi accatastati sul grande tavolo
da lavoro, aveva dato ordine che nessuno fosse introdotto per quel
giorno nel suo studio. Se negli anni della sua prima giovinezza si era
parlato di lui come di uno cui l'avvenire arrideva, il fatto si era
lasciato indietro le più liete promesse. A poco meno di quarant'anni,
in una professione dove la concorrenza è grandissima, egli aveva
conseguita la più chiara delle reputazioni, si era fatto un posto
eminente non solo fra i suoi compagni, ma perfino fra i maestri, ed
era talmente affollato di affari, da vedersi spesso costretto a
rifiutarne ed a chiudere l'uscio di casa sua ai troppo numerosi
clienti.

Quel giorno, l'ordine era stato appena impartito, il Landini aveva
appena chiusa l'ultima memoria, che il campanello elettrico risuonò.

--Chi è ancora?--chiedeva egli infastidito, al servo che, aperto
l'uscio, se ne stava lì in mezzo, come cercando le parole.

--Una persona che vuol parlare al signore... che insiste....

--Ho già detto che non sono in casa per nessuno.

--Dice, scusi, che deve consegnare a lei personalmente una lettera
urgente....

L'avvocato Landini passò egli stesso in sala, non cercando di
nascondere la sua contrarietà. Si trovò dinanzi ad uno sconosciuto,
che dall'abito, dall'attitudine umile più che rispettosa, pareva dover
essere un domestico.

--Che cosa volete?

--È lei il signor avvocato Carlo Landini?

--Io in persona.

--Debbo consegnarle questo.

Cavò di tasca una lettera e la porse al Landini. Appena questi ebbe
gettato uno sguardo sulla busta, il fastidio che s'era fino a quel
momento letto sulla sua fisonomia, dette luogo ad una specie di
attenzione concentrata, di preoccupazione mista ad una inquieta
curiosità.

--Sta bene.... grazie....--disse alla persona che aspettava,
congedandola; e passò rapidamente nella sua stanza da studio. Prese
sul tavolo un piccolo tagliacarte a foggia di scimitarra, e come la
luce si andava ritirando, si fece presso la finestra. Stava per aprire
la lettera, quando si arrestò un momento, considerando il carattere
dell'indirizzo, sulla busta moyen-âge, suggellata di ceralacca azzurra
in un angolo.

--Dieci anni!--mormorò, facendo mentalmente il conto del tempo
trascorso dacchè quella persona non gli aveva più scritto.--Dieci
anni!....--e una tristezza gl'invadeva lentamente l'anima, come una
nebbia, mentre sollevava uno sguardo al cielo occidentale, sul cui
fondo rosato si ergeva gloriosamente la cupola di Santa Maria del
Fiore.

Dieci anni, dacchè aveva ricevuta l'ultima lettera di lei; e quei
dieci anni non erano valsi ad abolirne il ricordo, se appena scorto
quel carattere fine, minuto, ma inchiostrato nei pieni e dalla
asteggiatura eguale, lo aveva immediatamente riconosciuto, senza
esitare un istante! Dieci anni--e il sangue gli aveva dato un tuffo,
ora come allora, come quando ogni lettera di lei lo colmava di un
turbamento delizioso!...

Le memorie irrompevano nella mente del Landini, ed egli se ne restava
lì, dinanzi alla finestra con gli sguardi errabondi, tenendo la
lettera in mano, ma senza decidersi ancora ad aprirla... Era stato
tutto un romanzo, un romanzo di passione, di tormenti, di felicità, un
romanzo in fondo al quale non era stata però scritta la parola piena
di soave rammarico o di composta rassegnazione: Fine. Bruscamente,
quella donna a cui lo legavano i vincoli più teneri e più saldi, le
gioie insieme gustate, i pericoli sfidati insieme, lo aveva messo
quasi alla porta, gli aveva ingiunto di non tentar di rivederla, mai
più!

