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Title: Dal mio verziere
Author: Jolanda
Language: Italian
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Internet Archive.

                                JOLANDA

                            Dal mio Verziere

                     SAGGI DI POLEMICA E DI CRITICA

                             Terza Edizione


                           ROCCA S. CASCIANO
                      LICINIO CAPPELLI, _Editore_
                Libraio Editore di S. M. la Regina Madre

                                  ————

                           PROPRIETÀ PRIVATA

   Rocca S. Casciano Stabilimento Tipografico Licinio Cappelli 1910.

                                  ————



                                 INDICE


    Per un sasso in colombaia.
    Un libro che giunge a proposito.
    Impressioni di un sogno.
    Poeta o Scienziato?
    Per colpa di un Poema.
    Aspettando un Alessandro.
    Sfumature.
    Giosuè Carducci: — Cadore.
    Il conte zio.
    Questioni femminili.
    Pleiade nuova.
      I.
      II.
      III.
    Edoardo Bellamy.
    Maternità.
    Narcisi e Poeti.
    Alberto Cantoni.
    I poeti nella Prosa.
      I.
      II.
    Cipressi.
    Fiori d’arancio.
    L’ultima Primavera.
    Opere buone.
    Italia e Poesia.
    Dal mio Verziere.
      I. Antonio Fogazzaro.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      II. Gabriele D’Annunzio.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      III. Enrico Panzacchi.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      IV. Arturo Graf.
      Piccolo intermezzo in prosa
      V. Emilio Praga.
      Piccolo intermezzo in prosa
      VI. Guido Mazzoni.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      VII. Edmondo De Amicis.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      VIII. Contessa Lara.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      IX. Mario Rapisardi.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      X. Lorenzo Stecchetti.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      XI. Arrigo Boito.
      Piccolo intermezzo in prosa.
      XII. Giosuè Carducci.



                           _ad ELDA GIANELLI_


    _Dilettissima,_

_Ti ringrazio d’avere affettuosamente assentito ch’io scriva in fronte a
questa raccolta il tuo nome che è uno dei vanti gentili d’Italia. I
gracili prodotti del mio verziere presentati così sembreranno forse meno
meschini. A te, buona, qualcuno parrà anche dolce: come per me qualcuno,
avvolto già nelle lontane luci del ricordo, ha perduto il suo qualunque
valore reale per acquistarne uno fantastico, inestimabile._

_Questo libro contiene i documenti della nostra amicizia. Cominciammo,
ti ricordi? con un bisticcio. Un mio interrogativo a proposito d’un
poeta ti diede sui nervi: vi rispondesti con amabile vivacità. Io
replicai, tu rispondesti di nuovo. E così ci accanimmo per qualche tempo
intorno alla produzione intellettuale d’una persona ad entrambe affatto
sconosciuta, la quale non avrà probabilmente mai saputo di questa
cortese tenzone di dame per causa sua._

_Vennero, come messaggi di pace dall’una all’altra, libri, fotografie,
lettere. Facemmo quello che gli avversari, in arte o in politica,
dell’altro sesso non fanno: ci manifestammo con leale schiettezza la
reciproca stima che le discordi opinioni non avevano punto scemato; ci
stendemmo la mano attraverso il mare._

_Molte circostanze dolorose della mia vita, la tua costante e tenera
sollecitudine verso di me, affrettarono poi la nostra amicizia che si è
fatta sempre più intima, sempre più soave, che ancora dura, che ho fede
non dilegui mai, perchè negli elementi che la compongono v’ha
dell’immortalità._

_Oltre la carissima traccia di te, altre reminiscenze care e meste veggo
evaporare da ogni parte di questo volume che ho composto senza saperlo,
colle impressioni delle mie letture nello spazio di qualche anno, a
intervalli, in un luogo o nell’altro; sempre però fra pareti santificate
dai sogni, dalle lagrime, dal lavoro. Ad ognuno di questi miei scritti
potrei indugiare per dirti in quale posizione della stanza era la mia
scrivania quando fu composto, e che paesaggio vedevo dalla finestra,
l’ora, e le emozioni che mi agitavano, e il pensiero dominante a cui
molto spesso la mia opera non era legata che attraverso ad una più o
meno lunga catena d’idee. Ci sarebbe, te lo assicuro, la tavolozza per
un altro libro, e te ne parlerei se questa lettura fosse riservata a te.
Ma agli altri, capirai, non importerà proprio nulla di saper di più._

_Pure temo di non essere capace di nascondere che riordino commossa
queste pagine su cui l’atmosfera di giorni diversi e lontani ha lasciato
un riflesso percepibile a me sola, come un atomo di quella parte della
mia vita che si è spenta. Penso alle persone che mi erano vicino e che
hanno raccolto la primizia di questa fioritura che doveva durare più di
loro, sparite nell’infinito della morte (come voi, povero Alberto
Sormani!) o nel vuoto della lontananza in cui s’addensa il silenzio
lieve ed enorme, isolatore, più amaro, spesso, della morte. Ed io
errando in ispirito lungo le pagine del mio Verziere mi somiglio alla
Dama Pensosa d’un poeta squisito di cui è fatta menzione qua dentro, a
lei che errava nell’occaso autunnale, lungo i viali sfrondati, fra
l’ineffabile e simbolica mestizia delle foglie cadenti... Se non che io,
al limite, trovo ancora te ad aspettarmi, te che mi stendi le braccia e
mi sorridi ancora._

    Cento, Settembre 1895

                                                              _Jolanda_.



                       Per un sasso in colombaia.


                                                   _Ad Alberto Sormani_¹

   ¹ Autore d’un articolo provocante: «Contro le donne che scrivono».
     (Vita Moderna, Milano, Gennaio 1892). N. d. A.

Un caso dei più fortuiti mi mette sott’occhi un giornale che non
conoscevo e il nome di uno scrittore che ammiravo, il quale ha la
pazienza di occuparsi di noi. Di noi, ahimè.... perchè anch’io ho la
disgrazia di avviarmi con la reproba schiera verso la via della
perdizione. Io sono una donna che scrive! e che legge anche! e, quel che
è peggio, che medita su quello che ha letto, quando c’è di che meditare,
come in quell’articolo che era il vostro signor Sormani, nella _Vita
moderna_, uno scritto fiero, forte, adamantino.

Gettate il guanto con un’insolenza così bella e così nuova che
m’invoglia a raccattarlo, deplorando però, credetelo, di non
contrapporre al vostro che il mio nome, un nebuloso nome. Meritavate di
più; ma, pazienza: forse l’avversaria degna verrà.

Premetto dunque che io odio sinceramente, accanitamente i Ganimedi, i
Narcisi e tutti gli Arcadi passati, presenti e futuri; che i madrigali
non mi hanno mai fatto nè caldo nè freddo.... se mai, più freddo che
caldo; e che quindi le qualità belle e vere che esaltate nel vostro
sesso non avrebbero ammiratrice più fervente di me; ma..... bisogna
proprio essere uomini per non accorgersi della differenza immensa,
spaventosa, lagrimevole che passa fra l’archetipo-uomo perdentesi oramai
nelle brume dell’ignoto, e i suoi milioni d’esemplari sempre più
degeneri, sempre più trascurati, sempre più capricciosamente modificati.
Mi fate venire in mente, vedete, certi vecchi codici del trecento, nei
quali, a furia d’essere copiati e ricopiati sulle copie, non ci si
raccapezza più. Figuratevi: erano centinaia e centinaia di copisti
press’a poco nell’ordine di un albero genealogico, e mentre un ramo si
ricordava troppo del dialetto paesano, un altro ramo rinfronzoliva per
migliorare, finchè arrivati a un passo duro postillavano tutti: _Graecum
est, non potest legi_.

E per noi questo non sarebbe neanche il peggior male. Il peggior male è
quello di conoscer la lingua, perchè allora si è obbligati ad accorgersi
degli strafalcioni. E più vi scalmanate a descriverci l’uomo quale
dovrebbe essere, più ci disgustate dell’uomo quale è.

Come!? L’uomo è più forte, più intelligente, più ardito, più prepotente,
meno istintivo e più sensibile, — dite; e tengo a lasciarvi la piena
responsabilità di questa corona di aggettivi: poi dobbiamo assistere
tutti i giorni nelle gran scene dell’ambizione e dell’amore a
vigliaccherie incredibili, a transazioni ignominiose, a cretinerie
classiche, a pusillanimità senza scusa? Dov’è l’uomo forte delle vostre
scritture in quella pallida falange di larve maschili che certe donne
succhiano come le uova gettandone il guscio per le povere mogli future?
Dov’è l’uomo intelligente in quella moltitudine di rari ingegni,
ciascuno dei quali ha inventato una scuola o risolto un problema senza
però aver tempo nè previdenza per scioglier quello d’una vita dignitosa
e serena coltivando il cuore e lo spirito della donna sua? Dov’è l’uomo
meno istintivo e più sensibile fra quegli apostoli dell’umanitarismo che
colgono un fiore più o meno rusticano sapendo che lo getteranno quando
cadranno i pètali e resterà il frutto? — E indugiando un momento sul
capitolo dell’intelligenza, che è quello che m’interessa di più,
l’intuizione, questa qualità oramai ammessa quasi come esclusiva della
donna, il buon senso pratico, che ci si concede pure in preminenza, o
non sono manifestazioni d’un intelletto che ha uno sviluppo diverso, ma
non inferiore a quello dell’uomo? E, badate, qui bisogna ch’io citi un
gran nome anche a costo di farvi inorridire: è Spencer che lo dice. La
donna, al dire dello Spencer, non intende meno dell’uomo, ma comprende
in altro modo: l’uno studia, l’altra indovina; questi rammenta, quella
profetizza. E non è poco mi pare.

Dirò di più: quando la donna vuole (e lo vuole poco, per fortuna!) o
riesce a liberarsi dagli innumerevoli viluppi che le fanno un ginepraio
della via dell’arte dove voi potete incamminarvi tranquillamente con il
sigaro in bocca, non solo vi uguaglia, ma vi sorpassa, giacchè acquista
la vostra larghezza di mente senza perdere la sua finezza divinatrice
che voi ottenete sempre poco e a stento, e artificiosamente. Vorrei che
fosse possibile dare ad un giovinetto e ad una fanciulla un’educazione
ed un’istruzione identica con la medesima libertà di vita, e vi assicuro
che a vent’anni la giovinetta si sarebbe lasciato indietro il suo
coetaneo. La donna ha dalla sua, per riuscire, una pazienza, una
astuzia, una tenacità, un raccoglimento, un’elasticità di fibra che voi
non avete. Per questo anche s’invecchia prima. La nostra vita è più
intensa e più completa, come quella degli abitanti del mezzogiorno, che
pagano con un precoce sfiorire il precoce rigoglio d’ogni loro facoltà.
Voi avete cento modi di spendere le forze che la donna serba
tranquillamente per il trionfo de’ suoi ideali. In voi la materia bruta
prevale, e raramente siete capaci di vincere una sola delle rudi
battaglie che la donna doma in silenzio, sorridendo. I vostri affetti,
se sono veri, arrivano fino al Dio Termine del campo sconfinato
dell’egoismo; se lo sorpassano, sono sensazioni, non più sentimenti. Non
avete neanche di spontaneo il sentimento della paternità, che in voi non
è che un’abitudine.

Passiamo al capitolo della bellezza. Voi uomini non fate che invocarla,
in prosa e in versi, nella vita e nel sogno. Non sarebbe questa, per
avventura, una divina nostalgia della natura che tenta completarsi, come
in noi è quella della forza, accennata così argutamente da voi? Che
volete! risalendo al prototipo della specie, non mi riesce proprio di
immaginare, fra la novella frescura d’un mondo appena schiuso, Adamo più
bello di Eva. Avrò torto, forse, e lascio al Mantegazza e a voi la
difficile soluzione di questo problema d’estetica. Del resto, la
maternità e la moda deformano presto la donna, le passioni la solcano,
la fatica l’avvizzisce. Ma trovo pure qui, nel vostro paragone
animalesco, una ragione che avvalora le mie precedenti: se il maschio è
il più bello in tutta la creazione, la femmina è la più intelligente ed
emerge nella scala dei bruti, là dove esiste la parità dell’educazione.

Io adoro il Fogazzaro perchè è idealista e perchè la sua arte ha
sfumature delicatissime d’ombra. Quel posto «alto e glorioso» ch’egli e
voi ci offrite, noi lo occuperemmo con gioia credetelo, e la nostalgia
che ne sentiamo non è meno forte dell’altra, tanto che un’infinità di
donne si ostina e si logora per conquistarlo, accorgendosi sempre troppo
tardi del miraggio. Se nella vita ci fossero dei Daniele Cortis, ci
sarebbero anche delle Elene, ve lo assicuro. Ma dove sono, ditelo,
queste creature privilegiate, ben degne di assorbire tutti i tesori di
abnegazione profonda e di affetto intelligente, di cui può disporre
un’eletta natura muliebre? Credete voi, per esempio, che i fanatici
indiani si lascierebbero pestare così allegramente, se l’elefante che li
calpesta non fosse un dio?

L’arte (ci siamo!) l’arte può affinare, corrompere, e non sempre elevare
l’anima. Ma, badiamo, è una legge uguale e severa per tutti. Una donna
non eleva il suo livello morale scrivendo un bozzetto o un romanzo, come
l’uomo non lo eleva pubblicando una dozzina di Elzeviri. Perchè
scriviamo? E voi, perchè scrivete? Per migliorarvi? no. Per dire delle
cose grandi? ma allora perchè ne dite tante delle futili? Per insegnare?
Ebbene anche noi! e la letteratura dei bambini non è mai stata così
bella e così buona come ora che è quasi tutta nelle nostre mani.

Una donna che scrive, in questo anno di grazia 1892 non è più lo
spauracchio di nessuno. Oramai si è scoperto che la donna che scrive sa
anche lavorare, mentre le donne che lavorano solamente, non sanno
scrivere. Ma qui l’argomento si fa vasto come un mare. Voi ci volete a
vostra immagine e somiglianza, avete la bontà di occuparvi del nostro
miglioramento intellettuale e sociale, vi degnate di farci muovere con
più o meno garbo nei vostri romanzi in cui si trovano persino donne
ideali che conversano in latino.... (vedi _Val di Olivi_ del Barrili)
poi se una di noi, poveretta, un bel giorno trovandosi con tre idee in
testa preferisce sedersi alla scrivania e metterle giù nella pace onesta
della sua casa invece di oziare passeggiando o di far della maldicenza
nei _five o’clock thea_, le gridate la croce addosso e la mandate a far
la calza che qualche ora innanzi le toglieste di mano per farla
assistere ad una conferenza dedicata a lei magari sull’origine dei
Comuni e delle Monarchie.... Che... originali siete voi!

La penna è galeotta, dite. E la musica no? Eppure nessuno pensa a
rimproverar la musica alle signore. Credete voi che se Francesca non
avesse saputo leggere, Paolo non l’avrebbe baciata sulla bocca tutto
tremante? O che si sarebbero salvati entrambi dalle ire di Lanciotto se
invece di leggere avessero per esempio suonato il mandolino? — Anzi,
guardate, io credo che la letteratura sia per la donna la meno
pericolosa di tutte le arti. La fantasia vi si sbizzarisce e si appaga;
la mente è obbligata a letture serie che la ritemprano, a un lavorio
d’indagine che ne acuisce il senso intuitivo a giovamento
dell’educazione dei figli e della pace domestica.

Ricercando le cause ascose nelle pagine di psicologia, ella si rende
ragione di molte sensazioni che le apparivano ingrandite dalla nebbia
del mistero, mette a posto molte fantasticherie umiliandole, trionfa di
molte debolezze: qualchevolta, guardate, si salva perchè non hanno più
effetto su di lei, che ha rimestato nel crogiuolo, gli artifizi della
seduzione.

Pensate un po’ ai giovani e alle ragazze che vanno insieme
all’Università e ditemi se è frequente il caso di un amoreggiamento, di
uno scandalo, se piuttosto la dolce fatica intellettuale durata in
comune non crea fra i due sessi una fratellanza, la sola destinata a
degenerare in amicizia vera. Molti esempi così d’un affetto
disinteressato, profondo, potrei citarvi fra uomini e donne che
scrivono, in tutti i secoli.

L’arte è un conforto, voi lo sapete da tanto tempo, or bene non lo
negate a noi questo conforto, questa tormentosa gioia. Vi sono tante
donne, non belle, non più giovani, a cui fu negato, non solo l’amore, ma
anche la dolcezza della famiglia e della maternità, poichè le loro
qualità erano tutte intime e umili e voi uomini non vi curaste di
rilevarle: — dunque se queste zitellone, invece d’inacidire rodendo sè e
gli altri, invece d’immalinconire a far le cenerentole o le monachine,
diventassero Vestali del bello e cercassero di colmare il vuoto delle
loro esistenze vivendo una vita ideale fuori del tempo; se tentassero di
sopire le loro tristezze suggendo l’oblio dalla divina fonte incantata —
in nome di chi vi arroghereste il diritto di condannarle? di dar loro
l’ostracismo? perchè sono donne che scrivono?..... Ma scrivano, in nome
di Dio! Della carta e dell’inchiostro ce n’è per tutti; e se non faranno
capolavori, se non ne verrà che un libro atto a raddolcire le veglie di
un malato o le angoscie d’una reclusione, non avranno fatto un’opera
inutile. Via, è meglio che scrivano le donne che gli studenti di Liceo!

Vorrei proprio sapere se è solamente la penna che vi ispira orrore fra
le bianche dita femminili, o se la vostra contrarietà si estende a tutte
le arti coltivate da loro. Poichè ve ne sono che stonano di più. La
pittura per esempio: una donna che va alla scuola del nudo... che ve ne
pare? E le scultrici che si impiastricciano le mani delicate? E le
violiniste? E le donne che suonano il flauto.... Che ribrezzo, non è
vero? E la drammatica? Credete voi che una scena d’amore in azione non
sia più dannosa alla nostra natura che una scena d’amore scritta? Bando
all’arte dunque per noi, e tutte a farsi monache. O santo cielo...! ma
che avesse ragione Gemma Ferruggia, quando vi diceva placidamente....
codino?

Io non lo credo, però. Non lo suppongo nemmeno. Siete troppo
intelligente, troppo fervido, troppo ardito. Un codino autentico ci
avrebbe detto forse le cose che ci avete detto voi, ma ce le avrebbe
dette male, mentre voi ce le regalate elegantemente. Poi mi fate degli
scarti! Altro che codinismo!

Gemma Ferruggia vi osserva dolcemente, sapientemente, che la donna
ricorre all’arte per salvarsi dalla passione. Voi le rispondete che
parla come S. Paolo e come Tolstoî; voi le dite che non trovate
perniciosa la passione, l’amore, nella vita d’una donna, anzi che per
voi è l’ideale della vita femminile, e che ce l’avete con l’opera
artistica perchè sottrae all’opera naturale degli affetti. A me pare che
parliate, voi, un poco come.... un Mussulmano. Amore libero? Quand même?
ma e tutta la vostra morale?

Anch’io conosco delle donne oneste che non scrivono, ma ne conosco
ancora più di quelle altre che... non hanno tempo di scrivere. E posso
anche assicurarvi che i Don Giovanni preferiscono cercarle nei salotti,
anzichè nelle biblioteche. Volete che vi confidi qual’è il vero Galeotto
nella vita d’una donna? _È l’ozio dello spirito_. Una donna che non sa
cosa pensare, pensa a far dei malestri, come i bambini. L’arte corrompe,
vi ho detto; ma ora vi dico che l’ozio corrompe ancora di più.

In quanto al pudore femminile, a cui fate appello a proposito della
stampa, via c’è un po’ di sensibilità morbosa in tutto questo. Il pudore
del pensiero! dell’osservazione! nei lavori d’indole (come avete notato)
esclusivamente idealista di cui si compone la produzione letteraria
femminile! Quanto credete che ci perda il pudore in una pagina, per
esempio, di critica letteraria? Io preferisco di leggere in un giornale
un sonetto della mia sorellina che canta agli astri il suo amore,
piuttosto che di vederle certi libri sul tavolino. Il pudore ci
patirebbe di più. E se proprio volete esserne i custodi gelosi, se
proprio desiderate che la donna non perda un atomo del suo profumo di
mammola, ebbene, allora perchè non cominciate a bandire una crociata
contro le scollature?

Ah uomini, uomini! Vi piacciono i veli e il pudore delle turche, a
voi!...

E vi confesso un orribile sospetto: mi pare d’aver capito che
l’ammirazione di cui ci onorate scema in ragione dell’aumento del nostro
peso cerebrale. Come sarà?

Ma io sono alla fine, e mi accorgo di avervi detto, più meno
garbatamente, un sacco di vituperi. Per fortuna che siete un uomo
giovane e forte e che posso risparmiarmi di dirvi _pardon_, anche se vi
ho camminato un poco sui piedi. Che volete? Il vostro articolo mi ha
messo addosso cento diavolini, e vi assicuro che se non fossi una donna
che scrive, avrei cominciato oggi a scrivere per aver il piacere di
potervi rispondere. Io non sono una virago, tutt’altro; ma sono una
donnina che ha più coraggio di quello che pare. Poi mi chiamo Jolanda, e
gli scacchi matti non mi spaventano troppo. Anzi, qualche volta, me li
lascio dare apposta.



                    Un libro che giunge a proposito.


                         [E. Zola: La Débacle.]

È un romanzo. Un volume tutto pieno di sangue e di fuoco, lanciato come
un fulmine da un piccolo Giove fra la pensosa trepidazione della lunga
vigilia di un migliore avvenire. È un libro sulla guerra scritto da
Emilio Zola, il solo fra gli scrittori moderni, credo, che potesse
adoperare l’ardente materia senza sminuirla, senza accrescerla di
qualche elemento soggettivo, senza scottarsi le dita. La gente che legge
non avrebbe più il diritto di lagnarsi per un anno almeno, poichè un
lavoro così poderoso, così imparziale, d’un interesse così unanime basta
a determinare il valore artistico d’un periodo non breve di tempo.

Quaranta o cinquanta anni fa, prescindendo dalle condizioni sociali e
politiche d’Italia, un libro simile avrebbe menato chiasso; chi sa per
quanti mesi si sarebbe commentato e discusso, ci sarebbero stati
partigiani bollenti e avversarii ostinati; ma quell’ingenuo tempo è
passato: ora nel mondo intellettuale si sbriciola con un feroce sorriso
o, se l’opera s’impone, ci si abitua subito alla sua superiorità.
L’ammirazione muore, ahimè, l’ammirazione che ingentiliva e metteva le
ali alle giovinezze. Nulla colpisce più.

Pure la _Débacle_ deve scuotere; è impossibile che non scuota. Mentre si
parla della necessità del disarmo ed echeggiano ancora le voci che nei
congressi domandano la pace, mentre ancora per l’aria vola come un
fragrante fior di gelsomino un volumetto scritto per la buona causa da
un’aristocratica mano femminile, e sottovoce ne implorano il trionfo
milioni di cuori, e un vecchio Slavo sogna, con la pace, di rinnovare il
mondo, ecco un brusco e involontario cambiamento di sistema, ecco la
malattia curata omeopaticamente, ecco lo Zola a dimostrarci che la
guerra è non solo necessaria ma salutare, ma provvidenziale, come un
rimedio energico contro la putredine delle nazioni. Mi par di ricordare
che il libro dovesse intitolarsi «_La Saignée_» — titolo che ai
simbolisti sarebbe piaciuto di più e che avrebbe forse meglio
sintetizzato lo spirito, non voglio dire l’intento, del volume.
_Débacle_, «lo scioglimento — lo sgombero — la catastrofe» è meno
brutale, meno... Zoliano. Del resto è con compiacenza che qui noto come
il Maestro accenni a sbrattare la sua arte che resta così di un sincero
e sano naturalismo ben degna di esser madre di un’arte nuova ideale. In
seicentotrentasei pagine fitte non ve n’ha una che obblighi la signora
che legge a velarsi la faccia; e, come osserva acutamente il Depanis nel
suo sagace articolo della _Gazzetta Letteraria_, questa volta non
bisogna attribuire la straordinaria tiratura delle copie a una ragione
di pornografia.

No; la ragione, grazie a Dio, è affatto spirituale. Nessuno più ignora
che il romanzo dello Zola è tramato sulla guerra franco-prussiana; si
può dire anzi che romanzo non c’è: sono episodi, macchiette, figure che
aiutano a ricostruire dilettevolmente e sommariamente la storia di
quella disgraziata campagna, permettendoci di penetrare con una rara
verosimiglianza nell’ambiente dell’atroce dramma, direi nei cuori. I
vecchi ricordano, i giovani respirano l’aria di un passato che evapora
già nell’epopea, nella leggenda: tutti poi in quest’ora, in cui gli
spiriti bellicosi sono anestetizzati, vogliono osservare riflessa
l’immagine dello spaventoso fantasma già lontano.

L’immagine è orribile infatti. Ora, a mente fredda, pare impossibile di
averlo potuto sopportare tanto tempo; pare impossibile che si avesse a
tollerarlo ancora fra noi. È ancora e sempre la selvaggia moralità
dell’opera zoliana, che par derivata dalle teorie di un certo filosofo
vero o immaginario di cui parla in qualche luogo il Bourget, un filosofo
che consigliava agli ammalati di qualche amorazzo dei sensi la cura
d’un’osservazione all’ospedale delle infermità più schifose che
affliggono il corpo umano. È il rudimentale rimedio degli antichi, che
disgustavano dall’ubriachezza con l’esposizione dello schiavo ebro.
Forse questo libro che mette la guerra come una condizione imposta dalla
natura nell’eterna lotta d’ogni giorno; che la dice necessaria
all’esistenza stessa delle nazioni; che la chiama la forza mantenuta e
rinnovellata dall’azione, la vita rinascente sempre giovine dalla morte;
questo libro popolato di larve e scritto da un romanziere è destinato
alla gloria di essere un condottiero ideale della gran crociata bandita
contro la guerra in nome della civiltà.

Non ci sarebbe troppo da stupirne. Alla foglia di rosa il vanto di far
traboccare la coppa. Ognuno sa l’efficacia che ebbero nei nostri moti di
libertà nazionale gli inni del Mameli e le poesie del Berchet. I tempi
sono mutati e le abitudini. Ora lo Zola col suo epico poema in prosa
potrebbe essere senza saperlo, magari senza volerlo, il bardo della
pace.

Poichè è impossibile di scorrere quelle pagine con indifferenza. Zola ha
visitato e studiato palmo per palmo il teatro della guerra: l’illusione
della realtà è quindi perfetta. Si vive negli orrori, nelle ambascie,
nei carnai, nell’abbrutimento della specie umana e questo dà sopratutto
la tristezza infinita dei mali che gli uomini potrebbero e non vogliono
evitare; dà l’avvilimento d’una degradazione cercata, la vergogna d’un
affratellamento con le razze primitive e bestiali per cui pensiero è una
parola vana. È un’angoscia inesprimibile che opprime riflettendo che
solamente vent’anni ci separano da quelle barbarie, da quel flagello i
cui episodi sono degni di far riscontro alle scene del Terrore... È una
lettura che spossa quasi materialmente per il continuo fremito d’orrore
e di pietà che sospende la vita; per il coraggio vero di cui bisogna
disporre per vincere la ripugnanza e la tentazione di chiudere il libro
e scappar via, via nel verde, nella serenità, accanto a qualche
bell’opera feconda e pacifica per dimenticare... Certi episodi non si
possono leggere due volte: quello del bambino febbricitante e assetato
che rimane arso nell’incendio di gioia; quello del prussiano scannato su
una tavola come una bestia da macello, episodio feroce in cui par che lo
Zola stesso voglia infine concedere uno sfogo a una punta inevitabile di
rancore costantemente e ammirabilmente domo dalla perfetta imparzialità.
Tutta l’immoralità della guerra può essere sintetizzata, in questa scena
nella quale una donna può assistere col suo figliuoletto, passivamente,
al supplizio di colui che l’ha resa madre, quasi anzi provocarlo, perchè
è un nemico dei suoi, e profittare della loro reciproca posizione per
vendicarsi orribilmente d’un amore, non d’uno sfregio.

Poi l’amico che uccide l’amico all’impazzata, mentre ambedue combattono
divisi da un’idea; e la donnina leggera che si concede al vincitore; e
le masse condotte alla strage quasi inconscie; e le speculazioni
indegne; e le rassegnazioni stupide; e i sacrifici inutili; e tutta la
immensa miseria, infine, della guerra che rimesta e mette a galla il
limo del l’umanità.

Dei vari pregi di colorito, di andamento, di forma sarebbe lungo, e per
me arduo, il parlare. Poi oramai lo Zola non si discute più: a qualunque
scuola si appartenga, qualunque concetto artistico si difenda, allo Zola
ci si inchina. La sua opera resterà forse sola a rappresentare la
letteratura romantica francese di questo scorcio di secolo, e sarà un
monumento grandioso dalla cima fiorita di emblematiche guglie rilucenti
e leggiere. Ah, non gli si faccia carico di affinarsi nel simbolo! Il
simbolo è un prezioso elemento d’arte per i pensatori profondi! Mi pare
che l’opera zoliana spogliandosene, si spoglierebbe d’un’irradiazione
luminosa, si rimpicciolirebbe in tanti piccoli circoli viziosi e
terreni, mentre così assurge alla dignità efficace e grandiosa d’una
teoria universale.

Non c’è bisogno d’esser molto acuti nel pensiero e gagliardi nella
immaginazione per intendere la poesia suggestiva di certe vignette, dirò
così, ornamentali. La vecchia incognita, lacera e scapigliata come una
furia, che dalla soglia della sua capanna urla «_vili!_» ai soldati che
hanno l’ordine di retrocedere, indicando loro il Reno tedesco, mentre la
sua scarna persona pare giganteggiare in quell’atto; il tranquillo
lavoratore che durante una sanguinosa giornata di battaglia continua
imperturbabile a spingere innanzi il suo aratro giacchè «non sarebbe
perchè si combatteva che le messi cesserebbero di crescere e gli uomini
di vivere»: la gloriosa spada del capitano vinto, spezzata con una forza
atletica dalla gracile mano d’una madre dolorosa; l’aiuola di
margherite, nell’ambulanza, arrossata senza posa di acqua insanguinata
fino a diventare un piaccicchiccio nauseabondo; e tanti e tanti che io
sciupo citando sommariamente così.

Ancora una parola, però: un’esclamazione ammirativa per il racconto
della fatale battaglia di Sèdan, racconto elaborato con sommo magistero;
per la figura dell’imperatore che s’intravede a intervalli, così
oggettivamente; per la descrizione del grande incendio di Parigi
titanicamente grandiosa. Si finisce per avere le vertigini di
quell’eterna porpora di sangue e di fuoco, di quella distruzione pazza,
diabolica, vorticosa, orgiasticamente macabra; e la mente eccitata par
travolgersi nel delirio del povero Maurizio, il soldato ferito, morente,
che inneggia alla distruzione, all’ecatombe, come a una salutare
disinfezione, come a una pasqua di vita...

Ebbene, no; gli Dei sono sazi di respirare sangue e fuoco, e non è con
un sacrifizio umano che si schiuderà agli uomini la feconda e pacifica
landa sognata da Faust. L’amore deve estinguere, siccome invocava il De
Amicis in una vecchia e nobile poesia, questo «fiume dai vortici
cruenti», questo «mare di lagrime infinite». Ma però si innalzi, secondo
il desiderio del poeta, un grande monumento di gloria a tutti i morti
delle guerre umane, e la paura di ridiventar barbari o romantici non ci
faccia — per pietà — rinnegare o sminuire il bello e santo eroismo
italiano dove fu.



                        Impressioni di un sogno.


       [_Neera_: _Nel Sogno_. — Milano, Chiesa e Guindani 1893.]

Un sogno in cui non sia che terra e cielo: il cielo cristallino, uguale,
soffuso d’un calmo e un po’ freddo sorriso verso la terra; le vette
estreme rivolte come braccia adoranti e aspettanti verso il cielo: tutto
il pallore e il silenzio e i terrori e la grandiosità selvaggia delle
altezze, come in qualche vasta e gentile concezione di Shakespeare. Ecco
la scena. E in questo sfondo primordiale un asceta, umile, ardente, pio,
che benedice i suoi fratelli invisibili con la rugiada e gli aromi
fluttuanti dei rododendri in fiore, e due fanciulle, due purezze
assolute, ma l’una come l’acqua, l’altra come la fiamma. Intorno ad essi
tutta la vita organica, vegetativa; in essi tutta l’elevazione spontanea
del pensiero nella contemplazione mistica dei fenomeni naturali: la
rispondenza immediata, come un riflesso, fra le più belle cose create e
i sentimenti più casti, tendenti tutti verso l’infinito, tutti nati
dallo stesso principio di adorazione. Il visibile e l’invisibile, gli
aspetti e le visioni, la realtà e il simbolo insieme fusi ai confini del
mondo.

L’autrice di questa concezione un po’ insolita, una donna d’attività e
d’ingegno, si domanda se l’essere umano, sbocciato e allevato così al
riparo di tutte le brutture, nell’ignoranza completa del male, possa
affrancarsene; ma dal fondo della storia, dall’ideale e leggendario
paradiso terrestre che forse le attraversò la mente mentre ella sognava
questo sogno verginale, tutto accenna mestamente di no; tutto dice che
il male, l’antico avversario, è annidato come un germe mortale in noi,
non fuori di noi; che è in nostro potere di arrestarne il progresso, ma
non di strapparne la radice; che l’ignorarlo non sarebbe un aumento di
difesa, ma un aumento di debolezza, e la inevitabile, brusca rivelazione
porterebbe la morte.

Le Marie, le due gemelle, affidate quasi nasciture dalla madre derelitta
all’asceta che impose loro lo stesso nome, il nome grave e soave ad un
tempo, crescono come due asfodeli in quella solitaria sfera di sogno. Ma
nell’una, l’ho detto, era la purezza dell’acqua lustrale, nell’altra la
purezza struggitrice del fuoco. I canti e l’opera dei minatori, a piè
della montagna, che sbigottiscono l’una, rivelano all’altra la vita ed
essa si slancia, vi si perde, mentre la sorella muore per la sola
divinazione della verità.

L’autrice, che si chiama Neera, ha circonfuso l’austero e delicato
lavoro di una semplice leggiadrìa di stile che forma un insieme
armonioso con l’idea. Ma non tutti, temo, l’hanno compresa. La
maggioranza ha aperto il libro credendo di imbattersi in un romanzo dei
soliti, un romanzo analitico sentimentale, come quelli a cui la penna
industre della scrittrice lombarda ci ha abituati; poi non trovando
case, nè ville, nè salotti, nè signore, nè sfumature psicologiche,
nessun vestigio di civiltà, insomma, i più restano disorientati,
scontenti, come dinanzi a una mistificazione. Invece questa opera di
Neera è un’originale e aristocratica opera d’arte, la più originale e la
più aristocratica ch’ella abbia scritto fin qui. Poichè il valore d’una
creazione non risiede nella mole e nemmeno nell’importanza del lavoro,
ma nell’equilibrio, nella completa fusione del pensiero con la parola,
nel raggiungimento di quel qualunque ideale vagheggiato. Una volta
lessi, non mi ricordo più dove, ma certo in un libro bello e buono,
questa gran verità che dovrebbe apparire come il famoso _Mane Tekel
Fares_ sulla prima pagina d’ogni libro che s’imprende a giudicare: Non
bisogna domandarsi _perchè_ l’autore ha voluto far così invece che in
altro modo: ma esaminare _come_ è riuscito: non giudicare l’opera dal
punto di vista della nostra simpatia o antipatia per quel tal soggetto o
per quel tale ambiente, ma giudicarla nella luce in cui si rivelò
all’autore: vedere se ha o no raggiunto il suo fine. Le parole, come si
vede, sono mie, ma non importa; la massima che mi colpì è questa. L’arte
deve essere libera, la critica d’un oggettivismo assoluto.

Però io penso pure che il pubblico, i lettori, hanno i loro diritti. Il
diritto, cioè, di trovare qualche mano dipinta che indichi la vera via
quando ci si trova fuori dalle strade maestre. Ora le prefazioni non
fanno più paura a nessuno, le prefazioni non si saltano più, si leggono,
si gustano e... anche qualche volta, fanno risparmiare di leggere il
libro. Sul serio: quando si abbia la fortuna d’avere un’idea un po’
insolita, un po’ originale, e la fortuna ancora più grande di saperla
esporre con garbo e con ingegno in pochi tratti da maestro, bisogna
avere anche la compiacenza di indicarne un po’ la topografia, di fare
qualche onore di casa. _Noblesse oblige_, non c’è rimedio.

Neera potrebbe dirmi che non ha scritto per tutti, che le basta di
essere intesa e apprezzata da coloro pei quali il titolo è un appoggio
bastevole, ma non importa: doveva dire anche questo. Allora il volumetto
elegante e severo sarebbe stato assunto in una sfera superiore, nella
sua vera. Ad ogni modo, chi ha fine intelletto d’arte ha l’obbligo di
ammirarlo e d’intenderlo come una musica classica religiosa, come una
pagina di Bach o di Palestrina. Le ardue difficoltà dell’ambiente
insolito, dell’esposizione di sentimenti primordiali, del rimanere
nell’idealità senza smarrirsi nel misticismo, nella semplicità e nella
purezza senza cadere nella rigidità, sono state affrontate e vinte dalla
valente scrittrice con molta bravura. Ella deve aver letto a lungo i
Vangeli, deve aver gustato la rozzezza sublime di quella letteratura
primitiva che significava le cose più alte, più belle, più grandi che
siano nella natura umana. Deve averne intesa la poesia silvestre,
l’efficacia, la vera religiosità, poichè nelle umili e ispirate e
ardenti aspirazioni dell’asceta passa un soffio biblico, veramente; e
nella selvatica e mite adolescenza delle fanciulle ritroviamo il
riflesso di qualcuna delle vergini dolci e ardenti che ridono come fiori
fra le mèssi in quell’antica opulenza patriarcale. Qualchecosa di
semplice, di solenne, di poetico è filtrato nello stile e nell’idea;
qualchecosa di profondamente sincero: sia ispirazione, sia fede.

Ecco, per dare un saggio del bellissimo libro la scena più leggiadra e
più ideale, quella della morte di Maria dopo la sparizione della
sorella:

«Era il tramonto; le ombre invadevano la cameretta, ed ella non aveva
voluto che si accendesse il lume. Davanti alla piccola finestra la neve
scendeva lenta.

«— Padre, recitami le litanie della Vergine.

«Egli incominciò.

«Nella luce crepuscolare, con quell’uomo inginocchiato per terra, con
quella fanciulla che moriva, la bellissima fra le preghiere acquistava
un fascino soprannaturale. Ad ogni versetto Maria rispondeva col
semplice movimento delle labbra, calma ed assorta in una visione
interna. Come al prete mancava la voce per lo strazio, ella gli pose la
mano sulla spalla, quasi a confortarlo, ed egli continuò. Giunto alle
parole _Virgo fidelis_, un singhiozzo gli spezzò la voce.

«Oh! era ben lei la vergine fedele, la vergine martire del proprio
ideale, l’ermellino che non sopravvive alla macchia! _Virgo fidelis_,
riprese due o tre volte nell’esaltamento del proprio dolore; nè altro
aggiunse, ed ella non lo richiese.

«L’ombra diveniva sempre più nera. Egli fece un movimento per accendere
il lume, ma la mano posata sulla sua spalla lo trattenne, e, mentre
cercava di distinguere al buio il dolce viso, Maria disse:

«— Quanta luce!»

                                  ————

La morte di questa fanciulla immacolata come un giglio, il suo
seppellimento sulla più alta vetta, nella neve candida che velava la
terra e riempiva lo spazio, hanno un carattere simbolico in cui lo
spirito si diletta e si raccoglie. Lo svolgimento graduato delle
emozioni e dell’amore nell’altra Maria, è pure reso a tratti delicati e
sicuri, da artista. D’un’elevatezza d’apostolo e di martire sono tutte
le aspirazioni e i pensieri dell’eremita rivolti a Dio.

                                  ————

«.... che cosa egli aveva fatto? Aveva creduto di poter compiere da solo
quello a cui non riuscirono milioni di martiri e di eroi, quello che Dio
non permette ancora. Aveva creduto di allontanare ogni male dalle sue
pecorelle, tenendole lontane dal mondo, quasi Egli non fosse laggiù come
Difensore e dappertutto come Punitore».

Così l’atto d’umiliazione lo quetava, e come un eroico neofita dei primi
tempi, questo martire spirituale finisce per benedire la mano che lo
flagella, per trovare nel suo dolore, come i veri eletti, il sublime
marchio dei privilegiati, un elemento di perfezione:

                                  ————

«— Colpitemi ancora, ancora, mio Dio, e fate che il mio cuore arda
d’amore per Voi, poichè non nell’appagamento sta la perfezione, bensì in
un crescendo di ardore. — »

                                  ————

E il sogno cessa a questo triste e sublime matutino...



                          Poeta o Scienziato?


Mentre quasi tutti i giornali letterari fanno a gara per innalzare in
un’apoteosi sfolgorante Camillo Checcucci e il suo poema della Vita, il
_Fanfulla della Domenica_ ci fa una risatina su e gli volta le spalle.
Anche elevando la risatina e l’atto all’ufficio salutare dello schiavo
antico dietro il carro del conquistatore, dispiace di non vederne
ammessa la discussione da uno dei giornali più simpatici d’Italia. Oh,
bel paese, dalle facili ebbrezze e dai facili disdegni! bel paese in cui
ogni giorno spicca il volo e... si tuffa un Icaro, sei pur adorabile coi
tuoi novi entusiasmi di nazione ardente e giovinetta! Intanto la
novellina di Cornelio Lapide e l’esempio dell’Alfieri che qualcuno tirò
in ballo per questo poeta emergente dalle ombre, mi sembrano abusi d’un
effetto di gran cassa in una marcia, sia pure trionfale. E innanzi tutto
è proprio _vero_ poeta il Checcucci? poeta nell’anima, nella fantasia,
nelle sensazioni, nelle divinazioni? o piuttosto la poesia non è in lui
che la fodera del geologo, dell’ignologo, dell’areologo, del
naturalista?... Egli sale, è vero, a vertiginose altezze, e si immerge
nei bagliori di atmosfere luminose; ma vi sale in pallone: non coll’ala
libera e poderosa; ed assai spesso mentre l’anima e lo sguardo saturi di
quei splendori provano la voluttà del dissolversi nell’infinito, una
cordicella che si strappa, un sacchettino di zavorra che cade, una
valvola che sibili ci ricordano che viaggiamo sull’aria per via di
combinazioni fisiche e non sul mantello di Mefistofele o sull’aquila di
Giove. Fa tristezza ed ira cadere così da un bello squarcio di lirismo
in una frase giuridica o in una fredda formula tecnica di chimica e
d’astronomia; e al moltiplicarsi degli esempi, incalzanti verso il fine,
si arriva a far un atto d’impazienza e concludere che la _Vita_ del
signor Checcucci è un delirio scientifico, uno di quei deliri splendidi
e tremendi che il Lombroso potrebbe additarci come affermazione di
qualche sua teoria: — o, — più fantasiosamente, balena l’idea di un
incubo punitore cagionato da un rimorso: per esempio il rimorso d’aver
abbandonato una professione per un’altra, ambedue poi cozzanti e
soverchiantesi nel sogno.

Citare è difficile per la copiosità della vena poetica, abbondanza
inevitabile forse per un poema cui «poser mano e cielo e terra».
Un’immagine delicatissima; Shelleyana — un po’ troppo Shelleyana anzi —
è questa nel Canto del Regno Vegetale:

      E tu m’affida, o gracil sensitiva,
    Chi vesta in te sensibile persona,
    Chi teco tremi nelle tue paure;
    E se del viver mio tu pur sei viva
    Vieni e allevia alle mie le tue sventure.

e quest’altra ardita e assai bella, nello stesso canto parlando ai
fiori:

    Ma quando il triste inverno e gli uragani
    Vi sfrondano gli steli,
    E quali aperte mani
    Volan le foglie a scongiurare i cieli,
    Allor mi vince una pietà profonda
    Come d’un volgo preso da terrore,
    E qual piovesse vittima ogni fronda,
    Conforme ai rami mi si schianta il cuore.

E alla terra parla così:

    . . . . genuflesso sulle tue rugiade
    Vedrò che gioie alle muscose rocce
    E che conforti infonda all’arse biade
    La fresca carità di quelle gocce;
    Verrò le notti ad arrestar per l’ombre
    Gli odorosi messaggi
    Spinti alla luna dalle tue vallee
    E a spiar l’amor suo calar sui raggi
    E l’amor tuo salir dalle maree.

Emanazione di poesia fresca e gentile: come questa al Fuoco è davvero
una vampa scoppiettante, striata, gagliarda:

    Eccola; scocca e vola
    Miracolosa, indomita e possente
    L’elettrica scintilla
    Che scatta al mondo la vittoria e leva
    Dall’agitata argilla
    Le fiamme dei metalli e gli occhi d’Eva.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Dai fatui fuochi all’albe nebulose
    Balza, lampeggia e crea,
    E ardendo cuori e cose
    Nei soli è luce e nelle teste idea.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Ed io l’invoco con la testa ignuda
    Questa tremenda dia
    Che brucia a baci e a spasimi si dona;
    Penetri stimma nella carne mia,
    Paga se solca d’un suo raggio santo
    La croce del dolor da dove io canto.

Dal mare dipinge più efficacemente i tumulti che le immensità:

    E quanto più sollevi le procelle
    Ad insultar gli scogli;
    Tanto maggior la tua tristezza pare,
    E fra loro accenandoti le stelle,
    Ti chiameranno l’astro dei cordogli.
    Ma va’ per l’universo a dar l’allarme
    Col tuo tetro fragore
    Come in tempesta stormo di campana.
    E sia quel verbo ansante di dolore
    L’eco fedel d’ogni sciagura umana.

Cantando l’aria, accenna ad intuirne fantasticamente, e ne rende
qualchevolta magicamente, le fluttuazioni frementi di vita e piene di
mistero:

    Spiriti esulta il regno tuo, vanenti
    Divinità camminan le tue sfere;
    Son limpide città d’ombre viventi
    Queste sul capo mio tacite sere?
    Non forse ospiti in seno
    L’anime che migran dai petti umani
    Ferme sull’ali a scongiurar l’oblio
    Dai consueti mani,
    Sospese in te fra il camposanto e Dio?
    E quando sui sopiti
    Sfiorano i sogni ed erran le visioni,
    È forse allor che quei poveri estinti
    Tentan parlare ai vivi...

E così dopo i quattro elementi il Checcucci ci canta i tre regni della
natura, poi l’Uomo, il Sole, l’Atomo, l’Etere, la Materia, la Forza, e
Dio; e quasi tutti i canti hanno un corruscare multicolore di gemme e si
svolgono in fili d’oro. Ma, purtroppo, quasi in ogni canto c’imbattiamo
anche in versi di questo genere (parla all’Universo):

    E come tu combaci ed utilizzi
    A governar gli empiri
    Senza sbilanci e senza incagliamenti,

o come questi, che fanno agghiacciare il sangue:

    Chi sa da dove è emerso
    Per capillarità di sensazioni
    Questo respiro....

oppure:

    Han le carezze dell’amor gli artigli
    E la maternità dai marsupiali
    Insegna al mondo a palpitar sui figli;

od anche, parlando all’uomo:

    A tutte le convalli e tutti i mari
    Rapisti i sali, i fosfori, e gl’incensi
    _E son tuoi tributarî_
    Tutti i vissuti a ingentilirti i sensi.

E intanto quei «tributari» richiamano alla mente le tasse e l’esattore
con una lucidità spaventosa. L’uomo è proprio il più maltrattato dal
signor Checcucci. Un po’ più giù lo consiglia a tracciar sulla creta:

    L’itinerario delle tue sventure;

gli dice di costringere i cieli

    A imbeverar d’elettrico le valli

concludendo che la vaporiera

      . . . . . . ridestrutto nel torace il sole
    Il suo monarca rapida trascina.

