Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Nel paese dei dollari - Tre anni a New-York
Author: Rossi, Adolfo, 1857-1921
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Nel paese dei dollari - Tre anni a New-York" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at
http://www.braidense.it/dire.html)



ADOLFO ROSSI

NEL PAESE DEI DOLLARI

(Tre anni a New-York)



_IN APPENDICE_:

ALBERTO MARIO A NEW-YORK



MILANO

MAX KANTOROWICZ, Editore

VIA ALESSANDRO MANZONI, 5 1893



Proprietà letteraria riservata

Tipografia degli Operai (Soc. coop.)--Corso Vitt. Em., 12-14-16



Nel libro _Un italiano in America,_ pubblicato nel 1892 dai fratelli
Treves, dopo aver raccontato i viaggi e i casi occorsi ad un ragazzo
spensierato, che ero io, prima sulla costa atlantica e poi nel lontano
ovest nord-americano, narravo come fossi stato invitato a tornare a
New-York per assumere la direzione del _Progresso Italo-Americano_.

E chiudevo il volume con queste parole:

«Feci le valigie, presi il treno quel giorno medesimo e tornai alla
metropoli dove mi fermai più di tre anni, fino a quando, cioè, la
nostalgia mi richiamò in patria.

«Di quegli ultimi miei tre anni d'America molte cose avrei da dire; ma
il racconto è già diventato troppo lungo, e sarà bene, per non abusare
della pazienza dei lettori, troncarlo qui. Parlerò forse in un altro
libro della vita giornalistica americana e delle impressioni che si
provano tornando in Italia dopo aver vissuto per qualche anno negli
Stati Uniti.»

Le pagine che seguono sono appunto i ricordi di quell'ultimo triennio
passato nell'isola di Manhattan su cui sorge New-York.

ADOLFO ROSSI



I.

La forca.


Angelo Cornetta era un povero e ignorante suonatore d'organetto,
nativo di Serre di Persano, in provincia di Salerno, il quale in età
di ventiquattro o venticinque anni era emigrato in America, come fanno
tanti. Sei o sette anni dopo egli conviveva a New-York con una
irlandese che un giorno si ammalò e che prima di morire all'ospedale
lo accusò di averla orribilmente maltrattata.

Non essendo risultato bene dal processo se quella donna era morta di
_whiskey_--il _cognac_ nord-americano--o di bastonate, Cornetta fu
condannato a due anni di reclusione nel penitenziario di Sing-Sing.
Stava scontando la pena quando una mattina attaccò lite con un altro
prigioniero e lo uccise.

Durante il secondo processo io, che dirigevo l'unico giornale italiano
quotidiano esistente allora nell'America del Nord, andai a trovare
Cornetta nel carcere di White Plains, a trenta miglia da New-York,
bello e tranquillo paese circondato da ridenti colline e formato di
casette bianche e di gaie palazzine sepolte nella verdura.

È una strada pittoresca, che si percorre in un'ora coi treni della
_New-York and Harlem R. R._, in prossimità del fiume Hudson, il Reno
d'America; s'incontrano allegri villaggi, s'attraversano boschetti di
pini appiedi dei colli, si respira un'aria purissima.

Introdotto subito nel carcere con quella premura cortese con cui negli
Stati Uniti si ricevono i _reporters_, cominciai col domandare al
detenuto la causa della sua condanna nel penitenziario di Sing-Sing.

--Vi dirò la verità--mi rispose.--Io vivevo da qualche tempo con una
irlandese, la quale formava la mia disperazione. Giravo tutto il santo
giorno a suonare e alla sera tornando a casa, trovavo quella donna
ubbriaca. Ella spendeva in liquori i denari che io guadagnavo. Una
notte aveva bevuto tanto che, quando rincasai, al primo rimprovero che
le feci diventò furiosa e si mise a gridare come un'ossessa. Il
vicinato, tutto sottosopra, chiamò un _policeman_, il quale la fece
portare all'ospedale, dove essa morì quella notte stessa. Allora mi
arrestarono e accusarono me di averne causata la morte.

--Ma voi non la maltrattavate quando si ubbriacava?

--Ecco: io ebbi molti diverbi con quella donna. L'ho sempre
rimproverata di consumare in liquori tutti i miei risparmi, ma non
sono io che l'ha fatta morire: furono le bevande che la uccisero.

--Tuttavia vi hanno condannato,

--Sì, a due anni di prigione che stavo terminando di scontare a
Sing-Sing, quando avvenne la lite con Daniel Cash.

--Come andò?

--Mancavano due mesi soli per finire la condanna, quando per la mia
buona condotta fui mandato dai guardiani nella cucina dello
stabilimento a sbucciar patate insieme con un prigioniero americano,
di origine irlandese: il Cash. Costui mi odiava e specialmente dopo
che un mio connazionale, certo Mangano, aveva ucciso nella stessa
prigione un negro, mi colmava di ingiurie e chiamava noi altri
italiani porci e sudici. Quella mattina io non mi sentivo bene e gli
dissi: «Cash, sono mezzo ammalato, e non posso lavorare: vorrei
tornare nella mia cella e buttarmi sul letto.» Egli mi rispose:
«Lavora, lavora, italiano, se non vuoi che ti getti in faccia queste
patate.» Gli replicai: «Guardatene!» Egli, allora, si avvicinò, e,
dandomi uno schiaffo, disse: «Credi forse di farmi paura perchè sei
italiano?» Acciecato dalla rabbia, esasperato dagli insulti e dallo
schiaffo, io gli scagliai una tazza sulla testa. L'irlandese mi si
gettò addosso e col coltello mi menò un colpo che parai, riportando
una leggera ferita alla mano destra. Guardate. (E mostrò la mano che
conservava la cicatrice.) Appena vidi il sangue, brandii io pure il
coltello e glielo ficcai nel cuore. Dico la verità, io: perchè negare?

--Erano lunghi quei coltelli?

--No, erano i coltellucci con cui si mondavano le patate. Anzi non
avrei mai creduto di poter con uno di quelli causare una ferita
mortale.

La _County Jail_, cioè la prigione della contea in cui Cornetta stava
rinchiuso a White Plains, era un edifizio quadrato di tre piani, in
pietra grigia. Le quattro muraglie esterne, che invece di finestre
avevano alcune strette feritoie, formavano una specie di cinta coperta
della vera prigione di due piani, che sorgeva di dentro, come un
edifizio affatto separato dal tetto e dai muri che lo circondavano.

Cornetta si trovava al secondo piano, in una cella di quattro metri su
tre, nella quale non penetrava che una luce scialba, e che conteneva
un materasso appeso a due catene, un piccolo _water closet_ in un
angolo, un secchio d'acqua, un bicchiere di latta e una tavoletta
infissa nel muro, ad uso di scaffale, su cui giaceva un polveroso
volume del _Nuovo Testamento_: sulla parete di fronte alla porta erano
incollati i ritratti di Lincoln e di Arthur.

Cornetta aveva un viso solcato da brutte rughe, la carnagione
giallastra e gli occhi chiari, senza espressione: era di statura
ordinaria e mentre prima si sbarbava e teneva i capelli tagliati
corti, durante il secondo processo se li era lasciati crescere alla
nazarena.

Prima della sentenza si mostrava fermamente convinto che non sarebbe
stato condannato a morte.

--A morte, io?--diceva sbarrando gli occhi. Ma giammai! Non sapete che
--ho tirato a colui per difendermi? Non capite che stavo per uscir di
--prigione quando avvenne la lite? No, no: chiunque nei miei panni
--avrebbe fatto altrettanto. Dovevo farmi ammazzare come una pecora?
--Potevo subire in pace tutti gli insulti di cui quell'uomo mi
--colmava?

Quando sentì che era stato condannato a morte, montò su tutte le
furie: tentò da principio di suicidarsi tagliandosi la gola con un
pezzo di ferro acuminato che aveva strappato dalla porta della cella;
ma, sorpreso nell'atto, non si produsse che una leggera ferita. Allora
egli annunziò la sua determinazione di voler sfuggire alla forca
lasciandosi morir di fame. E per cinque giorni non si cibò e invano i
custodi lo tentarono presentandogli dei piatti appetitosi. Lo si
dovette nutrir per forza.

Man mano che si avvicinava il giorno fatale, la ragione di Cornetta
vacillava. Il condannato ora piangeva e implorava le guardie di
salvarlo, ora rideva e diceva che dovevano metterlo in libertà.

Quando mancavano sei giorni soli a quello fissato per l'esecuzione, io
andai a rivederlo, insieme con un suo conoscente e benefattore, il
negoziante Aliano di New-York.

Cornetta appariva tutto cambiato e non ci riconobbe. Mentre la prima
volta s'era confessato reo, quel dì negava tutto.

--Vi apparecchiate dunque al gran passo?--disse Aliano.

--Che passo?--fece Cornetta stralunando gli occhi.

--Eh! l'avvocato vostro tenta gli ultimi sforzi per salvarvi; ma c'è
ben poca speranza: è meglio che vi rassegniate e che vi prepariate.

--Ma che prepararmi!--gridò drizzandosi e torcendosi le mani.--Io non
devo morire: sono innocente!

--Eppure fareste molto meglio se vi preparaste da uomo e da cristiano.

--Mio caro Antonio--piagnucolò Cornetta, asciugandosi col fazzoletto
le lagrime che non uscivano--io ti giuro che sono innocente; io non
_aggio_ ucciso alcuno.

--Mi dispiace di sentirvi parlare così: vi credevo più franco e più
forte.

--Come?--disse il condannato, cambiando improvvisamente tuono e
maniere.--Voi venite dunque a trovarmi per insultarmi? Invece di
difendermi, voi prendete la parte dei miei assassini? Se continuate a
dire che sono reo, vi faccio arrestare!

E mostrò i pugni al buon Aliano, con uno sguardo feroce.

Aliano, persuaso che il disgraziato aveva l'intelletto turbato, gli
offrì una manata di sigari. Cornetta li rifiutò con piglio sdegnoso e
villano. Stavamo per uscire, quando il direttore del carcere, Duffy,
sottosceriffo ci disse:

--Domandatategli un po', _if you please_, che cos'è quella lettera che
ha ricevuto giorni fa.

--Quella lettera?-esclamò Cornetta.--Non voglio mostrarla. Nessuno
deve sapere ciò che contiene.

--Come?--disse il Duffy.--Io non voglio misteri. Ho in consegna
quest'uomo, ne sono responsabile e devo vedere quella lettera appunto
perchè la cela.

Invitato reiteratamente a porgerla, Cornetta rifiutò. Allora il Duffy,
pezzo d'uomo grande e robusto, chiamò due suoi dipendenti, aprì la
porta ed entrò nella cella.

--Volete dare quella lettera, sì o no?--chiese per l'ultima volta.

--No--fece Cornetta risolutamente.

Duffy afferrò il condannato e lo gettò sul letto. Gli altri due uomini
lo presero per le gambe e lo tennero fermo. Cornetta si dibatteva
urlando. Duffy lo frugò, trovò la lettera e ce la porse.

Era una lettera ancora chiusa, proveniente da New-York. L'aprimmo. Un
amico scriveva a Cornetta che aveva saputo la sua condanna e che gli
dispiaceva di non poterlo andar a salutare per la difficoltà di
ottenere il permesso. Nient'altro.

Tutto era già pronto, per l'esecuzione e stava per rizzarsi la forca,
quando, qualche giorno dopo la nostra visita, il Comitato giudiziario
del Senato avvertì che la Legislatura aveva approvato un _bill_, il
quale stabiliva che se un condannato, come aveva fatto Cornetta, si
appellava al _General Term_, si doveva sospendere l'esecuzione fino a
che la Corte del suddetto _General Term_ non avesse esaminato il caso
e preso una decisione in proposito.

L'esecuzione, quindi, era stata sospesa: ma ben presto si venne a
sapere che la legge citata, la quale emendava alcuni articoli del
codice criminale dello Stato di New-York, non era valida nel caso di
Cornetta, perchè votata ed approvata dopo il processo e la condanna
del Cornetta stesso. L'esecuzione, perciò, non poteva essere
rimandata. Ma, viceversa, fu accordata una dilazione, essendo sorta
una questione sull'effetto retroattivo della nuova legge.

E intanto, con queste alternative di vita e di morte, il condannato si
trovava in uno stato orribile e diventava completamente pazzo.

Infatti, quando il 5 aprile veniva condotto davanti al giudice della
Corte _Oyer and Terminer_ di White Plains per sentirsi confermare la
sentenza, portava in mano un piccolo crocifisso che teneva rivolto
verso il giudice, e richiesto se aveva qualche cosa da opporre,
pronunziava in italiano, fra pianti e sospiri, un discorso
sconclusionato che non aveva nulla da fare col processo.

Solo quando il giudice gli disse che doveva essere giustiziato il
giorno 11 maggio successivo:

--_Me not die!_--esclamò il prigioniero col suo orribile inglese.--Io
non morirò!

E mostrò al giudice il crocifisso. Si dovette usare la forza per farlo
uscire: tirava calci, mordeva sceriffo e _policemen_ con ferocia
bestiale, facendo fuggire tutti gli astanti impauriti.

Legato e rinchiuso nella cella, ora dava in terribili smanie,
imprecando contro lo sceriffo e rifiutando di cibarsi; ora stava
sdraiato, immobile sul letto, e ricusava i conforti religiosi mentre
continuava a tener sempre con sè il crocifisso.

Nelle ultime settimane s'era messo in testa che l'11 maggio, giorno
fissato per l'esecuzione, egli doveva essere messo in libertà.
Appariva così evidente che con tutte quelle lungaggini lo sciagurato
era impazzito, che alcune caritatevoli persone pregarono lo sceriffo
Horton di affidare ad una commissione medica l'esame delle condizioni
mentali del condannato. Lo sceriffo acconsentì, ma incaricò della
perizia i due medici del paese, i quali visitarono Cornetta quella
sera stessa e lo dichiararono sano!

Intanto ai preti, che lo invitavano a pensare a Dio, Cornetta
rispondeva:

--Non sono cattolico, io: sono democratico.

Alla vigilia dell'esecuzione io tornavo a White Plains insieme coi
_reporters_ dell'_Herald_, del _Sun_, del _Times_ e del _World_. Nel
cortile della _County Jail_, fra il carcere e la _Court House_, vicino
a un ponticello che unisce i due edifizi e che si chiama dei sospiri,
sorgeva la forca senza palco: le solite tre travi, due verticali e una
di traverso; una forca alta sedici piedi e larga dodici, con un
contrappeso di ferro pesante 275 libbre. Varie persone entravano ed
uscivano liberamente dal cortile ed esaminavano con curiosità il
patibolo.

Lo sceriffo ci permise di vedere il Cornetta, ma non volle che alcuno
gli parlasse. Appena lo salutammo, il condannato, pallido, cogli occhi
stravolti, si affacciò alle sbarre della porta e ci guardò fissi: non
mi riconobbe.

--Come va, Angelo?--gli dissi in italiano.

Egli salutò col capo, fu agitato da un tremito nervoso e strinse
convulsivamente i ferri della porta. Davanti alla cella stavano seduti
due uomini, le guardie della morte.

Il padre Giulio, un prete cattolico, ci raccontava che quel giorno
aveva parlato due ore con Cornetta, ma non era riuscito a convincerlo
che all'indomani doveva morire. Il condannato s'era fitto in mente che
invece del 10 quel giorno era l'11 maggio e affermava che doveva
essere messo in libertà.

E quando il prete lo esortava a pensare all'anima, rispondeva:--Mi
confesserei, padre, se dovessi essere giustiziato, ma io invece devo
essere posto in libertà.

--Insomma--ci diceva il padre Giulio--non ha la coscienza
dell'orribile posizione in cui si trova e temo che domani mattina la
scena dell'impiccagione debba riuscire raccapricciante.

--Ella è persuaso, padre, che il disgraziato sia veramente impazzito?

--Sì, e credo che lo stesso sceriffo ne sia convinto, ma ha dovuto
rimettersi al giudizio superficiale dei due medici che non parlano
l'italiano e che non capivano perciò quello che Cornetta diceva.

Ritornammo al carcere verso mezzanotte. Ci dissero che il condannato
aveva passata la serata abbastanza tranquillamente e che dormiva,
sicuro di essere liberato all'indomani.

Il villaggio era tranquillo e la notte stupenda.

                              * * *

La mattina dell'11 maggio, siccome si era annunziato che l'esecuzione
avrebbe avuto luogo di buon'ora, entrammo pochi minuti dopo le sei nel
cortile del carcere, dove s'erano già radunate quasi cento persone, le
quali facevano circolo intorno, alla forca.

Il boia, certo Stephen Marshall, un ometto grasso, prese una scala,
l'appoggiò al patibolo, salì, si mise a cavallo della trave
orizzontale e infilò nel buco la corda; una corda nuova, provvista di
un anello di ferro da una parte e assicurata dall'altra al
contrappeso. Poi discese e ne provò la solidità attaccandovisi,
dondolandosi e sorridendo con compiacenza.

Il cielo era nuvoloso; minacciava di piovere. Continuava a entrar
gente, e alle sette c'erano nel cortile quasi quattrocento persone,
mentre la sera innanzi lo sceriffo aveva detto che trattandosi di un
pazzo come il Cornetta, non avrebbe accordato più di cinquanta
permessi.

Quella gente fumava, rideva e chiacchierava ad alta voce, tanto che
pareva di essere a un mercato, o in attesa di uno spettacolo di
Barnum. Uno dei presenti era già completamente ubbriaco di _whiskey_,
traballava e salutava lo sceriffo dicendogli: _Helloo, Bill_! E lo
sceriffo gli stringeva cordialmente la mano.

Mentre il cortile riempivasi di questo pubblico da circo equestre, il
Cornetta si alzava. Nella sua cella, invece degli abiti ordinari,
trovò una camicia di bucato con cravatta di seta nera e un abito nero
completo.

Quando le guardie gli dissero che doveva indossare quei panni nuovi,
la sua faccia si rischiarò.

--Ah! ve lo dicevo io--esclamò--che oggi dovevo essere condotto alla
_Court House_ e messo in libertà. Vedete, è il giudice che mi manda
questo magnifico vestito. Che bravo giudice: lo voglio baciare.

E si vestì adagio, con cura, assaporando tutto il piacere di mettersi
dopo tanto tempo degli abiti nuovi.

Appena giunsero il padre Giulio e più tardi il padre Edgerton, egli li
salutò e ripetè loro le stesse parole. Inutilmente il prete cattolico
e il ministro protestante, ciascheduno alla sua volta, tentarono di
richiamare in sè l'infelice e di fargli riflettere che quella era
l'ultima sua ora; egli sorrideva loro sul viso con aria di compassione
e non mostrava altro che l'impazienza di essere accompagnato davanti
al giudice.

La sentenza di morte gli era stata letta alla vigilia, in italiano e
in inglese, senza che egli la comprendesse, cosicchè quella mattina lo
sceriffo e le guardie non avevano altro da annunziare al condannato
che l'ora dell'esecuzione; e lo fecero; ma il Cornetta protestò che
mentivano e dichiarò che li avrebbe fatti arrestare!

Allora lo lasciarono nella sua illusione e, visto che era quieto, gli
permisero di uscire dalla cella e di aspettare nel corridoio il
momento fatale.

Frattanto entrarono nel cortile il capitano Mangin con cinque
_policemen_ che si disposero intorno alla forca, facendo fare un po'
di largo: altri nove _policemen_ erano di guardia all'esterno della
prigione. Il boia salutava alcuni amici vicino alla forca. Da una
tasca gli usciva un pezzo del laccio destinato al Cornetta.

Pochi minuti prima delle sette e mezzo giunsero gli undici deputati
sceriffi della Contea e furono introdotti nel carcere. Allora il capo
sceriffo s'affacciò al cancello di ferro che dava sul cortile e chiamò
il boia e il suo assistente. Erano le sette e mezzo precise.

Il boia, il suo aiutante, il carceriere e altri due robusti
sottocarcerieri si avvicinarono a Cornetta nel corridoio interno della
prigione e gli dissero di star fermo, perchè gli dovevano legar le
braccia.

Appena Cornetta vide le corde, diventò giallo in viso, stralunò gli
occhi, strinse i pugni, diede un urlo e minacciò chiunque gli si
accostava. I cinque uomini gli si gettarono simultaneamente addosso:
due gli afferrarono le braccia, due le gambe, e il quinto, il boia,
s'accingeva a legargli i gomiti insieme dietro la schiena; ma il
condannato gridava, si torceva come un serpente e tentava di mordere
come un cane idrofobo. Altri cinque uomini dovettero intervenire e
Cornetta fu legato da dieci persone.

Egli diceva con voce altissima e lamentevole:

--Ma che fate? Che fate? Sono democratico, io! Nessuno può condurmi
alla morte. Ah! lasciatemi...

Appena fu domo e legato, il boia trasse di tasca il laccio e glielo
accomodò intorno al collo, aggiustando il nodo scorsoio sotto un
orecchio: poi gli mise in capo il cappuccio nero, lasciandogli però
scoperto il viso.

Cornetta, livido, esausto, guardò, sentì, singhiozzò e gemette: nelle
confuse parole che gli uscivano dalla gola c'era insieme come il
pianto di un bambino, l'angoscia di uno che trema e ha paura, la
rabbia di chi vorrebbe resistere ed è impotente.

Appena gli fu messo il laccio al collo vi fu un istante in cui stette
immobile fissando il boia e gli astanti. Che cosa passò per la mente
dell'infelice in quel momento? Forse ebbe un lucido intervallo,
durante il quale si vide irremissibilmente perduto. Ma fu un lampo e
tornò subito a piangere e a dibattersi furiosissimamente.

Tutto ciò avvenne in meno di quattro minuti. Alle sette e
trentaquattro minuti precisi si riaprì la porta del carcere e in mezzo
al più profondo silenzio dei presenti Cornetta apparve fra le braccia
di quattro uomini che lo trascinavano a stento.

La forca distava dalla porta del carcere quattro passi soli. Il
condannato vi fu portato sotto di peso, senza che i suoi piedi
toccassero terra, mentre si dibatteva e urlava:

--No, no, che fate? Che fate? Ah! Ah!

Giunti i quattro uomini sotto la corda, in meno che non lo si dice il
boia calò il cappuccio sul viso del condannato, attaccò il laccio
all'anello, battè il piede destro per terra, e a quel segno, tagliata
dall'assistente la corda che sosteneva il peso, tac: la massa di ferro
cadde sopra un materasso e Cornetta venne tirato su, a sei piedi da
terra.

Uno degli astanti più vicini alla forca stramazzò svenuto.

Il corpo nero del condannato pendette, rivolto verso l'occidente, il
collo si allungò e le mani si raggrinzarono. Si fermò immobile qualche
secondo e poi fu tutto agitato da una terribile contrazione; le gambe
si allungarono e tremarono parecchie volte: poi tutto finì.

Il collo di Cornetta diventò prima paonazzo, quindi livido e
finalmente nero: le mani bianche. I medici gli sbottonarono il gilè,
accostarono l'orecchio al petto, ma non dissero dopo quanti secondi
precisi Cornetta era spirato: il cadavere fu staccato dalla corda e
deposto nella cassa dopo quattordici minuti.

La giustizia americana era soddisfatta: aveva strozzato un pazzo
furioso.



II.

La danza dei milioni.


Quella orribile esecuzione era stata uno dei primi spettacoli a cui
avevo dovuto assistere nella mia qualità di giornalista negli Stati
Uniti: mi fece, naturalmente, una tristissima impressione.

--Ma si può impiccare un pazzo?--dicevo alla sera in una famiglia
italiana stabilita da ventiquattro o venticinque anni a New-York.--Che
modo è questo di amministrare la giustizia? Si fissa la data
dell'esecuzione, poi si accorda una dilazione, si perdono settimane su
settimane e il condannato impazzisce.

E dopo aver descritto la scena, domandavo:

--Quando si è visto che un condannato ha perduto la ragione, deve
essere permesso in un paese civile di impiccarlo?

--E che cosa avreste voluto che si facesse?--m'interruppe uno degli
interlocutori, un giovane mio amico di ventidue anni, figlio di
genitori italiani, ma nato negli Stati Uniti.--Metterlo in un
manicomio, curarlo perchè guarisse e, appena il disgraziato avesse
riacquistato l'uso della ragione, condurlo sulla forca in tutta la
pienezza dei suoi sentimenti? Dal momento che qui si mantiene la pena
di morte, che in Italia dite di aver abolito, ma che conservate ancora
nell'esercito, e posto che Cornetta era stato condannato a morte, fra
il giustiziarlo col cervello sconvolto e il giustiziarlo con le idee
ben chiare e ordinate, mi pare anzi più umano l'averlo soppresso
quando non capiva nulla.

--Infatti Cornetta aveva la fissazione che oggi doveva essere liberato.
Ma dovreste considerare che pazzo significa malato moralmente. Se un
condannato, supponiamo, alla vigilia dell'esecuzione, fosse malato
fisicamente, avesse il tifo o qualche cosa di simile che gli impedisse
di alzarsi dal letto, lo si impiccherebbe? Io non capisco come voi
americani o americanizzati trattiate i pazzi come i malvagi sani. Se vi
fu mai un assassino col cervello guasto era certo l'uccisore del
presidente Garfield, Guiteau, affetto da mania religiosa, che si
credeva inviato da Dio e che in prigione sorrideva dolcemente
contemplando nel soffitto il seggio di gloria e l'aureola luminosa che
l'attendevano nella Nuova Gerusalemme. Ora neppure per Guiteau si volle
riconoscere che un manicomio era più opportuno della forca.

--Ah! sì, il manicomio! Se non si sbrigavano a impiccarlo, sarebbe
stato linciato!

--Eh! già: ricordo che vi fu perfino uno, il sergente Mason, che gli
tirò una revolverata mentre lo conducevano dal carcere al tribunale. E
appena fu fissato il giorno dell'esecuzione, quanti cittadini si
offrirono di sostituire il boia! Fu spedita a Washington una vera
collezione di corde per il collo di Guiteau; le signore americane
mandarono una cappa nera, filettata di rosso con le loro mani, per
incappucciare il condannato! E il dì dell'impiccagione fu giorno di
gioia in tutta l'Unione. Alla mattina, di buon'ora, in diverse città,
Guiteau veniva anticipatamente impiccato in effigie da una folla
entusiasta. Ve ne ricordate? I birrai distribuivano gratis
_lager-beer_ ed _ale_ per celebrare l'esecuzione dell'assassino
presidenziale che saliva il patibolo gridando con voce ferma e
inspirata: _Gloria, gloria, alleluia!_

--Ebbene?--fece il giovane italo-americano--e non è meglio sbarazzarsi
di simili pazzi più presto che si può? I buoni _yankees_ credono che
non valga la pena di mantenerli in un carcere o in un manicomio:
sarebbero denari spesi molto male.

--Oh! volete finirla con questi lugubri discorsi?--saltò su a dire in
inglese, perchè l'italiano lo parlava con imbarazzo, la signorina
Mary, sorella del mio amico, nata essa pure a New-York, una giovane
diciottenne molto colta e intelligente, che studiava nel _Normal
College_.--Se parlaste un po' invece del gran ballo in costume che
darà domani W. K. Vanderbilt, uno dei più famosi milionari newyorkesi,
nella sua residenza di Fifth Avenue, lo splendido palazzo la cui sola
costruzione costò cinque milioni di dollari?

--Io ho potuto procurarmi un biglietto--disse il fratello.--Venite
anche voi--continuò rivolgendosi a me--coll'invito che avrà ricevuto
il vostro giornale: così dopo domani sera avremo cose più allegre da
raccontare a mia sorella e ai miei genitori.

--Da parecchi giorni--seguitò la signorina Mary--non si parla d'altro.
Si dice che sarà una festa di cui non si è veduta mai l'uguale nella
metropoli; che il ballo storico dato a New-York qualche anno fa da
Augusto Belmont non reggerà al confronto con questo di Vanderbilt, il
quale servirà a dimostrare l'enorme progresso della società
nordamericana in fatto di buon gusto e di eleganza. Si citano le grosse
somme prodigate in fiori e si assicura che i milleduecentocinquanta
invitati vedranno splendori degni del conte di Montecristo e delle
_Mille e una notte_.

La signorina Mary m'aveva messo addosso una grande curiosità e la sera
appresso non mancai di recarmi alla gran festa con suo fratello.

Alle dieci e mezzo centinaia e centinaia di carrozze cominciavano ad
arrivare davanti alla reggia di Vanderbilt e ne uscivano dame e
cavalieri vestiti di ricchissimi costumi di tutte le epoche, dai
colori smaglianti, carichi di gioielli, di collane, d'anelli
preziosissimi. Man mano che giungevano, le coppie salivano il
principesco scalone sovra il quale le statue e i busti di pietra di
Caen guardavano in basso con quella stupida tranquillità che Mark
Twain attribuiva alle mummie egiziane; imboccavano i vasti corridoi
illuminati da migliaia di candele di cera ed entravano negli sfarzosi
saloni.

Per la maggior parte degli invitati l'ingresso nel palazzo Vanderbilt
tutto decorato internamente in istile gotico medioevale e
_rénaissance_ costituiva un vero avvenimento: a New-York sono ben rari
gli interni artisticamente lavorati. Era la prima volta che uno
sfoggio reale di ricchezza architettonica veniva gettato in faccia
all'_high-life_ della città.

Un artista avrebbe condannato la soverchia ornamentazione delle sale e
notato che se tutte indistintamente le pareti non fossero state
dipinte a quadri, l'insieme ci avrebbe guadagnato. Ma gli intervenuti
non erano tipi da preoccuparsi di ciò: per essi anzi la confusione
degli stili e l'eccesso degli ornamenti davano maggior pregio al
palazzo; si accorgevano di questo solo, che la ricchezza era buttata
là a piene mani e ne rimanevano sbalorditi.

E passando dall'esame delle sale a quello di loro stessi, gli
invitati, anzichè ai costumi, badavano prima di tutto ai milioni di
dollari che erano rappresentati al ballo,

--Vogliamo provare a fare il conto?--diceva uno in un
gruppo.--Cominciamo dal padrone di casa. W. K. Vanderbilt, venticinque
milioni di dollari; suo fratello più giovane, due; gli Astor,
duecento; Russel Sage, sessantacinque; Josè Navarro, dieci; Cyrus
Field, quindici; George Pulmann, venti; i Lorillard, quaranta; i
Belmont, quindici; D. O. Mills, dieci; la signora Stevens, otto; gli
Iselin, la famiglia Fish, Sidney Dillon e Henry Clews, dieci milioni
di dollari per ciascheduno; i Goelet, venticinque...

--Senza contare--aggiunse uno--i patrimoni da cinque milioni di
dollari, come quelli di Horace Porter, di Galloway, di J. B. Houston,
di Livingstone, dei Schermerhorn, e trascurando tutti quei _gentlemen_
che valgono quattro, tre, due, un milione di dollari.

--E pensare--osservò il mio amico--che quasi tutta questa gente lavora
e commercia sempre, e che nei loro negozi di Broadway domani possiamo
comperare due metri di tappeto o un'oncia di tabacco! Vedete là quella
signora alta, magra, col naso rosso? È una milionaria anch'essa, che
va in persona a esigere i fitti delle sue case e bestemmia peggio di
un facchino del porto.

Quella aristocrazia nord-americana non era che una congrega di
giuocatori di borsa, di speculatori, di mercanti arricchiti; ebbene,
cosa curiosa, la maggioranza dei costumi indossati rappresentava la
nobiltà storica europea: erano tutti re e regine, imperatori e
imperatrici, principi, duchi, conti e marchesi; Enrichi VIII e conti
di Guisa; Franceschi I e Marie Antoniette; cardinali Mazzarino e
regine Elisabette; Marie di Borgogna e Marie Stuarde; Luigi XV e Kings
Lear; Don Carlos e Luigi XII; Enrichi IV e Carli IX: pochissimi i
vecchi Knickerbockers, cioè i veri nobili americani, le famiglie
blasonate d'Europa emigrate sulla costa dell'Atlantico quando gli
attuali Stati Uniti erano colonie inglesi.

In mezzo a quella strana ricerca della nobiltà del vecchio mondo una
circostanza mi colpì: Arthur, allora presidente della repubblica,
passò quasi inosservato nella festa; ottennero un maggior successo di
curiosità certe rose fresche, che costavano dieci lire l'una.

W. H. Vanderbilt, padre del padrone di casa, arrivò tardi, ed evitando
la folla salì inosservato al secondo piano del palazzo. Me lo additò
il mio amico, facendomi notare come le spalle del vecchio milionario
apparissero più curve del solito e come i di lui occhi sembrassero
inquieti.

--Chissà--mi diceva il fratello di Mary--che egli non tema di vedere
la figura arcigna di suo padre, il rozzo barcaiuolo di Staten-Island,
guardare con sarcasmo queste pompe; o chissà che non pensi al fratello
suicida, o non deplori l'acquisto forzato della _Nickel Plate
Railroad_, che in un giorno solo creò sei milionari. Forse si augura
semplicemente che la sua puledra prediletta, _Maud S._, la cavalla più
veloce che si conosca, vinca anche alle corse di domani. Comunque sia,
quest'uomo che _vale_ (come si dice) duecentotrenta milioni di dollari
d'oro, cioè millecentocinquanta milioni di lire italiane, è di cattivo
umore e non mostra di divertirsi.

                              * * *

Meno di cinquant'anni fa non si aveva idea a New-York di tante
ricchezze.

Da una curiosa statistica, pubblicata nel 1846 negli uffici del _Sun_,
si rileva che allora il più ricco americano del Nord era John Jacob
Astor, che possedeva per circa venticinque milioni di beni stabili a
New-York. Venivano quindi i patrimoni di Van Rensealeur, valutato
dieci milioni, e di William B. Astor, cinque. La lista dei cittadini e
dei patrimoni valutati ciascuno mezzo milione o meno d'un milione
conteneva appena quarantacinque nomi.

Allora non si parlava nè di Bennett, nè di Cyrus Field, nè di Jay
Gould, nè di Russel Sage. Dopo il 1846, la maggior parte di coloro che
trovavansi nella lista, sono diventati molto più ricchi, essi o i loro
discendenti; ma nel frattempo si formarono altre fortune enormi, la
cui origine è meravigliosa quanto la nascita di Minerva dal cervello
di Giove.

I soli patrimoni riuniti di Jay Gould e di Vanderbilt costituiscono
più del doppio delle ricchezze, di tutti i milionari e mezzo milionari
della metropoli di cinquant'anni fa.

--Come mai--domandavo quella notte al mio amico uscendo dal
ballo--hanno potuto questi individui accumulare tanto rapidamente
ricchezze così enormi?

Non era difficile la risposta: con le speculazioni più arrischiate,
con la frode e con le corruzioni. La vita di tutti i re della Borsa e
dei magnati ferroviari americani, non è che una storia di imbrogli. È
impossibile mettere insieme dal nulla, con mezzi onesti e in
pochissimi anni, simili sostanze. Il più meschino dei predetti magnati
delle ferrovie è molto più ricco dell'opulento ed arrogante Marco
Crasso, la cui fortuna veniva considerata la più colossale della
Repubblica Romana.

I fondatori delle dinastie reali degli Asburgo, degli Hohenzollern e
via dicendo erano briganti o soldati di ventura, ma almeno
arrischiavano continuamente la vita per la fama e per la fortuna. La
nuova aristocrazia americana, invece, ha sostituito la scaltrezza al
coraggio, la frode e le arti della corruzione nella politica ai
pericoli del campo di battaglia.

La maggior parte di questi milionari si sono insomma arricchiti
ingannando il pubblico e corrompendo le persone alle quali il popolo
aveva affidata la legislazione degli Stati e della Nazione.

--Certe operazioni di Borsa--mi diceva il mio amico, pratico di Wall
Street--sono così immorali che quando si verificarono ultimamente
alcuni grossi fallimenti, avendo la stampa gridato allo scandalo, il
governo ordinò una inchiesta sui _corners_ e sui _futures_.

--Che cosa significano queste parole?

--Sono colpi di mano che gli speculatori più furbi e più pratici fanno
a danno dei piccoli capitalisti: sono nuovi imbrogli non preveduti dai
codici. Il Comitato incaricato dell'inchiesta credette bene di
cominciare le sue investigazioni chiedendo informazioni e schiarimenti
ai giuocatori più famosi e fortunati, a Vanderbilt, Gould e Hatch, tre
colossi di Wall Street, la trinità che impera sulla Borsa di New-York.
Figurarsi se costoro, che s'ingrassano di _corners_ e di _futures_,
hanno dato al Comitato risposte tali da provocare una legge contro le
loro speculazioni!

