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Title: La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814
Author: Armaroli, Leopoldo, Verri, Carlo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814" ***


  BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO

  pubblicata da T. CASINI e V. FIORINI.--_N. 3_


                      LA
             RIVOLUZIONE DI MILANO
               DELL'APRILE 1814


              RELAZIONI STORICHE
                     DI
        Leopoldo Armaroli e Carlo Verri

          _Senatori del Regno italico_


                  a cura di
               TOMMASO CASINI


                    ROMA
        SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
                    1897.


PROPRIETÀ LETTERARIA DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI

_Gli esemplari di questo volume non firmati dal gerente della Società
si ritengono per contraffatti._

(7606) Roma, Tipografia Enrico Voghera.


  [Illustrazione: Milano.--Atrio del Palazzo del Senato nel 1814.]



La rivoluzione milanese dell'aprile 1814 e la caduta del Regno
italico, che ne fu conseguenza immediata, ebbero già parecchi storici
o raccontatori; quali, per citare solamente i piú diffusi, il Fabi[1],
il De Castro[2], l'Helfert[3]: ma sono avvenimenti tuttora avvolti in
qualche oscurità, dei quali non si è colta ancora compiutamente la
ragione storica, forse perché sin dal primo momento troppi furono gli
interessati a nascondere il vero di quei rivolgimenti, o almeno a
rappresentarli ciascuno in modo che ne restassero giustificate le
proprie tendenze e la propria condotta. La serie delle scritture che
rispecchiano direttamente i sentimenti e gli atti di coloro che furono
spettatori o partecipi ai fatti del 1814 è lunghissima, e tutte
andrebbero minutamente esaminate e raffrontate, chi volesse sceverare
in ciascuna la particella di vero, che pur vi sarà, e di tutte le
particelle comporre la storia genuina e sincera di quei moti. E dagli
articoli, dalle notizie e dai documenti che a cominciare dall'aprile
1814 si vennero pubblicando quotidianamente sul milanese _Giornale
Italiano_--l'officioso napoleonico, tramutatosi improvvisamente a
officioso austriaco--la serie si produce lungamente sino a quelli
_Studi intorno alla storia della Lombardia negli ultimi trent'anni_,
che, dettati certamente dalla principessa Cristina Belgioioso
Trivulzio, furono pubblicati in Parigi solamente nel 1846[4], ma erano
eco non ancor fioca dei sentimenti e dei contrasti in mezzo ai quali
il Regno italico di Napoleone I era caduto, lasciando, retaggio
prezioso, agl'Italiani la coscienza della nazionalità, lo spirito
delle armi proprie, il desiderio delle istituzioni civili e la
tradizione di un illuminato liberalismo.

A rappresentare con sufficiente fedeltà lo svolgersi di quei
memorabili avvenimenti mi è parso opportuno eleggere di mezzo alle
scritture di cotesta serie copiosa le relazioni composte, quando erano
recenti i fatti, da due uomini di spirito temperato ed equanime,
entrambi per l'ufficio loro di senatori presenti e partecipi alle
deliberazioni che furono motivo o pretesto alla rovina del Regno.
L'una delle quali relazioni, col titolo di _Memoria storica sulla
rivoluzione di Milano seguita il giorno 20 aprile 1814_, fu distesa
solamente qualche mese dopo gli avvenimenti e indi a poco divulgata
per le stampe con la data del novembre 1814[5]. Duplice, come appar
chiaro dalla semplice lettura, era stato l'intendimento di chi scrisse
questa relazione: difendere la condotta del Senato contro le postume
accuse del partito indipendentista lombardo e rivelare la parte
sinistra che i detrattori del Senato avevano avuto nei tumulti
dell'aprile, nello strazio del Prina, nella caduta del Regno. Al primo
di questi fini non era parso che corrispondesse abbastanza la _Lettera
sulla seduta del Senato del Regno d'Italia tenuta a Milano il 17
aprile 1814_, la quale era venuta alla luce in Parma, sin dalla fine
del maggio[6]: se n'era saputo subito autore uno dei senatori, «uomo
illustre per probità, per carattere, per dottrina», e si disse che non
aveva taciuto «la verità anche parlando di sé medesimo»,[7] ma il nome
di lui, se pur corse sulle bocche dei contemporanei, non fu segnato
sulle carte, né oggi sarebbe agevole a riconoscere se non per indizi
che potrebbero esser fallaci[8]. Ad ogni modo la relazione o
«commentariuccio», come la designò il Foscolo, fu come il punto di
partenza alla piú diffusa «Memoria storica» del novembre, alla quale
anzi la narrazione parmense sulla seduta senatoria del 17 aprile 1814
fu accodata come primo e principal documento[9].

Appena la _Memoria storica_ fu pubblicata, la polizia si diè un gran
da fare per impedirne la diffusione, sino a ordinare la chiusura d'una
libreria ove si era venduta, e molto si affaccendarono gli
interessati, o i colpiti che dir si vogliano, a ribattere come meglio
potevano le gravi accuse, alle quali aggiungeva valore la pacatezza
del racconto e la temperanza dei giudizi e della forma. Il generale
Domenico Pino, che per la parte avuta nelle giornate dell'aprile era
già stato bersaglio a ben altre contumelie e alla meglio se n'era
schermito[10], non volle lasciare senza risposta ciò che di lui si
diceva nella _Memoria storica_, e diè fuori sul principio del 1815
certe sue, poco concludenti, _Osservazioni... sopra alcune asserzioni
dell'autore dell'opuscolo che ha per titolo «Su la rivoluzione di
Milano seguita il 20 aprile 1814»_; osservazioni le quali non valsero
certamente a rimuovere tutti i sospetti che si erano venuti addensando
sopra la sua condotta[11]. Il conte Federico Confalonieri stampò, con
la data del 15 marzo 1815, la sua _Lettera ad un amico_, il conte
Antonio Durini, nella quale, un po' confessando la parte avuta nei
fatti dell'aprile 1814 e un po' impugnando le asserzioni della
_Memoria storica_, tentò un'abile difesa di sé stesso e già si mostrò,
politicamente, assai mutato da quello che era l'anno innanzi; ma
anch'egli riuscí tutt'altro che convincente: fortunato che gli
avvenimenti posteriori della sua vita e la grandezza del sacrificio e
dell'espiazione, circondando la sua memoria di una fulgida aureola di
patriottismo, facessero dimenticare quali erano stati i primi suoi
passi sulla via malsicura delle congiurazioni politiche[12].
Finalmente il conte Ludovico Giovio, già consigliere di Stato
napoleonico e presidente delle riunioni che nell'aprile e maggio 1814
avevano tenute in Milano i Collegi elettorali di una parte del Regno,
difese quella convocazione in un opuscolo, nel quale anche cercò di
scagionare sé stesso dalla taccia datagli nella _Memoria storica_ di
esser stato troppo facilmente ingrato verso un governo che lo aveva
innalzato ai piú alti onori[13].

Mentre cosí si appuntavano le armi contro la relazione documentata,
che in povera veste era venuta da Lugano a raccontar fatti che si
volevano sopire, era naturale che si cercasse di sapere chi ne fosse
l'autore. Sulle prime corse voce che l'avesse fatta Melchiorre
Gioia[14], forse perché dell'economista piacentino si ricordavano
altri opuscoli pubblicati nell'occasione di gravi mutazioni politiche
nel ventennio anteriore; ma la voce cadde di per sé, senza bisogno di
essere smentita. Maggior consistenza invece prese l'opinione che uno o
piú senatori avessero lavorato a mettere insieme la _Memoria storica_,
e a questa opinione aderí anche Ugo Foscolo, quando prese a confutar
quella relazione nei suoi discorsi _Della servitú dell'Italia_[15]:
generosi ed eloquenti discorsi, nei quali per altro non è dissimulato
il dispetto del poeta di essere stato additato come frequentatore di
mense ministeriali e sovvertitore della plebe ai tumulti del 20
aprile. Il Foscolo, come si vede da piú luoghi di quei discorsi e da
altri della _Lettera apologetica_ scritta quasi dieci anni di poi agli
editori padovani della Minerva[16], teneva, se non per autore, almeno
per ispiratore principale della _Memoria storica_ il senatore Diego
Guicciardi, fattosi, sempre secondo il Foscolo, sostenitore del
principio della monarchia di diritto divino, appunto in quei giorni
che l'Austria si preparava a soppiantare la Francia, e proclamatosi da
sé per uomo di Stato a nessuno secondo. E questa ch'era stata
l'opinione del Foscolo divenne presto universale, tanto che nel 1822
il Saint-Edme (cioè Teodoro Bourg, già commissario nelle guerre
napoleoniche e sostenitore anche dopo il 1815 delle idee repubblicane
e imperiali), pubblicando in Parigi la sua traduzione francese della
_Memoria storica_,[17] vi poneva in fronte il nome del Guicciardi e
nella prima delle note da lui aggiunte ragionava e argomentava tale
attribuzione cosí:

      1º Dans son avertissement, l'éditeur annonce que l'ouvrage
      qu'il publie est dû à un illustre personnage du royaume
      d'Italie, qui avait le droit de conserver près de lui les
      documens authentiques placés à la fin du mémoire: le comte
      Guicciardi était sénateur et chancelier du sénat.

      2º L'exposé de la situation morale de l'Italie qui précède
      l'historique de la révolution, est basé: 1º sur des bruits
      auxquels n'aurait point ajouté foi tout autre écrivain de
      l'époque qui n'aurait point eu à justifier une opinion émise
      dans une assemblée politique, opinion opposée à sa conduite
      antérieure, aux vues du prince, et peut-être au bien de son
      pays; l'auteur même avoue ses doutes: mais pourquoi se
      serait-il arrêté à des mensonges, en aurait-il, comme
      historien, entretenu le public, s'il n'avait eu l'intention
      de se servir de cet appui pour se justifier? 2º sur le
      caractère personnel de quelques individus employés par le
      gouvernement, tels que le secrétaire des commandemens du
      prince et le directeur des postes: on ne peut voir là que le
      fruit d'une animosité particulière, et l'on sait que
      l'esprit rétif de M. le comte Guicciardi avait été atteint
      par quelques-uns de traits de MM. Méjan et Darnay.

      3º Le 17 avril, lorsqu'on lut au sénat le projet de décret
      du duc de Lodi, qui s'opposa à son adoption? M. le comte
      Guicciardi. Et le mémoire cherche à prouver que l'on avait
      _machiné_ pour surprendre la délibération: l'opposition
      violente de M. Guicciardi est donc tout honorable pour lui,
      dans le sens de la marche qu'il avait adoptée.

      Mais sans entrer à ce sujet dans une longue discussion, à
      laquelle le lecteur, une fois prévenue, suppléera facilement
      avec un peu d'attention, je me bornerai à fare remarquer que
      M. le comte Guicciardi a fait partie de la commission nommée
      pour l'examen de la proposition du duc de Lodi; qu'en sa
      qualité de membre de la commission, c'est lui qui s'est
      rendu auprès du duc, afin d'en obtenir les éclaircissemens
      nécessaires au travail de la commission; qu'il a fait le
      rapport; qu'il a été nommé député; qu'il a eu une entrevue
      avec le prince; que sa justification au gouvernement
      provisoire a été imprimée malgré la défense de la régence,
      et que là, comme dans l'ouvrage, oú il est tant question de
      lui, ses opinions et son caractère politique sont élevés à
      un haut degré.

Queste argomentazioni del Saint-Edme, per quanto avvedute e sottili,
non hanno, si capisce subito, un grande valore probativo, poiché il
Guicciardi in tutte le fasi del movimento milanese dell'aprile 1814
rappresentò le tendenze del partito _austriaco_, come ha ben
dimostrato il Bonfadini[18], e la _Memoria storica_, se non tace per
un senso di imparzialità gli errori e le colpe degli uomini di tutti i
partiti, è manifestamente rivolta in particolare contro gli
_indipendentisti lombardi_ in quanto spianarono con la Reggenza la via
all'Austria di occupare e tener per suo il paese: l'autore quindi, se
non era un eugeniano, non poteva essere neppure un austriacante; e ben
vide e sentì il significato dell'opera sua la polizia austriaca, che
si sforzò di rimuoverla dalla circolazione. I documenti, che
accompagnano la _Memoria storica_, parte erano stati pubblicati per
altre vie, parte erano di tal natura da esser passati per molte mani,
e l'apologia del Guicciardi poté ben essere comunicata da lui medesimo
all'autore di questa relazione, non già perché la pubblicasse, ma come
a senatore ch'egli era, poiché il Guicciardi, dopo il divieto della
Reggenza di darla alle stampe, avrà sentito il bisogno che ne avessero
conoscenza almeno i suoi antichi colleghi del Senato. E che tra i
senatori fosse da cercare l'autore della _Memoria storica_, ove la
condotta del Senato era difesa con tanto calore, pochi allora
dubitarono; e presto anche si seppe che questo senatore era il
maceratese LEOPOLDO ARMAROLI, magistrato onorando e insigne
giurista[19]: si seppe presto, ma pubblicamente non fu detto se non
nel 1823 da Federico Coraccini (sotto il quale nome, ben si sa,
nascondevasi Carlo Giovanni Lafolie francese, stato nel 1812
segretario generale della prefettura del Tagliamento e nel 1813
viceprefetto di Ravenna) nella sua _Storia dell'amministrazione del
Regno d'Italia_[20], e fu poi confermato piú tardi da piú credibile
testimonio, lo storico dell'esercito cisalpino-italico[21]. Ciò non
ostante, poiché si continuò da qualcuno ad attribuire la _Memoria
storica_ al Guicciardi[22], parmi opportuno dissipare ogni dubbio per
mezzo di una lettera che l'Armaroli stesso scriveva nel 1830 a
Francesco Cassi per ottenere dal marchese Antaldo Antaldi di Pesaro la
restituzione dell'unica copia rimastagli del suo libretto; lettera che
sulla divulgazione di questo scritto ci dà anche alcune particolarità
rimaste sin qui ignorate.

      _Mio degno e rispettabile amico,_

      Macerata 25 aprile 1830.

      Ho bisogno dell'autorità vostra municipale, per citare al
      vostro tribunale codesto diligentissimo amico nostro
      marchese Antaldo. È piú di un anno che in vostra presenza
      gli consegnai quel mio Opuscolo sulla rivoluzione di Milano
      del 1814, che gentilmente si offerí di farlo osservare ai
      Revisori per vedere se s'incontrasse difficoltà nel
      ristamparlo. Ritornando da Bologna mi recai da lui e mi
      disse che non vi era opposizione, ma non potea restituirmi
      il libro perché era rimasto presso il Signor Canonico Coli.

      Dopo di ciò gli ho scritto, gli ho mandata qualche mia
      pubblicata freddura, ho certezza che l'ha ricevuta, e non mi
      ha risposto. Gli ne ho fatta avanzar premure da Asiari, e
      ultimamente dal Ferri nipote del sordo, ed anche ciò
      inutilmente.

      Parlando sul serio io ne ho vero e sommo bisogno: ho stimoli
      da piú parti e dalla stessa Lombardia di farne altra
      edizione corredata di abbondanti commenti; vi è anche
      dell'onore del mio nome il farlo perché sono stato citato
      con menzogna. Non solo non ne ho altra copia, ma è
      impossibile di procurarmela perché le 500 copie venute a
      Giegler, meno le poche esitate, furono sequestrate dalla
      Polizia, né so se potessi ottenerne da Parigi. Mi raccomando
      dunque alla vostra amicizia di farne cortese insistenza
      all'amico onde io possa ricuperarlo.

      Viene qui Delegato Monsignor Ciacchi. Voi forse lo vedrete.
      Mi sarà grato che mi facciate conoscere ad esso per un uomo
      d'onore, tranquillo suddito, e vostro amico.

      Addio. Alla vostra famiglia ed a voi cordialmente mi
      raccomando. Vale.

                                                 _Il Vostro_
                                                  ARMAROLI.

                   _Al Nobil Uomo_
      _Il chiarissimo Signor Conte_ FRANCESCO CASSI
              _Gonfaloniere di
                               Pesaro_[23].

La _Memoria storica_ dell'Armaroli fu per molto tempo una delle piú
copiose fonti d'informazioni a chi ebbe ad occuparsi dei fatti
dell'aprile 1814: dal Jomini, che ne fece larghissimo uso nella sua
storia dell'ultima campagna dell'armata franco-italiana[24], giú giú
sino ai piú recenti narratori della fine del Regno italico, tutti si
valsero della operetta del senatore maceratese; alla quale si presenta
ora, in parte come opportuno riscontro, in parte come necessario
correttivo, la relazione particolareggiata che di quelli avvenimenti
stese e lasciò ai posteri il collega suo CARLO VERRI milanese[25]. Il
patrizio lombardo fu veramente nei moti del 1814 uno dei
rappresentanti piú cospicui e sinceri del partito austriaco; meno
vigoroso all'operare che non fosse il Guicciardi, giovò piú di lui al
trionfo di quel partito rafforzandolo con l'autorità del suo nome, e
prestò l'opera propria, come presidente della Reggenza provvisoria,
alla consolidazione che fu lenta, ma sicura e avveduta, della nuova
dominazione[26]. Però, come il Verri fu animato da un sincero, per
quanto fallace, sentimento di giovare agli interessi del suo paese,
cosí la sua testimonianza molto ci aiuta a intendere le cagioni e i
procedimenti di un fatto che tanto sembrò contrastare con il desiderio
dell'indipendenza nazionale, della quale in quei giorni tutte le parti
politiche s'erano fatta una bandiera per conto proprio. Storia
dolorosa di errori, se non di colpe, onde procedette una espiazione
ancor piú dolorosa durata oltre mezzo secolo; ma storia feconda di
ammaestramenti, anche per noi che di quella espiazione raccogliemmo i
frutti, poiché ci insegna come la rettitudine delle intenzioni non
basti a salvare un paese quando non sia accompagnata dal senso
dell'opportunità, dall'accortezza dei mezzi, dalla prontezza
dell'azione.

                                                  T. CASINI.


NOTE

[1] _Milano e il Ministro Prina, narrazione storica del Regno d'Italia
(aprile 1814) tratta da documenti editi ed inediti per_ MASSIMO FABI,
Novara, A. Pedroli, 1860; 8º, p. 248. È libro notabile perché vi sono
raccolti molti documenti pubblici concernenti quei fatti; ma il CANTÙ,
_Cronistoria dell'Indip. ital._, vol. 1, p. 869 attesta: «questo è
lavoro del consigliere CARLO CASTIGLIA, che lo esibí a me e ad altri,
prima di venderlo al Fabi, che lo stampò per suo».

[2] _La caduta del Regno italico, narrazione desunta da testimonianze
contemporanee e da documenti inediti o poco noti per cura di_ GIOVANNI
DE CASTRO, Milano, Treves, 1882; 16º, p. 366. È ricco, come tutti i
libri del DE CASTRO sull'età napoleonica, di notizie e giudizi tratti
da scritture contemporanee, e ha uno spiccato carattere aneddotico che
ne rende piacevole la lettura né poco conferisce all'intelligenza dei
tempi e degli uomini.

[3] Barone VON HELFERT, _La caduta della dominazione francese
nell'Alta Italia e la congiura militare bresciano-milanese nel 1814,
traduzione consentita dall'autore di_ L. G. CUSANI CONFALONIERI, _con
un'appendice di documenti_, Bologna, N. Zanichelli, 1894; 16º, pag.
282. È importante specialmente perché l'autore attinse notizie da
documenti riservati degli archivi di Vienna, ma, come altri libri
dell'Helfert su cose italiane, tende a giustificare la politica
austriaca, e però trascura fatti, censura persone, pronuncia giudizi
dimostrando molta parzialità. La pubblicazione dell'originale tedesco
è del 1880.

[4] Il testo francese fu pubblicato in Parigi, Laisné, 1846, e la
traduzione italiana, ivi 1847. È un libro ormai rarissimo, perché le
copie venute in Italia furono quasi tutte confiscate dalla polizia
austriaca, e però ci proponiamo di ristamparlo quando che sia in
questa nostra _Biblioteca storica del Risorgimento italiano_. Intanto
sovr'esso si vedano CUSANI, _St. di Milano_, VII 84, DE CASTRO, op.
cit., p. 10, HELFERT, op. cit., pag. 24.

[5] Il titolo del libretto, stampato in carta grossolana e della
dimensione di cm. 21×12, è riprodotto a fac-simile nella p. 1 del
presente volume. La data di Parigi è probabilmente fittizia, poiché la
carta, i caratteri ed altre particolarità materiali del libro lo
mostrerebbero uscito dalla stamperia del Veladini di Lugano (cfr. DE
CASTRO, op. cit., p. 39; _Catalogo del Museo del Risorgimento
nazionale di Milano_, II, 236): tuttavia a provenienza parigina sembra
accennare l'autore stesso nella sua lettera al Cassi, che sarà
riferita or ora.

[6] Parma, stamperia Carmignani, 1814, 16º, p. 12.

[7] FABI, op. cit., p. 223.

[8] A questa _Lettera_ di stampa parmense accenna il FOSCOLO, _Opere_
V, 221: «.... benché vi fosse da ridire, tuttavia si è lasciato
correre, perché era dettato a difesa con modestia d'uomo dabbene: tace
il vero, che forse era occulto a quello scrittore; non però dice il
falso». Non crederei di errare sospettando autore di questa relazione
uno dei senatori VINCENZO DANDOLO o FEDERICO CAVRIANI, i soli, tra
quelli che vi son nominati, cui possano applicarsi e la qualifica
d'_uomo dabbene_, secondo il giudizio del FOSCOLO, e le lodi raccolte
dal FABI: per il Cavriani starebbe anche il fatto che a lui fu
erroneamente attribuita la _Memoria storica_ dell'Armaroli (cfr. G.
MELZI _Dizion. di opere anon. e pseudon._, vol II, p. 470).

[9] Vedasi in questo volume pp. 43-49.

[10] Alludo specialmente al libello, tribuito a STEFANO MÉJAN, _Le Roi
Pino à la bataille des parapluies_, stampato in Germania nel maggio
1814, e all'altro intitolato: _Le Lamentazioni, ossieno le quattro
Notti del general Pino_. Italia 1815 (forse stampato a Milano): il
PINO rispose con gli _Schiarimenti sopra alcuni articoli esistenti nel
libello intitolato, «Le quattro Notti del generale Pino,»_ anche
questi del 1815.

[11] È un opuscolo in 8º, di p. 16.--Da vedere in proposito ciò che
scrisse, a cose quiete, A. ZANOLI, _Sulla milizia cisalpino-italiana
cenni storico-statistici dal 1796 al 1814_, Milano, Borroni e Scotti
1845, vol. II, pp. 441-445.

[12] La _Lett. ad un amico_, senza note tipogr., è un opuscolo di p.
23, oggimai introvabile: una copia è nell'Ambrosiana (DE CASTRO, p.
36), un'altra nel Museo milanese del Risorgimento (_Catalogo_ I, 316):
ma è stata ristampata in _Memorie e lettere di F. Confalonieri_, a
cura di G. CASATI, Milano, Hoepli, 1890, p. 253-273.

[13] L'opuscolo del GIOVIO è rarissimo: una copia ne conserva
l'Ambrosiana in una miscellanea _S. C._ v. v. 26, che è tutta di cose
manoscritte e stampate sui fatti del 20 aprile 1814 (DE CASTRO, pp.
36, 82).

[14] Il nome del GIOIA è dato da un esemplare della _Memoria storica_,
posseduto dalla R. Biblioteca Vittorio Emanuele (22, 14, B, 11) con
queste parole manoscritte: _Vuolsi del senatore Conte Guicciardi, ma
piú si attribuisce al Gioia_.

[15] FOSCOLO, _Opere_, vol. V, p. 171-253; specialmente si noti ciò
che leggesi a p. 175, 178, 183, 211-213, 222.

[16] _Op._, vol. V, p. 489-609; specialmente, p. 495, 568.

[17] _Relation historique de la Révolution du royaume d'Italie en
1814; par le comte_ GUICCIARDI, _ex-chancelier du Sénat; traduit de
l'italien par_ M. SAINT-EDME. A Paris, chez A. Corréard, libraire,
Palais-royal, Galerie de bois, n. 258, 1822; in-8º, di p. VI-204.

[18] R. BONFADINI, _Mezzo secolo di patriotismo_, Milano, Treves,
1886, p. 84-91, dove il ritratto politico del Guicciardi è delineato
con mano maestra, sebbene un po' indulgente. Non inutile mi sembra
l'aggiungere che il Guicciardi fu di una famiglia nobile di Tresivio,
ma nacque accidentalmente in Lugano il 26 febbraio 1756: fatti gli
studi di legge, si volse ai pubblici uffici, e fu dapprima
luogotenente del Vicario in Sondrio, poi delegato presso il Pretore in
Morbegno, e non ancora trentenne fu chiamato nel 1785 alla piú
eminente carica amministrativa che fosse nella Valtellina, quella di
cancelliere di Valle. Nel 1787 fu uno dei deputati che trattarono
innanzi alla Corte di Vienna la questione dei diritti valtellinesi
contro i Grigioni, e fin d'allora cercò di collegare le sorti e gli
interessi della Valtellina con quelli della Lombardia; e questo fine
il Guicciardi raggiunse dieci anni di poi alla prima venuta dei
francesi, poiché egli fu principal promotore dell'unione della
Valtellina alla Cisalpina accaduta nel novembre 1797. L'amicizia
allora contratta con Antonio Aldini, andato commissario organizzatore
in Valtellina, gli aprí la via degli uffici politici nella novella
Repubblica: fu chiamato da Bonaparte il 20 novembre 1797 nei Comitati
riuniti e assegnato a quello di costituzione, e contemporaneamente fu
fatto rappresentante del popolo al Corpo legislativo nel Consiglio dei
seniori, ma chiese e ottenne la dimissione il 26 dicembre; nel
febbraio 1798 fu Commissario straordinario del governo nei
dipartimenti del Lamone e del Rubicone; il 15 aprile fu nominato
ministro di polizia generale, il 10 luglio ministro dell'interno, nel
quale ufficio rimase fino a tutto il gennaio 1799. Nella seconda
Cisalpina il Guicciardi si tenne in disparte, finché mandato
all'assemblea di Lione, come uno dei notabili del dipartimento del
Lario, vi si segnalò per moderazione e dirittura d'idee, di modo che
Bonaparte il 26 gennaio 1802 lo chiamò all'alto ufficio di segretario
di Stato della Repubblica italiana. Vive antipatie sorsero tra il
Melzi, vicepresidente di quella, e il Guicciardi, sí che questi lasciò
l'ufficio passando il 31 maggio a far parte della Consulta di Stato,
la quale alla formazione del Regno italico costituí poi la prima
sezione del Consiglio di Stato. Nominato direttore generale della
polizia il 1º agosto 1805, esercitò il difficile ufficio con tatto e
moderazione, finché Napoleone I, per motivi non ancora chiariti,
sospettò della sua condotta e lo tolse di mezzo nominandolo senatore
il 19 febbraio 1809. Da questo momento fino al 1814 fu cancelliere del
Senato ed ebbe gran parte nelle deliberazioni di quel corpo, mentre
poi veniva insignito via via delle piú alte onorificenze napoleoniche.
Nel 1814 fu a Vienna a procacciare il mantenimento dell'unione della
Valtellina alla Lombardia, e riuscí gradito all'Austria sí da esser
fatto nel 1818 vicepresidente dell'I. R. governo della Lombardia, nel
1825 I. R. consigliere intimo attuale e presidente della Commissione
centrale di pubblica beneficenza. Collocato a riposo nel 1826, morí
nel 1837.

[19] Non si ha alcuna biografia dell'Armaroli, del quale ho potuto
raccogliere che nacque in Macerata il 4 gennaio 1766 di famiglia
patrizia, fece buoni studi di lettere in patria e fu laureato in
giurisprudenza: entrato nella magistratura pontificia, era presidente
del tribunale di Macerata allorché poco dopo l'unione delle Marche al
Regno italico, fu con decreto del 5 luglio 1808 nominato presidente
della Corte di giustizia in Fermo. Chiamato a far parte del Collegio
elettorale dei dotti, fu designato come candidato al Senato, e
nominato senatore il 19 febbraio 1809. Si trasferí quindi a Milano,
donde solamente nel 1815 tornò, con una modesta pensione, in patria,
dove si diede con fortuna all'esercizio dell'avvocatura e divenne
presto il principe del foro marchigiano. Viveva ritirato nella
solitudine della sua villa in Appignano, allorché scoppiata la
rivoluzione del 1831 l'Armaroli fu chiamato a far parte del governo
provvisorio delle Provincie unite come ministro della giustizia; ma la
rapida fine di quel moto non gli diede tempo di recarsi a Bologna ad
assumere il ministero, nel quale fu supplito da Antonio Silvani. Il 9
giugno 1843 l'Armaroli morí nella sua villa di Appignano che egli
aveva battezzata col nome di Tusculano, lasciando alla famiglia
Tambroni i suoi averi e i suoi libri.

[20] Lugano, fr. Veladini [s. a., anno 1823 o poco dopo], p. LXV-256.
La traduzione francese fu pubblicata in Parigi, Audin. 1823, poi
raffazzonata con altro titolo.

[21] A. ZANOLI, op. cit., II 441: «... io ho dati per credere che [la
_Memoria storica_] sia invece del di lui collega Leopoldo Armaroli».

[22] Per es. nel libro _Milano e il suo territorio_, Milano, 1844,
vol. I, p. 375: il CANTÙ, _Il Principe Eugenio_, vol. IX, p. 57, si
mostra ancora dubbioso sull'appartenenza dell'opuscolo all'Armaroli.

[23] Biblioteca Oliveriana di Pesaro, _Carte mss. di F. Cassi_.

[24] _Dernière campagne de l'Armée franco-italienne sous les ordres
d'Eugène Beauharnais, en 1813 et 1814, suivie des Mémoires secrets sur
la révolution de Milan, du 20 avril 1814, et les deux conjurations du
25 avril 1815, la campagne des Autrichiens contre Murat, sa mort
tragique et la situation politique actuelle des divers États d'Italie,
par le chevalier S. J. *** témoin oculaire, précédé d'une notice
historique sur Eugène Beauharnais_. Paris, Dentu e Lugano, Veladini,
1817, in-8º, p. XVI-194. Questo opuscolo è da alcuni attribuito al
JULHIEN, generale francese al servizio del Regno italico (cfr.
CORACCINI p. XCV; CANTÙ, _Il Principe Eugenio_, vol. VIII, p. 311).

[25] Primo a servirsi della relazione del Verri fu il CUSANI, che
nella sua _Storia di Milano_, vol. VII, p. 91 e segg. ne riferí lunghi
estratti: essa fu poi pubblicata con molti errori e lacune nel vol.
IV, pp. 445-507 dalle _Lettere e scritti inediti di_ PIETRO _e_
ALESSANDRO VERRI a cura di C. CASATI, Milano, Galli, 1879-81. La mia
ristampa è condotta sopra una copia piú corretta e compiuta, sebbene
non ancora perfettamente, perché l'autore non poté darvi l'ultima
mano.

[26] Fratello ai piú famosi Pietro e Alessandro, Carlo Verri nacque in
Milano il 21 febbraio 1743, e compiuta con buoni studi la propria
educazione visse per molto tempo alieno dalle cure pubbliche, tanto
intento alla cultura delle proprie terre e alle prove di miglioramenti
agrari e tecnologici, sui quali anche pubblicò alcuni notabili scritti
(registrati dal CORNIANI, _I secoli della letteratura italiana_,
Torino, 1855, VII, 489). Venuti i tempi piú quieti della Repubblica
Italiana, il Verri fu chiamato nel 1802 a far parte del Corpo
legislativo, dal quale uscí allorché per le insistenze del Melzi
accettò la prefettura del Mella conferitagli con decreto del 26 aprile
di quell'anno. Il 29 settembre 1804 fu fatto membro del Consiglio
legislativo, e cosí alla creazione del Regno italico fu coi decreti
del 9 maggio e 9 giugno 1805 compreso tra i componenti il nuovo
Consiglio di Stato. Nominato senatore il 10 ottobre 1809, fu in quel
corpo uno dei piú autorevoli per dirittura e moderazione di idee, ed
ebbe nel 1814 la parte larghissima ch'egli stesso racconta. Lasciato
l'anno dopo l'ufficio di presidente della Reggenza provvisoria, si
ritirò di nuovo a vita privata, e morí poi in Verona nel luglio 1823.



           SULLA RIVOLUZIONE

               DI MILANO

  _Seguita nel giorno 20 aprile 1814_

   SUL PRIMO SUO GOVERNO PROVVISORIO
     E SULLE QUIVI TENUTE ADUNANZE
         DE' COLLEGJ ELETTORALI

            MEMORIA STORICA
             CON DOCUMENTI.


                PARIGI
             Novembre 1814.



AVVERTIMENTO.


Il manoscritto della presente memoria, opera di un personaggio
illustre del Regno d'Italia, e la di cui autorità è tanto piú
rispettabile, che esso vi godette per molti anni di una riputazione
fondata sulle di lui eminenti qualità, venne per una combinazione
felice nelle mani dell'editore. Egli sarà facile di convincersene
colla lettura delli documenti autentici che si presentano al lettore,
e molti de' quali non potevano cadere in possesso di una persona, la
quale per il suo posto non avesse avuto il diritto di leggerli non
solo, ma anche di ritenerli presso di sé. L'editore si è fatto un
dovere di dare questa memoria alla luce, senza aumentazioni, né
diminuzioni, e senza permettersi veruna osservazione. Non è opinione
sua quel che espone, ma bensí un racconto fatto da un uomo autorevole,
di fatti autentici, e di cui gli effetti furono pubblici.[27]



SULLA RIVOLUZIONE DI MILANO

_Seguita nel giorno 20 aprile 1814._

MEMORIA STORICA.[28]


Dopo la ritirata di Mosca, tutte le molle politiche de' governi di
Francia e d'Italia perdettero all'istante la loro elasticità. Il
sentimento della potenza di Napoleone a rapidi gradi si estinse, e
cessò l'illusione che la fortuna e la vittoria marciassero
costantemente alla testa delle sue armate. Gli animi dei popoli sempre
piú s'indispettirono per l'aumentato rigore delle finanze, e per
l'accresciuto bisogno della coscrizione desolatrice delle famiglie.
Ciò non ostante, il rovesciamento totale del sistema non entrò nei
piani delle Potenze, e molto meno nelle viste dei sudditi, come quello
che non sembrava verificabile senza rinnovare gli orrori di una
rivoluzione. Miglior partito parve quello di sostenere il Governo e di
somministrargli i mezzi, onde colla gloria delle armi ottenere
finalmente una pace onorevole e solida. Non vi fu perciò sforzo che si
risparmiasse. Artiglieria ed armi si fabbricarono da ogni parte con
un'attività che non ha esempio. La coscrizione ebbe il suo effetto
quasi per intero, si offrirono persino gratuitamente dai corpi e dai
privati cavalli in gran numero e guerrieri.

Lo spirito italiano, non mai versatile, ma attaccato sempre
tenacemente ai suoi principi, superò, alla debita proporzione, la
Francia nelle volontarie oblazioni. Nel Regno d'Italia si ebbe per
istimolo ulteriore, che alla pace generale cessasse l'esercizio di un
Governo per procura coll'organo di un Viceré, e che sul capo del
Principe Eugenio passare ne potesse indipendente la corona. Non vi è
dubbio che a quell'epoca concorressero nel Principe l'amore ed il
desiderio dei popoli. Non vi è dubbio che si avesse di lui l'opinione
di un buono e zelante amministratore, di un uomo di Stato, di un
prudente e generoso condottiero di eserciti, educato ad una grande
scuola. A ciò si aggiungeva la rispettosa affezione che si era
conciliata la Principessa sua consorte, a cui tutti offerivano i loro
omaggi, chi per la sua pietà e per le sue virtú, chi per le sue grazie
e la sua amabilità, chi per le beneficenze che a larga mano spargeva,
specialmente sulla classe degli indigenti che qual rifugio e madre la
riguardavano.

Niun debito si faceva al Principe del complicato sistema di
amministrazione, della coscrizione, e soprattutto della gravezza delle
imposte. Il solo Re ne sopportava l'odiosità, non che, rapporto alle
finanze, quel Ministro, che aveva la bassezza di prostituire i suoi
sommi talenti nel secondarlo e facilitargli i mezzi di esecuzione. I
sentimenti del suo segretario degli ordini erano conosciuti da pochi
nella capitale, da pochissimi nei dipartimenti. Quest'uomo, tuttoché
naturalizzato italiano con la sua ammissione al Collegio elettorale
dei dotti, si crede che non abbia mai naturalizzato il suo cuore.

Furono i pochi uffiziali reduci dalla campagna di Mosca, che
inserirono nell'animo degli Italiani i primi semi di diffidenza verso
la persona del Principe. Questi lamenti, già disseminati abbastanza,
crebbero a dismisura nel 1813, allorché fu miseramente l'Italia ancora
il teatro della guerra. Non piú il solo uffiziale, ma dal generale al
soldato si chiamarono tutti mortificati dal Principe, offesi dal suo
primo aiutante. Saranno state forse calunniose alcune acerbe
proposizioni poste in bocca dell'uno e dell'altro, ma pure da
moltissimi si recitavano come vere. Fece dispiacere il vedere
trascurato il primo ed il piú provetto tra i generali italiani, che
dal Nord al Sud ha sempre associata la sua carriera alla gloria delle
armi italiane.

Ad alienare gli animi dal Principe concorse un terzo francese, il suo
segretario di gabinetto, passato, contro il prescritto della
costituzione, alla direzione generale delle poste. Egli con la polizia
esercitata negli ultimi tempi sul carteggio, col trattenere ed anche
disperdere le lettere, specialmente de' negozianti, portò al colmo il
malcontento in questa classe sí benemerita della società, la quale era
già prima indispettita abbastanza per il sistema continentale e per
l'incaglio totale di ogni ramo di commercio.

Altr'oggetto di avversione, e forse il maggiore, era negli abitanti
della città di Milano, perché il governo ridondasse di forestieri, che
spendevano in essa con i loro soldi, i quali venivano pure dai
rispettivi dipartimenti, anche le rendite de' propri patrimoni. Unico
paese in Italia, e forse in tutto il mondo civilizzato, ove in pochi
si trovi una cordiale ospitalità, ed ove in moltissimi, specialmente
fra i nobili, regna una decisa avversione contro i forestieri, e per
forestieri quelli riconoscono che non sono oriundi della antica
Lombardia Austriaca! Oggetto di gelosia e di rabbia erano i ministri
ed il senato, quasi che tra sei ministri in Milano non se ne vedessero
ultimamente due lombardi, due milanesi fra cinque dignitari, otto tra
cinquanta senatori, quasi tutti i consiglieri di cassazione ed i
giudici della Corte dei conti, la metà circa de' consiglieri di Stato,
la maggior parte dei direttori generali, tutti i segretari generali
dei ministeri e quasi tutti quelli delle direzioni, dieci tra
ventiquattro prefetti, e cosí molto e molto piú nel restante, giacché
la Corte era popolata di ciambellani, di dame di palazzo, di scudieri
e di altri soggetti milanesi tutti al soldo della corona, e non vi era
dipartimento nel Regno, che non contasse e giudici ed uno stuolo
grandissimo d'impiegati della capitale. Volere un regno
costituzionale, ed un corpo per conseguenza intermediario, e
pretendere che i membri non fossero oriundi dei dipartimenti, è un
concepimento, un assurdo tutto nuovo.