Inoltre il Checcucci dimostra una certa predilezione per le
similitudini... come chiamarle? sociologiche?... tendenza allarmante in
un poeta; e canta le sponde _colonizzate_ dai baci del sole, i pianeti
in _sodalizio_ di pietà, la _nazionalità_ dei mondi, le _teorie_,
ruggenti entro i vulcani (teorie persuasive!) la fratellanza
dell’universo, i raggi _delinquenti_ e i lampeggi _degradati_,
l’_assemblea_ torrida, l’atomo che non _presenzierà_ più «dei cieli al
gran lavoro» l’_umanesimo_ dei cieli, il genio _collettivo_ ecc.; poi da
sociologo diventa impresario e sogna

    I drammi dell’amore
    Rappresentar nella platea dei cieli
    Maestro il tempo e metodo il dolore

avvertendoci però del suo temperamento un po’...... nervoso, poichè
l’energia che rattiene gli atomi componente il suo corpo gli

    .... apre in solchi elettrici le vene
    E in batterie magnetiche il costato.

Ancora, nel canto: Forza e Materia, ci ammanisce versi come i seguenti:

    Tanto chi ozia, quanto chi lavora
    Per vie segrete fatalmente crea.
    Tramonta il sol, ma dura l’afa ancora,
    Muore la testa ma riman l’idea,
    In tutta questa universal famiglia
    Non siamo che congiunti
    Dal tempo per l’abisso spatriati,
    Dispersi in cielo a grumoli di punti
    Economicamente utilizzati.

Ecco: che questo sia linguaggio da buon padre di famiglia è
indiscutibile; ma da poeta poi... avrei i miei dubbi e non pochi. Dubbi
che si fanno giganti udendolo riprendere più avanti sullo stesso tono
che

      Nel gran tesoro della creazione
    Ogni tormento tuo sarà quotato:
    E perchè il bello e il buono
    Possan compire la loro evoluzione
    Fa d’uopo al ciel che venga utilizzato
    Ogni tuo pianto ed ogni tuo perdono.

E in un altro punto, chiamandoci con un sonoro «Quà, quà» che fa venir
voglia di cedere il passo agli anatrotti, fra le tante belle cose che ci
promette, trovo anche questa:

    Annunzio ai proletari
    La carità dei codici venturi
    Sfamati, a domicilio, dagli armenti
    E annunzio ai nascituri
    Come parlar coi fuochi ai firmamenti.

È uno sgomento, Dio buono! E vado domandandomi con melanconico rammarico
come mai un verseggiatore che ha saputo pennelleggiare così finamente e
così grandiosamente certe alate visioni, sia poi caduto in queste
goffaggini che mutano le iri variopinte in un abito da Arlecchino e
farebbero diventar monella una suora di carità. — Perchè
quell’insistenza sul verbo _mugliare_, insistenza che ci trasporta
troppo spesso vicino alle... cascine? — Perchè quella predilezione per
un’immagine già sfruttata completamente dal De Amicis in un verso solo
della sua migliore poesia «_Come vorrei morire_» nell’ultimo splendido
verso:

    «Col sole in fronte ed una palla in core»

dopo il quale, tutti questi del signor Checcucci: «Col fuoco ai fianchi
e con la luce in testa», «Col genio in testa ed il coraggio in cuore»,
«Con la porpora ai labbri e il riso agli occhi», «Coi cori a rango e coi
vessilli in testa», ecc. non sono che parodìe? Peccato! Forse se il
poeta della Vita si contentava di cantarci i miti e le leggende e i
simboli degli elementi, dei regni della natura, dei paesi del sole,
invece di farci della cosmogonìa, della cosmologia e dell’archeologia da
trattato scientifico, l’Italia esulterebbe oggi per una originale e
artistica creazione di più. Così come è, i bei versi vigorosi, iridati e
fluenti cingono un’aureola al loro cantore: ma temo forte che i vapori
terrestri, stagnanti, finiranno per offuscarne la luminosità. In alto
dunque, e voli: abbracci un po’ meno e idealizzi un po’ più e
perdoneremo volentieri all’angelica farfalla di non essere un elefante.
Dal grandioso che sbalordisce, al grottesco che attira il frizzo, il
passo è così breve!



                         Per colpa di un Poema.


Credevo proprio di non parlarne più. Ma poichè un’amabile quanto valente
scrittrice ha voluto ricordarmi, a proposito di Cammillo Checcucci e
della sua _Vita_, mi sento tentata di aggiungere una parola in coda
all’argomento.

Qualche mese addietro, appena letto il volume, dissi ad alta voce le mie
impressioni nella _Battaglia Bizantina_, e le intitolai così: «_Poeta o
Scienziato?_» La risposta mi veniva da sè; me la dava l’eco dell’ultima
parola. Ora la signorina Gianelli, invertendo appunto forse per ragione
d’eco la domanda, mi grida: — Poeta, poeta, poeta. — Vediamo un po’.

Ricordo che mentre m’accingevo con gioia a far la conoscenza di questo
nuovo astro, che per il fervore dell’entusiasmo di molti pareva
destinato a impallidire il sole, mi venne fra le mani un periodico
fiorentino che fra un coro di lodi riportava un brano del poema. Era una
parte del canto alla _Terra_. Ebbene, mi ci accostai con una specie di
reverenza, come ogni volta che so di stare per essere iniziata al culto
d’una nuova manifestazione del bello; lo lessi, lo rilessi, con
un’attenzione quasi religiosa ma ahimè, dopo non mi trovai nel cuore e
nella mente che l’interrogazione fatale: — Sta tutto qui? — E questa
interrogazione, allora forse un tantino imprudente, mi assediò anche
terminato il libro che chiusi triste per la delusione. Al solito. Fuori
di qualche ispirazione felice, specialmente nei primi canti, io non
trovai, confesso, che aridità, che monotonia, che goffaggine, che...
presunzione. Delle immagini leggiadre, degli squarci lirici efficaci,
degli accenti delicati, dissi tutto il bene che potevo; sul resto risi.
Un poeta a cui è balenato il concetto colossale di un poema sulla
_Vita_, che ha domandato la sua ispirazione agli elementi, alle forze, a
Dio, doveva darci qualche cosa di più, doveva dirci qualche cosa di
nuovo, doveva farci entrare nel mondo riflesso dalla sua fantasia e non
trascinarci in una faticosa spedizione geologica, facendoci inciampare
nei ciottoli ad ogni momento. Non ho dimenticato ancora certi
_marsupiali_, certe _capillarità di sensazioni_, certi _sbilanci_ e
certi _incagliamenti_.

«Il poeta», dice uno degli ingegni più chiari e più penetranti d’Italia,
il Nencioni, «il vero poeta, non è un sognatore ma un veggente,» ed io
gli faccio eco con intima convinzione. Un veggente, sì; egli deve aver
lo sguardo più acuto di noi e l’orizzonte più vasto; egli deve fissare e
discernere ciò che non è che una fluttuazione iridata e luminosa ai
nostri occhi; egli deve sviscerar l’anima delle cose e intenderne il
linguaggio arcano: intuirne il simbolo, e senza enumerarci le sfere
celesti farci sentire con una parola tutta l’immensità dell’infinito,
evocarci con un’immagine tutto un mondo di larve e di splendori;
richiamarci, con un metro o con un’intonazione, le visioni delle età
passate; farci respirare, insomma, l’aria dei secoli e illuminarci di
tutte le luci e avvolgerci di tutti i colori. Oh, non chiediamo al poeta
il perchè delle cose; l’analisi svela e distrugge; la poesia deve
afferrare complessivamente gli aspetti, i sentimenti, per farsene
un’anima e rivestirla poi di tutti gli splendori dell’idealità. E sempre
dall’alto, qualunque soggetto ci svolga, storia leggenda, ci canti le
sinfonie della natura o le battaglie del cuore.

L’estensione non fa l’altezza, la vastità di un concetto non fa l’opera
d’arte. In nessun’epoca, credo, si fece tanto spreco di grandiosità come
nel seicento; parole, monumenti, pitture, vita, tutto doveva essere
grande, magnifico. E quanto orpello invece! quanto presuntuoso
barocchismo! Che abbondanza opprimente di materia, che assenza
malinconica di classica sobrietà!

Mancava l’essenza, quell’essenza che ho cercato invano fra i quindici
canti che compongono il poema della _Vita_; quell’essenza che deve
scorrere sotto la trama d’un’opera d’arte come una linfa vivificatrice,
che dà freschezza, e intensità, e vigorìa, e tumulti fecondi. Che
m’importa se sono quattro versi invece che quattrocento quelli che mi
dànno la divinazione dell’infinito o che mi fanno piangere sulle lotte
degli umani? La corda ha vibrato, l’emozione artistica o del sentimento
c’è; basta. Io preferisco un piccolo bronzo di Jerace alla torre Eiffel
che ha sbalordito mezzo mondo. Questione di gusti.

E voi stessa, signorina, che difendete l’autore della _Vita_, non potete
trattenervi dal convenire che accanto alle bellezze che io pure
riconosco, v’è nel poema «l’ampollosità che affanna e la minuzia
pedantesca che agghiaccia. A profondità filosofiche, dite, seguono
declamazioni, in cui il pensiero diluisce; agli slanci più arditi, ai
più vigorosi colori, alle grazie più schiette dell’arte, sono spesso
vicini subentrano lunghi periodi intralciati, che accusano la
preoccupazione ed hanno quasi l’aria di bisticci scientifici.» Ebbene, a
me pare che ce ne sia abbastanza per distruggere il poeta. Come volete
che la poesia alata, eterea, inafferabile e luminosa, e ingannatrice
come il regno della fata Morgana, non dilegui all’apparire della
scienza, che ci avverte di tutte le menzogne, che ci mette in guardia
contro tutti gli incanti, che ci sveglia da tutti i sogni?

Un poema scientifico per me è una contraddizione, un paradosso. Si
reggerà se la scienza si personifica in larve fantasiose come nel
_Faust_ di Goethe, in spiriti smaglianti come nel capolavoro dantesco,
(lasciando dormire i genii) se si diffonde nel panteismo, come nei versi
puri e freddi del Marradi, oppure se diverrà favola come in una delicata
creazione di Alfredo Baccelli. Ma un poema cosmogonico e solitario come
quello del Checcucci, in cui non si sente che la sua voce come quella di
Dio, durante i sei giorni della Creazione, non può che trascinarci sotto
il suo peso soffocando in sè ogni melodioso accento di passione,
frenando ogni volo, spegnendo bagliori, ottenebrando l’immensità. Poi,
che ne dite voi, signorina, voi l’autrice elegante di tanti versi
armoniosi, fra cui non dimentico certi «_Fiori d’Arancio_»
fragrantissimi: che ne dite di certe trascuraggini di forma che
accuserebbero la fretta, se non si sapesse anche troppo che la _Vita_
costò sei anni di lavoro al suo poeta? di certe ripetizioni,
stucchevoli, d’immagini e di vocaboli? di certe parole così barbare,
così barbare che fanno accapponar la pelle come lo stridere d’una lama
sul vetro?

Cuore e fede, cara signorina, possono fare un galantuomo, ma non bastano
per formare un poeta. Del resto che importa? meglio per lui e per noi. I
galantuomini sono così rari! e dei poeti ce ne sono tanti...



                       Aspettando un Alessandro.


. . . . . un Alessandro, sì, o meglio forse nel caso nostro
un’Alessandrina, che col suo bravo paio di forbici (arma più umile, ma
qualche volta più spiccia della spada) venisse a tagliare il nodo
Checcucciano intorno al quale da troppo tempo la signorina Gianelli ed
io stanchiamo le mani delicate.

Se al silenzio non si potesse dare che un’unica interpretazione, starei
zitta e addio; ma si ha un bel indorare il silenzio; tacerà sempre chi
non sa più cosa dire. Veramente gran che di nuovo da dire non l’ho più
neppur io; feci le mie considerazioni e ridissi le mie impressioni come
la signorina Gianelli fece e ridisse le sue. Ora vorrei solamente
domandarle il permesso di stenderle non la mano, ma tutte e due le
braccia, per ringraziarla del troppo bene che disse di me e della
simpatia di cui mi onora; vorrei dirle il desiderio di vederla qui in
una poltroncina, accanto alla mia, nella beata solitudine del mio
salottino di studio, per continuare la nostra polemica in tutta intimità
e difendermi dall’accusa d’incoerenza, che con un garbo tutto femminile
mi fa più intuire che leggere fra le sue righe cortesi.

No, cara signorina Elda, non ho mutato opinione, l’ho solamente
accentuata e forse per quel cattivo vezzo d’ostinarsi vieppiù nel
proprio parere, magari di esagerarlo, quando insorge qualcuno che vuol
dimostrarci il contrario. Parlando subito di quel libro, fresca di
lettura e trovandomi contro al gusto dei più, non osai, confesso, di
impancarmi a dir crudo e netto il mio parere, come lo spifferavo al
piccolo crocchio dei miei amici, ma vi gettai su un velo di dubbio,
abbastanza trasparente, mi parve per farlo conoscere a chi lo voleva
intendere.

Ora che non temo più l’immaturità delle mie impressioni, ora che la
falange partigiana dell’astro novello non s’è accresciuta, non solo, ma
si sfronda di molte illusioni; ora con voi, signorina, e in un giornale
di signore, mi attento a togliere quel velo e a confidarvi all’orecchio
che l’autore della mastodontica _Vita_, secondo il mio umilissimo modo
di vedere, non è niente affatto poeta, che qualche _emanazione di poesia
fresca e gentile_ e il _corruscare di gemme e i fili d’oro_ e tante
belle cose che scovai esultante fra i fossili della _Vita_, e anche _i
bei versi vigorosi iridati fluenti_, di cui feci perfino al signor
Checcucci un’aureola (badate; scrissi _i bei versi_ per distinguerli
da... quegli altri del poema), tutta questa fragilità in sboccio,
insomma, — _il fummo del ruscel di sopra aduggia_ — e, come io temevo,
ora un po’ di lontano, stempera tutto in una tinta greve e monotona di
cielo piovorno.

Non dallo scienziato scorgevo io sprigionarsi il poeta, ma ascoltavo con
malinconica curiosità lo scienziato delirare, poichè, persuadetevi,
signorina, anche agli scienziati è permesso di aver il delirio
qualchevolta, e fantasticavo monellescamente (non lo dimenticate!) su un
incubo punitore cagionato dal rimorso di aver abbandonata una
professione per un’altra. E se dissi che il Checcucci, prendendo il suo
soggetto da un diverso lato e con diversi intenti, sarebbe forse
riuscito a donare all’Italia una artistica creazione, non lo dissi
perchè avessi riconosciuto in lui, come voi dite, la stoffa del poeta,
ma per misurare la distanza che lo separava da un supposto poeta vero.
Se l’autore della _Vita_, prese il suo soggetto da quel lato, gli è
segno che lo ha _sentito_ così. Se la _Vita_ non fosse la _Vita_,
Checcucci non sarebbe più Checcucci. E perdonatemi il bisticcio.

Ancora: perchè, signorina, non volete ricordare accanto alla mia
ammirazione per le bellezze che mi vanto di aver spigolato nel vostro
prediletto poema, le impertinenze che mi scivolarono dalla penna? Perchè
non ricordarvi del mio sconforto per quelle nubi che salivano, salivano,
togliendomi ogni illusione d’azzurro? non ricordarvi delle mie nervose
impazienze crescenti fino a risolversi in una risata irriverente? perchè
non ricordarvi che lo collocavo, più volentieri fra i buoni padri di
famiglia che fra i poeti, udendo parlare di _grumoli di punti
economicamente utilizzati_: — dite, perchè?

«È uno sgomento, Dio buono, (finivo guardandomi intorno fra le rovine),
e vado domandandomi con melanconico rammarico come mai un
_verseggiatore_ che ha saputo pennelleggiare così finamente e così
grandiosamente certe alate visioni, sia poi caduto in queste goffaggini
che mutano le iridi variopinte in un abito da Arlecchino...

«.... In alto dunque, e voli; abbracci un po’ meno e idealizzi un po’
più, e perdoneremo volentieri all’angelica farfalla di non essere un
elefante. Dal grandioso che sbalordisce al grottesco che attira il
frizzo, il passo è così breve!

Così finivo la mia succinta recensione nella _Battaglia Bizantina_, e
così ripeto ora e non vorrei ripeterlo solamente a voi, signorina, ma a
coloro che credono che pur di far dello spirito si rida scioccamente di
tutto. Qualche volta si ride per non piangere, e ci sarebbe proprio da
piangere se si pensasse un poco alle nostre condizioni letterarie
d’Italia, e come dal vecchio seicento e dalla giovine America s’annida
in modo allarmante fra noi la mania del concettoso, dello stracarico,
dell’enorme, dell’immane. Tutti si fermano a guardare l’orso che balla,
pochi a meditare sulla variopinta meraviglia di un insettuzzo che vola!

Oh, no, gentile Elda, credete, credete a me, non è un mito il poeta
quale tentai di dipingerlo, nè dovrebbe essere un taumaturgo; basterebbe
che fosse un poeta e non un verseggiatore, basterebbe che appunto si
trovasse a disagio in un secolo come il nostro che voi chiamate a
ragione positivo, scettico, investigatore; basterebbe che non sapesse il
peso specifico del sole, ma che si prostrasse ad adorarlo. Potrei fare
la scommessa che un vero poeta (e grazie a Dio, sebbene scarsi, ne
conosco ancora), un vero poeta non scriverà mai una sola delle parole
dotte che il Checcucci mi ha insegnato. La scienza, questa spietata
carità, ci darà faticando dei versi, dall’ignoranza popolare fluirà
essenza vera di poesia. Omero non sapeva come fosse fatto il mondo, e
Dante ha detto degli strafalcioni astronomici. Non lo dimentichiamo.



                               Sfumature.


                        _(dal diario di Maria)_

                                                        1 Gennaio 189...

Quanti potranno intendere questa mia manìa delle sfumature? le sfumature
che si insinuano, si dilatano, avvolgono, s’addensano dappertutto senza
occupar troppo spazio, senza risvegliar troppa critica, senza
determinare nulla? le sfumature che non si pesano sulla bilancia della
esistenza e che, forse per questo, si trovano distribuite così poco
equamente! Talvolta io penso che cosa sarebbe il mondo dell’arte, del
pensiero, dell’azione, senza le sfumature che fondono, che adornano, che
ammorbidiscono, che smorzano o ravvivano previdentemente. All’arte danno
ora la divinazione, ora l’eleganza, o la verità, o l’umorismo, o il
patetico nella più delicata ed alta efficacia; nel pensiero sono
l’analisi, l’intuizione, la finezza, il profumo — ricchezza e travaglio
dei pallidi abitatori del regno spirituale; nella vita, oh nella vita
quanto bisogno di sfumature! esse sono la parola amabile o generosa o
conciliativa venuta a tempo; sono la carità d’un silenzio e d’un
sorriso; la cortesia che ammanta l’indifferenza e la noja; le attenzioni
e la riconoscenza verso chi ci vuol bene; tutto ciò insomma che forma
l’aureola della femminilità.

                                                              11 Gennaio

È la stagione delle lunghe serate. Non ne diciamo troppo male. Gli
affetti e le dolcezze del focolare si avvivano come le stanze
all’accendersi dei lumi dopo il livido svanire dell’ultima luce. Gli
ambienti sono più tepidi, gli spiriti più gai. La solitudine stessa
nelle sere d’inverno, si riveste d’un colore d’austerità feconda che la
rende meno triste. Non è come in certi tramonti di primavera o
d’autunno, in cui l’anima indocile ai legami della volontà migra in alto
insieme alle nubi di rosa e di viola per tornare più mesta, più
solitaria più infelice. Nelle veglie invernali ci si accomoda
nell’angolo più simpatico del salottino, e là, protette dalla penombra
raccolta del gran paralume, si scrive. Sia all’amico venerando, alla
sorella giovinetta, al figliuolo collegiale, al fratello, alla madre, ma
le nostre lettere devono portare una forza, un sorriso, un esempio, un
pensiero, una fede... Qualchevolta è un libretto che esce dalle
misteriose profondità della scrivania — un libretto come questo, dove si
notano da anni le impressioni, i pensieri, i libri letti, i versi
preferiti, i progressi morali e intellettuali dei figliuoletti che
sbocciano al nostro alito amoroso... È un’utile abitudine; insegna a
pensare, ad analizzare, a determinare; poi è una pallida conservazione
della vita passata che non svapora del tutto, chiusa così in essenza fra
le pagine. Ma per far ciò fruttuosamente, occorre sopratutto la
sincerità; una sincerità acuta, spietata, che disgombri affatto la
coscienza dalle nebulose fra cui si vizia e si falsa. Bisogna avere il
coraggio delle contraddizioni, dell’opinione intima, che è quasi sempre
la più timida, della rigidezza per le fantasticherie e i languori;
bisogna pervenire allo sdoppiamento completo di sè; foggiarsi e
alimentare in noi un piccolo giudice giusto ma supremamente severo.
Allora il libriccino diventa una specie di controllo morale, e solo
allora un consigliere efficace.

Io aspetto con delizia le sere di solitudine per dare l’ultima mano alla
novella, all’articolo, per trionfare d’una pagina ribelle, per
incominciare un lungo e più arduo lavoro. Alla sera i bambini dormono, i
parenti, gli amici, i servi non interrompono — si sa che nulla reclama
il nostro intervento, si sa di potersi abbandonare con pieno diritto e
dedizione totale all’opera faticosa e gentile. E nel gran silenzio che
si addensa intorno, balenano copiose le idee, e scendono in raggi
fecondi nell’espressione agile ed efficace. Si scrive, si scrive, si
sogna senza dormire, si vive con persone che non si conoscono, che non
esistono, ma che si agitano e soffrono e vivono e parlano animati da
noi, figli del nostro dolore, quasi sempre. Poi ad un tratto uno
scricchiolio, un suono, una voce ci scuotono, si guarda l’oriuolo e
sfugge un’esclamazione di meraviglia. Già terminata la sera? E ci
troviamo nel cervello un capriccio di meno e qualche idea di più.

                                                              12 Gennaio

Giulia mi ha detto che non tutte le signore possono usare del magico
specifico, cui accennai ieri, per occupare il tempo. Certo; ma molte
però possono impiegarlo vivendo nello spirito dei sommi che nella
solitudine scrissero per la solitudine. Tutte poi possono procurarsi il
sano diletto intellettuale di leggere un libro che non sia dei soliti
romanzi e neanche un arido sfoggio di erudizione. Uno di quei libri di
cui non scarseggia la moderna letteratura italiana; che aiutano a
formarsi criterii e gusti proprii, e che ci permettono di seguire con
discernimento, oltre che con amore, gli studi dei nostri figliuoli.

E il pianoforte non è un potente ausiliario nelle sere di solitudine? Si
può suonare tutta la sinfonia o la suonata classica, o la «fuga» senza
annoiare nessuno: si può ripetere a sazietà e canterellare anche, senza
giudici incomodi, la pagina preferita dello spartito; si può umilmente
eseguire degli studi e pazientemente compitare il pezzo di musica, senza
fare in presenza di testimoni la parte di scolarine.

E i lavoretti destinati a una persona cara, che non devono essere veduti
da nessuno, proprio da nessuno? E le sorprese per i bambini? i
raffazzonamenti segreti all’abito e al cappellino per una data
circostanza? L’esercizio delle lingue straniere? L’adornamento nuovo per
il salottino o per la tavola da desinare? E i corredini, i corredini per
i piccoli incogniti che si aspettano dal regno dei sogni e che le mamme
amano preparare nel raccoglimento, quasi sgomente d’uno sguardo
indifferente, come d’una profanazione?

Oh, no, no: sono gli uomini i più da compiangere nelle sere di
solitudine, non noi!

                                                              14 Gennaio

Ho prolungato la passeggiata sulla via maestra più del solito, oggi.
Tornando, vedevo qua e là nelle case le finestre basse illuminate.
Allora ho pensato che le famiglie numerose e casalinghe sanno veramente,
esse, tutta la mite bontà delle serate invernali. Sparita la bianca
tovaglia, il tappeto si popola di cestelline, di libri, di cartelle, di
giornali, di giuochi. I bambini fanno gli ultimi schiamazzi prima di
sedersi a fare il còmpito di scuola o di andare a letto. Il nipotino più
assennato o la signorina più amabile, si accingono a far la partita alle
carte colla nonna. Gli uomini accendono il sigaro, le signore si
scaldano un momento in crocchio al caminetto, prima di mettersi alle
loro occupazioni serali. È il momento delle discussioni, delle
chiacchiere vivaci. L’ultimo numero della rivista letteraria o del
giornale di moda circola; le testoline si accostano, i nasi maschili
s’intromettono, le celie impertinenti volano. Qualche mamma, sola,
rimane un momento in silenzio, con le braccia conserte e la fronte
china, pensando a un caro lontano; qualche volta è l’immagine d’un
perduto che passa nell’attimo silente, nel sospiro, nell’eloquenza d’uno
sguardo...

                                                             15 Febbraio

Ho letto un sublime lavoro di Edoardo Schurè: _Le drame musical_. La
prima parte tratta dell’estetica nell’arte in generale; la seconda è
quasi tutta occupata dall’opera Wagneriana. Ma non è punto inaccessibile
nè gravoso. È un ricamo che uno fra gli ingegni più illuminati dei
nostri tempi ha voluto fare sulla trama di tutto il bello, fiorito da
secoli nelle immaginazioni colorite dai tempi. Un lavoro di mago sulla
concezione d’un titano. Ah che bellezza! Le favole diafane e leggiadre
dell’antica Grecia ci passano sul capo, e le danze e l’armonia. È
un’accolta di genii e un mite raggiare di larve del loro pensiero: Dante
e Goethe, Palestrina e Beethoven, Shelley e Virgilio, e finalmente
Wagner nell’impero dei suoi fulgidissimi sogni. L’opera Wagneriana dopo
la lettura del secondo volume composto dell’analisi di ogni suo dramma,
diventa comprensibile e facile anche ai non iniziati alle sfere superne
del divino mondo della melodia. Trascrivo dal volume I, dal capitolo
della danza primitiva e l’epopea:

«Tandis que les peuples montagnards ont vu apparaître le cortége de Pan
et du divin Dionysos, les peuplades maritimes se sont familiarisées,
dans leurs courses avec le cycle des divinités voluptueuses ou tristes,
rêveuses ou enjouées de la mer. Chose étrange, les plus aimés de ces
dieux, ce ne sont pas toujours les plus puissants, mais ceux qui meurent
jeunes et beaux, ceux qui fascinent et qui tuent. C’est le bel
adolescent Adonaïs, aimé d’Aphrodite, qui meurt déchiré par un sanglier,
mais qui renaît tous les printemps avec la floraison; c’est Attis qui se
suicide dans un désespoir d’amour et dont le sang répandu sur la mousse
refleurit en violettes; c’est Hylas, ravi par les nymphes des sources;
c’est surtout l’étrange et significative Proserpine, qui symbolise le
décevant mystère de la nature, son ardeur de destruction et de
résurrection, la mort éternelle dans la vie, et la vie éternelle dans la
mort».

                                                                 2 Marzo

Le giornate si allungano, pigramente, lentamente, ma si allungano; in
certe ore si può spalancare le finestre al sole dimenticando la stufa,
od uscire a pigliarselo. Gli alberi sono ancora rigidi e muti, l’aria
sgarbata, ma in certi riflessi più vivi, in certe ondulazioni più dolci,
in qualche corolla bianca di margheritina, c’è già la promessa della
primavera; come nello spesseggiare dei spiragli luminosi sotto le nere
gallerie che forano le montagne, c’è la speranza dell’aperto, della
liberazione. Ah! la luce! — pensano con un profondo sollievo i
viaggiatori guardandosi in faccia. Ah! la vita! — sospirano gli umani,
malinconici viaggiatori anch’essi, e ad ogni schiudersi annuale di
gemme, è una sorpresa e un sorriso come dinanzi ad una inattesa
concessione benigna del rigido Destino.

                                                                17 Marzo

Ho scoperto dei tesori in granaio. Uno sgabello imbottito di cuoio, una
lucernina, una ròcca, un cofanetto e una cornice rococò. Ho trovato
delle ragnatele, della polvere, dei topi, ma non ho indietreggiato; —
avevo un coraggio veramente da esploratrice. Oh dolce e fine poesia dei
granai, ben io tutta ti sento! La poesia dei tetti a grondaia e
dell’accavallamento misterioso e pauroso di travi; la poesia delle
finestrette a fior di terra, dalle quali si scopre un nuovo orizzonte, e
le scalette pericolose che menano agli abbaini soleggiati, dal fascino
strano, austero e selvaggio; e i vecchi quadri accatastati che vi
guardano dalle pareti; visi o scene che l’ombra del fondo per sommergere
come quella del Tempo; le scranne dei nostri vecchi, che vi lasciarono
un po’ l’impronta della loro personalità, le seggioline alte che ci
accolsero bimbi e che ci guardano con stupore come noi le guardiamo con
meraviglia; e qualche vecchio strumento muto e cadente come la bocca o
le mani che lo animarono; e qualche giocattolo rudimentale che dorme fra
una generazione e l’altra, rinnovandosi come la fenice; e vecchie tavole
che sanno i gai e cerimoniosi conviti degli avi; i piccoli tavolini da
lavoro, coi cuscinetti fissi per gli aghi, che sanno soli, forse,
lagrime e romantici segreti che nessuno dubitò... Buoni e vecchi granai
dove il presente diventa il passato, dove le cose tutte hanno una voce,
una leggenda, un’anima, siete forse voi che mettete nel cuore di tanta
infanzia che vi predilige, i germi, che più tardi porteranno il loro
frutto, d’una delicata idealità, d’una sana poesia?

                                                                9 Maggio

Primavera! la magica parola evocatrice di sogni, di rose, di speranze;
la blanda medicina in una coppa d’oro! Quanti ti aspettano o Dea! I
vecchi per riacquistare un po’ di forza, i malati un po’ di salute, i
mesti un po’ di serenità; ti aspettano le scolarine per cogliere le
viole, gli studenti per le vacanze di Pasqua, le mamme per veder
prosperare e sviluppare i loro piccini, le fanciulle per unirsi a un
desiderato compagno fra il sorriso del cielo e della terra...

Anche Elisa si sposa. Me lo ha detto cogli occhi raggianti. Voleva
vestirsi di celeste per la cerimonia religiosa: io l’ho sconsigliata
vivamente. L’abito da sposa deve essere bianco, interamente bianco. E
una stola, è un simbolo; se si modifica non ha più alcun significato,
resta un abbigliamento da sera poco concordante con la serietà e la
santità del rito memorando. Un abito bianco, austero, molti fiori
d’arancio, freschi possibilmente, un lungo e finissimo velo... Ecco,
così.

Ho spezzato un’altra lancia in favore della villettina nascosta nel
verde a preferenza del viaggio di nozze, inopportuno, assurdo, barbaro.
Nei primi tempi le spose si rapivano, poi si simulò il ratto, ora si
portano a spasso solamente... ma è sempre una brutalità.

Ho detto ad Elisa di non sciorinare il suo amore, di non disperdere i
più cari e tumultosi ricordi nella volgarità degli _hôtels_ e delle
_pensioni_: le ho detto di scegliersi il suo nido con cura amorosa, di
trovarlo lontano dal mondo curioso e irrisorio, sia fra i pini sulle
alpi o fra gli aranci sull’azzurro mare, fra il verde boscoso di un
colle o nella distesa di smeraldo d’un’ubertosa pianura; le ho detto di
nascondere la sua felicità, esile fiammella, come si protegge la lampada
con la mano...

                                                                1 Giugno

Mentre lavoravo è venuto Ettore S. che ha posato sul mio tavolino un
libro soffuso di aristocratica e soave femminilità. È quello intitolato:
«Poesie d’una regina», la regina di Romania che si vela dello squisito
pseudonimo di Carmen Sylva. Il volumetto piccolo, bianco, fregiato d’oro
e contenente un ritratto e un autografo della regina-artista; tutto
palpitante di onesti sensi di madre e di donna, ha messo una nota fine e
ideale di più nel mio salottino. La traduzione dal tedesco, quantunque
lodata anche dall’autrice, a me par molto mal riuscita; ma se pur è
possibile astrarsi dalla forma e rintracciare lo spirito originale che
circola dentro, l’impressione è fragrantissima. Questa dama, che dalla
vergine rozzezza silvestre distilla arte raffinata, mi fa pensare alle
favolose ninfe dei boschi, diafane e bionde nella selvaggia natura. Il
mio amico interpretando i miei gusti o il mio sentimento aveva messo il
segno ad una pagina dove si legge questa poesia:

                          NEL PAESE DEI SOGNI

    Vorrei esser regina, ma soltanto
    Se la corona mia fosse di fiori,
    E il tessuto d’un ragno il regal manto
    E stille di rugiada i suoi splendori.

    E sarebbe il dio Sol cerimoniere,
    Una nube il mio cocchio — mie donzelle
    Le muse — allor, nè ironiche, nè fiere,
    Ci guarderebber di lassù le stelle.

    E vorrei tutte accoglier nel mio regno
    Le foreste del mondo — e l’arti in fiore —
    De’ nobili pensieri esser sostegno
    Vorrei — e forte reggere ogni core. —

    Ma invece il serto è greve — e poichè è detto
    Che mai non accadranno queste cose,
    Vorrei essere il folle ruscelletto
    A l’ombra delle roccie alte e muscose.

                                                               15 Giugno

..... La casa è uno dei pochi ideali della donna che effettuandosi non
si sfata. Quando la fanciulla fatta moglie mette piede per la prima
volta fra quelle pareti in cui aleggia col suo vago incanto il futuro,
ella le ama già, ella vi ha abitato nei suoi sogni, vi ha architettato
degli episodii, vi ha già vissuto ore divine. Quindi è quasi con un
sorriso di riconoscimento che, stretta al suo compagno, ne fa la prima
ricognizione. Era proprio così: c’è proprio tutto, e c’è l’amore
volatilizzato nell’atmosfera che illumina, riscalda, e facilita e
abbellisce azioni e cose. Dopo un paio d’ore, la casa ideale di ieri è
identificata nella casa reale di oggi, e la dimora vera si riflette
fedelmente nel paese del sogno. Quelle pareti sono già piene di memorie,
di speranze; appartengono già alla nostra vita interiore; e le adoriamo
come il passato e le difendiamo come l’avvenire.

Pure non saranno consacrate che il giorno in cui vi piangeremo per la
prima volta.

Mi piacerebbe di domandare a cento donne scelte a gruppi nelle diverse
classi sociali come sognano una casa. Scommetto che anche fra quelle
medesime che preferiscono un palazzo o un castello, un _châlet_ o un
villino, una casetta o una capanna, non si troverebbero le stesse
aspirazioni. La donna rispecchia nella casa le gradazioni più indistinte
della sua natura. Si potrebbe dirle: _Dimmi come è la tua casa e ti dirò
chi sei._

Io credo che la mia casa ideale farebbe disperare più d’un ingegnere. La
vorrei fra un giardino pieno di alberi e di fiori, non importa dove;
bassa, a un sol piano, terminata alle due estremità da due stanze
rotonde, coperte a cupola, e circuite di finestre; indi fiancheggiate da
due torrette alte e snelle e accessibili per spaziare nell’orizzonte. Il
corpo della casa dovrebbe essere tutta una sala, e tutta la parete di
mezzogiorno fatta di vetri, come una serra. La luce verrebbe mitigata
dalle piante rampicanti di fuori e dalle tende nell’interno: la gran
sala si dividerebbe in stanze e salottini per mezzo di grandi paraventi
e di pareti sottili e rientranti, all’uso giapponese.

Fiori ed arte dappertutto; e viver là fra i miei affetti e i miei libri.
Non chiederei mai di uscirne... Oh il sogno divino!

                                                             Fine Giugno

Ettore S. e Filiberto U. mi hanno accompagnato ieri, sul vespro, nella
visita che ho dovuto fare alla signora Armanda. Malgrado la mia
coraggiosa difesa e la mia aria severa, quei due monelli hanno riso
tutto il tempo del ritorno pensando al grembiule all’_enfant_ della
povera signora. Infatti i grembiuli danno tale un aspetto di semplicità
ingenua che una signora non li può portare senza stonatura. I soli
grembiuli permessi alle signore sono quelli messi unicamente per salvar
l’abito, per far qualche faccenduola, per giocare coi bambini; i
grembiuli ampi di lana nera o grigia che l’infanzia adora come tutte le
cose che sanno di bontà e di vecchiezza — i provvidi grembiuli che
asciugano le lagrimette, che si riempiono dei balocchi, che si chiazzano
di polvere o di fango, che servono così bene a far lo strascico, legati
alla cintura; i grembiuli che restano nei ricordi dell’età ignorante e
lieta, insieme al viso grinzoso d’una governante, alla dolcezza dei baci
materni.

                                                                1 Luglio

Come alle prime brezze pungenti e alle prime brume che il sole non
riesce più a diradare, ci assale il desiderio dolce di un nido tepido e
illuminato, ora a questi primi soffi molli, a questi primi fulgori che
spossano, s’insinua una tentazione terribile d’ozio e di vagabondaggio.

La scarsa falange dei felici per rinnovare in un diverso ambiente e
colorire diversamente la propria felicità: la gran maggioranza dei
malcontenti per l’illusione d’un sollievo alle noie, alle difficoltà
quotidiane che aduggiano la vita più degli stessi grandi dolori; e
finalmente lo stuolo numeroso degli afflitti che vogliono esser soli col
loro martirio e Dio.

C’è chi sogna il mare ed il suo odor salso ritemprante, la sua sabbia
fine e ardente in cui è così voluttuoso seppellirsi, i suoi cento
aspetti di colori, la sua immensità ritmica e sonante. C’è chi aspira ai
monti, alle stradicciuole petrose, ombreggiate dai castagni, al rezzo
verde mattutino, fra cui mormora e scintilla un fonte salutare. Chi si
slancia col pensiero ancor più in alto, sulle vette purissime soffuse di
delicati riflessi d’aurora, dove solo gli abissi paiono vegliare
insaziati e feroci. V’ha chi si contenta di meno: di una bianca casetta
fra una distesa aromatica di fieno falciato; v’ha chi vorrebbe di più:
una peregrinazione attraverso mari e paesi non veduti; c’è chi tende
agli incanti un po’ mesti dei laghi; ci sono poi, finalmente, dei
fortunati che hanno ancora qualche castello turrito, più o meno
autentico, dove ritirarsi al fresco e annoiarsi, magari, un pochino, da
castellani. Ma esiste pure un gran numero di persone per cui tutti
questi paesaggi rimangono nella sfera durevole e insieme intangibile
delle cose sognate. Quante! Tutti coloro per cui il problema non è di
viver meglio, ma semplicemente e terribilmente di _vivere_. Coloro che
s’agitano nella sfera del piccolo commercio, le famiglie di impiegati di
quarto o quinto ordine che hanno per tutta rendita il magro stipendio;
quelli che campano col piccolo provento d’un’industria o d’una scuola.
Quante volte io penso a questa povera gente che non ha l’epidermide
abbastanza dura per mescolarsi alle distrazioni del popolo e per non
sentire la nostalgia delle distrazioni dei ricchi; tante povere piccole
mani sciupate dall’ago; tanti begli occhi affaticati dai libri; tante
teste grigie indolenzite dai fornelli e dai pazienti rammendi, tante
gambuccie di fanciulli anelanti agli spazii erbosi, alle arene
benefiche.

Ma per loro, per questa povera gente, non c’è che qualche sosta in
qualche pubblico giardino, di sera, quando i negozi e le cure sono
finite, con la prospettiva delle stanzuccie al quarto piano anguste,
brucianti nelle notti affannose; qualche gita fuori di porta la
domenica, coll’incubo, per i giovani, dei desiderii perpetuamente
insoddisfatti; per i vecchi, dei perpetui dinieghi; ci sono le
pianticine di geranio e di viola sul davanzale, le piccole fortune
invidiate di un pergolato di _volubilis_ su un terrazzo di due metri —
gli orizzonti di qualche punta d’albero, di qualche scorcio di viale...

                                                              1 Novembre

Dopo un’assenza un po’ prolungata riapro il mio diario che potrei
chiamare il libro delle sfumature. Malinconiche sfumature quelle d’oggi.
Le sfumature del grigio, del marrone, del bianco; dei colori della
penitenza e delle fredde purezze solitarie. Mi pare che nell’inverno le
tinte gaie dormano il giorno e vivano la notte come la gioconda e lieve
falange dei silfi e delle fate, come tutte le cose ridenti che non si sa
più dove siano. La notte trionfano, folleggiano nei ritrovi, nei teatri,
nei balli, nei conviti; fra pareti rabescate ed ornate, sotto un sole di
gas o d’elettricità, fra il profumo delle essenze, nel prorompere d’una
vita fittizia e artificiale che brucia e non riscalda. Il giorno si
rinchiudono, non si sa dove, negli armadi, negli spogliatoi, nei cofani,
negli angoli, per ricomparire coi primi lumi.

Richiusi, segregati, abbandonati, i vividi colori dormono e sognano.
Sognano la primavera così lontana, così inverosimile, colle sue fresche
tinte di rosa e di viola, col lume del suo tepido sole fecondo,
coll’alito intriso di vivo profumo. Sognano l’estate così morta,
l’estate col suo azzurreggiare di marine, le pompe de’ suoi papaveri fra
il grano biondo, la frescura dei verdi colli, la ferocia del suo sole
meridiano. E anche l’autunno di ricordo recente sognano: l’autunno,
divinamente stanco e mesto delle troppe cose vedute, delle grandi opere
compite, ancora un poco ridente, ma già raccolto, già pio, già presago
dell’imminente sonno eterno... Refrigeranti sogni di ricordi che
conservano ai colori la loro freschezza nativa.

                                                             18 Novembre

L’inverno viene. E sono pochi quelli che lo vedono venire con gioia.
Pochissimi. Voi, forse, che nel dolce settembre consacraste il vostro
amore sognando la luminosa e tepida intimità del nido recente; lei,
freschissima signorina, a cui la stagione dei balli e dei ritrovi
promette facili trionfi; voi, novellini che vi confondete ancora con le
ballerine e le _divettes_ da caffè-concerto, e voi, grandi egoisti, per
cui l’inverno non è che una sfilata di sere illuminate a luce elettrica
e riscaldate a calorifero, affollate di visioni intellettuali e di
realtà elette. Ma per questi pochi, che sterminato numero torce il viso
al Vecchio secolare e fedele, e lo respinge fino a perdita di forze, e
chiama a raccolta per opporglisi tutto l’eroismo di cui può disporre
anima umana! Chi ha intorno al desco famigliare delle teste canute e
venerande e chi ne ha delle piccine e fragili; chi ha uno stuolo
d’angioletti senz’ali da coprir di lana da cima a fondo e chi vigila su
un diletto infermo come su un fiore; chi si prepara faticosamente un
avvenire nella povertà laboriosa e chi lotta per la vita nella miseria.
Tutti, collegiali e soldati, scolari e maestri, operaie e signore, hanno
un movimento d’odio e di ribellione per la stagione spietata che aggrava
ad ognuno il fardello dell’esistenza. Oh il dolore di una recente
perdita, quando la neve fiocca copiosa e lenta dietro ai cristalli a cui
appoggiamo la fronte colla mente alla tomba gelida e lontana! Oh
l’amarezza sconsolata di qualche addio più assoluto della morte, quando
la nebbia cala sulla campagna intorpidita e qualche squilla lontana
saluta il giorno e fumano i casolari dove s’accende qualche lume! Oh le
lontananze lunghe, le attese snervanti, le lotte segrete, le
dissimulazioni eroiche, i desiderii ardenti e vani, nelle brevi e grigie
giornate invernali, quando tutto s’impregna d’umidore malsano, e i
marciapiedi luccicano, e gli ambienti più raccolti e più gentili e più
gai paiono illividire! Oh inverno, come bisognerebbe essere felici per
vederti inoltrare senza sgomento!

                                                             30 Novembre

.... Si è detto e ripetuto che non vi furono mai, come al presente,
tante istituzioni benefiche e un maggior numero di scontenti e di
bisognosi. È perchè la società nella sua evoluzione verso il progresso
si crea necessità che prima non conosceva? È perchè la vita civile
odierna ci pone maggiormente a contatto dei nostri simili e ne sentiamo
più i lamenti e ne vediamo più i bisogni? Fatto si è che i poveri ci
sono e restano, e che ora più del solito sentiamo l’impulso e il dovere
di soccorrerli; ora, nel desolato inverno che le miserie morali e
fisiche ingigantisce come in certi paesi polari s’ingigantisce l’aspetto
delle cose per un fenomeno di rifrazione.

Per i poveri si danza, si canta, si suona, si recita, si fanno gli
alberi di Natale e le lotterie e va benissimo, non sofisticherò: il fine
giustifica i mezzi. Ma la carità vera, cristiana, benefica per l’anima
di chi la fa quanto per l’anima di chi la riceve, è praticata da pochi,
purtroppo. Tutti sanno che la carità diretta, nascosta, da simile a
simile, esercitata con discernimento ed alacrità è nobile e buona: ci
esaltiamo tutti per un atto di filantropìa ben diretto; i libri che ci
nutrirono lo spirito nella giovinezza ne sono sàturi, imbevuti ne sono
quelli che diamo in mano ai nostri figliuoli. Dunque in teoria tutti
d’accordo, ma in pratica? Noi daremo un soldo a un vagabondo per
levarcelo di torno sulla via; ma quante volte, assidendoci al desco
famigliare innanzi alla minestra fumante, ne leviamo una ciotola per la
vecchierella da cui ci separa un muro, che fa rammollire per i suoi
denti malfermi il tozzo di pane nell’acqua e intirizzisce sotto lo
scialle sdruscito? Noi insegniamo ai bambini di cospargere di briciole
il davanzale nevoso della finestra per i passeri vaganti, ma non li
conduciamo che assai raramente nelle case del povero per sollevarlo.

Sarebbe così bello, invece, e così proficuo che ogni mamma dedicasse
un’ora la settimana a qualche visita di carità fatta coi suoi figliuoli!
Che li avvezzasse a veder da vicino miserie che neppur sospettano, e
senza troppa paura della loro tristezza! I piccoli cuori, puri ancora e
impressionabili, si stringerebbero, sì, le tenere menti aperte
istintivamente alla giustizia avrebbero forse un senso di ribellione
contro le leggi supreme ed incomprensibili; ma dalla pietà e dallo
sdegno non germinerebbe uno zelo di compensare, di riparare che
porterebbe il suo frutto nelle età mature?

Se avessi autorità, vorrei raccomandare a tutte le mamme che vigilano
con intelletto amoroso sullo sviluppo morale delle creature di cui sono
la guida e l’esempio primo — vorrei raccomandare di fare del sentimento
della carità una delle basi dell’educazione. Ciò si può fare a qualunque
classe sociale si appartenga: poichè non è l’entità dell’elemosina che
la rende utile e santa. Se ricchi, i ragazzi abbiano un salvadenaro per
i loro piccoli mendicanti protetti, e le bimbe imparino a confezionare
gli abitini, a far calze per loro, e il passaggio nelle squallide
soffitte lasci largamente dolci e doni, come quello delle buone fate
possenti. Se in condizione modesta, fare in modo che i bambini si
privino qualche volta d’un giocattolo, d’un indumento per darlo al
povero; fare che lo dia da sè, a costo del sacrifizio, combattendo
inesorabilmente con ingegnosa cautela ogni possibile spunto di egoismo o
d’indifferenza, due cattivi germi non infrequenti di cui vediamo
purtroppo fra gli uomini lo sviluppo rovinoso. «Quando un bambino fa
l’elemosina, dice il gran bardo dei fanciulli, il De Amicis, è come se
dalla sua mano cadesse insieme un obolo e un fiore». È infatti una così
suggestiva gentilezza, una visione così pura, così spirante tenerezza e
bontà, che invita a inginocchiarsi per pregare....

                                                              5 Dicembre

... Ho letto in questi giorni un libro non nuovo, assai vecchio anzi;
ma, senza far torto a nessuno, quante volte ci si pente d’aver aperto un
libro vecchio a preferenza d’uno nuovo? un libro ch’io chiamerei
volentieri _di stagione_. È il _Voyage autour de ma chambre_ di Saverio
de Maistre e lo dico _di stagione_, perchè insegna a viaggiare in modo
molto comodo ed opportuno per l’inverno, viaggiare senza muoversi dal
canto del fuoco; e, come Dante nel pelago buio, discendere negli oscuri
recessi dell’anima, e risalire come lui di stella in stella nei campi
luminosi del sogno. Viaggiare intorno alla propria camera, sostando
sugli oggetti noti e cari, vuol dire viver fuori del tempo, nel passato
e nell’avvenire, sfilar ad una ad una le ore vissute come i chicchi di
un rosario, chiudendo con un’invocazione pia e ansiosa che par
preghiera, contar ad una ad una le giornate del futuro come i bocciuoli
di un virgulto accarezzato e protetto. Il letto, che è il santuario
della vita e della morte, il rifugio del dolore; lo specchio il
consigliere fedele e schietto che accoglie lagrime e sorrisi, freschezze
e rughe, veli bianchi e veli neri; e il tavolino da lavoro a cui ci
assidemmo nelle trepide vigilie e negli squallidi indomani; e la piccola
scrivania complice e responsabile, e la poltroncina insidiosa per la
nostra attività, di dove udimmo una voce, una parola che non
dimenticheremo più.

