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Title: Racconti fantastici
Author: Tarchetti, Iginio Ugo, 1841-1869
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Racconti fantastici" ***


by Biblioteca Sormani - Milano.)



              RACCONTI FANTASTICI

                       DI

                I. U. TARCHETTI



                    I FATALI
           LEGGENDE DEL CASTELLO NERO
         LA LETTERA U--UN OSSO DI MORTO
            LO SPIRITO IN UN LAMPONE


                    PENSIERI
  L'Amore--La Donna--Felicità e Dolore--La Vita
            La Fede--Pensieri diversi.



                     MILANO

             E. TREVES & C. EDITORI

                      1869



I FATALI


Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un'influenza sinistra
sugli uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo
testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva,
avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei
nostri sensi, ripugna sempre di ammettere.

Se noi esaminiamo attentamente tutte le opere nostre, anche le più
comuni e le più inconcludenti, vedremo nondimeno non esservene una da
cui questa credenza ci abbia distolti, o a compiere la quale non ci
abbia in qualche maniera eccitati. Questa superstizione entra in tutti i
fatti della nostra vita.

Molti credono schermirsene asserendo per l'appunto non esser ella che
una superstizione, e non s'avvedono che fanno così una semplice
questione di parole. Ciò non toglierebbe valore a questa credenza,
poichè anche la superstizione è una fede.

Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto
nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per
certe leggi d'influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare
intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e
inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di
intelligenze su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo
tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l'una sull'altra,
riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il
mondo dello spirito e il mondo della materia.

Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra
fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha
analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci
sono quasi tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni
psicologici, e dinanzi ai rapporti che congiungono questi a quelli.
Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha trattenuto le nostre credenze
sulla soglia di questo regno inesplorato. Poichè nell'ordine dei fatti
noi possiamo ammettere delle tesi generali, delle verità complesse; non
nell'ordine delle idee.

Dove i fatti sono incerti, le idee sono confuse. Avvengono fatti che non
presentano un carattere deciso, sensibile, ben definito, e che la nostra
ragione calcolatrice non sa se negare od ammettere. Vi sono perciò idee
incomplete, oscure, fluttuanti, che non possono presentarsi mai sotto un
aspetto chiaro, e che non sappiamo se accettare o respingere. Questa
incertezza di fatti, questa incompletazione di idee, questo stato di
mezzo tra una fede ferma e una fede titubante, costituiscono forse ciò
che noi chiamiamo superstizione--il punto di partenza di tutte le grandi
verità. Perchè la superstizione è l'embrione, è il primo concetto di
tutte le grandi credenze.

Qualora io vedo una superstizione impadronirsi dell'anima delle masse,
io dico che in fondo ad essa vi è una verità, poichè noi non abbiamo
idee senza fatti, e questa superstizione non può essere partita che da
un fatto. Se esso non si è ancora rinnovato e generalizzato per
confermarla, egli è che la via dell'umanità è lunga--più lunga quelle
delle cose--e nessuno può determinare il tempo e le circostanze in cui
potrà ripetersi. Gli uomini hanno adottato un sistema facile e logico in
fatto di convenzioni; ammettono ciò che vedono, negano ciò che non
vedono; ma questo sistema non ha impedito finora che essi abbiano dovuto
ammettere più tardi non poche verità che avevano prima negate. La
scienza e il progresso ne fanno fede. Del resto, comunque sia, per ciò
che è fede nelle influenze buone e sinistre che uomini e cose possono
esercitare sopra di noi, non v'è uomo che non ne abbia una più o meno
salda, più o meno illuminata, più o meno confermata dall'esperienza
della vita. Tutto al più si tratterebbe di riconoscere se essa abbia o
no ragione di essere, e fino a qual punto debba venire accettata, non di
negarla--poichè l'esistenza di questa fede è indiscutibile.

Io ne trovo dovunque delle prove. Per me l'antipatia non è che una
tacita coscienza dell'influenza fatale che una persona può esercitare
sopra di noi. Nelle masse ignoranti questa coscienza ha creato la
_jettatura_, nelle masse colte la prevenzione, le diffidenza, il
sospetto.

Non v'è cosa più comune che udire esclamare: «quell'uomo non mi
piace--non vorrei incontrarmi per via con quella persona--mi fa
paura--d'innanzi a lui io non sono più nulla--ogni qualvolta mi sono
imbattuto in quell'uomo mi è accaduta una sventura.» Nè questa fede che
si presenta sotto tanti aspetti, che quasi non avvertiamo, che è
pressochè innata con noi come tutti gli istinti di difesa che ci ha dato
la natura, è sentita esclusivamente da pochi uomini--essa è, in maggiori
o minori proporzioni, un retaggio naturale di tutti.

Questa superstizione accompagna l'umanità fino dalla sua infanzia, è
diffusa da tutti i popoli. Gli uomini di genio, quelli che hanno molto
sofferto, vi hanno posto maggior fede degli altri. Il numero di coloro
che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è
del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi,
Hoffman, buono ed affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo
pensiero.

Non giova dilungarsi su ciò, perchè la storia è piena di questi esempi,
e ciascuno di noi può trovare nella sua vita intima le prove di questa
credenza quasi istintiva.

Io non voglio dimostrarne nè l'assurdo nè la verità. Credo che nessuno
lo possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che
hanno rapporto con questa superstizione.

       *       *       *       *       *

Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì
grasso, e il corso delle maschere era animatissimo. Devo però fare una
distinzione--animatissimo di spettatori, non di maschere. Chè se la
taccia di fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte,
potesse applicarsi anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne
avrebbe indubbiamente la sua parte. Queste feste non sono più che una
mistificazione, ed hanno ragione di esserlo, giacchè le migliaja di
forastieri che vengono annualmente ad assistervi non sono però meno
convinti di divertirsi. Tutto stava nell'istillar loro la persuasione
che il carnevale di Milano fosse la cosa più comica, più spiritosa, più
divertente di questo mondo. Una volta infuso questo convincimento, non
erano più necessari i fatti per confermarlo--lo scopo di divertire era
ottenuto.

Comunque fosse, il Carnevale del 1866 non era meno animato degli altri,
e nelle prime ore della sera del giovedì grasso, la popolazione si era
versata sulle strade a torrenti. La folla aveva talmente stipate le vie
che in alcuni punti era impossibile muoversi e presso la crociera della
via di S. Paolo, ove mi trovava io, si era letteralmente pigiati.

Gli onesti milanesi si frammischiavano fraternamente ai forestieri, e si
inebbriavano del piacere di guardarsi l'un l'altro nel bianco degli
occhi--ciò che costituisce l'unico, ma ineffabile divertimento di questo
celebre Carnevale.

Non so da quanto tempo io mi trovassi colà, in piedi, in mezzo a quella
gran ressa, in una posizione incomodissima, allorchè voltandomi per
vedere se v'era mezzo di uscirne, osservai intorno a me uno spettacolo
assai curioso.

La folla non si era diradata, ma si era ristretta in modo da lasciare in
mezzo a sè uno spazio circolare abbastanza vasto. Nel centro di questo
circolo miracoloso v'era un giovinetto che non mostrava aver più di
diciotto anni, ma cui, a guardarlo bene, se ne sarebbero dati
venticinque, tanto il suo volto appariva patito, e tante erano le
traccie che v'erano impresse d'una esistenza travagliata e più lunga.
Era biondo e bellissimo, eccessivamente magro, ma non tanto che la
bellezza dei lineamenti ne fosse alterata; aveva gli occhi grandi ed
azzurri, il labbro inferiore un po' sporgente, ma con espressione di
tristezza più che di rancore; tutta la sua persona aveva qualche cosa di
femminile, di delicato, di ineffabilmente grazioso, qualche cosa di ciò
che i francesi dicono _souple_, e che io non saprei esprimere meglio con
altra parola della nostra lingua. La purezza e l'armonia delle sue linee
erano meravigliose; egli vestiva con estrema eleganza; e guardava quà e
là, un poco alla folla e un poco alle maschere, con aria malinconica e
divagata come se si trovasse in quel luogo a suo dispetto, e fosse più
occupato di sè che dello spettacolo poco allettante che aveva d'innanzi
allo sguardo.

Ma ciò che mi era parso rimarchevole era che egli sembrava non essersi
avveduto di quel circolo che s'era formato d'intorno a lui, nè alcuni di
quelli stessi che lo avevano formato mostravano di averci posto mente.
Non era nulla in ciò di veramente straordinario; pure l'esistenza di uno
spazio così vasto in mezzo ad una folla così fitta, in mezzo ad una
moltitudine che si moveva, fremeva, ondeggiava come un corpo solo, senza
riempire mai il vuoto che s'era formato in quel punto, mi pareva cosa
meritevole di attenzione. Si sarebbe detto che da quel giovine emanasse
un fluido ripulsivo, una virtù misteriosa atta ad allontanare da lui
tutto ciò che lo circondava.

In quell'istante che io lo stava guardando, essendogli stati gettati
alcuni confetti, di cui parecchi si fermarono tra le pieghe del suo
mantello che teneva avviluppato sul braccio, un fanciulletto si spiccò
dal circolo e gli venne d'appresso quasi per domandarglieli, giacchè
egli nè li aveva presi, nè aveva scosso il mantello per farli cadere.

Il giovine lo guardò con affetto, raccolse le confetture, gliele diede;
e prima che si allontanasse gli passò una mano tra i capelli con una
specie di tenerezza piena di soavità e di malinconia.

Egli aveva posto tanto affetto in quell'atto che, ove anche la natura
non lo avesse dotato di un volto così dolce e così simpatico, lo si
sarebbe subito giudicato buono e cortese.

È un fatto che il volto è lo specchio dell'anima: non si può indovinare
se la natura abbia dato ella stessa un'espressione buona ai buoni, e
cattiva ai cattivi; o se la bontà e la malvagità umana possano talmente
agire sulle nostre fattezze da modificarle e da imprimervi il loro
suggello; ma egli è ben certo che il cuore trasparisce dal viso, anche
da quelli la cui bellezza vorrebbe nascondere un animo turpe, o la cui
laidezza uno onesto.

Io non mi sarei stancato mai di guardarlo. Non so se le affezioni degli
altri uomini sieno governate da questa legge di simpatie e di antipatie
improvvise, energiche, inesorabili cui vanno soggette le mie,--per me
l'innamorarmi di un uomo o di una donna, il concepire un'inclinazione od
un'avversione irresistibile per una creatura qualunque non fu mai opera
che di pochi minuti--ma mi ricordo che l'avrei abbracciato lì sulla via,
tanto l'espressione del suo volto era affettuosa, tanto quel linguaggio
andava dritto al cuore, senza dar campo alla ragione di discuterci
sopra.

Non mi mossi di là finchè non se ne mosse egli pure. La festa
incominciava a languire, la folla incominciava a diradarsi, e il
crepuscolo ad avvolgere tutta quella scena in un penombra grigia e
pesante. Eravamo a due passi da un caffè, ed egli vi entrò con aria
d'uomo che non sa come passare il suo tempo, che sente il peso delle sue
braccia, delle sue gambe, di tutta la sua persona, e che vorrebbe
sbarazzarsene e buttarlo là sopra un divano come un fardello noioso ed
inutile. Io era nello stesso caso, non aveva che fare, e gli tenni
dietro.

Ci sedemmo di faccia, io a guardarlo, egli a leggere. Se non che egli
pareva sì poco occupato della sua lettura, che se anche avesse afferrato
il giornale pel rovescio credo che non se ne sarebbe avveduto. I suoi
occhi erano fissi sulle colonne di quel diario, ma sembravano guardare
di dentro piuttostochè di fuori, parevano aver concentrata tutta la loro
virtù visiva in sè medesimi, e non occuparsi che di ciò che avveniva
nell'animo del giovine.

Io non aveva però avuto che il tempo di fare questa riflessione,
allorchè dietro la vetrina della finestra scorsi un nuovo affollarsi di
gente e sentii come delle grida femminili; stavo per alzarmi allorchè si
aperse la porta del caffè, e ne fu recato dentro un fanciullo svenuto,
il quale era stato travolto dalle ruote di una vettura, e ne aveva avuto
un braccio spezzato. Rimasi dolorosamente colpito dal riconoscere in
quel fanciullo quello stesso che l'incognito aveva accarezzato in mezzo
a quel circolo, e a cui aveva regalato i confetti caduti sul suo
mantello.

Per un moto istintivo diressi lo sguardo dalla sua parte, e lo scorsi
nell'istante che usciva frettolosamente dalla sala. Il suo volto
riflesso in quel momento da uno specchio che era di fronte a me, mi
parve pallidissimo.

Io abbandonai poco dopo quel caffè in preda a tristi pensieri.

In quella sera stessa doveva aver luogo alla Scala una rappresentazione
straordinaria.

L'opera annunciata era la _Sonnambula_, e il pubblico vi era accorso
numeroso ad ascoltare quella musica divina, così piena, così complessa
nella sua semplicità, così affettuosa. Si era rappresentata poco prima
l'_Africana_--da Mayerbeer a Bellini la differenza almeno, se non la
distanza, era ben grande. Il teatro era illuminato a giorno, la platea
era stipata di uditori; e non v'erano altri palchi vuoti da cinque o sei
all'infuori, posti tutti nello stesso punto; e in uno dei quali
riconobbi con mia grande sorpresa il giovine che aveva veduto poco prima
assistendo al corso delle maschere.

Egli era solo e non mi sembrava più nè sì triste, nè sì pensieroso.
Vestiva un abito nero molto elegante, ma nulla dimostrava che fosse
avvezzo a prendere gran cura della sua persona. Non so se fosse inganno
mio, o allucinazione, e che altro, ma egli mi pareva straordinariamente
bello, assai più di quanto mi fosse sembrato poche ore prima.

Vi era sul suo volto qualche cosa di luminoso, qualche cosa di quella
trasparenza profonda, benchè torbida, benchè appannata, che ha
l'alabastro. Egli aveva difatto la stessa pallidezza: a non guardarne
gli occhi, a non esaminare la mobilità prodigiosa dei lineamenti, lo si
sarebbe detto morto o impietrito. I suoi capelli conservavano ancora
quella finezza, quella arrendevolezza, quella lucidità,
quell'arricciamento semplice e naturale che hanno i fanciulli; erano di
un biondo meraviglioso, e lucevano come fili d'oro al riflesso delle
fiamme dei candelabri. Teneva appoggiato il gomito al parapetto, e la
guancia sulla mano: la sua testa così inclinata pareva ancora più bella.
Egli aveva quella specie di bellezza che hanno le donne, e che ritrae
dalla luce un prestigio misterioso e affascinante. A contemplare dalla
platea--d'onde non si vedeva il resto della persona--quella sua testa
così diafana e così bianca, la si sarebbe creduta appartenere ad un
fanciullo, ad una creatura fragile e delicata, forse ad un essere
sopranaturale.

Io solo aveva rimarcato cosa che mi pareva avere una strana relazione
con ciò che aveva osservato prima al corso delle maschere, voglio dire
quel trovarsi egli così isolato in un palco intorno al quale ve n'erano
cinque o sei altri vuoti, mentre non era possibile vederne da tutte le
altre parti del teatro un solo che non fosse occupato--bisognava aver
osservato prima l'accidente del circolo, per trovar causa di meraviglia
in questo fatto,--ma gli spettatori erano stati unanimi nell'avvertire
la sua bellezza e nell'ammirarla, nè tardai ad accorgermi che le signore
sopratutto ne erano state colpite, e gareggiavano nel dirigere i loro
cannocchiali verso il suo palco.

Tra quelle di esse che erano riuscite ad attirarsi più facilmente la sua
attenzione, vi era una fanciulla che era pure assai bella, ed occupava
un palco non molto lontano da quello del giovine. Come avviene a tutte
le ragazze veramente ingenue, non di quella ingenuità convenzionale che
esse devono ostentare spesso come una parte di commedia, fino a che il
marito non le autorizza a rappresentare una parte diversa, ma di quella
ingenuità vera che ha la sua radice nella verginità della mente e del
cuore, essa ne era rimasta fortemente e subitamente impressionata. Era
troppo giovine per sapersi già infingere, e credo di non essere stato io
solo ad avvedermi del suo turbamento e della sua agitazione.

Assistetti per un po' di tempo a quella specie di rapporto misterioso
che s'era stabilito tra di loro, mi cacciai come un intruso in quella
specie di corrente magnetica che avevano formato i loro sguardi; poi
quasi vergognandomi di quello spiare, di quell'ammiccare alla loro
felicità, come un pitocco che assista ad un banchetto dalla soglia della
stanza, e non possa fruire che del profumo delle salse e delle vivande,
mi raccolsi in me stesso, e procurai di rivolgere tutta la mia
attenzione allo spettacolo dell'opera.

Dico che me n'era vergognato, ma per me solo. Che se v'è qualche cosa al
mondo, d'innanzi alla quale io non sappia nè sogghignare per sprezzo nè
piangere per pietà, è la vista di due persone che si amano. Mi sono
cacciato spesso di notte sotto i viali pubblici, sotto i boschetti di
tigli, appositamente per incontrarvi qualche coppia d'innamorati; e non
mi venne mai di passar vicino ad una di esse senza sentirmi compreso da
un sentimento di rispetto profondo. Lo confesso, furono quelli i soli
istanti della mia vita, in cui i miei simili mi sieno sembrati meno
tristi del solito.

Era così riuscito a poco a poco ad occuparmi interamente della
rappresentazione, e non aveva più alzato gli occhi verso il palco di
quello sconosciuto, allorchè avvedendomi d'un movimento improvviso che
si manifestava negli spettatori, e scorgendo la folla addensarsi verso
la porta, mi mossi io pure e entrato a stento nel vestibolo, vidi
passarvi due signori che reggevano sulle loro braccia una fanciulla
svenuta, e la trasportavano in una delle sale del teatro.

Non dirò quale fosse la mia meraviglia nel ravvisare in lei quella
stessa fanciulla che aveva guardato con tanto affetto e con tanta
insistenza il mio incognito. Tutto ciò che era accaduto non poteva
essere stato che un capriccio del caso: pure era la seconda volta nel
termine di poche ore, che io vedeva una persona alla quale egli aveva
dato segno di predilezione, venir colpita improvvisamente da una
sventura.

Rientrai nella platea.

Egli occupava ancora il suo posto, era rimasto nella posizione di prima
colla guancia appoggiata alla mano; ma il suo volto coloritosi
improvvisamente di un rossore vivace, era tornato in un istante di una
pallidezza cadaverica. Non era difficile accorgersi che egli soffriva,
che s'era avveduto degli sguardi curiosi e quasi reprensivi di cui era
fatto oggetto, e che non era rimasto immobile al suo posto che per
dissimulare la sua commozione, e per non accusare in certo modo quella
specie di complicità che aveva avuto in quell'avvenimento.

Allorchè parve che il pubblico avesse cessato di occuparsi di lui, egli
uscì dal teatro, e ne uscii io pure.

Nessuno conosceva forse il caso assai più deplorevole che aveva avuto
luogo poche ore prima: nessuno aveva forse rimarcata la circostanza
singolare e incomprensibile di quella specie di vuoto che egli pareva
formare intorno a sè, nè aveva posto mente ai rapporti che sembravano
congiungere tutti questi fatti, ma io ne era tutto in pensiero. Era
evidente esservi in lui qualche cosa di inesplicabile e di fatale.

Io lo aveva veduto solo nel seno di uno spazio formato quasi
miracolosamente in mezzo ad un folla fittissima, aveva veduto rinnovarsi
lo stesso caso in un teatro ripieno di spettatori; aveva veduto un
fanciullo che aveva ricevuto le sue carezze venir travolto dalle ruote
di una carrozza, e una fanciulla osservata da lui, essere colta da un
malessere improvviso. Non mi pareva possibile che una pura combinazione
avesse dato luogo a questa serie di avvenimenti. E se così non era, chi
era dunque egli? Quale era l'influenza che poteva esercitare quell'uomo?

       *       *       *       *       *

Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini--quel convegno di
artisti che non lavorano, di cantanti che non cantano, di letterati che
non scrivono, e di eleganti che non hanno uno spicciolo--e si parlava,
raccolti in buon numero attorno ad un tavolo, d'una specie di pasticcio
di nuova invenzione, qualche cosa di consimile al _pudding_, che era
stato aggiunto quel giorno alla nota delle vivande del ristorante.

Da questo soggetto la conversazione era caduta, filtrando per l'idea
del _pudding_ e dell'oca di cui le classi ricche a Londra usano regalare
le classi povere nel giorno di Natale, sul discorso che la regina
d'Inghilterra aveva fatto allora al parlamento.

Una frase di questo discorso aveva dato un gran colpo alla discussione e
l'aveva gettata di balzo sulle eventualità d'una guerra in Italia. Da
ciò, giù per la china delle opinioni e delle antiveggenze personali si
era arrivati ai pronostici; e dai pronostici ai presagi; e da questi,
entrando nel campo della vita intima, alle fatalità, alle stregature,
alle malie; per modo che cinque minuti dopo aver difeso a spada tratta
l'eccellenza di questo pasticcio di nuova invenzione, io raccontava a
quel circolo di sfaccendati gli avvenimenti incomprensibili di cui era
stato testimonio pochi giorni prima a proposito di quel giovine
incognito.

