Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: L'infedele
Author: Serao, Matilde, 1865-1927
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'infedele" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



  MATILDE SERAO

  L'Infedele



  MILANO
  DITTA EDITRICE BRIGOLA

  DI E. BRIGOLA E G. MARCO
  Via Annunciata, N. 6

  M DCCC XCVII



  Proprietà Letteraria



  171597--Milano, Tipografia Capriolo e Massimino



L'infedele.



I


Tre sono i personaggi di questa istoria d'amore: Paolo Herz, Luisa
Cima e Chérie. Malgrado il suo cognome tedesco, Paolo Herz è italiano,
di madre e di padre italiani, delle provincie meridionali. Veramente,
non è inutile aggiungere che l'avo paterno di Paolo era tedesco.
Questo nonno aveva lasciato la Germania in piccolissima età, emigrando
in Italia: qui era cresciuto, aveva lavorato ad accrescere la sostanza
famigliare e il decoro del nome Herz: qui si era ammogliato con una
italiana, e aveva procreato dei figli. Così i legami con la patria di
origine, almeno quelli esteriori, si eran venuti col tempo, con la
lontananza, rallentando e poi, più tardi, sciogliendosi: tanto che gli
Herz sembrava non conservassero più nessuna traccia nordica nel
temperamento e nel carattere.

Paolo Herz ha trentasei anni; è alto, forte, elegante, sebbene per gli
anni e per la vita di piaceri trascorsa, sia in lui più evidente
l'eleganza che la forza: ha il volto pallido, ma sano, e sotto il
pallore è diffusa una lieve tinta ambrata, emblema del mezzogiorno ove
egli nacque: i capelli tagliati molto corti e che formano delle punte
naturali, sulla fronte e sulle tempia: ha i mustacchi soltanto
castani, che lasciano intravvedere una bocca ancora fresca, mentre
intorno agli occhi già manca la freschezza. Paolo Herz ha una
fisonomia tranquilla e quasi immota, certe volte: ma questa immobilità
non è l'assenza della vitalità, nè quel ritiro dell'espressione
faciale che lascia le linee come morte. È, piuttosto, un riposo
dignitoso del viso che esprime chiaramente il silenzio e la
meditazione dell'anima; una pacatezza nobile e pensosa che pare più
adatta al suo genere di bellezza virile e che maggiormente gli attira
l'amore delle donne e l'amicizia degli uomini. Forse, senza che egli
neppure ne abbia sentore, in quei periodi di pace del volto, rinasce
in lui l'antica, avita conscienza germanica, fatta di speculazioni
spirituali, di contemplazioni pure e poetiche. In quei momenti, Paolo
Herz è bello: le donne, spesso, gli hanno imposto di tacere e di
pensare, quando era accanto a loro. Sovra tutto, non lo vogliono veder
soffrire: le sue peggiori giornate, come estetica, sono quelle in cui
per un puntiglio non vinto, per un capriccio non soddisfatto, per una
delusione inaspettata, per un immeritato dolore, tutta la sua
fisonomia si decompone, quasi l'uomo toccasse le soglie della morte.
Egli non può soffrire: egli non sa soffrire: quando soffre, è brutto,
è antipatico, è, talvolta, odioso. Il suo volto bruno diventato
terreo, i suoi occhi come velati da una nebbia torbida, le rughe che
si moltiplicano intorno agli occhi, le guancie sparute che fan parere
grosso il naso, le pieghe accanto alla bocca, mostrano un Paolo Herz
tutto diverso, senza energia morale, senza forza fisica, inetto al
dolore, abbattuto dal patimento e non destante alcuna compassione.
Però, bisogna dirlo: pochi uomini lo hanno veduto soffrire e una sola
donna. Per lo più, quando è infelice e non regge ad essere infelice,
egli fugge, e si nasconde non si sa dove.

Paolo Herz è libero. Egli ha perduto sua madre, essendo ancora
giovanissimo: un orfanello di sedici anni. Dopo nove anni, avendone
Paolo venticinque, gli è morto il padre. Da undici anni, quindi, egli
è solo, nella vita: ha lontani parenti, che poco conosce e non vede
mai; ha qualche amico buono, ma l'amicizia loro non è nè profonda, nè
esclusiva. Egli ha amato più sua madre che suo padre, mentre è stato
amato moltissimo da ambedue, come figliuolo unico. La morte di sua
madre, sparita assai giovane e bella, ha colpito l'adolescenza di
Paolo, di un dolor folle, con lunghe crisi nervose e intervalli
paurosi di stupefazione, in cui è parso naufragasse la sua salute e,
forse, la sua ragione: suo padre ha dovuto condurlo a fare un
lunghissimo viaggio, di due anni, nei paesi più lontani: ma il
figliuolo, calmato l'impeto angoscioso, ha conservato un rimpianto
inconsolabile, la nostalgia di quel fido seno materno su cui
appoggiava così volentieri il capo. A Paolo Herz è restato,
dall'adorazione per sua madre, una invincibile inclinazione a tutte le
delicatezze muliebri, un bisogno di tenerezza quasi morboso, un
desiderio di blande e innocenti carezze, una necessità di chinare la
testa sovra un petto femminile e di udire un cuore tenuemente
palpitare sotto il suo orecchio. Malgrado questo, Paolo Herz, come si
supponeva dovesse fare, non ha preso moglie. Una sola volta nel suo
segreto, ha avuto l'idea di sposare una fanciulla intelligente e
affettuosa, ma al momento di parlare, ha esitato, dolendogli di
lasciare una libertà tanto piacevole a un giovane: poi, la vita lo ha
condotto altrove. La creatura prescelta intimamente dall'anima sua, ha
avuto qualche vago presentimento di questa probabile elezione: ha
atteso lungamente e vanamente il segno reale: ma ha finito per
stancarsi e ha dato il suo cuore e la sua vita ad altri. Paolo Herz sa
di aver perduto per sempre l'occasione di essere onestamente felice:
ma il suo rammarico non è nè acuto, nè grande, nè continuo. Invece, la
libertà di cui dispone ampiamente, è una delle maggiori gioie della
sua esistenza, nè egli commette l'errore di gusto di lagnarsi, mai,
delle ore solinghe, mai egli invoca borghesemente le dolcezze
familiari, nella sua vita. Forse, nel matrimonio più perfetto, con la
persona che più egli aveva sognata di far sua, egli ha sempre temuto
un misterioso pericolo.

Paolo Herz è ricco. Egli ha avuto da suo padre e da sua madre una
magnifica fortuna, senza impicci, senza noie, perfettamente liquida,
denaro e denaro, cioè. In verità egli ne ha mangiato una parte,
vivendo, cioè amando, viaggiando, giuocando, spendendo il suo denaro
in piaceri alti, mediocri, e anche qualche volta, bassi: non prodigo,
generoso. A trentaquattro anni rimane ancora ricco: mentre ha già
percorso una metà del mondo; mentre ha già esaurito le tre o quattro
follie costose della giovinezza e della età meno giovane; mentre ha
già quasi toccato il fondo e anche assaporato un po' la feccia di quel
programma di lusso, di godimenti, di squisite ed estreme raffinatezze
che fa fremere ogni temperamento nobile e ardente. Egli non è, dopo
tutto questo, nè un vizioso, nè uno scettico, in fatto di sensazioni
umane. Ha avuto del gusto, un vivacissimo gusto per tutti i piaceri;
ma non ha lasciato che la depravazione toccasse il suo cervello; ma la
sua stanchezza delle cose è malinconica, non cinica.

Paolo Herz è un uomo eminentemente portato all'amore. Dopo aver
percorso tutte le vie dove vibra la vita, egli ha ritrovato, non so in
quale pozzo, la Verità; ed Essa gli ha detto una cosa antichissima:
solo l'amore vale la pena di vivere. Dotato di un temperamento caldo e
vivido, di una fantasia esuberante e gagliarda, di un profondo segreto
senso di poesia, queste sue qualità che, applicate a un'ambizione, ad
un'arte, a un apostolato, avrebbero reso illustre il suo nome, gli
sono servite solamente per amare e per essere amato, per ricercare,
per raccogliere e per chiudere nell'amore tutte le varie forme della
felice attività umana, per serrare nel piccolo giro di un amore
muliebre ogni desiderio, ogni speranza, ogni finalità.

Egli, però, non è un Don Giovanni. Nella sua anima esiste una limpida
corrente sentimentale che viene a temperare tutte le fiamme troppo
improvvise, troppo violente, troppo fugaci. Sentimentalità costante,
latente, intimissima, conservatrice di dolcezze miti e nascoste,
evocatrice di dilette e predilette immagini, rammentatrice di una
figura femminile, ahi, indimenticabile, la figura materna, tutta piena
di grazia e di modesta seduzione. Sentimentalità persino eccessiva, in
un uomo come Paolo Herz, e anche non scevra di strani tranelli e
destinata a procurargli le più elevate gioie del cuore, ma,
fatalmente, anche a condurlo su per l'erta tribolata del dolore. Forte
della sua salute, della sua bellezza, della sua fortuna, della sua
libertà, corazzato in questa lucente e salda armatura che gli ha
concesso Iddio, destinato alle vittorie, figliuolo primogenito del
trionfo, Paolo Herz non ha che questo lato debole, in sè, questa
sentimentalità celata, ma prepotente sovra ogni altro istinto, sovra
ogni altra inclinazione. Ciò che rende quest'uomo altero e robusto,
fragile come un fanciullo, è appunto questa larga fiumana sentimentale
che confonde e affoga le sue forze, in qualunque ora di battaglia.
Quante volte, nell'orgoglio maschile, egli ha tentato di liberarsi, di
diventare duro e freddo, di non tremare per un ricordo, di non
impallidire per un nome, di non vibrare di pietà per uno sguardo
velato di lagrime, di non fremere di tenerezza dinanzi a un volto
smorto di malata: vanamente. I suoi avi di Germania gli hanno
trasmessa questa eredità del sentimento, molle e rorida, e il sangue
bruciante meridionale, col suo effuso ardore non è giunto a
inaridirla. Pure, sino a trentaquattro anni, Paolo Herz ha amato ed è
stato amato, senza che l'amore, anche a grandi altezze di temperatura,
gli infliggesse le torture che subiscono gli animi deboli: nessuna
tragica lotta interiore lo ha travolto. Egli si è incontrato in due o
tre donne, qualcuna semplice e umile, qualche altra superba e
appassionata; ed egli ha dato e ha ricevuto felicità, ha dato e ha
ricevuto spasimo, ebbrezza, delirio, in uno scambio abbastanza giusto.
È stato amato, per quanto ha amato: combinazione rara, rarissima, che
è data in sorte solo a coloro che la vita vuole favorire. Herz è stato
molto innamorato, molto fedele, molto passionale e insieme molto
sentimentale, senza soffrire troppo, poichè le donne che lo hanno
amato, erano alla sua altezza. Così gli è entrata nell'anima una
fatale fiducia di se stesso e dell'amore; egli ha finito di temere le
debolezze del suo temperamento; egli è stato _certo_ di vincere
_sempre_, vincere dandosi all'amore, naturalmente, tutto quanto, ma
dandosi in una perfetta armonia di abbandono, ricevendo per quanto
dava, inteso per quanto intendeva, compreso e preso per quanto egli
comprendeva e prendeva: e non soffrendo. I suoi amori, prima dei
trentaquattro anni, sono fioriti senza catastrofi, dolcemente,
lasciando nel suo cuore e nel cuore della donna già amata, già amante,
un profumo soave. Ciò ha ancora aumentato la sua fiducia nel
sentimento e in se medesimo, e lo ha imbaldanzito sino al punto di
credersi intangibile al dolore di amore; egli ha perduto ogni criterio
della infelicità e della miseria morale che viene dall'amore, massime
di quella miseria e di quell'infelicità, che noi stessi portiamo
nell'amore. Infine, Paolo Herz è diventato un essere fiero della
propria forza morale amorosa, della propria sapienza amorosa, fiero di
tutto conoscere e di tutto poter vincere, nulla temendo, nulla
vedendo, nulla rammentando, cieco come tutti i fortunati, sui moti
improvvisi e inaspettati della vita e sulle contraddizioni crudeli
della fortuna.

In questa istoria d'amore, Paolo Herz è il traditore.



II.


Luisa Cima ha ventisei anni. È piccola di statura, minuta di linee ma
non troppo scarna: anzi le spalle hanno una curva molle, le braccia
sono rotondette, il collo è pienotto, tanto che ella guadagna sempre
nei vestiti da teatro e da ballo, dove tutto questo si può mostrare
nudo. Però sembra così esile, così fragile che un nulla pare debba
spezzarla. La sua carnagione è di un pallore trasparente che non è
senza grazia, poichè si attribuisce a malattia, di cui ella sia
convalescente o ad emozione di cui sia in preda: mentre quel pallore è
naturale, ella è in perfetto stato di salute e delle sue emozioni
nessuno ha saputo mai nulla. Spesso, però, quando Luisa Cima ride, o
quando cammina presto, o quando balla, ondate lievi di sangue passano
sotto quella carnagione bianca e se le tolgono la sua aria
interessante, la fanno ridiventare giovanissima, una fanciulla che sia
sposa da un anno.

I capelli di Luisa Cima sono nerissimi, di una grande finezza,
morbidi, così lucidi che paiono bagnati e malgrado che sieno molti,
per la loro finezza e per la la loro morbidezza, si possono chiudere
in un pugno: ella li rialza poco più su della nuca, in molle
disordine, con una grossa forcinella di tartaruga bionda, una sola,
che ne trapassa il nodo e lo sostiene: qualche ciocchetta lieve ne
sfugge: sotto la linea nera che essi formano, rialzati tutti sulla
fronte e sulle tempie, la fronte si distacca, più vividamente pallida.
Gli occhi di Luisa Cima sono oscuri, di tinta incerta. Ma oscuri, non
neri: vi è chi li ha visti marrone oscuro e chi grigio scuri: mai
neri. La loro espressione è sempre duplice: tenerezza e malizia, miste
insieme. Spesso vi è lotta intima, fra queste due espressioni: vince
l'una o l'altra, secondo il momento. Talvolta la tenerezza degli occhi
di Luisa va sino al languore e quasi quasi vorrebbe far credere a un
sentimento segreto: talvolta la malizia sopraffà la tenerezza e
diventa impertinente, prepotente, provocante. Ma il loro stato
naturale d'espressione, di questi occhi, è una dolcezza infantile
mista a una scintillante malizia. A guardarli bene, però, questi occhi
sono scoraggianti. La sua limpidità è assoluta. Mai profondità di
pensiero li fa maggiori di sè, mai velo di lacrime li intorbida, mai
nuvola di tristezza li appanna: quello sguardo non è mai errabondo,
mai sognante, mai vago: ha una nitidità, una precisione, che taglia di
un colpo solo, tutti i vagabondaggi della fantasia. Niente di
segreto.--Essi non mostrano che quello che sono. E così, questi sono
sinceri, perchè dicono, senza reticenze e senza indecisioni, lo stato
di animo di Luisa Cima: tenerezza molta mista di malizia. E sono
sempre le stesse parole, poichè gli occhi sono sempre gli stessi e non
altro.

La bocca di Luisa è formata di labbra sottili e pallidette nel loro
roseo tenue: i minuti denti, bianchissimi, nel sorriso che li scopre
tutti, lasciano vedere una gengiva esangue anche essa. Luisa sorride
quasi sempre: a bocca chiusa e pensosa, il suo volto è molto meno
seducente, come accade a tante altre donne. Invecchia, questo volto:
impallidisce anche più. Ella, quindi, sorride facilmente, di tutto,
anche quando dice qualche cosa di serio, anche quando dice, spesso,
qualche cosa di duro. La sua voce è infantile, un po' trillante, un
po' roca, un po' interrotta, spesso, da improvvisi languori, da
stanchezze brevi: Luisa parla presto, molto, restando talvolta senza
fiato, con le labbra schiuse, come un uccellino che abbia allora
finito di cantare. Le mani sono magrette, lunghette, bianche, con le
unghie scintillanti, troppo scintillanti, come l'onice: ella cambia
nervosamente spesso, gli anelli, troppo numerosi, anelli gemmati da
una mano all'altra, con un moto quasi continuo. Luisa Cima porta dei
vestiti senza strascico, rotondi, semplici: delle giacchettine
attillate e brevi, delle mantelline da bimba, delle grandi cravatte di
merletto dove, la sua testina pare che s'immerga per disparire: dei
colletti di pelliccia tutti irti dove essa sembra, ancora una volta,
un uccellino freddoloso: dei cappellini fatti con un fiore e con un
nastro, con una farfalla e una veletta, dei cappellini fatti di
niente. Sulla sua piccola persona vi è sempre una cosetta carina e
originale, una fibbia, un fermaglio, un nodo di nastro, un gingillo
sospeso alla cintura, qualche cosa di luminoso e di vezzoso, talvolta
di vezzoso e di abbagliante che attira gli occhi e li respinge. Ella,
porta degli orecchini enormi e pesanti, di smeraldi, di turchesi, alle
sue piccole orecchie troppo bianche: dieci o dodici cerchiolini di
oro, sottilissimi, al braccio, che tintinniscono sempre e a cui è
sospesa una perlina. Si dice che le perline formino un nome. Quale
nome? Forse due nomi, perchè sono molte. Moltissimi anelli, dei
ventaglietti antichi e preziosi, ma sempre preziosi: e i guanti, solo
i guanti, sulla sua persona, oltraggiosamente profumati.

Poichè nella donna bisogna desumere il suo tipo morale specialmente
dal suo tipo fisico, dal suo modo di vestire, di camminare, di
parlare: da quanto si è detto, Luisa Cima pare una di quelle creature
deboli, gracili, che traggono, per contrasto, vivacità dalla loro
debolezza e che hanno delle vibrazioni squisite nella loro gracilità.
Ella pare, anche, delicatissima come se uscisse allora da una
infermità che l'ha estenuata e come se riprendesse allora le sue
giovanili e tenere energie. Certo è questo: che non possedendo nessuna
bellezza, non avendo nessuna formosità, non facendo mostra di nessuna
grande qualità estetica palese, questa donna è seducente. Quando è in
una sala, in un teatro, dove deve tacere, stare quieta, in silenzio e
al riposo, ella sembra una donnina insignificante, poco sana anche,
anemica, senza nessun genere di attrazione: e può essere, è
trascurata. Ma, l'ora passa: ella si muove, si leva, parla, sorride,
va, viene, compare e scompare, gira, danza, pare che si spezzi in due,
si gitta estenuata in una poltroncina, coi grandi occhi limpidi,
maliziosi e teneri bene aperti, con la bocca socchiusa e la sua
attrazione vincola, lentamente. L'uomo ha cominciato per considerarla
come un qualunque inutile e trascurabile piccolo elemento muliebre:
poi, la sua attenzione benevola ha pensato che Luisa Cima sia una
cosetta carina e infine, infine, quando il fascino si è sviluppato,
che Luisa Cima sia un prezioso piccolo gioiello. Sovratutto poichè
l'uomo è un buon tiranno pietoso, un affettuoso tiranno protettore, lo
lusinga la debolezza di questo tenue fiorellino, mancante di colore,
piccolo fiore freddo--le manine lunghette e magrette di Luisa Cima
sono sempre fredde--e la vanità della protezione lo spinge alla
compassione e la compassione tende all'uomo, da quella donna, il suo
maggiore tranello. Oh la donna sa farsi anche più minuta, più piccina,
tutta trepida di misteriose paure, tutta tremante di freddo a un
soffio, con quel volto da cui sparisce così facilmente il sangue, dove
solo i maliziosi, assai più maliziosi che teneri occhi vivono
alacremente: ella chiede, in silenzio, di essere protetta, sorretta,
presa, chiusa nelle braccia, difesa contro tutto e contro tutti,
carezzata sino alla voluttà, anche sino al delirio, lo chiede col
tenerissimo languore del suo sguardo, in cui la malizia nasconde il
suo trionfo!

