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Title: Ugo: Scene del secolo X
Author: Bazzero, Ambrogio, 1851-1882
Language: Italian
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This book has been completed in cooperation with the Progetto Manuzio,
http://www.liberliber.it

We thank the "Biblioteca Sormani" di Milano that has provided the images.



AMBROGIO BAZZERO



UGO

SCENE DEL SECOLO X


PARTE PRIMA



MILANO

1876



ALLA MIA PRIMA AMARISSIMA DELUSIONE



CAPITOLO I.


Sulla piazza della _curte_ di ***, di messer Ugo cavaliero, conte di
Lanciasalda, sui monti di Saluzzo, ad ora di vespro, Guidello,
trombetto e araldo dell'eccellentissimo signore Adalberto, conte di
Auriate, lesse il bando pasquale: e così:

"Avvicinandosi il giorno di Pasqua di Resurrezione, ed il nostro
illustre signore desiderando partecipare coi vassalli dell'inclita
signorìa la grazia, il gaudio, la letizia avuta e concessa
dall'onnipotente Signore Iddio, in questo dì per la solennità di
messer Jesù Salvatore, ha deliberato ed ordinato di ricevere l'omaggio
dalli gentiluomini predetti. Si gridano i nomi delli cavalieri:

Messere Gisalberto, di messere Ursulo, cavaliero d'_arme_, con
investitura _per lanceam et vexillum_.

Messere Aginaldo, di messere Luitardo, cavaliero _addobbato_, con
investitura per tradizione ed omaggio della coppa d'oro.

Messere Baldo, di messere Erimberto, cavaliero d'_arme_, con
investitura per tradizione ed omaggio delli sproni.

Messere Ildebrandino, di messere Sichelmo, cavaliero a _sprone d'oro_,
con investitura per tradizione ed omaggio del guanto.

Messere Ugo, di messere Oldrado, cavaliero a _sprone d'oro_, con
investitura per tradizione ed omaggio dello sparviero.

Il che per la presente ordinazione e mandamento di Sua Celsitudine si
fa manifesto, a gaudio e consolazione e per speciale partecipazione,
come è predetto, dell'allegrezza e festività, a laude e gloria
dell'altissimo Iddio e del nostro glorioso patrono e della celeste
curia in eterno trionfante.

Signat: _Warinus. Ingus_. Gridata da Guidello, _sono tubæ
præmisso_...."

Guidello, finita la lettura, prese la pergamena, colla sua funicella
rossa la assicurò spiegata al bastoncino d'araldo e la levò sopra la
testa, osservando:--Io dico. Se vi è qualcuno, il quale tacci di
mislealtà i miei occhi nel leggere, la mia lingua nel parlare, la mia
intenzione volta a vilipendio di messer Domineddio, del nostro
avvocato santissimo, della giustizia degli uomini, quello si faccia
avanti, e purchè sia tale che porti o possa portare speroni d'oro o
d'argento, alla presenza di un chierico che conosca l'arte della
lettura, comprovi quanto dica.

Ai piedi della scalea della chiesa, intorno a Guidello, v'erano
quattro cavalieri cogli scudieri. Ma nessuno parlò.

Per cui l'araldo:--Messeri, allora dichiaro.

Stette un poco, poi si rivolse a un chierico che gli era accanto,
come_ magister librarius_, e disse:--Recitate.

Fu recitata l'avemaria, e tutti risposero ad alta voce.

All'_amen_ Guidello aggiunse con solennità:--Dichiaro bandita la
volontà del molto magnifico nostro signore.

Poi, colla destra impugnata una lunghissima tromba, adorna di un
drappo quadro stemmato:--Messeri,--disse:--fate come di conformità
agli usi. Voi sapete: quando la tromba dell'araldo suona a festa si
suole dire _tromba d'argento_. Da valenti messeri adunque--e mise alle
labbra lo strumento, ne volse la bocca all'insù, e squillò tre volte.
Intanto i cavalieri diedero mano alle borsucce, e fecero come
d'usanza: poi se ne andarono.

Guidello si chinò, dicendo:--Tromba di rame--perchè raccolse poche
monete: acconciò il cordone con un nodo alla militare, in guisa che
gli si attraversasse alla schiena la tromba e il drappo sventolasse
come un mantelletto, tolse la pergamena dal bastone, la fece a rotolo,
e la consegnò al chierico.

Questi interrogò:--Guidello?

L'araldo rispose:--Non si guadagna nemmeno il fiato.

E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della _curte_
era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza fiancheggiata dalle
casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani alle giornate d'armi,
sempre poveri e sempre irosi. Intorno all'edera frusciavano con volo
tortuoso le nottole; gli usci erano chiusi, gli arconcelli delle
finestre lucenti di strisce rosse dal sotto in su, che venivano dai
focolari posti in mezzo alle stanze; sullo sfondo si vedeva una
montagna già sfumata nella nebbia del crepuscolo.

I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione del
loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.

E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la
pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro ad
assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o col
pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo ventilante
dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse uscirgli il
malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto pel chierico
scarpe così disacconce per suolo sospettato.

Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte
apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i tizzoni
che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere
sbattacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i
_gloria_! Ma la preghiera era smezzata: e l'uno calcolava che con
quell'antacce si facevano tante aste, coi chiodi tante punte, colle
toppe tante scuri: e l'altro si ricordava, ai tempi che il padre
soffiava alla guerresca, e ch'egli giovinetto gli era accanto col
piffero per imparare a toccare il soldo e le graffiate, si ricordava
di una certa mistura diabolica che venne giù da una balestriera a
impegolare i baffi al vecchio trombettiere, e a conciare un povero
ribaldo come un torcione di resina acceso nelle gazzarre soldatesche.
Si continuava il _gloria_.... Ah! erano passati da quell'uscio, da
quelle finestre: si poteva fiatare. Di più: messere il chierico sapeva
leggere, sapeva pingere le _capitales litteras_ dei messali, cioè le
iniziali, sapeva a mente i canoni accetti al vescovo di Saluzzo;
d'armi credeva intendersi sin troppo, dicendo:--A chi le toccano, le
toccano le ferite e la morte!--Niente altro: pure in quel momento
nella sua fantasìa staccava tante maglie dall'armerìa del castello e
tante spade, trovava gagliardi che le vestivano, le impugnavano, e
moveva contro quelle case di rabbiosi: no, prima alla rôcca di Ugo.
Messere l'araldo sapeva suonare con voce dolcissima o squarciata:
Guidello proprio avrebbe voluto essere a fianco del padre, tra un'oste
poderosa, e dare alle trombe il fragore delle petriere, curve le travi
sotto ai pesantissimi massi. Ma sì, ma sì! Altro che il cappuccio
aguzzo a vece di pennacchio da cavaliero: altro che il bastone
d'araldo in luogo di un buon lanciotto!

Fuori della _curte_ di messer Ugo c'era una cappelletta: qui i due
fecero un inchino pieno di gratitudine, e da qui cominciarono a
mettersi l'uno a fianco dell'altro, e salirono per la stradetta, la
quale, grigiastra, lasciava vedere tante e tante pozzette d'acqua dai
melanconicissimi riflessi di cielo: erano le orme dei cavalli
passativi il dì innanzi, dalla _curte_ al castello di messere
Adalberto. E stradetta e cavalli menavano al sicuro.

Incominciò Guidello:--Dacchè suono la maledetta, vi dico, Ingo, che
non mi parve mai mi tormentasse le labbra come stassera, sulla scalea.
Sapete: ieri a mattina, abbiamo pubblicato il bando al castello
d'Ildebrandino; a dì basso, al ponte levatoio di Baldo; l'altro ieri a
vespro, alla piazza di Aginaldo. Che si è raccolto? Tanto da poter
proclamare solennemente, al primo armeggiamento festoso, che il
cavaliero di Rupemala, quello di Roccanera, e messere della _curte_ di
santo Uperto, sono fregiati di cortesìa cavalieresca. Dico vero?

--Verissimo, Guidello.

--E sapete: tra voi che avete appreso l'arte della lettura e me che la
professo a obbedienza del nostro padrone, lasciando da parte la
cavallerìa, e discorrendo della tascuccia che ogni cristiano ha allato
se deve camparla, tra noi si è spartito un bel mucchietto.

--E di quelli d'argento.

--Così si dà e si riceve a gloria di messere Domineddio; e così si fa
differenza tra il vento che buffa alla foresta e il fiato dei
battezzati.

--Verissimo, Guidello.

--Mi diceva il padre mio, il valente Guidaccio....

--A cui Dio conceda la verace gloria!

---Mi diceva così, nè più, nè manco. E il suo fiato da battezzato, eh!
Ingo, fu come l'uragano nella tromba, contro ai dannati nella Spagna e
contro ai miscredenti in Terrasanta, a fianco del padre di messere
Adalberto, il cavaliero Brunone.

--_Requiem_ in pace!

--A fianco del cavaliero Brunone, lo dicevano della stirpe di
Tubalcain.

--Santa Maria!

--Quella era voce del padre mio! Quella ci voleva adesso là sulla
scalea della _curte_ di Ugo, ma ad un patto.

--Tromba d'argento.

--Messere, no: lo strumento suonasse come quelli, dicono, del dì del
finimondo.

--E le mura di quella rôcca fossero come quelle di Jerico, per virtù
soprannaturale, che noi possiamo chiedere colla preghiera.

--Così fosse!

--L'altro dubitò, e riprese:--Ed io avrei voluto che la pergamena
parlasse come la condanna che appiccammo alla porta di Lamberto, il
ribello a messere il vescovo di Saluzzo. Vi ricordate?

--Voi non ci eravate.

--C'era Gausprando; ma so. A Gambazza sulla destra del Po.

--Chi ci appose il _vidit_ e dichiarò bandita la pergamena? Il nostro
signore Adalberto istesso, piantando poderosamente un pugnale al luogo
del suggello. Quella la fu impresa! Di lì a un mese, del castello non
rimase in piedi che un arco e quello per dire:--Di qui passarono i
prigionieri!--So che il padre mio ghignava burlescamente e fieramente,
e so che mi disse:--Figliuolo, quando suoni, ricordati che hai in mano
tutt'altra cosa che un'azza. Guarda che, stringendo troppo, il rame si
ammacca, e le ammaccature tra noi soldati le cerchiamo soltanto sul
petto nudo e non sull'arme e sui bagagli--mi disse. Tant'altre cose mi
raccomandò, finchè s'ebbe quella seconda impegolata a scuoiargli la
faccia, e allora mi fece cenno che le labbra arsicce erano buone
all'avemaria e ai paternostri, lasciò il castello e cercò un
monistero.

--Se lo conobbi, quel valente Guidaccio!

--E Guidaccio anche lui suonò su quella scalea di Ugo, quando c'era
ancora, più arcigno di questi, il suo padre Oldrado, che fu quello,
sapete, il quale aizzò i suoi servi contro l'araldo che bandiva le
giornate d'armi, sì che quelli a vespero spalancarono usci e finestre,
e mostrarono scuri da boscaiuoli fra certe manacce rabbiose!

--Rammentate la storia di Guidinga.

--Gesummaria!

Tacquero, perchè vicino era il castello del loro signore, e quel
discorso, spiato o frainteso, poteva far scricchiolare alla sera
istessa i cavalletti di tortura.

I due, alla parola del saluzzese che era di guardia, risposero come il
motto d'ordine portava quel dì: entrarono, salirono una scala, e,
trovato in capo a un corritoio un paggetto, il quale sonnecchiava su
un archipanco, Guidello domandò:--Filippuccio, ne attende il nostro
signore?

Il fanciullo, come se d'intorno agli occhi si togliesse le ragnatele,
affaccendandosi colle manine, rispose:--Io non credevo che foste per
ritornare dalla guerra sì tosto.... Ero lontano assai, sulle ginocchia
della madre mia... là giù.... Ah siete? Il sonno coglie, e si va, si
va.... Chiedete?

--Ne attende messere Adalberto, e dove?

--Sì, Guidello araldo, e voi, maestro: nella sala della torre.--E li
precedette nel corritoio fino in fondo, s'arrestò a destra, alzò un
usciale, e disse:--Sono tornati: a vostra obbedienza, messere.

Al comando:--Siano messi dentro e vattene, Filippuccio--i tre
atteggiarono la persona alle linee marcatissime della loro
professione: l'araldo si drizzò dignitoso, come se gridasse un bando,
l'altro si piegò, come se sfogliasse un messale nella cappella, il
paggetto si storse, sollevando l'usciale con sforzo per verità degno
di compassione. Entrarono.

La sala era triste: e, a dire quello che si poteva scorgere alla poca
luce delle tozze finestre, presentava le muraglie saldissime e nude:
solo ornamento una statuina di un beato protettore con lancia e
pastorale, male allogata in una nicchia che pareva una balestriera; e,
sotto quella, due drappi, tutti a polvere e sudiciume, forse due
stendardi, forse due coltri mortuarie: v'erano dei seggioloni a masse
d'ombre così nere da far richiamare alla fantasìa il frate bianco che
sopra vi stesse nel coro, e un macchinoso tavolaccio, adatto a
sostenere quello che sosteneva, la potentissima persona di un
cavaliero.

Messer Adalberto era un uomo nel vigore pieno della età virile:
mostravasi vestito di panni oscuri: volto verso la porta: e dalla sua
posizione, da sedere tanto irrequieto, chiaramente può dirsene
l'indole ruvida e l'attesa impaziente. Nè più, nè manco: erano quelli
i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio, le fibbie e i
chiodi della sua sella da battaglia e neppure sbagliava in un
sopranome a quegli arnesi, e forse forse moriva senza tutto avere
appreso il _paternoster_ dalla bocca della madre o del chierico: tempi
in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa su via fallata,
se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato a vece di cranio
addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e per cervello
qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse mostruoso cimiero. Io
non so se anche allora i bambinelli si tormentassero colle fasce se
così fosse stato, non mi sarebbe punto di maraviglia se ancora
trovassi nelle cronache che la madre di Garmario saluzzese, madonna
Sandra, torturasse le membra del suo figliuolo, serrandole in una
bandiera insanguinata, o che il padre di Forcone da Ivrea recasse al
castello per la bisogna materna della sua moglie Ageltruda la
soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a colpi di spada: l'avo
Attone da Susa legò con sacramento ai nascituri dal suo Rogerio il
lembo stracciato a morsi della sozza camicia che vestiva nella _torre
della fame_. Messer Adalberto era primogenito, ed aveva avuto madre
come l'ebbe Garmario, padre come quello di Forcone, ed avo della
taglia di Atto. Finchè vissero i suoi, imparò che nelle sale feudali
l'agnello santo del perdono ci sta figurato solo per spasso di qualche
frate dipintore, il quale fa il mestiero, è pagato, e se ne va dal
ponte: imparò che negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da
cavallo v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la
lancia dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al
cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato
fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le dita
ci furono date da natura per contare le vendette da farsi: segnar
croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da cavaliero: si
vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito immacolato di
qualche monistero. Insomma tanto e tanto: sicchè, quando dallo
stanzone dell'armi uscì un feretro, e un altro, e un altro, all'ultimo
messere Adalberto schiuse la portaccia colle sue mani stesse. Partì,
per sempre suo padre, messer Brunone: ma venne dentro subito un ospite
aspettato e vagheggiato: l'orgoglio del comandare! Adalberto se gli
abbracciò siffattamente, che si trovò tolta la requie di giorno e il
sonno di notte.

Il cavaliere, divenuto signore, sentì tutta la potenza del suo volere
e s'ingagliardì tristamente ne' suoi disegni d'impero e di conquisto.
Si trovò forte per un vastissimo patrimonio. Dal suo castello, sui
monti di Saluzzo, poteva fino alle cime di Monviso spingere i segugi,
inseguendo camozzi su terreni suoi: da oriente a Po se sorgevano torri
di cavalieri, stavano a condizione di ubbidienza a lui; alzavano i
pennoni degli avi a seconda della investitura dei feudi, a patto
fastoso dell'omaggio, e a patto più valido di bei mucchi d'oro e di
giornate d'armi. Su quello adunque che c'era non so chi osasse
scuotere una lancia adorna di una banderuola di ribellione: a quei
tempi le idee manco sottomesse di un valentuomo si pagavano a
slogature di membra, a flagellazioni da ebrei, a carezze d'aguzzino: e
dico poco; lascio le scuri, le forche, e i quattro cavalli per gli
squartamenti.

Messer Adalberto fece atto da padrone, riconfermando i feudi e
ricevendo con bieca superbia l'omaggio. Se non che, siccome da
desiderio nasce cupidigia, comandare su quello che si ha è molto,
poter comandare su quello che si vorrebbe avere è moltissimo: il
cavaliero guardò le armi del padre sepolto, e disse:--Quello scudo
egli adoperò quando mosse al castello di Baldo. Quel petto ebbe le
falde smagliate dalla lancia di Aginaldo. Su questa sella messere
passò vittorioso sui ponti dei nemici!

Guardò le sue armi: lucentissime nei giuochi di guerra e nel giorno
della festa, quelle non erano da cavaliero: buone solo per chi avesse
speroni d'argento. L'armatura che si sogna nelle cupide veglie
dell'ambizione è quella ammaccata, schiodata, fatta nera dalla pece e
dagli olii bollenti, quella che si sveste la sera dopo il
combattimento furioso, esclamando:--Datela da riassettare alle mani
del vinto!

Duri erano i tempi; e così avvenne di Adalberto, come di tutti. Ho
detto: indole ruvida e attesa impaziente. Comandava: e, per vero dire,
nessuna differenza metteva tra il ringhiare a un soggetto
signore:--Messere, mi obbedirete!--e al suo cavallo:--Torci a
diritta.--Sorrise alla sua spada:--Se vuoi fodero, cercala alla pelle
di un mio nemico.--Acquetò gli scrupoli di suo fratello
monaco:--Pensateci: voglio la mia eterna salvazione: pregate o vi
faccio baciare una medaglia arroventata.--Voleva comandare: e sapeva
che c'era una rôcca da cui non poteva passare, se non guardandosi alle
terga, e nel fossato della quale giacevano con poco convenevole
sepoltura, insaccati nelle ferraglie rose dal tempo, gli avanzi di un
suo avo Adalberto, il quale v'era andato a conquisto e non a morte da
stoccate traditore. Sapeva che c'era un altro castello in cui gemeva
una donna! Per Adalberto non era amore, era furore!

Adalberto bandì a' suoi vassalli le giornate d'armi, poi si fece
predire la ventura dall'astrologo, e perchè questi sapeva che nel suo
mestiero bisognava vedere le stelle, come voleva il padrone, per non
vederle da stare sul cavalletto della tortura, come voleva il
tormentatore, gliela predisse buona, e così:--Egli è opinione degli
astrologhi che quando l'animo dell'uomo è spinto al desiderio di
sapere alcuna cosa in un subito, ciò nasca non da elezione o
consiglio, ma dall'influsso della costellazione, che in quell'ora si
ritrova nel cielo. E però se costui domanderà consiglio all'astrologo,
esso potrà dirgli il vero della cosa che gli domanderà dalla figura
del cielo fatta in quell'ora della interrogazione, cioè: se l'amico
assente sia vivo o morto, se l'ambasciatore mandato ritornerà salvo,
se ritroverà ovvero spedirà prosperamente la cosa per la quale egli è
stato mandato, se il tempo sarà buono per seminare, tagliare legni per
le fabbriche, acciocchè non siano mangiati dai tarli e corrotti dalla
tarma, per cavare il sangue, per tagliare membri, per risanare, per
prendere medicine, per fondare case, per menare moglie, per comperare,
per vendere, per vestire nuovi vestimenti, per vendemmiare, per bere
il vino in pace, per incominciare opera di alchimìa, per mettere putti
a' maestri, per mutare luogo, per accingersi a viaggio per terra od
acqua, per far compagnìa, per parlare con uomini di qualunque stato e
dignità, per trattare negozii, per entrare nei bagni, per torre servi,
per mandare messi, per andare a caccia nelle selve o nei fiumi. Vostra
Celsitudine domanda se avrà vittoria nella intrapresa guerresca.
Questa richiesta non nasce da elezione o consiglio, ma dall'influsso
della costellazione che in quest'ora si ritrova nel cielo. Ho
interrogato gli astri: ho interrogato la sorte. La sorte si fa sicura,
tirando i punti di numero incerto, avendo voltata la faccia nella
luna, con altre osservanze, dal raccogliere i quali punti si fanno
quattro figure che si chiamano _matri_, dalle quali si cavano altre
non poche, e i loro aspetti si nominano con nome dei pianeti, e così
il rispetto, che hanno fra loro, come li considerano nel cielo.
Perocchè mentre l'uomo dal desiderio di ricercare le cose future segna
i punti, egli è venuto a questo per la costellazione della sua
natività, talchè la forza del cielo guidi la sua mano, talchè non
faccia nè più nè meno punti di quello che basta al giudicio delle cose
che ricerchiamo: la quale divinazione si chiama Geomanzìa. Mio
signore, gli astri e la sorte hanno risposto: vittoria!

Adalberto, prima che l'astrologo fosse a metà della noiosa
chiaccherata, sbuffando, fece trarre le torri di legno e le macchine
guerresche, i trabuchi, le manganelle, le petriere; si pose a capo dei
cavalieri, e colla somma ragione del più forte e del più ladro, mosse
al castello d'Ildebrandino. Mandò Guidaccio con quaranta lance al
cavaliero, dicendo: messer Adalberto l'aspettava per la prossima
Pasqua di Resurrezione all'omaggio: da cavaliero non mancasse: era
istituito vassallo col guanto da volare gli astori, con molto onore,
con giuramento.

Il presidio della rôcca era inferiore assai alla scorta dell'araldo:
per il che messere Ildebrandino, sporgendo il capo tra un merlo e
l'altro a guardar giù, dovette dirsi:--Sono spacciato!--e tanto
dovette mordersi le labbra a sangue, che fosse lì lì per scagliare, a
vece di risposta, il trombetto a gambe levate: pure pensò alla ruina
di Lamberto, l'oppositore del vescovo di Saluzzo, e, serrato tra le
quaranta lance, lui stesso sentì il bisogno di guardarsi alle spalle.
Domandò a Guidaccio:--Messere l'araldo, avete altro a dire?

--Messere sì.

--Vi ascolto.

--Le nostre torri d'assedio e i nostri trabuchi sono fatti colle legna
dei ribelli vinti: il cavaliero Lamberto, lo rammentate?

--Chi vi disse?

--Il mio signore.

--Il nostro signore è potentissimo--e Ildebrandino, amarissimo, fece
una reverenza di sommessione, e aggiunse:--È ventura l'essere sotto le
bandiere del signore, quando si hanno sproni d'oro e fortuna nemica,
ma anima sempre libera. Suonate la tromba per noi: i nostri figli, ove
Dio li conceda, spero ricorderanno questi squilli!

Così s'arrese Ildebrandino. Messere Adalberto, quando Guidaccio gli
ricomparve innanzi, per poco non gli dette la mazza sul capo. Egli
desiderava l'araldo insultato o peggio, le lance catturate, il ponte
levatoio alzato a precipizio, inalberato sulle torri lo stendardo,
tumultuosamente bandita l'oste: invece l'impresa si racconciava, come
una briga da' frati, con un inchino e un--_Fiat voluntas tua_.

Con tempestoso desiderio Adalberto si fece capo della vanguardia
delle lance, e, mandato Guidaccio in coda alla torma a fare compagnìa
all'arnese più disutile, l'astrologo, corse al castello di
Oldrado.... In quello c'era madonna Guidinga!... Ad Adalberto
scoppiava il cuore al fragorosissimo segno dell'arme! Fu calato il
ponte, s'aperse il portone, e venne innanzi un garzonotto tutto in
bianco, con un bastoncello alzato, il quale proclamò:--Quelle non
essere le regole delle castella, doversi procedere come l'uso fra
onorati cavalieri comporta. Passate tre ore da questa dichiarazione,
mandate pure l'araldo, e noi risponderemo, e mandatelo suonando le
campanelle dalle torri di legno, noi risponderemo suonando i pifferi
dalle torri di sasso.--E il garzonotto tanto tenne levato il
bastoncello bianco, a segno di inviolabilità, sicchè nessuno potè
coglierlo in fallo, e nessuno per tema di essere tacciato misleale
alzò la mano su di lui. Ch'ei fosse venuto, insultando, non c'era
dubbio: ch'ei si partisse sano e salvo, era stizza di tutti, ma norma
di guerra, la quale tanto più feriva messer Adalberto che aveva
voluto solo procedere colla forza e senza lealtà.--O Guidinga! o
schiava di messer Oldrado!--smaniava, tormentandosi, Adalberto.... Ma
per consiglio dei capitani aspettò... Tre ore sulle brage
dell'inferno, tre eternità!

Si schiuse tutto il portone, segno d'arresa, e comparve il garzonotto
in nero, e lesse il bando, per cui--al molto glorioso signore di
Auriate si calavano le bandiere.--Messere Adalberto galoppò dritto
nella rôcca, e ambiziosissimo s'impose:--Prima regoliamo la bisogna
del marito! Venga Oldrado, ed oggi stesso riceverò da lui l'omaggio.
Questo suo vitupero sarà la più bella gioia per Guidinga!--E,
scavalcato, passando per la porticina stretta che da un corritoio
dava nella chiesa solitaria, udì dietro le spalle sbattersi
irremissibilmente l'antaccia di quercia, si trovò a un tratto
separato da' suoi capitani, si volse all'indietro e scorse tutto
buio, si volse all'innanzi, ed ecco in capo al corritoio il paggio
nero, il quale recava un cuscino nero e s'inchinava rispettoso,
dicendo:--Messere Oldrado è pronto a prestarvi l'omaggio.--Adalberto
si contorse molto iroso, irosissimo più che del pericolo, d'avere
avuto per un momento paura, s'avanzò, e, sotto l'usciale sollevato
dal paggio, entrò nella chiesa. Quivi trovò Oldrado solo e ritto, in
aria così beffarda che pareva gli dicesse:--Sono il marito di
Guidinga: lasciate fare a me! Avete saputo fare voi?--Che in quei
tempi non si trovasse neppure schermo alle vendette ai piedi degli
altari, si sa, e si sa che gli accorgimenti per condurre allo scopo i
giuochi insidiosissimi avevano tutto lo studio delle faccende
scrupolose. Adalberto doveva ascoltare quell'araldo bianco, vipera
forse del tradimento? Doveva sgozzarlo! Doveva aspettare le tre ore?
E rivederlo ancora? Doveva sgozzarlo! E il pronte s'era messo giù, il
secondo portone spalancato, i porticati apparivano deserti. I
traditori tutti! Ed egli si era lasciato cogliere! Oh il suo furioso
amore per Guidinga era di quelli che si spaventano dei mezzi? Ma se
lo scopo era già per sè stesso tremendo e ineluttabile!... E
quell'arcone che menava al corritoio, e il coirritoio che menata alla
chiesa! Che c'era nel corritoio? Una porta inchiovata che valse una
muraglia: i suoi cavalieri al di là forse erano scannati: egli al di
qua forse con tutta la irrisione di una vendetta pensata e ripensata
era tratto all'inganno, e dall'inganno alla morte! O Guidinga!
Guidinga!

Messere Oldrado era là nella chiesa solo e ritto. Aveva faccia di
quelle che anche nel sonno mostrano aggrottate le sopraciglia, rugosa
tenacemente la fronte, aperta la bocca al grido di battaglia, collo da
far disperare quelli che, per amore di qualche taglia bandita da
alcuno prepotentaccio vicino, dessero ascolto all'inferno, e
arrotassero la coltellazza e già preparassero il sacco, come Giuditta
la gagliarda; torace che portava tre usberghi e poi chiedeva anche il
quarto, braccia da armaiuolo milanese, gambe le quali se inforcavano
gli arcioni vi si serravano con tanta saldezza, sì che non ci fosse
lancia da cavaliero poderoso da allentarle o farle staffeggiare.

--O conte,--disse per il primo Oldrado:--mi accorgo che la cerimonia
poco soddisfa il vostro amor proprio.

E l'altro:--Messere neppure è da scudiero la insidia.

--Voi sbagliate: non sono armato e mi dichiaro vassallo vostro.

--Consento--con questa risoluzione Adalberto richiamò tutto il suo
odio;

E Oldrado:--Ed io consento. Udite: un debole cerbiatto tanto fa che un
giorno o l'altro debba essere dilaniato da uno sparviero: ma gli può
ficcare attraverso la gola un ossicino da mettergli tanto strozzamento
da far maledire il pasto.

--Messere, Oldrado, che le azioni vostre mi permettano di chiamarvi
cavaliere!

--Vi dissi: non sono armato e mi dichiaro vassallo vostro. Volete
ricevere l'omaggio? O fuggite le pompe?

--Voglio.

--Io pure. Bonello, fatti avanti--comandò Oldrado; e il paggio che si
era fermato sulla porta, entrò nella chiesa e recò il cuscino. Il
padrone lo prese, lo depose ai piedi di uno scanno larghissimo, a
seggio baronale, e invitò Adalberto. Il quale con grande dignità
s'assise, e le parole furono poche.

--Cavaliero, riconoscete vostro signore Adalberto, conte di Auriate?

--Riconosco.

--A quale istituzione?

--Questo tocca a voi.

--Sì: e giacchè avete parlato di sparviero, sia ad instituzione collo
sparviero.

--Collo sparviero.

--Giurate.

--Giuro a messere Domineiddio.

Poi spaventoso Adalberto corse per tutto il castello, e, ghignando,
entrò nella stanza di madonna Guidinga....

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Il signore di Auriate, quando furono introdotti nella sua sala della
torre Guidello ed Ingo, si levò impazientissimo, interrogando:--E
così, araldo?

--Con la grazia somma--rispose Guidello:--io ho salve l'ossa, voi la
onoratezza di cavaliero.

--Come andò?

--Il sagrato ci parve una benedizione del cielo: spiegai il bando e
diedi l'avviso.

--Chi accorse? Venne Ugo?

--Messere sì, c'era Ugo.

--Dunque?