Che cosa era avvenuto? Perchè quella risoluzione incredibile, contro
la quale ogni sua insistenza si era spuntata?... Non aveva potuto
saperlo. A tutte le lettere che egli le aveva scritte, alle umili
lettere di preghiera, alle appassionate lettere d'amore, alle fiere
lettere di minaccia, ella non aveva voluto rispondere. Un momento, era
stato per ismarrire la ragione dinanzi a tanta ostinatezza di repulse.
Il secreto che essi erano riusciti a serbare a costo di mille rischi e
di mille sacrifizii, egli era stato sul punto di andarlo a rivelare a
chi più interessava di conoscerlo; le aveva fatto sapere che se ella
non si fosse piegata a rivederlo, ad ascoltarlo, a dargli una ragione
di quel suo repentino mutamento, sarebbe andato a dir tutto al marito
di lei!... Pazza minaccia, che non era stata seguita da effetto,
grazie al sopravvenire del freddo ragionamento, non già perchè ella si
fosse piegata!... Ed era stato per un caso, molto tempo dopo, quando
ella era scomparsa nella solitudine di una campagna ignorata, che egli
aveva intraveduto il possibile motivo di quella rottura. Poco prima
che questa scoppiasse, un suo amico, quasi un fratello, gli aveva
chiesto uno di quei servigi che solo un fratello può rendere: gli
aveva affidata una donna compromessa per causa propria. Durante tutto
il tempo da costei passato a Firenze, egli si era perciò messo a sua
disposizione; le aveva reso tutti quei piccoli servigi che erano in
suo potere, le aveva fatto meno insopportabile la sua posizione
disgraziata. Ed ecco che una voce si era sparsa a sua insaputa, ed
ecco che tardi, troppo tardi, veniva al suo orecchio quella voce,
secondo la quale quella signora sarebbe stata la sua propria
amante!... Allora, egli si era tutto spiegato: l'invenzione assurda,
malvagia, aveva dovuto arrivare fino all'altra, fino a lei; ella
l'aveva creduta; e la cieca prepotenza dell'amor suo non gli aveva
data una prova preventiva di quel che avrebbe dovuto essere la sua
gelosia?...

Tutta questa storia, nei suoi più minuti particolari, si svolgeva ora
nella memoria del Landini. Girando quella lettera da una mano
all'altra, egli pensava che in quel pezzo di carta doveva essere la
conferma o la smentita di quella sua spiegazione. Però non si decideva
ad aprirla. Un tumulto di sentimenti gli si era scatenato nell'anima,
e con quel l'acutezza di indagine psicologica che metteva nello studio
dei suoi processi, analizzava ora raffinatamente sè stesso.

Perchè il suo cuore batteva dunque così forte? Ah! egli è che di un
amore come quello da lui ricordato, non se ne provano due nella
vita!... Egli aveva amato ancora, aveva cercato attraverso le
rinnovate esperienze qualche scintilla di quella gran fiamma: ma non
l'aveva trovata. Come il duca d'Illiria della Dodicesima Notte di
Shakespeare, egli avrebbe voluto esclamare:

                    Enough, no more;
    'Tis not so sweet now as it was before.

Oh no; non era mai più stato così dolce come prima! Era stata una
passione sovrumana, una vera fusione di anime, il conseguimento del
sogno più idealmente accarezzato! Avevano arrischiato la pace, la
vita, l'onore; ma avevano provata un'esultanza immortale! Come tutto
ciò era potuto finire? E che cosa, dopo dieci anni, quando tanta
cenere si era accumulata sul fuoco, poteva aver spinto quella donna a
rivolgersi ancora a lui!... Si era ella pentita dei suoi sospetti? Un
caso fortuito, come era accaduto a lui stesso, glie ne aveva rivelata
tutta l'odiosa ingiustizia? O cercava ella, ora soltanto, di avere una
spiegazione?...

Il Landini si perdeva in ipotesi. Egli aveva un mezzo sicuro di
decifrare l'enimma: aprire la lettera, e leggerla; ma, in quella
sovraeccitazione cerebrale a cui era in preda, trovava una specie di
strana voluttà a prolungare la tormentosa incertezza, a tentar di
esaurire coll'imaginazione tutti i partiti possibili. Poi, un nuovo
sentimento cominciava ora ad impedirgli sordamente di porre ad effetto
la semplicissima risoluzione: una specie di secreta, di inconfessata
paura... Era egli tanto sicuro di sè da poter sentire impunemente
tutto ciò che ella gli avrebbe detto? Era ben sicuro che il fuoco di
quell'amore fosse tutto ridotto in cenere? Non temeva egli che alle
parole della donna, alla evocazione di un passato che formava
l'orgoglio della sua vita, il fuoco divampasse nuovamente, come al
soffio vivificatore dell'ossigeno?... Egli non era più giovane, gli
anni erano passati anche per lei; ma, non avendola più incontrata,
egli non sapeva imaginarla altrimenti che quale l'aveva lasciata.
Rivedendo quella gentile figura, ricordandone tutta la seduzione,
tutto il fortissimo incanto, la sua paura cresceva: sarebbe bastata
una sola parola perchè egli avesse tutto dimenticato: la serietà della
sua vita presente, i doveri della sua posizione, i mille pericoli di
un tardo ricominciamento...

Un piccolo rumore lo richiamò alla presente realtà: il servo,
insospettito dal lungo silenzio intanto che l'ora del desinare era
trascorsa, gironzava nella stanza attigua. La sera era già discesa,
soavissima. Ora sarebbe stato impossibile di leggere la lettera senza
fare accendere un lume. E traendo profitto da questo nuovo pretesto di
ritardo, il Landini si era tolto dalla finestra, e rovesciatosi sopra
un divano, aveva ripreso a fantasticare.

