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Title: Tra cielo e terra
Author: Barrili, Anton Giulio, 1836-1908
Language: Italian
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                    TRA CIELO E TERRA.


[Illustrazione: Anton Giulio Barrili]



                    TRA CIELO E TERRA


                         ROMANZO

                           DI

                   ANTON GIULIO BARRILI

            NUOVA EDIZIONE RIVEDUTA DALL'AUTORE

                         MILANO

                 FRATELLI TREVES, EDITORI

                          1907


                  Proprietà letteraria.



OPERE di A. G. BARRILI.


  _Capitan Dodèro_ (1865). 13.ª ediz.                       L. 1 --

  _Santa Cecilia_ (1866). 11.ª ediz.                           1 --

  _Il libro nero_ (1868). 4.ª ediz.                            2 --

  _I Rossi e i Neri_ (1870). 8.ª ediz. (2 vol.)                2 --

  _Le confessioni di Fra Gualberto_ (1875). 13.ª ediz.         1 --

  _Val d'olivi_ (1873). 18.ª edizione                          1 --

  _Semiramide_, racconto babilonese (1873). 9.ª ediz.          1 --

  _La notte del commendatore_ (1875). 2.ª ediz.                4 --

  _Castel Gavone_ (1875). 10.ª ediz.                           1 --

  _Come un sogno_ (1875). 26.ª ediz.                           1 --

  _Cuor di ferro e cuor d'oro_ (1877). 18.ª ediz. (2 vol.)     2 --

  _Tizio Caio Sempronio_ (1877). 2.ª ediz.                     3 50

  _L'olmo e l'edera_ (1877). 20.ª ediz.                        1 --

  _Diana degli Embriaci_ (1877). 2.ª ediz.                     3 --

  _La conquista d'Alessandro_ (1879). 2.ª ediz.                4 --

  _Il tesoro di Golconda_ (1879). 12.ª ediz.                   1 --

  _Il merlo bianco_ (1879). 2.ª ediz.                          3 50

    --Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz.                    5 --

  _La donna di picche_ (1880). 6.ª ediz.                       1 --

  _L'undecimo comandamento_ (1881). 13.ª ediz.                 1 --

  _Il ritratto del Diavolo_ (1882). 4.ª ediz.                  1 --

  _Il biancospino_ (1882). 12.ª ediz.                          1 --

  _L'anello di Salomone_ (1883). 3.ª ediz.                     3 50

  _O tutto o nulla_ (1883). 2.ª ediz.                          3 50

  _Fior di Mughetto_ (1883). 4.ª ediz.                         3 50

  _Dalla Rupe_ (1884). 3.ª ediz.                               3 50

  _Il conte Rosso_ (1884). 3.ª ediz.                           3 50

  _Amori alla macchia_ (1884). 3.ª ediz.                       3 50

  _Monsù Tomè_ (1885). 3.ª ediz.                               3 50

  _Il lettore della principessa_ (1885). 3.ª ediz.             4 --

    --Edizione illustrata (1891)                               5 --

  _Victor Hugo_, discorso (1885)                               2 50

  _Casa Polidori_ (1886). 2.ª ediz.                            4 --

  _La Montanara_ (1886). 8.ª ediz.                             2 --

    --Edizione illustrata (1893)                               5 --

  _Uomini e bestie_ (1886). 3.ª ediz.                          1 --

  _Arrigo il Savio_ (1886). 3.ª ediz.                          1 --

  _La spada di fuoco_ (1887). 2.ª ediz.                        4 --

  _Il giudizio di Dio_ (1887)                                  4 --

  _Il Dantino_ (1888). 3.ª ediz.                               1 --

  _La signora Àutari_ (1888). 3.ª ediz.                        1 --

  _La Sirena_ (1889) 5.ª ediz.                                 1 --

  _Scudi e corone_ (1890). 2.ª ediz.                           4 --

  _Amori antichi_ (1890). 2.ª ediz.                            4 --

  _Rosa di Gerico_ (1891). 3.ª ediz.                           1 --

  _La bella Graziana_ (1892). 2.ª ediz.                        3 50

    --Edizione illustrata (1893)                               3 50

  _Le due Beatrici_ (1892) 5.ª ediz.                           1 --

  _Terra Vergine_ (1892). 5.ª ediz.                            1 --

  _I figli del cielo_ (1893) 5.ª ediz.                         1 --

  _La Castellana_ (1894). 2.ª ediz.                            3 50

  _Tra Cielo e Terra_ (1894). Nuova edizione riveduta
  dall'autore (1907)                                           3 50

  _Fior d'oro_ (1895). 4.ª ediz.                               1 --

  _Il Prato Maledetto_ (1895)                                  3 50

  _Galatea_ (1896). 7.ª ediz.                                  1 --

  _Diamante nero_ (1897) 3.ª ediz.                             1 --

  _Raggio di Dio_ (1899). 4.ª ediz.                            1 --

  _Il Ponte del Paradiso_ (1904). 2.º migliaio                3 50

         *       *       *       *       *

  _Lutezia_ (1878). 2.ª ediz.                                  2 --

  _Con Garibaldi, alle porte di Roma_, ricordi (1895)          4 --

  _Sorrisi di gioventù_ (1898) 2.ª ediz.                       3 --

  _Zio Cesare_, commedia in cinque atti (1888)                 1 20



A FRANCESCO BERLINGIERI


Venendo a Te, per dedicarti il mio libro, penso ad una tua bella
fantasia giovanile, «Un frate che minia la _Divina Commedia_»; povero
frate che tu hai lasciato senza compagni, mutando il suo buon codice
membranaceo nei codici moderni del patrio diritto; povero frate, per cui
l'arte aveva ancora «sorrisi e fascini», ma più assai la giovane natura,
parlante a lui l'onnipossente linguaggio da quelle stesse pagine ch'egli
andava infiorando con le belle immagini fantasiose, ridenti d'italica
primavera al genio di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese. Deposti i
pennelli, poggiata la faccia sulla palma della mano, pensa il povero
frate, con gli occhi rivolti al poema del profugo Fiorentino «a cui
temprâr l'ingegno--e l'amore e lo sdegno». O frate, tu gli hai detto,
ammonendolo:

    O frate, a lui l'esilio
      E le pugne dell'alma:
      A te l'obblìo degli uomini
      E la cristiana calma.
      Perchè t'alzi a colloquio
      Col Ghibellin? tu piega
      La queta fronte, e prega.

Ma sì, tardi consigli, come sono su per giù tutti i consigli
dell'esperienza! Il male è fatto: il tuo monaco ha riletto dianzi quel
diabolico canto V dell'_Inferno_, donde scoppia tanta passione umana, e
dilaga e straripa. Quei due maravigliosi dannati raccontano anche così
bene!

    Per più fiate gli occhi ci sospinse
      Quella lettura e scolorocci il viso:
      Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Povero frate! Satana gli ha dato l'esca. Che ardori nel suo sangue! che
visioni nella sua cella! I giorni felici si ripresentano alla sua mente,
con immagini e fragranze di baci; la gioventù lo chiama, la terra lo
invita; il rimorso lo turba, e il cielo dimenticato un istante gli
ridipinge agli occhi la scena terribile dei sicuri castighi. No, non più
affetti terreni, non ribellioni, non fughe.

    Dio, mi salva dal dèmone
      Che tutto mi possiede!
      Di macere vigilie
      Rinforzerò la fede.
      Nè più profane pagine
      Avran su me l'impero!
      Io minierò il Saltero.

L'uomo antico era ricomparso tra le mortificazioni dell'asceta; ma
l'asceta ha riconosciuto il tentatore, ha resistito, ha vinto. Così tu,
fantasticando davanti alle rovine di un vecchio convento, che l'anima
tua ripopolava «di larve incappucciate», hai rievocato un momento tipico
della vita passata, o, per dire più veramente, hai intravveduto nella
vita passata un lampo della coscienza eterna, dell'eterno dissidio e del
vincolo eterno tra la terra ed il cielo.

Ho il mio frate ancor io. Non minia, pur troppo: parla il linguaggio
aspro e nondimeno attraente che molti ascoltano tuttavia, che molti
ascolteranno ancora dopo di noi, perchè tra forme mortali e transitorie
reca sempre la nota della immortale verità non mai intieramente
chiarita, della immortale domanda non mai pienamente soddisfatta. Egli è
voce e coscienza d'una religione storica, che in mezzo a tante cure
mondane onde fu troppo infrascata nei secoli scorsi ed è ancora afflitta
nel nostro, è pur bastata a dare un corpo di dottrine morali purissime,
suggellate dal bel principio in uno stupendo esemplare di dolcezza e di
grazia, di virtù, di mansuetudine, di sacrifizio sublime, parlante dalla
montagna al popolo di Tiberiade, disputante coi dottori della legge nel
tempio di Gerusalemme, odiato ugualmente da Scribi e da Farisei (specie
non morta ancora), ugualmente franteso da Giudei e da Romani, dagli uni
e dagli altri condannato nella doppia sentenza del sinedrio e del
pretorio, epicamente grande nel supplizio del Golgota, redivivo e
trionfante nella fede degli umili come promessa infallibile di
ricompense celesti, presente in ispirito e in verità dovunque si
soffre, dovunque si procede, dovunque si spera di giungere ad una meta,
commensale divino degl'infelici, rompente con paterno amore ai
pellegrini di Emaus quel pane quotidiano, che a tanti figli d'Adamo
sèguita sempre a mancare. Triste cosa, non è vero? e si può bene
rimpiangere che i seguaci si siano allontanati di tanto dall'esemplare
maraviglioso; riuscendo agli onori del trionfo per collegarsi tosto a
mutua difesa coi potenti della terra; non dando ai miseri altro aiuto
fuor che di buone parole; sognando per sè l'impero del mondo, ed
ottenendo per via da tutti i monarchi, alternamente combattuti e
favoriti, uno scampolo di territorio per le loro famiglie, nella patria
divisa, assoggettata e tradita. Ma gli errori degli uomini nel corso dei
secoli, ed oggi le ineluttabili ragioni della difesa civile, non ci
faranno dimenticare il buon principio essenziale di quella religione,
che ha pure educato nei cuori il sentimento del divino, prendendolo
ovunque le fu dato rintracciarlo, germe prezioso e fecondo, tra la
scoria delle superstizioni volgari e tra le perle della filosofia
antica, tra i dubbî della scuola e gli stupori della piazza, tra i
foschi terrori e le serene speranze di settantaquattro generazioni. E
chi sa? l'istesso mio frate, un po' incalzato e stretto al muro da chi
avesse avuto più tempo per ciò, si sarebbe licenziato a parlare più
liberamente che non solesse fare dal pergamo ai fedeli cristiani di San
Giorgio. Credete in Dio, avrebbe detto, credete in un Dio giusto e
buono, come causa prima dell'universo; osservate la legge morale,
com'ella per volontà di lui si è rivelata alle genti: praticato il
rispetto, l'amore, la carità nel mondo, e lasciate al tempo la cura del
resto. Molte foglie cadono ogni autunno dall'albero; molti rami secchi
al peso delle nevi invernali, all'azione dei geli, al soffio della
tramontana si spezzano: ciò che è vitale, vivrà.

Il mio frate non minia, ti ho detto; nè io son riuscito a miniar lui con
arte degna del tema. L'ho tirato giù alla grossa, ma vedendolo bene; e
penso che questo si debba sentire da tutti coloro che lo vedranno
apparire a suo tempo, nel corso di queste pagine, viva figura di
combattente, o larva di promessi rimorsi per due povere creature
condotte dal destino all'aspro dissidio tra la passione e il dovere, tra
la natura obbedita e la legge violata. Intorno alle quali cose, io credo
che il mio pensiero, essendo chiarissimo, non si possa frantendere nè
falsare da uomini di parte, credenti o miscredenti che vogliano essere:
ma certo non sarà male renderlo più evidente colla giunta di poche altre
considerazioni.

La società moderna, per giudizio di alcuni, va bene abbastanza, volgendo
apertamente ed infallibilmente al meglio, alla liberazione, alla
certezza, alla luce. Non tanto sfoggio di sostantivi, mi raccomando.
Spero anch'io che volgerà al meglio, se per merito di qualche evento
prodigioso le capiterà di rimettersi in gambe: per ora mi sembra che
zoppichi; e guai se lo zoppo fa a correre; vuol esser tombola, non ti
pare? La grande rottura, avvenuta da un pezzo, e di questi tempi
condotta agli estremi, tra la scienza e la fede, ha tra parecchi buoni
effetti il cattivo di lasciar la morale senza guida, senza sostegno, in
un momento sociale che più avremmo bisogno di lei; mentre le
moltitudini, felicemente sciolte da tanti vincoli molesti, sentono più
vivo il gusto della libertà e lo estendono volentieri a tutti i
godimenti dell'essere; mentre tutti gli accorti, segnatamente i meglio
provveduti, i meglio collocati nel mare magno della vita, dopo aver
tremato un pochino di certe raffiche minacciose, si rassegnano alla
burrasca, vogando alla galeotta e ripetendo tra sè il motto infame di
Luigi XV: «_après moi le déluge_»; mentre lo stesso fondamento della
società, che è la famiglia, non ha più un medesimo pensiero, un medesimo
criterio, un medesimo istinto, per tutte le persone che la compongono.
Nel modo di vivere, di sentire, d'intendere, di curare la conservazione
delle tradizioni, degli averi, delle virtù private e domestiche,
principio delle pubbliche e civili, noi non sembriamo già più i figli
dei nostri padri: gran soluzione di continuità, che dovrebbe farci
pensare! Così la famiglia si disunisce, un po' per debolezza sua, molto
per colpa de' suoi capi, che non l'hanno più per santuario, come gente
civile, ma per rifugio, come selvaggi primitivi. L'uomo va per un verso,
e la donna per l'altro, secondo gli umori, i gusti, le vanità; crescano
i figli come vogliono e possono; e padri e madri e figliuoli con molti
bisogni, perchè con molti appetiti; senza ideali, perchè senz'ombra
d'idee.

Restaurare nel civile consorzio il senso morale parrà necessario a chi
pensa; e necessario veder cominciare la restaurazione dai capi, dai capi
della famiglia, dai capi della società, donde l'autorità deriva, donde
gli esempi si spargono. Ma noi non faremo niente senza virtù private,
senza idealità che le informino, scaldandone la buona semente nei cuori.
Tanto io credo, «e creder credo il vero». Per ritornare al libro che ti
offro, esso sarà giudicato come vorrà essere; anzi diciamo pure,
pronosticando, che non sarà giudicato affatto. Viviamo in un paese di
gente savia e prudente, che aspetta di fuori sentenze ed oracoli, mode,
predizioni del tempo ed almanacchi. Mi preme soltanto che il libro sia
sentito da coloro che lo leggeranno. Da ventimila, dice l'amico editore,
sperando: da venti, dico io, già molto ambizioso, se penso ai
venticinque di cui si contentava il Manzoni: nel fatto, levando tutti
gli zeri, me ne bastano due.

Eravamo in due all'Acqua Novella, te ne rammenti? C'è là, in un angolo
felice della nostra Liguria occidentale, il più antico e il più recente
mio ricordo campestre. Vidi da bambino ed amai quella voltata in discesa
dalla balza di Bergeggi a Spotorno, con le rovine dell'èremo di
Sant'Antonino, piantato nel vivo della rupe ferrigna, sotto i ciuffi
degli arbusti che gli fanno ombra dal ciglio sfaldato del gran masso
imminente. Era allora il mio sogno d'essere il padrone dell'èremo, di
restaurarlo, di farmi frate là dentro, frate di un ordine mio, molto
benedettino per la copia dei libri, molto templario per la quantità dei
conversi; gaudenti essi della vita materiale, gaudente io della felicità
intellettuale, in quella grata solitudine, difesa dai venti freddi, con
quel lembo di cielo opalino, con quella lista di mare turchino davanti,
dimenticando tutto l'altro dello spazio e del tempo, ignorando l'ora
degli altri, aspettando la mia senza troppo curarmene. Veramente,
l'orologio non era lontano; orologio solare, sul terrazzo di una casa
verdognola, trecento passi più in là, nel bel mezzo di un orto; con
quella sua leggenda: «_ultima necat_» che fu la prima frase latina
capitata davanti a' miei occhi, e che mi dava sempre tanto da pensare,
tutte le volte che passavo da quelle parti. Quando fui in grado da
intenderla, amai compirne l'idea, premettendole un «_vulnerant omnes_».
Ma per allora non era il caso di filosofarci su; ed io non filosofavo,
sentendo il desiderio di quella pace, sognandola tutta per me.

Era un sogno, e finì come finiscono i sogni. Ma i bei sogni si ricordano
volentieri; ed io più volentieri l'ho ricordato, tornando or non è molto
con te alla tua bella Spotorno, bianca lucente sulla spiaggia lunga, tra
la voltata di Bergeggi e il monte Orsini, aspra guardia di Noli. Ad un
certo punto, e di comune accordo, abbiamo fatta fermar la carrozza; io
per contemplare il mio èremo, tu per farmi bere un sorso della fontana
lì presso, l'Acqua Novella, zampillante da una gran vasca quadrata, sul
margine della strada maestra. O acqua ben nomata, veramente fresca,
ristoratrice e pura, come tutte le cose novelle! Io non sogno più
solamente il mio vecchio èremo e la mia vecchia meridiana; sogno ancora
l'Acqua Novella e quel buon tratto di strada quieta, che abbiamo fatta a
piedi con tanta allegrezza, mentre i cavalli ci seguitavano al passo. E
penso ancora, nel mio sogno, che l'uomo più felice della terra debba
essere un certo guardiano di strada ferrata, che ha il suo casotto in
quelle vicinanze, col suo orticello, i suoi fagiuoli e il suo gran fico
brogiotto, accanto allo sbocco della galleria di Bergeggi. Poveraccio! e
forse egli sogna a sua volta un trasloco, una promozione, che lo sbalzi
guardia eccentrica o guardia di sala in qualche stazione importante,
donde gli sia facile di mandare a scuola le quattro o cinque creaturine
che senza fatica, quasi senza un pensiero al mondo, gli sono rampollate
là dentro.

Son tutti così, i miei bravi cantonieri di strada ferrata. Ricordo
ancora quello di Varigotti, conosciuto tanti anni fa. Aveva anche lui
una bella fontana daccanto, anzi una vera cascata d'acqua, che piombava
dalla balza rossastra, sotto la chiesuola abbandonata di San Lorenzo;
aveva un orticello, con pèschi, fichi e fagiuoli, ch'erano una
maraviglia a vederli; aveva il gran mare turchino davanti, e
tutt'intorno, da ogni piega del terreno, da ogni borro, da ogni
fenditura della rupe, occhieggiavano a lui tra lucide foglie di smeraldo
i bei limoni dal color dell'oro. Per esser felice, non gli mancava
neanche una moglie, giovanissima, bella e savia, amante del lavoro e di
lui. Ma quello ci aveva il mal del paese; voleva lasciare quel sorriso
di cielo e di mare, quel profumo, quel tepore, quella gloria, per
ritornarsene al suo nido natale, o non troppo discosto, tra Bussoleno e
Modane, sotto le Alpi nevose, a sentir cantare gli aquiloni e scrosciar
le valanghe. Barattava male, e non fu difficile contentarlo. Sarà
felice, ora? Ah, penso che Gabriello Chiabrera fu ben ispirato, il
giorno che sul portone della sua casa fece scolpir l'oraziano: «_Nihil
est ab omni parte beatum_».

Ma se una felicità compiuta non si ritrova in nessun luogo, neanche là
dove io l'avevo sognata, bene mi sarà lecito di desiderare che la vita
sia più ricca d'ideale, e che un'acqua novella, se pure non ci si debba
vivere accanto con oraziana serenità, rinfreschi e purifichi le nuove
generazioni; che il sentimento del divino, ingenito nella coscienza
umana, si accordi un giorno colla critica non più arrogante di facili
dispregi, colla scienza non più infatuata di sollecite deduzioni, e
venga in buon punto a rinvigorire di nuovi succhi la povera morale
intristita. Questo è il mio sogno dell'età matura, e credo che questo
sia pure il tuo. Tu hai, a buon conto, una famiglia nata di te; vuoi che
abbia i tuoi stessi ideali, riflettendo alcun che di quelli che tu
stesso derivi dai tuoi vecchi; ai quali con animo reverente mando un
augurio e un saluto filiale ancor io.

Comunque esso sia riuscito per l'arte, il mio libro è morale. Non già
come un trattato; credo anzi che ci corra molt'acqua, e tutt'altro che
novella, di mezzo. Ma esso è morale, nondimeno, come può essere tale un
romanzo; cioè a dire una rappresentazione della vita reale, aspersa
d'una certa idealità, che è poi la nota personale fatalmente recata
dall'artista nella cosa veduta, nella cosa sentita ed espressa.

Ritorneremo col bel tempo all'Acqua Novella e al vecchio èremo
diroccato. Tu ama intanto il tuo

                              ANTON GIULIO BARRILI.



TRA CIELO E TERRA



CAPITOLO PRIMO.

Addio, bel mare!


Gli avevano fatta un'ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a
mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la
via gerarchica, s'intende; e il capo del suo dipartimento marittimo,
alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio
di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla
cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott'ore
dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso
alla lettera.

Tra gli uguali, qualche amico sincero aveva tentato dissuaderlo,
arrischiandosi a dirgli che commetteva un errore; ma egli non aveva
voluto convenirne. Altri gli dicevano: «Fai bene; è stata
un'ingiustizia; le ingiustizie non si sopportano». Ed egli rispondeva
con un vivo cenno di assenso, quasi di ringraziamento, come uno che si
senta compreso, congedandosi con una poderosa stretta di mano da tutti
quei vecchi compagni, ai quali lasciava un gradino vuoto su quella scala
di Giacobbe che conduce al paradiso del viceammiragliato.

Era sicuro del fatto suo; la risoluzione gli pareva buona, per il caso
presente e per i casi futuri. Infatti, che cosa sperare da quel
ministro, che era stato suo comandante in una memorabile crociera e che
aveva mostrato in parecchie occasioni di non poterlo soffrire? Effetto
di una ruggine antica, per una manovra fatta da lui, di suo capo, che il
comandante non aveva ordinata, che anzi aveva biasimata. Un po' troppo
presto, per altro: lo scandaglio, la mattina dopo, aveva dimostrato a
tutti che seguendo ciecamente gli ordini del comandante si sarebbe
rimasti incagliati. Quattro palmi di sàgola avevano dato ragione
all'inferiore; e il superiore se l'era legata al dito, quantunque
l'inferiore si fosse studiato con ogni maggior cura di non lasciar
trasparire il sentimento della propria superiorità. Una promozione, dopo
quel giorno malaugurato, era venuta per tutt'e due, l'uno giungendo al
grado di tenente di vascello, l'altro al grado di contrammiraglio. Due
anni ancora, e il contrammiraglio diventava ministro. Il ministro si era
slegato finalmente il dito, saltando nelle prime promozioni il tenente
di vascello.

Lagnarsi? È presto detto. In che modo? Aspettare che cascasse il
ministro; sì, fra due o tre anni, e intanto divorarsi l'affronto. No,
niente aspettare; perciò aveva mandata la sua dimissione. Cosa
amaramente spiacevole per lui, quanto edificante per tutti, la sua
dimissione era stata accettata a volo. Brutto momento, vedersi così di
punto in bianco fuori dell'uscio! Ma c'è «la buona compagnia che l'uom
francheggia»; e questa, nei brutti momenti, consola.

Ahimè, non del tutto. A lui una pena sorda restava nel profondo
dell'essere. Amava il mare; il bel mare, così pieno di misteri, così
magnifico nella collera, così augusto nella calma, che pare abbia
un'anima, e grande, meravigliosamente grande, grande almeno sei volte
quella dell'umanità tutta quanta; il buon mare che mette in comunione
tutte le creature viventi, assai più ed assai meglio che non facciano
tante strade ferrate e tanti telegrafi. In questi dotti congegni c'è
sempre l'arte di un mondo piccino, piccino come tutte le trovate degli
uomini; c'è sempre l'idea di sentirsi passare in una cruna d'ago,
assottigliati, stiacciati, tanagliati dagli attriti continui del passo.
E poi, che cosa sono le invenzioni dell'uomo, ristrette ad un solo
ufficio, ordinate ad una sola utilità, in confronto di quella superficie
azzurra, pianura liquida e senza solco, che palpita e porta, mobile,
gloriosa e superba, che dà moto e gioia a tanti organismi animati,
colore agli occhi, calore agli spiriti, essendo ad un tempo la via e la
vita?

Tutto è nuovo su quella via, l'abbiate pure cento volte percorsa; ve la
fanno parer sempre nuova i mille diversi aspetti delle cose, nella
vastità sconfinata degli orizzonti, nella infinita varietà delle tinte,
mezze tinte e sfumature, dell'aria e dell'acqua. Il punto a cui volgete
la prora è di giorno una striscia di azzurro, di grigio, di roseo,
sull'ultimo lembo del mare, una striscia tenue che non vi offre il
colore stridente nè i contorni aspri del vero; nella notte, poi, è un
punto di fuoco, che getta sulle acque un raggio luminoso; più spesso, e
di giorno e di notte, è l'invisibile, il nulla, ma con la sublime
certezza di vedere, di trovar qualche cosa, al momento prefisso, sulla
via che vi dimostrano le stelle, che vi traccia infallibilmente un
computo aritmetico. E intanto il lontano fa pensare; l'occhio intravvede
l'infinito; l'anima sente Dio; nè ci sono professori di calcolo per
rimpicciolirvi quello con la figura di un otto coricato, nè filosofi del
malanno per dirvi che questo è un sogno, una idiosincrasia naturale, una
concrezione storica del vostro pensiero.

Con che ansia, adolescente allievo del collegio di marina, aveva
aspettato il giorno del suo primo imbarco! Con che passione aveva fatto
il suo primo viaggio, quindici anni addietro! Lo aveva sentito cantare e
sospirare, fremere, urlare e ruggire, quel mostro immane dai grandi
occhi verdi e dal dorso di spume! E lo aveva ammirato nella molteplicità
degli aspetti, soavi e terribili, graziosi e feroci, sempre nuovi e
stupendi; lo aveva amato nella salubre vivezza delle fragranze, nella
dolce giocondità dei ritmici cullamenti. E dopo tante ammirazioni, dopo
tanti amori, lo aveva lasciato! Ma sì, che volete? gli avevano fatta
un'ingiustizia. Le ingiustizie non si sopportano, o si mostra di averle
meritate; nel qual caso non sono più ingiustizie, ne convenite? Triste
cosa, per altro! Aveva sempre sognato una guerra, da far le sue prove
anche lui, da onorare l'Italia, questa lunga penisola che pare una gran
nave imbozzata attraverso il Mediterraneo, e che non dovrebbe starci,
perdio, come un pontone, come una fregata in disarmo. Quella guerra non
l'aveva certamente invocata; il valoroso non invoca i pericoli, che non
sono solamente per sè, ma per tutti; li aspetta, e si prepara ad
affrontarli.

Aspettando la guerra, preparandosi a quella, il soldato serve la patria.
E perchè non l'aspettava egli ancora, passando sopra ad una cattiveria
di ministro? Infine, gli uomini passano, la patria resta. Verissimo,
questo; ma è verissimo ugualmente che son tutte parole. La patria che
resta è sorda, cieca e muta; non vi sente, non vi vede, non vi conforta
per nulla, non vi consola affatto, non vi vendica di quell'altra che
passa, agitandosi intorno a voi, standovi sotto, accanto e sopra, che vi
giudica senza criterio, ammirandovi di fuga quando il caso dà a voi di
far bene e a lei di non poter fare altrimenti, disprezzandovi quando ne
può avere un pretesto, deridendovi spesso e volentieri, ne abbia o non
ne abbia ragione, solo che si presenti un appiglio. La patria grande, la
vera, dopo tutto, si serve con dignità. Levate la dignità al soldato, e
non gli resta più nulla; c'è la morte nell'anima, e il servire è
vergogna.

Per altro, non credeva di dover tanto soffrire, obbedendo alla voce
della propria coscienza. Fu una triste giornata quella in cui gli
annunziarono che la dimissione del tenente Sospello era stata accettata.
Ah, non voleva stare neanche un giorno alla berlina delle condoglianze.
Le sue valigie erano fatte, in attesa dell'evento. Se ne andava subito
subito; e lontano, molto lontano dal mare, che non voleva vedere mai
più. Alla terra de' suoi padri, alle Alpi, avrebbe chiesto il rifugio;
possedeva ancora una bicocca, lassù. Di vecchi non c'era più nessuno, ad
aspettarlo: restava una sorella maggiore, nobile e santa creatura, che
tant'anni prima avrebbe desiderato di chiudersi in un monastero, ma non
aveva osato farlo, per non lasciar solo del tutto il suo vecchio babbo.
Morto quello, non aveva potuto lasciar solo e vuoto il vecchio palazzo,
dove cinque generazioni di Sospelli di Vaussana erano passate, e dove
era naturale che ella restasse per custodire il posto alla settima, se
mai il fratello Maurizio si risolvesse di continuare la stirpe.

Buona e cara Albertina! Egli andava a farle compagnia nella triste
casa; e qual compagnia! Lei, fastidita del mondo anche prima di
conoscerlo, certamente per qualche intima ragione si era appartata a
quel modo, rinunziando alle gioie della vita; se pure la vita ne ha.
Anch'egli, vecchio scapolo, che aveva sognato d'impalmare la gloria,
offeso un giorno nella sua dignità, rinunziava a tutti i sogni di una
legittima ambizione, per andarsi a rinchiudere nella casa dei suoi
maggiori, come un povero alcione ferito va a posar l'ala sanguinolenta
sul nido abbandonato.

Maurizio aveva già scritto alla sorella, annunziandole la sua dimissione
come un proposito irrevocabile: ma egli non intendeva già d'impoltronire
nella sua bicocca montanina; non voleva finir cacciatore, nè giuocatore
beone, come tanti gentiluomini campagnuoli. Possedeva una ricca
libreria; l'avrebbe al bisogno accresciuta, per dedicarsi ad un'opera di
polso. Aveva sempre vagheggiato il pensiero di scrivere un libro delle
guerre marittime d'Italia, ma condotto con una certa larghezza di
disegno, da appagar tutti i gusti, da rispondere a tutti i bisogni
intellettuali, ordinato e preciso come una storia, vivo e animato come
un romanzo, il libro del marinaio italiano, il libro che mancava ancora,
per dare una idea chiara e compiuta delle antiche navigazioni e degli
antichi commerci, argomenti di emulazione e cause di guerra tra i
popoli; per descrivere i costumi marinareschi, le imprese audaci, le
trasformazioni successive della strategìa e della tattica navale nel
gran bacino mediterraneo. Certo, per condurre a termine un'opera come
quella, non gli sarebbero bastati i libri che possedeva. Ma il primo
anno lo avrebbe speso a tracciare il quadro; poi avrebbe veduto, si
sarebbe destreggiato via via secondo il bisogno, cercando altri libri,
viaggiando per città e biblioteche; ottima occasione per isgranchirsi,
per non fare la ruggine. Ed era ancora una bella vita per un uomo di
trentadue anni; e aveva tempo davanti a sè per colorire degnamente il
quadro ideato.

Il suo attendente, congedandosi da lui alla stazione di Spezia, gli
aveva dato il buon viaggio con le lagrime agli occhi.

--Grazie, Susini, e addio; siamo uomini;--gli rispose
Maurizio.--Scrivimi, se ti occorrerà qualche cosa; ed anche quando non
ti occorrerà nulla; riceverò sempre le tue lettere con molto piacere.

--E lei, signor tenente, non avrà mai bisogno di nulla, da un povero
marinaio?

--Sì, spesso sentirò che mi mancherai, bravo Susini. Intanto, ti prego,
appena sarà di ritorno, mi saluterai il _Duilio_.--

Aveva il cuor gonfio, il signor Maurizio, e incominciava a tremargli la
voce.

--Ah, signor tenente!--mormorò il marinaio, singhiozzando.--È stata una
grande ingiustizia.

--No, sai? t'inganni. Non si fanno ingiustizie, in servizio. Ci possono
essere degli equivoci, dei malintesi; ma ingiustizie no, mai;--replicò
il signor Maurizio, che aveva ancora la disciplina negli occhi e non
voleva finir la carriera dando lo scandalo di dir male o di lasciar dir
male dei superiori.--Se ti sembro commosso, pensa che ne ho qualche
ragione. Non si abbandona il mare senza uno schianto dell'anima. Un
giorno la sentirai anche tu, Susini mio, la nostalgia del mare.

--Io no, signor tenente, con sua licenza non avrò da sentirla. Non si
ricorda che sono della Maddalena?

--È vero, sì, e invecchierai vedendolo ogni giorno; e quando sarai morto
lo sentirai ancora da tutte le parti brontolare alla spiaggia; che bella
cosa!--concluse sospirando il tenente.--Ma senti, fischia la macchina, e
non vuol più saperne dei nostri discorsi. Qua la mano, mio vecchio, e
addio!--

Il treno si metteva in moto, e il marinaio ebbe appena il tempo di
baciare la mano che il suo tenente gli offriva per l'ultima volta.

--Non lo vuole ammettere;--borbottò egli, allontanandosi dal marciapiede
d'asfalto, come il treno fu scomparso nel buio della notte;--ma tutti lo
dicono a una voce: è stata un'ingiustizia. Per colpa di quei signori
laggiù, la marina italiana ha perso ancor uno dei suoi manovrieri. E
buono, poi, buono come il pane di Voltri; gentile come una ragazza di
quindici anni, che non gli si è sentito mai uscir di bocca una mala
parola, neanche nelle ore che scapperebbe la pazienza ai santi.--

La notte, senza lume di luna, era buia, e l'entrare del treno nelle
centomila gallerie delle Cinque Terre e l'uscirne non facevano divario
alla vista. Maurizio, nondimeno, sentiva il mare vicino, lo sentiva alle
acute fragranze e al romper dei marosi contro le rupi. Lo rivide
sull'alba, il vecchio amico brontolone; lo rivide di là dal monte di
Portofino, farsi a mano a mano più luminoso e più bello, a Recco, a
Nervi, a Genova, e giù giù per tutta la quieta Riviera di Ponente, dove
si aprono cinquanta seni azzurreggianti tra il verde, e su lembi sottili
di candide spiagge cinquanta paesi si distendono al sole. Quanti porti e
rade, e golfi e calanche, di cui Maurizio conosceva gli approdi! A
Genova era vissuto parecchi anni collegiale, e tante volte c'era tornato
ufficiale. Nella rada di Vado, ancoraggio sicuro, era andato una volta a
rifugio colla sua cannoniera, cacciato per due giorni da un fortunale di
libeccio. Quella costiera della Cornice tutta frastagliata da balze
ferrigne, coi suoi fondi di turchino carico listato di smeraldo e
sormontato di bianche creste spumose, come l'aveva in pratica! Ed era
sempre là, il suo mare, ad ogni uscita di galleria, il suo mare azzurro,
scintillante, superbo, il buon mare, il bel mare, a cui aveva tutto
sacrificato per tanti anni, perfino l'amore, il grande, il forte, il
supremo bisogno dei cuori.

Non aveva egli dunque amato mai? Sì, aveva amato, ed anche incominciando
per tempo; ma anche per tempo si era fermato. A quattordici anni aveva
preso una cotta famosa per una sua cuginetta, splendidissima e
formosissima bionda. Per moglie non sarebbe andata, avendo perfino un
anno o due più di lui: ma chi bada a queste differenze, quando cantano
gli anni adolescenti nel cuore? Quella stupenda creatura egli l'aveva
veduta da bambino, e avevano giuocato insieme a marito e moglie: il «te
ne rammenti?» era stato proferito con gusto al nuovo incontro, quando la
cuginetta era venuta coi parenti a Genova, per salutar lui collegiale
promosso agli esami finali e già presso all'imbarco desiderato. Ah, il
bel giuoco di cui si ricordavano ridendo, ed anche arrossendo un
pochino! Ma egli arrossiva anche d'un altro pensiero, che tanta bellezza
fiorente gli aveva fatto nascere subitamente nell'anima. Perchè non si
sarebbe ripigliata da senno quella condizione di marito e moglie che
nove anni prima si era stabilita per giuoco? Ed egli già stava
mulinando, in quei giorni di baldoria per le strade di Genova; studiava
il modo di girare la frase, per dire alla cuginetta: aspettami due o tre
anni, quanti i nostri parenti stimeranno che bastino, per.... Ma la
frase non gli veniva mai bene, come avrebbe voluto. E frattanto, una
domenica all'Acquasola, dov'erano andati a sentir la musica, quella
splendidissima e formosissima bionda che tutti ammiravano, gli aveva
detto di schianto:

--Sapete che non siete punto belli voi altri, con la vostra feluca?--

Il «voi altri» andava agli ufficiali di marina. Maurizio non era ancora
che un allievo, e non portava la feluca; ma l'avrebbe portata ben
presto, nelle circostanze solenni. Perciò s'impermalì un pochettino,
sentendo quella eresia, e guardò la cuginetta con aria di persona
offesa.

--Non siete belli, vi dico;--ribattè quell'altra, ridendogli ancora sul
muso;--e tu starai male, cugino Maurizio. Neanche si capisce, quel
vostro uniforme; non significa nulla. Perchè quella feluca nera, che non
si può tenere ben salda sulla testa, che vi scivola sempre indietro, con
uno di quei becchi d'anitra, in su, verso la luna, e l'altro in giù, che
vi piove sulle spalle? perchè quello spadino al fianco, che par uno
spiedo da infilzare i ranocchi? perchè quella coda di rondine, smilza
smilza, che va a cercarvi i polpacci? Non si capisce, ti ripeto, quel
vostro uniforme; non significa nulla.

--È quello a un dipresso di tutte le marinerie europee. Lo ha portato
Nelson, signorina.

--E lasciatelo a Nelson, e vestitevi da cristiani. Guarda laggiù,
quell'ussero di Piacenza. Che eleganza di vestiario! che armonia di
tinte! e che aria marziale!

--Ah sì, quello starebbe bene a bordo!--notò Maurizio, allungando le
labbra, con aria di sublime disprezzo.

--A bordo, non so;--ribattè la cugina, senza scomporsi.--Noi siamo in
terra; per la terra giudichiamo gli uomini.

--Dagli uniformi;--conchiuse Maurizio.

Erano rimasti grossi per tutto il tempo della passeggiata. Quel giorno
si separarono freddi. La notte, quando fu solo nel suo letticciuolo di
collegiale, Maurizio pianse a calde lagrime il suo bel sogno svanito; ma
con quelle lagrime gli si prosciugò la vena delle tenerezze. La cugina
era una civettuola e una sciocca, vana della sua bellezza, felice
d'esser guardata, e più fatta per godere gli omaggi della cavalleria che
quelli della marineria. Gli ultimi giorni che ella passò a Genova non
furono niente migliori. Maurizio era imbronciato, ed ella stette molto
sulla sua. Ella partì per Nizza con la famiglia, ed egli s'imbarcò per
il suo primo viaggio. Così finiva il romanzetto, a mala pena imbastito,
così l'amor suo a mala pena sbozzato. Del resto, quella splendidissima e
formosissima bionda, egli non aveva più avuto occasione di vederla.
Quattro anni dopo, essendo egli di stazione a Montevideo, gli giungeva
notizia che la cugina era andata a marito, passando anche a vivere in
Francia. Buona fortuna, e figli maschi.

Strano ragazzo, quel Maurizio! aveva giurato di non lasciarsi più
cogliere a certe lustre, ed era stato di parola: il primo amore era
anche l'ultimo. Parliamo del grande amore, s'intende, di quello che si
crede veramente l'amore, il forte, il solenne, il poema della vita.
Episodii, sì, ad ogni crociera, ad ogni viaggio sui mari lontani, ad
ogni fermata nei porti patrii: ma presto gliene era venuta la nausea.
Tutti giuochi, superficialità, scioccherie, quando non erano indegnità;
e queste e quelle erano poi sempre offese alla gran legge dell'universo.
«L'amore è un atto religioso» diceva egli volentieri, quando ne cadeva
il discorso cogli amici; «come atto religioso, non va preso a scherzo».
Ed egli era religioso, come è sempre nel fondo dell'anima il gentiluomo
di mare. Chi vive meno nel consorzio degli uomini vive più intimamente
con sè, e più spesso con Dio; con Dio, il cui spirito corre non visto
sull'acque, cavalca le nubi della tempesta, si libra sull'arco
dell'iride, si affaccia nella gloria del sole sorgente sull'oceano,
siede nella porpora accesa dal grande astro al tramonto.

Grandi cose, sul mare! Ed ora, abbandonato il vasto suo campo, sarebbe
tornato alle cose piccine. Ma sì, così portava la necessità. Lo avevano
voluto umiliare; aveva preferito spezzarsi. Non esagerava egli un poco?
Forse; ma era fatto così. Obbedire gli piaceva, ma all'intelligenza, o
alla probità che ne tien luogo, quando tra chi comanda e chi obbedisce
aleggia l'idea del dovere morale. Altrimenti no; e per non dar scandalo
brontolando, se ne andava via, spezzando la spada. Uno spiedo, dopo
tutto; non glielo aveva detto quella formosissima bionda? Ed anche
buttava la feluca a mare: galleggiasse a sua posta, e naufragasse al
primo scoglio. Lassù, nella quiete della sua bicocca solitaria, avrebbe
evocate le figure dei grandi ammiragli; buon metodo per dimenticare i
piccini.



CAPITOLO II.

Alla terra dei padri.


Maurizio di Vaussana cessò finalmente di vedersi il mare da fianco. Era
giunto alla stazione di Ventimiglia. Sceso dal treno, prese la via dei
monti, dopo aver fatte caricare le sue valigie in una vettura da nolo.
Quanto ai suoi bauli, aveva dato lo scontrino del bagaglio ai signori
Rolandi, buona gente, amici vecchi di casa sua, che s'incaricarono
volentieri di farglieli recapitare il giorno seguente a San Giorgio. E
la vettura si mosse, partì con alto fragore di ruote, tintinnìo di
sonagliere e scoppiettìo di frusta nell'aria polverosa, ma soprattutto
con la gloriosa velocità di tutte le vetture da nolo, quando
incominciano la corsa.

--Sentirai la nostalgia del mare anche tu--aveva detto il tenente
Maurizio al marinaio Susini. Per intanto, non doveva sentirla lui così
presto. L'aria fine dei monti natali carezzava le guance del
viaggiatore, ancora dorate dai soli africani. Quante balze conosciute
gli occhieggiavano dall'alto, lungo la via serpeggiante! Le eriche, i
pini, i ginepri, i roveri, i lecci, tutti conosceva Maurizio, a tutti
sorrideva, come ad una brigata di vecchi amici, ritrovati dopo tanti
anni di assenza. Ad una certa voltata ci doveva essere una macchia di
fràssini, nascosta dietro il ciglio d'un poggio. I suoi ricordi non lo
avevano tradito: vide, riconobbe i suoi fràssini, non molto cresciuti da
quelli di prima, sempre eleganti, svelti, pieghevoli, che stendevano
verso la strada i rami sottili, vestiti di foglie tenere, luccicanti al
sole pomeridiano. E le ginestre del pian del Termine? Il piano, per
fallire al suo nome, era una eminenza, e finiva in un dirupo; ma le
ginestre erano sempre là, facendo siepe al ciglione, contente del
galestro in cui avevano messo radice, portando fieramente levati i loro
pennacchi verdi cupi, in attesa di vestirne le vette con tanti bei
grappoli di quei fiori gialli che ogni anno solevano dare (o lasciarsi
prendere, che è tutt'uno) per l'infiorata del _Corpus domini_, nel
paesello di San Giorgio.

Alla vista di quelle ginestre, uno strano sentimento lo prese; un vivo e
pungente ricordo, un aspro, impaziente desiderio di quelle feste
lontane, di quelle solenni riconciliazioni con Dio che la Chiesa ha
seminate accortamente lungo il corso dell'anno; tutti giorni a cui
corrispondono fragranze e suoni ed immagini particolari, vapori
d'incenso, frescura di cose tenere e dolci, sorrisi di cielo, suoni di
zufoli allegri, tagliati nelle cortecce dei rami di castagno, uccellini
gorgheggianti la canzone del natale divino dalle gravi canne di un
organo. Come tutti i sensi rivivevano in lui di gioconda vita infantile!
e quanta adolescenza gli veniva incontro da quelle gole ospitali!

Sei tu, non è vero? sei qua finalmente? Buon figliuolo di salda memoria,
vieni alla dimora dei padri. La vedi lassù, quella montagna, che appare
per la sua sommità, dietro a due ordini di colline? Ci vorrà ancora un
paio d'ore, prima di giungerci; frattanto si affaccia a noi, pare che
stia spiando il nostro arrivo, come una scolta di fortezza. Era lassù,
la ròcca dei tuoi antenati; quelli del ramo primogenito, estinto oramai,
il ramo dei Sospelli di Balma. Buon seme di forti castellani, rigidi al
dovere e così fermi alla consegna! Finirono, come tutto finisce; ora
dormono col Signore, in fila, l'un dopo l'altro, come guerrieri caduti
sul campo, al posto loro assegnato. Anche i Sospelli di Vaussana
rischiano di finire con te. Vieni, giovanotto; prendi il tuo posto
accanto alla tua squadra; mettiti in fila anche tu. Il mare è bello,
attraente, e perfido; la montagna è severa, ma sana e fedele. Questa è
la patria, salda, immobile, di granito; qui, dove le eriche e i rovi non
muoiono mai, aggavignati al terreno. Si succedono i virgulti, e son
sempre gli stessi. Senti il profumo agreste della macchia? È la stessa
virtù che si trasmette di generazione in generazione. Anche di lassù si
vede qualche volta, il tuo mare: son belle le cose vedute dall'alto, e
da una giusta distanza. La varietà dei particolari si perde, e la patria
grande, tanto più grande quanta più se ne abbraccia col pensiero,
trascurando la minutezza delle parti, si ama anche meglio. Quando c'è
bisogno di difenderla, quando ci chiama alle bandiere la voce del re, i
gentiluomini calano come falchi dalla rupe, seguiti dai loro
vassalli.... No, non più vassalli, ora: tutti fratelli in Dio e nella
patria; è più bello così, ci ravvicina meglio al Vangelo. E i forti, i
buoni, gli intelligenti, salgono sempre, dovunque sian nati, facendo
stipite di nuova grandezza. Chi era il bisnonno di Carlomagno? Pipino
d'Héristal. Ma chi il bisnonno di Pipino? un ignoto guerriero, un servo
di palazzo dei re Merovingi. Così tutti i degni, i valenti, i buoni,
posson salire; i fannulloni, i fiacchi, i cattivi, discendere. La
montagna resta, produce i suoi virgulti, i suoi fiori, i suoi frutti.
Tu, povera pianta, ritorni alla tua terra natale. Più presto che non ci
fosse dato sperare, in verità! È stata un'ingiustizia, tu dici; meglio
così. Partivi fidente, ritorni disingannato, ma anche educato dalla
sventura, agguerrito alle pugne dell'esistenza. Farai il tuo dovere,
qui, come altrove; servirai alla gran legge di Dio, che è progresso
infinito, dovunque si vada, di dovunque si muova.

Il paesello di San Giorgio incominciava ad apparire. Peccato che fosse
già tardi! Le ombre della sera cadono troppo rapidamente, nelle gole
delle Alpi. Ma nella scarsa luce del crepuscolo, i ceppi delle case
biancheggiavano ancora abbastanza: poi, quando la vettura fu all'entrata
del borgo, incominciavano ad accendersi i lampioni. Un po' radi, secondo
l'uso dei piccoli paesi e la poca «elasticità» dei bilanci comunali; ma
supplivano qua e là i lanternini appesi a qualche tabernacolo di santo,
negli angoli delle vie. A quella scarsa luce Maurizio vide i ciottoli
enormi onde era lastricata la strada maggiore; sempre quelli, con le
loro gibbosità, coi loro alti e bassi continui, sempre quelli,
eternamente rugosi e rossastri nella corteccia inattaccabile della
quarzite, che s'è arrotondata così, colorata così, nella mota millenaria
del periodo glaciale. Poveri cavalli, costretti a lavorare di zampe
ferrate in quel letto di torrente!

Ma ecco, finalmente, un po' di strada da cristiani; ecco il battuto
della piazza maggiore; ecco la chiesa, la parrocchiale di San Giorgio; e
più su, in capo ad una piazza, che scende larga in pendìo, la mèta del
suo viaggio, il suo palazzo, il «Castèu». Meritava il nome con cui era
stata battezzata, e sotto cui era comunemente riconosciuta, la vecchia
casa dei Sospelli di Vaussana; castello del Trecento, o giù di lì, con
la sua torre da un lato, con le sue logge alte al secondo piano,
fors'anche coi merli e le caditoie; restaurato quindi a palazzo
signorile, nel corso del Secento, gran colpevole un po' da per tutto di
simili trasformazioni architettoniche. E veramente allora erano state
chiuse le grandi finestre a sesto acuto, per ricavarne di più piccole, a
stipiti quadrati, nel mezzo; ma ancora da certe screpolature
s'indovinava l'alzata dell'arco primitivo, e da qualche sfaldatura
dell'intonaco ne trasparivano le elegantissime linee di cotto. Un nuovo
restauro, dei principii del secolo presente, aveva aggiunte le persiane;
ed erano queste, per l'appunto, che avevano persuaso il padre di
Maurizio di non appagare un desiderio della moglie, a cui sarebbe
piaciuto di veder ritornate alla luce e alla gloria antica le ogive del
Trecento.

--Cara mia,--le aveva detto il buon conte di Vaussana,--per contentare
il tuo gusto medievale bisognerebbe rinunziare a questa benedetta
invenzione delle persiane. Levate queste, ed anche ingrandite le
finestre, immagina tu come si starebbe freschi. Che idea, quella dei
nostri antenati, di voler morire dal freddo! È vero,--soggiungeva il
degno gentiluomo, temperando l'asprezza del suo troppo moderno
giudizio,--che gli antichi lo sentivano meno, il freddo; ed è forse per
questo che durarono tanto.--

Giaume, il vecchio castaldo dei Vaussana, aspettava Maurizio ai piedi
dell'erta, e fu il primo a dargli il bentornato. La sorella Albertina lo
accolse a braccia aperte, sulla soglia del portone; benedetto portone,
sormontato dallo scudo dei Sospelli, di rosso, al libro aperto
d'argento, caricato d'una spada in palo, del medesimo, col motto «_tout
droict Sospel_», continuo tema di pazze congetture agli eruditi
mandamentali.

La contessa Albertina aveva fatto preparare per suo fratello
l'appartamento dei vecchi al primo piano. Non era egli oramai il signore
del castello? Ma il nuovo arrivato, in omaggio ai ricordi, amò meglio di
ritornare nel quartierino della torre, in quelle due camerette che aveva
ancora occupate la notte prima di andare a Genova, per entrare nel
collegio di Marina. Si sentì giovane, anzi ragazzo, là dentro; e la
mattina seguente, aprendo gli occhi e rivedendo il suo nido alla luce
dell'aurora, gli parve di non essersi mosso mai da quel luogo. Tutte le
cose intorno a lui sorridevano, con quell'aria domestica che è data ai
mobili di casa dalla loro istessa vecchiaia. Maurizio stette un'ora
buona a guardar tutto attentamente, incominciando dal suo letto di legno
dipinto di celeste a fiorami; passando poi allo specchio dalla cornice
barocca indorata, con una luce di Venezia tutta sfiorita dagli anni, al
canapeino di legno, dipinto nello stile del letto, all'armadio, al
tavolino, alla piccola libreria, dov'erano ancora i suoi libri di
scuola.

Poco lontano di là, al secondo piano del palazzo, era una libreria ben
più ricca, quella del babbo, che era stata anche di due generazioni
anteriori: libri vecchi, ma in gran numero, quasi tutti di storia, e di
erudizione. Il fatto suo, non vi pare? Ed egli per l'appunto aveva
contato su ciò. Il suo primo pensiero fu di riordinare in quindici o
venti giorni quella libreria, da tanti anni dimenticata; avrebbe veduto
frattanto che cosa ci fosse di utile per sè, nella compilazione
dell'opera che aveva disegnato di scrivere. Voleva seguitare a dormire
nella sua cameretta di adolescente; l'attigua gli sarebbe servita come
spogliatoio; tutte le altre del secondo piano, che venivano in fila, le
voleva ridurre a stanze da lavoro, coi libri, le carte murali, gli
atlanti, e tutto l'altro che gli bisognasse.

Del resto, si stava molto bene lassù, con una vista impagabile. Dalla
finestra della sua camera da letto vedeva anche meglio la montagna
vicina, col castello della Balma, da cui lo separava una boscaglia tutta
nera e folta, assai pittoresca, ottima per andarci a passeggio
nell'estate, corsa com'era da sentieri solitarii e tagliata per mezzo da
una valletta, con una bella cascata, bianca come il latte, rumorosa come
il mare, quando viene a frangere in una caverna a fior d'acqua. La
chiamavano l'Aiga, e qualche volta anche la cascata del Martinetto. Egli
la sentiva per l'appunto rumoreggiare, come vent'anni addietro, quando
si addormentava alla sua nenia dolcemente monotona.

Albertina approvò tutti i disegni di Maurizio. Approvava ogni cosa,
felice di riavere il fratello, e di ritrovarlo lo stesso di prima, nel
modo di pensare, di sentire, di essere. Egli, del resto, era sempre
giovane. Lei, piuttosto, immutata nell'animo, era tutt'altra oramai
nell'aspetto, invecchiata parecchio, sebbene non avesse che un anno più
di lui. Ma le donne, si sa, invecchiano a star sole, più che non
facciano gli uomini. Ebbene, che importava ciò? Sarebbe stata anche
meglio una madre, per lui, con la precoce autorità delle rughe. Hanno
questo spirito di sacrifizio, le vecchie zittelle buone. Quanti fili
d'argento nei cappelli neri della contessa Albertina! Ma diritta ancora,
diritta sempre, come la spada in palo, nello scudo dei Sospelli; o
meglio, diritta come la propria coscienza, e sorridente, serena,
luminosa come una santa sull'altare.

Quella mattina, essendo giorno di festa, fratello e sorella uscirono
insieme, per andare alla chiesa. Maurizio vide per la strada e sulla
piazza maggiore molti visi maravigliati: ne riconobbe parecchi, e con
tutti andò subito all'abbordaggio. Non era mai stato superbo, e non
faceva consistere la nobiltà nella mutria. Erano compagni di scuola,
rimasti nel borgo, quasi tutti della classe media, tra povera ed agiata:
a vicenda agricoltori, industriali e meccanici, come spesso occorre nei
paesi di montagna; piccoli intelletti, nei quali la istruzione primaria
e la secondaria non avevano fatto miracoli, ma nei quali la educazione
sana e la vita ristretta agli esempi domestici avevano conservato ottimi
i cuori. Restavano naturalmente un po' timidi; ma la timidità rende gli
uomini facilmente più amabili. Tutti quei vecchi compagni di scuola e di
giuochi infantili erano tanto più amabili con Maurizio, in quanto che
niente era intervenuto a turbare la cortesia delle relazioni, niente ad
inasprire gli animi, fosse pure per una settimana, o solamente a
intiepidire le amicizie, come avviene pur troppo nella convivenza di
tutti i giorni, per gli attriti inevitabili dei piccoli interessi
offesi, o delle piccolissime questioni del comune, della fabbriceria,
dell'asilo. Furono tutti felici di stringer la mano al contino (così lo
chiamavano ancora, come lo avevano chiamato da ragazzo, vivente il
signor Vittorio suo padre); felicissimi quando seppero che era stanco
del servizio, che non lo avrebbe ripreso, e che sarebbe rimasto a lungo
tra loro.

La chiesa parrocchiale era bella, assai più bella dentro che fuori:
nuove le dorature, ed egualmente gli affreschi, frutto di risparmi
dell'opera, di limosine accumulate e di aiuti straordinarii di agiate
persone. Aveva un bellissimo altar maggiore, tutto di marmi incrostati a
fiorami di vario colore, imitanti un drappo di broccato antico. Quello
era stato un dono fatto cento cinquant'anni addietro alla chiesa da un
Sospello di Balma. In una cappella laterale, dentro una gran nicchia
protetta dalla sua invetriata, si vedeva una statua di san Giorgio a
cavallo, in atto di piantar l'asta nella gola spalancata del drago. Era
una statua da portare in processione il 24 di aprile, ricorrendo la
festa del santo onde aveva nome il paese; e quel buon saggio di scultura
nel legno, del primo ventennio del secolo decimono, era dono di un
Sospello di Vaussana, il nonno di Maurizio. In quella cappella, di
patronato della famiglia, aveva la sua panca la contessa Albertina, che
c'era infallantemente ogni giorno a pregare, un'ora nei giorni di
lavoro, due ore nei giorni di festa, e più, all'occorrenza, secondo la
durata degli uffizi divini. Quante preghiere! direte. Ma sì, è ben
necessario che qualcuno preghi per tutti coloro che ne han perso l'uso:
se poi non è necessario, pensate che il pregare della contessa Albertina
non ha mai fatto male a nessuno.

Sull'altar maggiore, di sopra al tabernacolo, sorgeva un gran crocifisso
di legno. Quel crocifisso era la maraviglia del paese. Si diceva, tra
quei terrazzani, che non ce ne fosse uno più bello al mondo, neanche a
Roma; e si soggiungeva che certi inglesi avessero offerto di pagarlo a
peso d'oro; la solita chiacchiera! Certo, era bello; più elegante che
vero, aveva sentenziato uno scultore verista, che era passato di là. Ci
si vedeva il modellato dell'Apollo del Belvedere, col risalto armonico
dei muscoli, con la giusta gentilezza delle membra, con la soave finezza
delle articolazioni; solo si notava negli occhi e nella bocca una
espressione di dolore, ma niente più di quella che occorre negli occhi e
nella bocca della Niobe di Scopa; non c'era insomma l'accasciamento di
un corpo rifinito dallo spasimo della morte, nè lo stiracchiamento delle
braccia, nè la torsione in avanti degli omeri, nè la uscita fuori di
squadra delle due scapole, come sarebbe stato necessario, con tanto
traboccare di una massa pesante.

Alle quali ragioni dottissime aveva risposto un collega della scuola
idealista, che nella rappresentazione dei tipi consacrati dalla
tradizione dell'arte bisogna dare la parte sua all'uso costante,
all'opinione ricevuta, al sentimento universale; che soprattutto non è
da far vedere un Dio morente nella medesima condizione statica di un
giovane facchino appiccato per due ore al giorno come modello nello
studio di uno scultore. Il vero, sì, ma non tutto il vero; altrimenti,
perchè non si crocifiggerebbe un uomo al giorno, per esporne con utilità
di sensazioni estetiche la ineffabile angoscia alle turbe? Quello è
infatti il vero, veramente vero. Ma ancora, in quel caso, si vedrebbe
che non tutti gli organismi umani si diportano ad un modo,
nell'atteggiamento della persona, nell'abbandono delle membra,
nell'espressione dell'agonia. Così nella parrocchiale di San Giorgio le
due scuole si erano bisticciate un tantino, ma persuadendosi ancora a
vicenda che si può esser bravi artisti e farsi onore con ogni scuola; e
avevano poi fatta all'insegna dei tre Re una pace temporanea, come la
faranno un giorno definitiva, alla consumazione dei secoli.