Erano gli animi in questo caldo allorché i successi delle armi delle
Alte Potenze coalizzate sempre piú si moltiplicavano in Francia, e
facevano veder prossimo un qualche decisivo avvenimento. Si
permettevano i discorsi i piú allarmanti ne' luoghi pubblici, ne'
caffè e nei teatri. All'annunzio poi dell'ingresso degli Alleati in
Parigi, non ebbe piú ritegno la commozione. I primari patrizi
milanesi, e quegli stessi che allora prestavano piú ligio il servizio
alla Corte e maggiori ne avevano sperimentati i benefizi, correvano da
ogni parte baccanti, esagerando i torti del governo, e per
maggiormente dilatare l'allarme associarono a loro tre soggetti
d'amplissima trachea, che alzavano con piú coraggio la voce. Un
generale di brigata italiano, sdegnato di non aver avuto i desiati
avanzamenti, un generale straniero al soldo italiano riformato per
demeriti, un estero letterato che non sembrava attaccato a questo
paese da altri vincoli che da quelli delle tante mense de' ministri
alle quali era assiduo, questi furono i piú animosi apostoli della
rivoluzione.

Bisogna credere che il Principe Eugenio, il quale gemeva in Mantova
tra le gravi cure della guerra e tra le angoscie per l'incertezza
della sua situazione, non fosse inteso di quanto si vociferava in
Milano, ovvero bisogna convincersi che chi lo tradiva continuasse ad
adularlo per non incontrare ostacoli all'esplosione della sua
perfidia. La verità pur troppo non arriva che tardi e zoppa ai
gabinetti dei principi. Egli, che si era mantenuto sempre costante e
fedele nella sua direzione verso il proprio padre e sovrano, che aveva
resistito a tutte le insinuazioni della politica, egli finalmente
pensò ai destini del Regno, e forse anche a sé stesso, quando giunsero
a sua notizia gli strepitosi avvenimenti seguiti in Parigi ne' primi
giorni d'aprile e la singolar metamorfosi del primo corpo di quello
Stato. Fu allora che nel dí 16 di aprile convenne in una capitolazione
con il Feld Maresciallo Conte di Bellegarde, e mediante la cessione di
alcune piazze ottenne una sospensione d'armi fino all'esito di una
deputazione del Regno, da presentarsi alle Auguste Potenze
coalizzate.[29] Le sue viste palesi furono di far chiedere che il
Regno fosse chiamato a parte della pace generale, proclamata
all'Europa, e godesse finalmente della sua indipendenza: tanto apparve
sulla sostanza della convenzione, tanto e non piú manifestò nella
lettera scritta al duca di Lodi, resa poi da questo ostensibile alla
commissione del Senato, e tanto assicurò ai deputati del Senato,
quando a lui si presentarono in Mantova. È ben presumibile però che
fosse tra i suoi desiderî che si domandasse per il suo capo la corona
d'Italia. Fu almeno sicuramente questo lo sforzo dei ministri. Tra le
persone piú addette ai suoi intimi consigli fu discusso sul modo di
dare un carattere a tale deputazione e sulli stessi soggetti che
dovessero comporla. Si sa che furono designati li generali Fontanelli
e Bertoletti per l'armata, li conti Paradisi e Prina rappresentanti la
nazione. Rapporto ai primi si ottenne facilmente l'adesione degli
uffiziali, segno, checché si pretenda in contrario, che non aveva
veramente perduto affatto il Principe il loro amore, o lo aveva
ricuperato. Si decise di fare che il Senato autorizzasse i secondi, e
qui si praticarono senza dubbio mezzi oscuri e subdoli. In niuno dei
senatori era venuto mai meno il rispetto e l'attaccamento verso il
Principe Eugenio, niuno aveva prestato fede alle voci accreditate
nella piazza, e molto meno all'orgasmo dei nobili milanesi. Ma ognuno
era penetrato dal sentimento de' propri doveri e da quello della
rispettiva risponsabilità verso i suoi committenti, per non decidersi
se non con gran ponderazione in un emergente cosí delicato e in un
momento in cui l'attenzione e le congetture degli Italiani erano
rivolte verso i Sovrani d'Austria e di Napoli, che quasi tutta
occupavano e tenevano la penisola.[30]

In forza di un dispaccio del duca di Lodi, cancelliere guardasigilli
della corona, fu convocato straordinariamente il Senato nel giorno 17
aprile. È rimarcabile che di un affare, a cui si pretese di attaccare
un sommo mistero, se ne parlasse contemporaneamente ne' caffè, e piú
nella platea del teatro della Scala, e che i soli senatori ne fossero
all'oscuro, come quelli che tali luoghi non frequentavano. Fu letto un
messaggio del duca di Lodi in cui, dopo aver fatto un quadro per
verità molto vago della situazione del Regno, presentava al Senato un
progetto di decreto per autorizzare una deputazione a chiedere a S. M.
l'Imperatore d'Austria, e pel di lui organo alle Alte Potenze, la
cessazione assoluta delle ostilità, l'indipendenza del Regno ed un re
nella persona del Principe. Che non si macchinò, che non si disse,
perché a sorpresa si adottasse la deliberazione proposta? Fermi i
senatori nella loro massima, vollero che la materia si digerisse prima
da una commissione di sette membri, la quale prendesse, siccome fece,
i migliori schiarimenti dal duca di Lodi e riferisse. Sul rapporto
della medesima fu adottata la deputazione per i due primi oggetti
della cessazione delle ostilità e dell'indipendenza del Regno, esclusa
la domanda del Viceré in nostro Sovrano, come diffusamente risulta
dagli atti di quella seduta espressi nell'allegato num. 1 con gli
analoghi documenti A, B, C. Pareva che i patrizi milanesi dovessero
esser paghi del contegno dignitoso del Senato e della sua risoluzione.
Se la loro volontà era quella dimostrata, che non si ricercasse il
Principe in re, il Senato era stato del loro avviso. Indispensabile
era la deputazione, per l'effetto della capitolazione col Feld
Maresciallo Conte di Bellegarde. Sapevano tutti che a vuoto andarono
le pratiche per la nomina de' conti Prina e Paradisi; sapevano che la
scelta era caduta nel conte Guicciardi, uomo di Stato non secondo a
veruno, il primo ed il piú acerrimo impugnatore del progetto del duca
di Lodi; nel conte Luigi Castiglioni milanese, cavaliere di cui il
solo nome bastava a giustificare la nomina. Si arrivò a spargere il
dubbio, che le istruzioni date ai deputati dal duca di Lodi fossero
divergenti dal decreto del Senato, quasi che questi fossero uomini da
riceverle tali; quasi che le AA. PP. potessero ammetterle in
contraddizione: tutto era artifizio e pretesto. Come i rivoluzionari
erano prima de' senatori intesi del messaggio e del progetto del duca
di Lodi, cosí mediante lo stesso mezzo conoscevano benissimo le
istruzioni del medesimo, le quali a comune intelligenza si danno al
num. 2, unitamente alla di lui credenziale per il principe di
Metternich, ministro di S. M. l'Imperatore d'Austria, num. 3. La sola
intenzione loro fu quella di rovesciare la macchina del governo, di
figurare da popolo sovrano, di trattare in piena confidenza con i
potentati della terra, di fissar essi i futuri destini del Regno,
senza il concorso di tutti i rappresentanti del medesimo, che come
forestieri non dovevano entrare a parte degli alti loro consigli, far
circolar calunnie, assoldare gente facinorosa, insultare la
rappresentanza nazionale, trascorrere rapidamente di delitto in
delitto; tutto ciò doveva operarsi, onde giungere allo scopo proposto,
e tutto ciò fu maturatamente macchinato nel circolo di alcune primarie
famiglie, d'onde partí l'allarme disseminato ne' luoghi pubblici. Le
prime sottoscrizioni del foglio che forma l'allegato al num. 5,
possono spandere gran luce sull'orditura della presente
catastrofe.[31]

Si farebbe un torto all'accortezza ed ai vasti talenti di chi
presiedeva alla polizia dello Stato, se si supponesse che tante
pratiche rivoluzionarie sfuggissero alla di lui vigilanza. Non si sa
quindi concepire come egli o il Principe non vi provvedessero, mentre,
essendo spogliata di truppe la capitale, poteva ottenersene in
qualunque numero nella vicina Cremona e forse anche in Lodi. Non si
spiega neppure come nel giorno venti, quando cadeva l'ordinaria seduta
del Senato, si mandasse contro il solito alla custodia del palazzo,
non l'ordinaria guardia, ma un picchetto non piú forte di otto o dieci
coscritti, e cresce la maraviglia nell'essersi visto al portone del
medesimo il capitano Marini, aiutante di piazza, che disse essere
stato spedito per riparare qualche disordine che si temeva: qual
riparo poteva opporre un solo uffiziale isolato, e neppur milanese?

Fu piú o meno piovosa la giornata de' venti aprile. Con tutto questo,
verso un'ora pomeridiana, quando si radunavano i senatori, si videro
nell'esterno del loro palazzo, sotto seriche ombrelle, una nobile
corona di soggetti decorati e addetti per la massima parte alla Corte,
da' quali tutt'altro poteva temersi che disordine; quivi era un conte
Federico Confalonieri, marito di una dama di palazzo; quivi due
fratelli Cicogna, l'uno ciambellano e scudiere l'altro; lo scudiere
Ciani; quivi un Fagnani, che riuniva all'onore di ciambellano il rango
di consigliere di Stato, e che, a spese del governo, aveva poc'anzi
fatto il viaggio ed un lungo soggiorno in Russia; quivi, in uniforme,
diversi uffiziali della guardia civica, tra li quali si distinse il
capitano Benigno Bossi; quivi piú rampolli d'illustri famiglie, e
Silva, e Serbelloni, e Durini, e Castiglioni, ed altri diversi. Si
notò un uomo di alta statura con alle mani una breve scala, sulla
quale uno degli astanti saliva all'arrivo di ogni carrozza, per
riconoscere il senatore che era in essa. Si seppe poi esser quegli un
domestico travestito di alcuno dei cavalieri surriferiti. All'arrivo
de' senatori facevano plauso ad alcuni, accompagnavano altri con urli
plebei e con fischi, e precisamente quelli che in Senato avevano nel
dí 17 mostrato di aderire al progetto del duca di Lodi; tanto è vero
che erano al pieno giorno di ciò che si era parlato e risoluto in
quella seduta, e non era che per un indegno pretesto che calunniavano
l'intero corpo, accusandolo di quello che con piú di due terzi di
suffragi aveva escluso.

Al momento della convocazione, alla quale non erano intervenuti li
conti Paradisi e Prina, si erano confusi intorno al palazzo, con gli
altri astanti cavalieri, diversi uomini di truce aspetto, che poi si
seppe essere sicari stipendiati, e molti altri del popolo chiamati
dalla curiosità, e varie indistinte voci cominciarono a sollevarsi. Si
riuní nella sua sala il Senato, ove doveva solamente farsi leggere ed
approvarsi il processo verbale della seduta antecedente. Prima di
procedersi a tale lettura ed all'appello nominale e mentre l'esterno
rumore cresceva, partecipò il presidente, non officialmente, ai
senatori, che il Podestà di Milano aveva spedito al duca di Lodi ed a
lui la copia di un'istanza fatta alla Municipalità, in cui si
chiedeva, che nell'attuale posizione del Regno si adunassero i collegi
elettorali, per trattare in essi della cosa pubblica. Il Podestà
diceva nella sua lettera di attendere su di essa le analoghe
deliberazioni del Senato, allegati num. 4 e 5. La prima era firmata da
141 cittadini, e si dicevano per brevità ommesse molte altre firme.
Erano firmati i primi il conte Pino generale di divisione, il conte
Luigi Porro, il conte Giacomo Trivulzio, il conte Federico
Confalonieri, il conte Federico Fagnani con la qualità di consigliere
di Stato, il conte Giberto Borromei, Giacomo Ciani. De' consiglieri di
Stato non vi era, oltre il conte Fagnani, che il conte Lodovico Giovio
col solo carattere di elettore; vi erano il colonnello e molti
uffiziali della guardia civica, tra i quali meritano attenzione il
capo battaglione Pietro Balabio e il capitano Benigno Bossi: erano
pure firmati nello stesso foglio il Podestà ed i Savi municipali.

In questo mentre chiese ed ottenne il permesso, e fu da un usciere
introdotto nella sala il capitano aiutante Marini, il quale espose che
gli ufficiali della guardia civica esclamavano ad alta voce di voler
essi presidiare il Senato e difenderlo. Vi aderí il presidente e ne
diede in iscritto l'autorizzazione, non sapendo neppure concepire il
sospetto, che discendere si potesse all'infamia di tradire la fiducia
dell'unico corpo di rappresentanza permanente del Regno, quando inerme
si abbandonava in braccio de' cittadini della capitale, che
ultroneamente offerivano assistenza e difesa. Ma il primo loro passo
fu di accorrere con una forte e preparata pattuglia, e cacciare
bruscamente e con una somma indecenza dai loro posti i soldati di
linea, e quelli persino che erano all'immediata porta della sala della
seduta.

Prima di quel momento niuno del popolo aveva ardito di penetrare nel
palazzo, niuno aveva ardito di sforzare i soldati di linea che erano
schierati alla porta. Il solo conte Confalonieri si era appressato piú
degli altri, e la sola sua voce si ascoltava esclamando: «Noi vogliamo
la convocazione dei Collegi elettorali, e che si richiami la
deputazione del Senato!». Tutto che il capitano Marini gli insinuasse
che fosse entrato in seduta e senza innalzare in istrada clamori
plebei e sediziosi avesse manifestati ai senatori i suoi voti, rispose
di non poterlo fare, perché destituito di carattere e di
rappresentanza, ma intanto sempre piú sollevava la voce, ripetendo le
cose stesse.

Non appena i soldati di linea si ritirarono nell'appartamento del
custode, non appena il palazzo fu in balia della guardia civica, che
fu dato l'adito indistintamente ai grandi, ai sicari ed alla plebe di
penetrare in esso liberamente. Il conte senatore Verri si offrí di
perorare al popolo, ed a lui si unirono li conti senatori Massari e
Felici. Piú volte andarono e tornarono e riferirono sempre l'inutilità
de' loro sforzi, perché non emergeva cosa volesse un popolo
tumultuante che sollevava grida confuse. Il conte Verri dette in
Senato una carta che disse essergli stata posta in mano da persona
incognita e che non si ebbe tempo di leggere. Alcun senatore, che vi
gittò sopra una rapida occhiata, vide che era scritta di carattere
alterato, e nel primo paragrafo esponeva che, come la Spagna e la
Germania avevano dato l'esempio, cosí doveva scuotersi dagli italiani
il giogo francese.[32] La moltitudine si tratteneva nella gran corte,
e niuno si faceva lecito di salire il maestoso scalone del palazzo.
Furono i civici ufficiali che la incoraggiarono, la spinsero, e già in
un momento il gran portico contiguo alla sala della seduta ridondava
di popolo. Di piú, due cavalieri erano alla porta della prima
anticamera, e senza entrare in essa si limitarono a prestare il loro
nobile officio ed introdurre a forza que' tali che alla medesima si
avvicinavano. Finalmente si restituí l'ultima volta in seduta il conte
Verri, e palesò che non restavano che due soli minuti a deliberare, o
tutto era perduto. Si domandò cosa alla perfine si domandasse dai
senatori. Gli uffiziali della guardia civica, e tra essi il capo
battaglione Pietro Balabio, erano entrati nella sala con viso pallido,
alteratissimo, come di uomini cui non erano famigliari i delitti. Il
capitano Benigno Bossi esclamò ad alta voce che si voleva il richiamo
della deputazione e la convocazione dei Collegi. Il presidente,
sull'insinuazione di qualche senatore e senza alcuna precedente
regolare deliberazione, scrisse: «Il Senato richiama la deputazione e
riunisce i Collegi». Lo stesso capitano sortí dalla sala con questo
foglio, e quindi, senza aver parlato con persona, come attestano gli
uscieri del Senato, rientrò esclamando essere intenzione del popolo
che si dichiarasse sciolta la seduta, e questo stesso scrisse di nuovo
il presidente, con aggiungerlo in altro foglio in questi termini: «Il
Senato richiama la deputazione, e riunisce i Collegi elettorali, ed è
sciolta la seduta». Piú di trenta copie ne furono all'istante scritte
dai segretari, dagli impiegati e dalli stessi uffiziali civici, che
dopo averle fatte soscrivere dal presidente le recavano al di fuori.

Ciò conseguito si attendeva che fosse dissipato il tumulto; ma ben
altre essendo le viste dei tumultuanti, crebbe anzi il disordine
sempre piú. I senatori sortir dovettero da altra porta, e dietro di
essi si affollò con impeto il popolo concitato. Il conte Confalonieri
fu il primo a scagliarsi contro il ritratto di Napoleone dipinto dal
celebre Appiani, che con l'ombrello ruppe e gittò dalle finestre,
dalle quali egli il primo cominciò a gettare le suppellettili della
sala. Il suo nobile esempio fu avidamente eseguito dalla plebe. Sedie,
tavolini, specchi, stufe, persino le persiane, le stesse porte, tutto
fu fracassato e gittato in istrada. L'istessa sorte subirono i parati,
i tappeti e parte delle carte e dei libri. Non erano ancora tutti i
senatori fuori del palazzo che tutto era in preda al saccheggio, da
cui fu solo in quel giorno risparmiata la segreteria, e l'appartamento
del conte cancelliere. Niuno dei senatori fu offeso nella persona,
alcuno solamente fu urlato di nuovo.

Cessò la depredazione e lo spoglio, allorché alcuno dei capi andò
spargendo la voce che era tempo di portare la vendetta ed il furore
contro il Ministro delle finanze. Tutto il popolo, ed alla testa di
esso quelli che si coprivano di seriche ombrelle, corsero al di lui
palazzo. Infelicissimo conte Prina! Egli era stato avvertito fino dal
giorno innanzi di quanto si macchinava contro di lui; nella mattina
fece ogni sforzo un di lui cugino per condurlo a Pavia nella propria
vettura: impavido volle rimanere al suo posto, fidato nell'attività
della polizia, nella facilità di reprimere una sommossa al suo primo
scoppio, e nell'opinione invalsa sempre che l'ardore della plebe
milanese fosse fuoco di paglia, ristretto, come si vede giornalmente
nelle loro risse, a semplici parole, non estensibili ad eccessi di
fatto. Tanto è vero che a niuno è dato di evitare il proprio destino,
contro il quale non siamo trattenuti né dalle sollecitazioni di
persone sensate, né dalla forza e dalla maturità del raziocinio, né
dalla evidenza stessa del pericolo! Non fu che la presenza del
medesimo che inducesse il conte Prina a pensare finalmente alla sua
salvezza: atterrate le porte, fuggiti i domestici, invaso da ogni
parte ed occupato il palazzo, fu allora che si risolvette a
nascondersi; ma non era piú in tempo, non vi rimase piú scampo veruno.
Inutilmente il mantovano Barone de Peyri, generale di divisione, si
cacciò in mezzo alla folla in uniforme e tentò di salvarlo; nulla
ottenne se non qualche momento di sospensione, e terminò col farsi
strappare le fibbie d'oro dalle scarpe e le catene degli orologi. Il
conte Prina fu rinvenuto, fu preso, denudato, percosso, strascinato, e
rovesciato a capo in giú da una finestra.

Rifugge l'animo a rammentare la lenta carneficina e il feroce
trastullo fatto a sangue freddo di un uomo cui pure niuno niega che
fosse per ingegno, per facondia e per dottrina chiarissimo, e della di
cui onestà ha fatto fede non dubbia il ristretto patrimonio lasciato.
Mentre il basso popolo si è abbandonato al saccheggio del palazzo,
dopo averlo spinto gli altri nell'atrio di una casa contigua, gli
hanno fatto percorrere tutta la contrada del Marino sino alla piccola
piazza del teatro della Scala: questa e quella erano ricoperte di
agitate ombrelle vario-colorate. Vicinissimi erano il palazzo della
polizia, quello del ministero della guerra, quello dell'intendenza ove
un folto numero si era raccolto di guardie di finanza. A tutti fu
interdetto di accorrere in suo aiuto; chi solo aveva mezzi ed autorità
per salvarlo, se si fosse prestato con un atto di volontà deliberata,
e non con ciarle artificiosamente vaghe, anzi allarmanti, passeggiava
in una contigua contrada in compagnia del conte Luigi Porro. Un buon
negoziante di vino, esso solo ascoltò un sentimento di pietà, ed in un
opportuno contratempo lo strappò dalle mani della moltitudine e nella
sua cantina il nascose. Furenti erano gli ammutinati sul timore di
averlo perduto. Scoprirono l'asilo, minacciarono d'incendio il
mercante, finché l'infelice Prina, visto il pericolo del suo
benefattore e non isperando per sé altra risorsa qualunque, si offerí
in istrada alla ferocia de' suoi assassini, e «sfogatevi, disse,
sfogatevi pure sopra di me, poiché sono già immolato alla vostra
rabbia; ma fate almeno che sia l'ultima questa vittima». Estreme,
memorande parole, dopo le quali non ebbe piú lena di proferirne. Fu
allora che in mezzo agli scherni ed agli insulti volle ciascuno la sua
parte di gloria nel percuoterlo coi puntali delle loro ombrelle. Per
circa quattro ore gli fu fatto desiderare un colpo decisivo, che
terminasse lo strazio. Egli è morto e strascinato per la città con
torchi accesi, e trasfigurato tanto che aveva perdute le forme e
l'effigie. È fama che il giudice di pace, nell'ispezione fatta del suo
cadavere, non trovasse chi lo riconoscesse, come che non trovassero i
professori tra le tante contusioni una ferita, una offesa veramente
mortale: egli è morto d'angoscia e di spasimo.

Intanto chi può descrivere lo spoglio totale del suo palazzo, e la
veemenza e la prontezza della rapina? In poche ore non vi erano piú
suppellettili non meno ordinarie che preziose, non una porta, non una
finestra, non una pianta, non una persiana, un vaso, un utensile
nell'amenissino giardino annesso. Tant'oltre si spinse la depredazione
e la devastazione che tutte furono schiantate e rubate le moltissime
ferrate, e cosí i calcani delle porte, i chiodi, i condotti, i canali
dei tetti. I tegoli stessi furono sollevati tutti e scomposti, per la
smania d'indagare nel tetto alcun tesoro nascosto. Insomma, un ampio,
maestoso e ricco palazzo pubblico fu ridotto in brevi istanti uno
scheletro trasparente, che il governo ha poi giudicato miglior partito
di far demolire e formarci una piazza, la quale offrirà maggior comodo
alle carrozze affluenti al vicino teatro.

Il Podestà di Milano, in mezzo all'imponenza di tanta sciagura, non
trovò altro compenso che far stampare ed affiggere il decreto estorto
al presidente del Senato, e successivamente pubblicare egli stesso un
proclama, in cui dichiarò che il generale Pino andava ad assumere il
comando delle forze della capitale, che i Collegi elettorali de'
dipartimenti non occupati dalle armi delle AA. PP. coalizzate si
sarebbero riuniti in una sola camera, al piú tardi nel giorno 22 dello
stesso mese, e che il Consiglio comunale della capitale si radunava
nell'indomani, tenendosi in seduta permanente sino a che le
circostanze lo esigessero, e che i reclami tutti si dirigessero alla
Municipalità che li avrebbe fatti pervenire ai Collegi.

La giornata del ventuno fu una forse delle piú allarmanti e terribili,
che abbia mai veduto Milano. Il folto popolo, allo spuntar del giorno,
era in aspetto sedizioso per le contrade tutte della città. Le
botteghe chiuse nella maggior parte, le guardie della finanza avevano
abbandonate le porte della città ed i cosí detti dazî, un immenso
numero di gente di campagna, armati altri di bastone, altri di lunghi
chiodi resi acutissimi, scorreva d'ogni intorno, designando con lo
sguardo la preda, e ne' complotti le persone de' proscritti e le case
da saccheggiare. Si è detto che alcuni siano stati trovati muniti di
pugnali, chi di ben organizzati capestri. Invano il Consiglio
municipale pubblicò di avere nominata una Reggenza provvisoria,
composta de' signori generale Pino, Carlo Verri, Giacomo Mellerio,
Giberto Borromei, Alberto Litta, Giorgio Giulini e Bazzetta; invano il
generale Pino pregò, in un suo proclama, che si avesse fiducia in lui
e che si stesse pacifici spettatori delle determinazioni che si
andavano a prendere dalle AA. PP.; invano il corpo municipale si
espresse, in altra stampa, che il popolo poteva darsi quella forma di
governo che piú desiderava, che la sua libera volontà fosse
partecipata ai Collegi, i quali avrebbero adottati quei mezzi, che il
popolo stesso avesse giudicati piú opportuni alla sua felicità; invano
il Vicario capitolare esortava nelle viscere di G. C. alla
tranquillità, ordinava pubbliche preci con un triduo; invano lo stesso
generale Pino, per salvare la forse minacciata persona del duca di
Lodi, espose quelle dei senatori, avendo dichiarato in altro proclama
che il duca non aveva avuto parte alcuna negli affari seguiti in
Senato, poiché era in quei giorni gravissimamente infermo, e che le
carte andate in Senato erano state fatte da tutt'altre persone, e
neppure firmate da lui; invano il direttore delle privative e dei dazî
di consumo, in un suo avviso che di concerto fu fatto col generale
Pino, col cavaliere Podestà e col Consiglio comunale, aveva ridotto
alla metà il prezzo dei sali e dei tabacchi e la tariffa dei dazî
consumo; invano il primo atto della Reggenza fu quello di abolire la
tassa del registro.

Tutto fu inutile: non era opinione politica, non desiderio di una
piuttosto che di un'altra forma di governo, non animosità contro il
medesimo o contro il Principe, non sentimento di pubblico bene, che
animasse la moltitudine.[33] L'unico centro del voto generale era la
rapina e la depredazione, e già si era tornato a compiere il guasto
del palazzo del ministro e si era tentato in quello del Senato;
fortunatamente il rimedio del male emerse dal male stesso. Emporio
ricchissimo in merci, in derrate, in danaro era la dogana generale,
ossia il cosí detto Dazio grande nel palazzo del Marino, ove e
fondachi e doviziosi depositi erano affidati dal commercio milanese,
essendovi pure gli uffici del ministero delle finanze e di varie sue
direzioni generali. Vi si diressero gli ammutinati, sotto pretesto di
disperderne e distruggerne le scritture. Fu allora soltanto che,
nell'affannosa trepidazione del loro cuore, si mossero ad un tratto i
negozianti, con una energia imperiosissima. L'unirsi a tal voce i
padri, i figli, i giovani, i garzoni, gli amici, i conoscenti, il
correre ai quartieri, l'armarsi di fucili e il dividersi in numerose
pattuglie, fu pressoché un punto solo. Il presidente del Consiglio
comunale ed il generale Pino, con altri proclami, chiamarono all'armi
tutti i cittadini indistintamente. Il Consiglio credette di aggiungere
eccitamento, con accordare un distintivo nazionale in una coccarda
rossa e bianca. Di egual saccheggio era minacciato il palazzo della
Corte. La guardia reale, i cannoni e lo stesso generale Pino la
difendevano debilmente. Il generale fu insultato, la guardia forzata
piú volte ed astretta a ritirare dalla piazza i cannoni e nel palazzo
celarli. La stessa milizia civica marciava pavida ed incerta. Si
fecero sbarrare le strade che conducevano al palazzo del Marino, ma le
sbarre erano a gran pena difese.

Un'accidentale combinazione presentò alla milizia un vantaggio
decisivo sul popolo. Andavano le pattuglie, per un certo riguardo,
colla punta della baionetta rivolta verso la canna del fucile, ma una
di esse aveva i fucili tanto dalla ruggine investiti che non gli fu
possibile di togliere dalle canne le baionette. Presentatasi in piazza
s'intese un subitaneo fremito popolare, nel quale si distinguevano le
parole: «a basso le baionette.» Il che non ottenutosi, furono tratti
de' sassi sulla pattuglia; la quale essendo forte in numero, fattosi
coraggio, abbassò le armi e corse a passo di carica sugli ammutinati,
che si dissiparono all'istante. Questo primo esperimento felice fu
efficace, perché si vedessero subito in aria le punte delle baionette
di tutte le pattuglie, perché si disperdessero i crocchi, perché i piú
rivoltosi pertinaci nella loro insolenza si arrestassero. Molti e ben
molti arresti seguirono nel rimanente del giorno e durante la notte;
molti la polizia trovò tra questi che, facinorosi e debitori di
delitti anche gravi, eludevano da piú anni la sua vigilanza e che,
fidati allora nell'anarchia e nell'impunità, erano accorsi, e forse
stipendiati, al bottino. Cosí terminò, senza altri orrori, quella nera
giornata, in cui ebbe luogo soltanto il saccheggio di altra casa di
campagna del conte Prina. Frattanto arrivò nella notte un corpo di
cavalleria italiana, parte della quale salvò dal proclamato spoglio la
regia villa di Monza e parte rinforzò l'efficacia della milizia.

Cessato lo spavento per il temuto disastro, di cui massimo bersaglio
sarebbero stati i ricchi, tra' quali entravano quelli stessi che il
primo impulso gli dettero, riavutisi questi appena dall'allarme,
riammessero nel giorno 22 di aprile la marcia rivoluzionaria, e tutto
lo studio loro rivolsero a distruggere la costituzione ed a sollevarsi
ad una chimerica sovranità. In quel giorno ebbe luogo la prima
sessione dei Collegi elettorali, illegalmente convocati, piú
illegalmente costituiti. I soli elettori milanesi, compresi alcuni
pochissimi appartenenti ai dipartimenti non invasi i quali erano in
Milano per funzioni governative, essi soli, in numero di circa
settanta, disponendo della sorte del Regno come di una loro proprietà
baronale, approvarono la Reggenza, a cui si riserbarono di aggiungere
altri individui per li detti dipartimenti, dichiararono il general
Pino comandante in capo delle forze dello Stato, sciolsero tutti i
sudditi e tutte le autorità civili e militari dal giuramento verso il
sovrano, ordinando che altro se ne prestasse giusta gli ordini della
Reggenza. Dichiararono come non avvenuta la deputazione del Senato,
che cessato dissero; ordinarono la dimissione dei detenuti per motivi
di opinione, di coscrizione, di finanza; ed accordarono amnistia ai
disertori e refrattarî. Situatisi quindi al livello dei governi del
piú alto rango ed assunto il tuono ed il linguaggio de' primi
gabinetti, decretarono che «si avvertissero non meno i Comandanti
delle Alte Potenze, che l'Armata Italiana della nomina fatta del
general Pino, e che un indirizzo si facesse alle stesse Alte Potenze,
pregandole a voler concorrere alla felicità del paese».

Le norme della felicità a cui aspiravano furono indicate e prescritte
alle AA. PP. nella successiva seduta del giorno 23. Il Consiglier di
Stato Lodovico Giovio, decorato della Corona di ferro, quegli che
pochi giorni innanzi, nella qualità di Commissario di governo, aveva
perorato ai popoli del Lario mostrando loro la convenienza di
sostenerlo con ogni mezzo di contribuzioni e di soldati volontari,
egli fu acclamato dagli elettori in presidente de' Collegi. Aprí la
seduta insinuando ad essi, che «chiedessero istituzioni liberali, un
capo indipendente che, nuovo, non conosciuto da noi... accolga i
nostri voti e le nostre benedizioni».

Né a quelle insinuazioni furono sordi i Collegi, che in poche ore
(senza neppure curarsi del lavoro e del rapporto di una commissione,
giusta l'adottato costume dei corpi morali, anche in oggetti assai
meno gravi) la base e l'impianto formarono dell'ideata costituzione.
Incominciando da ciò, in cui non poteva nascere controversia e che era
pure il fondamento della costituzione di Lione[34], dichiararono che
la religione cattolica era la religione dello Stato, la quale poi in
altra seduta dissero piú accuratamente che essere dovesse la cattolica
apostolica romana. Deliberarono quindi di chiedere alle Alte Potenze:

Primo: _Assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano, che sarà per
rappresentare il Regno d'Italia, con la stessa denominazione o con
quell'altra che alle AA. PP. piacerà di darvi_.

Secondo: _La maggiore estensione di confini del detto nuovo Stato,
combinabile cogli interessi e colle mire delle AA. PP. e colla nuova
bilancia politica d'Europa_.

Terzo: _Una Costituzione liberale, che abbia per base la divisione dei
poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, colla totale
indipendenza di quest'ultimo; che ammetta una rappresentanza
nazionale, cui spetti esclusivamente il formare le leggi e lo
stabilire e regolare le imposte; che assicuri la libertà individuale,
la libertà della stampa e del commercio; e che porti una stretta
responsabilità negli incaricati de' rispettivi poteri_.

Quarto: _Facoltà di fare questa Costituzione ai Collegi elettorali_.

Quinto: _Un governo monarchico ereditario, primogenitale, e un
principe, che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far
dimenticare i mali sofferti durante l'ora cessato governo_.

Anche piú estesi erano i desiderî degli elettori; ma furono
avvedutamente moderati da qualcuno, il quale fece riflettere, nella
sua saviezza, che non si dovesse poi legare le mani alle Alte Potenze
coalizzate. Si credette però ommesso, e fu aggiunto in altra seduta,
che si chiedesse un «Principe nuovo onde allontanare ogni idea di
desiderio e di affetto verso il cessato». Decisero pure di «pregare i
Monarchi di concedere la libertà de' loro figli prigionieri, vittime
da tanto tempo di una causa ingiusta». Combinarono finalmente che la
Reggenza nominasse «una Commissione tra i cittadini piú distinti, per
recarsi al quartier generale delle potenze, onde esprimere a quei
Monarchi il vóto della rappresentanza Nazionale Italiana». La
Commissione fu subito formata da un cittadino di Brescia e da altri
cinque e da un segretario milanese. Fu il primo il sig. Marc'Antonio
Fè, e furono gli altri i signori Federico Confalonieri, Giacomo Ciani,
Alberto Litta, Giacomo Trivulzi, Pietro Balabio capo battaglione,
oltre Giacomo Beccaria segretario, li quali all'istante partirono.

Mentre lo spirito di vertigine agitava cosí le teste milanesi, li
conti Guicciardi e Castiglioni si trovavano ancora in Mantova, ove si
erano recati per prendere le credenziali del Principe ed i passaporti
dal F. M. Conte di Bellegarde e per recarsi indi a Parigi per la via
piú sicura di Baviera, via che prima di essi avevano tenuta li
deputati dell'armata, i generali Fontanelli e Bertoletti. Seppero
eglino appena quanto era avvenuto di disgustoso nella capitale, che
subito si restituirono ad essa, tuttoché non richiamati da alcuna
lettera, da alcun avviso officiale. Avevano già tenuto col principe
Eugenio quel grave e dignitoso linguaggio, proprio di due personaggi,
di cui è stata sempre unica scorta l'onore e la lealtà. Continuando
nel medesimo contegno, credettero di prendere congedo da lui e
dispensarsi definitivamente sulla deputazione; ma invece di meritare
cosí l'elogio dei milanesi, si videro investiti al ritorno da calunnie
le piú impudenti. Non tardò il conte Guicciardi a garantirsene con
un'apologia che presentò alla Reggenza, onde avere il permesso di
pubblicarla colla stampa. La giustificazione fu ben accolta ed elogi
sommi si prodigarono alle eminenti sue qualità personali, non che al
contegno da lui tenuto in qualità di senatore, di deputato; ma la
stampa non si permise, per la addotta ragione che «con ciò si
farebbero rivivere delle animosità che si vogliono sopite, si
urterebbe col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di
coprire di un velo le cose avvenute». È pure necessario alla storia
che ora tal memoria e la lettera della Reggenza siano conosciute, ed è
perciò che si inseriscono ai num. 6 e 7.

Se il Principe Eugenio avesse fatto marciare sopra la capitale una
porzione delle truppe italiane che restavano sotto i suoi ordini,
poteva reprimere i sediziosi e restituire l'ordine facilmente; ma,
riflettendo che con l'abdicazione di Napoleone era terminata la sua
rappresentanza come Viceré, deliberò di abbandonare il Regno e di
restituirsi in Baviera e poi in Francia; lasciò che l'ordine fosse
ripristinato dalle armi di S. M. l'Imperatore d'Austria, al quale
oggetto combinò nel dí 23 aprile una seconda convenzione col F. M.
Conte di Bellegarde, in forza di cui, e non mai delle non valutate
deputazioni spedite dalla Reggenza alli diversi corpi delle armate
alleate, prese questi possesso della capitale e dei paesi non ancora
occupati. Difatti il generale Sommariva, giunto in Milano nel dí 25,
scrisse alla Reggenza che in vista di essa capitolazione spiegava la
sua qualità di Commissario delle AA. PP. e si poneva alla testa di
tutte le Autorità. Ciò, a dire il vero, non fu grato ai sovrani
novelli, a' quali molto meno fu accetto l'ingresso successivo delle
armi austriache in Milano. Si trovò scritto a grandi caratteri, in
tutti i quartieri di guardia civica, le parole: _O indipendenza, o
morte_. Il _Giornale Italiano_, redatto e pubblicato sotto l'influenza
e sotto la sorveglianza del Governo, come foglio officiale,
nell'annunziare l'arrivo di dette truppe disse, che «la Guardia Civica
ed una numerosa folla di popolo le accolsero con quelle dimostrazioni
di gioia e di gratitudine ch'eccitar dee da per tutto la presenza di
guerrieri che hanno tanta parte nella pacificazione dell'Europa; ma
conservarono nello stesso tempo quel nobile contegno, che caratterizza
una nazione il cui primo vóto è l'indipendenza».

Tanto e cosí gagliardo era in que' giorni il riscaldamento e il
fanatismo da far pietà. Non risparmiando i Collegi alcuna delle
attribuzioni sovrane, avevano annullato nella seduta dei 25 i celebri
decreti di Berlino e di Milano[35] ed i relativi regolamenti;
imponendo restrizioni preventive al loro Monarca, cui non si faceva
torto, subito che nuovo doveva essere e non conosciuto, gli avevano
limitato la riserva della caccia di Monza al solo parco, escluso il
circondario esterno, ed alle sole valli ed ai boschi del Ticino.
Avevano abolite diverse leggi penali, avevano dichiarata la cessazione
del Senato ed avocata alla Nazione la sua dotazione, la cessazione del
Consiglio di Stato con la sua segreteria, delle cariche di ministri e
di consiglieri di Stato.

Questi elettori, che tanto di Nazione parlavano, non sono giunti mai a
numero maggiore di 170. Erano 1153 gli elettori di tutto il Regno ed
in forza della costituzione[36] doveva concorrere almeno un terzo
perché fosse valida la convocazione. Anzi che giungere a questo
prescritto numero, fu anzi tanto maggiore la nullità delle sessioni,
perché tutti e dotti e commercianti del dipartimento di Olona vi
concorsero, e dagli altri dipartimenti non si chiamarono che i
possidenti, il che non fu senza grande artifizio, per la tema che
persone intelligenti, saggie e non calde, non frastornassero col
numero i concepiti giganteschi progetti. Quanto goffamente presumesse
una tale assemblea rivoluzionaria di distruggere i primi corpi del
Regno, è dimostrato nella nota inserita in calce di questa memoria, al
num. 8, la quale fu offerta all'Austriaca autorità dal presidente e
dal cancelliere del Senato.