--Mi pare che sia come se un agente di polizia incaricato di una
investigazione sulle gesta di una banda di briganti, si rivolgesse per
avere spiegazioni ai capi della banda stessa!

--Precisamente. I milionari interrogati risposero scherzando. Essi
sapevano che l'inchiesta sarebbe finita in nulla. Gli speculatori, che
rovinano spesso tante famiglie, che riducono tanti giuocatori a farsi
saltare le cervella, sono gente fuori delle leggi. Basta pensare che
le ferrovie degli Stati Uniti sono valutate sei miliardi di dollari e
che meno di una ventina di individui amministra a suo talento più
della metà di questo immenso capitale. Non c'è da meravigliarsi se
questi signori spadroneggiano anche nei tribunali. Le amministrazioni
stesse degli Stati si trovano alla loro mercè, poichè nella maggior
parte degli Stati i loro impiegati sono abbastanza numerosi per
eleggere i pubblici funzionari. Venti dei principali direttori di
strade ferrate se si coalizzano possono decidere delle principali
elezioni per mezzo degli impiegati di cui regolano i voti.

--Vedo, pur troppo, che tutto il mondo è paese.

--Sapete come fa spesso il presidente o uno dei principali azionisti
di una società di ferrovie o di altre imprese per assicurarsi il voto
del Consiglio amministrativo? Col mezzo di uno speciale servizio di
polizia segreta, egli si procura un archivio nel quale è documentata
la vita di ciascun membro del Consiglio stesso. Siccome quasi tutti
questi signori speculatori all'ingrosso hanno qualche magagna sulla
coscienza, venuto il giorno in cui si ha bisogno del loro voto, se
qualcheduno è contrario, riceve all'improvviso la visita di un
misterioso _dectetive_, il quale gli dice: «Domani dovete dare il
vostro voto al tale progetto: se non lo farete saranno pubblicate
queste interessanti notizie di cui vi rilascio copia.» E gli consegna
un manoscritto in cui il ricattato trova esattamente narrati con nomi
e date certi fatti che lo riguardano, che egli credeva ignorati da
tutti e che divulgati causerebbero scandali e processi.

--Sembrano fantasie da romanzo!

--Eppure vi assicuro che queste sono cose comuni in Wall Street e che
molti milionari sono legati in tal modo come schiavi ai carri di
speculatori milionari più astuti di loro. Vedete: quando Jay Gould e
altri pezzi grossi come lui si recano alla Borsa, sono sempre pedinati
da parecchie guardie in borghese che non li lasciano un minuto senza
sorveglianza. Gould e compagni si sono straordinariamente arricchiti
usando tali arti e riducendo alla disperazione tante persone, che
temono di trovare ad ogni angolo di strada qualcheduna delle loro
vittime con un revolver in mano.

                              * * *

Eppure la vita di alcuni di questi briganti della Borsa e del
monopolio ci presenta un esempio meraviglioso di attività, di ingegno,
di audacia e di perseveranza.

Ecco qui, per esempio, brevemente, quella di Jay Gould, il colosso
delle finanze nord-americane.

Egli nacque miserabile, nel 1836, in Roxbury, Stato di New-York, da
una famiglia di contadini che possedeva poche vacche, e la sua prima
occupazione fu quella di aiutare le sorelle a pascolare e mungere le
bestie. A quattordici anni disse a suo padre che non amava la vita dei
campi e che voleva partire per procurarsi una buona educazione e
cercar fortuna.

Il padre lo lasciò libero di fare a modo suo e il ragazzo, andatosene,
trovò in una vicina città di provincia un fabbro ferraio il quale
acconsentì di dargli vitto ed alloggio, purchè nelle ore in cui era
libero dalla scuola gli tenesse i libri di bottega.

A quindici anni il futuro milionario diventava commesso in un piccolo
negozio in cui doveva fare di tutto: servire gli avventori, badare ai
conti, spolverare e scopare il locale. Il suo lavoro cominciava alle
sei del mattino e finiva alle dieci di sera. Siccome però aveva una
grande passione per la matematica, si alzava alle tre e studiava fino
all'ora di aprir bottega.

Ben presto ne seppe tanto da ottenere la patente di agrimensore e si
mise, per venti scudi al mese, come assistente al servizio di un
ingegnere incaricato di rilevare le mappe della Ulster County. Questi
lo mandò in campagna a eseguire certe misure e a tracciare dei
disegni, dicendogli di prendere a credito lungo la strada ciò che gli
abbisognava: egli lo avrebbe seguito a pochi giorni di distanza e si
sarebbe incaricato di pagare.

Jay Gould partì, ma il terzo giorno essendosi presentato in una
osteria, non trovò credito nè per il pranzo nè per l'alloggio: gli fu
detto che il suo padrone aveva fallito tre volte ed era pieno di
debiti per tutto il paese.

Gould, che non aveva un centesimo, continuò la strada molto
mortificato: a un certo punto si buttò sull'erba e si mise a piangere
dirottamente; ma ben presto si vergognò e decise d'andare avanti.

Poco distante trovò una fattoria dove una buona donna gli offrì del
pane e del latte: stava per partire ringraziando, quando la contadina
gli domandò se sapeva disegnare una meridiana. Il giovane rispose di
sì e fece immediatamente quanto gli veniva richiesto. Col dollaro che
gli diede la massaia per tale lavoro, pagò il pane e il latte; poi
proseguì contento il suo cammino: aveva trovato un'industria lucrosa.

Così continuò tutta l'estate a girare per la contea, rilevando le sue
mappe e pagando le sue spese col disegnar meridiane sulle case di
campagna. Verso la fine del giro, l'ingegnere fallì per la quarta
volta e Gould perdette tutto il suo stipendio, sul quale non aveva mai
ricevuto un soldo di acconto: ma da tale fallimento cominciò la sua
fortuna.

Due ricchi ingegneri furono incaricati di continuare il lavoro delle
mappe, e, conoscendo la capacità di Gould, gliene affidarono la cura,
accordandogli una parte d'interesse nell'operazione. Gould, poi,
assunse simili lavori per altre contee, e in breve tempo mise da parte
cinque mila dollari.

Con questa somma si associò con un conciatore di pelli, e i suoi
affari prosperarono in modo che quando sopraggiunse la crisi economica
del 1857 egli ebbe credito abbastanza per comperare tutte le azioni
della piccola ferrovia _Rutland-Washington_, cadute al dieci per
cento, senza sborsare un soldo.

Sotto la sua abile amministrazione la ferrovia prese un nuovo
sviluppo; egli la estese fino a metterla in comunicazione con la linea
_Rensslaer-Saratoga_, ed avendone così aumentato enormemente
l'importanza ed il valore, rivendette al 120 per cento le azioni
comperate al dieci: e realizzò una somma vistosissima.

D'allora in poi Gould non s'occupò d'altro che di comperare, vendere e
costruire ferrovie: e la sua fortuna continuò ad accrescersi con
rapidità vertiginosa. Avendo danari alla mano in un'epoca di terribile
disagio economico, potè fare ciò che volle; tutti i possessori di
azioni ferroviarie, stretti dal bisogno, minacciati di bancarotta ad
ogni istante, vendevano a rotta di collo, pur di avere il danaro per
far fronte ai loro impegni. Così pochissimi poterono attraversare la
crisi senza naufragare; molti finirono col farsi saltar le cervella.

Fu in tale occasione che Jay Gould comperò al quindici per cento tutte
le azioni della _Union-Pacific_, rappresentanti una somma enorme al
valore nominale. Quando le rivendette valevano il centoventi ed erano
ricercatissime. Un simile aumento, è giusto riconoscerlo, non si
doveva solo alla cessazione della crisi, ma anche all'abilità, alla
pratica, al colpo d'occhio di Jay Gould in affari ferroviari. Una
linea passiva diventava presto produttiva nelle sue mani; le azioni
considerate prima quasi prive d'ogni valore, salivano sempre sotto la
sua direzione a prezzi superiori a quelli d'emissione, e in tal modo
Gould non investì mai i suoi capitali senza almeno triplicarli:
qualche volta li decuplicò.

Col medesimo successo egli si è dedicato negli ultimi anni anche alla
costruzione di linee telegrafiche e alla speculazione sulle azioni
delle medesime. Fece da principio costruire la linea _Atlantic and
Pacific_ perchè fosse una rivale della _Western Union_; ma vedendo che
la concorrenza tornava più rovinosa a lui che alla _Western_, seppe
adoperarsi con tanta scaltrezza che la _Western_ acconsentì a
consolidarsi, come si dice nel gergo della Borsa, colla _Atlantic and
Pacific_, si rialzarono le tariffe, e il pubblico dovette
sottomettersi a pagare tutto ciò che gli si chiese.

Per dare un'idea della tenacia di questo milionario, basti l'aneddoto
seguente. Quando fu operata la fusione delle due grandi compagnie or
ora nominate, Gould credeva che un suo intimo amico, il generale
Eckert, sarebbe stato nominato direttore dell'unione delle compagnie
stesse. Invece non lo fu, e allora Gould volendo ad ogni costo che il
suo amico si trovasse alla testa di quella grande amministrazione, si
mise a costruire una nuova linea, la _American Union_, e ne affidò la
direzione al generale Eckert. Dopo poco tempo, come doveva accadere,
l'_American Union_, entrò nel consorzio delle altre due compagnie e il
generale Eckert fu nominato direttore delle tre linee consolidate.

Io ebbi occasione di conoscere Jay Gould all'epoca di un grande
sciopero dei telegrafisti della colossale compagnia _Western Union_,
sciopero che durò parecchie settimane con danno gravissimo del
commercio, del pubblico, della compagnia e degli scioperanti.

I telegrafisti sostenevano giustamente che la fusione delle linee
telegrafiche (negli Stati Uniti queste non sono nelle mani dello
Stato) e di gran parte delle ferroviarie, levando la concorrenza che
prima esisteva fra esse, rendeva pochi individui (direttori delle
gigantesche compagnie monopolizzatrici) arbitri assoluti tanto di
fissare la paga giornaliera delle molte migliaia d'uomini e di donne
che erano al loro servizio, come di imporre ai privati e al commercio
quei prezzi che essi volevano pei trasporti e per le comunicazioni.

Il pubblico era in favore degli scioperanti e sperava che questi
l'avrebbero spuntata, perchè non si credeva possibile che la Compagnia
potesse sostituire subito un numero così grande di esperti impiegati.
Durante lo sciopero il servizio telegrafico sulle linee della
_Western_ era fatto in modo così lento che conveniva meglio servirsi
della posta anzichè del telegrafo e sembrava che i reclami e
l'indignazione del pubblico avrebbero dovuto forzare i monopolisti a
capitolare. Invece accadde il contrario. La Compagnia, enormemente
ricca, fece orecchie da mercante ai lamenti della popolazione ed
aspettò che gli impiegati ribelli fossero costretti ad arrendersi per
fame.

Quando i poveretti ebbero esauriti i fondi loro e quelli delle
associazioni per sostenere lo sciopero, dovettero curvare la fronte e
tornare al lavoro alle stesse condizioni di prima.

Questo fatto provocò un'inchiesta. Un comitato di senatori dello Stato
fu incaricato di vedere quanto di vero e di fondato vi fosse nei
lamenti della classe lavoratrice, e quali fossero i rimedi che, senza
offendere le leggi nè i diritti individuali di chicchessia, si
potessero adottare per impedire che poche persone o corporazioni
giungessero ad accumulare nelle loro mani la maggior parte dei
capitali del paese e diventassero in tal modo padroni di imporre la
loro volontà, non solo al numeroso personale da essi dipendente, ma
anche all'intiera popolazione.

Jay Gould, W. H. Vanderbilt, Cyrus Field, Russel Sage e pochi altri
rappresentanti il monopolio causa dello sciopero, furono interrogati.
Per tutta spiegazione, Jay Gould raccontò al Comitato e ai _reporters_
presenti la sua storia e quella della sua fortuna, come furono
brevemente riassunte in questo capitolo. In quanto poi all'ultimo
conflitto fra capitale e lavoro, egli emise delle opinioni che non
nutriva certamente quando batteva le campagne per disegnar mappe e
meridiane. Disse, per esempio, che qualora si elevasse il salario
degli operai e degli impiegati, i capitalisti e fabbricanti
troverebbero maggior convenienza nel far eseguire i loro lavori
altrove: non aggiunse però se egli sarebbe andato a costruire ferrovie
o linee telegrafiche in Europa.

Concluse il suo interrogatorio con questa bella trovata: le grandi
corporazioni finanziare non sono monopolii, perchè non impediscono ad
alcuno di formarne altre consimili!

In occasione di quello sciopero vi fu una interessante polemica.
Qualche giornale espresse l'opinione che non costituendo gli
scioperanti che una minima parte del pubblico, non avevano alcun
diritto di far danno a tutto il pubblico. Se non piaceva loro di
lavorare per la _Western Union_, potevano cambiare. Dal momento che le
ferrovie ed i telegrafi devono essere sempre al servizio del pubblico,
bisogna che gli impiegati pensino a questa necessità prima di entrare
a lavorare per le compagnie ferroviarie o telegrafiche.

C'è questa differenza, rispondevano i giornali difensori degli
scioperanti, che le Società telegrafiche ricevono dal pubblico grandi
e speciali vantaggi, e necessariamente devono avere verso il pubblico
speciali obbligazioni: mentre invece gli impiegati, nulla ricevendo
dal pubblico, nessuna obbligazione devono avere. Vengono pagati dalle
Società, non sono responsabili che verso le Società, non hanno da
trattare per il loro lavoro che con le Società.

In altre parole, la questione non era fra gli impiegati e il pubblico,
ma fra gli impiegati e le compagnie che sono una minima frazione del
pubblico. Il pubblico era davanti al fatto che gli impiegati volevano
essere pagati discretamente e che le Società volevano pagare troppo
poco. A chi la responsabilità?

--Non si può ammettere--venne fuori a dire la _New-York Tribune_--che
da un momento all'altro un comitato di scioperanti possa alzare
audacemente la mano e guastare, se non rompere del tutto, il delicato
organismo di una grande impresa nella quale esso non ha alcun
interesse personale.

--Che non abbiano alcun interesse si fa presto a dirlo--replicarono in
coro quasi tutti gli altri giornali, amici e difensori delle classi
lavorataci--eppure gli uomini che compongono questo comitato
rappresentano qualche cosa; essi rappresentano venti mila operai, come
il Consiglio della _Western Union_ rappresenta alcuna migliaia di
azionisti; essi rappresentano il loro pane quotidiano e quello dei
loro compagni, come gli amministratori rappresentano il loro dividendo
e quello dei loro cointeressati.

--Voi--disse allora la _New-York Tribune_--siete colpevoli di una
vergognosa indifferenza verso gli interessi commerciali del vostro
paese.

--Gli interessi commerciali di chi?--esclamarono i telegrafisti.--Noi
pure siamo dei commercianti e vendiamo il nostro lavoro alle Società
telegrafiche. Nei giorni passati trovammo che il nostro lavoro non
veniva pagato abbastanza e lo togliemmo dal mercato. E ciò facemmo per
favorire i nostri interessi, poichè nel commercio ognuno cerca innanzi
tutto il proprio tornaconto. Il pubblico non ci ha accordato nulla e
nulla noi dobbiamo al pubblico, come non gli devono nulla i calzolai o
i muratori. Tutti i nostri doveri sono verso i nostri padroni e il
pubblico non può ritenere che i padroni responsabili di una
interruzione di servizio causata da una contestazione a proposito di
salari.

Dopo lunghe e inutile trattative con la Compagnia, lo sciopero era
cominciato una mattina, dietro un segnale telegrafico convenuto, dato
da un giovane telegrafista dell'ufficio centrale, nello stesso minuto,
i ventimila impiegati avevano abbandonato tutti il loro posto.

Ora, durante quella lotta, mentre il servizio rimaneva sospeso, io
dovetti notare che lo Stato non si sognò mai di intervenire in
qualsiasi modo; si lasciarono tenere tutti i comizi che si vollero e
se ne tennero da migliaia di cittadini non telegrafisti anche contro
la Compagnia, alla quale fu detto che coi suoi lauti guadagni poteva
pagar meglio la sua gente.

Molti fili telegrafici vennero tagliati da ignoti amici dei
telegrafisti, ma la _Western Union_ non chiese alla polizia l'arresto
dei capi scioperanti e non pensò di ritenere i suoi impiegati
responsabili dei guasti.



III.

Gli alimenti nervosi.


La signorina Mary mi dava sulla voce ogni volta che io dicevo male
degli Stati Uniti e mi rimproverava di fermarmi a considerare
solamente i difetti del paese. Dopo il ballo di Vanderbilt facemmo una
grande discussione. Ma prima di continuare il racconto bisogna ch'io
presenti ai lettori la signorina Mary.

Vi sono degli stranieri che, visitando gli Stati Uniti e osservando la
grande libertà che godono e in cui sono allevate le fanciulle, notando
la differenza dei culti e delle idee nelle signore, rilevando la vita
che conducono molte, le quali non pensano che a divertirsi con le
amiche e a visitare i magazzini di mode, s'affrettano a scrivere ai
loro amici:

--Le signore nord-americane sono belle, spiritose, disinvolte, ma noi
altri del vecchio continente non le piglieremmo per ispose.--

Giudizi superficiali. Negli Stati Uniti non si può parlare di una
donna americana tipo, come si potrebbe fare in Europa della russa o
dell'inglese, perchè nell'Unione, e specialmente nelle grandi città
della costa atlantica, si trova nelle donne una varietà di tipi e di
caratteri straordinaria.

Vi sono le donne nate nell'America del Nord da americani ricchi o
poveri, vi sono quelle nate da genitori europei, vi sono quelle
sbarcate negli Stati Uniti da bambine; e ciascuna di esse, secondo la
razza, la nazionalità e la famiglia da cui è uscita, e secondo
l'educazione avuta, presenta una fisionomia speciale, un tipo che più
o meno si scosta da quello delle altre.

In generale è vero che le ragazze non crescono negli Stati Uniti come
nel vecchio continente, sempre attaccate alle gonnelle della mamma;
sono più franche, più ardite, più coraggiose; escono sole di casa e
vanno pei fatti loro senza bisogno di farsi accompagnare; e nondimeno
riescono spose e madri che non hanno nulla da invidiare alle nostre,
anzi curano di più l'educazione pratica, la pulizia e l'igiene dei
figli, e sono più amanti del _comfort_ della casa.

La signorina Mary, nata a New-York da genitori italiani emigrati poco
dopo il matrimonio (suo padre era un distinto architetto), aveva
diciassette anni. Di statura ordinaria, possedeva bellissime forme,
aveva i capelli e gli occhi grandi e neri e la carnagione un po'
pallida, come quella di quasi tutte le donne nate a New-York: era
intelligentissima e studiosa, e frequentava i corsi dell'ultimo anno
del principale collegio normale della città come studente libera.

I genitori, cresciuti nella religione cattolica, lasciavano ai figli
la scelta delle loro credenze. Mary era libera pensatrice, e, senza
alcuna affettazione, senza sparlar mai della fede altrui, alla
domenica assisteva alle conferenze che sul libero pensiero facevano a
New-York gente di gran talento, come il prof. Adler.

Sebbene la sua famiglia fosse di agiata condizione, attendeva molto
volentieri al disbrigo delle faccende domestiche. Sapeva cucire e
ricamare magnificamente, ma era anche buona cuoca. Solo ogni tanto
l'assalivano delle velleità da bambina. Quando fioccava la neve,
indossava improvvisamente il _waterproof_ e correva in istrada a farsi
tirare in una piccola slitta dal fratello minore e a baloccarsi
insieme con alcune amiche.

Non assumeva mai quelle arie sentimentali che hanno spesso le
fanciulle d'Europa appena arrivate alla pubertà; era anzi allegra,
vivacissima, e si abbandonava sovente a risate rumorose che mettevano
in mostra i suoi bellissimi denti.

Si recava alle lezioni del collegio sola, come tutte le compagne, coi
suoi bravi libri sotto il braccio, viaggiando nell'_Elevated
Railroad_, la strada ferrata che attraversa la città. Vestiva con buon
gusto senza civetteria ed amava i fiori, ma preferiva i confetti.

Quando io la conobbi non sapeva forse ancora esattamente ciò che fosse
l'amore. Probabilmente ne sentiva già il bisogno senza volerlo e fra
un capitolo della breve storia degli Stati Uniti e un problema
aritmetico, intravvedeva qualche paio d'occhi neri e di baffetti
nascenti. Forse non ci aveva ancora pensato e il giorno in cui avesse
trovato la cosidetta incarnazione dell'ideale sotto le forme di un bel
giovinotto, avrebbe perduto gli ultimi giocondi vestigi della
fanciullezza e il suo carattere avrebbe subito qualche modificazione,
come avviene in tutte le giovinette quando il loro cuore s'apre per la
prima volta all'ignoto dio.

Intanto rideva e studiava, e i suoi giorni trascorrevano lieti e
sereni.

--Ebbene?--mi disse quando ci rivedemmo dopo il ballo di Vanderbilt.

--Ohimè!--feci io--dove sono andati i tempi semplici e patriarcali di
Washington e di Franklin?

--La costituzione della nostra repubblica dice però ancora oggi che
nessun titolo di nobiltà sarà concesso dagli Stati Uniti.

--Sì, voi non avete principi, duchi, marchesi, conti o baroni. Molte
giovani ricche acquistano un titolo col mezzo del matrimonio; ma,
all'infuori di quelle che si vendono a un nobile spiantato straniero
per sentirsi dire contesse o marchese e farsi ricamare una corona sul
fazzoletto, non potete vantarvi di avere neppure un meschino
cavalierato come quello che viene conferito in Inghilterra a mercanti
di candele arricchiti o a sarti in voga, le cui mogli hanno
l'ambizione di essere chiamate _my lady_.

--E dunque?

--Con tutto ciò avete anche voi la vostra aristocrazia. La ricchezza
guadagnata, non importa come, prende il posto del merito o del sangue
turchino. Come nessuno domanda da noi se gli antenati di un conte
abbiano rubato del bestiame, così qui nessuno chiede se il padre d'una
milionaria abbia rubato delle ferrovie. Ho veduto da Vanderbilt che
quando un americano conta le sue ricchezze a centinaia di milioni,
prende il suo posto alla testa della società, precisamente come il
duca di Norfolk ha la precedenza, nella sua qualità di primo duca e
conte, alla Corte d'Inghilterra. Ho veduto a quel ballo che, per
appartenere all'aristocrazia americana, una signora può avere le mani
rosse, la pelle ruvida, la voce rauca, i modi più volgari, ma deve
essere molto ricca e vestire sfarzosamente. Allora può entrare nella
migliore società e ricevere gli omaggi del mondo americano.

--Queste sono eccezioni--fece la signorina Mary.

--Sì, ma quando in un paese la coltura e la virtù non contano nulla e
tutto è l'oro, visto che col danaro solo si ottiene quello che si
vuole, si fanno pazzie per cercare di arricchirsi rapidamente. L'altro
giorno un medico mi diceva che è incredibile la quantità di morfina
che si usa a New-York per lavorare con attività febbrile.

--Questo è vero, pur troppo.

--Il caffè, il the, il tabacco, mi raccontava, e tutti gli altri
alimenti nervosi, narcotici ed eccitanti di cui si contentavano finora
gli uomini, non hanno più alcun effetto sopra i nervi malati di
moltissimi nostri giovani. Essi ricorrono all'oppio e alla morfina.
Cominciano coll'iniettarsi piccole dosi di quest'ultima quando hanno
l'emicrania, l'insonnia o il mal di denti, e poi finiscono per
prenderne tutti i giorni, aumentandone la quantità, vivendo in uno
stato di benessere fattizio, sparito il quale si sentono spossati,
malinconici, tristissimi. Quel medico mio amico conosce parecchi di
questi infelici i quali hanno la pelle delle braccia tutta
bucherellata dall'ago con cui si fanno le iniezioni. Un giorno gliene
capitò uno in ufficio, pallido, cogli occhi semispenti. Lo pregò di
dargli della morfina, ne prese una fortissima dose sottocutanea e gli
confessò: «Non avevo più denaro per comprarne, e non posso più vivere
senza questo narcotico.»

--È proprio così--appoggiò Giorgio, il fratello di Mary.--Abusano
degli alimenti nervosi coloro specialmente che lavorano col cervello:
vi sono giornalisti e pubblicisti che ricorrono all'oppio per trovare
l'energia e la forza d'ingegno che non hanno; scrivono con maggior
facilità sotto l'influenza della droga asiatica, ma finiscono poi col
logorarsi le cellule e diventano ben presto incapaci di fare quello
che facevano prima di ricorrere all'oppio.

--Guai--disse il signor Antonio, l'architetto padre di Mary e di
Giorgio--se l'emigrazione non versasse sulla costa atlantica dei veri
torrenti di sangue fresco e sano!

--Gli americani--continuò Giorgio--sono il popolo più nervoso che
esista. I costumi, le faccende politiche, finanziarie, sociali ed
intellettuali contribuiscono a mantenerli in uno stato di eccitabilità
permanente. Noi (essendo nato qui posso parlare in plurale) abbiamo la
sensibilità dei francesi senza la loro elasticità, la serietà del
temperamento inglese senza la sua flemma; come razza siamo
trascuratissimi per tutto ciò che riguarda le abitudini sistematiche
della vita. La maggior parte dei decessi succede relativamente fra i
giovani, e la causa deve ricercarsi nell'esaurimento del sistema
nervoso. Quando abbiamo spinto a forza i nostri nervi nello stato
cronico di un'incessante e dolorosa irritabilità, allora cominciamo «a
medicarci». E ricorriamo sempre a casaccio a certi narcotici (io pure
mi lasciai tentare dalla morfina e mi ci volle una gran fatica a
smettere per quanto il vizio non fosse in me radicato), a certi
eccitanti della cui natura poco o nulla sappiamo. Se non ci sembra di
soffrire sotto i loro effetti, ne soffrirà la prossima generazione.

--Avete notato--riprese il signor Antonio--il tipo uniforme che vanno
prendendo i giovani americani della classe media? Sono per lo più
magri, dal collo sottile, dalle mani e dai piedi lunghi...

--Chicago feet!--interruppe Mary ridendo, alludendo all'opinione
corrente a New-York che gli americani dai piedi più lunghi siano
quelli di Chicago.

--Pare--continuò il signor Antonio--che dalla mescolanza delle razze
emigrate nell'America del Nord stia per uscire una razza nuova. È
stato notato che dopo la seconda generazione il yankee mostra segni
del tipo indiano; più tardi la pelle diventa secca, il colore
vermiglio delle guancie sparisce e dà luogo, negli uomini, ad una
tinta terrosa, e nelle donne ad una livida pallidezza. La testa
diventa più piccola, rotonda e persino acuminata; si osserva un grande
sviluppo degli zigomi; le fosse temporali si fanno più profonde, più
massiccie le mascelle, e gli occhi giacciono in occhiaie incavate e
molto vicine: le ossa lunghe si allungano, specialmente nelle membra
superiori...

--Tant'è vero--interruppe nuovamente Mary che in nessun altro paese,
--neppure in Inghilterra, che è tutto dire, si fabbricano guanti dalle
--dita lunghe come negli Stati Uniti.

--Il clima--seguitò il signor Antonio--deve forse entrare per qualche
cosa nella formazione di questo nuovo tipo e nella fretta nervosa
degli americani del Nord. Ne possiamo far fede noi europei, che
diventiamo qui più attivi e irritabili, che cambiamo professione con
tanta facilità e che acquistiamo il mutabile istinto girovago, la
febbre degli affari e delle cose nuove. Eppure, a parte il clima, gli
alimenti nervosi e la vita che conducono, io sono persuaso che una
causa della magrezza dei giovani nord-americani sia il loro genere di
alimentazione. Da noi (il signor Antonio era oriundo milanese e
conservava il culto del patrio risotto) si fanno dei pasti regolari,
abbondanti, si mangiano delle buone minestre fatte col brodo, dei
pollastri e della carne, e si beve del buon vino; qui si fanno delle
refezioni che sembrano apparecchiate per bambini: fettoline di pane
spalmate di burro, piattini dolci, piattini di riso con lo zucchero,
piattini di verdura, acqua ghiacciata e the o caffè alla mattina, a
mezzogiorno, alla sera e prima di andare a letto. Non hanno di buono
che il _roast-beef_. Se dite ad un popolano di scegliere fra un
_beefsteak_ da venticinque soldi e un pezzo di pasticcio dolce da
dieci soldi, vi lascerà il _beefsteak_ e si rassegnerà ai _fish balls_
(polpette di pesce) per godersi l'_home made pie_ (pasticcio di mele
cotte o d'altre frutta conservate).

--Nella mia qualità di newyorkese--osservò Giorgio--io devo farvi
notare che per la razza, non può prendersi come modello la città di
New-York, la quale sopporta la maggior parte dei danni e gode la
minima parte dei vantaggi dell'emigrazione europea. Gli emigranti che
hanno qualche soldo, passano e vanno nell'interno: qui, nel porto,
restano i miserabili e i viziosi. Il 25 per cento rimane e il resto
procede oltre. New-York è stata giustamente paragonata ad un filtro,
attraverso il quale si purifica il fiume dell'emigrazione nel suo
corso verso l'ovest.

--Avete mai veduto New-York--mi domandò la signorina Mary--in tutta la
sua lunghezza percorrendola coll'_elevated railroad_ dal Battery Park
fino ad Harlem? È una gita molto interessante: vi sono da vedere delle
cose curiose, ignorate dagli stranieri. La faremo insieme dopodomani,
che è domenica?

--Con vivissimo piacere--risposi, desideroso com'ero di studiare la
grande città.

                              * * *

Dopo la China, l'America del Nord è oggi il paese dove si fuma la
maggior quantità di oppio. Secondo le statistiche della dogana di San
Francisco, dopo il 1879 gli Stati Uniti hanno cominciato ad importare
ogni anno dalle 140 alle 150 mila libbre d'oppio preparato, per le
quali l'amministrazione delle gabelle incassa da 880 a 900 mila scudi
di tassa.

Fino a pochi anni addietro l'oppio si fumava liberamente negli Stati
dell'Unione, ma, dopo essersi accorte dei danni che produceva, le
autorità fecero chiudere tutte le sale chinesi dove si fumava la droga
perniciosa. Tuttavia si continua a fumare egualmente in segreto e il
vizio va diffondendosi.

A San Francisco, a New-York e nelle altre principali città della
repubblica, malgrado il divieto della polizia, esistono sale
clandestine pei fumatori eleganti e luoghi sotterranei per la gente
poco denarosa, dove per un dollaro o due nei posti migliori, e per
cinquanta soldi nei più bassi, si può abbandonarsi allo snervante
letargo.

Il peggio si è che i chinesi si servono spesso dell'oppio per condurre
nelle loro spelonche molte ingenue ragazze, le quali finiscono poi col
non tornare più ai loro genitori, per darsi completamente alla mala
vita.

Un giorno si trovò in Pell Street, a New-York, una cantina dove le
fanciulle dai dieci ai venti anni venivano indotte a entrare da
qualche donna loro conoscente già corrotta; là, dopo alcune pipe
d'oppio, perduta la ragione, le disgraziate si abbandonavano al primo
capitato.

Una volta gustato l'oppio, dopo aver superato le prime nausee, le
infelici non hanno più la forza di astenersene, e, anche condotte a
casa dai loro parenti, fuggono alla prima occasione per procurarsi i
piaceri inebbrianti della droga fatale.

Il signor O'Brien, presidente di un Comitato costituitosi per fare la
guerra ai ridotti dei fumatori d'oppio, mi raccontava che questi
andavano prosperando e crescendo in modo spaventevole. I chinesi, non
solo pagavano fitti enormi, ma, per entrare in possesso di un nuovo
locale, sborsavano forti indennità agli inquilini, i quali,
naturalmente, le accettavano e andavano a stare in un altro quartiere,
lasciando così il posto libero ad una nuova sentina di corruzione.

Quando io mi trovavo a New-York non passava quasi settimana senza che
i giornali registrassero o la scoperta di un nuovo _salon_ o i casi
toccati alla gente annoiata e disutile che si dà all'uso della droga
chinese. Eccone qualche saggio.

Una sera un giovane americano entrò in una sala pei fumatori d'oppio
in Bowery. Quando si svegliò, s'accorse che durante il sonno gli erano
stati rubati i cento dollari che aveva in tasca. Contemporaneamente
s'avvide della presenza di una donna che giaceva addormentata sul sofà
accanto al suo. Sospettò che essa fosse la ladra e la denunziò alla
polizia. Ma la donna, che era una pallida giovanetta, ammise di essere
un'arrabbiata fumatrice d'oppio, respingendo però l'accusa di furto. E
siccome i denari rubati non si trovarono nelle sue tasche, si dovette
rilasciarla libera.

Una notte, il capitano di polizia Petty essendosi assicurato che,
all'ultimo piano della casa N. 8 Pell Street, un certo Ah Foo,
chinese, teneva un ridotto pei fumatori d'oppio, vi entrò con alcuni
agenti e fece arrestare quanti vi si trovavano, cioè il padrone, la
moglie e quindici fumatori.

Di questi ultimi, tre erano donne di malaffare, sei uomini chinesi e
sei bianchi, fra cui un attore del teatro di Union Square. Quasi tutti
gli arrestati avevano indosso una piccola bottiglia d'oppio; uno
teneva un limone la cui scorza era bucata in vari punti per saturarlo
d'oppio. Sul tappeto giacevano molte pipe e una provvista di oppio da
fumare, che il capitano raccolse e portò seco come corpi di reato.

Un'altra notte il dottor Cowles notificava alla polizia che in un
vasto fabbricato, al N. 98 Mott Street, vi erano due appartamenti che
servivano da ridotti pei fumatori d'oppio. Erano tenuti da chinesi,
rimanevano chiusi tutto il giorno e si aprivano alle sette di sera.
Nelle ore tarde vi entravano donne giovani, signorilmente vestite, e
molti chinesi. La cosa continuava già da parecchi mesi.

Oltre che nei ridotti segreti, si era trovato modo di fumare l'oppio
anche nelle pubbliche vie. In certe botteghe si vendevano in eleganti
scatolette delle piccole sigarette fatte col tabacco più fino esposto
al fumo dell'oppio ardente sopra un braciere, finchè si era impregnato
ben bene degli effluvi della droga. I vecchi fumatori usano
scientemente tali sigarette allo scopo di poter abbandonarsi alla loro
passione in pubblico senza destar sospetti.

Un giorno avevo deciso di entrare in un _Opium Saloon_ a fumare il
narcotico famoso per provarne e descriverne le sensazioni. Ma ne fui
dissuaso con una semplice osservazione.

--La prima volta--mi si disse--non sentireste piacere di sorta;
l'oppio, anzi, vi causerebbe nausee ed emicrania. Se per abituarvi lo
fumaste poi a piccolissime dosi, aumentandole volta per volta, non
provereste da principio alcuna sensazione piacevole, e quando poi
foste arrivato a gustarlo, sareste perduto. Diventereste un vizioso
incorreggibile e non vi curereste più di analizzare l'ebbrezza.

Per queste ragioni non ho mai provato a fumare una sola pipa d'oppio e
mi contentai di interrogare qualche magro e pallido fumatore,
ottenendone risposte molto laconiche.

--È impossibile--mi disse un giovane, vittima del vizio
fatale--parlarvi dell'effetto che fa l'oppio. È come se un cieco nato
domandasse ad uno che ci vede che cos'è la luce. È tutto un mondo
nuovo che mi si schiude davanti quando ho fumato; sotto l'influenza
del narcotico possiedo tutto quello che un uomo può desiderare; e
quando mi sveglio, mi sento così fiacco, la vita reale mi sembra tanto
meschina e noiosa, che non vedo il momento d'immergermi nuovamente nel
letargo.

--Ma non pensate che vi rovinate il corpo, che vi logorate il
cervello, che diventate una mummia e v'accorciate la vita?

--E che m'importa? Non vi sono molti che se si sentissero offrire un
patrimonio colossale a patto di dover morire dopo otto o dieci anni di
una vita da nabab, accetterebbero con entusiasmo? Ebbene, nello stesso
modo io preferisco vivere pochi anni nelle ebbrezze che mi procura
l'oppio, di quello che passare una vita ordinaria, regolare ed
insipida. _The opium is the key of paradise!_ (L'oppio è la chiave del
paradiso!)