I piedi del crocifisso sparivano quella mattina sotto una gran fioritura
di rose, disposte a mazzo enorme, legato al tronco della croce. Belle
rose di ogni forma e d'ogni grandezza, chiuse ancora od aperte, d'ogni
profumo, d'ogni temperanza del rosso e dell'incarnato, del pavonazzo e
del cremisi, del salmonato e del giallo; davano tutte insieme a
quell'augusto morente l'aspetto di un trionfatore.

--Sei stata tu, non è vero?--bisbigliò Maurizio all'orecchio di sua
sorella, indicandole quel gran mazzo di rose.

--Sì,--rispose ella, arrossendo lievemente.--Sono di quelle che ha
piantate nostra madre. Il Castèu è sempre il primo ad averne; ed è stata
veramente una fortuna che ce ne fossero tante, per festeggiare il tuo
arrivo a casa.--

Maurizio si sentì scorrere una lagrima giù per le guance. Anch'egli,
come la sua buona sorella Albertina, vide nel presente il ricordo del
passato, e v'associò la promessa del futuro. Non voleva più andarsene da
San Giorgio; dalla terra alpina dove dormivano i suoi maggiori; dal
solitario Castèu, dove prima che altrove fiorivano così bene le rose.

Finita la messa, uscirono sulla piazza, per ritornare a casa;
lentamente, per non aver aria di fuggire, ed anche allungando un tantino
la strada, per abbondanza domenicale. Così videro sfilare in parata
tutto quanto il paese; e da ogni parte erano inchini, sberrettate,
scappellate, a cui bisognava rispondere. Maurizio notò sottovoce a sua
sorella di non essersi provveduto abbastanza, alla Spezia, portando
solamente due cappelli con sè.

--Aspetta la prima fiera;--gli rispose Albertina.--Ci saranno cappelli
d'ogni qualità: ed anche verrà la paglia di Nizza, che solevi ricordare
nelle tue lettere.

--Infatti, è strano;--esclamò Maurizio.--Non se ne trova più. E neanche
paglia di Firenze, che la somiglia tanto. La moda, la moda! è una gran
sciocchezza, la moda.--

Ma sua sorella non la intendeva così, quantunque alla moda sacrificasse
ben poco.

--Bada di non far la ruggine, Maurizio; e soprattutto non ti far vecchio
prima del tempo.--

Rideva, la buona zittella; e ridendo, diventava più giovane. Rispondeva
più ilare, più serena, più franca ai saluti che venivano d'ogni parte. A
San Giorgio sicuramente, da dieci anni almeno, non l'avevano più veduta
così.

--Vedrete che torna bella;--dicevano alcuni.

--Lo era tanto a vent'anni!--rispondevano altri.--Ce n'è rimasto qualche
poco, per far festa al signor Maurizio.

--Quello, poi, li ha sempre, vent'anni. E dovrebb'essere sui
trentacinque.

--No, non può averne che trentadue. Ricordate? è nato lo stesso giorno
del figlio di Misa Margoton.--

Misa Margoton, che serviva d'indice cronologico ai terrazzani di San
Giorgio, era una nizzarda, andata giovanissima lassù, a fare la
ciambellaia. Erano famose per tutta la Vaussana la ciambelle di Misa
Margoton, e facevano furori a tutte le fiere, a tutte le sagre dei
dintorni.

Alla svolta di una strada, la coppia fraterna s'incontrò ad angolo con
tre persone, di aspetto assai signorile, una donna e due uomini: uno di
statura giusta, piuttosto atticciato, con due gran baffi biondi
largamente brizzolati di bianco, di bell'aspetto, gli occhi cerulei, e
una faccia di color sanguigno che forse aiutava a levargli otto o dieci
dei sessant'anni che gli davano a prima giunta i suoi baffi; l'altro
d'aspetto grigio, alto e magro, con due gambe di ragno, figura pulita di
cavaliere malinconico; la donna giovane, elegantissima nella semplicità
del vestimento, biondi i capelli e rosea la guancia, come la regina
Isotta dei canti medievali.

Erano facce nuove per Maurizio, che pur dovette salutare, imitando la
sorella, in risposta al primo saluto del signore dai baffi
biancheggianti. Il quale, rinnovando il saluto, o piuttosto
appoggiandolo con un cenno del capo, si voltava ancora un tratto a
guardare, e sicuramente per veder meglio lui, che gli giungeva nuovo
egualmente.

--Villeggianti precoci!--disse Maurizio alla sorella.--Ma già, niente
maraviglia, se ci son già le rose al Castèu.

--Non villeggianti; vivono tutto l'anno a San Giorgio. Non conosci più i
proprietarii della Balma?--rispose Albertina, sospirando.

--Povera Balma!--ripigliò il giovane, che aveva colto a volo il
sospiro.--Ma non è dunque più dei Matignon della Bourdigue?

--Lo è sempre. E quel signore dei baffi bianchi è il generale, il
cadetto della famiglia.

--Come? come? il capitano, quello? così smilzo allora, e così biondo,
che lo chiamavano l'Arcangelo Gabriele?

--Lo hai lasciato capitano, biondo, smilzo, ed ora è complesso, bianco e
generale;--rispose Albertina, ridendo.--Pensa, caro mio, che son passati
venti anni.

--È vero;--conchiuse Maurizio, chinando la testa.--Il capitano della
Bourdigue, nizzardo, che aveva optato nel '61 per la Francia. E come è
passato ora a vivere di qua dal confine?

--Il fratello maggiore è morto cinque anni fa. Rimasto unico dei
Matignon, ha preso il suo ritiro, ed è venuto a vivere alla Balma.

--E quella signora è sua figlia?

--No, sua moglie.

--Come? ma se ha l'aria di una ragazza! O figlia, o nipote, avrei detto.

--Ed è sua nipote, infatti.

--Ah, ora ci sono;--gridò Maurizio.--La figlia del signor Camillo....
il miscredente.--

Il volto della contessa Albertina si rabbruscò, a quella scappata del
fratello Maurizio.

--Perchè miscredente?--diss'ella con accento di mite rimprovero.

--Lo dicevano, allora, ed io ripeto quel che ho sentito.--

Avrebbe voluto soggiungere: lo diceva perfino nostro padre. Ma capì di
aver abbastanza amareggiato l'animo della sua dolce sorella, senza
bisogno di metterlo ancora in angustia colla testimonianza del babbo.

--Sarà stato uno scherzo;--diss'ella ripigliando.--Del resto, tu sai che
il mondo s'inganna facilmente a certe apparenze, per discorsi male
intesi e peggio riferiti. Comunque sia, il meglio che si possa fare....

--È di non credere alla miscredenza;--interruppe Maurizio, compiendo a
suo modo la frase impacciata di sua sorella Albertina.--Hai ragione,
sai? nel caso particolare e nel caso generale, hai ragione. È bene di
non ripetere certe cose, neanche a sè stesso. Ed ecco,--soggiunse
egli,--che cosa vuol dire andar via da casa, per ritornarci dopo
vent'anni, con tanto viatico d'esperienza. Io ho lasciata qua la mia
buona filosofia, che mi sarebbe stata tanto utile laggiù. Per fortuna,
la ritrovo ora, messa ad interessi composti, sotto il tetto paterno.

--Eh via, non ti far così brutto, ora;--disse di rimando Albertina.--Ti
ho veduto poc'anzi in chiesa, e non mi sei parso niente diverso da
quello di venti anni fa. Eri serio, composto.... e divoto.

--Ma sì, come bisogna essere in chiesa. O non ci si va, o ci si sta come
si deve. Dopo tutto, non è la casa del nostro superiore? del grande
ammiraglio, di quello, io voglio dire, che non commette ingiustizie?--



CAPITOLO III.

Cortesie di buon vicinato.


Passarono tre giorni, che Maurizio occupò degnamente in cento piccole
cure. Prima di tutto aveva da riconoscer la casa, dopo tanti anni
d'assenza, da vedere tutte le novità che c'erano state fatte in quel
lungo intervallo, il parco, il giardino, l'orto, il frutteto, la
fagianaia, il pollaio, insomma tutto ciò che sua sorella Albertina aveva
ordinato, o condotto a termine, o perfezionato, affinchè il Castèu,
com'ella diceva, bastasse a sè stesso.

--Egregiamente;--notava Maurizio, approvando.--Credo che si potrebbe
sostenere anche un anno d'assedio.

--Capisco che tu ci avresti tempo di annoiarti;--rispondeva Albertina.

--No, sai; tu coi tuoi polli e coi tuoi fagiani; io coi miei libri, le
mie carte, i miei strumenti; si passerà il tempo benissimo, e il
peggiore dei nemici non avrà modo di penetrare qua dentro.--

Maurizio aveva ricevuti da Ventimiglia i suoi bauli e le sue casse.
Tutto era già stato aperto, schiodato, sciorinato; libri, carte
geografiche, idrografiche, bussole, cannocchiali, seste, sestanti,
cronometri, tutto il bagaglio scientifico dell'ufficiale di marina. Il
legnaiuolo della casa era stato chiamato, e sotto la direzione di
Maurizio lavorava ad aggiustare, ed aggiungere scaffali, a piantar
chiodi e bullette, ad appender quadri, stampe, fotografie, armi, stoffe,
amuleti, stoviglie, tutto il museo dell'ufficiale di marina che era
stato anche un viaggiatore intelligente e curioso. Era quello un lavoro
faticoso, ma gaio; e lo rendeva più gaio il pensiero della quiete
futura, in cui Maurizio avrebbe potuto finalmente metter mano alla sua
Storia delle Guerre marittime. Quella, davvero, non gli usciva di mente.

La mattina del quarto giorno, mentre era in maniche di camicia su d'una
scala di legno appoggiata alla parete, gli fu portata da Giaume una
lettera.

--Già la posta a dar noia!--esclamò egli, seccato.

Non era della posta; era una lettera del paese.

--Mettila là, su quella tavola. Chi l'ha portata?

--Il fattore della Balma.

--Ah!--disse Maurizio; e più non disse.

Com'ebbe finita l'operazione per cui si era inerpicato lassù, scese
tranquillamente e andò a prender la lettera, che portava scritto sulla
busta: «Al signor conte Maurizio Sospello di Vaussana; Sue mani», e sul
rovescio un gran suggello di ceralacca, con lo stemma dei Matignon della
Bourdigue. Maurizio prese con molta flemma una spatola d'avorio, ne
introdusse delicatamente la punta sotto la piega della busta, ne tagliò
tutto il lato superiore, trasse il foglio che c'era dentro ripiegato in
due, lo spiegò lentamente e lesse ciò che gli scriveva il castellano
della Balma:

        "_Signor Maurizio_,

    «Quando un ufficiale va in un paese e sa che c'è un altro ufficiale
    a lui superiore di grado, va a fargli una visita, non vi pare?
    Sarebbe prescritta l'uniforme; ma io non la esigo; anzi ve ne
    dispenso. Non vi dispenso però dalla visita. Andrei contro la legge,
    venendo io stesso da voi, se nella mia condizione di ospite non
    avessi qui cura d'anime. Vi ho conosciuto bambino, e credo anche di
    avervi in quei tempi consegnato qualche amorevole scappellotto. Non
    vi dispiacerà il ricordo, poichè desidero di mutarlo in una buona
    stretta di mano.

    «Conoscete la via della Balma. Dieci minuti di salita, per gambe
    come le vostre, e al piè delle scale un vecchio amico a braccia
    aperte.

                                        "BOURDIGUE."

Maurizio lesse e sorrise; ripiegò il foglio, dopo avergli data ancora
una rapida scorsa, lo rimise nella sua busta, e depose questa sulla
tavola; dopo di che ritornò al suo lavoro. Alle dodici il legnaiuolo si
congedò, per andarsene a desinare.

--Ripasserò alle due, signor conte;--diss'egli.

--No, per oggi basterà;--rispose Maurizio.--Ho da far altro; ritornerete
domattina, all'ora solita.--

E anch'egli discese, dopo essersi messo in ordine, per andare ad
asciolvere. Dopo il pasto mattutino, andò nelle sue stanze a mutar
abiti.

--Vai fuori?--gli chiese Albertina, vedendolo così vestito di tutto
punto.

--Sì, alla Balma. Vedi che cosa mi scrive il tuo generale.--

Così dicendo, porgeva ad Albertina la lettera che aveva ricevuta nella
mattinata.

--È cortese;--osservò ella, dopo aver letto.--E gli sei proprio debitore
di una visita. Io, anzi, te lo volevo dire fin da ier l'altro.

--Andiamo dunque, e perdiamo questa mezza giornata;--conchiuse egli
sospirando.

E uscito dal Castèu, si avviò alla Balma; non dalla parte del paese, ma
dalla parte della montagna, per la scorciatoia del bosco e della
cascata, che ben ricordava, per averla fatta da ragazzo, almeno un
centinaio di volte.

Rivedere i luoghi dove si è passata la prima adolescenza, dove non è per
noi un ricordo che non sia lieto, è certamente bellissima tra tutte le
cose belle della vita. Maurizio s'immerse in quella gioia così profonda,
e nondimeno un pochettino chiassosa, che invade tutto il nostro essere,
e trova ancor modo di espandersi in esclamazioni, in grida, in rotte
parole, che vorrebbero diventar inni, ondate di poesia, e non riescono
ad essere che sussulti, gorgogli, balbettamenti dell'anima. Si fermava
un po' da per tutto, vedendo e ricordando; ma più si trattenne davanti
all'Aiga, alla bella cascata, con tutte quelle felci e quei muschi onde
erano tappezzate le pareti dello scoglio, con quella rupe che
sopraggiudicava l'abisso, con quel lastrone orizzontale, vero labro di
granito, donde si precipitava il cristallino volume delle acque nella
conca sottoposta, sprizzando in polvere liquida, estuando in candide
spume, rompendosi in rivoli che tornavano a ricongiungersi più sotto in
un solo zampillo. Maurizio non si sarebbe più spiccato di là, se non
avesse pensato in buon punto che aveva da fare una visita d'obbligo, che
per quella visita aveva congedato il legnaiuolo, interrompendo il suo
piacevole lavoro, che per quella visita si era vestito di tutto punto e
mosso di casa.

--Ci tornerò;--diss'egli ad alta voce, come per fare le scuse della sua
fretta alla divinità del luogo.

Gli antichi avevano ben ragione a mettere delle dee per protettrici
delle fonti. Non c'è cosa più poetica di una bell'acqua corrente nella
solitudine di un bosco, nè altra che più meriti il sorriso di una
divinità tutelare.

Maurizio si avviò finalmente; e non in dieci minuti, per verità, ma in
trenta o quaranta giunse sotto al muro di cinta del castello della
Balma. C'era un muro, e ci stava benissimo; tutti i castelli che si
rispettano ne hanno uno, spesso più d'uno. Ma l'uscio per entrare? o la
breccia? Maurizio rammentava benissimo che la breccia non mancava; non
fatta da nemici, ma da contadini poco disposti a passare per la strada
maestra. Quella breccia, ridotta a passo campestre, si ritrovava più su,
dietro una svolta del muro.

--Per di qua;--gli disse dall'alto una voce.--Se andate alla Balma, c'è
qui il sentiero.

--Lo so, grazie;--rispose Maurizio.--Conosco i luoghi da un pezzo.--

E salutava, così dicendo, il brav'uomo che gli dava l'avviso. Era un
pastore, che se ne stava seduto su d'un masso, pascolando due mucche e
una dozzina di pecore.

Trovato facilmente il passo, ed entrato nel recinto della Balma, il
visitatore fu ben presto ad una piccola spianata, davanti a cui sorgeva
la gradinata che metteva al portone d'ingresso. Non c'era nessuno alla
vista, ma si sentivano voci di dentro; anzi, per dire più esattamente,
si sentiva una voce sola, che faceva per quattro, rumorosa, allegra,
voce di comando frammezzata di risa.

Nessuno era nel vestibolo. Maurizio entrò, col suo cappello in mano; da
un uscio aperto, sulla sua destra, vide una sala da biliardo, e due
uomini che stavano giuocando, l'uno occupato in una serie di caramboli,
l'altro in atto di guardare il giuoco dell'avversario, e in pari tempo
di ingessare il cuoio della propria stecca. La serie fu breve, per
effetto di troppa sicurezza, o di fretta soverchia nel dare il colpo, e
il giuocatore sfortunato era già per attaccare un moccolo, quando un
gesto del compagno, che stava dirimpetto all'uscio, lo costrinse a
voltar gli occhi verso il nuovo personaggio che appariva allora nel
vano.

--Ah, bene!--esclamò egli, deponendo la stecca sul panno verde e
muovendo incontro al visitatore.--Siate il benvenuto, signor Maurizio.
Qua la mano; anzi, no, un abbraccio, tanto per cominciare. Ma come
va?--soggiunse, volgendosi al compagno.--Il vostro servizio d'avamposti
procede assai male, mio caro Dutolet.

--Non so veramente come sia andata;--rispose quell'altro, con accento
dimesso.

Maurizio era rimasto un pochino interdetto, non sapendo che cosa
significasse quell'accenno di avamposti, che interrompeva in mal punto
la cortesia delle accoglienze.

--Figuratevi;--ripigliò il generale, rivolgendosi a lui, come se avesse
letto in quel punto nell'animo del visitatore.--Avevamo messo un uomo in
sentinella a metà della salita, per essere avvertiti del vostro arrivo.
Vi avevo annunziato che mi avreste ritrovato in fondo alla scala, e voi
siete arrivato fin qua, signor conte, senza trovarmi al posto assegnato.
E sono disonorato, Dutolet;--disse il generale, volgendosi ancora al
compagno.--Manderemo agli arresti la sentinella infedele; daremo un
esempio, non vi pare?

--Intercedo per la sentinella, generale;--disse a sua volta Maurizio,
mettendosi volentieri sul tono di celia che aveva assunto il signore
della Bourdigue.--Voi l'avete fatta mettere al posto buono per
invigilare la strada maestra; e certamente sarà ancora laggiù ad
aspettare che io mi presenti al cancello. Ma io non son venuto di
laggiù; son capitato dalla scorciatoia del bosco.

--Ottimamente, da astuto nemico che conosce il terreno,--replicò il
generale, ridendo.--Ma questo mi fa pensare che la Balma non è così
forte come sembra. La posizione è stata girata, Dutolet; come laggiù....
ti rammenti, mio bravo? E quanti valorosi ci sono caduti, incominciando
da te!...--

Un'ombra era passata sugli occhi del generale, contrastando
maledettamente con l'aperto sorriso di prima. In un attimo, per altro, e
la figura marziale del vecchio riprese il suo aspetto di franca
cordialità.

Il generale Matignon della Bourdigue doveva essere stato un gran bel
giovane a' suoi tempi: era ancora un bell'uomo, e decorativo in sommo
grado. A cavallo, certamente, con quelle spalle quadre, quell'ampio
torace, quei baffi bianchi biondeggianti e quegli occhi azzurreggianti
sul vermiglio della carnagione, doveva parere uno di quei paladini di
Carlomagno, che potevano essere oppressi dal numero a Roncisvalle, ma
dopo aver fatto prodigi di valore e di forza, accoppando mille Saracini,
prima di ricevere essi medesimi una graffiatura al braccio, o una
ammaccatura al ginocchio.

L'accenno militare condusse naturalmente il generale alla presentazione
del suo ospite. Il capitano Dutolet, sottotenente nella campagna del
1870, era stato ferito gravemente a Reichshoffen, e sarebbe morto sul
campo, se non si fosse dato pensiero di lui, facendolo raccogliere in
tempo e mandare all'ambulanza, il suo capo di squadrone Matignon de la
Bourdigue. Quel magro cavaliere dal volto grigio, dalle gambe di ragno e
dall'aria sempre malinconica, era una salda tempra di acciaio; ancora a
servizio, veniva a spendere le sue licenze ordinarie e straordinarie
presso l'antico superiore, che da cinque anni aveva lasciato l'esercito,
per passar tra gl'invalidi assai prima del tempo. Anche il generale de
la Bourdigue aveva avuto a dolersi di una ingiustizia? La cosa era
possibile; tanto gli uomini si rassomigliano, sotto tutte le longitudini
della zona temperata e sotto tutti i governi civili.

Quel generale, che avrebbe fatto ancora una così bella figura a cavallo,
possedeva un magnifico stato di servizio. Nizzardo di nascita, aveva
raggiunto il grado di capitano nell'esercito, piemontese, combattendo in
Crimea e quindi in Lombardia nella campagna del '59. Dopo la cessione di
Nizza alla Francia, era stato tra quelli che avevano optato per la
nazionalità francese, e nel '70 era giunto al grado di capo squadrone,
dopo aver fatto parte del corpo di spedizione al Messico e aver
combattuto valorosamente sotto le mura di Puebla. Colonnello dopo Sedan,
generale di brigata nell'esercito della Loira, non aveva più fatto altri
passi in avanti. A chi era dispiaciuto? Che demeriti avevano ritrovato
in lui? Il generale Bourdigue non istette a domandarlo: una dolorosa
occasione gli si offerse di lasciare il servizio, ed egli colse quella
occasione pel ciuffo.

Camillo, il suo fratello maggiore, rimasto italiano alla cura
degl'interessi domestici, che erano tutti di qua dalla linea della Roia,
era venuto improvvisamente a morire, lasciando orfana l'unica figliuola
Gisella. Il generale, venuto a surrogare il fratello, aveva prese le
redini della amministrazione domestica; e il tutore, un anno dopo,
diventava marito. Come era avvenuto ciò? Si diceva a Nizza, a
Villafranca, a Mentone, dovunque i Matignon erano conosciuti, e si
ripeteva da Ventimiglia a San Giorgio, dove avevano le loro possessioni,
che la fanciulla medesima avesse voluto quelle nozze.

I valorosi, hanno sempre questa sorte di fascino sulla donna. Pare alla
bellezza di appoggiarsi meglio, quando il braccio che la sostiene è
quello di un eroe. Inoltre, la donna conosce il suo proprio valore, la
sua qualità di gioiello; sente di essere buon premio alla forza, morale
o fisica ch'ella sia, o l'una cosa e l'altra ad un tempo.

La contessa Gisella, a cui Maurizio di Vaussana fu presentato quel
giorno, era una bellissima creatura di ventuno in ventidue anni, bionda
e rosea come abbiamo già avuto occasione di dire. Ma quando si dice
bionda e rosea, non si è detto ancor nulla: bionda e rosea può essere
anche una pupattola; bionda e rosea su per giù era anche la cugina
splendidissima e formosissima di Maurizio. La castellana della Balma non
offriva tuttavia nessuna somiglianza con una pupattola; non aveva
nessun'aria di parentela con la cugina di Maurizio.

In primo luogo era più alta, e più flessuosa nella persona; donde una
formosità d'altro genere. Poi la carnagione era più fine, d'impasto più
gentile, più tenero, con un certo riflesso dorato sul roseo, che non
aveva quell'altra. Il biondo dei suoi capelli era più luminoso, più
morbido, più ondato; e quei capelli formavano un volume così abbondante,
da potersi paragonare a quelli di Genovieffa di Brabante, capaci a far
da accappatoio a tutta la persona, quando la bella principessa della
leggenda ebbe logorati i suoi abiti nella foresta di Trèveri. Non si
poteva poi pensare alla cugina, vedendo gli occhi della contessa
Gisella; grandi occhi profondi, neri d'un nero d'indaco, ma che
mettevano bagliori d'oro ad ogni batter di ciglia.

--Mia moglie è fosforescente;--diceva qualche volta il generale.

La contessa Gisella sorrideva, e senza ombra di civetteria, volentieri
secondando un complimento maritale, con un nuovo sprigionamento di
faville. Era una bambina, niente vana della propria bellezza,
ignorandola forse, certamente non dandosene pensiero e non sapendo che
farsene. Qualche volta, con versi infantili, storcimenti di bocca,
guardate di sbieco, pareva che lavorasse a farsi brutta; ma senza
venirne a capo. Tutto ciò ch'ella faceva era improntato di sincerità,
d'ingenuità, di franchezza e di grazia. Vi passava davanti come una
bella farfalla che aleggia capricciosa nella pompa de' suoi vivi colori,
e non sa di essere la vita del giardino, la festa degli occhi, la
maraviglia del quadro.

Vedendo lei da vicino, discorrendo con lei, Maurizio non potè
trattenersi dal pensare a sua cugina e al dolorino acuto che gli aveva
lasciato nell'anima quella splendidissima e formosissima bionda.

--Ecco--diceva egli tra sè,--una donna bella vi colpisce, v'infiamma, vi
fa soffrire come un dannato. Poi se ne presenta un'altra più bella,
magari nel suo stesso genere, il che è veramente il colmo dell'audacia;
e lì per lì, senza cancellarvi l'immagine della prima, senza
distruggervi in cuore la memoria degli antichi tormenti, ve ne rende
innocua la sensazione, sterile e vano il pensiero. Come ho potuto
soffrir tanto per quella là? Quella là, certamente; è il modo d'indicar
la figura che è passata, non lasciando più desiderio di sè. Anche le
donne, alla lor volta, sentono e ragionano così; anch'esse hanno «quello
là» da giudicare in forma sommaria, mandandolo a farsi benedire. E il
meglio, dopo tanta esperienza, il meglio sarebbe di esser tutti
filosofi, uomini e donne, di cansare gli innamoramenti fatali, di
prendere un po' più alla leggera le cose del cuore, fragili e fugaci
alla fin fine come tutte le altre.--

Ma queste cose si possono pensare, non fare. Sono le occasioni, quelle
che vengono addosso, quando meno ci si pensa; sono le circostanze,
quelle che imprigionano, quando meno si crede di restarci impigliati. La
donna che si ama di più, che più dovrà farci soffrire, non è sempre la
più bella, contro cui c'era modo di mettersi in guardia a tempo
opportuno. Un amico di Maurizio aveva fuggito i lacci di due
meravigliose creature: poi si era ucciso per una piccola strega dei mari
del settentrione, secca stecchita a quel modo, che quando l'aveva veduta
la prima volta gli era parsa un'aringa affumicata.

Maurizio di Vaussana stette un paio d'ore alla Balma, ragionando di
cento cose. Cadde anche il discorso sulle cause del suo ritiro precoce
dal servizio: ma s'intende che nè il generale lo incalzò troppo con le
domande, nè egli credette necessario di dire la verità tutta quanta. Si
toccano mal volentieri certi tasti più intimi, quando non si è tra
connazionali: e il signore della Balma e il signore del Castèu,
quantunque appartenenti pel sangue alla medesima valle, non erano di una
medesima patria. Maurizio trovò il modo di dire che da un pezzo sentiva
il bisogno di attendere agli interessi di casa sua. Vivendo il babbo,
era una cosa; morto il babbo era un'altra. Da principio, correndo ad
ogni tanto voci di guerre possibili, aveva stimato necessario di restare
al suo posto di combattimento: ma oramai, sfumata ogni probabilità di
vicine «complicazioni europee», le voci della sua terra erano state più
forti, ed egli, di marinaio che era diventato, ritornava a fare il
gentiluomo di campagna.

--Per nostro vantaggio;--disse il generale.--E speriamo che ci restiate
per sempre. Ma il miglior modo d'incatenarvi qui, sarà quello di darvi
moglie. Non fate conto di prenderla?--

Maurizio sorrise. Che idea! c'era egli proprio bisogno di prender
moglie, per vivere e non annoiarsi della vita? Ma questo, che pensò, non
lo disse. Infatti, sarebbe stata una grande scortesia verso una buona
intenzione, e più ancora verso quell'uomo che l'aveva presa bellissima.
Rispose invece con un «perchè no?» a fior di labbra, che lo impegnava
fino ad un certo punto, lasciandogli la porta aperta per una brava
ritirata.

--Del resto--soggiungeva,--una moglie non si trova lì alla prima voltata
di strada. Non è anche conveniente per la felicità, di trovar prima
l'amore, donde sia facile poi avviarsi al matrimonio?

--Un altro vi risponderebbe: prima il matrimonio; l'amore verrà poi, e
non sarà che più forte, perchè fondato sulla conoscenza, sulla stima
reciproca;--ripigliò il generale.--Ma queste sono le vie battute dal
ragionamento, e voi amate le vie strane. Per una di queste, infatti,
siete salito alla Balma. Innamoratevi dunque, signor Maurizio, e
sposate. Per voi, ultimo dei Sospelli di Vaussana, è anche un debito
d'onore verso i vostri maggiori, che hanno diritto di veder continuato
il lustro di un buon nome.--

Il signor Maurizio non sorrise più, s'inchinò ringraziando. Poco dopo,
essendo la sua prima visita durata oltre i termini della convenienza, si
alzò per prender commiato.

--Badate, amico;--gli disse il generale, prendendogli affettuosamente la
mano e stringendola forte tra le sue;--qui non siamo in città, da
vederci una volta alla settimana: siamo qua tutti i giorni, mattina e
sera. Del resto, ora che conoscete anche il mio ospite, non sarà più il
caso per noi di lasciarlo solo, quando verremo a scovarvi nel vostro
Castèu.--

Le accoglienze erano state molto cordiali da parte del generale, e
gentili da parte della contessa Gisella; Maurizio poteva esser contento
dei suoi vicini della Balma. Bastavano esse per dirgli il carattere dei
signori Matignon? Le prime visite per solito non contano, in
quest'ordine d'indagini e di scoperte; nessuno si fida a questi incontri
preliminari, a questi semplici contatti di superficie, dove le regole
della buona creanza e i luoghi topici della conversazione son tutto.

Pure, tanto è forte nell'uomo l'abito dell'indurre, Maurizio se ne
partiva dalla Balma con una opinione formata, se non ancora dal suo
raziocinio, certamente dalle sue sensazioni. E l'opinione era questa:
che i signori della Balma erano ottima gente; il conte un allegro
compagnone, con qualche scatto d'imperiosità, derivato dalla abitudine
del comando, dall'abuso della caserma e della piazza d'armi, ma del
resto un buon diavolo, e piacevole in società, quantunque, fuori dagli
argomenti militari, un po' tavola rasa; la contessa una bella bambinona,
senza grande istruzione anche lei, ma buona, una vera pasta di zucchero,
felicissima di obbedire a quel gran marito e ai suoi grandi mustacchi,
di cui sembrava infatuata, come se fossero ancor biondi. Pensando a
quella coppia, gli tornavano a mente due colombi che aveva visti un
giorno a Pisa, espressi dallo scalpello di uno scultore, collocati l'uno
di rimpetto all'altro, intenti a tuffare il becco nel latte di una tazza
d'alabastro; donde a lui era venuto il pensiero che da un momento
all'altro, solo che si chinassero un tantino di più, ci sarebbero
cascati a capo fitto.

Affogar nel latte, che morte! E non c'era anche il pericolo di annoiarsi
un pochino, con tanto latte per tutto pasto? Veramente, per rompere la
monotonia c'era l'ospite, il capitano Dutolet. Ma c'era proprio? o non
era piuttosto l'ombra di un ospite? Quel ragno grigio si poteva creder
benissimo, dalle apparenze, un compito cavaliere: doveva anch'essere un
valoroso della buona specie, poichè era molto modesto, non parlava mai
delle sue imprese di guerra, e, quando il suo generale vi accennava,
egli cercava subito di sviare il discorso. Ma era di poco aiuto, Dio
buono, anzi di nessun aiuto in una conversazione. E dovevano esserci
ogni giorno alla Balma molte ore di noia.

Anch'egli, il signor Maurizio, si sarebbe annoiato al Castèu, senza i
suoi libri, senza il suo disegno di scrivere un'opera. Ah, come voleva
mettersi presto al lavoro! Su presto, adunque, in ordine i libri, le
carte, gli strumenti; e fatto ciò, sùbito un buon orario da
imprigionarcisi dentro, come il filugello nel bozzolo. Egli ricordava
benissimo a questo proposito la massima di un suo vecchio professore al
collegio di Marina: «i sistemi fanno e non fanno, il metodo è tutto».

Per dar sesto alle cose sue ci sarebbero volute ancora cinque o sei
giornate di lavoro. Disgraziatamente, non erano più giornate intiere, ma
mezze: alle dodici, ora del desinare, il legnaiuolo era congedato. Come
fare altrimenti? Il generale era venuto con la sua signora a visitare la
contessa Albertina; gran miracolo che non si ripeteva più da sei mesi. E
in quella visita, il conte Matignon de la Bourdigue aveva rinnovato a
Maurizio il suo avvertimento: «Siamo in casa tutti i giorni, mattina e
sera, sera e mattina». Poveri colombi, sugli orli d'una tazza di latte!
La vita della campagna è sana; ma chi non ci ha niente da fare, Dio
misericordioso!... Si cerca di essere in tre; quando in tre non si sente
sollievo, bisogna trovar modo di essere in quattro.

Maurizio andava dunque ogni giorno a fare il quarto a quei buoni vicini.
Si giuocava molto a biliardo; si faceva anche un po' di scherma, e
qualche volta si usciva a far quattro colpi di pistola. Il generale, da
vecchio ufficiale di cavalleria, era un gran sciabolatore al cospetto di
Dio; con la spada reggeva appena al confronto del capitano Dutolet, ed
era molto inferiore a Maurizio, gran tiratore, che si era fatto in
Genova alla scuola elegante e vigorosa di Licurgo Cavalli, e che a
Napoli era stato perfezionato dalla grazia corretta di Masaniello
Parise. Alla pistola batteva tutti il capitano Dutolet, con quel suo
modo curioso, strano, inconcepibile, di tirar diritto senza puntare. Per
colpire il bersaglio a venticinque passi, Maurizio aveva bisogno di star
sulla mira almeno cinque secondi. Il capitano niente; si presentava di
fianco, innanzi al bersaglio, con la bocca della pistola a terra; alzava
il braccio, portandolo naturalmente, automaticamente in linea,
all'altezza necessaria, non un millimetro di più, non un millimetro di
meno; e paf, era un centro senza fallo.

I due testimoni di quelle prodezze lodavano senza risparmio. Ma il bravo
capitano Dutolet non accettava le lodi. Non c'era niente da far
maraviglia; un po' di pratica; questione di esercitare le articolazioni
a quel punto di arrivo in linea, i muscoli a quel grado di tensione,
ecco tutto.

--Ecco niente;--gridava il generale, con la sua voce di tuono.--Se non
si trattasse che di esercizio, in tutti i giuochi tu riusciresti
eccellente, mio caro. E allora come va che sei sempre una sbercia a
carambolo?--



CAPITOLO IV.

La disputa filosofica.


Un giorno che Maurizio faceva la solita strada del bosco per salire alla
Balma, gli venne veduta la gran novità di un abito talare che appariva e
spariva a intervalli lungo i tigli del gran viale. L'abito talare
scendeva; e Maurizio, fermandosi alquanto ad una svolta del sentiero,
riconobbe il suo uomo. Don Martino che veniva di lassù! Era un caso
strano, inaudito. Il signor di Vaussana non aveva saputo mai che
l'arciprete di San Giorgio bazzicasse alla Balma; e vedendo per la prima
volta don Martino ritornare da quella eminenza, pensò involontariamente
al signor Camillo, il miscredente.

Infatti, quell'anima buona di sua sorella Albertina poteva dir tutto
quel che voleva, per coprire la verità, ma il primogenito dei Matignon
era vissuto tutt'altro che in concetto di buon cristiano. In chiesa non
lo aveva mai visto andare nessuno, nello spazio di trent'anni. Si diceva
dal vicinato che fosse un libero pensatore, che leggesse il Voltaire, il
Rousseau e gli altri Enciclopedisti; desolazione della abominazione.
Quella, s'intende, era la chiacchiera d'altri tempi, dei tempi in cui si
voleva dar colpa di tutta la miscredenza moderna al Voltaire, al
Rousseau; nè poteva indurre in errore Maurizio, che conosceva benissimo
le opinioni spiritualistiche del Ginevrino, e quanto all'altro
rammentava benissimo la storia del tempietto di Ferney con la famosa
epigrafe: «_Deo erexit Voltaire_»; un po' orgogliosa, per dire la
verità, ma non atea. Comunque fosse, avessero torto o ragione le
coscienze timorate del luogo a veder così neri gli Enciclopedisti,
restava sempre il fatto che il primogenito dei Matignon non era vissuto
praticando la religione dei padri; e l'essere andato don Martino,
arciprete di San Giorgio, al suo letto di morte, non provava punto che
si fosse riconciliato all'ultim'ora. Se ciò fosse avvenuto, l'arciprete
non avrebbe tralasciato di dirlo: in quella vece, quando gli si toccava
quel tasto, don Martino cambiava discorso. Dunque.... la conseguenza era
facile a trarsi; don Martino era andato per moto spontaneo dell'anima,
fors'anche giungendo tardi, e ad ogni modo non salvando che le
apparenze, per chi voleva contentarsene.

Quanto al generale, egli doveva essere la seconda edizione del suo
fratello maggiore; salvo, s'intende, lo studio sugli enciclopedisti.
S'impacciano poco con la filosofia, i militari. Così pensava Maurizio; e
così pensando, la presenza inaspettata dell'arciprete di San Giorgio al
castello della Balma doveva parergli una cosa strana, inaudita. Ma non
era affar suo: da uomo educato, non poteva domandare; da uomo senza
curiosità, non ne sentiva il bisogno; si era già dimenticato dell'abito
talare, giungendo alla presenza del castellano della Balma.

Il generale era col suo inseparabile Dutolet, ambedue seduti al fresco,
su certi sedili di ferro, disposti a semicerchio fuori dell'ingresso,
accanto alla gradinata di marmo.

--Venite qua voi a consolarci;--disse il generale, com'ebbe veduto
Maurizio.--Venite a riconfortarci lo stomaco. Non lo sentite, l'odore di
scarafaggio?--

Maurizio ebbe l'aria di non intendere a che cosa volesse alludere il suo
interlocutore.

--Già,--ripigliò il generale,--voi venite sempre dalle scorciatoie; se
foste venuto dal gran viale, avreste incontrato l'uomo nero che ci ha
regalato un'ora del suo tempo; e ne avremmo fatto volentieri di meno.
Con che scopo, domando io, con che scopo il signor arciprete di San
Giorgio viene una volta al mese quassù? Per vedere quando si fa conto di
lasciargli queste quattr'ossa?.... Ma non ne abbiamo nessuna voglia; non
è vero, Dutolet?

--Per quello che mi riguarda,--disse il capitano, senza neanche
sorridere,--ci sarebbe troppo poco da rosicare.

--Non dimentichiamo i diritti dell'ospite;--notò il generale,
osservando che Maurizio era rimasto silenzioso.--Nè di politica nè di
religione si deve ragionare tra uomini. A questo ci ha ridotti la
civiltà; e le sue leggi van rispettate.--

Maurizio vide allora la necessità di parlare.

--Se è per me, generale, non vi date pensiero;--rispose.--Non mi fanno
paura i discorsi di politica, nè quelli di religione. Credo ancor io che
la civiltà abbia delle leggi false, come ne ha delle puerili. A mio
avviso si può discutere di tutto; basta che nella discussione si porti
della misura, della buona volontà, del rispetto.

--Ah, mi levate un peso dal cuore!--gridò il generale.--In fede mia, non
ne potevo più. Immaginate che non posso soffrire i preti.

--Scusate, generale, ma allora....

--Volete domandarmi perchè li ricevo? In verità, non sono io che li
invito a venir quassù. Già, non so se debbo ridere o andare in collera,
quando me li vedo davanti. Non sanno che esser umili coi potenti e coi
ricchi. È dunque una umiliazione che vogliono.

--Ed io, perdonate, non la infliggerei loro; mi darei piuttosto ammalato
d'emicrania.

--È quello che dice mia moglie. V'intendereste benissimo con lei, almeno
nel fatto di dispensarli da una visita inutile. Neanch'essa li può
soffrire. Mio fratello l'ha educata bene, ed io non ho avuto da
consigliare mutamenti nella sua educazione. Niente preti, miei giovani
amici, specie con le donne. Infatti, è ancora per mezzo delle donne che
essi comandano nel mondo; sono essi che le hanno educate alla
superstizione, e con la confessione, col perdono periodico, le hanno
educate alla colpa.

--Ma il perdono è di Cristo.

--Cristo fu un uomo. Come uomo, lo venero, ho un gran rispetto per lui;
non senza riconoscere, per altro, che avrebbe fatto meglio ad essere più
severo, insegnando per esempio a non fallire con tanta facilità. Ma che
si fa la burletta? Col dirci che il giusto cade sette volte al giorno,
non si dà la licenza a tutti di cascar quattordici, o ventotto? Per me,
dicano quel che vogliono con la teorica del perdono; non conosco che il
dovere, io, e so che il dovere è buono.

--Debbo io dirvi tutto quello che penso, generale?

--Ma sì, per bacco. Non lo dico io liberamente, approfittando della
vostra licenza?

--Ebbene,--rispose Maurizio,--vi dirò che il dovere è buono, perchè
scende diritto diritto dalla legge morale; e la legge morale è Dio.

--Ah, il gran cavallo di battaglia! Ma siete voi persuaso, caro amico,
che Dio non sia una creazione dell'uomo?

--Anche la morale, allora.

--La morale,--sentenziò il castellano della Balma,--è l'utilità bene
intesa, per cui solamente si conserva questa povera specie umana. Non
fare ad altri quel che non vorresti che fosse fatto a te; fare ad altri
quello che vorresti che fosse fatto a te.

--Già, per dare il buon esempio,--replicò Maurizio, sorridendo;--ma gli
altri lo seguiranno? ecco il busilli.

--Seguano o non seguano, c'è tutta la morale umana in queste due
massime. Conosco degli atei che vi conformano i loro atti assai meglio
di tanti credenti.

--Pur troppo, generale, pur troppo. Ma permettete, non scendiamo alle
applicazioni; stiamo nel campo dei principii. Fare o non fare, secondo
quelle due massime, è facile, ed anche può essere piacevole all'uomo
incivilito. Ma come potete voi credere che l'uomo primitivo, l'uomo
della selva, facesse ad altri quello che avrebbe voluto che si facesse a
sè?--

La domanda piaceva poco al generale; e dalla breve pausa che egli fece
prima di rispondere, Maurizio potè credere che l'avversario si trovasse
impacciato. Ma non era così; proprio allora il generale metteva in
posizione le artiglierie.

--Io non vi parlo dell'uomo primitivo;--disse egli, non potendo
trattenere un'alzata di spalle.--Che c'entra qui l'uomo della selva?
Buon padrone di aver fatto come gli sarà piaciuto, o tornato più comodo.
L'uomo primitivo, per vostra norma e regola, era un antropopitèco. Vi
maravigliate di sentirmi parlare con tanta asseveranza di quel grazioso
animale? Nel fatto, io non ne so nulla; vi parlo con la scienza alla
mano. Ho letto Darwin, mio caro; ho letto Huxley, Buchner, Mortillet,
Spencer, tutta la scuola dei liberatori. L'antropopitèco non si è ancora
trovato negli strati del terreno terziario; ma si troverà, non dubitate.
E una necessità in terra, come certi corpi in cielo, per l'equilibrio
del sistema planetario. Nella scala progressiva degli esseri,
l'antropopitèco ha il suo posto: animale d'istinti maravigliosi, già
dotato di qualche intelligenza, come sono del resto tanti animali meno
progrediti di lui, egli ha fatta la sua strada, e nessun calendario gli
ha misurato il tempo necessario alla sua legittima evoluzione. Il
bisogno lo ha fatto industrioso; l'industria lo ha fatto civile; la
civiltà lo ha fatto morale. Vi capacita?

--Eh!--disse Maurizio, stringendosi nelle spalle, mentre in cuor suo si
maravigliava forte di trovare sotto la spoglia di quell'uomo d'armi un
lettore dei moderni evoluzionisti;--vuol esser dunque morale
indipendente, la nostra?

--Non mi spaventano i nomi;--replicò il generale.

--Ebbene,--ripetè Maurizio,--non vi spaventino dunque le mie povere
argomentazioni.

--No davvero, sentiamole.--

Qui fu una piccola interruzione nel dialogo. Dall'alto della gradinata,
appariva la contessa Gisella, col suo cappellino di paglia in capo,
l'ombrello da sole in mano e una borsa ad armacollo, che le dava
un'aria graziosissima di pellegrina. La bella signora dagli occhi
fosforescenti vide Maurizio, e scese lesta i gradini per venirlo a
salutare.

--Vado per affari,--diss'ella, porgendogli la mano.--Spero di ritrovarvi
ancora al ritorno.

--Oh, lo troverai;--gridò il generale.--Siamo affondati in una disputa
che non finirà tanto presto.

--Di che si tratta?--chiese ella, nell'atto di aprire il suo ombrellino.

--Dell'antropopitèco;--rispose Maurizio, che in verità lo masticava
male.--M'immagino che vi sarà noto, questo grazioso tipo di progenitore.

--Ah sì,--diss'ella, sorridendo,--l'unica cosa brutta nella teorica di
mio marito.

--Ma necessaria;--soggiunse il generale;--necessaria come un anello
nella catena. Se tu mi levi quell'anello, dov'è la continuità
dell'evoluzione? dov'è la dottrina?--

Maurizio non aveva da rispondere ad una argomentazione che non pareva
fatta per lui. Nondimeno, ne prese appiglio per rivolgere una frase alla
contessa Gisella.

--Fortunatamente,--diss'egli,--nessuna dottrina mi farà credere che la
contessa derivi da un antropopitèco. Passi per noi ominacci!

--Ed ecco, ora puoi andare, bambina;--ripigliò il generale, mezzo
burbero e mezzo faceto.--Il vicino è cavaliere, e il tuo complimento
l'hai avuto. Accettalo come premio anticipato all'opera buona che fai.

--Vado, vado;--rispose la bella signora, avviandosi.--E voi, conte,
lasciatevi persuadere. La teorica della evoluzione richiede
quell'anello. Ammasso quello, tutto il resto va da sè.--

Ciò detto, si mosse leggera, lasciando la luce del suo sguardo
celestiale e la fragranza della sua maravigliosa persona nell'aria. Un
istante dopo, era sparita alla svolta del sentiero campestre, per cui
soleva venire ogni giorno il signor di Vaussana.

--Vedete quella donna, Maurizio;--disse il generale, continuando ad alta
voce un discorso che era venuto facendo tra sè.--Ella è tutta bontà,
tutta previdenza per la povera gente. Non c'è tugurio per queste
montagne, dov'ella non porti una buona parola, e qualcosa di più, se
bisogna. Ha sentito quest'oggi dal prete che è ammalata la moglie del
pastore, lassù al Martinetto; e sùbito ha deciso di mettersi in
campagna. Il prete non è andato; non andrà che chiamato, per portare
tant'olio quanto ne sta sul polpastrello dell'indice, o del medio. Lei
porta dell'altro; se le riesce, farà risparmiare al prete la sua
trottata, alla chiesa la sua ditata d'olio. E notate, non crede alla
morale dei vostri uomini neri.--

Quel «vostri» non era un po' troppo? Maurizio si sentì toccato sul
vivo.

--Che importa?--diss'egli, contenendosi ancora.--Crede alla santità del
dovere, alla divinità della compassione, alla immortalità dell'anima
umana.

--No, sapete, crede semplicemente alla bontà della vita; obbedisce ad
una legge di natura, intendendola un po' meglio di tanti e tanti. E
notate ch'io non ho avuto da istruirla. Era così, quando divenne mia
moglie. È una testa forte.

--Permettete ad una testa debole d'inchinarsi;--replicò Maurizio,
facendo l'atto per l'appunto.

Ma il generale era avviato, e non voleva fermarsi così presto.

--Ecco,--diss'egli,--ora v'inalberate.

--No, generale.

--Allora, perchè vi tirate da banda, come se voleste uscire dal giuoco?
Mi avevate pure promesso una argomentazione serrata!

--Vero, ma siamo stati fortunatamente interrotti; ed ora che ho perso il
filo.... Nondimeno, per non parervi battuto e contento, vi dirò
brevemente ciò che penso. Voi considerate la morale come l'effetto di
una convenzione. Ora la morale per convenzione, dato che possano
giungere a stabilirne una dei figli o nipoti di antropopitèchi, sarebbe
una morale senza ragione in sè stessa. Vedetene la conseguenza. Se io so
che la legge morale non ha nessuna sanzione, che non c'è nessun premio a
chi segue, nessun castigo a chi viola la legge, non me ne farò più nè
di qua nè di là, baderò al mio interesse, e buona notte al prossimaccio
mio.

--Signor Maurizio, i miei complimenti. Fate voi dunque il bene per un
premio che ne sperate? vi astenete dal male per un castigo che ne
temete?

--No, generale, per dovere; per un dovere che la mia coscienza intuisce.
Del resto, ecco già un certo numero di volte che voi mi venite dicendo:
il bene. Il vocabolo induce la cosa; la cosa induce l'idea. Perchè si
dice il bene? che cosa s'intende di dire, dicendo: il bene? chi mi
assicura, se non c'è sanzione alla legge del bene e del male, chi mi
assicura che il bene non è il male, e il male non è il bene?

--Il bene è un concetto ereditario;--sentenziò il generale.--Si è visto
e riconosciuto a poco a poco l'utile generale, e questo è stato chiamato
il bene.

--Sia pure; ma quanto più leggero, sulla bilancia del nostro raziocinio,
quanto più debole dell'utile particolare! Infatti, il bene degli altri,
ne sia pure ereditario quanto si vuole il concetto, non è in molti casi
il mio bene, è spesso il mio danno, il mio pericolo, il mio sacrifizio:
e di questo sacrifizio, di questo pericolo, di questo danno io non vorrò
a nessun patto saperne.--

Il generale stette un istante sopra pensiero.

--Sentite,--diss'egli poscia,--io non la intendo così: senza badare a
questi danni, a questi pericoli, io ho sempre fatto il mio dovere.

--Lo credo, e lo so,--si affrettò a rispondere Maurizio.--Ma questo, con
vostra buona pace, non lo avrete fatto per omaggio alla morale
indipendente.

--E per che cosa, secondo voi?

--Per avanzo di vecchie idee, generale. Qui davvero il principio di
eredità vi soccorre. Avete infatti la eredità di un complesso di
conseguenze legittime che l'umanità ha tratte via via da parecchie
religioni e da parecchi sistemi filosofici, di cui è vissuta, con cui e
per cui è progredita. Ecco perchè uno spirito forte dei nostri giorni
può andare avanti, più avanti di molti altri nel sentiero della
filantropia, del disinteresse, del sacrificio di sè, immaginando di aver
spogliata per sempre la morale della sua antica sanzione. Ma non si
andrà molto lontano, io ve ne avverto, non si andrà molto lontano, con
questo piccolo viatico. Anche le eredità più vistose si consumano. E la
morale indipendente andrà fin che potrà senza Dio; poi, di attrito in
attrito, vi sfumerà tra le mani. Temete, mio generale, temete che quando
ne avranno assai meno le classi civili, non ne abbiano più affatto le
rozze.

--Già, l'argomento politico! Ma non è filosofico.

--Lo so; m'è venuto alla mente, e l'ho aggiunto alla mia dimostrazione.
Dopo tutto, la vostra doppia massima del non fare e del fare, è frutto
della morale all'antica, non già della morale indipendente che oggi si
predica. Tutte le religioni l'hanno per canone indiscusso.

--È di tutte, e perciò non appartiene in proprio a nessuna;--osservò il
generale.

--Che importa? Le religioni son sante.

--Tutte? Da parte vostra è una dichiarazione ben grave, signor Maurizio.
Per caso, le ammettereste voi tutte per buone?

--Storicamente, perchè no? Nella vicenda delle cose umane sono i varii
modi di cercar Dio; e come io credo fermamente che il progresso umano
sia a questa condizione di cercar Dio nella vita, così credo che Dio si
sia in tutte riconosciuto.--

Il generale diede in uno scoppio così fragoroso di risa da far rizzare
la testa al capitano Dutolet, che involontariamente cominciava ad
appisolarsi sul canapeino di ferro.

--Che larghezza di comprensione! Lasciatevi ammirare, caro mio. Vi
avverto per altro che l'arciprete di San Giorgio non vi assolverebbe.

--Lui no, forse; ma un altro, di qui a cent'anni, sicuramente.

--Possiate voi campar tanto! E credete poi che quell'arciprete del
ventesimo secolo riconoscerà l'elemento del divino anche nella religione
di Moloch?

--No, egli troverà che quella non era una religione, ma un pervertimento
di religione. Le religioni, tra i popoli rozzi, girano facilmente alla
superstizione, e la superstizione alla ferocia o alla stupidità sua
compagna. Ma questi pervertimenti uccidono una religione nel tempo, come
l'edera sgretola il muro a cui si abbarbica; Dio si allontana, e passa
in un'altra.

--Chi può saper quando, e come?--esclamò il generale.--Io dico invece:
fare il bene, qualunque cosa ne avvenga.

--È da stoici;--rispose Maurizio.--Ma presuppone almeno l'imperativo
morale. Perchè faccio io il bene? Per appagare la mia coscienza. Perchè
la mia coscienza sceglie la sua felicità nel bene? Per averne un
piacere. Ma è un piacere ideale, se il più delle volte porta danno,
sofferenza, pericolo, sacrificio e morte. È dunque un ideale. L'ideale
suppone l'idea, l'idea suppone un mondo intellettuale che non è quello
della cieca natura. Cercate, generale, indagate, troverete Dio
necessario.

--Dove? non si è mai visto, ch'io sappia. Nel roveto, forse?

--Nella coscienza, generale. Se ci trovate la contentezza, perchè non ci
trovereste la sanzione dell'opera buona?

--Ci penserò; ve lo saprò dire domani.--

Evidentemente, il generale era stanco; e nessuno vorrà dargli torto.
Quanto al capitano Dutolet, egli si era addormentato del tutto. Diamo
ragione anche a lui.



CAPITOLO V.

Si viene alle grosse.


Maurizio era rimasto un po' male. Quella improvvisa stanchezza del suo
interlocutore poteva significare due cose: o che egli, Maurizio, avesse
ecceduto nella difesa delle proprie opinioni, o che il suo avversario,
usato al comando in ogni cosa, fosse noiato di sentirsi contraddire.

Che stranezza, del resto, e come Maurizio si era lasciato ingannare
dalle apparenze! Egli non avrebbe immaginato mai che quel vecchio
soldato fosse un filosofo, che quel moderno gentiluomo campagnuolo
avesse voluto ingombrarsi il cervello, asserragliare il suo grosso
ateismo con tanto bagaglio di dottrina. Dall'alto di quella barricata il
castellano della Balma aveva scaraventato sulla testa di Maurizio i suoi
duri sarcasmi, le sue pungenti ironie. Son pure prepotenti questi
spiriti forti, come amano gabellarsi da sè! Quando si degnano di
disputare con voi, hanno sempre l'aria di compatirvi.--Ma come? anche
voi, con queste idee di cent'anni fa? Ma questo è risaputo; ma questo è
fritto e rifritto; ma questo è già stato ribattuto, polverizzato,
annientato. Il mondo cammina, che diamine! In che grotta a mezza strada
vi siete fermato a dormire? lasciatele al volgo, queste anticaglie;
lasciatele alle donnicciuole, per bacco!--

Il volgo, si sa, è tutta quella gente che non importa istruire, che è
bene lasciare nell'ignoranza, per utile suo, e nostro, per non
accrescere il numero degli spostati, come oggi si dice, o degli
spostatori, come forse si pensa. Le donnicciuole, poi, sono le loro
madri, e le loro mogli; se occorre, saranno anche le loro figliuole e le
loro nipoti. Gli spiriti forti non si abbassano; deridono o sorridono,
secondo i casi e gli umori; ma passano sopra, gloriosi della loro
dottrina, o di quella del sapiente di rimpetto; il quale sarà vissuto
magari nel sereno disprezzo di ogni ubbìa metafisica, di ogni
«concrezione ereditaria», ma poi sarà morto ascritto, per via di
transazione, a qualche chiesa protestante, oppure, senza mezzi termini,
col prete al capezzale e con al collo la medaglia benedetta dal papa.
«Rammolliti», si capisce; tutti rammolliti, gli spiriti forti che non
durano tali fino all'ultimo. Perciò vien di moda il premunirsi contro
queste defezioni dell'ultim'ora, dichiarandole anticipatamente debolezze
della nostra povera fibra.

E questo è poco male, finalmente; anzi non lo sarebbe affatto, a
considerare le cose con ispirito di libertà. Ma il guaio è che questa
divisione di spiriti forti e di spiriti deboli ha ridotto il nostro
mondo civile ad una ben malinconica convivenza di due società, tra le
quali è stretta unione d'interessi, di affetti, di consuetudini, e un
gran vuoto per tutto il resto, che è poi la vita intellettuale, la vita
morale delle anime. Donde avviene che questo povero mondo civile vada
così barcollando alla sua meta misteriosa, come gli ubbriachi a casa
loro, non indovinando più l'uscio, e tante volte neanche la strada.

Tra il signor Maurizio e il castellano della Balma si era fatta la pausa
un po' lunga. Il terzo, che sonnecchiava così bene sul piccolo canapè di
ferro, ne era stato svegliato in soprassalto, come avviene in istrada
ferrata al fermarsi improvviso del treno. Il capitano Dutolet aveva
aperto un occhio, poi l'altro, ed era rimasto lì trasognato a guardare,
mezzo intirizzito, mentre Maurizio si tormentava i baffi, e il generale,
per occupare in qualche modo il silenzioso intermezzo, cercava di
accendersi un sigaro.

Il signor di Vaussana se ne sarebbe andato assai volentieri, levando
anche d'impiccio il suo avversario. Ma un pensiero lo tratteneva. La
contessa Gisella gli aveva detto di aspettarla. E forse aspettarla era
male. Ritornando, la signora avrebbe trovato il marito di cattivo umore,
tanto nervoso da non lasciar passare il menomo complimento, da veder
tenerumi, smancerie, svenevolezze in ogni discorso. I mariti in collera
son tutti così, bestie feroci; e guai ad essere graziosi, cortesi,
galanti, quando essi hanno le sopracciglia aggrondate.

Andarsene, dunque, scegliendo tra i due mali il minore? Sì, ma per qual
via? Anche nella scelta della via c'era il pericolo, per un verso o per
l'altro, di urtare i nervi al signor generale. Se andava per il gran
viale, non poteva il castellano domandare che novità fosse quella? Le
novità dànno sempre materia a pensare. Se andava per la strada del
bosco, non si poteva credere che l'avesse scelta per combinar laggiù la
contessa Gisella, che appunto di là era andata e di là sarebbe tornata?

Noiosa condizione di un uomo messo lì a dibattersi tra la stizza e le
convenienze sociali! Ed ecco i bei resultati delle discussioni. Ma egli,
in fin dei conti, se era stato vivace nella espressione del suo
pensiero, non aveva neanche trasmodato, e a quella vivacità era stato
spinto dal tono sarcastico del signor generale. Dal fondo dell'anima non
gli traluceva forse il pensiero di canzonare Maurizio per la sua fede?
Ora uno spiritualista, un credente, deve esser tanto più sincero, in
quanto che troppa gente, che crede, par quasi che si vergogni di
confessarlo davanti agli spiriti forti. Egli non aveva da parlare come
un teologo, non avendo studiato teologia; ma da filosofo non
materialista, nè scettico, doveva egli, per ottener grazia dal suo
contradditore sarcastico, dare addosso a quelle credenze in cui sono
stati educati i nostri padri, e in cui saranno ancora educati i nostri
figliuoli?