Inutile dire che si rise di me e che non mi si volle prestar fede; il
fatto della fanciulla svenuta poche sere innanzi era bensì noto, ma le
cause, dicevano essi, dovevano essere diverse. Nondimeno il soggetto di
questa nuova deviazione del nostro discorso era stato trovato
interessante, e la conversazione dopo aver fluttuato su tanti argomenti,
si era arrestata saldamente su questo. Ciascuno esponeva le proprie
idee, ciascuno aveva qualche cosa a raccontare a questo riguardo. E come
avviene ogni qualvolta ci affacciamo a questo mondo pauroso
dell'incomprensibile e del soprannaturale, che se ne ride da principio
per ostentazione di coraggio e si finisce coll'atterrirsi di ciò che si
ascolta, e spesso di ciò che abbiamo raccontato noi stessi, ciascuno di
noi si sentiva compreso da un sentimento misto di paura e di meraviglia,
e si affannava a riannodare e a rinfocare la conversazione ogni
qualvolta questa mostrava di languire, con quell'insaziabilità che hanno
i fanciulli di ascoltare i racconti spaventevoli dei maghi e delle fate.

Avevamo pressochè esaurito tutto il repertorio delle nostre cognizioni
su questa tesi, allorchè un vecchio artista da teatro che tutti noi
conosciamo da tempo--una dalle cariatidi più celebri di quel caffè--si
alzò da un tavolo vicino da cui era stato ascoltando, e venne a prender
posto nel nostro circolo.

--Il signore ha ragione, diss'egli, accennandomi col dito. Io non
conosco il giovine di cui egli ha parlato poco fa, e non posso far fede
dell'influenza che gli attribuisce, ma che esistano uomini siffattamente
fatali, anzi assai più fatali di quel giovine, non è cosa da potersi
mettere in dubbio. Chi di voi ha sentito nominare il conte Corrado di
Sagrezwitcth?

--Nessuno.

--È strano, giacchè egli si è formato in quasi tutti gli Stati d'Europa
e in molte delle provincie degli Stati Uniti una terribile reputazione.
Egli è considerato come l'uomo più fatale di cui si abbia memoria, la
sua presenza segnala dovunque una sventura immancabile, egli si è
trovato sempre sul teatro delle calamità più terribili, ha assistito ai
disastri più spaventosi. Egli si trovava nell'America del Sud allorchè
bruciò la chiesa di S. Jago in cui perirono più di mille persone; egli
viaggiava or fanno due anni sulla ferrovia del Pacifico allorchè avvenne
quello scontro in cui perdettero la vita più di trecento viaggiatori;
egli era a Pietroburgo allorchè rovinò il palazzo del principe di
Jakorliff in cui tante nobili dame e tanti dignitari dello Stato
trovarono la morte. Nelle miniere irlandesi e in quelle di Alstau Moor
in Scozia--luoghi che egli ha spesso visitati--il suo nome non viene
ascoltato mai senza spavento; ogni sua visita ha segnalato qualcuna di
quelle catastrofi che sono tanto frequenti e tanto temute nelle
miniere. Il conte di Sagrezwitcth è stato già parecchie volte in Italia;
vuolsi che egli si trovasse a Torino all'epoca della convenzione
allorchè avvennero i fatti luttuosi di settembre, ma nessuno, per quanto
io sappia, ve lo ha veduto.

--E voi lo conoscete?

--L'ho incontrato quattro volte ne' miei viaggi. Voi sapete che io ho
percorso come artista e come impresario teatrale, quasi tutta l'Europa e
una buona metà del Nuovo Mondo. È forse perciò che ho potuto essere
edotto dell'esistenza di quest'uomo straordinario, e conoscerlo
personalmente. La prima volta che lo vidi fu a Berlino dove esordii nel
capolavoro di Mozart colla parte di D. Giovanni. Lo incontrai poscia in
una sala di caffè a Nuova York, allorchè ferveva ancora in America la
guerra di secessione, e precisamente alla vigilia dell'ultima disfatta
dei separatisti, e la terza volta che mi imbattei con esso fu di nuovo a
Berlino....

--E di che paese è egli?

--Alcuni vogliono americano, alcuni polacco. Nessuno ne conosce con
certezza la patria, forse nemmeno il nome. In America si faceva chiamare
coll'appellativo di Duca di Nevers, in Europa conservò sempre il nome
di conte di Sagrezwitcth; i minatori scozzesi lo chiamano _l'uomo
fatale_. Egli parla correttamente molte lingue, ha le abitudini e i
costumi di tutti i paesi che ha visitato; in Italia è italiano, in
Inghilterra è inglese, e in America è americano modello...

--E che età può avere?

--Mostra cinquant'anni, ma i suoi capelli e la sua barba nerissima non
hanno ancora alcun segno di canizie. È un uomo di statura mezzana, di
aspetto antipatico, benchè le sue fattezze sieno regolari e in qualche
modo leggiadre. Porta quasi sempre nell'inverno un berretto di pelo a
foggia di turbante, e suol vestire volontieri i costumi dei paesi in cui
si trova. A giudicarne dallo sperpero che egli fa ordinariamente del suo
danaro, lo si direbbe assai ricco; nondimeno fu visto parecchie volte
alloggiarsi in osterie di second'ordine, e tenere un regime di vita
molto economico. A Nuova York, per esempio, era bensì alloggiato
all'albergo del _Fifth-Avenue_, quel colosso di marmo che ha mille e
duecento stanze, ma vi occupava un letto della sala di riposo concessa
ai viaggiatori che dispongono di mezzi assai limitati. È fama che egli
abbia coscienza della sua fatalità, e che si compiaccia di esercitarla.
Quel suo recarsi continuo da un capo all'altro del mondo non può essere
senza uno scopo. Del resto si sa che egli non ebbe mai affetti, non
amicizie, forse nemmeno conoscenze, toltene alcune poche e
superficialissime. Coloro che ne conoscono la potenza lo sfuggono per
progetto, quelli che la ignorano, per istinto.--Che vi sieno persone che
gli negano questo potere, questa specie di missione arcana e terribile,
riprese egli vedendo che alcuni di noi sorridevano con aria di
incredulità, è cosa naturalissima. Nessuno può provare che le sciagure
avvenute nei luoghi ove egli si è trovato, e negli istanti in cui vi si
è trovato, abbiano avuto una causa nella sua volontà, o in ciò che noi
chiamiamo la sua influenza. Egli è d'altronde un uomo come tutti gli
altri; parla, veste, opera come tutti gli altri; volendo è affabile e
gentiluomo, vi è nulla a che opporre; ma parmi cecità il negare cosa che
la maggior parte degli uomini ha ammesso, il negare perchè non si
comprende.

--Noi non neghiamo, gli diss'io, dubitiamo. Ma, a proposito, avete
dimenticato di dirci dove l'avete incontrato la quarta volta.

--Ah! riprese egli un poco rassicurato dalle mie parole. Quest'ultimo
incontro ha una data molto recente. Io lo vidi due mesi or sono a
Londra, allorchè vi bruciò il teatro della regina. Seppi anzi che egli
aveva intenzione di passare presto in Italia, e se egli ha scelto questa
stagione per venirvi, vi è nulla di più probabile che le feste del
carnovale lo abbiano condotto a Milano.

--A Milano!

--Sì, e desidererei che lo vedeste. Non so dirvi il motivo di questo
desiderio, pure mi sembra che al solo vederlo potreste comprendere il
perchè di tante cose che io non posso spiegarvi; mi pare che non
potreste più dubitare della verità della mia asserzione.--Osservereste,
riprese egli dopo qualche istante, una cosa assai rimarchevole nel suo
abbigliamento, voglio dire la freschezza e la finezza de' suoi guanti
che egli suole mutare più volte in un sol giorno, per modo che nessuno
l'ha mai veduto a mani scoperte; e un'altra singolarità non meno
notevole nella sua persona, cioè la potenza del suo sguardo, un non so
che di magnetico e di inesplicabile che vi è in lui, e che vi sforza
quasi a guardarlo e a salutarlo vostro malgrado.

--A salutarlo! esclamammo noi sorridendo.

--Sì, a salutarlo.

--Oh! vorrei vederlo!

--Davvero!

--Vorremmo vederlo!

In quell'istante--potevano essere le due dopo mezzanotte--si aperse
l'uscio del caffè, e un uomo pingue e tarchiato entrò nella sala. Al
ritratto che ci era stato delineato poco prima, al berretto di pelo,
alle mani calzate da guanti freschissimi, all'espressione singolare del
suo volto, noi non tardammo a riconoscere in lui l'uomo di cui si era
parlato. Allora, o fosse meraviglia, o fosse confusione di idee prodotta
da quella sorpresa, ci alzammo unanimemente a salutarlo. Egli portò la
mano al berretto con atto di cortesia schietto ma moderato, e si sedette
all'altra estremità della stanza.

Io non posso esprimere la confusione, la meraviglia, il dispetto che
s'impadronì di noi in quell'istante. Comprendevamo di esserci mostrati
deboli verso di lui, verso di noi stessi, di esserci mostrati fors'anche
ridicoli. Ciascuno era rimasto assorto in questo pensiero, nè aveva
osato riprendere la parola. Il silenzio aumentava la nostra confusione.

L'incognito chiese una tazza di _punch_ che bevve avidamente. Gettò
sulla guantiera uno scudo d'argento, e respinse al cameriere il residuo
del prezzo della sua bibita. Il cameriere nell'allontanarsi inciampò del
piede nell'estremità della sua sedia e cadde; la guantiera essendogli
scivolata di mano, percosse del volto sui cocci della tazza che si era
spezzata, e si ferì in modo che il viso gli si coperse in un istante di
sangue.

A quella vista ci alzammo tutti come mossi da una sola volontà, e
uscimmo a precipizio dalla sala.

       *       *       *       *       *

Nei primi giorni della mia residenza a Milano aveva dovuto quasi mio
malgrado, stringere conoscenza con una famiglia, la quale per mediazione
di amici, mi aveva reso anni prima alcuni servigii assai utili. Abitava
essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il
naviglio dalla parte occidentale della città--una vecchia casupola a due
piani che il tetto sembrava comprimere e schiacciare l'uno sull'altro
come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed angusti.
Correvanle tutto all'intorno alcuni assiti neri e tarlati su cui si
arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi.

Un setificio vicino l'avvolgeva notte e giorno in un'atmosfera di fumo,
l'umido del naviglio aveva prodotto qua e là alcune rifioriture
nell'intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di muffa e di
piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la
bocca e pel naso al primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e
lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che risciacquavano, e
sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a
sera un baccano continuato e assordante.

Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro
della città, e conoscano con esattezza quella parte de' suoi dintorni.
Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in piccole
proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo
estremo di case che costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta
Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il Temple a
Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra.

Avverso, mezzo per istinto, mezzo per progetto, a conoscere nuove cose e
nuove persone, io ho sempre considerato una conoscenza nuova come un
peso nuovo aggiunto alla mia vita--non aveva avuto però a dolermi di
quella. Era una famiglia di onesti negozianti arrichitasi mediocremente
nel commercio, e venuta ad alloggiare in quella casa solitaria per
godervi in pace la piccola fortuna che aveva raggranellato.

Silvia l'unica erede di quella fortuna, era una delle più splendide
bellezze che io avessi mai veduto, e non aveva che diciasette anni
allorchè io la conobbi. Non era una di quelle beltà fine e delicate che
preferiamo spesso alle beltà robuste--l'amore ha fatto da alcuni anni un
gran passo verso lo spiritualismo--ma la sua bellezza, benchè
ineffabilmente serena benchè fiorente di tutti i vezzi della gioventù e
della salute era temperata da qualche cosa di gentile e di pensieroso
che non hanno ordinariamente le bellezze di questo genere. Nè io potrei
dirne di più; ciascuno di noi porta in sè un ideale diverso di bellezza,
e quando si è detto d'una donna: è leggiadra, si è detto tutto ciò che
si può dirne. Un pittore, uno scultore potrebbero darne nella loro arte
un immagine meno incompleta, la letteratura non lo può--le altre arti
parlano ai sensi, la letteratura alle idee. Ho veduto due incisioni di
Jubert, due angeli simboleggiati da due giovinette nude, paffute,
rosate, per ciò che è colorito e pienezza di forme, due vere popolane;
eppure l'artista aveva saputo dare a quei volti tanta spiritualità che
incantavano e non si potevano guardare senza restarne rapiti. Nelle
madonne del Carraccio ho osservato lo stesso contrasto. La bellezza di
Silvia era di questo genere, risolveva in certo modo lo stesso
problema--la spiritualità della materia.

Essa era una di quelle anime semplici, pie, modeste che non sanno aver
mai alcun rancore colla vita, ricche di quella cara fatuità che la
natura ha dispensato con tanta larghezza alla donna, felici nell'ordine
e nella quiete che la loro semplicità medesima ha creato intorno ad
esse, e che l'assenza delle loro passioni non può mai turbare.

Durante le mie prime visite, aveva conosciuto in quella famiglia un
cugino di Silvia, certo Davide, giovine maturo e positivo che era giunto
da poco a Milano, e che era stato un tempo interessato negli affari
commerciali di quella casa. Pericoloso come tutti i cugini--non so se
parimenti fortunato--non m'era stato difficile accorgermi che egli
amoreggiava la fanciulla. Come tutti gli altri uomini non era nè bello,
nè brutto--la bellezza dell'uomo è una cifra di cui non si è ancora
trovato il valore, anche per la maggior parte delle donne non è che una
cosa insignificante; noi cerchiamo nell'uomo un carattere, le donne vi
cercano semplicemente un uomo--sono esse che hanno creato quel noto
aforismo: un uomo è sempre bello.

Io confesserò che quella scoperta era stata uno dei motivi essenziali
che m'avevano indotto a trascurare la conoscenza di quella famiglia. Io
non aveva posto occhio nè sulla dote, nè sulla bellezza di Silvia, ma
aveva compreso che l'amore di Davide che io credeva corrisposto mi
poneva d'innanzi a lui in una certa quale inferiorità di cui mi sentiva
umiliato. In ogni uomo che avvicina una donna si suppone il desiderio di
corteggiarla; in due uomini che l'avvicinano a un tempo si suppone quasi
il dovere di lottare per ottenerne la preferenza. Almeno la società ed
il cuore umano hanno ancora di tali pregiudizii: abbiamo mutato
vocaboli, ma non abbiamo mutato cose e passioni: presso ogni circolo di
donne vi è ancora una piccola corte d'amore intima dove si combatte ad
armi cortesi per l'affetto di una dama preferita. E poi io mi sono
sempre sentito sì meschino dinnanzi ad un uomo positivo, che non mi
bastò mai l'animo di impegnarmi in una lotta qualunque con un nemico
siffatto. Che cosa è egli un dotto, un letterato, un sapiente al
confronto di ciò che noi chiamiamo un uomo di mondo? È pur poca cosa
l'ingegno! Come gli uomini ignoranti, col loro buon senso borghese,
grossolano, triviale ci avanzano nella scienza e nella pratica delle
cose! Noi non facciamo che inciampare come fanciulli a tutti i più
piccoli scogli della vita!

Questa coscienza della mia inferiorità aveva dunque reso meno frequenti
le mie visite--io ho ora nella stessa città in cui abito conoscenza di
famiglie che mi reco a visitare ogni tre o quattro anni, come tornassi
da un viaggio di circonvoluzione attorno al globo--e più tardi, morto il
padre di Silvia, che era delle persone della famiglia quella cui era più
specialmente obbligato, ne aveva preso pretesto per troncarle
completamente.

Era trascorso così pressochè un anno allorchè, pochi giorni dopo quella
singolare comparsa del conte di Sagrezwitcth al caffè Martini,
m'imbattei in Davide che non aveva più veduto da quel tempo e che mi
parve molto mutato.

Egli mi strinse le mani e mi guardò con espressione triste e
turbata--quell'espressione mista di ritegno e di confidenza che hanno
coloro i quali vogliono farvi comprendere di avere un segreto doloroso,
e di non volervelo confidare.

--Non vi si è più veduto in casa di mia cugina, mi diss'egli, la vostra
assenza improvvisa ha prodotto una sorpresa un poco penosa in quella
famiglia. Perchè voi sapete che mia zia aveva molta confidenza in voi, e
poi... si era presa l'abitudine di vedervi. Se sapeste! sono avvenute
nuove sciagure in quella casa; Silvia sta per morire....

--Per morire!

--Sì, la poveretta è travagliata da una malattia di consunzione, una
malattia misteriosa che i medici non sanno nè conoscere nè definire più
esattamente, ma che hanno dichiarata inguaribile. Essa doveva prender
marito....

--Voi forse?

--Non io, diss'egli tristamente, un ricco forestiero a cui mi ha
posposto, e pel quale ha concepito una passione di cui non l'avrei mai
creduta capace. Essa doveva sposarlo allorchè cadde malata, e queste
nozze, ancorchè le si facciano ora come credo che abbiano risolto, non
potranno aver più alcuna influenza sulla sua salute. Dubito che la
felicità abbia potere di farla vivere più lungamente, ma ad ogni modo
sarà almeno felice per quei pochi istanti di vita che le rimangono. Sarà
felice anche senza di me, aggiunse egli con amarezza. È facile avvedersi
che ella deperisce ogni giorno, e che è impossibile arrestare il
processo di questo deperimento così rapido e così misterioso.

--Come! io dissi, ella sposerà dunque quel giovane ancorchè tanto
inferma come mi dite? Davide scosse la testa con aria di
disapprovazione, e rispose:

--Che volete! Hanno deciso così, anzi è lei stessa che ha deciso. Del
resto la sua malattia non è una di quelle che costringono al letto,
piuttosto una di quelle di cui diciamo: si muore in piedi. Ma perchè non
venite a vederci? Son certo che mia zia ne avrebbe gran piacere, e anche
Silvia.

--Ci andate ora?

--Ora.

Mi accompagnai con esso. Potevano essere le dieci di sera quando ponemmo
piede in quella casa. La zia di Davide, una buona vecchia--la vecchiaia
e l'infanzia si toccano, i vecchi sono sempre buoni come i
fanciulli--mi accolse con gioia schietta e cordiale, ma temperata da un
poco di rimprovero e di mestizia.

--Ci troverete molto mutati, mi diss'ella. Voi non venite più nella casa
di un tempo... La povera Silvia....--E s'interruppe un istante come per
soffermarsi sul pensiero di quella sventura--ma passate in questa
stanza, la rivedrete voi stesso, ciò le farà piacere; e vi presenterò
anche a mio genero.

Entrammo nella camera vicina.

Silvia era seduta sopra una sedia a bracciuoli, una gran seggiola a
rotelle, tutta imbottita e tapezzata di velluto turchino; e presso a
lei, sopra una seggiola più bassa il giovane sconosciuto che io aveva
veduto al corso e al teatro. Egli aveva avvicinata la sua sedia a quella
della fanciulla in modo da poter posare il capo sullo stesso bracciuolo
su cui ella posava il braccio; e Silvia aveva inclinata la sua testa su
quella del giovane con atto di tenerezza commovente.

Dio! quanto mutata! Appena era possibile riconoscerla. Quella fanciulla
che io aveva veduto sì robusta, sì serena, sì vivace non era più che
un'ombra del passato, non aveva più che un riflesso pallido e incerto
della sua bellezza di un tempo. Non che la sua antica avvenenza fosse
del tutto svanita, ma si era alterata; era ora un'avvenenza diversa, era
la bellezza di un fiore sbocciato all'ombra, di un frutto maturato
precocemente perchè roso dal tarlo. Il volto del giovine era pallido, ma
quello di Silvia era bianco, più bianco dell'abito lungo e vaporoso che
avvolgeva la sua persona, se non che gli zigomi delle guancie un po'
asciutte erano leggermente rosati, ma senza sfumatura come se vi fossero
state sovrapposte due foglie di rosa già scolorite. I suoi capelli
avevano quel lucido morto che hanno ordinariamente i capelli degli
infermi, e pendevano, non sciolti ma scomposti, sulla testa del giovine
che la stava guardando con espressione di pietà inesprimibile.

Il pallore di lui, benchè estremo, non era di quel genere che danno le
malattie, ma di quello che dà l'abitudine del pensiero e del dolore.
Egli era ancora più bello di quanto mi fosse sembrato al teatro--e
questa volta aveva potuto giudicarne davvicino--bello di una beltà più
femminile che maschia, ma ad ogni modo assai bello. I suoi capelli
biondi e quasi dorati facevano uno strano contrasto così confusi colle
treccie nerissime della fanciulla. Io non aveva veduto mai un gruppo
così stupendo, un quadro d'amore più spirituale e più puro.

I due amanti si riscossero allo stridere che fece l'uscio
nell'aprirsi--essi erano soli nella sala.