Così, desumendo sempre da quello che essa fa, quello che Luisa è, si
forma la figura morale di una donnina perfida. La parola perfida non
basta: si può arrivare a perversa. Questa donna, sovra tutto, non ama
che se stessa, così follemente, che quasi mai l'egoismo fu spinto a
tale estremo segno. Ella si adora. Quando pare che ella ami follemente
qualcuno, è per qualche segreta soddisfazione crudele del suo egoismo.
La medesima felicità che dà al suo amante è fatta di egoismo e di
perversione. Ne ha avuti due, di amanti, oltre il marito: il terzo
amante è stato Paolo Herz. Ebbene, tutti e quattro, poichè il marito
anche è stato suo amante, poichè ella è ritornata a lui tre volte
tutti e quattro sono stati presi ed abbandonati, così, per capriccio
caldo che parea passione, sono stati lasciati per fastidio improvviso;
e niuno l'ha dimenticata, mai, neppure il marito, tutti hanno
desiderato il suo amore, ardentemente, dopo l'abbandono. La sua
perversione ha seduzioni latenti, prima, poi palesi, poi sfrontate: e
infine, ella rimane nel sangue di coloro che l'hanno amata, come una
infermità corrompitrice. Nell'egual modo come una donna leale, nobile
e generosa ha bisogno di vivere continuatamente nell'esercizio di
queste virtù, e di questi puri elementi nutrisce con compiacenza
l'anima sua, così Luisa Cima chiede, per esser felice, di poter
compire gli atti capricciosi e crudeli che le ispirano i suoi istinti
di perfidia e di perversione. Ella non sa nè amare nè vivere che così:
obbedendo alla mobilità del suo temperamento, vincendo un uomo ogni
volta che le piace di vincerlo, inebbriandolo di amore e di dolore,
abbandonandolo solo, fiacco, perduto, quando quest'uomo non le piace
più, tradendolo immancabilmente, colmandolo di quante amarezze una
vera perfidia possa versare nel cuore di amante, non solo tradendolo,
ma avvelenandolo, non solo tradendolo, ma ridendo di lui, altrove, con
altri, togliendoli, così, l'ultimo dovere e la ultima illusione. Pure,
questa natura muliebre ha grandi scoppii di sincerità: la verità
brutale le piace. Essa, a un certo momento, non si cura di fingere
più. Come è, è. Ella non inganna: non tradisce. Quando ha tradito, lo
dice, lo dichiara, lo sostiene, lo proclama, se ne vanta. Chi la
vuole, deve accettarla come è. Chi la prende, si dà al più orribile
fra i perigli sentimentali.

Luisa Cima, in questa storia di amore, è la tradita.



III.


Chérie non è un nome, naturalmente, è un soprannome. Nessuno sa troppo
bene come Chérie si sia chiamata, al fonte battesimale e quale cognome
ella porti, sui registri dello stato civile. Forse, a furia di udirsi
chiamare Chérie, ella stessa ha dimenticato il suo vero nome. Fu il
primo uomo che l'ha amata, quello che la chiamò Chérie, o sua madre, o
un indifferente, o ella stessa si applicò questo vezzeggiativo
francese? Chi lo sa! Nessuno, forse ha pensato mai a domandarglielo:
forse, perchè accanto a lei si pensa a tutt'altro che a fare delle
indagini sul suo nome: forse, perchè queste due sillabe sono così ben
dette, per indicarla! Ella, del resto, è muta su questo: se un raro
imprudente le chiede l'origine del dolce appellativo, ella china i
suoi begli occhi verde acqua, e non risponde. D'altronde, dapertutto,
per dire di lei, non la si nomina che come Chérie: il suo nome è
ripetuto spesso, nei colloqui dei giovanotti alla moda, massime fra
quelli più intelligenti e più veri amatori delle donne: anche le
signore, talvolta, parlano di lei, ma quando sono sole e di sfuggita.
Ella non firma che Chérie i suoi biglietti mancanti di ortografia, ma
non mancanti di grazia. Questo soprannome, infine, ha un carattere
soave e familiare che se contrasta con la vita di Chérie, risponde
abbastanza al tipo muliebre che ella rappresenta.

Chérie non è più tanto giovane, ha circa trent'anni. Ma come a venti
anni, ella ha sempre la medesima foresta arruffata di capelli biondi,
dove, qua e là, una scintilla di oro si accende; nei suoi begli occhi
glauchi frangiati di biondo, è sempre un perenne riso di giovinezza, e
la bocca tagliata classicamente, simile a quella di una olimpiaca
Diana, ha una freschezza umida incantevole. Non invecchierà tanto
presto, Chérie, poichè il segreto della gioventù è nel genere della
sua beltà, un po' confuso, un po' originale, in certi lineamenti
squisito, in alcuni altri molto scorretto. Ella è troppo alta: ma la
sua persona è snella, ha proprio quella flessuosità che sì facilmente
si attribuisce alle donne di persona svelta, ma che è raramente reale.
La carnagione è un po' rossastra, di una tinta sgradita che, in alcuni
giorni, diventa color mattone; ma i suoi occhi sono immensi, o
sembrano immensi, giacchè la pupilla azzurro verdina ha intorno una
cornea non bianca, dai riflessi azzurri, ma la lieve ombra che è sotto
le palpebre, ha anche qualche cosa di azzurro: ed è miope, Chérie, con
questi grandi occhi nuotanti nelle tinte glauche, il che le dà un'aria
sognante. D'altronde, saviamente, ella non adopera mai l'occhialino,
lasciando ai suoi occhi vedere solo quello che vogliono e non
togliendo loro nessuna di quelle contemplazioni vaghe ed errabonde.
Ella ha il collo un po' troppo lungo, le spalle larghe, la cintura
strettissima, il passo lieve e due o tre movimenti leggiadrissimi del
capo.

Ma la cosa più seducente, in Chérie, la cosa che vi attrae, che vi
prende, che vi tiene, che vi soggioca, è la voce. Qual voce! Bassa e
velata, quasi sempre, questa voce dicendo parole più insignificanti,
par sempre emozionata: talvolta vivida e sonante, in un'armonia di
canto, pare che dia forza e lietezza a chi l'ascolta. La voce di
Chérie è insinuante, è toccante, è candida, è amorosa: ella è già
scomparsa e quella voce vibra ancora nel vostro cuore, con musicalità
sentimentali, e certe frasi dette da quella voce, sembra che
contengano delle melodie sconosciute. Ella sa bene questo, Chérie! E
conoscendovi, dandovi un lungo sguardo dei suoi immensi occhi color
dell'acqua marina, dicendovi: _buona sera_, ella sa di suscitare non
so quale piccolo poema nelle anime più inaridite. Molti l'hanno voluta
conoscere, solo per udirla a parlare, e, dopo, non hanno saputo
staccarsene che a forza. Ella non ha mai cantato, però. Una strana
avventura, è accaduta, a Chérie, in un veglione. Una signora della
grande società, il cui marito era folle di Chérie, si è mascherata per
trovare la sua rivale, per parlarle, per ingiuriarla, forse, per fare
uno scandalo, certamente. La dama è entrata nel palco di Chérie e sono
rimaste insieme mezz'ora, parlando a bassa voce, sul davanti del
palco, guardandosi a traverso i buchi delle mascherine: lo scandalo
non vi è stato, giacchè, a un certo momento, la dama si è levata, ha
salutato quietamente ed è uscita. Dopo, interrogata, ha detto: _mio
marito ha ragione_. Del resto, la dama è un po' strana e Chérie, pare,
le abbia risposto con molta dolcezza e con molta umiltà.

Chérie è, relativamente, onesta. Non ha mai due amanti, nello stesso
tempo; non ha mai preso, solo per il denaro, un amante brutto, vecchio
o ladro; odia i banchieri e gli ebrei; e se le è capitato che il suo
amante fosse egualmente ricco, giovane e bello, ella gli ha dato uno o
due anni di amore, gli è stata fedele, gli ha fatto spendere una
quantità di denaro, lo ha lasciato solo quando costui ha voluto esser
lasciato e ha tenuto sempre due o tre mesi di lutto. Le si conoscono
anche degli amori di cuore. Essa è ricca, infine. Vi è chi è restato
legato, a lei, come si resta difficilmente legati a una Chérie: e chi
ha voluto assicurarle una fortuna. Essa dà da vivere a una quantità di
parenti poveri, marita le sue cameriere, partecipa segretamente a
tutte le questue e a tutte le sottoscrizioni, ha delle devozioni
speciali per certi santi e una paura orribile della morte.

La sua casa, d'altra parte, è elegantissima: ella ama le grandi serre,
i grandi saloni, i mobili larghi e scolpiti--_che dureranno più di
noi_, ella dice, con una lieve malinconia--i quadri antichi. I
salottini, i mobilucci, i gingilletti, le statuine le sono antipatici.
È troppo alta, per poterli amare, porta sempre dei vestiti o neri, o
bianchi: bianco sul nero, talvolta, e nero sul bianco: ha delle
scarpette nere senza tacco, con grandi fibbie di argento, di strass:
porta dei mantelli ampii, foderati di magnifiche e nobili pelliccie e
dei fili di perle, in tutte le grandezze e in tutte le ore, al collo.
Sta più volentieri in piedi che seduta, più seduta che sdraiata: e ama
di cavalcare, di remare, di ballare. È sana: o pare sana. Sta più
volentieri sul mare che sulla montagna. Nel suo mondo la ritengono
come una donna sentimentale, troppo, e troppo pretensiosa, quindi. Le
piace di cenare, ma odia i discorsi liberi; beve e mangia benissimo,
ma ha un inconsiderato amore per i fiori; non è mai triste, ma è
capace di guardare la luna con occhi pensosi, Chi, fra le sue amiche,
la chiama una _posatrice_, chi una seccatrice: qualcuna confessa che
ella è buona.

Sì, Chérie è sentimentale, buona e anche un poco sciocca, Ha una
sentimentalità tutta superficiale e una fantasia molto limitata. Le
cose che dice sono, spesso, molto ingenue o molto sceme, ma le dice
con grazia e sovra tutto con una voce! Sa qualche verso, ma per lo
più, ne sbaglia l'autore: legge, ogni tanto, qualche libro, ma Ohnet è
il suo autore preferito. Le piacciono gli eroi poveri e nobili, le
eroine che muoiono, anzi che peccare: ma tutto ciò è simile a quello
che può sentire una modistina o una onesta fanciulla un po' esaltata.
Salvo che nella sua società di donne volgari e mal educate, di
creature corrotte e avide, ella sembra un fiore di poesia, talvolta,
mentre, poveretta, ha un piccolo cervello e una piccola anima. Per lei
si va in rovina, egualmente, ma senza essere urtati in certi bisogni
di finezza e di delicatezza; e quanti hanno finito per esserle grati
di ciò, malgrado la loro rovina! Qualcuno, si è illuso su lei: ha
creduto di trovare in Chérie della passione, della intensità, della
profondità: ha supposto che grandi misteri fossero nascosti in quella
anima: ha voluto attribuirle un desiderio d'ideale, combattuto dalla
sua viltà: ha creduto che ella tenesse a redimersi. Costui ha avuto
delle delusioni gravi. Chérie non è nulla di tutto questo: non pensa a
nessuna di queste cose: quando gliele dicono, non le capisce: quando
gliele ripetono, si sforza per comprendere, ma finisce per seccarsi ed
esce in un discorso qualunque. Non bisogna dunque lasciarsi ingannare
dalle inflessioni malinconiche della sua voce, quando tramonta il
sole: dalle lacrime che velano i suoi grandi occhi, quando vede uno
spettacolo pietoso: da certe furtive strette di mano, quando ode un
bel discorso eloquente: da certi segni di croce che ella fa, quando
lampeggia e tuona. Bisogna pensare sovra ogni altra cosa che ella è
una donna fatta per l'amore, che ella è buonina, ma che è anche un
poco stupida. Per aggiungere un ultimo tratto, Chérie è quasi sempre
allegra: il che è consolante, per chi la conosce e per chi le vuol
bene. Ella crede che l'allegria conservi la salute e la beltà; e a
trenta anni, per questo, pare molto più giovane.

Questa Chérie, nella istoria di amore che qui racconto, è la complice
necessaria del tradimento fatto da Paolo Herz a Luisa Cima.



IV.


Ogni tanto nella buona società, si parlava dell'amore di Luisa Cima e
di Paolo Herz:

--Sarà una passione fugace, vedrete--diceva un uomo, che se ne
intendeva molto--Paolo si stancherà presto.

--Del resto, sembra che l'ami molto poco--soggiungeva uno scettico.

--E Luisa è proprio una creatura nulla. Che ci trova, poi
Paolo?--osservava un'amica di Maria.

Costoro e gli altri sbagliavano assai sul conto di Paolo Herz e del
suo amore. Egli era preso seriamente. Non sapeva neppur lui come era
accaduto. La prima volta che egli aveva vista Luisa Cima gli era parsa
nulla. Varie altre volte, il suo giudizio non si era modificato. Una
sera, però, ella teneva nelle mani un fiore di asfodelo, dal lungo
gambo: e gli aveva parlato prestamente, ridendo, battendogli sul
braccio con quel leggiero fiore, guardandolo con tenerezza e con
malizia. Egli aveva ripensato a quel viso espressivo, pallidissimo
sorridendo di compassione e di compiacenza. Ed è tutto. Più tardi,
negli spasimi della passione mortale, perversamente, Luisa Cima gli
aveva narrata la leggenda orientale dell'asfodelo e della montagna.
Una montagna esiste, salda, forte, incrollabile, in un paese
d'Oriente: non l'hanno vinta nè i cataclismi della natura, nè le mani
degli uomini. Ma vi è anche un piccolo fiore fatato, l'asfodelo: esso,
gracile, tenuto da una mano gracile, batte sulla montagna: e la
montagna trema.

--Io possiedo il magico fiore--soggiunse lei ridendo, mostrando tutti
i denti fitti e minuti, attraverso le labbra rosee e le gengive
esangui.

Ma ciò fu più tardi, molto più tardi! Paolo Herz non ebbe sentore del
suo gran periglio, che quando egli era completamente indifeso,
senz'arme, senza forza e senza volontà. In realtà, Paolo Herz si
lasciò andare a questo amore per Luisa Cima con una spensieratezza
baldanzosa di uomo provato dalla passione e che è certo di dominare il
proprio destino amoroso. E, in principio, questo amore che in lui
doveva mettere radici così profonde e così vitali, non parve, forse,
un _flirt_ molto leggiadro e molto fine a cui Luisa si abbandonava con
rossori di emozione di novella iniziata, in cui Paolo aveva l'aria di
un maestro tranquillo, severo e pieno d'esperienza. Ella manteneva
quel suo contegno infantile, di una semplicità assoluta quell'aspetto
di creatura debole e vezzosa che si accosta, tremando, alle grandi ore
tempestose, che ne è sgomenta ed attratta, che, considerando il
pericolo con occhio di dubbio e di paura, pur sembra decisa ad
affrontarlo. Quasi quasi, in alcuni momenti, Paolo Herz sentiva una
pietà grande di questa donnina che invocava così audacemente e
imprudentemente i folli ardori delle supreme febbri, e la guardava con
occhio pieno d'indulgenza e di compassione, domandando a se stesso, se
non fosse più onesto avvertirla, che le povere bianche dita, dalle
unghie così scintillanti, si sarebbero bruciate, a scherzare col
fuoco.

La pietà! Era un sentimento che preponderava, nel cuore di Paolo, per
Luisa e che, forse, era l'origine di tutti gli altri. Pietà dell'uomo
sano per la personcina malatticia, della persona forte per l'essere
debole, del carattere saldo e leale per un carattere incerto, puerile,
fatto di bizzarre fluttuazioni; pietà per quel volto tenue, per quei
capelli troppo morbidi e troppo fini, per quelle cose pallidamente
rosee, labbra, gengive, unghie! La pietà, sovra tutto, per questa
creatura così piccina e così fragile, che era negata a tutte le lotte
gravi dell'esistenza e a tutte le vittorie clamorose, che si doveva
contentare di mezzi piaceri, di mezzi amori, di mezzi trionfi, per
questa povera piccola cara che a tante, tante cose belle e alte della
vita doveva rinunciare. Ah come la perversa leggeva negli occhi di
Paolo, il poema amorosissimo di questa pietà, e come sapeva
sospingerla e allargarla, come sapeva usarne, perchè questo uomo fosse
completamente suo, preso dal pallido viso senza bellezza, dalla
piccola persona senza nobiltà di linee, preso da quel tipo così
capriccioso e fugace, preso da quella volubilità puerile, preso da
quell'insieme di graziose miserie femminili, per la pietà! Come ella
sfruttava, a suo favore, questa immensa pietà, facendosi contentare in
tutti i suoi capricci, dettando lei tutte le condizioni di
quell'amore, imponendo la sua volontà di donna debole, piegando quella
volontà di uomo forte, imperiosa nella sua grazia morbosa, inquietante
nei suoi turbamenti improvvisi, suggestiva di tutte la stranezze e
pallida persuaditrice di ogni bizzarria!

Nè solo la sicura e schietta forza di quest'uomo doveva esser vinta
dalla debolezza di quella donna, rinnovando anche una volta, come per
migliaia di anni, le antiche favole delle seduzioni ebree e greche, ma
la fantasia e i sensi di Paolo Herz dovevano subire le lusinghe più
inaspettate, dovevano esser tormentati e carezzati da un'insaziabile
curiosità. Colui che aveva assunto per la sua età, per la sua
conoscenza della vita, per la sua esperienza dell'amore, la posizione
di maestro, di guida, di consigliere, in questo che egli chiamava,
senza saper di dire così bene, l'ultimo amore della sua vita, si trovò
innanzi a una scolara stupefaciente. Vi era in Luisa Cima un così
singolar miscuglio di corruzione spirituale e di giovanile poesia, di
candore e di menzogna, di gelido calcolo e di squisita grazia, che
Paolo Herz passava di sorpresa in sorpresa, che tornava a casa, dopo i
convegni di amore, disgustato, incantato, irritato, estasiato, sempre
in preda a una esaltazione. Ella si mostrava a lui in tutte le sue
faccie, in tutti gli aspetti di un temperamento egoistico e imperioso
ella era impertinente e affettuosa, mai soddisfatta, gelosissima,
civettissima, narrando tutte le sue conquiste, violando tutte le
delicatezze dell'amore, senza scrupoli, senza carità, disumana, o pure
talmente ammaliatrice, che lasciava il suo amante confuso
nell'ebbrezza, ebbrezza orribile, ma che importa? Ebbrezza!

Quando egli si accorse che, a trentasei anni, essendo uscito salvo,
incolume da due o tre violente passioni, avendo penetrato l'anima
femminile in tutte le condizioni e in tutti i paesi con lo sguardo
freddo dell'osservatore, avendo saputo molte, troppe, delle verità
dell'esistenza, avendo la piena coscienza del proprio valore e del
proprio diritto, quando si accorse, dico, che egli apparteneva,
spirito e sensi, a quella piccola donna, dalla testina bruna su cui
parea si levasse il ciuffetto lucido di penne di un uccellino, e che
egli era un suo prigioniero per la vita e per la morte, era tardi, era
troppo tardi. Sentì il peso del ferro, ai polsi, ma non più il vigore
per iscuoterlo. Atroce scoperta e atroce giornata! Ella era stata, in
quel giorno, assolutamente perfida, assolutamente cattiva, con lui: e
invano egli aveva voluto, sorridendo, diradare questa mala volontà
perversa che animava Luisa Cima. Il piccolo idolo giapponese, ridendo
di un crudel riso, mostrava i suoi dentini minuti e le pallide
gengive, crollava la testina, scuoteva le spalle e diventava anche più
malvagia. Paolo Herz ebbe un moto d'ira, il primo. Partì da quella
casa, pensando che ella non lo avrebbe richiamato. No. Canticchiava
ella, come un fanciulletto. Suppose che, giunto a casa sua, un
biglietto lo avrebbe richiamato. No. Si torturò tutto il pomeriggio,
non uscendo, attendendo questo appello. No. Anzi qualcuno gli disse
che Luisa Cima era andata alla passeggiata, e che dei giovanotti
l'accompagnavano e che ella rideva.

--Rideva?

--Sì, rideva--ripetette l'amico.

Alla sera, come l'ora avanzava, solo, desolato, disperato, Paolo Herz
andò alla casa di Luisa Cima affrontando tutti i rischi di questa
visita in un'ora insolita. Per fortuna, ella era sola, leggeva,
bevendo una tazza di the. Il suo viso era sereno, nè avevano traccie
di lacrime i suoi occhi: già egli non l'aveva mai vista piangere. Ella
rosicchiava dei biscotti inglesi. Muto, imbarazzato, con un dolor vivo
nel volto, Paolo Herz la guardava: ed ella non comprese, non volle
comprendere: egli dovette dirle tutta la sua spasimante giornata, di
cui Luisa si meravigliava molto, con un'aria di disinvolta innocenza:
e infine, quando egli scoppiò in rimproveri e delle lacrime di collera
gli sgorgarono dagli occhi, ella trovò modo di dargli tutti i torti e
lo obbligò a chiederle perdono. Obbligò? Fu lui che, contrito,
compunto, persuaso di aver maltrattato un angelo bianco e piccino,
convinto di essere il più ingiusto e il più villano fra gli uomini,
s'inginocchiò innanzi a Luisa per impetrare la sua grazia. Con quale
stento gli fu accordata, come cadde dall'alto, come parve proprio una
degnazione sovrana! Ma la ottenne. Era tardi, quando uscì da quella
casa, folle di gioia. Il cielo stellato brillava sul suo capo; i
sentori della primavera olezzavano intorno a lui; la terra pareva
elastica, sotto il suo passo: e a un tratto, il cielo gli parve
funebre, un odore di morte gli salì al cervello e la terra roteò sotto
di lui, ed egli intese che era perduto, si sentì perduto, perduto.