Più ci pensava, e più si persuadeva di non aver niente a rimproverarsi.
Quanto al generale, facesse il broncio fin che voleva. A un certo punto,
se il silenzio fosse durato dell'altro, Maurizio avrebbe guardato
l'orologio, fatto un gesto di terrore e parlato del solito appuntamento
che cava gli uomini da una posizione difficile. Ma grazie al cielo non
fu mestieri di bugie; la contessa Gisella appariva dal sentiero del
bosco. Era un pochino affannata dalla corsa, e accesa in volto più
dell'usato; ma il color delle rose le tornava bene come quello dei
gigli. Venne innanzi leggera, saltellante come una bambina, sorridente
come l'aurora. Non era un complimento, non una esagerazione il dire che
con lei ritornava la luce. Che bella cosa una bella donna! C'è chi la
preferisce al telegrafo e alle strade ferrate. Io all'invenzione della
stampa. E voi?

Il generale parve gradir molto l'arrivo di sua moglie. La contessa
giungeva opportuna a rompere quella scena muta.

--Già finita la discussione?--domandò ella, avvicinandosi al crocchio,
che per verità non appariva troppo animato.

--Sì,--rispose Maurizio, inchinandosi.

--E siete battuto?

--Non so; forse.... e senza esserne persuaso. Tutti i vinti sono
così;--soggiunse egli, sorridendo;--non vogliono mai convenire della
loro disfatta.

--Ti avverto, mia cara,--entrò a dire il generale, con la sua grossa
voce ancora gonfia di stizza,--che il signor di Vaussana ha finora il
vantaggio. Questo sia detto per la verità.--

Non era molto; ma era già qualche cosa. Maurizio colse il buon punto per
esser cortese a sua volta.

--In omaggio alla verità,--riprese egli,--diciamo che voi mi avete
promesso di pensare a certi argomenti miei. Potete vincermi ancora; le
sorti della battaglia sono dunque indecise. E la vostra ammalata,
contessa?

--Ah, la povera Biancolina? Febbre, signor Maurizio, gran febbre, e
complicata di miseria. Le disgrazie piovono addosso ai Feraudi con un
accanimento strano. Son già debitori di un semestre al Pinaia, il
potentissimo fornaio e pastaio di San Giorgio, un proprietario con cui
non si scherza, a quanto pare; e una mucca è morta improvvisamente nella
settimana scorsa, e l'altra ha il latte cattivo. Il marito è filosofo, e
pensa, guardando in aria; la moglie, rovinata dallo stento, ha dovuto
mettersi a letto. Sapete voi, quando una povera donna dei campi si mette
a letto, che cosa vuol dire? che la casa resta senza governo, i piccini
senza zuppa, le bestie senza strame, e tutto il resto in conseguenza.
Vedete che compassione! Ho aiutato come ho potuto; ma finora, più che
altro, con le buone parole. Intanto ci vorrà il medico, e manderò subito
a cercarlo.

--Permettete che lo cerchi io, discendendo in paese;--disse Maurizio,
con accento premuroso.--Tra mezz'ora egli potrà essere lassù al
Martinetto.

--Grazie, accetto l'offerta;--rispose la contessa.--Io penserò invece a
mandar brodo e qualcos'altro a quella poveretta.--

Maurizio non la conosceva neanche di vista, l'ammalata del Martinetto.
Il Feraudi, marito filosofo, lo aveva appena veduto qualche volta
pascolar le sue bestie sui greppi, tra il Martinetto e la Balma. Pure,
si mostrò addolorato per le disgrazie di quella povera gente: ed anche
ne fu consolato, pensando che la sua conversazione andava lontana le
mille miglia da ogni pericolo di galanteria. Il generale, del resto, a
poco a poco aveva spianate le rughe, e si degnava di mettere qualche
parola nel dialogo. Maurizio gli rivolse il discorso, temperatamente,
placidamente, come se nulla fosse avvenuto.

Frattanto doveva prendere commiato, avendo fretta di andare pel medico.

--Bravo, correte;--gli disse Gisella con quella stessa amabile
sollecitudine che avrebbe usata in altre occasioni per trattenerlo
ancora un poco alla Balma.--Immagino che il dottore conosca la strada.

--Se non la conoscerà gliela insegnerò io, che ho i miei monti.... sulla
punta delle dita.--

Gisella gli porse la mano. La stretta era sempre stata amichevole, come
dev'essere lo _shake hand_, dal giorno che l'Inghilterra lo ha diffuso
per tutto il mondo civile. Ma quella volta fu confidente, fraterna, come
di due persone che hanno conchiuso un patto. Non erano essi associati
oramai da un'opera di carità?

--Se avete notizie, ce le porterete domani, non è vero?--disse Gisella.

Anche il generale brontolò un arrivederci. Il capitano Dutolet, detto il
buon ragno, ed anche, aiutando il suo nome di battesimo, Guglielmo il
taciturno, abbozzò un sorriso ed una parola di due sillabe almeno.
Maurizio si avviò spedito, e scese quella volta dal gran viale. Per
quella novità ci era una ragione evidente: il medico abitava per
l'appunto in principio del paese, cioè verso le falde del poggio su cui
sorgeva il castello della Balma.

Il medico fu presto ritrovato, e con le più calde esortazioni spedito,
subito al Martinetto, di cui fortunatamente conosceva il sentiero.
Maurizio lo accompagnò per un tratto, facendo raccomandazioni. Quando il
discepolo d'Esculapio fu di ritorno, lo trovò ancora sulla sua strada,
desideroso di notizie. Aveva trovata la febbre, difatti, e piuttosto
forte, più vicina ai quaranta gradi che ai trentanove. Ma egli si era
trovato in caso di dare il rimedio, senza il bisogno di scendere alla
farmacia per la ricetta: preveduto il bisogno, la contessa aveva
lasciata lassù una parte della sua cassettina di medicinali, ed egli
aveva potuto somministrar subito una dose della inevitabile antipirina.
Più tardi avrebbe somministrato il chinino, se quella febbre si fosse
mostrata ribelle. Ma che febbre era? Reumatica, diceva il dottore, e
colpiva un organismo intaccato dalla grama vita; occorreva riposo, per
intanto, ed una miglior nutrizione: due cose che al solito non sono alla
mano dei poveri.

Più tranquillo da quel lato, Maurizio ripigliò la via del paese. Sulla
piazza gli venne veduto il Pinaia, che stava seduto a prendere il fresco
sull'uscio della sua bottega. Mentre il fornaio si alzava a mezzo, per
fargli di berretto, un'idea passò veloce per la testa a Maurizio. Sì,
certo, bisognava associarsi alle buone opere della contessa Gisella.
Chiamò il fornaio e lo condusse in disparte, entrandogli subito del caso
di quella povera gente. Ah, sì, povera gente! rispondeva il Pinaia, che
da quell'orecchio era un po' duro. Gli erano debitori d'un semestre, e
maturato da un pezzo; ancora un po' che aspettasse, gli sarebbero stati
debitori di tutta l'annata, cinquecento lire, a non contare l'interesse
della moneta. E non c'era verso di spillar loro un centesimo. Ma quella
povera mucca morta! ribatteva Maurizio; l'altra col latte guasto, che
non si poteva farne nulla; e la moglie ammalata! Tutte scuse, tutti
pretesti. La mucca era morta da cinque giorni, se mai, e il semestre lo
dovevano da due mesi. L'altra mucca aveva il latte guasto, ma si
aspettava un vitello. Quanto alla moglie ammalata, vecchia storia! Già
altre volte s'era ammalata, la bella Biancolina; e sempre alla scadenza
del semestre, per impietosire il padrone. Ma lui non ci cascava più, no
davvero. Una morte, aver terra al sole; d'allora in poi, quando avesse
quattro soldi di costa, voleva metterli in rendita dello Stato; e
calasse poi quanto voleva; ci avrebbe sempre risparmiato di più, che a
farsi mangiar vivo dai contadini. Brutta razza, i contadini; astuti,
furfanti di tre cotte, sempre lì a piangere miseria, coi gruzzoli di
marenghi nel saccone.

Maurizio era lì lì per domandargli:--E voi, Pinaia, di che razza siete
disceso?--Ma non volle aver due litigi in un giorno, cascando dal
generale al fornaio. Si contentò in quella vece di dirgli:

--Sentite, Pinaia: quella gente mi preme. Può esser vero quel che voi
dite; può anche non esser tale, e in questo caso io avrei rimorso di non
essermi interessato per le loro disgrazie. È giusto nondimeno che
abbiate il fatto vostro, aggiustiamola così: se non pagheranno loro,
pagherò io.

--Quand'è così, non parlo più, e al Martinetto, non domanderò più un
quattrino.

--No, non correte tanto;--disse Maurizio, che già temeva di parergli
troppo generoso.--Volevo dire che vi sto garante, sicuro come sono che
pagheranno.... entro il mese.

--Non me ne parli; non posso aspettar tanto le buone grazie del Feraudi.
Passerà il mese e non avrò nulla; ci metterei la mano sul fuoco, tanto
ne sono sicuro. Se devo aspettare il mio denaro da Lei, passi tutto il
tempo che Le piacerà, signor conte.

--Ah no, questo, no; io non ho l'uso di farmi far credenza;--disse
Maurizio, alterato.--Sono dugento cinquanta lire, avete detto? Eccole
qua;--soggiunse, mettendo mano al portafogli.--Voi me le restituirete,
appena il Feraudi vi avrà pagato.--

Il denaro è sempre buono a prendersi. Mastro Pinaia allungò la mano.

--Le faccio la ricevuta, signor conte. Se ha la bontà di aspettarmi un
minuto....

--No, a vostro comodo, Pinaia. Me la manderete domani. E grazie, non è
vero?

--Lei è troppo buono, signor conte;--rispose mastro Pinaia, facendo le
viste di non aver capita l'ironia.

--Sia pure;--rispose Maurizio, che voleva mostrare di aver capito il
complimento del fornaio arpagone.--Ma vi pregherò di non ridirlo a
nessuno. Non vorrei che mi metteste sulle braccia tutti i debitori
morosi di San Giorgio. Il povero Castèu e quella poca rendita che mi fa
vivere ci passerebbero in un mese.

--Lei ha ragione a tener poca terra, signor conte;--conchiuse il
fornaio.--Anch'io, nel mio piccolo, voglio far come lei. Tutta rendita,
tutta rendita dello Stato vuol essere.--

Nauseato del fornaio arpagone, ma contento altrettanto di sè, Maurizio
prese la via del Castèu. I suoi libri, quella sera, lo trattennero
lungamente a pensare.--Quanta roba!--diss'egli, passando i suoi scaffali
in rassegna.--E buona e cattiva; ci sono armi per tutti. Ed anche la
buona diventa cattiva, per chi se ne serve alla rovescia, senza
paragonare, senza mettere a contrasto, senza far la parte delle
conclusioni frettolose.--

Quella, notte portò in camera un volume del suo Cournot: _Matérialisme,
Vitalisme, Rationalisme_, ed anche, per riscontrare alcune preziose
citazioni, _Les Origines_ del Pressensé. Buoni libri erano quelli.
Anch'egli aveva avuti i suoi dubbi; anch'egli aveva tratte le frettolose
conseguenze dallo studio di certi fenomeni naturali, di certe teoriche
evolutive; quei libri, insieme coi suoi trattati di astronomia, e con
gli studi fisiologici del Pasteur, lo avevano ricondotto in carreggiata.
Ed anche aveva vedute certe conclusioni di Herbert Spencer a proposito
dell'inconoscibile, certe confessioni dello Stuart Mill a proposito
della creazione, donde gli era apparso il dubbio del dubbio, cioè a dire
la modica fede di quei grandi maestri del pensiero moderno intorno alla
saldezza dei loro proprii sistemi. Infine, aveva ragione lui. È giusto,
è desiderabile che la scienza positiva, che dubiti di tutto, che tutto
rimetta in discussione e sottoponga nuovamente ad esame, distruggendo,
ma col proposito di riedificare. Così era avvenuto in materia
d'antichità, per la storia delle origini Romane, che dopo aver negato
ogni fede a Tito Livio e a Dionigi d'Alicarnasso, si ebbe ancora ricorso
a quei due disgraziati, perchè aiutassero a rimettere in piedi il loro
edificio crollato.

Il giorno seguente, all'ora solita, forse qualche minuto dopo, anzi che
prima, il signor di Vaussana rifece il gran viale della Balma. Perchè il
gran viale e non il sentiero del bosco? Mah.... non indaghiamo certi
arcani del cuore. Quel giorno egli andava un pochettino come la biscia
all'incanto, lassù. Ma era necessario; aveva promesso alla signora. E
fors'anco il generale si era mutato da quello del giorno innanzi. Ma no,
sarebbe stato un miracolo; e Maurizio, con tutta la sua fede, non
credeva ai miracoli.

Per dargli ragione, quel giorno il signor generale era aggrondato. Stava
giocando a picchetto col capitano Dutolet; forse perdeva. All'arrivo di
Maurizio si degnò di smettere il giuoco; facile sacrificio per coloro
che pèrdono. La contessa Gisella stava ricamando, accanto alla finestra.

--Grazie;--gli disse ella, appena lo ebbe veduto comparire.--Il dottore
è già stato tre volte al Martinetto; due ieri, e una stamane. La nostra
ammalata va discretamente. C'è anche una donna del paese per aiuto.
L'avete mandata voi?

--No, signora; ma ne avevo parlato al dottore, ed egli avrà provveduto.

--Siete dunque voi egualmente. Così i piccini son governati, e l'inferma
è tranquilla; grazie ancora.--

Il generale stava in contemplazione davanti a sua moglie. Maurizio, per
non aver aria di parlar sempre con lei, gli rivolse il discorso.

--Ebbene, generale, ci avete pensato?--

Il generale fece il gesto dell'uomo che non si ricorda alla prima; poi,
dopo una spallata, rispose:

--No caro, non ho voluto perdere il mio tempo.--

La risposta era dura, ed anche ruvida parecchio. La contessa alzò gli
occhi attoniti, per guardar suo marito. Ma egli in quel punto non
guardava sua moglie, e non colse al volo quell'occhiata di rimprovero.
Maurizio balenò un tratto, non sapendo che rispondere. E forse non era
da risponder nulla; forse il generale non si sentiva bene quel giorno,
ad onta del suo fiorente aspetto, della sua pelle vermiglia. Il tempo
non era neanche buono; certamente gli dava ai nervi il vento di mare,
così molesto, così uggioso in montagna, dove giunge sempre con un gran
corteggio di nuvole.

Ci fu un altro silenzio tra i due, ma non così lungo come quello del
giorno innanzi. Il generale non aveva veduto, ma certamente aveva
sentito o indovinato lo sguardo di sua moglie; perciò credette
necessario di ripigliare il discorso, e per salvare le apparenze, ed
anche per tirare le somme.

--Noi siamo, signor di Vaussana, due edificatori di piramidi. Voi
vorreste che io fabbricassi la mia coi vostri materiali. Vi ringrazio,
ma non ne ho bisogno. Costrutta coi miei poveri mattoni, la mia si
regge, come la vostra col suo vecchio granito. Segno, per uscir di
metafora, che i nostri sistemi sono due rispettivi concepimenti del
nostro spirito. Vi ricorderò a questo proposito ciò che ho sentito dire
un giorno a Parigi da una gran dama russa, a cui si domandava in che
consistesse la vantata ortodossia della religione sua, che era, dopo
tutto, scismatica: «_l'orthodoxie c'est ma doxie à moi; l'étérodoxie
c'est votre doxie à vous_». Voi con le.... opinioni del passato siete
ortodosso; io sono tale con quelle del presente, e trovo nella teorica
del Laplace, come nelle esperienze di Carlo Darwin e nelle dimostrazioni
dell'Huxley, una spiegazione sufficiente dell'universo. La materia
eterna e la legge immanente nella materia mi dànno ragione di tutto. Sto
coi matematici, poi, e non moltiplico gli enti, che mi farebbero doppio
e mi porterebbero ingombro. Ho detto, e vi saluto.--

Poteva essere una chiusa faceta, o mostrava almeno l'intenzione di parer
tale. Ma sicuramente ce ne potevano esser di serie, che non lasciassero
tanto amaro nell'anima. Del resto, a mostrare che quell'intenzione non
c'era, il generale fece una giravolta sui tacchi, e se ne andò via
zufolando.

--Ettore!...--mormorò la signora.

Ettore si voltò, all'accento di rimprovero d'Andromaca; si voltò, ma era
già in fondo al salotto.

--Ma sì,--gridò egli, stizzito,--che ci vuoi fare? Bisogna bene finirla
così, una discussione come la nostra, che è già stata fatta un milione
di volte, senza riuscire a nulla di nulla. Sono curiosi, questi nostri
amici italiani, con la loro fede incrollabile! È un vizio di razza,
lasciatevelo dire, signor di Vaussana, è un vizio di razza.--

Si andava di male in peggio. Maurizio durò una fatica inaudita a
contenersi. Ne venne a capo, guardando i capelli bianchi di quel diavolo
d'uomo; poi, con voce un po' stridula, quasi sibilante, ma col sorriso
sulle labbra, si contentò di rispondere:

--Ed è per guarircene, che delle nazioni civili si studiano di
restituire la nostra capitale alle condizioni di Benares, la città santa
dell'India.--

Il generale non ascoltava già più; usciva dal salotto borbottando.

La contessa aveva chinata la faccia sul suo telaino, nascondendo la
ciglia. Quando le alzò, Maurizio c'intravvide una lagrima, e si turbò
fortemente. Dopo un istante di pausa, guardò l'orologio.

--Sono le quattro,--diss'egli;--debbo partire.

--Già?--mormorò la contessa.

--Signora,--rispose egli ad alta voce, tanto che potesse udirlo il
capitano, che stava nel vano dell'altra finestra, leggendo un
giornale,--ero venuto per voi, volendo darvi notizie della commissione
che mi avete affidata. Ora ho qualche cosa da fare. Forse dovrò anche
assentarmi per qualche giorno.

--Ah!--diss'ella, guardandolo negli occhi.

--Sì mia signora, una corsa fino a Genova. Non si lascia il servizio da
un giorno all'altro, come ho fatto io, senza che resti qualche faccenda
da terminare. Aspetto oggi stesso una lettera; se non la ricevo, dovrò
partire domattina per tempo.--

La contessa Gisella lo guardò ancora, poi chinò gli occhi e la fronte,
in atto rassegnato.

--Se non ci vediamo, buon viaggio, signor Maurizio, e possano tutta le
cose andare secondo i vostri desiderii.--

Una stretta di mano, lunga e forte, disse a Maurizio ch'egli era stato
compreso, e ch'egli aveva ragione.



CAPITOLO VI.

Sulla montagna.


L'alzata d'ingegno dell'orologio e dell'appuntamento, già vecchia di
ventiquattr'ore, ma non adoperata lì per lì, era tornata in buon punto
alla mente di Maurizio. Se non l'avesse avuta a mano dal giorno innanzi,
certo, scombussolato com'era dalla sgarbatezza del signor generale, non
sarebbe riuscito a trovare una gretola. In quella vece, fortunato lui!
una bugia preparata tirandone un'altra, quella del viaggio necessario,
il signor di Vaussana si ritrovò più presto che non pensasse fuori
dell'uscio. Troppo forte, per verità, la sua disperata invenzione,
seguita da quella rapidissima fuga. Egli oramai poteva credere
fermamente di essere stato per l'ultima volta alla Balma. Infatti, se ne
partiva sdegnato, palesemente sdegnato, senza aver preso congedo dal
padrone di casa. Ma sì, proprio ci sarebbe voluta l'altra umiliazione di
andare ad ossequiare quell'orso bianco! La canizie va rispettata, non si
nega; ma ella non pretenda che uno si avvilisca ancora davanti a lei,
perdendo il rispetto di sè medesimo.

Maurizio era feroce, uscendo dalla vista del castello. Nondimeno,
facendo a gran passi il viale, cercò di padroneggiarsi. A lui marinaio,
ed avvezzo agli amari bocconi della disciplina di bordo, la cosa non
doveva esser difficile. Ne venne a capo, specie al Castèu, quando gli fu
necessario rimanere un paio d'ore, a pranzo, con la sorella Albertina, e
davanti alle persone di servizio. Ma la sua tranquillità apparente lo
abbandonò, quando egli fu solo nelle sue stanze. Quel generale, che
uomo! un vero pazzo da catena. Ed era lui che aveva sentenziato non
doversi mai discutere di politica nè di religione, tra uomini? Ma perchè
mai c'era cascato in quel modo egli stesso?

Un sospetto s'affacciò alla mente di Maurizio; il sospetto che tutta
quella arrabbiatura a freddo fosse stata un pretesto. Se così era,
l'orso bianco della Balma poteva anche passare per un uomo di spirito.
Ma ugualmente per un uomo avveduto? Maurizio fece il suo esame di
coscienza con tutta sincerità. Egli ricordava benissimo di non aver mai
detto niente alla contessa Gisella che potesse destar gelosia nel
marito. Le sue galanterie erano sempre state di quelle che sono
permesse, anzi comandate in società, sotto pena di passare per ignoranti
o per ipocriti. Neanche c'era stato il caso di coglierlo in flagrante di
lunghe occhiate, di mute adorazioni; quel covare una donna con gli
occhi, che alle volte è peggio del farle una dichiarazione, non si
poteva certamente rimproverare a lui, che non ne aveva mai avuto il
costume, e dal suo riserbo non aveva avuto neanche ragione di dipartirsi
alla Balma. La contessa della Bourdigue gli era apparsa bella, anzi
bellissima: più bella del vero l'aveva definita dentro di sè, ridendo
della sua propria scioccheria. Ma le bellissime donne comandano più
ammirazione che non ispirino amore; e l'ammirazione è stato d'animo che
non suole durar molto. Si è sgomentati, oppressi, annichiliti da un tale
eccesso di bellezza, che non par naturale; e si cerca di sfuggire più
presto che si può a quel senso di pena. In lui, del resto, al senso
della ammirazione artistica, era sottentrato il rispetto, e al rispetto
l'amicizia, quanta può esserne tra un uomo e una donna, ma certamente
un'amicizia leale. Provava accanto a lei un sentimento di pace
ineffabile; e questo non si poteva scambiare per un sintomo d'amore, no
certo. Aggiungete questo: un giorno, involontariamente, come vengono
spesso i cattivi pensieri, gli era passato per la testa che ci fosse
qualche cosa tra la signora generala e quel buon ragno del capitano
Dutolet; e, notate un importantissimo segno, non ci aveva sofferto;
solamente si era accontentato di osservare, molto filosoficamente, che
tutti i gusti son gusti. Dopo tutto, quella bellissima donna non aveva
sposato il generale? non lo aveva voluto lei, il suo zio e tutore, che
la precedeva di oltre quarant'anni nella marcia forzata dell'esistenza?

Quanto a sè, conchiudendo, Maurizio non vedeva niente di cui potesse
chiamarsi in colpa. Ma proprio niente? E perchè, ad esempio, quella
gioia profonda, intensa, che lo aveva tutto penetrato, ad una certa
stretta di mano, lunga e forte? Dio mio, era la gioia dell'opera buona
in cui erano associati. E perchè quella compassione tanto viva per la
miseria dei Feraudi? Gli dovevano premer tanto, i contadini del
Martinetto? Gli uomini, di solito (e si parla dei buoni, dei
caritatevoli) se la cavano con una abbondante elemosina. E in questa
categoria di larghezze spensierate poteva entrare, mettendoci un po' di
buona volontà, il regalo di dugento cinquanta lire al fornaio di San
Giorgio. Ma l'ardore, la furia con cui si era adoperato per quella
povera gente, come s'avevano da intendere? Qui il signor Maurizio rimase
un pochino dubbioso. E quel dubbio gli fece male. Lui innamorato? lui,
che aveva giurato di non lasciarsi cogliere mai e poi mai?...
Superficiale per deliberato proposito nelle sue relazioni, leggero e
volubile per la stessa qualità della scelta, il brillante ufficiale di
marina aveva fin allora saputo conciliare la incostanza del cuore con la
probità del carattere, non turbando la pace di nessuno, nè la sua. Se di
punto in bianco egli si era tanto mutato, il generale aveva avuto
ragione ad insospettirsi; si era dimostrato un uomo avveduto, e insieme
di spirito, cogliendo quel pretesto della discussione filosofica per
levarsi un importuno dai piedi. Ma perchè andarlo a cercare,
l'importuno, che non era e non voleva esser tale? Perchè, avuta la prima
visita, si era ostinato a voler la seconda, la terza, e via via fino
alla ventesima, o giù di lì? Eterna istoria! così fanno tutti, quando si
fidano. Si annoiano di esser soli, e cercano compagnia; poi non si
fidano più, e d'essere accompagnati si seccano.

Tutto questo ragionamento, se ragionamento può dirsi un simile annaspìo,
riusciva a confonderlo sempre più. Frattanto, non sarebbe più ritornato
alla Balma; nè, per un certo numero di giorni, avrebbe dovuto pensare al
poi. Aveva annunziato un viaggio: quel viaggio bisognava farlo, non
foss'altro per muoversi, per isnebbiarsi il cervello. E non già, come
aveva detto, la mattina per tempo; ma più tardi, nella giornata, alla
vista di tutto San Giorgio, partì per Ventimiglia: giunto là, non volse
per Genova, dove non aveva niente da fare, sibbene per Nizza, dove
almeno era sicuro di non incontrare amici e conoscenti che gli
entrassero della sua dimissione; argomento molesto, e tanto più allora,
che di quel colpo di testa incominciava a pentirsi.

Nizza era bella, e Maurizio non voleva negarlo, dopo averlo riconosciuto
tante volte. Ma era vuota, Dio santo, fredda e senza luce; il mare
d'inchiostro; la via della Stazione un deserto; il Castello un
catafalco; la passeggiata degli Inglesi un mortorio. Così tingiamo noi
le cose del colore dell'anima nostra. Maurizio si crucciò a Nizza due
giorni; il terzo non ci potè più resistere, e allora se ne ritornò a
Ventimiglia, ripartendo per San Giorgio in modo da arrivarci nella
notte, due ore prima dell'alba, quando tutti dormivano. Dunque
innamorato a buono? E dopo essersi messo da sè fuori del paradiso? Sì,
gli bisbigliava un demone all'orecchio, sì, come un vero collegiale. No,
rispondeva una voce dal fondo dell'anima, come un onest'uomo.

E si chiuse nelle sue stanze, risoluto di lavorare. Avrebbe desiderato
di vedere il medico, per sapere qualche cosa della povera Biancolina; ma
volle resistere a quel desiderio morboso, non amando lasciarsi vedere in
paese. Sapessero poi, o non sapessero, ch'egli era tornato; l'essenziale
era di non mettersi in mostra, e di poter dire più tardi dei fatti suoi
quel che gli fosse piaciuto. Del resto, se lassù credevano ch'egli fosse
in paese, tanto peggio per chi gli aveva usato villanìa: si sarebbe
capito, dopo tutto, ch'egli aveva dovuto provvedere in qualche modo,
fosse pure con una bugia alla tutela della sua dignità.

Questo medesimo pensiero, cresciuto e fortificato nell'anima sua, gli
consigliò dopo qualche giorno di rompere la volontaria clausura. Gli
pesava il vivere da schiavo. Schiavo di che, finalmente? Uscì, dunque,
ma non per andare in paese: si trafugava di buon mattino dall'uscio dei
campi, muovendo spedito verso la montagna. Non si arrisicava dalla parte
dell'Aiga; andava dal lato opposto, verso la Sisa, una balza
indiavolata, più fatta per camosci che per uomini. Di lassù, dopo due
ore di marcia, si scopriva molto orizzonte; inoltre, si vedeva ancora il
Martinetto, e più in là, sull'ultimo sporto della costiera boscosa, il
castello della Balma.

Nella sua prima ascensione Maurizio aveva portato con sè, da previdente
alpinista, il suo binocolo a tre lenti, per campagna, teatro e marina.
Ma la vista di lassù era così stupenda per lontananze preziose, che quel
piccolo strumento ottico non gli parve bastante. Immaginate voi se non
avesse ragione, essendogli occorso di vedere là in fondo, dalla eminenza
della Balma, apparire una figura di donna. Poca cosa, per verità; come
una chiazza di bianco sul verde, ma su quel bianco una macchia di rosso
vivo, che gli rammentava un certo ombrellino. La piccola apparizione
muoveva snella verso tramontana; non si vedeva più; si ritornava a
vederla; pareva venisse alla volta del Martinetto, poichè non scendeva,
nè andava più alta d'una certa zona del bosco.

Maurizio aveva riconosciuto Gisella, e il cuore gli aveva dato un
sobbalzo. Si era affrettato a fissare il momento, guardando l'orologio:
erano le dieci in punto. La vide così apparire e sparire tre o quattro
volte, secondo le sporgenze e le insenature della costiera; poi più
nulla, e passò un'ora senza luce; ma dopo quell'ora, sì, no, sì, lei
ancora, avviata verso mezzogiorno, per ritornare al castello. Ma era
quotidiana, la gita? Il cuore diceva di sì; l'osservazione confermava la
divinazione del cuore.

Il giorno dopo, infatti, la graziosa apparizione si ripeteva, alla
medesima ora; e questa volta non era più un punto bianco e rosso: era
una figura intiera e distinta, veduta come se fosse a cinquanta passi da
lui. Maurizio aveva lasciato a casa il binocolo e portato con sè un
canocchiale di bordo, specie di telescopio, a tubi scorrenti l'uno
nell'altro, per modo che non facesse ingombro tra le mani, nè fosse
difficile portarlo ad armacollo. Ah, come la vedeva bene, oramai, la
bellissima tra le belle! Graziosa nelle movenze, leggera nel passo,
vestita di bianco, ma con certe screziature di rosso; i due colori che
le piaceva di accoppiare nel suo vestiario, e che andavano a maraviglia
con quella sua figura giovanile; rosso il nastro del suo cappellino di
paglia, rosso l'ombrellino che si spandeva come il calice di un bel
rosolaccio sulla sua testa dorata; così vedeva egli Gisella, così aveva
l'illusione d'esserle ancora vicino.

Tutto ciò dava ogni giorno due ore di occupazione a Maurizio; pensare a
quelle due ore, aspettarne il ritorno, erano giocondi uffizi per lui. E
senza fallire al suo debito di onest'uomo, perchè amare è permesso,
anche quello che non ci appartiene, quando si ami da lontano, come si
ama una stella, seguendone il corso nello spazio.

Sempre alle dieci del mattino la vedeva comparire, per tre giorni alla
fila. Il quarto giorno gli prese una matta voglia di sapere che cosa
accadesse lassù al Martinetto. Andandoci di buon mattino e ritornando
prima delle dieci, non c'era pericolo che incontrasse Gisella. Così
tranquillo su quel punto capitale, uscì di casa muovendo verso l'Aiga;
di là, senza procedere più oltre verso la Balma, salì la montagna per
raggiungere la cascata superiore, quella che veramente prendeva nome dal
Martinetto.

La gran massa d'acqua scendeva giù per una piega naturale del monte, che
essa aveva aiutato a rendere più profonda, nella notte dei secoli:
veniva di molto lontano, e Maurizio, che pure da fanciullo aveva corsi e
ricorsi quei greppi, non ne conosceva la scaturigine. Questo egli
rammentava, che l'acqua attraversava un gran prato, uno di quei prati
alpini così verdi, vestiti qua e là da ciuffi di rododendri, e che
all'estremità di quel prato si rovesciava giù da una rupe. L'accoglieva
una prima conca, poi una seconda, da dove ribollendo e spumando
s'inabissava a forse quaranta metri più sotto, venendo a far girare la
ruota di un mulino poco sopra il paese di San Giorgio. Per quel mulino,
naturalmente, era troppa; ne bastava una derivazione, ottenuta
dall'arte: e il canale che serviva al mulino, e il resto della cascata,
si ricongiungevano a poca distanza dal Castèu, per venire a traversare
il paese, e far pensare di tanto in tanto ai suoi abitanti che una
simile ricchezza d'acqua si sarebbe potuta sfruttare benissimo,
impiantando a San Giorgio uno stabilimento idroterapico, che sarebbe
stato il decoro della valle e la fortuna di cinquecento famiglie, a dir
poco.

Lo stabilimento idroterapico è la solita storia con cui si va guastando,
magari in sogno, la cara poesia della montagna, tirando lassù, insieme
coi nostri acciacchi, le nostre malinconie, le nostre miserie fisiche e
le nostre miserie intellettuali. Per fortuna, non ci son sempre i
capitalisti lì pronti per tradurre i sogni in realtà.

L'Aiga, nondimeno, aveva trovato in altri tempi il suo capitalista, uomo
pratico, che era salito su quella balza a impiantarvi un martinetto. Si
chiamava, e tutt'ora si chiama con questo nome, nelle regioni montuose
dell'Italia superiore, il maglio delle ferriere; donde avevano spesso il
nome di martinetto le ferriere medesime. Mosso ordinariamente dalla
forza dell'acqua, il martinetto battendo sull'incudine la ferraccia
arroventata, la modellava via via, la spianava, la stendeva, la foggiava
in ispranghe, per uso dei fabbri. Innanzi la scoperta del vapore e il
minor costo delle sue applicazioni, erano i martinetti assai più
numerosi; e per foggiare il ferro, come per lavorare nelle cartiere e
nelle gualchiere, ne sorgevano dovunque scorresse un bel volume d'acqua
perenne. Ma generalmente oramai, e più per il ferro, i martinetti ad
acqua han persa la lite: dove la scarsezza progressiva, del combustibile
necessario all'arroventatura, dove il rinvilìo del minerale del ferro e
la concorrenza delle migliori qualità hanno dato la prevalenza alle
ferriere dell'Europa settentrionale. Per una di queste cagioni, se non
forse per parecchie, era andato in rovina il martinetto di San Giorgio.

Qualcheduno dei proprietarii che si erano succeduti lassù aveva
azzeccato il suo quarto d'ora di poesia, facendo sorgere alquanto più su
ed alle spalle dell'officina un belvedere, specie di torrione piantato
sull'orlo dell'abisso, con la sua piattaforma circondata di merli e con
un lungo sedile corrente all'ingiro. Si giungeva lassù passando
attraverso una macchia di nocciuoli, dove era stato certamente da
principio un sentiero; ma la traccia di questo era sparita oramai,
cancellata da quella gran nemica d'ogni arte che è la santa madre
natura. Noi ordiniamo, ed essa confonde; i nostri muriccioli si veston
d'edera e di lucertole; i nostri andarini sabbiosi, le nostre redole
fatte a musaico di sassolini a due tinte, si sfasciano sotto le piogge
equinoziali; i bei prati di fieno inglese son dati in governo alla
gramigna, e la sterpaglia riprende ben presto i suoi diritti dove noi
avevamo ripulito col sarchiello, raddrizzato col traguardo e livellato
con la tavoletta pretoria. Santa madre natura, che Iddio continui a
benedirvi! Perchè non si lascia intieramente a voi la cura di foggiare
i nostri parchi, di svariare i nostri giardini? Qualche volta, non c'è
che dire, voi fate meno bello dei nostri architetti; per contro, fate
sempre più grande.

Il belvedere del Martinetto si poteva scorgere dall'altra sponda della
cascata; era invisibile dalla macchia, ed anche a chi ne conosceva
l'esistenza non riusciva troppo facile di ritrovarlo. Maurizio, che si
era inerpicato in altri tempi lassù, con la matta e spesso pericolosa
curiosità dei ragazzi, stentò ad orientarsi in quel folto di rami.
L'orrida bellezza del luogo lo ricompensò largamente della fatica
durata. Trovò il belvedere, i sedili, la merlata, un po' in rovina per
verità, ma fresche e vive le sue ricordanze, all'ombra di quel fogliame
diffuso sulla piattaforma e sull'abisso rumoreggiante lì presso.

Pagato il tributo ai ricordi, Maurizio lasciò la piattaforma del
torrione, e per la macchia dei nocciuoli discese verso il Martinetto.
Una parte del fabbricato era andata in rovina; solo dall'altro lato ne
rimaneva in piedi un'ala, convertita in abitazione colonica. Laggiù
vivevano i poveri fittaiuoli del Pinaia, avendo davanti a sè quel magro
podere e quei pascoli per cui dovevano pagare cinquecento lire ogni anno
al fornaio arpagone di San Giorgio. Compiuto il giro della vasta rovina,
Maurizio riuscì sull'aia che si stendeva davanti alla casa.

Due piccole vite si agitavano, ognuna a modo suo su quell'aia. Un
ragazzetto si trastullava facendo correre l'una dietro l'altra alcune
pallottoline di porcellana e di vetro colorato, lungo certi solchi che
aveva scavati nel battuto: immagine di più faticose cure che gli
sarebbero toccate da grande. Una bella tombolina, seduta con molta
gravità su d'un gradino dell'uscio, abbracciava due bambole, niente di
meno; una fatta di cenci, affagottata, sudicia, che non aveva più figura
umana, e forse non l'aveva avuta mai; l'altra di legno, sfarzosamente
vestita, con le guance paffute e rosse, gli occhi di smalto e una bella
zazzeretta di ricciolini biondi: tutt'e due le teneva ben strette al
seno, ammirando l'una, non sapendo spiccarsi dall'altra; simbolo e
promessa di una maternità che non avrebbe fatto differenza tra le sue
creature, se anco si fossero spartite in mostri e bellezze.

Maurizio accarezzò i bimbi ed entrò nel tugurio, dove trovò seduta di
contro all'uscio, a soleggiarsi un poco, una donna ancor giovane, dal
viso pallido, ma dall'occhio vivace, in aspetto di convalescente. Ci
voleva poco a capire che quella era Biancolina, la povera donna per cui
tanta inquietudine aveva regnato alla Balma.

--Ah!--esclamò la donna, alzandosi a mezzo.--Lo avevo ben detto io, che
sareste venuto a vedermi una volta.

--Mi conoscete?

--Certamente: siete il signor Maurizio. Vi ho veduto una volta passare
di là sotto. Mio marito mi ha detto: quello è il signore del Castèu, che
s'incammina alla Balma.--

Diavoli di contadini! vedono tutto, loro; niente sfugge ai loro occhi di
ramarro. Anche in luoghi così deserti, i passi del signor Maurizio erano
dunque osservati? Ma sì: e se gli scriccioli, i merli, i passeri
solitarii avessero avuto il dono della parola, si sarebbe sentito dire
da molti cespugli: ecco il signore del Castèu, che s'incammina alla
Balma.

Il signor Maurizio lasciò cadere l'allusione, e domandò notizie della
salute. Non era quasi da domandarne; si vedeva la guarigione avviata.
Biancolina era tuttavia un po' debole; della qual cosa si tormentava,
pensando che il suo uomo era costretto a far lui tante cose che prima
erano fatte da lei, come ad esempio mungere il latte e portarlo in
paese. Quanto alle piccole faccende di casa, veniva tutti i giorni una
brava donna dal mulino di sotto; e di questo la convalescente rendeva
grazie al signor Maurizio, che le aveva procurato l'aiuto.

--Ma io non ne so nulla; io non c'entro;--rispose Maurizio,
schermendosi.

--Sì, sì, così dice la mano destra della gente di cuore, quando la
sinistra ha fatto l'elemosina;--ribattè Biancolina.--Ma io so tutto, e
della donna e del medico che siete corso a cercare per me; so tutto io;
ci ho l'angelo custode che mi avverte di tutto. Non lo credete, signor
Maurizio? Ed è un bell'angelo, sapete, con certi capelli d'oro filato,
con certi occhi che paion diamanti. Ma lasciamo star l'angelo; io non
saprò mai come ringraziar voi, che siete tanto buono coi poveri. Ma se
Dio ascolta le mie preghiere, egli vi farà contento di tutto quello che
potete desiderare. Rosina! Vittorio!--gridò la donna, interrompendo il
suo discorsetto.--Non vi spingete troppo addosso a questo bel signore
tanto buono. Non vedete che gli levate l'aria dattorno?

--Lasciateli fare, lasciateli fare, Biancolina. Io amo i bambini. A te
piccina; quale delle tue bambole mi vuoi dare in moglie?--

La bambina rise, come una mamma che avesse due figliuole da collocare.
Ma era una mamma di sei anni, e non aveva nessuna idea delle
convenienze; e ridendo offerse tutt'e due le figliuole. Maurizio baciò
quella mamma, e costituì una dote alle figliuole, in due belle monete
d'argento; poi, per non far nascer gelosie, ne diede altre due al
ragazzetto, ma senza bacio; un amichevole buffetto ne tenne le veci. E
la ragione del diverso trattamento c'era; luccicava tra il labbro
superiore ed il naso di quel piccolo sbadato.

--È ben fresca, questa bambola!--disse Maurizio, per dar sulla voce a
Biancolina, che voleva ringraziare.--Pare comperata ieri.

--Infatti, l'ha portata ieri a Rosina la buona fata della Balma,
insieme con le pallottoline per Vittorio. Voi la vedrete fra poco, la
buona fata, l'angelo di questa casa.--

Maurizio guardò l'orologio. Erano appena le otto, ed egli respirò. Tra
due ore sarebbe venuta la buona fata, ed egli non sarebbe stato più di
mezz'ora lassù.

Intanto la donna proseguiva:

--Per oggi mi ha promesso di venir prima del solito. Non istarà più
molto a comparire laggiù, tra quelle due piante di rovere.--

Maurizio fremette. Si era affrettato troppo a respirare. Stette ancora
due o tre minuti, ma proprio sulle spine. Ed era per alzarsi, col
pretesto di aver molto da fare; quando i bambini, che poc'anzi erano
tornati sull'aia a guardar la belle monete d'argento al sole, accorsero
gridando:

--La signora! la signora!--

Un ombrellino rosso apparve laggiù, fra mezzo ai due roveri. Non c'era
più tempo a pretesti; era impossibile la fuga.



CAPITOLO VII.

L'idillio del Martinetto.


Profondamente turbato, Maurizio rimase là, con gli occhi fissi in quel
punto luminoso che gli appariva nel vano dell'uscio, e con un sorriso
impresso, suggellato sulle labbra.

Un grido di gioia infantile, scoppiato a mezzo dell'aia, lo salutò.
Gisella aveva riconosciuto Maurizio. Affrettando il passo, la grande
bambina ebbe l'aria di accingersi a spiccare un volo verso di lui, come
se volesse gettarsi nelle braccia d'un fratello non più veduto da lungo
tempo.

--Ah, lo dicevo ben io, che m'aspettava una novità al Martinetto;--gridò
ella, stendendo la mano a Maurizio e fissando in lui i suoi belli occhi
incantati.--Poc'anzi, di là dal Fontan, ho incontrato un bel serpente,
che se ne stava arrotolato come un braccialetto intorno alla punta di un
masso e mi guardava coi suoi occhietti maliziosi. Non aveva paura di me;
ed io non l'ho avuta di lui.

--Signora....--mormorò Maurizio sgomentato.

--Perchè avrei dovuto averne?--ripigliò la contessa.--Vedere un serpente
è di buon augurio; significa incontro inaspettato.--

Maurizio aveva vinto quel primo sentimento di paura, e sorrideva,
tentennando la testa.

--Ecco,--diss'ella,--io so bene che cosa significhi il vostro sorriso.
Se fosse stato un boa, o un serpente a sonagli, non è vero? Ma qui non
ci sono serpenti a sonagli, nè boa; non si tratta che di povere bisce
inoffensive, e il buon augurio rimane. Del resto, non si è avverato? Ma
vediamo prima di tutto questa buona Biancolina. Come va?

--Bene, signora; di bene in meglio: ho dormito tutto d'un sonno.

--E mangiato?

--No, per aspettarvi. Non mi avete detto ieri che volevate far colazione
al Martinetto?

--Certamente ed ecco qua il mio tributo di provvigioni; il poco che ho
potuto portare nella mia bisaccia, che non è quella dei frati
cappuccini.--

Così dicendo, si toglieva d'armacollo una borsa e l'apriva sulla tavola,
cavandone dei piccoli panini dorati, un cartoccio di biscottini, e un
secchiolino di legno ermeticamente chiuso alla bocca.

I ragazzi si erano appiccicati agli orli della tavola, per essere ai
primi posti; ed anche allungavano le mani, per carezzare, se non a
dirittura per prendere.

--Vedere e non toccare, bambini; almeno per ora;--disse Gisella.--Ma che
cosa vedo, signor Vittorio? che cosa vi ho raccomandato ancora ieri
mattina?--

Il ragazzo si fece rosso in volto come una fragola, e scappò via lesto
lesto. Due minuti dopo ritornava con la faccia umida, ma, a Dio
piacendo, abbastanza pulita.

--Va bene, così; la faccia ha da esser sempre netta e tersa come uno
specchio, mi capite?--riprese la signora, mescolando gli ammonimenti
alle lodi.--Prendete esempio dalla vostra sorellina, che è sempre così
linda.

--Ah, non tanto, signora, non tanto!--esclamò Biancolina.

--Eh, dico in paragone di suo fratello;--rispose Gisella.--Del resto, a
quell'età non si può e non si deve pretender troppo. L'essenziale è di
non lasciar mancare gli avvertimenti. Che cosa avete preparato,
Biancolina?

--Le uova fresche, il latte, il burro, tutto quel poco che abbiamo.

--E il resto l'ho portato io, compreso il caffè fresco e lo zucchero.
Ora a noi; il fuoco è già acceso, come vedo. Signor Maurizio aiutatemi.
Prendete il latte; è laggiù nella madia, in quel mastello coperto; e
riempitene il bricco che è là sulla cappa del cammino. Il più grande,
intendiamoci; l'altro lo metterete al fuoco, dopo averlo riempito
d'acqua. No, no, Biancolina, state lì, voi;--soggiunse Gisella, non
permettendo che la convalescente si occupasse di nulla.--Vogliamo far
tutto noi altri.--

Maurizio era entrato con molta gravità, ed anche con bastante
intelligenza, nelle sue funzioni di sottocuoco. Gisella, frattanto, con
la diligenza e la sveltezza delle buone massaie, apparecchiava la
tavola. Sapeva, o indovinava, dove fosse ogni cosa. Presa una tovaglia,
la spiegava e la stendeva sul piano, mettendovi poi su i tovagliuoli,
rozzi come la tovaglia, ma bianchi e freschi di bucato com'essa. Poscia
accanto ai tovagliuoli dispose piatti e bicchieri, aggiungendo i panini
che aveva portati con sè.

--Ho fatto bene a largheggiare nel numero,--diss'ella, lodandosi un
poco.--Presentivo ancor io che avremmo avuto una bocca di più. Ora alle
posate; saran qui nel cassetto. Bene, è anche qui il pan bigio, che mi
piace tanto. Lo faremo a fette, per istenderci il miele. A voi,
Maurizio; un coltello, e apritemi questa secchiolina.

--Non farò schizzare il miele?--domandò Maurizio, introducendo la punta
del coltello sotto l'orlo del coperchio.

--Eh via, con un po' di grazia! Del resto, mi pare che diciate per
celia. Vedo bene che faremo di voi qualche cosa.--

Appena il bricco dell'acqua calda levò il bollore, Gisella andò a
versarci dentro il suo caffè in polvere. Un buon odore aromatico si
diffuse per la cucina, che era sala da pranzo, anticamera e salotto ad
un tempo.

--Riuscirà un caffè alla turca;--notò Gisella, ridendo.--Piace a voi,
Mau.... signor Maurizio?

--Certamente, è migliore;--rispose il signor Maurizio, dolcemente
solleticato da quel Mau.... senza signore. Gisella si era pentita, ma
tardi; già due minuti prima, senza avvedersene, lo aveva chiamato
Maurizio senz'altro.

Cinque o sei minuti dopo, era ogni cosa, all'ordine, perfino le uova,
gittate nel paiuolo dell'acqua bollente. Quelle uova a bere furono il
principio della colazione; fresche, eccellenti, sorbite con grande
facilità da Maurizio e Gisella, con un po' più di lentezza da
Biancolina, non senza guai per la tovaglia da Rosina e da Vittorio, che
riuscirono anche ad impiastricciarsi la faccia. Fu un'impresa non lieve
per Gisella il ripulirli a dovere. I due bambini tendevano per altro di
buona voglia il musino a quella graziosa mamma improvvisata, ben sapendo
che non voleva veder volti insudiciati.

--Ah, la buona _menagère_!--esclamò Biancolina.--Peccato che non ne
abbiate dei vostri.

--Che! non è forse meglio così?--rispose Gisella.--Per amare i bambini
non è necessario averne dei proprii, ed ogni opinione contraria non
muove che da un inavvertito sentimento di egoismo. Io li amo, perchè son
creature innocenti, e non perchè mi debbano appartenere. Quando vedo una
bella aurora, l'amerò forse meno, perchè non è mia? l'amerei più, se
fosse mia? Idee false, mia cara Biancolina, idee false, quando crediamo
che per amar bene i bambini dobbiamo averne dei nostri. False
almeno--soggiunse Gisella,--per una certa classe di persone; ad esempio
per me. So bene che per voi, se non ne aveste, sarebbe una pena, non
potendo amare e proteggere i miei. Ma io posso, come vedete, amare i
vostri, proteggerli anche, ed averne il diritto, solo che io sappia
metterci un pochino di buona grazia.

--Un pochino!--esclamò Biancolina, ridendo.

--Ebbene, diciamo anche molto,--replicò Gisella,--purchè mi vogliate
bene. Son felice di essere amata; solo a questo patto è buona la vita.--

Maurizio stava a sentire, attonito, sbalordito, ma non da quelle parole,
a cui del resto prestava poca attenzione, contentandosi di gustarne la
musica. Non poteva credere a sè stesso, non riusciva a capacitarsi
com'ella fosse là, davanti a lui, come egli si trovasse a tanta festa,
che non s'era aspettata, e che non intendeva per qual miracolo gli fosse
venuta: In che modo aveva potuto la contessa Gisella capitare a
quell'ora mattutina sulla montagna? e come poteva con tanta facilità
rimanere lassù, accanto a lui? Ma non era ancor tutto; e d'altro doveva
maravigliarsi tra poco.

--Signor Maurizio,--gli diss'ella ad un tratto, rivolgendosi a
lui,--sono contenta di avervi trovato, perchè facevo conto di venirvi a
cercare, questa mattina per l'appunto. Già, non mi fate quel viso....
appena bevuto il latte e sorbite le uova del Martinetto, volevo calare
al Castèu, che è così bello.... tanto bello, che me ne è rimasto un gran
desiderio negli occhi.

--Signora....--balbettò Maurizio,--ci potete venir sempre.

--E infatti così farò. Avevo bisogno di voi, per una faccenda che mi
preme moltissimo; e si tratterà d'un discorso un po' lungo. Ma non vi
spaventate, ve ne prego; altrimenti non saprò più da dove incominciare.
Sarei venuta sola, per un sentiero che non conosco. Voi siete qui, per
fortuna; verrò dunque al Castèu in vostra compagnia, e avrò il vantaggio
d'imparare la strada.

--Sono ai vostri ordini,--disse Maurizio.

La colazione era finita, e Gisella si alzò.

--Te ne vai, madama?--gridò Rosina, aggrappandosi alla gonna di Gisella.

--No, cara; cioè, sì, ma per ritornare fra poco. Infatti,--soggiunse
ella,--non voglio attraversare il paese, su quei lastroni sconnessi.
Anche quassù ci sono dei brutti passi, ma non tanti; e poi non c'è
pericolo d'ingoiar polvere, come laggiù. Ritornerò dunque per di qua, e
vedrò ancora la mia Biancolina, coi suoi cari ragazzi. Non partirò per
altro, senza aver bevuto un sorso d'acqua fresca. Animo, signor
Maurizio; prendete quella secchia; si va alla fontana: io porto il
bicchiere.--

Maurizio si armò della secchia di rame, che era stato pronto a spiccar
dall'arpione. In verità, si poteva farne qualche cosa, di quell'uomo,
sebbene in quel giorno capisse poco. Ed anche si avviò difilato alla
fontana, specie di fossatello scavato al piede d'un masso e mezzo
coperto da un arco di fabbrica, che era facile di vedere da un lato del
piazzale, dalla parte della montagna. Quell'acqua doveva essere una
derivazione della grande cascata, che rumoreggiava un cinquecento passi
più in là. Maurizio attinse l'acqua; Gisella mise il bicchiere nella
secchia, e bevve a larghe sorsate il fresco umor cristallino, mentre
egli stava immobile contemplando la candida gola tesa della sua graziosa
vicina. Gisella era un fior di bellezza, di salute, di buon umore, di
astuzia garbata. Come lo guatava, infatti, come lo guatava di sbieco,
con la coda dell'occhio malizioso, mentre teneva alto il mento e quella
bianca gola scoperta! Ma ad un certo punto le venne da ridere, e fu lì
lì per ispruzzar l'acqua in aria.

--Badate!--diss'ella.--Mi farete far la figura di un mascherone da
fontana.

--In che modo?--chiese Maurizio trasognato.

--Ma sì, con quella vostra faccia d'uomo che non capisce....

--Infatti, signora....

--Ebbene, se non capite ora, capirete poi. Perchè tanta fretta? Non sarò
mica tanto crudele da ricusarvi i miei lumi superiori.--

Maurizio intese che il meglio era di non lambiccarsi il cervello. Perchè
almanaccar tanto, e fantasticare intorno alle cose che si dovranno
conoscer poi appuntino? Prese il bicchiere che Gisella gli offriva, e
bevve a sua volta, ma senza aver l'aria di notare la cortesia grande e
di farne le meraviglie; poi riportò tranquillamente ogni cosa in cucina.
Poco stante, salutata la Biancolina e accarezzati i bambini, si avviò
con Gisella verso il balzo dell'Aiga; la stessa strada per cui era
venuto.

Andarono per un tratto in silenzio. Gisella, passava di là per la prima
volta, e guardava la rovina del lungo fabbricato con curiosa attenzione.

--Che cos'era tutto ciò?--chiese ella a Maurizio.

--Un martinetto, signora; una grande fucina per raffinare il ferro. Qui,
per l'appunto, era la ruota che metteva in movimento il maglio.

--La ruota! ma l'acqua è ancora molto lontana.

--Sì, la cascata è un trecento passi più in là. Ma l'acqua da far girare
una ruota dev'essere di un volume determinato; bisogna dunque derivarne
la quantità necessaria. Vedete infatti quel canale, mezzo coperto di
sterpi; quello portava l'acqua. Lassù, dietro quella balza, era la
presa dell'acqua. Volete che andiamo a vedere?

--Perchè no? è un luogo tanto bello!--

Risalirono la costiera, andando egli innanzi, per metterla in istrada.
Non era quello il sentiero che doveva avvicinarli al Castèu: ma il
signor Maurizio non pensava più affatto al Castèu. Così risalendo,
giunsero davanti alla macchia dei nocciuoli.

--Che bell'angolo di mondo è mai questo!--esclamò Gisella, fermandosi in
contemplazione.--Si sente anche lo strepito della cascata. Ma l'acqua
non si vede.

--Se vi fidate di entrare in questa macchia, c'è là dietro un buon posto
e molto sicuro per ammirar la cascata, forse nel suo punto più bello.

--Perchè non mi fiderei, col signor Maurizio per guida?--diss'ella,
avanzandosi risoluta.

Maurizio abbrancò i rami che gli vennero primi alle mani, e fece largo
alla signora in mezzo a quel folto, dove ambedue si ritrovarono chiusi.
Ella s'inoltrava quanto permettevano via via le bracciate del suo
compagno, e rideva.

--Siamo prigionieri nella selva incantata;--diceva.

--Un po' di pazienza, signora;--rispondeva Maurizio.--Ancora una ventina
di passi, e riusciremo alla luce.--

Egli intanto si lodava in cuor suo di aver fatta quella strada due ore
prima. Se nella mattina non avesse ceduto al primo impulso di rivedere
il torrione dei suoi ricordi infantili, certamente non avrebbe osato
allora di condurre la contessa Gisella a metter piede in quella fratta.
Ed ebbe a parerle di sicuro la più esperta delle guide di montagna,
poichè per l'appunto una ventina di passi più in là finiva la macchia
dei nocciuoli, e davanti alla contessa si schiudeva l'ingresso di una
piattaforma merlata.

--Nuovo! che cos'è?

--Un belvedere, signora. Di laggiù si presenta come un torrione, di
quassù come un terrazzo.--

Gisella seguì Maurizio sulla piattaforma, guardandosi intorno ammirata.

--Bello, bello, questo nido nel verde! Buon giorno, cardellini,
lucherini, o che altro vi siate;--gridò ella ad uno sciame di
uccelletti, che spulezzavano dalla frappa.--E questo bel sedile a
cerchio? vedete che idea meravigliosa!--

Il fragore delle acque cadenti era un po' forte, per verità; pareva che
dovesse spegnere le parole in bocca. Gisella si affacciò alla merlata
per vedere l'abisso; ma subito si trasse indietro. Lo spettacolo era
stupendo, ma dava anche il capogiro.

--Sediamo;--diss'ella;--tanto, abbiamo da discorrere.

--Sediamo;--rispose Maurizio;--sarà meglio qui che al Castèu. Ma proprio
sareste venuta questa mattina laggiù?

--Certamente. Avevo da chiedervi un favore.

--Potevate scrivermi.

--E voi rispondermi una bella lettera, compassata, cortese, ma fredda,
non è vero? Ci avrei fatto un bel guadagno! No, niente lettera, andiamo
noi. Non c'era che un pericolo: che foste partito nella mattina.

--Oh, non ho più occasione di muovermi,--disse Maurizio,--dopo il
viaggio che ho fatto.... il giorno che avevo annunziato.

--Il gran viaggio di tre giorni!--esclamò ella, sorridendo
maliziosamente.--E ne siete ritornato di nottetempo, come un malfattore,
per chiudervi in casa, per nascondervi ad ogni vivente. Ma non così
bene, che io non lo sapessi. Uscivate soltanto per prendere il sentiero
dei monti; anche questo sapevo. Che vi pare? che io non ci abbia una
buona polizia? Molte cose ho saputo, signor Maurizio; e per una tra
tante posso e voglio dirvi: siatemi amico; qua la mano, che io vi
esprima in una stretta buona e fraterna tutta la mia gratitudine.

--Gratitudine! di che?

--Di aver pagato ad un padrone esoso il semestre di quella povera gente
laggiù.

--Io?...--balbettò Maurizio, confuso.

--Sì, ditemi ancora che non è vero.

--E non lo negherò. Ma come lo sapete voi?

--Ah!--gridò ella, battendo allegramente le palme.--Non lo sapevo,
quantunque mi paresse di averlo indovinato; non lo sapevo ancora, e
adesso lo so. Già, non potevate essere che voi; ed io quasi mi vergogno
di essere stata in dubbio un momento. Figuratevi, l'altro giorno ero
andata in paese.... sperando anche un pochettino d'incontrarvi; ma siamo
giusti, non ero scesa per voi; volevo vedere il signor Pinaia,
indegnissimo proprietario del Martinetto, e probabilmente di questo bel
nido nel verde; volevo vederlo, dico, per ottener da lui che aspettasse
ancora qualche settimana a rientrare nel suo avere. Il povero Feraudi,
gli soggiungevo, avrebbe venduta la sua ultima mucca, per soddisfarlo.
Non occorre, mi rispose il Pinaia, sono stato pagato; serbi la mucca per
un altro semestre, se non riuscirà neanche allora ad avere la somma
necessaria. Ora, vedete, signor Maurizio, quella povera gente s'immagina
che sia stata io, la benefattrice, ed io non posso lasciarle credere
quel che non è; vi chiedo dunque il permesso di dire chi è stato.

