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Title: Tre Donne
Author: Sperani, Bruno, 1839-1923
Language: Italian
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digital material generously made available by Internet Archive
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Note: Images of the original pages are available through
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BRUNO SPERANI

TRE DONNE



MILANO

LIBRERIA EDITRICE GALLI
DI
C. CHIESA e F. GUINDANI

1891



Bergamo--Stab. Tipo-Litografico Bolis.



CAPITOLO I.

In Val Mis'cia.


Il sole era scomparso; una leggera nebbia si stendeva sulla terra fredda
e umida.

Oppressi da insolita tristezza, i contadini ritornavano dai campi in
silenzio.

Le donne, provenienti dallo stabilimento dove si lavorava la canapa,
formavano un gruppo nel quale era tutto un discorrere fitto e sommesso.
E spesso le parole erano rotte da singhiozzi, da gemiti.

Maria Scaramelli--moglie di Sandro Rampoldi il cavallante--giovine donna
di ventidue anni, diceva tra le lagrime:

--Pare che l'avesse in cuore, povera Giulia! Non ci voleva andare al
lavoro stamattina!... Le doleva il capo; aveva bisogno di stare in casa
a riposare qualche ora di più. Ma la sua cognata le rammentò ch'era di
turno alla macchina, che il padrone l'avrebbe mandata a chiamare, e in
tutte le maniere le sarebbe toccato di andarci; altrimenti sarebbe
cascata in multa, o avrebbe dovuto pagare una donna, che è poi lo
stesso. La si vestì di mala voglia e venne giù brontolando. Io
l'aspettavo come tutte le mattine per fare la strada insieme. Per tutta
la strada non fece che lamentarsi. Povera Giulia!... l'aveva in cuore,
povera figliuola!... Ringrazio il Signore che almeno non l'ho vista
quand'è cascata...

--Avete ragione di ringraziare il Signore--entrò a dire una anziana dal
viso scarno--Io invece l'ho proprio vista, e non me ne scorderò finchè
vivo. È successo tutto in un lampo, veh! Ecco: io stavo a lavorare al
mio solito posto, poco discosta dalla Giulia, ma con le spalle voltate.
La macchina faceva un rumore di casa del diavolo. Mi pareva che non
l'avesse mai fatto un fracasso così. Stavo per alzarmi e andare a
vedere. In quella, sento un urlo, che mi ha rimescolata...

--S'è sentito tutti!... esclamò un'altra vecchia facendosi il segno
della croce.

--Sì, ma io ch'ero là, l'ho sentito nelle viscere. E son saltata su
gridando: Giulia! O Giulia!... Ho subito pensato al grembiale pieno di
pane. Certo la macchina l'aveva pigliata per una cocca del grembiale!...
Mi son buttata avanti, con la speranza di fare qualche cosa, chiamando
aiuto con quanto fiato avevo... Gesù, mio!... Non sono arrivata che a
vederla un momento in faccia--che faccia!... Poi ho sentito un
altr'urlo, soffocato... Era già dentro!... E i due piedi in aria
facevano così così... Oh! chi non ha visto que' due piedi, non può
figurarsi l'orrore!...

Le donne ascoltavano agghiacciate.

Vi fu un silenzio.

Lo interruppe una ragazzetta che pareva indignata.

--Eh! se gli uomini fossero stati pronti a fermare la macchina, la si
salvava.

Le altre protestarono risolutamente.

--Ma che!... Ma che!...

Erano corsi subito, povera gente!

--Subito--confermò la vecchia.

Erano lì altre donne, le quali accennarono tristamente ch'era tutto
vero, che gli uomini avevan fatto di tutto per salvare la Giulia. Ma la
Cristina Scaramelli--sorella minore di Maria moglie di Sandro--si
rivoltò come un serpente, gridando che lei gli uomini non li aveva
visti; che d'altronde era ora di finirla con quella storia; che ne
avevano parlato tutto il santo giorno, e che lei non ne poteva più.
Qualche cosa aveva visto, pur troppo, ma appunto per questo non voleva
sentirne parlare. Voleva scordarsene! Loro ci trovavano gusto; ma lei
no. Lei non poteva vivere con quell'orrore davanti agli occhi.

E nel suo disgusto uscì in queste frasi:

--Voglio andarmene da questo posto! Non la voglio più fare questa
vitaccia, com'è vero che Dio mi sente!...

Le donne la guardarono stupefatte.

Alcune ghignarono perchè questa ribelle Cristina era un bel pezzo di
ragazza e i padroni le facevano l'occhio di triglia, e anche don Giorgio
Castellani, il giovine curato di Gel, la vedeva volontieri.

Ma la sorella di lei, la sposa Rampoldi, dolente e quasi offesa,
esclamò:

--Sei pazza?! Che vita vuoi fare, altro che lavorare?... I poveretti son
nati per questo. Anche il mio Sandro, ch'è stato via coi tedeschi e poi
coi piemontesi, dice che dappertutto è lo stesso.

--O lavorare, o... via! Non sta neppure bene di dirle certe parole.
Raccomandiamoci piuttosto al Signore, che ci tenga la sua santa mano sul
capo.

Le anziane approvarono gravemente e tutte s'affrettarono verso casa
senz'altro dire.

       *       *       *       *       *

La pianura lombarda ha pochi luoghi più miseri, più desolati di questo
mucchio di casette su una specie d'isolotto fra due corsi di acqua: la
Vergonza e la Mis'cia. I contadini danno a tutto questo lembo di terra
il nome di Val Mis'cia. Due ponticelli servono a chi ci va a piedi; ma
gli animali e i rotabili d'ogni genere devono passare a guado dove
l'acqua è più bassa. Quando la piena gonfia i fossi, non si passa più.
Val Mis'cia rimane come bloccato.

Per questo lo chiamano pure l'isola.

In fondo non è altro che un _cascinale_.

Niente chiesa, niente botteghe, neppure un forno per cuocere il pane.

I contadini e le loro donne, occupati da mattina a sera, hanno appena il
tempo di far la polenta, la minestra e qualche focaccia da cuocere sotto
la brace.

Un garzone di fornaio vi porta il pane regolarmente un paio di volte la
settimana, da Casorate o da Gel.

Fino a pochi anni sono, avevano il pregiudizio che i pomidori maturi
fossero cattivi; però s'affrettavano a mangiarli verdi, e appena rossi
li buttavano via, mentre avrebbero fatto tanto bene alle loro minestre
così malcondite.

Quella sera, rincasando, i contadini dell'isola ebbero una sorpresa poco
gradita: il garzone del fornaio s'era scordato di portare il pane.

Ciò accadeva qualche volta, se l'uomo era troppo stanco e aveva la
fortuna di esaurire il suo carico prima di giungere fino a quell'eremo.

La notizia circolò in un momento da una casupola all'altra.

--Siamo senza pane!

E i bambini tanto più strillavano:--Pane!... Pane!...

Ma gli animi erano così depressi che la cosa passò senza far rumore.

Qualche sorda imprecazione, qualche bestemmia smozzicata, bastarono a
sfogare la collera dei più malcontenti e affamati.

Si affrettarono a fare la polenta, maledicendo quella giornataccia da
cani.

                                 *
                                * *

In casa Rampoldi era pronta la minestra. L'aveva preparata la Virginia,
la moglie di Pietro, il fratello maggiore, che era contadino a podere e
aveva sempre una discreta scorta di riso, di fagiuoli e di lardo.

Appena accompagnate le bestie nella stalla e deposti gli arnesi del
lavoro, i due uomini si fecero intorno alla Virginia, una pallidona
delicata che non andava mai a lavorare in campagna, nè alla canapa. Essi
discorrevano con lei, come i contadini usano di rado con le donne;
mostrandosi gentili il più che potevano.

La minestra scodellata mandava un eccellente odore, e i due uomini
facevano alla brava massaia i soliti elogi di tutti i giorni, per cui
lei sorrideva di compiacenza.

Tutti sapevano che la minestra dei Rampoldi era la più buona: perchè la
Virginia, essendo stata a servire in casa di ricchi fittabili, se ne
intendeva di cucina. Ma si sapeva pure che i Rampoldi non pativano
miseria come gli altri. Erano due uomini forti che lavoravano per sei e
il podere lo facevano andare quasi senz'altro aiuto: specialmente dacchè
Sandro aveva sposata la Maria Scaramelli una sgobbona che se non
lavorava la terra, andava alla canapa; e quando ritornava a casa, a
giornata finita, si addossava le faccende più gravose, per risparmiare
la pallida cognatina incapace di faticare, lei, così gracile.

I maligni ghignavano di quella gracilità. Si sapeva bene che Sandro
l'aveva presa di malavoglia la figliuola di Marco Scaramelli, per
obbedienza al fratello maggiore che vedeva la necessità di avere in casa
una lavoratrice; e per non dargli sospetto. Del resto, come moglie non
la guardava neppure; anche questo si sapeva. Lei non era che l'asino di
casa Rampoldi: moglie era la Virginia, tanto dell'un fratello che
dell'altro, di Sandro come di Pietro. Se ne raccontavano d'ogni colore
sugli amori dei due cognati; e Maria, sposa legittima di Sandro, era
chiamata impunemente l'asino dei Rampoldi.

La sorella di lei, l'ardita Cristina, che di tali discorsi ne aveva
sentiti anche troppi, fremeva dentro di sè; ma non le bastava il cuore
di dire tutto quello che pensava alla sua sorella.

Tanto non sarebbe giovato; Maria non era donna da vendicarsi.

Seduti nella cucina semibuia, intorno alla vecchia tavola, i due
Rampoldi e la bella Virginia mangiavano la minestra e del buon pane che
Sandro aveva portato da Casorate, dov'era stato quel giorno nella sua
qualità di cavallante. E insieme al pane giallo egli aveva portato anche
un panino bianco, che la Virginia mangiucchiava a guisa di companatico
insieme a quello giallo. E mangiando parlottavano allegramente con la
bocca piena.

Secondo il solito, non s'erano dati pensiero di aspettare Maria che non
aveva ancora finito di portar l'acqua nella stalla ed in casa.

Quand'ella arrivò finalmente, dalla porta di dietro che menava all'orto
e alle stalle, gli altri s'erano già alzati, e di pane bianco non ce ne
era più sulla tavola; anzi neppure di quell'altro.

Ella non si mostrò nè stupita, nè offesa che non l'avessero aspettata.

Succedeva così tutti i giorni: c'era avvezza.

Prese la sua scodella e andò a mangiare sull'uscio di strada, come
sempre, perchè le piaceva di mangiare all'aria aperta e scambiare
qualche parola con quelli che passavano.

Mangiava adagio, senza appetito, il cuore oppresso come da un incubo.
Pensava all'orribile morte di quella povera Giulia; ma insieme alla
sanguinosa immagine, che non riesciva ad allontanare, le ritornavano le
amare parole della Cristina.

Sull'uscio dalla casupola da canto, apparve una vecchia mangiando un
pezzo di polenta. Era l'Annunziata Meroni.

Le due donne si salutarono; e Maria si staccò dalla sua abitazione per
avvicinarsi alla anziana.

--È per stasera il funerale?

--Si. Per farle un po' d'accompagnamento; nella giornata di domani
sarebbe impossibile.

--Verrà il curato?

--Non credo. Mi pare che ha mandato a dire che non poteva. Ci aspetterà
in chiesa. Ho visto il Tonio della Mora e l'altro becchino che andavano
a inchiodare la cassa... Vostro padre porterà la croce.

--Lo so. E la Cristina, mia sorella, l'avete vista?

--Era qui ora. È andata a farsi un po' di polenta.

Maria sospirò, ma non disse nulla. Pensava che avrebbe potuto prenderla
con sè la sua sorella, nella casa del marito, se la non fosse stata
tanto scontrosa e difficile.

--Se mia sorella fosse come me--disse dopo un momento di silenzio--non
avrebbe bisogno di stare sola.

--Oh! è meglio così. Vostra sorella somiglia a vostro padre; mentre voi
siete come la vostra povera mamma.

--Cosa volete dire?

--Voglio dire che siete troppo buona. E poi, avete sentito? vostra
sorella Cristina è stufa di questa vitaccia di contadina.

--Oh!... Cosa volete che faccia?

--Manca cose! Può andare anche a Gel a servire il curato.

Maria arrossì fino alla radice dei capelli.

--Al curato gli basta nostro padre per servirlo.

--Potrebbe mandarlo via per fare posto alla figliuola.

--Oh! Nunziata, non dite questo!... Mia sorella è una ragazza per bene.
Siamo figliuole della stessa madre, sapete!

--So bene; ma lei dice sempre che voi siete una sgobbona; una...
scusate veh?... dice che siete una stupida, che fate la serva a quella
smorfiosa di vostra cognata.

--La serva no. Sono in casa mia come lei. Lavoro di più perchè son forte
e sana, grazie a Dio; mentre lei ch'è pochina pochina, s'ammala per
nulla...

--Un bel comodo ammalarsi quando si vuole!

Ferita da questa ironia la moglie di Sandro tacque un istante e
trangugiò alcune cucchiaiate di minestra, ciò che le permise di stare un
poco voltata nascondendo la faccia.

La sua figura si disegnava mollemente nella luce grigia del crepuscolo.
Era una bella contadina, alta, dalle spalle larghe, dalle braccia solide
quanto quelle di un uomo, ma belle, tonde e grassoccie. Il viso
regolare, freschissimo, sebbene già un po' abbronzato dal sole e dalle
intemperie, aveva una espressione dolce, in cui la bontà appariva
serenamente mista alla forza.

La vecchia, che sempre la guardava, riprese:

--È tutto dire che Sandro con quella testa d'avvocato, e la religione
che ha, non sappia far rispettare la sua donna...

Maria si voltò di scatto.

--Cosa volete che faccia? S'ha a litigare?... S'ha da spartirsi? Uhm! Un
bell'affare! Stando tutti uniti si va là: ma se noi si volesse
spartirsi, il podere resterebbe a Pietro... la roba di casa sarebbe
pochina, a farne due parti... Si andrebbe a star peggio dimolto. E poi,
la discordia in famiglia... Come si fa? Sicuro che io lavoro tanto; ma
dal momento che il lavoro c'è, bisogna farlo. Lavoravo anche a casa mia
del resto. E Sandro non lavora forse?...

--Oh! per questo nessuno dice nulla. Dico soltanto che vostra cognata fa
la signora, mentre voi portate il basto...

A questa insinuazione maligna, Maria impallidì. Più di una volta le era
capitato di sorprendere certi sorrisi, certe mezze frasi, il cui senso
al primo udire le era rimasto oscuro. L'asino dei Rampoldi! L'aveva
sentito dire una sera al figliuolo della Menica, e lei aveva creduto che
parlasse veramente del loro asino... Ma il ragazzo aveva riso in un
certo modo!... E ora la vecchia Nunziata le diceva che lei portava il
basto. Era un insulto dunque? Volevano forse significare che lei non
contava per niente in casa di suo marito, che era la sgobbona e nulla
altro? Strinse forte i denti e scrollò la testa bruna e poderosa.

--Sentite Nunziata, perchè dite che io porto il basto? Cosa vuol dir
questo?

--O Dio! Non andate in furia! È così per dire che voi lavorate troppo,
che siete troppo buona...

--Troppo buona, troppo buona... Non so perchè non dovrei esser buona.
Quando la mia mamma si è sentita morire, la mi ha raccomandato d'essere
sempre buona e di fare il mio dovere in tutte le maniere: io faccio
quello che mi ha detto lei. Ero appena sposa quando l'è morta, vi
ricordate?

--Eh! altro che ricordarmi. È stata lei che ve l'ha fatto prendere il
vostro Sandro. Voi non ci pensavate neppure...

--È vero. È stata lei. Mi ha detto che era un galantuomo, un lavoratore,
un uomo che andava piuttosto in chiesa che all'osteria.... Cosa potevo
sperare di meglio, poveretta come ero?... Tuttavia avrei detto di no...
perchè mi dava troppa soggezione con quell'aria... Ma quando la mia
mamma ha insistito, non ho più saputo cosa dire; ho lasciato che facesse
lei. E ora che l'ho sposato, vedo che è proprio un galantuomo, che
all'osteria non ci va mai, e lavora sempre. In giornata non se ne
trovano tanti degli uomini come i Rampoldi. Per questo se mi lamentassi
sarei una cattiva donna. Quanto a farmi dei complimenti... lui non c'è
tagliato, quantunque sia stato fuori e abbia visto il mondo. D'altronde,
lui ha i suoi trentasei anni, e certi fumi gli son passati... Per me
poi, mi vergognerei di pensarci. Son contenta così; e contenta io,
contenti tutti.

--Siete una brava donna--sentenziò la Meroni.--A proposito, potreste
prestarmi un mezzo pane? Ve lo restituirei domani mattina...

--Pane?! Se siamo rimasti tutti senza!... Io non ne ho mangiato... non
ne ho neppur visto...

--Come!... Vostro marito è stato a Casorate col padrone; non ne ha
portato?... Mi pareva d'avergli visto una _micca_ di pane bianco...

--Ma che! Via, diciamo l'_Angelus_ piuttosto; suona l'_Ave Maria_ a
Gel.

S'inginocchiarono sullo scalino dell'uscio.

--Il padre della Giulia!...--mormorò la Annunziata dando nel gomito alla
sua vicina.

E tutt'e due fissarono gli occhi sbigottiti nel vecchio Melica lungo e
pallido come un fantasma, che passava di là col cappello in mano,
pregando e piangendo, tutto assorto nel proprio dolore.

Finita la breve preghiera, Maria salutò la vecchia e s'allontanò perchè
voleva far presto a sbrigare le poche faccende e andare anche lei a Gel
con la morta.

La Nunziata restò un momento sull'uscio a guardarle dietro; e fra sè
pensava:

--La ci deve avere il suo interesse per fingere di non capire. Basta!
Chi si contenta gode.



CAPITOLO II.

L'asino dei Rampoldi.


La grande cucina dei Rampoldi era quasi tutta immersa nell'oscurità.

Sul camino basso e ampio, alla fratesca, circondato di panche, un
focherello di legna verde mandava molto fumo e pochi bagliori di fiamma.

Appena entrata, Maria andò istintivamente con lo sguardo a quel po' di
luce della fiamma e restò come impietrita.

Sulla panca davanti, voltando le spalle a chi entrava, Sandro e la
Virginia sedevano vicinissimi, tanto vicini che parevano stretti in un
amplesso.

Egli le aveva passato un braccio attorno la vita; e lei gli posava la
testa sulla spalla. Forse si erano baciati in quel momento.

Maria ebbe una sensazione di stroncamento in tutte le ossa, e un gelo di
morte la fece rabbrividire.

Non gridò, non si mosse, paralizzata dal raccapriccio.

Come aveva fatto comprendere alla Nunziata, ella non aveva mai amato
Sandro di un grande amore; certo non sapeva neppure cosa volesse dire
amare appassionatamente; epperò non il dolore disperato, non l'angoscia
gelosa la annichilivano in quella guisa; bensì un vero terrore; il
terrore di un'anima che si sente divellere dalla sua fede e precipitare
nel nulla. Avrebbe voluto fuggire: e con la vita stessa avrebbe pagata
la grazia di non vedere; per quel medesimo sentimento che, qualche ora
innanzi, parlando della Giulia, l'aveva fatta prorompere in quelle
parole: ringrazio il Signore che almeno non l'ho vista!

Ma non poteva staccare i piedi dal suolo.

Tremava tutta. E la scodella col cucchiaio che teneva in mano,
producevano, sbatacchiandosi, un rumore secco, per cui gli altri due si
voltarono.

--Oh! finalmente siete qui!--esclamò la Virginia balzando in piedi con
un fare semplice e naturale:--Dove siete stata? Avete visto Pietro?...

Maria non rispose. La commozione era troppo grande in lei perchè potesse
nasconderla così subito.

D'altra parte una nuova lotta sorgeva ora nell'animo suo, fra
l'indignazione esasperata da quella sfacciata ipocrisia, e un desiderio
violento fino allo spasimo, di negar fede ai suoi propri occhi.

--Non l'avete visto?

--No--balbettò con voce sorda la moglie di Sandro.

--Ho capito. Sarà andato a dormire nel fenile. Era tanto stanco! Anche
noi ci siamo appisolati qua al tepido; e si cascava uno addosso
all'altro, come sacchi vuoti. E sì che, grazie al Signore, abbiamo
mangiato.

Fece una risatina che morì fredda fredda.

Sandro s'alzò e accese un lume. Era impacciato e non poteva parlare.

Maria si mise a lavare le stoviglie e quando il marito le si accostò,
facendo uno sforzo per domandarle se andava col funerale, ella credette
di scorgere in lui una certa ansietà e le parve che la guardasse fisso
per capire se aveva visto.

Allora lei si sentì arrossire e chinò la fronte. Provava un senso acuto
di vergogna, come se la colpa fosse stata sua.

Era fatta così.

Sandro uscì mormorando un «ci vedremo laggiù» e le due donne restarono
sole.

Sempre in silenzio, Maria continuava le sue faccende affrettandosi
perchè la compagnia della cognata le pesava in quel momento come una
macina sul cuore.

Ma la Virginia s'irritò di quel silenzio. Lei avrebbe preferito un
bisticcio, pur di sapere ciò che l'altra pensava. Epperò cercava di
farla parlare, provocandola con la sua solita petulanza.

Quand'ebbe finito di dar ordine, Maria si asciugò le mani e, rimessosi
il fazzoletto in capo, s'apprestò ad uscire.

--Dove andate?--gridò la Virginia esasperata.--Perchè non parlate?...
Che vi si è fatto?... Sorniona!...

A quest'attacco la moglie di Sandro si voltò e mostrò una faccia così
corrucciata, che la provocatrice rimase interdetta.

Ma ora l'offesa non poteva più contenersi. Si gettò con impeto sulla
nemica; le afferrò i polsi con le sue dita di lavoratrice, vere morse di
ferro; e spingendola contro il muro, la inchiodò lì, gridandole con lo
strozzamento della collera:

--Vergognati!... Vergognati!...

Poi, tutto a un tratto, ripresa dall'intimo orrore che quella donna le
ispirava, la lasciò stare e uscì senza voltarsi.

                                 *
                                * *

La notte era cupa e diaccia.

Il mucchio di casupole pareva addormentato. Ma al di là si sentiva un
bisbiglio di voci confuse che s'allontanavano. Qualche lumicino
vagolava per le viottole.

Maria fece alcuni passi a caso senza veder nulla, brancolando nelle
tenebre. Non sentiva il freddo acuto. L'aria diaccia recava appena un
poco di refrigerio alla sua testa in fiamme. Non pensava.

Ingenua e rozza non poteva fare riflessioni nè analisi su quello che le
accadeva. Ma nell'animo istintivamente gentile e fiducioso, ella
sentiva, così in confuso, che tutto crollava in lei; che tutto stava per
cadere, nella sua vita, e si disfaceva. Provava la sensazione indefinita
di precipitare nell'abisso. Nel medesimo tempo quel senso acuto di
vergogna e ribrezzo che l'aveva oppressa fin dal primo istante
continuava a farla fremere e rabbrividire.

Ora capiva tutto il significato delle amare parole: l'asino dei
Rampoldi!... Già, lei era l'asino. Doveva essere un amore vecchio quello
di Sandro e Virginia. Che sudiciona, un cognato!... E lei non s'era
accorta di nulla in dieci mesi; che bestia!... Ed ora si ricordava
improvvisamente di tante e tante circostanze che avrebbero dovuto
spiegarle ogni cosa. Ma lei credeva che suo marito fosse un galantuomo,
un uomo religioso... che non avesse grilli per il capo!...

Qualcuno la chiamò.

Mandò un urlo.

--Eh! Sei pazza di gridare così, o Maria!... Non m'avevi riconosciuta?

--... No!...

--Ti senti male?... Hai una voce!... Oh! caschi, perdio!...

Maria vacillava: ma cercò di irrigidirsi.

--Non è nulla... Ho pianto troppo.

--Cosa t'hanno fatto?...

Cristina, a giorno della tresca e sempre in sospetto di qualche scoppio,
intuiva tutta la verità.

Maria lo comprese e sentì che doveva mentire: però disse con voce
abbastanza ferma:

--A me? nulla. Per la povera Giulia, eh!

--La Giulia non soffre più... Ma se vuoi che andiamo al funerale bisogna
far presto.

--Son già partiti?...

--Sì, guarda laggiù. Andiamo per di qua: li raggiungeremo in un momento.

Presero per una scorciatoia traverso i campi.

Una blanda luce si diffondeva nell'aria caliginosa. Si sentiva lo
stropiccìo dei piedi nella polvere e il salmodiar delle preci mortuarie.
Una voce grave aveva intonate le litanie dei Santi, e tutti gli uomini e
le donne rispondevano in coro:

--_Ora pro ea!_

--_Ora pro ea!_

Le voci forti e le voci esili si sposavano in una semplice armonia, che
l'aria della notte portava lontano nel silenzio lugubre della campagna
autunnale.

Le due sorelle arrivarono in pochi minuti su la strada percorsa dal
funerale.

Un misero funerale! Davanti camminava un ragazzo con una lanterna; poi
veniva il vecchio Scaramelli con la croce; indi la bara portata a spalla
da quattro giovinotti e a mala pena coperta da un cencio nero, senza
fiori, nè altro ornamento.

Le donne e gli uomini che la seguivano andavano un po' alla rinfusa, e
di tratto in tratto qualcuno rischiarava la strada con una candeletta,
una lanterna o un fanale.

La prima persona su cui si fermò lo sguardo di Maria fu appunto Sandro
che se n'andava a testa alta, pregando con una sorta di slancio.

Era un bell'uomo il cavallante Rampoldi; un bel soldato; e l'aria
soldatesca, il portamento svelto, lo distinguevano tra tutti i suoi
compagni.

Per la prima volta dacchè lo conosceva, Maria fu colpita da quella
relativa distinzione, da quella maschia bellezza; e per la prima volta
sentì che sarebbe stata molto felice se, invece di essere così freddo,
egli le avesse dimostrato un po' di quella tenerezza che germogliava
adesso, nel povero cuore di lei, al posto della collera e del disgusto.

Sotto il dominio del nuovo sentimento che la faceva più intensamente
soffrire, rimaneva immobile, sul ciglio della strada, gli occhi fissi in
quell'uomo, che era suo marito, e non le apparteneva più di un
estraneo.

--Che fai? le gridò la Cristina vedendo che non si moveva. Vieni qui con
noi!...

Come un automa ella si lasciò trascinare e entrò nella fila
singhiozzando.



CAPITOLO III.

Primavera.


I contadini lavoravano accanitamente dall'alba al tramonto. Si erano
messi in testa di terminare i lavori per la seminagione del grano turco,
prima delle feste. Anche il fieno, quel prezioso fieno d'aprile, doveva
esser falciato e raccolto. La settimana santa avrebbe portati via i suoi
tre giorni buoni alle donne, tra le funzioni, le divozioni e la pulizia
delle case. E gli uomini pure ambivano di essere liberi per dedicare
qualche ora al piccolo orto domestico e per altre faccende minori.
Bisognava affrettarsi dunque, tanto più che quell'anno tutto era andato
bene e il bel tempo durava da un pezzo. Le pioggie sarebbero arrivate
nel momento più propizio, se il grano era seminato e il fieno messo
sotto coperto. Ma certi nuvoli, certi buffi di vento le annunciavano
vicine. Presto dunque, presto! E i falciatori affilavano le loro grandi
falci lucenti come specchi, e le donne allargavano il fieno coi
rastrelli di legno cantando allegramente, nell'eccitante profumo della
menta, del timo, delle primavere, delle campanelline rosate, di tutta la
infinita famiglia delle erbe odoranti.

Nei campi destinati al melgone, gli aratri andavano su e giù lungo i
solchi, squarciando il seno alla terra nera, calda, bramosa di
fecondazione.

I bifolchi e i cavallanti camminavano al passo presso alle loro bestie,
esortandole di tratto in tratto con le voci famigliari a cui esse
obbediscono.

Tutta Val Mis'cia era in moto. I fratelli Rampoldi dirigevano i lavori.
Pietro che aveva sempre fatto il bifolco ed era il contadino del più
grosso podere, guidava talvolta i bovi mentre Sandro conduceva i
cavalli.

Ma Pietro era dappertutto. Appena un campo era finito di arare, egli si
legava alla cintola la grande tasca ricolma e gettava a manate piene i
bei chicchi d'oro nella terra squarciata.

Anche Sandro faceva un po' di tutto: mentre un altro contadino guidava
per altri campi l'aratro tirato dai bovi, egli attaccava i suoi cavalli
all'erpice e li faceva passare sulla terra seminata. E dopo l'erpice
attaccava sotto il poderoso cilindro che spiana la superfice e rende il
campo tutto pari e liscio come un letto da sposa.

Che vertigine di lavoro, che attività, che animazione su tutta la
pianura!

La speranza, che l'autunno avrebbe facilmente delusa, aleggiava intorno
alle fronti curve dei lavoratori.

L'annata si era messa così bene!...

E sotto ai raggi dorati del sole di aprile, sott'al cielo bianco
lattiginoso che ha un carattere così umano in confronto ai cieli
metallici dei paesi meridionali, la misteriosa giocondità della Pasqua
s'insinuava blandamente negli animi semplici dei poveri contadini.

                                 *
                                * *

I grandi lavori si trovarono compiti la sera del martedì santo, come i
fratelli Rampoldi avevano preveduto.

La giornata del mercoledì fu occupata dagli uomini a dare un'ultima
voltata al fieno per metterlo sotto coperto, la stessa sera. Le nuvole
minacciose si addensavano all'orizzonte: la notte non sarebbe passata
senza un acquazzone; forse un temporale. Le donne intanto percorrevano i
campi testè seminati, affinchè neppure un grano di semente andasse
perduto. Armate di un lungo bastone ferrato, esse facevano un buco in
terra appena scorgevano un granello sfuggito all'azione dell'erpice e
del cilindro, e prestamente lo cacciavano sotto.

Maria Scaramelli, la brava moglie di Sandro Rampoldi, valeva tant'oro
per quest'operazione. Il suo occhio esperto distingueva subito il
piccolo chicco giallo, e la sua mano sicura lo faceva sparire nello
stesso momento.

Ma ella non era così attenta quel giorno. Già più di una volta aveva
dovuto tornare indietro per ricuperare dei grani dimenticati: e di
tratto in tratto parea che s'abbandonasse come spossata sul bastone
confitto in terra.

I suoi occhi non vedevano le cose esteriori, assorti in una dolorosa
contemplazione interna.

Cristina Scaramelli e Nunziata Meroni, la vecchia dal viso giallo e
scarno, guardavano quella afflitta, dal campo vicino, traverso al filare
ancora senza foglie.

--Non pare più lei!--mormorò la Cristina soffocando un sospiro.

--Dopo la disgrazia della povera Giulia, la non s'è più rimessa!

--La povera Giulia?... Eh, si! le voleva un gran bene; ma se non fosse
il resto... non sarebbe in quello stato!

La vecchia strizzò gli occhi; poi, mentre puntava il bastone per cacciar
sotto due grani, mormorò:

--Al resto... lei non ci crede.

--Altro che crederci!...

--Allora non si fida di me. Una sera, la sera del trasporto della
Giulia, entrai a parlarle della sua cognata e di quello che lei doveva
patire in casa. Non parlavo per curiosità, chè non son mai stata curiosa
io, lo sapete. Nè per malizia. Che m'importa mai a me della Virginia e
de' suoi pasticci?... Parlavo così, per amicizia verso Maria e perchè la
si potesse sfogare con qualcheduno; chè, chi non si sfoga scoppia.
Ebbene! La mi si rivoltò tutta d'un pezzo, come una furia!... Se
l'aveste vista. Per poco la non mi diede della bugiarda.

