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Title: L'ignoto - Novelle
Author: Di Giacomo, Salvatore, 1860-1934
Language: Italian
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  SALVATORE DI GIACOMO


        L'IGNOTO

         NOVELLE


        LANCIANO

       R. CARABBA

         EDITORE


PROPRIETÀ LETTERARIA

_Le copie non firmate dall'Autore sono dichiarate contraffatte._

Lanciano, tip. dello Stabilimento R. Carabba, I-1920.



L'IGNOTO


I

Sul _Piazzale di Porta Roma_ erano poche persone. Era deserta la via del
laboratorio pirotecnico, deserta la via di faccia ad essa, ove, sul
principio, è la semplice e nuda fabbrica dell'Arcivescovado a cui
seguono altre fabbriche basse e la _Riviera Casilina_, recinta da una
fila di casette rossastre.

L'ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che poc'anzi avea tutto
infiammato, nel lontano, il fuggevole dosso de' Tifati si raccoglieva in
coda a' monti, ove la terra e la collina s'univano e pareva che l'ultima
arborea decorazione di quelle gobbe immani sprofondasse nell'immensa e
aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel triste
silenzio invernale che pesa su Capua, città di chiese e di caserme.

Sul ponte del Volturno, con le spalle rivolte alla _Riviera Casilina_, e
ritta sul parapetto, si stagliava sul livido cielo la statua di S.
Giovanni Nepomuceno: un rigido braccio era steso al fiume e la mano
spiegata ne benediceva il queto cammino trascorrente lungo le umide
rive, a occidente. Erano ancora illuminate, in quel marmo barocco, la
testa del santo e il busto suo quasi tutto: le membra inferiori, già
investite dall'ombra, avevano apparenza confusa. Sotto la statua,
addossati al parapetto, due uomini contemplavano il tramonto, e di volta
in volta accennavano a qualcosa, lontana in quel punto, nota soltanto
agli occhi loro o alla loro immaginazione poi che di faccia ad essi,
oltre al ponte ferroviario, parallelo a questo su cui stavano e ch'è di
remota origine, nulla pareva che turbasse, lungo il fiume e nel cielo e
nel piano sterminato, la silenziosa agonia del giorno. A un tratto una
fuggente nuvola s'agitò e si scompose alle origini del ponte di ferro,
mascherate da un breve caseggiato e dagli erici della sponda. Apparve un
treno, fischiante, nero, sterminato: il treno di Roma, che per due o tre
secondi fuggì su per le arcate fragorose e d'un subito sparve, come
insinuandosi, rimpetto, nelle viscere della collina, alla opposta sponda
del fiume. Palpitarono nell'aria, per pochi attimi, l'eco lamentosa
dell'ultimo sibilo della macchina e un lieve fumo diffuso, che poi
subito si sciolse. Allora i due uomini si spiccarono dal parapetto e,
parlando piano, con le mani in saccoccia, col capo basso, scesero
lentamente dal ponte nella piazza. Alle spalle loro cominciava a
nereggiare la torre del ponte; la scaletta che va fino al sommo di essa
or appena s'intravedeva. Ma un lume brillò a un tratto in cima a un palo
forcuto, piantato in uno de' balaustri del ponte e proprio dove esso
quasi s'unisce alle mura della torre: e allora gli ultimi gradini
biancheggiarono, mentre il soldato che aveva acceso il lume scivolava
lungo il palo, saltava dal parapetto a terra e scompariva sotto
l'androne abbuiato, la cui sonorità fu brevemente risvegliata da un
acuto zufolìo che cessò pur subito. Si rifece il silenzio, e il vecchio
ponte rimase deserto.

Chi si fosse in quell'ora, arrivando dal _Corso Appio_, soffermato sul
_Piazzale di Porta Roma_, avrebbe potuto cogliere nel suo momento più
penetrante lo spettacolo della caduta del giorno. Le cose più vicine
allo sguardo erano il fiume, il ponte antico, le rive oscure e la torre
che terminava il passo del ponte: di là dalla riva erano campagne
invisibili, nascoste, e più in là finalmente apparivano monti, con
interrotto disegno, coloriti d'un verde ancor fresco. Un rosso lume
persisteva ov'essi inclinavano al piano. Qui l'ultima fiamma del sole
v'accendeva le cime d'un bosco; ma, sotto quel dolce fuoco, il fiume,
lento, quasi immoto in quel punto, non se ne colorava. Rispecchiava
invece la verde collina che gli sovrastava, e le acque luccicavano
verdeggiando, immobili come quelle d'un lago percosso dal placido lume
della luna. Un ponte di ferro, nero e tagliente, correva su
quell'acque. E sul ponte, e sul fiume, e sul tramonto era un cielo
minaccioso, per ove alcune nuvole basse si rincorrevano, si gonfiavano a
mano a mano e s'aggrovigliavano: le loro creste mobili e serpentine
lambivano nell'alto un pezzo di cielo rimasto pallido e puro, e
lentamente lo conquistavano. Fra tanto, come generata dalla lontana e
invisibile campagna, una massa vaporosa, grigiastra e fitta, assorgeva
rapidamente all'orizzonte. Era come una uguale cortina di fumo che si
levasse da terra e cercasse di raggiungere le nuvole. Le investì, a un
tratto, e con quelle si confuse e si diffuse. Nel medesimo tempo fu un
borbottìo dietro quella cortina, un rombo lieve e trascorrente, che per
poco parlò pur al dosso dei monti con più debole voce, e quivi si
spense. Adesso il cielo s'era tutto oscurato. Tuttavia persisteva
ancora, in coda a' Tifati, il lume del sole: una fiamma sanguigna,
diminuita ma tuttora viva, ardeva ancora in quel punto.


II

Un'ombra scivolò rapidamente sotto il muro dell'Arcivescovado, e a un
tratto se ne spiccò e prese forma, dirizzandosi al _Ponte di Annibale_.
Una donna. E pareva giovane, dall'agile incesso e dal disegno della
persona. Pareva: da che le pieghe di uno scialle scuro, che dalla testa
le ricascava sulle spalle e sul petto, le ombreggiavano la faccia.
L'ora già tarda rafforzava il pallido mistero di quel volto,
biancheggiante, con apparenza indefinibile, tra lo sparato dello
scialle. Tuttavia, com'ella, per un momento, quasi irresoluta,
s'arrestava sul piazzale, un fanciullo la riconobbe e le si fece da
presso. Il fanciullo veniva dal _Corso Appio_, e andava verso _Riva
Casilina_. Portava la cartella dei suoi libri attaccata al dosso con due
brevi corregge che gli passavano sotto le ascelle, e in una mano aveva
una riga di legno con cui, camminando e zufolando, a volta a volta si
percoteva la coscia.

--Oh, Letizia!--esclamò.

E ristette davanti alla donna, interrogandola con gli azzurri occhi
contenti, pieni di candido e inconscio riso infantile.

La donna, sorpresa, si trasse addietro e si guardò attorno. Altri non
era in quel luogo in fuori di lei e dello scolaretto; le loro due figure
nere, vicine, differenti, si disegnavano nella vastità del piazzale su
cui non ancora era scesa l'ombra. La donna tremava, borbottava parole
che il fanciulletto non riesciva a comprendere. Lo guardò, a un punto,
smarritamente, come se più non lo riconoscesse, e seguitò a restar muta.

--Dove vai?--disse il piccino.

E subito soggiunse:

--Io vengo dalla scuola. Oggi la scuola è finita più tardi. Ora vado a
casa. Ho i guanti: guarda.

E le mostrò la mano inguantata, in cui serrava il quadrello. L'altra
egli aveva ficcata nella saccoccia dei pantaloncini fino al gomito. La
cavò lentamente e la levò, spiegata. Era gonfia e arrossata;
l'epidermide vi si screpolava sul dosso e si rigava di piccoli solchi
lividi.

--Vedi... Ho i geloni.

Ella taceva, guardandolo. Non lo ascoltava. Il piccino tornò a
domandare:

--E tu dove vai, Letizia?

Ora ella, improvvisamente, si piegava su di lui, gli gettava un braccio
attorno al collo, si traeva addosso il ragazzetto obbediente, sorridente
ancora. E come egli credeva che gli volesse dare un bacio, atteggiò e
appressò le labbra. Ella non lo baciò. Gli mormorò rapidamente,
guardandolo negli occhi:

--Tu non devi dire a nessuno che m'hai vista! Hai capito? A nessuno!

E l'atto e il suono della voce furono così imperativi che il ragazzetto,
istintivamente, si ritrasse, e ritorse la faccia e cercò di liberarsi.
Ma Letizia gli prese il mento nella mano, costrinse più dolcemente quel
piccolo volto quasi impaurito, e lo rigirò, e si chinò fino a
disfiorarlo col suo. Ripetette, con voce più bassa, con un soffio di
voce:

--A nessuno! Dimmi che non lo dirai a nessuno!... Me lo prometti,
Paolino? Senti, guardami! Guarda Letizia tua... Me lo prometti?...

Il piccino balbettò:

--Sì... sì... Non lo dico a nessuno.

Ora Letizia lo baciava forte sulla guancia. Egli le mormorò sulla gelida
gota:

--E alla mamma tua? Neppure?...

--No!--fece Letizia, come inorridita--Vuoi dirlo a mamma!...

--No, no!--promise il piccolo.

E si chinò e raccolse il quadrello che gli era sfuggito. Ora lo brandiva
nella piccola mano inguantata. Ripetette, solenne:

--A nessuno!

Si rincamminò a piccoli passi. A metà della via la infantile sua
curiosità lo punse: si volse. Letizia moveva al ponte, dirittamente, e
la sua figura nera si rilevava, con fine disegno, sul tramonto. Parve a
un tratto, ch'ella, soffermata, incerta, facesse per tornare addietro.
Subito lo scolaretto riprese la sua strada verso _Riva Casilina_. Ma sul
punto d'arrivare a un vico verso il quale s'indirizzava egli si fermò
ancora una volta, e tornò a guardare dalla parte del piazzale già
lontano. Ora Letizia, immobile, in mezzo al gran ponte, contemplava il
fiume dal parapetto. Il segno della sua testa liberata dallo scialle,
del suo busto proteso, delle sue braccia, lungo le quali lo scialle
ricascava e s'allargava a' gomiti puntati sul parapetto, era preciso. Il
fuoco del tramonto ella raggiungeva col capo eretto, immoto. Una dorata
aureola s'effondeva attorno a quel capo e quasi lo penetrava e lo
immaterializzava. Pareva che in quel rosso vapore esso a momenti fosse
per dissolversi, mentre al vento lieve ed opposto una ciocca di capelli,
a volta a volta, vi palpitava e, investito dallo stesso vento, un lembo
dello scialle sbatteva i fili della sua frangia su quell'incendio
lontano.


III

Due, tre volte, perdutamente Letizia s'era quasi sospinta dal parapetto
sul fiume tacito e lento. Aveva chiuso gli occhi, s'era allungata sul
largo parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolare le gambe
dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto,
aveva aspettato che una forza misteriosa, invocata, implacabile, la
sospingesse improvvisamente. Ma al senso pauroso del vuoto s'erano
ritratte le sue braccia pian piano, gli occhi suoi s'erano pian piano
aperti e subito rinserrati sull'acqua torbida e oscurata, e più
rilassato e inerte era rimasto quel corpo senza volontà, sul parapetto.
Ora ella quasi temeva di spiccarsene, anzi le pareva che nel punto in
cui fosse per scivolare a terra qualcosa dovesse risospingerla e
precipitarla. Rimase prona sul balaustro: poi riaperse pianamente gli
occhi e riguardò il fiume, di sotto. Il Volturno trascorreva lento e
silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria. L'acqua torva
pareva, a tratti, stagnante, così tardo era il suo cammino. Ma a quando
a quando dei gorghi l'agitavano, e su per la giallastra sua superficie
si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia o di
fieno. S'oscuravano di qua e di là le rive. Più avanti, sotto il ponte
ferroviario, al punto ove esso cominciava a far gomito, l'acqua,
incorrotta, luceva come uno specchio.

La donna interrogò un'ultima volta il fiume. Ora ne saliva un alito
d'umidità, e dal liquido fangoso, che alle lor basi immani lambiva i
pilastri quadrati degli archi, s'esprimeva quasi un fascino freddo.

--Che morte!...--ella mormorò.

E come, nell'atto in cui s'indugiava, le cupe acque la tentavano,
l'attiravano ancora, un improvviso tremito la percorse tutta. Ritrovò a
mala pena la forza di lasciarsi scivolare sul ponte, dal parapetto, e a
questo addossarsi, quasi mancando. Confusamente le appariva, adesso, uno
spettacolo nuovo: sulla destra l'Arcivescovado, e poi le case basse, e
poi una via che procedendo lungo quelle case si restringeva e,
nell'alto, ancora più in là, sul cielo bianchiccio, la cupola della
chiesa della _Santella_: in fondo, rimpetto a lei, l'alto anfiteatro
della _Riviera Casilina_ il cui largo arco a un punto era terminato
dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di
_Riviera Casilina_ rattenevano ancora il lume del tramonto e se ne
accendevano. Abbasso, quasi sull'argine del fiume, l'infame contrada
_Mazzamauriello_ infilava su d'un sentiero invisibile le sue due o tre
losche casucce a un solo piano.

Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, voltando le spalle al
tramonto, Letizia non distoglieva lo sguardo da quel gruppo di case. Di
là, su pel fiume, le pareva che le arrivasse una voce, un susurro, un
appello. Fascinata, immobile, ella rimase lì, ritta tra le ombre che
scendevano rapidamente sul ponte.

L'ora scoccò all'_Arcivescovado_. Letizia si volse attorno, percossa da
quel suono. Era notte. S'era spento l'incendio del bosco, il cielo s'era
chiuso, un velo plumbeo subitamente era sceso sulla _Riviera Casilina_ e
la nascondeva. Nell'ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo
e si disperdevano. Allora ella mosse dal ponte verso il _Corso Appio_.
Traversò lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle,
affrettandosi. E pure sul punto di penetrare nel _Corso_ illuminato e
popolato, per un momento ella si soffermò e parve incerta.

--Andiamo!--mormorò a un tratto--Volontà di Dio...

Rabbrividì, come se avesse bestemmiato. Si tappò la bocca con un lembo
dello scialle, quasi per soffocarvi, nell'atto stesso che le
pronunziava, le parole sacrileghe. Ma ora, davanti a lei, luminoso e
romoroso, il _Corso Appio_ quasi la irrideva: alcune donne ridevano
forte sulla soglia d'una bottega, un cuoiaio canticchiava presso alla
sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di
cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e
passavano.

--Sì, sì!--ella fece, disperatamente--È volontà di Dio!...

Entrò nel _Corso Appio_ e andò avanti, risoluta.


IV

Procedeva, senza fermarsi, con la testa bassa. In _Piazza dei Giudici_,
ove metteva il primo tratto Del _Corso_, da un globo enorme si
diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d'una pioggerella
fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio
attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano
abbandonato la piazza; vi s'indugiavano ancora un gruppetto di soldati
d'artiglieria, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni, e lo
scemo di _Vico Cimino_, un piccolo uomo di forme e di fisonomia
scimmiesche, le cui membra piteciche ora s'aggrovigliavano al palo del
lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.

Come Letizia passò davanti all'_Arco Mazzocchi_ una folla d'operaie del
laboratorio pirotecnico ne uscì con alte voci confuse, imprecanti alla
pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, e trascorse verso
_Porta Napoli_.

Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti ancora. Di tratto in
tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare,
altre strade. Presso _Porta Napoli_ la comitiva non si componeva più che
di tre di quelle donne, le quali a un tratto si misero a scappare,
rincorrendosi, strillando, sollevando e raccogliendo le sottane, e
presto scomparendo nel buio. Letizia s'arrestò. Si guardò attorno,
cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e
sparì anch'ella in un palazzetto a una delle cui finestre del primo
piano penzolava, sbattuta dal vento, la tarlata insegna d'una locanda.

Ascese la scala a tentoni. Non v'era lume; ma ella conosceva il numero
dei gradini e il posto della porticina. A quella picchiò due volte,
colla mano spiegata.

--Viene...--fece di dentro una rauca voce maschile.

S'aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L'uomo
che l'aveva schiusa reggeva un lume nella destra e cercava di affisar
bene la sconosciuta. Poi si trasse addietro per lasciarla passare.

--Be'?--disse, dopo avere cautamente rinchiuso l'uscio--In che vi devo
servire?

Levò il lume fino al volto della donna e con l'altra mano fece riparo
alla fiamma.

Ma ora ella si liberava dallo scialle, lo raccoglieva sul braccio e gli
si rivelava, immobile, ritta di faccia a lui, e muta, e tutta illuminata
dalla fronte al petto.

Allora l'uomo esclamò:

--Gue'! Letizia!... Ah, tu sei, dunque?

E voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale borbottava una
vecchia voce femminile, annunziò:

--È Letizia di _Riva Casilina_... Letiziella... Quella del furiere...

Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l'uscio
socchiuso. E la voce senile, mentre l'uomo riponeva il lume sulla mensa
dalla quale s'era levato, rispose:

--Buona sera... Ora vengo.

--È Chiarina--disse l'uomo, e sedette daccapo alla tavola--Ha le gambe
enfiate, con rispetto, e le unge con una pomata che si vende a Napoli.
Ha un'emicrania da cavallo, per giunta...

Additò una seggiola.

--Mettiti a sedere... Vuoi crescere?

--Vi devo parlare--disse Letizia.

--Be'... Dunque siedi. Che mi dici? E il furiere che fa?

--M'ha lasciata.

--Il furiere?...--e con la mano spiegata l'uomo percosse la
tavola--Possibile? Hai sentito, Chiarina?...--e si girò sulla seggiola,
e si voltò a parlare forte all'uscio socchiuso--Dice che il furiere l'ha
lasciata...

--Vengo...--ripetette la voce.

Don Placido, un tipaccio rossigno, quasi calvo, animalesco, allungò la
mano a un piatto colmo di stufato d'agnello e se ne recò un pezzo alla
bocca, strappandogli, co' forti molari, fin le ultime cartilagini. Si
versò del vino. Sotto il lume, agguantata al collo della bottiglia, la
sua mano tremava come per impeto di sangue pulsante: sul dosso vi
rigurgitavano le vene enfiate e le dita unte e vellose, terminate da
unghie rose e piatte, lucevano del recente contatto della vivanda. Un
alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un
fiato di anime e di materie corrotte. Dal mensale insudiciato, chiazzato
di larghe macchie d'unto e di vino, si sprigionava un lezzo
disgustevole.

--Sentite, don Placido...--disse Letizia subitamente--Io non posso
restare più, a Capua. Capite, don Placido?... Sono rovinata, e la rovina
mia non la posso nascondere più...

L'uomo la guardò fisamente. Poi, con gli occhi piccioli e vivi,
percorrendolo tutto s'indugiò a interrogare quel corpo palpitante e
raccolto.

Letizia arrossì. Radunò in grembo lo scialle e ve lo rattenne con le
pallide mani spiegate.

--Ho capito--disse don Placido.

E si grattò il capo con l'indice della sinistra: poi con quello della
destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò
la testa, e parve che interrogasse il soffitto.

Domandò, più piano:

--E a casa tua?

--Sono fuggita.

--Quando?

--Ora.

--Sei andata da lui?

--Inutile. Sono venuta qui.

--Parla più basso.

Seguì un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era
distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la
fiamma del lume, si levò, fece pesantemente due o tre passi nella
stanzuccia e Letizia lo udì borbottare:

--Evviva il furiere!... E bravo!... Evviva!...

All'improvviso le si piantò di faccia, presso alla tavola. Le chiese
bruscamente, brutalmente:

--Be'?... E ora che vuoi fare?... La vita?

Ella aperse le braccia e chinò la testa.

Don Placido, dopo un poco soggiunse:

--E a Napoli ci andresti?

--A Napoli?...--balbettò Letizia.

--Vi ho un amico. Ti raccomanderò... La città è grande, vedrai... E
qualche altra vi ha fatto fortuna...

Lo interruppe un colpo di tosse che arrivava da un'altra camera la cui
porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa.

Letizia trasalì e l'uomo si mise a ridere.

--È la bionda--disse, con una occhiata a quell'uscio--È una di Caserta.
Parte a momenti per Napoli e io l'accompagno alla stazione.

La breve tossicina si fece udire un'altra volta, ma ora don Placido non
vi badò.

--Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace allora...
vedi... puoi dirti fortunata, vi andrete assieme... Con la bionda. Ora
deciditi. Hai capito? Grande città, gran gente, gran rumore, gran vita.
Mica questi sordomuti di Capua, angiolo mio...

Tese l'orecchio. Pioveva ancora: il borbottìo della grondaia era
superato dal crepitare della pioggia che percoteva il cortile.

--Se vuoi vedere la bionda è di là, in cucina. Si chiacchierava,
appunto, quando sei arrivata. E s'è voluta nascondere: si vergogna. Be',
se vuoi vederla... Intanto io vado per un affare mio, fino
all'Annunziata. E parla pure con Chiarina: tra femmine vi intenderete
meglio...

A voce alta, mentre cercava il mantello e il cappello, annunziò:

--Vado fino all'Annunziata, Chiarí...

La voce rispose dall'oscurità:

--E il treno?...

--Parte alle dieci...--E don Placido, aperse la porta delle scale--V'è
il tempo. Torno subito.

Sulla soglia si voltò a Letizia:

--La casa la conosci: accomodati pure. Aggiustati con Chiarina...

Uscì. La porta si richiuse e Letizia rimase sola.

Si guardò attorno, guardò l'uscio piccolo dietro del quale ella
indovinava donna Chiara, l'orribile vecchia, gigantesca come il marito,
quasi calva, dall'occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di
carne molle, e ondeggiante dal petto enorme e floscio sul ventre...

Si levò in piedi. S'era mossa quella porta. Ma era il gatto. Apparve
sbadigliando, un gatto grigiastro e avanzò, lentamente. Vide Letizia: si
fermò, la guardò, poi, rincamminandosi, scomparve nella penombra.

Letizia sospinse la porta della cucina.


V

La bionda era seduta a una tavola, presso al focolare. Poggiava le mani
aperte e la faccia su qualcosa che pareva un fagotto. Un lieve soffio
inclinava accanto a lei la fiammella d'un lume a olio piantato sulla
tavola tra le bucce d'un'arancia.

Letizia urlò:

--Marta!...

Ma come? Oh, Dio! Dio! Quella che il furiere aveva presa dopo di lei,
quella per la quale l'aveva lasciata! Marta, Marta, là dentro! Nella
casa di don Placido!...

La bionda, come istupidita, la bocca schiusa, gli occhi incertamente
affisati, allungava la testa nell'ombra. Poi congiunse le mani, come
accordandole a una muta implorazione. E Letizia, che s'appressava, la
udì infine mormorare con voce quasi di pianto:

--Tu si' Letizia d' 'a Riva Casilina...

E a un tratto si sentì afferrare le mani, se le sentì avvincere ai polsi
e piegò, e quasi s'abbandonò su quel corpo palpitante e un po' molle da
cui, nell'ombra afosa della stanzuccia, vaporava un alito tepido di
gioventù e di salute.

La bionda balbettava:

--Mbe', perdòname, perdòname!...

Ora piangevano, piano, sedute vicino, così vicino che i loro ginocchi si
toccavano e la scarsa fiamma della lampa, di volta in volta investita e
piegata dal soffio esterno, stentava a disegnare e a separare que' due
corpi quasi immoti...


VI

--Avanti, avanti!--urlava don Placido, nella notte, correndo lungo la
Via della Stazione--Ora ci verrà addosso tutta l'acqua del santissimo
cielo! Ah, Corpo di Cristo! Avanti!...

L'ombra sua nera e veloce scivolava e fuggiva su' muri. Le donne lo
seguivano, tenendosi per mano, chiuse ne' loro scialli pesanti,
inciampando, di tratto in tratto, ove si faceva più fitta l'oscurità.
Così passarono per via _Gran Quartiere_, poi davanti alla _Villa
Ferdinandea_ le cui statue impallidivano confusamente, poi davanti al
teatro. Adesso arrivavano alla porta vecchia della città. Sotto
l'androne si scaldavano a una grande fiammata di fascine due guardie di
finanza, e quella di piantone canticchiava, con le mani in saccoccia,
addossata a uno stipite.

--Salute!--le gridò don Placido, seguitando a correre.

--Salute e bene!--gridò la guardia.

Adesso le loro ombre s'inseguivano sul ponte delle fortificazioni: sotto
gli stivaloni di don Placido l'acciottolato crepitava. Sui fossati,
sulla vallata di Capua era sceso un velario oscuro.

--Avanti! Siamo arrivati!--egli urlò ancora--Io vado pe' biglietti.
Prendo la terza! Passate per l'ultima porta a destra e aspettatemi sul
marciapiedi...

Bruscamente apparve la fabbrica della Stazione. Letizia si volse. Tutto
era scomparso nella notte, dietro di lei: la città, la campagna, i
bastioni. Nessuna luce brillava quasi più in quel lontano. Tutto finiva.
Allora stese le braccia verso Capua e singhiozzò perdutamente:

--Addio! Addio! Addio!...

Poi si sentì trascinare dalla bionda, che quasi la sollevava, e si
ritrovò sul marciapiedi, davanti al treno nero, interminabile. La
macchina sbuffava. Un vento umido e freddo la percosse in faccia. Udì
confuse voci e a un tratto urlare:

--In vettura! In vettura!

Uno sportello si spalancò. La bionda salì per la prima, stese le
braccia, afferrò Letizia e se la trasse dentro. Lo sportello si chiuse
sbatacchiando. L'impeto del treno che s'avviava le gettò l'una addosso
all'altra.

Lo scompartimento era quasi deserto. Due fattori fumavano sul sedile
opposto, e subito si misero a parlare di derrate, d'olio, di vino, a
voce alta. La pioggia sferzava i vetri dei finestrini.


VII

--Arriviamo...--le mormorò Marta, a un tratto.

Per più d'un'ora, senza parlare, senza neppure guardarla, se l'era
tenuta a fianco, stretta, avvinghiandola quasi, rinserrando la stretta a
ogni scossone del treno. Ora le parlava sottovoce, rapidamente, quasi
all'orecchio.

--Ascolta... Napoli non la so, non ci sono mai stata. Dicono ch'è una
città grande, immensa, pericolosa, un inferno... M'ascolti?...

Letizia assentì con un moto del capo.

Marta continuò:

--Ci ha perdute lo stesso uomo. Bene, non importa... Senti... Siamo come
due sorelle, ci siamo conosciute da tanto tempo... Pensa così, come
penso io. E tu ora mi vuoi bene, e io ti voglio bene... Senti...

E la voce s'inteneriva sempre più, maternamente, e tutte e due quelle
donne palpitavano. I fattori seguitavano a parlare, più basso.

--Io non ti lascerò mai!--balbettò ancora la bionda. E in quel patto
cercò le mani di Letizia e le strinse--E tu giurami lo stesso! Tu non mi
devi lasciare!... Ho paura di Napoli... Senti... Dimmi che m'aiuterai,
che mi difenderai... Letizia, giuralo! Giuralo a Marta, a questa povera
disgraziata!...

Letizia rispose, con un soffio di voce:

--Sì, sì... giuro...

