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Title: Mattinate napoletane
Author: Di Giacomo, Salvatore, 1860-1934
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Mattinate napoletane" ***


(This file was produced from images generously made


              _Edizione definitiva_


                  S. DI GIACOMO


                    MATTINATE

                   NAPOLETANE



                (Secondo migliaio)



                      NAPOLI

               LUIGI PIERRO EDITORE

                       1887



MATTINATE NAPOLETANE



                  S. DI GIACOMO



               MATTINATE NAPOLETANE



                 Secondo Migliaio



                      NAPOLI

               LUIGI PIERRO EDITORE

                       1887



               PROPRIETÀ LETTERARIA

              _riproduzione vietata_



     Napoli--Tip. Edit. E. Pietrocola--Napoli
            44, Cisterna dell'Olio, 44



_Esaurita, in pochissimo tempo, la prima edizione delle _Mattinate_,
l'autore ha voluto cedere a noi la proprietà di questa seconda,
definitiva, curandola e correggendola con più amore._

_E però siamo sicuri che non le verrà meno quella simpatia che il
pubblico le addimostrò da principio._

                                L'EDITORE



VULITE 'O VASILLO?...



                                _Napoli, Marzo 1885_

    CARISSIMO PAOLO,

Io non ho, qui a Napoli, con chi sfogare certe mie piccole pene, che
mi pare abbiano tutta la buona intenzione di rimanersene meco
alloggiate, in questa cameretta mia solitaria. Non ho stretto amicizia
con nessuno, apposta per non dare a nessuno il modo di subitamente
allontanarsi da me per qualche improvvisa scappatella che mi facesse
il morboso carattere mio. Vivo solo e tranquillo in questa mia stanza,
dalla quale esco a prima ora di mattina per trovarmi all'Istituto, e
un po' a sera, col tempo buono, per avvelenarmi con una chicchera di
caffè e con un sigaro _napoletano_. Il caffè, per acquaccia nera che
sia, mi permette di studiare e di leggere fino a notte avanzata, e ciò
mi fa bene, lasciandomi dimenticare, sviando il pensiero e
interessandomi a qualche cosa _fuori di me stesso_. Da qualche giorno,
però, il mio umore è ridiventato nero, pel tempo perverso che mette
ovunque un silenzio di malinconia e nelle povere anime sofferenti uno
sgomento indefinibile, una lunga e nervosa tristezza che a momenti si
vorrebbe mutare in tante calde lacrime piante tacitamente, la faccia
nelle mani, mentre, come ora che ti scrivo, seguita la pioggia a
borbottar nelle grondaie e lontano lontano muore un tintinnio di
campanelle vaganti.

Or io mi sono, solo solo, rincantucciato presso alla mia finestra e
guardo, per le vetrate, nella via deserta ove son tutte chiuse le
botteghe e taciti e frettolosi i rari passanti. Il cielo è grigio come
la veste d'una monacella di questua; si leva da una terrazza di faccia
a me e vi si disegna a carbonella il palo del telegrafo, irto di
capovolti interrogativi che irraggiano a destra e a manca fili neri, i
quali si vanno lontanamente a perdere. Sta in fondo Sant'Elmo, vestito
appiè delle mura di un cupo verde alimentato dalle piogge e
dall'umidità, sforacchiato da tanti buchi neri in fila. E una fila
d'uomini ritti, immobili, par la cresta merlettata del castello,
dietro il quale impallidisce freddamente il cielo, come negli antichi
acquarelli de' trittici olandesi.

Ebbene, Paolo mio, dopo questo io non ho che o troppo poco ancora, o
tante, tante cose a dirti! Ancora parlarti di me, delle mie
incoerenze, dei contrasti che s'agitano e s'accapigliano in
quest'anima mia inquieta, delle aspirazioni, de' sogni a' quali tengo
dietro, col cuore tremante? Non voglio; quest'altra stanzetta ove tu
seguiti, in un paese lontano dal mio, a innamorarti delle farfalle e
degli scarabei verdi riscintillanti, a raccogliere pazientemente e ad
ordinare famiglie di crittogame o di fanerogame tra fascicoli di
carta, mio buon Linneo calmo e tranquillo, quest'altra stanzetta è
ancora troppo piena _di me_. Or le tue piante e i tuoi scarabei non mi
sentono più; non più la vecchia spinetta canta loro le semplici arie
della nostra montagna nelle beate dolcissime sere lunari. Paolo mio
caro, vuoi raccontare una storiella a questa tua silenziosa famiglia?
Te la mando da Napoli, da questo strano cuore d'Italia che patisce, se
lo si considera bene, di tutti i mali cardiaci, dell'aritmia,
dell'iperestasia, dei ribollimenti subitanei e delle lunghe paci
silenziose, da' battiti lenti, quasi malati.

Dunque, ascolta. La storiella potrebbe pur esser vera.

                        *
                       * *

Tre giorni dopo arrivato, col mio bravo cassettino ad armacollo e col
mazzo di pennelli tra mani, infilavo, entrandovi da Borgo Loreto, il
lungo vicolo Giganti, pel quale si spunta alla Marinella. Tu non sei
stato mai a Napoli e non puoi sapere che sieno questi vicoli di Borgo
Loreto, topaie di marinari miserabili, vestiti di lana doppia,
puzzolenti, neri come il carbone. Tutta la vita grama di questi
lavoratori del mare s'agita ripullulando, in case buie, profonde,
umide. Un tristo e schifoso spettacolo, poco lontano dall'azzurro,
divino spettacolo del mare, innanzi al quale la mia mano freme sulla
tavolozza.

Io, dunque, per andare a dipingere alla riva, passavo pel vicolo
Giganti, guardando qua e là curiosamente e persino fermandomi a
contemplare, con meraviglia di forestiero e curiosità d'artista,
qualche _interno_ pittorico, pieno d'ombre e di mistero. Fu in una di
queste fermate che una donna sui trent'anni, piccola, bionda come
tutte le figlie del mare, mi chiamò sulla soglia di casa sua, nella
via, e mi chiese, sorridendo, se volessi _disegnarla_. Rimasi
sorpreso: avevano dunque capito, questi del vicolo Giganti, che
mestieraccio facevo?

--Io vi _disegnerò_, bella bionda,--le risposi--ma com'è che sapete
ch'io disegno?

Ella mi disse che passavano sempre per quella via de' giovanotti, i
quali andavano a _disegnare_ le barchette e il mare e i pescatori;
ognuno di loro portava sotto il braccio un cassettino come il mio,
nelle mani i pennelli e in testa un cappelluccio a cencio, come il
mio. Ora i _disegnatori_ li conoscevano subito.

--Sta bene; vuol dire che un bel giorno ripasso e vi _disegno_...

--Quando?

--Al più presto possibile, bella bionda.

--Io non mi chiamo bella bionda. Mi chiamo Fortunata. Volete passare
lunedì?

--Passerò lunedì.

Al lunedì, di buon'ora, mi trovai al vicolo Giganti. Fortunata, ritta
sulla soglia di casa sua, lavorava all'uncinetto, sorridendo. Mi aveva
visto da lontano.

--Dunque? Siamo pronti?

--Entrate.

La seguii in una piccola stanza, dal pavimento tutto sconnesso e
sporco. Attorno, appesi ai muri, immagini di santi, olivo benedetto,
nasse di pescatori, corbelli di paglia, piccole bombole pe' polipi.
Una tavola, un lettuccio, due o tre seggiole zoppicanti.

--Sentite--disse lei, appoggiandosi col dosso alla tavola e giuocando
col gomitolo--io vi volevo chiedere un favore...

E come io la interrogavo con gli occhi, non sapendo che cosa mi stesse
per capitare addosso, ella soggiunse prestamente:

--Ebbene, ecco, io non volevo _esser disegnata_ proprio io,
perdonatemi...

--E chi?

Ella volse lo sguardo al lettuccio, confusa. Allora m'accorsi che nel
lettuccio c'era qualche cosa. Un piccino. Due grandi occhi azzurri mi
guardavano spaventati, una testina bionda come quella di Fortunata si
levava dal capezzale, intenta.

--Il piccino--mormorò lei.

Ma come m'accostavo al lettuccio il piccino fu preso da gran terrore.
Ricacciò il capo sotto le coltri e si mise a urlare.

--È malato.--disse Fortunata--ha una gran febbre da cinque giorni. È
mio figlio Ndreuccio. _Ndreù? Bell' 'e mamma, te vuo' fa disignà?_ Il
signore, lo zio, ti farà il ritratto, e mamma te lo metterà qui
appeso, di faccia a te, e quando _tata_ verrà e vedrà il ritratto di
Nndreuccio, dirà: Questo è Ndreuccio bello, tale e quale...

Il piccino ascoltava, con gli occhi lucenti di febbre, senza mostrare
di decidersi.

--Guarda,--gli dissi mostrandogli un soldo in punta di dita--se sarai
buono io ti darò questo soldo.

Sorrise, guardò la madre che sorrideva pur lei, incitandolo.
Finalmente accettò, nascondendo il soldo e la manina, nella quale lo
aveva lasciato cadere, sotto la coltre. Fortunata gli acconciò due
cuscini dietro la testa, si mise a sedere, appiedi, sul letto, e
ricominciò il suo lavoro di uncinetto, seguendo curiosamente i miei
preparativi. Valeva la pena d'interessarmi a questo fanciullo. Nella
luce fredda era una testa d'un sol tono di colore, senza rossi, senza
rilievo accentuato, pallida, caratteristica. I grandi occhi azzurro
scuro lucevano tra i riccioli; della piccola bocca, puerilmente, il
labbro inferiore saliva sull'altro in una smorfietta sdegnosa. Hai tu
mai visto qualche pallido bambino malaticcio, dipinto da Rubens? Così
lui. Pareva che si fosse messo a pensare a cose molto serie; nessuna
curiosità; lo sguardo di lui scendeva lentamente da lunghe
contemplazioni del soffitto al volto della madre, e vi si posava. Era
Fortunata che pativa di curiosità. A ogni cinque minuti si levava per
venire a guardare di sopra alle mie spalle, per esclamare: Quando si
vedrà qualche cosa? Ci vuole ancora molto tempo? Lo fate ridendo?
Verrà bene?

Dopo la prima _seduta_ il piccino volle vedere un po' anche lui, e si
contemplò abbozzato appena, senza meraviglia di non riconoscersi, come
consciente dello sviluppo che poi avrebbe avuto il dipinto.

--Lo lascio qui,--dissi a Fortunata--mettetelo in un cantuccio, con la
faccia al muro, e badate di non toccarlo.

--Quando tornate?

--Domani.

--Certamente?

--Certamente. Addio, piccino.

E mi chinai su di lui per fargli un bacio. Egli mi mise la mano sulla
faccia, respingendola.

--Che hai?--gli disse Fortunata--su, fagli un bacetto.

E soggiunse, sottovoce:

--Dategli un soldo.

--To', eccoti un soldo. Ora mi fai un bacio?

Le sue piccole labbra febbricitanti toccarono lievemente le mie. Il
secondo soldo scomparve con la manina in cui era stretto, sotto le
coltri.

--Ah, signorino,--mi disse Fortunata, presso la porta--il piccino è
molto malato. Dice il medico, che l'ha visto, ch'egli ha male ai
polmoni. Il primo figlio, signorino mio!--e le lagrime lo lucevano
agli occhi-è una sventura grande! Avete visto com'è serio?

--Via, fatevi cuore, è bambino e guarirà. Ha il suo babbo, è vero?

--È andato via. È marinaro. È partito per pescare il corallo, con
tutta la _paranza_. E torna di qui a un mese, signorino mio. Pel
piccino va pazzo, se sapeste!...

La lasciai così, che piangeva silenziosamente sul limitare della
casuccia, con le braccia penzoloni, gli occhi a terra. Veramente quel
dolore di giovane madre mi faceva male. Pensai a lei, al piccino, per
tutta la via; pensai che sarebbe stato molto meglio se non avessi
conosciuto nessuno di tutti e due...

Tornato alla dimane, con una bella giornata di sole, ricominciai il
mio lavoro. Il _modello_ mi si dimostrava più amico, arrivava perfino
a sorridermi. Quando rimisi la tela appoggiata al muro e stavo per
licenziarmi, lui mi fece con la sottile vocina:

--_Vulite 'o vasillo_?

Io gli detti un altro soldino. Questa volta ebbi due piccoli baci su
tutte e due le guance. Mi volsi uscendo. Lui mi salutava con la mano,
levando il braccio nudo, sorridendomi.

Ah, questo piccino malato, questo piccolo piccino pallido pallido,
questa mia novella amicizia puerile! Tutto il giorno son rimasto a
pensarvi.

Dopo una settimana avevo finito. Ero contento; il ritratto m'era
venuto somigliante non pure, quanto assai giusto di colore e
d'intonazione. Il bianco dei cuscini col sole... Ma via, io non mi
voglio fare delle lodi. Ero contento, ecco, ero contento della mia
settimana. In tutti quei giorni il mio piccolo amico s'era più stretto
a me con tutte le ingenue espansioni infantili con le quali la
fanciullezza trattiene una mano carezzante e un dolce amore pietoso.
Ogni giorno all'uscire dalla stanzetta piena di sole, fingevo di
scordarmi della sua offerta, per sentire subitamente la vocina di lui,
balbettante:

--_Vulite 'o vasillo? Vulite 'o vasillo_?

                        *
                       * *

Gli aveva promesso di recarmi a vederlo due tre volte nella settimana;
lo aveva promesso anche a Fortunata. Cominciato novembre, dovetti
abbandonare i miei studi di mare e il vicolo Giganti. Questa Napoli ha
un clima variabilissimo; una bella giornata calda, soleggiata e poi,
al giorno appresso, acqua, vento e tempesta. A novembre pigliai una
mezza bronchite che mi confinò nel letto per dodici giorni. Pioveva,
pioveva sempre. Una grande malinconia, caro Paolo, dei tristi giorni e
il padrone di casa che mi spediva messaggi e tutte le mie pratiche e
le mie speranze quasi rovinate.

Nei primi di dicembre, in un sabato, il tempo era bello. Uscii, tornai
al vicolo Giganti tutto pieno di centinaia di femmine che aspettavano
l'estrazione dei numeri del lotto e ne discutevano a gran voce. Cercai
Fortunata. Era lì in casa a lavorare all'uncinetto, accosto alla
tavola, sulla quale si raffreddava la minestra in un piatto. Quando mi
vide, si levò, pallidissima; levò le braccia in atto disperato e si
mise a piangere.

--_Signo'! È muorto! È muorto!_

Ti giuro, cominciai a piangere anche io, come un fanciullo. Ella,
ricaduta a sedere, aveva poggiate le braccia sulla tavola e tra le
braccia nascondeva il volto, singhiozzando. Io era rimasto in piedi,
dinanzi a lei, muto; non sapevo che dirle. Fortunata levò la testa, mi
guardò con occhi così spauriti, che parve fossi io che le portassi la
mala notizia.

Il ritratto del piccino era accapo al letto, tra un ramo di olivo e la
palma benedetta. Accompagnandomi fin alla porta Fortunata mormorò tra
i singhiozzi:

--Mi disse che voleva vedervi... Dimandava sempre del _pittore_...

I singhiozzi la soffocavano.

Me ne andai. Per via camminavo come intontito; il piccino, benedetto
piccino, il piccolo amico mi seguiva. Mi seguiva la sua vocetta
tenera, come ora mi parla mentr'io scrivo di lui a te. Perchè in
questa malinconica mattina di marzo, _egli_ è qui accosto a me. E nel
silenzio della mia cameretta, _egli_ mi ripete ancora, dolcemente, con
un balbettìo d'angiolo:

--_Vulite 'o vasillo? Vulite 'o vasillo?_



SERAFINA


                                _Martedì--Maggio 86._

Il guardaporta dello spedale dei Pellegrini è un burbero rossiccio, il
quale, quando in certi giorni ha infilato un soprabito che gli batte
alle calcagna, tutto stinto e sparso di macchie d'olio, quando ha
caricata la testa d'una tuba mostruosa, crede di essere il guardaporta
di Palazzo Reale. Ha conservato un accento calabrese e la insolenza
dei soldati borbonici; certo ha dovuto servire nell'esercito di _Re
Mbomma_. Tra l'altro poco ci vede, per una congiuntivite che gli
arrossa tutto intorno le palpebre. Sarà stato per aver continuamente
avuto sott'occhi gente insanguinata.

Ieri questo cerbero digeriva il pranzo, trattenendosi a parlottare con
un vecchietto, il quale gli faceva delle confidenze presso al casotto.
Poco prima la campanella di avviso era sonata due volte--un tocco solo
vuol dire: _ferito semplice_,--due vogliono dire: _ferito in grave
stato_--tre: _ferito moribondo_. Era stata trasportata su, alla sala
delle medicature, una donna, una giovane. Cinque coltellate, nè più,
nè meno. La donna si lamentava, si guardava intorno smarrita,
mormorando:

--_Sant'Anna mia! Ve faccio nu voto!... Scanzateme!... Uh! Uh!...
Chiano, chiano!..._

Veniva da Piazza Francese, da una delle due suburre napolitane. Aveva
denti e capelli splendidi, una mano piccolissima. Gli occhi grandi,
azzurri, pieni di lacrime, lucevano. Si chiamava Serafina.

                        *
                       * *

Laggiù, presso al casotto, il portinaio fumava la pipetta. Il gran
cortile dei Pellegrini era tutto preso dal sole, così che il cuoco, un
uomo grasso, ne profittava per sciorinare il suo gran moccichino, a
quadroni scuri, sulla spalliera d'una seggiola. Due guardie di
Pubblica Sicurezza leggevano insieme un libretto di _Nuove canzoni
napolitane_, comentando. Il brigadiere era salito in sala di
medicatura per raccogliere la deposizione di Serafina.

Diceva il vecchietto al guardaporta:

--La vedete così, ora, perchè lei è nata con la mala sorte, come me.
Due anni fa avreste dovuto vederla! Era un fiore. Tutti si voltavano
per la via. Allora come v'ho detto, io lavorava da quel sarto alla
Giudecca. Io dormiva nella bottega, sopra un divano sconquassato e
pensavo sempre a lei che se n'era fuggita. Tre mesi senza vederla!
Considerate voi che siete padre!... Avete figlie?...

--Caspita! Figlie? Ne tengo tre... _Peppenella! Peppenè!..._--e
chiamava una ragazzetta ch'era fuori nella via a giocare--_Trase,
viene ccà!... Siente!_ Quella è una...

--Il Signore ve la guardi. E abbadatele ve lo dico come a un
fratello...

Il portiere sorrise. Fece scivolar la mano tra lo stipite del casotto
e il muro e tirò fuori un bastone.

--Vedete questo?..... Questo ci pensa..... senza eccezione pure per
_mògliema_. Dicevate?...

--Dunque una sera... che sera!... Io non ho vergogna di dirvelo......
Le verità, m'era messo in giro per chiedere elemosina. All'angolo del
vico Sergente Maggiore vedo una signora che comprava fiori.
M'accostai..... _Signò_, qualche cosa a un povero galantuomo!...--Non
c'è niente.

Io aveva fame e la fame, capite, non conosce educazione. Insistetti...
Allora lei si voltò per dirmi, seccata, che me ne andassi... Non mi
guardò neppure...