Il F. M. Sommariva, cui si presentò una deputazione de' Collegi, fece
conoscere la poca sua soddisfazione che questi continuassero ne' loro
lavori, acconsentí soltanto a di loro preghiera che alcun'altra seduta
a propria convenienza tenessero, senza però nulla risolvere e
determinare. L'ultima si convocò nel giorno due di maggio, in cui gli
elettori dichiararono «aggiornate le loro operazioni fino al ritorno
della deputazione diretta agli Augusti Sovrani, e finché per parte de'
medesimi non siano intervenuti interessanti dispacci». Dichiararono
infine che «l'esercito italiano ha sempre meritato della patria.» La
sessione fu chiusa con un discorso del presidente, di cui fu acclamata
la stampa. Mi sia permesso di ripeterlo per intiero, affinché meglio
si riconosca fino a qual esaltazione si delirasse in quel corpo.--_I
Collegi elettorali hanno saviamente determinato, nella seduta di ieri
l'altro, dichiaratisi permanenti, di aggiornarsi fino a che,
diradandosi il velo politico del nostro orizzonte, possano ancora
riunirsi ad operare il bene, e a tutte realizzare le concepite liete
speranze. Nell'atto che manifesto a' Collegi la somma mia gratitudine
per l'immeritata onorificenza, ancora trepidante per l'incertezza di
avere anche scarsamente corrisposto a tanta fiducia, fo mozione che
venga indirizzato alla Reggenza un messaggio, in cui, dandole parte
della sospensione dei nostri lavori, accolga fortemente i voti unanimi
dei Collegi elettorali per la sua indipendenza, senza la quale non v'è
né bene, né patria. Sia questa, mercé la protezione delle Alte Potenze
alleate, dalle sue rovine ricomperata, e possa sotto un virtuoso
indipendente Governo gloriosamente operare._

Anche un'altra volta figurò, non piú, la rappresentanza elettorale,
allorché si recò in deputazione al F. M. Conte di Bellegarde, nel
giorno dieci di maggio, giorno successivo al suo ingresso in Milano.
Anche un'altra volta eloquentissimamente arringò il presidente Giovio,
e pronunziò parole, che a tutt'altro che ad un consigliere di Stato
convenivano, il quale tanta influenza aveva avuto nelle operazioni
tutte del cessato governo. _Il voto generale, che vi manifestiamo_
(disse egli al F. M.), _si è l'indipendenza protetta da savie leggi e
da un principe, che tutte accolga le nostre benedizioni. Pervenga
questo nostro ardente desiderio agli Augusti Sovrani alleati. Non è
egoismo, né orgoglio che domandare ne faccia una esistenza politica
alla loro generosità, ma un sentimento caldissimo degno d'ogni animo
virtuoso, quello di assicurare la felicità di un buon popolo che ha
lottato finora con ogni sorta di mali._

Dopo quindici giorni sparí del tutto l'illusione dell'indipendenza
italiana; con proclama de' 23 maggio il F. M. Conte di Bellegarde
solennemente promulgò che non piú in nome delle Alte Potenze
coalizzate, ma bensí per il suo sovrano e padrone l'Imperatore
d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia, riteneva Milano e le annesse
provincie. Dichiarò nel tempo stesso, che da quel giorno cessava
l'attività e l'influenza de' Collegi, non meno che del Senato e del
Consiglio di Stato, e soppresse in seguito la guardia civica. Cosí
palesò che il suo governo in niun conto aveva tenuto l'abolizione dei
due primi corpi dello Stato, che con tanto strepito e trionfo si era
operata dall'assemblea milanese. Essi sono cessati per effetto di
sistema, e non per il capriccio e l'animosità di pochi elettori.

La sola Reggenza rimase, di cui alla testa si pose il Maresciallo col
carattere di Commissario plenipotenziario. A compimento della storia
resta pure, che si dia qualche cenno degli atti di questa provvisoria
magistratura composta in origine di sette cittadini milanesi, alli
quali nel dí 25 aprile associarono i collegi, con non giusta
proporzione, altrettanti individui per gli altri sette dipartimenti.
Gli oggetti di finanza richiamarono le prime cure della Reggenza. Essa
trovò alla sua installazione che il generale Pino, il Podestà e il
Consiglio comunale avevano ridotti a metà i prezzi del sale, del
tabacco e la tariffa dei dazî consumo; a ciò essa aggiunse
l'abolizione totale della legge del registro, e nel dí 23 aprile
diffuse a tutti i dipartimenti tali provvidenze, con aver anche
ristretto a due sole terze parti il dazio sulle derrate coloniali,
compreso lo zucchero. Limitò quindi a metà la tassa delle lettere;
annullò quella del contributo delle arti e mestieri, e cosí pure la
ritenuta del quinto sul soldo della truppa, decretata durante la
guerra, ed ordinò la pronta liquidazione dell'arretrato credito dei
militari, onde fissare poi pel medesimo le epoche di pagamento. Queste
misure furono figlie della circostanza e del timore, poiché ben presto
reintegrò il registro per la tassa degli atti giudiziali in aumento
dei dritti di cancelleria, ed anche il registro delle scritture
private, limitato però al solo dritto fisso. Pubblicò nuove tariffe
sul prezzo de' sali e dei tabacchi, sulli dazî di consumo e sopra i
dritti doganali per l'importazione ed esportazione delle derrate,
mercanzie ed altri generi. La soverchia indulgenza de' primi giorni
fece sí che si dovesse mantenere per li mesi di maggio e di giugno la
prediale all'eccessivo rigorismo a cui fu portata dal decreto de' 6
aprile 1814.

Procedette ad altre innovazioni, parte di propria autorità, parte in
esecuzione della volontà dei Collegi. Accordò amnistia ai disertori,
ai refrattarî, ai condannati o detenuti per oggetti di coscrizione, di
finanza, di opinione e di trasgressione alle leggi e regolamenti sulle
caccie. Riformò in qualche parte il catechismo del cardinale Caprara,
restituí alle proprie case i figli unici e parificati agli unici e ai
sostegni delle famiglie, requisiti per le armate. Abolí le Corti
speciali, e cosí la pena della berlina alle donne, non che agli uomini
per i delitti importanti la sola pena di reclusione.

Fece promozioni e destituzioni; promosse il generale di brigata
Mazzucchelli a generale di divisione, richiamò e pose in attività di
servizio il generale polacco Dembowski, rilasciò brevetto di capo
squadrone al poeta autore de' _Sepolcri_ e dell'_Aiace_. Riformata per
effetto di sistema la direzione generale di polizia, promosse il conte
Luini a consigliere di cassazione; ha poi destituito dal ministero
della guerra il generale di divisione conte Fontanelli ed il suo
segretario generale e dalla prefettura di polizia il signor Giovanni
Villa. Si era fatto lecito quest'ultimo di indagare e porre in
prospettiva le tracce e l'andamento della rivoluzione del venti
aprile, con aver sottoposto ad inopportuni interrogatori i già
arrestati in quel giorno dalle civiche pattuglie, tra i quali erano
anche i piú acclamati rapinatori della sostanza Prina e molti dei
stipendiati sicari. Questi furono restituiti in libertà, e fu dal suo
officio rimosso l'arbitrario prefetto, che osava cosí di «far rivivere
delle animosità che si volevano sopite, ed urtava col principio
adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un velo le cose
avvenute» (v. il documento num. 7).

Furono finalmente ringraziati dalla Reggenza tutti i Francesi ed i
Corsi che prestavano servizio all'armata, e furono dimessi tutti
gl'impiegati oriundi di paesi che non hanno mai appartenuto al Regno
d'Italia, o che hanno adesso cessato definitivamente di appartenervi,
misura che solleva forse la finanza, ma non la gran famiglia de'
cittadini, perché sarà ben maggiore il numero degli impiegati ne'
suddetti paesi, che per giusto riverbero sono stati rimandati e si
rimanderanno. Pareva inverosimile che in questa misura siano stati
compresi i professori dell'università di Pavia e de' licei. Veramente
gli uomini dotti sono stati sempre riputati cittadini indistintamente
di ogni angolo della terra, ed è questa l'ultima volta che di essi si
ricerchi la patria, e non i soli talenti, i lumi ed il bene prezioso
dell'istruzione, che procurar possono ai consimili.

Ed ecco posta nella sua luce originale una serie di fatti, che non
possono evitare una particolare menzione ne' nostri annali. Ne' primi
giorni di fermento rivoluzionario si gloriarono i cittadini milanesi,
ed i piú distinti, d'aver essi personalmente operato gli eccessi del
venti aprile. Sono arrivati a far intagliare e pubblicare una stampa,
in cui si vede l'infelice Prina in atto di essere gittato dalla
finestra per opera, non della plebe, ma di soggetti nobilmente
vestiti, e di essere accolto in istrada colle punte delle loro
ombrelle da altri personaggi in egual vestiario. Quindi, sentito il
fremito d'indignazione di tutti i buoni, ed andati a vuoto tutti i
loro progetti, si sono coperti di tanta vergogna, ed hanno fatto
inserire in Parigi, nel _Journal des Débats_, che i milanesi non hanno
preso parte ne' suaccennati disordini. È nato da questa mendace
impudenza che in questa memoria siano stati nominati individualmente i
soggetti che hanno pubblicamente figurato in essi. Cosí la storia
imparziale non mancherà delle necessarie nozioni e di monumenti
irrefragabili, onde assegnare a ciascuno il meritato tributo di lode o
di biasimo.



N. I.

_Relazione della seduta del Senato Consulente del Regno d'Italia,
tenuta nel dí 17 aprile 1814._


Prima della convocazione del dí 17, niuno de' senatori ne conosceva
l'oggetto, se quei pochissimi si eccettuano che facevano parte del
governo, e che l'intima confidenza godevano de' principali agenti del
medesimo. Tutti erano al buio della politica situazione del regno.
Privi da lungo tempo dei giornali ed anche delle lettere di Francia,
diverse erano le voci, che incerte e contradditorie correvano. Altri
davano Napoleone alla testa di potente esercito, assistito anche
dall'insorgenza di piú provincie; altri lo dicevano morto; altri che
avesse abdicato impero e regno; altri a favore della dinastia. Si
fluttuava in questa incertezza; allorquando i conti pretori del Senato
intimarono nel giorno 16, con la solita lettera, l'ordinaria seduta
del giorno 20: ed allorché con lettera pressante diretta
successivamente ai senatori poche ore innanzi la mezzanotte del giorno
stesso, li chiamarono ad altra convocazione straordinaria per il dí
successivo. Continuò ad esserne ignoto l'oggetto anche negli ultimi
momenti che la precedettero; si osservò solo che tutti, contro il
solito, erano intervenuti i senatori nel numero di 36, compresi i due
ministri della giustizia e delle finanze, oltre il conte Vaccari
ministro dell'interno, sebbene come non senatore non vi avesse voce
deliberativa: non mancavano che cinque membri assenti ed il conte di
Breme che si disse ammalato.

Il conte Veneri, presidente, aprí la seduta coll'aver raccomandato e
fatto promettere il piú rigoroso silenzio in tutti gli oggetti che si
fossero proposti, discussi e risoluti. Quindi passò a leggere, 1. una
lettera del duca di Lodi, cancelliere guardasigilli della corona, data
il dí 16, in cui lo autorizzava a convocare straordinariamente il
Senato; 2. il messaggio che qui si unisce, lett. A; 3. un progetto di
decreto, che parimenti viene qui allegato, lett. B. Alla replicata
lettura di tali fogli, la di cui sostanza era di spedire a S. M.
l'Imperatore d'Austria una deputazione, onde implorare la cessazione
delle ostilità, l'indipendenza del regno, con il principe Eugenio in
re d'Italia, alcuni senatori chiesero simultaneamente la parola.
L'ottenne il primo il conte Guicciardi, il quale propose di fare
precedere in ordine l'esame se era costituzionale la convocazione, non
vedendo facoltà sufficiente nel cancelliere guardasigilli. Fece
riflettere, che questi male a proposito si qualificava nel messaggio
qual rappresentante lo Stato, mentre tutto al piú poteva rappresentare
il governo, e finalmente fece istanza che prima di procedersi ad
alcuna discussione, si procurasse di sapere se il regno era veramente
vacante, cioè se il re vivesse, se avesse, ed in quali termini,
abdicata la corona. L'ottenne il secondo il conte Dandolo, il quale
dimostrò, che in affare tanto grave, quanto ne fosse mai stato portato
al Senato, non si doveva passare ad alcuna proposizione, se prima non
fosse sottoposta alla matura analisi di una commissione, alla quale si
accordasse almeno lo spazio di due giorni. A tali mozioni
interpolatamente risposero il conte Paradisi, il conte presidente
Veneri e il conte ministro dell'interno. Dissero che l'espressione
rappresentante lo Stato era corsa per equivoco, e si sarebbe corretta;
che il duca di Lodi era munito di tutte le facoltà, che avrebbe resa
ostensibile, quando si fosse voluto, una lettera di S. A. I. il
principe Viceré, e che su gli altri fatti non chiari ancora, il Senato
poteva somministrare lumi piú positivi. Il presidente Veneri propose
come piú conveniente, che l'affare fosse discusso in comitato segreto,
e cosí si prendessero momentaneamente quelle saggie e prudenti
determinazioni che si credessero del caso. Si oppose il conte
Guicciardi, mostrando che non si era mai praticato nel corpo il metodo
del comitato segreto, il quale non era additato né dal sesto statuto
costituzionale, né dal regolamento organico delli 9 novembre 1809.
Appoggiò quindi la mozione del conte Dandolo, con l'aggiunta che la
commissione si occupasse dell'affare, non meno in ordine che in
merito, presi prima gli opportuni schiarimenti dal duca di Lodi. Il
conte Vaccari, appoggiato dalli conti Veneri e Paradisi, aggiunse che
la commissione poteva pure aver luogo, giacché si voleva, ma che
onninamente doveva riferir e prendersi una risoluzione in giornata. In
tale circostanza palesò che S. A. I. aveva combinato un armistizio con
S. E. il generale Bellegarde, sotto la condizione, che si fosse
spedita una deputazione in Francia, sino al risultato della quale si
sarebbero sospese le ostilità, e che dalla nomina di tale deputazione
dipendeva l'attuale esistenza politica del regno, e la concessione di
uno spazio alle negoziazioni, mentre senza di essa era inevitabile
l'invasione immediata della capitale. Asserí inoltre, che l'armata
aveva acclamato il principe Eugenio, il che non era senza fondamento,
sapendosi i movimenti promossi in Mantova da alcuni capi.

Questo riflesso quietò i molti che opinavano per la totale esclusione
del progetto. Fu posto alle voci, se piacesse la commissione secondo
le massime esternate dal conte Guicciardi, e fu approvata. Si chiese
se doveva essere di cinque membri e si rigettò; se di sette, e vi si
convenne. La commissione pertanto fu nominata, per via di schede,
nelle persone delli signori Guicciardi, Bologna, Cavriani,
Castiglioni, Costabili, Verri e Dandolo. Si noti che la pluralità dei
suffragi escluse dalla medesima ognuno di quei senatori che aveva
opinato per il comitato segreto, o che aveva perorato in sostegno del
progetto del duca di Lodi, o aveva mostrato adesione al medesimo. Il
presidente invitò i membri della commissione a dare il loro rapporto
nello stesso giorno, alle ore 8 della sera.

Adunatasi questa, all'istante combinò concordemente, che tre de' suoi
membri, li signori Guicciardi, Verri e Dandolo, si recassero subito
dal duca di Lodi, per porsi al giorno di quanto occorreva. Si prestò
subito il duca alle ricerche; giustificò la sua autorizzazione con un
decreto di antica data del re, che, nell'assenza del Principe Viceré,
gli conferiva amplissime facoltà, tra le quali egli intendeva che
anche quella vi fosse compresa di convocare il Senato. Mostrò loro una
lettera di S. A. I., in cui gli partecipava di andare a segnare un
armistizio, da durare fino all'esito delle negoziazioni da
intraprendersi da una deputazione, che il regno avesse spedito alle
AA. PP. Alleate, e parlava pure dell'unione del Senato per la nomina
dei deputati. Molte e ben molte ragioni addusse inoltre per
determinare l'adesione del Senato al suo progetto.

La commissione, ciò inteso dalli suoi tre membri, convenne
unanimemente sulla necessità di occuparsi sul merito dell'affare, e
passò a redigere un nuovo progetto che era nelle considerazioni e
negli articoli differente di quello già proposto al Senato, a cui
nella stessa sera fu letto dalla tribuna. Conteneva in sostanza: 1.º,
che si spedissero tre deputati, in nome del Senato, alle Alte Potenze,
per presentare loro i suoi omaggi, e supplicarle per la finale
cessazione delle ostilità; 2.º, per chiedere che il regno fosse
ammesso al godimento della sua indipendenza; 3.º, che il Senato
coglieva quest'incontro per rinnovare a S. A. I. il principe Eugenio i
sentimenti dell'alta sua stima e del piú sincero attaccamento.

Alla lettura di un tale rapporto fu grande la commozione di alcuni,
massima poi quella del conte Paradisi e del ministro Vaccari. Dissero
apertamente che, esclusa la domanda di S. A. I. in Re d'Italia, era
inutile l'oggetto della controrisoluzione, e che l'intruso complimento
era piuttosto ingiurioso. Il conte Paradisi ricercò che si leggesse di
nuovo il progetto del cancelliere guardasigilli. Questo e l'altro
furono letti piú volte. A ciò successe una ben lunga discussione,
nella quale presero parte, da un lato, il presidente, Paradisi, i
ministri Prina e Vaccari, e dall'altro, Guicciardi, Dandolo, Massari,
Verri, Castiglioni.

Fra le altre opposizioni del conte Guicciardi vi fu quella, che i
senatori attaccati da un giuramento all'osservanza de' statuti
costituzionali, non potevano dimenticare il primo ed il quarto tra
essi, li quali accordavano la successione, in preferenza di un
adottivo, ad un figlio legittimo naturale del Re, quando non sia per
portare nel suo capo la corona di Francia, e che era tra i possibili,
che questo caso si verificasse nel Re di Roma. Motivò in risposta il
conte Prina, un nuovo articolo da lui redatto in questi termini: «È
incaricata la deputazione di far conoscere alle AA. PP. il dritto
eventuale acquistato dal principe Viceré alla corona d'Italia in forza
del primo e del quarto statuto costituzionale, diritto reso piú sacro
dall'amministrazione, dalla gratitudine, dai voti e dal desiderio
della nazione». Con molte ragioni dimostrò il conte Guicciardi, che
non era lecito di porsi in campo il dritto eventuale, finché non fosse
escluso il positivo, ed accennò l'inconvenienza di ricercare alle
potenze alleate, e specialmente all'Austria, il principe Eugenio in
sovrano. Il conte Massari insistette che non si dovesse improntare il
nome della nazione; ma solamente quello del Senato, qualunque fosse la
sua deliberazione. Il conte Verri fece delicatamente conoscere
d'essere in dubbio che in questo momento concorressero a favore del
principe i suffragi della nazione.

Dopo lungo dibattimento si decise di porre prima a partito il progetto
della commissione, il quale, qualora non fosse accettato, poteva
mettersi alle voci il progetto del duca di Lodi, e cosí le
modificazioni proposte. Il conte Dandolo fece istanza che ciascuna
delle proposizioni subisse lo sperimento dello scrutinio segreto per
via di ballottazione. Il conte Presidente si rifiutò, avendo ordinato
che i singoli dassero apertamente i loro voti per alzata in piedi e
seduta, e con tal metodo la massima parte dei Senatori approvò le
considerazioni e gli articoli dalla commissione proposti. Il solo
terzo articolo subí la seguente modificazione, proposta dal conte
Moscati, e redatta dal conte Mengotti: «Li deputati saranno incaricati
di presentare in quest'occasione alle AA. PP. li sentimenti di
ammirazione del Senato per le virtú del principe Viceré, e della sua
viva riconoscenza per il di lui governo» (Allegato lettera C). Qui fu
che gli individui del contrario sentimento, e sopratutti il conte
Vaccari, si diedero a declamare fortemente contro l'ingiustizia e
l'ingratitudine del Senato. Tacquero gli altri, ed ognuno si fece un
riguardo di non dar luogo a contestazione in quest'argomento. Chiese
la parola il conte Luosi, ed espose che, sebbene non si potesse piú
proporre il progetto del duca di Lodi, come contradetto dall'altro
adottato, pure gli sembrava che non fosse in opposizione con questo
l'articolo redatto dal conte Prina, sul dritto eventuale del principe
Eugenio. Domandò ed ottenne di interpellare su di esso la volontà del
Senato, ma essendo stato confutato di nuovo dal conte Guicciardi, fu
posto alle voci e fu escluso.

Altro allora non restava che la nomina dei deputati. Il conte Paradisi
credette di proporre, che gli sembrava opportuno di rimettere la
scelta di essi alla prudenza del governo. Questa istanza non si poté
porre in deliberazione, perché un grido generale la escluse appena
pronunciata. Posteriormente poi si vociferò che il governo aveva
destinato di spedire lo stesso conte Paradisi ed il conte Prina. Si
passò dunque allo scrutinio e dallo spoglio delle schede risultò che
il conte Castiglioni fu contemplato da 27 voti, il conte Testi da 25,
Guicciardi da 23. L'ulteriore maggioranza de' voti concorse nel conte
Paradisi il quale però non fu favorito che da sei solamente.

Il conte Testi si scusò di non poter presentarsi a tale onorifico
incarco, per la sua manifesta malattia d'occhi. Il conte Guicciardi
soggiunse, che se ammettevano scuse egli era il primo a proporre le
sue, perché ognuno conosce le fisiche indisposizioni che soffre, non
che il danno nell'allontanarsi da una famiglia di 14 figli. Alle
rispettive deduzioni credette d'imporre silenzio il conte Presidente,
col pronunziare che la seduta era sciolta; rispose alcuno che era in
sua facoltà il chiudere la discussione, e passare la proposizione, se
avesse avuto il suo sfogo. Egli però ripeté piú volte, che credeva di
essere investito di tale facoltà, e perciò dichiarava onninamente
sciolta la seduta. Non si poté insistere in ciò, perché i conti
Paradisi e Carlotti erano partiti, e sebbene dagli uscieri richiamati,
non furono raggiunti.


LETTERA A.

_Messaggio del duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli della Corona._

  SENATORI,

Le nuove che ci pervengono ogni dí dalla Francia sono di tale natura,
che il Senato del Regno d'Italia si renderebbe infallibilmente
colpevole verso la patria, se differisse piú a lungo di occuparsi del
di lei destino, e di cercare nella sua saviezza que' mezzi migliori di
conciliare la sua esistenza.

Un accesso di gotta, che questa notte mi ha assalito, è cagione, o
senatori, ch'io non possa oggi recarmi in persona nel vostro seno,
come mi era proposto, e provo di questa circostanza un profondo
rammarico.

Ma tutti gli istanti sono talmente preziosi, che ho giudicato di non
poter differire oltre la comunicazione, che doveva farvi. In
conseguenza, autorizzato nella mia qualità di rappresentante lo Stato,
in assenza di S. A. I. il principe Viceré, vi dirigo, o senatori, un
progetto di risoluzione, che sottopongo al vostro patriottismo ed ai
vostri lumi, e sul quale invoco da voi una pronta deliberazione.

I sentimenti che vi animano tutti mi garantiscono già, o senatori, che
la vostra risoluzione sarà conforme ai veri interessi dello Stato, ed
ai voti del popolo, di cui siete oggi il primo corpo rappresentante.

Aggradite, o senatori, l'espressione della mia alta considerazione.

Milano, li 17 aprile 1814.

_Per ordine di S. E. il Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli,
impedito dalla gotta alla mano destra._

                              _Firmato_ CARLO VILLA, _Segretario_.


LETTERA B.

_Progetto di deliberazione del Senato, unito al messaggio del Duca di
Lodi._

  IL SENATO DEL REGNO D'ITALIA:

Considerando, che le circostanze politiche d'Europa sono intieramente
cambiate, che le AA. PP. alleate hanno solennemente proclamata la pace
del mondo, e che non si potrebbe senza ingiustizia temere che
volessero eccettuare dalle loro benefiche intenzioni un regno che
lontano dall'averle mai dato verun motivo di malcontento, professa per
esse quei sentimenti che le sono dovuti;

Che di già è venuto il momento nel quale il regno può e deve
sollecitare l'indipendenza della quale è degno e che sospira da cosí
lunga stagione;

Che non di meno le truppe di una di queste potenze occupano una parte
del regno, e minacciano in questo stesso momento il rimanente del suo
territorio;

Che la potenza, alla quale appartengono queste armate, è precisamente
quella sulla benevolenza di cui il regno d'Italia è assueffatto ed ama
di contare di piú;

Che finalmente nello stato attuale di cose, la continuazione della
guerra sul nostro territorio Italiano sarebbe senz'oggetto, e ciò
null'ostante accrescerebbe le calamità, che da lungo tempo affliggono
il regno;

  DECRETA:

Art. 1. Una deputazione del Senato si recherà senza dilazione presso
S. M. l'Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia, affine di
presentarle i rispettosi omaggi del Senato, e di supplicarla
d'ordinare, che cessino da quel momento tutte le ostilità sul
territorio italiano, e sino a tanto che il destino d'Italia sia stato
definitivamente stabilito dalle AA. PP. coalizzate.

2. S. M. l'Imperatore d'Austria sarà egualmente supplicata di volere
interporre la possente sua mediazione appresso i suoi augusti alleati,
perché l'indipendenza del regno sia finalmente consecrata e
riconosciuta, e che il regno sia ammesso a godere dei benefici tutti
che le AA. PP. disegnano di spargere sopra la grande famiglia.

3. Che S. M. sarà egualmente supplicata di concorrere con tutto il suo
interesse presso gli Augusti Alleati suoi, perché il Regno d'Italia,
ricevendo in fine in tutta la sua estensione, l'applicazione del suo
primo e quarto Statuto costituzionale, sia sottomesso una volta a un
Re libero e indipendente, e segnatamente al principe Eugenio, che
colle sue virtú, co' suoi lumi e colla sua onorevole condotta, tanto
in pace che in guerra, ha meritato del pari l'amore, la riconoscenza e
la fedeltà dei popoli del Regno d'Italia, ed anche la stima di tutta
l'Europa.

Fatto e deliberato in Senato, nel palazzo ordinario delle sue
convocazioni.


LETTERA C.

_Decreto adottato dal Senato._

Il Senato radunato nel numero prescritto dall'art. 29 del sesto
statuto costituzionale.

Sentita l'esposizione del cancelliere guardasigilli della corona,
sulle attuali circostanze e sulla necessità di una istantanea
providenza;

Considerando che le AA. PP. alleate hanno proclamata la pace del
mondo, e che quindi si avvicina la fortunata epoca in cui i popoli
dell'Europa, dopo tante dolorose vicende potranno godere dell'insigne
beneficio di liberali costituzioni;

Che in tali circostanze, la continuazione della guerra nel territorio
italiano non ha piú alcuno scopo, e che anche questo regno può e deve
sollecitare il godimento dell'indipendenza, e la calma che da sí lungo
tempo sospira e che gli fu garantita ne' pubblici trattati;

Che in una convenzione fra le armate del regno e quelle delle AA. PP.
alleate, è stabilita una provvisoria sospensione d'armi, che deve
durare fino al ritorno di una deputazione del regno, che sarà spedita
alle suddette AA. PP. alleate.

Ritenuta l'iniziativa per la convocazione della presente seduta
straordinaria risultante da' dispacci del cancelliere guardasigilli:

  DECRETA:

Art. I. Una deputazione del Senato, composta di tre individui, si
recherà presso le AA. PP. coalizzate, affine di presentare loro i
rispettosi omaggi del Senato, e supplicarle per la finale cessazione
delle ostilità.

» II. La deputazione richiederà alle AA. PP. che il regno venga
ammesso al godimento reale della sua indipendenza, garantita da'
pubblici trattati.

» III. Li deputati saranno incaricati di presentare in questa
occasione alle AA. PP. i sentimenti di ammirazione del Senato per le
virtú del Principe Viceré, e della sua riconoscenza per il di lui
governo.

» IV. I membri di questa deputazione saranno nominati dal Senato,
seduta stante.

» V. Il cancelliere guardasigilli della corona sarà pregato di dare ai
medesimi le opportune istruzioni, e procurare le necessarie
credenziali e passaporti.

» VI. Il presente decreto sarà spedito al cancelliere guardasigilli,
con messaggio del presidente, anche all'oggetto che sia col di lui
mezzo trasmesso al Principe Viceré in nome del Senato.

Milano, dal Palazzo del Senato, li 17 aprile 1814.

                _Firmato, il presidente ordinario_

                       CONTE VENERI.

                                      CONTE LAMBERTI } _Segretari_
                                      CONTE MENGOTTI }

Successivamente essendosi messa alle voci la nomina dei deputati,
dallo scrutinio delle schede risultarono nominati i Senatori conti
GUICCIARDI, CASTIGLIONI e TESTI, il quale ultimo si è scusato a motivo
dell'attuale sua malattia d'occhi.

Milano, dal palazzo del Senato 17 aprile 1814.

                                             _Firmati come sopra._



N. II.

_Istruzioni di S. E. Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli della
Corona del Regno d'Italia, partecipate alli deputati del Senato,
signori Conti Guicciardi e Castiglioni._


Non avendo in questo momento il Regno d'Italia corrispondenza colle
corti di Russia e di Prussia, e non potendosi nella circostanza
attuale, a seconda di quanto ha assicurato il sig. Conte Senatore
Testi, incaricato del portafoglio delle relazioni estere, rilasciare
credenziali nelle solite forme, si è supplito colla qui unita lettera
di credito per il signor Principe di Metternich, ministro di Stato di
S. M. l'Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia; i signori
deputati si recheranno in Mantova per ricevere da S. A. I. il Principe
Viceré i necessari passaporti e lettere di credito presso gli altri
sovrani alleati. I signori deputati si presenteranno colla suddetta
lettera al signor Principe di Metternich, domanderanno al medesimo di
essere presentati a S. M. l'Imperatore d'Austria, ed insisteranno in
seguito per essere presentati agli altri sovrani alleati.

I signori deputati domanderanno a S. M. l'Imperatore d'Austria, perché
venga consacrata l'indipendenza del regno d'Italia, già stata
riconosciuta, e garantita l'integrità del suo territorio a termini dei
trattati, e specialmente di quello di Luneville.

Nel caso che i signori deputati si accorgessero che vi fossero delle
difficoltà su questo articolo, perché le potenze alleate avessero già
diversamente disposto del territorio Modenese, faranno osservare tutti
gl'inconvenienti che ne deriverebbero da questo distacco, il quale
mentre priverebbe il Regno d'Italia di una diretta comunicazione colle
legazioni, stante l'impraticabilità delle strade del Ferrarese per
gran parte dell'anno, gitterebbe lo Stato di Modena, già unito al
Regno d'Italia dal trattato di Luneville, ed accostumato alla
legislazione ed alli metodi del Regno, in una vera confusione,
cosicché sarebbe assai piú conveniente all'interesse delle AA. PP., di
sostituire ne' compensi stabiliti un altro stato.

Qualora i deputati trovassero insuperabile questo punto, insisteranno
perché venga accordato al Regno d'Italia un compenso, il quale
potrebbe essere gli Stati di Parma e Piacenza, con una porzione di
Genovesato, compresa la città di Genova, ed una linea del Piemonte per
una facile comunicazione.

I deputati non mancheranno di far sentire, che uno dei primi oggetti,
che la nazione si propone nel chiedere il riconoscimento solenne della
sua indipendenza, è quello di darsi una costituzione conforme ai veri
principi, ed ai suoi bisogni naturali, e tale da assicurare la sua
felicità.

I deputati insisteranno pure perché lo Stato d'Italia conservi sotto
le forme suddette il titolo di Regno, il quale era già stato
riconosciuto da tutte le potenze, e che non ha meritato di perdere.

I deputati cercheranno prudentemente di mettersi in corrispondenza co'
ministri del Regno in Parigi, onde valersi dei loro lumi e notizie; in
tutti i casi poi non preveduti, i deputati si regoleranno con la
conosciuta loro saviezza e prudenza.

Milano, 18 aprile 1814.

  _Per ordine di S. E. il Duca di Lodi, impedito dalla
  gotta alla mano destra._

                              _Firmato_ CARLO VILLA, _Segretario_.



N. III.

_Credenziale di S. E. il signor Duca di Lodi, Cancelliere
guardasigilli, diretta a S. E. il signor Principe di Metternich onde
accreditare presso di lui i deputati del Senato, Conti Guicciardi e
Castiglioni._


_A S. Ex. monsieur le Prince de Metternich, Ministre d'État de S. M.
l'Empereur d'Autriche._

MONSIEUR LE PRINCE,

Dans le moment dans lequel les intérêts de ma patrie me mettent dans
le cas d'invoquer pour elle l'intervention de V. Ex. en sa faveur, il
est bien doux pour moi de pouvoir me rappeler l'époque à laquelle j'ai
eu le bonheur de faire sa précieuse connaissance.

Entraîné dans une guerre qui ne le regardait pas, le royaume d'Italie
a dû passer par tous les malheurs qui en sont la conséquence; mais les
événemens qui ont changé la face des choses en France, et doivent
nécessairement influer sur tout le reste de l'Europe, lui présentent
enfin une perspective heureuse, et l'espoir fondé de jouir de ses
droits et de son indépendance, que les traités ont reconnue. Le voeu
de la nation est tout-à-fait conforme aux principes proclamés par les
Hautes Puissances coalisées: l'on réclame l'indépendance reconnue
spécialement dans le traité de Lunéville, et l'étendue de territoire
qui lui fut alors assignée; que si, par des combinaisons quelconques,
une partie de ce territoire dût en être séparée, la nation se croit
fondée à en demander la compensation. L'on desire, pour premier fruit
de son indépendance, d'établir sa constitution sur le vrai principe,
et d'une manière plus conforme aux intérêts du pays, sous le
gouvernement d'un roi indépendant.

La première démarche que dans cette position nous avons cru devoir
faire, a été celle d'apporter nos voeux avec confiance aux pieds des
Hautes Puissances coalisées, et principalement à ceux de S. M.
l'empereur d'Autriche, dont la rectitude nous est depuis long-temps
connue, et dont nous avons toujours éprouvé la bienveillance. Le Sénat
du royaume d'Italie, en conséquence, a nommé les comtes sénateurs
Guicciardi (Diego) et Castiglioni (Louis), députés auprès d'elles pour
les leur présenter. Je prends la liberté d'adresser à V. Ex. ces
députés, et de les recommander à sa bonté. Les circonstances qui ont
brisé chez nous les formes établies, me font espérer que V. Ex. voudra
les regarder comme accredités par cette lettre auprès du gouvernement
autrichien. Ses nobles principes me sont trop connus, pour que je ne
doive pas fonder mes espérances pour son intervention efficace, dans
une circonstance où il s'agit des droits et du bonheur d'une nation
qui n'a jamais démérité par sa conduite ni par ses sentimens envers
l'auguste maison d'Autriche.

Tout ce que V. E. pourra faire pour appuyer nos voeux, lui assurera
notre vive et éternelle reconnaissance, et ajoutera encore ces
nouveaux sentimens à ceux de mon estime pour V. E. et de mon profond
respect.

Milan, le 18 avril 1814.

  _Le chancelier garde-des-sceaux de la couronne: par ordre
  de monsieur le Duc de Lodi, empêché per la goutte à
  la main droite._

                              _Signé_ CHARLES VILLA, _Secrétaire_.



N. IV.

Li 20 aprile 1814.

_Il Podestà di Milano a S. E. il sig. Presidente del Senato._


Mi viene indirizzata l'unita dichiarazione di molti rispettabili
individui di questa capitale, affinché sia da me presentata alle
autorità superiori.

Credo quindi del mio dovere di fargliene l'innoltro in copia conforme,
e cosí secondare il desiderio di questi miei concittadini, i quali
rimangono nella fiducia che ella vorrà degnarsi nella di lei saviezza
di prenderla in considerazione, e compiacersi di farmi conoscere le
deliberazioni che saranno state prese dal Senato.

Ho l'onore di attestarle le espressioni del maggiore rispetto

                                      _Firmato_ DURINI, _Podestà_.



N. V.

Milano, 19 aprile 1814.


Dopo l'adunanza del Senato del giorno 17 del corrente mese, delle cui
deliberazioni nulla fu comunicato al pubblico, è opinione universale
esservi stato proposto, discusso e definito un affare della maggiore
importanza per il nostro Regno. Se nelle attuali straordinarie vicende
è necessario d'invocare straordinari provvedimenti, credono i
sottoscritti indispensabile, in coerenza de' principi della
costituzione, che siano convocati i Collegi elettorali, ne' quali
solamente risiede la legittima rappresentanza della nazione.

_Seguono le firme per copia conforme, delle quali si garantisce
l'autenticità:_

  Conte Pino Generale di Divisione, elettore
  Conte Porro Luigi, elettore
  Conte Trivulzio Giacomo, elettore
  Conte Confalonieri Federico
  Conte Fagnani Federico, consigliere di Stato
  Conte Borromeo Giberto
  Ciani Giacomo, elettore
  Fossano Luigi
  Pallavicini Giuseppe
  Traversi Giovanni, elettore
  Visconti di Cremona, Capo battaglione
  Melzi Giacomo, consigliere comunale
  Serbelloni Gio. Batt., della guardia Civica
  Crivelli Ferdinando elettore
  Castiglioni Alfonso, consigliere comunale
  Conte Durini, Podestà di Milano
  Giulini Cesare, Savio municipale
  Frisiani Giovanni, Savio municipale
  Bolognini Alessandro, Savio municipale
  Londonio Carlo, Savio municipale
  Brambilla Cesare, Savio municipale
  Arese Marco, Savio municipale
  Visconti Annibale, colonnello della guardia Civica
  Cozzi Giovanni, possidente
  Parea Carlo, ingegnere
  Conti Luigi, consigliere comunale
  Vigoni Gaetano, possidente
  Peceis Giovanni Odoardo
  Trecchi Sigismondo, possidente
  Silva Sigismondo
  Silva Ercole, elettore
  Sormani Alessandro
  Sormani Lorenzo
  Sormani Giuseppe
  Borromeo Carlo, possidente
  Serpenti Angelo, possidente
  Somaglia Antonio, elettore
  Somaglia Carlo, possidente
  Agretti Ambrogio
  Manzi Ignazio
  Somaglia Gio. Luca, presidente del consiglio comunale
  Cardoni Luigi, possidente
  Banfi Ferdinando, possidente
  Spella Luigi
  Carli Carlo, consigliere comunale
  Acerbi Pompeo, possidente
  Bernardino Maurizio
  Mori Ambrogio
  Rivolta Cristoforo
  Volpi Caneriggi Benedetto
  Castiglioni, avvocato
  Vitali Gaetano, possidente
  Raesini Rodolfo, possidente
  Raesini Carlo Luigi, possidente
  Muggiasca Gio. Battista, possidente
  Rosmini Carlo, membro dell'Istituto
  Bolognini Luigi, giudice della Corte
  Gentili Antonio, tenente della guardia Civica
  Mellerio Giacomo, consigliere comunale
  Andreani Gio. Maurizio, elettore
  Cagnola Luigi, membro dell'Istituto
  Monteggia Carlo
  Mojana Pietro, possidente
  Eulbrucca Carlo
  Spreafico Pietro
  Manara Baldassare
  Ferrario Carlo, possidente
  Pizzagalli Angelo, negoziante
  Scotti Gallerati Francesco, possidente
  Scotti Gallerati Costanzo, possidente
  Crivelli Ignazio, possidente
  Zanella Carlo, cons. comunale ed elettore
  Trotti Lorenzo, possidente
  Perego Luigi, elettore
  Balabio Pietro, elettore, capobattaglione della guardia Civica
  Besana Carlo, elettore
  Barbò Viscardo, possidente
  Porta Carlo, possidente
  Soresi Giovanni, elettore
  Appiani Gabriele, possidente
  Giovio Lodovico, elettore
  Martini Francesco, possidente
  Severini Gerolamo, possidente
  Nava Ambrogio, possidente
  Ottolini Giulio, consigliere comunale
  Monticelli Giovanni, capitano della guardia Civica
  Crivelli Mesmer Giuseppe, capo battaglione della guardia Civica
  Zanella Carlo, possidente, negoziante
  Greppi Antonio, possidente
  Cicogna Giovanni, possidente
  Cagnola Giuseppe, possidente
  Vestarini Belingeri Carlo
  Frecarelli Prospero, possidente
  Bossi Benigno, capitano della guardia Civica
  Medici Pietro, possidente
  Bonet Domenico, negoziante
  Tagliabue Francesco
  Zenghi Luigi Filippo
  Castelbarco Cesare, possidente
  Cananda Pietro, possidente
  Ghirlanda Girolamo, capitano della guardia Civica
  Manzoni Alessandro, possidente
  Crespi Antonio, medico, possidente
  Castiglioni Carlo, possidente
  Cantú Giuseppe, possidente
  D'Adda Ferdinando, consigliere comunale
  Melzi Giuseppe, possidente
  Mezzoni Ottavio, possidente
  Bazzoni Giovanni, possidente, negoziante
  Monticelli Strada Gio. Battista, possidente
  Prevosti Giulio, negoziante
  Villa Carlo, consigliere comunale
  De-Capitani Giovanni
  De Carli Nazzari Luigi, elettore
  Crevenna Francesco, possidente
  De Agostini Agostino, possidente
  Sacchini Girolamo, avvocato, consigliere
  Carozzi Luigi, possidente
  Guerrini Camillo, possidente
  Gorio Carlo, possidente
  Bossi Francesco, possidente
  De Simoni Baldassare, possidente
  Meloni Abele, possidente
  Segri Antonio
  Bozzi Galeazzo, possidente
  Barinetti Carlo, possidente
  Busca Antonio, possidente.