--Guarda, Silvia, disse dolcemente la vecchia tenendomi per mano, guarda
chi ci ha ricondotto tuo cugino.

E rivolgendosi allo sconosciuto ed a me, pronunciò prima il mio nome,
poi quello del giovine che disse essere il barone di Saternez nativo di
Pilsen in Boemia.

Ci inchinammo scambievolmente. Egli mi guardò con uno sguardo sì dolce
che io gli porsi la mia mano quasi senza avvertirlo.

Scambiate alcune parole, la vecchia, forse per lasciar soli i due
giovani, mi trasse presso di sè in un angolo opposto della stanza.

--Che ve ne pare di mio genero? mi chiese ella. E continuò senza
aspettare la mia risposta:--un giovine a dovere, sapete, un giovine
ricco come il mare; se vedeste i regali che ha fatto alla Silvia!... E
poi, di che famiglia! Baroni, e dei più illustri di Boemia. Egli ha
dovuto emigrare per affari di politica, credo che volesse far annettere
la Boemia al granducato di Sassonia, figuratevi! Ma tanto era lo
stesso, oramai egli non aveva più interesse a restare nel suo paese,
giacchè era rimasto solo di tutta la sua famiglia. E guardate che bel
giovine; non vi offendete--e mi guardò come per interrogarmi, io
sorrisi--non vi offendete, ma non credo che ve ne sia al mondo un altro
come quello. E pensare... La vecchia s'interruppe come colpita
improvvisamente da un triste pensiero.

--Povera Silvia! riprese ella dopo qualche istante. Voi l'avete veduta
prima d'oggi, vi ricordate come era! E adesso! Guardatela. Non sono più
di quattro mesi che essa ha incominciato a deperire così; fu dal giorno
in cui mio genero è entrato la prima volta nella nostra casa. Ora che
avrebbe potuto essere così felice; essa che lo ama tanto, che ne è tanto
amata! Ditemi, vi pare che potrà guarire?

--Non vi è pur luogo a dubitarne, io risposi tanto per riconfortarla.
Silvia era vissuta finora sì ritirata; sì quieta, sì calma che questo
disordine insolito ne' suoi affetti ha gettato un po' di turbamento
anche nella sua salute. Ma tutto sarà finito quando ogni cosa sarà
rientrata in uno stato normale, quando essi saranno marito e moglie. A
proposito, ho sentito da vostro nipote che ciò deve avvenire assai
presto.

--Fra otto giorni, disse la vecchia, e spero che in quella circostanza
sarete dei nostri. Son essi che hanno voluto così, e i medici non
l'hanno disapprovato. Silvia è ancora abbastanza forte per sopportare il
moto della carrozza fino alla Chiesa; d'altronde ne siamo a due
passi.--Sarà una festa un po' triste, aggiunse ella stringendomi la
mano, ma voi non rifiuterete di prendervi parte.

La ringraziai, e l'assicurai che vi sarei venuto. Passai tutto il
rimanente di quella sera agitato da pensieri strani e tumultuosi, diviso
tra la simpatia irresistibile che mi inspirava il fidanzato di Silvia, e
la ripugnanza che faceva nascere in me l'idea di quella missione fatale
che pareva esercitare. Giacchè non v'era più dubbio; quel giovine sì
bello, sì dolce, sì attraente spargeva d'intorno a sè la desolazione e
la sventura, lasciava delle traccie spaventose sulla sua via. Tutti gli
esseri che egli prediligeva soccombevano a questa influenza; il
fanciullo delle maschere, la signora del teatro, Silvia, quella stessa
Silvia già così bella, così spensierita, così fiorente facevano fede di
questo suo potere terribile. E ne fosse egli o no consapevole, questo
potere non era meno reale e meno funesto; era dovere e pietà il
prevenirne le vittime, il sottrarle all'influenza incomprensibile di
quell'uomo.

Uscii da quella casa verso mezzanotte. Davide mi accompagnava. Il mio
cuore era pieno. Ci avviammo senza profferir parola verso i bastioni.

La notte era fredda ma asciutta; gli ippocastani colle loro corteccie
nere, coi loro fusti alti e slanciati parevano spettri di alberi; il
cielo, come avviene nelle notti serene d'inverno, scintillava di miriadi
di stelle. Non tardai ad avvedermi che anche l'animo del mio compagno
era profondamente turbato.

--Sediamoci, gli dissi accennandogli un sedile di pietra, devo rivelarvi
alcune cose che riguardano vostra cugina.

E gli narrai distesamente tuttociò che aveva osservato a proposito del
barone di Saternez, non gli nascosi i miei sospetti, gli parlai del
conte di Sagrezwitcth e dell'incontro che ne avevamo fatto al caffè
Martini, e conchiusi consigliandolo ad adoperarsi per scongiurare la
sventura che minacciava quella casa.

--Vi ringrazio, mi rispose egli dopo avermi ascoltato con molta
attenzione; quelle nozze non si faranno, ve ne do la mia parola. Ho
potuto esitare fin ora, ma adesso...

--E come intendete di opporvivi?

--Non so, vedrete. E aggiunse con voce terribile: no, quelle nozze non
si faranno. Io, io stesso le renderò impossibili... perchè... esse non
devono farsi. Perchè son io che dovea godere di quella felicità, perchè
io lo detesto quell'uomo, perchè è lui che mi ha rapito l'amore di
Silvia... perchè io l'odio!

       *       *       *       *       *

Al domani mattina Davide venne per tempo a trovarmi in mia casa. Egli
era calmo, ma di quella calma fredda e convulsa che si distende come un
velo sulle fattezze quando la riflessione ha già concentrato tutta la
lotta nel cuore. E delle tempeste del cuore umano come di quelle
dell'Oceano: le meno apparenti sono le più profonde.

--Vengo, egli mi disse, a chiedervi alcune notizie riguardo alle
rivelazioni che mi avete fatto ier sera. Ci ho pensato tutta notte e non
ho chiuso occhio; avrei d'uopo sapere ove abita il conte di
Sagrezwitcth, e s'egli è tuttora a Milano. Voi forse potete dirmelo.

--Non lo so, io risposi meravigliato. Ma che! intendereste forse di
andarlo a visitare? E a che scopo?

--Voi mi avete parlato, riprese egli, dell'influenza funesta che
esercitano questi due uomini, egli ed il barone di Saternez, e del
potere che hanno di compiere il male per altre vie che non sia dato di
farlo a noi, ne sieno essi o no consapevoli. Il conte, mi avete detto
possiederebbe in maggior grado questo potere. Ora qualunque sieno le
cause di questa influenza, qualunque ne sia la natura, se essa esiste,
se essa non è pari in ciascuno di loro, avete pensato alle conseguenze
che risulterebbero dall'urto di queste due forze, dall'incontro di
questi due uomini fatali? Ponetemeli l'uno di fronte all'altro, e se
l'esistenza di questo potere è verace, l'uno dovrà distruggere l'altro,
la disparità delle forze cagionerà lo squilibrio; la sconfitta del più
debole è inevitabile.

--È un trovato abbastanza specioso, io dissi, voi avreste dunque
pensato....

--Di fare in modo che il conte di Sagrezwitcth venga a trovarsi alla
presenza del mio rivale.

--E avreste in animo di parlare a quel conte?

--Solo che potessi rinvenirlo. Mi era recato perciò da voi, e sono
afflitto che non possiate darmi le indicazioni che mi abbisognano.--Ma
lo troverò, lo troverò continuò egli con risolutezza. Non vi sono a
Milano che pochi alberghi eleganti, nei quali egli possa aver preso
alloggio, li girerò tutti, domanderò di lui a tutte le porte, e se egli
o qui ancora, o se è partito da poco, non dispero di mettermi sulle sue
tracce.

Ciò detto Davide uscì con precipitazione dalla stanza, prima che la mia
maraviglia e la mia titubanza tra lo incorraggiarlo o il distoglierlo da
quel progetto mi avessero permesso di articolar una parola.

Passai tutto quel giorno in un'inquietudine mortale.

Alla notte, e ad ora assai tarda, ricevetti da Davide una lettera così
concepita:

«Io parto in questo momento per Genova, d'onde raggiungerò la mia
famiglia in un piccolo villaggio del litorale. È da lungo tempo che
meditava questo progetto senza mai sapermi risolvere. Gli avvenimenti
già compiuti e quelli che stanno per compiersi m'hanno fatto prendere
finalmente questa decisione. Non ho voluto rimanere quì perchè nè la
pietà mi distogliesse dalla mia vendetta--se pure io ho il potere di
arrestarla--nè la vista del suo compimento, qualunque ella sia per
essere, mi opprimesse di rimorsi che non debbo avere; sento il bisogno
di dirvi tutto ciò che ho fatto per la salvezza di Silvia. In questo
tentativo non vi era egoismo; il suo cuore non mi apparteneva più, nè io
voleva pretendervi ancora; io non voleva che la sua felicità. Il
disinteresse mio apparirà più sincero dalla rinuncia che farò alla mano
di mia cugina, anche allorquando il suo cuore sarà libero e la sua
gioventù rifiorita.

Non posso dirvi di più. Ho trovato il conte di Sagrezwitcth e gli ho
parlato. Quei due uomini si _conoscono_. Io non ho alcuna parte in ciò
che sta per succedere; ricordatelo bene. Io non poteva nè prevedere, nè
arrestare gli avvenimenti che dovranno compiersi; è la mano della
fatalità, che li aveva preparati. Io non ne sono stato che uno
strumento: ho avvicinato due uomini che dovevano rimanere lontani, ecco
tutta la mia responsabilità; ed è l'amore di Silvia che mi ha indotto ad
assumerne il peso. Che questa mia giustificazione non sfugga dalla
vostra memoria! Mi è impossibile spiegarmi maggiormente. Distruggete
subito questa lettera.»

Non mai nella mia vita mi era trovato avvolto in una trama più triste e
più complicata. Quali erano i bisogni di Davide? che cosa gli aveva
detto il conte di Sagrezwitcth? come poteva egli parlarmi con tanta
sicurezza di una vendetta che doveva compiersi senza di lui? e perchè
era egli partito? Anche la salvezza di Silvia, se tal cosa era ancora
possibile, non mi confortava della mia dispiacenza di aver confidato a
Davide il segreto del barone di Saternez, e di averlo messo nella
possibilità di vendicarsene. Io era in dovere di rimediare, se lo
poteva, al male che aveva fatto. Non mancavano più che sette giorni
all'epoca fissata per le nozze, e questa vendetta, il cui scopo era
d'impedirle, avrebbe dovuto compiersi in quell'intervallo di tempo.

Risolsi di recarmi a visitare il giovane barone, e secondo ciò che egli
avrebbe risposto alle mie insinuazioni, confidargli interamente, o
lasciargli sospettare il pericolo che lo minacciava. Distrussi la
lettera di Davide: e valendomi dell'indirizzo che egli mi aveva dato del
suo rivale, mi recai tosto alla sua casa.

Il barone di Saternez non si mostrò punto meravigliato di vedermi; mi
porse la mano con atto di affetto più che di semplice cortesia, e
disse: vi aspettava.

--Come! esclamai io sorpreso, voi conoscete dunque lo scopo della mia
visita?

--Sì, diss'egli. E dopo un istante di silenzio rispose sorridendo d'un
sorriso violento:--io non sono soltanto un uomo pericoloso, sono anche
un abile fisionomista. Quando vi ho veduto ieri l'altro per la prima
volta, ho indovinato che il vostro cuore era buono, e che se aveste
potuto fallire per debolezza o per fine di bene, non avreste indugiato a
dolervi delle conseguenze dei vostri errori, e a tentare di ripararvi.
In seguito alla visita del vostro amico, il conte di Sagrezwitcth è
stato qui due ore or sono. Era dunque naturale che io vi aspettassi.

Io chinai il capo e tacqui.

Egli riprese dopo un nuovo istante di silenzio:

--Non vi affliggete di ciò che avete fatto, non rimproverate a Davide i
mali che ha preparato. Ciò che avverrà doveva avvenire. Voi non siete
stati che un mezzo nelle mani della fatalità. I sentimenti che vi hanno
mossi a prevenire le mie opere sono lodevoli, benchè forse infruttuosi:
non ho l'ingiustizia di disconoscerlo. Quell'uomo ed io ci
_conoscevamo_ da tempo, fors'anche ci _cercavamo_.--Egli pronunciò in
modo più inarcato queste parole--Tra me e lui corrono dei rapporti che
la natura od il caso hanno posto quasi per dileggio, dei rapporti
terribili che un segreto mi vieta di rivelarvi. Il nostro incontro era
inevitabile perchè era predestinato. Era necessario che uno di noi due
dovesse sparire, perchè due elementi contrarii non possono incontrarsi
senza lottare; non possono percorrere la stessa via, camminare l'uno a
fianco dell'altro, come non avessero che una virtù comune ad esercitare,
una missione comune a compiere. Che cosa avreste potuto voi soli sulla
mia vita? Voi avete avuto ragione di fare ciò che avete fatto. È la
fortuna che vi ha diretti. Era tempo!

S'interruppe, e riprese dopo un altro momento di silenzio in cui io non
aveva osato parlare:

--Guardatemi! voi vedete in me un uomo come tutti gli altri, forse
apparentemente migliore degli altri; la mia persona non inspira alcuna
ripugnanza, il mio viso, i miei modi quella parte dell'anima che la
natura ha posto sulle nostre fattezze come per rivelarne le virtù celate
nel cuore, non hanno nulla di odioso, nulla che non sia umano, che non
sia dolce, che non sia forse anche attraente. Ebbene, questo giovine che
avreste giudicato innocuo, di cui avreste forse ambita l'amicizia non
conoscendolo, ha sparso la rovina e la desolazione d'intorno a sè, ha
ucciso le persone che lo amavano, ha attraversato la vita e la felicità
di tutti coloro che lo conobbero e che lo ebbero caro. Perchè.... sì,
voi avete indovinato, voi avete afferrato il suo segreto. Costui, questo
miserabile, proseguì egli con crescente esaltazione, non ha avuto finora
la virtù di rinunciare ad una esistenza che ne aveva già reso tante
infelici; ed ecco la sua colpa. Egli era nato per il bene. La natura
gliene aveva posta l'immagine d'innanzi agli occhi come un'ideale
brillante, come una meta soave e luminosa. Egli avrebbe voluto amare,
beneficare, gioire della felicità che avrebbe sparso d'intorno a sè,
gettare delle corone sulle teste di tutti gli uomini.... e un destino
crudele, tremendo, ineluttabile lo condannava a compiere il male, a
schiacciare sotto il peso della sua fatalità tutti quegli esseri buoni
ed affettuosi che lo circondavano.

Tacque, e si coperse il volto colle mani.

--Calmatevi, io dissi, se voi avete questo potere, ne esagerate per
certo il valore.

Egli sorrise come per mostrare di compatire al mio dubbio, e riprese:

--No, non ho esagerato. Converrebbe che voi poteste risalire alle
sorgenti della mia vita per rinvenire le traccie che essa ha lasciato
dietro di sè, e giudicare della loro profondità e della loro estensione.
La mia stessa fanciullezza--l'età in cui tutti sono felici--non fu per
me che un periodo di tristezza e di dolore. Gli esseri che più mi
amavano avevano incominciato a soccombere; i miei fratelli, le mie
sorelle, mia madre erano morti; io aveva incominciato ad avvedermi del
vuoto che si faceva intorno a me, e a comprendere che vi era qualche
cosa di fatale nel mio destino. Rimasi solo al mondo assai presto.
Quanto più vedeva dilatarsi il cerchio delle mie relazioni, dei miei
affetti, delle mie simpatie, altrettanto vedeva dilatarsi quel vuoto;
quanto più entrava nella vita, tanto più entrava nell'isolamento. Ho
provato il bisogno dell'amicizia, ho provato la febbre dell'amore....
amici ed amanti sparivano nell'abisso che io scavava loro ai miei piedi.
Incominciai ad essere assalito da un dubbio spaventoso: era io fatale a
tutto ciò che io amava, a tutto ciò che mi amava? Ritornai sul mio
passato, rifeci orma per orma il cammino della mia esistenza,
interrogai tutte le rovine che aveva lasciato dietro di me.... Era
vero--bisognava crederlo--era terribilmente vero! Allora mi allontanai
dalla mia patria, errai pel mondo fuggendo e fuggendomi. La sventura che
aveva colpito i miei più cari mi aveva colmato di ricchezze a prezzo
della loro vita; benchè di tali ricchezze io non abbia potuto giovarmi
che per me solo, benchè nessuno abbia mai potuto essere beneficato da me
impunemente. Fu così che vagando di paese in paese io venni a Milano,
che fuggendo la folla e la società per rendermi meno fatale,
frequentando i quartieri più modesti e più remoti, conobbi Silvia, e ne
fui preso irresistibilmente, prima che la coscienza del male che le
avrei cagionato, avesse avuto il potere di distogliermi da
quell'affetto. Essa mi corrispose. Io era giovine, io era sventurato, io
aveva il diritto di dare dell'amore e di chiederne; io che non aveva
provato mai la felicità, che non aveva fatto che toglierla altrui senza
poterla dare a me stesso, che aveva dovuto sempre gettarla lontano da me
come un frutto amaro e vietato. Voi sapete il resto. Voi sapete che sono
ora minacciato da un pericolo, e venite per avvertirmene. Ebbene, è
troppo tardi--lo scopo della mia vita è raggiunto. La morte--se essa
deve colpirmi non ha per me più nulla di amaro e di increscevole: io ho
realizzata l'estrema delle mie aspirazioni, e sorrido dell'impotenza di
coloro che avrebbero voluto impedirlo.

Egli pronunciò queste parole con una specie di alterezza che diede alla
sua fisionomia già tanto soave un'espressione singolarmente severa.

--Sì, è troppo tardi, continuò egli con entusiasmo; voi avete voluto
impedire le mie nozze; ebbene, sappiatelo, queste nozze non sono più che
un pretesto dinnanzi alla società, che una giustificazione di ciò che
l'amore ha già dato spontaneamente. Silvia fu mia! Che monta che essa
abbia a morire? E che cosa è egli il morire? Ebbe mai l'amore altra
aspirazione? Ebbe egli mai altra ricompensa che questa? O preceduto, o
seguito, io invoco ora questa morte che voi avete voluto prepararmi.

--Oh, non io! esclamai, il cielo mi è testimonio se io ho desiderato e
preparato la vostra morte. Voi dimenticate che io sono qui in questo
momento per avvertirvi di un pericolo, non certo per minacciarvene.

--È vero, rispose egli con dolcezza, perdonate. E mi porse la mano che
ritrasse subito, come avesse temuta di offendermi o di nuocermi con quel
contatto.

Io lo guardai in volto come per interrogarlo. Egli era sì bello, sì
sereno, era tornato sì nobilmente calmo; e v'era qualche cosa di così
virile su quel suo viso di fanciulla, e v'era tanta forza in quella sua
stessa debolezza, che io compresi come una donna avesse potuto accettare
il suo amore anche a prezzo della vita. Ignorava se Silvia avesse
conosciuto il segreto di quel giovine, ma sentiva come anche
conoscendolo, il sacrificio della sua esistenza avesse dovuto apparirle
assai misera cosa in confronto della dolcezza di quell'amore.

Egli conosceva forse il potere della sua bellezza, o mi lesse
nell'animo, poichè fece atto di offrirmi una seconda volta la mano, e mi
disse:

--Andate, andate, ve ne scongiuro. Voi siete buono, voi potreste sentire
forse un poco di simpatia per me, e io potrei pagare d'ingratitudine il
servigio che avete voluto rendermi colla vostra visita. È il mio
destino!...

--E sia pur tale, interruppi, io non lo temo.--E afferrai la sua mano
che mi strinsi al cuore.--Io vi aveva giudicato diverso, io aveva voluto
impedire una sventura; fu tutta mia la colpa.

--Non vi torturate con questo pensiero, disse egli. Non sono io colui
che potrà credere alla libertà delle azioni umane--l'arbitrio è una
menzogna--la volontà non è che la prescienza di un atto già preordinato;
essa non ha alcun peso sulla bilancia su cui si librano tutte le cose
della vita--sulla bilancia del destino.

Io crollai il capo con espressione di dubbio. Egli osservò quell'atto e
riprese:

--No, io non tenterò alcuna via per allontanare da me quel pericolo;
sarebbe inutile. Ad ogni modo vi ringrazio.

--Vi rivedrò ancora? io chiesi, quasi dubitoso di lasciarlo così fermo
in quel proposito.

Egli sorrise con espressione di gratitudine, e disse:--quando vorrete, a
domani?

--A domani.