Quel fenomeno costante pel quale, se qualcosa ci sta a cuore, noi
troviamo subito mille ragioni che ce ne dimostrano la convenienza, si
ripeteva in lui. Tutto alla evocazione di quel passato, egli trovava
ora dei motivi che lo spingevano sempre più per quella via.

Dall'ammettere che la donna avesse potuto essere tratta in inganno, al
giustificare la condotta di lei, non v'era che un passo. Dal
giustificarla, ad accusare sè stesso, il passaggio era meno facile;
nondimeno egli lo compì. Trovava di non avere insistito abbastanza,--a
quel tempo--per ottenere una spiegazione; di aver commessa una vera
colpa non avendo cercato di lei, quando il motivo di quella rottura
gli era stato fatto intravedere. Allora sarebbe stato dover suo
giustificarsi, smentire la voce bugiarda, far rifulgere la propria
innocenza.

Il dover suo era di non abbandonare quella donna, _suo malgrado_! Chi
gli diceva, infatti, che il tradimento di cui ella si era creduta
vittima, non l'avesse spinta a rappresaglie; che, per colpa di lui,
ella non si fosse interamente perduta?... Una specie di rimorso
sorgeva allora nell'animo del Landini, un rimorso che era, in fondo,
una forma di egoismo: poichè il rimprovero di averla potuta far cadere
in braccio ad altri si risolveva nel rammarico di non averla più per
sè.... E una grande tenerezza lo vinceva, a poco a poco, pensando a
tutto quello che era stato fra di loro, a quel romanzo bruscamente
troncato e non finito, così, senza ragione, per quelle assurdità di
cui la vita è tanto feconda... Però, in quella lettera improvvisamente
pervenutagli, quando egli si era già rassegnato all'assurdo, era la
parola che avrebbe tutto spiegato. Egli riconosceva a questo tratto
l'indole fiera, appassionata, di quella donna di cui si era fatto un
tipo ideale. Si era creduta offesa, e nulla era valso a piegarla; ora,
dopo l'espiazione di tanti anni, ora soltanto, ella veniva ancora a
lui!... Che cosa gli avrebbe detto? Come avrebbe ridestata la memoria
di quel passato? Quali dolci, quali armoniose, quali poetiche parole
avrebbe adoperate per ricordare tanta dolcezza, tanta armonia, tanta
poesia?... Alla luce improvvisa della lampada che il servo reggeva
affacciandosi all'uscio, il Landini si accorse che era già notte
fatta.

--Si sente male, signore?...--chiedeva timidamente la persona di
servizio.

--No, no; lasciate qui il lume....

--Il signore non desina dunque quest'oggi?

--Fate apparecchiare... mi avvertirete...

E appena rimasto solo, avvicinatosi alla lampada, egli dischiuse
accuratamente la busta, con mano un poco tremante. Ne cavò una carta
ricoperta sulle quattro facciate da una fitta scrittura, e un
foglietto dello stesso gusto della busta. Il Landini vi cercò
l'intestazione; non ve n'era. La lettera diceva così:

«Voi sarete molto sorpreso di ricevere la presente, e vi troverete
certamente costretto di correre alla firma per conoscerne la
provenienza!... Il tempo ha le ali, e col tempo la forma della nostra
scrittura si modifica, da rendersi irriconoscibile! Il nostro modo
stesso di pensare si trasforma; ed è per questo che io sono stata, e
sono ancora in forse di scrivervi, supponendo che ciò possa non farvi
il piacere di una volta!

«Vorrete quindi perdonarmi se, facendo appello alla vostra amicizia,
che suppongo inalterata, vengo ad importunarvi per chiedervi se posso
firmare l'acclusa transazione, desiderando conoscere a quali
conseguenze andrei incontro per tale atto. In una questione
d'interessi che si trattano fra parenti conviventi nella stessa casa,
non potendo dimostrarmi diffidente a viso aperto, io che non m'intendo
di affari, non ho voluto impegnarmi prima d'aver sentito il parere di
una persona su cui si può contare.