--No, non ve lo posso concedere.

--E se me lo prendessi.... per caso, non mi guardereste più in viso?

--No, vi scongiuro, non dite nulla. Più tardi, se mai; ci sarà sempre
tempo. I ringraziamenti mi opprimono. Notate che quel giorno ero andato
ancor io dal Pinaia coll'idea di ottenere una proroga. Il Pinaia mi
rispose male, ed io allora, stizzito, pagai; ma invitandolo a non dire
il mio nome.

--E non lo ha detto, signor Maurizio. «Sono stato pagato»; furono
queste le sue precise parole, e non volle aggiungere di più. Dunque,
signor Maurizio, voi siete stato tanto buono; e non mi dite che i
ringraziamenti vi opprimono, perchè voglio esservi grata io, che avrei
pagato tanto volentieri il signor Pinaia. Ma io non avevo quella somma;
avrei dovuto domandarla, essendo _en puissance de mari_, e non potendo
disporre di nulla, neanche del mio, senza farne richiesta, senza darne
notizia. So bene che avrei ottenuto; ma per tante ragioni non mi piaceva
di chiedere. Quante cose che una donna non può fare! E come sarei
insorta, come mi sarei ribellata, quel giorno che voi siete partito da
casa nostra! Perchè avevate ragione, Maurizio, e niente giustificava
quella mala risposta.

--Non parliamo di ciò, ve ne prego;--diss'egli.--Io ho inghiottita
l'offesa: se ho dovuto in qualche modo provvedere alla mia dignità,
credete che ciò non fu senza mia pena, e grandissima. Io piuttosto
credevo che quella sfuriata a proposito di opinioni filosofiche
dissimulasse un altro sentimento, la noia di vedermi in casa sua.

--Qui v'ingannate, non c'è nulla di questo. Lo avete contradetto nelle
sue opinioni scientifiche, e ciò lo ha fatto andar fuori. È il suo
tallone d'Achille. Egli si chiama Ettore, per verità; ma non ha meno,
per questo, il suo punto vulnerabile. Guai a toccarlo sulla filosofia
positiva. Ora, di aver passato il segno è convinto anche lui. Il primo
giorno stette grosso con tutti; il secondo parlò a monosillabi; il
terzo, non so più a qual proposito, uscì in questa confessione: «Ho il
vizio di lasciarmi portare dall'impeto della passione, e il sentir
troppo non è scusa valevole: un giorno o l'altro mi schiaffeggerò».--

Maurizio non ebbe neanche la forza di sorridere alla frase che esprimeva
in forma così comica un pentimento. L'immagine di quell'uomo gli tornava
incresciosa; e da parecchie ore l'aveva costantemente negli occhi.

--Come avete potuto,--diss'egli,--uscir così presto di casa?

--Ah, se ci fosse lui, mi sarebbe stato impossibile;--rispose
candidamente Gisella.--Non già perchè egli m'impedisca di andar fuori;
ma perchè si fa colazione insieme alle dieci. Egli è partito ieri, e
rimarrà fuori una settimana. La passione per l'esercito è ancora forte
in lui; ha voluto assistere a certe prove d'artiglieria che si fanno a
Vincennes; frattanto ha accompagnato il suo amico Dutolet, che finiva la
sua licenza di quaranta giorni. Ecco perchè ho detto ieri a Biancolina
che molto probabilmente sarei venuta a far colazione da lei. Ho la mia
settimana di libertà; voglio andare attorno, per monti e per valli. E
verrò anche al Castèu.

--Il Castèu sarà felice di accogliervi. Ma badate; egli saprà della
visita, e non gradirà che da parte vostra si sia fatto un passo simile.

--Perchè? Non siamo sempre in relazione con vostra sorella? E l'aver
annunziato voi di dover partire da San Giorgio, per quanto se ne
potessero indovinar le ragioni, non sarebbe bastante a farci trascurare
un obbligo di cortesia. Diciamo piuttosto--soggiunse Gisella, con la sua
graziosa malizietta,--che la montagna è assai bella, che qui si sta
bene, e ci si chiacchiera meglio. Avrò dunque il piacere di vedervi in
alto. E poi, e poi, spero bene che appianeremo tutto, non è vero?

--Ah! impossibile;--proruppe Maurizio.--Impossibile che ci rivediamo
alla Balma.... E forse, anche qui....

--Che cosa dite, signor Maurizio? perchè?

--Perchè.... Me lo chiedete, signora? Voi mi avete parlato testè di
un'amicizia fraterna; ed io.... io non vi posso esser fratello.

--Lo so bene; ma allora, non ci si ha più da vedere come amici? Voi non
ragionate, signor Maurizio. E come? mi fate conoscere la vostra bontà di
cavaliere, la vostra cortesia, la vostra gentilezza squisita; mi
conducete qua, dove io sto così bene a discorrere con voi, dimenticando
ogni cosa, e poi mi mandate via?

--Ma io non posso dimenticare.... debbo dirvelo? è in fine un debito di
lealtà: non posso dimenticare.... che vi amo.--

Maurizio pensava che a quelle parole la terra gli si dovesse sprofondare
sotto i piedi. Era una grande audacia, la sua: ma era meglio parlar
chiaro, e dire a quella donna a quale aspra battaglia si sarebbe esposto
il suo cuore, accettando il partito da lei candidamente profferto.

Gisella non si adontò, non rise: calma, se non tranquilla, perchè ella
pure doveva fargli una confessione solenne, rispose:

--Ebbene, anch'io, signor Maurizio, vi amo. Zitto, non mi dite più
nulla. Non guastiamo il valore delle nostre parole; viviamo
profondamente il silenzio di quest'ora. Qua, la vostra mano nella mia!
Ma come arde la vostra, mio povero amico!--



CAPITOLO VIII.

Celeste oblìo.


Ci sono parole nei vocabolarî; costrutti e locuzioni nelle grammatiche;
ci stanno a guisa di forme morte o dormenti, che si ravvivano o si
ridestano al suono della voce da cui son richiamate. Ma il risuonar loro
è nulla, o ben piccola cosa. Ognuno può leggere, ognuno può dire, poichè
la favella è proprio carattere dell'uomo; ma il sentire, il far sentire
ciò che la voce esprime, tutto ciò che una parola, una frase può
contenere di pensiero, è dono di pochi, fortuna di rari momenti solenni.
Con le stesse parole si può riuscir vuoti, molesti a chi ascolta, a chi
legge; ed anche scrivere un canto di Dante, o una scena dello
Shakspeare. Il momento solenne che suscita le forme dormenti, la
collocazione che le atteggia, l'impeto che le muove, l'accento che le
anima, il gesto che le sostiene, ecco la vita; per cui ciò che era piano
risalta, ciò ch'era umile diventa sublime, ciò che si sarebbe a mala
pena ascoltato inebria, commuove, rapisce.

Maurizio non s'aspettava quella risposta di Gisella, non l'aveva
immaginata possibile, non aveva parlato per provocarla; aveva parlato
dell'amor suo per onesta sincerità, per risoluto disegno, per
ragionevole speranza, fosse pur doloroso parlare, fosse pur dannoso
scoprirsi, amaro dover rinunziare alla vista di quella divina creatura.
Voleva fuggire, non rimanere, il poveretto; perciò aveva parlato in quel
modo. Ma gli era avvenuto di sceglier male il momento, e forse peggio la
frase. Del resto, a che sofisticar sulla frase? Tutto ciò che noi
diciamo ha il colore dell'ora, triste o lieta, benedetta o maledetta, in
cui l'animo nostro ha trovato modo di esprimersi. Quando non è più
tempo, le frasi che dovrebbero ritrarci indietro son quelle che ci
travolgono; le parole che vorrebbero salvare son quelle che pèrdono.

Intendiamo lo stato di Maurizio. Quella mano che lo aveva già fatto
tremare una volta, stringendo la sua un po' più dell'usato, quella mano
lo fece fremere, riardere per tutte le vene. Ed anche Gisella, innocente
creatura, non sapeva in quel punto che cosa si dicesse o facesse, nè
dove potesse condurla quel moto di sincerità. Dote o sventura dell'amor
vero è il non veder nulla davanti a sè, nè d'intorno, quando il cuore ha
parlato, cedendo alla sublime follìa che lo invade. Ma infine, per
questa follìa siamo nati, e chi se ne parte dalla vita senza averla
provata, può dire di non esser vissuto. È ben vero, per contro, che
porta le sue tristi conseguenze il provare: qualche volta chi l'ha
provata ne muore; qualche volta sopravvive, ma come un sognatore, come
un sonnambulo, come un'ombra di sè stesso: il morto che cammina, secondo
il detto comune.

Ne avrete veduti anche voi, di questi uomini strani, che vi stanno là
come incantati. Parlate, ed hanno l'aria di ascoltarvi; li invitate a
guardare questa o quell'altra cosa che vi abbia colpito, o che attragga
l'attenzione universale, ed anch'essi guarderanno dove voi dite. Ma
interrogateli, e vedrete: vi parranno tornati allora allora dall'altro
mondo. Costoro pensavano ad un loro momento vitale, quello a cui mirano
e per cui respirano tuttavia; lo richiamavano, il bell'attimo fuggito;
felici un istante nella memoria, lo rivivevano ancora. In quelle
maravigliose ricostruzioni del desiderio si sente la vanità di tante
cose miserabili, per cui gli uomini mediocri si struggono, i deboli
ammattiscono, i vili strisciano, i cattivi schizzan veleno. Comandare ai
proprii simili essendone schiavi; figurarsi di trascinarli essendone
trascinati; credere d'ingannarli essendone ingannati; è questo il gran
fine della vita?

Maurizio si risvegliò dal suo momento di ebbrezza. Era lui, lui ancora,
o non forse un altro, il vittorioso, il felice, il signore
dell'universo? Anche lei, la divina creatura, gli appariva trasfigurata,
per miracolo d'amore. Nuovo mondo era quello, altra regione, ignota
sfera per lui; e ci viveva così bene! come in una di quelle nubi,
luminose e fragranti, dove la fantasia dei pochi ha finito o indovinato
che si celino, trascorrendo sulla terra, gli spiriti puri, gli abitatori
del cielo. Maurizio visse estasiato in quel mondo, delle cose
dell'esistenza lasciando ogni cura alla consuetudine, esperta guida che
non ha sempre mestieri del raziocinio. Non fa altrimenti il sonnambulo;
va diritto e sicuro, adempiendo a tutti gli uffici dell'uomo desto; per
una cosa sola, che è la sua meta, il suo pensiero dominante, continua il
sonno ed il sogno.

Vederla apparire ogni giorno, lassù, nel verde aereo nido accanto alla
cascata dell'Aiga, che momento per lui! E come volavano inavvertite le
ore, mentre la montagna custodiva il suo dolce segreto! Gli uccellini
della macchia non fuggivano più, vedendo appressarsi quei due fortunati,
immemori, inconsapevoli d'ogni altra cosa che non fosse il loro affetto
scambievole. Erano due amici, oramai, per la gaia famiglia del bosco.
Spensierati come voi, scriccioli della siepe, come voi, cardellini del
prato, si amavano senza badarsi d'attorno, s'inebriavano della stessa
fragranza silvestre, della medesima freschezza, della medesima gioventù
del creato; unica immagine l'ora presente, unico pensiero il fido
colloquio, unica legge l'amore.

Gisella era calma nella intensità della sua gioia, piena della sua
felicità di dea, vera figlia della natura, come l'avevano voluta i suoi
educatori. Sentiva allora, per la prima volta, tutta l'ebbrezza del
vivere; quasi per effetto di rivelazione subitanea, vedeva più addentro
negli arcani delle cose; una lingua fin allora sconosciuta dischiudeva i
suoi misteri per lei. Le pareva d'intendere le voci degli uccelli nella
frappa, e si fermava estatica ad ascoltarli.--Sentite, Maurizio: questo
qua dice alla sua compagna che la mattinata è splendida, e che si
potrebbe fare una volata fin lassù, da quei ginepri. E quest'altro....
ma no, diciamo quest'altra.... Sapete di chi parla? Di voi, signorino;
dice che siete buono, e gli piacete a quel modo. Cara, ma brutta!
ragiona bene, e non mi va. Che cosa deve importare a voi, signorina, che
il mio Maurizio sia buono? Non ha mica da esser tale per voi.--

Maurizio rideva, partecipando con tutta l'anima a quei giuochi infantili
della divina creatura. Ma non c'era sempre da ridere. Quello stesso
giorno, ad esempio, volendo forse prender consiglio dagli uccellini,
Gisella s'inerpicava sulle alture, alla volta dei ginepri. Lassù, presso
un cespuglio, aveva veduto due serpi avviticchiate, che davano sembianza
del caducèo di Mercurio. Si era avvicinata, al solito, da vera figlia
d'Eva, con molta curiosità e senza ribrezzo, mostrando a Maurizio, che
invano cercava di tirarla via, come una di quelle serpi avesse la testa
quietamente posata tra le fauci dell'altra, ammiccando di là sotto con
gli occhietti astuti, mentre all'altra, che la teneva stretta tra i
denti, si vedeva palpitare con ritmo accelerato la gola gialliccia.
Stranezza di voluttà in quelle due care bestiuole!

--Andiamo, via,--diceva Maurizio,--potrebbero essere due vipere.

--Ebbene che importa?--rispondeva Gisella, senza volersi spiccare di
là.--Esse si amano e non badano a noi; si lascerebbero uccidere,
piuttosto che muoversi. Guardate che ingegno, se sono velenose come voi
dite; amandosi come fanno, si nascondono a vicenda il veleno.--

Maurizio non ebbe pace, finchè non l'ebbe allontanata dalle serpi.

--Lasciamole amare a modo loro;--diss'egli;--chi ama non vuol
testimoni.--

Gisella sorrideva, socchiudendo i grandi occhi d'indaco e sprigionandone
lampi «di faville d'oro» come avrebbe detto il Chiabrera; quindi
arrovesciata la bionda testa sull'omero, porgeva la bianca gola ai baci
del suo sgridatore, per cui era tanto lieta, tanto superba di esser
bella.

Qualche volta vedevano in lontananza il Feraudi, piantato a guardia del
suo armento su qualche rialto della montagna. Il contadino vedeva loro
aggirarsi più spesso all'aperto, per far le scorribande, che non per
andare al Martinetto, dov'era la sua convalescente, tacito pretesto a
tutti quegli incontri quotidiani. Vedeva, dico, ma non dava segno di
ravvisare, e lento nei gesti si voltava a guardare da un'altra parte.

--Si è avveduto;--mormorava Maurizio.

--Non dirà nulla, amico mio;--rispondeva Gisella.

--Perchè?

--Perchè ci è riconoscente e ci ama.

--Pure, bisognerà esser cauti.

--Sì, sì, siamo cauti, mio bel gesuita.--

A Maurizio non piacevano i titoli; non gli piaceva nemmeno che per
dargli del furbo o dell'ipocrita fosse usato quel nome. Sentiva del
resto in quella locuzioni l'effetto naturale, inavvertito, della scuola
a cui aveva imparato Gisella. Quello era di certo il linguaggio del
conte Camillo, soprannominato il miscredente. Gl'insegnamenti sono come
le inondazioni, che si sovrappongono e fanno sedimento; essi lasciano
sempre un deposito di frasi negli orecchi più delicati. Quelle frasi
riappaiono qualche volta, senza che però ci si pensi, o si dia loro
importanza veruna; riapparendo, dimostrano quale sia stata la scuola. E
andasse pur gesuita per ipocrita; perchè ipocrita, poi? forse era
sinonimo di cauto? C'era nell'applicazione del vocabolo un'accusa di
viltà ch'egli non credeva di meritare. Il sentimento che Maurizio
provava era ben altro, se mai; sentimento di pena sorda ma profonda,
ch'egli provava di tanto in tanto, quante volte per brevi intervalli,
quasi lampi nel buio, gli tornava a mente il suo stato.

Al silenzio del suo compagno, Gisella si avvide di averlo ferito.

--Ma se dico per ridere!--esclamò.--Ti amo tanto! Abbracciami, Maurizio,
abbracciami qui, al sereno del cielo. Il pastore ha gli occhi da
quell'altra parte.--

Un bacio scoccato, una risata argentina, e la pace era fatta. Ma se le
paci erano facili, erano anche facili le guerre; e queste, per brevi che
fossero, bisognava abolirle. È il sogno di tutti i filantropi. Per
abolire quelle piccole guerre, Maurizio vedeva la necessità di ravviare,
di educare a modo suo la mirabile selvaggia. Una così bella creatura
doveva esser perfetta; la figlia della natura era degna di ricevere
qualche insegnamento dall'arte.

--Perchè non credi?--le domandava Maurizio.

--Io?--rispondeva ella, stupita.--Non credo io dunque? Ma se credo
all'amor vostro, Maurizio! Ma già,--soggiungeva, ridendo,--il mio buon
amico è un bel discorritore; bisogna lasciarlo discorrere. Eccomi qua,
vi sento, vi ascolto, son tutt'orecchi.

--Oh, questo, poi!

--Dico per modo di dire. So bene che son piccini; fin troppo piccini.

--Un'altra! Ma con voi non si può ragionare, mia bella prepotente. E
siete bella, troppo bella per me, troppo bella per ogni povero mortale.
Perchè di questa bellezza meravigliosa non essere grata a Dio? Vorreste
voi dunque persuadervi di esser nata così per un caso, per un
capriccioso incontro di cellule? Guardatevi in uno specchio, bambina
miracolosa, e poi ditemi voi se è possibile di credere una cosa simile.

--Ma io non credo niente di ciò che voi dite. Maurizio. Voi mi accusate,
io dubito, di aver letto certi libracci di scienza moderna. Nè moderna
nè antica, mio bel cavaliere. Vivo, amo, son contenta di vivere e di
amare; ecco tutto.

--No, non può esser tutto;--s'impuntava a sostenere Maurizio.--Dovete
essere riconoscente.

--Ebbene, sia, sono riconoscente.

--A chi?

--A te.... che mi trovi bella;--rispondeva la pazza canzonatrice, dando
in uno scoppio di risa.--

Non era ciò che voleva Maurizio.

--Vediamo di ragionare;--diss'egli.--Siete un fiore, un bel fiore, un
fiore stupendo. E potete non darvi pensiero del come un tal fiore sia
nato? Potete immaginare che sia nato così, per un caso, per un capriccio
di natura?

--Leva il capriccio e metti il destino; metti la necessità, l'utilità,
quel che vorrai;--rispose ella, alzando le spalle.

--Utilità!--disse Maurizio.--Passi per il frutto; lo capirei ancora. Il
frutto è utile, infatti; possiamo credere che sia una necessaria
produzione dell'albero, come l'albero una necessaria produzione del
suolo....

--Come il suolo una necessaria....

--Sì, canzonatemi ancora. Mi mettevo a ragionar come voi, signorina. Ma
il fiore non è necessario, è superfluo; sopra tutto è inutile che sia
bello. E come potrebbe essere un prodotto della necessità, la bellezza?
Come si potrebbe ammettere che si fosse formata la bellezza per cieca e
sorda opera di selezione, di adattamento, di evoluzione? E l'ideale, che
è il fior dello spirito, si sarebbe egli fatto per necessità di
battaglia? Badate, mia dolce amica; per negare un intelletto creatore,
noi siamo costretti a distribuire troppa intelligenza in ispiccioli a
troppe miriadi d'organismi, a troppi miliardi di miriadi di cellule.

--E dàlli con le cellule! Ma io non ne so nulla, di tutte queste
malinconie. So una cosa sola, Maurizio;--conchiudeva la bella
birichina;--che noi spendiamo troppo tempo a discutere di filosofia.
Questa è filosofia, non è vero?

--Quasi;--disse Maurizio, smettendo.

Un triste pensiero gli era passato allora per la mente.

--Povere nostre giornate serene!--riprese egli, sospirando.--Son per
finire, o non le avremo più così lunghe.

--Le avremo ancora;--rispose Gisella, con la breviloquenza che bisognava
usare per certi argomenti.--C'è una proroga al ritorno.

--Ah!

--Sì, una lettera di questa mattina; avevo dimenticato di
dirvelo. Le esperienze di laggiù durano ancora, e sono molto
interessanti;--soggiunse ella, respirando.

Al respiro di Gisella rispose il cuore di Maurizio con un sobbalzo
d'allegrezza. Ma quel sobbalzo fu tosto represso dal ritorno di un
brutto pensiero; dal brutto pensiero che opprimeva da più giorni la
mente del signor di Vaussana. Perchè infine, lontano o vicino
quell'uomo, ciò che Maurizio faceva, egli gentiluomo di stampo antico,
egli cavaliere senza macchia.... Ma no, no, no, non voleva pensarci.



CAPITOLO IX.

Sull'orlo dell'abisso.


E andava innanzi così, alla ventura, come si va pur troppo in tante
circostanze della vita, quando non siamo noi che scegliamo il sentiero o
regoliamo i nostri passi, ma è la nostra passione, il caso, il destino.
Pure, come gli era concesso dallo stato suo, andava abbastanza
guardingo, e in certi casi perfino sospettoso. Egli sentiva
istintivamente che all'effetto di quelle forze cieche non bisognasse
aggiungere quello dei nostri piccoli errori, delle nostre facili
dimenticanze, delle nostre naturali spensieratezze; perciò
s'impensieriva di tutto, e almeno nelle cose minute, non potendo più
nelle maggiori, nelle essenziali, voleva andar cauto. Di uno temeva, ad
esempio, di uno dubitava, e quest'uno era il Feraudi, il contadino del
Martinetto, il povero pastore che troppe volte gli accadeva di trovare
sulla sua strada, o di veder da lontano, ma anche là in atto di guardare
alla sfuggita, e certamente in condizione di notare quella assiduità di
passeggiate al deserto. La gratitudine, a cui aveva accennato Gisella,
era sicuramente una bella cosa, ma anche rara, molto rara nel mondo,
come tutte le cose belle, e tale da non doverci fare un grande
assegnamento.

Maurizio trovò il modo di combinare quell'uomo ad altre ore, da solo, e
d'intrattenersi a ragionare con lui. Gli faceva larghe dimostrazioni di
benevolenza, lo trattava con molta dimestichezza, quasi con amicizia,
aiutando benissimo a colorire la cosa il ricordo di qualche servizio
reso, e destramente conduceva il discorso sulla signora della Balma,
affinchè quell'altro dovesse dirgliene tutto quello che ne pensava, ed
egli, dal canto suo, potesse giustificare con qualche buona ragione
quella frequenza d'incontri e di gite.

--Che bell'anima, la signora della Balma!--diceva Maurizio.--Come vuol
bene a voialtri! Senza orgoglio, senza pregiudizi di sangue, non è vero?
E semplice, poi! Par quasi una bambina. Come si diverte a correre per
questi bei monti!

--Già,--rispondeva il Feraudi,--in questo è tutta la buon'anima di sua
madre, la contessa Ippolita. Ma era più timida, la vecchia; non si
fidava mica tanto; più in qua del Martinetto non si arrischiava mai,
nelle sue passeggiate.

--Aveva ragione, perbacco;--ripigliava Maurizio, felice di aver condotta
la conversazione a quel punto.--La montagna è sicura; non si ricorda
che ci abbiano mai torto un capello ad anima nata; ma dopo tutto siamo
vicini al confine; gente di fuori, d'una parte e dell'altra, disertori,
pezzenti, non ne mancheranno di certo; un brutto incontro non sarebbe
neanche impossibile. Ed è per questo che mi faccio un dovere di
accompagnarla nelle sue escursioni, così lunghe e frequenti.

--Lei è savio, signor conte;--replicava il contadino;--e nessuno troverà
da ridire intorno a queste precauzioni. Del resto, male non fare, paura
non avere; ha ragione il proverbio.--

Questi discorsi calmavano e turbavano Maurizio: lo calmavano per un
verso, lo turbavano per l'altro. Ed egli andava più guardingo che mai;
voleva studiare, governare i suoi atti più che non avesse fatto fin
allora. Per fortuna, dacchè era tornato a San Giorgio, non aveva avuto
l'uso di farsi vedere in paese a diporto, salvo nei giorni di festa, e
la sua mancanza non doveva esser notata come un fatto singolare, come un
cambiamento improvviso di consuetudini. Uscendo sempre di casa dalla
parte dei campi, non poteva neanche esser veduto dalle case più vicine
al Castèu. Davanti al mulino non passava mai, e risaliva sempre e
discendeva dall'Aiga facendo un giro assai largo. In casa, poi,
inventava ogni giorno qualche pretesto di gite lontane sui monti,
portando il fucile, come un gran cacciatore nel cospetto di Dio. Quel
povero fucile riposava spesso appoggiato a qualche tronco d'albero, o
contro i merli del torrione, dove non metteva paura di certo ai garruli
abitatori della macchia. Ma egli così faceva per eccesso di precauzioni,
volendo essere giustificato più che potesse delle sue lunghe escursioni
agli occhi delle persone di casa.

Gisella era più forte, più serena, più franca. Di che cosa doveva ella
temere? Usciva per i suoi malati, per suo diporto, per suo capriccio, e
nelle sue gite non si era mai trovato niente a ridire. Non aveva fatto
sempre così, anche da fanciulla, vivendo suo padre? Niente era mutato
per lei, nè il casato, nè le consuetudini di vita. Si sentiva sempre la
contessina dei tempi andati; tutti i servi della Balma l'avevano sempre
veduta andare e tornare liberamente, scorrazzare a quel modo.

--Di che temete, Maurizio?--chiedeva ella, con la sua bell'aria di
sicurezza, donde traspariva anche un lampo di celia amorevole.--Voi
v'immaginate che tutti vogliano occuparsi dei fatti miei, e mi date più
importanza che io non ho. Vi dispiace che parli così? Ebbene, diciamo
che ne ho molta.... per te. Ma non per altri, sai, non per altri.--

Maurizio non voleva dir tutto. Le sue inquietudini si tenevano sempre a
mezz'aria, vagavano di qua e di là, senza posarsi mai sopra un certo
argomento. Ma se le sue parole non lo accennavano, il suo pensiero non
sapeva allontanarsene, e negli occhi spaventati di Maurizio stava fissa
una immagine molesta, l'immagine che lo rendeva cupo, che lo faceva
fremere e tremar d'improvviso, anche negli impeti più caldi della
passione. Non fremeva già, non tremava per sè; fremeva e tremava per la
divina creatura, per l'amor suo così grande, così intenso, così vivo, e
così minacciato di morte imminente, sospeso com'era ad un filo. Gli
innamorati conoscono questi falsi equilibrii, e troppo spesso ne vivono.
Del resto, c'è la sua voluttà anche in questo vivere di spasimi.

--Sapete,--disse un giorno Gisella, cogliendo a volo negli occhi di
Maurizio uno di quei lampi che parevano illuminare di tetra luce il
fondo del cuore,--sapete che alle volte, stando qui accanto a me, mi
avete l'aria d'un condannato?

--E non lo sono io forse?--rispondeva egli sospirando.--So bene quel che
mi aspetta. Non dovrò perdervi io, e tra poco, forse domani? Perdervi,
sì; non sarà forse un perdervi, il vedervi appena qualche momento, e di
rado, quando egli sarà ritornato?--

L'immagine prendeva un nome; dagli occhi passava alle labbra. Dal giorno
che Maurizio aveva incontrata Gisella al Martinetto, ne erano passati
almeno diciotto, e ancora un accenno a lui non gli era uscito di bocca.
Ma il tempo stringeva; il ritorno temuto non incominciava a sentirsi
nell'aria?

--Vero,--rispose Gisella,--non sarò più così libera. Triste cosa, amico
mio, triste cosa!--soggiunse, traendo un profondo sospiro e reclinando
la bionda testa sul petto di Maurizio.--Tu lo vedi, dunque? Bisognerà
pensare al rimedio; ed io non ne vedo che uno.... ritornare alla
Balma.--

A quella proposta improvvisa, Maurizio ebbe un sussulto per tutte le
fibre.

--No, no;--diss'egli, tremante;--come sarebbe possibile?

--Nel modo più naturale;--rispose candidamente Gisella.--Egli vi
scriverà, pregandovi di ritornare.

--No, alla Balma, no, mai.

--Perchè?--chiese Gisella, non intendendo quella ripugnanza.

--Perchè!... mi domandate il perchè? Ma egli.... egli ha dei diritti,
dei diritti che il mondo riconosce per sacri. Dio mio!--esclamò il
giovane, abbassando confuso la fronte.--Come oserei ritornare lassù,
ora?... L'ospitalità.... la fiducia ch'egli mostrerebbe di avere in
me.... C'è una legge, infine, una legge che io sento di avere violata.

--Maurizio! Maurizio!--gridò ella, spaventata, afferrandolo per le mani
e costringendolo a guardarla negli occhi.--Ma no, che follia!--riprese
tosto, sforzandosi di sorridere.--Perchè farmi paura così? La legge! la
legge! Io ne conosco una; è quella dell'amore. Non lo credi tu,
Maurizio, che questa legge vada innanzi a tutte le altre? Infine,
ragioniamo; che cosa sono io per lui, se non una bambina, un ornamento
della casa, una compagna della sua solitudine? e una compagna che non
basta neanche a fargliela sentire un po' meno, questa sua solitudine! Il
suo cuore.... lo sai, dove lo ha egli il suo cuore? Nella testa, nella
testa che gli ribolle sempre d'idee bellicose. Era un soldato, ed è
rimasto un soldato; l'amor suo è il servizio, la disciplina, la manovra,
la guerra. Vedi bene che t'inganni. Doveva restare otto giorni; ha
scritto una lettera per prolungarsi la sua licenza; ed ecco, siamo quasi
ai venti; potremo giungere ai trenta, ai quaranta. E perchè? per una
serie di esperimenti importantissimi, che lo interessano tanto, laggiù,
nel suo campo, nel suo poligono. Amico mio, è l'odor della polvere che
inebria questi uomini. Che cosa vuoi che si faccia di me? Ed io,
frattanto, io ho un cuore, non è vero? E te ne ho date le prove,
Maurizio, di essere una buona bambina, che non ha voluto farvi
disperare, come avrebbe fatto tanto volentieri una sciocca, una civetta,
una donna cattiva. Vi ho detto: ti amo; non mi son fatta strappare la
mia dolce confessione di bocca: e tu mi hai intesa, non è vero, mi hai
bene intesa?--

Maurizio tentò di parlare. Quell'onda di passione, sollevata, ingrossata
da tutti gl'inconscii sofismi del cuore, incominciava a soverchiarlo.
Infine, egli amava quella donna, l'amava pazzamente; e non era colpa
sua, ma di un perverso destino, se due uomini erano in lui, se ragione e
sentimento cozzavano troppo spesso nell'anima sua, se quella, già usata
a soccombere, voleva ad ogni costo farsi ascoltare, prima di oscurarsi e
di spegnersi. Queste contradizioni sono frequenti nell'uomo moderno: la
natura e il sangue, antichissime forze, comandano una cosa; il pensiero
e la educazione morale ne persuadono, o ne intravvedono un'altra. Ma
allora, non più: che cosa pretendeva da lui la ragione, se in tempo
opportuno non aveva saputo parlare? Intendeva ella forse di ottenere
alla legge del dovere una troppo tarda vittoria, che sarebbe stata
un'ingiuria? e un'ingiuria a cui la delicatezza del sentimento e
un'altra specie di educazione, la cavalleresca, non avrebbe mai
consentito? Maurizio tentò di parlare: e le idee che gli si affollavano
alla mente voleva esprimerle a lei, stringendola nelle sue braccia,
bisbigliandole in sommesse parole all'orecchio della divina creatura.
Son quelle che valgono, infatti, quelle che persuadono meglio.

Ma Gisella non volle ascoltarlo. Concitata dalla progressione del suo
stesso ragionamento, voleva andar oltre, e non solamente a parole. Come
mai una argomentazione così falsa, così contraria agli imprescrittibili
diritti del cuore, si era affacciata tra i dubbî di Maurizio? Con quei
dubbî era necessario di finirla una volta per sempre. Nel candore del
suo peccato, trascinata da quell'impeto di passione che non sente più
freno, si alzò, spiccandosi da lui, per andare verso la merlata del
torrione, del dolce nido in cui erano raccolti; si affacciò, si spenzolò
fuori con la testa e col petto, tanto che Maurizio atterrito si slanciò
con le braccia tese per afferrarla. Gisella lo trattenne con un gesto,
pur ritraendosi e volgendosi a lui sorridente; poi con un altro lo
trasse accanto a sè, additandogli l'abisso che si schiudeva buio e
rumoreggiante sotto i suoi occhi.

--Guarda!--gli disse solenne.--Guardate, Maurizio;--ripigliò, con uno
dei suoi trapassi consueti dalla confidenza alla cerimonia,--guardate
bene, ma bene, là dentro. C'è la natura in tutta la libera furia delle
sue forze meravigliose. C'è il vuoto con tutte le sue paurose oscurità.
Ma c'è ancora chi vuol leggere nel buio, chi vuol dettar legge alla
natura. Ebbene voi che sapete tante cose, Maurizio, guardate, scrutate,
indagate. Se c'è in quel buio altra cosa che il vostro amore ed il mio,
se c'è una legge che li condanni, se c'è.... se ne siete ben certo....
gettiamoci nell'abisso, e puniamoci da per noi del nostro delitto, della
nostra vergogna. Vi piace? a me piace.... Voi siete un uomo leale, ed io
vi crederò ciecamente; la vostra parola sarà la mia legge.--

Maurizio fu per un istante affascinato; e istintivamente obbedendo,
guardò nel vuoto. Rumoreggiava l'abisso, e nel tumulto assordante delle
sue mille voci pareva chiamarlo.

Sì, c'era, la legge; c'erano anzi mille leggi, tutte derivate da
quell'una, primitiva, ond'erano state mosse ad un cenno del creatore le
forze cieche della natura. Anche quell'arco di sette colori vagamente
disegnato a tenui gradazioni nell'aria, incurvato leggermente sul
baratro, nello strato vaporoso dove migliaia e migliaia di gocce diffuse
in sottilissima polvere d'acqua si offrivano in mobile superficie di
prisma ai raggi del sole, anche quell'arco pareva una rappresentazione,
lievissima, a mala pena sensibile, ma pur vera, innegabile, della
eternità della legge. E non ci avevano veduto, gli uomini primitivi, il
segno istesso della alleanza antichissima della natura con Dio, del
conosciuto coll'inconoscibile? Attratto da quel ragionamento interiore,
imperioso, prepotente, Maurizio levò gli occhi a guardare Gisella.
Gisella guardava lui, con gli occhi fissi e le labbra tese, come per
bere nelle prime parole di Maurizio la sentenza d'entrambi. Egli
rabbrividì involontariamente, tremò tutto di aver forse indugiato troppo
a rispondere.

--No, no,--diss'egli concitato,--no, no!--

E così gridando, l'afferrò per la vita, traendola a viva forza indietro,
per modo ch'essa gli cadde resupina tra le braccia convulse.

--No, no;--ripeteva frattanto,--non guardare laggiù. Non sai che il
vuoto attira, bambina? Anch'io sono stato sul punto di cedere. Gisella,
Gisella, anima mia, vita mia, che è mai questo pazzo giuoco? Mi avete
fatto paura. Ma è possibile, una follìa come la nostra? No, cara, no,
adorata, non c'è niente laggiù; non ha leggi il vuoto. L'amore, hai
ragione, l'amore è tutto. Non è l'anima del mondo, l'amore? E noi lo
vorremmo sacrificare a quattro leggi umane, nate dal fatto materiale
della occupazione della terra, e condotte di sofisma in sofisma a
giustificare la servitù delle anime? lo vorremmo sacrificare a quattro
leggi, che passano e mutano, oggi più spesso e più facilmente d'un
tempo, tanto che noi medesimi le disfacciamo anche prima di vederle
cadere in disuso per virtù di costumi? No, no, viviamo, Gisella, ed
amiamo; il resto è nulla, nulla, davanti all'amore, a questa sublime
visione dell'eternità, concessa alle creature da una misericordia
suprema ed arcana.--

Gisella ascoltava, dolcemente cullata nelle braccia di lui da quella
musica di voci interrotte e di sublimi follìe. Anch'ella, poi che tacque
Maurizio, parlò; ed erano voci più sommesse, le sue, come versi di
canzone mormorata tra la veglia ed il sonno.

--Vorrei essere.... sì, vorrei essere la serpicina che posava confidente
la sua bella testina elegante tra le fauci ardenti d'amore del suo damo
selvaggio; e così dolcemente stretta, dal mio caro spiraglio, vorrei
ammiccare con la pupilla lucente di felicità al verde della macchia. Ma
perchè Maurizio, il mio dolce e sapiente signore, ha una così ingiusta
antipatia per il serpe? Lo so, è un animale troppo distante oramai dal
tipo delle altre creature viventi; ma forse perchè egli è il più antico
tra gli esseri. E striscia, il poveretto; striscia, perchè il mondo è
freddo, freddo, troppo freddo al paragone dei suoi bei tempi. Ma allora,
chi sa quante migliaia d'anni addietro, il sangue gli scorreva più caldo
nelle vene; e il serpe andava più glorioso, con la testa eretta sul suo
bel collo di cigno, e per tanti specchi quante erano le sue nitide
squamme rinfrangeva in vivaci colori la bella luce di un sole più
ardente. Egli era il signore del mondo, allora; oggi lo ha abbattuto la
viltà delle cose. Le antiche leggende, trovandolo ancora padrone della
terra, ne fecero il gran seduttore.... Seduttore!--ripeteva Gisella,
sorridendo placidamente al vocabolo.--Bel signore di Vaussana, non siete
un gran seduttore anche voi? Oh, senza volerlo, quasi senza saperlo....
Povero il mio Maurizio tanto caro!... Ma dimmi, dimmi ancora una volta
che son io l'anima tua.--

Maurizio si era mosso in soprassalto. Anch'ella si scosse e rizzò la
testa. Una voce si udiva, voce di canzone alta, squillante, di là dalla
macchia dei nocciuoli. Ambedue riconobbero la voce del pastore, e
sorrisero.

--Strano!--disse Maurizio.--Non l'ho mai sentito cantare.

--Tutti i pastori cantano, quando son soli;--rispose Gisella.--Ma per
essere venuto da questa parte, dove non ci son prati da pascolo,
bisognerà ch'egli abbia pensato di farsi sentire da qualcheduno.

--Per dare un avvertimento?--chiese Maurizio, turbato.

--Chi sa? la voce è da amico; l'avvertimento verrà certo in buon punto.
Andiamo al Martinetto.--

Si alzarono, stringendosi amorosamente per la vita. I cardellini della
macchia videro ancora, un bacio lungo ed intenso, ma non lo sentirono
scoccare. Quando i due giovani uscirono dal folto dei rami, il cantore
non era più là; ben si sentiva la sua voce dalla parte delle rovine, che
certamente egli aveva già oltrepassate, per ritornarsene a casa.

--La via è dunque libera;--conchiuse Gisella.--Seguiamo il nostro
pastore.--

Quando giunsero sull'aia dei Feraudi, il pastore era là, con l'aria di
non pensare a loro. Si scambiarono poche parole tra Gisella e
Biancolina, apparsa allora sull'uscio; poi il contadino, guardando
lontano verso mezzogiorno, disse:

--Una carrozza laggiù, al principio del paese; si avvia verso la Balma.

--È lui, il generale;--soggiunse Gisella, volgendosi a
Maurizio.--Grazie, Feraudi; non c'è tempo da perdere per andarlo a
ricevere. Mi accompagnate un tratto, signor di Vaussana?--

Come fu di là dai due roveri, fuor dalla vista dei contadini del
Martinetto, Gisella trasse il respiro più libero.

--Vedi, Maurizio? tutto va bene. Va', ora; riceverai una lettera,
va'.--



CAPITOLO X.

Il trattato di pace.


Maurizio era tornato al Castèu in uno stato di agitazione impossibile a
descriversi. Passò in quella sua solitudine una cattiva giornata ed una
pessima notte; nè migliore fu per lui il giorno seguente, nella
ignoranza di ciò che accadeva alla Balma. Una cosa sapeva egli; che non
vedeva Gisella, e che la montagna senza di lei era triste, il cielo
buio, e cieco il futuro. Nel silenzio della sua stanza, dove egli stava
di continuo con l'anima in soprassalto, come gli tornavano più chiari i
dubbî, più forti i terrori, più aspri e più pungenti i rimorsi! Egli,
infine, egli era il grande colpevole. Quella innocente creatura l'aveva
travolta egli sull'orlo di un abisso, dove mal si reggevano ambedue: un
passo ancora, un moto imprudente, ed era perduta. E forse le imprudenze
non erano state già troppe? Non era l'amor loro sospeso ad un filo? il
loro segreto in balìa d'un discorso incauto, d'una parola maligna, che
invitasse ai sospetti? Questo pensiero lo faceva fremere; e questo
pensiero gli ritornava ad ogni tratto, percuotendo con ritmica
uniformità nella notte dell'anima sua, come la goccia d'acqua gemente
dalla volta d'una spelonca percuote monotona, insistente, inesorabile,
sulla concava superficie d'un masso.

La mattina del terzo giorno, mentre egli già più non sapeva in che mondo
si fosse, gli fu portata una lettera. Non occorreva chiedere chi fosse
stato il messaggero: la mano di scritto parlava chiaramente da sè.
Maurizio aperse la busta con le mani convulse, lesse con occhi tremanti
la lettera. Gisella scriveva:

        «_Signor Maurizio_,

    «Quello che ebbi il piacere di dirvi tanti giorni fa nel vostro
    Castèu, vi ripeto oggi col migliore inchiostro della Balma. Perchè
    non vi lasciate vedere quassù? Il generale, nostro signore e
    padrone, si maraviglia molto di non veder più il suo amico Sospello.
    Saprete pure ch'egli è ritornato alla sua residenza ier l'altro.
    _Amitiés_».

Seguiva il nome: «Gisella Matignon de la Bourdigue». E alla firma teneva
dietro un poscritto, ma d'altra mano, più ruvida, più grossa, più densa
d'inchiostro, come d'uomo avvezzo a non mettere che firme.

«Ma sì, mio buono, ma sì» diceva il poscritto. «Che diavolo v'ha preso
di non dar passata ad eccessi di nervi, a sfoghi di malumore? Se ne
avete anche voi, venite a metterli in comune. _Bourdigue_».

Che cos'era avvenuto alla Balma, perchè si scrivessero di queste lettere
a lui? Niente di male, a buon conto; e Maurizio incominciò a metter
fuori un sospiro di sollievo. Poi, diffidente com'era e amante di
sofisticare su tutto, almanaccò un pezzo sul fatto che la lettera fosse
scritta dalla contessa. Ma il poscritto del generale era là, e mostrava
chiaramente che la lettera era stata scritta da lei sotto gli occhi del
suo signore e padrone. Avesse rotto lei il ghiaccio, o lo avesse rotto
lui, la conseguenza era una sola: che gli si facevano garbatamente delle
scuse, che ogni nube era dissipata, e che egli poteva andare alla Balma.
Ora, il poterci andare significava doverci andar sùbito.

Il tono gaio della lettera significava ancora che tutto procedeva
benissimo alla Balma. Come sono avvedute le donne! come sanno l'arte di
farsi intendere, anche quando non vi dicono nulla! A proposito d'arte,
non c'era egli un po' di finzione, un pochettino d'ipocrisia tra le
linee, specie in quell'accenno ad una visita al Castèu? No, perchè
quella visita c'era stata difatti, e in quella visita la contessa aveva
detto cerimoniosamente al signor di Vaussana quello che più volte, nei
confidenti colloquii della montagna, Gisella aveva fatto intendere e
dato per sicuro a Maurizio. Dunque, niente ipocrisìa nella lettera,
solamente accortezza. Che, forse, per non apparire ipocriti, s'ha egli
a dire ogni cosa? Maurizio, frattanto, per quel cenno della visita di
Gisella al Castèu, sapeva già come regolarsi alla Balma, quando avesse
da incontrar la signora in presenza del generale. Come sono avvedute le
donne!

Andato quel medesimo giorno, e con aria di sollecitudine che rendeva più
bello il suo atto, fu accolto a braccia aperte. Le aspre discussioni
erano dimenticate, e non era neanche il caso di farci la più lontana
allusione. D'altra parte, la montagna aveva custodito il suo dolce
segreto: il viso che accoglieva era sereno, l'occhio limpido, il labbro
sorridente.

Maurizio non ricevette senza un po' di vergogna quelle dimostrazioni di
amicizia. V'hanno principii che non si offendono impunemente: la
coscienza può sonnecchiare, non addormentarsi del tutto; ed anche quando
è lento a venire il rimorso, la colpa si definisce da sè nel segreto
dell'anima, si accusa in un vago senso di malessere nel profondo del
cuore. Ma tanta gioia brillava sul volto di Gisella; tante faville d'oro
si sprigionavano da quegli occhi d'indaco, che egli, superato il primo
momento d'angustia, non volle vedere, seppe non vedere più altro. Se era
tranquilla lei, perchè doveva esser da meno il signor di Vaussana? Se
appariva così confidente lei, donna, perchè sarebbe stato egli, uomo,
meno disposto a sommergere ogni molesto pensiero nella sensazione
profonda di un amore, che era dopo tutto la sua vita, la sua felicità,
la sua gloria?

Intendiamo che cosa sia questa gloria. Essa non è certamente la
soddisfazione di un grosso egoismo, di una piccola vanità, di una
ambizione volgare. È anche gloria, è gloria sopra tutto la luce viva di
cui si cinge il gran sole, l'aureola di raggi onde s'intorniano le
fronti dei beati, la cerchia profonda di teste adoranti e d'ali tese in
estasi divina, onde l'arte ideale ha circondata la santità trionfante.
Gloria è l'amore nella pienezza sublime delle sue contentezze, quando ha
confuso due esseri che si sono lungamente cercati e intensamente voluti;
due vite che si librano in alto, posando immobili in certe lor calme
serene, pari a quelle dell'ora meridiana, quando sopra una medesima
linea di mare si vedono posare due bianche vele latine; le quali, assai
più che di far viaggio, sembrano compiacersi di gettare agli occhi del
riguardante un lungo riflesso, immobile al par di loro, su quelle onde
chete dove la luce si addormenta e il calore si spegne nella tonalità
vaporosa del quadro. Dolce abbandono sul mar senza vento, con molta luce
diffusa dall'alto e con molta pace dintorno: una luce che par così
diafana, ma in cui l'occhio non vede; una pace che par tanto profonda,
ma in cui l'intelletto non pensa.

Maurizio, per intanto, non pensava più che alla sua grande felicità.
«Dio mio» diceva egli in cuor suo «se questo è un sogno, fate che duri,
fate che io non mi svegli». Ma ascolta Iddio tutti i voti?

Il generale era grandemente mutato da quello di prima. Il recente
viaggio gli aveva dato una scossa benefica al sangue. Aveva sentiti i
tamburi, le musiche militari; si era tuffato nella prosa robusta della
caserma, nella dolce poesia del gran rapporto, e ne era uscito rifatto
come da un'altra fontana di gioventù. Gli esperimenti della polvere
senza fumo lo avevano mandato in visibilio; gli avantreni di nuovo
modello, il nuovo zaino della fanteria, il nuovo cannone
dell'artiglieria di montagna, le nuove combinazioni chimiche in _ite_
con cui l'amorosa umanità si prepara alle gioie della pace universale,
lo avevano intenerito, ritemprato, rinvigorito, esaltato. In ogni
ragunata dei vecchi compagni d'armi il gran verbo della patria era
suonato ben alto. Bravi soldati, che l'abuso della filosofia non è ancor
venuto a guastare! Ai pranzi solenni, ai _punchs_, agli _absinthes_, ai
vini d'onore, si era parlato spesso e volentieri di rivincita, e il
ringiovanito Bourdigue aveva promesso in parecchi brindisi che tutti i
vecchi si sarebbero trovati al loro posto di combattimento. «_Coûte que
coûte!_» soggiungeva. «Sono ancora saldo in sella. Vorranno ben darmi
una brigata di _mobiles_! E per riguadagnare il perduto non si sarà mai
in troppi».

Di tutte queste cose ragionava liberamente col signor di Vaussana,
spesso dimenticando che parlava ad uno straniero. Maurizio stava a
sentire, mostrando d'interessarsi al discorso, e, quando la nota della
_revanche_ squillava più alta, facendosi più piccino che poteva, quasi
cercando, in quella specie di rannicchiamento morale, di far sparire
l'immagine della propria nazionalità. Incominciava anch'egli ad esser
vile, vile di quella tacita compiacenza, di quella spontanea complicità
ond'è largo qualche volta anche un uomo di valore, verso chi è in casa
sua il padrone, e non solamente il padrone della casa. Ascoltava,
sorrideva, approvava, dando a quell'uomo la grata illusione di aver
sempre davanti a sè il suo consenziente uditorio. Frattanto vedeva
Gisella con la coda dell'occhio; e questo lo faceva restare immobile al
fuoco di quella eloquenza soldatesca, che era poi tutti i giorni la
stessa.

Gisella, pur troppo, non era sempre là a consolarlo delle sue lunghe
fatiche; non istava più tanto ferma in salotto, nella sala del biliardo,
o sui sedili della spianata. Gisella andava e veniva, aliando come una
farfalla. Immensa gioia, vederla ricomparire ad ogni tanto, radiante
apparizione di vermiglio e d'oro; ma qualche volta accadeva che la
bellissima creatura lo lasciasse solo per ore ed ore, a tu per tu col
generale concionante. S'intende che di quelle assenze sue, di quei
sacrifizi di lui, lo compensava ad usura nei brevi momenti che poteva
concedergli.

--Caro!--gli bisbigliava.--Come ho sofferto, a lasciarti, andando senza
di te a vedere i figli di Biancolina! Ma ho pensato a te, sempre. Bella
strada, che ho fatta tante volte con te! Domani, non è vero? alle
undici; se dovessi ritardare dieci minuti, mezz'ora, non sarebbe colpa
mia, lo puoi credere. Il nostro caro nido nel verde, dove soltanto ci
pare di poter dimenticare ogni cosa!...

--Per troppo brevi momenti!--mormorava Maurizio, sospirando.

--Non son meglio che nulla? Pensate, bel cavaliere, che se mi aveste
sempre al vostro fianco, verrebbe il giorno che vi.... No,
no,--soggiungeva, lasciando in tronco la frase,--perdonami, ho detto per
celia. Mi piace tanto di vederti fare quella cera lunga lunga! Sei
bello, anche quando vai in collera. E ti amo tanto, Rizio, ti amo
tanto!--

Rizio per lei, Maurizio per quell'altro, il signor di Vaussana era
diventato l'amico necessario, il consigliere intimo, l'aiutante discreto
di tutt'e due. Sì, certamente, di tutt'e due, senza che ci fosse modo o
ragione di adombrarsene. Il generale, strano uomo e piuttosto disuguale
d'umore, trattava sempre la moglie come una bambina. A certi momenti,
Maurizio poteva figurarsi che quella divina creatura, posta tra lui e
quell'uomo dal cieco destino, fosse per quell'uomo una nipote soltanto.
E che discorsi curiosi gli toccava di sentire! discorsi che lo facevano
fremere, tremare, impallidire, sudar freddo. Un giorno dovevano mettersi
tutti e tre in viaggio, fare una corsa (una punta, diceva il generale)
fino a Ventimiglia. Il tempo era bellissimo; si andava in vettura
scoperta, come ad una passeggiata. La carrozza era già da un pezzo sulla
spianata; da un quarto d'ora i cavalli facevano la ciambella sulla
ghiaia, e la contessa, andata a mettersi il cappellino e a prendere la
sua mantiglia, non si vedeva comparire. Gisella in quelle occasioni non
era mai pronta; e il generale, che tante volte si spazientiva, tuonando
contro la vanità delle donne allo specchio, era quel giorno di buon
umore.

--Venite, Maurizio;--diss'egli ad un certo punto;--andiamo a vedere che
cos'ha la nostra signora, che si fa tanto aspettare.--

La nostra signora! Per quella volta, davvero, Maurizio si sentì correre
il sangue dal cuore alla testa, e sùbito dalla testa al cuore. Era
diventato egli in viso come una brace, o come un cencio lavato? Non ne
sapeva nulla; ma si spaventò ad ogni modo, pensando che il suo
improvviso mutar di colore fosse notato da quel terribile uomo che era
così spesso un fanciullo.

Un'altra volta era lei che nella sua cara ingenuità faceva anche peggio.
Si mutava la disposizione dei mobili e la destinazione di una camera; si
dovevano collocare certe tendine bianche con liste riportate di ricamo
rosso, opera d'un inverno della contessa Gisella. Era un lavoro
delicato, quello di mettere a posto le tendine nuove: ma era anche
facile, non richiedeva un grande ingegno, nè una pratica speciale. Del
resto, nell'arredamento del Castèu, e più particolarmente del
quartierino di Maurizio, il padron di casa aveva voluto dirigere, far
lui ogni cosa, cavandosene con molto onore, come diceva la contessa
Gisella, con mediocre infamia, come diceva modestamente il signor di
Vaussana. Così era avvenuto che per quel piccolo lavoro alla Balma, la
perizia dell'amico necessario, del consigliere intimo, dell'aiutante
discreto, fosse posta a contribuzione. Il generale aveva accolta con
gioia quella occasione di far qualche cosa; e là, senza metter tempo in
mezzo, si era incominciato una mattina a lavorare, non volendo
manifattori nè servi ad aiutare. Due camere erano sottosopra, per
arredarne una; si andava e si veniva, si spostavano sedie e canapè, si
trascinavano tavole, si abbambinavano stipi, si appendevano quadri in
isporto; finalmente si collocavano in opera quelle sacre tendine. Il
generale ai piedi della scala doppia, tenendone con mano ferma gli
staggi mastiettati; Maurizio lassù, appollaiato sugli ultimi piuoli, per
far combaciare gli anelli del padiglione dorato coi becchi degli arpioni
al muro; così, lavorando e sudando, dimenticavano l'ora della colazione.

--Ah, bravi!--aveva gridato la contessa, apparendo sulla soglia.--Bravi
i miei uomini! così va bene.--

Altro che arrossire e impallidire a vicenda! Maurizio balenò sulla
scala, e fu lì lì per cascar sulle braccia del suo compagno di fatica.

--Ma non vi pare che basti, per mezza giornata di lavoro?--ripigliava
Gisella.--La zuppa è in tavola; i miei uomini l'hanno ben guadagnata.

--I vostri uomini, contessa,--rispose Maurizio, tratto da una forza
arcana a ripigliare la frase che lo aveva fatto tremare,--meriterebbero
piuttosto d'esser mandati a sfamarsi in cucina, tanto si trovano male in
arnese.--

Il generale rideva. Quel discorso gli pareva certamente in carattere col
lavoro che egli e il suo amico Maurizio facevano da tre ore. Ed era
contento di passare per un manifattore. Gli uomini son sempre contenti,
quando fanno qualche cosa che richieda sforzo di muscoli; hanno così
l'illusione di maneggiar la leva di Archimede e di muovere il mondo.

Del resto, i giorni di buon umore non erano neppure tanto rari per il
signor della Balma. Anche parecchi mesi dopo il viaggio di Francia, in
cui si era, come diceva lui, rifatta la mano, il generale sapeva ridere
e scherzare a certe ore del giorno; le ore piene, quando abbiamo chi ci
ascolta, se vogliamo parlare, chi parla, se vogliamo tacere, chi si
piega e si adatta a tutti i capricci dei nostri nervi invecchiati.

In quelle ore tutto andava bene; ed anche la bambina, con le sue moine,
con le sue vanità di donna, pareva un'eccellente compagnia a quel
vecchio brontolone.

--Che diavola!--diceva allora a Maurizio.--Fa quel che vuole. È il
folletto della casa. Come starebbe bene alla testa della brigata.... o
della divisione! Mah!--soggiungeva egli, con un sospirone da Mongibello
in procinto di dar fuori;--ho fatto una grossa bestialità a lasciare il
servizio. Anche voi, mio buono, anche voi!

--Anch'io;--ripeteva Maurizio, sforzandosi di trarre un sospiro a sua
volta.

--Ah!--ripigliò il generale.--Se fossimo rimasti al nostro posto, anche
mandando giù qualche amaro boccone, non dovremmo pregar nessuno per
esser riammessi nei quadri; e il primo suono di tromba ci troverebbe in
prima linea. Ma che diamine! ora che ci penso.... non saremmo mica
insieme, amico Maurizio! Voi forse coi vostri amici Tedeschi....

--Non me ne parlate, generale!--diceva Maurizio, con aria di
costernazione.--È orribile.

--Ah! lo riconoscete? lo sentite anche voi, che è orribile! Ma perchè,
domando io, perchè venire a queste estremità?--

Maurizio lo sapeva benissimo, il perchè ed il percome; ma aveva preso il
verso di dar ragione al suo interlocutore. Ora, tra i modi di dargli
ragione c'era anche quello di non saper che rispondere; ed egli già si
disponeva a tacere, sospirando da capo. Ma in quel punto gli passò
un'idea per la mente; la colse al passo, come si afferra una tavola di
salvezza.

--Credo,--diss'egli, timidamente,--che gli avvocati ci abbiano
imbrogliate le carte.

--Gli avvocati? oh, sì, dite bene, gli avvocati. Gran brutta gente, gli
avvocati, che con le loro ciarle vi fanno il buio di pien meriggio. Tra
noi soldati ci saremmo intesi, amico Maurizio: questo a te, questo a me,
_donnant donnant_, e tutti pari. Noi a Tunisi, senza Crumiri; voi a
Tripoli, senza dir ai nè bai; noi in Egitto, e voi in Abissinia; noi a
Metz e Strasburgo, voi a Trento e Trieste, che bel fatto! _et pas plus
malin que ça_.--

Così l'uno tagliando dalla pezza e l'altro approvando del capo, l'uno
dicendo _Deo gratias_ e l'altro _cum spiritu tuo_, si faceva, di sopra
ai trattati e in barba ai loro custodi, la gran pace dell'avvenire. E le
cose andavano. Maurizio era diventato per quell'uomo un altro Dutolet,
anzi meglio, perchè il Dutolet approvava tacendo, e Maurizio approvava
parlando. I facili discorritori amano che qualche parola si metta in
mezzo ai loro discorsi; almeno quando essi hanno la bontà di ricogliere
il fiato. La politica del generale passava adunque senza contrasti. Per
contro, e quasi per compenso, il generale cedeva sul capitolo della
religione, non toccandone mai. Aveva torto; poteva sfogarsi oramai anche
su quell'argomento, perchè Maurizio, com'era ridotto dalla sua
condizione, lo avrebbe lasciato dire a sua posta.



CAPITOLO XI.

Rifugio spirituale.