--Con Ugo, lo scudiero: c'erano messere Ildebrandino, messere
Aginaldo, messer Baldo, con certi uomini di facce così sinistre!... Il
chierico bisbigliò un esorcismo di tutto cuore, ed io di tutto cuore
risposi.

A questo punto anche mastro Ingo entrò interlocutore:--Cavaliero
potentissimo, mio padrone, vi dico che qui ai vostri comandi scrivo
quanti malefizi volete, ma quando tirano cert'arie ai quattro
venti....

Gridò il signore:--Dì su, Guidello.

E l'araldo:--Vi dico: vidi l'Aimone d'Oldrado, con quel ceffo di cane
rabbioso!

--Chi ti parla di scudieri?--interruppe sdegnosamente il signore:--E
chi ti dice che quelli siano a sproni d'argento?

--Messere, dico per dire.

--Parla di quei dappochi coi garzoni di falconerìa, e tieni le loro
imprese per narrare quando i miei servi stregghiano i somieri.

--Fatemi perdono.

--A un patto, Guidello: che la tua mano un dì o l'altro corregga la
scappata della lingua. Hai capito?

--Presto capito, e presto fatto con l'aiuto del mio santo protettore.

--Dunque c'era Ugo. E disse?

--Nessuno dei cavalieri parlò.

--IL bando fu pubblicato a tutte le castella?

--Messere sì.

--Senti, Guidello, tienti bene nutrito e conserva buon petto. Orvìa--e
messere prese una borsa dal tavolaccio:--La gola è asciutta: a voi.

--Ecco qui--disse l'araldo e cavò di petto alcune monete di rame, le
noverò, poi, dandone una metà al chierico che gli stava serrato alle
coste, cupido come un bracco alla ferma:--Che mi rimane?

--Ma c'è il padrone che pensa. Vanne, Guidello, chiedi a Filippuccio,
e quegli ti condurrà dove c'è mensa rizzata.

Si mosse con reverenza l'araldo, e si mosse anche il chierico.

--Ingo,--lo trattenne il cavaliero:--restate, chè ho da parlarvi.

Ingo, già stizzito per la paura, per il poco guadagno e per la tolta
speranza di una cena, fece visino sorridente, e piegò la persona a
un--V'obbedisco.

--Ho d'uopo--disse il messere:--della vostra saggezza e del vostro
buon volere.

--Se voi comandate così, mi compiaccio assai: la saggezza a pro di
ricco e nobilissimo conte, come voi, deve sempre essere accompagnata
dal buon volere di saperla così ben usata.

--L'astrologo m'è diventato un fanciullo.... Nella vostra camera voi
avete certi rotoli antichissimi di pergamene.

--Signore sì, certe disquisizioni dei latini.

--L'astrologo non sa suggerirmi.... Erano valenti questi latini?

--Oh pensate, messere, sono i maestri del mondo.

--Sta bene. Che cosa insegnarono?

--Messere, di tutto.

--E a petto di quello che dicono questi maestri nessuno sa schermirsi?

--Ai nostri tempi, no certo. Nell'abbadìa io sentii dire da frate
Giocondo che noi siamo più rozzi degli ungari, e so che cinque frati
altro non facevano tutto l'anno che copiare certi e certi codici
sbiaditi di Cicerone che valevano un archivio e mezzo: e tanto mi
raccontò l'abbate, che appresi l'arte della lettura per desiderio, poi
quella della scrittura, ed ora vi dico che mi lagno d'avere soli due
occhi che bastano a leggere poco, e vorrei che ci fosse un inchiostro
d'oro fino stemperato per potere con quello scrivere certe sentenze
antiche, le quali sono la magnificenza istessa di Salomone.

--L'astrologo non sa suggerirmi.... Ingo, dite, e i greci?

--I greci furono popolo artistico e coltissimo.

--Avete rotoli vecchi di quelli?

--Messere, se vorrei averne! Ci fu Platone che scrisse degli Dei, come
se li vedesse, ci fu Aristotele che disse tanto dell'anima, quanto un
dottore di santa madre chiesa, ci fu Socrate che morì, bevendo il
veleno con tanta filosofia....

--E non sapeva farlo bere agli altri?--interruppe Adalberto, così
mostrando la sua intenzione.

--Socrate era filosofo stupendo. Se vorrei averne di quei rotoli! Ho
solo un discorso che è un pozzo di sapienza! Se lo vedeste! Un
manoscritto che mi costò un anno di lavoro nella cella, ma riuscì così
nitido, così corretto, a facciuole di santi e di beati, che sono cose
da mettere su un altare, se quel sommo non fosse pagano, e l'anima
dannata, com'è!

--Non sapevano farlo bere agli altri!--risolse Adalberto:--Ingo, io
vorrei un greco, un latino, o un dimonio che fosse diverso da quel
vostro filosofo stupendo.

--Ho capito.

--L'astrologo è diventato un fanciullo. E perchè non vi abbiate a
pentire, Ingo, d'avere due soli occhi, vi do di che allegrarli a
sazietà: queste le sono monete d'oro: ma l'oro non stemperatelo in
inchiostri per onorare di fregi le chiacchere disutili dei morti,
tenetelo per, voi che siete vivo. Avete capito?

--Ho capito!



CAPITOLO II.


Pel giorno di Pasqua di Resurrezíone, nella chiesa del castello
d'Adalberto, diceva la messa un frate, e ad ascoltarla vi era il
signore su un seggio, a destra dell'altare maggiore: a sinistra cinque
cavalieri, in piedi, con più di cinque paggi in seconda linea, e di
questi chi recava lancia, chi vessillo, chi coppa, e via, a seconda
dell'omaggio che doveva rendere il proprio padrone. Messer Adalberto,
perchè in quell'ora si gloriasse di tutta la sua dignità, vestiva una
maglia lucente, a maniche, cappuccio e falda assai lunga, portava
strisce di cuoio rinforzate da piastrelle di acciaio intorno alle
gambe a stringergli i panni ruvidissimi e attorcigliati, scarpe acute
pure di maglia, e speroni d'oro da combattimento. La spada a croce,
col cingolo d'arme, e un cerchio comitale di ferro, gli erano accosto
su un tavolaccio di faggio, sul quale anche si vedevano certe collane
disusate, gli emblemi della perfetta cavallerìa degli avi, da Brunone
suo a Sannuto, l'antichissimo fondatore dalla stirpe dei lupi
d'Auriate. I vassalli comparivano quali in quel dì dovevano, cioè
spogli di tutte le insegne che accennassero vita guerresca disgiunta
dalla obbedienza al signore: avevano tonache succinte, corte, aderenti
alle braccia e al busto, calze strette in gamba, di colore oscuro,
usatti neri, puntuti, senza calcagni e senza lacciuoli.

Finita la messa, Adalberto si alzò, e fece cenno al maestro Ingo, il
quale spiegò una pergamena: Guidello, divisato coi colori del suo
signore, entrò, recando bastone e tromba, e su quello legò il bando
pubblicato la settimana prima: poi si pose dietro il seggio di
Adalberto. E questi, appoggiandosi con fierezza ai bracciuoli, si
drizzò in piedi, come per degnazione, levò la destra all'altezza delle
teste, quasi per deprimerle, e--Cavalieri,--disse:--quello che lesse
il nostro araldo è quanto noi pensammo e pensiamo. La festa fu
celebrata nella chiesa a maggior lode di Dio, il quale ci diede il
potere.--Queste le parole, ma il pensiero ben diverso.

Il signore sedette, comandò a Guidello, e Guidello gridò i nomi,
giusta l'ordine della nobiltà più antica. Venne innanzi Gisalberto,
conducendosi allato due paggi, uno che reggeva la lancia, l'altro il
vessillo su un'asta ferrata. Poi il cavaliero Ugo....

Questi aveva vesti nere, affatto nere, lo scudo coi propri colori
ricamato sul petto, gli sproni d'oro ai piedi: chi l'avesse osservato
bene, come certo notarono i baroni che stavano con lui, avrebbe scorto
che il suo ampio giustacuore era stretto fìn sotto alla gola, e non
lasciava vedere la striscia bianca del collare, sì bene una gorgera a
fìtti anelli d'acciaio, i primi giri della maglia del giaco. Il suo
volto aveva certe rughe sulla fronte che di sicuro non vi avevano
impresso gli anni, i quali erano pochissimi; capegli rabbuffati, come
quelli che di recente si fossero sprigionati di sotto il ferro di un
elmo; gli occhi che pareva guardassero innanzi l'adempimento di un
disegno, e chi sa quale, a giudicare dalla pertinace contrazione delle
labbra. Aveva Ugo uno scudiero, vestito pure di panni neri, un uomo
dall'aria più spavalda che irata, il quale, porgendo le braccia in
avanti, recava un cuscino coperto da un drappo colore di lutto.
Messere Adalberto, durante la messa, aveva bensì cercato di fìggere
gli occhi sopra Ugo, e di avvezzarsi tanto alla vista di esso, che,
quando colui gli fosso per comparire innanzi, il sospetto e l'ira non
trapelassero dalla sua persona, e così potesse accogliere l'omaggio
colla stessa autorità con cui voleva ricevere gli altri: ma Ugo col
suo scudiero ad arte tenevasi prima dietro ai cavalieri, poi anche
dietro ai paggi, nel canto più oscuro, nella posa più dimessa. Aveva
pensato Adalberto:--E dov'è il maledetto figlio di Oldrado? Forse che
abbia sdegnato di presentarsi all'invito? O che tema qualche agguato?
O che invece lo tenda?--e guardava sul tavolaccio la spada,
rassicurandosi:--Il filo ne è liscio e lucente, messeri, e pare da
gioco? Verrà giorno in cui sarà dentato come una sega, e insanguinato
come quello che mi scuoteva innanzi il padre, quando mi disse che le
merlature delle rôcche vassalle irridono da beffarde!--e qui Adalberto
procellosamente risognava un assedio, come voleva!... O Dio! nel
castello di Ugo non c'era più madonna Guidinga!... E messere,
soffogando gli antichi strazi dell'amore orrendo nella sua ambizione
infrangibile, saettava d'uno sguardo i cavalieri lì soggetti,
e--Questo me lo diede il vecchio, e questo, e questo... Oh lasciate
fare anche a me!--e si tormentava:--E quell'Ugo?--Guarda, guarda:
l'aveva veduto finalmente! Era là, volto all'altare, appoggiato, come
stanco, la spalla destra alla parete, tutto in ombra: la quale
posizione non permetteva che si svelassero i distintivi che aveva sui
talloni e sul petto. Pure lo sguardo acuto, reso acutissimo dall'odio,
fece sì che messer Adalberto potesse dal profilo risoluto di Ugo
leggere, e tanto e così rabbiosamente, che egli si dicesse:--Tal e
quale il padre suo, quando mi invitò all'instituzione!

Allorché adunque Guidello chiamò messer Ugo di Oldrado da Lanciasalda,
il cavaliero, tenendosi allato lo scudiere, si fece avanti con un
certo passo violento che e' pareva movesse incontro al suo cavallo
sellato per la zuffa, s'arrestò davanti al seggio del signore, come se
aspettasse clamore di sfida, poi si chinò, e, chinandosi, diede a
divedere tutt'altra intenzione che quella per cui era stato chiamato,
toccò con rustica noncuranza le corregge degli sproni, quasi ad
assicurarsi ch'elle fossero affibbiate. Messer Adalberto intese troppo
bene, e, seduto com'era, colla persona appoggiata tutta sul bracciuolo
destro, si storse tutto sul sinistro; ebbe un movimento verso il
tavolaccio su cui gravava la spada, e guardò lo scudiero. Questi si
stette ritto dietro il proprio padrone, e per verità tanto alzava il
cuscino che si sarebbe detto scambiava l'atto della offerta con quello
consueto di porre l'elmo al cavaliero.

Messer Ugo gli disse:--Offrite, o Bonello.

Adalberto vide il garzonaccio in volto. Ah chi era? Lo sapeva ora! Il
giovanetto s'era fatto un uomo. Ecco il paggio stesso che recava lo
stesso cuscino nero, colla stessa aria ribalda, con cui gli aveva
detto vent'anni prima:--Messer Oldrado è pronto a darvi
l'omaggio!--Adalberto fissò il garzonaccio. Costui, come se fosse
ufficio suo l'operare sempre con tristizia, buttò giù dal cuscino il
drappo, e sporse l'offerta. Intanto Ugo diceva:--Messere, instituzione
collo sparviero.

Adalberto, prima di ricevere, guardò. Sul cuscino giaceva uno
sparviero stecchito.

--Messere!--ripetè Ugo.

Il signore allungò la mano, ma la trattenne dal percuotere sul capo di
Ugo, o dal venire dal sotto in su a gettare il cuscino ed ammaccare la
faccia dello scudiero: contrasse i pugni ed urlò--Messere, pei
falconieri disattenti ci sono le verghe dei servi!

--Oh conte, no!--rise allora Ugo colla sicurezza la più aizzante:--Non
ti apponi bene. Lo sparviero era montano: si trovò di becco forte e
volle divorarsi un cerbiatto: un ossicino se gli pose attraverso la
gola, e tanto gli fece male che dovette morirne. Ti ho reso l'omaggio
mio!--e si levò animoso.

Quando l'araldo chiamò messer Ildebrandino, messer Aginaldo, messer
Baldo, nè Ildebrandino, nè Aginaldo, nè Baldo, si mossero: si
strinsero accanto ad Ugo: e davvero fu ventura che essi dovevano
presentare solo un guanto da astori, una coppa d'oro e gli sproni,
perchè se si fosse trattato di spada, lancia e vessillo, attesto che
quelle avrebbero lavorato come il loro uso comporta, e questa avrebbe
potuto servire di ultima coltre per messere l'infeudante. Pure
qualcosa di gagliardo, si vide: il guanto cadde sfidatore sulle gambe
di Adalberto: questi si drizzò come una biscia, l'araldo suonò dalla
porta nel cortile. Allora i cavalieri non badarono all'altare, e si
urtarono verso quello per toglierne le due armi già presentate
all'omaggio: gli scudieri si rimescolarono urlando. Si sarebbe potuto
fare, ma non si fece, perchè autorevolmente messer Ugo gridò:--Il
segno è dato da noi: ma l'araldo avvertì di chiuder il portone e di
chiamare le azze mercenarie!--E Gisalberto e Ildebrandino
affermarono:--Qui ne vieta di colpire l'onore della cavalleria!--e
uscirono tutti, frettolosi e tumultuanti, cercando scampo...

E, colle due armi e col pugnale d'Ugo, l'ebbero.



CAPITOLO III.


Oldrado di Lanciasalda è conte sconosciuto nelle istorie. Solo qualche
poeta solitario, il quale si abbia posto tra mano il bordone e in
testa il cappellaccio da pellegrino, e su per la valle di Po siasi
arrampicato ad un mestissimo santuario dell'alpi, può aver letto
quell'unico nome _Oldradus_, su un avello di granito: solo i bimbi del
sagrestano, innanzi a quella chiesetta, s'inginocchiano vicino al
luogo della requie... fra le poche ruine di un castello! Il poeta
nell'impeto della fantasìa avrà interrogato quello squallore, avrà
evocato la vita, e la polvere giacente inerte si sarà levata a
potentissimo corpo, e l'anima sarà scesa in quello, come vento
d'uragano!... Oh recate l'armatura, portate la lancia! Venite,
vassalli, e inchinatevi all'omaggio, siate corteo alle mense giulive,
fate ala per le uscite fragorosissime alla caccia! Arrendetevi, o
nemici: le vostre bandiere serviranno di gualdrappe ai ronzini, i
vostri nomi suoneranno infimi tra quelli de' servi... Che?... Porgete
il salterio e cantatemi, o paggi, l'amore del cavaliero!... Era bella?
Era fastosa? Era tripudiante nella vita delle castella?... Silenzio...
I puttini del sacrestano s'inginocchiano davanti quell'avello. Perchè
ancora il mesto e pietoso pensiero?... O bimbi, perchè il suolo è
erboso lì davanti, perchè l'attenzione al vostro giuochetto infantile
vuole che stiate sui ginocchi a spiare se la pietruzza, che uno di voi
getta in alto, cade nelle manine o cade sul terreno... Forse a te,
fanciulla, a te, maschietto, a voi che apprendeste l'alfabeto sul
grembo della mamma, forse in quei giorni d'autunno in cui la scuola
del paese è chiusa, e voi tutto il dì su vi state all'ozio, forse
capitò sott'occhio quell'_Oldradus_, e voi raccoglieste a stizza ed a
cattivo augurio, perchè vi rammentò una lettera dimenticata del
libricciuolo, e un inverno che verrà, e una bacchetta minacciante,
sempre a stizza ed a cattivo augurio!...

Oldrado fu cavaliero a sperone d'oro. Io non so quando nascesse, nè
come crescesse. Me lo presento al suo castello, appoggiato ad una
colonna nella stalla dei cavalli, rivolto ad Ugo, il quale fa porre la
sella d'arme al suo puledro membruto.

--Tu sai quanto abbisogna ad un conte.

--Messere sì. Conoscere la propria lancia, conoscere il cavallo, non
conoscere una cosa sola, la paura.

--Ad un cavaliero per farsi con onore porre la propria spada accanto,
quando venga calato nella buca dei maggiori?

--Avere molti nemici, come diceste voi.

--Basta?

--Averli vinti, come voglio fare io.

--Ricordati che sei di messere Oldrado!--e il padre si strinse con
amore guerriero il giovane, ed io affermo che vi ponesse la istessa
forza e la istessa intenzione, che usava, serrandosi al suo cavallo,
per inseguire un nemico.

Ugo moveva ad un armeggiamento ad armi cortesi, per il che il padre lo
domandò con scienza sperimentata:--Sai come si chiama il rischio a cui
tu corri?

--Giuoco.

--Si chiama giuoco, perchè, per quanto tu faccia, non potrai mai
forare da banda a banda il tuo avversario. Conosci la tua lancia?

--O messer sì. L'asta è fatta col legno folto sulle nostre rupi, e il
ferro si chiama _da passafuora_: quella è tre volte di lunghezza la
persona, per attestare che tre virtù sono necessarie a chi la
maneggia, fortezza nel pensare, fortezza nel fare, perseveranza
sempre: quello è assicurato da quattro chiovi, per dichiarare che
quattro sono i nemici da vincere, quelli dell'onore, quelli del nome,
quelli del potere, quelli della religione.

--Conosci il tuo cavallo?

--Meglio che se fosse mio fratello: è baio sanguigno, balzano della
staffa, sulla testa segnato di cometa.

--Conosci la paura?

--Voi pure non me la dipingeste, conte, ed io dico che ho troppo bene
appreso alla scuola vostra.

Ugo, afferrata la criniera dell'animale, stava per saltare in arcioni,
se non che Oldrado:--Sei pure impaziente! Non vedi che tu, uscendo a
cavallo di qui, ti romperesti la fronte nell'arco della porta? Chi
t'ha insegnato a metterti in sella come un indiavolato?

Il giovane superbissimo di questo rimproccio che tornava a tanta sua
esaltazione, ripose il piede in terra, si fece portare la sua maglia e
il piastrone del petto, indossò l'una, si affibbiò l'altro, cinse la
spada che era appiccata alla colonna, e, come si provò saldo,
disse:--Avete ragione, padre, messer Adalberto non ci viene incontro
di certo.

E il padre:--Conviene esser leali: neppure fuggo.

L'armeggiamento fu vinto con assai gloria da Ugo, e, quando questi,
alla sera, stava nello stanzone dell'arme, Oldrado, ruvidamente
passandogli la mano tra i capegli per disbrogliargli certe ciocche
grommate di sangue, Oldrado gli parlava:--Ti ho avvertito: figliuolo,
andavi a giuoco: pure se da quello che tu hai operato devo presagire
di te e del mio casato, fatti cuore e pensa che il giuoco fu buono.
Dimmi: chi ti diede questa?--e il padre gli toccava la scalfittura del
capo.

--Oberto, nipote d'Ildebrandino!

--Oberto, mi dicono lavori assai bene di spada.

--Ed io di lancia! Lo pagai a mille doppi, facendolo staffeggiare al
primo incontro, ruinandolo giù dalla sella al secondo, schiodandogli
il piastrone al terzo.

--In oggi sei degno di tuo padre! Ed oggi è deciso che io ti parli
assai gravemente, e tu mi ascolti con quella reverenza che si conviene
a chi si accinge a prestare un giuramento. Ti ripeto: figliuolo,
andavi a giuoco, ma fatti cuore, e pensa che fra poco devi cambiare
gli speroni d'argento in altri d'oro, e saranno quelli del padre.

Ugo, che per sentirsi dire tali parole avrebbe voluto ritornare dalla
lizza anche col petto squarciato o la testa fessa, si toccò la
scalfittura, con atto così rozzo e spietato, che il padre gli
domandò:--Ugo, che fai?

--Voi mi concedete troppo onore: io ho sofferto poco e non lo merito!

--Oh pensa! pensa, figliuolo mio: non darti cura se l'operato ti pare
così inferiore al guiderdone: questo, sta sicuro, ti offrirà da fare
più che tu non creda e più che non comporti il tuo debito. Io condanno
il tuo capo ad ogni sorta d'affanno, e tu, pronunciando il giuramento,
avvelenerai le tue labbra con tutta l'amarezza della maledizione e ti
dilanierai il cuore con lo strazio della vendetta!--lamentò Oldrado.

--Accetto il tormento del corpo e dell'anima, se voi mi credete capace
di fortissimi fatti!--esultò Ugo.

--Figliuolo, sì, ti saranno cinti... Ma ricordati: non è solo la mano
scabra del padre che ti porgerà gli sproni: un'altra manina, lenta,
dilicata, bellissima... La destra di tua madre!--e Oldrado rise con
tetra ironìa.

--Requie a lei!... Come? Voi non me ne parlaste mai?
Oggi...?--maravigliò Ugo.

--Perchè sia requie ai morti, vuolsi guerra tra i vivi!

--Padre mio, ditemi! Ed io vi affermo, per la promessa che mi avete
fatta, che questa sera medesima mostrerò ai vostri nemici ch' io so
reggere l'armi di messer Oldrado!

--Io ti dirò!

Il figliuolo con piglio militare tolse da un trofeo la spada del
padre, se la pose innanzi, appoggiò le mani sopramesse al pomo, e levò
la persona così gagliardamente, che e' parve già cavaliero. Messere
Oldrado se gli allontanò d'alcuni passi, fece scricchiolare il dossale
di un seggiolone, poi si alzò e tremendo nella posa, e colla tempesta
nella voce, incominciò:--Figliuolo, quanti anni hai?

--Voi sapete: venti.

--No, io non so, perchè i tuoi li misurai dall'angoscia, e questa
degli anni fa secoli! Dici venti, e sarà bene: da venti anni è morta
tua madre, madonna Guidinga! Ascolti?

--Ascolto.

--E fremi! Qual ricordo hai tu della tua infanzia?

--Rammento una sala deserta, oscura, vastissima e in quella una donna.

--Non era tua madre!--interruppe irosamente Oldrado.

--Sulle sue ginocchia, mi pare... Ma se stavo su quel grembo, ricordo
che ci stavo piangendo, e se piangevo, lì vicino... schiacciante e
formidabile, al solo mio agitarmi, una mano guantata di ferro, mi
sembra mi sorreggesse, dondolandomi, e con aspra cantilena una bocca
m'invocasse il sonno.

--Tuo padre non sapeva più che fosse carità!

--Rammento i portici paurosi, una cappella sempre parata a lutto, e,
sotto gli archi, fra i neri drappi, io so di certe strisce
candidissime, fumose, che mi apparivano innanzi gli occhi... le dita
come di una larva...

--La _madonna perduta_!--gemette Oldrado, e si fece segno di croce.

--Padre mio, sì, nell'aria c'era qualcosa che mi ammaliava... Io non
so... Ero fanciullo, e sempre, sempre solo! Amavo il silenzio, la
notte, la vasta oscurità: tacevo, mi rannicchiavo, affranto sotto il
peso di un mistero, ficcavo gli occhi nella tenebra... Qualcuno era
con me!... Chiamavo, spiavo, salutavo!... Perchè fuggi? Ma chi
fuggiva? Fuggiva per ritornare: ritornava per fuggire... Chi era?

--Ascolta, figliuolo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



--Come l'amai! Oh madonna Guidinga! Ella fu dell'invitto Eude, il
quale, conducendola sposa a questo castello, con lieto seguito di
baroni, annunziò il suo gaudio nel proclamare che la diletta usciva
dal portone degli avi per entrare grande signora in quello di un
cavaliere di Lanciasalda. Eude dall'anima altera e fatta audace colle
lotte sostenute per conservare la sua indipendenza dalla rapacità dei
castellani più forti. Guidinga pose il piede in queste sale, e
sorrise! Ma oh la gioia si andò, come suono di salterio nella
bufera!... Sorrise! Mi parve bella, immacolata, come le nevi delle
nostre cime, promettitrice di pace, come un'alba rosata: colle manine
che dovevano spargere fiori! Aveva diciassett'anni o poco meno. Chi
era Oldrado? Ella nol conosceva.

Messer Eude le aveva detto:--Lo sposerai--ed ella aveva
risposto:--Sì,--mestissima, come all'ancella, che sedevale da' piedi,
toccando l'arpa nei crepuscoli, e che le rimproverava:--Madonna, non
cantate più le laudi?--come all'ancella rispondeva:--No,
cara.--Inconscia di tutto, melanconica o gaia, cupida di fantasìe
ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma l'irrequietudine, e
questa la sospingeva, la sospingeva nei voli del desiderio... Dove
aleggiava, sorradendo giardini dalla eterna primavera, la sua mente
desiosa?

--Chi è il mio sposo?--domandava la gentile al padre, varcando il mio
ponte.

--Figliuola: i cavalieri della stirpe di Oldrado e le fanciulle della
mia usarono sempre di darsi la mano, quelli togliendo la destra
dall'elsa della spada adoperata nel combattimento, queste offrendo la
ciarpa d'onore al vittorioso. Così si conoscono la prima volta.

--Perchè si ritarda adunque dall'armi? Chi sarà il mio sposo?

--È Oldrado.--Così diceva messer Eude. Lo sposo doveva essere
vincitore: se vinto, supplicava l'avversario di misericordia, e
misericordia somma era l'essere ucciso con un solo colpo. Allora la
sposa dallo steccato funesto passava diritta al monistero, ove
dichiarava all'abbadessa:--Dio Sapiente ben provvide: piuttostochè
essere donna di marito fiacco e madre di figli che un dì possano
seguire l'esempio del padre col vitupero di mia schiatta, piuttosto
consento ad essere sposa del Signore e madre dei poverelli. Ciò a
salvazione dell'anima e a soddisfacimento dell'onore. Voglio prendere
il velo.

Guidinga sorrise ai giovinetti cantori che la salutavano regina della
beltà, fiore della gentilezza virginea, speranza del signore e dei
vassalli! Sorrise e fece doni, e si ammantò di bianco, e, a mano del
padre, attraversando le corti del castello, affollate e rumorose, uscì
alla spianata, entrò nello steccato, e s'assise al posto eminente.

--Chi è lo sposo?--ridomandò la giovinetta ad Eude.

--Ti dissi.

--Fate cominciare l'armeggiamento.

Figliuolo, in quell'istante io non potei togliere gli sguardi dalla
sua bellezza delicatissima. Ero tutto serrato nell'armi, e mi sentivo
soffogare dall'ardore di mostrarmi degno di lei, dalla brama
perigliosa di cimentarmi con qualunque avversario, dalla preghiera
sfidatrice che io lanciavo al cielo:--Mandami il piu formidabile
cavaliere! Io ti giuro che ella, non ravvisandomi dall'armi, mi
ravviserà dall'imprese superbissime. Ella deve esser mia! Moglie di
gagliardo guerriero, madre di figli i cui vagiti si mescoleranno agli
squilli vittoriosi delle trombe paterne!... Vengano, vengano i forti!

Vennero: arnesati, io non li riconobbi: però il mio scudiero Unfrido
mi disse:--Là è Baldo, questo è Aginaldo, quell'altro il Montanaro.
Messere, per amore del nostro santo protettore, state saldissimo
contro Baldo! Messere, l'altro è debole sulle staffe. Il Montanaro
vien sotto, come un toro inferocito, ma nella furia... Ed io:--Lo
so.--E pensavo, guardando la bellissima:--O Guidinga, tu attendi! Qui
vi sono i cavalieri, nessuno ha distintivo nell'armi, e tu non
conosci! Oh il tuo cuore ti dice: "Vedi! eccolo!" Non lo sai?...
Vittoria! vittoria! Fra brev'ora lo saprai! Alzerà l'elmo! Lui!
eccolo! eccolo il trionfante Oldrado!

L'araldo del primo campione gridò:--A cavallo!

Lo scudiero mi susurrò:--Messere, ascoltate un fedele: fate il giro
dello steccato e fermatevi di là: così non avrete il sole negli occhi.

Corsi lo steccato: trovai il cavallo, mi serrai su quello. Ad un
tratto mi soccorse un pensiero:--Mi riconoscerà dall'animale
bianco!-ma dai pertugi dell'elmo vidi che Unfrido, il quale ancora mi
era accanto, faceva un certo viso da traditore che mi sapeva
maladettamente, vidi che io non avevo sotto il mio bianco, sibbene un
morello!

Con l'aiuto d'Iddio, abbattei il primo avversario e il secondo, e lo
steccato così suonò d'applausi.

Dopo udii che si diceva, non so da chi:--Ma come? Messer Oldrado non
si muove?--È sempre là ritto accanto al suo cavallo bianco.--Era lui
che doveva fare tante prodezze!--Come sapete che è Oldrado? Non si
deve conoscere alcuno nell'armi.--Sì, non conosce chi non vuole. Chi
dei castellani a venti miglia tutt'ingiro ha un bianco come quello? E
poi rispondetemi se quell'armato là non è Oldrado, se dal cavallo si
fa ragione del cavaliero.--Ma vedrete!

