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Title: Da Firenze a Digione: Impressioni di un reduce Garibaldino
Author: Socci, Ettore, 1846-1905
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Da Firenze a Digione: Impressioni di un reduce Garibaldino" ***


Nationale de France" di aver concesso l'uso delle immagini
disponibili presso http://gallica.bnf.fr per la preparazione
di questo testo.



DA FIRENZE A DIGIONE

IMPRESSIONI
DI UN REDUCE GARIDALDINO

PER

ETTORE SOCCI



Poche parole per capirci alla prima.

Questo libro non è per gli strategici e molto meno pei letterati; un
cruscante, leggendolo, avrebbe di che arricciare il naso moltissime
volte; un soldato di quelli che vanno per la maggiore, giurerebbe che
lo scrivente sa di arte di guerra, quanto sa d'ortografia
un'analfabeta; nè io dicerto vorrei sfegatarmi per far cambiar loro
opinione; io non l'ho mai pretesa a linguista ed ho una vecchia
ruggine con chi si arrovella, per studiare il sistema di ammazzare più
gente che può.

I miei non sono che appunti; appunti presi al chiaro di luna, nel
silenzio degli avamposti o nel cicaleggio giocondo e spigliato della
caserma; tra il fischiar delle palle e le canzoni entusiastiche, tra
una bestemmia e una lacrima, in mezzo alla baldoria e ai cadaveri, ai
generosi proponimenti e alle continue disillusioni, nasce spontanea in
chiunque abbia del cuore, una filosofia che l'arcigno e pettoruto
pedante non crederebbe possibile in una vita scapigliata, chiassona,
piena d'emozioni, ma sempre senza pensieri, quale è la vita del campo.
E di tali riflessioni, ispirate dai fatti ora tristi, ora gloriosi, di
cui fummo gran parte, può essere che qua e là se ne trovino anche in
questi appunti, che raffazzonati alla meglio, ora ardisco di offrire
ai miei buoni lettori, persuaso che, se non avranno altro merito,
avranno certamente quello di essere dettati dalla verità, mai da
rancore o da invidia.

Se arrivato all'ultima pagina, qualcuno che avrà avuto l'eroismo di
seguirmi fin là, volgerà un pensiero pietoso ai poveri martiri, che
ignorati si giacciono nell'estese pianure sotto Fontaine e Talant e
resterà persuaso che i pochi, i quali per la causa più santa che si
sia dibattuta in questi ultimi tempi lasciarono interessi e famiglia,
quantunque disconosciuti e non aiutati da chi aveva il dovere di
aiutarli, hanno fatto tutto quello che umanamente era loro possibile
per far trionfare la idea, battendosi da prodi, e non mostrandosi
indegni di quella camicia rossa, che da gente abietta e codarda si
voleva condannare al Bargello, io sarò più che contento, io potrò dire
che il mio povero libro ha raggiunto il suo scopo.



CAPITOLO I.


--Bada bene che domani ti aspettiamo a Livorno.

--Non ne dubitate... Brucio anche io dal desiderio di lasciar queste
lastre.

--Allora siamo intesi?

--Intesisissimi.

--A domani dunque!...

E tutti, e tre ci stringemmo vicendevolmente la mano, e si stava per
congedarci, quando tutto a un tratto un prolungato mormorio ci giunge
all'orecchio: è un accorrere di gente, uno spalancarsi improvviso di
finestre e di usciali di botteghe vicine, un domandare e un
rispondere, un incomposto gridìo di ragazzi, un esclamare di donne,
continuo e in tuono di spavento.

--Che ci sia la rivoluzione?--Domandò un mio compagno che da circa
quindici giorni non sognava che sangue e trambusti.

Senza rispondere alla strana supposizione, mossi dalla curiosità
escimmo tutti dalla bottega di caffè, nella quale eravamo seduti. Qual
magnifico spettacolo non ci si offerse alla vista!

Era terminato di piovere ed il cielo era tutto rosso, infuocato,
quasichè fosse avolto in un lenzuolo d'amianto; i popolani, tutti a
bocca spalancata tenevano la testa all'insù, e distornavano gli
sguardi dall'alto, solamente por occhieggiarsi tra loro, lambiccando
il cervello e arrapinandosi, per spiegare il fenomeno, che per la
prima volta vedevano, e di cui non erano mai giunti a farsi un'idea. I
lettori si rammenteranno dell'Aurora boreale che apparve ai
venticinque dell'ottobre decorso; la sera appunto del venticinque
d'ottobre era l'ultima che, a nostro giudizio, dovevamo passare in
Firenze.

--Anche il cielo si tinge di rosso--Gridò il solito compagno,
provocando un'occhiataccia dal padron di bottega, il quale dacché
aveva raggruzzolato la miseria di un mezzo milione si era buttato,
anima e corpo, nella categoria dei ben pensanti--Allegri
ragazzi--Continuò collo stesso tuono di voce lo scapato--Gli augurii,
non potrebbero essere migliori... Evviva il rosso!

--Evviva!--Rispondemmo noi tutti, contenti come pasque per la nuova
distrazione che ci dava quel caso inopinato e maraviglioso che faceva
inorridire dallo spavento il superstizioso _fellak_ e la donnicciola
dei nostri camaldoli; due selvaggi in questo secolo in cui non si fa
che ragionare di civiltà.

Dopo pochi minuti, lasciai i miei compagni, e prima di ridurmi a casa,
ebbi vaghezza di vedere, forse per l'ultima volta, il lungarno. Era
deserto! Non sto a ripetere tutti i pensieri che, ispirati dalla
solitudine, si accavallavano e si cozzavano nel mio cervello in
ebollizione: finalmente si poteva partire, e partire per la
Repubblica... finalmente era venuto il momento di far vedere ai nostri
nemici che non si era buoni soltanto a declamare per i caffè e per le
bettole, finalmente si realizzava quel sogno che da tanto tempo
vagheggiavamo nel più segreto dei nostri pensieri. E dire che i pezzi
grossi della democrazia, tutti, come un sol uomo ci avevano
sconsigliato. Ma che vogliono dunque--ripeteva tra me--questi vecchi
che coi loro scritti, colle loro opere sono stati i primi a farci amar
la repubblica?--Lasciar solo là, tra un popolo straniero, Garibaldi e
farci sfuggire una sì bella occasione.... Ma che vogliono dunque
costoro?.... Alla fine soccorrendo la Francia, noi non adempiamo che
al nostro dovere; si soccorre la nostra sorella maggiore, la patria
delle grandi iniziative, quella che ci ha istruito colle sue opere,
che ci ha dato sollazzo coi suoi romanzi, che ha fatto le spese dei
nostri teatri, che dal campo sereno e grandioso della scienza a quello
frivolo della moda ci ha dato ogni cosa; se ci è di mezzo quel
maledetto affare di Montana, che colpa ce ne ha la Francia, che colpa
ce ne hanno i discendenti di Voltaire e di Danton, i figli di quella
Nazione che ha proclamato per prima in faccia all'attonito mondo i
diritti dell'uomo?.... Oh! la sarebbe bella, se i nostri soldati
fossero mandati in China o in qualunque parte del mondo, a puntellare
un monarca imbecille e codardo, oh! la sarebbe bella, che se ne avesse
a fare un carico a noi!... Eppoi andare contro un re per la grazia di
Dio, noi che non crediamo in Dio e non abbiamo i re nelle nostre
simpatie; aiutare un governo che ha i palloni volanti per posta e per
soldato chiunque è buono di portare un fucile; utilizzare a prò di
causa santissima una vita noiosa e disutile, traversare il
Mediterraneo, veder città e paesi che tante volte abbiamo sentito
nominare nei libri, e che tante volte abbiamo desiderato vedere,
riabbracciare i vecchi compagni con cui in altro tempo si è diviso i
pericoli e l'emozioni delle battaglie; inebriarsi di nuovo tra la
polvere, il fumo e l'assordante rumore dei combatimenti; e udire le
grida dei prodi, che si lanciano, come un sol'uomo, alla carica e
unirsi a loro e vederli... vederli da vicino i terribili soldati che
fan tremare l'Europa, misurarsi con essi, picchiarsi, vincere, morire
forse anche pel nostro ideale.... Oh! le care fantasie che mi
carezzavano l'immaginazione, sotto quel Cielo di fiamme, sul quale
proprio davanti ai miei occhi staccava superbamente modesto, il tempio
monumentale di san Miniato--Anche là sono morti dei repubblicani--Io
dissi con compiacenza a me stesso--anche là fu combattuta l'aspra
tenzone che da tanto tempo agita l'umanità... Essi son morti, ma
vivono eterni nella memoria del popolo. Oh! toccasse a noi la lor
sorte!

Insomma d'idea in idea, di fantasticaggine in fantasticaggine, chi sa
dove sarei andato a cascare, se, più macchinalmente che altro, non mi
fossi ritrovato sulla piazzetta, dove era la mia
abitazione--Eccolo--Gridò una voce ben nota, appena spuntai
dall'angolo della via.

--Eccolo!--Ripresero altre voci;

I miei due amici, a cui se ne erano aggiunti altri due, avevan fatto
un capannello davanti al mio uscio e mi avvidi alla prima che mi
aspettavano.

--Abbiamo creduto bene di venir tutti da te; così domani saremo sicuri
di svegliarci e non recheremo disturbo ai nostri padroni di casa...

--Lo recherete al mio--Interruppi....

--Non importa; già ora siamo liberi; abbasso i padroni...

--Specialmente quelli di casa, che se si tarda a pagarli, diventano
peggio di jene.

--Su.. su; gridarono tutti.

--Su!--Gridai anche io, facendo di necessità virtù; che oramai o
girellare tutta la notte, o portare in casa mia quell'indiavolati.

S'immagini il lettore, che cosa divenisse in pochi minuti quella
camera; tutti fumavano come cammini, ed io in un cantuccio davo fuoco
a certi appunti, coi quali sera per sera confidavo alla carta le
impressioni provate durante il corso della giornata. Il mio letto era
piccolo per uno solo e in lunghezza non avea niente da invidiare al
celebre di Procuste; cotesta sera ci entrarono in quattro, e non
potendo dormire, come è più che naturale, cominciarono a tirarsi
spinte e pedate tra loro, facendo un baccano da mettere in sussulto il
vicinato: ora uno stivale colpiva negli stinchi qualcuno, provocando
certi moccoli da fare arrossire un vetturino; ora si sentiva
un'urlaccio, che traeva l'origine da un gentil pizzicotto; ora un
guanciale cadeva, a mo' di bomba, sul tavolino, rovesciando il
calamaio sul tappeto, che, se non era Turco, non era meno diletto al
padrone di casa che ci passava davanti intiere mezz'ore in
ammirazione; ed ad accrescere il diavoleto, risate omeriche, grida
incomposte, esclamazioni più o meno frizzanti, ma non certamente
autorizzate dal Galateo di Monsignor della Casa.

Il più rivoluzionario dei miei amici si avvolse dignitosamente nel
lenzuolo, quasichè fosse un peplo; le forme del futuro difensore della
Repubblica Francese non erano greche di certo; i suoi stinchi potevano
benissimo scambiarsi per fusi, e tutto l'insieme ti dava un'idea
esattissima di un Cristo del Cimabue.

--Cantiamo la Marsigliese--Gridò

E tutti, con certe voci da birboni, che non le può immaginare
all'infuori di chi l'abbia sentite, cominciarono il celebre inno di
Rouget de l'Isle: _Allons, enfants de la patrie,_ con quel che segue.

--Signori per carità--Urlava con voce più delle nostre stuonata, la
padrona di casa dall'uscio vicino.

--Questa è una vera porcheria--Di rimando aggiungeva l'inquilino della
stanza di contro--Quando si ha la sbornia, la si va a digerire in
campagna.

--A chi la dice briaco?--Protestava, offeso nella sua dignità, il
Romano dal letto.

--Misuri i termini. Vociavano gli altri.

--Per chi la ci ha preso?

--Bellino lui!... Fa il feroce, perché è dietro la porta.

--Giù la porta.

--Alle barricate!...

--Alle barricate!...

Descrivervi la pioggia di proiettili d'ogni genere che fu scaraventata
su quell'uscio, sarebbe cosa impossibile; era un turbine di
stivaletti, di libri, di guanciali, di spazzole; il malcapitato se ne
andò battendo a più riprese la porta e protestando che andava a far
rapporto alla delegazione vicina.

--E ora, saranno soddisfatti!--Esclamò la padrona, sempre dietro le
scene.

Per nostra buona fortuna il chiarore bianchiccio dell'alba, si fece
vedere tra gli spiragli delle nostre finestre, ed i miei compagni
partirono allegri e contenti, dopo averci scambiato la promessa di
vedersi tra otto ore in via Grande a Livorno, chè le mie occupazioni
esigevano che io mi dovessi trattenere tutta la mattina a Firenze.

Andai per dormire, ma avevo fatto i conti senza l'oste, e questa volta
la parte dell'oste doveva esser sostenuta dalla mia vecchia padrona di
casa, la quale mi caricò di rimprocci, mi torturò coi suoi omei, mi
seccò colle sue geremiate--Noi si cercava di rovinarla, il nostro non
era agire da persone educate.--Io presi pretesto da tutte queste
lamentazioni, per restituire la chiave, uscii, senza ascoltare scusa
veruna, disbrigate in fretta e furia le mie faccenduole mi avviai,
diritto come un fuso, alla stazione, ed aspettando il magico fischio
che doveva annunziarmi la partenza dalla moribonda capitale del
felicissimo regno degli analfabeti, mi rincantucciai in un vagone.

--Era tempo!--Esclamerà il lettore e non avrà tutti i torti.

Ci moviamo: qual felicità! Eppure credevo di dover provare un po' più
d'allegrezza: il Cielo era d'un colore plumbeo e, per quanto tu
aguzzassi lo sguardo, non giungevi a vedere un solo strappo che ti
facesse sperare il sereno: eppoi, non lo so, partendo non si può fare
a meno di risentire una certa malinconia.... son troppe le
reminiscenze che vengono a assalirti, tutte di un colpo; il minimo
nonnulla prende le proporzioni delle cose più grandi; ci si rammenta i
più inconcludenti discorsi, si ripensa alle passeggiate gradite, ai
geniali convegni, alle conversazioni che eravamo soliti di
frequentare; gli stessi dispiaceri che abbiamo provato ci sembrano
meno crudeli; e nelle nostre fantasie si affollano invece le gentili
esibizioni degli amici, gli affettuosi conforti delle nostre belle, i
favori che ti fu dato ricevere, frequentando la società; le vie per le
quali eri solito passeggiare le ti sfilano davanti, coi suoi negozi,
colle sue gentili passeggiatrici che ti sono divenute familiari,
quantunque tu non le abbia mai avvicinate: e davanti ai tuoi occhi che
distrattamente si affissano sugli alberi, i quali sembra che friggano
indietro impauriti a veder passare la macchina, sfilano ad uno ad uno,
quasiché fossero figure di lanterna magica, i volti di tutti coloro
che ti conoscono, che tu conosci, o che hai veduto anche soltanto una
volta: le occupazioni che poco fa riguardavi come un martirio, ora ti
sembrano, care... E quando tornerò?... E se non tornassi più?....
Quante cose saranno cambiate, nel primo caso.... chi mi compiangerà
nel secondo?!.. Oh! In questi momenti si comprende l'eroismo di chi
per una idea può lasciare una madre!

--Livorno--Grida la guardia.

--Già.... a Livorno--Pensai tra me e me--Ed io che credeva di essermi
mosso da pochi minuti! Chi avevo avuto per compagni di viaggio? io non
me lo ricordo; probabilmente mi devono aver preso per matto.

Scendo e vado di corsa in via Grande, ove avevo l'appuntamento a
Livorno; il Consolato Francese doveva darci modo di pervenire
sicuramente a Marsiglia; chè la questura Livornese, diretta dal
celebre Bolis stava con tanto d'occhi sgranati, affinchè nessuno
salisse sui vapori francesi, importunando e viaggiatori, e marinari, e
facchini di porto, fino a tanto che questi non avessero dati
schiarimenti più che lampanti sull'esser loro, o sulle faccende che li
facevano stare sul mare; anche muniti di biglietto, si correva rischio
di esser mandati e con cattivo garbo, di dove si era venuti, e i
passaporti non si volevano più concedere ad alcuno.

Sicuro che gli amici avessero fatto le pratiche, che ci era stato
consigliato di fare, io sentii sollevarmi un gran peso dal cuore,
appenachè potei muovere un passo nella città; rincontrai quasi subito
gli altri, ma, ahimè qual delusione!.... Le loro ridenti fisonomie
erano diventate oscure; nessuno di loro osava indirizzare una parola
al compagno, e tutti mi accolsero con quella musoneria con cui i
popoli accolgono un re, dopo un manifesto del sindaco, che invita a
rimettere anche un tanto di tasca per le spese del ricevimento.

--Che ci è di nuovo?--Domandai con ansia, a quelli che mi avevano
fatto un cerchio all'intorno.

--Che ci è di nuovo?--Proferì con rabbia, il più secco e più
bisbetico--Perdio!.... Vieni al Consolato e vedrai.... E avrebbe a
andar benino, davvero!

--Andrà come doveva andare--Soggiunse un'altro--Quando alla testa ci
si vuol metter certa gente.... Quando si vuol proceder sempre con
certa maniera.... Già lo dicevo io... tutte le volte che ci siam
fidati dei Francesi si è fatto proprio un bel bollo.

--Ma insomma cosa ci è?... si parte?....

--Sì.... per Firenze, o per dir meglio per le Murate!

--Ma.... come?

--Vieni.... vieni con noi e ti si ripete, vedrai.

Non intendendo alcuna cosa, ma volendomi per lo meno sincerare su una
sventura, che non conoscevo e che ci minacciava, seguii colla coda tra
le gambe, i bravi ragazzi.

Arrivammo in due salti alla sede del Consolato; in faccia alla porta
una folla innumerevole di popolani chiassava, si agitava, gestiva;
qualcuno, senza far tanti discorsi, si era già messa la camicia rossa
sotto la giacchetta; un andare o venire, un rimescolarsi continuo,
un'accalcarsi intorno a qualche povera vittima che esciva dal portone,
un vociar di ragazzi che a capanelli osservavano la scena, e gridavano
incessantamente: Viva Garibaldi.... Per una spedizione fatta in tutta
segretezza il principio non poteva esser migliore!

--Ma che vi è dunque?--Domandai a un mio compagno.

--Il console non si fa vedere, il cancelliere, nuovo Pilato, dice che
se ne lava le mani, e tutta questa gente è rimasta come la celebre
statua di Tenete.

--E che abbiamo da fare?

--Va tu, che sai alla meglio bestemmiare un po' di francese, scongiura
quella gente a prendere una decisione; lo vedi meglio di me, qui, se
non si schizza tutti in _domo Petri_ è un vero miracolo.

Con quale animo andassi, se lo può di leggieri immaginare il lettore;
chi ben comincia è alla metà dell'opera, dicevano i nostri nonni che
non era baggei, e cominciare peggio di noi, credo, sarebbe stata cosa
impossibile.

Mi feci annunziare al cancelliere, e poco dopo venivo introdotto.

Il cancelliere era un bel giovinetto; aveva una fisonomia distinta ed
aristocratica e mi accolse con tutta l'educazione possibile; pure sin
da bel principio mi avvidi, che la mia presenza gli riusciva
incresciosa più di quella di un creditore, e rimasi convinto che la
camicia rossa non era di certo una delle simpatie più sentite di
quell'impiegato. Difatti il nuovo governo della Repubblica Francese
aveva lasciato al suo posto tutti i vecchi funzionari, i quali in quel
bailamme non sapendo a qual Santo votarsi cercavano di restare in
bilico, come meglio sapevano, fermi però nella idea di non
compromettersi; mettetete anche un po' d'affezzione alla dinastia che
aveva loro dato quel posto.... eppoi ditemi se questa trascuraggine
del governo repubblicano non ha dicerto influito a che fosse sì scarso
il numero degli Italiani, che mossi da un'idea generosa, hanno pugnato
e gloriosamente pugnato sui campi di Francia.

--Capisco digià, perché viene.--Mi disse pel primo e facendomi segno
di sedere, il cancelliere--Con mio gran rincrescimento: però, sono
obbligato di dirle che non possiamo far niente per loro.

--Ma se a Firenze ci hanno inviato qui!....

--A Firenze hanno perduto certamente il cervello.... Le pare, che noi
vogliamo suscitare una questione di diritto internazionale....

--Ma anche noi, le ripeto siamo stati spediti direttamente e a colpo,
sicuro: di più sappiamo che l'altra sera partirono altri volontarii,
mandati da loro, e si ha diritto d'andare anche noi.

--Per me si figuri le manderei subito--Aggiunse l'altro con un sorriso
ed io credendo immediatamente a quest'ultimo desiderio di lui che
parlava, ma non volendo darmi per vinto, esclamai: Ma è così, che
l'Ambasciata Francese di Firenze mantiene le proprie promesse?

--Noi non abbiamo ricevuto ordini dall'Ambasciata...

--Ma pure l'altra sera partirono...

--Non glielo nego, ma sapesse le rimostranze della questura...

--Ebbene: su noi può fidare, noi non la comprometteremo... ci dia
  l'imbarco... lei vede lo scopo pel quale partiamo...

--Si provvedano dei loro passaporti...

--Se non gli vogliono dare.

--Prenda un mio consiglio... lei mi pare un giovane a modo, torni a
casa... Metz, se non ha capitolato, poco può stare a farlo... accetti
un mio consiglio, glielo ripeto, torni a Firenze.

--A Firenze poi no!..

--È la meglio!

--Mi meraviglio che un Francese..