Peccato che in mezzo a queste calme fossero ancor troppo frequenti i
giorni di nervi! Il generale non era paziente per natura: non solo ogni
contrarietà lo stizziva, il che può accadere a tutti; ma ogni lentezza,
ogni più piccolo indugio, ogni inerzia naturale delle cose che lo
circondavano, e che perciò dovevano dipendere da lui, lo faceva andare
fuori dei gangheri. Avvezzo alle sonorità del comando, parlava troppo
spesso con voce di tuono; e nel tuono della propria voce si eccitava, si
riscaldava, s'infiammava sempre più, anche per cose da nulla. Nessuno
toccava i libri della sua biblioteca; libri d'arte militare, annuarii,
regolamenti, statistiche, a chi sarebbe mai venuto in mente di leggerli?
Se qualche volta non si trovavano a posto, la colpa non poteva esser che
sua. Ma no, non era sua, era di tutti, quando cercava e non trovava il
fatto suo; e guai, allora, guai a tutti! era un diavoleto, un finimondo.

Degli abiti non era molto curante; abiti borghesi, robaccia! non
meritavano di occuparsene troppo. Nella biancheria era più sofistico:
quella toccava la pelle e poteva dar noia. Così, le sue camicie dovevano
aver la salda e non averla, abbracciare il collo e non stringerlo, non
farsi sentire per nessuna costura. Quando, per troppa salda di quelle, o
per subitaneo ingrossamento delle corde del collo, si sentiva nulla
nulla a disagio, ficcava due dita nel colletto, e crac! strappava
senz'altro, bestemmiando la cameriera, che fuggiva nella sua camera a
farsi il segno della croce. Se non trovava lì per lì le sue cigne, era
un guaio dei grossi: peggio poi se, dopo averle trovate, e cercando di
abbottonarle, gli mancava o gli ballava il bottone nella cintura dei
calzoni; la cameriera poteva credere venuto l'anticristo.

--Ettore!--si provava a dirgli la contessa, a cui dispiacevano quelle
scene, ma ancor più di sentir sgridare a torto le persone di
servizio.--Sai bene che non è lei. Son io che mi prendo cura dei tuoi
abiti! son io che faccio sempre queste cose.

--E non capisco perchè tu lo faccia;--ribatteva egli, inasprito.

È proprio dell'uomo il non capire certe cose, specie in materia di
delicatezze domestiche. Era così l'altro Ettore? Verrebbe voglia di
crederlo. Infatti, lui morto, la bella vedova passò a seconde nozze con
Neottolemo, e in terze con Eleno.

A taluna di quelle scenate era presente il signor di Vaussana, che non
ci poteva far niente. Gisella chinava la fronte, dopo aver guardato
Maurizio, con aria di volergli dire: «Vedete? non son mica tutti come
voi, che apprezzate tanto questa povera donna».

Un giorno ella capitò all'Aiga col volto acceso e gli occhi rossi.
Maurizio non l'aspettava ancora, ed era lassù al dolce nido per la sua
prudente consuetudine di andar sempre al ritrovo due o tre ore prima del
tempo. E dell'ora insolita e della strana animazione del volto di lei,
Maurizio si maravigliò grandemente.

--Ti dispiaccio forse?--diss'ella.

--Ecco una parola ben crudele,--osservò tristamente Maurizio.--L'ho io
meritata, notando una novità d'orario nella vostra cara venuta? Voi
siete alterata, Gisella; avete anche pianto. Che cosa è stato? Una delle
solite sfuriate, oppure....

--No, non cercate altro;--interruppe Gisella.--Una delle solite, ma un
po' più brutta delle altre, poichè dalle parole è passato per la prima
volta agli atti. E per una cosa da nulla, avendo torto su tutti i punti.
Gli avevano portato il caffè tiepido, gran delitto! Ed egli lo voleva
bollente, per questa volta, senza averlo detto prima, mentre
ordinariamente si lagna che glielo portino troppo caldo, facendogli
perdere il tempo a sorseggiarlo. E perchè io mi ero provata a calmarlo
con una buona parola, sapete come mi ha risposto? Scaraventandomi la
chicchera addosso. Che ve ne pare? Un bambino viziato non farebbe peggio
del mio vecchio padrone. Non ho detto una parola, non ho fatto un gesto,
ricevendo l'offesa villana, alla presenza del servitore; sono andata a
levarmi la veste macchiata, ne ho indossata un'altra, ho preso il
cappellino, mentre egli era là a far le volte del leone in gabbia sul
pavimento dell'atrio.

--Prima della colazione!--notò Maurizio.--Che imprudenza!

--Ah sì, raccomandatemi ancora di esser prudente. Se egli è pazzo, ho da
esser savia io, che sono dei Matignon come lui? La prenda poi come
vuole; io non intendo più di esser trattata come una bambina, nè come
una schiava. Dopo quella villania, poi! È la prima, e deve bastare. Guai
se incomincio a passargli le sue brutalità. Perchè oramai si va di male
in peggio; ed io non ne posso più, non ne posso più.--

Così dicendo, la bella scorrucciata si era seduta sul sedile di pietra e
con ritmo convulso batteva il suo ombrellino sulle ginocchia. Maurizio
si fece daccanto a lei, e le bisbigliò dolcemente all'orecchio:

--Sei tu che l'hai voluto, bambina!

--Io?--diss'ella, rizzando la testa.

--Così dicono tutti;--rispose Maurizio.

--Io....--ripigliò Gisella, con accento di amarezza.--Io, per vostra
norma, non ho voluto nessuno. Me ne ricordo benissimo: non è storia di
cent'anni fa. Non sapevo nulla di uomini, io; non avevo conosciuto che
il mio babbo, un cuor d'oro, che mi lasciava fare a modo mio in ogni
cosa. Morto lui, caddi in una tristezza profonda. Voi non sapete,
Maurizio.... non potete immaginarvi, essendo un uomo, come sia triste
per una fanciulla restar così senza padre e senza madre sulla terra. È
la solitudine in mezzo alla folla, è la notte dell'anima nella luce del
giorno. Mi avevano fatto un consiglio di famiglia, mi avevano dato un
tutore. Era un gentiluomo, lo zio; mi pareva tale; dovevo essergli grata
di un sacrifizio inaudito, che tutti dicevano aver egli fatto per me,
chiedendo di esser messo in disponibilità, lasciando il servizio,
interrompendo la carriera. Mi trattava come una bambina, sì, ma ancora
con molto rispetto. E un giorno mi fecero dei discorsi molto strani, che
non mi parvero orribili. Ma che cosa sapevo io del mondo? Mi pareva fin
naturale che egli volesse dedicarsi a me, essermi compagno nella vita,
tenermi luogo di padre. Così fui data a lui, a lui che tutti dicevano
buono, che io credevo buono come lo dicevano tutti. Ma non lo è, non lo
è, non lo è; ha lo spolvero della bontà; nel fondo non è che un
soldataccio brutale. Una donna, per lui, non è che un servo, un
dipendente: la tratta bene, alle sue ore, come tratterebbe il suo
aiutante, il suo attendente, a certe ore del giorno: poi, quando ha le
lune, grida, strepita, tempesta, che pare un ossesso. Ed anche quando
non è di cattivo umore, che credete? che sia appena appena tollerabile?
Ha il comando nel sangue, ama il comando in tutto, il comando che annoia
e che irrita. Ha bisogno di una cosa che è lì sotto la mano? Gisella. E
subito Gisella deve esser lì, trovar lei, qualche volta indovinare ciò
ch'egli vuole. Si sveglia nella notte, e non può riprender sonno?
Gisella. E bisogna svegliarsi. Io dormo volentieri, e sogno
bene;--soggiunse ella, mettendo il primo sorriso nel suo triste
discorso;--ma bisogna star su e correr da lui, per discorrere. Se almeno
volesse, come i bambini, farsi raccontare qualche favola! Ma no,
discorsi gravi, faccende di casa, delle quali si potrebbe ragionar
meglio a giorno chiaro; più spesso si gira a parlare di vecchie
malinconie; della vita militare, del servizio lasciato, della carriera
interrotta. Oh, non tralascia allora di farmelo sentire, il gran
sacrifizio che ha fatto! Perchè lo ha fatto? chi glielo ha domandato?

--Capisco,--disse Maurizio,--è nel fondo un grande egoista.

--Sì, dite bene, un grande egoista. Amico mio, son pure infelice. Che
vita sarebbe la mia, se non avessi il tuo amore? È il mio rifugio tanto
caro. E come sono corsa a te, l'hai veduto? come ti ho sùbito
indovinato! come ti ho sùbito accolto! È stata una buona stella che ti
ha ricondotto quassù, alla terra dei tuoi padri. Se tu avessi tardato,
o Rizio, se tu avessi tardato ancora a giungere in questo deserto, in
questo orribile deserto, credo che ci sarei diventata tisica, e mi
avrebbero presto seppellita laggiù, come una santa, nel piccolo chiostro
di San Giorgio. E le avrei fatte meravigliar bene della mia compagnia,
le povere sante dei Matignon.... se pure è vero che di là possiamo
ancora maravigliarci di nulla.

--Già! la mia bella incredula;--notò Maurizio, con un placido
sorriso.--Ma come fai a non credere?

--Dimmi tu come si fa a credere,--rispose Gisella.

--Pensando.... pensando molto;--diss'egli.

--Se bastasse il pensare!--esclamò la bella creatura, sospirando.--Ho
pensato già tanto, io! Vorrei pure averla, una fede. Perchè questa vita
è assai dura, e da qualche tempo incomincia a diventarmi intollerabile.

--Da qualche tempo!--ripetè Maurizio, con accento di
tristezza.--Dunque.... per me?

--Ebbene, sì, per te. Pensi tu che non sia doloroso non potermi rifugiar
sempre in te? Soffro, amico mio, paragonando questi brevi momenti alle
lunghe ore del mio martirio quotidiano. Ah, sono ben lunghe, e il
compenso di questo martirio bisognerebbe pure ottenerlo di là. Averne la
speranza e la fede, che fortuna! Ma non posso; credo che mi manchi
la.... come si dice?

--Non lo dire, e non lo far dire da me;--rispose Maurizio, vedendo che
Gisella si era recato l'indice alla fronte.--Coloro che vogliono
collocare le facoltà dell'anima in altrettanti punti più o meno rilevati
della testa, saranno poi tirati a conchiudere che la loro testa è
imperfetta, se le manchi il ricettacolo dell'ideale. Pensa, senti e
credi; vedrai allora che, credendo in qualche cosa, non si è, a peggio
andare, niente più sciocchi di loro.

--Voi ne parlate molto facilmente, Maurizio; ma non può creder chi
vuole, solamente pensando e sentendo. Voi ci avevate.... non dirò già
quella brutta cosa che vi dispiace tanto, ma almeno la strada fatta,
l'indirizzo della vostra prima infanzia. Non è così? Hai dette le tue
orazioni da bambino, ed io non le ho dette; te ne sei ricordato da
giovane, ed io non ho avuto niente da ricordare; poi, più tardi, sul
mare, in mezzo ai pericoli della tempesta....

--No, no,--interruppe Maurizio,--queste belle labbra non dicano di
queste brutte cose, che non sono vere, che non sono state tali, almeno
per me. Non fu il pericolo, quello che mi ha richiamato alla fede: non
fu l'abitudine, quella che me l'ha instillata nell'anima.

--Allora, volete voi dirmi come andò?

--Sarebbe un troppo lungo discorso;--rispose Maurizio.--E voi, ora, mia
dolce creatura, ritornerete a casa.... per farmi piacere.
Vedi?--soggiunse stringendola fra le sue braccia,--ti mando via. Ma tu
sai bene che ti terrei tanto volentieri?

--Sì, amico mio; non dubito già io di voi, come voi dubitate qualche
volta di me. So bene che ho fatto un colpo di testa. Ci voleva, sai? e
non ne sono pentita. Ma è forse meglio ritornare un po' prima. Vedi tu,
Rizio, come credo.... in te? Ma ancora voglio credere in ciò che tu
credi. Convincimi, persuadimi, e sentirò che mi ami tanto, tanto, da non
potersi immaginare, nè desiderare di più.

--Ahimè, quali patti!--esclamò Maurizio.--E se con tutta la miglior
volontà del mondo, la mia eloquenza non fosse da tanto? Poi, avremo mai
tempo per discorrere a lungo, per raccontarti.... come andò? Sono cose
dell'anima, e il dirle brevemente è difficile.

--Scrivile, allora.

--Scriverle? Sarei lungo, più ancora che a dirle.

--Tanto meglio!--gridò Gisella, battendo le palme.--Sarò più a lungo con
te.... nelle tristi ore che non ci posso essere. Voglio sapere come hai
creduto tu, Rizio, voglio saperlo bene. Sai quanto è che ci penso, e non
osavo domandartelo? Rizio è l'amor mio, il conforto, il rifugio e la
vita. Perchè mai, uniti in tutte le altre, in una cosa sola siamo come
stranieri? Voglio essere più in lui, più in lui, tutta in lui, col suo
modo di pensare, di sentire, di essere.--

Maurizio posò sulla fronte della divina creatura un bacio solenne.

--Sia;--diss'egli poscia;--scriverò.--

E ridottosi a casa, non era stato a pensarci troppo lungamente. Non
aveva infatti da scrivere per la stampa, per farsi giudicare da qualche
migliaio di lettori; scriveva per lei, per l'adorata creatura. La fretta
avrebbe dimostrato il suo buon desiderio di obbedirla; le stesse
imperfezioni della forma, avrebbero fatto fede della sua sincerità. Il
giorno seguente, alla Balma, mentre il generale passeggiava sulla
spianata dando istruzioni al fattore, Gisella riceveva da Maurizio un
piccolo involto di carte. Non era una lettera, ma a dirittura un
quaderno.

--Scusate, ho fatto un passio;--diss'egli.--Mi è mancato il tempo
d'essere breve. Ho incominciato a scrivere iersera alle undici; non ho
finito che stamane all'alba. Del resto,--soggiunse,--spero bene che non
vorrete leggere tutto in una volta, ma sorseggiare, centellinare questa
povera prosa.

--No, no,--rispose Gisella,--voglio legger tutto d'un fiato. A
centellinare ci sarà sempre tempo, e non tralascerò certamente di farlo.
Povero il mio Rizio! una notte bianca! E quest'oggi, poi, un'altra
condanna!

--Che sarebbe?

--Che troverete modo di andarvene prima del solito.

--Perchè?

--Perchè, non lo intendete? perchè voglio stare più a lungo da sola a
solo con te.--

Era adorabile, mandandolo via a quel modo. Maurizio trovò per l'appunto
il modo di far più breve la visita, portando via il generale, col
pretesto di una piccola passeggiata in paese. La contessa fu sola, come
voleva, per leggere il passio del signor di Vaussana. Ed eccolo qua,
come ella lo lesse, incominciando dal titolo: «Dal dubbio alla fede».



CAPITOLO XII.

Dal dubbio alla fede.


«Ricordando la educazione religiosa della mia infanzia (così scriveva
Maurizio a Gisella) avevate in parte ragione. Sicuramente, ho dette da
bambino le mie orazioni. Le dicevo anche molto volentieri, perchè me le
faceva dire mia madre, recitandole insieme con me. Oggi ancora sento lei
in certe inflessioni di voce, in certe pause che io metto nel mormorarle
tra me; e questo me le rende più sacre, dal giorno che le ho ritrovate
nella mia memoria, dopo tanti e tanti anni d'oblio volontario.

«Le avevo imparate senza sforzo. La mia educazione religiosa non fu
punto pesante. In casa nostra si era religiosi, certamente, e di questo
può esservi specchio la mia buona sorella Albertina; ma non si
appendevano santi e madonne a tutte le pareti, e non c'era l'uso di
recitare il rosario ogni sera, per dimenticare nella eterna ripetizione
il significato delle preghiere, o per addormentarci al ritmo uniforme
dei nostri borbottamenti frettolosi. Le nostre orazioni erano brevi, e
tutte latine. La mamma ce le aveva spiegate alla grossa, ma ce le faceva
sempre dire in latino. A me, che un giorno le avevo osservato come il
latino non si usasse più, la buona mamma aveva risposto:

«--Appunto perchè non è più una lingua parlata tra gli uomini,
dev'essere la lingua in cui si parli a Dio.

«--Ma se io non la intendo!

«--Mettici tutta l'anima, e t'intenderà lui; non basta forse?--

«Io ero già a cinque o sei anni un feroce curioso. Perchè questo? perchè
quest'altro? d'ogni cosa volevo saper la ragione. Mia madre, con una
pazienza maravigliosa, mi spiegava le cose come poteva, e fin dove
giungeva la sua istruzione, o il suo raziocinio; poi mi diceva: «perchè
Dio ha voluto così»; e questa era la ragione ultima, a cui non mi era
lecito ribattere. Un giorno la misi in un grave impiccio, la povera
donna, coi miei terribili perchè. A proposito di un infelice che avevamo
incontrato per via, mentre egli si trascinava a stento nella polvere con
due moncherini di gambe, stendendo a noi due moncherini di braccia, la
ragione ultima di mia madre cozzò contro una mia irriverente ma non vana
osservazione:--Ma dunque è Dio che vuole il male?--

«--Queste--rispose ella stringendosi nelle spalle--son cose che io non
arrivo ad intendere. So che tutto è ordine, nel mondo; so che c'è il
giorno e la notte, quello illuminato dal sole, questa dalla luna e dalle
stelle; so ancora che ci sono dei giorni nuvolosi e delle notti
burrascose. Per ora non mi domandare di più; tua madre del resto è una
povera donna senza istruzione.--

«Non era vero. Mia madre aveva letto molto, leggeva ancora, quando
poteva. Un giorno la sentii dire che se tutti gli uomini cessassero di
leggere, si perderebbe la scrittura, come si perde una lingua, quando
tutti coloro che la parlano son morti. E soggiungeva che se tutti
operassero il bene, il male si estinguerebbe, sparirebbe da sè. Questo è
un sogno; ma i sogni non son tutti da mettere in canzone. Perchè non
vagheggiarli, quando son belli e fanno bene allo spirito? Che santa
educatrice è stata mia madre! Peccato che ci abbia lasciato così presto!
Quando ella si addormentò per sempre, io e mia sorella fummo ben tristi.
Mia sorella è triste ancora, lo avete notato? Sorride poco, e sempre a
fior di labbra. Ebbene, ciò data dal giorno che nostra madre è morta.
Quanto a me, non so; molto allegro non sono mai stato. Ma allora avevo
otto anni, e mi mandarono subito in collegio; forse per distrarmi, forse
per non lasciarmi perdere il frutto della educazione materna.

«Anche in collegio avevo la religione, e più che in casa nostra, anzi
troppo di più; la qual cosa incominciò presto a seccarmi. Il buon Dio
delle mie orazioni infantili si andava rivestendo di misteri, di dogmi
e di formule. Ogni mattina, prima della scuola, avevamo la messa; ma che
messa? un messone. Quel prete Risso, che veniva a dircela ogni giorno in
congregazione, ci spendeva sempre da quaranta a quarantacinque minuti.
Se il prefetto, passeggiante di continuo in mezzo alla corsìa, non ci
avesse avuto sempre gli occhi addosso, che sbadigli sarebbero stati! E
che risate, quando vedevamo il celebrante far segni ad un personaggio
invisibile, borbottando certe parole che nel messale non erano scritte!
Si era sparsa la voce che egli vedesse il diavolo, un diavolo tentatore,
che veniva a distrarlo fin là; donde i suoi gesti per discacciarlo, e la
frase che accompagnava quei gesti, una frase che voleva dirgli: va via.
Alle domeniche, poi, avevamo nel mattino l'ufficio della Vergine; più
tardi i vespri, e da ultimo la benedizione in chiesa. Nell'ufficio mi
piacevano abbastanza le lezioni, in cui facevano le loro prove i
cantori; nei vespri un inno, che era poi l'ultimo, e si cantava con un
ritmo più frettoloso; nella benedizione mi era, per lo stesso motivo,
graditissimo il _Salutaris hostia_.

«Dopo tutto, quelle eterne funzioni, di congregazione o di chiesa, ci
rubavano il tempo destinato alle ricreazioni, agli intervalli dello
studio. Volevamo andare a passeggio, per respirar l'aria buona, e ci
tenevano chiusi, al fumo delle candele, per cantare un _Coeli
enarrant_, bellissimo, ma che non valeva certamente quelle opere. Non
parlo dei quaresimali, degli esercizi, delle feste comandate e non
comandate, che si seguivano con troppa frequenza. La confessione era un
fastidio grande; la preparazione alla confessione un fastidio anche
maggiore. Era così necessario a noi rompere le lezioni e lo studio con
larghe boccate d'aria, e i nostri custodi parevano moltiplicare a bella
posta le occasioni per tenerci rinchiusi fra quattro mura. Il nostro
spirito aveva bisogno di una religione poetica, ed essi ce la rendevano
sempre più irta di pratiche minute, di astruserie, di terrori.

«Una bella luce d'aurora in quel buio fu per me la lettura del _Genio
del Cristianesimo_, dei _Martiri_, dell'_Atala_, tre libri dello
Chateaubriand; permesso il primo, quasi raccomandato; gli altri due
letti un po' di straforo. Quel cristianesimo io lo intendevo, lo
sentivo, lo amavo. E amavo anche il rettore del collegio, uomo
venerabile per dottrina, amabile per graziosa bontà, senza tabacco
sparso sulla tonaca, che Iddio lo benedica. Un'altra mia grande simpatia
era il vescovo della diocesi, che veniva qualche volta a visitarci, e
che noi vedevamo ogni giorno andando a passeggio. Ho sempre negli occhi
quel vescovo, un gran signore torinese, bellissimo di aspetto, soave di
modi, grave nel portamento, modesto nella sua dignità, che pareva sempre
domandarvi perdono del vestir paonazzo e del portare la sua gran croce
d'oro sul petto. L'occhio di quell'uomo non guardava, involgeva; la sua
bella mano benedicente mandava carezze nell'aria.

«Con tutto ciò, non intendevo ancor Dio. Per non ismarrirmi fra tante
novità, mi rifacevo a quello della mamma; un Dio tutto misericordie,
tutto dolcezze, nella sua essenza invisibile, ma profondamente sentita
nel cuore. Anche la Madonna era bella, e l'amavo, con la sua veste
azzurra e fluente, col suo velo bianco, tempestato di stelle; ma non mi
piaceva più tanto, quando la facevano vedere con sette pugnali piantati
nel cuore, o con degli scapolari, dei rosarii, penzoloni dal braccio, o
con certe pesanti corone messe in bilico sulla testa. Cristo crocifisso,
che avrebbe dovuto commuoverli, a forza di mostrarmelo in
quell'atteggiamento di spasimo, me lo avevano fatto parere meno doloroso
alla vista. Ma niente piacevole me lo avevano reso, dipingendolo col
petto aperto e col cuore in mostra; un cuore rubicondo, inghirlandato di
rose bianche, abuso d'iconografia capricciosa, sdolcinatura da conventi
di monache. Scrivo queste cose come mi vengono alla penna, senza neanche
curarmi di ordinarle, di aggraziarle; che forse allora avrei l'aria di
metterci una intenzione d'irriverenza; intenzione che è ben lontana
dall'animo mio, mentre cerco di esprimervi il mio pensiero, come si
andava svolgendo, e allontanando sempre più dalla fede.

«Nel collegio di marina, dove andai dopo finiti gli studi del ginnasio,
c'era ancora la religione; ma una religione più asciutta, più rigida,
più smilza; pratica di regolamento e non più. Per dirne bene o male,
come educazione, bisognerebbe che avessi avuto solamente quella. Chi sa?
forse mi sarebbe bastata, e sarebbe anche riuscita più salda, potendo
aggiungerci qualche cosa del mio, colmar le lacune con la religione
della mamma; fors'anche m'inganno, immaginandolo. Nel fatto, non ne so
nulla: ero in un periodo della mia vita, che, senza discredere ancora
apertamente, non credevo già più, nè per virtù d'amore, nè per forza di
terrore. L'adolescenza è così. Leggevo molto, divoravo tutto quello che
mi era stato proibito da prima, tutto quello che non avrei potuto
neanche trovare, stando nell'antico collegio. Non so come, mi capitò
allora per le mani il Byron col suo _Caino_, quindi il Goethe col suo
_Fausto_; i due libri che più fortemente abbiano operato nell'anima mia.
Curioso! nè oggi saprei più dire in che modo o perchè, questi due
drammi, l'uno scaturito dal vecchio e l'altro dal nuovo Testamento, mi
ridestarono tutti i dubbî più gravi, me ne fecero corpo, se così è
lecito di dire, nell'anima.

«Frattanto la vita mi chiamava, la gran vita, la multiforme vita, con
tutte le sue voci possenti, con tutte le sue aspre curiosità. Ufficiale
di marina, libero del mio pensiero se non della persona mia, non
credetti più a nulla. Avevo letto in quel mezzo il Volney, quello delle
_Rovine_, e il mio passato intellettuale era anch'esso una rovina:
lessi ancora le _Origini di tutti i culti_ del Dupuis, e vidi anche
meglio esser principio e fonte di ogni credenza umana il maraviglioso
complesso dei miti astronomici. Si fece allora nel mio spirito una gran
luce, ed anche una gran pace. Capii finalmente il senso arcano di tutte
le religioni, e vidi come la nostra forma secondaria dal sabeismo
siriaco, attraverso il culto naturalistico di Adonai, fosse rampollata
anch'essa dal mito solare. Nello zodiaco egiziano e nel caldeo avevo
anche trovati i segni della Vergine e del Serpente, principii di una
favola nuova; così nelle mostruose teogonie dello Zendavesta, nella
guerra del principio della luce e del principio delle tenebre, avevo
scoperto Dio e il Demonio, il bene e il male ad un tempo. E tutto avendo
in questa guisa capito, pensavo spesso alla mamma.

«--Povera mamma!--dicevo fra me.--Ella è stata felice nella sua fede. Ma
non sarebbe stata egualmente felice nel pieno possesso della scienza? La
scienza è luce; la fede non è che una nebbia, adombrante la luce. La
vita è fine a sè stessa; un bel fine che noi guastiamo, facendone il
mezzo, l'avviamento ad un sogno.--

«Mi parlavate del mare, del mare misterioso e terribile, che può rifare
credenti gli spiriti. No, non è il mare che fa ciò, almeno nella più
parte dei casi. Il mare è un abisso, ma un abisso che si misura; le sue
profondità non hanno più nulla d'ignoto; le sue collere sono fenomeni
preveduti; le tempeste hanno una legge; i flutti son coni vorticosi,
che vengono, sollecitati da conosciute pressioni a rompere le loro punte
rovesciate sul declivio delle coste; la scienza ha svelati tutti i
segreti del mare. Perseo, protetto dall'egida di Minerva, la dea della
sapienza, ha troncato il capo di Medusa, quantunque avviluppato di
tortuosi sofismi. Anch'essa, la povera Medusa dei mari, finisce male
come la sua maggior sorella dei deserti di Libia; rigettata alla
spiaggia, perde la iridescenza perlacea dei suoi sette colori, mostrando
la sostanza viscida di cui era composta.

«Così il mare non ebbe terrori per me, non avendo segreti. Neanche il
pericolo ha potuto mai ridarmi ai sogni dall'infanzia, rifacendomi più
vile, o più perspicace. Nato tardi, non ho avuta la sorte di assistere,
di partecipare ad una grande giornata navale; il mio coraggio ho dovuto
provarlo in piccoli scontri, che offrivano pure la lor parte di pericolo
per me, come nelle grandi occasioni. No, vi dico, pieno di salute e di
forza, animato da un'alta coscienza di me, infiammato da un caldo
sentimento di sdegno, non ho mai misurato il pericolo. Nessun timore ha
potuto ricondurmi alla fede antica; vi dirò di più, non ha potuto
neanche accostarmi a quel mezzo termine del Dio filosofico, tenue
tessuto di ragionamenti, pallida forma ondeggiante ad un soffio, oscuro
compromesso tra il raziocinio moderno e la consuetudine antica, che
sempre risente un pochino della concessione stracca, della transazione
di due sistemi, della combinazione di due opposti elementi.

«Frattanto, io volevo conoscere. Conoscendo sempre più, volevo
ricostrurre un sistema, una spiegazione adeguata dell'universo, almeno
almeno della vita umana, come buon principio ad intendere il resto. I
miei vecchi distruttori non mi bastavano più; scelsi via via i più
recenti interpetri dei miti antichissimi, i più dotti di storia e di
filologia comparata, i più felici ricostruttori delle lingue perdute.
Costoro mi distrussero senza fatica il gran mito astronomico,
riconoscendone un altro più vecchio, il mito naturale. Andai più oltre,
e ne trovai di più sottili, che al mito naturale ne facevano precedere
un altro, nel culto del morto che non deve morire del tutto: donde nei
due fatti umani, dell'amor della vita nel morente e dell'amore del morto
nei superstiti, si vedeva compiuto il mistero della religione primitiva.
Ma questa, che ci mostra l'umanità bambina affrontata all'enimma
dell'ignoto, non era ancora la soluzione del problema. Ebbi ricorso
allora ai filosofi nuovi, che mi rivelarono la materia incosciente, la
quale, combinandosi per caso in certe guise, acquista la coscienza di
sè. Mi parve un assurdo, come la spontanea formazione degli organismi.
Assurdo fin che vorrete, mi rispondevano, ma assurdo necessario;
altrimenti non si spiega nulla. Bel modo di convincere! Credere una
cosa anche assurda, non è forse un po' troppo? Tanto faceva starcene
con sant'Agostino, che aveva già detto mille seicent'anni fa qualche
cosa di simile. Se pure è stato lui, e non Tertulliano.

«Nondimeno, poichè era necessario, mi acquietai. Facciamo cammino,
dicevo tra me; la ragione assoluta non è ancor chiara; vediamo la
relativa. Quanto ho letto e meditato, nelle lunghe navigazioni e nelle
eterne crociere! Ho studiato tutto, col vivo, ardente desiderio di
credere nella scienza. Qui almeno siamo sul sodo, pensavo; è qui
l'esperienza che rende conto di sè. Che bella cosa, ad esempio,
intendere l'evoluzione degli esseri attraverso la selezione e la
battaglia per l'esistenza! Il passaggio possibile da specie a specie non
mi spaventava più come una difficoltà insormontabile, poichè i miei
filosofi avevano distrutto e rimandato tra i ferravecchi il concetto
artificiale della specie. E tutto procedeva allora benissimo: l'uomo mi
appariva una forma più perfetta, nata per selezione, uscita per lenta
evoluzione da una forma meno perfetta. Tutte le forme viventi avevano
seguito questo procedimento; dalla cellula primitiva fino al cervello di
Dante, continuando a svolgersi, alcune progredendo, altre restando
indietro, per variar di fortune, per azione di ambienti. Certo, non
tutto era chiaro, nel nuovo sistema; la prova dei fatti offriva molte
lacune. Avendo dubitato della religione, avevo pure il diritto di
dubitare della scienza, pensandola insufficiente a scioglier l'enimma
della vita. Ma ancor dicevo tra me: pazienza e non disperiamo; la
scienza non pretende di spiegar tutto d'un colpo; va a passi lenti, ma
sicuri; aspettiamo che arrivi. Infatti, tutti i rami dello scibile
progredivano a vista d'occhio; progrediscono ancora; non si tratta più
della scienza, come ai tempi antichi: si tratta di molte scienze, che
fanno cammino da sè, ognuna coi mezzi suoi, vedendo il suo proprio
orizzonte. Aspettiamo dunque, aspettiamo che arrivino. Ma no; ci sono i
frettolosi. Tutto è evoluzione, nel mondo. In nome della evoluzione,
escono fuori tutti i ciarlatani di piazza. Carlo Darwin diceva ancora:
aspettate. Ma che aspettare? gridano essi; tutto è trovato; niente è nel
mondo di più elevato, niente è in noi di più nobile, che non abbia la
sua chiara, umilissima origine materiale.

«Adagio, con l'umilissima. Donde il seme del divino, che io porto in me?
Adagio, col ritrovamento del tutto. Come va che le vostre scienze, tutte
sicure del fatto loro, quando vengono a riscontrarsi l'una nell'altra,
cozzano maledettamente? Vediamo un esempio, incominciando da ciò che si
ammette in astronomia. Una gran nebulosa si è formata; nuotando,
vagando, ruotando nello spazio, s'è foggiata in zone, in globi
concentrici, in anelli; gli anelli si sono spezzati, raggomitolati in
globi minori, in pianeti, nuotando, vagando, ruotando ancora intorno a
quel centro. Perchè? Per le leggi stesse della materia. Le leggi? ma
che leggi, se tutto ciò era avvenuto per caso? Qual legge ha potuto dire
alla materia sorda ed inerte di muoversi, e di muoversi a cerchio? Se mi
dite che ha dovuto obbedire ad altri impulsi, non avrete fatto altro che
allontanare la difficoltà, e noi dovremo ripigliare la disputa per un
sistema maggiore da cui il nostro dipende, e così via, all'infinito.

«Intanto, la matematica vien fuori colla legge delle probabilità,
davanti a cui la evoluzione, per trarre un frutto qualsiasi
dall'incontro di due organismi in qualche modo riproducibili, suppone
migliaia di secoli perchè il fatto si avveri; migliaia di migliaia ne
suppone per l'adattarsi di un semplice organo a nuovi bisogni ed uffici;
migliaia di migliaia perchè lo stesso bisogno, lo stesso ufficio si sia
potuto fissare. E poi, che cos'è questo ufficio? che cos'è questo
bisogno? come può nascere, se non c'era? È un elemento che non
apparteneva al problema; come si è ficcato egli in mezzo? Come è
supponibile che l'elefante allunghi la sua proboscide, e la giraffa il
suo collo, per raggiungere il cibo, se questi allungamenti han bisogno
di secoli, e il cibo era il bisogno dell'ora presente? Come immaginare
che possa formarsi la camera oscura dell'occhio, tanto delicato e
complicato ordinamento di materia, per i bisogni di una visione di cui
l'organismo vivente non aveva l'idea, e non avendo l'idea non poteva
avere il bisogno?

«Ma che si parla di organismi superiori? Solo perchè una cellula
primitiva si sdoppî, e lo sdoppiamento diventi legge di vita, occorrono
miriadi di secoli. Andiamo più su, e dovremo ancora porre che un
fermento chimico si muti in organico; e qui la supposizione batte alle
porte ferrate dell'impossibile. E le rompesse ancora; l'astronomia, la
fisica e la chimica celeste sarebbero sempre là, per negare al sole
tutti i miliardi di miliardi di secoli che sarebbero necessarii alla
evoluzione, per far riuscire una mezza dozzina delle sue combinazioni
primitive, rudimentali.

«Perdonatemi questa disgressione; essa non mira che a significarvi come
l'atto creativo venne ancora a parermi necessario. Quest'atto io non ho
da vederlo, io non ho da descriverlo, nel linguaggio necessariamente
povero, colle immagini necessariamente inadeguate di tutti i sistemi
conosciuti. Ho bisogno della legge, come gli stessi materialisti; ma con
questa semplice differenza, che essi vogliono la materia intelligente, o
capace d'intelligenza, che è infine tutt'uno, e poi suppongono la legge
cieca, mentre io immagino cieca la materia e intelligente la legge. Dà
noia la parola con cui i popoli primitivi dell'Asia espressero questa
legge, ricorrendo all'immagine di ciò che risplende? Non vedo il perchè
di questo sentimento, data la insufficienza del nostro linguaggio, che
ad esprimere ogni specie d'idee è giunto per estensione progressiva
d'immagini.

«Anche senza dir la parola, e riconoscendo il fatto della legge
intelligente, io mi ero a grado a grado pacificato. Seguitavo a leggere,
ammirando i dotti per davvero, sorridendo dei ciarlatani che tenevano la
piazza. E un giorno i dotti mi confessarono (non a me soltanto, ma a
quanti si pigliavano il disturbo di leggerli) che il sentimento del
divino era un bisogno dell'essere umano; che nessuna scienza poteva fare
astrazione da esso, considerarlo come una quantità trascurabile. Mi
soggiunsero ancora che il mondo, com'è costituito, non può supporsi
l'opera del caso, per un lato, ma neanche, per l'altro, di una
intelligenza suprema, bensì di potenze secondarie, ancora assai lontane
da quella. Dopo quanto io ne avevo veduto, di questo bel mondo,
l'asserzione non mi pareva temeraria: intanto, l'ammissione di cause
secondarie e imperfette, mi lasciava intravvedere anche nell'animo di
quei dotti l'idea di una causa prima e perfetta. E dissi tra me:
benedetti grand'uomini, che avete ripigliato dal bel principio il
problema dell'universo, ma non per venire d'induzione in induzione, di
deduzione in deduzione, alla dottrina del nulla!

«Anche per essi, adunque, pei Darwin, gli Spencer, gli Stuart Mill,
esiste il divino, fuori della evoluzione storica e naturale dei nostri
timori e delle nostre illusioni? anche per essi Dio è fuori della
materia, comunque da noi poveramente pensato e sentito? Se è, perchè non
si svela? Ma qui pensavo ancora dentro di me: perchè dovrebbe svelarsi?
Se si svelasse, non cesserebbe ad un tratto l'indagine umana, e colla
indagine la ragione istessa della vita? La ricerca dell'assoluto è il
fine istesso dell'umanità. Dio è il bene, cioè la verità, la bellezza,
la giustizia, la carità, il fonte e la foce dell'ideale, nella grande
fiumana dell'universo, di cui non è dato a me conoscere che una minima
parte; zolla bagnata, ciottolo travolto, giunco agitato, foglia
strappata da un albero alla riva, e travolta dalla corrente, che
importa? Il male, poi, il male è tutto ciò che non capisco; in ciò aveva
ragione mia madre. Senza aver tanto studiato, la povera donna era già
ferma là, dove giunge oggi, reduce da tante battaglie, la scienza degli
uomini.

«In quest'altro studio di pacificazione son durato un pezzo, non
domandando di più. Ogni viaggiatore ha sentito questo bisogno, di
fermarsi un tratto, senza desiderio di giungere alla meta. Ma poi
rinfrancato, ho detto a me stesso: perchè vorremmo esser noi fuori del
tempo nostro? è lecito di ribellarsi all'ambiente della logica umana, o
della storia dei nostri errori, che spesso ne tiene le veci? Se tutte le
religioni non furono che passi verso la conoscenza, la moralità, la
giustizia, la civiltà del genere umano, perchè rinnegherei la mia? Qui
vi farò una confessione; ero proprio sul mare, quando m'avvenne di
pensare così; ma il mare non era punto agitato, non prometteva
burrasche; ero sano, ero forte, e non avevo l'animo disposto a paure.
Guardando davanti a me, nelle diafane serenità dell'orizzonte, mi pareva
di vedere qualche cosa che non era il colore dell'aria. Questo colore io
sapevo bene come fosse dovuto alla presenza dell'idrogeno. Ma non
apparteneva ai fenomeni dell'idrogeno, nè di altro corpo semplice o
composto, l'effetto che si produceva in me dal guardare così, con gli
occhi dell'anima, in quello sfondo vaporoso che piaceva tanto ai miei
sensi.

«Così, per opera di una seconda vista, sentii l'invisibile, penetrai
l'inconoscibile. Il mondo cammina, mi diceva la scienza. E cammini,
rispondevo io; cammina anche la nave, e non mi toglie di veder sempre
qualche cosa là dentro, davanti a me, in quell'orizzonte sempre lontano
e presente ad un modo. Viaggiatori della immensità, andremo sempre, e
non giungeremo forse mai. Nè io, attenendomi alla religione dei padri
miei, penso d'essermi indugiato per via; non temo sopra tutto di dover
perdere il treno. Mi dicono che la nostra religione ha delle parti
invecchiate. Non so, e se penso che ella contenta dei cuori, nutre delle
speranze e forma delle coscienze diritte, son quasi per credere che non
sia vera la cosa. Allah (permettetemi questa scorribanda fra gli Arabi,
che mi toglierà di parere irriverente, nella dimostrazione della mia
tesi, alla religione dei padri miei) Allah è puro spirito, essere unico
e sommo, la cui luce consola ancora dugento milioni di credenti, i più
fervidi, forse, che il mondo conosca. Mi narrano che il suo profeta
fosse un impostore, ed io lascio che narrino; ma dentro di me, se mi
fermo a pensarci più che tanto, non credo che Maometto fosse un
impostore. Un allucinato, chi sa? Iddio permette di queste
allucinazioni; la cosa si può supporre possibile e naturale, come la
scienza ammette, suppone e dà per certo che ad un dato momento una forma
nuova si svolga da una forma anteriore. Maometto è dunque il frutto del
miracolo, in cui si compie un mistero, pari a quello che fa in un dato
periodo apparir l'uomo sulla faccia della terra, l'uomo che prima non
c'era.

«Vi ho detto assai male tutto ciò che ho pensato. Voi intenderete, nella
lucidità dell'anima vostra, come la pratica della filosofia
materialistica mi abbia condotto a vedere la sua insufficienza; come una
semplice religione filosofica, alla maniera del signor di Voltaire, mi
sia parsa scortese per tutte le migliaia di creature intelligenti che
intorno a me vivono e credono; come tutte le religioni positive
esistenti mi siano parse altrettante incarnazioni del divino. Le
consideravo anche progressive, come gradini della scala che mette
l'umanità alle porte del cielo. Non offenderò, spero, le timorate
coscienze cristiane, dicendo che la loro religione e mia, che è quella
portata sulla terra dal figlio, non ha sbugiardata l'ebraica,
promulgata dal padre, tra tuoni e lampi, sulla vetta del Sinai.
Frattanto, la loro religione o la mia non ho da discrederla, per il
fatto che altri ne aspetta una nuova, più chiara e più umana, con meno
dogmi, con meno precetti.

«Ripensarla, considerarla per tutti i lati, fu in me l'opera di qualche
anno; accettarla fu un punto. Di certo, il descrivervi quel punto non
varrà molto a darvene ragione; pure, per contentarvi, ecco qua
brevemente quel che mi avvenne. Ero a Milano, approfittando di una breve
licenza; vivevo laggiù tra continui passatempi, senza pensieri, felice
come può essere l'uomo giovane, sano, forte, padrone di tutte le sue
facoltà, ricco abbastanza e senza desiderio di più. Passeggiavo una
sera, per far l'ora di andare al teatro. Non so più da qual punto,
seguitando il marciapiede, mi trovai nella via di San Celso; e là, da un
portone aperto nella penombra del crepuscolo, mi venne un'ondata di
musica, voci umane all'unisono, con accompagnamento d'organo. Non avevo
immaginato che in quel punto, sulla stessa linea dei fabbricati, ci
fosse una chiesa; niente me l'aveva annunziata, e fu istantaneo il moto
dell'anima che mi fece entrare in quel luogo. La chiesa era buia;
solamente nel fondo si distinguevano quattro o sei fiammelle di
candelabri accesi sull'altar maggiore, più per dare indirizzo allo
sguardo che per illuminare la gente raccolta a pregare. Seguendo il
capriccio improvviso, ero entrato con passo risoluto; ma sùbito fui
costretto ad inoltrarmi più lento e guardingo, poichè si era al buio,
come vi ho detto, ed io temetti d'inciampare in qualche povera donna
inginocchiata. Trovato il primo pilastro della navata, mi fermai, stetti
a sentire. La folla, nascosta nell'ombra, cantava le litanie, prologo
consueto alla benedizione serale.

«Quante volte non mi ero io ritrovato ad una scena simile, da ragazzo, e
senza averne alcun senso particolare allo spirito! Là, invece, in quel
punto, fu una dolcezza nuova per me. Mi piacevano le voci; mi piacquero
le invocazioni rivolte alla gran madre degli uomini e degli angeli, così
teneramente affettuose e così varie nella lor sequela monotona. Tante
belle cose si dicevano a Maria; e coloro che le dicevano le pensavano;
certamente le sentivano. Che consolazione per essi, che fossero
egualmente sentite lassù, nel profondo de' cieli! Infatti, perchè Dio,
causa prima degli esseri, non dovrebbe sentirne le voci?

«Tacque il canto monotono della folla: di là, dall'altar maggiore, si
rispose con qualche _oremus_, con qualche versetto latino; poi due o tre
forme incerte, timidamente luccicanti di riflessi metallici al fioco
lume dei ceri si mossero, levando di mezzo a quei ceri un ostensorio; si
udì un movimento simultaneo, per tutta la grande navata, di persone
cadenti sulle ginocchia; si svegliarono da capo i gravi suoni
dell'organo, e tutte le voci della moltitudine ascosa nell'ombra
intuonarono il _Tantum ergo_, annunziante e celebrante il mistero
dell'accostamento di Dio alla terra. Illusione anche questa? Se è
un'illusione, diciamo pure che Iddio l'ha permessa. Ed egli è certamente
là, dove, in quella miglior forma ch'ella ha saputo trovare, la creatura
lo invoca. _Tantum ergo sacramentum_... Sì, il patto è consacrato, tra
lui e la creatura; ed egli, il santo invisibile, è presente a tutti
coloro che credono, che sperano, che confidano in lui. A quel punto, che
da ragazzo mi lasciava così freddo, non d'altro desideroso che di
sentire il _Salutaris hostia_, l'inno breve, il ritmo allegro della
liberazione e della fuga, a quel punto mi sentii un rimescolo nel cuore,
e le lagrime mi salirono agli occhi. _Veneremur cernui_, cantava la
folla adorante; e a me si piegavano le gambe. Mi vergognai e volli star
ritto; ma subito un altro sentimento mi prese, facendomi vergognare
della mia stessa vergogna. _Veneremur cernui_, bisbigliava una voce
dentro di me; _Veneremur cernui_ balbettavano le mie labbra, all'unisono
col canto della moltitudine. Ero caduto in ginocchio, e pregavo.

«In quella chiesa buia, combinata per caso sulla mia strada, in
quell'ora di raccoglimento solenne, ho ritrovato Dio, l'ho rifatto in
me, luce ed amore. Così ho creduto; così sono rimasto un credente. Dal
dubbio alla fede, vi ho detto tutti i miei studi, le mie indagini, i
miei errori e le mie sensazioni. La notte è alta, ma gli occhi vedono,
come di pieno giorno; nessuna stanchezza nelle mie fibre, e una gioia
profonda è diffusa in tutto il mio essere. Mi pare, scrivendo a voi, che
un miracolo si compia; il miracolo di trasfonder me, la mia fede in chi
amo».



CAPITOLO XIII.

L'impresa ecclesiastica.


Tre giorni erano passati, dopo che il signor di Vaussana aveva scritto e
consegnato il suo passio alla contessa Gisella. Ed era anche, bisogna
dirlo, una domenica d'autunno, bella, serena, ma fredda, per un certo
vento di tramontana che incominciava ad annunziare la stagione più
rigida, e spogliava frattanto del loro fogliame i poveri alberi della
montagna; quelli, s'intende, che sogliono perderlo all'appressarsi
dell'inverno, come i roveri e gli olmi, i frassini, i tigli e i
nocciuoli. Ah, i nocciuoli, soprattutto, come son tristi, quando hanno
perduta la bella gloria frondosa degli scudi smeraldini, non mostrando
più che una scarna selva di negre aste intirizzite! Maurizio aveva già
veduto chiazzarsi di rosso quel verde, poi volgere al giallo ed
accartocciarsi qua e là, intorno al dolce nido dei giorni sereni, delle
ore di cielo, dei fidati colloquii, al sordo fragore della vicina
cascata; pensava già con terrore che di settimana in settimana
sarebbero stati più infrequenti per Gisella i pretesti di muoversi da
casa, e che presto egli avrebbe dovuto per un altro inverno rassegnarsi
a non veder l'amata donna che nelle troppo raccolte e troppo vigilate
conversazioni della Balma. L'amor suo, per verità, schietto e profondo
com'era, non pativa d'insofferenze nè di egoismo; ma quante non erano le
cose che bisognava tacere, alla Balma, o che, a mala pena accennate, non
si potevano spiegare con la dovuta abbondanza di parole! Amore è
chiacchierino, e soffre a non potersi espandere in frasi, a non potersi
esprimere nella varietà infinita delle piccole dimostrazioni.

Comunque fosse di ciò, e per tempo cattivo che volesse fare, il signor
di Vaussana non andava mai alla Balma se non per la strada del bosco. E
la mattina di quella domenica, un po' prima dell'usato, egli rifaceva la
strada consueta, per portare al generale un fascicolo della Rivista
marittima, di cui gli aveva parlato la sera innanzi, accennando a certi
esperimenti di artiglieria navale.

Il conte Della Bourdigue era solo e accigliato; ma gli si spianarono ad
un tratto le rughe alla vista di Maurizio, di quel Cireneo che voleva
aiutarlo a portar la croce della sua noia. Gradì il libro, e si mise
subito a sfogliarlo, dando una guardata allo scritto che Maurizio gli
aveva accennato. Gisella, frattanto, non si vedeva, e niente lasciava
sperare ch'ella dovesse da un momento all'altro apparire. Di certo, la
contessa era fuori. L'assenza di una donna da casa non si conosce, per
chiare e formali notizie; s'indovina, sto per dire che si sente
nell'aria.

Pensava a ciò, per l'appunto, quando il generale gli scappò fuori con
una di quelle domande che fanno balzare un uomo sulla seggiola, tanto
arrivano improvvise, non lasciando il tempo di vedere se siano sciocche
o profonde, se le abbia dettate la ingenuità, o la malizia.

--Sapete dirmi, Maurizio, che diavolo abbia preso mia moglie, di andare
in chiesa, alla messa?--

Maurizio tremò, si confuse; per un istante non seppe più in che mondo si
fosse.

--Io?--balbettava frattanto.--Veramente....

--Ma sì,--ripigliò il generale,--Gisella parla con voi di tante cose....
di poesia, d'arte, di storia, e che so io; può benissimo avervi detto
qualche cosa, da cui si possa ricavare un costrutto, avere un'idea di
questa novità.

--Voi la sentite come me, generale;--disse Maurizio.

--Non sempre,--replicò il vecchio, con un'altra scappata che fece
fremere il suo interlocutore,--non sempre. So io, per esempio, i
discorsi che può fare al Castèu, quando va a trovare la contessina
vostra sorella? Infatti, vedete, oggi è andata laggiù. Se voi non aveste
l'uso inveterato di capitare dalla montagna, vi sareste incontrato con
lei al cancello, o per la gran via di San Giorgio.--

Soltanto allora Maurizio incominciò a respirare, e le sue labbra osarono
atteggiarsi ad un mezzo sorriso.

--Vado da Albertina, mi ha detto;--proseguiva frattanto il
generale.--Rinunzio alla colazione, per vedere la funzione della chiesa
parrocchiale. Capirete, Maurizio.... Non sono un tiranno, e lascio che
Gisella faccia in ogni cosa a modo suo. La gran rivoluzione non deve
esser venuta per nulla tra le genti. Ma capirete, ripeto, che questa
novità dell'andare in chiesa m'abbia molto maravigliato.

--Ho capito, ho capito;--disse Maurizio, facendo un sorriso
intiero.--C'è il vescovo in visita pastorale, come dicono. Mia sorella
avrà data la notizia alla contessa, e un po' di curiosità.... Le
signore, dopo tutto, son donne.

--E capisco ancor io;--riprese il generale, ridendo a sua volta di quel
riso largo che faceva sollevare più minacciosi che mai sulle guance i
suoi gran baffi bianchi dorati.--Davanti alla curiosità non ci son
signore. Ma che sciocchezze! che cosa c'è da vedere di strano, in un
vescovo? Purchè poi queste visite in chiesa non mi passino in uso!

--Lo credete, generale?

--Perchè no? Ci si va una volta, ci si va due, ci si prende il gusto
dell'incenso, e non si sa dove si vada a finire, tra tante
scimmiottate. Non amo i preti, lo sapete; e senza nessuna intenzione di
farvi dispiacere....

--A me, generale?

--Eh sì, ne so pure qualche cosa. Ma bisogna che ogni uccello faccia il
suo verso; e ci sono poi delle verità che un filosofo non può tenersi
nel gozzo, senza rischio di sfiancarsi questa parte interessante di sè
medesimo. La chiesa ha portato un gran guasto nei costumi, con la sua
facilità di perdono, che sembra fatta a bella posta per invitare al
peccato. Piaccia ad altri una certa scenetta dell'Evangelio, con la
storiella della prima pietra; essa non piace a me niente affatto. A buon
conto, io ho preso moglie sapendo in anticipazione che la donna, scelta
da me, o dal caso, che è poi tutt'uno, non aveva il difetto di credere a
tante scioccherie, e di prendere in certe dottrine pietose
un'assicurazione contro la legge dei doveri umani.--

In ogni altra circostanza Maurizio avrebbe tenuto il campo e rimbeccate
le argomentazioni del conte Ettore. Ma non era quello il momento di far
guerra, ed egli si contentò di balbettare qualche frase, che nel fondo
non diceva nulla di nulla; felice abbastanza che quella gran burrasca, a
lui minacciata, si sciogliesse in un nembo di paroloni.

La contessa Gisella ritornò molto tardi dalla sua impresa ecclesiastica.
Era contenta dei fatti suoi, e non mostrò di badar più che tanto al muso
del generale, che all'arrivo di lei aveva creduto necessario di
ridiventare più arcigno. Portava notizie della funzione, e le
snocciolava allegramente al signor di Vaussana. Aveva veduto tutto,
osservato tutto, con l'attenta curiosità di una bambina. Il vescovo
l'aveva molto interessata, come era naturale che facesse, essendo un
gran dignitario della chiesa, una specie di generale anche lui. Ma che
brutto uomo! diceva lei; come poco somigliava all'idea che ella se ne
era formata, di un gran signore, bellissimo d'aspetto, soave di modi,
grave nel portamento, modesto nella sua dignità, che paresse sempre
domandarvi perdono del vestir paonazzo e del portare la sua gran croce
d'oro sul petto; di uomo, infine, il cui occhio non guardasse, ma
involgesse, la cui bella mano mandasse benedizioni e carezze nell'aria!
No, non le andava, quell'uomo, tanto diverso dall'ideale che ella si era
fatto dei vescovi. Ed anche quel don Martino, arciprete di San Giorgio,
che figura ridicola, affogato in quei suoi paramenti! Vestito della
tonaca nera, restava ancor umile, all'altezza della sua povertà di
spirito e della sua rusticità di maniere: con quel camice addosso, con
quel lusso di piegoline e di ricami, con quella pianeta a fiorami
colorati e a liste d'oro, la sua faccia nera e le sue mani vellose
mostravano più forte il contrasto fra l'uomo e l'abito; pareva di vedere
un orso vestito da festa, in uno spettacolo di fiera.

Il quadro, che la contessa Gisella andava così allegramente dipingendo,
piacque moltissimo al signor generale. Giove, dopo tanto corrugamento di
ciglia, si degnò di sorridere. E sorrideva anche Maurizio, vinto a suo
mal grado dalla amenità di quella piccola caricatura. Ma il giorno dopo,
quando ebbe modo di ritrovarsi un istante a quattr'occhi con la contessa
Gisella, pensò di non doverle nascondere ciò che il generale aveva detto
della sua impresa domenicale.

--Badate, egli ha riso; ma in fondo non vuole che andiate in chiesa.

--Il generale non comanda all'anima mia;--rispose Gisella,--ed io
andrò in chiesa quante volte mi piacerà, per vedere in che modo si
possa imitare il mio Rizio. Ma veramente, soggiunse ella
sospirando,--incomincio a persuadermi che per sentire la presenza di Dio
nelle chiese ci voglia un'anima predisposta. Tutte quelle puerilità di
rappresentazione mi hanno offesa, ve lo confesso sinceramente. Ed anche
voi, ditemi, come potete sentire la religione, con tutti quei preti?

--I preti sono uomini;--rispose placidamente Maurizio.--Non è la stessa
cosa nella vita comune, a proposito della umanità, a cui dobbiamo amore
e rispetto? Tra i nostri simili abbondano i rozzi, gl'ineducati, i
bricconi: ma possono costoro farci pensar male di tutta la specie, dove
sono tante anime buone, dove ho conosciuto dei gentiluomini che mi hanno
amato senza secondi fini, non avendo bisogno della mia borsa, nè della
mia protezione? Ed anche voi, adorata, pensateci; non vi è mai occorso
di andare in una riunione, in una accademia, dove un uomo di povero
aspetto, un brutto professore, vi dicesse delle cose belle e profonde?
Avete voi pensato in quel momento che il professore fosse brutto,
antipatico?

--Non lo avrei potuto, neanche volendolo;--rispose Gisella.--Se il
professore brutto dice delle belle cose e profonde, i suoi occhi si
accendono, la sua faccia si trasforma, la bellezza interiore vien tutta
alla superficie.

--Avete ragione;--disse Maurizio.--Ho scelto male il mio esempio.

--No, niente male, amico mio; ma è per l'appunto il buon esempio che vi
mette dalla parte del torto. I vostri preti potrebbero essere come quel
tal professore, e non ci riescono. Parlano di Dio, ma a fior di labbro,
con una cert'aria di essere in confidenza con lui, che non è fatta per
dare un'idea conveniente della grandezza sua e della loro umiltà.

--Questi preti non sanno quel che fanno, ecco tutto;--replicò
Maurizio.--Essi sono i preti falsi, che bisognerebbe detestare, se non
fosse piuttosto il caso di compatirli. Costoro, del resto, mi lasciano
freddo.

--Ti basta?--domandò la bella donna, figgendo i suoi grandi occhi
fosforescenti negli occhi di lui.--Non sono essi i nemici della tua
patria?

--E qui mi ribello, contro essi e contro chi li muove;--replicò
Maurizio, animandosi.--Mi ribello, sentendo bene che Iddio non parla
neanche per il labbro dei buoni. È veramente doloroso che una ragione
umana, puramente umana, effetto di una cristallizzazione storica, metta
i ministri della divinità in contrasto coll'idea della patria, da noi,
mentre la rispettano e la coltivano altrove. Ma che farci? son uomini,
vi ho detto, son uomini anch'essi. In basso ignoranti la più parte; nè
credo che una tonsura basti a dare intelligenza e dottrina a chi non
ebbe l'una e non è capace dell'altra, parendomi già molto se sono nella
ignoranza virtuosi. Di questi io ne ho trovati parecchi, come il nostro
don Martino, che è certamente un brav'uomo. In alto, poi, dove i preti
leggono e studiano, dove le anime loro vedono più largo orizzonte, ne ho
trovati di veramente insigni per dottrina e carattere. Anime buone,
ragionando con me, non mi hanno potuto dire tutto ciò che sentivano
dentro; ma io li ho capiti, e mi è bastato. Più alto ho visto ancora le
ragioni umane, i pregiudizii storici, pesar troppo sul loro intelletto;
ma ho pur veduto timori e diffidenze contro una società che nel suo
laicizzarsi naturale trascorre un po' troppo allegramente a negare,
volendo mettere in ogni ordinamento civile i non ben digeriti e ancora
discordi concetti di una minoranza scettica al posto di quella fede da
cui la maggioranza del mondo civile tragge ancora un conforto all'anime
e una norma sicura del vivere. Sentono che si vuol toglier di mezzo il
loro Dio, e combattono; e non sarò io, soldato, che vorrò condannarli,
pur riconoscendo che essi ricusano per eccesso di difesa ciò che
farebbero egregiamente a concedere. È per esempio un gran male che essi
credano necessario al papa il poter temporale; mentre questo potere non
è del suo ministero, nè lo è stato mai, e la coscienza italiana, fin
dagli albori della storia moderna, per bocca di grandi credenti ha
protestato contr'esso. Ma se lo credono tanto necessario, perchè non lo
dichiarano un dogma? Questo coraggio dovrebbero avere; ma voi vedrete
che non lo avranno mai. Il giorno che facessero ciò, forse avverrebbe un
miracolo, un miracolo che non immaginano neppur essi, credendone
incapace la fibra italiana.--

Gisella era stata immobile, silenziosa, a sentire il suo ragionatore
ostinato.