Io mi tormentavo:--Oh perché mi fu cambiato l'animale? Che giuoco c'è
sotto? Ed io non dovevo accorgermi?... Ma Unfrido mi avrebbe dato
l'usbergo che si smagliasse o una lancia fessa, o addirittura una
coltellata alle reni, quando mi vestiva il saio di pelle! Ma il
cavallo me l'avrebbe mutato con uno tristo! E invece questo pare nato
per le mie ginocchia! e l'armi saldissime! Chi ha pagato Unfrido? E
dov'è? Là proprio vicino al mio bianco e tiene la staffa al cavaliero.
Chi è quel cavaliero? Per Dio! quell'animale è tutto fuoco, e crede di
reggere il padrone! Chi è quel cavaliero?

Facendo il giro dello steccato, passai sotto al seggio di madonna, e
sa il cielo che cosa fantasticai: parvemi che una manina tremante mi
levasse l'elmo, sorretto da' miei polsi febbrili, e due labbra mi
baciassero sussultanti, acclamandomi già vittorioso: mi rizzai sugli
arcioni con grande orgoglio e fui lì lì per gridare:--O vergine,
voglio per te farmi degno di alto onore!--Dimenticai Unfrido e il
bianco mio... No, che non li dimenticai: me li sentii tosto fitti in
cuore ad atroce martirio e per opera tanto villana, che, ti dico, poco
stetti ch'io non balzassi giù ad adoperare sulle schiene la mia spada,
come si usa coi traditori. Senti: proprio sotto a quel palco due
garzoncelli parlavano assai clamorosamente, e volti colla facce
all'insù, perchè madonna ascoltasse.

Diceva uno:--Chi è lo sposo?

E l'altro:--Non lo sapete?

--Costui che passa, a lancia alzata?

--Oh sì! costui sa fare tanto d'andare ruzzoloni nella polvere, come
un mastino trattato a calci.

--Come? se vinse i due?

--In grazia di sortilegio.

--Dite vero?

--Vedrete la terza impresa se vorrà essere così scempia: la terza si
corre tra messere dal cavallo morello e quello là dal bianco.--

--Chi è quello?

--Evviva lo sposo!

Mi sentii le briglie tra mano e la lancia alla staffa, perchè suonò la
tromba. L'ignoto avversario mi venne incontro: alle punte opponemmo lo
scudo, ma nessuno colpì, per il che, scagliate le aste, diemmo mano
alle spade. Era combattimento di due valentissimi... Quando si levava
dalla moltitudine il grido di:--Viva lo sposo!--io l'ascoltavo con
tale tumulto di gioia e di spavento di non meritarmelo, che tempestavo
di braccia, come un fabbro sull'incude, e l'altro addoppiava la furia
verso di me. Maledizione! una volta intesi:--Viva lo sposo!--e fu
contrapposto, parmi, da due vociacce sotto il palco di madonna:--Viva
il cavallo bianco!--Che fossimo in due a meritarci quel grido? Io non
sapevo quale, ma certo si celava insidia! Per il che badavo nel tirare
le botte ad accompagnarle col nome di qualche santo. Figliuolo, potei
finire una litanìa e ancora incominciarla e ancora finirla: pure
nessuno di noi consentiva a cedere, e il giuoco cortese s'avviava ad
essere duello a tutto transito, con grandissima festa degli
spettatori.

A un tratto l'araldo squillò, come si usa quando si ingiunge di
cessare dall'armi. Nessuno di noi obbedì, tanto eravamo odiosi, e,
menando quegli ultimi colpi, procuravamo con potente ira che fossero i
mortali. Di nuovo la tromba suonò grave, e allora io, tra il dare un
fendente, lui tra il pararlo, ascoltammo queste parole:--Cavalieri,
per la cortesìa della dama.--E noi lasciammo andare le braccia
penzoloni: in quel momento di posa alla tempesta del corpo in me
successe quella dell'anima: il perchè io ruggivo domandandomi:--E chi
è questo dannato?--In lui, credo, succedesse altrettanto, perchè
ascoltai una bestemmia atrocissima verso Dio! Stemmo l'uno contro
l'altro, e, se non era l'araldo a porre il suo bastoncino tra noi, io
dico ci avremmo scambievolmente fatto contro qualunque tradimento.
Eravamo di posizione vicino al palancato di legno e vicinissimo al
palco di madonna. Si alzavano d'ogni intorno le grida: chi parteggiava
per il morello, chi per il bianco, chi per lo sposo, chi per
l'avversario, chi pel sinistro e chi pel dritto. Messer Eude non
poteva restare indifferente a tanta lotta di favori, egli già maestro
di cento feste d'armi e già vecchissimo guerriero in cento battaglie,
si levò... Non so che facesse, tra baroni, perchè io aveva impedita la
veduta dalle gocce di sudore, so che udii anche la sua voce:--Lo sposo
principiò colla offesa e finì colla offesa...--Madonna del cielo! Se
io avessi potuto vedere come si stava Guidinga! Sì, che vidi ad un
tratto, vidi che sventolava una ciarpa!

Pesti, ansanti, a fatica retti dai cavalli, prendemmo postura
riverente dinnanzi ai gradini della dama, ed ascoltammo l'araldo:
questi proclamò, un giudice, messer Eude.

Tra il silenzio Eude parlò:--Da valenti cavalieri. Il giuoco fu aperto
con gagliardìa, sostenuto con scienza, finito... No, messeri, finito
non può dirsi: pure io, re d'armi, dichiaro che sia finito, e ognuno
di voi faccia promessa di attenersi al mio detto. L'accanimento mi
piacque! Per il che io dichiaro qui che nessuno dei due combattenti
procedette per virtù occulta: ambidue invitati a comparire innanzi al
seggio della regina. A me è data facoltà di instituire i premi: lo
sposo avrà la ciarpa, il valoroso compagno un bacio di madonna. Così
si potrà dire che l'uno e l'altro avranno bene meritato.

Noi due avversari, scavalcati, ci demmo la mano, poi a paro venimmo
sotto al palco di Guidinga.

Ella mosse incontro al mio compagno: egli si levò l'elmo... Era
messere Adalberto!... Guidinga sorrise!

Eude mostrò grandissima sorpresa, e domandò:--Ma chi aveva cavallo,
bianco?

-Lo sposo mio!--affermò vivacemente la donzella, e di nuovo sorrise ad
Adalberto, come ad un arcangelo.

Eude mi tolse l'elmo...--Messere Oldrado!--esclamò, e volto a Guidinga
tristamente:--A lui il bacio: ad Oldrado la ciarpa--Ed io non so come
si tenesse in piedi:

--Chi aveva cavallo bianco?--domandò la fanciulla dolorosissima.

Adalberto ricevette il bacio... Era bellissimo il giovane: era
bellissima la giovinetta! Io, sposo, non potevo che piangere!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Qui il cavaliero narratore interruppe il racconto, tormentandosi gli
occhi perché non dessero lagrime; e la luna che entrava dal finestrone
fu riflessa da un guizzo; terribile, la spada di Oldrado negli artigli
di Ugo.

--Figliuolo, che fai?

--Vorrei fare quello che non faceste voi!--rampognò trucemente la voce
del figlio.

--Giudicherai se queste erano parole da dirsi ad un padre!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Adalberto aveva veduto una sola volta Guidinga, ad una caccia, nei
lontani monti di lei, quand'ella era a fianco di Eude: ma una sola
volta bastò per aizzare nell'anima maledetta una passione così rovente
e rodente di desideri, che il cavaliero ghignò di volerla un giorno
nelle sue braccia!

Inconscia di tutto, melanconica e gaia, inesplicabile e cupida sempre
di fantasie ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma la
tremenda irrequietudine de' suoi sedici anni e delle sue sventure, e
questa la sospingeva nei voli del desiderio... Ella aveva veduto
Adalberto! Dal di della caccia fino a quello dell'armeggiamento era
scorso un anno senza più che l'uno si abbattesse nell'altra: nulla
ella sapeva di lui, neppure il nome: nè mai il padre parlò. Sapeva che
per lui, più notti, il cuore le si era scosso nei tumulti febbrili!
Poi si sentì spossata! Nei sogni l'immagine di Adalberto veniva, ma
coi mesi e coi mesi sempre più sfumata... Ed era vestito di bianco e
per lei sorrideva e piangeva (Adalberto!): ma non aveva profilo; le
linee si perdevano nell'espressione; era una gioia, un dolore
carissimo. E Guidinga sempre più diveniva ansiosa di fantasìe, e
spandeva l'anima sua nella immensità dei cieli, ponendo negli azzurri
l'ideale della vita poeticissima, e là sfavillava di tutte le luci il
suo desiderio, e là la gioia e il dolore avevano tanta voluttà di
dolcezza, quanto mistero l'infinito!... Svegliata dal suo delirio
abituale, nella vita di quaggiù più non trovava cose degne di lei,
provava la noia del cammino dopo lo slancio placidissimo del volo!
Svegliata, più non chiamava lo sposo! Quando il padre Eude le
disse:--Sposerai Oldrado-ella rispose:--Sì--perché certo pensava:--È
lui!...

--Ma se è lui... perché sciupare colla realtà l'ideale
affascinantissimo che io ho nell'orizzonte tutto mio? E se non è
lui... perché vivere, se questa è vita d'anni e quella sognata è
eterna e sempre inebbriata d'amore?--e disse all'ancella che più non
amava le armonie: la musica è divina e dell'anime blandite dalle
lusinghe dell'ignoto...

Richiamata alle scosse della esistenza giornaliera, la sua indole fece
sì ch'ella dinnanzi agli occhi portasse sempre un lembo di nebbia
iridescente, la nebbia dai vortici pieni di sogni, la quale, posandosi
sugli oggetti veduti o intraveduti, li rendeva circonfusi di luci
mitissime, li tuffava come nel crepuscolo dileguante di una visione.
Così l'ideale si sfumava col reale: e il volto del padre cavaliere
divenne buono e tutto per lei, la imagine della madre sepolta si
presentava alla culla, o quella dello sposo veniva, veniva, come nei
primi giorni... Che? il viso di messere Adalberto. Guidinga
domandava:--Dov'è lo sposo?--e poi sorrise.--Sarà per me: o _lui_, o
il monistero! E se nell'armeggiamento egli restasse vinto?--E tacque,
fidentissima, con Eude.

--Messer Adalberto sapeva di struggersi, non sapeva d'essere amato.
Per furore di gelosia giurò (perchè non voleva scoprirsi a lei se non
con atto tale che facesse parlare tutti i cavalieri) giurò di uccidere
me Oldrado e di vituperarmi, insomma in modo che ella fosse non mia,
come l'ebbi richiesta! E che non fosse nemmanco del monistero lascia
fare a lui! Era prontissimo ad ogni sacrilegio. Così si presentò al
giuoco, comperò il mio scudiere, per far credere lo sposo dal cavallo
bianco autore di tante prodezze, mentre poi alla fìne Oldrado doveva
esser trovato morto, e lui colmo di tutto l'onore! E Guidinga... Oh!
fu aiutato dalla fortuna più che non credesse: la decisione del re
d'armi lo ammise al bacio della dama! Si levò l'elmo..; O Signore!
Guidinga guardò il suo volto e il mio!... Guidinga bestemmiò a me
condannato il corpo di lei, ad Adalberto benedettamente dedicava tutta
l'anima!.. Ci sposammo, ma, se a vece della ciarpa a toccare il petto
dalla parte del cuore, a vece della corona di fiori d'arancio sul
capo, ella avesse dato a me tante stoccate, io a lei una corona di
spini, noi avremmo offerto a Dio la espiazione delle nostre peccata!
Guidinga da angiolo divenne, dimonio!

Dopo nove mesi ella portava sozzamente nelle viscere il beffardo
frutto dell'odiatissimo nostro connubio, e giurava e spergiurava che
perdere madre e figliuolo sarebbe stato opera meritoria. Io la facevo
di continuo guardare. Un giorno ella era presa da strazianti dolori;
io origliavo all'uscio attendendo... A un tratto di fuori al castello
odo un suono di trombe, poi un paggio mi strappa la veste,
gridando:--Messere! messere! i nemici!

--Chi è?

--Adalberto!

O Signore! nel castello so che eravamo male apparecchiati, scarsi
d'uomini e scarsissimi di vettovaglie. Che fare? Oh che tormento fu
quello! Resistere? Il sommo pericolo! Arrenderci? Il vitupero di mia
schiatta!... Guidinga udì quel nome, e nel delirio proruppe:--Adalberto!
tu vieni a togliermi da questo inferno!--Invocava il nimico, ed io
aspettavo da lei uscisse o un bambino un dì destinato ad ascoltare il
testamento del padre, o una bambina che avesse a dare ai figli col latte
il veleno dell'odio! Ringhiavano le trombe al di fuori. Io mi precipitai
dalle scale, ed ecco occorrermi il mio fedele Aimone.

--Messere, siamo perduti!

--Per Dio! ditemi! fate qualcosa!

E quegli dubitava:--Ricorrere alle armi...

--Ricorriamo al tradimento! E che fece egli con me? Per Dio!--e mi
accordai con lui, e conclusi:--Dammi un pugnale avvelenato, e tu a
tempo sbatti la porticina nel corritoio.

--Messere sì!

--Dammi un pugnale avvelenato: e lascia a me la cura di sgozzare
Adalberto!

In cima allo scalone ascoltai un grido così feroce che mi rivolsi e
temetti di avere alle terga il nominato: guardai e vidi madonna che,
nuda, oscenissima e sanguinante, si rotolava giù di gradino in
gradino... Accorsi, più che per odio a lei, per amore furioso della
creatura che si teneva in seno!... forse già schiacciata per le
violenti percosse! Accorsi e la avvinghiai, ed ella con affanno
straziantissimo, supplicandomi ed imprecandomi:--Messere, salvate
Adalberto! Non fate tradimento! Non fate, per pietà dei sette dolori
santissimi!

Ed io:--Datemi la mia creatura!

--Sì!

--Datemela!

--Salvatelo! Che vi ha fatto! V'ha fatto troppo! Ma era destino così!
Perdo le viscere!

--Datemi la mia creatura!

--Si, vi giuro! Giurate voi di non fare tradimento!

--Lasciatemi!

--Ho giurato! E voi siete così sleale! Voi siete cavaliero? Ah so! non
giurate perchè siete dannato nell'altra vita! Non credete in Dio!

--Madonna! vi giuro!

--Vieni, o mio Adalberto! Egli non ti uccide!--rincominciò ella nel
delirio, ed io balzai dalla scala!... No! ritornai, e la trasportai
nel suo letto, nel nostro talamo! E stetti al suo fianco, attendendo
l'istante... Oh quelle tre ore!... Nacque il bambino:--sei tu! Entrò
Adalberto nel castello, io gli prestai l'omaggio nella chiesetta.
Quando gli dissi ch'ero disarmato e mi dichiaravo vassallo suo, gittai
il pugnale, perchè avevo giurato a lei! Poi feci aprire la porticina
del corritoio e tutte l'altre delle camere, indovinando il tristo
pensiero di Adalberto. Quando il signore, correndo per il castello,
venne al letto di Guidinga, trovò una morta, senza lume accanto, senza
frate, senza croce fra le mani!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Così rompeva messer Oldrado il suo racconto. E fremeva:--Però nessuna
occasione fu da me trascurata! Chiamo in testimonio il bianco spettro
di tua madre! Ho ribellato Lamberto, mancai all'omaggio, comparvi al
convito colla spada, feci percuotere l'araldo! Combattei! Ma non ebbi
mai completa ventura, per maledetta condanna! Figliuolo, sei
cavaliero: eccoti gli speroni: figliuolo, sei erede di tutto. Ecco il
mio testamento!



CAPITOLO IV.


Pochi giorni dopo Oldrado, trascinatosi nello stanzone del castello,
cogli occhi smarriti cercava i suoi sproni, e, solissimo, là moriva
percuotendo le sue armi. Un tristissimo malore, toltagli la ragione,
l'aveva tutto disfigurato. Ugo lo volle vedere nel cofano aperto: e
comandò lo si lasciasse giacere due notti ai piedi di quel tremendo
scalone.... Dicono le cronache che vi venisse la _madonna perduta _e
ripetesse la condanna:--Voi non credete in Dio!

Oldrado fu sepolto. Ugo si fece cupo, angosciosissimo, apparve come la
fiera che tende l'insidia: temette le squille pei poveri trapassati,
e, rammentando certi portici deserti, una cappella sempre parata a
lutto, fingendosi alla fantasìa un dì in cui si sentissero suonare
tutte le trombe del castello, correva al camerotto dell'armi, quasi
attendesse ancora il padre, si travolgeva sul letto nel quale sapeva
lui essere nato, essere morta la madre, interrogando:--È questa la
vita a cui mi dannaste? Che delitto ho commesso prima del mio
nascimento? Perchè nacqui colla maledizione?--e lagrimava
nell'angoscia:--Ho venti anni! E in venti anni tre volte ho sorriso:
quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere
il sole, e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi: quando suonò la
tromba che mi chiamava all'armi: quando.... Non è riso, è sogghigno!
Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto!... Dicono che ci
sia il mare. Com'è il mare? Dovrebb'essere come l'anima... Com'è
l'anima?--Non aveva mai parlato nè con una donna, nè con un frate, nè
con un amico: e si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele,
fortissimo, libero.... Con economìa di parole si esprimeva:--Mi sento
tormentato! Voglio odiare! E voglio amare!

Il testamento di Oldrado era confìtto nella memoria e nella volontà di
Ugo.--Vendicati! Sì, e poteva sorridere o sogghignare per la quarta
volta: Adalberto stava sempre chiuso nel suo castello d'Auriate, forte
d'uomini, e scaltrito dall'astrologo. Venisse il giorno in cui Ugo,
battendo l'avello del padre colle calcagna spronate, potesse
dirsi:--Mi ascoltate? Io non ho tempo d'ascoltar voi, se anche mi
narraste le istorie del di là!

Venne il giorno, sì: quello in cui l'araldo bandì doversi prestare
l'omaggio al signore. Ugo stava ai piedi della chiesa nella sua
_curte_: c'erano pure messer Ildebrandino, Baldo, Aginaldo, e tra gli
scudieri Aimone. I cavalieri ascoltarono, diedero mano alle borsucce,
poi se ne andarono: Ugo, tenendosi vicino Aimone; gli altri dietro,
legati da nessun aperto discorso, pure tacitamente affratellati da un
odio solo.

Ugo disse allo scudiere:--Il meno che si sarebbe potuto fare?

--Messere,--rispose questi--dargli a masticare la pergamena.

--Ah! parli dell'araldo?

--In quanto a messere...!

--Ci abbiamo pensato!--attestò Ugo: poi--Aimone, hai conosciuto
Unfrido? Sai com'è morto?

--Vostro padre lo fece trascinare dall'istesso puledro morello. Ma
perchè dite così?

--Per avvisare i traditori--Ugo disse ad alta voce.

--Per Dio!

Allora, udendo questo, Ildebrandino prese a camminare lesto, in modo
da giungere a pari di Ugo, e aggiunse:--Per avvisare i traditori e i
traditi.

Ugo, il quale struggevasi nell'ardentissime battaglie dell'anima, e in
quel momento più che mai sentiva amaro l'essersi ingozzata la vergogna
di quel bando, udendo le parole d'Ildelbrandino e notandone il tono,
fu lì lì per gridare ai cavalieri: --Qua la mano e giuriamo
vendetta!--E sarebbe stato ascoltato. Egli conosceva Ildebrandino,
come Ildebrandino conosceva lui: si salutavano cortesemente quando il
raro caso portava che fossero insieme, ma ognuno pensava tra sè:--Se
quel valente mi fosse allato!--e l'uno e l'altro nella sommessione al
comune signore, trovava, anzichè una spinta ad amicarsi ed operare, un
argomento penoso per starsi lontani, sospettando che quegli potesse
dire di questi, e questi di quegli: --Perchè ha sopportata tuo
padre?--Perchè hai sopportato, come un giumento, finora?--Adunque
Ildebrandino fu soddisfatto di aver dato appicco a quella conoscenza
che sperava doversi stringere e mutarsi nella sospirata congiura,
giacchè di Ugo presagiva molto, sapendolo valoroso e bollente. Ed Ugo
fu contentissimo di avere con sua volontà eccitate quelle parole, buon
indizio di tempra inflessibile.

Si fecero l'uno appresso all'altro, e il loro esempio fu imitato dagli
altri due baroni, messere Baldo e messere Aginaldo: quello un vecchio
ringhioso e impaziente; questo un cavaliero poderoso, guerriero quando
ci fossero petti da passare fuori, non importa se d'amici o di nemici,
cacciatore di lupi audacissimo quando gli mancassero gli uomini.

Si avvicinarono Ildebrandino ed Ugo, e siccome Aimone stette per porsi
dietro ad essi, Ildebrandino, cogliendo l'occasione di più chiarire il
suo animo e applicando il motto che ci si guadagna ad accarezzare il
cane per il padrone:--Scudiero--disse:--avete capegli bianchi e
l'essere invecchiato presso messere Oldrado so quanto valga.

Ugo si drizzò tutto, e trovò di concludere così:--O Aimone, imparerai
ad aprire i portoni delle castella. Aimone, non farti scrupolo: quando
portavi a mio padre la lancia pel combattimento ti facevi forse di
dietro? Metti conto che il viaggio può essere lungo. Ma noi ci
incamminiamo. Messere Ildebrandino?

--Con la grazia d'Iddio--rispose questi.

--E con la nostra volontà.

E i due cavalieri sporsero simultaneamente la destra e se la
strinsero.

Il giorno di Pasqua di Resurrezione già abbiamo veduto come Ugo abbia
fatto e Ildebrandino risposto.

I cavalieri eruppero dal castello d'Auriate, avviandosi dietro ad Ugo,
e tale era la furia di voler la pugna che si udiva esclamare:--Messer
Aginaldo, che dite?--Dico che vorrà essere ottimo giuoco!--Mandiamo i
paggi per le armi!--Era tempo!--E i nostri montanari sono tutti pronti
e vogliono le prede.--E quelli di Ugo!--Educati da Oldrado!--Orsù!

Ed Ugo gridava:--Ci vuole unione di consiglio.

--Dove andiamo ora?--interrogava rabbiosamente Baldo.

--Se ci attardiamo all'impresa siamo perduti!--gridavano gli altri.

--Volete combattere oggi?--domandava Ugo.

--Oggi!--Sì, sì, gli facciamo in tal guisa gli omaggi!--Oggi!

--Messeri--disse Ugo:--è giorno di Pasqua.

Aginaldo che non lo ascoltava o non voleva ascoltarlo:--Liberiamo le
nostre castella! Gli avi le tennero sì o no? Più bella giustizia non
si sarà mai resa! Chi è Adalberto? Chi siamo noi? Noi sì siamo i
padroni dei nostri servi, ma noi non siamo servi ad alcuno: egli non
può essere signore di gente libera.

--Messeri,--ripeteva Ugo:--vogliamo esser leali!

--C'è tregua fino a che il sole va sotto! Dopo si possono squassare
quante lance si vogliono--diceva Aginaldo.

--Vero anche questo.

--E poi che cosa è il combattere? Conseguenza di una sfida che non si
poteva fare? No, è difesa--esclamava il Baldo.

Qui parlarono di regole d'armi: gridarono, sempre camminando, per
togliersi fuori dalla gittata degli archi saluzzesi, che potevano
essere nascosti tra merlo e merlo o alle feritoie del castello.

Alla fine Ugo concluse:--Così non si fa alcuna cosa! Unione di
consiglio e d'armi: per quella vuolsi che ognuno esponga recisamente:
per questa che ognuno sappia di quali e quante forze può disporre. E
per l'una e l'altra richiedesi obbedire a un capo.

Tutti intesero benissimo: Ildebrandino e Aginaldo ardenti di
entusiasmo:--Voi!--cominciarono a gridare:--Voi il capo! Sappiamo come
avete incominciato! Pensiamo come volete finire!

Egli, a vece di rivolgersi a loro, si volse a Dio, acclamando
solennemente:--L'omaggio deve essere reso a Te solo. Noi non siamo
torme di ribelli, perchè non erano torme di schiavi gli avi nostri ab
antico! Dunque, cavalieri,--strinse Ugo:--dove ci riuniamo?

--Dite voi.--Dite voi.

--Più atto ad esplorare i movimenti che potesse fare il conte parmi il
castello di messere Ildebrandino. Assentite, cavaliero?

--Per la spada di Sichelmo mio! Quando, e' saranno venti anni, venne
Guidaccio sul mio torrione, avevo tutti gli uomini appestati da un
certo pellegrino che ospitai. "Suonate per me: i nostri figli, spero,
ricorderanno questi squilli" dissi. Figli maschi non ho: io voglio
rispondere, io stesso, e con me il mio Oberto!

--Al castello d'Ildebrandino--disse Ugo.--Mezzogiorno è ancora
lontano. Messere Aginaldo, quanto impiegate dal vostro portone a
quello di Ildebrandino su un buon corridore?

--Io non ho cavalli grami--morse il cavaliero:--Con qualunque de' miei
in due ore vi sono.

--Dunque, messeri,--comandò il capo dell'impresa:--fra quattro ore a
Rupemala.

--Non ho cavalli grami!--incioccò i denti Aginaldo.

--Non dico questo: ne è caso vi offendiate. Ad andare al vostro
un'ora, a rassegnare le armi e i vassalli un'ora e mezza, un'altra e
mezza dal vostro castello a Rupemala, o forse manco, perchè le vostre
scuderie hanno tanta rinomanza quanto il vostro valore.--Così fu
contento anche messer Aginaldo.

E si separarono.

Primo a mettere il piede sul ponte di Rupemala fu Ugo. Aveva tanto
osato e tanto ottenuto in quel giorno, che per ambizione audace,
tentava di cancellarsi dalla mente la memoria del padre e della madre,
lanciandosi colla fantasìa in un combattimento vittorioso, per fare
tutta sua la gloria dell'impresa. Quei fantasmi gli rubavano! E per
Dio! suo l'ardimento, sua la valentìa che gli aveva sottoposti
spontanei anche i vecchi cavalieri, suo l'accorgimento, e suo
l'esito... E se fosse rotta? Oh rotta no, no! Che vitupero!...

Ugo entrò nel castello, perchè tosto al suo nome si aperse il portone:
fu condotto in una sala d'armi, aspettò poco, osservò molto,
computando quanti uomini si potessero arnesare subito con piastra e
maglia, poi s'inchinò là dove la porta si spalancava. Venne innanzi
messer Ildebrandino coll'usbergo sopra l'abito di pelle: e con lui un
bellissimo giovane di diciotto in diciannove anni, pallido,
aggraziato, più atto, a giudicare dalla sua persona, a toccare il
salterio che a reggere il lanciotto del signore, come voleva il suo
ufficio, e questo appariva dagli sproni d'argento.

--Oberto,--disse Idebrandino, prendendolo per un braccio:--questi è il
cavaliero Ugo, il quale ti farà degno della sua stretta di mano quando
tu avrai la fascia sull'armi.

--Non me la faceste promettere?--Oberto interrogò lo zio
coraggiosamente. Si trovava di fronte a quell'Ugo che in un ultimo
gioco l'aveva soperchiato in tre incontri! E quell'Ugo già aveva gli
speroni d'oro! E lo zio, sperimentato cavaliero, s'inchinava a quel
venuto del malanno!

--Quando messere Ugo lo creda,--disse Ildebrandino.

--Quando io la meriti!--interruppe Oberto.

Ugo davvero incominciò ad amarlo.

Vennero i cavalieri, e furono presi gli accordi per la dimane
Ildebrandino con Oberto sopraintenderebbe alle macchine guerresche:
messer Aginaldo darebbe gli arcieri più abili, coi capitani Guelardo
ed Irnando: Baldo vi unirebbe i suoi savoiardi con Aldigero e
Ugonello, al cavaliero il comando dei cavalli di retroguardia: a
Gisalberto il servizio di esplorazione notte e giorno co' suoi,
Oddone, Eleardo capo dei saluzzesi armati di scuri: Ugo alla testa di
venti valentissime lance regolerebbe le mosse di vanguardia e
d'investimento: e via, e via: i castelli non istarebbero sguerniti: si
lascerebbero armi ed avvisatori in ognuno di essi.

Come voleva la cortesìa delle usanze, i messeri furono convitati.
Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di
mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi.
Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono
le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui
panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perchè un posto, e il
più eminente, rimaneva vuoto. Nè attesero a lungo: si sollevò
l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona,
annunziò:--Madonna Imilda.

Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di
vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su
da uno scheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato:
s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre,
s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo
parente Oberto.

Ildebrandino così la salutò:--Valenti, udite: la figliuola mia sa
assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in
modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi; e la sua
bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci
grazia!

Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri,
e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la
domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere
dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era
richiesto dal suo decoro verginale.

Ugo guardava... La smorta faccia di Oberto non era faccia che egli si
potesse dipingere incorniciata di maglia, colla bocca che impreca ai
nemici, col naso fiutante la polvere del combattimento, cogli occhi
dai lustri audacissimi... Imilda, melanconica e dolcissima, aveva
l'aureola dei biondi capegli, le labbra dischiuse al canto amoroso, le
nari voluttuosamente ebbre come d'alito profumato, le pupille lente
nel sopore placido delle visioni insidiose.

Ugo guardava irresistibilmente. Il viso di Imilda gli pareva sfumasse
nelle nebbie di un sogno. Che sogno? Oberto toccava il salterio: ella
cantava le laudette religiose. No! no! Oberto riprendeva lo strumento
e atteggiava la persona al mollissimo abbandono dell'amore.--Per
l'inferno, spezzategli le corde!--Ugo con moto improvviso sorse, e si
cinse la spada, poi ne morse gli elsi con potentissimo affetto.

--Chi siete?--una e due volte domandò Imilda ad Ugo.

--Sono il figlio di Guidinga.

Imilda lo interrogò con un lungo sguardo. Ed Ugo nuovamente
pensando:--Com'è il mare?--si rispose:--Dovrebb'esser come l'anima
quando è in tempesta! Come l'anima quando sorge il sole!

E veramente per la prima volta sorrise....



CAPITOLO V.