Ometto il racconto delle mie relazioni col barone di Saternez durante
quei sette giorni che precedettero le sue nozze. Fu per esse che io
potei formarmi un'idea meno inesatta del suo carattere, quantunque non
mi fosse mai dato di penetrare nel segreto della sua vita, più di quanto
non mi fosse stato possibile nel nostro primo incontro. Aveva nondimeno
conosciuto tanto di lui da potermi formare una convinzione a suo
riguardo. Egli era indubbiamente onesto, indubbiamente buono. Ho
conosciuto pochi uomini che presentassero nella loro indole una mistura
di debolezza e di forza più singolare--intendo quella debolezza che sta
nella sensibilità, nell'attitudine a ricevere potentemente le
impressioni, non nella fiacchezza del carattere. Era scettico di mente e
credente di cuore: la sventura non lo aveva prostrato, ma lo aveva reso
vecchio anzi tempo, per modo che compariva giovine o vecchio a
intervalli, secondo l'impulso interno che riceveva dalle sue passioni. E
benchè sembrasse naturalmente espansivo, come tutti i buoni, non lo era;
che forse quel tristo potere di cui si credeva dotato l'aveva
ammaestrato a nascondere e a dissimulare; nè mai da quei giorno, per
quanto mostrasse di avermi caro, rialzò quel velo che si distendeva sul
suo passato, e di cui mi aveva sollevato un lembo in quel primo momento
di espansione.

Mi era sembrato in quei giorni che la sua indole non fosse così
malinconica, come lo aveva giudicato dapprincipio, ma mi era poi
avveduto facilmente che vi era qualche cosa di violento, di forzato, di
convulso nella sua gioia, e che egli viveva sotto l'apprensione di un
pensiero che lo riempiva di terrore. Passava dagli eccessi dell'ilarità,
agli eccessi della tristezza; spesso pareva calmo, e affettava una
serenità d'animo che non sentiva. Ma ciò era per Silvia. Essa lo amava
con quella specie di cecità che non vede nulla.

Aveva fatto in quei giorni con me lunghe passeggiate, e mi aveva fatto
osservare nella campagna alcune prospettive e alcuni effetti di luce e
di neve che sarebbero sfuggiti ad una mente nè poetica, nè osservatrice.
Non mostrava di temere il pericolo di cui gli aveva parlato, e non ne
fece meco alcun cenno, ma impallidiva visibilmente nel sentir
pronunciare il nome del conte. Una notte--mancavano due soli giorni agli
sponsali--fui sorpreso nell'incontrarlo in compagnia del conte di
Sagrezwitcth lungo un viottolo oscuro e remoto. Tenni lor dietro, ma non
giunsi a comprendere una sola parola del loro dialogo vivace ed animato.
Essi parlavano una lingua che io non conosceva; e mi parve dal gesto e
dall'imperiosità della voce del conte, che questi insistesse in una
domanda, cui l'altro si ostinava a rifiutarsi di accondiscendere.

Da quella notte apparve evidente che egli tentava stordirsi, con ogni
mezzo possibile, da qualche grande affanno. Egli aveva incominciato a
chiedere al vino la dimenticanza di questo dolore segreto, e nel giorno
seguente lo aveva ricondotto a casa io stesso in uno stato di ebbrezza
assai grave.

Ma abbrevierò la mia narrazione.

Il giorno delle nozze era giunto, e le nozze stesse si erano compiute
senza che fosse sorto alcun ostacolo ad impedirle. Una festicciuola di
famiglia aveva luogo in quella sera; i congiunti e le amiche della sposa
erano intervenuti in gran numero.

Silvia era raggiante; il barone di Saternez era così giovanilmente
felice, che io mi rallegrava con me stesso della vanità delle minaccie
di Davide, e fors'anche di quella della pretesa influenza del giovine, a
cui era tentato di cessare di credere. Parevami che la prospettiva d'una
felicità così grande avrebbe dovuto restituire la salute alla fanciulla,
e distruggere in lui quel potere terribile e misterioso di cui si
credeva dotato.

Era trascorsa già la mezzanotte, e io pensava, seduto in un angolo della
sala, alla possibilità di questo avvenire dei due giovani, allorchè
sentii pronunciare presso di me il nome del duca di Nevers; e mi
ricordai tosto essere questo il nome che il conte di Sagrezwitcth aveva
portato spesso in America. Trasalii e mi rivolsi. Un servo era entrato
nella stanza, e aveva presentato allo sposo un biglietto di visita su
cui era impresso quel nome sormontato da una corona di duca. Quello
strano visitatore doveva parlar subito al barone di Saternez, e lo
attendeva sotto l'atrio della casa.

--È cosa d'un istante, disse il giovine senza manifestare la benchè
menoma emozione. Infatti.... io aveva bisogno di parlare a quell'uomo.
Sarò di ritorno tra pochi minuti.

Strinse la mano a Silvia, e discese. Nell'aprirsi dell'uscio mi parve
d'intravvedere nel fondo dell'atrio il conte di Sagrezwitcth, ma non
potrei asserirlo. La persona che si era fatta annunciare col nome di
duca di Nevers portava però, come disse in seguito il servo che lo vide,
un berretto di pelo assai grande, e guanti di capretto d'una bianchezza
irreprensibile.

Lo si attese tutta la notte--una notte fredda e piovviginosa di
marzo--ma indarno. Io rinuncio a descrivere la desolazione di quella
famiglia; sarebbe compito superiore alla parola. Al domani si leggeva
nelle cronache dei giornali: «Un giovine straniero domiciliato da
qualche tempo nella nostra città, ove era giunto con passaporto falso
sotto il nome di barone Saternez, boemo; ma il cui vero nome è Gustavo
dei conti di Sagrezwitcth, polacco, fu trovato stamane morto dietro i
bastioni di Porta Tanaglia, con un coltello immerso nel cuore. Non si
conoscono finora nè le circostanze, nè gli autori di questo assassinio.»

Ora quali erano i legami che congiungevano quelle due persone e quei due
nomi? Quale era il vero nome di ciascuno di quei due uomini? Lo aveva
uno di essi usurpato all'altro, o lo portavano entrambi? E il duca di
Nevers! Era questo veramente il casato di Sagrezwitcth che aveva
asserito di _conoscere_ il giovine, e col quale costui aveva detto di
avere alcuni rapporti che non poteva rivelare? È un'enimma che nè io, nè
alcuno di coloro a cui ho raccontato questa storia ha potuto mai
decifrare.

Del resto Silvia guarì--fosse caso, fosse natura del male, guarì; benchè
le piaghe del suo cuore non si sieno mai rimarginate. La sua famiglia ha
venduto quella casa grigia e ammuffita che abitava qui, e si è
domiciliata in un piccolo villaggio della Brianza. L'uomo conosciuto
sotto il nome di conte di Sagrezwitcth non fu mai più visto a Milano. Di
Davide non seppi più nulla.

Sono scorsi due anni dalla data di questo avvenimento, e nessuna luce fu
fatta su questo delitto.



   LE LEGGENDE
       DEL
  CASTELLO NERO


«Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse
per altri che per me--le scrivo ad ogni modo per me. Esse si riferiscono
pressochè tutte ad un avvenimento pieno di mistero e di terrore, nel
quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o
desumere una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il
potrò, io attore e vittima a un tempo.--Incominciato in quell'età in cui
la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose;
continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni,
circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuto--se così si può dire
d'una cosa che non ebbe principio evidente--in una terra che non era la
mia, e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di
superstizioni e di tenebre; io non posso considerare questo avvenimento
imperscrutabile della mia vita che come un enimma insolvibile, come
l'ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente
d'un'esistenza trascorsa. Erano fatti, od erano visioni? L'uno e
l'altro--nè l'uno nè l'altro forse. Nell'abisso che ha inghiottito il
passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi
caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono
modificate con esse--la verità è nell'istante--il passato e l'avvenire
sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle
quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che
viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della
vita.

Ma abbiamo noi avuta una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro
tempo, con altro cuore e sotto un altro destino, alla esistenza
dell'oggi? Vi fu un'epoca nel tempo, nella quale abbiamo abitato quei
luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da
anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o
cerchiamo la memoria nelle storie o nell'oscurità delle tradizioni?
Mistero!--E nondimeno.... sì, io ho sentito spesso qualche cosa che mi
parlava d'un'esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è
vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono delle rimembranze
nella mia mente che non possono essere contenute in questo limite
angusto della vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la
curva degli anni, risalire molto lontano.... due o tre secoli.... Anche
prima di oggi mi era avvenuto più volte ne' miei viaggi di arrestarmi in
una campagna e di esclamare: ma io ho veduto già questo sito, io sono
già stato qui altre volte!... questi campi, questa valle, questo
orizzonte io li conosco! E chi non ha esclamato talora, parendogli di
ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: quell'uomo l'ho
già veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma per fermo noi ci
siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo!--Nella mia infanzia vedeva
spesso un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo, da cui certo era
stato conosciuto già vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come
persone che sanno di conoscersi da tempo.--Lungo una via di Poole,
rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi
rammento benissimo di essermi seduto, saranno circa settant'anni, e
ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettava una persona
di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara.--In
una galleria di quadri a Gratz ho veduto un ritratto di donna che ho
amato, e la conobbi subito benchè ella fosse allora più giovine, e il
ritratto fosse stato fatto forse vent'anni dopo la nostra separazione.
La tela portava la data del 1647: press'a poco a quell'epoca, risale la
maggior parte di queste mie memorie.

Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non poteva
ascoltare la cadenza di certe canzoni che cantano da noi le donne di
campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare ad un tratto in
un'epoca così remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi
anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti
nell'esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per
cadere sull'istante in uno stato come di paralisi, come di letargia
morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque
fosse lo stato d'animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni
non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella
nota? o la mia anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente,
si era resa insensibile a quel richiamo?

O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli
altri uomini, o che gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le
medesime sensazioni. Io sento, e non saprei esprimere in qual guisa, che
la mia vita--o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome--non è
incominciata col giorno della mia nascita, non può finire con quello
della mia morte: Io sento colla stessa energia, colla stessa pienezza di
sensazione con cui sento la vita dell'istante benchè ciò avvenga in modo
più oscuro, più strano, più inesplicabile. E d'altra parte come sentiamo
noi di _vivere_ nell'istante? Si dice, _io vivo_. Non basta: nel sonno non
si ha coscienza dell'esistere--e nondimeno si vive. Questa coscienza
dell'esistere può non essere circoscritta esclusivamente negli stretti
limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere in noi due
vite--è sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di tutte le
epoche--l'una essenziale, continuata, imperitura forse; l'altra a
periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l'una è
l'essenza l'altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa muore nel
mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non
muore: tutto vive nel mondo.

Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la
vita del sonno non sia una vita a parte, un'esistenza distaccata
dall'esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in quello stato?
chi lo sa dire? gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel
sogno non sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome
non potrebbe essere che una memoria confusa di quegli avvenimenti?...
Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine diverso di
cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo
conservare la coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri
esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo ogni giorno. Ogni
sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce d'un'altra. Ma ciò che
avviene di queste esistenze parziali, avviene forse anche di
quell'esistenza intera e più definita che le comprende. Gli uomini hanno
sempre rivolto lo sguardo all'avvenire, mai al passato; al fine, mai al
principio; all'effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione
della vita a cui il tempo può nulla togliere o aggiungere, quella su cui
la nostra mente avrebbe maggiori diritti a posarsi, e dalla cui
investigazione potrebbe attingere le più grandi compiacenze, e gli
ammaestramenti più utili, è quella che è trascorsa in un passato più o
meno remoto. Perocchè noi abbiamo vissuto, noi viviamo, vivremo. Vi sono
delle lacune tra queste esistenze, ma saranno riempiute. Verrà un'epoca
in cui tutto il mistero ci sarà rivelato; in cui si spiegherà tutto
intero ai nostri occhi lo spettacolo di una vita, le cui fila
incominciano nell'eternità e si perdono nell'eternità; nella quale noi
leggeremo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee
concepite o compiute in un'esistenza trascorsa, o in una serie di
esistenze parziali che abbiamo dimenticate.--Se gli altri uomini serbino
o no questa fede, non so; ma ciò non potrebbe nè fortificare, nè
abbattere il mio convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto.

       *       *       *       *       *

Nel 1830 io aveva quindici anni, e conviveva colla famiglia in una
grossa borgata del Tirolo, di cui alcuni riguardi personali mi
costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più di tre
generazioni dacchè i miei antenati erano venuti ad allogarsi in quel
villaggio: essi vi erano bensì venuti dalla Svizzera, ma la linea retta
della famiglia era oriunda della Germania: le memorie che si
conservavano della sua origine erano sì inesatte e sì oscure, che non
mi fu mai dato di poterne dedurre delle cognizioni ben definite: ad ogni
modo, mi preme soltanto di accertare questo fatto, ed è che il ceppo
della mia casa era originario della Germania.

Eravamo in cinque: mio padre e mia madre, nati in quel villaggio vi
avevano ricevuto quell'educazione limitata e modesta che è propria della
bassa borghesia. Vi erano bensì delle tradizioni aristocratiche nella
mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano risalire l'origine al
vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra casa si era
talmente ristretta che aveva fatto tacere in noi ogni istinto di
ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini
della mia famiglia, e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i
miei genitori erano nati e cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta
una pagina bianca; nè io aveva potuto attingere dalla loro convivenza,
nè trarre dal loro metodo di educazione alcuna di quelle idee, di quelle
memorie di fanciullezza che predispongono alla superstizione e al
terrore.

L'unico personaggio la cui vita racchiudeva qualche cosa di misterioso e
d'imperscrutabile, e che era venuto ad aggiungersi, per così dire, alla
mia famiglia, era un vecchio zio legato a noi, dicevasi, da una
comunanza d'interessi, di cui però non ho potuto decifrarmi in alcun
modo le ragioni, dopo che, e per la morte di lui e per quella di mio
padre, io venni in possesso della fortuna della mia casa.

Egli toccava allora--e parlo di quell'età a cui risalgono queste mie
memorie--i novant'anni. Era una figura alta e imponente, benchè
leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi, marcati, direi
quasi plastici; l'andamento fiero quantunque vacillante per vecchiaia,
l'occhio irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di cui
gli anni avevano paralizzata la mobilità e l'espressione. Giovine
ancora, aveva abbracciato la carriera del sacerdozio, spintovi dalle
pressioni insistenti della famiglia; poi aveva buttata la tonaca e s'era
dato al militare; la rivoluzione francese lo aveva trovato nelle sue
file; egli aveva passato quarantadue anni lontano dalla sua patria, e
quando vi ritornò--poichè non aveva rotti i voti contratti colla
Chiesa--riprese l'abito di prete che portò senza macchie e senza
affettazione di pietà fino alla morte. Lo si sapeva dotato d'indole
pronta benchè abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta
e erudita, quantunque s'adoperasse a non parerlo. Capace di grandi
passioni e di grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non
comune, di carattere grande e straordinario. Ciò che contribuiva per
altro a circondarlo di questo prestigio, era il mistero che nascondeva
il suo passato, erano alcune dicerie che si riferivano a mille strani
avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso parte--certo egli aveva
reso dei grandi servigii alla rivoluzione; quali e con quale influenza
non lo si seppe mai: egli morì a novantasei anni portando seco nella sua
tomba il segreto della sua vita.

Tutti conoscono le abitudini della vita di villaggio; non mi tratterrò a
discorrere di quelle speciali della mia famiglia. Noi ci radunavamo
tutte le sere d'inverno in una vasta sala a pian terreno, e ci sedevamo
in circolo intorno ad uno di quegli ampii camini a cappa sì antichi e sì
comodi, che il gusto moderno ha abolito, sostituendovi le piccole stufe
a carbone. Mio zio che abitava un appartamento separato nella stessa
casa, veniva qualche volta a prender parte alle nostre riunioni e ci
raccontava alcune avventure de' suoi viaggi e di alcune scene della
rivoluzione che ci riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però
sempre di sè; e richiesto della parte che vi aveva preso, distoglieva la
narrazione da quel soggetto.

Una sera--lo ricordo come fosse ieri--eravamo riuniti, secondo il
solito, in quella sala: era d'inverno, ma non vi era neve; il suolo
gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna in guisa da
produrre una luce bianca e viva come quella di un'aurora. Tutto era
silenzio, e non si udiva che il martellare alternato di qualche goccia
che stillava dai ghiacciuoli delle gronde. Ad un tratto un rumore sordo
e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal muracciuolo di cinta,
viene ad interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e
si precipita fuori della porta che mette sulla via, ma non ode rumore
alcuno di passi, nè vede per tutto quel tratto di strada che si distende
d'innanzi a lui, alcuna persona che si allontani. Allora raccoglie dal
suolo un piccolo involto che vi era stato gettato, e rientra con esso
nella sala. Ci raccogliamo tutti dintorno a lui per esaminarlo. Era,
meglio che un involto, un grosso plico quadrato in vecchia carta
grigiastra macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco
e a punti esatti e regolari che accusavano l'ufficio di una mano di
donna. La carta tagliata qua e là dal filo, e arrossata e consumata
sugli orli, indicava che quel piego era stato fatto da lungo tempo.

Mio zio lo ricevette dalle mani di mio padre, e lo vidi tremare ed
impallidire nell'osservarlo. Tagliatane la carta, ne trasse due vecchi
volumi impolverati; e non v'ebbe gettato su gli occhi, che il suo volto
si coperse di un pallore cadaverico, e disse, dissimulando un senso di
dolore e di meraviglia più vivo;--è strano! E dopo un breve istante in
cui nessuno di noi aveva osato parlare riprese:--è un manoscritto, sono
due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della nostra
famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io
ho dato questi due volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse
direttamente alla nostra famiglia, vi era congiunto per certi legami che
non posso ora qui rivelare. Furono il pegno d'una promessa, cui non io,
ma il tempo mi ha impedito di mantenere: sì, il tempo.... aggiunse tra
di sè a bassa voce.--Io lo aveva conosciuto all'Università di ***,
allorchè vi studiava teologia: egli fu ghigliottinato sulla piazza della
Greve, e la sua famiglia fu distrutta dalla rivoluzione saranno ora
quarant'anni.... non uno gli sopravisse... È strano!....

E dopo un breve intervallo, osservando che verso la cucitura dei fogli
si era accumulata una polvere rossastra leggerissima, ci disse, come si
fosse risovvenuto di un pericolo:--lavatevi le mani.

--Perchè?

--Nulla....

Ubbidimmo. Si passò tutta quella sera in silenzio: mio zio era in preda
a tristi pensieri, e si vedeva che egli si sforzava di evocare o di
scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò assai presto, si
rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza lasciarsi
vedere.

       *       *       *       *       *

In quella sera io mi coricai in preda a pensieri strani e paurosi di cui
non sapeva darmi ragione. Era preoccupato dall'idea di quell'avvenimento
più che non avrei dovuto, più che un fanciullo della mia età non avrebbe
potuto esserlo. Indarno io tenterei ora di rendere qui colla parola i
sentimenti inesplicabili e singolari che si agitavano dentro di me in
quell'istante. Parevami che tra quei volumi e mio zio, e me stesso,
corressero dei rapporti che non aveva avvertito fino allora, delle
relazioni misteriose e lontane di cui non giungeva a decifrarmi in alcun
modo la natura, nè a comprendere il fine. Erano, o mi parevano
rimembranze. Ma di che cosa? Non lo sapeva. Di che tempo? Remote. Nella
mia giovine intelligenza tutto si era alterato e confuso.

Mi addormentai sotto l'impressione di quelle idee, e feci questo sogno.

Aveva venticinque anni: nella mia mente si erano come agglomerate tutte
quelle idee, tutte quelle esperienze, tutti quegli ammaestramenti che il
tempo mi avrebbe fatto subire durante gli anni che segnavano quella
differenza tra l'età sognata e l'età reale; ma io rimaneva nondimeno
estraneo a questo maggiore perfezionamento, benchè il comprendessi.
Sentiva in me tutto lo sviluppo intellettuale di quell'età, ma ne
giudicava col senno e cogli apprezzamenti proprii dei miei quindici
anni. Vi erano due individui in me, all'uno apparteneva l'azione,
all'altro la coscienza e l'apprezzamento dell'azione. Era una di quelle
contraddizioni, di quelle bizzarie, di quelle simultaneità di effetti
che non sono proprie che dei sogni.