_Vi sono molte altre firme, che per brevità di tempo si omettono, e
che in seguito si faranno conoscere._

                                         _Per copia conforme_

                                      _Firmato_ DURINI, _Podestà_.



N. VI.

_Memoria data alla Reggenza del governo provvisorio di Milano, dal
Conte Guicciardi Cancelliere del Senato del Regno d'Italia._


Un'erronea opinione circola già da alcuni giorni, e sembra diretta a
scemare quella stima e confidenza che io ho procurato di conservarmi
per il lungo corso di ben 56 anni di pubblico servizio, e che era per
me il piú lusinghiero compenso della mia politica carriera.

Conscio della purezza delle mie azioni, ed indagando la causa di sí
strano avvenimento, fui oltremodo commosso nell'udire che si
pretendesse derivarlo da quella stessa recente commissione che mio
malgrado accettai, nella sola speranza di concorrere, col piú leale ed
onorato adempimento, a render paghi i pubblici voti. Confortato però
dall'intima convinzione della mia innocenza, credetti che per
comprovarla in modo positivo ed assoluto, bastar dovesse il mettere in
chiaro que' fatti che, o non ben conosciuti, o forse alterati, hanno
potuto dare spinta all'errore, o prestato fede alla malevolenza.
Quindi determinato a pubblicare con le stampe la relazione del mio
operato, col corredo di tutti i documenti che vi hanno rapporto, la
sottopongo precisamente ai lumi del governo provvisorio, e perché
altamente apprezzo il di lui suffragio, e perché fu sempre mio
principio di agire colla protezione delle leggi e del governo.

Lo scopo di questa mia rimostranza è di provare, che tanto nella
qualità di senatore che in quella di deputato, ho sostenuto
gl'interessi piú cari della patria, e seguita costantemente la via
sacra dell'onestà.

Invoco sul primo punto la testimonianza di quelli fra i miei colleghi
che seggono fra voi, o signori membri della Reggenza, e quella in
particolare dell'ottimo vostro presidente. Con esso ebbi la sorte di
essere socio nella commissione incaricata dell'esame del progetto,
presentato dal governo al Senato nel giorno 17 del corrente aprile,
commissione da me diretta ed instantemente promossa contro la proposta
di un comitato segreto, che, per il consueto sommario metodo di
procedura, mi sembrò non convenire all'importanza di un lecito
argomento. Con esso e con altro de' membri della commissione mi recai
dal cancelliere guardasigilli, per avere gli opportuni lumi di fatto,
e sull'autorizzazione sua a convocare il Senato, e sulla gravezza ed
urgenza de' motivi che lo avevano determinato.

Riferitene quindi le risultanze alla commissione composta di sette
membri, unanime fu il voto di lei, e per la necessità di occuparsi
dell'oggetto e per la riforma del decreto del governo.

Riunito il Senato, e lettovi il parere della commissione, chi piú di
Dandolo che ne fu il relatore, chi piú del vostro presidente, chi piú
di me lo difese e lo sostenne? Chi piú di me liberamente espose al
Senato gli argomenti tutti, e politici e costituzionali, che ci
comandavano imperiosamente la reiezione del terzo articolo del
progetto del governo? Chi, se non io, dimostrò l'incostituzionalità
della subdola e seducente mozione di un nostro, ahi troppo infelice
collega, i cui sommi talenti lasciavano desiderare meno durezza di
cuore e non servile adulazione? Ignoro se il processo verbale di
quella seduta portasse tutta la discussione, e se siasi preservato
dallo svolgimento degli effetti e delle carte del Senato; ma in di lui
difetto, supplico l'invocata testimonianza de' membri del Senato, e
sopra ogni altra quella del vostro presidente, che con la sua
eloquenza e col suo amore di patria sostenne meco il progetto della
commissione, che con leggera modificazione venne definitivamente
adottato dal Senato, con una maggioranza di voti superiori ai due
terzi.

Cadde sfortunatamente sopra di me, forse per gli accennati liberi
sentimenti espressi, la nomina in altro de' deputati al quartiere
generale delle AA. PP. AA., unitamente ai signori senatori Castiglioni
e Testi; ed essendosi quest'ultimo per attuale infermità scusato, feci
registrare nel processo verbale, che ove il decreto del Senato non
fosse coattivo per tutti, nessuno aveva di me maggior titolo per
esserne dispensato. Ma la seduta fu levata senza occuparsene. Rinnovai
all'indomani presso il signor Duca di Lodi, cancelliere guardasigilli,
i miei tentativi per ischermirmi. Ma avendo egli autorevolmente
risposto che ogni indugio poteva compromettere la convenienza del
Senato e gl'interessi piú sacri della nazione, immolai a questi ogni
privata considerazione, e diedi parola di partire, a condizione che
anche il conte Castiglioni vi si prestasse, mentre mi era noto che
egli pure si adoperava in ogni modo per esserne dispensato.

Fin qui, signori, ho parlato del mio contegno come senatore; parlerò
come deputato.

Il protocollo che vi presento corredato di tutti gli atti relativi
tanto alle cose proposte e deliberate in Senato, quanto a quelle che
concernono la missione, rende conto del mio viaggio, soggiorno e
ritorno da Mantova, ed io sfido arditamente chiunque possa impugnare
la verità: sull'esame del medesimo voi potete fondare il nostro
giudizio.

La prima censura che intesi farsi ai deputati, è di essersi recati al
quartier generale del principe a Mantova, in vece di prendere la via
piú breve e piú diretta per Parigi, ove si trovano i sovrani alleati.
Parvero sorgere da ciò diffidenza e sospetto di parzialità, e sino di
collusione col principe: ed ecco come un intempestivo giudizio e la
mancanza di cognizione de' fatti può per un momento far decadere
l'uomo innocente da quel grado distinto cui ha diritto.

Leggansi le istruzioni del cancelliere guardasigilli, cui dal Senato
era dato il carico di stenderle; e si vedrà che i deputati hanno
eseguito un ordine preciso loro imposto da chi ne aveva diritto, né
mai l'obbedienza potrà essere indizio di rea intenzione.

Nell'accennare questa circostanza, sono bene lontano di versare sopra
altri ombra di colpa o di sospizione, ed anzi devo soggiugnere che il
cancelliere guardasigilli ci mostrò l'ordine del principe, che dietro
i concerti presi da esso con S. E. il signor maresciallo conte
Bellegarde, dovesse sollecitare la pronta partenza de' deputati per
Mantova. Né altrimenti avrebbesi potuto fare, perché senza la
preventiva adesione del sullodato signor maresciallo, e senza i suoi
passaporti regolari non avrebbe la deputazione potuto attraversare i
posti delle armate coalizzate, e corso avrebbero rischio di non
giungere troppo tardi al luogo di sua missione.

A quella necessità, al quartier generale del principe ed a quello del
signore maresciallo, altra importantissima si aggiungeva, quella cioè
di ottenere lettere credenziali per le altre potenze alleate, giacché
il signor Duca di Lodi muniti li aveva di una sola per il signor
principe di Metternich ministro di S. M. l'imperatore d'Austria. La
missione essendo diretta ad implorare la protezione di tutte le
auguste potenze alleate, ogni ragione voleva che appresso ciascuna
delle medesime fosse accreditata.

Giustificata la gita a Mantova con le ricevute istruzioni strettamente
analoghe col decreto del Senato e la necessità delle credenziali e de'
passaporti, non resterebbe ora che a parlarsi del contegno tenuto dai
deputati col principe.

Il protocollo dettaglia il modo con cui furono accolti, le ritardate
udienze, i colloquî e la franchezza del linguaggio tenuto con esso.
Era il principe pienamente e minutamente informato delle discussioni
del Senato, e delle opinioni de' senatori, né certo io poteva
lusingarmi, dopo quanto aveva detto ed opinato, di una migliore
accoglienza: ora come mai potrebbesi supporre tanta incoerenza di
principî, come conciliare fatti sí diversi, idee cotanto disparate,
per dedurre malignamente, che un uomo, la cui fermezza nella propria
opinione è da tanto tempo conosciuta, la cui onestà e riputazione fu
sempre illesa, volesse prostituirsi colludendo col principe, deviando
dal proprio mandato, dalla mente espressa de' suoi colleghi, e della
pubblica opinione da lui sí ben conosciuta? che se pure tutti questi
argomenti non bastassero a convincere le persone piú diffidenti e
maligne, il carattere, la probità, l'avvedutezza ed il civismo del di
lui condeputato, uomo sí puro, sí accreditato, non avrebbe dovuto
togliere e dissipare il primo la piú lieve ombra di sospetto? Né temo
di avvilirmi accennando motivi, dove bastar dovrebbe il dire: «Non ho
mai mancato al mio onore.» Ma l'afflizione che ho provato per sí nera
calunnia ha voluto qualche sfogo.

Appena ebbero i deputati la notizia dell'occorso in Milano il giorno
20 aprile, senza alcuna lettera di comunicazione di quanto era seguito
al Senato, senza il menomo officiale avviso del loro richiamo, presero
congedo dal principe, ritornarono a Milano. Ed eccovi, o signori,
altra luminosa prova che niun rapporto mi legava al principe, che
nulla piú curai che l'interesse della patria, che rispettai la volontà
del Senato e della nazione, qualunque fosse stato il modo, con cui era
stata espressa. Cosí mostrai che come deputato fui sempre coerente
coll'opinione manifestata come senatore.

Signori del governo, la mia giustificazione è compiuta: leggete tutti
gli atti che vi rassegno, e pronunciate; io attendo con quella calma
che l'uomo giusto ed onesto sa conservare in mezzo alle oscillazioni e
alle politiche vicende. Non dubito che riconoscerete aver io adempito
al mio dovere, ed in tale fiducia domando alla vostra giustizia, che
mi sia lecito di dare alle stampe questa mia memoria, col protocollo e
tutti i suoi allegati.

Ogni uomo ha diritto al proprio onore, e molto piú un pubblico
funzionario. Io devo anche a me stesso e alla numerosa famiglia mia la
conservazione illibata del mio buon nome. Voi rappresentate il
governo, ed il governo deve tutelare i diritti degl'individui. Vivo
dunque nella fiducia che cotesta Reggenza aggiugnerà agli altri tratti
di saggezza, che seguono i primi di lei passi, quello che
rispettosamente richiama chi ha l'onore di essere colla maggiore
venerazione.

Milano 29 aprile 1814.



N. VII.

REGNO D'ITALIA.

                                           _Milano 8 maggio 1814._

LA REGGENZA DEL GOVERNO PROVVISORIO

_Al Sig. Conte Guicciardi._


La Reggenza ha letto la di lei memoria 29 aprile prossimo passato ed i
relativi documenti.

Ella dovette sempre confermarsi nell'opinione che il di lei operato
non aveva bisogno di giustificazione.

Nell'attestarle pertanto i sentimenti della particolare sua stima,
dessa non fa che riconoscere nuovamente in lei quel diritto alla
medesima, che le eminenti sue qualità personali ed i lunghi importanti
servizi resi allo Stato le hanno da gran tempo meritamente acquistato.

La Reggenza poi, nella ferma opinione che la di lei convenienza non
sia menomamente lesa, non crede di aderire alla richiesta fatta per la
stampa della memoria di cui si tratta, giacché con ciò si farebbe
rivivere delle animosità che vogliono essere sopite, e si urterebbe
col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un
velo le cose avvenute.

Aggradisca, sig. Conte, le assicurazioni della maggior considerazione
e somma stima.

_Per la Reggenza. Firmato_ VERRI _Presidente_.

                                          _Il Segretario generale_
                                             ANTONIO STRIGELLI.



N. VIII.

_Nota delli Conti Veneri Presidente e Guicciardi Cancelliere del
Senato Consulente del Regno d'Italia_

_A S. E. il Sig. tenente Maresciallo Generale Sommariva Commissario
Imperiale._


Alcune false voci, che il Senato, nella seduta straordinaria dal
giorno 17 aprile, avesse proclamato al trono d'Italia il principe
Eugenio, in allora Vicerè, ed a tal oggetto spedita una deputazione
alle auguste potenze alleate, avevano sparso qualche allarme in
Milano; quanto fosse ciò falso lo dimostrano gli atti di quel giorno
che si rassegnano.

Nella successiva seduta ordinaria del giorno venti, una folla di
persone, eccitata da chi credeva o affettava di credere siffatte voci,
recossi al palazzo del Senato, impedí la regolare unione de' senatori,
ed estorse dal presidente la qui unita dichiarazione. Persuasa poscia
la stessa folla che ivi vi fosse il Ministro delle finanze Prina, lo
ricercò invano per le stanze ove credevalo nascosto, e come sempre
avviene in simili agitazioni popolari, disperse in gran parte gli
effetti e le carte del Senato; di là si trasferí alla casa del detto
Ministro, ed ebbero luogo que' tragici avvenimenti, che l'onore
nazionale vorrebbe coperti di perpetua obblivione.

In tali luttuose circostanze, a freno di mali maggiori si credette di
nominare un governo provvisorio della città e di unire i Collegi
elettorali. Tutto derivava dalla lodevole intenzione di ristabilire la
quiete. Le savie misure del governo provvisorio, l'imponente
attitudine della guardia civica, l'ottima direzione del generale
comandante in capo, ottennero l'intento piú presto di quello che si
fosse potuto sperare.

Intanto fu proclamata la convocazione de' Collegi elettorali, esclusi
però tutti i membri di que' dipartimenti che erano occupati dalle
armate alleate (quantunque un rispettabile numero di essi si trovasse
in Milano), o dimenticati i dotti e i commercianti degli altri
dipartimenti. La prima operazione dei Collegi fu quella di confermare
il governo provvisorio, e di estenderne l'autorità agli otto
dipartimenti non ancora occupati, colla riserva di aggiungervi altri
individui tolti dai medesimi. Ma ben tosto sorpassando ogni confine
costituzionale, abolirono e modificarono imposte, annullarono o
restrinsero leggi amministrative e giudiziarie, e dichiararono aboliti
i primari corpi dello Stato, e fra questi quello del Senato, alla
conservazione delli di cui diritti è diretta la presente nota.

A dimostrare la mancanza d'ogni autorità ne' Collegi per tale
operazione, basta l'esame delle loro attribuzioni costituzionali e di
quelle del Senato. L'unito allegato ne presenta l'analisi.

Le attribuzioni de' Collegi elettorali, come importa lo stesso loro
nome, tutte si riducono a nomine, a presentazione di candidati. I
Collegi, o sono generali o sono dipartimentali. I primi devono unirsi
in tre camere separate di possidenti, di dotti e de' commercianti, e
ciascuna camera nella città destinata dalla costituzione. I secondi si
uniscono nel capoluogo del dipartimento in una sola camera.

Appare chiaramente dall'esame delle loro attribuzioni, che ambedue i
Collegi elettorali di tutto il Regno, uniti nelle forme e nei luoghi
costituzionali, non hanno alcun diritto di abolire altri corpi dello
Stato voluti dalla stessa costituzione, per la quale essi esistono, e
tanto meno poi il Senato, il quale per l'art. XV del sesto statuto
costituzionale giudica sull'incostituzionalità degli atti de' Collegi
elettorali.

Come mai dunque ciò che non avrebbero potuto fare tutti gli elettori
del Regno, uniti legalmente nel numero di 1153, avrà potuto fare una
frazione de' medesimi, che non oltrepassò mai il numero di 170? Nel
qual proposito è da rimarcarsi che per la validità degli atti de'
Collegi si richiede l'intervento almeno del terzo del loro numero
totale. Cresce poi l'argomento per la circostanza che la maggior parte
de' senatori furono nominati sulle proposizioni de' Collegi generali
di tutto il Regno, e quindi al Regno intiero, e non ad una sola
frazione appartiene il Senato. Né deve tacersi che la carica di
senatore non si perde, se non per quelle cause per le quali si perde
il diritto di cittadino, circostanza che rende ancora piú manifesta
l'ingiustizia della pretesa abolizione.

Riducendo quindi ai semplicissimi termini la questione, ne emerge il
seguente dilemma. O esiste costituzione, e deve esistere il Senato,
che è il primo corpo permanente dalla medesima voluto, ed è solo
autorizzato dall'articolo XVIII del sesto statuto costituzionale a far
conoscere al Re i voti e i bisogni della nazione: o non esiste
costituzione, e in tal caso neppure esistono Collegi elettorali, onde
nulla e viziosa sarebbe la loro unione.

Le auguste potenze alleate hanno fatto la guerra alla Francia, e non
ai popoli, ed hanno altamente proclamato colla pace del mondo
l'indipendenza delle nazioni; in tutti i paesi occupati dalle loro
armi vittoriose, hanno provvisoriamente conservate tutte le leggi
fondamentali e le autorità nazionali sin tanto che nella maturità de'
loro consigli determineranno la sorte dei medesimi. Tale è pure
l'intenzione di S. E. il signore Maresciallo Conte Bellegarde, che nel
Regno d'Italia le rappresenta, come appare dagli articoli IV e V della
convenzione 23 aprile, e dal relativo proclama di S. E. il tenente
Maresciallo generale Sommariva. Quindi all'acclamata loro imparziale
giustizia ed illuminato loro giudizio appoggia il Senato e sottopone
le tante e sí chiare ragioni che lo assistono, e conchiude la presente
nota con le seguenti riflessioni:

Primo. Il Senato del Regno d'Italia nella sua deliberazione de' 17
aprile altro non vi propose che di venerare gli alti principi delle
AA. PP. AA., inviando alle medesime rispettosi omaggi e suppliche per
la finale cessazione delle ostilità e per l'indipendenza del Regno.

Secondo. Non può esistere costituzione nel Regno d'Italia, se con i
Collegi elettorali non esiste anche il Senato.

Terzo. Ogni fiducia del Senato è intieramente riposta nella
magnanimità delle AA. PP. AA., nelle convenzioni stipulate e ne'
proclami emanati da' loro legittimi rappresentanti, anteriori in data
e in promulgazione all'incostituzionale abolizione pronunziata da una
sola frazione de' Collegi elettorali, la quale nemmeno fu fino al
giorno d'oggi legalmente pubblicata, nè si conosce da' senatori, se
non per essere stata inserita ne' pubblici fogli del giorno 27 aprile
1814.

Milano, li 29 aprile 1814.

                                   _Firmato_ VENERI, _Presidente._
                                   GUICCIARDI, _Cancelliere_.

La presente nota è stata sottoscritta ed approvata dagl'infrascritti
conti Senatori,

  Conte Moscati
  Conte Paradisi
  Conte Leonardo Giustiniani
  Conte Luigi Massari
  Conte Leopoldo Armaroli
  Conte Tommaso Condulmer
  Conte Sebastiano Bologna
  Conte Barnaba Oriani
  Conte Agostino Bruti
  Conte Federico Cavriani
  Conte Daniele Felici
  Conte Sigismondo de Moll
  Conte Simone Stratico
  Conte Leonardo Thiene
  Conte Giacomo Lamberti
  Conte Testi
  Conte Carlotti
  Conte Francesco Mengotti
  Conte Alessandro Volta
  Conte Marco Serbelloni.


NOTE

Il SAINT-EDME, pubblicando nel 1822 la sua traduzione francese di
questa operetta, vi aggiunse alcune _Notes du traducteur_, delle quali
per piú rispetti si deve tener conto; però ho creduto opportuno
riferirle o riassumerle, con richiamo ai luoghi stessi cui il
traduttore le appose. Nella nota (28) ho, naturalmente, corretti i
molti errori nei quali il SAINT-EDME cadde pei cognomi italiani, e
v'ho aggiunto molte altre indicazioni di uffici e personaggi notabili
del Regno italico.

[27] «Tout traducteur desire savoir le nom de l'auteur qu'il traduit.
Ayant fait de vaines démarches pour parvenir à me satisfaire, j'ai dû
chercher dans l'ouvrage même quelque indice qui pût m'éclairer. Après
un mûr examen, j'ai été porté à croire que M. le comte Guicciardi,
chancellier du sénat, était mon anonyme, ou que ce mémoire devait être
attribué à un ennemi de cet ex-chancelier. Voici les motifs sur
lesquels je m'appuie». Seguono gli argomenti, che ho riferiti nella
prefazione, dai quali appare manifesto che qui ov'è detto doversi
tribuire lo scritto a un _ennemi_ del Guicciardi si ha senza dubbio un
errore di stampa, poiché il SAINT-EDME aveva certo il pensiero a un
_ami_ dell'ex-cancelliere.

[28] «Afin--scriveva il SAINT-EDME--de faciliter au public la lecture
de cette traduction, je crois devoir lui donner ici le nom des
différentes personnes qui occupaient les hauts emplois du royaume
d'Italie»; e ciò ch'egli credeva già utile nel 1822, è oggi
assolutamente necessario, poiché gli uomini e le cose del Regno
italico sono ormai cadute per grandissima parte nella dimenticanza. A
ravvivarla nella memoria degli studiosi potranno giovare le
indicazioni seguenti, le quali si danno rettificando e allargando
quelle del traduttore francese e per le quali si è seguito
l'_Almanacco reale per l'anno MDCCCXIII_, che fu l'ultimo pubblicato
di una serie oramai irreperibile.

GRANDI UFFICIALI DEL REGNO:

  MELZI D'ÉRIL Francesco di Milano, Duca di Lodi, }
    Cancelliere guardasigilli.                    }
  CODRONCHI Antonio di Imola, Arcivescovo di      }
    Ravenna, Grande elemosiniere.                 } Grandi ufficiali
  FENAROLI Giuseppe di Brescia,                   } della Corona.
    Gran maggiordomo maggiore.                    }
  LITTA Antonio di Milano, Gran ciambellano.      }
  CAPRARA Carlo di Bologna, Grande scudiere.      }
  ALDINI Antonio di Bologna, Ministro Segretario di Stato [1805-1814].
  LUOSI Giuseppe di Mirandola, Gran giudice Ministro della  giustizia
    [1805-1814].
  MARESCALCHI Ferdinando di Bologna, Ministro degli affari esteri
    [1802-1814].
  VACCARI Luigi di Modena, Ministro dell'interno [1809-1814].
  FONTANELLI Achille di Modena, Ministro della guerra e marina
    [1811-1814].
  PRINA Giuseppe di Novara, Ministro delle finanze [1802-1814].
  VENERI Antonio di Reggio, Ministro del tesoro [1813-1814].
  . . . . . . . . . . . . . . . . Ministro del culto [titolare era
    stato,  1802-1812, BOVARA Giovanni; poi ff. di ministro, 1812-1814
    fu GIUDICI Gaetano].
  . . . . . . . . . . . . . . . . Arcivescovo di Milano [Sede vacante].
  BONSIGNORI Stefano di Busto Arsizio, Patriarca di Venezia.
  CODRONCHI, predetto, Arcivescovo di Ravenna.
  . . . . . . . . . . . . . . . . Arcivescovo di Bologna [titolare
    OPIZZONI Carlo, non riconosciuto].
  FAVA Paolo Patrizio di Bologna, Arcivescovo di Ferrara.
  PINO Domenico di Milano, Generale di divisione, primo Capitano  della
    Guardia reale.
  COSTABILI-CONTAINI Gio. Battista di Ferrara, Intendente generale dei
    beni della Corona.
  MÉJAN Stefano francese, Segretario degli ordini del Viceré.

SENATO CONSULENTE:

  I Principi della Casa Reale.
  I Grandi ufficiali della Corona.
  FAVA, predetto, Arcivescovo di Ferrara.
  BONSIGNORI, predetto, Patriarca di Venezia.
  MOSCATI Pietro di Mantova, nominato 19 febbraio 1809.
  PARADISI Giovanni di Reggio, id.
  COSTABILI-CONTAINI, predetto, id.
  GUICCIARDI Diego di Lugano, id.
  GIUSTINIANI Leonardo di Venezia, id.
  CARLOTTI Alessandro di Verona, id.
  MASSARI Luigi di Ferrara, id.
  VIDONI Giuseppe di Cremona, id.
  DI BREME Luigi Giuseppe di Sartirana, id.
  POLCASTRO Girolamo di Padova, id.
  CASTIGLIONI Luigi di Milano, id.
  BOLOGNA Sebastiano di Vicenza, id.
  LONGO Lucrezio di Brescia, id.
  ALESSANDRI Marco di Bergamo, id.
  FELICI Daniele di Rimini, id.
  VOLTA Alessandro di Como, id.
  CAVRIANI Federico di Mantova, id.
  TESTI Carlo di Modena, id.
  LAMBERTI Giacomo di Reggio, id.
  PEREGALLI Francesco di Debbio in Valtellina, id.
  FRANGIPANE Cinzio di Udine, id.
  THIENE Leonardo di Vicenza, id.
  BARISAN Giovanni di Treviso, id.
  MENGOTTI Francesco di Belluno, id.
  BRUTI Agostino dell'Istria, id.
  CAMERATA Antonio di Ancona, id.
  SGARIGLIA Pietro di Fermo, id.
  ARMAROLI Leopoldo di Macerata, id.
  VENERI, predetto, nominato 10 ottobre 1809.
  PRINA, predetto, id.
  BERIOLI Spiridione di Città di Castello, arciv. di Urbino, id.
  MELANO PORTULA Vittorio di Cuneo, vesc. di Novara, id.
  SERBELLONI Marco di Milano, id.
  MOCENIGO Alvise di Venezia, id.
  MARTINENGO Giovanni Estore di Brescia, id.
  CONDULMER Tommaso Gaspare di Venezia, id.
  ORIANI Barnaba di Milano, id.
  STRATICO Simone di Zara, id.
  DANDOLO Vincenzo di Venezia, id.
  FIORELLA Pasquale Antonio còrso, generale di divisione, id.
  VERRI Carlo di Milano, id.
  LUOSI, predetto, nominato 7 febbraio 1810.
  DE MOLL Sigismondo di Trento nominato 23 dicembre, 1810.

CONSIGLIO DI STATO:

I. _Consiglio legislativo:_ DE BERNARDI Stefano presidente--MAESTRI
Giovanni--BAZZETTA Giovanni--SANFERMO Rocco--D'ADDA Febo--BARGNANI
Cesare--MÉJAN Stefano--PARRAVICINI Raffaele--GUASTAVILLANI Giovanni
Battista--COSSONI Antonio--BOSSI Luigi--POLFRANCESCHI Pietro--LUINI
Giacomo--PEDRAZZINI Michele--QUIRINI-STAMPALIA Luigi--SCOPOLI
Giovanni--COLLE Francesco--GIOVIO Ludovico.

II. _Consiglio degli uditori:_ PALLAVICINI Giuseppe presidente--ALDINI
Giovanni--SOPRANSI Luigi--VALDRIGHI Luigi--BARBÒ Francesco--RIVA
Cristoforo--NANI Tommaso--COMPAGNONI Giuseppe--BRUNETTI
Vincenzo--CACCÍA Gaudenzio--CASATI Giuseppe--TORNIELLI Giuseppe--
CUSTODI Pietro--BURRI Giovanni--BORGHI Carlo Jacopo--BREBBIA
Giuseppe--RE Antonio--FAGNANI Federico.

III. _Consiglieri di Stato in servizio straordinario:_ GALLINO
Tommaso, primo presidente della corte d'appello di Venezia--STRIGELLI
Antonio, Segretario di Stato in Milano--AGUCCHI Alessando, prefetto
del Passariano--GALVAGNA Francesco, prefetto dell'Adriatico--D'ALLEGRE
Paolo Lamberto, vescovo di Pavia--RONNA Tommaso, vescovo di
Crema--SMANCINI Antonio, prefetto dell'Adige.

IV. _Consiglieri di Stato onorari:_ PEDROLI Carlo Antonio, primo
presidente della Corte di cassazione--TAVERNA Francesco, primo
presidente della Corte d'appello di Milano--BECCALOSSI Giuseppe, primo
presidente della Corte d'appello di Brescia--ERIZZO Guido, dimorante
in Venezia.

CORTE DI CASSAZIONE:

PEDROLI Carlo Antonio, primo presidente.

NEGRI Antonio, presidente.

DE LORENZI Antonio--TONNI Luigi--SOPRANSI Fedele--PIZZOTTI
Francesco--VILLATA Guido--SOPRANSI Luigi--BAZZETTA Giovanni--REPOSSI
Francesco--RAGAZZI Giuseppe--PELEGATTI Cesare--CONDULMER
Pietro Antonio--PREDABISSI Francesco--CISOTTI Giovanni Battista--
SCACCABAROZZI Cesare--AUNA Giovanni Vincenzo--LUINI Giuseppe, giudici.

VALDRIGHI Luigi, Regio procuratore generale--BORSOTTI Giovanni
Gaudenzio, sostituto procuratore generale.

CORTE DEI CONTI:

DE BERNARDI Stefano, primo presidente.

SABATTI Antonio--SOMMARUGA....., presidenti.

PAMPURI Giacomo--BUSTI Cristoforo--UNGARELLI Pietro--TEULIÉ
Filippo--PALLAVICINI Giulio--BECCARIA Giulio--ARRIGONI Galeazzo--SILVA
Bernardino, giudici.

NOGHERA Giovanni Battista--SOMAGLIA Gaetano--SANNER
Baldassare--PECCHIO Pietro, giudici per i conti arretrati.

CRESPI Luigi, Regio procuratore generale.

SEGRETERIE DI STATO E MINISTERI:

_Segreteria di Stato in Parigi:_ ALDINI Antonio, predetto, Ministro
Segretario di Stato--MARINONI Francesco, segretario generale.

_Segreteria di Stato in Milano:_ STRIGELLI Antonio, Consigliere
Segretario di Stato--NARDUCCI Giampietro, APPIANI Giuseppe, GERMANI
Giuseppe, capi di divisione.

_Ministero della giustizia:_ LUOSI, predetto, Ministro--BIELLA Felice,
segretario generale--LUOSI Luigi, STOPPANI Pietro, ALBERTI Francesco,
PRANDINA Gaetano, capi di divisione.

_Ministero degli affari esteri: Prima divisione in Parigi:_
MARESCALCHI, predetto, Ministro--JACOB, capo di divisione--Seconda
divisione in Milano: TESTI Carlo, incaricato del portafoglio del
dipartimento degli affari esteri--BORGHI Carlo Jacopo, capo di
divisione.

_Ministero dell'interno:_ VACCARI, predetto, Ministro--DE CAPITANI
Paolo, segretario generale--CERIANI Giuseppe Cesare, BERNARDONI
Giuseppe, CARMAGNOLA Paolo, capi di divisione.

_Ministero della guerra e marina:_ FONTANELLI, predetto,
Ministro--ZANOLI Alessandro, segretario generale--ARESE Francesco
colonnello, LOCATELLI Luigi Annibale ispettore alle rassegne, Patroni
Giuseppe colonnello, CRUVELIER Giovanni Pietro, ispettore di marina,
capi di divisione--CORTESE Francesco, direttore delle rassegne e della
coscrizione.

_Ministero delle finanze:_ PRINA, predetto, Ministro--CUSTODI Pietro,
segretario generale--SOLDINI Andrea, PETRACCHI Angelo, AMANTE
Giovanni, REINA Giuseppe, MARCHINI Bartolomeo, capi di divisione.

_Ministero del tesoro:_ VENERI, predetto, ministro--TARCHINI Giovanni
Battista, segretario generale--CARNAGHI Amedeo, ispettore
generale--TORDORÒ Luigi, capo della contabilità--CORRIDORI Girolamo,
cassiere generale del regno.

_Ministero del culto:_ GIUDICI Gaetano, segretario generale, ff. di
ministro--FARINA Modesto, CASNATI Filippo, capi di divisione.

DIREZIONI GENERALI:

_Acque, strade e porti marittimi:_ COSSONI Antonio, direttore
generale--NEGRI Gaetano, segretario generale--ARTICO Angelo, ASSALINI
Antonio, MASETTI Agostino, PAREA Carlo, ispettori generali--BRUNACCI
Vincenzo, BONATI Teodoro, COSSALI Pietro, ispettori generali onorari.

_Polizia:_ LUINI Giacomo, direttore gen.--BRUSA Paolo, segretario gen.

_Istruzione pubblica, stampa e libreria:_ SCOPOLI Giovanni, direttore
gen.--POGGIOLINI Giovanni Luigi, segr. gen.--PINI Ermenegildo, ROSSI
Luigi, ispettori generali degli studi.

_Censo e imposizioni dirette:_ BRUNETTI Vincenzo, direttore
generale--LUPI Carlo, segr. gen.

_Dogane:_ BARGNANI Cesare, dirett. gen.

_Privative e dazî di consumo:_ BARBÒ Francesco, dirett.
gen.--CALDARINI Giovanni Battista, seg. gen.

_Monte Napoleone_ (col titolo di _Prefettura del M. N. e
della liquidazione del debito pubblico_): MAESTRI Giovanni,
prefetto--CALDERARA Giuseppe, luogotenente prefetto--NEGRI, segretario
gen.

_Poste:_ Darnay Antonio, direttore gen.

_Zecche e monete:_ ISIMBARDI Innocenzo, direttore gen.--PRINA Luigi,
segr. gen.

_Lotto:_ SOLDINI Ambrogio, direttore gen.--PALMIERI segretario gen.

ESERCITO E MARINA:

_Stato maggiore generale dell'esercito._

_Generali di divisione:_ PINO Domenico--LECHI Giuseppe--SEVEROLI
Filippo--FONTANELLI Achille--BONFANTI Antonio--PEYRI Luigi--FIORELLA
Pasquale Antonio--PALOMBINI Giuseppe--ZUCCHI Carlo--FONTANE Giacomo.

_Generali di brigata:_ POLFRANCESCHI Pietro--BIANCHI D'ADDA Giovanni
Battista--LECHI Teodoro--BALABIO Carlo--MAZZUCCHELLI Luigi--BERTOLETTI
Antonio--VILLATA Giovanni--RENARD BRIZIO Giovanni Battista--DEMBOWSKI
Giovanni--BALATHIER Carlo--MARTEL Filippo Andrea--ROUGIER Gillo--
SCHIAZZETTI Fortunato--SAINT PAUL Verbigier--MORONI Pietro--
JACQUET Giuseppe--SANT'ANDREA Pietro--BELLOTTI Gaspare--JULHIEN
Giovanni Francesco--CAMPAGNOLA Luigi--MILOSSEWITZ Andrea--BERTOLOSI
Giovanni Battista--GALIMBERTI Livio--RAMBOURGT Pietro Gabriele--PAINI
Giulio--PAOLUCCI Amilcare--PERI Bernardo.

_Aiutanti comandanti:_ LECHI Angelo--CAVEDONI Bartolomeo--MONTEBRUNO
Andrea--MAZZUCCHELLI Giovanni--RIVAIRA Luigi--CASELLA Giovanni
Battista.

_Marina Reale._

_Commissario generale:_ MAILLOT Stefano.

_Capitani di vascello:_ PASQUALIGO Nicola--MILIUS Pier Bernardo.

_Capitani di fregata:_ COSTANZI Giovanni Battista--ARMENI
Antonio--RODRIGUEZ Francesco--BURATOVICH Vincenzo--DANDOLO
Silvestro--AYCARD Romano--SAINT PRIEST Filiberto Luigi--TEMPIÈ
Giacomo.

_Direttore dell'artiglieria di marina:_ TROUCHON Domenico.

_Direttore delle costruzioni navali italiane:_ SALVINI Andrea.

_Comandante del porto di Venezia:_ GIAXICH, capitano di fregata.

DIPARTIMENTI:

1. _Adda_, capoluogo Sondrio, popolazione 76,129, cantoni 6, comuni
29: REZIA Carlo prefetto; RENARD generale comandante.

2. _Adige_, capoluogo Verona, popolazione 302,161, distretti 4,
cantoni 15, comuni 76: SMANCINI Antonio prefetto; MILOSSEWITZ generale
comandante.

3. _Adriatico_, capoluogo Venezia, popolazione 290,112, distretti 4,
cantoni 10, comuni 38: GALVAGNA Francesco prefetto; DAURIER generale
francese comandante.

4. _Agogna_, capoluogo Novara, popolazione 348,429, distretti 5,
cantoni 19, comuni 136: LUINI Stefano prefetto; BERTOLOSI generale
comandante.

5. _Alto Adige_, capoluogo Trento, popolazione 266,734, distretti 5,
cantoni 20, comuni 121: DAL FIUME Filippo prefetto; MILOSSEWITZ
generale comandante.

6. _Alto Po_, capoluogo Cremona, popolazione 363,196, distretti 4,
cantoni 17, comuni 129: TICOZZI Francesco prefetto; BALABIO generale
comandante.

7. _Bacchiglione_, capoluogo Vicenza, popolazione 314,479, distretti
5, cantoni 14, comuni 99: MAGENTA Pio prefetto.

8. _Basso Po_, capoluogo Ferrara, popolazione 241,265, distretti 3,
cantoni 11, comuni 82: ZACCO Costantino prefetto.

9. _Brenta_, capoluogo Padova, popolazione 285,185, distretti 4,
cantoni 12, comuni 85: PORRO Ferdinando prefetto.

10. _Crostolo_, capoluogo Reggio, popolazione 167,123, distretti 2,
cantoni 7, comuni 52: ZECCHINI Bonaventura prefetto.

11. _Lario_, capoluogo Como, popolazione 310,664, distretti 4, cantoni
23, comuni 168: TAMASSIA Giovanni prefetto; RENARD generale
comandante.

12. _Mella_, capoluogo Brescia, popolazione 312,778, distretti 4,
cantoni 18, comuni 127: SOMMENZARI Teodoro prefetto; FONTANE generale
comandante.

13. _Metauro_, capoluogo Ancona, popolazione 305,037, distretti 5,
cantoni 16, comuni 76: GASPARI Giacomo prefetto; BARBOU generale
francese comandante.

14. _Mincio_, capoluogo Mantova, popolazione 232,163, distretti 3,
cantoni 15, comuni 51: VISMARA Michele prefetto; JULHIEN generale
comandante.

15. _Musone_, capoluogo Macerata, popolazione 220,643, distretti 5,
cantoni 13, comuni 48: VILLATA Michele prefetto.

16. _Olona_, capoluogo Milano, popolazione 580,436, distretti 4,
cantoni 20, comuni 155: CACCÍA Gaudenzio prefetto; BERTOLOSI generale
comandante.

17. _Panaro_, capoluogo Modena, popolazione 181,130, distretti 2,
cantoni 7, comuni 52: MINOIA Giovanni prefetto.

18. _Passariano_, capoluogo Udine, popolazione 289,770, distretti 4,
cantoni 18, comuni 136: AGUCCHI Alessandro prefetto; SCHILT generale
francese comandante.

