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Title: La Francia dal primo impero al 1871 - Volume II
Author: Treitschke, Heinrich von, 1834-1896
Language: Italian
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Images courtesly provided by Alberto Mello.



  ENRICO VON TREITSCHKE


  LA FRANCIA
  DAL PRIMO IMPERO AL 1871

  TRADUZIONE
  DI
  ENRICO RUTA

  VOLUME II


  BARI
  GIUS.LATERZA & FIGLI
  TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

  1917



  PROPRIETÀ LETTERARIA

  OTTOBRE MCMXVI--45237



PARTE QUARTA


LA REPUBBLICA E IL COLPO DI STATO



La repubblica e il colpo di Stato. [Scritto ad Heidelberg nel 1868.]



I.


Nei giorni che Napoleone ritornò da Mosca, il generale Mallet una
mattina evase dal manicomio di Parigi dov'era rinchiuso. Propalò la
favola, che l'imperatore era caduto: da un momento all'altro la macchina
di quel potente impero dispotico si rifiutò di funzionare. Funzionari e
ufficiali s'inchinarono al pazzo, il quale osò dichiarare: «il governo
sono io!». Il prefetto della Senna dispose la sala del consiglio, in cui
si sarebbe adunato il governo provvisorio di Mallet: un ministro fu
tenuto sotto catenacci e serrature; le truppe della guardia aprirono la
prigione ai compagni della cospirazione. Quando l'imperatore venne a
sapere con quale illimitata potenza era venuto fatto a un pazzo di
comandare una mattina sulla capitale a sua posta, esclamò sdegnato: «Un
uomo qui è tutto? I giuramenti, le istituzioni non contano nulla?». Era
passato da allora un lungo tempo, in cui pareva che la vita parlamentare
si sostenesse sulla libera cooperazione del popolo o almeno della
classe dominante. Eppure la sostanza di questo stato era rimasta
dispotica, il governo si teneva in lotte incessanti con l'umore mutevole
della società. Bastava un improvviso momento di debolezza alle
Tuileries, e un ardito colpo di mano compiuto da un piccolo partito
avrebbe potuto rovesciare l'autorità dello stato e imporre una
costituzione aborrita dalla maggioranza del paese. La rivoluzione di
febbraio fu appunto un colpo di mano siffatto, non propriamente
altrettanto insensato, ma appena meno ingiustificato della scesa di
testa del pazzo nel 1812.

Il ministro Rouher sollevò l'indignazione dei partiti liberali, quando
espresse, tuttora sotto la repubblica, la prima e la più famigerata
delle sue alate parole, qualificando la rivoluzione di febbraio come una
catastrofe. Se non c'inganniamo interamente, verrà tempo in cui il
giudizio della storia sonerà di gran lunga più aspro, e designerà la
rivolta di febbraio come una pazzia e un delitto. Chi riconosce
l'inconsistenza della situazione di fatto, e noi non abbiamo punto
palliato gli errori del governo di luglio, non per questo giustifica
coloro, che senza un disegno e senza una meta distruggono le istituzioni
in vigore. Laddove il movimento grandioso del 1789 e la necessaria
difesa della libertà del 1830, altamente giustificati in sé stessi,
riceverono puramente una significazione più elevata dalla potente
ripercussione sul mondo europeo, all'opposto la rivoluzione di febbraio
non ci porge nulla che sia degno di ammirazione. La sua grandezza
consiste solamente nelle conseguenze, da nessuno volute, che produsse in
Francia, e principalmente nell'influenza spiegata in Germania e in
Italia, dove l'idea dell'unità nazionale, maturata in lunghi dolori,
aspettava soltanto il segnale per cimentarsi nella lotta. Senza dubbio
un avvenimento così importante non era un caso; anzi una necessità
profonda si annidava nel duplice fatto, che la borghesia di Francia non
mosse un dito per la difesa del proprio dominio, e che un regime
apparentemente consolidato potè cadere di botto, per un tumulto
improvviso di piazza. Ma in questo guazzabuglio di debolezza che ha
perduto la testa e di passione losca, solamente l'adulazione al popolo
scoprirà un segno di grandezza, la voce della sollevata coscienza
nazionale.

Nella lotta per la riforma della legge elettorale l'opposizione con
imprevidenza puerile si attenne al pericoloso mezzo delle dimostrazioni
popolari. Il partito sovversivo, che per sua propria confessione non
contava tra i seguaci sicuri a Parigi più di tremila affiliati, profittò
dell'occasione per una lotta di barricate: e la lotta pareva cessata,
perché il re aveva ceduto e Guizot si era dimesso. La pace era
conchiusa, quando di botto dalla folla ammassata davanti al ministero
degli esteri partì quel colpo enigmatico, di cui nessuno neppure oggi sa
dire con sicurezza se fu un caso o l'atto precipitato di uno spaurito o
una bricconata demagogica sull'esempio delle bravate consimili nella
guerra della fronda. I soldati di guardia al ministero si credettero
assaliti e risposero al colpo con un fuoco mortale: la folla scoppiò in
un urlo selvaggio di vendetta. Gli operai si sollevarono in cieco
furore. Il re, rovesciato da quel fatale _abattement du troisième jour_
paventato in tutte le rivoluzioni di Parigi, diede inconsideratamente la
partita perduta prima del tempo: il partito vincitore del momento
dichiarò la repubblica. E la repubblica s'insediò in cima a un
ordinamento amministrativo dispotico, che a mala pena era in grado di
comportare un trono parlamentare. Un popolo di raffinata civiltà ricevè
il governo dalle grida di una turba plebea nel palazzo Borbone; e questo
governo improvvisato si dové subito completare coi nomi di una seconda
lista, acclamata nel palazzo di città da un'altra moltitudine di popolo.
La più lussureggiante città del mondo fu obbligata di botto ad
avvezzarsi alla semplicità della vita repubblicana, che in un ambiente
siffatto non poteva riuscire ad altro che ad una caricatura della
monarchia. Una nazione, le cui classi colte quasi alla vecchia maniera
spagnuola vedevano la meta della propria ambizione unicamente nelle
cariche dello stato, gettò questo immenso potere statale nelle mani di
un magistrato mobile. In verità, l'insensatezza dei fantasticatori
politici non ha mai osato una più pazza incongruenza.

Trentacinque milioni di francesi riceverono per telegrafo la notizia,
che il loro stato aveva cambiato regime, e si conformarono senza
resistenza al nuovo ordine. Predominò l'apparenza, che in questo stato
accentrato non sarebbe sorta la questione, decisiva in ogni paese
germanico, del come si sarebbero comportate le provincie davanti al
colpo di mano della capitale. Ma, col fatto, la volontà del paese non
era ancora spenta completamente. Già sotto Luigi Filippo un giornale
liberale aveva sentenziato, che Parigi era tuttora solamente la
cittadella del potere, ma non era più il cuore della Francia. Questa
sentenza adesso si sarebbe avverata per un breve corso di tempo: per la
prima volta dai tempi della Convenzione la provincia mostrò indipendenza
di risoluzione verso la dittatura della capitale.

La borghesia e la popolazione conservatrice delle provincie erano troppo
straniate dall'attività politica, le pubbliche autorità troppo abituate
all'ubbidienza meccanica, perché difendessero risolutamente la
costituzione giurata. Ma, passato il primo sgomento della sorpresa, la
maggioranza della nazione si mise all'opera con efficace costanza e con
l'istinto infallibile della disperazione, per ribattere il regime
improvvisato del febbraio e scotere il giogo dei radicali e degli
operai della capitale. La nazione era priva di qualsiasi attaccamento a
una determinata dinastia, ma era convinta della necessità della
monarchia e tanto più della intangibilità dell'ordinamento vigente del
diritto di proprietà; e manifestò con sicuro tatto questo sentimento
prima con le elezioni reazionarie dell'assemblea nazionale, poi col suo
atteggiamento ostile verso la sommossa di luglio e in fine con
l'elevazione di un pretendente al seggio presidenziale. Tenendoci
strettamente a cotesti dati, noi siamo in grado di prendere la difesa
del popolo contro l'indignazione di parecchi nobili francesi, i quali a
proposito di questa rivolta arrabbiata alzano le spalle e sentenziano,
che il carattere di tale popolo sia siffattamente originale, che si
sorprende sempre di sé stesso.

Chi si proponesse di considerare la rivoluzione di febbraio con l'animo
del satirico, troverebbe nell'orribile guazzabuglio di questa società in
frantumi la materia rispondente. Comunque, la civiltà mite dei nostri
tempi non si smentì nemmeno in quei giorni di vertigine. Non appena la
barbarie della plebaglia si fu sfogata nel saccheggio di alcuni
castelli, principiò un governo umano e decoroso con a capo uomini
personalmente integri. Tale moderazione apparve molto confortante nella
condotta seguita dal nuovo governo rispetto agli Orléans; e con
legittimo orgoglio Lamartine poté dire nell'assemblea nazionale:
«Nessuno può rivolgerci questa domanda: che cosa avete voi fatto della
vita di un cittadino?». Ma se il movimento fin dal principio rifuggì da
un inutile spargimento di sangue, esso però palesò ben poco di
quell'entusiasmo giovanile e idealistico, di quell'ebbrezza di speranza,
che illuminò e infiammò gl'inizi della prima rivoluzione. Migliaia
d'impiegati spergiuri domandarono l'abolizione del giuramento politico,
e la repubblica annuì alla preghiera. Noi non spendiamo una sola parola
sull'imprudenza politica di tale provvedimento: giacché precisamente il
morso della coscienza negli uomini dimentichi del dovere dimostra, che
per la media degli uomini il giuramento pure costituisce un legame di
fedeltà più solido di quello che la frivolezza voglia concedere.
Domandiamo semplicemente: l'anima giovanile di uno schietto movimento di
popolo sarebbe stato capace di una tale manifestazione di cinico
disprezzo umano? E che cosa si era mai raggiunto con la caduta della
monarchia, con la slealtà generale della burocrazia? Solamente una nuova
semplice rivoluzione contro il trono, solo un cambiamento alla cima
dello stato.

Nessun terzo può descrivere l'inutilità di cotesta rivoluzione più
causticamente, che non abbia fatto lo stesso Lamartine con invidiabile
ingenuità. Non appena il governo provvisorio nel palazzo di città si fu
liberato della calca delle turbe plebee, i novelli capi dello stato si
misero a tutt'uomo a fissare le grandi idee politico-sociali, che la
repubblica avrebbe realizzate. I tribuni del popolo si frugarono bene
nel petto per «trovare quei pensieri che sgorgano dal cuore e che sono
la suprema politica, perché sono la suprema natura e la suprema verità».
Giacché l'istinto, come c'insegna Lamartine, è il legislatore supremo;
chi traduce nella scrittura le decisioni dell'istinto scrive sotto
l'alito di Dio! Finalmente i pensatori si alzarono da sedere e con
ardente entusiasmo notificarono alle turbe la seguente «filosofia delle
rivoluzioni»: suffragio universale e abolizione delle leggi di settembre
(cioè due desiderii, che Luigi Filippo in sostanza aveva già accettati
negli ultimi tempi del suo regno); inoltre alcune nuove acquisizioni, e
cioè: fraternità come supremo principio statale, esterminio della
miseria mercé l'amore e, per soprassello, soppressione della schiavitù
dei negri! Giorni dopo, Lamartine aggiunse anche il principio
dell'abolizione della pena di morte; in fine i grandi uomini si diedero
con le lacrime agli occhi «il bacio della vita» e annunziarono il lieto
messaggio al popolo in delirio.

Per tutto questo, dunque, le strade della capitale furono arrossate di
sangue, per questo una scossa terribile fu riserbata alla pace del
mondo! E che cosa sarebbe mai stato della rettitudine e chiarezza
tedesca, se mai noi avessimo potuto ammirare una tale vertigine! Fu
tirato fuori tutto l'armamentario della rettorica rivoluzionaria: fu
chiamato al voto «ognuno che nel suo titolo di 'uomo' porta i diritti
del cittadino»: ogni francese è sovrano e nessuno da ora in poi può dire
a un altro: «tu sei più sovrano di me». In tre giorni i vecchi partiti
invecchiarono di un secolo, e come allora il gran Carnot organizzò la
vittoria della libertà sul dispotismo, adesso il nuovo ministro
dell'istruzione Carnot si mise a organizzare la vittoria della luce
sulla cultura! L'albero della libertà splendeva su ogni piazza; su ogni
chiesa, su ogni edifizio pubblico l'iscrizione: «Libertà, Eguaglianza,
Fraternità!». Il superbo nome di «cittadino» cacciò via di nuovo il
cortigiano «signore»; e il poeta popolare Festeau si diede a magnificare
con iperboli spocchiose il nuovo «Risveglio del popolo»: _le géant
souffle, un trône est emporté!_ Né doveva mancare la sublime semplicità
dei liberi stati del mondo antico: un carro tirato da buoi trascinò la
statua della libertà sotto gli occhi ironici dei parigini _blasés_, e
sui _boulevards_ fu portato su e giù a spasso un grande bossolo di
stato, in cui ogni cittadino poteva versare il suo obolo per la
repubblica.

Nelle vene del radicalismo moderno non scorre una sola goccia di
quell'austerità rigidamente morale, che animò un tempo i pii compagni
della democrazia inglese. Perciò, non appena il rigore delle autorità si
allenta, non si manifesta in nessun luogo la coscienza del dovere
politico, anzi all'opposto si rivela dovunque solo sfrontata cupidità
del proprio interesse sociale. Aveva poca consistenza il magnanimo
entusiasmo suscitato pel momento nel popolo eccitabile, quando a teatro
la Rachel declamava con fervore infiammato la Marsigliese. Neppure un
sol ceto della società, fin giù agl'invalidi e ai sordomuti, si teneva
dal presentare, esigendo e minacciando, i suoi desiderii all'autorità
dello stato. Una legione di cacciatori d'impieghi assediava il governo:
ogni ambizione, che non aveva trovato il suo appagamento sotto il
sistema parlamentare, ora faceva ressa. Osservando la quantità delle
nuove uniformi repubblicane e il nepotismo sfrontato che s'inoculò nella
repubblica sul modello del regno di luglio, ci ricordiamo con terrore di
ciò che un tempo Luigi Filippo aveva predetto: che, cioè, le condizioni
dell'America spagnuola sarebbero state il campione della Francia.
Onnipotenza dello stato e rapido cambiamento dei detentori del potere:
ecco il nocciolo delle nuove aspirazioni del popolo. Nei primi giorni
della rivoluzione il consiglio municipale di Parigi, insediato dietro
elezione, fu subito deposto; e in suo luogo fu nominata una commissione
di cittadini giudicati idonei alla carica pel fervore dei loro
sentimenti repubblicani. Tutti gl'impiegati furono dichiarati senz'altro
dimissibili per ragioni di pubblico bene. E soprattutto l'amovibilità
dei giudici fu tenuta per un gioiello di libertà repubblicana: un
principio, che col fatto ebbe esecuzione e che fu difeso con ardore da
Victor Hugo e i suoi colleghi. Tutto ciò in nome della libertà! A tutti
gli impiegati era dovuto dallo stato lo stipendio, a tutti gl'indigenti
l'assistenza.

Dopo la vittoria gli operai lì per lì confermarono ancora una volta
l'antico principio, che ogni classe sociale, dove proceda come classe,
cade nell'egoismo, nella πλεονεξία. Il parlamento operaio, che
nelle sale del palazzo del Lussemburgo dibattè sotto la presidenza di
Luigi Blanc la soluzione della questione sociale, trattò di tutto e di
ciascuno; ma si rimase d'accordo solo in questo, che gli operai parigini
lavorassero un'ora al giorno meno dei compagni delle provincie, come
pure, che dei 34 candidati di Parigi alla dieta non meno di 20
appartenessero al ceto operaio! Quando gli agricoltori domandarono di
essere ammessi alle deliberazioni, furono loro concessi quattro
rappresentanti su quattrocento lavoratori cittadini. Posto in ansia, il
padre di famiglia delle classi medie ritenne conveniente esprimere la
sua alta considerazione alla nuova potenza della classe operaia. Ognuno,
anche l'artista, il negoziante, l'industriale, si dichiarò operaio, e
perfino il candidato reazionario, che non poteva negare di essere
affetto dal peccato della proprietà fondiaria, si denominò almeno
_propriétaire cultivateur_. Si guardava con occhi sentimentali il
camiciotto di Albert, operaio e membro del governo: il camiciotto era
esposto nella bottega, come indicava il _Moniteur_, e ognuno poteva
persuadersi, che effettivamente la Francia aveva la fortuna di essere
governata da un chiavare in corpo e persona. Sopra questa società, in
cui si era destato tutto l'egoismo dei bassi ceti e ogni forte
sentimento del dovere era spento, era collocato un governo, che si
qualificava da sé eccellentemente attraverso la confessione dello stesso
Lamartine: _la popularité c'est le pouvoir tout entier:_ un governo
soggetto a ogni capriccio del popolo eccitato, senza forse nemmeno un
capo universalmente riconosciuto. Un nuovo tempo era venuto, tutti i
vecchi capiparte erano logori, dovunque s'invocavano uomini nuovi.

Un sintomo di rovina più significativo di questi e inseparabile dai
grandi rivolgimenti, era la menzogna universale di quasi tutti i
partiti. La menzogna costituiva il più esoso tratto caratteristico del
movimento, e un ammonimento per tutti coloro che trattano i gravi
affari della politica come un gioco fantastico. Troppo spesso Cormenin
nei suoi libelli velenosi aveva gridato per scherno alla monarchia di
luglio: «la repubblica è morta davvero! Contro chi promulgate le vostre
leggi di settembre, se non contro i repubblicani?». Troppo spesso la
classe operaia era celebrata anche dalle persone moderate come il vero e
proprio popolo, ed era ripetuta l'intelligentissima massima: «le
repubbliche sembrano guidate immediatamente dalla Provvidenza, perché
non si vede nessuna mano mediata tra il popolo e il suo destino!». Ora
dunque la repubblica ideale era fondata mercé l'esaltazione del quarto
stato divinizzato, e sul momento apparve manifesto, che la celebrata
forma di stato prettamente francese contava nelle classi colte non più
che pochi seguaci seri. Ma gli uni erano legati dalla forza delle loro
proprie frasi, gli altri aderivano alla repubblica per paura.

Il secondo e poco meno penoso tratto caratteristico della nuova società
era la mancanza di riflessione prodotta dalla paura della morte. La
sollecitudine per la sicurezza della borsa e della testa smorzava ogni
altro sentimento. Fin dalla caduta dell'impero la nazione non aveva più
goduto un lungo periodo di pace interna, ed entrava quasi altrettanto
affaticata nella nuova rivoluzione, come si era trovata al termine della
prima. Sentiva quanto poca forza morale le era rimasta per opporre
resistenza all'anarchia; sapeva per una tremenda esperienza ciò che
significava il dominio del quarto stato; e imparava ora, che nel tessuto
artificiale della moderna economia fondata sul danaro e sul credito ogni
perturbazione sociale si presenta impareggiabilmente più devastatrice
che non nelle semplici relazioni di scambio del secolo decimottavo. La
paura era la grande schiava del tempo; e rimane a spettacolo memorabile
e profondamente vergognoso il vedere fino a qual segno questa, che era
la più generale delle passioni, amareggiasse e abbrutisse le classi
possidenti. Uno dei più famosi masticaspavento, Dupin, confessa egli
medesimo, che in quel tempo parve diventata letteralmente una verità
l'ardita immagine miltoniana della tenebra visibile. La signora di
Girardin chiuse i suoi intellettuali articoli di appendice, scritti
durante il tempo della pace sotto il nome di Visconte de Launay, con una
dipintura acre, ma purtroppo veritiera, dell'abbrutimento contemporaneo.
La Francia, esclamò, si spezza in due eserciti col duplice grido di
guerra: _guillotinez! fusillez!_ Gli uni vogliono il saccheggio, gli
altri la difesa dai saccheggiatori con tutti i mezzi del potere.

Il contrasto degl'interessi tra il terzo e il quarto stato, che dopo i
giorni di luglio era apparso appena leggermente e confusamente, nel
febbraio scoppiò subito violento, e sentito con lucidità di coscienza.
Gli operai si erano battuti per le strade; la borghesia, che durante la
battaglia si era tenuta in disparte, fece presto a riacquistare il senso
delle cose e a capire che nella sanguinosa lotta di classe le toccava
lottare a che fossero strappati al quarto stato i frutti della vittoria.
Perciò anche i vecchi repubblicani del medio ceto, come Arago e Marie,
principiarono di botto a perdere le staffe del loro ideale. Perciò
perfino il misuratissimo Tocqueville parlò con passionata violenza dei
repubblicani borghesi, del maledetto color di rosa in politica; perché
questo pugno di ben pensanti fantasticatori aveva ingenuamente
improvvisato una forma di stato, che non poteva derivare la forza di
vivere altronde che dal dominio del quarto stato. Ma nessun popolo
colto, e tanto meno l'accentrata Francia, può stare senza governo,
nemmeno per un istante. La repubblica esisteva di fatto, teneva
frattanto in suo potere la macchina burocratica, offriva la sola
garanzia possibile per la sicurezza della borsa. Perciò avvenne, che gli
stessi borghesi che nel loro intimo esecravano la repubblica e i suoi
fondatori, si dichiararono unanimemente pel nuovo governo. Gli stessi
nomignoli di partito, «repubblicano di oggi» e «repubblicano di ieri»,
tradiscono la corruttela morale di questa società frustata dalla paura.
Come profondamente era discesa la intellettuale nazione, se applaudiva
le frasi vuote di Lamartine, perché il poeta metteva avanti la faccenda
dell'«ordine»! Lo stesso maligno cospiratore Caussidière fu ammirato dai
borghesi riconoscenti. Costui aveva costituito una guardia di polizia
con gli eroi delle barricate, e questi baldi compagni «creavano l'ordine
col disordine».

Nessuno meglio del partito vincitore conosceva il valore di cotesti
omaggi ai poteri del momento. Perciò annunziò il principio: «la
repubblica è al di sopra del suffragio universale»; contestò al popolo e
alla rappresentanza popolare il diritto di ristabilire la monarchia, e
volle il differimento delle elezioni fino a quando il popolo fosse
istruito. Ledru-Rollin comandò ai prefetti di prendere tutti i
provvedimenti che assicurassero alla repubblica la cooperazione del
popolo! Conseguentemente volle subito mandare nelle provincie commissari
con poteri illimitati, secondo l'uso della Convenzione, per plasmare la
nazione. Saggiamente, non fu sottoposta immediatamente al voto generale
la domanda: riconoscete la repubblica? L'elezione per l'assemblea
nazionale fu ciò che gli americani del nord chiamano _a Hobson-choice_:
un'elezione, in cui non è possibile un no. Solo il cieco dottrinarismo
della nuova democrazia francese poteva dare un qualsiasi valore al fatto
per sé stesso comprensibile, che i deputati eletti in nome della
repubblica salutassero il nuovo regime con diciassette o con ventisei
voti. Come stavano le cose, importava solamente la voce: noi vogliamo
che lo stato sussista. L'enorme maggioranza dei deputati era decisa a
sostenere la repubblica fino a quando fosse stata l'ultimo baluardo
della proprietà, e a scavalcarla immediatamente, non appena si fosse
presentata la possibilità della monarchia.

Lo spacco profondo, che separava la società, correva anche attraverso il
governo. Il caso aveva collocato cotesti uomini sulla breccia della
società; e governavano, come disse incisivamente Lamartine, pel diritto
del sangue versato che bisogna stagnare. Magari tutti i membri del
governo avessero avuto parimente salda e chiara soltanto la volontà di
stagnare quel sangue! Invece, accanto ai repubblicani moderati, quali
Lamartine, Arago, Dupont, il crudo radicalismo era rappresentato in
tutte le sue gradazioni, fin giù al comunismo, da Ledru-Rollin, Luigi
Blanc, Albert. Le passioni di classe della borghesia e degli operai,
eccitate al più alto grado e pel momento inconciliabili, ecco che
avrebbero dovuto intendersela tra loro entro l'ambito di un governo! Il
mondo civile non disconoscerà mai al Lamartine, quanto spesso nei primi
giorni dello scompiglio abbia fronteggiato la furia, degli anarchici ora
con frasi impetuose, ora col pronto dileggio, sempre con alto coraggio
personale. Noi sopravviventi di quella età sappiamo bene, che un singolo
uomo, e tanto più un uomo di lettere, poteva assai scarsamente a quei
tempi, e sappiamo pure come risibilmente abbia esagerato i propri meriti
il vanitoso tribuno del popolo; nulladimeno egli per un momento parve
davvero il campione del terzo stato e della proprietà, e fu esaltato
come tale ben oltre le frontiere della Francia dai più entusiasti
oratori della borghesia. Fece del suo meglio per serbare incolume ai
francesi il loro glorioso tricolore, ed espiò in tal modo una parte
della colpa, gravante su di lui, di avere egli stesso scatenato
improvvidamente la rivoluzione. Ma il coraggio del bizzarro sognatore
riuscì solo per un momento a calmare la paura dello spettro rosso: egli
stesso, Lamartine, qualifica l'andazzo del suo governo come un correre
verso un lontano oscuro, _marcher vers l'inconnu_. Alla debolezza dei
moderati parve soprattutto impossibile stabilire l'unità nel seno del
governo ed escluderne i democratici sociali; d'altronde si temeva che un
passo ardito non provocasse lo scoppio della guerra civile. Perciò tra i
membri di questo governo esisteva così poca coerenza, che Lamartine non
sapeva proprio nulla del pazzesco disegno di Ledru-Rollin d'inviare in
tutto il paese commissari come quelli della Convenzione!

I repubblicani moderati al governo non erano liberi, toccava anzi a loro
portare le conseguenze della propria misura, e, una volta che avevano
abbattuto il trono con l'aiuto dei comunisti, lusingare almeno con
parole sonanti la cupidigia dei loro alleati. Lamartine dichiarò che lo
stato, la provvidenza dei forti e dei deboli, aveva in caso di necessità
l'obbligo di procurare lavoro ai bisognosi. Carnot annunziò che
l'economia politica, finora scienza della ricchezza, sarebbe divenuta
d'ora in avanti una scienza della fraternità. Di gran lunga più
pericoloso sonava il linguaggio dei giornali ufficiosi a proposito della
proprietà, e la cosa non si fermò alle parole, I finanzieri moderati
Garnier-Pagès e Duclerc compilarono un disegno d'imposta progressiva, e
intendevano di raccogliere nelle mani dello stato l'amministrazione
delle ferrovie, delle banche, delle società di assicurazione. L'occhio
acuto di Cavour discerse subito, che cotesta condiscendente debolezza
dei moderati avrebbe incomparabilmente più che non la minaccia del rosso
spaventati i possidenti. Cotesti esperimenti economici non si
accordavano quasi a parola coi provvedimenti proposti dall'icario Cabet
per arrivare a poco a poco dall'ordinamento costrittivo della proprietà
privata all'eden comunistico? E non si viveva già in pieno paradiso
comunistico, se lo stato costringeva i risparmiatori ad accettare titoli
di rendita di stato in luogo dei 335 milioni di lire di pure rimesse,
che avevano depositato nelle casse di risparmio, e per giunta assegnava
loro un ottavo in più sulla rendita? Già ricompariva il sinistro disegno
di emettere assegnati in quantità arbitraria; e solo con gran fatica fu
combattuto da Fould e dallo scritto occasionale di Bastiat _Maudit
argent_. Marie, ministro dei lavori pubblici, aveva già aperto le sue
officine nazionali; e vi accorrevano in folla migliaia di operai senza
pane, i quali percepivano dallo stato il salario del loro non far
niente. Il ministro nutriva la puerile fiducia, che queste turbe pagate
dalla repubblica avrebbero formato una guardia di sicurezza contro il
comunismo. Anche Luigi Blanc trovò ridicole tali speranze, e infatti gli
operai profittarono della loro vita in comune nelle officine nazionali
per organizzarsi militarmente alla guerra delle barricate. Nessuna
meraviglia, che di 1329 milioni di entrate quell'anno 613 milioni, cioè
61 milioni più che nel 1847, siano stati spesi nella sola capitale!

Il pavido borghese aveva tuttora davanti agli occhi le terribili scene
dei giorni di febbraio, quando la folla urlante, guidata da un macellaio
che brandiva la coltella, si precipitò all'assalto del palazzo Borbone;
e i conquistatori delle Tuileries non furono indotti ad uscire dal
castello reale, se non dopo assicurati, che non si sarebbero loro
perquisite le tasche. Per giunta, ecco che Ledru-Rollin rievocava le
ombre sanguinose di Robespierre e di Saint-Just, e i suoi onnipotenti
commissari già principiavano nelle provincie a condonare qua e là le
tasse sui salari, per spianare il terreno al dominio del comunismo
pratico. Dalle moltitudini saliva per mille voci il grido: «Deve
sparire la proprietà o la repubblica! Il rosso dell'amore tra gli uomini
sostituirà i colori, _la tricolore de nos devanciers_, di un'età
superata! Abbasso tutti i vizi dei tempi monarchici, e prima di tutto
l'eredità dei beni e dei titoli!». Quando i radicali moderati posero la
repubblica al di sopra del suffragio universale, Proudhon si diede a un
pensiero anche più ardito e dichiarò: la rivoluzione è al disopra della
repubblica! Non era dubbio, che dietro quel grido di delirio non fosse
sempre una decisione seria. Se anche il pathos della prima rivoluzione
non era andato immune dall'esagerazione rettorica, ora i luridi fogli
della nuova repubblica condotti alla maniera di Marat mostravano del
tutto una sete di sangue epigonica, falsa, spasmodicamente sforzata.
Tuttavia si comprende benissimo, che da tali minacce una società di
godimento e di lavoro concepisse un cupo e cieco terrore.

Durante lo stesso febbraio la rendita al cinque per cento discese da 120
a 55: l'esportazione degli articoli della moda parigina di primavera si
arrestò completamente. Nella città dei forestieri intere file di case
erano vuote, centinaia di macchine erano ferme, e al popolo senza lavoro
la repubblica come primo benefizio portò un'imposta addizionale di 45
centesimi: un peso che non era menomamente compensato dall'abolizione
dell'imposta sul sale. Anche Bonaparte dopo il 18 brumaio aveva iniziato
il proprio governo con un inasprimento d'imposta del 25 per cento; ma il
popolo lo tollerò di buona voglia, perché desiderava il nuovo
dispotismo. Ora, invece, la repubblica esecrata veniva in un'ora
infelice ad aggravare i balzelli; e per tutte le classi di possidenti
corse un grido di collera. Borghesia e agricoltori si tennero compatti
come un sol uomo, unanimi non già in un qualsiasi pensiero politico, ma
nella passione della propria conservazione. Come a quel tempo in
Prussia i contadini a Berlino erano i più fedeli alla bandiera del re,
così in Francia i piccoli ortolani del contorno di Parigi erano i più
fieri nemici del comunismo. L'aforismo tanto biasimato di Machiavelli,
che l'uomo perdona più facilmente l'uccisione dei genitori e dei
fratelli che il furto del suo avere, ebbe in quest'occasione la
conferma. A torto i nemici del comunismo si arrogarono il titolo di
partiti moderati; una parola arguta, in modo incomparabilmente più
calzante, designa i due partiti come _la montagne rouge_ e _la montagne
blanche_. Fanatismo e violento furore divampavano dall'una e dall'altra
parte. L'una e l'altra erano risolute a una battaglia sociale decisiva,
e le elezioni per l'assemblea nazionale facevano indovinare a quale
delle due sarebbe toccata la vittoria.

Queste elezioni palesarono per la prima volta ai dottrinari del
radicalismo l'ingrata verità, che nessuno è meno democratico della
moltitudine. L'istinto della conservazione economica si mostrò più forte
delle minacce dei partiti e degl'impiegati. Il ministro Carnot nelle sue
circolari elettorali espresse invano un'idea altamente civile, ripetuta
volentieri oggigiorno dai prefetti dell'impero: egli dichiarò che è un
pregiudizio reazionario la vecchia opinione, che degne doti del deputato
siano la proprietà e la cultura. Il contadino nella sua semplicità
pensava diversamente; egli accordò la sua fiducia solo ai possidenti,
perché ogni proprietario è un naturale nemico dei comunisti. La
proprietà fondiaria fu rappresentata nell'assemblea nazionale più
numerosamente che non nelle camere della monarchia di luglio. La classe
agricola oberata di debiti, soggetta, ignorante, s'inchinò questa volta
solamente a una autorità: alla Chiesa. Il delirio della paura sociale
aveva rideste tutte le torbide e confuse forze delle anime, anche la
cieca bigotteria: mille cuori smarriti cercavano consolazione nel
confessionale: la raccolta degli ultramontani principiava a maturare.
Siccome appena un settimo dei francesi vivevano nelle città superiori ai
10.000 abitanti, i contadini diedero il tracollo, e a palazzo Borbone
accanto a un forte partito montagnardo comparve un esiguo gruppetto di
repubblicani azzurri, e contro questi e quelli una schiacciante
maggioranza di reazionari.

Fra tutti i parlamenti di quell'anno procelloso nessuno era più
infecondo, nessuno più immorale. Le poche teste politiche scomparvero
quasi sotto la mediocrità generale e l'insipienza di cotesti 900
rappresentanti del popolo. Anche gl'ingegni soffrivano sotto la gran
menzogna del tempo: la repubblica aveva paura di sé stessa. La
maggioranza reazionaria considerava la repubblica soltanto come un
terreno neutrale, che per fortuna sarebbe stato presto abbandonato; e la
dichiarazione corrente: «noi riconosciamo lealmente la repubblica come
un governo di tutti per tutti», esprimeva cotesto sentimento in modo
molto perspicuo. Il signor Thiers che sotto la prima impressione del
timore aveva gridato: «Adesso non ci rimane che farci dimenticare,»
riprese presto nuovo coraggio, e innocentemente significò: «Prima io
preferivo la costituzione inglese. _Forse_ io mi sono ingannato; _forse_
la costituzione americana è meglio appropriata alla Francia!». Quanto ai
legittimisti, era notorio, che agognavano il momento di una levata di
scudi: il che fu loro impedito solo dalla codardia e dall'incapacità del
loro pretendente. E un'assemblea siffatta, la cui maggioranza non
credeva né a sé stessa né alla propria opera costituzionale, avrebbe
messo mano a quell'ardito lavoro per l'essere o il non essere, che forma
generalmente il destino delle costituenti!

Dopo la vittoria elettorale i possidenti presero animo per abbattere le
bande di operai che minacciavano la tranquillità della capitale. La
forza del governo provvisorio si era logorata nelle lotte sociali delle
prime settimane; anche la commissione esecutiva nominata dall'assemblea
nazionale era insiememente, come disse Lamartine, necessaria e
impossibile. Nelle classi medie si consolidava l'opinione, che solo la
sciabola poteva rovesciare l'anarchia. Il poeta, le cui persuadenti
parole di conciliazione erano state tuttora nel febbraio accolte con
plauso dalla borghesia, ora, dopo appena poche settimane, era un uomo
usato, finito. E adesso la feroce sollevazione del 15 maggio palesava da
quale terribile inselvatichimento e traviamento d'idee fossero dominate
le moltitudini: il «popolo» tentò di annientare l'assemblea nazionale.
In effetto, se nel febbraio una turba di popolo aveva potuto
arbitrariamente disperdere la camera monarchica, perché mai un'altra
turba nel maggio non avrebbe tentato il somigliante col parlamento della
repubblica? «Il popolo non viola mai la costituzione», disse l'avvocato
Michel difendendo i cospiratori del 15 maggio. Quel giorno non emerse
unicamente la ferocia anarchica, ma anche la propaganda conquistatrice
della prima rivoluzione: «liberazione della Polonia, guerra alle potenze
orientali!» diceva il grido di guerra dei cospiratori. Da allora la
borghesia si persuase pienamente della necessità della dittatura. Quando
fu celebrata, il 20 maggio, la festa della Concordia e centomila guardie
nazionali, ossia la borghesia armata, sfilarono per un'ora davanti alle
moltitudini fitte degli operai, ognuno, preso da presentimento, ebbe
ricondotto l'animo al mattino del giorno della Belle-Alliance: avvenne,
come se due eserciti pronti alla lotta volessero prima della mischia
mostrare l'uno all'altro la propria forza.

La decisione si avvicinava. Nel giugno la rivolta operaia esplose nella
lotta sociale più formidabile, che sia avvenuta nella storia moderna
dopo la guerra dei contadini in Germania. Di rado i figli di un popolo
si sono battuti con pari furore; e siamo in grado di argomentare quale
fosse la ferocia dell'urto, se anche oggi dalla bocca di francesi
intelligenti apprendiamo spesso giudizi iniquamente duri sul carattere
sincero di Cavaignac. Il borghese si batteva pei suoi averi, l'operaio
intendeva di godere integralmente il prezzo della vittoria della rivolta
di febbraio, stata tutta opera sua; ma il soldato bramava soprattutto da
lungo tempo di vendicare l'onore mortificato della divisa. L'esercito,
compiuto nei giorni di febbraio il suo obbligo, aveva abbandonata senza
troppa esitazione la pacifica monarchia borghese; sperava dalla
repubblica un tempo di vittorie, si aspettava, quando l'Italia si
sollevò, di ricalcare un'altra volta la «via sacra» di Montenotte e di
Lodi. Ma la primavera dei popoli, in luogo di allori, gli portò solo
tormento ed umiliazione. Già i vincitori di luglio avevano dimostrato
poco riguardo per l'esercito; per colmo, gli eroi di febbraio non la
rifinirono più dallo scherno verso gli abbrutiti mercenari: aberrazione
inconcepibilmente stupida e affatto non francese! Il governo provvisorio
esortò invano «a ripristinare l'unità del popolo e dell'esercito
momentaneamente turbata». I soldati, la più parte contadini e rimasti
fedeli anche nelle variopinte uniformi alle idee sociali del villaggio,
erano esasperati dal servizio incessante di quei giorni burrascosi, e
per giunta si vedevano sempre più esposti agli oltraggi dei demagoghi;
talché l'esercito, che in altri tempi aveva con ardente entusiasmo
offerto la spada alla rivoluzione, ora invece si trovò subito di fronte
ai fondatori della nuova repubblica con un odio implacabile.

Finalmente la bandiera rossa era a terra, l'autorità dello stato si era
rotta con la democrazia sociale, le officine nazionali furono chiuse.
La proprietà era salvata e, ciò che più conta, si era acquistata la
persuasione, che le fondamenta della nostra società sono più salde di
quanto si credeva, e che la «questione sociale» dev'essere risoluta con
mezzi più miti di quelli affermati dai radicali degli ultimi
quarant'anni. L'importanza storica di queste battaglie in città consiste
principalmente in questo, che la lotta e le atrocità avevano spianato la
via a un'êra di pacifiche riforme sociali. Evidentemente dominava la
sciabola, e il governo di Cavaignac aveva innegabilmente acquistato
maggior potenza e animo, che forse nessun ministero tedesco del tempo.
L'infinito affetto, che la borghesia salva portava al dittatore,
rivelava la paura immensa da cui in fine era stata liberata. Chi però
guardava più a fondo, certamente poteva intravvedere, che anche il nuovo
detentore del potere si sarebbe logorato in poco tempo e sarebbe stato
dimenticato. Anche Cavaignac, come poco avanti Lamartine, avrebbe
sperimentato, che i tempi democratici amano il potere e odiano i
potenti. Il suo partito, quello dei repubblicani azzurri, rimase poi
come prima: un piccolo gruppo senza base nel popolo. Gli operai
astiavano il loro domatore, ma i contadini e una gran parte della
borghesia erano tuttora scontenti dei fatti di luglio: essi agognavano
la monarchia.

Come mai una tale repubblica avrebbe potuto contare sull'amore
dei francesi? Forse che in realtà non era una schiavitù ribellata?
E potevano anche i moderati non consentire, quando Proudhon
lanciava l'invettiva: «cotesta repubblica parlamentare inzuccherata
di giacobinismo e di dottrinarismo non è niente altro che
controrivoluzione»? La capitale era sottoposta allo stato
d'assedio; si discuteva la costituzione della nuova libertà sotto
la protezione delle baionette. I rivoltosi erano condotti davanti
ai tribunali straordinari da leggi con forza retroattiva. La
violazione delle lettere e tutte le male arti della polizia
segreta erano in vigore come al tempo dell'imperatore soldato.
Migliaia di operai erano deportati di là dal mare, e la vendetta
dei trasportatori non cedeva alla rabbia dei livellatori. Questa
era la libertà, e per questo il benessere del paese cadeva in
rovina, per questo la superba nazione era condannata nella grande
politica a una completa impotenza!

Più tardi Thouvenel con giusto dolore lamentava, che durante il tempo
della repubblica la sua patria in Europa fosse stata considerata
assente. Sotto Luigi Filippo la considerazione del regno non aveva mai
patito così profondamente, giammai i suoi interessi europei erano stati
trattati da fatui dilettanti con maggiore leggerezza e insensatezza. Il
manifesto di Lamartine all'Europa aveva annunziato con frasi strepitose
al felicitato continente, che sotto la guida della libera Francia si
apriva un'êra di fraternità universale. Per la perfetta tranquillità dei
vicini, a questa «bella pagina di filosofia nazionale» era anche
aggiunto il codicillo conclusivo: «la Francia sarebbe felice, se le
fosse dichiarata la guerra e fosse costretta, malgrado la sua
moderazione, a crescere in potenza e in gloria»! Scoppia fuori da ogni
parte, attraverso il fragore verbale della fraternità dell'amore
cosmopolitico, la cupidigia d'impadronirsi del Belgio e della Savoia, la
smodata vanagloria nazionale. «Oggi le idee penetrano da per tutto, e le
idee portano il nome della Francia!». Lo stesso spirito di grandigia
parla da ogni pagina della storia della rivoluzione di Garnier-Pagès e
dalla profezia di Proudhon: le frontiere delle nazioni spariranno da sé,
non appena avrà dovunque trionfato l'economia nazionale della nuova
Francia. L'alleanza con la Russia secondo Lamartine è «il grido della
natura, la rivelazione della geografia»; e nello stesso istante desidera
la liberazione della Polonia! Egli spera che la Prussia con bello
esempio precederà le altre potenze orientali nella reintegrazione della
Polonia, e non dubita che il nostro stato si terrà contento
d'indennizzarsi sui paesi del Reno, nello Schleswig-Holstein, lo
Hannover o altrove, _et ailleurs_! Non meno stupefacente di queste
vedute è la conoscenza che Lamartine mostra degli uomini dirigenti. Il
re Federico Guglielmo IV sembra a lui un formidabile uomo di forza,
«capace di comprendere tutto, di tentare tutto, di osare tutto»! Saggi
sufficienti a illustrare una sapienza politica, alla cui celeste
innocenza non bastava il frasario d'uso parlamentare: è veramente, come
dicono nella campagna di Gottinga, una politica che non mena a niente:
_eine Politik wo's gar nicht giebt_. Con che riso sardonico l'astuto
pretendente, che se ne stava da parte in agguato, avrà dovuto intendere
cotesti oracoli repubblicani! Per la salute del mondo, Lamartine non fu
mai in condizione di menare ad effetto la sua geniale politica estera:
tutte le forze dello stato si consunsero nelle lotte civili.

Finalmente sotto Cavaignac tornò al ministero degli esteri un uomo
d'affari, Bastide, un repubblicano rigido, così poco addestrato ai
maneggi diplomatici quanto lo stesso dittatore. La conquassata
repubblica era tuttora a mala pena al caso di prendere una decisione
nelle questioni europee, e, quando le venne fatto, seguì fedelmente le
orme di Guizot; salvo che al frasario conservatore sostituì il radicale.
Anche la filantropica seconda repubblica fu ossequente al tradizionale
principio francese, secondo il quale la potenza della Francia si basa
sulla rovina dei vicini. Solo un uomo ingiusto censurerà la Francia di
avere indugiato a riconoscere il potere centrale tedesco e a ricevere
ufficialmente il nostro ambasciatore imperiale Federico von Raumer, che
apparve subito accanto all'ambasciatore prussiano von Willisen. Chi
potrebbe volerne ai francesi, se non compresero la sottile differenza
tra un tedesco prussiano e un prussiano tedesco, e se confessarono
apertamente, che non sapevano che si pensare del nostro immaginario
potere centrale? Un ambasciatore, il quale per l'occasione offriva al
ministro Bastide un libro che aveva ottenuto un successo, cioè le
_Considerazioni di un vecchio professore di storia sullo stato della
Francia_, non poteva seriamente aspirare ad essere considerato come il
rappresentante di una grande potenza. Più grave era l'atteggiamento
ostile della repubblica verso la sollevazione dello Schleswig-Holstein,
e addirittura riprovevole l'animosità invidiosa contro la lotta dei
piemontesi. Intendeva accettare repubbliche figlie a Milano e a Venezia,
ma non mai un vitale e potente regno subalpino. La dominazione austriaca
in Italia sembrava al dittatore meno pericolosa di un nuovo generale
Bonaparte alla testa di un esercito vittorioso. Quando il re Carlo
Alberto sollecitò a Parigi l'invio di uno sperimentato condottiero per
le sue truppe battute, gli fu risposto con un freddo rifiuto. Noi
vogliamo la libertà dell'Italia, scrisse Bastide a Bixio a Torino, ma
non la supremazia del Piemonte, che può riuscire più pericolosa
all'Italia dello stesso governo austriaco. Con idee siffatte si riusciva
solamente alle mezze misure; e la stessa repubblica veneta, che implorò
insistentemente l'aiuto della Francia, ottenne puramente l'appoggio di
una innocua dimostrazione della flotta francese.



II.


In questo modo l'infelice stato tentennava, sconvolto, non libero
all'interno, disprezzato e quasi senza volontà all'estero. Di tale
condizione era degna anche la nuova costituzione repubblicana, che
indubitabilmente, fra le tante costituzioni nate morte di quell'anno,
era la più assurda. Della commissione costituente dell'assemblea
nazionale facevano parte diversi uomini segnalati, come Tocqueville; e
di aver menato a termine un'opera tanto incongruente la colpa fu la
falsa situazione di questa repubblica mal suo grado. La lotta quotidiana
e logorante per la sicurezza dell'avere e della vita non profittava
certo a idee politiche feconde. I legislatori non potevano sottrarsi
alla convinzione, che la Francia abbisognava di un governo forte; ma
nello stesso tempo temevano l'arbitrio di una Convenzione e anche più
l'usurpazione di un presidente ambizioso. E si sperava di sfuggire a un
tal pericolo proclamando l'idea dottrinaria, né ancora pienamente
attuata in nessuno stato del mondo, dell'assoluta divisione dei poteri
come il supremo principio di ogni governo libero. Il popolo sovrano
trasferì il potere legislativo a un'assemblea nazionale, che siedé in
permanenza per lo spazio di tre anni senza potere essere disciolta.
Quando di tanto in tanto si aggiornava, nominava a rappresentarla una
commissione dal proprio seno; e quando spirava il termine del mandato,
una commissione nuovamente eletta ne prendeva subito il posto. Nulla, il
puro nulla era stato previsto per tutelare questo corpo di 750 membri
dalle decisioni avventate: ogni legge che aveva deliberata, entrava in
vigore un mese dopo, nei casi urgenti anche tre giorni dopo
l'approvazione. Si poneva appena mente, che la stessa democrazia
dell'America del Nord non ha rinunziato a quella fonte di mutui
emendamenti e temperamenti, che costituisce il sistema delle due camere.
Ma quello che decise il sistema della camera unica non fu lo zelo di
eguaglianza dei radicali né furono le condizioni sociali di un popolo
che è fuso in una massa compatta di contribuenti, sibbene la paura
sociale dei possidenti. Noi abbiamo bisogno della dittatura, e la
dittatura non comporta partizioni; solo l'unità del potere assicura
l'ordine: tali erano le considerazioni reazionarie, che indussero la
maggioranza alla sua decisione radicale. Alla repubblica una e
indivisibile corrispondeva la camera una: non si volle vedere, che solo
i governi dispotici godono il privilegio della semplicità. In tal modo
parve effettuato quello spauracchio di una legislatura senza limiti, che
mosse un tempo Mirabeau ad esclamare: «io preferirei di vivere a
Costantinopoli piuttosto che in Francia sotto il dominio di un
parlamento siffatto!».

Ma sotto questa assemblea teoricamente onnipotente era un presidente,
capo del potere esecutivo, della _force publique_. L'idea di porre un
collegio a capo del potere esecutivo ebbe pochi sostenitori. Le tristi
esperienze raccolte sotto il Comitato di salute pubblica, sotto il
direttorio, sotto il governo provvisorio preoccupavano in modo purtroppo
comprensibile: l'intima natura di questa nazione tendeva a un solo
dirigente, vale a dire alla monarchia. La Francia a quel tempo contava
in impiegati e in cittadini stipendiati dallo stato per pubblici servizi
535.365 persone, di cui 18.000 funzionari e pensionati della legion
d'onore e 15.000 _cantonniers_, senza computarvi il numero, che non fu
calcolato, degli agenti del ministero del commercio. Aggiungiamo le
forze di terra e di mare quasi altrettanto numerose; consideriamo
inoltre, che la Rivoluzione aveva distrutto quasi tutti i poteri
indipendenti, e che da secoli dipartimenti e comuni, istituti di
beneficenza e privati erano parimente avvezzi a richiedere di più
sussidi lo stato, e vedremo emergere chiaro, che il capo di una siffatta
amministrazione era il monarca, col suo vero titolo che avrà sempre. E
cotesto uomo potente era il nemico nato della costituzione, perché
questa proibiva che fosse eletto! Per colmo, l'assemblea nazionale diede
al presidente una consacrazione, che nel mondo moderno vale più
dell'olio di Rheims: doveva essere eletto direttamente dal popolo
sovrano. Invano i seguaci sinceri della repubblica diffidarono di una
siffatta tirannide popolare, che in uno stato accentrato eguaglia
apertamente il panteismo politico. Il socialista Felice Pyat predisse in
un memorabile discorso il destino imminente: un presidente eletto in
questo modo potrà dire all'assemblea nazionale: «io solo ho dietro di me
tanti voti quanti voi tutti insieme, io solo valgo pel popolo più di
qualunque vostra maggioranza». A tale considerazione la gente ingenua
non diede peso, pensando che il presidente era eletto in autunno e
l'assemblea nazionale era rieletta da capo nel successivo maggio, e che
perciò l'assemblea veniva a godere da parte del popolo la fiducia più
recente e più efficace. Altri nutrivano preoccupazioni morali rispetto a
un'elezione del presidente fatta dall'assemblea nazionale: ciò valeva
quanto corrompere l'assemblea, porre le redini dell'amministrazione
nelle mani di una mediocrità ligia e, in conclusione, fondare un dominio
come quello della Convenzione. La maggioranza dell'assemblea era
ispirata dall'odio alla repubblica: voleva stabilire un potere autonomo
accanto al parlamento, per poi, all'occorrenza, ripristinare il trono.
Donde seguì che i repubblicani sinceri si accordarono per la più parte
a seguire la via meno popolare, cioè a propugnare l'elezione del
presidente fatta dall'assemblea; i monarchici occulti, invece, seguivano
la regola radicale dell'elezione popolare.

Da una parte si attribuiva al presidente una incalcolabile potenza
morale, dall'altra il suo potere veniva sospettosamente circondato da
limiti legali, che per un uomo onesto erano superflui, per un uomo senza
coscienza erano vani. Il presidente era il capo supremo dell'esercito,
nominava tutti gli ufficiali, ma gli era inibito di vestire l'uniforme e
di comandare personalmente il minimo reparto di truppa: il che era
un'offesa grossolana a tutte le consuetudini e alle idee tradizionali
dell'esercito francese. Gli era assegnato un appannaggio, troppo alto
per la virtù di un repubblicano, ma miseramente gretto per le pretese,
che la Francia era abituata da secoli a esigere dal capo dello stato: il
povero diavolo, che invidiava ai deputati la loro paga giornaliera,
rimpiangeva malvolentieri i tempi dei re. Il presidente aveva la facoltà
di proporre leggi all'assemblea nazionale, ma non godeva del diritto di
veto, e solo poteva rimandare alla camera i disegni di legge per la
ripresa in esame. Talché è obbligato a portare la responsabilità
dell'applicazione delle leggi, che disapprova. Di più. Non solo è
condannato a stare per tre anni accanto a un'assemblea nazionale ostile,
senza punto il diritto dell'appello al popolo per comporre il dissidio;
ma si esige anzi, che il presidente personalmente responsabile scelga il
suo ministro parimente responsabile dalla maggioranza del parlamento.
Sicché la maggioranza viveva sotto una tale ossessione di idee
monarchiche, da pretendere anche dalla repubblica lo stesso regime
parlamentare concepibile solo con la monarchia!

E mentre si finse di vivere a repubblica, fu mantenuto poi inalterato il
dispotismo amministrativo di Napoleone, salvo alcune modificazioni
sconclusionate. Fu estesa la competenza del consiglio di stato in
materia di ordinanze, e devoluta la nomina dei suoi membri per sei anni
all'assemblea nazionale: che era evidentemente un'insensata infrazione
al principio della divisione dei poteri. In tal modo il presidente
responsabile, sia nella deliberazione e preparazione dei disegni di
legge, sia nell'interpretazione delle norme amministrative, doveva
seguire la via prefissa da uomini, che non godevano la sua fiducia.
Finora il consiglio di stato era il custode dello spirito di classe e
della tradizione burocratica. Come mai l'imperiosa burocrazia avrebbe
tollerato, che cotesto architrave dell'amministrazione fosse aperto alle
oscillazioni delle lotte parlamentari? I legittimisti domandarono, per
le ragioni ambigue che sappiamo, l'autonomia dei comuni; ma la
maggioranza del parlamento rigettò, con la stessa risolutezza mostrata
un tempo dalla Convenzione, ogni raccostamento al modello americano. La
repubblica una e indivisibile guardava con vigile diffidenza qualunque
moto tendente nelle provincie all'autonomia; e come i negozianti di
Marsiglia si costituirono in associazione per ottenere la rimozione
delle oppressive misure di quarantena, corse pei fogli parigini
l'allarme, che il federalismo della Gironda alzava nuovamente il capo!
L'amministrazione dei dipartimenti e dei comuni rimase sostanzialmente
quale era sotto il re borghese: un tentativo sconnesso e dilettantesco
di riforma fu arrischiato solo nei sottodistretti di dipartimento. Il
circondario per l'innanzi era amministrato dal sottoprefetto con
l'assistenza di un consiglio distrettuale, mentre il cantone,
suddivisione del circondario, non aveva alcuna importanza
nell'amministrazione e valeva puramente come circolo giurisdizionale del
giudice di pace. Ora, invece, il sottoprefetto di botto veniva a
comandare egli solo nel circondario, e corrispondentemente s'istituiva
in ogni cantone un consiglio cantonale eletto. A questo proposito,
legittimisti come F. Bechard e radicali come Lamennais avevano sovente
ricordato, che la maggioranza dei comuni locali erano troppo piccoli per
l'amministrazione autonoma. Per la qual ragione si pensò di stabilire
nel cantone il centro di gravità di una nuova autonomia. Ma i singoli
membri non permisero di venire staccati ad arbitrio dalle giunture
ferree dell'amministrazione napoleonica. Questo stato non tollera
consigli amministrativi eletti, ai quali non presieda come capo
deliberante un funzionario governativo: ragion per cui i consigli
cantonali non entrarono mai in vita. Le sole riforme effettive, che
l'amministrazione introdusse in questo campo, consisterono nel
ripristinamento dell'inamovibilità dei giudici abolita nei giorni della
vertigine rivoluzionaria, e nell'istituzione di un tribunale che
decidesse sui conflitti di giurisdizione. Anche l'esercito rimase qual
era: l'egoismo degli abbienti non volle ammettere, che la famosa
eguaglianza di tutti i francesi portava di conseguenza l'universalità
del servizio militare obbligatorio.

Domandiamo ancora una volta: in che cosa il capo supremo di questo stato
burocratico si differenzia da un re? Manca al potere monarchico del
presidente il carattere ereditario. Ma chi ripensa al destino toccato a
Luigi XVI, a Carlo X e a Luigi Filippo, ascolterà non senza un sorriso
l'affermazione, che la moderna corona francese sia stata ereditaria. Gli
mancava, inoltre, il veto: ma il diritto di veto era esercitato dai re
francesi tanto di rado, quanto dagl'inglesi. Gli mancava, infine,
l'irresponsabilità; ma chi può sul serio affermare, che quei tre re non
abbiano portato alcuna responsabilità? Anzi, per l'appunto il
presidente, solo che fosse mediocremente un uomo, si vedeva costretto a
una guerra di vita e di morte contro l'assemblea nazionale. E siccome i
legislatori lo presentirono, con fiscalità avvocatesca provvidero che il
presidente, non appena usurpasse le attribuzioni dell'assemblea
nazionale, fosse spogliato sul momento dell'ufficio, che fosse
immediatamente convocata la suprema corte di giustizia, e via dicendo.
Ma anche tali minacce rimasero senza effetto davanti all'onnipotenza
dello stato burocratico napoleonico; onde si venne a ricorrere a
un'estrema garanzia: il presidente doveva giurare la costituzione.
Mirabile cecità! Tutti i giuramenti politici erano stati aboliti, e
l'intera nazione aveva richiesto il diritto di non essere legata alle
istituzioni dello stato per mezzo di obblighi di coscienza. Ciò era una
giusta conseguenza della libertà dei culti. E l'unico uomo il quale
possedeva come nessun altro la potenza e la voglia di lacerare la
costituzione, egli solo doveva giurare! Non gli sarebbe bastata la
coscienza di alzare il braccio, caso mai avesse voluto cogliere il
frutto del dominio che gli pendeva seducente innanzi agli occhi. Ma, se
in qualsiasi circostanza è sempre una difformità e un'imprudenza
accampare terribili pretensioni che avanzano di troppo la media della
virtù umana, come ci appaiono per altro miserabili cotesti legislatori,
i quali presumevano di aver salvato la rocca di una costituzione
insostenibile, sol perché ne scaricavano la responsabilità della
resistenza sulle spalle di un terzo!

Per conseguenza non riesce affatto strano, che in molti comuni il solo
uomo che accogliesse la pubblicazione dello statuto al grido di _vive la
costitution!_ fosse il sindaco. Il duca di Broglie sentenziò a punto:
questa costituzione ha slargato i confini dell'umana stupidità!
Parimente il vecchio furbo Dupin nel dotto commentario che fece di
quell'aggeggio, seppe contenere a stento la sua malignità ironica. Anche
nel rimanente, il contenuto della carta non era tale da sedare le
perplessità dei possidenti. In effetto, dopo un eccellente discorso di
Thiers la privata proprietà era stata riconosciuta e l'imposta
progressiva rigettata. Ma non fu possibile, in questo tempo di
cupidigie, scartare l'idea del fantastico Lamennais, di preporre alcuni
diritti e doveri generali, che stessero in testa alla costituzione.
Donde gli edificanti insegnamenti della sapienza e della virtù, come per
esempio: «è dovere dei cittadini amare la patria e difendere la
repubblica col pericolo della propria vita»; e anche qualche
proposizione meno innocente, che potesse almeno interpretarsi in senso
comunistico, come la seguente: «è dovere della repubblica procacciare i
mezzi di sostentamento ai cittadini bisognosi», e così via. Avendo
infine l'articolo 110 affidata la costituzione alla sorveglianza e
all'amor di patria di ogni francese, Ledru-Rollin ne inferì il diritto
dell'assemblea nazionale di chiamare il popolo alle armi; ma i
possidenti vi scorsero tremando un avvenire pieno di guerre civili.



III.


Quell'oscillare della maggioranza tra opposte paure si spiega facilmente
col fatto, che i legislatori in quell'articolo erano agitati
dall'angustioso presagio di un candidato alla presidenza, il cui solo
nome voleva dire la fine della repubblica. Luigi Bonaparte disse la
verità, quando nel 1850 esclamò, parlando agli alsaziani: «Questa
costituzione è fatta in gran parte contro di me».