--Allora faccia lei--secco, secco ed alzandosi, per farmi veder che
l'uggivo, mi proferì il cancelliere.

Disanimato, e non volendo attaccare una briga che poteva mandare a
voto tutti i nostri disegni, salutai appena il mio consigliere, e
gabellandolo per imperialista e anche, peggio, scesi di corsa la
scala, e preso a braccetto un mio amico, partii con gli altri dalla
piazzetta del Consolato.

Andare bisognava andare; a dispetto del mondo e delle circostanze; una
nuova poesia si aggiungeva a quella immensa che ci aveva sostenuto
fino a quel punto; sfuggire i questurini, farla in barba alle autorità
costituite, sfidare un nuovo pericolo, raggiungere il nostro scopo,
giusto appunto, quando i pusilli, scoraggiati sarebbero tornati
indietro,... era troppo bella, troppo attraente la prospettiva, per
poter stare un sol'attimo dubbiosi su ciò che dovevamo intraprendere.

Io esposi queste idee agli amici, e, godo dire, che queste idee furono
accolte con entusiasmo: ma a che parte rivolgersi per ottenere
l'intento? Quali passi potevamo tentare con sicurezza? Quale speranze
ci sorridevano? Quali probabilità di successo? Noi non lo sapevamo, il
romanticismo di una avventura, che offriva in se stessa tanti
pericoli, ci sorrideva certamente e noi eravamo contenti: contenti
come il povero diavolo, abbandonato da tutti che incerto
dell'indomani, si addormenta tranquillamente sull'erba di un viottolo,
sotto un cielo sereno e popolato di stelle, sognando pace, agiatezza,
fortuna... Oh! l'idea dì un dovere che si compie, malgrado gli
ostacoli che frappongono gli uomini e la sorte, fa piovere in seno una
consolazione che intender non la può chi non l'abbia provata.

Andammo all'Agenzia dei vapori della compagnia Valery, e per quanto
scongiurassimo l'agente, ci fu impossibile ottener da lui, anche
pagandolo il doppio, un biglietto di imbarco. Gli ordini della
questura erano precisi.

--Noi glielo daremmo anche _gratis_, ci ripetevano quegli impiegati,
ma...

Quel ma era tanto eloquente, che noi non aggiungemmo parola.

Con un po' di sconforto nell'anima, dopo aver girellato a casaccio
un'altra mezz'ora afiaccolati e cascanti ci butammo sulle panche di un
caffè di Via Grande; un tavoleggiante, giovinetto che avrà avuto
appena appena quindici anni, dopo averci ben bene sbirciato, venne da
me e chiamommi dapparte.

--Lei vuole imbarcarsi per la Francia? Mi sussurrò a bassissima voce.

--Sì--risposi io francamente, chè non potevo credere in sì giovine età
nequizia veruna.

--Ebbene... le dò il mezzo d'imbarco.

--Non scherzi?

--Sulla mia parola d'onore.. Aspetti un momentino e le porto l'uomo
per la quale!.....

--Bravo, e se farai bene ti prometto una buona mancia.

Il giovinetto se ne andò saltellante e fece poco dopo ritornò,
accompagnato da un barcaiolo, un pezzo di diavolone, tarchiato e
traverso; che era un piacere a vederlo; intanto io aveva messo i
compagni a parte della peregrina scoperta e, quando questi ultimi
videro avvicinarsi quel colosso in giacchetta, gli si fecero incontro
con una grazia e con certe fisonomie così gentilmente ridenti, che si
poteva credere che non un omaccio, ma la più vaga figlia di Eva fosse
entrata in quel mentre nel nostro caffè.

--Dunque loro vogliono, andare? Dandomi una seconda, stretta di mano,
cominciò a dirmi il barcaiolo.

--Sicuro!--Rispondemmo noi tutti--Ma vediamo tante difficoltà.

--Si fidino di me, che non fo per dire, ma lo può domandare a tutta la
piazza sono uno di quei buoni.. si figurino, ho fatte tutte le
campagne e anche Aspromonte e Mentana e se non fosse perchè; perchè...
e questo non è nulla: quello che ho fatto per salvare i compromessi
politici!... Le son cose che forse non le crederebbero... Hanno fatto
bene a rivolgersi a me, perchè ci è di gran canaglia tra i
barchettaioli e.. e....

--E insomma t'impegni di farci entrare in un bastimento, deludendo la
vigilanza delle guardie?...

--Se me ne impegno.... Faccian conto di esserci sopra...

--Tu potrai contare sulla nostra riconoscenza.

--Oh! io per il partito darei un bicchier del mio sangue.

--Dopo ti daremo qualche cosa....

--Oh! mi contento di un trentino per uno:

--Così poco!--Esclamammo noi, credendo che ragionasse di centesimi:

--Sicuro,... vedono che mi adatto: per lor signori cosa son trenta
franchi?

Ammirammo tutti insieme lo spìrito patriottico che ci faceva pagare
150 lire, quello che nella stagione dei bagni si ottiene a dir molto
con ottanta centesimi; pure, strìngemmo la mano al generoso,
dicendogli che ci saremmo riveduti più tardi; poichè eravamo decisi,
con nostro gran sacrifizio, ad appigliarci a quest'ultimo partito, se
gli altri ci fossero falliti.

--Ci movemmo dal caffè, e vedemmo un insolito brulichìo in quella
contrada, sempre brulicante di popolo: che è, che non è?... Hanno
arrestato un maggiore Garibaldino: la questura si era avveduta, e non
ci voleva una gran fatica, che molti giovanotti volevano partire per
la Francia e cominciava a allungar le sue grinfe. Lo sconforto
cominciava a impossessarsi anche di noi.

--Ettore--Sento gridarmi vicino. Mi voltai e vidi il Colonnello
Perelli.

--Dunque si parte? Gli domandai immediatamente.

--Parli a bassa voce... chè io son tenuto d'occhio, guardi, ecco
subito due musi proibiti che ci osservano...

--Ma dunque?

--Dunque venga stasera, alla Locanda della _Luna_.

--Ma ci è speranza?

--Credo che ci sia sicurezza... A rivederci

--A rivederci a stasera..

--Allegri amici, dissi subito appena ebbi lasciato il mio
interlocutore--Allegri amici, le speranze non che diminuire, prendono
tutte le probalità di un vicino successo.. Andiamo a mangiare
all'Ardenza.

Senza rispondere alle mille domande colle quali mi oppressero gli
altri, che tutti di certo conoscevano il colonnello, accesi un sigaro,
e strascinai i reluttanti all'Ardenza.



CAPITOLO II


Il sole, avvolgendosi in un lenzuolo di porpora, si era coricato
dietro le ultime linee del tranquillissimo mare; non la più piccola
nube nel cielo, non il più leggiero maroso in quella superficie
azzurra, e dolcemente increspata dal venticello della sera che ci
carezzava la faccia: l'isola della Gorgona appariva modestamente su
quel sereno Orizzonte, nel quale cominciava qua e là a apparir qualche
stella, tutto ispirava una calma e una pace divina; il creato ti
sembrava quasi un'arpa sterminata, da cui si elevasse un canto
grandioso: il canto dell'accordo e dell'armonia delle sfere. Era
insomma l'ora che la giovinetta, la quale non ha ancora fatto
all'amore, prova desiderio di piangere, senza farsene una ragione e
contempla malinconicamente il fiorellino che sboccia e la foglia che
cade, e risponde con meno affetto agli amplessi materni, chè il cuore
in quel momento vuole qualchecosa di più di quello che ha avuto fin
qui; era l'ora in cui il _perduto, l'irreconciliabile, quello che non
ha niente da perdere_, rianda tutte le opere buone che ha fatto, si
sente superbo di trovare nella sua vita più pagine onorevoli che
tristi, ripensa a coloro che languono, non invidia quelli che godono,
e affissando gli sguardi alla nuvoletta diafana che va sfumandosi
nell'azzurro padiglione dei cieli, finisce col dire a se stesso: sien
pur gli uomini dappoco e malvagii, io ho in me un patrimonio d'affetto
che mi rende contento; il borghese a quest'ora sorbisce
sibariticamente una buona tazza di Moka per digerire il pranzo.

Esatto più di un'impiegato il giorno della riscossione della paga,
lasciai la trattoria e mi avviai, pian pianino, in via Grande
esaminando distrattamente il bello spettacolo che mi si offriva
davanti e le nuvolette grigiastre che mi uscivano di bocca a causa del
sigaro.

Arrivai alla Locanda della Luna, e dopo essermi fatto annunziare dal
cameriere, passai in un salotto, dove, intorno ad un tavolino nel
quale erano varie bottiglie stappate se ne stavano a chiacchiera tre o
quattro individui che formavano una specie di stato Maggiore del
Colonnello Perelli. Con mia gran meraviglia vidi tra loro una giovine
donna.

Il Colonnello era più brusco del solito e, appena mi vide, si affrettò
a parlarmi in tal modo: Anche lei vorrà sapere qualche cosa.. me lo
immagino.. ma per ora, purtroppo, siamo sempre alle solite: vede, qui
siamo in un piccolo consiglio di famiglia e cerchiamo....

--Se fossi un uomo io!.. Saltò a dire la giovine donna, la quale era
la moglie di quel Gagliano, arrestato poco tempo avanti ed ora
nascosto in casa, perché tenuto d'occhio dalla questura e deciso a
partire, con noi.

--Se foste un uomo voi!--Borbottò il Colonnello,--quando non ci son
  mezzi...

--Garibaldi, quando ha voluto, è riuscito.

--Se si andasse avanti colle chiacchiere!....

--Eppoi tutti questi giovani che sono qua?

--Li ho fatti partire io... forse?

--Non dico questo: ma è un fatto che non hanno avuto che cinque lire:
quattro e novantacinque ne hanno spese pel viaggio e cominciano a far
chiasso, perché non si sono anche sdigiunati e qua non conoscon
nessuno...

Quello che sentivo era Vangelo!... se certi comitati avessero agito un
poco più sul serio, non si avrebbe avuto a deplorare tanti scangei,
certa gente non avrebbe gongolato e nell'armata dei Vosgi avremmo
avuto più soldati e più buoni.

--E dunque, cosa facciamo?--Ripeterono tutti guardandosi.

A tale interrogazione mi cascaron le braccia; anche qui dunque non si
sapeva a qual gancio attaccarsi, anche qui si passava il tempo,
cullandosi tra le illusioni e le ipotesi, come nel nostro modesto
cerchio di amici.

Dopo essere stati un poco in silenzio, entrò quasi di corsa, nella
stanza un tale che già si era accomodato a fare da ordinanza al
Colonnello; proferì sommessamente alcune parole al padrone: questi ci
parve soddisfatto ed infatti poco dopo con tuono brioso ci disse:
Signori, domani arriva il _Var_, chi è buono di salirci, va in
Francia.. Confido nella vostra accortezza e nel vostro coraggio... Io
tento di salire pel primo... A domani!

Non dormimmo in tutta la notte e appena fu giorno, andammo al porto e
prendemmo una barca. Un forte libeccio aveva cominciato a soffiare; il
mare era agitatissimo ed i cavalloni sbalzavano di qua di là, di sotto
di sopra la nostra barchetta, spruzzandoci più o meno impetuosamente
il volto, e procurandoci quel malessere interno che è il primo
principio del mal di mare..

--Oggi me li guadagno--Ci diceva il barcaiolo.--E vogliono girar molto
tempo!

--Fino a che non arriva il vapore!

--E un casca un cencio... Se arriverà a mezzogiorno... O che anche
loro vogliono andare in Francia?... A me lo possono dire.

--Ebbene.. sì.. vogliamo andare in Francia.

--Me l'avevano a dire!.... Guardino, due barche piene di guardie.

--È vero... e ora cosa si fa?

--Non si sgomentino... Figureranno di pescare... Prendano le lenze!

Noi prendemmo questi ordigni e, tramutati lì per lì in pescatori,
cominciammo, con una serietà unica, un'operazione che dentro di noi ci
faceva scompisciar dalle risa. Io credo che i pesci fossero i primi a
canzonarci; e' si vedevano guizzare a fior d'acqua, proprio vicini
ali'esca fatale, poi, facevan cilecca e ci lasciavano con un palmo di
naso.

Non so quanto durasse questo divertimento; mi rammento però che ci
venne un'appetito diabolico; il nostro Caronte, da uomo saggio, capì
per aria l'antifona e ci condusse a dei vicini barconi, dove per lo
più mangiano i marinari e i facchini del porto. Uno stoccafisso,
rifatto colle cipolle, ci sembrò più gustoso di un manicaretto,
apprestato da Tomson; ci bevemmo due fiaschi di vino, e ci sentimmo
raddoppiati in coraggio e in costanza. Intanto il libeccio seguitava a
infuriare; il mare era divenuto addirittura cattivo; si troncavano gli
alberi delle piccole navi vicine, si vedeva volare dei cappelli, che
appartenevano agli imprudenti che troppo si erano accostati all'infido
elemento... la cosa cominciava ad essere non troppo graziosa; in
quell'aspettativa i minuti ci sembravano ore; non avevamo alcuna
notizia dei moltissimi nostri compagni e non il più piccolo indizio ci
faceva sperare che si avvicinasse il tanto desiderato bastimento.

Ecco una striscia di fumo!... Un oggetto nero, che ingrandisce a vista
d'occhi si approssima.. è il _Var_, si grida tutti con un urlo di
contentezza che si sprigiona dalle più intime viscere, è il _Var_, il
momento supremo è venuto, coraggio!

Il battello si accosta ad un brigantino, che ha bandiera Greca; in un
_fiat_ è circondato dalle guardie. Cominciano le difficoltà, noi siamo
decisi a superarle.

--Se non li metto sù, che Santa Lucia benedetta mi faccia perder la
vista degli occhi!--Grida il barcaiolo, diventato entusiasta dopo
l'ultimo fiasco.

Si traversò arditamente la fila dei bastimenti, e, allorché, fummo
vicini alle guardie, ci sdraiammo nel fondo del nostro piccolo schifo,
l'uno sull'altro, proprio alla maniera dei fichi secchi; poi,
scongiurato il pericolo, si girò dietro ad una tartana che combaciava
perfettamente col brigantino: i questurini che non sono mai stati
ritenuti per aquile d'intelligenza, non avevan posto attenzione alla
manovra e si poteva cominciare a credere che la nostra intrapresa
cominciasse ad avere molte probabilità di sicuro successo.

--Ed ora, come si sale?--Domandai io, molto imbarazzato nel non vedere
alcuna fune.

--Si va per la catena dell'ancora--Aggiunse immediatamente e con tuono
esaltato lo Stefani, il compagno più secco e più susurrone tra tutti
coloro che erano venuti con noi da Firenze.

La proposizione fu accettata di subito ed io che non ho mai brillato
per la mia sveltezza e molto meno per le mie movenze ginnastiche, mi
aggrappai alla catena di ferro e a forza di urti e di spinte arrivai
ad andar ruzzoloni e facendo un gran tonfo sul cassero della tartana:
riavuto appena dal colpo mi avvidi che ero molto al disotto del
livello dei miei amici, saliti dietro di me; infatti caduto sopra un
monte d'avena, per quanti sforzi facessi, non giungevo a capo di
trarmi d'impaccio, chè ogni sforzo ad altro non era valevole che a
farmi affondare di più. Dopo essere stato ripescato alla meglio dagli
altri, saltammo tutti insieme sul brigantino. Pochi passi di più ed i
nostri voti erano esauditi: un maledetto cagnaccio comincia a abbaiare
e finisce coll'attaccarsi alle polpe di mio fratello.

Si tenta l'ultimo colpo: il mio fratello lascia al famelico cane un
straccio dei suoi pantaloni... E dire che sperava con questi di far
tanta figura, quando sarebbe sceso a Marsiglia!

Il salto riesce, siamo a bordo del _Var_: i marinari ci accolgono tra
le loro braccia, la gioia ci rende frenetici e tutti insieme
confondiamo le nostre aspirazioni, le nostre speranze, i nostri voti
più cari, al magico grido di _viva la repubblica_.

--Giù, giù--Ci gridarono quei bravi figli del mare, appena che fu
terminato quello slancio di esultanza, e ci buttarono a viva forza
nella carbonia.

S'immagini un po' il lettore la nostra situazione, in quell'atmosfera
soffocante, e a quella polvere, che ci ridusse in pochi momenti in uno
stato veramente deplorevole; di più si aggiunga lo spettacolo non
troppo gradito che ci si presentava alla vista dall'unico finestrino,
pel quale prendeva aria questa stamberga; un andare e venire di barche
su cui facevano bella mostra di loro tutte le faccie più proibite
della Cristianità, e pennacchi di carabinieri e monture di guardie di
pubblica sicurezza... Fortuna che siamo protetti dalla bandiera
francese--si diceva tra noi--e qui il Reale Governo Italiano non conta
un bel corno.

Ogni poco veniva a noi qualcheduno dell'equipaggio e ci esortava a
soffrire con pazienza. L'equipaggio, composto quasi tutto da
originarii della Linguadoca, naturalmente parlava francese; di qui
grande imbroglio nei nostri, i quali per farsi capire francesizzavano
l'italiano, creando una lingua ibrida, bastarda, che ci faceva crepar
dalle risa: lingua che si perfezionò in Francia e che ha fatto dire,
bene a ragione, ultimamente al Bizzoni, che, se fosse continuata la
campagna il mondo avrebbe annoverato un idioma di più; quello dei
volontarii.

Da un paio d'ore si era in quei triboli, quando si vide arrivare il
Perelli; che nell'ascensione aveva perduto il suo cappello a
cilindro...

--Cosa fanno qui loro?--Ci disse.

--Lo vede: siamo nascosti.

--Vengano su nelle cabine... ci siamo tutti noi...

Contenti, come uno che abbia beccato un terno, salimmo. Quale non fu
la nostra sorpresa, quando vedemmo quasi tutti i nostri amici!--O
tutte le guardie cosa facevano lì intorno?... La. questura ci dava
l'idea di quei mariti baggei che stanno in fazione, difaccia
all'uscio di casa, mentre il cicisbeo della moglie passa dalla
finestra.

Una gran risata echeggia da un capo all'altro del ponte... Che è, che
non è?... È comparso un individuo: in perfetto costume di Adamo: per
risparmiare la spesa del barchettaiolo, oppure per non esporsi al
pericolo di perder qualche cosa, come noi tutti, aveva preferito
buttarsi a noto nel mare; Era un bel giovinotto e ci riuscì subito
simpatico per lo strano modo con cui a noi si presentava. Povero
diavolo!... Io lo dovea rivedere, ma col cranio fracassato da una
palla prussiana, sulla gran via di Parigi, sotto Talant, e mi
rincresce di non sapere il suo nome, perché rammentandolo, forse a lui
darebbe un pensiero pietoso qualche anima buona! Mi conforta però, la
persuasione che chiunque lo abbia veduto in quel giorno, non potrà
così facilmente obliarlo, e, leggendo queste modeste mie righe, capirà
alla prima di chi voglio parlare.

--Signori mi rincresce--Venne adirci il capitano--ma per stasera è
impossibile la partenza--Il libeccio è tremendo ed io non ho
intenzione di mettermi in sicuro pericolo.

--Ma noi... saremo sicuri?--Domandò uno.

--Sulla mia parola d'uomo onesto, nessuno potrà farsi bello di avere
insultato la bandiera francese, qui dove sono io... se non viene il
console a bordo, e se egli pel primo non mi ordina di assistere ad una
flagrante violazione del diritto delle genti, i questurini prima di
toccare uno solo di loro, dovranno passare sul mio cadavere.

--Grazie, capitano--Gridammo noi tutti--Voi siete un vero Francese.

--E a che ora si mangia?--Chiese sbadigliando uno dei nostri, a cui le
idee non facevano dimenticare di essere uomo.

--Alle cinque.... ci è il pranzo dei viaggiatori....

--Noi veniamo tutti a quello... non è vero compagni?

--Sì--Risposero gli altri all'unisono.

Io mi azzardai allora di salire: e rincattucciato dietro il parapetto
del bastimento, diedi un'occhiata alla riva vicina: qualche facchino
passeggiava distrattamente in su e in giu, nessuno osservava il nostro
battello; tutto a un tratto uno scialle rosso e uno nero, compariscono
sulla via; due donnine dalla taglia svelta e slanciata si appoggiano
all'impalancato che circonda il porto ed affissano i loro occhi sul
_Var_. Chi sieno queste due creature?--Pensai tra me e me e cominciai
a figurarmele bellissime, e mi parvero gli angeli del buon'augurio che
fossero venute li a darci il buon viaggio; ma poi un altro pensiero mi
sopraggiunse: Povere donne!.. Devono essere di certo parenti, amiche
di qualcuno che è insieme con noi, e sfidano questo vento e questa
indiavolata stagione, purché loro sia dato vederlo, fosse anche per
l'ultima volta: povere donne!... Per noi uomini la gloria, le
improvvise e belle emozioni, lo stordimento che ci procurano e i nuovi
piaceri e le nuove occupazioni, le gioie dell'orgoglio soddisfatto,
per esse la solitudine, la lontananza delle care persone, la continua
ansia di saperle in pericolo.

Tornai giù e dopo poco ci movemmo tutti per il pranzo: nel ripassare
io vidi i due fantastici scialli.

Il trovarci tutti insieme a mangiare sul _Var_, dopo le belle cose che
ci erano accadute, non poteva fare a meno di darci un brio, una
parlantina, un ebbrezza, che, chiunque ha in zucca un pò di mitidio,
comprenderà perfettamente alla prima. I nostri appetiti erano qualche
cosa di classico ed il cameriere di bordo ci guardava con certi occhi
stralunati, pensando certamente che, su ogni giorno gli fossero
capitati di tali avventori, prudenza avrebbe voluto, che l'ordinario
fosse a dir poco, raddoppiato.