L'indomani mattina Ugo era capo di un drappelletto di lance in
vanguardia, moveva al castello di Adalberto, e così parlava ad Aroldo,
un capitano di Gisalberto, che gli era accosto:--Io vi dico che la
sorpresa deve riuscire benissimo. Sentite: lo spione che inviammo colà
all'alba ne tornò dicendo essere il portone guardato bensì, ma pure
aperto per dare accesso ai carri che vanno e vengono da' vassalli per
le provvisioni, perocché il messere teme l'assedio. Dunque i pochi
balestrieri di Aginaldo girano per di qua e si presentano sotto le
torri, alla facciata secondaria; là l'offesa, là pure si concentrerà
la difesa, e intanto non vorranno cessare i carri e le carrette di
passare col necessario, tanto più che essendo debole l'investimento
non darà luogo a soverchie precauzioni. Si penserà, state sicuro, al
pericolo avvenire; quello della fame. Quando noi lance avremo il segno
di sbucare dalla selvetta, di rovinare giù al portone...

--Sentite o non sentite?--l'interruppe Aroldo:--St, st. Fermate i
cavalli. Sentite?

--Per l'anima di Oldrado, se è tromba! E i balestrieri non sono ancora
a posto!--meravigliò Ugo.

S'udì ancora uno squillo venire dalla banda del castello, ed ecco poco
dopo, alla svolta della strada, di lontano, comparire un gruppo di
cavalieri, coi pennoncelli spiegati.

Ugo si drizzò sulle staffe e disse a Aroldo:--Guardate che colori sono
quelli.

--Azzurro e bianco.

--Colori amici. I pennoncelli d'Ildebrandino. Ma come...?

--Tre cavalieri e due paggi da piede... cioè tre cavalli e quattro
cavalieri. Oh come ci sta a disagio quel messere! Su un animale due
cavalcatori! Che quella fosse fuga?

--Ma chi diede ordini così? A chi si obbedisce? Suonò forse il mio
trombetto?--e Ugo tormentavasi e già malediva i nomi degli altri
capitani.

Avvicinandosi la compagnia, poterono meglio vedere. Aroldo notava e
riferiva:--Conosco il cavaliero: è Oberto.

--Oberto?--e Ugo diede una rabbiosa strappata di redini al cavallo:
poi, per non farsi scorgere, accarezzò la criniera dell'animale,
dicendo:--Con questa furia atterreresti un portone!

--È Oberto con Bonifacio ed Eustachio.

Venivano, venivano: erano a pochi passi: s'arrestarono. Oberto
trionfalmente scosse la lancia, dicendo ad Ugo:--S'incomincia bene.
Facciamo suonare la vittoria nostra dalla bocca del nemico! Bonifacio,
mostrate che caccia si è fatta.

Il nominato saltò d'arcioni, e fece grandi sforzi per trascinare giù
dalla groppa del suo cavallo quel secondo cavalcatore, un uomo a
sarcotta discinta, a capo scoperto, il quale colle braccia piegate
dinnanzi si celava la faccia per vergogna, ed aveva al collo una
tromba. E dalli e dalli, pesta e ricevi, a conti fatti, il prigioniero
rotolò giù e fu messo tra due cavalli, intanto che Eustachio dal sacco
della sella apparecchiava una fune gagliarda... Era Guidello l'araldo!

--Messere,--disse, Oberto ad Ugo coll'aria di chi finalmente parla da
pari a pari:--lo zio voleva ch'io mi rimanessi alla scorta degli
artífici militari. I trabuchi e le manganelle li ho anch'io!--e
diedesi a muovere le braccia, come se rotasse uno spadone.--Mettete i
tardi e i vecchi alla guardia, i giovani alla battaglia! Dunque mi
cacciai giù al castello con due cavalieri, venni al ponte: il portone
era spalancato, e mi spinsi dentro! Trovo l'araldo che voleva dare
l'avviso dell'agguato: eh!

Ugo non lo lasciò finire è domandò:--Dov'è vostro zio?

--Dunque, Guidello lo afferro alla gola...

--Andate da vostro zio e ditegli che, facendo come fate voi, non si
guadagnano più gli speroni d'oro. Croce di Dio! chi diede ordini così?
A chi si obbedisce?

Oberto sbuffò tra i denti:--E messere Ildebrandino non sapeva e non
doveva essere capo?--e in cuor suo diede tante bestemmie ad Ugo che a
volersi questi redimere non bastavano le limosine di tutta cristianità
al santo sepolcro. L'irrequietudine dell'età, la baldanza di
affrettare quel giorno in cui comandasse a vece d'Ildebrandino, la
brama di cose nuove, l'inferiorità sua in confronto di Ugo, erano
dardi fitti nell'anima di Oberto. E l'amore! Messeri sì, l'amore per
Imilda! E ad Imilda doveva comparire innanzi come uno scudiere
frustato! allo zio come un traditore dell'impresa! ai duci come
indegno di cavallerìa! Oh messere Ugo! Ma Ildebrandino non sapeva e
non doveva essere capo!

--Conducete il prigioniero a Rupemala--aggiunse Ugo:--e fatelo
guardare.

Il quale Ugo, dopo che ebbe detto ad Aroldo e alle lance che lo
seguivano:--Corriamo ad avvisare i balestrieri--stringendosi
fieramente sul cavallo, alla tempesta della corsa per la montagna
associò una furia di pensieri giù per il precipizio della gelosìa. Se
un indovino gli avesse detto:--Messere, c'è una donna!--Ugo avrebbe
risposto:--Quante tratte di corda vuoi per metterti a luogo la
testaccia?--Eppure! Così bolliva sordamente:--E dire, o giovinettino,
ch'io ti facevo solo buono a toccare il salterio e a startene sul
cuscino ai piedi del seggiolone! E mi giuochi di quelle imprese
arrischiate! Rompi i comandi, ti cacci a dirotta sul terreno nemico,
con due lance!... Eh se t'avessero chiuso dentro al castello e
squartato come un traditore? Il tuo coraggio deve piacere! Con due
lance? E non ti acconci ad ungere le ruote delle manganelle? Altro che
leuto! Ma sei bello, e suonavi bene lo strumento e t'atteggiavi ai
piedi del seggiolone! Morte dell'anima mia!--Fremeva Ugo, sentendosi
addoppiare il cuore da un nuovo tormento:--Madonna Imilda ti guarda e
canta al tuo suono.... Galoppa, galoppa, o mio morello: stringetemi a
sangue, o maglie! Perché non si combatte?... Che voglio dirmi? Che
voglio scoprire in me? Ugo non deve saperlo!... Padre, Guidinga,
supplicate voi ch'io sia ferito a morte! Suona, Aimone!... Ci sarà
fragore, pugna, sangue, ma in me sempre una colpa, un rimorso, un
tristo serpente!... Ugo non deve saperlo! O solo quando Ugo ne rida!

L'audacia di Oberto danneggiò le operazioni militari divisate. I
balestrieri, i quali con Guelardo s'incamminavano a disporsi, vedute
le lance con Ugo che movevano verso di loro, credendo che quelle
avessero dei nemici alle spalle, si diedero alla fuga, precedendole
nella direzione che quelle avevano preso nel corso, e così
oltrepassarono la facciata secondaria del castello, poi, trovato il
terreno scosceso, mutarono cammino e presero a salire la montagna per
nascondersi nelle macchie, e per quanto le lance gridassero ad
avvertire Guelardo di ritornare, continuarono scompigliati. Dal rumore
delle trombe e dalla voce tremenda di Ugo avvisati gli arcieri di
Adalberto, salirono sulle torri o incominciarono un formidabile
saettamento.

--È così!--diceva Ugo:--A chi dobbiamo gratitudine per questo
cominciamento di pessimo augurio?--E fu contento di
rispondersi:--Vituperato le mille volte quell'Oberto!



CAPITOLO VI.


Due dì dopo, di buonissima ora, era incominciato il combattimento
sotto le mura di Adalberto. Si erano mandati innanzi i balestrieri, i
valentissimi di messer Aginaldo, con Irnando, coll'ordine di
principiare l'offesa su un lato per ingannare il nemico, facendogli su
quello concentrare la difesa: poi venivano le torri e le macchine
balistiche con robuste travi, e queste dovevano investire dai fianchi
più deboli: poi cento saluzzesi, forniti di scale e armati di scuri,
con Eleardo, i quali avevano comando di starsi appiattati nelle
boscaglie per correre ad un segnale al ponte e al portone: poi i
cavalli e i fanti: c'erano Ildebrandino con Oberto, Ugo, Aginaldo,
Gisalberto, Baldo.

Ildebrandino e Oberto stavano colle macchine da un lato verso la
valle. Ugo dal lato seguente, in direzione del castello
d'Ildebrandino, e con lui c'erano Gisalberto e Aginaldo. Baldo doveva
guidare le lance e i fanti.

Ugo, legato il cavallo a un troncone delle moltissime piante, tenevasi
dietro ad una torre di legno, e badava a rotolare i massi che si
spaccavano dalla montagna sotto la tempesta di certe azze montanare:
li rotolava verso la maggiore petriera, e dava loro l'augurio:--Tu
pari fatto apposta per piombare sull'elmo di Adalberto. Tu se colpisci
come so io, vali tant'oro quanto pesi!--E via, e via, aiutava, più
come fante, gli armati d'Ildebrandino, che come capitano della
spedizione, faceva cuore ad essi:--Da valenti, assestate la trave,
tirate la fune! Da valenti, giù, giù, giù!--E il colpo partiva. Dopo
messere levava il volto su ai battifredi, si toglieva l'elmo e lo
buttava a terra, dicendo:--Sbalestrate anche questo, chè io non temo
le frecciate!--rialzava la faccia e chiamava:--Vedeste? Più a dritta o
più a mancina? Quando siamo a tempo! Voglio balzare con voi sul
battuto! Dite, Aginaldo!

E quelli dall'alto:--La muraglia cede. Dalle balestriere vien giù
l'inferno, ma i nostri arcieri non indietreggiano di un passo. Santa
Maria! Seguitate! Su una torre è sbucato Adalberto! Fate avanzare le
macchine!--E gli armati che erano sul battifredo, si precipitarono giù
dalle interne scale di esso, perchè fosse più leggiero; e,
attaccatigli cavalli dai lati, e dietro spinto da Ugo, Aginaldo,
Gisalberto e da molti fanti, quello si avanzò, tentennando
maestosamente, fino a dieci passi dal fossato. Arrestatosi, gli armati
s'incalzarono per salirlo, gridando:-Calate il ponte!--Era il ponte
una lunghissima tavola, sostenuta da catenoni, la quale si abbassava,
precisamente come i levatoi, a mettere in comunicazione la piattaforma
del battifredo colle mura nemiche.

--Calate il ponte!--gridavano ancora Gisalberto e Aginaldo, correndo
sulle strette scale.

--Maestro Sega, mettete i contrappesi!--comandava Ugo con poderosa
voce:--Girate le ruote e tendete le corde!--Ma non vedeva il maestro.

Gli armati nell'ardore dell'assalto udirono quel comando, e credendo
fosse ubbidito, o, a meglio dire, fremendo unicamente per menare le
mani, erano giunti all'alto. Aginaldo liberò un catenone, poi l'altro,
nè tenne la fune del ponte perché abbassasse a poco a poco, ma lasciò
andare. Gisalberto esultava:--Investiamo con impeto!

Al basso Ugo ancora affannosamente minacciava:--I contrappesi o la
dannazione eterna!--ed ecco ficcando intorno gli occhi, gli venne
veduto il maestro orrendamente schiacciato nel terreno e dimezzato il
corpo da una rotaia sanguinosa: una freccia gli era confitta al petto.

--Cavalieri!--ebbe ancora cuore di urlare Ugo:--tenete i catenoni!--ma
non aveva ancora detto, che ecco la torre barcollò verso la fossa....
Egli che si stava attaccato ai congegni delle ruote posteriori fu
balzato a cinque passi sul terreno: la torre con fragore di ruina
schiantò il ponte contro le mura nemiche, e precipitò nel fossato
Gisalberto, Aginaldo e quanti armati v'aveva. Nel castello suonarono i
pifferi a scorno e dalle feritoie i balestrieri levarono grida di
vittoria... Si scosse Ugo, dolorosissimo, e ancora incerto di quanto
era accaduto, ancora imprecava:--Maestro, v'hanno pagato per
tradirci?--Si volse su un fianco e vide gli uomini che, abbandonate le
petriere e le manganelle, accorrevano animosissimi, giungevano alla
torre, vi s'arrampicavano come gatti, tentavano di unghiarsi alla
muraglia: ma la muraglia restava troppo alta e non dava appicco;
piovevano gli olii e la pece, guizzavano d'alto in basso le punte: e
chi degli assalitori rifaceva il cammino: chi era incalzato: chi
incontrato: e chi piombava nella fossa: e chi, avvinghiato al legname,
si spenzolava!... Intanto sopraggiunsero i fanti e i cavalli che erano
indietro.

--Avanzate le manganelle! Se il ponte c'è, per Dio! fate la
breccia!--tuonava Ugo, tentando di rizzarsi dal terreno sul quale lo
inchiodavano le doglie.

Cominciarono poco più di dodici uomini, incontro alle frecce nemiche,
a trascinare le macchine e a caricarle di sassi, e a porle da
assestare i colpi. Presero a farle giuocare: un proietto percuoteva
nelle mura, l'altro nella torre, sconquassandola e facendola sempre
più piegare, e i nemici ridacchiavano e ululavano i troppo presti
assalitori così sfracellati dagli amici.

Ugo, non sapendosi persuadere che fosse desto, così com'era senza
l'elmo, si tormentò fortemente la faccia, poi si rotolò davanti a una
pozza d'acqua, e in essa tuffò il capo per averne refrigerio.

Accorrevano in quella Oberto ed Ildebrandino, e venivano dall'altro
lato del castello, investito dalle petriere e dai trabuchi, a portare
la trista notizia che troppo deboli erano le macchine, nulla si era
potuto fare, dalla porta deretana avevano dato il passo ad una banda
di nemici, combattendoli sì, ma non sperdendoli. Tutti credevano che
questa masnada fosse venuta alle spalle di Ugo per distruggere le
torri di legno.

Oberto incominciò a meravigliare:--Come? Qui non ci sono i nemici?--e
vedendo, alla lontana, Ugo disteso bocconi:--Messere,--disse allo
zio:--è morto!

--Chi?

--Ugo. Si storce nell'agonìa. Guardate!

Ildebrandino per dolore volse via la faccia esclamando:--Oh la libertà
delle nostre castella!--e vivamente:--Ma i nemici non sono venuti per
di qua?

--Tutto non è perduto, messere. Fate lavorare le scuri al ponte!

--Ugo è morto!

--Fate in vostro nome!

E tutti e due galopparono oltre, per un pezzo, verso le macchie: ad un
tratto ecco sul cammino loro incontro il trombetto di Ugo.

--Che avete?--domandò Ildebrandino.

--Lasciatemi, chè ho grandissima furia!

--Che avete?

--Devo parlare a lui!

--Ugo è morto! Mi riconoscete?

--Morto?

--Morto di punta--confermò energicamente Oberto.

--Santa Madre di Dio!--proruppe il trombetto:--Torno dall'inseguire un
traditore accorso di lontano, che poco stette mi mettesse lo
scompiglio nei saluzzesi! "Messere! dov'è Ildebrandino?" gridava egli
per farci abbandonare l'assalto: "L'ho difeso quanto ho potuto! ho
difeso madonna! ma il castello d'Ildebrandino è in mano dei nemici!"

Oberto e lo zio furono lì lì per rovesciarlo d'arcioni.

E quegli seguitava:--Ma dite! Il capitano è morto?

--Pensiamo ai vivi--rispose irosamente Oberto.

Lamentò Ildebrandino:--Che si è fatto da Aginaldo? Da Gisalberto?
Baldo ancora aspetta coi cavalli! Che aspetta?

In quella quattro uomini, gittando l'armi, venivano per la montagna,
abbandonate le macchine e lasciati vilmente i compagni. Come videro i
cavalieri e il trombetto Aimone, certo si sentirono a mal punto, il
perchè due ad alta voce dissero a giustificazione:--Aginaldo e
Gisalberto sono morti! Aldigero, Ugonello, Oddone, sono fuggiti alla
valle!--e con artifìcio:--Voi che avete tromba, dove siete stato? Il
capitano ci mandò in cerca di voi. Presto, suonate! ad avvisare i
saluzzesi!--e si dispersero nel bosco.

--Dio volesse che fosse come voi dite!--lamentò Aimone.

--Pensiamo ai vivi--replicò Oberto con ambizione:--Due dì fa l'impresa
fu cominciata da tale che aveva sproni d'argento!

--E con quel tale io la compirò!--comandò lo zio:--Vi faccio cavaliere
d'arme! Voi sarete tanto valente che sbatterete la testa di Adalberto
sul ponte di Rupemala a orrendo giuoco dei mastini!--e così
proclamando in atto di solenne promessa volse il capo nella direzione
del suo castello. Una nube nerissima, a vortici rigurgitanti, dal
sotto in su insanguinata da riflessi guizzanti, si levò dal basso del
monte, roteando nella valle.

--Oberto!--gridò Ildebrandino, afferrando il nipote per un braccio sì
fortemente che quasi lo fece staffeggiare:--E non diemmo le mazze sul
capo al malaugurato! Guarda! La masnada era corsa la!

Oberto guardò e non riuscì che a dire:--E potemmo lasciare sola
Imilda!

Il trombetto si toccò la spada, dicendo, come ad ammansarli col
pensiero di vendetta:--E affermava dunque il vero quel traditore! Ma
gli ho pagato l'ambascerìa quanto valeva: tre stoccate sulla testa
tanto vecchia e tanto pelata! E ancora parlava! "Ho difeso!" E voleva
dirmi il suo nonme, e lo disse, ed io lo bandirò per vitupero dei
traditori: Federigo saluzzese.

--Il mio fedelissimo servo!--urlò lldebrandino: e Oberto spronava al
suo castello.

--Tu l'hai ucciso! Vitupero a te, figlio di bifolchi! Non conosci i
forti e i fedeli?... Oberto! Oberto! attendimi al tuo fianco!... Tu
l'hai uccìso? E tu mi tradisci?... Oberto! Oberto! Noi due soli? E i
nemici quanti saranno? Ah! quelli cui diemmo il passo! E Federigo
perchè lasciò Imilda? Forse che tutto era già perduto? Ma quelli che
appiccarono il fuoco, non sono nemici di tutti! Dunque su tutti!...
Suona la ritirata, o araldo, suona poi a raccolta e muoviamo al
castello!... Oberto! Oberto! attendici! Saremo più di cento lance!...
Suonate la ritirata, suonate, messer l'araldo! Suonate, per
pietà!--Così finiva a supplicare il cavaliere, quasi impazzato, e
pregava, alzando la mazza, e minacciava a mani giunte, e strappava le
redini al cavallo per raggiungere Oberto e le strappava per accostarsi
al trombetto.

Aimone avrebbe le mille volte voluto una freccia a forargli le
orecchie, piuttosto che quelle parole a straziargli l'anima, e
chiamava il capitano che lo conducesse al furore di una zuffa,
così:--Messer Ugo! Ditemi che non è morto! Perchè mi partii dal suo
fianco? No, fu lui che mi mandò ad Eleardo! Messer Ugo!...

--Suonate, la ritirata!

E l'araldo dolorosissimo:--Oldrado non mi diede mai questo comando!

--Dopo fate a raccolta!... Oberto! Oberto!

--E se messer Ugo tornasse?

--Anche là al mio castello sono i nemici di tutti!

Il trombetto si disse con risoluzione guerresca:--La voce del capitano
è la tromba: udite la voce--e squillò, verso il monte.

--Che segno è questo?--domandò trepidante il cavaliere.

--Quello che avvisa i saluzzesi di accorrere al portone!--disse
superbamente l'araldo, e suonò verso la valle, e vide che dopo lo
squillo si muoveva un drappelletto di cavalieri... Che? Un'insegna?
Un'insegna quadra di comando. Fosse...?--Era l'insegna dì Ugo. Aimone
staccò la tromba dalle labbra e guardò. Per una via Ugo veniva. E per
un'altra Ildebrandino cacciavasi a rovinosa corsa dietro ad Oberto....

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Alla mattina di quel giorno, nel castello d'Ildebrandino, partiti i
cavalieri, lasciandovi poca scorta, madonna Imilda era scesa nella
cappella. Oh sì eh'ella aveva grandissimo bisogno di conforto!

--O Signore, o Vergine santissima! Fate che il padre mio mi torni salvo
dall'armi! Almeno il padre! Oh come vi prego! Tu che sei interceditrice
potente, e tu che tutto ascolti!... Se ci fosse anche la madre mia a
pregarvi! Come la vorrei accanto a me!--E Imilda piangeva
dirottamente:--Ella m'avrebbe salvata da questo tumulto! Vedi, anch'io
vorrei esser tra l'armi, per udire quel grido:--vittoria!... Vergine
dolcissima, tu sorridi a me che piango? E tu che sei Dio hai voluto per
immenso gaudio avere in eterno la madre! A me l'hai tolta! Salvatemi il
padre, che mi protegga!... Che sarebbe d'Imilda deserta nel castello
degli avi?... Deserta?... O Signore, per un'altra persona io ti prego,
per Oberto... Oh ma sarei deserta senza padre, sola nei lunghissimi
giorni dell'abbandono! Oberto, povero Oberto, da tre notti non ho più
cucito la tua fascia... Qual tormento, quale dolcezza novissima in me!
Tu non sai! E se sapessi!... Ma che ho fatto? Che ha detto? Perché basta
uno sguardo, una compassione, una lagrima?... Una vita infelice!--E
Imilda fremeva tutta: e taceva, non osando nemmeno a sè stessa
confessare il grido dell'anima combattuta: poi--A Oberto m'aveva
promessa il padre: ed ero contenta, e sarei stata tranquilla... O
Madonna, che voglio dirti? Che vuoi ascoltare? Non so... voglio...
vorrei... devo, oh sì devo! come cristiana, pregarti per un altro
cavaliero: devo, come nata da liberi castellani, pregarti per il capo
dell'impresa! Egli ci rende tutto! Ed è valente, e cortesissimo....
Perchè sorridi, Vergine santissima? Non so, ma mi sorridi, come mai non
facesti. Ah perchè anche tu lo scorgi benigna? E fai bene perchè mi fu
detto ch'egli è infelice. Io sento che è infelicissimo! Non conobbe la
mamma sua. Tu che sei la mamma di lassù fagli conoscere almanco... una
sorella del suo dolore! E fammi grazia: disponi sì che ci sia un'altra
giovinetta, bella e religiosa più di me, la quale preghi per Oberto.
Così tu potrai esaudirla... Io sono... Io non so!.... Mi trovo
irrequieta.... Ah tu sai ed esaudisci! Mi trovo tormentata! Amo messer
Ugo! "Chi siete?" "Sono il figlio di Guidinga"... Ugo!

Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella
corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si fa in piedi
tremante, corre sotto un finestrone aperto.--I nemici!--ascolta la
voce del vecchio Federigo:--Salvate madonna!--ed ecco ancora:--Fuoco!
fuoco!

La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare,
scongiurando con fiero rimorso:--O Signore, salvate mio padre! Come vi
ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?--ed ode ancora un
rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre
affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima
che comandava:--Balestrate fuoco nelle finestre!--e un'altra:--Se
tutto arde che ci rimane di bottino?

--Combattete!--gridava Federigo agli uomini del castello:--Giuratemi!

Alla fantasìa della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da
una turba di lupi e da un torrente di fuoco: e qua sotto alle scuri si
sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano
gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più
e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava
assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle
finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere
fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche
ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una
maledizione... Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era
deserta: lo scalone, il corritoio, lo stanzone dell'arme...--O
Signore! la fanciulla se li imaginò al lume delle torce incendiarie
nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano,
venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già
afferrata: ella si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la
Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel
mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O padre!
O Ugo!...

La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò
con abbandono ai piedi dell'altare.--Non sia vero!--Fu scossa. Di
nuovo la voce:--Balestrate fuoco nelle finestre!--E un'altra:--Sulle
vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella.--Ancora la
prima:--Sconficcate le inferriate!

Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le
chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi
ancora, ma più rassegnata, scongiurò:--E se vuoi mandarmi la morte! fa
che non sia vergognosa!

In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate
affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle
prime:--Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono
nostri. Non fate chiasso. Io provvederò--e fu chiusa la porta per di
fuori e tolta la chiave.

--Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato
qualcosa, vi pare?--Dopo più nulla.

Poi nella corte:--Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è
su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia!

Ma più poderosa gridava la voce:--Balestrate fuoco nelle finestre!
dappertutto!

Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i
sensi.

Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò
avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto?
Era un nemico?... Il primo pensiero che le si affacciò fu questo
tremendo:--Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo
tristissimo!

La vergine spossata levò la faccia... Oh sì l'angoscia della
vita!--Sei tu!

Era Ugo il cavaliero.

La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte
cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce
d'Ildebrandino:--È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva!--Con
queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al
fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e
il morto padre di Oberto.

Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di
Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero
di quello:--Imilda nelle braccia di Ugo!

--Sì!--esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore,
in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli
avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono
delle membra, insidioso e annuente.

Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di
lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli
non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse
verso le fiamme, con atroce disegno....

--Di qui passerete un giorno sposa!--lamentò Ugo.

--Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno!--susurrò
Imilda.

Oberto mosse un secondo passo.

--Pietà!--stridette Imilda.

--Non sai morire?--tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e
rise.

E veramente per la prima volta sghignazzò.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Come Ugo era accorso nella cappella?

Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia.
Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua,
stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato
intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti
per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che
volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore
dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli
disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente
scompigliata, ma invano. Gridavano in cento:--Oh quanti morti! Sarà
gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo
traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi!

--E chi il traditore?

--Traditrice la poca esperienza degli anni in voi.

--Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di
vittoria e gloriosa vittoria?

Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e
dai casi della mattina... Ugo gridava... A un tratto ode uno squillo
di tromba.--Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire
che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita?
Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto?--sclama Ugo, e sorge sul
suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e
disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo,
Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca,
solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello.... Che? Nessuno
vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata
la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare
contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più
dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si
scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio,
piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era
sbarra, rotola nel fossato.

I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi
all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio
si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei
ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e
richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in
salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione
Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando:--Sorprendiamo cogli
arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate
di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me!

Bonifacio osserva:--È troppo tardi! Qui tutto è perduto!

--E che? In tutti un impeto solo!

--Baldo e Ildebrandino vi diranno....

--Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa!
Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio,
Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra!--Galoppa
verso il terreno raso, ed alza la faccia... Vede un fumo sollevarsi di
lontano.--Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le
castella? O Gesù!--e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo... In
quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno
all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a
sinistra, come una cosa pazza.--Qui tutto è perduto!--ripeteva il
cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio.--Ed io voglio
vittoria!

--Fugge il messere! Il capo dell'impresa!--fischiano dietro ad Ugo
Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle.

Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e
smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza
d'arcioni gridando:--Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà
una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a
me!

Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani:--Per
amore della croce, abbiatemi misericordia!

--Dov'è madonna?--supplica Ugo:--Ah!... misericordia a me!

--Non uccidetemi!

--Dico di madonna! Madonna! I nemici!

--Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio
della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone!

Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li
combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa,
facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare,
gridando:--È qui Ugo con cento cavalli!--Ugo, giù ancora per lo
scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed
Oberto. Incalza Ugo:--Ov'è madonna?

Quegli meraviglia spaventato:--I morti tornano!--E questi:--Ugo è
risuscitato per mia dannazione!--E tutti e due, facendosi segni di
croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente
li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad
essi, corre, corre... È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito
geme:--Abbiate pietà!--Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul
petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di
chierico.

E quello:--Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato!--Era Ingo
difatti sotto una finestra della cappella.

Ugo, con subito pensiero religioso, esclama:--Voto una lampada
d'oro alla Vergine di Saluzzo!--e facendo sgabello col corpo del
ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si
strascina su col petto, e ripete:--In luogo sacro voto due lampade
d'oro!--D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad
infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro...
Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa
per balzare... No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima
raddoppia il voto alla Vergine del cielo:--Quattro lampade d'oro,
per quel che ho falto! per quello che voglio fare!--e fìcca gli
occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la
destra.... Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!... Ugo balza
a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita
dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in
fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure.

A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano
combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il
castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano
stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo.
Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando:--È proprio lui! Gii
spiriti hanno braccia di nebbia. Questo no, per Dio!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto,
andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al
capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme,
vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei
feriti nemici.

Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse
dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e
col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma
ancora pronto a spiccare il volo.

Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente
che la sapeva assai lunga!



CAPITOLO VII.


Morti Aginaldo e Gisalberto: abbandonate le macchine sul campo:
lasciativi i cadaveri insepolti e i feriti inutilmente imploranti
pietà per lo strazio del Calvario: molti uffìziali fuggiti, e
moltissimi soldati corrotti dall'oro e dalle promesse: incendiato il
castello d'Ildebrandino: le cose rotolarono giù con maledetta rapidità
di male.

Ugo fu ad una voce accusato. Aveva mostrato certo ardimento in
principio: ma quale esperienza in lui? I tempi per ricorrere all'armi
non erano proprio quelli: bisognava aspettare, e Aginaldo già da
cinque anni aveva fìsso un pensiero d'impresa che doveva essere
sicura, Aginaldo sì, sperimentato, risoluto, tenacissimo! Ma il
vecchio aveva saputo aspettare, e ancora avrebbe aspettato, se la
storia di quello sparviero stecchito sul cuscino nero non fosse venuta
a metter le febbre in tutti i polsi. E poi Ugo era fuggito dal campo,
lui proprio che aveva detto a Bonifacio:--Io solo sono il capo
dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io,
io!--Ildebrandino e Oberto bastavano soli a liberare Rupemala. Ugo che
aveva fatto? Quante cose sconciate! Quante armi e quanti uomini
perduti! Come aizzato Adalberto! Per Ugo anche l'impresa da farsi fra
dieci anni da quella, l'impresa che doveva proprio riuscire, era
guasta ed anche resa impossibile.--Ma perchè l'avevano ammirato, ed
ubbidito e acclamato capo?