Così i fumatori non ignorano che dopo il periodo dei godimenti viene
un momento in cui il narcotico non produrrà loro che degli spasimi;
sanno che allora raddoppieranno, triplicheranno, moltiplicheranno le
dosi per non averne in compenso che il delirio e la morte; ma non si
curano dell'indomani.

La maggior parte, invece di fare confessioni umilianti ai profani,
negano il loro vizio. Una sera, ricordo, un giovane che cercava la
sorella fuggita di casa da alcuni giorni, accompagnò la polizia in una
retrobottega di Mott Street. Là, distesi per terra sulle stuoie,
c'erano dieci o dodici chinesi e cinque o sei donne bianche, fra le
quali la sorella del giovane.

Parte fumavano l'oppio, parte ne erano già inebriati e dormivano. La
stanza era piena d'un fumo che tramandava un odore forte ed acre.

Condotta dal fratello alla stazione di polizia, la giovane negò
freddamente di essere una fumatrice disse che, condotta da un'amica,
visitava per la prima volta un _opium eden_ per semplice curiosità.

Dopo pochi giorni fuggiva nuovamente di casa per non tornarvi mai più.



IV.

Il riposo festivo.


Ma una delle cose che mi sorprese di più nell'America del Nord, paese
che è considerato il più libero e più pratico del mondo, fu di veder
conservate ancora negli statuti di alcuni Stati certe leggi puritane,
quacchere, ridicole, odiose, medioevali, che fanno ai pugni con le
idee e con le consuetudini moderne.

Alcuni articoli di quegli statuti di origine inglese, sono
assolutamente contrari ad ogni principio di libertà, allo spirito
medesimo della costituzione americana; eppure non furono ancora
aboliti. La maggior parte delle leggi più assurde caddero in disuso,
ma non in tutti gli Stati. In quelli dell'Est specialmente, sulla
costa atlantica, si ritrovano nei codici delle disposizioni degne di
un governo teocratico.

Ecco un saggio di queste leggi che ricordano quelle di Cromwell.

Nel codice penale di New-York la bestemmia è punita di multa e
prigionia. È considerata come bestemmia la semplice evocazione del
nome di Dio o di Gesù Cristo in senso profano, cioè in ogni altra
circostanza che non sia la preghiera o il rito ecclesiastico.

È ugualmente punita di multa e prigionia la violazione della festa. Il
codice dice:

--Ogni occupazione mondana, sia di piacere, sia di speculazione, è
proibita alla domenica: in tal giorno, non solo ogni luogo di
divertimento dovrà rimaner chiuso, ma la misura sarà estesa ad ogni
negozio piccolo o grande, non esclusi quelli per gli oggetti di prima
necessità. È fatta eccezione per quelle case, come gli alberghi, dove
la merce si consuma sul luogo stesso, per le farmacie, pei venditori
di latte, carne e pesce, i quali però non devono tener aperto il
negozio che fino alle nove del mattino.--

Lo stesso codice così punisce il suicidio:

--Colui o colei che tenta di togliersi la vita, è passibile d'una
condanna a due anni di carcere e a mille lire di multa, mentre chi
presta mano al suicidio di un'altra persona si rende colpevole di
omicidio in primo grado.--

Per il duello c'è questo gingillo:

--Chiunque si batte in duello, sia che lo scontro venga seguito da
morte o no, sarà punito con la pena da due a dieci anni di carcere e
perderà il diritto di occupare per tutta la vita alcuna carica
pubblica, civile o militare.--

Gli articoli più strani, tuttavia, sono quelli sul riposo della
domenica. Eccoli testualmente:

--Ogni sorta di lavoro servile è proibito nel primo giorno della
settimana, eccettuati i casi di necessità pubblica.

Ogni sorta di tiro a segno, la caccia, la pesca, le corse di cavalli,
i trattenimenti musicali, i giuochi e ogni genere di pubblici
esercizi, passatempi o rappresentazioni, sono proibiti nel primo
giorno della settimana, come pure è proibito qualunque rumore che
disturbi la quiete di tal giorno.

La violazione di questa legge sarà punita col carcere, da uno a cinque
giorni, e con la multa, da uno a dieci dollari. Le merci esposte in
vendita verranno sequestrate a beneficio dei poveri. Chi
contravvenisse alla proibizione delle rappresentazioni teatrali _et
similia_ pagherà cinquecento dollari di multa e perderà la licenza.--

Gli articoli di questo codice erano a poco a poco caduti in disuso: si
osservava solo apparentemente quello che impone la chiusura delle
birrerie durante la domenica; anche tale disposizione si violava
continuamente dai birrai, dagli osti e dai liquoristi, tenendo chiusa
la porta davanti delle botteghe e socchiusa quella di dietro,
d'accordo coi _policemen_.

Ma, verso la fine del 1882, vi fu un risveglio di puritanismo, e col
I° dicembre di quell'anno il codice penale di New-York venne rimesso
in vigore in tutta la sua forza. Ciò significava che, alla festa, non
si poteva comperar un sigaro, nè un caffè; che tutte le botteghe
dovevano esser chiuse; che qualunque lavoro era proibito; che per le
strade non si vedevano nè vetture, nè omnibus, nè carri dei
_tramways_, nè vagoni dell'_Elevated_.

Non dimenticherò mai la prima domenica che passai sotto la
restaurazione di quel codice.

Uscito di casa alle otto di mattina, secondo il solito, cercai
coll'occhio, nelle vie deserte, un lustrascarpe. Vana ricerca. Gli
innumerevoli italiani, negri e americani che hanno il loro deschetto e
la sedia in quasi tutte le cantonate, erano irreperibili. Anche il
lustrare le scarpe è un'opera servile, proibita dalla legge.

Soltanto dopo una mezz'ora all'angolo della 22^a strada e dell'ottava
Avenue, scoprii, sulla soglia di una porta, un povero ragazzo
irlandese col viso paonazzo, che, in attitudine sospetta, celava sotto
la giacca la sua scatola di lustrascarpe.

Mi accostai a quel povero ribelle e gli chiesi se aveva il coraggio di
violare la legge.

Egli si guardò intorno e non vedendo alcun _policeman_, s'inginocchiò
mormorando:

--_Hurry up, boss!_ (Facciamo presto, principale!).

--Che cosa pensi della nuova _Sunday law?_ (legge della domenica)--gli
domandai.

--Penso--rispose--che io sono un povero orfano e che devo mangiare
anche alla domenica.

Uno stivale era già lucidato alla bell'e meglio e il ragazzo
s'accingeva a lustrare anche il secondo, quando comparve
improvvisamente sulla cantonata un _policeman_, col suo bravo _club_
(bastone corto) in mano.

Io non potei trattenere una risata, ma il _policeman_ si accostò con
aria minacciosa e disse al ragazzo spaventato:

--_Boy_, tu vuoi proprio che t'arresti? È la seconda volta che stamane
ti colgo in contravvenzione. A casa subito: se ti vedo ancora, ti
conduco alla _Station House_.

--Lascerete almeno che finisca le mie scarpe!--osservai io.

--No--interruppe severamente l'ufficiale di polizia.--Ringraziatemi se
vi lascio andare per la vostra strada; osservate la legge!

Con uno stivale lucido e l'altro no, andai verso la bottega del mio
barbiere: era chiusa e sulla porta stava scritto tanto di _closed_. Mi
avvicinai alle porte di parecchie altre; tutte chiuse egualmente. Mi
rassegnavo a passar la festa con la barba da fare, quando bussando per
l'ultima volta all'uscio della bottega di un barbiere tedesco vidi un
occhio al buco di una tendina abbassata. Quando quell'occhio si
convinse che non ero nè un _policeman_, nè un _detective_, una voce
mormorò:

--Entrate per la porticina laterale.

Tre barbieri, alla luce del gas, stavano radendo tre persone, cogli
usci chiusi a chiave, silenziosamente. Parevano malfattori in atto di
commettere qualche brutto delitto. Di lì a qualche minuto un
_policeman_ bussò, ma nessuno gli rispose. Soltanto il padrone
bestemmiava fra i denti e diceva:

--Ho cinque figli da mantenere, io. Senza il guadagno della domenica
mattina, potrei chiudere durante il resto della settimana.

Quella mattina un cittadino veniva arrestato ai Five Points mentre si
faceva radere e condotto in prigione con mezza barba fatta e l'altra
guancia insaponata, insieme col barbiere.

Il direttore della sala dei concerti «Koster and Bial's» che volle
provare a dare una rappresentazione con un programma sul quale era
scritto:--A beneficio dell'Ospedale tedesco--dovette prestare una
cauzione di cinquecento dollari per non essere arrestato, e lo
spettacolo venne interrotto. Lo stesso accadde all'Alcazar.

Prima di mezzogiorno una cinquantina di persone si trovavano alla
Corte di Polizia, accusate di violazione della legge domenicale. Nel
sedicesimo distretto erano stati arrestati due lustrascarpe negri.
Quattro barbieri sorpresi mentre lavoravano segretamente e condotti
subito davanti al giudice, ebbero un bel dire che se non sgobbavano
alla festa perdevano la maggior parte dei loro guadagni, e invano
protestarono ricordando che perfino ai tempi della Santa Inquisizione
fu fatta un'eccezione pel lavoro dei barbieri: dovettero pagare
quattro dollari di multa per ciascheduno.

Un episodio buffo. A mezzogiorno un tedesco usciva con un canestro
coperto sotto il braccio dalla porta laterale di una birraria di
Houston Street. Essendo proibito di comperare alla domenica qualunque
cosa, anche il pane, un _policeman_ lo fermò e gli chiese:

--Che cosa avete in quella cesta?

Il tedesco, che aveva un boccale di birra, rispose prontamente:

--Un gatto arrabbiato che vado ad annegare nel fiume. È anche questo
un lavoro proibito dal codice?

Alla domenica successiva si rinnovarono le medesime scene. Non solo i
_saloons_ grandi e piccoli, ma anche i principali alberghi della
metropoli vennero attentamente sorvegliati e alcuni di essi, come
l'_Astor House_, sospesero totalmente la vendita delle bevande
spiritose, rifiutandone perfino alle persone alloggiate nella casa.

Nei vari quartieri della città si eseguirono più di cento arresti, per
lo più di uomini e di ragazzi colti mentre uscivano dalle porte di
servizio dei _Lager Beer Saloons_ con qualche pinta di birra. Quelli
fra i contravventori che vennero arrestati al mattino poterono
prestare una cauzione e tornare a casa nello stesso giorno; ma coloro
che si lasciarono prendere ad ora tarda dovettero passare la notte
nelle _Station Houses_ in attesa che la Corte di polizia si riunisse
il giorno appresso.

La terza domenica si ebbe un omicidio. Il _policeman_ John W. Smith
era stato mandato in giro, vestito in borghese, alla scoperta di
qualche violatore della legge domenicale. Per la solita porticina
laterale egli entrò nella birraria di un certo Patrick Reagan in
Madison Street e, senza farsi conoscere, domandò un bicchiere di
salsapariglia che gli fu servito dal padrone stesso.

Poco dopo entrarono tre avventori i quali chiesero tre _schooners_
(grandi bicchieri di birra). Mentre il Reagan spillava il liquido da
un barile, il _policeman_ travestito si bagnò un dito sotto il
rubinetto del barile stesso, e, portatolo alla bocca e assicuratosi
che la bevanda versata era realmente birra, dichiarò senz'altro il
birraio in arresto. In prova della sua autorità gettò sul banco la
placca metallica che è il distintivo degli addetti alla polizia.

Il Reagan prese la placca e gliela scagliò sulla testa, dicendo che
non si curava di tutte le spie della città: quindi, levando di sotto
al banco una vecchia sciabola (il birraio apparteneva ad una di quelle
associazioni militari che costituiscono la guardia nazionale), si
avventò contro il _policeman_. Questi lo prese di mira col revolver,
fece fuoco e lo ferì mortalmente al petto. Il Reagan spirò poco dopo,
mentre gli venivano amministrati gli ultimi sacramenti.

Questo omicidio, accaduto per causa di una legge la cui applicazione
richiedeva un odioso spionaggio, provocò un grido di protesta da parte
del pubblico, e i giornali si misero alla testa dell'agitazione.

--Invece della statua di Bartholdi da erigersi nella baia--diceva il
_Puck_--invece della Libertà che illumina il mondo, gli americani
dovrebbero eternare la memoria del codice penale di New-York col
seguente monumento.

E disegnava il progetto di una statua della libertà incatenata, che
sorgeva in mezzo a una strada, la quale, essendo domenica, era tutta
deserta: soltanto davanti a ogni albergo, teatro, bottega di qualsiasi
genere, stava ritto, col bastone in mano, un _policeman_. Sotto il
disegno si leggevano queste parole:--La metropoli nazionale nell'anno
107° della indipendenza americana.--

Vennero poi i _meetings_ e si formarono delle associazioni, le quali
si proponevano di ottenere la abrogazione di tutti quegli articoli del
codice che, col pretesto del rispetto della domenica, violano la
libertà del commercio e sono una vera rovina.

La questione fu portata alla Camera dei rappresentanti di Albany--la
capitale dello Stato di New-York--e suscitò una vivace discussione,
specialmente a proposito dell'articolo che proibisce le corse dei
cavalli e gli esercizi ginnastici. Il signor Murphy suscitò una grande
ilarità chiedendo che fosse eccettuata dalla proscrizione domenicale
almeno la pesca alla canna. Ma tutto fu inutile: la maggior parte
degli oratori fecero dei discorsi da predicatori, sulla utilità morale
e igienica dell'assoluto riposo festivo, ed espressero una profonda
indignazione contro qualunque tentativo di europeizzare la domenica
nord-americana.

Così il codice dello Stato di New-York rimase invariato: si tollera
solo che, alla domenica, i cittadini si facciano lustrare le scarpe e
radere la barba. Le porte principali delle birrarie e delle botteghe
di liquori sono chiuse, ma si può entrare per la porticina di dietro.
Ipocrisie grottesche.

Quello che vidi a New-York in fatto di leggi domenicali è un nulla in
confronto di ciò che osservai a New-Haven nel Connecticut.

                              * * *

Quello Stato, come la Nuova Inghilterra, è già famoso da un pezzo per
le sue _blue laws_ votate al principio del secolo. Eccone una pagina:

--Nessuno potrà dare il suo voto se non è iscritto in una chiesa di
questo dominio.

Nessuno camminerà in giorno festivo o passeggerà nel suo giardino o
altrove, eccetto che, con compunzione, dalla sua casa alla chiesa e
viceversa.

Nessuno viaggerà, cuocerà cibi, rifarà letti, spazzerà case, si
taglierà i capelli o si farà la barba in giorno festivo.

Nessuna donna bacerà i suoi figliuoli nei giorni consacrati dalla
Chiesa a pregare il Signore.--

Se i baci erano proibiti alle madri, figurarsi ai giovani! Sentite un
po' quello che toccò a Sara Tuttle e a Jacob Newton per aver osato di
trasgredire al codice _blue_.

Sara era una buona ragazza, nella primavera della vita, che aveva una
gran voglia di prendere marito ed era innamorata di Jacob, un povero e
bravo giovinetto del vicinato. Ella avrebbe voluto fare all'amore con
lui, ma il pudore le impediva di essere la prima a parlare, e, da
parte sua, il giovinotto non ardiva di farsi avanti perchè Sara era
troppo ricca per lui. Ma in questi casi, ove manca il coraggio
dell'uomo, supplisce l'astuzia della donna.

Una domenica mattina Sara incontrò Jacob per la strada, e, per trovar
modo d'attaccar discorso, lasciò cadere i guanti fingendo di non
avvedersene. Jacob li raccolse e disse sorridendo a Sara:

--Se li volete, desidero una ricompensa.

--Ma io non ho denaro con me--rispose la biricchina.--Che cosa posso
fare per voi?

Jacob mise insieme tutto il suo coraggio e disse:

--Vorrei un bacio!

Sara non se lo fece dire due volte e lo baciò. Una pinzochera
ingiallita e invecchiata nel desiderio di baci che non aveva mai
ottenuti, osservò e denunziò il fatto. E i due colpevoli furono citati
davanti al competente magistrato, il quale li condannò a pagare la
multa di cinquanta scellini per ciascheduno.

Ma torniamo alla capitale del Connecticut. Una domenica di novembre
del 1883 mi recai a New-Haven a trovare un amico. Da New-York si va a
New-Haven in un paio d'ore, attraversando, fra gli altri paesi,
Bridgeport, la patria di Barnum, dove il famoso _showman_ teneva i
suoi quartieri d'inverno pieni di cavalli e di bestie feroci. Da
quelle stalle, per far parlare di sè, di tanto in tanto Barnum
lasciava scappare qualche elefante che scorrazzava per i campi
circostanti e rovesciava parecchie siepi, affinchè non languisse la
cronaca dei giornali locali.

New-Haven conta più di sessanta mila abitanti, ma è tranquilla come un
villaggio; ha strade belle e larghe, fiancheggiate da filari d'alberi,
e le sue case sono quasi tutte di legno, piccole, eleganti e
simpatiche come tante palazzine di villeggiatura. È rinomata pel
collegio Yale, per le sue fabbriche di carrozze e per la severità con
cui si osserva il riposo della domenica.

_Yale Colege_--uno dei più rinomati e importanti degli Stati Uniti--è
un complesso di edifizi che non hanno nulla di grandioso. A vederli
così semplici non si direbbe che in essi studiano e alloggiano circa
1300 giovani provenienti da tutti gli Stati dell'Unione, insieme con
un centinaio di professori, fra cui alcuni di gran fama, come O. C.
Marsh, direttore dell'istituto; Dana, un dotto geologo; e Whitney,
profondo in filologia e lingua sanscrita. Del corpo insegnante faceva
parte anche un italiano, il professore C. L. Speranza. Un uso notevole
fra gli studenti più intelligenti è quello di unirsi in una
associazione segreta i cui membri si promettono di conservarsi amici
anche dopo finiti gli studi e di aiutarsi sempre a vicenda nel corso
della vita: una specie di ciò che dovrebbe essere la massoneria.

La colonia italiana di New-Haven conta circa un migliaio e mezzo di
pacifici e laboriosi operai, i quali non fanno mai parlar di loro per
risse e coltellate, e che anzi sono assai ben visti dalla popolazione.
Quasi tutti lavorano nelle numerose fabbriche di carrozze e di oggetti
di gomma. Per provare il buon conto in cui li tiene, il Municipio aprì
per essi una scuola nella quale si danno lezioni gratuite serali
d'inglese.

Straordinario è il numero di chiese d'ogni culto. Nel solo centro
della città ne sorgono cinque, a pochi passi l'una dall'altra. Mentre
le esaminavo, vidi spuntare da una strada un distaccamento della
_Salvation Army_ (Esercito della Salute), con pifferi e tamburo alla
testa: alcune donne leggevano ad alta voce, camminando, non so quali
salmi o canzoni. Sembrava una mascherata carnevalesca. Soltanto,
invece dell'allegria, quei disgraziati apostoli avevano i segni del
cretinismo sulle loro faccie angolose.

Uno dei punti più belli di New-Haven è dove la città finisce sulla
riva del Sound. A levante sorgono alcune collinette e a ponente si
stendono fino a perdita d'occhio le acque calme del fiume, popolate di
barche e di qualche _schooner_. Quella vista deve essere molto
pittoresca nella bella stagione, quando gli alberi sono verdi, quando
il fondo scuro del paesaggio fa risaltare lo specchio limpido del
Sound e il bianco delle case lontane.

Mentre io e l'amico tornavamo in città, facemmo quella domenica uno
strano incontro. Ventun persone, fra uomini e donne, elegantemente
vestiti, venivano condotti a New-Haven prigionieri, scortati da alcuni
_policemen_. Gli arrestati appartenevano alla miglior società ed ecco
di che cosa si erano resi colpevoli.

Ignorando che le autorità avevano deciso di rimettere in vigore le
puritane _blue laws_, quei signori erano usciti a passeggiare in
carrozza come il solito di tutte le feste. Giunti a un certo punto
vennero arrestati come contravventori alla legge sulla domenica,
rinchiusi in una masseria come un branco di montoni, e condotti quindi
tutti insieme a New-Haven. Tradotti davanti al giudice, alcuni furono
rilasciati pagando una cauzione di venticinque dollari, altri
trattenuti in prigione.

Quella inattesa risurrezione di leggi cadute in disuso era dovuta
all'iniziativa del gran constabile Thompson, il quale agiva dietro
richiesta degli abitanti della borgata di Foxon. Costoro si lagnavano
che «quelli di New-Haven violavano costantemente la domenica passando
in vettura a Foxon, con grande noia e scandalo dei buoni cittadini.»

È comico il modo usato dal Thompson per fermare quelli che passavano
in carrozza, i quali, se avessero dubitato del minimo pericolo,
avrebbero potuto sfuggire facilmente alla cattura frustando i cavalli.
Il signor Thompson aveva imboscato i suoi uomini in un punto in cui la
strada era tutta coperta dalle noci che il vento aveva fatto cadere
dalle piante circostanti. Come il malizioso constabile aveva
preveduto, tutti quelli che arrivarono in carrozza a quel punto,
vedendo le belle noci, scesero per riempirsene le saccoccie. In quella
sbucarono i _policemen_ e li dichiararono in arresto.



V.

In ferrovia aerea.


Quella mattina che si era stabilita, insieme con la signorina Mary e
con suo fratello Giorgio feci la gita di nove miglia dalla Battery
fino alla 155^a strada sul ramo ovest dell'_Elevated Railroad_, la
ferrovia aerea che attraversa New-York in tutta la sua lunghezza.

Partendo dalla stazione che sorge in fondo al Battery Park, si gode
una magnifica vista della baia newyorkese, meno incantevole del Corno
d'oro di Costantinopoli, ma bella quanto quella di Napoli, di Rio
Janeiro e di San Francisco e importante per movimento di navi quanto
queste tre ultime riunite insieme. All'ingresso del porto si
costruivano le fondamenta per la statua colossale della Libertà col
faro in mano.

I miei due amici mi mostrarono il balcone dal quale Giorgio Washington
pronunziò il giuramento come primo presidente degli Stati Uniti. Dove
sventolò per la prima volta la bandiera americana, vi sono oggi le
insegne di due mercanti di grano; nulla che ricordi il patriottico
avvenimento.

Girando verso Greenwich Street, si oltrepassa Castle Garden, la
stazione d'arrivo degli emigranti, che una volta era un forte che
difendeva sull'Hudson la punta dell'isola di Manhattan, e che poi fu
un teatro d'opera dove la Jenny Lind, col famoso Barnun per
impresario, andava a cantare passando sotto un arco trionfale degno di
una regina. Si fiancheggia Broadway, oggi tutta palazzi e magazzini, e
pochi anni fa l'unica strada carrozzabile che conduceva a Boston e
sulla quale crescevano l'erba e i fiori di prato; e si giunge alla
ricca Trinity Church.

S'intravvedono la chiesa di San Paolo, già frequentata da Washington,
e i tetti del palazzo del _New York Herald_ fabbricato nel luogo dove
per tanti anni Barnum tenne un museo di curiosità e di fenomeni; poi
gli edifizi della Posta e dei grandi uffici di giornali della Printing
House Square (piazza della Stampa).

Si costeggiano fabbriche, negozi, magazzini a migliaia e quartieri uno
diverso dall'altro; Union Square, con la bella statua di Lafayette,
con quella di Lincoln bruttissima e con un discreto monumento a
Washington; la 23^a strada col massiccio Tempio Massonico e col non
meno solido teatro Booth, palazzone di marmo che costò un milione di
dollari e che allora si stava demolendo per dar luogo a nuovi
magazzini.

Verso Madison Square sorge il palazzo dove pochi anni fa venne
assassinato il vecchio banchiere Nathan. Fu un orribile delitto che
rimase avvolto nel più profondo mistero. Una mattina di luglio un
figlio del defunto, senza scarpe e con le calze macchiate del sangue
del padre, apriva la porta di quel palazzo gridando al soccorso. Il
banchiere era stato trovato morto nella sua stanza, con la testa
schiacciata. Vicino al cadavere giaceva una grossa mazza di ferro che
l'assassino aveva preso nella stalla dietro la casa. Fra l'ucciso e
l'uccisore doveva esservi stata una lotta tremenda, perchè il
pavimento e i muri erano tutti insanguinati; persino lungo le scale
c'erano delle chiazze rosse.

E non si seppe mai nulla. Quella notte dormivano nel palazzo due figli
del banchiere, uno al quarto, l'altro al terzo piano. Al secondo
trovavasi il padre e al primo stava una vecchia portinaia. Tutti
dichiararono di non aver udito alcun rumore. Solo un medico dimorante
nella casa accanto depose di aver sentito del baccano nella stalla. I
più abili _detectives_ non riuscirono a scoprire la minima traccia
degli assassini.

Ma il treno procede rapido e senza rumore: le case si succedono alle
case, le strade alle strade. A poco a poco i fabbricati diventano più
rari; però le aree sono carissime egualmente. La grande massa scura
che si stende a destra è il Central Park.

Ci troviamo nella vasta zona, fra il parco e il fiume Hudson, fra la
62^a e la 110^a strada.

--Facciamo un conticino--disse Giorgio.--Questi 192 _blocks_ di 64
lotti di terreno cadauno formano 12288 lotti, i quali, al valore medio
di seimila dollari per ciascuno, rappresentano la somma di quasi 74
milioni di dollari. Più avanti, dalla 110^a alla 155^a strada, dalla
quinta Avenue al fiume, vi sono 45 strade e 315 _blocks_: un capitale
di più di 141 milioni di dollari. E al disopra della 155^a strada si
trovano altri 414 _blocks_ stimati 13 milioni e mezzo di dollari.
Giacciono qua, dunque, più di 228 milioni di dollari di capitali
morti: terreno sassoso e desolato che gli speculatori vendono, man
mano che la popolazione aumenta, ai ricchi, i quali vi costruiscono i
loro palazzi.

--E intanto--osservavo io--mentre qui c'è tanta aria pura e tanto
spazio libero, nella città bassa migliaia e migliaia di famiglie
languono negli oscuri e malsani _tenement houses_.

Appunto la settimana prima l'Assemblyman Oakley aveva fatto un
rapporto alla Commissione sanitaria di New-York intorno a certe case
di Mulberry Street occupate da un numero di italiani molto superiore a
quello che possono contenere. La relazione concludeva così:--In molti
appartamenti delle case summenzionate gli abitanti vennero trovati che
dormivano sul pavimento, a mucchi, senza letti.--

La zona di terreno di cui mi parlava Giorgio è tutta dentro nell'isola
su cui sorge New-York; ve n'ha un'estensione altrettanto vasta al di
là di Harlem e l'enorme capitale infruttifero raddoppia di valore ogni
dieci anni.

In pochi lustri tutta quella terra sarà coperta di case: quell'anno
stesso le fabbriche sorgevano come funghi. Da Battery ad Harlem
l'isola di Manhattan sarà zeppa di edifizi, intersecata da nuove
ferrovie, e non basterà a contenere la massa della popolazione che
aumenta di giorno in giorno.

Quando si è giunti al cimitero della Trinità si sono percorse le nove
miglia della ferrovia alta. A pochi passi scorrono le acque tranquille
dell'Hudson: quale contrasto fra la calma che regna lassù e il baccano
della metropoli che si stende abbasso!

Scendemmo dalla stazione: facendo una passeggiata in quei recessi
silenziosi, Giorgio descriveva lo sviluppo meraviglioso di New-York in
questo secolo. Ottant'anni fa la città non contava settantamila
abitanti; oggi ne ha più di un milione e mezzo nei soli limiti del
Municipio; coi sobborghi e con le città che le fanno corona e dalle
quali non è separata che da pochi minuti di _Steam-boats_, è più
popolata della stessa Londra.

E pensare che solo al principio del secolo venivano selciate Broadway,
Duane e Reade Streets e che si doveva scavare un fosso lungo il
percorso attuale di Canal Street per raccogliere gli scoli dei prati
di Lispenard!

Facendo la nostra gita passammo davanti ad una trattoria dove un certo
W. S. Walcott di Harlem aveva scommesso di mangiare ogni giorno per un
mese un paio di quaglie arrosto.

Simili scommesse sono comuni negli Stati-Uniti e vengono spesso
organizzate da proprietari di alberghi e di _restaurants_ per chiamar
gente: poi servono a un certo pubblico per scommettere pro o contro
come alle corse dei cavalli.

I mangiatori straordinari, possessori di stomachi da struzzo,
diventano celebri nell'America del Nord e fanno parlar molto di sè
quando si misurano con avversari della medesima forza.

Uno dei più conosciuti era un certo Peter Ellison di Albany, un
robustissimo vecchio che, per una scommessa, il giorno in cui compiva
sessant'anni, mangiò, in un solo pasto e nel tempo che si impiega
usualmente per pranzare, un tacchino ripieno che pesava quasi ventidue
libbre inglesi.

Qualche tempo prima, uno _sportsman_ offrì di scommettere contro il
senatore John Morrissey, gran mangiatore anche lui, che avrebbe
trovato un uomo capace di mangiare un tacchino di ventitrè libbre in
un pasto solo. Prima di accettare la scommessa, Morrissey volle sapere
il nome del mangiatore e quando intese che era Ellison:--Lo
conosco--rispose, e non volle scommettere.

In quell'epoca una gran gara aveva avuto luogo fra Ellison e un altro
potente divoratore all'albergo Snedicker nel Long Island. Si trattava
di mangiare polli giovani cotti alla graticola. Ogni pollo veniva
spaccato a mezzo con grande precisione e l'albergatore ne dava, di
mano in mano, una metà ad ognuno dei due scommettitori. Ellison ne
mangiò trentadue metà, cioè sedici pollastri, e vinse.

Qualche volta le scommesse hanno luogo fra donne. Due negre si
sfidarono un giorno a chi mangiava la maggior quantità di granturco
verde bollito. Una ne mangiò ventisei pannocchie e l'altra ventinove.
Quest'ultima non soffrì minimamente; ma la prima morì in trentasei
ore.

--Se continua questa volgare e antigienica mania--disse Giorgio--ne
sentiremo presto delle belle. Leggeremo nei giornali: «il celebre
dinamitardo O'Donovan Rossa ha depositato cinquanta _cents_
nell'ufficio del _Clipper_ con una sfida, aperta a tutti, di misurarsi
con lui nella sua grande specialità di mangiare mille pagnottelle in
mille quarti d'ora consecutivi.»

--Oppure--disse la signorina Mary che si divertiva a quei discorsi--il
seguente: «Un _gentleman_ dimorante a Brooklyn ha vinto ieri una forte
scommessa mangiando tre solini di carta al giorno per cento e sette
giorni consecutivi. L'unica bevanda accordatagli dai termini della
scommessa per inaffiare il suo pasto piuttosto asciutto era amido
diluito in poca acqua.»

--Uno sconosciuto--riprese Giorgio--scommette di mangiare un paio di
tavolette di lievito compresso, bevendo acqua tepida, per trenta
giorni consecutivi. Accetta di sottomettersi alla prova accanto ad una
stufa ben riscaldata.

--Un tristissimo caso d'insuccesso--seguitò Mary.--Il signor Smith,
avventore della pensione di Mrs. Lodyett, ha scommesso recentemente di
mangiare in una settimana una delle bistecche che fornisce quella
pensione. Il tentativo è fallito completamente, quantunque il signor
Smith abbia impiegato della dinamite e una leva di ferro.



VI.

La città della luce.


Alla domenica mattina non c'è famiglia americana che non si rechi a
messa se è cattolica o al sermone se è protestante. Le chiese di tutte
le varietà del protestantismo, che è la religione dominante, sono
numerose, e alcune di esse si fanno la concorrenza come i teatri,
scritturando i migliori oratori.

I pochi che non professano alcun culto sono ascritti a qualche
associazione filantropica e si raccolgono egualmente per curare
qualche opera di beneficenza: scuole, ricoveri e via dicendo.

La signorina Mary apparteneva alla _Ethical Culture Society_, di cui è
presidente il prof. Felice Adler, uno dei più profondi pensatori degli
Stati Uniti, il quale tutti gli inverni tiene a New-York un pubblico
corso di conferenze sul libero pensiero.

Figlio di un celebre e ricco rabbino newyorkese, dopo avere molto
studiato e viaggiato, Adler divenne ateo, abbandonò la religione dei
suoi avi, rinunziò alla successione paterna e fondò un'associazione
che cresce tutti i giorni, per diffondere le sue idee, per spiegare,
cioè, come si possa essere buoni cittadini senza credere in un dio
personale, come si debba lavorare ed essere onesti per l'obbligo che
incombe a ciascheduno di adempiere ai propri doveri nella società, e
per l'onestà per sè stessa, non per timore di essere puniti in
un'altra vita o per guadagnarsi gli ozi beati di un paradiso.

Bob Ingersoll (altro campione del libero pensiero negli Stati Uniti)
combatte la religione col motteggio e con la satira, analizzando tutti
gli errori e le contraddizioni delle cosidette sacre scritture; egli
riscatta gl'ingenui dalla schiavitù della fede con la sferza del
ridicolo.

Adler, invece, serio, semplice, sereno e più profondo, converte al
libero pensiero senza far ridere; egli fa anzi fremere d'ira e di
compassione per tutti i miliardi d'uomini che furono e per i milioni
di viventi che calcolano la vita come un semplice viaggio, fanno del
bene per egoismo, per interesse, per amore della futura ricompensa, e
si astengono dal male per paura della collera divina.

Bob Ingersoll qualche volta è volgare; i suoi giuochi di parole, i
suoi scherzi su certi versetti della Bibbia non sono di buon gusto.

Felix Adler, al contrario, è spesso poeta: quando dimostra come sono
egoisti i credenti e chiede se è più nobile, più generoso, l'uomo ateo
intemerato e buono, o il credente pure buono e senza macchia, ma
guidato nelle proprie azioni dal sentimento religioso, la sua fronte
s'illumina, la sua parola è ispirata.

E convince e persuade più di Ingersoll: la serietà di Adler fa più
impressione del sorriso volterriano dell'avvocato delle Star Routes.

Una domenica in cui accompagnavo la signorina Mary alla conferenza, il
professor Adler si occupava di un fatto avvenuto nella Pensilvania. In
un tribunale di Filadelfia, un onesto cittadino era stato citato,
giorni prima, come testimonio, in una causa. Invitato a prestare il
giuramento prescritto dalla legge, rispose:

--Giuro sul mio onore, sulla mia coscienza, ma non in nome di un dio
personale nel quale io non credo.

Il tribunale rifiutò la testimonianza del libero pensatore e lo fece
uscire dalla sala.

--Capite?--esclamò Adler indignato.--Le leggi americane non accettano
la testimonianza nostra, se non pronunciamo una formula medioevale. La
maggioranza dei cittadini che crede a un dio foggiato a sua imagine,
rifiuta il giuramento di noi liberi pensatori, i quali riconosciamo un
ordine supremo, ma non la deità personificata.

La sala del Chickering-Hall era piena zeppa di un pubblico scelto e
attentissimo.

--E poi si ha il coraggio di affermare--continuò l'oratore--che negli
Stati Uniti tutte le credenze e tutte le religioni sono eguali davanti
alla legge? No, no, no! Questa vantata eguaglianza non è estesa che
alle religioni cristiane: il presbiteriano è eguale al cattolico,
l'anabattista all'episcopale. Ma un ebreo, un libero pensatore, un
maomettano non è riconosciuto eguale al cristiano. Che vergogna per la
giurisprudenza americana! Che onta per un governo sedicente civile!
Quando si comprenderà che un governo non deve immischiarsi delle
coscienze dei cittadini, che deve essere al di sopra di tutte le
religioni, di tutte le credenze religiose e irreligiose? Non vedete
che oggi, in pieno secolo decimonono, ciascuna religione è
intollerante, esclusivista, e distruggerebbe tutte le altre, se lo
potesse? Non vedete che si sgozzano, si massacrano ancora gli ebrei e
si costringono a esiliare, a fuggire dai luoghi nativi, ad abbandonare
i loro beni, i loro negozi?

E combattè fieramente il pregiudizio da cui sono ispirate tante leggi,
che cioè la moralità dipenda dal cristianesimo.

--Noi non avremo--disse--una libera costituzione finchè si manterranno
nelle nostre leggi elementi di inquisizione.

Infatti, l'intollerante spirito del prete traspira sempre dalle
costituzioni americane.

In sei Stati dell'Unione tutti coloro che non credono nell'esistenza
di un dio personificato sono dichiarati ineleggibili a qualsiasi
impiego e vengono così privati di uno dei diritti essenziali del
cittadino.