Mi trovava in una gran valle fiancheggiata da due alte montagne: la
vegetazione, la coltivazione, la forma e la disposizione delle capanne,
e un non so che di diverso, di antico nella luce, nell'atmosfera, in
tutto ciò che mi circondava, mi dicevano ch'io mi trovava colà in
un'epoca assai remota dalla mia esistenza attuale--due o tre secoli
almeno. Ma come era ciò avvenuto? come mi trovava in quelle campagne?
Non lo sapeva. Ciò era bensì naturale nel sogno: vi erano degli
avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non
sapeva quali fossero; non aveva coscienza del loro valore, della loro
entità, non l'aveva che dalla loro esistenza. Era solo e triste.
Camminava per uno scopo determinato, prefisso, per un fine che mi
attraeva in quel luogo, ma che ignorava. All'estremità della valle
s'innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare, profonda,
solcata da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua
sommità vi era un castello che dominava tutta la valle, e quel castello
era nero. Le sue torri munite di balestriere erano gremite di soldati,
le porte dei ponti calate, le altane stipate d'uomini e di arnesi da
difesa; negli appartamenti del castello era rinchiusa una donna di
prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza del sogno io sapeva essere
la _dama del castello nero_ e quella donna era legata a me da un affetto
antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello. Ma giù nella
valle a' piedi della rupe ove io mi era arrestato, un oggetto colpiva
dolorosamente la mia attenzione: sui gradini di un monumento mortuario
sedeva un uomo che ne era uscito allora; egli era morto e tuttavia
viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi,
l'accoppiamento della morte e della vita, la rigidità, il nulla dell'una
temperata dalla sensitività, dall'essenza dell'altra: le sue pupille che
io sapeva essere state abbaccinate con un chiodo rovente, erano ancora
attraversate da due piccoli fori quadrati che davano al suo sguardo
qualche cosa di terribile e di compassionevole a un tempo. A quel fatto
si legavano delle memorie di sangue, delle memorie di un delitto a cui
io avevo preso parte. Fra me e lui e la dama del castello correvano dei
rapporti inesplicabili. Egli mi guardava colle sue pupille forate; e col
gesto, e con una specie di volontà che egli non manifestava, ma che io,
non so come, leggeva in lui, m'incitava a liberare la dama.

Una via scavata lateralmente nella rupe conduceva al castello. Una
immensa quantità di projettili lanciatimi dai mangani delle torri
m'impedivano di giungervi. Ma, strana cosa! tutti quei projettili enormi
mi colpivano, ma non mi uccidevano--nondimeno mi arrestavano. Attraverso
le mura del castello, io vedeva la dama correre sola per gli
appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll'abito bianchi
come la neve, protendendomi le braccia con espressione di desiderio e di
pietà infinita; e io la seguiva collo sguardo attraverso tutte quelle
sale che io conosceva, nelle quali aveva vissuto un tempo con lei.
Quella vista mi animava a correre in suo soccorso, ma non lo poteva; i
projettili lanciatimi dalle torri me lo impedivano: a ogni svolto del
sentiero la grandine diventava più fitta e più atroce; e quegli svolti
erano molti--dopo questo un altro, dopo quello ancora un altro.... io
saliva e saliva.... la dama mi chiamava dal castello, si affacciava
dalle ampie finestre coi capelli che le piovevano giù dal seno, mi
accennava colla mano di affrettarmi, mi diceva parole piene di dolcezza
e di amore, nè io poteva giungere fino a lei--era un'impotenza
straziante. Quanto durasse quella terribile lotta non so; tutta la
durata del sogno, tutto lo spazio della notte... Finalmente, e non
sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello; esse erano
rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si
spalancarono da sè cigolando sui cardini irruginiti, e nello sfondo nero
dell'atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e colle braccia
aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità
sorprendente, e rasentando appena lo spazzo, la distanza che ci
separava. Essa si gettò tra le mie braccia coll'abbandono di una cosa
morta, colla leggerezza, coll'adesione di un oggetto aero, flessibile,
soprannaturale. La sua bellezza non era della terra; la sua voce era
dolce, ma debole come l'eco di una nota; la sua pupilla nera e velata
come per pianto recente, attraversava le più ascose profondità della mia
anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come per effetto
di un raggio. Noi passammo alcuni istanti così abbracciati: una voluttà
mai sentita da me nè prima, nè dopo quell'ora, mi ricercava tutte le
fibre. Per un momento io subii tutta l'ebbrezza di quell'amplesso senza
avvertirla: ma non m'era posato su questo pensiero, non era appena
discesa in me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in
lei un'orribile trasformazione. Le sue forme piene e delicate che
sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in sè,
sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che si erano
formate a un tratto nel suo abito, sentii sporgere qua e là l'ossatura
di uno scheletro.... Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto
impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla
bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo,
terribile.... Allora un fremito, un brivido di morte scorse per tutte
le mie fibre; tentai svincolarmi dalle sue braccia, respingerla.... e
nella violenza dell'atto il mio sonno si ruppe--mi svegliai urlando e
piangendo.

       *       *       *       *       *

Tornai a' miei quindici anni, alle mie idee, a' miei apprezzamenti, alle
mie puerilità di fanciullo. Tutto quel sogno mi pareva assai più strano,
assai più incomprensibile che spaventoso. Quali erano i sentimenti che
si erano impossessati di me in quello stato? Io non aveva ancora
conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato ancora all'amore,
non poteva darmi ragione delle sensazioni provate in quella notte. Ciò
non ostante era triste, era posseduto da un pensiero irremovibile; mi
pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria,
un'idea confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla
mia vita attuale.

       *       *       *       *       *

Nella notte seguente ebbi un altro sogno.

Mi trovava ancora in quel luogo, ma tutto era cambiato; il cielo, gli
alberi, le vie non erano più quelli; i fianchi della rupe erano
intersecati da sentieri coperti di madreselve; del castello non
rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli interstizii
delle stanze terrene crescevano le cicute e le ortiche. Passando vicino
al monumento che sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano
che alcune pietre, l'uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra un
gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di
sangue:--recatelo alla signora del castello. Mi trovai assiso sulle
rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco--eravamo
soli--non si udiva una voce, un eco, uno stormire di fronde nella
campagna--essa, afferrandomi le mani, mi diceva:--sono venuta tanto da
lontano per rivederti, senti il mio cuore come batte.... senti come
batte forte il mio cuore!... tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono
assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione....
erano quasi trecento anni che non ti vedeva.

--Trecento anni!

--Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono
memorie terribili! non le evochiamo.

--Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate.

--Le ricorderai dopo la tua morte.

--Quando?

--Assai presto.

--Quando?

--Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre
vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno.

--Ma allora?

--Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti.

--Quali?

--Li ricorderai a suo tempo.... ricorderai tutto. La tua espiazione sta
per finire, tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa,
che è l'ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già
quarant'anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo
compirai con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a lungo
con te, è necessario che ci separiamo.

--Spiegami prima questo enimma.

--È impossibile... Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho
rinfacciato ieri a lui la sua promessa; te ne ho restituito il mezzo,
quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sì colme di
affetto.... le avrai, se _quell'uomo_ che ci fu allora sì fatale non
t'impedirà di averle.

--Chi?

--Tuo zio.... egli.... l'uomo della valle.

--Egli? mio zio!

--Sì, e lo hai tu veduto?

--Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato.

--È il tuo sangue, Arturo, diss'ella con trasporto, sia lodato il cielo!
egli ha mantenuto la sua promessa.

Dicendo queste parole la signora del castello sparve--io mi svegliai
atterrito.

       *       *       *       *       *

Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne
fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei
volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati
alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare
quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio
pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili,
potrei ricostituire con uno sforzo potente di memoria degli interi
periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei
sogni! Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e
benchè non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da
dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più
possibile che io potessi metterne in dubbio l'esistenza. Il castello
nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d'amore
che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto
che pesava sull'uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a
ciò, per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la
notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti
gennaio: mancavano adunque venti anni esatti alla mia morte.

       *       *       *       *       *

Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma
quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in
tutto quell'assieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia
gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito
in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni
dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna
rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più
avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una
continuazione di quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e
delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a
crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi
da quella preoccupazione triste e affannosa.

Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una
testimonianza irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto
era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente
avverarsi.

Nell'anno 1849, viaggiando al Nord della Francia, aveva disceso il Reno
fin presso al confluente della piccola Mosa, e m'era trattenuto a
cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di
una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle
nella quale mi pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo
pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e
spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del
castello, il teatro de' miei sogni e della mia esistenza trascorsa.
Benchè tutto fosse mutato, benchè i campi, prima deserti,
biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che
alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto quel luogo, e
mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in
quell'istante nella mia anima conturbata.

Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose:--Sono
le rovine del castello nero; non conoscete la leggenda del castello
nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo
stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io.... se....

--Dite, dite, io interruppi, sedendomi sull'erba al suo fianco.--E
intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò
mai, benchè altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho
potuto ricostruire tutto l'edificio di quella mia esistenza trascorsa.

Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo
villaggio vicino, d'onde fui trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi
tenni il letto tre mesi.

Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del
castello--è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all'epoca
della mia morte--sei mesi, meno dieci giorni--giacchè non dubito che
morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che
rimanga alcuna memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho
tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo
avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l'impressione di un
immenso terrore.»

       *       *       *       *       *

L'autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche
fama, proseguendo il suo viaggio verso l'interno della Germania, morì il
venti gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una
banda di zingari nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo.

Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho
pubblicate.



LA LETTERA U

(Manoscritto d'un pazzo)


U! U!

Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L'ho
io delineata esattamente? L'ho io tracciata in tutta la sua esattezza
tremenda, co' suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla
sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi
fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore?

Sì, io l'ho scritta.

Ed eccovela ancora:

    U

Eccola un'altra volta:

    U

Guardatela, affissatela bene--non tremate, non impallidite--abbiate il
coraggio di sostenerne la vista, di osservarne tutte le parti, di
esaminarne tutti i dettagli, di vincere tutto l'orrore che v'ispira....
Questo U!... questo segno fatale, questa lettera abborrita, questa
vocale tremenda!

E l'avete ora veduta?... Ma che dico?... Chi di voi non l'ha veduta, non
l'ha scritta, non l'ha pronunciata le mille volte?--Lo so; ma io vi
domanderò bensì: chi di voi l'ha esaminata? chi l'ha analizzata, chi ne
ha studiato la forma, l'espressione, l'influenza? Chi ne ha fatto
l'oggetto delle sue indagini, delle sue occupazioni, delle sue veglie?
Chi vi ha posato sopra il suo pensiero per tutti gli anni della sua
vita?

Perchè.... voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua
come le altre; perchè l'abitudine vi ci ha resi indifferenti; perchè la
vostra apatia vi ha distolto dallo studiarne più accuratamente i
caratteri.... ma io.... Se voi sapeste ciò che io ho veduto!... se voi
sapeste ciò che io vedo in questa vocale!

    U

E consideratela ora meco.

Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi!

E così, che ne dite?

Quella linea che si curva e s'inforca--quelle delle due punte che vi
guardano immobili, che si guardano immobili--quelle delle due lineette
che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime--quell'arco
inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando--e
nell'interno quel nero, quel vuoto, quell'orribile vuoto che si affaccia
dall'apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell'infinità
dello spazio....

Ma ciò è ancor nulla. Coraggio!

Raddoppiate la vostra potenza d'intuizione; gettatevi uno sguardo più
indagatore.

Partite da una delle due punte, seguite la curva esterna, discendete,
avvicinatevi all'arco, passatevi sotto, risalite, raggiungete la punta
opposta....

Che cosa avete veduto?

Attendete!

Compite adesso un viaggio a rovescio. Discendete lungo le linea
interna--discendetevi con coraggio, con energia--raggiungete il fondo,
arrestatevi, fermatevi un istante, esaminatelo attentamente; poi
risalite fino alla punta d'onde eravate partito dapprima...

Tremate? Impallidite?

Non basta ancora!

Posatevi un istante sulle due linee che ne tagliano le punte; andate
dall'una all'altra; poi guardate l'assieme della lettera, guardatela
d'un sol colpo d'occhio, esaminatene tutti i profili, afferratene tutta
l'espressione.... e ditemi se non siete paralizzati, se non siete vinti,
se non siete annichiliti da quella vista?!?!

Ecco.

Io vi scrivo qui tutte le vocali:

                              a e i o u

Le vedete? Sono queste?

                              a e i o u

Ebbene?!

Ma non basta il vederle.

Sentiamone ora il suono.

A--L'espressione della sincerità, della schiettezza, d'una sorpresa
lieve ma dolce.

E--La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono.

I--Che gioia! Che gioia viva e profonda!

O--Che sorpresa! che meraviglia! ma che sorpresa grata! Che schiettezza
rozza, ma maschia in quella lettera!

Sentite ora l'U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più
profondi, ma pronunciatelo bene: _U! uh!! uhh!!! uhhh!!!!_

Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito
della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura
soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d'infernale,
di profondo, di tenebroso in quel suono?

Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!

       *       *       *       *       *

Vi voglio raccontare la mia vita.

Voglio che sappiate in che modo questa lettera mi ha trascinato ad una
colpa, e ad una pena ignominiosa e immeritata.

Io nacqui predestinato. Una terribile condanna pesava sopra di me fino
dal primo giorno della mia esistenza: il mio nome conteneva un U. Da ciò
tutte le sventure della mia vita.

A sette anni fui avviato alle scuole.

Un istinto, di cui ignorava ancora le cause, mi impediva di apprendere
quella lettera, di scriverla: ogni volta che mi si facevano leggere le
vocali mi arrestava, mio malgrado, d'innanzi all'U; mi veniva meno la
voce, un panico indescrivibile s'impossessava di me--io non poteva
pronunciare quella vocale!

Scriverla? era peggio! La mia mano sicura nel vergare le altre,
diventava convulsa e tremante allorchè mi accingeva a scrivere questa.
Ora le aste erano troppo convergenti, ora troppo divergenti; ora
formavano un V diritto, ora un /\ capovolto; non poteva tracciare in
nessun modo la curva, e spesso non riusciva che a formare una linea
serpeggiante e confusa.

Il maestro mi dava del quadrello sulle dita--io m'inacerbiva e piangeva.

Aveva dodici anni, allorchè un giorno vidi scritto sulla lavagna un U
colossale, così:

                              U

Io stava seduto di fronte alla lavagna. Quella vocale era lì, e pareva
guardarmi, pareva affissarmi e sfidarmi. Non so qual coraggio mi
nascesse improvvisamente nel cuore: certo il tempo della rivelazione era
giunto! Quella lettera ed io eravamo nemici; accettai la sfida, mi posi
il capo tra le mani e incominciai a guardarla.... Passai alcune ore in
quella contemplazione. Fu allora che io compresi tutto, che io vidi
tuttociò che vi ho ora detto, o tentato almeno di dirvi, giacchè il
dirvelo esattamente è impossibile. Io indovinai le ragioni della mia
ripugnanza, del mio odio; e progettai una guerra mortale a quella
lettera.

Incominciai col togliere quanti libri poteva a' miei compagni, e
cancellarvi tutti gli U che mi venivano sott'occhio. Non era che il
principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole.

Vi ritornai tuttavia più tardi. Il mio maestro si chiamava _Aurelio
Tubuni_.

Tre U!! Io lo abborriva per questo. Un giorno scrissi sulla lavagna:
_Morte all'U!_ Egli attribuì a sè medesimo quella minaccia. Fui
ricacciato.

Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come
lavoro di esame, un progetto relativo all'abolizione di questa vocale,
alla sua espulsione dalle lettere dell'alfabeto.

Non fui compreso. Fui tacciato di follia. I miei compagni, conosciuta
così la mia avversione a quella vocale, incominciarono contro di me una
guerra terribile. Io vedeva, io trovava degli U da tutte le parti: essi
ne scrivevano dappertutto: sui miei libri, sulle pareti, sui banchi,
sulla lavagna--i miei quaderni, le mie carte ne erano ripieni; nè io
poteva difendermi da questa persecuzione sanguinosa ed atroce.

Un giorno trovai nella mia saccoccia una cartolina, su cui ne era
scritta una lunga fila in questo modo infernale, così:

    U    U    U    U    U    U    U    U

Divenni furente! La vista di tutti quegli U disposti in questa guisa,
collocati con questa gradazione tremenda, mi trasse di senno. Sentii
salirmi il sangue alle tempia, sconvolgersi la mia ragione.... Corsi
alla scuola; ed afferrato alla gola uno de' miei compagni, l'avrei per
fermo soffocato, se non mi fosse stato tolto di mano.

Era la prima colpa a cui mi trascinava quella vocale!

Mi fu impedito di continuare i miei studii.

Allora incominciai a vivere da solo, a pensare, a meditare, ad operare
da solo. Entrai in una nuova sfera di osservazioni, in una sfera più
elevata, più attiva: studiai i rapporti che legavano ai destini
dell'umanità questa lettera fatale; ne trovai tutte le fila, ne scopersi
tutte le cause, ne indovinai tutte le leggi; e scrissi ed elaborai, in
cinque lunghi anni di fatica, un lavoro voluminoso, nel quale mi
proponeva di dimostrare come tutte le umane calamità non procedessero da
altre cause che dall'esistenza dell'U, e dall'uso che ne facciamo nella
scritturazione e nel linguaggio; e come fosse possibile il sopprimerlo,
e rimediare, e prevenire i mali che ci minaccia.

Lo credereste? non trovai mezzo di dare alla luce la mia opera. La
società ricusava da me quel rimedio che solo poteva ancora guarirla.

A venti anni mi accesi d'amore per una fanciulla, e ne fui riamato.
Essa era divinamente buona, divinamente bella: ci amammo al solo
vederci; e quando potei parlarle, le chiesi:

--Come vi chiamate?

--_Ulrica!_

--_Ulrica!_ U. Un U! Era una cosa orribile. Come sottomettermi alla
violenza atroce, continua di quella vocale? Il mio amore era tutto per
me, ma nondimeno trovai la forza di rinunziarvi. Abbandonai _Ulrica_.

Tentai di guarirmi con un altro affetto. Diedi il mio cuore ad un altra
fanciulla. Lo credereste? Seppi più tardi che si chiamava _Giulia_. Mi
divisi anche da quella.

Ebbi un terzo amore. L'esperienza mi aveva reso cauto: m'informai del
suo nome prima di darle il mio cuore.

Si chiamava _Annetta_. Finalmente! Apparecchiammo per le nozze, tutto
era combinato, stabilito, allorchè, nell'esaminare il suo certificato di
nascita, scopersi con orrore che il suo nome di _Annetta_, non era che
un vezzeggiativo, un abbreviativo di _Susanna_, _Susannetta_, e oltre
ciò--inorridite! aveva cinque altri nomi di battesimo: _Postumia_,
_Uria_, _Umberta_, _Giuditta_ e _Lucia_.

Immaginate se io mi sentissi rabbrividire nel leggere quei
nomi!--lacerai sull'istante il contratto nuziale, rinfacciai a quel
mostro di perfidia il suo tradimento feroce, e mi allontanai per sempre
da quella casa. Il cielo mi aveva ancora salvato.

Ma ohimè! io non poteva più amare, la mia affettività era esaurita,
prostrata da tanti esperimenti terribili. Il caso mi condusse ad
_Ulrica_; le memorie del mio primo amore si ridestarono, la mia passione
si raccese più viva.... Volli rinunciare ancora al suo affetto, alla
felicità che mi riprometteva da questo affetto.... ma non ne ebbi la
forza--ci sposammo.

Da quell'istante incominciò la mia lotta.

Io non poteva tollerare che essa portasse un U nel suo nome, non poteva
chiamarla con quella parola. Mia moglie!... la mia compagna, la donna
amata da me.... portare un U nel suo nome!... Essa che aveva già fatto
un acquisto così tremendo nel mio, perchè io pure ne aveva uno nel mio
casato!

Era impossibile!

Un giorno le dissi:

--Mia buona amica, vedi quanto quest'U è terribile! rinunciavi, abbrevia
o muta il tuo nome!... te ne scongiuro!

Essa non rispose, e sorrise.

Un'altra volta le dissi:

--_Ulrica_, il tuo nome mi è insopportabile.... esso mi fa male.... esso
mi uccide! Rinunciavi.

Mia moglie sorrideva ancora, l'ingrata! sorrideva!...

Una notte mi sentii invaso da non so qual furore: aveva avuto un sogno
affannoso.... Un U gigantesco postosi sul mio petto mi abbracciava colle
sue aste immense, flessuose.... mi stringeva.... mi opprimeva, mi
opprimeva.... Io balzai furioso dal letto: afferrai la grossa canna di
giunco, corsi da un notajo, e gli dissi:

--Venite, venite meco sull'istante a redigere un atto formale di
rinuncia....

Quel miserabile si opponeva. Lo trascinai meco, lo trascinai al letto di
mia moglie.

Essa dormiva; io la svegliai aspramente e le dissi:

--_Ulrica_, rinuncia al tuo nome, all'U detestabile del tuo nome!

Mia moglie mi guardava fissamente, e taceva.

--Rinuncia, io le replicai con voce terribile, rinuncia a quell'U....
rinuncia al tuo nome abborrito!!...

Essa mi guardava ancora, e taceva!

Il suo silenzio, il suo rifiuto mi trassero di senno: mi avventai sopra
di lei, e la percossi col mio bastone.

Fui arrestato, e chiamato a render conto di questa violenza.

I giudici assolvendomi, mi condannarono ad una pena più atroce, alla
detenzione in questo Ospizio di pazzi.

Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! perchè ho scoperto il segreto dei loro
destini! dell'avversità dei loro destini! perchè ho tentato di
migliorarli?.... Ingrati!

Sì, io sento che questa ingratitudine mi ucciderà: lasciato qui solo,
inerme! faccia a faccia col mio nemico, con questo U detestato che io
vedo ogni ora, ogni istante, nel sonno, nella veglia, in tutti gli
oggetti che mi circondano, sento che dovrò finalmente soccombere.