Cristina stette un momento sopra pensiero, poi disse:

--Allora la non sapeva ancor nulla. Ma quella stessa sera ci fu una
scena che deve averle aperti gli occhi. Poi si chetò, non so come, si
rassegnò, e chiuse ogni cosa in sè. È una santa vi dico, fossi io al suo
posto vedrebbero!...

--E avreste ragione. Chi si fa pecora il lupo lo mangia.

--Eh, sì. Ma chi è nato pecora, però, non può far da lupo. Lei è così. È
una malattia come un'altra. Vuole un bene dell'anima al suo Sandro e
non osa dirgli una parola. Tace per paura di disgustarlo; e sopporta le
angherie di quell'altra.

La Nunziata alzò la spalle e ripensò senza esporsi: «Ci avrà il suo
interesse!»

Dopo una pausa Cristina riprese:

--State attenta al mezzogiorno: quando la Virginia porta il mangiare
agli uomini. Vedrete che faccia farà la mia povera sorella, e capirete
da voi quanto soffre quell'anima.

       *       *       *       *       *

Poco prima di mezzogiorno, la moglie di Sandro avendo continuato a
lavorare con quell'aria di stanchezza e di smarrimento, come una
sonnambula, si trovò giunta in proda al campo presso al ciglione che
sovrastava al fossatello coronato da un filare di salci e pioppi. Invece
di risalire il campo e continuare il lavoro, ella salì sull'arginello e
si mise a camminare nella viottolina lungo il filare, finchè si trovò
davanti a un appezzamento tenuto a prato. Qui si fermò, e facendosi
solecchio con le mani, guardò attentamente in fondo alla grande marcita
dove gli uomini rimovevano il fieno stendendolo bene perchè pigliasse
tutto quel bel sole di mezzogiorno.

Saliva fino a lei nell'aria calda il profumo delle erbe giovani
recentemente falciate; e lei aspirava quelle voluttuose esalazioni,
mentre il suo cuore si struggeva in uno spasimo d'amore e di gelosia.

Cercava con l'occhio ansioso il suo Sandro. Dov'era?... perchè non
riesciva a discernerlo? Nessun lavoratore era come lui alto; nessuno
aveva il personale svelto e maestoso per cui egli faceva così bella
figura quando andava in città guidando la pariglia del legno padronale.

Mezzogiorno suonava alla chiesa di Gel!... Ah! egli era andato incontro
alla Virginia che portava il mangiare agli uomini!...

Non si stancava mai di vederla, di starle appresso; non ne aveva mai
abbastanza di quell'amore!...

Maria si sentì gelare improvvisamente. Li aveva scorti.

Camminavano adagio uno accanto all'altro sulla viottola larga che
formava il margine di un altro campo al di là del fosso in fondo al
prato. Sandro aveva presa la marmitta di mano alla cognata per
risparmiarle fatica, e questa sorrideva beatamente.

Oh! anima dannata! anima dannata!...

Ora varcavano il ponticello, si fermavano sull'argine al rezzo.

Gli uomini deponevano i rastrelli e le forche ridendo in pelle. E quel
minchione di Pietro non s'addava di nulla. O marito ciuco!

Vinta dall'ira Maria picchiò un colpo col bastone ferrato sulla terra
indurita della viottola. Questo rumore la fece trasalire.

Ebbe paura di essersi fatta scorgere dalle compagne. Si voltò
timidamente e vide infatti che sedevano sul margine fra due campi
mangiando il boccone del mezzogiorno. Tutte guardavano a lei.

--Vieni qui--le gridò la Cristina--vieni a mangiare con noi!

Maria si raccolse un momento; si passò una mano su gli occhi; crollò la
testa. Finalmente si mosse e adagio adagio si avvicinò al gruppo delle
donne, sedette presso alla sorella e non fiatò.

Pensava confusamente, con una sorta di superstizioso terrore, a quello
che aveva veduto, e che si ripeteva tutti i giorni: pensava alla sua
misera sorte.

Sarebbe stato sempre così?... Sempre... finchè lei sarebbe morta di
crepacuore?... La Virginia s'era fatta più superba che mai dacchè la
disgraziata Maria aveva scoperta la tresca; e la rimproverava per ogni
cosa e giungeva fino a minacciarla. Pietro la guardava di traverso; e
Sandro non le parlava neppure. Quando gli altri le erano addosso con
gl'improperii, come se non avesse fatto il suo dovere, mentre non si
riposava mai, Sandro taceva o andava fuori di casa. E la Virginia sempre
seduta al camino, o sulla porta della cucina, non faceva che comandare:
e vestiva quasi come una signora, col grembiale sempre nuovo e il
fazzoletto di fulard; mentre la povera sgobbona tremava quando aveva
consumato un paio di zoccoli e doveva chiederne un paio nuovo!...

Sarebbe stato sempre così, sempre... Ci doveva essere di mezzo qualche
stregoneria... qualche vecchiaccia le aveva dato il cattivo occhio...

Forse la Meroni... forse...

                                 *
                                * *

Con questi pensieri, cercando nel buio della memoria un fatto, una data
che le sfuggiva, Maria rimaneva intontita, ripetendo mentalmente le
stesse parole. Le donne intanto parlottavano della vicina Pasqua, delle
funzioni, della confessione, della pulizia delle case...

--Ne sentirà delle belle don Giorgio!--esclamò una giovane contadina dal
viso rotondo ammiccando furbescamente. È il prim'anno che si trova a
questi ferri.

Ma la vecchia Meroni ribattè subito con la sua solita malignità:

--Peuh! non pare uno da scandalizzarsi! Che ne dite voi Cristina?

La Cristina fece una grande risata canzonatoria:

--O che credete che le venga a dire a me queste cose?

--Quando comincerà a confessare?--domandò la Menica, povera donna,
consumata dalle febbri, che non aveva punto memoria per le cose di
chiesa.

--Stasera dopo gli uffizi, come tutti gli anni--riprese Cristina con la
sua aria di donna franca.--Domattina dalle cinque alle nove aspetterà
gli uomini in sagrestia. Poi dirà messa e comunicherà. Vengono due preti
da Casorate, don Bortolo e un altro; epperò il mio vecchio brontolava
perchè gli è toccato preparare le camere.

--Avrà molto da fare vostro padre questi giorni.

--Sì, ma lui non si scalmana.

--E non confesserà più don Giorgio dopo questa sera e
domattina?--domandò una ragazzetta dalla faccia rigonfia.

--Confesserà venerdì e sabato tutti quelli che vogliono comunicarsi il
giorno di Pasqua.

Maria ascoltava questi discorsi, prima distrattamente, poi con più
attenzione; e un lavorìo nuovo occupava il suo cervello.

Sandro viveva in peccato mortale... Come avrebbe fatto con la Pasqua? Si
sarebbe confessato, pentito?... Oh! volesse Iddio!... E se taceva
invece?... Se commetteva un sacrilegio... se si dannava per
l'eternità?!...

Rabbrividiva a questo pensiero; e un freddo sudore le inumidiva i
capelli.

La speranza tornava a rianimarla con un suggerimento.

Forse don Giorgio poteva fare qualche cosa per lei, e salvare
un'anima... due... chè lei pure si dannava a quella vita!... Ma se
Sandro taceva il suo peccato, cosa poteva fare don Giorgio? Nulla...
nulla...

Sbigottita come davanti a un abisso pronto a inghiottirla, ella chinava
il capo, schiacciata... Ma la tenace speranza non s'arrendeva. Forse don
Giorgio sapeva di quella tresca... ne parlavano talmente tutti!... E,
sapendo, avrebbe interrogato il suo penitente, l'avrebbe messo al muro.
E Sandro, così interrogato, non avrebbe osato negare... E se don
Giorgio voleva gli avrebbe toccato il cuore... Sandro era buono,
religioso... E sarebbe tornato a lei, e sarebbero andati a lavorare
lontano lontano, in un altro paese... magari in America!... Lei era
pronta a tutto...

Sì, ma se don Giorgio non sapeva, o se non se ne ricordava in quel
momento, e Sandro commetteva il sacrilegio?!...

Tornò a impallidire, a tremare.

Bisognava prevenire don Giorgio. Questo era il solo mezzo. Lei non
avrebbe osato; ma la Cristina poteva farlo: la Cristina sapeva parlare e
don Giorgio l'avrebbe ascoltata.

Improvvisamente balzò in piedi:

--È ora di rimetterci a lavorare! Bisogna far presto... se vogliamo
finire a tempo per andare in chiesa!

Tutte si alzarono e la vecchia Meroni osservò seriamente che era sempre
meglio prendere la Pasqua il giovedì santo, chè gli ultimi giorni non si
poteva avere la testa al Signore perchè c'era la casa da ripulire e
mille cose da pensare.

Maria riprese il bastone che aveva lasciato cadere, e andò al lavoro con
nuovo slancio, come nei bei giorni della sua massima attività.

Stupefatte di quella improvvisa trasformazione, le compagne se
l'additavano in silenzio.



CAPITOLO IV.

In Confessione.


Era il giovedì santo.

I drappi neri e la cotonina nera, sbiadita dal lungo uso, gettavano
ombre livide nella chiesuola, di solito così piena di luce, di aria e di
campestre gaiezza.

Fuori, la campagna risplendeva: gl'insetti ronzavano; i passeri annidati
sotto il cornicione della chiesa cinguettavano allegramente; e le
rondini appena arrivate dai lidi lontani, parea che avessero mille cose
da raccontarsi; mille osservazioni curiose da comunicare l'una
all'altra.

Anche nella chiesa era un bisbiglio sommesso, un biascicamento di
orazioni miste a sospiri. Le donne che si erano confessate la sera
innanzi aspettavano l'ora della comunione.

Alcuni chierici finivano di adornare il sepolcro nella cappella
laterale. In sagrestia, altri chierici si vestivano, preparavano gli
oggetti per la prossima funzione, insieme a due pretonzoli venuti da un
paese vicino per aiutare don Giorgio e buscarsi qualche soldo.

Nell'angolo più appartato, don Giorgio in cotta bianca e stola ricamata
sopra la lunga veste nera, finiva di confessare gli uomini. Da due ore
egli stava lì seduto, quasi immobile, nella luce tediosa di quella
stanzuccia, nell'aria grave per tanti fiati misti al puzzo di moccolaia.

Una invincibile uggia abbatteva i suoi nervi; e il viso giovine, ancora
fresco, dai lineamenti regolarissimi, appariva stirato, affranto: con
dei lividori sotto ai piccoli occhi grigi, affondati, e intorno alla
bocca tumida, sensuale. Alcune rughe precoci gli solcavano la fronte
bianca; e la mano affilata, s'agitava per un moto nervoso nella
schiacciante inoperosità. Nei movimenti del capo, il marchio
sacerdotale luccicava come un disco d'avorio tra i folti capelli neri,
nella luce filata che scendeva dalle alte finestre.

Di tratto in tratto, dopo di avere lungamente ascoltato, pronunciando
appena le parole indispensabili, don Giorgio pareva preso da un grande
interesse e si metteva a parlare con benevola effusione, curvandosi un
poco sul penitente inginocchiato ai suoi piedi. Era la sua una eloquenza
semplice e calda, alla portata di chi l'ascoltava: ispirata a una grande
pietà. Dal pergamo o in confessione, le sue parole esprimevano quasi
sempre un conforto, raramente un rimprovero. Ma egli sentiva l'inutilità
del suo ardore; e una stanchezza mortale, uno sfiduciamento scettico
s'impadronivano di tutto il suo essere, malgrado gli sforzi della
volontà.

Nato in campagna, dotato di un corpo robusto, ricco di una esuberante
giovinezza, don Giorgio soffriva specialmente della inoperosità
materiale. Felice quando poteva maneggiare la zappa e la vanga nell'orto
del presbitero; quando i doveri del suo stato lo portavano nel crudo
inverno, o nella cocente estate, da una cascina all'altra, di paesello
in paesello; per la campagna gelata o sotto al sole ardente. L'aria
tepida della chiesa, impregnata d'incenso e di esalazioni umane, lo
sfibrava. Aveva languori strani; subitanei incitamenti. Volta a volta,
gli pareva che il sangue gli s'arrestasse nelle vene spegnendogli ogni
forza, ogni vita; mentre l'istante appresso era un torrente precipitoso
che minacciava di straripare.

Nessuno più adatto di questo prete per comprendere i difetti e i bisogni
dei contadini; ma nessuno più convinto di lui, che a mettersi in testa
di correggerli e di migliorarli, avrebbe perso tempo e fatica.

--Troppa miseria!--soleva dire scrollando le larghe spalle--e troppo
densa, inveterata ignoranza!

Egli faceva tuttavia quanto poteva fare, chè la pietà rimaneva ardente
in fondo al suo cuore.

I contadini, senza comprenderlo, gli volevano bene; e se scoprivano in
lui qualche debolezza, la coprivano con la stessa indulgenza di cui egli
era così largo verso di loro.

Da parecchi mesi, forse fin dalle prime settimane che l'avevano mandato
a quella cura, nel maggio dell'anno avanti, la grande debolezza di don
Giorgio Castellani era la Cristina Scaramelli, quella bella ragazza
ardita e franca, capace di sentimenti e d'intuizioni superiori al suo
stato. Per amore di lei, egli s'era preso al servizio il vecchio Marco,
gran fannullone, capace di votargli la cantina piuttosto che badare alla
casa e all'orto. Ma la Cristina andava di tratto in tratto a dare una
mano al vecchio ubbriacone, e il giovane curato aveva il piacere di
vederla. Non una parola, però, aveva rivelato l'ardore segreto; neppure
un cenno. Le sue labbra avevano i sette mistici suggelli. Soltanto gli
occhi parlavano audacemente, accesi dal fuoco dell'amore.

E Cristina intendeva il linguaggio di quegli occhi, perchè lei pure era
trascinata da una forza ineluttabile. Nonostante, se qualcuno si
permetteva uno scherzo troppo... campestre, una allusione un po' salace,
ella si rivoltava tutta di un pezzo.

Don Giorgio?... Ma che!... Un santo era!...

E se la parola non bastava, il braccio robusto della lavoratrice si
levava per sostenere nel modo più energico la santità dell'ideale
amante.

                                 *
                                * *

Le otto sonavano all'orologio del vecchio campanile, e ancora don
Giorgio confessava gli uomini.

Tre ore!

E ce ne voleva prima che la fosse finita!

Don Giorgio contava meccanicamente quelli che aspettavano. Ogni volta
che ne aveva assolto uno, e un altro andava ad inginocchiarsi ai suoi
piedi per narrargli, nel solito modo grossolano, i vecchi peccati
triviali, le vecchie miserie, don Giorgio sentiva che le sue forze
diminuivano e l'uggia cresceva. Le distrazioni lo assalivano
accanitamente. Alzava gli occhi, spingeva lo sguardo fuori della
sagrestia, nella chiesa, tra le donne inginocchiate, cercando la
Cristina; ripensando tristamente alle cose ch'ella gli aveva dette in
confessione la sera innanzi.

Oh! a quale cimento l'aveva messo!

--Voglio bene a uno--aveva detto tremando la giovane voce impregnata di
lagrime, di cui egli sentiva il soffio caldo traverso la
graticcia,--voglio bene a uno che non mi può sposare... E gli voglio
tanto bene che non me ne importerebbe niente di essere sposata... Questo
è un grave peccato, lo so... e lui non vorrà mai... è un santo lui...
Per questo... perchè sono stanca di patire... ho fissato di andare
via... in America...

Ella soffocava; le mancava la voce per la gran vergogna e il dolore, ma
diceva, perchè voleva dire.

Dio di Dio! Che passione di non poterla stringere fra le braccia e
baciarla sulla bocca mentre parlava!...

Eppure egli aveva avuto il feroce coraggio di dirle che avrebbe fatto
benissimo a partire, che era il suo dovere, che Dio l'avrebbe
ricompensata ridonandole la pace dell'anima!...

E intanto si sentiva ardere e gelare. Non aveva patito così dacchè era
al mondo.

Tutta la notte poi senza chiudere occhio; tormentato da spasimi
incredibili... E ora si sentiva le ossa come frantumate; la bocca amara
di tossico; il cervello torpido.

Era umano, soffrire a quel modo?... Perchè Dio gli aveva dato quel
temperamento?... Ah! il male era di avere vestito quell'abito! Non ci
era Dio, nè santi. Si trattava di una povera figliuola che egli avrebbe
disonorata...

Un altro pensiero sorgeva improvviso nel suo animo turbato: forse
l'aveva già disonorata guardandola, tirandosela in casa... I contadini,
che l'avevano indovinato--di questo era certo--non potevano supporre...
ma che!...

Lo stimavano lo stesso, però, lo compativano, perchè era giovane e con
quel temperamento!... Loro già accomodavano ogni cosa: la terra e il
cielo.

E continuava a cercare la Cristina e ad assolvere i peccatori. Assolveva
tutti; ora per un sentimento di pietà fraternevole, ora sbadatamente.

Ma dov'era la Cristina? Non si sarebbe presentata alla Comunione?...
Egli le aveva detto che se pensava ancora al suo amore, se ne sognava
nella notte, non avrebbe potuto accostarsi alla mensa del Signore...
Perchè dirle di quelle cose, lui che pensava sempre al suo amore, che ne
sognava a occhi aperti?... Ah, perchè?... Per la speranza non
confessata, ma conscia, ch'ella ritornasse a confessarsi la mattina, a
dirgli che aveva pianto, sognato, delirato... come lui stesso!...

--_Mea culpa... mea culpa..._ diceva con voce rotta un nuovo penitente
inginocchiato ai suoi piedi.

Era un mingherlino, traballante sulle gambe, il viso bruciato, l'occhio
spento: Marco Scaramelli, il padre di Maria e di Cristina.

Il prete gli conosceva i peccati dal primo all'ultimo.

--Anche ieri sera, sì, padre, signor curato... anche ieri sera!... Non
posso trattenermi... non posso...

--Hai bevuto l'acquavite?...

--... Sì... Sono entrato dal tabaccaio... me l'hanno offerta...

--Dovresti almeno accontentarti del vino della mia cantina che bevi, di
nascosto, oltre quello che ti do...

--Oh!... signor curato, creda...

--Ricordati che stai confessandoti... non commettere sacrilegio almeno.

E il confessore si mise ad ammonire quello sciagurato, un po' con le
brusche, un po' con le buone, convinto di non ottenere nulla; chè quello
avrebbe continuato a bruciarsi coi veleni alcoolici che i liquoristi
vendono ai poveri diavoli.

E non faceva lo stesso lui?... Non si bruciava tutti i giorni con la sua
passione?... Non si era bruciato fin dall'adolescenza fissando gli occhi
concupiscenti su tutte le donne?... E ora che ne desiderava una sola,
era peggio che mai!... sarebbe disceso irreparabilmente, sempre più
giù... fino alla dannazione dell'anima... alla rovina di tutta la sua
esistenza.

Un brivido gli corse per le vene; i suoi pensieri si concentrarono sopra
un solo soggetto; dimenticò l'ubbriacone e le tristi considerazioni che
gli aveva ispirato.

Aveva scorto la Cristina.

Era inginocchiata in terra presso al _Sepolcro_; il viso nelle mani, la
testa curva, pareva annichilita.

Piangeva forse.

Don Giorgio sbrigò alla lesta il vecchio Scaramelli, assolvendolo con
una indulgenza forse eccessiva--forse colpevole.

Presso alla Cristina, la moglie di Sandro pregava con intenso fervore.

--Ah!--pensò il curato--devo occuparmi anche di quella lì!... Cristina
me l'ha raccomandata.

E cercò con gli occhi Sandro Rampoldi rimasto fra gli ultimi penitenti.

Un'altra colpa d'amore: un adulterio incestuoso! Caso purtroppo non raro
tra campagnuoli.

Osservando i due amanti, mentre un mezzo cretino, che aveva preso il
posto di Marco, si perdeva in un lungo racconto, don Giorgio li
giudicava con sicurezza. Sandro gli era sempre parso un buon uomo.

Non poteva che essere acciecato dalla passione, dalla sensualità... Ma
la Virginia gli pareva una furba da non affrontarsi direttamente.
Nessun mezzo morale poteva avere presa su quell'indole molle, astuta,
scivolante. Non sedotta, seduttrice, lei doveva aver trascinato Sandro
al tradimento del fratello; appena sposa forse; e senza passione, senza
acciecamento; per comandare a due uomini invece che a uno solo; perchè i
guadagni di tutti e due mettessero capo nelle sue mani, e lei potesse
contentare i suoi vizi capitali di contadina: l'avarizia e la gola.
Certo era di quelle egoiste meschine che pensano a farsi la parte più
comoda nella vita, a spese di chi le circonda; ma senza violenza,
adoperando i vezzi, le moine, le astuzie.

Non vi poteva essere che un mezzo per farla retrocedere nel suo cammino:
la forza. Bisognava schiacciarla.

Ma come?... Avvertire Pietro? Quel toro in furore l'avrebbe
stritolata!... A meno che lei non trovasse il modo di calmarlo,
protestandosi innocente, accusando magari il suo complice per salvare se
stessa. Allora il solo Sandro sarebbe andato di mezzo; e Maria avrebbe
pianto tutte le sue lagrime. Bisognava scegliere un'altra via.
Commuovere Sandro sullo stato della sua povera moglie: toccargli il
cuore. Non era un'indole recalcitrante, tutt'altro. Ma vicino alla
Virginia sarebbe ricaduto e come! Bisognava allontanarlo dunque.

Contento in fondo di questa nuova preoccupazione, che lo sottraeva per
qualche istante almeno all'incubo tormentoso della propria passione, don
Giorgio tornò a volgere lo sguardo sui contadini che ancora aspettavano.
Erano due: un giovinetto che faceva il galante con tutte le ragazze del
circondario, e Sandro Rampoldi.

Sandro si era tenuto per ultimo. Segno di ripugnanza. E la sua bella
faccia abbronzata, dai lineamenti severi e composti, rivelava una vaga
inquietudine: segno che la battaglia interna era fiera.

Queste sommarie osservazioni bastarono al confessore per giudicare che,
senza la suggestione dell'abitudine, senza il timore dello scandalo,
quell'uomo--che era sempre stato religioso--sarebbe fuggito di chiesa, o
non vi sarebbe neppure entrato.

Ben presto, anche il bel conquistatore se ne andò assolto.

Serio e imponente nel suo portamento d'antico soldato, pur non riuscendo
a vincere un leggero tremito di tutte le membra, il cavallante di Val
Mis'cia andò a inginocchiarsi ai piedi del confessore.

Aveva giurato alla Virginia di non dir nulla. All'altro curato l'aveva
detto; ma quello, un vecchio buontempone, si era accontentato di
strapazzarlo un poco. Con don Giorgio era un altro paio di maniche. Chi
sa che cosa gli avrebbe imposto, lui che proteggeva le Scaramelli!

--Quanto a me--concludeva la Virginia--non l'ho mai confessata questa
cosa e non la confesserò... Mancherebbe!...

Ma al momento di commettere quell'atto così inaudito per lui, nel
convincimento del sacrilegio, tutti gli scrupoli della sua anima
religiosa e superstiziosa assalivano il povero cavallante.

E quando don Giorgio lo accusò severamente di essere un cattivo marito;
di avere ridotta la sua povera sposa, magra e pallida, da quel pezzo di
donna che era; quando gli fece intendere che se Maria moriva, egli
sarebbe stato la causa di quella morte, e avrebbe gravata l'anima sua di
un assassinio oltre che di tutto il resto, Sandro non potè reggere.
Dimenticò la promessa fatta alla Virginia, e, commosso, tremante,
sopraffatto da una suprema angoscia, confessò tutto, quasi felice di
togliersi quel peso dalla coscienza, colto da un desiderio nuovo,
impensato, che il prete lo aiutasse ad uscire da quella situazione
dolorosa, tra la moglie che si struggeva nella gelosia, l'amante che lo
dominava con la sua felina voluttà e il fratello che poteva scoprirlo da
un giorno all'altro.

Dal fondo della chiesa intanto, Maria e Cristina volgevano gli occhi
ansiosi dalla parte della sagrestia. Non vedevano altro che lo schienale
del seggiolone occupato dal curato, e di quando in quando, in grazia di
qualche movimento, una metà del suo viso. Pure, dacchè tutti gli uomini
erano venuti fuori, e il solo Sandro non appariva, esse indovinavano che
l'ultimo penitente era lui. E il cuore di Maria picchiava e picchiava
come se avesse voluto uscirle dal petto.

Nel banco vicino, la Virginia pareva assorta in fervente preghiera. Il
viso candido, i lineamenti dolci, l'espressione calma, lo sguardo
sereno, manifestavano a primo aspetto una coscienza tranquilla, un'anima
senza peccato.

Le due sorelle la guardavano di tratto in tratto con una specie di
terrore, spaventate da quella ipocrisia. E lei pure le guardava di
sottecchi, e nell'armoniosa dolcezza del viso bianco di Madonna,
guizzava un lampo d'odio, e l'occhio sereno si appannava nel segreto
timore.

Ma la confessione di Sandro non finiva mai.

Già i chierici intenti alle ultime decorazioni del _Sepolcro_, avevano
compiuta l'opera loro; già tutto era pronto per la deposizione
allegorica del sacro corpo: i lumini, accesi; i fiori, disposti in
bell'ordine. Già le donne ammiravano.

Sonava il terzo segno della messa grande. I preti erano pronti; i
turiboli, pieni d'incenso; l'altare maggiore, parato. E ancora don
Giorgio non aveva finito di confessare il cavallante.

Che ansia nel cuore delle due rivali, che spasimo di speranza, di paura,
di odio.

Maria pregava con uno slancio di anima liberata che si sente salire. La
speranza era tutta per lei; la speranza la portava in alto.

Virginia, sempre più pallida, fissava la cognata con gli occhi ardenti.
Gliela volevano fare dunque, gliela volevano fare? Codeste vipere di
codeste Scaramelli si erano messe d'accordo col prete per rubarle
l'amante, per calpestarla?... E quel vigliacco di Sandro aveva
confessato?...

Finalmente don Giorgio alzò la mano per benedire e mandare in pace anche
quell'ultimo penitente. La vittoria era stata completa: Sandro aveva
promesso tutto. Ma don Giorgio sapeva troppo bene che se non lo faceva
spartire dal fratello, il più presto possibile, quelle buone promesse
sarebbero volate via come il vento; perciò non si rallegrava che a metà.
Egli si levò finalmente da quella sedia; si tolse la cotta e la stola, e
indossò il camice bianco e i paramenti sfarzosi della messa solenne.

L'organista, stanco di aspettare, intonò il solito pezzo della _Gazza
ladra_, con grande rinforzo di pedali, e la voce fessa del vecchio
istrumento empì la navata.

La messa uscì. Uscirono i turiferari squassando i turiboli accesi.

Cristina vide la bella figura di don Giorgio salire all'altare, in mezzo
a una nuvola odorante, e il suo cuore balzò, e i suoi occhi non si
staccarono più dalla superba apparizione. Erano quelli i momenti
luminosi, inebrianti dell'amor suo. Per una serie di sensazioni acute, e
non analizzate nè analizzabili, ella confondeva in una gioia suprema, la
commozione di femmina innamorata e l'estasi di un'anima istintivamente
mistica: la tenerezza e il profondo rispetto: il desiderio e
l'ammirazione: l'uomo agognato e l'uomo-dio.

Pallido, ma sempre calmo e diritto, anche Sandro Rampoldi uscì
finalmente dalla sagrestia, e le due donne che l'aspettavano con tanta
passione, lo fissarono, ansiose.

Egli non guardò che la moglie, e le sorrise.

La Virginia vide e comprese e serrò i denti per non scattare. Poi,
domata la prima vertigine, si voltò verso la cognata e i suoi occhi
sfavillanti dissero chiaramente:

--Non ti rallegrare! Mi vendicherò.



CAPITOLO V.

Zappando.


Giugno, il mese più laborioso per la gente di campagna, recava un caldo
precoce, eccessivo, in Val Mis'cia, quell'anno. Il sole investiva tutta
la pianura da mattina a sera, senza il refrigerio di un acquazzone.

Le donne zappavano il grano turco: o erano a mondare il riso con l'acqua
fino al ginocchio, curve, le mani nell'acqua per strappare le erbacce
che crescevano insieme alle pianticelle del riso: o voltavano il fieno:
o rincalzavano il grano turco nei campi finiti di zappare.

Con l'intervento di don Giorgio, Sandro Rampoldi aveva trovato da
collocarsi alla Cascina Grande. Così i due fratelli si erano spartiti,
in mezzo ai lamenti e alle recriminazioni di Pietro e della Virginia.
Ed ora, siccome Pietro non poteva fare tutto il lavoro da sè, e voleva
spendere in salari il meno possibile, la bella delicatina non poteva più
stare in casa e fare la signora, ma doveva zappare come le altre.

Tutti parlavano di queste vicende della bella invidiata. E chi cercava
di consolarla, chi la aizzava; i più--indifferenti e maligni--la
tiravano sul discorso della cognata per il gusto di sentirla menar la
lingua.

Un sabato, stanca già dal lavoro di una settimana, essendo nelle ore più
calde della giornata, che l'aria pareva fuoco, ella gettò la zappa, e
asciugandosi il sudore esclamò quasi con le lagrime:

--È una vita da bestie!... Io non posso, non posso...

Sette o otto donne, pure incendiate da quelle vampe, che zappavano nel
campo vicino, alzarono il capo, e talune sorrisero ironicamente.

--È meglio stare sedute all'ombra che zappare al sole!--mormorò la
vecchia Meroni, sempre più secca e gialla, mentre posava
avidamente--ciò che del resto facevano tutte, cercando l'unico
refrigerio possibile--i piedi nudi, brucenti, sulla parte umida e fresca
di una zolla appena rivoltata.

Fu una risataccia, poichè tutte compresero il sarcasmo. Soltanto Lucia,
la giovinetta pallida dal viso rigonfio, che era più vicina al campo
della Virginia, le domandò in aria di compassione:

--Siete molto stanca?...

--Non ne posso più!... Mi pare di morire!--sospirò la disgraziata che
non c'era avvezza. E si buttò a terra fra le pianticelle ancora basse
del melgone, cercando un filo d'ombra.

Le zappatrici, indurite al lavoro, scrollarono le spalle, sprezzanti; e
le sette o otto zappe rialzate con nuova lena, ricaddero sulla crosta
arida della terra, spezzandola vigorosamente.

--O Cristina!--gridò la Meroni che ce l'aveva sempre un po' su con le
Scaramelli.--Se ci date dentro a quel modo, addio melgone, taglierete
tutte le piante! Guardate, avete intaccata una radice!...

--Poco male! Vorrei gli si sciupasse tutto a quel cane...

Ella s'interruppe. Le sue compagne, che pocanzi ridevano, si erano
voltate dall'altra parte, e le zappe brandite tornavano a fendere il
suolo con lo stesso vigore, ma con maggiore precauzione. E ancora i
piedi nudi, neri, tormentati, cercavano istintivamente la parte più
umida e fresca delle zolle rimosse.

Il padrone, entrato nel campo dalla parte di dietro vide la pianticella
rovinata dalla Cristina, udì le sue parole. Con voce irata tuonò:

--Scaramelli, giù quella zappa! E vammi fuori dei piedi... tanto, tu hai
voglia... d'altro che di lavorare!...

La Cristina si drizzò di scatto. Il suo corpo di antica driade si
disegnò superbamente sul fondo luminoso. Un istante, ella fissò gli
occhi azzurri, scintillanti, nel viso adusto, non vecchio, non brutto,
del padrone che pure la assava. E le braccia robuste, poderose e
eleganti insieme, fecero l'atto di scaraventare la zappa alla testa di
quell'uomo.

--Madonna Santissima! Lo ammazza!... Lo ammazza!...

La Virginia, balzata in piedi, guardava la scena terribile coi grandi
occhi raggianti di perfida gioia.

Ma nessuno tentò d'intromettersi.

Nè il padrone si mosse, rimanendo quasi impassibile sotto la minaccia e
continuando a sfidare la giovine con lo sguardo pieno di collera e di
lascivia.