«Accettate, non è vero? Domani mi farete avere una risposta? Sarei
venuta personalmente, se non avessi temuto di disturbarvi ancora di
più che con la presente. Il passato non ci è sempre gradito; lo
comprendo anch'io! La vita ha le sue esigenze; ed io non sono così
ingenua o così presuntuosa, da supporre che in questi dieci anni voi
abbiate potuto pensare a quello che fummo. So, del resto, che vi siete
divertito; e chissà quante altre imagini si saranno sovrapposte a
quella che io ho temuto di ripresentarvi dinanzi! Guardate: divento
indiscreta!! Perdonatemi anche questo e vogliate credermi a ogni modo,
con rinnovate scuse ed anticipati ringraziamenti, cordialmente vostra:
Anna Solari.--Fiesole, lunedì.» . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il servo stava di nuovo sull'uscio, interdetto, chiedendosi se il suo
padrone non fosse ammattito, perchè all'annunzio che la zuppa era in
tavola, lo aveva guardato con occhi stralunati, come uno cascato dalle
nuvole.

--È in tavola?... Va bene, va bene....

Sul punto di passare di là, Carlo Landini si stropicciava gli occhi.
Credeva di aver sognato, tanto quella lettera era incredibile, tanto
egli era rimasto male! Che grossolana illusione era stata la sua!...
Gli anni erano davvero passati, se quella donna era così mutata, se
scriveva di quelle lettere, se domandava una consultazione legale,--_a
lui!_--se profanava il ricordo del loro amore con quella freddezza
studiata, con quel tono di filosofica rassegnazione, con quelle
allusioni indiscrete... E non un accenno alla enimmatica rottura che
lo aveva mortalmente ferito; non una spiegazione--nè data, nè
chiesta!... E diceva di temere che egli non avrebbe riconosciuto il
carattere di lei, mentre, appena scorta la lettera, gli era mancato il
respiro! E diceva di sapere che egli si era divertito, mentre
quell'imagine gli era stata sempre inchiodata nel cuore, come un
rimpianto, come un rimorso, come l'aspirazione di tutta la sua
vita!... Ma, dunque, era realmente mutata quella donna, o era stata
sempre ad un modo e soltanto la sua fantasia di innamorato ne aveva
fatto un ideale?...

Carlo Landini scrollò le spalle, sedendo a tavola. Il suo romanzo era
finito, definitivamente; e quella lettera ne rappresentava l'epilogo
prosaico e volgare.

--Un romanziere non avrebbe nessun partito da trarne!--si diceva egli
mentalmente, e non pensava che i romanzi veri, i romanzi fatti nella
vita e non ideati per amore dell'arte, finiscono quasi sempre così.



L'ORGOGLIO E LA PIETÀ.


Dall'uscio spalancato della stanza, l'occhio dominava la ripida caduta
della costa e si perdeva nell'infinito del cielo e del mare. I tre
commensali, seduti attorno alla tavola mezzo sparecchiata, tacevano,
assorti in una profonda contemplazione, e leggermente inebriati, più
che dal vino di fuoco che un raggio di sole accendeva nei bicchieri,
dalla vista grandiosa, dalla intensa e quasi ipnotica fissazione del
perduto orizzonte. La pace era profonda: non una voce, non un
movimento; le barche dalle alte vele latine parevano immobili, nella
distanza.

Fritz Eisenstein, l'ospite, si scosse dal suo torpore, e passando una
mano nella selva della sua capigliatura, esclamò:

--Sapete che noi dovremmo vederci più spesso? Non sarebbe un ideale
ridurci qui, tutti e tre, lontani dal chiasso, vivendo nel mondo dello
spirito, nella pura astrazione?... Noi ricorderemmo la nostra vita
passata, e nulla sarebbe più interessante del viaggio di esplorazione
che ciascuno di noi farebbe nella coscienza dell'altro....

Allora, finalmente, dopo lunghe divagazioni, dopo un silenzio imposto
dalla calma suprema dello spettacolo, una parola fu pronunziata in
quella conversazione di giovani: la Donna.

--Ah, parliamone!--diceva Fritz Eisenstein, portando alle labbra con
un gesto automatico il bicchiere e riponendolo tosto in mezzo alla
tavola.--Vi è stato un tempo in cui la fine di Edgardo Poe mi ha
sedotto....--E, con la stessa larghezza con cui aveva fatto gli onori
di casa ai compagni, egli cominciò a raccontare un suo fosco dramma
d'amore, con l'accento malfermo di chi, avendo rasentato un precipizio
e provate le prime vertigini, non può ripensare al pericolo senza
temere d'esserne tuttora minacciato.

Franz von Rödrich ascoltava attentamente, coi gomiti sulla tavola e la
testa fra le mani, mentre Ludwig Kopfliche, un po' abbandonato, le
braccia pendenti, gli occhi rovesciati, seguiva per aria le spirali
azzurrine della sua sigaretta odorosa.

--Ed io ero in questa orribile alternativa--diceva Fritz Eisenstein--o
di lasciare scoprire la mia relazione con quella donna, di vederla
perduta per sempre agli occhi del mondo, di esser la causa di una
rovina irreparabile, o di spingerla--io stesso!--in braccio all'unico
uomo che avrei voluto fare scomparire dalla faccia della terra!... Ah!
i miei capelli cominciano a brizzolarsi? Lo strano è come non sieno
già tutti bianchi di neve!...