La costituzione della Carolina del Nord dice:--Le seguenti classi di
persone sono dichiarate inabili a qualunque impiego: Primo, tutti
coloro che negano l'esistenza di Dio onnipotente....--

La costituzione della Carolina del Sud dice:--Nessuna persona che nega
l'esistenza dell'Essere Supremo potrà avere un pubblico impiego sotto
questi statuti.--

Le costituzioni del Mississipì e del Maryland contengono gli stessi
articoli. Gli statuti di Pensilvania e del Tennessee non si contentano
della semplice credenza in un dio personificato, ma richiedono anche
che si creda in una ricompensa o in un castigo oltre tomba. Tutti
coloro che professano opinioni differenti sono legalmente incapaci di
coprire qualsiasi impiego.

Non basta: senza una dichiarazione di fede in un divino capo di
polizia che ricompensa i buoni e punisce i malvagi in questa o
nell'altra vita, la deposizione di un testimonio non può ritenersi
come attendibile.

Solo una metà degli Stati--e New-York è nel numero--ha adottato nella
costituzione la clausola di escludere l'incompetenza per mancanza di
credenza religiosa. È permesso tuttavia di far sorgere la questione
del credo di un testimonio, allo scopo di pregiudicarne la
deposizione.

Chiunque sia membro di associazioni di liberi pensatori o abbia
semplicemente espresso opinioni avanzate in fatto di religione, può
trovarsi ogni giorno esposto alla mortificazione di sentire queste
opinioni citate in una corte di giustizia, col solo scopo di denigrare
il suo carattere e d'invalidare la sua testimonianza di fronte a un
giurì che spesso è composto di ignoranti.

--Nell'udire queste cose--diceva Adler--il nostro primo impulso è di
domandare se, nelle leggi di una repubblica della quale Thomas Paine
fu uno dei fondatori e la cui dichiarazione d'indipendenza fu firmata
da Thomas Jefferson, può essere possibile una tale flagrante
violazione dei principi di eguaglianza e di libertà religiosa.

L'unica scusa per gli americani è che tali leggi non sono state fatte
da loro, ma conservate dai loro avi quali esistevano quando le Colonie
si separarono dall'Inghilterra e quando il cristianesimo era inteso
come facente parte del diritto comune.--Il cristianesimo--diceva lord
Hale--è una parte della legge d'Inghilterra, e il parlar contro la
religione cristiana è un discorrere sovversivo alla legge.--

--E così--esclamava Adler--questo è rimasto un paese puramente
cristiano, e noi non siamo che poveri intrusi a cui la cittadinanza è
accordata per un favore, non per un diritto.

Stefano Girard aveva espressamente stabilito nel suo testamento che
nessun prete, ministro o missionario di qualsiasi setta fosse ammesso
ad un impiego qualunque nella famosa istituzione da lui fondata, e che
a tali persone non venisse accordato l'ingresso nella casa neppure
come semplici spettatori. Egli voleva che gli alunni fossero allevati
unicamente coi principi della moralità e dell'onestà e che solo
fattisi adulti scegliessero il culto religioso che più loro conveniva.

Ebbene, Daniele Webster, il grande, il celebrato oratore,
nell'impugnare il testamento, giunse perfino a dire che la carità di
Girard, tendente a diminuire il rispetto dell'umanità verso il
cristianesimo, non era affatto carità.

Un altro bel discorso che sentii da Adler era contro la preghiera.
Dopo averne analizzato diligentemente le forme diverse, egli diceva:

--Vi sono molte forme di preghiera, ma in generale la preghiera è una
petizione con cui il credente chiede qualche cosa al suo dio. La
stessa parola _preghiera_ in tutte le lingue significa chiedere
umilmente qualche cosa, supplicare, mendicare. Come! L'uomo sano,
intelligente, che col proprio lavoro mantiene sè e la famiglia e si
rende utile alla società, è obbligato a inginocchiarsi davanti al dio
per chiedergli egoisticamente un aumento di guadagno, una stagione
propizia e via dicendo? E a questo dio onnisciente, che tutto vede e
di tutto è informato, il fedele deve specificare la domanda, fare una
lunga e minuziosa storia dei propri bisogni? E perchè? Perchè, vi
rispondono, l'uomo non è che una creatura, venuta alla luce del sole a
propria insaputa e senza averlo chiesto, ma che deve essere
riconoscente al Creatore d'averla messa al mondo, anche quando è
miserabile, storpia, stupida, piena di difetti fisici e morali. Per il
credente non vi deve essere carattere, dignità personale, fiducia
nelle proprie forze: no, tutto dipende dal capriccio di quel padrone
che gli ha fatto il regalo dell'esistenza.--

Adler ha espresso la sua fede nel progresso e nel miglioramento della
razza umana in una poesia intitolata: _La città della luce (The city
of light)_, che anche nel testo inglese, sebbene i versi siano belli e
semplicissimi, ha una nebulosità che risalta maggiormente nella prosa
povera e nuda della traduzione. Ma l'autore ha usato forse a bella
posta il linguaggio mistico e figurato che meglio colpisce la mente
delle masse.

Ecco la traduzione letterale:

«Udiste mai parlare della città d'oro menzionata nelle antiche
leggende? Eterna luce risplende sopra di essa e si narrano di essa
storie meravigliose.

«Solo uomini e donne giusti abitano entro le sue mura lucenti: il male
è bandito da' suoi confini; la giustizia vi regna suprema su di tutti.

«Se voi domandate dov'è questa città in cui regna la perfetta
giustizia, io devo rispondervi che cercate invano dov'essa sorge.

«Potete vagare per monti e per valli, attraversare il mare e la terra,
cercar per tutto il vasto mondo; è quella una città che ha ancora da
nascere.

«Noi siamo i costruttori di questa città; tutte le nostre gioie e
tutti i nostri dolori contribuiscono ad innalzare le sue mura
risplendenti: tutte le nostre vite sono le pietre che la compongono.

«I più non possono fare che gli umili servizi, spaccar rozze pietre e
scavare il suolo; mentre pochi solamente raccolgono gloria e onore dal
loro lavoro.

«Mentre pochi possono edificare gli archi, le graziose e artistiche
colonne e realizzare un pensiero grande e una ideale bellezza in quel
luogo.

«Ma umili o superiori, tutti sono chiamati a un còmpito grandioso,
tutti aiutano a condurre a termine un sublime disegno.

«Quale sia questo piano noi non lo sappiamo; noi non sappiamo quanto
sia alto il seggio della giustizia, come codesta città delle nostre
visioni apparirà all'occhio umano.

«Nessuna mente può figurarsi ciò, nessuna lingua può dirlo; noi
possiamo soltanto intuire le glorie della città del futuro.

«Solo per essa noi dobbiamo sempre lavorare, per essa sopportare pene
e dolori, in essa trovare il fine dell'esistenza nostra.

«Pochi e brevi anni noi lavoriamo; presto finiscono i nostri giorni,
altri lavoratori ci sostituiscono e il nostro posto non si riconosce
più.

«Ma l'opera che noi abbiamo edificata, spesso con mani insanguinate,
con lagrime, con confusione e angoscia, non perirà col termine de'
nostri anni.

«Essa sarà, alla fine, resa perfetta; essa coronerà gli sforzi delle
legioni d'uomini lavoratori.

«Essa sarà compiuta e brillerà trasformata nel regno finale della
giustizia; essa emergerà fra lo splendore della Città della Luce.»

Dopo quella fondata da Adler, la più importante società nord-americana
di liberi pensatori è la _Freethinkers' Association_ (Associazione dei
liberi pensatori). Eccone la _platform_:

«Noi domandiamo che le chiese e le altre proprietà ecclesiastiche non
restino più a lungo esenti dalle tasse.

«Noi domandiamo che gli impieghi di cappellani nel Congresso, nelle
legislature degli Stati, nella marina, nell'esercito, nelle prigioni,
negli asili e in tutte le altre istituzioni mantenute col pubblico
denaro, vengano aboliti.

«Noi domandiamo che cessi ogni stanziamento di danaro pubblico per
qualsiasi istituzione di educazione e di carità di carattere
religioso.

«Noi domandiamo che ogni servizio religioso ora sostenuto dal Governo
venga soppresso, e specialmente che l'uso della Bibbia nelle scuole
pubbliche, sia come libro di testo, sia come trattato religioso, sia
proibito.

«Noi domandiamo che cessi completamente il diritto, sia nel presidente
degli Stati Uniti, sia nei governatori dei differenti Stati, di
fissare giorni dedicati a pubbliche feste religiose o digiuni.

«Noi domandiamo che il giuramento nei tribunali e dovunque venga
abolito e che vi sia sostituita la semplice affermazione, sottoposta,
in caso di riconosciuta falsità, alle stesse penalità dello spergiuro.

«Noi domandiamo che vengano abrogate tutte le leggi tendenti,
direttamente o indirettamente, a imporre l'osservanza della domenica.

«Noi domandiamo che tutte le leggi che tendono a imporre la moralità
cristiana siano abolite, e che esse vengano rifatte sui principi della
morale naturale, dei diritti eguali e della libertà comune.

«Noi domandiamo che non venga concesso alcun vantaggio o privilegio
alla religione cristiana nè ad altra qualsiasi; che il nostro intero
sistema politico sia basato su di un principio puramente civile, e che
qualunque modificazione alle nostre convenzioni trovata necessaria per
raggiungere questo scopo venga eseguita in modo pronto ed efficace.»

La _Freethinkers' Association_ tiene ogni anno un gran congresso in
una sala, intorno alla quale si leggono le seguenti iscrizioni:

--Il Governo degli Stati Uniti non è basato sulla religione
cristiana.--_Giorgio Washington_.

--Questo mondo è la mia patria; far bene, la mia religione.--_Tommaso
Paine_.

--Datemi le tempeste del pensiero e dell'azione piuttosto che la morta
calma dell'ignoranza e della fede.--_Roberto Ingersoll_.

--In ogni paese e in ogni età il prete fu ostile alla
libertà.--_Tommaso Jefferson_.



VII.

La guerra ai mormoni.


L'intolleranza delle varie religioni cristiane si manifesta negli
Stati Uniti anche nella guerra continua ai mormoni. Ogni nuovo
presidente finisce generalmente il suo primo discorso col promettere
che cercherà di combattere e di distruggere la poligamia nell'Utah.

Per realizzare questo progetto bisognerebbe sopprimere l'autonomia del
territorio dei mormoni e sostituirvi il Governo federale. E con quale
diritto può il potere esecutivo di Washington imporre le sue leggi in
un paese che non è uno Stato dell'Unione?

--Per la morale--si risponde--perchè la poligamia è una barbarie, un
insulto alla civiltà dei popoli vicini.

Ma bisogna ricordarsi che i mormoni non abitano con le loro famiglie
nelle città americane e non vanno in giro a sfoggiare i loro _harems_:
risiedono nel paese che essi soli hanno coltivato, popolato e reso
ricco.

La pluralità dei loro matrimoni offende il popolo degli Stati Uniti?
Non è vero, come non è vero che le nazioni cristiane del vecchio
continente si siano mai sognate di offendersi della poligamia dei
Turchi.

Un amico che tornava a New-York, dopo aver visitato il paese dei
mormoni, mi confessava:

--Io ti dico in confidenza che in fondo in fondo codesti bravi mormoni
sono da invidiarsi. Essi hanno realizzato un sogno classico. Quando
sono ricchi, diventano nelle loro case altrettanti patriarchi,
circondati da donne e da fanciulli. Li credo più franchi e onesti di
noi che giuriamo fede a una donna sola e poi rompiamo il giuramento
nostro, non curandoci che di salvare le apparenze. Nell'Utah c'è meno
ipocrisia. Laggiù non trovi donne pubbliche nè fanciulli abbandonati,
ma lavoro e armonia.

E infatti, esaminandola da un certo lato, non è antipatica questa
gente che si separò volontariamente dal consorzio umano e che, guidata
da un nuovo Mosè, lasciò i paesi nativi per andarsene in mezzo ai
deserti a vivere indipendente, secondo i dogmi della sua religione.

Brigham Young ha detto al mondo cristiano:--Io sfido che mi si provi
con la Bibbia che non ho diritto di prendere quante spose mi garbano:
Salomone ha ben avuto mille mogli!--

A parte le idee bibliche che risveglia lo spettacolo della tribù dei
mormoni, tranquilla e laboriosa, la quale non domanda che di essere
lasciata in pace in mezzo alle sue praterie e alle sue montagne, è
evidente che--ammesso pure nel Governo federale degli Stati Uniti il
diritto di tentar di distruggere la poligamia nel territorio
dell'Utah--non è con la violenza che si riuscirà nell'intento.

Furono appunto il martirio del profeta e le persecuzioni contro i suoi
seguaci che consolidarono la Chiesa detta dei Santi. Molti
ricorderanno i disordini avvenuti nel 1871, quando il generale
Grant--come un dì Napoleone I con Pio VII--fece mettere in prigione il
papa e gli apostoli del mormonismo, i quali non volevano saperne di
abrogare l'istituzione, che è una delle pietre angolari della loro
religione.

E poi i mormoni sono calunniati. Generalmente vendono creduti una
razza lussuriosa, mentre invece chi li visita a casa loro dice di non
aver mai veduto un popolo più serio e di costumi più semplici: i
mormoni praticano la poligamia senza scandali e senza tener le donne a
guisa di tante schiave, come avviene presso i musulmani.

Nessuno di essi prende due mogli se non ha i mezzi di mantenerle
agiatamente (molti non ne hanno neppur una) e non avvengono mai, fra
loro, divorzi. Si contano sulle dita le mogli di mormoni che
abbandonano il marito e il paese. Spesso è la prima moglie che indica
al consorte una brava ragazza e lo consiglia di sposarla, per essere
aiutata nel disbrigo delle faccende domestiche.

La fede compie il miracolo di distruggere fra i mormoni la gelosia: le
donne cresciute nell'Utah credono di piacere a Dio col vivere
d'accordo fra loro e sottomesse al loro capo.

Per colpire la poligamia si approvò a Washington una legge in forza
della quale tutti coloro che vivono o hanno vissuto in relazioni
maritali con più di una donna perdono i diritti elettorali. Si voleva
con ciò far decadere dai loro diritti i mormoni e mettere il
meccanismo governativo del territorio in mano della piccola minoranza
dei gentili (così i mormoni chiamano i dissidenti dell'Utah).

Per la migliore esecuzione della legge si mandarono sul luogo dei
commissarii incaricati di far prestare a tutti i mormoni, prima di
ammetterli a votare, il giuramento che non erano poligami. Questa
misura ebbe per conseguenza di tener lontani dalle urne migliaia di
cittadini, ma non si ottenne l'effetto desiderato, poichè fino dal
primo esperimento tutti i candidati mormoni riuscirono trionfalmente
coi voti dei mormoni che hanno una sola moglie.

I mormoni trovarono poi degli alleati anche fra i liberali non
appartenenti alla loro religione nel sostenere che la legge è ingiusta
e che l'esigere un giuramento da chi si accosta alle urne è
anticostituzionale.

I mormoni o i _Santi degli ultimi giorni_, come essi si chiamano, sono
adesso circa 160 mila e aumentano continuamente. Quasi tutte le
settimane sbarca nei porti della costa atlantica qualche carovana di
neofiti, guidata da un missionario, che va diritta a stabilirsi
nell'Utah.

La maggior parte dei neofiti provengono dalla Svezia, dalla Norvegia,
dalla Danimarca, dalla Scozia e dall'Inghilterra. Viaggiando lungo la
linea del Pacifico se ne incontrano spesso dei vagoni pieni.

Io ne vidi arrivare a New-York, parecchie volte. Erano vigorosi
contadini e robusti operai che avevano l'aria di recarsi al Lago
Salato per isfruttare quelle vergini terre e darsi all'industria e al
commercio allo scopo di procurarsi una buona posizione, non già per
diventare tanti piccoli pascià e possedere una casa piena di donne e
di marmocchi.

Infatti, la maggior parte degli emigranti mormoni sono maritati e si
può star sicuri che le mogli e le madri di famiglia non si
deciderebbero al gran viaggio se non fossero persuase che ai loro
mariti non frulla in capo l'idea di prender in casa altre donne, come
permette la nuova religione.

La giovane sposa di un neofita, interrogata sulle cause che l'avevano
decisa a emigrare nell'Utah, rispose che la ragione per cui s'era
potuta risolvere a cambiar religione stava nella certezza di
migliorare la sua posizione.

--E non temete--le fu chiesto--che a vostro marito salti poi il
ticchio di prendere un'altra moglie?

--Lo vorrei un po' vedere--esclamò la giovane sgranando tanto d'occhi.

I convertiti che arrivano già ammogliati nell'Utah, non possono
pigliare altre donne senza un certificato del presidente della chiesa
che attesti la bontà della loro condotta e della loro riputazione e
dichiari inoltre che essi sono in grado di mantenere una seconda o una
terza moglie e i figli che ne potrebbero venire.

Un missionario, certo signor King, mi diceva che non c'è paese oggi
più favorevole dell'Inghilterra pel mormonismo. Di cento missionari
che lavorano per la propagazione della fede in Europa, più di quaranta
si trovano in Inghilterra. In Irlanda non c'è nulla da fare: sarebbe
anzi pericoloso predicare colà la nuova religione.

Il fondatore della setta è stato com'è noto il _profeta_ Giuseppe
Smith, figlio di un povero fittaiuolo, nato nel 1805 nello Stato di
New-York, il quale nel 1827 annunziò che un angelo gli aveva rivelato
le nuove tavole della legge, e battezzò per immersione i suoi primi
discepoli, che in numero di sei furono i suoi apostoli.

Nel 1830 la «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell'ultimo giorno» era
definitivamente costituita: aveva insieme del giudaismo, del
maomettanismo e del protestantesimo, il tutto mescolato a pratiche più
o meno barocche e a credenze più o meno misteriose, raccolte in un
libro. La propaganda cominciò subito attivamente e i neofiti,
trasformati in coloni, costituirono nell'Ohio e nel Missouri negozi,
fattorie e mulini.

La prosperità della nuova chiesa le suscitò contro un mondo di
invidiosi e di nemici. Una notte il profeta Smith fu sacrilegamente
strappato dal suo letto, incatramato, impiumato (supplizio che per
molti anni fu una specialità del popolaccio americano) e crudelmente
percosso. Si tentò anche di fargli inghiottire dell'acqua ragia. E da
allora in poi le persecuzioni non ebbero più tregua. Gli stabilimenti
dei mormoni furono in gran parte saccheggiati e distrutti.

Ma i santi non si scoraggiarono. Nel 1837 sette missionari, partiti
dagli Stati Uniti senza un soldo in tasca, viaggiando alla ventura
come una volta gli apostoli di Cristo, predicarono per la prima volta
il nuovo vangelo in Inghilterra e fecero ben presto un migliaio di
aderenti.

L'anno seguente, temendosi la loro ingerenza vittoriosa nelle elezioni
del Missouri, i mormoni furono in gran numero trucidati; gli altri,
cacciati e spogliati dei loro beni, andarono a fondare Nauvoo,
nell'Illinois. Questa città diventò in breve importante, ma neppure là
cessarono le persecuzioni e nel 1844 Giuseppe Smith fu arrestato e poi
ucciso nella prigione insieme con suo fratello.

Due anni dopo, guidati da Brigham Young, il successore di Smith, i
mormoni erano costretti ad abbandonare anche l'Illinois, per andar a
cercare un po' di pace nelle solitudini dell'Utah, sulle rive del Gran
Lago Salato.

Il memorabile esodo cominciò nella primavera del 1847. Nuovo Mosè,
Brigham Young partì coi suoi pionieri per il Far-West. Dovettero
lottare spesso cogli indiani. Le donne, i fanciulli e i vecchi
duravano fatica a tirar innanzi. Parecchi rimasero per istrada,
estenuati, morenti. Mancavano di bestie da tiro, di carri. Alcuni
infermi furono trascinati su carretti a mano, lungo tutta la strada.

In causa dell'inverno precoce e terribile, la traversata delle
Montagne Rocciose fu una vera rotta, come una ritirata di Russia.

Già strada facendo erano mancate l'acqua e l'erba pel bestiame. Quanti
mormoni caddero nella neve per non rialzarsi più! Finalmente, dopo
parecchi mesi di stenti e di fatiche inenarrabili, Brigham Young e i
suoi scorsero, dall'alto delle montagne, il Lago Salato, e, nella
pianura, un ruscelletto che si gettava nel lago. Erano il Mar Morto e
il Giordano del nuovo popolo di Dio: così furono battezzati dai
mormoni che si chiamarono essi stessi i Santi dell'ultimo giorno. Lì
presso risolvettero di gettare le fondamenta della nuova Sion.

--Condotti--dice Brigham Young;--dall'Onnipotente, perchè nessuno di
noi conosceva il paese, noi arrivammo il 24 luglio al Lago Salato,
dopo aver percorso quattrocento miglia d'un sentiero da cacciatori, e
aperta una nuova strada sopra seicento cinquanta miglia. Il paese non
produceva che delle erbe sottili, alte appena quattro o cinque
pollici, e il suolo era coperto da miriadi di cavallette, che
servivano di nutrimento agli indiani.

Durante l'autunno del 1847 arrivarono settecento carri pieni di
emigranti, con tutte le loro famiglie. Brigham Young ripartì per
cercare gli altri, che giunsero l'inverno seguente su mille carri.

All'arrivo, altri fastidi aspettavano gli emigranti. Le cavallette
avevano divorato la raccolta e si erano talmente moltiplicate, che
l'Altissimo--dice Brigham Young--«dovette mandare una nuvola d'uccelli
per mangiarle, senza di che le cavallette non avrebbero lasciato un
filo di verde.» Si potrebbe--osserva uno storico--domandare a Brigham
se Dio, che si prende tanta cura dei mormoni, in luogo di mandare gli
uccelli per divorare le cavallette, non avrebbe fatto meglio non
mandando le cavallette stesse!...

I mormoni non piantarono gli alberi fruttiferi e i cereali soltanto
nei dintorni della città del Lago Salato e lungo il Giordano. In tutte
le valli irrigate, al nord e al sud del territorio, dovunque la terra
può ricevere sementi e farla fruttificare, il colono andò, e la
fertilità del suolo ricompensò ben presto i suoi sforzi. Nel sud
dell'Utah si piantò il cotone, il gelso, e si stabilirono manifatture
per filare; nel centro si seminò la canapa, il lino e si premettero i
semi per estrarne l'olio. Sulla maggior parte dei corsi d'acqua si
stabilirono segherie di legnami, mulini di farina. Sopra altre parti
più aride si allevarono pecore, la cui lana fu tessuta. Tutti gli
apostoli si arricchirono in queste operazioni agricole e industriali.

Dal 1848 in poi i mormoni non cessarono di prosperare. Il territorio
di Utah fu costituito nel 1851, e Brigham Young venne riconosciuto
governatore con un atto del governo federale.

Appena la popolazione oltrepassò i trentamila abitanti, il territorio
avrebbe dovuto essere ricevuto come Stato nella federazione degli
Stati Uniti ed esercitare il diritto di mandare a Washington due
senatori e un numero di congressisti proporzionato ai suoi abitanti.

Ma, per la questione della poligamia, l'Utah è ancora un semplice
territorio.

Per finire. Si attribuisce a Brigham Young un ragionamento molto
curioso per difendere la pluralità delle mogli.

--O il matrimonio è buono, o è cattivo. Ora esso è buono, dal momento
che tutti si ammogliano; e siccome delle cose buone è utile essere
bene provveduti, così è saggio colui che prende più di una moglie.

San Paolo non era dello stesso parere.

Se piglierete moglie--diceva--farete bene e se non la piglierete
farete meglio.



VIII.

La distruzione delle Pelli Rosse.


Non parliamo poi del modo disumano con cui gli americani del Nord
vanno distruggendo gli ultimi indiani.

Dopo averli confinati in certe zone di terreno chiamate _reservations_
violano i patti; i soldati fanno invasioni continue e si abbandonano
alla caccia del bisonte e degli altri animali, per il solo piacere di
distruggerli, mentre formano l'unico nutrimento del Pelle Rossa; gli
impiegati, poi, rubano quasi tutti i doni e le merci inviate dal
Governo agli indiani.

Le insurrezioni delle Pelli Rosse non sono causate che dalle
violazioni dei confini delle loro riserve per opera dei bianchi.
Vedendosi molestati nelle proprie sedi, gli indiani per vendicarsi
fanno qualche scorreria fuori dei loro confini; allora interviene la
truppa e succedono i combattimenti.

Poi vi sono i preti delle varie religioni che vanno a portare la
discordia fra i Pelli Rosse.

Interessantissime e piene di solennità riescono sempre le conferenze
in cui i capi delle tribù espongono i loro lagni ai rappresentanti del
Governo. In una tenuta a New-York nella gran sala del Cooper
Institute, un capo, chiamato Nube Rossa, diceva con voce lenta,
cadenzata, sonora, accompagnata da gesti pieni di nobiltà:

--Voi siete miei fratelli e amici venuti per sentirmi. Noi tutti siamo
opera del Grande Spirito. Voi non mi pagaste mai le terre che mi avete
prese. Il Grande Spirito vi ha fatti bianchi e ricchi: noi rossi e
poveri. Quande veniste la prima volta in questo paese, voi eravate
pochi e noi molti: oggi siamo noi i pochi. Io rappresento la razza
indigena, la prima che apparve su questo continente. Noi siamo buoni e
non cattivi; vi abbiamo dato le nostre terre. Conoscete qualcheduno
che sia venuto da noi e non sia stato ben trattato?

Nube Rossa si lagnava poi dei trattati violati dalle faccie pallide,
dei cattivi trattamenti inflitti dai coloni bianchi agli indiani che
vollero, secondo i loro consigli, coltivare la terra, e finalmente del
Gran Padre (il presidente della Repubblica) che è a Washington, che
promette sempre di rendere giustizia ai suoi fratelli rossi e non lo
fa mai.

Era la prima volta che Nube Rossa, un capo che disponeva di tremila
uomini, acconsentiva a trattare col governo. Fino allora alle
ambasciate speditegli dai commissari federali egli aveva risposto che
non si degnava d'incomodarsi per andar a vedere i suoi padri bianchi e
per firmare con essi il trattato di pace.

--Faceva freddo, non voleva mettersi in via e preferiva cacciare il
bisonte. A che pro questa visita alle faccie pallide che l'avevano
sempre ingannato e che fabbricavano dei forti sulle sue terre?

In un'altra seduta Nube Rossa diceva:

--Il Grande Spirito mi fece nudo, e nudo mi allevò... Ciò che voglio
dire a voi, a questi uomini e al mio Gran Padre, è questo: Guardatemi,
io era nato dove sorge il sole e ora vengo dal paese dove esso
tramonta. _(Nube Rossa vuol dire che la sua tribù occupava una volta
la riva sinistra dei Missouri e che i bianchi lo respinsero
all'estremo ovest, appiè delle Montagne Rocciose)_. Qual è il popolo
che primo fece sentir la sua voce su questo continente? È il popolo
rosso, che fa uso dell'arco. La nostra nazione si dilegua e sparisce
come la neve sul pendio delle montagne, quando il sole è caldo; invece
il vostro popolo è numeroso come i fili d'erba delle praterie
all'approssimarsi dell'estate... Guardate bene: quando me n'andrò, se
io sono macchiato di sangue; voi, voi avete inaffiato di sangue le
zolle delle grandi pianure sulla linea del forte Fettermann. Voi fate
passare delle strade di ferro attraverso al mio paese, e per la
superficie che esse occupano non ho ricevuto nemmeno il valore d'un
anello di rame. Voi fabbricate ogni sorta di munizioni; perchè non me
ne date? Avete paura che vi faccia la guerra? Voi siete molti e
potenti; noi non siamo che un pugno d'uomini. Non è per farvi la
guerra che voglio munizioni, è per cacciare. Vedo bene che dovrò
finire per coltivare la terra, ma per il momento ciò mi è impossibile.
Ho detto.

Gli indiani non vogliono sentir parlare di coltivar la terra.

--Noi vogliamo vivere come siamo stati allevati, cacciando gli animali
delle praterie. Non ci parlate dunque di riserve o di coltivazione
della terra!--diceva il gran capo dei Corvi, Piede Nero, ai commissari
adunati nel forte Laramie.

E aggiungeva:

--Lasciateci andare dove va il bisonte. Mandate i vostri agricoltori,
ma non in mezzo a noi. Il Corvo scorre traverso le praterie e caccia
l'antilope e il bufalo: esso non ama altro. Padre, guardate me e tutti
i Corvi; essi non hanno altra opinione che la mia.

Dente d'Orso, altro gran capo che aveva parlato prima di Piede Nero,
non era stato meno esplicito:

--Padri, voi mi dite di coltivare la terra e di allevare il bestiame;
io non voglio sentire di questi discorsi; sono stato allevato col
bisonte e lo amo. Fin dalla mia nascita ho appreso come i nostri capi
a esser forte, a levar la mia tenda quando è necessario e correre
traverso le praterie come mi pare e piace.

                              * * *

Vi sarebbe uno studio interessantissimo da fare sullo stile oratorio
di questa razza destinata a scomparire e sulle sue leggende, alcune
delle quali sembrano inventate da un Giacosa dei Pelli Rosse.

Eccone un saggio:

«Un capo degli Siù ha una bellissima figlia, la quale s'innamora un
giorno del figlio del capo di una tribù nemica.

«Una notte questo giovane rapisce la fanciulla, la porta in una
caverna, si sposano. Il vecchio capo Siù, appena viene informato del
ratto, monta su tutte le furie, insegue gli amanti, li sorprende e
ordina ai suoi guerrieri di gettare il giovane giù da un burrone, non
lasciandogli che il tempo necessario per intuonar un inno di morte.

«E appena il sole sparì dietro le grandi montagne dell'ovest, mentre
le prime stelle illuminavano il puro firmamento, dietro un segnale del
vecchio capo, quattro guerrieri s'impadronirono del giovane e lo
lanciarono nel burrone. In quell'istante, ratta come il baleno, la
fanciulla si scioglieva dalle braccia di suo padre e gridato per due
volte il nome dell'amante, spiccava un salto e spariva nello stesso
precipizio.»

Un'altra leggenda indiana, intitolata _Il laccio incantato_, dice
così:

«Un povero giovane che non aveva nè parenti nè amici e che si chiamava
Jena, ossia il vagabondo, errava solo soletto di foresta in foresta.
Egli avrebbe desiderato vivamente che una compagna fosse venuta a
consolare la sua vita; ma chi avrebbe voluto dividere la sorte di un
disgraziato il quale non possedeva altro che un vestito di pelli e un
laccio per prendere gli animali?

«Un giorno, partendo per la caccia, Jena sospese il suo laccio a un
albero per non avere il fastidio di portarlo.

«Tornando alla sera nello stesso sito, fu lietamente sorpreso di
trovare, al posto dove aveva lasciato il laccio, una piccola capanna
graziosissima nella quale era assisa una bella giovanetta ai cui piedi
stava il suo laccio da cacciatore.

«Quel giorno Jena portava, fortunatamente, un daino che gettò davanti
alla porta della capanna.

«Subito, senza dare neppure il benvenuto al cacciatore, la giovane
accorse per vedere se il daino ucciso era grasso, e nella sua fretta
fece un passo falso e cadde sul limitare della capanna.

«Jena la guardò con disgusto e pensò:

«--Io credevo di essere felice, ma vedo che mi sono ingannato. Tienti
pure il daino, o donna ingorda: te lo regalo!

«Quindi riprese il suo laccio, e dopo aver camminato per qualche
tempo, arrivò presso un altro albero dove sospese di nuovo il laccio;
e partì in cerca di selvaggina.

«Egli fu ancora fortunato, tornò con un daino e trovò che una capanna
si era innalzata accanto all'albero. Guardò dentro e vide una
magnifica ragazza che stava seduta in un angolo col suo laccio allato.

«Essa si alzò per esaminare il daino deposto sulla porta, mentre Jena,
stanco della sua caccia che l'aveva condotto molto lontano, entrò
nella capanna e si riposò accanto al fuoco.

«La giovane non tornava: Jena si domandava quale motivo poteva
trattenerla fuori; si alzò per guardare attraverso la porta, e la vide
intenta a mangiare avidamente tutto il grasso del daino.

«Allora esclamò:

«--Io speravo di essere felice, ma invece mi sono ingannato.

«Poi, rivolgendosi alla donna:

«--Povera faina--disse--non disturbatevi e divorate pure tutta la
cacciagione che ho portato.

«Prese nuovamente il suo laccio e se ne andò; poi, secondo il solito,
lo sospese a un albero prima di allontanarsi per cercare della
selvaggina. Tornò alla sera recando un superbo daino. Una capanna
aveva sostituito l'albero e attraverso una feritoia Jena scorse
un'altra incantevole giovinetta che accudiva al fuoco.

«Appena egli entrò, essa si alzò con aria gentile, gli diede il
benvenuto, e senza perdere tempo si mise a scuoiare il daino come si
deve, e ne sospese la carne per affumicarla. Quindi ne apparecchiò un
pezzo per il cacciatore che avea molta fame. Allora il nostro giovane
disse fra sè:

«--Adesso finalmente ho trovato la vera felicità.

«Ogni sera, quando suo marito ritornava dalla caccia, la buona sposa
lo accoglieva, con piacere, gli faceva trovare tutto in ordine, si
prendeva cura della cacciagione, preparava il desinare, e da allora in
poi Jena fu l'uomo più felice del mondo.»

Aveva trovato una moglie--serva ideale!

                              * * *

Qualche tribù indiana conserva l'uso di celebrare ogni anno certe
feste religiose con danze che sono spettacoli di fanatismo barbaro e
feroce e che l'autorità di Washington è riuscita a impedire quasi
completamente.

La festa principale solennizzata dagli Siù con scene di sangue è
quella del sole o del serpente. Ai bianchi che cercavano di
dissuaderlo dall'orribile costume, il vecchio Orso Veloce rispondeva:

--Voi avete avuto un Cristo che morì sulla croce per voi e ne menate
gran rumore. Noi facciamo quello che voi non osate fare: ci leghiamo
noi stessi sulla croce del nostro dio e soffriamo con lui: voi non
avreste il coraggio di fare altrettanto!

Ora però l'antica cerimonia ha perduto molto del rigore con cui veniva
osservata. Una volta i giovani guerrieri erano obbligati a prender
parte alla danza: ora vi intervengono solo coloro che devono
sciogliere un voto a Wkaortaorka, il Grande Spirito. Tali voti sono di
più maniere: un indiano si obbliga di ballare durante le danze del
sole o del serpente se guarisce un suo figlio, un amico, una persona
cara, oppure se ottiene un successo in qualche sua impresa, anche se
questa sia di un genere non ammesso dal codice penale.

Un araldo, vestito di pelli di bufalo, annunzia il giorno e il luogo
del trattenimento alle varie bande indiane. Il campo che viene
preparato è ordinariamente di cinque miglia di circonferenza: alla
festa accorrono da otto a dieci mila indiani. Davanti alla tenda, dove
i danzatori devono aspettare gli ordini per eseguire il loro
programma, giace un cranio di bufalo contornato da erbe selvatiche e
da altri emblemi strani e misteriosi.

Pochi giorni prima della festa un drappello di cavalieri va a cercare
un tronco conveniente da piantare nel centro del campo riservato al
ballo. Si sceglie di solito un olmo gigantesco, che viene tagliato da
una vergine indiana espressamente consacrata a quell'ufficio.

Appena il tronco è rizzato e adorno di fronzoli e nastri, ha luogo la
corsa del palo. Mille guerrieri a cavallo si precipitano in una corsa
vertiginosa giù pel ripido pendio di una vicina collina verso
l'albero, e siccome il terreno è reso artificialmente liscio e
sdrucciolevole, uomini e cavalli cadono in grande quantità,
fracassandosi le gambe e qualcheduno anche l'osso del collo, con
immensa soddisfazione del pubblico.

All'ultima gran festa del sole celebratasi vicino all'Agenzia Indiana
di Rosebud, Dakota, mentre io attraversavo quelle regioni, la schiera
dei mille guerrieri era composta di quegli stessi indiani che
sorpresero e massacrarono la brigata dell'infelice generale Custer:
molti avevano ancora le selle e le armi che furono il loro bottino
dopo la triste giornata di Yellowstone.