V.


Ogni tanto, nei giorni lunghi e agitati, eppure monotoni e tetri
dell'abbandono, Paolo Herz si metteva a calcolare mentalmente per
quanto tempo Luisa Cima lo avesse amato. Nella realtà delle parole,
ella gli aveva detto di volergli bene, per più di un anno, di seguito:
ma l'infelicissimo amante abbandonato, si rendeva adesso, un conto ben
preciso delle menzogne di Luisa e riducendo, riducendo, togliendo
tutto il periodo preliminare in cui Luisa Cima lo aveva amato un
pochino, togliendo tutto l'estremo periodo in cui la perversa donna lo
aveva amato sempre meno, sempre meno, egli, nella realtà dei fatti
aveva limitato questo amore a quattro mesi, dall'aprile al luglio,
dalle prime rose agli ultimi papaveri. Quattro mesi! Che sono, innanzi
alla vita di un uomo? Un soffio fugace: il tempo di un bacio, di un
sorriso, di uno sguardo incantato e incantevole, null'altro. In quei
quattro mesi, come se fosse stata travolta dal vortice della focosa e
indomata passione di Paolo Herz, la donna era stata veramente sua, in
una di quelle unioni profonde, così rare, così preziose e che vincono
per sempre le anime che comprendono l'amore. Forse, Luisa non aveva
fatto che subire l'impeto sentimentale e il trasporto sensuale di
Paolo Herz, essendo ella creatura di tempra e di fibra molto più
tenue, molto più inerte; forse, ella era stata solo l'eco di quella
voce calda e vibrante di passione, alla cui armonia, dice il divino
poeta germanico, rispondono i cieli commossi e palpitano le
lontanissime stelle: forse ella non era stato che l'istrumento sonoro
e vuoto di quella magnifica sinfonia. Ma per quattro mesi, in una
primavera estasiante di luce e di profumi, in un'estate ardente di cui
ogni notte era indimenticabile, l'illusione era stata perfetta e niun
acido corrosivo di riflessione amara, di ricordo doloroso, di
rimpianto inconsolabile poteva mordere questo periodo di amore. Egli
non indagava. Sentiva di essere stato amato; sentiva di aver tenuto
fra le braccia un essere vivo e innamorato, fremente di leggiadria e
di entusiasmo, giocondo e felice; sentiva che una giovinezza
seducente, piena di una delicata poesia, gli era appartenuta,
esclusivamente, e gli aveva data una ragione suprema all'esistenza.
Quando già, in lui, gli anni avevano fatto il loro lavoro di
stanchezza, di delusione, di segreto affralimento; quando tanti
piccoli e teneri ideali erano tramontati, in lui; quando, anche lui,
portava nel suo cuore il cimitero delle speranze più balde, questa
donna, questa Luisa Cima, nei cui incerti occhi rideva il sorriso
della tenerezza e della furberia, questa donnina breve e snella, e
fine, e infinitamente cara, gli aveva dimostrato che gli anni si
obliano, quando si ama; che tutte le delusioni spariscono, quando si
nutre la illusione dell'amore e che non vi sono morti, dove vive
l'amore. Quattro mesi! Niente: e tutto.

Ma dietro questo tutto delirava lo spirito di Paolo Herz,
nell'abbandono e il suo corpo soffriva, come se fosse crocefisso.
Giacchè ella lo aveva lasciato. Così. Non aveva voluto più saperne di
lui. Aveva finto per poco tempo, verso la fine. Era crudele, Luisa: ma
molto logica, nella sua crudeltà. Quando non si ama più, non si ama
più. Mancò ai convegni. Non rispose alle lettere. Non volle capire
l'interrogazione disperata degli occhi di Paolo Herz, quando lo
incontrava fra le persone: lo sfuggì, per quanto le era possibile,
innanzi a una persecuzione ostinata, accanita che egli la faceva.
Infine, ebbero un colloquio. Fredda muta, ma tranquilla, ella lo
sogguardava, con gli occhi limpidi, dallo sguardo nitido e duro.

--Di' che non mi ami più!--gridò lui, in un accesso di furore,
pronunciando la frase per lui terribile--Di' che non mi ami, non
mentire più, bugiarda, bugiarda!

--Non mento, Paolo. Non ti amo più.

Esterrefatto, egli tacque. E nelle due o tre altre volte, quando
annoiata, gelida, infastidita volgarmente, ella venne a lui, la stessa
verità nuda e semplice sgorgava da quelle rosee labbra.

--Non ti amo. Non ti amo.

--Ma perchè, ma perchè?--gridava Paolo, folle di collera e di dolore.

--Così.

--Non sai la ragione?

--Non la so. Non ti amo, ecco.

--Sei una scellerata, sei un'infame.

--Sarà: ma non ti amo.

Che dire? Che fare? Chi non ama, non ama. L'uomo tradito, almeno, può
uccidere. Ma chi non è più amato, non ha neppure il diritto di
uccidere, egli ha avuto la sua parte di bene, quando è finita, non vi
è più nulla da chiedere, nulla da pretendere. Che fare? Imporre
l'amore? Come, come? Esso non s'impone, che quando l'altro non ha
cominciato ad amare ancora; non già, quando ha finito. Creare dal
niente, con un miracolo, si può: far risorgere un un morto, no. Che
fare? Domandare la pietà della menzogna, la carità dell'inganno? Luisa
Cima non possedeva nè il dono della carità, nè quello della pietà: e
si seccava di mentire, allo scopo odioso di prolungare una falsa
posizione. Che fare? Provocare in duello qualcuno? Chi? Perchè? Luisa
Cima non aveva trovato il successore, ancora. L'occhio avido e geloso
di Pietro Herz che la sorvegliava, dappertutto, non aveva ancora
scovato il rivale. Ella svolazzava, lieta, tenera, brillante,
capricciosa, e libera, libera, sovra tutto, godendo tutta la sua
libertà, con una voluttà che ella non nascondeva. Che fare? Uccidersi?
Ma Paolo Herz, ardentissimamente innamorato, non finiva mai di sperare
che Luisa Cima sarebbe ritornata a lui, un giorno, più tardi, più
tardi.

--Tanto l'amerò--pensava che ella s'intenerirà, E poi, si ricorderà...
--quale amore simile al nostro?

Tenace e inutile speranza. Ella non voleva tornare, ella non era
tenera che superficialmente e tenera solo quando amava: ella si
ricordava, sorridendo e non rimpiangendo; il suo arido cuore non si
dilatava, nella nostalgia, mai! Ella non riceveva più le lettere di
Paolo Herz, restituendogliele chiuse; ella non andava, dove lo poteva
incontrare, o vi andava serena in tanta indifferenza, da essere
scoraggiante; ella resistette a qualunque tentativo, dei più folli
nell'audacia, che egli facesse, per avere un colloquio; ella non
sapeva, non voleva sapere quante notti egli passasse sotto le sue
finestre, vegliando, con gli occhi rossi dalle lacrime, col passo di
un fantasma. Nulla!

Del resto, non aveva ella ragione, innanzi alla ragione, di agire
così? Torto poteva averlo; Luisa Cima, innanzi al cuore umano e alle
sue arcane leggi: ma ella si rideva di questo cuore umano, come di un
fiore rettorico.

Il dolore per l'abbandono di Luisa Cima ebbe in Paolo Herz uno stadio
acuto di una violenza folle ed inane. Egli commise una quantità di
atti irragionevoli, furiosi e strazianti nello stesso tempo, ma che
non ottennero nessun risultato, nè di riaprire il picciolo duro cuore
di Luisa, oramai serrato per sempre all'amore di Paolo, nè di placare
il tormento dell'abbandonato. Egli dimenticò ogni dignità di uomo,
innanzi a lei, arrivando a tutte le viltà e arrivandoci inutilmente,
egli si degradò in tutte le concessioni, in tutte le umiliazioni senza
ricavarne il più semplice compenso, la finzione della pietà, in Maria:
giunse, Paolo Herz, uomo, intelligente, fiero, nobile a farsi
disprezzare ed anche, a meritare il disprezzo di quella femminetta
frivola e crudele. Fu, anche, Paolo Herz, senza pudore nella sua
disperazione: non avendo nè forza, nè energia per reprimerla, per
dissimularla, egli la mostrò a tutti, agli amici e agli indifferenti,
ai parenti e agli estranei, egli trascinò questa disperazione
dell'abbandono, dappertutto, nelle vie e nei caffè, nei salotti intimi
e nei teatri, nelle conversazioni lunghe e folte di confidenze, come
nei discorsetti brevi e leggieri. Per qualche tempo, egli attirò
schiette compassioni e false compassioni: il compatirlo, l'esecrare
Luisa, fu di moda: poi, la gente s'infastidì di questo volto tetro; e
il ridicolo finì per affogarlo. Vari dettero ragione a Luisa Cima; era
troppo noioso, troppo affliggente, Paolo Herz, ed ella aveva fatto
benissimo a piantarlo. Anzi, Luisa attrasse a sè molte simpatie;
diventò oggetto di curiosità amorosa; e l'abbandono di cui ella aveva
desolato il cuore di Paolo, le conquistò due o tre amori, in cui ella
poteva scegliere, se volesse, il miglior successore. A un certo punto,
dunque, quattro mesi dopo l'abbandono, Paolo Herz si trovò in uno
stato d'anima, anche più atroce di quattro mesi prima: non solo
senz'amore, ma senza stima: non solo senza felicità, ma senza coraggio
per sopportare l'infelicità: non solo triste mortalmente, ma avvilito:
non solo assorbito in un'idea ed in una immagine ma incapace di trovar
distrazione: non solo disprezzato, ma disprezzantesi. Tutto il suo
mondo interno era crollato: e nessuno, nessuno, nè gli altri, nè egli
stesso potevano ricostruirlo. Pensava, spesso, di dover morire;
decideva, spesso, di uccidersi. Ma Luisa la piccoletta timida, la
paurosetta vezzosa, aveva anche reso vile Paolo. Egli non combatteva
neanche più col dolore, come le creature umane che hanno ancora una
volontà, correndo l'alternativa di vincere il dolore o di farsene
vincere. No. Egli si lasciava colare a fondo, ma senza naufragio
completo, ma senza catastrofe. La gente levava le spalle, infastidita,
vedendolo. _È un imbecille_--dichiaravano gravemente molti sciocchi.
Paolo trovava che quegli sciocchi avevano ragione.

Fu verso il novembre che Luisa Cima partì, col marito. Una terza luna
di miele, si diceva, e non era quasi una malignità, tanto ella stessa
lo faceva intravvedere, tanto ne sorrideva, con una gran tenerezza
negli occhi scintillanti. Paolo Herz, non lo seppe che dieci giorni
dopo la partenza: e nella immensa fiacchezza sua, non fece un passo
per raggiungerla. Vagamente, nella sua testa si formava il progetto di
uccidere il marito di Luisa, così, un progetto nebuloso e velato: ma
il suo spirito a poco a poco cadeva in un torpore grande, quello che
sovraggiunge dopo i grandi esaltamenti. Una sonnolenza morale e anche
fisica finiva per dominare la sua vita, quella dei bimbi che hanno
troppo pianto. L'autunno era molto triste: e in cerca di maggior
silenzio, di maggior tristezza, egli andò via, una mattina, recandosi
in un lontano e brutto paese di provincia, dove aveva una casa, dei
beni, dei coloni. Intendiamoci, non era in campagna, non era in una
villa, non era in una fattoria: ma proprio in una casa provinciale,
fredda, nuda, polverosa: in un paese pieno di gente meschina e goffa:
in un ambiente così assolutamente diverso, così contrario a ogni
poesia, a ogni estetica, a ogni eleganza, che Paolo Herz potette
veramente credere di essere lontano seimila miglia di cammino e cento
anni di tempo, dall'ambiente dove aveva amato Luisa.

Fu in questo paese antipatico e in quella solinga casa che il dolore
di Paolo Herz, si fece meno acuto e più profondo: fu colà, dove nulla
e nessuno parlava al suo cuore e alla sua fantasia, che egli entrò in
quel pericoloso, fatale periodo della familiarità col dolore.
L'eccitamento folle era caduto: l'alta temperatura si era abbassata:
l'acuzie si era moderata: ma l'infermo era entrato in una morbosità
cronica, anche più temibile, poichè di queste non si guarisce.
Innamoratissimo: non con la passione acre e mordente di un uomo che il
giorno prima poggiava il suo capo sovra un seno amato e che è stato
brutalmente scacciato da questo seno, ma col desiderio languido e
lacrimoso di chi tende le braccia a una figura sparente, e le braccia
ricadono vuote sul freddo e anelante petto. Non più, nel sangue, il
bollore vulcanico che consuma l'energia e che lascia solo rovine
fumanti, sul suo passaggio: ma il gelido, tenace brivido della
solitudine amorosa, questo ribrezzo grande del non esser più amati,
questo sgomento quasi infantile di chi si sente non protetto da nessun
amore. La violenza era distrutta: ma restava la perseveranza,
l'ostinazione, queste forme così spaventose del sentimento. Giacchè,
in questa trasformazione dello stato d'anima di Paolo Herz, tutto il
vecchio fondo sentimentale, soffocato nell'anima, prendeva il disopra,
si allargava, si effondeva dovunque, si costituiva permanentemente. Le
creature passionali sono, infine, le più fortunate, nelle battaglie
dell'amore: la vittoria è rapida, l'intensità del trionfo è
inebbriante, il dolore della fine è alto, ma breve, la loro guarigione
è facile, ed è spontanea. Le anime sentimentali sono destinate alle
lunghe e tenaci sofferenze, quasi sempre inutili e quasi sempre
incapaci d'ispirare pietà.

Così, l'ossessione che l'immagine di Luisa Cima esercitava, in quel
lontano paese, in quella bruttissima casa, sullo spirito e sui nervi
di Paolo Herz, diventava sempre meno sensuale. Le scene di grande
ebbrezza che, nei primi tempi, lo avevano torturato sino al delirio,
adesso si allontanavano nelle brume della memoria: e tutto quello che
era affetto, tenerezza, effusione di amore candido e buono, si faceva
più preciso, più assorbente.

Inconsolabile rimpianto non tanto dei baci ardenti, delle supreme
gioie, quanto delle miti carezze, delle dolci parole, delle voci
amorose, delle soavi comunioni dello spirito! Inconsolabile,
inconsolabile, il povero deserto cuore sentimentale, perchè gli era
mancato per sempre il pascolo dei suoi più alti e più puri desideri,
perchè gli era stato tolto l'amore, l'amore caro e bello, l'amore
tutto giovinezza e tutto innocenza, l'amore che è sorriso, giocondità,
festa celata del cuore e fulgore di luce negli occhi! Nei lunghi sogni
Paolo Herz cercava di ricordare tutto, ogni scena, ogni motto, ogni
intonazione del volto di Luisa, quando era giunta al convegno, quando
ne era partita, cercava di fissare tutta la istoria sentimentale di
questo amore: e nell'impeto solitario di un cuore ammalato della
nostalgia d'amore, salivano ai suoi occhi le dolenti lacrime che
nessuna mano di donna avrebbe rasciugato mai più. Poche, scarse, rare,
gelide lacrime che chiunque ha amato con tenacia, con fedeltà, anche
nell'abbandono, conosce bene: e che sono più amare e più corrodenti di
tutti i singulti della passione. Gli si gelavano sulle palpebre, sulle
guance, mentre il pallido viso dell'abbandonato ancora più si
scolorava, nel lento, molle e ostinato dolore.

Così il suo amore per Luisa Cima, distaccato dalla immagine viva e
parlante, finiva per adorare un fantasma assai più bello, assai più
gentile: questo amore diventato solitario, monologo profondo di
dolore, prima, di mestizia, poi, si sollevava dai bisogni terreni;
questo amore, nell'abbandono, obbliava le oramai lontane feste della
passione, e si spiritualizzava. Dai sensi liberati, dai nervi placati,
dalle fibre atonizzate, l'amore di Paolo Herz per Luisa Cima, passava
nelle contemplazioni dolci e dolenti sentimentali, viaggiava nelle
purissime regioni dell'anima.

E nel silenzio della gran casa deserta di provincia, in un'ora alta
della notte, solo con la sua coscienza e con Dio, innanzi alle lontane
stelle, egli giurò, a se stesso e all'arcano Spirito delle anime, che,
per sempre, egli non avrebbe amato che Luisa Cima sino alla morte, e
che giammai avrebbe violato la fedeltà a questo amore. Quello che egli
non aveva mai voluto giurare, nella pienezza dell'amore corrisposto,
nelle ore più alte e più larghe di felicità, lo giurò quando era stato
abbandonato, quando la creatura crudele e perversa gli aveva volto le
spalle. Era uomo, allora, ed era nel massimo vigore della sua salute e
della sua mente; egli conosceva tutte le invincibili miserie della
natura umana, tutti gli errori del sentimento, tutti i tranelli degli
istinti, e sapeva bene che non si può giurare, quando si ama! Ma tolto
bruscamente dalla realtà palpitante della passione, gettato in pieno
sogno di dolore, esaltato dal suo spasimo, egli assurse ad un'idea più
nobile e più pura di questo amore, egli credette poterlo collocare a
tale altezza che nessuna delle umane macchie potesse lederlo. Quando
Luisa Cima era nelle sue braccia, quando eran suoi la piccola anima
malvagia e il leggiadro piccolo corpo, non aveva avuto fede nè in sè,
nè nel sentimento: quando ella si era a lui strappata, per sempre,
giurò, giurò che egli sarebbe stato suo, non più di nessun'altra, suo,
suo, unicamente suo.

Egli navigava, così, in una allucinazione completa. Tutto il
sentimentalismo della sua natura, adesso, trionfava sul resto della
sua esistenza o ne trasformava ogni manifestazione. Di nuovo, egli
scriveva a Luisa Cima, ogni mattina, ogni sera, delle lunghe lettere,
come ai bei tempi, quando le ore brevi del distacco erano ancora
abbreviate da questa corrispondenza epistolare; egli le faceva delle
domande, delle interrogazioni quasi che ella fosse lì, per
rispondergli, quasi che giammai si fosse interrotta la loro comunione
di spirito. Queste lettere, egli non le mandava; eppure bizzarramente,
egli ne aspettava la risposta, egli riprendeva a scrivere,
rimproverando dolcemente l'amata. La sua illusione talvolta, si
prestava a miraggi incredibili. Egli si faceva portare, da un
giardiniere che aveva il gusto dei fiori, in quell'atroce paese di
provincia, dei fasci di fiori, gli ultimi rami degli arbusti autunnali
e li riuniva nel modo che ad essa piaceva: e mettendoli nei vasi,
pareva che preparasse tutta la bellezza floreale di quell'antico nido
d'amore, dove si vedevano, dove egli passava tante ore, anche senza
lei, prima che ella giungesse, nella impazienza dell'attesa, dopo che
ella era partita, nella contemplazione serena della felicità. Ah non
dovea più giungere, Luisa, coi suoi piedini, trottanti nelle sue
scarpette, col suo bel volto dietro la sottile veletta, ma che
importa, egli l'aspettava ancora, egli l'aspettava sempre, egli
l'amava ed era suo!

Il suo squilibrio si faceva più grande, come il tempo passava. La
solitudine di quelle tristi giornate di autunno, in quella bruttissima
casa vuota, l'aggirarsi sempre in quelle stanze deserte e sonore, il
non uscir mai, il fuggire ogni contatto umano, creavano a Paolo Herz
un ambiente strano, ma pur confacente alla sua allucinazione
sentimentale. Privato di ogni spettacolo umano e di ogni sua
seduzione, distratto da ogni cosa che questo segreto, taciturno amare
non fosse, non sapendo, non volendo altro che amare solitariamente,
sconsolatamente, disperatamente Luisa Cima, tutto era favorevole a
questo ultimo sviluppo del sentimento. Nulla che non fosse grigio e
monotono e mesto, intorno a lui; non una, delle lusinghe della vita
che lo attirasse. In certi momenti, in una suprema menzogna che la sua
anima gli diceva, egli credeva di aver disciolti i legami duri che
vincolano l'uomo all'argilla: gli pareva di aver potuto compiere il
miracolo di essere un'anima, solamente un'anima, fatta di una
purissima essenza spirituale, nudrita di amor puro. Solingamente, egli
ebbe un eccesso d'inane orgoglio. Gli sembrò di essere diventato una
creatura perfetta. Egli solo sapeva amare. Cacciato via, egli si
ostinava ad amare; abbandonato, egli restava costante; schernito, egli
era ancora l'umile adoratore; brutalmente vilipeso, egli restava
buono, onesto, fedele. Sovra tutto, fedele! In alto, in alto era messa
Luisa, nel suo spirito e nessuna mano poteva tentare di abbatterne la
figura, di toglierle quel unico posto. Nessuna mano! E, superbamente,
egli credette che giammai prima, giammai più, nel mondo, una donna era
stata amata, potesse essere amata, come Luisa Cima da Paolo Herz.