Ludwig Kopfliche si attorcigliava ora lentamente i baffi candidissimi
sulla faccia d'un bel roseo di salute e di gioventù, e i suoi
occhietti luccicavano sotto la larga fronte curiosa.

--Non bisogna lamentarsi, perchè tutto può essere materia di studio e
di osservazione! Fra lo scatenarsi delle passioni più divoranti, c'è
da fare delle raccolte preziose di piccoli documenti e di piccoli
fatti!--Ed egli sviluppava le sue teorie di critico, di raffinato
dilettante, capace di lasciare un brano del proprio cuore in fondo a
una esperienza, pur di notare delle sensazioni nuove, o rare, o
complesse.

--Ma l'analisi non uccide il sentimento?

--Può anche crearlo! A furia di critica, si può costrurre--come
diciamo noi tedeschi--quel sentimento che più ti aggrada. L'amore?
Anche quello. Io posso far nascere in me l'amore, quando voglio,
artificialmente....

E mentre egli raccontava i risultati di qualcuna delle sue complicate
esperienze psicologiche, Fritz scuoteva la testa, e replicava,
opponendo argomento ad argomento, e caso a caso. Vive, appassionate,
enimmatiche, si evocavano intanto ai loro occhi le scomparse figure di
donne e, ad un tratto, dinanzi alla irrompente piena di ricordi, le
voci tacevano un poco. Allora si sentiva il silenzio solenne della
campagna assopita sotto il sole declinante, mentre l'azzurro del cielo
leggermente velato pareva l'immensa evaporazione del mare e le vele
latine si tingevano di porpora.

Con la fronte sulla palma della mano, Franz von Rödrich lasciava
annegare i suoi sguardi negli spazii profondi, e un brivido gli
serpeggiò pel corpo quando gli amici si volsero a lui, strappandolo un
po' bruscamente alla sua deliziosa _rêverie_.

--Franz, tu sei ammutolito?

--Non ci racconti la tua?

--Che cosa volete che io vi racconti?--rispose egli, con lo sguardo un
po' smarrito pel contrasto della chiara luce diffusa al largo e la
penombra della stanza, dalla quale il sole si era già ritirato.--Per
cercare che io faccia, non mi riesce di trovare in fondo alla mia
memoria nessun fatto che sia degno di interessarvi come i vostri hanno
interessato me. I casi più notevoli che mi sono capitati sono di
quelli che, con parola espressiva, si chiamano fiaschi. Ora, i fiaschi
è meglio vuotarli che raccontarli!--e nel ripetere il volgare doppio
senso v'era qualcosa d'amaro nell'espressione della sua fisonomia.

--Egli è che voi ne avete già vuotati parecchi--osservò Ludwig
Kopfliche, che non beveva quasi vino--e sarebbe prudente di cambiar
sistema!

--Conciliamo! conciliamo!--rispose Fritz Eisenstein porgendo un
bicchiere a Franz von Rödrich.--Vuota prima... Ora racconta!

--Volete? E sia! Ma non vi stupirete se nel mio racconto non v'è molto
nesso?... Io lascierò che i ricordi si svolgano da loro; e se vi
annoio, siamo intesi? la colpa è vostra. Voi avete conosciuta la
Cabianchi?

Fritz e Ludwig si guardarono.

--Quello splendore?... Quella maestà?...