Il ripristinamento del suffragio universale, non mai a nessun patto
potuto ammettere dall'_homme principe_ Enrico V, importava pei
napoleonidi il rinnovamento del titolo legittimo, al quale appunto essi
dovevano il trono. A essi soli fra tutti i pretendenti era dato
collocarsi sul terreno del nuovo diritto pubblico. Il nome della casa
illegittima spuntava da per tutto, dovunque l'antico regime era stato
distrutto; perfino nella repubblica di Venezia fu avviato un maneggio
per l'elevazione della dinastia dei Leuchtenberg. Nelle lotte di
febbraio, come già in tutte le sommosse del tempo monarchico, presero
parte separatamente anche alcuni bonapartisti; e nel tumulto al palazzo
Borbone proprio un colonnello imperiale piantò per la prima volta il
tricolore sulla tribuna. Da allora non passò un mese senza piccole
agitazioni bonapartiste sui _boulevards_. Fin dal 26 febbraio un
proclama del governo provvisorio diceva: «Non più legittimismo, non più
bonapartismo, non reggenza! Il governo ha preso tutte le necessarie
misure per rendere impossibile il ritorno delle antiche dinastie e
l'elevazione di una nuova». Le teste calde del partito, come in altri
tempi dopo i cento giorni, si riunivano al caffé Foy; e uno degli
assidui era il deputato socialista Pietro Bonaparte, che con tanto zelo
dichiarava: «Quale uomo intelligente può volere l'impero? Esso è ormai
non più che un glorioso ricordo storico: il suo ristabilimento è una
chimera». Nella colluvie dei fogli d'occasione che portavano sulla
testata il nome della repubblica con un aggettivo sonoro, c'era anche
una «repubblica napoleonica». La condotta del partito era determinata
dalla stessa situazione: fomentare agitazioni, affinché l'attrito dei
partiti li corrodesse tra loro, e alla fine gli abbienti guardassero a
un forte potere dello stato come al supremo dei beni. Il maneggio in
breve divenne tanto sospetto, che il governo provvisorio fece arrestare
Persigny. Per la prima volta, dopo la sommossa di febbraio il sangue
scorse il 12 giugno, in un tumulto insignificante suscitato al grido di
«viva l'imperatore!». È fuori di dubbio, che nelle avvisaglie della
sollevazione di giugno gli agenti bonapartisti tennero mano al gioco,
sebbene vada inteso, che un cozzo di classi tanto notevole e inevitabile
non possa essere stato preparato solamente da artifizi e intrighi. Né
mette conto rintracciare coteste trame; giacché in verità i milioni di
voti non si accaparrano con le piccole arti dei cospiratori. Il
bonapartismo, come partito organizzato, ebbe sempre una assai scarsa
importanza. Possedeva strumenti devoti nei deputati côrsi Pietri e
Conti; e più tardi acquistò con Emilio Girardin, rottosi con Cavaignac,
un alleato pericoloso, e con la _Presse_ un organo abilissimo, senza
coscienza. Si contava con sicurezza anche sul rappresentante radicale
del popolo Napoleone Bonaparte, figlio di Girolamo, il quale gareggiava
col cugino Pietro in tonanti invettive contro la foia omicida dei re.

Più seguito ebbe la condotta dello stesso pretendente. Non lasciò
correre un istante, che non profittasse dell'ora favorevole: per cinque
volte in cinque mesi diede con lettere pubbliche notizia di sé alla
nazione. E nel febbraio apparve a Parigi «per mettersi al servizio della
sua patria». Nella lettera al governo provvisorio viene espressa
l'esatta concezione bonapartistica della rivoluzione di febbraio: egli
ammira il popolo di Parigi il quale «ha eroicamente cancellato le ultime
tracce dell'invasione straniera». Accolto dal governo con diffidenza,
ritornò subito a Londra, dopo aver dichiarato con un'altra lettera ai
governanti: «Dal mio sacrifizio riconosceranno la purezza delle mie
intenzioni». Nelle elezioni dell'assemblea nazionale nel giugno, il nome
del principe sortì in quattro dipartimenti, anche a Parigi, mentre
vigeva tuttora a suo danno la legge di proscrizione. Il governo propose
che fosse mantenuta. Ma siccome i radicali, con a capo Jules Favre,
espressero la fiducia, che i Bonaparte non potevano più in nessun modo
riuscire né ora né poi pericolosi alla repubblica, si decise per la
riammissione del principe. Una tale cecità degli avversari sconcertò
alquanto il pretendente nel suo calmo riserbo: in una lettera datata del
15 giugno rifiutò tre delle elezioni, aggiungendo però queste parole
sincere: «io non nutro ambizioni; ma se il popolo m'imporrà doveri, io
saprò adempierli». Ma dai primi giorni si accorse del granchio, e si
affrettò a chiarire in un'altra lettera, che egli voleva una repubblica
savia, grande, sapiente. Nel luglio fu rimesso in iscena il movimento
popolare, e fu rifiutata con una quinta lettera anche l'elezione in
Corsica. Noi non ci arrischiamo di decidere, se il principe ha scritto a
Parigi qualcuna delle lettere datate da Londra. L'accortezza non si
disgiunse dalla sua tattica; giacché, mentre esercitava la virtù civile
della rinunzia, il pretendente sventava i disegni degli avversari, che
speravano di logorarlo prima del tempo nei dibattiti dell'assemblea
nazionale. Per giunta, egli non era affatto un oratore, e tale da
conquistarsi con la parola la ghirlanda a cui aspirava. Frattanto
l'elezione presidenziale si avvicinava, ed era tempo di mostrarsi
personalmente al popolo: per cui, quando nelle elezioni suppletive di
settembre i quattro dipartimenti gli si mantennero fedeli, anzi a quelli
se ne aggiunse un quinto, il principe si decise ad accettare.

Il 26 settembre entrò nel parlamento tra l'esclamazione generale di _le
voilà!_ prese il suo posto pronunziando un paio di parole fedelmente
repubblicane, però senza senso concreto, e s'irrigidì in un profondo
silenzio. I suoi nemici gli risparmiarono di parlare. Quante erano le
immaginabili banalità che la fantasia dei radicali si esauriva ad
escogitare, tante ne furono diffuse dalla stampa e dalla tribuna sul
conto del principe: fu rimessa in circolazione perfino la mitologia
della prima rivoluzione. Luigi Bonaparte era un agente della perfida
Albione, assoldato per rovesciare la gloriosa repubblica: era un
visionario, uno sciocco, segnalato non per altro che pei mustacchi
cerati. Qualche testa fina, come Montalembert, posta sull'avviso da quei
vituperii della Montagna, finì col domandare, se un uomo così
ferocemente coperto di oltraggi poteva essere un uomo del tutto
insignificante. La più parte della gente colta s'ingannò: credevano
fermamente alla nullità personale del principe: più tardi, però,
avrebbero saggiato un disinganno, di cui non si era provato nel mondo il
più singolare, dal tempo dell'ascensione al pontificato di Sisto V.

Ma gl'incauti oratori presentivano l'effetto, che i loro attacchi
avrebbero avuto sulle moltitudini? Erano sinceri, quando unitamente con
tali denigrazioni personali manifestavano uno sconfinato disprezzo per
la potenza del bonapartismo? O mostravano puramente il coraggio del
ragazzo, che fischia all'oscuro per ingannare la paura? Come era mai
possibile che la repubblica, proscritti i Borboni, avesse richiamato i
napoleonidi incomparabilmente più pericolosi? Fu anche respinta la
proposta schiettamente repubblicana di escludere dal seggio
presidenziale i principi delle dinastie decadute; e ciò, perché i
dottrinari vi vedevano una ineguaglianza illegale, i conservatori già
speravano in segreto l'elezione del principe, e i radicali affettavano
di non temerlo. Quando poi in primavera il cittadino Pietri fu mandato
commissario civile in Corsica e tutti i voti dell'isola caddero su
bonapartisti, la stampa repubblicana si consolò avvisando, che non si
trattava di altro che di una innocente stamburata del patriottismo
locale, e che il Pietri, repubblicano provato, non ne portava alcuna
colpa. Erano tanti sempliciotti davvero? E nemmeno l'ultima elezione del
principe, che era la nona, aprì gli occhi ai ciechi? Quanto a taluni
repubblicani, bisogna comunque supporre, che il disprezzo da essi
ostentato era ipocrito. Tuttora nell'ottobre Lamartine, sì, assicurava,
che fosse stupida e ridicola la paura, che un Bonaparte o un Borbone
potesse abusare del popolo; ma perché mai egli stesso nel giugno aveva
proposto, che fosse mantenuto l'esilio di Luigi Bonaparte? Parimente, se
in alcuni circoli radicali fu ventilato il disegno di catturare una
notte tutti i Bonaparte e trasportarli a Caienna, questo per lo meno
dimostra, che non tutti i repubblicani partecipavano a quella
tranquillità. D'altra parte, la grande maggioranza dei repubblicani
effettivamente teneva il bonapartismo per morto e seppellito: tutti gli
scritti che gli uomini del partito pubblicarono dopo il colpo di stato,
concordano nell'affermare, che nessuna frazione era meno temuta di
quella dei bonapartisti. Cotesta confessione implica nello stesso tempo
l'autocondanna dei repubblicani; giacché un partito che conosceva così
poco il popolo, era manifestamente incapace di governare una
democrazia. L'enorme illusione, in preda alla quale viveva allora la
società colta di Parigi, insegna quanto sia alta la barriera che anche
nei nostri tempi democratici separa i ceti colti dagl'incolti; e,
insieme, ci consente di rivolgere uno sguardo profondo sulla condizione
innaturale di uno stato accentrato troppo eccessivamente, in cui era
stata affatto dimenticata l'esistenza delle provincie.

Per noi che li abbiamo risaliti alle origini, non serbano più alcun
mistero i motivi che condussero all'elezione del pretendente. La paura
dello spettro rosso continuò a essere la passione dominante nel ceto
degli abbienti. Dovunque in Europa la marea primaverile era in
decrescenza, dovunque sorgeva quello sciagurato desiderio
d'intorpidimento, quell'indolenza, che nel nostro paese ebbe la sua
espressione caratteristica nella massima: ci vogliono i soldati contro i
democratici. Nelle mani del pretendente le aberrazioni del radicalismo
europeo fruttavano. Abitudine e ottusità, tardità e preoccupazione
economica, che sono le alleate tradizionali della reazione, dominavano
sui cervelli dei contadini. La dittatura di Cavaignac non era altro che
un momento dell'eterna lotta pei fondamenti della società; ma il
contadino aspirava ad una tranquillità più durevole. I meriti del
generale, che per altro non erano menomamente comparabili con le
splendide gesta alle quali un tempo Bonaparte si era richiamato,
valevano ben poco per le popolazioni campagnuole; d'altronde i contadini
lo conoscevano appena: per loro era puramente uno degli aborriti
repubblicani. D'altra parte, i lavoratori della città perseguitavano di
astio indissolubile il vincitore dei sollevati di giugno: sarebbe stato
il benvenuto per loro qualunque capo di governo avrebbe reso la pariglia
ai generali africani. Luigi Bonaparte lo previde. A Londra, quando gli
parlavano della ferrea rigidezza di Cavaignac, disse secco secco al
direttore Lumley: «colui mi spazza la via».

Il fatto è questo, senz'altro: le popolazioni delle campagne volevano la
monarchia. Delle due dinastie borboniche la più recente era impossibile
per ora, la più antica per sempre. Né l'una né l'altra vantavano un
aspirante. Il disegno, ventilato da alcuni zelatori, di fondere i due
rami della casa Borbone, andò a monte, sia perché gli Orléans non
potevano rinnegare la propria origine rivoluzionaria, sia perché i
rigidi legittimisti erano più di qualunque altro partito ostinati
ferocemente nell'odio all'Orléans, compare dell'usurpatore. Perciò Luigi
Bonaparte rimase il solo presidente possibile, nel caso che la nazione
avesse voluto ristabilire il trono; e nello stesso modo come egli
acquistò il potere sol perché non c'era altro mezzo per riparare
all'improvvisata del febbraio, così il secondo impero si è retto fino a
oggi sostanzialmente per questo, che la nazione non sa che cosa potrebbe
sostituirlo. La stampa di sinistra non si stancava di gridare al popolo:
se eleggete Bonaparte, voi fondate l'impero. E una volta che, ciò non
ostante, il napoleonide fu nominato, per gl'imparziali non è più il
caso, dunque, di contendere sul sentimento monarchico dei contadini. Né
possiamo convincere di menzogna Luigi Napoleone, per avere egli, nel
proclama emanato a giustificazione del colpo di stato, presentato
l'elezione del 10 dicembre addirittura come una protesta contro la
costituzione repubblicana. Le numerose schede portanti la designazione
_Napoléon empereur_ e dichiarate nulle dai magistrati scrutatori, non
lasciavano il menomo dubbio sull'intenzione dei votanti. Le ingiurie dei
radicali erano servite soltanto a innalzare l'importanza del principe
nell'opinione del popolo delle campagne. Le comiche scese di testa
dell'avventuriero di Strasburgo e di Boulogne non impressionavano la
povera gente; alla quale anzi andava a genio, che il pretendente avesse
arrisicato due volte la testa pel fatto suo. E quando anche molti degli
elettori effettivamente tenessero il principe per un pazzo, non per
questo il _Journal des débats_ era autorizzato alla disperata invettiva:
«la Francia gioca, la Francia vuol giocare!». L'opinione degli elettori
giungeva in sostanza a dire: «noi giudicavamo ogni possibile forma di
monarchia come più salutare di questa repubblica»: e chi ha il coraggio
di tacciare di stoltezza un tale convincimento?

L'arma del pretendente, la potentissima fra tutte, era il nome. Di rado
un popolo è stato più barbaramente punito, per le vuote fantasie della
sua vanità nazionale. Le persone colte a furia di vagheggiamenti
fantastici avevano fatto dell'imperatore soldato un idolo; adesso
avrebbero toccato con mano, che anche nel secolo decimonono vivevano
milioni di uomini che credevano all'idolo. Contro ogni aspettazione,
l'esercito in principio si mostrò poco sensibile alla malia del gran
nome militare. Certo, la stella di Cavaignac era sul tramonto anche nel
mondo militare. Gli ufficiali si aspettavano, che egli presto avrebbe
cacciato via l'assemblea nazionale con un napoleonico _le règne du
bavardage est fini!_ giacché tra loro non aveva misura l'odio contro i
_pékins_, cioè i ciarloni, gli avvocati. Quando invece serbò, col
concorso di Charras, Lamoricière, Leflô, un irreprensibile contegno
parlamentare, l'autorità del generale africano principiò ad affievolirsi
nelle truppe. Ma siccome il pretendente era egli stesso un _pékin_, il
suo nome riuscì a soppiantare solo in alcuni reggimenti quello del
valoroso generale. Gli uomini delle grandi guarnigioni erano in parte
conquistati al comunismo. Insomma l'armata, che avrebbe deciso un tempo,
come ognuno presentiva, del destino della Francia, era apertamente
divisa di sentimento. Né, oltre le due forze prepotenti dell'istinto
monarchico e della gloria napoleonica, si contavano le ragioni
concorrenti, che presso i partiti facevano inclinare la bilancia dalla
parte del principe. Un grande gruppo realista credeva fermamente, che il
principe avrebbe costituito per loro il ponte di passaggio: un
pretendente per l'altro pretendente! La più preziosa virtù del triste
sciocco non sarebbe altro che la buona volontà di sobbarcarsi. Molti
socialisti pensavano egualmente: il principe sarà presto logoro; allora
verrà il momento per noi. Altri, per contro, opinavano alla disperata,
come il Saint-Arnaud nelle sue lettere: «il principe è l'ignoto, e la
salvezza posa tuttora nell'ignoto». Infine parecchi furbi facevano
questo calcolo: «se nessuno dei candidati raccoglie due milioni di voti,
l'elezione tocca all'assemblea nazionale, che senza dubbio designerà un
repubblicano azzurro»; e per conseguenza si accordavano a favore del
principe.

Il governo si proponeva di mandare commissari nelle provincie, per
«indagare» sull'opinione del paese; ma dové astenersene, perché ogni
ricordo della Convenzione suscitava i contadini a rivolta. In tal modo
gli agenti del principe si trovarono ad avere le mani libere; e
dimostrarono al mondo, che il suffragio universale provocava una nuova
tattica di partito, più grossolana e senza scrupoli. Furono messe in
giro le più grosse contafavole, quanto più assurde, tanto più efficaci:
il principe intendeva di distribuire al popolo i duemila milioni
ereditati dallo zio, e rimettere tutte le imposte per due anni.
Cantastorie e figurinai giravano pei villaggi celebrando la magnificenza
dell'impero; e riportava dovunque un gran successo la poesia sublime di
quella canzone da organetto, che dobbiamo alla musa di Emilio Girardin:

    Si vous voulez un bon,
    Prenez Napoléon!

Con quanto fervore qualche buon contadinotto credette davvero, che il
vecchio imperatore in persona fosse ritornato! Il principe, che si era
atteggiato a erede della Rivoluzione per lo spazio di due decenni,
adesso di botto, siccome i fanatici del quieto vivere e dell'ordine
miravano a lui, si offrì alle speranze degli ultraconservatori. A questi
nuovi alleati aveva prestato un pegno dei suoi buoni sentimenti fin dal
tempo che era a Londra; infatti, durante le agitazioni dei cartisti,
egli si era ascritto come artigliere. «Il mio nome è il simbolo
dell'ordine e della sicurezza», diceva il suo manifesto elettorale. Egli
si designò protettore della famiglia e della proprietà: ai francesi
sarebbe di nuovo permesso «di contare sopra un domani». Nessuno tra i
repubblicani volle credere, che il povero pazzo avesse steso da sé
questo manifesto così bene scritto e così accortamente ponderato;
nessuno notò, che l'ultima proposizione dell'appello consonava parola
per parola con la conclusione del proclama, che un tempo a Boulogne fu
sequestrato all'avventuriero. Solamente quelli che accostarono il
principe e pensarono di dominarlo, non tardarono a fare esperienza, che
sotto le sue maniere flemmaticamente bonarie si celava la fermezza
dell'autocrata. Avvicinandosi il giorno delle elezioni, lo stesso
Cavaignac non poté più dubitare del sentimento monarchico dei contadini;
perciò una forte maggioranza di voti a favore del principe era ritenuta
per lo meno possibile. Ma all'estero, dove ogni conoscenza della Francia
era attinta unicamente alla stampa parigina, il risultato dell'elezione
produsse una sorpresa indescrivibile. Tra tanti milioni di uomini, solo
Cavour aveva nel novembre tranquillamente predetto, che tra poco le
famose misure energiche della rivoluzione sarebbero approdate a questo
risultato: Luigi Bonaparte ascenderebbe al trono imperiale.

Il 10 dicembre, racconta un bonapartista in delirio, «di botto il
pensiero del popolo venne fuori trionfante, potente, completo,
irresistibile, come il fiore dell'aloe, che d'un colpo tonante sboccia
in un attimo e si spande». Riuscito eletto il pretendente da più di
cinque milioni e mezzo di voti, la capitale era schiacciata dalle
provincie, la borghesia dai contadini; e, insiememente, precipitavano
d'un colpo le tacite speranze dei realisti, perché l'espettazione, che
il principe avrebbe spianato la via alla monarchia, riposava sulla
supposizione, che avrebbe potuto ottenere non più che una debole
votazione. Ora, invece, egli veniva a trovarsi potentemente collocato al
disopra dei partiti, coperto dalla colossale maggioranza della nazione.
La natura delle cose gli consigliò di lasciare che i vecchi partiti si
dissolvessero completamente. Parenti e parassiti, lacché e cacciatori di
posti, e la pompa e il fasto di una corte regale accolsero il
presidente, quando salì dalla semplicità repubblicana alla cerimonia del
giuramento nel palazzo dell'Eliseo. Quel giorno stesso, però, egli
disse: «io so bene di dovere un minimo di voti alla mia persona, alcuni
ai socialisti e ai realisti, e quasi tutti al mio nome». Parola modesta;
solo che, purtroppo, conteneva questo annunzio: la legittimità della
quarta dinastia è ristabilita!



IV.


Le lotte parlamentari che ora ardono come le ultime lingue di fuoco di
un cratere spento, fanno vivo riscontro, per la loro cruda veemenza
accoppiata nello stesso tempo all'impostura impotente, con le languenti
contese di parte, che un tempo turbarono la nazione dopo la caduta del
dominio del Terrore; salvo che sono anche più imbelli, più indegne, più
bugiarde di quelle. Un presidente imperiale, un'assemblea nazionale in
preponderanza realista e una costituzione repubblicana nata morta
componevano le tre forze motrici dello stato: la Francia, notavano con
malizia i democratici sociali, si era ingabbiata nella sua nuova carta
come in uno strangolatoio. Se, infatti, il presidente avesse voluto
mantenere, anche malgrado dell'assemblea nazionale, il potere monarchico
di cui godeva come capo dell'amministrazione, sarebbe stato fermato
sulla sua via dal principale ostacolo: la completa mancanza nel
parlamento di un partito bonapartista visibile. Cotesta situazione
innaturale decise sostanzialmente il corso irresistibile degli eventi;
il quale era immutabilmente prefisso, giacché la pacifica classe
agricola, che era il sostegno del bonapartismo, non contava nel suo seno
rappresentanti politici in parlamento. Per gli altri quattro partiti,
legittimisti e orleanisti, repubblicani e socialisti, sorgeva
irrefutabile la questione: era lecito disprezzare l'ambizione di
quell'uomo, il quale aveva sotto di sé il potere esecutivo, e aveva alle
spalle la forza morale di cinque milioni e mezzo di suffragi? E
l'assemblea nazionale, che mancava essa stessa di appoggio nel popolo,
non era tenuta a cercare un terreno d'intesa con la nuova forza della
tirannide popolare? Lo spirito di parte fu più forte di tali
considerazioni patriottiche. Si era formato il tacito accordo, come
disse Thiers, che nessun partito avrebbe sfruttato la repubblica a suo
pro. Il che vuol dire, che ogni partito segretamente sperava di sentir
presto battere l'ora del proprio dominio, e che era deciso a non cedere
il passo a nessun altro. Tanto meno a quello sciocco di presidente.

Tra tutti gli errori in cui i partiti possono incorrere, il più
perdonabile è senza dubbio l'inverso giudizio fatto di un uomo politico
entrato da poco nelle lotte della vita pubblica; eppure la media degli
uomini rimette più volentieri qualunque altro errore, fuori di questo.
La lotta dei liberali contro il conte di Bismarck ha condotto anche noi
tedeschi a fare la poca onorevole esperienza, che solamente alla banale
vanità sembra una degradazione personale il riconoscimento
dell'importanza di un avversario preso in dileggio. A Parigi gli
avvertimenti del conte Molé e di pochi altri imparziali erano fatti al
vento: la maggioranza dell'assemblea nazionale non volle adattarsi a
rispettare in pace il presidente. Non lo avevano conosciuto prima, e non
vollero conoscerlo ora. Il suo primo messaggio al parlamento offriva un
lucido prospetto della situazione del paese; ma lo stesso stile senza
frasi, lo stesso riserbo da uomo di stato emanante da quell'atto valse
come una novella prova dell'inettitudine del presidente. Il principe era
e rimaneva un pazzo, uno «zolfanello», uno straccione animato
dall'ambizione banale di pagare i vecchi debiti e contrarne dei nuovi,
di sentirsi chiamare monsignore, di tenere serve e cavalli, e via
dicendo: il tutto sul tono di quelle finezze, di cui Victor Hugo il
Grande ha vuotato il sacco addosso a Napoleone il Piccolo.

Il principe era pervenuto alla sua carica in nome dell'«ordine», e
conseguentemente «si circondò di uomini d'ordine di tutti i partiti».
Principiava l'êra desolante della reazione europea, giacché di tutti
gli stati provati dalla tempesta del marzo il solo piccolo Piemonte
mostrò l'energia morale di serbarsi fedele alle idee liberali. Per farsi
riputazione nell'Europa bramosa di pace, il principe doveva appoggiarsi
ai conservatori. Sul complice e zelatore di tale reazione contava
l'assemblea nazionale che, eletta nella primavera del 1849, era
presieduta da Dupin con sfacciata partigianeria. L'elezione si era
risoluta in una nuova protesta del popolo contro la rivoluzione di
febbraio. I repubblicani moderati perderono quasi tutti i seggi,
essendosi la loro alleanza coi fanatici dell'ordine già sciolta fin
dall'autunno precedente. La colossale maggioranza degli eletti era di
reazionari, vale a dire di realisti. Il club bonapartista della via
Montmartre si era fuso col grande club dei così detti moderati della via
Poitiers: in generale i contadini bonapartisti elessero candidati
realisti, perché costoro erano i soli reazionari colti che essi
conoscevano, e che erano loro raccomandati dal parroco. Soltanto dalle
urne delle grandi città sortirono in copia i nomi democratici sociali;
ragione sufficiente per rinfocolare da capo la rabbia di partito dei
reazionari.

Nel giugno del 1849, quasi contemporaneamente con l'apertura di questa
camera, scoppiò a Parigi e a Lione una rivolta repubblicana prestamente
domata: passò di nuovo sul paese la follia del terrore, solo che adesso
il terrorismo dei «moderati» non conobbe più limiti. «È tempo», diceva
un proclama del presidente, «che i buoni prendano coraggio e i malvagi
tremino». Gli stessi uomini, che prima avevano dichiarato intollerabile
la temperata severità delle leggi di settembre, a stento ora riuscivano
a sfogarsi nei provvedimenti di arbitrio contro i repubblicani. Senza
esitazione Odilon Barrot da ministro ricorse contro le riunioni popolari
alle stesse leggi scadute fin dal 1793, che Guizot nel febbraio aveva
esumate contro Barrot e le adunanze riformiste. Il governo venne
autorizzato a chiudere tutti i clubs politici e a proibire le
associazioni operaie pel miglioramento del salario. Il consiglio
municipale di Parigi fu nominato dal presidente, e fu limitata per gli
operai la libera elezione di domicilio nella capitale. Frattanto si
susseguivano le deportazioni: con quale frequenza echeggiava a Lambessa
il disperato grido dei prigionieri: «giudici o morte»! L'estremo
fascino, che circondava tuttora il gran nome della repubblica, andò
perduto in cotesti saturnali della reazione. Parve perciò
comprensibilissimo, che gli alberi della libertà nel gennaio del 1850
fossero rimossi dalle piazze di Parigi. Come un tempo il primo Napoleone
ebbe poco da aggiungere alle leggi eccezionali repubblicane del 18
fruttidoro, così ora il secondo impero deve ai predecessori la più parte
dei più famigerati provvedimenti di sicurezza del suo dispotismo. Per
esempio, il prescritto draconiano che all'autore del più piccolo
articolo di giornale fa ordine di sottoscriversi, è un benefizio della
repubblica. I compagni di Luigi Blanc e di Albert erano in esilio fin
dall'estate del 1848; nel giugno del 1849 il medesimo destino toccò a
Ledru-Rollin e ai suoi prossimi seguaci. I pochi superstiti della
Montagna schiumavano di rabbia; e chi in una adunanza vedeva esplodere
l'uno contro l'altro questi due opposti irreconciliabili, il
materialismo sfrenato e il gretto furore pretesco, sentiva che il giorno
della libertà era tramontato. «Il popolo è l'insurrezione, _les
assommeurs sont incalomniables_»; così gridava la destra. Perfino uomini
miti e coltissimi, come per esempio l'economista Carlo Dunoyer,
diventarono reazionari fanatici in quelle lotte furibonde dei partiti:
qualunque richiamo alla necessità di un'amnistia suscitava a tumulto
tutte le passioni comuni dei moderati. Finalmente nella primavera del
1850, nei giorni in cui l'elezione del socialista Eugenio Sue a Parigi
fece correre di nuovo i brividi addosso ai possidenti, la reazione
celebrò il suo ultimo trionfo: la legge del 31 maggio depennò dalle
liste tutti gli elettori che non potevano dimostrare di dimorare almeno
da tre anni nella loro residenza abituale. In tal modo la grande
maggioranza dei lavoratori, cioè tre milioni su dieci milioni di
elettori, fu defraudata del voto. Esultò la maggioranza, inebbriata
dalla vittoria; presto però avrebbe appreso, che il famoso «capolavoro
della restaurazione sociale» segnava il principio della fine.

La maggioranza rivelò sfrontatamente, come al tempo del re borghese, il
proprio egoismo di classe, anche nelle questioni non strettamente
politiche. Chi esemplificava a questi industriali il libero scambio
degli stati vicini, si sentiva rispondere con scherno: «gli altri popoli
mandino pure in malora le proprie officine in grazia delle vuote teorie;
tanto meglio per la nostra industria protetta!». Concordavano in
siffatte idee tutti i giornali, dal repubblicano _National_
all'_Univers_ ultramontano. Il disegno di legge doganale liberale di
Sainte-Beuve fu messo da parte, il ministro liberoscambista Buffet e
Leone Faucher furono costretti ad accordarsi davanti alla paura dei
protezionisti, e il trattato di commercio col Piemonte non si poté
rinnovare se non sotto date limitazioni, perché il Piemonte in fatto di
navigazione non era da annoverarsi tra i piccoli stati innocui! Era
insolenza quella di Massimo d'Azeglio, quando fin dall'aprile del 1849
scrisse canzonando al suo amico Rendu: «il vostro stato lo chiamate
ancora repubblica?».

L'assemblea nazionale consumava le proprie forze in siffatti espedienti
del furore partigiano e dell'egoismo sociale. Anche il solo prodotto
durevole di cotesti legislatori, la legge sull'istruzione del 15 marzo
1850, portava il vasto suggello della mentalità di partito. Subito dopo
l'assunzione del presidente, il ministro ultramontano Falloux nominò
una commissione per la sistemazione della scuola: era presieduta da
Thiers, volteriano. Non invano gli _Annales de la propagande de la foi_
erano diffusi nel paese in 170.000 esemplari, né invano il vescovo
Dupanloup faceva da anni il panegirico delle idee dell'89. Il clero si
era accostato alla repubblica con pia sommissione, per impetrare subito
alla Chiesa la libertà d'insegnamento e di associazione. Laddove i
liberali avevano esitato finora a rinvigorire la potenza della Chiesa,
che era l'unica forza sociale serbante tuttora una certa indipendenza di
fronte all'onnipotenza dello stato, ora invece la paura economica
invocava l'ordine a ogni costo. La solidarietà degl'interessi
conservatori esigeva che il clero plasmasse e educasse uomini quieti di
spirito. In nome dell'ordine, volteriani e ultramontani stretti in bella
unione decisero non solamente l'abolizione dell'assolutismo
nell'università di Parigi; il che era nei desiderii di ogni animo
libero; ma l'assoggettamento dell'istruzione letteraria all'influenza
della Chiesa. Quattro vescovi entrarono a far parte del consiglio
superiore della pubblica istruzione, e insieme con loro, per ragioni di
decenza, anche alcuni rappresentanti degli altri culti: la Chiesa fondò
scuole a volontà, e lo stato non richiese più alcun titolo d'idoneità
scientifica dagl'insegnanti ecclesiastici.

Anche nella politica estera si manifestò lo stesso cieco zelo di
settarismo rivoluzionario. Nella contesa per la costituzione tedesca la
Francia naturalmente si schierò allato all'Austria. Solo quando il
principe di Schwarzenberg mise avanti il suo disegno di fondazione di un
impero di settanta milioni di sudditi, solo allora a Parigi si
spaventarono: temerono da una tale proposta, innocente anzi che no, un
rafforzamento della Germania, e fecero minacce persistenti a Berlino e a
Vienna, fino a quando l'Austria non rifiutò l'adesione dei suoi stati
alla confederazione germanica. La questione italiana, tirata avanti tra
i peccati di omissione del passato anno, era adesso interamente caduta.
Quando poco prima dell'impresa di Novara il re Carlo Alberto domandò
aiuto a Parigi, il presidente era propenso a consentire alla proposta;
ma i ministri temerono l'ambizione del Piemonte, e la Francia si tenne
spettatrice inerte del dominio della sciabola rafforzato di nuovo
dall'Austria nel Mezzogiorno di Europa. Per tutto l'anno 1849 il
presidente serbò una grande inclinazione a dare man forte al Piemonte;
ma lo ritenne il quietismo, lo spirito reazionario dell'assemblea
nazionale. Si contentò di prevenire la Toscana dall'adesione a una
unione doganale austriaca.

Tanto meno parve tollerabile l'intervento armato degli austriaci e dei
napoletani a Roma. Ma gli uomini d'ordine tuonarono contro il
radicalismo magnanimo degli ardimentosi triumviri romani, gli
ultramontani lamentarono il derubamento del _Patrimonium Petri_, e anche
protestanti liberali, come Coquerel, in quei giorni di felicità
reazionaria levarono al cielo il papa come il migliore amico della
libertà. Da tali imbarazzanti contraddizioni sorse in fine il disegno,
che la Francia sarebbe intervenuta a favore del papa, insieme, e della
libertà. Luigi Bonaparte previdentemente, fin da prima della sua
elezione, aveva cercato di destreggiarsi tra le due direzioni: il due
dicembre scrisse al nunzio, che non aveva niente di comune in Roma col
cugino radicale Canino, e che egli voleva il ristabilimento dello stato
pontificio; cinque giorni più tardi scrisse sul _Constitutionel_, che,
non ostante tutto, non approvava la spedizione a Roma. Quando salì al
governo, l'impresa romana era già cosa conclusa, e l'uomo che un tempo
aveva indetto guerra al papato temporale, fu condotto a limarsi per
cinque mesi nel tentativo impossibile di far giustizia nello stesso
tempo al papa e al liberalismo. Il primo atto importante di politica
estera della repubblica, la quale «non doveva mai movere guerre contro
la libertà degli altri popoli», si aprì con uno strappo alla
costituzione; la prima spedizione guerresca del napoleonide, con una
rotta. La nuova assemblea nazionale spinse finalmente le cose alla piega
decisiva. Radunatosi questo parlamento reazionario, l'agente diplomatico
liberale Lesseps fu richiamato, e rinnovato con sanguinoso calore
l'assalto a Roma. Cadde la repubblica romana, prostrata dalle armi della
libertà francese: la Francia prestò servizio di birro al papato di
ritorno, e gli ultramontani tripudiarono sulla rovina dei demagoghi
senza Dio. Era palmare, che la politica dell'intervento della Francia
aveva riportato a Roma lo stesso premio, che in Ispagna al tempo di
Luigi XVIII: i più gravi sacrifizi di danaro, di uomini e di riputazione
tornarono unicamente a profitto della potenza dell'Austria e del partito
reazionario. È indubitabile, che il principe non desiderasse menomamente
un ripristinamento incondizionato del papa re; anzi Gioberti stesso
attesta con quanto zelo Tocqueville, ministro degli esteri, si
adoperasse per ottenere garanzie in pro dei diritti politici dei romani.
Se non che il presidente non aveva la forza di resistere alla foga
reazionaria dell'assemblea nazionale; né al napoleonide era consentito
di lasciare invendicata la rotta delle armi francesi. Cacciato l'eroico
manipolo di Garibaldi e ristabilito l'antico sgoverno, il principe
indirizzò a Edgardo Ney la famosa lettera, che domandava per lo stato
pontificio amnistia, amministrazione laica, principii liberali di
governo e il codice Napoleone. Il che non era un richiamo valevole pel
momento, giacché il presidente conosceva bene, mentre scriveva,
l'implacabile odio vendicativo della Curia; era una riserva per
l'avvenire e, insieme, un segno ai liberali di Europa, che il principe
non aveva ancora rinunziato per sempre ai sogni rivoluzionari della
giovinezza.

In tal modo il parlamento faceva da manovale a una reazione vendicativa,
e la trappoleria repubblicana era uno schifo per ogni uomo sincero e
onesto. Come mai istituzioni di tal sorta avrebbero ispirato un
tremebondo ossequio a un principe imperiale? Non cadeva dubbio, che il
presidente avrebbe battuta una terribile strada, verso la meta a cui una
fede fatalistica lo sospingeva. Era la strada sicura, tanto più che
all'indole senza scatti e per nulla impassibile del nipote era
completamente estraneo quel gusto brutale delle azioni violente, che era
proprio della natura guerriera dello zio. Se altra strada non fosse
stata davanti, che quella della violenza, a tutti coloro che conoscevano
il passato di cotesto cinico sarebbe parso evidente che egli, stimolato
dalla temeraria sfrontatezza di Morny, avrebbe rotto il giuramento con
la fredda calma di un giocatore, che onora il successo come suo Dio. E,
in verità, l'atmosfera morale di quella età senza fede e senza ideale
era poco propizia alla lealtà della coscienza. Se gettiamo uno sguardo
sugl'intrighi realisti dell'assemblea nazionale, non possiamo trattenere
una dura parola: in cotesta maggioranza cento se ne contavano, che si
sarebbero arretrati davanti al rischio del colpo di stato, ma nemmeno
trenta davanti allo spergiuro. Una volta che Thiers ed Emilio Girardin,
che avevano aiutato il presidente a conquistare il potere, subito dopo
lo abbandonavano, noi arrischiamo la scortese affermazione, che cotesta
diffalta non fu provocata da scrupoli di coscienza. Questi signori
diedero le spalle a Luigi Bonaparte, perché andò a vuoto la loro
speranza di dominare l'autocrata.

Specialmente dopo la rivolta del giugno 1849 il presidente sentì la
necessità di procedere di accordo coi reazionari. Cercò dapprima di
governare parlamentarmente, e nel viaggio che fece nel paese durante
l'estate del 1849 si comportò con molta prudenza. Felice occasione di
conoscere uomini e cose, e intessere tra il tintinnio dei bicchieri le
prime fila della grande cospirazione. Chi oggi rilegge a mente fredda
quei brindisi e quei discorsi ufficiali comprende, sempre con nuovo
stupore, che solamente i vanitosi oratori dell'assemblea nazionale
potevano sorridere di quelle arti di seduzione tanto abili e pericolose.
Dovunque, il principe seppe lusingare la boria provinciale: a Rouen lodò
la perfezione delle industrie, a Saumur, sede della grande scuola di
cavalleria, lo spirito militare; a Poitiers ricordò i giorni procellosi
di Carlo VII, ad Epernay le ultime lotte dell'imperatore. Parlò
rugiadoso, come un mite uomo di ordine; diffidò dalle teorie dei
cervelli esaltati, richiamò alla fede, al rispetto della proprietà e
della famiglia. Stimò anche necessario di rievocare un colpo di stato
sul tipo di quello del 18 brumaio; perché, spiegò innocentemente, «la
Francia non si trova ora nella condizione che richieda un rimedio così
eroico». Ad Ham, sicuro, ad Ham, dove la popolazione si affollò
tripudiando intorno al prigioniero liberato, egli riconobbe con
contrizione i peccati della giovinezza: ora non capiva più quella
presunzione che un tempo lo spinse ai tentativi violenti di sovversione,
e non lamentava affatto di averli dovuti espiare. Solo una volta, ad
Angers, tradì, alquanto più chiaramente, il suo desiderio riposto: «io
non ho né il genio, né la potenza di mio zio»: parola significativa in
un paese, le cui provincie sono abituate ad attendersi ogni prosperità
dal capo dell'amministrazione.

A malgrado di una tale riservatezza del principe, non era però
verosimile che un capo di stato responsabile si sarebbe vincolato ai
consigli dei terzi. Il presidente dichiarò nel modo più reciso al
principe Napoleone, suo arrogante cugino, che non avrebbe mai tollerato
l'influenza di chi si sia, e che intendeva di governare nell'interesse
delle moltitudini, non mai di un partito. Anche i ministri sentirono
presto sopra di sé la forza di una volontà fatta: s'indussero perfino a
decorare, apparentemente per meriti verso la repubblica, i congiurati di
Strasburgo, e con tutto ciò non riuscirono a cattivarsi la soddisfazione
del padrone. Solo che il principe cercò di legare a sé la testa forte
del gabinetto, Tocqueville. Il quale però argomentò: «il principe vuole
creature, non già ministri». Inoltre il presidente, il 31 ottobre 1849,
annunziò all'assemblea nazionale che la repubblica abbisognava di una
guida unica e ferma; che perciò aveva dimesso i ministri e si era
circondato di uomini «tanto solleciti della responsabilità mia quanto
della loro». «La Francia», esclamò, «cerca la mano, la volontà, la
bandiera dell'eletto del 10 dicembre. Tutto un sistema ha trionfato il
10 dicembre. Il solo nome di Napoleone è un programma, e significa,
all'interno, ordine, autorità, religione, benessere del popolo, e,
all'estero, dignità nazionale». Principiò il governo personale.
Conformemente alle dottrine dell'idea napoleonica, vennero chiamati al
ministero specialisti come Fould, Rouher, Hautpoul, i quali
espressamente dichiararono di stare fuori dei partiti e di riconoscere
un solo partito, «la salute della Francia». La piega degli eventi, che
del resto risultava inevitabilmente dalla situazione di responsabilità
fatta dalla costituzione al presidente, era tale, che Tocqueville
convenne perfino: «forse il principe fa bene a mandarci via». Pochi
giorni dopo, a una riunione di dignitari della magistratura il
presidente insegnò, che la Francia aveva visto passare in varia vicenda
costituzioni e governi, e solo le creazioni dell'imperatore erano
rimaste!

La voglia di dominare dell'assemblea e la volontà sempre palese e vigile
del presidente si erano già azzuffate più di una volta in intrighi
odiosi. Fedele agli usi dissipati del tempo che era un fuggiasco, il
principe viveva in eterni imbarazzi di pecunia. Ma s'ingannava
l'assemblea, se sperava che la nazione avrebbe, come pel passato,
ripetute a dileggio le beffe di Cormenin su _Louis le désireux_.
Mormorarono i contadini della spilorceria dei deputati, quando il
presidente annunziò ostentatamente la vendita dei suoi cavalli; e il
fido Achille Fould trovò sempre nuovi speculatori pronti ad arrischiare
il loro danaro sulla grossa partita del principe. L'ostilità dei due
poteri, rattoppata cento volte miserabilmente, precipitò in fine ad
aperta rottura dopo la legge elettorale del 31 maggio 1850. Ognuno aveva
temuto disordini in conseguenza di cotesto attentato a quanto la nazione
aveva di più sacro, di cotesta grossolana offesa all'eguaglianza. Quando
il popolo, con tutto ciò, persisté nella sua ottusa infingardia, allora
in tutti i partiti si sollevò la questione: tale essendo il torpore
della nazione, anche un colpo di stato sarebbe tollerato? Si ridestarono
speranze antiche e angustie nuove. L'estate del 1850 vide tutti i
partiti monarchici affaccendati in alacre faccenda, e rivelò di nuovo la
profonda slealtà dei repubblicani dell'oggi. I legittimisti
pellegrinavano a Wiesbaden, gli orleanisti a Claremont. Thiers,
naturalmente, aveva inteso soltanto di esprimere il proprio rispetto
personale al vecchio re; più francamente, Berryer confessò di essere
andato a Wiesbaden a compiervi una missione politica. L'una e l'altra
manifestazione non ebbero successo. Anzi il duca di Chambord non era
adesso affatto disposto a un riconoscimento incondizionato del nuovo
diritto pubblico. E veramente tra gli orleanisti si annunziava il
disegno, che il duca Joinville concorresse al seggio presidenziale.
Anche per questo partito il giuramento alla costituzione non formava
alcun ostacolo; sarebbe prestato, come candidamente racconta Dunoyer,
solo sotto la tacita riserva, che la Francia avrebbe al più presto
ristabilita con mezzi pacifici la monarchia. Mancava però l'ardimento
della risoluzione.

Nel frattempo il presidente profittò destramente del favore del caso,
che gli permetteva d'inaugurare le ferrovie costruite dagli Orléans.
Percorse per la seconda volta il paese e civettò apertamente intorno al
favore delle moltitudini. «I miei migliori amici abitano nelle capanne,
non nei palazzi», esclamò agli operai delle strade ferrate della
Piccardia; e ricordò la parola dell'imperatore dei plebei: «il mio polso
batte all'unisono col vostro!», e lamentò con dolore, che la
costituzione gli avesse risecato il diritto di grazia. Mostrò a Lione
vivo interesse per la cassa di soccorso degli operai: l'applauso dei
setaiuoli gli aprì il cuore, e parlò loro come «rappresentante di quelle
due grandi manifestazioni nazionali che nel 1804 e nel 1848 si proposero
di salvare per mezzo dell'ordine i sublimi principii della Rivoluzione».
Anche più trasparente predisse, che l'amor di patria secondo le
circostanze avrebbe potuto comandare la rinunzia o la perseveranza, e
infine prese fervorosamente commiato: «sarebbe immodesto, se io vi
dicessi come l'imperatore: o Lionesi, io vi amo! ma permettetemi di
dirvi dal profondo del cuore: o Lionesi, amatemi!». E continuò a parlare
in cotesto stile, finché a Caen disse chiaro e tondo: «se il popolo mi
imponesse una nuova soma, sarebbe grave colpa da parte mia il sottrarmi
all'alta missione!». Nulladimeno, il tripudio delle moltitudini operaie
importava poco: i destini del paese erano librati sul puntone della
spada. L'odio dell'esercito contro ogni forma parlamentare continuava in
nulla disasprito anche sotto l'assemblea reazionaria. Si principiò col
disprezzare come chiacchieroni i generali africani: veterani imperiali e
giovani lanzichenecchi ambiziosi bramavano di porsi di gran lunga al
disopra dei benemeriti condottieri. Attivi faccendieri rinfrescavano
infaticabilmente i ricordi della gloria imperiale; e in cento caserme
spiccavano le effigie dell'uno e dell'altro Napoleone con sotto il
ritornello:

    _Dieu nous l'a pris et Dieu nous l'a rendu!_

Al ritorno dal suo secondo viaggio, il principe passò la grande rassegna
sul piano di Satory: il vino corse a fiumi, e i soldati ubbriachi
gridavano: viva l'imperatore! La stampa europea scoppiò di nuovo in risa
di scherno sul povero pazzo: i bengali di Satory furono paragonati coi
tuoni di Austerlitz e il nipote ai fuochi con lo zio al fuoco. Non si
riflette alle tante volte che nell'età dei Cesari il destino del mondo
fu deciso con simili espedienti. Subito dopo, il generale Changarnier,
comandante delle forze armate di Parigi, fu rimosso, e furono divise le
sue funzioni e affidate a uomini ligi. Il generale aveva titubato a
lungo, tanto da essere la «sfinge» guardata con paura dai partiti in
lotta; in fine si buttò ai realisti, perché opinava di dominare il
principe e perché non penetrava la situazione del paese. Nemmeno una
compagnia, affermava pateticamente, aiuterebbe il presidente al colpo di
stato: «discutete in pace, o rappresentanti del popolo!». Così stavano
le cose, quando si riaprì dopo un breve aggiornamento l'assemblea
nazionale. S'incrociarono dall'una e l'altra parte accuse e contraccuse
furibonde, tutte egualmente giustificate, tutte egualmente ignominiose:
fedele riflesso di una vita pubblica menzognera, in cui gli uomini leali
si contavano sulle dita. Possiamo bene prestar fede al principe, che
spesso, davanti a coteste selvagge zuffe parlamentari l'animo gli
veniva meno. Il secondo anniversario della sua elezione, egli nel
palazzo di città dichiarò, che il suo era il solo potere legittimo, che
fosse sorto dal febbraio: piaggiò l'esercito, mutò i ministri a
piacimento. Diffidante, Thiers esclamò: _l'empire est fait._

Milioni di uomini sentivano, che questa lotta senza uscita tra i due
supremi poteri dello stato non poteva, non doveva durare. Una cupa
astiosità si appesantiva sul paese. Nessuno voleva esprimere la propria
opinione, perché da tutti si temeva; e nessuno poteva esprimerla, perché
la stessa fantasia degli uomini era mutila: non avevano alcun concetto,
alcuna idea dell'imminente futuro. L'ipocondrico scritto di Raudot sulla
decadenza della Francia, che fu una mortificazione per la boria
nazionale, contò, non ostante le esagerazioni, numerosi lettori.
Efficacia anche maggiore ottenne lo scritto brutale di Romieu sullo
«spettro rosso», con la sua faziosa requisitoria contro «il popolo,
questa bestia feroce e stupida». Gli almanacchi e i fogli clandestini,
di cui si nutriva la borghesia di provincia, si compiacevano d'infinite
invettive contro i nemici della proprietà. L'industria e il commercio
non erano in grado di elevarsi, la scienza e l'arte tacevano affatto. La
gente si consolava tuttora col pensiero, che cotesta era la conseguenza
dei giorni turbolenti; solo più tardi si riconobbe, che effettivamente,
dopo la febbre degli ultimi sessant'anni, la forza creatrice della
nazione era giaciuta alquanto tempo appassita.

Se non che, piú grave di tutte le sollecitudini del momento, premeva
l'ansietà degli enimmi del 1852, anno che avrebbe portato
contemporaneamente l'elezione del presidente e dell'assemblea nazionale.
Il clero, che da tre anni si era tenuto lontano dal pretendente, ora,
dopo la caduta della repubblica romana, era entrato con riconoscenza
tra le fila bonapartiste. Anche nei suoi viaggi il principe aveva
guadagnato molti aderenti col suo tatto obbligante. In effetto, dal
popolo non era amato menomamente, perché gli mancava l'opportunità di
mostrare la propria importanza alle moltitudini. Solo che ai vantaggi
che già da tre anni lo raccomandavano al popolo, se ne aggiungeva adesso
uno nuovo di assai maggior peso: Luigi Bonaparte si trovava già al
governo, e la nazione aveva orrore di qualsiasi incerta novità. E
siccome non si presentava contro di lui nessuno speciale candidato,
rimaneva indubbiamente stabilito, e nessun imparziale lo ha contestato,
che il popolo, contrariamente al disposto della costituzione, avrebbe
rieletto il principe. Il che era tanto sicuro, che nemmeno una
dichiarazione esplicita del presidente di non accettare la rielezione,
avrebbe distolto il paese dal suo proposito anticostituzionale. Quale
spettacolo, se il popolo avesse eseguito egli stesso il colpo di stato,
fomentando in ogni capanna la slealtà e l'indisciplinatezza; se migliaia
di funzionari, se l'intera Francia ufficiale avesse incitato la nazione
a lacerare lo statuto! Ma i rappresentanti popolari di una democrazia
erano poi autorizzati a osservare, contro la volontà del popolo sovrano,
la lettera di una costituzione divenuta impossibile? No, certamente: se
nel turbine delle contese di parte sopravviveva tuttora una favilla di
spirito patrio, l'assemblea nazionale doveva decidere il rimaneggiamento
legittimo della costituzione. Tale era la volontà del paese: 79 consigli
generali dei dipartimenti sopra 85 domandavano la revisione dello
statuto. Che dietro le richieste della revisione si nascondessero alcuni
motivi assai loschi, che non fosse sano rimettere in questione il nuovo
diritto pubblico fondato appena di recente; tutto ciò non meritava
considerazione a confronto con un depravamento politico senza pari e a
confronto con l'altro pericolo della guerra civile. Per quanto i
complici del bonapartismo abbiano favoleggiato a meraviglia sulle trame
sinistre dei rossi, è però certo, che la democrazia sociale preparava
per le elezioni del 1852 un ultimo colpo disperato. Una rete di società
segrete copriva di nuovo il paese come al tempo della Restaurazione.
Laggiù, nel Mezzogiorno, dominava la società dei montagnardi col suo
tenuto organo, _l'Ami du peuple_. In quelle provincie infiammabili
l'antico fanatismo borbonico era stato soppiantato da un fiero movimento
radicale, che aveva il centro a Marsiglia. Che le cospirazioni
comunistiche, anche esse, non vi fossero affatto spente, ciò è ormai
fuori dubbio dopo le recenti rivelazioni sull'Internazionale. Si doveva
rimanere inerti davanti al malanno che maturava? Il generale
Changarnier, quando fu arrestato la mattina del 2 dicembre, opinò che
avrebbero potuto risparmiarsi l'incomodo; tanto, la rielezione del
presidente era già assicurata. Gl'inconsiderati moralisti, che ripetono
tuttora cotesta affermazione e dichiarano il colpo di stato una violenza
superflua e inutile, non farebbero meglio a ponderare, se fra tutti i
colpi escogitabili, che avrebbero potuto ferire la Francia, il più
terribile non sarebbe forse stato proprio _le coup d'état populaire_,
vale a dire, la lacerazione dello statuto perpetrata dalla generalità
della nazione?

Con tutto ciò il quadro della situazione inauditamente intrigata non è
ancora compiuto. Data per certa la rielezione del principe, era
altrettanto assodato, che i contadini avrebbero rimandato all'assemblea
nazionale una maggioranza di reazionari realisti, giacché non esisteva
ancora per nulla un forte partito bonapartista preparato al parlamento.
Talché, anche la revisione dello statuto, se pur si fosse attenuta solo
a rendere possibile la rielezione del presidente, anticipava non altro,
che lo spettacolo di nuovi intrighi infiniti. Solo il ripristinamento
della monarchia, già da un pezzo invocata dalle moltitudini, e
propriamente della corona napoleonica, l'unica possibile allora, avrebbe
avuto virtù di ridare allo stato la salute; e, in effetto, il dilemma
«repubblica o monarchia?» fu seriamente dibattuto dalla commissione
parlamentare, che trattò della revisione nell'estate del 1851.
Un'eccellente relazione, dovuta alla penna di Tocqueville, propose
all'assemblea di decidere per la revisione. Ma l'accecamento della
Montagna e di alcuni avversari fanatici del presidente impedì che si
raccogliesse sulla proposta la maggioranza voluta di tre quarti
dell'assemblea. Il diritto esistente era insostenibile, la riforma era
preclusa dal voto del 19 luglio. Il problema del prossimo futuro,
secondo la parola cruda del radicale Schölcher, sonava: _à qui le
canon?_



V.


Il profondo disgusto che suscitano in ogni uomo retto i grossolani
panegirici della stampa bonapartista, non c'impediscono di riconoscere,
che in quel momento il presidente era il solo uomo che perseguisse uno
scopo politico chiaro, conseguibile. Già da mesi, tutti parlavano della
minaccia del colpo di stato, eppure in quell'infinito torpore della
nazione un atto violento sembrava altrettanto difficile quanto l'idea
della difesa. I partiti si corrodevano in vane leghe, preparandosi, dopo
la catastrofe, a giustificare la loro inerzia con la frase vuota: che il
disprezzo all'indegno presidente aveva impedito ogni vigilanza. Anche
Tocqueville non fece che abbracciare lo sconsolato partito di aspettare
il colpo di stato e d'intervenire in seguito, affinché almeno un lecco
delle civili libertà fosse salvo! Come ci appare sicuro e superiore, in
mezzo a una tale babele, il presidente! Nell'estate del 1851 intraprese
il suo terzo viaggio, e chi nelle concioni peregrinanti del principe
udiva la reiterata professione di fede immutabile allo statuto proprio
in uno con l'annunzio non metaforico del colpo di stato, doveva
convenire che la mancanza di coscienza dello zio aveva un degno erede. A
Digione il principe diede l'affidamento, ormai non più inconsueto, che
avrebbe seguito la voce del paese: «e, credetemi, la Francia nelle mie
mani non perirà»: e arrischiò una vivace spostatura contro l'assemblea
nazionale, che avrebbe approvate tutte le misure di rigore, rigettate
tutte le proposte di clemenza. Sebbene il _Monitore_ avesse soppresso il
passo, pure un nuovo turbine d'indignazione si scatenò nell'assemblea.
Né gli animi eccitati si calmarono, quando alcune settimane dopo, a
Beauvais, il principe pronunziò le evangeliche parole: «È confortante il
pensiero, che nei supremi pericoli sovente la Provvidenza presceglie un
solo a strumento di salvazione». Generalmente traspariva da questi
discorsi lo studio di presentare il bonapartismo come un sistema del
giusto mezzo, egualmente lontano sia dalle impossibili utopie che
dall'antico regime, «quali si fossero le forme in cui questo volesse
ammantarsi». Come mai in giorni siffatti Guizot potesse scrivere un
libro su Monk, e ciò nella speranza non dissimulata che il principe
seguisse il miserevole esempio di quell'eroe; cotesto era un mistero
anche pei devoti dell'impeccabile ministro.

Ma al presidente era riserbato un ultimo trionfo: la legge del 31
maggio. Sembra a noi del tutto ammissibile, che solo di contraggenio il
principe avesse dato il suo consenso a questa limitazione del suffragio
universale, il quale, del resto, costituiva il solo titolo legittimo
della sua dinastia: d'altra parte, egli non aveva facoltà d'impedire la
legge. E appunto di quest'opera inconsiderata decise ora di servirsi
come arme contro l'assemblea nazionale. La stampa bonapartista, con a
capo il sempre disinvolto Véron, aprì la campagna contro la legge. Di
più, il principe saggiò un tentativo, poi subito smesso, di approccio ai
democratici sociali, e finalmente il 4 novembre in un messaggio al
parlamento disse: «Nutrite voi forse meno fiducia di Noi
nell'espressione della volontà popolare? Ripristinare il suffragio
universale significa prendere la bandiera alla guerra civile e l'ultimo
argomento all'opposizione». Era quello, dopo il rigetto della revisione
dello statuto, un altro grosso sproposito del parlamento l'ostinarsi,
per odio al presidente, a tenere in vita una legge che tutti
confessavano insostenibile. E così il presidente apparve ora alle
moltitudini come il difensore della democrazia di contro a una casta
tirannica.

In uno stato burocratico la lotta tra il potere esecutivo e il
legislativo deve infallibilmente menare alla vittoria dell'esecutivo,
quando però il capo dell'amministrazione possa contare sulla validità
del proprio volere e sull'indifferenza delle popolazioni. Sin dalla fine
di ottobre, dichiarata la guerra, un gabinetto di proseliti
personalmente ligi circondò il presidente. Già da un pezzo il principe
aveva ravvisato nel generale Saint-Arnaud l'avventuriero arrischiato e
senza coscienza che faceva al caso suo. Per procurare al suo uomo un po'
di grido, fu intrapresa una spedizione contro i Cabili. Tornato
dall'Africa vittorioso, l'eroe ottenne il portafoglio della guerra, e
immantinente risovvenne alle truppe il dovere della cieca ubbidienza
militare. Il presidente ricevé gli ufficiali con l'assicurazione: «il
giorno del pericolo io non mi condurrò come i miei predecessori; non vi
dirò: marciate, vi seguo! vi dirò: io marcio, seguitemi!». In
conseguenza di tali avvenimenti, i questori della camera presentarono la
mozione, che l'assemblea nazionale avocasse a sé il regolamento di
ordine dell'esercito. Che, dati gli umori ostili dell'esercito, cotesta
idea non avrebbe seguito, era evidente; ma, affinché tutta l'azione
dell'assemblea non apparisse un vacuo apparato verbale, bisognava venire
all'estremo tentativo di difesa. Il parlamento era colpevole di falli
indimenticabili, perché troppo sovente aveva posto al disopra del bene
del paese l'odio reazionario della fazione: ed ora, giusto contrappasso,
gli toccava di andare alla malora sotto la rabbia settaria della
Montagna. L'odio ai dispregiatori dei sacri giorni di febbraio stava ai
socialisti più a cuore, che non la preservazione della repubblica. Essi
si ribadirono come i rappresentanti schietti di quella democrazia
dell'invidia, che gl'italiani qualificano col nome incisivo di
_democrazia di rappresaglia_. E non vollero prestare nuove armi agli
assassini del suffragio universale: la mozione dei questori fu
rigettata. Fu il terzo grosso sproposito del parlamento. Esso stesso, il
parlamento, diede la partita perduta. Il presidente, secondo che ammette
lo stesso Granier sulla fede di Cassagnac, era deciso, non appena la
proposta dei questori fosse stata approvata, a rispondere immediatamente
con un atto di autorità. Caduta la proposta, disse sollevato: _cela va
peut-être mieux!_ Ora sapeva, che contro di lui non esisteva nemmeno
l'ombra di una volontà, e che se il colpo di stato avesse incontrato
mille avversari, non un uomo si sarebbe mai afflitto per quel
parlamento.

La sola giustificazione possibile del colpo di stato è nelle
incalcolabili perturbazioni che minacciava di apportare l'anno 1852, e
nella necessità della monarchia, ammessa ormai dalle manifestazioni non
ambigue della volontà popolare non solo, ma, in fondo, perfino dalle
ultime discussioni dell'assemblea nazionale. Il presidente scansò gli
sbagli del 18 brumaio, e prese a modello la rigidezza ferrea,
rapidamente risolutiva, con cui altra volta lo zio aveva compresso il 13
vendemmiale Parigi sollevata. Anche ai quattro uomini, che soli il
principe aveva iniziati ai suoi torbidi segreti, Morny, Saint-Arnaud,
Persigny e Maupas, appartiene la testimonianza, che tutti insieme
seguivano con la sicurezza della virtuosità le teorie del catechismo
della tirannide di Machiavelli. Morny era l'anima dell'impresa: dal
silenzio del suo gabinetto dirigeva i movimenti delle truppe, quando
alla fine il 3 dicembre, con sua alta soddisfazione, la rivolta nelle
strade si annunziò abbastanza fiacca. Se il 2 dicembre fu una necessità,
e oggi qual uomo che abbia senso politico può ancora contestarlo? è però
non meno sicuro, che negli animi superficiali degli sfrontati
venturieri offertisi sicari al colpo di stato, non è a ricercare nulla
di quella profonda serietà, di cui un atto di ardimento storico suole
compenetrare gli audaci autori. La sera del 1º dicembre disse il signor
di Morny: «se è questione di scopa, procurerò di trovarmi dalla parte
del manico»; e il mattino del giorno seguente, mentre i birri invadevano
la camera dei deputati, Saint-Arnaud e Mocquart si baloccavano con
spiritosaggini scimunite: come sarebbero stati spassevoli a vedere il
piccolo Thiers e il piccolo Baze in camiciola, davanti ai graduati di
polizia! E coteste vecchie storie innominabili, il signor Véron dopo
quindici anni le serve in tavola un'altra volta, con vanitoso
compiacimento. La massima incontestabile, che un uomo di stato non deve
volere nulla più morale del necessario, non basta evidentemente a
discolpare la frivola e feroce criminosità dello strumento del
necessario. Se una congiura, perpetrata dai custodi stessi della legge,
è certamente la più esosa di tutte le violazioni del diritto, per giunta
cotesta enormezza fu resa quasi inespiabile dalla nullità morale dei
consoci, dei quali il presidente si valse. E anche l'esecuzione del
colpo di stato procedé con brutalità sproporzionata e inutile.