Il treno entrò sotto la tettoia e passò sugli scambii con un fragore
assordante. I fattori si levarono e agguantarono le loro valigie. Una
voce, due, tre urlarono nell'oscurità:

--Napoli! Napoli! Napoli!...

Marta si buttò giù e stese le braccia alla compagna. Si spalancarono in
quel punto gli sportelli di tutte le vetture e vomitarono sul
marciapiedi un'ondata di soldati. Il ventottesimo d'artiglieria, il
reggimento del furiere, era partito con loro da Capua. Ora i primi
ranghi si formavano in fretta, sotto la tettoia, e confusamente
s'udivano altre voci, e lampeggiavano altre armi laggiù in coda al
treno.

Gli ufficiali gridavano i loro ordini e correvano qua e là lungo il
treno.

--Vieni!--disse Marta, trascinando la compagna.

Sorpassarono i cancelli, s'arrestarono per un momento, ignare, indecise,
sotto le arcate dell'uscita sulla piazza.

Era quasi la mezzanotte. La pioggia batteva sul selciato. Migliaia di
lumi, alti, bassi, ora bianchicci, ora rossastri occhieggiavano nella
vasta piazza e dalle vie circostanti, ove le case apparivano e sparivano
in una nebbia nera che a volte pareva che le dissolvesse.

Le due donne, attonite, irresolute, scesero dal marciapiedi. Ma quel
fiume di soldati che le aveva rincorso fu sopra di loro d'un subito, e
le sospinse, e le separò. Passò tutto il reggimento, quasi fuggendo,
sotto la pioggia. Letizia fu ricacciata sotto i giardini, dalla parte
del Vasto. Ella sbarrò nell'oscurità i suoi grandi occhi azzurri pieni
d'orrore.

E urlò:

--Marta!... Marta!

Nessuno le rispose.

Letizia si sentì mancare. S'addossò a un fanale. Raccolse la voce e con
uno sforzo supremo chiamò ancora:

--Marta!... Marta!... Marta!...

Nessuno, nessuno...

Ora ella era a fronte dell'ignoto, nella misteriosa notte del suo
destino.

Sola.



PESCI FUOR D'ACQUA


I

--Son deciso, ecco!-ripetette seduto di faccia a me alla medesima
tavola, il mio compagno d'ufficio de Laurenzi--Ormai son deciso a
resistere! E staremo a vedere! L'ufficio? I doveri dell'ufficio?
L'orario? Ma l'ufficio non conta nulla, mio caro, a fronte di tutta una
vita, di tutti i ricordi che v'inchiodano al posto ov'è stato il padre.
Il padre, capisci? E io dunque dovrei rinunziare alla scrivania di mio
padre, alla stanza dov'è stato mio padre, all'aria che ha respirato mio
padre! Ah, sì per esempio! Ma voglio vederlo, perdio!

S'interruppe. Il cameriere, uno de' più anziani di quella ignobile
_gargotte_ ove s'andava a far colazione tra preti, avvocati, studenti e
cantanti del teatro vicino, ora gli poneva davanti un piatto di baccalà
alla livornese fumigante in una brodaglia rossastra. Gli occhi miopi del
de Laurenzi s'appressarono al piatto e vi si sprofondarono e lo
interrogarono avidamente: tra quel vapore succulento le nari di un
lungo naso floscio palpitarono e si dilatarono.

--Alla livornese, professore--disse il cameriere--Poi me ne parlerà. E
appresso ha ordinato?

--Un formaggio e un finocchio.

--Il vino solito?

--Solito.

Si mise a mangiare, voracemente. E io, che avevo terminato il mio
modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi
misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.

Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e
incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane
e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e
lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio
cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato
di pelo marrone or ne serbava solo quattro o cinque ignobili ciuffetti,
il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui sessanta anni
suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del
travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti pe'
quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla
cassa dell'economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto
uggioso ve ne sollecita quasi a non indulgere alle volgari abitudini e
a' miserabili vizii, ma ch'io m'inducevo a creder degno, il più delle
volte, della più malinconica commiserazione.

Era stato--raccontava--giornalista di grido, nell'Alta Italia, a' suoi
be' tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che
stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi
poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee
scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente
intessute sulle cronache de' giornali del tempo, in cui frugava tutta la
santa giornata.

Nella biblioteca governativa, ov'ero anch'io, il de Laurenzi era entrato
quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare
l'olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente
acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire
alle gratuite libertà che l'ex giornalista vi s'era conquistate un
comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare
l'ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro
d'ingresso degl'impiegati, segnava le ore e i minuti a' tardi arrivati,
mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si
raccomandavano lo zelo, l'ossequenza all'orario, la diligenza ne'
compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli _ukase_ in segno di
rispettosa adesione.

Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile,
dell'ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell'io
pensante e creante, degli altrui nervi, dell'altrui cultura quando non
fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali
quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.

Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri, foderati della
storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la
giovialità, l'arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l'indipendenza:
portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini
sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta
codesta ancor viva giovinezza dell'animo vostro! Mio Dio, che aridità e
che tristezza tra queste mute pareti, gravi d'_in folio_ e
d'enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così
impregnate de' pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che
costituiscono il tessuto connettivo della vita degl'impiegati, il
continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l'alimentazione
quotidiana dell'ozio e dell'ignoranza del loro pensiero!

Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un
brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli
veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto
impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere
tra il baccalà alla livornese e l'evocazione paterna alcuna tollerabile
analogia. Quest'uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della
loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale
delle soddisfazioni fisiologiche?

--Comprenderai--disse lui, quasi come per rispondere al mio pensiero, e
dopo aver vuotato il suo terzo bicchiere di vino bianco
siciliano--comprenderai ch'io mi trovo nelle biblioteche non per le mie
aspirazioni, non per elezione mia. Ti pare? Un impiego governativo! Cioè
una sgobbatura! Una servitù! Ma, poi che là dentro mio padre, ch'era uno
studioso, è stato impiegato anche lui e ha vissuto metà della sua vita
io vi ho voluto iniziare come una tradizione metodica ed esemplare nella
storia di queste successioni familiari. Usciamo?

--Usciamo. Bada ch'è ora di tornare lassù.

De Laurenzi afferrò un tovagliolo e si forbì le labbra, in fretta, e poi
lo buttò sulla tavola tutto insudiciato, come uno straccio. Si levò:
cacciò la mano nella profondità d'una delle saccocce del suo cappotto,
vi pescò e ripescò per buon tratto, e infine cavò fuori quell'artiglio
armato d'un mozzicone di sigaro.

--Andiamo--mi fece, dopo avere acceso il mozzicone.

Sulla soglia della trattoria s'arrestò, per ricominciare il discorso.

--E così eccomi in guerra aperta col signor direttore. Si capisce: io
sono uno straordinario, pel momento: io sono entrato nel _sancta
sanctorum_ senza i titoli che ci vogliono. Titoli? E il mio ingegno, il
mio passato? Questi signori non vedono che bibliografia, schedatura,
inventarii. E guai a chi è qualcuno o qualcosa! E poi sotterfugi,
rapporti segreti, denunzie: ecco la loro maniera di battagliare. Ora,
come l'hanno insegnato anche a me, loro mandano ufficii--e io mi dò per
malato e vado a Roma.

Si scappellò, con un saluto profondo.

Colui ch'egli aveva salutato gli fece pur di cappello e passò via, in
mezzo a quattro o cinque altri che lo accompagnavano e con cui discuteva
calorosamente.

--_Lupus in fabula_--disse de Laurenzi--L'onorevole Maliberti. Non lo
conosci?

--No.

--Vuoi che ti presenti, un'altra volta?

--Ma no!...

--Fai male. Una potenza, sai. È lui che m'ha presentato al ministro. Ed
è così che sono a posto, adesso.

Riaccese il suo mozzicone di sigaro, che s'era spento. E soggiunse:

--Vedrai, mio caro. S'è battagliato, a Roma, giorni addietro. Ma l'ho
spuntata, questa volta. Francamente, se io fossi te, cercherei di
conoscere l'onorevole. Non sei elettore, tu? No? Come, non sei
elettore, non ti sei fatto inscrivere?...

Affrettavo il passo. Egli s'accorse della poca attenzione onde
accoglievo le sue parole e s'arrestò, a un tratto.

--Tu dunque rientri in ufficio?

--E tu non ci vieni?

--Io no. Vado al giornale. Ho un articolo da correggere in bozze di
stampa. E mi preme più quello, naturalmente.

Feci l'atto di rincamminarmi.

--Se domandano di me...

--Ho capito...

--Ecco... Si potrebbe inventare una frottola. Un figlio malato, per
esempio. L'influenza. Si può dire che mi sono venuti a chiamare da casa
mia, d'urgenza. Una malattia a tua scelta. E poi mi telefoni al
giornale. D'accordo?

--Sì--mormorai--d'accordo.

Egli s'era già allontanato, a gran passi, trascinando pel fango di via
Costantinopoli le sue scarpacce inzaccherate sulle quali sbattevano,
molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de' suoi pantaloni.

Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via
di Foria e s'avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano
alla falda del cappello, scivolò accanto all'enorme e nero carrozzone
dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad ali
spiegate, quattro polisarcici angioli di legno. La via, su quel
transito, s'era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da
quel lento carro come da quell'uomo pur funebre si sprigionasse in quel
punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per
qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e
sull'animo mio, mentre m'avviavo alla porta del mio ufficio, pesava
ancora, come l'ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale
plumbeo e greve. L'aria mi pareva satura d'una umidità uggiosa, e
associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.

--Spero che non mi chieggano di costui!--m'auguravo, salendo le scale
della biblioteca.

Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista
d'insofferenza e di sprezzo, mi sommoveva contro quest'uomo che
intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell'ufficio,
della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile--lui,
così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il
suo amor proprio con una menzogna da scolare?

Un uomo di quasi sessant'anni!


II

--Stazza l'aspetta--mi disse l'usciere di guardia alla porta, come mi
vide--Ha domandato di lei più volte.

--Stazza? E che vuole? Dov'è?

--Nella stanza del direttore.

Era uno degl'impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario
sorriso io m'abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che
frequentavo l'ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro.
Nella biblioteca Stazza era entrato a trent'anni; ora ne aveva
sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani
poderose s'ammucchiavano pile enormi di libri, ed egli le reggeva e le
portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese,
lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove
quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e
disposto alle fatiche più improbe, egli non se ne stancava. Si conosceva
illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura, meno che
mediocre e null'affatto accresciuta neppure dalle più immediate e
continue comunioni co' sapienti compagni locali e con i lettori--e però
badava, offerendo e adoperando come un valore succedaneo la forza delle
sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza
spirituale.

Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di
entrare nella sua stanza--ov'egli non s'era fatto portare che una delle
più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per
riporvi il cappello--la bonaria semplicità di quell'uomo mi vi
tratteneva per un pezzo. Era la mezz'ora in cui Stazza si concedeva un
breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere: io addossato a uno scaffale,
con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua
scrivania, coi gomiti sulla tavola.

Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:

--E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?

Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando
voleva dir cose gravi.

--Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non
genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre,
qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il
diritto di nascere qui, in una di queste stanze. Lei ride?

--No, anzi, trovo naturale. S'intende, naturale per lei che non fa
altro, che non conosce altro, perdoni.

--Già, lei fa un'altra vita. E poi...

Rimase in forse un momento. Poi soggiunse, con aria di sincera
umiliazione:

--E poi lei sa tante cose ch'io non so. E poi è giovane, e ha da pensare
a tante altre cose.

--No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che
ritrova in se stesso.

--Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che
cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorrazzava nella sala
degl'incunaboli.

Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da
quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce
riverbero dell'anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è
vero, quell'inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più
stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento:
quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di
accontentamento, l'indizio ignaro e pietoso d'una natura inferiore,
tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d'un
tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della
vita.

O non avevo davanti a me un essere ch'io forse giudicavo troppo
frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi
offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo,
adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue
pretensioni, delle sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi
sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una
giovialità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso
perenne.

Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si
mettesse tutto quanto sott'occhi, io facevo scorrere sulla superficie di
quest'uomo il mio sguardo investigatore, e tentavo di penetrarla. Sapevo
ch'egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che
l'abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d'uscirne sempre
l'ultimo--urtante metodicità per gli apprezzamenti d'un malato di nervi
com'io sono--non s'era mutato una sola volta da quando Stazza era
entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni,
disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante
rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali
tre quarti dell'umanità va soggetta?

Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente.
Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo
incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo
così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione
mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.


III

Entrai nella stanza del direttore.

Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne
incontro e mi tese le mani.

--Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio,
caro signore... Io me ne vado.

Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che
circondavano Stazza, silenziosi.

--Un fatto deplorevole--disse il direttore, rompendo il
silenzio--L'ottimo nostro Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.

--Come!--esclamai--Così! Di punto in bianco?

Stazza chinò la testa.

Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio sulla sua
tavola.

--M'arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. Ma,
Dio mio, non avrei mai immaginato!...

Le mani di Stazza mi si protendevano, tremanti. Lasciai cadere in quelle
le mie, e le strinsi, due, tre volte. Guardai in faccia il colosso: era
turbato, ma si sforzava di parer tranquillo. Soltanto s'era arrossato un
poco più agli zigomi. Si passò una mano sulla fronte, si guardò
intorno, tornò a voltarsi verso la tavola del direttore, smarritamente.

--Dunque...--gli balbettò--Se lei mi permette... Vado. Spero bene di
rivederla, qualche volta...

--Macché! Ma vuole andarsene proprio adesso? Ma v'è tempo. Guardi,
faccia come se il decreto non glie l'avessi comunicato ancora...

--No, no!--disse lui--Mi permetta, mi scusi. Voglio essere ossequente...

--Peccato!--esclamò il direttore, come lo vide uscire e scomparire
dietro l'uscio--Dopo trent'anni!

Si levò, s'incamminò fino alla porta, si arrestò sulla soglia. Di fuori
s'udivano le voci degl'impiegati, la voce di Stazza che si licenziava,
confuse.

Il direttore rientrò. Andò al balcone, guardò nella via, senza badarvi.

Eravamo rimasti soli. Egli tornò addietro, s'appressò alla scrivania, vi
cercò qualche carta, la lesse e la buttò lì, sulla tavola, con un moto
sdegnoso.

--Mi permette?--chiedevo.

--Guardi, guardi!--esclamò--Guardi un po' con chi mi sostituiscono quel
disgraziato. Aspetti un momento... Legga pure.

Mi pose quella carta sotto gli occhi.

--Come! De Laurenzi!

--Già, s'intende. Ha brigato e v'è riescito. Entra in organico e prende
il posto di Stazza.

Soggiunse, dopo un momento, rimettendosi a sedere alla sua scrivania:

--S'accomodi pure.


IV

Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e
ruppero vetri e banchi: l'Università fu chiusa e il numero de' lettori,
nella nostra biblioteca, s'accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e
Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua,
il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl'impiegati raccolti nella sala
della distribuzione intorno all'ultimo bollettino del ministero, ove
apparivano--già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de'
nostri compagni--i nomi di coloro che o eran morti o erano stati
collocati a riposo. La constatazione de' decessi e de' _ritiri_--un
refrigerio per i superstiti--occupava quelle constatazioni e quelle
conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni
di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la
psicologia di queste sparizioni--un legame di troppo sottili e pietose
induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall'esame di
casi somiglianti--non veniva certo a turbare l'animo de' miei compagni.
Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si
dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una
_tabula rasa_ come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici
ne' quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi
occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una
pubblica taverna.

--Vuol vedere Stazza?--mi fece un di que' giorni l'usciere addetto alla
spolveratura della mia camera.

Con uno strofinaccio tra le mani s'era avvicinato al balcone chiuso e
guardava nella via, attraverso a' vetri.

--Venga, venga! Eccolo lì...

Mi levai e corsi al balcone.

--Lo vede?

--Dov'è?

--Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel
tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù,
guarda i nostri balconi.

--Difatti.

Il colosso era lì, seduto a un tavolinetto tondo sul quale stavano il
vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di
volta in volta alzava gli occhi e li faceva trascorrere sulla facciata
della biblioteca, lentamente.

--Così fa ogni giorno, da un mese--disse l'usciere.

E ripassò il panno sui vetri perchè vedessi meglio.

--Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta
fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette allo stesso tavolino
e non se ne leva che alle quindici.

--E tu come fai a saper tutto questo?

--Me l'ha detto il caffettiere. Il signor Stazza gli dà una lira al
giorno, per l'incomodo.

Mi rimisi a sedere, pensoso. L'usciere, che non si partiva dal balcone,
rideva e continuava a guardare rimpetto. E come l'alito suo tepido
appannava la vetrata di volta in volta, egli tornava a soffregarla con
lo straccio.

--Insomma,--seguitava--la biblioteca non se la vuol proprio scordare. Se
n'è dovuto andare e nemmeno la lascia in pace. Adesso ci fa all'amore da
lontano, tutti i giorni.

Non risposi. Ordinavo macchinalmente un mucchio di schede ed aspettavo,
con una certa nervosità, che l'inserviente smettesse e se ne andasse.

--Ecco che s'addormenta... Venga a vedere. S'è addormentato...

Tornai a levarmi e mi accostai daccapo alla vetrata. Stazza aveva
allungato un braccio sul tavolino e reclinata la testa sul braccio. Il
cappello di paglia gli era scivolato di su le ginocchia a terra. Un
lustrascarpe, che aveva posta la sua cassetta all'ombra, a pochi passi,
glie lo raccoglieva e lo posava sul tavolino, accanto al vassoio.

L'ora meridiana avanzava: il sole batteva su' muri. Uscì, a un tratto,
dalla bottega il garzone del caffettiere e si mise a girar la manovella
per fare abbassare la tenda, che scese, lenta. Sul deserto e largo
marciapiedi, su' tavoli, su Stazza si diffuse un'ombra uguale, per buon
tratto.

Mancava qualche diecina di minuti alla chiusura della biblioteca. E
svogliatamente, aspettando che trascorressero, ricominciavo a ordinare
le mie schede. L'inserviente se n'era andato: le vaste sale, fino a poco
prima turbate dal molesto vocio de' distributori, s'acchetavano, adesso,
in una pace profonda.

Improvvisamente--mi dimenticavo nella mia bisogna--il grande orologio
della stanza de' manoscritti suonò le quattro. Vibrò quel suono nel
silenzio, con un tintinno allegro, come di cristalli percossi. Era
l'ora. M'avviai alla porta.

Ma, sulla soglia, uscendo, m'arrestai, sorpreso. Lì sulla soglia, sul
ballatoio, su per le scale vedevo agitarsi una folla attonita,
mormorante, che quasi m'impediva il passo.

Risaliva le scale, di furia, Pandolfelli, un distributore.

Una voce gli chiese, dal balaustro del ballatoio:

--Di', è vero? È vero?...

Pandolfelli rispose, alto:

--Sì, è morto.

Mi vidi di faccia l'inserviente, in quel punto. Apriva le braccia,
smarrito.

--Stazza!--mi fece.

E battè palma a palma, convulso:

--Lì davanti al caffè, poco prima. Un colpo. Si ricorda? Quando pareva
addormentato.

Apparve il direttore, pallidissimo. Accorrevano altri compagni. Tre o
quattro lettori s'indugiavano sul ballatoio, senza comprendere.

Il direttore mi chiese:

--Scende?

Non mi sentivo la forza. Ma lo seguii, e ci seguirono pur tutti gli
altri.

Nella via, come uscimmo dal palazzo della biblioteca, il caffè ci
apparve subito, rimpetto.

La folla si pigiava davanti alla porta.

Pandolfelli si fece largo ed entrò nella bottega.

Subito ne riuscì, annunziando:

--L'hanno posto in una vettura e portato ai _Pellegrini_. Ma era morto.
Ho parlato col medico che s'è trovato a passare. Una sincope.

Uscì sulla via il padrone del caffè, con le lagrime agli occhi.

--Quel povero signore! Che disgrazia, hanno visto? Veniva qui ogni
giorno, sempre alla medesima ora. Anzi, ieri, m'aveva detto, col suo
solito buon sorriso: Lei si meraviglia, non è vero? Già: sono puntuale.
Mi hanno mandato via di là--e mi mostrava il palazzo ove stanno lor
signori--ma io ci continuo a stare, col pensiero, almeno.

La moglie del caffettiere, una piccola donnetta, era uscita anche lei
sulla strada.

Mi pose una mano sul braccio. Mormorò:

--Ma è vero che l'hanno mandato via?

La guardavo, senza risponderle. Udivo dietro di me le voci, tranquille,
dei miei compagni.

Diceva Pandolfelli a un altro:

--È morto in orario, hai visto?

La voce di quello che segnava le crocette fece notare lenta:

--Un posto vuoto.



«COCOTTE»


I

Erano le cinque ore del mattino. La grande lampada posta davanti alla
statua di legno di Sant'Ignazio ardeva nella cappella del carcere
femminile di Santa Maria ad Agnone, ancora addormentato. Fra poco le
recluse avrebbero udito la campana della sveglia e sarebbero scese a
borbottare le solite preghiere nella penombra di quel tempietto freddo e
malinconico, i cui quattro finestroni affacciano sul tortuoso vicolo
afrodisiaco intitolato dallo stesso nome delle prigioni e frequentato da
soldati e da male femmine.

In quell'ora--l'ottobre era agli ultimi suoi giorni--il vicolo,
affatto deserto, offriva a' sorci o a qualche cagnuolo abbandonato
e vagante la copiosa vettovaglia de' suoi rifiuti e della sua
spazzatura, ammonticchiati qua e là. Due fanali a gas, dal muro di
faccia alle carceri--il muro cieco e altissimo d'un monastero di
Clarisse--stendevano due braccia di ferro, una delle quali, spiccandosi
di su la piccola porta antica del monastero, coronata da un festone
marmoreo e dallo stemma quattrocentesco d'una famiglia illustre, si
puntava proprio rimpetto a uno dei finestroni della cappelletta e ne
inquadrava la sagoma sulla interna e prospiciente parete della
chiesuola, ove parte d'un vecchio quadro se ne illuminava anch'essa,
vagamente. L'altro fanale, molto più lontano, stava sulla garitta della
sentinella, addossata allo stesso muro claustrale lì ove il vicolo
cominciava a far gomito, e a qualche passo dalla porta delle prigioni.

Il silenzio era alto, la notte fresca.

La sentinella--un soldato di fanteria, che s'era posto il fucile ad
armacollo--passeggiava con le mani in saccoccia, e zufolava. Talvolta,
lasciandosi a dietro per buon tratto la sua garitta, allungava il passo
fino all'arco depresso ed oscuro ove il vicolo sbucava, nell'alto, sulla
deserta via de' Santi Apostoli. Talvolta, soffermandosi, piantato sulle
gambe allargate, il soldato interrogava lungamente, con gli occhi in su,
quella fetta di cielo che le alte mura della prigione e quelle del
monastero pareva che attingessero con le loro creste taglienti: un pezzo
di cielo sereno, rischiarato come da un lume prossimo ed invisibile. Era
imminente l'alba. Difatti, a poco a poco, cominciò a mancare sulla
interna parete della chiesetta quel riverbero giallastro che il lume del
fanale vi stampava. Si liberarono a mano a mano dall'ombra l'altare, le
scranne in fila, le pareti coperte di vecchie tele e di quadretti
votivi, il piccolo confessionale di cui lo sportello era rimasto
schiuso, e uno scarabattolo a vetri, custodia d'un presepe addossato a
uno de' pilastri.

Pareva come se da gran tempo quel luogo fosse rimasto abbandonato: vi
avevano conquistato ogni angolo le ragnatele, la poca cura della
suppellettile ve la lasciava coprirsi di polvere o di muffa e l'umidità
esalava un tanfo di terriccio rimosso. Continuando la luce a mostrare
quelle cose la breve navata del tempio anch'ella se ne abbeverò a poco a
poco tutta quanta. Si svelò, dietro l'altare, la porticina della
sagrestia, e l'altare medesimo, carico di frasche e di candelieri, si
bagnò tutto del freddo chiarore mattinale: la tovaglia ad orlo ricamato
che v'era stesa sopra vi sembrava appiccicata con l'acqua. E come, per
un vetro rotto d'uno de' finestroni, penetrava là dentro il vento a
quando a quando e sibilava, qualche volta, davanti alla statua di Santo
Ignazio, la fiamma della lampada, investita da una folata più veemente,
allora si inclinava e pareva che si volesse spegnere a un tratto.

Era giorno, adesso. Le ore suonavano al vicino orologio dal palazzo
della Vicaria, lente e chiare. Nel vicolo s'arrestò in quel punto il
romore de' passi della sentinella: il soldato contava que' rintocchi
della campana e aspettava il cambio. Difatti s'udirono altri passi
frettolosi e pesanti accostarsi dal lontano e subitamente davanti alla
garitta si posarono sul selciato, con un romore breve e ferreo, i
fucili: una voce dava la consegna, nel silenzio: e la voce della
sentinella rimossa le rispondeva piano, brevemente. Poi daccapo
risuonarono i passi cadenzati, e s'allontanarono.

D'improvviso la porticella della sagrestia s'aperse tutta quanta. A una
a una entrarono di là nella chiesa dodici suore della Carità e sedettero
a un banco, rimpetto all'altarino. L'ultima, una vecchietta, si chiuse
la porta a dietro e rimase in piedi, ritta, d'avanti alla mensola
dell'altare. Non s'era udito romore e quelle donne erano come scivolate
sul pavimento: dalle loro gonne molli e copiose non s'era partito alcun
fruscìo. Ora, nella mezza luce, le cornette bianche s'allineavano,
immobili.

Un colpetto di tosse ne scosse una, per qualche tratto.


II

La suora addossata all'altare si fece il segno della croce e disse:

--Sorelle mie, questo in cui ci troviamo per ordine della nostra
reverenda madre generale è il carcere femminile detto di Santa Maria ad
Agnone. Fino ad ora la cura delle sciagurate donne che sono qua dentro è
rimasta affidata ai Gesuiti. Ma vi sono tante necessità, tante
circostanze, non so come dire, per cui in una prigione femminile
valgono meglio le donne che gli uomini. Insomma, s'è creduto necessario
di farci venire qui a regolare non dico meglio, perchè i buoni padri
Gesuiti lo hanno fatto assai bene per quindici anni, ma con affetto, con
amore di sorelle, con tutte le cure di cui hanno bisogno, queste povere
anime vissute nel peccato.

S'interruppe. Il suo sguardo percorse la bianca fila delle cornette e vi
frugò sotto, come a interrogare le pallide facce che ombreggiavano, in
parecchie delle quali sarebbe stato difficile leggere: erano volti da
cui nulla traspariva per gli occhi, erano pupille immote, inespressive,
abituate al riverbero della passività di anime apatiche, depresse dalla
preghiera e dalla regola.

--Ho ancora qualche cosa da dirvi--soggiunse la superiora.

E mentre la chiesuola si rischiarava tutta quanta e di fuori già
suonavano voci confuse nel vicolo, ella annunziò con voce più alta e più
lenta:--Non tutte voialtre rimarrete qui, in servizio. Vi resterò io con
otto di voi. Basteremo.

Subitamente fu picchiato forte all'uscio della chiesa. Di fuori, dal
vasto cortile ove le recluse s'adunavano ogni giorno, una rauca voce
femminile urlò:

--Monache! Monache! Ove siete?...