Per fortuna un miglior consiglio prevalse nell'animo di Cristina. Una
risata che parve un singhiozzo le uscì dalla gola convulsamente: allentò
le braccia e lasciò cadere la zappa. Poi si voltò e si allontanò a
piccoli passi misurati, con la massima calma.

Allorchè il padrone pure si fu allontanato, la Virginia si mise a
gridare dal suo campo:

--Sudiciona! sudiciona!... Ora la va dal curato. Ci penserà lui a
mantenerla. Sudiciona!... Ah! so soltanto io che roba sono queste
Scaramelli della malora!...

Ma poichè le compagne ancora troppo atterrite, non la incoraggiavano
nelle sue imprecazioni, e quella che le era più vicina si rimetteva a
zappare voltandole le spalle, la Virginia comprese, una volta di più,
che non spirava buon vento per lei nel paese e che le contadine, ben
lontane dal compiangerla, si godevano di vederla sgobbare e la
canzonavano.

Senza altro dire, avvolgendole tutte nella stessa muta imprecazione,
ella raccolse la zappa dimenticata in un solco, e si rimise alla sua
fatica cercando di sbrigare alla peggio l'odiato lavoro.

--Il campo dei Rampoldi non renderà più come gli altri anni, ora che
l'asino ha rotto la cavezza e se l'è svignata!--mormorava intanto la
Meroni facendo sghignazzare le sue vicine.



CAPITOLO VI.

Vinto!


Furente da prima e il cuore esulcerato per l'offesa patita, ma poi
sempre meno triste e più padrona di sè, man mano che andava
allontanandosi, la Cristina camminava traverso i campi e i prati, alla
volta di Gel. Passò al guado la Vergonza quasi asciutta e quando fu
sulla strada maestra incontrò il dottore che veniva da Casorate col suo
legnetto per visitare la moglie del fittabile di Val Mis'cia. Egli fermò
il cavallo.

--Ehi, Scaramelli, è bassa l'acqua?

--Sì, signor dottore...

--Sei malata?

Ella arrossì lievemente.

--No... sto bene...

--Allora è l'amore!...

E lanciò una facezia grossolana, tentando di pizzicare le belle braccia
sode della contadina. Ma ella fece a tempo a ritrarsi.

--Scusa sai, non mi ricordavo che con te non si scherza. Ho visto la tua
sorella alla Cascina Grande; non pare più lei. È un pezzo che non la
vedi?

--Sarà un mese e mezzo...

--Va a trovarla, vedrai come ingrassa; e a dicembre ti fa zia!...

Mentre parlava, egli aveva gettato il mozzicone del sigaro e ne
accendeva uno nuovo, mostrando i denti bianchi, la mano lunga, affilata,
da signore. Era un bel giovinotto, ai primi esordi della carriera, e si
annoiava mortalmente di quella condotta.

--Comanda altro?--domandò la Cristina seccata.

--No... ti dispiace eh, di star qui un momento... Maledetto paese! Tutte
brutte, e le poche belle, scontrose!... Vai a Gel?--Ella impallidì.
Andava a Gel, sì; ma non ci aveva pensato, e a sentirselo dire tremava
tutta.

--Andrai alla cura... Canaglie di preti, tutte per loro!--brontolò il
dottore masticando il virginia; poi ad alta voce:--Fammi il piacere,
Cristina, passa da don Giorgio e digli che quei tali libri glieli
porterò quest'altra settimana.

--Si signore! Sarà servito.

E s'allontanò in fretta, seguita dallo sguardo ironico del giovine
medico, il quale attribuiva a don Giorgio le conquiste che a lui non
riescivano.

Quando le ruote del calessino si rimisero in moto, la Cristina si
arrestò per riflettere. Andava dal curato?... Certo; non poteva avere
altra meta. Ma s'ei la scacciava? Dalla Pasqua in poi le stava più
sostenuto; e sebbene a volte si fermasse a contemplarla, evitava di
parlarle. Che non l'amasse più?... Non le pareva possibile. In ogni modo
voleva averne il cuore netto e se la respingeva, se proprio non voleva
saperne di lei... ebbene, l'agente d'emigrazione aspettava ancora la sua
risposta!... Sarebbe partita... partita per quel paese tanto lontano che
ci si metteva dei mesi ad arrivare; e sarebbe morta di crepacuore, o
rimasta laggiù per sempre.

Con questa risoluzione si rimise a camminare, affrettando il passo,
quasi senza accorgersi, come sospinta dall'ansia indomita.

Arrivò alla cura trafelata, gli occhi sfavillanti per l'interna
concitazione, il volto vivamente colorito.

Tirò la cordicella che pendeva dal buco della serratura ed entrò come il
solito chiedendo:

--È permesso?...

Nessuno le rispose. La casa era vuota; don Giorgio zappava l'orto e
aveva mandato il vecchio a Casorate a vendere quei pochi bozzoli.

Cristina andò dritta in cucina e si guardò intorno. La pentola
bollicchiava sul fornelletto, ma la cucina era in un disordine
spaventevole. Piatti sporchi qua e là, avanzi di spazzatura lungo le
pareti e perfin nel mezzo; ragni, attaccati a lunghi fili pendenti dal
soffitto, danzanti nel vuoto.

Crollò tristamente il capo. Il vecchio non pensava più che a
ubbriacarsi!... E don Giorgio non aveva voluto chiamarla; e lei non
aveva osato presentarsi... per tutti quei giorni!... Povera casa!...

Ma adesso...

Ella ebbe uno scoppio interno di passione e un brivido nella schiena che
la fece sussultare.

Un pensiero nitido, luminoso le era passato nella mente come un baleno:
da ora in poi la casa era sua; ci avrebbe pensato lei a tenerla come si
deve; e se il vecchio non le obbediva, peggio per lui!...

Stava per uscire dalla cucina e andare in cerca del curato, su, al primo
piano, allorchè le parve di averlo visto dalla porta socchiusa che dalla
cucina stessa metteva nell'orto. Fece un passo indietro e guardò meglio.

Era lui veramente. La lunga veste nera sacerdotale, gettata
negligentemente traverso a un ramo di salice, metteva una nota lugubre
nella festività luminosa dell'orticello tutto verde e fiorito. In
compenso, nulla di lugubre aveva la maschia figura di quel giovine. La
camicia bianchissima, di tela fine, aperta sul petto, con le maniche
rimboccate, e i lunghi calzoni neri serrati alla cintola, come egli
usava nelle ore di lavoro, gli davano un aria ardita e procace, che
nulla aveva del prete. In quel momento egli aveva deposto la zappa e si
riposava mondando alcune piante. Voltava le spalle alla casa. La sua
testa bruna si ergeva superbamente sulle ampie spalle, e tutto
l'atteggiamento della persona spirava la soddisfazione di una forza
esuberante cui è finalmente concesso un momento di espansione.

Sempre quando lavorava, all'aperto, dimenticando il suo stato di prete,
don Giorgio si sentiva rinascere. Il cervello, dolcemente riposato
nell'operosità muscolare, cessava di tormentarlo; ed egli apriva il
cuore alle benefiche sensazioni, libero, calmo: la vita gli appariva
facile e bella: l'amore, un bene supremo, non contrastato da rimorsi, nè
da paure, e il terribile problema, che la sua carne poneva ferocemente
al suo spirito, preventivamente sciolto dalla eterna Natura.

La Cristina lo vedeva di profilo quand'ei voltava la testa nei movimenti
del braccio. Non poteva saziarsi dal contemplarlo. Com'era diverso da
quando lo vedeva in chiesa!... Là, nei paramenti solenni, nel nimbo
dell'incenso, le pareva un essere superiore, fantastico, un semidio; lo
adorava; si prosternava dinanzi a lui: ma non avrebbe mai osato dirgli
apertamente quanto l'amava. Un momento le pareva di salire con lui,
nella gloria del cielo; il momento appresso si sentiva respinta da una
forza ineluttabile, e ricadeva nella polvere, misera creatura che aveva
osato alzare gli occhi a un amore sacrilego.

Ma allorchè, di tratto in tratto, lo vedeva così, senza la veste nera,
in tutto lo splendore della sua maschia bellezza, i timori svanivano.
Non più semidio, ma uomo, vero uomo, egli non aveva nulla di
straordinario, non la opprimeva con una superiorità troppo alta. Era un
bel giovane, forte come lei: e come lei lavorava la terra. Pure diverso
dagli altri anche in quel momento! Ella sentiva che nulla poteva
abbassarlo, e il profondo rispetto ch'egli sempre le ispirava, si
fondeva in una ineffabile tenerezza.

Intanto che ella rimaneva lì a fantasticare, i minuti passavano. Si
riscosse a questo pensiero.

Il vecchio ubbriacone--suo padre--poteva ritornar presto, e
quell'istante perduto non si sarebbe forse ripresentato mai più... Mai
più ella avrebbe riavuto tanto coraggio... Rapidamente ella prese una
risoluzione e adagio adagio uscì fuori nell'orto. A piccoli passi
leggieri s'insinuò nella viottola, passò dietro le spalle del giovane;
raccattò la zappa abbandonata da lui e si mise a zappare.

Don Giorgio avvertì subito il rumore del ferro che fendeva le zolle, e
pensò:

--Quell'imbecille di Marco crede d'ingannarmi; quando lo rimprovererò di
essere tornato tardi, mi dirà: eh! signor curato è un'ora che son qui a
zappare! lei era assorto come il solito e non mi ha sentito!

E sorrise tra sè dell'astuzia grossolana di quell'incorreggibile
perdigiornate.

Ma con che vigore zappava!... O dove era andato a pescare tanta forza,
quel lumacone?!

Si voltò; vide la Cristina e restò lì interdetto.

--Cristina!...--mormorò, dopo alcuni istanti con la voce rotta dalla
intensa commozione.

--Cristina!...

Ella udì e si drizzò, interrompendo il lavoro, e guardò il suo signore
con ineffabile e ansiosa tenerezza.

Il Castellani comprese che il momento fatale lungamente temuto e
pazzamente desiderato, era giunto, e che non stava più in potere suo di
sfuggirlo, nè di allontanarlo.

Con questa convinzione dell'inevitabile, che agisce, a volte, come una
potenza ipnotica dell'io su se stesso e trascina e conquide le creature
impressionabili, quasi quanto la più fiera passione, egli rinunziò fino
da quel momento a qualunque idea di resistenza.

--Sarà quello che sarà--pensò con intima gioia--Io non l'ho chiamata; è
il destino che me la manda!...

E nel frattempo se la divorava con gli occhi, che non gli era parsa mai
tanto bella.

--Come siete qui, Cristina? Non eravate a lavorare laggiù nei campi del
fittabile di Val Mis'cia? Mi parve di avervi vista questa mattina con la
zappa sulla spalla, avviarvi insieme alle altre...

Ella pensò che s'ei l'avea vista, voleva dire che cercava di vederla,
senza farsi scorgere, mentre apparentemente la fuggiva; e n'ebbe un
senso di gaudio che le fece coraggio.

--Ci sono andata, è vero; ma quel ladro mi ha cacciata!...

--Cacciata?!

--Sì. Perchè gli ho sciupata una pianta di melgone, zappando troppo
forte!...

--Per questo soltanto?... Egli vi voleva bene, hanno detto...

La Cristina arrossì come di una offesa.

--Bene?!... Oh!... Voleva fare di me come di tante altre... e perchè io
non ho voluto s'è messo a perseguitarmi... Vigliacco!...

Don Giorgio sussultò. Dopo un momento riprese in tono di scherzo:

--Se era innamorato, povero diavolo!... Non ti piaceva?... Eppure è un
bell'uomo... ricco...--E dicendo ciò la fissava con intenzione.

--Oh! Don Giorgio!... mi crede così, lei!... Crede...

Non potè continuare. La commozione lungamente frenata, la fece scoppiare
in singhiozzi.

Provava un'amarezza che la soffocava; un doloroso pentimento. Le pareva
che don Giorgio non l'amasse più e non volesse più saperne di lei... E
lei s'era quasi offerta!... Che vergogna!...

Egli invece la guardava piangere, con intima gioia. Quelle lagrime che
vedeva correre sulle guancie di lei scendevano fino in fondo al suo
proprio cuore, calmando soavemente l'atroce febbre da cui era arso.

Finita la lotta! Aveva tentato l'impossibile. Ora era vinto... vinto e
felice.

Le si accostò: la prese per le braccia, l'attirò a sè.

--Non piangere, Cristina!... Non ho voluto offenderti, sai?... Ti amo!
Sì--è male... ma ti amo... È tanto tempo che mi bruci il sangue... che
ti sogno... che ti voglio... E tu pure mi ami... lo so, lo so, sai...

Parlava concitato, con la voce soffocata: il petto anelante si alzava e
si abbassava con un movimento rapido, poderoso.

--Oh! Cristina! non so quale destino, se buono o perfido, t'abbia
mandata qui a questa ora; ma dacchè sei venuta, dacchè Dio l'ha
permesso, non te ne andrai più. Sarai mia, mia per tutta la vita,
qualunque cosa accada!...

L'aveva trascinata dentro, nella casa, e la serrava tra le sue braccia,
sull'ampio petto, dove ella cercava un rifugio, nascondendo la faccia,
confusa, timida, dopo tanto ardimento.

--Andiamo di sopra--le mormorò.--Vieni a vedere le mie stanzette... il
nostro appartamento... Ci si sta meglio che qui, sai...

Ma ella non poteva neppure fare un passo; le forze le mancavano, si
sentiva cadere...

--Allora ti porto!... Sì, ti voglio portare, in trionfo... mia...
mia!...

E l'afferrò risolutamente e l'alzò sulle braccia poderose, portandola
come un oggetto prezioso con una delicatezza di mamma, su per la breve
scala nelle piccole camere silenziose, dove egli l'aveva tanto
desiderata, invocata, posseduta... nel delirio delle allucinazioni.

Il sole declinava dietro alle persiane socchiuse; il mistero e la
penombra rendevano più sicuro il nido ai due amanti.

Giù nell'orto ancora smagliante di luce, la veste sacerdotale
dimenticata sul ramo del salice, allungava sempre più la sua ombra
funeraria, simbolo pauroso di schiavitù, di menzogna, di morte.

E dalla viottola, al di là del muro di cinta, il fittabile che aveva
scacciata la Cristina, guardava ghignando quel cencio nero e accennava
alle finestre socchiuse della casetta con un gesto osceno di scherno e
d'imprecazione.



CAPITOLO VII.

Alla Cascina Grande.


Erano i giorni lieti della raccolta autunnale; tanto più lieti chè il
formentone abbondava.

La sera, dopo cena, uomini e donne si mettevano intorno all'aia e sotto
la loggia della casa padronale, formando un largo circolo; e ognuno
aveva il suo mucchio di formentone davanti a sè, e l'uncino di ferro in
mano per scartocciare le pannocchie.

Maria Scaramelli, seduta sotto il portico presso alla lanternina
attaccata a un chiodo--unico lume per tutti--faceva andare l'uncino con
tanta rapidità e destrezza che le pannocchie mondate si ammucchiavano
alla sua sinistra come per incanto; e ad ogni poco ella doveva spingere
in là, con le braccia e le gambe, i cartocci vuoti che le si ammassavano
intorno.

Le altre donne le dicevano sorridendo senza invidia:

--Nessuna vi può superare voi, Maria; siete la più svelta e non vi
stancate mai; neppure a essere in quello stato!

Ella scrollava il capo con un fare dolce di contentezza; ma non
rispondeva. Non le piaceva discorrere di quella grande speranza concessa
finalmente al suo intimo desiderio. La sua povera anima abituata alle
asprezze del destino non era forse più suscettibile della confidente
baldanza che sostiene i fortunati anche in mezzo ai pericoli, e spesso
li manda illesi.

Lei temeva sempre. Dopo tanti tormenti, dopo tante angoscie, la pace di
cui godeva e l'orizzonte sereno che le si apriva dinanzi, la rendevano
timida, superstiziosa. Le pareva impossibile che dovesse durare: era
tanto avvezza a piangere!

Epperò chiudeva ogni cosa in sè, come nel passato; gelosa della gioia
come del dolore.

E non si lagnava mai delle piccole contrarietà; le dissimulava
piuttosto, perfino con se stessa.

Se il cavallante stava fuori più del bisogno, se arrivava un tantino
brillo--lui che negli anni addietro non andava mai all'osteria--ella
faceva le viste di non accorgersene e non gli chiedeva mai dov'era stato
nè cosa aveva fatto. Temeva troppo di vedere quella fronte oscurarsi,
quegli occhi, ora buoni e ridenti, ridiventare freddi, arcigni come nel
passato. Del resto, dacchè aspettava il bambino, non si accorgeva quasi
neppure se il marito tardava; era tanto occupata, aveva tante piccole
cose da preparare.

Anche quella sera Sandro era fuori. Attaccato il cavallo se n'era andato
via: per ordine del padrone--diceva.

Ma sarebbe ritornato, e presto. Lei intanto lavorava. Lavorava e
cantava. La delicata poesia che ella portava inconsciamente nell'anima,
e il bisogno indistinto di una effusione e di una tenerezza, di cui
veramente non conosceva neppure il linguaggio, si esalavano in un rozzo
canto contadinesco.

Cominciava da sola.

La sua voce morbida, impregnata di tristezza si elevava dolcemente
nell'aria molle della serata autunnale.

I contadini l'ascoltavano un istante in silenzio, con una sorta di
raccoglimento; poi, alla prima cadenza, le donne, trascinate, la
seguivano; e dopo poche battute, tutto a un tratto, quasi
selvaggiamente, prorompevano le voci forti e ben timbrate dei maschi.

Il coro si formava. Un coro assai primitivo, senza alcuna sapienza,
senza varietà di toni; ma poderoso nella sua malinconica monotonia, e
non privo certo di una cotale semplice e solenne bellezza. Di tratto in
tratto sembrava come se da quei petti rozzi, da quei cervelli incapaci
di un pensiero sintetico, si fosse sprigionato il più profondo
sentimento della insopportabile miseria--il conscio orrore della troppo
lunga ingiustizia. Erano schianti di angoscia, gridi di rivolta, appelli
disperati. E quelli che nel mezzo dell'aia, battevano col coreggiato le
pannocchie mondate per distaccarne il grano, seguivano il ritmo con
impeto crescente, formando uno strano, formidabile accompagnamento.
Pareva il bosco, allorchè urla e scoppia, e si torce imprecando, sotto
la sferza odiata del vento.

Ma pochi istanti appresso, le braccia stanche dei battitori si
allentavano, e il coro rientrava, a poco a poco, nella solita nenia
semplicemente malinconica.

Le faccie tranquille, le mani operose non tradivano alcuna commozione
insolita.

Che cosa era stato?

Nulla. Uno sfavillamento imponderabile del sotterraneo braciere.

Uno scatto istintivo del sentimento umano conculcato.

Ma la materia infiammabile non era pronta. Ma i poveri contadini,
depressi dall'ignoranza e dalla miseria, non potevano comprendere così
subito il misterioso appello.

                                 *
                                * *

Il cielo, ognora più chiaro e limpido annunziava il sorgere della luna.
Levati di mezzo i torsoli delle pannocchie--alcuni dei quali serbando
ancora una parte dei chicchi venivano sottoposti al ferro da sgranare--i
contadini procedevano a ben distendere il grano sull'aia servendosi de'
rastrelli: altri distendevano pure i cartocci che ben ripuliti e
completamente secchi avrebbero servito pei sacconi de' letti o per uso
di strame alle bestie.

Maria ascoltava ansiosamente il rumore di una carrettella che si
avvicinava. Certo era il suo Sandro.

Ma prima che la carrettella arrivasse al cancello, un uomo vecchio,
sbilenco, in abiti metà da paesano, metà da scaccino, entrò nella corte
e si accostò alla giovine donna gesticolando e borbottando forte. Era
suo padre: Marco Scaramelli.

Ella sentì come una ferita al cuore. Oh! qualche cosa di brutto era
avvenuto a Gel, alla Cura. Quella Cristina!... Non ebbe il tempo di
interrogare.

--Mi hanno cacciato!--gridava Marco.--Mi hanno cacciato, que' due
sudicioni, quei due... levando il sacro di lui, que' due maiali!...

I contadini curiosi, pronti a malignare, facevano crocchio intorno
all'ubbriacone che gridava come un energumeno. Tutti sapevano di chi
parlava; chè gli amori del giovine prete con la bella Cristina erano
soggetto di ciarle per molte miglia all'ingiro.

Maria si sentiva morire.

--Sta' zitto; ti prego, sta' zitto!--badava a dire al padre.

Ma questi non le dava retta.

--Cacciato! Messo in strada co' miei cenci!--E accennava a un fagotto,
che gli pendeva dal braccio mancino, e a cui Maria non aveva badato alla
prima.

--Vi ha cacciato perchè non avete voluto smettere di ubbriacarvi--disse
un certo Bernardo, uomo serio cui non piacevano i pettegolezzi.--Ha
ragione il signor Curato; non avete a rifarvela che con voi stesso.

Come accade in casi simili, tutti si schierarono dalla parte di
Bernardo, e Marco si sentì deriso.

Ma non si diede per vinto.

--Bugie! Bugie!... Non è vero niente. Se fosse stato per il vino,
tanto, dovrebbe avermi cacciato da un bel pochino, dovrebbe!... Ne
facevo del bere l'anno passato! Dio! se ne facevo del bere! Miracolo se
non gli ho asciugata la cantina. Ma allora non mi cacciava, perchè in
grazia che c'ero io alla Cura, la ci capitava di tratto in tratto anche
la Cristina!... Potevo ubbriacarmi allora!...

Le donne presenti scoppiarono in una risata. Egli prese coraggio e
continuò.

Già! lo cacciava adesso il signor Curato; adesso si accorgeva che era un
ubbriacone; adesso, perchè la ganza ce l'aveva in casa e non voleva
testimoni! E lei peggio di lui, quella...! Metteva suo padre in sulla
strada, invece di assicurargli il pane, già che la si era data a quel
bel mestiere, quella...!--E giù parolaccie e bestemmie, snocciolate come
_avemarie_.

Chi rideva ancora e chi brontolava; tutti però l'ascoltavano come
affascinati da una curiosità malsana.

Egli era spaventevole e grottesco. Secco come una mummia, traballante
sulle gambe, con quegli abiti che gli cascavano da tutte le parti: col
viso bruciato dall'alcool, gli occhi di triglia morta. Metteva schifo e
paura.

Maria non tentava più di farlo tacere. Capiva che era impossibile. Ma
quando vide Sandro si sentì riavere. Corse a lui e gli raccontò tutto in
poche parole.

Sandro, sempre bell'uomo, sempre svelto e imponente, si avanzò verso il
vecchio e guardandolo bene in faccia, con fare asciutto, ma senza
collera disse:

--Noi andiamo a letto; abbiamo lavorato, siamo stanchi; e io devo
chiudere il cancello; scusate, veh!... Ritornerete un altro giorno, a
un'ora più comoda...--E mentre parlava cercava di spingere il vecchio
fuori del cortile.

--Ah! ah! ah! ah! ah!--sghignazzò Marco Scaramelli affrontando il genero
e facendolo rinculare verso il centro del cortile, con una forza che
nessuno si sarebbe aspettata dalla parte di un vecchio così male in
gamba.--Qui voglio restare!--esclamò.--Qui. Tu mi devi mantenere. Io non
ho altri.

Uscito dal primo stupore di quella inaspettata reazione, Sandro si
drizzò tutto di un pezzo, e con un semplice spintone ricacciò quel
petulante fino all'uscita.

La zuffa impari divenne feroce.

Gli astanti cercavano di mettersi di mezzo per distaccare i due
furibondi; e Maria li supplicava piangendo, che la finissero.

Le altre donne strillavano, al solito, di paura.

Già il vecchio soccombeva. Ma all'ultimo istante, quando si sentì
costretto a volgere in fuga, si mise a gridare con quanto fiato aveva in
corpo:

--Va bene! tu mi scacci. Ma io andrò da tuo fratello e gli dirò che ti
ho visto con la sua donna, e gli dirò dove e quando!...

Il cavallante esasperato assestò al suo suocero un calcio tale che lo
fece ruzzolare in mezzo alla ghiaia, al di là del cancello.



CAPITOLO VIII.

Nuove lotte.


Pallido, la fronte corrugata, gli occhi stanchi, don Giorgio Castellani
errava per la campagna, come un'anima in pena.

Non parlava con nessuno, o pronunciava soltanto le parole necessarie.

In casa, solo con Cristina, si forzava a parere calmo; le insegnava a
leggere e a scrivere per ingannare il tempo e se stesso. Poi si chiudeva
nella sua camera col pretesto di un urgente lavoro. Una terribile
battaglia si combatteva nell'animo suo.

Dopo quel primo giorno di delirio, in cui l'umanità aveva trionfato
completamente dei propositi e dei pensieri del prete, egli era
ritornato su' suoi passi, tormentato da mille dubbi, da mille angoscie.

Così, mentre i contadini l'accusavano d'avere cacciato Marco per
starsene più libero con la sua amante, egli avrebbe potuto spalancare
usci e finestre e mettere tutta la propria esistenza, sotto agli occhi
indagatori del pubblico.

Non era uomo da crogiolarsi nelle comode transazioni dei costumi e della
religione. Ardente, entusiasta, forte e semplice, non poteva trarsi
d'impiccio con le solite scappatoie dei frolli, degli ipocriti. Per lui
erano le grandi e fatali uscite: le follìe, mai le viltà. Non faceva
teoriche; sentiva così, forse senza ben rendersene conto. Natura
energica, esaltata dal misticismo della prima educazione.

Insieme a ciò gentiluomo fino allo scrupolo, gentiluomo nell'intimo
senso della parola; e recalcitrante a tutte le sottigliezze dello
spirito gesuitico fin dalla prima età. I suoi superiori che lo
conoscevano, avevano di lui una grande stima; ma in generale opinavano
che non avrebbe mai fatto carriera, e che fosse meglio tenerlo in
campagna.

Un suo vecchio amico, impiegato alla Curia vescovile di Pavia, diceva:
Castellani non sa il valore della parola: _distinguo_: non può fare
strada.

Era tutto di un pezzo.

Se fosse scoppiata una guerra patriottica, avrebbe preso il fucile; e lo
diceva; poichè nessuno l'avrebbe potuto convincere che i suoi doveri di
prete escludessero i suoi doveri di cittadino.

Col medesimo criterio giudicava i suoi doveri verso Cristina. Pure
amandola appassionatamente, se ella non fosse stata quella che era--una
creatura, cioè, tutta devota a lui e purissima--egli avrebbe forse
troncato il dolce vincolo, sacrificando l'amore al dovere del proprio
stato. Poichè--non poteva nasconderlo--passato il primo acciecamento
della passione, terribile in lui, il rimorso lo schiacciava. E non tanto
per il peccato commesso: egli sapeva che Dio perdona; ma ben più per il
bivio crudele, in cui si era messo, di dover abbandonare la donna amata,
o mancare all'impegno preso davanti a Dio e davanti agli uomini. Sapeva
che molti preti, messi nelle identiche circostanze, se la cavavano con
la massima disinvoltura.

C'era una vittima di più nel mondo: una donna gettata nell'infamia, o
nella miseria, o nella disperazione; ma il prete si salvava.

Dio perdona.

Quale spirito maligno gli suggeriva che il perdono divino non basta a
riparare il male reale fatto ad un nostro simile? Era la sua squisita
delicatezza di gentiluomo? Il suo attaccamento all'onore mondano?... La
passione, forse, che si mascherava così?... O un intendimento più alto,
più nobile della religione e del dovere stesso?...

Nei primi giorni di sbalordimento, dopo la disfatta, il suo cervello
preso da vertigine, aveva immaginata una via di salvezza, irta di
triboli, ma splendida di poesia e di bellezza.

La giovine che gli si era abbandonata, non aveva più che lui al mondo;
egli era responsabile di quell'anima, di quella vita; nè la coscienza
gli permetteva di scemare con sofismi tale responsabilità: dunque, come
egli stesso aveva detto quel giorno, essa doveva rimanere con lui,
nella sua casa, unico asilo per lei. Su questo, nulla era da mutare.
Ma... non poteva quella convivenza essere senza peccato, santa,
ideale?... Non potevano, libato il calice inebbriante, colto il fiore
divino dell'amore, vivere vicini in casta amicizia, amanti sublimi,
martiri dell'idea?!...

Oh! il bel sogno!...

Ei l'accarezzò quel sogno: volle farne una realtà.

E la ragazza dei campi, la contadina ignorante, ineducata, intese questa
bellezza ideale; e abbracciò con entusiasmo la mistica poesia del
sacrifizio.

Ma dopo quattro mesi, quantunque non avesse mancato in alcun modo alle
sue promesse, don Giorgio non credeva più di poterle mantenere in
eterno. Una grande tristezza era in lui. Capiva d'essere stato
eccessivamente presuntuoso, forse ipocrita, forse gesuita.

Il terribile dilemma si delineava sempre più chiaramente sotto ai suoi
occhi; tanto più dopo che la Cristina aveva cacciato il vecchio
incorreggibile, che si ubbriacava, rubava e li insultava nelle sue
orgie. Nessuna via di accomodamento possibile ormai, nè di fronte alla
coscienza, nè con le circostanze esteriori.

Abbandonare Cristina vigliaccamente, dopo di averla disonorata; gettarla
in balìa ai suoi nemici, nella miseria, nella disperazione; o svestire
quell'abito, spezzare il giuramento: spretarsi, insomma, e sposare
Cristina. Non vedeva altra uscita da quel ginepraio.

Che schianto! che angoscia! che tormenti!

Egli avrebbe dovuto decidere prontamente. Si irritava con se stesso di
quelle titubanze. Ma le sue forze vacillavano.

Ne conosceva parecchi dei preti ritornati laici. Quasi tutti uomini di
ingegno: coscienze rette; ma quasi generalmente infelici. D'altra parte
quelli ch'egli conosceva erano tutti scienziati positivisti, nei quali
la fede era caduta a poco a poco sotto allo scalpello della
investigazione. Avevano deposto l'abito come una maschera menzognera.

In tal caso, ciò doveva essere molto più facile. Per lui, credente,
mistico in fondo, filosofo della vita per l'abitudine di osservare e di
pensare, ma poco addentro nella scienza; per lui povero prete
campagnuolo, ciò era terribilmente difficile.

A lui sarebbe bastato che i vescovi, riuniti in concilio, guidati da una
mira ambiziosa, non avessero decretata la legge contro natura che vieta
l'amore a tanti uomini. Ma la legge esisteva e tutti i colpiti si
sottomettevano o fingevano di sottomettersi.

Prostrato ai piedi dell'altare, egli supplicava nelle lagrime il suo
Iddio generoso a concedergli una ispirazione, un raggio di luce che
gl'indicasse la vera strada.

Che cosa domandava infine? Di poter vivere da uomo onesto, senza
ipocrisie, senza vergogna; e di non avere per questo la coscienza
scissa, l'anima travagliata dagli angosciosi dubbi.

Ma Dio non l'ascoltava; irato, voltava la faccia dal supplicante.

A poco a poco, egli sentiva un gran freddo nel cuore, la coscienza si
paralizzava: la preghiera stessa gli pareva senza senso; vuota la
chiesa, lontano il nume. La sua fede illanguidita non era più che un
miraggio, un fantasma. Poteva rinnegarla quando voleva. Ma neppure
questo stato d'animo gli recava la pace desiderata, la serenità di
giudizio, lo slancio del convincimento. Soffriva di sentirsi così:
rimaneva prostrato, inerte. E poi, una vaga paura sorgeva dal fondo
oscuro del cuore tormentato. Paura materiale, paura delle cose, paura,
secondo lui, bassa, ma gelida, opprimente paura.

Rompere col passato: disdirsi dopo tanti anni; spezzare il giuramento;
farsi vituperare dagli amici più cari; ed entrare solo, senza appoggi in
una società nuova per lui, diffidente, cinica, nemica!