Lasciamo ad altri il rimestare in quella lordizia e descrivere
particolareggiato, come il generale Forcy fece prendere pel colletto i
deputati, come il generale Saint-Arnaud fece punire di morte sul momento
i còlti sulle barricate, come la soldatesca avvinazzata si sparse dopo
la vittoria ad assassinare e inferocire nei viali dei boulevards, come i
difensori delle barricate rimasti lì furono spazzati via in mucchio,
tanto che i superstiti si riversarono al camposanto per riconoscere a un
braccio, a un piede sporgente dalla terra i loro cari caduti. Il sistema
delle deportazioni e delle proscrizioni, maneggiato dall'assemblea
nazionale con così miserabile maltalento, si ritorse adesso contro i
suoi autori. È ben lecito calcolare, che durante lo stato d'assedio
proclamato su una gran parte del paese, 80.000 persone furono
imprigionate: nemmeno a Napoli e a Roma la reazione aveva così
radicalmente fatto piazza pulita degli avversari.

Tra gli avvenimenti della rivoluzione di brumaio il giudizio morale
stima il più obbrobrioso non già la brutale irruzione della soldatesca
nella sala dei cinquecento, ma la seduta serotina del 19 brumaio, non
menzionata dalla maggior parte delle opere storiche, nella quale essa
medesima, l'assemblea dei cinquecento, dichiarò di avere il generale
Bonaparte ben meritato della patria. Del pari, il punto tragico
impressionante del colpo di stato di dicembre non è la barbarie degli
sgherri, non è il pathos rettorico a buon mercato che i deputati
sfoggiarono in faccia ai soldati irruenti; è invece la sorte delle
rappresentanze popolari, le cui armi spirituali, quando vengono al cozzo
con la potenza del pugno, si rivelano compassionevoli: e noi lasciamo ai
bonapartisti il gusto di farne le beffe. Il terribile della catastrofe è
il fatto, che la maggioranza della nazione approvò il colpo di stato.
Può darsi che il presidente, da professatore fatalistico qual era della
fede napoleonica, avesse stimato le simpatie popolari più forti di quel
che erano; comunque, aveva per sé l'enorme maggioranza delle provincia,
e gli operai della capitale non lo avversavano. Appena mille sollevati,
appartenenti i più ai ceti colti, erano accorsi alle barricate. Gli
uomini del camiciotto guardarono con malizia, come i principali
_transporteurs_ fossero raggiunti dal taglione. Il sobborgo Sant'Antonio
era stato completamente disarmato fin dalla sollevazione di giugno; e ai
membri dell'assemblea nazionale che comandavano la resistenza fu
risposto con sprezzo: «perché combatteremmo contro l'uomo, che ci ha
dato il suffragio universale?». Tanto era profonda la voragine, che
separava le folle dai repubblicani colti! La grande maggioranza della
popolazione della capitale diede prova di una frivolezza completa; la
ressa dei curiosi invase i luoghi delle barricate vinte come un circo di
nuovo genere, e tutti si rallegravano, che gli annali della capitale del
mondo si fossero ancora una volta arricchiti di un formidabile
avvenimento. In alcuni dipartimenti del centro e del Mezzogiorno
tumultuarono i contadini e i piccoli borghesi; nel Varo a capo della
rivolta era una dea della libertà. Comunque, fu significante, che gli
umili nelle provincie principiassero finalmente a mostrare una volontà;
del resto le turbolenze furono per ogni dove facilmente sedate.

Noi non annettiamo valore al fatto, che la versatile burocrazia anche
questa volta si conformò, e nella sua grande maggioranza sottoscrisse il
riconoscimento formale del colpo di stato, che il nuovo sovrano, con
sicura conoscenza degli uomini, richiese immediatamente; né vogliamo
indagare se il rialzo, con cui la borsa di Parigi salutò il 2 dicembre,
fu provocato da abili incette da parte dei compari di Fould. Ma la gioia
cieca dei possidenti, la rapida ripresa degli affari, la completa
indifferenza con cui era guardato ogni nuovo tratto violento del
governo, non lasciavano dubbi sull'opinione del paese. Sette milioni di
francesi sancirono col loro voto il colpo di stato. E l'esercito? Come
mai i figli del contado avrebbero prestato la loro spada al napoleonide,
se i contadini non avessero voluto l'impero?

In luogo di attaccarsi alle particolari falsificazioni che si
frammischiarono nel voto universale, conviene piuttosto all'uomo
politico cogliere nel nodo vitale l'essenza di una società democratica,
il significato del proverbio criminosamente abusato _vox populi vox
Dei_. Il più duro assolutismo che conoscesse il secolo decimonono, fu
fondato da una manifestazione della volontà popolare democratica. Nei
primi anni si trovarono di conserva contro il nuovo sovrano presso che
tutte le menti rappresentative della nazione, quasi tutti i nomi
illustri dell'arte e della scienza, della politica e delle armi; nemici
tutti; e con una unanimità a stento udita nella storia. Principiò un
tempo, in cui i cervelli imbamboliti si adagiarono nel puro nulla del
non pensare, e per le nature più nobili andò perduto quasi tutto ciò che
forma per loro il miglior contenuto della vita; innegabilmente, però, le
moltitudini furono per alcuni anni felici e contente. Tanto grama è
l'importanza dell'ingegno e del pensiero in una età di democrazia e di
economia! La rivoluzione di febbraio feriva gl'interessi della
proprietà; ragion per cui le si levò subito contro un'opposizione
vittoriosa. Il colpo di stato fu un benefizio per l'industria e il
commercio; non colse nessuno così gravemente come i capi spirituali
della nazione, gli uomini del pensiero; e perciò l'opposizione si
ridestò a rilento, e tanto più poi, perché in questo popolo la potenza
delle idee non aveva più la forza di annientare il dispotismo. Non la
Francia, sibbene la spada tedesca avrebbe un giorno annientato il terzo
come già il primo Napoleone. Il parlamentarismo, che per lo spazio di
una generazione aveva mosso e occupato la nobiltà intellettuale del
paese, sparì in un sol giorno, senza lasciar traccia, come inghiottito
dalla terra, senza nemmeno un ricordo potente dietro di sé, senza un
partito fervente. Perché effettivamente in cotesto stato burocratico
esso non era mai vissuto, e nello spasimo dell'agonia solo questo aveva
ricordato alla nazione: che la servitù della Francia era stata stabilita
per mezzo del parlamento. Offese violente alla costituzione, come la
legge del 31 maggio, e segrete trame traditoresche con gli Orléans: ecco
le ultime gesta degli eroi di virtù del parlamento francese.

Le estreme cause della catastrofe rimontano lontano. Il presente,
perduto di sé stesso come Narciso, ripete senza riguardo la grave
verità, che la Francia ha rotto con la sua storia. Esso non sa, che in
questa sola parola è tutto un mondo riboccante di colpa. L'esperienza di
ogni giorno insegna fino a qual punto la risoluzione di principiare una
nuova vita devasti le anime anche più salde, e quanto raro avvenga. E
noi ci meravigliamo se una grande nazione, che è dimentica del suo
passato, vada barcolloni tra l'indisciplinabilità sediziosa e la
sottomissione cieca! Noi protestanti non riusciamo a considerare le
precipitose convulsioni della vita francese, senza lamentare ancora una
volta il calamitoso editto che bandì dalla Francia la fede evangelica.
Quando a un popolo ardimentoso e geniale non resta altra scelta che la
Chiesa dell'autorità e del piatto ossequio; quando nelle questioni più
sacre, supremamente personali, gli è tolta la debita libertà, gli è
tolto il terreno della discussione e della comprensione, allora
un'agitazione convulsa invade tutta intera la sua vita spirituale;
terribili contraddizioni vengono immediatamente a cozzo, e la società,
sbattuta da una lotta irresolubile, ritorna sempre a cercare di nuovo la
propria salvezza nella servitù.

Conferisce ai tedeschi il riandare anche la complicità del proprio
popolo, la complicità dell'intera Europa. Non solamente il papa salutò
con riboccanti benedizioni l'eroe del 2 dicembre; in tutti i paesi
europei i possidenti acclamarono al nuovo sovrano. Taluni, come lord
Palmerston, penetrarono la necessità del rivolgimento; i più si
rallegrarono spensieratamente di essere stati sgravati alla fine dalle
ansie per la sicurezza dello scrigno. Perfino lo czar Nicola, l'antico
avversario dei Bonaparte, riconobbe benevolmente i meriti che il
presidente si era acquistati per la causa dell'ordine. La corte viennese
segretamente sperò che il colpo di stato ricondurrebbe decisamente a una
restaurazione borbonica; perciò Felice Schwarzenberg non stimò
inopportuno celebrare _un individu tel que Louis Napoléon_ come un eroe
della causa conservatrice. Il nome stesso «salvatore della società»
depone come un indimenticabile testimonio di miseria per l'animo virile
di quella età profondamente caduta. Ma anche più miserabile
dell'allegria del borghesume salvato, apparve la vigliaccheria del
radicalismo tedesco, il quale, in luogo di resistere virilmente in casa
alle improntitudini della reazione, per un anno intero confermò il
proprio coraggio civile nelle spiritosaggini niente pericolose su «Lui».
Ma quanto più rumorosamente i radicali berteggiavano e schernivano,
tanto più profondamente il nuovo sistema s'insinuava nelle istituzioni
dei paesi vicini. «Il suffragio universale è il lavoro», proclama la
meglio fondata tra le spampanate del nuovo bonapartismo: il 2 dicembre
significa il principio di una nuova età piena di una produzione
economica elevata al grado supremo. Laddove il primo impero aveva con la
sua tracotanza violenta chiamato a raccolta tutte le forze morali dei
vicini, ora invece cotesta nuova scostumatezza e crapulosità francese
traboccò dalle frontiere rovinando e stupidendo: tirannide di una
immoralità senza idee, alla quale in quei cinquant'anni non si sottrasse
interamente nessun popolo di Europa.

Il nuovo sovrano indubitabilmente era molto superiore al suo
_entourage_. Tanto che fin dal principio a un giudizio imparziale non
poté sfuggire, che egli non si proponeva né di calcare le orme sanguigne
dello zio, né di disfarsi nella nullità del cavaliere di ventura
coronato dalla vittoria. All'opposto, per la prima volta nella nuova
Francia iniziò egli un regime, che dagli esordi aveva a misurarsi con
l'opposizione della capitale: tuttora sotto lo stato di assedio un terzo
degli elettori parigini pronunziarono il loro _no_ avverso il nuovo
ordinamento. In tale rischio, il presidente non poteva sdegnare
nessun'arme che gli venisse a mano. Si servì della sciabola, e, alla
maniera dello zio, parlò all'esercito come alla parte scelta della
nazione. Si servì del confessionale, e incorò gli ultramontani alle più
arrischiate speranze. Si servì della dedizione degli spiriti, e la
burocrazia, ligia in ogni tempo, fece presto a ricorrere a tutti
gl'intrighi della vecchia polizia imperiale. La rabbia del tacimento,
_la fureur de silence_, dominò in Francia, mentre la stampa
presidenziale annunziava con giubilo: noi abbiamo un padrone!
L'introduzione del nuovo statuto dichiarò, che il capo supremo dello
stato era personalmente responsabile. L'articolo fu assai motteggiato;
eppure conteneva una delle poche verità sperdute fra le tante bugie
accumulate in cotesta costituzione. L'enorme responsabilità, che pesava
sul nuovo sovrano, sarebbe stata comportabile solamente nel caso, che
egli fosse riuscito a sanare il proprio governo dalla macchia
dell'origine e a dare sviluppo a quelle idee di progresso, che
indubbiamente sono involte nella sostanza proteiforme del bonapartismo.

Fu ristabilita la calma, non già la pace degli spiriti. Già fin da prima
del colpo di stato una circolare segreta del radicale «Comitato di
opposizione» aveva dichiarato, che da ora in poi era impossibile ogni
perdono in riguardo delle classi abbienti. Adesso, per giunta, alle
vecchie contese che scindevano il paese ne era sopraggiunta una nuova, e
talmente soverchievole, che al paragone tutte le altre scissure
sparivano: la Francia si ruppe un'altra volta, come dopo i cento
giorni, in due nazioni: i vincitori e i vinti del 2 dicembre. E cotesto
contrasto durò fino alla caduta del terzo Napoleone. Il secondo impero
ha apportato parecchi successi cospicui alla potenza e al benessere del
paese, ma per lo spazio di venti anni non gli venne mai fatto di
persuadere la nazione al tranquillo e incondizionato riconoscimento del
novello regime.



PARTE QUINTA


IL SECONDO IMPERO



Il Secondo Impero. [Scritto in Heidelberg nel 1871.]



I.


L'opinione corta dei molti viene sempre determinata dall'impressione
dell'ultim'ora. Da quando il secondo impero ha trovato una fine
obbrobriosa sul campo di Sédan, la figura del terzo Napoleone è fitta
nella mente del popolo tedesco come quella di un empio violatore della
pace, e questo giudizio nazionale non sarà forse mai cambiato, certo non
lo sarà nell'avvenire prossimo. Se io mi arrischiassi di ripubblicare,
corrette oggi e completate, le osservazioni sul recente fenomeno del
bonapartismo che scrissi nel 1868, mostrerei la presunzione di voler
influire sul sentimento popolare, che ben a ragione domanda sempre idee
semplici, complete, senza contraddizioni. Mi rivolgo alla breve cerchia
di coloro, che non s'infastidiscono di riandare la conturbante storia
clinica del popolo francese in questi ultimi ottant'anni. Chi ha cercato
di farlo coscienziosamente, prima di condannare perentoriamente
l'edifizio statale di Napoleone III, proporrà piuttosto il quesito, se
è possibile, innanzi tutto, di ben governare cotesta nazione; e ne
caverà la conclusione, che il secondo impero non ha cagionato la rovina
della Francia, ma l'ha trattenuta per due decenni. Toccò all'ultimo
Bonaparte, mercé la propria accortezza, mercé il favore della fortuna e
la debolezza dei popoli vicini, di alzare ancora una volta lo stato
francese a una pienezza di potenza, che sopravanzava di gran lunga la
potenzialità morale della nazione.

Non possiamo affermare, che il contegno dei nostri vicini a nostro
riguardo sia cambiato sostanzialmente dal tempo del trattato di Vienna.
E cerchiamo la ragione di cotesta politica ora irritante, ora
minacciosa, ora violentemente aggressiva, non già in un sistema qual si
sia, ma, parte nel carattere nazionale, che non muterà, fintanto che
l'educazione del popolo francese sarà volta a svegliare l'ambizione
esteriore in luogo dell'intimità morale dell'anima; parte in noi stessi,
nel nostro sminuzzolamento, nelle nostre guerre civili, che permisero ai
francesi di fare assegnamento sulla debolezza della Germania. Ora che
l'impero germanico gloriosamente risorto ha strappato il terreno sotto i
piedi a tutte coteste amichevoli calcolazioni dei vicini, il tedesco può
con superbo sentimento di tranquillità riandare i recenti destini del
paese confinante.

Il tema, tuttavia, si presenta poco grato. Giacché l'antico e
irrevocabile presentimento, che anche cotesto pomposo impero si sarebbe
alla fine rivelato per niente altro che una nuova precarietà, ha già da
tempo impresso un segno passionato di esagerazione su tutti i giudizi
dei nemici del pari e degli amici. Ogni parola di condiscendenza ci si
secca nella penna, quando udiamo con quale sfacciata ciarlataneria il
bonapartismo ha saputo cantare la propria gloria: il nostro modesto
elogio tedesco non salirà mai alla grandiosità dell'apoftegma di Rouher:
«no, no, non è stato mai commesso un errore!». Anche un comodo biasimo
appare triviale rispetto a un sistema, sul quale, come sopra una
gigantesca avventura, gli stessi avversari moderati, fin da gran tempo
prima che soccombesse, avevano calato in forma solenne la pietra
sepolcrale. In tale eccesso di lode e di condanna è difficile mantenere
la linea ferma e netta del giudizio storico; tanto più difficile, in
quanto l'intima contraddizione del bonapartismo, la diabolica mezza
verità, che noi abbiamo così spesso dimostrato essere il carattere
fondamentale del dispotismo rivoluzionario, si presenta nel secondo
impero con una energia addirittura suicida. Il terzo Napoleone non ha
mai, con la parola o con l'opera, stabilita una tesi, che egli stesso
non abbia subito dopo tolta via con una antitesi. Delle pericolose
passioni di cui febbricitava la Francia, egli personalmente era certo
più immune, che non forse qualsiasi uomo in vista tra i francesi
contemporanei; solo che la necessità di sostenersi, l'intima essenza del
suo sistema lo forzava a solleticare continuatamente quelle passioni; di
modo che sopra di lui e sopra la sua Casa si compì la nemesi, che presto
o tardi doveva raggiungere la tracotanza sacrilega dell'intero popolo.

La malagevolezza maggiore per venire a un sicuro giudizio politico è
determinata dai fondamenti sociali del nuovo stato francese. In ogni
tempo l'egoismo di casta è stato la disposizione congenita di tutte le
classi dominanti; e allora appare odiosissimo agli occhi della
posterità, quando si manifesta ingenuo e inconscio ai dominanti che
hanno cambiato natura. Ognuno oggigiorno sente emanare dagli scritti
dell'antichità la superbia intellettuale di quelle dense aristocrazie,
che guardavano sugli schiavi e i banausi come sul vuoto aere. Pochi o
nessuno di noi sospettiamo, quanto noi stessi siamo compenetrati da
sentimenti e pregiudizi affini. Il ceto medio, che al presente determina
in Germania l'opinione pubblica, riconosce nell'illimitata concorrenza
la sostanza della libertà sociale, e nella più ampia discussione il
primo inevitabile presupposto della libertà politica: esso tra lotte
indimenticabili si spupillò dalle fedi dommatiche. Dobbiamo a un tale
spirito l'emancipazione dei contadini; a quello dobbiamo, se i nostri
ceti colti sono i più liberali e i più giusti di tutte le classi
governanti della storia. Tuttavia un severo esame ci dice, che anche
noi, mentre lavoriamo per questo puro ideale politico, parliamo poi
soltanto come gente scatenata. Un superbo gentiluomo del secolo
decimottavo più facilmente avrebbe potuto intendere le idee della
crescente borghesia, che non noi iniziarci nel globo intellettuale del
quarto stato.

L'inclinazione delle classi lavoratrici è stata descritta da Aristotele
col classico: χαίρουσιν ἐάν τις ἐᾷ πρὸς τοῖς ἰδίοις σχολάζειν:
parola, che nei tempi moderni più liberi può bene essere mitigata, ma
non mai confutata. La vita privata, la fatica e la cura della casa,
forma per questi strati sociali il nocciolo dell'esistenza: potrebbero
con pieno diritto aspirare a prender parte al governo dello stato, ma
non si trovano in condizione di offrire allo stato un'opera durevole e
regolare. Si riscaldano di rado per quella vivace lotta degl'intelletti
che per l'uomo colto forma il pane della vita, e sono molto proclivi a
dar via la libertà del pensiero per un governo forte e benigno, che
promova energicamente il benessere dei molti: tra tutte le potenze
spirituali è però sempre quella della Chiesa, che esercita su cotesti
animi l'incanto più forte. È questa la ragione che difficolta al dotto
un giudizio sicuro sul più recente grado di sviluppo del bonapartismo.
Nel mondo moderno l'importanza del quarto stato non era stata mai così
invadente come sotto il secondo impero. Al tempo della Convenzione le
moltitudini parigine dominavano il potere dello stato e mutuavano una
parte della loro potenza al sicuro lavoro della macchina amministrativa.
Sotto Napoleone III erano fuori del governo; ciò non ostante il quarto
stato costituiva la classe più importante: il continuo riguardo al
contentamento degli umili formò il pensiero direttivo del nuovo
bonapartismo. Anche oggi, sotto la così detta repubblica, l'avvenire
della nazione è indubitabilmente nelle mani dei contadini e degli
operai. Solo che dove domina il quarto stato, ivi domina anche il suo
concetto sensuale della vita. E nella nuova Francia appare così
spaventosa la rozzezza morale, il disprezzo di tutti i beni ideali, che
senza volerlo si corre a una congettura, la quale, certo, non è
storicamente dimostrabile. L'apparenza è, che tutti i nobili elementi
latini e germanici siano stati interamente schiumati da questa
nazionalità commista, e che sia tornato sopra a ribollire il sedimento
impuro dell'antichità celta. Se di sotto a un tale strato fitto
d'ipocrisia e d'immoralità vuole distinguere il merito di un siffatto
sistema sorretto sul quarto stato, l'uomo colto deve reprimere con forza
molte delle più care e nobili idee proprie del suo ceto.

Il secondo impero capita nei due più ricchi decenni contemporanei; e se
riflettiamo con quale agilità ha pazzamente corvettato e ha cangiato il
giudizio del mondo sul terzo Napoleone, sentiamo vivamente come siamo
diventati vecchi in pochi giorni. Il nuovo bonapartismo, opposto vivente
dell'infingardo regno borghese, ha trasformato più profondamente e più
violentemente di qualsiasi altro regime moderno le condizioni sociali
del suo paese; la baldanza del suo assoluto volere osò parecchie riforme
recidenti dalle radici, per le quali un parlamento non avrebbe trovato
né il coraggio né la spregiudicatezza. Solo che la precipitosa caduta di
questo sistema dell'affario conferma ancora una volta la regola, che un
governo tanto meno è stabile, quanto più ampiamente allarga la propria
attività.

Raccogliamo innanzi tutto le brevi memorie del presente negli stadi
principali che il secondo impero ha percorso. La sua storia si divide in
due periodi nettamente distinti. Nello stesso modo come un tempo, subito
dopo l'anno 1840, sorse opinione, che la stella degli Orléans corresse
all'occiduo, così, dopo il 1860 il giudizio generale ritenne, che
l'impero del terzo Napoleone avesse sormontato il suo culmine. Con
questo, però, che il decennio dell'ascesa era la fase del dispotismo non
mitigato in nulla, laddove il decennio della discesa era il tempo delle
prove liberali! Non occorre altro che guardare freddamente in faccia
questi dati di fatto per riconoscere immediatamente la verità, che il
bonapartismo con le concessioni alle idee liberali dei ceti più alti
aveva rotto fede a sé stesso, e che la nazione non era più capace di
comportare un regime di libertà.

Al colpo di stato seguì prima un anno di transizione, che fu per
l'immoralità del nuovo sistema la stagione della fioritura. Laddove i
mentiti discorsi del presidente al tempo dell'assemblea nazionale
trovavano spiegazione nella situazione politica, in appresso, invece, la
gherminella repubblicana del 1852 appare semplicemente frivola e
ordinaria. Il presidente stimava necessario un terzo plebiscito per
consolidare la propria potenza? Oppure il fatalista opinava di poter
salire al supremo potere solamente, come lo zio, per tre gradi? Certo,
era decisivo il fatto, che il 2 dicembre il principe tenne a serbare
l'apparenza, che il colpo di stato servisse a salvare la repubblica. Ciò
in riguardo alle grandi potenze, le quali in verità diedero la loro
approvazione alla vittoria dell'«ordine», pur non volendo nessuna di
loro il ripristinamento dell'impero. Insomma, la Francia ufficiale
imposturò, ancora per lo spazio di dieci mesi, con frasi ipocrite la
fede repubblicana, quantunque il colpo di stato nient'altro potesse
significare, che l'erezione del trono. Nel settembre del 1852, durante
il viaggio ufficiale attraverso il paese, il presidente assicurava
tuttora, che nel grido ripetuto «viva l'imperatore!» egli riconosceva
più un tenero ricordo che una espettazione: ma il ministro dell'interno
faceva prender nota dei nomi delle persone che in quel viaggio imperiale
venivano a contatto col principe, «affinché non vadano perduti alla
storia». Il flemmatico uomo si era tenuto freddo e calmo in mezzo a
quell'ardente entusiasmo popolare, il quale indubitabilmente dimostrava,
che le popolazioni avevano interpretato il senso dell'ultima elezione di
dicembre assai più giusto, che non le grandi corti. Alcune settimane più
tardi la brama del paese di ristabilire l'impero si manifestò
irresistibile: la nazione esigeva, secondo l'enfatica espressione del
sindaco di Sevres, lo sposalizio della Francia con l'inviato di Dio.
Seguì allora, stesa da Troplong, quella relazione del senato, che noi
senza esitazione possiamo definire il capolavoro del moderno
bizantinismo. Perché mai anche il linguaggio del fido senato non avrebbe
dovuto sinfoniare fino all'ardimento ditirambico? Appunto, Troplong
medesimo lo confessa: vi sono momenti in cui anche l'entusiasmo ha il
diritto di risolvere questioni! La nazione incorona sé stessa
incoronando Napoleone; in tal modo ella trae nobile e pacifica vendetta
dei trattati del 1815. La repubblica cede la propria essenza tramessa
alla dignità imperiale mercé il popolo sovrano, e la grande ombra dalle
nubi guarda appagata l'esaltazione del nipote.

Sotto la tutela del nuovo trono si svolgono veementi tutte le energie
del lavoro e la vertigine della speculazione: giace una quiete profonda
sulla vita intellettuale e politica. L'opinione dei popoli odiava
l'imperatore in cui vedeva il cagnotto della reazione europea, che
perseguitava per ogni dove, perfino nell'asilo dei paesi liberi, i
campioni della repubblica; e tremava pensando all'ora, in cui egli
infallibilmente avrebbe imboccato la via dello zio. Le corti
tentennavano tra la ripugnanza contro il risalito e il rispetto verso il
salvatore della società. Negli affari europei dava il tono la Russia; e
precisamente quella corte mantenne di fronte al napoleonide, non appena
fu esaltato imperatore, l'attitudine della rigida alterigia
legittimista. In quel torno i disordini orientali offrirono
l'opportunità di sperimentare la potenza della Francia e i talenti del
suo capo. Seguì un brusco spostamento delle alleanze e dei rapporti
internazionali, che ricordò vivamente il tempo splendido del Consolato,
allorché Bonaparte, minacciato pur dianzi da una coalizione
soverchiante, riuscì in pochi mesi ad assembrare in lega gli stati del
Mezzogiorno e del Settentrione contro il diritto marittimo inglese. In
verità, i risultati della spedizione di Crimea ebbero scarsa efficacia
sul mondo orientale, quasi nulla; ma la gloria guerriera delle aquile
imperiali fu novellamente sancita, e i rinfranchi del paese si
palesarono inesauribili, giacché nel bel mezzo della guerra la capitale
lussuriò anche di più nell'orgia della vita neonapoleonica e apparecchiò
una fastosa esposizione alle industrie dell'Europa. Il napoleonide ebbe
la soddisfazione, che nell'anniversario della sua conquista di Parigi un
congresso europeo raccolto sulla Senna sotto la presidenza
dell'ambasciatore francese segnò la conclusione della pace. La
preponderanza della Russia era spezzata. Di nuovo la Francia si chiamava
la grande nazione. Subito dopo venne alla luce il principe imperiale:
gli eserciti francese, inglese, italiano, turco e russo festeggiarono in
pari tempo in Oriente la nascita del principe ereditario. Il sistema
nazionale era eternato, come dissero le autorità nello stile del primo
impero. Nel febbraio 1857 l'imperatore poté congedare il devoto corpo
legislativo con la confidenza, che presto si direbbe del secondo impero
come un tempo del Consolato: «regnava da per tutto il contento, e chi
non nutriva nel cuore malvage passioni gioiva della felicità del paese».

Capitò allora un contrattempo: l'attentato di Orsini stornò per alquanto
tempo Napoleone III dal suo comportamento, e il sistema, prima appena
raddolcito, di oppressione fu novellamente raggravato. Il subisso di
felicitazioni da cui fu inondato l'imperatore per l'avvenuto scampo,
dimostrarono però al mondo fino a qual segno le popolazioni avessero
bisogno di lui: che indubitabilmente parlava in loro un certo qual misto
di sentimenti nobili e di servilità, come nell'ode _Divis orte bonis_
che in un'epoca affine Grazio cantò ad Augusto. Nessuno ha così
incisivamente significato di cotesto attacco la ragione ideale, come
l'_enfant terrible_ dei bonapartisti, il marchese di Boissy, con le
parole: «noi tutti amiamo l'imperatore, perché ognuno dice a sé stesso:
in quale pantano cadremmo, se Napoleone morisse!». Proprio in quei
giorni in cui l'opinione pubblica liberale farneticava nuovamente
sull'imperatore, egli s'incontrò con Cavour a Plombières, e portò a
maturità il pensiero più ardito e più benefico della sua politica
europea. Giacché, per quanto lo stesso imperatore abbia più tardi
peccato rispetto all'Italia e per quanto anche il corso degli
avvenimenti abbia deluso le aspettazioni del napoleonide, pure al terzo
Napoleone rimane la gloria, che senza il suo aiuto il risorgimento
dell'Italia forse non sarebbe stato mai iniziato, e certamente non
avrebbe trionfato. Nelle ore in cui tra le tripudianti acclamazioni
degli operai di Parigi l'imperatore si accingeva a partire pel campo,
appariva effettivamente un sovrano nazionale, il rappresentante della
Rivoluzione. Dopo la vittoria di Solferino l'egemonia della Francia tra
i popoli latini parve assicurata. Anche i liberali illuminati
s'inchinarono al liberatore dell'Italia, e in ampia sfera fu ripetuta la
lode smisurata: Napoleone il Piccolo riposava agl'Invalidi, Napoleone il
Grande regnava alle Tuileries. Era il tempo che l'Europa nella solennità
del Capodanno tendeva l'orecchio a Parigi, con l'emozione angosciosa del
bambino bruciato. Ed ora, con la consapevolezza della propria potenza,
l'imperatore arrischiò la grande riforma della politica commerciale: la
superba idea di raccogliere tutta l'Europa occidentale in un unico
dominio aperto al libero scambio si avviò verso l'effettuazione.

Eppure l'ora felice dell'impero era già dileguata. Principiò il dichino,
da quando la storia richiamò dovunque nuove complicazioni sociali, a cui
non rispondeva menomamente la pretesa della Francia di essere maestra di
tutto il mondo. La stessa fondazione del regno d'Italia era, per lo
meno, tutt'altro che profittevole alla supremazia della corona
napoleonica. Inoltre, l'inevitabile inazione del gabinetto durante la
sollevazione polacca dimostrò che la Francia non era abbastanza forte
per garantire i suoi così detti alleati. L'imperatore tentò indarno di
comparire ancora una volta come il patrono della pace europea; egli
invitò a un congresso le grandi potenze con espressioni quasi
minacciose: ogni rifiuto avrebbe tradito segreti disegni, che temevano
la luce del giorno! La guerra dello Schleswig-Holstein, e con quella il
grande imbocco della politica tedesca, principiò per l'appunto quando
coteste burbanzose parole si sparsero pel mondo. Il ritegno
dell'imperatore durante le lotte per Düppel ed Alsen gli procurò da
parte dei tedeschi riconoscenza e talvolta eccessivo apprezzamento,
motteggi e biasimo da parte del suo popolo. Frattanto il secondo impero
aveva trovato nel Messico la sua Spagna. Una catena di strafalcioni
grossolani, una inesplicabile disconoscenza della vitalità ed energia
degli Stati Uniti condussero a una disfatta obbrobriosa, misero a
repentaglio la dignità e la riputazione della corona, sconvolsero
siffattamente le finanze e l'esercito, che allo scoppio della grande
guerra germanica lo stato non era nella condizione voluta per l'entrata
in campagna. In tal modo si compì la fondazione dello stato
settentrionale tedesco: un terribile colpo per tutti i più cari
pregiudizi dei nostri vicini: e nello stesso tempo l'unificazione
dell'Italia incominciata dalla Francia fu spinta a termine dalla
vittoria della Prussia.

Nel frattempo l'imperatore era invecchiato, e i validi coadiutori che
sostenevano la sua corona, l'uno dopo l'altro, erano spariti:
Saint-Arnaud e Magnan, Pietri e Mocquart, Fould, Pélissier e Walewski, e
poi i tre non surrogabili, che più di tutti avevano lavorato con
coscienza di uomini di stato alla fondazione duratura dell'impero:
Billault, Thouvenel e quel Morny, che aveva inculcato così spesso al
despota tentennante la fresca energia della risoluzione netta.
D'altronde, qui come per ogni dove, il dispotismo si era rivelato
incapace di produrre nuovi grandi ingegni di uomini di stato.
L'opposizione delle classi colte si ridestò a nuovo ardore, l'attitudine
di fronda ritornò a essere un'arte in moda, e fin dal tempo della
ritirata del Messico risonò tra gli avversari il grido sempre più
baldanzoso: _l'empire est défait_. Lo sfasciamento del _Crédit mobilier_
e il disavanzo crescente del bilancio dello stato, lo spopolamento delle
campagne e l'urbanesimo suscitarono il sospetto sulla sanità del nuovo
rigoglio economico; e la giornata di Königgrätz aguzzò gli occhi sui
rischi e le menomazioni alla propria patria. Anche la fiducia dei popoli
vicini fu distrutta dalle fondamenta dal brutto affare del Lussemburgo e
dalla rioccupazione di Roma. Così, incalzato di dentro e di fuori, dopo
reiterati slanciamenti e arretramenti, alla fine Napoleone si buttò
avanti sulla strada delle riforme costituzionali, che già aveva aperta
col decreto del 24 novembre 1860. Ma il richiamo «guerra o libertà», che
saliva dalle fila dell'opposizione, testimoniava tristamente sia
dell'oltracotanza abituata a calcare coi piedi il diritto dei vicini,
sia, insiememente, della disperazione di un popolo, che sente
l'indegnità della propria posizione senza trovare in sé la forza
durevole per risollevarsi. Il contegno servile della popolazione nella
campagna elettorale del 1869 dimostrò, che effettivamente l'energia
politica era completamente svanita. Non punto una volontà popolare ferma
e sicura, ma solamente la confusa e lunatica scontentezza delle classi
alte indusse il despota a cedere a mano a mano alle rinascenti idee
costituzionali. Finalmente il ministero Ollivier arrischiò il tentativo
di riconciliare la tirannide col parlamentarismo: tentativo, che doveva
sommergersi nel suo proprio assurdo. La gherminella costituzionale placò
tanto poco il livore dei vinti del 2 dicembre, quanto la malvagia
libidine guerresca della nazione. L'imperatore cercò di liberarsi dalla
sua posizione insostenibile, prima con un appello al popolo, poi con una
guerra ardentemente agognata dalla nazione. La nostra buona spada mandò
in frantumi il suo trono; e senza fede, senza dignità, nel modo stesso
come in altri tempi si era inchinata al colpo di stato, così ora la
nazione abbandonò il «salvatore della società», perché sul campo di
battaglia non era stato fortunato.



II.


Le reiterate e violente vicissitudini del trono nella moderna storia
francese e l'egoismo impronto con cui ogni classe dominante ha messo a
profitto il proprio potere, hanno annientato in Francia la monarchia,
nel senso antico e schietto della parola. L'intima contraddizione nella
vita di questo stato si può brevemente compendiare nella proposizione
seguente: la Francia non può fare a meno di un gagliardo potere statale
raccolto in una sola mano, e nulladimeno ha perduto interamente i
costumi e le tradizioni della monarchia legittima. Il nuovo sistema
bonapartistico non era né un dispotismo illuminato sullo stile del
secolo decimottavo, né un semplice ripristinamento dell'impero militare
napoleonico, ma una forma statale per sé stante, affatto moderna: una
tirannide personale, eletta dalle moltitudini e governante a pro di
cotesto quarto stato pervenuto alla coscienza di sé. Laddove nella
monarchia legittima, anche sotto una corona assoluta, tutte le
istituzioni e i costumi statali convergevano allo scopo di sottrarre la
persona del monarca alla lotta dei partiti e di assicurare anche sotto
un principe inetto il regolare andamento della cosa pubblica,
all'opposto nella Francia bonapartistica la persona del monarca portava
fondamentalmente la responsabilità del destino dello stato. Talché un
ministro geniale, sotto un imperatore senza talento o impopolare, non
sarebbe stato in grado di assicurare la durata al sistema. Il
dottrinario del secondo impero, il duca di Persigny, curò di designare
l'eletto del popolo come _homme-peuple_: sotto la forma adulatoria
l'espressione recava l'esatto significato, che cotesta potenza
imperiale era una dignità supremamente personale, che doveva affermarsi
nella sollecitudine quotidianamente rinnovata pel bene delle
moltitudini. È vero, che la maggioranza degli elettori aveva esaltato il
terzo Napoleone in virtù del suo nome: ma nessun uomo imparziale poteva
da cotesta potenza dei ricordi napoleonici trarre la conclusione, che la
moltitudine dei francesi fosse attaccata ai Bonaparte con la medesima
fedeltà con cui i prussiani ai legittimi Hoenzollern o un tempo gli
olandesi alla casa tirannica degli Orange. Ogni vincolo di pietà tra
popolo e casa regnante fu spezzato in Francia dalle tempeste di due
generazioni. Qui l'unico legame possibile tra governanti e governati è
costituito dall'interesse; e, col fatto, nessuno stato della storia
modernissima ha fatto valere così spregiudicatamente, come il secondo
impero, l'egoismo dei suoi sudditi. Il nuovo bonapartismo è stato
effettivamente, come amici e nemici lo hanno qualificato, un
_gouvernement indiscutable_; non già semplicemente a cagione della sua
origine equivoca, ma principalmente per la ragione che lo spirito di
cotesto sistema era grossamente materialistico, e perciò non comportava
prove incondizionate.

È evidente che il capo di uno stato siffatto dovesse essere e rimanere
responsabile. Quando Laboulaye e gli altri dottrinari dell'_empire
libéral_ partivano in lizza contro cotesta situazione di fatto in nome
dei noti principii costituzionali, che regno e responsabilità,
insiememente concepiti, fanno contraddizione, e che lo stabilimento
dell'impero ereditario esclude per sé stesso la responsabilità del capo
dello stato, ebbene, essi davano nel vuoto. Le teorie giuridiche della
monarchia parlamentare non comportano adattabilità a una tirannide
democratica. La fondazione dell'impero era solo un cambiamento di nome,
che non mutava nulla di sostanziale alla vera natura della carica
presidenziale. La trasmissibilità di cotesta corona rimase sempre come
niente altro che un assegnamento incerto sul futuro, laddove, invece, la
responsabilità dell'imperatore era un principio, la cui immutabile
permanenza era ognora affermata dai dignitari dell'impero Rouher e
Troplong, e il cui adempimento pratico veniva reso possibile dalla
stessa costituzione. Bastava che l'imperatore si credesse sicuro del
favore delle moltitudini, ed egli, secondo l'articolo 5, aveva facoltà
di appellarsi al popolo sovrano: che era un'arme violenta del
dispotismo, la quale, usata al momento opportuno e conformemente alla
morale napoleonica, era al caso di accrescere sempre che volesse la
soverchianza della corona, e in effetto escludeva ogni speranza di un
onesto regime parlamentare.

Per contro, posto che le moltitudini venissero nell'idea, che l'eletto
non rappresentava più i loro interessi, il proemio della costituzione
indicava la via per richiamare l'imperatore alla responsabilità.
Dichiarare irresponsabile un capo dello stato francese, ivi è detto,
«ciò significa mentire al sentimento pubblico; ciò significa ammettere
una finzione, che per tre volte è andata dispersa nel turbine delle
rivoluzioni». Più chiaro di così non si può dire, che l'imperatore
portava e voleva portare la sua corona col pericolo permanente di essere
cacciato da una quarta rivoluzione. Con ciò, dunque, nella superba
Francia si era giunti a questo, che la legge fondamentale di una nazione
civile con ingenuità cinica confessava: il nostro regime è un gioco
_va-banque_, ogni sicurezza del diritto pubblico è una lustra, ogni
costituzione nient'altro che un espediente! La corona napoleonica non
godeva la sicurezza della monarchia ereditaria, e appunto perciò era
provvista di una pienezza di potenza, che un monarca legittimo non ha
mai raggiunta: «essendo il capo dello stato responsabile», dice quel
proemio, «la sua attività deve essere libera e senza impacci».

Non vi è alcun dubbio, che il nuovo bonapartismo nutriva, come il primo
impero, il disegno di fare da terreno neutrale, su cui venissero a
ritrovarsi insieme gli avanzi dei vecchi partiti. Esso non si diede
briga del passato dei suoi cooperatori, e prese ai suoi servigi quanti
riconobbero il nuovo ordine. Permise, dopo alquanti anni di
compressione, il ritorno degli avversari esiliati che si obbligavano
all'ubbidienza, e non si discostò mai dal proposito di collocare la
grandezza della patria al disopra dei partiti. Chi non ricorda lo
scritto pateticamente generoso dell'imperatore, che ordinava il rilascio
del pericoloso cospiratore Barbès, perché questi aveva espresso il suo
entusiasmo patriottico per la guerra di Crimea? Similmente l'impero non
volle favorire un ceto solo; seppe contentare l'ambizione e la foga
industriale della borghesia e, nello stesso tempo, ripristinare la
nobiltà: un eccellente mezzo per vincolare alla corona migliaia di
famiglie sia mercé la comune ambizione, sia mercé il timore di una
soppressione di titoli nobiliari male acquistati; ma anche una prova,
che s'intendeva di riguardare le inclinazioni e i pregiudizi delle
classi più alte. Appunto: l'eletto del popolo si applicò un pezzo al
disegno di aggiungere all'antica una nuova nobiltà napoleonica. Nei
brindisi e nei proclami il signor di Persigny esaltava come merito
peculiare del nuovo sistema «l'eminente idea sociale», per cui, avendo
ogni governo precedente rappresentata soltanto una delle tre classi
della società, l'impero invece le rappresentava medesimamente tutte.
Tale vanteria conteneva qualche apparenza di verità. Il quarto stato
dominava interamente sulla vita pubblica, non più però a forza di
turbolenze e barricate, come nei primi tempi della repubblica:
specialmente nelle condizioni ordinarie non era affatto in grado
d'impadronirsi immediatamente del potere, come avevano potuto farlo un
tempo la nobiltà e la borghesia; e sotto il secondo impero aveva
apparentemente, come gli altri tre stati, solo l'incombenza di ubbidire
e lavorare.

Ciò non ostante, il quarto stato costituiva in Francia la classe
politica, ed era di continuo glorificato dalla burocrazia con panegirici
adulatorii. «Dio ha primieramente rivelato il Salvatore a questa che è
la classe più numerosa e più interessante della società», affermavano le
circolari dei prefetti; e prima delle elezioni del 1857 il ministro
Billault dichiarò ufficialmente: «i contadini e gli operai hanno creato
l'impero, quelle moltitudini di uomini operosi, che formano l'ampia base
del suffragio universale». Perciò il signor di Morny esortò gli elettori
a mandare nei corpi legislativi, in luogo dei così detti uomini
politici, commercianti presi dalla cerchia della propria professione; e
il signor Granier secondo Cassagnac asserì anche più rudemente: «la
classe agricola, nocciolo della nazione, domanda già: perché
l'imperatore non governa solo?». Lo stesso Napoleone III designò
continuamente il suo sistema come il _gouvernement du grand nombre_; e
quando in una massima sovente ripetuta dichiarava che il suo governo
riposava «sul popolo, fonte di ogni potere dello stato, sull'esercito,
fonte di ogni forza, sulla religione, fonte di ogni giustizia», in
sostanza con questa tricotomia egli esprimeva semplicemente l'unico
concetto, che cotesto regime del quarto stato poggiava essenzialmente su
quelle forze, le quali determinano la condotta del popolo. Donde appare
del tutto rispondente la società stranamente mista della corte
napoleonica, innocente assembramento di preti cortigiani, di demagoghi
cortigiani, di soldati cortigiani. Consideriamo l'origine del sistema e
la sua esistenza durata per lunghi anni, trascorsa impareggiabilmente
più pacifica del governo senza posa osteggiato dei Borboni e degli
Orléans, e distrutta in fine non da altro che dalle armi straniere, e
non potremo disconoscere, che cotesta forma di stato si era sviluppata
necessariamente dalle condizioni sociali del paese. La moltitudine
arrivata al dominio, sensibile alle idee semplici e generali
dell'eguaglianza e dell'autorità statale unica e onnipotente, inclina
sempre all'eguale soggezione di tutti a un tiranno nazionale. Anche
nelle condizioni incomparabilmente più sane dell'America del Nord, al
tempo di Jackson e di Abramo Lincoln, quella tentazione passò rasente al
popolo sovrano. Inoltre in Francia la moltitudine, non abituata a
governarsi da sé, possiede, secondo che confessa il socialista
Duveyrier, «in supremo grado il sentimento della gerarchia»; e sotto il
fanatismo dell'eguaglianza ha così completamente smarrita l'intelligenza
della libertà, che mille e mille in perfetta buona fede consentono in
quella vanteria del bonapartismo ripetuta fino alla nausea: «il terzo
Napoleone è il vero fondatore della libertà, giacché dal tempo del
secondo impero più non esistono iloti politici».

Il suffragio universale vigeva non più, come sotto il primo Napoleone,
ridotto dalle liste elettorali, ma completo e in regolare attività.
L'esigenza, manifestata un tempo dal parlamento del lavoro al palazzo
del Lussemburgo, che da ora in avanti la superiorità della cultura
dovesse tanto poco costituire un diritto quanto la superiorità della
forza muscolare, aveva ottenuto completa effettuazione. Il suffragio
universale formava la base del nuovo diritto pubblico ed entrava in
vigore in ogni elezione, in ogni cambiamento dei principii fondamentali
della costituzione: gettò in breve tempo radici tanto salde, che nessun
partito ha più pensato seriamente di levarlo. Nelle elezioni del 1863
parteciparono il 73,9 per cento, nei plebisciti che fondarono la
costituzione e l'impero dal 75 all'84 per cento della popolazione adulta
maschile. Abili strumenti del governo, come Thuillier, cavarono da tali
dati la conclusione: «l'impero è la più grande e più felice democrazia,
che il mondo ha mai vista coronata dalla gloria e dalla libertà»; ma lo
storico, invece, per l'appunto in cotesta enorme partecipazione del
popolo discerne la prova dello sconfinato potere del dispotismo
democratico.

Nei tempi di transizione dal medio evo all'età moderna la storia della
maggior parte degli stati ha visto «re della povera gente» i quali,
sorretti dalle moltitudini, fiaccarono l'oltracotanza dei piccoli
signori. Il dispotismo neofrancese era di un'altra specie. Questo aveva
trovato il diritto pubblico già formato da un pezzo, e si sentì chiamato
a spianare con gli accorgimenti positivi di un'autorità statale
onnipotente l'enorme contesa d'interessi della moderna economia
democratica. Si propose, come dice Napoleone III, di «appagare
l'attività di questa società anelante, irrequieta, esigente, che attende
tutto dal governo»: il sistema, in altre parole, era un socialismo
monarchico. Una volta Sainte-Beuve in senato compendiò molto giustamente
il cómpito del _socialisme autoritaire_, di cui noi abbiamo già
rintracciato i primi vestigi nei primi scritti di Luigi Bonaparte: «esso
vuol prendere la parte buona delle idee socialistiche, per strapparla
alla rivoluzione, e inserirla nell'ordine regolare della società». Non
già semplicemente l'indifferenza alle questioni costituzionali propria
di tutti i socialisti, bensì la coscienza dell'affinità elettiva
condusse nel campo di Bonaparte molti, come i Bixio, i Chevalier, i
Duveyrier, che un tempo stavano accosto accosto alle scuole dei
socialisti. Anche quei socialisti che per anni dominarono il mondo
borsistico del bonapartismo, i due Pereire e i loro compagni, non
avevano minimamente abiurato la loro fede.

Ogni regime dispotico è affetto da un tratto mistico: il misticismo
del secondo impero si manifestò nella devozione religiosa con cui
era celebrata la maestà della volontà popolare, la sagra
dell'_homme-peuple_. Non occorre dire che cotesta sagra era
immediatamente caduca, non appena la volontà popolare cangiasse.
Certo, il bonapartismo non nutriva pregiudizi, né pretendeva, come
anni prima i Borboni, di cancellare il passato, ma si sentiva legato
di solidarietà con tutti i governi precedenti: celebrava le idee
dell'89 come il principio fondamentale, la fiamma vitale della sua
costituzione, e professava con labbro eloquente gl'ideali di libertà,
anche se poi col fatto la sopprimeva. L'imperatore asserì: «fedele
alla mia origine, io non considero le prerogative della corona come un
pegno sacro e intangibile, né come un'eredità dei miei padri, che io
deva anzi tutto trasmettere intatto a mio figlio». Ma se il
bonapartismo non soffriva di fisime legittimiste, pativa però del
morbo ereditario della tirannide, dell'odio a ogni salda limitazione
legale del potere dello stato.

L'imperatore poteva garantire concessioni al liberalismo, ma l'eletto
del popolo non poteva mai riconoscere una sincera reciprocità di diritti
e di doveri fra sé e il corpo legislativo, non mai una vera
costituzione. Certamente non era dato introdurre una legge se non mercé
l'accordo dell'imperatore, del senato e del corpo legislativo; nondimeno
soltanto l'imperatore emanava i decreti necessari all'esecuzione,
sebbene la savia disposizione del primo Napoleone, che trasmetteva al
senato la regolazione dei casi non previsti dalla costituzione, fosse
passata anche al secondo impero. Ma siccome fuori dell'imperatore non
esisteva alcun potere che fosse in grado di sistemare coteste difficili
idee di diritto pubblico, seguiva in fatto, che tutti i grandi atti
legislativi dell'impero emanavano soltanto dall'imperatore. Un decreto
imperiale ordinò la successione al trono; un decreto fondò nel 1858 il
Consiglio intimo, che era un collegio di personaggi fidati al quale
l'imperatore esponeva a consultazione tutto ciò che aggradiva, e che in
uno col Consiglio di stato incaricato di tutti i disegni di legge doveva
secondo la costituzione formare «la ruota più importante della nostra
nuova organizzazione». Un decreto imperiale concesse al corpo
legislativo il diritto di mozione, un altro decreto gli ritolse cotesto
diritto e gli accordò in risarcimento il diritto d'interpellare il
governo. L'imperatore aveva facoltà di decretare sempre che volesse lo
stato d'assedio ed era solo tenuto a ottenere suppletivamente la
sanzione del senato. In breve, il formidabile dettame napoleonico _le
pouvoir reprend ses droits_ poteva entrare in vigore ogni momento: da un
istante all'altro tutte le classi dei cittadini dello stato potevano,
come nel 1858, esser poste fuori della legge da una legge di sicurezza.

La mano di ferro in guanti bianchi, cotesto rimedio gradito agli
assolutisti pei nostri tempi malati, era col fatto divenuta il retaggio
della nuova Francia. Solamente cinque capisaldi della costituzione non
potevano abolirsi senza il consenso del popolo sovrano: la
responsabilità del capo dello stato, la dipendenza dei ministri dal solo
imperatore, il consiglio di stato consultivo, il corpo legislativo
deliberante le leggi e il senato come _pouvoir ponderateur_. In altre
parole, la limitazione del potere imperiale, il passaggio al sistema
parlamentare era impossibile senza la sanzione della nazione: per contro
l'imperatore era libero senz'altro di ampliare la propria potestà,
eccetto questo, che non gli era lecito di abolire il corpo legislativo.
Nello stesso modo come un tempo il primo Napoleone aveva detto: «il
disegno costituzionale di Sieyès abbraccia solamente l'ombra; ma noi
abbisogniamo della sostanza, ed io ho collocato cotesta sostanza nel
governo», così anche al secondo bonapartismo era dato di vantarsi, che
il potere esecutivo formava l'unica forza viva del suo diritto pubblico.
È certo, però, che la costituzione del 1852 non ha condotto, come
quella consolare, a un accrescimento sempre più soverchiante del
dispotismo. L'imperatore ha spesso riconosciuto il bisogno di condizioni
di maggiore libertà. Secondo l'assicurazione del duca di Morny, egli nel
1861 lamentava nel Consiglio privato la mancanza di pubblicità e di
sindacato come il cancro del sistema; e nel febbraio del 1866 dichiarò
al senato: «il mio governo non è stazionario, ma progredisce e vuole
progredire». Nel 1865 fece esporre al pubblico i provvedimenti più
importanti del suo governo nella compilazione _la Politique impériale_,
con la ferma fiducia, che il giudizio pubblico non avrebbe disconosciuto
le benemerenze del regime. Se non che la prima condizione della libertà
politica, la sicurezza del diritto comune, la quale importa più delle
singole concessioni al liberalismo, era onninamente impossibile nella
Francia imperiale.

Il secondo impero si serbò fino alla caduta come un dominio dispotico, e
Napoleone III svelò nelle note parole del suo discorso del trono del 14
febbraio 1853 l'estrema ragione di cotesta situazione illegale: «la
libertà non ha mai aiutato a fondare un edifizio politico duraturo, ma
lo corona quando il tempo lo ha consolidato». Si motteggi pure la piatta
balorda concezione dell'essenza della libertà, che si smaschera in
questa mezza verità schiettamente napoleonica; ma la famigerata teoria
del coronamento dell'edifizio non è del tutto assurda. Non si può
rifiutare l'esempio, mille volte addotto dai bonapartisti, dello stato
inglese. Anche l'Inghilterra cominciò a godere pienamente la libertà
parlamentare, quando i pretendenti Stuardi più non erano pericolosi, e
la casa di Hannover era minacciata seriamente solo in alcune parti
separate del regno. In Francia, invece, i tre quarti delle energie
popolari rimasero sistematicamente materia greggia pel governo dello
stato, giacché tre partiti combatterono continuamente il quarto che era
al potere. Giorno per giorno toccava al governo, come del resto a tutti
i predecessori dal 1815, di lottare per la propria esistenza; e di
cotesta sua posizione aveva coscienza viva, né credeva punto a un
subitaneo adempimento della solenne profezia del discorso della corona:
«le passioni inimiche, unico ostacolo all'espansione delle vostre
libertà, andranno sommerse nell'immensità del suffragio universale». Di
gran lunga più chiaramente era espressa la verace opinione
dell'imperatore in quel luogo della _Vie de César_: «i partiti politici
non disarmano mai, nemmeno davanti alla gloria nazionale». Perciò
l'impero finì sempre col ripiombare da capo nelle pavide dottrine della
tirannide: se il paese rispondeva nelle elezioni secondo gl'intendimenti
del governo, la nazione era contenta e non abbisognava di riforme; se le
elezioni riuscivano a favore dell'opposizione, i vecchi partiti erano
tuttora vivi, e ogni concessione portava pericolo. Per sua propria
confessione, il governo paventava più malanni da un abuso della libertà
che da un abuso del potere, e non si faceva carpire mai un diritto
definitivo.

Con l'elevazione delle moltitudini l'imperatore niente altro temeva più,
se non lo scontento delle moltitudini. Il grido _silence aux pauvres!_
che un tempo Lamennais aveva designato come la parola d'ordine della
borghesia, valeva anche sotto Napoleone III, ma in un nuovo senso: tutto
nella nuova Francia era lecito dire, salvo che non al popolo. Donde il
terribile bavaglio del pensiero, dallo stesso primo imperatore appena
raggravato, che dalle medesime moltitudini non era sentito
immediatamente come una compressione, ma che pure per cagion loro veniva
mantenuto fermo. Innegabilmente il bonapartismo si è tenuto lontano da
«quel colpevole e imprevidente lasciar andare, che si adorna talvolta
col nome di libertà». Il piccolo commercio dei libri offrì un grato
campo alle sue cure paterne: nei primi due anni dell'impero già seimila
volumi erano stati depennati come immorali dalle liste dei librai
ambulanti. Anche il più modesto dei diritti politici, il diritto di
petizione, era mozzo. Era permesso presentare petizioni soltanto al
senato, che le lasciava sospese a suo libito: tra il corpo legislativo e
le moltitudini doveva intercedere semplicemente l'assenza di ogni
rapporto. Siccome il diritto delle riunioni politiche, che è legato al
suffragio universale come l'àncora al bastimento, venne addirittura
annullato dall'impero, può sembrarci strana, ponendovi mente, la
rapidità e l'infallibilità con cui le nuove idee di opposizione al
governo, affluendo tutti gl'ingegni alla capitale, si diffondevano mercé
le libere conversazioni in tutto intero il ceto colto. Ma la
disposizione delle persone colte era presa poco in considerazione dal
bonapartismo. Anche gli operai potevano discutere tra loro delle proprie
aspirazioni sociali. Ciò che bisognava impedire, era l'influenza delle
persone colte sulle moltitudini: il profondo scontento degli uomini di
pensiero non doveva a nessun patto permeare il quarto stato. Donde la
distinzione profondamente accorta fatta dal ministro Pinard tra
l'istinto innato di sociabilità e il diritto puramente relativo di
riunione. Donde il fatto, che l'unione ginnastica tedesca di Parigi,
grazie al favore della casa Rothschild, formò in Francia l'unica
associazione che non fosse interamente estranea alle idee politiche; e
la superba nazione, che aveva conquistato alla terraferma il diritto di
associazione, era nell'anno 1866 talmente sprofondata al disotto delle
sue speranze, che perfino i liberali non sapevano elevarsi oltre il
desiderio, che dovessero permettersi le pubbliche riunioni almeno negli
ultimi venti giorni prima delle elezioni! Che poi alla chetichella non
si preparassero guai, lavorava la polizia segreta, la zelante discepola
dei Maupas, dei Pietri, dei Lespinasse. Era in funzione anche un
gabinetto nero, per quanto l'enorme aumento del movimento postale
moderno permetteva le miserabili arti di un'età soggetta. Napoleone III
nella sua entrata a Milano, acclamato freneticamente da un popolo a cui
portava la libertà e seguito passo su passo da un nugolo di spie i cui
ben noti ceffi di briganti italiani suscitavano il riso dei neolatini,
ecco una scena, che presenta in piena luce il carattere di cotesta
tirannide popolare. Per simili ragioni si spiega anche, come
l'ineguaglianza del diritto rispetto ai prodotti sia durevoli che
efimeri della stampa, che in uno stato non fondato sulla legge è affatto
inevitabile, prevaricasse sotto l'impero oltre ogni misura. Secondo il
signor Rouher le idee dell'89 stabiliscono solamente un diritto del
singolo di pubblicare la propria opinione, non già un diritto di
comunicazione collettiva. I libri, che la povera gente non legge, godono
di una libertà di stampa quasi intera. Prévost-Paradol curò, come un
tempo i nostri liberali sotto la censura di Karlsbad, di rendere
suppletivamente note nei suoi libri le trattazioni che la polizia non
gli aveva permesse nella rivista. Per le gazzette aveva vigore l'oracolo
di Granier: la stampa inasprisce le controversie senza risolverle, il
governo le risolve senza inasprirle. Un armamentario abbastanza
soddisfacente per mansuefare la stampa era già predisposto nelle leggi
della repubblica: l'imperatore, di soprassello, vi aggiunse nel febbraio
1852 anche l'ammonizione di polizia. In virtù di novantuno ammonizioni
piovute nello spazio di quindici mesi sui giornali già da un pezzo
intimiditi, il signor di Persigny produsse nella pubblica discussione
«quella temperatura moderata nella quale, e soltanto in quella, prospera
la libertà». Più importante pel sistema era l'altezza della tassa di
bollo sui giornali: il bollo ne avviluppò molti tra le difficoltà
finanziarie, li condusse a lerci rapporti con le potenze della borsa, e,
soprattutto, precluse la stampa colta alle moltitudini. Il popolano
poteva bene cavare dal piccolo _Moniteur_ poco costoso la convinzione
dello splendore dell'impero, oppure corroborare la sua educazione morale
sulla perfetta scimunitaggine e sull'oscenità del _Petit Journal_ e
fogli affini di ciancerie e pettegolezzi. La stampa forestiera era
assoggettata dopo, come prima, a una brutalità semplicemente russa: per
nessuna qualsiasi via indiretta era dato che al popolo pervenisse
notizia, come qualmente in qualche parte del mondo vivessero dei pazzi,
i quali non tenevano l'impero come il più libero e il più felice stato
del globo. Aggiungiamo, inoltre, una censura teatrale la cui
meticolosità altamente comica richiamava sovente ai tempi del vecchio
imperatore Franz, e conveniamo francamente, che il governo faceva per
l'innocenza politica delle moltitudini ciò che il governo poteva.