--Era lei.

--_Sarrafina_.

Il vecchietto sospirava, si guardava le mani scarne, dondolava il
capo.

A un tratto guardò in su al balconcello della sala di medicatura. Un
inserviente preparava filacce, presso alla balaustra, parlando col
cuoco, che disotto gesticolava e rideva.

--_Che lle starranno facenno?_--mormorò il vecchietto.

Due lagrime gli vennero giù lentamente per le gote. Il portinaio vuotò
la pipetta nella mano e, dopo un silenzio, chiese:

--_Mbè?_

--Quanto durò quella vita? _N'anno_. Poi fu come una caduta. Come uno
che cade da una terrazza all'ultimo piano e si trova a terra. Povera
figlia! Stette malata due mesi e perdette tutto. Diventò un'altra.
Cappello tolto, anella pegnorate, vesti vendute..... Che mestiere,
_frate mio_, che mestiere! Gesù!....

Ora piangeva pianamente, con lo sguardo a terra, con le mani strette
sul petto.

--E all'ultimo è arrivata a Piazza Francese. _E l'hanno fatto
chesto!... Me pare nu suonno!_

--Ma chi glie l'ha fatto?

--_Doie cumpagne, pe gelusia._

Arrivò in quel momento una vettura; dentro vi si abbandonava un
giovanotto, che aveva buttato un braccio al collo della guardia la
quale lo sorreggeva, guardandolo. Un sottil filo di sangue gli
scendeva sulla camicia bianca, dal collo.

La vettura entrò nel cortile con dietro una folla di gente curiosa. Il
vecchietto, anche lui si accostò, inorridendo.

Il guardaporta afferrò la fune della campanella. Tre tocchi. La
guardia di pubblica sicurezza gli avea fatto certo segno disperato...

Poi la gente fu cacciata e il portone chiuso.

--_E chisto è n'ato_--disse il guardaporta, tornando al vecchietto.

Quello mormorò:

--_Puveriello!..._

Dopo un momento chiese:

--Serafina resta qua?

--Non si può. Dopo medicata andrà agl'Incurabili. Donne qui non se ne
ammettono--rispose il cerbero, tornando feroce e voltando al vecchio
le spalle.

                        *
                       * *

Serafina fu scesa a braccia e collocata in vettura con le guardie. Fu
levato il soffietto e nessuno più vide niente. Ma ella aveva visto il
vecchietto. Una mano venne fuori tra serpa e soffietto, e chiamò. Il
vecchio accorreva. Dalla vettura uscì una voce femminile, commossa:

--_A Nnincurabile.... Venite llà... Nun è niente... nun avite
paura!..._

Il vecchietto si mise a galoppare dietro alla carrozzella con gli
occhi pieni di lacrime, ansimando, chiamando:

--_Sarrafì!... Sarrafì!... Sarrafì!..._



L'ABBANDONATO


--Che si dice?--chiese Gaetanella Rocco a Carmela la serva, la quale
passava sul marciapiedi e parlava sola, come al solito.

Carmela si volse e tornò indietro. Il vento le penetrava di sotto lo
sciallo, di cui svolazzava un lembo; l'altro ella teneva fra mano,
accostandolo di tanto in tanto alla faccia.

--È morta or ora--gemette--Ah, Gesù! Io sono così fatta che ci penserò
tutta la giornata. E voi, andate a vederla?

Gaetanella, impassibile, guardava la serva, mettendo fuori il capo di
su il paravento di legno tra la casa e la strada. Carmela, sul
marciapiedi, rabbridiva pel vento secco che le veniva di faccia e le
appiccicava le gonnelle alla carne.

--Ci vado più tardi--disse Gaetanella--ancora ho la casa sossopra.
Iersera è arrivato il fratello di mio marito, il caporale di
cavalleria. Ha avuto il permesso sino a mezzanotte, e sono stati qui
tutti, con gli amici, a cantare e a bere. Immaginate voi!

--Lasciate fare, sono giovanotti. Che ne vediamo della vita? Si muore,
così, da un momento all'altro!

--Non c'è che dire--sospirò Gaetanella, buttando sul marciapiedi bucce
di castagne e di mele dal canestro dei rifiuti.

--Me ne vado--disse la serva--buongiorno.

--Se ripassate e voi chiamatemi. Andremo a vedere insieme...

Era morta donna Nena la romana, una vecchia che non faceva male a
nessuno e che leggeva le lettere alle vicine della via, senza
occhiali. Era venuta da Roma, al sessantacinque; la si poteva tenere
per napolitana. Le vicine conoscevano un po' la sua storia, ma nessuna
aveva potuto entrar troppo addentro in certi particolari che la
vecchia sapeva a tempo scartare.

Lassù, a S. Pasquale al Corso, donna Nena abitava da tre anni, nel
cortile del monastero, in una stanzuccia rimpetto al pozzo. Pareva, in
quella immensa quiete, una badessa sopravissuta alle sue monache,
bandite per sempre, a far posto ai carabinieri in caserma.

Il cortile, deserto, era triste. Sotto l'arcata, tutta bianca di
calce, girava intorno il sedile di peperino, qua e là fiorente d'una
selvaggia vegetazione, la quale pigliava radici tra le screpolature e
le commessure della pietra. In maggio il sole che lo allagava tutto
invogliava donna Nena a uscire dalla sua celletta. La piccola vecchia
andava a sedere sotto le colonne, sulla pietra grigia del parapetto e
poggiava i piedi sui piuoli d'una seggiola sconquassata, ch'era
deposito di straccetti d'ogni colore. Agucchiava. I romori della via
erano confusi e arrivavano, morendo, al cortile del chiostro
silenzioso. A volte, d'un subito, risonava in fondo, su per la scala
grande, il passo pesante del brigadiere e costui spuntava nel cortile,
attraversandolo, con le mani nelle saccocce dei calzoni e la lunga
pipa in bocca. Qualche passero ch'era venuto, saltellando sui ferri
della balaustra, ad affacciarsi nel pozzo, scappava, spaventato, con
un piccolo grido. Donna Nena levava il capo dai suoi ritagli, teneva
dietro con gli occhi socchiusi al volo dell'uccellino, le mani
abbandonate sulle ginocchia. Certamente pensava ad altro. Una
tossicina stizzosa la coglieva di tanto in tanto, e i colpi della
tosse tre, quattro volte rompevano senza eco il silenzio intorno.

Spesso, di sopra, un carabiniere si metteva a cantare presso una
finestra, dando la brunitura al fucile. Era una voce di tenorino, che
vibrava limpidamente nell'aria:

    M'incatinasti, beddicchia, stu cori,
      ca l'apparienza.....

Donna Nena, laggiù nel cortile, infilava l'ago, sceglieva tra i
ritagli, rimaneva un pezzetto con lo sguardo perduto nella fuga degli
archi. Le labbra mormoravano, dal pugno chiuso le dita si spiegavano,
una dopo l'altra. Cantava. A un tratto, di sopra, la nenia del
siciliano interrompendosi faceva tornare la vecchia, distratta, al suo
lavoro. Il cortile si rifaceva silenzioso.

Al secondo anno da quando donna Nena era venuta a stare lassù, in una
mattina di febbraio ella uscì--come disse a Gaetanella Rocco--per
andare a pregare l'amministratore di quel locale perchè le facesse
rimettere a un finestrino della celletta un vetro frantumato. Da un
orto vicino i monelli glie lo avevano rotto: il vento le entrava in
camera, proprio accapo al letto. Quando il vetro fu rimesso la
vecchietta ebbe compagnia in casa. Ci venne un piccino malaticcio,
debole, tutto pallido.

Da quel tempo ella si fece vedere più di frequente; il piccino aveva
bisogno del latte alla mattina, di pane fresco, di frutta mature.
Tutto questo faceva andare e venire dal cortile alle botteghe della
via la vecchietta frettolosa, che per mostrarsi così tenera del bimbo
almeno gli doveva molto voler bene.

Carmela la serva, pochi giorni dopo la comparsa del bambino, avendo
appurato come e donde venisse, si contentò di perdere tempo e di far
aspettare la padrona per andare a confidarsi con Fortunata la
rivendugliola, vicina di Gaetanella. Tutte e tre sedettero attorno al
braciere; Carmela a mezza seggiola, col paniere della spesa sulle
ginocchia, per far presto.

--Donna Nena questo me l'aveva già detto un anno fa, ha una figliuola,
si chiama Clelia. Due figlie le son morte di mal sottile e
quest'altra...

S'interruppe, strinse le labbra, battè col palmo della mano sul manico
del paniere, con un'aria desolata.

--Capite?...

--Eh!--sospirò la rivendugliola.

--Che ha fatto?--chiese Gaetanella.

--Come tant'altre, via... disgraziata...--disse la serva.

Sospirò anche Gaetanella, chinandosi a riattizzare il fuoco.

--Infine il piccino è rimasto a donna Nena, alla nonna. Clelia le avrà
dato un po' di danaro per mantenerlo, non si vede mai lei: non
comparisce mai. Glie l'ha messo nelle mani e buonanotte. Donna Nena,
lo chiama _er ragazzo_.

--_'O guaglione_--tradusse Gaetanella.

--Ieri la vecchia m'ha fatta una confidenza. Non è vero che il vetro
al finestrino glie lo han rotto dall'orto. Lo ruppe lei, tempo fa,
sbattendo la vetrata. Non avrebbe detto nulla all'amministratore se
non fosse capitato il piccino, ch'è malaticcio e debole. E col vento
in casa...

--Sentite,--interruppe la rivendugliola--io vi do questo paio di calze
pel piccino e voi glie le portate a donna Nena, poveretta. Direte che
le avete avuto dalla signora vostra...

--Date qua--fece la serva, levandosi--che tutto è buono quand'è
carità. Oggi glie le porto.

Un'altra volta la serva chiamò fuori nella via Gaetanella, la quale
era occupata a riasciacquare i piatti.

--Clelia, la..... capite?.... dev'esser morta. Ora ho chiesto alla
vecchia se Clelia abbia più rivisto il piccino. S'è messa a piangere,
la vecchia. Ho capito tutto.

Passarono sette mesi; morì pure donna Nena, spegnendosi a poco a poco
nella sua celletta, col _ragazzo_ che la guardava dal suo seggiolino,
appiè del letto. Per un momento l'avevano lasciata sola, mentre dava
gli ultimi tratti. Rientrate le vicine col ramoscello dell'olivo e
l'acqua benedetta, trovarono la vecchia basita. Il piccino la guardava
ridendo, balbettando. Un braccio di donna Nena fuori della coperta era
steso rigidamente verso di lui, la mano pareva indicasse.

Fatto sta che, occupate a rovistare per la celletta, curiosando
dappertutto, nei foderi di un canterano che gemevano come se
nascondessero l'anima della vecchia, in un baule nello stipetto o
muro, le vicine dimenticarono il bambino. Soltanto com'entrò lì dentro
anche Graziella la sarta, con dietro la ragazzina curva sotto lo
scatolo delle vesti, per vedere, mentre lei dinanzi al lettuccio,
contemplava la morta coi grandi occhi pietosi, il piccino le prese fra
mano la frangia di conterie che luceva attorno alla veste. Graziella
si volse.

--Questo è il piccino di donna Nena--spiegò Gaetanella Rocco--il
figlio della figlia.

--E la madre dov'è?--chiese Graziella.

L'altra benedì l'aria con la mano: l'indice e il medio ritti.

--Pure lei morta?--fece la sarta, intenerita.

E carezzò la testa bionda del piccino, il quale levò gli occhi a
guardarla.

Subitamente irruppe la folla di tutti i monellucci del vicinato.
Arrivava il carrozzone. Allora Gaetanella Rocco portò fuori il
piccino, mettendogli in mano una ciambella. Gli trasse il seggiolino a
bracciuoli fin presso alla porta del cortile che metteva, per le
scale, rose dal tempo, sul Corso.

Poco dopo il carrozzone si portò via la vecchia per tutto il Corso. Il
cocchiere zufolava, con le redini sulle ginocchia, col vento secco di
faccia. Dietro, sulla predella, i due becchini si bisticciavano, le
gambe penzoloni.

--Donna Nena se ne va a Roma--esclamò, ridendo, un calzolaio ch'era
uscito a vedere dalla sua bottega, con uno stivale fra mani.

La facezia ebbe successo fra quanti guardavano. Donna Nena se ne
andava a Roma! Buon viaggio! Le vicine ridevano. Rideva Nannina
Fiocca, la innamorata del calzolaio. Quando gli passò accosto gli
dette uno spintone.

--Bel core che hai!

--Senti--le fece dietro il calzolaio--presto lo farai anche tu il
viaggetto....

Nannina si volse, grattandosi la coscia per allontanare il malagurio,
e gli gridò con la voce argentina:

--Prima tu!

--Prima tu!--ribatteva il calzolaio, minacciandola con lo stivale.

Il tempo s'era fatto grigio. Di faccia al Corso, dal mare, saliva una
nebbia densa come fumo di officina, lambiva le falde del Vesuvio, lo
nascondeva fin quasi alla cima. Vagamente s'indovinava nel porto una
gran nave; era una striscia tutta nera, indecisa. Intorno la città
spariva in quel fumo che pareva covasse un incendio. Ma nel cielo
affollato di nuvoloni, qua o là dei chiarori scialbi si facevano nel
lontano, ove il sole all'estremo lembo in fine della collina di
Posillipo, rompeva a fatica le nuvole. Vi fu un momento in cui la luce
si allargò; lucevano disotto le vetrate alle finestre, luceva lo zinco
delle serre alle terrazze delle palazzine al Rione Amedeo. Finalmente
tutta una stesa di cielo diventò azzurra.

Il piccino lo avevano dimenticato sotto la porta del cortile. Egli
sedeva, al sommo della scala diruta, nel suo seggiolino, con le manine
sui bracciuoli. Sulle ginocchia aveva la ciambelletta di Gaetanella,
mangiucchiata mezza: aveva un piccolo grembiale bianco, le scarpette
molto vecchie, una vesticciuola scura, stinta, troppo grande per lui.
In una scarpa il piede non era entrato tutto, ne scappava fuori il
tallone ove faceva sacco la calza. Lui dondolava quel piede. A poco a
poco la scarpetta ne cadde. Allora il piccino sorrise, tutto solo,
molto contento. Contemplò, per un pezzetto, il piede libero, poi non
avendo altro a fare, si rimise a mangiar la ciambella. Una volta levò
la manina, s'atteggiò, pronunziò quei brevi vocaboli incomprensibili
che sono della incoscienza infantile e delle bocche che non sanno
parlare.

La ciambella fu mangiata tutta. Il piccino aveva fame. Raccolse
perfino le miche cadutegli nel grembialetto. Pareva soddisfatto. Poi
si mise a guardare innanzi a sè i fili del telegrafo, che dal
parapetto della via, di faccia, declinavano, e scomparivano fra le
case. Una _cometa_ s'era impigliata tra i fili, la carta lacerata
svolazzava. Un brandello fu strappato ai fili e portato via dal vento.
Lungamente il piccino ne seguì la sorte con gli occhi, sbadigliando,
poi chinò a poco a poco la testa da un lato e s'addormentò.



GLI AMICI


Nel maggio, mentre al più piccolo alito di vento le rose tenerissime
concedono le foglie loro, disseminandole appiè d'un amoroso mandorlo
ancora in fiore, mentre da per tutto ov'è collina, o giardino, o
praticello passeggiano gravemente al sole gli scarabei e sbadigliano,
alta la testa viperina, le lucertole verdi, mentre il bosco è tutto in
chiacchiere di uccelli gelosi e si spande per la fresca campagna
l'indefinibile susurro degli insetti e una scia d'argento solca, sul
cammino lentissimo della lumaca, un muretto nell'orto, mentre tutto
questo, ch'è poesia dolcissima nell'aria buona o dolce, succede
lontano dalla città romorosa, qui la prosa cittadina va trascinando
per le vie cenci e magre suppellettili borghesi, sciorinati al sole di
maggio tra il polverio, le bestemmie dei facchini o il loro copioso
sudore di bestie affaticate. Si compie di questi giorni la frettolosa
bisogna dello sgombero, ed è un transito incessante di cose che
parlano, un viaggio di segreti trabalzanti su pel rotto selciato
napoletano. Il lettuccio, la spinetta antica, la poltrona favorita, il
boccaletto a fiori, ove così spesso l'amata ha _bevuto i pensieri_
dell'amante, il misero lume a petrolio onde furono rischiarate, presso
agli esami, le veglie laboriose d'uno studente di medicina, la gran
seggiola a ruote d'un paralitico, il canterano da' foderi cigolanti in
fondo ai quali ammucchiò tutto un tranquillo epistolario amoroso la
fiamma d'un impiegato alla Ferrovia, lo spiumaccino invernale, ricordo
della povera mamma morta, che usava di tenerlo sui piedi--tutto ciò
passa innanzi agli occhi, nel sole, e cammina, e muta posto e va
altrove, e passa da una luce d'un quinto piano all'oscurità di un
pianterreno, o dal buio al sole, chi sa dove, chi sa dopo che amari
rimpianti, e scompare.

Or, sopra uno di questi carretti scricchianti, tra molte scatole da
cappelli e un mucchio di cuscini, viaggiava una gabbietta. Dentro alla
gabbietta c'era un canarino giallo. Le suppellettili mutavan posto:
alla casa nuova la gabbiuzza fu appesa nel tinello che dava in un
giardino. Di rimpetto, dietro certe grate fitte, si vedevano
confusamente soggoli biancheggianti: c'era un antico monastero. Il
figlio della signora, un ragazzo che odorava di poesia, appena fu alla
nuova casa e, per la finestra del tinello, vide le monache, fu preso
da un impeto sentimentale e stampò una sessantina di versi claustrali
in un giornaletto letterario.

Il povero canarino poeta pur lui, era stato tolto piccoletto al nido,
e più non ricordava dove e come. Ricordava senza precisione certo
aggrovigliamento di rami e di fronde, una fiorita stesa di piano, un
gran pezzo di cielo azzurro--niente più. L'adozione era stata larga di
cure e, dapprima, dolce fu la prigione. E lì come se fosse stato a San
Pietro a Maiella, il canarino diventò un cantore elegantissimo, una
specie di tenorino di grazia.

--Bene, bene--esclamò il marito della signora--ecco il canarino che
comincia a dirci qualcosa.

E ogni volta che si trovava nel tinello a lavarsi la faccia, gli
faceva lo zufolo col tovagliolo fra mani.

La casa dalla quale era sloggiato era scura e silenziosa. Le finestre
non davano sulla strada, riuscivano in un cortile abbandonato, dominio
di terribili pipistrelli, qualcuno de' quali perfino veniva a sbatter
l'ali intorno alla gabbiuzza, dove il povero canarino tremava di
terrore. La bestiola, di sotto l'arco della finestra, non vedeva che i
muri grigi del cortile dagli angoli ch'erano scale di polverose
ragnatele, da' buchi neri che a notte diventavano case di nottole. Le
carrucole nei pozzi stridevano, le secchie si urtavano, le serve, a
prima ora, trovandosi tutte ad attingere, dicevano male della gente,
appiccicando a ognuno un aggettivo che svegliava goffe risate per
tutto il pozzo. Questa la vita del cortile. Una volta solamente il
canarino uscì dalla sua malinconia. Una delle fantesche ripuliva la
gabbia d'un altro canarino, lasciando cader giù nel cortile le boccate
sfuggite del miglio, i rifiuti del prigioniero, e canticchiando. E
come quel canarino, per la soddisfazione del miglio fresco e
dell'acqua pulita, metteva, di tanto, piccoli gridi acuti, quest'altro
credette di aver trovato finalmente qualcuno col quale potesse
chiacchierare, nelle ore di noia.