Che cosa avrebbe fatto?... A quale lavoro avrebbe consacrato la sua
forza?... Dove avrebbe cercato un pane per sè e per Cristina?

Nella campagna?... In città?... Prete spretato! Vale a dire, un uomo che
ha il coraggio di confessare: «È stato uno sbaglio: i principî che avevo
abbracciati, non mi soddisfano più;» Oppure: «La superiorità che mi
attribuivo era falsa: sono un debole uomo.» E ciò in mezzo ad uomini che
si forzano a portare la maschera del leone, anche se la natura li ha
forniti di un'anima da coniglio: in un mondo dove tutto si perdona,
fuorchè il dire: «Ho sbagliato: cambio opinione.»

Certo qualcuno lo avrebbe compreso, compatito almeno: qualcuno gli
avrebbe steso benevolmente la mano. Vere anime superiori esistevano nel
mondo; aveva letto tanti libri dettati da un alto pensiero; scritti da
uomini veramente liberi. Ma come presentarsi a quegli uomini?... Come
cercarli nell'ingranaggio della vita quotidiana?... E se sbagliava?...
Se l'uomo apparentemente liberale e superiore, a cui egli si sarebbe
rivolto, avesse nudrito dei pregiudizi, o una di quelle ripugnanze
ereditarie, invincibili, che fanno dire anche ad un uomo di buon senso:
l'unto non si leva mai: il prete resta prete in eterno, e quello
spretato lo è due volte?...

O se, pur trovando l'uomo ideale, fosse mancata in lui stesso la
capacità di farsi comprendere? Se avesse destato delle diffidenze? Era
tanto facile: un prete!... Che umiliazione! Che spasimi in tutto
l'essere!...

Oh! maledetti coloro che l'avevano gettato fanciullo in un seminario,
facendogli pagare a sì caro prezzo un'illusorio beneficio! Maledetti
coloro che, svisando i suoi giovanili entusiasmi e le tenerezze
vereconde della sua anima appassionata, lo avevano ingannato con la
menzogna; e macchiato col nome bugiardo di vocazione, la eterna verità,
il dischiudersi del fiore umano che istintivamente innalza verso il
cielo i suoi primi effluvi!... Maledetti! Maledetti!

Solo, nella piccola chiesa piena d'ombre, gettato sui gradini
dell'altare la faccia contro terra, egli imprecava e piangeva.

Una mattina un uomo fidato gli portò una lettera della Curia.

Ei l'aspettava in realtà quella lettera: eppure, toccandola, ebbe come
una scossa elettrica. Riconobbe la calligrafia del vecchio prete suo
amico, impiegato alla Cancelleria vescovile di Pavia.

--Ci siamo!--pensò con una specie di gioia amara. E subito dopo, come
per una ispirazione segreta:

--Qui è la soluzione!

La lettera conteneva prima di tutto una chiamata del Vescovo: _Ad
audiendum verbum_.

Poi una missiva confidenziale dell'amico impiegato.

Il buon uomo, esperto della vita, pratico di queste faccende, avvertiva
il giovine che qualcosa di troppo azzardato era giunto agli orecchi dei
superiori. La parola «scandalo» doveva essere stata pronunciata. Non
glie ne facevano una colpa enorme, no, Dio santo! si sa, un prete
giovine, e nella noia di quei paesi!... Comprendevano benissimo,
compativano...

Ma lo scandalo dispiaceva a Monsignore. In questi tempi di incredulità,
con tanti nemici della Chiesa, tutto diveniva pericolo, e le apparenze
avevano una straordinaria importanza. Egli però poteva cavarsela con
onore, anzi, a dirgliela in amicizia, quella vecchia amicizia ch'ei ben
conosceva, destreggiandosi un poco, poteva trarre occasione per
migliorare il suo stato, chiedendo un trasloco in paese più ricco; ciò
che non gli sarebbe stato negato; purchè accorresse subito, mostrandosi
pentito e dolente; e purchè si liberasse della pecorella. Levata di
mezzo la pietra dello scandalo egli poteva giustificarsi con grande
facilità. Molte cose si potevano mettere a carico della maldicenza della
gente e della irreligione che infettava città e campagne.

Naturalmente l'amico non aveva neppure il sospetto che don Giorgio
pensasse a resistere. Epperò nessun'altra esortazione; ma sempre
quella, ripetuta, di far sparire la bella peccatrice, fosse pure con
qualche sacrificio. E qui a guisa di suggello, un distico latino, molto
elegante, il quale indicava che il reverendo era un intelligente cultore
delle belle lettere, e, a tempo avanzato, un'amico indulgente delle
belle peccatrici.

A mano a mano che andava leggendo questa curiosa lettera, una gran luce
si faceva nell'anima di don Giorgio. L'ultimo velo cadeva; l'ultimo
dubbio era vinto.

Uno strano sorriso gli errava sulle labbra, e nel petto virile rifioriva
il coraggio.

Vinto! Ma questa volta era lui che vinceva. Gli occhi sfavillanti, la
fronte eretta, andava incontro all'avvenire, conscio del proprio dovere,
sicuro in se stesso.



CAPITOLO IX.

La Cristina.


La ciarla correva di bocca in bocca, Marco Scaramelli era scomparso.

Morto. Morto certo.

Ma come? Quando?--Nessuno poteva rispondere con precisione.

Dopo la scenata alla Cascina Grande, doveva essere andato vagando qua e
là per le campagne, cercando l'elemosina.

La mattina del terzo giorno fu visto in Val Mis'cia presso la casa di
Pietro Rampoldi.

Andava a mantenere la minacciosa promessa fatta al marito di sua figlia.
Tutti lo sapevano. Ma Pietro non era in casa; e la Virginia doveva avere
fatta una buona accoglienza al nemico; taluni pretendevano anzi che,
leggendogli in faccia il cattivo proposito, ella gli facesse pagar caro
lo scotto, anche per le figliuole: e soggiungevano di avere incontrato
il beone mogio mogio, e quasi incapace di moversi.

Ma dov'era andato poi?... Uhm!... Chi ne sapeva qualcosa?... Un ragazzo
di Gel affermava di averlo visto sulla strada di Casorate, con una
cestella di rame sott'al braccio. Ma le donne osservavano:

--A Casorate, venerdì, ci fu il nuovo cavallante di Val Mis'cia e il
garzone che porta il pane: l'avrebbero visto anche loro!...

Passarono così nove giorni. Alla Cascina Grande, la moglie di Sandro
mise al mondo, due mesi prima del tempo, una bambina morta; e per poco
non morì lei pure.

--Tutto colpa di quella sgualdrina di sua sorella!--esclamava il
fittabile di Val Mis'cia facendosi sentire dai suoi contadini. Così egli
cercava di eccitare gli animi contro la ragazza, pensando che nel timore
dello scandalo, il parroco l'avrebbe mandata via; e allora, che dolce
vendetta!

La Nunziata Meroni, a cui premeva di mettersi nelle buone grazie del
padrone andava ripetendo con la sua voce falsa:

--Ha fatto male la Cristina, molto male! Tutto si perdona: ma cacciare
il padre, metterlo sulla strada, no. È vergogna! Senza contare che la
presenza del vecchio in casa era una salvaguardia per lei nell'opinione
della gente. Ma quando una è donnaccia a quel punto non vuole saperne di
riguardi!...

Le anziane approvavano gravemente questa sentenza e le giovani, meno
belle di Cristina, sorridevano.

Perfino certi giovinotti, i quali poco tempo prima si sarebbero fatti
ammazzare per la Cristina, la lasciavano malmenare adesso. Soltanto il
vecchio Melica, sempre affezionato alle due migliori amiche della sua
povera Giulia, rimbrottava la vecchia per la sua maldicenza. Ma il
Melica era un eresiarca inasprito dalle disgrazie; glielo diceva sempre
il fittabile, malcontento per certe osservazioni. E il medico condotto
di Casorate, il dottor Carlo Chiari, quel mangiapreti, ci dava dentro
anche lui, per il bruciore patito in causa della Cristina. Ma poi, da
quello scettico che era, canzonava gli uni e gli altri.

La Cristina non osava quasi mettere un piede fuori della casa
parrocchiale. Soltanto se usciva un momento nell'orto, i ragazzi che
giuocavano sulla strada vicina le tiravano delle sassate.

E che parolaccie le gridavano!

Lei si rivoltava dentro di sè. Vigliacchi! tutti contro una donna! Come
se fosse stata la prima a cadere. Perchè non badavano alle loro mamme e
alle loro sorelle, che ne facevano di più sporche assai? Si,
vigliacchi!...

Per lei tanto, sarebbe corsa in sulla strada e li avrebbe presi a
ceffate que' prepotentacci! Ma intendeva troppo bene che gli scandali
ricadevano sul capo del parroco; che lui ci perdeva in dignità, in
riputazione, in tutto: e cercava di frenarsi.

La mattina del nono giorno dopo la scomparsa di Marco, una donna venuta
dalla Cascina Grande chiese di parlare alla Scaramelli.

--Mi manda vostra sorella... oh! non vi spaventate! È malata si, molto
malata ancora, ma pare che il dottore l'abbia cavata di pericolo. Non si
tratta di lei adesso, si tratta di voi. Non sapete?... Hanno trovato il
cadavere di vostro padre, laggiù, in uno di quei fossi. Andava in cerca
di rane, e pare sia caduto dentro, che Dio ci guardi, sicuro; forse era
ubbriaco; ma laggiù dicono che si è buttato nell'acqua per disperazione,
e danno la colpa a voi. E pare, dicono, che vogliano venire qui tutti a
darvi una lezione. Bisogna vedere come sono: hanno il diavolo addosso.
Per questo vostra sorella mi ha mandata e vi raccomanda di stare in
casa... di non farvi vedere.

Cristina, sbalordita come se avesse ricevuta una mazzata sul capo, non
ebbe che una percezione ben chiara, una percezione che l'aiutò a
sopportare il colpo. In mezzo a tante disgrazie Maria aveva pensato a
lei: le voleva dunque sempre bene!

Facendosi forza, disse alla donna:

--Grazie; grazie tante. Direte a mia sorella che la ringrazio. Starò in
casa; farò tutto quello che vuole; non abbia paura per me; pensi alla
sua salute. Volevo giusto andarla a trovare; ma... Ecco qui, portatele
queste ova fresche, questo po' di burro e il pan bianco... Povera Maria!
Che si custodisca bene!... E questo per voi...

Andava di qua e di là per la cucina, prendendo fuori la roba che
disponeva con garbo in un panierino. Era nervosa, agitata e tutta rossa
in viso.

La contadina intanto pensava: Quanto pane, quante ova!... Può mangiare
finchè vuole: che fortuna!

--Quanto al vecchio--entrò a dire la Cristina con un tremito nella
voce--l'ho fatto mandare via, anzi l'ho mandato via io, perchè a poco a
poco, vuotava la cantina al curato e gli diceva dietro tutti gli
improperi, e avrebbe voluto che gli tenessi mano io!... Via lui o via
me, ho detto al curato: e se fosse vivo ancora oggi, rifarei quello che
ho fatto!

--Per carità non lo dite!--supplicò la contadina.--Guai se vi sentissero
laggiù. Ora sono tutti per lui. Pare che sia morto un santo. E tutti
contro di voi sono!

--S'affoghino! mormorò Cristina con una alzata di spalle.

                                 *
                                * *

Un'ora prima del tramonto, avendo smesso di lavorare, una frotta di
uomini e di donne si avviò con molta animazione alla volta di Gel, per
vedere la Scaramelli e dirle il fatto suo. Si erano montati ciarlando e
gridando, messi su specialmente da quelli di Val Mis'cia.

Intanto le autorità e il medico, giunti sul luogo in ritardo, con tutto
loro comodo, esaminavano il cadavere, constatavano la morte senza
violenza, quindi volontaria o casuale, ed eseguivano le altre formalità.

Dopo l'avrebbero fatto portare a Gel per la sepoltura che doveva avere
luogo subito, visto lo stato di avanzata putrefazione in cui si trovava
il misero corpo.

I contadini più pacifici aspettavano di accompagnare il morto; ma gli
scalmanati non potevano aspettare.

E poi insieme al convoglio avrebbero fatto la strada alcune di quelle
guardie di questura, venute in giù col delegato; e agli scalmanati non
premeva di averle in compagnia.

Strada facendo la turba ingrossò, e allorchè toccò il sagrato pareva
quasi imponente.

Si annunziò subito con grida e fischi, fermandosi davanti alla casetta
bianca della parrocchia tutta chiusa, porte e finestre.

Don Giorgio e Cristina erano nella saletta che teneva il centro della
casa fra le quattro camerette, due a destra e due a sinistra, e in fondo
metteva alle scale. Lui calmo, sereno; lei vibrante di collera.

--Fuori la Scaramelli!--gridavano i villani imbizziti.--Fuori quella che
ha ammazzato suo padre!

--Fuori!--incalzavano le donne.--Mostri la sua bella faccia di
sporcacciona...

Volevano sculacciarla. E se lei non scendeva, sarebbero saliti loro e
l'avrebbero tirata abbasso per darle una bella lezione.

--Tanto sfacciata, e non ha il coraggio!--gridava un ragazzone
sciancato.

--Fuori! Fuori! Fuori!

Le donne erano in prima fila, le più accanite. E la Virginia Rampoldi
trovava i peggiori insulti.

Cristina, ritta in piedi presso alla finestra, dietro le imposte chiuse,
i pugni stretti, i denti serrati, schizzava fiamme dagli occhi.

Ogni tanto i suoi nervi scattavano.

Una imprecazione smozzicata le usciva dalle labbra rosse come il sangue.

Un sasso volò.

Poi un altro.

Allora ella non ebbe più pace. Voleva affrontare i suoi nemici, faccia a
faccia.

--Don Giorgio, mi lasci andare! Butteranno giù la porta, verranno su;
non è giusto che lei patisca per me!... Vogliono me!... Mi lasci
andare!... Mi lasci!...

E si dibatteva con tutto il vigore delle sue braccia robuste.

Ma egli la teneva lì incatenata, con poco sforzo. E il suo volto
s'illuminava di tratto in tratto per un vago sorriso di pietà e
d'indulgenza. Sembrava perfino che dimenticasse il dispiacere di quel
critico momento; come se la sua anima piena di amore e di luce non
potesse accogliere nessun pensiero fosco.

Con accento commosso, con quella voce profonda che sembrava venire
direttamente dal cuore, egli andava ripetendo:

--Coraggio! Sii forte. Non lasciarti abbattere dalla collera che è una
debolezza. Sono poveri abbrutiti, poveri illusi; credono di difendere la
giustizia; credono di far bene.

--La Virginia, no. La Meroni, no. E quelle altre neppure. Son
birbone!...

--Lasciale gridare; che cosa t'importa?... Hanno un pochino d'invidia
femminile. Non vuoi compatirle tu che sei tanto bella e adorata?

Erano le prime parole d'amore che le diceva da quattro mesi che stavano
insieme--le prime dopo quel giorno.

Le fecero una grande impressione.

Tutta vibrante e intenerita sotto la carezza di quella voce che le
penetrava il cuore, ella non trovò una risposta. Ammutolì, si concentrò.
Le memorie l'assalirono. Per la prima volta in tutto il giorno pensò al
cadavere di suo padre, trovato in fondo a un fosso, gonfiato dall'acqua,
mezzo putrefatto. La collera cadde; cadde il fiero sentimento di sfida
che l'aveva tenuta su per tutte quell'ore, mantenendola in uno stato di
eccitamento. Si sentì sopraffatta da una immensa prostrazione. E dal
fondo della sua anima si fece strada uno spasimo sordo, inesplicabile,
che andò acuendosi di momento in momento.

Quel suicida, quell'ubbriacone, quell'uomo orribile, scacciato da lei
perchè rubava e avviliva la casa del parroco con la propria bassezza:
quello sciagurato uomo era suo padre!...

Giustamente lo aveva scacciato; e giustamente Sandro Rampoldi non aveva
voluto accoglierlo. Ma questo nulla mutava alla terribile verità: era il
padre suo quell'uomo; e lo avevano trovato morto in un fosso, mezzo
putrefatto, come una carogna... Chi sa quanto aveva patito!... E era suo
padre!

Questo pensiero, che per lei aveva l'acutezza dolorosa di una sensazione
fisica, diveniva intollerabile, le mordeva le carni.

Un sasso lanciato con maggior violenza venne a battere appunto contro
quella imposta là vicino a lei. Un grido le sfuggì; un singhiozzo
terribile eruppe dal suo petto.

Altre immagini spaventose l'assalirono. La sua povera sorella, già tanto
infelice, la povera Maria, che perdeva l'unica consolazione, la sua
creatura, morta prima di nascere!...

E don Giorgio!... don Giorgio, precipitato, per causa di lei, nella
rovina, nella vergogna! Forse gli sarebbe toccato andar via; e lei non
l'avrebbe mai più riveduto; mai più, mai più, come se fosse morto.

Da tutte le parti il dolore l'assaliva e cresceva, cresceva;
l'atterrava, le negava ogni scampo. Si sentiva soffocare, le pareva di
andare sotto, sotto, come suo padre, nell'acqua gelida e limacciosa.

Ma quegli ossessi gridavano continuamente, e i sassi volavano.

Ella ebbe un altro scoppio. Non era meglio sfidarli, rischiar la vita...
finirla?... Spalancare la finestra? Farsi lapidare?... Finirla, finirla!

Non poteva reggere a tanta angoscia!

Con impeto disperato tentò di aprire la finestra. Ma il Castellani che
la sentiva spasimare e gemere e piegarsi e contorcersi come un sarmento
alla fiamma, la trascinò lontano dalla finestra, in fondo alla saletta,
e la fece sedere, e sedette accanto a lei. Poi, cominciò a parlarle
sommessamente di quell'immenso dolore ch'ella non sapeva esprimere.

Fuori la folla continuava a strepitare. Ma il parroco non vi badava:
erano per la maggior parte donne e ragazzi; non potevano durar molto.
Difatti, una imposta rotta a un finestrino del primo piano spaventava i
più timidi, e Bernardo, il contadino della Cascina Grande, sopraggiunto
in quel momento, faceva sentire la sua parola assennata. Qualcuno
resisteva tuttavia; qualche sasso volava ancora, ma piccolo e mal
lanciato.

Cristina non ascoltava che la voce dolce del suo signore, e, a poco a
poco, la sua oppressione si scioglieva, le lagrime scorrevano da' suoi
occhi brucenti, e abbandonava la testa sul petto fedele del giovine.
Piangevano insieme.

Era quasi notte. I rumori cessavano. Bernardo aveva finito di convincere
i più scalmanati, annunciando il prossimo arrivo dei carabinieri, e
soggiungendo con un sottinteso: «Non è già per una sciocchezza simile
che vorrete farvi legare!...»

Don Giorgio si riscosse nel salottino pieno d'ombra; andò alla finestra,
l'aprì. Il sagrato era quasi vuoto; pochi curiosi guardavano in
silenzio. Due carabinieri camminavano in su e in giù.

Più lontano, sulla strada maestra appariva una specie di convoglio
funebre con due torcie di resina, diverse guardie di questura delle
quali si vedevano luccicare i bottoni al lume delle torcie, e, sopra una
barella, portata da quattro contadini, una massa nera, informe.

Don Giorgio pensò che doveva scendere, andare in chiesa. Passò nella sua
camera, indossò la veste talare, prese il berretto e ritornò nella
saletta.

Il convoglio funebre era ancora in cammino, egli aveva un istante di
tempo.

Si accostò alla Cristina che piangeva sempre, e con quella voce tenera e
profonda, che a lei faceva tanto bene, le disse:

--Non piangere più. Tuo padre è tranquillo adesso. Dio gli ha perdonato.

Tacque un istante, poi riprese:

--Anche a noi ha perdonato Iddio! Non piangere, ti dico. Guardami. È
l'ultima volta che mi vedi con questo abito; questo che vado a
compiere--la benedizione alla salma di tuo padre--è l'ultimo atto del
mio ministero di sacerdote.

La giovane, che aveva alzata la fronte e rasciugate le lagrime, ebbe un
sobbalzo e gridò:

--Che dice?!...

--Dico una cosa bella e seria. Domani cesserò di essere prete--e domani
a sera partiremo insieme...

--Oh! Don Giorgio?!... È possibile?...

E lo guardava fiso, quasi per convincersi che non era impazzito.

--Parlo di tutto il mio senno. Questa risoluzione avrei potuto prenderla
da un pezzo; ma non si rompe così facilmente con tutto un passato. E poi
avevo bisogno di essere convinto che facevo bene. Da due giorni Dio mi
ha fatto la grazia.

--La grazia?!

--Sì; concedendomi la lucidezza di mente e la sicurezza di spirito di
cui avevo bisogno. I miei superiori pretenderebbero che io ti
abbandonassi. A questo prezzo mi perdonerebbero lo scandalo e sarebbero
anzi disposti a favorirmi nella carriera... Non tremare, anima mia! Io
non posso ammettere questa morale. Ciò che sarebbe una cattiva azione
per un uomo qualunque non può diventare un'azione meritoria per un
prete. E se così è, tanto peggio per il prete: io ritorno uomo. Tutto è
disposto, pronto; domani avrò il diritto di non indossare questo
cilizio. E fra qualche settimana sarai la mia sposa, davanti agli
uomini... ed anche davanti a Dio... non temere!

Senza proferir parola, istintivamente Cristina levò al cielo le mani
congiunte e gli occhi pieni di lagrime, in atto di muta, fervente
preghiera.



CAPITOLO X.

Il destino.


Dopo alcune annate discrete, i contadini sanno per esperienza che arriva
una annata sterile; sembra che la terra senta il bisogno di riposarsi.
Non vi sono malattie, non flagelli straordinari; senza causa apparente,
il raccolto si annunzia scarso, e i contadini cominciano a
impensierirsi. Ma troppo spesso altre sciagure sopraggiungono: i bachi
da seta vanno male per una delle mille cause impreviste che possono
danneggiarli: un freddo fuori di tempo rovina i teneri germogli,
malattie misteriose, crittogama o filossera, si attaccano alle povere
piante; e i contadini, che non intendono nulla dei discorsi scientifici
degli intelligenti, profetizzano però con rara perspicacia le
conseguenze immediate di quelle oscure parole. E tali conseguenze sono:
miseria e fame!

Quell'anno la carestia batteva in vari punti della bassa pianura
lombarda. E i bachi erano andati male; parte, perchè il freddo aveva
bruciata la foglia in primavera: parte, perchè il caldo eccessivo e
precoce li aveva paralizzati nel momento difficile in cui si preparavano
a filare.

--Dopo tante fatiche!...--Dopo tanta spesa!...--gemevano le povere
donne.

--È l'annata cattiva--dicevano i fittabili--passerà. Ci vuol pazienza.
Ma i contadini scrollavano il capo.

Era il flagello! Dio li puniva. Da dieci mesi--dalla scomparsa di don
Giorgio Castellani con la Cristina--il nuovo curato, un uomo austero,
dalla mente ristretta, pieno di terrori, preconizzava dal pergamo il
castigo di Dio.

Non osando attaccare il suo antecessore, il cui romanzo amoroso lo
empiva di ribrezzo, egli si scagliava contro i cattivi costumi generali:
la irreligiosità dei padroni, vale a dire, dei fittabili, chè di veri
padroni ve n'ha ben pochi che abitino in quelle campagne; i vizi dei
contadini. E la sua voce tonante, la sua rettorica rozza, ma non priva
di una certa efficacia, finiva di intontire quei poveri ignoranti
abituati alle mitezze del Castellani.

In tali emergenze, col formentone che stentava a crescere e il riso che
pareva malato, sentendosi addosso il terrore della miseria, nella
prospettiva di uno squallido inverno senza scorta di denaro nè di
derrate, i più increduli erano scossi, e la chiesa si empiva.

Pietro Rampoldi, minacciato più di tutti, dava il buon esempio tra
quelli di Val Mis'cia. Il grosso podere che aveva dato quasi l'agiatezza
alla famiglia, fino che i due fratelli rimanevano uniti, diveniva ora
per lui solo un peso esorbitante. Ma egli si ostinava a tenerlo, e nulla
angosciava tanto il suo cuore di contadino, quanto il pensiero che il
padrone lo mandasse via. Per ciò si sforzava a lavorare senza posa;
spendeva i piccoli frutti del lungo risparmio in tante giornate di
opere; lasciava che la Virginia finisse di rovinarsi in un lavoro
superiore alle sue forze, e finalmente si attaccava al fratello, cercava
di sfruttarlo con promesse, con blandizie.

Sandro, che si era lasciato riprendere dalla cognata, si faceva in
quattro--come dicevano i paesani--per accontentare il fratello e la
cognata insieme. In fondo, nella sua coscienza non totalmente
atrofizzata, egli si sentiva sollevato dal proprio rimorso, tanto più,
quanto più riesciva a rendersi utile a quel fratello che tradiva. La sua
rozza onestà gli diceva che tutto quel lavoro, fatto senza interesse,
era in certo modo un compenso al tradimento.

Forse egli non giungeva fino a pensare che Pietro, tutto intento a
sfruttarlo e a tirarlo via di casa, parlandogli male della povera Maria,
non meritava poi tanti riguardi; ma se non vi pensava liberamente, certo
ne intuiva qualche cosa.

Intanto il calore eccessivo peggiorava le condizioni sanitarie. La
minestra mal condita con poco olio di _linosa_, era spesso composta di
riso bacato; e il grano fermentato forniva qualche volta la farina per
la polenta. Le febbri infierivano fra le mondaiuole. Si parlava di tifo
e d'altri malanni. Alla Cascina Grande, Maria Rampoldi non poteva
rimettersi dopo quella catastrofe che aveva chiusa in una piccola bara
la sua grande speranza di maternità.

--È l'aria cattiva di quest'anno!--dicevano le comari.

--È un po' perchè non t'importa di guarire!--diceva il medico
rampognandola.

Era forse vero.

A ventiquattro anni Maria si sentiva fuori della vita. Sapeva che Sandro
andava sempre in Val Mis'cia per aiutare il fratello facendosi
strapazzare dal padrone, perdendo molte giornate di lavoro, inventando
scuse che non sempre venivano accettate.

Ella fingeva di non sapere. Invano le altre donne le andavano dicendo
che Sandro faceva tutto per la Virginia, che erano sempre insieme, che
parevano due sposi. Oppure, che il padrone della Cascina Grande era
stufo, e che aspettava soltanto di cogliere il suo uomo sul fatto per
cacciarlo e metterlo in istrada. Oppure, che se lo teneva ancora, era
per lei, soltanto per lei; perchè tutti avevano compassione di lei,
poverina, così sfortunata; e perchè il signor dottore la raccomandava.

Ella rimaneva a capo basso, le braccia conserte, mormorando appena:

--Che cosa devo fare?... Sandro non mi dà retta.

E non pareva inquietarsi di più. Il suo amore, nato di gelosia in un
momento di spasimo, si illanguidiva a poco a poco come una pianta
delicata che il gelo consuma.

Aveva sofferto tanto per quell'uomo: non poteva soffrire di più.

D'altra parte, quella bimba nata morta le aveva rapito forse per sempre
la speranza di una nuova maternità. Dunque.... tutto era finito.

--Ha voluto che pensassi sempre a lei!--diceva la povera contadina con
quel senso arcano d'intima poesia che la distingueva.

Avrebbe voluto morire, perchè si rodeva di non poter lavorare come
prima, nè rendersi utile in alcun modo.

Si sentiva vecchia, e non era mai stata così bella. La malattia che le
vietava i lavori troppo faticosi, non la danneggiava ancora
esteticamente, anzi, le giovava. La sua carnagione, imbrunita dal sole,
ritornava bianca; e i lineamenti regolari, ma un po' guastati
dall'impronta di volgarità che la troppa salute dà qualche volta alle
giovani campagnuole, si affinavano, acquistavano, nel languore della
malattia, una espressione nuova, penetrante. Nè ancora il dimagrimento
nuoceva alla perfetta armonia delle forme scultorie che apparivano più
eleganti sotto al vestito liscio e aderente.

Sandro, tutto assorto nella sua cieca passione per la cognata, non
s'accorgeva neppure, come non s'era mai accorto, di avere al fianco una
così bella donna. Egli avrebbe voluto vederla forte e attiva come un
tempo, ora che ne avrebbe avuto più bisogno che mai. E s'irritava col
medico, che, secondo lui, menava la cura troppo per le lunghe. E
diveniva aspro, inquieto. Per ciò le sere in cui, finito il lavoro,
invece di vederlo entrare in casa a cenare, essa lo vedeva avviarsi
verso Val Mis'cia, per lavorare al chiaro di luna nei campi del
fratello, non provava alcun rincrescimento, bensì piuttosto un vago
senso di sollievo.

Cuciva, filava, custodiva i bimbi malati delle povere donne che non
potevano restare a casa; e il suo dolce sorriso, la sua bontà e quel
bisogno di sacrificarsi al bene degli altri, la rendevano carissima a
tutti. Era la consolazione di quelli che soffrivano.

Una sera capitò nella corte una vecchia che girava di tratto in tratto
per quelle campagne vendendo le noci dorate col _destino_ dentro. Costei
si fermò davanti a Maria e le mormorò freddamente:

--Voi, sposa, andate incontro a una disgrazia e a una fortuna. La
disgrazia metterà sottosopra il paese. La fortuna, se voi non saprete
agguantarla, vi sfuggirà.

--Oh! per questo--esclamò una ragazza che ascoltava--ci vuol poca
bravura a predirglielo: lei non saprà mai agguantare la fortuna!

--E la disgrazia?--domandò Maria sorridendo.

--La disgrazia--riprese la dispensatrice dei _destini_--potrebbe essere
anche una fortuna per voi!... Si potrebbe affrettarla avvertendo Pietro
di quello che succede... Per un po' di denaro c'è chi lo farebbe...

Maria soffocò un grido e scappò via indignatissima e afflitta.

La vecchia s'allontanò tutta imbronciata. Aveva sbagliato.



CAPITOLO XI.

Il Medico.


Il dottor Carlo Chiari che prestava a Maria le cure più intelligenti,
non era cieco, nè ingiusto, nè reso insensibile da una passione
sfrenata, come Sandro il cavallante.

La vita del giovine colto e ambizioso, condannato dalla povertà a
cominciar la carriera con quella misera condotta, aveva poche gioie,
molti fastidi. La fatica e il tedio l'opprimevano spesso. E se la sua
ambizione sempre desta, non gli lasciava perdere di vista l'avvenire,
non perciò erano meno pressanti le esigenze del presente. La giovinezza
lo sferzava; e i piaceri grossolani che trovava alla sua portata non
potevano soddisfarlo. La società pavese dove faceva qualche rapida
apparizione, lo annoiava; troppi vincoli di idee provinciali; troppi
pregiudizi. E poi, egli non voleva legarsi con una di quelle relazioni
che possono avere troppo peso nella vita di un giovine. Neppure
ammogliarsi voleva, come certi suoi colleghi che gli predicavano la
rassegnazione. Le ragazze da marito che i soliti smaniosi di fare la
felicità altrui gli vantavano ed anche gli offrivano segretamente, non
parlavano al suo cuore, non gli destavano la indispensabile simpatia; e
le famose doti erano miserie: ventimila lire al massimo! Egli sorrideva
con disprezzo. Ci sarebbe voluto una vera ricchezza per deciderlo al
sacrificio; tanto ei sentiva alto di sè, tanta fede aveva nella fortuna.
Aspirava ai massimi gradi sociali, con la freddezza tranquilla di chi
non vede che il proprio valore, e non teme rivali. Ma intanto, qualche
cosa gli ci voleva per passare alla meno peggio quei maledetti anni!

Da principio aveva sperato nelle avventure. Ne aveva sentite raccontar
tante, quand'era studente, di giovani medici accarezzati da nobili e
capricciose signore, specialmente in campagna, nell'ozio delle
villeggiature.