Nella metà di dicembre, in una notte freddissima, Paolo Herz decise di
partire; e all'alba livida, gelida, egli entrò nel treno che lo doveva
ricondurre in città.



VI.


Chérie era lunga distesa, sulle pelliccie bianche e morbide che
coprivano un gran divano basso: e la sua testolina bionda arruffata si
affondava nei piccoli e molli cuscini di seta bianca. Una gran
vestaglia di mussolina di seta, tutta nera, a piegoline fitte, dal
capo ai piedi, la vestiva mollemente e appena lasciava vedere, nelle
sue onde nere smorte, i lunghi e sottili piedi, calzati di finissime
scarpette nere, quasi senza tacco. Ella era sola: e non faceva nulla.
Non si annoiava neppure. Teneva le braccia incrociate dietro il capo e
guardava il soffitto a cassettoni del suo magnifico salone, così
austero nel suo addobbo e nel suo mobilio. Ella non fumava, non
dormiva, non sonnecchiava, non sognava: stava, così. Erano le tre
pomeridiane, pioveva e il cielo era basso, plumbeo e triste. Paolo
Herz entrò.

--Oh caro uomo, vi si rivede!--ella disse, con una espressione molto
gentile e non mancante di cordialità.

--Non ero morto--egli rispose, formando un pallido sorriso.

--Non l'ho mai pensato. Lontano, eh?--e gli dette la mano.

Egli baciò quella mano, lievemente, ma la trattenne un pochino sotto
le sue labbra.

--Lontano, sì.

--Un gran viaggio? Dove?

--Che viaggio! Una dimora in provincia, niente altro, Chérie.

--Noiosa?

--No.

--Triste, allora?

--... sì.

--Eravate voi, triste?--domandò ella, con la sua meravigliosa voce
cantante un'armonia strana.

-... non so. Credo... credo che sia stato io, triste--Paolo Herz
soggiunse, vagamente.

--E vi siete consolato, Paolo?

--M'immagino di no... certamente, no.

--Eh! passerà--ella mormorò, con un tono di voce profondo e toccante.

--Questo dite voi, Chérie?

--È così. Passerà

Un silenzio. Egli era seduto accanto a lei, ma non vicinissimo.
Adesso, ella teneva le braccia e le mani abbandonate lungo la persona.
Sul nero, le mani erano candidissime: ma troppo gemmate.

--Dove siete stata, voi, Chérie?

--A Saint-Moritz.

--Bello, è vero? Ci manco da tre anni.

--Bellissimo. Ma quell'aria mi ha fatto male, un poco.

--Qualche cosa può farvi male, Chérie?

--Pare. Ci respiravo male. Credereste, Paolo? Vi è stato un medico
malinconico che pretende essere ammalato il mio cuore.

--Il vostro cuore, Chérie?--e un po' di sorpresa gli si dipinse sul
volto.

--Supponete che io non abbia cuore Herz? Quando vi voglio tanto
bene--e la disinvoltura era velata da una espressione sincera.

--Anche io ve ne voglio moltissimo; ma ciò non prova nulla.

--Nulla.

--Come può essere ammalato, il vostro cuore? Siete così florida e
leggiadra!

--Vi piaccio, eh?---diss'ella, con un sincero moto di soddisfazione,
che quasi, escludeva la civetteria.

--Assai.

--Meno male--mormorò la--donna, con un discreto sorriso.

--Cioè?

--Era tempo che vi piacessi un poco, abbastanza, moltissimo--ella
proferì, con la bella voce toccante.

--Non è mai tardi--egli soggiunse, con galanteria.

--Allora, è inteso che mi fate la corte?--disse Chérie, ridendo e
battendo le mani.

--È inteso.

--Continuate, allora.

Egli la guardò trasognato, e tacque. Chérie si era subitamente fatta
pensosa.

--Siete stata sola, a Saint-Moritz?--e fece uno sforzo per parlare.

--Solissima.

--E Carlo?

--Carlo è partito--ella disse, a bassa voce, voltando il capo in là.

--E da quando?

--Da luglio.

A quella data, egli fece un fugace atto di sorpresa.

--Ritornerà presto?

--No: non presto--e le candide dita scherzavano con una gran croce di
turchesi che le pendeva sul petto.

--Ma ritorna?

--Forse, no.

--Dove è andato?

--In Australia.

--E perchè?

--Era rovinato, poveretto--e la sua voce aveva una schietta
intonazione di pietà.

--Poveretto!

--È incredibile quello che io spendo, senza accorgermene--confessò
Chérie candidamente.

--Vi voleva ancor bene, quando è partito?

--Un pochino, credo.

--E voi?

--Anche io, un pochino.

--E... dunque?

--A che serviva, restare? Egli avrebbe sofferto molto più: e mi secca,
far soffrire.

--Siete buona, voi.

--Non sempre, non sempre. Ma tutti siamo capaci di far male.

--Tutti, tutti--egli ripetette, pian piano.

Ella lo guardava, ora coi suoi begli occhi di un così largo e fluido
azzurro.

--Vi ha scritto, dall'Australia?

--Due volte, delle lunghe lettere.

--Gli avete risposto?

--Non troppo--ella disse, lealmente.

--Perchè non troppo?

--A che lusingarlo?

--Il cuore è già occupato, di nuovo?

--No--dichiarò Chérie, semplicemente.

--E che fate?

--Mi riposo.

--Perchè non amate un poco me?

--Io vi amo---ella disse, con chiarezza--ma non serve.

--È una cosa molto graziosa essere amato--mormorò lui, prendendo una
delle mani di Chérie e tenendola fra le sue, senza stringerla,
giuocando con le bianche dita troppo gemmate.

--Vi piace, Paolo?

--Non mi è mai piaciuto altro nella vita.

--L'amore?

--Essere amato, quando amavo.

--E vi è sempre accaduto, è vero?

--L'ho supposto--egli disse, con un sorriso fra ironico e mesto. Ma
chi ne sa nulla!

--E ora?

--Ora... ora vuota, Chérie--soggiunse lui, con un sogghigno, per
indicare che quella freddura non era il segnale dell'allegria.

--Non vi amano?

--No.

--E perchè?

--Non ne sono degno, pare.

--Poveretto, poveretto--disse la biondissima, con la sua cara voce
armoniosa.

--Brava, compatitemi pure così. Ditemi delle altre parole di pietà,
con la medesima voce.

--Vi fan bene?

--La vostra voce è balsamica.

--Se la ferita è troppo profonda, essa non guarisce, povero
Paolo--diss'ella, additando il cuore e sfiorandolo lievemente con la
mano.

--Provate, provate.

--E se sbaglio la cura?

--Ciò non guasterà l'alta vostra reputazione sanitaria, Chérie.

--Mi seccherebbe, non guarirvi--mormorò, un po' pensosa.

--Perchè? Per amor proprio?

--Non so. Credete di essere il primo, venuto da me, in un giorno di
tristezza, a piangere il suo dolore e a chiedere dei sorrisi?

--Non ignoro la vostra missione di consolatrice universale. Ma io non
piango, vedete. Sono sulla via della guarigione.

--Da quando?

--Da tre quarti d'ora.

--Benissimo, benissimo, fatemi la corte--e rise un poco.

--Mi accettate?

--Si accetta sempre un corteggiatore.

--Poco buona, Chérie, in questo momento!

--Io? ella domandò, distratta, mentre egli le aveva preso le due mani
e le baciava, ora l'una, ora l'altra, con piccoli baci che parevano
dei soffi.

--Le vostre mani sono più buone delle vostre parole--e si chinò per
darle un bacio sulle labbra.

Ma ella, con moto vivace, sebbene senza ira, lo schivò.

--Cattiva!--egli disse con molta dolcezza, ma con una vera emozione
nella voce.

--Pessima--Chérie aggiunse, ridendo.

--Me ne vado--e si alzò, Paolo, senza guardarla.

Ella lo seguì, con gli occhi, attentamente; ma quando ebbe fatto pochi
passi verso la porta, lo richiamò:

--Paolo, Paolo!

Qual voce, in quelle due sillabe! Che melodia tenue e soave! Egli
ritornò e venne ad inginocchiarsi presso il gran divano bianco dove
ella giaceva.

--Scellerata creatura, mi richiami, adesso?--e tentò novellamente di
baciarla.

La resistenza fu più debole. Un leggiero rossore si distendeva sulle
guancie e sulla fronte della bellissima creatura.

--Che vuoi, dunque?--ella domandò, a bassa voce, levando la testina,
per guardarlo negli occhi.

--Che tu mi voglia bene, un poco.

--Io te ne voglio.

--Come agli altri tuoi amici?

--... già.

--Diversamente, voglio.

--Tu vuoi essere amato, _pour tout de bon_?

--Sì, cara.

--Si dice Chérie e non cara.

--Chérie, Chérie, Chérie!

--Il mio cuore è malato, non posso amarti.

--Sono bugie dei medici.

--Ti assicuro... pare che io lo abbia consumato.

--Consumalo un pochino per me, Chérie.

--Paolo, Paolo, io sono stata malata a Saint-Moritz.

--Chérie, tu sempre così allegra, fai la Margherita Gauthier, adesso?

--È una sciocchezza, io sto benone--proclamò ella, con un grande
scoppio di risa. I bianchissimi denti scintillavano, fra le labbra
umide.

--Ridi, ridi ancora un poco--egli le disse ansiosamente, tutto
rinfrescato, tutto confortato da quella florida gioventù, da quella
gaiezza serena, da quella bellezza deliziosa.

--Io morirò in una risata, sembra...--e rise ancora, così
seducentemente, che egli restò incantato.

--Tu sei la giovinezza; tu non puoi morire. Chérie, Chérie, tu avrai
sempre venti anni!

--Si ha venti anni, quando qualcuno ci ama.

--Ti ama il mondo intiero, io credo.

--Ma no.

--Fa malissimo, allora.

--Tu non mi ami, intanto.

--Io? No. Ti adoro.

--Voi mentite, signore--ella gridò, con un tono del _Padrone delle
ferriere_.

--Io ve lo giuro, signora marchesa---disse lui, imitandola.

--Su che lo giurate voi, dunque?

--Su quanto ho di più caro al mondo, signora, l'onore.

--Non sugli avi vostri?

--Sì, su quei tedeschi che non ho mai conosciuti, su quegli Herz che
non erano neppure dei filosofi.

--Ma che ti hanno lasciata una bella fortuna, Paolo.

--Essa è vostra, Chérie.

--No, no, non mi parlar di denaro, mi secchi--e impallidì,
preoccupatissima.

--Se vai in collera, sono pronto a dichiararmi un pezzente. Voi siete
amata da un gentiluomo povero, Chérie, poverissimo.

--Giura che mi ami!

--Io, Paolo Herz, sul mio onore e sulla mia coscienza, giuro di amare
di ardente amore la signora Chérie...

--Da quando?

--Da un'ora e sette minuti, lo giuro, con l'aiuto dell'orologio.

--Scrivi ciò--ella disse, levandosi, portandolo presso un grande
tavolino di legno scolpito, dove era un immenso calamaio dell'Impero.
Gli dette un largo foglio di carta bianca, una penna d'oca e
chinandosi su lui, ripetette:

--Scrivi.

Ma mentre si chinava, ella non seppe schivarsi ed egli la baciò
fuggevolmente. Nè quelle labbra potettero frenare un sorriso.

--Scrivi, scrivi--disse la bella voce, un po' velata.

Invero, egli ebbe un minuto di esitazione, prima di scrivere: un
leggiero pallore gli si distese sul volto: e parve che innanzi ai suoi
occhi fluttuasse una immagine. Ma nell'aureola bionda dei capelli
arruffati di Chérie tante scintille correvano gaiamente, attraverso il
fiore rosso della bocca schiusa come un anello, i bianchissimi denti
_guardavano_, guardavano ridendo e infondendo giocondità. Paolo Herz
ebbe come una sferzata, come un sussulto di vita: una fiamma lieve
fece dileguare il pallore del suo viso; egli scrisse, rapidamente. In
piedi, fissando sulla carta quei suoi grandi occhi, che nuotavano
nell'azzurro, Chérie seguiva quella mano rapida che scriveva. Con un
gesto immediato, ella versò sulle poche righe un'arena micacea,
azzurra a scagliette d'oro, e ripiegato il foglio, lo ripose. Va
bene?--egli domandò, voltandosi e sorridendo.

--Benissimo--ella rispose, con voce lenta, come pensando ad altro--È
scritto, adesso.

--Quello che è scritto, è scritto--e si levò, portando negli occhi il
desiderio di quella giovinezza, di quella bellezza.

Mutamente, con dolcezza, ella si sciolse da quel tentativo di
abbraccio.

--Perchè no, perchè no?--egli domandò, con ansia, con tristezza.

--Così--ella disse, con una smorfietta graziosa.

--Se ho scritto!

--Tanto meglio.

--Siete voi una volgare civetta, Chérie?

--Non so... non mi pare. Sono civetta molto, questo è certo.

--Io vi domandavo un po' di cuore, mia cara!

--Malato?

--Come me lo volete dare. Un pochino, mi basta.

--Tutto, sarebbe troppo, è vero? e lo guardò negli occhi, volendoli
scrutare.

--Quello che tu vuoi, cara--esclamò lui, un po' follemente.

--Tutto, per poco tempo, allora?---e di nuovo gli rivolse uno sguardo
scrutatore.

--Tutto, sempre, diletta!--esclamò Paolo Herz, che adorava quella
donna poichè gli piaceva enormemente.

--Vieni questa sera--ella disse, presto, con una completa, tenera e
appassionata dedizione, nella voce.

--A che ora?

--Alle undici.

Fu un soffio, quella voce, sulle due ultime parole; un soffio che era
una carezza, un bacio, un abbandono. Egli s'inchinò profondamente,
innanzi a lei: le prese la mano, che ella gli stendeva e la baciò
appena, sfiorandola sulle dita ripiegate.

  .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .
  .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Nel cadente pomeriggio di autunno e nella sera, Paolo Herz portò nei
sensi e nel cuore una ebbrezza di vita traboccante, come da tanto
tempo non aveva mai provata. Una improvvisa primavera era rifiorita
nella sua anima e gli parvero persino odorosi e voluttuosi i pallidi
crisantemi, e ricche e appassionate perfino le povere rose thea, fiori
di novembre, che egli mandò, da tre o quattro fiorai, in casa di
Chérie. Tutto un novello calore gli inondava il sangue e gli saliva, a
sbuffi, al cervello, come se, debole e convalescente, egli avesse
bevuto un bicchiere di vino generoso. Egli andò per le vie a piedi,
guardando la gente e sorridendo ad essa, come se la conoscesse: si
fermò a una quantità di vetrine, incantato delle cose belle che
serravano, e volendo cercarne una bellissima per donarla a Chérie. Un
bisogno pazzo lo assaliva di parlare, di ridere, di spendere molto
denaro, di vivere largamente, con quella donna accanto, immersa nelle
più raffinate e più ardenti eleganze: un rigoglio di giovinezza
eccitava tutto il suo organismo e gli dava un bisogno assoluto di
esser felice materialmente e moralmente, nelle braccia di quella donna
così giovane e così bella, dalla voce così toccante, dalle parole così
voluttuosamente tenere e non scevre di malinconia.

Innamoratissimo! In quelle non molte ore che lo dividevano dalle
undici di sera, egli ebbe quasi sempre la allucinazione fresca e
fiammante, insieme, della persona di Chérie. Ora pareva che lo
guardassero quei grandi occhi azzurri, dalla cornea non bianca, tutta
a riflessi azzurri, dalle ombre azzurre, sotto le palpebre: e gli
sembravano un mare di dolcezza, senza nessuna velatura di malizia, di
perfidia, di quelle malaugurate cose odiose, che tante volte
appariscono, spesso involontariamente, negli altri occhi femminili.
Ora pareva che, innanzi a sè, si muovesse l'alta persona un po' troppo
alta, ma così veramente flessuosa: e l'innamoratissimo pensava che,
Chérie, quando era sdraiata sul gran divano, sembrava più piccola, pur
conservando la grazia e la nobiltà della sua figura. Talvolta, in una
allucinazione anche più palpabile, sotto i suoi occhi, a breve
distanza, gli sembrava che apparissero e sparissero quelle mani
bianche dalle dita troppo cariche di pietre preziose, dalle vene di
una delicata tinta fra l'azzurro e il violaceo, dove vi fosse anche
del grigio: e più ancora, più ancora, egli ebbe, due o tre volte, la
sensazione di quel bacio, di quel solo bacio, che egli aveva dato
sulla bella bocca e dalla quale lo aveva ricevuto, trovandovi il senso
fuggevole, ma profondo di un aroma misterioso. Egli si sorprese, o
piuttosto non si sorprese punto, anzi si dilettò a pronunziare spesso
il nome della diletta, con lentezza e con passione, con una costante
espressione di desiderio e d'invocazione:

--Chérie, Chérie, Chérie!

Egli andò in una trattoria di prim'ordine, verso le otto; e si ordinò
un pranzo squisito. Aveva un grande appetito, egli che non mangiava da
tanto tempo che per cibarsi: gli amici si accostarono a lui, scambiò
saluti, parole, scherzi con tutti: offrì del _kummel_, delle
sigarette. Rise molto.

Ma temendo di sospingere troppo l'ebrezza che lo teneva dal
pomeriggio, non volle bere vino e liquori: viceversa, fumò molto,
cercando addormentar l'impazienza dei suoi nervi, volendo dimenticare
l'ora del convegno, per ricordarla, ad un tratto, quando fosse
prossima, con immensa delizia. Innamoratissimo, anche quando uscì nel
freddo e nell'ombra della via e rientrò nella sua casa deserta: egli
ardeva di passione, come un giovanotto ventenne al suo primo convegno
d'amore e si andò a guardare nello specchio, per vedere se era
abbastanza bello per quella bellissima donna.

Due ore ancora, lo dividevano dal convegno di Chérie. Egli aveva già
fatto per le vie dei giri rapidi e lieti, incantato della serata di
autunno, seguendo con lo sguardo le donne che passavano, udendo con
delizia dei piccoli brani di colloqui d'amore, da qualche coppia che
passava. Era il momento in cui tutti si recavano ai teatri, ai caffè,
ai ritrovi serali: e gli pareva di scorgere, a Paolo Herz, nel volto
di tutti quanti, come un desiderio intenso e frettoloso, un pallor
d'ansietà, la voglia di arrivar presto dove era il proprio amore, il
proprio vizio, la propria consuetudine. Egli stesso, ogni tanto,
fremeva d'impazienza: ma era una impazienza voluttuosa e tranquilla,
insieme; qualche cosa di profondamente desideroso, ma di placido nella
certezza della imminente soddisfazione. Pure, quell'andare per le vie,
tutto solo e rapido nella sua estasi, a un certo punto gli spiacque.
Temette che quell'ardore giovanile onde vibravano gaiamente le sue
vene, svanisse al contatto troppo prolungato dell'aria notturna: egli
voleva conservare, intatta, tutta la rinnovata fiamma messagli nel
sangue, nei nervi, nel cuore da Chérie. Rientrò a casa sua; avrebbe
aspettato, sdraiato, tentando di leggere--avrebbe potuto
leggere?--tentando di sognare--oh, avrebbe certo sognato!--sino
all'ora di recarsi direttamente dalla bella e ammaliante donna.

Subito, in casa, fece accendere dal suo servo tutti i lumi: non amava
le penombre, quel suo rigoglio di vita: aveva necessità di chiarore
largo, di visioni nitide e precise. Si gittò in una poltrona, prese un
libro: ma i suoi occhi s'immobilizzarono sovra le righe nere, senza
intenderle: e ancora la snella figura vestita di bianco gli riapparve
nell'aureola bionda e scintillante dei suoi capelli arruffati di
bimba, col collo un po' gracile fra i merletti della vestaglia e il
passo ritmico, ondeggiante senza rumore.

--Chérie, Chérie--egli mormorò in preda a uno struggimento di
tenerezza.