Lo chiamò allora due volte.

--Zizì! zì! zì! zì!...

Quello rispose allegramente:

--Zì! zì!

Poi vi fu un silenzio. La serva aveva portata via la gabbia; il povero
canarino, disilluso, ricadde in malinconia e non avendo a far altro si
rimise a contemplare i muri del cortile.

In una giornata di novembre fu tale lo scrosciar della pioggia furiosa
e così spaventevoli furono i lampi e i tuoni che il canarino, tutto
solo nella gabbia, credette che l'ultimo giorno della sua vita fosse
arrivato. Dal lampeggiare continuo era tutto illuminato il cortile, i
ferri della gabbia pareva si arroventassero. Poco dopo accorse la
serva, che avea lasciate aperte le vetrate della finestra.

--Meno male!--esclamò--I vetri non si sono rotti! E chi l'avrebbe
sentito il padrone?...

Guardate, nemmeno una parola per quella povera bestia tremante di
freddo e di paura! Bella carità cristiana! E così il canarino, a poco
a poco, s'abituò ad ogni sorta d'ingenerosità. Nessuno si pigliava
pena di lui, ma nessuno, però, lo veniva a seccare. Meglio così. E il
suo amico divenne un pezzo del muro di faccia, ove un ragno intesseva
comodamente la sua tela. Nell'estate, quando un po' di sole fece la
spia nel cortile; la tela ne fu tutta illuminata e il ragno vi
passeggiò di lungo e di largo, con una grande boria di padron di casa.
In tutto il giorno si risentivano le voci delle fantesche, lo strepito
delle cazzeruole, risate lunghe e sguaiate, scoppiettî di carboni
dalle fornacette. La musica metteva in allegria il canarino che, a
volte, vi mescolava certe note acute e un trillo per cui le serve,
meravigliate, tacevano. Una di loro, mentre lui si sfogava, esclamò:

--Dio! che bella vocetta, neh?

La lode, Dio buono, se la pigliano tutti, la vonno anche i modesti. Il
canarino si guardò i pieducci, ripulì il becco a un ballatoio della
gabbia, si piantò saldo sulle gambette e si mise a cantare:

    _Se il mio nome saper voi bramate_...

                        *
                       * *

A maggio, v'ho detto, i signori della casa sloggiarono.

La primavera sospirava più forte con gli spasimi dei fiori, col
susurro delle piante in amore, e nell'aria salivano odori soavissimi e
freschi soffi di zeffiri. In una bella giornata profumata si svegliò
il canarino a un pispiglio sommesso. Una passera aveva fatto il nido
di rimpetto. Poi furono piccoli gridi di compagni liberi che
passavano; furono a volte cicalecci impertinenti di rondoni in
chiacchiere, sui tetti. I rondoni, al solito, dicevano male del
vicinato. Quello era bello, quell'altro era brutto, la tal signorina
non sapeva cantare, il violinista del quinto piano pigliava acuti
stonati, il portinaio non badava troppo alla figliuola. E il giardino
si svegliava all'alba con questi discorsi di uccelli, con le loro
querele peripatetiche, con ronzii d'insetti invisibili e voli di
bianche farfalle.

Il canarino ebbe da tutta questa vita, che gli ricordava
indefinitamente il bosco e l'odore acre delle piante, quella
malinconia dei ricordi che, si dice, tornano nel _tempo della
disgrazia_. N'ebbe singhiozzi di rimpianti e di desideri che gli
rompevano il canto nella gola. E gli cominciarono a cadere le penne.
Una si posò sul davanzale della finestra e un colombo se la venne a
pigliare.

--Oh! dite, amico--gli chiese il canarino dalla sua gabbia--siete di
questi paraggi voi?

--Vi pare?--rispose il colombo--Gli è qui che son nato. Guardate
laggiù accosto alla grondaia. Vedete voi quel buco tutto nero? Lì ho
fatto il nido. E questa penna che vi è caduta, se permettete, la metto
al lettuccio dei miei piccini. Dite, vi dispiace?

--Anzi--disse il canarino--fortunato d'esser materasso. Ma sentite,
verrete voi a tenermi compagnia qualche volta?

--Perchè no?--disse il colombo--ma di questi giorni non posso; ho i
piccini, udite voi come chiamano?

Il canarino non udiva nulla.

--Eh!--fece il colombo--sento io, sento! Quando avrete figli anche
voi! Arrivederci.

--Arrivederci.

E quasi ogni giorno lo stesso colombo veniva a pigliarsi una penna
caduta.

--Fatemi la finezza--gli chiese una volta il canarino--sapreste voi
perchè così spesso mi cadono le penne? Io ne sono assai preoccupato.

Il colombo lo guardò malinconicamente.

--Che volete vi dica?

E non gli volle dire che gli anni e i dispiaceri sogliono far di
questi scherzi.

Passò un mese. I piccini del colombo s'eran fatti grandi e
strillavano, sporgendo dalla buca le testine ancora spelate. Attorno a
quel nido altri nidi si destavano all'alba e un pigolio continuo
succedeva sino a quando l'appetito dei piccoli colombi non era
soddisfatto. I colombi grandi tubavano all'ombra, empiendo il cortile
della dolcezza dei loro amori.

In luglio il colombo grigio si ricordò della conoscenza. Ma in quella
mattina avea avuto tanto da fare e s'era così impensierito di certi
muratori che erano venuti a mettere scale pei muri presso i nidi, che
la visita dovette farla a sera, quando i muratori se ne andarono.

C'era una luna bianca che faceva capolino di su il belvedere delle
monache.

--Buona sera--disse il colombo--come state? Sentite che bell'aria
fresca?

--Ahimè!--disse il canarino--se sapeste, amico mio! Da tempo in qua
sono colto da tale tristezza che a momenti mi pare di morire. Mi
spoglio ogni giorno più e mi pigliano brividi di freddo, ed anche
provo una grande debolezza. Come mai questo, caro amico?

--Che volete vi dica?--fece il colombo, con gli occhi bassi--Sono cose
che accadono. Io son qui di rimpetto, se mai.

E se ne andò, ammalinconito pur lui.

Poi tornò dopo una settimana. La gabbiuzza era vuota. Ma c'era ancora,
sulla finestra, una ultima piuma gialla. Il colombo non ebbe coraggio
di portarsela via.

E c'era un chiaro di luna quella sera, un chiaro di luna così grande,
così grande!...



FORTUNATA LA FIORISTA


                                _5 Settembre 1885_

Giorni fa le vicine di Fortunata Cappiello, con molta meraviglia,
videro chiusa la bottega di lei. Bisogna premettere che Fortunata
Cappiello ha bottega di fiorista in via del Duomo, e oltre a questo ha
un padre ed una mamma i quali non sono mai stati in tenerezze, anzi,
per dirla con le vicine di Fortunata, i due coniugi _facevano cane e
gatta_ in tutta la settimana, specie al venerdì, quando Giuseppe
Cappiello chiedeva quattrini alla moglie per giocarseli al lotto e lei
glie li negava.

Vista la bottega chiusa sino a mezzogiorno e argomentando che più non
si fosse aperta in tutta la giornata, le vicine, sempre maliziose e
maldicenti, ne trassero molte congetture, tra le quali questa, che,
nella notte, i Cappiello avessero subitamente sloggiato e portato via
il pò di mobilia, per non pagare il padrone di casa.

--Sentite--disse Giovannina Zoccola, merciaia di rimpetto--questo non
ha potuto succedere. Vero è che la fame se gli mangiava i Cappiello,
la fame e i debiti; che a me, se veramente non tornano più, mi
dovranno dare sempre quindici soldi da Pasqua passata. Ma un po' di
danaro lo mettevano da parte, via. E c'è stato sempre don Procolo, il
_signore_, che ha riparato spesso e volentieri.

Don Procolo, un attempato arzillo, negoziante e proprietario, veniva a
sera a trattenersi nella bottega, e quando c'era don Procolo accosto a
Fortunata, seduto in mezzo ai fiori di _organsino_, in mezzo ai fasci
d'erba artificiale, la mamma di Fortunata, dalla parte loro, chiudeva
metà dell'uscio. Le vicine dicevano che chiudeva anche un occhio.

Fortunata, poverina, era magruccia, pallida, con molto nero sotto gli
occhi. La _frangetta_, i grossi cerchi dorati alle orecchie, un neo
presso al mento: piaceva. Stropicciava lo spazzolino sui denti che
aveva bianchi e piccoli, si nettava le unghie con molta pazienza, alla
mattina, sotto l'uscio, prima di mettersi a lavorare.

I fiori artificiali, quelli pei borghesi di Foria e pei negozianti di
quartiere Pendino sono strillanti e il colore vivo s'attacca alle
mani. Fortunata pareva la _maitresse aux mains rouges_. Don Procolo
non ci badava gran che, ma la ragazza serbava, per così dire, le
manine nette pel suo innamorato vero, che nessuno conosceva. Quando
don Procolo badava alle balle di tela giù in dogana, nelle ore di
pomeriggio, l'innamorato della fiorista passava per via del Duomo, la
sigaretta tra le labbra e un bastoncino di bambù in mano. Era un
impiegatuccio a mille e duecento con lineamenti di un'antipatica
regolarità, biondino, magro, malaticcio, molto pulito. Fortunata lo
adorava.

                        *
                       * *

Nella sera del 3, due sere fa, i coniugi Cappiello tornarono alla
bottega che potevano essere le sette e mezza. Donna Maria, senza
nessuno salutare della via, ficcò la gran chiave nella toppa, aperse
la porta e sgusciò dentro. Nella semioscurità i mucchi dei ritagli pei
fiori, le palle bianche dei lumi a petrolio, le ceste piene di fiori
azzurri e rossi mettevano una gran confusione nella bottega. Donna
Maria accese un fiammifero. Cercava qualche cosa. Di fuori il marito
s'era addossato allo stipite e, con le mani nelle saccocce de'
calzoni, le labbra strette, non levava gli occhi da un monticello di
spazzatura ammucchiatogli a' piedi, sotto al marciapiedi. A un tratto
girò sui tacchi, spinse l'uscio che donna Maria aveva socchiuso ed
entrò. L'uscio si richiuse. Il calzolaio di faccia che passava lo
spago per una suola si lasciò cascare le mani e lo spago sulle
ginocchia e si mise a guardare. Subitamente nella bottega della
fiorista scoppiò un alterco. La voce stridula della vecchia si levava
alta e le rispondevano le bestemmie di don Peppe Cappiello.
Distintamente una frase di donna Maria arrivò alla strada.

--_Nun è overo! Nun è overo!_

Poi quella di don Peppe, come un urlo:

--_Me l'ha ditto a me!_

Succedette un gran romore, come di seggiole rovesciate. Il calzolaio
s'alzò, impensierito. Le vicine erano diventate pallide.

A un tratto risuonò un grido femminile, terribile. L'uscio si
spalancò. Venne fuori donna Maria che voleva parlare e non poteva.
Agitava le braccia, barellando. Un flotto di sangue le spicciava dalla
gola ferita; tutto lo scialle se ne inzuppava. Cadde sul lastrico,
come uno straccio, e non si mosse più.

Il calzolaio mormorò:

--L'ha ammazzata.

Apparve sulla soglia della bottega don Peppe. Aveva gli occhi pieni di
sangue, il labbro inferiore pendeva. Immobile guardò la vecchia stesa
lì presso, si guardò intorno, come smarrito. Nessuno parlava. Il
ragazzo di Stella Farina era corso a chiamare la guardia di pubblica
sicurezza di piantone all'angolo del vicolo.

La guardia arrivò correndo, con una mano sull'elsa della daga. Per la
via gridava:

--Ferma, ferma!

Don Peppe ebbe allora un istintivo impeto di salvazione. Fece un
passo, guardando innanzi a sè nella via lunga e libera.

Ma pur i vicini, intorno, gridavano:

--Ferma! Ferma!

La guardia gli fu addosso e lo afferrò per il bavero della giacchetta.

--Io non mi movo--balbettò Cappiello.

--Canaglia!--gli fece la guardia, cercando le manotte in saccoccia.

Il calzolaio s'era chinato sul corpo inerte della vecchia, che quasi
sbarrava la strada, sicchè una vettura da nolo, poco lontano, s'era
dovuta fermare. Il cocchiere, le redini in mano, s'era levato in piedi
sulla serpe e guardava, ancora senza capir nulla. La gente accorreva
da ogni parte. Arrivarono pur due allievi carabinieri, uno dei quali,
per via, s'andava sfilando i guanti di cotone bianco.

--È proprio morta--annunziò il calzolaio, rizzandosi--il sangue l'ha
affogata.

--Gesù!--fece Graziella, la stiratrice, coprendosi gli occhi con le
mani.

--Avanti!--impose a don Peppe la guardia.

Lui contemplava ancora la morta, movendo le labbra, come se parlasse a
sè stesso. Allora un marmista ch'era arrivato l'ultimo, un grosso uomo
barbuto, con tra le mani il martello e uno scalpello, chiese
subitamente a don Peppe che s'incamminava:

--Perchè l'avete ammazzata, neh, don Pe'?

Lui rispose:

--Dimandatelo a lei.

E se ne andò tra la guardia di pubblica sicurezza e uno degli allievi
carabinieri. L'altro si fece aiutare dai più coraggiosi e adagiò il
cadavere in quella vettura che si trovava nel vicolo. Era diventato
pallido il povero giovanotto; per la prima volta si trovava accosto a
un morto.

                        *
                       * *

La bottega della fiorista rimase chiusa per un mese. Un bel giorno
arrivò don Procolo, fumando. Fece aprire, rimase un pezzetto a
rovistare e a parlare con due uomini sconosciuti a tutto il vicinato,
cacciò in una cesta alcune masserizie e le coprì con un mucchio di
fiori d'_organsino_. Al giorno dopo arrivarono gli stessi sconosciuti
e vuotarono la bottega tutta quanta. I monelli del vicinato
s'impadronirono dei ritagli delle carte colorate e li sparsero per
tutta la via. Dopo un altro mese un pittore di stanze prese il posto
della fiorista.

Finalmente, dopo due anni Graziella, la stiratrice, in una mattina di
maggio, vide passare l'impiegatuccio a mille e duecento, e per volerlo
guardare e sorvegliare troppo abbronzò una camicia, dimenticandovi su
il ferro rovente.

L'impiegatuccio guardò nella bottega della fiorista e ci vide il
pittore di stanze. Parve meravigliato. Allora Graziella, che un tempo
gli aveva stirate pur le camice, lo salutò con un sorriso.

--Come state? Non vi siete fatto più vivo?

--Sono stato ad Arona, fin'ora--disse--per l'impiego...

--Avete saputo?--chiose la stiratrice, dopo un silenzio.

--Ah!--fece lui, picchiando sul manico del ferro col pometto del
bastoncello--Sì, so tutto. Doveva finire così... Con quella madre! E
don Peppe?

--Chi l'ha visto più?

--E... Fortunata?

--Chi ne sa più nulla?

L'impiegatuccio, dopo aver accesa la sigaretta con un fiammifero della
scatola di Graziella, se ne andò, lentamente, tutto pensoso. Ma la
stiratrice gli aveva mentito per compassione. Pochi giorni prima, a
Santa Lucia, ella aveva adocchiata Fortunata, con un bambinello. La
fiorista vestiva di nero. Comperò al bambinello un soldo di
_tarallucci_ e gli fece bere un po' d'acqua solfurea. Poi se ne
andarono su pel marciapiedi, passo passo....



L'AMICO RICHTER


Ecco, amici miei, in che modo conobbi il professore Otto Richter.

                        *
                       * *

Il Rione Principe Amedeo, voi sapete, così vicino per limiti al Corso
Vittorio Emmanuele, si trova ad esserne, per aspetto, assai lontano.
Il Corso è ancora campagnuolo sotto la collina verde; il Rione è
elegante; il Corso è tutto polveroso per la via larga e assolata; il
Rione è severamente pulito. Qui un palazzo Grifeo, che ha un'aria
d'antico e una salda costruzione di pietra grigia e nuda. Qui finestre
archiacute che riflettono, a sera, nelle terse vetrate il gran
chiarore della luna, la quale, di rimpetto, s'affaccia sul mare e vi
bagna la sua pallida immagine. In uno studio d'incisione, sotto il
palazzo grigio, si fonde e si cesella in silenzio. Un interno pieno di
penombre; l'artista che passa e guarda, risale con la fantasia al
vecchio tempo fiorentino. Se qui l'ambiente non fosse in gran parte
lieto dell'orizzonte glauco e d'un profumo d'erbe selvatiche, e se non
parlassero dell'amore della campagna i sanguigni rosolacci erti, e se
non chiacchierassero, migrando a non lontane nidiate, gli uccellini
freddolosi, la bottega dell'incisore parrebbe antica, quando intorno
le capitassero muri grigi e stemmi onorati da vanti di toghe o di
corazze.

In questo tempo nostro, il rione è semplicemente felice della sua
nettezza e del posto. A un certo punto il parapetto della via è rotto
dai primi gradini d'una scaletta malconcia. Per questa si scende in un
solitario vicolo, e si esce così, passando sotto un potente arco a
Chiaia, nel quartiere elegante. Dalla pace al romore, dalla
tranquillità delle cose e delle persone a un movimento che vi rimette
dal sogno nella realtà.

In certe ore, in certi momenti, il vicoletto vi parla di tante strane
e misteriose cose. Fu in questo vicoletto che conobbi il professore
Otto Richter.

                        *
                       * *

Era una lieta mattina primaverile. Vi giuro, amici miei, così non dico
pel convenzionalismo che infiora quasi tutti i racconti dolci di
tenerezze meteorologiche. È la verità, la conoscenza accadde in
aprile. A ogni modo, Otto Richter lo conobbi così.

Io scendevo lentamente per quella tale scaletta; egli se ne stava
laggiù nel vicolo, all'ombra, piantata la punta di un ombrello nel
terriccio, le mani sul manico di madreperla a gruccia. Con le spalle
al muro, gli occhi a terra, il vecchietto m'aveva l'aria di star
meditando. Ora siccome in questa vita i pensosi sono, per lo più, i
disgraziati, io che lo aveva visto dall'alto della scala piantato lì a
quel modo, e me lo ritrovavo nella stessa posizione appena dall'ultimo
gradino mettevo piede nel vicoletto, dissi tra me e me:

--Ecco uno che certamente crogiuola i guai suoi.

Il vicolo era pieno di buon sole e di silenzio. Improvvisamente fu
pieno di musica. Come mai?--pensavo, tornando indietro, colpito
deliziosamente da una melodia che si spandeva. Il vecchio s'era mosso;
passava al sole dall'ombra, avvicinandosi a una delle tre finestre
basse che si aprivano sul vicolo dal muro di faccia a noi. Alle
finestre ci si arrivava quasi con la testa. Le vetrate erano
spalancate e la musica passava. Ma la facevano misteriosa certe
bianche tendine, occupanti di dentro tutto il vano e pur di dentro
fermate sulle assi d'un telaio.