La superiora additò l'uscio alle compagne e ordinò:

--Aprite.

La porta s'aperse. Un fiotto di luce si riversò dal cortile nella chiesa
e ne illuminò le ultime scranne. Tre o quattro donne apparvero sul
limitare dell'uscio e vi si arrestarono, irresolute.

Una di esse, con le mani in cintola, protese la testa arruffata.

--Ma dove siete?--gridò.

S'udiva, nel silenzio, il loro ansimare: come se avessero voluto per le
prime arrivare alla porticella della chiesa quelle donne respiravano
forte. E, fra tanto, per la scala dei dormitorii altre recluse
scendevano di furia nel cortile, urlando, ridendo, schiamazzando.

--Fuori, fuori!--strillò una che sopraggiungeva--Venite fuori, monache!
Vi vogliamo vedere!

Si fece largo tra le compagne, stese le braccia e tornò a gridare, in
fondo alla chiesa:

--Fuori! Fuori!

Le fece eco un urlio assordante.

--Fuori le monache!

Il cortile s'era affollato. Cento braccia si levavano, cento bocche
continuavano a urlare. Sul pozzo che non s'usava più e sulla cui bocca
era stata posta una tavola, tre o quattro delle recluse erano saltate in
piedi, per veder meglio. E a un tratto, nella folla, avanzando, le suore
apparvero e si raccolsero in un silenzioso gruppo, di faccia al pozzo.

La superiora balbettò:

--Figliuole...

Gli urli copersero la sua voce. E si mescolarono a quello schiamazzo
spaventevole le apostrofi più insultanti, le più feroci invettive, delle
risate scroscianti, delle frasi impure e minacciose. Intanto la scala
de' dormitorii seguitava a rifornire il cortile: ora, più lentamente,
scendevano le anziane, orribili megere, discinte, qualcuna scalza
perfino, qualcuna appoggiata a un bastone.

Vi fu un momento di silenzio. La fila delle suore si rinserrava. Strette
l'una all'altra, pallide, palpitanti, gli occhi pieni dell'orrore della
scena, esse affisavano sullo spettacolo insolito il loro sguardo
impaurito. E s'udiva in quel silenzio un balbettio cadenzato, quasi un
canto sommesso: una idiota sedeva al sommo della scala dei dormitorii e
cullava sulle ginocchia un fantoccio di stracci la cui testa informe
aveva incappucciata in una piccola cuffia bianca. Il fantoccio andava su
e giù in grembo all'idiota, ed ella, piegata su quel sudicio fagotto,
seguitava a ninnarlo:

--Oh, oh! Dormi, figlio... oh, oh!...

--Taci!--le gridò una vecchia--Finiscila!... Tutta la santa giornata il
lamento di questa scema!

--Insomma?--fece un'altra, rivolta alla superiora--Tu non parli, eh,
mamma grande?

--Ve lo dico io perchè non parla--esclamò un'altra--Questa santa
donna...

Scoppiò a ridere. E mosse incontro alla suora, minacciosa.


III

Era una delle più singolari di quelle sciagurate. Alta, bionda, vestita
d'un camice roseo dalle larghe maniche orlate d'un pizzo gialletto che
s'era sciupato e sbrandellato, ella aveva dei braccialetti a' polsi, e
al collo nudo un filo d'oro da cui pendeva una medaglietta. Con la mano
sinistra ora raccoglieva sul fianco la vestaglia, e appariva da quel
lato, fino al polpaccio, la gamba calzata di seta nera; a' piedi aveva
scarpini bianchi, trapunti, d'un taglio elegante, e li trascinava su pel
sudicio selciato del cortile. Certo era stata bella un tempo: ma adesso
faceva paura. La sua voce rauca, alcoolizzata, d'un timbro maschile,
superava tutte le altre. Un tremito spasmodico le percorreva di volta in
volta le labbra, a' cui umidi angoli si raccoglieva una lieve e lucente
schiuma bavosa. De' grandi occhi azzurrini nei quali palpitava
quell'aura epilettica onde lo sguardo si esprime singolarmente tra il
terrore e lo spasimo, entro gli orli arrossati delle palpebre
ammiccavano di tanto in tanto, come offesi dalla troppa luce.

--Non parla poichè ha scorno! Noi le facciamo scorno, si capisce! Non è
avvezza, la santa donna!

Fece un altro passo. E posò la mano sulle braccia conserte della suora.
Sporse il capo. L'affisava muta.

--Ti secca, non è vero? Hai ragione. Delle suore tra le omicide, le
ladre, le male femmine!...

Incrociò le braccia anche lei. E a una a una, curiosamente, squadrò le
altre monache rimaste mute anch'esse e immobili. Nessuna di loro
sostenne quello sguardo sfacciato: le suore abbassarono gli occhi,
rabbrividendo.

--Dunque rimarrete con noi, non è vero?--disse la bionda--Onoratissime!

--Rispondi!--urlò un'altra alla superiora--Rispondi a _Cocotte_!

Allora la superiora rispose:

--Sì. Nove di noi. Le sceglierete voi stesse.

--Come!--disse quella che chiamavano _Cocotte_--Ma davvero?

--La nostra madre generale vi accorda questa facoltà.

--Voialtre! La sentite? Abbiamo il diritto di scegliere!

E _Cocotte_ si voltò a dietro e chiamò le compagne con la mano.

Cento voci urlarono:

--Alla scelta! Alla scelta!

L'orribile turba frenetica si riversò sulle suore e le circondò, le
agguantò, se le contese. Proruppe un assordante vocio.

--Io voglio quella!

--Io questa!

--Io quest'altra!

--La bruna!

--La grassa!

--Quella più modesta!

--Di qua, di qua! Da questa parte!

--Silenzio, silenzio! La vecchia vuol parlare!

--Ascoltate!...

--Un momento! Bisogna contare le prescelte!--disse una dal viso
sconciamente butterato--Devono essere nove, con la vecchia.

Sotto il sole, davanti al pozzo, la fila delle suore aspettava.

Ora la butterata, con l'indice teso, s'era messa a contare.

--Una, due, tre, quattro, cinque e sei...

--Otto devono essere, le giovani--la interruppe _Cocotte_--E ne manca
una...

Lievemente una mano le sfiorò il gomito. Una voce le mormorò:

--Prenda me...

_Cocotte_ si volse. La suora che le aveva parlato ora chinava la testa:
le sue braccia, nelle larghe maniche chiuse a' polsi, pendevano come
abbandonate. Un tremito impercettibile le correva lungo le mani bianche
e nervose, che a un tratto s'afferrarono alla molle sottana azzurrina,
convulsamente, e se ne empirono, come se volessero strapparla...

Gli occhi arrossati della vecchia peccatrice cercarono di spiare tra
quel soggolo e quella cornetta.

Gli urli ricominciavano.

--Alla scelta! Alla scelta!

Disse _Cocotte_:

--Tocca a me. Scelgo io.

Stese la mano: prese il mento della suora tra pollice ed indice e
lentamente le sollevò la testa. Un viso quasi ancora infantile, una
pallida faccia di giovinetta si coperse subitamente di luce. Due grandi
occhi cilestrini s'affisarono sulla reclusa, ansiosi e sbigottiti.

--Ma guarda!--fece _Cocotte_--È carina!... E come ti chiamano?

La suora balbettò:

--Suora Vittoria.

_Cocotte_ le mise la mano sulla spalla, si volse alle compagne e
annunziò:

--Io scelgo questa.


IV

A poco a poco il cortile si era vuotato. Ora un'improvvisa calura
sciroccale umida e greve occupava l'aria. Il sole scottava. In quello
spiazzato irregolare, rinserrato da muri grigi, alti e interrotti da
linee non simmetriche di finestre e di poggiuoli, la luce pioveva come
in un pozzo e vi si raccoglieva pesantemente. A uno de' poggiuoli era
seduta una reclusa, incinta, e rammendava un panno bianco che le si
distendeva sul ventre rotondo e gonfio. Guardava abbasso, di volta in
volta, e poi levava un lembo del panno per passarlo e ripassarlo sulla
fronte sudata. Due altre donne, affacciate alla finestra accanto,
chiacchieravano, e una fumava una sigaretta e sputava continuamente
sotto, su un mucchio di calcinacci. E passavano e ripassavano dietro
alle altre finestre altre recluse, e attraversavano corridoi e
dormitorii, dai quali usciva un confuso vocio, uno strepito di voci
discordi e di risate, un fracasso di porte e di vetrate sbattute. Nella
infermeria, i cui quattro poggiuoli stampavano sul bianco muro rivolto a
mezzodì il vivace colore de' loro stipiti dipinti di verde, una suora
già era sopraggiunta e apriva le persiane, sbatacchiandole sul cortile.
Accanto, vestita d'un camice grigiastro e tutta raccolta sopra uno
sgabelletto, a un cantone d'un altro poggiuolo, una malata infilava alla
gamba scarna e nuda una calza, e si voltava a quel romore.

Improvvisamente la campanella del refettorio tintinnò. Le tre porte del
refettorio s'apersero, giù a pian terreno, sotto gli archi che da quel
lato ricorrevano davanti a un breve peristilio. Erano le otto del
mattino e a quell'ora le recluse scendevano a sorbire il caffè. S'udì
subito là dentro un romore di panche trascinate sul pavimento, s'udirono
cozzare le chicchere e a un tratto, mentre si faceva un silenzio
profondo, una voce lenta e nasale giunse di là fino al cortile.

--Figliuole, un'altra giornata della nostra vita principia. Ringraziamo
la santa Vergine Maria, che ci ha concesso di vivere quest'altra
giornata, e promettiamole di averla presente in tutte le nostre azioni.
Un'avemaria secondo la intenzione di ciascuna di voi.

Seguì un breve mormorio come di preghiere recitate sommessamente. Poi
ricominciarono lo strepito e il vocio.

--Hai sentito?--fece _Cocotte_ a una spilungona che si trascinava dietro
una seggiola in cortile e vi cercava un posto all'ombra--Ci raccomandano
alla santa Vergine. I Gesuiti ci raccomandavano a quel bravo Eterno
Padre, ti ricordi?

Levò il braccio e puntò al refettorio la mano spiegata.

--Idiote!--urlò.

E subito dette in una risata folle, tenendosi i fianchi, battendo i
piedi a terra, scotendo i pugni stretti.

L'altra aveva trovata l'ombra e s'era seduta. Aveva cavato un coltellino
e s'era messa a sbucciare un'arancia.

--Levati dal sole--ammonì.

E una voce, da una finestra, ripetette, forte:

--_Cocotte_, levati dal sole!

--Ieri il Padre Eterno, oggi la santa Vergine!--strillò
_Cocotte_--Napoli! Roma! Firenze! Si cambia!

Ora s'accendeva e s'agitava, sorpresa da que' suoi vapori convulsivi
per cui si cominciava a mano a mano a scolorire nel viso, a tremare, a
balbettare parole senza senso.

Fece ancora qualche passo verso gli archi del peristilio e a un punto si
soffermò, piegandosi quasi, allungando il collo, spiando...

--La piccola!...--mormorò.

Suora Vittoria appariva sotto uno di quelli archi.

Allora l'epilettica le si avvicinò, pian piano, con un sorriso ebete.

--Badi!--fece alla suora quella dell'arancia, e si levò--Badi! È
malata!...

Suora Vittoria stese la mano, come per difendersi. _Cocotte_ glie
l'afferrò a volo e la strinse forte e la tenne fra le sue, borbottando.

Vi fu un silenzio pauroso. Adesso l'epilettica, estatica, la bocca
spalancata, affisava la suora. E sul suo volto inquieto, impallidito
improvvisamente, e negli occhi suoi stralunati cresceva un terrore
subitaneo e angoscioso. Le sue labbra si sforzavano di articolar parole
che vi s'interrompevano confusamente e vi morivano tra un suono
gutturale. Poi, lentamente, le sue mani si rilassarono. Il balbettio
scemò, s'udì appena. Ed ella si ritrasse, tutta raccolta sopra se
stessa, piegata, in un atteggiamento di bestia.

Mise un alto strido, d'un subito, e barcollò.

--Scendi, Rita!--gridò la spilungona a una finestra--Porta un cuscino!

Accorreva, con la bocca ancor piena.

--Qui! Qui! Voialtre!

Sopraggiungevano le recluse, dal refettorio. _Cocotte_ era caduta sul
selciato, con un tonfo sordo. E come la suora, in quel punto, le aveva
profferto le braccia l'epilettica le si era avvinghiata a' fianchi, se
l'era trascinata addosso e se la premeva sul petto ansante.

Al sole ardente che lo investiva quel gruppo di membra s'aggrovigliava e
sobbalzava. Le braccia di _Cocotte_, nude fino alla scapola, ora
percotevano l'aria, i suoi denti stridevano, ed ella mugolava come un
bruto ferito.

--Lasciala!--gridò la butterata alla suora--Scostati!...

Si chinò, l'afferrò per la vita e tentò di svellerla da quelle braccia
che l'avevano riafferrata, irrigidite e tenaci.

--Lasciala!

_Cocotte_, sfinita, ricadde di peso e restò immota.

La suora le passò una mano sotto il capo, si piegò, posò la sua guancia
su quella faccia stravolta e bruttata di sozza bava sanguigna.

La butterata, ginocchioni, cercava di liberarla e le urlava, faccia a
faccia:

--Ma sei pazza!... Ma bada!... Ricomincerà!...

Allora la piccola suora balbettò, soffocata da' singhiozzi:

--Mia madre... Mia madre...



IL POSTO


L'ultima sera di dicembre del 18... il mio portinaio mi mise sul breve
tavolino che mi serviva da tavola da pranzo e da scrittoio una lettera
sulla cui busta era stampato tanto di _Ministero della Pubblica
Istruzione_. Il decreto di nomina. Professore--finalmente!

Ed eccoti--pensai, spiegando quel foglio e scorrendolo con una rapida
occhiata--eccoti dunque pedagogo a venticinque anni, nel meglio della
vita e con tante altre e ben diverse illusioni nel cuore! Sta bene. E
ora va: e insegna ai giovanetti sulla scorta dei soliti programmi: e
ragiona loro de' fatti di Pirro e di Leonida, delle guerre
peloponnesiache e della ritirata dei Macedoni...

Lentamente, ricacciai quel foglio nella busta è la riposi sulla tavola.
E rimasi lì, seduto davanti ad essa e quasi meravigliato della serenità
con cui accoglievo quella notizia pur così attesa e che quasi non così
presto mi aspettavo. Come!--pensavo--Tu conquisti un posto sicuro e che
t'assicura la vecchiaia--tu riesci a procurarti uno stipendio certo
quando tanti altri, più vecchi di te, e più meritevoli, e più umili ne
sognano invano uno anche minore; tu raggiungi la piccola gloria
dell'insegnamento, un titolo, l'avvenire, infine--e non benedici la
provvidenza, e non ti reputi fortunato?

Vero, vero; solo al mondo, oramai--mia madre era morta nel luglio
dell'anno precedente e avea seguito mio padre laggiù nel breve cimitero
del mio paesello--io avevo dovuto, fin qua, vivere a Napoli--in questa
città così grande, così espressiva, così movimentata--la vita dello
studente povero e sconosciuto che si può appena permettere il lusso d'un
solo e parco asciolvere al giorno e di un unico vestito all'anno. Un
altro, dunque, al posto mio sarebbe stato davvero più contento.

Ma io rimasi lì, al cospetto di quella partecipazione, che parecchi dei
miei compagni m'avrebbero certo invidiata, quasi a malinconicamente
contemplarla. Per altri la vita cominciava di là, da quella carta. Per
me, pareva che lì si dovesse arrestare. Sì, sì, arrestare! Come
ritorcere l'animo mio, che si voltava addietro e vedeva a mano a mano
allontanarsi, svanire quasi come in una nebbia fredda i più teneri
ideali ch'esso aveva accolto fino ad ora? L'arte, la poesia, la
letteratura, tutto un miraggio luminoso di plauso e di successo si
dissolveva--e agli occhi della mia fantasia, che or andava architettando
cose e persone e luoghi novelli, già, con una gelida evidenza,
apparivano la scuola, la simmetrica linea dei banchi, le austere pareti,
e l'ardesia e la cattedra dalla quale sarebbe suonata, su d'un tono
ammonitivo, la mia povera voce non avvezza alla formola pedagogica.

Tornai ad aprire la busta, macchinalmente. Tornai a gettar gli occhi su
quel foglio timbrato, percorso da una di quelle perfette calligrafie
d'amanuensi le quali constituiscono il merito più considerevole
degl'impiegati a' Ministeri. La partecipazione era estetica: il mio nome
era scritto in rondino...

Una voce squillò improvvisamente nella mia camera...

--Carlo! Carlo!

S'era spalancata la porta e Matteo Barra, il mio compagno di studio e di
stanza, quasi mi si precipitava addosso.

Io m'ero levato, commosso. Buon figliuolo! Il portinaio, o qualche
comune amico, o il solito bollettino del Ministero gli avevano
partecipato la mia nomina...

--Come hai saputo? Da chi?

Ci eravamo abbracciati e baciati. Egli mi guardava, ora, con gli occhi
ridenti.

--Ho fatto la scala d'un fiato!--balbettò, ansante.

Mise la mano in petto. Cavò il portafogli, le sue carte d'appunti di
«Diritto Costituzionale», il librettino in cui segnava le mie e sue
spese giornaliere. Spuntò di mezzo a quelle carte un telegramma. Egli
lo spiegò, mi trasse al balcone, me lo pose sotto gli occhi.

--Ecco... leggi!--mi fece--È mia madre. L'ho saputo da lei...

Lessi, sorpreso:

«Caterina acconsente assieme famiglia. Tutto pronto. Vieni passare qui
feste. Ti benedico. Carmela».

--Non capisci?--esclamò Matteo Barra--Non hai capito? Io mi sposo. Io
parto.

--Parti!...

--Ma certamente!--e si mise a misurare la stanza a larghi passi--E che
vuoi che aspetti? Non hai letto? Dice «tutto pronto».

Mi si arrestò d'avanti. Mi mise la mano sulla spalla.

--Tu ti ricordi di Caterina, non è vero? Della sua zia monaca?... Quella
è morta, la zia, a ottant'anni! _Requiescat_! E Caterina eredita.
Ricordi che lotte, che battaglie, che disperazioni? Bene: ora non più...
Tutto è a posto... I parenti di lei mi scrivono lettere
affettuosissime... E lei!... Lei, non ti puoi figurare! È felice, è
orgogliosa della mia laurea. Capirai, abbiamo una laurea adesso...
Dottore in _utroque_!... Ah, mio Dio! Son contento, guarda, son
contento! Andiamo a pranzo. Pago io. Voglio pagare io!...

S'interruppe. Mi guardò, meravigliato. M'afferrò pel braccio e mi
scosse, faccia a faccia.

--Ma, che hai? Carlo? Che hai?...

Guardò intorno, come a interrogare sul mio silenzio le umili e fredde
pareti della nostra stanzuccia. Io ero rimasto impiedi tra la vetrata e
le imposte del balcone. Era un momento in cui l'oscuro Vico Majorani,
laggiù a' Tribunali, taceva, penetrato tutto quanto da quella naturale
malinconia della sera che cade, dalla particolare tristezza dell'ora in
cui pare che tutte le anime si raccolgano. Brillò un lume, di fuori, a
un tratto: di faccia al nostro balcone al primo piano s'accendeva il
fanale al cantone. Arrossato nel volto da quell'improvviso fuoco
esteriore, ritto rimpetto a me, Barra mi stendeva le mani. Io le presi e
le serrai, muto.

--Ma che hai?--mi ripetette--Tu tremi?... Tu hai le mani gelate!

Balbettai:

--Senti... Credevo... M'era parso che tu sapessi...

--Ebbene? Che cosa?...

--Ho avuto il decreto, ecco... Il decreto di professore...

--Come!--esclamò--Ma davvero?...

Gl'indicavo il tavolino, sul quale il lume esterno a pena riesciva a far
biancheggiare, nella oscurità, quel provvido foglio. Barra lo prese,
s'appressò alle vetrate un'altra volta, lo lesse in fretta.

--Perdio!... Ma come!... E non mi hai detto niente!

--Che importava?

--Come! A me! Ma importava moltissimo, importava! Ma è una consolazione,
per un amico!... Carlo! Che diavolo! Dovevi subito dirmelo!... Dunque
bravo! Bravo! Son contento... Dunque eccoti a posto. Son contentone!

Aveva acceso l'ultimo mozzicone che ci era rimasto d'una stearica e ora
badava a cacciare e a pestare in fretta e furia in una valigetta qualche
camicia, de' libri, un paio di scarpe, una spazzola. Andava su e giù per
la stanzuccia, frugandovi, accrescendo a mano a mano il suo bagaglio. E
durante la bisogna continuava:

--Sì... Ti devi chiamar fortunato, via! Non ti pare?... La vita
assicurata. Ma scherzi?... Dimmi, hai visto niente i miei pettini?...
Non ti scomodare. Eccoli. Dunque... Ti dicevo, ringrazia Dio!... Sì, sì,
sono soddisfazioni meritate... Tu sei buono, tu hai un magnifico
talento, tu faresti cose grandi. Si, sì. Ma di questi tempi... La
vita... l'avvenire...

Quali parole vuote, nulle, abituali! E poi, gli premeva davvero la mia
fortuna?...

Nella penombra, ricadendo a sedere davanti alla tavola, sorrisi
amaramente. Ora Barra interrompeva il suo vaniloquio. Aveva preparato la
valigia. E pareva indeciso, mortificato, quasi. Certo, egli mi voleva
dire che l'ora della partenza si appressava, che occorreva che egli se
ne andasse.

E in quel silenzio della cameretta, quasi senza distintamente vederci,
c'intendemmo: il fluido dei nostri pensieri s'incontrò. La nostra
amicizia si spezzava, in quel punto--e a nessuno di noi importava più
dell'altro.

--Va pure--mormorai.

E mi parve di rispondere, freddamente, a quel che egli non aveva il
coraggio di dirmi.

--Senti--disse lui, decidendosi--Ho un'ora. Il tempo per pigliare un
boccone assieme. Vieni?

--No. Non ho fame.

--Non vieni?

--No.

--Hai mangiato?

--Ho mangiato.

--No, non è vero...

--Voglio dormire. Sono stanco.

Vi fu un silenzio.

--Buon viaggio--soggiunsi--Buona fortuna...

M'ero levato. Egli mi si avvicinava, confuso.

--Almeno...--mormorò--Abbracciami, almeno!...

L'abbracciai. Sentii, in quel punto, sciogliersi il mio cuore così
gonfio. Sentii che Barra era stato, dopo tutto, il mio compagno di
speranze, di privazioni, di gioie... Il suo cuore batteva sul mio così
forte, così forte!... E mi prese un tremito invincibile: la gola mi si
serrò...

Ma, novellamente, e d'un subito, rampollò dall'orgoglioso e inasprito
animo mio il tedio di questo ambiguo momento. Barra mi parve volgare e
ipocrita: la sua frettolosa espansione mi disgustò.

--Vai, vai!--gli feci.

E, sulla porta, mentre ancora gli stendevo la mano, un impeto di collera
e di disprezzo me la fece ritrarre.

--Va!--dissi--Addio!... Va pure!... Sii felice!...

--Addio...--mormorò Barra, timidamente.

Scese le scale, da prima lento, poi proprio a rompicollo. Io rinchiusi
l'uscio. Mossi diritto al lume e lo spensi.

Si rifece l'oscurità nella stanzuccia. Nell'angolo della vetrata tornò
più vivo il riflesso rossastro del fanale, e mi parve che il Vico
Majorani diventasse più cupo e più silenzioso.

Mi sentivo piegare. Cercai il letto, tastai la fredda coltre, mi vi
gettai sopra, bocconi. Il silenzio era alto. La fruttivendola, una
storpia, addormentava il suo piccolo giù, nel vico, con una cantilena
lamentosa.

Nascosi la faccia nelli origlieri. E a un tratto mi misi a singhiozzare,
convulsamente.



VECCHIE CONOSCENZE


I

--La buona sera alla compagnia!

Mi volsi. E al suono della rauca voce grossolana si voltarono pur a
guardare verso la porta i miei compagni di tavolino del _Caffè Grande al
Corso_. Era l'ercole della _troupe_ d'acrobati attendata a Giffuni
dietro il mercato bovino.

--Buonasera--risposi--Che c'è? Non si lavora?

--Macché!--fece l'ercole, raggiustando sulla piccola testa quasi calva
un sudicio berretto di pelo marrone--A Giffuni Vallepiana? E Pompei non
è meglio! Città morta, caro lei, città di barbari, non dico per
offenderla. Già lei non è giffunino.... o giffunese... Come si dice?

E sedette al nostro tavolino e cavò la pipetta da una saccoccia d'un
grande panciotto stinto di velluto rossastro.

--Giffunese--disse il telegrafista di Bartolo, levando gli occhi dalla
_Gazzetta di Venezia_ che gli mandava ogni giorno un suo ex collega di
laggiù ove il di Bartolo era stato quattro anni.

Seguì un silenzio. Il _Caffè Grande_ era quasi deserto: due mercanti
ragionavano del raccolto a un cantuccio, e a un altro sedeva, solitario,
il giovane professore di lettere del Liceo Cotugno. S'era fatto portare
il calamaio e rivedeva le bozze del suo studio sull'_Hecatelegium_ di
Pacifico Massimi, comunicando alla ruvida carta da stampe l'acre e
molesto profumo del _patchculi_ ch'egli usava portare addosso. Appiè del
banco del principale erano due o tre cacciatori di Casalferrato e
sentenziavano di cani e di fucili col caffettiere, Nemrod impenitente
anche lui.

--Un rhum!--chiese l'ercole, dopo un po', lanciando al soffitto la prima
boccata di fumo denso e puzzolente--Almeno--soggiunse, e si trasse
davanti il bicchierino--qui c'è calduccio, ci si sta bene. Hanno visto
fuori? Mezzo palmo di neve e nemmeno un cane per la via. La neve in
Ottobre? Ma dico, dove siamo? In Russia?

--Cattiva stagione--disse il di Bartolo, per dir qualcosa.

--E voi che farete?--chiesi all'ercole, che si grattava il mento e
guardava davanti a sè nel vuoto, con uno sguardo sgomento.

--E che devo fare? Domani o domani l'altro si va via. Domani è domenica
e vorrei profittare della giornata. Chissà! Bel paese Giffuni! In tre
sere settantotto lire! Cosa vuole, che ci lasci in pegno Mahmud?

Il di Bartolo si volse, con l'indice puntato sulla _Gazzetta_ al passo
che leggeva.

--Mahmud?

--L'orso bianco--disse l'ercole, grave.

--Difatti--io dissi--avrete le vostre spese...

--Spese? Altro! E poi gli incerti, caro lei. Se sapesse!

Bevve un goccetto di rhum, si passò il dorso della mano vellosa e enorme
sulle labbra e soggiunse:

--Guardi, tre cavalli m'erano rimasti e uno m'è finito a Roccadaspide,
col carbonchio. Il pagliaccio mi s'è affiochito per via e ha mezzo perso
la voce; sua sorella, la Gilda, è cotta d'un impiegato di ferrovia che
le faceva l'asino a Tricarico, e gli scrive lettere tutta la santa
giornata e non mi lavora più come prima. E la Rosetta che a un tratto mi
vien fuori con l'isterismo! Che? Contentezze grandi, caro signor
dottore!