19. _Piave_, capoluogo Belluno, popolazione 138,028, distretti 3,
cantoni 11, comuni 67: FERRI Francesco prefetto.

20. _Reno_, capoluogo Bologna, popolazione 405,845, distretti 4,
cantoni 12, comuni 76: TADINI OLDOFREDI Girolamo prefetto; ROIZE
generale francese comandante.

21. _Rubicone_, capoluogo Forlí, popolazione 280,034, distretti 5,
cantoni 14, comuni 41: FROSCONI Alessandro prefetto; VILLATA generale
comandante.

22. _Serio_, capoluogo Bergamo, popolazione 305,202, distretti 4,
cantoni 18, comuni 145: CORNALIA Francesco prefetto.

23. _Tagliamento_, capoluogo Treviso, popolazione 301,114, distretti
5, cantoni 16, comuni 93: DEL MAINO Carlo prefetto.

24. _Tronto_, capoluogo Fermo, popolazione 185,423, distretti 3,
cantoni 10, comuni 72: STAURENGHI Leopoldo prefetto.

_Riassunto:_ Dipartimenti 24, divisi in 91 distretti, 344 cantoni,
2155 comuni; popolazione 6,703,200 abitanti; superficie 84,043 miglia
quadrate italiane.

[29] Il Saint-Edme riferisce in questa nota: 1º il testo francese
della Convenzione militare di Schiarino Rizzino, 16 aprile 1814
(vedasi anche nel FABI, pag. 102-108); 2º il proclama del principe
Eugenio ai soldati francesi, Mantova, 17 aprile 1814 (in FABI, pag.
108-109); 3º l'indirizzo dell'armata francese al principe Eugenio,
dello stesso giorno, firmato dai generali Grenier, Verdier, Vignolle,
Marcognet, D'Anthouart, Fressinet, Quesnel, Rouyer, Mermet,
Sainte-Laurent e Bode.

[30] «Semblable en cela à tous les peuples et même à tous les hommes
qui espèrent toujours ce qu'ils desirent, les Italiens crurent que les
projets du roi Joachim tendaient à former un seul royaume de l'Italie,
trompés par sa conduite envers son bienfaiteur, et par les bruits
qu'il faisait courir à ce sujet. Admis dans la coalition, pensaient
les Italiens, l'empereur d'Autriche, qui lui avait confié des troupes,
préférait sans doute aider ses prétentions, et le voir monter sur le
trône de l'Italie ou se placer à la tête d'une confédération des états
et princes italiens, à laisser ce pays sous la domination de Napoléon
ou de son fils adoptif.

Les idées, les rêves d'indépendance troublaient entièrement leur
raison, et excluaient tout jugement. Partout où un souverain marche en
conquérant, il faut s'attendre à y retrouver longs-temps encore les
empreintes de son pouvoir. Ainsi ils devaient d'autant moins douter
des plans de l'empereur d'Autriche, que ce n'était qu'à la force qu'il
avait cédé l'Italie; qu'en sacrifiant son gendre, sa fille et son
petit-fils, il n'avait point agi dans les intérêt de l'Europe, mais
bien dans le siens propres, c'est-à-dire pour recouvrer ses anciennes
possessions. Ils ne devaient donc aucunement compter sur Murat, qui
appartenait d'ailleurs à une famille que les coalisées voulaient
proscrire, et je n'examinerai pas ce poins délicat de leur politique.

Les Italiens espéraient-ils que l'Autriche serait assez généreuse pour
leur donner un roi libre?... Je m'expliquerai dans une des notes
suivantes».

[31] «Il est impossible de croire que les sénateurs n'aient point eu
connaissance le tous ces projets, que la craint des plus grands
malheurs ne les ait pas portés à s'éclairer, à preparer dans le
silence les moyens de les éviter. Je ne leur ferai pas l'injure de les
supposer capables d'une indifférence odieuse de la part d'aussi grands
magistrats, sur qui le royaume devait se reposer du soin d'assurer sa
tranquillité. Mais comment expliquer leur inertie? Car, indépendamment
qu'ils avaient à redouter les ennemis de l'intérieur, et ils ne
pouvaient point l'ignorer, la conduite de l'Autriche était-elle de
nature à leur inspirer quelque sécurité? Si je ne les comdanne point
pour leur indifférence, je n'hésite point à les accuser d'un manque
total de caractère; et les Italiens doivent les poursuivre de leur
haine pour avoir, ou par volonté, ou par une lâche indolence, méprisé
le voeu national, en ne s'occupant pas exclusivement de l'indépendance
si ardemment desirée. En supposant qu'ils ne partageassent pas ce
voeu, ils devaient le connaitre: les grands corps d'un état n'existent
que pour le bien de plus grand nombre, et ils auraient dû se
soumettre. En supposant que l'esprit révolutionnaire ne leur fût pas
exactement démontré, ce qui n'est pas croyable, l'Autriche était-elle
environnée des ténèbres? La politique de cette puissance et la marche
de tous les événemens, ne suffisaient-elles point pour les éclaircir?
Il est juste que j'appuie mon accusation, et c'est ce que je vais
faire le plus rapidement possible.»--E qui il Saint-Edme, esaminando
la condotta politica dell'Austria verso Napoleone I dal 1812 al 1814,
rileva come, dalla richiesta fatta nella conferenza di Praga per la
cessione delle provincie italiane dal Mincio a Venezia e
dall'_ultimatum_ presentato al congresso di Châtillon che esigeva
l'abbandono totale dell'Italia, risulti manifesto che la cessazione
del Regno italico fosse uno dei fini della politica austriaca; e
conclude: «Les sénateurs devaient être instruits de tous ces faits, en
tirer les conséquences naturelles que Napoléon serait écrasé, que
l'Autriche menacerait l'existence du royaume, qui ne consentirait
point à lui accorder son indépendance, et qu'il fallait employer des
mesures énergiques. Mais que doit-on attendre de la débonnaireté du
peuple italien? Avec de l'audace et de la fermeté, en flattant ses
desirs, on en eût peut-être tout obtenu. Pour attendre l'abdication de
Napoléon, il fallait réunir les colléges, prononcer la consolidation
du royaume, proclamer un chef, faire un appel au patriotisme du
peuple, appeler tous les princes d'Italie à une confédération, mander
a Milan les troupes de Cremone et de Lodi, et se défendre enfin, pour
tenter de réussir ou succomber avec gloire, en se mettant à même de
discuter avec l'Autriche un traité d'abaissement. N'eussent-ils fait
autre chose que proclamer une seconde fois la constitution de 1802, et
nommer un président ou un vice-président, ils auraient sauvé le peuple
de lui-même, le collége n'aurait pas compromis la nation: et qui sait
si cette attitude nouvelle n'eût pas amené quelque résultat
avantageux? Oui, les sénateurs d'Italie n'ont rien fait pour sauver la
patrie.»

[32] «Les Français étaient assez généralement aimés, et on les
regrette aujourd'hui; tandis, au contraire, que les Autrichiens ont
toujours été détestés, qu'on les hait encore plus, et que le nom de
_Tudesco_ (Tudesque, ou Allemand) donné à un Italien, est une injure
des plus vives. Sous la domination des Français, les Italiens
jouissaient des apparences de toutes leurs libertés; ils
embellissaient leur pays; ils protégeaient les arts, l'industrie, le
commerce; la presque totalité des emplois étaient occupés par des
nationaux. Maintenant ils ne rencontrent que des entraves, et les
Autrichiens gouvernent en conquérans».

[33] «Cette déclaration concorde parfaitement avec la note
précédente».

[34] Il SAINT-EDME riporta qui, tradotta in francese, la Costituzione
della Repubblica Italiana adottata nei Comizi di Lione il 26 gennaio
1802: il testo originale di essa si ha nel _Bollettino delle leggi
della Repubblica Italiana, Anno I,_ Milano, Veladini [1802], pp. 1-19.

[35] «Relatifs au système continental».

[36] In questa nota il Saint-Edme dà il testo delle costituzioni del
Regno d'Italia tradotte in francese, e cioè:

_I. Statuto costituzionale_, Parigi 17 marzo 1805, preceduto dal
discorso di F. Melzi in nome della Deputazione della Repubblica
Italiana [Marescalchi, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi e
Guicciardi, membri della Consulta di Stato; Guastavillani,
Lambertenghi, Carlotti, del Consiglio legislativo; Dabrowki generale
di divisione; Rangone oratore del Corpo legislativo, Calepio membro
del Corpo legislativo; Litta, Fè, Alessandri, del Collegio elettorale
dei possidenti; Salimbeni generale di brigata, Appiani, del Collegio
elettorale dei dotti; Busti, Giulini, del Collegio elettorale dei
commercianti; Negri, commissario presso il tribunale di cassazione;
Sopransi, presidente del tribunale di revisione in Milano; Valdrighi,
presidente del tribunale di revisione in Bologna], dall'atto della
Deputazione stessa che invoca la trasformazione della Repubblica in
Regno d'Italia, dalla risposta di Napoleone I che dichiara di
accettare la corona italica; tutto ciò riferito dalla _Raccolta de'
fatti, documenti, discorsi e cerimonie, il tutto relativo al
cangiamento della Repubblica Italiana in Regno d'Italia_, Milano,
Sonzogno, 1805, pp. 10-23, 48-51. Il testo ufficiale del primo Statuto
costituzionale fu pubblicato col proclama della Consulta di Stato,
Parigi 19 marzo 1805, che si legge nel _Bollettino delle leggi del
Regno d'Italia_, Milano, Veladini [1805], PP. 33-43.

_II. Statuto costituzionale_, Saint-Cloud 29 marzo 1805
[Reggenza--Grandi ufficiali del Regno--Giuramenti]; nella _Raccolta_
cit. pp. 98-112 e nel _Bollettino_ cit. pp. 54-63.

_III. Statuto costituzionale_, Milano 6 giugno 1805 [Beni della
Corona--Viceré--Collegi--Consiglio di Stato--Corpo legislativo--Ordine
giudiziario--Diritto di far grazia--Ordine della Corona di
ferro--Disposizioni generali] firmato dai membri della Consulta di
Stato [Marescalchi, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi,
Moscati, Guicciardi] e della Censura [Aldini presidente, Stanislao
Bovara e Giovanni Tamassia segretari, Giuseppe Taverna, Giuseppe
Soresina Vidoni, Lorenzo Scazza, Barnaba Oriani, Fè Marcantonio,
Brunetti Vincenzo, Vertova Giambattista, Conti Francesco, Piazzoni
Giambattista, Castiglioni Luigi, Bignami Carlo, Bentivoglio Carlo,
Salina Luigi, Peregalli Francesco, Bologna Sebastiano, Massari Luigi,
Odescalchi, Bazzetta]: è nel _Bollettino_ cit. pp. 91-112.

_IV. Statuto costituzionale_, Parigi 16 febbraio 1806 [adozione del
Viceré Eugenio]: è nel _Bollettino_ cit., Milano, R. Stamperia [1806],
pp. 62-64.

_V. Statuto costituzionale_, Milano, 20 dicembre 1807 [creazione del
Senato consulente]: è nel _Bollettino_ cit., Milano, R. Stamperia
[1807], pp. 1120-1221.

Degli altri Statuti del Regno non ebbe cognizione il Saint-Edme, il
quale solamente accenna a un «sixième et dernier Statut
constitutionnel» del 9 novembre 1809, sotto la qual data si ha invece
il _Regolamento che stabilisce la natura e la forma delle relazioni
del Senato col Governo_ (nel _Bollettino_ cit., Milano, R. Stamperia,
pp. 302-312). Invece gli altri, veri e propri Statuti, furono i
seguenti:

_VI. Statuto costituzionale_, Parigi 21 marzo 1808 [Organizzazione del
Senato--Attibuzioni--Dotazione--Disposizioni speciali]: è nel
_Bollettino_ cit., Milano, R. Stamperia [1808], pp. 216-222.

_VII. Statuto costituzionale_, Saint-Cloud 21 settembre 1808 [Titoli e
maggioraschi del Regno]: è nel _Bollettino_ cit., pp. 824-847.

_VIII. Statuto costituzionale_, Parigi, 15 marzo 1810 [Dotazione della
corona e appannaggi dei principi e delle principesse d'Italia]: è nel
_Bollettino_ cit., Milano, R. Stamperia [1810], pp. 194-210.

_IX. Statuto costituzionale_, Parigi 15 marzo 1810 [appannaggio del
Principe Viceré d'Italia]: è nel _Bollettino_ cit., pp. 211-213.

Finalmente il SAINT-EDME, dopo aver notato che gli elettori del Regno,
i quali secondo la Costituzione di Lione erano 300 nel Collegio dei
possidenti, 200 in quello dei Dotti e 200 in quello dei commercianti,
erano poi cresciuti di numero per i decreti del 5 dicembre 1807 e 17
luglio 1808, sí che nel 1814 ammontavano a 1153 (possidenti 495, dotti
329, commercianti 329), conchiude la sua nota cosí: «Les électeurs aux
colléges réunis à Milan en avril 1814, étaient au nombre de 170; et,
conformément aux constitutions, ils ne pouvaient délibérer: si les
sénateurs avaient eu plus d'énergie, ils auraient évité à ce collége
le ridicule dont il s'est couvert, et auraient été sans doute utils à
leur pays. Ils ont été chassés par quelques factieux: que
méritaient-ils de plus?»



            SUGLI AVVENIMENTI
                DI MILANO

           _17-20 Aprile 1814_


                RELAZIONE
                   DEL
            CONTE CARLO VERRI

        SENATORE DEL REGNO ITALICO
                    E
  PRESIDENTE DELLA REGGENZA PROVVISORIA


            SCRITTA IN NIZZA
              Inverno 1817.



SUGLI AVVENIMENTI DI MILANO

_17-20 di Aprile 1814_


RELAZIONE.

Trascorsi ormai due anni dagli avvenimenti accaduti in Milano
nell'aprile 1814, io, Carlo Verri, intraprendo a stendere una Memoria
relativa a quella sfortunata epoca, che rimarrà lungamente scolpita
negli animi dei Lombardi. Era mia intenzione di ciò fare, sino dal
primo giorno nel quale seguí il movimento popolare; ma non mi è stato
possibile. Le molte persone che vennero da me e l'essere io stato
nominato Presidente del Governo non mi hanno lasciato libero il tempo.
Avendo poi continuato a servire il Governo sino a tutto il 1815,
distratto dagli affari ed essendo in debole salute, non ho saputo
determinarmi a scrivere. Ora però che mi trovo in piena libertà e
senza incombenza alcuna, io penso di esporre quanto la memoria saprà
suggerirmi, né mi dilungherò in riflessioni, attenendomi a' soli e
semplici fatti, dei quali io stesso fui personalmente testimonio e che
constino per pubblici documenti, o tali, per pubblica fama, che non se
ne possa dubitare, non avuto riguardo alle voci sparse e prive di sodo
fondamento. Narrerò quanto io stesso ho veduto e quanto è accaduto a
me: cosí questa mia relazione, che penso deporre nell'archivio di
famiglia, darà qualche idea della cosa pubblica ed una notizia certa
di quanto è accaduto a me come uomo pubblico in quell'epoca ed in
seguito. Né sarà discaro agli individui della famiglia se, scrivendo
di me, sarò forse diffuso, e se brevemente discorrerò degli impieghi
ai quali sono stato chiamato prima dell'epoca che intendo descrivere,
giacché il principale mio scopo è appunto quello di stendere una
Memoria intorno a ciò che mi appartiene come uomo pubblico.

       *       *       *       *       *

Nel 1802, mentr'io da qualche tempo viveva quasi abitualmente in
campagna attendendo all'agricoltura, il conte Francesco Melzi, fatto
vicepresidente della Repubblica Italiana, chiese di me e mi offrí una
prefettura. Contavo già il cinquantesimonono anno d'età e con salute
debole. Presi tempo a riflettere, poi accettai, sempreché fossi
destinato alla prefettura del Lario in Como, città triste, ma che
offriva la vicinanza dei miei fondi, della patria e del fratello
cavaliere Giovanni in essa domiciliato. La fondata speranza di un buon
Governo, lo Stato stabilito con pubblico trattato politico, il dovere
che incombeva a qualunque probo cittadino di secondare la felice
circostanza per il pubblico interesse mi determinarono all'assenso,
avendo nei tempi antecedenti di rivoluzione della Cisalpina e dei
variati governi vissuto affatto alieno da qualunque impiego. Erano le
prefetture in quella loro istituzione di grado assai decoroso, ed
erano i Prefetti quasi veri governatori; ma in seguito decaddero assai
dal loro lustro.

Il vicepresidente Melzi avrebbe voluto destinarmi non a Como, ma in
qualche altro dipartimento piú interessante, e probabilmente aveva
fisso nell'animo quello del Mella, la cui capitale è Brescia. Ma le
circostanze soprallegate fecero ch'io rimanessi nella mia prima
adesione per il solo Lario in Como. Dopo circa un mese di sospensione,
il vicepresidente, vedendomi costante, mi nominò per il Lario. Ma vari
signori bresciani, mossi da propria opinione e probabilmente dal
Governo istesso, mi fecero istanze assai lusinghevoli perché cangiassi
di pensiero e accettassi il Mella, e tali furono le istanze che non
senza imbarazzante difficoltà sarebbe accaduto che io mi dispensassi;
al che si aggiunse una obbligantissima lettera del cittadino Villa,
ministro dell'interno, colla quale mi partecipava il desiderio de'
Bresciani e quello del Governo istesso, che io non mi rifiutassi per
il dipartimento del Mella. Erano pertanto le cose a tal segno spinte
che il rifiuto sembrava inurbana ostinazione, onde mi determinai a
secondare l'istanza. Ma se la vivacità di quella nazione e le
difficoltà che poteva presentare lusingavano e mi rendevano assai
preferibile il Mella al Lario, pure la poca salute, la distanza da'
parenti, dagli amici e dalle mie proprietà mi facevano preferire il
Lario. Quindi in giugno del 1802 partii per Brescia: onorevolmente
accolto, ivi rimasi fino al settembre del 1804, nel quale tempo ebbi
una grave malattia di petto e fui nominato Consigliere legislativo.
Quale memoria abbia fortunatamente lasciata di me nel dipartimento non
istà a me il dirlo: il Governo ne fu contento e mi premiò
coll'avanzarmi di grado in patria.

Venuto in Milano nel 1805 Napoleone per prendere la Corona di ferro,
fece una nuova nomina per il Consiglio interinale di Stato, poi la
fece stabile; ed in entrambe vi fui nominato. Poi, istituito l'Ordine
della Corona di ferro, fui tra i primi nominato Commendatore, e n'ebbi
la decorazione nella prima e sola funzione pubblica che si fece in
Sant'Ambrogio, dalle mani del Principe Eugenio Viceré, seduto sotto il
trono in piena formalità. Varie e distinte incombenze ebbi come
consigliere, nelle quali anche fui nominato il primo ove si trattava
di piú consiglieri nominati. Tale fu la commissione per la Dalmazia,
ove io fui nominato per Zara e suo distretto; ma per motivi di salute
mi dispensai. Cosí fui nominato il primo, e nei primi dipartimenti,
come Ispettore di pubblica beneficenza.

Finalmente nel principio di aprile dell'anno 1808 il Principe Viceré,
sebbene io per mia indole non avvicinassi né la real Corte né i
Ministri, con maniere obbliganti mi chiese se avrebbe potuto disporre
di me; al che risposi che tutto mi sarebbe stato gratissimo e ad
onore, sempreché la mia poca salute ed i miei pochi talenti avessero
potuto secondare le viste di S. A. R. Passati pochi giorni, il
Principe con suo viglietto mi scrisse che mi disponessi a partire per
Ancona e che conservassi il segreto che affidava alla mia discretezza.
Poi volle a me solo manifestare il motivo della partenza, il quale era
doversi da me organizzare i tre dipartimenti della Marca, cioè il
Metauro, il Musone ed il Tronto. Comandava in essi, come governatore,
il generale francese Lemarois. Volle il Principe ch'io carteggiassi
direttamente con lui e diedemi per compagno Giacomo Luini, Consigliere
uditore. Partii in aprile, pretestando un giro nei dipartimenti del
circondario di pubblica beneficenza a me affidato, e giunsi in Ancona
prima del giorno 21 del mese, epoca assegnatami. Rimasi in Ancona sino
a tutto l'agosto, e ritornai in patria lasciando contente quelle
popolazioni; e persino gli ecclesiastici di Roma non disapprovarono la
mia condotta. Il real Governo ne fu contento ed il Principe, pagate le
spese, mi regalò una bellissima tabacchiera col suo ritratto
contornato di brillanti. Non è a tacersi essere io andato in quei
dipartimenti senza istruzioni, senza notizie delle finanze, essendosi
il real Principe interamente affidato, com'egli graziosamente diceva,
alla mia saviezza.

Erettosi da S. M. l'Imperatore Napoleone il Senato del Regno d'Italia,
ed essendosi riservata la nomina di alcuni, oltre quelli che gli
fossero stati presentati dai Collegi elettorali in conformità dello
Statuto, mi nominò Senatore con decreto del giorno 10 ottobre 1809.

Questa è la carriera da me percorsa nei pubblici impieghi, dai quali
sono stato alieno fino all'anno cinquantesimo di mia vita e per i
quali non ho mai fatto passo alcuno sia colla Corte, sia coi Ministri.
Dal che facilmente si scorge che nel Governo della Repubblica italiana
ed in quello del Regno d'Italia i sudditi chiamati a pubblico impiego
ottenevano la confidenza del Governo, e non erano gl'Italiani trattati
come semplici operai e sottoposti all'umiliante diffidenza, che
disgraziatamente forma uno dei principali caratteri del Governo
austriaco verso gl'Italiani.

Ciò premesso per notizia della famiglia, passo ora alla seconda epoca,
cioè a quella del cangiamento di Governo. Scrivendo ciò che la memoria
potrà fornirmi e senza prevenzione di partito, non esporrò che i fatti
certi, dai quali potrà chi legge dedurre quelle conseguenze che
offrono da loro medesimi. Parlerò molto di me, poiché la Memoria che
stendo ha per iscopo principale appunto quello di lasciare in famiglia
un documento di quanto m'è accaduto, perché possa da esso dedurre
argomento delle stabilità politiche, e quanto meglio sia il fondare la
felicità sull'esistenza propria, sulle abitudini e geniali
occupazioni, sui lumi, sullo studio, di quello che sugli impieghi
dipendenti sempre dall'altrui volere e dall'impensato cangiamento
degli eventi politici ed amministrativi.

Era la sera del giorno 16 aprile 1814, quand'io essendo colla società
di varie persone, che seralmente da me si sogliono unire già da vari
anni, ricevetti lettera d'avviso che la mattina seguente si univa il
Senato in seduta straordinaria. Convalescente per recente malattia di
petto e debole assai, gli amici mi consigliarono a non intervenire
alla seduta; ma riflettendo io che questa seduta, attese le cose di
Francia e le sventure di Napoleone delle quali correvano incerte voci,
doveva essere effetto di oggetto interessante, mi determinai d'andare
al Senato, anche esponendo la propria salute. Ignorava di che trattar
si dovesse; e la mattina del 17 me ne stavo seduto in letto
trattenendomi in alcune geniali occupazioni ed attendendo l'ora di
alzarmi, quando venne da me il conte Alfonso Castiglioni mio nipote.
Premessi i soliti atti di famigliare amicizia, egli mi chiese se
pensava di andare al Senato; al che risposi affermativamente
adducendone il motivo. Continuò egli interpellandomi se mi era noto
l'oggetto della convocazione, e risposi che lo ignoravo. Allora egli
mi disse: «Io ve lo dirò. Trattasi di un messaggio al Senato per
ottenere che il Principe Eugenio, viceré d'Italia, sia dichiarato re.»
Ignorando io ciò che era accaduto in Francia, come s'ignorava da
tutti, fui sorpreso e meravigliato, onde ne parlai con stupore non
potendo persuadermi di quanto mi veniva detto; ma il conte Castiglioni
mi assicurò in modo cosí deciso e fermo che dovetti in certo modo
persuadermi essere vero quanto mi diceva.

Dopo breve dialogo partito il Castiglioni e rimasto solo, riflettei
fra me medesimo cosa dovessi fare e dubitai se fosse prudente cosa il
non intervenire alla seduta, giacché la poca salute mi offriva giusto
motivo. Da una parte io sentiva le molte obbligazioni mie verso il
Principe, che sempre mi ha distinto sebbene io non frequentassi la
Corte; non ignoravo, d'altronde, che già da un anno il pubblico non
gli era piú affezionato e che molto di lui si doleva. Rammentavasi
l'ordine, da lui emanato, di dare cinquanta colpi di bastone ciascun
giorno di un intero mese a' vari condannati ai lavori forzati in
Mantova per essere fuggiti: decreto che fu eseguito per alcuni giorni,
poi sospeso, essendosi da Mantova mandati in commissione speciale
alcuni cittadini onde revocare sí terribile decreto, che riduceva
quelli infelici a dura morte per cancrena. Né fece poca impressione
nell'animo degli Italiani la condanna a morte per fucilazione del sig.
...... guardia d'onore, di famiglia distinta di Corinaldo,
dipartimento del Metauro, per pensata e non effettuata diserzione.
Varie altre cose spargevansi già da qualche tempo contro il Principe,
e singolarmente alcune sue espressioni di disprezzo pe' militari
italiani. Né poteva il pubblico tollerare l'influenza del signor
Méjan, suo segretario degli ordini, né quella di qualche suo aiutante
disprezzatore degli Italiani. Spiaceva inoltre che il signor Darnay
fosse stato fatto Direttore delle poste, e dicevasi che le lettere
erano tutte aperte, molte trattenute ed abbruciate. Il partito opposto
al Governo esagerava questi fatti e declamava: i tributi gravosissimi
diretti dal ministro Prina odiato dal pubblico; la coscrizione
militare che offriva al macello tanta gioventú e che non lasciava
famiglia che non fosse in profonda desolazione; la lusinga sempre
facile nel popolo di migliorare la sorte presente con un nuovo
Governo; la reazione del partito dei nobili e di quelli che
dimenticati dal Governo speravano nelle vicende della guerra, dopo i
disastri sofferti nel fine della campagna di Russia, davano animo ad
eccitare il generale malcontento con tutti quei mezzi e con tutte
quelle dicerie, che l'entusiasmo e la vivacità dei partiti hanno poste
in opera in tante fatali circostanze dell'età nostra.

Questi pensieri ed il dubbio del carattere che il Senato fosse per
assumere in cosí difficile circostanza, l'intimo sentimento mio di
esprimere il mio voto sempre diretto dall'onore, dal dovere e dal
pubblico bene, mi davano grande perplessità e timore di espormi
inutilmente. L'incertezza delle notizie, l'ignoranza del vero stato
politico delle cose, la volubilità degli eventi, la generale
avversione al Governo francese, le declamazioni contro il Principe
erano tutti oggetti gravissimi di seria riflessione. Considerando però
che l'uomo appunto nelle circostanze difficili non doveva smentire il
proprio carattere e che l'uomo appunto in queste occasioni deve
prestarsi in favore dello Stato e del bene della società, mi
determinai di andare al Senato nella ferma risoluzione di parlare con
quella libertà che era di preciso dovere, quand'anche avessi dovuto
sacrificare me stesso, e di ragionare in conformità di quanto fosse
stato proposto alla discussione del Corpo, giacché realmente non
sapevo immaginare sotto quale aspetto, con quali motivi e come potesse
essere disposto l'affare.

Giunto al palazzo del Senato, dubitando che la prevenzione di alcuni
individui, la debolezza di molti, le private viste ed un antecedente
maneggio potessero indurre il Senato o ad essere sospeso o a non
mantenere quel nobile carattere e quella saviezza che conveniva al
primario Corpo del Regno, avvicinai due o tre senatori, e, chiesto
loro se avessero notizia di quanto doveva trattarsi, essendomi stato
risposto che lo ignoravano, dissi loro che l'affare doveva essere
grave e che li esortava ad essere attenti e cauti contro qualunque
sorpresa.

Era presidente il conte Veneri, modenese, ex-ministro del tesoro del
Regno. Aperta la seduta, fu letto un messaggio del signor Duca di
Lodi, guardasigilli del Regno, col quale annunziava al Senato che le
vicende politiche e le circostanze esigevano la piú seria attenzione,
ed essere necessario:

1º di spedire una Deputazione alle Alte Potenze alleate contro la
Francia, onde interessarle a sospendere le ostilità e conservare il
Regno coll'indipendenza dello Stato.

2º Convocare i Collegi elettorali.

Con questo messaggio venne proposta anche la forma del decreto da
adottarsi, e dopo i due suddetti articoli eravi il terzo ed ultimo,
col quale volevasi che

3º La Deputazione esprimesse alle Alte Potenze alleate il sentimento
di riconoscenza che la nazione nutriva verso la persona del Principe
Eugenio viceré, per l'ottima sua condotta nell'amministrazione
pubblica.

Grande fu la sorpresa del Senato alla lettura di questo messaggio, col
quale, tacendosi gli eventi accaduti in Mantova ed a Parigi, si vedeva
invitato a cangiare il Sovrano. E veramente in quell'epoca destinata a
tanti cangiamenti, si sono commessi errori politici da tutte le parti,
e anche da chi aveva dati non piccoli saggi di esperimentata prudenza
e saviezza; come si vede dall'irregolare, imprudentissimo messaggio
del Duca di Lodi al Senato, e come meglio apparirà considerando gli
effetti degli opposti partiti, dei quali l'uno fu tanto imprudente da
muovere la plebe contro il Senato, e l'altro non seppe, con opportuni
modi, operare in favore dell'indipendenza dello Stato. Cosí avvenne in
Roma per la dissensione fra la nobiltà e la plebe, allorché odiando
quella la facoltà tribunizia e questa la consolare, si crearono i
Decemviri; imperocché in quella straordinaria circostanza gravi errori
commisero il Senato, la plebe e i Decemviri.

Fatta al Senato la proposizione, io voleva chiedere la parola; ma il
senatore Guicciardi mi prevenne e fece una mozione d'ordine, chiedendo
come il signor presidente avesse convocato il Senato in seduta
straordinaria, la quale non poteva farsi senza un decreto del
Principe. Parmi che il presidente rispondesse che il Duca di Lodi,
guardasigilli, era autorizzato e che le circostanze lo esigevano; ma
quali fossero quelle circostanze ignoravasi dal Senato. Chiesi, dopo
Guicciardi, la parola; ma sedendo io nel rango superiore, poiché le
sedie stavano in due giri, l'uno piú alto dell'altro, il senatore
Dandolo, che era appunto sotto di me nel circolo inferiore, si alzò e
parlò con molta eloquenza e saviezza, ragionando sulle tante
incongruenze, che di sua natura offriva quello strano progetto
appoggiato a nessuna positiva notizia e solo in generale alle urgenti
circostanze.

Dopo il conte Dandolo, chiesi la parola e mi limitai a poche domande:
chiesi pertanto se l'imperatore Napoleone viveva o no, poiché le voci
plateali ed il messaggio stesso davano luogo a supporlo morto; se,
qualora fosse morto, non esistesse il figlio, re di Roma; se, vivo,
Napoleone avesse abdicata la corona per sé e per la discendenza sua,
senza di che il Senato si renderebbe colpevole di fellonia e di
ribellione. Insorta cosí una viva discussione, voleva il presidente
che senz'altro si adottasse il progetto di decreto; ma il Senato, per
quanto mi sovviene, sulla ferma proposizione di Dandolo determinò che
il progetto di decreto proposto al Senato fosse esaminato da una
commissione, che ne facesse rapporto nello stesso giorno: la seduta fu
dichiarata permanente. Fattosi lo scrutinio, furono nominati per la
commissione Guicciardi, Bologna, Castiglioni, Dandolo, Cavriani, Verri
e Costabili.

Rimaneva però sempre il dubbio con quale autorità legale vi fosse
stata quella straordinaria convocazione; onde il Senato delegò
Guicciardi, Dandolo e Verri, perché tosto si portassero personalmente
dal Duca di Lodi per intendere da lui le facoltà che avesse, e se vi
fosse un armistizio fra il Principe Eugenio e l'armata nemica, poiché
il ministro Vaccari, mentre il Senato discuteva sull'interessante
oggetto, accennò che si era fatto un armistizio. È da sapersi che i
ministri potevano intervenire alle adunanze del Senato quando pure non
fossero senatori, ed in quell'occasione i ministri Vaccari
dell'interno e Luosi della giustizia, che certamente erano al fatto e
consci di tutto, intervennero. Anzi si poté sapere in seguito, e la
condotta loro lo confermò, che Vaccari singolarmente ed alcuni
senatori, cioè Prina, Paradisi e Carlotti, avevano avuta parte nel
formare un cosí strano e assurdo progetto, o per lo meno ne erano
prevenuti; progetto che per le sue incongruenze appena sembra
credibile. Né fu poca la maraviglia mia e di altri estimatori ed amici
del Duca di Lodi, nel vedere che egli approvasse e potesse secondare e
dar mano a tanta assurdità. E tale fu la sorpresa nostra che io,
sull'istanza che alcuni mi fecero, mi portai al gran tavolo ove sedeva
il presidente co' segretari, e chiesi di vedere la firma del Duca di
Lodi, dubitando di qualche sorpresa; tanto era lo stupore. Esaminata
la firma, vi trovai sottoscritto il _Segretario Villa per espressa
commissione di S. E. il Duca di Lodi impedito dalla gotta;_ ed il
carattere era del Villa, a me notissimo.

Eseguendo la commissione del Senato andai subito co' senatori
Guicciardi e Dandolo dal Duca Melzi, il quale ci partecipò
l'armistizio, l'abdicazione di Napoleone e l'autorità a lui concessa
per le occasioni straordinarie che potessero occorrere essendo assente
il Viceré. Non è fuori di proposito di osservare che il Senato fu
convocato in questo giorno 17 marzo, ad un'ora dopo mezzogiorno; che
l'invito fu diramato il giorno antecedente e che l'armistizio suddetto
non fu notificato che un'ora appunto dopo mezzogiorno del 17 istesso;
come risulta dalla stampa pubblicatasi in Mantova, la quale
incomincia, ecc.[37]

Ritornati noi al Senato, dopo lunga discussione, dichiarata permanente
la seduta, partiti i senatori, rimanemmo noi sette delegati per
esaminare e modificare il progetto di decreto stato proposto. Nessuna
difficoltà si trovò nella forma dei due primi articoli del decreto, i
quali furono facilmente tra noi ad unanimità di parere combinati,
cioè:

1º Per l'invio di una Deputazione di tre senatori al quartiere
generale delle Potenze alleate, onde supplicarle, in conformità de'
liberali principî da esse pubblicati, non solo a sospendere, ma a
cessare dalle ostilità e conservare il Regno con un sovrano
indipendente.

2º Per la immediata convocazione dei Collegi elettorali.

Ma molte e gravi difficoltà insorsero nel combinare, ciò che
riguardava il Principe viceré. Trattavasi, nel primo progetto di
decreto presentato al Senato, di un elogio del Principe da farsi alle
Alte Potenze alleate, e di tal natura che sembrava indicarsi il vóto
della nazione per averlo in sovrano. Ma il Senato non poteva parlare
in nome della nazione, non avendone la rappresentanza, e questa
dovevasi considerare, in quelle circostanze singolarmente, come
riposta ne' soli Collegi elettorali; al che si aggiungeva il fermento
generale del popolo contro il Governo francese e le fatali
declamazioni contro il Principe. Egli è ben chiara cosa che
l'interesse personale dei senatori e fors'anche il vero interesse
della nazione ottimamente combinavano colla nomina del Principe
Eugenio in sovrano. Ed in quanto a me lo avrei bramato assai, onde,
parlando in Senato, dissi: nessuno piú di me essere riconoscente e per
dovere essere a lui affezionato; ma che sfortunatamente l'opinione
generale da qualche tempo erasi cosí cangiata riguardo al Principe che
pericolosa cosa sembravami il proporlo ed anche l'insinuarlo come
bramato dalla nazione. Il fatto provò quanto fosse fondato il timor
mio, come si vedrà nel seguito di questa relazione. Quindi, dopo
tentati tutti i mezzi fra noi sette delegati alla riforma ed all'esame
del progetto, né ritrovando il modo di formare il terzo ed ultimo
articolo, combinando i nostri privati sentimenti colle sfavorevoli
circostanze della generale opinione e col moto che scorgevasi nella
città contro il Principe ed i Francesi, si stese un articolo nel quale
il Senato esprimeva la sua riconoscenza verso il Principe. Nessuno di
noi era contento di quel troppo semplice articolo e troppo meschine
espressioni; ma che potevasi fare, quando il dire di piú esponeva il
Senato al furore del popolo e la nazione ad una rivolta? Noi fummo
occupati tutto il rimanente del giorno, studiandoci di trovare una piú
onesta uscita; ma non ci fu possibile immaginarla.

Unitosi pertanto di nuovo il Senato la sera e montato alla tribuna il
conte Dandolo, fece al Senato a nome della commissione formale
rapporto e propose la riforma del decreto alla sanzione dei senatori.
Qui grande discussione insorse: molto parlò il senatore Paradisi e con
lui il senatore Prina, tentando con mille ragionamenti d'indurre il
Senato a determinazioni piú analoghe al primo progetto; ma inutili
furono i loro sforzi, persistendo il Senato nell'opinione della
commissione. Sarebbe troppo lungo il riferire quanto fu detto; né io
ora saprei colla necessaria esattezza narrare tutto l'occorso. Basterà
pertanto il dire che il Senato passò alla nomina di tre individui da
spedirsi in commissione alle Alte Potenze alleate, e furono nominati
Guicciardi, Testi e Castiglioni. Io ero stato interpellato da
Guicciardi, se potessi esporre la mia debole salute per la patria
accettando di essere della commissione, ma risposi che sarei
sicuramente rimasto ammalato in cammino; e troppa infatti era la
debolezza mia fisica per età non solo, ma per convalescenza di
malattia di petto.

Mentre queste cose in Senato non senza vivacità si discutevano, quando
si pervenne alla lettura del terzo articolo il ministro Vaccari,
spinto dall'attaccamento suo al Principe, e poco o nulla ragionando
sulle circostanze, alzatosi dalla sedia, disse: «Oh, questo poi è
troppo, ed è un insulto, poiché appena è detto ciò che si direbbe ad
un subalterno che cessa dal servizio». Che poco fosse il complimento
ciascun di noi, con vero dispiacere, lo sentiva; ma come porvi
rimedio? Questa mossa però del ministro Vaccari fece sí che alcuni
senatori studiarono stendere in piú onesta maniera l'articolo; ma in
fatto sempre insorgeva la terribile difficoltà che in nome della
nazione il Senato non poteva parlare e che qualunque elogio fatto al
Viceré, il quale potesse dare idea alle Potenze alleate che il
Principe fosse bramato in sovrano, incorreva nella fatale contrarietà
della fermentante opinione del popolo, con grave pericolo del Senato e
della pubblica quiete. Dopo vari tentativi fu letto un articolo, che
parmi fosse scritto dal senatore conte Mengotti, nel quale si
stabiliva che fossero fatti i dovuti ringraziamenti al Principe per
l'ottima sua amministrazione; fosse a lui partecipata la riconoscenza
e l'affezione del Senato, con alcune altre espressioni atte a dare
favorevole opinione del Principe, che ora bene non saprei
risovvenirmi. Fu quell'articolo adottato per istanchezza piuttosto che
per persuasione in modo tumultuario, essendosi alzati i senatori ed
essendo inoltrata la notte.