Accostandomi alle finestre, m'avvicinavo pur al vecchietto, e
procuravo di non far romore; era così assorto poverino! L'ombrella era
passata sotto l'ascella, le mani strette premevano l'ultimo bottone
del panciotto ch'era in cima carezzato dalla barba rossiccia del
solitario uditore. A volte, mentre la melodia saliva con più sonoro
ritmo, le mani si staccavano dal panciotto, e una, l'indice teso,
misurava il tempo. Si afferrava l'altra, nervosamente, al margine del
soprabito, come se volesse tirar giù il panno stinto.

Finita la musica il vecchietto levò il capo; sorrideva. Me gli trovai
faccia o faccia; egli seguitava a sorridere, seguitava ad armeggiar
con la mano, mormorando l'ultima frase musicale, solenne.

Mi feci animo e gli chiesi:

--Scusi, chi c'è qui dentro?

Lui fece un passo innanti, rimise in movimento l'ombrella e venne a me
con una chiara felicità negli occhietti azzurri.

Rispose:

--Beethoven.

Col braccio levato misurò ancora quattro o cinque battute e canticchiò
un'altra volta le note.

--Molto grande,--soggiunse con le labbra allungate in una smorfia
d'ammirazione--molto grande! Questa sinfonia monumento. Oh!... Piace a
voi, signor?

Dio mio! Una così deliziosa cosa! A chi non piace la musica di
Beethoven, amici miei? Gli è che non sapevo persuadermi come lì dentro
ci fosse proprio lui. Egli certamente è presente ancora all'esecuzione
della sua musica, il suo spirito aleggia intorno. E la musica trema
con divino ed infinito sospiro di sentimento, la melodia culla
l'anima. Io avevo ben riconosciuta la _Pastorale_. Ricordate, voi,
amici?

Ah! perchè la musica non si può scrivere e leggere come la parola!...

--Lei dice che la musica è di Beethoven--feci, ridendo--e sta bene. Ma
com'è che Beethoven si trova lì dentro? È risuscitato?

Lui rispose lentamente, tutto serio:

--Beethoven morto assai tempo. Qui Società Quartetto. Concerto.

--Forestiere lei?

--Allemand, di Germania. Tetesco.

--E vive qui, a Napoli?

Disse con gli occhi di sì. E poi accennò pure che tacessi e si
riavvicinò alle finestre. Ricominciava la musica. Chi ora?

--Psst--fece lui--Bocherino.

Mise l'indice sulle labbra e socchiuse gli occhi, come rapito.

Che finezza, che languore, amici miei! La conoscete voi questa
_Siciliana_ del gentile minuettista? Come sorrideva il vecchietto in
tutta la durata dei sospiri del settecento, agli scherzi dei violini,
rievocanti tutto un passato dolce, sparso di polvere d'_iris_ e
odoroso di buon cioccolatte. Cari amici, in questo vicoletto al Rione
si sogna; e che buon sole, che buona musica, amici miei!

                        *
                       * *

E vi tornai. Ancora il professore Otto Richter non mi aveva tutto
narrato di sè. La sua piccola figura da racconto d'Hoffmannn o
d'Erckmann-Chatrian, la sua placida figura tedesca serbava qualcosa di
misterioso ch'io cercavo invano di scrutare e su cui arzigogolavo
senza raccapezzarmici.

Seppi soltanto questo da lui, alle prime confidenze, ch'egli era
venuto di Germania in Italia a piedi. Amici, capite? A piedi. Ne
rimasi inorridito; io che adoro le vetture, la ferrovia, le tramvie,
tutto che è mezzo di trasporto!

Il mio sguardo scese subito alle scarpe del buon uomo, due scarpe
punto eleganti, dal tomaio piatto, basso, enorme, dalla punta
quadrata, dalle suola doppie tre dita. Vere scarpe nordiche. Egli
posava su quel piedestallo e sorrideva, contentissimo. Aveva,
parlando, un certo ammiccar d'occhi malizioso, pel quale gli si
arricciavano le gote. Tutta la faccia diventava una ruga sola. Parlava
a bassa voce.

E poi seppi, pure da lui, ch'egli era a Napoli da tempo, che abitava
nel torrione di S. Martino, che in tutta la santa giornata girava
nella città dando lezioni di lingua tedesca.

--Voi non conoscete?--fece lui.

--No--risposi, mortificato--Ma amerei imparare la vostra lingua.

--Desiderate lezione?--disse lui, sorridendo.--Parleremo di questo.

Poi non ne parlammo più. Era un vecchietto pieno di delicatezze.

Continuavano le prove della Società del Quartetto. Una mattina il
professore Otto Richter se ne venne nel vicoletto con tra mani un
libriccino di elegante edizione tedesca.

--E questo?

--Questo? Trattato veleni.

Veleni? Che faccia feci? Ma il vecchietto si affrettò a soggiungere,
battendo in petto la mano aperta:

--Io anche un poco medico.

Un po' medico, un poco poeta, un poco pittore--egli era un po' di
tutto. Sopratutto un musicomane. La mia ammirazione cresceva di
domenica in domenica, come i concerti del Quartetto si seguivano e ci
teneva insieme la comodità del vicoletto. Bisognava vedere il mio
amico Otto Richter mentre romoreggiava, di dentro, la _Cavalcata delle
Walcüre_. Quel buon Richter! Coi pugni stretti, gli occhi
lampeggianti, le gambe allargate, l'ombrella brandita come la frusta
d'una delle ammazzoni wagneriane, facendo: Pa pa ta pa! Pa pa ta pa!
Papatapa! Zin!

                        *
                       * *

Passò un mese, un felice mese di pruove e di concerti. Non mancammo
mai. Sui muricciuoli del vicoletto spuntavano fiorellini gialli e
tutte lo creste n'erano vestite. Una striscia d'ombra sotto quei
muriccioli, e in mezzo al vicolo un accampamento di sole. Saliva la
musica fino al Rione, chiamando i passanti, invitandoli alla platea
solitaria di questo teatro improvvisato. E pei gradini diruti
scendevano subitamente figurine femminili, allegri cavalierini in
galanterie. Era un romore di stivalini saltellanti che faceva voltare
il mio amico Richter. Egli pareva un vecchio passero solitario turbato
da una folla accorrente di uccellini chiassoni. Si ricantucciava e non
si moveva più. Qualche piccola signorina lo indicava, sorridendo.

Certo il mio amico Richter impressionava. Era una figura originale, di
quelle che i giornali illustrati tedeschi mettono in una novella
semplice e buona, vivificata dalla matita di un artista di spirito.
Parecchie volte lo incontravo in quei paraggi, con una valigetta
appesa a una mano, l'eterna ombrella nell'altra. La valigetta s'empiva
di frutta: di erbaggi di latticinii, d'un po' di tutto. Il mio amico
Richter entrava frettolosamente nella bottega d'un pastaio, faceva di
cappello con quella cortesia ch'è tutta tedesca e chiedeva due
chilogrammi di vermicelli. E in un'ora egli si era provvisto di tutto
il mangiabile e il cucinabile. Così tornava a S. Martino e di lì
scendeva per andare a udir la musica in Villa Nazionale o in qualche
altro posto dove musica si facesse. Era la sua grande passione.

Una mattina lo vidi che seguiva le esequie di un capitano suicida. Era
accanto alla banda musicale, tutto pensoso, l'eterna ombrella sotto il
braccio. Lo vedevo poi qua a là per le vie, per le stradicciuole di
Napoli, frettoloso, parlante a se stesso. Forse si recava alle sue
lezioni di tedesco. Poi non lo vidi più.

Scompaiono tante persone ogni giorno in questa Napoli, e tante ne
compaiono di nuove!

                        *
                       * *

Una sera, era qui la regina, si dava in onore di lei un concerto al
Quartetto. Il vicoletto era pieno. Eravamo in parecchi amici, nella
più grande aspettazione per un programma che prometteva Schumman,
Wagner, Boccherini, Beethoven. La sala era certamente affollata, ma
qui, nel vicoletto, al fresco, come si stava meglio, e senza pagare il
biglietto!

Per le aperte finestre uscivano il susurro degli intervenuti, lo
strepito delle seggiole smosse, un fruscio d'abiti serici. Di tanto in
tanto un accordo di violino, un suono rauco di tromba, una voce che
chiamava.

Il vicoletto fu, a un momento, tutto illuminato dalla luna che si
liberava dall'impiccio di certe nuvole impromettenti, e campeggiava
serenamente in cielo. Noi altri si chiacchierava, aspettando. Accosto
a me era seduto un uomo occhialuto, dalla piccola e incolta barba
nera. Un forestiero. Non so come io gli abbia rivolta la parola, ne so
più perchè. Certo è che il mio vicino, tra una domanda e una risposta,
brevi sempre, mi disse che egli era tedesco, ch'era professore di
lingua tedesca, e che avrebbe desiderato di esser conosciuto. Ma lo
disse, poverino, con una cert'aria! Pareva mortificato. Tedesco,
professore? Certo conosceva il mio amico Otto Richter.

--Otto Richter--borbottò, cercando nella memoria.

Poi fece:

--Ah! Richter!

--Dunque?

--Morto. Otto Richter? Professore? Morto.

Una cosa molto semplice per questo signore meditabondo. Oh! povero
Richter! Ma come?

Il mio vicino pensò ancora. Ecco, era morto così--e si batteva in
fronte--male di cervello. Tre giorni, non più. Poi morto.

Dopo un momento cavò da un enorme portafogli la sua carta e me la
porse. C'era su scritto, a mano: _Corrado Weber, professore di lingua
tedesca_.

--Chieggo scusa--balbettava il pover'uomo--io solo a Napoli, solo,
solo. Così si vive, signor, lavorando. Richter mio buon amico.
Poveretto.

Improvvisamente un fragore di battimani giunse a noi dalla sala;
subito dopo l'orchestra intuonò la marcia reale. La regina entrava.
Passarono quattro minuti; nessuno fiatava nel vicolo. Io pensavo al
mio vecchio amico Richter, al mio povero vecchietto musicomane.

--E quando è morto?

--Psst!--fece Weber--Chieggo scusa, signor. Dopo.

Cominciava la musica. Si levò in piedi, si scappellò e si mise ad
ascoltare con religiosa attenzione.



SENZA VEDERLO


Siccome in questo mondo chi pensa ai casi suoi e mette le cose a posto
è chiamato accorto, così, quando dopo la morte di Selletta, spazzino,
il quale prima aveva fatto il fiaccheraio e prima ancora avea
governato un negoziuccio di commestibili, la vedova Carmela chiuse un
suo maschietto all'Albergo dei Poveri, la bambinella mandò a imparar
di cucire da una sartina, e si tenne in casa soltanto il marmocchio
che le succhiava la vita appeso tutta la santa giornata al petto
vizzo, delle vicine parecchie, e furono le più attempate, dissero che
avea fatto bene a provvedere a quel modo alle cose sue, sconsolata e
impoverita come Selletta l'avea lasciata. Dissero le altre, poche, e
furono le mammine fresche del vicinato, le quali cominciavano con la
prima maternità a raccôr tutto l'amor loro sui figliuoli, che questi
erano il riso della casa e che proprio ci voleva un core assai duro
per allontanarli e un coraggio, via, un coraggio!

--Come fate a rimaner tutta sola?--diceva alla vedova Nunziata Fusco,
una bionda grassetta, con in collo un bambino biondo, grassotto come
lei.

--Dite voi--piagnucolava Carmela--come avrei potuto fare con tre
angioletti attorno? Sono tre bocche, sono. E poi Nanninella, voi
sapete, torna a sera dalla sarta e la notte m'è compagnia. Impara
l'arte, oramai è grandicella. Per Peppino... voi dite che... lì,
all'Albergo... è brutto, non è vero?

L'altra diceva:

--Sentite, me ne sarebbe mancato il coraggio. Voi non lo vedete più,
Peppino, e lui non vede più voi. E chi chiama se ammala?

--Come! Allora non sapete niente. Lì si trova come a casa sua e niente
gli manca... Ah! è vero--soggiungeva con le lagrime agli occhi--io non
aveva pensato a questo, ma già, avranno medici e medicine, e se accade
che lui s'ammali, lontano sia, me l'hanno da far sapere.

--Vi dico che non lo fanno sapere--sentenziava la Fusco, carezzando il
suo marmocchio, come per dire a Carmela:

--Questo qui, vedete, me lo tengo io, che sono la mamma, e non uscirà
mai di casa sua.

La vedova rientrò in casa e corse a baciare così forte il suo piccino,
che dormiva nella culla, da farlo svegliare in un sovrassalto. Il
piccino piangeva.

--Core mio!--fece lei--zitto, via, zitto. Oggi andiamo a trovare
Peppino.

Era venuto l'inverno a un tratto, con giornate buie e rigide. La casa
di Selletta stringeva il cuore, tutta occupata dall'oscurità. Appena,
di sotto l'uscio, ci si vedeva il lettuccio di contro le parete ove
gli strappi al parato meschino scoprivano la grigia nudità del muro.
L'umido penetrava nelle ossa; Selletta lì dentro ci aveva persa la
salute.

La vedova imbacuccò alla meglio il piccino e lei si buttò addosso lo
sciallo nero che a quello era servito di coverta, nella cuna. Cercava
ora la chiave della porta. La trovò nella cenere fredda del braciere
che con quella aveva scavata il giorno prima, per riattizzare il
fuoco.

--Andiamo da Peppino--ripeteva al marmocchio, chiudendo l'uscio.

La viuzza, trafficata dai piccoli venditori e dal vicinato in
movimento, pareva allegra. Nel lontano, per un vicoletto che vi
sbucava, una larga striscia di sole tratteneva i passanti, i quali si
fermavano apposta in quel po' di caldo a chiacchierare.

--Dove andate?--chiese alla vedova una vicina--Avete vista la buona
giornata, e andate a spasso?

--Andiamo da Peppino--disse Carmela mettendo in tasca la chiave.

--Peppino chi?

--Peppino mio figlio, che ho messo a scuola all'Albergo dei Poveri
quando Selletta è morto, buon'anima sua. È stato lui che me l'ha
raccomandato. Diceva: mettilo lì perchè impara l'arte e non toglie
pane alla casa.

--E voi l'andate a trovare?

--Sono tre settimane che non lo vedo, e questo gli farà piacere.
Lasciatemi andare, bella mia, buongiorno.

E tirò via col bambino in collo, trascinando per la mota della viuzza
un lembo della gonna lacera.

In quel pezzo della via, soleggiato, lì dove un gruppetto di femmine
s'era raccolto a ciarlare, trovò Nanninella che guardava curiosamente,
con le manine sotto il grembiale, il panchetto d'un venditore di
caramelle il quale si godeva il sole fumando la pipa, gli occhi
socchiusi.

--Nannina!--fece la vedova--come ti trovi qui? Che fai?

La bambina le corse incontro, allegramente.

--Non si lavora oggi, la maestra fa festa, ce ne ha mandate via tutte,
perchè lo sposo la conduce in campagna.

--Andiamo da Peppino--disse la vedova pigliandosela per mano.

Faceva un gran freddo, ma il tempo era sereno e la via asciutta. La
bambina batteva ogni tanto i piedi a terra, per riscaldarsi, afferrata
con una mano alla veste della madre che le covriva il pugno. L'altra
mano aveva ficcata nella piega dello scialletto, alla vita. A volte,
chinando la testa, passava il gomito sulla fronte per trarne indietro
una banda di capelli che le veniva sugli occhi. Non voleva metter
fuori la mano dallo scialletto.

--È molto lontano?--chiese, a un tratto, quando furono nella via larga
di Foria.

--Lì, in fondo--disse la vedova--Vedi quegli alberi? Lì, guarda,
dirimpetto a noi. È lì.

--Com'è lontano!--mormorò la bambina.

Allo sbocco di via del Duomo, sul marciapiedi, incontrarono la
rivendugliuola che teneva bottega accosto alla loro. La vedova non la
vide; in quel momento rincappucciava il bambino. La vide Nanninella. E
come la rivendugliola le sorrideva, le gridò passando:

--Noi andiamo da Peppino. Torniamo più tardi!

--Chi è?--fece la vedova, voltandosi.

--Marianna--disse la bambina--è andata a comprare qualcosa.

--Cammina--disse la vedova.

Arrivarono stanche, la bambina non ne poteva più. Cercarono il sole,
presso alla grande scala dell'Albergo, ove quello batteva tutto sulla
facciata. Sui gradini erano seduti tre vecchietti, Pezzenti di San
Gennaro, in chiacchiere con una venditrice di melo.

La vedova s'accostò, guardando nella cesta.

--Me ne comprate, bella figlia!--le fece la venditrice--guardate, ve
ne do' tre di quelle grosse per due soldi, guardate.

--Dite--fece la vedova--le posso portare su a mio figlio? Lo
permettono, sapete niente?

--Come no? Vi pare? Son mele, non sono cannoni. Pigliatele. Dove le
volete mettere?

--Qui--disse la bambina, aprendo il grembiale--mettetele qui, le porto
io.

La vedova pagò i due soldi e si mise a salire la scala dell'Albergo,
con dietro la bambina, tutta felice delle mele. Sul largo pianerottolo
non sapeva dove più andare, le porte erano molte, la scala continuava.

--È qui?--chiese la bambina.

--Ancora più su. Non so. Aspettiamo qualcuno che ce lo dica.

Sentivano zufolare su per la scala, una voce d'uomo s'avvicinava
canticchiando:

    M'hanno detto che Beppe va soldato,
    e che vi han vista pianger di nascosto....

Spuntò subitamente un giovanotto, con le mani in saccoccia e uno
scartafaccio sotto l'ascella. Quando fu sul pianerottolo dette una
occhiata alla donna e alla bambina e tirò innanzi, continuando:

    Far pianger sì begli occhi è gran peccato...

--Signore, signore!--fece la vedova.

--Che c'è?--chiese lui mettendo il piede sul primo gradino dell'altra
tesa, e voltandosi.

--Dove si va per vedere... per parlare con un bambino? Io ho qui mio
figlio...

--Vi levate presto voi la mattina? Questa non è ora di parlatorio. Ma,
via, può accadere che vi facciano vedere il bambino. Andate su, dal
segretario.

--Dov'è?--chiese timidamente la vedova.

--Su, al secondo piano, prima porta a destra, ultima camera.

Parlando saliva; a un tratto la vedova non lo vide più. Ma sentì la
sua voce dall'alto, mentre saliva anche lei.

--Ultima camera, avete capito?

--Sissignore--gridò la vedova--grazie, signore, Dio ve lo renda!

Il segretario era un uomo assai maturo, molto per bene, con occhiali
d'oro, con un bell'anello al dito indice. Sedeva presso la sua
scrivania, firmando certe carte che un impiegato gli metteva innanzi
una dopo l'altra, asciugando le firme sopra un gran foglio di carta
rossa.

Nella camera c'era la stufa, che vi spandeva un tepore dolcissimo.

--Chi siete? Che volete?--fece il vecchio, levando gli occhi dalle sue
carte ed esaminando la vedova e la bambinella.

La vedova non sapeva che dire.