--Quanto discorrere per una semplice domanda di donna
ignorante;--diss'ella, come le parve che egli avesse finito.--Rizio, non
lo farò più; crederò ciecamente, in attesa di questo miracolo.

--Esso non avverrà,--rispose Maurizio,--e noi ci atterremo
tranquillamente alla fede dei nostri padri. Iddio comunica con noi; egli
troverà la via di salvezza, mentre illusi ministri suoi ci vorrebbero
condurre alla perdizione, turbando le nostre coscienze, confondendo ciò
che va dato a Dio con ciò che va dato a Cesare.--

La contessa Gisella andò altre volte in chiesa, quantunque don Martino,
arciprete di San Giorgio, non le paresse il più bello tra i ministri di
Dio. Il generale si seccava di quel capriccio, ritornante ogni domenica;
ma non protestava più tanto forte. Maurizio frattanto raccomandava
prudenza.

--Vedi?--le diceva.--Egli accuserà poi mia sorella Albertina di averti
stregata, e se la prenderà con lei.

--Non andrà fino a quel punto;--rispondeva Gisella.--Ho ancor io una
volontà, e non intendo di lasciarmi sopraffare dai suoi capricci. Lo
conosci, del resto, come lo conosco io; egli è spesso di cattivo umore,
perchè si annoia. Pure, le ragioni di non annoiarsi le avrebbe. Se ciò
che egli possiede non è molto, perchè in gioventù ha molto sciupato, è
molto ciò che possiedo io, e la cura dei nostri interessi potrebbe
bastare ad occuparlo. Ma tutto è noioso per lui, quello che non è
servizio militare. Perchè lo ha lasciato, il servizio? Gli uomini della
caserma non dovrebbero uscirne mai, dalla loro caserma. Ah,
ecco!--esclamò la contessa, ravvedendosi tosto, ad un gesto involontario
di Maurizio.--Ora dicevo una sciocchezza. Devo al suo uscir di caserma
il non esser uscita io da San Giorgio, dove un altro uscito di caserma
mi doveva raggiungere, povero Rizio, tanto caro! Ma come è brutto,
discorrere di cose volgari! la volgarità ci guasta le parole e le idee.
Restiamo nelle nuvole, dove ci siamo conosciuti ed amati. È già triste
abbastanza il pensare a questa grama stagione, che è venuta pur troppo.
Abbiamo così poche occasioni di trovarci insieme! Scendendo in paese,
legandomi un po' più con quella cara Albertina, ho almeno la sorte di
vederti più spesso, mio povero Rizio.--

Rizio lasciava fare, e l'unico suo lavoro alla Balma era di giustificare
timidamente le visite della contessa al Castèu con la innocente
curiosità delle funzioni di chiesa. Infine, non si trattava che di uno
spasso. Quanti non sono i fedeli cristiani, che fanno così?

--Ed è quello che più mi dispiace;--notava il generale, felicissimo di
trovare un'opinione per via.--Cristiani per cristiani, meglio esser tali
sul serio.--

Da un'altra parte Gisella diceva a Maurizio:

--Sono felice, tanto felice di credere come te, insieme con te. Sai,
Rizio, che ho già avuto una visione?

--Una visione!--esclamò egli, sorridendo.--Così presto? Non sarà poi
stato un sogno?

--Non so che cosa significhi la vostra distinzione;--rispose
Gisella.--Sareste incredulo voi, ora? Il mio sogno è stato bello, se
mai. Figuratevi che mi son ritrovata in un paese nuovo, un paese
orientale, che riconoscevo benissimo, senza averlo veduto mai. Ero
uscita dalla città per andare verso un bosco d'olivi, a pregare,
sentendo nel mio cuore una gran tenerezza; allorquando, già presso al
colmo di una collina, nella calda luce del tramonto, mi apparve un uomo,
vestito d'una tunica rossa, con un mantello azzurro sulle spalle. Un
uomo, vi ho detto; ma io bene sentivo che non era tale. Intorno alla sua
bella testa, incoronata di capelli lunghi e fini, morbidamente ricadenti
in ciocche dorate, splendeva mite un'aureola vaporosa: la barba di un
bel biondo carico gli scendeva sul petto bianco di latte; gli occhi
azzurri, sereni, guardavano pietosamente verso di me, dando un senso di
bontà paterna alla bellezza di un angelico sorriso. Non mi parlò; ma la
sua mano si alzava benedicendo, ed io mi sentii morire di gioia. Come
era dolce quell'atto! come era buono lo sguardo! e quanto, nell'aspetto,
aveva egli di voi!

--Ah, ecco,--disse Maurizio,--voi ora guastate la dolce visione. Non è
così che bisogna immaginare il buon padre, la cui figura è oltre
l'umano. Ma è sempre bello che l'abbiate veduta,--conchiuse,--e che ne
abbiate sentita la poesia consolatrice.--



CAPITOLO XIV.

Da Ceppo a Carnevale.


Anche il signor di Vaussana andava in chiesa: credente nell'anima,
voleva mostrarsi tale in certi atti esteriori. Amava all'italiana
antica; perciò volentieri glorificava la bellezza nel recinto d'un
tempio, come avevano fatto l'Alighieri e il Petrarca, e al pari di quei
due immortali sarebbe stato capace di un amore puramente ideale. Il
destino aveva voluto altrimenti; ma egli nell'amor suo metteva sempre un
senso di adorazione, in cui si smarriva quel non so che di pungente e di
aspro che l'idea della colpa induce confusamente nell'amore più intenso.

Ah, quella colpa, non la espiava egli amaramente nel difetto della
possessione piena ed intiera della donna adorata? Ma in tanta amarezza
era più dolce qualche volta il pensare che egli, egli solo, aveva
condotta quella divina creatura alla fede; che l'amor suo, svegliando in
lei un senso più intimo della ragion delle cose, ne aveva per così dire
compiuta la perfezione. Maurizio sinceramente pensava, non esser senza
la fede creatura perfetta, come non è perfetta la pianta che non possa
vestire i suoi rami di fiori. La bella pianta della Balma, fiorita in
quella guisa di fede, guadagnava non pure agli occhi di lui, ma a quelli
di tutto il paese, che vedeva un tal miracolo di bellezza sovrana
mescolarsi nella modesta chiesa di San Giorgio alla umile turba dei
fedeli preganti. Si era creduto da prima che la contessa Gisella fosse
tenuta lontana dalle pratiche religiose per volontà del marito, a cui
dava noia il fumo delle candele. Vedendola ogni domenica in chiesa,
s'incominciò a pensar meno male dell'orso della Balma, che accennava a
volersi ammansare; ma più si ammirò la contessa Albertina, la buona fata
del Castèu, alla quale si attribuiva da tutti il prodigio.

Così andavano pianamente le cose, come l'acqua d'un fiume alla foce; e
il signor generale, vedendo di mal occhio quella manìa religiosa della
sua giovane metà, si adattava al fatto con più filosofia che non avesse
mai mostrato di avere. Così giunsero le feste del Natale, che furono per
Gisella una lieta novità, senza essere una troppo grave noia per il suo
signore e padrone. Il Natale, dopo tutto, è una solennità dell'anno che
non dispiace a nessuno, checchè si pensi in materia di fede. C'è l'uso
antico della baldoria domestica, a cui non saprebbe sottrarsi lo spirito
più scettico; e tiepidi credenti e caldi filosofi, facendosi imprestare
dagli eruditi qualche notizia intorno alle storiche celebrazioni
dell'anno nuovo presso tutti i popoli antichi e moderni del globo,
trovano che in certe occasioni, specie quando fa molto freddo di fuori,
si sta bene riuniti alla fiammata del ceppo tradizionale. In questo modo
si mettono tutti d'accordo, nella più varia dissonanza di umori e d'idee
che abbia mai turbata la pace di una famiglia. Le povere donne credenti
sorridono meglio ai loro uomini, vedendoli così lieti, quasi contenti di
sè medesimi, in quell'ora di domestico abbandono, e pensano e sperano
che il giorno verrà anche per essi di accostarsi meglio a Dio. Non è
forse vero che tutte le strade conducono a Roma?

Il gran camino padronale della Balma non aveva avuto da molti anni un
ceppo così allegro. Cedendo alle istanze dei Matignon, i signori del
Castèu erano andati a far Natale lassù, e così pure la notte del Capo
d'anno. Per quella doppia solennità era anche venuto di Francia il
capitano Dutolet. Il buon ragno non aveva parenti, e si era mostrato
molto amabile venendo a spendere quei pochi giorni di libertà presso il
suo antico capo squadrone. Non aveva per quella volta che una breve
licenza; ma prometteva di averne una lunga per l'anno prossimo, se
niente fosse venuto a guastare. Veramente, guastare non era il verbo
adatto: ciò che poteva guastare il disegno di una pacifica gita a San
Giorgio sarebbe stato accolto come un invito a nozze da lui, soldato
francese anzi tutto. Ma di questo non ne diceva nulla, il buon ragno;
aveva caldo l'amor patrio, ma silenzioso, e con quell'aria di Guglielmo
il Taciturno lasciava credere di annoiarsi mortalmente per tutt'altra
cagione.

--Prendete moglie, Dutolet;--gli aveva detto ad un certo punto il
generale.

--Se fossi ricco, perchè no?--aveva risposto il capitano.

--Come?--esclamò la contessa Gisella.--C'è forse bisogno di esser
ricchi?

--Sì, e molto ricchi;--rispose il buon ragno.--Come si potrebbe
altrimenti coprir di diamanti la donna che si fosse scelta a compagna?--

Era un gentile pensiero; e la contessa Gisella, da buona figlia d'Eva,
trovò che il capitano Dutolet ragionava benissimo. Così il buon ragno
cansò quella sequela di argomentazioni che sogliono scaraventarsi in
ogni società di ammogliati addosso agli scapoli impenitenti. Ma la
contessa Gisella, che era stata assai lieta il giorno di Natale, non fu
egualmente lieta nella notte del Capo d'anno, quando al brindisi solenne
delle dodici il generale alzò il calice spumante del generoso liquore
della vedova Cliquot, per bere alla felicità di Maurizio e della sua
moglie futura. Era in uno strano periodo psicologico, il generale;
voleva ad ogni costo combinar matrimonii. E Maurizio, come aveva
risposto al brindisi? Male, assai male, balbettando rotte parole, quasi
accettando l'augurio.

--Come fare altrimenti?--disse quel poveretto, appena ebbe modo di
ritrovarsi a quattr'occhi con lei.--Dovevo io rispondergli che non
gradivo il discorso? Dovevo, con la mia prontezza a respingere un
augurio senza nessuna importanza, correre il rischio di mettergli un
sospetto nell'anima? Ci pensate voi, anima mia, a quello che potrebbe
succedere, se egli immaginasse....

--Non mi dir altro, Maurizio, non mi dir altro!--gridò ella,
fremendo.--Tu hai ragione, hai ragione, hai sempre ragione. Ma ho
sofferto tanto! Una pugnalata al cuore, in quel momento, mi sarebbe
piaciuta di più. Ah, sento che l'anno incomincia male, assai male.

--Superstizioni, non vi pare?--mormorò egli, sforzandosi di sorridere.

--Chi sa?--diss'ella, traendo un sospiro.--Non sono poi le compagne
della fede? A me incominciano a venire con essa. Pensate infine che io
sono una povera donna, con poca istruzione, con pochissime idee. Quando
ne ho una in testa, il mio piccolo cervello è costretto a lavorar sempre
su quella. Felice voi, Rizio, che sapete tante cose, voi che guardate
più lontano e comprendete più largamente di me, trovando il punto giusto
dove io mi smarrisco, dove io non vedo che contraddizioni e paure.--

Maurizio non meritava la lode di Gisella, e il punto giusto non lo
trovava da un pezzo neppur lui. La contraddizione, brutta chimera, lo
afferrava alla gola, ed egli si divincolava inutilmente nella stretta.
Se credi al decalogo, perchè rubi? Se hai tanto squisito il senso della
legge morale da volerne insegnare altrui la eterna sanzione, perchè
inganni il tuo simile? perchè siedi col tradimento nel cuore alla mensa
di chi fida così ciecamente nella tua probità? Ma a questi dilemmi, non
bene formati ancora, egli chiudeva gli occhi della mente, quasi cercando
nella sua cecità volontaria una ragione per non averli a combattere.
Amava, e non voleva affrontare una pugna con la logica inflessibile, una
pugna che sarebbe riuscita a danno dell'amor suo. Quella logica gli
avrebbe comandato di rinunziare a Gisella; e questo era per lui
l'impossibile. Un miracolo, ci sarebbe voluto, un miracolo, per levarlo
di pena. Ma quale? Egli non osava neanche dirlo a sè stesso; e vili
pensieri lampeggiavano sinistramente nell'ombra densa dell'anima sua.

Felice il generale, che negli ozi del suo castello aveva da combattere
solamente la noia. Ognuno, si sa, crede la propria malattia più grave di
quella degli altri, ed egli sinceramente si esagerava i mali di una
noia, in onta alla quale passavano i giorni abbastanza rapidi, tra
partite a biliardo o a picchetto, accessi di malumore e grasse risate.
La volgarità del discorso faceva anche capolino fra la domestichezza
dello consuetudini. Il signor di Vaussana, di tanto in tanto, per una
ragione o per l'altra, interrompeva le visite. Quello dei viaggi brevi e
frequenti era un artifizio, ben noto alla contessa, che non aveva
neanche da soffrirne troppo; perchè Maurizio, il più delle volte, dopo
avere annunziato una gita a Nizza, a Torino, a Genova o altrove, non si
muoveva dal Castèu, dove ella trovava poi modo di scovarlo. Quei piccoli
furti erano un segreto di più e certamente il meno grave tra tutti
quelli che avessero da custodire. Frattanto, colle frequenti sparizioni
dalla Balma, il signor Maurizio si confidava di addormentar meglio il
castellano, sviarne l'attenzione, dissiparne i sospetti, se mai ne
fossero nati. Su quei viaggi frequenti tornava spesso il generale, e con
molta libertà di discorso, anche in presenza della moglie.

--Gran fioritura di camelie dev'essere a Montecarlo; non è vero,
Vaussana? E c'è poi sempre quell'abbondanza di _belles-de-nuit_?

--Non sono stato a Montecarlo;--rispondeva Maurizio, schermendosi come
poteva.--Vi ho pur detto, generale, che ho fatto una punta fino a
Genova.

--Ritorno offensivo, dunque? E come sono ora le genovesi? sempre belle?
Ai tempi della Crimea, quando ci sono passato io, erano tutte d'una
bellezza incontrastabile, ma un pochettino massiccia. Mi dicono che ora
ci sia un altro tipo, alto, flessuoso, con una tendenza spiccata al
biondo, e dei languori orientali nell'occhio. Come le preferite voi,
Vaussana? Fortunato briccone! godete il mondo, finchè vi dura la
gioventù. Ma non abusate, mi raccomando; è insalubre. E credete a me, la
miglior cosa che possiate fare, per calmare questa febbre, tanto
pericolosa all'ultimo stadio, è ancora di prender moglie. Prendete
moglie, Maurizio, prendete moglie.--

E lo canticchiava anche in musica, il suo ritornello, prendendo lo
spunto da una canzonetta del Béranger.

La contessa, di solito, chinava gli occhi sul suo telaino da ricamo,
aspettando che il generale la finisse con quelle sue libertà di
discorso. Ma il generale prendeva un gusto matto a ribattere quel chiodo
in presenza di lei, e chiudendo sempre il discorso col suo solito
ritornello. Tanto che un giorno, seccata, la contessa alzò gli occhi e
soggiunse, rivolgendosi a Maurizio:

--Ma sì, prendete moglie, signor di Vaussana.--

Maurizio rimase un po' male, non intendendo il perchè di quell'altra
esortazione. C'era egli bisogno che Gisella tenesse bordone al generale?
Che cosa ne poteva lui, se quell'altro, abusando del suo diritto di
padrone di casa, gli tornava sempre sul medesimo tasto?

--Me la trovino loro;--rispose egli a denti stretti.

--Oh bravo! e se la troveremo, la prenderete?

--Scelta da amici come voi, perchè no? avrà certamente tutte le virtù
immaginabili.

--Ebbene, cercheremo;--disse Gisella.

--A Nizza, non è vero?--soggiunse il generale.--Mia moglie ha il
desiderio di passare a Nizza gli ultimi giorni di carnevale; sarà una
eccellente occasione per noi di cercare, e per voi di giudicare della
scelta, senza perdita di tempo.

--Si va all'arma bianca!--conchiuse Maurizio, facendo bocca da ridere.

Ma in verità aveva voglia di tutt'altro; era lì lì per uscire de'
gangheri. Anche quel viaggio a Nizza ci voleva! Gisella ne aveva già
accennato a Maurizio, come di uno svago da procurare a quell'eterno
annoiato del signor generale; quanto a sè, non ci aveva nessun gusto,
prevedendo la seccatura delle visite molte e della poca o nessuna
libertà che avrebbe avuto di stare a discorrere col suo povero Rizio. Ma
ci voleva pazienza, e bisognava fare di necessità virtù. Sì, tutto bene,
salvo quell'idea pazza di cercar moglie a lui, che non voleva saperne.

Per fortuna, nel soggiorno di tre settimane a Nizza, non furono che
falsi allarmi. Gli avevano domandato se la preferisse inglese, o
americana, o russa, ed egli aveva risposto di non aver predilezioni in
materia. Intanto, con quell'arte che le donne sanno tutte, ma che le
donne innamorate conoscono a perfezione, la contessa Gisella causava
ogni occasione di far conoscenze del suo sesso, oltre le poche
necessariamente portate dalle relazioni mascoline del marito. Si
vedevano mogli di generali, di colonnelli e di capisquadrone, tra le
quali non c'era pericolo che avesse da scegliere il suo Maurizio, o per
lui il signor generale. E questi, d'altra parte, sempre attorniato da
vecchi _troupiers_, tutto ingolfato nelle sue conversazioni d'arte
militare, di caserma o di piazza d'armi, non pensava più affatto ad
ammogliare il signor di Vaussana. Nè poteva sperare che se ne
incaricasse sua moglie, sempre circondata dal gaio sciame dei giovani
capitani, degli aiutanti di campo e degli uffiziali d'ordinanza. La
galanteria militare si esercitava intorno alla bellissima generala in
visita, con quella amabile festività, con quella misura cavalleresca,
che è propria dei francesi, e che è maravigliosamente aiutata da una
lingua facile e snella, di forme ben definite, di frasi bell'e fatte,
tra cui la stessa consuetudine ha tolta ogni importanza e lasciata tutta
la sua grazia all'iperbole. Maurizio, nondimeno, si seccava un pochino
che tutti fossero _bien heureux_ come santi in paradiso, o _enchantés_
come cavalieri nel castello di una fata, quando erano ammessi alla
presenza di quella _grande charmeuse_, di quella _femme divine_, della
contessa Gisella.

Il guaio era che parlando così avevano tutti ragione. Ed egli, anche
gradito da tutti, trattato con quella deferenza di cui lo faceva degno
il suo grado e la sua educazione, con quella cortesia cerimoniosa che
era dovuta alla sua qualità di straniero, si sentiva a disagio, era
sempre sulle spine. Vedeva ogni giorno Gisella, ma troppo diviso da lei,
anche essendo vicino, e soffriva. Non già del brutto male, intendiamoci;
perchè Maurizio conosceva la divina creatura, ne sentiva il pensiero
costantemente fido, ne vedeva lampeggiar l'occhio azzurro sparso di
faville d'oro, quando faceva un giro largo per giungere a lui e dargli
il suo istante di felicità. Ma quanta bellezza ammirata, respirata,
assorbita da troppi! ma quanta musica di parole sparsa a consolazione di
troppi! Gisella era una regina, dovunque apparisse; amabile ad un modo
con ogni età, con ogni grado, passava in mezzo a quella gloria di
filetti d'oro e di rosso _garance_, come una bella dea serena e
sorridente, maestosa e leggera, appagando tutti senza fermarsi a
nessuno. Così debbono esser lieti i fiori di un giardino, quando passa
aleggiando sulle aiuole una splendida farfalla, sempre in alto e sempre
in moto, avendo l'aria di posarsi su tutti i calici, dischiusi a lei,
odoranti per lei.

Qualche volta, passando accanto al signor di Vaussana, la divina
creatura gli gittava una di quella frasi sommesse e brevi, ma calde di
passione, che avevano virtù di rianimarlo, di esaltarlo, di fargli
toccare i termini della beatitudine.

--Ah, il nostro San Giorgio! Ancora pochi giorni, Rizio! Questo
carnevale, che morte! Sorridi, via, grande bambino, che hai così dolce
il sorriso! T'intendo, sai? è così tarda a giungere, la nostra buona
quaresima!--



CAPITOLO XV.

Padre Anselmo da Carsoli.


La quaresima ricondusse i nostri viaggiatori a San Giorgio. Il piccolo
paese alpino era tutto in fermento per una di quelle novità che sogliono
commuovere perfino i grandi, tra il carnevale e la pasqua. Senza esserne
stato avvertito dalle trombe della fama, San Giorgio possedeva per quel
periodo di penitenze, di digiuni e di esercizi spirituali, un
quaresimalista insigne, un predicatore coi fiocchi. Come mai un
tant'uomo si fosse persuaso di andare a pescare anime tra quei monti, in
verità non si poteva immaginare; certamente bisognava conchiudere che
per una volta tanto l'arciprete don Martino avesse avuto una grazia
speciale dai suoi santi protettori. Fin dalla prima predica il nuovo
quaresimalista, del quale, a vederlo, non si sarebbe dato un baiocco,
aveva sbalordito il suo uditorio; alla seconda lo aveva incantato. E già
si parlava di lui in tutte le case, come di una gran maraviglia; se ne
discorreva in farmacia, se ne ragionava al casino di lettura; in ogni
luogo, perfino nelle osterie, si facevano confronti fra lui e i
predicatori degli anni passati; chi aveva viaggiato e sentito altri
famosi oratori del pergamo, non dubitava d'asserire che quello era uomo
da batterli tutti.

Non vecchio nè giovane, con poca barba biondiccia venata di peli
bianchi, più macilento che magro, alto della persona ma curvo, quasi
piegato in due quando attraversava la grande navata della chiesa per
recarsi dalla sagrestia al suo pulpito, appariva tutt'altro quando si
affacciava di lassù, alta la fronte, sfavillanti gli occhi, diritto il
corpo come una spada. Era cappuccino; si chiamava padre Anselmo da
Carsoli. Modesta figura di asceta, vestiva umilmente una tonaca
spelacchiata, su cui non mancavano le toppe, larghe, lunghe, fatte più
vistose dal colore più carico del panno, con le quali il vecchio abito
si andava via via rinnovando a pezzi e bocconi. Camminando in istrada,
così curvo delle spalle e sempre a capo basso, non guardava mai nè di
qua nè di là, non vedeva nessuno, tranne i bambini, quando gliene
passavano daccanto, dandogli una curiosa sbirciata di sotto in su. Ma
anche senza vedere la gente, il cappuccino ne indovinava il saluto, e lo
ricambiava con un gesto di benedizione, breve breve, come d'uomo che
avesse fretta. Coi bambini, per altro, si fermava sempre un poco, due o
tre minuti secondi, il tempo di aggiungere alla benedizione una carezza
paterna, accompagnata da una crollatina di testa; come se in quel punto
e a quella vista il pover uomo volesse cacciar dalla mente un doloroso
ricordo.

Il giorno dopo la sua tornata in paese, Gisella aveva voluto andare al
Castèu, per salutare Albertina. Accompagnata in quell'uffizio di
cortesia dal generale, aveva incontrato sulla piazza il signor di
Vaussana, che usciva allora allora dalla posta, con le sue lettere e i
suoi giornali tra le mani. Era una piccola fortuna, di quelle che i
piccoli paesi offrono più facilmente alle persone che si amano, e
Maurizio l'aveva afferrata al volo, accompagnandosi ai signori Matignon:
del resto, non si doveva egli far cammino insieme? Così, muovendo dalla
piazza al Castèu, avevano veduto innanzi a loro il cappuccino, che,
uscito allora dalla canonica, rasentava il muro per andare verso una
viottola campestre, dietro la chiesa parrocchiale. Gisella riconobbe
all'abito il predicatore, di cui quella stessa mattina le avevano già
fatto un gran discorrere alla Balma tutte le sue persone di servizio.
Andando ella innanzi ai due cavalieri, per la ristrettezza della strada,
e passando lesta accanto al cappuccino, la bella signora non aveva
creduto di potersi dispensare da un piccolo cenno di saluto, che andasse
in pari tempo alla veste religiosa, all'età rispettabile e all'ingegno
acclamato dell'uomo. Quell'altro aveva risposto con la sua benedizione
frettolosa, chinando la testa anche più dell'usato; e pochi passi più
in là, trovata la svolta del sentiero campestre, aveva scantonato
prontamente, senza voltarsi neanche con la coda dell'occhio a guardare.

--Vedete che sudicioni!--disse il generale a Maurizio.--Neanche un paio
di calze!

--È la regola, generale.

--Sarà; ma non è la decenza.

--Ettore!--mormorò la contessa, volgendo al marito un'occhiata di
rimprovero.

--Ebbene, che cosa ho detto che non sia il vero?--replicò il
generale.--Se non portano calze, non vadano almeno in ciabatte!

--Umiltà;--disse ancora timidamente Maurizio.

--Ah sì, parlatemi dell'umiltà dei frati!--gridò il conte Ettore.--_Une
bonne blague, celle-là!_

Il cappuccino venne ancora in ballo, quando furono al Castèu, nel
salotto della contessa Albertina. La signorina di Vaussana aveva già
sentito due prediche, e n'era rimasta profondamente commossa. Era una
donna intelligente, leggeva molto, pensava molto; il suo giudizio era
dunque di gran peso. Il generale, del resto, essendo uomo di mondo, si
arrese facilmente, e si tenne in corpo le celie che il tema gli chiamava
alle labbra. Non fiatò neppure quando sua moglie dichiarò di voler
seguire quel corso di prediche, contentandosi di promettere a sè stesso
ch'egli non l'avrebbe imitata, e per quel primo giorno, in cui il
capriccio religioso della sua metà lo coglieva fuori di casa, non
sarebbe neanche rimasto sulla piazza della chiesa per aspettar le
signore all'uscita.

Le signore, frattanto, seguitavano ad occuparsi del frate. Gisella
raccontava di averlo veduto passare, mentre ella saliva verso il Castèu;
ed Albertina soggiungeva qualche notizia intorno alle passeggiate di
lui. Tutte le mattine, un'ora prima di salire al pulpito, se ne andava
soletto per quel sentiero campestre dietro il coro della chiesa
parrocchiale; s'inerpicava per la balza vicina, con la sveltezza di un
giovinetto, e giunto lassù, dove il dorso granitico della montagna
faceva un rialzo in forma di rozza colonna, si riposava una buona
mezz'ora, contemplando, meditando, forse preparandosi nella preghiera
alla predica della giornata.

--Vedetelo appunto lassù;--diceva Albertina, conducendo Gisella nel vano
della finestra e indicando la montagna di contro.--Quel masso che sorge
assottigliandosi come una cuspide di tempio gotico, si chiama la Pietra
Aguzza. È là sotto, il padre Anselmo, seduto in contemplazione. Ecco, si
muove; si è alzato; si dispone a scendere. Sarà ora anche per noi di
andarcene in chiesa.--

Gisella sentì quel giorno il predicatore, e s'invogliò più che mai di
ascoltarlo ancora. Erano veramente prediche maravigliose, quelle del
padre Anselmo da Carsoli. Niente di politica spicciola, di quella che
si vorrebbe gabellare per politica grande: niente pei diritti temporali
del Papa, e niente contro la miscredenza del secolo: a farla breve,
nessuno dei luoghi comuni, esercizi retorici e pistolotti della poco
sacra eloquenza dei sacri oratori del giorno. Ragionava di Dio con una
forma insolita, non strana, semplice, chiara, elevata, degna di lui, in
quella misura che può esser degno di lui il povero linguaggio della
creatura umana. Toccava spesso e volentieri della virtù che onora l'uomo
accostandolo al cielo, ed aveva impeti di passione, accenti nuovi e
profondi che penetravano al cuore. Parlava caldo, serrato, incalzante, a
fiotti su fiotti, come il mare, quando cresce a tempesta; qualche volta
avendone perfino impaccio alla lingua, che durava fatica a sprigionare
la frase. Ma la frase, quando finalmente usciva formata, acquistava da
quell'impedimento momentaneo una singolare efficacia, come acqua
corrente che costretta in angusto passo gorgoglia, spumeggia, rimbalza,
uscendo più limpida, più rumorosa, più viva. Si soffriva un istante con
lui, sentendolo oppresso dalla irruenza del pensiero e della parola; ma
quel soffrire volgeva tosto ad un senso di piacevole stupore, vedendogli
prendere la rincorsa a quel modo. E pareva allora che per tenergli
dietro dovesse mancare il tempo a pensare: ma si pensava pur sempre,
anche senza averne coscienza, perchè tutte le sue parole, così
rinvigorite dallo sforzo, restavano impresse, e tutti gli argomenti in
quelle parole serrati andavano a fondo.

Oramai non si parlava più che di lui, a San Giorgio. Da quarant'anni,
dicevano i vecchi, non si era sentito lassù un oratore di quella forza.
Ed ancora, non potevano i vecchi ingannarsi, esagerando naturalmente i
ricordi della loro gioventù? Evidentemente, un oratore di quella forza
non doveva esserci stato mai, nè quaranta, nè cent'anni prima d'allora;
altrimenti se ne sarebbe conservata un po' meglio la fama, ne avrebbero
parlato le istorie. E l'eco dell'entusiasmo di San Giorgio si
ripercuoteva ogni giorno alla Balma, con gran noia del signor generale.

--E così,--diceva egli alla contessa, vedendola ritornare sul
mezzogiorno a casa,--lo avete sentito, il grand'uomo?

--Ma sì,--rispondeva ella,--ed è veramente grande; lo riconoscono tutti,
a San Giorgio, anche i liberi pensatori.

--Ah!--sclamò il generale, inarcando le ciglia.--Ci sono dunque dei
liberi pensatori, a San Giorgio? E che pensano?

--Quel che vi ho detto, per lo meno;--disse Gisella.--Fin là ci saranno
potuti arrivare.

--Mi fate venir voglia di sentirlo;--conchiuse egli, ghignando.

E saputo che alle prediche di padre Anselmo assisteva anche il medico
condotto, che passava per una testa forte, per una specie di Cabanis
ridotto alle proporzioni mandamentali, andò la mattina seguente anche
lui a vedere l'ottava maraviglia. Non si avventurò nella grande navata,
per altro; si fermò poco lontano da un uscio laterale, nascosto dietro
un pilastro.

Padre Anselmo, quel giorno, aveva predicato sulla scienza, sulla vera
scienza che eleva lo spirito fortificandolo, che conduce a Dio, come la
fede, come la speranza, come la carità. Quella era forse la trattazione
più moderna ch'egli avesse fatta fin allora a San Giorgio.
Ordinariamente il frate parlava di virtù, di pietà, dei doveri del
cristiano, della dolcezza che si prova nel seguire la legge. Quel
giorno, elevato il tono, parve anche più forte del solito. Ma non così
la pensava il suo novo ascoltatore, che torse le labbra, annoiato.--Se
questo è il pezzo più forte,--pensava, egli nel ritornarsene alla
Balma,--gran debolezza vuol essere il restante.--

La sera, in conversazione, si parlò del predicatore; e il signor di
Vaussana domandò al generale che opinione se ne fosse formata.

--Non me ne parlate;--rispose egli, facendo una spallucciata delle
solite.--È uno sciocco. Parole, parole, parole! E neanche armato come
dovrebbe, per sostenere la sua tesi spallata! Non sa citare che autori
di cinquant'anni fa. Lo avete sentito? Gli è parso di far molto,
combattendo il Lamarck. Ben altri sono oggi gli atleti con cui dovrebbe
provarsi. Vincere il Lamarck, bella forza! E poi, che vittoria è la
sua? Nessuno gli risponde, ed egli resta padrone del campo. Sapete che
cosa mi fa ricordare? Quel predicatore che argomentava contro il
protestantesimo.--

Qui il signor generale ingrossava la voce, per rifare il discorso del
personaggio aneddotico allora allora evocato:

--«Venite voi Lutero, voi Calvino e voi Melantone; venite davanti al mio
tribunale di giustizia ad esporre le vostre perverse dottrine. E che?...
non venite?... Dunque avete torto. Ed ecco o signori, vittoriosamente
combattute le dottrine degli empi. Non osano presentarsi, arrossiscono,
tremano, si nascondono. Ma contro il sole della verità non valgono
ripari; quel sole li cerca, li scova, dovunque si nascondano, li
abbaglia, li accieca».--

E rideva, il signor generale, rideva comodamente per tre. Gisella
taceva; Maurizio si provò a dire qualche cosa.

--Certo, questa maniera di combattere la scienza moderna pare
insufficiente anche a me. Ma il nostro cappuccino, ne converrete, è più
forte di così. Infine, gli evoluzionisti moderni non hanno fatto che
ripigliare l'ipotesi del Lamarck: combattendo lui, si combattono gli
altri. E poi, lasciamo stare la tesi scientifica: bisogna sentire il
quaresimalista ogni giorno. È spesso elevatissimo. Qualche volta mi pare
che pigli ad imprestito dai grandi maestri: dal Bossuet, per esempio, e
dal Massillon; ma bisogna riconoscere che ci mette anche del suo.

--Sarà il brutto, allora.

--Non sempre, generale, non sempre. Ci ha il tenero, di suo, ci ha il
semplice, che va all'anima. Vi confesserò che non è un'aquila; l'aspetto
sarebbe piuttosto d'un barbagianni;--soggiunse Maurizio, temperando la
sua lode con una celia, che doveva rabbonirgli il suo interlocutore;--ma
gli possiamo render giustizia dicendo che è un predicatore dei buoni; e
se non giustifica l'entusiasmo dei miei concittadini, certamente lo
spiega.

Questo giudizio mezzo e mezzo poteva contentare il generale; ma non era
fatto per piacere a Gisella.

--Perchè lo trovi brutto? come fai a trovarlo brutto?--diss'ella a
Maurizio, appena ebbe modo di restar sola un istante con lui.--Sai che
in certi momenti è bello, anzi bellissimo? Sicuro, di una bellezza
morale che gli si diffonde dall'anima;--soggiunse la cara donna, notando
un senso di pena che contraeva in quel punto le labbra di Rizio.--Quando
egli si scalda nel suo ragionamento, non hai osservato come gli
scintillano gli occhi? come una vampata di sangue gli corre per le
guance scarne, facendole parere di rosa? Si direbbe che in quel momento
Dio scende in lui e lo trasfigura. E vuoi credere? Quando egli si
commuove più fortemente, e la voce gli trema, e le lagrime gli brillano
sulle palpebre, io mi volto verso l'altar maggiore e guardo il
crocifisso, aspettandomi sempre di vedergli schiodare una mano e
stendere il braccio per benedire quell'uomo, che lo esalta con tanto
fervore, facendolo intender così bene alle turbe.

--Via! via!--disse Maurizio.

--E così, proprio così;--riprese Gisella.--E non mi hai detto tu un
giorno che un brutto professore, quando parla bene, animandosi un poco,
diventa bello per il suo uditorio?--

Maurizio incominciava a pensare di aver detto troppe cose. E scritte,
poi! sopra tutto le scritte gli pesavano sull'anima.

--Un po' di misura, bella mia, un po' di misura!--le bisbigliò con
accento di esortazione paterna, vedendola più che mai infervorata nella
sua passione religiosa.

--Misura! misura!--replicava Gisella.--Si è tanto felici di credere! E
si avrà dunque da credere per metà? Come potete voi raccomandare una
cosa simile?--

Cinque o sei giorni dopo, il quaresimalista aveva fatto una predica
sulle mogli; con una grazia, povero frate, con una delicatezza, che non
si sarebbe potuta aspettare da lui. L'abito suo, veramente, lo doveva
far credere più pratico d'altro santuario che non fosse quello,
abbastanza turbato, della famiglia moderna. Enunciato il suo tema, aveva
fatto un'esposizione sommaria del dovere, secondo la condizione
sociale. Il dovere, questa obbedienza alla legge, si mostrava, così
agevole nella semplicità della sua dipintura, che non s'intendeva più
come mai si potesse venirci meno. Di quella obbligazione morale il
predicatore aveva indicato l'adempimento nell'esercizio di tutte le
virtù: e le virtù, così dure a praticarsi, apparivano belle e facili,
perchè governate e promosse da un senso di rispetto a noi medesimi, che
è rispetto alla creatura di Dio, a questo _vas electionis_ della sua
grazia. Vaso d'elezione non era stato solamente l'Apostolo. Quello era
l'esempio, nella famiglia cristiana; ognuno poteva seguirlo, ognuno
accostarvisi. Bella cosa esser puri davanti alla legge umana, non
sospettabili nella presenza del mondo; bellissima esser puri davanti a
noi medesimi, essendo la coscienza il buon giudice umano che precorre ed
annunzia il gran giudice eterno. In quella guisa che al finire del
giorno l'uomo è tanto più contento di sè quanto più sente di aver
lavorato, così nella grande giornata dell'esistenza niente vale la
contentezza interiore dell'avere operato il bene; e niente, dov'essa
manchi, può tenerne le veci. Rispettarsi, sentirsi degno di questo
rispetto, è benefizio singolare per tutti, singolarissimo per la donna,
a cui spesso non basta il pentirsi, quando abbia fallito, perchè essa
nella pubblica estimazione cade sempre più in basso dell'uomo. Triste
cosa è questa, che i nostri costumi hanno portata, di non poter
riacquistare la grazia degli uomini, avendo pur riacquistata la grazia
di Dio; ma c'è compenso ancora, nella iniquità del giudizio, e un
privilegio maraviglioso corrisponde al danno. L'uomo virtuoso, l'uomo
che osserva la legge, si riconosce onesto; della donna virtuosa,
insospettata e insospettabile, si dice comunemente: è una santa.

Qui con ardito trapasso veniva a dipingere le ansietà, i terrori, i
rimorsi che accompagnano la colpa. Quante corde vibravano a quelli
strappi di una mano maestra! No, la colpa, no, mai; è brutta, la colpa,
è malsana; porta con sè, per primo guaio, il dover arrossire davanti al
mondo, e peggio, davanti a sè medesimi. Per la donna colpevole,
prostrata nella polvere di contro ai suoi lapidatori, Iddio ha detto:
«chiunque di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Quella pietra,
gli uomini non possono scagliarla più; gli uomini non debbono punir
quella donna, degni di punizione essi medesimi; gli uomini non debbono
disprezzarla, di tante colpe macchiati, mentre uno spirito puro la
compiange. Ma ella è pur sempre a terra, ed egli solo può rialzarla.
Finchè egli non abbia detto: «va, non peccar più», non isperi di
sollevare la fronte. Da lui rialzata, redenta da lui, si consoli: ma
pensi che la turba, se non lapida più, giudica ancora; la turba è sempre
là, astiosa ed arcigna, nel fondo della scena, e i farisei ne governano
l'animo, i farisei, stirpe non morta ancora, che solo ha mutato di nome.
E chieda a Dio di soffrire, di soffrir sempre, per espiare il suo
fallo; ringrazî il cielo di una sofferenza, che quanto è più grande e
più lunga, tanto più vale a deterger le colpe. Nè chieda di soffrir meno
la donna che visse casta e virtuosa; pensi che la coscienza della
propria impeccabilità può facilmente tramutarsi in orgoglio. Noi spesso
non cerchiamo di vedere; ma Dio vede e sa quanto sia di peccato in noi,
che per soverchio di sicurezza non facciamo buona guardia alle anime
nostre. Certo, è soffrire orrendo, per una donna, e può parerle
intollerabile, l'obbedienza di tutti i giorni, di tutte le ore; ma è
prova solenne, argomento di purificazione continua, quel suo viver
legata ad un uomo il più delle volte ruvido, vano, capriccioso, volgare,
che non intende e non sa quanto ella valga, ma che qualche volta può
essere mutato, migliorato, trasformato da lei. Che vittoria, allora, e
come fa lieto il sofferto martirio! E poi, che è ciò che aspettiamo noi
dal dovere compiuto? Se la vita è battaglia, sian terse le spade; nè vi
paia fatica di farle brillare. Più splende quella che è più fine di
tempra, e della fatica durata è gran conforto la gloria. Esser pure è
già un premio; farvi belle dell'anima a Dio, è conveniente lusinga.
Anche un poeta pagano lo ha detto: «piacciono i casti pensieri lassù;
con casto animo vieni, con pure mani attingi alla fonte». Sentite la
bellezza della virtù, che consola; e non orgoglio vi dia, ma nobile
alterezza; e vi veneri il mondo, non potendovi mordere; e l'ossequio
suo non sia minore di quello dei vostri figliuoli, a cui giovano le
esortazioni, ma più ancora gli esempi.

Come aveva sofferto Maurizio, quel giorno! Gli pareva che ad ogni
istante il frate dovesse uscire dalla tesi generale, figurare dei casi,
proferire dei nomi; che ad ogni istante dovesse dare in qualche
sfuriata, da offendere, da turbare, da commuovere troppo visibilmente
qualche povera ascoltatrice. Ma no, niente; quel diavolo d'un sant'uomo
non era mai stato tanto riguardoso come allora; non aveva neanche usata
la volgarità di chiamar le cose coi loro brutti nomi, che è vizio dei
quaresimalisti, anche valenti. La sua orazione era tutta misura e
grazia, grazia e misura, e senza aver fatta la menoma concessione al
gusto mondano. Anche l'argomento del rispetto di sè, che poteva essere
derivato da un concetto pagano della virtù, come diventava cristiano
nella necessità di fare della creatura un tempio, un altare, un vaso
degno di Dio, e di educare non pure onestamente ma ancora candidamente
la prole! «Non offendete colla impurità della lingua l'orecchio
innocente del bambino; bella massima;--diceva il frate,--ma quasi
inutile esortazione in una famiglia civile. Qual è infatti quella madre
così sciocca o malvagia, che non abbia in mente e non osservi il
precetto? Ma è necessario altresì che del fanciullo non si offenda la
vista con la scena di un viver domestico poco lodevole, brutta scena che
spesso è commedia corruttrice, e qualche volta si muta in orribil
tragedia. E poi, che giova nascondere molto e con ogni cura al
fanciullo, se egli, passando sua madre per via, vede a lei rivolto
insieme col saluto il sogghigno, e dietro a lei ode gittata la parola di
spregio? Ah, meglio allora, mille volte meglio non aver bambini! Ma
pensate allora, pensate essere ancora una grazia la sterilità, per la
misera donna che ha dimenticata la legge divina, la legge umana e sè
stessa».

Neanche qui il frate foggiava casi particolari; non usciva neppur qui
dalla tesi generale. Ma era pericolosa, la tesi; e Maurizio fremeva,
pensando esser là tra gli ascoltanti qualche misera donna, la quale,
ritornando a casa, non avrebbe trovato bambini ad attendere la sua
carezza materna. Fremeva, mentre tutti gli ascoltanti pendevano dalle
labbra del monaco, e gli pareva che ogni sguardo momentaneamente sviato
di quella moltitudine attenta, girando per caso dalla parte sua, fosse
diretto a lui, proprio a lui, come una interrogazione, come un
rimprovero. Intollerabile supplizio! E non osò, per tutto il tempo che
durò quella predica, volger neanche la faccia da un certo lato della
chiesa. Poi, a mala pena ebbe fine il supplizio, scappò fuori senza
guardarsi dattorno, tagliò la piazza per la linea più breve, andando
verso il Castèu, senza aspettare la solita occasione di salutare
Gisella, che usciva sempre in compagnia di Albertina.

Quella sera, non bene rinfrancato, ma desideroso di non far novità, si
avviò alla Balma. Trovò il generale solo nel vestibolo, occupato a dare
una scorsa ai giornali.

--Ma sapete,--gli gridò questi _ex abrupto_, levandosi gli occhiali e
deponendo sulla tavola il foglio che aveva tra mani,--ma sapete che il
vostro predicatore è un fiero campione!

--C'eravate?--disse Maurizio, rabbrividendo.

--No; per sentirlo m'è bastata una volta. Ma quasi quasi mi riconcilio
con lui. Ha parlato del dovere in un modo che mi va. Queste vi parranno
contradizioni;--soggiunse il generale, ridendo.--Ma anche senza andarsi
ad affumicare là dentro, si può sapere che cosa c'è stato detto. Gisella
mi ha recitata tutta la predica. A sentirla, si sarebbe creduto che la
sapesse a memoria.--

Com'era andata? Al signor di Vaussana parve quella una follìa, una
grande follìa. Ed era certamente tale, e la contessa, commettendola,
aveva obbedito ad uno di quegli impulsi ciechi, contro i quali non è
forza di volontà, nè lume di ragione che tenga. Scossa, turbata al pari
di lui, se non forse di più, Gisella aveva ritrovato a mala pena quel
tanto di forza che l'aiutasse a ritornare a casa, con aspetto di persona
tranquilla. Per altro, a mezzo il viale dei tigli, aveva dovuto sedersi,
non potendone più. Come le era venuto fatto di trascinarsi fin là? Il
suo cuore batteva, batteva con una violenza da far temere che volesse
ad ogni tratto spezzarsi; tanto che gliene veniva un senso di dolciume
smaccato e nauseabondo alla gola. In uno sforzo supremo era riuscita a
padroneggiarsi. Aveva pensato che fosse quella una crisi per l'anima
sua; se felice poi o disgraziata, non voleva cercare. Dio lo vuole,
aveva gridato a sè stessa, come i primi crociati di Cristo; e una gran
forza era succeduta a quel momento d'angoscia indicibile. Alzatasi di
scatto dal sedile di pietra, aveva fatto in pochi minuti il restante
della salita, trovando sulla spianata del cancello il marito che
passeggiava aspettandola; e davanti a lui aveva voluto fare la brava.
Egli stesso la metteva al punto, chiedendogli col suo piglio beffardo
quali altre scioccherie avesse spacciate quel giorno il grand'uomo.
Scioccherie? C'era ben altro; un trattato di alta morale; ne giudicasse
lui, che rideva. E lì, l'uno dopo l'altro, aveva snocciolati tutti gli
argomenti, provando un gusto aspro, mettendo una cura ostinata, feroce,
un vero accanimento, a tormentarsi l'anima riferendo tutto il discorso,
perfino con le stesse parole del frate. Il generale aveva continuato a
ridere per due o tre minuti; effetto di mare lungo, che non ha avuto
ancor tempo di quetarsi; poi si era fatto serio, a grado a grado
prestando maggiore attenzione; e si vedeva che gli argomenti gli
andavano, e non meno le frasi ond'erano rivestiti, perchè li
accompagnava con cenni del capo e con ringhî in cadenza. Egli doveva
egualmente ammirare la relatrice, trovando ch'ella possedeva un bel
tesoro di memoria, un tesoro del quale egli non si era mai avveduto. E
neppure lei sapeva come ciò le accadesse. Le parole del frate le erano
certamente caduta sul cervello, come gocce di piombo liquefatto,
facendovi impronta e presa ad un tempo.

Ma quello sforzo l'aveva anche esaurita. A pranzo niente le andava; si
era contentata di assaggiare; e finito il pranzo aveva trovato un
pretesto per ritirarsi nelle sue camere, non aspettando Maurizio alla
solita ora delle visite serali. Cosa da nulla, diceva il generale al
signor di Vaussana, poi che questi ebbe domandato della contessa, e
manifestato il suo vivo rammarico di saperla indisposta.

--I soliti incomoducci, che fanno comodo così grande alle signore
donne;--soggiungeva il generale;--nervi, fumi, vapori, isterismi ed
altri cataclismi da ridere. Del resto, un po' di riposo le farà bene.
Quel prodigio di mnemonica, a buon conto, non sarà mica stato senza
consumo di materia cerebrale. Siamo macchine, mio caro.--

Così ragionava; ed era contento di sè, il castellano della Balma. In fin
de' conti, quella poteva contarsi come una buona giornata per l'autorità
del marito, se anche gli era stata procacciata da una sequela di
ribellioni all'autorità del filosofo. Buona giornata, davvero, e ne
prometteva delle altre. Lo sentiva egli, questo? si dava ragione della
sua contentezza? Forse no, anzi, diciamo pure senza il forse, ed
ammettiamo che in lui operasse una specie d'istinto. Del resto, egli
poteva esser contento di aver sentito parlare come piaceva a lui. Per
una volta tanto quei _blagueurs_ di preti erano buoni a qualche cosa.

Quella sera Maurizio fece una mezza dozzina di partite a carambolo,
perdendole tutte, e la testa per giunta. Ma un vincitore a carambolo,
facendo le sue lunghe serie di colpi, non ha tempo nè modo di guardare
dove il suo avversario abbia la testa. Così la sera passò, triste
conclusione di una triste giornata. Le giornate, poi, si seguono e non
si rassomigliano. La mattina seguente capitò Gisella al Castèu. Veniva
in apparenza a prender l'amica, per andare con lei alla predica. Nel
fatto, voleva combinare in casa il signor di Vaussana, per domandargli
un libro in imprestito; un esemplare del nuovo Testamento, niente di
meno. Desiderava di leggere l'evangelio di san Giovanni e le epistole di
san Paolo; due autori che il quaresimalista citava spesso e volentieri.
Nella libreria della Balma il nuovo Testamento non c'era, e per una
buona ragione: per la stessa ragione non c'era neanche il vecchio. Ma
oramai non sarebbe più stato così: Maurizio offriva l'uno e l'altro, non
già come imprestito, ma come presente, come omaggio alla contessa
Gisella. Regalava la traduzione del Martini, approvata da Roma: quanto
a lui, possedeva la versione latina di san Geronimo, ed anche in un
altro esemplare la versione italiana del Diodati, non approvata, ma ad
ogni incontro, ad ogni bisogno, egualmente opportuna. L'ortodossìa di
Maurizio non badava a certe piccolezze.

Gisella tremò, vedendolo comparire in salotto, e una fiamma le corse
alle guance. Ma subito si ricompose, e gli espresse il suo desiderio,
avendone quell'esito che fu dianzi accennato. D'altro non fu possibile
parlare, essendo presente Albertina.

--Ed ora vi sentite meglio, non è vero?--si restrinse a domandarle
Maurizio.

--Sì, molto meglio,--rispose Gisella.--Non è stato che un male
passeggero.... qui;--soggiunse ella, indicando il cuore.

--Con quei colori?--gridò egli, inarcando le ciglia, e dissimulando
nell'atto di maraviglia un vivo senso di pena.

--Con questi colori, pur troppo;--replicò sorridendo Gisella.--È stata
anche la malattia di mia madre. Ma non esageriamo la cosa;--riprese
tosto la bella signora;--altrimenti meriterò i rimproveri del generale,
a cui queste bambinerie non piacciono. Affrettiamoci piuttosto ad andare
in chiesa; dovrebbe esser quasi l'ora. Di che parlerà oggi il padre
Anselmo?

--Dell'amor divino;--rispose Albertina, a cui la domanda era
rivolta.--Non hai sentito, quando l'annunziava?

--No, mi ero forse distratta.... pensando a tutte l'altre belle cose che
aveva finito di dire.--

La predica dell'amor divino fu un inno in prosa, e frammezzato di versi.
Quel diavolo d'un frate ci aveva quel giorno tutti testi profani. Citava
Girolamo Benivieni, che sull'amor divino aveva dettato armoniose e calde
terzine; citava Lucrezia Tornabuoni, e le sue affettuose laude
spirituali; citava messer Agnolo Poliziano, autore anch'egli (pare
impossibile) di poesie religiose; citava perfino Lorenzo de' Medici, e
le sue amorose rime sulla ricerca di Dio.

    Allor vedrò, o Signor dolce e bello,
      Che questo bene e quel non mi contenta:
      Ma levando dal bene e questo e quello,
      Quel ben che resta il dolce Dio diventa:
      Questa vera dolcezza e sola senta
      Chi cerca il ben: questo non manca mai.

Quella mattina, sulla piazza della chiesa, non mancò più Maurizio, ad
aspettar le signore.

--Non è vero che è stato bello?--gli chiese Gisella, nella breve
conversazione di commiato.

--Sì, bello;--rispose Maurizio.

E non potè dirle altro, tanto soffriva. Ah, quel bene terreno che non
contenta più l'anima! quel bene terreno da cui si può levar tante parti,
e il resto si trasforma in amore di Dio!

Quella sera, andò ancora alla Balma, sapendo già di non averne alcun
bene. Pure, il caso gli fu più umano del solito, facendolo restare
abbastanza lungamente solo con lei.

--Non andrete più al Martinetto?--le disse, dopo alcuni istanti di
silenzio, che gli erano parsi secoli.--C'è il piccolo Vittorio ammalato.

--Oh, poverino! Sicuramente ci andrò;--rispose Gisella, che a tutta
prima era rimasta confusa.

Ed egli la precedette il mattino seguente lassù; o credette di
precederla. Ma la contessa non si lasciò vedere al Martinetto, nè prima
nè dopo la predica. Triste cosa, su cui egli non osò farle la più
piccola osservazione. Pure, le giornate erano belle, ancora un po'
fresche, ma serene e luminose; e i cardellini dell'Aiga, salutando
Maurizio, avevano l'aria di dirgli: i vostri nocciuoli sono stati i
primi tra tutti gli alberi della montagna a riprender le foglie; come va
che non ci si rivede ancora? sareste mutati voi, da quelli di prima?--

Gisella andò a vedere il figliuoletto di Biancolina, ma dopo aver
pranzato, senza pericolo d'imbattersi nel signor di Vaussana. Maurizio
la vide ritornare alla Balma, mezz'ora dopo ch'egli era giunto lassù.
Rimase male, vedendo che Gisella aveva cercato di evitare la sua
compagnia. Ma la signora non potè egualmente evitare l'occasione di un
breve colloquio con lui, mentre il generale era andato più oltre lungo
il viale a ragionar col fattore.

--Perchè?...--le disse.--Perchè mi sfuggite?--

Maurizio aveva l'aria d'un moribondo, parlando in quel modo.

--Perchè....--mormorò ella, non resistendo a quell'accento di angoscia
suprema.--Amico mio, non mi parlate così! Se sapeste come mi levate il
coraggio!... Siamo nell'errore, Maurizio; ho paura.

--Paura!--esclamò egli.--Di che?

--Siamo colpevoli.

--Colpa.... d'amore....

--È colpa, e basta. Io mi faccio orrore, e qui dentro mi domando spesso:
che cosa penserà Maurizio di me, se anch'egli usa scendere nel segreto
dell'anima sua, e vede l'abisso in cui siamo caduti? Ah, meglio
laggiù,--gridò ella rabbrividendo--meglio laggiù in quell'altro abisso,
nel vortice dell'acque, quando io non credevo di far tanto male; e tu
già lo sapevi, già n'eri persuaso, perchè hai tardato un istante a
rispondermi!--



CAPITOLO XVI.

Cuori infermi.


Così finiva la quaresima, vedendo Maurizio la contessa Gisella ogni
mattina alla sfuggita quando si usciva di chiesa, ogni sera più
lungamente quando egli andava alla Balma; non più altrimenti, come
avrebbe potuto sperare dal ritorno alla buona stagione, da lui con tanto
ardore invocata. E parlava di cose vane con lei, quando c'erano altri in
conversazione; e non parlava più affatto quando restavano soli. Quei due
poveri cuori sembravano divenuti l'uno all'altro stranieri; tra quelle
due coscienze, già così intimamente unite, si era fatto un gran vuoto.
Egli oramai era in uno stato da far compassione; reggeva l'anima co'
denti; avrebbe voluto non essere: intanto, per capriccio di sorte o
crudeltà di destino, doveva sorridere, sorrider sempre, piegandosi a
tutte le fantasie d'un vecchio fanciullo, che mostrava di non saper
stare un minuto senza la compagnia del suo migliore amico. Sospello di
qua, Vaussana di là, e Maurizio da pertutto; non c'era che lui.

L'avvicinarsi della pasqua avrebbe dovuto portare qualche obbligo
particolare per quel saldo credente. Ma quel saldo credente non era uno
stretto osservante: andava in chiesa; e levato di lì, praticava poco,
sicuramente credendo che il credere bastasse. Del resto, c'era la
politica di mezzo; ed egli, non volendo inchinarsi a certe pretensioni
_de hoc mundo_, non aveva neanche scrupoli di coscienza. «Quando avranno
disarmato verso l'Italia una, mi accosterò anch'io un po' meglio»,
diceva egli qualche volta a sua sorella Albertina.

Uno di quei giorni, veduto che sua sorella usciva prima dell'ora, tutta
vestita di nero e col velo di pizzo ugualmente nero in testa, scambio
del solito cappellino, le domandò brevemente:

--Precetto pasquale?

--Sì,--rispose Albertina,--da una settimana è incominciato il tempo
utile.--

Un'idea passò per la mente di Maurizio; e per averne l'intero, mezz'ora
dopo che sua sorella era uscita, andò in chiesa anche lui. Giunse a
tempo per vedere il cappuccino uscire dal confessionario, donde aveva
ascoltate ed assolte parecchie penitenti. Rivolti gli occhi all'altar
maggiore, riconobbe sua sorella inginocchiata alla balaustrata di marmo,
e accanto a lei la contessa Gisella, anch'essa tutta vestita di nero.
Ah, dunque ella pure si era confessata dal frate; ella pure si accostava
alla mensa eucaristica; ella pure, perdonata, monda di colpe, contenta?
E fu triste senza fine; per quel giorno mutò perfino il posto alla
predica; finita questa, se ne andò verso casa, senza aspettare le
signore al varco del piazzale. Di questo, poi, non erano neanche da
farsi le maraviglie: oramai erano più le volte che il signor Maurizio
faceva così, che non quelle in cui si tratteneva a riverire Gisella, a
barattare con lei le poche frasi di commiato.

--Confessa bene?--domandò egli di punto in bianco a sua sorella, quando
furono a tavola.

--Come predica;--rispose Albertina.--È un dotto, ed è un santo,--

Maurizio non disse più altro. Quella sera gli mancò il coraggio di
salire alla Balma. Sentiva bene che un gran rivale gli era stato
suscitato; ma da chi? non forse da lui? e perchè darne colpa o merito ad
altri? Egli, egli solo, aveva introdotto il gran nemico in casa. Che
dolore, e che orrore! Egli amava più che mai quella donna; e quella
donna era di Dio.