A questo senso d'incertezza, che impediva qualunque cambiamento serio
del sistema, si accompagnava la macchia morale che bruttava il colpo di
stato, e che poteva essere, per quanto dimenticata, perdonata non mai.
Napoleone nella _Vie de César_ confessa, che il più grave cómpito di un
governo sorto dalla violenza è quello di riconciliarsi gli uomini
dabbene. Anche il 2 dicembre, non è dubbio, non fece che ricondurre una
rivoluzione in pro del trono; mutò ben poco nei più importanti istituti
dell'amministrazione, principalmente nello spirito: per l'uomo colto,
che non può veramente vivere senza la libertà del pensiero, col fatto
principiò con quel giorno una nuova età. Perciò perfino il moderatissimo
Tocqueville non seppe risolversi a prestare il giuramento all'impero.
L'accomodazione degli spiriti agili non offriva alcun compenso al
profondo disgusto morale della nobiltà intellettuale della nazione. Se
il vecchio Dupin ricevé un'alta carica dal bonapartismo perché
l'infelice era già ridotto «a dover toccare le rendite dei suoi beni»;
se il principe Napoleone, che il due dicembre nessuno riuscì a trovare,
si affrettò, dopo la vittoria, a entrare nel campo del fortunato cugino;
e via di questo passo all'infinito; potevano bene, questi uomini,
consolarsi col sublime apoftegma di Dupin: «io ho sempre appartenuto
alla Francia, non mai a un partito». Ma all'accorto autocrata certamente
sorgeva spesso il dubbio, se erano davvero coteste le forze morali, su
cui potesse reggersi un regime. Una volta un dignitario dell'impero
proclamò: «Per le moltitudini come pel singolo vale la regola, che chi
domanda e ottiene favore, si lega di gratitudine a chi glielo ha
concesso. Questo impone il pubblico pudore». La verità di coteste
parole, la cui sovrana alterigia di virtù richiama Guizot, doveva
apparire evidente a ogni imparziale, ma difficilmente a una burocrazia,
che già aveva visto a terra tanti troni. Burocrazia, d'altronde, la
quale con tutta la sua solerzia di servizio covava però uno spirito di
corpo affatto deciso: salita in alto in nome dell'«ordine», voleva
serbarsi ceto dominante e perciò, dai prefetti fino alle guardie
campestri, era reazionaria nell'anima. Anche il partito del governo, che
col dolce appoggio dei prefetti era entrato nel corpo legislativo, era
composto di fanatici dell'ordine. L'imperatore era la testa più libera
del governo; nulladimeno, per tutto il tempo che la dinastia non fu
riconosciuta senza riserva dai liberali, si vide costretto ad attuare le
sue riforme per mezzo di uomini che aborrivano ogni progresso. In tal
modo, da qualunque parte ci facciamo, noi ritorniamo alla conclusione,
che l'impero doveva essere e rimanere un dispotismo democratico.

La conseguenza di cotesta forma statale appare indubbia, alla prima
occhiata. La piramide della vecchia amministrazione napoleonica, fatta
col e pel dispotismo, piantata sull'idea dell'onnipotenza dello stato,
trovò il suo vertice naturale nel despota eletto, che impiega in pro
delle moltitudini il potere statale e che nei casi estremi è atteso
dalla rivoluzione. Anche il Consiglio di stato, il numero dei cui membri
fu notevolmente accresciuto, forma di nuovo, come sotto il primo
imperatore, il capo e, nello stesso tempo, l'alta scuola
dell'amministrazione. Protegge gl'impiegati dalla persecuzione
giudiziaria, e discute i disegni di legge con tale minuziosità di
formalismo, da far sembrare superfluo al grosso pubblico ogni altro
dibattito in parlamento. L'enorme aumento degl'impiegati e l'elevazione
degli stipendi legava la burocrazia al sistema, e l'introduzione dei
_cadres de non-activité_ facilitò l'allontanamento, senza troppe
cerimonie, dei caratteri incomodi. Anche l'indipendenza della
magistratura sembra a stento tuttora un riparo contro l'assolutismo. La
promozione dei giudici avviene fondamentalmente come ricompensa di
sentimenti dinastici; l'introduzione dei membri del tribunale nella
commissione giudiziaria non avviene più, come un tempo, per opera del
presidente del tribunale e dei consiglieri anziani, ma per opera del
presidente e del procuratore generale. Accanto a cotesta gerarchia delle
autorità vige, come prudente concessione alle idee degli anni trascorsi,
il _système consultatif_, la, così detta da Persigny, gerarchia della
libertà, vale a dire il corpo legislativo, i consigli generali,
distrettuali e comunali, che non hanno parte effettiva nel potere
statale, ma sono autorizzati a manifestare di tempo in tempo il proprio
consiglio alla burocrazia in nome dei possidenti. Ora, se riesce di
mantenere la buona disposizione dell'esercito mercé guerre brevi e
fortunate e quella delle moltitudini coi giochi e coi lavori pubblici, e
di saziare fino al collo la gente istruita con l'ambiziosa servilità
della _fonctionnomanie_ e della bizza dell'oro, ne vien fuori una
specie di stato affatto destituito di ogni contenuto morale, ma
benissimo idoneo a serbare l'ordine e il lavoro all'interno e la potenza
statale all'estero: che è, come dire, una riproduzione moderna
dell'impero bizantino. Anche lì l'imperatore, una volta riconosciuto dai
partiti del circo, poteva contare sopra un governo passabilmente
tranquillo. Una rigida burocrazia attirava a sé tutti gl'ingegni,
assicurava allo stato un'esistenza millenaria, e un movimento
attivissimo alla società. Un esercito tecnicamente eccellente riportò
per secoli trionfi sugli Ostrogoti e i Vandali, sui Cretesi e i Siri,
sugli Armeni e i Bulgari; e se prestiamo fede a Carlyle e ad altri forti
intelletti dei nostri tempi, gl'ideali di libertà del nostro secolo non
sono in generale da considerarsi altrimenti, che come una specie di
rosolia della modernità.

Negli anni fiduciosi del suo dominio Napoleone III ha certamente creduto
all'immutabilità delle idee fondamentali della sua nuova costituzione
consolare e non ha sognato nemmeno un sistema parlamentare; poiché i più
astiosi attacchi dei suoi vecchi scritti movevano precisamente contro
cotesta forma statale, e anche quando fu sul trono non risparmiò il suo
dispregio a coteste «singolari dottrine dei teorici, cotesto sistema
supergeniale, coteste vuote astrazioni». In fine gli agenti
dell'imperatore zelarono ad ostentare nei loro discorsi uno sprezzo
sconfinato contro il parlamentarismo. Perciò Saint-Arnaud ardeva di
sdegno contro la vecchia carreggiata fangosa sulla quale si cade
miserabilmente, Baroche contro gli scrupoli pedanteschi dei giuristi
costituzionali, Troplong contro il congegno impacciante e forviante
della macchina parlamentare. Persigny e il principe Napoleone si
rifacevano eternamente al vecchio articolo di fede del bonapartismo, che
il sistema parlamentare è oligarchico, che è pernicioso al bene dei
molti ed è lusinghiero solo per la vanità dei singoli. E il signor di
Morny per l'appunto lamentò, pare impossibile, la sostanziale teatralità
dei dibattiti parlamentari: bizzarro rimprovero sulla bocca del
bonapartismo, che nelle arti del ciarlatanismo non ha mai trovato il suo
maestro. Tale avversione, nata dall'istinto del dispotismo, venne
cresciuta e pasciuta dall'inquietante ricordo degli Orléans. I quali
erano pel secondo imperatore ciò che i Borboni erano stati pel primo: un
oggetto di sollecitudine e di persecuzione incessanti. Noi non
rimproveriamo l'invocata confisca dei beni della Casa, perché chi
conosce la storia del demanio francese non può negare che questo
provvedimento, per quanto esoso possa parere, risponde pienamente alle
tradizioni della corona. Ma le maligne allusioni e le fiancate a danno
della monarchia di luglio, che ricorrono di continuo nei discorsi
dell'imperatore, attestano l'implacabile rancore del carcerato di Ham.
Quanto poco da principe fu il discorso del presidente nel castello di
Amboise, allorché, rilasciando Abdelkader prigioniero, paragonò la sua
propria magnanimità con la tapinità del caduto governo! Capitava, anzi,
al livoroso uomo di smarrire il decoro, come pensava agli Orléans:
quando annunziò il proprio fidanzamento alle alte corporazioni dello
stato, non seppe inibirsi di motteggiare sulla piccola principessa
mecklemburghese, di cui l'erede della corona di Luigi Filippo si era
dovuto contentare. E quando il duca d'Aumale dispettò il principe
Napoleone con la sua mordace lettera sulla storia di Francia,
immediatamente fu ordinata la soppressione generale di tutti gli scritti
della cacciata dinastia: ordinata dallo stesso príncipe, che un tempo
nelle carceri della monarchia di luglio aveva goduto piena libertà di
stampa.

Di un tale astio contro il regno di Luigi Filippo fece testimonianza
anche la costituzione dell'impero: nella quale le idee dei tempi
parlamentari sono cancellate fino alle ultime vestigia, e di una
rappresentanza popolare vi si può parlare solamente in senso figurato.
Anche noi tedeschi conosciamo gli abusi delle autorità nella elezioni
politiche; pure ci è dato affermare arditamente, che, in forza
dell'indipendenza dei nostri comuni e dell'educazione delle nostre
moltitudini, i casi più vergognosi della corruzione elettorale tedesca,
arrivano a stento agli esempi dei tempi di Guizot. Era riserbato al
bonapartismo di oscurare tutti i predecessori, e di illustrare così
terribilmente alla democrazia l'effetto a due tagli del suffragio
universale, che il ministro repubblicano Carnot dovè confessare: «il
suffragio universale senza l'educazione del popolo è un pericolo, senza
libertà è una menzogna». La lode della sincerità, che i _satisfaits_
amavano tributare al sistema elettorale del bonapartismo, col fatto era
ben fondata. «Il tempo dei mezzi meschini, dei mezzi segreti è passato»,
disse il ministro Persigny nella sua prima circolare elettorale del
febbraio 1852. «Quale imbarazzo per gli elettori, se il governo non
designasse egli stesso gli uomini di sua fiducia!» e, aggiungevano
ufficiosamente i prefetti, «non rispondendo alla dignità del governo il
fare qualcosa a mezzo, esso combatterà i candidati contrari». In ogni
collegio fu presentato un candidato ufficiale. Ogni altro candidato era
_desavoué d'avance_. Giacché, o era un avversario, e sarebbe stata una
folle speranza presumere di menare a fine anche adesso, sotto
l'imperatore responsabile, propositi ostili al governo; o era un amico,
e allora non era lecito, in grazia di un meschino interesse personale,
porre a cimento il pubblico bene! Si arrivò a combattere i candidati
bonapartisti che non si erano cattivato l'appoggio dei prefetti: chi
doveva il proprio stallo unicamente a sé stesso, poteva cadere nel vizio
dell'indipendenza. Lo strisciamento del così detto partito illuminato
governativo divenne a poco a poco tanto scandaloso, che una volta il
signor Rouher ne fu indotto a dichiarare compiacentemente: «noi
riconosciamo al partito governativo il diritto di correggere i nostri
errori quando abbiamo torto».

Anche il segreto non offriva alcuna garanzia alla libertà del voto. La
votazione procedeva per comune, e i piccoli comuni della campagna
ubbidivano infallibilmente agli ordini del rispettivo sindaco, il cui
zelo ufficiale si era vie più rinfervorato da quando al signor di
Persigny era venuta la felice idea di aprire anche ai sindaci villerecci
la speranza fino allora preclusa del nastro rosso. Nei primi anni
l'imperatore contò tanto fermamente sull'influenza dei suoi funzionari,
che il ministro Billault vietò ai sindaci di comparire personalmente
nella votazione comunale. I collegi erano rimaneggiati a placito del
governo; e nella formazione delle liste elettorali la burocrazia mestava
con libertà sovrana, di modo che la popolazione di Parigi
incommensurabilmente salita contava nel 1863 meno elettori di sei anni
avanti. E da quando, nella seconda elezione dell'impero, alcuni che
avevano rifiutato il giuramento erano riusciti a farsi eleggere, ogni
candidato era tenuto a prestare in anticipazione il giuramento allo
statuto. I comitati elettorali caddero sotto la proibizione del _code
Napoléon_; la libertà del voto esige, come dichiara ufficialmente il
signor Thullier nel 1865, che gli elettori non siano «terrorizzati» dai
comitati. Un caso grazioso generalmente disponeva, che la mattina delle
elezioni pubblici affissi sulle cantonate riferissero le nuove ferrovie
e canali che lo stato si proponeva di donare al dipartimento. A questa
corruzione elettorale dall'alto si sposò a poco a poco un sistema di
corruzione privata tale, che quasi si trattasse di accumulare
nell'impero tutte le magagne del parlamentarismo inglese e dell'antico
parlamentarismo francese. Le spese elettorali, che, per altro, data la
grande estensione dei collegi di provincia, erano considerevoli per gli
stessi candidati ufficiali a cui lo stato alleviava una parte del
dispendio, erano quasi incomportabili agli sprovvisti di una fortuna,
specialmente da quando i candidati presero l'uso di promettere al corpo
elettorale opere di pubblica utilità, di costruire monumenti, fontane, e
via dicendo.

Un corpo legislativo nato da siffatta origine non doveva
conseguentemente esser padrone in casa propria. L'imperatore nominava i
presidenti e i questori; e siccome notoriamente in Francia anche il
presidente del tribunale si crede in dovere di militare in un partito, i
presidenti del parlamento imperiale esercitavano un «terrorismo»
sfacciato contro i loro avversari politici. Un tratto magistrale del
dispotismo democratico era anche l'alta indennità assegnata ai deputati.
In Europa la Francia aveva la rappresentanza popolare più costosa: il
bilancio delle due camere, che sotto Luigi Filippo ammontava a 2,2
milioni, salì nell'impero a 12 milioni. Questo andamento, che sembra
essere sfuggito alla riflessione dei nostri tedeschi fanatici della
dieta, risponde, come dice la legge, «ai fondamenti democratici della
nostra costituzione», alimenta l'indolenza verso i doveri civili
gratuiti, favorita conseguentemente dallo stato burocratico, e abbassa
indubitabilmente l'autorità morale della rappresentanza popolare.
L'ineleggibilità degl'impiegati parve una concessione al liberalismo,
giacché non era a sperare da un impiegato napoleonico una condotta
appena appena indipendente nel corpo legislativo; solo che in cotesto
stato burocratico si veniva a sottrarre al parlamento, insieme con la
burocrazia, anche la competenza tecnica: la grande maggioranza della
camera era composta di dilettanti. Tuttavia il postulato più congruente
della costituzione sul corpo legislativo era il prescritto, che la
stampa dovesse pubblicare semplicemente un resoconto ufficiale
dell'andamento delle sedute. In tal modo veniva effettivamente espresso
senza equivoco il carattere segreto del parlamento e il volere del
governo di non permettere mai il rafforzamento dell'assemblea. Il corpo
legislativo approva o respinge i disegni di legge in blocco; quanto alle
proposte di emendamenti «che tanto spesso turbano l'economia di una
legge», ne è permessa la semplice consultazione nel caso che il
consiglio di stato le abbia precedentemente dichiarate ammissibili. Il
principio della dipendenza del ministro esclusivamente dall'imperatore
era mantenuto nella costituzione con tale fiscalismo, che solamente ai
membri del consiglio di stato, e non già ai ministri come tali, era
consentito di rappresentare il governo davanti al corpo legislativo. La
proposta di una provvisione al famigerato conte Palikao, condotta poi a
fine sotto altra forma, e l'insensato disegno di un ampio diboscamento
furono per lunghi anni i due soli notevoli abbozzi di legge che vennero
ritirati davanti all'opposizione dei deputati. Nei casi dubbi la
presunzione legittima parlava naturalmente contro il corpo legislativo;
e siccome il solo imperatore era autorizzato alla conclusione dei
trattati di commercio, seguiva che anche la radicale trasformazione
delle tariffe doganali era condotta esclusivamente dalla corona.

Non meno deplorando era il procedimento rispetto ai diritti finanziari
della camera. Certo, avevano fatto presto a passare i giorni baldanzosi
della vittoria, quando il ministro Bineau era al caso d'impiantare
l'innocente teoria, che la rappresentanza popolare determina la somma da
erogarsi per l'amministrazione dello stato, ma che sull'impiego nei
singoli capitoli decide esclusivamente il governo. Ma, anche dopo estesi
alquanto i diritti del corpo legislativo, permanevano tuttora cinque
bilanci, il _budget général, extraordinaire, supplémentaire,
rectificatif_ e il _budget de l'amortissement_, che potevano tutti
pubblicarsi in forma provvisoria o definitiva. I bilanci provvisori
abbisognavano di tre, perfino di cinque anni, per arrivare alla forma
definitiva! Di continuo giacevano contemporaneamente tre o quattro
bilanci annuali non ancora chiusi. Il governo godeva della facoltà,
abusata senza riguardo, dei _virements_, cioè della distrazione dei
fondi approvati ad altri capitoli, entro le 59 sezioni del bilancio. A
farla breve, davanti a un sistema finanziario talmente caotico, che la
vera situazione risultava di rado chiara perfino all'occhio conoscitore
di Achille Fould, ogni sindacato parlamentare efficace si arrestava
muto.

Il senato napoleonico era anche più nullo del corpo legislativo. Una
camera alta, che riunisce in sé competenza e indipendenza, e che poi in
cotesta società democratica viene fuori dalle elezioni fatte solamente
dai consigli generali dei dipartimenti; ecco, è un'idea, che fu molto
discussa dai partiti liberali. L'imperatore preferì la nomina fatta
esclusivamente dalla corona. Il senato formò il ritrovo dei dignitari e
dei bigotti dell'impero, e, soprattutto, l'ospizio di tutti gli
strumenti logori che l'imperatore buttava da parte. A ogni modo le
discussioni del senato, giusta il desiderio del fondatore, non erano
nemmeno più, come quelle della camera dei pari sotto gli Orléans,
«meramente un pallido riflesso dei dibattiti dell'altra camera»; esse
significavano puro niente, e solo di tanto in tanto attraevano
un'attenzione fugace, quando il fanatismo dell'ordine si sfogava tra
questi beniamini dell'impero in scenate veementi. Il senato era «il
custode del patto fondamentale della nazione», e vigilava gelosamente
sui propri diritti. Respinse con indignazione una istanza che perorava
la presentazione delle petizioni anche al corpo legislativo, e nel 1865
proibì fuori del senato qualsiasi discussione che mirasse a mutamento o
critica della costituzione. Si mostrò più tollerante verso l'alto. La
voce di un solo senatore, quella del maresciallo Mac-Mahon, si levò
avverso la legge di sicurezza del 1858. I decreti imperiali, che
alteravano la costituzione, furono sempre accettati con contrizione dal
custode del patto fondamentale, ma sollecitamente, senza proteste. Del
suo diritto d'iniziativa, per quanto è a nostra notizia, il senato ha
fatto uso soltanto due volte: quando stese una relazione sui trovatelli
e quando discusse il primo libro di un _code rural_. Tale modestia
rispondeva ai buoni costumi burocratici dello stato, ed ebbe anche il
suo premio: secondo la costituzione il capo dello stato aveva facoltà di
guiderdonare della loro buona condotta i singoli senatori; e pochi anni
dopo tutti i senatori vennero stipendiati.

I prodotti parlamentari del bonapartismo erano con calcolo prudente
diretti a questo: che non dovessero mai costituire una forza. Donde la
ferrea conseguenza che l'edifizio statale era puramente un'apparenza. La
profonda contraddizione intima, che già da due generazioni compenetrava
lo stato francese, non fu risoluta in alcun modo nemmeno dall'impero. Se
l'avidità e l'ambizione nazionale dei francesi favorivano il dispotismo,
nulladimeno anche durante quel tempo di stanchezza sopravvissero in
questo popolo altamente dotato molte forze ideali, intese a forme più
libere di stato. La nazione sentiva sempre il bisogno di essere
governata da un'autorità ferrea, e, insieme, di assalire il governo. Se
il sistema parlamentare era una falsità su questo suolo e abusava del
dispotismo amministrativo ai fini dei partiti, anche l'impero però non
era meno una falsità. I ricordi dei grandi giorni della Rivoluzione e
del tempo in cui l'Europa tendeva l'orecchio in ascolto alla tribuna
del _Palais Bourbon_, duravano indelebili: la forza di queste tradizioni
impediva, che la dileggiata «gerarchia della libertà» diventasse un
innocuo accessorio dello stato. La necessità degli ordinamenti
costituzionali circa il 1860 picchiava adagio alle porte, ma
percettibilmente, anche in Russia; le colpe della reazione europea
avevano rafforzato tra i popoli il sentimento della solidarietà. La
civiltà del secolo sforzò dovunque il dispotismo a mettersi la maschera
liberale, e costrinse i bonapartisti a celebrare l'imperatore soldato
come un eroe della libertà e della pace. Diede anzi un'importanza
crescente al pietoso corpo legislativo dell'impero.

Alla pace sepolcrale delle elezioni del 1852 seguì la veemente lotta
elettorale del 1857. Invano il discorso del trono vantò, che solamente
qualche contrasto di opinione in qualche luogo aveva turbato il contento
generale. Invano la stampa ufficiale cercò di dipingere come traditori e
cospiratori i cinque uomini di coraggio, i quali, soli nel corpo
legislativo, avevano osato per lo spazio di sei anni di opporsi al
governo. A ogni modo, la coorte serrata dei deputati ligi era rimasta
tuttora immune dal contagio. «Mi parli fuori, Morny ci guarda», disse
perplesso un deputato di saldo carattere all'Ollivier, quando costui,
che era uno dei cinque, si mise a parlargli nell'aula. Ma la società
colta incominciò a plaudire ai discorsi dei cinque; il «frondeggiare» e
l'opporsi tornò in moda. L'imperatore e il suo Morny seguivano con
cautela il cambiamento di umore del tempo; pensavano di tenere a segno
l'opposizione con concessioni opportune, senza rinunziare a nessun
diritto sostanziale dell'_homme-peuple_. Quando già, dopo la campagna
d'Italia, era stata concessa un'amnistia generale, apparve di botto,
completamente inaspettato, e, in verità, non punto strappato da un
movimento prepotente dello spirito nazionale, ma liberamente emanato
dalla decisione spontanea dell'imperatore, il decreto del 24 novembre
1860, _le décret sauveur_, come lo chiamò il marchese di Boissy, che
permetteva la pubblicità delle sedute parlamentari. Così l'essenza del
corpo legislativo venne mutata d'un colpo; di un gran consiglio generale
diventò una forma di rappresentanza popolare. Subito, però, il nuovo
acquisto del diritto d'interpellanza fece anche manifesta
l'inconsistenza di un parlamento che doveva soddisfare la nazione senza
limitare il governo. La discussione delle interpellanze eccitava il
popolo con la sua rettorica veemente e, in fondo, a vuoto, tormentava
l'ascoltatore intelligente con l'eterna ripetizione delle idee
elementari ormai trite e ritrite della dottrina costituzionale; e il
rendimento pratico si riduceva a ritardare di un mese gli affari.

Con quel decreto del novembre era arrivato per lo stato di Napoleone III
il momento, che per ogni governo malcerto è il più critico: l'istante
che comincia a riformarsi. Ma questo istante, essendo la forza politica
della nazione presso che spenta, durò dieci anni interi. L'opposizione
prese vigore lentamente; riportò alcuni successi nelle elezioni del 1863
e più nelle elezioni suppletive e nella ricostituzione dei consigli
comunali: nella potente capitale si determinò una importante maggioranza
contro il governo. Era venuta su una nuova generazione, la cui coscienza
non era compenetrata dalla memoria dei terrori dei giorni di febbraio; e
il despota doveva essere assalito sovente dal sinistro pensiero: che
cosa accade ora, se le moltitudini, abituate come sono a addebitare
all'imperatore ogni calamità, anche il cattivo raccolto e la penuria, in
un momento di strettezze economiche fanno causa comune coi ceti colti,
covanti già da un pezzo il livore? Principiò, come Morny, a tenere per
inevitabile il ravvicinamento al sistema parlamentare. Ogni anno
apportò nuovi diritti al corpo legislativo: visione degli atti della
diplomazia, approvazione dei crediti supplementari, e via di seguito;
finché la tribuna, che era uno spauracchio pel corretto bonapartismo, fu
ripristinata nel bello emiciclo del Palazzo Borbone. Ciascuno di questi
esperimenti di saggio non era per l'opinione pubblica invadente che una
semplice leva per sollevare nuove esigenze, fino a quando non si
conchiuse col domandare chiaro e netto il parlamentarismo «inglese».
Occorre tuttora la prova, che le classi colte erano prese da un inganno
enorme? Un solo sguardo all'importanza delle moltitudini insegna, che
quei desiderii dottrinari non toccavano affatto il punto cancrenoso del
nuovo stato francese, e che la loro realizzazione non avrebbe,
senz'alcun dubbio, contentato per nulla la classe politicamente più
influente. Ciò che questo stato esigeva, era la limitazione del
potere statale ottenuta mercè una trasformazione fondamentale
dell'amministrazione. Su questo nuovo basamento poteva sorgere forse,
col progredire degli anni, un governo parlamentare. Invece, la stampa
ricantava l'antica canzone della divisione dei poteri; domandava, senza
confessarlo a sé stessa lealmente, il puro ritorno a un sistema caduto
sotto le proprie colpe, il ritorno a quel burocratico-parlamentare
dispotismo di partito, che per tanto tempo era stato per la Francia una
calamità. Tutto ciò che chiedevano i dottrinari dello _empire libéral_,
la Francia lo aveva già posseduto con l'atto addizionale dei cento
giorni; e sotto il secondo impero come sotto il primo era altrettanto
inconcepibile, che l'eletto del popolo, il dominatore assoluto
dell'amministrazione e dell'esercito, che rappresentava la generalità
della nazione, dovesse ubbidire lealmente a una maggioranza
parlamentare, che aveva dietro di sé soltanto una parte del popolo. Ma
chi, come l'autore di queste linee, insisté allora sull'eretica
affermazione, che «il bonapartismo parlamentare fosse la menzogna di
tutte le menzogne», si vide precipuamente spacciato dai liberali con
l'affermazione, che tutto stava che il parlamentarismo principiasse con
l'esistere, perché poi l'indipendenza dell'amministrazione si sarebbe
fatta da sé! Tanto era cieca tuttora la fede nelle forze meravigliose
del vecchio modello costituzionale!

Ma si era poi prodotta nella vita dei partiti una salutare chiarezza, la
quale giustificasse l'espettativa, che la nazione sarebbe per comportare
più felicemente che non negli anni trascorsi l'enorme contraddizione tra
l'amministrazione dispotica e il regime costituzionale? La risposta
esprime un profondo rimprovero. I vecchi partiti erano consunti, i nuovi
non ancora nati. La monarchia dei Borboni e degli Orléans formò i
repubblicani, la repubblica tirò su una generazione di reazionari, e
sotto l'impero lo spirito di contraddizione creò in verità molti
scontenti, ma non punto un forte partito liberale con propositi precisi
e tenaci. Il dominio dei legittimisti nella nuova Francia era
impossibile; se pure ci è dato, d'altronde, servirci di questo
pericoloso aggettivo a proposito delle vicende incalcolabili della
nazione francese. Gli orleanisti avevano imparato poco. Non i soli
espatriati si divoravano in un'odio sterile, come quel Dunoyer, un tempo
tanto sennato, il quale ora nella sua opera sul secondo impero non ha
saputo esprimere altro che corruccio e assurdi e l'eterno _quiconque est
loup agisse en loup_. Anche quelli rimasti a casa non si erano
emancipati dalle idee dei già da un pezzo trascorsi dì: la
responsabilità ministeriale e il contegno ostile verso la Germania
costituivano tuttora gli articoli capitali della loro fede politica. I
repubblicani moderati contavano ancora, come venti anni avanti, molti
nomi altamente rispettabili e virili, ma non erano spalleggiati dalle
moltitudini, e vivevano anch'essi meno del novello pensiero che
dell'odio contro il due dicembre, «che non è una data, ma un delitto».
Dei radicali, alcuni erano convolati al principe rosso, altri si
ubbriacavano di fantasticherie sterminatrici di ogni stato, di ogni
ordine sociale. Quale abisso di dissolutezza blasfematrice si aprì a
Liegi, quando nel congresso degli studenti il leone del Quartiere latino
fece udire il suo ruggito! E qual furore frenetico e bavoso nei fogli
volanti di quella letteratura profuga, che empiva le vetrine dei librai
di Ginevra e di Bruxelles! I _pamphlets_ dei rossi sulla moglie di
Cesare testimoniavano l'antica e torva affinità tra la sete di sangue e
la lussuria. Le minacce dei Boichot e dei Pyat contro il Soulouque
bianco, che una volta bisognava pure decidersi a rinchiudere in una
gabbia accanto alle belve nel _Jardin des Plantes_, gl'immondi vituperii
dei profughi contro la regina d'Inghilterra quale alleata di Napoleone,
tutto ciò mostrava la pertinacia in nulla allentata del tradizionale
atroce odio di partito, che di necessità impediva la franca
riconciliazione delle persone assennate. Dovunque guardiamo, non
scorgiamo mai in nessun luogo uno scopo conseguibile, in nessun luogo
nemmeno un nuovo ideale falso, che fosse propugnato da un partito
potente e conscio. Dovunque una cupa e confusa inquietudine, che
permetteva ai più tristi duellatori, a un Rogeard e a un Rochefort, di
rappresentare una parte, anche se non sapessero scrivere meglio che
perversamente e impudentemente.

Si raccolse a poco a poco sotto la guida dell'Ollivier un nuovo partito
del centro, liberale insieme e dinastico, il _tiers parti_: chi però
conosceva l'agile chiacchieratore, dubitava seriamente, se era a cercare
proprio lì la forza morale, che avrebbe ringiovanito uno stato
ammalazzato. Si comprende l'acre sprezzo del despota pei suoi nemici,
pel vino spumante di quei discorsi di opposizione. I discorsi di tre
ore l'uno, con cui il vecchio Thiers soleva rapire il corpo legislativo,
colpivano a segno con alcune punte acute e maligne le debolezze e i
falli del bonapartismo; ma tradivano a ogni passo la sterilità
intellettuale del vegliardo che si disfaceva in una vanità cavillante. I
liberali si erano alla fine convertiti alla regola casalinga di
prudenza, che la migliore costituzione è quella esistente, sempre che si
sappia farne buon uso: fin dal 1863 erano rientrati nell'agone della
politica pratica, e una parte dei loro pubblicisti difendeva già le idee
avveniristiche dell'indipendenza dell'amministrazione. Solo che queste
idee non costituivano un vasto programma di partito pel pubblico bene,
non erano approfondite e comprese nella loro importanza vera. La _France
nouvelle_ di Prévost-Paradol, il celebre programma del liberalismo, non
conteneva un sol capitolo sull'amministrazione dei comuni. In quel
parlamento pieno di lamentazioni furono manifestate nuove idee quasi
soltanto dal banco dei ministri: davanti alle teorie liberoscambiste del
potente «viceimperatore» Rouher, gli eroi dell'opposizione figuravano la
più parte da reazionari. Non pareva verosimile, che nei lunghi e
silenziosi anni di riflessione su sé stessa la nazione non avesse
proprio imparato nulla delle virtù della disciplina parlamentare, del
tranquillo predominio di sé, del contegno virile! Ancora e sempre
l'antico uzzolo fanciullesco degli effetti teatrali, l'antica atroce
ferinità dell'odio di partito. Nessuna seduta del corpo legislativo
soddisfaceva i parigini _blasés_, se non era drogata da un _incident_,
da una scenata di maldicenza e furore di parte. Dopo che i legislatori
con la faccia in fiamme e con un selvaggio dimenamento di braccia si
erano sfogati per un pezzo nel palleggio dei vituperii, il presidente
aveva cura di levarsi solennemente e di pronunziare quella parola
tragicomica che, inconcepibile nel parlamento inglese o nel tedesco,
divenne nel francese una espressione addirittura rituale: «Signori,
l'incidente è chiuso!». Presto si sarebbe provato, se i piccanti
incidenti erano in grado di allevare una generazione di statisti
parlamentari!

Donde derivò, in fondo, l'evoluzione liberale, che alienò a mano a mano
dal dispotismo democratico le classi abbienti finora soddisfatte? Da tre
fonti. Dalla onesta indignazione della nessuna libertà dello stato;
dalla brama inarrestabile di novità; e finalmente e principalmente da
quella gelosia per la Germania, che passava come un filo rosso
attraverso tutte le fluttuazioni dello spirito pubblico. Già da quando
fu fondato lo stato tedesco settentrionale, da quando l'idolo del
_prestige_ francese principiò a vacillare, la maggioranza della nazione
cominciò a sentire vivamente l'onta del dispotismo; ma questo nuovo
sentimento liberale, proprio perché non era stato punto acquistato e
travagliato con una faticosa elaborazione, non si manifestò veramente
stabile e di tempra provata. Solo dopo la battaglia di Königgrätz
l'imperatore si vide costretto a una seconda riforma decisiva. Il 19
gennaio 1867 scrisse a Rouher quella lettera teatrale, che annunziava
solennemente il «coronamento dell'edifizio». La discussione delle
_adresses_ venne, per desiderio di Morny moribondo, sostituita dal
diritto d'interpellanza. Ma anche questa savia riforma ancora una volta
svelava semplicemente l'assurdità del sistema. Il ministro di stato, che
dopo il decreto del novembre aveva parlato pei suoi silenti colleghi
come un difensore platonico, adesso in verità era il capo del ministero.
Il viceimperatore Rouher rappresentava la politica del governo
all'ingrande, ogni ministro difendeva, in forza di uno speciale
incarico, l'amministrazione del proprio ministero. Da ciò sorse
inevitabilmente la necessità di una politica comune del ministero,
affinché non si rinnovassero anche più spiacevolmente i casi, già
troppe volte avvenuti, di stridente contraddizione tra i vari ministri.
Per giunta, lo stesso despota democratico responsabile doveva
costantemente respingere ogni solidarietà tra i ministri. Di più: quanto
maggiormente i dibattiti prendevano sostanza di contenuto e di vita,
altrettanto risultava sensibile, che la finzione costituzionale
dell'infallibilità del re non è altro, che una circonlocuzione dell'idea
«dominio della legge». Siccome non è concepibile in un parlamento
l'appello alla ribellione, dovevano dunque esservi funzionari
responsabili che rispondessero a ogni pubblica lagnanza. Perciò la
tirannide responsabile era incompatibile con la libertà di parola di una
seria discussione parlamentare; ogni rimprovero, in tal caso, andava a
colpire l'imperatore, scoteva l'autorità della corona, oppure, come va
da sé, era soffocato dal campanello presidenziale.

Invecchiando, il despota si difendeva ancora: ricordò novellamente alla
nazione «i titoli legittimi dei Bonaparte», le menzionò novellamente i
potenti plebisciti, che avevano fondato con sei grandi votazioni la
potestà della sua casa. Ma la fede nell'avvenire dei Bonaparte era
andata a fondo, da quando l'imperatore si era attaccato un'altra volta a
quella Chiesa avida di dominazione, la quale troppo bene sapeva, che il
bonapartismo aveva assai più bisogno del proprio aiuto che non essa
della sua protezione. I bonapartisti parlavano ancora con baldanza,
cercavano anzi di assumere il tono affabile della monarchia patriarcale.
Nelle _Memorie_ di Véron, negli _Annales de la paix_ di Guettrot e
simiglianti libri, parlava un'affettuosità fanciullesca, che ricordava
il _Libretto del re Giovanni di Sassonia_ e le operette affini prodotte
dalla servilità dei piccoli stati tedeschi. Ma il tono era ricercato e
affettato: il parallelo, di moda in altri tempi, tra Augusto e il terzo
Napoleone cominciava a sollevare nel mondo i fischi. La stampa
dichiarava sempre più animosamente, tra il plauso degli stranieri, che
solo il parlamentarismo, l'intero e vero parlamentarismo, poteva salvare
la calante Casa imperiale. Sonava sempre più alto l'antico aforismo _la
France est centre gauche_, laddove un prossimo avvenire doveva far
manifesto, che l'ebbrezza di un successo guerresco è a questo popolo
sempre più cara di qualsiasi ideale politico. L'imperatore non poteva
più tenere con mano ferma, una volta allentate, le redini del governo.
Una ricca concessione seguì l'altra. Nel marzo del 1868 apparve la legge
sulla stampa. Il giudizio del tribunale della polizia dei costumi venne
a sostituire l'arbitrio delle ammonizioni di polizia; e con
l'abbassamento della tassa del bollo i giornali acquistarono la
possibilità dell'assetto finanziario e dell'indipendenza. Certo, la
penetrazione della stampa colta nel quarto stato, che era ciò che più
importava, non era punto facilitata dalla lieve riduzione del bollo. Le
persone colte non vedevano di buon occhio la fondazione di giornali
locali indipendenti, in grado di sorvegliare per filo e per segno i
maneggi dei prefetti onnipotenti; a cotesto liberalismo la sgargiante
rettorica dei grandi fogli parigini sembrava più importante di una
stampa di provincia modesta ma efficace. Nello stesso mese entrò in
vigore la legge sulle riunioni, che dava in tutto prova della vigile
diffidenza del dispotismo: non si permetteva adunanza, se prima i
partecipanti non avessero precedentemente dichiarato ciascuno la propria
persona, la condizione, il domicilio; facoltà incondizionata ai prefetti
di rimandarla, sempre che ne temessero pericolo per la pubblica quiete.
Ma anche questa limitata libertà di riunione effettivamente era troppa
per una nazione, che aveva malmenato il diritto di socialità nella
sconvenienza dei clubs e delle cospirazioni. Janzé e gli altri
rugiadosi creduloni del _tiers-parti_ tripudiavano, che non fosse a un
dipresso rimasto nulla più della costituzione del 1852.

Solo che noi domandiamo: in che modo ha usato la Francia della sua nuova
libertà? E anche adesso la risposta suona profondamente triste. Si
palesò ora per la prima volta quale mostruoso pericolo costituiva il
fatto, che un popolo passionato e geniale si fosse per lo spazio di due
decenni interamente disabituato dalla vita pubblica. Quando riflettiamo
alla follia che seguì al turbine di febbraio, dopo che la nazione aveva
potuto per lo spazio di una generazione attingere ammaestramento e
consapevolezza dalla libera stampa, noi non ci stupiamo affatto che una
generazione, la quale non si era più addestrata alla disciplina della
libertà e non aveva alcuna conoscenza degli affari dello stato, non
sapesse distinguere tra radicalismo e spirito di libertà, e si
abbandonasse senza guida al turbine delle passioni.

Tutto il nauseabondo lordume, che un tempo si era rincantucciato tra le
colonne della stampa spatriata, adesso era venduto sui boulevards della
capitale: i palati sovreccitati inghiottivano avidamente la _Lanterne_
di Rochefort, indubitabilmente il più comune e il più insipiente
giornale d'infamia, che sia mai apparso in una nazione incivilita.
Urlava nei clubs parigini la bestialità selvaggia di una plebe
scostumata: di tempo in tempo i demagoghi menavano a spasso il popolo
sovrano in una _journée_, in immondi eccessi per le strade. Qual
meraviglia, se i borghesi impauriti già movessero a Rouher lamento, che
la mano del governo non fosse più sentita? E venne il giorno della
prova, l'elezione del 23 maggio 1869. La questione per la Francia era di
sapere, se dietro questo mostruoso clamore radicale non si nascondesse
forse una qualche forza morale. La prova fu sostenuta vituperosamente.
Nelle elezioni del 1852 il governo aveva riportato 5 milioni di voti
contro 872.000 dati all'opposizione; nel 1857 6 milioni contro 840.000;
nel 1863 il numero di voti dell'opposizione salì a milioni 1,8 contro
5,36, e nel 1869 a milioni 3,31 contro 4,66. Alla prima occhiata questi
numeri sembrano una chiara dimostrazione dell'ingrossamento continuo
dell'opposizione. Eppure la verità era ben diversa. I primi tre
risultati delle elezioni erano l'espressione fedele, l'ultimo una
falsificazione della volontà del paese. L'enorme maggioranza della
nazione si era col fatto talmente convertita alle idee liberali, che
Emilio Girardin, l'augure delle rivoluzioni, credeva già di vedere il
principio della fine; ciò non ostante, essa non trovò in sé il coraggio
di opporre resistenza a quelle male arti della pressione elettorale
napoleonica, che Rouher mise in azione anche questa volta.

Era una solenne dichiarazione di bancarotta della nazione; e, per
giunta, ognuno sapeva che il dispotismo, intimidito e scoraggiato, non
si trovava più in condizione di adoperare i mezzi violenti di un tempo.
Dopo questo grande saggio di fermezza del carattere nazionale, era
facile prevedere, che si sarebbe dimostrato una lustra anche il
progresso dell'intelligenza politica, che gli ultimi anni avrebbero
dovuto arrecare. La nuova camera risultò composta di 40 radicali, 60
appartenenti al recente _tiers-parti_ e 200 mammalucchi ed arcadi, fida
falange di Rouher. Ma la così detta opinione pubblica si rivelò ancora
una volta come una forza irresistibile. Una parte dei bonapartisti,
spaventati dal fracasso della stampa e dei clubs volse di botto a
sinistra, e così, con un atto di completa insensatezza, nacque la
mozione dei 116, che domandava nuovi diritti costituzionali. Rouher fu
dimesso; ma, proprio quando si solennizzava il centenario dell'avo,
l'imperatore giaceva infermo gravemente, e il mondo sentiva che la
dinastia sarebbe condannata non appena quei due occhi si fossero chiusi.
Dopo la guarigione il despota angustiato pubblicò il senatoconsulto del
6 settembre, che annunzio il principio della responsabilità
ministeriale. Finalmente il 2 gennaio fu chiamato il ministero Ollivier,
che iniziò formalmente l'êra del bonapartismo parlamentare.

Non impropriamente l'imperatore paragonò sé stesso a un viandante
stanco, che si spoglia di una parte del fardello per avanzare più
speditamente sulla propria strada: adempì fedelmente a tutti i doveri di
un corretto regal fantoccio costituzionale, rinunziò al diritto del
carteggio diplomatico coi suoi ambasciatori, e, di più, dimise Haussman,
il suo fido prefetto della Senna. Inoltre Ollivier, rifulgendo di
sapienza, di unzione e di virtù, annunziò che il governo da ora in poi
non avrebbe designato candidati ufficiali nelle elezioni. Tutti i
liberali giubilavano, che ora finalmente la Francia vestisse la _toga
virilis_, ora finalmente con una novella quarta notte di agosto il
governo dalle mani degli avvocati e dei burocratici passasse in quelle
dei possidenti indipendenti. Il posato _Journal des débats_ profetava,
che presto in Prussia avrebbero sospirato «la libertà come in Francia».
Il _Times_ vedeva vicino il tempo, che il virtuoso esempio della signora
Ollivier, borghesemente semplice, avrebbe nobilitato i costumi della
corte delle Tuileries. Effettivamente, la Francia ora possedeva «la più
libera» costituzione della sua storia, uno statuto, che conteneva tutti
gli articoli di fede del liberalismo ortodosso di gran lunga più
compiutamente, che non in altri tempi l'atto addizionale di Napoleone I.
Pure, l'antico dispotismo dei prefetti non si era, in verità,
menomamente cambiato: proprio allora, sotto la protezione della
recentissima libertà, 450 cittadini francesi, in parte con _lettres de
cachet_, furono buttati in prigione, perché la polizia pretendeva di
avere scoperto una congiura. Questa inaudita trasformazione magica, che
teneva il mondo in sospeso, col fatto era semplicemente la grossolana
replica di una commedia, di cui i francesi si erano pasciuti fino alla
nausea. Il dispotismo di un partito cacciava l'altro: la soluzione del
giorno era novellamente _s'emparer du pouvoir_.

Il nuovo gabinetto era composto di uomini appartenenti a tutti e quattro
gli antichi partiti moderati, uomini il cui nome irreprensibile era
vantaggiosamente separato dall'_entourage_ non ben famato
dall'imperatore. Ma da un momento all'altro sgusciarono fuori dallo
sdegnoso ritiro tutti gli antichi costituzionali che avevano finora
combattuto l'impero a morte, e domandarono sfacciatamente uffici e
prebende: nessuno più petulantemente degli orleanisti, i quali avevano
sempre conservato il vecchio cupido spirito di consorteria dell'età
dell'oro della borghesia. Non era forse umano, che l'imperatrice, gaia e
innamorata della vita, guardasse con occhio bieco lo speculatore di
virtù Ollivier, che tronfiava nel paludamento della sua civica
incorruttibilità, e nel frattempo proteggeva con tanta tenerezza tutti i
cugini e i cugini dei cugini, e faceva perfino l'occhio di triglia
all'amicizia del vecchio banchiere Magne, a che la rendita non scadesse
nemmeno di una lira? Era da far carico all'imperatore, se non riusciva a
sfranchirsi dalla diffidenza verso i suoi nuovi amici orleanisti? Il
cinico non aveva mai contato sulla fedeltà, stando di fatto, che gli
antichi bonapartisti rigidi, come Gerolamo David e compagni, erano
legati alla casa dei Napoleone da interessi incomparabilmente più
solidi, che non il vecchio Guizot e gli altri transfughi orleanisti. Nel
marzo Ollivier raccolse in una costituzione, che era la dodicesima dal
1789, i nuovi diritti della libertà. Ma non vi faceva neppure un accenno
a quelle modeste riforme amministrative, che sole possono apportare
forza e vita alla costituzione. Il sindaco veniva, come prima, nominato
dal governo, il funzionario rimase protetto da ogni querela dei
cittadini. La camera, la cui maggioranza non rispondeva punto all'animo
del paese, non fu affatto sciolta, e i vecchi arnesi devoti del
dispotismo serbarono le loro cariche prefettizie: le nuove commissioni
parlamentari, nominate per la trasformazione di tutti i rami della vita
pubblica, effettuarono un bel nulla.

Ora finalmente si fece avanti la questione, che presto o tardi doveva
essere posta. L'imperatore anche adesso era sempre l'eletto responsabile
del popolo. Su disposto della vecchia costituzione egli domandava, che
il nuovo statuto fosse accettato dal popolo sovrano mercé il plebiscito.
Tale domanda significava, che Napoleone si sentiva tuttora
l'_homme-peuple_, e che perciò non avrebbe mai potuto guidare un governo
sinceramente parlamentare; solo che, indubitabilmente, il diritto
positivo dava ragione all'imperatore. Di più, il plebiscito era una
necessità politica. I radicali già svergognavano la nuova costituzione,
che fosse niente altro che il pasticcio di pochi senatori tecnici: e
siccome in questo paese ognuno s'inchina umilmente davanti al suffragio
universale, essi presto o tardi avrebbero infallibilmente costretto
l'imperatore a fare appello al popolo. Ma i liberali francesi mostrarono
ancora una volta di mancare della prima virtù del libero cittadino: il
senso della legalità. Della questione di diritto si parlò appena; non si
faceva che biasimare il despota, di aver subito seppellito il regime
parlamentare appena fondato. L'8 di maggio la nazione con sette milioni
di voti contro uno e mezzo ratificò l'impero parlamentare. Napoleone ora
sapeva di possedere nella devozione delle moltitudini una riserva contro
l'intemperanza dei parlatori parlamentari; ma nello stesso momento fu
tormentato dal pensiero degli umori dell'esercito, che aveva dato 47.000
voti contro l'impero. Diveniva intanto sempre più impetuoso l'ardore
guerresco dei vecchi bonapartisti, che temevano di essere soppiantati
nelle loro cariche dai cupidi amici di Ollivier; e si vestiva di
seduzioni sempre crescenti l'idea che propugnavano, di ristabilire con
una guerra nazionale la cadente autorità della corona. In questo modo,
nel tripudio della nazione accecata, tra il fragoroso clamore guerresco
di una scellerata spedizione di preda, il bonapartismo parlamentare
andava a sommergersi senza lasciar traccia. Dal 18 brumaio la nazione
aveva cercato la libertà in cinque sistemi differenti. Fu addebitato
alla guerra europea il fallimento del primo impero, ai legittimisti
quello della Restaurazione, alla borghesia quello della monarchia di
luglio, agli operai della capitale quello della repubblica. Non si
trovava questa volta nessuna giustificazione straniera né un partito,
che potesse colpirsi come capro espiatorio. La nazione, tutta intera la
nazione aveva con una lunga sequela di follie e di colpe dimostrato di
non essere atta, né ora né per molto tempo appresso, a comportare la
libertà.



III.


È un fatto: la guarigione di uno stato malato si può incominciare sia
dal basso che dall'alto, per mezzo dell'amministrazione o per mezzo
della costituzione. Solo che in Francia tutti gli esperimenti
escogitabili di costituzione erano consumati da un pezzo. La speranza in
una nuova rivoluzione, espressa dal detto corrente di bocca in bocca:
«la Francia ha messo in serbo la libertà», era un confortino da
fanciulli. La riforma dell'amministrazione era l'unica via ancora aperta
alla libertà politica. Fintanto che i comuni non si contrappongono con
la loro propria autonomia alla burocrazia, la libertà di stampa e di
associazione mena infallibilmente all'anarchia e l'ampliamento dei
diritti della rappresentanza popolare al dispotismo di partito. Soltanto
una più libera situazione dei comuni, in modo che, per lo meno, i
sindaci non fossero loro imposti, poteva forse indurre le classi
abbienti a riguardare come un onore l'esercizio delle cariche comunali.
Solo un'attiva partecipazione delle persone colte ai lavori
amministrativi poteva finalmente costringere la burocrazia a non
sdegnare più i consigli della stampa come un'arroganza di _hommes sans
mandat_. E solo, soprattutto, un'intensa attività della vita comunale
poteva forse risvegliare le virtù boccheggianti della costumatezza
politica e della fedeltà al proprio dovere, sparite quasi nel turbine
delle lotte di partito, poteva scuotere alquanto la potenza enorme della
imbestiante _routine_ e dello schema che dominava tutta quanta la
mentalità nazionale. Torbido spettacolo, quello dell'annientamento della
vita pubblica nei primi dieci anni dell'impero. Sotto la polizia
napoleonica perfino l'allegria del carnevale per le strade era quasi
sparita. E quale risveglio doveva poi seguire a quel torpore plumbeo!

Tali erano le circostanze, quando venne a maturazione il giudizio, che
lo stato finora si era mosso in un circolo vizioso, e che la riforma
dovesse principiare dal basso: la dottrina dell'autonomia amministrativa
del Tocqueville, dopo la morte del maestro, era divenuta una forza tra
gli uomini pensanti. L'idea dell'autonomia amministrativa era stata
derisa come una chimera anche sotto la monarchia di luglio; ora, sotto
Napoleone III, il decentramento era la parola d'ordine di una grande
scuola di pubblicisti. Odilon Barrot e Laboulaye, Raudot e Desmarets,
Regnault e il bonapartista Baudrillart, uomini delle più diverse
tendenze, produssero sull'argomento una letteratura, che con la serietà
morale e l'alacre fede nell'avvenire annunziava la perseveranza
dell'antico e bello idealismo francese, e con l'amabile freschezza
attestava quanto erano nuove tali idee sul suolo di Francia. Si
principiò a comprendere l'arbitrio antistorico e insipiente della
divisione in dipartimenti. Mentre in Bretagna, in Normandia, tra i
Baschi e i Guasconi persisteva l'antico spirito provinciale, che era per
altro una boria di provincia senza forza politica, e l'alsaziano con
tutto il suo patriottismo guardava dall'alto in basso i «francesi
neolatini» come un popolo mezzo straniero, col fatto i dipartimenti
erano rimasti puri corpi amministrativi. Permaneva impossibile, che
paesi come Épinal e Vésoul diventassero centri di uno speciale spirito
regionale come Bordeaux o Lione. Era tuttora fattibile designare i
dipartimenti con numeri, come aveva un tempo proposto Sieyès col suo
odio a tutte le formazioni storiche; tanto apparivano, dopo un'esistenza
di sessant'anni, schematici e senza colore. Gli antichi inconvenienti
del governo prefettizio diventarono addirittura intollerabili, da
quando alla dipendenza dei prefetti furono posti come guardiani dei
costumi gl'ispettori generali di polizia e, data la frequenza
sistematica dei traslochi, tutti gl'impiegati si assuefecero a
considerarsi come uomini senza patria. I consigli generali, è vero,
venivano eletti col suffragio universale; ma la loro sfera di azione
rimase immutata; anzi qualche uomo indipendente se ne ritrasse, dopo che
il governo ottenne il diritto di nominare i presidenti e i segretari e
di condurre esso esclusivamente lo scrutinio. Per quanto era certo che
un distretto poteva amministrare solamente quello che pagava,
altrettanto era certa la morte dell'autonomia in quello stato, i cui
consigli generali fin dal tempo del primo imperatore avevano soltanto il
misero diritto di riscuotere ai fini dei dipartimenti il quattro per
cento sulle imposte statali. Per giunta, una gran parte di questi
quattro _centimes facultatifs_ erano impiegati a scopi generali dello
stato, per esempio, nel mantenimento dei palazzi delle prefetture e
simili. Più aspre ancora erano le accuse contro i circondari: lo stesso
Napoleone III nella sua lettera sull'Algeria convenne, che l'abolizione
dei sottoprefetti superflui era un desiderio quasi generale.

Con l'articolo 57 della costituzione del 1852 la posizione dei comuni
era divenuta ancora più soggetta, essendosi il governo riserbata la
facoltà di nominare a suo arbitrio il sindaco dai membri del consiglio
generale o anche di chiamare a quella carica dominante un abitante
affatto estraneo all'amministrazione comunale. Quell'articolo 57 era a
buon diritto uno dei più importanti della costituzione, giacché i
sindaci determinavano nelle campagne l'esito delle elezioni. Le sedute
del consiglio comunale non erano pubbliche, e il consiglio poteva essere
sempre sciolto o sospeso dal governo. I più superbi comuni non erano
punto più indipendenti di quei minuscoli comunelli, incapaci di una
propria vita particolare, che costituiscono la regola nelle campagne di
Francia. Anzi le due città più grandi, Parigi e Lione, erano defraudate
del beneficio della legge: il loro rispettivo consiglio comunale era
nominato ogni cinque anni dall'imperatore, ed era perciò privo di
qualsiasi autorità, non ostante le esaltazioni lodative che Napoleone
III dopo l'apertura del _Boulevard de Sébastopol_, e spesso anche in
seguito, aveva prodigato al suo fido Haussmann. Dei 2379 milioni di
entrate già nel 1857 erano stati spesi 877 milioni pel dipartimento
della Senna. La preferenza data alla capitale diveniva visibile a
distanza perfino negli affari della vita quotidiana; tutta quanta la
rete ferroviaria dell'impero era essenzialmente gettata a benefizio di
Parigi. Pareva inconcepibile a questa burocrazia l'idea che qualcuno
potesse viaggiare altrove che da o per Parigi; e lo sa chiunque ha
provato qualche volta a recarsi da Parigi a Bordeaux.

Il sistema dell'accentramento burocratico rese ad Algeri le prove più
sorprendenti della sua inettitudine all'efficacia creativa. Questa
colonia, che poteva invigorirsi solo mercé lo svolgimento affatto libero
delle energie individuali, era la terra votata agli esperimenti
burocratici, divenuta la caricatura dell'amministrazione della
madrepatria. Qui sorrideva all'impiegato la fortuna di un accentramento
duplice, poiché tutti gli affari erano in primo tempo decisi nella
capitale della colonia e in secondo tempo a Parigi. Nello spazio di una
generazione furono saggiati e rifiutati quindici sistemi di
organizzazione. Centonovantaduemila europei, ossia la metà della
popolazione media di un dipartimento, vi vivevano distribuiti in 71
comuni sotto 3 prefetti, 13 sottoprefetti e 15 commissari civili, e va
da sé che il governo di Parigi non aveva alcuna cognizione delle
condizioni effettive dell'Algeria, non ostante le infinite relazioni
inviate da un esercito d'impiegati. L'imperatore aveva ordinato
l'istituzione dei tribunali indigeni, i _medjlehs_, e lasciato ai nativi
la scelta fra i tribunali arabi e i francesi. Tutte le autorità
riferirono che gli arabi, animati da una mirabile fede nella giustizia
dei franchi, preferivano i tribunali stranieri ai patrii; e quando
l'imperatore visitò la colonia, venne fuori, che i medjlehs non
esistevano affatto! L'immigrazione ristagnò, perché un'esistenza
malcerta sotto la benedizione del formalismo burocratico non poteva
sedurre nessun uomo attivo. Un esercito di 76.000 uomini era appena
sufficiente a guardare la colonia. Gli uffici arabi fondati per la
tutela degl'indigeni si rivelarono incapaci d'intendere la popolazione
straniera. Nella lettera al maresciallo Mac-Mahon Napoleone III espresse
la speranza, che la Francia per opera di un'amministrazione esemplare in
Africa sarebbe in grado di acquistare una preponderanza fra tutti i
popoli fino all'Eufrate, e che dal domesticamento degl'indigeni coi
costumi francesi sarebbe sorta una «potente individualità», un semitismo
gallicizzato. Ma questo desiderio doveva infrangersi contro la tenacità
della religione e dei costumi di Oriente, quello contro la stupida
rigidezza della burocrazia francese.

La lettera sull'Algeria dimostrò, che l'imperatore non aveva minimamente
smesso la sua antica preferenza per l'autonomia amministrativa. La
formola _favoriser l'initiative individuelle_ ritorna quasi con la
stessa frequenza come un tempo negli scritti di Cavour. Doveva egli
desiderare di affrancare dall'influenza della capitale ostile il ceto
agricolo delle provincie, puntello del suo dominio. Sapeva altrettanto,
quanto il suo amico Persigny, che l'accentramento finiva con lo spegnere
negl'impiegati la coscienza della responsabilità personale; presentiva
quante erano le forze preziose, ora ai servigi dell'opposizione, che si
sarebbero potute avviare, mercé le libertà comunali, per una strada
meno pericolosa. Ma la peculiare indecisione della sua mente, il timore
da cui era preso davanti a qualsiasi indebolimento del potere statale, e
il riguardo allo spirito di casta burocratico tolsero l'ardimento a tale
veduta: onde le tanto celebrate prove di decentramento dell'imperatore
rimasero tutte senza contenuto concreto, giacché toccavano la forma, non
la sostanza dell'amministrazione. Fin dal 25 marzo 1852 un decreto
rimetteva nelle mani dei prefetti una serie di affari che finora
incombevano al ministro; poiché «si può bene governare da lontano, ma si
amministra solo da vicino». Naturalmente il ministro più tardi informò
quali magnifici frutti questo decreto aveva portati. Meno impetuoso dei
suoi consiglieri, l'imperatore il 24 giugno 1864 incaricò il consiglio
di stato di dare il suo avviso sulla semplificazione della pratica degli
affari: quale ritardo, se le più semplici questioni amministrative
devono passare per undici istanze! Desiderava anche di abolire
l'esattore generale e di porre gli esattori delle imposte dei
dipartimenti in rapporto diretto con la cassa della capitale. È chiaro,
che con siffatte riforme l'amministrazione guadagna in tempo, ma non il
popolo in libertà. Ma tali questioni sono pei popoli latini così poco
mature alla discussione, che lo stesso La Farina poteva sinceramente
ammirare quelle vacue riforme amministrative di Napoleone III. Solo una
volta l'impero ha arrischiato un tentativo per l'istituzione di una vera
autonomia amministrativa; e fu nel 1852, quando Persigny consentì ai
comuni e ai dipartimenti d'imporre alcuni centesimi addizionali senza
l'approvazione dello stato; ma la riforma dopo appena qualche anno
decadde per l'opposizione dei prefetti.

Più sodamente, i partiti andarono alla sostanza del problema. Il
programma di Nancy del 1865 compendiava i più urgenti desiderii dei
partigiani dell'autonomia nelle seguenti proposizioni: i consigli
generali eleggerebbero essi medesimi i propri presidenti; il sindaco
verrebbe nominato esclusivamente dai membri del consiglio comunale (non
osandosi chiedere l'elezione del sindaco); allato al prefetto starebbe
una commissione permanente del consiglio generale. Questo disegno
immaturo e confuso, frutto di un compromesso tra i liberali e i
legittimisti, pure diventò la pietra di paragone dei partiti.
Nell'odiosa opposizione, sollevata contro gli uomini di Nancy dal
_Siècle_ e dall'_Opinion nationale_, si rivelò il terrorismo dispotico
della vecchia democrazia incorreggibile, della _democratie autoritaire_;
nella eloquente difesa fattane dal _Temps_ e dal _Journal des débats_,
invece, il discernimento più maturo del liberalismo colto. Purtroppo la
stampa non illustrò e vagliò veracemente queste idee, volte secondo il
pregiudizio dei vari pensatori. Tra i propugnatori dell'autonomia si
levarono spesso opinioni ostili allo stato: si combatteva lo stato in
odio alla burocrazia. Noi non alludiamo punto al frivolo Emilio
Girardin, che una volta per ragioni di opportunità difese l'_État
fédéré_ e assegnò allo stato il compito di un istituto di assicurazione.
Ma anche uomini migliori, come Carlo Dollfus, ricaddero nelle
superficiali idee del secolo decimottavo, non concependo altrimenti il
governo, che come un sistema di garanzie per la libertà delle persone. E
le stesse lotte pel decentramento combattute dal _Temps_, se vedevano un
ideale nella sbocconcellatura degli staterelli tedeschi, non riuscivano,
con siffatte aberrazioni, che a rafforzare la presunzione della
burocrazia. Laboulaye anzi desiderava l'abolizione della giustizia
amministrativa, laddove questa costituisce invece un organo
indispensabile per tutti gli stati di terraferma, e la sua magnifica
perfezione tecnica è una gloria della Francia. Quando poi per
assicurare l'indipendenza ai giudici voleva precludere loro
l'avanzamento, egli disconosceva onninamente l'essenza di una società
democratica.