E immediatamente un ricordo lo colpì. Questo innamoramento così
improvviso e completo, questo vivido abbandono dello spirito, e questo
ardore dei sensi, egli l'avea provato un'altra volta. Aveva venti anni
allora, e una giovinezza appena sfiorata da certi amoretti fugaci, da
certi capricci molto intensi, ma molto brevi. Una bellissima donna gli
era apparsa, allora: ma quasi vicina ai quarant'anni, espertissima
della vita e delle sue passioni, ella aveva guardato con indulgenza,
niente altro, il trasporto amoroso di Paolo Herz. In verità egli aveva
delirato per questa donna, più vecchia di lui di circa venti anni;
egli si era rotolato sul letto, singhiozzando e mordendo i cuscini nel
dolore dell'amore non corrisposto; egli aveva voluto morire, perchè
Beatrice Somma non voleva amarlo. Infine un giorno la bella donna si
decise: fu per pietà, fu per lassezza di combattere, fu perchè il suo
cuore aveva subito un estremo assalto di tenerezza?

Chi sa! Ella disse di sì. Si rammentava bene, Paolo Herz, che ebbrezza
era stata la sua, noi giorno del primo appuntamento, e come egli aveva
avuto la febbre vorace dell'impazienza, spezzando il suo orologio,
andando per le vie come folle. Poi... che era accaduto, poi? In un
momento di maggiore impeto d'amore, donna Beatrice gli aveva detto,
malinconicamente:

--Non giurare, non giurare: verrà giorno in cui non saprai se io sia
morta o viva.

Lo sapeva egli, forse, se donna Beatrice Somma fosse morta o viva? La
sua passione, soddisfatta, era durata assai poco: ella l'aveva veduta
finire, con viso calmo in apparenza, ma forse straziata da questo
ultimo errore che aveva commesso. Era partita donna Beatrice; sparita.
Morta o viva? Aveva delirato per lei: per lei aveva desiderato la
morte: ma non ne sapeva nulla.

Questo inaspettato ricordo gli fu increscioso. Malgrado la pienezza
dell'entusiasmo amoroso che aveva per Chérie, vi era in un cantuccio
del suo spirito un segreto terrore che questo entusiasmo si diminuisse
o svanisse, per qualche ragione misteriosa, per qualche insidia. Aveva
paura di un'insidia, che gli togliesse quel vivace germoglio di
tenerezza, quel fiore di simpatia irresistibile, quell'ampiezza di
vita morale e fisica che lo esaltava, da varie ore. Scacciò la
immagine di donna Beatrice Somma, quasi con un atto meccanico,
passandosi le dita sulla fronte si raccolse un momento e tutta la
scena del pomeriggio, con Chérie, gli riapparve, da quel sorriso buono
e amichevole dell'entrata, fino a quel bacio varie volte conteso e
infine concesso; da quelle vaghe parole di conforto, che ella gli
aveva detto con una voce così ammaliante, sino a quel sì, che
consentiva, e che era stato un alito, più che una parola. Subito,
riarse del trasporto più violento, con un'allucinazione amorosa
replicata e sempre più nitida: e maledisse l'ora che non fuggiva
abbastanza presto, consumando, invece, in lui, tutto questo
entusiasmo.

--Chérie, Chérie, Chérie--andava dicendo, per la casa, mentre
riprendeva i guanti e il bastone, mentre si rimetteva il soprabito.

Andò a piedi, piano. La città, adesso, era molto meno popolata: tutti
erano nei teatri, e nei ritrovi, quelli che facevano ora tarda: e
quelli che rientravano presto, erano rientrati. Nella via, a capo
basso, egli pensava alla imminente notte di amore che andava a
ritrovare, lassù, presso una creatura squisita nel piacere e
nell'amore, così bella e così fine: così buona nel fondo del suo
carattere e così inconscia del male che commetteva. Un batticuore gli
cresceva nel petto: così nel giorno in cui era andato da donna
Beatrice Somma e che rimproverato dolcemente da costei, che fosse più
tardi del convenuto, egli aveva infranto il suo orologio, sotto il
piede rabbioso! Lo stesso palpito: e dopo, non aveva egli desiderato,
tenacemente, che nessun orologio esistesse più, perchè donna Beatrice
non conoscesse mai l'ora, mai più, e non si accorgesse dei suoi
continui ritardi? Che fastidiose memorie!

Il villino di Chérie era immerso nell'ombra: egli suonò il campanello
del cancello: esso si schiuse, senza che nessuno comparisse ad
aprirlo. Cautamente egli camminò sul terreno del viale: palpitava,
d'ansietà. Nessuno, nell'immensa anticamera vuota: egli lasciò il
cappello e il soprabito e penetrò nel salone, pieno di tenui penombre.
Chérie era sdraiata sullo stesso largo divano, come al mattino: era
tutta vestita di nero, di una seta molle e opaca, una vestaglia a
forma di tunica, le cui ampie maniche si rovesciavano, lasciando le
braccia nude sino alle spalle. Non un anello nelle perfette mani,
incrociate dietro la testa. Ella lo salutò, egli era pallidissimo:
pallidissimo.



VII.


Chérie dormiva, fra la bionda aureola dei suoi capelli, un po' diffusi
sul guanciale: la lampada veneziana, presa da un palazzo ducale,
ardeva ancora nei suoi foschi vetri di un verde oscuro, quando già il
sole era alto. Dormiva, quietamente, con la bocca un po' schiusa e
umida, sui denti bianchi e brillanti. In piedi, presso il gran letto a
colonne, nello stile di Enrico II, Paolo la guardava dormire. Forse la
luce verde dava riflessi lividi a quel volto di uomo, o pure egli era
livido? Ella sorrise, nel sonno: mosse lievemente la testa, come se
volesse parlare ed egli si chinò su lei, quasi a raccogliere il
segreto di quel sogno. Ma, subito, si rigettò indietro: aveva
trasalito, come ad un avvertimento interiore. Stava da tempo così: non
osava svegliare la placida dormiente, tutta rosea nel suo sonno
giovanile, spirante la leggiadrìa delle creature fatte per l'amore e a
cui l'amore dà tanto fascino. Ma quell'ombra, quella luce verdastra,
quei grandi mobili austeri fra cui la bionda amava di vivere, come a
contrasto di quella sua beltà fresca e vivida, lo opprimevano: fuori
vi era la luce, vi era il sole ed egli si sentiva soffocare. Due o tre
volte, aspettando che ella si svegliasse, gli era venuta una voglia
frenetica di fuggire. Scappar via, solo, scappare lontano, andare a
gittarsi in un posto deserto, fuori dei viventi, lontano da Chérie,
non volendola vedere più, non osando sostenere il suo sguardo! Questo
progetto folle e ardente lo riarse, due o tre volte; ma una volontà
fuori di lui, almeno egli credeva fuori di lui, lo teneva inchiodato,
nella calante mattinata, di fronte a quel letto, innanzi a quella
bella donna profondamente presa dal sonno. Che avrebbe detto, ella,
trovandosi sola allo svegliarsi? Avrebbe forse creduto a una villania
o ad una pazzia? Avrebbe ella supposto che egli fosse andato a
uccidersi? Così, egli pensava: e restava, inchiodato, immobile,
incapace di dare le spalle a quel caro volto fresco, a quei capelli
biondi, sparsi sulla batista dell'origliere; restava, vinto egualmente
dal ribrezzo di sè, dalla paura, dalla pietà. A un tratto, l'idea di
parlare con Chérie, di dirle qualche cosa, gli fu insopportabile;
fissava con occhio attento quella bocca bella socchiusa, da cui
sarebbero uscite, forse fra un minuto, le parole di saluto, di
interrogazione, a cui avrebbe dovuto rispondere ed ebbe un moto di
orrore. Facendo uno sforzo supremo, si voltò, per andarsene, ma urtò
in un mobile, qualche cosa tintinnò, Chérie si risvegliò, subito,
levando la testa:

--Paolo? Paolo?

Egli si riaccostò al letto, senza rispondere. In silenzio, ella si
sollevò sul letto, gli gittò le braccia al collo e con una carezza
tutta gentilezza, mise la sua guancia presso alla sua.

--Che fai?--gridò Paolo non sapendo reprimere un brivido di terrore,
ma non osando respingerla.

--Ti amo, questo faccio--ella disse, non accorgendosi ancora di
nulla--Ho dormito troppe ore...

--Hai sognato?--egli domandò, con una voce strana.

--No: non sogno mai. E tu?

--Non ho dormito, io.

--Allora, tu mi ami di più. Che vergogna per me!

E rise, di un bel riso sonoro. Egli non potette neppure sorridere.
Ella chiese:

--Che hai?

Ma nello stesso tempo, ancora, pose infantilmente la sua guancia
presso quella di Paolo: questa volta, egli si rigettò indietro. Una
espressione di pena sfiorò il volto di Chérie: ella spalancò i larghi
occhi azzurri, interrogando:

--Perdonami--disse Paolo, con una subitanea tenerezza--perdonami... è
quel gesto...

Si fermò, sentendo che stava per dire tutto.

--Che gesto?

--Nulla, nulla.

--Mi vuoi bene?

--Sì.

--Molto?

--Immensamente.

--Fino a quando?

--Fino a... sempre!

Ma la voce di lui era monotona, come fosse stata per sempre privata di
espressione; e parlava a occhi bassi.

--Apri un poco, perchè io veda la tua faccia--ella chiese, con un
lieve sospetto.

--No--egli rispose, immediatamente.

--Vuoi restare all'oscuro?

--Sì, sì.

--Il sole ti piaceva una volta, mi ricordo.

--Non ora, più. L'ombra è amica.

--Tu sei triste, Paolo.

--Un poco.

--E perchè, dunque?

--Forse, perchè sono stato troppo felice--egli rispose, in tono
enigmatico.

Ma Chérie credette solo al senso amoroso della frase e fece un moto di
soddisfazione.

--Avevi dimenticato la felicità?

--Oh sì!--gridò lui, con accento desolato.

--E adesso, adesso--interrogò Chérie, con ansietà.

Egli non rispose.

--Apri la finestra--chiese lei, di nuovo, curiosa di scorgere bene il
volto del suo novello amante.

--No, Chérie, per amor di Dio, non apriamo! La luce mi farebbe morire.

Vi era tanta desolazione paurosa, in questa esclamazione, che Chérie
si turbò.

--Spegniamo anche la lampada, allora--ella suggerì, cedendo alla
strana emozione di Paolo.

E toccando un bottone, nascosto dietro la cortina di lampasso del
letto, la lampada si spense. Ombra perfetta. Stavano, così: egli in
piedi, presso la sponda del letto: ella, sollevata sui cuscini,
tenendogli le braccia al collo, ma senza stringerlo, senza toccare il
suo volto.

--Sei contento, ora?--ella domandò, pianissimo.

--Sono tranquillo.

Un profondo silenzio regnava in quella stanza, piena di tenebre; si
udivano i due respiri, quello di Chérie calmo, eguale, lieve come
quello di un fanciullo, quello di Paolo Herz più forte, un po'
affannoso, talvolta.

--Ti do noia, così--ella chiese dopo qualche tempo, sembrandole che
Paolo avesse il petto oppresso.

--No, cara.

--Mi vuoi bene?

--Sì, cara.

--Ripeti: Chérie, io ti adoro.

--Chérie, io ti adoro.

--Ed è vero? è vero?

Nessuna risposta.

--Paolo?

--Amore?

--Rispondi, dunque!

--A che?

--Ti avevo chiesto, se era vero che mi adorassi.

--Non avevo udito--disse Paolo, con voce anche più sorda.

La donna disciolse il cerchio delle sue braccia, mutamente e ricadde
sul letto. Pian piano, nell'ombra egli ne cercò una mano, che giaceva
abbandonata sul letto: la strinse, la trovò fredda. Allora cadde in
ginocchio, avanti a quel letto, col capo nascosto fra le coltri,
singhiozzando senza versare una lacrima, gridando, convulso:

--Ah Chérie, perdonami, perdonami, io soffro tanto, io soffro, io
soffro!

E prostrato, con le braccia buttate sul letto, stringendo nervosamente
quella mano che si era fatta gelida, con la bocca contro la stoffa
della coltre, egli continuò a gemere, a gridare, confusamente, il suo
ignoto dolore. Ella non gli disse nulla: aveva distesa l'altra mano e
gli carezzava i capelli, così, come a un bimbo che gridi per un male,
a cui non vi è rimedio.

--Chérie, Chérie, perdonami, consolami, sono un infelice, sono un
miserabile!--seguitava lui, singultando aridamente, battendo la testa
sul letto.

--Poveretto, poveretto--disse lei, con un tono vago di pietà, con la
sua affascinante voce di canto--Che hai?

--Ho male, ho male, soffro, Chérie soffro come se morissi e come se
non potessi morire...

--Dimmi che hai... dimmelo...

--Tanto male, tanto male... Non puoi sapere, Chérie... che male, qui,
dentro di me, che mi soffoca...

--Non puoi dirmi il tuo male? Non posso io consolarti, guarirti?

--Vorrei... vorrei che tu potessi!--egli gridò, non osando più
nascondere il suo segreto.

--Ma non posso, è vero? Non posso guarirti?--ella chiese, con un po'
di malinconia nella cara voce armoniosa.

--L'ho sperato! L'ho sperato...--e pronunziò la frase, la prima volta
con un'aspirazione, la seconda con una delusione immensa.

--Dimmi il tuo male, dimmelo--ella mormorò, insistendo, con molta
dolcezza, con una certa tristezza.

--Non me lo domandare! Paolo esclamò, con tono di sbigottimento, quasi
che l'idea di rivelare la segreta miseria della sua vita gli facesse
orrore.

--Non è per curiosità--ella soggiunse, piano. Ti assicuro che non è
per curiosità. È per interesse... di te...--e finendo queste parole,
leggermente, la voce le tremò.

--Chérie, Chérie, quanto sei buona! Ma non dimandare, te ne prego!

--Forse... ti farebbe bene...

--No, no, lasciami soffrire, così senza conforto, non ne merito, non
ne sono degno... tu sei una persona buona, semplice...

--E scema--ella completò, fra l'ironia e la tristezza.

--... io sono un essere malato... cattivo... laido...--egli continuò,
con voce sdegnata, quasi parlasse a se stesso e non rispondesse più a
lei.

Chérie non rispose. Di nuovo la sua mano si arrestò sui capelli di
Paolo Herz, con una carezza fugace. Lo sentì trasalire,
allontanandosi. Allora, subito, ella gli disse, con intonazione
freddissima:

--Te ne prego, Paolo, apri quella finestra.

Egli obbedì, subito. Tutta la gaia luce meridiana entrò nell'austera
stanza e la riempì di pulviscolo d'oro. Qual viso era quello di Paolo!
Pallido di un pallore terreo e con gli occhi rossi e le tempie rosse,
come se invece di lacrime, fosse salita colà un'onda di sangue, con lo
sguardo torbido e smarrito, tutti i suoi anni parean passati dalla
bella virilità, all'accasciamento e allo sconforto di un'età più
lontana. Chérie, sgomenta, si ricordò il bel volto fine un po'
consumato, ma leggiadro, ma arso dalla fiamma di una giovanile
passione, che ella aveva veduto la sera innanzi. Una notte, dunque,
aveva fatto quel cangiamento? Una notte. Egli la guardava, come
perduto.

--Va di là--gli disse lei--va in salone. Aspettami.

Gli aveva parlato con più dolcezza, ora: ma sempre come se comandasse.
Senza rispondere, egli volse le spalle ed uscì.

Quando fu solo, fra le piante verdi dalle larghe foglie, di quel
salone che era anche una serra, fra quelle sete ricamate di fiori
esotici e di animali favolosi, fra quei vasi alti e sottili ove si
elevavano dei fiori dal lungo stelo, fra quei mobili molli e profondi,
dove pareva così soave sdraiarsi e non pensare, sognare e non dormire,
in una luce temperata, ma limpida, coi rumori della città che
giungevano assordati, ma giungevano, solo, come indifeso contro il
mondo, come con l'anima dolorosa nuda innanzi agli occhi della gente,
Paolo Herz ebbe un altro impeto di disperazione, un accesso di follia.
Caduto sovra una poltrona, con la faccia fra le mani, tutto il suo
essere sentimentale, si contorceva di spasimo e interrotti lamenti
escivano dalle sue labbra. La luce, l'aria, la beltà e la pace delle
cose intorno, pareva che lo irridessero, che l'offendessero: ed egli
si copriva gli occhi per non vedere, si copriva il volto per non farsi
vedere. Da chi? Dalla luce, dall'aria, dalle belle e pacifiche cose
che lo circondavano. Un bisogno novello, istintivo, di fuggire, come
un animale sanguinante, in una tana profonda e sconosciuta lo assalse.
L'ora passava, _ella_ sarebbe venuta, adesso: non era più notte: ella
avrebbe veduto la sua figura sconvolta: ella avrebbe udito ancora gli
urli della sua inesprimibile disperazione.

Ma mentre gli tumultuava dentro il desiderio della fuga, di una fuga
lunga, senza termine, la sua volontà mancava di qualunque forza: si
sentiva fiacco: si sentiva, meccanicamente, dominato dall'ordine di
Chérie:

--Ella mi ha detto: aspettami--pensava, con un pensiero che si
manteneva estraneo a tutto l'altro movimento della sua anima.

E aspettava. Ella apparve dopo qualche tempo. Aveva indossato un suo
vestito di seta a righe minute bianche e nere, di un taglio assai
succinto: e i biondi capelli erano raccolti in un grosso nodo
ricciuto, a metà testa, traversati da due spilloni d'oro matto. Ella
aveva sempre lo stesso volto sereno e giovanile, ma guardandolo bene,
non so quale nova fermezza vi si leggea. Ella andò a lui, gli si
sedette dappresso, ma non vicinissima e gli parlò:

--Paolo?

--Chérie?

--Sei più tranquillo, ora?

--Sì.

--Vuoi ascoltarmi? Puoi?

--Sì, sì.

--Tu sei malato, Paolo: tu dicevi il vero, ieri: sei molto malato.

--Molto, molto, molto--diss'egli, con un'insistenza di voce e di
espressione, guardandola coi suoi occhi smarriti.

--Vuoi tentare di guarire? Vuoi?--gli domandò lei, con la sua voce
cantante e seduttrice.

--Oh non è possibile, non è possibile!

--Tentare, soltanto?

--Oh Chérie, non mettermi alla disperazione!

--Tentare... tentare...

--E come? Come?

--Partiamo insieme--ella le disse, levando il bel viso florido e
guardandolo coi suoi grandi occhi nuotanti nell'azzurro.

--Partire, per dove?

--Dovunque, lontano... partire...

--Partire, come, quando?

--Oggi, fra poche ore, insieme.

--Chérie, Chérie, è impossibile!--egli esclamò, dolorosamente.

--Perchè, impossibile? Chi vuol partire, parte!

--Chérie!

--Non sei libero?

--Sì sono libero.

--Non hai tu denaro?

--Sì, sì, ho del denaro.

--Hai qualche obbligo, qualche legame?

--No, nessuno.

--Niente ti vincola?

--Niente.

--Ebbene, parti con me.

--Chérie, Chérie...--gridò lui, come se tutto il suo essere
spasimasse.

--Parti con me--ripetette lei, lentamente, con una suggestione
continua,--Andremo molto lontano... viaggeremo presto... viaggeremo
assai... vedrai tanto mondo diverso... dimenticherai...

--Io porto il mio male in me--soggiunse Paolo, con voce sorda.

--Partiamo, partiamo...--riprese lei, quasi non avesse udito.

--Vuoi tu viaggiare con un agonizzante?

--Non importa--ella rispose, crollando il capo.--Vieni via, Paolo, ti
sentirai meglio, il tuo male avrà una pausa.

--Dove, che questo interno tormento non vi sia? Conosci tu questo
paese?

--Paolo, io sono una persona che ti vuol bene, non so tante cose. Ti
dico, solo: andiamo via. Vedrai... sarò una buona compagna di
viaggio... mi fermerò, dove a te piacerà restare... andremo via dai
paesi che non ti piacciono... vieni via.

--Qual triste viaggio di nozze tu mi proponi, o Chérie!

--Perchè, triste?

--Perchè lo sposo è morente!

--Morente, di che?

--Di tutto, Chérie.

--Anche di amore?--e lo fissò, negli occhi.

--Anche di amore.--egli rispose, a capo basso.

Ella impallidì un poco: ma si rimise subito.

--Io sarò un'anima tenera per te, Paolo.

--Non ti prendere questo duro incarico, povera creatura; lasciami al
mio destino.

--No, no, ti voglio bene, mi sei sempre piaciuto... tentiamo questa
salvazione, Paolo...

--Un lugubre compagno di viaggio, Chérie...

--Dimenticherai, dimenticherai...--ella disse, con la sua intonazione
malinconiosa, che dava tanto fascino alle sue parole.