Ugo dunque fu accusato: il castello di Aginaldo due notti dopo
sorpreso dagli armati di Adalberto, i quali violarono la fierissima
vedova rimasta e poi la serrarono in un monistero a fare penitenza:
assediato il forte di Gisalberto che lasciava due figliuoletti ed
unica guida un maestro d'armi: Baldo ringhiò che sapeva e doveva
resistere da sè, che i suoi capegli bianchì non aveva mai creduto gli
avessero a dare la vergogna somma, e Baldo alzò il ponte levatoio
giurando di voler uccidere Adalberto e il traditore dell'impresa.

Adalberto, _illustrissimo ed eccelso signore_, dalle torri del suo
castello, con trombe militari, ai gentiluomini dell'_inclita signoria_
pubblicò un bando con cui poneva prezzo d'oro sulla testa di Ugo,
promettendo perdono a quello o a quelli dei soggetti che gliela
recassero su un bacile vilissimo, nella chiesetta d'Auriate, senza
scorta d'armi, con tonache dì penitenza e corda al collo. Ciò a
commemorare l'omaggio reso tanto bene nel giorno di Pasqua di
Resurrezione.

Ed Ugo? Ugo, chiuso nel suo castello, ad occhi aperti sognava
sempre di lanciarsi in una cappella ardente, come una fornace,
sognava tutti i supplizi del corpo e dell'anima. Una donna
strideva, brancolando, tra il fumo e le vampe: la cappella era
lunga lunga, e più egli avanzava, più cresceva il lamento....
Giungeva a lei, l'afferrava, l'alzava: ella chinava il capo sulla
spalla, abbandonatissima: egli si sentiva legato alle gambe,
inciampava, rompeva potenti lacci: ella supplicava:--Strappami da
questo fuoco eterno!--E. da quel fuoco neppure egli poteva uscire.
Crescevano gli strazi:--Strappami!--ella lo supplicava:--Pietà!
pietà del mio tormento del cuore!--Ah! è così ch'ella domandava
pietà? Si! Ugo, che voleva abbandonarla alle fiamme, nulla più
vedeva, nulla sentiva, sentiva solo un bacio rovente... un bacio di
Imilda!--T'amo, t'amo, Imilda! In qual momento te lo dico! M'hai
ascoltata? Sei viva? Chi ti strappò a me? Io ti allentai le mie
braccia? Non so quello che accadde! Ma tu non sei morta? Supplico
Dio, no, no! Quale incertezza!--Ed Ugo, così torturato, sentiva
corrersi per tutte le fibre una potenza di nuova vita: e sorrideva!
Allora ecco alla fantasia il padre, in un tratto, che rampognava
orrendamente:--Perchè ti diedi speroni d'oro? Perche tu fossi
vinto? Già troppo affanno fu nella famiglia di Oldrado per il
serpente della donna! Guardati, Ugo, guardati!--Ed Ugo
piangeva:--Padre, se ella è viva ancora, come si tormenta! Io non
posso odiarla!

Allora Ugo vedeva l'acqua stagnante di un fossato, tutta sozza di
sangue, putrefatta e fangosa: alla superfìcie venivano a scoppiare con
flaccido gorgoglio e con lentissimi cerchi alcune bolle d'aria: sotto
qualcosa si moveva all'insù: ecco una testa coi capegli impegolati sul
volto da una melma verdiccia. Che? si chinava salutando. Sulla nuca
era aperta e scheggiata: si drizzava e boccheggiava, come quella di un
ferito e di un annegato. Era messer Gisalberto! Quel morto affondava:
qualcosa ancora si dondolava all'insù. Messer Aginaldo quest'altro! E
i due cavalieri a vece di pupille avevano un globo bavoso che colava,
il naso pesto, alle labbra cascanti penzolate le irrequiete code dei
vermi. E i due borbogliavano:--Traditore tu?--.... Ecco Manfredo e
Bello, i figliuoletti di Gisalberto, affamati disperatamente nel
pattume di un sotterraneo e disperatamente imprecanti:--Traditore!--E
madonna Marzia, la vedova, sbattuta a terra da due sozzi ferocissimi,
chiamava la Vergine, e si rannicchiava ululando:--Per te traditore!--E
il vecchio Baldo si armava e ringhiava:--Muoverò al tuo castello!--Poi
Ildebrandino e Oberto: Oberto era il dimonio della gelosìa;
lividissimo, furente, toglieva una ciotola ai cani, in quella sputava,
e in quella poneva la testa di Ugo. Il conte d'Auriate
ridacchiava....--Madonna di Saluzzo, voto dieci lampade
d'oro!--gridava Ugo. Allora di nuovo ecco una cappella ardente, ecco
una donna....

--S'io non l'avessi veduta--gridava Ugo:--non l'avrei conosciuta, non
sarei fuggito per lei! E chi è lei? S'io non l'avessi conosciuta?
Cavaliero che combatte senza pensiero di dama è vulgare mercenario! Se
io non l'avessi amata? Ma se era destino, se è destino ch'ella
riaccenda la vendetta! E la vendetta sarà atrocissima su tutti! S'io
non fossi fuggito dal campo? Ma quelli che erano al suo castello non
erano nemici, e non volevo io raggruppare la pugna decisiva?... Se non
ci fosse stata lei! Ma se così era, chi sarebbe ora dinnanzi alla mia
fantasìa orrenda a misurarmi nei deliri dell'affanno? Non la
rabbuffata larva del padre! Non la oscena di Guidinga!... No, no,
voglio vivere e vivere di guerra! Sono vinto, e ancora voglio
sostenere il peso vituperante della vita! Sono disonorato, e non mi
schianto per mia volontà d'abbominio! Sono abbandonato da tutti, e
voglio meditare fortissimi fatti! E impreco colla voluttà della sfida:
"Dammi ancora maggiore tormento!"... Oh se non ci fosse stata lei!
Ella mi supplica nel giorno, nella notte: "Vieni, cercami, fammi
giurare, precipitati e vinci!" La voglio! La voglio mia fosse pure in
mezzo ad un fuoco che per secoli non si spegna! Imilda, dimmi che sei
viva! Ti supplico!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



E Imilda? Ritorniamo a Rupemala.

Imilda, in quel momento in cui Ugo aveva riso, senza più una coscienza
al mondo, fu afferrata e salvata da Oberto, spinta fuori della
cappella. Ildebrandino, a cui le vampe vividissime e sibilanti avevano
impedito di vedere gli atti e di ascoltare i gemiti di quelle povere
anime disperate, Ildebrandino abbracciò Ugo, uscito lentamente dalle
fiamme, e volle che Oberto l'abbracciasse, gridando:--Gran mercè!
Nipote mio, questo è un esempio!--Imilda fu trasportata in una camera
e soccorsa. Ugo s'involò dal portone: e nulla a Rupemala si seppe di
lui.

Il dì dopo, continuando l'incendio, per quanti sforzi si fossero usati
a vincerlo, Ildebrandino decise risolutamente di resistere ad
Adalberto, contendendogli mattone per mattone dell'irreparabile ruina:
e disse ad Oberto:--Qui dobbiamo morire con esempio non unico certo
nella nostra famiglia. Avesti gli sproni d'argento: dunque sii
contento, e ricordati che la ubbidienza agli esperti è grande virtù di
guerra.

Oberto era tetro. E a quelle parole rise amaramente.

--So che vuoi dirmi, Oberto. Ti paiono pochi gli sproni? Sii contento:
non a tutti è data l'audacia delle cose fortissime. Hai parlato con
Imilda stamattina?

--No.

--No?

--Ha domandato di me?

--Sì: e ringrazia Iddio....

--Ringrazi messer Ugo.

--A tutte l'ore!

--Dannato sia!--imprecò Oberto.

--Come? Come? Quanto fu valente per noi! Sì!--affermò Ildebrandino.

--Per la impresa?--rise Oberto, invelenito: guardando lo zio con
degnazione, quasi gli dicesse:--Mi accontenterò io dei vostri giudizi?

--Oberto, l'hai veduto nelle fiamme?

--Troppo ho veduto!

--E per la impresa, tu dici? Ugo ha pugnato, come un forte, e l'amo!
Ma Dio ci maledisse.

--Perchè c'era lui!

--Oberto, che hai? La tua ira mi piace! Contro chi?--si accese
Ildebrandino.

--Contro di voi--ardì Oberto.

--Ti sono amare queste parole?

--Zio!--rispose Oberto ad un tratto:--Voglio sposare Imilda, anche
oggi!

--Quando Ildebrandino consenta--rimproverò lo zio. Allora Oberto con
astio e con ironìa:--Ah volete combattere voi? Ugo sarà con noi?--E,
meditando una offesa verso Ildebrandino e una vendetta contro Ugo,
domandò tra sè stesso:--Venti anni fa, quando Adalberto mosse qui,
come combattè lo zio?... Che gloria!... E voi, messer Ugo, perchè
avete spezzato l'uscio della cappella sacra? Era meglio che Imilda
morisse, là, sola! Volete ch'io parli al vescovo di Saluzzo?--E
Oberto, dopo un silenzio beffardo collo zio, si espresse così:--Fate
che, morendo voi, io abbia un castello, o la memoria di un castello: e
voi le esequie da cristiano.

--Duri la guerra un mese, duri un anno!--rispose Ildebrandino, offeso
più che mai e più che mai dignitoso:--Perchè mio nipote parla così?
Ch'io non sappia combattere? Ch'io non conosca i valenti? Ebbene,
senza messer Ugo io sfiderò Adalberto.

Oberto fu contento.

--Senza Ugo, sì: e mio nipote ascolti:--Ildebrandino andò al fondo di
torre dove sapeva che era stato chiuso Guidello: lo trovò rabbioso di
fame, lo trasse su, lo fece rifocillare, poi lo accommiatò così:--Va,
araldo del malanno, tromba di vergogna. Io ti lascio e ti comando
questo: torna al tuo signore e digli che con Ildebrandino c'è Oberto.
Digli che Oberto vuole un castello per sè e per i suoi: il castello
può essere quello di Adalberto. Madonna Marzia, Manfredo e Bello
domandano vendetta. Che pensi Baldo non so: so che i vili e i
traditori non sono più sotto il suo tetto. Io ti lascio e ti ho
comandato.

E Ildebrandino e Oberto s'apparecchiarono a disperatissima difesa e a
furioso conquisto. Oberto un giorno disse:--Zio, lasciate ch'io vada a
domandar benedizione al vescovo di Saluzzo.

Ildebrandino crollò la testa: ma Oberto volle proprio uscire dal
castello. Tornato di lì a poco tempo, con volto soddisfattissimo,
domandò:--Ov'è madonna Imilda?--come se dicesse:--La _mia_! Voglio
sposarla oggi, col piacere suo e con quello di Ugo!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Madonna Imilda non era più con Ildebrandino. Questi, per toglierla dai
pericoli dell'armi, l'aveva segretamente affidata alla custodia dei
figliuoli del povero Federigo e della vecchia Agnese, e fatta partire
per una casetta di boscaiuoli, lontano, su una delle montagne, che,
con quelle su cui sorgevano le castella dei cavalieri e del signore
Adalberto, formava il contrafforte che si spicca dal Monviso. Questo
contrafforte coll'altro staccatosi dal monte Meidassa chiude la valle
ove nasce il Po: al di qua la valle di Varaita, di là quella del
Pelice, all'apertura Saluzzo.

Là su stette madonna Imilda, un giorno, e due, e tre... Le diceva la
vecchia Agnese:--Madonna, oggi si combatte. Preghiamo.

Imilda rispondeva:--C'è un cavaliero che vince sempre e tutto.

Alla sera venivano sulla montagna i figliuoli di Agnese a portare le
nuove: e le donne domandavano:--Nessuno sa niente? che Imilda è qui?

--Nessuno.

--E quel cavaliero?

I boscaiuoli intendevano di Oberto e rispondevano:--Coll'usbergo è un
san Giorgio. Ma sa niente!

Oh come pregava Imilda in tutti i momenti!--Madonna del cielo, non
dovevi mandarmelo! Sarei morta su i tuoi gradini e tu mi avresti dato
il paradiso! Non avrei conosciuto l'inferno in questa vita! Amare come
amo io! Come volle Dio che amassi!... E non so nulla di lui! E non oso
domandare di più.... Ma è questo l'amore?... E che mi disse egli
perch'io abbia diritto ad amarlo? Che fece! Vinse il fuoco!... E che
era morire a confronto di questo vivere? Ugo, Ugo cavaliero, Ugo
infelicissimo! Perchè non vieni? Forse che t'hanno ucciso? Forse che
m'hai dimenticata?... Ucciso!... Chi può avere alzato la mano su di
te?... L'anima mia non sa combattere l'incertezza tremenda! Così
disse: "Sono il figlio di Guidinga!" E chi era Guidinga?
Un'innamorata? Ma ella forse fu un angiolo. Io sono condannata in
questa vita e nell'altra.! L'amore cominciò tra le fiamme, e tra le
fiamme inestinguibili sarà eterno tormento!... Pietà, madre dei
pentiti: io non so quello che dico! E tu m'avresti dato il paradiso!
Ma se già mi hai condannata, questo è troppo strazio: e lo spezzarmi
così è indegno di te che tutto puoi. Puoi volere anche in me la
bestemmia.... Non sono io che parlo: è Ugo in me! No, no, Ugo sarebbe
perduto, ed io voglio invece la sua eterna salvazione! Non è Ugo, ti
giuro, ti scongiuro! È il cuore straziato!

E la vergine una sera si fece raccontare da Agnese i casi di Guidinga.
E Agnese concludeva:--Dite, se la conobbi! Come conosco voi. Giusto,
come voi, la piangeva sempre quando il suo Adalberto era lontano. Voi
perchè piangete?

--Ho paura!--rispondeva Imilda.

--Conoscete la fantasma fiammante di bianco?

--La _madonna perduta_?

--È l'anima di Guidinga fino al dì del giudizio.

--È così disperato l'amore! Chi ci resiste?--lamentava Imilda.--Come
reggerò al rimanermi quassù?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Ugo da quattro giorni, sempre chiuso nel suo castello, si combatteva
atrocemente.

E così:--Ildebrandino ed Oberto ieri vinsero. I servi prigionieri nel
castello di Aginaldo l'altra notte uccisero il capitano di Adalberto.
Baldo con Manfredo e Bello s'apparecchia a muovere qui per guadagnare
la taglia.... E tu che fai, Ugo? Tu capo dell'impresa, tu redentore,
tu giovanissimo conte!... Se Dio ci faceva vincere! se i morti di là
avessero supplicato coll'ardore delle fiamme! E tu hai pensato ad
essi? Oh i morti ora si levano ferocemente ad imprecarti! E la viva
sorride!... Il padre già dalla culla ti condannava alla vergogna e al
furore, e tu che avresti dovuto maledire la donna, tu per la donna sei
maledetto!... Temi la taglia? Ma che vale la tua testa? Vale oro, non
onore. Temi la morte? Ma che vale la tua vita? Fu già carica d'onte.
Speri la vittoria? Speri l'amore? C'è la morte! Oh questo sì ch'è
strazio ineffabile! E anch'io supplico: "Pietà!" come supplicò Imilda.
Pietà della mia vita! Ecco la vilissima preghiera! Preghiera di
donna!... Sì, ti sogno ancora nella cappella avvampante: giungo a te,
ti stringo: e tu chini il capo sulla mia spalla, ed io ti dico: "Ti
odio!" Ecco l'anima mia, ecco il mio dovere!... Che faccio ora? Io che
mi sento la forza e la ruina dei turbini. Io che voglio uccidere, e
crollare le torri, e sghignazzare fra il suono di cento trombe, e
morire pur che Dio mi ascolti!... Dio non ascolta mai!... È così muto
il sepolcro del padre! È così trista l'ironia del nulla!... Voglio
vita, vita strapotente, ed ogni vita è in queste parole: "Ti odio!
Femmina, ti odio!" O viva, o morta, sii detestata!



CAPITOLO VIII


Una sera (la quinta dal giorno della rotta) Ugo era nella sua cappella
parata a lutto, da tre ore cogli occhi fitti nella croce, colle membra
invase da una febbre crudelissima.

Finiva appunto di parlarsi così:--Il martirio m'ha addoppiato!
Finalmente! Stanotte istessa vedranno i miei nemici chi è Ugo, quando
vuole e dev'essere il figlio di Oldrado!--Ed ecco ad un tratto, nello
spessore delle pareti, come un rumore di ferri scossi e di ruote
scorrenti: certo indizio che si calava al di fuori il ponte levatoio,
senza squillo di corno e senza parola data e ricambiata. Che era mai?

Ugo si accigliò: pure continuando ne' suoi pensieri:--Non è giorno di
sabato, nè ora da tregenda.... Giuoco d'imaginazione, via!... Chiamerò
Bonello: ch'egli faccia apparecchiare gli uomini, e, questa notte
istessa vedranno i miei nemici! Ugo ama ed odia una cosa sola: la sua
spada!--e se la cercò al fianco, e non avendola, si morse le labbra.
Impazientissimo andò verso la porta: ed ecco si abbattè con Bonello
che veniva innanzi lentamente e colle mani nascoste dietro le reni.

--Messere,--disse Bonello:--siete disarmato?

--Debbo temere i traditori nel mio castello?--rispose fieramente Ugo,
e comandò:--Bonello, fate alzare subito il ponte.

--Ah voi sapete?--e lo scudiero s'avanzava strisciando sulla parete
che la lampadetta dell'altare lasciava al buio, e vedendo sull'altra
l'ombra della sua persona barcollare gigante, continuava:--Sapete:
tante cose le paiono, ma non sono?

--Come a dire?

--Io fui sempre sicuro e fedele.

--Bonello!

--Ma sapete quanto vale la vostra testa? Oggi fu triplicato il prezzo.
E voi sapete com'io sia povero diavolo, ad onta dei servigi che ho
fatto ad Oldrado.

--Tu! tu ami l'oro! Bonello, questo è castigo d'Iddio! Tu puoi! Ma io
ti risparmio il delitto! Ti amò messer Oldrado!--ed Ugo diedesi a
chiamare:--Aimone! Aimone!

--È inutile, messere. Ho preveduto, è spacciato, e non risponde più.

--Io non consento, Bonello, che tu perda l'anima in modo così vile! A
me!--e prima che Bonello si muovesse di un passo, Ugo tolse un
candelliere dall'altare e lo rotò come una mazza:--Potrei ucciderti!
Ma nemmanco voglio!--e lo balestrò sul pavimento.

--Messere, colla taglia che avete sul capo c'è tanto da pagare tutti
gli uomini del castello. Avete pensato? Noi abbiamo pensato.

--Bonello! m'ammazzi un ribaldo anche pagato da te, ma tu no, no!

E Bonello, come preso da un rimorso:--Ho giurato a messer Adalberto!

--Morire così? Voglio vivere per combattere! Scellerato!--ruggì il
cavaliere, e con un lancio balzò all'uscio della cappella, e
furiosamente prese giù per il corritoio:--In questa chiesetta dunque
così mi si pagherebbe il tradimento di Oldrado!

L'altro sempre a cinque passi gli era dietro bestemmiando:--Ho
giurato!

Ugo venne nella corte. Tutto era buio, e poco mancò non inciampasse e
fosse trucidato. L'unico luogo che fosse illuminato da una fiaccola
era l'androne della porta: Ugo vi si diresse, cogli occhi invano
cercando un'arma qualunque: vide aperto il portone e calato il ponte,
come era stato fatto per preparare la fuga a Bonello nel caso di colpo
fallito, o per preparare il peggio. Ad un camerotto si affacciarono
gridando dieci o dodici uomini, e minacciando. Ugo ne atterrò due in
un baleno, ma, mentre stava per strappare loro la spada, eccogli
vicinissimo quel grido di condanna:--Ho giurato!--Ugo, abbrividendo,
si scagliò contro Bonello, e in un fascio tutt'e due stramazzarono sul
ponte, e ruzzolarono innanzi sette od otto passi, sì che dalla tavola
di legno vennero al ciglione del fossato. Bonello tentava di adoperare
il pugnale, ma sotto la stretta del signore non poteva: la lotta
divenne accanita per le percosse menate alla cieca. Alla fine Ugo
abbrancò il pugnale. Bonello si svincolò, sorse, e prese a fuggire giù
da una stradetta. Ugo corse, corse, giù, a fiaccacollo per balze, giù,
perdette la traccia dell'altro, precipitò, e cadde rotoloni.... Non
ascoltò più.... Quando si drizzò gridando:--Voglio tornare al mio
castello!--ascoltò dietro, all'insù, già, lontano, queste grida
ubriache:--Viva messer Adalberto!--Ugo si rivolse e vide moltissime
fiaccole che giravano intorno alle sue mura e sparivano a poco a poco
entrando nel portone.--Adalberto è padrone del mio castello!... Il
tradimento era preparato!--disse Ugo, ed imprecò:--Che mi resta? Il
mio odio e il mio amore!--e a vece di scheggiare la testa contro un
masso per finire il martirio, l'alzò superbissima al cielo.

Due o tre fiaccole venivano giù dalla porta verso la stradetta, e una
voce gridava:--Bonello! Bonello!--e poi:--Si accresce la taglia di due
mucchietti d'oro.... O vivo messer Ugo o morto....

Ugo scese senza una direzione per la valle, nella notte oscurissima,
poi s'arrampicò ad un monte, sempre alla cieca, percuotendosi nelle
piante, molte volte cadendo, affondando, squarciandosi i piedi e
legando le gambe nei rovai, e spiando cogli occhi intentissimi,
coll'odorato, colle mani....

Camminò, camminò. Ad un tratto gli parve che qualcuno parlasse di
lontano. Egli si protese a terra, ficcò gli occhi nella tenebra, e
scorse tra il nero degli abeti una striscia più chiara che montava,
montava, si perdeva: era una stradetta. Dio sa per dove! Ugo nulla
conosceva. Concentrò tutta l'anima nel senso dell'orecchio: capì che
due uomini armati venivano su parlando tra loro.

Ugo incominciò ad afferrare queste sole parole:--.... quello che dite
voi è un cavaliere valoroso. Ma l'altro è da sgozzare.

Avvicinandosi i due interlocutori, Ugo rattenne il fiato: e sentì
distintamente il colloquio: ed eccolo:

--Chi disse che Ugo era morto per ferro, chi per sasso. E compare a
menar così la scure, rompendo l'uscio della cappella, una cosa sacra.

--Perdono d'Iddio!

Ugo, per tacere, si cacciò un pugno in bocca.

Diceva l'uno:--Adesso c'è su scomunica per tutti. Ohe, non ditelo,
fratello, a mamma Agnese, se no ci troviamo giuntati anche di quel po'
di cena, dopo una giornata d'arme come questa.

E l'altro:--Messer Oberto non parlò con noi? Si è spento l'incendio,
per grazia della Vergine: perciò fu pubblicato un bando dal duomo di
Saluzzo: con cui Ugo è scomunicato, sette volte sette, noi solo
una.... ed è di troppo! Ma lodiamo Dio! sarà levato il peso dell'anime
nostre solo quando madonna potrà sposare un cristiano leale che paghi
il papa.

--Dicono d'Oberto.

Ugo quasi si sgangherò le mascelle.

Continuava l'uno:--Ed ha di già fatto sacramento al vescovo messer
Oberto. Hai veduto la croce sulla pergamena?

Diceva l'altro:--Oberto è un cavaliero valoroso.

E i due si allontanavano. Ugo guardava ed ascoltava. Solo tenebra e
silenzio. Ugo fece per alzarsi e seguire i due uomini, ma non potè!
Così disteso a terra com'era, si cercò alle reni il pugnale per
appuntarselo al petto e poi pregare con religiosi e suicidi
contorcimenti: l'atto della supplicazione, credeva, avrebbe celato a
Dio il delitto. Non trovò l'arma: allora disse:--È volere del cielo
ch'io non muoia così orrendo!--e potè rizzarsi, e salire la
montagna.--O Signore--scongiurava:--fammi capitare a Malandaggio! C'è
un buon romito nella grotta.... Ch'egli mi ribattezzi coll'acqua del
Chiusone!... Nella valle giù.... c'è.... Imilda.... Imilda!... E
voglio fuggirla!... Su, su, su, t'arrampica!... Imilda!--e
vaneggiando:--Su, su!... È pur triste la strada al paradiso!... Sulla
cima m'attende la morte!...

L'eremita era lontanissimo, oltre la valle del Pelice, nella valle del
Chiusone, sul Malandaggio, tra le Porte e il Villaro.

In questi pensieri, smarrita ogni traccia di sentiero, errò tutta la
notte....

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Torniamo a Rupemala.

Oberto e Ildebrandino erano divenuti nemici, come si vide, e i
nemici in casa sono peggiori di quelli coll'armi alla mano.
Ildebrandino pensava:--L'ho colmato di benefizi, come se fosse mio
figlio, e speravo tanto d'Oberto! L'avevo bene cresciuto! "Voglio
Imilda!" Dopo ch'io gliela avevo concessa' Non doveva, non poteva
dire così.... Ma v'è un'offesa maggiore!--Sì, Ildebrandino aveva
udito amarissimamente rinfacciarsi la sua mala fortuna di un tempo,
e fu trafitto da quel dubbio villano: "Fate che, morendo voi, io
abbia un castello o la memoria...." E che aveva soggiunto Oberto?
Le esequie? Ildebrandino aveva capegli grigi: pensò e ripensò, e si
sentì come maledetto.... Quel giorno in cui Oberto tornò da Saluzzo
chiedendo d'Imilda, Ildebrandino rispose:--È _mia_ figlia!--e
veramente provò addoppiato l'amore per lei, già lontana, ma sicura.
Oberta domandò a tutti per sapere qualcosa, ma invano. Allora lodò
lo zio, finse di volersi pacificare con lui, forse per acconciargli
più traditora una certa sorpresa che meditava pel dimane, escì con
lui a cavallo per vedere dove fossero appiattati i nemici; si
rappattumarono un poco, ma sulle loro labbra c'era sempre un'ironia
velenosa, sempre quell'espressione--Lascia fare a me--che si
mostrava più e più, quand'essi volevano ricacciarla.

All'indomani entrò un frate nel castello e parlò con Oberto, perchè lo
zio era uscito coi balestrieri ad apparecchiare una offesa contro
Adalberto, che continuamente faceva scorrazzare della cavalleria.
Oberto parve assai dimesso, ricevette un rotolo di pergamena dal
frate, e lo accommiatò:--Che messere il vescovo ne faccia grazia!
Speriamo nella Vergine di Saluzzo. Sì, farò ancora limosina al
convento, copiosissima....--Poi tra sè:--Se il papa mi sapesse dire
dov'è Imilda?

Ad Ildebrandino nulla fu detto. E quel giorno il cavaliero volle
combattere, combattè fino a sera, cessò, e, meditando una certa
impresa per la notte, tornò al suo castello, e sembrò riconciliato con
Oberto, perchè questi gli fu allato sempre, come un prode.
Ildebrandino, cogliendo il momento che Oberto non vedesse, chiamò a
sè, in una torre, i figli del vecchio Federigo e di Agnese, e loro
disse:--Ritornate su alla montagna e portatemi per domani le nuove di
Imilda.

Oberto che era nella corte, da un pezzo meditabondo, vedendo partire i
due fratelli, credette che si recassero dai vassalli cogli ordini per
la notte: domandò loro:--Dove andate?

E quelli:--Dove vuole messere.

--Vuole lui? Non sempre si è obbligati a obbedire noi--istigò
Oberto:--Vuole?

--Come?

Oberto mostrò loro la pergamena che aveva in petto, parlò
sommessamente, rivelando una gran cosa accaduta, e concludendo:--Siete
sciolti da ogni giuramento verso lo zio. Obbedite a me che posso
salvar tutti! Ditelo ai soldati. Io voglio comandare a tutti loro, se
ad essi preme il nome di cristiani e la salute dell'anima.

--Che mistero!--disse uno dei fratelli, avviandosi.

E l'altro:--Non ditelo a mamma Agnese. E se stanotte il dimonio ci
gioca!--e fece l'atto di segnarsi colla croce, ma si arrestò
lamentando:--Non si può più, e mi trema la mano!

--Che cosa! Quando gli altri la sapranno!

I due uscirono dalla porticella di soccorso, e s'incamminarono, taciti
e compunti, alla montagna: e furono proprio quegli armati che Ugo
ascoltò con tanto amore.

Quella sera, appena Oberto vide Ildebrandino:--Zio--gli disse:--Ho da
parlarvi e da senno.

--Senti chi vuol parlare da senno!--interruppe lo zio, egli stesso
suonando un corno:--Dobbiamo fare una sorpresa, devo farla. So che una
congrega di demonii deve passare non lontano di qui, colle fiaccole,
per tentare un tradimento al castello di Ugo, so.... Che hai? Orvia,
parla.

Oberto voleva che maggiore solennità accompagnasse la rivelazione che
aveva a fare, perciò si morse la lingua, dicendo:--A tempo migliore
parleremo. L'auguro per me e per voi.

Uscirono, trovarono i nemici e combatterono: nullameno i traditori
proseguirono il loro viaggio. Ildebrandino guadagnò una ferita alla
gola, leggera, lo credette, una graffiatura, ma con un certo
bruciore.... Oberto pensò:--Quella proprio che ci voleva per tenermelo
quieto--accompagnò lo zio al castello, lo sdraiò sul suo letto e lo
guardò. Quegli si smarriva negli occhi, borbogliava sordamente,
dicendo:--Niente!--e cominciava però a contorcersi.

--Messer Ildebrandino,--prese a dire il nipote:--debbo annunziarvi che
il vescovo di Saluzzo.... Non mi ascoltate?

Non lo ascoltava davvero.

--Debbo annunziarvi che il vescovo di Saluzzo.... Svegliatevi!... Ma,
ma, zio! Che avete?... Non posso pregare per voi, mi spiace....
Svegliatevi! Ah, ma com'è questa scalfittura? Che ei si vada
addormentando come un ghiro?... Zio, ditemi, ov'è Imilda?--finì per
comandare:--Ditemi!