Poi i quadretti, le fotografie, i gingilli, ognuno dei quali ha una
storia, un episodio, un ricordo, cristallizzazioni tenui e gentili di
goccie che caddero nel gran mare dell’eternità. Se ogni donna
raccontasse la storia della sua camera, racconterebbe quella della sua
vita. Nessuna lo vorrebbe forse, ma qualcuna, chi sà? la racconta come
me a sè stessa e pensa col Mantegazza che il piacere della proprietà,
per quanto esigua, è uno dei più dolci piaceri. Una signorina,
intelligente quanto simpatica, mi ha detto un giorno: — Io non amo una
cosa quando è bella, l’amo quando è mia.

                                              ..... una sera di Dicembre

Ho incominciato questo libriccino inneggiando, quasi, alla solitudine
delle serate invernali; ora, all’ultima pagina ne provo un improvviso
sgomento.... È il tempo dell’intimità, della vita buona della famiglia.
Non c’è scapolo, per quanto sventato, che non abbia sognato in una
rigida sera nevosa un angolo di caminetto e una personcina sottile; non
c’è vecchio celibe, per quanto impenitente, che non abbia pensato un
attimo, udendo battere la pioggia contro i vetri, a un sorriso di bimbo
e a una mano di donna più accurata di quella della fedele governante.
Oh, sogni e pensieri brevi, s’intende, che non tornano più in primavera,
che in primavera si disfarebbero anzi, se un momento galeotto avesse
permesso che si desse loro la tessitura della realtà. D’accordo. Ma
anche per il sogno d’un attimo e per il pensiero d’un istante s’accresce
la gloria radiosa del focolare; gloria che è un poco quella di noi
donne, poichè ne siamo le vestali e le regine.

Tutte le donne che vogliono essere e rimanere squisitamente tali,
dovrebbero amare l’inverno; e non perchè la vita mondana che riprende
con maggior impulso permette loro di mostrarsi più belle, ma perchè la
vita della casa nella sua maggior fragranza permette loro di mostrarsi
più buone. Lo _sport_, i viaggi, l’alpinismo, il ciclismo, tutti i
pretesti di vagabondaggio estivo non ci rubano più gli uomini; molti
affari anche, molte professioni, danno qualche tregua l’inverno; le
forti mani, leggermente incallite nei violenti esercizi fisici e stanche
di regger la penna, si riposano volentieri a far l’arcolaio a una
matassa di lana, o a riordinare le gradazioni delle matassine seriche, o
a prendere e posare il porta-aghi, le forbici, gli innumerevoli ninnoli
che ingombrano gli astucci e le cestelline da lavoro. Sono le ore in cui
i teneri e vigili cuori femminili irraggiano e riscaldano; le ore in cui
tutte le donne devono diventare un po’ mamme: collo sposo, col fratello,
coll’amico. Quanti preziosi consigli, quante refrigeranti parole, quante
efficaci esortazioni, quanto luminoso seme d’idee può cadere dolce e
lento da un labbro femminile sul cuore del suo compagno, mentre le
piccole mani s’industriano, creatrici o riparatrici, e le leggiadre
teste sono chine sul lavoro e gli occhi belli non guardano e non
turbano! Chi può dire le opere magnanime, i capolavori, le decisioni
coraggiose e riabilitatrici di cui hanno gettato il primo filo queste
Aracni pie dell’intelletto d’Amore? _Cherchez la femme_, la donna, sì,
cercate la donna, ma non solo in fondo agli intrighi volgari; cercatela
in fondo a tutte le opere belle, a tutte le opere grandi, a tutte le
opere buone: un sorriso o una lagrima di donna sono nella base d’ogni
ideale opera umana, come nelle fondamenta degli antichi edifizii i
frammenti di marmi preziosi e le monete d’oro......



                       Giosuè Carducci: — Cadore.


[Pubblicato la prima volta nella «Cordelia» giornale per le giovinette,
                               anno XI.]

È il terzo anno che mentre il settembre tramonta nella sua placidità
cristallina, e precisamente in una giornata che ha l’aureola d’oro di un
anniversario glorioso, il più grande dei viventi poeti italiani ci
regala un fior dell’Alpe come un’ideale medaglia di commemorazione. A
Giosuè Carducci, che pare aver soltanto la nobile ambizione d’udirsi
chiamare il poeta civile d’Italia, inchiniamoci oggi in atto di
ringraziamento: noi signore, che rappresentiamo la gentilezza presente:
voi, signorine, che con miglior fortuna forse, continuerete a
rappresentarla nel futuro.

Piemonte, La bicocca di San Giacomo, Cadore — possono essere tre canti
d’una non lontana epopea destinata a eternare nelle plaghe dell’arte ciò
che nel torbido mondo degli uomini potrebbe essere dimenticato.

Nessuno più degno del Carducci di questa alta missione.

Egli non tramanderà alle genti nuove le ricchezze eroiche del nostro
passato vestite puerilmente all’ultima moda, ma drappeggiate
classicamente in tutta la purezza di un’arte che non morirà, perchè in
lei palpitano elementi della bellezza immortale. L’ode è scritta nel
metro inventato dal più antico dei poeti lirici eolii — il metro
prediletto dal Carducci che amò dirsi l’ultimo de’ loro figli; con un
intermezzo in archilochio-eroico efficacissimo. La ideò, pare, nella
piazza di Pieve di Cadore la cui fotografia si vede unita all’opuscolo.
Come gli antichi nelle loro creazioni si compiacevano di avvicinare la
forza alla bellezza, così il Carducci canta riuniti un artista e un
martire: il Tiziano, che rese illustre il paesetto in cui nacque; Pietro
Calvi, che lo rese glorioso. Il monumento dell’uno grandeggia; il
profilo dell’altro si disegna in un medaglione, modestamente, fra un
ricordo marmoreo dedicato ai Cadorini caduti nel 1848 per l’indipendenza
Italiana. Ma ambedue sono ugualmente grandi per la patria; ambedue
ugualmente degni di esser celebrati dal poeta.

È bellissima questa fusione dei raggi luminosi delle due anime: quella
del genio e quella dell’eroe. «Sei grande» dice il poeta al genio:

    «Sei grande. Eterno co ’l sole l’iride
    de’ tuoi colori consola gli uomini,
    sorride natura a l’idea
    giovin perpetua ne le tue

    forme. Al baleno di quei fantasimi
    roseo passante su ’l torvo secolo
    passava il tumulto del ferro,
    ne l’alto guardavano le genti;

    e quei che Roma corse e l’Italia,
    struggitor freddo, fiammingo cesare²
    sè stesso obliava, i pennelli
    chino a raccogliere dal tuo piede.

   ² Carlo V.

E dopo aver richiesto dello spirito magno l’austero silente chiostro de’
Frari e i monti paterni e il cielo azzurro che ride e bacia la candida
statua, continua:

    Sei grande. E pure là da quel povero
    marmo più forte mi chiama e i cantici
    antichi mi chiede quel baldo
    riso di giovine disfidante.

    Che è che sfidi, divino giovane?
    la pugna, il fato, l’irrompente impeto
    dei mille contr’uno disfidi,
    anima eroica: Pietro Calvi.

Poi con forza ed emozione crescenti — poichè pare che l’eroe tocchi più
dell’artista il cuore e l’estro del bardo — egli scongiura che finchè il
Piave scorra ingombro dei ruderi delle selve che diedero pini al vecchio
S. Marco, e finchè il sole occiduo colori i monti delle Marmarole, sì
che

    rifulgan, palagio di sogni,
    eliso di spiriti e di fate,

    Suoni soave, suoni terribile,
    ne i desideri da le memorie,
    o Calvi, il tuo nome; e balzando
    pallidi i giovini cerchin l’arme.

                                  ***

O gentili e trionfali figure del nostro Risorgimento, come siamo liete
noi donne e fanciulle, noi giovani, di rintracciarvi rilucenti fra i
versi magnifici, come i guerrieri eletti nel dantesco dolce aere
luminoso! E pare davvero un personaggio dantesco questo giovane capitano

    «biondo, diritto immobile,»

che nel sole di maggio sventola fieramente contro al nemico il segnale
della guerra, la guerra dell’affrancamento, l’unica guerra santa.

    Afferran l’armi e a festa i giovani tizïaneschi
      scendon cantando Italia;
    stanno le donne a’ neri veroni di legno, fioriti
      di geranio e garofani.

    Udite: Un suon lontano discende, approssima, sale,
      corre, cresce, propagasi;
    un suon che piange e chiama, che grida, che prega, che infuria
      insistente, terribile.

    . . . . . . . . . . . . . . . . . .

    Che è? chiede il nemico venendone all’abboccamento,
      e pur con gli occhi interroga.
    Le campane del popol d’Italia sono: a la morte
      vostra o a la nostra suonano.

    Ahi, Pietro Calvi, al piano te poi fra sett’anni la morte
      da le fosse di Mantova
    rapirà. Tu venisti cercandola come la sposa
      celatamente un esule.

    Quale già d’Austria l’armi, tal d’Austria la forca or ti guarda
      sereno ed impassibile,
    grato a l’ostil giudicio che milite il manda a la sacra
      legïon de gli spiriti.

    Non mai più nobil alma, non mai sprigionando lanciasti
      a l’avvenir d’Italia
    Belfiore, oscura fossa d’austriache forche, fulgente
      Belfiore, ara di martiri.

Dopo le rapide ed efficaci impressioni di quei giovani belli e arditi
che corrono alla morte cantando il nome della loro terra, di quelle
donne ai balconi, di quel rintocco insistente, crescente, diffuso delle
campane, di quell’intrepido martire nella valle dal poetico nome —
impressioni date magistralmente; il cantore in un ultimo impeto
patriottico impreca a chi dimenticasse quel martire, a chi negasse la
patria:

    e a chi la patria nega, nel cervello, nel sangue
    sozza una forma brulichi
    di suicidio.....

la tortura morale più orribile, la tortura dei vili....

Nella terza parte il Carducci, «lasciando dietro a sè mar si crudele,»
torna alle serene bellezze del Cadore nel metro alcaico, in una pittura
di paesaggio stupenda:

      ..... Lento nel pallido
    candor de la giovine luna
    stendesi il murmure de gli abeti
    da te, carezza lunga sú ’l magico
    sonno de l’acque. Di biondi parvoli
    fioriscono a te le contrade,
    e da le pendenti rupi il fieno

    falcian cantando le fiere vergini
    attorte in nere bende la fulvida
    chioma; sfavillan di lampi
    cèruli rapidi gli occhi: mentre

    il carrettiere per le precipiti
    vie tre cavalli regge ad un carico
    di pino da lungi odorante
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Ma poi sul finire gli sfugge di nuovo uno de’ suoi gridi titanici: un
grido di Prometeo:

    Io vo rapirti, Cadore, l’anima
    di Pietro Calvi; per la penisola
    io voglio su l’ali del canto
    aralda mandarla.

Per ora è questa — dice il poeta — non quella del Vecellio che richiede
l’Italia. Quando l’Italia sarà tutta forte, tutta vittoriosa anche nello
spirito dei suoi figliuoli, allora chiederemo a Tiziano che ne dipinga
il trionfo nel più bello e nel più memorabile dei suoi monumenti: nel
Campidoglio.

Spirito eroico e gentile evocato da un sommo, fa che non sia remoto quel
tempo! fa che i giovani d’Italia non ti sentano vanamente passare!



                             Il conte zio.


[Scritto per una specie d’inchiesta aperta dal _Fanfulla della Domenica_
 su una pretesa contradizione riscontrata nel carattere del «Conte zio»
                     dei Promessi Sposi. N. d. A.]

L’invito è cortese, la questione attraente e tentatrice; ma, consapevole
della mia pochezza, scendo in lizza timidamente, nascondendomi il più
che è possibile all’ombra di quel gran nome, che i vecchi adorano e che
tutti i giovani — manzoniani o no — dovrebbero inchinare reverenti.
Intanto rileggendo attentamente quel bellissimo capitolo decimonono dei
_Promessi Sposi_, in cui le qualità più simpatiche dell’autore rifulgono
di viva luce, si è tratti subito ad ammirare la magistrale sapienza del
Manzoni nel dialogo, tanto per la fine ed ingegnosa condotta alla
conclusione, come per la naturalezza inimitabile. Quelle esitazioni,
quelle frasi lasciate a mezzo, e non solamente in bocca al Conte Zio,
per cui sono una caratteristica, ma pur anche in bocca del padre
provinciale, è arte finissima per indurre il lettore a credersi
veramente spettatore invisibile dei due interlocutori, che parlano con
le esitazioni vere di chi cerca la parola esatta o l’immagine
appropriata nel discorso.

Ed ora entrando in materia, per esporre coraggiosamente il mio parere,
soggiungo che non mi pare di riscontrar contradizione alcuna fra le
linee generali del carattere del Conte Zio e il suo modo di trattare la
faccenda col molto reverendo padre: giacchè se il Conte ci viene
raffigurato dall’autore come un barattolo di farmacia vuoto di dentro,
sappiamo pure che aveva su certe parole arabe per mantenere il credito
alla bottega; e il credito non l’avrebbe mantenuto, se invece di usare
di quelle «spalmature di vernice che la politica a più mani aveva messe
sopra il suo viso,» fosse entrato impazientito a piè pari
nell’argomento, narrando brutalmente al religioso la storiella
scandalosa di fra Cristoforo: tanto più che da certe reticenze del padre
provinciale, da certi tentativi di difesa, egli ha dovuto intendere
facilmente che non era quello il bandolo, e che la stima in cui si
teneva o a torto o a ragione fra Cristoforo, avrebbe forse reso
inefficace quell’accusa troppo grave facendo gridare alla calunnia.

Quindi bisognava che il magnifico signore s’attenesse al verosimile per
non urtar troppo il molto reverendo padre, tanto più che fra i due
(parla il Manzoni) «passava un’antica conoscenza; s’erano veduti di
rado, ma ogni volta con gran dimostrazioni d’amicizia e con proferte
sperticate di servigi:» un’amicizia insomma piena di riguardi e di
cerimonie.

L’offesa recata a fra Cristoforo con quell’accusa era un’offesa
all’abito che portava l’amico molto reverendo, il quale stava appunto
cantando di quell’abito la gloria e i miracoli. Così la confidenza di un
semplice urto fra il padre Cristoforo e don Rodrigo, condite con le
solite reticenze di quel «parlare ambiguo, quel tacere significativo,
quello spingere d’occhi che esprimeva non posso parlare,» era proprio
quello che ci voleva in quel momento per conseguire il suo intento senza
metterlo nell’imbarazzo di parlar chiaro — cosa, che con quel suo metodo
doveva riuscirgli abbastanza difficile. Insomma, fece nè più nè meno del
solito, e questo mi pare che vada d’accordo con le linee generali: la
mancanza di coltura, di dottrina, d’ingegno, la sua sufficienza boriosa
con cui si convinceva certo che se un individuo qualunque dava noia alla
sua casa, quell’individuo era bell’e spacciato — si scacciava come una
mosca importuna — motivo di sfratto che doveva solleticare la sua vanità
più del racconto esplicito dell’intrigo di fra Cristoforo.

Inoltre, essendosi Attilio scaltramente indugiato sulla necessità di
garantire l’onore del casato dalle ironie di quel frate che «trova
maggior gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questi ha un
protettore naturale di tanta autorità come Vossignoria (il Conte Zio) e
che egli se ne ride dei grandi e dei politici, e che il cordone di San
Francesco tien legate anche le spade...», la boria spagnolesca del Conte
Zio dovè sentirsi punta tanto sul vivo da queste parole ardimentose
riferitegli, da fargli mettere subito in seconda riga la storiella
scandalosa, salvo poi a servirsene come ausiliario, se il padre avesse
negato o promesso vagamente ciò ch’egli chiedeva.

Ed ora mi parrebbe che si possa continuare a giudicare il Conte Zio per
quello che è sempre stato — uno cioè che ha solamente la verniciatura
del grand’uomo — per il barattolo vuoto, per lo spaccone che crede di
acquistar credito — e lo acquista in quel pubblico! — raccontando
d’essersi sentito domandare, in presenza di mezza la Corte, come gli
piacesse Madrid: di aver visto da un posto distinto le caccie del toro,
e di essersi udito dire dal conte duca, a quattr’occhi, nel vano di una
finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse nei
dominii del re. L’omissione di un accenno a Lucia nel dialogo col
provinciale non è avvedutezza, ma imbarazzo complimentoso, boria e un
pizzico di quella diplomazia che l’autore gli dona, e che non si può a
meno di concedergli in una posizione come la sua, che poco o tanto della
diplomazia ne doveva insegnare.



                          Questioni femminili.


                                                              _A Neera_.

È con tutta la deferenza ch’io oso dirigervi la parola, signora,
maestra. La vostra voce dolce e ferma è la sola voce di donna in Italia
che ci ripeta con gentile ritornello qualche cosa che sta un po’ più in
su dell’arte di ornare un abito o di addobbare un salotto, ma che non
cessa forse di esser arte: arte spirituale. Io sento il desiderio,
intanto, di ringraziarvene vivamente per conto mio; e perchè no? anche a
nome delle tante che vi innalzano in silenzio la loro riconoscenza — le
quali poi forse, dopo, ringrazieranno me.

Ed ora che vi è noto il mio animo, continuo con più coraggio. Vorrei
esporvi qualche riflessione che sono andata facendo fra me mentre
leggevo il vostro ultimo articolo, _Il lavoro della donna_, con molta
attenzione, come leggo ogni scritto firmato da voi.

Signora, voi parlaste di felicità; voi intendete di guidarci
animosamente col vostro magico filo di seta attraverso al laberinto
fosco e intricato della vita, fino alla terra promessa, dove non
piangeremo più. Oh, ditemi, sarà possibile? Io che vi seguo con energia,
con impazienza quasi, quando mi parlate di conforti, di lotte, di
altezze, ora, alla rilucente parola vana m’assale tutta la stanchezza
del cammino. No, gentile, non ci parlate di felicità: in casa o fuori,
nella cattedra o nella poltrona accanto al fuoco, noi non la troveremo
mai, lo sappiamo: è la voce dei secoli che ce lo dice: è l’eco della
vostra voce di ieri che ci incitava severamente al martirio. Non
c’illudiamo, dunque, è meglio; poi la ricerca ostinata affannosa della
felicità è un egoismo supremo. Lasciamolo agli uomini. Mettiamo un’altra
parola invece, una parola pia, umile, buona; diciamo: _consolazione_.

Si tratta quindi di consolarci con un’elevazione morale delle
ingiustizie, dei travagli, delle pene che piovono sul debole capo della
donna — non so perchè — in maggior quantità. E se questa consolazione,
per le circostanze, o per l’indole, o per l’educazione, qualche donna
può trovarla vera ed efficace fra le miserie di un ospedale o fra le
luminosità del regno dell’arte, perchè l’uomo, il suo compagno, dovrà
dire a costei che non sarà mai una fuggitiva ma sempre una diseredata:
vattene, qui non c’è posto per te!? — Per rimetterla ad ogni costo nello
stretto circolo delle attribuzioni domestiche? Ma se il suo focolare è
freddo? E questa anima grande e severa avida di ritemprarsi alle fonti
della scienza, credete che potrà raccogliervisi e rassegnarsi a
spegnersi anch’essa inutile e infeconda? A vantaggio di che?

Mi fanno ridere quelli che parlano di concorrenza. Come se non fosse
molto più comodo e più facile per la donna di rimanersene nella sua casa
a far qualche lavoruccio, leggere qualche romanzo, a strimpellare
qualche melodia; come se la via che ci guida a un ideale qualunque,
appena fuori della soglia domestica non fosse, per noi, infinitamente
più ardua e più ingombra che per gli uomini!

Spero che avrete notato ch’io non ho parlato di toga, nè di cattedra,
cose ch’io credo incompatibili con la natura femminile, almeno nelle
razze latine. Io non ho perorato che per l’arte — tutta l’arte — e una
sola scienza dove sono convinta che la donna può esplicare mirabilmente
tutte le buone doti del suo sesso: la medicina. Del resto, biasimandola
o encomiandola, lasciatele libero, pienamente, il campo d’azione: fate
che non sia relegata accanto alle culle dei bimbi o alle poltrone dei
vecchi, ma che vi rimanga lei per elezione, per scelta, e ci resterà, io
sono sicura che ci resterà, finchè i vecchi e i bambini avranno bisogno
di lei. E se non ci resterà, io preferisco saperla misericordiosamente
china su un altro bambino malato, piuttosto che su di una tazza di thè
in un salotto pieno di galanteria; io preferisco vederla strappata al
focolare dall’arte o dalla scienza, piuttosto che dagli aridi ascetismi
del monastero... Voi siete intelligente, non vi scandalizzerete, lo so.

Poi, ditemi, signora: credete che la donna ci perderebbe assai a
_mascolinizzarsi_ (come voi dite) un poco? Trovate voi che la donna del
secolo decimonono sia arrivata a un punto tale di sprezzatura, di
praticità, di aridezza, di pedanteria, da dover dirle: arrestati o la
donna non ci sarà più!? Io veramente non me ne accorgo, e finchè una
maggioranza femminile mi dà a meditare sulla causa dell’attività e della
stanchezza delle loro giornate, e finchè veggo le mamme inculcare ai
futuri legislatori, agli artisti futuri l’arte difficile del vestirsi
elegantemente, mi pare che a quegli estremi siamo ancora lontani, e
sopratutto mi pare per il bene delle generazioni future che un po’ più
di serietà, di tempra nella donna, non sarebbe proprio male.

Che volete, signora; io ho a questo proposito idee tutte mie, false
forse, ma ho delle idee, ciò che è sempre meglio che non ne avere: io
credo che una franca, geniale, semplice scambievolezza di rapporti
morali fra un sesso e l’altro, senza misticismi e senza sensualità,
quella simpatica e sana amicizia che si ordisce solo quando le anime
sono rivolte a un faticoso intento comune, non farebbe perdere nè alla
donna la sua delicatezza, nè all’uomo la sua forza. Sono elementi
naturali in essi e la natura si lascia mitigare, mai fuorviare. L’uomo
imparerà a stimarci e ad apprezzarci di più; la donna diventerà più
forte e meno civetta: e se anche a lei resterà un po’ meno di tempo per
amare, gliene resterà anche di meno per... pentirsi a tornare da capo.

Via, gentilissima, non ci facciamo illusioni: siccome non siamo santi e
siccome io spero che non lo diventiamo del tutto, una collaborazione
spirituale come voi e molti eletti la sognano non si può ottenere per
ora che mediante un tale esaltamento e a casi tanto isolati che avrà
tutta l’aria di una mostruosità. Non bisogna forzarla, bisogna
prepararla. La donna, ieri schiava, non può diventar regina oggi senza
esser prima la compagna vera, intelligente, operosa; senza saper prima
di che sono fatte certe lotte e certe vittorie. Quando l’uomo cesserà di
dirle: — Taci, tu non te ne intendi, — solo allora ella potrà animarlo,
ispirarlo, consolarlo, efficacemente, durevolmente. Noi conosciamo poco
e male gli uomini, credete; e gli uomini conoscono malissimo noi. In
ogni modo una dedizione cieca, assoluta, quasi suggestionata, sia anche
della donna superiore, per l’uomo superiore, io non la ammetto; perchè
quella donna non sarà mai compensata, nè intesa, nè adorata abbastanza;
perchè l’uomo superiore se vedrà un bel visino malinconico (che magari
non sarà che la maschera di una testa vuota), quell’uomo ci farà su una
creazione così splendida e così inverosimile, che l’amica intellettuale
e meno favorita dalla fortuna non avrà di meglio a fare che
volatilizzarsi e sparire.

Io, mia signora, confesso, non ho la vostra bella fede che nessun
sacrifizio di donna sia stato perduto, nessuna lagrima dispersa; io
penso prosaicamente che molte margherite furono gettate... a chi sapete,
e, per consolarmi, che la maggior parte dei nomi di donna che si leggono
nelle opere d’arte d’un uomo non furono degni della lor parte di gloria.

Pure, quando trovo nelle letterature nordiche che ora pare gettino una
fredda ombra anche sulla vita — quando trovo un modello di donna eletta
compiere freddamente, calcolatamente, un adulterio nel morboso delirio
di fabbricare in quell’ora l’uomo ideale, e ritornarsene poi nella sua
casa, fra i suoi figliuoli a viverci _come prima_ aspettando che le
nasca il Messia — io mi sento fortemente tentata di preferire a questo
mostro intellettuale _les jolis zéros_ della fresca e ignorante amante
di Rivarol il quale non le chiedeva che d’aver dello spirito come... una
rosa!



                             Pleiade nuova.



                                   I.


                     _Elda Gianelli_: «_Riflessi_»
[Pubblicato la prima volta nella _Cordelia_, giornale per le giovinette
                              — anno XI.]

L’altra mattina — una mattina caliginosa di questo inverno musone — un
fior di biancospino è piovuto nella mia stanza. Veniva di lontano, da un
lembo estremo d’Italia sorriso dall’azzurro mare, veniva sull’aria
umidiccia a portarmi una carezza di primavera.

Parlo di un volumetto; niveo, leggiadro, su cui riluce un gentil nome
femminile non più nuovo, e un titolo (oh i titoli!) per delicatezza e
per simbolo affascinante. Lo apersi, lo scorsi, e l’impressione di
primavera rimase; il fior di biancospino mi donò tutto l’olezzo schietto
della sua corolla silvana di un’amarezza velata di soavità. Così sono i
versi di Elda Gianelli, nati dal dolore di un’anima ancor giovine;
alimentati da una fresca vena di poesia abbondante qualche volta sino
all’insofferenza dei limiti. Spesso la coppa trabocca. La causa è
carina, non c’è che dire: è un petalo di rosa: pure, quando manca, i
riflessi sono più coloriti e più profondi. Io la vorrei sempre come in
«Romanticismo» e in «Pace», due bozzetti in cui la fine sobrietà lascia
navigar la mente in un mare di fantasie donandole più godimento di una
lunga lirica o di un poema ingegnoso dopo i quali non resta più nulla da
indovinare. Udite, signorine:

                                  PACE

      Strani su l’acqua cheta
      L’ombre formando vanno
      Intrecci; una segreta
      Storia quell’ombre sanno.
    Passa la luna lieta,
    Le immobili alghe stanno;
    La storia del poeta
    Non esse tradiranno.
      Si riuniron lente
      Sovra la testa bruna
      Ch’or posa dolcemente
    Nel molle greto. Alcuna
    Sul bel fronte pallente
    Cura più non s’aduna.

Il dramma di quelle ombre conscie e mute, che traspare appena dalla
breve poesia come il delitto da una poetica leggenda, evocandoci fronde
e mormorii intorno a una pallida parvenza, suscitandoci una pietà strana
per un ignoto martirio, ci scuote, non è vero? come un’arma corrosa
trovata per caso in un’aiuola fiorita. Leggiamo ora questa, che io, non
so bene perchè, prediligo:

                              ROMANTICISMO

      Piegò la bella dama
      La bianca fronte austera:
      In atto di preghiera
      Giunse le mani e: M’ama,
    M’ama! tra sè proferse,
    La intese appena il core;
    Pur tutta di rossore
    La fronte si coverse.
      E con triste abbandono
      Si sciolsero le mani...
      E de i detti profani
      Al cor pregò perdono.

                                  ***

Oh la poetica visione! Vedete voi, seduta nella gran scranna massiccia
la fragile dama rigida e pura come una Vergine di Sandro Botticelli? Le
mani giunte sono fini e lunghette, china l’altera fronte di castellana,
pensoso e vigile l’occhio che sogna l’amore. Intanto dal balcone gotico
inghirlandato di gelsomini sale la melodia d’un liuto e d’una voce che
plora nel fresco e rustico idioma provenzale....

La dama sogna, l’incognita dama; ma ecco s’agita, s’anima, vive: le mani
le cadono prosciolte in grembo, il petto si gonfia di sospiri. Chi sei
tu? Forse Maria di Champagne, la patrona dell’amor cortese? o Giovanna
di Fiandra, auspice di poemi? o Jolanda, contessa di Saint-Pol, che
presiedeva alla prima traduzione della vecchia cronaca di Turpino? o
Maria di Francia, la soave cantatrice di «Lai» in cui vibra una tenera
passione tutta nuova, l’autrice immaginosa che fantastica di cavalieri
amati dalle fate, di regine amoreggianti coi misteriosi cavalieri del
lago, di paesi incantati dove trecento anni passano come tre giorni; la
creatrice dei leggendari nomi di Bisclavret, d’Eliduc, di Guingamor, di
Tiolet, di Grisedelis, cespiti di chi sa che fioritura....

O Dio, ma dove volo con la fantasia? Signorine, non v’arrabbiate.... mi
pareva d’esser sola....

Ora, ai piedi dei due componimenti ispiratori, se io non fossi
un’orecchiante in materia poetica, vorrei osservare che fra la non
scarsa varietà di metro che la Gianelli adopera sapientemente, il
settenario è quello che le s’addice di più. Ma non facciamo questioni
tecniche. La tecnica è come l’osso: guai se la intacca un ferro
inesperto. E in grazia dell’esattezza non arricciate il naso, vi prego,
al chirurgico paragone.

Un sonetto che rispecchia una Provenza _autentica_ è quello ispirato a
Clemenza Isaura di Tolosa, il quale insieme ai due sul Verno e all’altro
intitolato: «Ruina» accentuano tra gli altri una nitidezza disinvolta e
una certa profondità d’osservazione e di pensiero che meraviglia e
rallegra in una giovane autrice. Leggiamone uno per saggio:

                            CLEMENZA ISAURA

    Dolci, o soave tolosana, i mali
    Che il vostro labro in dolci versi ha pianto;
    Vaghi i casti pensier del vostro canto
    Come colombe da le candid’ali,

    Visser nel puro ciel de gl’ideali
    La mente vostra e il vostro cor d’incanto,
    E secolar di voi rimase il vanto,
    O regina de’ giuochi floreali.

    Bei tempi i vostri! A l’innocente gara
    I poeti correan; stuolo cortese,
    Per un fior d’eglantina ed un sorriso.

    E Amor sol era dilettosa o amara
    Cagion de’ carmi, e del dolor palese
    D’uno, pronto ogni cor gemea conquiso.

Che ve ne sembra? Non par di sentire il Marradi con una sottil vena di
passione di più?

Volevo voltare in fretta alcune pagine, ma non posso. Questi due sonetti
mi attraggono irresistibilmente:

                           PENSIERO D’INVERNO

                                   I.

    Oh, l’inverno del cor! la nebbia greve
    Che sul vibrante cerebro s’adima!
    E la memoria d’ogni sogno lieve
    Fa che, peso insoffribile, l’opprima!

    Oh, l’inverno nel cor, quando ancor breve
    È la via corsa, allettatrice in prima;
    E dormon sotto a la precoce neve
    Per sempre i fiori onde appariva opima,

    Passa il garrulo maggio, e ride in festa
    La terra, e dice al cor: vedi? la vita
    Si rinnova e l’amore. Or, su, ti desta!

    Ma come a maggio landa isterilita
    Non dà fil d’erba, il cor gelido resta,
    La virtù del rinascere smarrita.

                                  II.

    E al capo mio ridea la primavera
    Quando il verno sul cor impronto scese;
    E s’aprìa l’alma giovinetta altera
    A’ lieti sogni, quando il gel la offese.

    E rapida calò da l’alba a sera
    La sua giornata, a la stagion scortese;
    Ella non fe’ lamenti, non preghiera,
    E romita tra l’ombre ombra si rese,

    Ed amò il verno, che la pace assente
    Profonda, e al germe di fallaci fiori
    Chiude la vita, inesorabilmente:

    Il verno, immite a’ giovanili cuori,
    Ma non ingrato alla severa mente
    Nel suo disprezzo di lucenti errori.

                                  ***

Ecco l’amara e copiosa fonte dell’ispirazione: il Dolore; ed ecco i
versi più spontanei di Elda Gianelli. Qui anche la chiusa è serrata e
succosa, mentre, lo dico per incidente, spesso gli ultimi versi delle
sue composizioni sono meno felici dei primi. Per esempio questo
principio di due fluenti ottave:

    Come una vela candida e romita
    Naviga il mio pensier per l’ampio mare

promettevano per la fine qualche cosa di più; ed anche l’altro grazioso
primo verso:

    O solitaria perla del core,
    Pensier...

e questi, soavissimi, dopo il titolo di «Riflessi:»

    Voi siete i fiori dell’anima mia,
    Anima triste, fior senza colore;

ci fanno sperare una progressione che non viene e la cui mancanza ci
lascia un po’ freddi, stavo per dire tristi, come in musica la
risoluzione indefinita d’una armonia.

In compenso però la strofa corre sempre agile e alata, e, come dissi,
l’idea palpita sotto il fragile involucro gentile. Le «Ruine» contro cui
si frangono i secoli e che una latente forza, minuta, paziente continua,
può, in un secondo, avvallare; «Leggendo Byron» ne’ cui canti ella cerca
con un desiderio scrutatore e con una fine intuizione tutta femminile la
poesia di ciò che tacque e l’oscuro poema d’un cuor di sposa che nessuno
penetrò; i «Grotteschi» d’un dipinto, che le danno un ribrezzo e un
fascino di mistero Eleusino; il sanguinoso episodio di vendetta ch’ella
coglie nell’«Edda» la epopea nordica — lasciandoci l’impressione eroica
e pietosa della tronca testa imbrattata di Swankilda dai capelli d’oro;
tutto ciò non è sentimentalismo nè larva di poesia. E nel
sentimentalismo non ci cade mai; anche se rivolge lo sguardo pensoso e
il bel cuor di donna alle miserie che la circondano, e s’intenerisce al
sogno del piccolo suonatore girovago o prevede un morticino prossimo nel
bianco fanciullo che incontra in chiesa il dì dei morti:

    Un gramo fanciullin da gli occhi strani,
    Come smarriti, d’animuccia in bando.

ci dica il segreto di passione d’una giovine morta che par sorridere in
pace, o si ricordi d’un vespro mestissimo; sospiri allo sfogliarsi delle
rose o aneli di dileguare nell’infinito, Elda Gianelli non è sdolcinata
nè manierata, mai. Le sue rime la rivelano una forte e amorosa tempra di
donna, un’anima eletta di fanciulla. Deve essere bruna e ardente come la
Sulamite; lei stessa confida al fiume che è irrequieta come lui, che
come lui corre verso un destino ignoto; coraggiosa, fiera, celando lotte
e ferite con la pudicizia del dolore ch’è nelle anime superiori e
virili, fermentando qualchevolta in una protesta, in un slancio di
libertà ribelle, calda, onesta, schietta, temperata sempre
donnescamente.

Poichè la fervida poetessa dal nome alato è sopratutto _donna_. Essa
deve appartenere a quella fortunata categoria di signore a cui gli
uomini perdonano volentieri di adoperare la penna perchè sanno maneggiar
l’ago con la stessa maestria, la stessa facilità. Quella fanciulla bruna
che la Gianelli ci dipinge seduta ad un verone rivestito d’edera, che
agucchia con la mano leggiera e il pensiero vagabondo, in faccia al
mare, al gran mare, deve esser lei; e se Elda non fosse una cara
figliuola non avrebbe sentito così intimamente la poesia umile e vera di
quel «picciolo tinello» nelle «dolci sere» di riunione domestica; in cui
il suo pensiero ardito e indomabile e i drammi del cuore le paiono una
stonatura e una menzogna. Eppure no, è l’augellino avido di azzurro a
cui il morbido nido non basta più, e si slancia..... ma l’impressione
dolce del muschio fra cui nacque e la fragranza delle erbe che
allacciavano la sua cuna gli rimangono e lo seguono nel suo viaggio
acreo, per lungo tempo. Così la musa di questa figliuola, di questa
signorina, è profumata e vereconda, e non ci sarà bisogno di sottrarre
agli sguardi curiosi delle fanciulle i suoi volumetti di versi, come si
deve fare qualchevolta per certe liriche sebbene portino nomi di
signorine....

    Forse il pensier non sente la carezza
    Del pensier che si perde a sè simil,
    Di un eterno sognar ne la vanezza,
    Smarrito in terra spirito gentil?
    Forse tutte non vengon le parole
    Soavi accolte da soavi cor?
    Forse i versi non han, povere fole,
    Per altri pazzi un ideal valor?

Vorrei che fosser molti i pazzi di così gentile follìa; molte le anime
pure ed illuminate del raggio divino rifrangentesi nella sua, almeno
tutte voi, signorine. E allora una fresca falange di leggiadre guerriere
dalla verga fiorita metterebbe in fuga il tenebroso esercito dei
malcontenti, dei pedanti, degli scettici dell’ingegno femminile. E
flagellandoli con le verghe odorose, e soverchiandoli con un
affollamento di visi giocondi, chiedereste loro con le vostre voci
argentine, assordanti, prepotenti, spietate, cosa sarebbe la primavera
se nell’aria non fluttuassero farfalle e petali e profumi, e se accanto
ai pomposi non sbocciassero i fragili fiori?



                                  II.


                 (_Ettore Sanfelice_: _Gru migranti_).

Ho chiuso un volumetto di versi, non dei soliti. Del resto c’era da
prevederlo. Ettore Sanfelice non è un ignoto nell’animosa schiera dei
giovani bardi di questo scorcio di secolo. Di lui abbiamo, oltre varii
scritti minori, due raccolte di Rime edite dallo Zanichelli, qualche
scena lirica di soggetto biblico, e un dramma poetico: «Concordio», nel
quale la vigorìa del concetto è rivestita radiosamente di versi sciolti
d’una bellezza e d’un’efficacia non comune. Egli ha salpato con la sua
navicella carica di tesori ed ora veleggia forte delle sue dovizie alla
conquista dei paesi della gloria³.

   ³ Questo scritto apparve la prima volta nel «_Bios_» di Napoli
     (Ottobre 1891). Il Sanfelice ha pubblicato ancora: _Il Guercino_ —
     _Ercole_ — discorsi (Bologna, Azzoguidi 1991). — _I Cenci_, trag.
     di P. B. Shelley — Traduzione (Verona, Tedeschi 1862). — _Prometeo
     liberato_, dramma di P. B. Shelley — Traduzione (L. Roux,
     Torino-Roma 1894). — _Adorazione_, Poema, (Parma, Ferrari e
     Pellegrini 1894). — _Dalla Neve alla Rosa_ (Velletri, Pio Stacca
     1895). — _Thomas_, dramma (Parma, Ferreri e Pellegrini 1895) ed
     altro ancora. Il Sanfelice, purtroppo, va spegnendosi per una
     implacabile infermità che lo ha tolto completamente alla conoscenza
     della vita e alla sua arte. N. d. A.

Frattanto lancia un primo stuolo di «Gru migranti», fantasia di titolo
così elegante che fa subito bene pronosticare. Poichè s’ha un bel
chiamarla raffinatezza morbosa o decadenza bizantina, questa nostra
delicatezza tutta moderna d’orecchio e di gusti che spia nella parola il
colore e l’armonia, che ne spreme l’intima essenza e ne ricerca il
simbolo occulto: sia perfezione o corruzione, se ne disperino pure i
grammatici, il gusto c’è, e ci si lima per appagarlo, tanto che resterà
come una delle caratteristiche della nostra letteratura contemporanea.
Il titolo quindi deve riassumere oggi non solo l’indole ma l’anima del
lavoro, e tutto ciò che d’inafferrabile e di vago resta sempre nella
mente dell’autore intorno all’opera compiuta — qualchecosa che non era
possibile tradurre e che egli vede diffondersi e accerchiare la
creazione sua, fatta realtà, come quei vapori luminosi che qualchevolta
fanno una sfumatura intorno alla luna. Raramente quando il titolo è di
cattivo gusto l’opera è perfetta: in un punto o nell’altro rivelerà la
goffaggine del padre che non seppe vegliare al suo battesimo. «_Il verso
è tutto_» proclama il D’Annunzio; — e il titolo non è poco — osservo io.
La presunzione, la modestia, la scimunitaggine, la fantasia, l’austerità
la raffinatezza raggiano dal frontespizio, sono la firma morale
dell’autore. Almeno così mi pare che sia.

Le «Gru Migranti» del Sanfelice si svolgono in lunga teoria, poderose e
altere come aquilette regali, su un orizzonte a pause di nembi e di
sole, nella solitudine d’una via del cielo troppo eccelsa per essere
ingombra. «.... _Come i gru van cantando lor lai_» egli effonde la piena
delle rime in una ricchezza di metro e di concetto che non si
riscontrano frequentemente fra i nostri giovani autori. E neppure si
trovano molti che conoscano come lui l’arte difficile del condensare —
qualità che in prosa può esser solamente simpatica, ma che in poesia io
ritengo indispensabile. Peccato che di questa sua forza egli vada tanto
altero da abusarne un pochino a scapito qualchevolta della chiarezza e
dell’eleganza; — ma in tempi d’anemia come questi si può ben perdonare
un’esuberanza di salute, specialmente se il più delle volte
c’incontriamo in versi come questi:

    Scendono i morti e salgono le spiche,
    recano quelli un’eco nel mister,
    e forse queste, pane alle fatiche,
    fremono della terra un pio pensier.

Io conosco qualche poema in cui si è tirato in ballo gli elementi e
qualche cosa di più, che non riesce a dare il senso arcano e profondo
della palingenesi come queste quattro righe nutrite d’una così gentile
maestà. Di questi componimentini, coloriti e tenui come fiori, che
raccolgono essenza vera di poesia, è costellato il volumetto denso e
sottile. Il Sanfelice li chiama semplicemente «Sensi lirici» o «Note
liriche» e sono un’innovazione riuscitissima, intorno alla quale amerei
indugiare a lungo con una compiacenza tutta femminile come fra ninnoli
fragili e costosi. Ma «la via lunga il piede _mi_ sospinge»; poi il
giovine autore, tutto volto a più serii ideali, mi richiama con un
rammarico che par rimprovero alle creazioni maggiori che nel suo
volumetto sono poi le più numerose.

Anche nella compilazione del libro c’è un po’ di affastellamento —
bisogna convenirne. I versi originali s’alternano senz’ordine con le
traduzioni, e un leggiadrissimo monologo in versi martelliani confuso
così nel pelago minaccia di naufragare. Si direbbe che il Sanfelice col
suo tesoro di rime d’oro puro, riunite con una noncuranza da gran
signore, voglia gettar una sfida alla gran caterva della mediocrità che
dilata la moneta spicciola sul candore degli elzeviri. Pure, per una
seconda edizione, mi permetterei di consigliarlo a lasciar circolare un
po’ più d’aria nel suo volume, anche sacrificando qualche pagina, per
esempio quelle dedicate a tutta la Bellezza, trentatrè strofe d’una
filosofia che starebbe meglio in prosa. Ma ora intanto esaminiamo il
libro com’è.

Il Sanfelice, poichè non è un poeta volgare, s’accosta al sonetto con
una specie di reverenza e lo sceglie per gli sfoghi dell’anima e per i
soggetti preferiti — proprio come si ricorrerebbe a una persona eletta e
antica per confidarle i nostri affanni e i nostri sogni. «Cassiodoro»,
«Anacreonte», «Saffo», «Arturo e Morgana», «Ginevra», «In Excelsis» sono
a parer mio fra i belli i bellissimi. La prima quartina dell’«Ora» è
superba:

    Ecco l’ora ch’io sento turbinare
    i chiusi canti sospiranti il volo;
    nella lirica febbre ardemi un duolo
    titanico: è il mio cuor simile al mare.

Ma segue una cruda immagine, che sebbene efficace, è di un verismo che
offende. E questo si riscontra varie volte nella poesia del Sanfelice.
Mentre si cammina nell’azzurro fra le stelle o fra i laberinti odorosi
d’un giardino incantato, una parola, una similitudine, un verso, pungono
e fanno arrossire. E questo è strano in un poeta che sa raggiungere le
alte cime dell’idealità e regnarvi anche a costo di avvolgersi di nubi.
Si direbbe che sdegna di reggersi a mezz’aria. Ma poi quell’altezza di
quando in quando gli dà le vertigini, l’aria troppo fina s’infiamma e lo
arde, allora scende a precipizio e ci sveglia sulla terra rudemente, non
senza una punta di monelleria.

Il sonetto «Cassiodoro» è però fra gli altri un quadretto storico
d’un’aristocratica e severa classicità:

    Nel cortile del chiostro è somma pace;
    odi sol la fontana; un frate accanto,
    cui fluisce canizie e il cuor non tace,
    fisa nell’acqua il memore occhio santo.

    È Cassiodoro, la latina face
    tra le gotiche nebbie e ’l nostro pianto;
    il libro di Boezio in man gli giace,
    vedovo a lui di suo placido incanto.

    Ed ecco uscir due lieti fraticelli:
    — Altri volumi ritrovammo, o padre,
    che sepolti giacean, fiori di Roma.

    — Serbateli! Alleluja! È vivo in quelli
    il nome e la virtù della gran madre
    pei dì futuri. — E fier mosse la chioma.

Non sono molti i giovani che si trovino nella mente, come il Sanfelice,
una solida coltura capace di alimentare sostanziosamente la vena poetica
del loro ingegno, di colorirla delle tinte più fosche e più ridenti
della storia e della favola, di profumarla di tutta l’intima essenza
d’un concetto afferrato con sicurezza sintetica e profonda. La sua
tavolozza è lussureggiante di tinte sfumate illimitatamente da una
fantasia sbrigliata e gentile. Dei, ninfe, mostri, maghi, fate,
castellane, paggi, genii secolari, larve romantiche — visioni di
bellezza, d’arte, di paesi ideali — sfilano nella melodia del verso, fra
le garze d’oro del simbolo, nella luce velata e dolce delle età passate.
Vorrei poter dare un’idea dei versi sciolti robusti e armoniosi che
compongono la «Favola» e «La poesia Georgica» — due frammenti che
sembrano di un marmo di Prassitele; dare un’idea della grandiosità
sobria ed efficace che informa «Saturno» e «Il fiume selvaggio», della
gemmata eleganza d’una «Sestina nuziale», della fantasia che azzurreggia
nella «Visione di Franz Liszt» e nella «Nascita del Minotauro»,
dell’appassionata mestizia d’alcuni sonetti, del lirismo dolce e
melanconico delle «Elegie d’ottobre», del ritmo carezzevole del «Valtzer
mortale», delle iridescenze che rivestono d’un fulgore di rosa e di
viola i tre brevi componimenti: «Sirene» — «Perle» — «Lagrime», e
pennelleggiano variamente pensieri, accenti, visioni in pochi versi
senza titolo riuniti in gruppi come fiori; ma non mi è possibile perchè
dovrei trascrivere mezzo libro. Pure non so rifiutarmi il piacere di
ridire ancora qualche verso:

    La vecchietta filando, e sorridendo
    come può solo la senil dolcezza,
    mi narrava le fiabe, e ridicea
    pur col tremulo labbro le canzoni
    del suo bel tempo. La vecchietta avea
    nome di santa; nonna ella non era,
    anzi nè dato avea bacio di sposa.
    Con piacere io l’udia; socchiusi i cigli,
    m’imaginavo estraneo a questa vita,
    come se l’eco d’un ignoto mondo
    cogliessi in qualche regno del Silenzio.
    Ma la voce si fe’ fioca narrando,
    il fuso stette, e grato sonno vinse
    la dolce Parca piena di leggende.

Ecco che qui riluce una qualità simpatica del Sanfelice: quella di
sentire sinceramente la poesia delle vecchie cose, persino delle più
umili. Così, quantunque adori l’antichità classica con tutto il suo
corteggio di miti e di forme, pure si sofferma volentieri dinanzi a
qualche episodio romantico o ingenuo purchè abbia l’aroma della vetustà.
Certi soggetti in mano sua pigliano l’aspetto di quei gioielli fragili e
preziosi di vecchio stile, un po’ barocco anche, che ricordano le nonne
semplici e serene agghindate a festa. Nè l’erudizione e la fantasia
inaridiscono il sentimento che serpeggia dappertutto in lagrime e
sorrisi, e irrompe sovente in qualche canto d’amore indomito e
tempestoso che non di rado termina in uno sconfortante abbandono. Le
traduzioni dal vecchio inglese, poi, sono pregevolissime; specialmente
quella dei difficili sonetti dello Shakespeare fatta con una fedeltà
elegante quanto rara. C’è da augurarsi presto quella in prosa delle
opere dello Shelley che il Sanfelice ci promette.