Cominciarono i brindisi; i ricordi più cari s'intrecciavano coi più
generosi propositi: ora uno parlava degli occhi celesti della graziosa
biondina che aveva lasciato a Firenze, ora un altro giurava di non
aver comprato un _revolver_ perché era sicuro di prenderlo al primo
ufficiale prussiano, che gli si fosse presentato davanti e che avrebbe
ucciso dicerto.

--Evviva, Evviva.

Che c'è?

Entra nella stanza Gagliano! Un altro fiasco che hanno fatto le
guardie!

--Ieri passò da Firenze Ricciotti; là--dice--troveremo lassù anche
lui!

--Evviva Ricciotti--Gridano tutti.

--E Menotti, e Garibaldi e tutti i bravi Italiani che ci han
preceduto!.

Dopo poco entra Tito Strocchi, giornalista repubblicano e valoroso
soldato, che tanto onore si è fatto dappoi.

--Ma dunque ci siamo tutti!

--Tutti--Urlano entrando alla lor volta il Rossi e il Piccini.

--Anche tu!--Dicemmo a quest'ultimo--E come hai fatto stronco, come
sei, ad arrampicarti?

--Eh! Le guardie di finanza son dalla nostra e ci hanno insegnato la
strada: Figuratevi che noi siamo passati per la scaletta, proprio,
come se si fosse viaggiatori!

--Ma le guardie ci son sempre?

--Se ci sono!.. E bisogna vederli quei poveri diavoli a questo
brezzone... infilan le pispole, come se si fosse in pieno gennaio!

--Anche voi però...

--Non ve lo neghiamo, il freddo ci è entrato nell'ossa.

--Del _cognac_ del _cognac_!...

--E il cameriere ci portò una bottiglia polverosa dì vecchio cognac,
che avrebbe messo energia anche a un deputato del terzo partito. E qui
bevi; bevi in un modo incredibile; in un momento il tavolo fu pieno di
bottiglie e quando andai per distendermi nella mia cabina vedevo tre o
quattro colonnelli, una ventina di lumi, e un centinaio di persone,
tra le quali apparivano circondati da un'aureola i due scialli che mi
avevano fatta tanta impressione, pochi momenti innanzi.

Tale era il mio sonno e, diciamolo pure, l'alterazione in me prodotta
dal vino che quando mi destai, il sole era già alto. Salii a poppa
della nave dove trovai il povero Rossi che contemplava astrattamente
l'immensa superficie del mare, divenuto di nuovo tranquillissimo;
tutto era celeste e l'onde venivano a baciare colla loro spuma
bianchiccia, la carena del nostro battello: si sarebbe di momento in
momento aspettato che qualche Nereide sbucasse a fior d'acqua per
rammentare ai mortali le dolcezze del buon tempo antico.

Il colonello Perelli, da vero vecchio militare, sapendo quanto il
tempo è prezioso non se ne stava con le mani in mano ma dava prova di
una instancabile attività; già aveva costituito le squadre,
nominandone i capi, già aveva pensato al modo di provvedere il vitto
per tutta quella gente (chè nella nottata il numero dei volontarii era
asceso fino a cento) ed aveva in serbo per tutti buone speranze e
conforti. La _salle à manger_ era stata trasformata in ufficio di
stato maggiore ed io fui incaricato a compilare il primo ordine del
giorno.

Cominciavo a scrivere, quando scesero nella stanza l'agente della
compagnia accompagnato dal capitano; mi domandarono dove si trovasse
il Colonnello ed io mi mossi per andarlo a chiamare.

Salii immediatamente e trovai il Perelli a tu per tu con una
vecchietta, tutta pepe e tutta piangente.

--Queste sono infamie e il governo dovrebbe mandarli in galera.... non
si strappano così i figliuoli alle povere mamme che hanno fatto tanti
sacrifizii per mantenerli.

--L'ho forse chiamato io il suo figliuolo? borbottava l'altro
stizzito.

--Non lo so, ma lo voglio!

--Ebbene, se lo trova, che se lo riprenda!

--Loro me l'hanno nascosto, ho girato per tutto e non mi è stato
possibile di trovarlo,

--E allora?

--E allora?! allora me l'hanno a rendere, e mi meraviglio di lei che
non è più dell'erba d'oggi e che dovrebbe avere un po' di cuore e un
po' di cervello.

--Ma, se il nome del suo figliolo non comparisce nel ruolo!....

--Quel birbone ne avrà dato uno falso...

--Colonnello, interruppi io, c'è il capitano e l'agente che lo
desiderano.

--Vado.... mi sbrighi lei questa donna.

Cercai di persuadere e di consolare alla meglio quella povera madre
che mi rispondeva con impertinenze da levare il pelo: feci guardare
nei buchi più ascosi della nave, ma non potei rintracciare suo figlio.
Allora la donnicciola impallidì e non potendo resistere alla pena e
allo stringimento di cuore mi cadde fra le braccia svenuta. Un vecchio
che l'aveva accompagnata in barchetta e che seppi dopo esser marito di
lei, saltò infuriato sul ponte facendo un baccano indiavolato,
minacciando tutti e bestemmiando peggio di un turco. La mia posizione,
se era interessante era anche molto noiosa. I volontarii si erano
affollati intorno all'energumeno e di momento in momento stava per
nascere una pubblicità spaventevole. Riavutomi un pochino dalle
stupore, fui preso da rabbia indicibile e mi venne voglia perfino di
scaraventare in mare l'incomodo fardello che mi gravava le braccia.

--Oh! andremo in questura!...--Proferì il vecchio strascinandosi
dietro la moglie che s'era riavuta e che urlava a squarciagola:
birbanti, ladri, assassini, il giusto Dio verrà anche per voi!

Appena rimessi da quella brutta impressione, vedemmo capitare altre
due donne. Capimmo, pur troppo, per aria quello che volevano anche
loro. Io cominciai a credere di assistere ad una processione di
streghe e mi persuasi che il nostro orizzonte cominciava a oscurarsi
davvero.

Una dell'ultime venute vide il suo figliolo e noi glielo restituimmo.
Ecco un'altro scandalo! Il figliolo non voleva andare a nessun costo e
si mise a correre come uno spiritato offrendo un gradito spettacolo
alle guardie che ci circondavano e che si erano tutte rizzate per
goder meglio la scena, urlando ad ogni poco: piglialo piglialo.

Non si creda calunnia il contegno che io attribuisco alle guardie:
chiunque è stato sul _Var_ può fare ampia testimonianza che esse fino
dal bel principio della mattina erano completamente ubriache.

A viva forza spingemmo il recalcitrante figliuolo, giù dal battello;
appena però egli si assise nella barchetta che aveva accompagnato sua
madre, fu circondato dai carabinieri i quali non curando i pianti, i
lamenti, le disperazioni delle disgraziatissima donna, lo condussero
verso le carceri.

--Si nascondano si nascondano per carità, l'ha raccomandato anche il
signor Colonnello.--Venne a gridarci con voce angosciosa il cameriere
di bordo.

--Che c'è dunque?

--C'è che la polizia vuole acchiapparli...

--È una storiella!...

--È la verità, se lo assicurino.

--Ma il Colonnello?

--È nascosto.

--E tutti gli altri?

--Hanno seguito l'esempio del Capo... si nascondano anche loro... o
che vorrebbero comprometterci tutti col rimanere in così pochi sul
ponte?

Ci guardammo difatti e con nostra sorpresa il brulichìo che ci eravamo
abituati a vedere, era scomparso e tutti i nostri compagni, come per
incanto, si erano dileguati.

Anche noi ci buttammo gattoni verso la carbonaia e poco dopo i miei
amici vi erano già scesi: ero per seguitarli, quando sentii bussare
dietro la porta della vicina cabina e la voce del Colonnello mi disse:
Noi siamo qui, venga anche lei. La porta si schiuse ed io entrai.

Eravamo in sette in una stanzuccia dove a mala pena ci si poteva
rigirare in tre! la grotta di Monsummanno era al paragone una cantina
in tempo d'estate! mai bagno a vapore ha ottenuto l'efficacia diretta
che produceva in noi quell'ambiente! i nostri abiti e le nostre camice
sembravano inzuppate nell'acqua: se le autorità costituite avessero
saputo i nostri tormenti, benevole come sono verso noi scavezzacolli,
scommetto che invece di arrestarci ci avrebbero lasciato diverse ore
in quel bagno; se non altro per avere il gusto di aprire la porta a
trovarci in uno stato di liquefazione completa.

--Ma cos'è accaduto, di nuovo? Domandai a bassa voce.

--È accaduto che la questura lasciava liberamente partire noi sette o
otto, purché prima le avessimo, consegnato tutti questi bravi
ragazzi.... Io ho sdegnosamente rifiutato questa proposta.

--Bravissimo!--E ora?

--Ora credo che sieno andati a riportare la mia risposta al questore.

--O guardiamo, se Bolis è tanto birro da violare anche la bandiera
francese.

--Prima di farlo vorrà pensarci due volte.

--E perché?.. I ciuchi hanno sempre dato pedate ai leoni morenti... ma
per qual causa stiamo nascosti?

--Il capitano è sceso a terra; se gli rilasciano le patenti, in meno
di un'ora si prenderà il largo.

--Speriamolo... perché qui non siamo di certo in un letto di rose.

Passa mezz'ora, un'ora e nessuna notizia: si comincia a udir qualche
rumore; poi di sotto la fortezza ci giunge all'orecchio un sussurro
inusitato; poniamo, l'occhio al finestrino della cabina: il mare è
popolato di barche, e le barche, son popolate d'angioli custodi in
lucerna; affollatìssima è tutta la spiaggia: sul cassero un calpestìo
concitato e in senso diverso, poi reclamazioni a cui si risponde dalla
parte del popolo con fischiate non interrotte; un battere di sciabole,
uno sbatacchiare di porte.... pur troppo non vi era più dubbio
alcuno, il grande atto si era consumato, e gli eroici campioni del
Regio Governo Italiano potevano annoverate una gloria di più tra tutte
le altre che li ha resi famosi.

Sprangammo la porta; ci rannicchiammo nelle cucciette e, rattenendo il
respiro, facendoci piccini piccini coll'ansia e la trepidazione
nell'anima, collo sconforto nel cuore, incerti di ciò che ci sarebbe
accaduto tra pochi minuti, ma decisi a giocare di tutto, attendevamo
di momento in momento di veder saltare la porta.

Trascorre un altra mezz'ora; si ascolta il rumore dei disgraziati che
sono stati avvinghiati pei primi dai falchi del Bolis: si compiangono,
ma quale fortuna, se noi potessimo uscir loro dalle unghie!.. Il
vapore è in movimento... Che si parta davvero? Non si osa credere a
noi stessi, ma alle fine ci si persuade che si va... Si va, ripetiamo
tutti tra noi, e sentiamo tra ciglio e ciglio l'umor di una
lacrima--Ci si ferma di nuovo!...--Esclama un nostro compagno, e pur
troppo, ci si convinse di subito della triste verità. Una testa
comparisce al nostro finestrino; era la testa di un questurino, che da
abile esploratore, si era arrampicato al difuori del bastimento, ed
aveva scoperto il nostro nascondiglio.

--Signori, non resistano--Ci disse con voce rauca. --Nessuno rispose;
egli se ne andò... Oh! avessimo avuto un _revolver_!

--Lei deve aprirci la porta--Ripeteva intanto sul cassero una vocina
melliflua, a cui rispondeva l'accento ben cognito del capitano: Mi
rincresce, ma fu perduta la chiave... l'assicuro però che quello è il
mio spogliatoio...

--Io ho l'ordine di perquisire ogni cosa.. si mandi pel magnano del
porto. Intanto una tempesta di colpi si sprigionava su quel povero
uscio.

--È impossibile trovare il magnano--Diceva poco dopo un'altra voce.

--Signori--Gridava allora al buco della nostra serratura quello che
poco fa parlava col capitano.--Signori, io li prego a non commettere
imprudenze, si arrendano colle buone; partire è impossibile, non
facciano perdere un tempo prezioso al capitano.

Che fare? Qualunque resistenza sarebbe stata inutile e non ci poteva
riuscir che dannosa; ci guardammo in faccia (che facce! il condannato
che vien trascinato al patibolo ne può dare un'idea!) e con mano
tremante il più vicino alla porta tirò la stanghetta.

Un'ooh prolungato e di soddisfazione ci accolse, appena che
comparimmo.

Dalla scena che si presentò allora ai nostri occhi, un pittore avrebbe
potuto prendere argomento per un bellissimo quadro ed un letterato per
una magnifica descrizione. Una lunga fila di carabinieri e di
questurini occupava tutto il lato del bastimento che era dicontro alla
nostra cabina; più avanti il giudice d'istruzione colla ciarpa
turchina, Bolis raggiante di contentezza, e un nuvolo di delegati e
d'applicati di Pubblica Sicurezza che si davano un moto, un daffare
indicibile, e si pavoneggiavano, esponendo al rispettabile pubblico ed
all'inclita guarnigione le fasce tricolori che avevano a tracolla,
come segno indiscutibile della loro autorità. Il capitano serio serio
rivolgeva delle parole concitatissime al console, che appoggiato ad un
tavolino, con una fisonomia di tramontana guardava distrattamente il
cancelliere che redigeva il processo verbale. Tra le squarciate nuvole
si era fatta strada la luna; e, pareva, che ci mandasse un
compassionevole sguardo; sulla spiaggia uno scintillio di baionette,
sulle quali si ripercoteva il malinconico raggio della poetica face
dei cuori sensibili e degli innamorati, ci abbarbagliava la vista e ci
rendeva sicuri che molta truppa era sotto l'armi è che la questura di
Livorno non aveva trascurato verun provvedimento perché i pesciolini
non le scappassero di rete. Una lunga processione di barche solcava le
onde tranquille del mare sulla cui superfice una miriade di atomi
luminosi, frequenti più delle stelle del cielo, avrebbe fatto nascer
la voglia di intonare un bel canto alla natura, se natura ed uomini
non si fossero mostrati, così accanitamente contrarii ad una impresa
che tanto avevamo sospirato e che, purtroppo, così miseramente finiva.
Le trombe che suonavano la ritirata sui bastioni della vicina fortezza
ci suonavano in cuore meste, come il pensiero che manda in queill'ora
il coscritto alla madre, alla casetta paterna, alle occupazioni di un
tempo: meste come quella luna, come quei visi lunghi dei nostri
compagni che ci passavano davanti colla respettiva accompagnatura,
come i popolani che vedendo la loro impotenza a salvarci ci guardavano
da riva con occhi stralunati e pregni di lacrime.

--Ma Gagliano... Gagliano dove è?... Noi credevamo che fosse tra
loro?... Esclamò Bolis, dopo averci ben bene sbirciati;

--E perché han fatto resistenza? Ci domandò con un sorrisetto volpino
il giudice d'Istruzione.

--Perché!...--Rispondemmo noi tutti a una voce e in tuono di
meraviglia..

--Sì... quando sapranno tutto, chi sa, che non sieno i primi a
ringraziarci...

--Ringraziarlo di averci arrestati?

--Sissignori... Oggi è venuta la notizia della capitolazione di Metz.

Quest'ultima sassata che, così benignamente ci si scagliava nel
nostro infortunio, ci fece nascere lì per lì una tal rabbia contro
quegli arnesacci di una bottega fallita, che loro volgemmo
disdegnosamente le spalle. Già... è egli possibile che le idee di
sacrifizio, di abnegazione, di generosità, possano esser comprese
anche alla lontana, da un birro?

--L'ho, l'ho preso!..--Saltando come un burattino, e fregandosi le
mani, strillò con la sua vocina da pettegola il Fassio, avvicinandosi
a noi. Questo Fassio e uno dei più famigerati ispettori di Pubblica
Sicurezza che si abbia in Italia; Garibaldino nel 1860, come succede
di tutti gli apostati, ora è diventato la più gran colonna della
sbirraglia italiana.

--Che qualcuno di noi avesse in tasca una mitragliatrice?--Pensai tra
me e me--O che tra i nostri compagni si sia mescolato sotto mentite
spoglie qualche gran malfattore?! Difatti l'aria del Fassio me lo
faceva sperare; Cristoforo Colombo che dal ponte del suo bastimento
vede baluginare qualche cosa, che ha sembianza di terra; Moltke a
Sadowa che riceve l'annunzio dell'arrivo del corpo d'armata del bon
Fritz, ci possono dare a malapena un'immagine della beatitudine che
provava in quel momento il rinnegato democratico.

Dietro di lui si vide arrivare lemme lemme il Gagliano in uno stato
tale, che, se ne avessimo avuta la voglia ci avrebbe fatto crepar
dalle risa. Nero, per lo meno come uno spazzacamino, stizzito come un
giocator di Mako che fa l'ultima cista, senza azzardarsi nemmeno di
farci un saluto, il povero uomo passò a capo basso davanti alle
autorità e fu fatto immediatamente scendere in una barchetta, dietro
la quale in un'altra fummo messi io, mio fratello, il Colonello ed un
giovinetto, che ancora non conoscevo.

--Viva la libertà d'Italia!--Si gridava tutti come pazzi per via, ed i
carabinieri non ardivano di dirci una sillaba; anzi dalle loro
fisonomie si vedeva chiaramente che avrebbero lasciato quell'incarico
alle guardie di questura, che, tutte impettite, boriose si tenevano
dell'arresto di giovani inermi nello stesso modo che avrebbero fatto,
se avessero vinto la battaglia, più aspra che si sia combattuta,
dacché mondo è mondo.

Giunti vicini alla Sanità, dove vedevamo sbarcare tutti gli altri, un
carabiniere mi toccò dolcemente nel braccio e mi accennò un vaporino,
la cui camminiera faceva fumo.

--Vede quello là?--Mi disse--Era preparato per loro, qualora avessero
preso il largo.

Guardai e quello spauracchio mi fece sorridere; il grande edifizio
navale non aveva che due cannoni, uno per parte e di un calibro così
modesto, che sembravano, piuttosto giocattoli da bimbi che utensili da
guerra. Oh!... se si fosse usciti dal posto, se si avesse cominciato a
_filare_... se erano buoni a acchiapparci con quel trabiccolo, sarei
stato contento di perder la testa!..

La barca si fermò: noi scendemmo. Diedi un'ultimo sguardo al porto,
vidi il cammino del _Var_ che fumava, e il battello che era in
movimento! Oh come in quell'istante il mio pensiero ricorse alle
cabine, dove ci eravamo sdraiati la sera avanti alla medesima ora: oh!
come desiderai che il tempo ritornasse indietro di poche ore soltanto
per non essere sicuro della barbara realtà, che ci opprimeva in quel
mentre.

Moltissima gente si era affollata a due lati della porta che conduceva
all'uffizio della delegazione del porto. Tra questa gente io vidi di
nuovo i due scialli... Ma dunque, non ci abbonderanno più queste
donne?

I volontari erano stati ammassati, pigiati in una stanzuccia; una
guardia, con un coraggio da eroe, distribuiva ogni tanto qualche
pedata a chi più susurrone e più curioso degli altri si azzardava a
rivolgere qualche interrogazione. È un fatto: la polizia degli antichi
sovranucci, che i monarchici d'oggi gabellano per tiranni e per
despoti, non hanno mai usato dei modi schifosi che usano i questurini
del nostro beatissimo regno: quando uno capita per caso tra le loro
mani, può attaccare un voto, se per lo meno non ci lascia una costola,
chè questa gente è molto feroce... quando l'individuo è in ceppi e
puzza un tantino di repubblicano!... Chiuder gli occhi sui gallinai,
fare il manutengolo ai ladri è permesso, ma lasciare in santa pace un
soggetto pericoloso, un uomo che sbraita sempre perchè vuole esser
riconosciuto per uomo... oh! questo è troppo! E il paterno governo,
simile al giusto Dio che fa cader la grandine e i fulmini sul campo
dei peccatori, deve aggravar la mano su coloro che hanno le
sfacciataggine di urlare quando tutti dormono: i galantuomini non
devono essere svegliati... lo impedisce anche il regolamento di
Pulizia! Coroniamoci adunque di elleboro, sorbiamo il papavero che
giorno per giorno ci ammanniscono i giornali governativi e, dacchè non
abbiamo il coraggio di fare, abbiamo almeno il buon senso di darci ad
un sonno profondo.

Un vecchietto, con li occhiali d'oro più giù che a metà del naso,
rincantucciato in uno sgabbiolo di legno che faceva le veci di
scrittoio, via via che si passava ci chiedeva il nostro nome, quello
dei nostri parenti, il nostro domicilio e la nostra, professione.

--Possono partire--Gridò poco dopo con voce tonante il Bolis, Giove
Tonante di quell'Olimpo di birracchioli e di guardie di tutte le
qualità e di tutte le dimensioni.

Un applauso prolungato fece eco a queste parole; i giovinotti
credavano di essere liberi... Poveri grulli!... Quale storia ci ha mai
fatto sapere che il gatto si lasci scappare il sorcio dalle unghie?

--Avanti!...--Urlarono con mala grazia a loro volta le guardie...

--O dove si va?--Cercò qualcheduno.

--Loro non lo devono sapere.

A noi, come presi insieme col colonnello, fu fatto il favore di farci
passare nella caserma dei carabinieri; ci si disse, in attesa di
ordini superiori...