E fregò palma a palma, con tale furia che pareva si volesse spellare le
mani.

--Mi dica, dottore, lei che se ne intende: che roba è codesta? Malattia
grave?

--L'isterismo?

--Ecco.

--E vostra moglie è isterica? Davvero non mi pareva. E che ha? Che
accusa?

--E che so, io? Dolori in petto, dolori allo stomaco, alle gambe, ai
polsi. In faccia, di certo è smagrita. L'avesse vista quattro o cinque
anni fa! Le dico, un bisciù! L'ha vista al trapezio?

--Sì, mi pare...

--Eh?...--fece l'ercole, strizzando l'occhio--Ha visto che lavoro
preciso?

Accennavo di sì, col capo. In quel punto pensavo ad altro. Il di Bartolo
s'era sprofondato nella lettura del suo giornale, ma di volta in volta,
ne levava lo sguardo per lasciarlo posare sul mio interlocutore, ch'egli
affisava, silenzioso per qualche minuto, come si fa con certe persone
nuove le quali vi suscitano un curioso interessamento nell'animo.

--Ha un cerino?--chiese l'ercole, che aveva vuotato nel cavo della mano
il fornellino della pipetta e ora la ricaricava, lentamente.

Ne prese un fascetto dalla scatola che gli porgevo e se li mise in
saccoccia.

--Scusi se mi permetto... Ma qui a Giffuni non c'è un solo cortile che
abbia uno straccio di lume. L'altra notte per poco non mi sono spaccato
il capo a un muro... Ma lei che ha, dottore? La vedo così uggioso! Che
ha? S'annoia, non è vero?

Sorrisi malinconicamente. E mentre, voltandomi, cercavo sul divanetto
ov'ero seduto, il mio _bambù_ e l'ultimo fascicolo della _Rivista
Clinica_ sulla quale il di Bartolo s'era adagiato, l'ercole, frugando
nel taschino del suo panciotto, borbottò:

--S'intende: questo non è paese per gente che vive. Denari in giro
niente: divertimenti niente. Nemmeno un teatro. Prefettura e Municipio
nello stesso palazzo, all'ultimo piano! Macché! Dopo dimani _adios_!

--Lei resta?--feci al di Bartolo.

L'altro nostro compagno di tavolino, Bazza, cancelliere alla Pretura, al
solito s'era addormentato. Usava di far questo ogni sera, e lo svegliava
il cameriere quando il caffè si chiudeva.

--Ma è presto--osservò il di Bartolo.--Guardi, non sono le dieci. Io
resto ancora un poco e accompagno Bazza. Ma lei proprio vuole andar via?

--Ho sonno--risposi--Arrivederla.

--Signori!--salutò l'ercole, che pure s'era levato e si sberrettava.

Fuori, rialzando il bavero della sua giacchetta e tossendo a piccoli
colpetti secchi, egli mi si mise allato e prese con me pel Corso scuro e
deserto.

S'era liquefatta la neve: al raro lume di qualche bottega ancora aperta
lucevano qua e là delle pozze e dei rigagnoli. L'ercole mi pigliava pel
braccio, dolcemente, e me li faceva schivare.

Facemmo una ventina di passi in silenzio.

--Abita lontano?--chiese lui a un tratto.

--Non così lontano. Ma dal _Caffè Grande_ a casa mia c'è un bel tratto.
Sono in via del Mercato.

Si fermò su due piedi.

--Come! Ma dunque siamo vicini! Io son lì, di rimpetto. Non ha visto il
mio carrozzone?

--Sì... difatti.

Ripigliammo il cammino e si rifece il silenzio fra noi, per un tratto.
Dopo un po' l'ercole riprese:

--E Bamboccetta, l'ha vista?

Lo guardai. Scossi la testa per dir di no. Egli parve meravigliato.

--Non ha mai visto Bamboccetta? Mia figlia? La piccina? Ma al circo c'è
mai stato, lei?

--Sì, una volta: non ho troppo tempo...

--Ma scusi, ci deve venire. M'onori domani ch'è domenica. Senza
complimenti... Lei mi fa chiamare alla porta e sarò ben felice. Almeno
vedrà Bamboccetta.

Pronunziando quel nome il vocione s'inteneriva. L'ercole si arrestò
un'altra volta, per un momento, come a meditare, e io pure dovetti
arrestarmi. Il silenzio era alto. A un tratto, nel lontano, fendette
l'aria il fischio del treno diretto che partiva per le Calabrie e ne
vibrò, per qualche secondo, l'eco malinconica.

Come spuntammo dal Corso nella _Via del Seminario_ ci apparvero di
faccia, nell'alto, le tre finestre del _Circolo_, rosse nel buio
profondo.

--La vita, caro signore--continuò l'ercole, seguitando nel suo
vaniloquio--è una cosa triste e pesante. Non le pare? Ho una moglie, la
Rosina, che m'è nemica mortale. Non se la può figurare: dispetti, furie,
malattie, ogni sorta di birbonate. L'ho presa a Settignano, in Toscana,
una volta che vi sono passato con tanti bei denari in saccoccia, che ora
non si vedono più. Era lì con un signore titolato, un conte, gran
femminiero, e costui l'aveva conosciuta in compagnia Roussel, a Firenze,
e se l'era portata via in campagna. Bene; dopo un po' eccoti il
signorino che ti pianta lì quella creatura senza neppur dirle:
obbligato. Arrivo io, comincio a lavorare, la Rosina mi viene a narrare
i suoi patimenti e così senz'altro me la metto in casa. Sarà stato un
sette anni fa: dico bene: l'anno appresso m'è nata Bamboccetta. La rosa
fra le spine, caro lei, la...

S'interruppe, si piegò, per frugare con lo sguardo nella oscurità della
strada. E in quell'atto, col capo avanzato, rimase qualche secondo.

Lontano nella piazza del mercato, ove il carrozzone degli acrobati
scompariva nel buio fitto, brillava, come una lucciola sorvolante, la
piccola e rapida fiamma d'uno zolfanello, e subito si spegneva. Io la
vidi: all'ercole forse sfuggì. Egli si era quasi rivolto addietro e
continuava a spiare.

--Chi va là?--fece a un tratto.--Rigo?... Sei tu, Rigo?...

Non rispose alcuno. Ma un'ombra era scivolata lungo il muro, dall'altra
parte, e aveva svoltato al cantone.

--Che volete fare?--dissi all'ercole, piano.--Qui a Giffuni non sono
ladri. Sarà qualche amante...

--M'era parso Rigo--borbottò.--Sa, quello che mangia la stoppa accesa.
Il gobbetto. Una vipera... Ma lei è arrivata?

Ero giunto a casa, difatti, e m'arrestavo davanti al portone. Accesi un
moccoletto che portavo addosso per la bisogna e si fece un po' di lume
sotto l'arco barocco. E a quella luce indecisa che saliva a stento fino
alla testa dell'ercole, mi parve di vedere impallidito il suo volto e
diventati minacciosi quei piccoli occhi tondi, fino allora così
inespressivi.

Stesi macchinalmente la mano. Egli la strinse fra le sue, diacce, e
dell'atto che non s'aspettava parve sorpreso a un tempo e commosso. D'un
subito lasciò la mano, mi voltò le spalle e scappò fuori. Andava lesto.
Risuonò per buon tratto il romore dei suoi passi precipitosi, nella
notte, e poi daccapo tutto tacque.

Come entrai nella mia stanza da letto mi feci al balcone che dava sulla
via, e lo apersi, e ficcai lo sguardo laggiù nelle misteriose tenebre
del mercato bovino.

La notte era fredda. Sgusciò nella mia camera, per lo schiuso delle
vetrate, una folata di vento e quasi me le spalancò a dietro. Mi
rivoltavo per tornar dentro quando un grido, all'improvviso, ruppe il
profondo silenzio, e seguirono al grido un rumore confuso, un tramestio,
laggiù, presso alla baracca, e subito un va e vieni di lumi e d'ombre.
S'illuminò dopo un poco--ero rimasto lì inchiodato al balcone--la
finestra terrena della caserma dei carabinieri, poco lontana dalla
baracca, e novelle ombre frettolose passarono e ripassarono in quel
chiaro. Appresso i lumi si spensero intorno intorno, e tornò il buio
impenetrabile.

All'aria m'era entrato addosso un gran freddo. La naturale emozione che
anche mi penetrava mi tenne desto sotto le coltri per un bel po'. Che
cosa dunque era accaduto nella baracca dell'ercole? Al mattino lo seppi.
La Rosina se ne era scappata via col pagliaccio, e quel Rigo, il
gobbetto, le aveva tenuto mano. E l'ercole aveva accoltellato il
gobbetto.


II

Cominciò Giffuni a parermi detestabile, a un tratto.

Fin qua, da un paio d'anni durante i quali vi avevo tranquillamente
esercitata la mia professione di medico condotto, nella piccola
cittadina mercantile e malinconica io avevo represso, fin da quando vi
ero arrivato, ogni moto ribelle del mio carattere così ombroso, è vero,
e pur così passionale e sincero. Bisognava mutar vita addirittura. Io
stesso, al quale erano state offerte residenze migliori, avevo preferito
questa che mi dicevano uggiosa e difficile e dove m'avevano
accompagnato da Napoli, in una triste giornata di marzo, il vento, la
pioggia fitta e un'aria scura e fredda, così che m'era parso come se
m'avessero inteso e compianto fino gli elementi della natura. Una
piccola camera ch'era stata d'un pretore e poi d'un commesso
viaggiatore, lì, in via del Mercato, in un vecchio e sdrucito palazzo
del seicento, detto la _Casa del Conte_, m'accolse da' primi giorni in
cui giunsi. M'ero, a mano a mano, costituita una clientela, difficile ma
sicura, tra la gente del vicinato: e l'_onesta_ mia maniera di vivere me
l'aveva accresciuta. In provincia si continua ad essere stimati per
questo. Avrei pure, voglio dirlo, potuto bene ammogliarmi là basso: ma
mi sarebbe toccato di seppellirmi a Girifalco, addirittura in mezzo a
contadini sorvegliati e maltrattati da qualcuno di que' possidenti che
mi avrebbe, sì, preso a genero ma del quale avrei finito per ereditare
con le sostanze pur quella missione autocratica.

In verità, già da quattro o cinque mesi prima del fatto dell'ercole,
scrivevo e riscrivevo a Napoli per farmi cavar via da Giffuni. Se vi
dico che dalla sera delle coltellate a quel Rigo il mio desiderio
assunse quasi una forma di nevropatia, d'impazienza, di sofferenza
angosciosa crederete che io esageri. Ma fu proprio così. La mattina dopo
quel fatto l'ercole m'era passato sotto gli occhi mentre mi asciugavo la
faccia al balcone, dietro i vetri appannati. Vedevo venire dal mercato
alla mia volta una folla che a mano a mano ingrossava. Fregai
l'asciugamani a un vetro e distinsi ben tutto nella via. L'ercole era
lì, tra' carabinieri, ammanettato. Gli avevano buttato addosso un gran
cappotto ed egli, muto, procedeva, scotendo il capo. I carabinieri,
infilavano i guanti. Lo conducevano alla prigione.

Non mi vide. Ah, fu meglio! Roba da niente, direte, solite storie che
seguono tutti i giorni, cose che s'incontrano a ogni passo. Sì, è vero.
E pur io non potrò mai dimenticare quel triste corteo silenzioso, sotto
quel cielo opalino di Giffuni, nell'augusta via fiancheggiata da scure
bottegucce--e quell'infelice che strappavano al romoroso suo Circo per
chiuderlo in un carcere.

Per tre o quattro giorni si rifece alla memoria degli occhi miei,
doloroso e insistente, quello spettacolo. Seppi fra tanto che
Bamboccetta, la piccina, se l'era portata via la madre; che per la
Gilda, rimasta a Giffuni, s'era fatta una colletta--e mi vi dovetti
anch'io sottoscrivere--per farla partire per Tricarico ov'ella andava a
cascare addosso all'impiegato postale; che la roba dell'ercole era stata
sparsa un po' qua un po' là in consegna al Tribunale. I carabinieri
presero l'orso bianco e lo chiusero in un sottoscala: il figlio del
sindaco accolse i due cavalli nella sua scuderia. Ogni giorno, a prima
ora e daccapo verso il tramonto, s'udivano gli urli rauchi dell'orso,
che forse aveva fame.

Nel gennaio dell'anno seguente ottenni di passare a Casagiove, in Terra
di Lavoro. Toccavo, come si dice, il cielo col dito. Casagiove è lontano
da Santamaria di Capua un tiro di fucile e da Santamaria si viene a
Napoli in un'ora di ferrovia. A Napoli, nelle frequenti scappate che vi
feci, tastavo terreno ogni volta. Alla residenza leggevo giornali, e
badavo a guardare in terza pagina, se mai vi fossero annunzi di
concorsi. Mi facevo fin mandare da Napoli la _Gazzetta Ufficiale_, da un
mio ex compagno di scuola diventato giornalista.

Passarono così altri due anni, quando la morte di un mio zio mi fece
ottenere un congedo di quindici giorni, durante i quali mi sostituì a
Casagiove un medico di Caserta.

A Napoli volli, tra l'altro, rivedere e salutare i miei maestri. La
vecchia via di Sant'Aniello, che avevo tante volte percorso per recarmi
all'Università alle cattedre anatomiche, io ritrovavo immutata, deserta
sempre e silenziosa, con la sua piazzetta nuda e sudicia, sparsa di
rifiuti e di mucchi di pietre tra le quali perfino era nata l'erba.
Ripensavo, attraversandola, agli allegri anni in cui m'ero posto, come
si dice, in carriera, all'anno emozionato in cui m'ero addottorato
medico, all'_internato_ nello spedale degl'_Incurabili_, così
impressionante per me, in quel vasto e solenne ricovero, ove avevo tanto
visto soffrire.

Ora ne ascendevo lentamente le scale marmoree e dietro di me vi si
affaticava un'itterica contadina, incinta, che sospirava forte e a ogni
gradino s'arrestava a ripigliar fiato. Di sopra, appoggiato a due
infermieri, scendeva al gran cortile soleggiato--ove i parenti,
aspettandolo, gli preparavano cuscini in una carrozza--un giovane
convalescente, ancora assai pallido, ma così lieto, così felice
d'andarsene!

Gl'inservienti mi riconobbero.

--Oh, signor dottore nostro! Riverito dottore! Beato chi vi rivede!

Mi sorrideva anche il convalescente, con lievi cenni di saluto. E, a
poco a poco, rividi, lassù, tutti. Nella spaziosa e luminosa _Sala
Cotugno_, ch'era stata, anni a dietro, la mia seconda casa, rividi le
suore, gl'infermieri, il farmacista, il reverendo confessore, sempre
florido e roseo tra tante bianche facce esangui.

--Guardate chi vi riconduco!--esclamò l'adorabile vecchia suor Agata
che, al solito, m'aveva preso per mano e ora mi poneva di faccia al
primario professore X... mentre costui dalla sala _Severino_ entrava
nella _Cotugno_ in mezzo ai discepoli.

--Giovannino!--fece lui, che usava di chiamar ciascuno col suo nome di
battesimo e ricordava mirabilmente quelli di tutti--Chi si rivede! Che
c'è? Ritorno del figliuol prodigo? Vieni, vieni dentro...

Si avviò, seguitando:

--Benissimo. T'invito a pranzo. Uno che s'è fatto onore, signori miei.
Medico condotto in Terra di Lavoro. Bene, benissimo. Come dite voi, suor
Agata? _On revient toujours_...

S'era arrestato presso un letto intorno al quale già quattro o cinque
degli scolari si radunavano.

Il malato con un bianco berretto da notte in capo, col petto scoverto,
si lasciava tastare.

Lo riconobbi subito. Era l'ercole di Giffuni.


III

--Ma sa che ho pensato a lei tante volte da che sono qua dentro? Mi dia
la mano almeno: ora non glie la lascio più come quella sera, si ricorda?
Mi avrà perdonato? Non può immaginare cosa mi sentivo dentro, allora...
Non si mette a sedere?

Sedetti accanto al letto. La mano che premeva la mia sulle coltri era
calda: mi pareva febbricitante. Egli era rimasto addossato a' cuscini,
col bianco e largo petto scoverto.

--Ricopritevi--dissi--E non vi rigirate per guardarmi. V'ascolto lo
stesso.

L'ercole sorrise, con quell'aria sua solita d'amarezza e di bontà. Il
suo corpo rimase immobile. La testa soltanto si rigirò lentamente dalla
mia parte.

--Egli è che ho piacere di vederla. Non la vedo da tanto tempo! Saranno
tre anni, o sbaglio?

--Due anni e tre mesi. S'era in ottobre...

--È vero... E lei ricorda quella sera della fuga? Lo sa che la Rosina mi
scappò via col pagliaccio? Ah, lo sa? Bene. C'era stato di mezzo quel
Rigo, il gobbo, che aveva preparata la fuga e mi sorvegliava. L'ombra
che scivolò lungo il muro... La ricorda? Rigo. Maledetto!...

Si tacque per un momento. Respirava forte, quasi a stento.

Stavo per dirgli che smettesse di parlare quand'egli continuò:

--Presi un anno e tre mesi di prigione per ferite volontarie. Rigo se la
cavò con quaranta giorni d'ospedale: ha il diavolo che l'aiuta, il
mostro. E poi? Poi, si figuri, caro lei, che vita allegra quando sono
uscito dal carcere! Tutto perso, bestie, roba, arnesi: una rovina. E poi
la solitudine. Solo, solo! Tutti scomparsi, e io solo come un cane!

S'accendeva e ansimava. Il respiro faticoso gli sollevava le coltri sul
petto.

Per poco rimase silenzioso. Qua e là degl'infermi si lamentavano,
qualcuno chiedeva da bere, con un piagnucolio da bambino.

L'ercole riprese, più lentamente e più basso:

--Ho ricominciato a lavorare, da solo. Cercavo di farmi coraggio. Ma che
vuole, a volte mi cascavano le braccia. I ricordi, la mancanza di
esercizio... Specie i ricordi, caro lei, che mi tormentano sempre.
Cercavo di scordare, d'avvezzarmi a questa vita nuova. Macché! E a un
bel momento ecco che principia a pungermi in petto qualcosa come una
spina... Ma davvero, sa, un dolore, una fitta che lei non se lo può
immaginare...

Lo guardai più attentamente. L'abito della diagnosi da' caratteri fisici
soffermava il mio sguardo sullo sciagurato. Labbra esangui, muscoli
denutriti, cianosi al lobulo degli orecchi, a' pomelli, al lobulo del
naso: l'occhio destro gonfio, il collo tumido, turgide le giugulari...

--V'hanno osservato il petto? Picchiato in petto?

--Picchiato? Altro! Non fanno che questo. Ma scusi, che vogliono dire
tutte queste linee che mi segnano in petto con la matita rossa?

--Regioni in cui si ritrova ottusità--mormorai, come se parlassi a me
stesso.

Egli rimase muto per un poco, meditando. Poi soggiunse:

--Ha mai veduto la Rosina?

--No: mai più.

--Lo sa che mi portò via pure Bamboccetta? La piccola?... Figlia del
pagliaccio, sa, non mia... Lo lessi in certi pezzettini d'una lettera
che rinvenni laggiù, nella baracca...

La sua voce si velava. Egli era commosso. Strinse i pugni, fece per
sollevarsi e non potette. Levò gli occhi al cielo e li riabbassò,
inumiditi. Due lagrime gli scesero, lente, su per le pallide gote e vi
brillarono.

--Andiamo!...--balbettai--Coraggio! Guarirete e dimenticherete.

--Sì--mormorò, cupo--Voglio guarire e mi voglio vendicare!

--Perchè non cercate di riposare un tantino?...

E mi levai. Vedevo mover daccapo alla volta del letto dell'ercole il
professore e i suoi scolari.

--La rivedrò ancora?

E l'ercole mi strinse la mano, aspettando che glie lo promettessi.

--Certo. Tornerò.

--Lei è buono... Ha visto che cosa è la vita?... E la mia, signore?...
Che calvario!... L'ingratitudine... Bamboccetta...

Balbettava ancora parole che io non compresi.

Il professore gli s'era avvicinato: gli scolari circondavano il letto.

Mi trassi da parte. L'ercole, come preoccupato, si guardava attorno,
guardava i giovani che fra tanto gli scoprivano il petto un'altra volta.

La lezione pratica principiava. Mi trassi a dietro a poco a poco, giunsi
fino alla porta della sala e lì quasi sperai di non udire la voce del
mio ex maestro che parlava, alto, a' discepoli. Ma, nel silenzio che
s'era fatto nella corsia essa suonava chiara e distinta, con quel
leggero suo tono declamatorio.

--L'influenza del sesso si spiega assai naturalmente pel genere di vita
speciale a ciascuno d'esso, che imponendo all'uomo--come nel
caso--sforzi muscolari più violenti e dei movimenti più energici,
aumenta in lui l'energia della impulsione cardiaca e dispone le sue
arterie a pressioni e a stiramenti che possono essere fatali, che sono
anzi, quasi sempre, fatali.

Addossato allo stipite della porta mi sentivo quasi male. Ah, la vita,
la vita! Povero ercole! E ora comprendeva egli la sua condanna?...
Chiusi gli occhi. Rividi, come in un sogno, Giffuni, la piazzetta del
mercato, la grande baracca, quelle viuzze malinconiche e anguste. Le
immagini della Rosina, del pagliaccio, dell'ercole passarono e
ripassarono confusamente davanti agli occhi miei, come in una nebbia...

La voce del professore continuava, implacabile:

--Noi definiremo l'aneurisma un tumore pieno di sangue liquido e
coagulato, distinto, si noti, dal canale dell'arteria con cui esso
comunica e consecutivo alla rottura totale o parziale delle tuniche
arteriose. Voi conoscete, o signori, la conseguenza fulminante e
inevitabile...



DONNA CLORINDA


I

Una mattina d'autunno donna Clorinda, destandosi, si vide accanto
stecchito il poveruomo che le aveva tenuto compagnia per quarantacinque
anni. Era morto d'apoplessia nella notte, e lei non se ne era accorta.

Da prima immaginò che fosse stato per una di quelle solite sincopi alle
quali lo sciagurato andava soggetto. Poi, come lo scoteva e quello se ne
rimaneva lì irrigidito, già quasi nero e con certi occhiacci spalancati
e freddo freddo, la vecchia pazza si mise a sedere in mezzo al letto e
con le mani in grembo, muta, indifferente, s'indugiò a contemplare quel
corpo immoto, chiazzato nella faccia--la quale pareva che rispecchiasse
ancora il terrore dell'ultimo momento--di alcune macchie di livido.

Il lume del giorno veniva dentro in quella stanza, ch'era tutto il loro
quartiere, per una finestra che affacciava sul vasto cortile scoverto
dell'antico monastero di _Santa Caterina a Formiello_: una scialba luce
autunnale bagnava freddamente le coltri del letto, ma qualche angolo
della cameretta--che un tempo era stata cella--accoglieva ancor l'ombra.
Lì, tra due seggiole zoppe, era per terra un piattello con l'acqua, e il
cane in quel punto vi si dissetava: un barbone sudicio, che accompagnava
su' vapori inglesi e nelle trattorie del Piliero il marito di donna
Clorinda, Mastia, un siciliano, pittore di paesaggi. Nel silenzio
dell'ora si udì per un pezzo il chioccolare dell'acqua che il barbone
lambiva avidamente. La vecchia si volse e guardò da quella parte. Poi
tornò a contemplare il marito, con occhio tranquillo. E gli parlò piano,
lentamente:

--T'u dissi: nun bíviri!

Null'altro. Era ella così disposta, per naturale sua filosofia, a tenere
per fatali somiglianti circostanze della vita e a non farsene vincere? O
quel vecchio cuore indurito non aveva mai palpitato? Oppure con gli anni
e con la vita stentata e per il nessun amore che Mastia le aveva
dimostrato fin da principio, s'era inaridito ogni sentimento in lei, che
un tempo era stata pur giovane e bella e amorosa? Chi lo sa? Sul
silenzioso orrore della nuda e fredda stanza pesava come un rigido
mistero, e quella morte improvvisa non certo lo discioglieva. Intorno
alla camera di Mastia erano altre povere camere abitate da gente anche
più povera di lui: l'immenso fabbricato di _Santa Caterina a Formiello_,
una volta claustro impenetrabile, accoglieva ora centinaia d'oscure e
miserabili creature, e ciascuna covava là dentro il suo segreto e il suo
dolore. Di volta in volta, tra quelle spesse mura di convento che
ammorzavano ogni romore e soffocavano gridi angosciosi o selvaggi,
scoppiava la catastrofe di un dramma: talvolta fin v'era scorso il
sangue. Tuttavia, non la più comune manifestazione della vigile
curiosità partenopea s'era espressa in quel momento da parte degli altri
inquilini: solo qualche porta pesante s'era schiusa sul corridoio in
penombra per subito rinserrarsi, ricacciando a dietro una pallida e
paurosa testa femminile. A ciascuno bastava la propria miseria. E sulla
sera, dopo l'accaduto, era rimasto deserto quel lungo e vasto corridoio,
sorvegliato solamente dalla luce rossiccia del lanternone che il custode
v'attaccava a una parete e che per breve tratto coloriva, disotto, le
antiche mattonelle del pavimento, componenti a quel posto una stinta e
barocca decorazione secentesca, tutta svolazzi verdi e giallicci. Cumuli
di spazzatura, ammonticchiata qua e là sotto le vasche di marmo che i
monaci, antichi abitatori del luogo, non avevano avuto il tempo di
svellere dal muro istoriato a fresco, alitavano un lezzo insopportabile.
Quando il barbone tornava a casa con Mastia era lì che s'indugiava assai
spesso, a frugare.


II

Donna Clorinda scivolò giù dal letto, in camicia, rabbrividendo al
gelido contatto del pavimento sul quale i sui piedi nudi avanzavano.
Attaccato al muro di faccia uno specchio accolse d'un subito, e a mezzo,
la sua bizzarra figura bianca procedente con la lentezza d'un fantasma.
A un momento ella ristette, e, vinta da un'abitudine irresistibile, vi
si rimirò, quasi atteggiandosi. Intanto principiava laggiù nel cortile
la fatica de' fabbri: della legna arsa crepitava: guizzava e lambiva un
alto muro annerito il fumo azzurrino di una fiammata: i martelli
picchiavano sulle incudini e un carro di botti vuote entrava, con sordo
fragore, nell'ex monastero.

Stanno intorno ad esso le torri aragonesi che Ferrante pose a difesa
della Porta Capuana: ora, sul cielo perlaceo, que' baluardi si
stagliavano con un colore plumbeo rilevato da un fitto d'erbe selvagge
ch'erano rampollate ne' loro crepacci e prosperavano sulla lor cresta
interrotta. Da case e da fucine invisibili altre colonne di fumo, più
lontane e sottili, salivano ritte nell'aria: la città si svegliava a
mano a mano, e un'esterna sonorità crescente e confusa faceva sembrare
più cupa, più appartata la fabbrica solitaria dell'antico convento.

Donna Clorinda si raccolse su d'una seggiola, di faccia al letto, e si
cominciò tranquillamente a vestire.