Ma sopratutto auguriamoci un secondo stuolo di Gru che, come queste, ci
portino nelle loro piume un riflesso della dolce plaga dell’arte e dei
sogni.



                                  III.


                   Cosimo Giorgieri-Contri: _Poesie_.

    [Questo articolo fu scritto quindici anni or sono, quando il
    Giorgieri Contri, che ora ha un posto sicuro tra i nostri
    migliori poeti contemporanei, era ancora alle sue prime armi.
    L’autrice di questo scritto ha la compiacenza d’essere stata fra
    i primi a rilevare la delicata e originale personalità artistica
    di lui. (N. d. A.)]

Una prosa, una poesia che colpisce senza la suggestione di un nome che
la illumini della luce già conquistata da tutta una produzione felice
antecedente, è un gentile trionfo spirituale per l’autore e per il
lettore. Il convenzionalismo e l’indifferenza che adunano intorno
all’opera artistica una ghiaccia ben più spessa e dolorosa di quella
dell’Inferno Dantesco, non possono essere infranti che da un ingegno
eccezionalmente saturo di vitalità. Questo specialmente per l’Italia, in
cui il nome è tutto; in cui, ahimè, troppe volte la delicatezza svapora
fra la maggioranza sgarbata e vistosa. Il Giorgieri-Contri è un giovine,
quasi sconosciuto finora, che non ha pubblicato, ch’io mi sappia,
nessuna raccolta di versi, che sta ora attendendo al suo primo romanzo;
una personalità artistica ancora in bocciuolo; il momento più eloquente
o più vago per l’arte, pel fiore. È un raccoglimento soave tra mistico e
ardente, un po’ melanconico anche, come tutti gli stadi di bellezza e di
fragilità che non possono durare, che sono come le carità benigne del
vecchio Destino.

Le poesie del Giorgieri-Contri, migranti come fogliuzze su per i
giornali, non possono passare inosservate ai raffinati della vita
intellettuale. Una dolcezza tenera, insinuante, semplice, aristocratica,
come quella che spira in certi delicati versi di Bourget, di Verlaine,
scorrente nella più pura e melodiosa forma italiana: una velatura
tranquilla e squisita che sbiadisce, allontana e spiritualizza
l’immagine come nel sogno, un’eleganza artistica e rara che non
sminuisce mai, però, la freschezza della sensazione, dell’immagine, del
sentimento. E da questo felice equilibrio l’effondersi di una
suggestione di fantasia e di verità, ma buona, ma refrigerante; come una
melodia facile e gentile che pur ci ricordi un’ora lontana e divina e
tumultuosa in cui riassumemmo tutta la nostra parte di felicità.

Cosimo Giorgieri-Contri intitola «Autunni Antichi» un breve cielo di
rime, e la doppia melanconia dell’autunno e del passato impallidisce
dolentemente le visioni leggiadre. Quei suoi due amanti del secolo della
cipria e dei madrigali — la bianca favorita — il re — la pensosa signora
vestita di viola — si delineano diafani e vissuti come certe evocazioni
di Pierre Loti, l’insuperato mietitore d’asfodeli che guarda nell’ideale
come in una lente magica che gli ricompone l’inafferrabile, e gli
avvicina dalle profonde lontananze secolari, persone, voci, cose nella
loro evidenza originaria.

Ricordo il primo sonetto: «Galante Autunno».

    Gli amanti sono: un giovine signore
      con spada e parrucchina incipriata,
      e una piccola dama dilicata,
      in broccatello azzurro a passiflore.

    Siedon sopra una gran pietra, baciata
      da un sol d’ottobre tepido, che muore,
      e la terra, dintorno, è da un dolore
      di morte foglie tutta addolorata.

    Che si dicono? Forse un madrigale
      un po’ tenero e un po’ lambiccatello
      L’autunno muore e il giorno: ella lo sente.

    Cade ancor qualche foglia amaramente,
      e nel pallido vespro autunnale
      che tinte smorte ha il vecchio broccatello!

                                  ***

Segue «_La caccia_», nel quale la sfilata dei cavalieri nell’ombra
d’autunno e quel rosso orizzonte in cui il re si affisa sognando, mentre
il vento gli passa lamentoso alle spalle come un presentimento, danno
una visione e un pensiero tenace. Poi il _Labirinto_, di così fine
metafora; — la _Favorita_ che l’autore ci fa rivivere così delicatamente
in quel suo solo ricordarne accanto a una vasca il passo leggiero e il
«pallore ducale» della mano; — un’idea di amore e di fugacità così
sommessamente espressa al mormorio d’un filo d’acqua di Villa Borghese;
— indi la _Pensosa_, la pensosa dama vestita di viola che mi sembra la
dama della _Sensitiva_ di Shelley: «che pareva aver pietà dell’erba che
i suoi piedi piegavano» e quelle foglie che, tornata al castello, la
Pensosa si troverà sullo strascico «omaggio del parco autunnale alle
veste viola» dànno al suo poeta un’immagine gentilissima:

    e penserà che pure Ella è passata sola
    nella vita, e null’altro le riman del passaggio
    che qualche foglia morta che l’autunno ha corrosa.

Chiude il breve ciclo l’epitaffio scritto sulla tomba di un cane — versi
coloriti di un lieve _humor_ epigrammatico che rivelano un lato nuovo di
questa eletta personalità.

Io m’auguro, e credo che molti — non per le mie parole ma per il ricordo
dei versi incantevoli — si augureranno, di trovar presto il nome del
giovane poeta in fronte a un nitido volume. Oh copertine levigate, dai
raggi d’oro, copertine auree e fiorite, ospitereste finalmente
qualchecosa degno di voi!



                            Edoardo Bellamy.


                           _Nell’anno 2000_.

Ecco un libro fortunato. L’Apocalittico sogno d’una nuova età dell’oro è
stato di buon augurio al giovine autore americano. A Boston, dove il
volume uscì col suo titolo originario: «_Looking Backward_», se ne
fecero 335 edizioni; ed in Italia, nella succinta veste latina che gli
ha adattato il signor P. Mazzoni, comparisce già per la quinta volta. È
un tantino troppo, mi pare, per un libro che non meritando il nome di
romanzo, nè essendo un serio studio sociale — titoli a cui aspira —
conviene relegare nella sezione delle curiosità. Maravigliosa gente
questi Americani! Mi sembrano titani fanciulli che si balocchino col
sole e colla luna. Edoardo Bellamy si è baloccato coi secoli. Il
protagonista del suo racconto, un tal Giuliano West, per rimedio contro
un’insonnia ostinata, si faceva addormentare ogni sera da un
ipnotizzatore nella sua camera da letto sotterranea, foderata di cemento
idraulico e coperta di lastre di macigno: il servo che solo sapeva il
segreto, lo destava ogni mattina. Ma un incendio nella notte distrugge
la casa, il servo perisce nelle fiamme, il medico ipnotizzatore era
andato all’altro capo del mondo proprio la sera prima, e Giuliano
continua a dormire nel suo sotterraneo, finchè un figlio del XX secolo,
per certi scavi, non gli rompe l’alto sonno nella testa. Suppongo che la
tromba della Resurrezione gli avrebbe cagionato meno stupore della voce
del dottor Leete che lo avvertiva garbatamente: — Siamo nell’anno 2000,
signore».

Naturalmente Giuliano West crede ad uno scherzo; è impossibile che abbia
tanto dormito, lui che pativa d’insonnia! Ma deve pur rendersi
all’evidenza: ha proprio schiacciato un sonnellino di un secolo! e
mentre gli altri osservano curiosamente quell’uomo vestito all’antica
fra quelle suppellettili che fanno rivivere ai loro occhi un’era di
barbarie, Giuliano si guarda allo specchio... e si trova giovine,
vigoroso e sveglio più di prima. Ecco se non altro un conforto
inaspettato. Ma quel povero naufrago di un altro secolo si trova pure
assai solo, e non può impedirsi di pensare con rammarico alla
generazione sparita fra cui erano le sue conoscenze e i suoi affetti, a
quel passato che avrebbe dovuto essere il suo avvenire, alla sua
fidanzata Edith. — Edith? — gli dice il suo ospite; — è la mia
figliuola. — E gli presenta una bella fanciulla fresca come un fiore.
Giuliano se ne innamora: e più tardi apprende che Edith Leete non è
altro che la pronipote di Edith Bartlett, la sua antica fidanzata, la
quale dopo averlo pianto morto per quattordici anni aveva fatto un
matrimonio di riflessione. Sulle prime Giuliano le serba un po’ di
rancore per questa conclusione, poi pensa che se la prima Edith non si
fosse consolata, l’Edith nuova non esisterebbe, e si consola anche lui.

Questa è tutta la parte romantica che, scritta con maggior spigliatezza,
arguzia e colore, potrebbe riuscire, sebben tenue, amenissima. La parte
sociale del racconto è una magnifica assurdità, abbagliante e
ingannevole come la scienza dei romanzi di Giulio Verne coi quali questo
di Bellamy ha un’aria di famiglia. Nell’anno duemila non vi saranno più
poveri, nè oziosi, nè malfattori, nè nemici, nè avari, nè tiranni, nè
potenti. Una grande armata industriale, in cui tutti indistintamente
dovranno servire per il loro paese fra il ventunesimo e il
quarantacinquesimo anno, livellerà tutte le classi e darà a tutte
l’agiatezza, il lavoro, la felicità operosa, una serena tranquillità.
Dopo i quarantacinque anni ognuno sarà libero di dedicarsi all’arte o
alle occupazioni preferite, fino alla morte, che con la fatica così
equamente distribuita e l’igiene imperante, colpirà solamente
nell’estrema vecchiezza. Non si parla di ospedali; le prigioni sono
sparite, poichè è sparito il dèmone cattivo sobillatore: la miseria — il
germe della corruzione: l’oro. Il danaro non ha più valore, è lettera
morta, non si compera e non si vende più; non vi sono più stipendi nè
patrimoni. Un libro di credito che ogni cittadino tiene dallo Stato fa
le veci del metallo e della cartamoneta; non più dunque interessi
privati, piccole industrie, case bancarie, speculatori, affaristi; ogni
proprietà, ogni commercio sono fusi in un’unica produzione nazionale
ugualmente distribuita da un Presidente che diventa un fornitore.

Ai miei occhi, agli occhi dei profani, questo immane meccanismo di
ordinamento sociale descritto minuziosamente sbalordisce, per la sua
apparenza di larga semplicità; una semplicità così elementare, così
logica, che a tutta prima fa stropicciare gli occhi ed esclamare: «Ma
dunque perchè questo non sarebbe possibile?» Poi, ahimè! appena ci si
avvicina un poco, anche gli inesperti del grande e doloroso problema,
s’accorgono del miraggio. L’edifizio è vasto e splendido, fantasioso e
severo; superbo come un arco di trionfo, pio come una cattedrale:
ingombra i cieli nel fulgore sano del sole, ma non posa sulla terra; non
ha base, non ha fondamenta; ad un soffio svanirà. E svanisce.

Svanisce poichè è inutile, se noi misera progenie d’Eva non potremo
abitarlo giammai. Ci vorrebbero degli spiriti luminosi e incorporei da
Paradiso Dantesco. Ma noi con questo po’ po’ di zavorra? Povero
edificio! Altro che sventramento!

Il signor Bellamy ha dimenticato assolutamente il terribile mostro delle
passioni che ognuno di noi porta appiattato alle spalle e che ci
sospinge e ci uccide. Non più oro; dunque non più delitti, non più
assassinî, non più rapine, non più suicidi ha detto lui: dunque non più
forza pubblica, non più luoghi di pena; e fratellanza e ordine perfetto.
Oh «_Amour, mysterieux amour, douce misère!_», dove ti relega il signor
Bellamy per emanciparsi così di te?... I delitti e i suicidî mossi
dall’amore non sono forse altrettanti di quelli mossi dall’avidità?
L’amore non genera forse la gelosia, l’odio, la vendetta, la ribellione,
i rimorsi? Poi, lasciando in pace l’amore, e l’egoismo, così tenace
nella natura umana? l’ira, l’invidia, l’infingardaggine e tutto quel
brulicame di cattivi instinti e di tendenze malsane che ci ribolle nel
sangue, che riusciremo a domare, a soffocare giammai? Siamo in terra,
signor Bellamy! — Peccato! — Lo so, ma ci siamo; e intanto le vostre
sapienti precauzioni per la felicità mi fanno venire in mente una
vecchia fiaba in cui una bambina per salvarsi dal lupo manaro turò colla
bambagia ogni spiraglio, ogni pertugio, ogni crepaccio della sua casa,
chiuse le finestre e si coricò tranquilla... dimenticando aperto
l’uscio. Cose che succedono.

E non è solamente su questa.... distrazione che si trova a ridire. Manca
l’equilibrio nel lavoro dello scrittore americano. Mentre su certi punti
s’indugia a sazietà, come nell’ordinamento industriale, su certi altri
sorvola, come nella questione religiosa, essenzialissima. Di agricoltura
non una parola; di arte non sappiamo se non che il solo giudice sarà il
pubblico il cui verdetto «per l’alto livello universale dell’educazione
odierna — parla il dottor Leete — acquista un valore assoluto, preciso,
che ai vostri tempi era del tutto impossibile». Quindi a tutti lo stesso
granellino di sale della sapienza o la stessa patente di asinaggine. Il
genio che si sprigiona e vola, l’intelligenza illuminata e divinatrice,
il buon gusto innato e individuale, tutto tagliato a spazzola. Nessuno
più farà musica in casa. Si potrà aver musica però a domicilio in tutte
le ore del giorno e della notte toccando un bottoncino elettrico,
press’a poco come il gas e l’acquedotto. Oh razza anglo-sassone, ti
riconosco!

Anche sull’educazione, sulle professioni, sul servizio sanitario, pochi
e non soddisfacenti ragguagli. La piaga dei domestici cicatrizzata
perchè non vi saranno domestici. Si va a mangiare al ristorante, alla
cucina dello Stato e «in caso di emergenze speciali — spiega il solito
dottor Leete — come il ripulimento o rinnovamento generale della casa,
possiamo sempre invocare l’assistenza dell’armata industriale. Dunque in
quel civilissimo secolo il ripulimento della casa è un’_emergenza
speciale_! E dire che quando parlano di noi del secolo decimonono ci
chiamano _barbari_. Siamo proprio noi i barbari, dottor Leete?...

Ingegnosa e verosimile l’idea del trasporto dei pacchi a domicilio per
mezzo di tubi pneumatici; e, per le giornate piovose, le gran tele
impermeabili che scendendo a terra trasformano i marciapiedi in
altrettanti corridoi asciutti e ben illuminati. Anche fa piacere il non
riscontrare in un libro d’intenti così eminentemente socialisti, nessuna
invettiva, nessuna crudezza, nessuna suggestione.

    «Per altre vie, per altri porti
    Verrai a piaggia non qui per passare».

significano circa le parole del dottor Leete all’indirizzo di quei
signori dalla bandiera rossa; e quell’aura di pace, quella compostezza
serena danno al racconto un simpatico carattere elevato e fine che gli
apre tutte le porte indistintamente.

Il capitolo dedicato all’eterno femminino è il migliore del volume. È un
bell’ideale di emancipazione sana, onesta, vera, a cui la donna perviene
per mezzo del lavoro. Essa pure appartiene all’armata industriale che
non lascia se non per i doveri della maternità, e può attendere come
l’uomo ad un genere d’occupazione preferito. Naturalmente sono per lei i
lavori più facili e i meno faticosi — è la cavalleria del secolo
ventunesimo — e la donna diventa così la vera eguale, la vera compagna,
la vera cooperatrice dell’uomo.

Inorridite, rinnegatemi, amiche che passate radiose di gemme nei balli
calpestando le trine da mille lire il metro, e che v’adagiate nella
morbidezza degli intimi salottini esauste per un viaggio alla Sterne
nelle regioni pettegole e profumate; inorridite, ma ho chiuso fra quel
capitolo un desiderio e un rammarico.... Che buona salute! che appetiti!
che soddisfazione pura e lieta! una stanchezza piena di sollievo, un
riposo pieno di dolcezza, una vita feconda e operosa. Oh l’attraente
visione! Non più tempo per le emicranie, per le nevrosi logoranti, per
le fantasticherie velenose, per i languori cattivi, per gli ozî
insidiosi. Mai più annoiarsi, mai più! Poi la gentile alterezza di
bastare a noi stesse, e l’affrancamento da ogni schiavitù: quella di
un’ipocrita galanteria che ci confina fra i gingilli fragili e inutili,
o l’altra meno umiliante ma più triste che condanna la donna a girare
intorno allo stretto circolo delle attribuzioni domestiche, con gli
occhi bendati, senza tregua, per tutta la vita; come i cavalli che una
volta facevano andar le macine dei tintori....

Ed ora un raggio anche per voi, signorine. Immaginate voi che paradiso
sarà il mondo quando verrà abbattuto quel famoso «Dio dell’or» che miete
tante speranze e inaridisce tanti cuori? che appare sempre, o quasi,
livido, inesorabile spettro fra il gioioso festino della vostra
giovinezza? Pensate un po’ che ebbrezza volare all’anima gemella
sbarazzate e libere per sempre da tutte quelle brutte miserie di doti,
di notai, di patrimoni, di assegni, che offuscano lo splendore delle
vostre aluccie di farfalle! Sarà un tripudio di gioventù, di bellezza,
d’amore!

Ma, ahimè, questo è l’ultimo sogno — un sogno d’alba! — bisogna destarsi
e lasciare il baldo e pacifico popolo evocato da Edoardo Bellamy. Avesse
egli la potenza del mago Merlino e noi i meriti di Bradamante per poter
assistere con convinzione alla sfilata di questi nostri discendenti
futuri! Ci sarebbe proprio da consolarsi.



                               Maternità.


                  [Dall’Idea liberale, Milano, 1894.]

Vediamo di deviare un poco dall’eterna e oziosa questione. Minaccia di
diventare una cosa insopportabile. Quasi non bastassero i poeti a farci
responsabili dei loro peccati.... in rima — i romanzieri a fotografarci
negli atteggiamenti più inverosimili — i giornalisti che tentano tutti i
giorni di farci mandare a carte quarantanove riempiendo le colonne dei
giornali estivi di _fisciù_ alla Maria-Antonietta, di trine, di occhi di
tutti i colori, ecco gli antropologi ad annunziarci che ci fanno l’onore
di tagliarci a striscie per scoprire il meccanismo che ci fa ridere e
piangere....

Povere donne! prima la lana da filare e Vesta da servire; poi i chiostri
e i mariti di ferro, più tardi gli specchietti del Rinascimento che ci
attiravano e ci uccidevano come le allodole; indi i cavalieri serventi;
ed ora gli scienziati che ci prendono curiosamente con due dita e ci
mettono sotto il microscopio come se si trattasse d’un microbo di nuova
specie....

Signore intelligenti e di buona volontà, che leggete la _Idea liberale_,
volete che insorgiamo? volete che si bandisca una crociata contro
quest’ultima cattiva piega del secolo che dopo aver tutto decomposto o
spostato, minaccia di continuare la sua bell’opera con noi assegnandoci
per nostra definitiva dimora la casella degli uomini degenerati?...

Un momento, signore; non scappate: c’è qui chi ci salva. Fra tutti gli
articoli scritti in questi giorni per la nostra causa ve n’ha uno, nella
severa e simpatica _Gazzetta letteraria_, che dà la nota giusta in
questo frastuono d’accordature. Ha l’aria d’una trovata, eppure è una
cosa semplicissima: la storia dell’uovo di Colombo. Mi dispiace di non
conoscere l’autore, signor Augusto Lenzoni, per non potergli esprimere
direttamente la mia viva approvazione. Era una cosa così elementare!
come mai non vi hanno pensato prima? Giusto; era questo il difficile:
pensarci.

«La psiche umana — dice il Lenzoni nel suo geniale scritto — è così
varia, così complessa, così proteiforme, che nessuno può misurarla, nè
pesarla, nè circoscriverla in una formola assoluta. Hanno voluto fare
della donna un essere psicologicamente diverso dall’uomo, e forse le
differenze non esistono sono insignificanti».

Arrivati, dunque, dopo il lungo studio a questa trionfale conclusione,
mi pare che non ci sia altro da dire. Un altro campo però si schiude,
vasto, fiorito, troppo poco troppo male esplorato fin qui: voglio, dire
il regno della donna madre.

E qui, siano pur numerose e vivaci e impertinenti anche e minuziose le
discussioni, noi non ce ne lagneremo. Nessuna osservazione che riguardi
questa alta missione femminile può essere oziosa o pettegola o
indiscreta. Esigendo il meglio e cercando la perfezione per i figli
vostri, signori, per i continuatori del vostro nome e delle vostre
tradizioni, siete nel vostro pieno diritto, non solo, ma le donne
intellettuali, a cui facevo appello poc’anzi, solleciteranno il vostro
aiuto, il vostro consiglio, la vostra approvazione.... adagio, non di
tutti — di quelli che se ne mostreranno degni.

Ma, ahimè! dimenticavo che proprio questi non hanno tempo da perdere per
noi, per i loro figliuoli. Preferiscono stillarsi il cervello a rifare
gli uomini già fatti, piuttosto che a crescer bene quelli che sono da
fare... Tutt’al più, passando, tra un programma elettorale e un articolo
di sociologia, ci dicono bruscamente: «Così non va, non siete atte ad
educare le generazioni dei tempi nuovi, voi non avete il capo che ai
gioielli e ai merletti, vergogna!» E non pensano neanche per ombra che
se la coscienza e la dignità della donna sono così abbassate, la colpa
in massima parte incombe su di loro.

Madre è una parola grave, una parola austera, una parola che invecchia,
che implica una rete di doveri grandi e piccini che gli uomini, egoisti
per eccellenza, sono annoiati di rispettare. Essi considerano riempite
di trascuranza, di sprezzo, di puerilità tutte le ore che la donna non
dedica a loro, anche se le impiega intorno alla culla del loro
figliuolo. Quando una donna è madre, la si abbandona alla sua creatura o
la si fa disertare.

Rarissimamente l’uomo le sacrificherà una delle sue ore di libertà
randagia — le dirà la bellezza e la bontà e la poesia della sua missione
— l’animerà nelle difficoltà e nei travagli della sua vita. L’uomo
apprezza la _sportwoman_, l’artista, l’ispiratrice, l’appassionata,
tutto ciò che ha foggiato lui; ma le tenere e timide virtù, che
germinano spontanee in ogni cuore di giovinetta, egli trascura
sbadatamente volontariamente finchè illanguidiscono e si spengono. Qual
innamorato, qual pretendente alla mano d’una signorina, mostra
d’interessarsi meno all’abbigliamento di lei che alle sue ipotetiche
cognizioni d’educatrice futura? Qual fidanzato, qual giovine marito
parla alla sua compagna d’un indirizzo morale e intellettuale da dare al
figliuolo che verrà? Dov’è quel giovinotto che nell’accingersi a farsi
una famiglia sua s’assicura e procura che colei ch’egli preferisce per
tutta la vita, non sia ignara della grave responsabilità che le spetta,
delle lotte a cui muove incontro? Ma nessuno! Ma nulla! Si sposano come
colombi dal desìo chiamati, con le mani piene di fiori e la testa di
romanticherie, e fuggono di qua e di là sognando un’eterna luna di
miele: e quando il figliuolo s’annunzia — spesse volte non desiderato —
è finita: il signore sospira pensando alla interminabile sequela di
brighe e di spese, la signora diventa nervosa vedendo il suo vitino di
vespa allargarsi e le sue eleganti _toilettes_ invecchiare
nell’armadio....

Ma poi quando il bambino c’è, vero e vivo, si trova che è una cosa più
semplice di quel che pareva; c’è la balia, poi verrà la bambinaia, poi
la istitutrice, il collegio: si può dunque continuare a fare la vita
solita senza scomodarsi troppo. Poi un bambino distrae più del cane e
del pappagallo nelle giornate piovose, finalmente lo si vestirà tanto
bene che diventerà il più bell’ornamento artistico della casa. E la
mammina comincia subito a sgridarlo se si fa una macchia, ride se si
pavoneggia, è fiera di vederlo atteggiarsi a tiranno — continuando
presso a poco così, finchè il bambino o la bambina riescono una seconda
edizione, più meno corretta, dei loro progenitori.

Ma perchè, mentre l’igiene dell’infanzia ha fatto progressi
indiscutibili, mentre si vigila rigorosamente a che i bambini non
manchino ai loro obblighi di civiltà, mentre pare si abbia fretta
d’abbreviare e d’immalinconire l’infanzia ordinandola in una piccola
società costituita che dell’altra avrà riflesse le malignità, le
galanterie, le ingiustizie; perchè, mentre si mandano i bambini nei
piccoli balli alle gare d’eleganza, e si allevano nelle mollezze dei
tessuti e delle atmosfere, si pensa così poco alla loro piccola anima
che si schiude ricevendo indelebilmente l’impressione di tutto ciò che
la circonda e che la farà eletta o volgare? Povere piccole anime di
bimbi _fin de siècle_, vestiti da bambola, chi si ricorda di voi? chi vi
studia? chi vi analizza? chi lascia cadere in voi il grano delle alte
virtù? La governante inglese o tedesca forse? ah, no....

Purtroppo, la frivolezza e l’insufficienza della donna madre,
generalmente parlando, sono grandi; ma bisogna aggiungere però che non è
meno grande la sciocchezza dell’uomo che di queste vacuità gode tessere
una corona giovanile per ornamento del suo ideale muliebre; non è meno
grande la responsabilità sua d’una trascuranza d’indirizzo intellettuale
e morale verso quella che deve esser la madre dei suoi figliuoli, verso
i figli che in lui, più che in ogni altro, vedono l’esempio e l’autorità
— verso la società stessa finchè s’arrogherà tutti i privilegi e tutti i
diritti, considerando la donna, non come un complemento, come un
accessorio della sua vita.

«Le premier devoir d’une femme c’est d’être belle» ha detto non so più
che grand’uomo, e questo motto di spirito profondamente immorale,
confermato e illustrato a sazietà nella vita e nell’arte dalla
maggioranza del sesso forte, ha finito per diventare la divisa delle
donne che non vogliono rinunciare ad essere amate e ammirate — alla loro
parte di sole. Farsi belle — ecco il compendio d’intere esistenze, ma lo
vogliono i nostri compagni, in questo inflessibili; e allora quando una
donna sia bella, proprio bella, l’uomo non ha diritto di chiederle di
più.

Non c’è che un piccolo inconveniente. La donna ridotta così allo stato
di giuocattolo dovrà necessariamente correre la sorte dei giuocattoli;
ieri sul cuore, oggi in briciole sotto i piedi. Non c’è rispetto di
donna che la salvi, nè dignità di madre che la protegga. Rispetto?
venerazione? Vecchiumi! Madre? — oh, una dolce parola; ma non ricorda
più che una cosa antica passata di moda, sbiadita, intorno a cui con un
po’ di studio e di fantasia si può ancora ricostruire scene di una
bonaria epoca passata, come alla vista d’un ritratto di famiglia o d’un
oggetto di museo.... Ma poi a poco a poco anche la evocazione non sarà
più possibile — la verità sfumerà nella leggenda, gli uomini si
vergogneranno di dover la vita a una creatura che non sapranno più
considerare che come una curiosità della creazione; la negheranno. Opera
d’una donna Dante? Colombo? Galileo? Napoleone? Chè! si sono fatti da
loro!



                            Narcisi e Poeti.


           [Marradi, «_Nuovi canti_» (Milano, Treves 1890).]

Spessissimo, leggendo gli ultimi versi d’un volumetto di rime elegante,
attraente, mi sorprendo a pensare ai narcisi come per un’evoluzione
naturale di pensiero — come se una china dolcemente irresistibile
obbligasse le mie idee a scendere dai seguaci d’Apollo ai leggiadri
fiori reclinati sulla riviera tersa a contemplarsi amorosamente.
Suppongo ciò accada perchè la similitudine è press’a poco esatta e
perchè non sono rari i poeti-narcisi nel fiorito giardino d’Italia... I
toscani specialmente — poeti o no — s’inebriano tutti volentieri di
quella lor vena facile, scintillante, gemmata, che zampilla
inesauribile, che scorre armoniosa allietando e carezzando l’orecchio;
ma dopo, eccoli puniti della pena inflitta al re che amò troppo la
ricchezza: ogni cosa si cangia in oro al tocco della loro mano, in oro
freddo, inutile, inanimato.

Un tesoro, uno splendore; ma la vita cessa — e di questa gelidezza aurea
rifulge il volumetto di Giovanni Marradi.

Il Marradi è senza dubbio uno dei nostri migliori poeti contemporanei. I
suoi versi hanno una delicatezza soave, una purezza di forma, una
fluidità melodiosa non comune. Molti di questi «Nuovi Canti», i più
belli, non erano ignoti agli ammiratori del suo ingegno: essi ricordano
di aver esultato scoprendoli nelle riviste o nei giornali, giudicandoli
gioielli.

Ora, rilegati tutti insieme, non sembrano più gli stessi. Perchè? Forse
è la monotonìa che li sbiadisce; forse ciò che formava l’intimo pregio
d’ognuno: una purezza radiosa e tranquilla, diffonde sul gruppo troppa
pace, la bianca pace delle altezze, la pace delle cose morte.

Alle volte, qua e là, da qualche iridescenza più vivace, da qualche
raggio saettante, da qualche luminosa Morgana si è tratti a sperare di
sentirsi riscaldati da un’ondata di sole meridiano; d’udire un’eco, un
singhiozzo, una voce, e si trepida nell’attesa del miracolo desiderato.
Invano; le iridescenze si cancellano, le saette dei raggi
illanguidiscono, il giorno tramonta nel silenzio fresco e vergine d’un
mondo novello ancora inabitato. Giovanni Marradi nel suo grandioso ed
alto panteismo non aspira che ad identificarsi coll’azzurro del suo
cielo e del suo mare, coi suoi colli boscosi, coi suoi giardini
fragranti, colle sue foreste, colle sue primavere di cui nulla turba il
perpetuo sereno, e in cui vuol cullarsi e fantasticare colla superiorità
olimpica d’un dio. Quindi è naturale che le tempeste, gli uragani, le
lotte, le tenebre del mondo dei viventi gli giungano affievolite e
sfumate come un’eco, come una nebbia, come un sogno. Ed egli canta così
senza palpiti, senza lagrime, senza dolore e senza gioia; canta librato
in alto simile all’allodola, tutto assorto nel suo gorgheggio sapiente e
melodioso.

Tra questi «Canti» mi sembrano bellissimi i sonetti primaverili
intitolati «_Matelda_»; quelli compresi sotto l’unico titolo di «_Sabato
Santo_» in cui spira una letizia lustrale; quelli del «_Calendimaggio_»
tutti odorosi delle rose fiorentine; quelli di «_Montenero_» scultorei:
trovo mestamente leggiadra la «_Ballata d’Autunno_»; creata da
un’ispirazione assai felice la «_Quercia abbattuta_». Molte bellezze
s’incontrano pure nell’«_Epistola Senese_» in cui il Medio Evo è evocato
efficacemente in un’ottava sola:

    O sogni! o poesia! Sazie di stragi
    prosternavansi a Dio nella pia mole
    ferrate genti, cui ridean fra gli agi
    corti d’amore e suoni di mandòle.
    Allor surgean le cupole e i palagi,
    fiorian le torri come steli al sole,
    e per l’itale vie l’ossuta e cava
    faccia di Dante in estasi passava.

Stupenda anche — sopratutto perchè è forte e vibrante d’un non so che di
pietoso per l’irrequietezza umana — l’ode «_Varcando gli Appennini_».
Altre due poesie, due sonetti, emergono pure dalla raccolta perchè
trasfigurati da un turbamento gentile che dona loro una beltà tutta
spirituale. Sono nel ciclo «_D’oltremare_». Eccone uno:

                                  III.

    Ma io, di notte, quando la campana
      rintocca i quarti delle vigili ore,
      e il grido delle scolte s’allontana
      di sui prossimi spaldi e lento muore,

    penso che in faccia a noi, dentro un’arcana
      mole, v’han genti in quel sinistro orrore
      sepolte nel silenzio. E d’una strana
      pietà mi piange e mi trabocca il cuore.

    Io penso agli angiporti ignoti al sole
      da cui scova la fame un volgo affranto
      popolator de la terribil mole,

    E vien dagli angiporti umidi un canto
      che nella notte palpita e si duole,
      e sembra della trista isola il pianto.

Questo spirito insolito di sentimento e di vita nuova dimostri l’ideale
di perfezione a cui potrebbe assurgere la lirica dal Marradi purchè
palpitasse di qualche tumulto, purchè la bellezza marmorea e fredda si
solcasse delle lagrime della passione. Per ora non sono che emozioni
fuggevoli, dopo le quali egli affonda di nuovo nel suo giaciglio di
fiori e ricomincia a fantasticare. Ora pensa a un’isola per conto
proprio all’isola dei beati:

    laggiù dov’io vorrei, lunge da tutti,
    bere a limpidi sorsi il refrigerio
    delle maree, posando dalla vita,
    mentre scorresse cullata dai flutti,
    senza un rimpianto, senza un desiderio
    la mia beatitudine infinita.

Ma io non gli auguro di trovarla, poichè il _nirvâna_ non è la vita; io,
se osassi, augurerei invece alla sua splendida Musa solitaria che sogna
fra il rezzo nel bel castello incantato, il principe amoroso della
leggenda che allontanando le fronde la destasse con un bacio.



                            Alberto Cantoni.


                             UN RE UMORISTA
                       [Firenze; Barbèra, 1890.]

Diciamolo, via: ci vuol un po’ di coraggio a questi lumi di luna!... Non
parlo, beninteso, del re, ma dell’autore, che ha scritto quelle tre
parole in fronte al suo volume prima di mandarlo per il mondo. Corrono
tempi così permalosi, è così accanita la rabbia di questo scorcio di
secolo, come ebbe a chiamarla argutamente il Bonghi, che non mi
meraviglierei punto se un dì o l’altro saltasse fuori qualche nuova cima
d’ingegno con la scoperta peregrina che quel libro è una satira e
l’autore un politicone della tempra più sottile. E allora, povero
signore! avrebbe un bell’arrabbattarsi con le opere e con le parole per
dimostrare il contrario; potrebbe magari morire per il trionfo della sua
fede, non gli farebbero neanche la grazia di cinque minuti per
ascoltarlo, ubriacati dall’ardore di procurargli a modo loro
l’immortalità.

Ma Alberto Cantoni, avvezzo com’è ad anatomizzare i suoi polli prima di
mangiarseli, dopo il titolo stuzzicante si trincera in un prologo
poetico e forte come una rocca medioevale. Le memorie dell’incognito re
gli sono promesse in un vagone di ferrovia cosmopolita e gli arrivano
poi per la posta dall’Inghilterra ben suggellate e scritte in francese
(perchè non in _volapùk_, la lingua universale?).

E lungo le memorie, divise in cinque fascicoli, non un raggio, non un
filo, non la più piccola velleità d’una qualunque bandiera. Se
l’intenzione della satira ci fosse, il Cantoni non avrebbe messo, mi
pare, tanta cura per infiltrarci nella mente quasi a nostra insaputa la
tranquilla persuasione che ciò non sia.

Un umorismo fine si diffonde per tutto il libro, a volte arguto, a volte
un po’ dilavato, di buona lega sempre.

Leggendolo di seguito, me ne rimase l’impressione d’una di quelle polle
d’acqua leggermente ferrugginosa sgorgante di continuo con un gorgoglio
di dolcezza brontolona. Il sapore non piace a tutti, nè sempre; ma
quando il palato ci si abitua, si prova un certo piacere ad affrontarlo.
«_Un re umorista_» non è un romanzo nè un libro nato da un pensiero
profondo; egli appartiene a una categoria assai scarsa in Italia, ma che
non per questo ha la sua ragione di essere come altrove, specialmente
poi se i mezzi adoperati sono sapienti, come ad esempio, qui, la
snellezza dello stile di una prodigalità veramente toscana. Anzi
qualchevolta se ne abusa, e allora l’agilità diventa acrobatismo, il
quale, se da un certo punto di vista può costringere all’ammirazione,
cessa in pari tempo d’esser arte vera.

Anche di quello spirito incisivo, motteggiatore, ch’è una delle
attrattive del libro, il Cantoni si compiace troppo, di quando in quando
a danno dell’efficacia, della finezza e delle linee generali del lavoro.
Talora si stempera in tutta la vanità delle Storielle di Camillo Boito,
tal’altra si condensa invece nell’essenza saporosa dei Paradossi di
Nordau. Nè intendo con questo di sminuire la sua personalità di
scrittore che si delinea spiccata come poche — -tanto spiccata da
impedirgli perfino di modificarla, quando entrano in ballo altri
personaggi che a rigor di legge non sarebbe troppo verosimile trovare
tutti, e sempre, in vena di far dell’umorismo come il protagonista o
come lui. Per esempio, quella cortigiana d’ordine molto inferiore, che
il re per un caso fortuito rapisce di notte dalla via, si esprime come
la regina e come il presidente del consiglio: i due interlocutori che
parlano di più. E dallo spunto dei discorsi di quelli che parlano di
meno, si capisce che, se la loro loquacità fosse maggiore,
manifesterebbero il loro pensiero allo stesso modo, che è quello del re.
Ciò dà al volume una tinta di monotonia e un’intonazione di leggerezza
che logorano la trama già lieve della narrazione.

Vero è che essendo memorie scritte da una persona sola, questa avrebbe
potuto colorire del suo stile i discorsi che ripeteva; ma è verosimile
che li infiorasse anche dei suoi sinonimi, dei suoi paragoni, dei suoi
tratti di spirito?

Scoglio rude, questo del soggettivismo; contro il quale è così facile
urtare specialmente nel dialogo — dramma o romanzo che sia — scoglio che
pochissimi evitano, perchè mentre quasi tutti si occupano a donare ad
ognuna delle proprie creature intellettuali una fisonomia propria,
un’individualità, un tipo insomma, pochissimi si curano di darle anche
una sfumatura di linguaggio proprio e distinto, come ognuno di noi ha
nella vita a complemento e ad affermazione di sè. In questo i francesi
possono esserci maestri. Quante larve di Zola, di Daudet, del Flaubert,
del povero Maupassant ci sono rimaste vive e nette nella memoria non
tanto per quello che fanno per quello che pensano, quanto per un loro
modo speciale di esprimersi: o un laconismo, o una parola insistente, o
un giro di frasi, o un’esclamazione, o un vizio di pronuncia, che li
rappresenta a noi autonomi e fuori affatto della lente dello scrittore!
Qui in Italia, invece, sia per la difficoltà grande della lingua che si
piega a stento ai capricci della nostra fantasia, o perchè l’idioma
regionale non è ancor fuso in un disinvolto parlar italiano, nello
scoglio danno anche i sommi — non eccettuato il D’Annunzio, il grande
incantatore; e Matilde Serao, la fiamma viva.

Ma il «Re» mi aspetta, ed è proprio una cosa nuova far aspettare un re.

Bando dunque alle minuzie, tanto più che l’intento principale di Alberto
Cantoni non fu di fare un romanzo, ma di guardare il mondo da un punto
di vista diverso dal comune e con un paio di lenti lievemente
affumicate. Molte cellule racchiudenti il germe dei grandi problemi
della morale e della vita si susseguono sotto i suoi occhi: molte, non
tutte; ed anche su queste indugia la lente più per afferrarne l’ironia e
la vanità che per analizzarle o colmarle del suo pensiero. Raramente
questo re espone un concetto suo, ben definito, e qui somiglio
quell’amabile brontolone a certuni che non sanno che crollare il capo e
sindacare e sofisticare colle mani alla cintola e col cervello soffuso
di vaporosità inutili quanto leggiadre.

Condotta con arte delicata è la progressione di quel leggero pessimismo
che forma il fondo dell’_humor_ in generale e di queste regie memorie in
particolare: appena trasparente dapprima, si addensa
coll’ammonticchiarsi degli anni, degli avvenimenti, al ringagliardire
del vento che spazza via i pètali della fiorita di rose, su cui
camminano tutti a vent’anni — giovani re, e giovani popolani.

Fra i capitoli, il cui titolo è spesso d’un’originalità di dubbio gusto,
ammiro quello dedicato al ballo «Flamenco» nel quale la vigoria è assai
armoniosamente commista alla cesellatura e alla sobrietà. Fresche e
malinconicamente vere, le pagine in cui passa una graziosa figurina di
attrice che la lunga abitudine dell’artificio ha reso incapace di
esprimere con naturalezza un sentimento sentito; — simpatica la scena,
che già accennai, fra re e cortigiana, scena fuggevole d’una fantasia di
ballata o di sogno; — drammatico, malgrado lo spumeggiare dello spirito
che ne attenua la tragicità, l’episodio dell’attentato alla vita del re,
arrischiato dalla bianca mano di Katie, la lettrice russa che quel capo
ameno di sovrano si limita per il momento a legare per i polsi a uno
stipo col fazzoletto, come un’Angelica.... vestita! È una pennellata
carina, d’indole schiettamente francese, meno le conseguenze che possono
essere, ahimè, di tutti i paesi... Il re è rimasto incolume, ma un
sospetto postumo, abbastanza avvalorato, che Katie abbia tentato il
colpo meno per ragioni politiche che per ragioni amorose, gli conficca
nell’anima uno dei soliti dardi contro cui non v’ha scudo nè difesa; e
la bellissima dagli occhi azzurri e dalla voce melodiosa è vendicata,
almeno per qualche tempo, più raffinatamente che non lo avesse potuto
fare con la piccola pallina di piombo mirata al cuore.

Nel capitolo delle «Esposizioni» v’hanno osservazioni e definizioni
sottili, fra cui questa che meriterebbe di essere stampata in fronte al
volumetto non comune:

«L’umorismo è l’arte di far sorridere melanconicamente le persone
intelligenti».

«.... Anche l’umore è una gran forza» — scrive più innanzi a pagina 210
— «appena che sia ben diretta, e può talvolta arrivare dove non arriva
la logica nel campo del pensiero, nè la esperienza nel campo dei fatti.
— In ogni modo, camicia di Nesso o nimbo leggiero che esso sia, non
diventerà mai tale cosa da potersi levare e mettere come un abito di
cerimonia e non importa nulla se guasterà talvolta le cose buone che non
sono molte, perchè più sovente darà mano a sopportare le cattive che non
sono poche».

Del resto l’osservazione minuta, esatta, non priva d’una certa arguzia,
s’incontra sovente in queste memorie regali che hanno il pregio massimo
di essere quelle d’un uomo sincero dotato del triste privilegio di
conoscere e di analizzare sopratutto sè stesso spietatamente. Questo re
psicologo ci dice il perchè di molte contraddizioni, di certe intime
lotte che fanno sorridere gli uomini d’azione e che travagliano i
delicati: le gesta dell’anima, ignorate, misteriose spesso per gli eroi
medesimi costretti a pugnare nel laberinto contro un Minotauro
invisibile.... Benvenuto dunque il serico filo che questo principe ci
affida sorridendo!

Com’è vera nella sua complicazione l’analisi di quella «irritazione
morale»: «.... si rivelava con dei rapidi passaggi dalla più febbrile
allegria alla più depressa mestizia, con delle interruzioni di
abbattimento e come di nausea dell’uno stato e dell’altro. A
quest’ultima condizione ed anche alla tristezza, per quanto profonda, mi
sapeva talvolta rassegnare, ma non mai, appena che ci pensassi un po’,
alla troppa giocondità, perchè forse più morbosa degli altri stati, e
perchè, quanto più essa dava segno di sè medesima, ed altrettanto io era
sicuro di piombare più a fondo nell’estremo opposto».

Ed anche questa, acuta ed essenzialmente umana: «........ gli spasimi
del dolor fisico, e non importa quali, possono avere benigna influenza
sopra lo spirito, allo stesso modo come le angoscie del cuore possono
avvalorarvi a sostenere le torture del corpo. Nient’altro. _Dolor
acerrimus farmacus_».

È invecchiato il giovine re, che si compensava alla notte della rigida
etichetta del giorno, galoppando sul suo cavallo alla ventura, proprio
come un ardente principe delle novelline di fate. È invecchiato,
immalinconito, ha la gotta, ed esagera i suoi scrupoli sino a
tralasciare di scrivere le sue memorie, che gli pare debbano scemare
l’ultima energia che vuol serbare al suo popolo.

«Povera umanità!» termina sospirando. «Ma più poveri di tutti coloro i
quali si stillano continuamente il cervello per determinare, ciascuno
alla sua maniera, le origini, i procedimenti e gli effetti del male in
terra, senza tentare di reciderlo, almeno dentro di essi, e senza porre
mente che se non ci fosse stato il male, via, siamo giusti, nemmeno si
avrebbe mai saputo che cosa fosse il bene. Come siamo ridicoli e
lagrimevoli insieme!»

Ecco, non c’è bisogno d’esser re per arrivare a questa conclusione.
Tutti, grandi e piccoli, maestri e discepoli, purchè portino in sè il
germe dell’analisi — dello splendido fior velenoso — sono sicuri di
rimanerne vittima pei primi. È una delle nostre grandi miserie questa
voluttà insaziabile della vivisezione, che ci fa rialzare dissanguati,
vacui, nauseati e sopratutto tristi della terribile tristezza
dell’impotenza e della vanità. Almeno il male giovi, almeno le vittime
ammonticchiate sugli altari servano a propiziare l’arte, la gran Dea....
Speriamo.

Ora ci dia un romanzo il Cantoni: un romanzo oggettivo. Sarà un romanzo
psicologico, fine, elegante; questa, più che una speranza, è una fede.



                          I poeti nella Prosa.



                                   I.


                      _Elda Gianelli_: _Incontro_
                      [Trieste, (Balestra, 1890).]

Un sagace critico, il Brunetière, nel suo volume sul romanzo
naturalista, parla degli scrittori giunti al romanzo per diverso
cammino, ognuno dei quali ha le vesti impregnate di un aroma
caratteristico che s’insinua e rimane nella grande officina. «... Il y
en a d’autres qui sont venus au roman par la poésie: ceux-ci, leurs
descriptions les trahissent, et si consciencieusement qu’ils
s’appliquent à la peinture de l’exacte réalité, je ne sais quoi de
délicat et de charmant ou de douloureux et d’ému perce toujours, qui les
fait reconnaître poêtes.»

Subito si riconoscono. Come i nobili decaduti portano nella folla una
nota personale di gracilità fine e sofferente che fa qualche volta una
pietosa stonatura: così nella prosa i poeti portano qualche cosa di
esotico, di gentile, di insolito, spesso di leggiadramente inesperto che
parla del loro paradiso, perduto.

Qualche volta è una frase concentrata, tagliente che abbaglia come un
baleno e significa più che dieci pagine; — qualche volta è un’immagine
aerea colorita, caduta là come una farfalla in un agguato: — talvolta è
un tempestare di parole nuove, ardite che turbano e appagano, o un
zampillo luminoso che si sprigiona e sale, o la trama tutta del lavoro
che riluce aurea.

I migliori nella prosa non sono per solito i migliori nella lirica. I
poeti maggiori, quelli che hanno raggiunto la perfezione nella difficile
arte del sintetizzare, sono raramente in prosa limpidi, semplici,
ordinati, fini. Se hanno l’efficacia quasi sempre e la forza, hanno
anche quasi sempre il nervosismo o la brutalità. Gli altri invece, i
poeti un po’ dilavati, all’acqua di rose come li chiamano — in prosa
sono magici. Hanno la delicatezza, l’armonia, l’eleganza, il senso
estetico: in una parola non sono mai tanto altamente poeti come quando
scrivono senza le rime.

È forse per questa ragione che i francesi moderni ci sono superiori
nella prosa, come noi siamo ad essi maggiori nella poesia.