Aveva il conte Testi, nominato tra i delegati alle Alte Potenze
alleate, dichiarata l'impossibilità di aderire alla propria partenza,
adducendo il fisico incomodo che tuttora aveva negli occhi, incomodo
che realmente sussisteva e non di poca conseguenza. Stette egli fermo
nell'iscusarsi, e il Senato a tenore del suo decreto doveva supplire
con altra nomina, onde tre fossero gli ambasciatori; ma il presidente,
non avuto riguardo a questa circostanza, dichiarò sciolta la seduta: e
sebbene io gli dicessi che ciò era irregolare e che la rinuncia del
conte Testi esigeva un supplemento, egli rispose con qualche
impazienza che la seduta era sciolta e che usava l'autorità della
quale era investito. Fu la fine di questa seduta irregolare, e priva
d'ordine, come spesso accade nelle assemblee quando gli animi sono
stanchi; e mentre il senatore Paradisi, che molto aveva parlato in
sentenza contraria alla generale opinione del Senato, se ne uscí
frettolosamente col senatore Carlotti e mentre gli altri alzatisi
dalle sedie si frammischiavano nella sala per partire, il ministro
Vaccari disse che «la deputazione doveva prendere la strada di Mantova
e presentarsi al Principe Eugenio prima di portarsi al quartiere
generale delle Potenze.» D'onde nacque in molti non poca meraviglia
come ciò si dicesse da un ministro, che niuna autorità aveva sopra il
Senato, e lo dicesse dopo levata la seduta.

Guicciardi e Castiglioni, prese le istruzioni dal Duca di Lodi per il
modo di seguire l'ambasciata, partirono per Mantova, e Castiglioni
partí, per la insinuazione degli amici e non senza difficoltà.
Portatisi a Mantova, ritornarono in Milano senza effettuare la
commissione; e non essendomi ben noto ciò che in Mantova è avvenuto,
mi riservo informarmene dai delegati medesimi ed aggiungerne le
relazioni.

Mentre il Senato sedeva, in tutto quel giorno il partito contrario al
Governo non rimase ozioso, e nella città cresceva il fermento. La sera
tale era la vivacità dell'opposizione che nel gran teatro della Scala
fu proposto di andare al Senato ed ivi manifestare l'opinione del
popolo e costringere il Senato a dimettere qualunque idea che tendesse
ad avere il Principe Eugenio in sovrano. Ma, fosse per caso o per arte
di un commesso della Polizia come fu detto, sparsasi nella platea del
teatro la voce che il Senato era sciolto ed i senatori partiti,
fortunatamente il progetto non ebbe effetto. Che se il popolo occupava
di notte il Senato, questa infelice città avrebbe sofferta una
terribile calamità, ed i senatori non avrebbero potuto salvarsi, tanta
era l'animosità del partito che divulgava volere il Senato il Principe
in sovrano e tanta l'avversione popolare. Mosso il popolo e mossa di
notte la plebaglia, i cattivi, per vendetta di parte e per avidità di
saccheggio, avrebbero posta la città tutta in un vero caos di
disordini e di crudeltà.

La mattina del giorno 18 andai a fare un piccolo passeggio verso Porta
Orientale, e passai lungo la corsía de' Servi: la sera mi fu detto,
non essere io stato riconosciuto da quelli che si trovavano alla
bottega di caffè, se non quando la aveva oltrepassata, e che n'ebbero
dispiacere, perché riconoscendomi prima m'avrebbero fatto applauso. In
quello e nel seguente giorno 19 sempre crebbero i discorsi pubblici,
l'incertezza delle cose politiche, l'avversione ai Francesi: lo
spirito di partito agitava tutte le menti. Varie persone vennero da
me, colle quali io procurava d'insinuare la quiete, assicurandole che
il Senato nulla aveva fatto che si opponesse al bene generale e che la
risoluzione presa era savia e prudente. Non mancò chi voleva la mia
firma ad una carta rivoluzionaria, firma alla quale mi rifiutai,
esortando chi la propose che considerasse a quante calamità esponesse
lo Stato ed a quanti pericoli sé medesimo.

E qui piacemi narrare un fatto che può divertire il lettore. Una
mattina, non so se il giorno 18 o 19, mentre secondo il mio consueto
me ne stavo a letto scrivendo, il cameriere mi annunziò esservi una
signora che bramava parlarmi. Entrata ed avvicinatasi al letto,
m'abbracciò e baciommi. Era donna di mezza età e di condizione civile.
Sorpreso da questo singolare tratto, sorridendo le chiesi quale mai
fosse il motivo di tanta tenerezza con me, mentr'io non aveva l'onore
di conoscerla. Al che ella rispose che il carattere da me spiegato in
Senato aveva eccitato il piú vivo sentimento di stima e di affezione
in tutti; che essa si trovava in casa con vari amici e che mentre
parlavano di me con lode, essa disse che volentieri m'avrebbe dato un
bacio; e che applaudendo quelli alla proposizione si determinò ad
eseguirla. Fatti alcuni vicendevoli complimenti e manifestata la
sorpresa mia, poiché non aveva fatto se non ciò che il dovere e le
circostanze esigevano e che altri pure in Senato aveva fatto, dopo
breve dialogo partí. Seppi da essa il suo nome, ed essere moglie di un
viceprefetto, e che alloggiava in casa Serbelloni ai Servi, ma non mi
sovviene né il nome, né la viceprefettura; né piú la vidi, sebbene
fosse mia intenzione di farle una visita, che le mie successive
occupazioni non mi hanno poi permesso.

Le pubbliche voci, ciò che da varie persone mi fu detto del
malcontento generale, il fermento nella platea del gran teatro della
Scala, ove vi fu chi propose la sera di lasciare il teatro e portarsi
tumultuarii avanti al Senato, come già dissi, e varie altre
circostanze presagivano un generale turbamento; ond'io, sebbene
vivessi già da qualche tempo quasi privatamente attendendo alla mia
sempre incerta salute, e poco anzi frequentassi il Senato stesso,
deliberai portarmi dal conte Melzi Duca di Lodi, per informarlo del
pericolo in cui trovavasi la città e lo Stato. E sebbene già da molto
tempo fosse egli obbligato dalla gotta, che abitualmente lo
affliggeva, a dimorare in casa, era però il primo fra i Magistrati,
essendo Cancelliere Guardasigilli del Regno, rispettato dal Viceré, ed
in diretta corrispondenza con Napoleone; sicché, assente il Viceré,
doveva considerarsi la prima persona del Governo. Melzi era stato
vicepresidente della Repubblica Italiana, nella quale coi suoi
distinti talenti, colla grandezza del pensare, colla somma probità e
con idee liberali confermò quell'alta opinione che tutti i buoni
avevano di lui. Presiedeva il Consiglio dei ministri ed a lui era
affidata l'alta polizia nell'assenza del Principe. Mosso io pertanto
dal desiderio di liberare la mia patria dallo sconvolgimento, che
tutto presagiva, tutto a lui esposi; ma, per quanto dicessi, non mi
riuscí persuaderlo dell'imminente pericolo. Non lasciai di fargli
osservare aver egli sempre in me considerata certa tranquillità di
carattere e nessuna tendenza di troppo mobile immaginazione, onde pur
si persuadesse che non esagerate ma veritiere erano le circostanze
tutte ch'io gli riferiva, e che, malgrado l'indole mia né esagerata,
né timida, io non poteva se non considerare la città, il Senato, il
Governo in grave pericolo.

Ma o fosse che la lunga malattia di gotta avesse in lui diminuita la
forza delle intellettuali facoltà, o fosse egli male assistito dal
magistrato di Polizia, come poi seppi da lui stesso, o non conoscesse
l'opinione pubblica per il suo genere di vita affatto domestico, non
vedendo che pochissimi amici e parenti, furono inutili tutte le mie
parole. Fu questa la prima volta che egli non poté accostarsi alla mia
opinione, e non senza mia gran maraviglia, imperocché come prefetto e
consigliere di Stato ebbi sempre piú felice sorte. Quanto io gli
andavo dicendo colla maggior forza di ragionamento, tutto fu inutile a
porlo in diffidenza. Cosí sembra che il destino combinasse tutti gli
elementi al fatale sconvolgimento dello Stato, accecando anche le
menti de' piú illuminati e zelanti: di tale accecamento si scorgeranno
le prove in tutto ciò che sono per dire, giacché il tutto forma un
complesso di errori politici e governativi, altrettanto strano quanto
fatale.

Trascorsero cosí i giorni 18 e 19 aprile, nei quali le private società
non s'occuparono d'altro che di ragionare sulle circostanze
dell'Impero francese e del Regno d'Italia, e tutte si posero in moto
le passioni dirette da vari ed opposti interessi. Molti, come suole
accadere, speravano cangiando governo. La coscrizione militare spinta
agli estremi, il timore di perdere nelle persone impiegate, la
gravezza delle imposte, la lusinga di sorgere dalla dimenticanza nella
quale molti nobili si trovavano sotto il dominio di Napoleone,
l'attaccamento dei piú vecchi fra questi avversissimi ai Francesi e
che molto speravano dagli Austriaci, ponendo in moto gli animi li
agitava; e ciascuno agiva e si offriva pronto ad agire secondo le
particolari sue mire ed il proprio interesse. Ma il partito che sembra
avere in fatti influito allo sconvolgimento è quello dei vecchi
nobili. Questi, dei quali potrei nominare alcuni, a quanto pare
servendosi dell'autorità loro fondata sull'età e sulla nobiltà del
sangue, approfittando della facile mobilità di alcuni giovani e della
loro irritabile animosità, riscaldati gli animi hanno secondato o
fatto nascere espressamente il progetto di portarsi al Senato nella
prima seduta e di esprimere popolarmente il voto contrario al Governo
francese. Ma quando pur voglia supporsi che retta nei principî fosse
l'intenzione di un tale progetto, non era però fondata su principî di
prudenza né di saggia previdenza, coi quali sarebbesi dovuto
riflettere quanto facile cosa sia il porre in moto la plebe e quanto
poi difficile il reprimerla nei suoi eccessi. Giovani erano questi
primi motori e delle cose pubbliche inesperti, e forse furono essi
medesimi maravigliati di un esito cosí inaspettato e pericoloso. Né
sarebbesi da essi saputo frenare quel moto a cui diedero principio, né
evitare i terribili mali di un generale saccheggio, al quale essi
imprudentemente avevano aperta la strada.

Era la sera del giorno 19, quand'io secondo il consueto me ne stava in
casa colla società degli amici e parenti, allorché ricevetti la solita
lettera d'invito al Senato per il giorno seguente. Aveva il Senato due
sedute fisse in ciascun mese, cioè il 10 e il 20. Cosí anche in quelle
tumultuose circostanze il Presidente fece spedire l'invito come cosa
regolare e di pratica. E qui pure veggonsi i gravi errori politici e
amministrativi. Era notorio il fermento pubblico, era generale il
malcontento; nessuno ignorava che la sera del 17 nel teatro della
Scala fuvvi chi propose, come si è detto piú sopra, di andare
tumultuariamente al Senato per costringerlo a non secondare il
progetto favorevole al Principe Eugenio. La seduta del Senato era di
mera formalità per essere il 20 del mese, e non eravi alcun affare
interessante e nessuna forza che assicurasse la tranquillità della
seduta. Letta la lettera, tutti quelli della società, singolarmente in
vista della debole salute in cui mi trovava per la sofferta malattia
di petto, mi persuadevano a non espormi alla necessaria mutazione di
vestito ed al diverso ambiente delle stanze. Grato all'interesse degli
amici, fermo in me stesso d'intervenire alla seduta, risposi che mi
sarei determinato secondo mi ritrovassi di salute nella mattina
seguente.

Il giorno 20, mi vestii di costume, come si soleva, e postomi in
carrozza andai al Senato. Temendo però che passando per la corsía dei
Servi potessero dai caffè che vi sono essermi fatti quelli applausi,
che mi fu riferito non essermi stati fatti quando vi passai il giorno
18 per non essere stato conosciuto, volli che il cocchiere prendesse
la contrada di S. Vittore Quaranta Martiri, poi quella del Senato.
Giunto al ponte che sta a capo di essa, vidi alla porta del palazzo
del Senato un complotto di venti persone circa, e non piú, colle
ombrelle di seta perché pioveva. Fra quelle persone potei distinguere
un giovane nobile da me conosciuto, il quale allo spuntare della mia
carrozza fece un cenno e conobbi che indicò essere quella la carrozza
mia. Fatto il piccolo tratto che sta fra il ponte e la porta del
palazzo, udii grandi evviva, applausi e batter di mani a me diretti;
feci un profondo inchino, e rapidamente entrato sotto il portico e
sceso, continuando gli applausi, facendo inchini me ne andai
frettolosamente alla gran sala. Venivano in seguito di mano in mano
altre carrozze di senatori, e mentre lentamente io montava le scale,
udii urli e fischiate non prive di minacce, colle quali gli altri
senatori erano ricevuti ed accompagnati. Passati i due lunghi portici,
entrai nella prima stanza degli uscieri, e mentre pensava dirigermi
alla destra, ove solevano radunarsi gl'individui prima di porsi
nell'aula della seduta, mi fu indicato che i senatori erano nell'aula
suddetta. Come ciò accadesse io non lo so; ma forse quello schiamazzo,
sebbene di poche persone, aveva indotto i senatori a porsi subito
nell'aula della seduta, sia per ottenere il vantaggio di
rappresentanza pubblica del Corpo primario dello Stato, sia per
accelerare le discussioni e le provvidenze che potessero occorrere.

Entrato nell'aula, ritrovai non molti senatori avermi preceduto, e
fatti i consueti offici d'urbanità, vidi il Presidente che stava in
piedi innanzi ad alcuni senatori seduti: mi accostai e lo salutai.
Stavano gli altri separatamente parlando come nella società si
costuma, poiché non era incominciata la seduta per mancanza del numero
legale. Osservai che il Presidente discorreva con quelli ch'erano seco
su alcune carte che avevano in mano, e vedendo che il loro discorso
mostrava inquietudine, voltomi al Presidente, chiesi vedere le carte,
e data una rapida occhiata, vidi contenere una forte protesta contro
il Governo francese, e parmi vi fosse la domanda della convocazione
dei Collegi elettorali e del richiamo della Deputazione spedita a
Mantova. Osservai una grande quantità di firme d'individui delle piú
ragguardevoli famiglie e di persone distinte, coll'annotazione che
molte ed assai piú non erano state trascritte per mancanza di tempo.
Rivoltomi pertanto al Presidente, lo interpellai, se egli aveva
ricevute quelle firme, e gli dissi che a me facevano grande
impressione e che non sembravami cosa da prendersi leggermente, ma da
essere ponderata assai. Appena ebbi ciò detto, un araldo entrò e disse
che un aiutante del Comandante della piazza chiedeva di entrare.
Ammesso nella sala, disse che per ordine del Comandante avvertiva il
Senato che il popolo contornava il palazzo, che la folla cresceva e
che vi era pericolo. È veramente meritevole di molta considerazione
questo messaggio, senza che dal Comandante si accennasse provvedimento
alcuno da lui dato, né forza comandata in difesa del Corpo e della
pubblica sicurezza: cosí pure che ad alcuno dei senatori non si
presentasse l'idea, che pur doveva essere la prima a sorgere,
d'interpellare l'aiutante sulle provvidenze che fossero state date e
da potersi dare. Io rimprovero me stesso di tanta mancanza, e non
posso cessare dalla maraviglia come ciò non sia sovvenuto né a me, né
ad alcuno.

Mentre però la sorpresa sembrava aver colpito i senatori, sentendo che
il popolo era alla porta del palazzo e riflettendo agli applausi
fattimi, rivoltomi ai senatori dissi: «Se lo giudicate, mi presenterò
al popolo onde conoscere la cosa e procurare la calma». Avendo essi
aderito, uscii subito, e passati i lunghi portici, sceso dalla gran
scala, mi portai alla porta del palazzo. Osservai non esservi ivi di
guardia che sette od otto soldati, numero minore del consueto, e fu
mio primo consiglio l'ordinare al capo-posto che nessun soldato
facesse violenza. Pioveva; mi posi sul limitare esterno: ma quale fu
la mia sorpresa allo scorgere totalmente cangiata la qualità delle
persone ivi affollate. Eranvi al mio arrivo cittadini tutti per lo
meno di civile condizione, e tutti con ombrelle di seta; ma ora non si
ravvisavano che individui del piú basso popolo, nessuno fra essi di
mia conoscenza, nessuno che mi conoscesse. Chiesi cosa si bramasse, e
replicatamente dissi il mio nome; chiesi piú volte se vi fosse chi mi
conoscesse personalmente, pregai perché alcuno s'inoltrasse e parlasse
dichiarando quanto si chiedeva. Ma tutto fu inutile; nessuno proferí
parola, nessuno si mosse dal luogo: quella massa non grande di popolo
rimase muta, immobile, tranquilla, ma era composta di figure che non
presagivano alcun bene e sembravano fatte per il saccheggio e la
rapina. Dopo replicate inutili istanze, non movendosi alcuno, nessuno
parlando, credetti mio dovere di fare una breve esortazione, nella
quale, lodata la buona indole della popolazione e rammentata la savia
condotta tenuta dai miei concittadini nei tempi della generale
rivoluzione, assicurata quella gente sulla mia parola d'onore che il
Senato non aveva agito e non pensava che in conformità del pubblico
interesse, esortai alla calma ed a ritirarsi ciascuno a' proprii
offici domestici.

La tranquillità ed il silenzio conservato da quella parte di popolo
che si era presentato alla porta del palazzo, che non ascendeva forse
a sessanta persone, davano motivo di considerare quel piccolo tumulto
come cosa da poco e calmato dal breve discorso fattogli. Ritornai
pertanto al Senato; ma appena fui nella sala riferendo l'occorso,
alcuni degli uscieri ed impiegati entrarono sbigottiti annunziando che
il popolo s'ingrossava in modo minaccioso. Come ciò accadesse io non
saprei assicurarlo. Forse la naturale curiosità, per cui suole il
popolo accorrere ovunque si formi unione di gente, poté in poco tempo
accrescere la folla; o forse, come da alcuni si è asserito, molta
gente erasi anche radunata preventivamente dal partito dei giovani
nobili, che pel primo diede il moto, e la teneva collocata nel bosco
attiguo al palazzo. E sebbene dalla porta di questo all'aula del
Senato siavi qualche distanza per i lunghi portici dei due cortili, né
io potessi andare con passo molto celere perché convalescente, pure la
rapidità colla quale il popolo si era ingrossato può in certo modo
confermarne il sospetto.

Al nuovo annunzio nacque un momento di silenzio, ed io, vedendo che
nessuno parlava, dissi: «Se lo credete, o senatori, ritornerò, e mi
presenterò al popolo». Aderirono essi, ed i senatori Massari e Felici
si offrirono a venire con me. Scese le scale, ritrovammo essere il
popolo entrato nel primo portico inferiore. Felici e Massari,
mischiatisi colla moltitudine, la esortavano alla quiete,
assicurandola della retta intenzione del Senato, ed io con essi faceva
lo stesso. Eravamo vestiti da senatori, come solevasi allorquando si
sedeva in Senato. Mentre però con urbane e ragionevoli esortazioni
procuravamo, cosí frammischiati col popolo, persuaderlo alla quiete ed
a ritirarsi, io osservai che non piú eravi silenzio, quiete,
immobilità, come quando mi presentai solo, ma che il popolo
questionando si avanzava, dimenticato quel rispetto che avrebbe dovuto
mantenere alla presenza di tre magistrati in abito di costume e nel
palazzo medesimo del primario Corpo dello Stato. Questo diverso
contegno mi fece impressione ed ebbi un momento di dubbio sulla
sicurezza dei nostri individui e del rispetto dovuto alla dignità del
grado senatorio. Temetti, sebbene fossi stato applaudito all'ingresso,
poi rispettato parlando solo al popolo, che in quella tumultuosa folla
poco conosciuto potessi facilmente essere insultato, ché troppo
diverso dal primo era il contegno di questa seconda massa. Nella prima
l'immobilità ed il silenzio davano luogo a sperare certo rispetto;
nella seconda, superiore assai di numero, non piú silenzio, non piú
immobilità: si questionava continuamente, la moltitudine andava
inoltrandosi verso le scale, non mancavano schiamazzi, e tutto
presagiva non aversi rispetto alcuno né al luogo, né alle persone.

Eransi i due senatori, che meco discesero le scale, separati, e
ciascuno di essi parlava al popolo separatamente, esortandolo alla
quiete con adatti modi. Ma questa separazione nostra e il
frammischiarsi ciascuno separatamente colla massa ivi concorsa,
togliendo molto alla dignità della rappresentanza, dava sempre piú
animo ai tumultuanti; ond'io vedendo l'inutilità di quelle allocuzioni
e che il popolo disputando e piuttosto confusamente mormorando
s'inoltrava, credetti prudente cosa e necessaria rimontare le scale e
rientrare in Senato. Il mio dubbio era giustamente fondato su tutte
quelle poco felici speranze; infatti appena rientrai nell'aula,
incominciai a riferire quanto accadeva nel primo gran cortile, che
anche gli altri due senatori rientrarono. Trascorsi pochi momenti,
crescendo il tumulto, sbigottiti gli uscieri e gli altri impiegati,
alcuni bussando alla porta del Senato palpitanti, pallidi per lo
spavento chiesero di entrare, e con interrotte parole annunziarono che
il popolo s'ingrossava con manifesto pericolo. Fattosi un momento di
silenzio, come suole accadere nelle circostanze che portano seco il
sentimento della sorpresa ed esigono per la loro importanza
ponderazione e consiglio, io di nuovo mi offrii per arringare il
popolo. Riflettendo però all'occorso sopra narrato, dissi: «Senatori,
se cosí giudicate, io di nuovo mi proverò presentandomi alla
moltitudine, ma bramerei presentarmi solo». Acconsentirono essi, ed
io, per quanto le deboli forze me lo permettevano, presto uscii, e
passati i lunghi portici superiori scesi la grande scala, e giunto al
ripiano che dà all'ultima parte di essa che sta di faccia al lungo
portico, lo vidi tutto pieno di gente, che confusamente faceva
strepito. Era frattanto giunto al palazzo un corpo di Guardia
nazionale, con vari ufficiali di essa. Alcuni di questi mi si
avvicinarono dicendomi cose assai obbliganti, né mancò chi mi disse;
«Siate pur fermo e tranquillo, noi siamo disposti ad esporre la vita;
ma voi sarete salvo, ed in qualunque evento vi difenderemo». Io non
saprei esprimere quali sentimenti eccitassero in me cosí lusinghiere
espressioni, la condotta del popolo verso di me, la folla del tumulto
e le circostanze tutte che lo accompagnavano. Giunto pertanto al
ripiano superiore della prima salita, avendo di contro i lunghi
portici del cortile pieni di popolo irrequieto e tumultuante, io
rimasi sul ripiano, poi discesi circa alla metà della prima gradinata.
Dissi qualche parola, ma lo strepito confuso degli insorti e la
debolezza della mia voce rendevano inutile qualunque esperimento.
Alcune guardie nazionali eransi poste in ordine lungo il primo gradino
al piano del portico: qualche uffiziale ed alcuni impiegati del Senato
eran meco sulla scala. Essendo inutile per lo strepito il parlare,
levatomi di tasca un fazzoletto bianco lo mostrai al popolo, tentando
cosí con questo segno di pace e con volto ilare d'indurlo ad
ascoltarmi. Ma ciò non ottenni se non dopo qualche tempo, imperocché
alcuni indiscreti, probabilmente bramosi di tumulto onde approfittarne
saccheggiando, non desistevano dagli urli e dallo schiamazzo; ed altri
gridando silenzio, e non subito secondati, accrescevano lo strepito,
che fu grande. Finalmente fattosi silenzio, io parlai, e chiesi qual
fosse lo scopo di tanto movimento. Dopo un variare di voci di
bisbiglio, tentando io di poter essere ascoltato e non riuscendomi,
debole d'altronde di voce per fisica indisposizione, chiesi che alcuno
di petto mi avvicinasse, onde portare la parola e dare campo alla
persuasione. Il conte Confalonieri, giovane di bel carattere e di
talento, mi si avvicinò, e cosí procurato di nuovo il silenzio, si
chiese al popolo che dicesse qual fosse il motivo che lo moveva e
quale l'intenzione, cosa chiedesse, mentre nello strepito confuso
nulla potevasi comprendere. Frattanto io procurava, coi gesti e
coll'ilarità del volto, di rendere la calma a quella furibonda massa;
finalmente vi fu chi ad alta voce disse volersi sapere cosa aveva
decretato il Senato il giorno 17, nel quale si ordinò una Deputazione
di alcuni senatori. A questa domanda successe un pieno silenzio,
talché io stesso risposi ne' seguenti precisi termini e fui inteso:
«Due buone cose ha il Senato decretato, per le quali ha nominata una
Deputazione alle Alte Potenze alleate: primo per chiedere non un
semplice armistizio, ma una piena cessazione di ostilità.» E qui
applausi del popolo; e poi soggiunsi: «Secondo, che sia conservata
l'indipendenza dello Stato, con un re indipendente che sia aggradito
dalla nazione». Anche a questa seconda parte il popolo applaudi. Aveva
il Senato, come si è sopra narrato, aggiunto in quel suo decreto un
complimento sulla persona del Principe Eugenio Viceré; ma di questo io
non feci parola: il solo accennarlo sarebbe stata imprudenza
produttrice di maggior disordine. Calmossi il popolo dopo il riscontro
da me dato, e dava segni di quiete, di tal modo che sembrava
sciogliersi la turba tranquillamente ragionando sulla rettitudine
dell'operato.

Io pertanto, seguito da alcuni impiegati del Senato resi piú calmi e
dimesso il timore dal quale erano prima fortemente agitati,
discorrendo con essi e con alcuni uffiziali della Guardia nazionale,
rimontate le scale e passati i lunghi portici, andai all'aula delle
sedute per riferire quant'era accaduto. In questo frattempo convien
dire che alcuno dei piú turbolenti spargesse la voce doversi chiedere
al Senato la revoca del decreto che aveva ordinata la Deputazione.
Sapevasi che questa era partita dirigendosi a Mantova, ove il Principe
Viceré aveva il quartiere generale, e ciò affine di avere i necessari
passaporti per andare al quartier generale nemico. Ma tanto era il
sospetto sparso nel popolo che in modo indiretto si pensasse a porre
sul trono il Principe, che rapidamente il popolo passò dalla calma ad
assai maggiore tumulto, e dove fino a quell'istante era rimasto nei
cortili e ne' portici inferiori, scagliossi con impeto, superando la
Guardia nazionale che stava sul limitare della scala, e montato ne'
portici superiori, tumultuariamente mormorava doversi assolutamente
annullare il decreto che aveva ordinata la Deputazione, tanta era la
diffidenza di alcuni capi e la divulgazione sul pericolo di avere un
francese in sovrano. Infatti, appena io fui giunto alla porta del
Senato, alcuni uffiziali della Guardia nazionale ansanti, sudati e
timorosi corsero a me, e mi dissero: «Senatore, noi non possiamo piú
contenere l'impeto della moltitudine; bisogna por rimedio tostamente,
o non si potrà piú contenere». Fattasi da me quella breve riflessione
che le circostanze permettevano, vedendo i capi della Guardia
nazionale sbigottiti ed oppressi, gli impiegati pallidi ed ansanti,
udito il fermento del popolo poco discosto dal luogo, giudicai non
essere piú tempo a deliberare. Entrato pertanto frettolosamente in
Senato: «Senatori, dissi, non avete che pochi minuti alla salvezza:
decretate tosto il richiamo della Deputazione o siete perduti».

Fattosi un momento di silenzio, né alcuno aprendo bocca, m'inoltrai
alla gran tavola del Presidente e vivamente replicai, non esservi
tempo da perdere. Rimaneva il Presidente ambiguo, e siccome io, parte
per stanchezza, parte per la naturale emozione, non mi ritrovava colla
mano abbastanza ferma per iscrivere con celerità, lo che già da
qualche anno mi accade, «Almeno, dissi, venga qui e scriva il decreto
di richiamo,» e con vari modi andavo instando «scrivete, scrivete». Il
vecchio Presidente rimaneva immobile ed irresoluto, i due Segretari
tacevano. Mossi pertanto alcuni senatori dalle mie parole e dalla
fermezza colla quale io instava, persuasi della necessità di secondare
il mio consiglio, levatisi dal loro posto e portatisi alla tavola del
Presidente, presero la penna e scrissero il decreto di revoca. Io non
saprei indicare chi fossero, e chi primo lo stendesse; ma appena uno
fu scritto, che io preso il foglio lo presentai al Presidente. Egli,
incerto, sembrava rifiutarsi alla firma, ma io replicai: «Presidente,
firmate, non vi è tempo a deliberare, firmate se vi preme la salvezza
vostra e del Corpo tutto». La ferma e decisa mia istanza, l'essersi
alcuni membri portati al burò presidenziale per stendere il decreto e
la generale agitazione lo determinarono a porvi la firma.

Aveva io preveduto la necessità di molte copie del decreto stesso,
onde spargerle fra l'insorta moltitudine; quindi dissi ai senatori,
ch'erano venuti al burò, di fare delle copie, e ciò pure fu subito
fatto. Pochi minuti furono impiegati per le mie istanze alla firma del
decreto ed a farne delle copie, tutto essendosi rapidamente eseguito,
come le pressanti circostanze richiedevano. Data pertanto la prima
carta, non so bene se ad un ufficiale della Guardia nazionale o a
qualche commesso del Senato, questi la presentò agli insorgenti. Tale
era il tumulto e tanta l'agitazione degli animi che in Senato erano
entrati alcuni della Guardia e degli impiegati, né piú si conosceva
l'ordine delle sedute.

Io non uscii primo a presentare al popolo il decreto, preferendo
rimanere sino a che varie copie fossero fatte. Erano concepite in
brevi termini per il richiamo della Deputazione e furono in pochi
momenti copiate da quei senatori che eransi presentati per stenderlo.
Presa pertanto una copia, mi presentai tosto al popolo tenendo la
carta colla mano alzata, onde tutti potessero vederla. Ed in vero se
non fosse stato pronto il rimedio al male, il popolo, entrato in
Senato, non avrebbe certamente rispettate le persone. E sebbene
fossero in maggior pericolo quei senatori che furono colle voci e
colle minacce insultati al loro primo ingresso, perché considerati
noncuranti dell'opinione pubblica, pure nel tumulto delle offese
nessuno poteva lusingarsi di rimanere salvo. L'uniformità dell'abito e
la natura degli uomini tumultuanti, parte non milanesi e nel maggior
numero della bassa plebe, avrebbe prodotta una generale confusione, né
sarebbero stati distinti e rispettati quelli che pur godevano della
pubblica opinione. Il minore dei mali sarebbe stato lo spoglio de'
ricchi abiti senatorii e di tutto ciò che ornasse ed arricchisse la
persona. E ne sia prova quanto avvenne in seguito come narrerò. Il
presentare alla massa tumultuante le carte col decreto distribuendole
fra essa ed il fermarla nel luogo ove erasi inoltrata, cioè presso la
stanza anteriore a quella delle sedute, fu un solo momento. Nemmeno
piú s'inoltrò: calmossi il tumultuoso grido, e passando dall'uno
all'altro la lettura del decreto, rimase la turba occupata e non
minacciosa. In questo frattempo uscirono i senatori dall'aula, e
cautamente sfilarono fra la moltitudine per i portici lungo il muro,
onde, scese le scale, uscire dal palazzo.

Io rimaneva nel luogo dove aveva mostrato al popolo il decreto, e mi
ritrovai al fianco due o tre delle guardie nazionali, fra i quali
certo Radaelli fornaio, ed il popolo mi circondava cosí foltamente che
appena potevo muovermi. Io esortava con maniere dolci e tranquille
alla quiete, quando un uomo di alta statura, il cui aspetto dimostrava
non essere milanese ma probabilmente abitatore di qualche luogo del
Lago Maggiore, mi si affacciò e disse: «Va bene, ma ora vogliamo
Prina». Era il conte senatore Prina ministro della finanza ed in odio
alla popolazione, che lo diceva duro nelle sue maniere e troppo
zelante nello smungere i privati, onde impinguare il tesoro sempre
bisognoso di denaro. Risposi a quella proposizione: «Prina non c'è».
Ma quegli, «Evvi, disse, ed io l'ho veduto entrare nel palazzo pel
primo». Replicai che Prina non vi era; insistette quelli, ed io
soggiunsi: «Come! voi tutti avete tanta bontà e fede in me, poi mi
credete capace di mentire? Io vi replico che Prina non c'è e che non è
intervenuto».

Aveva il Presidente Veneri nel suo equipaggio qualche cosa di
somigliante a quello del senatore ministro Prina, e, da quanto mi fu
detto in seguito, la servitú del Presidente, quando il popolo entrò
nel cortile, creduta essere quella del conte Prina, fu ingiuriata e
maltrattata. Terminato quel breve dialogo fra me e l'incognito, vidi
al mio lato destro il conte senatore Thiene, il quale, essendo gottoso
ed essendo stato vivamente ingiuriato quando entrò nella porta del
palazzo, lentamente si avviava e non senza timore. A tale vista io mi
levai dalla moltitudine, che mi circondava, e, presolo sotto braccio,
gli dissi: «Venite con me, ed andremo sicuri». Passai seco i portici e
lentamente scesi le scale fra mezzo alla folla del popolo, il quale
rimase tranquillo, e solo udivasi un moderato bisbiglio, quale suole
formarsi ove molti se ne stanno discorrendo di qualche fatto. Scese le
scale, fortunatamente la mia carrozza s'inoltrò alla porta grande; ma
quale non fu la mia maraviglia all'atto di farvi montare il conte
Thiene e di entrarvi io stesso, veggendo in essa, sebbene non fosse
che di quelle dette _bastardelle_, fatta per due o tre persone, tre
senatori ivi rifugiatisi. Erano questi i conti Carlotti, Condulmer e
Massari. Rimase in sospeso a tal visto il conte Thiene, e non senza
timore; ma io presolo sotto braccio ed aiutandolo: «Salite, dissi, che
in qualche modo ci entreremo tutti due». Montammo infatti, adagiandoci
come potemmo; uscí dal palazzo la carrozza, ed il popolo gridando
«Bravo Verri, evviva Verri» seguiva la carrozza correndo. A questa
vista mi venne primieramente in pensiero di andare alla casa paterna
situata dirimpetto al Monte Napoleone, e però vicina; cosí ordinai al
cocchiere, lusingato che, quando fossi in detta casa, il popolo si
sarebbe ritirato. Accortomi però subito della falsità di questo
consiglio e del pericolo che anzi il popolo entrasse in casa
disturbando la domestica tranquillità, mi appigliai a piú savio
suggerimento, ed ordinai al cocchiere di andare alla mia abitazione
posta in casa Cavenago nella contrada de' Cavenaghi, prendendo la via
del Fòro, ed accelerando la corsa entrare nella porta che appunto
guarda il Fòro. Cosí fu eseguito, e stancandosi il popolo per
l'accelerato corso e per la piú lunga strada, entrai in casa non piú
seguitato da alcuno. I senatori, che meco erano, mostravansi
sbigottiti assai, ed il conte Carlotti, uomo verboso secondo il
costume de' Veneti, ed al cui aspetto ministeriale e personale
compostezza nel dire poco corrispondeva la precisione delle idee e la
saviezza del consiglio: «Io non so, disse, come mai accada tanto
tumulto,» soggiungendo alcune altre parole in dimostrazione della sua
maraviglia per ciò che accadeva. Alla quale proposizione io non potei
trattenermi, ben conoscendo il soggetto per adulatore, ed illimitato,
di chiunque abbia autorità, ed essendo stato informato delle pratiche
da lui tenute preventivamente alla seduta del Senato del giorno 17,
nella quale fu proposto con tanta irregolarità quel fatale decreto.
Era egli fra' pochi Senatori col conte Paradisi di piena intelligenza;
aveva scritto un viglietto al conte senatore Luigi Castiglioni, mio
nipote, per interessarlo a secondare quello strano progetto di
decreto, con tanta oscura irregolarità proposto al Senato. Gli dissi
pertanto, non senza molta emozione: «Voi dovete tacere, giacché è noto
quanto preventivamente avete fatto, dando mano ad un piano insensato
col quale volevasi dal Senato ciò che in nessun modo era ammissibile,
proposto in que' termini e tutte nascondendo le circostanze. A questa
malaugurata condotta di alcuni pochi debbesi attribuire tutto il
disordine». Fu questo mio rimprovero esposto con qualche vivacità, che
le circostanze naturalmente eccitavano; ed egli tacque. Giunti in
casa, spedirono i senatori, che meco erano, per avere gli abiti di
semplici cittadini, i quali giunti, se gl'indossarono e partirono. La
servitú di mia casa mi disse che essi erano tremanti e pallidi; io non
li vidi in quel frattempo, essendomi io pure ritirato per spogliarmi e
vestire il _frac_, e portarmi subito dal Gran Cancelliere Melzi.

Era egli sdraiato su di una _duchesse_, incomodato fortemente dalla
gotta. Siccome il messaggio al Senato, come dissi, era stato spedito
da lui, né il pubblico lo ignorava; cosí egli era esposto alla
popolare insurrezione e in grave pericolo. Narratogli pertanto quanto
era occorso, egli mostrò qualche disapprovazione sul mio operato,
quasi troppo avessi secondata l'indiscreta domanda popolare.
Insistendo però io sulla totale mancanza di forza, sulla violenza del
popolare fermento e delle palesi minacce, rimaneva egli silenzioso e
probabilmente non persuaso. Io però non desistetti, e piú instai molto
sul pericolo suo personale, persuadendolo a farsi trasportare altrove;
al che egli non volle aderire. E qui non è fuori di proposito
rammentare ciò che fu in seguito costantemente detto; cioè che il
popolo, partendo dal palazzo del Senato, si rivolgeva verso Porta
Nuova, dov'era la casa del Gran Cancelliere Melzi, e che il conte F.
Confalonieri, ciò vedendo e ritrovandosi nella folla, gridasse meglio
essere dirigersi verso San Fedele, ché ivi era la casa del ministro
Prina. Dicesi che a questo detto il popolo, cangiata direzione, si
rivolgesse verso San Fedele.

Ma prima di continuare non debbo tacere, ritornando a quanto concerne
il Senato, che, partiti i senatori, il popolo entrò tumultuariamente
nella sala del Corpo, nella segreteria e nelle altre stanze, tutto
guastando, insultando il ritratto di Napoleone, stracciando e
trasportando le carte e tutto distruggendo il mobiliare e le finestre
e quanto vi si trovava.

Ripiglio ora l'avvenuto presso il Duca di Lodi, Melzi. Mentre io seco
dialogava, inutilmente procurando persuaderlo sulla vera natura delle
circostanze, furono annunciati due o tre senatori, che, se la memoria
di quei tumultuosi e rapidi eventi non mi inganna, erano il conte
Cavriani ed il conte Veneri Presidente. Questi, riferendo l'occorso,
ed io con essi secondando, tanto dissimo che il Duca di Lodi
incominciò a persuadersi essere le cose spinte a tal punto che
sommamente interessavano l'attenzione di qualunque non fosse affatto
privo di senno. Fra le molte cose parlarono essi del pericolo nel
quale era il senatore Prina: il che era confermato da quanto io in
proposito aveva di già detto, sulla domanda che di lui erami stata
fatta con quelle energiche parole dettemi al Senato: «Va bene, ma noi
ora vogliamo Prina». Mosso pertanto il Duca Melzi da quanto udiva,
disse che bisognava scrivere subito a Prina un biglietto per avvisarlo
di porsi in salvo. Cosí, ma troppo tardi, perché tale era il fatale
destino del Regno, quell'ottimo e perspicace uomo incominciò a
persuadersi essere la cosa pubblica in grave pericolo. Che se egli mi
avesse prestata fede dopo la convocazione del Senato del giorno 17,
non avrebbe permessa la seconda del 20 ed avrebbe provveduto alla
pubblica sicurezza. Si pensò subito a prevenire il ministro Prina; ma
troppo tardi, come si vedrà in seguito.