Ma dopo un anno, dopo due, quelle speranze erano morte e sepolte. Di
signore belle, eleganti e capricciose come s'intendeva lui, non ne
capitavano da quelle parti. Qualche moglie di fittabile lo aveva
guardato di buon occhio, ed egli non si era fatto pregare; ma non valeva
la pena; bisognava pagare troppo di persona, fare la corte al marito,
alla suocera, alle cognate, ai vecchi zii; col rischio di essere
scoperti e fare uno scandalo. Veri gineprai dell'amore.

Da qualche tempo era ridotto a sognare una piccola relazione, non
sprovvista di una tal quale poesia, e che lo lasciasse, nel medesimo
tempo, completamente libero.

Se non fosse stato così scarso a denari, qualche cosa avrebbe combinato.
Mah!

--Una vita da diventare idrofobi!--diceva certe volte agli amici
ammogliati, accompagnando la frase con una di quelle sue mezze risate
che squillavano e davano rilievo anche alle banalità, facendo
scintillare i suoi bei denti bianchi sotto ai baffi neri graziosamente
arricciati.

--Di tratto in tratto bisogna fuggire per salvarsi dalla
pazzia--soggiungeva con un'aria fredda di giovane cinico.

E scappava a Milano a immergersi in una orgia. Ma sempre quella tirannia
del denaro, che tarpava l'ali alla fantasia; e poi, appena partito
doveva ritornare per qualche malato. Crepavano di miseria que'
disgraziati!

Dopo tutto non era soltanto codesto. Le orgie gli lasciavano una certa
nausea; e i nervi, irritati piuttosto che appagati, rimanevano renitenti
allo studio. Non era quello che gli ci voleva, a lui.

In tali frangenti, un giorno la Cristina gli era parsa una salvezza. Un
bel frutto da mordere allegramente, senza paura, senza rancori. E finito
il capriccio, essa non l'avrebbe seccato, era troppo altera.

Ma don Giorgio gli aveva guastato il giuoco: maledette sottane nere!...

Quante glie ne aveva dette dietro alle spalle.

In seguito però, i due amanti essendo scomparsi, e specialmente dacchè
si buccinava che fossero marito e moglie, la bizza del medico si era
quietata. Sposarla?...

Oh! no, davvero! Se quello era il patto, meglio niente. Ci voleva un
curato di campagna, un novizio, per fare di quelle pazzie. Spretarsi per
prender moglie? Rinunziare al principale vantaggio della professione!...
E quando il dottore si trovava al caffè di Gel, o in qualche osteria col
fittabile di Val Mis'cia, si sfogavano a ridere di quell'amore e di quel
matrimonio; consolandosi così, a vicenda, dello smacco patito.

Da alcuni mesi tuttavia le cose erano cambiate. Il dottore non pensava
più a Cristina, e se qualcuno gliene parlava, mostrava di giudicarla
benevolmente. Finito il bruciore, la naturale bonarietà dell'uomo
spregiudicato ripigliava il sopravvento.

Gli è che a poco a poco frequentando Maria, imparando a conoscerla, e,
per il genere della cura, avendo occasione di vederla nella maggiore
intimità, egli si era penetrato, quasi senza avvedersene, di quella
bellezza positiva e ideale nel medesimo tempo.

Nessuno meglio del medico poteva intenderla quella bellezza: forse
neppure un artista. Da principio, guardandola appunto con l'occhio del
medico che notomizza, egli cominciò semplicemente dall'ammirare quella
perfetta corrispondenza di parti, formate dalla natura con tanta
sapienza per il suo scopo fatale.

Molte volte, mentre la povera giovane si sentiva morire di vergogna, ei
le ripeteva ridendo:

--Hai torto di vergognarti... sei bella! Davvero. Non avrei creduto che
tu fossi così perfetta. Sei bellissima. Te lo dico io che me ne intendo.

Una mattina, essendo appunto ritornato da una di quelle sue scappate a
Milano, egli entrò a dirle secco secco:

--Vuoi venire a Milano con me la prossima volta?... Ti condurrò dallo
scultore Grandi che cerca una modella. Meglio di te non può certo
trovare... Oh!... Che faccia fai?... Ti darebbe dei bei denari, credi!

Ella ebbe un impeto istintivo di collera; egli, una risata. In fondo
però, non era lontano da una certa commozione. E per tutto quel giorno,
la figura della sua giovine ammalata gli restò nella memoria
suscitandogli un senso di vago malcontento, quasi di rimorso.

Da quella volta il dottore non si sentì più di scherzare così
brutalmente con Maria. Cominciava a imporgli rispetto. Non avrebbe
voluto veramente rispettarla; ciò gli pareva noioso e sciocco. Ma non
poteva a meno. Per quanto mal preparato, doveva pur riconoscere che
quella non era soltanto una «stupenda materia» come aveva detto tante
volte discorrendone con qualche collega. Una scintilla animava quel
bronzo pallido, di sì mirabile forma.

E quasi ei diceva: Peccato!

Il desiderio gli si destò all'improvviso. Allora non ebbe pace. Divenne
riguardoso, quasi timido. Aveva paura di essere indovinato, e che ella
non volesse più farsi curare da lui. Innanzi tutto egli voleva guarirla;
e si mise a studiare la malattia con instancabile ardore.

Una volta guarita, poi, con l'aiuto della riconoscenza, non gli pareva
difficile di poterla commovere.

E sempre guidato da quel suo epicureismo cinico, che era una parte
caratteristica della sua natura, egli faceva dei piani molto pratici ed
egoisti.

Meno appariscente di Cristina, meno seducente, Maria gli appariva più
dolce, più sottomessa, quindi preferibile. Certo non gli avrebbe dato
alcun fastidio; ma non per orgoglio, bensì per quella mitezza che era
l'essenza dell'anima sua. Proprio la donna di cui aveva bisogno per quei
tre, quattro--tutt'al più sei anni di vita oscura a cui poteva essere
condannato, se un colpo di fortuna, inatteso, non cambiava le cose.
Passato quel tempo, egli se ne sarebbe andato; e lei sarebbe rimasta; le
contadine non si allontanano dal marito. Ma intanto, quegli alcuni anni
potevano passarli bene. Perchè non doveva accettare lei, con quel marito
che la trattava come un cencio di casa? Sarebbe stata troppo stupida. E
stupida non era.

Se non che, i mesi passavano, e questi bei progetti non trovavano la
loro attuazione. Sfinge incomprensibile, la malattia si accaniva,
deridendo gli sforzi del medico. E giorno per giorno parlando con
Maria, facendola abilmente discorrere, egli acquistava la convinzione
che la virtù della donna non sarebbe stata meno crudele, nè meno
ostinata della malattia, nella sua resistenza.

Ma anche lui si accaniva, mostrando in fondo poca saggezza.

Di tratto in tratto però perdeva la pazienza e scappava via
brontolando:--Peggio per te, sciocchina!

Nel cuore dell'estate, mentre il sole e i miasmi facevano stragi fra i
più poveri contadini, il dottore, essendo appunto un po' spazientito,
trovò ancora un pretesto per assentarsi alcuni giorni. Quando ritornò
trovò tanto da fare a Gel e in Val Mis'cia che non ebbe il tempo di
recarsi alla Cascina dove il male attaccava meno.

Tra i malati c'era anche la Virginia, che soccombeva alla tisi
lungamente covata.

Il medico, per quanto giovine e forte e non pigro, non bastava quasi
all'immane fatica di curare tanta gente; e in certi cascinali lontani,
alcuni poveri contadini morivano prima ch'egli arrivasse a soccorrerli.

Un giorno fu chiamato anche alla Cascina Grande per un caso di tifoide.
Vi si recò subito, desideroso di vedere Maria.

Appena entrato nella corte, saltò dalla sua carrozzella e si lasciò
condurre presso l'ammalato da una vecchia contadina che era lì ad
aspettare.

La vasta corte della Cascina Grande conteneva sei edifici. Due belli: la
casa del fittabile, grande e comoda e provvista di un largo portico, per
mettervi il formentone quando la raccolta si faceva con la pioggia: e la
stalla per le bestie.

Quattro bruttissimi, neri, maltenuti: casupole da contadini. L'ammalato
di tifoide abitava nell'ultima casupola quasi nascosta dietro la stalla,
nelle esalazioni del letame. Poco discosta, ma assai migliore era
l'abitazione di Sandro e Maria. Si componeva di due stanze, vicino al
fenile.

Finita la visita con tutte le regole, il dottore andò direttamente alla
casa di Maria, sperando di trovarla. Ma non vi era.

Una giovine macilente che tesseva sola sola in una specie di cantina,
facendo un rumore assordante col suo vecchio telaio a mano, vide il
medico e smettendo un momento il lavoro, gli gridò dal finestrino:

--La _cavallante_ è laggiù a filare, vicino ai gelsi.

Ei la scorse subito. Sedeva su una carriuola arrovesciata e filava
all'ombra di un gelso.

Senza addarsene egli affrettò il passo. Ella si levò e gli mosse
incontro.

--Oh! Maria! Come va eh?

--Bene, signor dottore.

--Bene?... Non mi par tanto! Sei pallida; hai le occhiaie violacee.
Andiamo in casa che ti medicherò: ho appena il tempo.

--Oh! no...

--Perchè, no?

E corrugò la fronte, vicino ad adirarsi.

--Non vada in collera!...

--Andiamo, dunque.

--No... non c'è più bisogno.

--Che ne sai tu?

--So... È inutile.

Egli divenne pallido a sua volta.

--Non ti fidi più di me?

--Oh! signor dottore!

--Vorresti un altro medico?

--Mai più! Morirei piuttosto.

E la protesta fu così impetuosa, che il medico ne ebbe una scossa. Fissò
la giovine con intensa attenzione.

Ella teneva gli occhi fermi sul filo che le sue abili dita andavano
assottigliando; ma un leggero tremito rendeva stentato il lavoro.

Essi erano quasi soli nella vasta corte. La vecchia, che aveva aspettato
il medico poco prima, era in casa presso il suo figliuolo ammalato; la
giovine tessitrice non poteva vederli dal finestrino del suo bugigatolo.
Del resto, uomini, donne, ragazzi, tutti fuori al lavoro. Soltanto due
piccini--due testine color della canape--si rincorrevano di porta in
porta senza dir motto, come due muti.

Vicino alla stalla, sotto a una tettoia, dove stavano alla rinfusa carri
e carrette, e aratri, e arnesi d'ogni genere, un vecchio, consumato
dalla pellagra, preparava lo strame per le bestie: e la cavalla del
dottore, buona e pacifica bestia, brucava tranquillamente l'erba
ingiallita della corte.

Un calore plumbeo, insoffribile, si sprigionava dalle nuvole biancastre,
abbaglianti la vista, che velavano il sole ancora abbastanza alto. Il
dottore trasse di tasca una pezzuola di batista, impregnata di una
essenza acutissima che gli serviva a combattere i cattivi odori delle
camere dei contadini e l'odore d'acido fenico a cui la professione lo
condannava: e si asciugò la fronte madida di sudore.

Provava in sè una inquietezza, uno struggimento, qualche cosa di strano,
d'inesplicabile. Il desiderio banale che l'aveva tormentato negli ultimi
tempi era quasi sopito. Ben altro carattere aveva l'angoscia che gli
serrava il cuore adesso; ben altra cosa era la sottile tristezza che gli
penetrava l'anima, disperdendo i piccoli progetti egoistici di gaudente
povero, già tanto accarezzati; e mettendo un senso di amarezza fin nella
visione del piacere inconsciamente evocata.

--Senti--disse, dopo un lungo e penoso silenzio--devo dirti una cosa che
ti farà, forse, cambiare idea. Tua cognata muore...

Ella smise un istante di filare, e alzò gli occhi stupefatti sul
medico.

--Eh! figliuola mia--fece lui, ritrovando ancora una volta il suo bel
sorriso di cinico.--Non c'è da stupire. Tanto va la gatta al lardo che
ci lascia lo zampino. Lei ci lascierà il corpo e l'anima al suo peccato.
È il contrario di te, vedi. Ma è giusto che muoia: ti ha fatto troppo
male.

--Oh! per me--mormorò la moglie di Sandro, tirando adagio adagio una
ciocchetta di lino--per me, quello che è stato è stato: non auguro la
morte a nessuno io.

--Capisco. Ma Sandro è ancora abbastanza giovine, e non è cattivo. Morta
quella lì, ritornerà a te, e sarete felici; potrai avere figliuoli
ancora... se sarai guarita. Dunque, bisogna che tu ti lasci curare.

Ella scrollò il capo tre o quattro volte rapidamente.

--No, no, no! Non guarirei lo stesso. E poi non me ne importa. Quando
una cosa è finita... D'altra parte c'è quella povera anima che
dev'essere al limbo--dice il curato--e se avessi altri figliuoli
patirebbe di gelosia. Meglio non darglielo questo dispiacere.

E sorrise in pelle, indovinando vagamente che il dottore doveva ridere
della sua superstizione.

Difatti egli voleva gridarle:

--Maledetti preti! Come v'infinocchiano!

Ma non potè: era troppo commosso.

Volle dire dell'altro: Che le voleva bene, tanto tanto: che l'avrebbe
fatta felice.

Ma la coscienza schiacciante dell'inutilità gli troncò la parola. Anche
se l'avesse commossa e vinta--ciò che gli pareva quasi impossibile--non
sarebbe stato inutile?... Anche se lo avesse amato... Inutile!
Inutile!... Questa parola crudele risuonava dentro di lui; e gli pareva
che tutta la sua vita ne fosse attossicata.

Malinconie di un istante, certo. Ma intanto, in quell'istante, egli le
subiva.

Scrollò il capo e le spalle, come per cacciarsi di dosso
quell'ossessione.

--A rivederci! Spero di trovarti più ragionevole la prossima volta.

Maria lo salutò dolcemente chiedendogli scusa. Si era fatta rossa e
aveva delle lagrime nella voce.

Egli provò una pazza voglia di stringersela fra le braccia; ma si
contenne.

E partì.

Immobile, la rocca sotto il braccio, il filo tra le dita, il fuso
appoggiato allo stomaco, Maria seguiva con lo sguardo intento il
calessino che si allontanava sulla strada bianca, deserta, sollevando
nugoli di polvere.



CAPITOLO XII.

Il germe dell'odio.


Il dottor Chiari non aveva parlato a vanvera: la Virginia moriva. Una
cosa preveduta del resto.

Da vario tempo, vedendola lavorare con tanta fatica e diventare sempre
più sottile e pallida, le contadine dicevano sommessamente:

--Non ci resiste; ci rimette la pelle.

E le più maligne soggiungevano: L'asino sarà vendicato.

Tuttavia, fino che rimaneva in piedi, pareva che la catastrofe, lenta a
venire, fosse lontana ancora.

Ma in quella primavera le prese una tosse che non la lasciò più. Aveva
certi assalti da buttarla giù come morta.

Pure si sforzava a lavorare, perchè non voleva stare in casa sola: aveva
paura; le veniva addosso una insoffribile malinconia. E poi, non voleva
si dicesse che andava tisica. Temeva anzi sopra ogni cosa questo
giudizio della gente, condanna feroce, contro cui non v'ha appello.
Perciò diveniva sospettosa, e appena due persone discorrevano, la si
metteva accanto a loro per sentire se parlavano di lei, del suo male.

E se qualcuno le domandava:

--Come state Virginia?--guardandola con un certo interesse o curiosità,
ella rispondeva subitamente:

--Benissimo!

Ma il dottore le diceva senza pietà:

--Non ti forzare: fai peggio.

Perciò, intendendo bene che agli occhi del dottore il male non si poteva
celare, ella rimbeccava stizzosa:

--Che devo fare? Il lavoro c'è, e non ho nessuno che mi aiuti, dacchè
mia cognata mi ha piantata qui per i suoi capricci!

Il medico, indifferente, s'accontentava di sorridere del suo spietato
sorriso, e le voltava le spalle.

Invano Sandro e Pietro sempre amorosi, sempre attaccati a quel bel
corpo, che si disfaceva, la supplicavano di aversi riguardo.

Ella rispondeva invariabilmente.

--Il podere non si zappa da sè; la colpa è di chi ci ha piantati qui
soli!

Così, a poco a poco, nel cuore semplice e rozzo di Pietro si esasperava
il rancore contro la cognata che egli accusava di avergli portata la
discordia in casa e cagionata la spartizione tra lui e il fratello. Gli
pareva pure che Sandro fosse stato troppo debole, troppo ingrato. Badare
alle chiacchiere delle donne! Rovinare una famiglia per quel bel
costrutto! Non poteva perdonargli; non poteva, no.

Eppure quando Sandro capitava lì, e si mostrava così servizievole, così
affezionato, il fratello maggiore tornava in pace con lui, e il suo
risentimento si concentrava sulle Scaramelli e su don Giorgio
Castellani, per il quale aveva in serbo un sacco d'improperi, che
avrebbe voluto rovesciargli sul capo, levando il sacro, levando... Anzi
senza fare questa fatica, poichè don Giorgio ci aveva pensato da sè,
spretandosi per fare la gran pazzia di sposare la Cristina.

Ma dopo queste sfuriate Pietro si faceva il segno della croce, perchè il
pensiero di quel prete che si dannava l'anima per una donna, gli metteva
un grande sgomento addosso.

Tutto considerato, il più infelice dei tre, era Sandro. In casa propria
una malinconia da morire, e il rimorso di vedere la sua povera moglie
così rovinata per colpa di lui. In casa del fratello, rimorso, e paura
continua di essere scoperto. E nessuna consolazione da quell'amore
maledetto che gli aveva straziato l'anima e avvelenata l'esistenza!

La Virginia non lo amava più. A grado a grado, come la malattia la
consumava e il desiderio ardente di voluttà andava spegnendosi nelle sue
carni disfatte, ella cessava di amare. Perfino la simpatia fisica, già
così viva e tenace, degenerava in una specie di manìa persecutrice.

Lo voleva là, accanto a sè; ma soltanto per tormentarlo. Lo guardava
lungamente e lo trovava brutto, invecchiato, cencioso. Lo paragonava,
con un senso di disprezzo, a un giovine signore che era stato il suo
primo damo. Che differenza! Poi, ripensando che non le aveva
sacrificata neppure interamente la moglie, il suo amore diventava odio.

Lo voleva là al suo fianco; e guai se non arrivava alle ore stabilite!
Avrebbe voluto trascinarselo dietro, legato a una fune, come un grosso
cagnaccio per deriderlo e punzecchiarlo, mostrando però a tutti che egli
era cosa sua e non poteva staccarsi da lei. Ah! se Maria non le fosse
sfuggita! Se avesse potuto averla tra le unghie, che medicina sarebbe
stata quella per la sua malattia!

La febbre di dominio e di persecuzione che stagna in fondo al cuore di
tante donne--reazione perversa della troppo lunga e dura sottomissione
di tutto il sesso--giungeva all'estrema acutezza nella tisica moribonda.

Sandro sentiva l'odio che si accaniva contro di lui; lo sentiva nelle
carezze feline, nei lunghi sguardi indagatori, nei motti scomposti.

Senonchè, incapace di penetrare nelle vertiginose profondità di quella
natura tortuosa e incomposta, egli attribuiva tutto al male, alla
gelosia, al dispiacere di morire; e compativa e amava.

Ma invano tentava di placare quella sua terribile nemica. Le portava il
pane bianco di semola, il burro fresco per la pappa, il latte della
capra, che il fittabile della Cascina Grande teneva nella stalla per
salute dei cavalli. Spendeva fino all'ultimo soldo in medicine costose
ordinate dalla magnetizzata, privandosi fin di quel poco vino, e
riducendo sè e la moglie a non mangiare che polenta asciutta sera e
mattina, e un poco di minestra mal condita con una goccia d'olio di
linosa, nei giorni di festa. Invano.

Invano faceva tutto quanto un povero contadino suo pari poteva fare.
Nulla giovava.

Virginia accettava i doni, esigeva i sacrifici; ma non aveva mai una
parola veramente affettuosa. Che se qualche scintilla dell'antica fiamma
si riaccendeva nelle sue viscere, non erano che ardori fuggitivi subito
spenti da uno scoppio di collera, da un ritorno del malumore. E se mai
la collera taceva e il cattivo umore non si ridestava da sè; erano gli
assalti di tosse, i lunghi deliqui, che toglievano al povero Sandro
l'ultima speranza di gioia.

Ad ogni occasione, ella ricominciava le sue eterne querimonie. Per lui
era ridotta in quello stato! Perchè l'aveva tradita, abbandonata! Per
lui, che essendo stanco di lei e incapricciato della sua giovine moglie,
voleva finirla così! Ah! era un bel vigliacco!

Perchè non l'aveva detto subito? Ella avrebbe capito; si sarebbe
rassegnata; non avrebbe preteso nulla. Di che aveva avuto paura? Che lo
volesse per forza forse...

Sandro, che non poteva stare a sentire questi discorsi, la pregava di
smettere, di tacere. Non le aveva domandato perdono? E quante volte!...
E quante volte lei aveva promesso di perdonargli e di non parlarne più!
Si, lui era stato debole, ne conveniva; non però, come lei fingeva di
credere, perchè fosse incapricciato della moglie--la povera Maria,
quantunque bella e giovine non gli era mai piaciuta, a lui--ma per la
compassione di vederla deperire a quel modo; e poi anche perchè si era
confessato e don Giorgio gli aveva toccato il cuore. Una debolezza,
certo. Ma non meritava di essere disprezzato per questo.

Non era ritornato a lei quasi subito?...

Non si era messo a rischi incredibili?

Non aveva calpestato i giuramenti fatti a Dio, le promesse fatte alla
moglie e al confessore?...

Non era stato abbastanza traditore, abbastanza vigliacco?

Che cosa voleva di più da lui? Lo dicesse, egli era pronto a tutto. Ma
finisse di tormentarlo e di crucciarsi lei stessa!

E piangeva il povero contadino, l'antico soldato, i cui bei capelli neri
cominciavano ad essere brizzolati; piangeva come un fanciullo.

Disperando, a sua volta, di farlo tacere, ella rimaneva con le spalle
voltate, turandosi le orecchie con le mani, per non ascoltarlo.

Ma tutto a un tratto scattava.

Già! lui, era un gran brav'uomo! Lui, andava in chiesa, voleva salvare
l'anima, e raccontava i suoi affari e quelli degli altri, e
comprometteva una maritata--la _vera sua moglie_, come diceva nei
momenti di trasporto quando le voleva bene davvero--la comprometteva con
un prete pettegolo che poi raccontava ogni cosa alla ganza! Oh! si, lui,
era un bravo uomo!... Aveva compassione della moglie e si pentiva di
averla tradita!... Ma andasse, andasse via, una buona volta, andasse
dalla sua Scaramelli!...

Si vantava di essere ritornato?... Ah! Ah! Ah! La faceva ridere davvero!
Non si ricordava com'era ritornato?... Chiamato, invitato, da quel buon
diavolo di Pietro, che non poteva vivere senza vederlo e aveva bisogno
di un aiuto per vangare il campo grande!

Poi una volta in casa, si sa; si erano trovati soli, seduti vicini, e il
capriccio di riaverla gli aveva messo il diavolo in corpo: tutti a una
maniera gli uomini!... E lei, lei che gli voleva bene per davvero, si
era tutta commossa, e non aveva trovata la forza di gridare, di chiamare
al soccorso; e si era lasciata prendere... piangendo però! Se ne
ricordava, lui?... Oh! non l'avesse mai fatto! Non l'avesse mai
fatto!...

Uno scoppio di tosse, spaventevole, le troncava la parola; poi le veniva
un singhiozzo tormentosissimo, una specie di convulsione che la faceva
diventar tutta livida. Pareva in punto di morte; ma non si arrendeva.
Appena passato l'assalto, ancora tutta smorta e tremante, gli occhi
umidi, il viso chiazzato, le labbra imbrattate di schiuma, ella
ricominciava con la voce strozzata, le sue eterne e volgari accuse.

A che punto l'avevano ridotta!... Potevano vantarsi di averla ammazzata.

Si! lui e le Scaramelli l'avevano ammazzata!... Si, abbandonandola così,
epperò condannandola a quel lavoro insoffribile, a zappare, a mondare il
riso, con l'acqua fino al ginocchio, lei che non c'era avvezza! con quel
sole in quei campi scoperti che parevano di fuoco. E poi, le malignità
della gente, i sarcasmi, le canzonature! Quanto aveva patito e che
smangiature di rabbia! Lei sola poteva dirlo. E tutto perchè l'aveva
resa la favola del paese. Oh! quelle canaglie di donne, quante gliene
avevano dette, credendo che non sentisse!...

Così si era buscata il male, così le era venuta l'infiammazione--quel
fuoco che le bruciava il petto--le arrabbiature l'avevano consumata di
dentro, e a forza di sudore era diventata debole debole e aveva preso
quella maledetta tosse! Tutto per lui e per la sua cara moglie
sacrificata. Altro che dire che lei ci aveva la tendenza alla tisi. Ma
si, eh! Non avevano altro da inventare?... Bianca, rossa e grassa come
lei era! Volerla far passare per tisica, lei?... Carogne!... Delicata
era; sicuro; delicata; non nasceva da villani come loro, per questo. Lei
era nata un pochino meglio; e aveva sempre vissuto in casa dei padroni,
che l'adoravano... Per sua disgrazia... era capitata in quel paese da
cani... Per finire marcia... Dio, Dio! morire!... Finire!... Le toccava
morire... così... E nessuno voleva salvarla... Nessuno!...

Un altro scoppio disperato, e nuovi lunghi assalti di tosse la
riducevano finalmente al silenzio, esausta, annientata. Ma il suo corpo
abbandonato sulla rozza panca presso al focolare, si disegnava ancora
armoniosamente, con delle linee morbide, eleganti. E i bei capelli di un
biondo scuro che le si arrovesciavano sulla nuca in una massa pesante,
molle, ondulata, mettevano uno strano fascino voluttuoso intorno a
quella faccia pallida, segnata dalla morte.

Cessata la convulsione dei singhiozzi, piangeva sommessamente, come una
bimba oppressa dalle ingiustizie degli uomini.

Sandro non si stancava dal contemplarla, e dimenticava le ingiurie, e
avrebbe dato la metà del suo sangue per rianimare la fiamma della vita
in quel corpo adorabile.

Intanto le ore fuggivano; si faceva tardi; egli doveva andarsene, col
cuore stretto, la testa arroventata, implorando un bacio che non sempre
gli era concesso.



CAPITOLO XIII.

Decomposizione.


L'estate torrida di quell'anno, l'afa che prostra le forze, i copiosi
sudori, il nutrimento manchevole e il progredire della malattia,
ridussero la Virginia tanto debole da non potersi muovere di camera. E
poco andò che non le fu possibile neppure di levarsi.

I suoi rancori e le recriminazioni acquistarono nel medesimo tempo un
carattere più acre ed insopportabile. Una vera ripugnanza si manifestò
in lei per l'uomo che era stato il suo amante; e con la ripugnanza, non
più interrotta da ritorni di passione, ingigantì l'odio sordamente
covato. La decomposizione morale e fisica non si arrestò più.

E Pietro Rampoldi, l'ignaro testimone del tradimento e del lungo
supplizio del traditore; l'uomo semplice, onesto, sano, incapace di
sospettare il fratello e capace di resistere al veleno della
tubercolosi; Pietro Rampoldi soggiacque rapidamente al contagio della
decomposizione morale. In lui pure il cupo risentimento divenne odio; e
quest'odio ebbe improvvisi aneliti di ferocia: bramiti di fiera che
fiuta il sangue.

Le circostanze esteriori recarono la loro cieca contribuzione allo
svolgimento funesto del terribile germe.

Se le Scaramelli fossero state lì sotto a' suoi occhi, offrendo uno
sfogo all'amara passione, forse Pietro non avrebbe odiato il fratello.
La memoria dell'antica affezione, e la riconoscenza pei recenti
quotidiani servigi, lo avrebbero forse fatto resistere all'attacco
oscuro dell'assorbito veleno.

Ma nessun altro nemico si presentava; nessun capro espiatorio era là. E
la sua esasperazione saliva, saliva fino a quel punto, ove non è
possibile che un uomo rozzo, passionato, impotente contro le sventure
che lo colpiscono, non sia trascinato a sfogarla su qualcheduno.

Anche nell'aspetto esteriore egli si mutava in modo rapido e doloroso.
L'alta statura, le spalle grosse, le gambe solidamente piantate, la
faccia larga dalla folta barba, dalla fronte diritta, che una foresta di
capelli ancora neri incorniciava severamente, tutti questi segni di
salute e di forza deperivano giorno per giorno; e la robustezza generale
degenerava in una incipiente obesità flaccida, stracca.

Una sera di luglio, dopo una giornata tra le più accascianti, nella
camera bassa, sotto le tegole, calda come un forno, la Virginia
aspettava ansiosamente una mano pietosa che la sollevasse su quel largo
letto di piuma--grande ambizione dei contadini lombardi--dove il suo
corpo in sudore, affondava penosamente come in una buca vischiosa.

Sandro, occupato per conto del padrone, non s'era fatto vedere in tutto
il giorno.

Pietro rincalzava il formentone appena finito di zappare.

Le vicine, poco curanti della Virginia, si dicevano occupate in mille
faccende.

Ella li avvolgeva tutti nel medesimo corruccio angoscioso; e a tutti
imprecava.

--Maledetti! Perchè non crepano tutti?...

Perchè il sole non si decide a incendiare ogni cosa?...

Ma al parossismo seguiva l'abbattimento che la faceva rimanere immobile,
senza pensiero, senza volontà, in un prolungato torpore.

Era distrutta adesso: un vero scheletro. Il viso, un tempo delicatamente
ovale, appariva lungo e stretto con la bocca e gli occhi enormi. Pure,
quegli occhi profondi di tisica, quei pomelli accesi, quella massa di
capelli, quei denti bianchi, le davano ancora una singolare parvenza di
bellezza.

Il sole cominciò finalmente, a nascondersi dietro alla solita fumana
serale. Una brezzolina sottile volò via pei campi. Anche nella camera
della malata penetrò il frescolino. Ma lei non ne ebbe sollievo; chè il
sudore le si diacciò subito sulla pelle e un lungo brivido la scosse
tutta.

Un passo greve fece scricchiolare la scaletta che dalla cucina metteva
in camera per mezzo di una bòtola. La testa grossa e le spalle curve di
Pietro apparvero quasi subito sopra il livello del pavimento.

Quando egli fu presso al letto, la Virginia che voleva rampognarlo,
ammutolì vedendogli la faccia sconvolta, gli occhi gonfi di lagrime. La
sua indifferenza di egoista e di malata, fu scossa da quella
inesprimibile disperazione.

--Che hai?--mormorò.

Egli volle rispondere, ma non potè subito; e solo un gorgoglio confuso
gli uscì dalla strozza. Si lasciò cadere su uno sgabellotto che era là
accanto al letto, e stentamente, con voce sorda pronunciò queste poche
parole:

--Il padrone mi ha fatto chiamare. Si ripiglia il podere!... Ha già
fatto il contratto con Giovanni Cappella di Gu che ha due figliuoli
grandi e quattro ragazze!...

E tacque, incapace di commentare un fatto così eloquente.

La Virginia restò un momento sbalordita; ma poi, con tetro cinismo, la
sua voce quasi fischiante uscì in questa esclamazione:

--A san Martino io non ci sarò più!...

--L'ha detto anche a te?--si lasciò sfuggire Pietro.

--Chi?! Il dottore?! Dunque è vero?... Non ci sarò più?!...

E la sua testa, che pure aveva trovato l'energia di rialzarsi, quasi per
isfuggire a quella mazzata brutale: la sua povera testa deformata dalla
magrezza, ricadde sul guanciale pesantemente, come cosa morta.

Pietro, non intendendo che a metà, sentendo però l'orrore di quella
situazione, rimaneva a bocca aperta, spaventato, intontito; le spalle
curve, il mento sul petto, le mani penzoloni. Non poteva parlare,
pensava a stento.