In questa specie di legge del taglione v’ha però una scappatoia, uno
scampo. Ed è per quegli spiriti felicemente equilibrati che non sono
intrisi ma intinti di poesia; che sotto l’involucro iridescente e
prezioso hanno una mente pratica e nutrita d’osservazioni sottili e
profonde. Sono quasi sempre spiriti forti e buoni, cui l’intima e
continua nozione della vita ritempra, non corrompe; e se talvolta par
abbuiarli di scetticismo, il velo non è mai così denso nè così
irrimediabilmente calato da non sperare che una volta o l’altra, a un
dolce raggio di sole, possa rialzarsi su un viso già fidente e già pieno
di sogni.

Hanno la forza e la grazia, sono, come lo Shelley si riprometteva di
essere, «dolci ed arditi.» La tempra e la vaghezza della loro lirica fa
sempre perdonar loro qualche possibile mancanza di forma di originalità;
e la somma sincerità d’osservazione che assurge per mezzo della verità
alla più delicata poesia, compensa la loro prosa della scarsezza
dell’elemento fantastico che qualche volta s’incontra in loro.

La colonia artistica femminile, o per la sua superiorità di senso
pratico sull’altra, o per la sua inferiorità di cognizioni scolastiche —
deficienza spesso provvidenziale — può vantare forse più della maschile
di codesti campioni vincitori. Oggi ne abbiamo un esempio dei più
efficaci in una donna gentile e valorosa, un’italiana di Trieste: Elda
Gianelli. Dei suoi meriti di poetessa, dei fulgori incantati che
raggiano dalle sue raccolte di versi, ebbi l’onore di parlare, e a suo
tempo persone competenti assai più di me li encomiarono. Ora mi è assai
caro di rintracciare in un nuovo volumetto di prose questo tipo muliebre
di scrittrice, ardente e severo.

Sono racconti e bozzetti aggruppati, secondo il poco simpatico uso
presente, sotto il titolo del primo racconto e del più lungo, che
viceversa non è poi quasi mai il più pregevole, qui come altrove.
«Incontro», questo nome schietto e disinvolto che fa immaginare una
cortese figura femminile che ci viene innanzi amichevolmente, è quello
della novella che inaugura il volume. Date le premesse dell’azione,
l’ambiente, i caratteri delineati con sicurezza e il numero dei
personaggi, credo che questo racconto, qua e là un po’ sbiadito o
affrettato, guadagnerebbe a rifondersi in un romanzo per equilibrarsi e
affermarsi, precisamente come certe ricche nature adolescenti hanno
bisogno per esplicarsi con ordine, dello sviluppo completo. Un romanzo
che incominciasse con la scena che dà principio al racconto
incomincierebbe assai bene. Quel vecchio conte, incollerito contro i
reumatismi e la vecchiaia, non è una delle solite figure di padre nobile
da commedia: è la vera vecchiaia del libertino, del despota,
dell’egoista, arida e amara vecchiezza, più triste ancora di quella
della sua vittima: la moglie inebetita dagli spasimi morali procuratile
da lui.

Il solo fatto di quei due individui, di quelle due anime così lontane e
così barbaramente avvinte dalle leggi umane e naturali, dal matrimonio e
dall’infermità, che vivono, cioè respirano sotto lo stesso tetto, nella
stessa gran sala, accanto al medesimo vecchio camino, è di un’alta
potenza drammatica, di un’eloquenza indicibile. La Gianelli ha portato
il suo sassolino all’edificio pericolante ancora del divorzio, forse
inconsciamente: ma è una conclusione che si può dedurre, che si deduce
dalla logica implacabile dei fatti e... basta.

Un’altra figura ben delineata e viva è quella di Marcella Sanvillari
nello stesso _Incontro_; la figlia dignitosa ed onesta, quasi austera,
della madre sgualdrina, antica amante e cattivo genio del conte.
L’incontro è quello di Marcella con Massimo: i figli innocenti. A
Massimo dapprima fa orrore il progetto di sposare la figlia della ganza
di suo padre che gli renderebbe in dote la sostanza ignominiosamente
sottratta alla sua casa impoverita; ma poi, quando conosce la fanciulla,
non più giovane nè bella, ma fatta forte e degna dal dolore, se ne
innamora nel senso più alto e più nobile della parola, rinunzia alla
dote e si sposano, poveri.

Come ho detto, tranne la prima scena efficacissima e l’incontro di
Massimo con Marcella dipinto con delicata maestria e rara chiaroveggenza
femminile, questo racconto non lo direi una perfezione. Si legge tutto,
però, avidamente.

Se lo spazio non incalzasse, indugierei con diletto su gli altri
scritti, ognuno dei quali ha più di un pregio o di analisi o di
osservazione o di forma, ma non posso raccoglierli tutti in uno spazio
così ristretto: li sgualcirei. Così scelgo: _Padron Paolo_, _Settembre_,
_La giornata di Andrea_.

Non si può quasi rilevare l’azione del primo, tanto è semplice. La
figlia di padron Paolo, un agiato campagnuolo, ha troppo amato un
famiglio; e padron Paolo li discaccia entrambi, li manda in una bicocca
isolata e malsana alla miseria, verosimilmente alla morte. La penna
della Gianelli, già sintetica e vigorosa come poche penne femminili, ha
qui raggiunto il massimo della sintesi, della vigoria. Ho letto poche
cose così pietose, così tristi, della tristezza ineffabile dello
sfrondamento assoluto, eterno. Paolina non ha più un’illusione per il
suo amore che le grava solamente come un’espiazione nel momento in cui
ne avrebbe bisogno come di una fortezza e di una difesa. Ella subisce il
suo destino con la passività delle anime rozze, ma ne risente tutta la
desolazione. Vorrei potere trascrivere la pagina in cui è dipinto il
piccolo e dolente convoglio all’atto della partenza; un carretto carico
di misere masserizie, e su quelle, all’uscire di chiesa dove s’erano
uniti in matrimonio, da una parte la sposa dall’altra lo sposo «_che
volgeva il dorso, la testa giù, il collo seppellito nelle spalle,
nell’attitudine di un vecchietto immiserito_» già quasi estranei l’uno
all’altra, al sole levante, nella solitudine fredda ancora, dinanzi alla
pianura che «_si apriva come un deserto_.» Una pagina per sobrietà, per
colorito, per naturalezza non indegna dei nostri ultimi immortali del
Grossi o del Manzoni.

_La giornata di Andrea_ è più importante come svolgimento; è un vero
racconto, ben proporzionato, questo, fortemente concepito ma un po’
nebulosamente tradotto. Mi pare che la Gianelli abbia inteso di
dipingere la giornata della caduta, della fine di un ingegno, ma le
intenzioni dell’autrice attraverso il cervello bizzarro e guasto del
protagonista restano un poco nell’ombra. Pure, appunto per il suo
carattere eminentemente oggettivo che dà molto rilievo alla figura di
Andrea e molta verità alle altre, che accenna con garbo un gracile
episodio d’amore, _La giornata di Andrea_ rimane un quadro dipinto alla
brava, un quadro d’impressioni vive ed ardite.

Ma la più bella pagina del libro, secondo il mio gusto e il mio parere,
è _Settembre_. C’è tutto; delicatezza, poesia, acutezza, pensiero. Mi
pare Bourget, l’inarrivabile. È un’idealità raggiunta, un’illusione
fermata con uno spillo d’oro. Qui bisogna proprio rileggere e tacere...

«Lasciatemi sbizzarrire, diceva lo spirito del poeta, lasciatemi
piangere la melanconia sottile delle cose belle che passano, quella
profonda delle cose tristi che arrivano.

«.... Vedete il settembre, il bel settembre dal verde intatto, dagli
alberi onusti, dal cielo di cobalto e il sol d’oro che non brucia più,
dai tramonti magnifici, dalla luna stupefacente, a cui il detto popolare
vuole che sette lune si inchinino. È la bellezza il settembre, la
bellezza perfetta nella sua maturità sfolgorante, il trionfo della vita,
il compimento delle promesse di un anno intero.

«Lo salutano ricchi e poveri, giovani e vecchi. Egli è buono con tutti.
Aprile promette, settembre ottiene. Le rondini si accingono alla
partenza, i fidanzati al viaggio di nozze. Le une e gli altri ritardano
ancora qualche poco. Il sole arriva caldo ancora alle note grondaie;
settembre, il bel settembre dei nostri climi non ha fretta. È come una
dolce sosta nel tempo.»

Qualcuno ha tacciato Elda Gianelli di cercare lo strano, il bizzarro.
Veramente per muovere con fondamento questa accusa nell’atmosfera in cui
oggi ci si agita e si scrive è necessario, mi sembra, di riscontrare
anomalie tali da impensierire seriamente sullo stato mentale
dell’autore. Non si richiede niente di meno in quest’anno letterario
mille ottocento novantadue... Oppure dobbiamo credere che il diapason
dell’originalità stramba si sia spostato al punto da esser caduto al
luogo della verità che si trova troppo verosimile per esser vera?...

La Gianelli osserva e raccoglie nella vita anche troppo, anche a costo
di apparir di quando in quando umile e pedestre. La sua arte è
equilibrata, determinata, sincera, onesta. Ella non ama le raffinatezze
morbose, le voluttuose descrizioni, le cincischiature, il dettaglio.
Ella non ama neanche la vaporosità di cui qualche volta i genietti alati
della poesia paiono avvolgerla a tradimento, e di quel nimbo la sua
geniale figura si illeggiadrisce come un giovane viso di un velo. Ma se
ne libera presto, poichè ella non vuole pigliar abbaglio sul proprio
cammino e tiene a guidare con mano sicura e sapiente la propria fantasia
nelle vie stellate, infinite. La moralità, il patetico, il soave, il
bello, scaturiscono nelle sue creazioni dall’esposizione limpida e
semplice dei sentimenti, dei fatti, come i fiori delle acque. Ella
parrebbe estranea all’opera sua se un sottile profumo non rivelasse la
sua presenza vigile e invisibile; l’alito della creazione.

Dolce fatica quando Amore spira! più che dolce quando per una condizione
morale ribelle o dolorosa o insolita, viene cercata come un sollievo
all’abbondanza del cuore! L’ispirazione fluisce come il canto dalla gola
dell’usignolo, la mente tutta vibrante per la presenza del Dio dà
scintille e bagliori poc’anzi sconosciuti, si tracciano parole
meccanicamente, tutti assorti nella voce che detta dentro che non è la
nostra ma che si identifica così deliziosamente con noi. Mi pare (sono
illusa o indovina?) mi pare che _Incontro_ sia stato scritto appunto
così, nella fluttuazione nova d’una nova vita, scritto senza pena,
lagrimando o sorridendo, ma dolcemente, tanto vi scorre fresca
l’ispirazione, idealizzata ancora da un non so che di tenero, di
sommesso, di appassionato, di avvolgente... Un libro scritto in tono
minore; un libro scritto, direbbe il D’Annunzio, con la Grazia...



                                  II.


                 _Cosimo Giorgieri-Contri_: _Lo Stagno_

Quando, parecchi mesi or sono, mi piacque occuparmi dell’arte elegante e
finissima del Giorgieri Contri, il quale (noncuranza piuttosto unica che
rara in questa fiera delle vanità) non ha ancora raccolto i suoi bei
versi⁴, accennai pure al romanzo futuro che era appena, allora, una
promessa. Ora il volume è uscito nella classica bianca veste battesimale
dalla più solerte casa editrice d’Italia, ma ciò che è meglio, ha
realizzato quasi interamente quello che ci si attendeva da lui.

   ⁴ Gli ha raccolti sotto il titolo: _Il Convegno dei cipressi_.
     (Milano, Chiesa e Guindani, 1895) e fecero già il giro dell’Italia
     meritatamente apprezzati e applauditi. N. d. A.

Nella prima pagina, nell’atrio, troviamo l’autore fra un gruppo d’amici
che ci mette in guardia contro questo «povero libro ineguale, scritto a
diversi intervalli di tempo: la prima parte nella giovinezza che spera e
sogna ancora, la seconda nella giovinezza che muove già alla quiete,
donde non vengono più luci di speranze o di sogni.» «I critici — ci
avverte ancora — lo troveranno troppo slegato e i dilettanti troppo
semplice...» Ma noi gli sorrideremo e passeremo oltre senza dargli
retta.

Sono quasi trecento pagine d’una colorita delicatezza, che si suggono
dolcemente, si respirano, se ne resta intrisi. Tutto diafano e molle e
suggestivo come in una notte plenilunare; tutto di una poetica tenuità
di sogno, d’una semplicità malinconica di vita vera, seducente il nostro
spirito col fascino dei libri pieni di pensiero, più sottile, più
penetrante di quello dei libri pieni d’azione. In queste pagine,
raccolte sotto il titolo simbolico e a parer mio non troppo esatto di
«_Stagno_», si svolge la storia di un’anima troppo delicata che non
trovando o non avendo la forza di cercare appoggi nell’amore, nell’arte,
nell’amicizia, nel lavoro, si ripiega miseramente sa sè stessa medicando
le sue ferite con una filosofia desolata.

Con la mano abile e leggiera, usa a determinare le sfumature senza
toglier nulla della loro vaporosità, il Giorgieri-Contri ci fa sfilare
dinanzi visioni penetranti di paesaggi, di figure eleganti e tranquille,
di idilli leggiadri o mesti, analizzando aspetti, anime, cose, con
intuizione profonda, cui l’esattezza non toglie una vaga tinta di
originalità che rivela la tempra dello scrittore. Nè alcun mezzo
volgare, nessuna tragicità, facilitano col rilievo la descrizione. Non
c’è neppure il forte dramma intimo che oramai nella produzione romantica
ha preso il posto del frettoloso e ingenuo movimento dei romanzi d’un
giorno. Null’altro che le nebbie, il tedio, i languori di qualche
inverno malsano dell’anima come su noi tutti, fioritura estrema del
secolo, n’è passato qualcuno: condizione spirituale che, essendo la più
penosamente sconsolata, è pure la più difficile per l’arte che deve
essere profonda e squisita. In questo grigio velario fluttuano bensì
sogni di rosa e di viola — aspirazioni, promesse, forse, ma
indeterminate e lontane.

Così a questo Filippo che non sa che passeggiare in campagna e in città,
solo o più o meno bene accompagnato, verrebbe voglia d’augurare ciò che
un giovane di mia conoscenza, un po’ intinto della stessa pece, si
augurava come ricostituente: un gran viaggio, una gran malattia o un
grande amore. Filippo Albio ama, ma questo amore è una fiamma di
candela, oscillante, debole, che non illumina nè riscalda, che la
lontananza assopisce, gli ostacoli esauriscono, la fatalità vince quasi
senza lotta, che la morte stessa dell’amata non fa che tingere di
romanticheria. Triste amore di tempi tristi, nel quale c’è più egoismo
che passione, più irresolutezza che delicatezza — che si fa una barriera
morale di una fisima sentimentale o che passa poi senza scrupoli
attraverso all’olocausto d’un’illibatezza immeritata. Egli per salvare
Ifigenia da un esempio triste malvagio d’amore, vi rinunzia e la lascia
sposare dolente ad un uomo che non ama e che non l’ama — ma ne accetta
poi la dedizione come la cosa più naturale del mondo quando ella
tradita, disillusa, viene a gettarglisi tra le braccia, due povere
braccia che non hanno nemmeno la forza di custodirsi quella dolcezza per
sempre.

La figurina di Ifigenia è dipinta con un tocco elegante, leggiero,
sapiente. In lei tutto è impulso, sincerità. Una vera bambina, una vera
giovinetta, una vera donna — di quelle che la maggioranza maschile ama:
bella e ignorante, debole e dolce, con un po’ di grazia che nasconde la
banalità, fatta più per le carezze che per l’amore. Nè la fanciulla,
vittima delle sofisticherie sentimentali dell’innamorato, nè la donna
vittima dell’egoismo dell’amante, giungono a destarci una compassione
profonda — poichè la fanciulla non ha saputo che rassegnarsi e la donna
non ha saputo che cedere, rassegnazione e dedizione nè elevata nè
intera.

Questa signorina che sa muoversi, vestirsi, passeggiare, pregare,
guardar la luna e aver l’emicrania così leggiadramente, non sente le
complicazioni dolorose di quel povero cuore malato che le batte vicino,
non posa mai la sua mano bianca sul braccio del suo compagno per dirgli,
con la voce dolce che pareva venire di lontano, una di quelle parole che
l’amore sa trovare e che non si dimenticano più. E la donna che in uno
slancio più inconsulto che generoso viene a domandar conforto a lui che
pareva averla dimenticata, non sa poi affermare coraggiosamente il suo
amore, reagire contro la fine del suo sogno, contro le fosche malinconie
dell’amato, farsi la sua salvezza, il suo angelo custode per sempre.
Rientrando sotto il tetto coniugale, vilmente, presso l’uomo che non
stima più, che non ama, che ha ingannato, il soffio di passione che
poteva essere grandioso se non puro, si spenge nell’adulterio volgare.

Una pena trista pare incombere su questa coppia gentile ed amante dal
principio del libro sino alla fine, quella di amarsi per lasciarsi, per
dimostrare non la fugacità ma l’inutilità dell’amore...

Una figura di secondo ordine, ma vigorosa e simpatica è quella di
Giacomo, l’amico di Filippo, che ha delle teorie tutte sue, originali e
profonde, sulla vita e sull’amore: «Niente riempie più nobilmente la
vita che pensare all’impossibile, — dice una volta, — c’è qualche cosa
di grande in questo pensiero che ti occupa, qualche cosa di orgoglioso
nel dire a te stesso che la tua vita non ha una meta uguale a quella di
tutti gli uomini, ma una meta che non raggiungerai mai e che pure
preferisci ad ogni altra più certa e più ridente, forse.»

E un’altra volta: «Nella vita tutto quanto non è stoltezza è volgarità:
amo meglio esser stolto che volgare.» Ecco un’individualista convinto!

Ma un giorno questo uomo che ci appare sereno e qualchevolta eletto nel
dolore, sopraffatto dalla sua tortura morale si uccide. Questo l’arte
non rendeva necessario e il libro ha una vena malsana di più... Squisito
libro però, malgrado quel po’ di sconnessione che l’autore stesso
riconosce e giustifica; d’una squisitezza di pensiero, d’una vaporosità
di forma, d’una semplicità di stile come, pur troppo, in Italia non
siamo avvezzi a riscontrare. La prosa di questo poeta fa pensare a
quella di Bourget e di Loti, gl’indimenticabili: al primo, per la
percezione netta di qualche lato più complesso e più oscuro dell’anima;
al secondo, per quell’indefinibile senso che ha della nostalgia la
mestizia assorbente, dolce, languidamente gravosa, e che li tiene non
solo quando parlano del passato che spiega per essi tutto il suo fascino
di leggenda e di storia, ma anche quando sorridono, quando si dicono
felici. Paiono fiori cresciuti all’ombra e imploranti sempre, anche
inconsciamente, la carezza fulgida, vivificante del sole.

Trascrivo una pittura stupenda:

«Quella sera rimanemmo a lungo, ricordo, mia madre ed io seduti davanti
alla casa. La notte era profonda e splendida; i tre re brillavano netti
sul cielo d’un fulgor di mosaico e tutto il cielo pareva cosparso di una
polvere fina, come sabbia d’argento. La valle taceva immersa nel buio;
ne saliva appena il trillare dei grilli d’una cadenza lenta e dolce.
Accanto a noi qualche foglia muoveva nel vento, un grosso pino fletteva
la punta, a tratti, e a tratti pure la sabbia del viale scricchiolava.
C’era nella notte un fascino acuto; tutto pareva vegliasse e dormisse
nel medesimo tempo: una impressione strana, ma decisa. Tutto pareva
attendesse qualche cosa, sospirasse, invocasse, sperasse. E quella
strana impressione si faceva pure su me.»

Ma tutta la soave magia dell’Autore si effonde quando comincia a parlar
del passato. E non per ricordare o rimpiangere, non un passato, ma tutto
il passato in astratto — tutta la sterminata immensità sbarrata
dall’ieri inesorabilmente. Questo amore delle cose perdute, delle cose
morte, sembra il più grande amore della sua vita, la sua idealità più
gentile, il suo sogno più caro; è certo la nota fondamentale di tutta
l’opera del giovine poeta, un ritornello triste, ma d’un incanto
irresistibile. È il Giorgieri che parla per bocca del suo personaggio,
qui:

«C’è, nel dire che una persona e un ricordo non tornerà più, qualche
cosa di così acutamente dolente che riesce certe volte per fino a
dolcezza. Non tornando più, quel ricordo o quella persona si manterranno
sempre come noi li abbiamo nel cuore, puri, incontaminati, sereni.»

E ancora: «C’è, in questo ritorno dell’anima alle cose dilette e
perdute, una tristezza così dolce che vince perfino il pensiero amaro
della vanità del ritorno. Vivere o pensare di vivere non è la stessa
cosa in fondo?»

E più in là: «Io sentivo in me come aperto un abisso dove sarebbero
andati a finire tutti i desideri realizzati d’un giorno; io vedevo, io
prevedevo la vanità e la meschinità delle cose desiderate, e pure il
desiderio restava, reso anzi più acuto da quella grande idea della fine
che passava dietro di lui.»

Infine questa riflessione così giusta e così sottile;

«Pare quasi che il rimpianto sparga sul cuore qualche cosa di così
perfidamente dolce che ogni altra dolcezza non possa superarlo.»

Queste osservazioni penetranti e delicate che incontriamo quasi ad ogni
pagina, fanno ai personaggi un fondo sfumato, quasi indistinto, ma
d’un’armonia estetica grande — come la fusione smorta e sapiente negli
arazzi antichi nei quali non si sa quasi dove il fondo finisca e dove la
scena incomincia. Lo _Stagno_ con le sue fantasie semplici e meste
tramate d’oro, dà l’idea di uno di quelli arazzi meravigliosi, che
paiono tessuti dalle fate nel paese dei Sogni.

Così passano i poeti nella prosa, elevandola fino ad essi per non
scendere fino a lei: facendola evaporare tutta in una nebbia di profumo,
in un’irradiazione di bellezza che serba della prosa la sincerità
gentile, che ha della poesia lo splendore regale. Per questo, qualche
volta, tutti intesi nella musicalità della loro sfera, i poeti non
pensano che certi giri di frase, certi concetti, certi vocaboli possono
parere artificiosi o insoliti troppo, a chi giudica dal punto di vista
dell’idioma parlato: così anche nello «Stagno» per chi lo leggerà o lo
giudicherà coi criteri soliti applicati ai romanzi, troverà qualche neo
o nell’insistenza di qualche verbo tronco, in qualche inverosimiglianza
nell’orditura dei fatti, in una certa compiacenza esagerata dei colori e
dei profumi — compiacenza che diventa un po’ fissazione quando fa dire
all’autore che la piccola Ifigenia aveva i capelli che odoravano di
caprifoglio, e fatta donna, gli occhi, le pelliccie, i guanti, le
scarpe, le calze violette... A costo di rovesciarmi addosso gli odi del
poeta, mi appello a tutte le signore se è possibile una stranezza
simile...

Chiudendo il libro che finisce con un’affermazione desolata dell’immensa
vanità del tutto, questo libro non volgare scritto da un ingegno non
comune — questo _Stagno_ che fra le nebbie tacite e malsane ha i margini
fioriti di tutti i fiori di primavera — queste pagine quasi tutte
d’amore, veramente sentite, veramente sofferte, forse; mi sono trovata a
ripetere fra me le recenti parole d’un valente scrittore francese e le
ho ridette, malinconicamente: «La vie active avec ses promesses et ses
triomphes, vaut elle qu’on lui sacrifie l’amour?... L’amour, de son
côté, mérite-t-il les privations, les regrets, les remordes qu’on endure
pour lui quand on a trop écouté sa voix?... Tout passe, tout coule, tout
s’effondre: il faudrait un point fixe, au-dessus de la vie, au-dessus de
l’amour...»



                               Cipressi.


                (A PROPOSITO D’UNA NUOVA PUBBLICAZIONE)

Fra la fulgida gloria di messidoro e il vivo zaffiro del mare che
sorride invitando, una rama di cipresso piove su una tomba.

Su quella tomba è scolpito un nome illustre, ma non è il sarcofago a cui
i giovani muovono riverenti in pio pellegrinaggio — è una tomba
invisibile, più tenue e più triste, scavata in un cuore.

Pensiero gentilissimo quello degli amici di Giorgina Saffi, di ricordare
con lei nel doglioso anniversario delle sue nozze il compagno eletto,
allontanato per sempre dalla soave solennità domestica che ha portato
per molti anni tanta dolcezza nella loro casa, che vi porta adesso tanto
sconforto con l’affermazione d’una solitudine memore della felicità. Ma
la mesta signora deve aver pianto lagrime meno amare fra il delicato
mormorio di compianto che s’effonde da si copiosa nobiltà di intelletto
e di animo a carezzare il suo dolore.

Vecchi amici e giovani discepoli e donne gentili e stranieri posano la
rama di cipresso sul sacrario, nel cuore dell’afflitta dama, ed ella li
bacia in fronte ad uno ad uno e udendo in tutti il medesimo accento di
venerazione per il suo morto diletto, quasi suo malgrado si sente
consolata.

È un album in gran formato, d’una severa eleganza. Sul frontespizio la
efficace eloquenza di una data a distanza di poco più di trent’anni:
1858-1891 — XXX Giugno — un lembo di sereno. La lettera inaugurale di
Rinaldo Sperati, compilatore, è gentilissima: «....questa corona di
semprevivi germogliata dal cuore — così termina — possa a Lei giungere
non importuna nel dolore suo, e farle sentire che nel suo pianto sono
uniti i cuori degli amici, interpreti del dolore inestinguibile della
patria e dell’umanità.»

Vi sono versi di Swinburne, l’erede di Shelley, parafrasati dal
Rapisardi — una lettera di Sir Stansfeld, qualche parola tracciata dalla
penna incantata di Edoardo Schurè — un sagace discorso di Ernesto
Nathan, una memoria del Minuti, una pagina del Silingardi; poi una
rappresentanza, assai degna dell’eterno femminino: amiche, scrittrici
artiste; Teodolinda Franceschi-Pignocchi, Suzanne Thomas, Jessie Mario,
Giacinta Pezzana, Adolphine Gosme, Tommasina Guidi, Paolina
Dagnino-Agnelli passano lasciando ognuna una nota fine, spirituale,
elevata, amorosa, come solo sa trovare la donna che rimpiange e consola.

Ecco il De Amicis, il mago che noi signore adoriamo, con la sua calda e
fluente parola; «Cinque anni sono scrissi, con poca esperienza e con
meno arte ma con tutta l’anima, un libro diretto all’educazione morale
dell’infanzia. Il mio primo compenso fu di vedere i miei figliuoli
commossi da quella lettura. Un compenso maggiore furono le lettere di
fanciulli e di maestri, le quali mi dicevano che il mio libro non era
inutile. Anche più grate di queste mi furon le manifestazioni di gente
del popolo, che mostravano di aver compreso come il sentimento dominante
dell’opera mia fosse il rispetto e l’amore delle classi lavoratrici, dei
poveri, dei deboli, degli sventurati. Tutte queste soddisfazioni mi
furono ravvivate e accertate alla diffusione larga e inattesa del libro,
la quale mi provava ch’esso era ispirato a un’idea superiore ad ogni
grettezza o preconcetto di classe sociale o di parte politica. Ma la mia
soddisfazione più profonda e più cara, ma la mia gloria più bella e più
durevole fu di aver ricevuto da Forlì una breve lettera in cui la grande
anima di Aurelio Saffi mi diceva con la sua nobile semplicità: Avete
reso un servizio al nostro paese.»

Poi Olindo Guerrini con qualche motto soave pieno di pensiero, e Corrado
Ricci, il valente pennelleggiatore dei tempi andati, che dà alla figura
del Maestro un ultimo tocco sapiente.

«.... non dimenticherò mai la _buona e cara immagine paterna_ di Aurelio
Saffi. Parlando con lui il suo cuore v’aiutava a salire sino al suo
intelletto.»

Viene quindi la balda falange dei giovani seguaci che depongono semplici
e riverenti tributi: Livio Quartaroli, Giuseppe Ronchi, Giuseppe Brini,
Camillo Ugolini, Roberto Ascoli con una «memoria» così colorita luminosa
e leggiadra da farne ingelosire il suo volumetto di Rime; ultimo Ettore
Sanfelice la cui eletta lettera può servire per sintesi di quanto ho
osservato fin qui. Eccola:

    _A Giorgina Saffi._

«La data 30 giugno 1858, ecco, mi schiude una visione di patetico
insieme e di eroico, che mi empie il cuore, come se udissi parte di
quella grande armonia che i filosofi antichi dicevano effondere
nell’etere gli astri girando.

«Prima vi dispose amore, poi l’eternità, e i brevi anni vissuti commisti
entrano immortali nella città ideale, a cui fu opera d’_Aurelio_
sollevare gli animi.

«Resta il forte suggello nei figli, l’adorato nume del padre s’allarga
dalla famiglia a genio della patria, a elemento sostanziale d’ogni
rinnovamento umano. E d’onde muove tutto ciò? Dall’amore.

«Con questo nome Signora, che raccoglie famiglia, patria, umanità, un
alunno del vostro _Aurelio_ osa oggi toccare la soglia del vostro
sacrario per respirarvi la presenza dell’Apostolo e della sua dolce
compagna.»

E voi Signorine a cui le mie parole sono rivolte, per quel nome che
tutto raccoglie, fate che dalla freschezza dei vostri cuori sbocci per
Giorgina Saffi una schietta espressione di cordoglio. Anch’ella ha
salpato come voi ricca di speranze e di sogni; anche voi tornerete in
porto un giorno malinconicamente così; alcuna forse designata dal
destino a essere come lei irraggiata dalla luce di qualche vivido astro
futuro, e a identificarne, lui spento, gli affetti, le memorie, gli
ideali. Ecco perchè ve n’ho parlato....

    Giugno 1891



                            Fiori d’arancio.


Io detesto la poesia d’occasione. Dalle canzoni e dai sonetti, scaturiti
nei secoli scorsi per amore dei cardinali morti e degli arciduchi vivi,
agli inni e alle liriche d’oggi per le esposizioni e per le nozze, l’ho
trovata sempre abbominevole. La rettorica ed il convenzionalismo vi si
trincerano come in un ultimo rifugio dove possono ancora tiranneggiare
nell’accolta di tutto ciò che di più goffo, di più falso, di più
antipatico e di più disarmonico ha il vocabolario italiano.

Muore una persona cara, ed ecco una poesia vestita teatralmente da
funerali che viene a chiamarcene _orbati_ e a dire in nostra presenza
alle Parche un sacco di villanie: c’è una giovinezza che si consacra
all’austerità, ed ecco che me la insudiciano d’_unto novello_ e me la
assordano a furia dei rimbombi e degli echi del Sion: due felici fanno
di due vite una vita fra le benedizioni del cielo e della terra, ed ecco
inseguirli spietatamente nel loro volo un’orda di lirismo dove c’è per
lo meno mezza dozzina di tempi del verbo _impalmare_, tre o quattro paia
di _fausti nodi_, qualche _ara_ e una donzella che, poverina, in tutto
questo rimenìo fa davvero pietà.

Un orrore, ripeto, una calamità che ero ben risoluta d’odiare senza
restrizioni per il bene d’Italia quando un nitido e snello fascicolo,
fregiato d’un nome che mi è caro, è venuto, ha parlato, mi ha
intenerita.... La causa è vinta. Chi ha ingegno vivo e originale, chi è
poeta vero, scriva, scriva sempre; scriva per chi nasce, per chi muore,
per chi ama, e Dio lo benedica. Se è poeta vero, se ha caldo lume
d’ingegno, uscirà sano e salvo dalle pastoie e dalla banalità; saprà
trovare la nota sentita e soave a cui il cuore risponde, le fantasie
leggiere che si traggono lo spirito seco. Così ha fatto Elda Gianelli,
nome che nella nostra letteratura oramai suona forza e armonia. Nella
civettuola eleganza dei tipi del Balestra di Trieste, ella dedica a
un’amica che si fa sposa, undici sonetti che, a parte la fattura
squisita, racchiudono tutto ciò che di più radioso e tenero e soave
possiede un’anima di donna quando la mente la illumina e detta Amore.
Alla fanciulla che sta sulla soglia della vita nuova, nel solenne e
pauroso momento in cui si sommerge il passato e non emerge ancora
l’avvenire, parlano le cose con una delicatezza semplice e pagana. Essa
trepida ascolta: sono le voci buone, le voci protettrici della sua
adolescenza, gli addii supremi e mesti della sua prima vita che muore.
Tutto vuol richiamarsi al pensiero di lei: e i «fantasmi vaghi della
mente giovinetta» e il primo raggio di amore; e la casa dolce che l’ha
difesa, come il cristallo la fiamma, da ogni alito impuro; e i libri che
riunirono due giovani teste amorose, e il ricamo che riuniva i pensieri,
e il pianoforte che faceva battere all’unisono i cuori: e dalle piante
memori, dal letto verginale su cui scesero i sogni, dai «buoni alberi
amici», dalle conscie sabbie dei viali, piovono saluti sorrisi di
propiziazione alla fidanzata pensosa. E l’amica che la guida in questo
congedo sentimentale ripensa seco, con pensieri ed espressioni in cui la
materialità della parola quasi dispare sotto il profumo, i delicati
episodi e le ore azzurre fra cui tramò ella la sua gaia rete d’amore. Ma
per non sciupare di più colla mia analisi al microscopio quell’alata
poesia, ecco uno dei sonetti migliori:

    E ti dicono addio soavemente
    Le cose intorno, e ognuna in sua sembianza
    Dei brevi anni vissuti alla tua mente
    Guida il sorriso d’una ricordanza.

    Dalle pareti della conscia stanza,
    Che tutta investe i rai del sol presente
    Sfilano luminose in gaia danza
    L’ore auguranti all’anima che assente.

    E il picciol letto abbandonato dice:
    La bella testa che da qui partia
    Or sovr’altro guancial posi felice.

    Arride dal balcone il cielo aperto
    Che la leggiadra fidanzata spia;
    Brilla il ner’occhio a interrogarlo esperto

Oh la suggestione e la gentilezza di quell’idea del piccolo letto
abbandonato, il piccolo letto a cui sono noti i sogni, che ha parole di
così mesta soavità! Non si può leggere con indifferenza questa pagina,
poichè chi di noi non vede cogli occhi dell’anima un piccolo letto, che
sapeva solo i sogni, similmente abbandonato? Chi di voi, fanciulle, non
intravede il giorno che lo abbandonerà? Non so resistere al diletto di
ridire un’altra poesia — l’ultima — che ricongiunge come un nodo ideale
questa fragrantissima ghirlanda:

    Questo il lieto tuo fato: esser amata
    E amar felice. Non a tutti ei splende
    Che intreccian nozze. Non a tutti rende
    Cosí piena mercè l’immacolata

    Bella luce d’amor. Non una offende
    Nube l’azzurro della tua giornata,
    E la tua giovinezza avventurata
    Da un fido porto a un fido porto stende

    La candid’ala di procelle ignara;
    In un nimbo gentil di poesia
    L’anima al nido placido ripara

    Dolce sognante. E su le nove soglie
    Dal ciel dorato della fantasia
    La sorridente realtà Ti accoglie.

Leggiadra bruna incognita, che passate dal sogno alla realtà senza
risveglio, dovete essere ben contenta di annoverare fra i ricordi di un
giorno indimenticabile le nitide pagine dal nastro azzurro che la vostra
amica vi dona. Per Voi sono più che versi armoniosi, sono atomi della
vostra esistenza che hanno preso forma e colore per scortarvi come
facelle amiche lungo l’ignoto viaggio dell’avvenire: è lo specchio
magico della buona fata, il piccolo e prezioso specchio nel quale
troverete ognora riflessa la serenità mite di una primavera a cui vi
sarà dolce, forse, di ripensare fra le pompe dell’estate ardente. E
possiate rimirarvi in mezzo la vostra immagine sempre così, come oggi,
nella gaia veste ornata di fiori.



                          L’ultima Primavera.


                   [Memini, Chiesa e Guindani, 1894.]

L’essenza della femminilità in tutto ciò che ha di più fine, di più
intuitivo, di più velatamente appassionato, di più profondamente tenero;
il fiore più delicato e più fragrante d’un ingegno sul meriggio per cui
il dar forma al pensiero non è più un faticoso esercizio ma una facile
consuetudine; la nota indovinata, giusta, fra la pittura esatta della
verità e le sfumature della poesia; l’equilibrio difficile fra
l’indagine psicologica e il movimento dei personaggi; questo, e più
ancora, ho trovato nel fresco libro dalla veste ideale che non inganna.

Chi è Memini? Io non so. Ma credo di poter affermare che abbiamo a fare
con una vera signora. Finalmente! si respira, in questo andirivieni di
donne-scrittrici, non tutte gentili, che scambiano la sgarbataggine con
la forza e fumano la sigaretta anche in letteratura! Memini, l’ho detto,
è soavemente donna e signora; non perchè la sua arte ce lo confermi
cincischiandosi in analisi da sarta e da tappezziere, o perchè ci fa
vivere in un ambiente leggittimamente aristocratico; ma per una specie
di delicata riservatezza, per la grazia semplice e tranquilla di cui si
vela il suo stile, sempre, anche nei momenti del più alto lirismo, anche
nei momenti della più intensa passione, raggiungendo, in tal maniera,
una semplicità suggestiva e un’efficace sobrietà. Le scene più
drammatiche del suo romanzo, qualche punto scabroso, sono tratteggiati
con bravura a luce e ad ombre sapienti, e l’immagine nella sua rapidità
ci è resa viva e completa così che non ci par riflessa ma veduta. Lo
stesso nell’analisi delle sensazioni, degli stati d’animo dei
personaggi: la preparazione è tanto graduata, li conosciamo già tanto
bene per quello che dicono, per quello che fanno, per quello che
l’autrice, accortamente in una pennellata, ce li presenta, che si
prevede già ciò che _sentiranno_, ciò che penseranno, ciò che
decideranno in quella data occasione. Poichè tutti sono veri e vivi, ed
hanno un’individualità propria, tutti, perfino i più insignificanti; e
si muovono così bene nel loro ambiente in cui s’intravede dietro a loro
altra gente ed altri caratteri e altre passioni, come nel mondo. Trovo
qui che Memini ha superato vittoriosamente un gran scoglio: quello della
prospettiva, del fondo; direi volentieri della messa in scena; scoglio
da cui non si guardano sempre nemmeno i nostri valenti, e che guasta
qualche volta l’idea e la forma migliore. L’azione sia pur di due od
anche di un individuo solo, ma non agiscano nel vuoto, ma intorno ad
essi ci sia la folla — indifferente, poco importa; ma è necessario
indovinarla, è necessario intravederla, bisogna saperla là, e non col
mezzo di qualche personaggio secondario messo per riempitivo, ma
complessivamente; dei nomi, delle abitudini, dei tratti caratteristici,
dei saluti, dei legami, degli obblighi; ciò insomma che penetra dal di
fuori anche nella vita più appartata. Zola è in questo insuperabile:
ogni suo romanzo è un mondo. Da noi, ma non sempre, i meridionali:
Verga, il D’Annunzio, la Serao.

Ecco ora questa dama gentile riuscirvi perfettamente. La sua _Ultima
primavera_ è una primavera fiorentina che tutti respirano e vivono. Ma
la primavera più fragrante, quasi gravosa per dolcezza, la vediamo
schiudersi nel cuore della protagonista, la contessa Elisa, una figurina
che ha una vaga aria di famiglia con le più delicate figure di Bourget.
La trama del racconto è, credo, oramai nota e semplicissima. Un’amica di
provincia raccomanda alla contessa il suo unico adorato figliuolo ed
essa nell’iniziarlo agli usi della società in cui vive, nell’occuparsi
del suo benessere morale, nel plasmarne la personalità, se ne innamora
appassionatamente. Ma fra Elisa e Roberto ci sono sedici anni di
differenza, e questa donna elevata dalla vita un po’ solitaria e tutta
intellettuale in cui si era compiaciuta, crede di non aver diritto di
avvincere a sè quella giovinezza per sempre, e vi rinunzia. Se non che,
non avendo per sostegno alcun dovere nella rude lotta, l’amore dilaga e
trionfa proprio quando Roberto, che ignora lo sottigliezze spirituali,
punto dal rifiuto di lei che credeva non potesse riguardarlo che come un
ragazzo troppo inferiore, s’è gettato nelle reti di una vecchia sirena
sempre tesa a raccoglier vittime nuove. Così muore l’ultima primavera.

L’analisi di quest’amore triste e supremo, dai primordi in cui non è che
tenera sollecitudine quasi materna, alla fine in cui prorompe con tutta
la violenza possente di un sentimento ancora non provato, è miniata
insuperabilmente per finezza, per misura, per divinazione. V’hanno dei
momenti in cui, se l’autrice non avesse la mano così leggera e l’intento
di mantenersi in una sfera ideale così risoluto, avrebbero potuto
degenerare nella sguaiataggine o in un verismo crudele. Ma, o la
protagonista con la sua schiettezza quasi ingenua, o l’autrice col suo
intervento di signora, o lo stile pieghevole e corretto, hanno sempre
tutto salvato. E in quella mirabile scena, prima del primo duello di
Roberto, così satura di emozioni e così laconica, noi possiamo vedere
quella bella testa virile piegare sul florido petto di quella donna
amante ed amata, senza che alcuna suggestione meno che pura offuschi la
delicata visione. Udite:

    «Lentamente, come sopraffatto dall’intensità delle lotte segrete
    ch’egli aveva sino a quell’istante saputo dissimulare, Roberto
    chiuse gli occhi, e, a guisa di uno stanco fanciullo, posò il
    capo sul petto della contessa. Lo sguardo di quella donna ebbe
    lo smarrimento vago d’un’estasi. Ella non si risentì nè si
    ritrasse. Tacque. Ma sotto il morbido rialzo del seno i violenti
    battiti del suo cuore giungevano all’orecchie di Roberto.

    — Ah, — mormorò questi, quasi inconsciamente, — morire... non
    sarebbe niente. Ma così... nevvero?

    — Così — susurrò Elisa, come un’eco lievissima involontaria.

    Ci fu una lunga pausa, di quella pace, di quel silenzio.
    Nient’altro.»

Perfino la figura di questo Roberto che non è che giovane, bello, forte,
sano nella luce diffusa sapientemente su tutto il libro ci apparisce
sotto il suo aspetto meno materiale. Noi sappiamo che è sensuale,
egoista, un buontempone inutile all’opera e al pensiero. Ma lo vediamo
poi tanto ingenuo nei suoi difetti ch’egli (ah che sollievo!) non si
cura di analizzare nè di distinguere, lo vediamo così pieno di rispetto
verso quella donna di cui riconosce francamente la superiorità, e
riscontriamo in lui, nelle circostanze, un tatto, un criterio e una
forza così spontanei, che se anche non ci desta simpatia, possiamo
giudicarlo imparzialmente. In tal modo questa e le altre figure hanno un
rilievo spiccatissimo, un valore tutto oggettivo. La vecchia duchessa,
Marina, il povero russo tisico e milionario, il poeta abruzzese sempre
un po’ selvaggio, Dino Follemare dalla grazia rassegnata, la grossa zia
d’Elisa, Tecla, la mamma di Roberto valetudinaria, Marcello Plana ci
popoleranno la mente per un pezzo, come creature fra cui avessimo
veramente vissuto per qualche tempo. L’autrice, ripeto, non ci mette di
suo che la leggiadria soave e piana della narrazione, nè frettolosa nè
lenta, interrotta con una chiusa sempre efficace nei brevi capitoli che
paiono una ghirlanda di roselline di maggio. Se Memini non è una
figliuola della Toscana, lo è per la lingua agile e pieghevole, per una
punta d’arguzia sempre latente nel dialogo, per quella grazia armoniosa,
soffusa anche nella gaiezza d’una certa mestizia che raggentilisce in
Toscana ogni opulenza della natura o dell’arte, che fa ripensare alle
concezioni delicate che sorgevano fra i fiori dei calendimaggi
fiorentini del quattrocento.

Si potrebbe notare, per amor del vero, qualche piccola sciatteria
sfuggita nella scorrevolezza del dire, qualche strozzatura, qualche
vocabolo esotico che se passa inosservato in una conversazione
frettolosa, offende in una pagina di stampa italiana come un leggero
strappo che riveli qualche povertà; ma sono nèi che si sommergono nella
blanda fulgidezza dell’opera gentile dov’è più sentimento che pensiero,
più eleganza che originalità, più larghezza d’osservazione che
profondità. Ma non ce ne lagnamo troppo. Le donne vere minacciano di
diventar rare nell’arte come nella vita. Di studi tenebrosi e misteriosi
intorno alla psiche umana, di vivisezioni feroci, di drammi paurosi e
cupi e fantastici della coscienza, di acrobatismi di lingua ne abbiamo
ancora da saziarcene per un pezzo. Il più difficile per chi legge per
diletto e non per dovere (ah fossi anch’io tra questi!) è di trovare da
dilettarsi. Ebbene; con l’_Ultima primavera_ si ha già trovato.



                              Opere buone.


In mezzo a tanta faraggine di produzione letteraria scipita o dannosa —
e, in un’altra categoria insufficiente o pedante, alleggerisce proprio
l’anima, d’imbattersi in qualche volumetto nel quale l’intento di
giovare sia vero e serio come il valore dell’opera: nel quale si trovi
un ingegno che rinunzia a qualche pompa di vanità più effimera ma più
abbagliante, a qualche soddisfazione più egoistica e più intera, per
immedesimarsi nel pensiero di qualche grande e farlo scintillare nella
luce più chiara e divulgarlo come un verbo di bellezza pel mondo. Sono
apostoli dell’arte, nelle loro rinunzie, nel loro ardore, nella loro
fede. Fra costoro stanno i traduttori valenti com’era il Maffei, come è
ora il Sanfelice per lo Shelley, il de Gubernatis e il Pizzi per le
letterature orientali; i ricostruttori del passato come il Ricci, il
Masi, e così via.

Ci sono gli studi danteschi. Mai, s’è detto, il nostro maggior poeta è
stato più letto, più studiato, più commentato che nel nostro secolo che
conta della Divina Commedia il maggior numero d’edizioni: ed, oltre
gl’innumerevoli studi, giornali e pubblicazioni speciali.

Eppure a nessuno, con tanto «divenir macri» alla nostra volta per
intender ciò su cui il poeta affaticava la sua poderosa mente — a
nessuno era venuta finora l’idea che la maniera più acconcia e più
semplice per rendere accessibile il gran lavoro, era di ricomporlo coi
suoi stessi elementi nella prosa — farne una vasta leggenda, una
magnifica fiaba per il popolo e per i ragazzi e per i profani, per
invogliare intanto questa gente, per darle adito, se può e vuole, a
ricercare da sè le bellezze adamantine di cui ha visto sfavillare una
sfaccettatura. Quando la fantasia, la curiosità son deste, la ricerca è
più naturale e più dilettosa; e quando si trova in bell’ordine chiaro ed
armonico l’esatta esposizione dei concetti, molta parte della difficoltà
è rimossa e vinta. Il filo d’Arianna di questa lucente prosa ci guiderà
attraverso i laberinti della poesia.

L’idea era semplice e ingegnosa. Una specie dell’uovo di Colombo. Come
mai nessuno ci aveva pensato prima? Ma il difficile è appunto questo:
pensarci.

Il professore Agostino Capovilla, a cui balenò la felice idea, ce la
presenta ora incarnata nell’operetta geniale e buona sotto un titolo e
in un’edizione che rivelano il generoso intento di farne partecipi
tutti.⁵ Egli scrive nella modesta prefazione:

   ⁵ La Divina Commedia presentata senza il sussidio dei commenti. L.
     Cappelli edit. Rocca S. Casciano — L. 1,50.

«Benchè la Divina commedia sia dichiarata il nostro poema nazionale, la
Bibbia degli Italiani, gli italiani però — fatta eccezione dei dotti e
dei letterati — o la conoscono per averne sentito parlare o ne hanno
letto appena alcuni canti: i soliti, per quanto insuperabili... L’aiuto
dei commenti, dal quale non è quasi mai disgiunta nessuna edizione della
Commedia, se vale a rendere più o meno intelligibile il testo e i
concetti danteschi ai volonterosi agli studiosi, agli appassionati,
rende però la lettura faticosa e penosa per loro, e una vera _via
crucis_ per tutti quelli — e sono i più — che leggono a scopo di puro
ricreamento; per quelli che sono desiderosi di apprendere i fatti, di
conoscere i personaggi, di vedere i luoghi, e non si curano di questioni
filosofiche, letterarie, teologiche: per quelli appunto ai quali Dante
pensava scrivendo il suo libro. Il libro che io pongo in mano alla
gioventù, al popolo anche, sta fra la versione in prosa e l’esposizione
sommaria. Toglie il superfluo, l’algebrico per dir così il non bello:
espone tutto il resto con dizione facile e piana; ne’ luoghi più eletti,
colla dizione stessa del poeta voltata in prosa, rammodernata negli
arcaismi.»