Intanto gli altri traversavano via Grande, tutta gremita di popolo che
li accompagnava con applausi frenetici; ci volle del buono e del bello
per sconsigliare i popolani a non far qualche pazzia, ed essi allora
non potendo fare altro, si mostrarono generosissimi con quei poveri
diavoli che venivano trasferiti alle carceri; e fu una pioggia
continua di sigari, di pezzi di pane, d'involti di companatico, e
persino di foglietti da mezzo franco e da un franco. Oh!... il popolo
è generoso, il popolo ha la magnanimità per istinto, e, se si lascia
abbindolare dai farabutti, al momento buono, quasi per miracolo, sente
spingersi avanti dalla voce del dovere, del progresso, della libertà;
rinnegando le massime false, che gli son volute inoculare nelle scuole
governative e nei così detti giornali popolari che vivono sulle spese
segrete del ministero, egli al primo indizio di lotta vicina, come un
uomo solo corre al suo posto. Oggi protesta con gli urli alle guardie
e colle picchiate di mano ai prigionieri, domani muore, santificando
il principio democratico, sulle barricate. Perdendo lo vedrete marcire
nelle, carceri, e soffrire per le vie, vincendo voi lo vedrete al
lavoro!

I carabinieri ci accolsero con tutta la gentilezza immaginabile, ci
domandarono, se si aveva bisogno di qualche cosa, e noi che, come
uomini, dopo tante ore dì disagio si aveva diritto ad avere appetito,
ordinammo del salame, del prosciutto e due fiaschi di vino.
Incontrammo in quella stanza lo Strocchi; anche egli aveva ricevuto
lo strano favore di essere trattato un pò meglio del rimanente della
spedizione.

Chi era stato la causa diretta dell'invasione del _Var_? Io non lo
saprei dire. Hanno qualche carattere di verità le accuse che si son
palleggiati l'uno con l'altro a vicenda diversi individui che facevano
parte della nostra mandata! Io credo di no: credo soltanto che il
governo Italiano, il quale ha sempre in serbo un granello d'incenso
per chi trionfa ed è forte, siccome, è uso di tutti i codardi, sìa
sempre disposto a tirar sassate da orbi a tutti quelli che per propria
disgrazia si trovano a terra; e così, mentre or non sono pochi anni,
per non violare la bandiera Imperiale di Francia si lasciavano
tranquillamente a bordo dell'_Authion_ i fratelli La Gala: in pieno
1870 si aveva il coraggio di buttar giù porte, scassinar serrature e
strappare a viva forza dei giovani generosi, che dovevano essere
sacri, perché protetti dallo stendardo di una nazione amica, di un
governo che si era riconosciuto, ma che versava in pericoli immensi

--E dove ci mandano?--Domandammo al brigadiere dei carabinieri, dopo
che avemmo veduto un soldato, latore di un piego, che fu letto
attentamente dal capoposto.

--Io devo trasmetterli ai Domenicani.

--Sicché proprio in prigione?

--Pur troppo!

Un lungo silenzio tenne dietro a queste parole. Creder di andare in
Francia e sgusciare diritti come fusi in prigione, era una cosa che
non ci si aspettava di certo, e, per quanto tutti, chi più chi meno ci
si piccasse di esser filosofi, per quanto dopo l'arresto questa
soluzione fosse l'unica prevedibile, una tal notizia dettaci lì a
bruciapelo, mentre il ritardo ci aveva fatto rinascere in cuore un po'
di speranza, ci mise a tutti un diavolo por capello.

--Si facciano coraggio--Ci diceva il brigadiere--Prendano le cose con
calma... tutt'al più sarà il male di qualche settimana!

Qualche settimana!--E gli pareva di dir poco al buon'uomo!...
Rinunziare alla vita, alle nostre speranze, non goder più di quella
libertà, che è prima attributo di ogni essere, ma sia pur per un'ora,
per chi sente qualcosa, è sempre un supplizio.

--Entri, entri, ma mi raccomando non faccia scene--Così diceva,
introducendo nella stanza la moglie di Gagliano, un carabiniere.

--Veramente!...--Borbottò alzandosi il brigadiere...

--Lasci correre--Ci affrettammo a proferire noi tutti--nessuno parlerà
di questo colloquio.

--Ti hanno messo le manette, questi vili, eh?--E tu non hai avuto
cuore di bucar loro la pancia?--Gettandosi al collo del marito, e
frammischiando al suo dire qualche singhiozzo, esclamava l'arditissima
donna.

Perdemmo un cinque minuti a persuaderla che non eranvi state manette,
ed allora lei, facendoci dei segni, ci fece capire che, se avevamo
qualche cosa di compromettente, le si consegnasse: ed in fatti, colto
il momento che i carabinieri non ci guardavano, demmo a lei certe
lettere, che, se ci fossero state trovate addosso, non ci avrebbero
certamente servito di raccomandazione presso quella gente, che si
doveva bazzicare fra poco tempo.

La presenza di una donna in quell'ora tristissima, in mezzo ai
carabinieri, dopo tutte le emozioni che si era subito durante il corso
di quella giornata memorabile ci procurò un sollievo, e uno
stringimento di cuore, che non mi provo nemmeno a descrivere; e quando
la ci stese la mano e con voce resa tremula dalla voglia di piangere,
ci disse: coraggio, io mi sentii inumidite le ciglia e provai
l'inenarrabile voluttà di una lacrima.

--Le carrozze son pronte!

--Partiamo!

--Meno male che marciamo _en grands seigneurs_.

--Di' piuttosto, come i malfattori che vanno alla Corte d'Assise...

--Eh!... loro ed i principi sono i soli che hanno diritto di avere una
scorta! Gli estremi si toccano...

--E si rassomigliano!

Si montò nelle carrozze e dopo un breve tratto di via ci fermammo: si
sentì cigolare una porta...

Eravamo giunti ai Domenicani.



CAPITOLO III.


La prigione!... È mai vissuta creatura umana, dirò con Guerrazzi, che
sollevando le pupille verso il soffitto di una di quelle stamberghe,
in cui, per ravvederlo, s'incretinisce il colpevole, non abbia
esclamato esser questa l'invenzione più barbara, che mai sia mulinata
nel cervello dell'uomo? Quattordici passi di lunghezza; sei di
larghezza: una finestra alta cinque piedi da terra, e dalla cui
ferriata a quadrelli vedi sempre quel medesimo strappo di Cielo,
quella medesima tettoia dell'edifizio difaccia, quella medesima stella
che sera per sera, qual malinconica amica, par che venga a darti un
saluto, un conforto ed una speranza; un pagliericcio per sdraiarsi:
una brocca d'acqua per bere; in quanto a mangiare... ci sono le mani
che paiono fatte apposta per questo!... Il rumore del mondo, in mezzo
al quale ti trovi ma che, almeno per ora è morto per te, viene a
colpirti gli orecchi nella tua solitudine ed ora qualche allegra
canzone ti rammenta i bei tempi che unito agli amici andavi a far la
serenata sotto i balconi della tua bella: ora i concerti di una musica
militare t'inebriano, ti rapiscono in pensieri l'uno più dell'altro
impetuosi: ora il frastuono della via, le urla dei venditori, il
continuo passare delle carrozze ti riportano i momenti in cui tu pur
passeggiavi, in cui tu pure davi alla sfuggita un occhiata alle belle
signore che come Dee ti passavano innanzi agli occhi, trasportate da'
loro cocchi: insomma un cumulo di reminiscenze che ti straziano
l'anima: è un martirio che fa deperire e qualche volta impazzire
l'uomo d'ingegno e di cuore, e che indurisce viepiù chi è incallito
nel vizio. Aggiungete a tutto questo l'obbligo di restare lì chiuso,
mentre, alla semplice idea di esser costretto a fare una cosa, fosse
pure la più gradita, si prova una certa repugnanza che ci fa entrar le
paturnie.

Perchè invece di una severità che non dà alcun resultato, non si cerca
di ricondurre sulla buona via quello, che ne è lontano, a forza di
cure amorevoli? Quando si è messo il colpevole nell'impossibilità di
nuocere alla società, a che prò aggravare la mano sopra di lui, e
incessantemente torturarlo?... Io fò una scommessa; se domani un
domatore di fiere uccidesse così per ghiribizzo un leone che ha in
gabbia, o si divertisse a martoriarlo a colpi di spillo, i filantropi
non la farebbero più finita colle loro proteste: i giornali
partoribbero articoli sopra articoli e se ne farebbe quasi quasi una
questione di Stato. Qui invece abbiamo degli uomini che sentono,
amano, che hanno peccato per inesperienza, per fatalità, ma che per
ora non possono tornare a peccare: una delle due... o questi uomini si
credono capaci di ravvedimento, o no: in questo ultimo caso
uccideteli: nel primo cercate d'istruirli, fate loro conoscere quanto
sia migliore la strada della virtù da quella del vizio, educateli col
lavoro, metteteli in un'isola incolta e provvedete che quest'isola
affidata alle loro mani, addivenga ridente, ubertosa... fate loro
conoscere l'agiatezza, la calma, la soddisfazione del buono operaio,
eppoi restituiteli alla società, che potrà a ben diritto vantarsi di
avere acquistato dei buoni cittadini in quelli che fin ora non eran
che rei!... Anche per legge fisica quanta più è la repressione, tanta
maggiore è la reazione.

Chiedo scusa ai lettori di aver loro fatto ingozzare questa tirata,
che a qualcuno farà l'effetto del cavolo in una merenda; d'altronde
qui si parla di una carcere, qual migliore occasione per spifferare le
riflessioni che si son covate in quella solitudine e in contatto di
quei disgraziati?

In quanto a noi, grazie all'amabilità del capo guardiano dello
stabilimento, fu cercato di renderci meno dura che fosse possibile la
prigionia. Ci misero in sei in una stanza; lasciarono che si fumasse a
nostro bell'agio: ci si passavano i giornali, dove tra le altre cose
apprendemmo l'infame tradimento del generale cortigiano Bazaine: non
ci era fatta alcuna restrizione nel mangiare e nel bere: ci si
trattava insomma coi guanti, e inservienti e guardiani, lungi dal far
pompa di quelle mosse scortesi di cui sì spesso e sì volentieri fanno
pompa coi carcerati di bassa estrazione, si perdevano in scappellature
ed inchini e venivano due tre volte per ora a domandarci, se si
abbisognava di qualche cosa. Era compassione questa, o, piuttosto come
succede in qualunque circostanza nel mondo anche là si venerava
l'abito, anche là avendoci veduti insieme col Colonnello e per questo
scambiandoci forse per uno stato Maggiore, si cercava entrare nelle
nostre buone grazie, perchè si aveva la ferma credenza che eravamo
pezzi grossi?... Io credo che quest'ultima sia la ragione più giusta e
più esatta delle preferenze che si avevano per noi. Quell'ingegno
ferace, che tanto predominava sugli altri per lo spirito
d'osservazione e che così presto doveva esser rapito all'Italia,
intendo parlare di Carlo Bini, nelle sue riflessioni sui prigionieri
ha dettato delle pagine maravigliose per la verità sulle distinzioni
sociali, che con scrupolo sono venerate ancora nelle carceri.

Povero!... t'hanno condotto qui, tu devi aver peccato di certo; va'
giù nel buglione, là troverai degli amici e dei degni compagni... e
spesso per spingerlo più presto gli si amministra gentilmente una
pedata che il meschinello riceve, grattandosi il capo! Sarà
innocente... E che importa?... Lo si manda giù tra la feccia, tra i
borsaioli, tra i ladri d'ogni qualità e d'ogni risma; gli si fanno
degli sgarbi premeditati, gli si ride sul muso quando protesta della
propria innocenza; si tiene a stecchetto di pane, si fa mangiare
mezz'ora dopo quella prescritta dai regolamenti, si cerca infine di
rendere più triste, più penosa la di lui posizione: mai una parola
d'affetto per lui, sempre un ghigno, sempre una maledizione... E se
fosse innocente!... Per un signore poi è un altro paio di maniche:
inchini, conforti, agevolezze: il caffè e latte la mattina, la
bottiglia per pranzo, e qualche volta anche il _the_ per la sera...
oh, come è rispettata l'eguaglianza a questi lumi di luna!

Dunque, come ho detto, eravamo in cinque in una prigione. Gagliano, il
Colonnello, mio fratello, io ed un giovinetto Perugino, che per la
prima volta si moveva da casa, e che era innamorato come un ciuco di
una ballerina cui aveva promesso per quanto prima l'anello nuziale.

Il primo giorno, non vedendo alcuna probabilità di un interrogatorio,
non facemmo che scrivere. Scrivemmo al console, a una dozzina di
deputati, a una mezza dozzina dì giornalisti, e perfino al Lanza: in
tutti i nostri scritti si protestava contro la patente ingiustizia, di
cui eravamo stati le vittime, e si scongiurava, affinchè fosse
troncato quello stato penoso, che, temevamo, si prolungasse ancora per
un lasso di tempo, non indifferente.

Uno dei nostri, che era stato diverse volte in prigione sempre per
affari politici, ci iniziò nei misteri della vita non troppo geniale
del carcere, e c'insegnò tra le altre cose un mezzo sicuro, per
comunicare con gli altri infelici, quantunque fossero in stanze dalla
nostra lontane: il nome tecnico di questo nuovo sistema di
comunicazione è il _cavallo_; si attacca ad un sasso o a un pezzo di
legno una cartolina, in cui si scrive, quello che vogliamo; si avvolge
poi tutto ad un filo e dalla finestra si lancia, dove si ha intenzione
di farlo recapitare; i prigionieri, nella solitudine aguzzano tanto
l'ingegno, addiventano così maestri nella precauzione, che se si
ingannano una volta sola, in questo nuovo bersaglio, si può assicurare
che è una fatalità. Inutile il dire, che noi ci servimmo di questo
mezzo spessissimo, e sul principio facemmo delle matte risate, alle
spalle di qualcheduno il quale più che si piccava ad essere gran
tiratore, più ne mandava di fuori.

    _"Come son lunghe, eterne
    L'ore del prigionier!"_

Canta il tenore nel secondo atto del _Pipelet_, e se noi non cantavamo
queste parole, se ne comprendeva però in quei momenti tutta la
desolante verità. Addormentarsi colle galline, essere in piedi ai
primi chiaror dell'alba; appena desti, eccoti ad assalirci la
spaventevole idea di quattordici o quindici ore d'inerzia forzata; oh,
almeno oggi tuonasse, infuriasse una gran tempesta... sarebbe una
distrazione!.. Oh! se si avesse nel cuore la mansuetudine pecoresca
del Pellico, chè potremmo passare ore intiere, facendo asceticamente
delle contemplazioni sulle tele di ragno, che in sì gran numero e, a
mò di tendoni, adornano la volta della nostra abitazione! Oh! venisse
un nuovo carceriere gobbo, sbilenco, rachitico, o per lo meno
tartaglione si potrebbe ridere qualche tempo per conto suo... Ma no
signori, sempre i medesimi volti, sempre il medesimo cielo nè sereno,
nè brusco, sempre qualche pezzetto di ragnatelo che ci dà fastidio,
cadendo ed appiccicandosi sui nasi respettivi.

Si fece delle palle colla midolla di pane e ci si mise a giocare alle
boccie... Ci si annoiava mortalmente; si tentava attaccare una
discussione filosofica o letteraria... sul più bello un prolungato
sbadiglio faceva uscir di carreggiata l'oratore e lo squarcio di
poesia e di eloquenza finiva con una solita imprecazione, dove non si
risparmiava nessuno. L'unico che vivesse estraneo a tutto quello che
si svolgeva dinanzi a noi, era il giovinetto che tesseva omelie,
ripensando alla sua bella ed ai dolci momenti che era solito passare
con lei. A questi sproloqui, noi assumendo la dignità di uomini
stagionati, e che hanno corso per tutti i versi la cavallina, facevamo
tener dietro delle dissertazioni serio-facete, e dei consigli che le
più volte facevano diventar rossa come una ciliegia la faccia del
pudibondo giovinetto il quale terminava ogni suo dire, sacrando per
tutti gli Dei, che la gentile fanciulla, malgrado tutti gli ostacoli,
avrebbe finito per diventare sua moglie. E infatti, oggi tornato di
Francia, ho saputo la grata novella del felice connubio che amore
sparga sempre di rose il beato talamo in cui piange la ragione e la
democrazia: che quel giovine infondo aveva cuore, e si entusiasmava
per le idee generose.

Gagliano pareva poi, che avesse in corpo un'organino; cominciava a
ciabare la mattina a bruzzico e durava a sfringuellare fino all'undici
e anche a mezzanotte; se noi si dormiva lui non si perdeva d'animo e
con una costanza degna di miglior causa, discorreva solo, trinciando
l'aria con gesti agitati, e ripetendo ordini del giorno e proclami di
là da venire: ei s'era fitto in capo di costituire una compagnia che
si doveva chiamare dei cacciatori del Varo, egli l'avrebbe costituita,
appena che ci si fossero schiuse le porte. La questura che seppe forse
il progetto, e che, da abile maestra, sa quanto va maturato un disegno
perchè possa riuscire, mentre dava la via, pochi giorni dopo, a tutti
noi, riteneva in chiusa per altri tre mesi il povero capitano di
quella compagnia, la quale, come direbbero le nostre donnicciole,
restò sempre nella mente di Dio.

Ci si faceva prendere aria due volte per giorno: la prima volta lungo
i corridoi circondati da terrazzini, da cui è intersecato lo
stabilimento: la seconda su, in un piccolo belvedere dal quale si
godeva di un colpo d'occhio incantevole. Sui muri dei corridoii, come
su quelli della terrazza non si vedevano che scritti in lapis: erano
ricordi, conforti scambievoli dei prigionieri: geroglifici
indecifrabili, ma che forse contenevano rivelazioni per chi era
d'intesa: _accidenti alle spie_ e _morte ai birri_ erano quasi sempre
il ritornello obbligato di questi sfoghi.

Su in terrazza trovammo anche dei versi: quantunque si sia detto, e
ridetto fino a sazietà che la solitudine fa crescere il bernoccolo
poetico, anche a coloro che da mamma natura non hanno avuto un tal
dono, l'apparizione di queste strofe fu salutata da noi con un
_hourrà_ clamoroso, che fece venire in fretta e furia i guardiani a
domandar cosa fosse avvenuto. I versi eramo mediocri, ma giudicando
dal modo col quale erano scritti, si poteva giurare che quello che li
aveva vergati aveva fatto anche troppo e che aveva un'anima molto più
sensibile di tutte le altre che si trovavano in quelle catapecchie. I
versi son questi; ve li riscrivo tali e quali, chiedendo scusa
all'anonimo autore dell'indiscrezione, e ai miei lettori qualora non
andassero loro a fagiuolo.

Campanella che rammenti Al dolente prigioniero I dolori ed i tormenti
Di una vita, che finì... Deh! Riporta al mio pensiero Le speranze
d'altri dì.

Di quei dì, che una tranquilla Gioia al Cielo mi rapia: Fissa in _Lei_
la mia pupilla Comprendevo la beltà, Comprendevo la poesia Sentia in
cuor la libertà

Or son morto, o campanella Suona, suona a funerale Più non veggo la
mia bella Più non palpita il mio onor Sul mio letto sepolcrale Suona i
tocchi del dolor

E qui il poeta finiva e la parola dolor con cui avea terminato tu la
vedevi ripetuta ai quattro angoli dell'ode!... Sia stato un malfattore
colui che vergò questi versi?... Se anche lo fu, è certo che fu più
infelice di quello che fosse colpevole!

Passammo altri due giorni in questa completa atonia; già tre giorni
che eravamo separati da tutti, già tre giorni col timore che i nostri
compagni avessero bruciato delle cartuccie contro i Prussiani!...
Finalmente venne l'interrogatorio: un interrogatorio _pro forma_, dove
ognuno rispondeva a casaccio tutto quello che gli veniva alla bocca,
dove s'inventavano scuse così magre e storie così bambinesche, che
sarebbero cadute al primo soffio di un accusatore, fosse anche il più
dozzinale. Entrammo dal giudice colla speranza: si credeva che finito
l'interrogatorio ci avrebbero rimandato: invece quale non fu la nostra
sorpresa, quando ci vedemmo di nuovo rinchiudere nell'aborrita
stamberga, che ci aveva accolto fino a quel giorno?

--Non ci mandano via che a guerra finita--Borbottò stizzosamente uno
di noi.

Chinammo tutti la testa, che tale cominciava a diventare l'universale
credenza.

E passò un altro giorno, eppoi un altro: era il tre di novembre; la
vigilia eravamo stati di un umor perfidissimo; senza provare alcuno
dei sentimenti dettati dalla religione, quelle campane che invitavano
a andare a commemorare i defunti, ci facevano pensare ai nostri poveri
morti, a quelli che caddero per le nostre idee, a quelli che cadevano
in quel mentre per far scudo coi loro corpi a una pericolante
repubblica, per opporre un'argine all'irrompente valanga dei venduti
soldati della monarchia degli Hokenzöllern... Noi eravamo mesti, e si
passava intere mezz'ore difaccia alle quadrelle dell'inferriata, tanto
per vedere quel miserabile lembo di Cielo: orizzonte rimpiccolito come
quello dell'idee che ci bollivano in testa e che non si potevano
espandere.

Il tre novembre fu un gran movimento pei corridoi, un via vai
continuato e un accorrere di guardiani. Qual nuova avventura era
giunta a disturbare la quiete monotona di quel sepolcro di vivi?... Il
caso era nuovo.