Annottava.

Nella piccola camera, che il largo letto matrimoniale, il canterano e
una vecchia guardaroba occupavano quasi interamente, le ombre si
addensavano.

Nella stanza accanto, abitata in addietro da Sandro e Maria, una giovine
sposa, venuta da poco in Val Mis'cia, addormentava il suo primonato
con una monotona canzone.

A poco a poco Pietro vedeva chiaro dentro di sè. Dallo sbigottimento
opprimente, in cui l'avevano gettato quei due colpi improvvisi, si
andava svolgendo distinta e terribile la coscienza della immane
sventura che lo minacciava. Due separazioni, del pari strazianti per
lui, lo attendevano: due perdite irreparabili: il grande podere,
largamente fruttuoso, coltivato con tanto amore, e la bella donna, la
brava massaia: ciò che egli aveva di più caro al mondo. Tra pochi mesi
egli se ne sarebbe andato da quella casa che a lui sembrava bella perchè
vi era entrato fanciullo coi suoi--una famiglia numerosa e gagliarda che
sapeva difendersi dalla miseria--se ne sarebbe andato, chi sa dove;
senza un soldo, indebitato e solo, senza quella donna, senza la sua
Virginia!...

Pur non volendo, correva col pensiero al fratello, che l'aveva
abbandonato, ed era quindi la colpa di tutto, secondo lui.

Un'altra volta la scaletta della bòtola scricchiolò. Un altro uomo
saliva.

--Lui!--mormorò la Virginia scuotendosi. Lui! Il demonio della tua casa,
povero Pietro!... Tutto rimescolato dal senso di quelle parole, e più
dall'accento con cui la Virginia le aveva pronunciate, Pietro ebbe un
sobbalzo, ma non disse parola.

Sandro entrò, come il solito, premuroso, e scusandosi dell'involontario
ritardo.

Allora il fratello maggiore, scambiate appena le poche frasi
indispensabili, si allontanò: doveva cambiar lo strame alle bestie e
metter dell'altro fieno nelle mangiatoie, e approfittava di quel momento
che la Virginia aveva compagnia.

Appena sola con l'amante, costei gridò singhiozzando:

--Vammi via!... Muoio... e tu sarai capace di vivere... Vammi via!... ti
odio...



CAPITOLO XIV.

Vendetta.


L'alba si annunziava appena nel cielo caliginoso. Sulla campagna
rovinata dalla grandine soffiava un vento freddo che pareva di novembre.

Tutto il poco raccolto della cattiva annata, distrutto, portato via!

Così finiva quella terribile estate.

Le donne uscivano dalle case ai primi lucori, dopo avere passata gran
parte della notte ai piedi delle sante immagini, bruciando l'olivo
portato a casa nella domenica delle palme; facendo ardere delle candele
benedette. Molte piangevano; altre parevano istupidite; poche avevano la
forza di parlare, di sfogarsi.

Gli uomini giravano i campi al fioco lume; incalzati dalle ultime
speranze che andavano man mano morendo.

--Tutto! tutto!... Proprio tutto!--mormoravano disperati.

Il formentone, già alto, pareva battuto con le verghe; la canape, fatta
a brandelli e portata via dallo straripare dei fossi; poichè, dopo la
grandine, era venuta giù un'acqua diluviale. Il riso, già pronto per la
raccolta, distrutto pur esso, perduto!

Tutta la campagna desolata; un anno di fame e di patimenti. Unica
speranza per non morire, le anticipazioni del padrone: vale a dire la
miseria fissa in casa e l'impossibilità di rifarsi, chi sa per quanti
anni di fila!

Un uomo alto, adusto, già grigio--un lavoratore famoso--che aveva una
grossa famiglia, si strappava i capelli, con un gesto quasi
inconsapevole, da demente!

Il figliuolo della Meroni e quello della Menica parlavano di emigrare.
Altri giovani li ascoltavano con torva attenzione. Ma le donne
inorridivano a quei discorsi.

--Chi resta qui dovrà mangiare l'erba come le vacche!--diceva il vecchio
Melica, il padre della povera Giulia, con quella sua faccia di fauno.

Altri concedevano uno sfogo ai nervi irritati picchiando i ragazzi che
sgambettavano mezzo ignudi nel fango, raccattando le panocchie
lattiginose sui gambi spezzati, per farle cuocere sulla brage.

Qua e là si trovavano certi chicchi di grandine, che a tener calcolo
della parte già disciolta, dovevano essere come noci quando venivano
giù.

Allo spuntar del giorno arrivò il fittabile stralunato, ringhioso; e
tentò di gettare una parte di colpa sui contadini che non si erano
affrettati a raccogliere il riso _melone_, già maturo; come se non fosse
toccato a lui a dare gli ordini!

Ma il Melica, vecchio e sparuto com'era, minacciò di strozzare quel
prepotente, se non la finiva. E lo scacciasse pure! Tanto, morir di fame
qua o là era lo stesso!

Il sole, appena comparso, veniva coperto dalle nuvole nel cielo cupo e
tempestoso.

--Dopo il campo la casa--dicevano alcuni contadini alludendo alla piena
dell'acque che poteva portarsi via quelle loro casupole.

Venivano intanto notizie dei dintorni. Il danno era vasto. Il temporale
aveva battuto una larga zona; risparmiando, tuttavia, certi posti,
appena sfiorando certi altri; mentre sull'«isola» s'era proprio
accanito.

Il grosso podere dei Rampoldi era specialmente rovinato; neppure un
pezzetto sano; niente! Un bel saluto per l'ultima annata.

--Appena liberato da quella carcassa, Pietro farà bene a
emigrare--diceva il figliuolo della Menica che si scaldava con
l'emigrazione.

--Per me andate dove volete (magari all'inferno)--borbottava il
fittabile ghignando nell'ira.

--Ma dov'è Pietro?--domandò un contadino che aveva un campo vicino al
podere.

--Non s'è ancora visto--rispondeva un altro.

Come mai?... Non aveva sentito tutto quel buscherio?...

La finestra è spalancata--disse una ragazza che veniva da quella
parte.--Ma lui non si vede.

La Nunziata Meroni arrivò di corsa sulla testata del vasto appezzato di
granoturco, dove pareva che un battaglione di cavalleria avesse
galoppato in lungo ed in largo tutta la notte.

--È morta la Virginia!--gridò quasi allegramente. E poi, a mezzavoce:

--Sarà contento l'asino!...

--E tu, quando crepi, stregaccia?--scrosciò una voce che tutti
riconobbero per quella del Melica.

Improvvisamente, come sbucato di sotto terra, Pietro Rampoldi si trovò
lì.

Si fece silenzio. Neppure la Meroni osò ribattere l'insolenza del
vecchio Melica.

Pietro era irriconoscibile. Pareva più alto del vero, perchè le grosse
spalle gli si erano come assottigliate, ed egli camminava diritto, un
poco intirizzito, coi ginocchi rientrati. Nel volto aveva un pallore
terreo; le labbra quasi nere; gli occhi torvi, socchiusi; e in quella
selva di capelli scuri, arruffati, spiccavano certi ciuffi grigi, che
nessuno si ricordava di avergli visto. In mano teneva il forcone col
quale aveva portato fuori il letame di sotto alle bestie. Guardava la
campagna rovinata, senza proferir parola; gli altri, però, guatavano in
viso a lui.

Ei se ne addiede, essendo in sospetto.

A un tratto afferrò il Melica per un braccio, e con una voce che fece
correre un brivido nelle vene degli astanti, gli chiese:

--Perchè mi guardate così!

Preso alla sprovvista, il vecchio s'impapinò. Che ne sapeva lui, dedina!
Che ne sapeva?... Oh bella! non era lecito guardare in faccia un
cristiano?

--Ora si strozzano--mormorò la Meroni con febbrile interesse.

Pietro, tornato in silenzio, guardava il suo interlocutore con gli occhi
stralunati. Dopo alcuni momenti ripigliò:

--Sapete che mi è morta la moglie?... Stanotte durante la tempesta,
nello spavento di quelle saette!... È una gran disgrazia per me!

E mentre diceva così, volgeva gli occhi in giro, scrutando le faccie
chiuse, atteggiate a una indefinibile espressione di scherno.

Qualcuno sospirò; qualche femmina mormorò a mezza bocca:--Poveretto!...
sicuro!... Ma gli altri chinarono le fronti, per non mostrare il lampo
maligno degli occhi.

Melica, incapace di frenarsi, disse:

--Guardate il podere piuttosto! Di femmine non v'ha penuria, ma di
formentone, ne patiremo tanta, quest'anno!

--È vero--mormorò Pietro con la voce cavernosa:--è vero! Ma anche la mia
povera moglie non l'avrò più...

--Non v'inquietate! Ne troverete un'altra.

--Non come quella però!

--Ve l'auguro!... Ve l'auguro!...

Il senso palesemente satirico di queste parole sembrò sfuggire al
bifolco. Ma il fittabile che passava di là non si trattenne dal ridergli
sulla faccia.

Pietro restò imperturbato; e voltate le spalle s'allontanò senza dire
una parola.

Andò verso casa. Entrò un momento nella stalla: guardò le sue bestie a
una a una, come se avesse voluto portarne con sè l'immagine. Mise del
fieno fresco nella mangiatoia della vacca nera che aveva finita la sua
razione e le accarezzò la schiena con un gesto automatico. Tornò a
guardare i bovi, aggiunse un po' di fieno anche a loro, tanto che ne
avessero abbastanza per tutta la giornata. Depose il forcone; uscì;
accostò l'uscio. Attraversò l'orto e entrò per la piccola porta
posteriore, nella cucina, quasi buia e tutta in disordine, per il gran
tempo dacchè nessuna donna se ne occupava. Egli non vi badò; ci era
avvezzo.

Staccò dal muro un vecchio fucile a una canna che suo fratello gli aveva
regalato anni addietro; lo esaminò; lo ripulì. E senza affrettarsi,
calmo, freddissimo, cercò la munizione in un cassetto della credenza. Ve
n'era abbastanza per una carica. Un lampo di soddisfazione gli balenò
negli occhi. Si mise a caricare l'arma con molta cura.

Quand'ebbe finito salì nella camera della morta. Quella grande calma
sembrò abbandonarlo, allorchè, appena uscito dalla bòtola, i suoi
sguardi si fermarono istintivamente sul letto, dove la Virginia giaceva
come se dormisse. Tremò e inciampò.

--Sacr...! Se mi scatta il grilletto!... balbettò trasalendo. Fece
qualche passo per la camera, sempre con gli occhi rivolti alla morta.

Andò alla finestra e restò un momento a respirare l'aria, perchè si
sentiva un peso sul petto, e stentava molto a tirare il fiato.

Il tempo pareva nuovamente sul cambiare. Un vento forte spazzava le nubi
e il sole mattutino tingeva il cielo di rosa.

Alcuni contadini ritornavano alle loro case, la testa bassa, le braccia
penzoloni. Altri continuavano a girare pei campi, all'impazzata.

Pietro si ritrasse dalla finestra e fece ancora qualche passo a caso,
tentennando. Il suo viso color della cenere aveva dei solchi profondi
sotto agli occhi, intorno al naso.

Sentiva la febbre martellargli i polsi e una arsura insopportabile in
gola. Cercò la secchia dell'acqua che aveva portato su nella notte. Era
quasi piena. Se l'accostò alle labbra e bevve, bevve. Provò qualche
sollievo, ma i ginocchi, pesanti, gli si piegavano per la stanchezza.

Volle sedere un poco e andò a mettersi accanto al letto, dalla parte
dove dormiva lui, su una seggiola di paglia. Appoggiò la spalla
sinistra al letto; tenendo sempre lo schioppo con la mano destra. La
morta, che nel delirio della notte si era buttata adosso a lui, pendeva
tutta da quella parte, tanto vicina, che gli pareva di sentirla ancora
sopra di sè, come in quelle ore angosciose. Rabbrividiva.

Crescendo l'oppressione, celò il viso contro il guanciale e pianse
lungamente. Le lagrime scorrevano sulle guancie flosce e inzuppavano la
biancheria del letto formando una larga macchia.

--Virginia!... Virginia mia!--balbettava quasi senza sapere.

A un tratto si scosse; guardò la morta da vicino e continuò a guardarla
sempre più intensamente, negli occhi vitrei rimasti aperti, velati
appena dalle lunghe palpebre.

Senza rendersene conto, sentì ch'era sempre bella; si chinò su lei; la
baciò. Ah! Com'era fredda! Nuove lagrime gli offuscarono la vista. Tornò
a fissarla negli occhi. Quegli occhi morti serbavano nella eterna
immobilità una espressione terribile.

Dicevano quegli occhi:

--Ammazzalo! Ammazzalo!--come avevano detto le labbra nel delirio
dell'agonia. Ammazzalo! È stato il demonio della tua casa!... Ti ha
tradito, te, suo fratello!... Io?... Io?... Si; perdonami!... Mi ha
voluta... è stata una debolezza... Perdonami! Ho sempre voluto bene a
te, sempre!... Ammazzalo, quel cane!... Ammazzalo, ci ha traditi tutti
due.

Pietro ripeteva dentro di sè le spaventose parole. Gli pareva di
risentirle nel silenzio pauroso di quella camera. E pensava ch'ella era
morta in peccato, con quel pensiero di vendetta, soffiandogli sul viso
con la voce spenta quella parola: ammazzalo. Dannata, certo. La povera
anima doveva essere già nelle fiamme eterne. E lui pure andava incontro
alla dannazione. Si sarebbero incontrati, laggiù...

Ma anche l'altro doveva esserci!... Epperò voleva ammazzarlo subito,
perchè non gli restasse il tempo di pentirsi. Oh! il fucile era buono,
ed egli mirava bene!

Si trovava seduto di fronte alla bòtola. Un balzo; un colpo. Uno solo.
Guai se falliva! Ma il braccio era saldo: il colpo avrebbe colto nel
segno.

Sandro doveva arrivar presto perchè era domenica, e perchè sapeva la
Virginia tanto aggravata; più presto ancora per vedere i danni della
grandine. Poi, forse qualcuno l'avrebbe avvertito della morte di
Virginia; ed egli sarebbe accorso per vederla e baciarla un'ultima
volta.

--Cane!... Assassino!... Baciarmi la mia donna! Portarmi via la dolcezza
di quella carne! Godermi quel corpo, mio, mio! E dopo, come niente
fosse, piantarmi qua col grosso podere sulle braccia, vedendo che non
potevo bastare ai lavori! E spogliarmi di quella poca roba con la scusa
della spartizione!... Cane!... No. Caino!... Tu possa morire senza dire
«Gesù» e bruciare per l'eternità.

Batteva i denti, gli occhi gli si iniettavano di sangue, il petto gli si
gonfiava. Sentì il bisogno di scattare in piedi sotto l'impulso
formidabile dell'uragano che si scatenava dentro di lui.

--Vieni! Vieni presto, perdio!

Nessuno ancora. Ricadde sulla sedia. Cercava di ricomporsi; di aspettare
pazientemente.

La lunga attesa non doveva stancarlo; la vendetta sarebbe stata più
saporita. Nella mattinata sarebbe venuto certo quel Giuda... sarebbe
venuto. Nessuno sospettava che lui volesse fargli male: nessuno poteva
avvertirlo. Sarebbe arrivato come sempre, con quell'aria di soldato, con
quella faccia d'ipocrita.

Erano fratelli loro?... Fratelli!... Da molto tempo si era abituato a
non vedere che il nemico in quell'uomo. L'odiava tanto!

Voleva ucciderlo come una bestia malvagia. Non gli avrebbe detto neppure
una parola: avrebbe tirato il colpo e _amen_.

E tornava a guardare la morta, quasi per chiederle la sua approvazione.
La guardava con indicibile amore e rimpianto. Non gli passava neppure
per la mente ch'ella potesse essere la principale colpevole.

La facoltà di ricostruire plasticamente nel pensiero un fatto noto, ma
non veduto--questa facoltà tanto sviluppata in alcuni--mancava od era
debolissima nel povero bifolco. L'immagine di quella donna, sana,
fiorente, stretta al petto dell'amante in un trasporto di
passione--immagine che avrebbe fatto impazzire un altro in quelle
circostanze--non si allacciava peranco alla sua mente confusa e lenta.

Nè la memoria lo serviva meglio: non ricordava le moine, i sorrisetti,
le pose procaci della bella donna davanti al cognato. Forse non aveva
neppure osservato codesti fatti; certo, non capiti.

D'altra parte, impressionato dagli ultimi avvenimenti e da quell'astio
accanito della moribonda per il suo complice, Pietro non poteva supporre
ch'ella avesse amato un giorno quell'uomo, come non poteva discernere,
sotto le cause palesi, le occulte cause psicologiche e fisiologiche di
quell'astio implacabile.

Per lui la colpa di sua moglie non poteva essere che una debolezza; egli
non poteva che figurarsela riluttante, vittima quasi di una vera
violenza. E da questo intimo convincimento all'assoluzione completa
della seducente creatura, le cui dolci carezze non l'avrebbero mai più
rallegrato nella misera vita, il passo era breve assai. In ogni modo
questi non erano che movimenti inavvertiti dell'animo, chiarori
crepuscolari della coscienza; i quali contribuivano, forse, ad acuire
l'odio per il traditore e ad affermare la volontà nel pensiero della
vendetta.

Difatti, non una incertezza su questo punto: non un dubbio.

Il suo animo era preparato di lunga mano. Soltanto la istintiva
ripugnanza all'omicidio e un resto di tenerezza fraterna avevano
resistito fino a quel punto alla terribile spinta. Ma dopo la
confessione della Virginia, allorchè il fratricidio gli balenò
distintamente, in quella cocente febbre di vendetta: allorchè il piano
feroce andò svolgendosi con rapidità spaventosa, nel suo pensiero di
solito così tardo, egli non provò nè stupore, nè ribrezzo, tanto la
coscienza si era già abituata a considerare quel delitto siccome
inevitabile e quindi giusto. Con tuttociò, prima di mettersi all'opera,
egli aveva cercato una specie di controprova, che i visi beffardi e i
discorsi equivoci dei suoi compaesani gli avevano fornito. Ora sapeva
che la gente lo aveva anche deriso per la sua buona fede; che Sandro lo
aveva esposto in tutte le guise alle beffe, allo scherno: sapeva, e
l'odio saliva, saliva.

Il suo grosso orologio segnava le otto e dieci minuti, allorchè, dal
posto dove sedeva, guardando intensamente fuori dalla finestra, egli
vide Sandro uscire dal fitto dei gelsi e prendere per la viottola che
metteva direttamente al piccolo orto della casa.

Sandro camminava adagio, a testa alta, come il solito. Era serio, ma non
troppo abbattuto. Sull'orlo del fosso aveva incontrato la Meroni.

Guardandolo con insistenza, costei gli aveva detto:

--Vostra cognata è morta stanotte!

Si era fatto pallido il povero Sandro, e non aveva potuto altro che
balbettare:

--Morta?!... Morta?!... soffocando i singhiozzi per non farsi scorgere
dalla vecchia che lo esaminava con gli occhi pieni di malizia.

Ma a poco a poco quel primo sgomento aveva fatto luogo a un vago senso
di sollievo e quindi alla coscienza della riconquistata libertà;
coscienza prima oscura ed incerta; poi limpida. Ora egli pensava:

--Povera Virginia! Morire così, a soli ventott'anni! Povera Virginia, ti
ho voluto tanto bene, non ti dimenticherò mai... mai!...

Era sincero.

Ma insieme a questi rimpianti, espressi liberamente, con soddisfazione
della coscienza, una voce interna andava mormorando sommessamente questa
insinuazione consolatrice:--Non disperarti tanto! Bisognava bene che
morisse, malata così!... Chi sa quanto avrebbe sofferto quest'inverno
con la miseria che si prepara. È un bene che sia morta, un bene per
lei... e per gli altri...

Egli rimaneva come impaurito, e cercava di allontanare la voce
importuna. Ma il sollievo interno, quel senso di liberazione, diveniva
ognora più distinto e vivo: s'imponeva.

La passione che tanto lo aveva torturato moriva con la bella donna: il
fascino che emanava da quel corpo sarebbe scomparso con esso; dileguato
nel regno delle ombre.

... Oh! si, era un bene che fosse morta!...

La povera Maria avrebbe rifiatato finalmente.

Egli sarebbe ritornato con Pietro... e Maria sarebbe stata contenta...

Avrebbero lavorato d'amore e d'accordo... come un tempo...

E risparmiato un po' di denaro per le annate cattive...

E Maria sarebbe guarita...

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Che fortuna che Pietro non avesse sospettato mai di nulla!...

Potevano ricominciare come una vita nuova...

Potevano dimenticare...

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Questi brani di pensieri staccati--emanazioni di un lento lavorìo della
mente--si allargavano, si maturavano con una rapidità straordinaria.

Ma allorchè entrò nell'orto, le mille immagini del suo lungo amore lo
assalirono tumultuando, i savi consigli della ragione e dell'egoismo
tacquero sgominati.

Là, vicino al pozzo, si erano visti la prima volta, otto anni addietro.
Lui aveva appena lasciato il reggimento; lei era sposa da dieci mesi.
Che bella sposa! Aveva le carni morbide e bianche come certi fiori dai
petali grassi che egli aveva ammirati nei giardini di Firenze e di
Palermo.

Mettendo il piede nella grande cucina si sentì sopraffatto da un senso
insormontabile di angoscia e di orrore.

La commozione gli serrava la gola come in una morsa. Volle fuggire.
Tutto parlava dei loro amori, dei dolci peccati... tutto; il camino
specialmente.

Ed ora... doveva rivederla... stecchita... su quel letto!...

Gli avrebbe fatto troppo senso; avrebbe pianto troppo disperatamente...
e Pietro che già forse sospettava, avrebbe capito...

Meglio fuggire; andare via, lontano; non ritornare mai più.

Fece alcuni passi verso l'uscita. Ma sentì il passo pesante del fratello
che andava su e giù per la stanza, impaziente.

Pensò ch'ei forse l'aveva veduto entrare e provò un senso di vergogna.

Doveva essere in uno stato orribile, povero Pietro, dopo quella notte;
con la morta al fianco e il raccolto distrutto! Sarebbe stata una
vigliaccheria lasciarlo, così: farsi vedere a fuggire...

Prese il suo coraggio a due mani e cominciò a salire la scaletta
gridando:

--Pietro! son io...

Un sordo ruggito gli rispose.

E quasi subito uno scoppio formidabile scosse tutta la casa.

Sandro, fulminato, mandò un urlo che morì in un rantolo. Il suo corpo
sanguinolento, con la faccia orridamente deformata, precipitò, come una
massa inerte fin sul lastrico fangoso della cucina.



CAPITOLO XV.

Sola.


Dopo tre anni di sacrifizio il dottor Carlo Chiari aveva finalmente la
prospettiva di un posto più degno di lui.

Sfidando il freddo, il vento, la pioggia di un brutto giorno di
novembre, la cavallina attaccata al vecchio calesse, andava andava per
la campagna malinconica, sommersa nella fiumana. Le ultime visite!

Già il nuovo medico condotto aveva preso il suo posto; e da buon
collega, egli lo aveva accompagnato da un luogo all'altro, presentandolo
ai diversi clienti.

Adesso faceva una corsa per conto proprio, volendo salutare alcuni
vecchi amici.

--Un buon diavolaccio--pensava egli riandando su i discorsi fatti col
suo successore.--Starà qui meglio di me; ha famiglia e nessuna
ambizione. Io vado, finalmente, vado!... Il mio destino si allarga; la
fortuna comincia a sorridermi... Sono io contento?...

Aveva tutte le ragioni per esserlo. Un bel paese lo aspettava; un
discreto stipendio, e molte probabilità di guadagni accessori.

Con tutto questo, egli non sapeva rispondere alla domanda che si era
fatta.

Guardava in fondo alla strada, un po' a sinistra, le case della Cascina
Grande: una larga macchia nerastra.

--Che tempaccio!--mormorò gettando il mozzicotto di un cattivo _sella_,
e pensando a tutt'altro.

La malinconia della partenza penetrava anche la sua anima di gaudente
ambizioso; quella piccola parte di se medesimo, quei tre anni di vita
con le annesse abitudini e i tenui affetti, gli mettevano addosso, al
momento di spogliarsene, un senso fastidioso di rimpianto. E
accostandosi alla Cascina Grande, questo malessere cresceva, diveniva
acuto, pungente.

--Maria!

Gli pareva che avrebbe quasi fatto meglio a non rivederla.

Il sole tramontava nel cielo grigio dietro alle nuvole. A un tratto una
buffata di vento fece uno strappo in quella massa di bambagia sudicia;
il disco d'oro sfolgorò su un fondo verdastro. Alcune nuvole nere si
tinsero di porpora agli orli. Le vecchie case della Cascina si
illuminarono; una vite selvatica, ancora coperta di pampini gialli e
sanguigni, che adornava l'orto del fittabile, brillò nel sole. I vetri
di alcune finestre scintillarono come bracieri accesi.

Oh! la campagna! La campagna aveva essa pure le sue civetterie... Gli
pareva quasi bello quel brutto paese al momento di lasciarlo!

Sorrise, probabilmente di sè.

Trasse dall'astuccio di pelle un altro sigaro e l'accese... Poi,
arrovesciando il capo sui guanciali della calessina, restò un momento
assorto, spingendo in alto il fumo, in bianche spire sottili.

La nuova «condotta» lo avrebbe messo a contatto di veri signori, di
gente colta, di qualche bella donnina... Certo. Il suo spirito,
l'ingegno arguto, avrebbero trovato finalmente le occasioni di farsi
valere...

Sbadigliò. Si drizzò con un movimento brusco. Scosse la cenere
agglomerata in cima al «virginia» con un movimento istintivamente
elegante della sua mano aristocratica, una vera mano di operatore, mano
felice, specialmente per certe operazioni; come gli aveva detto il suo
successore la sera innanzi, complimentandolo: una mano degna di una
clientela signorile.

Mah!... Tutto arrivava fuori di tempo nella sua vita!... Quei tre anni
lo avevano invecchiato, o, almeno, reso precocemente maturo. Come
avrebbe goduto, tre anni addietro, di quella fortuna, che ora gli
appariva scialba, insufficiente...

Davanti al cancello del vasto recinto la cavalla rallentò il passo
spontaneamente. Egli non ebbe che a muovere un momento le redini per
farle intendere che doveva entrare.

Il breve sfolgorìo del tramonto era scomparso. Le nuvolaccie si
riaddensavano, coprivano tutta la volta del cielo. Le vecchie casupole
riapparivano nel loro colore naturale, con i muri sudici, affumicati,
rosi da vecchia lebbra.

Ricominciava a piovere.

Il dottore saltò dalla calessina e raccomandò al garzone di stalla,
venutogli in contro, di metterla al riparo dell'acqua. Poi si avviò
quasi correndo verso la stanzuccia, o meglio la cucina, a terreno, dove
abitava la vedova del povero Sandro.

L'uscio era socchiuso, secondo il solito. Lo spinse e entrò dicendo
allegramente:

--Permetti a un vecchio amico di salutarti prima di partire?...

La giovine donna, curva davanti al focolare dove stava preparando quella
poca cena, si drizzò e si voltò di botto.

--Oh! signor dottore!...

Avrebbe voluto dire qualche altra cosa ma non trovò le parole e rimase
lì confusa e tutta rossa in viso.

Egli la esaminò un istante in silenzio. Poi le stese la mano.

--E un pezzo che non ci vediamo!... Come stai?... Meglio mi pare.

--Sì, sì... Ho ricominciato a lavorare. Vado alla canapa.

--Alla canapa? Fai malissimo. Non è lavoro per te ancora.

--Oh!... Mi sento tanta forza!--E sorrise.

--Stai meglio, sì, vedo. Ma non devi strapazzarti.

Ella tornò a sorridere, e si chinò per ravviare i sarmenti che si
sparpagliavano. Poi andò in fondo alla cucina a prenderne degli altri e
li gettò sul mucchio per ravvivare la fiamma.

--Si accomodi un pochino qui, signor dottore; si scaldi; deve far freddo
fuori.

--Un tempo da cani!--esclamò il giovine, mettendosi a sedere,
visibilmente contento di quell'invito.

--Dunque, lei se ne va?...

--Domani, Maria cara! domani! e mi dispiace!

--Come?... Non è dunque vero, come mi hanno detto, che va in un posto
tanto bello?...

--È vero. Ma, sai, quando ci si allontana da un paese, dopo tanto tempo,
si ha sempre il cuore grosso... E a te, non importa proprio niente che
io vada via?...

--È una disgrazia per tutti noi altri, poveri contadini--rispose Maria
chinando la fronte.--Un dottore come lei non l'avremo mai più!...

Egli protestò. Il dottore Fortini che lo rimpiazzava era un ottimo uomo.

--Lo credo... ma lei...

Non disse altro.

--Siediti un pochino qui!--fece il dottore, coi nervi irritati dal
vederla sempre in piedi. Così!... Si sta bene, soli, vicini, seduti
accanto al fuoco... Se tu avessi voluto!...

S'interruppe riflettendo quanto Maria avrebbe sofferto nel separarsi da
lui, se avesse dato retta a quel capriccio.

Ma era veramente un capriccio?

Non poteva esser altro.

E tuttavia, provava una tenerezza... uno struggimento...

--Perchè non hai voluto?...--le domandò bruscamente.

Maria lo guardò coi grandi occhi pieni di stupore e d'angoscia.

--Non parliamo di queste cose--mormorò tristamente facendo l'atto di
alzarsi.

--No, no!... Sta qui. Parleremo d'altro Sii buona: è l'ultima volta!...
Senti, devo farti tanti saluti da parte di una persona, anzi di due.

--A me!

--Si, a te. Sai che sono stato a Milano, la settimana passata?

Ella scrollò il capo. Si scusò. Viveva sempre così rintanata: non sapeva
mai niente.

--Se avessi saputo, l'avrei pregato di andare un momento a casa di don
Giorgio... Son già tre mesi che la Cristina mi ha mandato i denari
perchè andassi a trovarla, e non ho mai potuto.

--Hai fatto male.

--Santo Dio! come si fa!... Prima, il padrone non mi ha dato mai il
permesso: poi s'è malato il bambino della mia vicina, il povero Gigino,
e mi voleva sempre alla culla, povero angelo!... Volevo appunto mandarle
a dire alla Cristina, che oramai andrò per le feste...

--Sarà troppo tardi, figliuola mia!...

--Troppo tardi?... Oh Dio!... Non mi metta questa paura addosso! È forse
malata?... Dio! Dio...

--No no, sta tranquilla. Non è malata, anzi...

--Dunque l'ha vista?

--Sicuro. Non t'ho detto che avevo dei saluti a farti?...

--Ah! me n'ero scordata. E dove l'ha vista? Si sono incontrati?...

--Si, ci siamo incontrati...! Ma se tu mi fai quella faccia non ti dico
niente.

--Oh! signor dottore!...

--Calmati. Ho visto tua sorella...

--E il Castellani, non l'ha visto!... L'ha abbandonata?!...

--Non vuoi finirla di tormentarti?... Il Castellani è sempre con lei.
Non sai che si sono sposati?... Non te l'hanno scritto?...

--Si si... è vero. Ma non mi posso convincere che sia un matrimonio per
davvero. Mi pare un sogno.

--Invece è la verità; e si vogliono molto bene e sono felici... Ma...

--Ma?...

--Senti, ascoltami con tutta la calma. Scendevo alla stazione di Pavia e
siccome sapevo che nel treno avviato per Genova erano circa dugento
emigranti--che non avevo potuto vedere alla stazione di Milano--mi
fermai un momento per salutare quelli che conoscevo. A un tratto vedo un
uomo, una specie d'operaio, robusto e giovane, che si sporge da un
finestrino, agitando le braccia verso di me, e sento una voce sonora che
mi chiama... Guardo meglio, mi accosto... Figurati! Riconosco il
Castellani... e dietro le sue spalle la bella testa di tua sorella...