E così è. Un libro che può dilettare, ripeto, come una gran fiaba, o
come qualcuno di quei vecchi romanzi cavallereschi di gesta e
d’avventure. Le figure su questa superficie livellata spiccano tutte con
un rilievo più marcato, con colori più vivi, con luci più sfavillanti;
sia nell’inferno in cui paiono fusi insieme i geni di Michelangelo e di
Shakespeare; nel Paradiso, arido e splendido; nel Purgatorio, nella più
divina della cantiche dove non è più il dolore e non è ancora la gioia,
dove la mestizia soave e blanda è nel verde, nei fiori, nei crepuscoli,
nelle voci; dove è un sospirare e un desiderare umile e ardente — dove
le donne che più hanno amato e pianto, e i cavalieri che più hanno
perdonato e gli artisti che più hanno sofferto, lievi passano e si
nascondono: e gli angeli sono umani e pii, e il poeta pagano ha il cuore
oppresso dal divieto supremo e il poeta cristiano l’anima anelante alla
sua diletta che gli sarà concessa per lo spazio di un sogno... Se la
Divina Commedia è la Bibbia degli Italiani, questo è veramente il salmo
dei dolenti — giacchè per sentirne riflesse nello spirito le verità, le
consolazioni alte, le bellezze, bisogna avere faticato su per l’erta
della vita fra le lagrime e i pesi e il fuoco, come l’Alighieri in
ispirito sul mite Calvario...

Ma invece delle mie insufficienti manifestazioni sarà più opportuno
riportare un brano della meritoria operetta del Capovilla per
dimostrarne meglio il valore e l’utilità. Scelgo a caso:

«Era già l’ora, che ai naviganti, nel dì in cui hanno detto addio ai
dolci amici, volge il desiderio verso la patria e intenerisce il cuore:
e che piange d’amore il nuovo esule s’egli ode alcuna campana di
lontano, che paia piangere il giorno che si muore. Quando Dante
incominciò a mirare una di quelle anime, che levatesi in piedi, colla
mano chiedeva alle altre che la ascoltassero. Ella giunse, ed alzò ambe
le palme, fissando gli occhi verso l’oriente, così come dicesse a Dio:
«D’altro non mi cale che di Te, Signore!» Poi le uscì di bocca: — Te
lucis ante (_Prima che termini la luce; inno della chiesa a difender
l’anima dalle tentazioni notturne_) devotamente e con note dolcissime. E
le altre anime, colla medesima dolcezza e devozione, l’accompagnarono
per l’inno intiero, tenendo gli occhi al cielo. Poi taciti guardavano in
su come aspettando.»

Se lo spazio me lo concedesse vorrei trascrivere molto di più, ma dal
brevissimo saggio ognuno può farsi un’idea dell’intero lavoro. Io chiamo
queste opere: opere buone.



                            Italia e Poesia.


                                                        Ad un incredulo.

.... Poichè ho la fede, lasciatemi parlare; — e non per la velleità di
convertirvi, state tranquillo, nè per un irriflessivo senso d’orgoglio
nazionale, e neanche per la vanità d’impancarmi a predicatrice: la fede
è degli umili; — degli ignoranti, potreste dirmi; — ma non importa: sia
ignoranze, sia illusione, sia amore, la fede è bella e fa del bene e va
rispettata.

Io credo dunque alla superiorità del genio poetico italiano, e chi non
ha mai accarezzato questa dolce idea mi scagli... il primo _elzeviro_.
Ci credo; e l’altro giorno in questo stesso giornale⁶ a proposito d’una
poetessa gentile ho arrischiato l’osservazione che la prosa francese
contemporanea vince la nostra come la poesia italiana vince la poesia
francese. Pensavo candidamente che il dirlo in Italia non doveva essere
un’imprudenza; invece... ho motivo di credere d’aver provocato una
varietà infinita e graziosa di smorfie a giudicare da quella caduta sul
margine — la vostra — -che arrivò fino a me.

   ⁶ Idea liberale (Milano 1892).

Non è questione di _chauvinisme_, ve l’ho già detto. No, poichè la
superiorità non la trovo tanto nelle personalità artistiche come nella
poesia per sè stessa nell’arte poetica in generale. Nella poesia
italiana si mesce un elemento nuovo, sottile, che le altre poesie non
hanno: un elemento, dirò così, complementare, che infinite e varie cause
concorsero a formare. È l’atavismo di dignità più immediato, della
lingua latina? È l’eco del _dolce stil novo_? È la dovizia lussuosa dei
vocaboli? È il cielo? il sole? i fiori? le memorie? — La poesia in
Italia non è come negli altri paesi: vi brulica come i pulviscoli nel
raggio l’aria ne è intrisa — vola per le bocche del popolo, s’insinua
tra i banchi degli scolari, sorride dalle cattedre, risuona nei campi,
trema o esulta nelle chiese — perfino il giovine clero, liberato dai
Greci e dai Romani, scrive rime d’ispirazione — perfino il Papa compone
in poesia... Convien dire che l’influsso sia potente...

La quantità non forma la qualità, convengo — ma data la straordinaria
abbondanza, bisogna pur considerarla come una forza; — poi più fiori ci
sono da distillare, più essenza se ne ritrae, è indubitato. Voi mi
diceste d’essere ammiratore della poesia francese contemporanea e mi
snocciolaste una dozzina di nomi che io ammiro quasi quanto voi senza
smuovermi dalla mia opinione. Ora facciamo una prova: pigliamo per
esempio la più bella poesia del Carducci — il _Canto dell’amore_ o
l’_Idilio maremmano_ o un sonetto o, che so io, quella che d’accordo
troveremo la migliore, e mettiamoci accanto la miglior poesia del
miglior autore francese (chi contrapporrete al Carducci? Baudelaire?
Richepin?): leggiamole tutte e due; e vi sfido a sostenere che quella
che dà maggior diletto estetico è la francese. Ridete? rido anch’io, ma
è così! Ho la fissazione, vedete, che lo spiritello vincitore s’annidi
nell’idioma nostro, nel soave idioma che fa così armoniosa la rima —
l’idioma caro e scellerato che tiranneggia i prosatori e che si
abbandona con tanta docilità nella lirica e vi si adagia con tanta
sovrana eleganza con tanto gentile impero, come se fosse quella la sua
vera e naturale dimora. Io non chiamerò la poesia francese, come Heine
che la detestava, «_acqua tiepida rimata_»; ma osservo che la morbidezza
e la delicatezza suprema della lingua francese che fanno la prosa, per
grazia carezzevole, inarrivabile, stemperano la poesia e le tolgono la
sua maggior forza e il suo maggior pregio: la sintesi. Quando Victor
Hugo volle esser più grandioso fu iperbolico, quasi grottesco; Leopardi
cantando l’umile poesia degli orti e della vita rusticana fu quasi
solenne. E lasciando in pace Leopardi e lasciando anche il Prati,
l’Aleardi e lo Zanella, de’ quali — come dite giustamente — non è più
tempo, perchè non ci ricorderemo noi, oltre che del Carducci, di Olindo
Guerrini che fuse pure nella gran corrente della poesia italica una vena
distinta e canora di poesia individuale; del d’Annunzio, l’incantatore;
di Rapisardi ciclopico; del fine autore di _Valsolda_, e di Praga, di
Boito, di Graf, di Panzacchi, di Mazzoni, di Cannizzaro, di Marradi, del
Costanzo, del Tanganelli, del Pascoli, del Giorgieri-Contri, del
Pitteri, del De Amicis che ebbe pure accenti di consolante ed elevata
poesia, di tanti altri infine che si rivelano tuttora poeti eleganti e
valorosi e che sarebbe lungo troppo enumerare? Se in Italia ci si
potesse persuadere, in letteratura come nelle altre cose, che della
sostanza ce n’è ancora e buona, se invece di trattare ogni nuovo frutto
dell’ingegno nazionale come Mefistofele tratta il povero mondo nel Sabba
romantico, ci si adoperasse con coscienza e gentilezza a metter in luce
il bello e il buono; ad essere un poco più facili nella scelta dei
nostri libri e un po’ più difficili nella scelta di quelli degli altri;
se almeno le signore — le colte e le intellettuali che hanno pur tanta
parte nella vita morale d’una nazione — non arricciassero il naso a
tutto ciò che sa d’italiano e mettessero nel conoscere e nell’insegnare
bene ai figliuoli la lingua materna la diligenza che mettono
nell’addomesticarli e nell’addomesticarsi con le lingue straniere, molte
nubi si straccierebbero dinanzi alla classica stella d’Italia. Che lieta
maraviglia, pensate, se da un giorno all’altro ci trovassimo guariti
dalla brutta malattia della diffidenza e del disprezzo verso tutto ciò
che è nazionale!



                           Dal mio Verziere.


[Pubblicato la prima volta nella «Cordelia», giornale per le giovinette
                              — Anno XI.]

    Una donna soletta, che si gía
    Cantando ed iscegliendo fior da fiore.
      _Purg. XXVIII._


Pochi accordi di preludio. Leggiadre signorine, siete pregate di far
capolino un momento nel piccolo santuario dove penso e lavoro. Su quel
mobiluccio d’angolo, guardate, fra la lucernetta antica e il ritratto di
una diva da molto tempo dimenticata, c’è un modesto albo di felpa rossa
che, poveretto, lascio sbadigliare settimane tra quei vecchiumi,
dimenticato anche lui. Fu in un malinconico giorno di emicrania e di
solitudine che mi ricordai del vecchio confidente, che lo attirai fra i
cuscini della mia poltrona. Sulla prima pagina un nome e una data,
scritti da una mano ventenne; poi altri nomi illustri, simpatici,
italiani, e tutti, o quasi, della letteratura militante. I versi agili,
mesti, spigliati, gentili si rincorrevano sulle nitide carte
rettangolari dall’orlo luminoso, alternandosi a brevi prose trascritte
da tutti i lati, capricciosamente. Fresca com’ero della lettura
dell’ultimo libro di Corrado Ricci, la mente corse subito alle pagine
più belle, a quei «due suoni disuguali d’acque cadenti che sembravano
rispondersi.... Un gorgoglio limpido come un trillo di usignolo e un
murmure più lontano, cupo, lamentevole... Sembrava un dialogo cantato in
una musica indistinta ma carezzevole e soave». Così il Ricci; e questo
io pensava scorrendo le liriche e le brevi prose. Due toni: il maggiore
e il minore, i sorrisi e i sospiri nell’eloquio ugualmente dolce,
iridato, melodioso. Qua e là gli stornelli costellanti il fondo, come
fiori.

Allora, coi fiori, mi venne il pensiero della _Cordelia_ primaverile, di
voi, signorine, ed ebbi il desiderio di indugiare con voi nel mio
giovanile verziere. Prima però debbo avvertirvi che le creazioni che
incontreremo non sono sempre le migliori che uscirono dalla penna dei
loro autori, ma sempre le più adatte a voi e quelle forse che voi
medesime preferireste per conformità di sentimenti e di tinte, come io
preferivo. Ancora: non ci troverete novità. Vari di quei componimenti li
avrete letti dove li colsi, sulle strenne o sui giornali. Ma
aggruppandoli intorno al nome dello scrittore ci daranno un profumo più
distinto e più acuto, svelandocene la personalità; poi qualche sfumatura
imprevista del pennello divino la troveremo sempre, non dubitate. Volete
dunque? Sì? Muoviamo.



                                   I.


                           Antonio Fogazzaro.

Il Fogazzaro, che il felice accenno a una reazione idealista tende ora a
mettere di moda, è il genio delle nebulose. Il maggior fascino che emana
dalla sua produzione è, a parer mio, quello stesso delle più aggraziate
invenzioni della fantasia tedesca, nelle quali alla più bizzarra
meraviglia si mesce sempre un sottile soffio di semplicità domestica e
sana che rischiara e riposa. Non so se sia da preferire nello scrittore
il romanziere o il poeta, e, anche sapendolo, mi parrebbe un’irriverenza
boriosa il trinciar giudizi in questi scorci alla buona. Mi limito
quindi a leggervi qualche verso o a farvi notare i differenti aspetti
che ho osservato in lui. Mentre nelle più belle pagine di «Malombra», di
«Daniele Cortis», dell’indimenticabile «Mistero d’un poeta» egli ci
inebria dell’infinito e ci ravviva lo spirito sino a farci del corpo una
specie di simulacro, e, lievi, purificati, gloriosi, ci scorta fino
all’estremo lembo della terra, fin dove appare non più come un miraggio,
ma già come una costa lontana il paese dove ogni desiderio si sazia e si
tace, nelle sue poesie è di una determinatezza lucente e chiara sebben
lievissima e dilagante, un po’ troppo, anzi, qualchevolta. Ecco intanto
un sonetto bellissimo:

                        IN SAN MARCO DI VENEZIA

    Freddo è qual te il mio spirto, o cattedrale,
    I tuoi mosaici misti d’ombra e d’oro
    Somigliano i fantasmi ch’io lavoro
    Del core nel silenzio sepolcrale,

    Dove l’amor tace nascoso, quale
    Il tuo di gemme inutile tesoro:
    All’Ideal che spero, al Dio che adoro
    V’arde sola una lampada immortale.

    Talora per la tua porta che geme,
    Entran lume di cielo, odor di mare,
    Qualche figura taciturna e mesta;

    Ed anche in me, talora, entrano insieme
    Un folle arder vitale che dispare,
    Un dolce viso tenero che resta.

Bisogna aver vagato estasiati dentro quel grande gioiello bizantino,
bisogna averne avuto il cuore penetrato e la mente abbagliata sino
all’emozione, per intendere tutta la sapienza gentile, la giustezza
ideale della similitudine. Proprio così: ombra e oro, come una di quelle
favolose tele rabescate, che le fate nascondevano in una nocciuola; ecco
la trama lieve e tutta, direi, interna, delle creazioni di Antonio
Fogazzaro, ordita nel mistero religioso del cuore, che l’arte sua
rispecchia fedelmente. Anche là l’amore resta nascosto nel
sancta-sanctorum dell’arca santa, tanto nascosto e tanto lungamente
invisibile, che qualche volta le pene che soffrono le creature per lui
ci sembrano solo l’incombere di un fato affannoso senza leggi e senza
speranza di liberazione.

Nel piccolo albo trovo anche questa poesia che trascrissi, mi pare, da
_Valsolda_. Qui riconosciamo un poco l’innamorato di Violet e qui la
nota personale del poeta insiste con più evidenza:

    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
    Mi grandeggia ne l’ombre de la sera
    La vôta stanza. Fuor da ogni finestra
    Nel chiaror de le nebbie il lago appare
    Quale deserto, sconfinato mare.

    Uscir vorrei per questo mar deserto,
    Navigar solo, navigar lontano,
    E, spenta la veduta d’ogni sponda,
    Abbandonarmi a’ miei pensieri e all’onda.

    All’aperto uscirebbero i fantasmi
    Che più gelosamente il cor nasconde;
    Io sederei a poppa ed essi a prora;
    Senza parlar ci guarderemmo allora.

Vi è del refrigerio in questa luce, in questa atmosfera, in questa
solitudine in cui non regna che l’inganno innocente del sogno, d’un
blando sogno. E che gentilezza la ricerca di quell’isolamento assoluto
per immergervi l’anima, che nel suo geloso pudor di ninfea vuol esser
sola coi segreti del suo amore! Quanti fra i nostri poeti contemporanei
ci hanno abituate a queste raffinatezze del sentimento?... Essi che non
esitano a cantarci in un sol libro gli occhi ora azzurri ed ora neri e
le chiome ora bionde e ora brune del loro ideale femminile che non si sa
mai quale sia.... Udite ora, tolto dall’_Agave americana_, questo
frammento purissimo che si ravviva, come un marmo al sole, di una
dolorosa mestizia umana:

    Fuggono le stagioni
    Senza frutto nè fior per la straniera;
    Quando vien primavera,
    Ride il bosco felice
    Di lei, ridono l’erbe
    Tremole per lo scoglio, i fiorellini:
    Primavera le dice:
    «Perchè non ami? Io passo».
    Triste in silenzio,
    Ella spiega il pallor de le ricurve
    Foglie sull’ermo sasso.

Non sentite voi un blando eco leopardiano?

La _Leggitrice_ par scritta apposta per voi, signorine. Per questo ve la
dico, sebbene non sia fra le mie predilette.

    Entro piccol volume ella leggea,
    Oro nè avorio il libro non avea;
    Aveva i sogni dell’amor gentile,
    Pitture del novembre e dell’aprile,
    Disegni di gagliarda fantasia,
    Alterno il riso e la malinconia.
    Illuminavan le pensate carte
    Fulgor d’ingegno ed equa luce d’arte,
    Ella leggea una pagina dov’era
    Molle tepor di nova primavera.
    Le nubi addormentate, l’aria cheta,
    Gli augei migranti in alto ed il poeta.
    In quei sogni perduta, in quel riposo,
    Lo sguardo sollevò fisso, pensoso;
    Da la man semichiusa e negligente
    Uscì supino il libro lentamente.

Non è finita, ma io vorrei che finisse qui....

Ecco il _Brindisi_, poi passiamo oltre. È quello del «Mistero d’un
poeta». Mi piace assai per una vita un po’ insolita che vi palpita e che
ci dà il cantore, come ringiovanito. È l’amore ideale fatto reale? È il
vino biondo? Non si sa. Ma la corda vibra più risoluta e il poeta,
finalmente, sorride:

A te, bionda fanciulla, io bevo il vino biondo Il riso del tuo sole, de’
colli tuoi l’odor. Bevo e mi veggo sorgere dentro al pensier profondo Il
Reno sacro, i clivi, torri, vigneti e fior.

Bevo ed il vin divampami nell’estro suo straniero, Mi batte ed arde un
nuovo cor di poeta in sen; Bevo e mi bacia un alito, un’anima, un
mistero Che dal più dolce fiore della foresta vien.



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«Qual cosa mai non appar bella ai poeti, ai musicisti, ai pittori che
sognano e creano? Cadono d’intorno a loro le angoscie, abbattute
dall’arte che somministra le candide pagine pel lavoro; e la mente,
confinate le sue tristezze in remote regioni, s’illumina e s’innalza.

«.... E allora, la persona per cui si sospira e si soffre, resta come
idealizzata, e l’affetto si fa più intenso, ma meno violento e
disuguale, e si ama, si ama profondamente; e l’amore, anzichè turbare lo
spirito, l’aiuta a lavorare, e lo fa qualche volta assurgere a grandi
altezze. Scompaiono allora l’uomo e la donna, e fanno posto all’artista
e alla Musa!»

                                                        _Corrado Ricci._



                                  II.


                          Gabriele D’Annunzio.

Certo per voi, signorine, il D’Annunzio non è che l’_ami des vos amis_.
Voi non potete conoscere il D’Annunzio che per averne udito parlare dai
vostri fratelli e dalle vostre mamme (i babbi hanno quasi sempre troppo
da fare per confondersi con le Muse); tutt’al più qualche sorellina,
sposa e mamma, avrà avuto la compiacenza di trascrivere per le più
studiose di voi qualche rima di questo Apollo luminoso. Oggi faccio io
la parte di sorella maggiore, ma non mi ringraziate troppo: vi assicuro
che l’egoismo entra almeno per tre quarti nella mia amabilità. Il
D’Annunzio è il mio idolo, e la lirica D’Annunziana ha sempre esercitato
su me un fascino che somiglia alla magìa. Potrei leggere cinquanta volte
quei versi, la cinquantesima mi trovo più entusiasta della prima.
Immaginate dunque se mi faccio pregare ad abbarbagliarvi un pochino con
il saettìo tentatore dei brillanti che posseggo! Verrà il giorno che li
avrete anche voi. Ma per ora contentatevi dei miei: i diamanti, si sa,
non sono per le signorine.

Gabriele D’Annunzio è l’artista squisito della parola. Il Gautier solo
può essergli paragonato. La lingua maneggiata da loro acquista un pregio
così alto e maraviglioso e impreveduto che ci dà lo stesso stupore di
quei gran templi del Giappone fasciati d’oro fino o di quelle
lussureggianti foreste tropicali piene di strani uccelli e di fantastica
vegetazione. L’oro fino lo conosciamo anche noi, ma noi lo economizziamo
per i gioielli; e le piante esotiche e gli uccelli dai vivi colori
adornano la nostra casa, ma come una rarità. Eppure tutto fiorisce e
sorride negli stessi elementi, sullo stesso pianeta! E quel terreno ch’è
più ricco del nostro, quegli uomini che sono più avventurati di noi!...
Il D’Annunzio profonde i suoi tesori di gemme, di profumi, di tinte con
un fasto asiatico e con una raffinatezza parigina. Sfoglia a migliaia le
rose, per dormirvi su, da sapiente Sibarita; e ogni secolo, ogni plaga,
ogni arte gli dona l’essenza migliore di sè per deliziare i suoi sogni.
Un aroma antico e prezioso ci viene così dalle sue carte, un misto di
sacro e di profano come quei bei cuscini che le dame eleganti tagliano
in una vecchia pianeta e profumano di viola e di mughetto. Ma guai agli
imitatori! Il D’Annunzio non è imitabile, e i suoi seguaci sono come i
petrarchisti, odiosi.

Intanto io mi dilungo troppo... perdonate. Bastava mettersi un dito alla
bocca e dir come Panthea: _List! spirits speak!_ — Zitto, parlano gli
spiriti! — Noi, ascoltiamo:

                            SONETTO D’APRILE

    Aprile, il giovinetto uccellatore,
    a cui nitido il fiore
    delle chiome pe’ belli omeri cade,
    ne ’l cavo de la man, come un pastore,
    in su le prime aurore
    ha bevuto le gelide rugiade.

    Aprile, il giovinetto trovadore,
    su le canne sonore
    dice l’augurio a le nascenti biade;
    i solchi irrigui fuman ne ’l tepore,
    un non so che tremore
    le verdi cime de la messe invade.

    Ecco la bella! Ecco Isotta la bionda!
    China, de la sua porta a ’l limitare,
    ella stringe il calzare
    a’ piè che sanno i boschi. E il dì la inonda:
    toccan la terra, a l’atto de ’l piegare,
    i suoi capelli, in copia d’or profonda.
    Oh, la faccia gioconda
    che a pena da quel dolce oro traspare!

Ed ecco che io ripenso ancora una volta le rustiche e ridenti capanne
delle fate dei boschi, di Violacciocche, di Smeraldina, le capanne di
legno dalle finestrette inghirlandate di caprifoglio, dove i principi
splendidi e mesti si riposano e si consolano di non aver raggiunto alla
caccia le belle cerve bianche dalle corna d’oro. E proprio in qualche
creazione D’Annunziana la natura che vi si riflette è quella ignota e
romita delle fiabe e dei sogni.

Sentite questo strano _Rondò_ in cui il giro dei versi e la continua
assonanza delle rime fa davvero un ronzìo lievissimo:

    Com’api armoniose
    uscenti a ’l novo sole
    per le felici aiuole
    de’ gigli e delle rose,
    queste che Amor compose
    delicate parole,
    com’api armoniose
    uscenti a ’l novo sole
    su le chiome odorose
    che Amor cingere suole
    di sogni e di viole
    spirino dolci cose,
    com’api armoniose.

Ecco dalle «Rurali» una florida e imponente bellezza:

                              I SEMINATORI

    Van per il campo i validi garzoni
    guidando i buoi da la pacata faccia;
    e, dietro quelli, fumiga la traccia
    del ferro aperta alle seminagioni.

    Poi, con un largo gesto delle braccia,
    spargon gli adulti la semenza, e i buoni
    vecchi, levando al ciel le orazioni,
    pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia.

    Quasi una pia riconoscenza umana
    oggi onora la terra. Nel modesto
    lume del sole, al vespero, il nivale

    tempio de’ monti innalzasi: una piana
    canzon levano gli uomini, e nel gesto
    hanno una maestà sacerdotale.

Oh mia opulenta campagna latina! È te che penso, te che mi verdeggi
innanzi alle pupille dell’anima, piana, regolare, monotona, grandiosa
nell’altissimo silenzio degli accesi vespri sereni! Quanta pace mi ha
dato sempre la dignità classica della tua terra! quante volte ho
indugiato a contemplare i bovi aggiogati al magnifico aratro a dozzine,
biancheggianti sulle zolle scure dai riflessi d’acciaio! Il sistro
tinniva piantato ritto sui gioghi, e il villano incitava ad alte voci
lente dicendo dei nomi cavallereschi e favolosi che svanivano nel vasto
cielo come echi di un secolo lontano che non vuol essere dimenticato....
Oh le sublimi fantasie che errano con le nubi occidue sulla mia dolce
terra, là fra «’l Po, il monte, la marina e ’l Reno!....»

E poichè vi ho trascinate nel regno delle favole restiamoci un poco.
Vedete? passa sul nostro capo la più industre tra le fate:

                                MORGANA

    Or tremule, sui monti e su le arene,
    crescon ne la lunare alba le imagi;
    materiati d’oro alti palagi
    e torri ingenti assai più che Pirene.

    Salgono scale in luminose ambagi
    con inteste di fior lunghe catene.
    Come navi in balia de le sirene,
    ondeggiano le pendule compagi;

    poi che Morgana, in dolce atto giacente
    ne ’l letto de la nube solitaria,
    quasi ebra di quel suo divin lavoro,

    ama seguendo un carme ne la mente,
    cullare da le man languide a l’aria
    la città da le mille scale d’oro.

Che bellezza, non è vero? che fragile e preziosa bellezza questa
immaginosa visione! Guardiamoci dal determinarla in qualunque modo. Si
sciuperebbe. I miraggi non si possono analizzare nè descrivere. I
miraggi si adorano, si piangono, in silenzio.

Udite, ancora, poichè non voglio lasciarvi l’adito al dubbio che tutti
questi splendori affascinanti non rivestano che parvenze. Il palpito
umano c’è, ora gentilissimo ed ora violento, ma sempre d’un’efficacia
singolare. Il primo è un _Rondò_, un gingillo per voi, signorine:

    Entro i boschi alti e soli
    (era la luna piena)
    fluiva in larga vena
    canto di rosignoli.
    Da ’l triste inno corale
    pendeva Ella, in ascolto.
    Chino su ’l davanzale,
    io pendea da ’l suo volto.
    Non i miei lunghi duoli,
    non del suo cor la piena
    a la notte serena
    diceano i rosignoli
    entro i boschi alti e soli?

L’altro è un frutto trapiantato da poco nel mio verziere. Appartiene
alle «Nuove rime» recentissime, nelle quali la seconda maniera
D’Annunziana fa già capolino. Il massimo effetto d’impressione ottenuto
con la massima semplicità:

                               UN RICORDO

    Io non sapea qual fosse il mio malore
    nè dove andassi. Era uno strano giorno.
    Oh il giorno tanto pallido era intorno
    pallido tanto che facea stupore.

    Non mi sovviene che d’uno stupore
    immenso che quella pianura intorno
    mi facea, così pallida in quel giorno,
    e muta e ignota come il mio malore.

    Non mi sovviene che d’un infinito
    silenzio, dove un palpitare solo,
    debole, oh tanto debole si udiva.

    Poi veramente nulla più si udiva.
    D’altro non mi sovviene. Eravi un solo
    essere, un solo; e il resto era infinito.

    Che ne dite? Io dico che se v’ha una persona capace
    di rimanere indifferente alla fine di questi versi,
    quella persona è più degna di compianto che disprezzo.
    È una diseredata.



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«.... dal dolore, dal solo dolore nascono le grandi cose, e sorgono i
forti caratteri come il fiore dalla spina. Nella gioia l’uomo è sbadato,
imprevidente, infecondo; le belle qualità dell’animo e della mente, non
sono o non si palesano negli uomini felici: una sventura le fa
scintillare, come l’acciaio, la pietra focaia».

                                                            _G. Giusti._



                                  III.


                           Enrico Panzacchi.

In un volumetto abbastanza dozzinale sui poeti bolognesi trovo però
questa felice similitudine, o meglio, questa giusta intuizione di due
caratteri diversi in poesia: «Il Carducci è armonioso, il Panzacchi
melodioso, il primo è il poeta classico per eccellenza, il secondo è il
poeta romantico, ma questi due aggettivi nel senso alto, vero, esatto
della parola». L’essenza, se non la frase, era questa. Di mio vorrei
aggiungere che Enrico Panzacchi canta sempre in tono minore come
l’usignolo e come usò di preferenza il Bellini. Le sue liriche sono
tutte come i fiori del pensiero, bellezze meste e memori — tutte — anche
quelle che non ricordano, poichè rievocano non so quali voci dolorose e
antiche di naufraghi; tutte le voci che pregarono e piansero e
disperarono e si sommersero in un infinito di azzurro e di passato. È
come una resurrezione fittizia e melanconica di parvenze a cui sia
permesso, come in certe ballate d’oltr’Alpe, di animare di biancori e di
sospiri un parco boscoso per un’ora di una mite notte d’estate. Sono
spettri di pensieri, di fedi, d’illusioni, di giovinezze, di speranze,
di virtù... spettri sui quali ha penetrato dalle fessure del sepolcro un
raggio di luna e la possente parola che tutto vince, nel canto che li
piange, li chiama.

Il Panzacchi possiede inoltre una qualità essenziale ad un poeta: il
senso squisito della misura. Non dice mai troppo nè troppo poco; ha la
valentìa somma dei tocchi maestri che lasciano indovinare più che non
rappresentino, e non sfatano il mistero eloquente delle ombre. Su i suoi
bei versi aleggia sempre un non so che d’inafferrabile e di dolce, come
un fluido che carezzi invisibilmente, o meglio come un’aria montanina di
cui non si avverte ma si respira la purezza. È poi di una semplicità
refrigerante, o culli accanto al fuoco i suoi sogni, o fantastichi
d’angeli, di cavalieri e di re, con una freschezza colorita e gentile.
Anzi questo carattere, che secondo il mio modesto parere è il migliore
della sua poesia, trovo che in Italia non si è rilevato nè ammirato
abbastanza. Pochissimi dei nostri, quasi nessuno, lo supera nella
ballata e nella leggenda. Udite, ecco per me il capolavoro in versi del
Panzacchi:

                            I TRE CAVALIERI

    Canti di galli uscian d’ogni cascina
    E le siepi lucean per la rugiada,
    Mentre alla dubbia luce mattutina
    Caracollavan sulla bianca strada

    Tre cavalieri. Non facean parole;
    Come tre viandanti sconosciuti;
    Quando raggiò sull’orizzonte il sole
    Non gli voltar nè sguardi, nè saluti,

    E andavan. Lieta col diurno raggio
    La vita delle cose erasi desta,
    Venìa dai campi un dolce odor di maggio
    E giù dai rami un cantico di festa.

    I cavalieri soffermârsi innante
    A una casetta solitaria e bella,
    D’edera e di glicinia verdeggiante;
    Ritta al balcon guardava una donzella.

    Una donzella, di beltà un tesoro,
    Che avea negli occhi un vago incantamento;
    Traea la chioma ad una rocca d’oro,
    Brillava il fuso come puro argento.

    E mandava per l’aria una canzone
    Che ognun dei cavalieri al cor ferì:
    Ma un di essi ratto calò dall’arcione
    Disse: «compagni, addio; mi fermo quì ».

    E i due rimasti seguitâr la via
    Esalando il rammarco in sospir vani;
    Era l’aria infocata, il sol ferìa
    La strada polverosa e i vasti piani.

    Suona a un tratto, da lunge ai viandanti
    Un gran clangore di trombe guerriere,
    Slargano i due corsier le nari ansanti
    Drizzan gli orecchi e squassan le criniere.

    Poi sorge in vista una città turrita
    Circondata da folto accampamento;
    Erge fiero l’assedio ogni bastita
    Tutte le tende han le bandiere al vento.

    E i due guardâro al combattuto vallo
    E un fremito di pugna ambo assalì....
    Ma un d’essi spronò forte il suo cavallo
    Disse: «compagno, addio; mi fermo qui»

    E il terzo cavalier tacito e solo
    La via prosegue fin che il dì s’oscura
    Poi soverchiando la piena del duolo,
    Comincia a lamentar la sua sventura.

    Ma le querele eran dal pianto rotte
    E gli cadea sul petto il capo ardente,
    L’anima sua per l’ombre della notte
    Si dilatava sconsolatamente.

    E pensava il dolor ch’è nelle cose
    E vedea l’aridezza entro il suo core;
    Un cammin senza lauri e senza rose,
    La vita senza gloria e senza amore.

    Allor lentò le redini al corsiero,
    Com’uom cui brama nè pensier più tocchi,
    E andò finchè d’un queto cimitero
    Si vide la muraglia innanzi agli occhi.

    Un poco riguardò, scese di sella
    E al cavallo che lugubre nitrì,
    Il cavaliero con fioca favella
    Disse: «compagno, addio; mi fermo quì».

La delicatezza, la vigorìa, la sobrietà, il simbolo, lo sfondo del
paesaggio e gli aspetti della natura così bene armonizzati cogli ideali
dell’anima che vi si rispecchia trovando sempre l’immagine sua nelle
ore, nelle cose, ci possono far paragonare e forse anche preferire
questa ballata a qualche ballata di Bürger, di Uhland, di Platen, di
Heine, se non a quelle del gran Goethe. La cavalcata di quei tre
cavalieri taciturni, estranei, ignoti, in ciascuno dei quali arde una
diversa fiamma roditrice, ognuno dei quali è sospinto al suo destino
fatalmente, assurge a una potenza drammatica meravigliosa, appunto per
l’assenza dell’elemento macabro che dà l’efficacia alla maggior parte
delle fantasie di questo genere. Qui l’efficacia viene tutta dall’umano,
dal simbolo, dalla semplicità di quegli echi ineffabilmente dolorosi più
che di dolore, di vanità. Voi, signorine, che più o meno traete tutte
fila d’argento da una conocchia d’oro nell’olezzo della flora
primaverile, voi forse preferite il primo cavaliere che si appaga di una
giovinezza inghirlandata di fiori; o anche, se siete vivaci e fiere, può
sorridervi nella fantasia il guerriero che si slancia alla conquista
della gloria per rendersi più degno dell’amore; ma che numerosa schiera
di anime dolenti e ferite, quelle che tollerate male nella vostra
compagnia, signorine, perchè v’annoiano o v’immalinconiscono, quelle che
passano silenti nella vita senza gloria e senza amore, si sentono
baciate da quell’anima solitaria che si dilatava sconsolatamente
nell’ombra!...

Affrettiamoci un poco, ora, a riguadagnare il tempo speso, non perduto.
Ecco due sonetti che vi daranno un’idea esatta della vaghezza melodiosa
e lieve della poesia del Panzacchi, che mi par sempre cantata fra il
verde melanconico del purgatorio dantesco da voci spirtali e penitenti:

                                PAESAGGI

                                   I

    Non sussurrava un alito di vento
    Del vicin parco fra le dense chiome,
    Avea fatto trillar le dolci crome
    Il solito usignol per un momento.

    E tacea. Lassù nel firmamento
    Mill’astri ignoti a noi perfin di nome
    Splendean. Sul mondo era silenzio come
    Che s’aspettasse un grande avvenimento.

    Le nostre fantasie, bellezza bruna,
    Correano intanto un rapido galoppo
    Per il paese dei sogni, incantato;

    E a noi rideva il disco della luna
    Di dietro ai rami d’un aereo pioppo
    Dal suo candido sguardo inargentato.

_Come che s’aspettasse un grande avvenimento._ Avete sentito tutta la
verità della sensazione colta a volo dal poeta? Quell’attesa muta della
natura a certe ore, a certe stagioni, quando ci sentiamo tristi o
rimpiccioliti come se fosse troppo bella per noi! E quell’occhio della
luna dietro il pioppo, chi non l’ha veduto, chi non lo rivede di voi,
fanciulle della mia regione Emiliana, riflesso blandamente in questi
versi come in sogno?

Ecco il secondo sonetto ad effetto di nebbia, sfumato sapientemente. La
chiusa poi è bellissima:

                                  II.

    Quando i tetti s’ascondon nella volta
    Del ciel, e semispento il giorno piove,
    Godo a tuffarmi nella nebbia folta
    E andare e andar, senza ch’io sappia dove.

    Allor la mente un vivo alito muove,
    E i ricordi del cor chiamo a raccolta,
    E torno sognator come una volta
    Seguendo fantasie balzane e nove.

    Alberi intanto e uomini e vetture
    Simili ad ombre erranti in vacuo fondo,
    M’appaion per le strade umide e scure.

    Questo mi piace; e torno a amar la vita
    Vista dentro il mio capo ed amo il mondo
    Perchè somiglia una larva infinita.

Vi narrerò una fiaba prima di dirvi addio per questa settimana. Vi
piacciono le fiabe? Jolanda le adora:

    Il bellissimo re ferito in guerra
    Traea le notti insonni. Atro martir!
    Tutti i savi cercò della sua terra,
    Tentâro ogni arte; ei non potea dormir.

    Ma la sua dama un dì fuor della mente
    I bei sogni d’amor tutti gittò,
    Il suo giovine cor restò dolente
    Ma il re sognando al fin si addormentò.

    S’addormentò sognando i sogni belli
    Che a lui la dama in olocausto diè;
    Sommessi nel giardin cantan gli augelli,
    Veglia la mesta dama, e dorme il re.

Dormi, bellissimo re. È difficile addormentarsi quando si rimase feriti;
è più difficile che destare le belle assopite nei boschi incantati. A
destare, basta un bacio; ma a procurare un riposo e un sogno, abbisogna
tutto un sacrifizio di riposo e di sogni. E di ciò non poteva esser
capace che una donna... Che ne dite, signorine?..



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«Il faut toujours parler comme si l’on devait être entendu, écrire comme
si l’on devait être lu, e penser comme si l’on devait être médité».

                                                          _Victor Hugo._



                                  IV.


                              Arturo Graf.

A proposito di Arturo Graf mi ricordo di aver sostenuto con un
professore, una discussione accanita. Egli voleva negarmi il diritto di
contarlo fra i poeti adducendo la ragione che in Italia non è
specialmente conosciuto come tale: ed io, col mio granellino di
ribellione al convenzionalismo, m’impuntavo a metterlo tra i quattro
miei preferiti ed anche ad anteporlo a qualche lirica autorità
costituita con grave scandalo del mio avversario. Naturalmente ci
separammo rafforzati entrambi nella nostra opinione e amici più di
prima. Mi accadde poi qualche tempo dopo di trovare in una rivista, a
cui attendono persone illustri, il nome del Graf onorato insieme al
Carducci e allo Stecchetti dell’aggettivo di «maestro della rima».
Immaginatevi qual trionfo per le mie teorie e che documento importante
per un bisticcio futuro che, per fortuna del mio interlocutore, si farà
molto aspettare.

Non so se oltre «Medusa» Arturo Graf abbia pubblicato altri volumi di
versi. Credo di no. Mi innamorai delle sue poesie trovandole qua e là,
solitarie e luminose, come gemme di gran valore che non hanno bisogno di
esser aggruppate nè rilegate per suscitare l’ammirazione. Ognuna nella
sua vergine e forte limpidezza vale mezza dozzina, e più se volete, di
quegli elzeviri che furono una vera e nuova invasione barbarica per la
povera Italia, pochi anni or sono. Mi dicono che è vano cercare l’indole
vera dell’individuo nella produzione artistica che cause varie e
infinite possono informare; cercare l’uomo nel poeta è poi — si aggiunge
— una completa stoltezza. Pure io non posso impedirmi di trovare
rispecchiata nella bella e armonica poesia del Graf la figura
giovanilmente severa dell’autore, nella sua corretta e sobria eleganza
di linguaggio, nel suo mirabile, ed, ahimè, raro equilibrio della mente
e del cuore. Ci vedo perfino un riflesso della sua Atene nativa, delle
selvose solitudini rumene dove studiò, dell’ardente e azzurra Napoli che
prima applaudì al novello dottore. Arturo Graf è ora l’idolo della
studiosa gioventù piemontese che perfino, giunse a nuocergli per troppo
zelo nella difesa d’alcune teorie letterarie del suo professore. Che
esempio per certi studenti!...

Ecco il primo fiore di questo poeta, che s’incontra nel mio verziere:

                                 NINFEA

    Un soave mattin di primavera
    Un luminoso ciel come di seta,
    Su per il monte l’antica pineta
    Immobilmente taciturna e nera.

    E in vetta al monte, dove più secreta
    La foresta s’addensa e più severa,
    Chiusa in angusto margine una spera
    Di lucid’acqua ammaliata e cheta.

    E solitaria, in mezzo al trasparente
    Vetro dell’acqua, una bianca ninfea
    Che nel riso del sol apresi ignuda;

    Come un sogno d’amor vivo e fiorente
    Che al radïar d’una superna idea
    In sen di verginale alma si schiuda.

Avete assaporato, signorine, il sano odor dei pini, e l’incanto
innocente di quelle acque, e il riso ingenuo di quella candida corolla e
la forte purezza di quel sogno? Si? Ebbene, allora esultate; siete
poetesse anche voi.

Ecco un altro sonetto più soggettivo. Quello era una perla questo
un’opale. Due diversi candori, due diverse virtù.

                                NIRVANA

    Un arcano baglior, vasto, uniforme,
    Che tutto invade e pur non trova loco;
    Un non so che di fulgido e di fioco,
    Un non so che di tenue e d’enorme.

    Un rotar, un fluir lento di forme
    Che si van sfigurando a poco a poco.
    Fuse e consunte in quel pallido foco,
    Quasi una visïon d’uomo che dorme.

    Sfuma la terra e si dilegua il cielo
    Si confondono insiem l’imo, il superno,
    L’oscurità, la luce, il foco, il gelo;

    E in un mar senza fondo e senza sponde
    Silenzioso, invariato, eterno,
    L’anima si stempera e s’effonde.

Io credo che lo stesso Carducci potrebbe mettere la sua firma sotto
questi versi senza tema di danneggiarsi. L’impressione fantastica
dell’immenso misto al meraviglioso, e sempre rinnovellata per la
mutazione rapida e lenta, insieme, degli aspetti, commista al pauroso
stupore che esercita ancora su noi come sui primi abitanti del globo
certi fenomeni della natura, sono resi magistralmente. Quell’incubo
dilettoso è raccontato con tanta efficacia che ci par vero: abbiamo
proprio messo l’occhio alla lente d’un mostruoso caleidoscopio in fondo
a cui non c’è che aria e luce; o pensiamo al divino e angoscioso
spettacolo d’un’aurora boreale veduta a parecchie migliaia di metri
dalla terra nella navicella d’un pallone areostatico, naufrago
nell’infinito.

Sono dolente di non potervi trascrivere per intiero nessuna delle poesie
del Graf che trovai tempo fa nella _Nuova Antologia_ e che d’averle
lette in _me stessa n’esalto_ ancora. La severa dolcezza è la nota
dominante nella lirica di Arturo Graf la quale somiglia proprio allo
stile dorico della sua terra beata. Eccovi un frammento di _Resurrexit_.
Prima il poeta con qualcuna delle sue grandiose pennellate d’ombra e di
luce ci mette in una pianura sterminata e vuota, sotto un cielo
nubiloso, fra una «frescura acerba di Maggio boreale» mentre «svania la
notte e ancor non era il giorno».

      . . . . . . . . . . . .
    Come avvenne non so; ma innanzi un bianco
    Avel mi vidi. Era di saldo e terso
    Marmo l’avello e rilucea; da fianco
    Il gran coperchio si vedea riverso.
    Di novi fiori intorno una gioconda
    Primavera spuntava, e sur un lembo
    Sedea dell’arca una fanciulla bionda,
    Che piene avea di fior la mani e il grembo.
    Oh, come bella e contegnosa, oh come
    Era pura e gentil, cinta d’un lieve
    Immacolato lin, sparse le chiome
    Di lucid’oro sopra il sen di neve!

    Le sembianze le ombrava una serena
    Melanconia che le facea più belle;
    Non era il riso suo cosa terrena.
    Splendevan gli occhi suoi come due stelle.
    Levò le ciglia, e con benigno riso
    Disse: Credevi tu ch’io fossi morta?
    Onde tanto stupor? guardami in viso;
    Se morta fui, vedi che son risorta.
    E veggendomi star muto e sospeso
    Com’uom cui falso immaginar disvia,
    Soggiunse: Hai dunque l’intelletto offeso,
    Che non conosci più la Poesia?
      . . . . . . . . . . . .

Scomparsa la visione amata e gentile, che proprio mi piange il cuore di
rappresentarvi mutilata così, il Graf nel _Post mortem_ ci dà una vaga
fantasia macabra, ammorbidita da una verdezza melanconica di un
paesaggio di ricordo, e della melodia suggestiva d’una vecchia musica
mèmore. Di questo non posso proprio darvi che gli ultimi tocchi, ma vi
sarà possibile, credo, giudicare da essi della bellezza indescrivibile
dell’intero componimento:

      . . . . . . . . . . . .
    Da un vol di nubi candide e leggiere
    In quel grande silenzio, in quell’immensa pace,
    Lieve come un sospiro un venticel si scioglie
    E cessa e poi riprende, così lieve e fugace
      Che appena fa rabbrividir le foglie.

    E di lontan con esso viene un fremito blando
    Di spinette affiochite, di gementi liuti;
    Un fremito d’antichi canti d’amor perduti.
      Che nella notte si van lamentando.

Ma non vi lascerò, signorine, con l’impressione livida di queste
spettrali rovine. Potreste fare dei brutti sogni. Il Graf, se non ha
nulla di molto roseo nè lieto, ha però qualcosa d’estremamente blando e
tranquillo, d’una pace alta di chiostro, dove anche la tristezza e le
lagrime acquistano una pura soavità. Tolgo dalla «Medusa»;

    Povero cappuccin quant’anni avete?
    Oh come siete malandato e tristo!
    Quant’anni avete fraticel di Cristo?
    Dite la verità, non lo sapete.

    Del mondo assai l’anima vostra è sazia,
    Sa Dio quel che dovete aver patito:
    Or tempo vi parrà d’aver finito;
    Se poteste morir l’avreste in grazia.

    . . . . . . . . . . . . . . .

    Guarda sotto la volta il paradiso
    Con le pupille estatiche ed immote;
    Due lagrime gli scendon per le gote,
    L’anima sua s’invola in un sorriso.....

    Freddo è il mattino, il sol non è ancor sorto
    Il ciel si tinge di color di rosa:
    Nel suo lettuccio il cappuccin riposa,
    Nel suo lettuccio il cappuccino è morto.

Lasciamoci qui. La morte del credente, dell’umile, del buono non è
paurosa. Con la memoria piena del mite quadro d’una fresca semplicità
francescana, sogneremo il paradiso schiudersi radioso nei paesi del sole
per accogliere l’anima pia e triste involata nel lume di rosa e di viola
d’una fredda aurora....

O poesia, poesia!



                      Piccolo intermezzo in prosa


«Due fiori sbocciano sui margini di un ruscello. Ma ahimè! il ruscello
si separa.

«In ciascuna corolla posa una gocciolina di rugiada, luminoso spirito
del fiore. Il sole dardeggia su una d’esse e la fa risplendere. Ma il
fiore pensa: perchè non son io sull’altra riva!

«Un giorno questi fiori si curveranno per morire, e lascieranno cadere
come un diamante il loro spirito luminoso.

«Allora le due goccioline di rugiada potranno riunirsi e confondersi».

                                                  _Quartina Giapponese._



                                   V.


                             Emilio Praga.

Il poeta di cui ci occuperemo oggi è morto da una diecina d’anni e più,
e i suoi versi sono, come quelli del D’Annunzio, quasi tutti
inaccessibili alle signorine. Pure se siete tutte coraggiose, o almeno
ginnastiche discrete, tenteremo di dar la scalata anche a quest’albero
del mio verziere per rubarne qualche frutto tra i più maturi. Quelli non
fanno male. E se alcuno passando osserverà, come nel poetico frammento
di Saffo, che i raccoglitori dimenticarono le dolci mele rosseggianti
sulla cima estrema del ramo noi risponderemo con le parole medesime di
Saffo: «No, non le dimenticarono, ma non le poterono cogliere.»