Rossi, Piccini, Stefani ed altri Fiorentini avevano avuto l'idea
bizzarra di commemorare i caduti a Montana; ne correva l'anniversario,
e loro, come avanzi degli _Chassepots_ di De Failly, non ultima
celebrità di Sédan, vollero degnamente onorarlo; coi pagliericci
improvvisarono un catafalco, ci posero sopra una camicia di flanella
rossa, lo circondarono con venticinque candele steariche, comprate la
sera avanti, eppoi attaccarono un cartello nel quale a parole cubitali
era scritto:

    Ai Martiri di Mentana
    I superstiti Repubblicani

S'immagini un pò il buon lettore, quando i guardiani entrarono nella
prigione, per portare il becchime a quegli uccelli ingabbiati. Vedere
tutti quei lumi, poi quel catafalco... e' era da fare andare in bestia
il secondino più mansueto che abbia mai esercitato questa nobile
professione! Subito un reclamo dal direttore, il quale seguito dal
capo guardiano, dallo stato maggiore e da un nuvolo di carcerieri si
presenta maestosamente sulle soglie delle profanata stanzaccia.

--Questo è troppo!... Io sono buono, ma non lo sono tre volte...
Impongo loro di tor via quel cartello rivoluzionario...

--Ma noi non diamo noia a nessuno, e poi qui chi lo vede?

--Non importa... Lascino pure il catafalco, ma levino il cartello!

--Ma se nessuno può leggerlo!...

--Io ho usato troppe gentilezze con loro--questo scandalo non lo
subisco...

--Ma, se non v'è scandalo!

Insomma per il buon della pace, fa necessario tor via quel disgraziato
cartello.--È un fatto, chiaro, lampante e arci che provatissimo: i
governi che pericolano hanno paura dei morti, eguali in tutto e per
tutto all'infermo incurabile che fa il viso serio solamente a sentir
parlare di morte.

In premio di non aver preso parte alle dimostrazioni sovvertitrici dei
nostri amici, quel giorno noi fummo mandati a prender aria un'ora più
presto.

Una dolce sorpresa ci attendeva sulla terrazza: arrampicandoci
sull'inferriata, e spenzolandoci come meglio si poteva, si vide sedute
sulla spalletta di un fosso che attraversava la via, le due fate dai
magici scialli, che tanto mi avevano dato a riflettere sul Var: esse
guardavano in su; era certo che qualche prigioniero, aveva portato con
se molta parte di cuore di quelle creature che credevamo vezzosissime
e che le ci apparivano come una visione, nei momenti più climaterici
di quella intrapresa.

Ci si perdeva, come di solito, in congetture su quelle apparizioni,
quando venne un custode e con ilare fisonomia, ci disse: Giù, giù
nella stanza del capo guardiano.

--Ci son novità?

--Eccome!--Loro son liberi.

--Liberi!--Urlammo noi e ci stringemmo l'un l'altro la mano. O
libertà!... Prima tra tutti gli affetti e le aspirazioni dell'uomo,
senza te è impossibile vivere, e solamente si giunge a comprendere
tutta la tua dolcezza ineffabile, allorquando per disgrazia ti si è
perduta; ridotti allo stato di cose, costretti a reprimere i battiti
del cuore, le concezioni del cervello, gli slanci che suol produrre
l'intelligenza, a te si ripensa come lo stanco e affaticato peregrino,
in una montagna o in mezzo al deserto ripensa all'agiatezza della sua
casa, ai dolci riguardi dei parenti lontani. Tanta è la gioia che si
sente nel ricuperarti, che si tornerebbe a soffrire gli istanti
penosi, che abbiamo sofferti, pur di provare l'inenarrabile felicità,
che si prova in quell'istante divino.

Scendemmo a rotta di collo le scale, entrammo nel corridoio, dove di
subito fummo circondati dai nostri compagni, che ci abbracciavano, ci
baciavano, ci opprimevano di mille domande; chi troverebbe parole per
descrivere l'emozione di quel momento solenne? Non era il tornare a
vivere che ci sorridesse soltanto: era l'idea che prima o poi si
avrebbe raggiunto nostro padre, che tale deve considerarsi da un
giovane l'eroe leggendario della libertà e del progresso, che tale
deve essere riguardato da tutti coloro che soffrono, il prode general
Garibaldi.

Fassio, incaricato dalla questura ad assistere alla nostra
liberazione, volle farci sospirare, più che fosse possibile, un tanto
agognato momento! Eravamo una lunghissima fila, ognuno che usciva
dalla stanza provocava in tutti un sospirone che si poteva tradurre in
queste parole: Lui felice... ed io pure, che mi avvicino alla
liberazione!

Venne la mia volta. Entrai: Il commissario mi abbordò subito con
queste parole: Lei è di Firenze?

--Sissignore!

--Vuoi fare il viaggio a spesa sue, o a conto della questura?

--Ma io voglio restare in Livorno

--È impossibile!

--Se ci ho i miei interessi!

--Non importa: lei è di Firenze e deve tornare a Firenze!

--Ma questa è bella!

--O bella, o brutta... tali son gli ordini.

Strana logica invero questa della polizia! se nel mio interrogatorio
avessi detto di essere del Missisipì chi sa che la questura non mi
avesse spedito gratis fino a quelle lontane regioni!... Ah! averlo
pensato!!

A tutti gli altri fu fatta la medesima proposizione: tutti accettammo
di andare a spese nostre, decisi di tentare ogni via per sfuggire ai
questurini.

--Domani si presenteranno al questore in Firenze--Disse allora il
Fassio con tuono burbanzoso e poi volgendosi al Piccini aggiunse: lei
mi par più serio degli altri, farà da capo squadra... Alla stazione
gli accompagneranno le guardie, nè li lascieranno fino a che non
avranno preso il biglietto.

Un'altra speranza che si dileguava! Bisognerà tornare per forza donde
eravamo partiti con tutta allegrezza.

--Possono andare... e si sbrighino perchè il vapore parte a momenti..

Dei picchi ripetuti all'uscio della nostra antica carcere, richiamano
l'universale attenzione verso quel posto. È Gagliano che protesta
all'ingiustizia e all'infamia: è il povero Gagliano che solo vien
rilasciato ai Domenicani per conto della questura--Scrivete sui
giornali--Egli vociava--Fate nota la nuova ingiustizia, dite che mi si
vuoi rovinare da questa canaglia.--Nessuno porgeva ascolto, alle di
lui querele, qualcuno rideva: l'uomo che esce da un pericolo diventa
egoista.

--Via, via--ci disse il nostro accompagnatore, una specie di _Don
Checco_, scalcinato come un poeta, e zoppicante, come un verso sciolto
di qualche genio incompreso.

Demmo un'ultimo sguardo alla stanzaccia che ci aveva racchiusi quei
giorni, e, cosa strana, provammo un certo dispiacere ad abbandonarla.
Quanti pensieri, quanti generosi proponimenti, quanti ricordi, quante
speranze non ci avevano agitato là entro!

Quando io esco di prigione, e lo so benissimo grazie al benigno nostro
governo, io provo il medesimo effetto di quando esco di un bastimento.
Mi gira la testa e le gambe mi reggono appena.... quella sera mi
pareva di essere addirittura ubriaco. Ed anche senza parere ubriaca,
io credo che la nostra comitiva avesse in se tanto di umoristico da
farsi guardare da chiunque passava.

Figuratevi: prima Don Checco con una mazza gigantesca, su cui si
appoggiava, ma che non era valevole a farlo passar per meno zoppo di
quello che era: poi il Colonnello in cappello a cilindro coi due tubi
di latta, in cui erano le carte geografiche, ma che di notte gli
davano un'idea di Sesto Caio Baccelli, con gli annessi canochiali;
dietro a loro il giovinetto innamorato con due valigione, che erano
vote, ma che egli aveva portato con se per dar polvere negli occhi
alla pulizia; in coda noi altri urlando, chiassando, facendo le fiche
a quel povero diavolo, che tentava attaccar discorso con tutti, senza
che nessuno gli rispondesse: in poche parole egli sembrava un
precettore che conduce a passeggiare una mandata di birichini, e
scommetto che in quell'ora, avvedutosi della parte redicola che
sosteneva, avrebbe mandato in quel paese Bolis, la Francia, il
Ministero e gli eroi della libertà.

Arrivati alla ferrovia, le guardie ci fecero ala, nè si allontanarono,
fino a che non avemmo presi i biglietti.

--Dunque a rivederli, signori--Traendo un sospiro di contentezza ci
disse il delegato.

--Dica addio!--Riprendemmo, noi tutti.

--Grazie dell'accompagnatura!--Proferiva uno in tuon di burla.

--La ci saluti Bolis...

--Al piacere di non riverirla mai più..

E via di seguito con espressioni più o meno frizzanti, tutte
all'indirizo di quel'infelice che impappinato come un pulcino nella
stoppa, voltandosi ad ora ad ora per darci una sbirciata più o meno
benevola, se ne andò quatto quatto e colla coda tra le gambe.

Entrammo nella stazione: quelli che viaggiavano a conto della questura
erano stati ficcati in due vagoni di terza classe, e cantavano:
cantavano dalla rabbia o dal piacere? Non saprei dirlo davvero, ma è
un fatto che un uomo che si trova in una situazione eccezionale,
prova un refrigerio, stuonando un'arietta; i ragazzi che hanno paura a
andar soli in una stanza canticchiano, i poveri coscritti cercano alle
canzoni montagnole, e ai patriottici inni quel coraggio che invano
cercherebbero al cuore.

Ecco i due scialli!.. Ecco le due donne che ci hanno fatto tanto
almanaccare colla testa sul _Var_ e in prigione!--Oh! finalmente ci è
dato avvicinarle! Sono la madre e la sorella dì un'arrestato, mi
sussurra uno, che ho accanto. Mi approssimo a loro. Qual delusione! La
madre è sbilenca, le mancano due denti davanti ed ha una bazza, come
quella del barone Ricasoli. E la figlia? Mi risparmino i lettori
l'orrore di descriverla!.. Un viso da leticare il giallo alle carote,
un personale impossibile, due mani che certamente non sarebbero state
sproporzionate per il Biancone di piazza. Mi fecero mille complimenti,
mi volevano presentare il figliuolo e il fratello: io con una scusa
qualunque voltai loro gentilmente le spalle, che amavo credere il
nostro compagno di sventura, gobbo, sciancato, ridicolo, per potere
almeno avere il vanto di aver conosciuta la famiglia più brutta, che
in questi tempi Borgiani, passeggi sotto la cappa del Cielo!

Pochi minuti dopo, si entra tutti nel convoglio: Piccini che doveva
essere, il capo squadra ci sfugge: il treno è in movimento e noi ci si
trova, _spinte_ e _sponte_, trasportati a Firenze.



CAPITOLO IV.


Essere in Firenze, e ricominciare a studiare le strade per tornare in
Francia fu tutt'una. Il male si era, che le nostre piccole risorse
avevano avuto un colpo tremendo, e che la questura aguzzava, come Argo
cento occhi per spiare i nostri movimenti più piccoli, le nostre più
segrete conventincole. Non si credano esagerate le mie parole: per il
malaugurato affare di Livorno si era cominciato un processo, e si
adopravano nelle sfere governative a tutt'uomo per mandarlo avanti o
di riffe o di raffe: si voleva infatti far vedere alla Prussia come in
Italia fossero ligi al principio di neutralità e come il governo non
dividesse per nulla le idee piazzaiole di quello scomunicato di
Garibaldi.

Noi dal canto nostro non stavamo con le mani in mano, e, tra le altre
cose (vedete, come eravamo poeti) si cercò di organizzare in Firenze
una compagnia tutta Toscana, che si sarebbe chiamata dei carabinieri
dell'Arno. Un tal disegno ci portò per le lunghe: e tra proposte,
decisioni, consigli si perse un tempo prezioso.

Mentre nell'Atene dell'Arno, quantunque muniti delle più belle
intenzioni, non si dava nè in tinche, nè in ceci, il coraggioso e
bravo Ricciotti compieva la romanzesca impresa di Chantillon. La
democrazia e tutti coloro che sentono amore per l'Italia, applaudivano
calorosamente il giovane condottiero, che con un pugno di uomini,
sorprendeva, notte tempo, ottocento Prussiani, ne faceva più che
quattrocento prigionieri, e toglieva loro buon numero di cavalli e di
armi.

Garibaldi, dopo aver costituito il suo microscopico esercito a Dôle,
si era portato ad Autun, e dopo avere ottenuto splendidi resultati a
Lantenay, si era spinto fin sotto Dijon, ed avrebbe certamente
occupato questa città, se l'imperizia e la codardia della guardia
mobile non lo avesse obbligato a ritirarsi fino nella città, da dove
si era partito con tanta speranza nel cuore. I Prussiani avevano
cercato di sorprenderlo, capitando all'impensata in Autun, ma grazie
all'esattezza dei tiri delle batterie da montagna che l'illustre
generale aveva sotto i suoi ordini ed al valore dei giovani
volontarii, i tremendi soldati che facevano paura a tutta l'Europa,
dopo averne buscate come ciuchi, si erano refugati a rotto di collo
dentro Dijon, dove il generale Werder aveva piantato il suo quartier
generale.

Queste notizie che leggevamo sui giornali erano tante stilettate per
noi; già varii dei nostri compagni erano partiti alla spicciolata per
la Francia. Io mi rammento che in quei giorni mi vergognavo ad uscir
soltanto di casa: mi pareva che tutta quella gente che era conscia
della mia prima partenza mi ridesse sul muso, e che dentro di se mi
rimproverasse quell'inerzia, che d'altronde era la conseguenza logica
della mia situazione.

Finalmente un giorno capitò da me, che in quel momento avevo già
dismesso il pensiero di poter prender parte alla campagna di Francia,
il Bocconi, e, senza che io proferissi nemmeno una parola mi disse:
Sei sempre deciso di venire in Francia?

--Sicuro!--Gli risposi.

--Allora domani l'altro partiamo.

--Non burli?

--Ti parlo del miglior senno possibile... ci stai sempre.?

--Se ci stò!...

--Allora siamo in cinque,

--Ma, ai fondi?

--Ci è chi provvederà...

--Tanto meglio!

E fissammo di vederci due sere dopo al Caffè Ferruccio; chè l'ora
della nostra partenza era alle quattro del mattino, ed era deciso che
saremmo andati a Genova per via di terra, non essendo cosa ben fatta
il tentar di ripassar da Livorno, dove il questore Bolis comandava
tutt'ora a bacchetta.

La sera che dovevamo partire me ne andai solo solo all'Arena Merini...
_pardon_ al teatro Principe Umberto; chiacchierai cogli amici, mi
mostrai più di buon'umore di quello che ero realmente, dissi male
degli Italiani che erano andati in Francia, e protestai di riconoscer
di avere io fatto malissimo a partire la prima volta. Che volete? I
casi che mi erano accaduti antecedentemente mi rendevano sempre più
convinto, che a voler che un'impresa vada per il suo verso, è
necessaria un pò di gesuiteria, e che una persona che crede di andare
avanti colla buona fede, e collo spifferare tutto quello che ha sullo
stomaco, in generale finisce coll'avere il male, il malanno e l'uscio
addosso.

Salutai gli amici e verso mezzanotte mi ridussi al caffè Ferruccio. I
miei quattro compagni, non avevano mancato all'appello e cominciavano
a susurrare della mia tardanza; alcune nostre conoscenze fiorentine,
colle quali potevamo fidarsi a chiusi occhi, si erano assise al nostro
tavolino, e sotto voce ci davano qualche conforto, o si lamentavano di
non poterci seguire.

Il caffè si chiuse alle due, ed i nostri amici partirono. Qui
cominciarono le dolenti note. Sembra una cosa incredibile, ma in
Firenze capitale d'Italia, fu impossibile di trovare un locale che
fosse aperto in quell'ora. Un nevischio impertinente ci filtrava
nell'ossa, e ci batteva sulla faccia, procurandoci dei brividi che
erano salutati da veementissime apostrofi. Come furono lunghe quelle
due ore!... E con qual gioia non si salutò, l'aprirsi dei cancelli
delle stazione. Gli Ebrei che giunsero finalmente a mettere il piede
nella terra promessa, dovevano forse aver provato la medesima gioia...
maggiore è impossibile.

--Prudenza, ragazzi--Ci dice a bassissima voce il Materassi, uno dei
nostri.

--Che ci è? Proferimmo tutti spaventati.

--Guardate!--E ci accennò colla mano una delle più celebri guardie di
sicurezza Fiorentine, che prendeva il biglietto.

Soprapensieri, come eravamo noi tutti, cominciammo a temere!...

Ci si buttò in un vagone, e dopo un'ora eravamo a Pistoia. Altro
intoppo!... Viene una guardia e ci annunzia che dovremo restar lì
fermi, a dir poco due ore. La neve impediva che il treno procedesse,
fino a che una macchina non fosse andata ad esplorare la ferrovia.
Difatti per quanto tu stendessi lo sguardo, non ti era dato di vedere
che un bianco lenzuolo: bianchi erano i monti lontani; bianche le
collinette vicine! gli alberi più alti sembravano pianticelle di
giardino, ed invece di essere in quella località così ricca di
vegetazione tu avresti, a buon diritto, creduto di essere ai piedi
delle Alpi. Per digerire il male umore, e per farci passare il freddo
dalle ossa, bevemmo un par di bicchieri di Cognak, che era proprio un
castigo di cielo, ma che fu bevuto da noi con quella filosofia con cui
si trangugia una medicina.

Le due ore sì tramutarono in più di tre, finalmente venne le famosa
locomotiva: rimontammo nel nostro vagone, e insieme con noi rimontò la
guardia di pubblica sicurezza. Che si avesse a fare la seconda di
cambio?--si pensava tutti tra noi, ma nessuno ardiva dirlo a un
compagno.

Maggiore il nostro desiderio di sbrigarsi, minore la velocità eon la
quale si andava: la neve infatti più che ci si avvicinava
all'Appennino prendeva delle proporzioni imponenti; a tutte le
stazioni intermedie bisognava fermarsi una buona ora: ad ogni fermata
si trangugiava un bicchierino d'acqua vite.

--_Aqua vitae_, la chiamavan gli antichi--Declamava il Materassi,
vecchio soldato--per mettere anima in corpo par fatta apposta.

Si cominciò a traversare gallerie e a percorrer viadotti!.. Quali
considerazioni non vengono in mente al maestoso spettacolo, che
scienza ed arte offrono innanzi ai nostri occhi!.. E pensare che un
secolo fa, sarebbe stato trattato da pazzo, chiunque avesse predetto
la magica impresa, e pensare che il primo Napoleone, il genio della
tirannide, rise sulla faccia a colui che gli proponeva il sublime
ritrovato dell'umana potenza!.. Ma così è; disgraziato chi trionfa
alla prima: l'umanità è codarda coi grandi, e ne attua solamente i
grandiosi disegni allorquando essi non sono che polvere! Giovanni Uss,
Galileo, i Parigini della Comune, ce ne possono e ce ne potranno dare
un'esempio. Corri adunque, o macchina apportatrice di civiltà e di
grandezza: corri, che tu ci rappresenti il progresso che non cura gli
intoppi o che li debella; gli ostacoli cadono a te davanti: tu ti fai
strada tra le impraticabili montagne, in mezzo alle più folte
boscaglie; superi fiumi, traversi estese pianure, riunisci e fai
conoscer tra loro popoli diversi di costumanze, di tradizioni, e
generalizzi l'idee generose, a dispetto del prete che ti stigmatizzò,
quando nascesti; a dispetto del retrogrado che in te vide l'annunzio
di sua prossima morte.

A Pracchia ci dovemmo trattenere altre due ore; anche a questa fermata
della nostra _via Crucis_ ripetemmo la parola sacramentale, che
proferì anche Cristo dopo essere stato inchiodato, la parola: _Sitio_,
Malgrado però questa nostra manìa di confortarsi le intirizzite
viscere a forza di liquore non potemmo fare a meno di ammirare
l'inponente panorama che ci si stendeva davanti. Dalla finestra del
bugigattolo in cui ci eravamo refugiati si godeva un immenso
spettacolo. Le punte accuminate dei monti, gli scoscesi burroni erano
tutti bianchi, come l'immensa volta del cielo: gli sconfinati
orizzonti che ci si stendevano innanzi a noi ci rendevano piccini,
piccini; i castelli, i villaggi, lo chiese che così di frequente si
trovano in quelle catene di monti, si alzavano forse un metro dal
suolo e ti apparivano quasi informi ammassi di neve. Manfredi, che
s'ispira all'orridezza della natura, ci appariva, ombra incresciosa e
vagabonda su quel candido strato, e ci faceva volgere tutti i nostri
pensieri alla fantasia più che umana di Byron!

L'aspettativa era lunga; è un fatto che in certi momenti si prova la
voluttà di bamboleggiare: gli uomini più grandi hanno in comune coi
collegiali moltissimi divertimenti...

    «Deh., fa che io possa ritornar bambino
    A te daccanto!

scriveva un mio amico che non credeva più a nulla; e noi che non
eravamo guariti e che ancora si credeva a qualche cosa, incominciammo
una guerra a palle di neve: guerra che se non ebbe le conseguenze
terribili che ebbero le altre di cui facemmo parte, ci riusciva più
fastidiosa, quando qualche proiettile veniva a spiaccicarsi sulle
nostre faccie.

I macchinisti col muso nero, i lavoranti colla faccia tutta unta
(rimedio per scongiurare la forza del freddo) stavano a guardare con
maraviglia, e s'interessavano alle peripezie del combattimento. Nel
più bello della lotta mi si avvicina una donna e tendendomi la mano mi
chiede un'elemosina. Abituato all'accattonaggio delle grandi città, io
rifiutai la richiesta.

--Se sapesse.... Io ho il genero e la nuora malata e sei nipotini che
moiono di fame e di freddo.

--Solite storie--Interruppe uno dei nostri alzando le spalle.

--Storie!--Borbottò piangendo la povera vecchia--Storie! vengano a
vedere e saranno persuasi.