Un sobrio esame genera il criterio, che l'autonomia amministrativa in
Francia non fosse in grado di alzare che pretese assai modeste.
L'accentramento è cresciuto insieme con l'intima sostanza di questa
nazionalità. Solamente la prepotenza della capitale ha reso possibile ai
francesi di sostenere, con modiche energie spirituali di lavoro, una
posizione onorevole nell'incivilimento dell'Europa; oggigiorno, dopo che
le colpe della Comune di Parigi hanno quasi spezzato l'influenza
dominante della capitale, sembra inevitabile un abbassamento profondo
della cultura, se non pure una ricaduta nella barbarie. Una burocrazia
stipendiata con _a latere_ i consigli eletti: questa era e sarebbe
rimasta a lungo la forma nazionale dell'amministrazione. Si sarebbe
potuto trattare, evidentemente, solo di estendere le attribuzioni di
questi consigli, e in seguito di attenere finalmente l'antica promessa
dei liberali e, oltre il ricorso al consiglio di stato, aprire ai
cittadini anche la via giudiziaria avverso l'arbitrio dei funzionari.
Non già che noi intendiamo di rifiutare semplicemente al carattere dei
francesi l'idoneità alla libera vita comunale. Giacché i prossimi
consanguinei proprio delle più bellicose stirpi del paese, i valloni e i
vaudesi, hanno sviluppato con grande compitezza nella terra loro
l'autonomia; e gli stessi consigli generali francesi, per lo meno al
tempo che era loro consentito di eleggersi i propri presidenti, hanno
sovente dato gloriose prove di senso comunale fattivo. Solo che, in
forza di un'antichissima deformazione politica, specialmente dal tempo
della Rivoluzione in poi, le abitudini e le idee burocratiche sono così
profondamente penetrate nel popolo, che una completa trasformazione non
sembra possibile. Lo splendido esempio dell'autonomia locale
nell'antica provincia di Linguadoca non significa, purtroppo, nulla; ché
quei tempi furono.

Si poteva lamentare l'ottuso meccanismo della divisione dipartimentale;
manifestamente, però, non era fattibile abolirlo. Ogni tentativo di
reintegrare le provincie e i loro gradi, come fece un tempo la
Restaurazione, avrebbe naturalmente risuscitato l'odio della burocrazia
e delle moltitudini contro l'antico regime, risuscitato lo spavento
indelebile delle popolazioni davanti a un ritorno della decima e del
lavoro servile. L'idea di riunire vari dipartimenti in una regione sotto
una grande città come capoluogo, fu sostenuta solo da qualche
propugnatore eloquente. Noi però domandiamo: in effetto, si era ancora
in tempo, a rispingere indietro l'antichissimo svolgimento storico che
aveva concentrato a Parigi i confini del paese? e quante e quali forze
spirituali autonome possedeva Lione, fuori degl'interessi di classe del
suo clero e del suo mondo commerciale? Una forte autonomia appunto per
questo non poteva svilupparsi nei dipartimenti, perché cotesti corpi
ufficiali non possedevano forze proprie notevoli. In un paese dove dieci
rivoluzioni hanno distrutto tutti gli antichi beni delle corporazioni,
non sono possibili altrimenti che per eccezione le istituzioni locali
tanto importanti, come gli ospedali circondariali e i nosocomi
provinciali in Prussia o le innumerevoli fondazioni delle contee in
Inghilterra. Né vi erano troppe speranze di ricostituire cotesti beni
locali. La più naturale delle imposte comunali è in tutti i modi
l'imposta fondiaria; ma l'elevazione di tali tributi doveva urtare
contro una resistenza invincibile da parie di una popolazione agricola
oberata. Piaceva al signor Thiers millantare la nuova aristocrazia che,
cresciuta dopo la Rivoluzione, costituiva un pegno per l'avvenire della
libertà; quasi che un'aristocrazia sociale non dovesse necessariamente
sorgere da qualunque sviluppo considerevole dell'economia pubblica! Ad
onta di tali sofisticherie permaneva il fatto, che non esisteva nel
popolo un'aristocrazia politica di salda autorità. Nella maggioranza
delle classi medie non attecchiva affatto una seria volontà di autonomia
amministrativa. Né giova appellarsi alle numerose associazioni
industriali, in cui l'attività autonoma di quei ceti si è cospicuamente
effettuata. Siffatte intraprese, che direttamente o indirettamente
profittano alla borsa degl'intraprenditori, non provano nulla rispetto
all'energia politica dello spirito pubblico. Tanto che la scuola di
Manchester, che è maestra di tutte le società economiche, è in pari
tempo la nemica dichiarata della «dispersione di lavoro» del
_selfgovernement_. Nelle classi medie francesi, la cui mano è sempre
aperta alle opere caritatevoli, tutti facevano ressa per la legion
d'onore e per gli uffici stipendiati, tutti scantonavano davanti al
servizio onorario della giuria, della guardia nazionale, dei comuni. La
denunzia era stimata un'infamia, come presso tutti i popoli che hanno
scarsamente sviluppato il senso della legalità; eppure in ogni rischio,
in ogni offesa al diritto si levava subito lamento alla polizia.

Nondimeno l'ostacolo più forte all'autonomia era opposto dal dominio del
quarto stato. Le moltitudini democratizzate mostrano ben di rado molta
intelligenza del valore della libertà comunale, a cui esse possono
partecipare solo fugacemente, al tempo delle elezioni: purtroppo,
ubbidiscono generalmente più volentieri a un funzionano stipendiato che
sembra fuori dei contrasti di classe, anziché a un magistrato onorario
appartenente alle classi abbienti. L'istituzione di una vera e schietta
autonomia presuppone una rara forza di rinunzia da parte del potere
statale; ma è lecito attendere una siffatta abnegazione
dall'assolutismo, se non ve lo violenta una catastrofe formidabile come
la pace di Tilsit? Ogni autonomia aggrava di duri sacrifizi gli
abbienti; ragion per cui non può introdursi, se non per forza e per
ingiunzione dell'autorità dello stato. Laonde ciò che la monarchia
legittima in Prussia potè imporre a un popolo tranquillo, educato alla
rigida obbedienza, non era dato alla tirannide democratica osarlo
rispetto a una nazione irrequieta, che si stima autorizzata a prendere
il massimo dallo stato e dargli il minimo.

Non era dunque a sperare l'annullamento del sistema amministrativo
burocratico; era a pensare soltanto a una moderazione della sua
onnipotenza. L'avvenire della libertà politica dipendeva principalmente
dall'esito di cotesta modesta riforma. Se non che i liberali, non appena
arrivati al potere, seguirono l'esempio di tutti i governi precedenti.
Ollivier gettò indifferentemente in un cantone tutti i desiderii di
autonomia amministrativa, di cui egli stesso prima era stato il
rappresentante. Di talché la decisione, che il sindaco non dovesse
nominarsi se non dal seno stesso del consiglio comunale, segnò quasi
l'unico progresso notevole raggiunto dalla vita comunale sotto
l'impero.



IV.


Che questo peccato di omissione originasse dall'essenza del
bonapartismo, emerge vividamente, non appena consideriamo l'azione del
secondo impero e subito vi scopriamo, che lo stato e sempre lo stato ha
guidato e compiuto le grandi trasmutazioni sociali degli ultimi due
decenni. I più grandi meriti del nuovo bonapartismo riposano sul campo
economico, e anche qui si annidano i più grandi pericoli per la
sicurezza dello stato. Certo, soltanto la servilità poteva senz'altro
riguardare l'imperatore come il creatore della nuova economia. Leggendo
gl'inni dei prefetti sulla _baguette magique_ del bonapartismo, sembra
quasi che l'imperatore non abbia fatto altro che girare l'anello
incantato, e subito il traffico irruppe dovunque a ribocco; né più né
meno come un tempo i fogli cortigiani tedeschi degli ultimi
cinquant'anni derivavano il naturale crescimento del nostro commercio e
della nostra industria dalla sfondolata sapienza dei Bruck e dei Beust.
Tuttavia Napoleone III a buon conto poteva gloriarsi, che il benessere
della nazione non aveva dato sotto nessun governo precedente un così
magnifico balzo. Sapeva inoltre, che con l'egoismo dei ricchi e con
l'astio e l'invidia dei poveri il sistema del lasciar andare non
bastava, e che era indispensabile l'aiuto diretto dello stato per
l'elevazione delle plebi. Le pretese delle classi lavoratrici verso lo
stato salirono incommensurabilmente con le male abitudini di quei
diciotto anni; e nessun governo francese potrà in avvenire sottrarsi al
socialismo monarchico. L'origine del nuovo potere, il bisogno di
sicurezza, il gusto dispotico del vanaglorioso abbagliamento, e, non per
la parte minore, l'animo buono e umano dell'imperatore pel quale il
soccorrere era una gioia, cooperarono di conserva a imprimere nel
secondo impero le idee della _fraternité_ socialista. Non indarno sulla
porta del nuovo palazzo del Louvre grandeggiava la statua del Lavoro col
corno dell'abbondanza, non indarno in tutti i manifesti napoleonici era
esaltato l'ordine come la prima fonte del lavoro. L'ideale
dell'imperatore era di menare a termine nella società la vittoria della
democrazia mercé la rimozione della miseria delle plebi, mercé i
benefizi dell'istruzione, del credito e dei lavori pubblici. «Io
voglio», disse una volta, «conquistare alla religione, alla morale, al
benessere quella parte tuttora tanto numerosa della popolazione, che
conosce appena il nome di Cristo, che può appena soddisfare ai bisogni
necessari della vita».

Noi tedeschi professiamo l'opinione avita, che, solo per eccezione e per
non poterne far di meno, la fraterna opera dello stato possa mischiarsi
nel libero moto delle energie economiche. Più vasti confini sono
prefissi al potere statale della Francia dal cammino della sua storia,
ed è innegabile che il socialismo monarchico, accanto a molti
esperimenti immaturi e precipitosi, ha anche prodotto molte opere di
beneficio durevole. Le _sociétés de secours mutuel_ legarono al sistema
migliaia e migliaia. Cotesta cassa di risparmio viene istituita in ogni
comune, dove il prefetto la giudica necessaria; il presidente è nominato
dall'imperatore. Ne crebbe il numero da 2000 nel 1852 a 4118 in 7 anni,
con 534.233 soci e 23 milioni di lire di capitale. I fondi, come quelli
di tutte le comunità e corporazioni, dovevano depositarsi presso le
autorità dello stato: che era un passo avanti sulla via del socialismo
monarchico. Gli antichi istituti di beneficenza, numerosi fin dal tempo
antico in questo paese cattolico, furono quasi generalmente riordinati
sotto Napoleone III; furono amministrati sotto la sorveglianza dello
stato da commissioni di nomina prefettizia. Nuove istituzioni crebbero
in folla: cucine pei figli degli operai, novelli ospedali e associazioni
per la cura degl'infermi a casa: asili per gli operai mutilati e pei
convalescenti, «affinché gl'invalidi dell'officina siano pareggiati
agl'invalidi della guerra». I _fournaux_ del principe imperiale
assicuravano al lavoratore un pasto economico; le casse operaie dovevano
«rifiutare il pregiudizio che i prestiti si fanno soltanto ai ricchi, e
affermare la verità che una buona riputazione è una vera proprietà». La
capitale aprì i bagni gratuiti e i comuni riceverono sussidi dallo stato
per ottenere ai lavoratori i lavatoi a basso prezzo. I grandi mercati di
Parigi provvedevano pel conveniente acquisto dei generi di necessità. La
cassa dei fornai percepiva un centesimo per ogni chilogrammo di grano e
dava sussidi ai fornai, tanto che il costo di un chilo di pane era
disceso sotto la tariffa intrasgredibile di 50 centesimi: e in questo
modo l'operaio aveva il pane a buon mercato e il fornaio speculava sul
basso prezzo. Anche la liberalità dei fornai e dei beccai sarebbe
tornata a vantaggio dei consumatori del quarto stato, se la resistenza
dei privilegiati non l'avesse lasciata quasi senza effetto. Nei giorni
di penuria, come al tempo della guerra americana, venne perfino
distribuito per ragion di stato danaro contante tra i lavoratori. Infine
l'imperatore abbozzò il vasto disegno di una grande cassa di
assicurazione statale dei lavoratori: che era, chiaro e lampante,
un'idea socialistica. L'intento sostanziale raggiunto da tanti e tali
benefizi fu l'attaccamento personale degli operai alla Casa
dell'imperatore. Napoleone III dichiarò pubblicamente dopo
l'incoronazione: «la mia prima visita d'imperatore sarà ai sofferenti»;
e d'allora in poi tutte le associazioni pel miglioramento delle classi
lavoratrici furono poste sotto il patronato dell'imperatore,
dell'imperatrice e del principe ereditario.

Fin da quando era presidente, Napoleone III aveva fatto tradurre il
libro di Henry Roberts sulle case operaie, ed egli stesso abbozzò
modelli di abitazioni delle _cités ouvrières_. Il tedesco era invaso da
un sentimento assai amaro, allorché, passeggiando in quegli anni per le
vie della bella Sundgau, che pareva perduta per sempre per noi, vedeva a
sera le schiere fitte di uomini poderosi emigrare dalla porta di
Mühlhausen per le linde casette ingiardinate della città operaia:
purtroppo, erano la più parte nostri compatrioti, che laggiù erano
perduti alla vita tedesca. Il che non ha trattenuto gli economisti
nostrani dal riconoscere i meriti umanitari della _Société industrielle
de Mulhouse_ e dal leggere con gratitudine i suoi bollettini tanto
istruttivi. Era questa effettivamente una riforma sociale che andava al
fondo: l'operaio che nella gioconda dimora si abitua ai costumi
casalinghi e con una modica contribuzione annuale acquista dopo alquanti
anni la proprietà della sua casa, ebbene, non è soltanto elevato
economicamente; egli viene rifatto moralmente. E mentre lì e nelle
vicine Gebweiler e Beaucourt l'antico spirito delle città imperiali
animava l'energia di eccellenti cittadini tedeschi, come J. Dollfus, a
menare avanti l'opera benefica a cui lo stato contribuiva solo con
parchi sussidi, per contro altre città operaie venivano costruite
esclusivamente e in preponderanza coi mezzi offerti dallo stato: così a
Lilla la _cité Napoléon_ che contava 9000 abitanti, così a Parigi il
nuovo quartiere operaio del sobborgo Sant'Antonio. Delle società operaie
fondate sotto la repubblica poche erano sopravvissute: sorte con
tendenze radicali, dovevano lottare contro il malanimo del governo; ed
erano la più parte, per giunta, consorzi di produzione, e si movevano
perciò nel dominio malagevolissimo e ingratissimo della vita
consorziale. Ma negli ultimi anni dell'impero il favore dello stato
ricercò anche coteste leghe di lavoratori. Alla fine il buon diritto
dello sciopero venne riconosciuto, e l'importante legge del 25 maggio
1864 accordò alle associazioni operaie piena libertà.

Provveduto in tal modo al pane al quarto stato, non potevano mancare i
circensi: parate ed esposizioni per tutto l'anno, rappresentazioni di
ogni specie col nuovo benefizio della libertà del teatro, luminarie e
spettacoli il genetliaco di Napoleone. Alla Porta San Martino, dove gli
antichi _boulevards_ confinano col quartiere operaio, l'imperatore fece
sorgere il _Gran Café Parisien_, in cui l'operaio su un divano di
velluto poteva gustare il suo _petit verre_ nella luce di candelabri
abbaglianti. Parimente, anche il quarto stato doveva partecipare ai
vantaggi del debito pubblico, anche la sua borsa attaccarsi al trono
imperiale. Dopo che l'assegnazione del titolo fu abbassata a una somma
affatto esigua, il numero dei possessori di rendita salì da 292.000 nel
1848 a 1.095.688 nel 1867. È per sé evidente, che cotesta
democratizzazione della rendita procurò al sistema molti aderenti; ma è
anche più evidente l'influenza nociva sulla sicurezza del credito dello
stato, giacché l'uomo di umile condizione è per solito particolarmente
suscettibile al timor panico. Dopo la conversione della rendita
intrapresa da Villèle sotto i Borboni, e dopo la ripetizione di tale
provvedimento per opera di Bineau e di Fould, la cartella al tre per
cento fece regola nel debito pubblico francese, come nell'inglese. Di
341 milioni di rendita 303 milioni erano al 3 per cento; e quei titoli
erano i preferiti dagli speculatori, giacché la bassa percentuale
garantiva la sicurezza da ogni altro possibile abbassamento; salvo,
però, che la stessa bassezza della percentuale non andava certo a grado
all'uomo d'affari. Ma come fu tremendamente alimentata la foia del
gioco, come fu minacciata la solidità del benessere dalla enorme
diffusione di tali cartelle, che altalenavano affannosamente nei
conflitti della borsa senza mai posa! Non ostante la grande diligenza,
il francese ha poca gioia del lavoro: produce indefessamente durante
venti anni, per poi apparecchiarsi prematuramente un comodo autunno
della vita. La democratizzazione della rendita fondava su questa
debolezza nazionale, come aveva fatto, prima della Rivoluzione,
l'introduzione del costume antieconomico delle tontine. Il numero dei
_petits rentiers_, che a quaranta o cinquant'anni incrociano le braccia,
crebbe considerevolmente sotto l'imperatore; e il bonapartismo trovò
appunto in quella cerchia una folla fitta di partigiani zelanti,
_chauvinistes_ appaltoni. Esaminando ancora una volta cotesto multiforme
armamentario della tirannide democratica, siamo indotti a convenire, che
un così immediato legame dei bassi ceti con la persona del capo dello
stato si ebbe tutt'al più sotto il dominio degl'imperatori romani, ma
nella storia moderna non era esistito mai.

Uno dei più importanti tra quegli energici espedienti socialistici
intesi a domare insieme e ad accontentare i lavoratori, fu il famoso
riassetto delle città. L'imperatore volle porsi in grado di buttar giù
con la mitraglia ogni turbolenza piazzaiuola; e, se si propose di
prevenire il ritorno di sorprese tanto sciagurate quale la rivoluzione
di febbraio, adempì puramente al suo dovere monarchico. L'ampia via di
Rivoli collegò le Tuileries col palazzo di città, centro antico delle
sommosse; il boulevard di Sebastopoli fu gettato tra la via Saint-Martin
e la via Saint-Denys, già teatro di tante lotte sotto il regime
borghese. L'asfalto, con cui i boulevards furono pavimentati, portò via
agli eroi delle barricate i consueti materiali di costruzione. Il
palazzo imperiale formò in uno col Louvre una piccola fortezza, che era
possibile sbarrare subitamente coi massicci cancelli della piazza del
Carosello. Ampi cammini sotterranei pel decorso dei rifiuti, servivano
anche, nel caso, a preparare un inaspettato arrivo di truppe sui punti
minacciati. Salde caserme in tutte le posizioni strategiche importanti;
squares verdi nei nodi stradali, ameni agli occhi e ai polmoni, ma anche
agevoli ad abbarrarsi allo scoppio della battaglia nelle strade. In una
parola, l'impero parve abbastanza assicurato da un rude colpo di mano.
Quando una volta fu squarciato a colpi di mitraglia un quartiere operaio
in rivolta, l'imperatore rifiutò con commoventi parole il nome di
_Boulevard de la reine Hortense_ proposto per la nuova strada, e scelse
quello di un operaio, Richard Lenoir, salito alla ricchezza col proprio
lavoro; volendo così attestare la propria alta estimazione alla nobiltà
del lavoro e, nello stesso tempo, ricordare agli operai che l'impero
sapeva adoperare tanto la frusta che il bericuocolo.

Lo stato non si propose di provvedere puramente alla sicurezza, ma anche
alla bellezza e alla sanità delle città e alla facilitazione delle vie
di traffico. Chi ha visitato Rouen nel 1865, quando le nuove nette linee
stradali avevano sventrato allora il vecchio reticolo di vie muffite,
vorrà consentire che molte città mancano affatto di aria, di luce, di
libero respiro. Ma l'impresa, ben giustificata e condotta sul principio,
ingrossò presto oltre tutti i limiti ragionevoli, si contraffece in uno
di quei violenti rivolgimenti sociali, che possono accadere soltanto
negli stati non liberi. Il colossale è una prerogativa dei despoti; le
gigantesche demolizioni e riedificazioni del bonapartismo ricordano in
verità quelle grandiose costruzioni di Oriente, che testimoniano non già
della grandezza del popolo che le eresse, ma solo della cupezza della
sua schiavitù, della potenza dei suoi despoti. Parigi e Lione, Bordeaux
e Marsiglia, tutte le grandi e perfino le medie città dell'impero
gareggiarono in cotesta furia edificatoria. Strade e acquedotti,
cattedrali e palazzi di borsa sprillarono di sotterra; accanto al
potente porto militare di Cherbourg, creazione favorita del primo
imperatore, naturalmente menata a termine in grande stile dal nipote,
sorgevano in tutte le piazze marittime nuovi moli e darsene. Un decreto
imperiale accordò ai comuni il diritto di espropriazione, e il
socialismo autoritario, imperversando nella più sorprendente
spregiudicata maniera contro la proprietà privata, non sorvolò, nelle
domande di risarcimento, sulle opinioni politiche dei proprietari
cacciati via. Le case più solide vennero così abbandonate al capriccio
della fortuna: Ledru-Rollin riguadagnò con un boulevard imperiale i
propri beni per metà perduti, cento altri piangevano la rovina dei loro
averi. A Parigi, dove il prefetto della Senna Haussmann dovè costringere
all'espropriazione sé stesso, ogni estate apportava nuove meraviglie.
Nel 1865 erano già stati spesi in dodici anni 1222 milioni, e nel 1869
altri 1500 milioni per la trasformazione della capitale. Bagattelle come
i dodici magnifici boulevards che a guisa di raggiera danno all'_Arc de
l'Étoile_, attiravano appena l'attenzione. Il potere illimitato di un
uomo nella superba capitale era unico nella storia moderna. Dove si era
mai udito, che a un possente comune sia stato dichiarato di ufficio, che
i suoi abitanti sono nomadi e che esso non appartiene a sé medesimo, ma
allo stato?

Quanto alla provvisione dei mezzi, un comodo spediente fu porto
anzitutto dalla malsana costituzione daziaria delle città. Siccome la
sorgente d'introiti più importante delle città rampollava dai dazi,
seguiva che qui un consiglio comunale s'induceva al dispendio con
facilità di gran lunga maggiore che non nelle campagne, dove le spese
comunali erano strappate a stento dalle imposte sui fondi e sugli
affitti. Ma quando anche questo mezzo non bastò più, allora fu applicata
anche ai comuni la vecchia spropositata teoria, che sia lecito
scaricare sulle spalle del futuro i pesi del presente: teoria, che un
tempo fu difesa con tanto sterile acume da Gentz, e che adesso godeva di
una riputazione ufficiale nel nuovo impero. Bastò un decreto imperiale
ad autorizzare i comuni ai prestiti. La Cassa dei Depositi accordò il
credito a lunga scadenza e a mite interesse; riconciliatosi col signor
Haussmann, si mostrò anche più compiacente il _Crédit foncier_, che
consolidò il debito fluttuante di Parigi. Quando riuscì di convertire
effettivamente in capitali fissi redditizi i valori investiti, allora
anche la speculazione così convulsamente salita potè sortire effetti
salutari: a Lione in nove anni, dal 1854 al 1863, il debito dai dieci
montò ai cinquantaquattro milioni; ma col forte aumento della
popolazione e del benessere crebbero in pari tempo, per
l'ammortizzazione del debito e per le spese straordinarie, su tre
milioni e mezzo 620.000 lire di sopravanzo di entrate accertate: che,
come si vede, è un risultato propizio. Per contro, a Marsiglia in 18
anni, dal 1847 al 1865, il debito crebbe da 17 a 91 milioni e le entrate
solamente del cinque e mezzo per cento su 20,9 milioni. Finalmente a
Parigi la gravezza del debito si era in otto anni, dal 1859, decuplicato
due volte, progredendo da 49 a 984 milioni; e il bilancio preventivo pel
1868 s'impostò su 245 milioni, vale a dire circa più della metà di
quanto occorre al regno del Belgio pel mantenimento dello stato! Davanti
a tali cifre era effettivamente possibile tranquillarsi solo risalendo
alla teoria bandita con giustificata baldanza dai giornali bonapartisti:
uno stato, un comune è tanto più ricco, quanto più pesante è il carico
dei suoi debiti. Né dava troppa consolazione il fatto, che il prefetto
della Senna aveva speso quelle somme prodigiose non puramente pel fasto
orientale del palazzo di città che era altresì la sua fortezza, ma anche
a scopi utili, e aveva elevato da 1,1 milioni, che erano nel 1847, a
6,5 milioni nel 1867 le spese della capitale per l'istruzione popolare.

La speranza dell'imperatore, che la vista delle magnificenze edilizie
cittadine avrebbe risvegliato nei provinciali il senso della bellezza,
venne meno necessariamente per colpa della precipitazione febbrile delle
imprese. Superata la prima impressione di abbagliamento, e in ispecie su
alcune nuove piazze a Lione la vista delle superbe fontane tra folti di
verzura in mezzo al tumulto del mercato è davvero incantevole, l'occhio
del forestiero, e particolarmente del settentrionale abituato alle belle
casine serene che spiccano così chiare e nitide nell'aria tenera della
campagna, avverte subito il nessun gusto e la gramezza della nuova
edilizia. Brulle caserme, incartocciate qua e là di qualche ghirigoro
rococò pieno di pretese, ecco tutto; e il tutto è una fedele immagine di
questa età della matematica e della muffosità cortigiana,
dell'accentramento e dell'uniformazione militare. E soprattutto colpisce
sgarbatamente la servile imitazione delle fabbriche parigine; pare quasi
che le provincie abbiano smarrito ogni idea propria e indipendente.
Ognuno conosce il _Pont Neuf_ con la statua di Enrico IV nell'Isola
della Senna; ognuno la torre antica di _Saint-Jacques de la Boucherie_,
che come una pietra terminale della vecchia Parigi, allietata da un
viale verde, guarda giù la distesa delle magnifiche strade in linea
retta: che è uno dei più gradevoli effetti della magia architettonica
moderna. Sul ponte di Rouen, allo stesso posto, incontriamo la statua di
Corneille; e il consiglio comunale della città normanna non ebbe pace,
finché non mise su un mozzicone di torre gotica che, circondata di verde
proprio per l'appunto come Saint-Jacques, doveva segnare il confine tra
la vecchia e la nuova Rouen, e via dicendo. Non è meraviglia, dunque,
se questa eterna uniformità stanca le persone colte; e se si levarono
alti e aspri lamenti contro il disamorato spirito d'innovazione, che
distruggeva i più venerandi monumenti delle antiche città, e che non
sapeva recedere in rispetto nemmeno davanti alla pace del cimitero di
Montmartre, davanti ai gloriosi viali alberati del giardino del
Lussemburgo.

Le considerazioni dei locandieri del popolo pesavano più dei malumori
degli amici dell'arte e degli storici. Lo scopo essenziale di tali
massicci fabbricati era di dare occupazione agli operai e generosi
guadagni. Col fatto, centinaia di migliaia di lavoratori affluivano
nelle città. Manifestamente la loro condizione era lieta, perché il
salario era elevato, i dazi, gravi pei lavoratori, erano compensati dal
basso prezzo del pane, e le abitazioni non eccedenti la pigione di 250
lire erano franche di tassa locativa. Ma è destino del socialismo
monarchico il potere iniziare e rinfocolare nuovi moti nella società, ma
non il poterli mantenere durevolmente. Questa morbosa furia
fabbricatoria doveva pure arrivare a fine una volta. L'idea grossolana,
propria del nostro tempo manovale, e già troppo a lungo diffusa e
familiare, che lo stato deva promovere l'arte per dar pane agli artisti,
operava sul secondo impero con tutto il peso di un problema sociale. Un
esercito d'intraprenditori e di coadiutori esigeva un'occupazione fissa
dallo stato, che li aveva attratti lontano dal paese e dall'ufficio
loro; poiché proprio lo stato aveva, tra con l'ingiunzione o col favore,
adescato le città alle trasformazioni edilizie. In tal modo i lavori
pubblici dell'impero diventarono a poco a poco officine nazionali nel
senso proprio della rivoluzione di febbraio: si fabbricava per
fabbricare, e nessuno sapeva dove andava a riuscire cotesta vite
perpetua. Il lavoratore venuto dalla campagna non era affatto più
contento nelle grandi città: si sentiva sommerso e ubbriacato dal lusso
abbagliante, appetto al quale il salario, per quanto rispettabile, gli
pareva una misera carità.

Tale essendo la smoderata situazione di favore degli operai delle città,
lo spopolamento delle campagne venne aumentando in modo estremamente
grave. Una volta l'imperatore disse agl'industriali di ritorno
dall'esposizione di Londra, che essi avevano ben meritato della Francia,
perché ogni splendido prodotto economico di un popolo dà a divedere
l'altezza di tutta intera la sua civiltà. Cotesto vanaglorioso _tous les
progrès marchent de front_ non era altro che una delle tante illusioni
della politica del materialismo. Per l'appunto nella storia del secondo
impero lo storico serio trova ancora una volta confermata la triviale
verità, che l'uomo non vive di solo pane. Così è: approfondendo questo
proverbio, egli riconoscerà, che le società umane, le quali aspirano e
tendono solamente ai beni materiali, finiscono col perdere insieme con
lo zelo morale anche la forza del progresso economico. L'imperatore
sperava, che i contadini reduci dalle città avrebbero diffuso nelle
campagne l'abitudine di una nutrizione più solida, carnea; ma nessuno vi
ritornava. Anche per l'addietro le laboriose contrade della Creuse,
della Marche, del Limousin mandavano lontano i giovani a prestare la
loro opera di muratori: ora principiarono a spopolarsi, perché gli
operai non intendevano più di dar le spalle ai piaceri delle grandi
città. Tra gli anni 1851 e 1856 la popolazione diminuì in 20
dipartimenti, anzi in quello dell'alta Saône circa di un intero decimo:
la popolazione di tutto l'impero crebbe non più che di 256.000 anime, e
quella della capitale di circa 305.000. In verità gli anni seguenti
mostrano un aumento alquanto più vivo, ma le stesse statistiche
ufficiose doverono designare coteste condizioni morbose con
l'accettevole perifrasi: «la popolazione rimane stazionaria».

Nei primi 60 anni del secolo la popolazione dell'impero era cresciuta a
un dipresso del 0,57 per cento all'anno: le occorrevano quindi, per
raddoppiarsi, 150 anni: alla Germania, secondo i dati raccolti finora,
circa 55 anni. A quei sacerdoti di Mammona, che in un fitto stuolo di
fanciulli vedono non più che pure bocche inutili, diamo il modo di
ponderare quale spostamento di energie abbia arrecato la scarsa
fecondità della popolazione francese. Nel 1816 vivevano in Francia su
ogni miglio quadrato 500 uomini più che in Germania, esclusa l'Austria;
viceversa nel 1861 il miglio quadrato in Germania era divenuto più denso
di 300 uomini, e al principio della guerra germanica la Francia era già
superata in popolazione assoluta dalla Prussia e dagli stati
settentrionali e meridionali della Confederazione! Certo, nessuno
esperto in materia si sorprende, che nella nuova età napoleonica le
cittaduzze al disotto dei 3000 abitanti siano discese in media tra il 12
e il 14 per cento; giacché l'età delle ferrovie, il cui traffico è per
sua natura accentrante, ha prodotto gli stessi fenomeni in tutta Europa.
Ma il persistente decremento della popolazione agricola, mentre Parigi e
Lilla, Saint-Etienne e altri centri manifatturieri crescevano di
continuo, era innegabilmente un sintomo di malsania sociale. Noi però
non lamentiamo, come molti patrioti francesi, che la stirpe gallica non
mostri più la medesima fecondità, che nel secolo decimosettimo o tuttora
oggigiorno al Canadà: l'accrescimento più lento della popolazione, del
pari che il difficoltarsi dei matrimoni, si accompagna di regola lato a
lato con la grande elevazione della cultura. Solo che, se riflettiamo
che la Francia, grazie alla sua libertà di convivenza e non ostante il
celibato obbligatorio dei suoi soldati e dei suoi 45.000 ecclesiastici
secolari, conta meno celibi che non forse qualunque altro paese
d'Europa, il ristagno della popolazione ci appare in una luce assai
torbida. La persistente diminuzione dei figli, dei quali nascevano in
media da un matrimonio 4,1 sotto il primo imperatore e ne nascono 3,14
sotto il secondo, non si spiega minimamente, considerata in grande, con
la cautela della prudenza. Dipende o dalla devastazione morale del vizio
o dalla debolezza corporea; ed effettivamente il celibato dell'esercito
e la rinnovata distruzione di 200.000 uomini vigorosi inghiottiti dalle
guerre del secondo impero, hanno sostanzialmente agevolato il matrimonio
agli storpi e agli scriati. Anche il divieto della ricerca della
paternità, indetto dal crudo spirito lanzichenecco del primo Napoleone,
ha certamente attenuato il numero delle nascite illegittime, e ha perciò
riscosso sovente il plauso della scuola di Manchester; ma oggi uomini
più seri si pongono la domanda, se quella legge draconiana non ha
esacerbato i traviamenti che riescono incomparabilmente più perniciosi
alla sanità del corpo e alla morale.

La nazione francese non era più in grado di atteggiarsi a prima potenza
incontestata del continente; bene o male doveva conformarsi alle
condizioni di un equilibrio europeo seriamente inteso. Se il fatto
dell'incivilimento pacifico del mondo può, protratto in lungo, tornare
solamente in bene, tanto più un'altra conseguenza dell'arresto della
popolazione in Francia move a tristezza ogni pensatore. La storia
europea esordisce con l'aristocrazia popolare dei cittadini ellenici, e
allora toccherà il culmine, quando l'aristocrazia popolare della razza
bianca dominerà le terre di là dagli oceani. Nella grandiosa lotta
mondiale, che sorge per tali questioni pregne di destini, la sorte più
propizia è toccata alla stirpe anglosassone. Anche il tedesco deve
guardare con balda fiducia a questo grande avvenire. Perciò si è già da
tempo avuto cura, che la solerzia tedesca e l'operosità tedesca abbiano
degni rappresentanti nel Mississipì e nel Yang-tse-Kiang, nel Cile come
nel Giappone; e fin dal giorno di Königgrätz noi possiamo anche sperare,
che nei paesi transatlantici la nazionalità e la lingua della Germania
dureranno. Invece il francese avrà in questa gara una parte molto
subordinata. La Francia non conosce emigrazione. Significano poco i
200.000 abitanti che abbandonano il paese nello spazio di dieci anni;
significano quasi nulla, se poniamo mente, che le buone intelligenze
delle classi medie fanno ressa quasi tutte per gl'impieghi, e che la
Francia non manda negli uffici degli scali transatlantici le energie
della sana gioventù, come la Germania o l'Inghilterra, ma gente per la
più parte bacata o corrotta. Chi sa apprezzare pienamente la multiforme
ricchezza della civiltà europea, lamenta con dolore, che questo
inaridimento di forze del popolo francese minacci di aprire una lacuna
irreparabile nella cultura del mondo. Ma il dado è gettato, e se tutti i
segni non ingannano, la Francia dovrà rimanere una potenza europea in
quel prodigioso avvenire, in cui sarà fatta la storia universale, in cui
tedeschi e russi, inglesi e nordamericani troveranno nuove vie al
commercio mondiale e nuove forme all'ascensione umana.

Il vezzo dei lavoratori delle città, che minacciava così gravemente
l'equilibrio delle forze economiche, aveva almeno procurato all'impero
il fedele attaccamento dei figliuoli prediletti? La sollevazione della
Comune di Parigi dà una risposta schiacciante. I vantaggi, che l'impero
accordò agli operai, non sono minimamente da paragonarsi con
l'affrancamento da un'oppressione indicibile, concesso un tempo dai
Cesari di Roma agli abitanti delle provincie. L'operaio teneva in faccia
al bonapartismo un atteggiamento meno ostile che in faccia ai borghesi e
ai legittimisti; il suo antico odio contro i _transporteurs_ del sistema
parlamentare non era ancora dissipato interamente. Lo stesso intento,
così esaltato dai radicali, del dominio diretto del popolo, trovava
pochi partigiani: in generale in questo mondo di _business_ non vi era
più posto per le teorie e gl'ideali. Una parte degli operai capì
effettivamente ciò che i bonapartisti inculcavano loro senza tregua,
che, cioè, «solo un governo forte e saldo può recar loro i
miglioramenti, che gli arruffapopoli promettono a vuoto». Ma era vano
cercare un vestigio di gratitudine sincera verso l'imperial benefattore.
Se i potenti dell'impero piaggiavano le mani callose, se il poeta
bonapartista Méry cantava agli operai della Tipografia centrale delle
Ferrovie:

    sachez bien que le jour viendra où de vos mains
    jaillira la lumière;

il quarto stato ne tirava la teoria, che esso governava l'impero e che
la corte lo temeva. In verità, era assai breve la via che correva tra
queste lusingherie e l'atroce canzone, che dopo la rivoluzione di
febbraio sgargagliavano per tutti i canti della capitale:

    un jour viendra que le riche éclairé
    donn'ra sa fille au forçat libéré!

Pochi mesi dopo che Jules Favre aveva pomposamente assicurato, che non
esisteva plebe a Parigi, le petroliere della Comune apparecchiavano
l'orrenda festa dei morti! Gli atti del Congresso del Lavoro di Ginevra
del 1866 porsero un quadro istruttivo del cambiamento di animo di queste
classi. Non un discorso sulle fantasticherie comunistiche dei tempi
andati. Si disputò commercialmente, con talento pratico e con minacciosa
serietà: gli operai intendevano di diventare capitalisti, consideravano
la povertà e il salario come un'infamia e desideravano quanto meno la
riduzione della giornata a otto ore, laddove al tempo della rivoluzione
di febbraio le moltitudini si tenevano a dieci ore. Più tardi, al
Congresso del Lavoro di Bruxelles, si domandò il pareggiamento della
cultura, di _égaliser les intelligences_, se il mondo voleva
effettivamente ottenere la vera eguaglianza. Quando il _demi-monde_
ritornava dalle corse di Vincennes all'elegante quartiere di _Notre Dame
de Lorette_, ed era uno splendido rimescolio di cabs, di broughams, di
chaises, di snelli cavalli inglesi e di gravi _percherons_, di lacchè
rossi e di postiglioni verdi, la folla domenicale che si allineava sui
vasti boulevards gettava occhiate in cagnesco e insulti sulla sfilata, e
accadeva sovente, che uomini in camiciotto rompessero le file per
strappare dalla sua carrozza una bella dama ingioiellata. Chi ha
assistito a una tale scena dev'essere ben fanciullone per credere, che
la coscienza del popolo si elevi al cospetto del vizio scialante. Era
l'antico immortale livore contro la ricchezza, e nemmeno il fasto della
corte sfuggiva a una siffatta invidia. «Io voglio lavorare con le vostre
mani e voi dovete digerire col mio stomaco»; così dice, secondo il
_Propos de Labiénus_, il patto fondamentale conchiuso da Napoleone III
col suo popolo; e mille e mille seguivano l'opinione di Rogeard.
L'atteggiamento politico di cotesta turba ignorante e insolente, che
nemmeno l'emigrazione dei senza mestiere determinato sarebbe riuscita ad
espurgare, non si poteva assolutamente calcolare. Anche la battaglia di
giugno del 1848 aveva abbattuto solo pel momento la furia di saccheggio
dei comunisti. L'iscrizione a una società segreta era, come per
l'innanzi, il congruente dovere di onore di ogni operaio che sapeva
leggere e scrivere; la lega dell'Internazionale, i cui inizi rimontano
probabilmente ai giorni della rivoluzione di febbraio, coscriveva
segretamente numerosi affiliati. Il nuovo diritto di sciopero fu abusato
fino ai più rozzi e insensati scioperamenti. Una volta, prima delle
elezioni comunali a Marsiglia, i giornali ufficiosi minacciarono, che se
le elezioni fossero riuscite contrarie al governo, si sarebbero sospese
le costruzioni pubbliche della città, che occupavano circa 50.000
operai: ma fu una minaccia che poi naturalmente non si ebbe il coraggio
di effettuare. Ciò non ostante, gli operai votarono per l'opposizione, e
non già perché amassero i retori del partito in parlamento, ma perché il
governo, per quanto avesse fatto per loro, non aveva mai fatto
abbastanza. A farla breve, nemmeno alle arti magiche del socialismo
monarchico era riuscito di riconciliare il lavoro col capitale.

A tutta prima, la preferenza data ai lavoratori delle città sulle
popolazioni delle campagne sembra enimmatica, perché l'imperatore ai
ceti agricoli doveva il trono. Sovente egli si qualificava, con orgoglio
imperatore contadino; e assicurava spesso che, più giusto della
monarchia di luglio, intendeva di compiere l'elevazione dell'agricoltura
prima della riforma della politica commerciale. Dichiarò il
miglioramento dell'agricoltura più importante della trasformazione
edilizia delle città, ed esigé dai prefetti, che alla coltura delle
terre «rifacessero il debito posto tra i grandi interessi del paese»;
per cui i ministri, poiché notoriamente ogni ordine imperiale veniva
eseguito, affidarono che gl'illuminati intendimenti di Sua Maestà erano
da tempo effettuati, e che l'agronomia non era mai stata tanto popolare
e stimata come al presente. Il duca di Persigny curava con zelo
particolare coteste inclinazioni bucoliche dell'imperatore; faceva la
sua regolare apparizione in tutte le festività agricole del suo paese,
nel contado di Forez; per esaltare di contro all'irrequietudine e
all'odio di classe delle città l'innocenza, la fedeltà, la temperanza
dei contadini. Anche i prefetti impararono presto a melodiare sui trilli
di questo Teocrito bonapartista. Ad onta di ciò, perché mai
l'agricoltura rimase la figliastra dell'impero? Dai tempi dei bagaudi
galloromani l'agricoltore francese effettivamente non era mai stato
fortunato: ma perché questa antica triste legge della storia francese
non si mutò sotto l'imperatore contadino? I contadini costituivano il
sostegno più sicuro dell'impero; il loro sentimento bonapartistico era
talmente appassionato, che in caso di bisogno sarebbe stato agevole
rievocare appunto nelle contrade più rozze, dell'impero una jacquerie
per l'imperatore. Ma precisamente per questo tornava meglio trascurare i
contadini anziché gli operai, di cui era immediato il pericolo che
minacciavano. Inoltre la modestia e la lentezza dei lavori agricoli
offriva poco spazio a quei magnifici spettacoli di parata, di cui la
tirannide aveva bisogno. L'agricoltura è la più libera delle professioni
e non può fiorire durevolmente senza una certa indipendenza dei comuni
campagnuoli; ragione per cui subisce l'opposizione istintiva della
burocrazia. Inoltre gl'impiegati, del tutto educati e conformati
cittadinamente, si ritrovano nuovi, in completa incompetenza, davanti
alla coltura della terra. Da tempo immemorabile non esisteva un
prefetto, che fosse egli stesso un attivo agronomo: quel vincolo tra gli
uffici amministrativi e le grandi proprietà fondiarie che in modo così
prezioso è stabilito nei consigli provinciali prussiani, non era
concepibile nelle condizioni sociali della Francia. Fin dalla
rivoluzione di luglio la grande proprietà fondiaria era sospettata di
sentimenti legittimisti: la monarchia borghese dimostrò al Congresso
centrale degli Agricoltori, presieduto dall'antico ministro borbonico
Decazes, un malvolere dichiarato, che da allora si perpetuò nella
burocrazia. Siccome, per giunta, a ogni grande possedimento fondiario è
collegato un casato aristocratico, e siccome i progressi tecnici
notevoli dell'agricoltura non possono di regola venire che da questi
aristocratici campagnuoli, anche la stampa nel suo zelo di eguaglianza
porse un gramo appoggio agli sforzi per le riforme dell'agricoltura.

Talché in tale campo i saggi felicitatori dell'imperatore ebbero esito
scarso, sebbene Napoleone III abbia indiscutibilmente procacciato, per
l'agricoltura mille volte più della monarchia di luglio. Furono fondate
una folla di società agricole, e fatte innumerevoli esposizioni, in cui
il prefetto appuntava al solerte agricoltore il distintivo d'onore dal
nastro azzurro, e anche, nei momenti solenni di virile commozione,
imprimeva un casto bacio sulle labbra di una esemplare vergine vaccaia.
Grandiosi istituti di credito dovevano riparare alla scarsezza di
capitale dei contadini, e fin dal 1859 esisteva, messa su riccamente,
una società di assicurazione per la gente di campagna. Nelle scuole
elementari fu resa di rigore la diffusione delle cognizioni agricole, e
nel 1866 fu disposta con gran fragore un'inchiesta di stato su tutte le
escogitabili condizioni dell'agricoltura. Lo stato ha con dispendi
enormi dissodato le _landes_ deserte del Mezzogiorno occidentale e le ha
ripartite a piccoli proprietari, in modo che oggigiorno la Guascogna
comprende tuttora soltanto 9.500 ettari di terre incolte contro 283.000
che erano nel 1857. Nelle regioni più abbandonate della Sologna e del
Berry l'imperatore fondò anche poderi modello, i cui successi tecnici,
strappati a forza di spese fuori di ogni convenienza, non offrivano
certo alcun modello al povero contadino. Tuttavia il maggior merito, che
l'imperatore si fece rispetto all'agricoltura, era fondato nella sua
politica commerciale. Quando Napoleone III tra l'esosa resistenza dei
proprietari di terre ridusse prima il dazio sulle telerie e il bestiame
e poi soppresse i dazi protettori agricoli e abolì interamente la scala
mobile, egli menò a termine una riforma salutare, che sarà riconosciuta
un giorno da una generazione imparziale.

Purtroppo, i propositi illuminati del monarca erano però attraversati di
continuo dalla saccenteria burocratica. Le società agricole erano
sottoposte alla sorveglianza dei prefetti, e perciò non prosperavano. La
loro unificazione a un centro era tenuta pericolosa; perfino negli
ultimi tempi più liberali dell'impero fu proibito un congresso di
vinicoltori. I commercianti eleggevano bensì le camere di commercio, ma
il prefetto nominava il _conseil_, che nelle questioni agricole gli dava
i pareri tecnici. In tal modo accadeva, che nei consigli non prendeva
parte nemmeno uno solo dei grandi proprietari di terre. Il prefetto
aveva la presidenza e nominava il segretario. L'onnisapienza burocratica
non si teneva non di rado dal vietare la raccolta, se il grano secondo
l'opinione del prefetto non era ancora maturo, e vietava la sarchiatura
della paglia, perché la tirannide socialistica doveva aver cura degli
spigolatori; e quante altre cose meglio sono degne del paese degli
Abderiti, il signor di Esterno le ha descritte nella sua unilaterale ma
istruttiva monografia _Les privilégiés de l'ancien régime et les
privilégiés du nouveau_. Se il sistema delle strade vicinali, ad onta di
tutti i richiami dell'imperatore, non si potè sviluppare, e alcune
regioni della Francia centrale ricordavano le Gallie romane perché
magnifiche strade imperiali attraversavano un paese impraticabile, la
colpa era ora e sempre dell'amministrazione burocratica. Solo i comuni
autonomi costruiscono le vie vicinali; e, parimente, solo i comuni
autonomi assicurano i rimedi all'inconveniente, che i ragazzi dei
contadini non imparino mai a conoscere le idee elementari della teoria
del loro mestiere.

Gl'istituti di credito posti in iscena con tanta pompa, aggranfiati dal
furibondo spirito affarista del tempo, non profittarono quasi in niente
al mestiere senza pretese del contadino. La società del _Crédit
foncier_ impiegò in 13 anni, dal 1852 al 1865, 714 milioni, di cui la
metà nella trasformazione edilizia di Parigi, e per la campagna non più
che la somma risibilmente meschina di 57 milioni. Anche le _cités
ouvrières_ doverono presto rinunziare all'assistenza di quella società,
giacché i dividendi alti, che lo speculatore agognava, non potevano
certo uscire da un'impresa veramente di pubblica utilità. Altrettanto
sterile per l'agricoltura si dimostrò il così detto _Crédit agricole_.
C'è di più: gli esattori delle imposte, agenti ufficiali del _Crédit
foncier_, ricevendo il premio per ogni somma che versavano alla società,
si davano da fare per attirare a Parigi i risparmi dei contadini, invece
di far affluire sull'agricoltura il danaro della capitale. Importanti
società agricole per assicurazione dalle alluvioni e simili furono
costituite invano; il gioco di borsa o l'alto dividendo delle banche di
credito di Parigi sembravano più attraenti. E come inciampò nella
speculazione, il contadino si disaffezionò dal suo modesto mestiere. In
questo modo l'agricoltore ebbe a soffrire sotto il socialismo monarchico
per due ragioni: i capitali della campagna affluirono alla metropoli, e
in pari tempo salì il salario pei lavori campestri, perché i lavori
edilizi delle città richiamavano i giornalieri.

Il dirizzone burocratico impedì anche a questo regime del moto perpetuo
di metter mano a correggere le antiche leggi difettose che opprimevano
l'agricoltore. Il _Code rural_, al quale dal 1808 lavorarono cinque
sistemi, non fu mai ultimato. Il principio salutare della libera
divisibilità delle terre sortisce effetti palesemente rovinosi, se non
viene alleviato l'aggravio delle preselle. Ma l'elevata tassazione delle
permute, che i Borboni avevano abolito sull'esempio della Prussia e
dell'Inghilterra, reintegrata poi dagli Orléans, continuò tuttora sotto
l'impero, in guisa che le contribuzioni degli appezzamenti ampiamente
scompartiti avanzavano appena. Le tasse sulla vendita dei fondi e
annesse spese legali ammontavano al 10 per cento del valore: nel 1862
furono venduti per 2 miliardi di fondi con un dispendio di 214 milioni
tra spese e tasse. Non meno oneroso riusciva con le sue spese e
formalità afflittive l'ordinamento ipotecario tuttora immutato. Ma ciò
che opprimeva i contadini non erano le imposte dirette, come affermavano
gli oratori di opposizione; e nemmeno le tasse irragionevoli sulle porte
e le finestre, poiché gli abituri senza finestre, che tanto ripugnano
all'occhio dell'uomo del Nord, non sono affatto incomportabili con le
abitudini di vita degli uomini del Sud. Ciò che pesava duramente
sull'agricoltore era la mancanza di credito, aggravata da una
legislazione agraria introdotta sotto il dominio delle classi medie
urbane e dalla febbre della speculazione dell'impero. Nel 1850 di 7,846
milioni di proprietà fondiarie 3 milioni erano esentate per
insolvibilità. L'assoggettamento della campagna al capitale cittadino,
cotesto antico malanno dell'Italia, cominciò a propagarsi anche in
Francia: assai di frequente il piccolo proprietario rustico nelle
regioni molto appezzate del canale veniva incettato affatto dai
fabbricanti di Rouen e di Elbeuf. Perfino la sicurezza delle persone e
della proprietà non era abbastanza tutelata in campagna. Tale
ineguaglianza era gravemente sentita da un popolo, che aveva rotto con
tutti i privilegi.

Questa terra meravigliosamente ricca, i cui immensi rinfranchi non
possono apprezzarsi facilmente, superò senza troppi lamenti, sugli
esordi dell'impero, tre cattive raccolte l'una dietro l'altra, il
colera, varie guerre e inondazioni. L'agricoltura cavò, come è giusto,
qualche vantaggio dal nuovo risveglio dell'ardore economico. Menzioniamo
soltanto l'allevamento dei cavalli, il cui numero e valore, non ostante
le ferrovie, salì notevolmente. L'esportazione dei percherons crebbe di
anno in anno, e i corridori francesi batterono ripetutamente nelle
corse di Baden e di Parigi i cavalli inglesi e tedeschi. Noi inoltre non
siamo affatto dell'avviso di molti politici conservatori, che sia
necessario all'agricoltura francese il passaggio al sistema inglese
dell'affitto. Qui si tratta di costumi e idee tenaci della nazione, che
sono più potenti delle dottrine di partito. Ammesso pure che il
fittaiuolo inglese raggiunga risultati tecnicamente più splendidi,
nulladimeno la Francia nei suoi milioni di liberi contadini possiede un
tesoro morale, il cui valore politico aprirebbe facilmente gli occhi
agli scettici nell'evento di una guerra europea. Ma i monti d'oro, che
l'impero prometteva agli agricoltori, sono tuttora un sogno. Il piccolo
agricoltore, ignorante e senza capitale, sa tuttora usare assai poco i
concimi, e non sa quasi affatto d'irrigazione e di bonificamento; e
tuttora risuona l'antico lamento degli agronomi, che l'agricoltura si
volga unicamente ai cereali e trascuri l'allevamento del bestiame e gli
erbaggi. Insomma anche sotto l'imperatore contadino l'agricoltura rimase
il mestiere più umile, incomparabilmente meno onorato e lucrativo della
burocrazia e del foro, dell'industria e della borsa.

Mentre l'agricoltura non sapeva risollevarsi dalla sua malsania
inveterata, per contro il commercio e l'industria venivano iniziati alle
fortune di un'età novella da un atto dell'imperatore, che, già mezzo
dimenticato dagl'ingrati contemporanei, basta da solo ad assicurare al
nome di Napoleone III una fama imperitura. Per assicurare la libertà del
commercio, l'imperatore dové romperla con alcuni dommi della religione
napoleonica, con le abitudini burocratiche e coi pregiudizi nazionali;
anzi, di più, addirittura con la tradizione storica del suo stato. Un
tempo egli aveva rispettato fidamente le idee protezioniste dello zio;
poi era stato testimone oculare dell'ardita conversione di Roberto
Peel, e più tardi apprese da Cavour, da Michele Chevalier e dai
conservatori progressisti della monarchia di luglio, Morny e Girardin,
quanto le loro aspirazioni liberoscambiste avessero esacerbato la
borghesia. Ma lo stesso Girardin si aspettava solo per un lontano
avvenire l'abiura, da parte del governo, dell'antichissima consuetudine
del sistema proibitivo. Frattanto l'imperatore aveva capito le mutate
condizioni del commercio mondiale; e che egli abbia osato gettarsi
nell'alta marea della moderna vita commerciale, che sia stato capace di
comprendere la nuova età sullo sboccio, che abbia opposto una volta
all'egoismo delle classi un atto monarchico di giustizia distributiva,
ecco, in ciò appunto consiste la più bella gloria del suo governo. Egli
previde, che la riforma delle insostenibili tariffe della Francia e
dell'Inghilterra s'imponeva, e che questa riforma, senza un'intesa
reciproca, minacciava di sconvolgere gl'interessi industriali dei due
paesi. Ed egli profittò del momento favorevole, quando la riputazione
dell'impero dopo le vittorie in Italia toccava il culmine, per cercare,
con l'opera di specialisti dei due stati, principalmente di Cobden e di
Chevalier, un accomodamento delle reciproche pretese, per altro
estremamente difficile, tanto era grande la differenza delle due
tariffe. Finalmente il 23 gennaio 1860 il trattato di commercio fu
concluso. Subito dopo la statua di Richard Cobden fu rizzata a buon
diritto nel castello di Versailles in mezzo ai grandi della Francia.
Quando la somma di tutto il commercio di esportazione e d'importazione,
che nel 1850 ascendeva a non più che 2500 milioni, ammontò nel 1865 a
7614 milioni; quando l'esportazione, singolarmente degli _articles de
Paris_ e degli oggetti anche più fini in cui s'invaloriscono il senso
squisito della bellezza e il gusto dei francesi, crebbe affatto
smisuratamente; allora siffatti numeri doverono ben provare a ogni
persona imparziale i benefizi del libero traffico, ad onta della
riconosciuta abilità della statistica imperiale, che dimostrava
continuamente ciò che voleva dimostrare.

Considerazioni politiche ed economiche costrinsero, l'imperatore a
spingere la libertà del commercio sulla via dei dazi differenziali e dei
trattati commerciali. Si trattava di cattivare il consenso del corpo
legislativo, del quale, dato il cambiamento legale generale delle
tariffe, era impossibile far di meno. Si trattava inoltre d'indurre, col
timore di perdere il mercato francese, gli stati vicini sul cammino del
libero traffico e, nello stesso tempo, assicurare qualche compenso
all'industria francese. E soprattutto l'eletto del popolo aveva a cuore
di apparire al mondo come l'apportatore di pace e il precursore di un
progresso europeo. Volle sentirsi in diritto di dire alla camera di
commercio di Lione: «la Francia in Europa dà l'impulso a tutte le idee
grandi e magnanime»; e conciliare in tal modo molti interessi di classe
danneggiati, appagando la vanità nazionale. Si susseguirono rapidamente
l'uno all'altro i trattati di commercio col Belgio, con l'Italia, con la
Germania. La diplomazia, conformandosi al sogno d'oro dell'apostolo
della pace, parve immergersi completamente nella politica commerciale; e
nacque allora quella nuova forma umanissima dei trattati di commercio,
la quale non mira più ad assicurare prerogative alle parti contraenti,
ma vuole soltanto impedire, che rimanga adito al privilegio dei terzi.
Mercé questa catena di trattati commerciali, mercé il trattato di
passaporto con l'Inghilterra e via dicendo, fu fondato il mercato libero
dell'Europa occidentale, e fu effettuato in senso equo e ragionevole
quel sistema federativo europeo, a cui invano si era sforzato di
pervenire lo zio con astuta cupidigia di dominio. L'imperatore poté
annunziare con soddisfazione: «è compiuta finalmente la terribile
invasione da tanto tempo predetta sul suolo inglese», e invitare la sua
nazione a «inaugurare baldamente una nuova êra di pace».

Cotesta ascensione dei popoli promossa dal dispotismo non ispira certo
un appagamento così sereno, quale fu dato un tempo da quel rinfrancante
spettacolo di rischiaramento degli spiriti nella libera disputa, che
precede in Inghilterra l'abolizione delle leggi sul grano. I
liberoscambisti di Francia un tempo lamentavano, che fosse loro
rifiutata la diffusione delle proprie idee con la libertà di parola; ma
accettarono ora con allegrezza il _coup d'autorité_, anzi lo accettarono
con orgoglio. Il che è certamente un triste argomento per l'inefficacia
dell'educazione politica. Bisogna pur dire la cruda parola: senza
l'imposizione imperiale, la Francia ancora per decenni sarebbe rimasta
priva del benefizio del libero scambio. La spaventosa insipienza e
l'egoismo della maggior parte dei membri del corpo legislativo,
inviluppati in mille affari d'industria e di accanita speculazione, non
lasciavano dubbio, che una riforma parlamentare della politica
commerciale fosse impossibile. La volontà del monarca in questo caso
speciale aveva non soltanto migliorato la legge, ma anche sollecitato
l'educazione della nazione alla libertà, almeno per quanto la libertà
era compatibile in questo paese. Il momento politico favorevole della
riforma fu, sotto l'aspetto economico, scelto assai infelicemente. Il
paese soffriva della cattiva raccolta del 1861, il commercio del cotone
della guerra americana; e alcuni rami dell'industria effettivamente non
erano ancora abbastanza maturi per reggere alla concorrenza inglese.
Nulladimeno la disposizione liberoscambista del Mezzogiorno e
dell'Occidente prese a poco a poco il sopravvento sulle perplessità
protezioniste del Settentrione. Se in Francia si sono consumate nel
passato decennio non più che 10 libbre di caffé e 3 libbre di zucchero
a testa, e nell'Unione doganale, incomparabilmente meno favorita dalla
natura, 10, 50 libbre di caffé e 4 di zucchero, bisogna sempre a ogni
modo tener conto delle differenti abitudini di consumo dei
settentrionali e dei meridionali; tuttavia anche da queste e consimili
cifre risulta chiaro, che l'economia del privilegiato paese non dava
ancora ciò che poteva. Principalmente nella stampa si fece sempre più
viva la persuasione, che solo l'affrancamento delle forze economiche
avrebbe potuto mettere interamente in valore la potenzialità del paese:
se la pace durava, pareva impossibile una ricaduta nel sistema
proibitivo inteso secondo i dettami della scuola pratica degli ultimi
anni. La libertà del commercio dà all'uomo moderno la piena coscienza
della sua energia personale. E assai di rado la prima ampia breccia nel
sistema della tutela burocratica è stata aperta da un atto dispotico del
governo burocratico.

Il detto di Napoleone III: «un popolo è tanto più ricco e felice quanta
più ricchezza e felicità contribuisce ad arrecare agli altri», era a
poco a poco divenuto in Francia un luogo comune. Era a sperare, che
cotesta verità fondamentale umana della moderna arte di governo sarebbe
appresa anche nei rapporti delle classi e sarebbe applicata nella
politica estera. Ma in questo, come in tutti gli altri campi della vita
pubblica, la guerra germanica e la terza repubblica hanno apportato una
rude reazione: la follia della politica commerciale del grande cittadino
Thiers doveva di nuovo dimostrare al mondo, che la _médiocrité méconnue_
di Luigi Napoleone ad onta di tutti i suoi falli era stata più prudente
e più liberale che non sarebbe mai un uomo di stato dell'ultima
generazione francese.