--Oh!--gridò Maria scoppiando in un pianto dirotto.--Vanno in
America!... Povera sorella mia!... In America!... Non la vedrò mai
più!...

Il dottore che aveva preveduto questo scoppio, lo lasciò passare. Poi a
poco a poco, cercò di consolare la povera Maria. Non doveva disperarsi
così. La Cristina aveva buonissimo aspetto... Erano tutti e due assai
ben vestiti, e poi felici, innamorati--avevano l'amore negli occhi,
facevano invidia...

--La più disgraziata sei tu, non capisci?... Tu che resti qui sola, in
questa miseria, dopo tutto quello che ti è toccato!...

Ella non era disposta a intenerirsi sopra se stessa. Alzò le spalle. Che
le importava mai di sè?... Ma sua sorella... oh! era tutt'altra cosa!...

E raccontava che appunto la settimana passata, avendo assistito alla
partenza di sette poveri uomini, che lasciavano il paese per recarsi a
Milano e di là a Genova, e da Genova lontano lontano, tanto che loro non
potevano neppure farsi un'idea di quella lontananza, si era sentita così
sgomenta che aveva pianto, per degli estranei. Ed ora le toccava di
sentire che sua sorella pure, e quel povero don Giorgio... andavano
laggiù... oh!... una cosa da morire... E si rimetteva a singhiozzare.

Ma il medico non voleva che si disperasse così. Doveva consolarsi
invece. A Milano stavano poco bene. Il Castellani non poteva adattarsi a
fare l'impiegato; Cristina era come un pesce fuori dell'acqua. In
America avrebbero vissuto in campagna. Il Castellani non aveva preso
quella risoluzione alla cieca: andava a dirigere i fondi di un ricco
possidente dell'Argentina, un italiano che aveva dato l'incombenza a una
casa milanese di trovargli un uomo così e così. Una vera fortuna.

Non poteva capitargli meglio.

--Ma così all'improvviso!--gemeva Maria.--Se avessi saputo sarei andata
a Pavia avrei abbracciato mia sorella.

--Hai ragione. Ma è stata una cosa improvvisa davvero. Il vapore
partiva, da Genova la sera appresso, il posto era pagato. Due giorni
soli per prepararsi! La Cristina piangeva, perdeva la testa. Avrebbero
forse potuto scriverti di trovarti alla stazione di Pavia, ma il
Castellani ebbe paura che fosse peggio, tanto per te che per la
Cristina. Vedersi un momento solo è orribile. Ti scriveranno da Genova e
da Marsiglia. E quando la gli andrà bene, si ricorderanno anche di te,
sta sicura.

A poco a poco, Maria si lasciò distrarre; rasciugò le sue lagrime.

--Hai sentito che tuo cognato è fuori?--domandò il dottore per cambiar
discorso.

--No. Come!... Ha già finito la condanna?...

--Sicuro; è un anno...

--È vero. Ma io non ho mai capito perchè gli hanno dato così poco. Non è
un grande delitto ammazzare un fratello?...

--Si; ma lui ha avuto le circostanze attenuanti; si è riconosciuto che
doveva averlo ammazzato per una forza quasi irresistibile... Sai bene,
perchè Sandro lo tradiva...

--E chi andò a dirlo a quei signori?...

--Tutti i testimoni. Tu non ti ricordi perchè eri tanto ammalata e non
sei potuta andare ai dibattimenti.

Ella fece un gesto d'orrore. Non poteva comprendere che la giustizia si
facesse così; nessuno aveva secondo lei, il diritto di accusare Sandro,
un morto, uno che non poteva difendersi!

Il dottore la lasciava dire; non cercava di spiegarle il complicato
organamento della legge; un po' perchè pensava ch'ella non avrebbe
compreso; molto più perchè quel sentimento ingenuo, quella maniera di
giudicare le cose, da un punto di vista così inaspettato, lo interessava
profondamente, e lo inteneriva.

Povera Maria!... Come erano forti i suoi sentimenti, e che strano
istinto di elevatezza era nell'animo suo!

La guardava sempre più commosso: l'ammirava.

--Maria!--mormorò accostando il suo viso al viso di lei.--Maria vuoi
venire con me?

Ella alzò la testa con impeto. Lo guardò di sfuggita, impallidì e chinò
gli occhi.

--_Non so fare a servire_--disse finalmente con un filo di voce.--Sono
troppo contadina.

--Oh! Maria! Chi ti parla di servire?...

S'interruppe, e non potè ripigliarsi. I grandi occhi ingenui lo
fissavano ed ei si sentiva sconcertato.

Avrebbe voluto dirle una parola capace di commoverla e di convincerla;
ma non trovava quella parola; e sotto l'indagine di quegli occhi, non
poteva dire una cosa non vera, non profondamente sentita.

Avrebbe voluto dirle:

--Sarai la compagna della mia vita. Ti amerò sempre.

Ma non era vero. Quegli occhi gli dicevano che non era vero.

Che cosa provava veramente per lei?

Una grande attrazione, un desiderio ardente, intenerito dall'affetto e
dalla pietà. Avrebbe voluto stringerla fra le sue braccia,
prendersela...

E poi?...

Portarsela via.

E poi?...

--E poi, io non so--pensava, irritandosi con se stesso:--la vita è la
vita: l'oggi non risponde del domani. Non l'abbandonerei mai però; le
farei uno stato...

--Maria--mormorò incoraggiato da questo proponimento che gli pareva
onesto.

--Maria! ti voglio bene. Vieni con me!

Ella crollò il capo tristamente.

--_Non so fare a servire_--ripetè con quella pertinacia contadinesca che
formava un lato del suo carattere.

--Ma chi ti parla di servire?--ribattè lui.

Ella ebbe un momento di sospensione. Lo fissò ancora; sembrò riflettere.
Poi si riscosse, e con la voce rotta da una profonda commozione, disse:

--Capisco... Ma io, stando con lei... in qualunque maniera, sarei sempre
la sua serva. Anche se, per un poco, fossi altro... tornerei presto la
serva. E non _so fare a servire_: sono troppo contadina!

Egli chinò la fronte. Quanta verità nelle rozze parole, e che profondo
sentimento! Ella aveva tutto compreso, e tutto sintetizzava, senza
studio nè esperienza, nella sua sublime ignoranza, guidata dal solo
divino intuito dell'anima femminile.

Era una creatura superiore quella povera donna; ed egli, qualunque cosa
facesse, non poteva che abbassarla. Fatalità della vita.

Restarono qualche tempo in silenzio.

Il fuoco si spense.

Maria si turbò. Chinata sul focolare cercò di ravvivare la fiamma con le
poche bacchette più che a metà consumate.

Ma vedendo che non le riusciva, uscì dalla cucina e ritornò con un
fascetto di legna meno sottile, ma assai più umida, che empì la stanza
di fumo.

Il dottore le andava dicendo di non darsi pena. Ma lei si disperava di
non poter essere ospitale come voleva. Per fortuna trovò un poco di
paglia secca, e con quest'aiuto il fumo fu vinto e la legna cominciò ad
ardere.

Il giovine si levò per andarsene. Non c'era altro da fare.

--Ti ricorderai di me qualche volta?

--Oh! signor dottore! Ho tanti obblighi verso di lei; non me ne scorderò
finchè vivo.

Egli rimase ancora. La interrogò minutamente sulla sua malattia, senza
farla arrossire. Le raccomandò certe cure; non lavorasse troppo; e
continuasse a prendere le medicine che le avrebbe mandate, come prima.

Ella diceva sempre di si, ringraziandolo ripetutamente.

Erano in piedi presso alla porta. Ora egli doveva andarsene: esauriti i
pretesti.

Ma gli pareva di non potersi staccare dal pavimento.

Il cuore gli diceva:

--È l'unica vera felicità questa che tu abbandoni. La vita non ti
offrirà mai più qualche cosa di simile.

Quasi senza sapere, trascinato dalla commozione interna, disse ancora:

--Risolviti... vieni con me!

E ancora ella crollò il capo tristamente senza rispondere.

Ma dopo alcuni istanti di silenzio, temendo di averlo mortificato,
balbettò con la voce velata:

--Non si affanni per me. Non resto sola. Ho la bimba laggiù... e la
Giulia e Sandro... tutti morti male... Devo pregare per loro...

--Povera Maria! taci... taci!...--esclamò il medico rabbrividendo.

Una mano di ferro gli serrava la gola.

--Addio! Addio!...

Si chinò un momento su lei, la baciò in fronte e fuggì nell'oscurità.

La calessina aspettava. Ancora un saluto, e via.

Pioveva. Il freddo umido gli calmò la febbre.

Sferzò la cavallina, pensando di omettere le alcune visite che gli
rimanevano ancora e che gli seccavano in quel momento. S'avviò verso
Gel.

Lagrime amare scorrevano in fondo al suo cuore, ma gli occhi rimanevano
asciutti, brucenti. L'oscurità quasi completa della campagna s'addiceva
alle disposizioni de' suoi nervi: l'aria fredda penetrandogli sotto le
palpebre gli recava un senso di refrigerio.

Si sentiva diverso. Gli pareva che l'anima sua piccolina si fosse
ingrandita smisuratamente; come quella pianura monotona e fastidiosa a
cui la notte dava il carattere solenne e tragico di una landa
sterminata.

Maria!... Povera Maria!...

Era sdegnato con se medesimo. Eppure non poteva negarsi una certa stima.
Si trovava forte e vigliacco.

Forte, per averla rispettata; vigliacco, per non aver saputo convincerla
dell'amor suo.

Povera Maria! Che destino perverso la incalzava nella vita! Creatura
sacra, destinata dalla natura ad un altissimo fine; perfetta di corpo,
senza quella bellezza procace che turba i sensi e offusca lo spirito;
perfetta nell'anima, e ignara del proprio valore: la vera madre: la vera
compagna dell'uomo semplice e saggio. Ed egli che l'aveva compresa,
ammirata, amata da scienziato che sa e pesa il valore di un essere; da
poeta che aspira all'ideale felicità; da uomo, anelante alla gloria di
dare quella madre ai suoi figli, egli pure l'abbandonava!

Perchè?

Perchè non possedeva un cuore semplice; perchè non era un uomo saggio.
Perchè intendere non serve a nulla!--concretava sorridendo del suo
vecchio sorriso pieno di amari sottintesi.

--Beati quelli che non ragionano: beati quelli che si lasciano condurre
da un istinto affettuoso, da un concetto semplice della vita!...

... Beato don Giorgio emigrante in America con la sua Cristina al
fianco!...

Cristina!

Meno perfetta di Maria, tanto nell'anima che nel corpo; ma più
seducente, più femmina, più voluttuosa. Come l'aveva desiderata!...

Era egli certo di non desiderarla ancora?...

Ah! Ah!... Ah!...

Sferzò la cavalla, che già correva fiutando da lontano la domestica
stalla.

Ah! il male era nel cuore, reso impotente dal cervello analizzatore e
dalla sensualità dominante.

Compiangeva Maria, ma avrebbe speso meglio il tempo a compiangere se
stesso. Maria, sola, attaccata alla tomba della sua bimba, alla memoria
del marito infedele, Maria, col cuore lacerato per la sorella che
emigrava, per lui stesso, forse: Maria, mezzo malata, e povera tanto da
essere costretta a faticare come una bestia per isfamarsi: Maria era
ricca in confronto di lui.

Che cos'era lui in fine?...

Un gaudente povero, pieno di voglie inacerbite; un goloso dallo stomaco
guasto, tormentato da inappetenze intermittenti. Capace di mutar gusti
ed affetti per un cambiamento di luce, o di prospettiva. Capace, se
avesse preso Maria con sè, di non amarla più affatto, di trovarla
volgare, fuori della sua bella cornice di infelicità e di miseria!
Capace di preferirle, al pari di Sandro--campagnuolo sciupato dalla
caserma--una prostituta nata, come la Virginia.

Oh! se si conosceva!

Era destinato a impazzire--vecchio impenitente--per qualche femminuccia
abituata a trastullarsi con le debolezze dei maschi: destinato a far
morire di crepacuore la donna amante che gli avesse fatto realmente un
grande sacrificio. Natura di belva e di gaudente raffinato.

Rise, sbadigliò, e si stirò tutto.

Niente da cambiare, del resto!

Eredità. Effetti dolorosi di vecchie cause, non sempre facili a
rintracciare.

Una volta dicevano: fatalità.

Mutano i nomi...

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Arrivato a Gel, il dottore scese davanti alla farmacia dov'erano riuniti
ad attenderlo i suoi pochi amici. E la viva luce, l'aria calda e le
chiacchiere clamorose fugarono ben presto i fantasmi della notte--le
chiaroveggenze dell'anima.

Soltanto nel coricarsi, tra la veglia e il sonno, per un ritorno quasi
meccanico della memoria, egli ripensò:

--Beati i cuori semplici! Se v'ha felicità al mondo, non è che per
loro.

E più tardi, nell'ultimo crepuscolo della coscienza:

--Povera Maria... Povero me!... Tutti e due senza amore!... Soli!...

La mattina, si risvegliò come un uomo nuovo.

Il sentimento della realtà, l'ambizione e il desiderio indistruttibile
di vivere e di godere lo avevano ripreso con nuova forza.

Finito il vecchio libro!

Inutile pensarci su.

Una pagina bianca stava dinanzi a lui e chi sa che belle cose, e se non
belle curiose certo, ci avrebbe scritte il destino!

Vi è un genere di miseria che si dissimula o si dimentica, tanto più
facilmente, quanto più è squallida.

       *       *       *       *       *

Quella stessa mattina Maria si alzò con l'aurora per andare al lavoro
della canape.

Lavorando il suo pensiero viaggiava, viaggiava coi lontani, coi morti...

Rievocava la imagine della povera Giulia già da tre anni sepolta. E
rivedeva il suo Sandro e la Cristina... e la perversa Virginia...

Ma un'altra immagine s'imponeva al suo pensiero... quella del giovine
medico... partito anche lui! E si sentiva così sola, così sola, che le
si stringeva il cuore. Come avrebbe fatto a vivere così sola?...

Intorno a lei bisbigliavano sommessamente di fatti inauditi. Il vecchio
Melica, acceso in volto, narrava che i contadini erano stanchi di
soffrire, che si ribellavano, scioperavano, uccidevano!...

--Dove?... Quando?--chiedevasi da voci strozzate.

--Poco lontano...

--Più lontano...

--Nel Mantovano...

--Più in qua...

--Sul Comasco...

--... a Gallarate...

--... da per tutto...

Tutti parlavano:--il lavoro languiva.

Un guardiano passò: poi il padrone stesso, pallido, arcigno.

Nessuno fiatava: la macchina sola si era messa a strepitare come un
uragano.

--Cantiamo!--mormorò la Meroni, impaurita.

--Cantiamo le lodi della Beata Vergine.

--Cominciate voi, Maria, cominciate!... supplicò la Menica, povera
donna, con quella faccia di febbre.

--Non posso--rispondeva Maria.--Non posso.

Aveva un peso sul cuore, un peso che le mozzava il respiro.

Nessuno aprì bocca, neppure il padrone, che si allontanò ben presto con
un ronzìo negli orecchi.

La macchina continuava il suo verso.

Maria pensava: I contadini si ribellano!... Sono stanchi di soffrire!...
Ma che speranze possono avere?... Cosa vogliono fare?... Cosa, in nome
di Dio?!... Saranno schiacciati, puniti... Siamo nati per lavorare e
soffrire, noi poveretti: è così da per tutto... lo diceva anche il
povero Sandro!...

Ma nel medesimo tempo, ella provava per la prima volta in vita sua un
bisogno strano di gridare, di strepitare, di picchiare i suoi pugni
pesanti su qualcheduno, di sfogarsi in qualche maniera.

Quasi senza sapere, per una ispirazione improvvisa le vennero sul labbro
alcune strofe del _Canto dei lavoratori_, che certi giovinotti avevano
sentito a Pavia e subito imparato, e insegnato agli altri. Il canto le
sgorgò dal petto pieno di schianti e di lagrime.

      «Su fratelli, su compagne,
    su, venite in fitta schiera;
    sulla libera bandiera
    splende il sol dell'avvenir.»

      «Nelle pene, nell'insulto
    ci stringemmo a mutuo patto;
    la gran causa del riscatto
    niun di noi vorrà tradir.»

Tutti ascoltavano sbigottiti, non osando seguire quella voce profonda e
appassionata, che li rimescolava.

Ma quando Maria cominciò il ritornello

      «Il riscatto del lavoro
    de' suoi figli opra sarà;
    o vivremo del lavoro
    o pugnando si morrà!»

le donne, trascinate da una forza arcana, si slanciarono. Alla seconda
ripresa gli uomini le seguirono, tutti d'accordo.

Le pareti tremarono; il rumore della macchina fu soverchiato.

E il padrone che già s'allontanava, sostò in mezzo alla strada,
ascoltando a denti stretti.



INDICE.


  CAPITOLO I -- In Val Mis'cia           Pag. 1
     »    II -- L'asino dei Rampoldi      »  19
     »   III -- Primavera                 »  29
     »    IV -- In confessione            »  45
     »     V -- Zappando                  »  65
     »    VI -- Vinto                     »  71
     »   VII -- Alla Cascina Grande       »  85
     »  VIII -- Nuove lotte               »  95
     »    IX -- La Cristina               » 107
     »     X -- Il destino                » 123
     »    XI -- Il medico                 » 133
     »   XII -- Il germe dell'odio        » 149
     »  XIII -- Decomposizione            » 161
     »   XIV -- Vendetta                  » 169
     »    XV -- Sola                      » 189



ALCUNI GIUDIZI DELLA STAMPA ITALIANA

su i Romanzi di BRUNO SPERANI


Nell'Ingranaggio, 1885.

BRUNO SPERANI ha dettato un romanzo che rimarrà, malgrado qualche
imperfezione di forma, gradito e ricercato, specialmente pel finissimo e
completo studio della Gilda Mauri e che rivela come solo uno spirito
superiore di donna poteva plasmare il concetto e tradurlo in persona,
vivificandolo perfino nelle sue minime particolarità.

  (Dal Convegno).                         Il conte ARUNDELLO.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Ho tracciato l'intreccio perchè svela gli intendimenti della scrittrice.
La favola modesta, lo sviluppo dato in balìa al cuore che cede ed al
fato che trascina. Una scrittrice quasi sempre accurata, simpatica
sempre. Delle pagine robuste, senza ricercatezze e senza l'indomita
ambizione, che hanno altre scrittrici, oggi sul piedestallo, di farsi
credere, forti come un uomo.

Tutta una condotta che può parer povera ed è semplice. Tutta una storia
la quale al di là dei suoi capitoli d'amore, di ansie e di morte, svela
la morale che libera gli umani da colpe, pur troppo segnate nel loro
destino. _Nell'Ingranaggio_ non vi sono tesi. Questo diciamolo pure un
bene, per i tempi che corrono, propizi alla cattedra. La morale viene
ineluttabile dai fatti. In quel sciupìo dei liberi slanci, delle onestà
fiere, degli affetti primi e dei doveri sacrosanti, voi vedete la gran
lotta che si sfascia dinanzi alle fila del caso. Tutto va
nell'ingranaggio e per gridi che innalzi la vittima, o per odio che
ammassi il colpevole, ogni cosa esce da quei denti di ferro, come
vogliono le forze e i misteri del destino nostro.

  (Dalla _Lombardia_).                           UGO CAPETTI.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Quest'imperfetta e sommaria analisi del romanzo basta però ad indicare
che esso è un romanzo intimo dove il dramma scaturisce dalla passione
ardente. Pochi personaggi principali, disegnati, nelle loro linee
generali, con arditezza di tocco; molte macchiette, fra le quali alcune
felicissime, massime le piccole fotografie dal vero degli artisti del
Teatro Milanese. Qua e là, come del resto in tutti i romanzi della
Sperani, si riscontrano ineguaglianze e slegature, ma l'interesse non
langue mai. È soltanto a rimpiangere che l'egregia scrittrice, o per
soverchia fretta o per noncuranza, non abbia dato l'ultimo ritocco al
suo lavoro, non ne abbia meglio curata la forma; non abbia meglio
approfondito i caratteri dei suoi personaggi sorvolando su più di un
punto psicologico di capitale importanza, come ad esempio, la caduta di
Gilda; si sia limitata, in una parola, a darci un buon romanzo, non una
vera opera d'arte. Eppure poco ci sarebbe voluto!

Ad ogni modo, _Nell'Ingranaggio_, a malgrado del titolo non troppo
felice, meritava una tutt'altra edizione. Io non esito ad annoverarlo
fra i più interessanti romanzi italiani di questi ultimi tempi.

  (_Gazzetta Letteraria_).                           DEPANIS.


BRUNO SPERANI ha scritto un libro di dolore e di verità. _Verità_, non
intendo soltanto nel senso di quella esatta e più o meno fotografica--o
notarile--riproduzione di ambienti, di caratteri, di particolari, che è
tanta e così sostanziale parte del romanzo moderno positivista. Dico che
il libro--ciò che sfuggì a tutti i critici, toltone l'acuto Cameroni che
lo ha intraveduto--è una battaglia pugnata per la verità e l'interezza
della vita e delle sue forme, per la coerenza di queste con quella, per
lo spastoiarsi da quello aggrovigliamento malsano di tradizioni, di
convenzioni, di convenienze, di artifici, d'imposture, di vigliaccherie
che avvolgono come in una rete di ferro, e comprimono e pervertono e
fanno più frivola e corrotta e crudele, la già tanto frivola e crudele e
corrotta vita della borghesia moderna.

E la battaglia è tanto più efficace perchè non è fatta in forma di
predica, nè l'argomento è torto alle esigenze, incompatibili con l'arte,
di una _tesi_ propriamente detta.

Ogni libro d'arte, che ha un valore, prova qualche cosa; proverà o la
vita o la morte, o il bene o il male, o un particolare aspetto di queste
cose, o il dubbio, lo scetticismo, l'impossibilità di provare alcuna
legge costante nella versatile complessità della vita.

Ma un libro, e sia pure un romanzo, onde non emerge un'impressione netta
e coerente--ossia una conclusione--sarà un centone di descrizioni più o
meno abili e di fattarelli di cronaca più o meno piccanti--non sarà nè
romanzo nè libro.

E a me, leggendo «_Nell'Ingranaggio_»--questa storia piana e penosa del
povero amore dell'Istitutrice, amore sano ed intero e legittimo innanzi
alla natura ed ai fatti, che si scioglie logicamente nell'abbandono e
nel suicidio, spintovi dalle energie congiurate della legalità e
dell'ipocrisia, che piglia nome _decoro_--a me s'imponeva un
ravvicinamento che parrà per lo meno _curioso_ ai lettori superficiali:
il ravvicinamento di questo romanzo senza tesi e tutto concreto, con
quel volume tutto tesi e disquisizioni astratte, meraviglioso per impeto
di logica distruggitrice malgrado la leggerezza con cui maltratta taluni
argomenti, che il Dumolard pubblicò non ha guari: le _Menzogne
convenzionali_ del Max Nordan.

  (Dall'_Italia_).                            FILIPPO TURATI.


BRUNO SPERANI, col suo _Nell'Ingranaggio_, viene a mettersi in prima
fila nel plotone, anche troppo sottile, de' romanzieri italiani.

                                                UGO SOGLIANI.


Numeri e Sogni, 1887.

Fin da quando leggevo certe sue corrispondenze ai giornali, sentivo in
BRUNO SPERANI un'intelligenza superiore, una fibra robusta, come una eco
di lotte sostenute. _Nell'Incubo_, e specialmente _Nell'Ingranaggio_,
buon libro di poco inferiore al _Numeri e Sogni_, questa caratteristica
dell'artista si manifesta chiaramente; tutte le sue qualità si affermano
nella originalità della sua personalità propria, si espandono
rigogliose, suo malgrado, nella serenità della sapiente esperienza e
della robusta forza intellettuale bene equilibrata.

                                  (Dalla _Scena Illustrata_).


BRUNO SPERANI fa classe da sè, perchè nei molti pregi e nei pochi
difetti non rassomiglia a nessuno. Il fondo del suo temperamento
artistico mi pare sia appassionato e delicato, tutto slancio e
sincerità, temprato nell'energia virile e nella esatta comprensività
della vita--cui deve, se lo scetticismo da cui ora mostra d'essere
penetrata, non sopraffatta, non le inasprisce cuore e mente e il
dubbioso sconforto si mantiene pietoso e indulgente, per le miserie
umane.

Se dovessi qualificare Bruno Sperani con poche parole, la direi:
sentimento, verità, vita.

Fu scritto come dogma che la donna giudica l'uomo o troppo bene, se con
amore, o male, se con odio; quasi mai con giustezza. In quanto alla
Sperani _Nell'Ingranaggio_ come nel _Numeri e Sogni_ ha trovato la nota
giusta, anzi _umana_; gli uomini che descrive sono veramente, umanamente
uomini.

Uno dei pregi che più ammiro nell'autrice è il senso di intima, assoluta
realtà--sangue e muscoli del suo ingegno--al punto che i fatti, i
personaggi non li leggiamo, li vediamo, li sentiamo, viventi e veri,
immedesimati nella nostra vita come esistenti insieme a noi; e li
conosciamo tanto a fondo come se li avessimo frequentati per anni ed
anni.

                                              SILVIO CIGERZA.


Leggendo un romanzo di Zola, potete chiedervi quanto l'autore, per
iscrivere quel libro, ha veduto, ha notato, ha coordinato, ha riassunto.
Nel romanzo della Sperani vi chiedete quanto, per farlo, le è bisognato
della sua propria vita, quante lagrime, quanti sconforti, quante amare
voluttà le è costato.

  (_La Cronaca Rossa_).                       FILIPPO TURATI.


La signora Speraz che si nasconde sotto lo pseudonimo, bene ormai noto,
di BRUNO SPERANI, ha contrapposto in questo suo nuovo romanzo la
idealità della vita alla realtà; come indica il titolo.

Che tutto il romanzo sia condotto con pari felicità, non oserei
affermare; certo è che vi si leggono pagine molto buone, che
l'intendimento ne è sano ed alto, che vi sono figure ben tratteggiate,
come quella della moglie del pittore, Filomena, che vive modello di
virtù e di rassegnazione tutta dedita alle cure della famiglia. Anche
merita lode la egregia autrice per avere osato condurre il romanzo in
uno svolgimento ampio e pur logico di casi onde l'animo del Superti,
dall'amore per la Mariuccia a quello non meno infelice per l'Eugenia, si
mostra intero al lettore: e per la fine non volgare con cui ha chiuso
tale svolgimento.

                                   (Dalla _Nuova Antologia_).


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Io vorrei che questo lavoro della gentile autrice si leggesse assai;
troppo frequente è nella vita la lotta dei _Numeri_ coi _Sogni_ perchè
non riesca utile lo studiare a quali risultati essa può condurre. Se è
vero che la letteratura deve pur servire a qualcosa nell'educazione
morale e intellettuale d'un popolo, io credo che quando questi romanzi
avranno più lettori delle appendici quotidiane dei nostri giornali, si
potrà dire con un arguto scrittore contemporaneo che «il termometro
della coltura generale avrà lasciato le temperature invernali per salire
ai gradi più alti della primavera e poi di quella di estate che matura i
frutti.»

  (Dalla _Letteratura_ di Torino).                 VALABREGA.


BRUNO SPERANI è un'osservatrice e una pensatrice--qualità e pregio raro
quest'ultimo, in mezzo a tante scrittrici e scrittori, che sono mere
macchine fotografiche, più o meno esatte, più o meno perfette, ma senza
coscienza cerebrale. Nei lavori della Speraz vi è sempre, non una tesi,
ma un _concetto_, ch'è rilevato dal punto di veduta in cui si pone la
scrittrice, dalle cose che scorge, da quelle che sottrae, dalle ombre e
dai lumi; insomma, non da quello che essa dice--intromettendosi non
richiesta nell'azione--ma da quello che mostra, e sa vedere, dell'azione
stessa. Così l'obbiettività non è mai violata, ma la produzione
artistica non è più un lavoro _fotografico_, è un _quadro_: non ci dà
una parte fortuita e inanimata, slegata, del vero--ma la riproduzione
del vero in un _disegno organico_ che lo riattiva e lo anima; così, e
non altrimenti, intendiamo noi l'opera d'arte; così, e non altrimenti,
noi abbiamo sempre inteso il realismo.

  (Da _Cuore e Critica_).                        A. GHISLERI.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Queste 619 pagine, che io dichiaro d'aver lette senza interruzione,
portano l'impronta di una lunga, paziente ricerca nella vita dell'arte,
e d'un delicato gentile amoroso sentimento della vita comune. Qua e là,
quando questo romanzo si alza fino alla speculazione filosofica della
vita, e vi tace l'idilio, e la passione vi è temperata dal ragionamento,
e l'ala del destino vi batte robusta, nessun sospetto vi prende che
l'opera della donna vi sia abilmente celata: ma in molte parti essa si
rivela, in più di un contrasto si afferma; in qualche figura rimane e
risplende. Qui sta la doppia vittoria che la signora Bice Speraz riporta
con questo frutto dell'esperienza sua di donna e di artista.

  (Dal _Diritto_).                                 O. GRANDI.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Cercai già di mettere in evidenza l'eccezionale importanza di _Numeri e
Sogni_ di BRUNO SPERANI, come fisiologia della vita dei nostri giorni
fra i pittori Lombardi e come studio sociale contro le menzogne ed i
pregiudizi, tuttora dominanti nelle famiglie borghesi. La lettura degli
ultimi suoi capitoli mi ha rivelato un profondo sentimento di
tolleranza, anzi di pietà, verso le debolezze, le contraddizioni, le
colpe umane. Bisognerebbe esser miopi d'intelligenza, o senza cuore per
non comprendere la confortante conclusione di _Numeri e Sogni_. Con essa
si eleva la Sperani ai vasti e generosi ideali altruistici del Tolstoï.
Aiutare i sofferenti e perdonare gli errori di quelli, che
inconsciamente fanno soffrire.

  (Dal _Sole_).                                     CAMERONI.


_Numeri e Sogni_--un romanzo senza alcun dubbio vigoroso ed audace; e,
nella terza parte specialmente, virilmente efficace.

  (Dalla _Gazzetta Letteraria_ di Torino).           DEPANIS.


Se esaminiamo la produzione letteraria italiana di quest'anno, dovremo
ad ogni costo riconoscere che i due migliori romanzi sono di due donne,
sono cioè: _Teresa_ di Neera e _Numeri e Sogni_ della Sperani.

  (Dal _Piccolo di Napoli_).                   VITTORIO PICA.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Invece d'inforcare le lenti dell'anatomico e stancare la nostra pazienza
a furia di verbali l'autrice stimò meglio cogliere il lato
caratteristico dei fatti umani, lasciando che questi parlassero da soli.
In luogo di seguire le orme de' pseudo-naturalisti francesi, preferì
attenersi al metodo de' _grands maîtres_ del romanzo russo e inglese,
che consiste appunto nel cercare e ottenere grandi effetti con la
massima sobrietà di mezzi.

Questa tendenza che io aveva già notata in _Nell'Ingranaggio_, spicca
ancor più chiara nell'ultimo romanzo della scrittrice dalmata.

Tutto sommato un libro vigoroso, attraente, e, fra le odierne produzioni
del genere, senza dubbio un libro _hors ligne_.

  (Dall'_Indipendente_ di Trieste).                MARCO ZAR.


L'Avvocato Malpieri, 1888.

In tutto il romanzo di questo spostato Malpieri, il tipo è sviscerato
con molto acume e vigore. Una tinta bigia di amarezza predomina in tutto
il libro e da essa, a stento, si salva qualche tipo gaio, come quel
povero bambino di Amilcare. L'impressione generale è profonda e ci fa
sempre più convincere che la Sperani à una forza ed un'audacia nella
concezione artistica e nello svolgimento del suo concetto che pochi
scrittori posseggono. Io per parte mia, auguro alla nostra letteratura
molti romanzi così fortemente pensati e trattati come questo _Avvocato
Malpieri_ della valorosa signora Sperani.