Da parecchi anni la vecchia era dominata da un'innocente follia, che si
esprimeva nella sconfinata considerazione di tutte le sue presunte
qualità, e più precisamente di quelle fisiche. Ella si adorava, in un
apatico egoismo nel quale non riesciva a far breccia alcun caso
esteriore. La felicità o la sventura altrui contemplava di sfuggita, con
un sorriso melenso: ogni più straordinario avvenimento nè la stupiva, nè
la sconvolgeva. Era altrove il suo spirito e rincorreva fantasime
trascorrenti fra la gioventù, la nobiltà, la ricchezza. Le pareva che la
casa di Mastia, ottenuta in carità dal Municipio, fosse una reggia; che
vi troneggiasse lei da regina, che un ammirativo mormorio la seguisse
quand'ella ne usciva, e che fosse abituale argomento d'ogni discorso de'
vicini l'incesso magnifico di lei e la sua benevola maestà.

Pianger Mastia? E perchè? Nell'anima della vecchia, già da tempo, s'era
spento ogni affetto: e poi, da quando la prima volta il marito l'aveva
picchiata, un odio cupo e muto le era man mano cresciuto dentro per
quell'ubbriacone brutale che era stato il tiranno della sua gioventù.
Ora, vestendosi, due o tre volte la povera pazza sorrise, di faccia al
cadavere. Pareva davvero soddisfatta. Si mise il cappello, tornò a
riguardarsi allo specchio, aperse la porta e se ne andò via col suo
solito e tardo passo un po' zoppicante.

Qualcuno la vide scendere, lenta, le scale. Borbottava frasi che
parevano rivolte ad esseri invisibili a' quali, di volta in volta,
soffermata sul pianerottolo, ella stendeva la mano, inguantata di seta.
Fu pure osservato che la vecchia s'era più che mai infagottata: pareva
che portasse addosso due o tre gonne una sopra l'altra e due o tre
corpetti. Quello esteriore era verdognolo, orlato di antico jais. Sotto
il braccio sinistro ella aveva l'ombrello: il destro era infilato nel
manico d'un cestino, che doveva essere ben greve: la piegava, quasi. E
così disparve. Poco dopo giunse lassù il delegato di pubblica sicurezza
con un medico, frequentatore della _Farmacia della Rosa_ in piazza
Carbonara. Donna Clorinda era passata per l'ufficio di pubblica
sicurezza, aveva informato il piantone della morte di Mastia e se n'era
andata.

La bisogna fu breve: constatazione del decesso--come si dice in gergo
legale--processo verbale e disposizione per la rimozione del cadavere.

--Bel caso, eh?--fece il delegato al medico.--Crepa il marito, e la
moglie lo pianta come un cane rognoso.

Il medico, un giovane ch'era al principio della sua professione, si
guardava attorno meravigliato, assalito, in quella desolante miseria
della stanzuccia, da una tristezza profonda.

--Se lei mi mette subito il _visto_ alla carta di
accompagnamento--soggiunse il delegato--io mando via _quel signore_
oggi stesso. Non sente? V'è già cattivo odore.

Accese un sigaro. Il medico sottoscrisse la carta, si levò, guardò
ancora Mastia, la cui faccia deformata si copriva di ombre turchinicce.
Le due guardie che avevano accompagnato il loro superiore contemplavano
e comentavano le quattro o cinque tele addossate al muro: una copia
della Beatrice Cenci del Reni, un paesaggio di Taormina, il tempio di
Pesto, la scena rosseggiante d'una eruzione del Vesuvio, con una fiumana
di lava che affluiva fino al mare in convulsione...

In giornata il cadavere di Mastia fu portato al cimitero nel carro dei
poveri. La stanza rimase vuota e deserta. E da quel giorno donna
Clorinda non vi tornò più.


III

Fu proprio in quel tempo che il bisogno d'una modella della sua età e
del suo stampo divenne per me urgentissimo: un mio quadro di
caratteristici costumi partenopei, colorito della vivacità del color
nostro e materiato degli elementi tra malinconici e grotteschi che
offrono all'assaporante o meditante gastronomia dello sguardo certe
nostre vie popolane, mancava appunto di quell'assai pittoresca figura
senile, ch'io ricordavo d'aver più volte incontrata per la via, rincorsa
dall'odiosa ragazzaglia plebea che non rispetta alcuna peripatetica
sventura: una vecchia bizzarramente vestita, con certe buccole argentee
che le scappavano disotto al cappelletto tutto piume e nastrini e le
sbattevano sulle gote infossate,--con un cestino infilato al braccio e,
attaccato al polso ossuto della mano destra, un bastone con cui
minacciava i suoi persecutori infantili.

--Quella?--mi dissero, come ne parlavo una volta tra conoscenti--Quella
è donna Clorinda.

Finalmente la ripescai, una sera di estate, in una taverna di Piazza
Francese. La vecchia v'era seduta in fondo, quasi accanto al focolare, e
di faccia a lei, alla medesima tavola, cenavano due facchini del Molo
Piccolo e un soldato della vicina caserma. Donna Clorinda reggeva a due
mani la scodella della minestra e con tutta precauzione l'accostava alle
labbra e beveva il brodo. In un tondino era un mucchietto di pesce
fritto. Come l'oste seguitava a frigger pesce e ne lasciava cadere una
minuzzaglia infarinata nella padella piena d'olio bollente e un fumo
acre e denso si spandeva attorno, la testa architettata di donna
Clorinda appariva e spariva in quel fumo. Rimpetto a lei i due facchini
parlavano di sciopero, picchiando di volta in volta sulla tavola con le
larghe mani callose, dalle unghie lucenti d'untume: il soldato, un
settentrionale biondiccio, beveva silenziosamente, e fumava.

--No, no, domani non posso:--ella mi dichiarò gravemente--di domenica
non posso. Domani ci ho la messa. Vado in chiesa, a San Giacomo degli
Spagnuoli, a pregare pe' miei antenati. Sa lei che io discendo dagli
Aragona, dal grande Alfonso?

Il soldato si volse, sorpreso. Con un sorriso concessivo e dignitoso,
inoltrando le dita nel pesce fritto, di cui poi si mise un pizzico in
bocca, donna Clorinda soggiunse, a bocca piena:

--Verrò da voi lunedì. V'accomoda?

--Ma mi dovete giurare di venire. Sul grande Alfonso, non è vero?

Lei levò la mano con un altro pizzico di pesce, solenne.

--Sul grande Alfonso d'Aragona!

E mancò al giuramento. L'aspettai tutto il giorno, e in quello seguente
mi rimisi a rintracciarla. Per fortuna ella m'aveva indicata la casa ove
pernottava da un anno, dalla morte di Mastia.

--Se mai, mandate a chiamarmi lì, sotto l'arco, accanto al teatro del
_Fondo_. A destra, sotto l'arco, è una scaletta. Fate chiedere della
_baronessa_.

L'arco così detto del _Fondo_ dal teatro al quale è attaccato da una
parte, è ancor quello scuro e sozzo passaggio che dalla via
dell'Arsenale, lungo un de' muri del teatro, mette a Piazza Francese. Mi
vi avventurai tra' mucchi di spazzatura e il copioso rigagnolo d'una
fontanina di cui i monelli avevano deviato il corso. Cercai, sulla mia
destra, la scaletta che la vecchia m'aveva indicata. V'era, di fatti;
anzi là sotto non v'era che quella. E come ne ascendevo, cautamente,
gli sconnessi gradini lubrificati dall'umido e dal traffico, una fresca
voce femminile m'incitò, dall'alto.

--Avanti, signorino! Avanti!

Ero giunto al sommo della scala. Mi trovai faccia a faccia con una
ragazzona in camicia color di rosa.

--Bè?--mi fece, seguitando ad arrotolare una sigaretta--Non entra? Se ne
resta lì? Favorisca!

--Chi è?--chiese una voce, di dentro.

--Un signore.

Avevo ben compreso ove fossi cascato. Diamine! Non v'era proprio da
ingannarsi. E pure--confesso--lì per lì fui preso da quel minuto
d'irresolutezza che può far passare anche un provetto per un ingenuo.

--Ha un cerino, per caso?--disse la ragazza in camicia, che aveva
passata e ripassata la punta della lingua sulla Satin della
sigaretta--S'accomodi, intanto: si metta a sedere. Sa, ce ne sono delle
altre.

Si voltò a dietro e chiamò:

--Chiarina! Armida! Ida! La romana!

A una a una, in quella piccola stanza ov'era solo un divano in giro sul
quale ricorrevano specchi appannati in tante cornici barocche, apparvero
altre femmine seminude, sonnolenti, sbadiglianti.

Una si buttò sul divano, appena entrata; un'altra, rannodando
sull'occipite i lunghi capelli neri, balbettò un buon giorno svogliato.
S'aperse, sulla destra della sala, una porta e vi si affacciò un donnone
gigantesco con fra le mani, che parevano gonfie, il macinino del caffè.
Alle sue spalle, per lo schiuso della porta, apparve un pezzo del
focolare e subito nella sala si sparse un odore acre di frittata alla
cipolla. Si udiva scorrer l'acqua della fontanina nella vaschetta e quel
romore quasi copriva le voci.

--Buon giorno al signore--disse il donnone--Scuserà. Ci trova in
_desabigliè_. Queste principesse si levano tardi. S'accomodi! Ida, vai a
chiudere il robinetto!

Quella della sigaretta entrò in cucina. Cessò il romore dell'acqua.

Il donnone soggiunse:

--Forse cerca la Virginia?

Ora la sua voce sonora, maschile s'accompagnava di volta in volta con la
musica del macinino, del quale ella girava a tratti la manovella.

Credetti di non dover perdere più tempo.

--Cerco di donna Clorinda...

M'interruppe uno scoppio di risa.

--La baronessa!--gridò Chiarina.

Le ragazze urlavano:

--La baronessa! La baronessa!

--Voialtre!--minacciò il donnone--Su! Dentro tutte!...

Ma già quelle mi sospingevano, seguitando a gridare e a ridere, per uno
scuro corridoio ove in fondo era una piccola porta.

--È qui, è qui...

--Picchio?--chiese alle compagne una bionda.

--Picchia forte! Ohè! Baronessa! Signora baronessa, aprite!

La bionda picchiava forte, con la mano spiegata. Di fuori s'udiva la
voce del donnone:

--Troie! Non fate chiasso!

--S'è chiusa dentro--disse Chiarina, che guardava pel buco della
serratura.

E si mise a picchiare anche lei.

--Che volete? Chi volete?

Riconobbi la voce aspra, incollerita della vecchia.

--Aprite! C'è un signore!

--Virginia non riceve!--urlò la vecchia, di dentro.

--Ma cerca di voi!

--Vuol vedervi!

--È il vostro innamorato!

--Cristo!--fece il donnone, intervenendo--V'ho detto via! Via tutte!

La chiave stridette nella toppa. S'aperse a mezzo la porticina e tra la
porta e lo stipite apparve una piccola figura femminile, immota. Era una
biondina, sottile, pallida, con due occhi dolci e timidi che
interrogavano or me ora quelle donne.

Vi fu un breve silenzio. Un fiotto di luce si riversò dalla piccola
stanzuccia nel corridoio.

--Che volete?--disse la biondina.

--Niente, niente--disse il donnone--Il signore ha chiesto della
baronessa.

La biondina spalancò l'uscio e poi si trasse da parte. Ora si illuminava
tutta quanta. Era vestita d'un camice azzurrino e già pettinata,
semplicemente. Nella mano destra premeva un mazzo di carte da giuoco:
l'altra mano, pur bianca, fine, esangue, abbottonava il camice sul
petto.

--È la Virginia.--mi soffiò all'orecchio il donnone--Tipo signorile.

Da un letto, in fondo alla camera, la stridula voce di donna Clorinda
gridò:

--Ho capito! È il pittore. Verrò, verrò, signor pittore! Verrò domani
senz'altro!

--Non potreste oggi?

--Oggi? Ebbene, sì, oggi! Oggi senz'altro!

Era beatamente adagiata nel letto della Virginia, con la bianca testa su
due capezzali, con una collana di grossi coralli al collo. Sulla coltre
erano sparse alcune altre carte da giuoco. Accanto al letto era una
poltrona sudicia e sdrucita, in cui la biondina avea fatto il fosso.

--Ha visto la Virginia?--mi fece il donnone riconducendomi all'uscio di
strada--È un peccato. S'è legata alla vecchia e perfino le lascia il suo
letto. E giusto adesso, che avrebbe bisogno tanto di riposare! È malata,
sa: ma è cocciuta...

Pensavo a quel fosso, nella poltrona.

--E dorme lì, nella poltrona?

--Se n'è accorto? Già. Ma guardi! Si può essere più bestia di così!
Farmi le nottate intere accanto alla pazza, che le cava la ventura dalle
carte!

--Che diceva lei? Ch'è malata?

--Ah! Signore Iddio!--sospirò la virago.

E con la punta del medio si toccò a più riprese in mezzo al petto enorme
e molle, ondeggiante a ogni suo più piccolo moto.

--Qui, capisce?

Scendevo le scale, scusandomi.

Il donnone mi gridava dietro:

--Sa, badi: si tenga a sinistra! E non dubiti: penso io a mandarle oggi
la baronessa. E mille rispetti! E ci venga a trovare!

Difatti la pazza m'arrivò allo studio qualche ora appresso, nella sua
solita buffa acconciatura. Durante il primo riposo cercai di farmi
narrare la storia della Virginia: doveva bene avere una storia la
biondina. Ma mi riescì di sapere poco o nulla: la vecchia anzi s'era
rabbuiata e mostrava di non volersi troppo intrattenere dell'argomento.
Sì, la Virginia le aveva ceduto il suo letto, l'aveva fatta accogliere
in quella casa per carità, s'era impietosita, ecco tutto. _Figlia di
signori_, la Virginia: sapeva leggere e scrivere e aveva pur cantato a
teatro.

Tutto questo ella mi andò borbottando con l'abituale sua disordinata
maniera di narrazione, così che non riescii che a comprendere ben poco:
il vaniloquio della pazza raffittiva l'oscurità che io avevo cercato di
penetrare e in cui si perdeva la figura, pur così interessante, della
piccola bionda.

Costei morì sullo scorcio di novembre e donna Clorinda morì due
settimane appresso. La virago mi raccontò che la vecchia s'era seduta
nella poltrona di Virginia e lì s'era lasciata morire. La collana di
corallo se l'era presa la virago: glie la vidi al collo. Chiarina mi
disse che alla pazza non avevano trovato nulla addosso, infuori d'un
piccolo e logoro portafogli nel quale erano due o tre soldi e, avvolto
in un biglietto del lotto, un bel ricciolo di capelli biondi che
somigliavano tanto a quelli della Virginia.

--Ah, caro Lei!--mi fece il donnone, sull'uscio di strada--Non può
immaginare che s'è patito con quelle due! E lei?... Tornerà?... Ora son
finite le malinconie... Badi... si tenga a sinistra... Mille rispetti.
Ci venga a trovare, neh? E per cose allegre, ora, per cose allegre!...



SUO NIPOTE


Cominciava ad albeggiare, ma la luce si faceva strada quasi a fatica tra
il fitto d'una caligine opaca. Accesi un fiammifero e ne appressai la
fiamma al polso della mia mano sinistra. Al momento della mia partenza
pel fronte mia madre mi vi aveva ella stessa attaccato un orologetto
d'argento. Ora se l'è ripreso, povera donna; l'ha rivoluto, e lo porta
appeso al collo con una catenina, e mille volte al giorno pare che abbia
bisogno di guardarvi l'ora.

La piccola vampa del fiammifero arrossò in faccia qualcuno--per un
attimo--che m'era vicino, e di cui non distinguevo che l'ombra immobile,
quasi raggomitolata in quella semioscurità della trincea.

--È giorno....--mormorò l'ombra.

--Sì--risposi--A momenti.

L'ombra si rizzò. E, come se ne avesse dato il segno, altre si agitarono
in quella fossa lunga e stretta, umida e fumigante. Adesso, rapidamente,
la luce svelava e coloriva tutto: i soldati, le armi, le corde
arrotolate a cerchio e ammassate, gli apparecchi telefonici riparati in
una buca, i mucchi di vanghe e di gavette il cui metallo accoglieva già
de' riflessi luccicanti.

--Forza!--urlò in quel punto stesso, e ove più la trincea si rinserrava,
una voce roca e beffarda.

Subito un'altra, più lontano, gridò:

--Granata a destra!

Levai pur io gli occhi in cielo. Vidi abbassarsi, nel lontano, su d'un
albero fronzuto, una piccola nuvola tonda che quasi istantaneamente si
squarciò e diventò come un gigantesco polipo giallognolo da' tentacoli
spioventi e scricchianti. Udimmo un rombo, uno scoppio, uno schianto--e
dal posto ov'era l'albero si levò un fumo nero e lento, che rimase lì
quasi immoto.

L'ombra riprese, sottovoce:

--Signor tenente...

E Marcello Sant'Agàveto, novizio teatino, ora soldato semplice nel 141º
di linea, mi si strinse così da presso che ora i nostri corpi si
premevano. Sentii posarsi sul mio braccio la sua mano e, voltandomi,
vidi lucere i suoi grandi occhi scuri. Ma la mano non tremava, e gli
occhi pareva che mi sorridessero.

--Che vuoi!... Fa presto...

--Un minuto soltanto... Sentite... Voi siete stato una volta a Santa
Chiara, da mia prozìa la badessa... Vi ricordate?...

--Sì, sì....

--Ebbene... un favore, signor tenente...

Infilavo in tutta fretta il mio cinturone con la _mauser_, e passavo
sotto il mento e v'affibbiavo nervosamente la correggina dell'elmetto.
Udivo i comandi venire dall'estremo limite della trincea, confusi,
inquieti, accompagnati dal solito vocìo sordo, dal solito strepito di
ferraglia. E qualcosa a noi s'avvicinava dalla vasta spianata, qualcosa
che intendevamo e non distinguevamo.

--Promettetemi di consegnare questi oggettini a quella povera vecchia...
Mi aspetta. È per me che vive ancora... Ditele....

Mi sentii ficcare nella saccoccia destra de' pantaloni una mano che vi
s'addentrò fino in fondo, vi lasciò un involtino, e si ritrasse. Le
confuse voci della trincea ora coglieva e ammorzava un poco un crepitìo
lacerante, che cresceva sempre e, a quando a quando, era superato da
scoppii più sonori. Seguirono, subitamente, a una di queste violente
detonazioni un fumo violaceo, ch'empì tutta la buca formicolante, e un
silenzio improvviso. Non vedevo più nulla: mi credevo accecato. Il
teatino mi doveva tuttora essere accanto, poichè quella che lentamente,
sommessamente terminava una preghiera, mi parve proprio la sua voce.

--... _committo spiritum meum_...

Una vampata, un fragore, un urlio d'assalitori e d'assaliti, e il fumo,
l'orrendo fumo che ci avvolgeva e ci stringeva alle fauci....

Nient'altro....

Non ricordo più nient'altro....

       *       *       *       *       *

--_Ave Maria!_ Chi volete?

--Vorrei parlare alla signora badessa....

--Figlio, è malata.

--E che ha?

Attraverso la rete di sbarre della duplice inferriata che separa da'
visitatori l'antico e privilegiato _gratino della badessa_, da una
penombra uguale, ove qualcosa di bianco s'agita un poco, trema un
fievole sospiro.

--Che ha?--riprende la voce nella penombra.--Gli anni. Ottantasette,
figlio. È un po' sorda: non può parlar più troppo, e ci fatica a
scendere quaggiù.

Segue un silenzio. Odo, adesso, il tic-tac lento d'uno di quelli orologi
a stipo che si vedono tuttora nei monasteri e pare che quasi siano lì
per accompagnare col cadenzato lor ritmo le preghiere borbottate, o un
canto lieve.

A poco a poco, guardando dentro per la inferriata, gli occhi miei
s'avvezzano a penetrare quelle ombre che prima m'erano sembrate così
tenebrose. L'orologio che subito non avevo visto, ora lo vedo: sta
davanti a uno di quelli enormi canterani ove le monache ripongono la
biancheria e i paramenti--e accanto all'orologio, che pare una bara in
piedi, è un tavolinetto che sostenta uno scarabattolo. Mi pare di
discernere in questo--ora che dal finestrone che sovrasta al canterano e
all'orologio piove di passaggio un lume più diffuso--la testa di cera
che fu cavata dalla maschera di Maria Cristina, _la santa_, e affidata
da' familiari di Ferdinando II alle monache di Santa Chiara. Sì; mi pare
che debba essere quella: ha i capelli di seta nera spartiti sulla
fronte, gli occhi chiusi, la bocca esangue e sottile. Attraverso i vetri
dello scarabattolo, rilevata dal cuscino di velluto amaranto in cui
s'affossa, pare davvero recisa, e cadaverica e molle...

--E dalla signora badessa che volete, voi?

La piccola voce ora m'interroga un poco spazientita.

--Le devo fare un'imbasciata.

--La signora badessa vi conosce?

--Sì, mi conosce. E forse si sarebbe ricordata di me. Le ho parlato un
anno fa, se non mi sbaglio...

Brevemente, dall'altra parte, suonò un risolino che subito si contenne.

--Ma, figlio, un anno fa la signora badessa stava bene! Un anno è un
anno, pe' vecchi... Basta, glie lo dirò che è venuto un signore... E
come vi chiamate?

--Così... Guardate. È scritto qui...

Pe' ferri della grata passò, scivolando sul marmo del largo balaustro e
avanzando verso di me, qualche cosa come una di quelle spole in cui
riponiamo le penne e le matite sui nostri scrittoi. Sbucò dalla mia
parte, vi lasciai cader dentro la mia carta da visita, e la sottile
barchettina si ritrasse e sparì. La donna non fece mostra di leggere la
carta: da quel che potevo distinguere mi parve che se la ficcasse in
saccoccia.

Vidi una cuffia bianca che si chinava.

--_Ave Maria_... Statevi bene.

--E allora, quando posso tornare?

--Che vi posso dire?... Tra una settimana... Tra dieci giorni...

--E quando tornerò...

--Chiamate Maria Agnese la conversa. E io scenderò. E poi porterò
l'imbasciata.

       *       *       *       *       *

Maria Agnese s'allontanò. Quell'interno appartato ridiventò silenzioso.
L'ora meridiana cadeva: così che là dentro tutto adesso annegava in
un'ombra diffusa, tutto spariva quasi rapidamente. Ma qui dove ero
rimasto, nella stanzetta bianca--ove appiè della grata, sono alcune
vecchie seggiole verdi di forma antica, a spalliere convesse e co'
piedi a colonnine, le seggiole per i visitatori--la luce era ancor viva,
ma d'un riverbero dolce e tranquillo, che si distribuiva ugualmente da
per tutto. Rimasi in piedi un istante ancora--guardandomi intorno. Mi
permettevo d'indugiarmi in quella cameretta come se sapessi che non mi
sarebbe vietato quell'assaporamento d'una pace, d'una solitudine così
profonde, velate dai veli aggraziati dell'arte ch'io vedevo espressa
dalla nobile incorniciatura a cartocci in cui si rinserrava la duplice
inferriata, da quei marmi commessi e policromi--che attorno attorno la
ornavano come circoscrivendo un'arca preziosa--ancora, qua e là, un poco
macchiati di luci. Mi pareva che mi dovesse pure esser lecito di
riposarmi, in silenzio, sopra una di quelle seggiole di paglia, capaci e
grossolane, che dal seicento alla fine del settecento si costruivano e
si vendevano all'Annunziata, ove ancora oggi quell'industria ha gli
ultimi suoi tenaci continuatori. La signora badessa, la conversa, il
misterioso di là della grata, la rischiarata e quasi poetica cameretta
ov'ero rimasto avvolto come da una tenera luce giallina e da un'aria
impregnata di odore di rose secche, assorbivano adesso tutto l'essere
mio, che là dentro sembrava a me stesso come nuovo e forastiero--un
essere che veniva dalle vie, risuonanti di ferro e pregne di ansie,
d'una città non meno delle altre investita anch'essa dal furore e dai
palpiti d'una tragedia immane, una città squassata, anch'essa, volta a
volta, dagl'impeti della sua gioia o dalle contrazioni del suo dolore, e
ancora percorsa da carriaggi e da soldati, e quasi mutata in tanti suoi
aspetti singolari--da quello del suo mare, adesso deserto, ai deserti
delle sue vaste arterie, delle sue piazze, dei suoi vicoli, sepolti in
una notte paurosa e profonda.

Ora, mi pareva davvero che a quel luogo d'antica pace e d'antica
fisonomia mi dovessi sentire estraneo in tutto. La stanzetta secentesca,
que' quadretti in cornici dorate a rigonfii e volute, l'ornato e
marmoreo _gratino della badessa_, la bella mensola addossata a una
parete sotto uno specchietto veneziano dal vetro tutto chiazze si
bagnavano ancora delle ultime luci che vi piovevano da un'alta finestra.
Ma già una parte del pavimento di _riggiole_ istoriate si copriva
d'ombre: l'altra, più in qua, fin sotto ai miei piedi accoglieva tuttora
un lume che andava scemando. Estranei a quell'aria tepida, a quella
luce, a quelle figurazioni, a quel silenzio raccolto tanto sentivo
l'esser mio, la mia figura, la mia divisa, il suono stesso della mia
voce, che mi ritrassi pian piano, fino a quando potetti scivolare lungo
l'usciuolo che si chiudeva sulla portineria e lì, per un momento,
arrestarmi. Nemmeno in portineria era alcuno--ma su uno di quei sedili
di pietra che girano appiè degli archi posava un cesto di fiori freschi.
Chi l'aveva portato era forse per sopravvenire--e forse di là da quella
enorme porta sempre chiusa lo sapevano, poichè mi sembrò udirvi un
pispiglio...

Rifeci la mia strada--passo passo. E con la sua figuretta tutta
raccolta, con que' suoi limpidi occhi azzurrini che vivevano ancor tanto
allora ch'io la prima volta la vidi--che vivevano e sorridevano--la
signora badessa di Santa Chiara, una Caracciolo, mi accompagnò per la
strada--piccola ombra rievocata, che mi tenne così compagnia per buon
tratto, mentre pur mi pareva di udirmi allato quella tremula voce di
bambina...

       *       *       *       *       *

La mia licenza di trenta giorni era per scadere--e io pensavo che
sarebbe ancora rimasto nelle mie mani il piccolo pacchetto che quel
giovanotto mi aveva ficcato in saccoccia poco prima di far la fine
straziata che fece.

M'urgeva di consegnarlo. Ora mi mandavano a Bari ove, appena arrivato,
avrei saputo dell'ufficio a cui mi destinavano. Ma la guerra era per
finire: ogni giorno ne arrivavano notizie liete per noi, e ogni giorno
si sentiva più che mai il bisogno di liberarsi da quell'incubo orrendo.
In questa nervosa impazienza ero anch'io. Avevo ancor gli occhi pieni di
quelli spettacoli atroci, da' quali m'era sembrato addirittura che ogni
cosa più bella della mia esistenza fosse quasi per essere demolita o
trasformata. Nulla, nulla volevo più ricordare. Anche di quell'involtino
che m'aveva affidato quel piccolo prete anelavo di sbarazzarmi...

Soltanto tre giorni prima della mia partenza per Bari potetti rivedere
la badessa. L'antica mia qualità di funzionario all'Intendenza di
Finanza mi permetteva di accompagnare nell'antico monastero fondato
dalla regina Sancha un ispettore che vi si recava a compilarvi un
inventario.