Il famoso aforismo: «la Francia è abbastanza ricca per pagare la sua
gloria», non manca di fondamento: la prodigiosa potenza del lavoro e
del risparmio nell'economia moderna supera ogni previsione. La
terraferma non aveva mai visto forse una produzione economica così
gigantesca, come nei due massimi momenti della speculazione sotto
l'impero, cioè dopo il colpo di stato e dopo la guerra di Crimea. Era il
tempo che Girardin disse: _il n'y à plus rien à faire aujourd'hui que de
se faire millionaire_. Perfino cotesto instancabile regime imperiale non
poté tener dietro ai colossali progressi del traffico. La riforma delle
poste e l'estensione delle linee telegrafiche, che destarono tanta
meraviglia dopo il colpo di stato, a breve andare non bastarono più:
presto la posta francese rimase alla coda rispetto ai paesi vicini.
All'antica rete ferroviaria delle sei grandi compagnie se ne aggiunse
una seconda e più recentemente anche una terza: talché, mentre nel 1857
si avevano 1330 chilometri di ferrovie, nove anni dopo si era a 21.050
chilometri in esercizio o in costruzione, e ogni giorno sorgevano nuovi
progetti. Le opere dell'impero nel campo della politica economica posero
affatto in ombra i provvedimenti dei Borboni e degli Orléans; solo che
risentivano morbosamente dei due difetti, che rimontano ai mali politici
fondamentali del sistema. L'esagerato accentramento gravava anche sul
traffico: il monopolio della banca era sempre in vigore, ed
effettivamente la Banca di Francia non era in realtà che la banca di
Parigi, e il suo credito andava in preponderanza tutto a favore della
capitale. E lo spirito di speculazione vertiginosa e vanagloriosa, che
era nell'essenza della tirannide democratica, raggiunse appunto nella
vita industriale un'altezza spaventevole: una pioggia d'oro doveva
consolare la borghesia defraudata dei suoi beni ideali. Certo, il gioco
di borsa è inveterato sul suolo di Parigi, era già in vigore in tempi di
economia tuttora bambina, nei giorni di Law, quando evidentemente
tornava più rovinoso di ora, che una parte degli speculatori di borsa
esercitano come una seria incombenza l'ufficio di pionieri. Ma i 9998
milioni di prestiti esteri che furono negoziati alla borsa di Parigi nei
dieci anni dopo il 1855, e nel solo anno 1863 1205 milioni, indicano in
verità uno stato di febbre; e tanto più, perché i prestiti più
vertiginosi degli stati più discreditati, quali l'Austria e il Messico,
l'Italia e la Spagna, la Russia e la Turchia, godevano del particolare
favore dei pezzi grossi della borsa di Parigi. Quando gl'ipocondrici
eruditi hanno ravvicinato gli epuloni del secondo impero a Roma antica,
l'obiezione da fare era semplice: la ricchezza moderna è ammassata col
lavoro, quella dei Romani era un ammassamento di rapine. Tuttavia
innanzi alle ditte Mirès e Solar, Pereire e Co., e tante altre
scandalose fortune nate di fresco, anche quest'ultima consolazione
sembra di dubbia efficacia.

Il governo stesso risentiva penosamente di cotesta strapotenza
artificialmente abbottata della borsa, e si vide costretto nei suoi
disegni politici a trarre un partito supremamente indecoroso dal
ribasso; e raccolse così non altro che i frutti del suo operato. Il
potere statale del bonapartismo si credé in dovere di additare la via
anche al capitale della nazione. Indusse i possidenti a collocare
miliardi in Italia, nel Messico, in Austria; e a tutti è noto quanto
favore partigiano accordò lo stato ai nuovi istituti di credito, e con
quanta spudoratezza la Società del Credito mobiliare ebbe agio di
sfruttare i più importanti interessi commerciali del paese alla
locupletazione della ditta. L'idea di una società di credito che deve
servire soltanto allo scopo di trovare nuovi collocamenti al capitale e
di provocare nuove imprese per azioni, risponde chiaramente al carattere
di uno stato burocratico dove ognuno è abituato a seguire la spinta
venuta dall'alto; ragion per cui non ha mai trovato il buon terreno di
attecchimento nei paesi dell'attività industriale indipendente, in
Inghilterra e nell'America del Nord. La società condusse alcuni anni di
abbagliante splendore, che sedussero alla lode anticipata anche
l'economista londinese; in seguito, in quel tempo di sfiducia che fin
dal 1864 gravò sul traffico, risultò palese, che l'unione in una sola
mano di una così ponderosa e multiforme congerie d'imprese superava
oltre ogni misura la potenza intellettuale di un uomo. La splendida
intrapresa volse al tramonto: anche in questo caso il sistema seppe
svegliare energie, ma non seppe menarle avanti e conservarle.
Riflettendo su tali esperienze, noi intendiamo bene il perché uno dei
nostri principali commercianti tedeschi, un autentico rappresentante
della vecchia borghesia, soleva dire mestamente: «tempi come quelli di
Luigi Filippo, noi non li rivedremo più!». L'estensione degli affari era
smisuratamente aumentata fin dai giorni della monarchia borghese; ma
l'arrabattarsi febbrile dello stato socialistico, la grossolana foia di
godimento del tempo facevano apparire anche l'attività economica come
un'avventura, come un giocar d'audacia. Inoltre la formazione del
capitale sempre dal nuovo fu turbata dal fasto della corte e dalle
guerre, dall'inaudita spensieratezza dell'amministrazione finanziaria.

Se promesse vi sono, non mantenute in seguito, sono indubbiamente quelle
fatte dal pretendente di economie napoleoniche, che ritornano sempre
negli scritti di Luigi Bonaparte in mezzo a vivaci attacchi contro gli
sperperi del parlamentarismo. Ma il nipote non poteva, come lo zio,
alleggerire il proprio stato mercé i tributi dei paesi soggiogati, né
possedeva il talento finanziario, il senso militare dell'ordine che
aveva l'antenato. Il motto d'ordine in voga tra i malcontenti, «libertà
o bancarotta», era certo una frase, e altrettanto vuota e frivola come
l'altra «libertà o guerra». Le finanze dell'impero anche nella primavera
del 1870 non versavano affatto in condizioni tanto disperate, come il
bilancio dell'antico regime prima della Rivoluzione; e nemmeno possiamo
concedere, che ai tempi parlamentari il mantenimento dello stato si sia
segnalato in fatto di ordine e di economia. Soltanto la Restaurazione ha
amministrato esemplarmente le finanze, e ciò per opera di burocratici
come Villèle e Louis, i quali del resto non aderivano minimamente alla
dottrina costituzionale. Durante la fioritura del parlamentarismo
l'indebitamento dello stato crebbe invece irrefrenabilmente, sebbene la
monarchia di luglio ben poco avesse fatto pel benessere dei molti e per
la potenza del regno. Anche la situazione malsincera e malsicura del
bilancio è una eredità del tempo parlamentare. Fin dal 1848 Lasteyrie
mosse l'accusa ben giustificata: «l'impalcatura del nostro bilancio è
rinzeppata d'inganni e finzioni». L'ultimo prestito del regno di luglio,
nel 1847, fu conchiuso al corso di 75 lire e 15 centesimi; ma le rendite
furono subito iscritte nel Gran libro, mentre il capitale fu versato a
poco a poco appena in due anni; donde sortì un corso solamente di poco
più favorevole di quello, a cui poté arrivare nel 1868 l'impero, dopo
provvedimenti incomparabilmente più grandi e onerosi a favore del
pubblico bene. La nota lettera del duca di Joinville scritta poco prima
del febbraio porge spiegazioni indubbie sulle angustie dell'economia
pubblica del regime borghese.

La tirannide socialista volle fare grandi cose, e perciò non le fu
lecito di spaventarsi davanti alle spese elevate e ai debiti sopra
debiti: più volte ha sospeso subito o limitato l'ammortizzazione del
debito; ma a ogni modo anche sotto il regno di luglio si poteva elevare
il sensato dubbio: a che cotesto ammortizzamento in piena perdita, se in
pari tempo sono contratti nuovi debiti più grandi? L'impero si propose
di compensare le spese in necessario aumento con un progresso anche più
vivo dell'economia. Un tale sistema non si condanna con l'allegazione di
alcuni grandi numeri. Noi piuttosto domanderemo: il benessere del popolo
è davvero cresciuto più prontamente che non il carico dello stato? e le
enormi spese pubbliche sono state effettivamente produttive? Alla prima
domanda bisogna assentire, alla seconda non si può rispondere che con un
no reciso.

Per sé stesso il peso del debito non era esorbitante. Se la Gran
Bretagna portava con facilità i suoi 19 miliardi, la Francia non poteva
certo finire di esinanizione sotto il carico di 12 miliardi e 123
milioni. Anche rispetto alle imposte il ricco paese con un sistema
razionale avrebbe reso di gran lunga di più che sotto Napoleone;
certamente 2 miliardi e mezzo. L'affermazione del benemerito statistico
Horn, che ogni francese pagava allo stato un quarto delle proprie
entrate, deve essere riguardata da qualunque persona imparziale come
un'esagerazione suggerita dall'odio partigiano. Ma la difettosa
ripartizione del peso tributario e l'oppressione dell'agricoltore
rincarata dallo stesso stato, rendevano impraticabile un inasprimento
delle imposte dirette; talché a ogni nuova esigenza lo stato non vedeva
altra via che le contribuzioni indirette e i prestiti. E con che furioso
aumento crebbero spese e debiti! Il bilancio di emissione aveva rotto
già da un pezzo il terzo miliardo, e si arguiva facilmente che non
sarebbe mai più ridisceso ai due miliardi: ben a proposito Thiers aveva
esclamato una volta, dopo che il bilancio aveva sormontato il primo
miliardo: _saluez ce milliard, vous ne le reverrez plus!_ L'impero
divorò in media 800 milioni all'anno più del regno di luglio.
L'amministrazione del debito consolidato aveva a pagare, nella primavera
del 1870, 364 milioni di rendite annue; dei quali 54 milioni risalivano
alla repubblica, 133 milioni erano sopraggiunti sotto l'impero. Cosicché
il debito si era raddoppiato in 22 anni, e proprio in quelli in cui il
suolo francese non era stato mai calcato da soldato straniero. Inoltre
era stato preso a prestito tra comuni e dipartimenti un capitale di 2
miliardi; e il debito fluttuante dello stato raggiunse in fine la
vertiginosa altezza di 923 milioni. L'avventatezza di una finanza
siffatta è palmare. Nello stesso tempo, però, il movimento ferroviario
crebbe di dodici volte, il numero delle locomotive salì da 7779 a
25.027, le miniere di carbon fossile diedero un prodotto di 11 milioni
di tonnellate nel 1864, vale a dire considerevolmente più dell'intera
produzione europea di carbon fossile calcolata da Villefosse pel 1808; e
dopo che gli ultimi prestiti della terza repubblica, non ostante le
perturbazioni guerresche tanto gravi, hanno pure condotto a un risultato
così cospicuo, è lecito tuttavia affermare, che il benessere del popolo
sotto Napoleone III è proceduto a ogni modo di pari passo con lo sbalzo
violento del bilancio.

Ma in che cosa dunque furono impiegate quelle somme colossali? Sopra
abbiamo visto, che dei capitali usati nei lavori pubblici una parte, e
non più che una parte, può tenersi produttiva. Il politico deve
considerare come produttivi anche i 1348 milioni inghiottiti dalla
guerra di Crimea, e le spese della guerra d'Italia: la scuola di
Manchester ci perdonerà una tale eresia. Pure, come era formidabilmente
ingrossata l'inveterata dissipazione e la disonestà della burocrazia
sotto la stupidità materialistica di cotesto sistema! Quanti milioni in
quelle grandi imprese dello stato sdrucciolavano nelle saccocce di
luridi costruttori e borsaiuoli di borsa! La corte, le camere e le
supreme dignità dello stato esigevano sotto Luigi Filippo 31,5 milioni
all'anno; l'impero dové offrire ai suoi fidi ben altre provvisioni, e
richiese a tal fine 58,5 milioni, di cui solo per la corte 26,5 milioni,
laddove il re borghese si contentava di 13,3 milioni: la metà. Perfino
siffatte spese la stampa cortigiana ascrisse a gloria dell'imperatore; e
impiantò come una novella scoperta scientifica la tesi, che il lusso,
che è giustificato e riesce allietante solamente come un sintomo di
elevato benessere popolare, crei addirittura nuovi valori: che è
quell'antica teoria del «dar danaro alla gente», che una volta fu
bandita in Germania da penne ligie, al tempo del polacco Augusto e dello
svevo Carlo. Solo che una favola da nutrice, che cento anni fa riusciva
a stento a mettere l'animo in pace alla buona gente paziente della
sorgiva del Nesen e dell'Elba Superiore, avrebbe poi trovato credito
durevole presso una nazione orgogliosa e tutt'altro che devota suddita?

Circa il 1860 il bonapartismo credé di aver trovato il mezzo di
appagamento franco di spesa della sete di gloria nazionale: infatti le
spese di spedizioni armate transoceaniche in paesi semibarbari sarebbero
state coperte dal bottino e dai tributi. Già le imprese in Cina e in
Cocincina avevano dato un esito finanziario dubbio; poi in fine
l'inconcepibile follia della spedizione messicana gravò infruttuosamente
e ingloriosamente lo stato di un altro miliardo; e d'allora in poi le
spese militari, _la grosse affaire du budget_, salirono con una
spaventosa rapidità. Rientrava semplicemente nel corso naturale della
politica questa espiazione che ora faceva lo stato di vecchi peccati di
omissione, e questo non voler rinunziare alla gloria di prima potenza
militare. Negli ultimi anni prima della guerra germanica la Francia
consumava 449 milioni annui per l'esercito e la flotta; vale a dire 100
milioni interi in più della Confederazione germanica del Nord, che ne
usciva con 91 milioni e mezzo di talleri: e bisogna aggiungere i nuovi
prestiti, devoluti quasi esclusivamente a scopi militari, e tra quelli,
nel solo anno 1868, un prestito di 440 milioni. L'impero si trovava in
cattiva coscienza davanti ai discorsi iracondi dell'opposizione, giacché
soltanto la sua propria colpa, la disgraziata impresa del Messico, aveva
fatto dei nuovi armamenti una necessità. E come fossero delittuosamente
scialacquati i denari delle enormi spese militari, lo avrebbe rivelato
la guerra tedesca. Il finanziere più capace del bonapartismo, Fould, si
esaurì in esortazioni ed ammonizioni; dopo la sua morte l'impero non
ebbe che due uomini, i quali godevano di una certa riputazione alla
borsa, Germiny e Vuitry. I creditori dello stato, inquieti già da un
pezzo, domandavano per propria sicurezza un sindacato parlamentare più
severo sulle finanze. Le notevoli sottoscrizioni ai prestiti del 1868
non affidarono minimamente come una prova di un saldo credito statale,
perché il ristagno del commercio versava sul mercato abbondanti capitali
disoccupati, e dopo le cattive esperienze fatte lo speculatore si
guardava dagli altri titoli di borsa. Il politico serio però non può
contentarsi del motto di spirito del signor Thiers: «se è pericoloso,
come dicono, possedere la libertà, è però molto costoso non averla»:
egli anzi deve penetrare la grave contraddizione di principio in cotesta
strana economia statale. Le spese statali erano state mutate
fondamentalmente dal socialismo monarchico, ma il sistema delle entrate,
astrazion fatta della riforma doganale, sostanzialmente non era stato
trasformato: un'idea economica creatrice, che facesse piovere dall'alto
le ricchezze della nazione per la politica della felicitazione del
popolo, non era nata nel mondo in nessun luogo. La Francia soffriva
dello sforzo impossibile di voler conservare in pari tempo tutto il
lusso e la lussuria della pace e, insieme, il formidabile arnese della
politica di conquista. Presto o tardi doveva scoccare l'ora, che una
guerra infelice avrebbe mandato a rotoli il castello di carta di questa
economia pubblica di farnetico.



V.


Con quale frequenza non fu espresso nel generale abbrutimento della
società sotto la repubblica il nostalgico desiderio: ci si conceda il
diritto alla quiete, e il genio francese spiccherà nuovi voli! La quiete
venne, venne quiete a macca, ma l'anelato rifiorimento della vita
intellettuale non venne; e che non potesse tornare lo mostrava lo stesso
lamento, che il mondo si fosse abituato a considerare il pensiero come
un lusso, come un'occupazione delle ore morte. La monarchia
aristocratica del tempo antico poteva bene portare avanti gli uomini
significativi, laddove sotto un dispotismo fondato sulla completa
eguaglianza sociale, la potenza delle menti e degli animi non poteva
elevarsi di troppo. Si eleggesse pure a modello quanto voleva il
bonapartismo i portamenti e le cerimonie di Versailles: i giorni di
Racine e di Molière erano andati, e con loro anche il garbo fine di
Luigi XIV non tornava più.

La nuova corte si mantenne insomma una società di nuovi venuti e di
avventurieri: Morny, Walevski, Prospero Merimée non furono dai loro
singolari rapporti con la casa imperiale trasfigurati niente affatto in
persone per bene. Stava a capo una donna di più che equivoco passato, e
le mode che questo capetto affaccendato dettava al mondo con turbinosa
vicenda, tenevano in frenesia le sgualdrinelle della capitale.
L'imperatore, che nel tratto personale mostrava non già un'affabilità
ricercata ma la naturale semplicità dell'uomo perspicace addestrato alla
scuola della vita, pure nella sua corte non seppe far di meno dello
sfarzo senza gusto dell'avventuriero. Sprezzatore cinico degli uomini,
quale era da gran tempo, egli non aveva mai creduto che valesse la pena
di mettere seriamente alla prova gli uomini onde era circondato, sebbene
i rapporti personali del monarca in un governo assoluto tirino dietro di
sé conseguenze inevitabilmente politiche. Perciò intorno al sovrano si
pigiava un _demi-monde_ di uomini e donne della specie più abietta. Le
rivelazioni sulle Tuileries, con cui i catoni della terza repubblica si
pensavano di distruggere la fama del secondo impero, non propalarono
certo nulla di più piccante di ciò che già tutti sapevano. Ma lo
spettacolo è nauseante: quella corte priva affatto di pensiero,
barcollante tra la lascivia e una superstizione da carbonai; quei
parenti imperiali avventurieri, che assediano il cugino fortunato di
lettere di pitocchi insolenti; quell'eletto del popolo, che crede sul
serio alle stupide stregonerie del visionario Home! In un tale
guazzabuglio di destrezza e di teatralità non erano rari solamente i
caratteri, tanto che l'impeccabile patriottismo di Touvenel era
solitario; ma era quasi sparita la fede nella lealtà disinteressata,
nella buona coscienza dei potenti. Si sacrificava a Mammona anche più
spudoratamente che sotto il re borghese: la cupidigia dell'oro e del
godimento, la paura di sembrare ridicoli con qualche debolezza nulla
nulla idealistica, costituivano il sentimento dominante nelle ampie
sfere della gioventù _blasée_. Quando una volta uno speculatore molto
stimato a corte s'impiccò pel suo disgraziato gioco di borsa, pervenne
ai giornali l'istruzione, che bisognava risparmiare la famiglia,
appianare la perdita dei beni e significare che lo sventurato avesse
posto fine ai suoi giorni per l'infedeltà della moglie. Piccoli tratti
del genere palesano più chiaramente delle lunghe descrizioni a qual
misura quella società misurasse i beni della vita.

Parigi, come sotto la reggenza, formava di nuovo l'alta scuola del vizio
a tutto il mondo: la civiltà della Francia, parola magica ancora ignota
alla prima rivoluzione e che oggi monta la testa dei francesi, si
mostrava principalmente nella propaganda dell'immoralità. Pensatori
inglesi guidavano da lungo tempo la sfrontatezza non muliebre, la
crescente rudezza delle loro dame sul modello di Parigi; e noi tedeschi
in quei brutti raddotti, che dalla tapinità dei nostri borghesucci
vennero aperti agli stranieri e che perciò dal tipo schietto parigino
furono messi a conto della Francia, giorno per giorno sperimentavamo,
che la perfetta spudoratezza sprizza per sé stessa dalla parlata
francese; per cui non fa più specie. La _grisette_ del Quartiere latino,
che con tutta la sua leggerezza era pure la creatura ingenuamente
amabile, cantata un tempo da Béranger, era finita da un pezzo. Le
successe la _lorette_ senza cuore e calcolatrice, e più tardi, in linea
ascendente, la _biche_, la _cocotte_ e alla fine, per colmo, la
_pétroleuse_! E nella melma di questa impudicizia si mescolò la masnada
letteraria della _petite Bohème_, di quegli scrittori putridi, che nei
_cafés litéraires_ sbraitavano in intemerate frenetiche contro ogni
sacro modo della vita umana. Lasciamo ai filistei riscaldarsi per quelle
orge selvagge, in cui teneva il dominio il cancan regolato dalle guardie
di città: da per ogni dove le onde mosse della vita delle metropoli
turbinano lo stesso sudiciume. La singolarità della putredine dei
costumi parigini consisteva piuttosto in ciò, che si confondevano sempre
più i limiti tra la buona società e l'infame, che nessuno sapeva più
dire dove principiasse il circolo delle Tuileries e dove finisse quello
di Cora Pearl. La spirituale e briosa conversazione degli antichi saloni
era sparita; e fu perdita inestimabile per l'urbanità dell'intero
continente. La nuova società non dava posto ai pochi veri gentiluomini,
tuttora superstiti di migliori dì; non dava posto ai Tocqueville e ai
Circourt. I modi sfacciati e pure affettati del _demi-monde_, la sua
impudenza facchinesca, il fumare e bestemmiare, il gergo della sua
_langue verte_ andarono connaturandosi anche nelle più alte sfere.
Teresa, l'eroina dei _cafés-chantants_, trovò con le sue sudice canzoni
ascolto presso l'imperatore, ed ebbe una valorosa scolara nella
principessa di Metternich; e nei salotti della principessa Matilde i
frequentatori giocavano a zecchinette e si vezzeggiavano col nomignolo
intimo di _animal_. La grazia vaporosa dell'antica galanteria francese
si era involata; giacché bisognava trovarlo, chi potesse parlare di
amore a una _femme entretenue_, e chi vi perdesse il tempo in quel mondo
ansante, a cui Ponsard teneva lo specchio così:

                            cette aimable jeunesse
    donne aux femmes le temps que la Bourse lui laisse!

Soltanto poche famiglie per bene si tenevano lontane da quello
scialacquio grossolano, serbavano il costume nel focolare tranquillo.
Era esiguo il numero delle madri sollecite della propria missione.
Generalmente costituiva la regola tra i ricchi l'educazione dei figli
fuori di casa. La futura burocrazia in collegio imparava fin dalle
calugini l'arte difficile di piegare la schiena al più alto per
schiacciarla al più basso. Alla donna era permessa ogni libertà; la
fanciulla cresceva nel rigore del monastero.

L'arte aveva dato da molto tempo le spalle a un siffatto mondo della
sensualità e della cupidigia. Lacera il cuore apprendere nelle lettere
di Tocqueville, come questo uomo geniale si sentisse in patria più
straniero che all'estero, come pensasse di essere sopravvissuto al
proprio paese, come cercasse invano le parole per descrivere il buio di
caverna delle provincie spopolate. Il poeta francese possedeva tuttora
un prezioso privilegio sul tedesco: un vero pubblico, che permetteva a
ogni ingegno di conseguire una potente efficacia, e che anche
recentemente aveva confermato nella colletta per Lamartine la sua
gratitudine alla poesia nazionale. E l'antica passione della scena era
tuttora così viva, che in questo paese della burocrazia l'intera metà
dei 297 teatri erano mantenuti a spese del comune. Ma, ahimè, qual sacro
cibo era offerto in cotesti templi! Dove sono andati gli squilli
baccanti di voluttà gallica di vivere, che un tempo Rabelais elevò in
onore della diva bottiglia? Dove la protervia deliziosa, che ride in
ogni accento della Celimene di Molière? Dove solamente quelle ultime
faville della passione della bellezza, che sprizzano ancora dalle
voluttuose poesie dei giorni di Luigi Filippo? Chi canta ancora una
volta: _ah qu'elle est belle en son désordre quand elle tombe les seins
nus!_? Vi fu un tempo che l'amante, la quale amava o fingeva di amare,
era già considerata in poesia come un'eroina arrischiata. Adesso è
trasportata disinvoltamente sulla scena la troiettuola che non ha mai
amato e fa tranquillamente i suoi conti. Gli scapestrati figliuoli di
rigidi genitori, giocoso motivo di commedie antichissimo, si
riguardavano come vieti: il poeta moderno prediligeva di rappresentare
virtuosi figliuoli di viziosi padri, che era un soggetto semplicemente
stomachevole, spoglio per giunta anche del triste merito di esser vero
nella prosa della realtà. Feydeau creò ora il capolavoro di questa
poesia andata a male: Fanny. Quale solletico per gl'imbecilli ammirare
in luogo del solito marito geloso l'amante geloso, che spia dalla
finestra i coniugali amplessi dell'amata! Che cosa è più orrida in
questa sporchizia, la spudoratezza o la scempiatezza? Va sottinteso, che
il poeta di una siffatta età esercita la sua arte come una speculazione
industriale. Di regola il romanziere fa riprodurre sulla scena in forma
di dramma la propria opera per non perdervi il doppio guadagno. Si
raffronti la gelida noia dei drammi di Dumas figlio, che seppe strappare
all'impudicizia l'ultimo barlume dell'illusione, coi romanzi di Dumas
padre, che ancora oggi divertono: è uno spaventevole calo. Anche nei
_bouffes_ di Offenbach, impareggiabilmente più spassevoli e vivaci, non
incontriamo più la civetteria del vizio, l'avvenentezza del peccato, che
è l'antica magagna francese; all'opposto, l'immoralità si presenta
aggressiva, con una insolenza inauditamente sfacciata. L'orgoglio
patriottico degli spettatori era inoltre soddisfatto da un fracasso di
spettacoli guerreschi, che mettevano in mostra lo _chic exquis_ degli
zuavi e dei turcos in una gaia vicenda di felici avventure; e il punto
culminante era segnato dal sole elettrico di Austerlitz e da una
congruente volatina delle rime _français succès, laurier guerrier,
gloire victoire_. Le predilette _féeries_ scesero affatto, fino alla
fantocciaggine da burattinai; rape scollate e carote in maglione
facevano pirolette; ogni senso estetico si spense in un tafferuglio di
cattiva musica e di quadri spettacolosi. L'antico dominio delle salde
regole accademiche aveva ceduto alla disordinata incertezza del gusto:
l'uomo di mondo _blasé_ e il piccolo borghese ingenuo erano concordi nel
bearsi della volgarità oscena.

A mio avviso, cotesto lento inaridimento dell'anima popolare si tradisce
nel modo più spiacevole proprio nei libri, che si propongono uno scopo
morale. Nella sua opera _L'amour_ Michelet intese di sovvenire di nuovo
alla nazione la santità del matrimonio: eppure qual uomo, che abbia
goduto la proba felicità di un matrimonio tedesco, può leggere senza
compassione quelle arrembate frasi sentimentali? L'enigma così
meraviglioso e pure così semplice del cuore femminile, il filosofo in
conclusione non sa spiegarselo, se non con lo spacciare tutte le donne
per fisiologicamente malate! Chi non conosce _Monsieur, Madame et Bebé_
di Gustavo Droz, il bizzarro libro che, diffuso in più di trenta
edizioni, rappresenta con precisione fotografica la media delle
esperienze della vita coniugale francese? Certo, c'è anima in queste
pagine, c'è affetto, anzi anche qualcosa come religione: ma anche quanto
triviale solletico dei sensi, quanta vuota eleganza! Quando il
pover'uomo descrive le gioie del suo amore, niente lo rapisce tanto,
come il profumo penetrante dei capelli dell'amata; e il lettore chiude
involontariamente il libro per vedere se questa meravigliosa _pommade
philocome_ bisogna acquistarla da _Pinaud et Co_, dalla _Société
higyènique_, oppure da qualche altro _ami de la tête_. Leggendo questi
scritti morali dei moderni francesi, non ho mai potuto tenermi dal
pensare: o disgraziata nazione, che non sa più distinguere tra le
cianciafruscole false dei negozi di mode parigini e i beni eterni della
vita!

Non ostante la sua freddezza prosaica, ma con l'istinto dell'uomo di
stato, Napoleone III capì quale pericolo per la società si annidava in
un'arte tanto abbrutita. Assegnò premi ai drammi morali che offrivano al
popolo esempi virtuosi e «idee sane», protesse la commedia casalinga di
Ponsard «la Borsa» che gridava al mondo la geniale verità:

    l'argent est un bonheur, mais ce n'est pas un titre.

Avrebbe dovuto apprendere però, che l'estro dell'arte è un figlio del
tempo: quanto poco sarebbe potuto sorgere un Sofocle sotto Alessandro,
tanto meno poteva attecchire il dramma morale nell'aria impura della
nuova Parigi. Alcune fini commedie di Augier, alcune opere di Ponsard,
principalmente _Le lion amoureux_ che è, di questo poeta, il canto del
cigno compenetrato da un nobile e forte spirito patriottico, sono i soli
frutti sbocciati sopra l'universale imbecillità della recentissima
poesia. E anche nelle arti figurative, quale caduta in pochi decenni, da
quando Paolo Delaroche aveva dipinto il magnifico emiciclo della _École
des beaux arts_! Il parigino partecipava ancora con ardore, come nei
giorni più favoriti, all'esposizione del _Salon_, ancora il talento
tecnico della colorazione virtuosa non era perduto nella pittura, ancora
qualche artista, come Gerôme nel suo quadro dei gladiatori, sapeva dare
a un soggetto brutto un'esecuzione che incantava. Ma il valore
spirituale dell'arte si andava inaridendo, e l'osservatore della
recentissima pittura storica era continuamente premuto dalla domanda, se
effettivamente donne nude e calzoni rossi di soldati rappresentassero
tutto il senso profondo della vita umana. Lo schietto fervore artistico
soccombeva quasi sotto l'invasione dei dilettanti, che avevano un
compagno e un protettore naturale nel direttore dei musei imperiali, il
conte Nieuwekerke.

Chi considera tali segni non dubbi della decadenza artistica,
generalmente si lascia subito andare all'affermazione, che sotto il
nipote il bonapartismo abbia soffocato il talento come sotto lo zio. Se
non che anche in questo campo si manifesta al giudizio posato l'ampio
divario che corre tra il secondo impero e il primo. L'arte nel nostro
secolo prosaico non costituisce più la misura infallibile della vita
spirituale. Per contro, l'Italia di Cavour e di Manin ben a ragione
protesta, che si valuti alle opere di Verdi la sua potenza geniale; e
anche noi tedeschi, quanti poeti drammatici, che potrebbero collocarsi
accanto a Ponsard e ad Augier, non abbiamo avuto in quei cinquant'anni
tanto fecondi pel nostro sviluppo? Per lo meno può oggi considerarsi
l'arte drammatica come lo specchio fedele dell'educazione del popolo. Il
tesoro accumulato dei più antichi drammi libera la scena dal dominio
illimitato della poesia recentissima: mentre la poesia drammatica
contemporanea decadeva, il _Théâtre français_, che è sempre il primo
teatro del mondo, riproduceva alla ribalta in esecuzioni magistrali i
personaggi di Corneille e di Molière. La scienza offre un più valido
appoggio al pregio della cultura moderna, e se noi guardiamo addentro,
non solamente il confronto del secondo impero con la desolazione
spirituale del primo ci appare ridicolo, ma ci si presenta la questione,
se la valentia modesta della recente scienza francese non abbia donato
al mondo più frutti sani e durevoli, che non dianzi la letteratura
presuntuosamente rumorosa della monarchia di luglio.

Seguì al 2 dicembre un tempo sconsolato di temulenza, in cui, stando al
ragguaglio di Tocqueville, l'arte di leggere e di scrivere parve quasi
perduta. Presto, però, l'insolenza stessa dell'ostentazione del peccato
spinse gli spiriti seri a rientrare in sé. E sorse nelle scienze
politiche e sociali una nuova letteratura, povera di opere di
prim'ordine, ma altrettanto ricca d'indagine positiva e di grave senso
morale. L'inestetico uomo di affari Napoleone III era troppo guasto e
difforme al gusto e al costume medicei. Non gli mancava affatto, però,
l'intelligenza del valore rigidamente scientifico. Gli archivi furono
mantenuti come sotto Luigi Filippo, con una intelligenza e una libertà
che fanno arrossire noi tedeschi. Molte notevoli opere scientifiche
nacquero per suggerimento dell'imperatore, come il bel catalogo della
biblioteca storica di Parigi, la raccolta delle lettere e commentari
napoleonici, la storia del Congresso di Vienna del conte Angerberg;
molti dotti furono sussidiati dallo stato nei loro lavori, come per
esempio Baschet nella sua raccolta per la storia della diplomazia
veneta. Missioni scientifiche dispendiose e con splendidi risultati
furono intraprese in Egitto, in Siria, nell'Asia Minore, in Mesopotamia.
Anche le scienze naturali ebbero a lodare le mani bucate di Napoleone;
fecero progressi sempre assai notevoli, sebbene il detto dell'alsaziano
Würtz _la chimie est une science toute française_ sia a ogni modo da
tenersi soltanto come una spacconata _chauviniste_.

Quanto più grave pesava l'oppressione del dispotismo sulla stampa
quotidiana e più rari erano gl'ingegni notevoli che si dedicavano al
giornalismo, tanto più si preferiva alla corte di leggere opere serie
sui problemi sociali e politici, e tanto più il dotto era costretto a
svolgere metodicamente le proprie idee e non già a sparpagliarle in
articoli e appendici. A principiare dalla scuola dei pubblicisti
liberali ricca di buoni ingegni, la quale seguiva le orme di Tocqueville
e aveva in Laboulaye la penna più geniale, fino alle opere estremamente
conservatrici e piene di pensiero del Le Play sulla riforma sociale, non
più che una sola tinta tra i partiti politici rimase fuori, non
rappresentata nella nuova scienza dello stato. La questione italiana
ispirò lavori pubblicistici, come, per esempio, gli eccellenti scritti
sull'Italia di R. Rey, la cui profonda accuratezza non trova affatto
l'eguale nella letteratura politica della monarchia di luglio. Anche
nella maggior parte di queste opere dominava, come è giusto, uno spirito
di opposizione, non però affatto di opposizione sistematica: quasi tutte
domandavano solo il perfezionamento delle istituzioni vigenti e
l'impiego del potere statale all'ingentilimento delle moltitudini.
Siffatta rassegnazione maschia supera, moralmente e politicamente, di
molto il puntiglio lunatico che i quaranta immortali dell'Accademia
mostravano contro l'impero. L'imperatore, dopo un pazzo tentativo
d'infrangere l'indipendenza dell'Accademia, si abituò a lasciarli
stagionare, quei vecchi signori, nelle loro giubbe ricamate di palme.
Accogliessero pure nel loro seno gli eroi dell'opposizione bianca e
della rossa: le parate accademiche e gli spiritualissimi articoli di
rivista non erano proprio fatti per rovesciare il trono imperiale, e il
lamento di Guizot: «noi stiamo sotto sonanti rovine», significava non
più che il profondo sospiro di un vecchio, che vede la fine del mondo
perché vede finire il suo mondo.

Da un decennio la scienza tedesca era profondamente penetrata, per la
prima volta, nella vita francese. Dollfus e Taine, Renan e Laboulaye si
fecero avanti come apostoli dello spirito germanico. Per molto tempo
l'Alsazia rappresentò felicemente la parte della mediatrice tra i due
grandi popoli; il che vuol dire, che i suoi dotti portavano ai francesi
i risultati della scienza tedesca senza punto offrirci un corrispettivo
di pari grado. Cotesto ravvicinamento, che ebbe un organo nella _Revue
germanique_, si fondava pur troppo sulla tacita presupposizione, che i
tedeschi si sarebbero contentati, ora e sempre, del regno dell'idea:
onde sarebbe corsa lì per lì a dare nelle secche, non appena noi
avessimo uno stato con volere e potere indipendente. La _Revue
germanique_ passò, e la _Revue contemporaine_, in cui il signor di
Calonne rappresentava le idee tedesche, ebbe un così meschino incontro
in mezzo al risvegliarsi dell'odio nazionale, che quasi non fu nemmeno
più considerata come un giornale francese.

Comunque, le battaglie boeme avevano scosso alquanto l'antica burbanza
dei nostri vicini. Fin dal 1864 Jules Simon aveva suscitato le generali
risa di scherno del corpo legislativo, citando le scuole prussiane: «noi
non abbiamo da imparare niente, proprio niente, dai prussiani», si gridò
da tutte le parti. Negli anni seguenti ebbero il debito riconoscimento
le prove condotte dall'imperatore e dall'eccellente ministro Duruy di
elevare l'educazione popolare sull'esempio tedesco. Appunto in questo
campo Napoleone III ha compiuto tra gravi lotte un gran bene; in questo
campo il principe ha attenuto ciò che il presidente aveva promesso. In
questi problemi, come in quelli economici, egli sovrastava di gran
lunga all'opinione media della nazione: voleva la scuola obbligatoria
come in Prussia, ma fra tutti i suoi uomini di stato solo Duruy osò
appoggiare una siffatta idea ereticale. Dalla coscrizione del 1857
risultò che un buon terzo dei coscritti non sapevano leggere: solo in 11
dipartimenti, appartenenti la più parte alle provincie orientali mezzo
tedesche, il numero dei cresciuti completamente senza scuola scendeva
tra il 2 e il 6 per cento: in quasi tutti gli altri saliva di gran lunga
più alto, e in alcune plaghe dell'interno e della Bretagna arrivava fino
al 58 e al 65 per cento. Risultamenti di tal fatta indussero lo stato a
far sorgere scuole da per ogni dove nel paese, o per mezzo di premi o
per assunzione diretta; e già nell'inverno del 1865-66 30.000 maestri
impartivano l'istruzione a 600.000 adulti. Le _conférences_ o libere
letture scientifiche, già proibite a Parigi per la concorrenza
all'università, ora negli ultimi anni dell'impero goderono del favore
ufficiale e di un folto concorso; inoltre i professori dei _collèges_
erano comandati a tenere lezioni nelle vicine città di provincia. Furono
fondate in seguito scuole tecniche, che dovevano fare per le scienze
esatte ciò che i licei per la cultura classica. Sorsero così quelle
biblioteche popolari che i comuni alsaziani curarono con benemerita
sollecitudine. Ferveva dovunque un'attività supremamente meritoria che,
spronata dall'energia francese, condusse già nelle ultime coscrizioni a
risultati soddisfacenti, e accennava a promesse di frutti più copiosi
per l'avvenire.

La debolezza di questo movimento era solo in ciò, che il dispotismo era
completamente destituito di quello zelo morale, che solo rende feconda
l'educazione. Per giunta, in questo regime non poteva tollerarsi né
ammettersi l'efficacia della scienza sullo stato. Mentre l'una mano
porgeva al lavoratore gli elementi della cultura, l'altra uccideva in
lui ogni virtù di espansione morale con la scelleratezza oscena di
quella stampa clandestina semiufficiale, in cui la _haute bicherie_
spampanava la sua vita infame. Da una parte l'istruzione; dall'altra il
signor Trimm col suo _Petit Journal_, le turpitudini dei giornali
umoristici parigini e la stupidità atroce della stampa di provincia, che
da Arles a Metz, dal _Forum_ al _Courier de la Moselle_ mostrava per
ogni dove la medesima nullaggine: in verità, il contrasto sarebbe ameno,
se non fosse tanto triste! E principalmente in questo si rivelò l'intima
falsità di un sistema, che continuamente doveva distruggere la propria
opera. Non cadeva dubbio, che Napoleone bramasse sinceramente
l'elevazione della cultura popolare; eppure il suo governo minò le basi
di ogni incivilimento.

La profonda quiete dei primi anni imperiali diede ansa a tutti i partiti
battuti di tirare la somma del loro operato. Duvergier de Hauranne
principiò la storia dell'età parlamentare, Guizot scrisse le sue
memorie, Garnier-Pagès, Luigi Blanc ed altri offrirono contributi alla
storia della rivoluzione di febbraio. Sebbene queste opere non
dissimulino l'unilateralità partigiana, pure noi tedeschi ne
apprezzeremo di molto il valore, se le raffrontiamo con l'indifferenza
che il popolo nostro mostra per la sua storia recente: fino a oggi non è
ancora apparsa presso di noi una forte opera, ispirata da un partito,
sulla rivoluzione tedesca.

Quando il mondo ufficiale si prostrò nella polvere davanti all'idolo del
bonapartismo, quando il grande Imperatore riapparve nel manto imperiale,
come gli aveva bramato, sulla colonna Vendôme, allora il liberalismo
abiurò come un sol uomo la fede napoleonica, e lo stesso Thiers negli
ultimi volumi della sua opera cominciò a parlare in sordina. Le
ghirlande di Béranger appassirono. Da quando l'impero aveva seppellito
sotto gli onori ufficiali il poeta nazionale, le sue poesie erano
scomparse dalla buona società. Una rigida critica storica si volse
sull'età napoleonica, e sovente diede in tale eccesso, da porre talvolta
noi tedeschi nella strana condizione di dover difendere il nostro grande
nemico contro i Charras, i Barni, i Chauffour-Kestner. Poi, verso la
fine dei giorni neonapoleonici, Lanfrey principiò la sua storia di
Napoleone I, che è un libro d'importanza storica modesta, ma di
altissima veridicità. Più vasta efficacia di questi gravi scritti ebbero
i «romanzi nazionali» dell'alsaziano Erckmann e del lorenese Chatrian;
frutti di un meticciamento poetico sullo stile delle opere di Mühlbach,
ma composti con assai maggior talento e qua e là con schietta potenza
poetica, sebbene niente affatto immuni da pregiudizi; che, per esempio,
cinque prussiani bastano appena a tenere in rispetto un francese;
compenetrati però dal senso umano di una cultura salubre, offrono una
dipintura potente dei mali e dei misfatti delle guerre ingiuste e
un'esortazione alla pace di alto valore pei popoli zelatori di guerra.
Perfino la grande Rivoluzione deificata fu, in questa età di ritorno
degli spiriti in sé stessi, raggiunta dalla fredda critica. Il libro di
Edgardo Quinet sulla Rivoluzione rimane a gran distanza dalla splendida
opera di Tocqueville sull'antico regime; ma quale progresso scientifico
e, anche più, dell'educazione morale rispetto alla storia della Gironda
di Lamartine! La situazione, dunque, non era tanto penosa, come
l'ammetteva il malinconico Renan; se s'intendeva di costringerla alla
mediocrità, la nazione però non era diventata addirittura nulla e
triviale. Quelle opere modeste, piene di un senso reale di verità,
iniziarono in silenzio col loro animoso odio a qualunque dispotismo,
anche al giacobino, quel gravoso lavoro di raccoglimento e di esame di
coscienza, che a un popolo non libero riesce più salutare di una
letteratura classica. Certo, il consolidamento di questa cultura più
nobile esigeva decenni per gittare frutti, e, intanto, la classe
politica del bonapartismo fu appena tocca dalla rigenerazione della
scienza.

Lo stesso Napoleone III senza volerlo promosse il risveglio della
critica storica con la sua vita di Cesare. Su questo strano libro, a cui
è dovuto l'appunto, che mai con maggior dispendio si ottennero più
scarsi risultati scientifici, oggi che la curiosità è dileguata da un
pezzo, vale ancora la pena di spendere una parola? Se è sorprendente,
come mai l'imperatore abbia trovato la forza e l'agio per una tale
attività, pure è anche più enigmatico, che non abbia saputo resistere
alla tentazione di ricalcare quell'ardente terreno della storia, che già
al pretendente era stato poco amico. Solo un pedante si meraviglierà
dell'indagine difettosa del dilettante imperiale; accanto ad accurate
ricerche di compagni anonimi sulla situazione di Bibracte, accanto a
diligenti comunicazioni prese dai lavori della scienza tedesca, e
perfino dalla metrologia del nostro solerte Hultsch, procede una critica
innocente, che con perfetta ingenuità si giova come fonti storiche dei
discorsi di Cesare e di Memmio poetati da Sallustio. L'impressione
diventa supremamente comica, quando l'autore si avventura nei più
difficili compiti dello storico, e cerca di abbracciare in un quadro
riassuntivo tutto un modo di civiltà: qui si tratta di sapere molto, per
dire assai poco; e qui anche il lettore più devoto non sa contenere i
sereni ricordi dei giorni d'oro del ginnasio, quando si sente
raccontare, che Atene era una molto bella città, con un porto chiamato
Pireo e con una statua di Pallade di oro e di avorio. E più stupefattivo
ancora di tali inevitabili deficienze del dilettantismo, si rivela
l'ineffabile banalità del giudizio storico e politico, si rivela quel
crogiolarsi nel vuoto dei luoghi comuni. Da per tutto un superficiale
prammatismo, una maniera arbitraria di costruire i fatti, che col
fraseggiare al futuro della lingua francese, con quegli eterni _ainsi
tomberont, les Romains tourneront_, assume anche l'affettazione solenne
dell'oracolo. Quel fatalismo, che nella vita disponeva l'imperatore ai
supremi rischi, non appare nella scienza né chiaro né profondo; si
risolve, in fondo, in niente altro, che in una sottomissione cieca al
successo: il valore di una istituzione si tiene dimostrato dalla sua
durata. E l'uomo, che sa bene egli stesso l'arte del dominatore, si
prostra abbagliato davanti al suo eroe, non più che come un tremebondo
erudito da scartabelli al cospetto di un guerriero digrignante. Tutto è
ammirato in Cesare, tutto, anche i versi: è un goffo partito preso di
apologia, per cui la nostra parlata onesta usa il vocabolo
_weissbrennen_ (ardere a fiamma incandescente, col senso di discolpare).

Soltanto pochi lettori misurano interamente l'ampio tratto che corre tra
il dire e il fare; e perciò un'opera così aberrante doveva
necessariamente confondere il giudizio del mondo sulle forze
intellettuali dell'autore. Quando l'eroe del 2 dicembre desidera i
rimedi eroici e il salvatore alla società romana malata, quando esalta
lo spirito di fiducia che fondò il pieno potere dell'imperio, e lancia
sguardi biechi allo spirito di sfiducia proprio delle nostre abitudini
costituzionali, ebbene, allora il colpo di stato non appare più
semplicemente come un fatto, ma come un principio, il principio della
violazione del diritto. L'opposizione di tutti i cervelli liberi, che
non fu certo messa a tacere dai discorsi cesarei del fido Troplong, fu
ora violentemente disfidata, e tanto più, perché gl'impiegati ligi e
compiacenti introdussero nelle scuole il parto storico imperiale.
L'opposizione colse con ardore la comoda opportunità di sfogare in
impertinenze contro Cesare e Augusto il corruccio contro il
bonapartismo. I risultamenti scientifici di cotesta _opposition
d'allusion_ furono tapini: la santa gravità della storia castiga
spietatamente ogni abuso tendenzioso. Comunque, parve un progresso il
fatto, che ora finalmente per la prima volta dopo tanto tempo fosse
mandato in pezzi l'idolo dell'eroismo personificante la nazione, e fosse
descritta con passionata eloquenza la profonda immoralità del dominio
violento e la necessità di prefinire saldi limiti legali a ogni potere
dello stato.

Certo, a chi osserva da vicino i francesi non può sfuggire, che
solamente una cerchia ristretta era tocca sul serio e a fondo da coteste
nuove idee. Nello stesso torno di tempo in cui la critica storica
condannava senza discrezione l'imperatore soldato, dilagava pel paese il
grido di guerra, sempre rifacendosi a nuovo, sempre ingrossando più
gagliardo. Per una legge storica in perpetuo ricorrente, la boria
nazionale cresceva in tanto più dismisura, in quanto che i francesi
dovevano non a sé stessi la loro magnifica posizione di grande potenza,
bensì alla fortuna e al tatto del loro dominatore. Durante i primi
giorni di emozione della guerra franco-germanica, W. Wehrenpfennig
qualificò per la prima volta, che io sappia, cotesta oltracotanza come
un delirio di grandezza, una megalomania. L'espressione fece rapidamente
il giro dei giornali tedeschi, perché egli aveva fitto il chiodo a
segno. Ed effettivamente era una malattia epidemica degli spiriti.
Mentre gli storici notomizzavano e confutavano la leggenda napoleonica,
un'altra fola con mirabile rapidità si annidava nei cervelli: il mito
bismarchiano. Nessun giudizio, nessuna cultura fece argine alla potenza
irrompente di questa menzogna, finché in fine la nazione non fu più
capace di distinguere tra l'apparenza e la verità.

Il risveglio graduale della vita scientifica incontrò, per giunta, un
nemico formidabile nel partito ultramontano. Napoleone III seguiva la
teoria della solidarietà degl'interessi conservatori, onde vedeva nella
Chiesa un puntello della tirannide e l'unica potenza ideale che potesse
preservare le moltitudini ignoranti dalla turpezza della bramosia
materialistica. «Il mio governo», disse nel settembre del 1852, alla
posa della prima pietra della cattedrale di Marsiglia, «il mio governo,
lo dichiaro con orgoglio, è forse il solo, che abbia favorito la
religione per sé stessa; giacché l'ha sostenuta non già quale strumento
politico, non già per piacere a un partito, bensì soltanto per
convinzione». Il giorno di Capodanno dopo il colpo di stato fu cantato
solennemente il Tedeum in ringraziamento della salvezza della società,
il Pantheon fu restituito al culto di Santa Genoveffa, e accordata su
semplice ordine governativo la formazione di nuovi ordini femminili. Nei
primi anni dell'impero fu stretta anche più salda la lega tra il
dispotismo temporale e lo spirituale. Il clero rendeva ossequio
«all'inviato del Signore, all'eletto della sua Grazia, allo strumento
del divino Consiglio» in discorsi adulatorii, rugiadosi di servilità,
come appena sotto il primo imperatore. L'affinità elettiva tra la Chiesa
militante e il gloriosissimo esercito, questi due grandi corpi animati
dallo spirito dell'ordine e dell'ubbidienza, fu il tema preferito della
ossequente predicazione dal pergamo. Tutto lo sdegno dell'uomo e del
cristiano per una tale profanazione delle cose più sacre fu espresso in
una bella lettera, che in quel torno di tempo Tocqueville diresse a uno
di quei vescovi ligi. Quando principiarono le complicazioni orientali, e
i popi fanatici infiammavano i russi ortodossi alla guerra contro la
Mezzaluna, i preti francesi celebrarono la lotta della Chiesa cattolica
contro gli scismatici moscoviti, e un reggimento di corazzieri sfilò per
Lione e salì al santuario montano di _Notre Dame de Fourvières_ per
portare nella guerra santa la benedizione della Chiesa.

Anche la disposizione delle classi abbienti, come il favore del
governo, offrì il terreno propizio alla potenza della Chiesa.
L'indifferenza religiosa dei francesi fece il dominio degli
ultramontani. Quella serietà della coscienza protestante, che conquista
e rivive le verità della fede con gravi prove e con tragedie dell'anima,
trovò ben di rado dimora in cotesta educazione mondana. Pei più la
religione valeva soltanto come un fattore nel calcolo politico, e un
cambiamento di religione per ragion di coscienza era riguardato come una
pazzia. La nobiltà incredula dei Borboni era stata ricondotta unicamente
dalle esperienze politiche della Rivoluzione nel seno della Chiesa unica
beatificatrice. La borghesia dalle angosce dei giorni di febbraio e dal
furibondo odio antireligioso dei radicali attinse la persuasione
politica, che la Chiesa fosse indispensabile alla pace sociale. Singole
anime più profonde poterono realmente restituirsi in quei giorni di
turbine alla fede antica; ma la gran maggioranza dei borghesi colti
entro la cerchia fidata non faceva mistero, che si rispettasse la Chiesa
per le mogli e i figli, e principalmente per le moltitudini e per la
pace sociale. Mentre la stampa liberale parlava sprezzantemente del
papato, come di una potenza finita, l'uomo medio liberale, per desiderio
della moglie guidata dal confessore, mandava alle scuole clericali i
figliuoli, che crescendo avrebbero percorso la stessa parabola del
padre. In una parola, motteggiavano e si sobbarcavano, né più né meno
come gl'italiani del Rinascimento. Si può seguire a passo a passo
cotesto persistente abbassamento del coraggio morale: al tempo della
rivoluzione di luglio tutto quanto il liberalismo unanime chiedeva il
ripristinamento della libertà del divorzio; poi lo zelo si moderò, e
oggi di tale questione si parla appena. In una società appoggiata sulle
moltitudini ciecamente credenti, una tale religiosità venuta fuori dalla
paura economica e dall'ignavia del pensiero deve infallibilmente fare
il gioco del partito, che cerca la sostanza della Chiesa nel suo
dominio.

Abbiamo visto sopra, che la legge ultramontana del 1850 sull'istruzione
fu un parto degli spericoloni volteriani in bella lega coi clericali: da
allora la potenza della Chiesa seguitò a crescere irresistibilmente. Il
numero degli ecclesiastici secolari, che sotto la Restaurazione e il
regno di luglio non procedeva di pari passo col lento accrescersi della
popolazione, salì in 14 anni, dal 1847 al 1861, da 37.000 a 44.000, e la
dotazione pagata loro dallo stato da 36 a 45 milioni, senza includervi
altri 2 milioni per fabbriche religiose. La ricchezza della manomorta
non crebbe meno rapidamente: sorgevano da per tutto nuove chiese,
monasteri, scuole ecclesiastiche. La Chiesa era sulla buona strada per
riacquistare in pochi decenni tutta la massa dei beni, che un tempo
aveva accumulato con l'opera di tanti secoli. Questa potente
restaurazione si effettuò in tutti i paesi di lingua francese: già da un
pezzo Ginevra, la Roma calvinistica, era una città prevalentemente
cattolica, e il Belgio era la terra celebrata della preteria. Però lo
stato dominante della gerarchia ristabilita era tenuto dal monacato: lo
spirito della nuova Roma era custodito nel modo più fedele nel chiuso
dei chiostri. Sotto l'impero rimisero salde radici innumerevoli ordini
antichi e novelli, e non soltanto i valenti e dotti padri dell'Oratorio,
ma anche altri di dubbio valore morale. Lo stato andò loro incontro
premurosamente, e solo di rado ricadde nelle vecchie abitudini della
diffidenza burocratica, come, per esempio, nel 1867, quando soppresse il
Consiglio generale delle Conferenze di San Vincenzo di Paola. Lo stesso
duca di Persigny notò con sorpresa, come la Curia romana desse la
preferenza agli ordini regolari e perfino nelle encicliche li preponesse
ai secolari; e Lacordaire gli assicurò di essersi fatto monaco, per
godere di maggior libertà e influenza che da semplice prete.

Dallo stesso spirito procedeva il rinnovellato zelo pel servizio delle
immagini e delle reliquie, per tutti i dommi e le cerimonie che più
aspramente contrastavano col protestantismo. Il culto di Maria nella
Francia imperiale fu curato con una sentimentalità lattimosa, che
sovente suscitò un vero e coraggioso disdegno tra gli ultramontani
tedeschi. Tutta la valle del Rodano, antica patria benedetta del clero
francese, è ora consacrata alla Madonna. La serie è aperta da _Notre
Dame de Fourvières_ sopra Lione e chiusa da _Notre Dame de la Garde_ sul
porto di Marsiglia: quasi in ogni città del Rodano, a Vienne, Avignone,
Viviers si eleva sulla cima che domina la valle una grandiosa statua di
Maria; e furono tutte innalzate sotto il secondo impero. Anche più
orgogliosa giganteggia la Madonna colossale, sull'erto dirupo a piombo
sulla vallata di Le Puy. Una sola volta mi sono abbattuto in una
somigliante ostentazione del cattolicismo in terra tedesca: sulle rocce
rosse della Mosella, dirimpetto al santo Treveri. Il potere assoluto del
papato parve siffattamente assicurato nella Chiesa moderna e
l'accentramento condotto con tale acume, che nelle prossime generazioni
una scissura della Chiesa offriva qualche probabilità di riuscita
tutt'al più nel caso di un conclave molto contrastato. Il clero
ubbidisce ai vescovi incondizionatamente, come i soldati agli ufficiali:
parole testuali, con cui il cardinale Bonnechose ritrasse in senato lo
spirito mutato della religione dell'amore. La sostanza romana trionfava
dovunque, anche negli accidenti formalistici: il Breviarium Romanum, le
pianete romane soppiantavano gli antichi usi delle chiese locali. Con la
bolla _Ineffabilis Deus_ il papa creò di arbitrio il nuovo domma
dell'Immacolata Concezione, e questo tratto di autorità, inaudito nella
più antica storia della Chiesa, fu accolto dal mondo cattolico senza
notevole opposizione, e con gioia dalla maggioranza del clero francese.
L'inalienabilità dello Stato della Chiesa fu con santo zelo difeso come
un domma da tutti i pulpiti: perfino il volteriano Thiers dichiarò idea
fondamentale del cattolicismo la sovranità temporale del papa in Roma.
Le idee gallicane del sistema episcopale incontrarono difensori
coraggiosi soltanto in pochi fogli, laddove gli ultramontani possedevano
un giornale quasi in tutte le maggiori città di provincia. L'ambiziosa
crudezza degli scritti di Veuillot non sarebbe stata possibile nemmeno
sotto la Restaurazione. _Les Études réligieuses_, organo dei gesuiti
francesi, rappresentavano in verità un indirizzo più blando che non la
_Civiltà cattolica_ o le voci di Santa Maria di Laach; ma come mai
avrebbero potuto combattere durevolmente il domma dell'infallibilità
papale? Quando alla fine si radunò il concilio e quel domma sacrilego fu
effettivamente annunziato, la gran maggioranza dei prelati francesi
stette col papa infallibile.

Lo zelo ultramontano si mostrò tanto più esoso, quanto più vivamente si
sentiva, che la nuova potenza della Chiesa non era menomamente fondata
su un ringagliardimento della fede. Donde l'affannamento a rapire alle
biblioteche le opere di Voltaire e di Rousseau, donde il pauroso effetto
di quel libro di Renan, che con tutte le sue deficienze scientifiche
pure era sorto da uno spirito profondamente religioso. Nel senato del
primo impero sederono Laplace e Volney, Cabanis, Tracy e Sieyès: nel
nuovo senato il solo Sainte-Beuve osò difendere il diritto della libera
indagine. Con quale furore i Maupas, i Canrobert, i Ségur si
gettarono sul difensore di Renan, e con quale ingenuità il conte
Chapuis-Montlaville confessò le ragioni mondane di questo zelo di fede:
«qui non è permesso di difendere questi uomini, che alzano il tizzone
contro la società!». È difficile stabilire in che misura il dirizzone
ultramontano penetrasse nel basso clero. Ma nell'episcopato dominava
assoluto lo spirito dei Dupanloup e dei Bonnechose; e questo bastava.
Infatti, una volta che i 18 arcivescovi e i 67 vescovi nominavano i
parroci e li trasferivano a loro piacimento nell'interno delle diocesi,
si comprende, che non poteva certo manifestarsi apertamente lo spirito
nazionale che avvelenava la fede a molti curati. Inoltre, le pretensioni
del nuovo papato trovavano potenti appoggi alla corte. Una volta,
parlando della moglie, l'imperatore disse al cardinale Bonnechose: «è il
fortunato privilegio della donna, questo, di tenersi estranea alla
ragion di stato e ai freddi calcoli della politica, e di abbandonarsi
esclusivamente alle magnanime ispirazioni del cuore». Col fatto, dalla
sua Eugenia avrebbe dovuto apprendere, che quelle magnanime ispirazioni
del cuore muliebre possono intrudersi anche nei freddi calcoli della
politica. Tendenze spagnole, altezzose e imperiose, idee, che da
Caterina dei Medici in poi non si erano potute più sostenere sul trono
francese, dominavano _l'entourage_ dell'imperatrice; e un'amicizia da
sorelle collegava le Tuileries a quella grettissima tra le corti, che
circondava la regina Isabella e la monaca Patrocinio.