--Sì, quello splendore, quella maestà di bellezza, completa, perfetta,
ideale! Quella bellezza che non si concepiva di poter ammirare
altrimenti che in ginocchio, dal basso all'alto, colle mani giunte,
nell'attitudine di un prete dinanzi all'idolo! Quella bellezza pura,
serena, intangibile e intatta! Io l'ho amata... Parlo con persone che
intendono che cosa si racchiuda in questa parola: Amore; quali
eterogenei elementi entrino a formarne il significato. Fra tutti i
secreti moventi che esercitavano la loro azione su di me, la curiosità
di leggere in fondo a quel cuore, di risolvere l'enimma di quegli
sguardi di sfinge tranquilla e superba, non era il meno forte.... Ma
io l'amavo con più semplicità; la desideravo, anima e corpo, e tanto
più intensamente, tanto più dolorosamente, quanto più scoraggiante era
la leggenda che correva su quella Groenlandia ghiacciata. Chi potea
vantarsi di aver avuto con quella donna una conversazione intima,
sulle cose del cuore e dell'anima? La sua intimità, io voleva
conquistarla. Ciò che mi arrestava di più in lei, era la sua serenità
divina, di creatura superiore, a cui gli omaggi, il culto, sono
dovuti, naturalmente; che nulla può commuovere, che nulla può
interessare, E la frase di Spinoza mi tornava alla memoria; «Chi ama
Dio non può far nulla perchè Dio lo ami in ricambio...» Vi era in
questa indifferenza dinanzi alle prove della mia più fervida
adorazione, della mia devozione più umile, qualche cosa che feriva il
mio amor proprio, acutamente; non pertanto mi facevo forza, e
persistevo, malgrado mille piccole amarezze, felice di sorprendere, di
tanto in tanto, qualche barlume nella freddezza metallica di quegli
sguardi. Alcune volte gli spiriti s'intendono, meglio che per via di
lunghi discorsi, in un minuto di silenzio eloquente.... Noi eravamo
alla terrazza del villino, verso il tramonto di una giornata
autunnale. Il cielo dell'orizzonte era d'un rosa tenero che, per
gradazioni delicatissime, sfumava in un verde impossibile a
definire... Io ero riuscito a farle leggere un romanzo d'amore; ne
avevamo parlato; mi era parso di scoprire, nel suo accento, qualcosa
di tremante, di commosso, al ricordo del dramma...--Che cosa è la vita
senza passione?...--Io ero stupito ancora delle mie parole; mi
aspettavo di vedermi guardato con occhio curioso, come si guarda un
originale, uno stravagante.... Ella guardava l'orizzonte, quel rosa e
quel verde che infondevano una grande dolcezza nel cuore. Vista così
di profilo, immobile, ai toni caldi del tramonto, ella era
schiacciante di bellezza ieratica.... Tacevamo, e l'ora fuggiva,
adorabile.... Lentamente, io avevo cavato il guanto dalla mia destra,
e pigliando a un tratto congedo da lei, tenni, per la prima volta, la
sua mano nuda nella mia. Era il freddo della sera? Un brivido mi passò
pel corpo a quel contatto soave. Quanto tempo si può stringere una
mano? Due, cinque secondi? A me parve che quella stretta durasse
indefinitamente. Alla sensazione di freddo che mi aveva scosso, ora
succedeva un tepore dolcissimo che, a ondate, dalla mano mi saliva pel
braccio e mi serpeggiava per tutti i nervi...--Ci rivedremo
presto?...--Martedì, al viale dei Platani.--Che scoppio d'allegrezza
nell'anima!... Io mi sorprendevo, per le strade affollate, ad
esclamare: È mia! È mia! Quanti mi avranno preso per pazzo?... Con
quale ansia aspettavo che il tempo scorresse, che arrivasse quel
martedì, quando avrei... che cosa! Non lo sapevo io stesso!... Io ero
lì, a percorrere il viale coperto d'un tappeto di foglie morte,
spiando la sua comparsa, sussultando ad ogni rumore, ad ogni forma
lontana... Ella non veniva ancora.... Degli amici m'incontravano, mi
trattenevano; io avrei voluto strozzarli.... Il tempo passava, le ore
suonavano una dopo l'altra all'antico convento di San Domenico, le
ombre si allungavano.... Ella non veniva.... Il freddo della sera mi
pungeva, le gambe mi si piegavano.... Ella non veniva... Perchè? Che
cosa le avevo fatto?... Ma insomma, non era quella mia disperazione
puerile? Un contrattempo fa presto a sorgere... Però io provai una
puntura acutissima, lancinante, quando, uscito di lì, nella baraonda
della via, la scorsi, serena, indifferente, incedere tra la folla con
lo sguardo fisso dinanzi a sè, senza guardare nessuno. Tu hai pratica
del magnetismo, Ludwig?... Io la chiamavo imperiosamente, cogli occhi,
e come ella si voltò a guardarmi, lo feci l'affronto di non salutarla.
Avevo voglia di piangere. Mi sentivo umiliato, avvilito da quella
indifferenza, da quella serenità. Mi rivedevo, ridicolo, lì, in quel
viale dei Platani, ad aspettare chi non veniva; a desiderare chi il
desiderio non aveva mai compreso... Io stetti quindici giorni senza
cercarla; meglio, evitandola. Poi la passione fu più forte. Ella
pareva non essersi accorta di nulla; mi accolse come l'avessi lasciata
il giorno prima. Le repulse decise, una dichiarata ostilità non mi
avrebbero fatto tanto male quanto quella incoscienza serena che
offendeva la mia passione d'amante e la mia dignità di uomo... Mi
allontanai ancora; poi tornai nuovamente a lei... Vado per le lunghe?
Un giorno, era sola. Come mi lasciai trascinare dalla piena
dell'affetto? Che cosa le dissi? Io ero stupito della mia eloquenza;
le frasi mi sgorgavano dalle labbra facili, incalzanti, come in certi
momenti di dormiveglia, quando ci sembra di parlare con la stessa
facilità con cui si legge in un libro stampato...--Voi non credete
all'amore? Che cosa bisogna fare per convenirvi? Come dimostrarvi di
che miracoli l'amore è capace? Come provarvi che non ostante
l'accumularsi del ghiaccio, tra i rigori iperborei, le fiamme d'un
vulcano possono erompere?...--Io ero al suo fianco, vicino, molto;
sentivo il suo profumo penetrante salirmi al cervello; la guardavo
supplicante... Nulla!... Non importa!... presi la sua mano nelle mie
mani scottanti... Ella la ritirò... Non importa!... non volevo che mi
sfuggisse, contavo di vincerla... Ah!... quella mano che ella mi aveva
tolto, ora me la porgeva!... Come? Come si fa l'elemosina ad un
miserabile, ad un fastidioso miserabile che vi stia dattorno,
inevitabilmente!... Nel suo sguardo, l'impassibilità del Dio... No!
Tutto il mio orgoglio dimenticato, soffocato, calpestato per l'amore
di quella donna, si ridestò gigante, irresistibile. No!.... Se io
avessi preso quella mano, sarei stato probabilmente l'amante della
signora Cabianchi. Quella mano, io non la presi....