Sia.

Non temo la morte: l'affretto come il termine unico de' miei mali.

Sarei stato felice se avessi potuto beneficare l'umanità persuadendola a
sopprimere quella vocale; se essa non avesse esistito mai, o se io non
ne avessi conosciuto i misteri.

Era stabilito altrimenti! Forse la mia sventura sarà un utile
ammaestramento agli uomini; forse il mio esempio li spronerà ad
imitarmi....

Che io lo speri!

Che la mia morte preceda di pochi giorni l'epoca della loro grande
emancipazione, dell'emancipazione dall'U, dell'emancipazione da questa
terribile vocale!!!

       *       *       *       *       *

L'infelice che vergò queste linee, morì nel manicomio di Milano l'11
settembre 1865.



UN OSSO DI MORTO


Lascio a chi mi legge l'apprezzamento del fatto inesplicabile che sto
per raccontare.

Nel 1855, domiciliatomi a Pavia, m'era dato allo studio del disegno in
una scuola privata di quella città; e dopo alcuni mesi di soggiorno
aveva stretto relazione con certo Federico M. che era professore di
patologia e di clinica per l'insegnamento universitario, e che morì di
apoplessia fulminante pochi mesi dopo che lo aveva conosciuto. Era uomo
amantissimo delle scienze, e della sua in particolare--aveva virtù e
doti di mente non comuni--senonchè come tutti gli anatomisti ed i
clinici in genere, era scettico profondamente e inguaribilmente--lo
era per convinzione, nè io potei mai indurlo alle mie credenze, per
quanto mi vi adoprassi nelle discussioni appassionate e calorose che
avevamo ogni giorno a questo riguardo. Nondimeno--e piacemi rendere
questa giustizia alla sua memoria--egli si era mostrato sempre
tollerante di quelle convinzioni che non erano le sue; ed io e quanti il
conobbero abbiamo serbato la più cara rimembranza di lui. Pochi giorni
prima della sua morte egli mi aveva consigliato ad assistere alle sue
lezioni di anatomia, adducendo che ne avrei tratte non poche cognizioni
giovevoli alla mia arte del disegno: acconsentii benchè repugnante; e
spinto dalla vanità di parergli meno pauroso che nol fossi, lo richiesi
di alcune ossa umane che egli mi diede e che io collocai sul caminetto
della mia stanza. Colla morte di lui io aveva cessato di frequentare il
corso anatomico, e più tardi aveva anche desistito dallo studio del
disegno. Nondimeno aveva conservato ancora per molti anni quelle ossa,
che l'abitudine di vederle me le aveva rese quasi indifferenti, e non
sono più di pochi mesi che, colto da subite paure, mi risolsi a
seppellirle, non trattenendo presso di me che una semplice rotella di
ginocchio. Questo ossicino sferico e liscio che per la sua forma e per
la sua piccolezza io aveva destinato, fino dal primo istante che l'ebbi,
a compiere l'ufficio d'un premi-carte, come quello che non mi
richiamava alcuna idea spaventosa, si trovava già collocato da undici
anni sul mio tavolino, allorchè ne fui privato nel modo inesplicabile
che sto per raccontare.

Aveva conosciuto a Milano nella scorsa primavera un magnetizzatore assai
noto tra gli amatori di spiritismo, e aveva fatto istanze per essere
ammesso ad una delle sue sedute spiritiche. Ricevetti poco dopo invito
di recarmivi, e vi andai agitato da prevenzioni sì tristi, che più volte
lungo la via era stato quasi in procinto di rinunciarvi. L'insistenza
del mio amor proprio mi vi aveva spinto mio malgrado. Non starò a
discorrere qui delle invocazioni sorprendenti a cui assistetti: basterà
il dire che io fui sì meravigliato delle risposte che ascoltammo da
alcuni spiriti, e la mia mente fu sì colpita da quei prodigi, che
superato ogni timore, concepii il desiderio di chiamarne uno di mia
conoscenza, e rivolgergli io stesso alcune domande che aveva già
meditate e discusse nella mia mente. Manifestata questa volontà, venni
introdotto in un gabinetto appartato, ove fui lasciato solo; e poichè
l'impazienza e il desiderio d'invocare molti spiriti a un tempo mi
rendevano titubante sulla scelta, ed era mio disegno di interrogare lo
spirito invocato sul destino umano, e sulla spiritualità della nostra
natura, mi venne in memoria il dottore Federico M. col quale, vivente,
aveva avuto delle vive discussioni su questo argomento, e deliberai di
chiamarlo. Fatta questa scelta, mi sedetti ad un tavolino, disposi
innanzi a me un foglietto di carta, intinsi la penna nel calamaio, mi
posi in atteggiamento di scrivere, e concentratomi per quanto era
possibile in quel pensiero, e raccolta tutta la mia potenza di
volizione, e direttala a quello scopo, attesi che lo spirito del dottore
venisse.

Non attesi lungamente. Dopo alcuni minuti d'indugio mi accorsi per
sensazioni nuove e inesplicabili che io non era più solo nella stanza,
sentii per così dire la sua presenza; e prima che avessi saputo
risolvermi a formulare una domanda, la mia mano agitata e convulsa,
mossa come da una forza estranea alla mia volontà, scrisse, me
inconsapevole, queste parole:

«Sono a voi. Mi avete chiamato in un momento in cui delle invocazioni
più esigenti mi impedivano di venire, nè potrò trattenermi ora qui, nè
rispondere alle interrogazioni che avete deliberato di farmi. Nondimeno
vi ho obbedito per compiacervi, e perchè aveva bisogno io stesso di
voi; ed era gran tempo che cercava il mezzo di mettermi in comunicazione
col vostro spirito. Durante la mia vita mortale vi ho date alcune ossa
che aveva sottratte al gabinetto anatomico di Pavia, e tra le quali vi
era una rotella di ginocchio che ha appartenuto al corpo di un ex
inserviente dell'Università, che si chiamava Pietro Mariani, e di cui io
aveva sezionato arbitrariamente il cadavere. Sono ora undici anni che
egli mette alla tortura il mio spirito per riavere quell'ossicino
inconcludente, nè cessa di rimproverarmi amaramente quell'atto, di
minacciarmi, e di insistere per la restituzione della sua rotella. Ve ne
scongiuro per la memoria forse non ingrata che avrete serbato di me, se
voi la conservate tuttora, restituitegliela, scioglietemi da questo
debito tormentoso. Io farò venire a voi in questo momento lo spirito del
Mariani. Rispondete.»

Atterrito da quella rivelazione, io risposi che conservava di fatto
quella sciagurata rotella, e che era felice di poterla restituire al suo
proprietario legittimo, che, non v'essendo altra via, mandasse da me il
Mariani. Ciò detto, o dirò meglio, pensato, sentii la mia persona come
alleggerita, il mio braccio più libero, la mia mano non più ingranchita
come dianzi, e compresi, in una parola, che lo spirito del dottore era
partito.

Stetti allora un altro istante ad attendere--la mia mente era in uno
stato di esaltazione impossibile a definirsi.

In capo ad alcuni minuti, riprovai gli stessi fenomeni di prima, benchè
meno intensi; e la mia mano trascinata dalla volontà dello spirito,
scrisse queste altre parole:

«Lo spirito di Pietro Mariani ex inserviente dell'Università di Pavia, è
innanzi a voi, e reclama la rotella del suo ginocchio sinistro che
ritenete indebitamente da undici anni. Rispondete.»

Questo linguaggio era più conciso e più energico di quello del dottore.
Io replicai allo spirito: Io sono dispostissimo a restituire a Pietro
Mariani la rotella del suo ginocchio sinistro, e lo prego anzi a
perdonarmene la detenzione illegale; desidero però di conoscere come
potrò effettuare la restituzione che mi è domandata.

Allora la mia mano tornò a scrivere;

«Pietro Mariani, ex inserviente dell'Università di Pavia, verrà a
riprendere egli stesso la sua rotella.»

--Quando? chiesi io atterrito.

--E la mano vergò istantaneamente una sola parola «Stanotte.»

Annichilito da quella notizia, coperto di un sudore cadaverico, io mi
affrettai ad esclamare, mutando tuono di voce ad un tratto: «Per
carità... vi scongiuro.... non vi disturbate.... manderò io stesso....
vi saranno altri mezzi meno incomodi...» Ma non aveva finito la frase
che mi accorsi per le sensazioni già provate dapprima, che lo spirito di
Mariani si era allontanato, e che non v'era più mezzo ad impedire la sua
venuta.

È impossibile che io possa rendere qui colle parole l'angoscia delle
sensazioni che provai in quel momento. Io era in preda ad un panico
spaventoso. Uscii da quella casa mentre gli orologi della città
suonavano la mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre
spenti, le fiamme nei fanali offuscate da un nebbione fitto e
pesante--tutto mi pareva più tetro del solito. Camminai per un pezzo
senza sapere dove dirigermi: un istinto più potente della mia volontà mi
allontanava dalla mia abitazione. Ove attingere il coraggio di andarvi?
Io avrei dovuto ricevervi in quella notte la visita di uno spettro--era
un'idea da morirne, era una prevenzione troppo terribile.

Volle allora il caso che aggirandomi, non so più per qual via, mi
trovassi di fronte a una bettola su cui vidi scritto a caratteri
intagliati in un'impannata, e illuminati da una fiamma interna «Vini
nazionali» e io dissi senz'altro a me stesso: Entriamovi, è meglio così,
e non è un cattivo rimedio; cercherò nel vino quell'ardimento che non ho
più il potere di chiedere alla mia ragione. E cacciatomi in un angolo
d'una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino che
bevetti con avidità, benchè repugnante per abitudine all'abuso di quel
liquore. Ottenni l'effetto che aveva desiderato. Ad ogni bicchiere
bevuto il mio timore svaniva sensibilmente, i miei pensieri si
dilucidavano, le mie idee parevano riordinarsi, quantunque con un
disordine nuovo; e a poco a poco riconquistai talmente il mio coraggio
che risi meco stesso del mio terrore, e mi alzai, e mi avviai risoluto
verso casa.

Giunto in stanza, un po' barcollante pel troppo vino bevuto, accesi il
lume, mi spogliai per metà, mi cacciai a precipizio nel letto, chiusi un
occhio e poi un altro, e tentai di addormentarmi. Ma era indarno. Mi
sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a muovermi; le
coperte mi pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano come
fossero di metallo fuso: e durante quell'assopimento incominciai ad
avvedermi che dei fenomeni singolari si compievano intorno a me.

Dal lucignolo della candela che mi pareva avere spento, che era
d'altronde una stearica pura, si sollevavano in giro delle spire di fumo
sì fitte e sì nere, che raccogliendosi sotto il soffitto lo
nascondevano, e assumevano apparenza di una cappa pesante di piombo:
l'atmosfera della stanza divenuta ad un tratto soffocante, era
impregnata di un odore simile a quello che esala dalla carne viva
abbrustolita, le mie orecchie erano assordate da un brontolio incessante
di cui non sapeva indovinare le cause, e la rotella che vedeva lì, tra
le mie carte, pareva muoversi e girare sulla superficie del tavolo, come
in preda a convulsioni strane e violenti.

Durai non so quanto tempo in quello stato: io non poteva distogliere la
mia attenzione da quella rotella. I miei sensi, le mie facoltà, le mie
idee, tutto era concentrato in quella vista, tutto mi attraeva a lei; io
voleva sollevarmi, discendere dal letto, uscire, ma non mi era
possibile; e la mia desolazione era giunta a tal grado che quasi non
ebbi a provare alcun spavento, allorchè dissipatosi a un tratto il fumo
emanato dal lucignolo della candela, vidi sollevarsi la tenda dell'uscio
e comparire il fantasma aspettato.

Io non batteva palpebra. Avanzatosi fino alla metà della stanza,
s'inchinò cortesemente e mi disse: «Io sono Pietro Mariani, e vengo a
riprendere, come vi ho promesso la mia rotella.»

E poichè il terrore mi rendeva esitante a rispondergli, egli continuò
con dolcezza: «Perdonerete se ho dovuto disturbarvi nel colmo della
notte.... in quest'ora.... capisco che la è un'ora incomoda... ma...»

--Oh! è nulla, è nulla, io interruppi rassicurato da tanta cortesia, io
vi debbo anzi ringraziare della vostra visita... io mi terrò sempre
onorato di ricevervi nella mia casa...

--Ve ne son grato, disse lo spettro, ma desidero ad ogni modo
giustificarmi dell'insistenza con cui ho reclamato la mia rotella sia
presso di voi, sia presso l'egregio dottore dal quale l'avete ricevuta:
osservate.

E così dicendo sollevò un lembo del lenzuolo bianco, in cui era
avviluppato, e mostrandomi lo stinco della gamba sinistra legato al
femore, per mancanza della rotella, con un nastro nero passato due o tre
volte nell'apertura della fibula, fece alcuni passi per la stanza onde
farmi conoscere che l'assenza di quell'osso gl'impediva di camminare
liberamente.

--Tolga il cielo, io dissi allora con accento d'uomo mortificato, che
il degno ex inserviente dell'Università di Pavia abbia a rimanere
zoppicante per mia causa: ecco la vostra rotella, là, sul tavolino,
prendetela, e accomodatela come potete al vostro ginocchio.

Lo spettro s'inchinò per la seconda volta in atto di ringraziamento, si
slegò il nastro che gli congiungeva il femore allo stinco, lo posò sul
tavolino, e presa la rotella, incominciò ad adattarla alla gamba.

--Che notizie ne recate dall'altro mondo? io chiesi allora, vedendo che
la conversazione languiva, durante quella sua occupazione.

Ma egli non rispose alla mia domanda, ed esclamò con aspetto attristato:
«Questa rotella è alquanto deteriorata, non ne avete fatto un buon uso.»

--Non credo, io dissi, ma forse che le altre vostra ossa sono più
solide?

Egli tacque ancora, s'inchinò la terza volta per salutarmi; e quando fu
sulla soglia dell'uscio, rispose chiudendone l'imposta dietro di sè:
«Sentite se le altre mie ossa non sono più solide.»

E pronunciando queste parole percosse il pavimento col piede con tanta
violenza che le pareti ne tremarono tutte; e a quel rumore mi scossi
e... mi svegliai.

E appena desto, intesi che era la portinaia che picchiava all'uscio e
diceva: «Son io, si alzi mi venga ad aprire.»

--Mio Dio! esclamai allora fregandomi gli occhi col rovescio della mano,
era dunque un sogno, nient'altro che un sogno! che spavento! sia lodato
il cielo... Ma quale insensatezza! Credere allo spiritismo... ai
fantasmi... E infilzati in fretta i calzoni, corsi ad aprire l'uscio; e
poichè il freddo mi consigliava a ricacciarmi sotto le coltri, mi
avvicinai al tavolino per posarvi la lettera sotto il premi-carte...

Ma quale fu il mio terrore quando vi vidi sparita la rotella, e al suo
posto trovai il nastro nero che vi aveva lasciato Pietro Mariani!



UNO SPIRITO IN UN LAMPONE


Nel 1854 un avvenimento prodigioso riempì di terrore e di meraviglia
tutta la semplice popolazione d'un piccolo villaggio della Calabria.

Mi attenterò a raccontare con quanta maggior esattezza mi sarà
possibile, questa avventura meravigliosa, benchè comprenda esser cosa
estremamente difficile l'esporla in tutta la sua verità e con tutti i
suoi dettagli più interessanti.

Il giovine barone di B.--duolmi che una promessa formale mi vieti di
rivelarne il nome--aveva ereditato da pochi anni la ricca ed estesa
baronia del suo avo paterno, situata in uno dei punti più incantevoli
della Calabria. Il giovine erede non si era allontanato mai da quei
monti sì ricchi di frutteti e di selvaggiume; nel vecchio maniere della
famiglia, che un tempo era stato un castello feudale fortificato, aveva
appreso dal pedagogo di casa i primi erudimenti dello scrivere, e i
nomi di tre o quattro classici latini di cui sapeva citare
all'occorrenza alcuni distici ben conosciuti. Come tutti i meridionali
aveva la passione della caccia, dei cavalli e dell'amore--tre passioni
che spesso sembrano camminare di conserva come tre buoni puledri di
posta--potevale appagare a suo talento, nè s'era mai dato un pensiero di
più; non aveva neppur mai immaginato che al di là di quelle creste
frastagliate degli Apennini, vi fossero degli altri paesi, degli altri
uomini, e delle altre passioni.

Del resto siccome la sapienza non è uno dei requisiti indispensabili
alla felicità--anzi parci l'opposto--il giovine barone di B. sentivasi
perfettamente felice col semplice corredo dei suoi distici; e non erano
meno felici con lui i suoi domestici, le sue donne, i suoi limieri, e le
sue dodici livree verdi incaricate di precedere e seguire la sua
carrozza di gala nelle circostanze solenni.

Un solo fatto luttuoso aveva, alcuni mesi prima dell'epoca a cui risale
il nostro racconto, portata la desolazione in una famiglia addetta al
servigio della casa e alterate le tradizioni pacifiche del castello. Una
cameriera del barone, una fanciulla che si sapeva aver tenute tresche
amorose con alcuni dei domestici, era sparita improvvisamente dal
villaggio; tutte le ricerche erane riuscite vane; e benchè pendessero
non pochi sospetti sopra uno dei guardaboschi--giovine d'indole violenta
che erano stato un tempo invaghito, senza esserne corrisposto--questi
sospetti erano poi in realtà così vaghi e così infondati, che il
contegno calmo e sicuro del giovane era stato più che sufficiente a
disperderli.

Questa sparizione misteriosa che pareva involgere in sè l'idea di un
delitto, aveva rattristato profondamente l'onesto barone di B.; ma a
poco a poco egli se n'era dimenticato spensierandosi coll'amore e colla
caccia: la gioja e la tranquillità erano rientrate nel castello; le
livree verdi erano tornate a darsi buon tempo nelle anticamere; e non
erano trascorsi due mesi dall'epoca di questo avvenimento che nè il
barone, nè alcuno de' suoi domestici si ricordava della sparizione della
fanciulla.

Era nel mese di novembre.

Un mattino, il barone di B. si svegliò un po' turbato da un cattivo
sogno, si cacciò fuori del letto, spalancò la finestra, e vedendo che il
cielo era sereno, e che i suoi limieri passeggiavano immalinconiti nel
cortile e raspavano alla porta per uscirne, disse: «Voglio andare a
caccia, io solo; vedo laggiù alcuni stormi di colombi selvatici che si
son dati la posta nel seminato, e spero che ne salderanno il conto colle
penne.» Fatta questa risoluzione finì di abbigliarsi infilzò i suoi
stivali impenetrabili, si buttò il fucile ad armacollo, accomiatò le due
livree verdi che lo solevano accompagnare e uscì circondato da tutti i
suoi limieri, i quali agitando la testa, facevano scoppiettare le loro
larghe orecchie, e gli si cacciavano ad ogni momento tra le gambe
accarezzando colle lunghe code i suoi stivali impenetrabili.

Il barone di B. si avviò direttamente verso il luogo ove aveva veduto
posarsi i colombi selvatici. Era nell'epoca delle seminagioni, e nei
campi arati di fresco non si scorgeva più un arbusto od un filo d'erba.
Le pioggie dell'autunno avevano ammollito il terreno per modo, che egli
affondava nei solchi fino al ginocchio, e si vedeva ad ogni momento in
pericolo di lasciarvi uno stivale. Oltre a ciò i cani, non assuefatti a
quel genere di caccia, rendevano vana tutta la strategia del cacciatore,
e i colombi avevano appostate qua e là le loro sentinelle avvanzate,
precisamente come avrebbe fatto un bravo reggimento della vecchia
guardia imperiale.

Stizzito da questa astuzia, il barone di B. continuò nondimeno a
perseguitarli con maggiore accanimento, quantunque non gli venissero mai
al tiro una sola volta; e sentivasi stanco e sopraffatto dalla sete,
quando vide lì presso in un solco una pianticella rigogliosa di lamponi
carica di frutti maturi.

--Strano! disse il barone, una pianta di lamponi in questo luogo... e
quanti frutti! come sono belli e maturi!

E abbassando la focaja del fucile, lo collocò presso di sè, si sedette;
e spiccando ad una ad una le coccole del lampone, i cui granelli di
porpora parevano come argentati graziosamente di brina, estinse, come
potè meglio, la sete che aveva incominciato a travagliarlo.

Stette così seduto una mezz'ora; in capo alla quale si accorse che
avvenivano in lui dei fenomeni singolari.

Il cielo, l'orizzonte, la campagna non gli parevano più quelli; cioè non
gli pareano essenzialmente mutati, ma non li vedeva più colla stessa
sensazione di un'ora prima; per servirsi d'un modo di dire più comune,
non li vedeva più cogli stessi occhi.

In mezzo a' suoi cani ve n'erano taluni che gli sembrava di non aver mai
veduto, e pure riflettendoci bene, li conosceva; se non che li
osservava e li accarezzava tutti quanti con maggior rispetto che non
fosse solito fare: parevagli in certo modo che non ne fosse egli il
padrone, e dubitandone quasi, si provò a chiamarli: Azor, Fido, Aloff! I
cani chiamati gli si avvicinarono prontamente, dimenando la coda.