                                                ONORATO FAVA.


Nell'_Avvocato Malpieri_ non è un politicante che critica, è un
psicologico, un filosofo che giudica, che non condanna od applaude alle
azioni per sè stesse, ma ne ricerca l'intime cause e colla analisi
morale giunge perfino a spiegare la vigliaccheria e a farla compatire,
mentre fa biasimare quel coraggio che desta l'ammirazione del volgo.

                                     (Dalla _Cronaca Rossa_).


In tutto e per tutto, anche quest'ultimo romanzo di BRUNO SPERANI è
tolto dalla vita contemporanea. L'azione s'agita intorno ad un
giornalista di parte radicale, transfuga fra i conservatori, per sete di
vivere largamente, per ambizione, per disgusto della democrazia
retorica. Si illude che la felicità consista nei godimenti della vita
materiale e nel vendicarsi dell'amore respinto e del rivale fortunato.
Sfida cinicamente gli ex correligionari politici, che coprono di fango
il suo disonore. Diviene passo a passo un mercenario della penna e
finisce col vergognarsi della propria infamia, confrontando la
prostituzione dell'opera sua alla fierezza della donna amata, che col
lavoro libero aveva redenta la propria coscienza. La psicologia di
questi due esseri e le tempeste nel loro cranio fanno dell'_Avvocato
Malpieri_ un'opera di valore eccezionale.

  (Dal _Sole_).                                  F. CAMERONI.


«La mancanza di generosità e di ideale distrugge la vita di certi esseri
come la mancanza di cibo, o la rende intollerabile, come la mancanza
d'amore...»

È questo il concetto del romanzo di BRUNO SPERANI. Malgrado l'apparente
scetticismo, l'autrice ha un alto ideale di nobiltà, di libertà, di
giustizia, che nelle ultime pagine del libro ottiene la sua rivincita e
consola delle miserie, delle doppiezze, delle vergogne rappresentate
nelle parti precedenti.

Come metodo d'arte, la scrittrice si serve di preferenza dell'analisi e
della narrazione; se questa riesce necessariamente poco animata, l'altra
è molto penetrante; quantunque, in qualche punto, non vada esente da
artificiosità.

Le figure che spiccano al primo piano, in piena luce, sono quelle
dell'avvocato Malpieri e della Giuseppina; le altre sono tutte
episodiche, ma non per questo meno efficacemente ritratte. L'ambiente
giornalistico, i maneggi politici, la vita pubblica d'un grande centro
sono riprodotte dal vero con grande maestria.

Tutto sommato, tenendo nel dovuto conto certe ineguaglianze di stile e
di condotta, e il convenzionalismo di qualche passaggio, il romanzo di
Bruno Sperani ha un valore notevole, si legge con piacere e fa pensare.
Scritto in francese, a quest'ora conterebbe una mezza dozzina di
edizioni e sarebbe riprodotto nelle appendici di tre o quattro
giornali[1].

                                         FEDERICO DE ROBERTO.

[1] Ora il romanzo è stato tradotto in francese, e fu pubblicato nel
_Progrès_ du _Nord_ di Lille, presto uscirà in volume; il traduttore
è M.r J. B. Cotteaux.


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Comincia con un comizio nel teatro Castelli di Milano, sul suffragio
universale, scena riprodotta stupendamente.

In tutto il lavoro le quistioni sociali e politiche, trattate con una
sicurezza ed un'esperienza che pare impossibile possa avere acquistato
una donna--poichè già voi sapete, che sotto il robusto nome di BRUNO
SPERANI, si nasconde una figura muliebre--sono in tutto il racconto così
bene incatenate e collegate con la vita giornaliera dei personaggi, che
l'aridità dell'argomento sparisce e la lettura del libro è sempre
piacevole e interessante.

Nel leggerlo mi è accaduto spesso una cosa curiosa. Alternativamente con
questo leggevo--_Il mistero del poeta_--di Antonio Fogazzaro, già
pubblicato nella _Nuova Antologia_, e di sovente mi veniva fatto di
confondere gli autori per modo di credere--_Il mistero del
poeta_--racconto idealista, tutto sfumature di sentimenti, lavoro di una
delicatissima intelligenza femminile; e--l'_Avvocato Malpieri_--frutto
di lungo e serio studio di costumi, di un forte ingegno maschile.

Come in tutti i romanzi moderni, anche in questo manca o quasi sfugge il
_fatto_, l'_intreccio_, come si diceva una volta: nessuna scena a
_sensazione_, nessuna _ficelle_, tutto si svolge naturalmente e
logicamente.

                                             (Dal _Caffaro_).


Quadro o bozzetto semplicemente, ogni lavoro dell'autore di _Numeri e
Sogni_--conserviamo il genere mascolino in omaggio della firma--reca
l'impronta d'una mano sicura, sprezzatrice d'ogni convenzione nella sua
arte inesorabile come la verità. Essa forma il soggetto che la
impressiona, com'è, nè più nè meno, senza caricarne le tinte, nè
alterare le proporzioni. L'effetto ne sia più o meno vivo, non se ne
preoccupa, non va alla ricerca di esso, nel suo scrivere.

Agli adoratori del colore e delle minuziosità, questa mano d'artista può
parer arida. Ma nelle linee ferme, fossero anche dure, de' suoi lavori,
c'è quella intelligenza, quel sentimento, quella profondità, per cui
soltanto l'opera d'un artista, d'uno scrittore, ha suggello proprio, e
rivela l'ingegno innato, e non formato, su modello più o meno felice, da
una semplice attitudine ad imitare.

                                               ELDA GIANELLI.


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È un'opera che s'impone fin dalle prime pagine; chi non si contenta di
leggere superficialmente ma leggendo studia, vi scorge profusi tesori
d'ingegno. Come fu notato da altri, la Sperani, slava di origine, deriva
in parte dai romanzieri russi; ricordai questo nel leggere lo splendido
studio su Dostoevsky che il Depanis pubblicò nella _Gazzetta
Letteraria_, là dove dice che: «Per i romanzieri russi in genere... il
romanzo non è uno scopo, ma un mezzo; il loro intento è sociale, non
estetico.» Un'asserzione così recisa stonerebbe riguardo alla Sperani;
pure un fondo di verità l'ha anche per lei. Difatti l'_Avvocato
Malpieri_ non ha solo il valore di un'opera d'arte, chè, come in tutti i
libri della valorosa autrice, anche in questo sono studiate con grande
amore e grande acume talune delle più importanti questioni sociali.

                                              V. OLPER MONIS.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

La storia invero è quella di un individuo, ma essa compendia in sè la
vita di chi sa quanti spostati. Presi separatamente spariscono, ma messi
in un determinato ambiente si trasformano, se in meglio o in peggio poco
monta: il fatto sta che allora vivono e sentono di vivere, quando vinti
quando vincitori, sempre però tali che nella lotta ci lasciano un brano
della loro carne, una traccia del loro sangue.

E l'ambiente allora diventa non più la cornice del quadro, ma parte
integrante del quadro stesso: personaggio ed ambiente si immedesimano,
si completano. E questa doppia rappresentazione che deve correre
parallela, staccata così che l'una non soprafaccia l'altra, non è facile
riesca a chi non abbia intelletto d'artista. O io m'inganno o Bruno
Sperani in questo suo lavoro è riescita maestrevolmente; il personaggio
e l'ambiente non potevano avere una riproduzione meglio riuscita nè
meglio e all'uno e all'altro poteva riuscire ad imprimere la propria
fisonomia.

                                                L. BENEVENIA.


Nella Nebbia, 1889.

Sono semplici intermezzi, abbozzi buttati giù alla lesta, con molta
bravura, che si leggono tutti con interesse e che commuovono spesso. _Un
desinare_, ad esempio, è uno schizzo che nella sua succosa brevità vale
molte e molte novelle di centinaia e centinaia di pagine. La Sperani al
vigore mascolino della dipintura unisce l'acutezza dell'osservazione
femminile: donde il fascino singolare, quasi pauroso, che emana da certe
sue pagine trasudanti la realtà e pure vibranti di intima emozione.
Giova quindi sperare che questa raccolta di scritti disseminati nei vari
periodici letterari della penisola sia come la prefazione di un lavoro
di maggior lena.

  (Dalla _Gazzetta Letteraria_).                    DEPANIS.


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Si capisce che non sono inventate, ma prese dal vero. Un caso lugubre
avvenuto al rimpianto Ponchielli (caso successogli realmente a Bergamo)
farebbe credere alle predestinazioni... La storia di una miserabile
popolana milanese, il cui marito, pessimo soggetto, le toglie tutti i
figli, gettandoli all'ospizio, è una figura degna di Domenico Induno.
L'ambiente milanese, in cui quella disgraziata patisce, la malignità e
la pietà falsa e tarda delle donnicciuole sue coinquiline, sono ritratte
con verità.

Vedo che i romanzi di BRUNO SPERANI ottengono l'onore di essere
attentamente studiati da qualche pregiato critico francese. Ne godo,
perchè, se ne persuadano alcuni, in Francia se ne intendono... ancora.

  (Dal _Corriere della Sera_).            RAFFAELLO BARBIERA.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

_Due Case_, l'ultima delle undici novelle, ecco l'ambiente vivo come
solo la mente di fortissimo artista sa dipingerlo!

Quell'angolo remoto, solitario, sulle coste della Dalmazia, sorge
dinanzi agli occhi di chi legge, appassionando. E dietro, il paesello
con la vita della casa, caduta nella più trista miseria: quella che non
vuole svelarsi per orgoglio patrizio, che si nasconde, rinserrandosi fra
le mura del vecchio palazzone nobilesco, altezzosamente vergognosa, è
una meraviglia.

E lì, che dipintura, a grandi tratti efficaci, dei dolori d'una povera
madre, tutta concentrata nella desolazione delle memorie d'un suo povero
figliuolo di vent'anni morto lontano, in America; ove l'autocrazia
paterna l'aveva mandato. E quegli eterni rimproveri muti al vecchio, che
mena la vita disperata dei rimorsi, sentendosi la cagione quasi diretta
della morte del figlio!...

Infine lei, lei l'A... con quanta schiettezza di impressioni narra dei
suoi primi anni e la potente emozione che la fece, di balzo, uscire
dalla puerizia: la scoverta--sotto la tettoia, riposta tra vecchi arredi
di casa--della cassa contenente tutto che servì ai funebri del povero
morto, riposta lì per esser dimenticata!...

Assolutamente in quest'ultima novella c'è tutto BRUNO SPERANI, ed io suo
ammiratore, non ho altro ad aggiungere.

  (_Rivista Contemporanea_).                       A. LAURIA.


Il Romanzo della Morte, 1890.

Titolo grave, tetre pagine, dense di una semioscurità, faticosa alla
mente del lettore. Favola pressochè nulla, immaginazione forte,
razionale del sentimento, serena noncuranza di tutto ciò che non è pura
_anatomia_ del cuore. Opera di donna, ma non letterariamente femminile,
vigorosa anzi e sentita, evidentemente dovuta ad un forte ingegno e ad
una salda coscienza letteraria. BRUNO SPERANI (nessuno ignora più il
nome reale dell'autrice) ci ha da qualche anno abituati a quel genere
speciale d'arte spregiudicata, della quale la donna che l'ha adottata si
fa banditrice, più presto talvolta e con più vibrato accento dell'uomo.
Nel brusco, scabroso argomento del suo romanzo, l'autrice è entrata di
piè fermo, senza esitanze, senza falsi pudori, l'ha vigorosamente
afferrato, lo ha reso, denudandolo. È facile avvertire ch'essa non teme
quello strano fatto determinante ch'è ad un tempo l'intreccio dell'opera
e il nodo della questione. Sin dalle prime pagine, lo accampa,
determinata, mette di fronte ad una vittima che non si osa chiamare
colpevole, un'altra vittima innocente, e questa deve esser partecipe
dell'ingiusta punizione. È tutta una cieca congiura di circostanze; le
volontà, fatte inerti dalla ferrea brutalità di quelle, obbediscono alla
prepotenza di una falsa ma invincibile logica, alle esigenze dispotiche
di un pregiudizio, contro il quale la ragione si ribella, ma che il
sentimento subisce. Lo studio è convinto, sincero, s'addentra e scende
nella malfida regione dei substrati del cuore, facendosi strada
faticosamente, in mezzo alla tristezza quasi ripugnante dell'argomento.

Una vaga incertezza erra per tutte le pagine di quel libro sincero ed
oppressivo, ove si intuisce un'originalità che si spende
coscienziosamente, una forza più latente che espressa. Non si può
mandarlo confuso colla farragine dei volgari romanzi; è d'uopo leggerlo
attentamente, anche provando un bisogno impulsivo di combatterlo, di
muovergli contro obbiezioni e critiche. Si possono non amare i libri di
Bruno Sperani, e il _Romanzo della Morte_ non è certo il più amabile fra
questi, ma torna impossibile lo sconoscere il robusto e virile ingegno
dell'autrice, la sua rara e forte intesa delle cose umane, la sua
poderosa energia di pensatrice.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

                                  IL FANFULLA DELLA DOMENICA.


Il _Romanzo della Morte_ in mezzo alle sue arditezze, è un libro di
carità, il quale dice semplicemente: «Fratelli, si muore; fate senno;
buttate via i pregiudizi che vi impediscono di gustare questo po' di
sole! Siate felici e cercate di rendere felici gli altri, come meglio
potete!» È così confortante l'idea conclusionale del _Romanzo della
Morte_, che dovrebbe convincere persino quei timidi lettori, i quali
rimasero perplessi avanti lo spirito ribelle d'altri volumi della stessa
Sperani. Non si spaventino, questa volta! Se le ipocrisie, le menzogne e
le ingiustizie sociali del tutto non hanno in loro inaridito il
sentimento della pietà, dovranno persuadersi che il _Romanzo della
Morte_ è un'opera di pace.

  (Dal _Sole_).                                  F. CAMERONI.


Il _Romanzo della Morte_, così concepito è la storia della lotta dei
sensi alleati all'intelletto forte e alla vigorosa saldezza dell'animo,
contro le massime tradizionali, succhiate col latte, sui pregiudizii
necessariamente assorbiti, sull'istinto autocratico del maschio. È il
romanzo della rivincita.--Lotta titanica invero, cui soltanto
un'organizzazione eccezionale è dato combattere.

                                       (_Scintille_ di Zara).


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BRUNO SPERANI è veramente _italiana_; e nel suo lavoro lo spirito sereno
e bene equilibrato della nostra nazione si afferma contro le
esagerazioni, pur geniali, dei nostri fratelli d'oltr'alpi.

Ella si riconnette, così, alla sana tradizione manzoniana, alla quale,
largamente intesa e accettando tutte quante le modificazioni e i
perfezionamenti che dai tempi mutati sono richieste, tornerà,
probabilmente, a poco a poco, la vera arte italiana.

  (Dalla _Vita Nuova_).                       ANGELO ORVIETO.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Come pare evidente da questi rapidi cenni che ne ho fatto, il libro
della BRUNO SPERANI è interessante, pieno di forza, ricco di sentimento
drammatico.

Resterebbe a risolvere se in una fanciulla onesta ed eletta come Argia,
sia naturale e verosimile la vertiginosa caduta, per il fascino di un
estraneo, visto la prima volta, il quale tuttavia è riuscito a dominarla
e vincolarla così tenacemente al proprio volere.

Anche ammettendo la suggestione ipnotica, a cui l'autrice sembra
alludere più volte, io non comprendo a sufficenza la brutalità del
misfatto e per parte dello straniero e per parte della fanciulla;
giudico inoltre che esso è troppo impreparato dagli avvenimenti che
precedono ed affermo che non se ne potrebbe così facilmente riscontrare
un esempio nella realtà. Ad ogni modo l'argomento in generale ci è
svolto con brillante forma e trattato con vigore, con ampiezza, con
sicurezza di scrittrice abituata a tentar di frequente sì difficili
prove. L'analisi poi mi sembra più sottile e convincente nelle pagine
che dipingono l'amarezza di Fausto quando si conosce rovinato da una
colpa altrui; veramente bella e perfetta, nel capitolo ove scorgiamo
Argia che, sul principio animata da uno spavento, da avversione, da un
odio amaro, da una ripugnanza invincibile per l'ignoto essere che nelle
viscere le vive, a poco a poco si calma, si fa giusta, si lascia preda a
quell'indefinita beatitudine di cui la natura empie il cuore delle
madri.

  (Dal _Resto del Carlino_).              AVANCINIO AVANCINI.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

L'autore volle così e rispettiamo la sua volontà, ed io lo faccio
volontieri, tanto più che il libro possiede le migliori qualità
tecniche. È d'un interesse che non si abbassa mai, è d'una lettura
facile ed attraente. Pagine da valoroso artista non mancano, anzi
abbondano: quelle in cui è descritta l'escursione di Fausto Lamberti
alla ricerca del luogo più adatto al suicidio sono davvero forti,
potenti: l'agonia del Lamberti, la cerimonia nuziale letteralmente
commuovono. Gentile e passionato è l'ultimo capitolo, in cui è narrato
il viaggio di nozze: e sarebbe perfetto se il lettore non si domandasse
a che punto sia la gestazione di Argia Pisani: gestazione troppo lunga,
ch'è l'incubo di questo romanzo e che non è necessaria nè per la ragione
artistica nè per la ragione morale dell'opera.

È inutile ch'io auguri molti lettori al _Romanzo della Morte_: il nome
dell'autore è una guarentigia e il libro è degno di lui.

  (Dal _Corriere della Sera_).                DOMENICO OLIVA.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Per un pezzo Fausto resta così sospeso tra la vita e la morte; un giorno
che stava peggio e quasi ogni speranza svaniva, come il padre di Argia
viene a scoprire d'un tratto ch'ella è madre, Fausto dichiara di essere
lui il seduttore, e di volere offrire a lei, avanti di morire, la
riparazione del matrimonio.

Così si celebrano queste nozze che hanno la tetra solennità d'una
esequie, e che forse non saranno consumate mai.

Ma non avviene così. Lamberti guarisce, forse per via di quella
dolcissima emozione che dànno il perdono e la coscienza di fare del
bene, che ha provocato una crisi salutare, e allora egli senza più
ribellarsi, senza lottare contro un passato che non si può mutare, e che
del resto non gli ha mutato l'amore della sua Argia, si abbandona con
lei all'amore e alla felicità.

L'ultimo capitolo del romanzo li sorprende in un _coupé_ riservato del
treno che va a Bordighèra, rapiti insieme alla vista del mare, coi cuori
trabboccanti di amore e di tenerezza, rinati a una esistenza nuova.

A me piace questa soluzione, i due vi arrivano dopo avere attraversato
il calvario, dopo avere vissuto tutto il triste romanzo della morte, ed
è vero, ed è umano questo istinto, superiore ad essi stessi, di
attaccarsi alla vita e alla felicità, dacchè il mare nel quale essi
avevano voluto finire--la morte--li ha deposti, loro malgrado sulla
riva.

  (Dal _Giornale di Sicilia_).                     DE-GIORGI.


.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

È questa la situazione, potentemente drammatica, sulla quale e per la
quale, BRUNO SPERANI ha scritto un romanzo audace, pieno di verità e di
passione; uno di quei romanzi che oggi si usa definire «forti!»

Certo, chi ha preso le mosse di un'azione romantica, d'un intreccio
interessante da una situazione così spietatamente insolubile, ha dato
prova d'una forza di pensiero e di sentimento, e, d'una coscienza di
queste forze così profonda e serena che basta a dare tutta la misura
d'un ingegno.

E quando l'opera risulta pari all'audace concepimento, forte e sereno,
lo scrittore (e in questo caso è una scrittrice!...) può appagarsi nella
legittima soddisfazione di aver fatto cosa insolita e ammirevole.

Il romanzo di Bruno Sperani, di cui non voglio raccontare la conclusione
superiore alle premesse per sentimento profondo e vero, per nobile
audacia, per singolare semplicità di forma; (piccolo artifizio innocente
per costringere alla lettura anche le lettrici più indolenti) il nuovo
libro di Bruno Sperani è un vero romanzo, come se ne vedono apparire
pochissimi, nella presente miseria, e nel bizantinismo letterario che
c'impone una ostentata e falsa erudizione accoppiata alle gonfiature,
alle goffagini d'un chiacchierio vano e scorretto che vuol parere
_stile_, d'una vacuità di pensiero e esiguità di fantasia che vuol
parere _acutezza d'analisi_.

È un romanzo che fa palpitare e fremere, che interessa il lettore alle
situazioni, e lo lega ai personaggi con un vincolo di simpatia e
d'affetto.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

  (Dal _Don Chisciotte_).                        OLGA OSSANI.


V'ha in _Il Romanzo della Morte_ degli episodi e delle scene potenti,
tutte le pagine in cui or Fausto ed ora Argia si tormentano nel pensiero
de la morte cercata, formano un quadro magistralmente dipinto di questa
condizione psicologica, e, nel suo genere, un vero capolavoro, e che
solo trova un paragone nel romanzo russo. L'analisi è profonda, sicura,
spietata--par fatta dal coltello anatomico d'un valente chirurgo:
nessuna traccia de la personalità de l'autrice, d'imitazione straniera o
di riflessi altrui. L'analisi scaturisce dagli stessi personaggi, da le
loro azioni, da' loro dialoghi. Leggete le pagine dove comincia a
rivelarsi la sventura di Argia, e i tormenti di Fausto--tutta quella
storia di lacrime. Assistete a la passeggiata de' due amanti di notte;
al dialogo tra il professor Pisani e la figlia; al matrimonio così
triste, e pure, a tratti d'un comicismo finissimo; al dialogo in cui
Fausto chiede ad Argia il racconto de la sventura--d'una efficacia
sorprendente--e poi ditemi se questo romanzo senza _tirades_, senza
lirismo, senza descrizioni smaglianti, non è una de le più forti ed
efficaci pitture de la vita contemporanea; non è un vero e gran dramma
de l'amore, come può essere inteso nel nostro secolo agonizzante; non è
una evidente e potente opera d'arte, d'una lucidità meravigliosa e d'una
semplicità insuperabile, e per la forma e per la regolarità de la
composizione.

E dicendo forma, intendo parlar de la lingua, de lo stile, in somma di
tutto il complesso di mezzi artistici e di facoltà creatrice che serve a
infondere in un libro il soffio divino de l'arte.

È ne la caratteristica speciale de la forma che si rivela la
personalità, l'originalità, direi quasi la nota d'uno scrittore. Non
forse la forma di BRUNO SPERANI, così suggestiva, vibrante, sprezzante
a volte, espressiva sempre, vigorosa, a trasparenze, a spezzature, a
scatti, è la manifestazione de l'organismo, de' sentimenti d'uno tra i
più originali romanzatori italiani? Così in letteratura non abbiamo un
tipo unico di stile, ma differenti stili, i quali sono un tutto co 'l
contenuto d'un'opera d'arte: tal contenuto, tal forma--anche 'l De
Sanctis lo dice.

La Sperani non è stilista: scrive netto, reciso, sincero, con una forza
d'espressione rara tra noi italiani, e non ha altra preoccupazione che
di render chiaro il suo pensiero profondo, fermo, preciso. E questa
preoccupazione sua mi ricorda Stendhal, Duranty ed i romanzieri russi,
a' quali amo riavvicinare la scrittrice nostra.

Il suo metodo potrà piacere o dispiacere, potrà dar luogo a mille
discussioni--ma deve esser preso qual'è--ed accettato. E così noi--che
non possiamo emulare questa potente romanzatrice--possiamo almeno essere
in grado di comprenderla ed amarla.

Il _Romanzo della Morte_ ha una personalità definita, un carattere di
forma particolare, una onestà efficace--che ci fan presto desiderare 'l
novo libro di Bruno Sperani: _La Fabbrica_.

                                           B. EMILIO RAVENDA.


Ecco un romanzo diversamente bello dagli altri due che ho letto, finora,
della SPERANI: _Numeri e Sogni_ e _l'Avvocato Malpieri_.

Se in quelli v'ha la virile robustezza di scrittrice--che tutti
riconoscono nell'A...--la niuna preoccupazione di fare un'opera d'arte
dilettevole pel gran pubblico--come la vecchia scuola comandava dovesse
farsi--se in quelli v'ha la studiosa propugnatrice di nuove e generose
idee sociali, e l'osservatrice di caratteri moderni, in questo _Romanzo
della Morte_--cosa che non avrei mai supposto--v'è una muliebre
freschezza di passione, v'è, nel contesto, l'idea, il proposito di
_fare_ un delicatissimo romanzo, ed in gran parte, v'è riuscita.

Il romanzo entra nella sua più bella fase al 5º ed al 6º capitolo. Lì
c'è tutta l'arte completa della Sperani: lì le scene vere della vita,
come può presentarle un'osservatrice della sua potenza; e se fin là non
si sente Argia ad amare con islancio muliebre--nè idealmente, nè
sensualmente, invece, è in quei due capitoli ch'ella principia a
rivelarsi, con tutta la desolante prostrazione in cui l'ha gettata
l'infamia d'altri, accanto a Fausto, posseduto dalla disperazione
dell'amore, col cuore arrovellato dalle spine di dolore acutissimo.

  (Dalla _Rassegna Critica_).                      A. LAURIA.


All'opera d'arte giova quello speciale procedimento dell'A... per cui
dall'evoluzione ascendentale del concetto pessimista si conchiude a un
corollario tanto più rilevante quanto più inaspettato, sicchè, con
grande vantaggio dell'interesse tenuto sempre desto, e dei moderni
criterî positivi, invece della glorificazione della Morte, si ha la
vittoria definitiva della Vita, la quale ci si afferma con tanto
maggiore intensità quanto maggiore poteva sembrare nello svolgimento del
racconto la tendenza a negarla. È bene che nel romanzo moderno il
concetto scientifico si faccia strada, e, abbandonatesi le vecchie
rotaie del romanticismo, si concilî l'uomo alla terra prosaica,
all'umile esistenza quotidiana; la vita, in fondo, non è, ad onta de'
mille e mille declamatori, così insopportabile peso; essa ha uno scopo
che bisogna asseguire, e, concepita con serenità d'animo, potrebbe
perfino darci de' godimenti non mediocri. Ma sopratutto guardiamoci dal
renderci schiavi del pregiudizio; e nel conflitto fra il pregiudizio e
la Natura procuriamo di astenerci dal deplorevole orrore di comprimere
quest'ultima. Essa non tarderebbe a prorompere impetuosa ripigliando i
suoi diritti. Questo ha capito la signora Beatrice Speraz, anzi l'abate
Don Paolo e Fausto vorrebbero esprimere, a mio modo di vedere, come per
simbolo le idee dell'egregia pensatrice. L'artista, valorosissima, parmi
che abbia caricate perciò un pochino le tinte de' due personaggi,
destinati a simboleggiare tali idee, pel resto non ho nulla da
osservare: si sente nel _Romanzo della Morte_, e nei ritratti e nelle
descrizioni, l'artista provetta che ha saputo infondere crescente
interesse nello svolgimento di un caso cui i meno abili avrebbero
ristretto ne' limiti brevi della novella.

Tra gli episodî che mi hanno fatto _maggiore_ impressione noto il
drammaticissimo dialogo nel giardino tra Fausto e Argia, l'affannosa
corsa del Lamberti alla ricerca di un luogo meglio adatto al suicidio,
la scena del matrimonio in _extremis_ così commovente nella greca
semplicità.

                                        G. PIPITONE-FEDERICO.


Eterno Inganno, 1891.

Mentre sta attendendo ad un nuovo romanzo sociale la Sperani si ricorda
ai lettori con un volume di novelle, _Eterno Inganno_.

Avrò occasione di ritornare di proposito su di lei meglio che non possa
ora, tanto più che tre delle sette novelle del volume videro già la luce
in queste stesse colonne. _Eterno Inganno_ si raccomanda per le stesse
qualità dei precedenti volumi: un vivo alito di modernità vi spira per
entro, insieme con una tendenza spiccata verso le questioni sociali ed
umanitarie. Forse una certa trascuratezza di forma appare più sensibile
nel breve àmbito della novella in cui la fattura tecnica assume una
maggiore importanza. Delle sette novelle, mi sembrano meno felici: _Un
uomo d'ordine_ ed _Eterno Inganno_. _Una bella donna_ e _Alla Jonction_
procedono serrate alla meta e si leggono con molto interesse per la
drammaticità incalzante degli avvenimenti. _Risveglio_ è uno studio di
carattere che si svolge in un ospedale dei pazzi. Ma le due novelle
migliori sono incontestabilmente: _Il primo ritratto_ che ha una chiusa
efficace ed originale e l'_Angelina_ che è un gioiello di osservazione e
di sentimento.

  (Dalla _Gazzetta Letteraria_).            GIUSEPPE DEPANIS.


Fra i sette bozzetti dell'_Eterno Inganno_, il primo: _Un uomo
d'ordine_, è il più drammatico nella sua stranezza. Quell'uomo il quale,
per un concetto sbagliato della vita, un concetto ascetico alla
Tolstoï, distrugge la propria felicità e quella della moglie, è un
esempio veramente tragico della morbosità di sensazioni e di pensieri
che predomina oggi.--_Una bella donna_ è lo studio ben riuscito d'una
femmina sprovvista di cuore, tutta vanità e calcolo.--L'_Angelina_ la
triste fotografia d'una di quelle creature semplici nate per
soffrire.--Ma io riserbo le mie simpatie pel bozzetto: _Alla Jonction_
in cui la pittura perfetta dell'ambiente dà risalto ad una scena intima,
appassionata insieme e gentile, ad un quadro di felicità, direi quasi
melanconica, che è di sommo effetto ed ispirata non a pessimismo, ma a
fede nella possibilità di amori puri e costanti, torna dolce e grata
all'anima.

L'_Eterno Inganno_ può star a pari dei suoi fratelli maggiori, e suscita
il desiderio che tra poco BRUNO SPERANI ci dia qualche nuova opera di
lunga lena, in cui siano illustrati altri tipi ed ambienti moderni.

  (Dalla _Cronaca d'Arte_).                         G. PALMA.


La potenza rappresentativa della Sperani è veramente grande; con la
parola semplice, nuda, colla frase rapida, vigorosa, asciutta, quasi
scarna e bella di una certa severità indefinibile, ella vi rende netta,
viva e parlante la figura, l'immagine, l'idea vagheggiata nel suo
pensiero. Nessuno studio in lei per la ricerca di epiteti preziosi;
nessun giro involuto di frase; nessuna descrizione oziosa. Con due
tocchi da maestro ella vi fa vivere una persona, un carattere, vi
suscita un paesaggio. Io ricordavo d'aver letto altra volta con vivo
interesse il bozzetto che s'intitola alla «Jonction.» Ebbene, non vi so
dire con quanto piacere l'ho riveduto in questo volume. Com'è bella
quella descrizione del punto ove l'Arve ed il Rodano, _lui azzurro e
altezzoso, lei bionda e rigida_, là presso Ginevra confondono le loro
acque! La vorrei trascrivere se non fosse lunghetta e se non bisognasse
leggerla col resto del racconto per comprenderne tutto il valore. In
essa i lettori vedrebbero con quanta parsimonia di colorito l'A...
sappia ottenere effetti stupendi. E quanto sentimento di natura in
quelle due paginette! A me pare, nel leggere, di sentire la frescura
delle acque e delle selve. Difficilmente la parola potrebbe con maggior
efficacia rievocare un paesaggio e sostituirsi ai colori ed ai suoni
vivi.

  (Dalla _Posta di Caprino_ di A. Ghislanzoni).

                                                     G. B. B.



      *      *      *      *      *      *



Nota del Trascrittore

  L'ortografia e la punteggiatura originali sono state mantenute,
  correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Grafie
  alternative mantenute:

  Sì / Si
  canapa / canape
  dànno / danno
  episodî / episodi





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