--Ah! Tu non l'amavi!--esclamò Fritz Eisenstein, picchiando sulla
tavola e facendo col capo vivi segni di denegazione.

--E poi, scusa--aggiunse Ludwig Kopfliche accendendo un'altra
sigaretta--l'osservatore non deve aver tutte queste fisime pel capo!
La ricerca del fatto, innanzi tutto. Sarebbe bella che il fisico non
volesse curvarsi a guardare dentro il microscopio, col pretesto che
l'uomo deve tener alta la fronte! Sarebbe ancora più bella che il
fisiologo rinunziasse a provare l'efficacia d'un rimedio, per non
aprire le viscere d'una creatura vivente!

--Ah! eccomi giunto al mio secondo caso,--riprese Franz von Rödrich,
dopo aver lasciato dire gli amici fissando le vaghe forme vaporose che
si disegnavano all'orizzonte.--Una creatura vivente, e di che vita
intensa, acuta e torturante! Voi non l'avete conosciuta. Il suo nome?
Che cosa importa! Ella si chiamava la Leggiadria, la Grazia,
l'Incanto. Nulla, in lei, di regolare e di previsto; il volgo la
giudicava brutta. Ella era bella, della sovrumana bellezza consistente
nell'espressione, nella simpatia, nell'anima rivelantesi dagli
sguardi, dalla voce, dalla stessa attitudine di un corpo flessibile,
ondulante, superbamente modellato. Dal primo giorno che la vidi, una
dolcissima intimità si stabili fra di noi. Io non ricordo di aver mai
scambiato con lei, fuorchè in presenza di altre persone, i luoghi
comuni delle conversazioni quotidiane. Che scienza del cuore ella
aveva! Come era organata per la sofferenza l'eletta creatura, tutta
spirito, tutta fantasia,--e come aveva sofferto! Vi era una tragedia
nella sua vita, ed ella era ancora sotto l'impressione del fulmine
cadutole dinanzi. Come esprimere l'intenerimento che ella mi dava? Io
avrei voluto al mio comando ogni potenza per riparare l'evidente
ingiustizia commessa a suo danno dal Destino, per restituirle i suoi
sogni e le sue speranze, per cospargere di petali di rosa il suo
cammino.... A poco a poco, arrivai a credermi capace di questo
miracolo. Il prepotente amore nasceva in me: si traduceva, mio
malgrado, in ogni mia parola, in ogni mio atto. Ah! che _charme_! che
_charme_!... Ella mi comprendeva, mi era grata, mi amava.... Come
spiegare altrimenti la metamorfosi che si operava in lei, l'adorabile
sorriso che le splendeva ora negli umidi sguardi, la rifioritura di
tutto il suo essere oppresso e quasi avvizzito dall'inclemente
stagione?... Il mio più fervido voto stava dunque per essere compiuto?
La gioia aspettata stava dunque per entrarmi nel cuore!.. Oh, perchè,
invece, una nebbia di tristezza si levava in me lentamente, ed
invadeva le più recondite pieghe dell'anima? Perchè quel sentimento di
profonda, di angosciosa commiserazione alla vista della creatura
adorata? Perchè quella ostinata visione del male di cui le sarei stato
causa, delle nuove inevitabili lacrime, delle nuove torture? In
chiesa, un venerdì, il giorno che ella dedicava alla preghiera.... Era
in ginocchio dinanzi l'altare dell'Addolorata. Non mi vide. Io bevevo
la magia della sua vista, e il luogo, l'ora, tutto mi disponeva ad una
mistica tenerezza. Oh, la povera adorata creatura! Come era debole, e
tenue, e delicata, e fragile! Come il suo viso era lavato dal pianto!
Come il più leggiero tocco l'avrebbe fatta dolorosamente vibrare in
tutte le fibre! Come bisognava essere crudeli per tormentarla,
ancora!... E un giorno che noi eravamo soli, e che io le ero vicino, e
che le nostre fronti si avvicinarono per leggere le parole di un
poeta, le mie labbra le sfiorarono le tempie.... Un grido represso,
una angoscia nell'occhio rovesciato, uno scoloramento nel viso, un
affannoso sollevarsi del seno.... Io presi le sue mani, le sue povere
bianche mani tremanti che ella aveva portato sul cuore; io le baciai,
filialmente.... La sera ero partito, lontano....