Seguimmo la povera; in una capannuccia tutta coperta di neve, sopra un
monte di strame, vedemmo una donna ancora giovine, forse anche bella,
circondata da quattro bambini assiderati dal freddo. Uu fetore
immenso, una miseria che metteva spavento: tutto insieme uno
spettacolo che faceva venir voglia di piangere. Poveri disgraziati,
mentre il ricco annoiato profonde le migliaia di lire ai piedi di una
ballerina, o per avere una bella pariglia, e finimenti magnifici alle
passeggiate ed ai corsi, essi morivano di fame, non si sdigiunavano
nemmeno tutti i giorni, perché il marito dell'afflitta giacente, dopo
aver lavorato come un ciuco, era caduto da varii mesi ammalato e i di
lui padroni gli avevano sospeso il salario.

Noi avevamo pochi quattrini, questi pochi ci servivano appena per fare
il viaggio e purnonostante non potemmo fare a meno di dare il nostro
piccolo obolo, per questa miseria che ci faceva piangere il cuore. Oh!
se tutti andando a prendere un _punch_, o fumando un sigaro (vedete
che prendo le più piccole spese) pensassero che con quei pochi soldi
si potrebbe procurare un tozzo di pane a tanta gente che è degna di
aiuto e che langue nella più tremenda miseria, oh! scommetto che
allora i vizi scomparirebbero, che nessuno avrebbe cuore di abusar del
superfluo, mentre tanti fratelli mancano del necessario:

Il fischio della macchina che arrivava ci annunziò che l'ora della
partenza era giunta; lasciammo la casa del dolore e non potendo esser
più allegri, chiotti, chiotti rientrammo nel treno, che dopo due o tre
ore ci lasciava a Bologna.

A Bologna fu mestieri fermarsi fino al giorno dipoi; s'immagini
chiunque ha fior di senno, con qual malumore: malumore che ci cresceva
a mille doppi, vedendo come la celebra guardia di sicurezza seguisse
come un cagnolino tutte le nostre pedate.

La mattina all'alba partimmo; mi sembra inutile descrivere ai miei
buoni lettori il lungo viaggio che avemmo a fare da Bologna a Genova;
le famose avventure in ferrovia, che sono così spesso tirate in ballo
dai romanzieri, per me sono favole belle e buone; noi fummo
trasportati, nell'identico modo con cui son trasportati i bauli.
Avemmo a compagni dei mercanti, dei contadini e dei soldati in
congedo; ci fermammo per far colazione, come tutti gli altri a
Piacenza; mangiammo di nuovo a Tortona; bevemmo una buona bottiglia di
vino a Novi, non potemmo fare a meno di ammirare la magnifica vallata
di Serravalle, schiudemmo i cuori alle più liete speranze, osservando
l'infinito numero di fabbriche di San Pier' d'Arena, e scendemmo a
Genova nelle prime ore della notte. La luna illuminava il bel
monumento di Cristoforo Colombo che è sulla piazza della stazione. Noi
volgemmo un saluto a quel grande, che in ricompensa di un nuovo mondo
si ebbe le catene da un re, e ci persuademmo, che per volger di secoli
e per variare di avvenimenti l'umanità non è punto cambiata.

Nostro primo pensiero fu di recarci da un certo individuo, che ci
doveva dare il mezzo sicuro, perché si potesse muovere senza disturbi
alla volta di Francia. Ci aveva dato una lettera di raccomandazione
per questo genio benefico, Andrea Pieri, uno dei nostri buoni amici
Fiorentini, giovane egregio e provato patriotta, di cui la democrazia
piange a lacrime amare la perdita. Trovammo quasi subito la tanto
desiderata persona, e secolui ci riducemmo in una bettoluccìa non
molto distante dal teatro Carlo Felice, bettoluccia frequentata
soltanto dai marinari, e da qualche facchino di porto.

--Noi si vuolpartir subito--Fu il primo discorso che facemmo.

--Non dubitate... domani sera voi partirete... Domattina... uno di voi
verrà con me e combineremo ogni cosa.

--Va bene!

--Ma saremo disturbati qua in Genova?... Dimandai io che avevo sempre
fisse in mente le persecuzioni con cui ci onorava il Bolis a Livorno.

--Loro possono andare tranquillamente... Si figurino in quest'ultimo
mese ne ho già imbarcati più di duecentocinquanta...

Mi rincresce non poter nominare questo giovine che con tanta
abnegazione si prestava, per procurare dei difensori alla Francese
repubblica; egli in oggi è uno dei miei amici più cari, ma, se lo
nominassi, domani forse non avrebbe più pane e quello che è peggio,
non l'avrebbe nemmeno la sua numerosa famiglia. Quanti, oh! quanti
sono obbligati a nascondere le idee generose che loro bollono in
cuore, per la miseria e per il bisogno! Non vi disperate però, o
povere vittime, che ce lo ha lasciato detto anche Giusti:

    «Tra i salmi dell'uffizio
    C'è anche il _Dies irae_
    O che non ha a venire
    Il giorno del giudizio?!

Si dormì in un Albergo, a cui c'indirizzò il nostro amico; il
proprietario, i camerieri la pensavano come noi e terminammo la
serata, cullandoci tra le più belle illusioni e facendo i più
attraenti progetti per l'avvenire.

Al mattino Materassi andò a fissare per la partenza; noi andammo a
vedere i magnifici giardini dell'Acquasola ed ammirammo tutta la
poesia di una magnifica giornata; il mare, la terra, il cielo erano
ridenti, ridenti come il nostro pensiero, che spaziava in quell'Oceano
di luce, in quel verde sterminato delle miriadi di piante che ci
circondava, e che traeva da tanta magnificenza di natura nuova forza
per tentare l'impresa, e certa speranza di sicura riuscita.

--Stasera alle otto si parte!--Ci disse a pranzo il Materassi.

--Ma come?

--Andremo ad uno ad uno al battello... Io vo per il primo: voi mi
seguirete.

Sull'imbrunire ci avviammo al porto; il porto di Genova è senza dubbio
il primo d'Italia: il continuo movimento, l'affaccendarsi di migliaia
di persone, lo sterminato numero di navi che vi sono ancorate, lo
sterminato numero di vapori che s'incrociano arrivando e partendo,
disegnando sull'Orizzonte una lunga striscia di fumo, ti rendono certo
di essere in uno degli emporii commerciali tra i più accreditati in
Europa. A terra hai il lavoro, in mare hai il vapore: le due leve che
rialzeranno l'umanità fino all'altezza dei suoi gloriosi destini;
l'attività individuale e la scienza!

Se i barcaioli di Livorno ci si erano mostrati usurai e sordidi,
quelli di Genova ci sorpresero per il loro galantomismo.

--Lei va in Francia?--Mi domandò quello che guidava la mia barca.

--Sì--Gli risposi.

E lui, zitto come un muro.

--Quanto devi avere?--Gli domandai quando fui giunto alla scala del
bastimento.

--Mi, darà mezzo franco.

--Soltanto!--Esclamai io con sorpresa.

--È il mio avere.

Io gli diedi due franchi, egli mi pose in mano il resto e si offese
quando gli dissi che del resto io intendeva fargli un regalo.

A bordo, mi buttarono giù tra le cabine dei marinari. Dove erano gli
altri? Sul bastimento di certo, e se non li vedevo quella sera, li
avrei veduti quando l'aria fosse più libera!

Noi eravamo nientemeno che sul _Conte Cavour_, vapore italianissimo e
appartenente alla compagnia Aquarone. Mi sdraiai alla meglio in una
cabina, quando entrò nella stanza un tale, che mi fu presentato con
queste parole da un marinaro: anche lui, viene in Francia.

--E di dove viene?--Io gli richiesi.

--Vengo da Milano, ed ho fatto a piedi fin qui tutta la strada...

--E come mai?

--Io ero nei cavalleggeri Monferrato e son disertore!

Io lo guardai e sentii compassione di lui; io non ho mai creduto che
l'impresa di Francia potesse riuscire, e, se andavo, era solamente
perché reputavo un delitto per un republicano il non accorrere là dove
si pugnava e si moriva eroicamente intorno al glorioso vessillo
dell'umana emancipazione. Morire è nulla per chi ha un poco dì cuore:
ma andando alla guerra ci son più probabilità di restare che di andare
tra i più, e se quel povero diavolo l'avesse scampata, che avrebbe
fatto? In Italia non poteva tornare dicerto, in Francia non sapendo
una parola di lingua francese sarebbe morto di fame... Oh! quanti eroi
vivono e moiono ignorati, in questo secolo falso in cui si inneggia
all'effetto scenico dei bugiardi eroismi.

Questa volta ci si muoveva davvero; allorché io ne fui proprio sicuro
mi addormentai profondamente.

Quando al mattino mi destai noi eravamo fermi.

--Venga pur su dai suoi compagni, mi disse un mozzo.

--Ma perché ci siamo fermati?

--Siamo a Savona: ci fermiamo fino a stasera.

--E avremo altre soste avanti di arrivare a Marsiglia?

--Oh!... sissignore! Per lo meno si sta dieci ore a san Maurizio.

I miei compagni, secondo il solito, più fortunati di me, erano stati
messi nelle cabine di prima classe. Io li trovai nel così detto
salone, nel quale ci si rigirava appena, tanto era piccolo!... ma pure
lo avevan battezzato come salone.

Prendemmo un caffè, e si assise con noi un Pollacco, che bisticciava
alla peggio un po' di francese: egli ci disse che veniva in Francia, e
che era già stato ufficiale di cavalleria nell'esercito Austriaco e
Prussiano, e per convalidare ciò che diceva, ci mostrò una fotografia,
che aveva in tasca, dove era rappresentato in alta montura di ussero.
Alla nostra domanda se pur egli avesse intenzione di arruolarsi con
Garibaldi, fece una smorfia. e portestandoci di amare i volontari, ma
di trovarsi al mo posto soltanto tra truppe disciplinate, ci fece noto
il suo divisamente di entrare nell'esercito di Bourbaki, allora in
formazione, io credo, a Châlons.

Era intanto sceso giù da noi il macchinista, un bel tipo di Francese
meridionale: un repubblicano a prova di bomba, che faceva parte del
Comitato di Marsiglia e che anzi s'incaricava di condurre più gente
che gli fosse possibile in quest'ultima città. La testa di quest'uomo
era molto espressiva; fronte spaziosa e barba foltissima; con un
berretto Frigio sul capo ti rassomigliava perfettamente uno di quei
celebri convenzionali che tanto impaurirono ed entusiasmarono la
Francia sullo scorcio del secolo decimottavo. Franco e leale egli
cantava le cose come le sentiva, per cui alle parole del Polacco, che
aveva terminato il discorso con mille elogi dell'eserciti permanenti,
sola speranza di una nazione in pericolo (sic) alzava furiosamente le
spalle, e finì borbottando: Noi non andiamo d'accordo.

--E come è vestita la cavalleria in Francia? Gli domandò il
discendente di Sobieskj, che persino in viaggio era di un'eleganza
ineccezionabile.

--Da soldato!--Rispose l'altro bruscamente e volgendosi a noi ci disse
a bassa voce e in genovese--Dev'essere un imbecille, un soldato di
ventura.

Tale opinione ci fu poco dopo convalidata; il nostro compagno di
viaggio cominciò a parlarci delle sue conquiste, dei cavalli che aveva
lasciato a Vienna e degli illustri parenti che aveva lasciato a
Berlino, e terminò mostrandoci il ritratto della sua _maitresse_, una
bella bionda che non in fotografia, ma in carne ed ossa avremmo
desiderato avere davanti. Durante tutta la campagna non vidi più
questo Pollacco; probabilmente come tanti altri avventurieri avendo
veduta la malaparata sarà andato in cerca di fortuna migliore: chè la
campagna di Francia ebbe questo di buono: pochi volontarii, ma i pochi
ispirati e che dicevano e facevano davvero... ne diano prova luminosa
le migliaia dei cadaveri che abbiamo lasciato lassù.

A mezzogiorno preciso il vapore si mosse; tutti salimmo in coverta. La
giornata era superba, il panorama incantevole. Il nostro battello, che
si poteva chiamare un guscio, tanto era piccolo, costeggiava la bella
riviera che è una delle prime bellezze della bellissima Italia; noi
non ci scostammo mai più di cinquanta passi da riva; si passava
adunque vicinissimi a quei seni, a quei golfi che s'intersecano nelle
montagne, ora ridenti per il verde delle piante, ora tristi per il
cenerognolo dei molti uliveti, ora orride per il colore rossiccio
delle pietre e per la mancanza di abitazioni; i cento villaggi, i
pittoreschi castelli che si vedevano spuntare qua e là, e dominare
superbi sulle vette delle colline e dei monti; le capannuccie dei
pescatori a cui ad ora ad ora si scorgeva legata qualche barchetta, le
onde leggermente increspate dal venticello che rapiva i profumi dalle
piante del lido, e li offriva a noi ricreandoci, gli alcioni che
apparivano a fior d'acqua, che si tuffavano e riapparivano scuotendo
le ali immense, e il cielo tutto sereno, celeste come l'estesa
superficie del mare ci facevano credere di essere in primavera, e ci
facevano mandare un saluto dal profondo dell'anima alla terra
dell'amore e della poesia, a quell'Italia che si biasimava, si
vituperava vivendoci, ma che ora si sentiva di amare più di noi
stessi. E a farlo apposta sembrava che l'Italia, quasi amante che si
voglia tradire, si facesse bella di tutti i suoi vezzi per renderci
più amara la dipartita.

Ci fermammo di nuovo a san Maurizio, e fu forza il pernottarci. Mi
condonino i lettori la noia di tutti questi ragguagli: ne soffrimmo
tanta noi della noia... che possono pazientare, anche loro, poiché
poco più ora manca alla fine di questa escursione marittima.

Il mare si fece cattivo: un colpo di vento portò via tutte le panche
che erano a poppa e dove ci eravamo seduti il dì innanzi: il nostro
stato era deplorevole: lascio dapparte certe descrizioni che
urterebbero il delicato sentire dei miei lettori e delle mie buone
lettrici; lo stesso Capitano non sapeva più che pesci si prendere:
l'equipaggio giurava per tutti i Santi del Calendario Cattolico di non
essersi mai ritrovato in acque sì brutte. A Tolone si sobbalzava tanto
nelle nostre cabine che si arrivava a picchiare capate terribili nelle
asse del soffitto; è per sopramercato si era anche nel colmo della
notte. È impossibile descrivere l'irritazione di cui eravamo in preda:
lo sconforto si era impossessato di noi, e ci si aspettava di momento
in momento di trovar la tomba, ora che si era arrivati in Francia.

Il tempo si calmò; altre cinque ore di viaggio, eppoi il Capitano ci
chiamò sul ponte. Corremmo tutti. Un bosco d'antenne occupava tutto il
porto: una magnifica città ci si stendeva davanti in mezzo a due
picchi, sul primo dei quali si vedeva il campanile di una chiesuola.

--Quella è la Madonna della Guardia--ci disse il Capitano.--Loro sono
a Marsiglia.

Finalmente ci si era!



CAPITOLO V.


Andammo subito al Comitato; non ci era nessuno: se ne domandò la
ragione, ci risposero che era domenica; si cominciava benino!

Facendo di necessità virtù, deliberammo di tornarci il giorno dopo, e
intanto andammo a passeggiare per la città: Non posso negare che più
che mi inoltravo in quelle magnifiche strade, più osservavo il
chiasso, il movimento, il lusso, il fare spigliato di quella
popolazione, più mi sentivo in preda d'impressioni bruttissime. Non
che essere in una Nazione, tanto bistrattata, tanto avvilita, tanto
depressa come era allora la Francia, tu avresti creduto trovarti in un
paese dove tutte le cose vadano a meraviglia, dove non si sia nemmeno
alla lontana sentito parlare di guerra. Molti giovanotti avevano il
berretto da guardia nazionale, ma molti ancora se la passeggiavano
tranquilli e contenti, a braccio di signore di virtù più o meno
problematica, e occupavano cianciando, chiassando e ridendo i tavolini
che sono al difuori dei molti caffè, che si trovano nella magnifica
strada della _Canobiere_.

Ai _cafès chantants_, si cantava la Marsigliese, le _chant du depart_
tutte canzoni patriotiche... ma pur si cantava; alla _Maison doré_ si
ballava sempre patriotticamente il _cancan_: tutte le _cocottes_ di
Parigi, allontanate da quella citta a causa dell'assedio, erano
piovute là a Marsiglia, dove abbassando le loro pretese, avevano
trovato ammiratori a iosa; erano aperti tre teatri; sui _boulevards_
tutte le sere suonava la banda; unico indizio di vita belligera noi lo
trovammo in certi cartelli che erano attaccati a tutte le cantonate;
cartelli ove era scritto a lettere cubitali: Parigi non si arrenderà
mai; del resto, come ho detto, un'indifferenza da fare schifo, una
corruzione che non ci faceva mai presupporre che un Trochu avesse la
sfacciataggine di qualificarla all'Assemblea per Italiana. Se si fa un
paragone tra qualunque delle nostre città nel 1866 e Marsiglia nel
1871, bisogna in coscienza affermare che noi, quantunque corrotti,
siamo molto, ma molto superiori, se non altro nell'amore di patria,
alla città più spinta del mezzogiorno della Francia.

Né solamente le classi agiate se la spassavano, bastava andare sul
porto per potere esser certi se quel popolo lì, aveva intenzione di
concorrere alla guerra! Le infinite baracche dei saltimbanchi, i
giuochi improvvisati lungo la strada, la gente che si affollava
intorno ad un vaporino che conduceva intorno il porto, i cantastorie
ambulanti ci offrivano un bel colpo d'occhio, ma ci raffermavano
sempre più nella nostra opinione. È vero che tra gli altri sollazzi
vedemmo anche un tiro al bersaglio e in questo servivano di mira due
Prussiani più grandi del naturale; ma a che prò sciupare la polvere
contro i Prussiani di carta, quando si fuggiva a rotta di collo
davanti a quelli di ciccia?

La molta gente che interrogammo, ci rispose facendo voti, per la pace;
il commercio incagliato, i guadagni diminuiti parlavano nel cuore di
tutti quegli uomini, più della voce della patria tradita. Noi pensammo
che era ben difficile che la Francia potesse pigliare una rivincita.

In mezzo alla folla vedemmo qua e là confusi ed incerti alcuni
_Turcos_ ed alcuni Zuavi, zoppicanti e con volti emaciati. Erano
feriti; erano avanzi gloriosi di Wissembourg, di Woërt, di Gravelotte.
Abituati a vedere questi fieri soldati, allorché nel cinquantanove
baldanzosi e trionfanti traversarono l'Italia, noi provammo un senso
di dolore nel vederli ridotti in tale stato. I ragazzacci del popolo
non di rado li accompagnavano colle loro fischiate, o facevano loro
degli scherzi da far rivoltare lo stomaco agli uomini più abboccati
del mondo: la sventura dovrebbe esser sacra. La popolazione di
Marsiglia l'aveva maledettamente con l'armata: mentre uomini, donne,
fanciulli si affollavano lungo le vie e guardavano con ammirazione la
guardia Nazionale, che faceva crepar dalle risa, tutti avevano sempre
pronto un frizzo, un insulto per quei poveri diavoli del 60°
reggimento, che allora si ricostituiva in quella città: li chiamavano
i soldati di Napoleone, e tutti erano all'unisono per dichiarare
quest'ultimo come un traditore, come l'unica causa di tutti i disastri
che avevano ridotto al lumicino la patria degli eroi del novantadue e
degli espugnatori di Malakoff.

Un po' sconfortati continuammo a girellare, ma è un fatto che quella
varietà, quel movimento ci stordiva in modo, che queste cose le quali,
or ripensando mi danno fastidio, terminarono col non farmi nè caldo nè
freddo e col darmi gusto. Rintoppammo sul porto il nostro compagno di
viaggio, disertore dall'esercito Italiano.

--Vadano al Comitato--Ci disse--perché fra poco si parte..

--Dici davvero?

--Sul mio onore.

E noi ci avviammo al celebre Comitato che aveva la sua sede sulla
piazza della prefettura.

Un gruppo di giovani dal portamento spigliato, era sulla cantonata e
faceva pervenire ai nostri orecchi il dolce suono della gentile
favella del sì. Saranno stati all'incirca una cinquanta ed erano tutti
Italiani, qualcuno aveva il berretto rosso: tutti vestivano ancora con
abiti cittadineschi. Fummo accolti da loro come fratelli: in quei
momenti s'improvvisano le amicizie, e il tu alla quacquera di primo
acchito, soave reminiscenza dell'Università, predomina su tutta la
linea: nè si creda che queste amicizie che si concludono in un quarto
d'ora, sfumino come tutte le amicizie del mondo, poiché sono le più
inalterabili, perché dopo molti anni quando l'uomo vive nel passato e
chiede un conforto e una lacrima al sacro patrimonio d'affetto che ha
raccolto qua in terra, ripensa a questi amici di gloria e di sventura
come l'esule, o il prigioniero ripensano alla casetta paterna.

Tutti erano allegri... si andava incontro a un nemico formidabile, si
era certi della difficoltà di vincere, si sapeva che probabilmente
metà di noi avrebbe pagato col sangue le idee che ci bollivano in
testa, ma che c'importava? Anche il sacrificio ha le sue voluttà e
sono più inebrianti di quelle della gioia.

--Stasera non possono partire.--Venne a dirci un coso sbilenco, che
doveva essere addetto al Comitato.

--Daccapo--Urlarono i giovani e proruppero in fischi.

--Domani sera partiranno di sicuro--Proferì a malapena quel corvo del
malaugurio e se la svignò alla chetichella.