--Meno male, disse il barone, i miei cani sembrano essere proprio ancora
i miei cani... Ma è singolare questa sensazione che provo alla testa,
questo peso.... E che cosa sono questi strani desiderî che sento, queste
volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione e di duplicità
che provo in tutti i miei sensi? Sarei io pazzo?... Vediamo, riordiniamo
le nostre idee.... Le nostre idee! Sì perfettamente.... perchè sento che
queste idee non sono tutte mie. Però... è presto detto riordinarle! Non
è possibile, sento nel cervello qualche cosa che si è disorganizzata,
cioè... dirò meglio... che si è organizzato diversamente da prima...
qualche cosa di superfluo, di esuberante; una cosa che vuol farsi posto
nella testa, che non fa male, ma che pure spinge, urta in modo assai
penoso le pareti del cranio.... Parmi di essere un uomo doppio. Un uomo
doppio! Che stranezza! E pure... sì, senza dubbio... capisco in questo
momento come si possa essere un uomo doppio.

Vorrei sapere perchè questi anemoni mezzo fradici per le pioggie, ai
quali non ho mai badato in vita mia, adesso mi sembrano così belli e
così attraenti... Che colori vivaci, che forma semplice e graziosa!
Facciamone un mazzolino.

E il barone allungando la mano senza alzarsi, ne colse tre o quattro
che, cosa singolare! si pose in seno come le femmine. Ma nel ritrarre la
mano a sè, provò una sensazione ancora più strana; voleva ritrarre la
mano, e nel tempo stesso voleva allungarla di nuovo; il braccio mosso
come da due volontà opposte ma ugualmente potenti, rimase in quella
posizione quasi paralizzato.

--Mio Dio! disse il barone; e facendo uno sforzo violento uscì da quello
stato di rigidità, e subito osservò attentamente la sua mano come a
guardare se qualche cosa vi fosse rotto o guastato.

Per la prima volta egli osservò allora che le sue mani erano brevi e ben
fatte, che le dita erano piene e fusolate, che le unghie descrivevano un
elissi perfetto; e l'osservò con una compiacenza insolita; si guardò i
piedi e vedendoli piccoli e sottili, non ostante la forma un po' rozza
de' suoi stivali impenetrabili, ne provò piacere e sorrise.

In quel momento uno stormo di colombi si innalzò da un campo vicino, e
venne a passargli d'innanzi al tiro. Il barone fa sollecito a curvarsi,
ad afferrare il suo fucile, ad inarcarne il cane, ma... cosa prodigiosa!
in quell'istante si accorse che aveva paura del suo fucile, che il
fragore dello sparo lo avrebbe atterrito; ristette e si lasciò cader
l'arma di mano, mentre una voce interna gli diceva: che begli uccelli!
che belle penne che hanno nelle ali!... mi pare che sieno colombi
selvatici...

--Per l'inferno! esclamò il barone portandosi le mani alla testa, io non
comprendo più nulla di me stesso... sono ancora io, o non sono più io? o
sono io ed un altro ad un tempo? Quando mai io ho avuto paura di sparare
il mio fucile? quando mai ho sentito tanta pietà per questi maledetti
colombi che mi devastano i seminati? I seminati! Ma... veramente parmi
che non sieno più miei questi seminati... Basta, basta, torniamo al
castello, sarà forse effetto di una febbre che mi passerà buttandomi a
letto.

E fece atto di alzarsi. Ma in quello istante un'altra volontà che pareva
esistere in lui lo sforzò a rimanere nella posizione di prima, quasi
avesse voluto dirgli: no, stiamo ancora un poco seduti.

Il barone sentì che annuiva di buon grado a questa volontà, poichè
dallo svolto della via che fiancheggiava il campo era comparsa una
brigata di giovani lavoratori che tornavano al villaggio. Egli li guardò
con un certo senso di interesse e di desiderio di cui non sapeva darsi
ragione; vide che ve ne erano alcuni assai belli; e quando essi gli
passarono d'innanzi salutandolo, rispose al loro saluto chinando il capo
con molto imbarazzo, e si accorse che aveva arrossito come una
fanciulla. Allora sentì che non aveva più alcuna difficoltà ad alzarsi,
e si alzò. Quando fu in piedi gli parve di essere più leggiero dello
usato: le sue gambe parevano ora ingranchite, ora più sciolte; le sue
movenze erano più aggraziate del solito, quantunque fossero poi in
realtà le stesse movenze di prima, e gli paresse di camminare, di
gestire, di dimenarsi, come aveva fatto sempre per lo innanzi.

Fece atto di recarsi il fucile ad armacollo, ma ne provò lo stesso
spavento di prima, e gli convenne adattarselo al braccio, e tenerlo un
poco discosto dalla persona, come avrebbe fatto un fanciullo timoroso.

Essendo arrivato ad un punto in cui la via si biforcava, si trovò
incerto per quale delle due strade avrebbe voluto avviarsi al castello.
Tutte e due vi conducevano del paro, ma egli era solito percorrerne
sempre una sola: ora avrebbe voluto passare per una, e ad un tempo
voleva passare anche per l'altra: tentò di muoversi, ma riprovò lo
stesso fenomeno che aveva provato pocanzi: le due volontà che parevano
dominarlo, agendo su di lui colla stessa forza, si paralizzarono
reciprocamente, resero nulla la loro azione: egli restò immobile sulla
via come impietrato, come colpito da catalessi. Dopo qualche momento si
accorse che quello stato di rigidità era cessato, che la sua titubanza
era svanita, e svoltò per quella delle due strade che era solito
percorrere.

Non aveva fatto un centinaio di passi che s'abbattè nella
moglie del magistrato la quale lo salutò cortesemente.

--Da quando in qua, disse il barone di B. io sono solito a ricevere i
saluti della moglie del magistrato? Poi si ricordò che egli era il
barone di B., che egli era in intima conoscenza colla signora, e si
meravigliò di essersi rivolta questa domanda.

Poco più innanzi si incontrò in una vecchia che andava razzolando alcuni
manipoli di rami secchi lungo la siepe.

--Buon dì, Catterina, le disse egli abbracciandola, e baciandola sulle
guancie; come state? avete poi ricevuto notizie di vostro suocero?

--Oh! Eccellenza.... quanta degnazione... esclamò la vecchia, quasi
spaventata dalla insolita famigliarità del barone, le dirò...

Ma il barone l'interruppe dicendole: Per carità, guardatemi bene,
ditemi: sono ancora io? sono ancora il barone di B.?

--Oh, signore!... diss'ella.

Egli non stette ad attendere altra risposta, e proseguì la sua strada,
cacciandosi le mani nei capelli, e esclamando: io sono impazzito, io
sono impazzito.

Gli avveniva spesso lungo la via di arrestarsi a contemplare oggetti o
persone che non avevano mai destato in lui il minimo interesse, e
vedeali sotto un aspetto affatto diverso di prima. Le belle contadine
che stavano sarchiando nei campi coll'abito rimboccato fin sopra il
ginocchio, non avevano più per lui alcuna attrattiva, e le parevano
rozze, sciatte e sguaiate. Gettando a caso uno sguardo su' suoi limieri
che lo precedevano col muso basso e colla coda penzoloni, disse: «Tò!
Visir che non aveva che due mesi adesso sembra averne otto suonati, e
s'è cacciato anche lui nella compagnia dei cani scelti.»

Mancavangli pochi passi per arrivare al castello, quando incontrò alcuni
de' suoi domestici che passeggiavano ciarlando lungo la via, e, cosa
singolare! li vedeva doppi; provava lo stesso fenomeno ottico che si
ottiene convergendo tutte e due le pupille verso un centro solo, per
modo d'incrociarne la visuale; se non che egli comprendeva che le causa
di questo fenomeno erano affatto diverse da quelle; poichè vedeali bensì
doppi, ma non si rassomigliavano totalmente nella loro duplicità;
vedeali come se vi fossero in lui due persone che guardassero per gli
stessi occhi.

E questa strana duplicità incominciò da quel momento ad estendersi su
tutti i suoi sensi; vedeva doppio, sentiva doppio, toccava doppio;
e,--cosa ancora più sorprendente!--pensava doppio. Cioè, una stessa
sensazione destava in lui due idee, e queste due idee venivano svolte da
due forze diverse di raziocinio, e giudicate da due diverse coscienze.
Parevagli in una parola che vi fossero due vite nella sua vita, ma due
vite opposte, segregate, di natura diversa; due vite che non potevano
fondersi, e che lottavano per contendersi il predominio de' suoi
sensi--d'onde la duplicità delle sue sensazioni.

Fu per ciò che egli vedendo i suoi domestici, conobbe bensì che erano i
suoi domestici; ma cedendo ad un impulso più forte, non potè a meno di
avvicinarsi ad uno di essi, di abbracciarlo con trasporto e di dirgli:
oh! caro Francesco, godo di rivedervi; come state? come sta il nostro
barone?--e sapeva benissimo di essere egli il barone--ditegli che mi
rivedrà fra poco al castello.

I domestici si allontanarono sorpresi; e quello tra loro che erane stato
abbracciato, diceva tra sè stesso: io mi spezzerei la testa per sapere
se è, o se non è veramente il barone che mi ha parlato. Io ho già inteso
altre volte quelle parole... non so... ma quella espressione...
quell'aspetto... quell'abbraccio... certo, non è la prima volta che io
fui abbracciato in quel modo. E pure... il mio degno padrone non mi ha
mai onorato di tanta famigliarità.

Pochi passi più innanzi, il barone di B. vide un pergolato che
s'appoggiava ad un angolo del recinto d'un giardino, per modo che quando
era coperto di foglie doveva essere affatto inaccessibile agli occhi dei
curiosi. Egli non potè resistere al desiderio di entrarvi, quantunque vi
fosse in lui un'altra volontà che l'incitava ad affrettarsi verso il
castello. Cedette al primo impulso, e appena sedutosi sotto la pergola,
sentì compiersi in sè stesso un fenomeno psicologico ancora più
curioso.

Una nuova coscienza si formò in lui: tutta la tela di un passato mai
conosciuto si distese d'innanzi a suoi occhi: delle memorie pure e soavi
di cui egli non poteva aver fecondata la sua vita vennero a turbare
dolcemente la sua anima. Erano memorie di un primo amore, di una prima
colpa; ma di un amore più gentile e più elevato che egli non avesse
sentito, di una colpa più dolce e più generosa che egli non avesse
commesso. La sua mente spaziava in un mondo di affetti ignorato,
percorreva regioni mai viste, evocava dolcezze mai conosciute.

Nondimeno tutto questo assieme di rimembranze, questa nuova esistenza
che era venuta ad aggiungersi a lui, non turbava, non confondeva le
memorie speciali della sua vita. Una linea impercettibile separava le
due coscienze.

Il barone di B. passò alcuni momenti nel pergolato, dopo di che sentì
desiderio di affrettarsi verso il villaggio. E allora le due volontà
agendo su di esso collo stesso accordo, egli ne subì un impulso così
potente che non potè conservare il suo passo abituale, e fu costretto a
darsi ad una corsa precipitosa.

Queste due volontà incominciarono da quell'istante a dominarsi e a
dominarlo con pari forza. Se agivano d'accordo, i movimenti della sua
persona erano precipitati, convulsi, violenti; se una taceva, erano
regolari; se erano contrarie, i movimenti venivano impediti, e davano
luogo ad una paralisi che si protraeva fino a che la più potente di essa
avesse predominato.

Mentre egli correva così verso il castello, uno de' suoi domestici lo
vide, e temendo di qualche sventura, lo chiamò per nome. Il barone volle
arrestarsi, ma non gli fu possibile; rallentò il passo e si fermò bensì
per qualche istante, ma ne seguì una convulsione, un saltellare, un
avvanzarsi e un retrocedere a sbalzi per modo che sembrava invasato, e
gli fu gioco forza continuare la sua corsa verso il villaggio.

Il villaggio non pareagli più quello, parevagli che ne fosse stato
assente da molti mesi: vide che il campanile della parocchia era stato
riattato di fresco, e quantunque lo sapesse, gli sembrava tuttavia di
non saperlo.

Lungo la strada si abbattè in molte persone che sorprese di quel suo
correre, lo guardavano con atti di meraviglia. Egli faceva a tutte di
cappello, benchè comprendesse che nol doveva; e quelle rispondevangli
togliendosi i loro berretti, e meravigliando di tanta cortesia. Ma ciò
che sembrava ancora più singolare era che tutte quelle persone
consideravano quasi come naturale quel suo correre, quel suo salutare; e
pareva loro di aver travisto, intuito, compreso qualche cosa in que'
suoi atti, e non sapevano che cosa fosse. Ne erano però impaurite e
pensierose.

Giunto al castello si arrestò; entrò nelle anticamere; baciò ad una ad
una le sue cameriere; strinse la mano alle sue livree verdi, e si buttò
al collo di una di esse che accarezzò con molta tenerezza, e a cui disse
parole colme di passione e di affetto.

A quella vista le cameriere e le livree verdi fuggirono, e corsero
urlando a rinchiudersi nelle loro stanze.

Allora il barone di B. salì agli altri piani, visitò tutte le sale del
castello, e essendo giunto alla sua alcova, si buttò sul letto, e disse:
«Io vengo a dormire con lei, signor barone.» In quell'intervallo di
riposo, le sue idee si riordinarono, egli si ricordò di tutto ciò che
gli era avvenuto durante quelle due ore, e se ne sentì atterrito; ma non
fu che un lampo--egli ricadde ben presto nel dominio di quella volontà
che lo dirigeva a sua posta.

Tornò a ripetersi le parole che aveva dette poc'anzi; «Io vengo a
dormire con lei, signor barone.» E delle nuove memorie si suscitarono
nella sua anima; erano memorie doppie, cioè le rimembranze delle
impressioni che uno stesso fatto lascia in due spiriti diversi, ed egli
accoglieva in sè tutte e due queste impressioni. Tali rimembranze però
non erano simili a quelle che aveva già evocato sotto la pergola; quelle
erano semplici, queste complesse; quelle lasciavano vuota, neutrale,
giudice una parte dell'anima; queste l'occupavano tutta: e siccome erano
rimembranze di amore, egli comprese in quel momento che cosa fosse la
grande unità, l'immensa complessività dell'amore, il quale essendo nelle
leggi inesorabili della vita un sentimento diviso fra due, non può
essere compreso da ciascuno che per metà. Era la fusione piena e
completa di due spiriti, fusione di cui l'amore non è che una
aspirazione, e le dolcezze dell'amore un'ombra, un'eco, un sogno di
quelle dolcezze. Nè potrei esprimere meno confusamente lo stato
singolare in cui egli si trovava.

Passò così circa un'ora, scorsa la quale si accorse che quella voluttà
andava scemando, e che le due vite che parevano animarlo si separavano.
Discese dal letto, si passò le mani sul viso come per cacciarne qualche
cosa di leggiero... un velo, un'ombra, una piuma; e sentì che il tatto
non era più quello; gli parve che i suoi lineamenti si fossero mutati, e
provò la stessa sensazione come se avesse accarezzato il viso di un
altro.

V'era lì presso uno specchio e corse a contemplarvisi. Strana cosa! Non
era più egli; o almeno vi vedeva riflessa bensì la sua immagine, ma
vedeala come fosse l'immagine di un altro, vedeva due immagini in una.
Sotto l'epidermide diafana della sua persona, traspariva una seconda
immagine a profili vaporosi, instabili, conosciuti. E ciò gli pareva
naturalissimo, perchè egli sapeva che nella sua unità vi erano due
persone, che era uno, ma che era anche due ad un tempo.

Allontanando lo sguardo dal cristallo, vide sulla parete opposta un suo
vecchio ritratto di grandezza naturale, e disse: «Ah! questo è il signor
barone di B... Come è invecchiato!»--E tornò a contemplarsi nello
specchio.

La vista di quella tela gli fece allora ricordare che vi era nel
corridojo del castello un'immagine simile a quella che aveva veduto
poc'anzi trasparire dalla sua persona nello specchio, e si sentì
dominato da una smania invincibile di rivederla. Si affrettò verso il
corridojo.

Alcune delle sue cameriere che vi passavano in quell'istante furono
prese da uno sgomento ancora più profondo di prima, e corsero fuggendo a
chiamare le livree verdi che stavano assembrate nell'anticamera,
concertandosi sul da farsi.

Intanto nel cortile del castello si era radunato buon numero di curiosi:
la notizia delle follie commesse dal barone si era divulgata in un
attimo nel villaggio, e vi aveva fatto accorrere il medico, il
magistrato ed altre persone autorevoli del paese.

Fu deciso di entrare nel corridojo. Il disgraziato barone fu trovato in
piedi d'innanzi ad un ritratto di fanciulla--quella stessa che era
sparita mesi addietro dal castello--in uno stato di eccitamento nervoso
impossibile a definirsi. Egli sembrava in preda ad un assalto violento
di epilessia; tutta la sua vitalità pareva concentrarsi in quella tela;
pareva che vi fosse in lui qualche cosa che volesse sprigionarsi dal suo
corpo, che volesse uscirne per entrare nell'immagine di quel quadro.
Egli la fissava con inquietudine, e spiccava salti prodigiosi verso di
lei, come ne fosse attratto da una forza irresistibile.

Ma il prodigio più meraviglioso era che i suoi lineamenti parevano
trasformarsi, quanto più egli affissava quella tela, ed acquistare
un'altra espressione. Ciascuna persona riconosceva bensì in lui il
barone di B., ma vi vedeva ad un tempo una strana somiglianza
coll'immagine riprodotta nel quadro. La folla accorsa nel corridojo si
era arrestata compresa da un panico indescrivibile. Che cosa vedevano
essi? Non lo sapevano: sentivano di trovarsi d'innanzi a qualche cosa di
soprannaturale.

Nessuno osava avvicinarsi,--nessuno si moveva;--uno spavento
insuperabile si era impadronito di ciascuno di essi: un brivido di
terrore scorreva per tutte le loro fibre...

Il barone continuava intanto ad avventarsi verso il quadro; la sua
esaltazione cresceva, i suoi profili si modificavano sempre più, il suo
volto riproduceva sempre più, esattamente l'immagine della fanciulla...
e già alcune persone parevano voler prorompere in un grido di terrore,
quantunque uno spavento misterioso li avesse resi muti od immobili,
allorchè una voce si sollevò improvvisamente dalla folla che gridava:
«Clara! Clara!»

Quel grido ruppe l'incantesimo. «Sì, Clara! Clara!» ripeterono unanimi
le persone radunate nel corridojo, precipitandosi l'una sull'altra verso
le porte, sopraffatte da un terrore ancora più grande, e quel nome era
il nome della fanciulla sparita dal castello, la cui immagine era stata
riprodotta dalla tela.

Ma a quella voce, il barone di B. si spiccò dal quadro, e si slanciò in
mezzo alla folla gridando: «Il mio assassino, il mio assassino!» La
folla si sparpagliò, e si divise. Un uomo era in terra svenuto--quello
stesso che aveva gridato--il giovane guardaboschi su cui pendevano
sospetti per la sparizione misteriosa di Clara.

Il barone di B. fu trattenuto a forza dalle sue livree verdi. Il
guardaboschi rinvenuto domandò del magistrato, cui confessò
spontaneamente di aver uccisa la fanciulla in un eccesso di gelosia, e
di averla sotterrata in un campo, precisamente in quel luogo dove, poche
ore innanzi, aveva veduto lo sfortunato barone sedersi e mangiare le
coccole del lampone.

Fu data subito al barone di B. una forte dose di emetico che gli fece
rimettere i frutti non digeriti, e lo liberò dallo spirito della
fanciulla.

Il cadavere di essa, dal cui seno partivano le radici del lampone, fu
dissotterrato e ricevette sepoltura cristiana nel cimitero.

Il guardaboschi, tradotto in giudizio, ebbe condanna a dodici anni di
lavori forzati.

Nel 1865 io lo conobbi nello stabilimento carcerario di Cosenza che mi
era recato a visitare. Mancavangli allora due anni a compiere la sua
pena; e fu da lui stesso che intesi questo racconto meraviglioso.



PENSIERI



L'AMORE.


L'amore è Dio, Dio è l'universo, e l'universo è amore.

       *       *       *       *       *

I giovani che non si sono trovati per gran tempo al contatto della
società, a cui lo studio e il ritiro hanno conservato qualche cosa di
vergine nella loro natura, concepiscono raramente degli affetti
colpevoli. Il loro primo amore è sempre un amore purissimo, talora tutto
ideale, sdegnoso di un pensiero che lo contamini, e spinto al
puritanismo più rigoroso; oltre a ciò l'amore non sembra proprio che
dell'età dell'innocenza--epoca in cui si ama tutto e non si odia
nulla--e coloro che non amarono in quell'età, amarono difficilmente nel
resto della vita. Vediamo non meno come gli stessi uomini corrotti non
si astengano mai dal rendere un omaggio all'amor puro e costante, e
tutta l'umanità operi, e parli, e scriva di esso o per esso dacchè è
sulla terra, e lo consideri come la religione più nobile e più sublime
dell'anima umana; Da tutto ciò par poter dedurre una cosa, la natura
celeste di questo sentimento.