--Non dimenticherò, mai--egli dichiarò, aprendo le braccia, con un
gesto definitivo.

--Tutto si dimentica--disse Chérie, semplicemente.

--Io non posso.

--Tenta.

--Ho tentato... lo sai... ho tentato--egli disse, con una umiliazione
atroce di tutto il suo essere.

--Ebbene?

--Non mi domandare, Chérie! Ella tacque, un poco. Ma poi,
ostinatamente, ritornò al suo quieto assalto.

--Partiamo oggi, Paolo.

--No.

--Senti, è meglio che partiamo. Che farai tu, qui?

Egli la guardò, smarrito.

--Che farai questa sera, oggi, domani? Dove andrai? In che posto
troverai refrigerio, distrazione, obblìo? Chi ti consolerà?

--Dio! egli esclamò, convulso.

--Senti, vieni via. Fuggi questo paese; fuggi coloro che conosci;
fuggi ogni ricordo; fuggi ogni cosa. Oh Paolo, io sono una povera
persona sciocca, ma io so, questi dolori che cosa sono, io comprendo,
così, che tu sei un infelice, un miserabile... Ne ho visti degli
altri... non vi è che partire...

--Gli altri, gli altri! Felici gli altri!

--Sarai felice ancora; vedrai. Ma parti. Solo, qui, non puoi restare.

--Solo? Tu andresti via?

--Si--diss'ella, voltando il viso.--Ho voglia di espatriare.

--Anche tu soffri? Anche tu, poveretta? È possibile?

--No--ella rispose, subito--Non soffro, io. Non sono mica una creatura
sentimentale--e sorrise un pochino, fuggevolmente,--Sono un po'
malinconica, talvolta: quando mi dicono che ho malato il cuore. In
generale, mi annoio spesso. Ora, da qualche tempo, mi annoiavo
moltissimo...

Chérie parlava con molta disinvoltura, senza però giungere a dare
un'aria di perfetta naturalezza a quello che essa diceva. Le sue mani
mettevano in ordine, macchinalmente, degli oggetti di porcellana della
Cina, tutti bianchi, in una scansia e così, spesso, ella distoglieva i
suoi occhi da quelli di Paolo Herz.

--Tu sei venuto--ella riprese--... io ho subito pensato di partire con
te. Giusto... questo ti serve, anche... la cosa sarà utile ad
ambedue...

--Tu sei buona--mormorò Paolo Herz, subitamente intenerito.

--Oh, non tanto! Faccio anche il mio interesse... sono una donna
interessata...

--Povera Chérie!

--Perchè mi compatisci? Non compatirmi. Va a fare le tue valigie, per
partire.

--Così presto?

--Bisogna sempre partire subito, quando si vuol andar via. Se si
ritarda, si resta.

--Tu dici che _bisogna_ andar via?--egli chiese, guardandola, coi suoi
torbidi occhi pieni d'incertezza.

--Sì, sì, sì.

--Dove andremo?

--Dove ci porterà il primo treno che troveremo, e poi un altro treno;
e poi un altro...

--Fin dove?

--Chi lo sa!

--Che faremo, laggiù?

--Niente, Paolo; nulla più di qui.

--Ma io dovrò vivere, pensare, agire, Chérie, comprendi questo? Io
sono inetto a ciò, adesso.

--Non ti capisco--ella mormorò, chinando gli occhi.--Ma qualunque
paese sarà migliore di questo.

--Io non posso amarti!--gridò Paolo vincendo la sua ripugnanza a dire
una cosa atroce.

Ella lo guardò: sorrise appena: poi disse, con quel suo tono di
mistero, che facea parere molto più profonde le cose che ella dicea.

--Chi lo sa!

--Chérie, io sono un infame e un inetto!

--Paolo, Paolo, taci... tu esalti i tuoi nervi... tu aumenti il tuo
turbamento...

--Chi tradisce, è un infame, Chérie, non vi può essere pietà, per chi
tradisce. Io ho tradito.

--Calmati... calmati--e gli prese le mani, come si prendono le mani di
un ammalato, che vaneggia.

--Che vuoi, Chérie, ho tradito, ho commesso un tradimento odioso... io
mi sento perduto...

E smorto, sconvolto, egli la fissò, come se non la vedesse, come se
non la riconoscesse, come se non fosse stata proprio lei, a essere lo
strumento del tradimento.

--Perduto, perduto, perduto...--ripeteva lui, follemente.

--Pace, Paolo, non pensare a ciò...

--Come, non pensare? È lo stesso come dire a chi ha un morto, in casa,
di non pensarci più.

--Paolo, chi è morto, dunque?

--Il decoro del mio amore è morto, è morta la sua dignità, è finita la
sua forza e la sua saldezza, io ho tradito!

E questo grido, continuò a escirgli dal cuore lungo, aspro; egli non
sapeva che ripetere questa parola del tradimento, in tutti i tuoni.
Ella lo ascoltò, per un pezzo, meravigliata più che dolente: due o tre
volte, le palpebre dei grandi belli occhi azzurri battettero, come per
rattenere le lacrime. Ma egli non vide, questo: gittato sovra un
divano, battendo la testa sui cuscini, egli esalava il suo dolore e
l'orrore di se stesso. Così, vagamente, ella intese che era meglio
parlargli del suo strazio e gli chiese:

--Paolo, non era... non era _tutto_ finito?

--Tutto, che? Di che parli?--domandò lui, trasognato.

--L'amore... fra te e Luisa Cima...

Egli levò la testa, a quel nome e con voce tetra:

--_Tutto_ non era finito...

--Come? T'amava ella, ancora?

--No. Non mi amava, più.

--Da qualche tempo... mi pare...

--Sì, da vario tempo. Forse, non mi ha mai amato.

--Perchè? Non dire questo... non lo dire di nessuna donna--ella
mormorò, con bontà.

--Mai, Chérie, mai! Non la conosci! Non la sai! Mi ha mentito, non mi
ha mai amato!

--Tutti mentiscono un poco, nell'amore--ella soggiunse, a occhi bassi,
appena appena rimproverandogli, così, la sua menzogna della sera
scorsa.

Egli non comprese.

--Poichè non ti amava, da tanto tempo, non eri tu libero?

--No--egli disse, tetramente, Ero legato.

--Come?

--Legato da un giuramento.

--A Lei?

--A me stesso.

--Non ti capisco--ella disse, ancora, guardandosi le perfette mani.

--Io l'amavo...

--Ebbene?

--E l'amo.

--Ah!--diss'ella, senz'altro.

--L'amo sempre, l'amerò sempre, non amerò mai altra donna, è così,
nessun'altra!

E si guardò intorno, con occhi fuori, come se qualcuno gli impedisse,
gli contrastasse questo amore e che egli fremesse di dichiararlo a
tutti quanti. Invece, Chérie lo guardò, con occhi pieni di una grande
pietà, una pietà non profonda, forse, ma grande, una pietà che taceva
molte cose, ma che per questo era una grande pietà. Adesso, si era
seduta e teneva le mani in grembo: la beltà di quel dolce volto non
parea fosse stata turbata, solo era piena di una pietà grande: pietà
non sapiente, forse, non magistrale, non alta, ma umile, ma tenera, ma
femminile. Ella non gli chiese conto della notte: ella sentiva che,
egli stesso, si pentiva troppo amaramente di quello che aveva fatto.

--Avevo giurato... avevo giurato di restar fedele a quest'amore
solitario... sempre... e avevo tenuto il giuramento... per tanto
tempo... e ora, ora, ora!

Si prese la testa fra le mani, per nascondere le lacrime che gli
salivano agli occhi.

Vedendo quell'uomo piangere, Chérie si curvò su lui, gli liberò il
volto dal velo delle mani, gli passò delicatamente il suo fazzoletto
sugli occhi, con un atto materno. E non seppe dire altro che la parola
che si dice agli sconsolati, a coloro cui è morto qualcuno:

--Non piangere, non piangere così...

Ma una suprema debolezza aveva atterrato Paolo Herz, sorgente da tutta
la sentimentalità quasi muliebre del suo spirito: egli piangeva come
un misero, come un bimbo, come una donna, preso, appena appena ogni
tanto, da un accesso virile di collera. La istessa pietà di Chérie che
egli intravvedeva vagamente, quasi senza intendere da chi venisse e
come e perchè, aumentava il suo irrefrenabile dolore.

--Ma non piangere, non piangere tanto, infine...--mormorava lei,
seguitando a comprendere poco e non sentendo che la compassione
semplice per un dolore grande e ignoto.

--Ah io sono infelice... un povero infelice... il più povero e il più
infelice uomo della terra... quello che non ha pane, che non ha tetto,
che chiede l'elemosina, nella via, è meno miserabile di me... io ho
perduto tutto... tutto è finito...

Chérie pensava, naturalmente. «Ma se ella non lo amava più, da tempo,
che cosa è dunque finito? chi ha tradito Paolo?» Però nulla ella
diceva, di ciò, intuendo un mistero dell'anima, che non poteva nè
misurare, nè apprezzare. Prono sul divano, singultando, Paolo
continuava a dire:

--Tutto è finito... tutto è finito.

  .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .
  .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .
  .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .
  .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

Fu un pallido uomo, distratto, smemorato, senza volontà e senza forza,
quello che seguì Chérie, nel viaggio malinconico che essi intrapresero
a traverso l'Europa. Paolo Herz si lasciava condurre, di treno in
treno, di città in città, di albergo in albergo, come una creatura
inerte, incapace di reagire, poichè era incapace di agire. La loro
vita era singolarissima. Tutte le cose esterne del viaggio erano
regolate da un servo che prendeva gli ordini da Chérie, alla mattina:
e tutto si compiva, senza fretta, senza rumore, con la taciturnità e
la compostezza di persone che portano seco un malato. Egli, forse,
fisicamente, malato non era; ma tutte le corde dell'energia infrante,
spenta ogni iniziativa, il suo spirito era prostrato nell'invincibile
abbattimento, da cui non si risorge, salvo una crisi violenta. E niuna
cosa e niuna persona, più, poteva dare all'anima e ai sensi di Paolo
Herz la scossa che li doveva vivificare o uccidere. Egli si lasciava
condurre dappertutto, docile, obbediente, senza mai un atto di
ribellione, senza una parola di rifiuto: Chérie regolava la sua vita;
e come un fanciullo, come un malato, egli viveva secondo Chérie. Ma,
un fanciullo senza sorrisi e un malato senza speranze, obbediva alla
bellissima donna, dalla florida chioma bionda e dai begli occhi
azzurri: mai gli usciva dalle labbra una parola, che desse segno di
una sua risurrezione. In pubblico, veramente, egli non sembrava che un
uomo triste senza essere acerbamente addolorato, taciturno per sua
elezione, non tetro: egli accompagnava la donna nelle passeggiate, nei
teatri, nei pubblici ritrovi, correttissimo, smorto, parlando con lei
due o tre volte, in una serata. Non aveva neppure l'aria di annoiarsi:
aveva l'aria di vivere, senza vedere e senza sentire la vita.

Ma quando restavano soli, solissimi, in un vagone, in un salotto di
albergo, Chérie e Paolo, egli lasciava che la sua fisonomia esprimesse
tutta l'angoscia che premeva, perennemente, il suo cuore. Senza dir
verbo egli si abbandonava sovra una sedia, esausto dallo sforzo di
vivere: tutta la sua orribile miseria, lo mordeva, nella carne e nel
cuore; ed egli provava lo spasimo dell'irreparabile.

La donna non gli domandava nulla. Decisa a compire sino all'estremo il
suo ufficio d'infermiera ella restava le lunghe ore, accanto a lui,
silenziosa, vigile, seduta in una poltrona, così immobile e così
taciturna che egli dimenticava perfettamente la sua presenza. Ma ella
vegliava! Nel vagone, ella lo vedeva agitarsi, levarsi, aprire e
chiudere i cristalli, incapace di trovar pace, seguendo con occhio
smarrito la fuga delle campagne e dei villaggi, innanzi al treno,
guardando giù, con qualche cosa di disperato, nello sguardo.
Nell'albergo, ella lo vedeva inquieto, senza requie, andare e venire,
non potendo liberarsi del suo indicile tormento. Sino a tardi, essa
aspettava: poi si levava, andava, a lui, gli diceva, dandogli la mano:

--Buona notte.

Macchinalmente egli rispondeva:

--Buona notte.

Ironico augurio! Ella giovane, senza preoccupazione altro che quella
pietosa, per il suo amico, stanca del viaggio, si addormentava del suo
bel sonno senza sogni: egli combatteva ogni notte una battaglia con
l'insonnia. In quelle ore di solitudine, Paolo Herz era avvilito da un
profondo senso di degradazione. Il tradimento che aveva commesso, così
brutalmente, obbedendo al cieco istinto sensuale che si era avvolto
nella luce lusinghiera di un novello, giovane, fresco amore, questo
tradimento compiuto con entusiasmo fisico, con un delirio di tutto il
suo essere terreno, gli sembrava, ogni giorno più, una deturpazione,
una violazione del più prezioso tesoro che egli conservasse nel suo
cuore: il suo amore. Si sentiva vile, sporco, cinico, macchiato
dall'indelebile peccato della carne, simile a qualunque animale senza
intelletto e senza cuore; faceva orrore a se stesso.

Giacchè poteva Luisa Cima non averlo amato mai, o averlo abbandonato
crudelmente, dopo un breve capriccio; poteva egli essersi disperato di
questo abbandono, nelle lunghe cogitazioni delle sue ore solinghe;
poteva egli aver sentito la fine della sua esistenza di amante; ma
questo era un fatto fuor di sè, che egli subiva, che egli pativa, come
Gesù sofferse la Passione. In quella orrenda disperazione il _suo_
amore restava puro, schietto, alto: amore doloroso, amore straziato,
amore spasimante, ma senza peccato, senza decadenza, senza
degradazione. Luisa Cima aveva potuto togliergli la sola felicità
della corrispondenza amorosa, gli aveva levato il bacio e lo sguardo,
il sorriso e la parola: egli non aveva più un'amante, egli non era più
un amante: ma egli era un innamorato! Ciò che viveva nel suo cuore,
l'amore, era intangibile: la piccola donna dal viso appena roseo dagli
occhi neri, dolci e maliziosi, la perfida donna dai capelli neri,
morbidi, fini, lucidi, come se fossero bagnati, poteva infrangere
tutto, fare una rovina di tutto, ma non toccare l'amore nell'anima di
Paolo Herz. Oh quello era collocato in un posto sicuro, chiuso, messo
nell'arca santa che niun mortale può violare, nell'arca del pensiero e
del sentimento! Ella avrebbe potuto spezzare la fronte di Paolo Herz,
attraversargli il cuore con un pugnale, non vincere quell'idea e
quell'affetto. Questo orgoglio aveva sostenuto Paolo, nelle lotte
atroci contro l'abbandono: questa fierezza del suo amore, che era
_suo_, che niuno poteva levargli, mai, che niuno poteva nè offendere
nè ferire!

Ebbene, egli stesso, volontariamente, aveva aperto la porta del
tabernacolo, spezzata la santa reliquia e rovesciato l'altare: egli
aveva rinnegato non l'amore di Luisa Cima ma il suo: egli aveva
tradito, non Luisa Cima, ma se stesso: egli aveva disperso al vento,
per sempre, tutto il suo tesoro. Giammai più, giammai egli avrebbe
ritrovato la fermezza fiera, il candore appassionato, la nobiltà
ardente, la fedeltà incrollabile, che erano le virtù alte di questo
amore. Aveva tradito: aveva tradito. Le parole sacre della passione
che sono sacre, sol perchè dette nella sincerità e nella profondità di
questo sentimento, egli le aveva dette a un'altra mentendo: le sue
labbra avevano baciate, delirando di amore, quelle di un'altra donna,
e il suo delirio era falso, era un inganno dei sensi: egli si era dato
a una donna e aveva avuto una donna, ma _un'altra_! Il tradimento era
più brutto, più sporco, più laido, perchè compiuto così, non contro
l'amante, ma contro l'amore, non contro Luisa, ma contro sè. L'incanto
era spezzato; ogni santa magia era distrutta: ed egli era un essere
volgare e vile, un essere povero e infelice, una creatura senza
dignità e senza orgoglio, senza rifugio e senza conforto.

Oh notti atroci! Egli espiava, in quelle notti, la notte del suo
peccato: egli la espiava in tutte le forme, le più crudeli: egli si
odiava e si disprezzava: egli che si era creduto grande e puro,
innanzi alla perfida Luisa Cima, adesso si sentiva mille volte più
basso di lei. Le ragioni naturali della vita erano infrante: i legami
che uniscono l'uomo all'esistenza, la speranza nelle cose e negli
uomini, la fede in se stesso, erano sciolti, per sempre. Aveva
tradito! Possedeva una cosa bella, onesta, superba, e l'aveva
insultata e calpestata; da se stesso, aveva espulso dal suo cuore ogni
sorgente di tenerezza e di orgoglio e l'aveva contaminata. Traditore,
infedele, impuro, egli, in certi momenti, accostandosi allo specchio,
nel vedere il suo pallido viso, aveva ribrezzo!

Nelle atroci notti, oramai, una fatale convinzione si faceva posto nel
suo spirito. Come uomo, egli era distrutto: distrutto come amante. Mai
più, mai più avrebbe potuto accostarsi ad una donna, desiderandola,
volendola; l'idea di un simile fatto, gli metteva un terrore folle, la
crisi di un ferito che vede il ferro chirurgico. Due o tre volte,
ingenuamente, Chérie, che nel suo buon senso, credeva alle forze
semplici della vita, lo aveva guardato con gli occhi seduttori, con
gli occhi che invitavano: due o tre volte era stata provocante,
sperando di guarire così Paolo Herz. Ma aveva visto un tale sgomento
in lui, gli era parso così tremante, così pallido, che la donna, non
comprendendo più nulla, aveva chinato il capo, un po' umiliata, si era
ritirata nella sua stanza, tutta pensosa. Mai più, nessuna donna, dopo
Luisa Cima! e mai più, in sè, nessun amore, dopo che egli aveva così
ignobilmente tradito il suo. Eternamente solo, solo nel ricordo
dell'abbandono e solo con la testimonianza della propria turpitudine:
una solitudine senza decoro, senza serenità, senz'ombra di conforto.
Confortarsi in chi? In che cosa? Tutto era finito: tutto, anche
l'idealità sublime del suo amor solingo. Col tradimento, tutto era
finito.

Egli si levava da questi notti con gli occhi cavi e brucianti, con uno
smarrimento di coscienza, che lo faceva parer vaneggiante. Chérie lo
sogguardava, sempre più sorpresa. Adesso, non si parlavano più. Non si
davano neppure la mano. Egli cercava di isolarsi, assorbito dalla sua
fissazione sentimentale, uscendone solo per considerare Chérie con
spavento, poichè ella era stata la causa del tradimento. Ella
domandava a se stessa: «perchè gli faccio paura?» Ma non glielo
chiedeva, oramai intimidita e stanca. La infermità morale di Paolo
Herz sfuggiva a qualunque cura ella potesse tentare, e la poveretta
aveva finito per annoiarsi mortalmente e sovra tutto, per sentirsi
inutile e noiosa. Viaggiavano da quattro mesi, insieme: e il tentativo
era stato troppo lungo. Una sera, a Vienna, glielo disse:

--Paolo?

--Chérie?

--Non ti pare che sia meglio finire?

--Che cosa?

--Questo viaggio, insieme.

--Ah!... sì.

--Io vorrei restare, ancora, con te--ella aggiunse, gentilmente--ma
non serve a nulla.

--Non serve a nulla.

--Me ne vado, allora, Paolo?

--Sì.

--Tu resti?

--Non so.

--Che farai?

--Non so.

--Vuoi che io resti, Paolo?

--No.

--Trovi che ho torto? Che faccio male?

--No, Chérie: tu hai ragione e fai benissimo.

--Mi serbi rancore?

--No: non ti serbo rancore.

--Mi vuoi bene, un poco, allora?--disse ella, scioccamente.

Egli rabbrividì: tremò. E disse:

--No, niente.

Così, si lasciarono.



Dissidio.


--Dunque, mi amate?--ella domandò.

--Io vi amo. E voi?--egli chiese.

--Anche io vi amo.

Ma perchè non erano felici, dopo quella confessione? Perchè quella
permanente nube di tristezza in entrambi?

--Avete molto tardato a dirmelo--ella soggiunse.

--Moltissimo. Anche voi, del resto.

--Anche io--ella replicò.--Perchè tardaste tanto?

--Perchè non ero perfettamente certo di amarvi: e non volevo ingannare
nè me, nè voi.

--Dubitavate? Non vi piacevo, io, forse?--ella disse.