Partito che fui dal Duca di Lodi e giunto alla mia casa, ritrovai un
commesso del giudice di pace Banfi, che mi disse essere quel giudice
premuroso di parlarmi e che a momenti sarebbe giunto. Mi trattenni
pertanto nel portico senza montare le scale e pochi momenti dopo venne
il giudice. Dissemi aver bisogno di me, ed instò perché mi portassi
seco alla casa del ministro Prina, ove il popolo si affollava
minaccioso. Credeva egli essere questo il solo e piú prudente partito
per sedare il tumulto, ragionando su ciò che al Senato era accaduto e
supponendo che il popolo non si sarebbe inoltrato di piú quand'io mi
fossi presentato. Ma non trovandomi io piú in abito di senatore, ma
vestito nel modo consueto e comune, non credetti dovermi esporre con
troppa facilità. Instando però egli e dicendo non esservi che io nel
quale fondar si potesse la speranza di calma, risposi: «In Senato,
appartenendo al Corpo, ho fatto quanto esigeva il dovere di buon
cittadino e di zelante magistrato; ma l'inoltrarsi nella folla del
popolo in abito comune, poco conosciuto di persona per il genere di
vita già da vari anni impostomi dalla sempre debole salute, sarebbe
imprudente cosa ed inutile. Pure, disposto a tutto ciò che in qualche
modo possa contribuire a togliere i disordini, ella si compiaccia di
andare alla casa del Comune qui vicina, e ritorni con due ufficiali
della Guardia nazionale, i quali possano ad alta voce dire chi io sia,
e tosto verrò». Partí il Banfi pronto a seguire il mio consiglio; poi
credette inoltre andare egli stesso al luogo del tumulto, che ritrovò
giunto a tal segno da togliere ogni speranza.

Aveva il popolo furiosamente invasa la casa del Ministro ed i piú
facinorosi e feroci suoi nemici tanto fecero che lo ritrovarono
nascosto e con obbrobrioso vilipendio strascinaronlo per la strada
percuotendolo ed ingiuriandolo. Nessuna forza pubblica si oppose a
quei forsennati, che pochi soldati a cavallo avrebbero fugati e
dispersi. In questo tumultuoso movimento, non so bene in qual modo
accadesse, il Ministro fu ricoverato nella bottega o casa di un
pizzicagnolo, situata sull'angolo della contrada detta alle Case
Rotte, di contro al Gran Teatro e poco discosta dalla casa del
Ministro. Ivi si portò il generale conte Pino, il quale, stanco,
ansante e malamente sostenendosi della persona avrebbe voluto poter
salvarlo, esortando alla calma il popolo; ma quel suo qualunque
tentativo fu del tutto inutile. Il popolo frattanto minacciava
d'incendiare la casa e tale fu l'impeto e la decisione delle minacce
che l'infelice Prina fu abbandonato al popolare furore, dal quale ebbe
a soffrire insulti crudeli e percosse di ogni genere. Chiedeva egli
pietà, ma sordi erano quelli arrabbiati sicari; chiese pur anche di un
confessore, e credo gli fosse concesso; poi cadde vittima dei
replicati colpi di bastone, de' pugni e de' colpi delle ombrelle. Fu
il suo cadavere strascinato per le pubbliche strade con torce accese
ed oltraggiato, poi dalla Guardia nazionale ricoverato nella casa
della città detta il Broletto. La celerità e la violenza di quanto
seguí in questa orrenda scena sono degne di maraviglia. In brevissimo
tempo tutta la sua casa non solo fu saccheggiata e spogliata dei
mobili, ma tutta guasta ed in parte distrutta. Le tegole, le ferrate,
i sassi che ornavano le finestre non poterono rimanere immuni dalla
popolare rabbia e sfrenata rapacità; ed in poco tempo era l'aspetto di
quella casa non diverso da quello di una distrutta da forte incendio o
da violento terremoto, anzi piú, perché rimasero le finestre spogliate
delle ferrate e de' sassi che le ornavano.

Vuole la fama che i principali attori di questo memorando e infelice
evento non fossero cittadini milanesi, ma gente del Lago Maggiore,
regione nella quale l'infelice Ministro avea molta corrispondenza. E
serva questa popolare malvagità a dimostrare qual via di mezzo debbasi
seguire dai grandi magistrati, allorché il popolo gli si rende
avverso; imperocché, se la viltà d'animo nell'adempire ai doveri della
carica è biasimevole e degna di sommo rimprovero, non lo è meno, né
meno pericoloso, il troppo disprezzare la pubblica opinione. Non
ignorava il Ministro ciò che di lui si dicesse e si opinasse, ma egli
imprudentemente dispregiando il pubblico clamore andava per la città a
cavallo, come se nulla vi fosse a temere, onde molti ciò riguardavano
quale ingiurioso insulto. E tanto piú perché era noto, e molti ne
parlavano ne' pubblici caffè, essere egli stato da alcuni giovani
minacciato in queste sue cavalcate. Narrossi che alcuni di questi,
seguendolo da vicino e mostrando discorrere fra loro, si esprimessero
in termini ben chiari e con voce spiegata, essere ormai giunto il
tempo di disfarsi dei cattivi ministri, privandoli di vita. Ma
l'avverso destino, che tutto combinava alla distruzione del Regno ed
alla ruina della capitale, volle anche offendere questa nella fama.
Imperocché mentre la popolazione milanese erasi sempre meritata e
goduta l'opinione di saviezza e di bontà, fu essa deturpata da quella
feroce tragedia, alla quale troppo imprudentemente si espose
quell'infelice, e col suo contegno in pubblico e coll'essersi
rifiutato in quello stesso giorno alla fuga apparecchiatagli da' suoi
benevoli, che inutilmente lo esortavano pochi istanti prima
dell'accaduto a fuggire con una vettura che già avevano pronta.

Grande era il fermento nella città; ed il popolo tumultuante, colla
plebe avida di tumulto e di saccheggio, minacciava grandi disastri.
Unissi pertanto presso il podestà, che era il conte Antonio Durini, il
Consiglio municipale, il quale determinò doversi fare un Governo
provvisorio e doversi invitare l'unione de' Collegi elettorali, i
quali pensassero a richiamare la calma con piena autorità. Questo era
il solo mezzo che rimanesse, piú non v'essendo chi rappresentasse il
Governo. Il Principe Viceré era a Mantova coll'armata; il Ministro
dell'Interno, partito per quella città quando intese ciò che accadeva
intorno alla casa del Ministro Prina; nessuna forza militare che
bastasse all'intento; il Senato, dopo ciò che era seguíto e dopo il
sacco della sua residenza, nulla poteva, e non sarebbe stato
opportuno. Sette onesti cittadini furono pertanto nominati dal
Consiglio comunale per formare una Reggenza di Governo composta di
persone che o per qualità di nascita o per esperienza negli affari
avessero favorevole la pubblica opinione ed accetti al pubblico.
Furono questi il conte Giberto Borromeo, conte Alberto Litta, conte
Giulini figlio, Bazzetta consigliere, conte Mellerio, conte generale
Pino, ed io con essi.

La sera di quello stesso giorno io ricevetti la lettera di nomina,
coll'invito di portarmi la seguente mattina al palazzo di città, onde
concertarci su quanto occorresse fare. Frattanto, minacciando il
popolo, con non equivoci schiamazzi e con il frequente mormorare de'
crocchi, di tutta porre in sconvolgimento la città, saccheggiando la
pubblica Dogana, la Zecca ed alcune case de' ricchi designate a scopo
dell'odio, della vendetta e del saccheggio; i possidenti, i negozianti
e tutte le oneste persone si armarono in Guardia nazionale, che fu in
breve tempo, sotto il comando di Don Annibale Visconti, capo di essa,
ridotta a ragguardevole numero e distribuita ove il bisogno lo
richiedeva. E lo stesso Duca di Lodi, che troppo avea neglette e
disprezzate le turbolenti circostanze, mosso finalmente dal timore, mi
scrisse un biglietto acciò si pensasse alla sua difesa. Infatti,
abitando egli vicino alla Zecca, fu ivi spedito un corpo di Guardia
nazionale, che entrambi difendesse da qualunque attentato.

La mattina seguente, cioè il 21 aprile, mi portai al palazzo di città,
ove eravi il conte Durini podestà, il conte Gian Luca della Somaglia
presidente del Consiglio comunale, vari consiglieri, e dove si unirono
i sette invitati a formare la Reggenza. Varie cose confusamente si
trattarono; ed in quanto al luogo dove porre si dovesse la residenza
dell'interinale Governo, io opinava risiedere nel palazzo stesso della
città, sembrandomi inconveniente la sede del palazzo di Corte, sebbene
ivi sempre, nella varietà dei governi, risieduta fosse la pubblica
governativa rappresentanza. Sembravami anche, in vista di vedere
nominati al Governo sette nobili, prudente cosa e atta a cattivare la
popolare opinione, l'astenersi da tutto ciò che potesse dar motivo
d'invidia e di mormorazione. Ma quel fabbricato non offriva
l'opportunità del sito. Fu dunque all'istante determinato che ci
portassimo al palazzo reale, ma che, rispettando gli appartamenti
reali, ci ponessimo ove solevano unirsi i Consigli legislativi e degli
elettori. Tale fu il mio parere, che fu adottato. Trattavasi del modo
col quale il nuovo Governo dovesse passare dal palazzo di città alla
fissata residenza; e fu stabilito che, per illuminare il pubblico
sulla presa determinazione e per procurare la calma con apparenza
pubblica, dovessero i componenti la Reggenza andare a piedi con alcune
guardie nazionali e con vari ufficiali di essa, i quali ad alta voce
nominassero le persone nostre, esortando alla quiete ed alla fiducia
nella saviezza e nella probità degli individui nominati. Partita
quindi la Reggenza in questo modo dal palazzo di città, si avviò al
luogo stabilito, alto gridandosi dagli ufficiali nazionali i nomi
degli eletti ed esortando il popolo alla fiducia in essi. Era il
cammino per la quantità degli uomini affollatissimo ed i balconi pieni
di gente, come suole accadere nelle pubbliche feste. Giunti alla
residenza e dovendosi fra noi eleggere un presidente, vollero i miei
compagni ch'io ne avessi l'onore, né mi giovarono i motivi da me
addotti, e singolarmente la poca mia salute, per disimpegnarmi.

Giunti però in quell'abitazione, ben si conobbe che non offriva i
necessari comodi per la rapida spedizione degli ordini, né per le
udienze delle persone le quali accorrevano alla Reggenza per la
moltiplicità delle cose. In questo frattempo il conte Fenaroli,
maggiordomo maggiore del Regno, il quale dimorava nel palazzo, fece
istanza perché la Reggenza si portasse a risiedervi, come quello che
offriva le opportune comodità alle circostanze; e ciò fu eseguito,
perché in realtà non era possibile il fare altrimenti. Giunti al
palazzo, io feci quanto si richiedeva per stabilire i burò, ponendo un
ben disposto protocollo, scegliendo le persone adattate agli uffizi.

Erasi finalmente pubblicato l'invito per l'unione dei Collegi
elettorali; e la Reggenza diresse i suoi primi pensieri a porre in
molta forza la Guardia nazionale per contenere le minacce dei
malevoli, i quali nel giorno 21 singolarmente, che era il primo,
davano non dubbi segni di grande sommossa con minacce di private
vendette e di generale saccheggio. Fu la Guardia nazionale fortemente
armata e divisa in vari corpi, ove piú vi fosse a temere, ed in forti
pattuglie, che di giorno e notte proteggessero la pubblica e la
privata sicurezza. Ma voleva la prudenza che la forza stessa fosse
cosí regolata che non irritasse la plebe. Si dovette pertanto non
armare i fucili colla baionetta e combinare la forza con modi urbani,
cosí richiedendo l'indole della nazione. E fu per ciò che invece di
chiudere le porte della città, come fu proposto, dal che proveniva la
mancanza delle provvigioni e molti altri inconvenienti, si posero alle
porte persone savie, le quali, osservando chi voleva entrare, con bei
modi li rimandassero, non permettendo l'ingresso se non a quelli che
si vedessero avviati per qualche motivo di condotte o di affari,
rifiutando l'ingresso agli oziosi o sospetti. Ottennero questi savi
provvedimenti il bramato effetto, e mentre grandi erano le minacce
nell'interno della città ed il romore rapidamente divulgatosi nella
campagna aveva spinti molti abitanti di essa ad accorrere in città, fu
col suddetto modo impedito il concorso. Né in quello mancava chi ad
alta voce gridasse, chiamando quale era il luogo, quale il sito ove si
saccheggiasse, spinti dall'avidità di rapina. Arrestaronsi in quel
giorno, e molto piú nella successiva notte, vari popolani presso i
quali furono ritrovati note, stili ed armi insidiose, tenaglie,
martelli ed altri istromenti atti a rompere i ripari e perfino
soghetti per strozzare alcune vittime del partito. Non mancò qualche
minaccia contro la Reggenza medesima, la quale, sebbene fosse ordinata
secondo l'opinione pubblica, pure non poteva essere di aggradimento a
chi poneva le proprie speranze nel disordine generale. Infatti essa
dové far porre alcuni cannoni nel primo cortile, che furono poi
ritirati tosto che al fermento successe la calma. Quelle tumultuose
circostanze mi spingono ad una riflessione, che mi sembra
interessante, intorno al sistema di polizia politica usata comunemente
in questa nostra città dai sovrani. Scopo di essa è la pubblica
sicurezza; ma in fatti ognuno sa a che si riduce la polizia affidata
nella esecuzione pratica a persone di pessimo carattere, le quali
vivono di spionaggio e tradimento. È facile la corruzione loro a chi
tentasse contro la pubblica sicurezza, sempre che sia promossa con
mezzi opportuni. Nessuno che tenti qualche azione grande si fida di
persone, che in qualche modo diano sospetto di appartenere a quel
magistrato. È per ciò che le congiure sono generalmente scoperte non
già da esso, ma dal tradimento di qualcuno dei congiurati. Ma perché
l'ufficio di quelli impiegati si renda in qualche modo interessante,
essi per interesse proprio, ora riferendo alcune particolari
circostanze, ora esagerandole, ora male interpretando una parola, un
discorso, un gesto, gettano i semi della discordia fra il Governo e i
governati e tutta corrompono la civile società, sostituendo alla
socievole fiducia la generale diffidenza. Io la penso cosí, confermato
in questa mia opinione anche da quanto ho praticamente veduto, essendo
a capo del Governo in quelle pericolose e turbolenti circostanze. In
esse siccome infatti trattavasi della pubblica e della privata
sicurezza, cosí gli onesti cittadini, e non le vili spie della
polizia, accorrevano avvisando ed illuminando la Reggenza, come in
particolare, dei pericoli privati e pubblici che insorgevano, e cosí
potevasi da quel Governo provvisorio opporre al male un pronto
rimedio; come accade nelle calamità pubbliche d'incendio o
d'inondazione, ove tutti i buoni accorrono ed offrono l'opera loro. Ma
quei mercenari infami, poveri e bisognosi per vizio, privi di morale e
perduti nell'opinione pubblica, sono i primari stromenti sui quali si
aggira e si fonda la cosidetta polizia: indifferenti al pubblico bene,
altro non pensano che a rendersi interessanti, secondando quelle
massime che a loro sembrano dominare negli animi dei loro principali;
e siccome questi inclinano alla diffidenza del pubblico, essi la
fomentano con mille alterati rapporti e sospetti, nulla curandosi
dell'interesse sociale, né avendo l'ingegno che si richiede per
conoscerlo e tutelarlo. Infatti se molte notizie utili e vere furono
in quei calamitosi giorni date da cittadini onestissimi, nessuna me ne
pervenne dalla polizia; e sebbene questa facesse rapporti giornalieri
ed altri ne facesse la gendarmeria, erano cosí lenti e tardi che posso
asserire sull'onor mio che neppur uno mi è giunto prima che non fosse
di già il tutto noto e non vi fosse posto riparo, se la natura della
cosa lo esigeva. Né ciò è accaduto a me solo, ma anche al Duca di
Lodi, prima che la rivoluzione scoppiasse, mentre avendolo io
interpellato come si fosse permessa la riunione del Senato il giorno
20 in quelle pericolose circostanze, unione poi anche superflua per la
mancanza del motivo, e mentre tutta la città conosceva il fermento e
la minaccia di molti, egli mi assicurò che nulla mai la polizia gli
aveva riferito. E tanta era la persuasione sua in quel tempo che a me
non volle prestar fede intorno al pericolo di sommossa, allorquando
gli parlai dopo la seduta del Senato del giorno 17, e si dichiarò
pronto a provarmi, co' rapporti fatti dalla polizia, la verità
dell'asserzione che nulla gli fu partecipato. Era in quell'epoca
Direttore generale, e quasi Ministro di polizia, il conte consigliere
Giacomo Luini, persona di talenti e di maniere non comuni; né io
posso, senza grande maraviglia, riflettere al silenzio che il Duca di
Lodi mi assicurò essersi seco conservato dal Luini. Era Luini
affezionato anche per riconoscenza al Duca e per interesse proprio
doveva essere opposto alla rivoluzione che si tentava, come quegli che
dal Viceré era distinto e considerato. Non ignorava al certo il
sussurro generale, né il complotto da eccitarsi al Senato; doveva
temere il Governo austriaco, che nei tredici mesi lo confinò a Cattaro
incatenato. Melzi, d'altronde, era incapace di mentire con me, né cosí
poco saggio da trascurare le notizie che gli fossero state date. In
questo singolare conflitto d'idee ed incertezza di opinione, io non so
cosa pensare, e solo ho in animo di parlarne liberamente al conte
Luini, instando su ciascun punto di dubbio, per intendere da lui quale
soluzione possa dare a questo strano mistero.

Ma ripigliando il discorso su quelle civili turbolenze, dico che
mentre dalla Reggenza davansi tutti que' provvedimenti, che le
circostanze offrivano, per impedire i maggiori disordini, unironsi i
Collegi elettorali. Ma nacque dubbio, se alla loro unione si dovessero
ammettere gli elettori che appartenessero a quei Dipartimenti, che già
erano occupati dalle armate nemiche de' coalizzati. Alcuni elettori di
quei Dipartimenti erano in Milano, parte per impiego e parte per caso.
Ma si giudicò che il chiamarli potesse irritare le Potenze alleate,
sembrando non conveniente che la parte del Regno già da esse
conquistata avesse chi la rappresentasse unitamente alla parte tuttora
libera. Unironsi pertanto i soli elettori degli otto Dipartimenti che
rimanevano, cioè Olona, Mincio, Alto Po, Agogna, Lario, Mella, Adda,
Serio. Alla prima unione la Reggenza delegò me, come Presidente, ed il
conte Giberto Borromeo per complimentarli.

Costituita per tal modo la nazionale rappresentanza[38], fu la
Reggenza cresciuta di sette individui, scelto ciascuno dai sette
Dipartimenti, i quali non avevano chi li rappresentasse nella
Reggenza, stata nominata dal Consiglio comunale di Milano e però tutta
composta di membri dell'Olona. Questa seconda nomina fu da me proposta
ai Collegi elettorali quando fui a complimentarli, sembrandomi
sconvenevole che il Governo fosse composto di soli milanesi, e
tendente a procurare d'universale accordo la nomina comprensiva di
tutti i Dipartimenti. Elessero i Collegi elettorali in loro Presidente
il conte Lodovico Giovio, confermarono la Reggenza; poi la accrebbero
di sette individui, e furono il conte senatore Lucrezio Longo pel
Mella, il giudice di Cassazione Tonni pel Mincio, Tarsis per l'Agogna,
il conte Muggiasca pel Lario, il conte Vertova pel Serio, il marchese
Sommariva--fratello del tenente maresciallo al servizio austriaco, che
fu il primo che giunse colla forza armata--per l'Alto Po ed il conte
senatore Peregalli per l'Adda[39]. Ma il destino era fatale alla
sussistenza del Regno, e volle che tutto fosse malamente condotto con
errori politici di ogni sorta. La prima Reggenza con soli sette
individui procedeva regolarmente, godeva la pubblica opinione e con
somma tranquillità e accordo andava calmando le insurrezioni, che si
andavano suscitando in vari luoghi dello Stato; ma i Collegi
elettorali, guidati da alcuni pochi, sorpresi senz'avvedersene da
mozioni poco saggie e contrarie ai veri interessi della nazione,
ebbero sedute poco plausibili. Fecero essi una Deputazione alle Alte
Potenze alleate, le quali coi loro manifesti eransi dichiarate del
tutto aliene di conquistare; la quale Deputazione chiedesse la libertà
ed indipendenza dello Stato. Furono nominati il conte Alberto Litta
membro della Reggenza, il conte Federico Confalonieri, Giacomo Ciani,
il conte Gio. Giacomo Trivulzio, Pietro Balabio capo battaglione della
Guardia civica, Gio. Luca della Somaglia presidente del Consiglio
comunale di Milano, Marc'Antonio Fè di Brescia e Serafino Sommi di
Cremona: in segretario poi della suddetta Deputazione fu nominato
Giacomo Beccaria[40].

Mentre queste disposizioni erano date, parte dai Collegi, parte dalla
Reggenza furono abolite alcune tasse odiose al popolo, ed altre
diminuite, onde piú facilmente richiamare l'ordine. Cosí il Registro,
che sommamente gravitava sulle eredità e sui contratti, e la tassa
sulle arti e mestieri furono abolite, e diminuite quelle sui sali e
tabacchi. In seguito fu ristretta la riserva della caccia nel
circondario di tre miglia del regio Parco di Monza, riserva posta su
campi sommamente coltivati e fertili, e però dannosissima: era essa
resa poi anche insopportabile dalle soperchierie de' guardacaccia.
Giovarono questi provvedimenti alla calma della nazione, e la Reggenza
ne ordinò l'esecuzione. Ma i Collegi elettorali, mentre volevano
conservato il Regno, fecero varie proposizioni alla Reggenza, che in
nessun modo erano combinabili con quello scopo. Proposero l'abolizione
del Senato, del Consiglio di Stato e della Segreteria di Stato. Ma
questa loro dichiarazione non fu dalla Reggenza pubblicata, come
quella che si opponeva direttamente allo scopo principale della
conservazione del Regno. E ben mi ricordo che, giunta alla Reggenza la
carta portante le dette determinazioni, il segretario di Stato conte
Strigelli venne da me e dissemi che egli se ne andava a casa
abbandonando il posto; al che io mi opposi, dicendogli che rimanesse,
non potendo il Governo procedere ove fosse privato della Segreteria: e
cosí egli rimase al posto.

Sette giorni, se ben mi ricordo, fu la Reggenza a capo del Governo e
poté con molta quiete ed assiduità provvedere al tutto. Sedevasi il
giorno e la sera; né parmi possibile ch'io potessi reggere a tanto,
poiché, come Presidente, io non aveva un momento di quiete, non
esclusa la notte. Io dovea sorvegliare i burò per la pronta spedizione
degli affari, regolare le sedute, ascoltare chi si presentava; e
quando, o per cibarmi o per riposare, io andava a casa, non mancava
subito chi fosse da me, o per istruzioni o per recarmi notizie o per
provvedimenti a vari moti che da un momento all'altro accadevano: e
ciò oltre tutte le revisioni e le firme da porsi ai vari ordini, ai
proclami, alle lettere. Ma ciò che rese cosí grave l'impiego che quasi
era reso insopportabile, fu il poco accordo e la poca dignità di
alcuni individui della Reggenza, dappoiché fu accresciuta di sette
nuovi rappresentanti. Erano i primi dignitosamente interessati alla
pubblica quiete ed al buon regolamento, le discussioni ed i partiti
erano saggi, ponderati, tranquilli e fermi; poi divennero tumultuari e
spesse volte poco decenti. Non voglio tacere che molto male fecero le
basse e focose maniere del conte Longo del Mella, il quale con tanta
rozzezza di modi, ostinazione e schiamazzo trattava gli affari e con
tanto poco discernimento, non lasciando che altri con tranquilla
dignità esponesse i propri pensieri, che oltre ad essere io stato
obbligato ad ordinare che fossero chiuse le doppie porte, per impedire
lo scandalo e l'udire agli uscieri ed altri, non potei un giorno
dispensarmi dal chiamarlo all'ordine e dirgli ch'era libero di
partire, giacché egli disse che, quando si fosse fatto certo decreto
contrario alla sua opinione, egli avrebbe preso il cappello e se ne
sarebbe andato. Non sarebbe stata gran perdita, se avesse eseguito
quanto minacciava. Questo uomo, che era probo, ma sommamente focoso e
di basse maniere, declamava furibondo quando era coi suoi eguali; ma
poi si è manifestato vile d'animo quando l'occasione esigeva fermezza
di carattere. Giunti i Tedeschi, egli in Reggenza non aveva fiato per
parlare, né per leggere: non seppe mai fare rapporto d'alcun affare
che potesse concepirsi, sicché egli meschinamente, con sorpresa di
tutti, rappresentò nella Reggenza. Questo stesso uomo che, udito in
società, si sarebbe creduto di forte petto, di carattere tenace e
fermo, terminò di vivere per patema d'animo, quando il Governo
austriaco, cangiato il governo e abolita la Reggenza al principiare
del 1816, lo dimenticò, lasciandolo in libertà.


NOTE

[37] [Il VERRI accenna manifestamente alla convenzione militare di
Schiarino Rizzino, la quale fu sottoscritta il 16 aprile 1814,
ratificata dal maresciallo Bellegarde e dal Principe Eugenio il 17, e
resa esecutiva con _atto di cambio_ delle ratifiche sottoscritto il 17
a un'ora pomeridiana dai generali austriaci Neipperg e Dode e dal
generale italiano Zucchi. Questi atti furono pubblicati sul _Giornale
Italiano_ del 19 aprile 1814].

[38] La rapidità e la moltiplicità delle cose accadute nell'epoca che
ora incomincio a descrivere, può troppo facilmente indurre a scrivere
con poca esattezza istorica. Onde converrà per ora indicare le scene
principali, poi, ritornato che sia in patria, mi procurerò i mezzi di
maggiormente ed esattamente risovvenirmi di tutto. Al che molto
gioverà la lettura dei processi verbali della Reggenza, stesi dal
segretario De-Pagave. [Questi processi verbali si credettero per un
gran tempo perduti; ma erano nella collezione Morbio, con la quale
furon venduti in Germania: di là tornarono in Italia per compra
fattane a Lipsia dal libraio V. Menozzi, e quindi furono ceduti a LUCA
BELTRAMI che ne fece dono alla Biblioteca Braidense e ne diede un
riassunto nell'_Archivio storico lombardo_, anno 1892, vol. IX. pp.
700-705].

[39] Dopo tre anni, non posso risovvenirmi esattamente delle epoche; e
dubito che i Collegi elettorali abbiano nominati i sette reggenti dopo
che i Tedeschi erano già in Milano con Sommariva e Strassoldo. [Gli
Austriaci entrarono in Milano il 28 aprile: e _la nomina per
iscrutinio segreto degli individui degli altri dipartimenti da
aggiungersi in membri della Reggenza provvisoria di Governo_ era stata
fatta nella seduta dei Collegi elettorali del 25 aprile e pubblicata
nel _Giornale Italiano_ del 27].

[40] Verificare cosa infatti siasi determinato doversi chiedere, e chi
abbia invitati i Tedeschi ad entrare per assicurare la pubblica
quiete, se la Città, se la Reggenza, se i Collegi elettorali. [Delle
richieste da fare alle Alte Potenze, secondo la deliberazione presa da
Collegi elettorali nella seduta del 23 aprile, è dato il testo
dall'ARMAROLI, p. 31. Quanto all'invito ai Tedeschi di entrare in
Milano, è noto che esso fu fatto dai conti Luigi Porro e Giovanni
Serbelloni recatisi in nome della città al quartier generale austriaco
la sera del 20 aprile; cfr. _Studi intorno alla storia della Lombardia
negli ultimi trent'anni_, p. 76 e 91].



INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTABILI


Acerbi Pompeo firma l'istanza pei Collegi elettorali, 60.

_Adda_, uno dei dipartimenti del Regno, 85; suo rappresentante nella
Reggenza, 155.

_Adige_, id., 85.

_Adriatico_, id., 85.

_Agogna_, id., 85; suo rappresentante nella Reggenza, 155.

Agretti Ambrogio firma l'istanza pei Collegi, 60.

Agucchi Alessandro, consigliere di Stato e prefetto del Passariano,
81, 86.

Alberti Francesco, capo divisione nel ministero della giustizia, 82.

Aldini Antonio, ministro segretario di Stato, grande ufficiale del
Regno, 78, 82, firmato nel terzo Statuto del Regno, 91.

Aldini Giovanni, consigliere di Stato, 80.

Alessandri Marco, senatore, 79, firmato nel primo Statuto, 91.

_Almanacco reale_, 78.

_Alto Adige_, uno dei dipartimenti del Regno, 85,

_Alto Po_, id., 85; suo rappresentante nella Reggenza, 155.

Amante Giovanni, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.

Andreani Gio. Maurizio firma l'istanza pei Collegi, 61.

Anthouard (D'), vedi Danthouard.

Appiani Andrea, suo ritratto di Napoleone I rotto dal Confalonieri,
20, firmato nel primo Statuto, 91.

Appiani Gabriele firma l'istanza pei Collegi, 61.

Appiani Giuseppe, capo divisione nella segreteria di Stato, in Milano,
32.

Arese Francesco, colonnello, capo divisione nel ministero della
guerra, 83.

Arese Marco firma l'istanza pei Collegi, 60.

Armaroli Leopoldo, sue notizie biografiche, XXIV, autore della
_Memoria storica_, XV-XVI, senatore, 80, firma la protesta del Senato,
75.

Armeni Antonio, capitano di fregata, 85.

Arrigoni Galeazzo, giudice nella Corte dei conti, 82.

Artico Angelo, ispettore generale delle acque e strade, 83.

Assalini Antonio, id., 83.

Augusta Amalia di Baviera, principessa, moglie del viceré Eugenio, sue
virtú e sue lodi, 6.

Auna Gio. Vincenzo, giudice di cassazione, 81.

_Austria_, sua politica secondo il Saint-Edme, 87-90; suo partito in
Italia alla fine del Regno, XIV, XVII.

Aycard Romano, capitano di fregata, 85.

_Bacchiglione_, uno dei dipartimenti del Regno, 85.

Balabio Carlo, generale di brigata, 84, comandante nell'Alto Po, 85.

Balabio Pietro, capo battaglione della guardia civica di Milano, firma
l'istanza pei Collegi, 13, 61, sua parte nei fatti del 20 aprile, 19;
deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 32, 156.

Balathier Carlo, generale di brigata, 84.

Banfi Alfonso, giudice di pace in Milano, suo tentativo di salvare il
Prina, 142-143, non trova chi ne riconosca il cadavere, 23.

Banfi Ferdinando firma l'istanza pei Collegi, 60.

Barbò Francesco, consigliere di Stato, 81, direttore generale delle
privative, 84.

Barbò Viscardo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Barbou Gabriele generale francese comandante nel Metauro, 86.

Bargnani Cesare, consigliere di Stato, 80, direttore generale delle
dogane, 83.

Barinetti Carlo firma l'istanza pei Collegi, 63.

Barisan Giovanni, senatore, 80.

_Basso Po_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Bazzetta Giovanni, consigliere di Stato, 80, giudice di cassazione 81,
firmato nel terzo Statuto, 92, fa parte della Reggenza, 25, 146.

Bazzoni Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 62.

Beauharnais Eugenio, viceré d'Italia, sue lodi, 6; diffidenza e
lamenti contro di lui, 7; specialmente per eccessi di rigore militare,
104, 105, distribuisce le onorificenze della Corona di ferro, 100; sua
commissione al Verri per le Marche, 100; sue cure e incertezze in
Mantova, 10; sua convenzione del 16 aprile col Bellegarde, 10, 87,
161; sua lettera al Melzi, 11; fedeltà del Senato a lui, 11; sue
credenziali alla Deputazione senatoria, 32; delibera d'abbandonare il
Regno, 33; sua convenzione col Bellegarde del 23 aprile 34; suo
proclama all'armata francese e indirizzo dei generali francesi a lui,
87; Statuto pel suo appannaggio, 92; ricordato, 44, 45, 104, 107, 111,
114, 116, 119, 122, 132, 133, 146.

Beccalossi Giuseppe, consigliere di Stato onorario e primo presidente
della Corte d'appello in Brescia, 81.

Beccaria Giacomo, segretario della deputazione dei Collegi elettorali
alle Alte Potenze, 32, 156.

Beccaria Giulio, giudice nella Corte dei conti, 82.

Belgioioso Trivulzio Cristina, autrice degli _Studi intorno alla
Storia della Lombardia negli ultimi trent'anni_, VIII.

Bellegarde (conte di), feld-maresciallo austriaco, comandante
l'esercito in Italia, sua convenzione con il viceré Eugenio, 16 aprile
1814, 10, 87, 111; passaporti rilasciati ai deputati, 32; sua
convenzione col viceré, 23 aprile, 34; riceve una deputazione dei
Collegi elettorali, 37; dichiara di ritenere Milano e le provincie in
nome dell'imperatore d'Austria, 38; in qualità di commissario
imperiale assume la presidenza della Reggenza, 38; ricordato, 45.

Bellotti Gaspare, generale di brigata, 84.

Bentivoglio Carlo, firmato nel terzo Statuto, 92.

Berioli Spiridione, arcivescovo di Urbino, senatore, 80.

Bernardino Maurizio, firma l'istanza pei Collegi, 60.

Bernardoni Giuseppe, capo div. nel ministero dell'interno, 82.

Bertoletti Antonio, generale di brigata, 84, designato a far parte
della deputazione del Regno alle Alte Potenze, 11, va a Parigi per la
Baviera, 32.

Bertolosi Giovanni Battista, generale di brigata, 84, comandante
nell'Agogna, 85, e nell'Olona, 86.

Besana Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Bianchi d'Adda Giovanni Battista, generale di brigata, 84.

Biella Felice, segretario generale nel ministero della giustizia, 82.

Bignami Carlo, firmato nel terzo Statuto, 92.

Bode, generale francese, 87.

Bologna Sebastiano, senatore, 79, fa parte di una commissione
senatoria, 109, 45, firma la protesta del Senato 75, firmato nel terzo
Statuto, 92.

Bolognini Alessandro firma l'istanza pei Collegi, 60.

Bolognini Luigi, id., 61.

Bonati Teodoro, ispettore generale delle acque e strade, 85.

Bonet Domenico firma l'istanza pei Collegi, 62.

Bonfanti Antonio, generale di divisione, 84.

Bonsignori Stefano, patriarca di Venezia, grande ufficiale del Regno e
senatore, 79.

Borghi Carlo Jacopo, consigliere di Stato, 81, capo divisione nel
ministero degli affari esteri in Milano, 82.

Borromeo Giberto firma l'istanza pei Collegi, 17, 59, fa parte della
Reggenza, 25, 146, va a complimentare i Collegi, 134.

Borromeo Carlo, firma l'istanza pei Collegi, 60.

Borsotti Giovanni Gaudenzio, sostituto procuratore generale della
Corte di cassazione, 81.

Bossi Benigno, capitano della guardia civica di Milano, sua parte nei
fatti del 20 aprile 1814, 15, firma l'istanza pei Collegi, 17, 62,
domanda al Senato la convocazione dei Collegi, 19.

Bossi Francesco firma l'istanza pei Collegi, 63.

Bossi Luigi, consigliere di Stato, 80.

Bourg Teodoro, v. Saint-Edme.

Bovara Giovanni, ministro del culto dal 1802 al 1812, 78.

Bovara Stanislao firmato nel terzo Statuto, 91.

Bozzi Galeazzo firma l'istanza pei Collegi, 63.

Brambilla Cesare id., 60.

Brebbia Giuseppe, consigliere di Stato, 81.

_Brenta_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Brunacci Vincenzo, ispett. generale delle acque e strade, 83.

Brunetti Vincenzo, consigliere di Stato, 81, direttore generale del
censo, 83, firmato nel terzo Statuto, 91.

Brusa Paolo, segretario generale della polizia, 83.

Bruti Agostino, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.

Buratovich Vincenzo, capitano di fregata, 85.

Burri Giovanni, consigliere di Stato, 81.

Busca Antonio firma l'istanza pei Collegi, 63.

Busti Cristoforo, giudice nella Corte dei conti, 82, firmato nel primo
Statuto 91.

Caccía Gaudenzio, consigliere di Stato, 81, prefetto dell'Olona, 76.

Cagnola Luigi firma l'istanza pei Collegi, 61.

Cagnola Giuseppe id. 62.

Caldarini Gio. Battista, segretario gen. delle privative, 84.

Calderara Giuseppe, luogotenente prefetto del Monte Napoleone, 84.

Calepio Pietro firma il primo Statuto, 91.

Camerata Antonio, senatore, 80.

Campagnola Luigi, generale di brigata, 84.

Cananda (?) Pietro firma l'istanza pei Collegi, 62.

Cantú Giuseppe id., 62.

Caprara Giovanni Battista, cardinale e arcivescovo di Milano, suo
catechismo riformato dalla Reggenza, 40.

Caprara Carlo, grande scudiere e grande ufficiale del Regno e della
Corona, 78; membro del Senato, 79; firmato nel primo Statuto, 90 e nel
terzo, 91.

Cardoni Luigi firma l'istanza pei Collegi, 60.

Carli Carlo id., 60.

Carlotti Alessandro, firmato nel primo Statuto, 91; senatore, 79; suo
carattere e condotta, 139; propugnatore degli interessi del principe
Eugenio, 110; lascia la seduta del 17 aprile, 49, 115; dopo quella del
20 si rifugia nella carrozza del Verri, 136; rimproveri fatti a lui
dal Verri, 139: firma la protesta del Senato, 75.

Carmagnola Paolo, capo divisione nel ministero dell'interno, 82.

Carnaghi Amedeo, ispettore generale del tesoro, 83.

Carozzi Luigi firma l'istanza pei Collegi, 62.

Casati Giuseppe, consigliere di Stato, 81.

Casella Giovanni Battista, aiutante comandante, 84.

Casnati Filippo, capo divisione nel ministero del culto, 83.

Castelbarco Cesare firma l'istanza pei Collegi, 62.

Castiglioni Alfonso, accennato, 15, firma l'istanza pei Collegi, 60;
nipote di C. Verri, gli preannunzia l'oggetto della seduta del Senato
del 17 aprile, 104.

Castiglioni Antonio, avvocato, firma l'istanza pei Collegi, 61.

Castiglioni Carlo id., 62.

Castiglioni Luigi, senatore, 79; è nominato a far parte della
deputazione del Senato alle Alte Potenze, 13, 49, 53, 66, 163; va a
Mantova, 116; da Mantova torna a Milano, 32, 116; fa parte di una
commissione senatoria, 46, 109; parla in Senato, 47; istruzioni date a
lui e al Guicciardi, 54, 55; firmato nel terzo Statuto 91.

Cavedoni Bartolomeo, aiutante comandante, 84.

Cavriani Federico, senatore, XXI, 79; fa parte di una commissione
senatoria, 45, 109; firma la protesta del Senato, 75; presso il Melzi
dopo la seduta del 20 aprile, 141.

Ceriani Giuseppe Cesare, capo divisione nel ministero dell'interno,
82.

Ciani Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 17, deputato dei Collegi
alle Alte Potenze, 32, 156.

Cicogna Carlo, ciambellano di corte, sua parte nei fatti del 20 aprile
1814, 15.

Cicogna Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 62.

Cicogna ......, scudiere di corte, fratello di Carlo, sua parte nei
fatti del 20 aprile, 15.

Cisotti Giovanni Battista, giudice di cassazione, 81.

Codronchi Antonio, arcivescovo di Ravenna, grande elemosiniere del
Regno, grande ufficiale del Regno e della Corona, 78, membro del
Senato, 79.