       *       *       *       *       *

La maggiore efficacia dell'abitudine apparisce nella durabilità degli
affetti. L'amore può sorgere da cause svariatissime, non di rado
potenti, ma la sua forza non l'attinge mai che dall'abitudine. È dessa
che rafforza i vincoli della famiglia, che accomuna e armonizza
caratteri opposti, che conserva alle nostre affezioni, anche cessate,
quel non so che di esigente, di doveroso, di inesorabile, a cui ci
sottoponiamo senza resistere, ma di cui non sappiamo darci ragione.
Molte creature si amarono per tutta la vita, pel solo motivo che ebbero
la forza di amarsi da principio per un pajo di mesi: e sentiamo tuttodì
esclamare: come abbandonarci? è impossibile, è tanto tempo che ci
amiamo!..

       *       *       *       *       *

Si suol dire che l'amore non mira che al possedimento e che con esso
finisce, e non si distingue tra la passione e l'amore. È la passione che
si uccide col possedimento, ma l'amore incomincia con esso e perdura.
L'una cosa è dei sensi, l'altra dell'anima. Si dovrebbe dire degli
amanti: si piacciono--dei coniugi: si amano.

       *       *       *       *       *

Questo amore che si rafforza col progredire della vita, e sembra tanto
più ingigantire quanto più si distacca da essa, ci fa fede della sua
continuazione al di là della morte. Il dolore che accompagna il morire,
il rimpianto che lo segue, il desiderio che lasciamo di noi morendo
sembrano dirci che una sola cosa portiamo con noi dalla terra, l'amore.


LA DONNA.

La donna è un capolavoro abortito, il grande errore della creazione.

       *       *       *       *       *

Le donne non hanno un carattere proprio finchè non amano; non hanno che
un istinto provvidenziale di piegarsi, d'informarsi a quello dell'uomo.
Per ciò esse sono quasi sempre quali gli uomini le fanno.

       *       *       *       *       *

Ciò che gli uomini amano ed ammirano sopratutto nella donna, senza
saperlo, è la loro fatuità.

       *       *       *       *       *

La bontà nella donna è debolezza, nell'uomo carattere; però più
frequente in quella che in questo.

       *       *       *       *       *

L'uomo può portare nei suoi affetti, nei suoi doveri, nelle sue azioni,
molte forze che la natura non ha dato alla donna. Il difetto essenziale
della donna è l'incompletazione, dell'uomo l'esuberanza.

       *       *       *       *       *

Il legame più potente che ci unisce alla donna è quello della maternità.

       *       *       *       *       *

Quasi tutti i grandi uomini non hanno sentito potentemente nè gli
affetti, nè i vincoli della famiglia, perchè la loro mente e il loro
cuore avevano di mira tutta quanta l'umanità. Cristo rispondeva a sua
madre: «donna, che v'ha di comune tra me e te?»

       *       *       *       *       *

Le donne non annettono teoricamente alla loro virtù un atomo di quella
importanza che vi annettono gli uomini semplici e coscienziosi. Esse
conoscono meglio di noi il valore di ciò che danno. È difficile che un
uomo onesto possa essere tanto ammirato e desiderato da esse come un
libertino.

       *       *       *       *       *

La nostra società ha fatto della donna un puro strumento di piacere.
Ogni donna non è considerata oggi mai che sotto questo punto di vista.
Esse stesse mostrano di non considerarsi sotto un aspetto diverso. Non
si pretende da esse nè ingegno, nè virtù, nè amicizia, non si chiede che
dell'amore e del piacere. Apprezzamento triste e degradante che esse
tuttavia non temono, o non comprendono.

       *       *       *       *       *

Tutti i mali della società dipendono da ciò, che si amano le donne o
troppo o troppo poco.

       *       *       *       *       *

In molta parte delle donne la resistenza è vanità, o mancanza
d'opportunità, o artificio; prova evidente di ciò, che cedono quasi
sempre alla sorpresa.

       *       *       *       *       *

L'ingenuità nella donna è più pericolosa della malizia.

       *       *       *       *       *

Non vi è uomo sì abbietto, che non vi possa esser donna più abbietta di
lui; non vi è uomo sì nobile, che non vi possa esser donna più nobile.

       *       *       *       *       *

A che scopo dolerci delle donne? Noi possiamo mostrare loro di
conoscerle, di saperle apprezzare nel loro valore, di tenerle anche in
ispregio; esse sono tuttavia ben certe che noi le ameremo sempre.

       *       *       *       *       *

Nelle religioni di tutti i paesi, nelle tradizioni di tutti i popoli la
prima notizia che si ha della donna accenna ad una seduzione. Le
tradizioni bibliche sono in ciò piene di molta sapienza. La prima donna
si fa sedurre, la prima volta, dal più vile degli animali, da un
rettile.

       *       *       *       *       *

L'essenza di tutti i libri, di tutte le tradizioni, di tutte le storie,
si riduce a questo: una moglie che inganna il marito, un marito che
inganna la moglie, o una moglie e un marito che si ingannano a vicenda.

       *       *       *       *       *

Gli uomini portano una maschera--le donne due.

       *       *       *       *       *

Le donne hanno interesse a mostrarsi incapaci di sentire l'amicizia;
mettono gli uomini nella necessità di non chieder loro che dell'amore.


FELICITÀ E DOLORE.

Gli uomini non ripongono mai la loro felicità in ciò che sono, ma in ciò
che sperano di divenire; e non so se sia per questa illusione che essi
non possono mai raggiungere la felicità, o se, appunto perchè sanno di
non poterla mai raggiungere, la ripongono volentieri in questa
illusione.

       *       *       *       *       *

Per quanto ci è dato argomentare dalla festività e dalla quiete
apparente di tutti gli animali, il dolore morale sembra retaggio
esclusivo dell'uomo. E suo retaggio esclusivo sono quindi il riso ed il
pianto; d'onde parci poter dedurre che il sorriso non sia meno delle
lacrime un'espressione del dolore.

       *       *       *       *       *

Vi è sempre nel fondo del cuore una segreta malinconia che ci sforza a
piangere. Se gioja v'è, o apparisce, è la socievolezza che la produce
come la scintilla l'attrito, ma è una gioja fugace com'essa:--ogni uomo
che è solo e triste. Non bisogna osservar l'uomo nella società, dove la
società stessa e l'orgoglio nostro impongono la dissimulazione, dove
dalla dimenticanza altrui si è tratti a dimenticare sè medesimi, ma è
duopo osservarlo quando egli è solo, quando pensa, opera, parla, medita,
cammina, e si agita come un essere che soffre, e che espia. Io non so se
la infermità della mia natura che mi ha tolto sì per tempo ogni gioja,
mi tragga ora in inganno, ma io non conobbi mai cosa più triste del
sorriso umano, e l'allegria degli uomini fu sempre tal vista che mi
strinse il cuore di pietà e m'indusse talora alle lagrime. Il dolore mi
parve sempre più vero, più naturale, e aggiungerei quasi, più sereno.

       *       *       *       *       *

Una prova che gli uomini ripongono l'importanza della loro felicità,
delle loro piccole soddisfazioni, e perfino le esigenze del loro
orgoglio e del loro amor proprio, in un grado più o meno favorevole di
comparazione colla felicità e colle esigenze dell'orgoglio degli altri,
è questa: che le calamità pubbliche non sono mai sì gravi a sopportarsi
come le calamità private, e che le offese collettive sono tenute in
nessun conto o lievissimo, le personali acerbamente vendicate o con
molta umiliazione sofferte.

       *       *       *       *       *

Gli uomini giocano colla loro felicità come i fanciulli, perduta la
rimpiangono come uomini.

       *       *       *       *       *

L'idea della felicità negli uomini non può esser derivata che dalla
memoria d'un bene trascorso o dal presentimento di un bene avvenire--in
una vita antecedente o in una vita futura--giacchè non vi è nulla
quaggiù d'onde essi abbiano potuto attingere questo concetto.

       *       *       *       *       *

Pochi e grandi dolori fanno l'uomo grande, piccoli e frequenti
l'impiccioliscono; un fiotto lava la pietra, una serie di goccie la
trapassa.

       *       *       *       *       *

Allora si ha incominciato realmente a soffrire, quando si ha imparato a
tacere il proprio dolore.


LA VITA.

Secondo l'ordine naturale delle cose nessuno muore ad un tratto, ma la
natura (ove non le sia fatta violenza) ci distacca essa medesima dalla
vita come un frutto maturo; ed è sì valente in questa bisogna che spesso
ce ne infastidisce per modo da farci anelare alla morte come ad una
dolcezza o ad una grazia. In ciò ella raggiunge due scopi: apparecchia
noi a morire, e colle noie e colla pietà che inspiriamo altrui in quello
stato, dispone gli altri a sopravviverci senza dolore.

       *       *       *       *       *

Quella misteriosa espiazione che tutti sentono di subire nella vita,
diventa sempre più attiva e più travagliosa, quanto più la vita stessa
si avvicina al suo termine--o sia che l'espiazione affretti e addolori
di più il termine della vita, o che il volgersi più rapido della vita al
suo fine rincrudisca esso stesso la espiazione.

       *       *       *       *       *

Se ciascuno guardasse con imparzialità agli avvenimenti della propria
vita, e ne indagasse e ne ricordasse le cause, e a quelle sapesse poi
riferire con giustizia le conseguenze che ne derivarono o presto o tardi
nel tempo, vedrebbe che tutto era successo pel suo meglio, e che ogni
cosa era ordinata ad un fine da una volontà altamente provveditrice e
benefica. Ogni uomo osservatore ha potuto riconoscere da sè questa
verità nel corso della sua esistenza.--È cosa assurda il supporre che
mentre tutto succede per leggi fisse e immutabili, la sola vita
dell'uomo proceda a caso, quasi non avesse di sè e delle sue opere un
fine. Bensì il caso non sussiste in natura; e per quelle opere che
dipendono dalla sua volontà, e per la applicazione di quelle che non ne
dipendono, ogni uomo è mastro della propria fortuna.

       *       *       *       *       *

Le rivoluzioni più notevoli della vita avvengono verso la sua metà, come
in quell'epoca in cui ella cessa di posarsi in un presente durevole, e
distaccandosi dal passato, si libra un istante sulla sommità della sua
curva, e si precipita verso l'avvenire. Allora l'ordine dell'esistenza è
invertito; tutto ciò che era salito discende, tutto ciò che soleva
imporsi subisce, tutto ciò che soleva subire s'impone; l'azione e la
passività si scambiano; vi è un mondo che si distacca da noi e un mondo
che ci si avvicina, e se fino allora si era stati amati e protetti,
d'allora innanzi bisogna amare e proteggere. Quale di queste due metà
della vita sia più dolce e serena, o meno faticosa non so: in una le
dolcezze del piacere e quella vaghezza di spensierirsi che è propria
della giovinezza, nell'altra le gioie più nobili del sacrificio e
dell'abnegazione--l'una e l'altra accettabili forse, e forse meglio
quest'ultima. Ma sciagurati coloro che, avanti che la natura lo
esigesse, giovani ancora o fanciulli, sono stati gettati dall'isolamento
o dall'abbandono nella seconda metà della vita, senza aver gustato
dell'altra quelle dolcezze che sole possono confortarci di questa.

       *       *       *       *       *

Tutto il meraviglioso dei sogni consiste in quell'ignoranza della
verità, e in quell'impotenza di criterio che ha luogo per ciascuno in
quello stato. Lo stesso può dirsi di quel dolce sognare dei fanciulli ad
occhi aperti, e di quell'eterno vaneggiare e fantasticare che molti
uomini semplici e immaginosi fanno anche in età più avanzata. Da ciò
parmi poter dedurre che se la verità ed il senso pratico della vita
rendono più leciti e più nobili i nostri piaceri, ne rendono però il
numero più ristretto, e le varietà e le circostanze più castigate; e
talora li inaridiscono per modo che non possiamo trarne altro conforto
che quello di poter dire: sono veri!


LA FEDE.

Non si arriva alla fede che per una sola via, per quella del dolore.

       *       *       *       *       *

I prosperi e i fortunati sono raramente, o male, uomini religiosi. Gli
sventurati soltanto corrono a gettarsi ai piedi degli altari e cercano
nella speranza d'un'esistenza futura un compenso ai mali di questa. Io
mi sono spesso rivolto una domanda angosciosa: È l'agiatezza che rende i
prosperi ingrati alla divinità, o è la sventura che ha creato ai miseri
il bisogno di fabbricarsi questa chimera e di credervi? La fede--poichè
ella è solo degli infelici--non sarebbe che un inganno creato dalla
sventura?

       *       *       *       *       *

Volete raffermarvi per sempre nella fede della divinità e
dell'immortalità dell'anima? Sforzatevi di trovare argomenti per non
credervi. O giusta o fallace è questa la via per cui tutte le
intelligenze ragionatrici sono giunte alla fede.

Che cosa è questa forza che dubita, che interroga, che ragiona dentro di
noi: Dove si va? d'onde si viene? che cosa vi è oltre la morte?
Rivolgetevi queste domande in un cimitero. Le tombe hanno risposte piene
di ribrezzo e di angoscia.


PENSIERI DIVERSI.

Non tutte le ingratitudini che si commettono dagli uomini debbono
imputarsi esclusivamente alla loro volontà. Occorrono molte circostanze
nella vita, in cui la natura o la società ci costringono ad essere
ingrati, e sono assai rari quei casi in cui noi possiamo emettere un
giudizio sincero e coscienzioso sopra un atto d'ingratitudine; poichè è
questa fra tutte le azioni dell'uomo quella che è mossa da cause più
molteplici e più imperscrutabili.

       *       *       *       *       *

Mi avviene talora di trovare una data, un nome o un pensiero, o inciso
su corteccia di albero, o scritto su parete o su margine di libro, come
troverei una croce o una lapide che mi additasse una solitaria
sepoltura, ma con una commozione più dolce e più confortante.

       *       *       *       *       *

La grandezza è solitaria. Si direbbe anzi che la solitudine è condizione
della grandezza. Tutte le intelligenze superiori, tutte le nature
superiori sono isolate--l'aquila vive sola, il leone solo.

       *       *       *       *       *

La prudenza è la maschera dell'astuzia.--O nessuna delle due è virtù, o
entrambe.

       *       *       *       *       *

Comprendere la vanità e il ridicolo delle cose del mondo è somma
sapienza; riderne è somma forza.

       *       *       *       *       *

Strana cosa! Gli uomini piangono spesso del ridicolo.

       *       *       *       *       *

La giustizia di sè è nell'istante, quella degli uomini nel tempo, quella
di Dio nell'eternità.

       *       *       *       *       *

I pensatori e i filosofi di tutte le epoche e di tutti i paesi parlano
dei loro tempi, come di tempi eccezionalmente scellerati. È logico
arguire che gli uomini siano stati scellerati in ogni tempo.

       *       *       *       *       *

Diffidate degli uomini che non hanno passioni.

       *       *       *       *       *

Confessare altrui i proprii difetti è assai meno doloroso che
confessarli a sè stessi.

       *       *       *       *       *

La malignità è cattiveria impotente.

       *       *       *       *       *

Come gli uomini usano nell'età che precede o tocca la giovinezza, ed
anche nell'età adulta, se rozzi, adoprare in ogni cosa la violenza, e
farsi ragione da sè colla forza del braccio, ed ogni loro ambizione e
coscienza di giustizia riporre nella maggiore o minore virtù di quello,
così le nazioni giovani, o tralignate se adulte, costumano di fare; nè
sanno altra cosa ambire che un esercito poderoso, nè d'altro curarsi che
delle arti di guerra, nè in altro modo tutelare le leggi e la libertà
che colla violenza e col sangue. L'una cosa l'infanzia degli uomini
rivela, l'altra l'infanzia delle nazioni. Ma come quelli l'età e gli
ammonimenti correggono, queste le tradizioni correggeranno ed il tempo;
benchè l'esistenza dei primi sia breve e ci sia dato avvertirlo
coll'esperienza, delle altre indefinita, nè possiamo dedurlo che dal
senno nostro e dalle leggi immutabili dell'universale progresso.

       *       *       *       *       *

L'abitudine è una seconda potenza di creazione inerente all'uomo. Negli
animali, e nelle cose che pure la posseggono, è passiva; ma l'uomo solo
la subisce e la dirige ad un tempo. Non vi ha natura sì salda che non
possa venire da essa piegata; molte ve ne sono che ella abbatte,
ricostruisce, trasforma. Onde vien detto che l'abitudine è una seconda
natura; e io penso che in essa sia riposto uno dei mezzi più potenti
della perfettibilità umana; e nella coscienza che abbiamo di lei, e
della sua forza, e della facoltà di governarla, la maggiore
responsabilità delle nostre opere e dei nostri divisamenti.

       *       *       *       *       *

L'egoismo che sembra essere una forza speciale dissolvente, è invece una
forza eminentemente socievole e conciliatrice. Tutti gli uomini sono
egoisti, e non lo sono mai tanto che in ciò in cui sembrano esserlo di
meno, nei loro affetti. Lo stesso amore, che è quella tra le passioni
che li avvicina e li accomuna di più, e quella che apparisce più scevra
di questo interessamento esclusivo di sè medesimi, non è che un egoismo
più esigente e più raffinato. Egli è che le leggi della vita e della
società sono costituite saviamente per modo che nessuno può giovare
all'interesse proprio senza giovare a quello degli altri, e quanto è più
attivo in ciò per sè stesso, altrettanto lo è per altrui--simile a
quelle ruote d'un ordigno, ciascuna delle quali non può muoversi per sè
sola, ma, una volta mossa, è d'uopo che trascini col suo ingranaggio
tutte le altre e ne sia trascinata ad un tempo.

       *       *       *       *       *

L'amore fino alla media età della vita è ascendente, da essa in poi
discende. Si abbandona la famiglia nella quale si era nati, e se ne
forma e se ne ama una nuova; si amavano i genitori, ora si amano i
figli; si prediligono ai vecchi i fanciulli; e si cerca fuori della
sfera delle nostre prime affezioni un elemento d'amore più vergine e più
durevole. È perciò che la vecchiezza si accosta alla gioventù, e questa
alla vecchiezza; e i giovani preferiscono in amore le donne adulte, e
gli adulti amano di preferenza le giovani; e tutte queste forze
dell'amore si completano a vicenda, dando o ricevendo, secondo che vi è
di esuberanza o difetto. Ma ciò che v'è di crudele in questa legge è
quell'abbandono e quell'apatia a cui la natura ha condannato la
vecchiaja. Difficilmente l'amore dei figli perdura fino alla vecchiezza
dei genitori, e avviene quasi sempre che questo affievolirsi
dell'affetto, o le esigenze d'interessi materiali, o le cure di una
nuova famiglia li separino in quegli anni sì bisognosi di conforti e di
amore. Triste destino di quell'età infelice della vita che l'egoismo
crescente dell'epoca mostra di peggiorare ogni giorno, e cui la civiltà
(o ciò che noi vogliamo indicare con questa parola) non ha ancora
trovato mezzo di rimediare.



  INDICE


  =Racconti Fantastici=

  I Fatali                            pag.   5
  Le Leggende del Castello Nero        »    63
  La Lettera U                         »    89
  Un Osso di Morto                     »   103
  Uno Spirito in un Lampone            »   115

  =Pensieri=

  L'Amore                             pag. 139
  La Donna                             »   141
  Felicità e Dolore                    »   145
  La Vita                              »   148
  La Fede                              »   151
  Pensieri diversi                     »   152



Nota del Trascrittore

L'ortografia e la punteggiatura originali sono state mantenute. Minimi
errori tipografici sono stati corretti senza annotazione. Sono stati
inoltre corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

  loro la persuasione [persuazione] che il carnevale
  essendogli [esssndogli] stati gettati alcuni confetti,
  sulla via, tanto l'espressione [espessione] del suo volto
  interessante, e la conversazione [conservazione] dopo
  aver fluttuato [fluttato] su tanti argomenti, si era arrestata
  insignificante; noi cerchiamo [crchiamo] nell'uomo un
  d'onde raggiungerò la mia [mìa] famiglia in
  il mio convincimento [convicimento]. Ad ogni modo, ecco
  ne ho attraversate [attravarsate] sette soltanto, e sono
  cani chiamati gli si avvicinarono [avvinarono] prontamente,
  titubanza [tibutanza] era svanita, e svoltò per quella
  si passò le mani sul viso come [como] per cacciarne
  persona nello specchio, e si sentì dominato [domiminato]
  ne fosse attratto da una [un] forza irresistibile.
  Clara! Clara!» ripeterono [ripetereno] unanimi le
  rivela, l'altra l'infanzia [infanza] delle nazioni.
  scevra di questo interessamento [interessamanento] esclusivo





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