--Sono Carmela Selletta, eccellenza, volevo vedere, se è possibile...
io ho qui mio figlio... ha sette anni... Giuseppe Selletta...

--Ma, Dio mio! Non dovete venire qui.--fece il vecchio, la penna
levata--questo non è parlatorio, Dio mio! Ah! santa pazienza!

--Così m'hanno detto, eccellenza--mormorò la vedova, mortificata--ho
incontrato per le scale un giovane e m'ha insegnata la porta...

--Ma non è qui, non è qui--insisteva il vecchietto--e poi, bella mia,
non è ora questa di parlatorio.

La vedova rimase muta.

--Come avete detto che si chiama vostro figlio?--soggiunse, dopo un
momento, il vecchietto, del quale ora la voce si raddolciva.

--Peppino... Giuseppe Selletta.

--Mazzia, fatemi il piacere, guardate un po' dentro, in archivio, se
c'è Larissa, e parlatene a lui di questo ragazzo. Anzi fatelo venire
qui, che sarà meglio.

--Come si chiama?--chiese l'impiegato alla vedova.

--Giuseppe Selletta.

Mazzia sparì dietro una portiera. Il vecchietto raggiustò sul naso gli
occhiali, soffiò nelle mani e mise sulla scrivania una tabacchiera di
argento. Nannina aveva riguadagnato coraggio e s'accostava alla
scrivania, guardandovi curiosamente il gran calamaio dorato, sul quale
due pupazzetti reggevano a fatica una colonnina per metterci entro le
penne. Lo sguardo della piccina incantata passava dal calamaio a un
fermacarte di cristallo, sotto il quale si vedeva la chiesa di San
Pietro, col cupolone, la piazza e la gente in cammino, tutto colorato.

--Sedete--fece a un tratto il vecchietto, dopo una rumorosa soffiata
di naso--pigliatevi, lì, una sedia, quella nell'angolo, brava, sedete
pure.

Aprì la tabacchiera, tirò su una gran presa e allungò le braccia sulla
scrivania.

--Ah, buon Dio di pace e d'amore!--sospirò.

Poi, voltandosi:

--Che cosa avete in braccio?--dimandò, aguzzando lo sguardo di sotto
gli occhiali.

La vedova alzò un lembo dello sciallo, scovrendo il piccino che
dormiva tranquillamente con una mano sul petto.

--Un piccino?--fece il vecchio, sorridendo--carino proprio! Figlio
vostro?

--Sissignore.

Nanninella s'era avvicinata a guardare il fratellino, togliendosi alle
contemplazioni del calamaio. Stese la mano per carezzarlo.

--Pssst!--fece il vecchio, sottovoce--lascialo stare, tu. Si
sveglierà. Ricopritelo con lo sciallo, poverino.

Appariva Mazzia sotto la portiera, impassibile.

--Dunque?--fece il vecchietto.

--Se il signor segretario--disse Mazzia--vuol favorire un momento...

--Che c'è?

Si levò poggiando le mani sui bracciuoli della sua seggiola, cercando
in saccoccia il moccichino di seta rossa.

Ripeteva, camminando:

--Che c'è Mazzia?

Quando il segretario gli fu presso Mazzia lasciò ricadere la portiera
e questa li nascose.

--Ora viene Peppino--disse la vedova a Nanninella.

--Ora viene?--ripetette la piccina, sottovoce.

La vedova col capo fece cenno di sì. I due parlottavano ancora dietro
la portiera, ma non si capiva nulla di quel che dicessero.

A un tratto riapparve il vecchietto. Pareva molto turbato e veniva
innanzi lentamente, con lo sguardo sulla vedova. Si fermò presso alla
scrivania, aggiustò un quaderno sotto un libro e, tossì due o tre
volte.

--Sentite, bella mia...

La vedova s'era levata, traendo indietro la seggiola.

--Sentite, non si può parlare a quest'ora coi ragazzi... Io ve lo
avevo detto, siete venuta troppo presto! Gli è che a quest'ora il
ragazzo...

S'interruppe. La vedova lo guardava.

--Mazzia--si volse lui bruscamente allo impiegato--aiutami a dire...

--Il ragazzo è alla lezione--disse Mazzia secco secco.

E si rimise a guardare di fuori, per la vetrata.

--Ecco--disse il vecchietto risollevato-è alla lezione. Qui si è molto
severi....

La vedova ebbe un moto di dispiacere. Strinse meglio sul petto il
bambino, e rimase lì impiedi, aspettando ancora, sperando ancora.

--È proprio impossibile?--mormorò timidamente.

--Eh?--fece il vecchio--sicuro, impossibile. Voi siete sua madre, non
è vero?

--Sissignore, sua madre.

--Impossibile, bella mia--borbottò--come si fa? Dovreste tornare.
Tornate.... tornate lunedì, che c'è udienza, non è vero Mazzia?

Mazzia guardava difuori. Non udì e non rispose.

La vedova arrossiva. Cacciò lentamente la mano nel grembiale di
Nannina.

--Perdonatemi--balbettò--io gli avevo portato... gli volevo
lasciare... queste mele... perdonatemi....

--Date qua--disse il vecchio.

La bambina già ne avea posate due sulla scrivania, accanto al bel
calamaio. Lui prese la terza e la mise presso alle altre.

--Perdonatemi l'ardire--mormorava la vedova.

--Via--fece lui, dolcemente.

--Torno lunedì?

--Sì, sì, lunedì... più tardi. Non venite da me, chiedete del
direttore, lui saprà dirvi...

La vedova gli prese la mano ch'egli stendeva a carezzar la bambina, e
fece per baciargliela.

--Oh!--esclamò lui, come spaventato--lasciate stare, bella mia. Addio,
addio... buona giornata....

Erano uscite. Il vecchietto rimase impiedi presso la porta. Ascoltava
il rumore delle ciabatte della vedova su per la scala, la vocetta
della bambina che interrogava.

Mazzia si ricollocò di faccia a lui e gli mise innanzi le carte.

--Piano--disse il vecchietto--non c'è fretta....

Vi fu un silenzio.

Il segretario scoteva malinconicamente la testa.

--Glie lo dirà il direttore, lunedì--mormorò--io no, di certo. Non
voglio ricominciare la giornata a questo modo.

Asciugati gli occhiali se li piantò sul naso, tossì, soffiò nelle mani
e riprese la penna.

--Ah! Signore Iddio!--sospirò--Buon Dio di pace e d'amore!.... Date
qua, Mazzia....



LA REGINA DI MEZZOCANNONE


                                _Aprile 1886_

Finora _Mezzocannone_ ha avuto solo un re, quel buffo re di creta
bronzata, mangiato dal tempo e dalle intemperie nel naso e nelle mani
e negli occhi, nero, storto e contraffatto come un Esopo, bersaglio
continuo delle invettive delle serve, le quali vanno ad attingere, e
delle pietre e dei torsoli onde lo regalano i monelli impertinenti e
democratici. Ma questo budello _Mezzocannone_, questo schifoso
intestino napoletano, ha pur una regina. Il re è orribile; la regina è
incantevole. Il re si chiamava, al tempo suo, Alfonso II d'Aragona. Ma
la regina? Ella vive e regna in fin della stradicciuola. Come si
chiama la regina?

                        *
                       * *

Le prime visite che feci alla via, mosse da ragioni affatto lontane
dall'interesse artistico, me la resero sempre più antipatica. Sino a
pochi anni fa, al quarto piano d'uno di quegli sporchi palazzetti
vecchi, c'è stata una Ricevitoria brutta e scura, nella quale, ogni
due mesi, io mi recavo a pagare la tassa della fondiaria, immaginate
con quanta soddisfazione dell'anima! Poi, un bel giorno, la
Ricevitoria sloggiò; sloggiarono, rimossi in fretta e furia, i
cancelletti di legno dai bastoni unti dalle mani dei poveri
contribuenti, sloggiarono i gravi registri che chiudono tanti segreti
di ristrettezze e di privazioni, sloggiò un cassiere malinconico
insieme ad un piccolo gatto grigiastro, il quale annusava specie le
gambe dei salumai che venivano a pagare. La Ricevitoria se n'andò e la
casa rimase vuota, muta, spalancato l'uscio, sparse le camere di
trucioli e di pezzetti di carta lacerata. I miei passi svegliavano
un'eco breve e vibrante. Ancora sull'usciolino d'una delle stanzucce
si vedeva un'addizione; i numeri erano segnati con la matita. Non
avendo a fare altro collaudai l'addizione, con le mani in saccoccia e
l'anima tutta dietro i miei tisici ricordi aritmetici. Il cassiere
avea ragione, la somma era giusta; 14,780. Vi dirò pure, non senza una
certa mortificazione, che, avendo, per una radicata superstizione
napoletana, ripassati i numeri nel mio taccuino, quando scesi dalla
casa abbandonata me gli andai a giocare al lotto. Naturalmente non
vinsi nulla, la sfortuna mia essendo grande come la provvidenza del
buon Gesù.

In verità, quando mi trovo per cose mie per gusto mio particolare a
scendere per una cosiffatta stradicciuola, mi si stringe l'animo.
Dov'è l'azzurro, dove il sole, dove il buon sangue e la buona salute
nelle persone, dove l'aria e la luce nelle case e nelle botteghe? Da
pertutto penombre ed oscurità fitte, facce smunte e scolorite, in cui
solamente palpitano i neri e vivi occhi napoletani, pieni di desiderii
e di curiosità, tutti luminosi d'anima. Una pietà grande queste povere
donne pallide, questi lavoratori di metalli, dallo sguardo lento,
dalla pelle sudata, traspirante il veleno delle ebollizioni di piombo
o di rame, questi tintori che si movono nell'oscurità, sotto un
lumicino che pende dal soffitto, un lumicino rosso, quasi infernale. E
i bambini che trascinano i piedi nudi, per la mota, i piccoli piedi
indolenziti, un vecchio che cerca invano un pezzetto di sole per la
sua panchetta di _franfellicche_, e la buia, misteriosa cantina che
raccoglie tutta la gente affamata e puzzolente del quartiere, la
cantina della miseria, in cui, al venerdì, il fetore del baccalà
fritto nell'olio soffoca il respiro, provocando le piccole tossi dei
piccini che una famiglia di straccioni porta a mangiare nell'orrida
caverna.

                        *
                       * *

Dirimpetto, l'antica fontanella mormora sempre. E par che il borbottio
si parta dalla sconquassata bocca del re sovrastante, di questo
ammantellato padrone della strada, e lamenti la miseria del tempo.
Tutto roso dall'umido e dallo stesso tempo ingrato, che a poco a poco
ha fatto di lui un personaggio da burla, vuote le occhiaie come colui
della bibbia che in castigo ebbe mangiate le pupille dai vermi,
l'infelice coronato pur vive ancora e concede la limpida vena
dell'acqua a un popolo chiassone. L'acqua cade e si spande e allaga
per buon tratto la via, commista a' nuovi rivoletti di un'altra
fontanella che più in su è posta sul pendio, accanto alla bottega di
un torniere--una fontanella municipale, delle solite. E però, di state
e di verno la via è sempre lubrica; i pochi fanali che vengono fuori,
uscendo come dalle finestre, lasciano piovere una scialba luce sul
selciato sconnesso, che somiglia una disgregata sutura di un cranio in
cui s'infiltrino fantastiche lacrime. E qua e là, per terra, si fanno
bianche lucentezze sulle gobbe dei più gibbosi lastroni. Nel lontano,
ove la strada è per finire, pende da un balconcello un fanaletto verde
sul quale è scritto qualcosa in bianche lettere: _Albergo del pavone_.
Un letto vi costa quattro soldi. Dal balconcello certo non si può aver
sott'occhio un felice orizzonte; non c'è' dirimpetto eh? una scala, e
in capo alla scala un immane Cristo in croce, rifatto dagli ultimi
furori religiosi, dopo il colera. Nella notte, con innanzi ed ai lati
alcune lampade accese, il gigantesco Cristo è vivo e terribile...

La via è sempre affollata. Vi sale e scende il commercio di _Porto_,
della _Marina_, della vicina strada dei _Mercanti_, di tutte le
stradicciuole circostanti. Gli operai, intenti alla loro bisogna nelle
botteghe, non levano mai lo sguardo ai passanti e continuano a
lavorare fino a notte, tra il gridio del difuori e l'interno
affaccendarsi per l'opera.

C'è, a un posto di _Mezzocannone_, presso un caffettuccio, ove si
giuoca a carte, una bottega di ricamatrici. Intorno al telaio, come
attorno al una tavola, seggono quattro o cinque povere ragazze, curve
sui ghirigori d'argento o d'oro, sui cuori di seta cremisina, sui
fiori dai pistilli di conterie luccicanti. Tra costoro è una rossa
pallidissima, un po' lentigginata sulla faccia di madonnina bisantina.
L'oro del ricamo non ha più luce di quello dei capelli di lei, che, a
volte, rischiarati da un filo di sole, si accendono. Questa è la
reginella di _Mezzocannone_.

                        *
                       * *

La piccola rossa, le labbra strette, gli occhi intenti, le
bianchissime mani ravvicinate trapassa con l'ago la trama e non ne
stacca l'attenzione, per ore ed ore. È la prima dalla parte
dell'uscio. Ma chi passa, in quei momenti di raccoglimento, non vede
di lei altro se non la banda dei capelli fulvi, un impreciso profilo,
un pò della guancia d'avorio fine. La reginella ricama.

In un tramonto estivo, nel quale si spegnevano l'ultime luci perfino
nella bottega delle ricamatrici, la rossa--è chiarissimo il ricordo
nell'anima mia--aveva poggiato il gomito sull'asse del telaio, e nella
bianca mano raccolto il mento, leggermente china da un lato la testa
angelica, gli occhi nel vuoto, sognava. Le altre sommessamente,
chiacchieravano: la principale preparava i lumi. Un grande silenzio
s'era fatto per la via. La dolcezza del tramonto penetrando nell'anima
la piccola rossa, socchiuse le labbra esangui, lo sguardo perduto,
continuava a sognare, come una santarella in un'aureola di pulviscolo
d'oro.



L'IMPAZZITO PER L'ACQUA


                                _26 Maggio._

Ieri un acquafrescaio del vico Marconiglio è stato spedito
all'ospedale dei matti. Era un giovane pallido, un po' grasso, muto e
pensoso. Altri dà di volta per mancanza di denaro, per fede politica,
per ambizione; costui è impazzito per l'acqua di Serino. Così dicono
quelli della sua famiglia, in cui la professione di venditori d'acqua
è atavistica. Ma il vicinato dico che no, dice che Peppino Battimelli
è ammattito per amore.

Peppino Battimelli aveva la sua _banca_ in un cantuccio in penombra,
nel vico Marconiglio, sotto un balconcello dalla balaustra di
colonnine di legno, una balaustra a petto di colombo, come se ne
vedono spesso nei quartieri bassi di Napoli. Tra le colonnine
barocche, in maggio, le rose d'una _capera_ fanno capolino qua e là e
l'edera selvaggia s'attorciglia al legno antico. Un merlo impertinente
ripete, senza mai stancarsi, il suo ritornello chiaro e vivace, da una
gabbia che rimane, anche la notte, attaccata ad un chiodo, fuori al
banconcello. Disotto c'era la _banca_ Battimelli. Niente di più
primitivo della pittorica decorazione di questa _banca_. Sulla faccia
di mezzo una larga via, una signora ed un signore a braccetto, con
alle calcagne un cagnolino. Alberelli in fila a destra ed a manca.
Cielo di verderame carico. Sulla faccia a sinistra una fontana
pubblica tra cespi di fiori strani, un ragazzetto che si manda innanzi
il cerchio e, in fondo, un palazzo rosso con le finestre verdi. Sulla
faccia a destra il mare. Un pescatore accoccolato sopra uno scoglio ha
preso all'amo un pesce più grande di lui e lo tira su con la lenza. In
fondo il Vesuvio in eruzione. È giorno, ma il pittore se n'è scordato
e ha fatto scendere per le falde del monte la lava rossa. Alcune
bianche vele s'allontanano pel mare.

Tutto ciò pei monellucci del vico Marconiglio era stupendo. Nella
_controra_ afosa tre o quattro di loro, non avendo a far altro, si
mettevano in contemplazione dei dipinti della _banca_, inginocchiati
come innanti ad una immagine di Santa Lucia benedetta. Peppino
Battimelli, in camicia azzurra, rimboccate le maniche fino ai gomiti,
sognava in una gran seggiola alta che lo faceva troneggiare sulla
_banca_, sui limoni in fila, sulla fila riverberante delle _giarre_ di
vetro sottile, capacissime. Un alito di fuoco passava nel vicoletto,
al tramonto. Le pietre sconnesse del selciato ardevano. Ma la luce, in
questo vico Marconiglio stretto e scuro, anche nell'estate, è mite;
sul cadere del sole, mentre la gente si sveglia dal torpore della
giornata, il vico si rianima di moto e di voci; la _capera_
s'affaccia, sbadigliando, al suo balconcello e incorona per poco la
balaustra delle bianche braccia nude, tornite e lisce. Rimane un poco
a guardare nella viuzza, chiacchiera con una sua comare, e torna in
camera per riuscirne dopo un pezzetto, con un secchio in mano. Inaffia
le rose e si china ad aspirarne il profumo. Quando c'era di sotto
Peppino Battimelli la _capera_ lo salutava, picchiando col secchio di
latta sulla balaustra.

--_Peppì, bonasera._

Lui rispondeva, con gli occhi levati:

--_Bonasera._

--_Sentite che caldo nfame?_

--_Sì._

--_Peppì, io sto adacquanno 'e teste, si cade l'acqua dicitemmello, ca
me dispiace._

--_Nonzignore, l'acqua nun cade._

--_Pecchè me dispiacciarria, Peppì..._

--_Nonzignore._

La _capera_ sospirava e rientrava, lentamente. Impossibile commovere
quest'_acquaiolo_ malinconico. Nella stanzetta che già andava
accogliendo dolci penombre, lo specchio luceva in un cantuccio. La
_capera_ ha dovuto spesso mirarvisi. Ancora i capelli neri erano
copiosi e belli, ancora, tra la frangia diffusa, gli occhi neri
splendevano, ancora la bella bocca era rosea. Che importava la sua
vedovanza? A volte meglio una vedova che una zitella. Ma Peppino non
ne voleva sapere. Che peccato!

Verso le cinque o le sei della sera le comari del vico scopavano le
case. Qualcuna si pigliava briga di rinfrescare il selciato arso,
buttando acqua qua e là. Il selciato si macchiava di tante chiazze
nere, onde saliva un tanfo di polvere cacciata via dall'acqua. La
viuzza faceva toletta. Ma, dopo, aspettando che vi arrivassero, da
tutte l'altre vie del quartiere, gli operai dal lavoro, le femmine
dalla fabbrica dei tabacchi, le _rivettatrici_ dalle botteghe dei
calzolai, i cenciaiuoli ambulanti con la gerla piena di stracci e di
cappelli vecchi, la viuzza taceva, presa da quella malinconica pace
delle stradicciuole napoletane, ove ogni casa nasconde e cova un
dolore. Peppino Battimelli continuava a meditare.