Andò alla Balma il giorno dopo, di mala voglia, soffrendo in ogni parte
dell'esser suo, nè ben sapendo di che. Trovò la contessa al suo telaio
di ricamo, pallida, cerea nel volto, ma calma. Il generale era di
cattivo umore, e misurava a gran passi, in diagonale, gli ottanta e
cento metri quadrati del vestibolo. Incominciava a temere gli effetti
della vita sedentaria; voleva fare del moto: e per farlo, e per
istizzirsi di non poterne fare abbastanza, sceglieva le ore che Gisella
dedicava al riposo. A mala pena ebbe veduto comparire Maurizio, il
passeggiatore si fermò, prendendo un'aria severa.

--Non vi abbiamo veduto, iersera; diss'egli, con accento di
rimprovero.--E sareste stato così utile, per darci una mano! Si è dovuto
mandare pel medico, capite? pel medico; e l'abbiamo avuto qui tutta la
sera.--

Maurizio non ci vedeva già più.

--Ah!--gridò egli, prima che quell'altro finisse la sua invettiva.--Che
è stato? Io non sapevo.... Se avessi immaginato....--

E si volgeva così dicendo a Gisella, di cui poc'anzi aveva notato il
pallore. Ma per allora non discerneva più nulla, tanto era turbato;
l'immagine della donna adorata gli veniva agli occhi confusa, come i
pensieri alla mente, come le parole alle labbra.

--Cose di poco, signor Maurizio;--rispose ella placidamente.--Mal di
stagione, e non valeva neanche la pena di parlarne. Non istò forse bene,
ora?--soggiunse, volgendosi a suo marito, che aveva fatto un gesto di
stizza.

--Che stagione mi andate voi stagionando?--gridò il generale.--Ma sì,
dite bene,--ripigliò, mutando proposito,--è la stagione....
ecclesiastica; è la vostra quaresima, che il diavolo se la porti.
Capirete, Maurizio; tutti i giorni in chiesa! Il fumo delle candele
doveva bene un giorno o l'altro portare i suoi effetti deleterii. Ieri,
poi, per compir l'opera, la nostra signora è stata fino al tocco senza
prender niente; nè bevanda nè cibo.

--Quante volte non sono stata così!--rispose Gisella, sorridendo.

--Ma ieri non potevate. E non va bene restar tanto a stomaco digiuno;
segnatamente voi altre donne, che mangiate come gli uccellini, e avete
bisogno di nutrirvi più spesso. Questo ve lo ha detto anche il medico.
Ma ieri, Dio ci abbia in grazia, bisognava far la pasqua, bisognava
prendere la comunione.... Credo che sia la prima, dopo quindici
anni;--osservò il generale, ghignando.

--Ettore! Voi dite i miei peccati.

--Ed anche quella era stata di troppo;--continuò il generale, senza
badare alla interruzione.--Venite, Maurizio, facciamo due passi
all'aperto. Il medico ha dato un buon consiglio anche a me. Non faccio
moto abbastanza, e ci buscherò una congestione di sangue. Sarà
necessario che io ripigli l'uso di montare a cavallo. Le strade qui non
sono molto adatte; ma bisognerà contentarsi. Cavalcate, voi?

--Male;--rispose Maurizio.

--Ah, sì, scusate, dimenticavo che siete un marinaio. Ci vorrebbe un
cavallo marino, per voi.--

E trascinava Maurizio con sè, lontano dalla casa, volendo rifarsi della
noia di quella giornata. Ma col discorso ritornava spesso a sua moglie.

--Credo che quel monaco l'abbia stregata;--diceva. Dal giorno che ha
cominciato a seguire quel maledetto quaresimale, Gisella non ha più
pace. Perfino di notte, vedete, ella sogna del monaco. Almeno, io penso
che sia così. Prima d'ora, dormiva i suoi sonni tranquilli, come una
bambina; ed ora è in agitazione continua; di tanto in tanto,
svegliandomi, sento che si lagna come una persona malata. Scendo da
letto, vado a vedere che cos'ha, le domando se si sente male: non
risponde; è addormentata, ma d'un sonno cattivo, come quando s'è fatta
una cattiva digestione. Ha l'affanno, l'oppressione, una specie d'incubo
che la fa rammaricare, gemere, uscire in frasi rotte, incomprensibili.
Capirete, amico mio, che tutto ciò è molto grave. Quando si parla
dormendo, è segno che il cervello lavora; e lavora male, il cervello,
quando non è la sua ora, quando egli ha bisogno di rifarsi della fatica
del giorno.--

Maurizio fremette, pensando alle frasi rotte, alle frasi
incomprensibili, che ben potevano una volta o l'altra riuscir frasi
formate, ed esser comprese. Non temeva per sè; questo era l'ultimo de'
suoi pensieri. Ma non voleva perder Gisella; lo atterriva l'idea d'esser
cagione d'una sventura per lei. Povera bella! ed era ammalata; un guasto
era avvenuto in quell'essere così perfetto. Ma come grave? a che punto
poteva giungere? come si poteva rimediarci? Anzitutto, che cosa aveva
osservato il medico? che cosa aveva detto a quel marito? se aveva detto
qualche cosa, che fede meritava?

Il medico di San Giorgio era un uomo di mezza età; non faceva lunghi
discorsi, nello impostare la diagnosi; anzi annaspava un pochino,
accennando i sintomi, i segni osservati; tanto che non pareva avere una
cognizione ben chiara del male, e contentava poco i suoi ascoltatori. Ma
egli non annaspava poi nella pratica; correva ai rimedii, alle
ordinazioni, alle operazioni, con una prontezza mirabile, che dinotava
altrettanta sicurezza di giudizio. Apparteneva alla scuola vecchia:
buona cosa, il più delle volte, perchè la scuola vecchia è tutta
esperienza accumulata intorno ad un metodo riconosciuto; non ha tante
parole dottamente aggrovigliate, non ha tanti sistemi frettolosamente
fabbricati. Ma questo ci avviene, quando cade inferma una persona a noi
cara: se il medico è della scuola vecchia, temiamo sempre che non ne
sappia abbastanza; e tanto più lo temiamo oggidì, che il giornalismo ci
confonde più facilmente con cento notizie di scoperte, di globuli, di
piastrelle, di microbii, di micrococchi, d'iniezioni ipodermiche, di
trasfusioni, di sterilizzazioni, di attenuazioni, di tentativi audaci,
di processi rigeneratori, di cure portentose, facendoci credere che un
nuovo mondo sia stato scoperto ieri, e un altro debba essere scoperto
domani. Se poi il medico è d'una scuola moderna (ci sono infatti tante
scuole quanti sono gli sperimentatori nuovi, i nuovi cercatori della
verità scientifica) temiamo che la sua scuola non sia la buona, che
voglia veder troppo, che si fidi troppo ad un sistema non ancora
provato, ad un rimedio non ancora abbastanza sperimentato, che prenda un
dirizzone scambio d'un indirizzo ragionevole, e vada e conduca noi fuori
di strada.

Maurizio non ebbe pace fino a tanto non gli venne fatto di abboccarsi
col medico, per sentire da lui che cosa fosse il malore ond'era
minacciata la contessa Gisella. Ma doveva egli entrar subito in
argomento? Un po' di confidenza ci voleva, e Maurizio pensò di non
averla ancora meritata. Egli lo aveva sempre un po' trascurato, quel
brav'uomo, che esercitava l'arte sua con molta coscienza, e che era
degno dell'amicizia di tutte le persone per bene. Incominciò dunque col
fargli la corte, fermandolo per via, accompagnandosi con lui,
chiedendogli notizie dei suoi ammalati, informandosi delle malattie
dominanti e del metodo di cura tenuto da lui. Biancolina e il piccolo
Vittorio furono anche buoni gradini per risalire bel bello alla contessa
Matignon, a quella graziosa e cara provvidenza di tutti i poveri, di
tutti i sofferenti del vicinato.

Anche lei, povera provvidenza, sì certo, aveva bisogno di cura. E il
signor di Vaussana, accennando quelle piccole indisposizioni delle quali
era stato testimone, aveva ad arte aggravate le cose, nella speranza,
quasi nella certezza di sentirsi rassicurare dal medico. Ma quell'altro
non aveva corrisposto alla sua aspettazione; batteva le labbra, aveva
l'aria di dargli ragione, gliene dava sicuramente più ch'egli non
mostrasse di volerne avere. E allora Maurizio a turbarsi davvero, a
fremere di spavento, a tempestar di domande.

Ma, che dire? Non bisognava confidar troppo, nè sgomentarsi prima del
tempo. Il medico, dopo tutto, aveva osservato lì per lì, badando alle
necessità del momento. Sì, certo, c'era qualche cosa al cuore. Vizio
cardiaco, dunque? Si poteva temerlo. Di mal di cuore era morta anche la
vecchia contessa Matignon, la madre di Gisella, e questo per l'appunto
gli dava da pensare; forse per questo egli si era così prontamente
fissato sul sospetto del vizio cardiaco. Aveva notato irregolarità di
polso, asistolìe, acinesìe; in altri termini, ritardati movimenti di
sistole, troppo lunghi intervalli nel doppio movimento di diastole e di
sistole, dilatazione e restringimento alterno del cuore. Ed anche
accennava a troppa frequenza di respiro, a qualche piccolo rantolo alla
base dei polmoni, indizio di stasi, ossia ristagno del sangue.

Erano sintomi poco piacevoli, sicuramente: ma potevano esser
passeggieri. Il medico non voleva pronunziarsi troppo presto, nè troppo
risolutamente. Ma aveva incominciato, doveva anche finire, per
contentare la curiosità incalzante del signor di Vaussana, la cui
amichevole sollecitudine per i signori della Balma meritava benissimo
una esposizione sincera. Non prendesse il signor di Vaussana per vangelo
tutto ciò ch'egli diceva; ammettesse ancora la possibilità di un errore;
ma per lui il vizio cardiaco ci doveva essere, e valvolare. In altre
parole, e più chiare, il medico di San Giorgio credeva di aver notata
una insufficienza della valvola bicuspidale dell'ostio auricolo
ventricolare sinistro.

--Che nomi!--aveva esclamato Maurizio, sforzandosi di sorridere, mentre
il cuore gli tremava e un sudor freddo gli gemeva dalle tempia.

--Che ci volete fare?--disse di rimando il dottore.--Il nostro
linguaggio è complesso e avviluppato, come la nostra povera macchina. Si
tratta infine della valvola che separa il ventricolo sinistro del cuore
dalla corrispondente orecchietta.

--Capisco, capisco, rispose Maurizio.--E quali le conseguenze?...

--Ci vengo. Premettiamo che l'orecchietta sinistra, con le sue
contrazioni, ha per ufficio di spingere il sangue nel ventricolo
sinistro. La valvola si apre allora, abbassandosi; e allora il
ventricolo, ripieno del sangue che l'orecchietta gli ha mandato, si
contrae a sua volta per ispingerlo nell'aorta. Ci siete? Orbene, se la
valvola è insufficiente, che cosa avverrà? che il sangue, alla
contrazione del ventricolo, non andrà tutto verso l'aorta, ma in parte
rifluirà verso l'orecchietta; e questa a sua volta, ingombrata da
questo ritorno, non potrà accogliere tutto il sangue che
contemporaneamente le verrà trasmesso dalle vene polmonari. Quindi
ristagno nei polmoni, ristagno che sarà risentito dalla parte destra del
cuore, che non potrà scaricare nei polmoni tutto il sangue venoso.

--E tutto ciò,--disse Maurizio,--è molto pericoloso?

--Sì e no;--rispose il medico.--Durante la gioventù e l'età verde, la
natura trova qualche compenso sulla dilatazione del ventricolo destro e
della orecchietta corrispondente. Più tardi, venendo un po' meno la
forza di resistenza, o per indebolimento da qualsivoglia causa prodotto,
o per indurimento di vasi, a cagione dell'età, il disequilibrio cardiaco
è maggiormente sentito. Allora i moti disordinati, le fatiche protratte,
le passioni, specie se afflittive, avendo grande influenza sul cuore,
possono facilmente esser cagione di lipotimìe, o deliquii che vogliamo
dire, di sincopi, di morte improvvisa.

--Mi fate fremere;--disse Maurizio.

--Parlo dell'età inoltrata, s'intende;--ripigliò il medico.--Qui non
siamo nel caso.

--Ma ad ogni modo, _principiis obsta_, non è vero? E quale è la vostra
cura?

--Quella che ho incominciata: è la solita; non c'è novità, in questa
materia; infusione di digitale, pillole di sparteina, gocce di
strofanto, tutte sostanze vegetali, tutti rimedii cardiaci,
rallentatori, riordinatori delle funzioni del cuore. E poi decotto di
china; è un corroborante. Vedete, signor conte; abbiamo ancora delle
armi per difenderci. Ed anche la gioventù, che è una buona corazza, per
chi la possiede.--

Il medico aveva un bel dire di gioventù, di cose non certe, e ad ogni
modo di pericoli ancora lontani. Maurizio aveva ricevuto il colpo in
pieno, e il colpo gli era andato all'anima. Anche il pericolo lontano lo
sgomentava; ed egli non poteva avvezzarsi all'idea della morte di
Gisella, neanche in un lontano futuro. Bella virtù dell'amore, che
sempre s'illude di vivere eterno! Intanto, fra questi terrori, che gli
furono aggravati dal troppo pensare delle ore notturne, Maurizio fu
colto dalla febbre; e la mattina seguente, poichè egli non ebbe forza di
alzarsi dal letto, si dovette chiamare il medico per lui. Povero medico!
Per la prima volta che aveva parlato un po' a lungo, dando ragione
dell'arte sua, faceva un bel guadagno davvero! Capì allora molte cose,
il buon discepolo di Esculapio; ma non le disse, non le ripetè neanche a
sè stesso. La vista continua di tanti mali ha educati i medici alla
religione del segreto. Per quella volta non fece nessuna diagnosi. Aveva
trovata una gran febbre, una eccitazione generale dell'organismo, il
volto acceso, gli occhi scintillanti, e una tale palpitazione al cuore
dell'infermo, da sentire lo scuotimento del viscere senza bisogno di
mettergli la mano sul cuore. A questi primi sintomi di una meningite, si
aggiunse tosto il delirio, il vaniloquio. Il buon dottore non istette a
pensar più che tanto; mise mano all'antipirina, alla fenacetina; poi
ordinò ghiaccio alla testa, ghiaccio pesto in bocca, ombra nella camera,
anzi buio fitto, e riposo assoluto.

La febbre era già salita di alcune linee sopra i quaranta gradi, e non
accennava a lasciarsi domare. Cominciò allora per Maurizio la triste
sequela delle pazze visioni. Le immagini come le idee s'inseguivano
nella sua mente con una rapidità vertiginosa, senza che alcuna potesse
giungere al suo compimento, incalzate com'erano, l'una sull'altra, a
guisa di flutti alla spiaggia, quando il mare è in tempesta. E il mare
appariva quasi sempre minaccioso, terribile, ora strappandogli una amata
creatura dalle braccia, ora inabissandolo insieme con lei, che atterrita
si avvinghiava al suo collo. Quando non era il mare, era una cascata
rumorosa, che si spandeva d'ogni lato, sgretolando il masso,
scoscendendo il terreno, abbattendo, inghiottendo ogni cosa, scrollando
ad ogni tratto un torrione su cui egli e lei erano rimasti prigionieri.
Unica via di salvezza, prender lei in collo, spiccare un salto,
afferrare un ciglione non ancora intaccato dalle acque irrompenti; ed
egli tentava, lanciandosi a volo col dolce peso sulle braccia; ma
proprio allora si smottava il terreno sotto i suoi piedi, ed egli e lei
rovinavano giù, giù, sempre più giù nell'abisso, senza toccare mai
fondo. E poi, di qua, di là, strani animali che s'avventavano, parole
misteriose che apparivano sui muri di un ignoto edifizio, voci arcane
che uscivano sibilando dallo spiraglio di una caverna, lampi sinistri
nel buio, fragori sordi, rombi sotterranei, tanaglie strette alla gola,
risa beffarde nell'aria, fornaci in fiamme, tutti i tormenti, tutte le
paure, tutte le follie della ragione turbata.

Stanco, abbattuto, disfatto da tanti viaggi, senza potersi formare
un'idea del tempo che erano durati, vide ancora Gisella, ma non più in
pericolo con lui. Egli era disteso in un letto, con le membra
prosciolte, mentre Gisella andava e veniva per la sua stanza, insieme
con Albertina; ambedue in aspetto d'infermiere, di assistenti al suo
capezzale. Ebbe allora un senso di dolcezza, di sollievo, di refrigerio
allo spirito, e pregò tacitamente le potenze invisibili a cui era stato
così lungamente in balìa, che non mutassero più la visione. Fu quello il
suo ritorno alla coscienza della vita; ritorno lento, timido, incerto,
ma a grado a grado più chiaro. Era ben lui che vedeva intorno a sè; ma
era nel suo letto, ammalato, e vedeva il vero: non più sgomenti, non più
terrori, non più larve di sogni, non più visioni di febbre.

La bella creatura spiava quel ritorno dell'infermo in sè stesso. Lo
indovinò alla insistenza con cui egli guardava verso di lei, dovunque
ella andasse o da una parte o dall'altra della camera. Meglio ancora lo
intese, essendogli venuta vicina, al desiderio ch'egli mostrava di
parlarle, allo sforzo che faceva per balbettare il suo nome. Ma ella non
voleva che l'infermo si affaticasse; voleva essere un conforto, un
argomento di sollievo, non una cagione di nuovo abbattimento per lui; e
involgendolo tutto d'un sorriso amoroso, si recò un dito alle labbra, in
atto di dirgli: Silenzio, per ora!

Maurizio era tanto spossato allora, quanto era stato da prima in
orgasmo. Obbedì, come un bambino buono al comando della mamma; avrebbe
obbedito ad un così dolce comando, se anche fosse stato nella pienezza
delle sue forze. Così passarono due giorni, in cui gradatamente si
riebbe: ma ancora non si muoveva dalla sua postura di giacente. Buona
postura, per altro, se quella adorata gli veniva dappresso e chinava la
faccia amorosa a guardarlo. Ah, i belli occhi d'indaco, sprazzi di
faville d'oro! Ma c'erano anche delle lagrime, che inumidivano le
ciglia, senza spegnerne il lampo.

--Sono stato dunque molto male?--mormorò egli il secondo giorno di
quella lenta risurrezione.

--Sì, povero Rizio!--bisbigliò la cara donna, chinandosi ancora un
tratto su di lui.--E sono stata io, non è vero? io la cagione del tuo
male! Ma voglio che tu guarisca, m'intendi? lo voglio. Ad ogni costo,
risanerai; non ti ammalerai più; non avrai più da soffrire, te lo
prometto.

--E tu?--mormorò ancora l'infermo, aprendo ben gli occhi, come se
volesse significarle colla intensità dello sguardo tutto quello che non
poteva dirle colle parole.

--Io? nulla; ora sto bene. Ve l'ho detto, che era una cosa di poco;
perchè spaventarti? Mi ero troppo esaltata; avevo anche fatto dei
digiuni troppo lunghi. Ma ora non più. Ragiono un po' meglio, sai? E
sono tua;--soggiunse con un filo di voce, ma con una intensità di
accento che andò al cuore di Maurizio;--tua mi capisci? E voglio esser
tua, viver tua, morir tua.--

Maurizio sorrise; una vampa di felicità gli corse alle guance, gli
brillò dagli occhi accesi. Le labbra si tesero, cercando, chiedendo,
pregando. Ma ciò non era da savio, e la buona infermiera lo chetò con un
gesto che voleva dir molte cose.

Poco stante ritornava il generale. Anch'egli capitava ogni giorno; ed
erano già sei, che Maurizio era caduto infermo; ma egli non restava a
lungo, avendogli il medico ordinato di fare del moto. Quel giorno,
trovando il convalescente di migliore aspetto, il generale diede la
stura ad una bottiglia di buon umore, _première marque_, che teneva in
serbo per il suo amico Vaussana, quando fosse in grado di assaggiarne. E
lo chiamava il suo «_intéressant moribond_» e gli ripeteva la facezia
feroce di Robert Macaire al povero ammalato: «_allez, allez à
l'Hôtel-Dieu; on fera des manches de couteau avec vos os, on en fera
des jeux de dominos, on en fera des boutons pour guêtres._» Ed anche
quel genere tutto mascolino di celia faceva ridere Maurizio.

--Ma sapete, interessante moribondo,--continuava il generale,--che ci
avete spaventati ben bene? Ve lo dico ora, che ne siamo fuori. E come
lavoravate di fantasia! Ci avete fatto perfino un trattato di storia
naturale, insistendo particolarmente sul capitolo dell'ornitologia. Non
parlavate che di nidi tra i rami, di passere, di lucherini, di
cardellini; di questi ultimi sopra tutto. Certo li avete amati molto, da
ragazzo.

--La febbre!--mormorò Maurizio.

--Sì, capisco, la febbre. Ma c'è anche la sua ragione, nel ritorno di
certe immagini, quando la febbre lavora;--ripigliava il generale.--Si
ridiventa bambini. Il fatto è scientificamente dimostrato. Il nostro
cervello è come una cipolla, per rispetto alle impressioni ricevute, una
cipolla di tante tonache sovrapposte. Si guastano nella malattia le
impressioni più superficiali, si cancellano le più recenti, e le più
antiche rimangono, vengono per così dire alla vista. Si cita il caso di
un ammalato di malattia cerebrale, che sapeva otto lingue, e ne perdette
parecchie via via, nell'ordine contrario a quello in cui le aveva
imparate. Basta, per voi non è stato il caso; quella brutta cosa della
meningite è stata scongiurata dal nostro grande Soleri. Ma è sempre
strano il fatto di quei ricordi d'infanzia ritornati a galla,
ridiventati padroni del campo.--

Bisognava lasciargli credere quel che voleva, e Maurizio non si provò a
contraddirlo. Il buon umore di quell'uomo era la pace sua, per allora,
era la certezza di veder sempre Gisella. Andava sempre e veniva, la
bellissima creatura; pensava a tutto, lei, prevedeva tutto, faceva
tutto, e covava il suo malato con gli occhi, come una madre il suo
bambino. Mai convalescente fu tenuto nella bambagia più e meglio del
signor di Vaussana. La stupenda infermiera cedeva a tutti i suoi
capriccetti; lo involgeva nelle sue occhiate fosforescenti,
accostandogli il cucchiaio alle labbra; o chinandosi su lui per
ravviargli il lenzuolo sotto il mento, lo inondava di fragranze soavi.
Il medico, vedendo opportuno il momento, prese a rinvigorirlo con
qualche pezzetto di carne, con vino generoso e qualche goccia di cognac.
Ma più fece un bacio leggero leggero che una mattina sfiorò furtivamente
le labbra di Rizio.

--No, non più vane paure;--bisbigliava a lui una soavissima
bocca.--Credere è bello; ma bisogna credere come te. Hai ragione tu,
Rizio; Iddio, che ti ha condotto sulla mia strada, che ha voluto essermi
rivelato da te, non può volere che io ti abbandoni.--



CAPITOLO XVII.

L'apparizione.


La mattinata era stupenda; l'aria calda, attraversata da piacevoli
ondate di frescura; il cielo uno splendore di azzurro perlato; la
montagna una festa di colori svariati, dal verde cupo e dal metallico
lucente allo smeraldino, al giallo tenero, con chiazze ferrigne,
rossastre, turchine, disposte qua e là nelle curve del terreno, nelle
insenature delle balze, nel mutarsi dei piani in lontananza; involto il
tutto, fuso, attenuato, in una tonalità violacea, che s'inteneriva negli
sfondi fino alla espressione del grigio. Un buon tepore si svolgeva dal
terreno, e in quel tepore si stemperavano, vaporando, tutte le fragranze
della selva e dei prati. Maurizio respirava a larghi polmoni aria,
tepori e fragranze, dando anch'egli, a quell'angolo di paradiso
terrestre, il suo profumo di felicità. Come era bella la montagna, e
come pareva contenta di sè! Ginepri e pini, frassini, corbezzoli ed
eriche, sterpaglie, rovi e fiammole, tutto verdeggiava, luccicava,
rideva dai ciglioni, dalle zolle, dai sassi; ogni arbusto, ogni
frutice, ogni più umile pianticella del bosco, persino la cèspita dalle
foglie glutinose, perfino i muschi del prato e i licheni dei grigi
lastroni scabrosi, sfaldati a migliaia d'inverni, avevano qualche cosa
da dire al sole, all'aria, agli insetti alianti e ronzanti, contenti
anch'essi di vivere, di respirare, di splendere.

--Voi felici!--disse Maurizio, vedendo due uccellini che si rincorrevano
a brevi volate tra gli alberi.--Ma sono felice ancor io, sapete? Ella
verrà fra poco, per pochi momenti forse, troppo pochi al mio desiderio,
ma verrà, verrà.--

E andava ripetendo sottovoce le due sillabe del verbo gaudioso, per
sentirne meglio, per assaporarne tutta la dolcezza ineffabile. Gisella
aveva promesso; sarebbe apparsa senza fallo. Che festa, la cara donna
che si aspetta! e come è bello il momento che fugge, avvicinando sempre
più l'ora della dolce apparizione! e come il luogo dove la cara donna è
aspettata, si anima, sorride, si compone a bellezza, preparandosi a
riceverla!

Assai prima di vedere la gran ruota del mulino, Maurizio lasciò il
sentiero battuto che tutti i giorni lo conduceva alla Balma. Non andava
alla Balma, per allora; s'inerpicava verso l'Aiga, e non gli bisognava
risalir la costiera più in là; era anzi prudente risalirla più in qua
dal mulino, evitando ogni incontro molesto, ogni sguardo importuno. E
risalendo, inerpicandosi di ciglione in ciglione, sentiva la cascata
rumoreggiare lontana sulla sua testa. Di tanto in tanto vedeva il
ruscello nei serpeggiamenti del suo alveo, affondato tra rupi e cespugli
in una piega del monte; i suoi passi frattanto si spegnevano sul morbido
tappeto delle zolle erbose e dei muschi, mentre lo coprivano d'ombre
discrete i rami degli ontàni e dei salici, onde erano vestite le balze.
Così muovendo frettoloso per l'erta, trovando da esperto montanaro i
passi più facili, le scorciatoie più pronte, afferrò l'orlo di un borro,
sotto l'alta rupe donde precipitava in basso il gran volume delle acque.
Lassù il burrone faceva conca per un giro abbastanza largo; in quella
conca le acque si stendevano in forma di fossato, innanzi di cercarsi,
tra nuovi scoscendimenti, la via; e là, dove incominciavano a trovarla,
era gittato un pancone, che faceva ufficio di ponte. Il luogo alpestre
era improntato di un'orrida bellezza. Davanti a Maurizio, e da tant'alto
che pareva dovesse rovesciarglisi sulla testa, si dirupava la candida
massa liquida, scintillante, spumeggiante, sempre in moto e sempre
uguale nell'ampiezza del suo volume, venendo a frangersi in una larga
incavatura del masso, donde rimbalzava divisa, sparpagliata, come una
immensa capigliatura fluente di spume, in cento rivoli capricciosi e
canori. Quanti scintillamenti cristallini! quante voci argentine di là!
Ben vieni, parevano dire quelle voci a Maurizio, ben vieni. Frattanto,
sul margine della cascata, l'arcobaleno stendeva a mezzo cerchio la
fascia diafana dei suoi sette colori. Mai l'arcobaleno dell'Aiga era
apparso più glorioso a Maurizio, più intenso, più luminoso, più vivo.

--Com'è bella,--pensava egli,--come è poetica la leggenda dei popoli
primitivi! Hanno veduto nell'iride il pegno dell'alleanza tra Dio e le
sue creature. Infatti, che cos'è l'arcobaleno? Un sorriso della luce
dopo la tempesta. Qui le gocce del nembo, sciolte in vapori e sospese
nell'aria, rifrangono i raggi del sole; ed è il sole, immagine di Dio,
che si specchia in questo basso strato d'aria, largito per condizione di
vita ai mortali.--

In un impeto di amore, Maurizio scoccò un bacio col sommo delle dita
all'arcobaleno, che parve intenderlo, e gradire l'omaggio, muovendosi
leggero leggero, quasi per far brillare i suoi colori d'una luce più
viva.

Un'altra cura trattenne Maurizio colà, per alcuni minuti. Lungo le
muscose pareti della stretta per cui scendeva la massa, delle acque,
crescevano molti ciuffi di capelvenere, facendo ad ogni zampillo, ad
ogni soffio di vento, tremolare sui lunghi picciuoli neri lucenti le
verdi foglioline disposte a ventaglio. Quei graziosi e ben nomati ricami
della natura piacevano tanto a Gisella; ed egli ne raccolse un bel
pugno, per comporne un mazzetto, insieme con certi fiorellini azzurri
che si vedevano spuntare qua e là. Fatto il suo bottino, ripigliò la
sua strada per l'erta: pochi minuti dopo giungeva alla macchia dei
nocciuoli. Era là dietro, il torrione; era là, nascosto ancora ai suoi
occhi, nascosto agli occhi di tutti, il suo nido. Ah, come gli batteva
il cuore, afferrando quel colmo! E come fu lieto, mettendo il piede nel
suo quieto rifugio! L'aspetto del luogo non era punto mutato; più folta
la frappa, se mai, avendo i nocciuoli messo altri polloni in primavera.
Tronchi grossi e sottili, asticciuole e virgulti, mettevano fuori gran
ciocche di larghe foglie cuoriformi, arrotondate alla base. Già sulle
vette dei rami si vedevano formati, a due, a tre, a quattro in un
grappolo, i lunghi involucri verdolini campanulati e polposi, nel cui
seno veniva crescendo il frutto, dal guscio ancora bianchiccio. Maurizio
ricordò che da bambino li addentava volentieri, quei verdi invogli
coriacei, per assaporarne il sugo aspretto, non dispiacevole al palato.
E non era egli un bambino anche allora? Lasciava stare gli invogli delle
nocciuole; ma componeva mazzetti di capelvenere e di talco celeste;
intanto gli batteva il cuore nel petto. La cara donna sarebbe venuta
lassù. Non più terrori, oramai; sarebbe venuta.

Terrori! e di che? Ma infine, Dio santo, perchè avete voi acceso questo
fuoco nel cuore della vostra creatura? Non è un sacrifizio a voi,
l'amore? non è un inno di lode per voi? Perchè dovremmo insospettircene?
perchè dovremmo impaurirne? La legge, si dice. Ma l'uomo, l'uomo
soltanto, ha fatta la legge, tela caduca, mutevole e vana; Dio ha fatto
l'amore, la fiamma viva, durevole, eterna. Andate contro la legge; è
niente, o poco meno di niente: andate contro l'amore; è lo schianto del
cuore, il tormento dell'anima, la morte.

Ella e lui erano stati per morirne. Ma ora non più. Ed ella non doveva
morire. Il medico aveva voluto veder troppe cose, in un momentaneo
malore; si era troppo turbato di alcuni indizi fugaci, non sintomi,
simulazioni di sintomi. Se si dovesse badare a tutte le passeggere
irregolarità dell'organismo, ci sarebbe in verità da temere di averle
tutte, le malattie dei trattati. Anch'egli, quante volte non si era
sentito male nel corso della sua vita! quante volte, senza saper come nè
perchè, non si era sentito andar via il cervello e la terra mancar sotto
i piedi! Il medico di bordo gli aveva detto ridendo: inezie,
scioccherie, scherzi del sangue; assottigliate questa volta, corroborate
quest'altra; due giorni di dieta; nutritevi di più, ed altre cose
simili. Quello era un dottore che la sapeva lunga. Ma quell'altro, il
medico di San Giorgio! Un brav'uomo, e non c'era niente a ridire. Ma
quel brav'uomo si era ingannato. Come non esserne persuasi, oramai?
Gisella non era stata mai così bella, così fiorente di salute, come dopo
quel piccolo male, che aveva messo tutti in ansietà, e non era poi che
l'effetto di un malaugurato cambiamento negli usi quotidiani della
vita.

E bellissima, e fiorentissima, la cara donna aveva bisbigliato la sera
innanzi a Maurizio:

--Domani andrò da Biancolina. È un pezzo che non vedo quella povera
gente.... e quella bella montagna.

--Ci sarò io?--aveva chiesto egli tremando.

--Con che aria me lo domandate! Rizio farà bene ad essere da per tutto,
come è nel mio cuore;--aveva ella risposto.--Tanto più, se vuol
rinunciare a quella cera di funerale, che sembra accusarmi continuamente
di crudeltà.--

Rizio si era sentito un gran rimescolo al cuore; il sangue gli era corso
veloce alle tempie; gli occhi volevano schizzargli fuori dalle orbite.
Se in quel punto lo avesse veduto il medico di San Giorgio, sicuramente
ordinava un'altra applicazione di ghiaccio. Strano dottore, che non
vedeva altro se non meningiti e vizi cardiaci!

Finalmente, ella doveva giunger lassù. Non più tormenti per lui, salvo
quello di attenderla due o tre ore sulla montagna. Tanto tempo? Ma sì:
con la solita prudenza egli aveva anticipata di tre ore la salita:
facendo il giro largo e fermandosi al bosco, aveva consumato un'ora;
lassù, poi, nel rifugio dell'Aiga era fuori d'ogni pericolo d'essere
frastornato, perfino di esser veduto. Da quella banda i Feraudi non si
mostravano mai; egli piuttosto avrebbe dovuto mostrarsi al Martinetto,
poichè laggiù, con aria di non aspettarla, doveva incontrare Gisella.
Ma a quell'incontro fortuito non voleva andare troppo prima dell'ora.
Che cosa avrebbe fatto laggiù? con qual pretesto avrebbe fatto una lunga
fermata, egli che non soleva restarci più di quindici minuti, il tempo
di salutare, di chieder notizie e di carezzare i bambini? Non si sarebbe
sospettato che egli sapesse già della venuta, di Gisella, e che appunto
per lei fosse andato a far sosta sull'aia dei Feraudi? Così, facendo
l'ora del ritrovo, meditando la sua prossima felicità, sognando ad occhi
aperti, guardava ad ogni tanto l'orologio. I minuti gli parevano secoli,
e sempre al medesimo posto quelle lancette del malanno! Che cosa
avevano, le due sottili asticciuole d'acciaio? Fatte per camminare, non
volevano dunque più muoversi?

Le lancette ebbero pietà di lui, ma un po' tardi, non un minuto prima
del convenuto. Sono così metodici, gli orologi! Per uno che corre,
quanti che ritardano! Erano le undici meno pochi minuti, quando egli
uscì dal rifugio, e lento lento si avviò verso le rovine del Martinetto.
Aveva lasciato sul sedile di pietra del torrione il suo mazzolino di
capelveneri e di fiorellini azzurri, destinato a lei, e che perciò non
doveva esser veduto anticipatamente da altri. Sceso sotto le rovine, si
avviò per il solito sentiero che correva lungo la costa del monte, ed
apparve alla vista del casolare dei Feraudi, avendo l'aria di venirsene
a passo a passo dal Castèu. Lo videro da lontano i bambini, e Vittorio
fu il primo a gridare:

--Il signor Maurizio! il signor Maurizio che viene da noi.--

Rosina accorse a sua volta, battendo le palme in segno di allegrezza;
dietro a lui si affacciò Biancolina.

--Questi ragazzi vi fanno ritardare;--diss'ella, vedendo il signor di
Vaussana, che lasciava la strada per prendere il sentieruolo del
casolare.--Andate alla Balma?

--Sì, per portare alla contessa un'ambasciata di mia sorella
Albertina;--rispose Maurizio, che sentiva il bisogno di preparare un
buon pretesto.--Ma ci ho tempo;--soggiunse.--Tanto, a quest'ora non
avranno finito di far colazione. E come va la salute?

--Bene, signor Maurizio; grazie a voi, non abbiamo più tempo di star
male.

--Non dite questo, Biancolina. C'è qualchedun altro che vi assiste, e un
po' meglio di me.

--Volete dire quell'angelo della signora? La metteremo, se mai, a pari
con voi. Son cinque giorni che non abbiamo la fortuna di vederla.

--Glielo dirò; glielo dirò, che non vi trascuri;--disse di rimando
Maurizio, che non aveva l'aria di volersi rimettere in cammino per far
la commissione.--E i vostri balocchi, bambini? Li avete già rotti? è il
caso di rifarvi la provvista?--

Ne avevano infatti dei rotti; un cavallino, tra gli altri, a cui
mancavano due gambe, e un cane che non abbaiava più, per essersi
scollata la pelle del manticino. Ma ne avevano ancora dei nuovi, o
quasi: un'arca di Noè, fabbricata a Norimberga, con otto o dieci animali
ancora presentabili, e un alfabeto di legno, a cui, per miracolo, non
mancavano che due o tre lettere. Quell'alfabeto era per allora il gran
divertimento dei piccini. Vittorio conosceva già tutte le lettere;
Rosina, più precoce di lui, compitava già qualche sillaba.

Seduto accanto alla tavola di cucina, Maurizio si divertì ad ordinare in
varie forme parecchi tasselli di quell'alfabeto infantile. Cominciò col
nome di Biancolina, e finì con quello di Gisella, tenendo desta
l'attenzione dei ragazzi, e ammirando la prontezza con cui sillabava la
piccola Rosina. Così nessuno si avvide della contessa Gisella, quando
ella apparve sull'aia; e la bella signora, capitando improvvisamente là
dentro, fu accolta da un grido di lieta maraviglia. S'intende che il più
maravigliato di tutti parve il signor di Vaussana.

Vestita del suo prediletto color bianco, rallegrato dalle solite
screziature di rosso, fresca, giovanile più che mai nell'aspetto,
animosa nel sorriso delle labbra e nello sfavillìo delle pupille
d'indaco, la contessa Gisella giustificava pienamente l'opinione di
Maurizio: non era mai stata così bella come allora. Cessata la festa di
tutti per la sua improvvisa apparizione, rimase lungamente a discorrere
con Biancolina, a baloccarsi coi ragazzi, tenendo sulle spine Maurizio,
che vedeva oramai correr tanto veloce il tempo, quanto era stato lento
da prima. Egli chiedeva a sè stesso come mai avrebbe fatto la signora a
spiccarsi di là, e incominciava a temere ch'ella non volesse più
muoversi, se non per ritornare alla Balma.

--Sapete?--le disse, dopo aver almanaccato un bel pezzo.--Venivo a farvi
un'ambasciata da parte di mia sorella Albertina.

--Non ce ne sarà più bisogno,--rispose Gisella,--perchè vado io da lei.
Come vedete, ero in istrada. Ma voi, piuttosto, signor Maurizio, non
avevate gran fretta di giungere alla Balma.

--Mi hanno veduto i bambini, mentre passavo di là sotto;--replicò egli,
felice di avere avviate le cose.--Perciò mi son fermato un momento; come
voi, signora, come voi.

--Quanto a me,--disse Gisella,--è un altro affare. Io non passo mai di
qua senza fermarmi al Martinetto, per salutar Biancolina. Del
resto,--soggiunse cerimoniosa,--ci ho guadagnato d'incontrarvi e di
avere un buon compagno per la discesa. Venite dunque, Vaussana, e faremo
anche il giro più largo. Così mentirà una volta ancora la vostra
impresa: _tout droict Sospel_.

--Così la spiegate?--diss'egli, facendo bocca da ridere.

--E come no? Siete l'uomo dei gran giri, voi; ed anche delle lunghe
fermate. Ci avete sempre qualche albero da ammirare, qualche sasso da
adorare, qualche filo d'erba da restarci incantato.--

In questo modo era trovata la gretola. Salutata Biancolina, fatta una
piccola distribuzione di confetti a Rosina e a Vittorio, la bella
signora si avviò con Maurizio per la discesa; ma senza continuarla a
lungo. Giunta appena fuor dalla vista del casolare, prese con Maurizio
il sentiero verso le rovine del Martinetto. Finalmente! Ma ella tremava
un pochino, prendendo il braccio che le offriva Maurizio.

--Ah!--esclamò egli, turbato.--Che avete?

--Nulla, nulla, son forte, più forte che tu non immagini;--s'affrettò
ella a rispondere.--Povero mio Rizio! Hai tanto sofferto, non è vero?

--Mio Dio!--mormorò egli.--Temevo di non vederti più.... così, come
quest'oggi. E sarebbe stato un orrore.

--A chi lo dici! Ero ben cattiva;--rispose ella, reclinando la bionda
testa sul petto del compagno.--Ma voglio che tu mi perdoni; voglio che
tu viva, che non ti ammali più, mio povero Rizio. Che viso hai tu,
quando soffri! e come mi levi allora il coraggio! Ho combattuto, ho
resistito a lungo; ma sono stata vinta, vinta, per non ripigliarmi mai
più. L'ho detto ieri, l'ho giurato a me stessa: non sarà mai che il
povero Rizio soffra tanto per cagion mia. Soffrivo anch'io, sai? Ma per
me avrei sofferto ancora; non ci avrei badato; avrei saputo morire. Per
te, no; per te mi son mancate le forze. Pensando come sei stato male,
come hai vaneggiato, come hai delirato, mi sento un'altra, capisci?
un'altra; quella di prima, dei giorni belli, che erano i tuoi, come
questa povera creatura, che ritorna nelle tue braccia.--

Rabbrividì, entrando nella macchia; ma si riebbe, sotto un bacio di
Maurizio, nel punto che egli metteva il braccio davanti a lei, per
isviare i rami dei nocciuoli e darle passo nel folto. Voleva esser
forte, valorosa, allegra; e sorrise al suo nido così bene ascoso nel
verde, nell'atto di porre il piede sulla soglia del terrazzo. Ma il
sorriso le morì sulle labbra, ed ella tremò tutta, vedendo un gesto di
turbamento del suo dolce compagno.

--Che hai, Rizio?--gli domandò sbigottita.

--Nulla, nulla;--rispose egli, padroneggiandosi a stento.--Dei fiori,
per voi.... Credevo di averli lasciati qui.... Li avrò forse portati con
me, senza avvedermene, e mi saranno caduti.--

Parlava così, cercando d'ingannare sè stesso. Ma era ben sicuro del
contrario, e tremava.

--Caduti? Certamente, ma non laggiù;--diss'ella, che in un volger
d'occhio aveva frugato da per tutto.--Sarebbero questi, per caso?--

Così dicendo, muoveva verso il parapetto, e si chinava a raccattare in
un angolo un mazzolino di capelveneri.

--Son questi, sì, son questi;--rispose Maurizio, respirando.--Ma come
così lontano dal sedile, dove io li avevo collocati? Perchè mi ricordo,
ora, mi ricordo bene di averli posati qui, al vostro posto.

--Ebbene?--ripigliò Gisella.--Erano qui? Rimettili dove li avevi
lasciati. Vedi? ruzzolano ancora; segno che il sedile non è ben piano.
Che caro spericolone, il mio Rizio! e come corre subito a pensare il
peggio! Eravamo già lì col mal augurio, non è vero?--

Maurizio sorrise, e si calmò. Ma aveva avuta una bella paura.

--No, no;--rispose egli.--Cioè, diciamo pure di sì. Temevo di aver
perduto quei fiori: e sarebbe stato veramente un cattivo augurio per
me.--

Non voleva dire: temevo che qualcheduno fosse stato qui, mentre eravamo
laggiù. Del resto, il dirlo sarebbe stato inutile, poichè i fiori erano
stati ritrovati, e l'esperimento di Gisella aveva dimostrato in che modo
fosse caduto il mazzolino. Egli era persuaso oramai, e voleva
discacciare tutti i negri pensieri. Per discacciarli bene, bastava
guardare quella stupenda creatura nel viso. Com'era bella. Dio santo!
Maurizio la trasse a sè, con una gran sete di baci che gli ardeva il
sangue, che lo stringeva alla gola.

Momento supremo! Stanchi di rincorrersi tra i rami, gli uccellini
posavano sotto la frappa, sotto la bella frappa tinta di un verde
carico, vaporante all'aria tiepida del mezzodì gli acri profumi dei
succhi vigorosi. Dormiva la brezza sotto la vampa del sole; e ad ogni
palpito lieve del suo buon sonno, si muovevano lenti i chiari smeraldi
onde i raggi solari frastagliavano capricciosamente i vani strati
diseguali del cupo fogliame. In quell'alta pace delle cose, sola
continuava ad agitarsi la cascata d'Aiga, rapida, fremebonda, impetuosa
nella sua curva rutilante, cantando con assiduo metro all'abisso la sua
canzone d'amore. E mentre essa volava piombando con desiderio infinito
nel seno dell'amato, Rizio stringeva fra le sue braccia la bella
creatura adorata, guardandola negli occhi, divorandola coi baci, e poi
guardandola ancora, insaziato, insaziabile. Strana bellezza di quegli
occhi! Per entro all'umor cristallino dal colore dell'indaco stemperato,
nuotavano pagliole d'oro, simili alle vene ed ai punti del prezioso
metallo ond'è sparsa la massa turchina del lapislazzoli. Ma in questa
gemma è l'oro imprigionato ed immobile: in quegli occhi divini, come in
gemme viventi, indaco ed oro palpitavano balenando; ed ogni palpito era
una voce del cuore, ogni baleno un pensiero dell'anima, che si
sprigionava di là, involgendo, accarezzando, inebriando. Momento divino!
Le anime si son ritrovate; le anime si ricongiungono in quel punto; le
anime si confondono l'una nell'altra, invocando l'eternità dell'istante.
Sempre, van ripetendo le labbra, sempre, sempre! E nella dolce parola,
proferita con tutta la energia di cui l'accento umano è capace, non una
lettera si perde, ognuna ha suono, colore e calore. La prima sillaba è
una aspirazione intensa, come di preghiera in cui tutti i sentimenti si
stemprino; la seconda riproduce la stretta violenta d'un bacio che
scocchi premendo; le collega ambedue una profonda caduta, un abbandono
confidente dell'essere. Sempre! O buon Dio, clemente e misericordioso
Signore, che di tanta tenerezza, di tanta soavità, di tanta beatitudine
avete fatto l'amore, perchè non fare di eternità il suo momento supremo?
È ben vero che l'eternità parrebbe anch'essa un istante, e mai come
allora si sentirebbe che le due cose son una.

Tutto ad un tratto la bella creatura sussultò nelle braccia di Rizio.
Gli occhi si dilatarono in espressione di terrore; si scolorarono le
labbra, e ne proruppe un grido d'angoscia. Tremante all'atto repentino,
stringendo più forte la sua Gisella, quasi temesse in quell'istante di
perderla, Maurizio girò tutto intorno gli occhi sospettosi: non vide
nulla di nuovo; ed ancora si volse a lei, chiedendole collo sguardo il
perchè del suo turbamento improvviso.

--Lui!--mormorò ella con accento soffocato.

--Lui!--ripetè Maurizio.--Chi? dove?--

E guardò ancora, guardò meglio, dove pareva accennare lo sguardo
atterrito di Gisella. Frattanto, alzandosi a mezzo, si atteggiava
istintivamente a difesa.

--Lui! lui! non vedi?--gridò ella, aggrappandosi spaventata alle
braccia di Maurizio.--No, no, pietà, non mi guardate così!--soggiungeva
con accento supplichevole.

Allora anche Maurizio vide. I capelli gli si rizzarono sulla fronte, e
un freddo acuto gli corse per tutte le vene. Là, nella frappa, dalla
parte dond'essi erano venuti al rifugio, ritto sul fianco, alta la
testa, in atto severo, vestito d'una gran tonaca di color marrone, si
vedeva un monaco; lui, lui, il padre Anselmo da Carsoli. Immobile della
persona, irrigidito nel suo atteggiamento spettrale, non accennava di
voler fare un passo più avanti; ma, a guardarlo bene, si vedeva
tentennare lentamente il capo, con aria di muto rimprovero. Ad un tratto
levò il braccio e tese la mano, minacciando col gesto, come già
minacciava collo sguardo.

Maurizio era rimasto un istante perplesso, fissando con occhi sbarrati
la strana apparizione. Ma tosto, irritato da quel gesto minaccioso, non
potendo più sopportare la tetra luce di quello sguardo severo, fece
l'atto di avventarsegli contro. Gisella lo trattenne, Gisella che si
avvinghiava disperata al collo di lui.

--No, no,--ripeteva ella, come pazza di terrore.--Abbiate compassione!
Dannata no.... dannata no. Voi me lo avevate detto; è vero, sì, è vero;
sareste venuto a rinfacciarmi il mio delitto, venuto ad ogni modo, in
ogni tempo, dovunque vi foste trovato, a punirmene. Lo so, padre, lo so.
Ma egli moriva, moriva per cagion mia. Perdono! Iddio non poteva
volerlo; perdono!--

Il colpo era stato troppo grave, l'esaltazione troppo grande; la povera
creatura, disfatta dallo sforzo violento, ricadde inerte nelle braccia
di Maurizio. Fremente di sdegno, egli l'adagiò sul sedile, e libero
appena del caro peso si scagliò contro il monaco. Più nulla; il monaco
era scomparso. Ma come? neanche una foglia si muoveva laggiù, dov'egli
lo aveva pur dianzi veduto; nè alcuno strepito di rami smossi si udiva
nella macchia, nè alcun rumore di passi tra gli sterpi. Un fantasma,
dunque? E la povera Gisella nel suo terrore, ed egli sotto la pressione
delle braccia di lei, erano stati in balìa d'una medesima allucinazione?

Gisella era svenuta. Sbigottito, egli corse all'acqua, risicando ad ogni
passo di scivolar nell'abisso. Là, nel fascio spumeggiante, intrise il
fazzoletto a guisa di spugna, per venire sollecitamente a spruzzarne il
volto e il collo della creatura adorata. Con mano mal destra, ma pronta,
strappando convulsamente dove non poteva slacciare, le aperse la veste
al sommo del petto, per farla respirare più libera. Non ebbe pace, non
ebbe posa, fino a tanto non la vide riaprire i begli occhi languidi alla
luce del giorno.

Allora, prendendo animo dalla necessità del momento, se la recò tra le
braccia e si avviò verso la macchia dei nocciuoli; proteggendole il
volto come poteva, andando a ritroso, cacciandosi avanti colle spalle e
coi gomiti, si faceva strada a forza tra i rami. Che orrore! che orrore,
se non avesse potuto trarre in salvo la dolce creatura! Ma
finalmente.... finalmente, uscivano da quell'intrico di piante. Ancora
un centinaio di passi, e le rovine del Martinetto erano in vista.



CAPITOLO XVIII.

Povera bella!


Biancolina Feraudi ebbe quel giorno un segreto da custodire, anche per
suo marito, quando il brav'uomo fu richiamato a gran voce dal pascolo e
mandato in fretta e furia alla Balma, per avvertire il conte Matignon
del triste caso toccato alla sua signora, mentre ella si trovava di
passaggio al casolare del Martinetto.

Il generale ricevette l'annunzio doloroso mentre ritornava da una delle
igieniche cavalcate che da pochi giorni aveva preso a fare per
ordinazione del medico. Spaventato accorse, ansando e sbuffando, ma
facendo i passi lunghi e frettolosi, come un giovanotto, non avvedendosi
neanche della cattiva strada che doveva fare per recarsi lassù. Quando
giunse, trovò Gisella ancora mezzo vestita, distesa sul letto di
Biancolina, e il medico di San Giorgio al suo capezzale. La povera bella
era inerte, con le braccia abbandonate sul lenzuolo, gli occhi
semichiusi, cerea nel volto, come una morta.

--Che cosa è stato?--gridò il generale, cacciandosi avanti a guardare,
poi rivolgendosi con gli occhi stralunati verso il dottore.--Parlate, in
nome di Dio!

--Signor generale, che dirvi?--mormorò il dottore.--È ancora il suo
male. Non era eliminata.... non poteva eliminarsi la causa.... e gli
effetti si ripetono. Fortuna ancora che il signor di Vaussana è venuto
ad avvertirmi subito.

--Sì,--soggiunse Biancolina,--e fortuna maggiore che i miei piccini
l'abbiano veduto passar qui sotto, mentre dal Castèu si recava alla
Balma. È stata una vera provvidenza che egli si ritrovasse sulla
strada.--

Quella brava donna non era stata avvertita nè pregata di nulla; aveva
indovinato tutto, o quasi tutto, e trovava nel suo cuore riconoscente il
segreto delle pietose bugìe. Ma non era tempo per nessuno di fare
indagini troppo minute: l'essenziale era di provvedere, di correre ai
rimedii, di salvare, se fosse possibile, la povera inferma. Che cosa
pensava il medico? che cosa consigliava? Il medico Soleri per allora non
pensava, non consigliava nulla; bensì aveva molto da fare. Ripigliava in
quel punto l'ufficio che dall'arrivo del generale gli era stato
interrotto: con forti, assidue strofinate cercava di riattivare le
funzioni cutanee. Biancolina, dal canto suo, con un gran ventaglio (il
suo ventaglio di sposa, serbato fin allora gelosamente nel suo forziere
nuziale) rinfrescava l'aria al viso ed al petto dell'inferma.

--Non c'è altro?--chiese il generale, dopo alcuni minuti.--Non c'è altro
da fare?

--Sì, sì, non dubitate;--rispose il dottore.--Si fa ora quel che si può,
in attesa dei rimedii.--

Aveva appena finito di parlare, che si sentì rumore di persone
accorrenti. Giungeva allora il signor Maurizio, affannato, grondante di
sudore, con una sporta tra mani.

--Ecco;--diss'egli, senza pure avvedersi della presenza del
generale;--vedete se c'è tutto quello che avete ordinato.

--Siate benedetto!--rispose il dottore, mettendo mano alla sporta, e
traendone fuori l'uno dopo l'altro parecchi involtini, boccette ed
arnesi di varie forme.--Anche del cognac! egregiamente;--soggiunse,
prendendo una bottiglia di vecchio Martel, e versandone alcune gocce in
un piccolo cucchiaio, che accostò subito alle labbra dell'inferma.

Il generale si buttò nelle braccia di Maurizio, mescolando lagrime e
ringraziamenti. Maurizio, a tutta prima confuso, accolse in silenzio
quella dimostrazione affettuosa, che sentiva di meritar così poco. Ben
presto la loro attenzione fu rivolta alla povera giacente. Le gocce
dello spiritoso liquore l'avevano rianimata un tratto. Ma il respiro era
quasi impercettibile, e si sentivano appena i battiti del cuore.
Raccomandato a Biancolina di strofinar lei le braccia e il seno
dell'inferma, il dottore aveva messo mano ad altri apparecchi, per farle
alcune iniezioni ipodermiche di etere e di liquore anisato di ammonio.
Era di una operosità portentosa, il bravo dottore. Trovò anche modo di
applicare qualche vescicatorio volante, determinato con ammoniaca
liquida concentrata. Oramai, la sporta di Maurizio gli permetteva
quell'abbondanza di tentativi. E ci volevano tutti, proprio tutti, per
far riavere la povera donna. Respirando sempre a stento, aperse gli
occhi e li girò lentamente intorno; riconobbe il generale, allora, e con
un fil di voce proferì il nome di lui.

--Ettore!...

--Oh, Gisella, figlia mia!--gridò egli, precipitandosi alla sponda del
letto e dando in uno scoppio di pianto.

--Via, via! gli uomini non ridiventino bambini!--disse il dottor Soleri,
intromettendosi coll'autorità del suo ministero.--Generale, lasciate
fare; non turbiamo con queste commozioni il poco che si è potuto
ottenere finora.

--Avete ragione;--disse il vecchio, ritraendosi;--obbedisco. Ma voi
salvatela, dottore, salvatela!--

E andò singhiozzando a sedersi in un angolo, accanto a Maurizio, che si
era buttato là sopra una scranna, con gli occhi a terra, senza parole,
senza lagrime. Poco stante giungeva la contessa Albertina che avevano
fatto chiamare i Feraudi. La mite e buona signora del Castèu, col
pronto coraggio silenzioso che è tutto delle donne, prese subito il suo
posto d'infermiera accanto al vecchio dottore.

Passarono due ore di terribile angoscia per tutti. Il respiro
dell'inferma si era fatto più lento: appena dieci respirazioni al
minuto. Il dottore credette necessario di avvertire che non aveva più
speranze. Veramente, non ne aveva avute mai, dal momento ch'era stato
chiamato. Ma parlava così per trarne occasione di consigliare che si
mandasse pel prete, se pure i conforti religiosi fossero per piacere
alla famiglia. Albertina conosceva l'animo di Gisella: si affrettò a
condurre il generale fuori della camera, per dirgli il parere del
medico, e insieme il suo consiglio, che non poteva essere disforme dal
desiderio della malata.

--Tutto ciò che vorrete;--rispose il vecchio gentiluomo, stringendosi i
pugni alla fronte.--Se Dio facesse un miracolo! Credete voi che lo
farà?--

Albertina levò gli occhi al cielo, e uscita di là spedì subito ad
avvisar l'arciprete di San Giorgio.

Mezz'ora dopo don Martino era giunto, con la cotta, la stola e la
pisside, involta nel suo copertoio di seta. Dio entrava con lui; si
ritirarono tutti. La giacente accolse don Martino con un lampo dagli
occhi e un sorriso. Certamente aspettava quel momento. Ma non aveva
forza di parlare, per confessarsi; don Martino parlò per lei; all'invito
del confessore, una lieve pressione di mano, un lieve cenno delle
labbra, doveva dire il pentimento delle colpe. L'assoluzione fu pronta,
e pronto del pari fu il rito che univa quell'anima a Dio. Un senso di
beatitudine si diffuse allora sul volto cereo della morente. Il medico
poteva rientrare, e tutti gli altri con lui.

Il generale era rimasto nella cucina, seduto presso la tavola, con le
braccia ripiegate sulla lastra e il volto ascoso nelle braccia. Doveva
essersi assopito; non si era mosso, infatti, nè alla partenza di don
Martino, nè all'andare e venire degli altri.

Maurizio entrò a sua volta nella camera, e si accostò al letto di
Gisella. Non poteva più resistere al desiderio di vederla ancora. Il
medico e Albertina stavano a' piedi del letto, preparando una pozione,
ed egli fu solo un istante al capezzale. Gisella aveva gli occhi
semichiusi; lo vide, lo riconobbe, e fece uno sforzo per proferire
qualche parola. Non fu che un soffio, per altro; ma egli intese quel
soffio.

--Dio perdona;--diss'ella.

--Oh! perdoni a tutti;--rispose Maurizio.

Gisella aveva mossa la mano; ed egli aveva presa quella mano. Gisella
allora volse gli occhi, come invitandolo a seguire il suo movimento; ed
egli pure volse gli occhi dove ella accennava. Ah! che voleva dir ciò?
Maurizio rabbrividì, mentre un sudor freddo gli bagnava le tempie.
Dall'altra banda del letto, il frate! ancora il frate! Ma egli aveva il
cappuccio calato sulle spalle; la testa del padre Anselmo appariva
intiera, luminosa; l'aspetto era benevolo, la mano era stesa in atto di
benedire.

Maurizio s'inchinò umiliato, e lasciò la mano di Gisella. Quando rialzò
gli occhi non vide più il monaco. La visione era sparita. Gisella
sorrideva ancora, e cercava con gli occhi, pareva domandar qualche cosa,
o qualcheduno.

--Chi?--disse Maurizio--il dottore?

Ella fece un cenno di diniego col capo.

--Il generale?--rispose Maurizio.

Il capo e gli occhi di Gisella accennarono di sì.

Maurizio si mosse sollecito, e andò dal generale, che era ancora
assopito. Scosso da lui, il conte Ettore si destò in soprassalto.

--Morta?--esclamò egli, rabbrividendo.