Ella non mi riconobbe subito. Aveva, ora, un'aria assai stanca e
camminava pian piano, un po' curva, e mi veniva incontro come senza
vedermi. Poi ci ritrovammo in un viale del grande giardino--ristorato
nella prima metà del settecento da Domenicantonio Vaccaro--in piedi
tutti e due là dove i pilastri sono rivestiti di gioconde maioliche
napolitane che iniziano il colore e il disegno delle viti feconde di cui
sostengono il pergolato. Era, intorno, la terra tutta sparsa di quelle
foglie rossicce--e la signora badessa pareva che le stesse a contare.
Poi la sua mano scarna, che tremava un poco, scivolò sulla spalliera del
prossimo sedile e vi si appoggiò, spiegata.

--Mi va il sole negli occhi...

Sedette. E senza levar la testa, con le mani congiunte sulle ginocchia,
riprese a parlare, piano:

--Voi siete quel militare dell'altra volta, che venne da parte di
Marcello... Sì... V'ho subito ravvisato. Sentite... ebbi una lettera
sua, tre mesi fa... O meno?... Non so... Diceva: Se posso venire in
licenza e io verrò, verso maggio, ma è difficile. Io l'ho aspettato...
Pregando il Signore... Unico figlio d'una figlia di mia sorella
Mariantonia...

La lasciavo parlare. Ella parlava più a se stessa che a me, con la testa
un poco reclinata: le due piccole mani di cera parevano inchiodate sulle
sue ginocchia congiunte.

Continuò più lentamente:

--Anche Sabina, mia nipote, il Signore se la chiamò alla gloria degli
angeli... Sia fatta la sua volontà... La madre di Marcello, così, da
dieci anni, sono io... Povera serva di Dio...

Mise un sospiro--e sorrise, con un sorriso di bimba incantata.

--Ah, che consolazione... quando tornerà!... Gli farò dire la prima
messa al nostro altare privilegiato... Immaginate che consolazione... E
poi perchè digiuniamo, da cinque mesi ch'è lassù, alla guerra?...
Signore, aiutateci!... Faccio digiunare anche le converse... Mezz'ora di
preghiera, ogni sabato, la facciamo...

Aveva parlato eccessivamente e ora continuava a fatica, con un po' di
sopraffiato.

--... sulla pietra, in ginocchio...

Un piccolo colpo di tosse la interruppe.

--E la guerra che fa, signor militare?... È tanto giusta la causa...
Anche Marcello me lo scrive... E santa Chiara... santa Chiara
miracolosa...

Non distinsi altre parole. Il loro senso mi sfuggì. Si disperdevano
adesso in un lieve sbadiglio, in un balbettìo di labbra che parevano
affaticate.

A un tratto, lievemente, la vecchietta piegò il capo sulla spalla. Si
sciolsero le sue mani, e una scivolò lungo un ginocchio. Non parlò più.
S'era assopita--in quel giardino pieno di odore e di ronzii.

Mi allontanai pian piano. Le foglie secche ammorzarono il romore dei
miei passi e quando, in portineria, passai davanti a Maria Agnese ella
si levò per aprirmi e s'inchinò mentre uscivo:

--_Ave Maria_--mormorò, sorridendo.



UN «CASO»


I

Ai «Fossi», laggiù dietro la via larga e popolosa della Ferrovia,
terminava il mercato dei panni. Le mercantesse si sbandavano. Alcune
pigliavano per la strada della marina, altre si indirizzavano alla Via
Nolana, dalla quale si levava, nel lontano, un fitto polverio bianco.
Altre infilavano l'arco aragonese di Forcella e si cacciavano, a gruppi
di due o tre, coi lor mucchi di panni in capo, ne' vicoletti della
Vicaria o ne' labirinti di quelli della Duchesca ove, qua e là, sotto il
sole di agosto, i rigagnoletti e le pozze luccicavano di riflessi
metallici.

Lentamente il mercato si vuotava. Era cominciata tardi la vendita, verso
il tocco, e terminava alle sedici, nell'ora del sole alto. Era andata
avanti assai fiaccamente: le voci della _malattia_ s'udivano un poco da
per tutto, le note di cronaca del _Roma_ e i bollettini si leggevano da
gente commossa e paurosa or qua or là, d'avanti a' bassi e dentro alle
botteghe e nella via stessa, ove si radunavano capannelli di popolani
impensieriti. Certo più della paura poteva la necessità: ma, da una
settimana, il mercato de' panni languiva. Le donne di Cardito, di
Pugliano, di Pomigliano, d'Acerra lo avevano addirittura abbandonato,
esse così tenere di coltri di seta gialla, di seta verde, imbottite di
bambagia, trapuntate a mostaccioli, orlate di frange barocche argentate.
E invano andavano su e giù le venditrici: davanti ai mucchi di pantaloni
a quadrelli, di giacchette di velluto stinto, di corpetti rabberciati e
di grembiali di ogni forma, provenienze misteriose della miseria, della
morte, del furto, nessuno si soffermava. Nessuno comprava. Nell'inutile
va e vieni perfino veniva a mancare la voglia di gridar la mercanzia:
moriva in un sussurro l'alto vocìo de' buoni giorni di vendita, e
nell'afa insopportabile, sotto la sferza del sole, era tutto uno
sfinimento. Dalla strada della Ferrovia la cupa eco del passaggio de'
grandi carri carichi di pellame, o di botti o di carboni, delle vetture
d'albergo, dei carretti d'erbaggi delle paludi s'affievoliva: tutto quel
transito pareva che non seguisse più come prima. Risuonava, soltanto, a
tratti, la cornetta rauca d'un tramwai due, tre volte: squillavano i
campanellini di un carretto solitario e, finito quel suono, pareva più
alto il silenzio.

Due o tre ancora delle mercantesse si aggiravano per la via dei Fossi,
occupata da un chiarore abbagliante. A una a una disparvero anche esse.
L'ultima veniva in sulla piazzetta, lentamente, come trascinandosi. Era
un gran donnone: forte, alta, bruna. Il sudore le rigava le guance dalla
fronte, le imperlava sotto gli occhi la fine epidermide, le riluceva sul
labbro superiore, segnato da una fitta pelurie. In braccio ella si
recava una pila di que' comuni berretti a visiera di panno, che gli
sbarazzini amano di portare di sghembo: e uno de' berretti, per
ripararsi dal sole, s'era proprio posto in capo.

Com'ella giunse allo spiazzato si arrestò: passava, tra due carabinieri,
un giovanotto ammanettato. Andava alle carceri della Vicaria.
L'ammanettato la salutò con un lieve cenno del capo e si fermò un
momento anche lui e levò le mani incatenate, avvicinando la faccia al
panno della manica, lì ove il braccio si piega. Passò e ripassò le gote
sudate sul panno, soffregando forte. I carabinieri, aspettando,
guardavano la donna e sorridevano. Poi ripresero la loro via. La
berrettaia si rimise in cammino. Scavalcò un mucchio di pietre
accatastate lì nella piazza per un guasto del selciato e, a un tratto,
apostrofò il cocchiere di una vettura da nolo, il quale s'appisolava al
sole, in serpa, in quel luogo quasi deserto.

--Rocco, salute e bene!

--Salute e bene...--sbadigliò quello, rizzandosi in serpa e raccogliendo
le redini che gli erano cascate su' piedi--E voi dove ve ne andate?

--Dove, figlio? A casa, cuore mio bello. Che ci resto a fare quaggiù?
Non s'è venduto uno spillo!

--E io che son qui da mezzogiorno a bruciarmi al sole! Poc'anzi m'ha
preso il sonno...

Dopo un po' soggiunse:

--E del colera che si dice?

L'altra sgranò tanto d'occhi e scosse la testa.

--Ieri cento e due casi. Mio marito ha letto il giornale.

Seguì, daccapo, il silenzio. Improvvisamente la mercantessa si licenziò,
col suo sorriso bonario.

--Così vuol Dio. Dunque, buona giornata, Rocco!

--Buona giornata anche a voi--disse il cocchiere.

E si chinò un'altra volta a raccogliere le redini che gli erano
scivolate di su le ginocchia.

Una voce femminile lo chiamò, dal lato del marciapiedi.

--Cocchiere!...

Rocco si volse. Era una _signorinella_ pallida e piccola con certi
grandi occhi neri lucenti, vestita di nero: qualcosa tra la maestrina e
la cameriera di buona famiglia.

--Montate!--disse Rocco--Dove andiamo? Ella rimase in forse un momento.
Poi disse:

--Alla Posta.

La vettura si mise in moto. A un tratto il cocchiere gridò:

--Bada, ohè!

E con la punta della frusta picchiò, per celia, sulla spalla della
berrettaia, che rincasava a piccoli passi.

--Vado alla Posta--disse Rocco.

--Avete visto?--sorrise la berrettaia, scansandosi--V'ho portato
fortuna.

Più in là, presso il Castello del Carmine, il cocchiere si girò indietro
sulla serpa:

--E alla Posta v'aspetto?

La piccola pallida lo guardò come smarrita. S'era tutta rimpiccinita e
rincantucciata in un angolo della vettura. Le sue mani tormentavano la
pezzuola.

Balbettò:

--Alla Posta?... Sì... certo... m'aspetterete...

E ancora mormorò qualche cosa che il vetturino non intese--e si gettò
indietro come abbandonandosi...


II

Quale viaggio strano, faticoso, irresoluto, in quell'afa ardente e
insopportabile! Dove si andava? Si andava da per tutto: Rocco Longo era
sfinito, era sfinita la sua bestia e anche pareva che la vettura
malconcia a un tratto si dovesse sfasciare. S'andava in giro da tre o
quattro ore. Da prima la _signorina_ s'era voluta fermare alla Posta e
lì, allo sportello delle lettere, avea chiesto una lettera che non aveva
avuta, che non c'era. Palpitante, incerta, s'era trascinata fino alla
vettura, e quasi vi s'era lasciata cascare su' cuscini.

--Dove andiamo?

--Dov'è l'albergo delle Tre Rose?

--E chi lo sa? Voi non lo sapete?

--Dove sono i _Lanzieri_?

--A Porto.

--È lì... Andiamo!

La vettura avea preso per _Piazza Francese_ e s'era ficcata ne' vicoli
di Porto. Ai _Lanzieri_ la sconosciuta scese d'avanti alla porta d'una
delle tante miserabili e tristi locande del quartiere. Dalla serpa Longo
domandò:

--V'aspetto?

E come ella pareva indecisa il vetturino soggiunse:

--Bene, andate pure: io vi aspetto.

Da' _Lanzieri_ erano andati alla _Marinella_ e dalla _Marinella_ ai
_Mercanti_, e appresso alla _Giudecca_, al _Vico Coltellari_, a _Rua
Catalana_. Ella, a ogni sosta, si precipitava dalla vettura, si cacciava
in un palazzetto e riappariva poco dopo muta, livida, con gli occhi
pieni di lacrime. Risaliva a stento in vettura: s'afferrava alla serpa
talvolta. L'ultima volta Longo dovette aiutarla. Per via la udì
singhiozzare.

Si volse.

--Ma che avete dunque!

Ella mormorò:

--Nulla... nulla.

Annottava. A un tratto Longo sentì che ella gli batteva lievemente, in
punta di dita, sulla spalla.

--Dove andate?--disse lei.

Difatti, ove andava Longo, con la sua vettura polverosa, con la sua
rozza affamata e zoppicante, sognando in serpa e guidando macchinalmente
la bestia? Egli si arrestò, e si guardò intorno. Erano sulla via nuova,
deserta e buia, dell'Arenaccia. Sulla destra si disegnava confusamente
l'immane tettoia della stazione ferroviaria, nera nera: i grandi occhi
immobili delle locomotive, rossi, verdi, giallognoli, ammiccavano
nell'oscurità. Un fischio acuto e breve ruppe il silenzio: l'aria vibrò
tutta al fragore d'un treno che passava sulle piattaforme metalliche.
Dalla via si vide il treno svolgersi rapidamente, e trascorrere, come un
gran serpe nero che scompariva nella notte.


III

La giovane disfece il nodo della sua pezzuola e ne cavò un pezzo da due
lire.

--Questo m'è rimasto--mormorò.

Longo era sceso di serpa. Guardò appena le due lire, al lume del
fanaletto, e le gettò in grembo alla giovane.

--Ma scherzate? Che mi mettete in mano? Due lire?... Andiamo, non ho
voglia di scherzare!

Ella balbettava:

--Sull'anima di mia madre che m'è morta ieri l'altro...

--Ma che!--fece Longo--Ora mi si mette a giurare! V'ho portato in giro
per quattro ore di seguito e il meno che mi spetta son cinque lire! Su!
O mettete fuori le cinque lire o vi porto alla questura com'è vero il
santo ch'è oggi!

Nel silenzio della strada la sua voce minacciosa suonava chiaramente. La
_signorina_ nascose la faccia tra le mani.

--Andiamo!--disse Longo--Spicciatevi!

Ella singhiozzava:

--Ascoltatemi... Io non sono di Napoli... Sono di Nola... Non sono
pratica... Ho perso tutto e mia madre m'è morta, ieri l'altro...
Avevo... lui... Un giovane... Capite?... E mi son messa a ritrovarlo.
M'ha lasciata. Voi avete visto: non l'ho più trovato... Lasciata!...
Abbandonata! Abbiate compassione... Non ho più nulla... Perdonatemi!...

Longo, con le braccia conserte, la guardava.

La sconosciuta soggiunse, piano, come parlando a sè stessa:

--Sono stata tradita... Era un cameriere d'albergo... L'albergo delle
_Tre Rose_ ai Lanzieri, dove siamo stati... Non v'è più... Partito...
Sparito... Non v'è più...

Longo si mise a frustare il selciato e a bestemmiare.

Ella supplicava:

--È vero... Avete ragione... Perdonatemi...

D'un subito il cocchiere le si appressò, l'afferrò pel braccio e le
fece:

--Com'è vero Dio, stasera prendo un guaio per voi! Chi vi conosce? E
avete scelto la vettura mia e me per correre appresso al vostro uomo? Ma
lo sapete voi che due lire non mi bastano neppure per l'avena al
cavallo, e me l'avete ammazzato!

Ella mormorava:

--Perdonatemi... perdonatemi...

--Così fate, voialtre!--urlò Rocco--Così ingannate la gente, razza di
bagasce!...

All'improvviso le piantò sulla spalla la mano larga e pesante, e si
chinò sopra di lei che s'era gettata addietro sui cuscini.

--Almeno...--sogghignò--Ch'io vi veda in faccia, carina! Come siete in
faccia?... Bella... brutta...? Vediamo un poco...

Ma si ritrasse, spaventato. Ella era diaccia: un sudore gelido le veniva
giù pel volto e le bagnava pur le mani, che tremavano convulsamente.

Longo, sbalordito, la scosse:

--Signorina... signorina!... Che avete?... Non v'impaurite... Non vi
voglio far niente...

La giovane s'irrigidiva. De' conati di vomito la facevano sobbalzare
sul cuscini, gli occhi già quasi le diventavano vitrei.

--Ho freddo...--mormorò--Ho freddo... Muoio...

Allora Longo comprese.

--Ah, Cristo!--urlò--Un caso fulminante!...

Si voltò, si guardò intorno, assalito da così vivo terrore che per due o
tre secondi i suoi movimenti ne vennero paralizzati. La sconosciuta
seguitava a torcersi e rantolava:

--Freddo... freddo... Oh mamma!...

E come lo vide fuggire a gambe levate per l'Arenaccia, si levò quasi in
piedi nella vettura, con un ultimo sforzo, e stese un braccio.

--Aiuto!... Aiuto!...

Ricadde. Si ripiegò sui cuscini: v'annaspò con le dita raggranchite. E
al sereno cielo che si popolava di stelle palpitanti e la vedeva morir
sola, nella notte, levò uno sguardo disperato.

Balbettò ancora:

--Mamma... mamma...

E ricadde. E non parlò più.

Dopo un po' il cavallo affamato si mise a nitrire e a battere sul
selciato la sua larga unghia ferrata.

Poi fece un passo, poi un altro.

E si rincamminò, portandosi lentamente la piccola bruna, immota, per
l'oscurità, verso la nascosta rete dei binari...



ADDIO, CAROLINA...


I

--Dunque, senti; ti ricordi di quella sera piovosa in cui ci lasciammo
così nervosamente, uscendo dalla _Trattoria dell'Asso di fiori_?

Così cominciò a dire Cataldo Abbadessa, col quale ero seduto a tavola
nel giardino della sua villetta a Cassino, sotto gli alberi di prugne e
tra l'odore acre della mortella. Nel lontano s'infiammavano le cime
degli alberi e la cupola dorata del piccolo campanile di Santa Mariella.

--Come accesi il lume nella mia camera--continuò Cataldo--e lo misi
sulla tavola, m'accorsi che v'era stata lasciata una lettera al mio
indirizzo. L'apersi con qualche trepidazione. Le condizioni dell'animo
mio erano tali, quella sera, e così scombussolato era il mio spirito che
ogni più piccolo avvenimento produceva sui miei nervi l'effetto d'una
punta di fuoco. Letta appena la lettera, dubitai di sognare.
M'annunziava un'eredità. Già: un mio lontano parente, vedovo, senza
figli, era morto a Cassino e mi lasciava tutta la sua sostanza, vale a
dire un gruzzolo rispettabilissimo, la _Fattoria del Cavallo_ e il
molino detto di _Francescone_. Partii subito, il giorno appresso: e
arrivato a Cassino mi recai dal notaio. Il buon vecchio m'abbracciò e
baciò con le lagrime agli occhi: mi conosceva da quando ero bambino e
mia madre mi conduceva a spasso lungo le rive del fiumicello disseminate
di sassolini rotondi che io m'indugiavo a raccogliere. Terminati gli
abbracciamenti e le congratulazioni il notaio mi consegnò una lettera
del mio lontano parente, e mi disse: Don Cataldo, prima di visitare i
poderi che v'ha lasciato il mio cliente, buon'anima, leggetevi questa
lettera ch'egli mi raccomandò di consegnarvi appena foste arrivato
quassù. Lessi la lettera. Il buon'uomo, tra l'altro, aveva voluto
aggiungere al suo testamento una certa clausola riguardante il molino di
_Francescone_. Francesco Battiloro, detto _Francescone_ a causa della
sua statura gigantesca, era stato, fino a pochi anni addietro, padrone
del molino che ora veniva in mie mani. Per le grandi ristrettezze in cui
s'era trovato lo aveva poi venduto al mio parente. Questi era
un'eccellente persona, e non aveva voluto strappare il vecchio e le sue
due figliuole alle loro care pietre: e così, _Francescone_, fino a
morte, era rimasto mugnaio nel molino dei suoi padri. Rosa e Carolina lo
aiutavano a macinare, a riempire i sacchi e a caricare i carrettini. Un
giorno il povero vecchio...

Cataldo s'interruppe. Mi guardò, guardò il mio bicchiere, e mi fece:

--Ebbene, non bevi?

Difatti, dimenticavo il delizioso vinetto bianco del mio amico.

Bevvi. Cataldo riempì per la terza volta il suo bicchiere.

--Alla tua salute, Vittorio!

--Alla tua, Cataldo!

Egli continuò:

--Un giorno, il povero _Francescone_ sentì che la vita lo abbandonava.
Mandò a chiamare il mio parente e con le lagrime agli occhi gli
raccomandò, lo scongiurò di proteggere Rosa e Carolina come aveva
protetto e beneficato lui. Che ne sarebbe stato delle due povere ragazze
se avessero dovuto abbandonare il molino? E il mio parente promise, col
cuor buono che aveva, e mantenne la sua promessa. Rosa e Carolina
rimasero nel molino assieme a un antico e fedele garzone, e il mio buon
parente, durante il resto della sua vita, non s'occupò che di loro.
Venuto a morte anche lui, dopo quattro anni da quella di _Francescone_,
chiamò il notaio, gli ripetette le medesime raccomandazioni del mugnaio
e non una ma cento volte lo pregò che m'interessasse in coscienza alla
sorte delle due ragazze. Da parte mia risposi al notaio che Rosa e
Carolina non avrebbero mai avuto a dolersi di me: sarebbero rimaste nel
molino de' loro avi e nessuno le avrebbe tormentate. Anzi, soggiunsi,
io farò che una parte dell'utile vada proprio a loro vantaggio.

Bevemmo un altro sorso, e Cataldo riprese il suo racconto.

--Fin qua le cose andavano benissimo, e io stesso, non avendo altro da
fare, mi occupavo delle faccende del molino. Quando ecco che v'entro un
giorno, e chi vi trovo? Il figlio d'un carrettiere, un ubriacone della
peggiore specie, alle prese con un giovanotto beccaio. Il carrettiere
aveva cacciato il beccaio in una enorme madia, e quasi era per
schiacciargli la testa sotto il coverchio. Figurati! E tutto ciò
accadeva perchè quei due, tutti e due presi di Rosa, s'erano incontrati
nel molino e lì era venuto loro in mente di saldare i loro conti. E ci
volle il bello e il buono per metterli fuori! Vi riuscii soltanto in
forza della mia qualità di assessore per l'istruzione, titolo e carica
di cui l'onesta cittadinanza di Cassino mi aveva voluto insignire per i
miei meriti letterarii. Intanto le due ragazze piangevano in un angolo,
e la bionda Rosa mi fece, a mani giunte: Per carità, signor padrone, non
ci mandi via dal molino! Io non ho colpa in quel ch'è accaduto! Glie lo
giuro sull'anima di mio padre!

--Non era quella, caro Vittorio--seguitò Cataldo--la prima volta che mi
trovavo faccia a faccia con le due mie protette. Ma quella volta, la
commozione, il dolore di Rosa, non so, mi fecero un'impressione
straordinaria.--Ma come--dissi io--come potete permettere a due
insopportabili gaglioffi di venire ad accapigliarsi giusto nel vostro
molino? Intanto tutti e due si vantano della vostra simpatia per
ciascuno d'essi... (Rosa mi veniva appresso mentre uscivo--e nella
viuzza, davanti al molino, ci trovammo a un tratto soli addirittura). Io
continuavo a dire: Voi volete bene o all'uno o all'altro, non è vero?
Dunque, ditelo. A chi volete bene? Al carrettiere? Al beccaio?...

Ella rispose, semplicemente:

--A nessuno dei due, padrone...

La guardai. Rosa mi guardò co' suoi grandi occhi azzurri e poi li chinò,
e arrossì, e tacque...


II

Il mio amico Cataldo s'interruppe un'altra volta.

--Be'?--mi fece col suo tipico accento pugliese--E non bevi?

Allora, sorridendo e battendogli con la mano sulla spalla, risposi:

--Ho capito. Bevo alla salute di Rosa, alla salute di tua moglie, caro
Cataldo! Alla vostra felicità!

Egli assentiva, felice davvero, con gli occhi che gli luccicavano.

--Bravo! E io bevo alla tua salute, Vittorio! Hai indovinato. Sposai
Rosa dopo due mesi. Ed eccomi qua, eccomi tranquillo, ecco la mia
pace...

--Ecco la tua pinguedine, ecco il bel colore di salute che si spande sul
tuo volto arrotondato, ecco il tuo debole per questo buon vinello
bianco...

Egli si mise a ridere. Se ne versò un altro bicchiere: lo bevve d'un
fiato, e cantò con la sua voce un poco stonata:

    O rose del mio volto,
    non appassite ancor!...

Poi allungò le braccia sulla tavola, ve le incrociò, e soggiunse:

--E tu?

--Io? Non vedi? Son qui, ispettore scolastico delle vostre classi
elementari. Resto a Cassino otto giorni, e poi torno a casa.

--A casa dove?

--Come dove? A Napoli. A casa mia.

--Dove abiti?

--A Forcella.

--Sempre solo?

--Sempre solo.

Vi fu un silenzio. Avevo allungato il braccio e spiegata la mano sulla
tavola. Cataldo stese la sua lentamente e la posò sulla mia. Ci
guardammo. Egli mormorò:

--Povero Vittorio!...

E perchè?

Che volete, il vino mi diventò triste, all'improvviso...


III

--Dunque partite?

--Sì... parto.

--Quando?

--Domani.

Eravamo nel giardino, Carolina ed io, soli. Perchè ci lasciava soli,
Cataldo? Carolina era bruna, aveva gli occhi neri e dolci, aveva le
labbra rosse come le ciliege, le mani piccole piccole, bianche come la
farina del suo molino. E durante la mia breve dimora a Cassino il mio
amico Cataldo non aveva fatto che parlarmi di lei. Ricordo le sue
parole: _Francescone_ ha lasciato in questo molino due pietre
preziose...

E ricordo, come se ora trascorresse ancora sotto gli occhi miei, il
magnifico tramonto che quel giorno imporporava le montagne cassinesi. Il
loro dosso s'infiammava, e un roseo riverbero coloriva ogni cosa intorno
a noi. Il giardino odorava di mentastra, e il silenzio era alto, l'ora
era propizia. Io sentivo battere il mio cuore con palpito insolito. Un
flutto di tenerezza mi veniva alle labbra e si voleva mutare in parole.
Una interna voce mi sospingeva: Su, coraggio, parla, dille che le vuoi
bene da quando l'hai vista! Chiedila al buon Cataldo! Rompi l'indugio!
Seppellisci una buona volta la tua tristezza! Ma non vedi che ti vuol
bene?...

La guardai, muto. Carolina abbassò gli occhi e si mise a tormentare la
frangia del suo grembiale. Io non li vedevo quelli occhi--ma tutto in
lei rispondeva: Sì, sì, signor Vittorio, io vi voglio bene! Chiedetemi a
mio cognato! Prendete la piccola Carolina e formate la sua felicità...

Poche volte da quando esisto mi sono sentito così sconvolgere come in
quel punto. Ero per afferrare il mio momento--ciascuno ha un momento
decisivo della sua vita--e la mia mano s'irrigidiva! I miei occhi si
velarono...

--Che avete?...--ella balbettò.

Io volevo dire: nulla, o volevo chissà che cosa dire, quando la voce di
Rosa suonò dall'alto, da una terrazzetta:

--Carolina!... Carolina!...

Ella rispose:

--Eccomi.

Mi tese la piccola mano. La strinsi dolcemente e la rattenni nella mia
fino a che la poverina non la ritrasse pian piano. Ella scomparve. E,
come se allo stesso tempo un velario si fosse squarciato davanti agli
occhi miei, mi riapparvero, in una rapida successione d'immagini, la mia
triste cameretta in una delle più malinconiche vie di Napoli,
l'affumicata _Trattoria dell'Asso di fiori_, la sala vasta, silenziosa e
fredda della biblioteca _Brancacciana_, ove il meglio della mia
giovinezza era trascorso...

E il tedio di questa mia giovinezza senza coraggio, senza speranze,
senza consolazioni, premette il mio spirito addolorato. Il giardinetto
aveva in quel punto una voce misteriosa, vi passava, con le ombre che
scendevano, come un soffio dolente: le cose attorno, oscurate,
svanivano...


IV

--Addio, dunque, Vittorio!...

E Cataldo Abbadessa, grasso, roseo, allegro, affettuoso, mi gettò le
braccia al collo, presso al carrozzino che mi doveva accompagnare alla
stazione.

--Caro Vittorio!...--diceva--Povero il mio caro Vittorio!