A mezzogiorno preciso di un lunedì di luglio, arrivarono i danzatori
del Sole, quindici in tutto, per sciogliere i loro differenti voti.
Essi si chiamavano: _Segue una donna, Vive nell'aria, Buco
grandissimo, Vitello bianco, Segna a tre, Cane maschio, Piccolo
giorno, Ragazzino, Corno vuoto, Aquila, Tettoia, Aquila doppia,
Giallo, Povero cane e Falcone battagliero_.

I guerrieri erano nudi fino alla cintola e portavano fascie fatte con
scialli rossi. Dalle loro cinture pendevano nastri azzurri davanti e
di dietro. Sul capo s'erano messi come ornamento dei mazzi d'erba e
dei corni di bufalo. Sul petto avevano dipinte immagini del sole e
allacciati ai polsi vari amuleti ed emblemi distintivi di famiglia.

I cantanti cominciarono a strillare accompagnati da una specie di
tamburi scordati. I danzatori accostarono alle labbra il loro
fischietto d'osso d'oca ornato della rara piuma dell'_uccello medico_,
e si misero a ballare in su e in giù. Essi dovevano seguitar a
fischiare finchè duravano a ballare, cioè fino al tramonto del giorno
successivo. Alcune donne supplivano alla musica difettosa col cantare,
con voce stridula, battendo il tempo coi piedi.

Venuta la notte non c'era un lume in tutto il recinto. L'albero
coperto di pezzi di stoffa, era illuminato dal chiaro della luna:
verso la sua cima era attaccato in senso orizzontale un fascio di
vimini che gli dava così una certa rassomiglianza con la croce
cristiana. Da quel fascio pendevano varie figure tagliate nel cuoio e
rappresentanti il Sole, lo Spinto buono, lo Spirito cattivo e altri
simboli.

I danzatori resistettero tutta la notte e finchè risplendette la luna
si volsero con la faccia e coi gesti ad essa; ma appena spuntò il
sole, _Gheezis_, voltarono le spalle alla luna e si misero a
complimentare l'astro maggiore. Così seguitarono tutto il giorno. Se
uno mostrava stanchezza, veniva condotto all'ombra e gli si permetteva
di aspirare due o tre boccate di fumo da una pipa, oppure gli si
faceva masticare un pizzico di salvia selvatica per facilitargli la
salivazione.

Intorno ai danzatori, gli indiani se ne stavano spettatori
indifferenti, rosicchiando pan nero e bollito di cane portato dalle
loro donne in sudici recipienti di latta. Al di fuori del recinto i
ragazzi giuocavano, i piccoli correndosi dietro e gettandosi per terra
l'un l'altro; i grandi facendo all'amore, pigliando qualche bruna
ragazza e avvolgendosi con essa nella medesima coperta che serve loro
di scialle e di vestito.

Durante la danza del Sole gli indiani adolescenti vengono introdotti
nell'arena per aver bucate le orecchie, cerimonia che conferisce loro
i diritti civili nella tribù. Questa operazione richiede da parte del
candidato un piccolo sacrifizio, che ordinariamente è quello di un
puledro: nella festa di cui parlo i puledri offerti furono circa
settecento.

Verso mezzodì del secondo giorno il medico capo dipinse gli uomini che
dovevano essere legati all'albero. Ciò fatto, essi furono guidati
successivamente verso i quattro punti cardinali; indi si recitò la
preghiera seguente:

--Dio, noi siamo venuti per festeggiare il giorno che tu ci hai dato.
Noi ci teniamo in piedi per dare a te la nostra carne. Abbi cura delle
nostre mogli, dei nostri figli ed amici, e aiutaci a sostenere questa
prova.

E la prova orribilissima cominciò. Il primo a essere martorizzato fu
_Segue una donna_. Venne gettato a terra e il medico con un acuto
coltello gli praticò due incisioni sopra ambo le mammelle. Nei buchi
così aperti furono introdotti due pezzi di legno attaccati a una
corda, e il paziente venne alzato da terra e sospeso all'albero per
rimanere in quella posizione finchè il suo proprio peso, stracciando
le carni, l'avesse fatto ricadere sull'erba.

Benchè abbattuto da quindici ore di fatica, sfinito dalla fame e dalla
sete, il giovane guerriero sopportò, senza mostrare la minima
debolezza, l'atroce tortura. Essa fu breve: le carni si lacerarono in
cinque minuti ed egli cadde a terra e si rimise immediatamente a
ballare cogli altri.

_Vive nell'aria_ venne dopo _Segue una donna_, e penò più di
quest'ultimo, avendo dovuto rimanere sospeso più di dieci minuti prima
che gli si rompesse la carne. Il più disgraziato di tutti, come se il
nome gli avesse portato sventura, fu _Poor Dog_ (_Povero cane_). Le
incisioni praticategli erano state troppo profonde: per quanto egli
sgambettasse in aria per circa mezz'ora, la carne resisteva. I muscoli
del petto gli si staccavano dalle ossa; le stesse donne indiane
piangevano nel vederlo; eppure durante una così dolorosa agonia, non
uscì dalle sue labbra una parola di lamento.

V'erano anche penitenze d'altre specie, non meno crudeli. _Giallo_,
per esempio, fu forato in una spalla, e nel buco s'introdusse una
corda che dall'altro capo era attaccata al collo di un cavallo. Si
batteva quest'ultimo, che scalpitava e scuoteva la testa, lacerando le
carni del paziente e si continuò così finchè la corda stracciò del
tutto la carne, lasciando libero il prigioniero.

Molti indiani poi, di quelli che non prendevano parte alla danza,
facevano differenti sacrifici tagliandosi dei pezzi di carne dalle
braccia.

I danzatori intanto offrivano uno spettacolo orribile: essi
continuavano a saltare, esausti, coperti di sangue, col fischietto
sempre stretto fra le labbra inaridite. Nessuno si ritirò se prima non
compì il voto e non sopportò la sua pena fino all'ultimo. Nessuno
domandò soccorso nè si lasciò sfuggire un gemito. Chi l'avesse fatto,
avrebbe perduto per sempre il suo posto fra i guerrieri: sarebbe stato
messo fra le donne e anche queste l'avrebbero disprezzato.

                              * * *

A proposito degli indiani. Dacchè l'America fu scoperta gli scienziati
si scervellarono per sapere quali popoli l'abitarono per i primi.

Ora un fatto semplicissimo è venuto a sconvolgere diverse teorie e a
dar ragione a coloro che sostengono essere stata l'America popolata da
gente sbarcata da altri continenti.

Poco tempo fa in una miniera della Columbia Inglese, alla profondità
di sei metri sotto la superficie, furono trovate alcune monete chinesi
riunite con un filo di ferro. Appena toccato ed esposto all'aria, il
fil di ferro si sciolse in polvere; ma non così avvenne delle monete,
le cui iscrizioni provano che furono coniate da oltre tremila anni.

Cosicchè qualche secolo prima di Colombo i caudati figli del Celeste
Impero avrebbero scoperto l'America, e, se non ne furono i primi
abitatori, aprirono la via a qualche altro popolo dell'Asia. I vecchi
messicani e gli indiani discesero probabilmente da qualche famiglia
asiatica trasportata in America dai venti, sopra una zattera di
tronchi d'albero.

Due o tremila anni fa fra l'Asia e l'America esistevano forse altre
terre, altre isole, che facilitavano le comunicazioni e che successivi
sconvolgimenti e terremoti sommersero poi nelle profondità
dell'Oceano.



IX.

Una lezione di miss Mary.


Una mattina d'estate la signorina Mary e una sua compagna di collegio
mi pregarono di accompagnarle a pescare nel Sound.

Con un canestro di provvigioni salimmo alle sette in una barchetta e
costeggiando Glen Island prendemmo il largo finchè si giunse presso
alcune roccie frequentate, secondo l'amica di Mary, da molto pesce. E,
calata l'àncora, gettammo gli ami.

La marina era tranquilla e liscia; man mano che saliva, il sole
avvolgeva l'isola di Manhattan di raggi infuocati, ma sull'acqua non
faceva molto caldo, e poi avevamo il capo riparato da cappelloni di
paglia che parevano ombrelli.

Si cominciò a pescare pazientemente, da principio con infelici
risultati: solo dopo due buone ore, quando cambiammo posizione e ci
recammo in vista d'una isoletta disabitata, alcune sfoglie, parecchi
_black-fish_ e mezza dozzina di grosse anguille si lasciarono prendere
con grande gioia delle mie compagne.

Verso le undici approdammo nell'isoletta più vicina, una bella
isoletta dalla spiaggia dirupata e pittoresca, piena d'alberi, di
cespugli e di ombre. Ormeggiato il battello, scaricammo le
provvigioni, sedemmo sotto un albero e mangiammo con grande appetito.

Davanti a noi, in lontananza, aveva luogo una corsa di yachts, e
presso gli stessi scogli dove noi avevamo pescato si ancoravano due
altre barchette piene di pescatori e di pescatrici.

Alleggerito il canestro decidemmo di aspettare all'ombra che calasse
la marea per tornare a New-York.

--Per impedire che vi addormentiate come Gesù in barca--disse Mary--io
e la mia amica abbiamo portato con noi il compito che il nostro
professore di francese del _Normal College_, ci ha dato. E un articolo
d'una rivista nella quale il signor Jacolliot, vecchio magistrato
francese che ha compiuto testè un viaggio negli Stati Uniti, riferisce
il racconto fattogli da un suo compatriota stabilitosi da molti anni
in un comune della California: un racconto da cui avrete qualche cosa
da imparare anche voi che trovate tante cose da criticare negli Stati
Uniti. State, dunque, attento e spiegateci le parole che non
comprendiamo. È il vecchio stabilito a Meffilld, nella California, che
racconta la propria vita al signor Jacolliot.

E cominciò con la sua bella voce così:

«Io sono nato a Condrieux, piccolo villaggio sulle rive del Rodano,
rinomato nelle provincie vicine per il suo delizioso vino bianco e per
i suoi formaggi. I miei genitori erano poveri contadini che
guadagnavano con fatica da venticinque a trenta soldi al giorno
zappando, falciando il grano e il fieno o vendemmiando, secondo la
stagione. Appena io fui in grado di camminare, li seguii nei loro giri
attraverso il distretto, lavorando un giorno qui, un giorno là, e
passando la notte nei fienili.

«Nè mio padre, nè mia madre sapevano leggere: essi non si curavano di
mandarmi alla scuola, essendo su tale questione del parere del curato,
il quale diceva che l'abbecedario non serviva a nulla per lavorare la
terra.

«Nel 1848 io aveva diciott'anni. Sentii dire dovunque che la
repubblica era la caduta del dispotismo e l'emancipazione dei
proletari; vidi che tutti si armavano e facevano le manovre sulle
piazze, e io m'intruppai cogli altri senza capir nulla, senza rendermi
conto di ciò che succedeva.

«Un giorno si grida nel villaggio che i tiranni tornavano, che a
Parigi si battevano, che bisognava prendere il fucile. Io non sapeva
che cosa fossero quei tiranni di cui si parlava tanto; la sola idea
che me ne facevo è che fossero degli individui i quali non volevano
lasciarci lavorare tranquilli. Seguii la folla, si bevette molto, poi,
non so come la faccenda accadesse, ma all'improvviso la casa del
sindaco e quella del curato si trovarono in fuoco.

«I gendarmi di Vienne accorsero a prestare man forte a quelli di
Condrieux, e alla sera una trentina di contadini, fra cui io e mio
padre, furono incatenati e diretti verso le carceri di Lione.

«Io capivo meno che mai: ci eravamo sollevati per combattere i
tiranni, e invece di applaudirci, come s'era fatto tre anni prima, ci
privavano della nostra libertà. Era il 3 dicembre 1851.

«Fui messo in cella, separato dai miei compagni. Appena mi trovai solo
pensai alla mia povera vecchia madre che rimaneva senza alcuna
risorsa, e piansi; per la prima volta deplorai di non saper scrivere.

«Fummo tradotti davanti alla Corte d'Assise. Un uomo tutto vestito di
nero e in modo così buffo che ne avrei riso in altra occasione, gridò
e gesticolò durante una giornata intiera, chiamando Dio in testimonio,
parlando del salvatore della Francia, pregando i giurati di purgare la
società.

«Domandai a un gendarme che cosa significava quella commedia.

«--Ciò vuoi dire--mi rispose ridendo--che vi taglieranno il collo a
tutti.

«Spaventato dalla feroce risposta, rimasi convinto che tutti quegli
uomini rossi e neri che domandavano la nostra testa non erano altro
che i tiranni di cui avevo inteso parlar tanto senza aver potuto mai
vederli.

«Il gendarme non s'era ingannato che a metà: la sentenza fu terribile.
Sette dei disgraziati miei compagni vennero condannati a morte; tutti
gli altri ai lavori forzati a vita. Io solo fui rilasciato, in causa
della mia giovinezza, mi dissero; poi pare che fossi stato veduto
aiutare i pompieri a gettare dell'acqua sulla casa del sindaco: io non
mi ricordavo di nulla.

«Guardai mio padre che piangeva in un angolo; quando mi dissero di
andarmene, rifiutai, e allora mi misero fuori a colpi di calcio di
fucile.

«Trovatomi così in istrada, una sera del febbraio 1852, senza un soldo
in tasca, mi misi in cammino alla volta di Condrieux. Faceva molto
freddo e la terra era coperta di neve. Provavo una stretta al cuore
pensando alla mia vecchia madre, senza legna e senza pane in quel
terribile inverno. Traversai di corsa Saint-Fons, Serezin, Chasse,
Etressin, passai il Rodano a Vienne, e arrivai a Condrieux verso le
undici di sera.

«Il villaggio giaceva sepolto sotto un lenzuolo di ghiaccio, e il
silenzio della notte non era turbato che dal rumore del torrente, dai
sibili del vento e dai latrati di qualche cane di masseria che
sentendomi passare usciva dal casotto.

«Io tremavo avvicinandomi alla povera capanna dove era trascorsa la
mia infanzia. Tutto a un tratto sentii il sangue affluirmi al cuore,
alla testa, dappertutto. Ero davanti a un mucchio di rovine...

«Mia madre era morta di dolore e di miseria: nessuno l'aveva aiutata.
I contadini sono feroci verso i loro compagni colpiti dall'autorità o
dalla giustizia. Poco tempo dopo anche mio padre terminava di
tribolare negli ossari di Caienna.

«Non c'era lavoro per me nel distretto e la polizia sorvegliava tutti
i miei passi. All'epoca della vendemmia, avendo voluto recarmi nel
Beaujolais per guadagnare qualche soldo, fui arrestato lungo la strada
malgrado le mie proteste, e condannato a un mese di prigione per
vagabondaggio.

«Uscito dalla prigione, passai nella Svizzera, di dove partii poco
dopo per la California, arruolato come operaio da una società di
miniere. Portai con me mille vitigni che avevo fatto venire dalle rive
del Rodano; mi avevano detto che non c'era uva nel paese a cui eravamo
diretti e io desideravo di ombreggiare di pampini la mia capanna di
minatore: cacciato dal suolo nativo, non volevo allontanarmi senza
portarne un ricordo. I pochi vitigni che riuscii a salvare malgrado
tre mesi di viaggio, hanno formato la mia fortuna e arricchito questo
paese.

«Ecco quale fu il mio passato nel vecchio mondo: permettetemi ora di
dirvi in due parole ciò che devo all'America del Nord.

«Vi giuro che quando lasciai la Francia io non capivo assolutamente
nulla, nè dei movimenti politici che avevo veduto compiersi sotto i
miei occhi, nè delle condanne che avevano colpito mio padre e i poveri
contadini delle rive del Rodano. Non sapevo nè leggere, nè scrivere,
ignoravo le cose più semplici della vita, e vedendo il mondo diviso in
ricchi e poveri, mi figuravo ingenuamente che il buon Dio avesse
creato gli uni per non far nulla e gli altri per servirli.

«Ero insomma una cosa, una macchina da lavoro: l'America ha fatto di
me un uomo, ed ecco come.

«Sulla collina di Meffilld non c'erano tre case e già un pastore
presbiteriano vi fondava una piccola cappella e una scuola; per dieci
anni, malgrado le occupazioni dei campi, io fui uno dei più assidui ai
corsi serali, ogni giorno più desideroso di istruirmi man mano che
l'orizzonte si apriva davanti a' miei occhi.

«Il mio esempio fu seguito: tutte le colline favorevoli a questa
coltivazione si coprirono a poco a poco di viti, la contrada si popolò
di villaggi e nel 1857 uscì da' miei vigneti la prima botte di vino,
che in gran pompa e coperta di fiori fu condotta a San Francisco.

«Per quel primo saggio ricevetti un premio di cinque mila dollari
(vepticinque mila lire): nel vecchio mondo si crede d'aver fatto tutto
quando si sono date cinquecento lire in un concorso agricolo.

«Meffilld ingrossava rapidamente: bisognò organizzare il comune,
innalzare pubblici edilizi, costruire strade e fontane. Ogni domenica
prendemmo l'abitudine di riunirci in _meeting_ per discutere i nostri
interessi. In sedici anni sono stato eletto tre volte sindaco da' miei
concittadini, i quali recentemente mi hanno mandato, quasi a unanimità
di voti, alla legislatura dello Stato.

«Maritatomi con la figlia di un allevatore di bestiame che ha
ventimila montoni e mille buoi nel suo _ranch_, ebbi sei figli.

«In conclusione, coll'istruzione e col lavoro io mi sono qui innalzato
e arricchito e mi sento felice in questa terra di libertà che mi ha
accolto a braccia aperte. Credete che io debba qualche cosa alla
Francia? Non vi pare che la mia patria sia là dove si seppe fare di me
un uomo? Nel vecchio mondo io sono un vagabondo, un recidivo: nel
nuovo rappresento il mio distretto alla legislatura. Ah! io morrò
certamente a Meffilld.»

--Ebbene, che ne dite?--mi domandò la signorina Mary, terminato che
ebbe il racconto.--Non è istruttiva la carriera percorsa in meno di
vent'anni da quest'uomo, il quale non domandava che di istruirsi e di
lavorare, e che al principio della sua vita non aveva incontrato che
le tristi severità d'una società invecchiata? Come si capisce il suo
odio vigoroso verso le istituzioni egoiste e meschine che reggono la
maggior parte degli Stati d'Europa!

--Il racconto è interessantissimo--risposi io che ne ero rimasto
realmente impressionato--ma bisogna riflettere che i vecchi Stati
europei non possono offrire a tutti i loro abitanti i terreni e i
mezzi di arricchirsi così facilmente come una volta la California.
L'America ha bisogno di braccia, e riceve continuamente dall'Europa
dei carichi di lavoratori per allevare i quali non ha speso un
centesimo.

--Ecco precisamente le obbiezioni fatte dal signor Jacolliot. E sapete
come le ha combattute il sindaco di Meffilld? Ha risposto che egli non
rimproverava al suo paese di non averlo provveduto fin dalla nascita
d'un pezzo di terra: sarebbe una follia il pretendere che la società
supplisca al lavoro individuale, e la moralità e le leggi non hanno
peggiori nemici dei parassiti. Ma ciò che si ha diritto di esigere dal
gruppo di individui, dal Comune, dallo Stato, a cui si porta il
proprio concorso, è che obblighi all'istruzione come obbliga
all'imposta, al servizio militare e a tutti gli altri oneri comuni,
perchè questi oneri che l'ignoranza considera come tanti abusi,
l'istruzione ce li fa considerare come altrettanti doveri.

--Da noi, molti fanciulli non possono andar a scuola perchè mancano di
scarpe.

--Lasciate finire il vecchio di Meffilld--interruppe Mary.--Egli
diceva:

«Quando un paese come la Francia scrive in testa dei suoi codici che
non è ammessa l'ignoranza della legge, non fa che sancire una triste e
odiosa finzione, se non procura che ognuno sia obbligato di studiare
le istituzioni che reggono il paese. Il maestro di scuola deve
precedere il gendarme.

«È questa finzione legale che ha ucciso mio padre! Egli prende le armi
nel 1848 e gli si dice che s'è battuto contro i tiranni e che ha ben
meritato della patria. Fa lo stesso nel 1851, lo si tratta da brigante
e lo si manda a morire negli stagni della Guiana.

«Come volete che il popolo, educato sistematicamente nell'ignoranza
più completa di tutto ciò che riguarda la vita sociale e forma la
grandezza degli Stati liberi, possa distinguere il vero dal falso
nelle vostre istituzioni antiquate davanti alle perpetue capitolazioni
di coscienza della maggior parte dei vostri uomini politici, e alle
discussioni puerili delle vostre assemblee?

«Quando avete ancora degli uomini capaci di affermare sfacciatamente
che le masse non hanno bisogno d'istruzione per lavorare e che per
tutto il resto devono rimettersi alle classi dirigenti, che sono le
loro tutrici naturali; quando un paese si trova a questo punto, è la
decrepitezza, è l'infanzia senile che comincia.

«Da alcuni anni io studio il movimento delle istituzioni francesi.
Ebbene, sono convinto che l'egoismo e l'inettitudine delle alte classi
(le quali mettono ostacoli sopra ostacoli per arrestare il torrente
della democrazia, in luogo di regolarne il corso coll'istruzione e di
avviarlo a un oceano di libertà, come si è fatto qui), non faranno che
condurre a lotte periodiche e sanguinose, alla fine delle quali il
paese troverà inevitabilmente la rovina.

«Non crediate che sia la facilità di acquistare la terra in America
che rende qui l'uso della libertà più facile e meno nocivo, come
dicono gli uomini di Stato europei. Se sapeste a quali lavori faticosi
sono obbligati di accingersi i pionieri che vanno nell'interno degli
Stati Uniti, lungi dai centri abitati, in regioni prive di strade e di
comunicazioni, e quanti patimenti devono soffrire per ottenere un
risultato!

«Gli uomini pericolosi non vanno a domandare ai duri lavori della
terra una vita onesta e libera; essi preferiscono il soggiorno nelle
città dove possono più facilmente sfruttare l'ignoranza e i vizi dei
loro concittadini.

«Il possesso della terra non significa nulla senza l'istruzione e la
libertà. Nella Turchia asiatica, per esempio, avete immense quantità
di terreni coltivabili, a due lire l'ettaro. Perchè l'emigrazione
fugge quei luoghi? Perchè sarebbe un cadere da una dominazione sotto
un'altra.

«Credetelo, ciò che si viene a cercare specialmente in America è il
_mondo nuovo_, è la società liberata dai legami ieratici e monarchici
del passato, è l'eguaglianza degli uomini davanti all'istruzione che
eleva e moralizza, è la coscienza e il pensiero, è l'associazione e il
lavoro liberi.

«Alla mia patria io auguro una organizzazione comunale simile alla
nostra, che le permetta di disfarsi una buona volta di tutti i suoi
dottrinari, di tutti i suoi uomini parlamentari, ciarlatani politici
che si dicono conservatori, e non conservano che una sola cosa:
l'ignoranza perpetua a profitto di un perpetuo dispotismo.»

La signora Mary terminò battendo le mani e domandandomi in aria
trionfante:--Ebbene, signor europeo?--

Ma prima che la marea fosse troppo bassa dovemmo rimetterci in barca e
tornare a New-York, e io rimandai ad altra occasione le risposte alle
interrogazioni della mia giovane amica.



X.

A bordo del «Pilgrim».


Non ebbi occasione di rivedere la signorina Mary che qualche giorno
dopo, quando con lei e con suo fratello andammo a Boston per assistere
alla inaugurazione dell'Esposizione.

Si va da New-York a Boston in una notte, coi vapori della _Fall River
Line_, che sono capolavori di eleganza e di arte navale. A bordo di
essi si è precisamente come in uno splendido albergo galleggiante, nel
quale si può mangiare e bere quello che si vuole, dormire in
bellissime stanze, radersi la barba, leggere e scrivere in sontuosi
saloni illuminati con la luce elettrica, e ascoltare della musica.
Oltre il _comfort_ di un _hôtel_ di lusso, tali vapori offrono il
vantaggio di far respirare la salubre aria marina e di presentare ad
ogni passo i pittoreschi paesaggi delle rive che costeggiano.

Noi viaggiavamo a bordo del _Pilgrim_, il gioiello della _Fall River
Line_, un bastimento che pare una reggia e che costò cinque milioni di
lire. Chi lo vede per la prima volta, percorrendo le vaste sale, le
scale signorili ed esaminando la ricchezza dei tappeti, la bellezza
dei lampadari e dei mobili, stenta a credere di trovarsi in mare.

Il _Pilgrim_ ha cabine da una e due persone, provvedute perfino del
bagno, per milleduecento viaggiatori; le sue macchine sono della forza
di 5500 cavalli, e corre con una velocità di venti miglia inglesi
all'ora, senza il minimo rullìo.

Dopo aver cenato nel _restaurant_, quella sera andammo a sederci a
poppa, sul ponte, a guardare i lumi delle case tremolanti lungo le
rive, ad ascoltare i fischi dei vapori che incontravamo.

--Con tanto passaggio di vapori in questi paraggi--dissi a
Giorgio--devono essere facili le collisioni, quando c'è la nebbia.

--Ne accadono sovente, pur troppo--rispose--ma se i viaggiatori
conservassero, durante il pericolo, maggior sangue freddo, non se ne
annegherebbero tanti. Vedete, qui, oltre le cinture di salvataggio,
con le quali, dovendo saltar in acqua, potremmo rimaner a galla
diverse ore, e oltre i battelli, abbiamo i materassi dei letti, i
quali sono imbottiti di tal roba che, lanciati in mare, galleggiano
sempre e sono capaci di sostenere il peso di quattro o cinque persone.
Ma negli scontri, invece, il panico fa perdere la testa e i
viaggiatori si affogano a centinaia.

Il _Pilgrim_ filava leggiero e silenzioso; Giorgio era sceso nel
salone più vicino, dal quale non eravamo separati che da una scaletta,
per leggere i giornali della sera. Mary, rimasta a sedere vicino a me,
contemplava l'oscurità circostante e le stelle.

--Sapete--mi disse a un tratto--che per le mie lezioni di francese ho
continuato a tradurre l'articolo del signor Jacolliot sul suo giro in
California? È un lavoro che m'interessa molto, perchè nei panni del
vecchio magistrato francese mi pare di veder voi, arrivato negli Stati
Uniti con tanti pregiudizi europei. Volete sentire ciò che il sindaco
di Meffilld fece vedere al suo compatriota dopo avergli raccontata la
propria storia?

--Sì, sì, con gran piacere.

--Il sindaco di Meffilld, dunque, cominciò col condurre il signor
Jacolliot al _Common Hall_ (casa comunale, municipio) e lo pregò di
assistere ad una seduta, nella quale il _Board of the work_ (comitato
dei lavori) doveva cercare con quali mezzi poteva dare, soddisfazione
al _Board of the health_ (comitato della salute), il quale aveva
dichiarato che le acque di Meffilld erano di cattiva qualità e che
bisognava procurarsene di più pure. Fu una cosa molto spiccia: in
pochi minuti, senza discorsi, senza frasi, il Comitato risolvette di
servirsi delle acque riconosciute ottime di un piccolo lago distante
qualche chilometro e di costruire all'uopo un acquedotto. Siccome del
Comitato facevano parte dei mercanti di pietre e di calce, dei
capimastri muratori e un ingegnere, il conto della spesa fu presto
fatto. E fu deciso di pagarla in parte con sottoscrizioni volontarie e
in parte con una somma inscritta nel bilancio pei lavori comunali. Per
dar subito mano all'opera, poi, in un Comizio che ebbe luogo il giorno
appresso, gli abitanti del Comune s'impegnarono di incaricarsi a loro
spese per tre mesi della manutenzione delle strade, ognuno per la
parte che fiancheggia la sua proprietà. Così si potevano adoperare per
l'acqua i fondi iscritti per le strade.

--In Italia o in Francia per decidere un simile lavoro occorrono molti
mesi e una quantità di permessi e di autorizzazioni.

--È quello che rilevò il sindaco di Meffilld, il quale disse che tutte
le leggi e i decreti che chiamate il vostro diritto amministrativo
sarebbero un'opera di follia, se non fossero un istrumento di
dispotismo. Perchè mai un comune, che a proprie spese vuole costruire
una scuola, un ponticello, un lavoro qualunque, che deve servire ad
esso solo, ha da chiedere tanti permessi al prefetto, ai ministeri?
Tutte le formalità burocratiche, con l'aiuto delle quali si paralizza
in Europa la libertà comunale, sono altrettante catene che, riunite in
una sola mano, servono a tenere obbediente un popolo di schiavi.

--Queste sono verità sacrosante.

--Il sindaco di Meffilld faceva questo ragionamento semplicissimo:
l'uomo ha diritto di contrattare, di acquistare, di vendere, di donare
e via dicendo. Nessuno glielo impedisce, nevvero? Quando dieci, cento,
mille individui sono riuniti in un Comune, in virtù di qual principio
si viene a paralizzare il loro diritto di occuparsi dei propri affari,
e a sottometterli per ogni atto della vita comune all'autorizzazione
del potere centrale, il quale non è altro che il loro mandatario?

--Siamo perfettamente d'accordo.

--Fate il Comune libero nello Stato (provincia o gruppo di provincie)
sovrano--diceva il vecchio di Meffilld a Jacolliot--e voi la finirete
per sempre con quello che chiamate le rivoluzioni. La rivoluzione non
è altro che il movimento di un corpo il quale cerca il proprio
equilibrio.

Mentre la signorina Mary così parlava, io non potevo trattenere un
sentimento di ammirazione per il sistema americano di educazione col
quale, prima che le costituzioni di Sparta e di Atene, gli scolari
imparano a conoscere quella vigente nel proprio paese e a parlarne
come si parla degli interessi di famiglia.

--Mary s'è data alla politica--disse sorridendo Giorgio, che era
tornato sul ponte.

--No--rispose la sorella--mi sono semplicemente entusiasmata
all'apologia che quel vecchio di Meffilld fa delle istituzioni
nord-americane. Ma pensate: in Francia scrivono su tutti i pubblici
edifici la parola libertà fra quelle di fratellanza e di eguaglianza e
non hanno neppure la libertà comunale, come se vi potesse essere
repubblica senza il comune libero e senza il federalismo.

--Non tocchiamo l'unità nazionale!--vi risponderebbero da noi.

--E che c'entra l'unità politica coll'amministrazione dei comuni? Il
sindaco di Meffilld osservava giustamente che l'accentramento
esagerato del potere è il dissolvente più rapido di ogni spirito
patriottico. Voler regolare con le stesse leggi perfino nei più
piccoli bisogni dei comuni, trenta o quaranta milioni di cittadini, è
una cosa insensata. Alla minima ruota che si rompe, tutto il sistema
va a catafascio. Infatti ogni quindici o vent'anni si fa in Francia
una rivoluzione che termina invariabilmente con fucilazioni e
deportazioni, e i cadaveri delle vittime non sono ancora raffreddati
che quegli uomini politici non trovano nulla di meglio da fare che di
rabberciare la vecchia macchina sotto l'intelligente protezione di
trecentomila baionette. Nessuno pensa a costruire una macchina nuova
nella quale l'equilibrio delle forze sia meglio distribuito.

--Voi parlate, cara Mary, come un vecchio filosofo. Ma circa alla
perfezione del sistema politico americano, io ho da esporvi un'idea
che risponde anche alla lezione che mi avete fatta quel giorno che
andammo a pescare insieme.

--Sentiamo, sentiamo.

Ma l'ora s'era fatta tarda, e i camerieri, camminando senza rumore
sopra i tappeti, spegnevano le lampade elettriche dei corridoi.

Lasciammo andare i discorsi e scambiandoci un cordiale _good night_
entrammo nelle nostre rispettive cabine.

                              * * *

La mattina seguente sbarcavamo a Boston. Era una domenica di settembre
e, secondo le sue vecchie tradizioni, la capitale del Massachussets,
in omaggio al riposo festivo, sembrava un cimitero; la solitudine poi
appariva ancora maggiore del solito correndo una stagione in cui le
migliori famiglie sono in campagna.

L'Esposizione internazionale che si doveva inaugurare il giorno
seguente era stata organizzata modestamente, non con le proporzioni
grandiose di quella precedente di Filadelfia e della successiva di
Chicago, per solennizzare il primo centenario del trattato di pace
firmato a Parigi da D. Hurtley per Sua Maestà Britannica, e da
Beniamino Franklin, John Adams e John Jay per gli Stati Uniti.

Muniti delle carte di _reporters_ che ci davano accesso ai locali
della mostra prima dell'apertura, dopo aver fatto colazione al _Yung's
Hôtel_, ci recammo al _Charitable Mechanic's Association Building_,
vasto edificio tutto imbandierato. Le esposizioni delle nazioni
europee non erano ancora pronte: nella sezione italiana si vedevano i
soliti mosaici di Venezia e una cinquantina di quadri.

Trovammo all'ordine invece la esposizione indigena, nella quale ci
divertimmo a esaminare la sezione dei _cow-boys_, dei celebri
guardiani d'armenti dell'ovest, tutta piena dei loro originali costumi
alla messicana, di grandi selle e di lacci.

Il _cow-boy_ non somiglia affatto ai pastori dei nostri paesi, che
conducono la vita più pacifica del mondo. Per fare il _cow-boy_ nelle
immense pianure del Texas, del Kansas, dell'Arkansas e negli altri
Stati dell'Unione ricchi di pascoli, non basta esser buon cavaliere e
saper guidare i branchi di buoi e di vacche nei terreni più
favorevoli, provveduti di acqua e di erba buona: bisogna essere
giovani robusti e arditi, capaci di tener testa ai ladri o agli
indiani e di sostenere talvolta dei veri combattimenti a colpi di
carabina e di revolver.

Il vestito del _cow-boy_ consiste in un paio di stivaloni dai larghi
speroni, in una camicia di lana, in pantaloni e giacca di velluto o di
pelle adorni di frangie lungo le cuciture, e di un cappello di feltro
dalle larghissime falde alla messicana.

D'estate il _cow-boy_ fa a meno anche della giacca. Egli è molto
semplice nel vestire, ma sfoggia un vero lusso nelle armi. Alla
cintura, accanto alla cartucciera, tiene sempre uno e anche due
revolvers delle migliori fabbriche e ad armacollo una carabina di gran
valore. Esercitandosi fin da ragazzi e quotidianamente, i _cow-boys_
diventano tiratori d'una abilità e d'una precisione meravigliose. I
loro divertimenti abituali nelle praterie consistono tutti in gare
alla corsa o al tiro.

Gettano sull'erba dei fazzoletti e poi lanciandosi a corsa sfrenata li
raccolgono curvandosi da un lato senza rallentare minimamente
l'andamento del cavallo. Gettano in aria delle uova correndo e le
colpiscono col fucile prima che ricadano. Il colpo cosidetto di
Guglielmo Tell, di levare un piccolo oggetto dalla testa di uno con
una revolverata, è per loro un vero giuocattolo. Solamente questa
grande famigliarità con le armi fa sì che essi mettano mano al
revolver a ogni piccolo diverbio.

Un'altra loro abilità è quella di adoperare il laccio, una lunga
striscia di pelle che tengono sempre attaccata alla sella, per fermare
i buoi che si sbrancano.

La vita avventurosa di questi guardiani, i romanzi pubblicati negli
Stati Uniti sul loro coraggio, sulle loro lotte con gli indiani, sui
loro duelli, fanno sì che una quantità di giovani spostati, di
mattoidi, vanno nell'ovest a fare i _cow-boys_. E così avviene che
fermandosi in qualcheduna di quelle stazioni della ferrovia del
Pacifico, dove si caricano lunghi treni di buoi, il viaggiatore trova
con sorpresa, fra i guardiani che accompagnano gli armenti, dei
giovani _cow-boys_ che hanno veramente maniere da gentiluomo, parlano
correntemente due lingue e sembrano cacciatori, _touristes_, anzichè
butteri. Un giorno ne fu veduto uno che leggeva un numero della _Vie
Parisienne_ di cui era abbonato; egli faceva ogni settimana non so
quante miglia a cavallo per andarsi a prendere la posta nella più
prossima stazione.

Accanto al _cow-boy_ romantico c'è naturalmente quello brutale,
maleducato, vero brigante delle praterie, che qualche volta lascia il
suo mestiere per fare il ladro da strada, per organizzare grossi furti
di bestiame o per mettersi a barare nelle case da giuoco, nelle
piccole città di legno che s'improvvisano nel _far-west_.

Dopo aver lavorato qualche mese nelle praterie, lontani da città e da
villaggi, i _cow-boys_ si procurano qualche giorno di permesso e vanno
a divertirsi nella capitale dello Stato in cui si trovano, capitale
che spesso non conta più di quaranta o cinquanta mila abitanti, ma che
ha in abbondanza teatri, birrerie, caffè-concerti, case da giuoco,
ecc.