                        *
                       * *

Tempo fa capitò nel vico la mamma, una vecchia. Chiese conto a tutto
il vicinato di quello che il figlio di lei, Peppino, facesse, stando a
vender acqua. Rispose ognuno: Che volete che faccia? Vende l'acqua.

--_Diciteme 'a verità!_--insisteva la vecchia.

--_Ma ch'è stato?_

Allora quella raccontò che il figlio aveva dato di volta. Non si
sapeva perchè. Non aveva voluto mangiare, non bere; s'era spogliato
nudo e voleva precipitarsi dal balcone Un balcone al quinto piano, al
vico Fico. Nemmeno l'ossa si sarebbero trovate.

--_Ma avite appurato pecche è mpazzuto?_

--_Gioia mia, pe l'acqua d'o Serino. L'acqua nosta nun se veve cchiù.
A che simmo arrivate! Come fosse veleno!_

A casa--seguitò la vecchia--Peppino nominava sempre l'acqua di Serino.
Un'ingiunzione municipale che ordina agli acquafrescai di non vendere
acqua che non sia di Serino aveva colpito per lui, giorni addietro. Il
giovanotto _se c'era fissato_. Domenica scorsa, bestemmiando--Gesù,
lui che non ha mai bestemmiato!--in un impeto frenetico ha afferrato
un coltello e si voleva ammazzare. Poi ha strappato la gran chiave
all'uscio di casa e si è dato in capo e s'è ferito. Il medico ha detto
che è pazzo. Ma guarirà.

La vecchia piangeva. Tutte le comari si sono intenerite e anche la
_capera_ del suo balconcello pieno di rose. Intorno alla vecchia s'era
radunata gran gente. Quando la madre di Peppino se n'è andata i
commenti duravano ancora.

--_Vuie vedite 'a fantasia 'e l'ommo addò va a sbattere!_--ha
esclamato una rossa, in camicetta bianca.

E ho visto la _capera_ che rispondeva dal balconcello, col secchietto
in mano:

--_Quanno uno sta sulo sbarca. Quann'è nzurato penza 'a mugliera. Chi
tene belli denare sempe conta, e chi tene bella mugliera sempe canta!_

--_È overo_--ha detto la rossa--_Ma Peppino 'o teneva o nun 'o teneva,
'o core mpietto?_

--_I che saccio_!--ha esclamato la capera, ridendo.

La rossa, che ha intorno una nidiata di marmocchi, ha levate le
braccia, gridando a tutti i maschi del vico:

--_Uommene! Uommene! Nzurateve!_

Il mistico matto era dimenticato. Le femmine gridavano con la rossa,
le braccia tese:

--_Nzurateve! Nzurateve!_

E sopra le soglie dei _bassi_, nelle botteghe, nella via, gli uomini
ridevano, contentissimi, e ridevano pur le femmine incitanti, e negli
sguardi accesi degli uni e dell'altre il desiderio luceva. Era, in
quest'ora, ancor tutto caldo di sole il vicoletto. Il diavolo del
terzo peccato alitava sulle facce sudate, passando improvvisamente tra
quello scoppio di miserevole brutalità...



NOTTE DELLA BEFANA


Il letto di Chiarinella l'avevano collocato in un angolo ove arrivava
tutto il sole. Nel verno, quando il sole era dolce, la poverina
s'addormentava in un'onda luminosa, che le scaldava le manine esangui
sulla coverta. Tutta la giornata rimaneva sola; la chiudevano in casa
e portavano via la chiave, abbandonandola a tutti quei pensieri, a
tutte quelle paure che hanno i bambini quando non si vedono accosto
nessuno. Lei dapprima avea pianto, con la testa sotto alle lenzuola,
tutta raggranchita, non osando gridare a non spaventarsi peggio.
Provava timori strani, le pareva che non dovesse stendere le gambe
perchè qualcuno, un mago, un essere spaventoso, le avrebbe afferrato i
piedini tirandola; non metteva fuori la testa, chissà si sarebbe
trovato di faccia un volto mostruoso con gli occhi spalancati che la
guardavano di sopra alla spalliera del lettuccio. A momenti credeva di
sentir battere alla porta quello scemo orribile, a cui venivan le
convulsioni nella strada e che una volta le era corso appresso,
urlando. Poi, quando la malattia la ridusse che non poteva più
muoversi, rimase lì nel suo cantuccio, istupidita e indifferente, come
se niente più la colpisse.

Lassù, in quella stanzuccia al quarto piano, ci dormivano la Malia,
ch'era ballerina a una baracca, donna Bettina e il marito. La Malia
andava al concerto per tempo e toccava alla madre accompagnarla; la
ragazza tornava di notte tutta freddolosa nello scialletto rosso, con
le mani nel manicotto spelacchiato, che lei stessa s'aveva fatto dalla
pelle di un gatto bianco e nero. Donna Bettina le portava
nell'involtuccio la vestina di veli, il corpetto rosso a frangia
dorata e le scarpine piccole piccole come quelle di Cenerentola.
Malia, quando qualcuno dei giovanotti che frequentavano la baracca le
avea regalato dei pasticcetti nell'intermezzo, entrando in casa si
buttava sul letto tutta stracca, senza nemmanco spogliarsi. Quando no,
andava rovistando per la casa se trovasse qualche cosa da rosicchiare
e strepitava, dicendo che se no sarebbe andata via un bel giorno col
primo venuto, che era una vita infame e così non poteva durare. Donna
Bettina diceva: Vattene, vattene, che è meglio; una bocca di meno!
Nella notte, mentre la lampada ardeva innanzi a una Madonna sul
canterano, lei chiamava sotto voce:

--Chiarinella!

La bambina non avea chiuso occhio. Rispondeva sommessamente.

--Ah?

--Dimani mamma ti compra un soldo di latte, hai sentito? Ti farò
compagnia, non ci vado al teatro...

--Sì? sì!--pregava lei--non ci andare, fammi compagnia!... Senti,
mamma...

Quella balbettava, lasciandosi vincere dal sonno:

--Zitta ora, dormi... domani... domani... La camera taceva.
Chiarinella era sempre l'ultima ad addormentarsi; sentiva per un pezzo
ancora il respiro forte ed eguale della sorella, che alla baracca avea
ripetuta una piroetta e s'era affaticata. A volte la coglieva la sete;
scendeva, a tentoni, cercando il bicchiere sulla scanzia a cui le sue
piccole braccia magre appena arrivavano. Certe mattine la veniva a
vedere la Nunziata, una vicina che le avea dato latte quando Bettina
non ne aveva.

--Povera piccina!--faceva--povera Chiarinella mia!

Le portava un'arancia fresca, sedeva accosto al letto e si metteva a
toglierne la buccia e la pellicola, dividendola a spicchi che la
bambina succhiava avidamente, in silenzio.

--Par nata muta--diceva Bettina, quando ne parlavano.

--No, no, è la malattia. Stateci attenta, sapete, non si scherza, s'è
fatta magra come uno spillo. Che v'ha detto il medico?

--Quale medico? Come avrei potuto chiamarlo? Ah! Nunziata mia, voi non
sapete i guai miei!

E si metteva a raccontarglieli sotto alla porta, mentre la Nunziata a
ogni momento correva dentro a invigilare il _ragù_, di cui l'odore
piccante entrava nella camera di Bettina, Guai grossi. Il marito se
n'era andato a Palermo, sopra un legno di Florio e chissà quando
tornava. Denari niente. A Natale soltanto avea mandato trenta lire,
sparite via come il fumo. Malia se ne avea prese otto per una
cinturella dorata che le serviva nell'_Orfeo all'inferno_, al terzo
quadro. La casa si sfasciava, abbandonata alla miseria, senza sistema,
senz'amore. Non c'era più niente, Malia avea saccheggiato tutto, il
Monte di Pietà era pieno dei panni loro.

--Oh! Gesù!--diceva Nunziata, rabbrividendo--Come potete stare così?
Mettetevi a fare la serva, i posti ci sono.

--E Malia? La lascio sola? E Chiarinella?

--Per la bambina, se la Provvidenza ve la fa guarire, me la tengo
dentro da me colle figlie mie--disse Nunziata--intanto Malia potete
lasciarla fare. Lei non è stupida, baderà.

--Oh! no, mai sola!--protestava Bettina--Voi sapete il mondo com'è
cattivo!

Ma in fondo era per questo, che alle cenette dopo il teatro ci andava
anche lei, e a volte avea messo in saccoccia qualche pollo freddo,
mentre la figlia teneva a bada quelli caldi che le facevano la corte
per gli occhi belli che aveva.

Tira, tira, la corda si spezza. Negli ultimi giorni dell'anno
Chiarinella non la si riconosceva più. Si lamentava tutta la notte,
piangendo sola, con la testa abbandonata che aveva fatto il fosso nel
cuscino. Nel giorno della Epifania, Nunziata entrò a vederla e le
spuntarono le lacrime agli occhi. Lei poverina, le sorrise, le mostrò,
senza parlare, l'arancia che aveva nascosta sotto alla coperta, sul
petto.

--Senti--disse Nunziata--ti vengo a far compagnia. Io ti voglio bene.
Sai oggi che festa è? Oggi è l'Epifania. Stanotte arriva la Befana che
va da tutti i buoni piccini. Bisogna mettere appesa una calza a capo
al letto. Se la bambina è buona la Befana viene a mettervi un regalo
bello; se è cattiva vi mette i carboni.

--Senti--soggiunse--ora me ne vado, ti mando Cristinella.

Dopo poco la figlia di Nunziata, una bambina di cinque anni, entrò,
allegramente. Si recava in braccio una bambola di legno, alla quale
avea messo il suo grembiale ed una cuffietta ricamata.

--Guarda com'è bella--esclamò, sedendo sul lettuccio--falle un bacio.

Glie l'accostò alla bocca. Chiarinella la baciò in punta di labbra.

--Si chiama Angelica--disse Cristinella--È figlia a me.

La strinse nelle braccia e si mise a cullarla, cantandole la ninna
nanna.

--Oooh! oooh!

Poi subitamente la posò sulla coverta.

--Tu che hai? Sei malata?

--Sì.

--È cosa da niente, cosa da niente--sentenziò, come aveva sentito dire
qualche volta alla mamma--una buona sudata e passa.

Come l'altra non diceva nulla, Cristinella si seccò. Aperse la bocca
rosea con un lungo sbadiglio e si allungò sul lettuccio, nel sole.

--Sai guardare il sole?

--No.

--Io sì, guarda.

E si mise a fissarlo. Ma gli occhi le si empirono di lagrime. Allora,
dopo averseli asciugati, riprese la bambola o scese dal lettuccio.

--Io me ne vado--disse--debbo preparare il letto a questa qua!
Uh!--esclamava, baciando la pupattola--quanto sei bella! vieni con
mamma tua!

Chiarinella rimase sola. Dopo un momento scese, rovistò in un angolo,
trovò quello che cercava. E trascinandosi sino al letto, con uno
sforzo che dopo la fece piangere, attaccò al bastone della spalliera
una piccola calza bucherellata.

La Bettina in tutta la giornata tornò a casa due volte e poi riescì
per accompagnare Malia che faceva Venere, in _Orfeo_.

A notte la piccina, che sonnecchiava, udì una voce maschile su per le
scale e la voce di Malia.

Diceva Malia:

--Addio... ciao... grazie...

La notte della Befana era fredda, ma chiara e stellata. Un grande
silenzio s'era fatto nella viuzza solitaria, un grande silenzio si
fece nella stanzuccia quando Bettina e Malia chiusero al sonno gli
occhi stanchi. Una delle rosee calze della ballerina pendeva accapo al
suo letto. Ella stessa ci aveva lasciato cader dentro, sorridendo, un
piccolo anello d'oro, un paio di profumate giarrettiere di seta. Era
stata Befana a sè stessa, prevedendo che la Befana avrebbe lasciata
vuota la calza. Nelle case de' poveri quella non entra.

Chiarinella dormiva, sognando la pupattola della sua piccola amica.

Alla dimane Malia si svegliò un poco più per tempo del solito. In
tutta la notte l'anellino e le giarrettiere le aveano parlato
all'orecchio. S'accostò alla finestra e si mise ad ammirare i
regalucci, stropicciando una cocca del grembiale sull'anello lucente.

--Bello, bello!--faceva donna Bettina, di sulle spalle della
figliuola.

Chiarinella stese la mano, staccò la piccola calza dalla spalliera del
letto e vi guardò entro. Il suo cuoricino batteva forte.

Ma nella calza non c'era niente.

Malia si lavava, canticchiando, le belle spalle bianche, nude,
assalite dai brividi. Il bacile di latta si empiva di spuma candida,
fiocchi di neve ne cadevano intorno. Ancora il sole non era arrivato
alla stanzuccia, ma per le vetrate appariva il cielo azzurro,
limpidissimo, sul quale la Befana aveva, nella notte, ripassata la sua
scopa di penne di pavone.

La piccola calza bucherellata era caduta sulla coverta del lettuccio,
e da presso due piccole mani vi si abbandonavano, esangui. Tra tanta
infantile minutezza le cose più grandi eran due lacrime, che
scendevano per le gote di Chiarinella.



SCIROCCO


La mattinata umida e malinconosa, senza raggio di sole, moriva
tristamente nelle ultime luci fredde e annebbiate dell'imbrunire. A'
rumori che nel giorno l'aria spessa e pesante aveva ammortiti, alla
vita della mattina piena di movimento, di voci, di strepiti, che il
tempo uggioso avea resi come sordi e sfiniti, succedeva adesso, dopo
un paio d'ore d'ozio snervante, l'impaziente rivoluzione della sera,
che pareva volesse reagire a quel torpore durato così a lungo tra
l'aspettare invano i soliti piccoli avvenimenti e il raggomitolarsi
con lo spirito e il corpo in un malessere d'insofferenza che la
giornata metteva ne' muscoli e nel sangue.

Alle quattro era venuta giù un po' d'acquerugiola fina e diaccia, che
filtrava i brividi nell'ossa, e a guardarla si sarebbe detto che fosse
bigia come il cielo e piagnucolosa come un'ostinazione di bimbo
malaticcio. Laggiù, in piazza S. Ferdinando, i cocchieri del posto
bestemmiavan sottovoce, la testa insaccata fra le spalle, il tappetino
della vettura sulle ginocchia strette.

--Che, divertimento ah?--La gente s'era scordata d'andare in carrozza.
Ognuno casa sua la teneva a quattro passi, e poi col sole che c'era
veniva la voglia di farsela una passeggiata co' piedi nelle
pozzanghere.--E così la giornata se ne scivolava...--Ohè?... vengo?
vengo?...

Ora tutte le fruste schioccavano; qualche signore dal marciapiedi di
faccia voltava gli occhi a destra e a manca, aspettando che spuntasse
una carrozzella di passaggio per risparmiare un paio di soldi, che,
tanto si sa, quelle del posto non si muovono se non le trattate a
dovere e voglion la corsa intera per quattro passi come le hanno
avvezzate i signori ricchi che portano il collo stretto nel solino, lo
staio sulle orecchie e vanno a Chiaia senza sporcare i cuscini, con lo
palme delle mani sulle cosce. Ma intanto con quel tempo e con quella
scarsezza il posto s'arrendeva, lasciandosi fare.--Otto soldi al
Museo--diceva il signore--Datemi mezza lira--E l'altro duro: Otto
soldi.--Il cocchiere ci pensava un pezzo prima di decidersi a
pigliarlo per quella miseria, ma intanto come il signore
s'impazientiva e faceva per voltargli le spalle, e allora con un santa
pazienza lo chiamava:

--Sentite... andiamo... salite.

Dal posto i compagni stavano a guardare, seguendo con gli occhi il
battibecco, indovinandone le offerte e le transazioni. Lui pel
sacrificio che aveva fatto si sfogava con la povera bestia, la quale
scotendosi tutta con un balzo alla prima frustata incollerita che le
toglieva il pelo, rabbrividiva di sorpresa e di dolore. E mentre nel
pigliar l'aire dava una strappannata al panciere, lui ritto in serpa,
mangiandosi la lingua, scoteva la mano all'aria due volte, e spiegava
le dita a mostrare ai compagni quanti soldi pigliasse.

Le ombre scendevano rapidamente: dalle basi rotonde de' fanali, di cui
la fiamma a gasse si dondolava leggermente fra i vetri appannati, la
striscia nera della colonnina si proiettava ad angolo su i marciapiedi
umidi, e in cima la lanterna ingrandiva smisuratamente, spandendosi.
C'era poi, sopra l'insegna di un magazzino, il grande orologio di
Riccio, che luceva da tutte e due le facce, pallido come la luna, e
faceva venir la malinconia, malgrado vi fossero sopra due grandi ali
dorate come quelle degli angioli a lato dell'altare maggiore.

Allungandosi lo sguardo arrivava sino al principio della scesa del
Gigante; laggiù il verde cupo degli alberi si fondeva col cielo tutto
d'un pezzo, nero come il carbone.

Ma nello spiazzato innanzi alla gran massa del palazzo reale, tutti i
lumi s'eran data la posta come ogni sera, e assieme ai fanali grandi a
cinque rami, di sotto alle colonne del peristilio, le lampade a bomba
rischiaravano la piazza deserta e silenziosa, ove pareva che andasse a
morire nell'immensità del vuoto tutto il romorio di Toledo.

In questa brutta serata di marzo, come sonarono le sette all'orologio
di piazza Dante, tanto debolmente che appena lui potette seguirne i
rintocchi, Manlio si decise ad uscire. Dopo aver leggiucchiate le
prime pagine di un romanzo nuovo, di cui si era annoiato a morte, fra
le cinque e le sei di sera s'era buttato sul letto, volendo gustare,
per la prima volta dopo un mese, la voluttà del sonno a quell'ora.
Così tra l'appisolarsi e il rimaner cogli occhi aperti per un pezzetto
a guardar nel soffitto le ragnatele lasciate in pace, stette un'ora
buona, in forse se dovesse uscire o rimanersene a casa, ora che il
tempo minacciava.

Manlio: un bel nome, di cui doveva la romanità severa alla madre buona
e intelligente che s'era ridotta in provincia a seguire il marito e
c'era rimasta perchè lui contava di raggranellare il suo po' di
sostanza, vendendo dei fondi che da assai tempo lacerava a furia di
liti l'ostinato accanimento di tre eredi, fra i quali egli era primo.
Con le buone parole, co' sacrificii e la pazienza lui si era fitto in
capo di spuntar la faccenda e le cose andavano bene. La signora Maria
scriveva al figliuolo, ogni settimana, lettere piene di cuore e di
rimpianti, promettendo, a rassicurarlo, che sarebbe tornata subito,
arrischiando timidamente, con una dolcezza di parole che nascondevano
la severità, dei piccoli ammonimenti nei quali tremava, inconsapevole,
il suo grande amore di madre lontana. Manlio, leggendole, si
commoveva. Ora la solitudine, che fra tutte le sue vaghe aspirazioni
di fanciullo nervoso, era stato sempre il desiderio più intenso, lo
spaventava, rimettendogli innanzi agli occhi il ricordo di certe sere
calme d'inverno, quando la pioggia batteva a' vetri ed essi
chiacchieravano sottovoce nel tepore della stanza, mentre il padre
leggeva la gazzetta e fumava. Nei brevi momenti di silenzio, quando la
signora Maria s'era lasciata scappare una maglia della calza che
lavorava, s'udiva dal lettuccio il respiro uguale della bimba che
dormiva con una manina sul petto. Che sere! Lui raccontava i suoi
progetti, si animava facendo mille castelli in aria, lasciandosi
trasportare, gesticolando sottovoce e la brava donna sorrideva,
contemplandolo tutta pensosa, e le maglie della calza scappavano. Ma
eran sogni d'oro quelli che lo cullavano allora; dormiva sino a giorno
tutto d'un fiato sotto la coltre doppia che, a volte, quando non aveva
ancor chiusi gli occhi, sentiva a rimboccarglisi sotto al mento dalle
mani leggere della madre...