E non sapeva dire altro. La signora Rosa, fiorente come lui, fresca,
d'una bellezza piena di salute e di luce, mi andava cacciando sigari in
saccoccia e ammucchiava alcuni piccoli formaggi della sua fattoria sui
cuscini del carrozzino.

--Perdonateci, professore... È cosa da poco... Siamo gente alla buona...

--Dunque, addio...--balbettai--Addio, Cataldo... Addio, signora Rosa...

Il carrozzino si metteva in moto.

Ebbi appena il tempo d'esclamare:

--Signorina Carolina, addio...

Ella, ritta in mezzo alla via, immota, pallida, stese la mano...

La udii mormorare:

--Addio, signor professore...

E il carrozzino partì, velocemente, tra nugoli di polvere.



TOTÒ CUOR D'ORO


I

Due disgrazie, una più terribile dell'altra, colpirono, tre anni fa, nel
febbraio, il mio amico artista Totò Galiero. Morì improvvisamente un suo
zio presso il quale Totò mangiava, beveva, e scriveva le sue poesie
lagrimose, i suoi sonetti pieni d'anima, come dicono adesso, i suoi
straziantissimi drammoni, brani d'un cuore esulcerato, ch'egli, con un
sorriso amaro, gettava di volta in volta a quel cane del pubblico. E un
male misterioso--lo scoppio, a sentire i medici, d'una latente infermità
nervosa che finiva per molto stranamente esprimersi--gli annebbiava in
tale maniera la vista da nascondergli a un tratto e completamente ogni
miseria umana.

Gli amici, figurarsi se rimasero atterriti da questo duplice disastro!
Coglieva il poeta sentimentale, il pietoso scrittore del «_Calvario
d'una derelitta_», l'espositore commosso delle privazioni degli
oppressi, Totò Galiero, il vero socialista della penna, soprannominato
fra noi «Totò cuor d'oro» per le rare e nobili qualità della sua
psiche.

La povertà! La cecità! Ci pensate voi? Roba da far rabbrividire, veri
castighi tremendi. Ed ecco per un anno la _Vedetta Letteraria_,
_L'Humanum_, il _Giornale del Socialismo Artistico_ privati, deserti dei
versi e della prosa del nostro buon Totò. Ed eccolo sparito, seppellito
chissà dove, muto per tutti, ma impavido, stoico, certamente, e con
quell'animo forte che posseggono le creature fatte come lui, ritto di
fronte alle sue due immani sventure.

Dopo un anno da questi fatti dolorosi, mentre una sera leggevo
tranquillamente il processo Dreyfus, la posta mi recapitò, fra l'altre,
una lettera sulla cui busta era scritto, con calligrafia evidentemente
muliebre, il mio nome.

Io non sono un donnaiuolo, non intrattengo corrispondenza epistolare con
le ammiratrici del mio nobile ingegno, non eccito gli scambii spirituali
con le letterate. Quella calligrafia donnesca mi sorprese, dunque, e
m'intricò. Apersi la busta, guardai in fondo alla breve letterina e vi
lessi con meraviglia non poca la firma del mio amico Totò! Lì per lì,
non ricordando la sua triste infermità d'occhi, mi domandai perchè mi
scrivesse a quel modo, servendosi di quelle _pattes de mouche_ così
peculiari a un sesso che non era il suo. Poi mi risovvenni della fatale
necessità ch'egli aveva di ricorrere a un'altra mano per le sue
epistole, e nello spirito mi rimase soltanto la curiosità di conoscere
per quale ragione egli affidasse la sua corrispondenza a una donna. La
lettera, per altro, me lo spiegò subito.

«Conoscete, mio caro amico, l'ex monastero di Santa Patrizia, lì nella
vecchia Napoli, ricoverante famiglie povere e vergognose della loro
povertà, antichi impiegati pensionati e pinzochere e attori decaduti? Lo
conoscerete certamente. Ebbene, io son lì, anzi qui, in questo decrepito
locale: secondo corridoio del secondo piano, terza porta a sinistra.
Vado dal medico ogni tre o quattro giorni e aspetto, pazientemente,
l'operazione alla quale egli mi dovrà sottoporre e che, dice lui,
riescirà completamente. Le mie condizioni finanziarie non sono, ahimè,
mutate. Se spero di riacquistar la vista non così spero di potere trovar
presto un posticino, un'occupazione quale che sia, tanto, insomma, che
mi dia da vivere. Pazienza! Sapete d'altra parte, che cosa veramente
desidero? Una vostra visita. Verrete dunque? Vi aspetta il vostro
affezionatissimo Galiero. Ave!

«P.S.--La mano che vi scrive questa lettera è quella d'una buona vicina
che mi fa da segretario. Il cuore è sempre quello del vostro Totò.
Arrivederci!»

Povero Totò! Non misi tempo in mezzo e andai a trovarlo nel vecchio
monastero di Santa Patrizia. Era una di quelle uggiose, piovigginose,
grige giornate di marzo che vi mettono la tristezza in cuore e l'umido
nelle ossa. Trovai Totò del suo solito umore quasi allegro e fu egli
stesso, anzi, che avviò la conversazione per via non funebre.

--Guarirò--mi disse--Il dottore me l'ha proprio assicurato. L'operazione
sarà dolorosa, sarà lunghetta, ma io tornerò _a vedere_.

--Ma davvero?

--Oh! Ne sono certissimo. Lo sento, ecco. E sento che al mio cuore
tormentato è riserbata la più alta, la più gentile delle soddisfazioni.
Quella di poter _vedere_, di poter ringraziare non solo col vivo della
mia voce, ma col baleno del mio sguardo commosso la più santa delle
creature di questo mondo, colei che durante la mia infermità non s'è mai
per un momento solo allontanata da me, che m'ha prodigato tutte le sue
cure, tutto il suo affetto, tutta la sua bontà! Oh! le sarò ben
riconoscente, amico mio! Ora io non desidero di vedere _che per lei, per
lei_ solamente!

Parlava forte. La sua voce s'era riscaldata e tutta la sua persona
vibrava.

Mi parve di udire un fruscìo di gonne, fuori la porta della celletta.
Qualcuno che forse origliava lì, nella penombra, ora s'allontanava in
fretta.

E Totò mi parlò della sua vicina, a lungo. Un angelo. Tutti i giorni gli
portava il caffè, gli sedeva accanto, lo consolava, gli leggeva i libri
e i giornali, gli scriveva le lettere, badava alla sua biancheria, gli
spazzolava gli abiti...

--Dunque un idillio?

--Mah!--fece lui, sorridendo.

--Bella?

Totò sorrise ancora, amaramente. E io m'accorsi della mia storditaggine.
Che poteva sapere, il povero cieco, del fisico dell'angelo? Ma egli
continuava a narrarmi di tante piccole circostanze sentimentali per cui
pensai che almeno nell'anima di lui, se non davanti agli occhi suoi, la
figura della misteriosa benefattrice doveva essere impressa come una
delle più delicate e suggestive.

--Mi scriverete ancora qualche volta?--chiesi al mio amico sul punto di
lasciarlo.

--Ma certamente. Spero di potervi presto annunziare la mia guarigione.

--E la felice soluzione del vostro idillio--soggiunsi.

--Chissà?...--disse lui.


II

Passarono da quel giorno sei o sette mesi. Notizie di Totò, durante
tutto quel tempo, io non avevo più potuto apprendere poi ch'ero dovuto
partire, appena qualche settimana dopo di averlo visto, per la Germania.
Lassù, di volta in volta, mi si rifaceva vivo il ricordo de' miei amici
di Napoli e spesso, nella nebbia nicotinizzata di qualche birreria di
Magonza o di Heidelberg, tra' fumi del prosciutto caldo e del
saüercraut, la ideale e dolorosa figura di Totò Galiero mi appariva come
quella d'un personaggio poetico e tragico, e degno di quella nordica
letteratura.

Tornato a Napoli trovai, fra le parecchie che il mio portinaio aveva
avuto la splendida idea di serbarmi per tre mesi nel suo casotto, una
lettera di Totò. Questa volta egli scriveva _manu propria_, con la sua
bella calligrafia chiara e grande, indizio, come osservano i grafologi,
d'una _passionalità generosa_.

«Sono guarito!--annunziava la lettera--Vedo! Vedo!»

Nient'altro.

Evviva! Ma dove ottenere più precise notizie, dove potermi congratulare
con quel poveretto, dove poterlo riabbracciare? Corsi all'ex monastero
di Santa Patrizia, infilai daccapo quel lungo e oscuro corridoio che
m'aveva guidato alla cella di Totò e con una indescrivibile emozione
picchiai al numero 40.

Mi venne ad aprire un vecchietto che aveva fra mani un berrettino tondo
intorno al quale egli stesso andava cucendo un nastro di felpa. Dallo
schiuso della porta s'intravedevano un lettuccio basso, una vecchia
sciabola e due grandi stivaloni appesi al muro, e attaccati alle pareti
delle immagini sacre, delle fotografie, un ritratto di Ferdinando II. La
stanzuccia mi parve quella d'un qualche militare giubilato, d'un
_solitiero_, come dicono a Napoli: il vecchietto aveva ancora l'aria
marziale, un bel paio di bianchi baffi rialzati e addosso una giacchetta
soldatesca, abbottonata fino al mento.

--Scusi, Totò Galiero?

Egli esclamò, sorpreso:

--Come! Chi?...

--Domando perdono.--soggiunsi--Galiero. Ha forse sloggiato?

--Da un pezzo!--disse lui.

--Sono un suo amico. Venivo a vederlo. A congratularmi con lui anzi,
che, pare, ha riacquistato la vista... Lei... scusi, ne sa niente?...
Vedo che occupa la sua stanza...

Il vecchio mi continuava a sgranare gli occhi in faccia, e taceva.

--Lo conosce?--insistevo--È pure un suo amico, lei?

--Io!?--urlò, come se gli avessi dato uno schiaffo.

Vi fu un silenzio. Ero confuso, non sapevo più che dire e quasi facevo
per salutare il vecchietto e andarmene. Egli si volse addietro per
riporre il berrettino e l'ago su un tavolinetto. Poi uscì nel corridoio,
mi prese per mano, silenziosamente, e mi condusse rimpetto, d'avanti a
un'altra porticella. Si chinò a guardare pel buco della serratura e mi
fece atto perchè lo imitassi. Guardai là dentro anch'io.

V'era una giovane donna, bruttina, piccola, biondiccia, seduta per
terra--al sole che la illuminava tutta--accanto a uno di que' grossi
cestoni ne' quali le povere madri napoletane, le donne del popolo,
mettono a dormire i loro piccini. La piccola bionda si chinava su quella
culla e di volta in volta agitava la mano per cacciar via qualche mosca.

--Ha visto?--disse il vecchietto.

Non capivo e non sapevo che cosa rispondere. Allora egli, nel corridoio
scuro, avvicinando quasi alla mia la sua faccia, mormorò:

--Il suo amico ci ha lasciato questo grazioso ricordo. Ah, non sa nulla?
Bene, glie lo dico io. Partito... Il signor Galiero è partito per
l'America, coi denari dell'eredità d'uno zio prete... Capisce?... E lei,
non ne sapeva nulla?

Sorrideva, ma con tal sorriso che mi gelò il sangue. Le sue mani scarne
tremavano.

--Totò Galiero!--esclamai--Totò ha fatto questo!...

--Già:--disse il vecchietto, continuando a sorridere e rincamminandosi
verso la sua stanza--Totò Galiero ha fatto questo. Ha fatto una madre. E
te l'ha piantata col figliuolo. Che? Bello! Magnifico! Grandioso! Per
gratitudine, l'ha fatto. Quella è la signorina che lo ha assistito
durante tutta la sua infermità...

Fece ancora due passi e si volse.

--Totò cuor d'oro, se non mi sbaglio--esclamò--Totò cuor d'oro!... Il
poeta! Accidenti! Totò cuor d'oro!

Sulla soglia della sua stanza mi salutò con la mano.

--La riverisco, sa! E lei me lo riverisca!

Suonò una risata ironica, sghignazzante, terribile. Il vecchio sparve
nella sua camera.

La porticina si chiuse, sbattuta forte.



QUELLA DELLE CILIEGE


I

Stesa supina sul piccolo divanetto della sala terrena dell'_Ospedale
degl'Incurabili_, lì ove si fanno le immediate medicature a' feriti che
vi capitano di tanto in tanto da' rioni popolani di Napoli, una giovane
donna ripigliava i sensi a mano a mano.

Erano le dieci ore di una magnifica sera di primavera. La lampadina
elettrica, che la suora di guardia aveva incappucciata con un pezzo di
carta rosea, bagnava il divanetto e quella donna di un dolce lume
colorito, diffuso e uguale.

In qua, presso a una tavola sulla quale era squadernato il registro per
le _Ricezioni notturne_, il medico di servizio preparava, sbadigliando,
le bende e l'ovatta. Quando ebbe tutto allestito per la medicatura,
sedette alla tavola, si trasse davanti il calamaio e il registro,
sbadigliò ancora una volta e accese un'altra lampadina, per vederci
meglio.

--Dunque?--disse, voltandosi--Voialtri, fatevi avanti.

Due guardie di pubblica sicurezza uscirono dalla penombra e si posero di
faccia al medico. Il brigadiere salutò militarmente.

--Il fatto?--disse il dottore.

--Vico Astuti, sezione Porto.

--Scusi, brigadiere--corresse l'altra guardia--sezione Mercato.

Il medico scosse la testa, nervoso.

--Vi ho chiesto del fatto, non del luogo. Come è andato? Spicciatevi.

--Il fatto del ferimento?--disse il brigadiere--Ecco. Io e la guardia
scelta Cosentino, qui presente, passavamo pel Vico Astuti, verso le nove
e un quarto. Costei urlava, in mezzo a certe femmine. Ci siamo
avvicinati al gruppetto. Be'?--dico--di che si tratta? Dice una di
quelle femmine: Brigadiere, portatela all'ospedale: l'hanno sfregiata e
perde sangue. E così l'abbiamo portata qui, in vettura...

Il dottore s'era levato e s'avvicinava al divanetto.

--Dove ti hanno ferita, eh, bella bimba?

La donna, che premeva sulla guancia destra una pezzuola la quale s'era
tutta arrossata, ne la disgiunse pian piano. Apparve la guancia
sanguinante. Ella strinse i denti, con un brivido, e tornò a chiuder gli
occhi.

--Rasoio:--mormorava il medico, reclinato sulla donna--colpo scorrente
dalla tempia all'angolo mascellare inferiore. Ferita abbastanza
profonda. Aspetta... Anche qui? Anche al braccio?

Gli agenti s'accostarono per guardare.

--Ferita anche al braccio!--esclamò il brigadiere--Era per questo che mi
sentivo scorrere il sangue nella manica, quando l'ho afferrata pel
braccio! Vuol dire che ha parato un altro colpo e ha preso anche quello.

--Ah, Signore Iddio!--sospirò la suora.

--Come ti chiami?--chiese il dottore.

La donna balbettò:

--Sofia Ercolano.

--Soprannominata _la rossa_--disse il brigadiere.

--E lo vuoi dire chi è stato?

Attraverso alla pezzuola che le nascondeva quasi tutta la faccia, la
_rossa_ mormorò:

--Non lo so... Non l'ho visto...

--Sangue d'un cane!--esclamò la guardia Cosentino--Ma senti se non fanno
tutte così! «Non lo so! Non lo conosco! È stato uno sbaglio!...». Ah,
brutte bagasce!...

--Basta!--disse il dottore.

--Ma Cristo!--mormorò il brigadiere alla guardia--Vuoi star zitto? Non
vedi che c'è la suora madre?

Soggiunse, levando la mano spiegata al chepì:

--Possiamo andare?

Senza badargli il chirurgo si volse alla monaca.

--La catinella.

La _rossa_ sgranò gli occhi spaventata, e tentò di rizzarsi.

--No! No!... Che mi volete fare?...

--Pazienza, bella mia. Poca roba. Ce la caveremo in cinque minuti.

Rimboccò fino a' gomiti le maniche del lungo camice grigiastro e si mise
a frugare tra' suoi ferri. Intanto, piegato sulla cassetta ov'erano
riposti, senza nemmeno voltarsi, diceva alle guardie:

--Voialtri andatevene, pel momento. Poi vi chiamerò.

--Andiamocene--disse il Guglielmi a Cosentino.

Nel corridoio incontrarono la suora che portava la catinella.

Il brigadiere le domandò:

--Scusi, resta qui la _rossa_?

--Ma s'intende--disse la suora.

S'udì la voce dell'Ercolano, alta, squillante:

--No! No!... Ah, bella Vergine!... Ah, Madonna del Carmine!...

Ora, nello spazioso cortile tutto inondato dal chiaro lume della luna,
le guardie, stanche, s'avviavano al largo sedile di marmo su cui, presso
alla scala scoperta e marmorea, un gigantesco eucaliptus spandeva
un'ombra nerastra.

Sedettero. Il brigadiere accese un sigaro e lanciò alla fresca e pura
aria notturna una copiosa boccata di fumo.

Risuonò, ancora, più cupo, un urlo della _rossa_. Si rifece il
silenzio.

--Guardi che luna!--mormorò Cosentino, levando gli occhi in alto.

--Luna piena--disse il brigadiere, beatamente.--Pare giorno.

Dopo un po', Cosentino disse:

--Ha mezzo sigaro, per caso?


II

Nella sala «_Ramaglia_», al buon sole che v'entrava pe' larghi
finestroni, le ricoverate nell'ospedale chiacchieravano. Delle frasi
allegre correvano di letto in letto fino in fondo allo stanzone, ove,
presso alla bella porta di marmo e accanto a una tavola coperta da un
tappeto verdognolo, una suora preparava filacce. Seduto alla medesima
tavola l'impiegato delle _entrate_ ricopiava in un quaderno le
prescrizioni farmaceutiche. Era l'ora della _visita_. I parenti delle
ricoverate arrivavano a gruppi, continuamente, e si sparpagliavano
intorno a' letti e subito vi si andavano a sedere accapo o nel corsello
tra muro e letto, o rimanevano davanti ad essi, impiedi, con l'aria
triste e meravigliata delle persone di buona salute che si trovano al
cospetto d'un qualche loro caro diventato là dentro così pallido, così
triste, così sfinito! Laggiù, verso gli ultimi letti, una giovane
contadina itterica baciucchiava il figliuolo che le avevano portato dal
villaggio, un marmocchietto bianco e roseo il cui vivo incarnato dava
maggior rilievo all'orribile color giallastro della madre. Un altro
figliuoletto di lei s'era arrampicato sul letto e là dove la coltre si
alzava ad angolo sulle ginocchia della mamma egli si piegava, e
abbracciava ridendo quelle ginocchia nascoste e le baciucchiava.

La suora di guardia sospese la sua bisogna e mormorò all'impiegato:

--Guardi che bella scenetta per un pittore!

--Idroclorato di morfina--fece l'impiegato, con l'indice della sinistra
puntato sul foglio dal quale ricopiava--Ovatta pacchi nove... Diceva,
suora?... Già: difatti. Scena per un pittore. C'è la visita, oggi?

--Certo. È giovedì.

--Non ci avevo badato.

Rimasero muti per un pezzo, guardando a uno a uno i nuovi venuti dei
quali qualcuno, capitato lì per la prima volta, cercava il letto che gli
avevano indicato.

--Quella lì non ha proprio nessuno che la venga a trovare--osservò la
suora, a un tratto.

--Chi?

--L'ottantuno. Laggiù.

--La _rossa_? E chi vuole che la venga a trovare? Ecco... se proprio ci
volessero venire tutti quelli che la conoscono... Avremmo qui un
reggimento, suora!...

--Davvero? E perchè?

--Perchè?... Perchè queste cose lei non le sa. Sono piccole miserie
della vita, ecco. Quella signorina è un po'... Come devo dire? Un po' la
signorina _Omnibus_.

La suora arrossì e si levò. Minacciava l'impiegato, con l'indice teso.

--Ah, quella linguaccia!

--Già, già: ha ragione.--disse quello, e si rimise a ricopiare--Ovatta
pacchi nove, garza tre, bende sette...

La suora mosse dirittamente al lettuccio della Ercolano, che pareva
assopita. Contemplò a lungo quel volto ancora pallido, segnato dalla
tempia all'angolo della bocca dalla ferita recente, che ora s'andava
rimarginando. E come l'Ercolano lasciava penzolare fuori del letto un
braccio ella glie lo sollevò, dolcemente, e lo ripose sulle coltri.

La _rossa_ aperse gli occhi e sorrise.

--Quel povero braccio!--disse la suora--Il braccio malato! E lei se lo
lascia cascar giù fuori dal letto!

--È guarito.

--Ah, sì? Come andiamo dunque? Bene?

--Bene, sì, sì. E domani me ne voglio andare. Ecco già undici giorni che
son qui. Ci perdo la salute, suora! Peggio d'un carcere!

--Ma dove vuole andare? Parenti ne ha lei?

--Non ho alcuno--rispose l'Ercolano, un po' triste, un po' impazientita.

S'era messa a sedere in mezzo al letto e le sue mani esangui e nervose
tormentavano le lenzuola. Il suo sguardo errava, senza volontà. E su'
letti in fila, sul viavai della gente esso passava come quello, già
abituato e senza curiosità, delle vecchie clientele dell'ospedale. A un
momento, più a lungo, s'arrestò sulla cappelletta che veniva fuori da un
angolo dello stanzone, nascosta da pesanti cortine a fiorami.

La suora immaginò che pregasse. Si intenerì. Stese la mano, dopo un
poco, e lievemente glie la posò sulla spalla.

--A che pensa?

--Penso--mormorò l'Ercolano--al sogno che ho fatto stanotte. Ho sognato
delle ciliege. E mi pareva di averne pieno il grembiale e di mangiarne
tante, tante!...

--Ciliege?

--Le adoro.

S'era fatta lieta. Si dimenticava.

--Tante volte, quando mi cercano, chiedono di _quella delle ciliege_...

--È il tempo loro--disse la suora, arrossendo--Domani glie ne faccio
avere.

--Domani me ne vado.

--Ma no!--esclamò l'altra, scotendo il capo.--Non voglio che se ne vada
così presto! Ancora non siamo in gambe, figliuola!

E le carezzò i capelli, col suo solito atto materno che le ingraziava le
ricoverate più difficili.

Lentamente l'Ercolano si riaddossò ai cuscini e vi affondò il capo.
Sulla sua pallida faccia passò un'ombra di tedio e di stanchezza.

--Dunque si resta intese--disse la suora--Domani non si va via. E le
porterò le ciliege, domani.

La _rossa_ aveva chiuso gli occhi. Pareva assopita. La suora si chinò
sopra di lei e le mormorò:

--Arrivederci, non è vero?

--Arrivederci...--balbettò la convalescente.


III

A poco a poco il sole risaliva su per le coltri del letto. Una chiazza
ancor abbagliante dilagava sulla bianca parete, a capo; ancora gli
origlieri se ne bagnavano e, come un casco dorato, lì, copiosa e lucida,
la capigliatura dell'Ercolano accoglieva riflessi quasi metallici. Le
coltri estive disegnavano una sagoma voluttuosa, un ricco e immoto seno
giovanile.

Era terminata la visita. Dei ritardatarii s'indugiavano presso a' letti,
impiedi, con le mani ancora poggiate sulle spalliere delle seggiole
dalle quali s'erano levati e dove pareva che stessero lì lì per
rimettersi a sedere come per tornare a discorrere coi loro malati.

Un giovanotto piccolo, bruno, col cappello di feltro molle su gli occhi,
ronzava da un pezzo attorno al letto della _rossa_. Ed era adesso così
intento a contemplare l'Ercolano, così conquistato da quella dolce
immobilità sopita, che non s'accorse null'affatto di due altri borghesi
che gli stavano alle costole e spiavano ogni atto di lui.

A un tratto si decise. Fece due passi verso il letto e cacciò la mano in
saccoccia.

--Fermo!--urlò uno dei borghesi, ch'era il brigadiere Guglielmi.

E gli fu addosso e lo abbrancò pel colletto. La guardia Cosentino gli
afferrava le braccia, di fianco.

--Che vuoi fare? Un'altra rasoiata? Fermo, corpo di Dio!...

L'uomo, agguantato così d'un subito, sulle prime non aveva opposta
alcuna resistenza. Ma ora cercava di divincolarsi.

--Fermo!--gridava il Guglielmi.

Cosentino gridava anche lui, voltato alla porta:

--Qua, qua! Custodi!

E mentre di laggiù, dal fondo della sala, qualche inserviente accorreva
e s'udiva gridare qua e là anche da' letti, la rossa si svegliò, di
soprassalto. Ora quel giovanotto le stava quasi di faccia.

Lo riconobbe. Gli era cascato il cappello, a piè del letto.

Mise un grido rauco:

--Tu! Tu!... Rafèle!...

--Cuccia!--le fece il Guglielmi.

Cosentino le gridava:

--Sorcio in trappola! Ora ce lo dirà lui chi è stato che t'ha sfregiata!

Lo sconosciuto mormorava, perdutamente:

--Io... sì... è vero...

Ma protesa dal letto, l'Ercolano urlava, con le braccia stese:

--No! No!... Non è stato lui!...

--Va bene!--rise il brigadiere--E ti credo, va! Parola d'onore. Vi
metterete d'accordo davanti al giudice!...

Cosentino si frugava, cercando le manette, e canticchiava:

    _E ll'ammore è na catena,
      nun se po' cchiù scatenà!..._

--Perquisiscilo--disse il Guglielmi.

L'uomo, pallido come un morto, si lasciò fare.

--Ha le saccoccie piene di ciliege--disse Cosentino.

Ne gettò sul letto due schiocche.

E alla _rossa_, che mordeva gli origlieri e si torceva tra le coltri,
gridò, ridendo:

--Toh, _rossa_! Le ciliege! E fattene buccole!...



QUARTO PIANO, INTERNO 4


Al quarto piano d'uno de' mastodontici palazzi del Vasto, un nuovo rione
risultato dalla bonifica delle paludi, rimpetto alla stazione
ferroviaria, il maestro direttore d'orchestra Sponzilli--la cui moglie,
scappatagli di casa con un tenore, era finita di febbre gialla in
America--abitava l'interno 4 con la figliuola Sofia e una servetta,
l'Emilia, che in casa chiamavano Milia--una contadinotta di Corleto
Perticara.

S'era nel luglio. Presso alla finestra che affacciava sul vasto cortile
del palazzo, Milia s'era posta a lavorare all'uncinetto. Le mani
pienotte e arrossate che, poco prima, avevano risciacquato panni e
pentole, andavan lente: di volta in volta l'uncinetto, tra quelle
impratiche dita poco agili, s'arrestava e ricascava in grembo alla
giovanetta. E di su 'l davanzale della finestra, tra un vaso di menta e
i fascicoli d'un romanzo illustrato, il gatto di casa, che lì aveva
trovato il suo posticino al sole, la contemplava, ammiccando. Un'afa
sciroccale pesava sul cortile silenzioso: le ore d'un torrido pomeriggio
scorrevano lente.

Improvvisamente suonò, breve, una voce. La servetta trasalì e levò il
capo: si rizzò pure il gatto e fece arco della schiena, e sbadigliò. La
voce veniva dalla camera da letto della signorina Sofia.

--Milia! Milia!