--Pazienza ragazzi... bisogna assuefarsi alle disillusioni; venite con
me alla vicina taverna e là faremmo passare la malinconia,
trangugiando un buon bicchier di vino caldo.

Quello che parlava era un bel tipo di militare; era già vestito da
Garibaldino e camminava un po' zoppo.

--Evviva il Mago!--Gridarono tutti.

--Venite con me sempre, o ragazzi, e vedrete che anche al fuoco non vi
farò scomparire.

--Eh! lo sappiamo che tu sei un eroe...

--Che eri all'attacco di Dijon...

--E che ci fosti ferito.

--Evviva i prodi soldati!

--Evviva.

E cantando patriottiche cantiche ce ne andammo tutti alla vicina
taverna, dove due fior di ragazze dispensavano bibite e sorrisi agli
avventori, che ne andavano in solluchero a questo connubio cotanto
attraente.

A Marsiglia, il vin caldo e il Cognak costano la miserabile somma di
10 centesimi, e si noti bene che le bibite non si amministrano
omeopaticamente come da noi.

--Se ci fossero certi amici!--Esclamò il Materassi, quando giunse a
cognizione di questa consolante notizia.

--Mago, su... giacché non sappiamo come passare il tempo, raccontaci
i fatti gloriosi di cui è già stato eroe Garibaldi... Noi ci
istruiremo e le ore ci trascorreranno, come se fossero minuti.

--Che volete... che dica...

--Di quello che sai: raccontaci come si portano i nostri, quale è la
nostra organizzazione, e se infine i soldati Prussiani sono poi quella
gente famosa da far tremare tutto il mondo...

--In quanto a questi vi assicuro che non fanno di noccioli e che
tirano diritto, e che son duri come montagne, ma, poiché volete saper
proprio ogni cosa, vi spiffero tutto dall'_a_ alla _z_ pregandovi a
scusarmi se non parlo in punta di forchetta.

Tutti fecero silenzio e il sergente (il Mago era sergente),
incominciò: Figuratevi che si era in Autun. Il clima di Francia è
pazzo come gli abitanti. A Dôle non aveva fatto che piovere, a Autun
era un freddo che ci pareva di essere in Siberia. Noi stemmo sei
giorni all'avamposti e vi assicuro di aver provato certi brezzoni, che
al solo ricordarli mi sento gelato. Riunita tutta la legione, si partì
col nostro Vecchio per Arnay le Duc.

--O in che legione eri?--Interruppe uno.

--Io ero con Tanara; un bravo uomo, ragazzi, un uomo, del genere del
quale ce ne vorrebbe dimolti nella democrazia, uno di quei pochi
insomma che si seguono volentieri, quando cominciano a fischiare le
palle!.. Tornando a bomba: vi dirò che da Arnay le Duc, girammo come
l'Ebreo Errante, per tutti quei paesuoli, sempre in cerca dei
Prussiani che non si vedevano mai... Che marcie, figliuoli!.. Non
dubitate, che chi potrà raccontare questa campagna, potrà esserne
altero e potrà dire di esser sfuggito alle unghie del diavolo. Il
giorno ventiquattro entrammo in Malin, abbandonato poco prima dai
Prussiani; pernottammo alla stazione, e Garibaldi, il bravo uomo, era
là.. in mezzo a noi, a farci coraggio, a prometterci che ci saremmo
fatti onore. Il freddo era intenso, acutssimo e il nostro Vecchio era
sorridente, sereno, come se fosse stato nella stanza più bella e più
riscaldata del suo quartier generale. Gli abitanti cercavano di
renderci meno dure le privazioni colle loro gentilezze: e si
affannavano a portarci da mangiare, e da bere; le donne, anche delle
classi non basse, ci portavano il pane ed il vino e ci stringevano la
mano. L'era una cosa da far piangere i sassi... ve l'assicuro.
All'alba partimmo e ci frastagliammo compagnie per compagnie nei
borghi diversi, adiacenti a Malin. Così passammo l'intera giornata:
sul far della sera venne ordine immediato di partenza, e difatti tutti
insieme si andò a Lantenay. Qui trovammo un infinità di guardie
mobili, qualche pezzo di artiglieria, un mezzo squadrone di _Chasseurs
d'Afrique_ e varii corpi di volontari. Garibaldi alloggiò al castello;
noi ci fermammo proprio sotto di lui e per riscaldarci facemmo degli
immensi _falò_. I Prussiani erano al di là di una foresta che si
stende sull'alture del Nord Ovest del Castello; in linea retta tra noi
e loro non ci correva nemmanco un chilometro. La mattina del ventisei
oltre la paga ci diedero dei pezzi di capretto che erano stati
requisiti; ma sul più bello, allorché si cominciava ad assaporare
questa vivanda così patriarcale, suonò l'assemblea, e in un minuto
bisognò correre ai ranghi, lasciando sul terreno e nelle case più di
metà di quel cibo, che con tanta veemenza veniva reclamato dai nostri
stomachi vuoti. Appena arrivati al castello, vedemmo Garibaldi a
cavallo: era seguito da Menotti, da Bordone, da Canzio. Il Vecchio
diede qualche ordine, poi seguito dai suoi e da alcune guide ci
precedette, inoltrandosi al trotto verso l'estremità della foresta;
dopo brevi istanti noi ci avanzammo. Pigliammo una viuzza e in poco
tempo raggiungemmo lo stato maggiore. Allora si ordinò a due compagnie
del primo battaglione, tra le quali alla mia, di occupare l'altipiano
e di stenderci in catena. Nell'eseguire quest'ordine voltai i miei
occhi a destra e vidi in terra sdraiato il prode Garibaldi. Egli si
riposava: lì a cento passi da noi.. Io non sono un poeta, sono un
ignorante, un soldataccio cresciuto tra bestemmie della caserma, ma
che volete, non ve lo nascondo, veder quel vecchio, malato, quell'uomo
della cui fama è pieno il mondo e che si è già conquistata
l'immortalità, vederlo, dico lì sdraiato come uno di noi, con quella
faccia di santo, a pochi passi dalla morte, io sentii inumidirmi le
ciglia e piansi come una donnicciuola, o come un abatino.

Due batterie, una da campagna e l'altra da montagna, presero posizione
accanto a noi. Poco distante tuonava il cannone; erano le truppe di
Bossak e di Ricciotti, almeno lo credo, che disturbavano le mosse del
nemico. Che magnifico spettacolo ci si presentò agli occhi, quando
principiammo a guardare! Una vallata ubertosissima di vegetazione si
stendeva sotto di noi; i battaglioni Bavaresi e Prussiani formavano un'estesa e ben compatta colonna; gli ulani correvan da un estremo
all'altro di quella linea, che sembrava di ferro, tanto era nera: ma
colle nostre complessioni e coi nostri comandanti si ammacca anche il
ferro!.. Venne l'ordine infatti di avanzarsi.

Il terreno che dovevamo percorrere era pieno d'intoppi: era un
avvicendarsi di piccoli scaglioni che qualche volta ci facevano andare
a gambe levate. I _Francs Tireurs_ si erano internati nella foresta e
appoggiavano i nostri movimenti. Dopo poco trovammo dietro uno dei
tanti rialzi gli _Chasseurs d'Afrique_ che erano in esplorazione. Una
scarica a bruciapelo eseguita dai Prussiani, li fece retrocedere;
allora occupammo noi la sommità abbandonata dalla nostra cavalleria.
Il rombo del cannone si fece sentire da tutte e due le parti, i
Prussiani rispondevano ai nostri con accanimento: le palle, le bombe
ci smaniavano di sopra, di sotto, intorno al capo, alle gambe: ogni
poco i superiori ci ordinavano di sdraiarci per terra, Una rachetta
portò via la coscia del bravo luogotenente Dell'Isola aiutante di
Menotti. Il nostro capitano Morelli era sempre alla testa della
compagnia e diè prova di un sangue freddo, che, come vecchio soldato,
io vi dichiaro rarissimo. Pigliammo d'assalto un paesetto, lo
traversammo a baionetta calata, in mezzo agli applausi di quei buoni
abitanti. I Prussiani si ritiravano colle loro artiglierie: apriamo il
cuore alla gioia, guardiamo e si vede in capo alla strada il Generale;
ma dunque quest'uomo è per tutto, quest'uomo è miracoloso, quest'uomo
è invulnerabile!.. Gridano i volontari, e poi, tutti prorompono in
acclamazioni all'illustre condottiero. Garibaldi ci salutava col suo
solito sorriso, poi, chiamata una tromba, si fece dare un poco da
bere, e bevve l'acqua di una vicina pozzanghera. Intanto il cielo
aveva aperto le sue cateratte, ed una pioggia diabolica c'inzuppava
maledettamente i vestiti, e ci rendeva assai malagevole il camminare a
causa del fango che produceva.

Facemmo alto in un luogo disabitato e scoperto; quivi sfilò innanzi ai
nostri occhi tutto il piccolo esercito che aveva sotto di se
Garibaldi. Passato che fu, venne anche per noi l'ordine di avanzarci
senza sapere ove si andasse e senza nemmeno curarsene: che il buon
soldato non deve mai discutere, nè sofisticare su quanto ordinano i
superiori. Dopo aver camminato un poco, noi del battaglione, comandato
da Ciotti, arrivammo in un piccolo villaggio situato al Nord di
Lantenay, e qui dalla bocca stessa dei villici sapemmo che i
Prussiani, prima di partire, avevan fatto man salva di tutto il
bestiame.

Di cibo non ci era da parlarne, e noi si aveva un appetito numero uno;
una sola botteguccia era aperta, ma anche in questa non si trovavano
che pochi pezzucci di pane; li dividemmo da buoni fratelli, ma appena
si cominciavano a divorare, eccoti di nuovo l'ordine d'immediata
partenza. Ragazzi miei, non è il fuoco che costituisce lo amaro di una
campagna, chè anzi ne è la pagina bella; sono le privazióni e gli
stenti, a cui però di buon grado deve assoggettarsi il soldato
dell'idea. Noi eravamo stanchi, le gambe non ci reggevano più, i
respiri si elevavano a mala pena dal petto, ma il nostro lavoro non
era terminato, bisognava finirlo, come volea Garibaldi, e o male o
bene noi lo facemmo ed ecco come andò.

Il Generale voleva sorprendere Digione, ed era sicuro d'impadronirsene
con uno dei suoi colpi di mano e vi garantisco che sarebbe
riuscito.... Oh! mille valorosi di più o duemila vigliacchi di meno, e
avreste veduto! Noi ci inoltrammo silenziosi lungo la strada; avevamo
avuto il comando di non scaricare il fucile; quatti quatti senza
respirare nemmeno, col cuore che ci batteva forte forte, procedevamo
in mezzo a quel buio d'inferno; nessun rumore si sentiva all'intorno:
un acquazzone tremendo ci percoteva da tutti i lati. Noi marciavamo
per primi insieme ad una compagnia di _Francs tireurs_, dietro a noi
venivano diversi battaglioni di guardie mobili e l'artiglieria. Così
giungemmo fino a un kilometro dalla città; pareva che i Prussiani non
si fossero anche accorti di noi; un subitaneo schioppettìo di fucilate
ci rese sicuri che la nostra avanguardia era alle prese cogli
avamposti dell'inimico.

I nostri superiori ci diedero l'ordine che ad ogni scarica, ci
buttassimo nei fossi che fiancheggiavano la strada; questi erano pieni
d'acqua, e allorché il lampo annunziatore delle palle vicine si faceva
vedere in quel buio, noi prendevamo dei bagni, nè troppo comodi in
quella stagione, nè troppo puliti. Però di tratto in tratto ci si
avanzava, tra quel diavoleto: le nostre trombe suonavano avanti;
avanti, gridavano gli ufficiali; avanti si gridava noi tutti, e come
un sol uomo, ci spingevamo, ci accalcavamo, per quella strada che poco
dopo doveva essere ingombra da mucchi di deformati cadaveri. Già
qualche ferito emetteva grida strazianti, già l'aria s'impregnava di
quel simpatico odore di polvere che suole accompagnare i
combattimenti, già il lontano rullo del tamburo, il subito guizzo che
pari a lingua di fuoco si ripercuoteva per tutta quella estensione, e
il fischio non interrotto mai delle micidialissime palle nemiche, ci
rendeva sicuri che assistevamo ad un'imponente battaglia.

Le scariche dei Prussiani di minuto in minuto crescevano d'intensità,
eppure noi fedeli ai nostri ordini non ci azzardavamo a far uso delle
nostre armi, quando quei vili delle guardie mobili cominciarono a
scappare e a tirar fucilate all'indietro, fucilate che colpivano noi,
non i Prussiani. L'impresa a quel momento si poteva chiamare fallita;
un uomo prudente, uno che va col successo si sarebbe ritirato, ma
Garibaldi era lì in prima fila, ma noi si vedeva fuggire i Francesi e
volevamo far vedere quanto più di loro valessero i calunniati
Italiani, epperciò con l'entusiasmo di chi sa di sacrificarsi per una
idea generosa si stava fermi, al nostro posto. E lì morì il povero
tenente, Anzillotti; lì morì il bravo Del Pino uno dei ragazzì più
buoni e più coraggiosi che io m'abbia conosciuto, e certo uno dei
migliori della mia compagnia. Non vi sto a dire il numero dei feriti,
i Carabinieri Genovesi furono decimati... gli Italiani si battevano e
si battevano da eroi.

Fu giuocoforza il ritirarsi; mai ritirata poteva cominciare con tanto
disordine; si correva all'impazzata pei campi, ogni poco, si cadeva
per terra, ogni poco ci si trovava a mezza gamba nell'acqua, e tutto
questo sotto un fuoco continuo di mitragliatrici, di cannoni, di
moschetterìa. Giunto a capo di una viuzza, fui scaraventato per terra:
tentai di rialzarmi, mi fu impossibile poco dopo io era fuori dei
sensi; non so quanto durò, il mio sbalordimento; quando mi riebbi mi
trovai sopra un barroccio che mi portò all'ambulanza d'Autun, da dove
fui trasferito a Lione. Un'impertinentissima scheggia di mitraglia mi
aveva forato la coscia. Ottenuto un permesso di convalescenza, ho
fatto un mesetto di villeggiatura a Nizza, e ora me ne torno lassù,
che, grazie al Cielo, della forza per battermi coi Prussiani ne ho
sempre, perché, sappiatelo ragazzi, una battaglia è uno di quei
divertimenti che non capitano ad ogni canto di gallo; si può morire,
ma dove volete trovarmi una cosa più bella di morire, in mezzo al
fumo, al rumore, alle trombe e alla gloria... eh! via dunque, venite
con me, e vi farete onore, il vecchio Mago ha veduto troppe volte da
vicino la morte, perché vi possa far fare una figuraccia indecente.

--Evviva il Mago!--Gridarono tutti e tutti picchiarono il bicchiere
tra loro.

Dopo aver discorso un'altra buona mezz'ora, dopo aver domandato tutto
il domandabile al brav'uomo che aveva già veduto i Prussiani, ci
congedammo da quell'allegra compagnia e ci avviammo all'albergo.

--Ma se ci mandassero con Frapolli!--Esclamò uno di noi per la strada.

--Che... Parleremo ben chiaro al Comitato, noi intendiamo di batterci
e non di fare il framassone a cento miglia dal teatro della guerra.

--E però va specificato--ci disse uno che per buona fortuna era venuto
dalla taverna con noi--Perché quei signori che spediscono sono tutti
una zuppa e un pan molle con quelli arfasatti e se voi state zitti, vi
trovate di certo mistificati.

Noi ringraziammo il gentile consigliero e ci addormentammo decisi di
raggiungere tra poche ore il generale, e l'Armata dei Vosgi.



CAPITOLO VI.


Il giorno seguente, appena fu un'ora da persone educate, andammo dal
Comitato. Dopo molta anticamera, chè anche nella democrazia quando si
comincia a salire si assume tutte le belle e gentili maniere le quali
distinguono l'aristocrazia, fummo introdotti in quel sinedrio di senno
e di patriottismo, e ci trovammo davanti al presidente Panni, un
omaccino tarchiato colla barba lunga, nato a Firenze ma domiciliato da
vario tempo a causa di affari a Marsiglia. Tanto lui come il
segretario Lalli, si davano tutto il tuono di persone importanti, ci
squadravano dall'alto in basso con una prosopopea da commissarii di
polizia, e parlavano della guerra colla medesima autorità, che
avrebbero adoperato se fossero stati generali d'armata o per lo meno,
capi di stato maggiore.....

Adempiute le formalità, di quella specie di arruolamento che si
firmava presso di loro, noi facemmo noto a quella gente, il nostro
proposito di andare diretti al quartier generale dì Garibaldi.

--Loro possono andare anche con Frapolli--Ci disse il
segretario--Tutte le vertenze sono accomodate e i due generali, glielo
assicuro io, camminano verso la medesima mêta.

--Sono belle assicurazioni, ma noi abbiamo deciso di raggiungere
Garibaldi e vogliamo andare a Digione.

--Facciano come vogliono; stasera partono una cinquantina di
volontarii... potranno andare anche loro--Borbottò il presidente, non
nascondendo un senso di malumore e di contrarietà: poi, rivoltosi ad
Omero Piccini, fratello di quello che era sul _Var_ e in prigione con
noi, gli proferì in tuono brusco: Lei non può andare.

--E perché?

--Non lo vede... è un ragazzo.

Difatti il nostro compagno aveva 17 anni.

--Eppure, interrompemmo noi, è già stato a Mentana.

--Allora faccia lei... Stasera alle dieci sieno qui... se vogliono
partire.

Cosa dovevamo fare per giungere alle dieci?.. Entrammo nella taverna
della sera avanti... Ah! così ci fosse venuto un granchio alle
gambe!.. Rivedemmo le simpatiche Ebi che con tanta grazia porgevano il
nettare agli avventori, entusiasti delle loro bellezze, le rivedemmo,
e ci attaccammo discorso; si parlò della guerra, della Francia, delle
donne Italiane, che esse dicevano bellissime, delle prossime emozioni
del campo, della moda, dei vestiti corti, del ciuco ammaestrato che
facevano vedere sul porto, della guardia mobile, dell'esercito di
Bourbaki e dei pasticcini di Strasburgo che non arrivavano più. Erano
discorsi le più volte senza senso comune, ma che servivano
ammirabilmente per farci ammazzare alla meno peggio qualche ora. Il
male si fu, che le parole erano accompagnate dalle libazioni: le
libazioni c'indussero a fare il _dejuner_, questo tirò dietro da se lo
_Champagne_... Avevamo cominciato a sdrucciolare su una sgamba viuzza
e ormai bisognava ruzzolare a rotta di collo per tutta la china. Il
piacere di esser giunti finalmente in quella Francia, che da tanto
tempo agognavamo, il trovarsi accanto a quelle vaghe ragazze, la
generosità dei vini che avevamo trincato, la gioventù che ci bolliva
nel cuore, ci avevano sprigionato tale un'allegrezza dalle più intime
fibre, che, non sapendo più quello che si faceva, ridevamo senza
alcuna ragione, folleggiavamo come se fossimo tornati bambini, si
faceva le più strane proposte e tutte venivano approvate.

--Andiamo tutti in barca sul porto.

--Sì... sì... sul porto.

E prese a braccetto le due silfidi, ci avviammo versò il mare,
traversammo la popolosa città e poco dopo eravamo in barchetta.

Io ero divenuto il cavaliere servente o per dir meglio il consigliere
intimo della più giovine delle due vezzose sorelle. Essa chiamavasi
Aissa, e nella sua vita disordinata, aveva veduto l'Affrica, la
Spagna, l'Italia sempre con nuovi amanti, e cercando soltanto la
voluttà vertiginosa dell'orgia; senza curarsi nè punto nè poco del
mondo, delle convenienze sociali e di quel buon nome che si acquista
soltanto col rispetto dell'apparenze, la capricciosissima figlia
d'Eva, siccome farfalla, dì fiore in fiore aveva libato in tutte le
sue forme svariate l'emozioni e i piaceri ed ora annoiata di tutto e
di tutti continuava la sregolata sua vita, per far fronte alle spese
pazze che sono la logica conseguenza degli sbalordimenti procacciati a
bella posta per obliare il presente e per non pensare all'avvenire. La
taverna non era che un pretesto; la vecchia padrona teneva quelle
ragazze per accalappiare i merlotti, e mentre ritraeva da loro dei
lucri non indifferenti, mentre non lesinava il denaro per vestirle con
tutto il lusso immaginabile, mai era larga con esse dell'oro che così
indegnamente guadagnava.

Aissa del resto era simpaticissima; aveva in sé qualche cosa di
Orientale; i suoi occhi nerissimi ed umidi sempre indicavano
chiaramente la di lei voluttà: due labbra tumide che reclamavano un
bacìo; due mani da principessa; un piedino da vera Andalusa; insomma
un boccone da fare escire dai gangheri un anacoreta!

Il mare era tranquillo: la campana della Madonna della Guardia sonava
lentamente; ora l'ora poetica delle ricordanze; cento barchette in qua
e là solcavano le onde. Noi ci sentivamo commossi; su' di un piccolo
schifo, un sonatore girovago, uno di quei Napoletani che strascinano
per i caffè il biblico strumento degli antichi profeti, fece
echeggiare per l'aere una canzonetta patetica, molle, meridionale e
noi rammentammo l'Italia, le sue belle costiere profumate d'aranci, il
movimento delle nostre città, le amate fisonomie dei nostri amici, e
dei nostri congiunti... la commozione era al colmo e il bello si è che
al pari di noi erano intenerite le nostre compagne... E perché ciò ha
da essere strano?.. Le reminiscenze sono il patrimonio degli
sventurati, e pari alla rugiada del cielo vivificano i cuori... quelle
povere donne erano certamente sventurate, e più oneste di tante che
scroccano il nome d'oneste nel mondo, sentivano la santa voluttà di
una lacrima, e trovavano una scusa ai loro trascorsi, immerse
nell'imponente, nel sublime spettacolo della calma natura.