Il fiuto fino del partito spagnuolo subodorò, che il carattere della
moderna cultura popolare è determinato in sostanza dalle scuole
superiori. I licei imperiali non erano tenuti pericolosi, fintanto che
la Chiesa se ne divideva con lo stato la soprintendenza, e fintanto che
lo stesso spirito di uniformità pretesco-militare vi dominava così
allegramente, che alla medesima ora i medesimi problemi erano proposti a
Perpignano e a Lilla. Più scabrosa era l'istruzione elementare
obbligatoria, propugnata dall'infaticabile ministro Duruy. Godendo
nuovamente la Chiesa dei suoi antichi beni, non avrebbe trovato nulla a
ridire, se lo stato anche per l'avvenire avesse speso 450 milioni per
l'esercito e da 23 a 29 per l'istruzione. Del resto, anche la scuola
obbligatoria era comportabile, una volta che il parroco invigilava
accuratamente sulla scuola popolare. Ma la cultura accademica fuori
affatto delle mani della Chiesa ha effetti semplicemente rovinosi. Non
basta, che accanto a ogni facoltà teologica dello stato sia un seminario
ecclesiastico; giacché i nemici nati della fede miracolosa, gli storici
e i naturalisti, esercitano senza disturbo alcuno nelle altre facoltà la
loro opera di perturbazione. L'assegnazione delle cattedre per concorso
aggrava certamente il male dell'assunzione degli eretici dichiarati;
talché con un nuovo sbalzo della scienza mondana incombe il malaugurato
pericolo, che le conferenze della Sorbona abbiano un successo clamoroso
ed impressionante come ai tempi di Cousin e di Guizot, e i magnifici
codici della biblioteca imperiale siano esplorati non più quasi soltanto
da dotti forestieri, ma anche dai francesi. Onde, a un ordine di Roma,
sorse di botto da ogni parte del campo clericale la richiesta che anche
l'istruzione superiore fosse sottoposta alla Chiesa: in fondo, si
accarezzava la speranza di una così detta libera università cattolica,
come quella di Lovanio. Se non che, questo stato burocratico e
accentrato non si trovava, come la provincia neutrale del Belgio, in
grado di sopportare la lotta incessante di due partiti egualmente forti
sui principii della vita sociale: la sua scienza mondana non è e non può
essere realmente libera, fintanto che dura l'accentramento burocratico.
Una università cattolica a Tolosa non incontrerebbe quindi nessuna
controforza viva; e i sogni dei clericali allora potrebbero tradursi in
realtà di vita, quando lo stato e la Chiesa si sottoponessero alla
cultura. Qualora la Chiesa fosse vissuta modestamente nella missione
della cura delle anime, avrebbe potuto, in questa età del culto di
Mammona e del godimento sensuale, diventare una sorgente di salvezza per
migliaia di anime oppresse; ed in effetto, in molti dipartimenti
abbandonati essa si serbava tuttora l'unica custode dell'idealismo,
possedeva tuttora alcuni eccellenti seminar! ecclesiastici, come, per
esempio, la scuola di San Sulpizio, i quali pel loro zelo scientifico e
la rigidezza morale sapevano riaffermare la loro antica fama. Ma i loro
poteri direttivi sono scaduti nel gesuitismo, ed essi, ad onta di tutta
l'ascesi in moda, si sono secolarizzati nel senso peggiore, e combattono
a morte ogni libera moralità, ogni idea fondamentale della vita moderna.

Noi non ci annoveriamo tra quei pusillanimi che, spaventati dall'onda
che sale delle potenze ultramontane, dubitano dell'avvenire della libera
educazione umana. Sappiamo bene, che la Chiesa dell'autorità non sarà
abbattuta solamente con le armi dello spirito. Noi perciò non fondiamo
troppo solidamente sull'esperienza, che questa Chiesa non ha proprio
alcun merito nelle gesta liberatrici della civiltà moderna,
principalmente nella emancipazione delle classi umili, e che domina
sopra forze spirituali sempre incomparabilmente inferiori a quelle dello
stato e della scienza. Ma sta in fatto, che anche la potenza materiale
del protestantismo è in condizione pari con la Chiesa romana. Il mondo
moderno appartiene alla fede evangelica. Dovunque una spedizione porta
l'ascia e la carabina nella foresta vergine, in nove casi su dieci è il
protestante quello che dischiude all'incivilimento la selva. E davanti
all'avvenire maestoso che si apre in Occidente al protestantismo, si
rattarpano, Dio sia lodato! tutti i trionfi europei della vecchia
Chiesa.

In Francia stesso la vittoria del partito ispano-romano era ancora
tutt'altro che assicurata. Noi annettiamo scarso valore all'incontro che
in ampia cerchia ebbero Renan e altri liberi pensatori; giacché
siffatte voci di opposizione, che nella buona società francese non
mancarono mai, non menano affatto all'affrancamento degli spiriti. Anche
il protestantismo sul suolo francese non contrabbilancia punto in modo
sufficiente le forze ultramontane. Un protestante può solamente
considerare con sincera allegrezza, che questa gloriosa Chiesa di
martiri della fede evangelica si è negli ultimi decenni risvegliata a
nuova vita. Istituì sotto la compressione stessa della Restaurazione le
sue società bibliche, e ha da allora partecipato con vigoroso zelo a
tutte le lotte della teologia tedesca: gli sforzi crittocattolici di una
ortodossia insulsa, rappresentati con la consueta infallibilità dal
vecchio Guizot, incontrarono pochi seguaci. Non era però assicurata la
posizione legale delle comunità evangeliche: l'indegno decreto del 25
marzo 1852 sottopose le adunanze alle comminazioni del _Code pénal_, di
modo che il frequentare le chiese da parte delle donne e dei fanciulli
dipendeva puramente dall'arbitrio delle autorità. La Chiesa perseverò
bravamente, e questa potente vita religiosa evangelica adempì in Alsazia
l'ufficio di estrema difesa della lingua e dei costumi tedeschi. Solo
che, siccome il protestantismo in Francia era alimentato sostanzialmente
dalla fonte tedesca, appunto per questo poteva sempre serbarsi solamente
come una manifestazione provinciale, e appunto per questo i protestanti
alsaziani, stando al giudizio di un calvinista dichiarato come il
generale Ducrot, non erano considerati come veri francesi. La speranza
di alcuni rabbini, che riescirà col tempo di _évangéliser la France_, a
ogni uomo posato si rivela un sogno, ed è poi divenuta pienamente caduca
da quando l'Alsazia è ritornata alla patria. Ragioni politiche avevano
cagionato la reviviscenza del clero ultramontano, e congiunture
politiche altresì formarono finora i limiti del suo dominio.

Anche la popolazione credente delle campagne fu trattenuta da ricordi
politici dall'assoggettarsi internamente alla Chiesa. Il contadino
seguiva il prete, ma non aveva punto dimenticato i mali giorni delle
decime ecclesiastiche e dei pesi feudali: per poco che l'ambizione
pretesca avesse prevaricato dai confini della prudenza, poteva
riavvampare di botto l'antico odio mortale ai preti e ai gentiluomini.
Inoltre, la paura dei rossi nemici della fede era presso le classi colte
largamente compensata dalla potenza delle tradizioni rivoluzionarie.
L'orgoglio patriottico, il sentimento energico dello stato nei francesi
pensanti non ha finora comportato mai un assoggettamento dello stato
alla Chiesa. La cultura mondana del secolo si aombra davanti a ogni
avviamento religioso estremo, come davanti a ogni soluzione recisa dei
problemi religiosi. La maggioranza dei francesi non voleva che il papa
perdesse il dominio di Roma, ma tanto meno voleva che acquistasse il
dominio della Francia.

Qui, in questa mezza disposizione, in questa disposizione incerta della
nazione, nella sua inettezza a giudicare le questioni religiose sotto
aspetti religiosi, qui è da cercarsi la chiave della tentennante
politica ecclesiastica dell'impero. Napoleone III colmò di favore la
Chiesa come nessun altro monarca francese, ma dové pure riconoscere
presto i pericoli di una rotta, i cui scogli furono fin dal 1852
avvisati da lontano dall'occhio acuto di Cavour. L'imperatore sentì, che
al disopra del suo capo cresceva la dominazione ultramontana, e ammonì
soventi volte i prelati: che dal tempo di San Luigi lo stato non aveva
mai rinunziato al suo diritto di sovranità. Ma alla fine la guerra
d'Italia fece manifesto il dissidio tra gl'interessi ultramontani e i
nazionali. Si avverò di nuovo l'antica esperienza, che nei guai la
Chiesa è più formidabile che mai. I vescovi, con una arditezza che
somigliava molto all'aperta ribellione, levarono la voce pel dominio
temporale del papa; e ciò, sia al ritorno dei prelati dalla
canonizzazione dei martiri giapponesi, che, di nuovo, dopo la
convenzione di settembre. Sovvenne loro di bel nuovo, che un napoleonide
non sarebbe giammai un figlio fido della Chiesa. La corte da allora
titubò indecisa tra le sue tradizioni rivoluzionarie e le nuove tendenze
spagnoleggianti, né più né meno come il Pantheon, il quale, restituito
al culto divino, pure continuò a portare in fronte l'iscrizione mondana:
_aux grands hommes la patrie reconnaissante_.

Negli ultimi anni, mentre l'impero invecchiava, il partito spagnuolo
alla corte guadagnò la mano. Poteva Napoleone, ed egli solo in Europa,
impedire il domma dell'infallibilità; ma all'uomo ormai stanco venne
meno la forza di cimentare faccia a faccia la moglie. Mentre si teneva
il concilio vaticano, le sue truppe proteggevano Roma: la stessa
battaglia che lo rovesciò dal trono donò agl'italiani la Città eterna.
La politica ecclesiastica del nuovo bonapartismo è stata un misfatto
indelebile contro l'educazione nazionale, che pure l'imperatore
intendeva di promovere; aggiunse alla tremenda corruttela del paese
anche il vizio dell'ipocrisia e della superbia pretesca e, ciò non
ostante, non raggiunse lo scopo di fare del clero un saldo sostegno alla
Casa dei napoleonidi. Piuttosto, i gesuiti aiutarono a scavare la fossa
al trono imperiale. Essi avevano bisogno di una complicazione europea
per fare scivolare in porto il loro nuovo domma mezzo inavvertito dalle
grandi potenze; perciò le aizzarono e incalzarono alla guerra onde
Napoleone fu sfracellato. E così anche il secondo impero, come già da
tempo gli spagnuoli e i polacchi, ebbe a sperimentare, che corre
infallibilmente alla rovina ogni regno che si appoggia alla Compagnia di
Gesù.



VI.


Per l'esecuzione dei disegni prescelti di politica estera, che ognuno
attribuiva fiduciosamente al napoleonide, il nuovo sovrano disponeva di
uno strumento eccellente, che era il miglior lascito dell'eredità della
monarchia di luglio. Le vittorie africane erano per l'esercito una
scuola insieme e uno sprone alla brama di gloria. Tutta l'organizzazione
dell'esercito era preordinata alla guerra offensiva. In questi
reggimenti senza patria, raccozzati da tutte le provincie, guidati da
ufficiali scapoli, e cambianti continuamente di guarnigione, non poteva
mai spegnersi lo spirito di lanzichenecco di chi vuol battersi
unicamente per vedere quale è il più forte. In nessun altro esercito un
generale avrebbe potuto rivolgere al comandante supremo le parole, che
il maresciallo Castellane gridò all'imperatore: «Sire, l'armata si
annoia: se vogliamo batterci, bisogna essere in due: su chi dobbiamo
avventarci?». L'imperatore curava premurosamente questa colonna del suo
dominio, e, come lo zio, vedeva nell'armata, «la vera nobiltà del nostro
popolo», e nella sua storia la propria storia. Ognuno sa quanto si operò
di notevole nei primi anni dell'impero per elevare l'efficienza bellica
dell'esercito, quanto romore suscitarono sui campi di Lombardia i nuovi
cannoni rigati, quanto a lungo il campo di Mourmelon fu ammirato come
l'alta scuola della tattica, e come l'imperatore intendesse di
risollevare anche la figliastra di questa armata, la cavalleria, con
l'introduzione dei piccoli e focosi cavalli algerini. Ai reggimenti
rinforzati degli zuavi furono annesse le nuove truppe barbare dei
turcos, e le incerte idee dell'oggi sul diritto delle genti permisero
all'imperatore di adoperare questi selvaggi contro i soldati europei.
Anche la flotta, dopo sforzi enormi, eguagliò finalmente l'inglese in
numero di navi e in artiglierie, sebbene non potesse mai divenire
come in Inghilterra un'arma nazionale capace di un continuo
ringagliardimento.

L'asserzione tanto motteggiata di Napoleone III: _l'empire c'est la
paix_, non era affatto una mera bugia, ma semplicemente un'altra di
quelle mezze verità, in cui si palesava l'intima contraddizione del
bonapartismo. Tutti i provvedimenti del socialismo monarchico, della
felicitazione dispotica delle moltitudini, potevano prosperare
unicamente in tempo di pace. Il nipote non era un uomo di guerra, un
capitano: i disegni della sua politica europea non erano ispirati dalla
cruda frenesia della percossa. Eppure egli aveva bisogno della devozione
festosa dei suoi soldati, eppure l'impero doveva l'esistenza al culto
della gloria guerresca. In tutti i tempi scabrosi i giornali ufficiosi
non avevano che a sollevare la questione del Reno, per occupare le teste
irrequiete del popolo e dell'esercito: avvenne così immediatamente dopo
il colpo di stato, così dopo la battaglia di Königgrätz. Il signor
Lavallée insegnò nella scuola militare di Saint-Cyr la teoria dei
confini naturali con una goffaggine stupefacente; e il cattivo libro che
scrisse sull'argomento fu coronato dall'Accademia. Perfino il
sostenitore del rischiaramento pacifico, Duruy, nella sua introduzione
alla storia francese ribatte con passionata indignazione su
«quell'enorme lacuna nei nostri confini», che si stende da Lauterburg a
Dunkerque. Per lui la lingua tedesca in Alsazia è semplicemente un rozzo
dialetto illegittimo; e gli alsaziani devono unicamente alla personale
equanimità dell'imperatore, se la loro parlata non è sparita interamente
dalle scuole.

Le spettacolose parate militari dell'impero erano eseguite con una
teatralità vanagloriosa, con una crudezza di sentimento, che ricordava
l'antica Roma. Quando le truppe di ritorno da Sebastopoli sfilarono
davanti alla colonna Vendôme, ogni reggimento era preceduto dalle suore
di carità e dalle figure squallide dei feriti; e i soldati erano tutti
nella divisa da campo sporca e in brandelli, affinché ai cittadini
_blasés_ della capitale apparisse bene avvistata la selvaggia maestà
della guerra, la gloria di fare il soldato. Anche il vestito da
funambolo degli zuavi e dei turcos era diretto più a eccitare la
curiosità dei parigini che a incutere spavento ai nemici. L'impero fu
sollecito del sentimento dinastico nell'esercito con miglior successo
che non la monarchia di luglio. I pochi ufficiali liberali, che un tempo
si aggruppavano intorno ai generali africani, furono prestamente rimossi
o convertiti. Una guardia del corpo di 50.000 uomini, ben addestrati e
meglio pagati, portava l'uniforme dell'antica Guardia imperiale, e
viveva e sfolgorava dei ricordi napoleonici: il principe imperiale
faceva gli esercizi tra le fila dei figli della Guardia. Gli ufficiali
di merito arrivavano a una posizione splendida: la paga dei generali
richiedeva l'enorme somma annuale di 21 milioni. La croce della Legion
d'onore era conseguibile anche dai semplici soldati, e le nuove medaglie
militari premiavano i meriti più modesti. Fu istituita una medaglia
commemorativa per ogni campagna; perfino la passeggiata militare a
Pechino fu ricordata dalla medaglia col dragone.

Urgeva soprattutto di formare una razza di vecchi soldati di
professione, la cui bandiera fosse la casa e la patria. Fu fondata la
cassa di esenzione che con le alte entrate e pensioni attirava gli
usciti di ferma a continuare nel servizio come capitolanti; anche il
soldato semplice aveva la certezza di ricevere dopo venticinque anni di
servizio 500 lire all'anno, e anche più se era decorato. In tal modo si
formò rapidamente un corpo scelto di 170.000 soldati di professione. Che
il peso delle pensioni militari aumentasse in 10 anni di circa 20
milioni, non era cosa di cui si desse pensiero la finanza imperiale.
Anche la zotichezza lanzichenecca dei vecchi soldati, e il bagordare dei
_vieux grognards_ straripante in molti eccessi taciuti dalla stampa, non
scandalizzava un gran che: comunque, il sentimento napoleonico dei
pretoriani era assicurato. La guerra d'Italia scoprì per la prima volta
la rifioritura dei punti neri di un siffatto procedimento. Quanto più
gagliardamente allignava il ceppo dei soldati di mestiere, tanto meno
rendevano le leve di milizie giovani, fino a scendere a circa 23.000
uomini all'anno; e tanto più scarso era per conseguenza il numero delle
truppe di riserva istruite. Si cercò di sopperire, dando alla meglio a
una parte dei coscritti una istruzione accelerata. Capitò allora la
guerra del Messico, che impose gravi sacrifizi imprevisti: nel paese la
forza effettiva delle truppe era molto ridotta, e negletti i magazzini e
gli armamenti; e quando in mezzo a un siffatto scompiglio rimbombò l'eco
formidabile di Königgrätz e tutti gli occhi si volsero all'esercito,
allora il governo dové pure capire l'assurdità della sua politica
militare. Subito si buttò sulla via opposta, e arrischiò la proposta del
servizio generale obbligatorio.

Perché mai in un paese in cui l'eguaglianza è deificata e domina il
quarto stato, cotesta idea si abbatté in una opposizione furente? Mutare
la costituzione dell'esercito vuol dire trasformare la costituzione
dello stato. Il servizio militare generale obbligatorio è impossibile in
una società burocratica; basta la sua rigogliosa esistenza a provare
quanto siano radicati in Prussia i pubblici costumi dell'autonomia
amministrativa. Non soltanto il ricco aborriva in Francia la
prestazione personale del servizio militare allo stato; i lavoratori
altresì, i leali contadini diventarono riottosi e ribelli, quando corse
per le terre il grido: _il n'y aura plus de bons numéros!_ Nessuno
voleva rinunziare alla speranza, che la fortuna del sorteggio lo
dispensasse dal suo dovere civile. Il servizio generale obbligatorio è
inattuabile senza corpi di armata provinciali: diventa di una durezza
intollerabile, quando costringe le persone colte a servire, anche in
tempo di pace, lontano dal proprio paese, in reggimenti nomadi. Siccome
il bonapartismo aveva sempre in mano il mezzo di creare una così detta
opinione pubblica e di suscitare l'apparenza di un generale entusiasmo
guerresco, il sistema di Scharnhorst non poteva spiegare in Francia la
felice azione pacifica che ha avuto presso di noi. Lì, invece, il
servizio obbligatorio sarebbe stato uno strumento di servitù, avrebbe
assoggettato tutta la gioventù alla disciplina militare, impegnato tutte
le forze della nazione in una politica estera lunatica. Perciò, quasi
soltanto nella bellicosa Lorena i primi disegni del maresciallo Niel
furono accolti con giubilo, da per tutto con terrore.

Il superficiale dilettantismo dell'opposizione si confermò ancora una
volta nella discussione del corpo legislativo sulla legge militare. I
medesimi retori, che avevano rimproverato l'imperatore di arrendevolezza
alla Prussia, celebrarono con perorazioni grandiloque l'ideale immorale
e impossibile della pace universale, levarono al cielo il sistema
militare svizzero, pel quale in Francia il terreno di consistenza
mancava affatto, asseverarono, che solamente la libertà renda
invincibile l'esercito. Il compromesso, a cui venne alla fine il governo
con l'egoismo dei possidenti, non mutò nulla alle basi dell'antico
ordinamento militare napoleonico. Solo che fu rafforzata la leva
annuale, fu formata sulla carta una gagliarda armata di riserva, fu
migliorato l'armamento. Ma il cambio rimase, sebbene scorciato a dieci
anni, rimase la lunga ferma, rimase lo sparpagliamento dell'esercito in
reggimenti isolati, senza patria; in una parola, l'organizzazione
militare per l'aggressione. Lo spirito delle truppe, dopo come prima,
era determinato dai soldati di mestiere, di cui espresse il sentimento
il generale Changarnier nei suoi giudizi sprezzanti sulle milizie
prussiane. Dopo come prima, il coscritto francese entrava con terrore e
con sgomento nella caserma, per poi conformarsi rapidamente sotto le
bandiere all'irrequieta iattanza militare dei veterani. In questo
esercito e in questo spirito della nazione, unicamente qui si annidava
la minaccia alla pace universale tanto melodrammaticamente lamentata
dagli apostoli pacifisti francesi.

Il dispotismo, anche nelle riforme militari, si rivelò inetto ad
apprezzare degnamente le forze morali della vita dei popoli. Quando era
pretendente, Luigi Napoleone aveva scritto parole di ammirazione per
l'ordinamento militare prussiano; adesso riceveva sull'esercito
prussiano informazioni intelligenti e imparziali dal colonnello Stossel.
Ma le lettere rimasero inosservate, nemmeno lette. La camarilla militare
non voleva vedere, che ogni riservista tedesco e ogni uomo della
Landwehr aveva percorso nell'esercito permanente la scuola della
disciplina e dell'esercitazione tecnica, e che proprio in ciò consisteva
la forza incomparabile dell'esercito tedesco; nutriva unicamente l'idea
di superare il rivale con l'enorme superiorità del numero. Perciò fu
messa su la massa senza istruzione e senza valore della Guardia mobile,
e si persisté con cieca muffosità nell'illusione, che la Landwehr
prussiana non fosse buona a nulla, laddove sarebbe bastato uno sguardo
fugace sulle leggi militari della Germania settentrionale a mostrare il
contrario. Si smargiassava sulle nuove armi, chassepots e
mitragliatrici, e intanto si era legati per tira avanti di stupida
_routine_ a una tattica già vecchia decrepita, si maneggiavano le truppe
secondo un regolamento del 1791, e si mandavano fuor dei piedi gli
ammonitori con la frase baldanzosa: «il nostro esercito possiede la
tradizione della vittoria!». Il despota non poteva desiderare, che un
generale si cattivasse un partito compatto tra le sue truppe; perciò
distribuì il paese in grandi _Commandos_, a cui tra rapidi trasferimenti
erano assegnati i singoli reggimenti; e non rifletté, che un tale
sbrancamento dell'esercito nuoceva allo spirito di camerati delle
truppe, e che allo scoppio di una guerra avrebbe costretto a una nuova
formazione dell'armata e avrebbe così menomata la prontezza
dell'efficienza offensiva dello stato. Anche nell'esercito la carie
morale della vita di questo popolo divorava ogni cosa intorno a sé. Già
durante la guerra d'Italia un diplomatico inglese, acuto osservatore,
che aveva conosciuto da vicino i vincitori di Solferino, scrisse alla
sua corte: «questo esercito sarà irreparabilmente perduto, non appena
gli sarà contrapposta un'armata di salda disciplina». E da allora le
truppe si depravarono anche peggio nelle spedizioni di sacco al Messico
e in Cina. Un nepotismo spudorato, maneggiato dalle dame della corte,
allentava affatto il nodo compagnevole, del resto già sciolto, tra gli
ufficiali; la disciplina non rispettava i condottieri, i quali passavano
la più parte del tempo tra vuote millanterie, modicissimo lavoro e
lautissimo far niente.

Frattanto la Francia credeva al suo invincibile esercito, e siccome
Luigi Napoleone, per lo meno nei primi anni di regno, partecipava a
cotesta fede, è dunque innegabile, che egli per lungo tempo fece uso
moderato della potente arma offensiva, che opinava di avere sotto mano.
Dal tempo di Enrico IV egli era il primo sovrano di Francia, che si
occupasse delle questioni europee con intelligente sollecitudine pel
bene dell'intero continente, e non già coi soli preconcetti
dell'ambizione francese o dell'ambizione personale. Nei suoi anni
migliori sostituì alla politica orleanista dell'invidia rilevanti vedute
europee. Le medesime corti, che avevano salutato con gioia il colpo di
stato, dopo vista l'orientazione assunta dal trono imperiale, guardarono
con comprensibile diffidenza alla politica europea del nuovo sovrano.
Per un sovrano francese il nome imperiale non poteva mai risolversi in
una troppo innocente decorazione, come il titolo d'_imperial crown_ per
la corona della Gran Bretagna. Il nome di Napoleone III sonava come
un'evizione degli antichi confini dell'impero mondiale, a cui lo zio non
aveva formalmente rinunziato mai. In verità, il nipote fece
assicurazioni soddisfacenti; ma il sospetto delle corti continuò. Un
protocollo segreto, firmato a Londra il 2 dicembre 1852 dagli
ambasciatori delle quattro grandi potenze, ammise il principio del non
intervento, assumendo che la fondazione dell'impero fosse un puro
mutamento del regime interno della Francia. La Prussia, come la
minacciata più da vicino, essendo la sola grande potenza confinante con
la Francia, prese puramente atto dell'accaduto, con la dichiarazione
formale, che con ciò non s'intendeva né di esprimere un'opinione, né di
riconoscere le eventuali conseguenze. Lo czar Nicola rifiutò al nuovo
venuto il titolo di «caro fratello».

La faccendoneria che traspariva irrequieta nelle Tuileries, il disegno,
portato in giro per le corti, di una grande unione doganale dei popoli
latini, i maneggi odiosi che la Francia iniziò col Belgio e la Svizzera,
erano cose che non potevano scemare la diffidenza delle corone. Il
napoleonide era il nemico nato dei trattati del 1815, che, sia pure
lacerati qua e là, determinavano sempre, però, la conformazione della
carta dell'Europa di mezzo. Non poteva certo lasciare l'impero nella
posizione modesta, che gli era stata fatta fin dal Congresso di Vienna.
L'istituzione della medaglia di Sant' Elena, che fu una vera
provocazione sfacciata, dimostrava che il nipote non aveva punto
dimenticato le tradizioni militari della sua Casa. Né sulla fiducia
personale poteva contare il furbo, che aveva conquistato il trono con un
gioco di bindolerie. «Napoleone mente sempre, e quando tace congiura»,
ecco come lord Cowley fissò più tardi l'avviso allora predominante nelle
corti. In effetto, il gusto delle cabale e delle vie traverse durante
una vita avventurosa, era diventato nell'imperatore una seconda natura.
Gli piaceva di lasciarsi continuamente per lo meno due porte aperte: si
atteneva fedelmente al principio, che la politica francese non aveva mai
rinnegato da tre secoli, vale a dire all'adagio: _promettre ça n'engage
à rien_. Anche i disegni che non avevano nulla a temere dalla luce del
sole, egli curava di prepararli in profonda segretezza, come un
cospiratore, lanciandoli poi di colpo fuori delle tenebre. Due
tentazioni opposte si contendevano il napoleonide. Seguendo la prima,
avrebbe potuto presentarsi come l'erede dello zio e intraprendere contro
l'Inghilterra la guerra di vendetta, domandata mille volte da saccenti
fanfaroni. Stante la elaborazione ingegnosa del credito inglese, le cui
fila si raccoglievano tutte alla capitale, non pareva affatto
inconcepibile, che una breve dominazione di truppe straniere a Londra
avrebbe potuto scompigliare l'intero regno, e indurre a una pace
umiliante quel popolo mercantile e poco bellicoso, còlto alla
sprovvista. Oppure, seguendo la seconda tentazione, avrebbe potuto
dedicarsi ai disegni del bonapartismo rosso, alle idee pazzesche, che il
principe Napoleone fece sostenere dall'_Opinion nationale_ e che poi
egli medesimo espresse nel maggio del 1865 nel suo famigerato discorso
ad Aiaccio. Il principe venne fuori con la botta demagogica del
prigioniero di Sant'Elena: «il mio nome sarà sempre pei popoli la stella
polare del loro diritto». E pretese una tendenziosa politica di
radicalismo, che, secondo il presagio dello zio, avrebbe collocato il
sostenitore a capo dell'Europa; chiese il ripristinamento della Polonia,
la lotta contro l'Austria reazionaria, e via di seguito.

È un merito incontestabile dell'imperatore l'essersi ben di rado
lasciato traviare nella freddezza del proprio giudizio da propositi
frivoli di tal natura, e l'avere respinto continuamente l'odio e la
vendetta come «sentimenti che non si confanno più al nostro tempo». Si
rifece all'antica politica nazionale della grande età borbonica. Volle
risollevare la Francia a potenza direttiva della terraferma, e
puntellare coi popoli latini tale preponderanza. Ma bisognava
raggiungere il vecchio fine con mezzi moderni. Come Persigny e Cavour,
Napoleone III ravvisò la garanzia della civiltà europea nella salda
unione delle due potenze occidentali. In verità, questa antica idea di
Palmerston, che offendeva anche l'orgoglio tedesco, scapitava ogni
giorno un poco della sua plausibilità, sebbene non fosse ancora
interamente infondata in quegli anni, in cui l'influenza della Russia
pesava tuttora sulla nostra patria. Una volta che il nipote credeva o
dava a credere di credere, che il conquistatore del mondo aveva sparso
da per tutto «i semi di nuove nazionalità», tant'è, egli stesso sanciva
l'importanza, dominante pel nostro secolo, delle idee nazionali. Egli
previde, che i trattati di Vienna avrebbero trovato il nemico più
formidabile nel sentimento nazionale, quando si fosse ridesto, dei
popoli arbitrariamente divisi, e volle promuovere quanto fosse
necessario allo scopo. Apprezzò l'influenza dell'opinione pubblica,
riconobbe che oggi è determinata dal liberalismo, la celebrò sovente
come la sesta grande potenza che sola oggigiorno consenta successi
durevoli, e decise di non por mano a nessuna grande impresa senza
l'assistenza delle idee liberali. Queste vedute sapienti e moderne erano
il fondamento della politica estera nei primi anni dell'impero. Il
merito di cotesta politica è tanto più altamente stimabile, in quanto si
contrapponeva ad antiche tradizioni e pregiudizi dello stato e del
popolo francese. L'opinione media dei francesi era racchiusa
nell'aforismo di Thiers: _rien n'est plus déplorable que les
nationalités_; che in tedesco vuoi dire: solamente la Francia ha il
diritto di formare un forte stato nazionale.

Senza dubbio, anche nella politica europea di Napoleone apparve lo
sconciamento di questo cervello, che in tanti anni di esistenza profuga,
in eterni almanaccamenti e sognamenti, aveva affatto disimparato di
stare al sodo, e di mantenere immutato un disegno con profonda serietà
volitiva. In un'ora di sdegno, dopo la pace di Villafranca, Cavour
opinò, che Napoleone portasse nella mente molte idee politiche, ma
nessuna matura e pronta, e che per questo era corrivo a lasciare in asso
l'opera sul bel principio. Nei giorni tranquilli il grande italiano ha
espresso un giudizio più mite; ma noi che oggi abbracciamo con lo
sguardo tutta la politica del bonapartismo fino al suo suicidio,
possiamo tener buona la parola irata di Cavour. Il napoleonide sedeva
sulla carta d'Europa ruminando, limandosi continuamente il cervello se
gli convenisse spostare una frontiera al settentrione oppure al
mezzogiorno: una fucina di disegni senza mai posa: e con tutto ciò era
ben altro che una natura elastica, ma un flemmatico lento, che più
cambiava posizione e meno si trovava a posto. E finiva sempre col
soggiacere all'intima falsità del dispotismo democratico. Le idee
nazionali del secolo dovevano effettuarsi, ma solo con un sistema
ingegnoso di alleanze, solo con l'aiuto della Francia, e la nazione
felicitatrice di popoli, la nazione dirigente doveva esserne ripagata
in terre e genti. Il _révendiquer_, il ridomandare l'antico territorio
napoleonico parve altrettanto irremissibile a tale politica, come la
costituzione degli stati nazionali: solo che l'una idea escludeva
l'altra.

Il favore della fortuna iniziava l'imperatore in una êra rigogliosa, in
cui le condizioni dell'Europa erano mature alle grandi risoluzioni: ed
egli, da cervello sistematico qual era, si dava ad approfondire con
accorgimento la «questione» emergente, ed era ben in diritto di dire:
_étudier une question n'est pas la créer_. Per molto tempo aveva
trattato di politica come giornalista; sovrano, conservò l'antica
abitudine. Non un solo atto della politica neonapoleonica fu posto in
iscena senza programmi solenni, senza il buscherio delle frasi
patetiche. Verrebbe il tempo, che un uomo ben più grande avrebbe
svelato, a confusione e scorno, la meschinità di mezzi siffatti. Il
conte Bismarck ha dimostrato al mondo, che una vera politica moderna
raggiunge magnifici successi solo con l'opera di popoli emancipati,
fidanti esclusivamente in sé stessi; e dimostrò, inoltre, che la
politica più geniale e inventiva si svolge continuamente nelle forme più
semplici degli affari. Il restare a mezzo, il mancato successo di molte
intraprese dell'imperatore si spiega meramente con la situazione
contraddittoria di un uomo, che era nello stesso tempo un despota e un
erede della Rivoluzione, nello stesso tempo uno statista di idee europee
e il dominatore della nazione più vanagloriosa.

Il nuovo sovrano non potè resistere a prima giunta alla debolezza del
_parvenu_: cercò di entrare nella sfera di parentado delle corti
legittime. Come l'aspirazione gli fu respinta, conchiuse alla lesta un
matrimonio impari, e dichiarò pateticamente: «io porto con orgoglio il
glorioso titolo di risalito». Gli si sarebbe presto offerta
l'opportunità di rendere la pariglia alla più burbanzosa delle dinastie
legittime. Noi oggigiorno dobbiamo tenere come indubbio, che lo czar
Nicola non intendeva disporre del dominio turco da conquistatore, ma
aspirava al protettorato sulla intera Chiesa ortodossa o, con
l'espressione caratteristica del suo gabinetto, sul culto greco-russo.
Il che voleva dire fondare la sovranità della Russia sui rajahs,
decidere la questione orientale a favore della Russia. Anche chi non
s'inchina alle idee di Davide Urquhart, deve però oggigiorno gratamente
riconoscere con quale acume e sicurezza Napoleone III seppe penetrare,
prima dell'Inghilterra, la versuzia dei disegni russi. La corte di
Parigi in principio era ben lontana da un tracotante vezzo di guerra; e
durante la lotta l'imperatore serbò una misura, che costrinse al
riconoscimento perfino un Guizot. Nella contesa pei Luoghi Santi, egli
prima, per lusingare gli ultramontani, si fece innanzi in modo
abbastanza provocante, poi d'un tratto svoltò, subodorando, che lo stato
turco infermo avrebbe potuto a stento tollerare ancora un'altra scossa
guerresca. E quando lo czar, con l'abituale alterigia verso l'opinione
pubblica, smascherò senza ritegno le mire della sua ambizione, allora
finalmente si capì alle Tuileries, che era venuto il tempo non solo di
tenere in piedi la Turchia, ma di fiaccare la prepotenza della Russia. I
documenti pubblicati dal gabinetto di Parigi diedero per la prima volta
al mondo la coscienza della gravità della situazione. Poi, nel corso
della guerra, nella mente dell'avventuriero affaccendato sorsero idee
lungiopranti di ogni specie. Al generale piemontese Partonneaux
confessò: «la Polonia ripristinata, la Finlandia alla Svezia, la Crimea
alla Turchia, e poi una rivoluzione in Italia; ecco la soluzione più
felice!». Ma imparò a sobbarcarsi, quando il volo vittorioso delle sue
aquile andò molto a rilento.

Il momento della decisione parve molto felicemente scelto per la Russia.
Lo czar per lo spazio di una generazione aveva portato con successo la
maschera del grand'uomo, e di contro alle malferme corti occidentali si
ergeva imponente, con quella irremovibile sicurezza che in un Gustavo
Adolfo o in un Federico è un privilegio del genio, e in lui era nulla
più che un segno di terra terra di pensiero, e di limitatezza. Non vi
era principe in Europa, che non gli si fosse umiliato. Le corti tedesche
e italiane adulavano il nemico della Rivoluzione, l'Austria gli pareva
per sempre obbligata per l'assoggettamento dell'Ungheria. Le due potenze
occidentali si erano alienate per via dei discorsi senza freno degli
_chauvinistes_ e della contesa pei profughi. Nel parlamento inglese
risonò così alta e minacciosa la parola dell'odio alla Francia, che nel
marzo del 1853 millecinquecento londinesi stimarono necessario firmare
una protesta di devozione all'imperatore. La gara commerciale e
industriale in Occidente teneva siffattamente gli spiriti, che a stento
pareva ancora possibile una guerra popolare. La nazione francese andò
alla guerra in Oriente con la stessa malavoglia che un tempo gl'inglesi
nelle lotte napoleoniche: solo durante i fatti d'arme l'ambizione
militare riprese il sopravvento sull'amor di pace di un'età industriale.
In conclusione, lo czar poté sperare di ottenere nella pace il dominio
sui cristiani di Oriente. Napoleone III fu il primo a intravvedere la
debolezza della potenza russa e la nullaggine della grandezza personale
dello czar. E conchiuse l'alleanza vantaggiosa con l'Inghilterra. Feste
di fratellanza e visite a corte sigillarono il nuovo sincero accordo, e
per la prima volta nella storia la flotta inglese accolse a bordo
soldati francesi.

Le due potenze occidentali si celebrarono reciprocamente con fracassosa
millantatura come le custodi della civiltà. L'imperatore ebbe a
rilevare, che erano «anche più forti per le idee che rappresentavano,
che per la potenza dei loro vascelli e dei loro battaglioni». Drouyn de
Lhuys e Moustier col tono arrogante da maestri di scuola verso la
Germania provocarono un fiero rimbecco dal signor di Bismarck. Lo stesso
Napoleone III nel discorso del trono del 1854 si era concesso
l'impudente osservazione: «La Germania, che forse ha dato troppe prove
di sottomessa compiacenza (_déférence_) alla Russia, riacquista
l'indipendenza della sua condotta». Oggi nessun tedesco può ripensare
senza vergogna alla pacatezza con cui la stampa della Germania
esacerbata contro la Russia sopportò una tale iattanza dell'Occidente.
Anche i rimproveri astiosi, che il mondo liberale mosse allora alla
politica di neutralità della Prussia, hanno da un pezzo ceduto a un
giudizio più posato. Non conveniva alla Prussia rendere alle potenze
occidentali servigi, che in conclusione avrebbero potuto profittare
esclusivamente all'Austria; ed è a lamentare solamente il fatto, che a
Berlino non si ebbe animo destro a cavar partito dal garbuglio orientale
per la liberazione dello Schleswig-Holstein. Eppure la partigianeria
passionata del mondo liberale per le potenze occidentali veniva da un
istinto sano. Era il tempo che il partito reazionario in Prussia
magnificava il bianco czar come il secondo padre del nostro stato.
Questa autorità sovrana dell'impero semi-asiatico gravava così
oppressiva sulla vita tedesca, contraddiceva siffattamente all'essenza
della civiltà nostra, che qualunque cambiamento di rapporti tra le
potenze europee doveva sembrare un progresso.

L'imperatore ravvisò nell'antico dominio del Ponto il solo punto
vulnerabile dell'impero russo, giacché un'irruzione in Bessarabia non
era possibile senza l'aiuto dell'Austria; ma già da ora, nei giorni di
maggior potenza, mostrò, come poi sovente in appresso, una
tentennonaggine di esito imprevedibile tra le vedute proprie e le
suggestioni altrui. In principio egli voleva tagliare ogni comunicazione
tra la Crimea e la terraferma; poi ristette, e permise lo straordinario
assedio di una fortezza, che si riforniva continuamente di nuove forze
dal territorio alle spalle. Il despota ebbe la soddisfazione, che il suo
esercito desse eccellente prova, mentre nell'armata inglese si
manifestavano tutti gl'inconvenienti dell'amministrazione militare
parlamentare. Quando le truppe vittoriose rimpatriarono, egli poté bene
lodarle di avere riconquistato al proprio paese il debito posto in
Europa; e Troplong gridò giubilando, che l'Europa riconosceva
novellamente il nome della grande nazione. La Francia apparve in pace
come in guerra la potenza dirigente dell'Europa. L'imperatore, alla
maniera del primo console, trasse subito alla grande alleanza gli stati
intermedi del Mezzogiorno e del Settentrione, calcò a bella posta sul
carattere liberale della sua politica estera, e ancora nel novembre 1855
esortò l'opinione pubblica a far pressione sui gabinetti.

Certo, la soluzione della questione di Oriente annunziata dalle penne
del bonapartismo fu tutt'altro che raggiunta con la pace di Parigi.
Cacciata dalle foci del Danubio, la Russia frattanto compì
l'assoggettamento del Caucaso e l'abbracciata del Mar Nero: enormi
conquiste nell'Asia interna prepararono nuove catastrofi al Bosforo, e
appena quindici anni dopo la pace di Parigi la Russia si dichiarò
formalmente sciolta dal patto innaturale, che aveva convenuto la
neutralità delle acque del Ponto. Le stesse potenze occidentali doverono
confessare, che la pace era solamente un armistizio; e anche dopo la
pace garantirono per mezzo di un trattato con l'Austria l'indipendenza
della Turchia. Ma di garanzie, la Turchia con la guerra di Crimea ne
acquistò soltanto una: un rinsaldamento di fiducia nel suo valoroso
esercito. La riforma dello stato, che esordì sotto la protezione della
Francia, è andata in fumo. Solo i ragazzi possono ammirare l'editto di
tolleranza turco, lo Hat-Humayun, splendido cimelio della civiltà
napoleonico-ottomana. Un impero orientale non può guarire in virtù dei
concetti giuridici occidentali. Secondo il diritto pubblico dell'Islam,
il credente può bene concedere tolleranza, ma non mai l'infedele esigere
tolleranza. Se in effetto un ringiovanimento dello stato è tuttora
possibile, avverrà solamente nel caso che ogni nazione e ogni Chiesa
della penisola balcanica sia organizzata in corpo autonomo con
amministrazione propria; ma dell'intelligenza di coteste idee di
Leopoldo von Ranke e di Lamarche la nuova Turchia napoleonica è priva
affatto. Comunque, era già un fatto notevole, che fosse rotto alla fine
l'affatturamento d'indolenza, che aveva paralizzato per tanto tempo le
potenze occidentali. La Turchia fu accolta nella società degli stati
europei, la Russia ebbe ad apprendere che il continente non tollererebbe
una soluzione unilaterale della questione orientale. Frattanto furono
ripresi in senso umano i disegni egiziani dello zio, e fu condotta a
termine la grandiosa opera del canale di Suez.

Le conseguenze della guerra di Crimea furono risentite dall'Europa in
modo di gran lunga più profondo, che non dall'Oriente. Napoleone III si
valse della potenza recentemente acquistata per effettuare un'idea
preferita del suo antenato. Anche egli si sentiva protettore della
libertà del mare e delle marine minori; e si adoperò a che il Congresso
di Parigi enunciasse i principii di un diritto marittimo più umano:
umane teorie giuridiche, che certamente il bonapartismo si sarebbe col
plauso della nazione cacciate sotto i piedi, non appena avessero
attraversato l'interesse della Francia. La potenza della Francia si levò
gagliarda davanti all'astro dell'Inghilterra che impallidiva. Il
napoleonide riuscì ad estirpare interamente l'odio mortale alla perfida
Albione, che per quarant'anni aveva dominato l'anima dei francesi. Ora
si guardava al Canale con amicizia di buoni vicini, perché non si aveva
nulla più da invidiare all'Inghilterra. Lo stato isolano sonnecchiava a
tutt'agio sui guanciali della dottrina di Manchester, e se talvolta
sobbalzava spasmodicamente per rafforzare la squadra di corazzate o per
aumentare il numero dei suoi disutili reggimenti di volontari, allora il
mondo sentiva quanto fosse avvizzito l'orgoglio dell'Inghilterra.
Siccome all'alleanza con questo stato non era più da dare troppo peso,
Napoleone si volse ad avviare la buona intesa con la Russia. Al
Congresso di Parigi trattò con riguardo l'ambasciatore dello czar,
favorì le mire russe nelle provincie danubiane, porse aiuto alla
fondazione della grande Rumania, e mandò perfino una flotta a incrociare
nell'Adriatico per soccorrere, all'occorrenza, i montenegrini. La
Francia era di nuovo in grado, per la prima volta dal tempo del
Congresso di Vienna, di procedere a disegni positivi nella formazione
della novella Europa, e la guerra d'Italia comprovò, che una volontà
prudente guidava il potentissimo stato.

A chi si volta a guardarli, i grandi rivolgimenti compiuti appaiono
semplici e spiegabilissimi, e futili rispetto alle speranze del domani i
loro risultati duraturi. La gente ingiusta, che oggi rivà al potente
anno 1859 con le idee del 1871, non vuole ponderare sul serio con quanta
gratitudine i più saggi e competenti patrioti d'Italia, i Cavour e i
D'Azeglio, apprezzarono le benemerenze di Napoleone III verso la loro
patria. L'imperatore si vantava: «se vi sono uomini che non intendono i
propri tempi, io non appartengo a costoro»; ed ebbe il raro coraggio di
por mano a disegni europei, che la più parte dei suoi contemporanei e
quasi tutti i gabinetti tenevano per utopistici. All'opinione pubblica
la saldezza incrollabile del regime della sciabola austriaco pareva
tanto indubitata, quanto la incapacità politica degl'italiani. La grande
maggioranza della nazione, che amava chiamarsi _la nation initiatrice_,
era abbarbicata alle antiche idee dell'invidia politica. Non erano i
soli ultramontani quelli che temevano il risorgimento dell'Italia come
un pericolo pel papato, e che vedevano con soddisfazione, che il partito
reazionario nella Penisola, dopo la conquista di Roma, riguardava la
Francia come un saldo sostegno. Anche i rossi radicali credevano tuttora
fermamente all'antichissimo principio fondamentale della politica
italiana dei francesi: nella Penisola non è ammissibile nessuna potenza
indipendente, né straniera, né italiana. Solo di malavoglia gli alti
ceti si confecero all'idea, che la Francia sguainasse la spada pel re
delle marmotte. Perfino tra i sommi consiglieri dell'imperatore si
annoveravano molti proseliti del partito delle dame spagnuole: al tempo
del Congresso di Parigi l'ambasciatore napoletano Carini qualificò il
conte Walewski come il migliore «tra la canaglia che circonda
l'imperatore». Ma nello scambio d'idee con Cavour, Napoleone III venne
alla decisione di riprendere e sostenere con spirito energico il
principio del non intervento, che tra le deboli mani di Luigi Filippo si
era volto in una frottola: come aveva tentato di distruggere la
supremazia russa in Oriente, così ora intendeva di spezzare la
dominazione dell'Austria nel Mezzogiorno, e accordare mano libera
agl'italiani nella determinazione del proprio destino; ben inteso, sotto
la guida della Francia e dietro ampia indennizzazione.

Indaghino pure i furbi, se il carbonaro non fosse legato a un grave
giuramento; le idee direttive della politica napoleonica bisogna
spiegarle con motivi più semplici. Il condottiero di bande della Romagna
aveva affinati, non già dimenticati, gl'ideali della sua giovinezza: lo
dimostrò la sua lettera a Edgardo Ney. Gli antichi legami della sua
dinastia coi patrioti italiani erano continuati: i Pepoli erano
imparentati coi Murat, il conte Arese era stretto in amicizia col
monarca piemontese, come col francese. Il fanatico del papato liberale,
il padre Ventura, viveva alle Tuileries come confessore, Farini durante
l'esilio aveva frequentato la casa di Gerolamo. Anche più efficace
riuscì la segreta attività del triumviro romano esiliato Livio Mariani,
il quale per anni e anni non ristette mai dal ricordare all'imperatore i
sogni di gioventù. Il nipote, condotto sempre a rifarsi alle idee dello
zio, vedeva nel Piemonte l'erede naturale del napoleonico Regno
d'Italia; in questo stato doveva aver centro il riordinamento della
Penisola e anche l'influenza della Francia. A più riprese il despota si
permise d'immischiarsi con pedagogheria nella situazione interna del
piccolo ma libero stato, e per un pezzo appoggiò perfino i clericali
torinesi contro il gabinetto liberale; pure, egli non rinunziò mai a
sperare un'alleanza gallo-sarda, vagheggiata fin da dopo la battaglia di
Novara. «Sono nubi passeggere», disse confortante all'italiano Collegno
poco dopo la fondazione del trono imperiale; «verrà il giorno che i
nostri eserciti lotteranno insieme per la nobile causa dell'Italia».
Conosceva l'Italia: l'acuta osservazione e la notizia sicura delle cose
lo condussero all'opinione, che nel proclama di guerra compendiò nelle
parole: «le cose sono state spinte dall'Austria a tal segno, che o
l'Austria deve dominare fino alle Alpi Marittime, o l'Italia esser
libera fino all'Adria». Conosceva la stretta affinità dei due popoli,
sapeva che gli uomini di stato del Piemonte erano affatto imbevuti di
cultura francese, e che perfino Cesare Balbo, il patriota idealista,
soleva affermare: «io sono prima italiano e dopo francese». E previde
che le popolazioni di Francia, sempre sensibili ai moti magnanimi,
avrebbero accolto con gioia la guerra di liberazione del paese
consanguineo.

Già prima del Congresso di Parigi era andato a lui Cavour, che era il
patrocinatore del suo popolo oppresso e, insieme, era l'ideale dello
«spirito positivo», compenetrato di quel sicuro istinto del possibile,
che il pretendente aveva di continuo esaltato come il più alto dono
dell'uomo di stato. Davanti all'Europa riunita l'italiano doveva
esprimere sotto il consenso tacito dell'imperatore i lamenti d'Italia:
l'Austria, abbandonata da tutte le potenze, mieteva ora i frutti della
sua superbia e di quella politica delle cose a metà, che offendeva a
morte la Russia senza appagare le potenze occidentali. Cavour tornò in
patria con la ferma fiducia, che l'imperatore voleva la guerra; e da
allora si comportò con una arditezza provocante, che spaventò gli stessi
diplomatici dell'imperatore, che non erano addentro. Mentre negli anni
seguenti le potenze occidentali guarivano delle ferite riportate nella
guerra di Crimea, le sommosse e le cospirazioni a Genova e a Livorno, a
Napoli e in Sicilia dimostravano con quanta giustezza Cavour avesse
descritto le condizioni precarie della patria; e sopravvenne l'attentato
di Orsini come un formidabile richiamo al debito insoddisfatto.

L'imperatore si teneva sempre al suo cauto metodo delle due porte
aperte. Si abboccò con lo czar a Stoccarda e, nello stesso tempo, diede
affidamenti tranquillanti alla corte di Vienna. Mentre a Plombières
stringeva la grande congiura con Cavour, i suoi giornali di corte
parlavano con freddezza glaciale delle speranze d'Italia. Napoleone III
fu sorpreso egli stesso dell'effetto del suo amaro saluto di Capodanno
all'ambasciatore austriaco. Alcune settimane dopo fu conchiuso il
matrimonio del principe Napoleone: la sollecitudine dinastica del
risalito non si smentì neppure in quei giorni pieni di fecondi disegni.
Nel febbraio il discorso del trono annunziò «che l'interesse della
Francia si trova dovunque occorra porgere la mano a una causa di
giustizia e di civiltà». Allora stesso uscì l'opuscolo di Laguerronière
che dichiarava: «governare vuoi dire prevedere»: anche sul trono il
sistematico curava tuttora di presentare all'opinione pubblica le tesi
della lotta politica. Seguì il gioco magistrale della diplomazia
gallo-sarda, per via del quale l'avversario fu posto dalla parte del
torto e l'aggredito dipinto come aggressore. Accecata dalla superbia,
l'Austria andava barcolloni alla guerra, e i più pazzi sogni della
politica della Restaurazione ripullulavano alla corte di Vienna, quando
Napoleone III, salutato per la seconda volta dal plauso dei liberali di
occidente, intraprese la lotta e gittò sulla causa italiana la posta
della durata della sua dinastia. Questa campagna, che presentò non più
che una magnifica manovra ben riuscita, cioè la contromarcia nascosta
dell'armata francese in Lomellina, non è certo comparabile con la gloria
delle giornate di Lodi e di Arcole. Napoleone non dettò punto al nemico
la legge della guerra; ché, anzi, si appiccarono due grandi battaglie
contro l'aspettativa dell'una e dell'altra parte. A Magenta decise la
risoluta energia di Mac-Mahon, a Solferino l'inettitudine del Comando
austriaco. Ma tanto più alta fu l'importanza politica della lotta.
Furono davvero giorni gloriosi, quelli in cui Napoleone gridò agli
italiani: «siate oggi soldati, se volete essere domani cittadini liberi
e indipendenti!» e quando nell'ingresso a Milano liberata il popolo
ebbro di entusiasmo premeva sulla criniera del cavallo imperiale.
L'impresa d'Italia aprì una novella età: l'imperatore pose
inconsapevolmente la prima pietra dell'unità d'Italia e della Germania.

La pace di Villafranca dissipò l'ebbrezza della gratitudine, l'immagine
di Orsini coprì l'immagine di Napoleone. «Con la prosecuzione della
guerra io avrei osato ciò che un principe deve osare solamente per
l'indipendenza del proprio paese!»; in questo modo l'imperatore
giustificò davanti al senato francese la conclusione della pace, e il
giudizio della posterità non saprà un giorno aggiungere nulla a questa
parola recisa. La decisione della pace non mosse dall'orribile vista del
campo di battaglia di Solferino, né dal timore della malaria della
«terra ferma», né dalle pressioni del circolo imperiale pel ritorno, ma
dal contegno minaccioso della Prussia, la quale, trasportata dal cieco
furor di guerra della Germania meridionale e fatta inquieta dalla
crescente potenza della Francia, era proprio sul punto di incorrere in
un enorme errore politico. In un rapido dialogo l'imperatore con la
forza della sua superiorità personale seppe tirare a una pace
precipitosa l'avversario sconcertato. Ma quando il convegno di
Villafranca levò in alto nel mondo diplomatico la riputazione di
Napoleone III e corroborò la fama della sua scaltrezza impenetrabile,
quel giorno fu finita per la Francia la parte di condottiera.

Erano scatenate le naturali potenze della passione nazionale, diaboliche
potenze, superiori a ogni arte diplomatica. L'imperatore intendeva di
strappare l'Italia alla dominazione dell'Austria, non di fondare lo
stato unitario: al principio della guerra nemmeno la grande mente di
Cavour vedeva davanti a sé l'unità statale come un fine fisso,
indefettibile. Napoleone desiderava un saldo stato intermedio in
Toscana, da far contrappeso al Piemonte; e, ad onta delle denegazioni
sia degl'italiani che dei francesi, oggi è fuori di dubbio, che in
segreto meditava su una corona reale di Etruria pel principe rosso.
Appoggiò alquanto più apertamente le mene dei Murat a Napoli; ché da
schietto Bonaparte credeva all'incurabile miseria del sangue borbonico.
Perciò a Plombières si era accennato appena alla sfuggita alla Toscana e
a Napoli: Cavour penetrava l'occulto intendimento dell'alleato e sperava
di attraversarlo. L'imperatore era fermo nell'idea, già espressa
chiaramente nell'opuscolo di Laguerronière, di una confederazione
italiana, che fosse diretta, sotto la tutela della Francia, da un forte
regno subalpino. Ogni volta che il lupo austriaco fosse lanciato
sull'ovile italiano, il Piemonte si vedrebbe alla mercé della grazia
della Francia. Il disegno era fino, non effettuabile. Chi aveva sfrenato
le passioni nazionali, non poteva comprendere la semplice verità, che
soltanto la piena indipendenza dell'intera Penisola avrebbe avuto virtù
di appagare il sentimento del popolo. Con tutta la sua conoscenza
dell'Italia, il despota non aveva alcun sentore della forza
dell'orgoglio italiano, dell'implacabilità dell'odio alle antiche
dinastie; cresciuto tra le grette tradizioni della sua corona, il
dominatore della Francia non poteva elevarsi all'idea, che era per
sorgere sul Mediterraneo uno stato nazionale del tutto indipendente. E
gli parve serio, nell'ottobre, esortare Vittorio Emmanuele a smettere le
illusioni e a riconoscere la confederazione italiana, per la quale la
Francia si era impegnata.

Cavour non ha forse compiuto mai nulla di così importante, come in quel
mese autunnale in cui movendo la mano dalla sua tranquilla Leri stornò i
disegni federalisti della diplomazia imperiale. Ma anche Napoleone III
riprese subito il senso netto dell'uomo di stato; e comprese, che
nessuna potenza al mondo era in grado di contenere il movimento unitario
nell'Italia centrale, tanto meno egli stesso, che aveva testé sguainato
la spada pel principio del non intervento. La piega decisiva corse in
senso affatto contrario al punto di partenza del 1859. Thouvenel,
l'amico magnanimo dell'Italia, assunse il ministero degli esteri, e il
trattato di commercio con l'Inghilterra corroborò alla corte delle
Tuileries la vittoria delle idee liberali. Il 31 dicembre 1859
l'imperatore scrisse al papa la famosa lettera: «i fatti hanno una
logica inesorabile»; la rinunzia alle Legazioni fu tenuta una necessità,
e, contemporaneamente, apparve l'opuscolo _il Papa e il Congresso_. Era
questo il secondo grande servigio che Napoleone rendeva agli italiani,
e, conforme al giudizio di Cavour, altrettanto importante quanto la
battaglia di Solferino.

La lettera toccava il problema più grave della questione italiana, il
punto in cui si concatenavano insieme la politica interna e la politica
estera dell'impero. Tre anni avanti Pio IX avea tenuto a battesimo il
figlio della Francia, e il primogenito della Chiesa non aveva affatto
intenzione di guastare il buon accordo col papa. Tutte le lettere e i
proclami dell'imperatore annunziavano il proposito di conciliare la
libertà con la religione, di liberare dall'oppressione straniera il
Santo Padre, di non sacrificare né gl'italiani al papa né il papa
agl'italiani. I fatti insegnavano quanto volentieri il Vaticano soffriva
quell'oppressione straniera. La Curia riprovò la pace di Villafranca,
vantaggiosa per lei, con tutto il rodimento del fanatismo pontificio. Il
vincitore di Solferino fu accolto in patria da una tempesta
d'indignazione ultramontana, tanto che si vide costretto a dichiarare
conciliativamente al clero di Bordeaux: «verrà il tempo che tutto il
mondo parteciperà alla mia persuasione, che il potere temporale del papa
non è incompatibile con la libertà e l'indipendenza d'Italia». Onde si
accinse in un opuscolo «a studiare da sincero cattolico la questione
romana». Si può debitamente motteggiare sull'immagine idillica, che
l'imperiale _pamphlétaire_ abbozza dello Stato della Chiesa
dell'avvenire; su cotesto popolo sotto un pio Padre, paziente popolo che
vivrà unicamente alle parrocchie e alle loro grandi memorie, alla
contemplazione e alle arti, al culto e alla preghiera. Quell'opuscolo,
in verità, non era un monumento d'ipocrisia, come lo qualificò il papa
adirato: indubitabilmente annunziava l'idea direttiva della recentissima
politica imperiale, l'intendimento, cioè, di mantenere in un dominio
ristretto il potere temporale. Napoleone non poteva desiderare
l'annientamento dello Stato pontificio, se non voleva accendere in
Francia un pericoloso movimento ultramontano, né, insieme, rinunziare
all'idea dell'egemonia sui popoli latini. Giacché la Spagna, il Messico,
l'America del Sud parteggiavano unanimi pel papa re. Il consiglio dato
al papa di rinunziare alle Legazioni, era il massimo che l'imperatore
evidentemente potesse fare per l'Italia. Quello scritto rinfocolò il
movimento italiano in ristagno, compì l'unità dell'Italia centrale.

Le conseguenze dell'azione dell'uomo di stato furono bilanciate da uno
sgarrone massiccio: l'imperatore domandò la Savoia, stata già stabilita
a Plombières in corrispettivo della libertà dell'Adria, come compenso
alle annessioni dell'Italia centrale, e, inoltre, anche Nizza. A ogni
modo, tutto questo non era un furto arbitrario di territori. La potenza
del partito ultramontano infrancesato del tutto in Savoia, come pure il
rapido progresso della lingua e dei costumi francesi nel nizzardo già
italiano a metà, dimostravano che in quelle regioni non veniva ad essere
sostanzialmente offeso il principio della nazionalità. Pareva quasi
irrecusabile per un Bonaparte l'occasione di riprendere per lo meno le
frontiere del 1814. La nazione, che dal generoso entusiasmo dell'estate
del 1859 era da un pezzo ricaduta nel vecchio egoismo, pretendeva la
ricompensa dei sacrifizi della guerra. Ma in questa circostanza
l'imperatore doveva sperimentare egli stesso la verità della parola da
lui espressa un tempo a Milano quando vi apparve da trionfatore:
«oggigiorno si è più forti con l'influenza morale che con le conquiste
sterili». I suoi rapporti coi patrioti d'Italia furono irremediabilmente
spacciati da questa politica ignobile, come Cavour col suo sguardo
limpido aveva previsto da un pezzo; e nello stesso tempo Napoleone, come
Cavour aveva parimente presentito, apparve agli occhi delle grandi
potenze come il complice di tutti i futuri avanzamenti della rivoluzione
italiana. Il plebiscito nelle nuove provincie diede al mondo ancora
un'altra prova dell'orribile depravazione morale dell'impero. La goffa
falsità dell'asserzione, che la Francia abbisognasse del versante delle
Alpi per la difesa dei suoi confini, l'oltracotanza soperchiatrice, che
si palesò con l'incorporazione anche delle parti neutrali della Savoia,
il bugiardo tiro alla Confederazione elvetica, che di botto fu
perfidamente defraudata di Chablais e di Faucigny dianzi promessele
formalmente; tutti cotesti tratti dell'antica politica napoleonica di
sopraffazione misero in moto il mondo diplomatico. Il tentativo della
Prussia di formare una coalizione contro la Francia andò a vuoto
propriamente per la debolezza dell'Inghilterra, ma sulla corte imperiale
pesò di nuovo la diffidenza di tutto il mondo. Non era dunque
inconfutabile la savia osservazione fatta nell'ira da Peel e da Roebuck:
«se oggi la Francia esige Nizza per ragioni geografiche, domani per le
stesse ragioni può pretendere il Reno»?