Allora essi somigliano ai marinai che toccano il porto dopo una lunga
traversata: sono avidi di donne, di liquori, di spettacoli d'ogni
genere, impazienti di spendere il denaro di cui hanno piene le tasche.
Dopo essersi comperato qualche oggetto di vestiario, una sella, armi,
munizioni, entrano nei _bar-rooms_ e si abbandonano all'orgia. Di
notte si vedono con la bocca piena di tabacco, andar in visibilio
davanti ai _cancans_ primitivi di orribili cantanti intonacate di
belletto, contendersi a manate di dollari nelle birrerie i favori di
certe chellerine che sono il rifiuto delle grandi città, o farsi
pelare nelle case da giuoco fino all'ultimo pezzo da _five cents_.

Quand'è rimasto senza un soldo, il _cow-boy_ inforca il cavallo, torna
a' suoi armenti e alle sue tende sognando il giorno in cui potrà di
nuovo ubbriacarsi in braccio di una Jennie quarantenne o di una Minnie
che gli darà da intendere di aver cantato a Parigi.

                              * * *

Una mostra più interessante era quella del giornalismo. Alcuni dei
principali giornali degli Stati Uniti avevano fatto l'esposizione
dello sviluppo raggiunto in pochi anni dal loro formato e dalla loro
diffusione.

Il _New-York Herald_ aveva mandato il suo primo numero, un foglietto
magro magro, scritto da Bennett padre in una soffitta di Ann Street, e
l'ultimo numero della domenica, di sette grandi fogli, la maggior
parte dei quali pieni d'annunzi, stampato da sette macchine doppie,
che non solo stampano ma tagliano e piegano 2333 copie al minuto,
senza arrivare quasi in tempo per soddisfare a tutti gli ordini dei
committenti.

Quel numero, eguale del resto ai fascicoli domenicali di vari grandi
giornali americani, si componeva di centosettantotto colonne, per la
cui composizione erano occorse più di duemila libbre di caratteri e
per la cui stereotipia s'erano fuse dieci tonnellate di metallo.

Alla prosperità della stampa nord-americana tre cose hanno
principalmente contribuito: la libertà completa, il fatto che in
nessun altro paese del mondo si legge come negli Stati Uniti, e il
grande uso che si fa della _réclame_.

Dall'Atlantico al Pacifico non si è mai saputo che cosa siano nè
gerenti responsabili, nè la censura preventiva, nè l'obbligo di
presentare la prima copia al procuratore del re o della repubblica. I
reati che si possono commettere col mezzo della stampa sono preveduti
e puniti dal codice senza bisogno di leggi speciali.

E bisogna confessare che gli Stati Uniti dimostrano come nessun
inconveniente possa venire dalla completa libertà di stampa. I
giornali libelli non attecchiscono là, perchè se i libellisti fanno
nomi e specificano fatti, vi sono i tribunali che li fanno smettere, e
se calunniano con vaghe allusioni non compromettenti, i loro fogli non
vengono letti e cadono ben presto sotto il peso del pubblico
disprezzo.

Rimane la questione politica, l'offesa al capo dello Stato, alle
istituzioni e via dicendo. Ebbene, o il giornalista calunnia, e
allora, come per i privati, c'è il giudice; o dice la verità, e in
questo caso ha il diritto di stamparla. Un esempio fra mille che si
potrebbero citare. Quando risultò che il presidente Hayes era riuscito
eletto per frode in luogo di Tilden, il _Sun_ di New-York un bel
giorno stampò un gran ritratto del presidente, sulla cui fronte era
incisa a grossi caratteri la parola _Fraud_: l'immagine di Hayes, con
la taccia di ladro scolpita in fronte, circolò così a migliaia di
copie in tutti gli Stati Uniti. Se l'Hayes non era realmente un
imbroglione, avrebbe permesso lo scandalo? No, certo; ma si sapeva
colpevole degli intrighi addebitatigli e dovette tacere, sicuro che,
citato in tribunale, il _Sun_ gli avrebbe provato con le cifre di
avere stampata la sacrosanta verità.

La stampa, dicono gli americani, non è altro che la pubblica
manifestazione delle opinioni. Se le opinioni sono libere, se in un
paese retto da una data forma di governo si è padroni di patteggiare
per un'altra, perchè non si deve essere liberi di stampare ciò che si
pensa, ciò che si dice tutti i giorni conversando in pubblico?

Non è per la morale, aggiungono, o per proteggere l'onore delle
persone che in Europa s'inceppa la libertà della stampa; è perchè si
teme la propaganda di quelle idee coll'avanzarsi delle quali certi
governi devono inevitabilmente cadere. Libero intieramente non è quel
paese dove gli onesti cittadini d'ogni partito non possono liberamente
manifestare i loro pensieri su qualsiasi argomento e su quello
politico in ispecie.

La grande diffusione e i guadagni che in ragione di essa procura la
pubblicità, permettono ai giornali americani di eccitare, pagando
bene, le attitudini di una quantità di bravi _reporters_, ognuno dei
quali ha una specialità--_sport, hig-life_, descrizioni di feste
pubbliche, descrizioni di delitti e inchieste sui medesimi,
descrizioni degli incendi, resoconti di _meetings_, di processi, di
sedute del Consiglio comunale, della legislatura dello Stato o del
Congresso di Washington, teatri, bassifondi, curiosità d'ogni
genere--e tutte queste qualità di _reportage_ formano poi una delle
specialità della stampa americana.

Il vero _reporter_, quello che ha intelligenza, vocazione e passione
per il suo mestiere, sta sempre all'erta, come una sentinella, come un
agente di polizia o un pompiere, in attesa di una parola, di
un'informazione, di un dispaccio o di un avvertimento telefonico che
gli segnalino il fatto del giorno riguardante il servizio a cui è
addetto. Ricevuta la prima notizia, egli entra in un periodo febbrile
di attività. Dimenticando fame, sonno e qualunque altra cosa, corre
col mezzo più rapido sul luogo dove è successo il dramma, il furto,
l'incendio, lo scontro ferroviario, la collisione nella baia,
l'avvenimento qualunque esso sia; si scolpisce in mente la scena con
la precisione di una macchina fotografica; interroga i superstiti, i
testimoni, i feriti, gli agenti della forza pubblica, e con un
pezzetto di lapis, con pochi segni quasi stenografici, nota ogni cosa,
raccogliendo i particolari più minuti, frettoloso e diligente nello
stesso tempo, in preda sempre a uno strano orgasmo, smanioso di
arrivare il primo e di avere la maggior copia di informazioni, e
conservando contemporaneamente una flemma, un sangue freddo che gli
permettono di non dimenticare la più piccola circostanza.

In quel momento il buon _reporter_ è come la personificazione della
curiosità pubblica; egli sente istintivamente la sua importanza di
rappresentante di un giornale, il quale ha migliaia di lettori avidi
di essere ben informati, e reputa come un diritto la facoltà di
entrare dappertutto, di interrogare, di investigare, come se fosse un
_detective_ o un giudice istruttore.

È in tale periodo che il _reporter_ non conosce ostacoli e che, per
saper tutto nel più breve tempo possibile, diventa astuto, audace,
indiscreto e magari anche arrogante. Non è più lui che agisce, lui,
che magari nella vita privata è un tranquillo e indifferente
giovanotto: egli corre e lavora mosso, come per una misteriosa
suggestione, dalle esigenze della stampa moderna, da quella forza che
è il giornale diffuso. La sua personalità sparisce completamente:
dimentica la salute e la famiglia e affronta qualsiasi pericolo colla
massima indifferenza. In una guerra, marcia coll'avanguardia, sotto le
prime palle, per descrivere le prime scaramuccie; nelle epidemie va a
visitare i malati nei centri più infetti; negli incendi si spinge coi
pompieri nei punti più minacciati da scoppi o da crolli di mura; nelle
pubbliche dimostrazioni deve essere alla testa, fra gli spintoni e
magari le schioppettate; nei tempi ordinari bazzica ogni giorno negli
ospedali, nelle sale anatomiche, nelle camere mortuarie, nelle
prigioni e nei luoghi meno puliti, nello stesso modo con cui va ad
assistere a un processo celebre o ad una festa di lusso.

Vi sono dei _reporters_ specialisti per inchieste segrete, per
investigazioni su misteri che la stessa polizia non è stata capace di
scoprire, pronti a tutto per ottenere lo scopo.

Un giorno si sparse a New-York la voce che gli alienati rinchiusi in
un manicomio municipale erano vittime di sevizie e di violenze da
parte dei medici e degli inservienti. I giornali ardevano dal
desiderio di pubblicare informazioni esatte in proposito; ma come
ottenerle? Il personale sanitario e di servizio si guardava
naturalmente dal dire la verità e alla testimonianza di qualche pazzo
guarito non si poteva attribuire molta fede.

Il _city editor_ (cronista) del _New-York Herald_ convocò la squadra
dei suoi _reporters_ e disse che bisognava ad ogni costo penetrare nel
manicomio e sorprenderne i misteri. I bravi giovani, che già avevano
fatto e girato molto invano, si torturavano il cervello, quando uno di
essi si avanzò calmo e sereno e annunziò d'aver trovato il modo di
saper esattamente quanto avveniva fra le mura del manicomio in
questione.

--Come? In che maniera?--gli si domandò.

--Ecco:--egli rispose tranquillamente--io fingerò d'essere diventato
pazzo, mi farò rinchiudere là dentro cogli alienati; appena avrò visto
e notato tutto, guarirò; e il pubblico sarà informato d'ogni cosa.
Silenzio e prudenza!

E, salutati i colleghi, corse a casa e si chiuse a chiave nella sua
stanza.

A mezzanotte si odono in quella casa delle grida furiose, degli urli
disperati. Tutti i vicini si svegliano; la vecchia signora, presso la
quale il _reporter_ dell'_Herald_ abitava, corre alla stanza da cui
proveniva il baccano, trova l'uscio chiuso, bussa, e non ottenendo
risposta mentre le grida continuavano terribili, fa aprire da un
fabbro la porta e vede il _reporter_ che si rotolava in camicia sul
pavimento, cogli occhi stralunati, con la schiuma alle labbra.

Interrogato, il _reporter_ non risponde; urla sempre in modo
compassionevole, e nei rari intervalli di calma non pronunzia che
frasi insensate.

Si chiama un'ambulanza e il giovane viene condotto alle prigioni e
rinchiuso in una cella delle _Tombs_--il carcere principale di
New-York. Dopo tre giorni un medico constata che egli è pazzo, con
accessi furiosi, e lo manda a quel tale manicomio municipale.

I giornali cittadini raccontano il fatto e deplorano con vivo
dispiacere che un collega, così buono e valente, sia stato colpito da
una simile disgrazia. Passano tre mesi: le voci che circolavano sui
misteri del manicomio parevano svanite, quando una mattina il
_New-York Herald_ esce con una relazione in minutissimo carattere che
occupava due pagine intiere, nella quale il _reporter_ «guarito»
narrava diffusamente ciò che accadeva nel manicomio: le voci corse
erano vere ed egli raccontava storie di sequestri di persone sane, di
torture, di fame, di sete, di patimenti atroci, inauditi.

La relazione finiva coll'invitare gli increduli a visitare il
_reporter_ stesso, il quale era uscito dal manicomio magro, pallido,
sfigurato, che pareva un _Ecce Homo_. Non occorre dire che le
rivelazioni dell'_Herald_ provocarono una rigorosa inchiesta che pose
fine agli abusi e ai mali trattamenti.

Il giornalismo americano ha molti difetti che facilmente si perdonano
quando si vede che sua cura principale è di descrivere e raccontare
tutto ciò che succede in modo imparziale, non preoccupandosi che
dell'esattezza e della sollecitudine. Quelli che da noi si chiamano
articoli di fondo e che spesso non sono che noiose tiritere e
soliloqui di redattori che pretendono di giudicar tutti e di parlare
di tutto, anche delle questioni che meno conoscono, nei giornali
nord-americani si riducono a brevi e succose note, a commenti
stringati, nei quali sono espressi sulle cose del giorno i pareri di
uomini competenti. Negli Stati Uniti si crede che il giornale debba
essere quasi unicamente un bollettino delle notizie di tutto il mondo,
un resoconto preciso di ciò che succede: i giudizi devono essere
lasciati al gran pubblico. Se il giornale ne vuole esprimere, devono
provenire da gente che conosce a fondo l'argomento.

--In quanto ai commenti sulle questioni del giorno che non implicano
speciali conoscenze--diceva un giorno il signor Dana, direttore del
_Sun_, in una riunione di giornalisti--per dare efficacia alle note
editoriali occorrono i seguenti ingredienti: buon senso; fede sincera
nei principî democratici e in quella grande esposizione dei diritti
dell'uomo che è la costituzione degli Stati Uniti; l'abilità di
esprimere le idee chiaramente, senza ambiguità; il tutto condito da
una dose abbondante di umorismo e di spirito.

Con lo sviluppo preso dalla stampa negli Stati Uniti è naturale che i
giornalisti americani parlino con compassione dei loro confratelli
d'Europa.

--Tutti i giornali parigini--mi diceva un redattore del _Cornhill
Magazine_--pubblicano molte appendici e nessuno di essi dà una
relazione esatta, imparziale, coscienziosa, di un _meeting_ politico.
Alcuni hanno adesso qualche _reporter_ cosidetto all'americana. Ohimè,
quale meschinità! Il sedicente _reporter_ all'americana ha la
specialità delle interviste colle celebrità del momento, di strappare
i segreti dal petto dei diplomatici e degli uomini di Stato, e di
corrompere i camerieri dei re in viaggio per sapere quello che il
monarca mangia a colazione. Il _reporter_ all'americana giunge
certamente a sapere una quantità di fatti interessanti, ma i resoconti
che scrive o che telegrafa sono troppo pieni della sua personalità.

Uno dei più giovani giornali di New-York che in pochi anni seppe
raggiungere una tiratura media quotidiana di trecento mila copie, è il
_N. Y. World_, fondato e diretto da Joseph Pulitzer, il quale,
all'angolo di Park Row e di Frankfort Street, si è costruito un
ufficio che costa due milioni di dollari, altissimo, di tredici piani,
sormontato da una torre di cinque piani e del diametro di cinquanta
piedi.

Gli uffici di redazione e di _reportage_ si trovano appunto in quella
torre che è il _building_ più alto della metropoli, dove sono anche i
locali pei compositori, con ampi finestroni tutto all'intorno e il
_restaurant_ cooperativo per gli impiegati del giornale.

A pianterreno sono situati gli uffici per l'amministrazione, per le
inserzioni a pagamento, per la distribuzione e la spedizione del
giornale; nel _basement_ (sotterranei) una macchina motrice della
forza di mille cavalli; la macchina per gli _elevators_ (ascensori);
l'officina per la stereotipia delle forme; le dieci macchine
quadruple, della forza di seicento cavalli, che stampano il giornale;
la macchina elettrica, che alimenta 3500 lampade; quattro _elevators_
pneumatici per portare la carta.

Gli altri undici piani sono destinati a uso di uffici, di cui
centocinquanta sono affittati.

L'edifizio è provveduto di sei ascensori: due pei compositori
tipografi; tre per gli uffici appigionati, e uno che parte dal
pianterreno, e, senza fermarsi, va direttamente al piano decimottavo,
riservato esclusivamente ai _reporters_ e ai redattori.

Le spese di redazione del _New-York World_ oltrepassano di molto il
milione di dollari all'anno.



XI.

Un'altra lezione.


--Ebbene, il sindaco di Meffilld ha finito la sua apologia degli Stati
Uniti?--domandai alla signorina Mary la prima volta che la vidi dopo
la nostra gita a Boston.

--No--rispose sorridendo--egli parla anche del mandato imperativo, che
è una delle nostre cose migliori.

--Non ve lo contesto, quando penso a certi deputati dei paesi latini i
quali dicono ai loro elettori: «Studierò la questione, agirò secondo
la mia coscienza...» quasi che venissero mandati al Parlamento per
fare un corso di studi e non già per agire secondo il programma dei
cittadini che li hanno eletti.

--Precisamente il contrario di quello che succede qui, dove l'eletto
non è che il portavoce dell'elettore e non può agire che nel senso del
suo mandato. Il membro del Congresso non deve far altro, nei suoi
discorsi e nei suoi voti, che difendere i principi dell'assemblea di
elettori che lo ha nominato.

--E colui che qualche volta tentennasse?

--Sarebbe additato come un traditore e disprezzato anche dal partito
avverso a cui avrebbe portato il suo aiuto. Tempo fa un certo Haigh,
rappresentante della California, avendo, in una questione di
principio, votato contro l'opinione democratica che era quella dei
suoi elettori, fu, uscendo dalla seduta, ucciso in un duello al
revolver, sulla scalinata del palazzo legislativo, dal giudice Field,
che rappresentava esso pure la California. E ciò accadde fra gli
applausi dei rappresentanti dei due partiti, unanimi nell'odiare tutto
ciò che è viltà e capitolazione della coscienza politica.

--Il sistema di punizione è molto radicale!

--Noi pensiamo--diceva il sindaco di Meffilld--che la maniera con cui
il nostro rappresentante eseguirà il suo mandato, sarà subordinata al
suo grado d'intelligenza, alla sua abilità, alla sua capacità; non
possiamo su tutte le questioni tracciargli la linea di condotta: ma
c'è un punto sul quale siamo in diritto di pretendere che non transiga
sotto pena di non rappresentarci più; egli deve restare fedele al
partito dei suoi elettori. Che se nel corso della legislatura le sue
opinioni cambiassero su qualche punto importante, egli dovrebbe
dimettersi, poichè non fu inviato al Congresso per fare la sua
educazione politica o per eseguire delle variazioni di coscienza, ma
bensì per rappresentare un dato numero di concittadini dei quali ha
accettato il programma.

--Giustissimo.

--Voi vedete--seguita a dire il buon sindaco--che da una macchina
incosciente per votare, all'onesto uomo il quale resta fedele al
programma politico che ha giurato ai suoi elettori di difendere, c'è
una bella differenza. Invece di accettare un candidato che domanda la
deputazione, respingetelo, concludeva, per questo solo che egli si
presenta da sè (non può essere che un ambizioso volgare); scegliete
voi stessi il vostro rappresentante fra i galantuomini che avranno
accettato il vostro programma, e allora non esporrete più il vostro
paese a cadere sotto il giogo demoralizzatore di un parlamento il
quale non tiene conto alcuno della volontà nazionale e di cui tre
quarti dei membri hanno la pretesa di non rappresentare che «la
propria coscienza.»

Dopo una breve pausa, la mia studiosa amica continuò:

--Negli Stati Uniti abbiamo poi l'istruzione veramente estesa a tutti,
ricchi e poveri, in un modo più pratico che non si faccia in Europa,
senza greco e senza latino. Noi non ammettiamo che, vivendo in
società, un padre possa fare di suo figlio un essere nocivo o inutile
coll'ignoranza. A questo proposito il vecchio di Meffilld diceva a
Jacolliot: «Fate dell'ordine con molta libertà ed una istruzione
solida ed eguale per tutti. Invece di concentrare la vita pubblica in
poche città che custodite con molti soldati, date a tutti i comuni la
loro completa autonomia amministrativa, non occupatevi dei loro affari
come non vi occupate di quelli di un privato, e vedrete che finiranno
le rivoluzioni. Ma sopratutto non separate la libertà dall'istruzione:
l'una non può esistere senza l'altra. La scuola deve essere lo
stabilimento più importante del comune: fate passare il vostro
suffragio universale dalla scuola ed esso si dirigerà da sè.» Ecco
tutta la scienza sociale...

--Non dico di no, ma...

--Non c'è ma che tenga. Jackson Davis, un nostro noto pubblicista,
ricordava a questo proposito al signor Jacolliot l'esempio di ciò che
è successo in Francia dopo i disastri del 1870, nella Francia che
manca sempre di uomini politici e che è governata da politicanti
volgari, da ambiziosi senza carattere e senza principi. Caduto
l'impero e proclamata la repubblica, si aspettava qui ansiosamente di
sentir annunziato dal telegrafo il vigoroso proclama d'un governo
provvisorio qualunque, che chiamasse la Francia intiera prima alle
urne e poi alle armi. E immensa fu la sorpresa negli Stati Uniti
quando si sentì che i capi della Sinistra avevano formato un governo
che non sottoponevano neppure all'accettazione della Francia. Essi si
impadronirono di quel potere che nessuno ha il diritto di esercitare
senza una delegazione diretta, regolare, espressa della nazione.

--Il nemico aveva invaso il paese, e tutti avevano perduto la testa:
erano momenti eccezionali.

--Jackson Davis dice appunto che sarebbe uscito qualche cosa di grande
da un'assemblea di sette od ottocento membri, nominati davanti al
nemico, e che avrebbe tenuto le sue sedute tutta fremente, al chiarore
degli incendi di Bazeilles e Châteadun. La Francia aveva bisogno di
uomini energici e in quell'assemblea se ne sarebbero rivelati. E poi
sarebbe stato il paese che avrebbe decretato, agito, combattuto, e non
già una dozzina di individualità senza mandato. Jackson Davis crede
che Gambetta, col suo ardente patriottismo e colla sua energia,
avrebbe salvato la Francia senza il tradimento di Bazaine; ma crede
altresì che Bazaine avrebbe esitato a tradire, se la Francia fosse
stata governata da una assemblea uscita dal suffragio popolare.

--È probabile.

--Non dimenticatelo! esclamava Davis: tutte le avventure che
capiteranno ancora alla Francia e ai paesi che le somigliano saranno
dovute ai politicastri, che spingono il popolo nella via delle
rivoluzioni senza averlo preparato alla pratica della libertà e senza
conoscere essi stessi, come hanno dimostrato, le istituzioni che
formano la grandezza e la forza dei paesi liberi. I vecchi paesi
d'Europa non hanno che un mezzo per rialzarsi: fare la crociata
dell'istruzione, fondare delle scuole, combattere senza posa
l'ignoranza, allevare una generazione di cittadini, nella quale non vi
sia uno solo che non conosca la storia politica, sociale, industriale
e scientifica dell'umanità. Poi devono predicare l'indipendenza
intiera, completa, dei comuni, fare dei costumi repubblicani, e allora
avranno fondato per sempre la libertà.

--Siamo d'accordo: solamente....

--Solamente bisogna ricordarsi che la libertà si acquista e non si
conquista, che un progresso è sempre il corollario di un altro
progresso realizzato e che coi colpi di mano e con le rivoluzioni non
si arriva che al dispotismo. Al principio stesso della rivoluzione del
1789 tutti i grandi uomini di Stato americani, Hamilton, Morris,
Jefferson, Madison, John Adams non credettero ad un successo
definitivo perchè era cominciata col disordine e coll'anarchia. Il
giorno 8 ottobre 1789, quando Luigi XVI possedeva ancora una parvenza
di autorità, Washington rivolgeva queste parole profetiche al
rappresentante degli Stati Uniti in Francia: «Desidero di ingannarmi,
ma se ho ben compreso il carattere della nazione francese, io temo che
vi sarà molto spargimento di sangue e un dispotismo più rude di quello
che essa si lusinga di aver distrutto.»

--Washington sapeva che fu più difficile sbarazzare gli Stati Uniti
dal disordine e dai politicanti ambiziosi, che dalle truppe inglesi.

--Non fu già cacciando gli inglesi e versando il proprio sangue per
l'indipendenza dell'America, che Washington e i suoi amici hanno reso
i maggiori servigi al loro paese: fu dandogli una costituzione. E non
era una cosa facile il mettere d'accordo, dopo la vittoria, non solo i
vari Stati unitisi per sottrarsi all'autorità dell'Inghilterra, ma
anche gli uomini che con la penna o con la spada si erano distinti
durante quella guerra. A sentire certi politicanti europei,
nell'America del Nord il terreno era pronto, qui non c'erano nè un
passato monarchico, nè partiti, nè divisioni, nè odii, e la Repubblica
si fondò senza sforzi, come un semplice risultato della situazione.

--Se non avevano degli uomini come Washington e compagni, stavano
freschi anche qui!

--Oh! meno male. Chi ha studiato un po' la nostra storia, sa che,
all'indomani della pace, esercito e Congresso entrarono in lotta:
vincitore dello straniero, l'esercito aveva la velleità di
rappresentare una parte all'interno; lo spirito pretoriano
s'infiltrava nei ranghi dei soldati, gli ufficiali volevano conservare
e gradi e paghe, e vivere sul bilancio; essi mantenevano l'agitazione
mentre il Congresso, il quale aveva imparato dalla Storia come si
svegliano le nazioni che s'addormentano fra le braccia dei militari,
voleva licenziare l'esercito. Due volte l'esercito si ammutinò,
rifiutando di riconoscere l'autorità del Congresso. E due volte
Giorgio Washington, suo capo supremo, approfittando della sua
influenza e del culto fanatico che l'ultimo dei soldati professava per
lui, lo fece tornare al dovere.

--Se non c'era lui!

--Un giorno un proclama anonimo chiama l'esercito a un _meeting_ e lo
invita a offrire la dittatura al suo capo; Giorgio Washington accorre
e rivolgendosi ai suoi soldati, grida: «Non crediate che io acconsenta
ad accendere la discordia e la guerra fra l'esercito e l'autorità
civile. L'Europa ha ammirato il vostro coraggio e il vostro
patriottismo; distruggerete voi in un istante una riputazione
acquistata con tanta fatica? In nome della vostra patria comune, in
nome dell'onore vostro che deve esservi sacro, in nome dell'umanità,
se ne rispettate i diritti, in nome dell'onore nazionale e militare
dell'America, esprimete l'orrore che deve ispirarvi l'uomo, il quale
con speciosi pretesti tentasse di distruggere i fondamenti della
nostra libertà, di suscitare la guerra civile e di annegare nel sangue
un impero appena nato.» Fu in questi termini che Washington rispose
all'offerta di un trono appoggiato sull'esercito.

--Se egli fosse stato un avventuriero, un ambizioso, addio libertà
nord-americana!

--L'istituzione della repubblica negli Stati Uniti si deve realmente
in gran parte all'onestà di un uomo. Passato quel pericolo, si dovette
lottare cogli interessi differenti e spesso contrari degli Stati e con
le varie teorie degli uomini politici. Dal 1783 al 1789 l'America del
Nord visse schiacciata dai debiti, senza unità all'interno e senza
prestigio all'estero. Invitato da Henry Lee ad accorrere per salvare
la patria, Washington rispondeva invariabilmente che bisognava fare
una costituzione, la quale conservando l'indipendenza degli Stati,
creasse l'unità dei popoli nord-americani, la forza federale. E fu
solo quando si diede retta a Washington e gli Stati nominarono un
Congresso incaricato di redigere quella costituzione, che l'America
trovò la pace. Non si venga a dire, dunque, che la repubblica degli
Stati Uniti si è fatta facilmente e senza disordini, quando per venti
volte corse pericolo di fallire.

--Negli Stati Uniti il federalismo ha costituito l'unità del paese, e
in Europa c'è un partito numeroso che lo respinge come pericoloso per
l'unità nazionale!

--È l'osservazione precisa fatta da Jacolliot a Jackson Davis, il
quale gli rispose che questo partito è quello che tenta continuamente
di far l'avvenire con l'aiuto della leggenda del passato, e che, erede
delle dottrine dei giacobini, sogna una repubblica autoritaria con un
presidente dai poteri estesi. Ora è stato precisamente questo partito
che coi suoi eccessi ha ucciso il movimento pacifico delle idee
dell'ottantanove: è questo partito, che, con la sua ignoranza, con la
mancanza di spirito politico e col sangue sparso inutilmente e
stupidamente, raggruppò la Francia intiera e l'esercito intorno a
Cesare. Fu ancora questo partito che perdette la Francia nel giugno
1848, il 4 settembre 1870 e il 18 marzo 1871. Esso non respinge il
federalismo (il quale creando l'indipendenza e l'autonomia completa
dello Stato-Provincia e del Comune per tutte le questioni
d'amministrazione interna, distruggerebbe per sempre l'idea
monarchica) se non che per governare a sua volta il paese,
imponendogli le sue idee.

--Ma chi le insegna al popolo queste cose?

--Eh! pur troppo, son pochi gli onesti e i disinteressati che vogliano
presso voi farsene banditori. Jackson Davis dice che c'è una storia da
rifare in Europa per il popolo ed è quella della rivoluzione dell'89.
La massa, nel suo insieme, ignora il lavoro di preparazione di tutti i
grandi spiriti del secolo decimottavo; essa non sa a che punto le idee
di eguaglianza e di libertà avevano fatto strada nel mondo, e che la
maggior parte dei troni erano occupati da principi molto più liberali
della maggior parte dei loro sudditi; essa non sa che il lavoro delle
riforme era finito il 4 settembre 1791 e che la Convenzione,
innalzando la forca sulle pubbliche piazze e terrorizzando, uccise la
libertà. Ebbene, se il popolo ignora queste cose, se è sempre pronto a
imitare gli eccessi della Convenzione, se la Comune fucila e incendia,
se migliaia di poveri diavoli sono morti sotto la mitraglia nelle
giornate di giugno come in quelle di maggio, di chi la colpa, se non
di quegli uomini che per quindici o vent'anni hanno lusingato la folla
per farsene un piedestallo, parlandole continuamente della sua
sovranità, dei suoi diritti imprescrittibili, dei principî della
immortale rivoluzione, senza farle conoscere che tutti questi diritti
hanno come corollario altrettanti doveri e che nulla si acquista nè si
conserva senza la saggezza e la moderazione?

--Ah! i demagoghi: ha ragione Dario Papa che li odia tanto.

--Jackson Davis diceva a Jacolliot che lasciando l'America del Nord
avrebbe portato con sè una provvista di odio vigoroso contro gli
ambiziosi che insanguinano periodicamente la Francia. E tornava a
battere quel chiodo, che in Europa non avete degli uomini politici, ma
degli agitatori, i quali quando hanno rovesciato un governo, credono
d'aver fatto tutto inalberando sui muri le insegne della repubblica,
invece di preoccuparsi, sopratutto e innanzi tutto, di cambiare le
istituzioni. Le riforme verranno un po' alla volta, essi dicono;
bisogna tener conto dei pregiudizi e degli interessi; e, mentre
distribuiscono i portafogli e mandano i loro amici nelle prefetture,
tutti gli ingranaggi monarchici che essi non hanno osato di spezzare,
si muovono....

--E continua a funzionare la macchina di prima!

--Come americano, conchiudeva Jackson Davis, io non sono partigiano
delle rivoluzioni; credo che il progresso si possa conquistare con le
lotte intelligenti e pacifiche, e che non vi sia governo, il quale non
sia obbligato di seguire il movimento delle idee. Noto che in Europa i
popoli i quali non fanno rivoluzioni a mano armata, l'Inghilterra, il
Belgio, la Danimarca, la Svezia, l'Olanda, la Svizzera, sono i più
liberi.

A questo punto la signorina Mary, che con tanta foga e convinzione mi
aveva riassunto le sue lezioni ed esposte le idee e le osservazioni di
Jacolliot e di Jackson Davis, s'interruppe e mi guardò.

--Ma io mi accorgo--mi disse di lì a un momento--che voi ascoltate
senza manifestarmi il vostro intimo pensiero. Mostrate di approvare,
sì, ma con qualche restrizione.--Che cos'è che avete ancora da dire a
carico degli Stati Uniti dove io sono nata, contro la mia patria?

Stavo finalmente per rispondere ed esporre ciò che mi veniva con
insistenza alla mente durante gli istruttivi discorsi della mia brava
amica, quando il treno dell'_Elevated_, che ci trasportava a casa
dalla passeggiata, si fermò alla stazione vicino all'abitazione di
Mary. Dovemmo scendere in fretta.

--A dopo domani, dunque--mi disse Mary mentre io la salutavo.--Le mie
lezioni sono finite e voglio assolutamente sentire quello che finora
mi avete taciuto.



XII.

Dario Papa in America.


Nel capitolo precedente si è nominato Dario Papa, il valoroso
direttore dell'_Italia del Popolo_, uno dei più forti scrittori che
onorino il giornalismo italiano.

Vi sarebbe uno studio psicologico interessantissimo da fare sul giro
compiuto negli Stati Uniti da Dario Papa mentre io mi trovavo a
redigere il _Progresso Italo-Americano_ di New-York e sul suo nuovo
indirizzo politico dopo quel viaggio, indirizzo che sorprese solamente
coloro che non conoscevano Papa da vicino e che parve invece logico e
naturale a chi era testimonio dei suoi scatti nervosi di ribelle, dei
suoi sfoghi tanto contro i ciarlatani della democrazia come contro i
bigotti della monarchia.

Quando Ferdinando Fontana me lo presentò una sera nel Restaurant
Riccadonna in Union Square poco dopo il loro arrivo a New-York, io lo
guardai con una specie di ingenua diffidenza, sapendo che era uno dei
più reputati redattori del _Corriere della Sera_ e che combatteva cioè
per un partito, per il quale, a parte gli uomini, io non avevo molta
simpatia.

--Che sia--pensavo--uno di quei giornalisti che pretendono di studiare
e di conoscere una nazione in quindici giorni, e che sia venuto qui
per mettersi, dopo poche osservazioni superficiali, a scriver male
delle istituzioni repubblicane degli Stati Uniti?

Io allora mi trovavo in America da qualche anno; ero reduce da un
lungo viaggio nel _Far-West_ e sulle Montagne Rocciose; vedevo che più
mi fermavo nel paese e più imparavo a stimarne il carattere degli
abitanti e l'organismo politico e amministrativo; e mi irritava la
sola idea che un campione del partito moderato italiano si fosse
prefisso di fare una rapida escursione nella repubblica nord-americana
per non occuparsi che dei suoi difetti e per metterli in ridicolo,
esagerandoli, alla scopo di trarne profitto e dire che in fin dei
conti è meglio tenersi cara la tale monarchia.

Sapevo già che nei giornali conservatori si ricorreva a questo
ritornello, a ogni _gaffe_ dei repubblicani francesi, i quali
certamente, avendo conservato tutto l'accentramento delle monarchie e
degli imperi, si prestano alle critiche più giustificate, ma che, non
fosse altro, si sono liberati da quell'avanzo dei tempi di Bertoldo
che è il cosidetto diritto divino.

Ma mi bastò mezz'ora di conversazione per capire che Dario Papa non
era uno di coloro che si rinchiudono nella botte dei loro dogmi,
rifiutando di vedere e di sentire. Era invece un Diogene uscito
precisamente dall'ambiente in cui le combinazioni della vita lo
avevano fatto crescere, che viaggiava deliberatamente con la sua brava
lanterna per esaminare e studiare il paese famoso della libertà.

E che avesse intenzione di studiare sul serio e profondamente lo
mostrò appena arrivato: invece di prendere alloggio in un albergo
italiano, incominciò coll'andar ad abitare in un _boarding-house_
americano e a vivere esclusivamente fra gli americani, parlando
continuamente inglese, lingua che conosceva imperfettamente e che gli
diventò ben presto famigliare.

Poco tempo dopo il suo arrivo s'accorse che New-York non è l'America
del Nord e che anzi, per l'affluenza di gente di tutte le razze, è un
porto di mare cosmopolita più che una città schiettamente americana.
Si persuase che per conoscere bene il paese bisognava spingersi
nell'interno, attraversare il vasto continente dall'Atlantico al
Pacifico, fermarsi negli Stati centrali, visitare quel curiosissimo
territorio che è l'Utah dei Mormoni, oltrepassare la catena delle
Montagne Rocciose, arrivare fino a San Francisco, in California.

Per compiere una simile escursione ci vogliono molti mezzi e quelli di
cui disponeva Dario Papa come giornalista italiano in vacanza erano
piuttosto scarsi, per non dire assolutamente insufficienti. Un altro
avrebbe rinunziato al lungo viaggio: egli partì egualmente,
sottoponendosi a mille privazioni, pur di vedere e di studiare. Ci
vuole una bella dose di energia per intraprendere simili studi!

Quando tornò dopo qualche mese da quel suo viaggio d'istruzione molto
dura e spartana, ricordo che era dimagrato e abbronzato dal sole delle
grandi praterie, ma contento come una Pasqua, sebbene tormentato di
tanto in tanto dalla tosse.