Il nome del poeta è Emilio Praga. Apparteneva a quel gruppo di artisti
che, dopo Mürger, si credettero obbligati a darsi alla vita più
dissoluta e più bizzarra, per la sola ragione che essendo artisti, era
necessario scostarsi in qualche modo dagli altri uomini. Era come un
privilegio della casta, un’affermazione e una necessità del mestiere: ma
per emergere s’impantanavano. Cominciavano dal vino, passavano all’oppio
e all’_haschich_ e finivano coll’assenzio. Sciatti, disordinati,
incolti, sgarbati per progetto, spesso brutali. Gente poco piacevole,
come vedete. Pure era convenuto che fossero così e si rispettavano,
precisamente come quei famosi _santi_ della Turchia; certuni anzi li
esaltavano.... sempre come in Turchia. Apro la prefazione alle
_Trasparenze_ del Praga e subito c’è un signore che mi avverte con
piglio severo che «Il poeta, l’uomo di genio, non può essere giudicato
alla stregua del volgare galantuomo....» Dunque attente signorine! Il
poeta e l’uomo di genio da una parte e i galantuomini dall’altra. E che
non nascano confusioni per carità....

Per buona ventura delle signore, però, quella razza non ha durato molto.
Ora se restano dei _bohémiens_ sono giudicati codini. I poeti moderni
sono tutte persone serie, studiose, cortesi, ordinate, tranquille:
alcuni giungono perfino a cantare le loro mogli e la loro casa; due cose
che per gli altri non esistevano...

Ma per Emilio Praga sì. Strano amalgama di fango e di raggi! Accanto
alle oscenità egli esalta la cosa più pura e più bella; il bambino, il
suo bambino; la più soave: la casa sua. Una pesante nostalgia l’opprime:
quella del buono, del vero, del sano, del semplice, dell’onesto. Questo
dissoluto ha qualche volta accenti di così dimessa mestizia, di così
ingenuo tripudio, che intenerisce e sorprende. A poco a poco quella
sincerità d’arte, di pensiero, ci attrae, ci penetra, ci vince. Il
ribrezzo svanisce, rimane il desiderio d’inginocchiarci accanto al
ferito, di posargli la mano sulla fronte e di parlargli all’orecchio di
fede e di perdono. E molto gli sarà perdonato poichè molto amò. La sua
vita, i suoi canti sono un incendio, ma non un incendio vivo, libero,
grandioso: la fiamma è nell’interno, soffocata, logoratrice, qualche
volta aduggiata dal fumo, sovente guizzante all’esterno in lingue
cocenti che avvolgono, lambiscono, scompaiono. Dal bruco all’astro,
tutte le cose create cantò con anima di poeta vero. Quanti poeti
inneggiarono alla neve! Eppure nessuno adoperò sfumature così delicate,
nessuno ebbe accenti così spontanei, esultanze così fresche, quasi
infantili:

    La bella neve! scendete, scendete,
    Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli.
    Come perluccie coprite, pingete
    I tetti, i tronchi, la mota, gli steli.

    Dacchè l’ottobre soffiando, spruzzando
    Ingiallì tutta la vasta campagna,
    Fuor da’ miei vetri ove fievole urtando
    La farfalluccia dal freddo si lagna,

    Mi morir cinque di rosa arboscelli,
    E spirò l’anima a Dio la violetta;
    Senza l’ammanto di viti, i cancelli
    Sembran soldati disposti in vedetta.

    Pur questa notte una mano furtiva
    L’inaffiatoio rubommi in giardino!
    (Se fu per fame che alcun lo rapiva.
    Iddio nol vegga l’agreste bottino).

    Intirizzisco se schiudono l’uscio,
    Ma qui la stufa borbotta tepente:
    Oh benedetto il mio piccolo guscio,
    Per me, nevata, sei tutta innocente!

    Fa il tuo mestiere: scendete, scendete,
    Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli;
    Come perluccie coprite, pingete
    I tetti, i tronchi, la mota e gli steli...

    Della mia donna nel fervido core
    Aleggia sempre una brezza gentile,
    E quando il poeta è ricco d’amore,
    Anche il Gennaio somiglia all’Aprile.

I tenui episodi della farfalla smarrita, dei fiori moribondi, del furto
dell’inaffiatoio, colorano questa nevata di delicati riflessi
antelucani; quando l’aria è ancor pura e le passioni ancora dormono.
Potrebbe esser scritta da una di voi, signorine.

Il canzoniere del bimbo è una collana di piccole perle. Credo di poter
accostare qui il nome del Praga a quello di Edmondo De Amicis per dirli
i bardi del popolo minuscolo che ha per sè l’avvenire. I bambini
sbocciano vivi dai loro canti in tutta la lor goffaggine deliziosa, in
tutta la lor paurosa fragilità, in tutta la loro potenza di ispiratori
della più schietta poesia. Vi basti qualche ritaglio per saggio:

    Egli aperse quel dì le sue finestre,
    Guardò nel cielo e ringraziò l’azzurro;
    Sorrise ai fiori e ringraziò i profumi,
    E disse all’aura: oh dolce il tuo susurro!
    E alle rondini: addio!
    E al passeggier: vi benedica Iddio!
      . . . . . . . .
    E poi disse a sè stesso: — Anima mia,
    Bevi l’ambrosia dai polmoni ansanti;
    Centuplica le tue libre d’amore,
    Ti stempra anima mia, ti stempra in canti,
    È nato il bambinello
    Candido, vispo, vigoroso e bello.

    È nato il bambinello, il sospirato,
    Il messia della placida casetta:
    Egli è là, nella culla è già raccolto,
    E gli han vestita già la camicetta;
    La camicetta bianca,
    Con due vaghi ricami a destra e a manca.

    Egli è là: sul suo pallido visino
    Tutti i sogni del cielo ho già sognati;
    Credo agli angeli adesso, agli angioletti
    Di vaghe aureole bionde incoronati...
    Volumi, io vi saluto,
    Imparai l’universo in un minuto.

E più innanzi:

    Volin le nuvole
    Brilli il sereno!
    Dacchè cullandoti
    Su questo seno
    Vi scende il gaudio
    Dal paradiso,
    Più non interrogo
    Che il tuo bel viso!

    Quel viso candido
    Dai capei d’oro
    . . . . . . . . . . . .
    Quel viso candido

    Con quel nasino
    Che sembra un pètalo
    Di gelsomino:
    Con quelle piccole
    Guancie di rosa,
    Parenti prossime
    Della mimosa.

    Oh, quando in braccio
    Della nutrice
    Il tuo ti coglie
    Sonno felice,
    E il capo dondoli
    Come un vecchietto
    Che sogni il ciondolo
    Del suo berretto;

    Quando, le deboli
    Braccia incrociate
    E le finissime
    Mani allargate
    Al par di un monaco
    Fuor dal cappuccio,
    Mi osservi attonito
    Dal tuo lettuccio

    Senti: io risuscito
    Le ricordanze,
    E per le cèrule
    Mie lontananze
    Ricerco l’èsule
    Che fu me stesso,
    Il bimbo, il giovane
    Che un padre è adesso
    . . . . . . . . . . . .

E adesso anche quel bimbo che sognava il ciondolo del berrettino è un
giovane e sogna la gloria, e s’avvia a diventare uno dei migliori
drammaturghi italiani.

Ascoltate, ascoltate, fanciulle, e vi scenda sul cuore la pace onesta e
blanda e beata a cui attinge il grillo le sue eloquenti canzoni, e
l’uomo l’unica felicità:

    Quando il sol cadde e tacquero le squille,
    La quïete e l’amor cantano un coro
    Alla tribù dell’anime tranquille.

    L’uomo è stanco di passi e di lavoro,
    La donna ha l’occhio languido e profondo,
    Il focolare è una chiesetta d’oro.

    Mentre il suo raggio acuto e rubicondo
    Cresce o svanisce lottando col cero
    E colla luna che accarezza il mondo;

    Mentre il musino del gattuccio nero,
    Immobile ed intento al limitare
    Sogna il suo lungo sogno di mistero;

    Come un mesto palombaro nel mare
    Io discendo nel cor che Iddio m’ha dato,
    E mi guida le perle a rintracciare

    Il respiro del bimbo addormentato.

Vagliata così, la poesia di Emilio Praga pare onesta, casalinga, queta,
tutta odorante di basilico e d’olivo. E forse questa è più sincera
dell’altra che come un limo malsano viene a galla nell’effervescenza
delle ore tumultuose. Udite che nomi di gentile tenerezza sa trovare per
la madre sua in questi versi a lei dedicati:

                               I RE MAGI

    I bei vegliardi dallo scettro d’oro
    Che per la neve, sotto il ciel sereno,
    Sostar sommessi alla mia porta udia,
    La notte della santa Epifania,
    O son morti di freddo, o son malati
    Nei paesi del sole,
    I bei vegliardi dallo scettro d’oro!

    Quando la mia scarpetta sul verone
    Tutta avvizzita facea la rugiada,
    E tu, madre, domestica regina,
    La colmavi di doni alla mattina,
    Io ricciuto avea il crin, candida l’alma,
    E ogni alba che venìa
    Di giornate regali il don mi offrìa

    Un giovin Sire senza scettro d’oro,
    Ma cui nutrian d’aromi e terra e cielo,
    E una corte di sogni e di speranze
    Complimentava fra beate stanze,
    Era in quei giorni io stesso:
    Io che il perduto imper sospiro adesso!

    I bei vegliardi dallo scettro d’oro
    Che per la neve, sotto il ciel sereno,
    Sostar sommessi alla mia porta udia,

    La notte della santa Epifania,
    O son morti di freddo, o son malati
    Nei paesi del sole,
    I bei vegliardi dallo scettro d’oro.

Quella vena d’amara nostalgia dell’innocenza, della semplicità, che
insiste, insiste opprimente quasi come un rimorso, non è già
l’elevazione dell’anima, la purificazione, la redenzione?

Fino a qualche tempo addietro io non avevo molta simpatia pel Praga; mi
urtava troppo quella negligenza della forma che i vecchi e sommi maestri
m’appresero ad adorare: ma vivendo adesso con lui qualche ora d’intimità
spirituale, la fragile e fresca flora di quell’anima di poeta ha
adornato la mia anima d’un’insolita primavera, una primavera mite e
triste come veduta tra i languori della convalescenza...

Ah quante fantasie mi susciterebbe ancora il pallido cantore! Ma lo
spazio incalza: non c’è più posto che per un’ultima nota — la nota
eloquentissima d’un sentimento femminile. Essa vibra nella raccoltina
che ha il grazioso titolo di Domus-Mundus:

    La bella mano gli posò sul crine
    E disse: — io vedo il tuo serto di spine
    E sento l’onda che hai qui dentro ascosa,
    O mio dolce poeta, e son gelosa!

    Son gelosa de’ tuoi vaghi dolori,
    Delle tue belle vendemmie di fiori,
    Sono gelosa della fantasia
    Che ti dilunga dalla soglia mia...
      . . . . . . . . . .
      Non vedi? son pallida
      Son tacita anch’io;
      Perchè quando a vespero
      Favello con Dio,
      Mi guardi nel viso
      Con mesto sorriso?

    Io mi affiso lassù, tu in basso guati;
    Io mi faccio gentil, tu ti fai strano....
    Oh dove sono i dì volati,
    I dì che insieme viaggiavam lontano?

    Era in riva del mar, nel paesetto,
    In mezzo ai boschi... mi ricordo ancora!
    Quanta speranza ti cantava in petto,
    Come ridendo correvamo allora!
      . . . . . . . . . .

E in grazia di questa nota in cui è tutta la melodia appassionata d’un
trepido cuore di donna — uno di quei cuori semplici che i poeti amano —
perdonate, signorine, al triste cantore le brutture che non conoscete. È
morto — e che non si perdona ai morti? E dalle vostre mani, o buone,
dalle mani alacri e pie scenda sulla tomba del poeta doloroso, in questa
dolce primavera, una gentile carità di fiori.



                      Piccolo intermezzo in prosa


«L’uomo non educato alla consuetudine del pensiero, per buono e forte
che tu lo imagini, s’immerge tutto, felice o infelice che sia, nelle
proprie condizioni di vita, piglia dell’allegria delle imbriacature da
non si reggere, s’accascia nella tristezza senza che un raggio solo di
luce, un fiato solo d’aria pura gli arrivi da nessuno spiraglio. Il
pensatore invece l’artista, ha un mondo d’immagini tutte per sè, una
selva d’idee, un popolo di fantasimi tra cui diportarsi: e in mezzo a
loro si lascia quasi inconsapevolmente andare a seconda, divellendosi al
proprio cordoglio».

                                                      _Tullo Massarani._



                                  VI.


                             Guido Mazzoni.

Non c’è che dire: il mio coraggio o.... la mia faccia tosta vanno
facendo ogni giorno consolanti progressi. Di maggio invio in toscana un
fiore toscano. Che ne dite, argute signorine? Oh! voi mi sorridete
benigne, lo so, siete tanto amabili con la vostra vecchia amica, ma
saranno tutti come voi?..... Non importa: lo mando lo stesso; se non
altro per dimostrarvi che quel fiore ha allignato nel mio giardino. Se
lo troverete un po’ sciupato, dite che è stato il viaggio.

Guido Mazzoni gode meritevolmente la fama di essere uno dei nostri
migliori poeti moderni. Se si usasse ancora di dividere i poeti nelle
due schiere: classica e romantica, il suo posto sarebbe tra i primi.
Forte, elegantissimo, felicemente sintetico; qualche volta un po’ oscuro
agli indotti, il Mazzoni deve aver studiato con molto amore, anzi con un
pochino di feticismo, il Carducci a cui trovo che somiglia un po’
troppo. Se non che il poeta sovrano nell’effervescenza del pensiero o
nel tumulto del sentimento è tagliente, sgarbato, alcuna volta triviale,
mentre il suo giovine discepolo, aristocratico sempre, nella piena degli
affetti e delle idee piega nella mestizia, rasentando tratto tratto
l’amarezza e il disgusto della vita. Fortunatamente qualchecosa di gaio
e di lucente che si effonde e sprizza da questa fiorita di versi, sembra
gioiosamente contraddire: un vezzo di bimbo — un viso giovine e amoroso
— un sorriso di gloria — una sicurezza d’arte, di avvenire, di trionfo.

Nella fisiologia del dolore io vorrei mettere anche il _dolore
d’artista_, quello che è meno sentito e più sapientemente tradotto. Per
questa categoria di afflitti che adoperano il dolore come un color bruno
della tavolozza, o lo indossano come le signore in quaresima indossano
il nero per l’armonia dei tempi, sono molto spietata, cominciando... oh
Dio, lo dico? dal Leopardi per cui non ho mai provato un sentimento
completo di compassione...

Ma torniamo al Mazzoni per carità.

Seguiamolo un poco, questo valoroso cavaliere, che par sempre giostrare
in uno splendido torneo piuttosto che combattere la vera battaglia della
vita. Conoscete _La Posta_?

    O che vi tracci, lettere candide,
    la man leggiera sotto cui splendono
    fiorenti i ricami, ed i tasti
    vibrano d’un fremito canoro;

    o che di grossi segni incalzantisi
    v’opprima il pugno che al maglio è docile
    ma teme la penna, e tremando
    recalcitra al lampo del pensiero,

    da le soffitte giù per le luride
    scale di legno, per le marmoree
    da l’intime stanze odorate,
    tutte alfine v’accogliete insieme

    fraternamente. Nè qui le povere
    vesti faranno largo a la boria
    di chi le sogguarda stemmata
    occhieggiando da’ suggelli rossi:

    ma tutte eguali, sott’esso il ferreo
    timbro passate tutte. Affrettatevi,
    o lettere candide; udite?
    è chi piange e impazïente aspetta.

      .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

    In voi di sogni quanti fantasimi,
    quanta, o gentili, copia di lacrime!
    Inconscie voi sempre correte,
    messaggere di sorriso e pianto.

    Poi per le strade folte di popolo
    da porta a porta bussando, e l’arida
    giogaia de’ monti salendo
    in cerca d’un ermo casolare:

    a la deserta vecchia cui premono
    l’ansie pe’ l figlio che strugge l’ultimo
    vigor de le membra ne’ solchi
    grigi de l’inospite maremma,

    a la fanciulla cui lungo il florido
    sposo gli ostili colpi minacciano
    pugnando a raccorre nel seno
    de la patria l’ultima figliola,

    voi radducete, lettere candide,
    voi radducete la pace a l’anima,
    di che dolci lacrime asperse,
    custodite di che dolce cura!

Mi duole di avervi spezzata per ragione di spazio la bellissima poesia
eminentemente suggestiva. Anche al limitare della mente nostra
s’affollano larve di sogni, di ricordi, di desideri al semplice vocabolo
che racchiude come una pila di che far fremere l’umanità. Passioni,
vizî, virtù, eroismo, sventura, salvezza; tutti i poemi, gli idilli, le
tragedie della vita intima nella piccola e fragile arca affidata al
destino. Oh poter dire a una lettera: affrettati! all’altra; indugia! a
una terza: ritorna! a una quarta non partire! Quante esistenze deviate,
distrutte, vivificate, risorte, per una lettera! Quanti cuori che non
sapevano di battere o non immaginavano di battere più, hanno balzato
accogliendo in generose onde la vita null’altro che nello scorgere su
una busta una calligrafia! E la poesia gentile, inaspettata di certe
grosse scritture inesperte uscenti sotto una mano tremante o avvizzita
dagli anni? la incredibile prosa di certe letterine stemmate, odoranti,
dall’allungata scrittura...?

Oh il vario, inesauribile tema in cui si fondono e sfumano delicatamente
psicologia, favola, libero arbitrio e destino!... Un dì o l’altro,
auspice la poesia del Mazzoni, lo scriverò il monologo che fa capolino
nella mia mente, e che s’intitolerà: _La lettera_.

A voi, signorine dall’armoniosa favella, una delle più simpatiche
liriche del poeta d’oggi — una poesia dalle salde radici e dalla cima
fiorita:

                         IL CAMPANILE DI GIOTTO

    — Presso a la Chiesa sorga: e sia l’opera
    quale nè i Greci mai la pensarono
    nè i padri Romani. Vogliamo
    che sia degna di Fiorenza nostra —⁷

    E tu crescesti, fiore marmoreo,
    bel campanile! crescesti candido
    scambiando un saluto fraterno
    con la torre de la Signoria.

    — Io son la forza de la repubblica —
    disse la torre da i sassi ruvidi.
    Risposer fulgendo i tuoi marmi:
    — Noi la luce del pensiero siamo!

    Ilare e forte crebbe qui l’animo
    de’ fiorentini: crebbe la cupola,
    de l’ombra sua grande coprendo
    tanta gloria di costumi e d’arte.

    E qui, su i marmi, ne’ miti vesperi
    posâro un tempo gli avi. Sedeano
    raggianti di sotto al cappuccio
    l’onestà de la serena fronte;

    e in gaie prove già crepitavano
    novelle e motti: ma l’arti e i fondachi
    orgoglio a la patria vantando,
    si accendevan le parole e i volti

    d’un santo riso. Su loro, a gli ultimi
    raggi del sole, ne la sua gloria
    svolgevasi superbamente
    il gigliato gonfalone bianco.

    Invan le inique schiere si fransero
    sotto gli spalti di Michelangelo:
    divelti al Marzocco gli artigli
    quel ringhioso addormentossi ignaro.

    Da i sassi a’ marmi volano volano
    stridendo i falchi da cinque secoli;
    e sotto si frange spumando
    la marea de le incalzanti vite:

    e tu pur sempre la fronte nitida
    levando al cielo, gentil miracolo,
    come l’arte splendi sereno,
    come l’arte sempiterno splendi.

   ⁷ Parole del decreto col quale la Repubblica comandò si facesse il
     campanile.

Ave, Firenze, dolce austerità inghirlandata di rose, anima luminosa
d’Italia, ultimo sogno mio giovanile... Passiamo oltre.

Anche Guido Mazzoni gitta un fiore alla neve. La _Nevicata_ del Praga è
forse più vera, ma questa è sommamente artistica. Uditene un poco:

                                 NEVE.

    Mite è la neve. Scende leggera da un cielo di perla
    come il piovente fiore de’ biancospini;
    silenzïosa scende, s’aggira, sussulta volando
    come farfalle presso la siepe nova.

    Sopra le vie fangose, su le arse campagne da’ ghiacci
    morbida e bianca scende la neve pia,
    ed al maligno inverno che insulta le terre domate
    tanto squallore splendidamente cela.

    Crescon per lei sicure le timide punte del grano:
    sperano il raggio de’ rinfiammati soli:
    cresce per lei la speme di messi fiorenti; e il colono
    sogna la falce tra le mature spiche.

    Guarda il fanciullo ai vetri che ’l fiato fumante gli appanna,
    forti trastulli dona la neve a lui:
    guarda a la lente il dotto; di stelle e di gelidi fiori
    studio invocato dona la neve a lui.
      . . . . . . . . .

Questa _Neve_ mi ricorda la neve vera d’un gennaio non tanto remoto
eppur così lontano; e una mia fantasia ispiratami da tutto quel bianco
della campagna che mi attorniava e dalla reminiscenza insistente dei due
primi versi. Io pensavo alla gran soavità dell’aria se quei pètali nivei
avessero avuto un profumo...

L’ora, il tempo, la dolce stagione, e il poeta e la sua patria, oggi non
ci allontanano dai fiori. Ebbene, cogliamone ancora a piene mani:

                            NOTTE DI MAGGIO.

    Stanotte (il vento lungo affannavasi
    rombando ai vetri che crepitavano
    ne’ buffi de le goccie grosse)
    sùbite irruppero ne la stanza

    le fate. — Oh come, come a l’angustia
    di queste mura piacquevi scendere? —
    Ed esse ne’ giocondi volti
    risero splendidamente belle.

    — Non mai più miti salgon gli effluvii
    da l’esultanza fresca de’ margini,
    di quando il fior de l’erba nova
    bacian col niveo piè le fate:

    ma noi vedemmo splender la fiaccola
    traverso a’ vetri tuoi per le tenebre;
    e qua veniam consolatrici
    l’ala del turbine cavalcando.

    A sogni è dolce cura de gli uomini:
    concedi ai sogni l’anima, Illudervi
    di care visioni è a voi
    l’unico farmaco de la vita. —
      . . . . . . . . .

L’intervento diafano e sottile delle creature vanescenti mette nell’aura
di questa poesia che inoltrando s’infosca, una fluttuazione di profumo
antico e rudimentale; qualchecosa d’inesprimibilmente blando, come i
cori degli spiriti nelle tragedie greche: come intorno al titanico
dolore di Prometeo il benefico aleggiare delle Oceanine.

Eccovi per ultimo un esempio della Poesia domestica del Mazzoni,
colorita e gentilissima:

    Canta canta la mamma al fantolino;
    e lo dondola lieve in su’ ginocchi,
    spiando il lento velarsi de gli occhi:
    — C’era una volta un grillo canterino.

    Cantava questo grillo in mezzo al lino;
    vien la formica: — O grillo, o grillo bello,
    dammene un filo! — E che ne vuo’ tu fare?
    — Calze e camicie pe ’l mio corredino.

    Dice il grillo: — Se vuoi ti do l’anello!
    Di gioia la formica ebbe a impazzare:
    Ma quando furon dinanzi a l’altare.... —
    Sul luccicor de gli occhi sonnolenti

    gli battono le palpebre frequenti.
    Ecco i sogni: sorride il fantolino.

Facciamo anche noi come il bimbo: dormiamo. Dormiamo sul primo fieno
falciato vegliati dal grillo e spiati dalla formica. Dormiamo, sognando
i calendimaggi ignorati delle microscopiche tribù che ronzano, stridono,
saltano, o strisciano nelle loro foreste sterminate di steli in cui mai
l’uomo potrà voluttuosamente smarrirsi e che mai potrà conquistare:
foreste di milioni di fusti lisci, eleganti come colonnine corintie; fra
cui ondeggiano lassù, lassù, nelle cime estreme ed eccelse, gonfaloni
rossi, azzurri, bianchi nella gloria del sole. Per noi non sono che
campi di lino e di grano fioriti di papaveri e di margherite.



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«Bisogna saper vivere in compagnia, ma più ancora saper star soli».

                                                          _N. Tommaseo._



                                  VII.


                           Edmondo De Amicis.

Nei nostri begli anni — negli anni che ascendete voi, signorine — quando
nell’anima e nel corpo tutto è ancora così adorabilmente rudimentale;
quando il vago panteismo dell’infanzia immaginosa tende a plasmarsi in
un aspetto e a compenetrarsi d’uno spirito, allora, come
nell’adolescenza dei popoli, sorgono gli idoli e l’adorazione vapora.
Vapora l’adorazione, odorosa di tutta la purezza, di tutta la verità, di
tutta la gentile incoscienza della vita interiore appena schiusa, ai
piedi del simulacro.... il più delle volte insensibile. Arte e Amore,
Iside ed Osiride eterni! Non v’ha scolaro di Ginnasio che insieme a un
mazzolino, a un nastro, a una ciocca, tenui e care realtà, non esalti
l’ombra auspice e divina di qualche principe del pensiero o dell’azione;
ed ogni fanciulla a cui s’allunghi ancora l’abitino dell’anno
precedente, chiude il prezioso fiore appassito dalle misteriose virtù
fra le pagine del libro dalle quali un sapiente conoscitore del cuore
umano ha intenerito e sorretto più volte il suo giovine cuore. Ditemi,
bambine, _pardon_ signorine, ditemi non colgo nel segno? Non è vero che
Lei, soave bionda, ha una viola del pensiero in mezzo alla «Partita a
scacchi?...» E Lei, signorina bruna, non rivolge da più di un anno gli
occhi nerissimi a quella piccola costellazione di gaggie caduta chissà
come nella lizza fra il torneo del «Marco Visconti?...» E quell’altra
fanciulla malinconica dalle scendenti treccie castane che piange sullo
sventurato amore di Gaspara Stampa, non sorride al fior d’eliotropio che
un giorno fosco posò proprio sul sonetto cinquantaquattresimo?.. E
infine tu, Gabriella, rosea sorellina mia, che cosa nascondi dunque fra
le «Lettere a Maria» dell’Aleardi che veggo continuamente sul tuo
tavolino?... Ebbene, che importa? Macchiate i libri di lacrime e di
fiori fanciulle, ma serbatevi, oh serbatevi anche fra il tumulto
sgarbato della vita le vestali gentili delle corolle morte e dei
sentimenti immortali.

Quanti preamboli per dirvi che io idolatravo il De Amicis! E non lo
idolatravo specialmente nei _Bozzetti militari_ nei _Racconti_, nelle
_Poesie_, ma nelle _Pagine sparse_, dove la mia anima di scribacchina
sedicenne trovava qualche lembo da rispecchiarsi, da afferrarsi, da
raccogliersi prima di tentare il gran volo... E mi ricordo che quando fu
accolto il mio primo bozzetto nella Palestra delle giovinette (in questo
stesso giornale) io non sapendo più come manifestare la riconoscenza che
sentivo vivissima per quel mio duce invisibile mi slanciai sulle _Pagine
sparse_ e scrissi in fretta sul frontespizio — ebbi questo coraggio! —
la famosa terzina dantesca:

    Tu se’ lo mio maestro e lo mio autore...

Oh beate lenti de’ sedici anni!

Vi presento dunque oggi con affetto memore una mia vecchia conoscenza.
Cioè ho detto male: vi presento: avrei dovuto dire: vi addito. Qual’è
fra noi la famiglia che non ha nella sua biblioteca almeno un volume
dell’illustre e simpaticissimo autore delle _Porte d’Italia_? Chi non
conosce ad orecchio almeno, uno o due di quei suoi leggiadri sonetti sui
bambini? Io non so e non spero che Edmondo De Amicis abbia seguito il
mal vezzo di rinnegare i suoi lavori giovanili. Certo che se la prosa
sua in generale e particolarmente la prosa della sua ultima maniera è di
gran lunga superiore ai suoi versi, pure il sentimento che li avviva non
è affatto inferiore; il sentimento è sempre così gagliardo e vero e
bello da irrompere e trascinare all’entusiasmo o alla commozione
attraverso e malgrado le dighe della forma. È un buon pane nutriente,
che non ha la pretesa d’essere una focaccia; un buon pane dall’odor sano
evocatore delle bellezze bionde della terra madre, delle fatiche dei
nostri fratelli: un pane che si spezza benedicendo.

Ho ripassato le _Poesie_ del De Amicis con la mente ancora illuminata
dai riflessi malefici di qualche centinaio di pagine d’una rarissima
bellezza; ebbene, quella lirica semplice, qualche volta pedestre, sorse
subitamente ai miei occhi, al mio spirito, ad una altezza, ad una
dignità vittoriosa. Una feconda luce di sole dopo una magica e insidiosa
notte plenilunare.

«Ecco un libro, pensai, che può far del bene.» Ah di quanta lirica
moderna si può dire altrettanto? Quale altra si potrebbe quasi
raccomandarvi come un ricostituente, signorine?

Cominciamo da questa:

                              A MIA MADRE.

    Amo il nome gentile; amo l’onesta
    Aura del volto che il mio cor rinfranca:
    Amo la mano delicata e bianca
    Che le lagrime mie terge ed arresta;

    Amo le braccia a cui fido la testa
    Da tristi fantasie turbata e stanca:
    Amo la fronte pura, aperta e franca,
    Dove tutto il pensier si manifesta;

    Ma più de le sembianze oneste e care
    Amo la voce che mi parla il vero
    E mi conforta l’anima ad amare;

    La voce che ogni dì sulla prim’ora
    Mi grida in suono d’amoroso impero:
    È l’alba, figlio mio! Sorgi e lavora!

Scelgo dal gruppo intitolato: «Miserie.» È un sonetto che vi
rattristerà, ma certe tristezze sono come il segreto e freddo battesimo
della rugiada che ravviva i germi delle pianticine. Esse s’incurvano per
riceverla: chiniamo il capo anche noi; perchè ci tocchi bisogna esserne
degni.

                                  II.

    Povere bimbe con le vesti a brani
    Curve sull’ago in abituri infetti,
    Madri che al seno con le scarne mani
    Vi stringete i morenti pargoletti,

    Tristi fanciulli per le vie costretti
    Il tozzo immondo a disputar coi cani,
    Vecchi che brancolate oggi, sorretti
    Dalla speranza di morir domani,

    Misera gente che la morte oblia,
    Martorïati scheletri viventi
    Per cui tutta la vita è un’agonìa,

    Quante volte, nell’intimo del core,
    Al mio stato pensando e ai vostri stenti,
    Mi par d’essere un ladro e un impostore!

Sentite ora che umorismo fine e che delicatezza d’ispirazione. Eccola la
poesia vera che aiuta a vivere, quella che non può dileguare:

                    SOPRA IL QUADERNETTO D’UN BIMBO

    Ecco i quaderni sporchi dei bambini,
    Tutti logori fogli accartocciati,
    Chiazze d’inchiostro, calcoli sbagliati,
    Buchi, macchie di pappa e burattini;

    E nel bel mezzo azzurri cerchiolini
    Fatti dal pianto, e scarabocchi ai lati,
    E quà e colà foglietti lacerati
    Per fare alle pallette coi vicini.

    Tale è la vita, o bamboli, in succinto;
    Conti sbagliati, lacrime frequenti,
    E burattini ad ogni piè sospinto:

    E ogni giorno una pagina si strappa,
    E sotto ai più magnanimi ardimenti
    C’è sempre un po’ la macchia della pappa.

Affrettiamoci. Non v’ha più che qualche sprazzo purpureo di sole occiduo
nel mio verziere. Ma quale frescura! Udite: c’è un pò della malinconica
stanchezza del Praga e della gentilezza profonda d’Enrico Panzacchi:

                          IN CASA DEL CURATO.
                       (_ricordi della campagna_)

    Questa mattina desinai dal prete
    In una stanza disadorna e bianca,
    Dove non c’è che un desco ed una panca
    E un grande crocifisso alla parete.

    Sulla tovaglia fresca di bucato
    C’era un vinetto trasparente e puro,
    E in faccia a me danzavano sul muro
    L’ombre de le alborelle del sacrato.

    Un grato odor d’incenso a quando a quando
    Veniva dalla muta sacrestia,
    Ed una vecchia serva umile e pia
    Ci girellava intorno zoccolando,

    E c’era un’aria, un’ombra, una freschezza
    In quella stanza candida e modesta!
    E tanta pace in quella faccia onesta
    Di vecchio prete, e tanta gentilezza!

    Ei mi parlava de la sua cappella
    E dell’orto e dell’uve e del paese,
    E ogni sua parola era cortese
    E ingenuamente colorita e bella.

    E muto tratto tratto e sorridente
    Fissava in contro al sole il suo vinetto,
    E mettendo la man larga sul petto
    Ne delibava un sorso lentamente.

    E in me figgendo le pupille vive
    Come volesse indovinarmi il core:
    — Ebbene, ebbene — mi dicea — signore.
    Cosa scrive di bello? Cosa scrive? —

    Quindi, bevendo un’altra sorsatina,
    Soggiungeva: — Signor, non si sgomenti
    Bisogna pur ch’io beva e mi sostenti!
    Lo sa che a giorni tocco l’ottantina? —

    E mi facea gli onor dell’umil desco
    Dicendo in atto di gentil rispetto:
    — Provi il mio vino, e mi dirà se è schietto;
    Provi il mio burro, e mi dirà se è fresco. —

    Indi tacendo, in un pensiero assorto,
    S’accarezzava i candidi capelli,
    Ed io sentito bisbigliar gli uccelli
    E una zappa sonar lenta nell’orto.

    E a quando a quando un alito di vento
    Facea stormir le viti all’inferriata
    E portava nel mio volto un’ondata
    D’un sano odor di legna e di frumento.

    E mi toccava il cor l’alta quïete
    Di quel recesso pio, bianco e modesto...
    L’avrei baciato quel buon vecchio onesto
    Quel santo volto d’innocente prete.

La spontaneità dell’ispirazione, la nitidezza melodiosa della forma
fanno di questa una delle migliori liriche del De Amicis. E che mondo
palpita nella mite sincerità della trama! Quelle ombre di giovani alberi
che danzano sulla parete intonacata, quelle folate d’incenso uscenti
dalla pace semibuia della sacrestia, quel pispigliare d’uccellini, lo
stormire delle viti che rampicano ed origliano all’inferriata, gli odori
del legno, del grano, e quella zappa risonante ritmicamente nell’orto —
oh candida, dolce, antica ed eterna poesia delle Egloghe — la vera
sapiente sei tu!

Ma Edmondo De Amicis è innanzi tutto uno spirito bellicoso. Alla
zampogna di Pane egli preferisce i canti di Tirteo — canti incitanti
alla pugna, non importa quale — anche, forse, la guerra alla guerra. Non
indugiate sul bisticcio; piuttosto ascoltate:

    Ah! un giorno finirà l’orrida lite,
    Disseccherà l’amore in fra le genti
    Questo fiume dai vortici cruenti,
    Questo mare di lacrime infinite!

    Ma quelle razze dall’affetto unite
    Ricorderan devoti e reverenti
    Le stragi enormi e il sangue e gli ardimenti
    A cui dovranno quell’età più mite.

    E gli stendardi venerati e santi,
    Delle trascorse età pegno e memoria,
    Avranno onor di cantici e di pianti;

    Ed alzerà ogni gente un arco immane
    E scriverà sulla sua fronte: Gloria
    A tutti i morti delle guerre umane.

Era il De Amicis dei _Bozzetti militari_ che scriveva così. Non lo
dimentichiamo, oggi.



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«L’arte di comandare a sè stessi consiste in gran parte nel trovare
argomenti e parole efficaci per smuovere in noi la vergogna. Ci vuole
immaginazione ed eloquenza».

                                                         _E. De Amicis._



                                 VIII.


                             Contessa Lara.

Ecco fra le fresche dovizie d’una primavera tutta schiusa il più
delicato fiore del mio verziere: una figura femminile, una fine figura
d’artista e di signora. Un’Eva nel piccolo paradiso, o meglio la fata
d’una novellina nordica che porta nell’ubertoso brolo la vaghezza del
suo capo biondo e le meraviglie della sua mano. Ha in arte un nome
cavalleresco e poetico che a’ piedi delle sue creazioni forti e gentili
armonizza come l’accordo finale che raccoglie la melodia.

Nella verde Italia in cui nuovi e antichi ingegni scintillano come le
goccioline di rugiada su un margine erboso, non è scarsa la pleiade
femminile; però non molte delle nostre scrittrici sanno come la Contessa
Lara tratteggiare con uguale finezza di gusto e disinvoltura un
bozzetto, una poesia, un articolo d’arte, un romanzo. Quindi
arrestandoci innanzi a qualche sua poesia non dobbiamo dimenticarlo, non
dobbiamo dimenticare che stiamo osservando un sol raggio, un solo colore
di questo versatile intelletto. Pensiamoci anche se ci urta talvolta in
questi versi un po’ di quel dilettantismo mondano nel quale ahimè si
crogiolano pure tanti poetini e poetucoli che poi in fin dei conti non
sono capaci di fare che i canterini. La penna della Contessa Lara è
sopratutto elegante, spesso arguta, molte volte ardente, sempre
aristocratica. Il dolore, la mestizia, l’angoscia non effonde in elegie
sentimentali, o in quelle tirate romantiche che rinviliscono sotto
mentito profumo femminile la nostra letteratura agli occhi della più
sapiente metà del genere umano; quando la sua anima è intorbidata, o
ferita, o dolente, ella non ce lo dice, ma noi lo intendiamo meglio che
se ce lo dicesse. Ella sente forse nella vita, certo nell’arte, la
dignità del dolore. Ancora: è raffinatissima, ma non mai sino al
decadentismo o alla morbosità; ama le cose belle, la forma più che
l’essenza delle cose ma l’ama tanto che sovente giunge a toccarci
l’anima non per l’intensità, ma per il rapimento della sua
contemplazione. Confonde anche talora la sensazione col sentimento,
talora la preferisce apertamente, essendo sempre ed anzitutto schietta
con sè e con noi, anche a costo di parer cruda o di dispiacere. La sua è
la sincerità delle spine sotto il profumo delle acacie o ai piedi della
fiorente venustà delle rose. Un’arma contro la soverchia debolezza, una
difesa.

Mi piace di cominciare con questo _Ultimo sogno_ che potrebbe essere il
primo di molta giovinezza. C’è un onesto languore e una vaghezza di
sfumature tutta femminea.

    In mezzo a ’l verde una casetta bianca,
    Co’ monti a tergo e in lontananza il mare,
    Con variopinte aiuole a destra e a manca
    Che infioran de la soglia il limitare.

    Fuori un’aria che sveglia e che rinfranca,
    Dentro, una libreria d’opere rare,
    Che a ’l gramo ingegno ed a la fibra stanca
    Possan novella vigorìa prestare.

    Poi, ne ’l mistero d’una chiusa alcova,
    Ne la sua culla un roseo cherubino
    Cui per restar con me sparvero l’ale.

    È questo il nido che sognar mi giova,
    È l’oasi del mio squallido cammino
    Tempio a l’arte, a l’amore, a l’ideale.

Salutiamolo, passando, questo vivificante porto di pace che desidero a
tutte voi care fanciulle; che alcuna di voi forse intravede già fra i
rosei vapori del futuro come l’isoletta d’Elena e di Fausto — della
Bellezza e del Sapere — ricinta dall’arcobaleno. Ecco un lembo
d’orizzonte grigio, l’avanzo di chissà quale tremendo uragano che
lacerato naviga verso di noi, lividamente triste nella sua tenuità:

                           RICORDO D’APRILE.

    Ritorna il mio pensiero
    A ’l pallido bambino
    Che una sera d’aprile
    Fu portato la giù ne ’l cimitero.
    Intanto la sorella e il fratellino
    Giuocan co ’l suo fucile,
    Battono il suo tamburo,
    Ed i guerrieri sgorbiano
    Ch’egli tracciò su ’l muro.

Oserei dire che solo una donna poteva afferrare tutta la pietosa
eloquenza dell’episodio e renderla con tanta efficace semplicità. Il
lirismo più alto, più suggestivo, più commovente nel più umile vero. Chi
non è tocco dalla visione chiara di quella gaia scena di profanazione
infantile, di quei giocattoli, unica eredità del povero bimbo sparito
fra i fiori e i lumi in una sera primaverile, dispersa con incoscienza
crudele così? Chi è che ha dei bambini cari e che non sente alla sobria
arte di questi versi passarsi un brivido in mezzo al cuore e l’acuto
desiderio di vederli accanto ai loro giochi subito subito subito?

E la poesia capace di far vibrare in questo modo le nostre intime fibre
è bella, è buona, è vera poesia.

Udite due sonetti, solamente leggiadri questi, e intrisi del profumo
d’eleganza e di mondanità dell’artistico ambiente dove sono sbocciati,
come narcisi in un’anfora preziosa senza terra nè sole, dietro le
cortine di raso che nascondono un po’ troppo di mondo qualche volta...

                              RISOLUZIONE.

    Egli il silenzio vuol d’una Certosa
    Antica da le arcate bisantine
    Dove, monaco austero e in bianco crine,
    Calmo finir la vita tempestosa,

    Ella, del par fantastica e pietosa,
    Giura che stanca di monili e trine,
    In umili n’andrà vesti turchine,
    Mite suora a chi soffre, a Gesù sposa.

    Ei sogna i vecchi testi del trecento
    Su cui vegliar le notti; ella s’infinge
    A ’l capezzale ove il morente geme.

    Sorridon tutti e due... Dopo un momento
    L’un dice all’altro, mentre a sè lo stringe
    Senti, amor mio, se si vivesse insieme?

                              CONFIDENZE.

    A l’ombra delle zàgare egli è nato
    La giù, la giù de ’l nostro suolo in fondo
    Da un alito cocente accarezzato,
    Carezzato da ’l mar terso e profondo.

    Poeta strano, forte, innamorato,
    Due sole cose gli son care a ’l mondo,
    Gli son care ne i sogni: il venerato
    Materno capo ed il mio capo biondo.

    Senti, se vuoi saper come avvenìa
    Ch’ei restasse di me sire e padrone:
    È un bozzetto che sà d’Andalusia.

    Era di maggio un dì sull’imbrunire,
    Ei mi gittò una rosa entro il balcone,
    Io la raccolsi, e mi sentii morire.

Leggete ora questi frammenti della _Casa dell’ava_, che è troppo lunga
per essere interamente trascritta; vi basteranno, credo, per indovinare
che la Contessa Lara da esperta ricamatrice conosce tutta la delicatezza
delle vecchie tinte; quelle vecchie tinte che Bourget e Loti adorano
nella lor gentile e calma nostalgia del passato:

                            LA CASA DELL’AVA

    Ne l’ostel solitario
    In cui la vecchierella ava serena
    Passa il tramonto de ’l suo tardo giorno,
    De ’l buon tempo che sparve
    Parla ogni cosa intorno.
    Fra le sconnesse pietre
    Del cortile s’abbarbica l’ortica
    Parassita: de gli alti suoi gradini
    Su ’l piedistallo, il pozzo
    Sorge ne ’l centro ov’ascende a fatica
    Una ricurva fante,
    E vi cala la brocca che scancella,
    Ne l’ima onda percossa,
    L’imagine de ’l suo grinzo sembiante.
    Ne ’l salone dorato,
    Da i centenari specchi
    Cadde l’argenteo strato, e ancor su i vecchi
    Arazzi de la Fiandra,
    A le pareti accanto
    Danzan pastori e ninfe
    Ne i tarlati boschetti,
    E scendon benedetti i raggi estivi
    Che a quegli occhi sbiaditi,
    Qual per magico incanto
    Rendon fulgidi e vivi
    I raggi de gli amori impalliditi.

    In un angolo oscuro
    Una spinetta dorme,
    E quando tutto tace ivi s’ascolta
    Come un sospiro; è il vento
    Che tra le corde freme?
    O l’eco de le note che una volta
    Con le melodi semplici
    Di Pergolese, l’ava
    Da lo snello strumento
    Fanciulla ancor, destava?

    Schiudetevi, cassette
    Odorose de i mobili intarsiati,
    Piene di fogli e nastri,
    Di trapunti, di seriche borsette
    D’ambra e zàgara, e veli scolorati.
    È un’ora di memorie, ed in quest’ora
    Per voi da un morto secolo
    Un alito di vita esala ancora.
      . . . . . . . . . . . .

E poichè ho detto il nome di quell’impareggiabile Pierre Loti, mi
vengono in mente questi altri versi che qualche sua leggiadra
_japonerie_ deve aver suggerito alla Contessa Lara.

Il metro è quello dell’_uta_ giapponese, l’arte, il colore, la grazia,
sommi:

                             CONVERSAZIONE.

    A una tavola in torno
    Giocan tre donne,
    Di fiori il capo adorno,
    Ricche le gonne:
    Fosco tramonta il giorno.

    Una dice (un’anziana
    Con grinzo il cuore):
    — L’amore è cosa vana:
    Passa l’amore
    Come nube lontana.

    Dice un’altra (una sposa
    Fresca e ridente):
    — È l’amore una rosa
    Che sboccia aulente
    Nell’anima festosa.

    E l’ultima (una frale
    Fanciulla, un fiore),
    Dice; — Fu strazio eguale
    Per me, l’amore,
    A un colpo di pugnale.

    Assorbono, fumando,
    Tutte il thè verde:
    E un gran sospiro a quando
    A quando sperde
    L’aura leggiera, errando.

E con questo fior di loto pòrto da una gemmata mano di dama vi lascio,
signorine. Troppe visioni d’Oriente mi s’affollano alla fantasia,
m’ipnotizzano. Purchè questo noioso cosmopolitismo dilagante non me lo
cancelli, il mio Giappone!



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«L’âme d’une jeune-fille ne doit pas être laissée obscure: plus tard il
s’y fait des mirages trop brusques ou trop vifs comme dans une chambre
noire».

                                                           _Victor Hugo_



                                  IX.


                            Mario Rapisardi.

In Sicilia e precisamente sull’Etna c’è, pretendono, un castagno detto
dei _cento cavalli_ per le sue proporzioni colossali di tronco e di
frasche. Questo ricordo vago del bel tempo in cui studiavo geografia mi
è balenato fra un verso e l’altro del «Giobbe» di Rapisardi, il poeta
cresciuto come quella sua pianta alle falde del Mongibello; nutrito come
lei di fiamma e di sole. Ma qui l’aria, il suolo scottano. Come faremo
mie gentili compagne?... L’albero è un fronzuto gigante, sì; forse
troveremo in qualche punto un po’ di refrigerio.

Mario Rapisardi ha scritto anche dei versi lirici ma io preferisco darvi
solamente qualche frammento di un suo poema, prima come opera di maggior
entità, poi perchè rende meglio, mi pare, il michelangiolesco stile
dell’autore. Un poema italiano moderno che non faccia ridere è una cosa
tanto rara che bisogna proprio che lo conosciate anche imperfettamente.

Dunque il «Giobbe» secondo avverte l’autore, non è che l’ultima parte
d’un ciclo al quale appartengono pure due poemi precedenti: «La
palingenesi» ed il «Lucifero»; ed è a sua volta una trilogia. Sebbene
nella prima parte vi siano colorite magistralmente e la vita patriarcale
e le sciagure che fecero passare in proverbio la pazienza del virtuoso
servo di Dio, Giobbe non è qui che un simbolo adombrante il pensiero
umano nel suo faticoso e doloroso errare in cerca della pace.

Un fare largo, vigoroso, a rilievi, a sfumature; una sobrietà classica,
un’elasticità di idee rivestite sempre opportunamente, un’arte delicata
e insieme profonda, e su tutto un riflesso vivido del sole di
mezzogiorno: quel mezzogiorno benedetto che ci dà i fiori più profumati
e i frutti e gli ingegni più saporosi; — ecco la musa di Mario
Rapisardi. Una Musa dalle forme opulente e dal profilo fine e pensoso,
come certe figure del Guercino.