L'onda della rivoluzione italiana aveva buttato in disparte
l'imperatore, che le aveva disserrato le chiuse; ed egli cadde affatto
nell'ombra, quando Garibaldi pigliò l'ardimentosa impresa nel
Mezzogiorno. Dai rapporti di ambasciata del napoletano De Martino noi
ora sappiamo con quanta pena e ripugnanza l'imperatore seguisse i
progressi dell'unità d'Italia. Come mai avrebbe egli potuto comprendere
un Garibaldi? il despota comprendere il condottiero delle libere
falangi, l'imperatore dei francesi il patriota di Nizza? L'inimicizia e
l'affinità del destino dei due uomini vanno tra i fenomeni più
meravigliosi di questa età opulenta di grandezze. L'uno e l'altro
avevano cominciato nello stesso tempo la loro carriera con un puerile
tentativo di sollevazione, l'uno e l'altro avevano trovato asilo di là
dall'Oceano, l'uno e l'altro toccarono quasi la stessa ora la dittatura
framezzo al turbine della rivoluzione. Ed ora per la quinta volta si
scontravano in una lotta irreconciliabile la sublime anima di fanciullo
del demagogo e la fredda mente calcolatrice del politico pratico.
L'imperatore bramava di salvare le Marche alla Santa Sede, ma
l'accecamento della Curia respinse la sua mano. Accorrere in aiuto dei
Borboni era impossibile: Napoleone III non aveva le mani legate
solamente per via dei suoi affari e delle ansie per i capitali francesi,
che egli stesso aveva attirato in Italia; sapeva, per giunta, che
gl'italiani lo stimavano legato: _et voilà ma faiblesse!_ Donde il
riguardo all'Inghilterra, che Cavour aveva cattivata interamente
all'unità italiana. Temporeggiando, tra nuovi indugi e vecchie ricadute,
lasciò finalmente che l'ineluttabile corresse per la sua china. Fintanto
che visse Cavour, Napoleone non riuscì mai ad alienarsi completamente
dalla causa italiana. Il potente intelletto sapeva sempre rabbonire il
despota; e nella primavera del 1861 si era già in procinto d'intendersi
pacificamente sull'avvenire di Roma. Proprio allora il grande statista
morì; e subito il dispetto compresso di Napoleone si manifestò
bruscamente. Il regno d'Italia fu riconosciuto dalla Francia non prima
del gennaio 1862. Non prima della lettera del 20 maggio 1862
l'imperatore principiò a riavvicinarsi alla nuova potenza: espresse la
fiducia, che il papa avrebbe accordato ai suoi sudditi le libertà
municipali, e che l'Italia avrebbe riconosciuto i confini dello Stato
della Chiesa. L'infame sottomissione del gabinetto italiano e la
catastrofe di Aspromonte condussero in fine all'accordo.

Chi teneva dietro alla stampa liberale del tempo, dal _Journal des
débats_ al _Siècle_, poteva facilmente incorrere nell'illusione, che la
nazione bramasse l'annientamento dello Stato della Chiesa. L'imperatore
era interprete migliore dell'animo del suo popolo. Laddove l'unità
d'Italia incontrava ora caldi partigiani presso le nazioni dianzi
ostili, per contro nella Francia alleata le sorgevano giorno per giorno
nuovi avversari: la maggioranza dei francesi chiedeva la continuazione
del potere temporale del papa, alcuni per gelosia verso l'Italia, altri
pei loro sentimenti clericali. Frattanto anche in Italia si principiò a
ricredersi delle esaltazioni speranzose e a comprendere l'immensa
arduità della questione romana. Una lettera di Massimo d'Azeglio
sottopose all'imperatore l'idea di sistemare in Italia la situazione per
mezzo di un trattato, secondo che già aveva tentato Cavour. I negoziati
con Menabrea a Vichy conclusero alla Convenzione di settembre, la quale
impegnava all'evacuazione di Roma e affidava agl'italiani la protezione
dello Stato pontificio. Questo accomodamento consentiva agl'italiani per
lo meno un termine, per menare a compimento nel nuovo stato l'unità
della legislazione e dell'amministrazione. Davanti a un problema storico
mondiale il sovrano di Francia non poteva apertamente star soddisfatto
né dell'asserzione dei politicastri sbrodoloni nazionalisti, che il
papato sopravvivesse a sé stesso, né del rintronante pitaffio del rosso
principe Napoleone, che l'ultima fortezza del medio evo doveva cadere.
Gli toccava di usare riguardo all'opinione del suo popolo e al
sentimento della cristianità cattolica, la quale era tuttora ben poco
preparata all'abolizione del potere temporale del papa. Tale era anche
l'opinione dei più grandi italiani. Lo stesso Cavour aveva trattato con
le Tuileries in questo senso. Certo, anche qui saltava fuori un'altra
volta e sempre più l'incurabile contraddizione intima della politica
napoleonica. Era palmare, che una nazione risorta testé a nuova vita non
poteva rinunziare per sempre alla più gloriosa delle sue città, al
focolare sacro della sua gloria antichissima. Un vero grande statista,
che comprendesse la potenza della passione nazionale, e, insieme,
volesse far ragione ai sentimenti del mondo cattolico, doveva movere
dalla persuasione, che in un prossimo avvenire il potere temporale del
papa sarebbe tramontato e Roma sarebbe toccata agl'italiani; e doveva
solamente cercare d'impedire, che Roma divenisse la capitale d'Italia.
Questo infelice disegno fantastico, che non poteva far di meglio che
danneggiare il giovine stato, fu allora combattuto vivamente da
d'Azeglio e altri leali patrioti, e forse lo avrebbe mandato a vuoto
anche una politica francese saggia e generosa. Ma Napoleone, incapace
d'intendere interamente le forze spirituali di questa rivoluzione,
sperava sul serio, che il movimento unitario si sarebbe fermo e raccolto
in venerazione davanti al potere temporale del papa. E costrinse quindi
il governo di Vittorio Emmanuele a trasferire la capitale a Firenze,
abbassandone in questo modo l'autorità agli occhi degli italiani,
laddove solamente un governo forte avrebbe potuto osservare la
Convenzione di settembre.

Il trattato era un puro espediente, giacché i due contraenti si
riserbarono la mano libera pel caso di una insurrezione dei romani;
contava però sul fatto, che durasse e che fosse rispettato. Perciò fu
accolto con collera e indignazione in alta Italia; ché questa parte
politicamente la più esperta degl'italiani sentì, che col trasferimento
della capitale lo stato rinunziava per sempre o per lungo tempo a Roma.
Solo la fantasia, poco abituata alla chiarezza, del Mezzogiorno menò
gran giubilo: immaginò, che il trattato non fosse pensato seriamente.
Quando poi il radicalismo imprese contro Roma un'immatura spedizione di
conquista e il gabinetto di Firenze venne meno al dovere del patto,
allora alla corte delle Tuileries il partito spagnuolo rialzò il capo, e
il sommo sacerdote della religione dell'amore fece fucilare in massa la
sua greggia dagli chassepots. A un tale spettacolo ribollì fieramente
ogni cuore protestante e di nuovo si persuase dell'indicibile viltà di
ogni teocrazia. Ma la colpa di quella atrocità non toccava solamente
all'imperatore. Se pel vincitore di Solferino era funesto combattere
gl'italiani, pure era impossibile all'imperatore dei francesi tollerare
in silenzio l'infrazione aperta di un trattato conchiuso con la Francia.
La ragione estrema di questa posizione insostenibile era riposta nelle
condizioni interne dell'impero: nella lega con gli ultramontani, che una
volta annodata non si poteva più sciogliere, e, altrettanto più,
nell'invidioso puntiglio di predominio del popolo francese. I francesi
salutarono la giornata di Mentana con una gioia schernitrice, che torna
a loro ignominia. L'infame giubilo: _les chassepots ont fait merveille_,
ripercoteva del resto sui tedeschi anche più che sugl'italiani. Giacché
l'odio alla Germania attutiva ormai ogni altro sentimento: la Francia
gongolava che la sua nuova arme fatata superasse il fucile ad ago dei
tedeschi.

Così la politica italiana del bonapartismo, splendidamente incominciata,
periva miserabilmente. Il liberatore della Lombardia era riguardato come
il nemico mortale degl'italiani, e questa volta ben a ragione; perché la
sua guarnigione a Roma era il cuneo di ferro che spaccava in due il
giovine regno. Napoleone desiderava sempre la liberazione di Venezia; ma
solamente l'imbastardita consorteria successa a Cavour gli prestava
l'antico ossequio. In Italia saliva in considerazione il partito di
azione, che un tempo la mano sovrana di Cavour teneva a segno; e
predicava, che la questione romana non era più a risolvere coi mezzi
morali, ma con la guerra alla Francia. I tentativi d'ingerenza di
Napoleone durante la guerra boema incontrarono un freddo rifiuto presso
la maggior parte degl'italiani: l'Italia non dalla sua mano voleva
ricevere il Quadrilatero. La Santa Sede fu da allora il suo solo
alleato; e gli rimase unicamente l'enimmatica speranza, che fosse forse
per riuscire nell'incerto futuro un papa Bonaparte, che riconciliasse la
Curia col suo tempo e col suo popolo. Il vincitore di Solferino era
adesso il protettore del papa: l'imperatore cadde, e trascinò seco il
papa re.

Nelle complicazioni d'Italia e d'Oriente Napoleone III aveva apportate
alcune idee notevoli; e così pure le imprese oltremarine di quel tempo
s'ispirano evidentemente a un pensiero serio. Non movevano puramente dal
proposito di procurare all'esercito trionfi comodi e a buon mercato, di
mostrare ancora una volta al mondo i britanni come i caudatari della
Francia, di consentire all'impero di elevare a sé stesso il panegirico
che le sue armate avevano vinto in quattro parti del mondo: ma anche di
aprire nuovi sbocchi al commercio. I porti della China si schiudevano ai
vascelli dei barbari dai capelli rossi, gli ambasciatori del Siam e del
Giappone giravano per le corti di Occidente. Davanti a tali benefici
l'Europa indulgente dimenticava volentieri, che i saccheggiatori unnici
del gran tempio dei cinesi avevano aggiunto una nuova fronda a quella
corona d'alloro, le cui foglie portavano scritti i nomi di Speyer, di
Friburgo, di Worms e di _Heidelberga deleta_. L'imperatore, a quanto
pare, era convertito all'opinione di Persigny: «la parte guerriera della
Francia in Europa è terminata»: sperava di assicurare l'avvenire della
sua Casa mercé i benefizi della pacifica espansione dei commerci.

Ma la potente età lanciò nuovi movimenti, che non ubbidivano alla
direzione del bonapartismo. Prima di tutto l'insurrezione della Polonia.
L'insinuazione saccente, se il dittatore Langievicz non stesse forse al
servizio di Napoleone III, già da un pezzo oggi è soggiaciuta al riso
meritato. «Dovrei», disse l'imperatore stesso, «riguardare la causa
della Polonia come assai popolare in Francia, se arrischiassi per sua
ragione la buona intesa con la Russia». Col fatto, questa amicizia con
l'impero degli czar, rafforzata al Congresso di Parigi, garantiva allo
stato napoleonico l'unico e solo appoggio straniero. Nondimeno, una
volta posta la questione, e ridesto il fantastico entusiasmo della
nazione per gli antichi alleati di Bonaparte, il napoleonide non poteva
esimersi da una fastidiosa ingerenza. Così gli toccò di provare una
insolente ripulsa e di assistere all'annientamento della Polonia. Cercò
di medicare lo smacco invitando il 4 novembre 1863 i principi di Europa
a congresso sulla Senna. «Due vie», esclamò, «stanno aperte: l'una con
la riconciliazione e la pace mena al progresso, l'altra mena
inevitabilmente alla guerra per la caparbietà di mantenere in vita un
passato sommerso». Noi non crediamo che il cervello di un uomo di stato
potesse sperare seriamente di levar di mezzo con una riunione
diplomatica le formidabili questioni insolute della politica europea.
Uno spettacolone, splendido riscontro al Congresso di Vienna, avrebbe
dovuto rinsaldare novellamente la riputazione scossa dell'impero, ecco
tutto. Ma solo una valutazione smodata della potenza della Francia
poteva spingere Napoleone all'illusione, che i grandi potentati
avrebbero preso parte ubbidiente alla gherminella. La ricusa dell'invito
fu un'altra diffalta del bonapartismo.

Mentre l'imperatore lanciava in tal modo superbiose parole nel vuoto,
aveva già posto mano all'impresa inesplicabile della sua vita, la
spedizione del Messico. Uno scritto dilettantesco del pretendente già
aveva trattato del grande avvenire dell'America centrale; e adesso
l'indole appiccaticcia dell'uomo si lasciò ricondurre ai sogni della
giovinezza dalle bugie dei profughi messicani e dalle suggestioni del
partito spagnuolo alla corte. Non si sarebbe potuto dimostrare in modo
più tagliente, che la Francia imperiale era uno stato incostituzionale.
Laddove in quasi tutte le sue imprese guerresche l'imperatore si era
prima assicurato l'appoggio del liberalismo, questa volta invece
l'intrapresa scaturiva dalla volontà personale del despota. La nazione
in principio tenne un contegno freddo, poi espresse unanimemente la sua
riprovazione. La stessa armata non voleva saperne di trionfi nel paese
della febbre; si è preteso perfino di aver sentito di tanto in tanto il
grido di «viva la repubblica!» tra le truppe imbarcate pel Messico.

Al dispotismo, più agevolmente che al parlamento, era dato riconoscere
ed emendare l'errore intrapreso; ma in questo mal tratto l'autocrata
mostrò un incapamento incorreggibile. Anche dopo che l'onore delle armi
francesi nel maggio del 1863 era stato ristabilito, la disperata
faccenda fu trascinata per altri sei anni fino alla rotta completa. In
Germania l'opinione pubblica, che spesso a quel tempo s'ingannava tondo
sulle faccende estere, si era collocata dal principio in faccia alla
guerra americana col giudizio manifesto: «il nostro idealismo non
crederà mai alla vitalità degli stati schiavi inciviliti». Andava
altrimenti in Francia e in Inghilterra: lì si ricordavano ancora delle
tirate della stampa inglese contro «il tiranno sanguinario Lincoln, che
non è stato mai un _gentleman_», e del grido di angoscia innalzato dal
corpo legislativo dell'impero per la caduta di Richmond. Era destino
dell'imperatore, cotesto, di partecipare questa volta all'opinione
corrente, egli proprio che tanto spesso si era elevato sul suo popolo
con la sua più libera concezione della grande politica. Il despota non
poteva apprezzare di nuovo le forze morali nell'enorme campo di lotta.
Credeva allo sfacelo dell'Unione, offendeva l'antico alleato della
Francia senza sostenere efficacemente l'avversario. Lo zio un tempo
aveva conchiuso con Monroe il trattato sulla Luigiana: alla corte del
nipote l'orgogliosa dottrina «l'America agli americani» era tenuta una
frase. Il predominio sulle nazioni latine, già mezzo giocato nelle lotte
italiane, bisognava riconquistarlo nel nuovo Mondo. Ma l'Unione anche
durante la guerra sosteneva con braccio gagliardo la dottrina di Monroe.
Si sarebbe dovuto fondare un impero ereditario con la ben nota gerarchia
dei consiglieri di stato, prefetti e sottoprefetti proprio in mezzo a
quella vita di economia peonica del tropico, per cui l'unica forma
possibile di stato è una gioconda alternazione di anarchia e di
dittatura. Sciocchezze politiche inconcepibili, e rincarate, per giunta,
dalla fondamentale immoralità dell'impresa. La tragedia raccapricciante,
principiata tra i cedri del parco imperiale di Chatapultepec e terminata
nei bastioni di Queretaro, rammemora quei giorni di Baiona, in cui lo
zio svelò la nequizia diabolica della sua perfida natura.

Così, pel ruzzo di un despota, colarono le forze preziose dell'esercito
e delle finanze. Principiò allora l'elevazione della Germania, e colpì
al cuore le idee predilette dei francesi. Il regno borbonico aveva
fondato il suo predominio esclusivamente sui frantumi della potenza
tedesca, e la preponderanza innaturale della periferia poteva continuare
esclusivamente finché durasse lo squarcio al centro del continente.
Perciò tutti i partiti, compresi Persigny e gl'intimi dell'imperatore,
erano concordi nell'avviso, che il nostro genio fosse nemico dell'unità
e che il frastagliamento, _la belle variété_, della federazione degli
stati tedeschi fosse la garanzia della pace del mondo. Il giudizio
universale seguito sulla Germania si era formato nell'ultimo trentennio
e fermato così: la Prussia rappresenta lo stato militare dispotico, gli
stati della Confederazione del Reno rappresentano la patria della
libertà tedesca. Lo sviluppo delle lotte di partito dei tempi successivi
poteva appena intenderlo lo straniero, e meno di tutti il liberale
francese; giacché questo si proponeva di limitare la eccessiva potenza
del governo, noi, al contrario, guarire la debolezza della nostra vita
pubblica per mezzo di un forte potere centrale. Di qua come di là,
sopravviveva in talune particolari nature ghiribizzose l'umore acre dei
vecchi tempi; e come a noi tedeschi toccò di udire dalla bocca di un
esteta pieno d'ingegno l'affermazione, che la Francia non possiede una
vera e propria lingua, e altre somiglianti assurdità di gusto teutonico
vetusto, così anche la Francia vantava i suoi mangialemanni, cioè i
Desbarolles e compagni. Ma tra i francesi colti continuava a predominare
un'amicizia indulgente verso la Germania; né alcuno profondeva più elogi
agrodolci alla nostra impenetrabile astuzia e alla recentemente scoperta
_prévoyance usuelle de l'Allemagne_. Nel magnifico quadro del Congresso
di Parigi di Dubufe i signori von Manteuffel e von Hatzfeldt sono
meritamente meschini e cacciati nello sfondo. Era quello il posto che,
secondo l'opinione dei francesi, competeva ai tedeschi nella grande
politica europea.

La condotta di Napoleone fin dal principio del suo dominio corrispose a
siffatte predisposizioni della nazione. Il nipote si era preparato alla
politica sia italiana che tedesca con alcune idee dello zio. Arrotondare
la Prussia tra il Settentrione e l'Oriente, non consentire a nessuno
dei due maggiori stati della Confederazione una posizione dominante,
assoggettare gli staterelli all'influenza della Francia, ridomandare
quanto più era possibile della Germania occidentale per l'impero
napoleonide: a cotesto, press'a poco, erano dirette le segrete speranze
del nipote di Napoleone. Perciò, fin da presidente, si era affannato con
vigile zelo a sventare lo sperato reame di settanta milioni di uomini
del principe di Schwarzenberg; solerzia, la quale per l'appunto
dimostrava quanto poco pizzicasse di cose tedesche: e perciò i suoi
ambasciatori in tutte le piccole corti tedesche dovevano stimolare
incessantemente la gelosia contro le due potenze direttrici della
Confederazione. La storia delle segrete relazioni tra la Prussia e la
Francia è tuttora al buio; ma dalle schiaccianti rivelazioni fatte al
mondo dalla Prussia nel luglio del 1870 è lecito ravvisare con
sicurezza, che la condotta di Napoleone verso di noi fu di gran lunga
più sleale, di gran lunga più indegna di quanto tutti non credessero al
tempo della guerra dello Schleswig-Holstein. Come lo zio, il nipote
cercò prematuramente d'intendersi con la Prussia. Non più che
un'occhiata alla carta germanica insegna, che la distribuzione
territoriale del Congresso di Vienna non poteva durare, e che
infallibilmente sarebbe stato tentato ancora una volta il fridericiano
_corriger la figure de la Prusse_; e la Francia, quindi, avrebbe forse
tratto vantaggio per sé dall'ambizione, alla quale per la sua situazione
stessa lo stato prussiano era sforzato ad uniformarsi. Ma a tali disegni
non diedero appicco la lealtà di Federico Guglielmo IV e l'indolenza del
ministero Manteuffel.

Se ci è lecito prestar fede al carteggio di quel Tommaso Duncombe, che
era sempre ai lati dell'imperatore, Napoleone già fin dal tempo delle
complicazioni del Neuenburg si destreggiò per caso mai gli venisse
fatto di ottenere di favore dai desiderii del re una striscia di
territorio renano. La Prussia resistè alla tentazione, e l'imperatore
decise la faccenda in nostro pregiudizio. Né la situazione, quando
apparve a Parigi il nuovo ambasciatore von Bismarck, divenne più
amichevole. La franchezza ardita e acutamente calcolata della grande
Prussia era ritenuta dalla sempre strascicata e succhiellata politica
napoleonica come una sventatezza studentesca; e alle Tuileries, dove non
si aveva il minimo sentore della potenza sonnecchiante della Prussia,
sorridevano dell'inflessibile orgoglio nazionale tedesco come di un
vuoto sbraciamento. Cotesto vilipendio della Prussia era partecipato
anche dagl'ingegni notabili della nazione. Io mi ricordo ancora
volentieri delle conversazioni di quegli anni con un francese di elevata
mente. Egli conosceva e amava la Germania, e c'intendevamo facilmente su
tutte le questioni della vita intellettuale tedesca; ma come il discorso
cadeva sopra «un certo grande stato dal quale voi, _mon ami_, vi
aspettate tanto», allora il _français né malin_ saltava fuori di botto
in cattive spiritosità.

Quale indignazione, dunque, quando principiò un'altra volta il movimento
dello Schleswig-Holstein! Il sentimento di pietà nutrito da quindici
anni pel vecchio alleato di Napoleone, _le pauvre petit roi de
Danemarc_, risorse a nuovo: parve una scelleraggine inaudita che la
Germania non volesse tollerare oltre la dileggiante arroganza di un
nemico imbelle. I vecchi partiti incorreggibili non seppero spiegarsi
altrimenti la riserva dell'imperatore se non con la torpidità della
vecchiaia placida o con la bizza vendicativa contro quell'Inghilterra,
che aveva rifiutato negli affari polacchi ogni seria cooperazione al
napoleonide, e adesso, con un brutale urlo di guerra, dava fondo alla
sua riputazione politica. L'andamento intricato della lotta, l'insania
dell'odio alla Prussia nello stesso campo liberale tedesco era
tutt'altro che appropriata a dar lume ai vicini prevenuti. Il ministro
prussiano, di cui l'imperatore aveva visto malvolentieri l'assunzione al
ministero degli esteri, confermò immantinente la sua maestria
diplomatica nella situazione forse la più ardua che gli fosse stata
creata. Egli si piantò saldamente sul terreno dei trattati europei, e
così costrinse l'Austria a seguirlo e le altre potenze a restarsene
inoperose, laddove, in realtà, l'intera Europa era concorde contro la
Prussia. Ma Napoleone aspettò la sua ora: previde, che i vincitori
verrebbero presto alle brusche sul prezzo della vittoria, e sperava
allora di ottenere senza gravi sacrifizi l'agognata rivendicazione.
Arrivò l'ora e si adempì la sua speranza. Scoppiò in Germania la lotta
pel dominio.

Napoleone non era esente di cordiale predilezione pel paese della sua
fanciullezza, _ma bonne vieille Allemagne_; pregiava la bravura e la
lealtà tedesca e stimava imparzialmente la nostra scienza più che la
francese. Ma del nostro talento politico opinava assai meschinamente.
Vedeva quanto fosse poca e poco efficace la passione popolare che si
nascondeva dietro le rumorose risoluzioni e dichiarazioni di nullità e
annullazioni delle nostre assemblee. Né conosceva abbastanza la
Germania, per presentire ciò che allora perfino da noi appena pochissimi
avvertivano: che, cioè, il nostro sminuzzolamento di staterelli marcito
fino alle midolle delle ossa sarebbe andato in rovina al primo urto
anche senza una vampata di passioni popolari. Il nemico del
parlamentarismo non ha, certamente, professato mai l'opinione liberale,
che per la sua contesa lotta costituzionale la Prussia fosse
incurabilmente malata. Ma un'idea chiara della reale potenza della
Prussia egli non la possedeva. La Landwehr, celebrata così sovente da
lui stesso, ora, dopo le descrizioni fattene dai suoi strateghi di
corte, gli pareva un ammasso di cattive milizie, e affatto indubitabile
la superiorità dell'Austria. Con quanto ossequio l'ambasciatore della
superba Hofburg civettava dintorno al favore della Francia! con quanta
confidenza il principe di Metternich parlava della vittoria
dell'Austria! Napoleone fantasticava, che davanti a una lotta così
impari la Prussia sarebbe stata disposta a pagare qualunque prezzo pel
soccorso della Francia. E più volte offrì a Berlino un patto di
alleanza: coi 300.000 uomini, che allora teneva a stento sotto le
bandiere, si sarebbe avventato sull'Austria, contro, però, un forte
compenso nel Belgio e nei paesi renani. Quando poi tutti cotesti immondi
tastamenti s'infransero contro il senso regale del sovrano di Prussia,
allora soltanto le Tuileries cangiarono. D'allora in poi contarono sulla
disfatta della Prussia.

Napoleone desiderava, agognava lo scoppio della guerra. Se voleva
serbare Roma al papa, era costretto a procurare almeno Venezia
all'Italia. Perciò spingeva il temporeggiante Lamarmora a conchiudere
l'alleanza guerresca con la Prussia. Ma la lega italo-prussiana doveva
servire solamente come una leva per rovesciare nella guerra la corte
prussiana, considerata sempre a Torino e a Parigi come una
traccheggiante tuttora irresoluta. Raggiunto lo scopo, la Prussia non
avrebbe più potuto tirarsi indietro, e allora l'Italia avrebbe dovuto
ritrarsi immantinente dall'alleanza. Napoleone fu a parte del segreto
quando l'Austria, poco prima che la guerra rompesse, cercò di spezzare
la lega degli avversari con l'offerta della cessione di Venezia. Solo
che egli voleva differire l'effettuazione di questo disegno a dopo
l'inizio della guerra. Perciò la corte di Torino fin da principio scese
in campo senza seria convinzione; giacché, quali si fossero gli eventi,
si era sicuri di tenere il premio della vittoria. Dopo le prime
avvisaglie in Italia, calcolava Napoleone, l'Austria avrebbe ceduto
Venezia, e così avrebbe disimpegnata la sua armata meridionale pel
conflitto con la Prussia. Rimasta la Prussia a terra, allora si sarebbe
fatta avanti la Francia, sia come salvatrice, sia per aggiustarle il
colpo di grazia, in qualunque caso con l'aspettativa di un bottino lauto
e facile. Tali erano in sostanza le speranze di Napoleone. E ciò che
stupisce di un tal disegno non è la perfidia, è la pietosa imbecillità.
Il despota era invecchiato, viziato dalla fortuna, viziato dalla
sommissione dell'Inghilterra e dell'Italia. Si pensava di padroneggiare
in lungo e in largo la rozza Prussia. Non sospettava nemmeno, che i
premi splendidi, quali egli sognava, li raggiunge solamente l'energia
alacre, la fusione di tutte quante le forze dello stato. Pensava di
mietere comodamente dove non aveva seminato.

Napoleone principiò col dare al proprio paese desideroso di pace una
prova della sua mansuetudine: convocò a Parigi una conferenza: al cui
successo era impossibile che credesse. Il giorno 11 di giugno, a guerra
già decisa, una lettera al ministro degli esteri annunzio le speranze
dell'imperatore nell'avvenire della Germania. Diceva di desiderare un
ampliamento di territorio solamente nel caso che la carta di Europa si
fosse alterata a esclusivo vantaggio di una potenza. Il napoleonide
proclamava e affermava il diritto della Francia di esaminare i disegni
della riforma federale tedesca: diritto, che il principe di Metternich
aveva accordato allo straniero per l'appunto in quei trattati di Vienna
tanto esecrati da tutti i Bonaparte e discendenti! Ma egli lascia stare
in pace il diritto, e si contenta di desiderare, per gli stati centrali,
una federazione più stretta, un'organizzazione più salda e una parte più
importante; per la Prussia, una maggiore omogeneità e potenza nel
Settentrione; per l'Austria, la conservazione della sua posizione
cospicua in Germania.

Questa lettera era una traforeria? La troppo ammaliziata e furba
sgarbatezza di annusare la bugia dietro ogni parola dei potenti, e per
l'appunto poi rispetto al terzo Napoleone, sovente è andata a vuoto.
Falsità senza scopo, facili ed usuali all'essenza diabolica dello zio,
non s'incontrano nella vita del nipote. E quale escogitabile scopo
poteva indurlo a dare pubblicità a opinioni che non nutriva, e proprio
in un momento, in cui ogni giorno che veniva rischiava di scoprirne la
futilità? L'intento di calmare il corpo legislativo sarebbe stato
manifestamente agevole raggiungerlo con espedienti meno pericolosi. No:
la lettera dell'11 giugno diceva la verità. L'autore esprimeva
seccamente di essere nemico della Prussia. Desiderava, insomma, la
triade, vale a dire la Confederazione renana in forma più moderna e la
Prussia risospinta verso Oriente. Né voleva rotta la colleganza
dell'Austria con la Germania, ma, ciò non ostante, non permesso
all'impero danubiano il dominio sugli stati centrali. Come mai il
francese non subodorava proprio nulla dell'enorme significato di una
tale contesa, che poteva aver fine solamente, o con la ributtata
dell'Austria, o con l'assoggettamento della nazione tedesca ai croati e
ai gesuiti! La Prussia poteva ampliare il suo territorio al settentrione
e all'oriente e guadagnare in «omogeneità»: notoriamente, in Francia, la
terra renana non è considerata come un elemento «omogeneo» del nostro
stato. Non era fattibile, dunque, palesare in un modo più ingenuo, che
il sovrano di Francia, il quale nella questione italiana aveva date
tante prove di pensare indipendente, nella politica tedesca, poi, non si
elevava sulle miserabili ombrosità dell'invidia orleanista e sui
pregiudizi tracotanti della media dei francesi. Quale prospetto! la
Germania castrata al Reno, gli stati centrali dominati dalla Francia e,
per soprammercato, rimbastiti in una federazione di lustra con la
Prussia e l'Austria! Come dovevano sentirsi sicuri alle Tuileries,
quando erano cordialmente affidati da orecchio a orecchio tutti cotesti
segreti del cuore! Frattanto il segreto frugacchiare e ribruscolare
della diplomazia francese, e l'ombrosa furbizia delle Tuileries avevano
incontrato la maestra nell'energia della Prussia. Il conte Bismarck
aveva saputo con le sue impareggiabili «trattative dilatorie»,
traccheggiare la corte napoleonica fino all'inizio della guerra. Il
nostro stato maggiore era a giorno delle conseguenze dell'impresa
messicana: a Berlino era noto il trasandamento dei magazzini militari
francesi. Si sapeva, che la Francia non era punto al caso, come
domandava lo squarciavento Girardin, di pronunziare davanti alla guerra
un _il faut en finir_, e che in ogni modo non poteva scendere in campo
prima di varie settimane di armamenti. Ciò bastava, giacché il gabinetto
prussiano contava su un successo rapido, travolgente; senza pensiero
sulla sicurezza del territorio renano, sarebbe intrapresa la marcia
ardita su Vienna.

Subito dopo la battaglia di Königgrätz la Francia si fece avanti con un
tentativo di mediazione a cui, di botto, in modo abbastanza
sconveniente, fu data pubblicità. Parigi andò in gongolo, quando la casa
disperata di Lorena cedé a Napoleone III i suoi dominii italiani: il
popolo francese ritornava a rappresentare la sua parte di _pacificateur
naturel de l'Europe_. Frattanto la Prussia spingeva innanzi la vittoria.
Il 13 luglio, quando la capitale nemica si presentava già come sicura
preda al nostro esercito, la Francia consegnò le sue proposte pei
preliminari della pace: l'Austria si staccava dalla Confederazione,
Venezia era abbandonata agl'italiani, la Prussia otteneva il supremo
comando militare in una federazione germanica settentrionale e il
risarcimento di una parte delle spese di guerra, oltre poi lo
Schleswig-Holstein senza i distretti nordici. Tale sarebbe stato il
premio di una fulgida vittoria, tale la retribuzione sopra quei nemici
implacabili, che meditavano di annientare «l'improvvisazione» di
Federico il Grande! Nel frattempo la Francia incitava incessantemente
alla lotta gli stati meridionali; perfino nel momento che il signor von
Varnbüler era in procinto di partire per Nikolsburg, poté comunicare
alla camera del suo paese un dispaccio aizzante della Francia. Dopo la
spedizione di Mainfeld tutte le corti meridionali, eccetto quella del
Baden, implorarono l'aiuto dell'imperatore; e questo s'interpose
calorosamente per le nazioni della Confederazione del Reno, e due volte
per la Baviera.

Alle proposte del 13 luglio la Prussia non aveva opposto un rifiuto, ma
preteso, che la pace fosse trattata esclusivamente tra le parti
belligeranti. Il 16 luglio Benedetti annunziò dal quartier generale, che
la Prussia desiderava dall'Austria l'assicurazione di «alcuni» acquisti
territoriali nel Settentrione indispensabili al complemento del suo
dominio. Dagli avvenimenti successivi è agevole arguire, che o lo stesso
inviato o certamente la corte delle Tuileries erano all'oscuro sulla
dimensione di questo ampliamento territoriale. Vedevano, comunque, salva
la Sassonia, antica federata del Reno; avevano accordato abbastanza alla
predilezione nazionale per la povera piccola Danimarca; notoriamente
speravano, che la Prussia si sarebbe contentata di una striscia di
terreno tra le sue frontiere sassoni e le westfalesi. Quando in luogo di
tali congetture seguì l'incorporazione degli stati centrali nordici,
Drouin de Lhuys spedì a Berlino un disegno di convenzione, che stipulava
la cessione di Magonza. Il prezzo della complicità, che la Prussia non
aveva voluto pagare alla Francia offerentesi di darle mano, avevano ora
la faccia di pretenderlo dal superbo vincitore, il quale doveva il
trionfo unicamente a sé stesso! La risposta fu semplicissima: l'invio
immediato dell'artiglieria pesante sul Reno. Ora finalmente Napoleone
comprese quali enormi errori aveva commessi. Era perduto, se gli
eserciti prussiani si precipitavano sul paese disarmato. Drouin de Lhuys
fu dimesso. Il 12 agosto Napoleone scrisse a Lavalette di lamentare che
quel disegno non fosse rimasto segreto, che si fossero sparse in piazza
voci esagerate di compensi «ai quali noi potremmo aver diritto»; di
essere stato informato da Benedetti del rifiuto di ogni cessione da
parte della Germania, e di volere da ora in poi aiutare con disinteresse
il riordinamento del nostro stato.

Dopo un breve indugio la logica dei fatti esercitò anche questa volta la
sua malia sul freddo senso dell'uomo di stato. Egli vide il nuovo stato
tedesco aggrandirsi orgoglioso e sicuro, e il 16 settembre fece
pubblicare la famosa circolare di Lavalette. Era ivi aperto un quadro
grandioso dell'avvenire, benefico pel mondo, se fosse durato: la Francia
riconosceva la necessità di potenti stati nazionali, che un giorno
dovrebbero far fronte ai corpi giganti della Russia e dell'Unione. Solo
che la nazione aveva sentito l'innalzamento della Germania come uno
schiaffo in piena faccia. Né si era rassicurata, quando la Lorena aveva
durante la guerra celebrato il suo giubileo, e patetici discorsi
ufficiali avevano raffrontato la felicità della redenta provincia
francese con le intricate condizioni della Germania. D'altronde anche
molte sdrucite ragioni di tranquillamento del memorabile scritto
rimasero senza effetto. Nessuno credeva, che l'antica Confederazione
germanica coi suoi pretesi 80 milioni di tedeschi era stata più potente
della novella Germania; nessuno, che proprio adesso la coalizione delle
potenze nordiche fosse andata all'aria. Era più plausibile il cenno
consolante alle nuove potenze marittime di secondo ordine sorte in
Germania e in Italia; e un grave ammaestramento alla iattanza nazionale
era riserbato nelle parole: «l'imperatore non crede che la grandezza di
un popolo dipenda dalla debolezza dei suoi vicini; il vero equilibrio
europeo egli lo vede solo nell'appagamento dei desiderii dei popoli».

Luigi Napoleone dové sentire abbastanza amaramente gli affronti fattigli
in pieno viso dalla Prussia; eppure è affatto fuor di dubbio, che dopo
la pace di Praga pensò sul serio talvolta a lasciar tranquillo lo stato
tedesco. Aveva sperato di vincere in facili cimenti un nemico mezzo
trituzzato; ed ora gli stava a fronte la nuova Germania, rigida in
catafratta. Ora una guerra contro la Prussia era una lotta per l'essere
o il non essere; e l'uomo ormai attempato non si sentiva più la forza a
un tale sbaraglio. Né erano i suoi amici quelli che più sonoramente
alzavano il grido di guerra. Sui piani di Lombardia aveva compreso, che
gli erano negate le doti del condottiero; e d'altra parte le stesse
forze fisiche difficilmente gli sarebbero bastate a un'altra campagna. E
un maresciallo francese che dal Reno fosse ritornato in patria col lauro
della vittoria, sarebbe stato per la Casa Bonaparte appena meno
pericoloso di un generale tedesco, che per la terza volta fosse entrato
a Parigi.

Se non che, si era frattanto venuta a formare nel popolo francese una
generale disposizione di animo, profonda, piena di conseguenze, che noi
tedeschi non consideravamo abbastanza nella sua schiettezza. Quella
medesima venefica passione dell'invidia, che noi così spesso abbiamo
rilevata nell'odio di classe della più antica storia francese e nel
fanatismo di eguaglianza della nuova, esercitava anche adesso e sempre
la sua azione nella politica estera dei francesi. Questo popolo aveva
sempre il bisogno di odiare comunque un altro popolo dal profondo del
cuore; e, se vogliamo prestar fede agli storici francesi, una nazione
che si consacra a cotesta passione soave, è torturata perennemente dal
rovello di un'ambizione sterminata. L'odio antico contro l'Inghilterra,
che il secondo impero aveva smorzato, si rovesciò ora con selvaggia
impetuosità celtica contro la nostra patria. Cadde come una folgore sul
mondo parigino la nuova terribile: la più fulgida vittoria del secolo
non era stata riportata dai francesi! Quella stessa Austria, che noi con
fatica e con stento appena vincemmo, ora è soggiaciuta, fiaccata al capo
dalla Prussia, in una guerra di cinque giorni! Era un tegolo sulla testa
dei parigini. Si misero allora a ricordarsi, che la Prussia era stata la
più colpevole tra i vincitori del primo Napoleone: non appena le trombe
della fanteria di Bülow squillarono dietro le siepi di Planchenois, la
giornata della Belle-Alliance fu decisa. L'antico motto «vendichiamo
Waterloo!» cedé al nuovo grido di battaglia «vendichiamo Sadowa!». Ogni
vergogna, ogni senso del diritto andò sommerso nella vertigine
universale. Un uomo rispettabile come Prévost-Paradol scrisse sul tema
«Fummo noi battuti a Sadowa?», e non notò quale ironia fosse già nel
titolo stesso del suo lavoro. Chi ha viaggiato in Francia i primi mesi
del 1867, sa con quanta veemenza si oltraggiava in ogni vettura, in ogni
caffè _l'insolence prussienne_, e che in ogni fiera si dava spettacolo
per pochi soldi del _fusil à aiguille en action_. Solamente i prodigi
del fucile ad ago potevano spiegare il prodigio della vittoria
prussiana. E come era grossolana e, insieme, puerile la gioia dei
francesi, quando l'arme prussiana appariva superata dallo chassepot!

Accanto a un tale risveglio di tutte le cattive passioni si rivelarono
vuote parole le verità pacifiche della nuova scienza storico-politica:
l'influenza del lavoro intellettuale tedesco incagliò quasi di botto.
Chi avrebbe potuto biasimare troppo rigidamente il corruccio e la
vergogna dell'orgogliosa nazione, nel vedersi oscurare dalla vittoria
dei suoi nemici antichi la sua propria gloria guerresca? Ma chi poteva
scusare per questo l'urlo senza esempio impudente e incosciente, che
tutti i partiti levavano contro la Germania e contro l'imperatore? _La
France de nouveau bismarquée!_ strillavano e querelavano, ogni volta che
la federazione nordica tedesca faceva un passo avanti. Toccava a
Napoleone sentire dai suoi intimi amici e parenti il ruvido raffaccio di
aver annichililo il _préstige_ della Francia: la lettera della regina di
Olanda rinvenuta alle Tuileries non lascia certamente null'altro a
desiderare in chiarezza di linguaggio. L'opposizione colpì con zelo la
favorevole opportunità di manifestare le sue patriottiche ambasce. Il
vecchio Thiers era inconsolabile della giornata di Königgrätz; Giulio
Favre si sciolse in lacrime di commozione pel re dei guelfi;
Prévost-Paradol dichiarò che, se l'unità germanica si effettuava, una
sola via rimaneva aperta alla Francia: perire nella lotta contro cotesta
unità! E tutti questi reazionari, che combattevano le giovani forze del
secolo con le idee chiuse di una politica di gabinetto decrepita,
tronfiavano col minaccioso frasario di libertà corrente nel paese. Non
cade dubbio, che anche nei suoi ultimi anni, e i più malfermi, Napoleone
III era sempre più saggio, più moderato dell'enorme maggioranza dei suoi
compatrioti: il suo ministro Rouher in mezzo ai retori belligeri del
corpo legislativo parve sovente il solo uomo pensante in un branco di
forsennati.

L'imperatore sentiva già vacillarsi il terreno sotto i piedi; gli
toccava di appagare comunque la gelosia irritata della nazione. Prese
opportunità dagl'imbarazzi finanziari della corte olandese per vedere di
conquistare alla Francia il Lussemburgo. La scelta non era infelice,
perché la guarnigione prussiana in cima al vecchio dirupo non poteva più
appellarsi a un titolo indubbio di diritto. Se i francesi, con
l'acquiescenza del re granduca, vi si fossero inerpicati all'improvviso,
non sarebbe stato poi facile alla Prussia oppugnare il fatto compiuto.
Ma la crescente ritrosia di azione dell'imperatore lo ritenne, lo
attenne a intavolare quelle negoziazioni diplomatiche, che poi gli
giocarono il disegno. E con quale cinismo l'affare fu trattato! Che cosa
è più stupefacente, il lordo negozio con la degenerata casa bancaria
degli stessi Orange, oppure il perfido dispaccio francese del 28
febbraio 1867, il quale innocentemente opinava, che certamente la
Prussia avrebbe trasferito più volentieri alla Francia la fortezza di
Lussemburgo, anziché all'Olanda? Non ostante la partigianeria dimostrata
dalle grandi potenze all'albagia francese, i maneggi terminarono con un
altro smacco dell'imperatore, che nemmeno questa volta si trovò l'animo
bastante alla riscossa. La Prussia rinunziò, è vero, al suo diritto di
presidio del Lussemburgo, ma Napoleone vi rimise insieme la sperata
rappresaglia di Königgrätz e la sua riputazione di uomo di stato.

Dopo sedici anni di lavoro enorme egli era approdato a questo, che,
tanto di qua, quanto di là dalle frontiere, il suo regime incontrava
un'altra volta la stessa diffidenza universale, come nei primi tempi
susseguenti al 2 dicembre. La morbosità dello stato francese aveva
procurato all'intero continente il malessere di una tensione angosciosa,
che non era degna del nostro secolo altamente incivilito. Napoleone,
come del resto il noto scritto del marchese di Gricourt riconosce
apertamente, era in sommo grado sorpreso e conturbato dalla opposizione
della Prussia. Si era lusingato di conservare, con una conquista la più
possibilmente modesta, la pace tra i due popoli vicini; e adesso anche
questo proposito andava a monte per l'orgoglio della Prussia! Anche i
francesi più miti e assennati parteciparono a cotesto avviso; come
apprendiamo dalla lettera di Renan a Davide Strauss. In senato Persigny
domandò con espressioni di somma ira, se il Lussemburgo non appartenesse
per avventura al re di Prussia. «Questo evento», conchiuse, «solleva il
velo di un futuro, dal quale non ci è lecito oltre distogliere i nostri
sguardi!».

Per conseguenza, nei circoli militari francesi la guerra fu tenuta
inevitabile. Il colonnello Stoffel compendiava la gravità della
situazione nella proposizione seguente: la Prussia vuole estendere il
suo dominio sulla Germania meridionale; la forma è indifferente; la
Francia vuole impedirlo; dunque bisogna venire alla guerra. In effetto,
la Prussia non aveva accolto subito gli stati meridionali nella
federazione nordica, per non privarli del respiro necessario al
raccoglimento e alla preparazione. All'opposto, i francesi stimavano la
linea del Meno come un confine inviolabile; la _nation wurtembergeoise_
e gli altri rampolli del ghiribizzo del primo Napoleone dovevano
serbarsi alla loro libertà. Per loro, la nazione germanica era tuttora
una chimera di tattamellanti professori, un'artificiosa trovata della
cupidigia territoriale prussiana. Al napoleonide, dopo quanto era
accaduto, erano ancora aperte due vie per appagare l'ambizione del suo
popolo. O sobillare la Prussia ad avanzare prematuramente verso il
Mezzogiorno; giacché, dato l'umore titubante e di tanto in tanto affatto
abbindolato del popolo meridionale, dato il sentimento non patriottico
delle corti di Stuttgart e di Darmstadt, non pareva affatto
inconcepibile, che la Francia, alleata con la Germania meridionale,
distruggesse la federazione nordica. Oppure Napoleone doveva ammettere,
che non era più possibile contrastare l'unificazione di tutta quanta la
Germania, e rifare il proprio stato incorporandosi il Belgio. Su cotesto
acquisto i suoi cupidi sogni avevano almanaccato indefatigabilmente.
Agli occhi di ogni francese il Belgio era nient'altro che una provincia
naturale della Francia, e la vivacità dei valloni e l'indolenza dei
fiamminghi non facevano di meglio che preparare a fondo il terreno della
conquista. Solo che il disegno sarebbe potuto riuscire di sorpresa, con
la più energica risolutezza. Se Napoleone avesse inondato il Belgio coi
suoi eserciti, e poi dichiarato: noi ci poniamo sul terreno del diritto
di nazionalità; vi riconosciamo l'unità della Germania e domandiamo per
noi questa terra francese; allora la Prussia si sarebbe trovata in una
posizione difficile, tanto più che forse non vi era da aspettarsi alcuna
opposizione da parte della pacifica Inghilterra. Se non che, una volta
manifestato precedentemente, il disegno era già bello e rotto. Come mai
si poteva sperare di conseguire il consenso della Prussia? Che cosa la
Francia aveva da offrire alla Prussia? Nient'altro che l'assentimento
all'impero germanico, che, presto o tardi, era destinato a risorgere, e
che si sarebbe potuto impedire soltanto nel caso, che la Prussia in
ignobili negoziazioni con la Francia avesse demeritato la fiducia del
popolo tedesco.

Napoleone continuava a non avvertire nulla delle forze morali del
movimento unitario germanico, nulla dei doveri che questo imponeva alla
corona di Prussia. Secondo la sua vecchia esausta maniera, scelse di
nuovo la via diplomatica, e subito dopo l'affare del Lussemburgo fece
presentare a Berlino il suo antico disegno belga. Nessun diplomatico ha
negoziato mai più frivolamente e, insieme, più acciarpatamente di quel
pietoso Benedetti, che per poco non fece raggirare la Prussia, e che dal
giorno di Olmütz non aveva mai sentito niente. Lo statista tedesco
baloccò la bramosia francese, ascoltò pacatamente tutti gl'insensati
apprezzamenti sulla Svizzera francese, sul Piemonte, pullulanti in
vicenda turbinosa, e ritenne in propria mano la prova inestimabile della
cupidigia gallica. Da allora ogni mese ci arrecò un attestato del
sentimento di amichevole vicinanza. La cabala della diplomazia francese
si sgrufolava senza tregua nelle nostre piccole corti. Seguì il convegno
di Salisburgo, di cui i tedeschi fiutarono lì per lì l'odore ostile. I
due imperatori, secondo che risulta da una lettera di Rouher rinvenuta
alle Tuileries, s'incontrarono nella risoluzione di non tollerare
l'unità della Germania: tuttavia l'impero e l'esercito d'Austria non
ispiravano alcuna fiducia ai francesi. Susseguirono le trattative per la
legione guelfa, i meticolosi tentativi di sottomettere all'influenza
della Francia le ferrovie belghe, le geremiadi frenetiche del corpo
legislativo sulla ferrovia del Gottardo, che minacciava di porre in mano
alla Prussia l'asse del commercio mondiale. Talora Napoleone sperava
novellamente di placare la nazione corrucciata, e una volta per mezzo di
carte geografiche nitidamente colorite cercò di dimostrare ai
ragazzuomini, che l'equilibrio delle grandi potenze non si era spostato
in disfavore della Francia.

Frattanto l'egemonia sui popoli latini aveva sofferto una nuova scossa
dalla rivoluzione spagnuola; e l'urlo di rabbia rintronante per tutta la
Francia contro il conte Bismarck accusato di essere il macchinatore
dell'insurrezione, provò di nuovo, che i francesi non pensavano tuttora
ad altro che alla guerra alemanna, e ciò appunto perché non erano capaci
di condurre con pacata e grave perseveranza a compimento l'opera della
loro riforma interna. Calmo e saldo lo stato germanico seguitava intanto
il suo grande cammino. Finalmente Napoleone si risolvé di conquistare il
suo Belgio contro la volontá della Prussia. La contesa per le ferrovie
belghe lo aveva indotto ormai nella persuasione, che non avrebbe potuto
acquistare un sol pollice di terreno col consenso della Prussia. Il
maresciallo Leboeuf, pieno d'indubitata fiducia, gli dimostrò la
superiorità della potenza militare francese. Il malcontento
dell'esercito, le pressioni dei vecchi bonapartisti in ansia per le loro
prebende, le esortazioni dei clericali, il caos scatenato dei partiti,
l'insostenibile assurdità della tirannide parlamentare, tutto ciò
condusse a una risoluzione disperata. Fu afferrato con brutalità
inaudita un frivolo pretesto di guerra, giacché soltanto la sorpresa
poteva menare allo scopo; e l'imperatore fu con piena verità in grado di
dire: «tutta intera la nazione col suo _élan_ irresistibile dettò la
nostra decisione». Questo popolo non era mai sceso in guerra con maggior
tripudio; da Perpignano a Parigi, da Marsiglia a Nancy un delirio di
gioia corse il paese; e la menzogna con quella. La guerra era preparata
da un pezzo, le formazioni per l'attacco predisposte in antecedenza,
pronte le nuove armi, ammassate grandi requisizioni di cavalli e
provviste di grano: le truppe anelanti di battersi e talmente prodi, che
nella prima metà della guerra i vincitori avevano sofferto maggiori
perdite dei vinti: la Francia dal 1812 non era mai stata più forte. Ma
da un momento all'altro scoppiò nell'esercito, nell'amministrazione, in
ogni branca della Vita dello stato un orrendo scompiglio, e infedeltà e
indisciplina, che facevano testimonianza non già degli errori di un
sistema, ma della generale decadenza morale del popolo. Come mai lo
stesso bonapartismo avrebbe potuto prefiggersi di assegnare sulle forze
morali? In effetto, esso anche questa volta poteva contare
sull'assistenza delle così dette idee liberali; né cadeva dubbio che il
mondo neutrale, preoccupato come era a favore di quelle, avrebbe
celebrato la vittoria della Francia come una vittoria del liberalismo.
Ma il bonapartismo non sapeva proprio niente dello spirito eroico di un
popolo in armi.

Quante e quante volte durante la lunga pace i francesi avevano cantato
strepitando e minacciando: _et du Nord au Midi la trompette guerrière a
sonné l'heure du combat?_ Fino a quando il gagliardo inno ammoscì in una
frase sdrucita. Dovevano provarlo adesso, ciò che è una guerra di
popolo. Sorse la Germania, risoluta come un solo gagliardo, unanime
dalle Alpi al Belt, e seguì esultante le aquile di Rossbach e della
Belle-Alliance. Quando la boria del più superbioso dei popoli fu
castigata con una ignominia senza esempio, il giudizio cadde allora
anche sull'eletto del popolo. Levato in alto dalle moltitudini, dal
capriccio dell'animo popolare, soggiacque per l'insensatezza delle
stesse moltitudini. La perplessità dello sdegno di Parigi lo ritenne dal
compiere quella marcia da Châlons alla capitale, che forse poteva ancora
salvarlo, e lo spinse sulla via di Sédan, giù, alla perdizione. Ed è
singolare, come nella loro ultima impresa campale rassomiglino tra loro
il primo e il terzo Napoleone, salvo che il nipote apparve infinitamente
più meschino dello zio; come ambedue prima della guerra siano stati
ancora una volta levati sugli scudi dalle moltitudini, ambedue
strapazzati di corpo e di animo, ombre ormai di sé stessi, ambedue
sull'ultimo campo di battaglia impediti dall'innata volgarità del sangue
dal cercare una nobile morte, ambedue, infine, condotti ad assaggiare la
sconfinata infedeltà del loro popolo.



VII.


Sopravvenne una nuova rivoluzione, la più miserevole insieme e la più
risibile della storia francese, a spazzare adunque gli ultimi rottami
del secondo impero: sotto i nostri occhi si è terribilmente adempiuta la
parola ammonitrice, che francesi di alto animo avevano da anni rivolta
ai propri compatrioti: la Francia non può più tollerare rivoluzioni, non
una più! La menzogna tessé sempre più fitto il suo velo intorno al capo
dello sventurato popolo, sempre più vuoto e sfrenato crebbe il fragore
della frase, sempre più lenti divennero i legami che incatenano la
bestia nell'intimo dell'uomo, e in mezzo al mostruoso scompigliamento
una sola cosa stava salda: che la Francia aveva bisogno della tirannide.
Al despota eletto Napoleone, che aveva cercato di frenare la passione
della nazione, seguì il despota Gambetta, che si elesse da sé e che
scatenò tutti gli istinti selvaggi delle anime, fino a che non la
propria forza dei francesi ma la spada germanica venne a detronizzare il
tiranno. Vedemmo appresso con raccapriccio, come i vinti si sbranassero
in una orrenda carneficina sotto gli occhi del vincitore, e come il
partito trionfante usasse del suo ufficio di carnefice con una fredda
crudeltà, appetto alla quale i misfatti del 2 dicembre parvero un
innocente trastullo. E mentre la nazione si gloriava di essersi
disimpegnata per sempre del bonapartismo, levò sul suo trono
repubblicano il gran bugiardo Thiers, il padre della leggenda
napoleonica! Prima della guerra germanica una mente politica doveva
desiderare la durata della dinastia napoleonica, e in verità non certo
pei Bonaparte, ma per la libertà. Se la Casa regnante si fosse
consolidata, sarebbe stato sempre concepibile un progresso verso forme
statali più libere. Ma ora, che era riprincipiato novellamente l'antico
sciagurato circolo corrente dall'anarchia alla tirannide, noi eravamo
delusi anche nei nostri desiderii. Governasse pure un quarto Napoleone,
un nipote di Filippo Égalité, un Gambetta o un qualsiasi altro despota
repubblicano, nessuno avrebbe steso lealmente a noi tedeschi la mano
della riconciliazione. Comunque possa chiamarsi la sua forma di
stato, è palmare che la Francia rimane il paese della polizia,
dell'amministrazione dispotica, della soldatesca degradata in servizi di
birri, dei tribunali partigiani, del protezionismo, della frase
parlamentare, dell'abbrutimento popolare, del fanatismo cattolico; in
una parola, il focolare della reazione europea. È questo, in succinto,
il costrutto di dieci rivoluzioni!

Percorriamo in ispirito la città profanata, che fu un tempo la più
ospitale della terra e che oggi nessun tedesco dignitoso può visitare
più. Sconcertati dalle impressioni contraddittorie che a ogni pie
sospinto assalgono il passeggiero, cerchiamo un rifugio tranquillo dove
ci sia dato respirare e riprendere animo sull'avvenire di questa
nazione. Noi camminiamo attraverso lo strepito dei boulevards, dove oggi
si pavoneggia l'impudenza, non più il fasto del vizio. Traversiamo la
piazza Vendôme: era qui la superba colonna, che tanto spesso contemplò
dall'alto i battaglioni pronti a partire per la guerra. Il _vive
l'empereur!_ che è qui risonato, ci richiama tristemente il saluto di
schiavi dei gladiatori morenti; ma più atrocemente ci passa il cuore
l'ululo furibondo dei giovinastri, che rovinarono il monumento della
gloria nazionale. Andiamo avanti, al giardino delle Tuileries, davanti a
quella statua di Spartaco, che suscitò un tempo l'ammirazione di Börne.
Noi non vediamo l'immagine del libero cittadino nello schiavo che spezza
le catene, come dicono le nere rovine del castello imperiale che
spuntano laggiù dietro gli alberi; né questo crudo contrasto di libertà
e di servitù esaurisce in noi il senso profondo della vita dello stato.
Tiriamo oltre, sulla piazza della Concordia: mostra ivi l'obelisco di
Luxor le sue forme puerilmente senili; monumento eloquente per un
popolo, che lì davanti deve procurare di scordarsi di sé stesso. Ma
troppo sono orride le ombre che salgono su da questo suolo, sul quale un
tempo la ghigliottina eseguiva la sua opera sanguinosa; e solo una
scultura che ricordasse il Nulla potrebbe adornare questo luogo. Noi
arriviamo in fine al palazzo Borbone, dove l'assemblea nazionale della
repubblica non si è ancora arrischiata di riporre il piede, e
c'indugiamo volentieri nel bel vestibolo, dove sono raccolti i grandi
della Francia parlamentare. È qui il generale Foy, il patriota senza
macchia, che nei tempi dileguati della giovinezza e della fidanza sapeva
movere ad entusiasmo i suoi ascoltatori con un sol motto: _la France_. È
qui Casimiro Périer, lo spregiatore altero del favore delle folle. Qui
si avanza potente dalla parete gialla il più grande dei tribuni, e col
braccio alzato scaglia la folgore del suo dire sull'assemblea
ammutolita. Era dunque un sogno di folli, il sogno che animò questi
uomini? Noi sappiamo il perché naufragarono e dovevano naufragare le
speranze di Mirabeau; ma non crediamo che egli sia vissuto invano.

Noi, i vincitori, prescelti ad eseguire sulla Francia moderna il
giudizio della storia, abbiamo innanzi tutto l'obbligo di riconoscere
ciò che la nostra opera politica deve alle azioni, alle idee, agli
errori stessi dei francesi. Soltanto che la vera forza dei popoli non
consiste già dell'inventare, ma nel formare, ritenere e perfezionare le
idee proprie del tempo. Era un francese l'uomo il cui spinto creatore
gittò la traccia più ardita e sicura del protestantismo; e francesi i
sereni eroi della fede, i quali combatterono le prime ardue lotte
dell'idea calvinistica. Eppure la sementa di Calvino, che germogliò
opulenta sul suolo straniero, appassì sul terreno patrio e si perde; e
la Francia non prese parte alcuna dei benefizi della Riforma. Si
ripeterà nella vita politica la dolorosa esperienza? Le idee del sistema
rappresentativo non sono state superate dal bonapartismo; e vale anche
per la Francia la legge storica, che spinge alle forme rappresentative
tutti i popoli del continente. La nazione ha semplicemente la scelta, o
di trasformare lo stato in modo che possa comportare una rappresentanza
popolare, oppure di appassire e irrigidirsi come la Spagna, dominatrice,
un tempo, del mondo. L'Europa non può fare a meno del genio della
Francia. Sarebbe una sventura ineffabile per la civiltà del mondo, se il
popolo di Molière e di Mirabeau avesse sperperata per sempre la sua
potenza creatrice. Noi non rinunziamo punto alla speranza, che la
meravigliosa freschezza di vita dei francesi sia un giorno per risorgere
dalla decadenza profonda, ma la presente generazione non vedrà affatto
la fine di queste contese.

FINE DEL SECONDO VOLUME E DELL'OPERA.



  INDICE DEL VOLUME SECONDO


  PARTE IV. La Repubblica e il Colpo di Stato.

  I. Sgretolamento della Società                      p.  3

  II. La Costituzione repubblicana                    »  27

  III. L'elezione presidenziale                       »  35

  IV. Le lotte parlamentari                           »  46

  V. Il Colpo di Stato                                »  64


  PARTE V. Il secondo Impero.

  I. Prospetto                                        »  79

  II. La Costituzione. Dominazione del Quarto stato   »  91

  III. L'Amministrazione                              » 130

  IV. La situazione economica                         » 141

  V. Corruttela dei costumi e Cultura                 » 177

  VI. Politica europea                                » 205

  VII. Conclusione                                    » 259



NOTA DEL TRASCRITTORE


Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo
originale):

  Napoleone ebbe poco da aggiungere alle leggi eccezionali
      [ecceziozionali]
  nobili elementi latini e germanici siano stati interamente
      [interaramente]
  la luce del giorno! La guerra dello Schleswig [Schlewig]-Holstein,
  dell'impero ereditario esclude per sé stesso la responsabilità
      [responsabilitá]
  du grand nombre_; e quando in una massima [massina] sovente
  dei _cadres de non-activité_ facilitò l'allontanamento
      [allontamento], senza
  del 24 novembre 1860, _le décret [decret] sauveur_, come
  addirittura intollerabili, da quando alla dipendenza [dipenpenza]
  per esempio, nel mantenimento [mantentimento] dei palazzi delle
      prefetture
  difesa fattane dal _Temps_ e dal _Journal des débats [debats]_,
  presuntuosamente [prosuntuosamente] rumorosa della monarchia di





*** End of this LibraryBlog Digital Book "La Francia dal primo impero al 1871 - Volume II" ***

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