Sceso dalla stazione ferroviaria, prese il _tramway_ della Terza
Avenue e venne a trovarmi nell'ufficio del giornale in Centre Street
per esprimermi tutta la sua gioia di aver percorso per lungo e per
largo il vastissimo paese e per dirmi che solo a quel modo aveva
potuto conoscerne tutta la grandezza e vederlo da vicino nella sua
agricoltura, nelle sue industrie, nelle sue immense estensioni di
terre da coltivare, nei villaggi nascenti e sopratutto nell'esercizio
continuo e pacifico della libertà.

Quello che dimenticava di dirmi erano i sacrifici che la lunga
peregrinazione gli era costata.

Contenti ambedue di rivederci dopo tanto tempo, andiamo quella mattina
a far colazione insieme in un albergo: mentre si mangia allegramente
discorrendo dell'interno degli Stati Uniti, sentite un po' che cosa
succede. Un pappagallo dell'albergatore si arrampica pian piano
sull'attaccapanni, e, senza che alcuno se n'accorga, comincia a
lavorare col becco e fa un gran buco proprio nel cappello di Dario
Papa, un cappello rotondo di feltro, piuttosto in cattiva condizione.

--Ah! anche questa mi mancava!--esclama Papa, appena se
n'accorge.--Non m'era rimasto che un cappello solo ed eccolo rovinato!
Dovrò cambiare l'ultimo napoleone d'oro che m'è rimasto...

I napoleoni mi ricordano un altro curioso aneddoto. Prima di partire
per l'America, Papa aveva sentito dire che in viaggio era facile
essere derubati e che i denari bisognava metterli in una cintura da
tenersi sulla pelle. Egli seguì il consiglio alla lettera.

Una sera ci trovavamo a pranzare insieme con altri amici in un
_restaurant_ e volle pagar lui il conto. Ma quando questo gli fu
presentato dal cameriere, egli s'accorse che aveva dimenticato di
preparare il denaro e, senza dir nulla, si ritirò misteriosamente in
un camerino attiguo alla sala: era andato a cavare un luigi dalla
famosa cintura che teneva sotto la camicia!

Era in certe cose ingenuo e schietto come un bambino. Rimasto orfano
da ragazzo e allevato da una zia con cure materne, egli nutriva per
quella sua parente un sentimento di vera adorazione, le scriveva
continuamente, ne parlava sempre con profonda tenerezza.

Quando si occupava di politica, invece, diventava un altro uomo,
irrequieto, nervosissimo, qualche volta violento e intrattabile. Prima
di scrivere certi articoli di polemica, passeggiava in su e in giù per
l'ufficio, sbuffando tutto indignato, buttando via i fasci dei
giornali, apostrofando a voce alta i suoi avversari, chiamandoli pezzi
d'asini, bellissimo nella sua irrequietezza e in quegli impeti d'ira.
E quando aveva trovato qualche idea felice, qualche frase tagliente,
si fregava rapidissimamente le mani sempre camminando, curvo e
sorridente.

Pensato l'articolo in quei suoi giri per la stanza, lo buttava poi giù
sulla carta in pochi minuti, scrivendo con grande velocità, in preda
sempre a una specie di orgasmo. Finito l'articolo, appariva come
sollevato da un gran peso, tornava mite e mansueto e cercava con
interesse la compagnia di alcune signore newyorkesi molto istruite,
con le quali aveva stretto relazione, e imparava non solo a conoscere
sempre meglio la società americana, ma anche l'inglese.

Per conoscere da vicino anche il giornalismo, dopo il suo viaggio
nell'interno si fermò sette od otto mesi a New-York, collaborando nel
_Progresso italo-americano_ e fu in quel periodo che lo vidi lavorare.
Egli non si era ancora liberato da certi pregiudizi europei di
educazione, di vita pubblica, e in lui aveva luogo una lotta continua
fra ciò che aveva creduto fino allora nel mondo vecchio, e ciò che
vedeva in pratica coi propri occhi in quello nuovo. Era un lavorìo
incessante nella sua mente, che gli dava molta pena e che lo rendeva
più nervoso che mai.

Un giorno lo vidi arrabbiarsi al punto da gettar per aria tutti i
libri e tutti i calamai dell'ufficio: pareva che stesse per impazzire.

Un'altra volta, era d'estate, stanco di quella battaglia con sè stesso
e col suo passato, che lo spossava e lo rendeva come uno straccio,
decise di rifugiarsi per un paio di mesi in campagna, e cercò un asilo
tranquillo a Bradford, nella Pensilvania.

Ma anche là era la stessa storia; aveva sotto gli occhi l'esempio di
un piccolo comune completamente autonomo, che si amministrava in tutto
e per tutto da sè, senza bisogno di permessi, di visti, di
autorizzazioni prefettizie o ministeriali; vedeva in azione il
suffragio universale e il mandato imperativo; notava che il miglior
edifizio del paese era quello delle scuole comunali; che i maestri
erano pagati molto bene e rispettati come i primi funzionari; che
dovunque mancava la burocrazia; che tutte le cose si facevano alla
buona, alla spiccia, nel modo più semplice e pratico del mondo.

E anche da Bradford, dimenticando che s'era ripromesso di riposare,
mandava di tanto in tanto al _Progresso_ dei lunghi articoli in cui
riassumeva lealmente i suoi studi e le sue impressioni.

Prima che egli, completamente persuaso di aver battuto una falsa
strada, si decidesse a buttare alle ortiche la cocolla dell'ordine
monarchico moderato, ci volle qualche anno; ma fu in quei mesi di
viaggi e di osservazioni che cominciò a perdere l'antica fede; da
quell'epoca fino al giorno in cui si distaccò completamente dal
vecchio partito, fu un periodo laborioso, faticoso e doloroso, di cui
egli solo potrebbe fare la storia esatta in uno studio autobiografico,
in un libro che riescirebbe di grande istruzione per i nostri giovani,
intitolato: _Come io diventai repubblicano federalista_.



XIII.

L'ultima conversazione con Mary.


Era una triste sera di gennaio, piena di nebbia.

Una nera fanghiglia copriva le strade di New-York e di minuto in
minuto si sentivano i fischi lunghi e lamentevoli che emettevano i
vapori e i _steam-boats_ per non investirsi nella baia.

Dovendo imbarcarmi il giorno seguente per l'Europa, andavo a salutare
la signorina Mary e i suoi parenti che erano i miei migliori amici.
Dopo che si parlò del viaggio che avevo da compiere in una stagione
così sfavorevole e del piroscafo scelto, la signorina Mary mi ricordò
la promessa fattale di esporle il mio intimo pensiero intorno agli
Stati Uniti.

--Sentiamo, dunque, un po'--mi disse--l'idea che mi avete sempre
taciuta.

--È di una semplicità infantile--risposi.--Io parto pieno
d'ammirazione per questo paese il quale, malgrado certi difetti che
abbiamo più volte notato insieme, è governato dalla costituzione più
democratica che si conosca. Qui regna realmente l'eguaglianza fra i
cittadini; non avete esercito, nè Corti, nè ordini cavallereschi; la
prima cosa che curano i vostri liberi comuni è la pubblica istruzione;
ogni cittadino è elettore; il presidente della Repubblica, sebbene
siate tanto ricchi, non vi costa che duecento mila lire all'anno;
siete senza burocrazia e l'amministrazione della giustizia procede con
grande sollecitudine, senza abuso di carcere preventivo; avete
risoluto il problema politico coll'esercizio del suffragio universale
e dell'autonomia comunale, coll'esercizio cioè della sovranità
popolare; ma non vi siete ancora preoccupati della questione
economica.

--È segno che non ne fu sentito ancora il bisogno.

--Ciò è esatto fino a un certo punto. È verissimo che per la
estensione immensa del territorio e per la sua ricchezza, per la
mancanza dell'esercito, della marina da guerra e di tante altre spese
che stremano i bilanci delle Nazioni d'Europa, negli Stati Uniti non
si trova la miseria del vecchio continente e i salari sono qui più
alti che altrove. Ma non è meno vero che anche voi avete nelle città
dei quartieri pieni di gente povera, lacera, affamata, pigiata in
cameraccie prive d'aria e di luce; non è meno vero che anche qui vi è
dell'infanzia abbandonata e che molte giovani derelitte sono costrette
a far mercato di sè stesse; non è meno vero finalmente che i
lavoratori di tutte le classi, sebbene relativamente pagati meglio che
in Europa, sono sfruttati dai capitalisti e dai monopolii.

--Questo è innegabile.

--Quel sentimento di giustizia e di fratellanza che commuove in questa
fine di secolo tutto il mondo e che fa vendere tante migliaia di copie
del libro del vostro Bellamy,[Nota: _La vita sociale nel 2000_,
romanzo di E. BELLAMY, tradotto da G. OBEROSLER, sulla 330^a edizione
originale americana, ampliata con un _Post-scriptum_ e con l'aggiunta
di un _Dizionario economico-sociale_. Editore Max Kantorowicz, Milano,
1892.--Prezzo L. 1.] non è ancora entrato nel cuore dei vostri
legislatori. Neppure qui il diritto all'esistenza è stato
riconosciuto. Accanto ai re delle ferrovie, del lardo, del petrolio,
della Borsa, di tutte le speculazioni, stracarichi di ricchezze e di
diamanti, trovate spesso anche nelle vostre città più fiorenti
l'operaio disoccupato e digiuno, l'orfano scalzo, la famiglia senza
tetto e senza pane. Come diceva Macaulay molti anni fa scrivendo ad un
amico, finchè avrete negli Stati Uniti un'immensa estensione di terra
fertile e non ancora occupata, i vostri lavoratori staranno
infinitamente meglio di quelli del vecchio mondo. Ma tempo verrà in
cui la Nuova Inghilterra sarà popolata come la vecchia. Presso di voi
il salario diminuirà e subirà le stesse fluttuazioni come in Europa.
Voi avrete la vostra Manchester e la vostra Birmingham dove gli
operai, a centinaia di migliaia, avranno sicuramente i loro giorni di
crisi. Allora si leverà per le vostre istituzioni il gran giorno della
prova. La miseria rende dovunque il lavoratore malcontento e
rivoltoso, preda naturale dell'agitatore, il quale gli espone quanto è
ingiusta questa ripartizione in cui l'uno possiede dei milioni, mentre
l'altro è incerto del pane. Da noi, negli anni di crisi, vi sono molti
lagni ed anche qualche tumulto; ma poco importa, poichè la classe
sofferente non è la classe governante. Il potere supremo è nelle mani
di una classe numerosa, che è la più colta e la quale è e si stima
profondamente interessata al mantenimento dell'ordine, alla guardia
delle proprietà. Ne segue che i malcontenti sono repressi con fermezza
e si passano i momenti critici senza spogliare il ricco per assistere
il povero. Ma come ve la caverete voi quando al principio del secolo
venturo avrete da affrontare prove consimili?

--Bisogna prevederle e prepararsi in tempo per trovare il modo di
superarle felicemente.

--È il voto di tutti, ma l'ipotesi più verosimile è invece che quando
arriveranno i momenti tristi, il vostro governo non sarà capace di
contenere una maggioranza sofferente e irritata. Perchè qui il governo
è nelle mani delle masse, e i ricchi, che sono in minoranza, si
trovano in balìa di esse. Giorno verrà in cui la moltitudine, fra una
metà di colazione e la dubbia prospettiva di una metà di desinare,
nominerà i legislatori. E possibile concepire un dubbio sul genere di
legislatori che saranno nominati? Da una parte avrete un uomo di Stato
che predica la pazienza, il rispetto dei diritti acquisiti; dall'altra
un demagogo che declama contro la tirannia dei capitalisti e degli
usurai e domanda perchè gli uni bevono vino di Champagne e passeggiano
in carrozza, mentre tanta gente onesta manca del necessario. Quale di
questi candidati avrà la preferenza dell'operaio che ha sentito i suoi
ragazzi chiedergli del pane? Oh! allora avverranno qui di quelle cose,
dopo le quali la prosperità non può più rinascere. Allora, o qualche
Cesare, o qualche Napoleone prenderà con una mano potente le redini
del governo, oppure la vostra repubblica sarà nel xx secolo
saccheggiata e devastata come lo fu l'impero romano dai barbari, con
questa differenza: che i devastatori dell'impero romano, gli Unni e i
Vandali, venivano di fuori, mentre i vostri barbari saranno i figli
del vostro paese.

--Secondo tutte le probabilità--disse la signorina Mary, dopo un po'
di riflessione--i barbari verranno fuori prima nei paesi più poveri,
in Europa, se i governi del vecchio continente non si decidono a
ritardarne l'avvento col disarmo, che vorrebbe dire rifiorimento di
tutte le industrie, dell'agricoltura e del commercio, e che nella sola
Italia significherebbe una economia di un milione e mezzo al giorno.
Ora l'esempio di ciò che succederà in Europa servirà di ammaestramento
agli Stati Uniti: almeno speriamolo.

Ed essendo sopravvenuto. Giorgio, si cambiò discorso.



XIV.

Rimpatriando.


M'imbarcai sul _Rhynland_ della _Read Star Line_ una mattina di
gennaio, mentre nevicava. Non eravamo a bordo che in cinque
passeggieri di prima classe e in cinque di seconda, la maggior parte
dei quali appena si prese il largo, essendo il mare molto grosso, si
dovettero mettere a letto. Ben presto non rimase più a farmi compagnia
a tavola e nello _smoking-room_ che il dottore, un inglese dalla barba
rossa, molto amante dei liquori e della birra.

Dopo tre giorni, oltrepassati i banchi di Terranova, il tempo si
rasserenò un poco e qualche passeggiero sbucò dalle cabine; ma ben
presto tornò la tempesta; il _Rhynland_ riprese le sue danze; l'acqua
spazzava ambedue i ponti. Per respirare un po' d'aria e contemplare le
ascensioni e le discese del piroscafo, dovetti farmi legare con una
corda, dopo aver indossato l'impermeabile, a un albero: era un piacere
nuovo quello di sentirsi coprire dalle onde altissime e di sparire di
tanto in tanto per un momento sotto il liquido elemento.

Ma per lo più bisognava stare tappati sotto il ponte e io approfittavo
della solitudine per riandare il passato e vedere ciò che avevo
imparato. Ero stato quasi cinque anni negli Stati Uniti, tre dei
quali, gli ultimi, fermo a New-York; sentivo di essermi spogliato di
molti pregiudizi, di rimpatriare con criteri più pratici e positivi di
quelli con cui ero partito e non vedevo l'ora di arrivare in Italia
per fare dei confronti ed esaminare i contrasti che più mi avrebbero
dato nell'occhio.

Dodici giorni dopo la partenza dal porto di New-York il _Rhynland_
passava al largo di Lizard Point ed entrava nell'English Channel,
pieno di nebbia: dopo mezzogiorno si vedeva a occhio nudo la prima
striscia di terra inglese. Erano alcune roccie che scendevano a picco
nel mare. Al tredicesimo giorno si entrava nella Schelda e l'Olanda ci
si presentò sotto forma di alcuni mulini a vento: nel pomeriggio il
_Rhynland_ gettava finalmente l'àncora nel porto di Anversa.

Il treno diretto internazionale Bruxelles-Strasburgo-Basilea mi
portava il giorno seguente a Milano. Passate alcune settimane presso i
parenti che non vedevo da tanto tempo, intrapresi un breve giro in
Italia, per visitare alcune città, come Roma, che non avevo mai visto
prima di emigrare in America.

Andrei troppo per le lunghe se dovessi descrivere minutamente tutte le
impressioni provate. La prima--provenendo dagli Stati Uniti, paese di
settanta milioni di abitanti, dalle grandi città dove il movimento dà
le vertigini--è che l'Italia pare un bel cimitero. Con le scarse
vetture, coi rari _trams_, con la mancanza di ferrovie nell'interno,
le nostre maggiori città mi sembravano silenziose e come addormentate.

Le strade poi mi apparivano strette in un modo straordinario. Abituato
alle ampie _avenues_ dai doppi filari di alberi, quelle che passano
qui per le vie più comode mi parevano calli veneziane. Il Po, l'Adige,
il Tevere erano diventati per me fiumiciattoli dopo aver attraversato
il Missouri e il Mississipì. Trovavo tutto piccolo, gretto, meschino,
così negli uomini, come nelle cose. Solo Roma mi presentava qualche
cosa di grande; memorie però, del passato; avanzi, come le Terme, i
quali dimostrano quanto gli antichi romani fossero più puliti di noi,
che non abbiamo oggi nella capitale un grande stabilimento di bagni,
riscaldato internamente all'inverno, dove si possa fare una doccia
senza buscarsi un raffreddore.

Ma la cosa più brutta di Roma sono le strade selciate così male e per
lo più senza marciapiedi, che quando piove si riempiono d'acqua. Aveva
ragione Nathaniel Howthorne, nei suoi _Italian Note Books_, di
chiamarle _indescribably diseagreable_. E la mancanza di
_water-closets_? Il non trovarne di decenti neppure nei caffè più
eleganti, pare incredibile al forestiero.

Gli è che da noi si cura più l'apparenza della sostanza. Così abbiamo
una quantità di gente che non guadagna dieci lire al giorno e che
vuole vestire, frequentare i teatri, tener la casa come se ne
guadagnasse venti o trenta. Come faranno costoro? O dei gran debiti o
dei gran digiuni.

E l'apparenza non la si ritrova solo nei falsi eleganti, che vogliono
vestire meglio di quello che la loro condizione comporterebbe, ma nei
discorsi e negli atti più insignificanti della vita. Quanti
complimenti, quante chiacchiere inutili!

Un'altra cosa, che in Europa e specialmente in Italia e in Francia fa
una sgradevole impressione, è il pullulare dei periodici pornografici,
la mostra pubblica delle fotografie di _cocottes_, di attrici o di
ballerine seminude. Un popolo giovane, forte e lavoratore rifugge
dalla corruzione. E a proposito di effeminatezza, fa un curioso
effetto l'uniforme dei giovani ufficiali con la giubba tanto corta.

Una pessima impressione si riceve poi dalla moneta in circolazione,
dalla scarsezza dell'argento, dalla mancanza dell'oro, dall'uso dei
grossi soldi di rame e dei piccoli biglietti da cinque e da dieci
lire. Il corso del centesimo e dei pezzi da due centesimi da
specialmente nell'occhio come un segno di grande miseria.

Una spiacevole impressione fa altresì la caccia che i giovani della
piccola borghesia danno all'impiego meschinamente retribuito, invece
di dedicarsi all'industria, al commercio, all'agricoltura.

Che dire poi della politica! Si trova che tutto in Italia si fa alla
rovescia. Alla vita pubblica dovrebbe prender parte la maggioranza dei
cittadini col mezzo del voto, e invece una parte è privata di quel
diritto e l'altra, sfiduciata, se ne disinteressa e lascia brigare una
piccola minoranza di ambiziosi. All'epoca delle elezioni invece di
gran comizi di elettori che, secondo il partito, scelgano i candidati
che accettino il loro programma, si vedono dei candidati che si
presentano da loro a piccole riunioni facendo essi il programma:
precisamente il contrario di ciò che dovrebbe logicamente avvenire.

Tutto alla rovescia, dicevo. Le cure principali dello Stato, delle
provincie e dei comuni in un paese come l'Italia dovrebbero essere
dedicate alla pubblica istruzione e all'agricoltura, e invece i
bilanci di questi due ministeri sono appunto i più poveri e
trascurati: e mentre tanti sono i disoccupati che soffrono la fame, si
spende un milione e mezzo al giorno nell'esercito e nella marina da
guerra, si ha la vanità di costruire dei bastimenti più grandi di
quelli dell'Inghilterra e si commette il gravissimo, imperdonabile
errore di sperperare milioni in un lembo d'Africa che le potenze più
ricche d'Europa hanno sempre sdegnato di occupare.

Si capisce che la causa principale della nostra rovina, dell'abbandono
in cui lasciamo l'agricoltura e le industrie è l'esercito permanente.
Ma--si dice tutti i giorni--finchè l'Europa intiera non si mette
d'accordo per disarmare gradatamente e simultaneamente, chi è che può
commettere la pazzia di farlo isolatamente?

E perchè? replica chi viene da un paese senza esercito. Se l'Italia è
in pace con tutti e non ha alcuna idea, almeno per ora, di andar a
molestare chicchessia, chi è che le potrebbe impedire di sostituire in
breve tempo all'esercito permanente tutta la sua gioventù liberamente
addestrata al tiro a segno?

Anzichè una imprudenza, non sarebbe, da parte della nazione più
giovane, un atto di saggezza e un buon esempio?

Chi può supporre sul serio che un altro popolo da noi non provocato
venga a occupare il nostro territorio? E se ciò pure potesse accadere,
chi può credere per un solo momento che la gioventù italiana
sopporterebbe un invasore in casa? Giusto gli Stati Uniti, nella
guerra di secessione, hanno dimostrato come un popolo sa battersi
valorosamente anche senza essere regolarmente reggimentato. Ma, senza
ricorrere a esempi stranieri, non abbiamo veduto i giovani volontari
di Garibaldi? Avevano essi forse imparata la manovra in piazza d'armi?

Lo straniero in Italia! Vedrebbero i paurosi come risorgerebbero i
Balilla!

A chi viene da lontano pare veramente strano che per le beghe che la
Francia può avere con la Germania o l'Austria con la Russia, l'Italia
debba essere alleata con una o due di queste potenze e mantenersi in
piede di guerra come esse, levandosi il pane di bocca, indebitandosi
fino agli occhi! Sembra poi un colmo il vederla alleata precisamente
con la potenza che tiene ancora sotto di sè un lembo di territorio
italiano.

Davanti a simili _rebus_ chi viene dagli Stati Uniti pensa subito che
eserciti permanenti e alleanze come sono oggi non esistono per il bene
e per la sicurezza dei popoli, di cui anzi sono la rovina, ma per il
solo interesse delle dinastie quasi tutte imparentate fra loro.

Disgraziatamente la maggioranza del popolo mantenuta sempre
nell'ignoranza--poichè anche la pubblica istruzione è regolata più a
vantaggio dei ricchi e delle fabbriche di avvocati, che dei
poveri--non ha potuto ancora accorgersi che nel nostro bel paese tutto
procede alla rovescia; ed è il guaio peggiore, poichè invece di
pacifiche e progressive trasformazioni nel meccanismo politico e
amministrativo, avremo così un giorno, inevitabilmente, le scosse
violente.

In luogo di cittadini istruiti che si mettano tranquillamente
d'accordo per modificare lo Statuto e porlo in armonia con le
aspirazioni e i bisogni dei tempi nostri, che sono ben differenti da
quelli del '48, salteranno pur troppo fuori i barbari, gli unni e i
vandali indigeni di cui si parlava con Mary.

A meno che coloro che stanno in alto non aprano gli occhi alla verità
e all'amore del prossimo. Come diventerebbero, allora, sul serio, i
padri della patria e come oltrechè al bene pubblico provvederebbero
anche al proprio.

Ma, sì; andate, parole al vento!



APPENDICE

Alberto Mario a New York.


Fino dai primi tempi in cui stavo a New-York, cercai di raccogliere
notizie intorno al viaggio che nel 1858 fece negli Stati Uniti il mio
concittadino Alberto Mario insieme con sua moglie, la signora Jessie
White.

E seppi che poco dopo essere sbarcato dal _Kangaroo_, verso la metà di
novembre di quell'anno egli fece a New-York, in una _Hall_ della
Quarta Avenue, fra la 19^a e la 20^a strada--ora demolita--una
conferenza in lingua italiana sulle condizioni d'allora e sulle
speranze dell'Italia. Vi assistettero tutti gli italiani più colti di
New-York, oltre parecchi americani amanti del nostro paese e profughi
stranieri. L'introito fu da Alberto Mario mandato a Mazzini.

Avendo sentito dire dai più vecchi italiani residenti a New-York che
il discorso era stato stupendo, e che a loro pareva sempre di vederlo
il giovane e biondo patriota, che parlava con l'accento di una
profonda fede nella libertà della patria, che affascinava coi suoi
grandi occhi e con la bellissima voce, provai un acuto desiderio di
ricercare quel discorso ed ebbi la fortuna di rintracciarne una
copia--l'unica, probabilmente, esistente--appunto fra le carte della
famiglia della signorina Mary.

La madre di Mary, che aveva assistito alla conferenza, mi diceva che
doveva essere stata scritta dall'autore durante la lunga traversata
dell'Atlantico. A me è sembrata così interessante che, trattandosi
anche di uno scritto inedito che è un vero documento storico, chiedo
ai lettori il permesso di farne un sunto, citandone testualmente
qualche brano.

La conferenza era intitolata: _L'Italia_, e portava questa epigrafe di
Seneca: _Vivere, mi Lucili, militare est_. (Traduzione libera:
_Vivere, o fratelli, è pensare, patire e fare_).

Cominciava così:

«Signore e signori: vi venne mai fatto d'incontrarvi in qualche
patrizio di stirpe antichissima e gloriosa, presentemente decaduta e
nella povertà? Ebbene; l'avrete veduto indolente e altiero, imbelle e
millantatore: non vi avrà parlato che degli emblemi della sua arme
gentilizia e vi avrà detto:--Questo berretto che sovrasta all'arme è
il corno ducale; perchè io sono nipote di dogi: queste bandiere e
queste lancie avviluppate, ricordano due miei arcavoli che mossero in
Palestina guerrieri crociati. Ebbi fra gli avi miei magistrati
integerrimi, letterati insigni, capitani che morirono sulle mura della
patria. Sangui illustri per un lungo ordine di generazioni si
mescolarono col sangue de' miei maggiori. Non vi dirò nè dei palagi,
nè delle ville, nè delle campagne che facevano straricca la mia
famiglia.

«E voi, suppongo, avrete interrotto l'orgoglioso ripetitore
dell'inventario gentilizio chiedendogli:--Ma tu che possiedi ora?
quali sono le opere tue?--Ed egli:--Ma gli avi....--Che avi! parla di
te, e rispondi.--E il pover'uomo avrà confessato mormorando:--Nulla!

«Ed a costui le genti straniere assomigliano l'Italia, e la chiamano
patrizio spiantato e inetto, e le dicono con sorriso maligno: sta
bene, ci hai affaticate le orecchie da lungo tempo narrandoci le tue
glorie passate....»

Qui l'oratore, con uno squarcio mirabile in cui sono condensate le più
belle pagine della nostra storia, diceva che gli stranieri ricordano
che l'Italia, erede della civiltà greca, l'ha diffusa con le sue
conquiste nel mondo noto agli antichi, traducendone il pensiero
dall'ordine speculativo nella realtà delle istituzioni politiche e
municipali, nella pratica delle discipline legislative alle quali
tolse il carattere di ineguaglianza civile, che rompeva la società in
frammenti gli uni sovrapposti agli altri gerarchicamente, e così si
fece precorritrice dell'eguaglianza morale predicata dal
cristianesimo.

Nei giorni crudeli e dolorosi in cui la decrepita razza latina si
rifondeva nel violento rimescolamento con quelle truci orde venute
dall'Asia, l'Italia, col mezzo dei suoi primi pontefici, ha
alleggerite le sofferenze agli oppressi, inculcando nel cuore dei
tormentatori le pietose dottrine del vangelo, disarmandone le ire e
ridicendoli a propositi più miti, e diede asilo segreto nei monasteri
a quei tesori di sapienza antica che per poco si sottrassero alle
devastazioni della barbarie armata; ha fatto conoscere, che mentre
l'Europa dormiva il profondissimo sonno dell'ignoranza, ella,
splendida di genio e di dottrina, sorgeva iniziatrice della civiltà
moderna con quel miracolo di ingegno che fu Dante Alighieri, il quale
non solo ebbe aperti nuovi mondi e vie inusitate alla poesia ed alle
arti, ma sorse a formulare la più virile protesta pronunciata da
labbro mortale contro il papato degenere e diventato principalissima e
perpetua calamità degl'italiani.

Dietro quel Nume della sua letteratura ha fatto conoscere, come astri
di corteggio intorno al sole, una schiera di spiriti pellegrini che
svilupparono i germi del pensiero moderno raccolti e chiusi nella
sintesi dantesca: Petrarca

    .....Quel dolce di Calliope labbro
    Che Amore, in Grecia nudo e nudo in Roma,
    D'un velo candidissimo adornando,
    Rendea nel grembo a Venere celeste;

al quale e al Boccaccio l'Europa è debitrice del primo saggio di
restituzione delle opere greche e latine, di quel tesoro che,
annotato, commentato e volgarizzato, si diffuse mercè le tipografie
italiane: imperocchè fino dal 1465 le cento città tramutaronsi in
officine ove si sudava alla perpetuazione delle idee.

In tal guisa richiamata l'attenzione e l'interesse del genere umano al
mondo reale, esso fu sottratto al suicidio a cui lo avrebbe trascinato
il trionfo della dottrina cattolica, la quale insegna che noi siamo
qui di passaggio, che la nostra patria è il cielo, che i maggiori
nostri nemici sono il mondo e la carne, che la virtù vera, l'ideale
divino consistono nel celibato, nella macerazione del corpo e nella
verginità custodita in mezzo ai chiostri.

E la letteratura fino a Torquato Tasso fu uno scroscio di risa a
questa dottrina, che risuonarono sin entro ai tabernacoli del
santuario cattolico; dal Decamerone del Boccaccio alle Novelle di
Franco Sacchetti, al Morgante del Pulci, all'Orlando dell'Ariosto, che
riassume e sigilla quest'epoca luminosa del Risorgimento; e dopo
quelle risa il Cattolicismo non ha più potuto parlare sul serio per
gl'intelletti illuminati, imperocchè evidentemente esso aveva compiuta
la sua missione sul cammino del progresso universale; e quelle risa
prepararono il terreno ed affrettarono l'ora solenne della Riforma; e
apostoli primi e primi martiri della Riforma furono cittadini delle
gloriose repubbliche italiane: Arnaldo da Brescia, i Catari e i
Paterini, e Girolamo Savonarola, che volevano ridurre la Chiesa Romana
alle massime dell'Evangelio, e porre in accordo la fede colla ragione;
Arnaldo da Brescia sino dai primi anni del secolo undecimo corse la
penisola a propagarvi le teorie dell'avvenire che si incarnarono nelle
democrazie comunali del medio evo, aiutò Crescenzio a stabilire la
repubblica in Roma, dichiarò dal Campidoglio decaduto il papa dal
dominio temporale, e fu bruciato vivo dal papa più tardi alla Porta
del Popolo: i Catari e i Paterini formavano una grande associazione di
repubblicani nel Lombardo-Veneto, e furono scannati in massa dal papa;
Gerolamo Savonarola era capo della democrazia pura in Firenze, al
letto di morte di Lorenzo il Magnifico gli rifiutò la assoluzione
perchè non volle restituire la libertà alla repubblica, ch'egli aveva
usurpata, inalberò primo la bandiera «Dio e Popolo,» Savonarola fu
fatto gettare sul rogo dal papa.

L'Italia ha fatto conoscere--seguitava l'oratore con un crescendo di
eloquenza meraviglioso--che diede all'Europa i primi e più perfetti
modelli delle costituzioni politiche; dal meccanismo complicato e
sorprendente della Repubblica di San Marco, agli istituti radicali di
Firenze, ove si degradava un cittadino malvagio facendolo nobile e si
rimunerava il nobile virtuoso iscrivendolo nell'albo dei lanaiuoli e
dei tintori, ove fu ideato e praticato il principio di vera giustizia
distributiva sociale, cioè a dire la imposta unica e proporzionata sul
capitale.

Ha fatto conoscere, che sue sono le massime invenzioni commerciali--la
bussola, le banche, i contratti di assicurazioni marittime--e suoi i
trovati dei Monti di Pietà; che opera sua furono i grandi e molteplici
viaggi e la navigazione; opera sua gli emporî e le corrispondenze
commerciali in Europa, in Asia e in Africa, tutte sistemate e protette
con trattati e consolati e statuti, i quali costituivano un genere di
potenza sconosciuta e che fu estesa per tutto il globo; ha fatto
conoscere, che introdusse in Europa, con Leonardo Fibonacci, le cifre
arabiche e l'uso dell'algebra, che ha creata la meccanica e
ricostrutta dalla base l'astronomia con Galileo, scoperta la
circolazione del sangue con Fra Paolo Sarpi, stabilite le fondamenta
della matematica sublime con Cavalieri, sciolti i maggiori problemi di
algebra con Tartaglia, Cardano, Ferrari, e d'architettura con
Brunellesco e Michelangelo, rilevata di pianta l'anatomia con
Malpighi, aperte nuove e interminabili regioni alla fisica con la pila
d'Alessandro Volta, della quale la telegrafia elettrica non è che una
delle numerose applicazioni, ridotta a scienza la legislazione con
Accorso, Alciato e Filangieri, spenti i roghi e rotte le funi con
Cesare Beccaria, ridotta a scienza l'economia politica con Antonio
Genovesi, con Intieri e con Galiani, l'arte militare con Raimondo
Montecuccoli e con Napoleone Bonaparte, la politica con Macchiavelli,
e la storia con Giambattista Vico, ammonì che tanto importante fu la
opera del Vico, e così straordinario prodotto della mente umana, che
essa caratterizza le tendenze intellettuali del nostro secolo.

Ha fatto conoscere, che fu maestra solenne nelle arti del disegno e
della musica e nominò Ghiberti, Buonarroti, Raffaello, Cellini,
Tiziano, Canova, Pergolesi e Rossini, a ciò che ogni uomo s'inginocchi
e adori le divine sembianze del genio; ha fatto conoscere, che la
filosofia moderna è uscita dalla sua grande scuola filosofica del
secolo XVI e XVII, la quale liberò il pensiero umano dall'aristocrazia
di Aristotile che lo teneva prigioniero in un circolo vizioso di
arzigogoli teologici e lo svigoriva con una ginnastica improduttiva di
sillogismi e di entelechie, pasticcio filosofico noto sotto il nome di
filosofia scolastica, di cui, com'è naturale, fu patrocinatrice la
Chiesa romana; perchè era supremo interesse, era questione di
esistenza per la Chiesa romana di perpetuare l'ignoranza, ovvero (che
è peggio), non potendo riuscirvi, di evirare lo ingegno con
sottigliezze e con metafisicherie, le quali, assurde nella loro base,
non possono condurre a nessun risultato pratico, a nessuna utile
applicazione.

Sorse Bernardino Telesio, soggiunse, e insegnò che la sola esperienza
e il metodo induttivo possono guidare alla conoscenza del vero:
Tommaso Campanella sulla traccia di Telesio tentò una ricostruzione
enciclopedica delle scienze filosofiche nei loro rapporti
cogl'Istituti politici, sociali ed economici; poi in un altro libro
segnò le prime linee della società futura, ove sono adombrate alcune
idee fondamentali dei socialisti moderni: e quel libro--intitolato «La
città del sole»--è la repubblica di Platone presieduta da Cristo.

Il cancelliere Bacone da Verulamio non fu che un continuatore di
Celesio, più celebre e più applaudito, ma meno grande di Campanella.
Pietro Pomponazzi e Lucilio Vanini si posero intorno ai dogmi, alla
dottrina e alla morale del Cattolicismo e assoggettati alla critica
della ragione, incominciarono la demolizione scientifica e furono i
fondatori di quel metodo che si chiama criticismo filosofico, e i
primi maestri di Pietro Bayle, di Voltaire, degli Enciclopedisti
francesi. Giordano Bruno nelle sue speculazioni sublimi si distaccò
affatto dal sovrannaturalismo, cioè dalla rivelazione immediata divina
(onde precorse a Cartesio), e costrusse un sistema di filosofia ove
sollevò l'uomo, sino allora depresso, decaduto e maledetto, alle
altezze della divinità, fece dell'uomo, di Dio e del mondo un tutto
che si manifesta con forme o con rappresentazioni differenti, ma
sostanzialmente identiche. L'oratore trovò trasfuso quel panteismo in
varia misura nelle opere di Spinosa, di Mallebranche, di Leibnitz, di
Hobbes, di Shelling e di Hegel, e conchiuse: quel Panteismo, diventato
subbiettivo con Fichte, è il genio della filosofia moderna.