--Ah! Tu non l'a...--cominciò Fritz Eisenstein; ma levandosi ad un
tratto da sedere, in preda ad una grande emozione, si corresse
vivacemente:--No! No!... Tu l'amavi; oh se l'amavi! Ed è bella, ed è
buona, ed è vera questa pietà!...

Ora, il cielo dell'oriente si colorava d'ametista e il mare si venava
di grandi striscie, come un amuerro. Le barche si avvicinavano alla
costa, in lunghe file, e il silenzio pareva piovere più profondamente
sulla campagna e sul mare.

--Che poesia nella rinunzia!--esclamò ancora Fritz Eisenstein, con un
gesto largo.

--Il Buddha! il Buddha!--disse sommessamente il raccontatore.

Allora Ludwig Kopfliche, il dilettante, si rialzò sulla sedia, buttò
la sua sigaretta, incrociò le braccia sulla sponda della tavola, e
immobile in tutta la persona, come un idolo antico, cominciò:

--Quando Sachia-Muni era ancora il principe Siddârtha, aveva ogni
virtù del perfetto cavaliere. In un punto soltanto non rassomigliava a
tutti gli altri. Nessuno era più abile di lui ad inseguire la caccia
per la foresta; ma quando, al galoppo del suo focoso cavallo, con
l'arco teso, vedeva saltellare rapidamente la gazzella spaurita,
invece di lanciare la freccia egli si arrestava, preso da un subito
tremore; e lasciando i suoi compagni, se ne andava con uno strano
sogno di tristezza e di pietà....

--«Voi che volete seguire la strada regale»--disse Franz von Rödrich,
interrompendo l'amico con un segno della mano--«ascoltate le quattro
grandi verità! La prima è di conoscere il dolore; la seconda di
penetrare la sua causa: il desiderio. La terza consiste nella fine del
dolore, che è l'amore di sè vinto, la brama domata. La quarta è di
conoscere la via che conduce al rifugio....»

E mentre il sole tramontava e il velo dell'ombra si distendeva sul
cielo e sul mare, i tre buddisti tacevano, nell'aspirazione al
promesso Nirvâna.


FINE.



INDICE.


  PREFAZIONE............................Pag.  V
  Documenti umani....................... »    1
  Il Passato............................ »   17
  Una dichiarazione..................... »   79
  Il memoriale del marito............... »   97
  Il ritratto del maestro Albani........ »  123
  Studio di donna....................... »  145
  Il Sacramento della penitenza......... »  169
  Un caso imprevisto...................  »  189
  Donato del Piano...................... »  209
  La Morta.............................. »  237
  Le due faccie della medaglia.......... »  257
  Una voce.............................. »  281
  Epilogo............................... »  299
  L'Orgoglio e la Pietà................. »  315



                Prezzo del presente volume: Lire 3:50


                      D'imminente pubblicazione:

                          DA MASSAUA A SAATI

                              NARRAZIONE

                DELLA SPEDIZIONE ITALIANA IN ABISSINIA

                                 PER

                           VICO MANTEGAZZA


Vi sono aggiunte in appendice il testo completo del LIBRO VERDE
presentato in Parlamento il 24 aprile, la relazione ufficiale sul
combattimento di Saganeiti; e tutte le note Crispi e Goblet
sull'INCIDENTE DI MASSAUA.


           _Un volume in-8 di 450 pagine con 76 incisioni_

                               LIRE SEI



                           ROMA E I ROMANI

                                  DI

                           ARISTIDE GABELLI

                               UNA LIRA



                        ALL'ERTA, SENTINELLA!

                        RACCONTI NAPOLETANI DI

                            MATILDE SERAO

                             LIRE QUATTRO



                          _Nel 1889 uscirà:_

                             SULL'OCEANO

                                  DI

                          EDMONDO DE AMICIS


    _Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, in Milano._





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