Leggiamo insieme la descrizione dei giardini di Giobbe:

    .... E da un lato i giocondi orti feraci
    Di molti erbaggi festeggianti il sole
    Con lor varie verdure, offrian sovente
    Se non lauto, alle cene ampio tributo;
    Fiorivano dall’altro i bei giardini
    Delle case delizia. Ivi precoce
    Mandorlo accanto il zèfiro blandisce
    L’odorato albicocco; in tra le scure
    Foglie nevate di recenti fiori
    S’impiattano le arance; dipende
    Dal torto ramo il languidetto fico,
    Che lacero la buccia e in bocca il miele
    Primo seduce il passerel furtivo.
    Vedi su l’orlo delle pale irsute
    Schierar le frutta l’indico banano,
    Dolci frutta alla lingua, orride al tatto.
    Di cui tanto il nativo Etna s’allegra;
    Noderoso ingiallir presso ai vermigli
    Grappi del mite tamarindo il forte
    Pomo cidonio, che serbato il verno
    Rustici alberghi e vestimenti odora.
    Ecco non lungi dal cireneo olivo,
    Il sesamo oleoso; ecco l’opimo
    Alve di Socotôra, che la sete
    Smorza del sobrio camello; il sicomoro
    Dalle bacche turchine e il tamerice,
    A cui flessili e folti a par di crini
    Piovono i rami dall’amaro tronco,
    Che le febbri cocenti in fuga volge.
    Nè te, ritrosa sensitiva, a cui
    La vereconda vergine somiglia,
    Avea pure scordato il buon cultore:
    Nè voi, piante felici, ond’uom distilla
    Manne vitali e preziosi aromi;
    Con l’acacia del Nil sorgon confusi
    I cinnami fragranti; si pompeggia
    Nel color aspro delle sue corolle
    Il selvatico grogo: odora il nardo
    Dalle storte radici, in quel che presso
    Agli olibani pii gemon le rame
    Del balsamo superbo e i provocati
    Pianti avviva di dolci iridi il sole.
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Dopo questa evocazione d’un cantuccio fortunato della biblica Arabia,
dopo gli aromi e il fogliame, eccovi un quadretto asiatico di genere.
Anna la vecchia nutrice di una delle nuore di Giobbe, e un’ancella,
s’accingono a fare il pane. Mi pare una scena dell’Odissea:

    .... Mentre in queste memorie s’avvolgea
    La vecchiarella, e dava esca alla fiamma
    Che sorgea scoppiettando e le nodose
    Braccia arrossiale e la rugosa guancia,
    Una serva robusta entro capace
    Madia su quattro saldi piedi eretta,
    Agitando lo staccio e i colmi fianchi,
    La farine scernea, candido monte
    Facevane nel centro, ad esso in cima
    Aprìa con pronta mano ampio cratere,
    Con pingue latte di camella il caldo
    Fonte commisto vi versava, e tutto
    Rimenando e intridendo e con gagliarde
    Nocche pigiando e con sonanti palme,
    Dùttili ne facea biondi pastoni:
    Indi, raschiato della madia il fondo
    E sgrumate le dita, in picce uguali
    Distingueali; con dolce olio d’oliva
    Le careggiava, e su convessi forni
    Le disponea con vago ordine in giro.
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Vorrei che un pittore s’innamorasse di questo soggetto di un’antica
semplicità. Vorrei vederle vive di colore e di forme questa vecchia
grinzosa, questa giovine schiava nel bel costume di Sara e di Rachele,
intente all’opera faticosa e buona, a cui l’ambiente dovrebbe dare una
maestà rozza, ma quasi rituale. Che forte e sapiente contrasto la
gioventù rigogliosa dell’ancella, tutta appariscente in quell’atto di
domare la pasta con le fresche braccia accanto alla vecchia accoccolata
nei bagliori rossastri ravvivando il fuoco! Come questa scena nella sua
umiltà secolare ci riposerebbe dalla sequela di paesaggi, dalle
modernità scipite o sguaiate che adornano le pareti delle mostre di
pittura!...

Ma mi accorgo che ho la lingua un po’ troppo lunga qualche volta, e non
è un buon esempio che vi do, signorine. Torniamo piuttosto al poema.

Il fantasioso e nutrito poema è in endecasillabi sciolti, ma poi quando
la materia quasi lo richieda, cangia improvvisamente metro ed andamento
con un effetto stupendo. Le giovinette amate dai figli di Giobbe
cantano. Leggiadrissime canzoni cantano. Udite questa di Zilpa,
l’invincibile;

    Un paese conosco ove non ride
    Caldo e raggiante il sole;
    Ma quanto infido è il Sol, tanto son fide
    L’anime e le parole.

    Ivi oceani non son, non son vulcani,
    Nè abissi il suol nasconde;
    Non fiamme d’amorosi impeti umani
    Non mar d’ire profonde:

    Ma deserti di fiori entro una blanda
    Fascia di nivea luna,
    Laghi a cui fan gli azzurri ampia ghirlanda
    Senz’onda ed aura alcuna.

    In palazzi d’opale e di coralli,
    Avvolte in roseo velo
    Pallide giovinette intesson balli
    In fra la terra e il cielo.

    In fra la terra e il ciel, come fragranza
    Che il freddo aere molce,
    S’alza un canto di pace e di speranza
    Monotono ma dolce.

    Oh fratel mio, tal rigido paese
    È qui dentro il mio core:
    O amico e difensor bello e cortese,
    Io non conosco amore.

La seconda parte del poema è tutta occupata da una visione di Giobbe. È
rigidamente ascetica. Simboleggia, parmi, il periodo di cieca fede del
pensiero umano — l’età dei martiri, dei crociati, dei santi. C’è un
intermezzo composto di laudi — le laudi sacre che, nel secolo
decimoterzo, pie compagnie d’uomini e di fanciulli, di nobili e di
plebei, accesi dallo stesso ardore spirituale cantavano nell’Umbria
ricordandosi del fraticello di Assisi. Queste laudi del Rapisardi sono
una sapientissima imitazione di quelle. Par di sentirvi l’estro
religioso di Iacopone da Todi. Eccovene un saggio:

                          LAUDA DI ANACORETA.

    Patria, amici, parenti, famiglia abbandonai
    E in questo solitario antro mi ricovrai:
    Dio che alla terra oscura manda del sole i rai
    Porse alfine un conforto a’ miei terrestri guai.

    Il mondo è una gran selva d’alberi velenosi
    Dove fra l’erbe e i fiori stan biscie o serpi ascosi,
    Dragoni e basilischi dagli occhi sanguinosi
    Insidian la salute dei giusti e dei pietosi.

    Son l’erbe, a chi le calchi, più che rasoi taglienti,
    Le fragranze de’ fiori producon febbri ardenti:
    E di quei mostri occulti son così aguzzi i denti,
    Che squarciano le viscere delle smarrite genti.

    O dolce solitudine, tu di virtù sei scola,
    Da te la pellegrina anima a Dio sen vola,
    In te la mia tristezza s’aqueta e si consola,
    Beata solitudine, beatitudin sola.
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Cito qui per il contrasto un canto di Goliardi. La poesia goliardica nel
suo rudimentale tentativo di rinascimento dell’arte, fu a quei tempi di
penitenza come una spera di sole dardeggiante attraverso la mistica e
fredda ombra di una cattedrale:

                           CANTO DI GOLIARDI.

    Sulla terra già Venere scende,
    Vengon seco le grazie e gli amori,
    Sul suo capo il cheto aere s’accende,
    Sotto il piè le germogliano i fiori.

    Madre e dea d’ogni cosa gentile
    Orna i rami, gli augelli ridesta;
    L’aria, l’acqua, la terra è una festa:
    O l’aprile, l’aprile l’aprile!

    O fanciulla che languida giaci
    Fra le piume, e sognando sorridi,
    E il ciel suona di canti e di baci,
    Freme il bosco d’amplessi e di nidi.

    O fanciulla, son rapide l’ore
    Della gioia, a te mormora il rio;
    Sorgi, vieni ti dice il cor mio:
    O l’amore, l’amore, l’amore!
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

L’ultima parte della trilogia è scientifica e un po’ faticosa agli
indotti. Pure scorre tutta così tersa, così, direi, lieve, nella sua
profondità che se ne ricevono ugualmente impressioni luminose. È un
viaggio nell’ètere, di Giobbe guidato da Iside che raffigura ad un tempo
la Scienza ed il Mistero. È una ideale peregrinazione da stella a
stella, da luce a luce, durante la quale Giobbe ascolta dalla sua guida
il racconto della formazione del mondo, età per età; — è il viaggio del
pensiero attraverso l’abisso dell’infinito. Egli scopre, esulta,
s’inebria, finchè arrivato al limite la natura gli dice; Arrestati!
Icaro cade...

Intanto Giobbe s’esalta dei nuovi orizzonti che gli si schiudon dinanzi,
della virtù nuova che s’è fusa al suo spirito e che lo fa avido di
comprendere, di spaziare, d’innalzarsi:

    In alto, in alto! all’etere
    Padre al fecondo sole
    Sorge ed inconscia palpita
    Ogni vivente prole;
    O che da germe cieco
    Sbocci o da grembo, o come verde smalto
    Erbeggi in prato, o induri in selva: o libera
    Discorra e voli, o bosco abiti o speco,
    Sempre dovunque un’intima
    Legge la chiama e la sospinge in alto.
    Manda la terra gli umidi
    Fumi dal seno, ond’hanno
    Nubi di vita gravide
    Gli astri al mutar dell’anno.
    Desti al gagliardo attrito
    Di secchi tronchi e resinose tede
    Guizzan dal foco gl’inquieti spiriti
    Ubbidienti ad un supremo invito;
    E, fiamma anch’essa, l’anima
    Lingueggia ardente ad un’eterea sede
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Ho finito per oggi, amabilissime. Non crediate però ch’io abbia inteso
di farvi una rassegna del bel libro, nè che vi abbia comunicato tutte le
mie impressioni. Mi mancano il sapere e lo spazio; due cose, vedete,
essenziali. Ho solamente desiderato che conosciate un po’ più del titolo
d’un’opera che fa onore all’Italia. Vi ho attinto per voi delle gemme,
sì, ma molte altre ricchezze riposano nel fondo di quel piccolo mare. Un
vero mare, con le sue glauche trasparenze, i suoi scogli, i suoi mostri,
le sue perle, le sue falangi di deità invisibili, e le sue carcasse
umane, la sua sinfonia di voci, e il gemito eterno d’un titanico
dolore...



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«.... Quando ero un garzonetto di circa nove anni, — mio zio mi fece
domandare, — per cacciar il falco, cavalcare con lui, — e tenergli
compagnia.

E soffiò il vento del Nord, — il vento del Nord nell’uragano — e un
sonno di morte piombò su di me, ed io caddi dal mio cavallo.

La regina delle fate or mi tiene, nella sua collina verde per rimanerci;
e sono un elfo leggiero e sottile, bionda fanciulla, non lo vedi
tu?!...»

                                   (_Frammento d’una ballata Scozzese_).



                                   X.


                          Lorenzo Stecchetti.

Ancora un frutto vietato! Dio buono quanti! Di questa specie però ne
avete assaggiati qualcuno ben mondo, ben inzuccherato, ben isolato in
una coppa di cristallo, al giulebbe della musica di Rotoli e di Tosti.
Qualche altro ve lo sbuccerò io, ma pochi. «Anche senza leccornie si
vive» ha detto l’altro giorno con filosofia semplice e profonda un
vecchio medico a un golosino di mia conoscenza. Parole che possono
essere fondamento di una regola di vita — parole da scriversi in oro su
ogni camera di fanciulla.

Chi non conosce la gherminella ordita da Olindo Guerrini per dar maggior
attrazione e pubblicità alle sue poesie? Chi non ha sentito intenerirsi
il cuore pensando a quel povero tisico che scriveva, conscio della sua
fine, versi così appassionati e soavi? Chi, vedendo sull’elzeviro quel
titolo di «Postuma» e quell’avvertimento «Edito a cura degli amici» non
ha riflettuto con un senso di sollievo che, dopo tutto, in questo
mondaccio vi sono ancora degli animi nobili e disinteressati ne’ quali
accanto allo sfolgoreggiante eroismo s’illumina e splende di luce
propria la fiammella pallida e dolce della pietà? Oh gentile fratellanza
di spiriti! Amicizia buona più forte de la morte! Povero Lorenzo
Stecchetti, povera giovine vita falciata così! — E la melodia soave e
triste di quei versi scendeva all’anima, e quei versi circonfusi da
un’aureola di martirio, purificati, quasi, dalla morte, andavano a ruba,
e alle imprecazioni, alle volgarità si applaudiva come al canone di una
nuova scuola emancipata dalle ipocrisie, e le gemme poetiche si
trasformavano in ghirlande per la tomba del grande e disconosciuto
poeta.

Infatti una vaghezza fresca, gracile, melanconica come quella di certe
adolescenze destinate a non varcare il limite che le separa dalla
giovinezza — una promessa fittizia di energia per l’età matura,
ricascante spesso in un languore dolce o nella disperazione,
qualchevolta in un’ironia heiniana — la sensazione lucida dell’immensa
vanità del tutto, più sentita che espressa, come spesso i predestinati
hanno: una delicatezza acuta troppo per la vita: — nulla manca per la
verosimiglianza di quell’anima artificiale che lagrima, o raggia nel
verso.

Chi non ricorda il sospiro soavissimo:

    Voi che salite questo verde monte,
    E il silenzio cercate
    Dov’è più folto il bosco e chiaro il fonte,
    Anime innamorate,
    Pietà di me! Sul margin della via
    Seggo soletto e gramo,
    Ahi! grave, amanti, è la sventura mia!
    Pietà di me! non amo.

d’un lirismo così dolce, così dimesso, così fuso col sentimento quasi di
vergogna per la triste impotenza che inaridisce il cuore? C’è un alito
di frescura e di pena come in un limbo.

E questa di un’efficacia rappresentativa così sincera, così suggestiva:

    Nell’aria della sera umida e molle
    Era l’acuto odor dei campi arati,
    E noi salimmo insiem su questo colle
    Mentre il grillo stridea laggiù nei prati.
    L’occhio tuo di colomba era levato,
    Quasi muta preghiera al ciel stellato,
    Ed io che intesi quel che non dicevi
    M’innamorai di te perchè tacevi.

Tutta la sinfonia della sera, l’elevazione nello spazio, verso il bene
infinito, dei profumi delle voci, dei cuori. E pensando questa delicata
sfumatura scritta da un povero ragazzo malato, l’anima vibra d’una pietà
che è quasi una tenerezza. Ahimè, infatti il poeta è forse morto
davvero....

Lorenzo Stecchetti è uno scapestrato, pure è capace di dare dei buoni
consigli alle fanciulle. La poesia che termina con la famosa terzina:

    Quando ti specchierai ti dica il core
    Che una perla rubata a’ tuoi capelli,
    Solo una perla può salvar chi muore

è tutta di avvertimento amoroso e severo come di un amico eletto. Un
altro finissimo sentimento di pietà riguardosa, lo Stecchetti mette nel
cuore e sulle labbra della donna amata:

    Questa notte in battello in alto mare
    Del mondo ci eravam dimenticati;
    Ci dicevamo le parole care
    Che san soltanto dir gl’innamorati
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

    Quand’ella tacque, da un pensier colpita,
    E dall’òmero mio la testa bionda
    Improvvisa levò come atterrita,

    E colla faccia stranamente fissa
    Nella notturna tenebra profonda:
    Taci — mi sussurrò — laggiù c’è Lissa!

Eccovi per ultimo un accento vigoroso e splendido di vita e di verità:

    E pur mi sento nel cervello anch’io
    Qualche cosa che vive e che lavora;
    E pur quest’aura che il mio volto sfiora
    L’alito par dell’agitante Iddio!

    Talor, cedendo a’ sogni miei, m’avvio
    Per floridi sentier che il mondo ignora;
    Salgono i canti alle mie labbra allora
    E spero e credo nell’ingegno mio.

    Ma quando il dubbio mi risveglia, quando
    Via per la nebbia del mattin tranquille
    Sfuman le larve che seguii sognando,

    Colle man mi fo velo alle pupille
    E mi guardo nel core, e mi domando
    Sono un poeta o sono un imbecille?

Ah, gl’imbecilli non hanno mai di questi dubbi, Lorenzo gentile! gli
imbecilli non sapranno mai che cosa sia una di queste indefinibili
intime lotte di chi sente lo spirito tutto cangiato in una sottile e
tremolante fiammella — così sottile e così tremolante e così sacra che
la vertigine prende al pensiero che potrebbe spegnersi, e che noi ne
morremmo di freddo e di buio come se si spegnesse il sole. È vero:
nessuno può toglierci i tesori dell’ingegno — ma li sentiamo così poco
nostri! ma chi li possiede non può nemmeno solamente calcolarne il
valore! non sa da che hanno avuto principio, se e come avran fine, se si
rinnovellano, se si distruggono — e li sente ondeggiare in una paurosa
fralezza, ed intuisce solo che sono una splendida somministrazione di
una mano ignota e Divina, troppo splendida e troppo preziosa per noi
giacchè quasi sempre si storpia nella forma della parola....

E se ne stanno, gli eletti, così a mani protese, come ciechi sotto una
manna di rose.



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«Quand’on découvre des grandes taches dans l’âme de ceux qu’on aime, il
faut se consulter, se consulter et savoir si on peut les aimer encore
malgré cela. Le plus sensé est de cesser, le plus généreux est de
continuer.»

                                                           _George Sand_



                                  XI.


                             Arrigo Boito.

Basterebbe il «Mefistofele,» credo, per fare il nome d’Arrigo Boito
immortale: il «Mefistofele» dalla musica descrittiva, dalla parola
melodiosa, il vero dramma musicale, l’unità profonda, indissolubile,
sognata da Wagner. «Danse, Musique et Poésie forment la ronde de l’Art
vivant» scrive Edouard Schuré in fronte ad un suo indimenticabile libro
e il Boito nell’accolta armoniosa delle tre Muse sorelle è giunto a
posare il piede vittorioso sul polo vergine dell’Ideale.

Ma non è di questo che volevo parlarvi, care amiche. Volevo scorrere con
voi, oggi, qualcuno dei bizzarri canti del rubesto poeta al quale _il
Libro dei versi_ e la stupenda leggenda di _Re Orso_ fruttarono già
buona parte di gloria. Il Boito quantunque originalissimo fa parte di
quella scuola che quando voi non eravate ancora arrivate al mondo
chiamavano: dell’arte futura, e che ora, per la frettolosa evoluzione di
questi ultimi anni, minaccia di appartenere all’arte del passato. Il
Boito è sopratutto scultorio. Egli non può appagarsi, come tanti,
d’idee, di larve, di fluttazioni e di miraggi; egli ha bisogno della
forma definita, della materia, quasi, ha bisogno di foggiare, di
plasmare, d’incarnare subito la sua ispirazione, di vedersela lì, sotto
gli occhi, viva palpitante, umana. Quando scriveva quei due famosi versi
che diventarono il catechismo del suo cenacolo:

    E non trovando il Bello
    Ci abbranchiamo all’Orrendo

io credo che il bello lo cercasse dove non poteva trovarlo, dov’è
soggetto a guastarsi, a immiserirsi: negli aspetti, non nell’anima delle
cose. È sempre più artista che poeta; più favoleggiatore che sognatore.
Anche le sue fantasie hanno tutte, direi, un piede in terra, si basano
tutte sul reale, sul visibile; egli non idealizza il vero, ma umanizza
la idealità.

Qualche volta, inoltre, una certa intonazione irrisoria, amara, scettica
che traspare, ci ricorda il ghigno e le contorsioni diaboliche del suo
Mefistofele. Anch’egli par preferire gli odori resinosi e le macabre
fantasie nordiche ai fiori irrorati dal plenilunio, fra i quali non si
raccapezza e la sua fibra s’indebolisce rischiando di dare nel banale o
nel grottesco; mentre nelle dipinture del pauroso, del mostruoso, del
sinistro, è maestro. È proprio il rovescio del Praga, suo fratello
d’arte, il quale non è mai così efficace e commovente come quando
attinge alla semplice verità.

Eccovi intanto, del Boito, un arguto madrigale scritto sotto la
fotografia d’una signora:

    Arte nata da un raggio e da un veleno
    Su questo segno della tua potenza
      Mi si rivela appieno
      La tua duplice essenza.
    O arcane curve, ombre soavi, tocchi
    Luminosi, divine orme d’amore!
      Sento il raggio negli occhi
      E il veleno nel core.

Il nome d’uno sconosciuto, letto sull’arca antica d’un chiostro gli
ispira fra le altre queste strofe animate, direi volentieri irrequiete,
come una fiamma:

    .  .  .  .  .  .
    Il nome tuo tre secoli
    Passò ignorato e mero,
    Solo il trovâr le biche
    Dell’umili formiche
    E la pupilla inquieta
    D’un giovine poeta.

    Ed eri forse un genio
    A cui fallìa la gloria.
    Un pazïente anonimo
    Smascherator di storia.
    Un creätor d’orrende
    Romantiche leggende,
    O del poema nero
    Di Faust o d’Assuero.

    Forse una ragna pendula
    Fra due cippi romani
    Ti rivelò il miracolo
    Dei ponti americani,
    Forse per l’aura bruna
    Vedendo errar la luna
    Divinasti l’incauta
    Magìa dell’areonauta.

    Certo ti colse il torbido
    Problema del futuro
    Scavando i bei caratteri
    Sovra l’antico muro;
    Eri certo un poeta!
    Eri certo un profeta!!
    (O, idea vulgare e trista)
    Eri forse un copista.

La padronanza e la disinvoltura dell’arte è sempre, come vedete,
perfetta. Ma dove Arrigo Boito raggiunge una potenza meravigliosa è
nella Fiaba di _Re Orso_. Vi s’incontrano accenti Shakesperiani. A voi,
fanciulle, poco posso esporre di quella diabolica concezione, ma
abbastanza spero per darvi un’idea della gagliarda originalità di tutto
il lavoro. Udite:

                                   V.

                                PAPIOL.

    Per le bimbe, per i pargoli
    Dalla fiaba impauriti,
    Per i nonni fra le tenebre
    Desti, pallidi, romiti,
    Cangerò la tetra nenïa
    In un verso allegro e matto,
    Colla storia ed il ritratto
    Del giullare Papïol.

    Fu il buffon da una mandragora
    Messo al mondo, e appena nato
    Era al par d’un dito mignolo
    Picciol, magro, affusolato;
    Poi restò sempre rachitico
    Fin ch’ei visse ed infermiccio,
    E la crosta d’un pasticcio
    Fu la culla di Papïol.

    Per cimiero ei porta un guscio
    Di castagna o di lumaca,
    Una pelle di lucertola
    È sua calza ed è sua braca;
    Gli filava una tarantola
    Cinque corde al suo liuto;
    E non v’ha giullar più astuto
    Del gobbetto Papïol.

    Tien la vespa il fine aculeo
    Dentro il corpo alidorato,
    Tal Papiolo entro la cintola
    Tiene un ago avvelenato,
    Con quell’ago ei fe cadavere
    Più d’un Duca e più d’un Conte,
    Per quell’ago sir Drogonte
    Venne spento da Papïol,

    Perchè un dì, presente il Principe,
    Arse vivo uno scorpione.
    Fu Papiolo eletto al titolo
    D’uom di Corte e Centurione;
    Sulla terra ancor non videsi
    Un più gracile arfasatto.
    Ecco i fasti ed il ritratto
    Del giullare Papïol.

Bello non è vero? in quell’artificiosa rudezza popolare. Eccovi ora lo
spunto d’un altro capitolo in cui traluce molto bene la personalità del
poeta:

    Cessato è il nembo; — va volando intorno
    L’angiol del giorno — a spegnere le stelle
    E le fiammelle — che brillano sui fari
    Dei marinari. — L’esule chiesetta
    Dell’alta vetta — già si fa men bruna

      E ancor la luna
      Splende sull’ermo
      Bianca ed immota.
      Come una nota
      Di canto fermo.
      .  .  .  .  .  .

Questo è un quadretto raro e strano in cui ancora una volta l’artista ha
vinto il poeta.

In _Re Orso_ colgo pure la vaghissima serenata «Ago ed Arpa» che par
uscita veramente dalla bocca di un trovatore a’ bei tempi di Clemenza
Isaura di Tolosa:

    Io di Provenza tenero troviero
    Vorrei cantarti nella mia loquela,
    Chè più soave mi parrebbe e mero
    L’inno amoroso che il mio spirto inciela,
    Per te sui voli dell’idea cavalco,
    Cacciando le colombe del pensier;
    Tu fai di me, siccome fa col falco
    Il falconier.
    Tale m’alletta amoroso martòro
    Che giorno e notte vo cantando e ploro
    _Tan m’abelis l’amoros pensaman_
    _Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan._
      .  .  .  .  .  .  .
    Ier notte oravo, il mio fervor blandia
    Quasi un soffiar di celestiale avena,
    E mi si ruppe in cor l’_Ave-Maria_
    Perchè appena fui giunto al _gratia plena_
    Tu m’apparisti, angelicata donna,
    Tutta piena di grazia e di virtù.
    Certo salì la prece alla Madonna
    Ed a Gesù.
    Tale m’alletta amoroso martòro
    Che giorno e notte vo cantando e ploro.
    _Tan m’abelis l’amoros pensaman_
    _Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan._

    Ten vieni o Donna nel gentil paese
    Dove vibran le cetre e le mandòle,
    Dove nasce la vaga sirventese,
    Dove si parla in rimate parole,
    Ten vieni ed io ti guarderò, mio nume,
    Dai mali, dalle lotte e dai viventi,
    Qual si ripara colla palma un lume
    In mezzo ai venti.
    Tale m’alletta amoroso martôro
    Che giorno e notte vo cantando e ploro.
    _Tan m’abelis l’amoros pensaman_
    _Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan._

Tutta la gentilezza romanzesca, la poesia malinconica degli amori
irrimediabilmente lontani, i soli amori, forse, degni del nome divino.
Quell’Avemmaria rotta in cuore dall’apparizione della dama, la tenera
promessa di riparare Lei dai mali e dalle genti come una fiammella con
la mano, sono immagini e ispirazioni che non possono essersi accese che
nella mente di un contemporaneo di Rudello e di Bernardo di Ventadorn,
venute attraverso i secoli, come un’emanazione, nella mente di Arrigo
Boito che le ha tradotte in tutta la loro freschezza nativa.

Dopo questa, ogni altra cosa par sbiadita. Ma qualche fanciulla pensosa
amerà forse ch’io le ripeta i gentili versi sulla conchiglia, che
emergono come un fiore dall’alto e fragile stelo fra la fioritura d’Ero
e Leandro; i versi che rappresentano fulgidamente la profetica virtù che
le fanciulle, custodi di ogni poesia, amano tanto di attribuire alle
cose inanimate, rinnovellando in forma blanda l’oracolo antico:

    Conchiglia rosea
    Del patrio lido
    Piccolo nido,
    Del vasto mar.
    Dell’alma Venere
    Culla e flottiglia
    Rosea conchiglia.

    In te ricircolano
    Mille volute
    Che fan che mormorino
    Fin l’aure mute.
    Tu canti e sfolgori
    Coro fra i cori
    Oro fra gli ori
    Del sacro altar.

    Entro ti palpitano
    Le nettunine
    Ninfe che avvincolansi
    D’aliga il crine
    E tutti i zeffiri,
    Pel cielo erranti
    E tutti i canti
    Del pescator.

    Dimmi l’oracolo
    Di mia fortuna,
    Tu della duna
    Eco e splendor.
    Parla, la vergine
    Cupida origlia,
    Rosea conchiglia.

    L’api che ronzano
    Fra gli oleandri
    Ne’ tuoi meandri
    Odonsi ancor.
    Un trillo eolio
    In te bisbiglia
    Rosea conchiglia.

    Parla... e che? turbinano
    Sconvolte l’onde!
    Crollan.... rigurgitano...
    Alte e profonde.
    E sull’equorea
    Terribil ira
    Piomba la diva
    Furia del tuon.

    Orror profetico!
    Rombo bïeco!
    Terribil eco!
    Ria visïon!
    Fuggi! Ho una lagrima
    Sulle mie ciglia
    Tetra conchiglia!

E ora quelle fra voi che presto calcheranno la piccola orma sulla sabbia
di qualche beato cantuccio di spiaggia italiana, non dimentichino di
insudiciarsi la punta delle dita per strappare al tepido e bigio umidore
delle labbra del mare una delle sue ruvide margherite. E non siano
presagi di tempeste il risultato del responso capriccioso, ma sogni di
pace nel ronzìo delle pecchie, nell’alitare dei zeffiri, nelle nenie dei
pescatori.



                      Piccolo intermezzo in prosa.


«.... la connaissance du coeur humain conduit à l’indulgence et à la
bonté.»

                                                           _Flammarion._



                                  XII.


                            Giosuè Carducci.

Onoriamo l’altissimo poeta, il nostro Carducci — una gloria vivente
d’Italia.⁸ Dopo, direte addio al mio verziere e ho caro che nelle vostre
menti giovinette rimanga più a lungo l’immagine sua. Voi dovete essere,
lo ripeto, fanciulle, le vestali dell’ideale, le custodi dei sentimenti
grandi e buoni, è a voi di ricordare che ancora al mondo ne rimane la
diva scintilla: a voi di ridestare i già spenti, di bandire crociate
contro gli apostata dei primi obblighi sacri delle giovinezze studiose:
la riverenza e la gratitudine. In ogni tempo e in ogni luogo la
superiorità dello spirito o del cuore si pagò e si paga assai cara; è
intorno alle roccie titaniche che i flutti si frangono con più sonante
rimescolìo — sulle basse scogliere l’onda passa tranquilla, obliosa,
irridendo. La vita dei grandi è travagliata, infelice — ma quante
amarezze che la gloria non lenì, raddolcirono bianche mani femminili
null’altro che col posarsi su di una fronte! Ricordatelo, voi, che siete
la primavera che promette e l’avvenire che si sogna.

   ⁸ Quando fu scritto questo capitolo l’illustre poeta viveva ancora.

Lasciando da parte, dunque, le opere più note del poeta, — che a scuola
o a casa persone assai più valenti di me vi hanno commentato —
rivolgeremo la nostra attenzione alle creazioni minori, nelle quali pure
le qualità adamantine del padre rifulgono in tutta la lor classica
purezza. Io ho un po’ di manìa per le opere minori in genere, che non di
rado preferisco alle altre perchè, mentre serbano l’aria di famiglia,
hanno quasi sempre un abbandono più ingenuo e più grazioso. Sono belle
bimbe vestite da casa al confronto delle sorelle già al vertice della
giovinezza rigogliosa, abbigliate per una comparsa ufficiale nel mondo.
C’è il fàscino dell’inesplorato, del romito e della brevità come nelle
scorciatoie in confronto alle vie maestre — l’attrattiva d’un salottino
intimo e abitato, in paragone ad un salone per i ricevimenti di parata —
la promessa vaga di una quantità di piccoli incidenti impreveduti, di
cento piccole meraviglie inattese, di mille suggestioni insperate — come
in un’escursione a piedi invece di un viaggio in ferrovia. E così potrei
moltiplicarvi gli esempi all’infinito. Ma già voi mi avete intesa a
volo. L’anima del poeta pare riguardare in sè stessa senz’altra cura che
di meriggiare, e di questo riposo viene a noi pure un refrigerio soave.
Se è addolorato, il suo dolore è dimesso — se gaio, la sua gaiezza è
infantile. Così è il Canzoniere che mi rivela più lucidamente lo spirito
di Dante, il _Rinaldo_ che rende la freschezza d’immaginazione del Tasso
intorpidita nella sua celebre Gerusalemme: e uno dei più schietti
modelli di poesia italiana ci viene offerto da una produzione tutta
intima della quale l’autore — il Petrarca — quasi si vergognava.

Ma _qui regna Carducci_. Parliamo di lui.

Si può ammirarlo, il Carducci, con più o meno entusiasmo, ma il suo
ingegno non si può discutere. È classico, determinato, possente, qualche
volta formidabile: — efficacemente sintetico sempre — condizione
essenzialissima per una forte vitalità poetica. Come da un terso blocco
di marmo pario, egli cava dalla sua mente ogni sorta di capolavori, che
il sole dell’arte illumina e riscalda. Monumenti colossali e statuette
da salotto — gruppi armoniosi e bassorilievi purissimi — arche d’una
divina sobrietà trecentista su cui il simulacro del guerriero, come
stanco, riposa colle mani in croce tutto armato, e guglie aguzze di
qualche magnifico edificio che sfida il tempo. Qualche volta non ne
ricava che una lapide nuda, fredda, ma ci scolpisce su qualche parola
che infiamma. Quando narra di storia, diletta come se ci facesse passare
dinanzi agli occhi una serie di quadri dei floridi pittori veneti del
cinquecento — quando fantastica, ci trasporta sulla poderosa ala
d’aquila fino al sole — quando ricorda o rimpiange, ha l’abbandono pieno
di pietà d’una querce abbattuta — d’un rudero invaso d’edera — di
qualche cosa di grande e di già vittorioso piegato e vinto.

Ma meglio che le mie sbiadite parole vi cesellerà egli medesimo
l’immagine propria. Tolgo molto dalle _Rime Nuove_, raccolta de’ suoi
versi che io preferisco.

Ecco come questo spirito di titano intende il poeta:

    .  .  .  .  .  .  .
    Il poeta è un grande artiere,
    Che a ’l mestiere
    Fece i muscoli d’acciaio:
    Capo ha fier, collo robusto.
    Nudo il busto,
    Duro il braccio e l’occhio gaio.

    Non appena l’augel pìa
    E giulìa
    Ride l’alba e la collina,
    Ei co ’l mantice ridesta
    Fiamma e festa
    E lavor ne la fucina;

    E la fiamma guizza e brilla
    E sfavilla
    E rosseggia balda audace,
    E poi sibila e poi rugge
    E poi fugge
    Scoppiettando da la brace.

    Che sia ciò non lo so io;
    Lo sa Dio
    Che sorride a ’l grande artiero.
    Ne le fiamme così ardenti
    Gli elementi
    De l’amore e de ’l pensiero

    Egli getta, e le memorie
    E le glorie
    De’ suoi padri e di sua gente.
    Il passato e l’avvenire
    A finire
    Va ne ’l masso incandescente.

    Ei l’afferra, e poi de ’l maglio
    Co ’l travaglio
    Ei lo doma su l’incude.
    Picchia e canta. Il sole ascende,
    E risplende
    Su la fronte e l’opra rude.

    Picchia. E per la libertade
    Ecco spade,
    Ecco scudi di fortezza:
    Ecco serti di vittoria
    Per la gloria,
    E diademi a la bellezza.

    Picchia. Ed ecco istoriati
    A i penati
    Tabernacoli ed a ’l rito:
    Ecco tripodi ed altari,
    Ecco rari
    Fregi e vasi pe ’l convito.

    Per sè il pover manuale
    Fa uno strale
    D’oro, e il lancia contro ’l sole:
    Guarda come in alto ascenda
    E risplenda,
    Guarda e gode e più non vuole.

Oh così, così mie fanciulle, erano i bardi dell’età passata — così
confidiamo che siano quelli dell’avvenire! Avete sentito che gagliardìa
d’ispirazione e di tocco, che nitidezza di espressione — come il
Carducci è padrone della lingua, del verso, della rima, come è poeta in
essenza e artefice nella manifestazione? Oh sì, il rude artiero che doma
la materia e col robusto braccio foggia cose sì gentili baciato dal sole
levante è lui — ahimè, forse solo.

Il Carducci ha radicato e vigile l’amore della sua terra al cui pensiero
fra il tempestar delle passioni spesso ricorre come a un ritornello
blando e addormiente. Questo sonetto è una particella viva di cuore:

                     TRAVERSANDO LA MAREMMA PISANA.

    Dolce paese, onde portai conforme
    L’abito fiero e lo sdegnoso canto
    E il petto ov’odio e amor mai non s’addorme.
    Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

    Ben riconosco in te le usate forme
    Con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,
    E in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
    Erranti dietro il giovanile incanto.

    Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
    E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
    E dimani cadrò. Ma di lontano

    Pace dicono a ’l cuor le tue colline
    Con le nebbie sfumanti è il verde piano
    Ridente ne le pioggie mattutine.

Eccovi, giovinette, una _Mattinata_ tutta giovine, tutta rugiadosa. Mi
piace trascriverla perchè è uno stupore di bellezza, poi perchè la mia
anima ode insieme a quelle parole l’eco d’un’armonia e d’una voce ora
mute per sempre....

    Batte alla tua finestra, e dice, il sole:
    Levati, bella, ch’è tempo d’amare.
    Io ti reco i desir de le vïole
    E gl’inni delle rose a ’l risvegliare.
    Da ’l mio splendido regno a farti omaggio
    Io ti meno valletti aprile e maggio
    E il giovin anno che la fuga affrena
    Su ’l fior de la tua vaga età serena.

    Batte a la tua finestra, e dice, il vento:
    Per monti e piani ho viaggiato tanto!
    Sol uno de la terra oggi è il concento,
    E de’ vivi e de’ morti un solo è il canto,
    De’ nidi a i verdi boschi ecco il richiamo:
    — Il tempo torna: amiamo, amiamo, amiamo —
    E il sospir de le tombe rinfiorate:
    — Il tempo passa: amate, amate, amate. —

    Batte a ’l tuo cor, ch’è un bel giardino in fiore,
    Il mio pensiero, e dice: Si può entrare?
    Io sono un triste antico vïatore
    E sono stanco e vorrei riposare,
    Vorrei posar tra questi lieti mai
    Un ben sognando che non fu ancor mai:
    Vorrei posar in questa gioia pia
    Sognando un bene che giammai non fia.

Come questa perfezione di leggiadria sfavillava nei tuoi canti, povero e
caro ragazzo! Come mi fa male, ora, il ricordo di quell’accento quasi
nostalgico con cui pronunziavi le parole sovrumane... con cui dicevi di
voler riposare sognando un bene che nel nostro mondo non c’è...

Fanciulle mie, siamo oramai alle soglie del verziere, perdonatemi questo
ultimo indugio. Vedete, si delinea già come un miraggio una vignetta
delicatissima:

    La stagione lieta e l’abito gentile
    Ancor sorride a la memoria in cima
    E il verde colle ov’io la vidi prima.
    Brillava a l’aere e a l’acque il novo aprile,
    Piegavan sotto il fiato di ponente
    Le fronde a tremolar soavemente.

    Ed ella per la tenera foresta
    Bionda cantava a ’l sole in bianca vesta.

Ecco in otto versi la manifestazione più ampia e più profonda della
primavera.

Ora udite come parla Giosuè Carducci del mio paese. Dovreste saperla
tutte a memoria la seguente poesia, forti fanciulle che guardate cogli
occhi bruni e fieri riflettersi le stelle nel piccolo Reno: _piccolo
d’onde e di valor gigante_; il Monti dice.

Il Carducci si rivolge a Severino Ferrari — un simpatico poeta
celebratore della sua nativa campagna emiliana:

    O Severino, de’ tuoi canti il nido,
    Il covo de’ tuoi sogni io ben lo so,
    Ondeggiante di canape è l’infido
    Piano che sfugge a ’l curvo Reno e al Pò.

    Da gli scopeti de la bassa landa
    Pigro il pizzaccherin si drizza a volo:
    Con gli strilli di chi mercè dimanda
    Levasi de le arzàgole lo stuolo,

    Stampando l’ombra su per l’acqua lenta
    Ove l’anguilla maturando sta.
    Oh desìo di canzoni, oh sonnolenta
    Smania di sogni ne l’immensità!

    Oh largo su gli alti argini del fiume
    Risplender rosso de l’estiva sera!
    Oh palpitante de la luna a ’l lume
    Tenero verdeggiar di primavera!

    Quando i pioppi contemplano le stelle
    Innamorati con lungo sospir,
    Ed un lontano suon di romanelle
    Viene da’ canapai lento a morir!

    Allor che agosto cada, o Severino,
    E chiamin l’acqua le rane canore,
    Noi tornerem poeti all’Alberino,
    Tutti solinghi in bei pensier d’amore.

    Ed a’ tuoi pioppi ne le notti chete
    Noi chiederem con desiosa fè:
    O alti pioppi che tutto vedete
    Ditene dunque: Biancofiore ov’è?

    Siede in riva a un bel fiume? o il colle varca
    Tessendo a ’l capo un cerchio agil di fiori?
    O dentro una sestina de ’l Petrarca
    Beata ride i nostri vani amori?

Anch’io saluto ancora una volta passando, la vostra immagine, o alti
pioppi che tutto vedete — che vi incurvaste, giganti benigni, alla mia
debole infanzia; — alti pioppi dalla rude base frondosa nell’ombra,
dalla cima esile intrisa di luce, come un grandioso sogno umanitario!
Quando l’anima è di poeta, da ogni più insignificante episodio, da ogni
più arida pagina di storia sbocciano fiori. Il _comune rustico_ per
andamento di verso, per l’elegante semplicità quasi ingenua che vi spira
dentro e che si modella meravigliosamente all’idea, per efficacia di
rappresentazione, è una gemma. Un simbolista direbbe: uno smeraldo.

    O che tra faggi e abeti erma su i campi
    Smeraldini la fredda ombra si stampi
    A ’l sole de ’l mattin puro e leggero,
    O che foscheggi immobile ne ’l giorno
    Morente su le sparse ville intorno
    A la chiesa che prega o a ’l cimitero

    Che tace, o noci de la Carnia, addio!
    Erra tra i vostri rami il pensier mio
    Sognando l’ombre d’un tempo che fu.
    Non paure di morti ed in congreghe
    Diavoli goffi con bizzarre streghe,
    Ma de ’l comun la rustica virtù

    Accampata a l’opaca ampia frescura
    Veggo ne la stagion de la pastura
    Dopo la messa il giorno de la festa.
    Il Consol dice, e poste ha pria le mani
    Sopra i santi segnacoli cristiani:
    — Ecco, io parto fra voi quella foresta

    D’abeti e pini ove a ’l confin nereggia.
    E voi trarrete la mugghiante greggia
    E la belante a quelle cime là.
    E voi, se l’unno o se lo slavo invade
    Eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
    Morrete per la nostra libertà. —

    Un fremito d’orgoglio empiva i petti,
    Ergea le bionde teste, e de gli eletti
    In su le fronti il sol grande feriva.
    Ma le donne piangenti sotto i veli
    Invocavano la Madre alma de’ cieli.
    Con la man tesa il Console seguiva:

    — Questo, a ’l nome di Cristo e di Maria,
    Ordino e voglio che ne ’l popol sia,
    A man levate il popol dicea: Sì.
    E le rosse giovenche di su ’l prato
    Vedean passare il piccolo senato,
    Brillando su gli abeti il mezzodì.

Termino con un sonetto giovanile non molto conosciuto, credo. È
classicamente severo, è mesto, eloquente. S’indirizza in fine alla
giovinezza — così amo ripeterlo associandovi nel mio pensiero a una
memoria cara mentre la vita che ancora per voi non è che un dolce ritmo
di danza vi attira fuori dal mio verziere. Io ci rimango a far
l’ortolana, faticosamente, placidamente:

    Se affetto altro mortal per te si cura,
    Spirto gentil cui diamo il rito pio,
    Pon dal ciel mente a questa vita oscura
    Che già ti piacque e al bel nido natìo.

    Vedi la patria come sua sventura
    Di tua candida vita il fato rio
    Piangere, e ’l fior degli anni tuoi cui dura
    Preme l’ombra di morte e il freddo oblìo.

    Quindi ne impetra tu che a te simile
    Dritta all’oprar, modesta alla parola,
    Cresca la bella gioventù virìle:

    E senta come a fatti egregi è scola
    Anco una tomba cui pietà civile
    E largo pianto popolar consola.


               Casa Edit. L. CAPPELLI — Rocca S. Casciano

                                Jolanda

                              LE TRE MARIE

                                ROMANZO

            3ª Edizione — Elegante Volume in-16 di pag. 400

    Tutte le pagine di questo romanzo sono ispirate ai sentimenti di
    Fede, di Famiglia, di Patria e condotte sempre con quella
    lucidità di concetto, con quella finezza di sentimento, con
    quell’eleganza di forma che tanto distinguono ormai l’illustre
    scrittrice. Così tutto il romanzo s’intesse su di un soggetto
    semplice ed elevato: la vita domestica, cioè, di tre giovinette,
    _Le Tre Marie_, che, diverse tra loro per indole, per
    educazione, per condizione sociale, offrono uno studio variato,
    gentile di anime e di sentimenti, di lotte e doveri, di
    sofferenze e di dolcezze, di leggerezze, di cuori, di
    sentimenti. Tutto si svolge con la più appropriata naturalezza,
    mentre l’amore vi aleggia sempre or umile e confortato, or
    grande e soave, ora appassionato e ardente.

                                                       Prezzo Lire 4



                                 Bruna

                            L’Intima Fiamma

                                LIRICHE

    Fiamma di sdegno, per tutto quanto è inganno e perfidia, fiamma
    d’amore per ogni cosa dolce e bella, ecco l’intima essenza di
    questo nuovo libro della già nota poetessa emiliana.

    L’elegantissimo volumetto rivela una veemenza, un ardimento, una
    vigorìa insolita nella lira già languida e soavemente mesta
    dell’autrice dei _Canti di Capinera_ e de _L’ermo sentiero_.

    Veramente nelle cinquanta liriche che compongono il volume arde
    una fiamma nascosta che le colorisce e le anima infondendo loro
    un soffio di passione, a molte tragicamente selvaggia! Ma, ecco
    passato il turbine, l’armonia soave dei canti ispirati alla
    bellezza della natura, alle gioie dell’amicizia, al bagliore di
    un sogno fuggente, dilaga e carezza l’orecchio, come suono di
    liuto nella tranquillità d’una notte lunare.

                                                            Lire UNA



                      Silvia Albertoni-Tagliavini

                                L’OMBRA

                                ROMANZO

                   Un bel volume in-16 di pagine 350.

    Una questione importantissima, intorno a cui la società non
    riesce a dire l’ultima parola, _il duello_, ha ispirato alla
    nota scrittrice un romanzo che è un fino studio psicologico, e
    che, pur mirando a uno scopo, non ha nulla di comune con la
    monotona pesantezza degli antichi romanzi _a tesi_. Un intreccio
    semplice, uno di quei casi che possono sembrar strani, ma di cui
    la _vita vissuta_ ci offre a mille gli esempi; un profondo
    studio delle anime; smaglianti ed evidenti descrizioni prese dal
    vero, in cui palpitano dinanzi ai nostri occhi varie scene
    dell’incantato mar Ligure, ecco il libro che oggi la signora
    Albertoni-Tagliavini ci offre. Il romanzo ha in sè doti capaci
    di attirargli l’attenzione di ogni genere di lettori, ma è
    specialmente destinato a incontrare la simpatia delle signore e
    signorine, a cui non è dato ogni giorno di trovare un libro
    bello e interessante, che si possa leggere.... senza arrossire.

                                                    Prezzo Lire 2,50



                             Enrica Grasso

                            FRA DUE SILENZI
                                RACCONTO

                  Elegante volume in-16 di pagine 170.

    La protagonista è — Clara — una giovine nata e cresciuta in un
    ambiente freddo e diffidente. Le stagioni e gli anni si
    succedono per essa uniformi, e, quando s’accorge ch’è primavera
    e che il cuore palpita — le espressioni dubbie e le diffidenze
    paurose della madre, come una doccia fredda, le gelano l’anima,
    le attutiscono il cuore. — Ma il tesoro grande d’amore, di cui è
    pieno il suo cuore gentile, erompe dopo la morte de’ genitori,
    quando, ricca e sola, il bacio di un fanciullo, di un cherubino
    — abbandonato — la conquide, e Clara passa rapidamente da la
    desolazione a la felicità ch’è duratura, che tutto irrora e
    tutto inonda di gioia, di bello, di bene. E il Dottor Alberoni?
    Che bell’anima! E sua sorella? E tutto l’intreccio così
    naturale, così ben condotto? Ma dopo l’amaro il dolce, dopo il
    dolce ancora l’amaro per Clara ma questo ultimo è frutto de
    l’amore puro, sovrumano che adduce al sacrifizio, sodisfazione
    ambita da le anime elette, fine ultimo di ogni loro dedizione.

                                                       Prezzo Lire 2



                         Nota del Trascrittore


Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (leggiadria/leggiadrìa, suicidi/suicidî e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati
corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

    15 — Per insegnare? Ebbene [Ebbe] anche noi!
    34 — Camillo Checcucci [Checchucci] e il suo poema
    59 — dello squisito pseudonimo [pseudomino] di Carmen Sylva
    61 — non si troverebbero [trovorebbero] le stesse aspirazioni
    100 — Visione di Franz Liszt [Frantz Listz]
    101 — sonetti dello Shakespeare [Shakspeare]
    172 — resta nascosto nel sancta-sanctorum [sancta-sanctorom]
    212 — non esalti l’ombra auspice [aupisce]
    249 — quasi sempre un abbandono [un’abbandono]





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