Questo pensava Manlio in quella sera di marzo, smaniando sul letto,
che scricchiolava, voltandosi da tutte le parti come se fosse sulle
spine. All'ultimo, mentre l'oscurità empiva la stanzuccia e lui non
vedeva altro se non di faccia, il vano della porta anche più nero
dell'ombra, una strana inquietitudine lo prese. Quasi gli venne paura
che da un momento all'altro, così, solo com'era, in quel silenzio, in
quella oscurità avesse a mancargli la vita. Quando si levò, cercando
tentoni i fiammiferi, le mani gli tremavano e durava fatica a tirar su
il flato.

--Impossibile--mormorò, com'ebbe acceso il lume e gli tornò
l'animo--impossibile..... Questa è vita che non può durare...

Si vestì e scese. Mettendo il piede nella strada si ricordò di non
aver preso il paracqua. Stette un momento in forse se dovesse risalire
o tirar via facendone a meno, tanto era un'acqueruggiola minuta che
non faceva male e poi rifar daccapo settanta gradini era una cosa che
lo seccava abbastanza. Si mise in cammino, scendendo per Toledo, con
le mani in tasca e la testa china, tutto pensoso. Che si sentisse
dentro lui stesso non lo sapeva: era un malessere, un'oppressione,
un'insofferenza, che lo rendevano odioso a se stesso; fra tutto lo
impensieriva ora come un intuito delle disillusioni che gli
toccherebbe a sopportare; indovinava le aspettative insoddisfatte, cui
da un momento all'altro si troverebbe di contro nella sua piccola vita
serale, della quale si faceva il conto che il tempo cattivo dovesse
romper le abitudini. Difatti entrando nel caffè ove gli amici erano
soliti a raccogliersi accanto alla gran tavola di marmo, trovò ch'essa
era deserta, e andò a sedervi aspettandoli. Chiese il caffè e gli
parve addirittura acqua calda; lo sorbì tutto d'un sorso dopo averlo
fatto raffreddare, non volendo avere la pazienza di centellinarlo col
gusto che ci pigliava ogni sera. Nel caffè c'era una piccola orchestra
che di colpo si mise a sonare un walzer fritto e rifritto,
un'antipatia di musica frettolosa e saltellante, che mise una gaiezza
stupida fra i consumatori. Lui, di faccia a un borghese, che batteva
il tempo col cucchiaino nel vassoietto, si sentiva un formicolio nelle
mani; gli avrebbe voluto buttar la chicchera in faccia.

Cominciava a dolergli la testa; gli occhi, in quella nebbia, che il
fumo dei sigari spandeva nel locale chiassoso, gli s'intorbidivano, e
gli diventavan piccoli. A un momento, mentre uno spilungone di maestro
di musica batteva sconciamente sui tasti del pianoforte, egli sentì il
colpo secco e la vibrazione, per un secondo, d'una corda che si
spezzava facendo «zin!», cosa che gli accapponò la pelle. S'alzò
guardando all'orologio sul pancone del principale; erano le nove, gli
amici non sarebbero più venuti.

E, lentamente, con le labbra strette, infilò la porta che riusciva
sulla piazzetta innanzi al Municipio. Pioveva sempre allo stesso modo.
Lui si mise a camminar dritto avanti a sè, non sapendo che via
pigliare per tornare a casa più presto, ora a piccoli passi, ora
affrettandoli per trovarsi subito fra le sue quattro mura. E
camminando si rodeva dentro con gli amici che non eran venuti, con la
umana leggerezza che dimentica tutto, con sè stesso che era tanto
ingenuo da contare su tutti. Avrebbe voluto che i compagni avessero
indovinata la sua solitudine in quella sera, avrebbe voluto che fra
essi uno solo almeno avesse pensato a farsi trovare per tenergli
compagnia.

I suoi nervi in quel momento avevano acquistata una tensione
straordinaria. Gli scoppi rumorosi delle fruste, quando gli passavano
accosto le vetture, lo irritavano, bestemmiava sottovoce, sbuffando,
come inciampava nell'oscurità col piede in una rotaia di tranvai che
lo sbalzava da un lato, sorprendendolo dolorosamente. La luce dei
magazzini gli abbagliava gli occhi; a volte sentiva fra le spalle come
delle punture di aghi, che gli davano per un momento l'irritazione
d'una bestia inquieta.

Ora si trovava di faccia al teatro S. Carlo. Entrò lentamente sotto il
porticato. Si fermò a leggere un cartellone mezzo lacerato che pendeva
a uno de' muri. S'accorse che sotto a quel muro una persona, che lui
conosceva molto da vicino, stava tranquillamente accendendo un sigaro.
Si adocchiarono nello stesso momento; Manlio s'accostò, con la mano
stesa.

--Buonasera, signor Roberto.

--Buonasera, Manlio; come va?

--Eh!--disse lui, facendo spallucce--Son seccato...

L'altro, passando il sigaro nell'angolo delle labbra, fece per
incamminarsi. Manlio gli tenne dietro, stringendoglisi accosto. Gli
pareva, che quegli non gli avesse detto addio per stare un po'
assieme, e intanto già s'annoiava della compagnia.

Costui era un uomo in su i quaranta, scriveva per i giornali, era
tenuto in molta stima nel suo paese e godeva d'una certa fama di
serietà che lo onorava. Quella sera aveva l'aria d'uno cui è capitato
un guaio e, piccolo piccolo com'era, col gran cappello su gli occhi,
il bavero del soprabito alzato, faceva quasi compassione.

Dopo un momento di silenzio, camminando sempre, disse:

--Dove andate?

--A casa.

--Che brutto tempo!...--fece l'altro, senza guardarlo in faccia.

--Tempo canaglia...--rispose Manlio, coi denti stretti.

Vi fu un altro momento di silenzio, poi, lentamente, quello del sigaro
mormorò con un risolino forzato:

--Come mi vedete ho perduto poco fa duecento franchi.

--Ah?--fece Manlio, senza commuoversi, come se non avesse capito bene.

Poi non vi fu più una parola. Il signor Roberto camminava tutto
astratto, a capo basso, studiandosi di mettere il piede sempre nel
mezzo delle lastre del selciato, provando una piccola contrarietà
quando per inavvertenza gli capitasse tra le commessure. Manlio non
vedeva l'ora di toglierselo d'accosto. Ora una collera sorda lo
irritava contro quest'uomo che perdeva duecento lire come se niente
fosse e se ne andava passeggiando in una serata come quella. E
l'altro, mentre badava stupidamente a regolare il piede in modo che si
trovasse sempre nel mezzo del lastrone, pregava tutti i santi perchè
mandassero via questo giovinotto pittimoso, del quale la muta e
pesante compagnia gli cadeva addosso come un incubo. Così per venti
minuti di cammino, tornando a poco a poco ciascuno alle sue idee nere,
quasi non accorgendosi più della loro vicinanza, non aprirono bocca. A
un punto, sul marciapiedi poco discosto dalla casa di Manlio, una
donna, una signora bellissima, sola, stretta in un lungo sciallo nero,
alta, pallida, fiera, passò loro accosto. Fu come una visione.

--Che bella donna!--mormorò Manlio, come parlando a se stesso.

--Bellissima...--sospirò l'altro, senza alzar gli occhi.

Di colpo si guardarono, si tesero le mani contemporaneamente,
stringendosele. Si erano fermati per un secondo.

--Addio--disse il signor Roberto.

--Addio--rispose Manlio.

Lentamente entrò nel palazzo ove abitava e si mise a salir le scale.
Quando fu in casa, senza togliersi il soprabito umido, buttò sulla
tavola il cappello a cencio, provando uno strano batticuore,
un'emozione nuova e misteriosa. Tentò di mettersi a scrivere, pensando
che questo dovesse distrarlo, compilando in mente, rannicchiato sulla
seggiola innanzi al tavolino, una lettera alla mamma, piena di
tenerezze e di sfoghi. Ma quando cercò intorno i fiammiferi si ricordò
d'averli dimenticati al caffè. E innanzi a questa piccola contrarietà
ebbe un momento di immensa disperazione. Si gettò bocconi sul
lettuccio, mordendo nella furia il cuscino, torcendo le lenzuola nel
pugno, singhiozzando.

Pioveva sempre, ma la pioggia non batteva ai vetri con lo stesso ritmo
dolce delle lunghe serate in famiglia nè alcun lume nella stanzuccia
poteva mostrargli la faccia pallida e sorridente della madre e in
fondo, nella penombra, il lettuccio della piccola sorella dormente.

Così, in quella triste serata umida e tetra, in quello scompiglio
nervoso che infuriava nel suo morale tormentandogli il fisico a scosse
dolorose, egli, solo, solo nella sua amarezza, in quella oscurità
fitta della cameretta, si mise a urlare come un pazzo.



SUOR CARMELINA


                                _Giugno 1886._

Tra le suore dello spedale X.... ho conosciuto, tempo fa, Suor
Carmelina, una giovane donna sottile e bianca, bianca come una Vergine
di cera, pallida come un'ostia nell'ombra. I malati la chiamavano _la
santarella_; ella sorrideva sempre, parlava sempre sottovoce,
pronunciava s la z e tratto tratto diceva a' malati: _Benedeto!
Benedeto da Dio_! Era veneziana, tutta piena di quella dolcezza de'
modi e dell'anima onde quei del veneto son pieni.

Come era divenuta monaca? Nessuno me lo seppe dire. E da quanto tempo
ella aveva abbandonato il mondo e Venezia bella? Tutte queste
monacelle, _benedete_, hanno il loro piccolo dramma chiuso in core, e
un mistero nascoso nell'anima. Alcune volte gli occhi luccicano, si
velano d'una lacrima, le mani bianche fremono, la bocca freme, il
respiro ansioso gonfia il petto coverto dalla tonacella. Ma andate a
chiedere loro perchè, tentate di impadronirvi di quella bianca mano
fremente, cercate di interrogare quella lacrima! Fuggono, si chiudono
nelle piccole stanzucce a vetri, evitano di ricomparirvi innanti,
vergognose. Soltanto la piccola stanzuccia a vetri sa il mistero della
piccola suora. Nessuno ha potuto mai sentire i singhiozzi di una
piccola suora!

                        *
                       * *

Io chiedevo sempre a un mio povero amico, malato a quello spedale, che
ne pensasse di Suor Carmelina. Si capisce; ogni giovanotto, in
presenza d'una di queste figlie della carità, prima vede la giovane
donna, poi vede la monaca. Imagina sempre un sacrifizio, si appassiona
e s'intenerisce.

L'amico, un commesso viaggiatore, al quale una caduta avea quasi
spezzata la gamba sinistra, stando in bolletta s'era salvato allo
spedale. Veneto pur lui aveva ben presto stretto amicizia con suor
Carmelina. La trovava semplicemente una buona _putela_, una _fia de la
Madona_.

Io lo andavo a vedere tre volte alla settimana, poi finii per recarmi
a trovarlo quasi tutti i giorni. Si cominciava a parlare della gamba
disgraziata e si cascava, subito dopo, a chiacchierare di suor
Carmelina.

--Non le hai mai domandato perchè s'è fatta suora?

--Mai. E perchè? Non me lo avrebbe detto. Parla poco.

--Ma con te, che sei compaesano suo, potrebbe far eccezione alla
regola.

--La Regola--rispose il mio amico, celiando--impone il silenzio alle
suore, specie coi giovanotti malati, specie alle suore giovani.

--Senti, caro mio, francamente io vorrei trovarmi qui, in questo tuo
letto.

--Con gli stessi dolori?

--Con gli stessi dolori.

--Con la stessa gamba impacchettata? Con la stessa mania di volere e
di non poter uscir a vedere il sole, a veder camminar la gente per
via, a vedere le carrozze, a camminare? Va là, tu scherzi. Siamo
troppo amici. Nemmeno ai cani lo auguro.

--E io vorrei essere qui, nel tuo letto.

--Per vedere suor Carmelina? Per parlare con suor Carmelina? Per
sentire la voce di suor Carmelina?

--Per questo.

Lui rise fortemente. Ella in quel momento passava e si volse. Le donne
hanno questo di particolare che anche da lontano, con la coda
dell'occhio, appurano quello che dite e se parlate di loro. Per un
momento la sua veste passò lungo la fila dei letti, senza romore,
senza toccarli, lambendo i larghi quadroni di marmo del pavimento. Un
malato, il numero 34, un vecchio colono da Melito, si levò a sedere
sul letto e si sberrettò, con una grande reverenza, mormorando
qualcosa. La suora gli rispose con un piccolo moto del capo. Forse gli
sorrise, ma le tese larghe della cornetta c'impedirono di vedere. A un
posto della sala si chinò, raccolse la buccia d'un'arancia e per
l'aperto finestrone la buttò giù nel cortile. Poi sparve.

--Sei contento?--mi disse l'amico--Or l'hai vista. Sei contento?

--E tu non ti commovi?

--Io! _Cio'! vecio!_ Ne ho viste tante in mia vita! Io mi secco assai
di dovermene stare qui inchiodato in questo letto, tra lamenti,
spasimi, morti subitanee e morti lentissime, che non arrivano mai.
Sono impregnato di acido fenico.

                        *
                       * *

--Senti, _vecio mio_,--mi disse in un altro giorno--fra poco me ne
vado. Ieri il dottore mi ha detto che ne avevo per un'altra settimana.
M'ha rifatta la gamba a nuovo. Che uomo, _benedeto_, che grande
instituzione la chirurgia!

--E dici addio alla suora?

--Accidenti! Sei un bel seccatore tu, con la tua suor Carmelina!
Guarda, ieri ella m'ha... mi ha... come si dice?

--Intenerito?

--Intenerito? M'ha fatto stomacare. È come tutte l'altre; sempre le
stesse! Senti, io le ho annunziato che me ne andavo presto, fra una
settimana, ch'ero bell'e guarito...

--E lei?

--Lei, al solito, s'è fatta rossa. Mi ha detto: Davvero? È proprio
guarito?--Dico io: Sicuro. Cosa c'è? Le dispiace?--Ha fatto un muso!
Dice: Ecco, noialtre ci affezioniamo ai nostri malati così da
volerceli tenere assai tempo con noi. Ogni malato guarito si porta un
po' del nostro dispiacere.--Immagina! Le volevo tirare un cuscino.

--Sei un grande cretino, va! Come tutti i commessi viaggiatori.

--Aspetta che guarisca, _vecio mio!_

                        *
                       * *

Dopo una settimana egli era impiedi. Ma ancora zoppicava un poco, per
tre o quattro altri giorni era necessario che rimanesse allo spedale.

--Piglio aria--mi fece--piglio daccapo l'abito del camminare. Vien
qua; ho qualcosa da narrarti su _quella tale persona_.

Ci mettemmo a sedere sotto un finestrone onde una gran luce pioveva
nella sala. Erano le 9 della mattina e lo spedale faceva la sua
toeletta, pieno d'un gran chiacchierio che s'intrecciava fra i letti,
arrivava con gl'inservienti, usciva dalla stanza delle suore, per
l'uscio socchiuso. Una vecchia suora, inforcati gli occhiali, scriveva
in un gran libro squadernatole innanti, sulla tavola.

--Ieri--cominciò il mio amico--al dopopranzo suor Carmelina m'ha fatto
presente d'una manata di confetti. Abbiamo chiacchierato a lungo; lo
spedale s'era messo a dormire--Dove se ne va, ora che è guarito?--Me
ne vado a Venezia--le ho risposto--vado a rivedere mio papà e la
mamma.--Beato lei, che ci ha tutti e due!--E lei?--Ha chiusi gli
occhi, ha scosso tristemente il capo.--Non ho nessuno--E come nessuno?
Fratelli, sorelle?--Nessuno.

--Ti dico, caro mio--soggiunse il mio amico--sono stato preso da una
grande pietà. Non ho saputo nulla rispondere, nulla dire a
confortarla. Tutto ieri ella è rimasta in sala. A sera, per le
finestre, entra un gran profumo di zagare, dal giardino. Ier sera se
ne moriva; una cosa deliziosa, inebriante. Suor Carmelina passeggiava
in lungo e in largo. Spuntava la luna, laggiù, dietro il comignolo
della fabbrica di steariche, guarda. Io mi son messo a canticchiare:

_De Venezia lontan do mila mia no passa dì che no me vegna a mente el
dolce nome de la patria mia, el linguagio e i costumi de la zente..._

E continuavo:

_Soto el ponte de Rialto fermaremo la barcheta, O Venezia benedeta, no
te voglio più lassar..._

Avessi veduto com'ella rallentava il passo, per sentire! A un tratto
eccotela che mi s'accosta al letto, con le lacrime agli occhi, con la
faccia bianca bianca, stravolta, la bocca tremante--Lei non
canti--m'ha detto con malo modo--qui non si canta. La prego di
smettere. Questo è uno spedale!--_Ciò_, brava la ragazza! E cantavo
roba del suo paese, cantavo!

--Eccola...

Ma appena la suora appariva in fondo alla sala un grido infantile
risuonò, un grido che ci fece trasalire. Saliva un gran vocio dal
cortile e gl'inservienti s'urtavano, accorrendo. Suor Carmelina
scomparve.

--Che sarà?

--Qualche resezione di ginocchio, qualche incisione alla spalla, una
disarticolazione, un bottone di fuoco che arrostisce la carne, ecco;
oramai trenta giorni di spedale mi hanno abituato a tutta questa roba;
ne ho sentiti d'urli; un inferno, caro mio. _Ciò_! Che succede ora?

Qualche cosa di strano succedeva, infatti. Lo spedale era sossopra, la
segreteria, attigua allo stanzone in cui noi ci trovavamo, s'empiva di
gente. I malati si rizzavano a sedere sui letti.

--Andiamo a vedere--disse il commesso viaggiatore, incamminandosi,
zoppicante.

Era successo questo: Il figliuolo del giardiniere, un bel ragazzetto
biondo, era stato morso dal cane del guardiano. Il cane era idrofobo,
palesava tutti i segni del male e lì per lì fu ammazzato. Ma il
ragazzetto? Era perduto. Tutto questo lo sapemmo e lo _vedemmo_ in un
momento; un brivido ci corse per l'ossa e il coraggio di avvicinarci
all'infelice ci mancò. Ma la gente si stringeva più intorno a suor
Carmelina che da presso il ragazzetto. L'_interno_ di guardia, un
rosso dai piccoli occhi neri scintillanti, ci venne incontro,
stropicciandosi le mani, gridandoci:

--Avete visto? Avete visto?--e soggiunse, entusiasmato--Bellissimo!
Stupendo! Suor Carmelina ha succiato il veleno!...

La piccola suora era diventata grande. Era accorsa al grido del
piccino, lo aveva trovato piangente, gli aveva chiesto che fosse
successo. Il piccino le rispose:

--Mi ha morso il cane....