Ha fatto conoscere, che nella giornata di Legnano, fiaccata
l'oltracotanza dell'imperatore Barbarossa, guarentì l'esistenza delle
due repubbliche; che in Sicilia vendicò l'onta di un'oppressione
insolente uccidendo tutti, senza eccezione, i francesi insultatori al
suono dei vespri immortali; che la sua Venezia, con una costanza di
lotte secolari, ha salvata l'Europa dalla barbarie musulmana; che in
Napoli, sotto i piedi della sua plebe, calpestò l'orgoglio di Spagna;
che a Genova i suoi popolani (pagina di gloria insuperata) cacciavano
ignominiosamente 44 mila austriaci dalle loro mura, e poscia
vittoriosamente e per lunghi mesi ne sostennero l'assedio, comechè
quegli eterni nemici suoi fossero aiutati dal loro vecchio alleato il
re di Piemonte; che combattè con valore antico con le bandiere
napoleoniche, e nella disfatta di Russia salvò le reliquie della
grande armata francese che, senza gl'italiani, sarebbero tutte cadute
sotto la lancia del cosacco; che il suo popolo di Milano sostenne
quasi inerme cinque giorni di duello immortale contro 16 mila
austriaci e finì col gettarli in isbaraglio talmente, che malconci,
disordinati, avviliti, spossati impiegarono la metà di un mese ad
arrivare fino a Verona; che in pochi giorni ne cacciò 60 mila dal
Lombardo-Veneto e li costrinse fra l'Adige e il Mincio; che il 24
maggio 1848, in Vicenza, 15 mila furono messi in fuga da 8 mila
italiani; che nel settembre un pugno di patriotti rompeva più
battaglioni di loro in Mestre, faceva centinaia di prigionieri,
prendeva sei cannoni, e, quel che più vale, una bandiera giallo nera a
viva forza; che un altro pugno di italiani, il 30 aprile 1849,
cacciava le baionette nelle reni di francesi fuggitivi.

Alberto Mario continuò:

«Tutto codesto, o Italia, ci facesti conoscere, dicono le genti
straniere, e ci ripeti tuttodì, con mille bocche, e tutto codesto è
gloria, grandezza, magnanimità, genio; e sta bene. Ma che possiedi
ora? Rispondi.

«Dove sono le tue arti? Dove la tua letteratura? Dove le tue scuole
filosofiche? Dove i tuoi sapienti che procedano sulle tradizioni di
quei grandissimi dianzi rammentati? Dove il frutto delle tue scoperte,
delle tue invenzioni, delle tue conquiste? Dove il commercio, le
industrie, gli avventurosi veleggiamenti, e le navi temute, e la
bandiera formidabile e rispettata?

«Vediamo una bandiera a tre colori sulle fortezze del re Savoiardo, ma
quei colori sono impalliditi e guasti da un quarto colore che non è
tuo e da uno stemma regio che non è tuo, imperocchè tu non hai altro
stemma che la corona di torri, e quella bandiera oggi è fatta cencio e
raccolta dietro l'aquila nera dello tsar di Russia, e dietro l'aquila
usurpata e infame dello tsar di Parigi. Di'.... Rispondi.... Che sei
oggi?

«Schiava invilita tolleri l'onta di un re di Napoli che la storia
ricorderà col soprannome di Bomba, il quale flagella i tuoi figli al
cavalletto, li tortura con la cuffia del silenzio, e li fa morire di
sete nelle carceri, nutrendoli di aringhe salate, per istrappar loro
di bocca una rivelazione; l'onta d'un re, che un uomo di Stato
inglese, Gladstone, chiamò _negazione di Dio_.

«Tolleri l'onta peggiore di un prete padre della menzogna che siede
principe sulle teste di tre milioni d'italiani, insanguinate da
quattro armate straniere; di un prete empio che in nome di Dio taglia
le ali al pensiero e soffoca le aspirazioni della coscienza.

«Tolleri l'onta di due tirannucci--quel di Modena e quel di
Parma--crudeli quanto sono piccini.

«Tolleri l'onta del soldato austriaco che ti rapisce ogni anno 16 mila
de' tuoi figliuoli più eletti, divine speranze del tuo avvenire, che
ha bastonate a Venezia e a Milano pubblicamente le tue donne quasi
ignude e che ti degrada al cospetto del mondo incivilito. Su via,
rispondi. Ma che puoi rispondere? O levati di dosso l'ignominia della
schiavitù, ovvero soffri e taci.»

Così l'oratore riassumeva il linguaggio degli stranieri sulla patria
nostra, linguaggio per verità, egli stesso diceva, troppo severo e in
qualche parte non giusto, perchè, disotto all'apparente quiete di
sepolcro che pesava sull'Italia, la sua gioventù generosa e devota
stava apparecchiando in mezzo al popolo gli elementi della
risurrezione, e ogni qual volta quella falange sacra era scemata di
qualche caduto nelle mani del vigile tormentatore, e il quale
ascendeva il patibolo gridando: «Viva l'Italia», il posto per lui
vacante veniva occupato da altro che immediatamente gli succedeva; e
quella falange di apostoli e di martiri evangelizzava la parola di
salute col discorso e con la stampa; acquistava e distribuiva armi,
raccoglieva continuamente i patriotti in isquadre e in reggimenti
invisibili all'oppressore, e di tempo in tempo alcuni di loro
insorgevano e lo assalivano per mostrare all'Italia il suo dovere e il
suo diritto, per additarle la via unica di compierlo e di esercitarlo
per significare ai suoi manigoldi che la battaglia non era punto
terminata, e al mondo che l'Italia era schiava per la cospirazione del
dispotismo europeo, ma schiava fremente e indomata e che oggi o
domani, o più tardi, ma infallibilmente, si sarebbe sollevata ad
affermare luminosamente la propria personalità nazionale.

E quella sacra falange, non solo si componeva di patriotti che
vivevano nella penisola, ma di quanti dannati all'esilio serbavano in
cuore intatta la religione della patria e sentivano l'obbligo
imperioso di non istarsene spettatori inerti del lavoro, degli sforzi
e della virtù cittadina dei loro fratelli, e coi gomiti sulle
ginocchia e la faccia tra le mani, di non attendere che la libertà
cadesse dal cielo come le quaglie agli ebrei nel deserto, ovvero che
venisse regalata dai re e dalla diplomazia, che ne sono gli avversali
naturali e perpetui.

Nè quelle audacie, quel martirio e quell'esempio riuscirono infecondi.
Il fremito di patria dei pochi magnanimi oggimai si riappalesava nelle
moltitudini, e si capiva che non doveva tardar guari a risuonare la
campana a martello del popolo.

--Però--continuava Alberto Mario--finchè rimane il fatto che l'Italia
è serva, quel fatto ci vieta di rispondere vittoriosamente alle accuse
e ai rimproveri degli stranieri; e siamo costretti a mormorare loro
come quel patrizio--_avete ragione_. Se non che, è in nostra facoltà
di poter soggiungere ciascuno e tutti: _ma lavoriamo acciocchè quel
fatto cessi_. E potete voi affermarlo dal canto vostro? Se l'Italia,
la santa madre nostra vi domandasse: _O voi presenti, che fate per
me?_ Quale risposta potreste darle? Non basta dire: «Laggiù si lavora
a quest'uopo»; ognuno di noi è parte d'Italia; e vuolsi che la
coscienza di ciascuno di noi ci ripeta: _anche io adempio al mio
dovere di cittadino_.

Quindi raccomandava agli italiani residenti a New-York di non pensare
alla distanza che li separava dalla patria, di associarsi e di porsi
in comunicazione con quanti si affaticavano pel suo riscatto: la sola
adesione morale sarebbe una forza aggiunta al cumulo delle forze che
si stavano ragunando ed organizzando contro l'oppressione.

--Propagate la dottrina del dovere fra i vostri fratelli--diceva--
ridestateli alla santa carità della patria se mai fosse muta nei loro
petti: formatevi in compagnie, in battaglioni, in reggimenti,
addestratevi alle armi: date il vostro obolo mensile per acquistarle:
qui nel paese più libero del mondo, potete fare apertamente ciò che
altrove ai fratelli vostri è interdetto. Provvedete così di trovarvi
pronti alla prima chiamata del paese. Colla parola e coll'esempio
mostratevi degni della libertà che volete conquistata alla vostra terra
materna. Questo libero popolo americano non vedrà più in voi una gente
dispersa sulla faccia del mondo senza tenda e senza intento come
l'Ebreo errante, ma un sodalizio di confessori di un'idea, di sacerdoti
d'una causa sacra e vi avrà in considerazione e rispetto e vi
fortificherà della sua adesione morale e forse anche del suo aiuto.

                              * * *

Nella seconda parte del suo discorso Alberto Mario esaminava la
questione di sapere come e sotto quale bandiera l'Italia si sarebbe
alzata a combattere la battaglia per l'unità nazionale e la sua
indipendenza.

Si accusavano gli italiani di essere discordi; da ogni lato loro si
predicava l'unione, perchè, secondo il vecchio proverbio, l'unione
costituisce la forza.

--Ma, per avere la forza--diceva l'oratore--vuolsi l'unione di
elementi omogenei, se no, in sua vece avremo miscuglio e confusione
che generano la debolezza e l'impotenza. Vuolsi una bandiera che
rappresenti l'idea nazionale, segni la via che conduce alla meta, e
tolga le incertezze, le perplessità e i governi provvisori che
partoriscono necessariamente la sconfitta. Si è mai veduta unione più
meravigliosa di quella degli italiani nel 1848? Tutti ripetevano ad
una voce: «Non si discuta ora di nulla! prima fuori lo straniero, poi
c'intenderemo sul da farsi!» e furono veduti re, cortigiani,
commissari di polizia, spie, preti, papa e popolo tutti in un mucchio
per cacciare lo straniero, e dappertutto governi provvisori e bandiera
neutra. E il risultato? L'Italia più schiava di prima. E perchè?
perchè quella era un'unione bastarda, un accozzamento assurdo di
elementi eterogenei e intrinsecamente nemici.

E qui esaminava codesti elementi e per giudicare il carattere e le
tendenze del popolo italiano, ne indagava la vita anteriore. Qual è,
domandava, la vita passata del nostro popolo, quale la sua tradizione
storica? La risposta si compendia in un motto: la repubblica.

Non andrò, diceva, così lontano da cercarvi le prime radici della
tradizione italiana nelle trentasei Lucumonie etrusche, gloriosissima
federazione repubblicana che comprendeva oltre due terzi d'Italia,
quanto è chiuso tra il Ticino, le Alpi, il Po, l'Arno, il Tevere--da
Ercolano e Pompei alla città di Adria:--non nelle repubbliche della
magna Grecia e di Sicilia; non nella Repubblica Romana e nell'Impero,
degenerazione, o meglio trasformazione della Repubblica Romana, ove
l'imperatore era elettivo, nè osò mai chiamarsi re, e imperatore
significava comandante di eserciti, e durante l'Impero si è gettata
una delle basi del principio repubblicano avvenire--l'uguaglianza
sociale.

La Repubblica aveva dichiarata l'uguaglianza fra gli Dei, e aperse il
Pantheon a tutti indistintamente.

Stabilito questo principio, doveva derivarne logicamente l'uguaglianza
fra gli uomini, perchè la società umana è sempre un raggio riflesso
della sua religione. I Cesari, pertanto, furono gli esecutori
necessari e forse inconsapevoli del programma religioso della
repubblica romana. Studiate Tacito e ravviserete nei Cesari due
persone distinte--il mostro e il legislatore.--E voi forse stupirete
udendo che Augusto assicura la libertà e la dignità delle donne;
Tiberio stabilisce in nome dello Stato il credito fondiario senza
interesse; Nerone rende gratuita la giustizia e propone di abolire le
imposte, difende la causa degli affrancati contro la nobiltà, e
Domiziano ne assicura l'uguaglianza coi cavalieri, e Claudio rende
inviolabile la vita degli schiavi; Adriano Commodo e Alessandro
proteggono lo schiavo dalla prostituzione, dall'abbandono e persino
dall'ingiuria, e Caracalla sorpassa il pensiero dei Gracchi
riconoscendo l'uguaglianza sociale in tutto il mondo romano, tanto è
grande, nota Edgardo Quinet, la potenza di un nuovo dogma quando
comincia a penetrare le istituzioni sociali, che i mostri stessi vi
obbediscono! I Cesari, che sembravano altrettante barriere
all'innovazione, ne divengono gl'istrumenti servili. Taluno di quei
feroci trascina ruggendo il carro dell'umanità. Ma lasciando in
disparte queste epoche remotissime, benchè si rapportino alle
posteriori e recenti per una catena di nessi, per una sequela di germi
sviluppatisi più tardi e che sfuggono agli osservatori superficiali,
basta limitare le osservazioni all'età moderna.

Sino dal secolo dodicesimo l'Italia cominciò ad essere popolata di
repubbliche da Torino ad Amalfi, tutte d'indole popolare, compresa la
stessa Venezia, che serbossi democratica per 700 anni, uscite quasi
magicamente di sotto al turbinìo delle trasmigrazioni barbariche,
mentre in tutto il resto dell'Europa non ne derivò che il
feudalismo--seconda edizione con aggiunte della barbarie.

Dante e Macchiavelli, Enrico Dandolo e Sarpi, Lercaro e Colombo,
Giotto e Michelangelo, quanto insomma vi ha di grande negli ingegni,
nei monumenti, nei fatti, sino all'età nostra, nacque, crebbe e cessò
con le repubbliche.

Ma una cancrena irreparabile erasi infiltrata anticipatamente nel
cuore istesso della penisola: e vietò a quelle repubbliche di sentirsi
sorelle, figlie d'una madre comune, l'Italia, di stringersi insieme a
rendere inaccessibile altrui il mare e le Alpi; _inutili Alpi_, come
le disse Carlo Cattaneo malinconicamente e profondamente. E questa
cancrena fu il papato.

I papi dominando sui cuori, sugli intelletti e sulle azioni del mondo
occidentale con autorità assoluta ed infallibile derivata dallo
Spirito Santo dal quale, ad udirli, pigliavano ogni mattina la parola
d'ordine per reggere le pecore umane, cosicchè disponevano a loro
talento delle corone dei re e delle sorti dei popoli, i papi
spiegarono nel modo seguente la dottrina di Cristo.

Cristo ha detto--il mio regno non è di questo mondo: dunque,
soggiunsero i papi, questo mondo appartiene al suo vicario. Stabilita
la massima pensarono all'applicazione e riuscirono.

Ma la sovranità morale sulla terra, comechè conquista gravissima e
preziosa, non soddisfaceva la loro cupidigia. Volevano qualche cosa di
reale, di effettivo e che si toccasse con mano, perchè i papi, del
resto, benchè vivano in una mistica conversazione col Paracleto,
furono sempre uomini pratici.

Volevano uno Stato e una corona, volevano cioè armi, soldati,
pubblicani, birri, ergastoli, forche, carnefice e un popolo da
mugnere, scorticare e impiccare, e il tutto a maggior gloria di Dio e
della sua santissima religione. E se l'ebbero dagli stranieri che per
dieci secoli eglino stimolarono senza posa e affannosamente a
irrompere sull'Italia ogni qualvolta il loro regno pericolava, e vi
chiamarono successivamente Franchi, Sassoni, Inglesi, Angioini,
Spagnuoli, Ungheresi, Turchi, Svizzeri, Francesi, Austriaci per essere
protetti dalle impertinenze dei sudditi che considerando il _papa-Dio_
un impostore;--e il _papa-re_ un usurpatore e un tiranno, non
avrebbero tardato un'ora, senza quegli angeli custodi, a metterlo alla
porta e peggio.

Se non che non si accontentarono di flagellare l'Italia con tutti gli
stranieri possibili: perchè il giuoco atroce sarebbe stato ben presto
interrotto dalla resistenza concorde delle repubbliche; ma--e qui sta
il danno maggiore--posero ogni studio nel suscitare, risuscitare e
invelenire l'idra della discordia fra quelle repubbliche, spingendole
a sbranarsi l'una coll'altra, e impedendo che germogliasse nel loro
animo l'idea salvatrice che tutte erano individui di una stessa
famiglia, membra d'uno stesso corpo.

E i papi riuscirono, e Dante, Moroni e Macchiavelli che pensarono e
patirono per la unità d'Italia, sono morti inascoltati. Laonde venne
fatto allo straniero di piantarvisi definitivamente; le repubbliche a
una per una perirono, e l'Italia sin dal 1530--dalla caduta di
Firenze--rimase immutabilmente rotta in sette od otto principati,
retti da dinastie straniere o bastarde di papi, stabilitevi dagli
stranieri e loro vassalle obbedientissime.

Dopo lo stabilimento finale delle monarchie, dopo cioè il 1530,
l'Italia cessa di essere un popolo e diventa una mera espressione
geografica; non più moto, nè vita politica, nè gloria.

Tutto isterilisce e muore al soffio avvelenato della reggia, come gli
alberi e i fiori al vento del deserto: il Papato coi suoi 500.000
frati, colla Compagnia di Gesù, allora allora fondata, e col Concilio
di Trento, le uccide l'anima e l'intelletto; lo straniero la depaupera
colle imposte e le rapine; i principi vassalli suoi manigoldi le
uccidono il corpo con le torture e i patiboli.

Abbiamo veduto, per esempio, organizzare un massacro periodico contro
i Valdesi, e quando non si impiegava l'esercito ai servigi
dell'Austria o di Francia o di Spagna, sfrenarlo a dar la caccia a
quei poveri e pacifici valligiani che non credevano all'infallibilità
del papa; e ridurre i poveri sudditi a tale stadio d'ignoranza, che
nel secolo scorso istituitasi una Università italiana, narra il
Denina, storico ultra monarchico, dovettersi cercare tutti i
professori nelle altre parti d'Europa.

Dopo lo stabilimento delle monarchie adunque non più arti, nè lettere,
nè storia, nè filosofia.

Dante si è trasformato in Metastasio, il poeta che cantò Cola da
Rienzi nell'abate Chiari, Macchiavelli in Algarotti, e Michelangelo
Buonarroti in Michelangelo da Caravaggio; le lettere, le arti e la
filosofia non vivono che sotto le grandi ali della Libertà. E se
qualche poeta o storico o filosofo in nome dell'inviolabilità della
ragione è sorto apostolo di verità e di progresso, morì martire;
Galileo torturato, Paolo Sarpi pugnalato, Pietro Carnesecchi, Giordano
Bruno, e altri bruciati vivi dal Papa; Macchiavelli torturato dai
Medici, Campanella torturato sette volte e tenuto in carcere
ventisette anni dal proconsole spagnuolo in Napoli, Pietro Giannone
dannato a prigione perpetua.

E se in questi tre secoli di lutto e di degradazione qualche raggio di
vita gloriosa ha solcato il cimitero d'Italia, non è certamente uscito
dalle aule dei re o dal Vaticano, ma dalle viscere stesse del popolo.

Fu il popolo che scosse il giogo spagnuolo in Napoli nel 1647--e
nell'anno medesimo, capitanato da Giuseppe d'Alessio, operaio
battiloro, cacciò Los Velez vicerè e tutti gli spagnuoli da Palermo e
nel 1746 ributtò gli austriaci da Genova.

Fu Venezia repubblica, comechè decrepita e oligarchica, che fece
risuonar alto il nome italiano dalle acque di Candia ove vinse i
turchi in due battaglie navali, e dalle mura della città ove sostenne
un assedio lunghissimo ed eroico.

Finalmente suonò l'ora della resurrezione universale dei popoli. La
rivoluzione francese del 1789 diede il segnale del riscatto. La testa
di Luigi XVI rotolata ai piedi del patibolo dimostrò che il diritto
divino e l'umano appartengono agli oppressi, dopo di cui la storia
rovesciò il volume e cominciò a scrivere il cominciamento della fine.

D'allora mutarono i protagonisti del gran dramma della vita: prima
erano i re, poi principiarono ad essere le nazioni: scoppiata la lotta
definitiva fra queste e quelli, fu una vicenda di disfatte e di
vittorie.

A questo punto Alberto Mario domandava:

--Quale è stata la condotta dei re nostri in Italia? Tutti in
compagnia dell'Austria, loro naturale sostegno, studiarono di opporsi
al torrente delle nuove idee. Il re di Piemonte cercò d'impedire il
passo delle Alpi ai repubblicani francesi: vinto e minacciato anche
dal popolo, fuggì in Sardegna; il papa fu fatto prigioniero e il re di
Napoli riparò in Sicilia. Poco di poi piegate le sorti in loro favore
si vendicano atrocemente da Napoli sino a Torino, e migliaia di
patriotti periscono per mano del carnefice, e fra essi gli uomini più
eminenti d'Italia, o agonizzano nelle segrete, o errano sulla via
dolorosa dell'esilio. Nel 1820 e 21, ridestatosi nel popolo il
sentimento dell'indipendenza nazionale, egli ne commette l'incarico ai
principi che simularono di partecipare, ed è tradito tanto a Napoli
come altrove da re i quali passarono in Ispagna sotto le armi francesi
a combattere quella medesima costituzione che avevano giurata dinanzi
a Dio ed agli uomini. E quivi comincia la tragedia dello Spielberg.

Continuava ricordando che nel 1831 questo popolo insorge di nuovo e
crede nel duca di Modena. Il duca svela il disegno all'Austria, fugge
in Mantova, trascina seco Ciro Menotti, depositario di tutto il
segreto e capo della cospirazione, ritorna e lo impicca.

Nel 1833 nuova illusione, un re italiano offre all'Austria, in
espiazione dell'antica macchia di _carbonaro_ non abbastanza lavata al
Trocadero, un'ecatombe di patrioti, e onde cattivarsela con nuovi
segni di sincera amicizia dà la mano di suo figlio a un'arciduchessa,

Nel 1848 il popolo sorge con tale unanimità di sforzi, con propositi
così risoluti e con auspici tanto favorevoli che parve anche agli
stessi nemici il tempo segnato dal dito di Dio per la libertà
d'Italia, anzi per la libertà europea.

Un'altra volta il popolo italiano, immemore delle terribili lezioni
avute, generoso sempre sino ad essere incauto, ne affida il còmpito
sublime a due dei suoi re ancora tiepidi del sangue dei fratelli
Bandiera, di Vochieri e di Effisio Tola: al granduca di Toscana
austriaco e al papa che non ha patria. Che ne consegue? Il papa, alla
vigilia della vittoria finale, disapprova la guerra con una
lettera-enciclica, e santamente intenerito, stringe in un amplesso
paterno i croati suoi figliuoli in Cristo; il granduca cospira
occultamente con l'imperatore, e intanto spreme sugo di papaveri sulla
Toscana commossa, e più tardi fugge; il re Bomba pensa a massacrare la
Sicilia, richiama le truppe dal teatro della guerra nazionale,
insanguina Napoli co' suoi svizzeri, e spergiuro e scellerato
riconfermasi re assoluto.

L'altro re stassi spettatore indifferente alla lotta ciclopica dei
milanesi, e arresta al Ticino la gioventù ligure-piemontese che
correva a dividere con Milano i cimenti e la gloria. Cacciati gli
austriaci dal popolo, il re costretto dalla minacciosa attitudine dei
propri sudditi, passa il Ticino cinque giorni dopo la vittoria
lombarda, collo scopo reale dichiarato alle potenze europee di
soffocare lo sviluppo della rivoluzione e con quello apparente
dichiarato agli italiani di aiutarli fraternamente all'espulsione
degli austriaci oltralpe.

Intanto lascia libera la ritirata agli Austriaci che poteva tagliare
per la via di Piacenza e di Cremona, si accampa fra l'Adige e il
Mincio; in vari scontri col nemico, vince ma non profitta mai della
vittoria, e così spegne l'entusiasmo e scema il valore mirabile delle
sue truppe, rifiuta il sussidio dei volontari, ammorza l'ardore del
popolo, ordina alla sua flotta di non attaccare l'austriaca, lascia
aperta la porta del Tirolo, non si cura punto del Veneto, offre agio
al nemico di rimpolparsi con nuovi rinforzi, viola i patti preliminari
di decidere le sorti interne a guerra vinta, volendo che i
Lombardo-Veneti si fondano nel suo regno.

Ottenuta la fusione il 29 maggio, lascia massacrare nel giorno
medesimo quasi sotto ai propri occhi in Curtatone e Montanara 5000 fra
Toscani e Napoletani che combatterono un giorno intiero contro 16.000
Austriaci. Attaccato egli pure il giorno appresso in Goito, comechè i
Piemontesi fossero inferiori di numero sul campo di battaglia,
rovescia e sbaraglia Radetzki, che disfatto si ritira in Verona.

E qui il sovrano invece di profittarne inseguendo il nemico, si
arresta in Goito e dà un crollo mortale alla fede e alla disciplina
dell'esercito, e fa dire al Parlamento in Torino, per bocca di
Franzini, ministro della guerra, che non venne perseguitato il nemico,
perchè pioveva, quasi che per gli Austriaci il cielo fosse stato
sereno. Nella giornata di Goito ebbe anche Peschiera resasi per fame.

Intanto Radetzki passa nel Veneto, si unisce a Welden e con tutte le
sue forze, 44.000 uomini, dieci giorni dopo assalta Vicenza che gli
resiste per diciotto ore.

L'occasione era suprema. Si sarebbe potuto decidere le sorti d'Italia
valicando l'Adige sgombero, e piombando alle spalle del nemico con
quindici o ventimila uomini.

Nulla, nulla di tutto ciò.

Radetzki ritorna trionfante a Verona, e il re raccolto il nerbo della
sua armata nelle paludi di Mantova per bloccarla e disteso il resto
sino a Rivoli, l'assottiglia con le febbri e le scema la virtù con
l'inazione.

Ma che voleva egli adunque? Aspettava la fusione di Venezia.

Avuta Venezia il 4 luglio, la offre all'Austria il 7 come prezzo della
sovranità di Lombardia. Così rimanevano ancora deluse le speranze dei
patrioti italiani.

Intanto Radetzki ricevuti i debiti rinforzi gettasi unito sui
Piemontesi e li rompe. Il re, fallitogli il disegno di aver la
Lombardia, pensa unicamente a mettere in sicuro la Corona consegnando
al maresciallo Milano che era il cuore della rivoluzione: così
ammansato il nemico, salvasi dalla temuta invasione oltre il Ticino.
Ritornato nel proprio regno, si lusinga nel sollecito ritorno dello
_statu quo_.

Ma 20.000 milanesi, e più di 50.000 delle provincie Lombarde esulati
ne'suoi domini, fomentano l'ardore del popolo piemontese di vendicare
la umiliazione dell'armistizio di Salasco e di ispazzare l'alta Italia
dall'ultimo soldato straniero. E tanto crebbe questo fermento che il
re forzato nuovamente alle armi, sguainò la spada unicamente per
vedere di stipulare coll'Austria una pace onorevole.

Senonchè i reazionari, ossia i bigotti della monarchia, vedendo, in
una vittoria qualsiasi dell'esercito piemontese, risuscitata più
gagliarda che mai la rivoluzione in tutta la penisola, e quindi
riconoscendo impossibile di venire a patti col nemico quando al re
fosse piaciuto, perchè la volontà della nazione risollevata e in armi
sarebbe stata più forte della volontà del re e avrebbe travolto il
regno nella gran tempesta che sarebbe scoppiata, si accinsero a
sfabbricare la disciplina dell'esercito con tutti i mezzi e riuscirono
a far nominare un generale straniero, Ciarnowski, esecutore delle sue
mene segrete.

Furono adunque disposte le cose in maniera che parte dell'esercito
fosse messo fuori di combattimento, parte fuggisse e si disperdesse;
ed è quanto avvenne ad eccezione di alcuni reggimenti.

Così Carlo Alberto fu vittima dei suoi cortigiani e dovette abdicare:
e la Monarchia Sarda tuttavia pagava nel 1858 una pensione come
generale al Ciarnowski.

Siffattamente in tre giorni finiva la seconda campagna regia, e
Vittorio Emanuele re successore firmava un trattato coll'Austria nel
quale la riconosceva legittima padrona del Lombardo-Veneto, le
prometteva pace e buona amicizia, le pagava 75 milioni di franchi per
buona mano, accettava che i croati facessero la sentinella nella
fortezza di Alessandria, e fra lui e l'imperatore eravi un ricambio di
croci e di decorazioni.

                              * * *

Dopo questa fiera requisitoria contro le monarchie, Alberto Mario
chiedeva:

--Ora vi pare che i duchi, i granduchi, i re e i papi sieno elementi
nazionali che il popolo italiano deve tesaurizzare e coi quali deve
unirsi nuovamente per iscuotersi di dosso gli austriaci e diventare
una nazione signora e sovrana dei propri destini? No per fermo.

E affermava quindi che l'unione, di cui aveva tenuto antecedentemente
parola, doveva consistere in un'associazione di pensiero e di azione
del popolo italiano, la quale avesse per oggetto di abbattere i duchi,
i granduchi, i re e il papa come nemici naturali dell'indipendenza
italiana, e di scacciare lo straniero coi mezzi e colle forze che
allora erano nelle mani di quei granduchi, di quei re e di quel papa.

--Ma qualcuno--seguitava--mi farà l'obbiezione seguente: non più patti
col papa, col re di Napoli e coi duchi, e la ragione è evidente; ma la
Monarchia Sarda vuolsi eccettuata, perchè ci pare rinsavita: da dieci
anni, in mezzo al turbine della reazione europea, conserva uno statuto
liberale, tiene in piedi un'armata valorosa, dà asilo agli esuli
politici delle altre parti d'Italia, e mostra buona intenzione per la
guerra nazionale.

Rispondeva l'oratore che l'obbiezione era apparentemente grave. Egli
aveva vissuto nove anni continui negli Stati sardi e si trovava in
grado di dare alquanti schiarimenti su quello scrupolo di coscienza.

Dopo la disfatta di Novara due vie erano aperte alla Monarchia Sarda
per l'avvenire: la ristaurazione dell'assolutismo o il mantenimento
dello statuto. La prima le rapiva per sempre ogni speranza
d'ingrandimento allineandola fra i nemici aperti dell'emancipazione
italiana, tanto più che nel marzo del 1849 il moto rivoluzionario
europeo era ben lungi dalla sua fine.

Per l'Ungheria erano quelli i più bei giorni della sua lotta
gigantesca contro l'Austria; la Toscana si reggeva a popolo, gli Stati
Romani del pari; la Sicilia combatteva contro il Borbone, e Venezia
stava incolume in mezzo alle sue lagune cogli allori di Cavallino e di
Mestre, e nel marzo 1849 veruno poteva seriamente temere il crimine
del 2 dicembre 1851 per la Francia, ove la repubblicana assemblea
costituente ancora esisteva.

--La Monarchia Sarda, adunque--conchiudeva--provvide largamente ai
propri interessi conservando lo Statuto.

Aggiungeva che per abbattere lo Statuto volevasi o l'uso delle armi
proprie contro i cittadini, che l'avrebbero difeso, e queste armi
furono disperse a Novara, e le poche rimaste si adoperavano a
bombardar Genova; ovvero volevasi il sussidio degli Austriaci; ma la
Francia non avrebbe permesso alle schiere dell'Austria di avvicinarsi
alle Alpi, ed all'uopo valicarle per domar la Savoia ove questa fosse
sorta a propugnare il nuovo Patto conquistato dalla rivoluzione sulla
monarchia; in ogni modo la Corte di Sardegna invocando i soccorsi
austriaci avrebbe perduta l'indipendenza.

--Fu adunque--ripeteva--accorto consiglio conservare lo Statuto. Lo
Statuto porta i seguenti vantaggi alla Casa di Savoia: dapprima
seminando speranze di futura riscossa fra gli italiani delle altre
parti della Penisola, e inducendoli a confidare in lei che si vanta di
spiare l'occasione propizia a ricominciare la guerra contro l'Austria,
tiene lontana per quanto è possibile l'insurrezione nazionale; ed è
facile trovare partigiani quando si dice loro: Voi non avete altro
ufficio che di starvene tranquilli, voi non correte pericolo di sorta,
perchè il mio esercito incomincerà la battaglia; allora voi verrete
esercito di riserva e formerete la guarnigione dei forti, delle piazze
e delle città; il momento opportuno per me di scendere in campo non è
giunto, ma verrà; intanto voi accrescerete con la propaganda pacifica
le vostre file. In tali termini sta la situazione della Monarchia
Sarda.

--Così--continuava--i suoi seguaci possono fare del patriottismo a
buon mercato. Così mentre s'illudono di essere liberali e patriotti,
sono nel fatto, e forse inconsapevolmente, egoisti. Che se l'Italia
non avesse dovuto confidare se non nelle proprie forze e nel proprio
diritto, puossi senza illusione congetturare che invece di disperdere
i tesori morali guadagnatisi alle barricate di Milano, ai bastioni di
Roma, ai forti di Venezia, a Vicenza, a Bologna, a Brescia, seguendo
una fallace fantasima, non avrebbe sopportata per dieci anni la
tirannide atroce dell'Austria, del papa e dei loro vicari, nè sarebbe
solcata da due partiti, ma, animata da un solo pensiero, sarebbesi con
forze compatte affrettata alla riscossa.

--In secondo luogo--diceva l'oratore con sentimento profetico--ove,
o emersa dalle viscere istesse della nazione, o procurata
dall'esempio di un altro popolo oppresso, la rivoluzione finalmente
scoppiasse--Casa di Savoia, mercè dello Statuto, si renderebbe
possibile col nuovo ordine di cose. Casa di Savoia potrebbe dire
all'Italia con le solite amplificazioni: «Mira, per trent'anni in
mezzo alla reazione universale, fra mille spinose difficoltà mi
conservai fedele alla tua causa, ho fatto rispettare sulle mie torri
il tuo stendardo, ho ammaestrato alla guerra il mio esercito in
Crimea, affinchè potesse affrontare vittoriosamente i tuoi perpetui
nemici. Eccomi armata e pronta a suggellare col trionfo la battaglia
da te incominciata. Io ti precedo, seguimi.» E l'Italia immemore del
passato, sorda agl'insegnamenti della storia, e alle lezioni
dell'esperienza, la seguirebbe probabilissimamente e le confiderebbe
i suoi fati.

Esaminato il passato e il presente della Monarchia Sabauda, che
restringeva la libertà di stampa, che non cambiava i codici, che anche
si alleava con quell'imperatore francese che occupava Roma
militarmente, che poneva mano alla restaurazione del murattismo, Mario
insisteva nel sostenere che la insurrezione doveva precedere l'aiuto
sardo e che chi amava l'Italia doveva unirsi a coloro che consacravano
tutti gli sforzi a preparare quell'insurrezione.

--La bandiera che questi spiegheranno nel giorno della sollevazione,
sarà la bandiera a tre colori, la bandiera che non rappresenta nè un
partito, nè una classe, nè una tendenza esclusiva, ma la bandiera di
ventisei milioni, che rappresenta la sovranità della nazione. Chi si
rifiuterà di seguirla, di combattere e di morire per essa? E quando
dinanzi a questa bandiera saranno scomparsi il re di Napoli, il papa e
i duchi, quando tutta l'Italia meridionale e centrale padrona di sè e
delle proprie forze, rovesciandosi sovra gli Austriaci e suscitando
l'insurrezione Lombardo-Veneta, o rafforzandola se scoppiata, li avrà
ributtati oltre le Alpi, a Roma l'Assemblea nazionale liberamente
delibererà come la nazione dovrà essere amministrata. E se il re Sardo
avrà gagliardamente partecipato a quella lotta, l'Italia, se il
crederà opportuno, gl'imporrà sul capo la corona di torri.

Ma l'insurrezione, ripeteva, non nasce, nè si sviluppa da sè come i
fiori del prato; è indispensabile apparecchiarla. E già essa stavasi
alacremente organizzando per opera di patrioti sparsi da Palermo a
Milano, in Grecia, nelle isole Jonie, a Costantinopoli, a Smirne, in
Alessandria, a Tunisi, in Barcellona, in Inghilterra, a Buenos-Aires e
a New-York.

--Or bene--concludeva--io non vi ho qui invitati per dirvi soltanto
parole; le parole sono suoni vacui e inutili ove non si traducano in
fatti. E il fatto che voi dovete compiere è di unirvi agli altri
fratelli vostri, di prestar loro il vostro concorso al riscatto della
patria comune. Venite dunque a questa tribuna a dare il vostro nome.
Vi invito in nome dell'Italia nostra, schiava e insultata, in nome dei
nostri fratelli morti per essa sul patibolo e nell'esilio, in nome dei
centomila che per essa tuttora gemono nelle carceri dei nostri
tormentatori.

                              * * *

Quella conferenza, come si disse, fruttò seduta stante parecchie
centinaia di dollari che furono subito spedite a Giuseppe Mazzini.


FINE.



Dello stesso Autore:

Un italiano in America--Milano, fratelli Treves, editori, 1892--L. 3,50.

Da Napoli ad Amburgo (Escursioni di un giornalista)--Roma,
stabilimento tipografico della _Tribuna_, 1893--L. 2.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Nel paese dei dollari - Tre anni a New-York" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home