Ildebrandino era assopito: la ferita, d'arma avvelenata, si faceva
livida e gonfia.

Oberto prorompeva:--Ah la mia vendetta! Perchè cadrà a vuoto? Zio,
zio! Ho tanto fatto, e sì bene!... Ascoltatemi! per poco.... Che mala
fortuna!... S'egli morisse?... Zio!

Per tutta la notte Oberto trepidò, senza chiamare aiuto d'uomo.
All'alba tolse su lo zio, lo denudò, lo portò nel corritoio, nella
corte, lo pose a terra dinnanzi alle finestre della cappella, e lo
coperse del drappo nero dei morti, ma senza croce, senza un
ramoscello d'olivo, senza una goccia d'acqua, lasciandogli sporgere
i piedi unghiuti e i capegli irti. Poi prese una mazza, e tra una
finestra e l'altra inchiodò la pergamena che aveva avuto il giorno
prima, gettò sullo zio un po' di cenere, e dicendo:--Almeno è morto
scomunicato!--lo stette a guardare un pezzo.

Ad un tratto il drappo nero si mosse, e dalle pieghe sporse una mano
che ne ghermì la frangia, la strappò, la strappò: apparì fuori il
volto di Ildebrandino, paonazzo, furente, soffogato: gli occhi si
ficcarono sulla pergamena segnata di croci e di grossi caratteri: si
spalancarono, ma furono accecati dalla cenere che vi cadeva dal drappo
sempre più scosso dalle mani febbrili.

--Zio!--disse Oberto:--è inutile che chiamiate il becchino. Gli
scomunicati come noi giacciono insepolti.

--Ah sei tu? Oberto!--incominciò Ildebrandino, svegliandosi per poco
dal lungo sopore:--Perchè non so leggere, come un frate? La vedo lì la
condanna, la vedo! Ma nemmeno tu sai leggere: sono contento!

Oberto si piantò sotto la pergamena, esultando:--Non so leggere, ma io
l'ho dettata al vescovo di Saluzzo. Ugo è scomunicato sette volte
sette: noi una sola: sarà levato il peso all'anime nostre solo quando
un cristiano leale sarà padrone di questo castello.

Ildebrandino si contorse tutto, gettò il drappo, e fece per rizzarsi:
ma ricadde:--Perchè sono qui?--domandò, e tacque.

--Voi morite così?

--Ah Oberto!

--Morite scomunicato, insepolto? Pensate qual castigo orrendo!
Scomunicato, insepolto!

--E che a me?--delirò il moribondo:--Vedi tu questo drappo? Nera è la
morte e senza speranza. Nulla sento, nulla ricordo più!

--Voi dunque morite così?

--Solo i frati veggono i demoni, solo le donne veggono gli angioli.

--Le donne? Pensate che Imilda è scomunicata! Dice la pergamena: sarà
levato il peso dell'anime appena ch'ella possa sposare un cristiano
leale che faccia molta limosina.

--Imilda?--A quel nome Ildebrandino si tirò addosso la coltre col
massimo rispetto: e comandò:--Lasciami, Oberto!... Mi manca la
lena.... Non gettarmi nel pattume!

--Che bel momento per cercarvi la sposa! È venuto!...

--Lasciami!... Mia figlia non è qui?... Come si muore senza fede!--e
il vecchio quasi pianse:--Imilda!... Nulla sentivo, nulla ricordavo
più!

--Desiderereste che Imilda fosse qui?

--Tu la vuoi sposa?... Ma no!

--Imilda che dirà di suo padre, che tutti ci volle dannati! Dannati
per lui che moriva! Imilda deve vivere.

--E volevo vivesse felice!--Ildebrandino era straziato in modo
ineffabile: e pregava:--Dammi la mazza sul capo! No? Dio, fammi
morire!... Morire?... Nella morte c'è un mistero che mi pesa! Sento
adesso: no, no...! Oberto, lasciami: tristo, vituperato,
ingratissimo....

--_De profundis clamavi ad te, Domine_.

Infine Ildebrandino disse:--Va alla casa di Agnese e di Federigo: là è
Imilda.... Affrettati, affrettala!... Prima ch'io muoia!... Fa
limosina coi gioielli di Adelasia mia, prega, fa pregare! Affrettati!
Sposa Imilda, prima ch'io muoia, ah!... O Signore, dammi un po' d'ore
di vita, a costo di qualunque spasimo! Carità! Credo nel Signore!...
Affrettati!

Oberto corse al monte.

D'Ildebrandino parliamo per l'ultima volta. Prima che Oberto giungesse
alla casetta di Agnese, egli moriva supplicando:--Carità!
carità!--raggomitolandosi nel drappo, e trascinandosi fino a toccare
una pietra della cappella. Come nel castello si svegliarono gli armati
e come le sentinelle calarono dalle torri, la novella trista passò di
bocca in bocca; tutti si spaventarono orrendamente. Pare che Adalberto
tosto sapesse qualcosa, perchè investì il portone, con pochi fanti, e
s'impadronì del castello.

Oberto che andava cercando la sposa, perdeva in pochi momenti gli
averi. Pure si sentiva contento, e chiamava:--Imilda!

Giunto alla casetta potè chiamarla per un bel pezzo:--Imilda, Imilda!
Dov'è Imilda? Voglio!

Nessuno rispondeva. Che nuovo mistero.



CAPITOLO IX.


Come abbiamo detto, Ugo, smarrita ogni traccia di sentiero, errò tutta
la notte.

Appena l'alba imbiancò i colmi dei tettucci alle capanne inerpicate su
per le saluzzie Alpi, Ugo si trovò, spossatissimo e irrigidito,
buttato sotto una grotta formata da una rupe stillante.

Com'egli si era ricovrato là? Non sapeva. Sapeva che intorno c'era una
pace, un silenzio, una tranquillità! Che Dio sia benedetto, sulle alte
cime, lontano dagli uomini, Dio padre della natura!... A venti passi
vedevasi sorgere su uno sfondo di vapori perlacei l'assito posteriore
di una casetta dalle gronde ospitali, dalla povera finestra, dal fumo
lentissimo sfuggente, quasi incenso mattiniero alla crocetta guardiana
del colmo. Chi abitava là dentro?... O gente fortunata, che non
conosci i tormenti dell'anima, vivi lieta, e fai che le tue fanciulle
si levino sempre, cantando, dai giacigli innocenti! Qual pace, sì,
quale silenzio, quale tranquillità!

--Dove sono?--si domandò Ugo, ma non potè rispondersi. Egli non
conosceva quel luogo: guardò ancora attorno, e sospirò con invidia
quasi religiosa: vide sulla grotta vicino a lui una rozza statuina di
Madonna, vide un abbeveratoio coll'acqua traboccante, vide sette od
otto agnellini. Da un uscio che si aperse nel fianco della casetta
venne sulla gradinata di ciottoloni rotondi una figura di fanciulla,
colla foggia montanara, il volto coperto da un panno: guardò giù la
montagna, poi, non col passo della massaia che solerte si dà alle
bisogne del mattino, andò all'abbeveratoio, cautissima nella rugiada e
fastidiosa. Un agnello venne, ritroso e saltellante, bebbe e
s'allontanò con graziose tresche: ella si diede ad inseguirlo, corse,
venne quasi sotto alla rupe, senza veder Ugo.

Ugo in quel momento proprio pensava:--Che vita incomincia per me?

La montanina guardò ancora giù dalla montagna, stette un pezzo come
pensierosa, e, piegando le ginocchia, disse:--Perdonami, madre! Io
devo fuggire!--e stava per muovere il piede: si lasciò scappare questo
lamento:--Non ho ancora pregato stamattina!--e si volse in due passi
alla grotta, verso la statuetta.

Vide Ugo, si avventò su di lui, supplicando ansiosissima e
dolorosa:--Siete ferito? Siete salvo?--e buttò via il panno dal capo,
lo raccolse per farne una fascia, sollevò la faccia a Dio. Era madonna
Imilda! Quella lì vicino la casa di Agnese.

Ugo non credette e lanciò innanzi le mani, come per stracciare una
nebbia, gridando:--No! È crudeltà questa illusione! Lasciatemi morire!

--Morire? morire voi!--ruggì Imilda. Così in lei, straziata sul subito
la gioia affannosa del riabbraccio dalle parole deliranti di lui,
l'amore cupido dell'infinito volle vincere il tempo, soperchiandolo
colla intensità dell'anima. Non si può amare tutta una vita? Si
impazzisce un'ora nella ebbrezza più prepotente e si muore. L'amore
diventa furore.--Ugo! Ugo!--e la vergine se gli gettò in braccio,
ammaliandolo con un modo procacissimo che sfidava Dio e gli
uomini:--Se sapeste che tormento! E vi trovo quassù! Chi ve lo disse
ch'ero qui? E voi volete morire! Ugo mio, io non credevo che tu avessi
a dirmi così!

--Ma sei proprio tu?--Ugo si storceva come sotto un incubo.

--Sono io! Non mi senti? Ti bacio, ti mordo, ti voglio!

--Imilda, la tua faccia è fiamma!

--E voglio che bruci la tua. Ti discaccio la morte!

--Io ti strappai al fuoco: tu al fuoco mi rigetti!--E poi, come se Ugo
acquistasse coscienza:--Imilda, fuggimi, per carità! Perchè
incominciare un nuovo tormento? Va!

--Io fuggivo alla valle--sorrise Imilda:--per te!

--Che ti dissi? Non dobbiamo vederci più! Se muoio, tu non devi
saperlo: se vivo, ho un giuramento a compiere! Ti supplico:
fuggimi!--Ed Ugo, rizzatosi, spingeva Imilda su quella stessa
stradicciuola per cui Oberto doveva venire, e veniva, per condurre a
Rupemala la sposa a vedere il padre per l'ultima volta:--Fuggimi! Tu
non sai che cosa ho pensato di te!

Ella trepidò.

Ed egli:--Affrettati!

--Non m'ami?

--.... T'amo, sì! Ma tu qui vedresti un grande tormento! Oldrado e
Guidinga verranno a ghermirmi tra poco!--ed Ugo barcollò.

--Ugo!--gridò Imilda.

E fu così potente la voce di lei, che il cavaliere si scosse,
rattenendola e lamentando:--Questa è voce di paradiso! Imilda, non
fuggirmi! Sono nell'affanno immenso! Non fuggirmi dalla terra!

--Ugo, sono qui avvinghiata a te! Nessuno può rompere questo nodo
fatale!

--Nessuno? E chi ti dicesse chi io sono?

--Nessuno! E nessuno lo può dire perchè tu sei Ugo!

--Io devo dirlo. Sono vinto e vituperato.

--T'amo!

--Scomunicato e fuggente.

--T'amo, e sono tutta tua!

--Perchè m'ami? Che t'ho fatto per condannarmi così?

--Ed io che t'ho fatto?

--Ricordati Guidinga.

--È così disperato l'amore! Chi ci resiste?

Imilda nascose Ugo nella grotta, andò nella casetta e fu lietissima
che mamma Agnese non ci fosse, perchè la stava stendendo dei pannilini
in un pratello: i figli di Federigo dormivano ancora, colle membra
rotte dal combattimento: Imilda tolse su del pane, dei cibi, delle
vesti, e con gran cura involò da un pancone un suo cofanetto prezioso.

Ritornò da Ugo, lo fece rifocillare, lo animò tutto, gli
domandò:--Ugo, sei pronto?

--A tutto, purchè tu mi baci!--rispose Ugo.

--Ancora e sempre.

--Ora mi trovo saldissimo.

--Dunque decidi di me.

--Dai morti non ebbi che strazio. Da te viva voglio la felicità! E
qual'è? quella degli agi, dell'ambizione, del potere? Tu non sai com'è
l'anima mia! come amore, memorie, gelosia, impotenza, strapotenza,
come tremendi uragani l'abbiano squassata! Dammi un poco di pace! Io
non so dirti...! Prima di tutto, per la salvazione nostra! andiamo dal
romito di Malandaggio che non ci conosce....

--E quegli benedica le nostre nozze.

--Poi.... O Imilda, ci abbiamo pensato?--Ugo fu come ghermito da un
pensiero.

--E di che temi dopo? Dio sa che tu sei mio, ch'io sono tua. Se così
volle per tormentarci, questi istanti audacissimi di vita vincono
tutti gli anni!

--Imilda--dubitava fieramente Ugo:--non posso! non devo!

--Come mi ami poco! Ma non vedi? Io fuggo anche da mio padre per te!

--Se vuoi ch'io comandi, comando: fuggiamo!--esultò Ugo.

--Sì, andremo lontano da Adalberto....

--Da Oberto!

--Da tutti! Senti: ho pregato tanto. Oh lo sa la madre mia. Ugo, in
questo cofanetto ho i suoi gioielli, fuggiamo lontano.... "Chi siete?"
domanderanno. "Siamo esuli." "Di che terra?" E diremo: "Il saracino
Alzor disertò le nostre castella sulla riviera ligure." Fuggiamo
lontano. O mio Ugo, vivremo lontano da tutti! Ci benedica il romito.

--Affermano i boscaiuoli ch'egli è profeta: ci predirà l'avvenire.

--Ma chi più profeta del mio cuore? Ascolti, Ugo? Morremo d'amore!

Tra le vesti Imilda aveva trafugato anche quelle dei figli di Agnese:
Ugo si coperse con quei rozzi panni: Imilda si strinse a lui,
dicendo:--Tu hai pane nella bisaccia? Quando sarà finito, lo
domanderemo ai boscaiuoli, per pietà d'Iddio.--E s'incamminarono sulla
montagna: nel primo torrente in cui s'abbatterono Ugo gettò il suo
saio da cavaliero, e le calze, e gli usatti, esclamando:--Mi sento
buono!

E montanaro e montanara s'arrampicarono sempre più, sempre più
obliando che c'era un mondo basso nel quale la gente viveva in tanta
guerra, inconsci affatto che c'era un castello con un morto maledetto
e vituperato dai nemici, che c'era una strada sulla quale camminava
Oberto, ringhiando:--Che vita sarà la mia con Imilda?

Quella di Imilda con Ugo doveva essere.... felice?



CAPITOLO X.


Dal dì che Imilda è fuggita con Ugo è passato un anno, due.... Nulla
più nelle valli, nè a Saluzzo, si seppe di loro....

Solo il romito di Malandaggio ci tramandò su certi foglietti certe
notizie, che mi venne fatto rintracciare nell'archivio di Saluzzo. Ma
a che pro? Voi non ci credereste. Ebbene?

Sulle cime che dominano le valli di Fenestrelle, in cui si sbalza il
torrente Chiusone, il rovaio, spezzandosi nelle forre dagli acuti
ciglioni, dalle frementi profondità, stride cogli spiriti della
mezzanotte, abbattendo, indiavolando, storcendo. È nero il tempo....
Una donna appare! Chi è?... Ella rompe il lenzuolo nei vepri: ecco
svolazzano i brandelli sibilando. Si squarcia i piedi nei radiconi:
vaporano le pozzette di sangue col verde fumoso delle meteore. Cade:
ghignano le cortecce degli abeti colle boccacce rugose. Si lamenta
collo strido della lupa trafitta: l'alito suo, uscendo dalle labbra,
fuma come torcia di funerale notturno. Fanno tresca allo spettacolo
spirti glauchi, spirti bigi, spirti scialbi. I brandelli sono
lacerati, il vapore turbinato, le cortecce agghiacciate, l'alito
diffuso in nebbia inargentata. Ecco la tormenta!

Ecco la valanga! La donna ancora rompe il lenzuolo e si scopre
l'oscenissimo fianco.... Chi è? È Guidinga, la morta senza croce fra
le mani. Guidinga rotola le valanghe al Monviso, sghignazza al
Meidassa, le rotola al Glaisa, sghignazza al Genèvre, le rotola al
Chalierton, sghignazza al colle dell'Assietta.... Fanno tresca gli
spirti.

Prega il buon romito di Malandaggio che veglia tutte le notti e tutte,
perchè sono l'ultime di sua vita, ed a ogni parola di lui ecco un
castigo inflitto da Dio agli spiriti del male: quello colle aliuzze
crepitanti fu impegolato alla resina gocciante da un troncono, quello
punzecchiato colle foglie aghiformi di un pino, l'altro legato colla
coda ad un roveto, l'altro propagginato in una buca di calabroni.... O
Guidinga, o _madonna perduta_, se tu fischi verso qualche casetta di
montanari, è indizio di sventura!

Su, su, su: là nell'opaca foresta, che si distende a falde scendenti,
come un calderotto di pece riversato dalla montagna su si vede un
lumicino. Pare una favilla minutissima addormentata sull'immensa
fuliggine di una cappa ne' castelli. Può essere un fuoco acceso dai
folletti colle pergamene rubate al vecchio di Malandaggio, o un voto
fatto alla Madonna santissima, da qualche pastore: lume di finestretta
no, perchè le cime dei monti già sono nevose e i boscaiuoli già sono
calati nelle valli: eppure!

Giù tra i dirupi d'una frana s'ode una voce che dice:--Com'è lontano!

È voce d'uomo: non è grido di fiera, nè fragore d'acqua travolta, nè
rotta, nè corsìa di vento.

Chi può essere?... Oh vedi, un pellegrino!

O pellegrino della notte nera, ove t'inerpichi? Quegli cammina,
cammina. O pellegrino che cammini, perchè t'inerpichi e dove? Forre,
di qua, spaccate boscaglie di là, sentieri taglienti, tempo da lupi,
ora da spiriti: ritorna alla valle. O pellegrino che non ritorni alla
valle, dimmi chi sei?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Cammina e cammina. Il pellegrino è arrivato ad una capanna, su,
nell'opaca foresta.

La finestretta quadra gli sbatte addosso un po' di luce e lo mostra
qual'è, un alpigiano inferraiolato: la portella si apre
sollecitamente: ma oh! questa che spinge la robusta tavola di quercia
non è mano di montanara!... Qua nella stanzuccia di legno ecco appese
le scuri del boscaiuolo, qua due giacigli, una culla di poverissime
lane e nella culla un bambolino, qua entro quattro lastre di pietra
ecco un focolare vampeggiante.

L'uomo e la donna sfogano nei cupidissimi baci e negli abbracci
potenti la desolazione delle lunghe ore già deserte.

--Lodato Pio e i santi! O Silverio!

--Sono qui, o Maria!

--Tu non venivi mai!

Egli, pigliando a ciocche i capegli della donna e con quelli facendo
fascia maliarda d'amore al volto irrigidito, egli esclama:--Perchè
così sorridi?

Ed ella:--Perchè sospiri così?

--Mia Imilda!

--Ugo, ti aspettavo tanto!

Ecco adunque, come racconta il vecchio di Malandaggio, uniti il
cavaliero ardente e la promessa sposa di Oberto, un boscaiuolo e una
montanara, Silverio e Maria.

Ugo in due anni era cresciuto di corpo, dimagrato di volto, ma sempre
contento, come marito, come padre, senza più gli ardentissimi tormenti
pei deliri d'amante e di figlio. Ugo si volgeva al suo passato, come
tentava di specchiarsi nei rapidi torrenti dell'Alpi: un gran tumulto
che si perdeva, ecco il passato. Imilda a tutte l'ore ringraziava
Iddio: dalla cappella ardente era venuta alla placidissima casetta
della massaia! Imilda attendeva alla sua creaturina, alla capretta,
alla bisogna del pranzo e della cena, cantava sempre fissando il
cielo: e alla sera aspettava il suo Ugo che tornasse dai boschi. Due
anni erano scorsi in pace'.

--Ugo--dice Imilda, cambiando tutta quella, festa in una scena
placidamente dolorosa:--Dio sa come, anche oggi, fu affannato il tuo
viaggio, con questo gelo, sulle scoscese rive del torrente, senza di
me! Ma la mia solitudine! Oh sei qui: non voglio saper altro, tra le
mie braccia tenaci! Ugo!--E ad un tratto:--Perché dunque stasera
sospiri così? E perché non mi domandi della bimba?

--Perché non me ne parli?--Ugo tenta quasi schermirsi da tanto amore.
Ugo è triste e combatte per infingersi.

--Oh come io ti aspettavo, e come t'aspettava anche lei! Non voleva
chiudere gli occhi senza il bacio del babbo.--Imilda, gentile e sagace
interprete, vuole snebbiar la fronte del suo Ugo colle sante labbra
dell'angiolo custode.

--Dorme?

--Meglio che se posasse in culla d'oro. Non dici il tuo scherzo d'ogni
sera?

--Sì....--Ugo sorride, beato e tormentato da quella soave
violenza:--Lascia ch'io la baci, la mia castellanina.

--Messere, non siate scortese colle belle. Voi la svegliereste a
bacioni....--dice Imilda col tono di una gran dama, regina di venti
damigelle e cento paggetti, sporgendo il labbro inferiore, facendo un
inchino alla culla di legno e porgendo al cavaliero, perchè lo baci,
un lembo della sua gonna di pelli cucite: gioca fanciullescamente e
amorosissamente deridendo il passato: ma poi, fissando Ugo che non
l'asseconda, o l'asseconda come smemorato, poi con dispiacere e quasi
offesa:--A bacioni? No: è lo scherzo d'ogni sera, ma non l'abbiamo
detto.... Tu non l'hai detto celiando, come sempre....--Infine
incertissima:--Che cos'hai, Ugo?

Ugo con voce addolorata:--Baciala tu per me!

--Ugo?

--Imilda, prega il tuo angiolo che nel sonno dica a Dio una parola per
me!--Ugo, pentito di quel lamento che gli è prorotto, piomba in un
silenzio desolato.

E Imilda meravigliata e trepidante:--Ugo, che c'è? Tu guardi la cuna e
non sorridi? Tu sei pensieroso? Tu m'hai stretto a te, celandomi un
dolore--E con stringicore ineffabile, quasi a scongiurare un
pericolo:--Non sono la tua sposa? E perché l'angiolo nostro preghi per
noi, forse vuoi dire che le nostre orazioni non sono più quelle?

Ed Ugo affannato, ma sempre più facendosi forza, quasi per non tradire
un segreto:--Le tue sì, le mie....

--Che vuoi nascondermi?

--Lo sai.... Da un pezzo.... Sempre: c'è nelle mie orazioni un
rimorso!

--C'è nelle mie una dolcezza ineffabile!

--Imilda, rammenti quel giorno, dopo quello in cui ci sposò il romito?

--E non ci vedeva Iddio?

--Senti: quel giorno io spiai i tuoi piedi insanguinati nella corsa
ruinosa, il delicatissimo petto ansante di fatica, gli occhi spossati,
più che d'amore, di travaglio! Io ero vinto, vituperato, scomunicato,
fuggente, e potevo io dirti mia? Ecco il mio rimorso!

--E sapevo io resistere? Ecco la mia gioia!

Ed Ugo, titubando:--Ahi da quel giorno ad oggi!--e combattuto:--Non
posso dirti, e come! Mi tormento!--Poi ad una stretta di lei:--T'ho
detto.... il mio rimorso!

Ma Imilda:--No, no! Tu mi celi qualcosa! È un altro il segreto. E lo
so: stamane sei partito più presto, con un pensiero....--e
pregando:--Dimmi! Fu tanta la pace, che anche il dolore ci giunge
benedetto!

Ed Ugo risoluto e tremante:--Ebbene ti dirò. Sì, stamane sono partito
prestissimo, sì con un pensiero, una febbre, che mi tormentavano da
due notti. In questi mesi ho obliato, lo sai, ma l'anima talora mi
rigurgitava in petto, e volevo sapere qualcosa! Ressi a lungo, penai,
penai, poi non ressi più. Stamane, scendendo giù per le valli coi
boscaiuoli, boscaiuolo io pure, volli richiedere novelle di coloro che
abbiamo lasciato giù... Dopo due anni!

--Ah! perchè?--freme Imilda con rimprovero grave:--Perchè? Non ti
bastava il mio amore?

--O mia donna! passai il Chiusone, venni a Inverso, a san Germano, a
Torre di Luserna.--Ed Ugo rimane, palpitando dolorosamente.

Sospira Imilda:--La valle del Pelice ov'è il castello di mia madre!--e
china la testa, come pronta a subire il castigo della disubbidienza
del suo Ugo.

--A Luserna. Più oltre non osai! E come un rozzo villano,
indifferente, per il solo amore di un po' di pane, feci questa
domanda: "O buona gente, volete braccia? Vi è un signore potente, non
lontano di qui, il quale abbisogni di scuri per apparecchiare le travi
alle macchine di guerra? C'è forse quel signore? E come si chiama?" Oh
lo strazio di quella simulazione!

A questo punto gli accenti divengono procellosi,

--Hai saputo dunque d'Adalberto? di mio padre!

--Adalberto è vinto: Oberto è vincitore: Ildebrandino è morto.

--Morto?--così domandando, Imilda rompe in uno scoppio di pianto.

--Di altri non seppi. So che il mio tormento è grande, e tu piangi. E
so che Oberto....--Ugo ripete astiosamente, quasi aizzato dalle
memorie:--Oberto!

--Ebbene?

--Rizzi il capo a sentire il nome di colui? Oberto è nel mio
castello.... signore potentissimo!--Ed Ugo è straziato dalle sante
lagrime d'Imilda:--E la sposa? mi domandai. Non ha sposa. O Imilda,
s'io non ero il tuo dimonio, tu ora saresti madonna di grande stato,
moglie di Oberto, in belle sale, fra gentile corteo di damigelle. Ma
sei qui, con me!... Perche ho valicato oggi il Chiusone?--e con forza
gioiosa:--Ugo ritorna in me!

--Ugo!--rimprovera solennemente la donna:.--Dovevi lasciarmi nel fuoco
quel giorno! Non avrei oggi ascoltato questo!... Ugo!... Mio padre!

--Questo ti grava?--minaccia tristamente Ugo: poi sogghignando:--E sei
serbata ad ascoltare di più! Sappi dunque: che i traditori giungono
dappertutto: e Bonello che un dì fu pagato da Adalberto contro di me,
contro di noi può essere pagato da Oberto....

--Oh quel valente, no! Voi che dite così non siete cavaliere!--Imilda
pavida e sdegnosa dell'immenso pericolo ribatte il dubbio col
cuore:--No, no, Ugo!

E a quest'altro punto la procella si scatena tremenda, e Ugo si
percuote il petto, si rizza furiosissimo, immenso nell'amore e
nell'odio. Imilda si spaventa, e più è spaventata, più subisce il
fascino di lui.

--Ma sono padre!... Perché ho valicato il Chiusone?... Vedete quella
cuna? Che c'è, che c'è, Dio mio, nel destino perchè la maledizione
debba pesare su quella creatura? e su voi? Tormenta me, se godi di
questa atroce potenza: io faccio sacramento di rendere un giorno agli
uomini quello che essi mi hanno fatto, col furore addoppiante della
vendetta! Ma una donna, una bimba! Ad esse fu dato il cuore per amare,
non per odiare!

--Ugo, tu bestemmii! Senti: castigo d'Iddio! il vento vuol sfasciare
la capanna! O Signore, la mia cuna!

--Non temere! Il tristo dono della vita non si ritoglie mai a tempo.
Gioisci? Muori. Ti strazii? La morte invocata non VIENE. Tutto è
martirio!

--Ugo! Ugo, tu piangi?

--Se Bonello venisse quassù?

--Tu hai la scure: io so pregare Iddio.

--Tu non temi l'ira del cielo, perché tu sai che in cielo Dio è
l'amore: io temo quella degli uomini, perché in terra Dio è l'oro!

--Ti dissi io: "Ugo, fuggiamo! I boscaiuoli già sono tutti al piano:
qui temo la bufera, la valanga, la morte" ti dissi?

--Ed io devo supplicarti: fuggiamo! Oggi lo seppi, sì; fu scoperto che
noi siamo quassù: fu giurato il nostro martirio, lo scempio della tua
creaturina, il tuo vitupero, la mia prigionia!

Bonello, forse domani, o solo col tradimento, o violentissimo con
cento armati, verrà su queste cime, a guadagnare la taglia! Io ho
udito il bando e la promessa in oggi stesso! Fuggiamo, Imilda!

Imilda è già soggiogata, non si lamenta, non si dibatte, non si
stringe ad Ugo, non prega Dio, ma solo geme col sospiro più
profondo:--E la nostra poverina?

Quel sospiro soffia in un grande inferno: perché Ugo
bestemmia:--Sempre un rimorso nella mia preghiera!

Ma Imilda se lo stringe a sè. Quando il boscaiuolo era entrato nella
capanna era Silverio, ora il cavaliero era Ugo. Con Silverio Imilda
amava la pace, con Ugo adorava il passato, il presente, l'avvenire.

--No, Ugo! Io ti seguii! Non ti seguii: ma ti volli, ti trascinai, ti
inebbriai! Oh com'era il tuo amore? Ch'io non ti abbia poi conosciuto
mai in tanti mesi? Che tu non sii forte come me?

--Imilda!

--Come sarà il tuo amore?

--Sarà come adesso! Ardente, santo, santissimo, pronto a tutto!



CAPITOLO XI.


L'indomani mattina era tempo assai sinistro. Nelle valli di
Fenestrelle stagnava un morto nebbione: i torrenti scrosciavano colle
note basse della loro più tetra solitudine, direcciando dai picchi
squallidissimi, o tra le rupi invetrate di gelo rotando colla schiuma
cinericcia: pendevano secchi e scarmigliati dai ciglioni a squarci gli
arbusti selvatici: gli abeti davano le loro tinte fosche a
quell'immenso cimitero della natura: cadevano foglie e cortecce e rami
e poveri uccelli migranti che non vedevano più cielo: il cielo era una
caligine sola e le montagne, che v'immergevano le cime, mostravano le
loro ossature di macigni profilate di nevi, disegnandosi come bigi
carcami raccosciati o caduti. Era forse il dì de' morti.... La notte
prima era dirupata la valanga? dove? come? Chi l'ha detto? Alla luce
scialba di questa tristissima mattina si sono fugate le imaginose
poesie del giullare della notte.... Dov'è Guidinga? Chi attende?... I
lividi pinnacoli del Monviso, del Meidassa, del Glaisa, del Genèvre,
del Chalierton, dell'Assietta, non conoscono donna alcuna!