Il gatto scese dalla finestra e s'avviò. La servetta raccolse il
merlettino, il gomitolo, l'uncinetto e ammucchiò tutto sui fascicoli del
romanzo. S'alzò e scosse il grembiale.

La voce interna insisteva:

--Milia! Milia!

--Uff!--fece Milia.

E rispose forte:

--Vengo, vengo! Pronta!

Nella cameretta della signorina era buio: le imposte del balcone erano
chiuse. Ma da quella commessura, avanzando fino a piè del letto, si
partiva come una sottile lama d'oro. Attorno l'ombra si raffittiva.

--Dove siete?--disse Milia.

--Qui, qui. Vieni qui: senti...

E la sagoma del letto si svelò a poco a poco agli occhi della servetta.
Vagamente, nella penombra, cominciarono a pigliar rilievo un tavolo
tondo, il canterano, il divanetto.

--Senti, Milia, senti...

Dal letto si stese un braccio, e una mano febbrile le agguantò e strinse
il polso.

--Oh, Gesù!--fece Milia, impaurita.

Di su le coltri--s'era gettata bell'e vestita sul letto--la signorina
Sofia, sollevata sopra un gomito, si protendeva. Gli occhi di lei
lucevano nell'oscurità e la Milia, immota, si sentiva figgere addosso
quello sguardo ansioso.

--Milia, dimmi... Mi vuoi bene? E se la signorina tua ti chiede un
favore... dimmi... se ti chiede un favore, che le rispondi?

--Oh, signorinella!--balbettò Milia.

--Senti, un favore da niente... Ascolta bene. Tu devi andare da
Enrico... Alla ferrovia... Alle partenze, lo sai, dove si prendono i
biglietti...

La signorina frugava sotto l'origliere.

--Lo farai chiamare e gli darai questa lettera.

Nella penombra la busta della lettera biancheggiava. Milia ritrasse le
mani.

--Non vuoi? Non vuoi andare?...

Ora la signorina s'era levata a sedere sul letto e ricercava le piccole
ruvide mani che le erano sfuggite. Le ritrovò, le strinse, dolcemente,
lasciò tra quelle scivolare la lettera e le rinserrò.

--Perchè non vuoi? Di che hai paura? Tu lo sai, fino a stasera papà non
torna. Nessuno saprà nulla. Su, Milia! Come te lo devo dire? Vacci!
Fammi questa carità!

L'altra, irresoluta, taceva, girando e rigirando la lettera fra le dita.

--Rispondi! Che vuoi fare? Non vuoi? Dunque alla signorina tua non le
vuoi più bene? Di', non le vuoi più bene?

E a un tratto ruppe, afferrandole e squassandole le braccia:

--O vai tu, o mi levo e ci vado io!

--Date qua.--piagnucolava la servetta--Ci vado, ci vado...

La lettera era caduta a piè del letto. La servetta si chinò, sospirando,
e la raccolse.

--Che gli devo dire?

--Che voglio subito la risposta. E... se è vero...

--Se è vero?...

--Se è vero quello che si dice...

--Che volete la risposta a quello che gli avete scritto e se è vero
quello che si dice.

--Così. Ora va. Ti ricordi? Alle partenze. Chiamalo fuori dell'ufficio.

La servetta si ficcò la lettera nel busto e uscì. Ripassando per la
stanza che poco fa aveva lasciata si fece alla finestra e guardò nel
cortile. Il gran cortile era deserto: a un angolo, per una delle porte
d'entrata, passava un gran chiaro e si diffondeva e dilagava sull'arido
selciato. La moglie del portinaio aveva piantata al sole una seggiola e
appeso alla sua spalliera un sudicio lino del suo poppante. All'opposto
angolo, nell'ombra, la ruota immane per la fornitura dell'acqua
gocciolava e lo stillicidio incessante turbava una pozza d'acqua, là
sotto. Di fuori l'immenso rione nuovo del Vasto pareva morto: il
silenzio era alto: nessun romore, nessuna voce.

Di faccia alla finestra ove la servetta s'indugiava era quella della
Marangi, la maestrina comunale. A poca distanza dal parapetto, seduta a
una tavola sulla quale era pur la piccola macchina da cucire, la Marangi
scriveva, piegata su un mucchio di carte. Di volta in volta, sostando,
si leccava il medio della mano destra che s'era insudiciato
d'inchiostro, e lo fregava a una pezzuola.

--Signorina Marangi,--disse Milia--scusate tanto se vi disturbo. Io vado
per una commissione e lascio sola la mia signorina. Mi volete dare
occhio alla porta?

La Marangi levò il capo. Rispose:

--Va bene.

Si rimise a scrivere. S'udì lo sbattere della porta e Milia scese le
scale, canticchiando. Era così alto il silenzio che la Marangi udì,
chiaramente, la voce della servetta in cortile. Milia diceva al
portinaio:

--Don Angelo, non lasciate salire alcuno. La signorina è rimasta sola in
casa. Io vado per un soldo d'aghi e subito torno.

La maestrina, che aveva abbandonato il braccio sulla tavola e schiuse le
dita dalle quali era sfuggita la penna, sospirò profondamente. I suoi
grandi e dolci occhi azzurrini si velarono, stanchi, fra le ciglia.
Appena tornata dalla scuola s'era posta a rivedere i compiti delle sue
scolarette: un mucchio di scritti infantili aspettava ancora i suoi
segni di correzione a matita azzurra. E la notte precedente ella aveva
così poco dormito!

--Pazienza!--mormorò, passando e ripassando le dita sulle palpebre
grevi.

Come un'eco, dalla finestra dirimpetto, una voce ripetette:

--Pazienza!

--Oh, Sofia! Sei tu?--disse la Marangi.

Immobile, ritta presso il davanzale della sua finestra, la signorina
Sofia la guardava.

--E tu che fai, Laura?

La maestrina sorrise, malinconicamente. Con gli occhi indicò gli scritti
sparsi sulla tavola.

--Non vedi? Correggo compiti.

Rimasero mute per un po' tutte e due, contemplandosi.

--Che fai?--disse la Marangi.

--Nulla.

--Nulla? Troppo poco... Tu soffri. Sofia, tu soffri, lo so. Lo vedo.
Come sei pallida!

Si levò dalla tavola e venne a porsi davanti alla finestra. Mise le mani
spiegate sul davanzale. E, gravemente, soggiunse:

--Senti, Sofia, lascialo! Io te lo volevo dire da tanto tempo! Pensa a
te, pensa a te! Quell'uomo lì non è fatto pel tuo carattere nobile e
fine. Lascialo. Egli ti lascerà, se non lo lasci. È tristo, è
ingeneroso... Perdonami, sai, non ti dolere... È tristo, è tristo!...

Sofia Sponzilli tremava, bianca come un cencio. Tremavano le sue piccole
mani nervose e tormentavano i fascicoli del romanzo, il gomitolo, il
ricamo che Milia aveva dimenticato sulla finestra.

Rispose, piano:

--No... non posso.

--Ti lascerà! Lo vedrai.

--Ebbene... se fa questo... Vedrai, Laura!

La maestrina scosse la testa, pietosa. E si mise a riordinare,
macchinalmente, i suoi compiti sulla tavola.

--Tu non hai cuore per certe cose!--disse la Sponzilli,
all'improvviso--Tu non hai mai amato!

--Oh, figlia mia!--balbettò la maestrina, con tutta la commossa voce del
suo cuore pieno di ricordi e di rimprovero.

E le carte le sfuggirono di mano, ed ella chinò la testa e si sentì
piegare.

La Sponzilli era scomparsa. Laura Marangi scivolò lentamente lungo la
tavola, tornò a sedere al suo posto, riprese la penna e contemplò, muta,
meditando, i suoi compiti. Gli occhi le si erano empiti di lagrime.
Bagnò due o tre volte la penna, cercò uno degli scritti nel mucchietto
che se n'era posto davanti. La mano e lo scritto, rimasero lì, immoti.
Ella si risovveniva, ora, di tutte le sue pene, di tutto l'amor suo
finito miseramente per una volgare questione d'interessi, di denaro.
Povera, anche lei: con una mamma vecchia, cieca, poveramente pensionata,
con un fratello ferroviere che ora le voleva abbandonare per
ammogliarsi, e senz'altro, senz'altro, che uno stipendio meschino! E
senza più amore, e senza più speranza, davanti all'oscuro avvenire!

Reclinò la testa bionda sul braccio e ve la posò, e vi nascose la
faccia.

Ora tornava Milia, dalla ferrovia: si udiva il romore de' suoi
zoccoletti, su per le scale. La porta di casa della Sponzilli s'aperse e
sbattette con uno strepito breve. La Marangi non si mosse, non levò il
capo. Piangeva piano, col volto sul braccio piegato: piangeva
amaramente, senza sapere perchè.

Suonò, all'improvviso, un alto grido angoscioso. La servetta apparì alla
finestra, con le mani ne' capelli, con la faccia stravolta.

--Milia!--gridò la Marangi.

--S'è buttata dal balcone! S'è buttata giù!...--urlava Milia--Ah,
Madonna del Carmine! Signorina! Oh, Dio! La signorina mia ha avuto la
risposta da quel giovane e s'è buttata!...

La Marangi si coperse la faccia con le mani. Tentò di levarsi. Ricadde
sulla seggiola.

Balbettava:

--Oh, Sofia! Oh, Sofia mia!... Oh, Dio! Dio! Dio!...

Milia si schiaffeggiava, pazzamente, urlando:

--Dal balcone! Dal balcone!...

Disparve. La porta di casa s'aperse con un fracasso spaventoso. La
servetta si precipitò per le scale, urlando. E su per ogni pianerottolo
s'apersero subito altri usci, e nel cortile si popolarono tutte le
finestre.

Una voce, dall'alto disse:

--Chi s'è buttata?

Un'altra rispose:

--La Sponzilli... La figlia del maestro di musica. Dall'altra parte.
Nella via Brindisi...

E dalla via Brindisi un vocio confuso e crescente salì alle finestre.
Ora la folla entrava nel cortile, e se ne udiva il mormorio. Portavano
qualcuno, in cortile, un corpo immoto...

La Marangi, inorridita, si trasse addietro e s'appoggiò allo spigolo
della tavola. Si sentì mancare. Si provò a chiamare la madre e la voce
le venne meno.

Un prete, di furia, scendeva dall'ultimo piano. Era il fratello d'una
vedova, cappellano a Santa Maria delle Paludi.

Si affrettava, pallidissimo, con la stola sul braccio, abbottonando, con
le dita tremanti, la sottana al sommo del petto...



FEDERICA


I

Sono sei mesi da che ho dovuto lasciare una grande città del
settentrione--desidero di non additarla a nome--per un paesetto che ne è
lontano quindici miglia. Il mio spirito ha bisogno di quiete. Ho bisogno
di vedermi circondato da cose e da persone tranquille; le capitali sono
affollate di gente trista e volgare, ciarliera, spregevole,
insopportabile, che vi preme e vi disgusta, che popola i caffè e li
satura di vanità, di insincerità e di oziosi vaniloquii.

Qui dove sono venuto è altra cosa. Vi rimarrò a lungo? Non so. Ma mi
sono suggestionato--e la mia suggestione non s'è interrotta fino a
questo punto. Sì, vi rimarrò: vi devo restare parecchio. Qui scriverò,
solo solo con me stesso e coi miei ricordi che hanno bisogno di
prorompere una buona volta, la storia che attingerà dai molti e profondi
dolori della mia stessa esistenza la materia più sincera. Vedo che mi
aiuta, con la sua fisonomia placida e serena, il luogo ove ho riparato.
Lo vado ancora percorrendo, in passeggiate mattutine, che non mi
stancano e che oramai me l'hanno tutto quanto svelato.

A dugento passi dalla mia casetta, sul fondo verde della montagna, si
disegna con semplici linee un edificio rustico e grigio. Ove la
raggiunge un parco deserto appare la sua rozza facciata, qua e là
striata da bianche suture di calce. Nel parco solitario spuntano da
terra, come tanti fiori mostruosi e deformati, alcune antiche erme di
pietra--che il padrone di quella casa, che forse fu signorile e bene
architettata e ornata, sparse una volta su per un prato muscoso, il
prato arcadico del suo bel tempo, ora diventato brullo e disuguale. L'ho
pur amato così, nei mesi dell'inverno, quando la pioggia lo immolla,
freddo pianto del cielo. Forse perchè la natura non mi pare interessante
se non quando è debole o è malata.

La prima volta in cui visitai quell'edificio fu in autunno. Mi parve
subito che il tono delle cose esteriori corrispondesse al palpito che da
ognuna delle creature umane raccolte in quella casa s'esprimeva come
cercando di superarne i muri impenetrabili. In quel vasto manicomio la
vicina e grande città industriale manda all'aria ossigenata della
montagna i suoi poveri folli. Città meccanica, così pare che si liberi
di tutti i guasti suoi congegni: ma ne ricominciano a stridere qui
gl'ingranaggi arrugginiti e, spesso, nei giorni di tramontana, all'urlìo
del vento, al suo sibilo lacerante si mescola un suono che certo è
umano, che da creature umane si parte, e nella cui scomposta e
aneuritmica insistenza s'adunano come trasformati, e su d'un tono che
ora sale ora scende, il pianto e la preghiera, l'imprecazione e il
lamento.

Per quale ragione, dal primo giorno in cui ho posto tenda a X..., mi ha
chiamato a sè quel luogo dal quale in altri momenti della mia vita avrei
certo rifuggito? Non ve lo so dire: come non saprei dirvi davvero quante
volte mi vi sono recato e ho poi finito col giurare a me stesso,
nell'uscirne, di non tornarvi mai più. Devo credere, per altro, che
quelle mie frequenti visite siano state sollecitate pur dal piacere che
ho sinceramente provato di pormi in comunione frequente con la più
dotta, acuta e geniale persona che là dentro,--con la scienza che lo
esamina e lo sorveglia, con la pietà che lo inganna, con occhi che
affisandosi su tanti poveri esseri paiono più teneramente meditativi che
indagatori--presieda a quell'ignaro dolore. Non posso indicarvi a nome
quest'uomo: lo chiamerò il dottor Massimo. E poi, che v'importa di
sapere come si chiami? Questa è la narrazione di un fatto i cui pochi
personaggi ho io soltanto il diritto di conoscere compiutamente. Quelli
che abitano la triste casa di salute mi sono noti, quasi tutti. Con
alcuni dei più tranquilli mi son posto, talvolta, persino a discutere,
fino a quando non mi ha separato da loro quella mossa che,
all'improvviso, han fatto i loro discorsi di uscire dal campo logico per
appressarsi, per tornare con un'insistenza, a volte anche pacata, a un
mondo di persone e di cose irreali.


II

Ora, una ventina di giorni fa, mentre allineavo su un pluteo della mia
piccola libreria un bell'esemplare, in tredici volumi, _Della vita e
delle opere di Federigo il Grande_,--edizione francese del 1789, che la
vecchia vedova d'un bibliofilo farmacista di X... mi aveva ceduto per
poco denaro--mi capitò un bigliettino del dottor Massimo, così
concepito: «Ho qui del buon the, dell'autentico _Hyson hayswen_ che mi
arriva direttamente da Annam; ho per le mani un nuovo _soggetto_--e non
ci vediamo da venti giorni!».

--Inutile scrivere al professore--dissi al vecchietto che mi aveva
portata la lettera--fra mezz'ora sarò da lui.

Sulla soglia, uscendo, il vecchietto si voltò per raccomandarmi:

--Sa, signore: il paracqua! Il tempo minaccia.

Si preparava, difatti, una brutta giornata: cielo grigio, aria umida e
fredda. Qualche goccia di pioggia mi colpì sulla faccia appena misi
piede fuori di casa. Sulla via carrettiera mi soffermai un momento: la
campagna, nel lontano, mi parve più deserta e malinconica del solito;
una nebbiola bassa, come un fumo lieve, le stava sopra e la oscurava un
poco.

Il dottore mi venne incontro nel cortile dell'ospizio. Con la sua
effusione abituale m'afferrò la mano e me la strinse.

--Vi chieggo scusa se v'ho scomodato. Ma non vi vedevo da tanto tempo!
Bravo, ho piacere. Ora concedetemi dieci minuti di permesso: il tempo di
dare un'occhiata alle lettere che mi sono giunte adesso. Dieci minuti, e
sono ai vostri ordini.

Si ficcò in fretta nel suo studiolo a pianterreno. Ma prima aveva fatto
un cenno a un custode, un gigante biondo, che aspettava, col berretto
fra le mani.

--Potete aprire.

Il gigante introdusse una piccola chiave nella toppa della porta ferrata
che è in fondo al cortile, e quella, a un suo spintone, stridendo sui
cardini s'aperse a mezzo. Passai: il custode era passato prima. La porta
si rinchiuse. Eravamo nel _Quadrato dei pazzi tranquilli_.

Era stato forse un giardino, in origine: ora poco vi restava che lo
attestasse: qualche alberello dal tronco sbiancato, il segno d'un viale,
uno dei muri ancora rigato, verso la cresta, di cannucce in fila, che il
giardiniere vi aveva inchiodato per favorire ascensioni di glicine o di
campanule. Addossati a quel muro due freddi sedili di marmo pareva che
aspettassero qualcuno: altri ve n'erano qua e là, co' piedi a zoccolo
già conquistati da umide chiazze di musco.

I _tranquilli_ passeggiavano, solitarii, in peripatetici soliloqui.
Qualcuno, d'un subito, dopo una lunga corsa lungo il muro di cinta,
s'arrestava, si premeva il petto con le mani spiegate, e ansava
forte--qualche altro, in estasi davanti all'arida vasca di quella che
era stata una fontana, in un angolo, non ne levava più gli occhi
incantati--un altro ancora, che ora si veniva a sedere sulla panca di
marmo più prossima alla porta, si voltava a interrogarla senza posa,
girando e rigirando il capo, che scattava come per un congegno
meccanico. Ve n'erano di quelli che si sprofondavano nelle loro
meditazioni, e non ascoltavano, non vedevano che que' loro fantasmi--e
ve n'erano altri che, a due a due, a braccetto, or lentamente, ora a
passi precipitosi, trascinavano, infervorati, le loro misteriose
discussioni. Ove due delle pareti del recinto si raggiungevano e
facevano spigolo, con la faccia al muro, con le mani sulla faccia, un
poco piegato e quasi tremante, un altro singhiozzava. I compagni gli
passavano davanti senza neppure guardarlo.

Spioveva, adesso. Pel fitto d'una scura nuvolaglia finalmente il sole
era riescito a ficcarsi: ora quell'immane viluppo s'andava colorendo, i
suoi lembi ondulanti si accendevano. Dalla terra inumidita si
sprigionava un lievissimo odore che a poco a poco diventava più acre.
Ma il silenzio non s'interrompeva. Vedevo venire verso di me, lenta, una
coppia che a volte s'arrestava: un vecchio signore aveva passato il suo
sotto al braccio di un giovane e questi, camminando, pareva che stesse
ad ascoltare il suo compagno anziano. Quando si fermavano, il vecchio
figgeva gli occhi ansiosi in quelli del giovane, che lo guardava come
trasognato. Pian piano gli scioglieva le mani che quello s'ostinava a
tenere rinserrate, e le premeva dolcemente nelle sue. L'ebete si
lasciava fare, in silenzio, con un sorriso melenso, passivo alla carezza
paterna. E il padre, ch'era venuto a trovarlo, e lo aveva ancora una
volta rintracciato in quella folla misera, sempre allo stesso posto e
assorbito dall'eterna sua meditazione sconsolata, ora, ancora una volta,
e invano, gli parlava sommessamente di tutte le persone, di tutte le
cose un tempo così care a lui: della casa, della famiglia, ch'egli aveva
dimenticato, forse per sempre. E mentre attorno continuava il va e
vieni, continuavano i soliloquii, le corse ansiose, e il pianto di
quello che s'era messo con la faccia al muro, qui, a qualche passo da
me, quel padre seguitava a sollecitare il figliuolo, e ora, incollerito
e angoscioso, quasi lo investiva con la solita domanda che non ha mai
risposta: Ma dimmi, dimmi... Ricordi? Dimmi... Ti ricordi?...


III

Il dottore m'aspettava, con le mani sul dosso, con l'ultimo fascicolo
della _Phrenologische Zeitschrift_ sotto l'ascella, appie' della vasta
scala che mena ai corridoi superiori. Ricominciammo a parlare del suo
_nuovo soggetto_: una giovane donna ch'era stata affidata alle sue cure
speciali.

--Tipo non comune. Nessuna delle degenerazioni fisiche che io riscontro
nelle altre ammalate di tal genere. Ecco: forse quelle iridi grige che
talvolta si slargano...

S'arrestava al sommo della prima tesa delle scale e pigliava fiato.

--E di che cosa è malata?

--Ebbene, pel momento non vi saprei dire. Ha delle frenosi complicate
d'isterismo e di catalessia, e una mania di pianto. Per lo più è muta e
solitaria. Qualche volta l'ho udita cantare. La lascio fare, la lascio
libera. Ella non farà mai male ad alcuno. Non s'agita, non urla. Nessuna
irrequietezza. Per tanto è una isterica: e pure m'oppugna il Sydenam,
che al cospetto di lei si troverebbe forse per la prima volta in
presenza d'una di queste paranoiche la quale non ha, come lui dice, la
costanza dell'incostanza. In fondo, siamo sempre lì--soggiunse il
dottore, soffermandosi con me sul largo pianerottolo--le solite
devastazioni di quel risvegliatore eterno, dolcissimo ed iniquo, d'ogni
male latente. L'amore. Dico bene? Secondo me quella poverina ama o ha
amato qualcuno che non ha mai potuto raggiungere.

S'apriva davanti a noi il lungo e spazioso corridoio dalle bianche
pareti, deserto. Tutte le porte delle celle erano chiuse.

--È qui, ai _pagamenti_.--disse il dottore--Numero quaranta.

Con le nocche delle dita picchiò sulla porta e attese qualche poco. Poi
ficcò la chiavetta nella toppa e la porta s'aperse.

Ora egli, di su la soglia, col cappello in mano, salutava.

--Buongiorno, signorina.

La vidi, subitamente. Era seduta presso la sponda del suo bianco letto e
ci voltava le spalle. Vidi un'onda di capelli d'oro, quasi disciolti,
vidi una mano, pallida e sottile, come abbandonata sulla tavola sparsa
di fiori, accanto a lei; una mano che s'appressava a quei crisantemi con
quel moto lievo e incerto che hanno le dita dei ciechi.

Il dottore presentava:

--Il mio amico Legrenzi.

Ella si volse, e si levò, di scatto. Con un grido, un grido che non
potrò mai dimenticare! Si trasse addietro, s'addossò quasi a uno stipite
della finestra. La luce della finestra la circonfuse; ma la coglieva
alle spalle, e io non vedevo che un fantasma, alto, sottile, dalle
braccia levate in atto di meraviglia e di terrore.

Che cosa io balbettai, che cosa feci in quel punto! Non so... M'è parso
di piegarmi, di mancare. Le mie mani si sono afferrate allo spigolo
della tavola, gli occhi miei fisi e spalancati hanno visto venire verso
di me, lento, dal luminoso fondo della finestra, il fantasma. Ho sentito
una mano che mi si posava sulla spalla. Ho visto confusamente lei, che
si chinava, che mi guardava. E m'è parso che sorridesse, con gli occhi
pieni di lagrime...

E ho udito poi la sua voce:

--Ti ricordi!... Dimmi... Ti ricordi!...


IV

Ebbene, sì, ricordavo. Una intera esistenza vi può ripassare davanti
agli occhi in un attimo.

Rivedevo, in quella bionda e pallida figura, mia madre, mia madre
adorata, morta quando io nulla ancora potevo intendere della vita e
delle sue tragedie, dei suoi profondi dolori, delle orribili amarezze
che vi invecchiano di colpo e vi abbandonano, disfatti, al tedio o alla
disperazione. Sì, rivedevo mia madre, in costei. Era il suo profilo puro
e dolce, erano i suoi capelli d'oro che io amavo di carezzare, erano i
suoi grandi occhi chiari, d'un azzurro grigiastro, pieni di lume e di
dolore. E la voce! La voce ch'era _rimasta nel mio orecchio_ da quel
tempo della mia infanzia, in cui la udivo suonare melodiosa e pur breve
nella triste solitudine della mia casa. Sì, sì: a che varrebbe
nasconderlo? Tutto, ora, tutto ricordavo. Ricordavo che un giorno mio
padre, silenzioso, mi prese per mano e mi condusse nella camera ove mia
madre moriva. Da tanto tempo non m'avevano lasciato vedere mia madre!
Come era bianca nel suo letto, come le sue mani sottili tremavano sulla
mia testa! Che mi disse? Balbettava parole che io non potetti
comprendere. Oh, Dio, Dio! E pure erano le ultime sue! E poi mio padre,
che a un punto disse: Basta!--con la sua voce cupa, quasi irritata. Mi
parve un sogno. E poi tutto finì. Mi trovai solo con mio padre, in
un'altra casa, in campagna, molto lontano dalla città. Tutto sparito: i
servi, il mio precettore, la cameriera di mia madre, e quella bambina
bionda, Federica, mia sorella, alla quale mio padre non aveva mai
parlato, che non aveva carezzata mai. E poi... e poi venticinque anni
della mia vita trascorsi in un baleno, i miei studii, i miei viaggi, la
morte improvvisa di mio padre.... E quella sera, a Bamberga, al ballo
della _Croce rossa_ ove dopo tanti anni rividi e riconobbi a stento un
signore ch'era stato amico di lui, qualcosa come un diplomatico, freddo,
compassato, di poche parole. La figlia no: la figlia ch'egli
v'accompagnava non gli somigliava che nella bella statura, soltanto.
Dopo la prima contradanza, mentre ella mi parlava, sommessamente, nel
vano d'una finestra, e io bevevo il suo sguardo e le sue parole, il
vecchio le si avvicinò e le disse qualcosa, sottovoce. Ella mi stese la
mano.

--Arrivederci--mormorò sorridendo--mio padre vuol rincasare.

E da quella sera, non la rividi più...


V

La pazza continuava a guardarmi, immobile, assorta.

Mi pareva che si sforzasse anche lei di penetrare le nebbie d'un passato
confuso e incerto, di ricordar qualcosa, qualcuno...

E fra tanto mi sentivo trascinare addietro, pian piano, dal dottore.
Subitamente egli rinserrò la porta. Un grido, ancora un grido risuonò
nella celletta, un ultimo grido straziato. E un nome--_il mio nome_.

--Livio!

Il dottore, sul corridoio, si volse a me, stupefatto.

--Ma come?... Vi conosce?...

--No!--esclamai--No!... Non so... Ma chi è costei?... Come si chiama?...

Egli, un po' stranito, rispose:

--Federica Vossler.



INDICE


  L'ignoto                                        pag.   1
  Pesci fuor d'acqua                                    25
  «Cocotte»                                             47
  Il posto                                              65
  Vecchie conoscenze                                    75
  Donna Clorinda                                        95
  Suo nipote                                           113
  Un «caso»                                            127
  Addio, Carolina...                                   139
  Totò cuor d'oro                                      151
  Quella delle ciliege                                 163
  Quarto piano, interno 4                              177
  Federica                                             189



NOTA DEL TRASCRITTORE


L'ortografia originale è stata mantenuta. Minimi errori
tipografici di punteggiatura sono stati corretti senza
annotazione.





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