--No, generale; vi chiede.--

Il vecchio gentiluomo accorse, e si chinò con atto affettuoso verso di
lei. Gisella guardò il marito, lo guardò lungamente; poi si sforzò di
sorridergli. Schiantava il cuore, quel triste sorriso. E volle parlare,
la povera creatura; ma non le venne più fatto. Maurizio, che vide
l'atteggiamento di quelle labbra scolorate, Maurizio che ne colse una
sillaba, intese ciò che la morente voleva dire al marito. E si ritrasse
ancora, premendosi il pugno al cuore, che pareva volesse scoppiargli in
quel punto.

--Ah!--pensò egli.--Perdono! sempre perdono! Chi perdonerà a me il mio
delitto?--

Il rantolo crescente diceva che gli ultimi momenti si avvicinavano. Il
medico tentò ancora di richiamare quella povera vita fuggente: ma
l'etere non valse più a prolungarle l'agonia. Erano paralizzate le
contrazioni del cuore; le respirazioni non più di sei al minuto.
Albertina s'inginocchiò presso la sponda del letto, pregando. Anch'egli
inginocchiato, il conte Ettore copriva la mano di Gisella delle sue
lagrime silenziose. Quella mano a grado a grado si raffreddò tra le sue.
Era cessato il respiro, cessato il movimento del cuore; un placido
sorriso si era diffuso sulle labbra di Gisella. Le ombre del crepuscolo
incominciavano ad invadere la stanza, viva ancora di mormorate
preghiere, di mal rattenuti singhiozzi, e la bella creatura si era
spenta dolcemente, addormentata con Dio.

Quella sera fu un gran pianto a San Giorgio. È dolore, è rammarico
profondo in ogni paese, quando muore una bella donna, quando sparisce
per sempre una di quelle figure in cui eravamo avvezzi a vedere la
divinità in forma terrena. Ma nel paese di San Giorgio la contessa
Gisella non era soltanto ammirata per la sua grande bellezza; era anche
amata per la sua grande bontà. Dopo che l'avevano veduta entrare in
chiesa, quei buoni alpigiani la consideravano una santa, e non
dubitavano punto ch'ella non fosse per convertire alla fede il marito.

L'incredulità del conte Ettore ebbe ancora in quel giorno uno scatto; e
fu quando vollero allontanarlo di là, facendogli intendere che tutto era
finito. Alla contessa Albertina che con delicatissimi modi cercava di
condurlo fuori, trovando per quello sventurato le parole del cuore, egli
rispondeva feroce:

--Ah, la vostra religione! la vostra religione è una grande menzogna. E
voi, con le vostre divozioni, l'avete uccisa; coi vostri digiuni, coi
vostri scrupoli, coi terrori del vostro inferno l'avete assassinata.--

Albertina chinò la fronte, in atto di rassegnazione sublime. Poi
dolcemente, quasi umilmente, gli disse:

--Il vostro dolore è legittimo, è sacro. Ma pensate, signor conte, che
un angelo è salito in cielo a pregare per voi.--

Il conte Ettore fu atterrato da quella calma risposta; ed anche si pentì
d'aver parlato con tanta durezza.

--Perdonate;--le disse.--Voi che credete, siete angeli in terra.--

Quella sera la contessina di Vaussana ebbe testa per tutti. Fatta
preparare una lettiga e adagiare sovr'essa la sua morta amica, la fece
trasportare nella notte alla Balma. Triste convoglio a lume di luna;
triste ritorno della povera Gisella alla dimora de' suoi padri, dond'era
uscita il mattino con tanta gioia nell'anima, così fiorente di salute e
di bellezza! La riposero nel suo letto; la sua stanza, tutta ornata di
fiori e di doppieri, fu tramutata in camera ardente. Tre giorni la salma
fu lasciata colà, assiduamente vegliata dai suoi, e dagli amici della
famiglia, che si davano la muta. Così era adempiuto un desiderio della
morta, a cui l'immediato trasporto della salma al camposanto era sempre
parso un atto irriverente e crudele.--Io non intendo,--aveva detto essa
tante volte,--io non intendo, quando uno muore, che smania sia quella
dei cari congiunti di levarselo subito dagli occhi. Temono forse che non
sia morto davvero, e che possa da un momento all'altro riaprire i suoi
alla luce?--

Ma per lei non c'era più dubbio. Al terzo giorno un indugio maggiore
sarebbe stato irriverente e crudele come una più pronta levata. La
povera Gisella fu composta nella bara, e molti fiori scesero a dormire
con lei nel chiostro della chiesuola patronale, dove già riposavano
tante castellane dei Matignon della Bourdigue.

Maurizio s'era preso il carico di tutti quei funebri uffizi. Non aveva
lagrime; era come istupidito; pareva tranquillo. Anch'egli aveva
vegliate le due notti nella camera ardente, a due passi dal generale,
che restava là, col capo tra le braccia ripiegate sulla spalliera d'una
seggiola, muto, immobile, assopito nel suo dolore. La prima notte il
vecchio non aveva notata la presenza di Maurizio: si avvide di lui sul
finire della seconda, all'atto che fece Maurizio di andare a
raddrizzare un torcetto.

--Voi?--gli disse sottovoce.--Perchè non siete andato a riposare?

--Lasciarvi solo?...--balbettò Maurizio.--

Il generale tentennò la testa, e trasse un sospiro.

--Non lo sono io forse, e per sempre?--esclamò.--Ho perduta la poesia
della mia vita; ho perduto il mio Dio.--

E diede in un pianto dirotto. Poteva piangere, quell'uomo. Maurizio no.
Perchè? Egli ne sentì una rabbia sorda, profonda nel cuore. E crescendo
questa, e montando, come fa certe volte, dal cuore alle labbra, volle
dire a quell'uomo: vi ho ingannato. Sarebbe stata un'espiazione. Aveva
il coraggio fisico di farlo; gli venne meno il coraggio morale. Infine,
il dire a quell'uomo: vi ho ingannato, non sarebbe stato un confessargli
altresì: ella vi ha ingannato?

Ed era là, sempre là; accanto a quell'uomo, per non lasciarlo solo nel
suo dolore. Il giorno dopo la morte di Gisella si era telegrafato al
Dutolet, che si trovava allora di guarnigione a Saumur, sperando che
potesse ottenere una licenza straordinaria, per venire ad assistere il
suo vecchio comandante. Il Dutolet possedeva tutta la fiducia del conte;
conosceva i suoi interessi; poteva essere di un prezioso aiuto al suo
generale, che oramai non pensava più a nulla; vera rovina d'uomo e
d'intelligenza!

Maurizio era andato un mattino a cercarlo. Il conte non si vedeva al
pianterreno, ed egli salì al primo piano, andando di camera in camera,
fino alla stanza di Gisella. Era di casa, allora più che mai; nessuno
poneva mente al suo andare per ogni verso, là dentro. In quella stanza,
del resto, egli entrava ogni giorno, restandoci lunghe ore in compagnia
del padrone di casa, muti ambedue. La stanza, tolti da tre giorni i
funebri apparati, era vuota e fredda; per le finestre aperte penetrava
la luce grigia d'una giornata nuvolosa. Il letto, il piccolo letto sotto
un gran padiglione di stoffa azzurra operata, con trine di vecchio oro,
si vedeva diligentemente rifatto, come se aspettasse ancora la sua dolce
signora. A capo del letto, sulle grandi pieghe della cortina, pendeva in
isporto una tavola antica, donde una bella Madonna di Ludovico Brea,
forse il capolavoro del buon pittore nizzardo, chinando amorosamente la
testa sul divino infante, sembrava covare, coi grandi occhi neri, il
capezzale della contessa.

Entrato in quella camera triste, Maurizio provò un'altra volta il senso
di mancamento che lo assaliva sempre colà, più profondo che altrove.
Quanto tempo vi rimase meditando? Non lo seppe egli, che oramai non
contava più il tempo, nè più badava ai proprii atti. Entrò ad una
cert'ora il conte Ettore, e non parve avvedersi della presenza di
Maurizio; nè questi si mosse per lui dall'angolo in cui era seduto. Era
sempre così, tra quei due. Il generale andò risoluto verso il piede del
letto, s'inginocchiò, ascose la faccia sulla balza della coperta di
seta; e rimase là, in atto di preghiera, singhiozzando. Maurizio sentì
una stretta al cuore; gli parve di soffrir mille morti, mentre
quell'uomo piangeva e pregava, ed egli non poteva pregare nè piangere.
Soffriva ancora pensando che le labbra di quell'uomo baciavano il
tessuto morbido su cui tante volte si era posata la mano di Gisella; e
così soffrendo sentì l'odio antico montar su, montar dal cuore alla
gola. Maurizio in quei giorni faceva paura; non lo sapeva, perchè non si
guardava più, non badava più a sè; ma era diventato uno spettro. Lo vide
il generale, quando si alzò; lo vide, lo fissò lungamente negli occhi,
fissato lungamente egli pure da quegli occhi lucenti nell'ombra, e gli
disse con accento di stizza:

--Tu soffri dunque più di me?--

Maurizio rabbrividì involontariamente alla domanda improvvisa. Era anche
la prima volta che quell'uomo gli dava del tu. Non si mosse, tuttavia;
non rispose; seguitava a guardare.

--Mi annoi;--riprese il vecchio, cedendo ad un moto repentino di
collera.--Va' via.--

Fremette quell'altro, sentendo l'offesa. E si alzò, guardandolo ancora,
guardandolo sempre. Una frase, la frase, la terribile frase, voleva in
quel punto venirgli alle labbra. Già apriva la bocca; già stava per
proferirla, mentre il vecchio pareva aspettarla, e aspettandola gli
s'illuminavano d'una strana luce gli sguardi. Ma quella luce si spense
ad un tratto; le palpebre si abbassarono, si chiusero violentemente, e
la fronte del vecchio si scosse, come in atto di scacciare a forza un
pensiero molesto.

--No, no!--gridò egli con piglio furibondo, con accento disperato.--Va'
via! va' via! va' via!--

Maurizio raccapricciò, al pensiero di ciò che stava per fare. Chinò la
testa, come dicendo a sè stesso: ha ragione; ed uscì dalla stanza,
mentre quell'altro, non istando più alle mosse, prendeva a misurare con
passi concitati il pavimento. Scese le scale, fuori di sè dall'ira, dal
rimorso, dalla vergogna: sarebbe giunto fuori dell'atrio senza vedere
nessuno, se proprio sul limitare il passo non gli fosse stato impedito.

Era un gran movimento, laggiù: i servi affacciati sull'ingresso; un
facchino che entrava allora, con una grossa valigia sulle spalle; dietro
a lui, ancora sulla gradinata, un bagliore di larghi e lunghi calzoni
rossi. Maurizio riconobbe il comandante Dutolet, arrivato in quel punto,
ancora in piccola divisa di capo di battaglione. Non poteva evitarlo.
Del resto, perchè lo avrebbe evitato? Veniva a dargli la muta; veniva
proprio in buon punto, mentre egli smontava la sua guardia, e per
sempre.

Il buon ragno, come lo chiamava Gisella, non gli fece dimostrazioni di
tenerezza. Erano sempre stati, l'uno verso dell'altro, nei termini di
una fredda cortesia. Un cenno del capo, una frase a mala pena
incominciata, che volesse dire e non dire, dovevano essere più che
bastanti. Maurizio, per altro, nel passargli daccanto, aggiunse poche
parole di ripiego, che nella gravità del momento potessero giustificare
la freddezza dell'incontro, agli occhi della gente di servizio.

--Il generale--diss'egli--ha gran bisogno di voi.

--Lo penso;--rispose l'ufficiale, facendo un breve saluto cerimonioso.

Maurizio s'incamminò sulla spianata, verso il gran viale de' tigli.
Oramai, per ritornare al Castèu, come per venire alla Balma, non passava
più dal sentiero della montagna. «Lo penso» andava intanto ripetendo tra
sè: «Lo penso!» E pensò egli pure; pensò che il Dutolet aveva ragione
anche lui, se pensava che egli, Maurizio, non fosse il miglior compagno
di lutto per il vecchio castellano della Balma.



CAPITOLO XIX.

Rovine!


Giunto al Castèu senza neanche vedere la strada, simulò un mal di capo
fortissimo, intollerabile. Effetto di grande stanchezza, soggiungeva
egli; passerà con qualche ora di riposo. La stanchezza era più che
giustificata da tante veglie, da tante commozioni, sostenute pei suoi
amici della Balma. In casa volevano fargli prendere qualche ristoro; ma
egli ricusò asciuttamente ogni cosa; voleva dormire, dormire, e
nient'altro. Andato a rinchiudersi nella sua camera, si buttò vestito
com'era sul letto, e si addormentò. Certamente era stanco; la natura
voleva la parte sua. Ma se il corpo dormiva, la mente vegliava, la mente
torbida di dolorosi pensieri. Stette lunghe ore sul letto, in apparenza
inerte, ma col cervello sconvolto, agitato da sogni pazzi, da visioni
terribili, da incubi spaventevoli. La montagna gl'incombeva sull'anima;
la cascata dell'Aiga aveva gran parte nelle visioni del dormente.
Cantava l'abisso, invitandolo; ed egli e lei si precipitavano
abbracciati nel baratro. Ah, meglio sarebbe stato il morire così, tutt'e
due, in un punto, che non quello spegnersi lento e doloroso di lei, e il
sopravviver codardo di lui. Perchè viveva egli ancora? perchè il cielo
non aveva pietà? perchè lo condannava a star lì, ancora e sempre,
sospeso ad un filo? L'idea del suicidio, ultimo scampo ai terrori, non
gli era venuta fino a quel punto, neanche nel sogno. Perchè? forse
perchè lo stato suo era tutto d'inerzia, non di ribellione al dolore. Si
sentiva palleggiato, travolto di visione in visione, mezzo addormentato,
mezzo desto, tra la incertezza e la coscienza di sè. Sopra tutto,
sentiva un grande stiramento delle fibre del cervello, che parevano
volersi tutte spezzare, e non si spezzavano mai. Ad un certo punto si
vide ancora ammalato, col ghiaccio alla testa, vaneggiante, delirante,
colla gente attorno, che ascoltava tutte le sue parole, che coglieva a
volo tutte le confessioni a lui strappate dalla febbre. E quell'uomo lo
aiutava a parlare, gli levava le parole di bocca, compiva egli le frasi
che non uscivano intiere; la povera creatura adorata si torceva nello
spasimo, si copriva la faccia con le palme, negava, fuggiva disperata
dalle unghie del vecchio; ed egli, trattenuto, inchiodato là dal suo
male, non poteva muovere al soccorso. Che orrore! e quell'altro l'aveva
afferrata pei capelli; alzava la mano, armata d'un coltello, e feriva,
feriva a colpi replicati. Il sangue scorreva, allagava il terreno,
cresceva, cresceva, ed egli ci diguazzava per entro. Che orrore! Volle
uscirne, uscirne ad ogni costo, scivolando, lordandosi di quel sangue,
bevendolo, bruciandosi il cuore. E si destò in soprassalto, non vedendo
nulla, ma sentendosi nel suo letto, e udendo battere, batter forte, a
replicati colpi, all'uscio di strada. Quei colpi rintronavano
sinistramente nella oscurità della notte.

Balzò dal letto e corse ad aprir la finestra. Un barlume di luce
bianchiccia appariva da levante. Potevano esser le tre del mattino. Chi
batteva frattanto? Si affacciò, per domandare, mentre un'altra finestra
si apriva al piano inferiore.

--Son io.... Filippo;--rispose una voce dal piazzale.

Filippo era il nome di uno dei servitori della Balma.

--Che c'è? che volete?--chiese Maurizio, riconoscendolo.

--Il generale....--ripigliava quell'altro, con voce rotta
dall'affanno.--Signor conte, il mio padrone sta male, molto male. Venga
per carità. Son già passato dal medico, che si è vestito subito; a
quest'ora è già in cammino.--

Maurizio lasciò il davanzale, e al fioco albore che penetrava nella
camera, andò verso l'uscio. Era vestito tuttavia; poteva correre
senz'altro. Sul pianerottolo, con un lume tra le mani, si affacciava
allora allora il suo servitore, che veniva ad offrirgli l'opera sua.

--Signor conte,--gli disse il servitore,--non vuole almeno cambiarsi? Ne
avrà bisogno, mi pare; perchè senza spogliarsi è andato a letto: e ieri,
e l'altra notte non ha fatto che dormire. Sarà anche necessario che
prenda qualche cosa.

--No, no, impossibile; non c'è tempo da perdere.--

Così dicendo, Maurizio infilava la scala. Al piano inferiore trovò
illuminato il salone. Una figura di donna, in accappatoio bianco, veniva
incontro a lui. Gli parve di veder Gisella, e tremò tutto: ma si riebbe
tosto, riconoscendo Albertina.

--Oh Dio!--diss'ella.--Sempre disgrazie?

--Sorella mia,--rispose tristemente Maurizio,--è questo il tempo.
Pregate per chi n'è stato cagione.--

La contessina chinò gli occhi lagrimosi, appoggiandosi alla parete. Era
profondamente commossa, la pietosa donna, e bene intendeva ciò che
volesse dire suo fratello in quel punto. Egli passò, scese rapidamente
nel vestibolo, e aperto il portone uscì fuori. Andava a bruzzico,
vedendo abbastanza la strada; non badando, per altro, che passava pel
sentiero della montagna. Se ne avvide, al rabbrividire che fece,
sentendo sulla sua testa il fragore della cascata.

Che orrore! che orrore! E ad un certo punto, udendo dietro a sè un
rumore di passi, un rumore tanto più incalzante quanto più egli correva
veloce, pensò che uno spettro lo inseguisse. Di certo, le visioni e gli
incubi di quelle trentasei ore passate non lo avevano ancora abbandonato
del tutto. Fermatosi, col coraggio della disperazione, vide Filippo, che
lo seguiva ansimando.

--Signor conte,--gli disse il brav'uomo,--è difficile seguirla. Pare che
abbia le ali.--

Giunto alla Balma, trovò tutta la casa in trambusto. Ascese le scale
volando, come diceva Filippo; seguito da lui entrò nell'appartamento del
generale. Il medico Soleri stava già nella camera. Si volse,
all'apparire di Maurizio, e crollando malinconicamente la testa, gli
disse:

--Sono giunto anch'io troppo tardi.--

Maurizio si avvicinò al letto del generale. Il vecchio gentiluomo era
là, disteso, irrigidito, livido, con gli occhi semiaperti, la bocca
fortemente contratta da un lato; fiero ancora nell'aspetto, orribile a
vedersi nella torva guardatura di quegli occhi stravolti.

Com'era andata? I servitori raccontarono. Il generale si era ritirato
nella sua stanza alle dieci di sera. Nella notte, intorno alle due,
aveva suonato. Filippo che dormiva poco distante da lui, era accorso; ma
il suo padrone non aveva potuto dirgli perchè avesse suonato; rantolava,
agitava un braccio, come in atto di chieder soccorso. Spaventato, il
servitore si era affrettato a svegliare il comandante Dutolet e tutti
gli altri della casa: poi, mentre essi cercavano di soccorrere il
generale, dandogli a bere qualche goccia di liquore, spruzzandogli
d'acqua il viso ed il petto, egli, Filippo, era corso a precipizio in
paese per avvertire il medico, per avvertire il conte di Vaussana.

Nè altro c'era da dire. Qualcheduno, alla rapidità fulminea di quella
morte, aveva sospettato un suicidio. Non potendo sopravvivere alla
contessa, aveva egli forse ingoiato un veleno? Ma così non la pensava il
dottore, osservando tutti i segni di una apoplessia per congestione
cerebrale. A questa fine il conte Ettore era predisposto dall'età, dalla
vita sedentaria, contro cui il medico stesso aveva già protestato più
volte. Causa prossima del triste caso non poteva essere che un patema
d'animo sopraggiunto in quei giorni: e c'era stato pur troppo, il patema
d'animo, violento, manifesto, innegabile, nella morte della moglie
adorata: quello, e non altro, il veleno.

Maurizio lo sapeva bene, lo conosceva anche meglio del dottore, il
veleno che aveva ucciso quell'uomo. E cadde senza far parola, sul
seggiolone a piè del letto, rimanendovi accasciato, assorto ne' suoi
negri pensieri. Quante rovine intorno a lui, e per cagion sua, per colpa
sua! Il destino.... Si accusa facilmente il destino degli errori degli
uomini. Ed era lui, Maurizio, conte di Vaussana, nel cui scudo era
inciso il motto «_tout droict Sospel_», lui, il cavaliere senza
macchia, il credente, il virtuoso soldato, che aveva fatto tutto ciò?
che aveva portata la maledizione in quella calma dimora, alta nella
stima degli uomini come era elevata sul colmo del monte, in quel nobile
asilo della grazia disposata all'onore?

Il dottore voleva ridiscendere in paese per fare la sua dichiarazione.
Invitò il signor di Vaussana a seguirlo.

--No, grazie, rimango ancora;--rispose Maurizio.--Non ho forza di
muovermi. Veglierò questo cadavere, come ho vegliato quell'altro.--

E chinò la testa sul petto, mentre il dottore usciva dalla stanza. Ma,
subito dopo, un uscio dall'altra parte si aperse, e Maurizio sentì che
il Dutolet stava per comparire. Alzò la fronte, e vide infatti
l'ufficiale, che usciva dallo studio del conte Ettore, grave, rigido
come sempre, ma più severo, più accigliato del solito.

--Il dottore?--disse il Dutolet, volgendogli a Filippo, che era rimasto
in mezzo alla camera.

--Esce adesso, signor comandante.

--Richiamatelo; debbo pregarlo di un favore.--

Il medico era ancora sulla scala; richiamato dalla voce di Filippo,
ritornò subito nella stanza.

--Io non ho pratica degli usi e delle leggi di qui;--disse allora il
Dutolet.--Vogliate chiamar voi, signor dottore, le autorità competenti.
Ho trovato or ora sulla scrivania del generale il suo testamento. È
suggellato; sono autorizzato ad aprirlo; non lo farò senza testimoni.--

Il dottore s'inchinò, e partì, promettendo di ritornare al più presto
possibile.

Maurizio in quel punto si alzò. Il Dutolet lo scorse allora, e non potè
trattenere un gesto d'ingrata maraviglia. Se ne avvide Maurizio; ma non
aveva da offendersi per così poco.

--Egli aveva lasciata una lettera per voi?--domandò, indicando un foglio
che l'ufficiale teneva ancora aperto tra mani.

--Sì, per me, che pure mi ritrovavo a pochi passi da lui; rispose
l'ufficiale. Povero conte! come ha dovuto soffrire, scrivendola!--

E guardava il signor di Vaussana con piglio severo. Maurizio si volse a
guardare dietro di sè. Non c'era nessuno; anche Filippo era uscito. Egli
allora, cedendo ad un impulso repentino dell'anima, si accostò
all'ufficiale, e a voce bassa, ma con accento vibrato, incominciò:

--Signor Dutolet, siete voi sempre di quella rara perizia nelle armi,
che io ho ammirata altre volte?--

L'uffiziale rizzò la testa, e squadrando il signor di Vaussana dal capo
alle piante, gli domandò:

--Che cosa volete voi dire?

--Voglio chiedervi,--rispose Maurizio, non mutando voce nè accento,--se
a venticinque passi, come facevate due anni fa, a venti, a quindici,
come vi pare, sareste sempre capace di mettere una palla nel bersaglio,
senza puntare, guardando magari in aria, alzando appena il braccio, e
portandolo automaticamente in linea.--

L'ufficiale guardò un istante negli occhi il signor di Vaussana; poi,
senza batter ciglio, replicò brevemente:

--Sì.

--Sta bene;--disse Maurizio.--E quando?

--Oggi il dovere;--rispose l'ufficiale.--Domattina, se vi piace.--

Si salutarono freddi, e Maurizio partì.

Finalmente! finalmente! per quella volta egli si sentiva liberato d'un
gran peso. Ah, la vita, che molesto fardello! E così, senza troppa
fatica, per la mano del buon ragno.... Ma sì, era ancora un modo di
accostarsi a Gisella. Scese a passi più calmi il gran viale dei tigli;
uscì tranquillo, quasi ilare, dal cancello. E perchè no? Voleva infatti
esser ilare, parerlo a tutti, in paese; che il giorno dopo, risapendo
una certa notizia, non avessero i maligni a metterla d'accordo con la
sua cera da funerale. La sua vigilia non doveva esser triste: non è mai
triste il soldato, il cavaliere, quando va a gittar la sua vita.
Sorrise, adunque, sorrise a quanti incontrava per via, sorrise perfino
al Pinaia, al panattiere arpagone, che gli rammentava i Feraudi. Anche
da quei poveri contadini del Martinetto voleva andare, quel giorno.
Voleva veder tutto, visitare tutti quei memori luoghi. Non aveva più
terrori nell'anima; sarebbe andato lassù, a pregare, a pensare nella
cameretta dove si era spenta Gisella; ed anche nel rifugio, sul
torrione, dove la bella creatura adorata gli era caduta come morta fra
le braccia, alla vista del frate. Ah, il frate! una allucinazione; egli
lo sentiva bene, oramai, di aver veduto ciò che Gisella vedeva, e
solamente perchè, sotto la sensazione di un alto spavento, le braccia
dell'amata donna si erano avvinghiate al suo collo. Anche là, nella
camera di Biancolina, non si era ripetuto il fenomeno, per il fatto che
la mano di Gisella aveva stretta la sua, e gli occhi di lei lo avevano
guidato a vedere ciò che ella vedeva? Quanti arcani, del resto, quanti
misteri nella vita! e come l'invisibile d'ogni parte ci preme!

Passava in quel punto sulla piazza maggiore. Voltato l'angolo della
chiesa, entrava nella via che metteva al Castèu. Un monaco, un frate
cappuccino era là, davanti a lui di cinque o sei passi; muoveva lento,
curvo, quasi piegato in due, rasentando il muro, come egli già lo aveva
veduto una volta, passando di là con Gisella. Ma che? non poteva essere
un altro? Maurizio affrettò il passo per raggiungerlo; gli venne a pari,
l'oltrepassò, e si volse a guardarlo. Quell'altro alzò allora la faccia,
e Maurizio lo riconobbe. Era lui, il padre Anselmo da Carsoli.

--Frate, che tu sia maledetto!--gli gridò inferocito
Maurizio.--Domani.... domani non ti vedrò più.--

Il frate era sparito. Ma non così presto, che alla maledizione del
signor di Vaussana non avesse risposto levando la mano benedicente;
benedicente, come l'aveva veduta Maurizio, al letto di morte della
povera bella.



CAPITOLO XX.

Tra Cielo e Terra.


Quel giorno, presso alle cinque del pomeriggio, mentre già si disponeva
a scrivere una lettera per chiedere concerti al comandante Dutolet, il
signor di Vaussana ricevette un biglietto del suo avversario, che lo
aspettava al caffè di San Giorgio. Intese subito che lo stesso pensiero
suo era venuto a quell'altro, ed uscì per andare da lui.

Si salutarono come due buoni amici, essendoci persone a qualche
distanza, che potevano vedere e notare ogni cosa. Dopo di che il
Dutolet, con molta calma e con altrettanta serenità, quasi con grazia,
parlò in questa guisa a Maurizio:

--Signor conte, voi eravate molto afflitto, questa mattina, e per
conseguenza un po' alterato. Anch'io, quanto voi, ed avevo ragione di
esserlo. Possiamo noi dimenticar le parole che ci siamo scambiate?

--No;--disse Maurizio.

--Era mio dovere di domandarvelo;--replicò il Dutolet, facendo un mezzo
inchino.--Resta che c'intendiamo sull'ora e sul luogo.

--Domattina, si era detto;--disse Maurizio.--Di là da quella montagna,
sulla vostra diritta, ce n'è un'altra, detta la Sisa. Risalendo dalla
cascata dell'Aiga, ci si va di prateria in prateria. Lassù, al lembo
dell'ultimo di quei prati, è il confine. Vi accomoda?

--Sì,--rispose il Dutolet.--Portiamo testimoni?

--Nessuno.

--Come vi piace. Ma uno di noi due non isfuggirà all'imputazione di
assassinio.

--Ci ho provveduto,--rispose Maurizio,--scrivendo una dichiarazione in
due originali. Firmerete anche voi. Eccoli appunto.

--Avete proprio pensato a tutto;--esclamò il Dutolet, prendendo i due
fogli, a cui appose la sua firma colla matita.--Dunque lassù, al piano
della Sisa. Ci sarò alle sei del mattino. Ma intendiamoci
bene;--soggiunse egli;--senza vergogna d'un po' di ritardo che si
potesse fare dall'uno o dall'altro di noi.

--Giustissimo;--disse Maurizio.--Del resto, io m'incamminerò per
tempissimo. Di sopra l'Aiga si vede la Balma; io vi vedrò sempre salir
la montagna.--

Presi questi concerti si separarono. Maurizio si avviò verso casa. Non
trovò sua sorella Albertina, e gli spiacque.

Si sente in cuore così facilmente, così naturalmente, il bisogno di
stare un po' vicini alle persone che si amano, quando si è sul punto di
separarci da loro per sempre! Chiese di lei alla gente di servizio: era
uscita, gli dissero; forse per far qualche visita. Non già alla Balma,
pensò egli allora, poichè lassù era andata prima del meriggio, a pregare
sulla salma del povero conte Ettore. In paese, dunque: ma il paese, per
piccolo che fosse, aveva ancora troppe case, troppe famiglie amiche e
conoscenti, tra le quali non poteva indovinare Maurizio, che salutava
tutti, ma non faceva visite a nessuno. Era in queste incertezze sulla
piazza maggiore: la chiesa si vedeva aperta, ed egli entrò in chiesa.
Avrebbe dovuto pensarlo prima; sua sorella stava là, al suo solito
posto, nella cappella di patronato della famiglia Sospello; stava là,
visibile ancora nella penombra della sera imminente.

Non era giorno di benedizione; ma la contessina soleva andare in chiesa
ogni giorno, o di mattina o di sera, salvo i casi d'impossibilità,
quando le cure domestiche, o i doveri della ospitalità, venissero a
frastornarla. Soleva dire che la casa del Signore riconcilia colla vita:
non per bigotteria, ma per riposare lo spirito, una visita anche breve a
quella casa è piacevole: là dentro, dopo tutto, si pensa meglio al buon
Dio.

Il gran crocifisso, unica maraviglia artistica della chiesa parrocchiale
di San Giorgio, torreggiava sopra l'altar maggiore, spiccando col suo
color cereo sul fondo scuro dell'abside. I piedi del martire sparivano
sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, che
s'intendeva benissimo esser legato al tronco della croce. Quelle rose
d'ogni colore, che davano all'augusto morente l'aspetto di un
trionfatore, erano l'offerta costante della contessina di Vaussana.
Quando il giardino del Castèu non aveva più rose in copia, erano gigli;
quando non aveva più gigli, si succedevano le azalèe, le peonie, le
giorgine, gli amaranti, gli astri, e tutti gli altri fiori della
stagione autunnale. Recava anche il suo tributo l'inverno; più scarso,
ma sicuro anche quello, essendo fiori di stufa.

La chiesa era deserta, e Maurizio non volle disturbar la sorella neanche
col rumore dei passi: perciò, appena entrato, si pose sull'ultima panca
a destra, sotto la grande navata. Era il posto di Gisella, quando
giungeva un po' tardi, e non volendo dare spettacolo del suo passaggio
lungo le arcate, s'inginocchiava umilmente lì, mescolandosi volentieri
alle povere donne del paese. Là dentro, finalmente, egli ottenne ciò che
da sei giorni desiderava invano. Si sentì d'improvviso stemperare il
cuore: senza sforzo, senza impeto, le lagrime gli scesero dagli occhi
giù per le guance, silenziose lagrime e fitte, come una pioggia
d'autunno. E in mezzo a quelle lagrime vide chiarori maravigliosi; tra
quei chiarori gli apparve la povera morta, tutta vestita di luce,
risalente entro una schiera d'angioli all'incontro del Dio di
misericordia. Allucinazione anche quella? Una voce dal profondo voleva
dirgli di no.

Rasciugò le sue buone lagrime, vedendo muoversi sua sorella Albertina.
Essa lo vide, passando; ed egli si alzò per accompagnarsi a lei.

--Pregavi?--gli chiese Albertina.

--Sì, per tutti;--rispose.

Tranquillissimo, quella sera, quasi sereno, ragionò lungamente di cento
cose con lei, evocando memorie infantili, facendo perfino castelli in
aria per i giorni che non sarebbero venuti. Non egualmente serena si
mostrava Albertina; ma la buona fata del Castèu aveva imparato nella
lunga solitudine a padroneggiarsi, a non lasciar troppo scorgere le sue
tristezze. Quando soffriva, soffriva dentro, e i sorrisi, come pallide
viole alpine, le fiorivano timidamente sul labbro.

Maurizio si ritirò nelle sue camere alla solita ora. Ebbe un sonno
profondo, senza visioni, senza incubi. Anche il cervello ha le sue calme
nei grandi momenti, come le ha il cielo innanzi la tempesta. Quando si
svegliò, erano le quattro del mattino. Si vestì senza fretta; sotto un
leggero pastrano che portava qualche volta per la nebbia, nascose la
busta delle pistole, e dall'uscio dell'orto si avviò verso la montagna.
Ad una certa distanza si volse, per guardare il Castèu, la vecchia
dimora dei suoi, la casa dov'era nato, e mandò un bacio alla sua buona
sorella che non avrebbe veduta mai più.

Non gli mancava il tempo; andò a passi lenti su per la ripida costa. Si
fermò anche un istante al borro, per sentir la cascata. Cantava, il gran
fascio delle acque scorrenti, cantava sempre la sua monotona canzone
all'abisso. Ma allora il signor di Vaussana sentì per la prima volta due
canti in uno. Tendendo l'orecchio, udiva attraverso il frastuono della
cascata un suono più sottile e più lontano, molle, ondeggiante, come una
salmodia di chiesa. Sorrise, ricordando che quel fenomeno di
sdoppiamento dell'udito gli era occorso spesso; in istrada ferrata, per
esempio, quando il fragore delle ruote, lo strepito, lo scricchiolìo
delle carrozze in moto, lascia intendere, a chi presti attenzione, un
suono lontano lontano, come di angeliche voci laudanti nello spazio. Non
era una allucinazione, quella; Maurizio conosceva il fenomeno, ancorchè
non sapesse darsene una ragione. Nondimeno, gli piacque di sentir quelle
laude lontane, attenuate via via, evanescenti nel profondo dei cieli.

Passato il gran salto dell'Aiga, superato il colmo del monte, dove le
acque correvano a guisa di ruscello, andò oltre, risalendo di prateria
in prateria, fino al piano della Sisa. Il comandante Dutolet non era
ancora arrivato: ma erano appena le cinque e mezzo; si poteva dunque
aspettare. Il buon ragno non volle del resto approfittare della scusa
che si era preparata; e Maurizio lo vide, alle cinque e tre quarti,
sbucare da una macchia di abeti, volgendo gli occhi di qua e di là, in
atto di orientarsi tra quei rialti verdeggianti che vedeva per la prima
volta. Maurizio sventolò il fazzoletto; il buon ragno lo vide, fece un
gesto di riconoscimento e si avviò più sollecito, allungando quel suo
paio di seste. Salutò, come fu vicino; Maurizio rese il saluto, e si
avviò ancora per fargli strada sopra un bel prato alto, incurvato a
guisa di sella tra due colmi di monte.

--Ecco il confine;--disse Maurizio.--Se voi andate trenta passi più in
là, siete sul vostro.

--Tra due patrie,--osservò il Dutolet, incamminandosi,--che piccola cosa
a vedere! e che gran cosa a pensare!

--Le più grandi cose son là;--soggiunse Maurizio, indicando su certe
creste montuose alcune linee biancheggianti.--Il vostro forte di
sbarramento è quello; il mio è quest'altro. Speriamo che tacciano
sempre.

--Ma parlando noi per essi, non è vero?--esclamò il Dutolet.

--Che farci?--ribattè Maurizio.--Volete che contiamo i passi?

--Avete detto a me di farne trenta, per essere sul mio;--rispose il
Dutolet.--Ne ho fatti trenta: accettiamo l'assegnazione del destino.
Ancora una volta io vi domanderò: non possiamo dimenticare le nostre
parole di ieri?

--No,--disse il signor di Vaussana,--vi ringrazio.--

E cavò dalla busta le sue pistole.

--Sono di misura eguale alle mie;--notò il Dutolet.--Tenga ognuno le
sue.--

Così dicendo, prese posizione di combattimento. Il signor di Vaussana lo
imitò.

--A voi;--diss'egli.

--A voi;--rispose quell'altro.

--Capisco;--disse allora Maurizio.--Si gareggia di cortesia. Spariamo al
comando, vi pare? Conteremo uno, due, all'unisono; al tre faremo fuoco.

--Sia pure;--rispose l'ufficiale.

L'uno e l'altro presero a contare; al tre due lampi s'incrociarono, e si
udirono simultaneamente due colpi.

Rimasto illeso, Maurizio guardò trasognato il suo avversario. Voleva
parlare, ma quell'altro lo precorse.

--Altro è tirar sul bersaglio, altro sull'uomo;--diss'egli.

--Puntando, sicuramente;--rispose Maurizio.--Ma voi tirate senza
puntare, e l'errore non è più possibile.

--Chi ve lo dice, signor di Vaussana?

--Ricominciamo, allora.

--No.

--No, voi dite? perchè? Comandante Dutolet, voi mi mancate di parola.--

Il comandante Dutolet s'inalberò a quella osservazione, che voleva
essere ingiuriosa. Ma poi crollò il capo, e rispose molto
tranquillamente:

--V'ingannate. Io non vi avevo promesso nulla. Mi avevate chiesto se
avessi sempre il mio colpo infallibile: vi ho risposto di sì. Ne
dubitate? Ecco là il vostro cappello sull'erba, un po' indietro a voi;
trentadue, forse trentatrè passi; guardate.--

Così parlando, assai lentamente, aveva levata dalla busta la seconda
pistola. Senza puntare, non facendo altro che alzare il braccio in
linea, colpì il cappello di Maurizio, che ruzzolò al colpo due passi più
in là.

--Vedete, signor conte?--ripigliò allora il comandante Dutolet.--Quel
che prometto mantengo. Se ieri mi aveste fatto giurare di uccidervi,
credete pure che non vi avrei mancato di parola. A me lo avevo promesso,
invece, a me solo. Che volete! un'idea; ed era ben salda nell'animo mio,
ieri mattina. Ma a me posso mancar di parola, sicuro del fatto mio. Ed
ho cambiato opinione.

--Voi siete crudele,--disse Maurizio,--ed io ho meritato lo scherno. Ma
qui ce ne ancor una delle mie;--soggiunse, chinandosi alla busta,--ed è
carica.

--Fermate!--gridò il Dutolet, avvicinandosi rapidamente.--Ho ancora
qualche cosa da dirvi. Signor di Vaussana, credete in Dio?

--Sì;--rispose Maurizio.

--E allora, perchè suicida? Aggiungete che non me lo son meritato neppur
io, questo infame spettacolo, dopo essermi esposto abbastanza
cortesemente al vostro fuoco. Ho pensato, ieri, ho pensato a lungo, e
l'ira mi è morta nell'anima. Voi pure, a vostra volta, pensate. C'è
stato un fallo, signor di Vaussana; un fallo che ha già cagionato due
morti; quel fallo, chi lo ha commesso? V'intendo; voi volevate punirlo
ora; avete il coraggio di far ciò. Ma non è il coraggio del valoroso,
quello a cui vi appigliate; e la pena, del resto, non avrebbe adeguato
il delitto. Non sapete voi d'una pena più grave, che è il vivere? Sì, il
vivere, lasciatemi finire il mio pensiero; il vivere vergognando, il
vivere soffrendo; il vivere tormentandosi, uccidendosi giorno per
giorno. È questo il suicidio sublime a cui vi condanno, nel nome di quel
vecchio onorato che dorme la sua gran notte oramai;--proseguì il
comandante Dutolet, alzando la voce dal tono grave al solenne.--Laggiù,
oltre quelle vette, a quattro leghe da Grenoble, dove io son nato, tra
montagne di difficile accesso, segregati dal mondo, in dura disciplina,
accanto ad uomini che non avendo fatto il male si son pure rinchiusi per
evitarlo, muoiono così di giorno in giorno molti infelici che hanno
fallito, che hanno fatto soffrire, che portano il peso dei loro
trascorsi. Meditando, tacendo, scavando con le loro mani la fossa che li
deve accogliere, aspri cavalieri del dolore, pregano per coloro che
hanno offesi; tristi e rassegnati, sospesi tra cielo e terra, attendono,
invocano, espiano.--


FINE.



INDICE.


  DEDICA                                Pag. IX

  I. Addio, bel mare!                         1

  II. Alla terra dei padri                   16

  III. Cortesie di buon vicinato             34

  IV. La disputa filosofica                  53

  V. Si viene alle grosse                    67

  VI. Sulla montagna                         84

  VII. L'idillio del Martinetto             100

  VIII. Celeste oblìo                       117

  IX. Sull'orlo dell'abisso                 128

  X. Il trattato di pace                    142

  XI. Rifugio spirituale                    155

  XII. Dal dubbio alla fede                 166

  XIII. L'impresa ecclesiastica             188

  XIV. Da Ceppo a Carnevale                 201

  XV. Padre Anselmo da Carsoli              213

  XVI. Cuori infermi                        237

  XVII. L'apparizione                       255

  XVIII. Povera bella!                      274

  XIX. Rovine!                              289

  XX. Tra Cielo e Terra                     300



Romanzi Italiani

EDIZIONI TREVES


  Adolfo =Albertazzi=.

      Ora e sempre                        1 --

      Novelle umoristiche                 1 --

      In faccia al destino                3 50


  Riccardo =Alt=.

      Uccidere o morire                   1 --


  Diego =Angeli=.

      L'orda d'oro                        3 50


  Luigi =Archinti=.

      Il lascito del Comunardo            1 --


  Massimo d'=Azeglio=.

      Nicolò de' Lapi. (2 vol.)           2 --

      Ettore Fieramosca                   1 --


  A. G. =Barrili=.

      Capitan Dodèro                      1 --

      Santa Cecilia                       1 --

      Il libro nero                       2 --

      I Rossi e i Neri                    2 --

      Le Confessioni di Fra Gualberto     1 --

      Val d'Olivi                         1 --

      Semiramide                          1 --

      Notte nel commendatore              4 --

      Castel Gavone                       1 --

      Come un sogno                       1 --

      Cuor di ferro e Cuor d'oro.
      (2 volumi)                          2 --

      Tizio Caio Sempronio                3 50

      L'Olmo e l'Edera                    1 --

      Diana degli Embriaci                3 --

      La conquista d'Alessandro           4 --

      Il tesoro di Golconda               1 --

      Il merlo bianco                     3 50

      La donna di Picche                  1 --

      L'XI comandamento                   1 --

      Il ritratto del diavolo             1 --

      Il Biancospino                      1 --

      L'anello di Salomone                3 50

      O tutto o nulla                     3 50

      Amori alla macchia                  3 50

      Monsù Tomè                          3 50

      Fior di Mughetto                    3 50

      Dalla rupe                          3 50

      Il conte Rosso                      3 50

      Lettore della Principessa           4 --

      Casa Polidori                       4 --

      La Montanara (2 vol.)               2 --

      Uomini e bestie                     1 --

      Arrigo il Savio                     1 --

      La spada di fuoco                   4 --

      Il giudizio di Dio                  4 --

      Il Dantino                          1 --

      La signora Àutari                   1 --

      La sirena                           1 --

      Scudi e corone                      4 --

      Amori antichi                       4 --

      Rosa di Gerico                      1 --

      La bella Graziana                   3 50

      Le due Beatrici                     1 --

      Terra vergine                       1 --

      I figli del cielo                   1 --

      La castellana                       3 50

      Fior d'oro                          1 --

      Il prato maledetto                  3 50

      Galatea                             1 --

      Il diamante nero                    1 --

      Raggio di Dio                       1 --

      Il ponte del Paradiso               3 50

      Tra cielo e terra                   3 50


  Ambrogio =Bazzero=.

      Storia di un'anima                  4 --


  Antonio =Beltramelli=.

      Anna Perenna                        3 50

      I primogeniti                       3 50

      Il cantico                          3 50


  Silvio =Benco=.

      La fiamma fredda                    1 --

      Il castello dei desideri            3 50


  Leo =Benvenuti=.

      Racconti romantici                  1 --

      Serenada, racconto sardo            1 --


  Vittorio =Bersezio=.

      La carità del prossimo              1 --

      Povera Giovanna!                    1 --

      Il debito paterno                   1 --

      Aristocrazia. (2 volumi)            2 --


  P. =Bettòli=.

      Il processo Duranti                 1 --

      Giacomo Locampo                     1 --

      Carmelita                           1 --

      La nipote di don Gregorio           1 --


  Alberto =Boccardi=.

      Cecilia Ferriani                    3 50

      Ebbrezza mortale!                   1 --

      Il peccato di Loreta                1 --

      L'irredenta                         1 --


  Camillo =Boito=.

      Storielle vane                      1 --

      Senso                               1 --


  Virgilio =Brocchi=.

      Le aquile                           3 50


  E. A. =Butti=.

      L'Incantesimo                       4 --

      L'Automa                            1 --


  Antonio =Caccianiga=.

      Il bacio della contessa Savina      1 --

      Villa Ortensia                      1 --

      Il Roccolo di Sant'Alipio           1 --

      Sotto i ligustri                    3 50

      Il Convento                         3 50

      Il dolce far niente                 1 --

      La famiglia Bonifazio               1 --

      Brava gente                         1 --


  Luigi =Capranica=.

      Donna Olimpia Pamfili               1 --

      La congiura di Brescia (2 volumi)   2 --

      Maschere Sante                      1 --

      Fra Paolo Sarpi (2 vol.)            2 --

      Papa Sisto (4 volumi)               4 --

      Racconti                            2 --

      Contessa di Melzo (2 vol.)          2 --

      Re Manfredi (3 vol.)                3 --

      Maria Dolores                       1 --

      Le donne di Nerone                  3 50


  Luigi =Capuana=.

      Homo                                1 --

      Marchese di Roccaverdina            4 --

      Rassegnazione                       3 50


  =Castelli.=

      Ultime rose d'autunno               1 --


  Enrico =Castelnuovo=.

      Nella lotta                         4 50

      La contessina                       3 --

      Dal 1.º piano alla soffitta         4 50

      Lametta                             3 50

      Due convinzioni                     4 --

      Filippo Bussini juniore             4 --

      Alla finestra                       3 50

      Sorrisi e lagrime                   3 50

      L'onor. Paolo Leonforte             1 --

      Natalia ed altri racconti           1 --

      _P.P.C._ Ultime novelle             3 50


  Domenico =Ciàmpoli=.

      Diana                               4 --

      Il barone di San Giorgio            1 --


  Luigia =Codèmo=.

      La rivoluzione in casa              2 --


  =Cordelia.=

      Il regno della donna                2 --

      Dopo le nozze                       3 --

      Prime battaglie                     2 --

      Vita intima                         1 --

      Racconti di Natale                  3 50

      Casa altrui                         1 --

      Alla ventura                        4 --

      Catene                              1 --

      Per la gloria                       3 50

      Forza irresistibile                 3 50

      Il mio delitto                      1 --

      Per vendetta                        1 --

      L'incomprensibile                   1 --

      Verso il mistero                    3 50


  Filippo =Crispolti=.

      Un duello                           1 --


  Gabriele =D'Annunzio=.

      Il Piacere                          5 --

      L'innocente                         4 --

      Trionfo della Morte                 5 --

      Le Vergini delle Rocce              5 --

      Il Fuoco                            5 --

      Le novelle della Pescara            4 --

      Prose scelte                        4 --


  Ippolito Tito =D'Aste=.

      Ermanzia                            1 --

      Mercede                             1 --


  Edmondo =De Amicis=.

      La vita militare                    4 --

      Alle porte d'Italia                 3 50

      Il romanzo d'un maestro (2 volumi)  2 --

      Fra scuola e casa                   4 --

      La carrozza di tutti                4 --

      Memorie                             3 50

      Capo d'anno                         4 --

      Nel Regno del Cervino               3 50

      Pagine allegre                      4 --


  Grazia =Deledda=.

      I giunchi della Vita                3 50


  Gian =Della Quercia=.

      Il Risveglio                        1 --

      Sul meriggio                        4 --


  Federico =De Roberto=.

      L'illusione                         1 --

      Una pagina della storia dell'Amore  1 --


  F. =Di Giorgi=.

      La prima donna                      1 --


  Cesare =Donati=.

      Flora Marzia                        2 --


  Paulo =Fambri=.

      Pazzi mezzi e serio fine            2 --


  Onorato =Fava=.

      La discesa di Annibale              1 --


  Gemma =Ferruggia=.

      Fascino                             1 --


  Ugo =Fleres=.

      L'anello                            1 --


  =Gavotti.=

      Nora                                3 --

      Viaggio di un distratto             2 --


  Piero =Giacosa=.

      Specchi dell'enigma                 3 50


  O. =Grandi=.

      Macchiette e novelle                1 --

      Destino                             1 --

      Silvano                             1 --

      La Nube                             1 --


  Luigi =Gualdo=.

      Decadenza                           1 --

      Matrimonio eccentrico               1 --


  F. D. =Guerrazzi=.

      L'assedio di Firenze (2 volumi)     2 --

      Il destino                          2 --

      Battaglia di Benevento.
      Veronica Cybo (2 vol.)              2 --


  =Jarro.=

      L'assassinio del vicolo della Luna  1 --

      I ladri di cadaveri                 1 --

      La figlia dell'aria                 1 --

      Apparenze (2 volumi)                2 --

      La polizia del diavolo              1 --

      L'Istrione                          1 --

      La vita capricciosa                 1 --

      La duchessa di Nala                 1 --

      La principessa                      1 --


  Paolo =Lioy=.

      Chi dura vince                      3 --


  =Manetty.=

      Il tradimento del Capitano
      (2 volumi)                          1 --


  G. =Marcotti=.

      Il conte Lucio                      1 --


  =Mercedes.=

      Marcello d'Agliano                  1 --


  Ippolito =Nievo=.

      Le confessioni di un ottuagenario
      (3 volumi)                          3 --


  A. S. =Novaro=.

      L'Angelo risvegliato                3 --


  Enrico =Panzacchi=.

      I miei racconti                     3 --


  Alfredo =Panzini=.

      Piccole storie del Mondo grande     1 --


  Emma =Perodi=.

      Suor Ludovica                       1 --

      Caino e Abele                       1 --


  =Petruccelli della Gattina.=

      Memorie di Giuda                    2 --

      Le notti degli emigrati a Londra    1 --

      Il sorbetto della regina            1 --

      Il re prega                         1 --


  Luigi =Pirandello=.

      Erma bifronte                       3 50


  Carlo =Placci=.

      Mondo mondano                       1 --


  Mario =Pratesi=.

      Le perfidie del caso                1 --


  Corrado =Ricci=.

      Un'illustre avventuriera            3 50

      Rinàscita                           3 50


  Egisto =Roggero=.

      Le ombre del passato                1 --


  Gerolamo =Rovetta=.

      Sott'acqua                          3 50

      Tiranni minimi                      1 --

      I Barbarò o le lagrime del prossimo.
      (2 volumi)                          5 --

      Il primo amante                     3 50

      Il processo Montegù                 1 --

      Novelle                             1 --


  Roberto =Sacchetti=.

      Candaule                            3 --

      Entusiasmi (2 volumi)               2 --


  =Sara.=

      I peccati degli avi                 1 50


  G. A. =Sartorio=.

      Romæ Carrus Navalis                 3 50


  Isabella =Scopoli-Biasi=.

      L'erede dei Villamari               1 --


  Matilde =Serao=.

      All'erta, Sentinella!               4 --

      Suor Giovanna della Croce           4 --

      La Ballerina                        3 50


  =Serra-Greci.=

      Adalgisa                            1 --

      La fidanzata di Palermo             1 --


  =Sfinge.=

      Dopo la vittoria                    1 --


  I. =Trebla=.

      Volontario d'un anno.--Sottotenente
      di complemento                      3 --


  L. A. =Vassallo=.

      La signora Cagliostro               1 --

      Guerra in tempo di bagni            1 --


  Giorgio =Velieri=.

      Elegie mondane                      3 50


  Giovanni =Verga=.

      Eva                                 2 --

      Novelle                             2 50

      Cavalleria rusticana                3 --

      Per le vie                          3 50

      Il marito di Elena                  1 --

      Eros                                2 --

      Tigre reale                         1 --

      Mastro-don Gesualdo                 5 --

      Ricordi del capit. d'Arce           1 --

      I Malavoglia                        3 50

      Don Candeloro e C.                  1 --

      Vagabondaggio                       3 50

      Dal mio al tuo                      3 50


  G. =Visconti-Venosta=.

      Il curato d'Orobio                  4 --

      Nuovi racconti                      3 50


  =Zena Remigio.=

      La bocca del lupo                   1 --

      L'apostolo                          3 50


Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO


                                        Anno XXXIV--1907


L'ILLUSTRAZIONE ITALIANA


ESCE OGNI DOMENICA

24 pagine in-folio a 3 colonne e copertina

Direttori: Emilio Treves e Ed. Ximenes

    _L'_ILLUSTRAZIONE ITALIANA _è la sola rivista del nostro paese che
    tenga al corrente della storia del giorno in tutti i suoi molteplici
    aspetti: la sola_ =dove tutto sia originale ed inedito=, _e tutto
    porti un'impronta prettamente nazionale. Non v'è fatto
    contemporaneo, non personaggio illustre, non scoperta importante,
    non novità letteraria o scientifica od artistica, che non sia
    registrata in queste pagine colla parola e col penello._

                   { _il_ =CORRIERE=, _di_ SPECTATOR,
  _Ogni settimana_ {
                   { _le note_ =ACCANTO alla VITA=, _del_ CONTE OTTAVIO.

_Ogni mese, un articolo di_

EDMONDO DE AMICIS.

    =Quest'anno si daranno romanzi originali italiani, affatto inediti,
    e illustrati. La serie comincia con un romanzo di NEERA che desterà
    grande sensazione.=

_Fuori testo, dei_ =QUADRI A COLORI=.

    I 52 fascicoli stampati in carta di lusso formano in fine d'anno due
    magnifici volumi di oltre mille pagine, illustrati da oltre 500
    incisioni; ogni volume ha la coperta, il frontispizio e l'indice.

  Centesimi =65= il numero.
  Anno, =L. 32=--Semestre, =L. 16=--Trimestre, =L. 9=
  (Estero, Franchi =45= l'anno).

    =PREMI=: 1.º Numero di NATALE e CAPO D'ANNO, che quest'anno è molto
    variato d'argomenti e molto pittoresco ed artistico. Capolavori
    antichi e quadri moderni =in tricromia=. Nel testo: =De Amicis;
    Pascoli; A. Panzini=.

    2.º =CALENDARIO ILLUSTRATO pel 1907= (Al prezzo d'associazione annua
    aggiungere cent. 60 (per l'estero, 1 fr.), per spese di porto e
    spedizione di premi).

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

       *       *       *       *       *

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                                        --Anno VI--1907--

IL SECOLO XX

RIVISTA POPOLARE ILLUSTRATA

_Esce ogni mese.--Più di 100 pagine.--Più di 150 incisioni_

[Illustrazione]

    Questa rivista, tanto diffusa, per la sua italianità, e la varietà
    degli articoli, il valore dei collaboratori, e l'abbondanza e la
    bellezza delle illustrazioni, è, si può dire, lo specchio di questa
    vita di progresso, che anima il nostro Paese in ogni campo
    dell'attività umana. Sono stati suoi collaboratori e lo saranno per
    l'avvenire: _De Amicis_, _d'Annunzio_, _Fogazzaro_, _Marradi_,
    _Corrado Ricci_, _Ada Negri_, _Grazia Deledda_, _Matilde Serao_,
    _Cordelia_, _Neera_, _Térésah_, _R. Barbiera_, _G. Bertacchi_, ecc.
    Tutti i progressi della scienza e della industria sono studiati e
    spiegati da illustri specialisti in forma popolare e con grande
    ricchezza di illustrazioni.--I volumi finora pubblicati del _Secolo
    XX_ formano una vera enciclopedia a cui deve ricorrere chi vuole
    conoscere la vita del nostro tempo nella sua continua evoluzione.
    Ciò spiega come essi siano tanto ricercati. In un'annata, che costa
    6 lire, è raccolto il materiale di un'ottantina di volumi, che
    formerebbero da soli una piccola biblioteca.

Associazione annua, L. =6= (Est. Fr. =9=). Il fascicolo, =50= cent.

    =Premi=: 1.º Due volumi della =Biblioteca Amena= a scelta;--2.º
    =Calendario illustrato pel 1907.= (Per avere i premi, al prezzo
    d'associazione aggiungere centesimi 60; per l'Estero, Fr. 1).

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

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La battaglia di Mukden

DI

LUIGI BARZINI

con 52 incisioni da istantanee prese sul luogo dall'autore

    Le lettere del Barzini, dal campo giapponese dirette al _Corriere
    della Sera_ fecero grande sensazione; ed era generale il desiderio
    che fossero raccolte. Questo volume, illustrato da istantanee prese
    sul luogo dallo stesso Barzini, diverrà certo prezioso e popolare.

_Un volume in-8 di 315 pagine_ con 52 incisioni, 15 piante e una grande
carta a colori:

=SEI LIRE.=

Legato in tela a colori: =Otto Lire=.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



       *       *       *       *       *


Nota del Trascrittore


L'ortografia e la punteggiatura originarie sono state mantenute.

Sono stati inoltre corretti i seguenti refusi (la correzione è nella
riga sotto):


  bella cosa!--concluse sorpirando il tenente.--Ma
  bella cosa!--concluse sospirando il tenente.--Ma

  a quella scappata del fratello Maurizio..
  a quella scappata del fratello Maurizio.

  della persona; donde una formosità d'altro genere.
  nella persona; donde una formosità d'altro genere.

  il conte Matignon de la Bordigue aveva rinnovato
  il conte Matignon de la Bourdigue aveva rinnovato

  atrettanto di sè, Maurizio prese la via del Castèu.
  altrettanto di sè, Maurizio prese la via del Castèu.

  a Parigi da una gran dama russa, a cui si dodomandava
  a Parigi da una gran dama russa, a cui si domandava

  quelle che pérdono.
  quelle che pèrdono.

  lungamenti cercati e intensamente voluti; due
  lungamente cercati e intensamente voluti; due

  se le manchi il ricettacolo dell'ideale,
  se le manchi il ricettacolo dell'ideale.

  me la lettura del _Genio del Cristinesimo_,
  me la lettura del _Genio del Cristianesimo_,

  --Ah!--sclamò il generale, inarcando le ciciglia.--Ci
  --Ah!--sclamò il generale, inarcando le ciglia.--Ci

  n'eri pesuaso, perchè hai tardato un istante a
  n'eri persuaso, perchè hai tardato un istante a

  XVII.
  CAPITOLO XVII.

  quel bravuomo si era ingannato. Come non esserne
  quel brav'uomo si era ingannato. Come non esserne

  Presi quesi concerti si separarono. Maurizio
  Presi questi concerti si separarono. Maurizio

       *       *       *       *       *





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