Qual freddo deserto! Eppure non è deserto per Ugo e per Imilda, che
lentamente aprono la porta della loro capanna: quello curvo sotto un
fascio di povere robe, con pochissimi cibi, colla sua scure pesante:
la donna rimbaccuccata in dieci pelli di agnello, non a proteggere
lei, ma la creaturina, che amorosissimamente si aveva al petto.

Imilda trepidante guarda giù al sentiero per la valle, e, stringendosi
ad Ugo, mostra il viso affannato da una veglia tormentosa, come quella
che, cogli apparecchi non mai decisi, coi dubbi, coi rimpianti,
precedette il tristo giorno di un viaggio verso l'ignoto. Quale
veglia!--Ma è proprio vero che fuggiamo? Che mio padre è morto? Quante
cose con noi si dovrebbero portare! Quali? Ma il fardello sempre
cresce! Questa veste è necessaria? proprio? Se il freddo, se la
bimba.... Eravamo tanto tranquilli! Non si può pensare! Che succederà?
Abbiamo preso tutto. Tutto? Quell'oggetto qualunque è lì nella
casetta: non c'è fatica a staccarlo, aumenta di poco il peso al
fardello, lo porterò io, e potrebbe divenirci il più necessario: lo
portiamo sì o no? Lo abbiamo lasciato! Torniamo: si va: si ritorna....
Quell'oggetto è forse inutile. Se si potesse avere una culla! Dove
andremo, o Dio? Che abbiamo fatto?... Quale figlia fui rispetto a mio
padre?... Uno spavento grandissimo stringe sempre d'attorno la
casetta: i nemici, i pugnali, il tradimento! O Dio Signore! Passerà la
notte. Ma che non passi! Qui l'ore un giorno erano felici: di qui
dobbiamo esulare! Non passi e sia l'ultima in pace!--Fra l'angoscia, i
dolori dell'amore e l'amore dei dolori, è passata! E _bisogna_
fuggire. Imilda ha la mano tremante sulla porta, la tocca, e, come se
quella fosse di legno benedetto, la bacia, si fa segno di croce: esce,
e guarda giù. Sospira quasi liberata da un gran dubbio, il peggiore,
dicendo:--Bonello non viene!

Ugo tace. Ugo stette per tutta la notte senza pronunciare una parola.

La capanna aveva al suo lato posteriore l'orticello e una stalletta
con un finestrino a terra. Ugo e Imilda, uscendo per la porta
dinnanzi, senza nulla più vedere, incominciarono a salire il monte....
Si udì un belato.... La capra della massaia sporgeva dal finestrino
sull'erba il muso gemmato di brina, cogli occhioni sbarrati, col
campanaccio che suonava con grave lamento: levò la testa.... Addio!

I fuggitivi sentirono quel belato: ma nessuno ebbe tanta forza da
aprir bocca.... Addio, santa e tranquilla casetta dell'amore! Da te
ancora esce una voce per noi! E noi ritorneremo?... O travi, cui
recise e inchiodò la mano del boscaiuolo nelle lucenti mattine di
primavera, o travi, quanti ricordi ci sorridono nell'anima!... Due
anni prima, dopo il tormentoso esulare di giorni e di notti, dopo la
benedizione del romito di Malandaggio, dopo mille paure e troppe
gioie, al primo giungere su quelle cime sicure, Imilda era caduta
affannosissimamente nelle braccia di Ugo, aveva avuto da lui tanti
baci, quant'erano stelle nel cielo, a salutarli felici, ed aveva
incominciato a susurrare:--Ti ricordi com'erano fiacche le corde del
mio liuto?... Sai, non sento più suoni, nè più vedo.... Eppure la mia
mamma Adelasia anche lei mi diceva di volermi bene!... Ugo, che cosa
sono le stelle? Fuochi o anime che si adorano? Bisogna proprio morire
per diventar stelle? Quei fuochi palpitano, quell'anime baciano, ma
non hanno braccia per stringere forte forte.... Stringi!... L'edera e
la quercia sono cose di questa terra, e come sono felici!... Ugo, che
cosa dirà la Madonna santissima? Ma io l'ho sempre pregata: e,
pregandola, non sapevo che lei, una notte, la dovesse arrossire!... La
Madonna è su, su, su, lontana! Tu sei qui! Stelle, Madonne, baci,
fiori, sorrisi.... tutto io sogno. Tu non sei un sogno?... Un giorno
ti sognai bello, arcangelo mio, e coll'ali fiammanti e colla lancia
del trionfo.... Ora ti sento mio: e ti strapperei l'ali, per paura che
tu mi fuggissi! Ed ora sei vinto!... Ieri, l'altrieri, mi pareva di
morire nell'imaginarmi le gioie del tuo amore, ora vivo di vita
addoppiata!... Tu mi credi moribonda perchè ho il seno discinto e
ansante?... Voglio dirti...! Ricominciamo... il pellegrinaggio dove
vuoi, per giungere ancora qui, alla prima notte di nozze, per non
veder più stelle, nè cielo, nè sante protezioni, per cadere ancora
qui, e dirti ancora che sei mio!... Ricominciamo il pellegrinaggio....
Su, su.... Eppure! mi alzo, dò un passo, non ho più forza e
ripiombo!--Aveva finito a susurrare così, e aveva dormito sotto un
padiglione di frasche, avvinta alla persona del suo cavaliero,
odorando l'effluvio dell'erbe aromatiche su cui posavano l'api: la
luna l'aveva vestita come d'una coltre di serico bianco, e, fra i
mille bisbigli del vastissimo silenzio, lì vicino il gemitìo d'un
ruscelletto le preparava nella schiuma iridescente le fuggitive perle
alle sue nozze. S'era svegliata, più stanca, soffogandosi gli occhi
leziosamente e domandando:--Dove sono?--per sentirsi rispondere:--Sei
ancora sul mio petto!--E sul petto di Ugo ella, che nel castello
d'Ildebrandino aveva vissuto dei giorni solitari e freddi come una
monaca, ella ad ora diveniva poetessa gentile, ad ora fremente, come
una sibilla, insaziata di baci e audace nelle profezie, ad ora
bambina, ingenua, tranquillissima, secondo i sonni della notte. Quando
Ugo, felice e infelice, le aveva detto:--O Imilda, qui su queste rupi
è morto tutto il mondo per noi! Qui siamo soli, e possiamo esser soli
per un secolo! Io scenderò giù giù coi boscaiuoli al lavoro....--No,
no!--ella aveva supplicato:--Rimani sempre con me!--poi aveva sorriso
sprezzantemente al cofanetto dei gioielli, soggiungendo:--Sì, tu
lavorerai e avremo il pane de' montanari, e lavorerò anch'io.--Ti
grava la solitudine? Monti e monti, e cielo e silenzi e voli d'aquile
superbe: intorno a te è il deserto.--Il deserto? Ugo, facciamo un
mondo, siamo creatori: monti e monti, e cielo e silenzi e Dio sparso
dappertutto: tra questo mistero facciamoci una casetta; vuoi nominarla
castello, romitorio, reggia, monistero, o mondo? Sia come vuoi: da
questi picchi noi pregheremo e regneremo.... Che? Ameremo! ecco la
idea della divinità.--Imilda aveva scelto il luogo per la casetta, con
grande importanza ciarlando della maggiore o minore probabilità dei
venti molesti, prevedendo l'inverno col caldo dell'amore (ma non
l'inverno vero!), occupandosi della comunicazione col ruscello, con un
prato fiorito per la preghiera del mattino, e col sentiero che
conducesse giù alla prima vallicella, e giù ancora e giù e giù a
qualche lontana capanna d'anima viva: e pel luogo aveva tratto placido
augurio da un sogno che aveva fatto.... Era sposa da tre o quattro
giorni e già amava le cose piccine, i fiorelli, le erbucce, simulava
la vocina capricciosa e la pronuncia ingenua, temeva le api; poi
riposava molto, cantava un'antica canzone, tutt'altro che
cavalleresca, lenta, sempre a ritornello, affrettava sempre più
l'opera della casetta, senza più chiamarla colle voci poetiche ma
volendola sicura e bella e pulita, desiderava una capretta da mungere,
con tanto latte e tanto pelo, pregava a notte, arrossiva dinnanzi a
Ugo. Spesso, quand'egli lavorava a tagliare, ad inchiodare, a
connettere, ella sedeva silenziosa, e finiva con un rimorso
castissimo:--Mi spiace ch'io non possa aiutarti!--e temeva
l'inverno.... Con scrupolo delicato si toglieva di collo la medaglia
della madre, dicendo:--Tu assisterai al battesimo.... Ma che? l'acqua
che ne manda Iddio nei ruscelli è tutta benedetta!--In quei primi mesi
dell'idillio il cielo era azzurro con cento azzurri, splendido,
diafano, e colla vita del suo sole, colla poesia della luna e delle
stelle, pioveva smeraldi alle selve, porpore alle rupi d'occidente,
diamanti all'acque, paci alle vallee, e amore a tutta la natura: tutto
bisbigliava, tutto si incoloriva, tutto scaldava, tutto fremeva....
Ugo calava giù alle capanne dei boscaiuoli a lavorare, a guadagnarsi
le provvisioni, mostrava la crocetta che gli aveva dato il romito di
Malandaggio, si spacciava come uno che fosse tornato a' propri monti
dopo avere lavorato in Francia, senza parenti, solo, solissimo: giù
l'aria gli pareva più greve: i pochi aspetti degli uomini lo
conturbavano: quando risaliva alla sua donna non si volgeva più a
fissare la direzione delle sue terre, del suo castello, de' suoi
nemici. Dopo tanta passione, la pace sola aveva padroneggiata l'anima
sua desiosissima! Ugo si ricordava d'avere visto nascere il sole da
un'alta vetta, quando si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele,
fortissimo, libero: ma Ugo non rammentava più quello che aveva
operato.--Ho fatto il mio dovere, ed ecco la mia pace!--si diceva, non
cercando l'eccelse cime per indovinare coll'anima cupida di mistero,
per indovinare affannosamente il vasto sogno de' suoi deliri,
l'infinito! Egli, nato da un Oldrado che era precipitato nel nulla e
sempre aveva taciuto all'evocazione del figliuolo spronato, e da una
Guidinga che, colla potenza dei mali spiriti, aveva centuplicato
l'anima perversa dopo morte, una _madonna perduta_ che aveva
ascoltato, ascoltava, e doveva ascoltare fino al dì dell'universale
giudizio le supplicazioni dei montanari:--Non rotolate la
valanga!--Ascoltava, ma non esaudiva. E doveva essere castigata, dopo
quel giorno ultimo dell'uman genere, nei secoli dei secoli dei secoli!
Che cos'è la morte? Come si posa? Come si rivive? Oldrado aveva
finito? Perché Guidinga sghignazzava sempre? Cos'è l'anima? il
mistero? la condanna in vita e nell'avello? l'occulto delitto che si
sconta? Ma pure vi sono i gaudenti, i tripudianti, gli epuloni?--Ugo
non sapeva leggere, e poi allora c'erano pochi libri che sapessero
persuadere alle belle cose. Ugo parlava male, pensava male, senza
legame, senza logica, e soffriva peggio; di questo si accorgeva. Aveva
patito e patito! Che importava a lui dei grammatici e dei logici
paffuti? Ugo aveva avuto poca vita per la sua anima procellosa: eppure
era già stanco: amava ed odiava!--In questa prima parte del nostro
racconto il carattere d'Ugo l'abbiamo tracciato sconnesso, a sbalzi,
tristamente indecifrato, come i foglietti dell'archivio di Saluzzo
volevano, riferendo quelli unicamente le date e poche parole di quegli
avvenimenti descritti da noi: la colpa non fu nostra: l'analisi ci
avrebbe ghiacciato la penna fra le mani: né il romito di Malandaggio
fu più felice di noi: confessiamo che, seguendolo passo passo e
colorendo il nostro Ugo sul suo, dovemmo gettare il calamaio e la
carta. Nella seconda parte del nostro racconto, dopo di averci ben
pensato, speriamo di accontentare quei pochi che a ragione ci
domandano:--Chi è questo Ugo?--Ugo non cercava più l'eccelse cime per
indovinare il mare, ma si chinava dimesso alla sua donna per sentirsi
replicare:--Ho bisogno.... Abbiamo bisogno di poco: tanto così!
Guarda: una casettina!--e Imilda diceva cose che uscivano da una
bocca, si ascoltavano da un orecchio, e domandava altre cose che si
misuravano colle mani, si toccavano, si mangiavano.... La vita
reale!--Nell'infinito sognato nelle notti temporalesche dell'anima, o
Dio o il mare o il mistero, c'è lo squallore del silenzio e sempre nel
povero cuore l'insoddisfatto bisogno dell'ali: ma invece, sotto
quattro travi lontane da tutti, se c'è Imilda che dica:--Ti amo!--c'è
nell'uomo, che anche creda Imilda immortale, il dovere sacrosanto di
domandarle:--Siamo soli. Hai fame? hai sete? Dimmi che vuoi! Il mio
amore starà nel risparmiarti, più che mi sarà dato, i sacrifici. Tu
devi vivere! Ti darò da mangiare, da bere, da difenderti dal freddo;
io sarò il tuo servo.--Alla poetica baldanza, solitaria, indagatrice,
spossatrice, per la vita del pensiero, succede per la vita del cuore,
per cagione della donna, una catena di obblighi concreti, santi,
prosaici e poetici, legata alla terra: una catena che avvince due
amanti di carne ed ossa, ma pure amantissimi. Vedendo _lei_ che morde
un frutto procuratole da noi, noi esultiamo di pienissima gioia.
Dio-mistero ha troppo inghiottito l'anima nostra: troppo la disperse
il mare: noi non siamo più noi.... Ma Imilda _voleva_ una casetta. E
fu fatta.... O travi, sì ripeto, o travi cui recise e inchiodò la mano
del boscaiuolo nelle lucenti mattine di primavera! O finestretta, che
parevi fatta apposta per la castellanina nascitura! Panca di bianco
abete, su cui gli sposi sedendo, ai loro desideri avevano per
calendario i fiori del pratello e per gnomone i fusti eretti dei pini!
Addio! O porta, che sì ti chiudevi gelosamente anche in certe ore di
giorno, e contro cui veniva importunissima a battere la testa la
capretta: o porta, che eri aperta da una manina fattasi tremante!
Addio!... E tu, scure, che spaccavi i tronchi, che carezzasti le
assicelle a connettere la culla, che là alla parete di legno baciavi
l'ulivo della pace! Voi, pietre del focolare, su cui posava a
tradimento quel piedino, liscio come cigno! Voi, misteri divinissimi
di gaudi, di tripudi, d'amore, di baldanze, di sfinimenti! Addio!...
Imilda _voleva_ una creaturina, a cui rendere placidissimi i baci,
ch'ella, roventi, riceveva da Ugo. Imilda fu beata: sentì il dolce
peso, i cari sussulti, la vita addoppiata da una vita arcana, il
rigoglio del seno, i santi dolori e il premio di gioie: Imilda fu
superba.... O capretta, capretta pezzata di bianco e di nero, che al
vagito della bimba rispondesti col belato tremulo e insistente! Addio!

I fuggitivi mossero pochi passi e si rivolsero.... O bambinella,
là dentro alla capanna tu saresti cresciuta la figlia di Maria la
montanara e di Silverio il boscaiuolo. Ugo e Imilda avevano presi
questi nomi. Senti, bella innocente, sì, saresti cresciuta e il
massimo tesoro sarebbe stato l'oro de' tuoi capegli, baciati da
mamma e da babbo. Senti, bellissima ritrosa: un dì, col grembiale
della festa, col viso sorridente di tutti i giorni, tu saresti
andata giù alla chiesuola della valle. Oh qual pace!... Ti colori
in volto? Dillo alla mamma che non lo vedi quel giovinetto che
cantava, cantava nei boschi, e non canta più!... Ma sì! sì, n'è
vero che canterete insieme? La ninnananna accanto ad una
culla.... Chi è nato? Se è un maschietto mettetegli in nome
Silverio: s'è una piccina, Maria.... E con voi la famiglia dei
boscaiuoli si continua nella casetta che fece il nonno di sue
mani, davanti al focolare che segnò la nonna colla croce... Il
nonno? la nonna? Non ci son più. Dio li abbia in pace. Sì, ma è
un pezzo che son morti.... I nonni diventano bisnonni, e i
bisnonni gli arcavoli, e.... Passarono gli anni, gli anni, gli
anni, eh! Non passò l'acqua del torrente? Non le nevi sulle cime?
Passarono le gioie e i dolori.... E poi?... Noi poveri morti
preghiamo Dio che ci lasci tornare un minuto ai nostri cari: e
torniamo alla capanna, che ci pare quella sì e no, e domandiamo
alla gente che c'è:--Chi siete?--Boscaiuoli.--Lui come si
chiama?--Enzo si chiama.--Lei?--Agnese.--Non si chiamano Silverio
e Maria?--No.--....Oh come? Anche il nome si è perduto! E noi
vogliamo raccontare di noi, e incominciamo a raccontare, ma siamo
interrotti: così:--O buona gente, voi non sapete l'istoria? C'era
una volta in questa casetta....--Le si è rifatto ancora il
tetto l'anno scorso.--C'era una massaia che aveva in nome
Maria....--L'uscio vecchio schiodato dall'uragano s'è messo nuovo
con tavole robuste.--E un boscaiuolo c'era chiamato mastro
Silverio, e una piccina. E dovete sapere che lui.... Vi dico
l'istoria di un conte, di un capitano, di un famoso che ha patito
tanto e....--Quanti anni sono passati? Che ci importa?... O buoni
vecchietti che veniste su a cantare le vecchie storie, volete le
limosine? Chi siete?

Quanti anni sono passati? È venuto l'oblìo!... Io non so quanti anni,
ma sono passati in pace, in pace, in pace!... O bimba, saluta la
nostra casetta! Noi fuggiamo! Addio!,.. Addio!...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



I fuggitivi si rivolsero ancora. Valicato un torrente profondo e
rabbiosissimo su un ponticello di legno, che Ugo aveva gittato un
giorno dall'una all'altra dell'aspre rive, un unico troncone
barcollante, Ugo e Imilda s'allontanavano più che potevano lentamente,
tenendo alle alture di sinistra, inverso Francia! Oh la capanna
presentava il lato più bruno, su cui s'appoggiava la stalletta di
strame bigio e l'abbeveratoio muscoso: dinnanzi a quello, ed era il
più caro perché aveva un balconcino di quattr'assi a buchi tondi,
fatto apposta e apposta ornato di un prunello selvatico per la
massaìna, c'era l'orto ricinto da tanti scheggioni ammucchiati....
Dalla stalletta chiusa, per la finestruccia, come prima, la capra
sporgeva la testa.... S'udì ancora un belato....

Imilda, che seguiva Ugo alla lontana, colla testa chinata,
stringendo la bambina, non resse più allo schianto del cuore, si
arrestò, volse indietro la faccia, e chiamando:--Ugo!
Ugo!--lamentò due volte:--Quella povera bestiuola pare la ci
saluti!... Perché non l'abbiamo condotta con noi? Ella forse
cerca la padroncina....

Ugo per tre passi finse di non intendere: quando udì il sospiro dì
Imilda e un nuovo belato gemebondo, dovette fermarsi: e disse:--Quando
troverà la casa vuota!

Incominciò Imilda con un dolce rimprovero, ma pure felicissima
di sgroppare a lui colla parola il muto dolore di quei
momenti:--Volgiamoci indietro!... Ugo, io credevo che tu la
conducessi con noi, e perciò stamane non me ne ho preso
pensiero... ma....

--Non la volle venire--rispose Ugo forse per iscusa.

--Perchè? Se è così obbediente! Se è la nostra amica da due anni! Con
me, Ugo, la verrà: le mostrerò un poco di fieno nelle mie mani.

--Tu vuoi che noi torniamo ancora là? Oh, Imilda, risparmiaci il
dolore!

Pensò Imilda un poco, e poi timidamente:--Ebbene ci andrò sola: tu
attendimi qui.

--Lasciala!

--Poverina!

--Sul cammino ci sarà d'impaccio; di qua, di là sbandandosi.... Dove
trovare un filo d'erba?

--Ella ci sarà sempre accosto, e poi....--Imilda si scosse vivamente a
un tratto, giungendo le mani sopra la sua creaturina:--Sì, Ugo, questo
pensiero me lo manda la provvidenza! Senti: per due, per tre giorni...
forse più... io non so dove e come andremo... e tu non m'hai
detto....--e la gentilissima s'affisava in Ugo, collo sguardo quasi
dicendogli:--Perchè hai taciuto tutta la notte? Che amore il tuo nei
tristi momenti?

--Dove andremo? Imilda!--Ugo si compresse fieramente il cuore, come se
in esso sentisse il serpe di un rimorso. Non sapeva quale passo; quale
cima, quale direzione scegliere: dappertutto squallore, ostacoli,
morte! E bisognava fuggire! Un pensiero gli era venuto: scendere
diritto alle sue valli, al suo castello per pietà d'Imilda, e....

--La nostra piccina potrebbe domandarci.... Le nostre provvisioni
nella capanna erano già troppo scarse: ora che abbiamo con noi?...
Ugo, se il mio seno si inaridisse?--e Imilda straziata nell'anima sua,
ma coll'aria rassegnata sul volto, e quasi umile da chiedere
perdono:--Ugo, forse per lo spavento di questa notte...? Oh no, il
Signore è buono!--e, già fidente, si scoperse il seno: se diede un
brivido, fu brivido d'amore: perché la baciò la bimba, le sorrise con
invito soave di madre e se la strinse: la bimba aprì gli occhi, sembrò
spaurata di non trovarsi nella sua culla, ma in quella grigia
solitudine, agitò le manine, posò la testina, tentò suggere le
mammelle, e vagì.--Sono già inaridite!--pianse Imilda, volgendosi a
Ugo, alla bimba, a Dio. Poi, già fidentissima, ricorse al primo
pensiero:--Ugo, questa è ispirazione della provvidenza! Conduciamo con
noi la capra: almeno la nostra creaturina avrà del latte, non morrà di
fame.

All'atroce dubbio s'era mescolato un raggio di speranza. Almeno per un
giorno, o due, la bimba non morrà di fame! E poi?

Imilda incalzava:--Tu, Ugo, deponi il fardello. La capra sarà la sua
vita.

--Sì--disse Ugo: e il suo volto a un tratto s'illuminò d'immenso
affetto.--Andrò alla capanna. Voglio quella povera bestiuola.

E Imilda con dolce violenza:--No! Con te non la volle venire e non
verrà. E poi tu vedresti ancora quelle pareti!--e, sorridendo, con
tutta l'aureola santa di una mamma:--Io voglio ancora baciare quella
culla. Sì, Ugo: tu non sai. Staccando la creaturina dal mio seno, ho
fatto un voto. Per questo Dio ci vede e tu devi sperare.

--Un voto?

--Credi tu in me? Ho pregato il cielo, e noi ritroveremo un tetto, una
culla, del pane, e i nostri giorni felici!

--Imilda! E il tuo voto?

--Devo pregare in luogo santo. Ebbene? Nella capanna abbiamo
abbandonato un altare di gioie e di memorie.... Ugo, lasciami tornare
là....

--Se hai speranza!

--Speranza e fede. Deponi il fardello, pigliati la bimba, ma non farle
prender freddo, ve'--e la mamma si spogliò delle pelli con studio
d'amore soave, e fra esse avvolse la bimba, e gaiamente
scherzando:--Sta qui. La mamma? Sai, è andata a prenderti la nutrice.
Tu sei figlia di gran signori e i signori sono allevati da petti
venduti. Noi ti diamo una nutrice da imperatori e da regine.... Fammi
un bacio, inviziatella, un altro, un altro, un altro. T'ho scaldata a
baci?

Ugo da tanto amore si lasciò soggiogare: disse di sì, depose il
fardello e la scure: si trovò la bimba sul petto. Quell'alito
innocente, tranquillo, purissimo, come l'olezzo dei fiori, parve gli
penetrasse al cuore, refrigerando la piaga che v'aveva, più e più
squarciata dall'immensa passione: la mente sua che prima in un caos
tumultuante rifletteva, per così dire, quel cielo uggioso, quella
natura squallida, senza avere un pensiero distinto, tutta
presentimenti e tristezze, la mente accolse una idea di pace. Imilda
l'aveva guardato negli occhi, e nelle pupille della donna c'era più
che lo sguardo della madre e della moglie. Ugo fremette
dolcissimamente, e, quasi meravigliato di sè, vezzeggiò la bimba, con
garbi fanciulleschi, come nei giorni felici, e sorridendo spiò Imilda
che si allontanava.... Quante memorie, sì, ma quante speranze rinate!
Quando l'uomo, anche perseguitato dal più perverso destino, ha con sè
i suoi tesori, una donna, una creaturina, che gli hanno ridato una
pace e una fede gentile! Sì, quali e quante speranze! Ugo in quello
sterminato deserto si sentì a un tratto contento....

--Bada al ponte!--Ugo gridò dietro a Imilda. Imilda era al ponte: la
si volse, come dicendo:--Sta tranquillo!--si fece il segno della
croce, passò al di sopra delle acque fragorose, e lesta lesta fu alla
capanna. Quanto avrà pianto e sorriso! Quanto avrà pregato per Ugo,
per la figlia, per lei! E, solissima, finalmente avrà supplicato--O
padre! o padre, mi perdona!... Padre, ero nata da te, ma ero nata per
l'amore!... Non mi guardi più?

Ugo, non trovandosi per un momento Imilda al fianco, provò d'amarla
doppiamente.--O mia donna!--proruppe:--La mia grande sventura è la mia
ventura! Sì, se gli uomini mi condannarono alla fuga, alla solitudine,
all'esiglio, la mia stella mi concesse la ferma, la piena, l'unica
vita dell'affetto! Come ho amato! Come amo! Laggiù in mezzo agli
uomini, all'armi, alla potenza, avrei provato tutto lo squallore del
deserto! Trista era l'anima mia più che l'avello dei morti! Volevo
vivere e morivo, volevo morire e vivevo! L'odio e l'amore!... In poco
tempo s'era squassata l'anima mia.... Quassù ho dimenticato i miei
nemici, i miei più fieri, Oldrado e Guidinga, il mio fìerissimo Ugo ho
dimenticato, e sono Silverio.... O mia donna! Che cos'è Dio? l'anima?
il bene? Io non so: so che tu sei il mio Dio, l'anima mia, il mio
bene! Tu il mio riposo!... Vieni, ch'io ti voglio: e con un
ardentissimo bacio voglio sul tuo cuore suggellare le care speranze
che ti allietano questi dirupi dell'esiglio!... Quando in me vedi il
boscaiuolo, eccomi pronto a sfidare la valanga, fosse pure per
coglierti un solo filo d'erba che ami: quando in me ricordi e
compiangi e susciti il cavaliere, eccomi, armato come vedesti, audace
senza l'elmo, insignito di sproni d'oro, tremendo figlio d'una
traditrice e di un tradito, non quale fui, meschino in confronto alla
tempesta che mi ruggeva in petto, ma quale avrei voluto essere,
eccomi.... come un paggio a' tuoi piedi.... e tu comanda! Tu non
comandi mai, Imilda! Tu desideri, tu guardi, tu baci.... Tu mi hai
donato una bimba.... O fanciullina mia, non sai come si chiami tuo
babbo? Silverio? Ugo? Si chiama felice: e ti basti. E qual vita ebbe?
Nessuno mai te lo racconterà, perché andremo in terra straniera: noi
taceremo gli strazi di un dì, perchè non turbino le famigliari gioie
della nostra povertà!... C'è Bonello? c'è Oberto? c'è Adalberto
laggiù? Io, fuggendoli, li oblìo!... O fanciullina, che so del mio
ieri, del nostro domani? So che ti amo, ti bacio, e ti supplico:--Tu
chiuderai gli occhi a tuo padre!--O mia donna! o mia bimba!... È
triste momento questo, ma io non so perché provo nell'anima unicamente
l'amore! Perché? Imilda ha fatto un voto. E per quello sento d'amarvi
_sette volte sette_, come porta la mia scomunica! Ed ecco il mio
premio!

Imilda dall'orticello tornava colla capretta. Quali erano i suoi
pensieri? La capretta le era dinnanzi irrequieta di contentezza: lei
dietro tenendole fanciullescamente una funicella al collare e
canterellando, quasi per dire al suo Ugo:--Ho veduto quelle pareti:
senti, ma non soffro! Sii contento, Mio Ugo, ti voglio tanto bene!--e
quasi ancora per dire alla bimba:--Odi la mia canzone? Ti voglio tutto
il mio amore!--

Imilda giungeva al torrente. Ugo guardò sorridendo.... Imilda e la
bestiuola erano a mezzo del ponte: Imilda si fece il segno dì croce:
la capretta in quel momento, ravvisando la bimba, per molta gioia
diede un lancio all'innanzi, saltando sul ciglione diruto. La donna fu
trascinata da quella con troppa furia su quel tronco stretto e
vacillante. Ugo vide due braccia agitarsi, rinculare la capra, poi
sollevarsi un turbinìo di schiuma.... E il ponte era deserto!

In quell'attimo Ugo tese spaventosamente le mani, sforzo d'aiuto
inutile e pericolo per la bimba, la quale poco stette gli sfuggisse e
cadesse: poi s'avventò, rugghiando, al torrente.... La capra e la
donna erano scomparse per sempre!

Giù, giù, al basso, là dove le acque sbalzate a piombo si
travolgevano, diguazzandosi nella spuma occhiuta, là i massi
rattenevano come un fascio sanguinoso. L'ingorgo avvenuto in quella
orrenda chiusura faceva rigurgitare le nuove acque cadenti, finché
queste ebbero forza di spazzare: allora quel fascio, trafitto,
affondato, aggirato fu spinto sull'orlo, straziato, poi di nuovo giù
di balza in balza, di scheggione in scheggione, ora per diritto, ora
per traverso.... Avrà avuto la mollissima quiete del galleggiare
addormentata solo alla valle, dove il torrente si spiana e bisbiglia
d'amore prima di mescersi all'ondoso Chiusone. Imilda!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



L'immensa pietà fece sì che Ugo avesse l'immensa ferocia della belva.