Subito dopo si sentì gridare:

--Badate! Badate! Il cane è idrofobo!

Il giardiniere gli aveva spaccato il cranio con un colpo di bastone.
Ma il povero ragazzo mostrava il braccio nudo, sanguinante, e nessuno
sapeva trovar modo di soccorrerlo. Allora suor Carmelina, s'avanzò,
pallidissima, ma senza il più piccolo tremito. Accostò alla ferita le
labbra e succhiò, rigettando il sangue e il veleno, forbendosi le
labbra bianche col gran moccichino scuro a quadroni. E allora tutta la
sala numero quattro proruppe in un applauso. Il colono di Melito
agitava il berrettino...

                        *
                       * *

Dove sei ora, piccola monaca bianca, Carmela, mistica anemica, figlia
della laguna, ove sei? Allo spedale degl'Incurabili una volta, un mio
amico chirurgo operò sopra una contadinella. Nel candido seno entrò la
lama tagliente del bisturi. La contadinella dormiva, cloroformizzata.
Per parecchio tempo ho chiesto al chirurgo mio amico notizie di lei.
Era stata una terribile operazione. Ma la contadinella guarì. Dopo un
mese uscì dallo spedale e il dottore venne a trovarmi al caffè, per
annunziarmelo. Un vero miracolo.

Ma di suor Carmelina io non ho mai osato dimandare. Non so perchè. Se
ella...



DOCUMENTI UMANI


                                _Settembre 1886_

Tre giorni fa, in una scura e fetida vanella d'un palazzo in via
Tribunali, d'un subito, qualcosa cadde con un tonfo sordo, e spaventò
i sorci che frugavano tra i cocci sparsi e le immondizie e i rifiuti
di quelle ruine borghesi ond'escono, continuamente, a turbare i pranzi
delle immonde bestie, le improperie delle serve e i pianti dei piccini
impertinenti.

Cadde dunque qualcosa. I sorci fuggirono con gran terrore e si
rintanarono. Era caduto il corpo d'una giovinetta: una bionda.

Esso rimase lì, prono, la faccia nel fango, un braccio steso, le gambe
stese. Una fine caviglia spuntava di sotto alla gonnella, un piccolo
piede arcuato, la calza bianca...

Quella ragazza s'era buttata da un terrazzo al quarto piano, ove era
salita per sciorinare i panni.

Si chiamava Antonietta Canserano, aveva diciotto anni, era molto
bellina. Quel corpo inerte rimase lì tre ore. A poco a poco le bestie
immonde riapparivano. De' piccoli musetti, dei piccoli occhietti
spaurati spuntarono pei buchi. La ragazza rimaneva immobile.

Finalmente si seppe il fatto. La vanella si empì di gridi femminili.
L'orrore era grande, e il sangue!... Quanto sangue laggiù, tra i cocci
e i rifiuti, nel fango, su per la nera poltiglia luccicante!...

Arrivò un medico, arrivarono le guardie, il pretore, un delegato,
curiosi d'ogni parte. Il corpo dell'Antonietta fu tolto di lì,
adagiato in una vettura, e trasportato allo spedale degl'Incurabili.
Perchè la poverina era ancor viva. Respirava, lentamente, a fatica,
gli occhi socchiusi, pieni di lacrime...

                        *
                       * *

La storia di questa fanciulla è breve ed è la solita storia.

Antonietta Canserano, orfana di madre, ha il padre in America. Era
stata affidata a una zia che le voleva un bene del cuore e con la zia
se ne stava, al quarto piano del palazzo numero 105 in via Tribunali.

A diciassett'anni aveva conosciuto un piccolo marinaio, bruno e
atticciato. Si chiamava Vincenzino. Un cuor d'oro. Il marinaio a
momenti avrebbe terminata la sua ferma, sarebbe tornato a Napoli,
l'avrebbe sposata. Glielo aveva promesso da un anno; quando giurava si
metteva la mano nera sul petto, gli occhi lucevano. Ell'era così
felice, così felice di quel piccolo uomo arso dal sole, delle parole
sue tanto calde, tanto franche! E aspettava.

Quattro mesi fa Antonietta chiese in grazia alla zia che le facesse
pigliare un po' d'aria. L'usignuolo s'annoiava in gabbia. E come la
zia non poteva accompagnarla ella uscì sola a passeggiare. Se ne andò
in villa. Lì, non si sa come, le si accostò un furiere di linea. Si
mise a chiacchierare con lei, la tentò, e seppe abusare della
poverina. Questo succede assai spesso. Una rovina in un attimo.
_Dopo_, il furiere, come tutti gli uomini senz'anima e senza onore,
abbandonò Antonietta.

Ella tornò, sola, a casa della zia. Per la strada del Chiatamone, un
marinaio amico del suo marinaio l'aveva incontrata.

--Come! Sola! Se lo sapesse Vincenzino! Lasciate che v'accompagni.

Ella tremava come una foglia. Non rispose una sola parola.

--Se scrivo a Vincenzino volete che gli dica che v'ho incontrata?

Ella rispose:

--No... per carità!

Il marinaio la guardò, fece spallucce. E continuarono a camminare, in
silenzio...

                        *
                       * *

                                Napoli 18 Luglio 86

    _Mio caro Potito_

ti scrivo queste poche riche ti fo conosciere che ia sto bene di
salute e così spero di sentire di te. Dunque Mio caro Potito, dopo due
mesi e tredici giorni mi ho azzardato di scriverti innascosta dei mie
parenti; perchè dopo tanti mie pianti mi ho sognato una donna e mi ha
detto così--figlia mia Antonietta non piangete più che il mio figlio
vi deve venire a sposare pregherò ia a Dio che gli dà buoni pensieri e
ti prego fatelo una lettera; ecco mio care queste semplice parole mi à
detto e mi sono svegliato ed ia ti sono scritta non aveva inchiostro e
ti sono scritto con un lapiso.

Dunque mio caro ricordati di mè che mi sei levato l'onor mio così che
io quella sera ero una stupita non capiva che cosa era il mondo e tu
ti ni approfittasti di mè così si deve approfittare i Dio di tè se tu
sei negato infaccio ai miei parenti non può negarlo innazi al
tribunale di Dio perchè io come tu mi sei lasciato così io sto! nessun
altro si ni e approfittato di mè--non fa niente deve arrivare una
lacrima avanti a Dio che ti deve pagare perchè ia non sone una cattiva
giovane; che vi credete che ia mi ho dato a cattive strade nè questo
non lo farò mai mio caro non fa niente che mi sei levato l'onor mio o
fatto ridere ai miei parenti i Dio mi aiuterà perchè ia sono orfane di
madre mio padre sta in america e non ni sà niente di questo misfatto
che si lo sapesse quello mi viene ad ucidere--il mese entrante parti
da Napoli e vado a trani mi accompagnano i mie parenti e vado in casa
della madre della zia e là o la dota di mia madre che mi possa
maritare che ho anni diciotto ho ancora se tu tieni coscienza se tu
hai cuore vieni dal mia zia a Napoli e venitemi ad onorare se poi non
credete fate come ti piace e ti prego di non dir niente ai miei
parenti di questa lettera vi saluto e sono tua

                                   Aff.ta
                                _Antonietta_.

                        *
                       * *

Questa lettera fu sequestrata presso una signora amica
dell'Antonietta. Essa doveva spedirla a quel tale. Come non gliela
spedi? Era scritta col lapis. Niente di più umano, di più _anima_, di
più _cuore_ di questa lettera scorretta e inelegante. È una cosa
splendida.

Ma certo il signor Potito, se l'avesse ricevuta, ne avrebbe riso coi
compagni, per gli orrori di grammatica. Un furiere è istruito.

                        *
                       * *

Ier l'altro la Canserano si precipitò dal terrazzo.

Oggi doveva arrivare il marinaio...



LE BEVITRICI DI SANGUE


Dalle sette e mezzo della mattina fino alle dieci la carneficina delle
vacche, al macello di Poggioreale, si compie tra uno strano
affollamento di bevitrici di sangue, dura tra i desideri sanguinosi
delle anemiche, delle clorotiche, delle povere fanciulle sbiancate in
faccia come la cera. Esse accostano alle pallide labbra il bicchiere
colmo di quello spumante _vin delle vene_ e bevono d'un fiato,
socchiusi gli occhi, la mano che leggermente trema. Intorno seguita la
strage, tra un continuo romore di battiture, di tonfi sordi, di catene
che si sciolgono, d'argani che rizzano i cadaveri ancor palpitanti
delle povere bestie. Dopo bevuto il caldo sangue spicciato dalle
carotidi incise, si passa in una stanzaccia nuda e sporca e lì si
sciacquano le coraggiose bocche femminili e le mani insanguinate. A
parte il bene che può fare questo rimedio novello, lo spettacolo è
orribile.

                        *
                       * *

Appena entrati nel macello, come il visitatore si va accostando allo
scannatoio, ode un rapido succedersi di colpi sordi, i quali danno la
precisa idea di una gran quantità di tappeti sciorinati e battuti da
servitori invisibili a un invisibile terrazzo. I tappeti sono cadaveri
ancor palpitanti di vitelli, di vacche, di bovi smisurati. I
carnefici, appena caduto l'animale sotto il coltello pugnale di questi
_toreadores_ del macello, cominciano a menar di gran colpi di mazze
sulle reni e sul ventre delle bestie, perchè la pelle se ne stacchi. E
mentre uno compie codesta bisogna, un altro si vale d'un mantice per
gonfiare l'animale, e un altro d'un lungo ferro tondo per frugar nelle
viscere. Il sangue scorre d'ogni parte e inonda il pavimento. I
garzoni s'accovacciano, radunano con le mani il sangue a pezzi già
quasi coagulato, riempiscono scodelle di ferro e queste rovesciano
nelle botti preparate in un angolo. Tutto questo è fatto con
grandissima rapidità, l'ammazzamento durando tutta la giornata e
dovendo i beccai sbarazzarsi in un giorno fin di ottocento animali.

Le vacche entrano malinconicamente nell'ammazzatoio. Piegano fino a
terra la testa. Annusano il sangue e si volgono intorno. Un primo
leggero fremito inconsciente increspa loro la pelle, gli occhi grandi
e dolci s'inumidiscono. Attaccate per le corna ai pali dei cavalletti
enormi, alle forche bruttate di sangue rappreso, continuano a
dondolare la testa inquieta, lasciando mescolare al sangue, per terra,
i fili argentei della bava, ond'hanno tutto umido il muso. Subitamente
un carnefice s'accosta: nascoso il pugnaletto nella destra, guardingo.
Leva la mano. Il pugnale s'abbassa, colpisce tra le corna, penetra,
rapidissimo, fin nel cervello, e riappare fumante. Il carnefice dà un
balzo, e si scosta. La vacca cade, fulminata. Una sola, breve
convulsione le agita le gambe, ed è tutto; è morta. La sua compagna si
agita, cerca di liberarsi, leva il capo, sbarra gli occhi, spaventata.
Ma cade anch'essa sotto l'orribile forca, accanto alla prima. Lì per
lì comincia la battitura, cominciano ad agire il soffietto, il ferro
tondo, il gran coltello sventratoio. Ma prima, appena l'animale piega
le gambe e si rovescia sul dosso, il fornisore di sangue, scalzo,
sguazzanti i piedi nel sangue, accosta alla viva fontanella il
bicchiere e, correndo, lo porta alla fanciulla anemica. E costei beve
d'un subito fino all'ultimo gocciolo, e le labbra e il mento le si
dipingono d'un rosso fortissimo, e le dita si sporcano, e gli anellini
luccicano tra il sangue gocciante.

                        *
                       * *

La gran parte di queste bevitrici si compone di un elemento assai
borghese. Sono modistine, sartine, fioriste e simili. Escono
dall'ammazzatoio con le punte delle scarpette, coi tomai alti,
macchiati. In Napoli l'anemia serpeggia un po' da per tutto: ora
pensate a queste povere ragazze che fanno una vita sedentaria, in un
laboratorio, coi lumi a gas d'inverno; pensate a queste giovanette
elegantemente vestite che a casa loro dormono in un miserabile
sottoscala, senza luce; pensate alle privazioni, alla mancanza
dell'aria, del sole, alla mancanza del cibo sano, della carne che
costa troppo, e vi spiegherete la mancanza dei globuli rossi.

                        *
                       * *

Ma guardatele, quando, nelle prime ore della mattina, queste fanciulle
del popolo attraversano Toledo, in cappellino lucente di conterie,
vestite come tante marchesine, le calze nere, di seta, lo stivalino
verniciato, la punta ricamata d'un moccichino che scappa fuori dalla
saccoccia in petto, la mantiglia sul braccio e l'ombrellino in mano.
Son quelle che ieri han bevuto, fortemente, il sangue vivo vivo. Ora
guardatele; hanno due soldi in tasca per la merenda, ma le labbra
carezzano il gambo d'un fiore, o sorridono deliziosamente a un
giovanotto cocchiere padronato, che sorride e minaccia con la frusta
elegante...



ALBA.


Un ometto sbucò a un tratto nella crocevia della Dogana. Fumava certo
suo mozzicone in punta alle labbra, passando la palma di una mano sul
cocuzzolo, e con il pollice e l'indice dell'altra acconciando
delicatamente sotto i mustacchi il mozzicone che certo gli diventava
una grande voluttà in agonia. Il cappello, dalle tese spianate, gli
veniva sugli occhi, e lui lasciava stare, benchè per levare il capo,
come faceva, a guardar in su alle finestre, al cielo, ai muri dei
palazzetti, si trovasse l'impiccio della tesa larga davanti agli
occhi. Pure andava guardando, con boccacce che certo nella smorfia
erano meraviglia e ammirazione. Quando lasciava il cocuzzolo, la mano
gesticolava, segnando in aria sagome indeterminate e linee verticali,
subito cancellate dal fumo di quel mozzicone, che sempre più si
raccorciava.

Di certo era qualche pittore mattiniero, che a un momento, cavati di
saccoccia un albo e la matita, si mise a sedere sul primo gradino
d'uno di quei palazzetti, e cominciò a sgorbiare sulla carta il
balconcello di Gennaro Auriemma, armiere, che in quel punto
schiacciava un bel sonno, senza mai poter supporre che ventura
toccasse ai poponi suoi, dei quali aveva fatta uno festo in giro alla
balaustra del balconcello, e che l'ometto ora contemplava attentamente
per metterli sulla carta, insieme alla grondaia, ai vasi di maggiorana
e ad una gabbia, ove una quaglia sonnecchiava.

Era la via così silenziosa a quell'ora che si sentiva bene un fruscìo
di una foglia secca su pei lastroni asciutti, mossa da una folata di
venticello. Era l'alba. Ma quei vicoli, le stradicciuole, la piazzetta
del Mercato ancora dormivano. Intanto saliva lentamente, dall'estremo
lembo del mare, un chiarore infocato di sole, e il riverbero ne
colorava dirimpetto le case su per la marina, mentre le vetrate
s'accendevano tra quella gran pennellata rosea, che di tutte le case
confondeva le linee bizzarre. In cima, altissima, una cupoletta
s'arrotondava sul cielo indeciso, tutta infiammata di verde, come uno
scarabeo di maiolica. Appena se ne vedeva la croce scura, sovrastante.

Dal mare in calma arrivavano rumori indeterminati, voci a stesa,
indefinibili. Poi, daccapo, si rifaceva il silenzio.

L'ometto era tutto affaccendato a copiare, e a poco a poco l'albo
s'andava coprendo di poponi e mazzi di pomidoro, mercanzia d'ogni
finestrella. Nella luce che sopravveniva, apparivano chiari e scuri
nuovi, mettendo lui in certe indecisioni che lo tenevano lungamente a
guardare e a mormorare, mentre l'albo rimaneva aperto sopra un
ginocchio e la punta della matita gli solleticava la cute, fra i
capelli.

--Oh! oh!--fece, a un tratto.

Adocchiava una tettoia, sotto la quale si ammonticchiavano bombole
d'acqua solfurea, accosto a una fontanella: un quadrettino. Rifece la
punta della matita, cercò una pagina bianca, e lì per lì cominciarono
a passare all'albo le bombole.

Le stradicciuole rimanevano deserte e silenziose. L'ometto tutto solo
e intento, in quella sua posizione di scimmietta, era strano. Poi gli
passò accosto un'altra cosa viva, un ratto, che pareva un micino,
tanto era grosso. Era uscito da una feritoia, guardando nella via con
gli occhietti lucenti. E come l'ometto si chinava a strofinare sul
selciato la matita per agguzzarla, la bestiola ricacciò dentro il
corpo nella feritoia. Si vedevano solo i mustacchi e il musetto.
Infine si fece coraggio, venne fuori e cercò rapidamente in un
monticello di sudiciume. La testina, che aveva movimenti veloci,
frugava in furia, levandosi dai rifiuti, dai torsoli, dalle bucce, a
guardare, sospettosamente. Infine, quand'ebbe finito, il ratto se ne
andò ripassando innanzi all'ometto. Lui non lo vide, e seguitò a
schizzar bombole in santa pace.

La penombra si diradava in fondo ai vicolucci; nel lontano appariva
chiaramente la tortuosità delle stradicciuole; si dileguavano panche e
carrettini abbandonati, e laggiù, ove addirittura il vicolo delle Fate
terminava, all'angolo, sulla cantina Maranese, un ramo fronzuto
s'affacciava, tutto verde, di sotto all'insegna.

Improvvisamente, nel vicolo, una finestretta si schiuse, senza rumore;
poi si schiuse una porta. Una donna sporse la testa, venne fuori, coi
piedi nudi nelle pantoffole usate, con una leggera sottana bianca, con
aperta la camicia sul petto, libero dal busto. Un giovanotto apparve,
tutto cauto, sbucando all'angolo, accosto alla cantina. Senza parlare
quei due, avvicinandosi, si guardavano negli occhi, ansiosi. Poi,
quando lui fu sotto alla porticella e le afferrò le mani, l'idillio,
in quell'alba fresca di agosto, fu provocante. Si parlavano così
accosto e sotto voce, che appena il sibilo di una consonante passava
nel silenzio. S'erano stretti l'uno all'altra; il berretto del
giovanotto cadde. Chinandosi egli a raccattarlo, non abbandonò la mano
che teneva stretta, e parve che, stringendosi meglio lui pure alla
ragazza, le chiedesse qualcosa.

In questo momento il piccolo pittore aveva finito e si levava. Vide
tutto... Mentr'egli rimaneva ancora a guardare, incantato, la bocca
aperta, un bacio scoccò sotto la porticella. Subito dopo la campanina
della parrocchia a Porta Nova suonò la prima messa....



               INDICE


    Al lettore                 Pag. 5
    Vulite 'o vasillo?          »   7
    Serafina                    »  19
    L'abbandonato               »  25
    Gli amici                   »  36
    Fortunata la fiorista       »  46
    L'amico Richter             »  54
    Senza vederlo               »  66
    La Regina di Mezzocannone   »  80
    L'impazzito per l'acqua     »  87
    Notte della Befana          »  94
    Scirocco                    » 103
    Suor Carmelina              » 116
    Documenti umani             » 126
    Le bevitrici di sangue      » 132
    Alba                        » 137





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