--Mi piacevate e mi piacete immensamente. I vostri occhi così vivaci e
tanto spesso pieni di malinconia, la vostra bocca sempre così fresca e
dove il sorriso assume tante forme novelle e bizzarre, mi attirano
irresistibilmente: io adoro le vostre perfette mani e quando immagino
che esse possano passare sui miei capelli, con una lenta carezza,
fremo di un lungo brivido: tutta la vostra persona esercita su me il
fascino, che non si vince, dei corpi giovani e belli, fatti per
l'amore...

--Ebbene?

--Ebbene, tutto ciò, talvolta, non esiste più. Vengono giorni, vengono
periodi, in cui non mi piacete punto. Nè lo sguardo vostro, nè il
vostro riso arrivano sino a me; mi sembrano pallidi, smorti, o, forse,
io non li sento, sono diventato sordo e cieco alla loro espressione.
La vostra persona mi pare quella di un manichino e non la bella forma
di una creatura umana. In questi periodi, io potrei stare vicino a
voi, voi sola con me, lontani ambedue da ogni rumore, da ogni
fastidio, in quella compagnia, infine, che ogni amante ardentemente
desidera e io non vi prenderei una mano per baciarla, non vi direi una
parola d'amore...

--È strano... è strano...--ella mormorò.

--Vi è di peggio. Debbo io dire anche il peggio? Non vi offendete,
voi?

--Non mi offendo. Dite.

--Càpitano dei periodi anche peggiori. Sono quelli in cui tutto in voi
mi dispiace. Dopo la indifferenza, un senso di disgusto, d'irritazione
tutta fisica. I vostri occhi mi sembrano sfrontati, perversi, sempre
duri, come se giammai vena di dolcezza li possa attraversare; la
vostra bocca ha qualche cosa di odioso, di sovranamente antipatico,
nel parlare, nel sorridere; ogni vostro movimento mi sembra volubile o
goffo; e tutta voi, per me, mancate di armonia, siete una dissonanza,
urtate i miei nervi e vi debbo fuggire, se non voglio essere
maleducato, villano con voi.

--Così?

--Così.

--E poi?

--Poi, non so come, giacchè la transizione mi sfugge, viene il giorno,
viene l'ora in cui voi, a un tratto, mi riapparite in tutta la vostra
seduzione. Sarà, forse, un vestito che vi va bene; un significato più
tenero degli occhi; qualche cosa di più mite nel sorriso; una posa più
stanca, più abbandonata del vostro bel corpo; un tocco fuggevole della
vostra cara mano nella mia... non so! Allora l'antica incantatrice mi
prende, mi riprendo ed io sono suo.

--Solo per questo non eravate certo di amarmi?

--Anche per altre ragioni.

--Vi ascolto.

--Non vi rattristeranno, esse?

--Sì: ma non importa.

--L'istesso fenomeno del mondo fisico, fra me e voi, si è sempre
riprodotto nel mondo morale. Vi ho ammirata sempre, lo sapete, perchè
il vostro carattere ha qualche cosa di assolutamente personale, perchè
sotto il vivido sfavillare dello spirito, ho ritrovato un senso equo
della vita, perchè a traverso gli erramenti naturali del cuore, il
vostro onore mi è parso buono e perchè in mezzo a tutte le inevitabili
influenze di corruzione, avete tanta ingenuità infantile. Ciò è così
nuovo in una donna moderna ed è così inaspettato, in voi, che sono
stato e sono innamorato della vostra anima...

--Ma non sempre innamorato?

--Non sempre! Ciò che voi dite, in certi momenti, mi pare senza colore
e senza sapore, come il cinguettìo di un uccellino senza cervello e io
mi domando, se dietro la vostra bianca fronte, havvi veramente un
pensiero. Mi sembra che il vostro spirito sia quello comune a
qualunque altra donna, senza intelligenza: e che la vostra bontà sia
quella debolezza naturale del cuore muliebre, quella volgare impotenza
a odiare, a fare il male, che si scambia tante volte, fallacemente,
con la bontà. La vostra sentimentalità mi pare insipida e la vostra
ingenuità mi fa l'effetto di una puerilità scema...

--Triste!

--Non basta. Dopo ciò arriva, costantemente il periodo della
irritazione morale. Allora, sì, allora non solo dubito di amarvi, ma
sento che mi diventate così odiosa, che tutto il mio cuore si solleva,
si ribella contro di voi. Vi ritengo per una donna completamente
falsa, in ogni vostra manifestazione. Fredda, se avete l'aria
appassionata; ipocrita, se avete l'aspetto sentimentale; maligna, se
scherzate; sleale, se vi abbandonate a delle confidenze; e sovra tutto
bugiarda, bugiarda nelle prove di bontà, bugiarda nelle espressioni di
equità, bugiarda nella ingenuità, bugiarda nella tenerezza, incapace,
incapace di una verità, mai!

--E poi? E poi?

--Improvvisamente il suono della vostra voce, dicente una parola; una
lettera scritta da voi ad altri e che io leggo per caso; l'aver
conosciuto lo scopo di una vostra passeggiata, di una vostra, visita;
il velo delle lacrime nei vostri begli occhi; la morte del sorriso
sulle vostre labbra; una impressione simile, un fatto vago e
fuggevole, mi ridanno, intiera, tutta la malìa che la vostra anima
esercita su me...

--Ma, allora, in tanta incertezza, come siete giunto a credere che mi
amate?

--Sentite. Voi sapete che io ho un carattere sentimentale e un
temperamento amoroso. L'amore, così, è stato il grande affare della
mia vita. Io ho amato varie volte e con entusiasmo, con profondità. Le
donne che ebbero tutto me stesso, mi meritavano, non mi meritavano,
erano, sovra tutto, degne di tanto amore, io non lo so! So che mi
detti ad esse e all'amore, con trasporto. Ebbene, a traverso a questa
dedizione della mia persona, dei miei pensieri, dei miei sentimenti,
io ho scorto, in un cantuccio del mio spirito, un pensiero solitario,
talvolta latente, ma costante: il pensiero di voi. Non già che vi
amassi, mentre ne amavo un'altra. No. Ma mi occupavo di voi, ma vi
seguivo in tutte le evoluzioni della vostra vita, ma nulla di quello
che facevate voi, mi era indifferente. Andando a un convegno d'amore,
desideratissimo, se v'incontravo, mi distraevo subito, non per molto,
ma mi distraevo: tornando da un convegno d'amore, tranquillo, felice e
stanco, se vi rivedevo, per la via, tutto il mio essere aveva una
vibrazione. Quando mai mi siete escita di mente? Una curiosità
costante di voi, dei vostri fatti, della vostra esistenza ha
accompagnato tutti i miei ardori per altre donne, io ho delirato di
amore e di dolore, ma non sono mai stato infedele a questo pensiero, a
questa curiosità. E se il criterio dell'amore è un abbandono assoluto,
incondizionato, se bisogna donarsi tutto, se il lasciare anche una
piccola parte di se stesso, è una infedeltà, io ho tradito tutte le
donne che ho amate, per voi.

--Per questo soltanto, avete avuto la certezza che mi amavate?

--Non soltanto! Il vostro cuore ha avuto le sue ore di passione, non è
vero?

--Sì--ella disse.

--Ne ha avute anche di aberrazione?

--... Sì.

--Quanto ho sofferto, sempre, in queste ore, che gelosia continua,
profonda, sanguinante, ho avuto di voi e della persona che amavate!
Che tormento lungo e sottile, ad ogni nuovo sospetto, a ogni nuova
induzione! Che spasimo segreto, non tanto segreto, però, che non ve ne
accorgeste, voi! Dite, ve ne siete accorta?

--Sempre. Ogni volta che ero prossima ad amare qualcuno, l'idea che
voi ne avreste sofferto, mi ha turbato molto: qualche volta, vedete,
ho rinunciato, perchè sentivo tutta la vostra gelosia.

--Atroce! V'intendevo, io, quando stavate per commettere un altro
errore e venivo da voi, e vi parlavo, vi rammentate, vi maltrattavo,
talvolta! Ciò vi fermava, lo so. Ma quella volta, quella volta fatale,
nulla vi arrestò, nulla poteva arrestarvi ed io che vi amava, forse,
dovetti assistere alla vostra caduta. Che orribile cosa, che notti ho
trascorse, con questo cruccio nell'anima, vedendovi avvilita, perduta,
disonorata, non solo agli occhi del pubblico, che non sarebbe di prima
importanza, ma agli occhi miei, agli occhi vostri! Questo, è amore.

                *
               * *

--Voi, dunque, mi amate?--ella domandò ancora.

--Sì. E voi?

--Vi amo.

--Da molto tempo, è vero?--egli chiese.

--Da moltissimo tempo.

--Perchè non me lo avete mai detto?

--Perchè voi siete voi e non un altro.

--Come?

--Ho avuto paura di voi.

--Paura?

--Sì: ho temuto assai di non rendervi felice nell'amore, di non esser
felice con voi.

--Triste, triste--egli disse, a sua volta.

--Triste!--ripetette ella, come un'eco--Dal giorno che vi ho
conosciuto, sono stata attratta verso voi, continuamente e
continuamente respinta, come innanzi a un pericolo sconosciuto. Ho
intravveduto sempre, con un senso d'infinita dolcezza, l'idea di
appartenervi, l'idea di avervi mio, per tutta la vita, prima come
amante, poi, quando la ragione dell'età fosse sopravvenuta, come la
migliore vostra amica, come il migliore fra i vostri amici, come
l'unico amico. Qual sogno!

--Ebbene?

--Ebbene, ogni volta che la realtà mi pareva si avvicinasse a me, a
noi, sempre che questa visione prendeva forma, cominciava a prender
forma, un invincibile terrore mi ha impedito di continuare.

--Ma perchè?

--Ve l'ho detto: sospettavo, temevo una reciproca inguaribile
infelicità. Troppo diversi fra noi e troppo eguali in alcuni momenti:
troppo esigente, io, e certo, troppo esigente, voi; ambedue, spesso,
ribelli alle esigenze: innamorati e intanto diffidenti, disdegnosi,
chi sa, forse disprezzanti l'uno dell'altro; gelosi e infidi; con un
mondo spirituale ora complicato e spaventoso, ora semplice e
tormentoso; capaci di ogni sacrificio, ma capaci anche di rinfacciarlo
brutalmente e crudelmente; con un passato tumultuoso, ambedue,
tumultuoso e risorgente, ahimè, a ogni crisi amorosa; con un dubbio
avvenire, senza fede, sovra tutto, senza fede nè in noi, nè
nell'amore...

--Questo, formava il vostro sgomento?--gridò, lui.

--Sì--disse lei, piano.

Un minuto di silenzio.

--E come avete vinto questa paura?--egli chiese, rompendo il silenzio.

--Come voi avete vinto il vostro dubbio.

--Cioè?

--Pensando che, infine, vi è una fatalità che lega segretamente le
persone che si debbono amare, che si debbono appartenere; e che dopo
aver lungamente combattuto, invano, questa fatalità, era ben dolce
lasciarvisi andare, senza resistenza, senza forza, oramai, più.
Sentendo che vale la pena di rischiare tutte le infelicità, tutti i
dolori per un poco di amore, con _quella tale_ persona, tanto
desiderata, tanto invocata; sentendo che non si deve morire, senz'aver
gustato a _quel tale_ amore che si è troppo sognato e troppo respinto.

--È vero, è vero--egli disse.

--Non avete voi superato il vostro profondo e insistente dubbio, sul
vostro amore, proprio per questo?

--Sì.

--Così ho superata la mia paura--confermò lei.

                *
               * *

Ma le parole sincere che essi avevano pronunziate, stavano fra loro,
nell'aria, intorno a loro nelle loro menti, nei loro cuori: quello
che non si erano mai detto, ora lo sapevano. E altre parole più
intime, più cocenti, anche più sincere, le più sincere fra tutte,
quelle che stanno chiuse nell'intimo del cuore, che sono la verità
istessa dell'anima, il grido ultimo, essi intravedevano, in una
rivelazione indistinta, ma dolorosa. E il silenzio fra loro si fece
tragico; e si fece tragicamente lungo, ognuno di essi assorbito dal
proprio pensiero, da una agitazione muta ed estrema. Forse in
quell'assorbimento, ognuno si pentiva di aver parlato, ognuno
s'incolpava di aver dichiarato il segreto del proprio spirito,
tristemente e inanemente; ma le parole erano state dette, avevano
vibrato nella voce, avevano ondeggiato nell'aria, ognuno le aveva
udito palpitare nel proprio cervello. Impossibile tornare indietro.
Ella fu, che interruppe, per la prima, il silenzio: e la sua voce la
scosse, come mai udita; ed egli fu scosso da quella voce, come
inaspettata.

--Voi, mi amate?--ella domandò.

Egli non rispose: pensava.

--Mi amaste? mi amate?--richiese, ella, subito.

--Non so--egli disse.

--Non potete saperlo?

--Non posso.

--Non potete esser più forte del vostro dubbio?

--No. E voi, mi amate?

--Forse--ella disse,--ma non debbo amarvi.

--Non osate?

--Non oso.

Ancora, il silenzio.

--Addio, dunque, Massimo.

--Addio, Maria.

 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



L'attesa.


Nella notte purissima e chiara il plenilunio scintillava. Dalla
terrazza del mio albergo io vedeva a destra, a sinistra i campi arati
che dormivano sotto la tranquilla luce lunare; in capo alla viottola
fiancheggiata di querciuoli, dopo una discesa di cinquanta passi
dall'albergo, dormiva, tutta bianca, con due finestre nere, la piccola
stazione; lontano, dopo una spiaggia deserta, dormiva la grande linea
dell'Adriatico. Dietro le mie spalle, inerpicato sulla collina, il
paesello dormiva. La profonda pace della notte era intorno a me. Io
solo vegliavo, inquieto, febbricitante, esaltato, passeggiando su e
giù, mentre la mia ombra si allungava, si accorciava, scompariva,
mentre nulla poteva calmarmi. Io aspettava lei. Da tre giorni io
l'aspettava nell'unico albergo, in quella piccola stagione intermedia,
che niuno conosce. Ella doveva venire, passare con me una giornata e
partirsene. Io l'aspettava.

Per questa giornata io fremeva ed impallidiva da due mesi, lavorando,
ridendo, vivendo sotto l'imperio dell'idea fissa. Da due mesi ella
palpitava come un uccello morente, nel disordine delle sue lettere; da
due mesi, noi mentivamo atrocemente alle persone che ci erano state
più care. Ogni azione, ogni pensiero, ogni speranza erano concentrate
in quella giornata luminosa e ardente. Per andare, io ingannava
un'altra donna, mia madre, mia sorella, i miei amici; io faceva venti
ore di viaggio, io rimaneva sei giorni nell'albergo del paesello: per
venire ella ingannava un uomo, ingannava suo padre, i suoi fratelli, i
suoi cognati, sua suocera, i suoi servi, i suoi amici, si esponeva a
viaggiar sola, bella e graziosa, per trenta ore di viaggio, in mezzo
ai pericoli, venendo ad un pericolo di morte. Che importava tutto
questo?--Io l'amava e l'aspettava, ella veniva a me perchè m'amava.
L'ultima settimana prima del giorno, era stato un turbine quello che
ci aveva travolti; eppure, in tanto disordine di ogni cosa brillava
netta, lucida, matematica tutta la combinazione del viaggio. Io
conosceva a mente il mio itinerario ed il suo, e lo ripeteva
sottovoce, come se avessi potuto dimenticarlo. Quei nomi di paesi,
quelle ore ritornavano macchinalmente sulle mie labbra. Eppure una
orribile paura mi accompagnava di sbagliare un treno, di non trovarmi,
di perdere la testa, e due ore innanzi io era alla stazione, fingendo
leggere, disinvolto, bevendo dei grandi bicchieri d'acqua per calmare
la mia febbre. Chi ha viaggiato con me? Non so, guardavo in volto le
persone senza vedere nulla. Sentivo nelle orecchie un rumorìo di voci,
uno stridìo di ferro, squilli di campanelle, fischi, ma non
comprendeva nulla. Non ho dormito mai, mai. Mi assopivo, talvolta
nell'abbandono, nella stanchezza dei nervi troppo tesi, ma l'anima
vegliava, un sussulto mi scuoteva. Quanti giornali ho trascorso,
quanti libri ho sfogliato? Non mi ricordo. So che arrivato al
paesello, dove ella doveva venire, mi son sentito stringere il cuore.
Forse, non sarebbe venuta. Che ne sapeva io? Era così strano il modo
come ci eravamo amati, così singolare il modo come ci amavamo! Non mi
conosceva, non la conoscevo. Da un momento ad un altro, lei che non
era nulla, era diventata tutto per me. Che donna era? Forse, non
sarebbe venuta. Forse l'avrebbero trattenuta. Invano cercavo dominare
questo senso invincibile di sgomento. Pure l'albergatore, un cortese e
famigliare, uomo che non vedeva mai nessun forastiero, non si accorse
di nulla; è vero, io era pallido, gli occhi miei vagavano, distratti,
le mie mani avevano la febbre, ma sorridevo, scherzavo anche. Nei tre
giorni avevo visitato il paesello, la sua chiesa gotica, la sua
manifattura di lana sopra un fiumicello là, presso: ma i paesani che
si volgevano a guardare questo viaggiatore tranquillo ed attento, non
sapevano niente della lotta spaventosa che mi rodeva. Con un vetturino
facevo lunghe passeggiate in carrozza e mi lasciavo narrare i suoi
guai, tutte le vicende della sua vita. Anche la cameriera dell'albergo
ed il servitore mi avevano fatte tutte le loro confidenze; essi
avevano trovato un placido ascoltatore che approvava col capo, senza
capire, rosicchiato, minato, tormentato da un sol pensiero. Diventavo
stupido. La notte smorzavo il lume nella mia stanza, passeggiavo sul
terrazzo, guardando la via ferrata.--Verrà di là--pensavo fra me. E
come un'allucinazione mi prendeva, mi pareva che sbuffante e
rumoreggiante il treno arrivasse col suo occhio verde e col suo occhio
rosso che mi guardavano, che una potenza malefica m'inchiodasse sul
terrazzo, ch'io vedessi di lontano la diletta dell'anima affacciarsi
allo sportello, cercarmi, non trovarmi, ricadere indietro, disperata,
ripartirsene senza che io, nella più orribile contrazione del dolore,
potessi fare un passo o dare un grido. L'incubo si sedeva sul mio
petto, me desto. Erano state lunghe, eterne quelle ore dei tre giorni,
io le aveva vedute avanzare pigre e stanche, ma le ore dell'ultima
notte, chiamate invano, supplicate invano, non venivano. Ella doveva
arrivare alle sei del mattino. Dalle otto della sera prima, io
agonizzava nell'impazienza. Non una lettera, non un telegramma. Non
poteva farmene, non doveva farmene, avevamo stabilito così. Viaggiava
lei verso me? Dove era lei in quel momento? Calcolando, potevo
saperlo. E se non venisse? Tutte le più alte, le più inflessibili
deduzioni matematiche sono capovolte da un picciolissimo fatto.
Passeggiavo, fumavo, morsicchiando la mia sigaretta, lasciando che si
spegnesse, gittandola nella via, accendendone un'altra. Nella sera, ad
uno ad uno si spegnevano i lumi del paesello. Passò un treno alle
nove; era un diretto, non fermò. Alle dieci un altro; fermò per due
minuti; era l'ultimo. La stazione era il mio faro, la mia compagnia.
Illuminata, mi riscaldava il cuore come un raggio di sole. Certo i due
impiegati, i facchini, il capostazione dovevano essere molto stanchi,
poichè smorzarono subito e se ne andarono a letto. Mi parve di
rimanere solo, abbandonato, in un deserto, senza luce, senz'acqua.
Rientrai in camera, tutto angustiato. Dinanzi ad una fioca stearica
d'albergo, in piedi, fremendo, rilessi le sue lettere inquiete,
agitate, febbricitanti, che mi davano la follia. Sarebbe venuta.
Sarebbe venuta la regina di Saba nei dômi azzurri della mia fantasia.
Io le tendeva le braccia, ella veniva. Poi mi mettevo a pensare se
quel salottino e quella camera d'albergo erano degne di ricevere la
sua persona. Piccole stanze, messe con un lusso un po' rustico, un po'
cittadino. Ma come Cristo, vi erano tutte le stazioni della Passione.
Gliele avrei fatte vedere: Vedi, qui ho pianto, pensando che tu non
saresti venuta. Qui ho sperato che questo calice mi sarebbe
risparmiato. Qui ho agonizzato, nel dubbio della mia fatale Getsemani.
Qui ho singhiozzato, credendomi tradito da te. Qui ho disperato,
credendo che non saresti più venuta. Questa è stata la mia tomba per
tre giorni. E qui, qui, amore mio immenso, sono risorto.--E pieno di
una esaltazione, uscivo sul terrazzo a gesticolare, come un lungo
burattino preso da pazzia. Forse, non sarebbe venuta. Mi sedetti in un
angolo, appoggiando le braccia sul muretto, e il capo sulle braccia.
Ma non dormivo, no. La boccettina del cloralio era quasi vuota sulla
mia tavola. La vuotai. Mi distesi sul letto per dormire. Non dormivo.
Presi un libro: le _Massime_ di Larochefoucauld. Tristi massime,
ironiche massime, piene di realtà. Ma la passione è fuori della vita
reale. Mi conturbarono. Fumai di nuovo. Avevo la gola secca, le fauci
riarse, le guaucie mi bruciavano. Prendevo le sue lettere, profumate,
fresche, e me le metteva sul volto, sperando averne qualche
refrigerio.

Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra
della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad
una le case dei contadini. Nell'albergo, dormivano ancora. Pure,
sapendo che col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si
alzarono. Mi nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma
dalla finestra, vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche
lei. Sotto la porta, un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne
potevo più. Nel crepuscolo mattinale la serva spazzava, in basso, la
stanza da pranzo. Le dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non
capii quel sorriso. Ero inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva
in me la sicurezza che non sarebbe venuta. Non viene, non
viene--mormoravo. Me ne andai sulla via maestra, parallela alla via
ferroviaria. Andavo incontro al treno, come un pazzo, come un bambino.
Poi la via maestra faceva un gomito; tornai indietro, alla stazione.
Presi una tazza di caffè, poi un vermouth nel piccolo caffè, parlai
col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole non sarebbe uscito,
forse essa non sarebbe venuta. Anzi era certo che non veniva.
Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei potuto
andarmene, perchè non veniva. D'un tratto odo un debole fischio, un
suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno
nero, bagnato d'umidità. Il sangue, mi va al cuore, ma oso domandare:

--È il diretto?

--No, è un _merci_. Ci vogliono tre quarti d'ora pel diretto.

--È segnalato alcun ritardo?

--No, per ora.

Ella non verrà. Me ne vado nel giardinetto della stazione dove
crescono le rose delle quattro stagioni ed i gelsomini cremisi, in
ritardo. Una lucertola mi guarda con i suoi occhietti sospettosi, una
buona, simpatica e nervosa lucertola. Vorrei narrarle la mia
disperazione, perchè ella non verrà. Un carabiniere è ritto sotto la
porta; non mi guarda. Vorrei dirgli quanto son disperato, poichè ella
non verrà. Gli ultimi minuti; prima che il treno arrivi, io li vivo
triplicatamente, giunto al culmine di ogni sensazione. Viene il treno,
la campanella è stridula, le orecchie mi tintinnano. Il sole appare
vittorioso all'orizzonte e il fumo bianco della macchina s'indora.
Ella non vi è. Non mi avanzo, rimango immobile, morendo in piedi.
Scendono contadini dalla terza classe; dei signori una vecchia, un
bambino dalla seconda. Ella non vi è. D'un tratto, lontano, nella
penultima carrozza di prima classe, allo sportello non fa che apparire
e scomparire un volto smorto.

Mi trovo la forza di aprire la portiera. In una mano ghiacciata, è
appoggiata una manina tremante. Non ci parliamo, ma ci guardiamo,
camminiamo accanto. Quei due esseri pallidi, senza voce, tremanti come
bimbi, sono un uomo a trent'anni forte e coraggioso, una donna di
spirito e di coraggio. Alla porta le faccio una domanda insulsa,
inutile.

--Hai il biglietto?

Lo ha, me lo mostra. Passiamo. Ce ne andiamo nel polverìo della via,
senza osare di darci il braccio. L'albergatore dalla soglia, ci
sorride. Ella sorride con gli occhi pieni di lagrime, io non sento che
il profumo acuto dei suoi guanti, il suo profumo...

                *
               * *

Tu hai potuto dimenticare, io ho potuto dimenticare. Poichè questo
caso mostruoso, inaudito, è stato possibile, sogghigniamo e diciamo
pure che la vita nella sua più alta espressione, che è l'amore, non è
che un vano e miserabile sogno.



Zig-Zag.


Io conosco un curioso signore che possiede, in un cassetto sempre
chiuso di una sua scrivania, un piccolo museo amoroso, vale a dire
quella tale raccolta di oggettini insignificanti per sè, ma espressivi
per la persona che li riunì, a testimonianza e a ricordo dei suoi
fatti d'amore. Sin qui, ciò è molto comune: giacchè è collezionista di
tal genere, chiunque sia un poco sensibile, un poco sentimentale,
chiunque si sia abbastanza occupato dell'amore, nella sua vita.
Cassetti, cofanetti, scrigni che serrino simili preziosità tutte
personali, si trovano dapertutto, anche nelle case di donne molto
austere e di uomini molto serii: il bisogno di provare a se stessi che
si conobbe l'amore, che si ebbe un passato tenero e passionale,
determina la conservazione di tali memorie. E il curioso signore
sarebbe un signore qualunque, somigliante a un altro qualunque signore
e a moltissimi altri signori qualunque, col suo cassettino,
ermeticamente chiuso: ma la sua singolarità è questa. Egli ha due
piccoli musei. Il primo è custodito nel cassetto superiore, a destra
dell'antica scrivania, il secondo nel cassetto superiore, a sinistra
del medesimo mobile: cassetti eguali, che si aprono con la medesima
chiave: la chiave, non grande, è sospesa all'anello dell'orologio, ma
sempre nascosta nel taschino del panciotto. Del resto, il curioso
signore apre assai raramente i due musei dell'amore; bisogna che egli
si trovi in una di quelle lunghe giornate di pioggia autunnale, senza
voglia di fare nulla di bene o male, senza desiderio di vivere: o in
una di quelle dolci notti solitarie e insonni, fervide di fantasmi
nell'anima: o in qualche minuto di convulsione spirituale, in cui
tutto nel presente può dare la disperazione e solo il passato può dare
la calma. In queste rarissime occasioni, il curioso signore cava la
chiave e schiude il primo cassetto; ma quando le sue mani hanno
toccato, i suoi occhi hanno visto, il suo naso ha aspirato, allora
egli, subito, apre anche il secondo. Più tardi, molto più tardi,
quando la lenta e penosa rassegna dei due musei è compiuta, uno dopo
l'altro egli serra, con un cheto girare di chiave, i due cassetti; il
trattamento sentimentale è di una perfetta eguaglianza e di una
assoluta giustizia.

Nel primo cassetto stanno i ricordi delle donne che egli ha amate. Vi
è una cintura di seta, molto scolorita; apparteneva a una bellissima
donna quarantenne di cui egli si era innamorato, verso i venti anni.
Questa donna era stata molto amica di sua madre e veniva spesso in
casa, sempre vestita con grande eleganza, un po' imbellettata,
moltissimo profumata, con certi fruscî inebbrianti di gonne di seta,
lasciando vedere i suoi piedini calzati di calze di seta trasparenti e
di minute scarpette. Il giovanotto l'aveva amata con grande timidezza
dapprima, fuggendola, nascondendosi dietro le porte, per guardarla,
tremando di gioia o di terrore, se ella gli toccava la mano: la
passione, sensuale, del resto, facendosi più violenta, egli era giunto
alla dichiarazione, alla lettera di amore, alle insistenze disperate.
Questa donna lo aveva respinto, ostinatamente: prima aveva avuto
l'aria di non accorgersi di lui, poi lo aveva avvilito con una
continua illusione, con un continuo disprezzo. Per avere quella
cintura egli l'aveva fatta rubare da un servo compiacente: la signora
aveva creduto a una dispersione, e il folle innamorato passava le sue
notti covrendo di baci roventi quella molle seta, cingendosela al
collo, fingendo che fossero le braccia della donna inutilmente amata.
Costei, a un certo punto, era partita: egli aveva spasimato ancora un
pezzo, e infine si era consolato.

Sempre nel primo cassetto, delle donne amate da lui, vi era un
fazzolettino di battista, con una iniziale: un B lungo e sottile.
Apparteneva, questo fazzolettino, a una cara, pensosa, triste donna di
cui egli aveva portato l'amore, nel cuore, circa due anni. Bionda,
pallida, alta, ella aveva la flessibilità e le fragilità delle
creature sparenti: ella amava un amico del mio curioso signore, o il
curioso signore, per un seguito di circostanze, era intermediario fra
il suo amico lontano e questa donna. La assenza rendeva infelice
quell'amore, ma lo esaltava: il curioso signore passava le sue ora
accanto a quella donna, Beatrice, parlando di colui che era diviso dai
mari e dai monti, ma che era adorato da colei. A parlare sempre di
amore, a essere sempre in contatto con una passione così profonda e
così costante, a udire tutte le manifestazioni di quell'anima così
schietta e così salda femminile, egli si era innamorato. Ma con un
coraggio eroico, aveva taciuto questo suo amore, che era completamente
senza speranza: aveva seguitato a vivere accanto a Beatrice,
portandole notizie dell'amante lontano, leggendole le sue lettere,
leggendo il _giornale_ di questo amore che ella scriveva, piamente,
con una fedeltà cristallina, inebriandosi di amore non corrisposto,
ribevendo le proprie lacrime, soffocando ogni singhiozzo, reprimendo
ogni pallore rivelatore, pur di poter tenere quel posto preferito di
confidente. A un tratto, gli ostacoli fra Beatrice e il suo lontano
amico erano caduti: la parte del curioso signore era finita: si sentì
soverchio, inutile: si strappò allo spettacolo dei due ricongiunti,
felici. Quando aveva chiesto quel fazzolettino? Una sera in cui ella
aveva pianto per il dolore dell'assenza: le lacrime che avevano
bagnato il fine tessuto, erano state versate per l'_altro_.

Il terzo ricordo, fra quelli delle donne che egli aveva amate, era un
ritratto, una fotografia grande, sbiadita, con una dedica i cui
caratteri anche si erano scolorati. Rappresentava una donna di un
ventotto anni, forse, dalla fisonomia capricciosa e seducente: certi
grandi occhi con le ciglia molto lunghe: un nasino troppo piccolo: una
bocca ridente: una massa di capelli bruni, ondulati. Era vestita in un
costume bizzarro, da ballo mascherato, cioè trifoglio: aveva una
gonnella un po' corta, di raso bianco, su cui era applicato un gran
trifoglio di velluto nero: sul bustino di raso bianco, sul petto, era
ricamato un trifoglio nero, di perline: e la gran collana di perle era
rialzata, al collo, da un trifoglio di brillanti. Anche sui bei
capelli ondulati, ella aveva un diadema di gemme e una specie di
cappellino o di cappellone di velluto nero, a tre foglie, che ella
portava come una cornice, come un'aureola. La dedica diceva: _Charles,
je t'adore--Mimì_. Il curioso signore, appunto, si chiamava Carlo, ed
ella Mimì, un nome vero o falso, chi sa! Falsa senza altro, era la
frase della dedica, giacchè Carlo, infatti, aveva adorato Mimì, ma
Mimì non aveva adorato lui, nè amato, nè niente. Così, senza una
ragione al mondo! Ella aveva avuto molti altri amanti, ad alcuni aveva
voluto del bene, non era una creatura arida: ma a Carlo, pur dandosi,
ella non aveva concesso nulla. Si era data per gentilezza, per
compassione, per distrazione, per ozio, perchè, anche, era inutile
negarsi, anche perchè Carlo era un amante generoso. Ma amore, Mimì,
per Carlo, mai! Oh egli lo sapeva bene, a malgrado le pietose e
scaltre menzogne di Mimì, che egli gittava invano la sua passione, la
sua salute, il suo tempo, il suo denaro: la donna si dava, ma egli non
era amato. Tante volte, glielo diceva, a Mimì: le chiedeva, perchè
essa non potesse volergli bene, un poco volergli bene d'amore,
naturalmente. Ella si rattristava, perchè era buonina: rispondeva,
senza aver il coraggio di mentire: _non so_. Un sacrifizio costante,
una fedeltà rigorosa, una passione sempre eguale, il denaro, i viaggi,
non arrivarono a fare di Mimì, l'amante di Carlo, l'innamorata di
Carlo. Periodo febbrile, morboso, della sua esistenza: male atroce di
cui aveva sofferto e di cui, ogni tanto, soffriva ancora, non per la
donna, che aveva obliata, ma per l'amore che era stato respinto,
offeso, ferito mortalmente. Le ferite dolgono pure quando sono
guarite.

Il secondo cassetto superiore, a sinistra, nell'antica scrivania di
Carlo, contiene un altro piccolo museo amoroso. Sono i ricordi delle
donne che hanno amato il curioso signore.

Il primo, fra essi, è un crocifisso di argento, oscurato dagli anni e
come consunto dai mistici baci di una pura bocca orante: non è un
crocifisso di quelli che portano sospeso al collo, da un cordoncino,
le persone pie; è di quelli che si tengono attaccati al muro, presso
il letto, e innanzi ai quali ci s'inginocchia, pregando. Esso
apparteneva a una fanciulla, Grazia, che era un po' parente e un po'
amica di Carlo. Molto gracile, molto sensibile, molto impressionabile,
dedicata assai alle cose del cielo, quella povera creatura aveva
nutrito, segretamente, una tenerezza innocente per Carlo. Lo aveva
egli compreso? Aveva egli misurato l'intensità di questa tenerezza?
Chi sa! Ella aveva sempre taciuto questo suo sentimento, mentre se ne
struggeva: e se anche qualche cosa n'era trapelato, sino a lui, la
vita lo trascinava troppo nel suo vortice, perchè egli corrispondesse
a questo affetto. Questa Grazia, per la sua salute per le sue
inclinazioni, sembrava più fatta per il chiostro che per il mondo, e
più per la morte che per il chiostro. Di fatti, un giorno, chetamente
morì. Il crocifisso fu mandato a Carlo dai parenti perchè ella volle
così. Probabilmente, ella aveva tentato di ricondurre alla fede
un'anima errante: probabilmente aveva esalato tutto il suo amore, in
quel dono. Egli non divenne un credente: ma si accorse di essere stato
amato, troppo tardi, e conservò preziosamente il crocefisso.

Un altro oggetto d'amore, era un paio di forbici da ricamare, molto
fini, taglientissime, col manico di oro; erano servite a una donna per
tagliarsi le due lunghe, folte, bellissime trecce nere, per gittarle
ai piedi di Carlo, inutilmente. Costei era tanto brutta! E sgraziata e
antipatica, inoltre! E di animo bizzarro, capriccioso, insopportabile,
insieme a ciò! Carlo la guardava con ripulsione; lo faceva degli
sgarbi; le diceva delle impertinenze; le dimostrava in tutti i modi il
disgusto che ella gli ispirava. Ma ella lo amava. Goffa, non giovane,
brutta, vestita grottescamente, nervosa, nevrotica, piena zeppa di
difetti fisici e morali, ella lo amava e lo perseguitava con questo
amore. Erano tali o tante le frenesie che questa donna commetteva,
nell'ebrietà del dolore, che tutti si erano accorti di questo amore;
si burlavano di Carlo, ne ridevano e aumentavano il ribrezzo che egli
aveva per lei. La fuggiva, ella lo raggiungeva; la scacciava, ella
ritornava; la ingiurava, ella piangeva, ma non si guariva. Una
ossessione. Una notte ella si fece trovare nella sua stanza e per sei
ore, otto ore, lo tenne sotto le preghiere, le minaccie, i singhiozzi,
i gridi di un amor desolato, disperato: ella fu volta a volta, volgare
e sublime, grottesca e nobilissima, orribile a vedersi e trasfigurata
dalla passione; a un certo punto, ella sciolse i suoi capelli, la sola
bellezza che possedesse, e in un impeto di follia, li tagliò. Invano
egli tentò strapparle le forbici, le afferrò le mani, si ferì; ella
seguitò a tagliare, cieca, perduta, gittando le sue trecce a lui,
rimanendo mutilata, deforme, esausta; egli l'aveva messa fuori,
egualmente, dandole i suoi capelli morti oramai, disdegnando persino
questo grande sacrificio ed ella era fuggita, a capo chino anche più
brutta e più infelice. Dopo, più tardi, egli aveva saputo che ella era
in preda a una grave malattia di nervi; poi, più nulla. Quando aveva
ripensato, dopo tanti anni, a quell'amore, aveva voluto conservare le
forbici di quel sacrificio.

Il terzo ricordo era un pacchetto di lettere, quaranta o cinquanta,
forse: molto minutamente scritte, con una calligrafia lieve e volante,
che pareva riempisse di alucce il foglio. Portavano, tutte, solo la
data del giorno, non l'anno, una firma: Eva. Chi era, dunque, costei?
Egli non lo aveva mai saputo. Aveva cominciato a ricevere queste
lettere, un bel giorno: venivano dalla posta: una, due per settimana:
talvolta, quindici giorni senza venirne: talvolta, due di seguito, un
giorno dietro l'altro. La donna si manteneva in incognito, nè faceva
nulla per esser conosciuta: ma si comprendeva che fosse giovane e
bella e che non fosse libera. Il suo amore per Carlo pareva generato
da un incontro, da una conversazione e che si fossero ripetuti
incontri e conversazioni; ma nessun dato preciso veniva a chiarire
questa ombra, in cui ella si avvolgeva. Forse, se Carlo avesse fatto
uno sforzo, se avesse moltiplicato le indagini, egli avrebbe scoperto
la verità: ma una sola volta lo tentò e le lettere sparirono, per
qualche tempo. Del resto, lo aveva tentato debolmente, senza nessuna
volontà di sapere il vero: in fondo, poco gli premeva questa solitaria
e misteriosa sua corrispondente. Di nuovo le lettere apparvero,
l'amore sembrava più forte, più ardente: si vedeva la lotta di
un'anima che vorrebbe realizzare il suo sogno. Carlo partì, per un
viaggio improvviso: tornò dopo due mesi: vi erano tre lettere,
pressanti: la terza gli dava un convegno in una via, ed era di un mese
e mezzo prima. E niente altro. Veramente, egli non ebbe rimpianti,
occupato altrove, distratto.

                *
               * *

Infine egli aveva molto amato: e molto era stato amato. Ma non era
stato corrisposto mai: e mai aveva corrisposto. Non è curioso, ciò?
Forse, non è neppure curioso.



  _Si è pubblicato_:

  Luigi Capuana _La Sfinge_---Un volume
  in 16°                                       L. 2.50

  Laura Gropallo _In hora mortis_--Un
  volume in 16° di pag. 263.                      3.50

  Luciano Zùccoli--_Roberta_--Romanzo.
  Elegante volume in 16°                          3.50

  Pompeo Bettini--Poesie. Un volume
  diamante                                        2.--

  _In preparazione_:

  Teresah--_Il campo delle ortiche_--Poesie

  Domenico Oliva--_Note letterarie_

  Matilde Serao--_Il peccato_

  Jack la Bolina (A. V. VECCHI)--_Ricordi di fanciullezza_

  Luigi Capuana _Il braccialetto_

  E. A. Butti _L'apostata_



NOTA DI TRASCRIZIONE:

Nel racconto "L'Infedele" compare due volte il nome "Maria", ma in
entrambe il contesto richiderebbe il nome "Luisa". Non è stato
corretto.

I seguenti refusi sono stati corretti:


  Per lo più, quando è infelice regge ad essere infelice, egli fugge, e
  si nasconde non si [nell'originale manca "sa"] dove.   (P. 9)

  Luisa Cima ha ventisei anni. E piccola di statura, minuta di linee ma
  non troppo scarna:   (P. 21)

  Sta più volentiri sul mare che sulla montagna.   (P. 42)

  ha voluto attribuirle un desiderio d'ideale, combattuto dalla sua
  vità: ha creduto che ella tenesse a redimersi.   (P. 45)

  Pietà dell'uomo sono per la personcina malatticia, della porsona forte
  per l'essere debole,   (P. 52)

  Del resto, non aveva ella raragione, innanzi alla ragione, di agire
  così?   (P. 70)

  La sua illusiose talvolta, si prestava a miraggi incredibili.   (P. 85)

  ma una volontà fuori di lui, almeno egli credeva fuori di lui, la
  teneva inchiodato, nella calante mattinata, di fronte a quel
  letto, (P. 127)

  --Si sono libero.   (P. 145)

  Ma qualunque paese sarà migliore di di questo   (P. 153)

  Tu hai potuto dimenticare, io ho ho potuto dimenticare. (P. 217)



  INDICE


  L'Infedele      Pag.  3
  Dissidio         »  177
  L'attesa         »  199
  Zig-Zag          »  219





*** End of this LibraryBlog Digital Book "L'infedele" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home