Perché la capra con lei? Perché non la bimba? Non era sua madre
quella? Ugo fu per travoltolarsi furiosamente nella forra
imprecando--Sia con suo padre!--ma in quel momento il dimonio dello
scherno costrinse le pupille del tormentato a guardare la santissima
casetta dell'amore....

--Che mi resta?--domandò Ugo con disperazione atroce.

Ugo credeva d'avere in vita sua già sorriso e già sghignazzato! Ma
verissimamente allora per la prima volta sorrise e sghignazzò....

Sotto alle sue strette feroci la bimba vagì rabbiosamente. Erano due
mesi che Ugo e Imilda dalle labbra di lei aspettavano con ansia
d'amore quei primi suoni balbettati con cui s'invoca la mamma. In quel
momento, amorosissima tra i goccioloni di pianto che venivano giù per
le guance a pozzettine, la boccuccia farfogliò:--Mem.... mme....

Che minuto di paradiso per un padre! per uno sposo!--Bonello! Bonello!
vieni e uccidila sotto i miei occhi, e uccidi me!--supplicava il
cavaliero, più che pazzo, andando incontro a un invisibile supplizio,
e, più che indemoniato, retrocedendo, fuggendo, tentando divincolarsi
disperatamente e ruggendo contro i lividi dirupi e per le selve
desolate:--Imilda! Imilda!--e più supplicava:--Venite! O Bonello! o
Dio! o il dimenio!.. Datemi la mia donna!--e dieci volte lasciò la
bimba sugli scheggioni, e, come uno spettro, piombò di spaccatura in
spaccatura al torrente, ma invano, sdrucciolando sui fianchi gelati
dei massi e cadendo a precipizio: e di là dalle profondità sorde e
strepitanti, violastro, insanguinato, inzuppato, s'inerpicava con ogni
tormento a ricercare la bimba.... Non glie l'avevano rubata? Sì o
no?.. E perdendo le tracce della sua _via crucis_ nell'inestricabile
labirinto degli orridi ciglioni gemeva come una lupa trafitta lungi
dal covo, e s'aunghiava, s'inerpicava, s'inerpicava, e giù avventavasi
ancora....

Intorno c'era il deserto. Stette per più di un'ora avvinghiato a un
arbusto a spini, tormentando i piedi nel fondo scheggioso di un'acqua
ghiacciata, sporgendo il capo da una caverna nerissima su un abisso
senza misura e senza colore, e speculò giù la valle, le valli,
implorando da quell'ultimo lembo di cielo che vedeva all'orizzonte, e
diceva il cielo della sua patria, implorando il Dio tristissimo del
suo castello e la ferocia de' suoi nemici vivi.... Nessuno veniva, nè
Adalberto, nè Oberto, nè Baldo, nè i vili prezzolati!

Tornò su alla bimba. Intorno c'era il deserto. In quel cielo
caliginoso sentiva il vuoto e non osava guardare: dalla immensa natura
gli si stringeva intorno formidabile il regno del silenzio e della
morte.... Nessuno veniva. Chi doveva accorgersi di lui? Chi poteva
ascoltarlo da una vetta eccelsa? Ugo impugnò la scure, e volle
simulare il fragore della bufera, spaccando i massi, a trarne
scintille di sotto il ghiaccio, a farne volare le scheggie agli abissi
e al cielo, spaccando, indiavolando, ululando, rotolandosi e
piangendo....--Ho squarciato l'uscio della cappella! Così sono entrato
in paradiso! Così mi spalancassi il baratro!

Infine Ugo sghignazzò con un subito pensiero:--Ah! vedrò se i morti,
almanco i morti sono ancora in ispirito, e se hanno pietà, quanto
strazio essi ebbero dai vivi!--strinse la bimba, stette un pezzo
ancora aspettando dalla valle e dalle cime, poi d'improvviso scagliò
lungi la scure e il fardello, e s'inerpicò sulla montagna.... Per
dove?

Ugo camminò, e camminò, e camminò....

Al morire del giorno egli vagolava in mezzo alle nevi crepitanti sotto
i suoi passi incalzati, senza più sentiero, insanguinato e fradicio le
mille volte, lui e la bimba: a tratto gittandosi carpone, a tratto
balzando sulle rocce.... Ove c'era una vallicella, la appariva
squarciata e striata da una grande ruina di macigni rotolati: le
boscaglie divelte, il terreno sommosso, trascinato, franato: non un
filo d'erba: qua e là enormi solchi, nuovi torrenti deviati, fra gli
scheggioni e le zolle ferrigne. Nell'aria rombava sempre come il
fragore d'un diluvio, la nebbia a strappi turbinava sui picchi, il
cielo sembrava quello che i dannati debbono vedere dallo inferno.
Calava la sera. Ugo giungeva ove quella valle castigata s'addentrava
in una piegatura rocciosa del monte. Vide quelle mostruose tracce di
distruzione, respirò quell'aria, odorò quelle brume, e ritto,
stupendo, supplicatore e sfidatore, prese la bambina sotto le ascelle,
alzò le braccia quanto potè, come chi faccia offerta a un grande
altare.... Era venuto a luogo di salvamento, oh sì! Intese
dov'era.--Udite!--quasi cantò, sinistramente, come l'araldo di una
sfida a quel deserto portentoso:--Udite, udite il giullare che si
chiamò Ugo conte di Lanciasalda!... Laggiù alla valle il torrente
mette nel Chiusone, oltre ancora il Chiusone nel Pelice, oltre ancora
il Pelice nel Po. Verrai al Po nativo, o Imilda! Oh non scendi cullata
tra le foglie di rose! Non attorci le bionde trecce ai fiori
tremolanti alla superficie delle acque, nè sveli le bellissime membra
addormite di voluttà, come una dolce suicida!--e ai vagiti della
bimba, aspro come una tromba di guerra:--Chi vedendoti, o Imilda,
dica: "Questa è sventura" ascolti una voce d'uragano, così: "L'odio
dell'uomo prepara ben altre vendette che quelle del destino!" Chi,
vedendoti, si faccia segno di croce, preghi per sè e per i suoi, non
per te...! Verrai al Po nativo, o Imilda! Un giorno anch'io scenderò
per quelle valli e il boscaiuolo Silverio sarà ridiventato Ugo il
cavaliero! Ugo il cavaliero!--e squassò la testa, e si chinò al
destino che gli sghignazzava dalle punte dell'Assietta.

Tacque, poi, come aspettando una risposta, più alzò la bimba,
gridando:--O Guidinga, rotola la valanga per me! Come un giorno dallo
scalone hai rotolato il tuo corpo per te!

E camminò ancora, ancora:--O Guidinga, guardate per cui vi chiamo! Una
bambina che stride!

Ancora:--O _madonna perduta_, ho gli sproni d'oro!

Al passo dell'Assietta, erto, lugubre di vastissimo silenzio, desolato
da un cielo implacabile, irto di spettrali pinete, Ugo aspettò la
morte. Neve, deserto, immobilità: tanto ascoltano i vivi, come i
trapassati.

Ugo, gettatosi sul terreno, sdrucciolando sui ghiacci, senza più
pregare, si strinse furiosamente la bimba: strisciò: venne innanzi a
battere allo spiraglio di un gran masso spaccato e guardò giù per
quella balestriera.... Al di là vide l'altro versante del monte: giù
le capanne mostravano i tettucci di pietra allineati sul ciglio di un
torrentello: giù un paese, giù la valle con in fondo incertissimamente
due macchie di borgate sulla striscia fumosa di un fiume. Il paese era
Meana: e le borgate Susa e Bussoleno.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Ugo stette senza più coscienza, percosso e rannicchiato contro il
macigno. Si svegliò e gemette: scosse la bimba: era morta? Ugo giacque
ancora, e sognò la ghiacciata requie dell'avello, sognò il regno
pallido dei morti, e vide come un grande cimitero coperto da un unico
lenzuolo funerario. Solo il cuore gli dava tormento: e si
diceva:--Ecco i vermi lo forano: i vermi? Questi che martellano così
sono avoltoi di rapina!--Sentiva un che di tepido sul volto; al petto
si stringeva qualcosa, e andava susurrando:--I morti almeno credono
all'angiolo della resurrezione! Ecco che coll'ala mi scalda la fronte!
Ma com'è penetrato nell'avello? Qui sono alla _curte_, con mio
padre.... Lui si sfa, ma è tutto freddo e orrendo.... Che cos'ho al
petto?... La mia fascia dell'armi?... Vorrei sapere che sarà scritto
su questa pietra.... Pietra? Ma io non giaccio sotto! io sono portato
dall'acque di un fiume che va alla valle, al mare. Chi mi scalda? Sono
quelle ciocche di capegli di donna che ho tanto baciate!...--Infine
provò un freddo solo: sparvero le visioni: e fu come sepolto....

Ugo si svegliò. Egli aveva ficcato la persona nella spaccatura della
rupe: nel togliersi di là, ancora guardò giù e alla prima luna, che
splendeva bugiarda di lontano, vide proprio Susa e Bussoleno....

Ma che? Santa Maria! lungo la Dora strisciavano sì e no nel vapore
denso e radente certi e certi fuochi.... Di sopra al suo capo il cielo
era sempre livido e brumoso e freddissimo.

--Se là ci fosse guerra!--ringhiò Ugo, e si rizzò, scosse la bimba,
con grand'ansia e con grande tormento vide ch'ella era viva: allora
prese a discendere dal colle dell'Assietta verso quella valle.

Cammina, e cammina.... Aveva fame. Se egli avesse avuto quello
sparviero stecchito presentato all'omaggio! Picchia a una capanna, è
deserta: a un'altra, è deserta: a un'altra, è deserta: tutte deserte.
Nemmanco la provvidenza ha pietà, perchè sul monte comincia la neve a
cadere a fiocca a fiocca, e s'addensa il nebbione: di lontano sparisce
la luna.

Ugo si precipita giù, giù, giù....

Giunge a Meana. Là vi è una cappelletta dei poveri morti, un arcuccio
soffogato in un pattume con cinque o sei crani grotteschi. Ugo, per la
nessuna pietà che i morti ebbero per lui, insulta quegli avanzi,
imbrattandoli coll'istessa poltiglia che loro serve di guanciale:
raschia la terra e trova una mano ricisa di fresco. La mano ha le dita
volte al basso, verso Susa.

--Accetto l'augurio!--dice Ugo, inconscio di ciò che lo aspetti, e si
leva: svoltando dietro la cappella con troppa furia poco sta che non
ischiacci la bambina: ed ecco trova raccosciati sulla roccia
consacrata un uomo e una donna. Sono vivi? sono morti? Che fanno?...
L'aria è buia.

--Chi siete?-domanda Ugo.

I due sobbalzano spaventati, lo guardano, poi sembrano rassicurarsi,
piangendo.

--Chi siete?

E l'uomo:--Fuggite, o cristiano, se avete lena! Fuggite! Non cercate
di nessuno! Noi abbiamo fallato il cammino.... e ci siamo rassegnati a
morire qui!

--Come? Che vi accadde?--ridomanda Ugo, già fiutando l'odore del
combattimento. Ma con chi c'era guerra? perchè? Qual rumore era giunto
agli alti picchi del suo nascondiglio?

E la donna:--Ah! voi siete di quelli scampati già da ieri e non
sapete! Ben faceste. O Signore!--e col massimo affanno, ripiombando e
facendosi segno di croce:--Oggi Alzor è alla Dora!

--Alzor?--meraviglia spaventosamente Ugo. Ugo sapeva che da tempo il
padre gli aveva detto che quel Saracino era calato di Provenza per
ghermire la lontana, lontanissìma Genova: poi i casi di Ugo e il
rumore della guerra contro Adalberto avevano fatto tacere nelle valli
ogni altra novella d'armi. In due anni, da due o tre boscaiuoli,
romiti come lui che non varcavano le loro selve, Ugo aveva udito che
Casale era minacciata, e suonava un gran nome di dimonio, Alzor: ma
Casale era lontano, eh! Poi più nulla. Solamente il giorno prima,
quando aveva passato celeremente il Chiusone, spinto da un sogno
inquieto che aveva fatto, quando aveva chiesto:--C'è forse un signore
potente, il quale abbisogni di braccia per apparecchiare le travi alle
macchine di guerra?--aveva saputo che Adalberto s'armava. Aveva
sfuggito ogni casa, pure aveva chiesto, tormentosamente simulando, ad
alcuni valligiani le novelle della sua rocca e di quella di Imilda,
ma, ingozzandole amare, nulla più aveva potuto né chiedere troppo
attento, né ascoltare da quei disattenti. Solo per caso udì, sul
piazzaletto di una tavernaccia, un ribaldo bandire una nuova taglia di
sei in sei mesi sulla testa di Ugo, per comando di Oberto, promettendo
i tre mucchietti d'oro di prammatica. La gente quasi rideva. Ugo?
Andatelo a prendere! Dove sarà? Solo il banditore aveva
detto:--Bonello ci penserà: sa tutto: domani Bonello giura che
guadagna la taglia. Ai monti!--e tant'altre cose.--Ugo era fuggito,
aveva rivalicato il Chiusone, s'arrampicava alla capanna. Adalberto
s'armava ancora? Contro chi? Certo contro i vassalli ancora. Ugo nulla
sapeva: quindi quasi domandò a se stesso:--Alzor? il saraceno? Come?
Egli già qui?

E l'uomo alla cappelletta:--Mi difesi! Ho sette ferite! All'ultimo
m'ebbi mozza la mano. Venni qui a seppellirla in luogo consacrato.
Laggiù in oggi ogni misfatto è permesso: è divenuta terra di saracini
la nostra. Perché siete fuggito voi, ieri, al momento del supremo
pericolo?

E la donna:--Fuggite nella valle del Chiusone! Fuggite, se avete un
bambino, e se quello è ancora vivo tra le vostre braccia. Io fui
madre!

Ugo ridomanda:--Ma come?

E l'uomo:--Che giorno d'estrema ruina! Ma il sire di Saluzzo e quello
di Susa resisteranno ancora! Io sarò con essi! Donna, lasciami! Io
voglio essere con essi!

E la donna:--O Signore, perchè non mi avete uccisa insieme al mio
bambino?

Ugo, ancora chiedendo:--Ma come?--e non avendo risposta da quegli
impazzati dal dolore, che continuavano a crederlo un fuggitivo, Ugo
muove il passo innanzi, dicendo:--V'è battaglia dunque?

E l'uomo:--Alzor ci piombò con un lancio da liopardo! O Signore nostro
Jesù, per la fede sacratissima del tuo vangelo, ti supplico, ti
supplichiamo! Ora ti veggo, o montanaro. Sei pronto tu? Ma non hai la
scure neanche tu? Su, istessamente: adopreremo scheggioni di rupi! Su!
su, su, tutti alla riscossa, da Susa con messer Oberto capitano e con
Adalberto!--e l'uomo si alzò, barcollando.

--Oberto? Adalberto? Ancora sono vivi? Non li straziò oggi il
saracino?--imprecò terribilmente Ugo.

--La Iddio mercè, tanta sventura non è ancora avvenuta!--lamentò
l'uomo, e fraintendendolo, s'accese nel furore di Ugo:--Da Susa a
Saluzzo cogli altri migliori duci, Taizzone, Agobardo, Fulberto,
insomma da Susa a Saluzzo si vuol resistere, per la gloria di Maria
santissima! Su, su, su! Una spada!... Se non avessi mozza la destra!
Se non avessi la donna che mi trascina alla viltà!

E la donna:--Non eravamo rassegnati a morire qui?

--E Oberto, Adalberto?--ridomanda Ugo potentemente.

E l'uomo:--Sapranno resistere! Oh se sapranno!...--e dopo una tremenda
pausa:--Se pure un traditore non schiude al saracino i passi delle
valli, girando dietro l'alpi e abbattendo ad una ad una le castella
vassalle a quei valorosi!

--Ah!--geme Ugo con suono ineffabile.

L'uomo si caccia a piangere, lasciandosi andar giù sul terreno fino ad
insozzarsi di mota la fronte.

Ugo fatale invidia quella posizione di massimo avvilimento, ma i suoi
muscoli s'inturgidano, la persona si leva audace: egli è invaso da un
tremito spaventoso e inciocca i denti pel ribrezzo della febbre.

Succede un momento di terribile ansia.

Poi Ugo, guardando giù, oltre la valle, quei fuochi di guerra,
interroga cupamente:--Messere, o barone o boscaiuolo, che cercate voi?

--Io la vendetta!--esulta l'uomo e rizza la testa.

--E la vorreste?

--A qualunque costo!--ma l'uomo ricade agonizzando. Ed Ugo con spasimo
satanico di gioia:--Sono straziato io più di voi! Io voglio la
vendetta, a qualunque costo! Diceste che laggiù in oggi è terra di
pagani ed ogni misfatto è permesso? Vi auguro di morire! Morite, qui,
subito! Non ascolterete l'atrocissimo delitto!

Ugo precipita dalla montagna, e alla bambina famelica dà a suggere le
proprie labbra lorde di sangue e di bava....



CAPITOLO XII.


Alzor, nato dalla stirpe di Maometto, fremebondo di sterminata
ambizione di conquista, audace per giovanissima anima e crudele e
insaziato, era uscito profeticamente da' suoi deserti di sabbia e di
sole, aveva predato l'Egitto, la Numidia, il regno de' Mauri, e,
tragittato il mare, co' suoi tigri di soldati aveva rotti i Goti e i
confratelli Arabi di Spagna. Dalla Spagna era piombato in Provenza, di
Provenza, per sommo castigo di Dio, in Italia. Qui giurò nel nome di
Maometto di piantare il suo seggio fatale.

Il luogo di Frassineto serba incerte e guerresche tradizioni intorno a
queste orde di miscredenti. Negli _Annali d'Italia_ il Muratori cita
all'anno DCCCXXXIII Frodoardo cronista (in Ch. T. II Rer. Franc.
Du-Chesne): i Saraceni abitanti in Frassineto _meatus Alpium occupant,
atque vicina quaeque depraedantur_. All'anno DCCCCXL Frodoardo ancora
dice che "una gran brigata d'Inglesi e Franzesi, incamminata per
devozione a Roma, fu costretta a tornarsene indietro, _occisis corum
nonnullis a Saracenis. Nec potuti Alpes transire propter Saracenos,
qui Vicum Monasterii Sancti Mauritii occupaverunt_. Se qui è indicato
il Monastero Agaunense di S. Maurizio ne' Vallesi, avevano dilatato
ben lungi quegli Infedeli assassini di strada il loro potere". Segue
ancora il Muratori, all'anno DCCCCXLI: "Circa questi tempi più che mai
infierivano i Saraceni abitanti in Frassineto ai confini dell'Italia e
della Provenza (Liut., lib. 5, n. 4). Studiava il Re Ugo la maniera di
snidare quei crudeli masnadieri, e conoscendo di mancargli le forze
per mare, giacchè in quei tempi gli Imperatori e Re d'Italia poco
attendevano ad avere armate navali, prese la risoluzione d'inviare
ambasciatori a Costantino e Romano Imperadori de' Greci, per pregarli
di volere a lui somministrare una competente flotta di navi con fuoco
greco, acciocché mentr'egli per terra andasse ad assalir quei barbari
ne' loro siti alpestri, esse incendiassero i legni dei mori, ed
impedissero, che non venisse loro soccorso dalla Spagna." E Frodoardo
ancora, all'anno DCCCCXLII: _Idem vero Rex Hugo Saracenos de Fraxinedo
eorum munitione desperdere conabatur_. Osserva il Muratori: "Pertanto
dovrebbe appartenere all'anno presente ciò che scrive Liutprando (lib.
50, n. 5). Cioè che avendo Romano Imperadore inviato uno stuolo di
navi a requisizione del Re Ugo, questi le incamminò per mare a
Frassineto. L'arrivo d'esse colà, e il dare alle fiamme tutte le
barche dei Saraceni che quivi si trovarono, fu quasi un punto stesso.
Ugo nel medesimo tempo arrivò per terra a Frassineto colla sua armata.
Pertanto non si fidando i Barbari di quella lor fortezza,
l'abbandonarono e tutti si ridussero sul Monte Moro, dove il Re li
assediò. Avrebbe potuto prenderli vivi, o trucidarli tutti: ma per un
esecrabil tiro di politica se ne astenne. Tremava egli di paura, che
Berengario, già marchese d'Ivrea, fuggito in Germania, non
sopravenisse in Italia con qualche ammasso di Tedeschi e Franzesi.
Però licenziata la flotta dei Greci, capitolò con gli assediati
Saraceni di metterli nelle montagne che dividono l'Italia dalla
Suevia, acciocchè gli servissero di antemurale, caso mai che
Berengario tentasse di calare con gente armata in Italia. Non è a noi
facile l'indicare il sito, dove a costoro fu assegnata l'abitazione.
Solamente sappiamo, che a moltissimi cristiani, i quali incautamente
vollero passare per quelle parti, tolta fu la vita da quei malandrini:
iì che accrebbe l'odio e la mormorazione degli Italiani contro di
questo Re Ugo, il quale lasciò la vita a tanti scellerati, affinchè
potessero levarla a tanti altri innocenti...."

Abbiamo voluto citare questo fatto di Ugo per soggiungere che un altro
Ugo, non re certamente, ma una figura bieca che la tradizione ci dice
senza certezza cavaliere e boscaiuolo, un altro Ugo, non nelle grandi
pagine del Muratori, ma sulle cartapecore sibilline del romito di
Malandaggio, appare di nefastissimo nome ai cristiani e agli abitanti
delle valli intorno a Saluzzo. Quando è morto il romito? Quando
veramente è vissuto quell'Ugo? Nessuna data è certa. Anche la
tradizione è morta da un pezzo. Frassineto ebbe delle leggende, e sono
svanite: Malandaggio ebbe un romito vecchio che scrisse e che morì, e
un altro che misteriosamente gli successe, che non aveva scritto,
perché aveva operato, e non scrisse perché ancora operò prima di
morire....

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



Non ci intrichiamo nella storia a stabilire date o a fissare il
progresso di questi Saraceni, ma pel romanzo accettiamo la tradizione.

Più breve d'ogni cronista, e senza mettere date, eloquentissimo, il
romito che scrisse lasciò questa memoria:--Cadde Genova, cadde Casale,
cadde Torino. Alzor è alla Dora!

Alzor era alla Dora. Una sera di un giorno vittorioso egli aveva posto
l'alloggiamento in un Santuario della Vergine. Fulgente di gioia,
gloriosissimo e temuto, sontuosamente vestito, colla spada ricurva e
con un pennacchio di diamanti, egli sedeva sui gradini dell'altare
maggiore: gli incensi cristiani e e gli aromi insidiosissimi degli
_harem_ intorno a lui spandevano tepori e profumi: uno schiavo di
Provenza suonava l'organo da flato: vampeggiavano per scherno sulle
fredde lastre dei morti due grandi cataste di pino olente: danzavano
seminude, procaci e velenose, o si raccosciavano sui sacri paramenti,
afflosciate dalla voluttà, venti schiave diverse, dalla nerissima alla
bronzina, alla candida rosata. Alzor banchettava: servivano a lui e
alle femmine i vasi d'oro e d'argento, che aveva predato nella sua
corsa di conquista, e per abiti si buttavano indosso le _planetas de
coco e toalias cum frixio_, opere plumarie, e _crysoclava et vela
holoserica, de basilisci, fundatum de alithinum_, della Soria, di
Costantinopoli, della Persia, dell'Egitto, le cose insomma che
troviamo nelle cronache dell'evo medio, e gli ornamenti, come
_inaures, anulos, dextralia et perselides, monilia olfactoria, acus,
specula_. Dall'Africa e dalla Spagna aveva rubato cortinaggi, addobbi,
_tapetia belluata_, che Sempre trascinava con sé, profumandoli coi
nettari e insozzandoli col sangue, letti di voluttà e coltri pei
moribondi.

Alzor, dice il romito, calpestava una veste della santa Madonna di
Provenza, _vestem chrysoclavam ex auro gemmisque confectam, habentem
historiam Virginis cum facibus accensis mirifice comtam_. Alzor
giaceva trionfalmente sui cuscini palpitanti di otto o dieci
ardentissime more: Alzor, al principio dell'orgia, s'era circondato di
cento armati fedeli: aveva il carnefice al fianco, e pure a fianco un
bardo ispirato della sua razza che cantava le vittorie di quel giorno
e la somma protezione di Maometto:--O felice, o potente, o caldo, o
amato, o pasciuto, o protetto dal profeta, Alzor! Tu hai Dio, il
denaro, la donna, la spada, la vittoria. Preghi coll'ardore del nostro
sole adorato: getti le gioie e gli ori come il villano getta la
semente: le donne si sdraiano su tuoi tappeti e muoiono di voluttà,
felici se il loro ultimo sospiro ti rinfocola un nuovo tripudio: la
tua spada è più possente e più curva del grand'arco dei cieli;
insanguinata, si gemma: nè sul tuo acciaio s'annubila il riflesso
mesto del tramonto.... Il tramonto? Chi dirà questa parola?

Alzor aveva già fatto un cenno al carnefice.

Continuava il bardo:--La vittoria, la gloria, il regno! Esulta, o
Alzor!... Esulta!... Noi ti adoriamo!

Ricominciava l'orgia, e Alzor era felice. Sì, aveva Dio, il denaro, la
donna, la spada, la vittoria! Felicissimo!

Udite strano contrasto. Quella sera, in quell'ora di beatitudine
smodata, a un tratto entrò nella chiesa un montanaro.

Egli era lacero e scarmigliato, insozzato, puzzolente e sinistro. Cupo
come una belva famelica, livido pel freddo, custode rabbiosissimo di
un fardelletto di pelli, si drizzò, camminando sui tappeti, le sete,
le coppe rovesciate e gli ori, fra le donne nude, al riverbero del
fuoco, fra il fumo degli incensi e delle dapi, fra il canto del bardo,
si drizzò verso Alzor.

Cessò l'orgia.

--Chi sei tu?--domanda l'audacissimo Saracino. Le sue guardie gli si
stringono appresso: il carnefice ghigna: ma più maledette ghignano le
femmine insaziate....

Il montanaro pare nè vegga nè ascolti.

--Chi sei tu?--ridomanda Alzor:--Non temo l'insidia! Si scuote allora
l'uomo e grida profondamente:--E tu chi sei?

--Io un eletto del profeta.

--Io un castigato da Dio.

E Alzor già infastidito:--Ebbene? Che cerchi qui?

--La mia vendetta!

Vieppiù si stringono le guardie: e le donne ancora, svegliandosi
briache, superano in protervia crudele il carnefice. E Alzor
discacciandolo:--Vanne!

Ma il montanaro ruggisce:--No!

--No! no!--supplicano intorno le schiave, avide di sangue,

--Ebbene parla--comanda Alzor.

--Io parlerò! Tu sei potente, o Alzor! Osanna! Ma tu hai fallato se
credi di resistere nel piano alla colleganza dei signori da Saluzzo a
Susa.

--Parla.

--Io parlerò!... Tu sarai vittorioso, o Alzor!--esulta il montanaro,
stringendo il suo fardelletto come se fossevi correlazione tra la sua
mente e quello:--Si. Io ti apro i passi delle valli: lungo la Dora ti
conduco in valle del Chiusone, là sorprendi quelle rocche che sono
vassalle al sire di Susa: poi ti slanci improvviso dai monti sopra
Saluzzo, senza che dalla Dora Taizzone, Agobardo, Fulberto, possano
mandare aiuto ai collegati.--Poi, sfavillante orrendamente in volto,
colla gioia di un profeta:--Nella valle del Po vi sono le castella di
un Adalberto, di un Oberto, di un Baldo. Se vinci, come ti giuro che
vincerai, mi dai que' tre prigionieri? Alzor fece circondare l'uomo
dagli armati: credette sì e no: e disse:--Vuoi altri patti?.

--Hai tu ancelle?--sospirò il montanaro, quasi emettendo un alito di
fuoco.

--Il sorriso dell'amore è più bello fra l'armi. Vedi le mie conquiste!
Ho egiziane, numide, maure e gote, arabe, spagnuole, provenzali,
serpenti contìnui di continue voluttà. Uomo, non guardarle! Ti
comando. Sei tu, cristiano, che aspiri al mio paradiso? Ascolta: ho
anche l'aguzzino.

--Non ascolto! Ma supplico!--gemette il montanaro:--Tu hai ancelle:
cerca il seno più ardente, e, fammi somma carità, lascia che il latte
sia succiato da chi muore di fame! Ho qui una bambina morente!

--Che? i vagiti fra l'armi?

Allora il montanaro, facendosi pensoso e sciogliendo il fardelletto,
mostrò una creaturina già quasi paonazza, un piccolo mostro di dolore:
e disse:--Su questa bambina, nata da conti illustri, c'è su
copiosissima taglia ove sia consegnata ancora viva in valle di Po, a
Lanciasalda. Se vuoi, là ti aspetterò, e la ventura è tua.

--Cristiano, quante castella vale?--domandò Alzor che intendeva sotto
quelle poche parole nascondersi un gran mistero di fatti.

--Tre castella. Ma mi darai i tre prigionieri.

--Ho da pagare Almor, Zanata, Zullik, rapacissimi. I soldati vogliono
posa, i duci oro.

--T'offro guerra breve e tesori.

--Cristiano, ciò che hai detto è conforme a verità?

--Interroga il profeta.

--Il profeta non risponde: mi risponderà la tua testa.

E il montanaro si piegò tutto come se sopra il suo capo gravasse una
catena di ferro. Erano anella e anella di delitti: era la catena del
destino.

Ed Alzor, sorgendo e ributtando una egizia che gli si avvinghiava
pregando, comandò:--Suonate le chiarine e i timballi.

L'uomo baciò la figlia: poi la vide suggere da un seno
avidissimamente: poi si volse ad Alzor:--Io sarò con te!





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Ugo: Scene del secolo X" ***

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