Colle Francesco, consigliere di Stato, 80.

_Collegi elettorali del Regno d'Italia_, istanza dei cittadini
milanesi per la loro convocazione, 59-63; il Confalonieri ne chiede la
convocazione, 18; prima riunione di essi il 22 aprile, con circa 70
elettori, e atti che vi si compirono, 29; deputazione loro alle alte
Potenze, 32; altri atti, 35; numero degli elettori nel Regno, 92 e dei
presenti a Milano, 35; loro deputazione al Sommariva, 36; altra al
Bellegarde, 37; dichiarati sciolti dal Bellegarde, 38.

Compagnoni Giuseppe, consigliere di Stato, 81.

Condulmer Pietro Antonio, giudice di cassazione, 81.

Condulmer Tommaso Gaspare, senatore, 80, firma la proposta del Senato,
75, si rifugia nella carrozza del Verri, 138.

Confalonieri Federico firma l'istanza pei Collegi, 59; sua parte nei
fatti del 20 aprile, 15; sua intimazione al Senato, 18; rompe il
ritratto di Napoleone dell'Appiani, 20; deputato dei Collegi alle Alte
Potenze, 32, 156; suo contegno il 20 aprile, 131, 140; risponde alla
_Memoria Storica_, X.

_Consiglio di Stato_, Statuto ad esso relativo, 91; sua composizione
alla fine del Regno, 80, 81; molti consiglieri erano milanesi, 8;
abolito dai Collegi elettorali, 35; dichiarato sciolto dal Bellegarde,
38.

Conti Francesco, firmato nel terzo Statuto, 91.

Conti Luigi firma l'istanza pei Collegi, 60.

Coraccini Federico (Lafolie Carlo Giovanni), pseudomino dell'autore
della _Storia dell'Amministrazione del Regno d'Italia_, XV.

Cornaglia Francesco, prefetto del Serio, 87.

_Corinaldo_, patria di un militare fucilato, 105.

_Corte dei Conti_, sua composizione alla fine del Regno, 82; formata
quasi tutta da milanesi, 8.

_Corte di cassazione_, sua composizione alla fine del Regno, 81;
formata quasi interamente di milanesi, 8.

_Corte reale_ in Milano, suo personale quasi tutto di milanesi, 8.

Corridori Girolamo, cassiere generale del Regno, 83.

Cortese Francesco, direttore delle rassegne e della coscrizione, 83.

Cossali Pietro, ispettore generale delle acque e strade, 83.

Cossoni Antonio, consigliere di Stato, 80, direttore generale delle
acque e strade, 83.

Costabili-Containi Gio. Battista, senatore, 79, fa parte di una
commissione senatoria, 46, 109; intendente generale della Corona e
grande ufficiale del Regno, 79; firma il primo e il terzo Statuto, 91.

Costanzi Giovanni Battista, capitano di fregata, 84.

Cozzi Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 60.

Crespi Antonio id., 62.

Crespi Luigi, procuratore generale nella Corte dei conti, 82.

Crevenna Francesco, firma l'istanza pei Collegi, 62.

Crivelli Ferdinando id., 59.

Crivelli Ignazio id., 61.

Crivelli Mesmer Giuseppe, id., 62.

_Crostolo_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Cruvelier Gio. Pietro, ispettore di marina, capo divisione nel
ministero della guerra, 83.

Custodi Pietro, consigliere di Stato, 81, segretario generale del
ministero delle finanze, 83.

Dabrowki, vedi Dombrowski G. E.

D'Adda Febo, consigliere di Stato, 80.

D'Adda Ferdinando firma l'istanza pei Collegi, 62.

Dal Fiume Filippo, prefetto dell'Alto Adige, 85.

D'Allegre Paolo Lamberto, consigliere di Stato e vescovo di Pavia, 81.

_Dalmazia_, sua unione al Regno e commissione per il suo ordinamento,
101.

Dandolo Silvestro, capitano di fregata, 85.

Dandolo Vincenzo, senatore, 80; suo contegno in Senato il 17 aprile,
44, 65, 108, 109; fa parte della commissione senatoria, 46, 109; parla
in Senato, 47, 48, 111; va dal Melzi, 111; ricordato, XXI.

Danthouard Carlo Niccolò, generale di divisione, primo aiutante di
campo del viceré Eugenio, 7; offende gli Italiani, ivi; accennato,
105; firma l'indirizzo dei generali francesi, 87.

Darnay Antonio, segretario di gabinetto del viceré Eugenio, 7; poi
direttore generale delle poste nel Regno, 8, 84, 105; suo spionaggio
nei carteggi privati, 8, 105.

Daurier, generale francese comandante nell'Adriatico, 85.

De Agostini Agostino, firma l'istanza pei Collegi, 62.

De Bernardi Stefano, presidente del consiglio legislativo nel
consiglio di Stato, 80, primo presidente della Corte dei conti, 82.

De Capitani Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 62.

De Capitani Paolo, segretario generale del ministero dell'interno, 82.

De Carli Nazzari Luigi, firma l'istanza pei Collegi, 62.

Del Maino Carlo, prefetto del Tagliamento, 87.

De Lorenzi Antonio, giudice di cassazione, 81.

Dembowski Giovanni, generale di brigata, 84, designato nel _generale
straniero_ al soldo italiano, 9, richiamato in servizio dalla
Reggenza, 40.

De Moll Sigismondo, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.

De Pagave Gaudenzio, segretario della Reggenza, 161.

_Deputazione del Senato_ alle Potenze alleate, come e da chi proposta,
52, 53, 111, 112; istruzioni e credenziali date ad essa dal Melzi,
54-57; va a Mantova, 66, 116; ritorna a Milano, 68, 116; sua condotta
difesa dal Guicciardi, 66-68.

_Deputazione dei Collegi elettorali_ alle Potenze alleate, 30-31, 156;
persone che ne facevano parte, 32, 156.

De Simoni Baldassarre, firma l'istanza pei Collegi, 63.

Di Breme Arborio Luigi Giuseppe, senatore, 79.

_Dipartimenti_ del Regno d'Italia, loro capoluoghi, popolazione,
circoscrizione, prefetti e comandanti militari, 85-87; solamente gli
elettori di otto dipartimenti sono convocati a Milano, 155; loro
rappresentanti nella Reggenza, 155.

_Direzioni generali_ per l'amministrazione del Regno, funzionari che
le componevano alla fine del Regno, 83, 84; quasi tutti milanesi, 8.

Dode, generale austriaco, 161.

Dombrowski Giovanni Enrico, generale di divisione, firmato nel primo
Statuto, 91.

Durini Antonio, podestà di Milano, accennato 15; trasmette al Senato e
al Melzi l'istanza dei cittadini per la convocazione dei Collegi
elettorali, 16, 58, fa pubblicare il decreto del Senato e altri
proclami, 24, convoca il Consiglio comunale in seduta permanente, 24,
25, 146; firma l'istanza pei Collegi, 60, certifica conforme
l'istanza, 63; presente all'insediamento della Reggenza, 147; il
Confalonieri gli indirizza la sua apologia, X.

Erizzo Guido, consigliere di Stato onorario, 81.

_Esercito_, suoi ufficiali generali alla fine del Regno, 84.

Eulbrucca Carlo, firma l'istanza pei Collegi, 61.

Fagnani Federico, ciambellano di corte e consigliere di Stato, 81; sua
parte nei fatti del 20 aprile, 15; firma l'istanza pei Collegi, 17,
59.

Farina Modesto, capo divisione nel ministero del culto, 83.

Fava Paolo Fabrizio, arcivescovo di Ferrara, grande ufficiale del
Regno e senatore, 79.

Fè Marcantonio, deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 32,
156; firmato nel primo e terzo Statuto, 91.

Felici Daniele, senatore, 79, si offre di parlare al popolo, 69,
insieme al Verri parla al popolo, 128; firma la protesta del Senato,
75.

Fenaroli Giuseppe, gran maggiordomo maggiore, grande ufficiale del
Regno e della Corona, 78, membro del Senato, 79; invita la Reggenza ad
occupare il palazzo reale, 149; firmato nel primo Statuto del Regno,
91 e nel terzo, 91.

Ferrarlo Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Ferri Francesco, prefetto del Piave, 86.

Fiorella Pasquale Antonio, generale di divisione, 84, senatore, 80.

Fontane Giacomo, generale di divisione, 84, comandante nel Mella, 86.

Fontanelli Achille, generale di divisione, 84, ministro della guerra e
grande ufficiale del Regno, 78, 82; designato a far parte della
deputazione del Regno alle Alte Potenze, 18, va a Parigi per la
Baviera, 32, destituito dalla Reggenza, 40.

Foscolo Ugo, frequentatore delle case dei ministri, 9-10, promosso
capo squadrone dalla Reggenza, 40, citato, IX, XI.

Fossano Luigi firma l'istanza pei Collegi, 59.

Francesco I, imperatore d'Austria, re d'Ungheria e di Boemia, le sue
truppe occupano parte dell'Italia, 12; proposta di farlo mediatore
presso le Alte Potenze per la cessazione delle ostilità,
l'indipendenza del Regno e la creazione di Eugenio a re d'Italia, 12;
è dichiarato in possesso di Milano e delle provincie, 35; dovevano
presentarsi a lui i deputati del Senato, 54, 57.

Frangipane Cinzio, senatore, 80.

Frecarelli Prospero firma l'istanza pei Collegi, 62.

Fressinet Filiberto, generale francese, 87.

Frisiani Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 60.

Frosconi Alessandro, prefetto del Rubicone, 87.

Galimberti Livio, generale di brigata, 84.

Gallino Tommaso, consigliere di Stato e primo presidente della Corte
d'appello di Verona, 81.

Galvagna Francesco, consigliere di Stato e prefetto dell'Adriatico,
81, 85.

Gaspari Giacomo, prefetto del Metauro, 86.

Gentili Antonio, firma l'istanza pei Collegi, 61.

Germani Giuseppe, capo divisione nella segreteria di Stato in Milano,
82.

Ghirlanda Girolamo, firma l'istanza pei Collegi, 62.

Giaxich ......, capitano di fregata, comandante del porto di Venezia,
85.

Giegler Pietro, libraio in Milano, XVI.

Gioia Melchiorre, creduto autore della _Memoria storica_, XI.

Giovio Ludovico, consigliere di Stato, 80, firma l'istanza pei
Collegi, 17, 61, presiede i Collegi elettorali e suoi discorsi, 30 e
seg., 155; era stato commissario straordinario nel dipartimento del
Lario, negli ultimi tempi del Regno, 39; suo discorso di chiusura ai
Collegi elettorali, 36; altro discorso innanzi al Bellegarde, 37;
risponde alla _Memoria storica_, XI, XXI.

Giudici Gaetano, segretario generale del ministero del culto, 83, e
ff. di ministro dal 1812 al 1814, 78.

Giulini Cesare firma l'istanza pei Collegi, 60.

Giulini Giorgio, fa parte della Reggenza, 25, 146.

Giulini Giuseppe, firmato nel primo Statuto, 91.

Giustiniani Leonardo, senatore, 79, firma la protesta del Senato, 74.

Gorio Carlo firma l'istanza pei Collegi, 63.

_Grandi ufficiali della Corona_, 78; fanno parte del Senato, 79.

_Grandi ufficiali del Regno_, 78, 79; Statuto per la loro creazione,
91.

Grenier Paolo, generale francese, 87.

Greppi Antonio firma l'istanza pei Collegi, 62.

Guastavillani Giovanni Battista, consigliere di Stato, 80, firmato nel
primo Statuto, 91.

Guerrini Camillo firma l'istanza pei Collegi, 63.

Guicciardi Diego, creduto autore della _Memoria storica_ XII-XIV; sue
notizie biografiche, XXII-XXIV; senatore, 79; combatte il progetto del
Melzi ed è nominato della deputazione senatoria, 15, 49, 53, 11; suo
contegno nella seduta del 17 aprile, 44, 45, 47, 65, 66, 108, 111,
113; va a Mantova col Castiglioni, 116; torna a Milano, 32, 116;
istruzioni a lui date dal Melzi, 54, 55; sua memoria apologetica, 33;
testo di essa, 64-69; lettera relativa della Reggenza, 70; firma la
protesta del Senato, 74; firmato nel primo e terzo Statuto, 91.

Isimbardi Innocenzo, direttore generale delle zecche, 84.

_Istanza dei cittadini milanesi_ per la convocazione dei Collegi
elettorali, 59-63; trasmessa dal podestà al presidente del Senato, 58,
124, 125.

Jacob ...., capo divisione nel ministero italiano degli affari esteri
in Parigi, 82.

Jacquet Giuseppe, generale di brigata, 84.

Julhien Giovanni Francesco, generale di brigata, 84, comandante nel
Mincio, 86, ricordato XXV.

Lafolie Carlo Giovanni, vedi Coraccini Federico.

Lambertenghi Luigi, consigliere legislativo, firmato nel primo
Statuto, 91.

Lamberti Giacomo, senatore, 80, segretario del Senato, 53, firma la
protesta del Senato, 75.

_Lario_, uno dei dipartimenti del Regno, 86; suo rappresentante nella
Reggenza, 155; sua prefettura desiderata dal Verri, 98.

Laurent Francesco Guglielmo, generale francese, 87.

Lechi Angelo, aiutante comandante, 84.

Lechi Giuseppe, generale di divisione, 84.

Lechi Teodoro, generale di brigata, 84.

Lemarrois Giovanni, generale francese, governatore nelle Marche, 101.

Litta Alberto, fa parte della Reggenza, 25; deputato dei Collegi
elettorali alla A. P., 32, 156.

Litta Antonio, gran ciambellano, grande ufficiale del Regno e della
Corona, 78; membro del Senato, 79; firmato nel primo Statuto, 91.

Locatelli Luigi Annibale, ispettore alle rassegne, capo divisione nel
ministero della guerra, 83.

Londonio Carlo firma l'istanza pei Collegi, 60.

Longo Lucrezio, senatore, 79, aggiunto alla Reggenza, pel Mella, 155,
suo carattere e sua morte, 158, 159.

Luini Giacomo, direttore generale della polizia, accennato,
14; consigliere di Stato, 80, 101; aggiunto a C. Verri per
l'organizzazione delle Marche, 101; suo carattere e sue attribuzioni,
153, 154; promosso dalla Reggenza a consigliere di cassazione, 40.

Luini Giuseppe, giudice di cassazione, 81.

Luini Stefano, prefetto dell'Agogna, 85.

Luosi Giuseppe, gran giudice ministro della giustizia, senatore, 80:
grande ufficiale del Regno, 78, 82; presente alla seduta del Senato 17
aprile, 43; parla, 48; sua parte nel progetto di decreto presentato al
Senato, 110; firmato nel primo e nel terzo Statuto del Regno, 91.

Luosi Luigi, capo divisione nel ministero della giustizia, 82.

Lupi Carlo, segretario generale del censo, 83.

Maestri Giovanni, consigliere di Stato, 80, prefetto del Monte
Napoleone, 84.

Magenta Pio, prefetto del Bacchiglione, 85.

Maillot Stefano, commissario generale della marina, 85.

Manara Baldassarre firma l'istanza pei Collegi, 61.

Manzi Ignazio id., 60.

Manzoni Alessandro id., 62.

_Marche_, loro unione al Regno italico, 101; v. _Metauro_, _Musone_,
_Tronto_.

Marchini Bartolomeo, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.

Marcognet, generale francese, 87.

Marescalchi Ferdinando, ministro degli affari esteri e grande
ufficiale del Regno, 78, 82; firmato nel primo Statuto del Regno, 90 e
nel terzo, 91.

_Marina reale_, suoi ufficiali superiori alla fine del Regno, 85.

Marini Giuseppe, capitano, aiutante di piazza, comandato a prestar
servizio presso il Senato il 20 aprile, 15, 17, 18.

Marinoni Francesco, segretario generale della Segreteria di Stato in
Parigi, 82.

Martel Filippo Andrea, generale di brigata, 84.

Martinengo Gio. Estore, senatore, 80.

Martini Francesco firma l'istanza pei Collegi, 61.

Masetti Agostino, ispettore generale delle acque e strade, 83.

Massari Luigi, senatore, 79; si offre di parlare al popolo, 18; parla
in Senato, 47; insieme al Verri parla al popolo, 128; si rifugia nella
carrozza del Verri, 138; firmato nel terzo Statuto, 92; firma la
protesta del Senato, 74.

Mazzucchelli Giovanni Battista, aiutante comandante, 84.

Mazzucchelli Luigi, generale di brigata, 84; accennato, 9; promosso
dalla Reggenza a generale di divisione, 40.

Medici Pietro firma l'istanza pei Collegi, 62.

Méjan Stefano, segretario degli ordini del viceré Eugenio, xxi, 7;
ammesso nel Collegio elettorale dei dotti, ivi; registrato dal
Saint-Edme tra i grandi ufficiali del Regno, 79; consigliere di Stato,
80; odiato dagli Italiani, 103.

Melano Portula Vittorio, vescovo di Novara, senatore, 80.

Mellerio Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 61; fa parte della
Reggenza, 25.

_Mella_, uno dei dipartimenti del Regno, 86; suo rappresentante nella
Reggenza, 155; sua prefettura esercitata dal Verri, 99.

Meloni Abele firma l'istanza pei Collegi, 63.

Melzi Francesco, vicepresidente della Repubblica italiana, 98; trae il
Verri alla vita politica, 99; duca di Lodi, cancelliere guardasigilli
della Corona e grande ufficiale del Regno, 11, 78; membro del Senato,
79; convoca il Senato per il 17 aprile, 12; sua lettera e messaggio
relativo, 44; testo di essi, 49-50; sue istruzioni alla Deputazione
senatoria, 13, 54-55; credenziali per il Metternich, 56-57; sua vita
minacciata, 26, 140; non crede agli avvertimenti del Verri, 120, 140;
ricordato, 12, 13, 16.

Melzi Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 59.

Melzi Giuseppe id. 62.

Mengotti Francesco, senatore, 50, segretario del Senato, 53; formula
una proposta in Senato, 48; redige l'articolo relativo al principe
Eugenio, 114; firma la protesta, 75.

Mermet Giuliano Agostino, generale francese, 87.

_Metauro_, uno dei dipartimenti del Regno, 86, 101; ricordato, 105.

Metternich (principe di), ministro degli affari esteri dell'imperatore
d'Austria, credenziali del Melzi a lui per la deputazione del Regno,
13-14, 56-57.

Mezzoni (Mozzoni?) Ottavio firma l'istanza pei Collegi, 62.

Milius Pier Bernardo, capitano di fregata, 85.

Milossewitz Andrea, generale di brigata, 84, comandante nell'Adige e
Alto Adige, 85.

_Mincio_, uno dei dipartimenti del Regno, 86; suo rappresentante nella
Reggenza, 155.

_Ministeri_ del Regno d'Italia, loro funzionari, 82, 83.

Minoia Giovanni, prefetto del Panaro, 86.

Mocenigo Alvise, senatore, 80.

Moiana Pietro firma l'istanza pei Collegi, 81.

Montebruno Andrea, aiutante comandante, 84.

Monteggia Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Monticelli Giovanni id., 62.

Monticelli-Strada Gio. Battista id., 62.

Mori Ambrogio id., 60.

Moroni Pietro, generale di brigata, 84.

Moscati Pietro, senatore, 79, fa una proposta in Senato, 48; firma la
protesta in Senato, 74; firmato nel terzo Statuto, 91.

Mozzoni, vedi Mezzoni.

Muggiasca Giacomo, aggiunto per il Lario alla Reggenza, 155.

Muggiasca Gio. Battista firma l'istanza pei Collegi, 61.

Murat Gioacchino, re di Napoli, sua occupazione di parte d'Italia, 12;
suoi disegni politici, 87.

_Musone_, uno dei dipartimenti del Regno, 86, 101.

Nani Tommaso, consigliere di Stato, 81.

Napoleone I, suo governo in Francia e in Italia, 5; porta solo
l'odiosità delle gravezze finanziarie, 7; suo ritratto dipinto
dall'Appiani e rotto dal Confalonieri, 20; ricordato, VIII, 43.

Narducci Giampietro, capo divisione nella segreteria di Stato in
Milano, 82.

Nava Ambrogio firma l'istanza pei Collegi, 61.

Negri ...., segretario generale del Monte Napoleone, 84.

Negri Antonio, presidente della Corte di cassazione, 81; firmato nel
primo Statuto, 91.

Negri Gaetano, segretario generale delle acque e strade, 83.

Neipperg (conte di) Alberto, generale austriaco, 161.

Noghera Gio. Battista, giudice nella Corte dei conti, 82.

Odescalchi Tommaso, firmato nel terzo Statuto, 92.

_Olona_, uno dei dipartimenti del Regno, 86; da esso sono tratti i
primi membri della Reggenza, 155.

Opizzoni Carlo, arcivescovo di Bologna, non riconosciuto, 79.

Oriani Barnaba, senatore, 80; firmato nel terzo Statuto, 91; firma la
protesta del Senato, 75.

Ottolini Giulio firma l'istanza pei Collegi, 62.

Paini Giulio, generale di brigata, 84.

Pallavicini Giuseppe, presidente del Consiglio degli uditori nel
Consiglio di Stato, 81; firma l'istanza pei Collegi, 59.

Pallavicini Giulio, giudice nella Corte dei conti, 82.

Palmieri ......., segretario generale del lotto, 84.

Palombini Giuseppe, generale di divisione, 84.

Pampuri Giacomo, giudice nella Corte dei conti, 82.

_Panaro_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Paolucci Amilcare, generale di brigata, 84.

Paradisi Giovanni, firmato nel primo e terzo Statuto del Regno, 90,
91; senatore, 79; uno dei sostenitori del principe Eugenio, 110;
doveva far parte della Deputazione senatoria, 11; non è nominato, 13;
parla nella seduta 17 aprile, 44, 45, 47, 113; lascia la seduta, 49,
115; non interviene a quella del 20 aprile, 16; firma la protesta del
Senato, 74.

Parca Carlo, ispettore generale delle acque e strade, 83, firma
l'istanza pei Collegi, 60.

Parravicini Raffaele, consigliere di Stato, 80.

Pasqualigo Nicola, capitano di vascello, 85.

_Passariano_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Patroni Giuseppe, colonnello, capo divisione nel ministero della
guerra, 83.

Pecchio Pietro, giudice nella Corte dei conti, 82.

Peceis Gio. Odoardo firma l'istanza pei Collegi, 60.

Pedrazzini Michele, consigliere di Stato, 80.

Pedroli Carlo Antonio, consigliere di Stato onorario e primo
presidente della Corte di cassazione, 81.

Pelegatti Cesare, giudice di cassazione, 81.

Peregalli Francesco, senatore, 80, aggiunto alla Reggenza per l'Adda,
155, firmato nel terzo Statuto, 92.

Perego Luigi, firma l'istanza pei Collegi, 61.

Peri Bernardo, generale di brigata, 84.

Petracchi Angelo, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.

Pevri Luigi, generale di divisione, 84, tenta di salvare il Prina dal
furore popolare, 22.

_Piave_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Piazzoni Gio. Battista, firmato nel terzo Statuto, 91.

Pini Ermenegildo, ispettore generale degli studi, 83.

Pino Domenico, generale di divisione, 79, 84, primo capitano della
Guardia reale e grande ufficiale del Regno, 79; trascurato dal
principe Eugenio, 7; firma la istanza pei Collegi, 17, 59; poteva
salvare il Prina, 22; dichiarato comandante delle forze della
capitale, 24; fa parte della Reggenza, 25, 146; suo proclama al
popolo, 25; intende salvare il Melzi, 26; esorta il popolo alla calma,
141; chiama alle armi per difendere gli edifizi pubblici, 27;
confermato dai Collegi elettorali nel grado di comandante delle forze
militari; poi atti accennati, 38, 143; sue difese a stampa, X, XXI;
censure a lui date, XX.

Pizzagalli Angelo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Pizzotti Francesco, giudice di cassazione, 81.

Poggiolini Giovanni, segretario generale dell'istruzione pubblica, 83.

Polcastro Girolamo, senatore, 79.

Polfranceschi Pietro, consigliere di Stato, 80; generale di brigata,
84.

Porro Ferdinando, prefetto del Brenta, 86.

Porro Luigi firma l'istanza pei Collegi, 17; in compagnia del Pino il
giorno 20 aprile, 23; va a invitare gli Austriaci in Milano, 160.

Porta Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Prandina Gaetano, capo divisione nel ministero della giustizia, 82.

Predabissi Francesco, giudice di cassazione, 81.

Prevosti Giulio firma l'istanza pei Collegi, 62.

Prina Giuseppe, ministro delle finanze e grande ufficiale del Regno,
78, 83; senatore 80; cieco strumento della politica finanziaria di
Napoleone, 7, e perciò odiatissimo, 105, 137; sua parte nel progetto
di decreto del Melzi, 110; doveva far parte della Deputazione alle
Potenze, 11; ma non fu nominato, 13; presente alle seduta del 17
aprile, 16; vi parla, 47, 113; non interviene a quella del 20 aprile,
16; ricercato durante la seduta stessa, 137, 141; tumulto popolare e
strazio di lui, 21-23, 141-146; tentativi vani di salvarlo, 21, 23,
144; saccheggio del suo palazzo, 24, 137; della sua villa, 28; si
sparge l'oblio sui colpevoli della strage, 40; incisione
rappresentante il suo eccidio, 41.

Prina Giuseppe, professore a Pavia, cerca di salvare il ministro, 21.

Prina Luigi, segretario generale delle zecche, 84.

_Protesta del Senato_ al Sommariva, 71-75.

Quesnel Francesco, generale francese, 87.

Quirini Stampalia Luigi, consigliere di Stato, 80.

Radaelli ....., fornaio, milite della guardia nazionale, trovasi ai
fatti del 20 aprile, 136.

Raesini Carlo Luigi firma l'istanza pei Collegi, 61.

Raesini Rodolfo, id. 61.

Ragazzi Giuseppe, giudice di cassazione, 81.

Rambourgt Pietro Gabriele, generale di brigata, 84.

Rangone Giuseppe, firmato nel primo Statuto, 91.

Re Antonio, consigliere di Stato, 81.

Reina Giuseppe, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.

_Reggenza provvisoria_ creata dal Consiglio comunale di Milano il 21
aprile 25, 146; suoi primi atti 26, 143-150; il Verri ne è fatto
presidente, 149; suoi atti ulteriori, 38-41, 156-159; vi sono aggiunti
i rappresentanti di sette dipartimenti, 38, 155; verbali delle sue
deliberazioni, 161; non permette la pubblicazione dell'apologia del
Guicciardi, 70; il Bellegarde ne assume la presidenza, 38.

_Regno d'Italia_, 1805-1814; sua formazione e suoi statuti
costituzionali, 90-92; suoi alti funzionari civili e militari, 78-85;
suoi dipartimenti 85-87; suoi collegi elettorali, 92, 93; contrasto
fra i paesi della Lombardia e gli altri, 8; prevalenza dei milanesi
negli alti uffici, 8; deputazione del Regno alle Potenze alleate
secondo la convenzione del 16 aprile, 10, 11; unione al Regno della
Dalmazia e delle Marche, 99; dipartimenti non occupati dagli
Austriaci, 155.

Renard Brizio Giovanni Battista, generale di brigata 84, comandante
nell'Adda, 85, e nel Lario, 86.

_Reno_, uno dei dipartimenti del Regno, 86.

Repossi Francesco, giudice di cassazione, 81.

_Repubblica Italiana_, 1802-1805; sua costituzione adottata nei comizi
di Lione, 90; governata dal Melzi come vicepresidente, 97; deputazione
di essa per la trasformazione in Regno, 90; atti e documenti di questa
mutazione, 91.

Rezia Carlo, prefetto dell'Adda, 85.

Riva Cristoforo, consigliere di Stato, 81.

Rivaira Luigi, aiutante comandante, 84.

Rivolta Cristoforo firma l'istanza pei Collegi, 60.

Rodriguez Francesco, capitano di fregata, 85.

Roize, generale francese, comandante nel Reno, 87.

Ronna Tommaso, consigliere di Stato e vescovo di Crema, 81.

Rosmini Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Rossi Luigi, ispettore generale degli studi, 83.

Rougier Gillo, generale di brigata, 84.

Rouyer, generale francese, 87.

_Rubicone_, uno dei dipartimenti del Regno, 87.

Sabatti Antonio, presidente nella Corte dei conti, 82.

Sacchini Girolamo firma l'istanza pei Collegi, 62.

Saint Edme (Bourg Teodoro), traduttore francese della _Mem. stor._
dell'Armaroli, 77, sue note alla medesima, 77-93; attribuisce la
_Mem._ al Guicciardi, 77.

Sainte-Laurent, generale francese, 87.

Saint Paul Verbigier, generale di brigata, 84.

Saint Priest Filiberto Luigi, capitano di fregata, 85.

Salimbeni Leonardo, generale di brigata, firmato nel primo Statuto,
91.

Salina Luigi firmato nel terzo Statuto, 92.

Salvini Andrea, direttore delle costruzioni navali, 85.

Sanfermo Rocco, consigliere di Stato, 80.

Sanner Baldassarre, giudice nella Corte dei conti, 82.

Sant'Andrea Pietro, generale di brigata, 84.

Scaccabarozzi Cesare, giudice di cassazione, 81.

Scazza Lorenzo firmato nel terzo Statuto, 91.

Schiazzetti Fortunato, generale di brigata, 84.

Schilt, generale francese, comandante nel Passariano, 86.

Scopoli Giovanni, consigliere di Stato, 80, direttore generale
dell'istruzione, 83.

Scotti Gallerati Costanzo firma l'istanza pei Collegi, 61.

Scotti Gallerati Francesco, id., 61.

_Segretari generali_ dei ministeri e delle direzioni generali, 82, 84;
quasi tutti milanesi, 8.

_Segreterie di Stato_ in Parigi e in Milano, loro funzionari, 82.

Segri Antonio firma l'istanza pei Collegi, 63.

_Senato consulente_, Statuti per la sua creazione e ordinamento, 92;
regolamento di esso, 92; sua composizione alla fine del Regno, 8, 79,
80; comprendeva otto senatori milanesi, 8; seduta straordinaria del 17
aprile, 12, 13, 103-115; relazione di essa, 43-49; commissione in essa
creata, 11, 45, 46; proposte presentate e deliberazioni prese, 50-53;
sua deputazione alle Potenze, 11, 12, 113; seduta del 20 aprile,
15-21, 122-136; gli è chiesto il richiamo della deputazione e la
convocazione dei Collegi, 18, 134; sua protesta al Sommariva, 71-75;
abolito dai Collegi, 35, e sciolto dal Bellegarde, 38.

Serbelloni Gio. Battista, accennato, 15, firma l'istanza pei Collegi,
59; va a invitare gli Austriaci, 162.

Serbelloni Marco, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.

_Serio_, uno dei dipartimenti del Regno, 87; suo rappresentante nella
Reggenza, 155.

Serpenti Angelo firma l'istanza pei Collegi, 60.

Severini Girolamo id., 61.

Severoli Filippo, generale di divisione, 84.

Sgariglia Pietro, senatore, 80.

Silva Bernardino, giudice nella Corte dei conti, 82.

Silva Ercole, accennato, 15, firma l'istanza pei Collegi, 60.

Silva Sigismondo, accennato, 15, id., 60.

Smancini Antonio, consigliere di Stato e prefetto dell'Adige, 81, 85.

Soldini Ambrogio, direttore generale del lotto, 84.

Soldini Andrea, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.

Somaglia Antonio firma l'istanza pei Collegi, 60.

Somaglia Carlo, id., 60.

Somaglia Gio. Luca, id. 60; presidente del Consiglio comunale,
presente all'insediamento della Reggenza, 147; deputato dei Collegi
elettorali alle Alte Potenze, 156.

Somaglia Gaetano, giudice nella Corte dei conti, 82.

Sommariva Annibale, generale austriaco, commissario delle Alte Potenze
in Milano, 34, 155, 161; riceve la deputazione dei Collegi elettorali,
36.

Sommariva Matteo, fratello del precedente, aggiunto alla Reggenza per
l'Alto Po, 155.

Sommaruga ...., presidente nella Corte dei conti, 82.

Sommenzari Teodoro, prefetto del Mella, 86.

Sommi Serafino, deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze,
156.

Sopransi Fedele, giudice di cassazione, 81.

Sopransi Luigi, consigliere di Stato, 81, giudice di cassazione, 81,
firmato nel primo Statuto, 91.

Soresi Giovanni, firma l'istanza pei Collegi, 61.

Sormani Alessandro id., 60.

Sormani Giuseppe id., 60.

Sormani Lorenzo id., 60.

Sozzi Carlo, vicario capitolare di Milano, esorta alla tranquillità,
26.

Spella Luigi firma l'istanza pei Collegi, 60.

Spreafico Pietro id., 60.

_Statuti costituzionali_ del Regno d'Italia, 90-92.

Staurenghi Leopoldo, prefetto del Tronto, 86.

Stoppani Pietro, capo div. nel ministero della giustizia, 82.

Strassoldo, governatore austriaco in Milano, 162.

Stratico Simone, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.

Strigelli Antonio, consigliere di Stato, segretario di Stato in
Milano, 81, 82; vuole abbandonare l'ufficio, 157; segretario generale
della Reggenza, 70.

Tadini Oldofredi Girolamo, prefetto del Reno, 87.

Tagliabue Francesco, firma l'istanza pei Collegi, 62.

_Tagliamento_, uno dei dipartimenti del Regno, 87.

Tamassia Giovanni firmato nel terzo Statuto, 91; prefetto del Lario,
86.

Tarchini Giovanni Battista, segretario generale del ministero del
tesoro, 83.

Tarsis Giovanni Battista, aggiunto alla Reggenza, per l'Agogna, 155.

Taverna Francesco, consigliere di Stato onorario e primo presidente
della Corte d'appello in Milano, 81.

Taverna Giuseppe, firmato nel terzo Statuto, 91.

Tempiè Giacomo, capitano di fregata, 85.

Testi Carlo, senatore, 79; incaricato del portafoglio degli affari
esteri in Milano, 82; nominato della Deputazione senatoria alle Alte
Potenze, 49, 53, 66, 113; rinunzia per motivi di salute, 49, 115; sua
opinione sulle credenziali, 55; firma la protesta del Senato, 75.

Teuliè Filippo, giudice nella Corte dei conti, 82.

Thiene Leonardo, senatore, 80; esce col Verri dal Senato il 20 aprile,
137; firma la protesta del Senato, 75.

Ticozzi Stefano, prefetto dell'Alto Po, 85.

Tonni Luigi, giudice di cassazione, 81; aggiunto alla Reggenza, pel
Mincio, 155.

Tordorò Luigi, capo della contabilità del Regno, 83.

Tornielli Giuseppe, consigliere di Stato, 81.

Trivulzio Gian Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 17, 59; deputato
dei collegi alle Alte Potenze, 32, 156.

Traversi Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 59.

Trecchi Sigismondo id., 60.

_Tronto_, uno dei dipartimenti del Regno, 87.

Trotti Lorenzo id., 61.

Trouchon Domenico, direttore dell'artiglieria di marina, 85.

Ungarelli Pietro, giudice nella Corte dei conti, 82.

Vaccari Luigi, ministro dell'interno e grande ufficiale del Regno, 78,
82; presente alla seduta del Senato il 17 aprile, 43; vi parla, 44,
45, 47; sua parte nel progetto di decreto, 108; sostiene il principe
Eugenio, 114.

Valdrighi Luigi, consigliere di Stato, 81; procuratore generale della
Corte di cassazione, 81; firmato nel primo Statuto, 91.

Veneri Antonio, ministro del tesoro e grande ufficiale del Regno, 78,
83; senatore 80; presidente del Senato nella seduta del 17 aprile e
sua condotta in essa, 44-49, 53, 107; sua condotta in quella del 20
aprile, 16-20, 134; scambiato col Prina e insultato, 137; va dal Melzi
dopo quella seduta, 141; firma la protesta del Senato, 74.

Verdier, generale francese, 87.

Verri Carlo, autore della relazione sui fatti di Milano, XVII, 97;
suoi intendimenti, 98; sue notizie biografiche, XXV; prefetto a
Brescia, 98, 99; consigliere di Stato, 100; fa parte della commissione
per la Dalmazia, 100; ispettore di pubblica beneficenza, 101; sua
missione nelle Marche, 100-102; senatore, 80, 102; sua condotta nella
seduta del 17 aprile, 47, 65, 108, 109; va dal Melzi, 109, 119, 140;
approvato in pubblico o in privato, 117, 118, 123; sua condotta nella
giornata del 20 aprile, 18, 19, 125-137; fa parte della Reggenza, 25,
146; suoi atti ufficiali 70; sua condotta come presidente della
Reggenza, 147-157; va a complimentare i Collegi elettorali, 155.

Verri Giovanni, cavaliere, fratello di Carlo, dimorante a Como, 98.

Vertova Giovanni Battista, firmato nel terzo Statuto, 91; aggiunto
alla Reggenza per il Serio, 155.

Vestarini Belingeri Carlo firma l'istanza pei Collegi, 62.

Vidoni Soresina Giuseppe, senatore, 79; firmato nel terzo Statuto, 91.

Vignolle, generale francese, 87.

Vigoni Gaetano firma l'istanza pei Collegi, 60.

Villa Carlo, consigliere comunale, id., 62.

Villa Carlo, segretario del Cancelliere guardasigilli della Corona,
accennato come quello da cui i rivoluzionari conoscevano gli atti del
Melzi, 13; firma il messaggio del Melzi, 50, 108; le istruzioni ai
Deputati del Senato, 55 e le credenziali, 57.

Villa Giovanni, prefetto di polizia di Milano, destituito dalla
Reggenza e perché, 40.

Villa Luigi, ministro dell'interno nella Repubblica italiana, 97.

Villata Giovanni, generale di brigata, 84, comandante nel Rubicone,
87.

Villata Guido, giudice di cassazione, 81.

Villata Michele, prefetto del Musone, 86.

Visconti Annibale, colonnello della guardia civica di Milano, firma
l'istanza pei Collegi, 17, 60; assume il comando della guardia
nazionale, 145.

Visconti (Antonio?) di Cremona, capo battaglione, firma l'istanza pei
Collegi, 59.

Vismara Michele, prefetto del Mincio, 86.

Vitali Gaetano firma l'istanza pei Collegi, 61.

Volpi Caneriggi Benedetto id., 61.

Volta Alessandro, senatore, 79, firma la protesta del Senato, 75.

Zacco Costantino, prefetto del Basso Po, 86.

Zanella Carlo firma l'istanza pei Collegi, 62.

Zanella Carlo Grato id., 61.

Zanoli Alessandro, segretario generale del ministero della guerra, 83,
destituito dalla Reggenza, 40.

Zecchini Bonaventura, prefetto del Crostolo, 86.

Zenghi Luigi Filippo firma l'istanza pei Collegi, 62.

Zucchi Carlo, generale di divisione, 84; firma l'atto di cambio della
convenzione militare di Schiarino Rizzino.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i
seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

  xiii - l'on avait _machiné_ [machinè] pour surprendre
  xiii - le lecteur, une [una] fois prévenue
  xiii - sa justification au gouvernement [governement]
  20 - Lo stesso capitano sortí [sorti] dalla sala
  24 - non vi erano piú suppellettili [suppelletili]
  30 - prescritte alle [alla] AA. PP.
  35 - Stato con la sua segreteria [segretaria]
  54 - garantita l'integrità del [del del] suo territorio
  63 - firme, che per brevità di tempo si omettono [momettono]
  70 - Antonio Strigelli. [Stringelli]
  112 - riposta [risposta] ne' soli Collegi elettorali
  156 - il conte Federico Confalonieri [Confalieri]
  178 - per [per per] il 17 aprile
  181 - Pelegatti [Pelagatti] Cesare, giudice di cassazione





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