La nostra, escursione si prolungò per più di due ore; il momento;
della partenza si avvicinava a gran passi; era mestieri dirci addio.

Riaccompagnammo a casa le donne.

--Vi prometto di raggiungervi--Mi disse Aissa, stringendomi forte
forte la mano.

Io la guardai e sorrisi: non credevo punto al coraggio di
quell'eroina... Col tempo però come vedranno i lettori, fui
completamente disingannato; e solo per tal causa ho riportato questo
episodio della nostra breve dimora a Marsiglia: episodio che sarebbe
stato proprio un di più, se non fosse collegato con altri che si
svolgeranno a Digione...

--Bisogna pagare il conto--Disse un di noi.

Oh! la crudele parola!.. Oh! la bruttissima prosa dopo tante ore di
non interrotta poesia!.. Ci guardammo in faccia l'uno l'altro! Che una
donna gravida non vegga mai, per l'amore dei suoi futuri nati, delle
fisonomie come avevano in quel momento, i miei compagni... Le nostre
risorse erano tanto limitate, che se noi ne fossimo usciti puliti, ci
era di che attaccare un voto.

Il conto era di 102 franchi: tra tutti ne avevamo 104: se ci fossimo
trattenuti un'ora di più si restava in pegno a Marsiglia! E la bella
prospettiva che avevamo davanti: intraprendere un viaggio di due
giorni con due franchi in saccoccia... o negatemi che in Francia il
divertirsi non costi salato!

Baci, saluti strette di mano, e poi di galoppo al Comitato.

--E se non si partisse... che facciamo senza quattrini?

--Ma!--Preferì filosoficamente il Materassi, e noi a nostra volta
ripetemmo la filosofica esclamazione...

Per buona fortuna quella sera pareva che si dovesse partire
certamente: erano già stati distribuiti i berretti rossi ed i
Garibaldini, schierati in due file lungo la strada attendevano il
luogotenente che doveva accompagnarli fino a Digione.

I volontari erano allegri, cantavano a squarciagola, e negli
intermezzi cianciavano, politicavano, facevano infine un brusio
indiavolato; un Milanese ponendosi ambe le mani alla bocca imitava
perfettamente il fischio del vapore, un altro faceva da cane,
abbaiando e guaendo con tanta naturalezza da chiamar per la strada
tutti i cani che giravano per quei dintorni. Era insomma una scena
deliziosissima e il tenente non si vedeva.

Ognuno che abbia frequentato per poco i volontari, sa quanto sia
susurrone e incontentabile questo elemento, quando è lontano dal
fuoco; quindi facilissimo e immaginarsi quali recriminazioni, quale
sussurro provocasse questa inopinata tardanza. Prima furono proteste,
poi fischi acutissimi: finalmente calci e pugni alla porta.

--Noi non si vuol fare il comodo dì nessuno!

--Si comincia male!

Tali erano a un dipresso le espressioni di quella gente stizzita, e a
rinforzare la dose il Mago dava degli schiarimenti sul comitato e
sulle spilorcerie ed angherie da questo commesse per il passato.
Figuratevi, diceva, che a me diede a portare venti uomini a Dôle, e mi
diedero una lira per uomo... Di qui bisognava andare a Mouchard,
ventiquattro ore di strada, lì bisognava dormire e poi partire il
giorno dopo per la destinazione... vi raccomando quello che dovevo
fare... E lo stesso che a me è succeduto a tutti i capi squadra... Oh!
hanno un gran talento quei signori di sù!...

--Abbasso... Abbasso questi grulli--Urlavano tutti--Son Frapollini...
Giù i traditori!

Chi sa dove avremmo finito, se fortunatamente non avessimo udito degli
altri rumori e più intensi dei nostri sulla piazza vicina. Cosa era
succeduto?.. Noi non vedevamo che delle guardie mobili, che venivano
via a rotta di collo. Rompemmo le righe ed andammo a vedere cosa era.
Un battaglione delle guardie mobilizzate delle _Bouches du Rhôn_ aveva
rifiutato partire, ed aveva lasciato soli sulla piazza, il maggiore e
tre o quattro altri ufficiali di buona volontà; uno di questi si
mordeva le mani e piangeva... Oh! ne avea ben ragione: A vedere quel
branco di vili che fuggivano piuttosto di andare a difender la patria,
ci era da esecrare l'umanità, di vergognarsi di esser uomini per non
avere a compagni quella canaglia.

Vedendo l'inutilità della nostra presenza, tornammo indietro, e dopo
pochi minuti fummo consolati dalla venuta del tenente. Il nostro
accompagnatore era grasso e rubizzo, e avrebbe fatto più figura
vestito da canonico che da garibaldino. Lo accompagnava una bella ed
elegantissima signora, che sapemmo, essere la di lui indivisibile
compagna; non si creda che quella donna fosse un'eroina, giacchè quel
tenente in tutta la campagna avrà forse veduto il fumo del camminetto:
quello dei combattimenti no certo; tutti i suoi incarichi si
limitavano ad accompagnare i volontari da Marsiglia al quartier
generale; non nego con questo che certi impieghi sono indispensabili,
ma io vorrei vederci dei vecchi e non dei giovani tarchiati e robusti,
come giusto appunto era il nostro duce provvisorio.

Si fece l'appello, eppoi a quattro a quattro ci movemmo per andare
alla stazione. Che l'Italia sia la terra del canto, non può esser
dicerto impugnato da chiunque ha fatto anche una sola campagna; il
soldato Italiano appena si muove canta, canta andando all'attacco,
come quando è in ritirata, canta nei malinconici stanzoni della
caserma, come in mezzo alle strade, quando sa di partire; parta per
una guarnigione, parta per andare alla guerra.

    »Non pianger, mio tesoro
      »Forse ritornerò

Cantavamo in coro noi tutti; e le finestre si spalancavano, si
illuminavano, ci offrivano dei leggiadri visetti, degli occhi superbi
che ci lanciavano occhiate tanto benigne da farci commuovere; il
nostro contegno non poteva non esser paragonato a quello dei mobili
delle _Bouches du Rhôn_, e chiunque ha un po' di mitidio può di
leggieri comprendere quanto un tal paragone resultasse per noi
favorevole.

Il lunghissimo tratto di via che è tra la prefettura e la stazione ci
passò in un baleno; in una carrozza sul piazzale della ferrovia
vedemmo la simpatica Aissa che ci buttò un bacio sulla punta delle
dita. Se quel bacio non era precisamente il castissimo bacio degli
angeli, è innegabile che per noi era assai caro. Salutammo gentilmente
quella donna; il sapere che qualcuno serba dolce ricordanza di noi, ci
fa piovere in cuore un sentimento di gratitudine, e in quei momenti
che, volere o non volere, non sono così facili a ripetersi nella vita
di un uomo, magnifichiamo certe cose alle quali in certi altri non
daremmo alcuna entità.

--Avanti, _march_--Gridò con voce stentorea il lilliputtiano
segretario del comitato... e tutti noi gli si tenne dietro nella
stazione....

Vedendo otto vagoni a nostra disposizione fummo colpiti da una dolce
meraviglia. Fin allora avevamo veduto i soldati ammonticchiati l'uno
sull'altro nei vagoni di terza classe: noi tutt'al più eravamo quattro
per scompartimento; ci era posto da sdraiarsi e di attaccare anche un
sonnellino. Ah!.. quanto sono fallaci le speranze del mondo!.. Ah!..
la speranza meretrice della vita, dirò con Francesco Domenico!... La
nostra gioia, il nostro benessere doveva protrarsi fino alla prima
stazione, e questa è appena a venti minuti di distanza, da Marsiglia.

Vienna, Avignone, Remoully dovevano vomitare sul nostro
disgraziatissimo treno una congerie di mobilizzati. L'educazione pare
che non entrasse nella teoria che s'insegnava a questi campagnuoli del
mezzogiorno dell'antica terra dei Druidi. Infatti entravano in frotta
e senza garbo nè grazia in quei vagoni che avevamo avuto l'illusione
di credere nostra proprietà; entravano pestandoci i piedi, sedendosi
sulle nostre ginocchia con l'indifierenza di una donna del mondo
galante, non però colla di lei grazia, nè colla di lei leggerezza. Fra
tutte le sventure che possono capitare a un viaggiatore, io credo, non
esserne alcuna che possa stare a confronto colla compagnia di un
mobilizzato della campagna. Se lo immaginino un poco i lettori: questi
eroi avevano sulle spalle un magazzino, una vera montagna d'involti,
di fagotti e di fagottini; erano muniti di due o tre paia di scarpe;
pretendevano di stare a baionetta in canna anche tra noi, anche in
quelli sgabuzzini; avevano chi il cane, chi un uccello in gabbia,
tutti poi indispensabilmente delle pagnotte stragrandi; si piantavano
a sedere, e per quante gomitate, per quanti urtoni loro si
amministrassero, non ci era verso di farli muovere un solo centimetro;
i più attaccavano sonno e russavano come contrabbassi; quei pochi che
erano desti non ci rispondevano, e si lamentavano tra loro del governo
che li strappava alle ordinarie occupazioni.

I nostri compagni di viaggio erano vestiti in mille maniere; ve ne
erano col cappello alla spagnola, col gasco e col berretto; ve ne
erano dei bigi, dei neri, dei verdi, dei turchini; avevano tutti il
fucile all'antica ed in pessimo stato. Siamo giusti!.. Se le guardie
mobili hanno fatto nella campagna del 1871 una figura non invidiabile,
non ne sono del tutto colpevoli. Comandate dal nipote del sindaco,
dallo speziale del luogo, dal Beniamino della moglie del
sottoprefetto, insomma da tutti ufficiali creati per dato e fatto
dell'impero, e che non ne sapevano un acca: armate con certi fucili
che avevano più apparenza di schizzettoni che di armi micidiali:
disilluse di tutto, persuase di esser tradite e condotte al macello
(persuasione che io credo loro avessero inoculata i preti) dolenti di
avere a trascurare i loro interessi per una patria, che finora non
conoscevano, esse non potevano fare eroismi: l'eroismo richiede la
convinzione: l'eroismo nasce dalla virtù cittadina.

Appena cominciò a farsi giorno cominciammo a vedere le colline
circostanti a Lione; colline che nelle belle stagioni devono essere
amenissime; ubertose per viti dell'altezza di un palmo, così fitte tra
loro da farti sembrare quei campi un'estesa brughiera, bagnate da
un'infinità di ruscelletti che scorrono placidamente alle loro falde,
per perdersi poi nella Loira o nel Rodano. A tutte le stazioni eravi
un movimento indicibile: un andare e venire di soldati e di guardie
nazionali: uno stringersi di mano, un baciarsi tra loro nei vari
gruppi che facevano ressa intorno a quei che partivano.

Finalmente si cominciò a vedere un'infinità di cammini di fabbriche;
poi una miriade di case e di palazzi; finalmente si trascorse in mezzo
ad immensi magazzini. Eravamo arrivati a Lione.

Sotto la magnifica stazione ci si mise in rango e il tenente ci fece
un'arringa che non aveva certo nessuna parentela, neppure alla più
lontana, con quello di Demostene o di Napoleone primo. Fece l'eroe,
magnificò le gesta dei Garibaldini nostri predecessori, sfoggiò di
tutti i luoghi comuni che si sono inventati dal quarantotto a questa
parte, e tutto questo per dirci che bisognava rimanere fino alla sera
a Lione, e che coloro i quali non sarebbero partiti, sarebbero
restati!

Questa peregrina scoperta del nostro duce ci fece acquistare una
grande opinione sul di lui talento; lo salutammo perciò con rispetto,
e contenti di vedere anche questa nuova città, e di paragonarla con
quella che avevamo lasciato da così poco tempo, scendemmo la gradinata
che è davanti all'edifizio e ci trovammo nella magnifica piazza con
due fontane, che gli sta dicontro.



CAPITOLO VII.


Lione era seria; non il brio di Marsiglia per le sue vie sempre
affollate di popolo, non il più piccolo movimento d'allegria negli
eleganti caffè: moltissimi negozi chiusi, poche le donne abbigliate
con galanteria ed anche queste non curate; un affacendarsi continuo
vicino alla prefettura ed alla Mairie per sapere i dispacci, per
strappare la notizia più piccola agli uscieri, ai galoppini, a qualche
soldato. Quasi tutti coloro che si incontrava, avevano il berretto da
guardia nazionale, alcuno non abbandonava mai il fucile; tutti poi
erano muniti di sciabole o di pistole; vedemmo diversi a braccetto
delle loro mogli, armati fino a denti, agitarsi a mo' degli ubriachi e
vociare a squarciagola: _Ah,., si viennent les Prussiens!_,... Era
proprio così; nessuno si sarebbe mosso per andare a incontrare il
nemico, ma guai a lui se avesse osato di presentarsi fiu sotto le
mura!

Le fortificazioni si rinforzavano; sulle piazze si vedevano parchi
d'artiglieria, e capannoni di legno che servivano di rimesse ai
cavalli; fanteria, lancieri, pollacchi, mobilizzati, compagnie addette
alle mitragliatrici...; un esercito insomma; uniformi per tutti i
gusti; una idea tale di resistenza da mettere anima in corpo all'uomo
più vigliacco del mondo--Ma come mai ne hanno buscate--Si diceva tra
noi--con tutti questi soldati che abbiamo veduto in due giorni?

Spuntava in qua e là, ma raramente, per le vie anche qualche berretto
da Garibaldino.

--E come mai siete qua?--Domandammo ad uno di quelli che ci avevano
colpito con tale sorpresa.

--Siam qua con Frapolli--Ci rispose questi ingenuamente.

--O perché non raggiungete il generale?

--Lo raggiungeremo quanto prima.

--E chi ve lo ha detto?..

--Il nostro capo!

--Ed è qui in Lione il vostro capo?

--Sì.. oggi anzi è a un banchetto Massonico.

--Questo ci fa piacere!.. I Francesi a quel che pare, trattano bene
gli Italiani..

--Oh! In quanto a cotesto non ci è da fare eccezioni... Si figurino:
in quattro mesi sarà il centesimo banchetto a a cui assiste il nostro
generale... e quando ci ha menato anche noi, le abbiamo fatte noi pure
le belle strippate e le belle bevute!

--Empitevi tutti!--Esclamai io un poco irritato--Empitevi e così
serbando la pancia ai fichi, mentre i vostri fratelli arrischieranno
la vita per battere i Prussiani, voi batterete i pasticciai e il
Bordeaux risparmiando dell'esistenze così utili all'umanità
pericolante.

Il nostro interlocutore non mi rispose, ci disse addio e se ne andò:
noi pure ce ne andammo verso una trattoria, dove mangiammo in fretta e
furia per poter dare un'occhiata alle bellezze principali della città.
Per tutto dove andavamo si trovava una piccola cassetta, su cui in
grossi caratteri era scritto: _Sécours aux blessées_; per tutto dove
andavamo per lo spaccio delle manifatture non vedevamo che donne: ciò
non ci recò alcuna sorpresa, perché anche nella scioperata Marsiglia,
avevamo veduto adottato lo stesso sistema. In Francia non si vedono
come da noi degli uomini incaricati di dar sigari agli avventori, di
misurare le tele, le stoffe, di contare i punti del biliardo, di fare
insomma tutte quelle piccole cose che possono esser fatte benissimo da
donne e che troppo impugnano al posto che l'uomo deve avere in società
a causa della di lui forza, e delle di lui attività. Gli uomini
lavorano nelle fabbriche, passano le loro giornate nelle officine,
accudiscono ai loro interessi, ma non tolgono certi lavori da nulla
alle femmine, ma si vergognerebbero ad esser impiegati in certe
funzioni, che si compiono oziando.

La sera si avvicinava; noi prendemmo direzione verso la ferrovia:
passando sul _quai_ sul Rodano (passeggiata che ci rammentava Firenze
e i nostri lungarni) facemmo una breve sosta ad una taverna per bere
un bicchiere di vin caldo.

Qui vedo il lettore alzare le spalle, farmi il viso dell'arme e
susurrare stizzosamente: «Ma dunque non facevate che bere?... E invece
di vergognacene ora ve ne fate bello, come se ciò costituisse una
delle più predilette occupazioni della vostra esistenza». Non vi nego
quest'ultima verità: per me il generoso umore della vite è il solo
amico dell'uomo; per lui si dimenticano gli affanni, le codardie, le
ignominie di questa società di buffoni, per lui i tradimenti amorosi
finiscono col non farci nè caldo, nè freddo: per lui germogliano a
mille e mille nel cuore le magnanime idee, e nel cervello le ardite
concezioni. Chi sa dirmi quante idee ci sono in un fiasco di vino?...
Esclamava il compianto Ugo Tarchetti, uno di quei _perduti_ che cadono
avvizziti per esuberanza di cuore; noi lasciamo al buon Evio le
ispirazioni delle quali era così prodigo a Orazio e a Plutarco, noi
gli chiediamo solamente l'oblio.

Nella stanza di aspetto della ferrovia, dove ci riducemmo quasi
subito, al nostro arrivo si aggirava una folla stragrande: quel
movimento c'inebriava: in un canto del salone noi vedemmo un gran
cartello dove a caratteri cubitali era scritto: Qui si dà da mangiare
e da bere ai soldati di passaggio. Credo inutile il dire che
quell'appello non trovava dei sordi; intorno a quella porta era
un'accalcarsi, specialmente di _mobilizzati_ da far rabbia: a onor del
vero anche qualche Garibaldino non fece il restìo: l'amico disertore,
da volpe vecchia, rinnovò un par di volte, e ci magnificò poco dopo la
squisitezza dei cibi, il gentile contegno ed i modi aggraziati delle
belle ragazzine che li distribuivano, la succulenza dei _consommés_ e
delle gelatine, apprestate per i feriti, ma che egli aveva assaggiato,
facendo lo zoppo. L'esempio dì lui venne tosto imitato da moltissimi
dei nostri commilitoni: una valanga di storpi e di zoppi si rovesciò
sul desco, dove le vivande erano apprestate; una tal cosa mi fece
provare una forte repugnanza, e mi fece disperare di quei soldati che
mentivano per una zuppa. Fortuna che al fuoco si portarono dappoi
tanto eroicamente da farmi attribuire a semplice giovanile vaghezza,
quello che in quel mentre mi aveva prodotta un'impressione tanto
spiacevole! Se da un lato avevamo questo brutto spettacolo, dall'altro
lato però ci consolava la vista ed il cuore un esempio di carità
cittadina, che vorrei potere eternare. Questo esempio ci veniva dato
da donne; già la più bella metà del genere umano fu, è, e sarà sempre
in prima linea laddove trionfa sovrana la santa religione
dall'affetto.

Cinque, o sei signore, tutte vestite di nero, tutte colla fascia al
braccio, distintivo dell'ambulanze, giravano per ogni verso, si
affaticavano a far complimenti onde raccogliere offerte per i feriti.
Il portamento distinto, il loro modo gentile di chiedere, la squisita
educazione che trapelava dai loro discorsi più inconcludenti ci resero
certi che quelle donne appartenevano ad elevatissimo rango: stuzzicare
la sensibilità, mettere in opera anche un po'* dì civetteria per fare
più quattrini per i poveri diavoli che scontavano la pena di aver
troppo amato la patria e l'umanità... ecco quale era lo scopo di
queste generose, e si sforzavano di raggiungerlo con la abnegazione
dell'apostolo, colla poesia che suole essere ispirata dall'idea di
fate un'opera buona.

Bisognava vedere con che grazia le vi levavano di tasca il denaro!...
se un ministro delle finanze avesse di tali esattori il nostro
impareggiabile pareggio sarebbe pareggiato!.... bisognava vederle
queste care donnine, abituate all'atmosfera profumata dei saloni, al
linguaggio adulatore dei felici del mondo, bisognava vederle, ripeto,
discorrere confidenzialmente coll'operaio dalla giubba sdrucita, colla
popolana i cui vestituccì emanavano degli effluvi tutt'altro che
aristocratici, ringraziarli con amabile sorriso, infonder loro
speranza, promettere di occuparsi dei loro cari che erano al campo,
stringer loro cordialmente la destra.

Spiccava sopra tutte le altre per autorità una vecchia matrona: una di
quelle matrone dell'antico stampo, che fedeli alle tradizioni
cingevano la spada ai loro figliuoli, quando si trattava di difendere
il re e la patria; la di lei fisonomia avrebbe ispirato rispetto
all'uomo più screanzato del mondo. Passò vicino a me, io le feci cenno
dì avvicinarmisi e nello stesso tempo mi avvicinai verso di lei.

--Cosa bramate?--Mi domandò per la prima.

--Vorrei fare la mia piccola offerta--Apro una parentesi; la mia borsa
sì era rafforzata di poche lire, datemi da mio fratello che
fortunatamente non aveva preso parte alle nostre poetiche smancerie di
Marsiglia.

--Ma voi siete soldato?--Mi disse con meraviglia la signora--voi pure
potrete esser ferito....

--Speriamo di no!

--Ve lo auguro... Ma perché espropriarvi di una somma che può farvi
comodo?

Provai un leggero imbarazzo; la mia scappata poteva costarmi salata:
la mia dignità m'imponeva un ultimo sacrifizio; si parlava di una
somma... ed era precisamente quello che avrei desiderato in quel
momento; posi mano alla borsa e diedi due lire che mi escivano dagli
occhi; ma pure tentai di richiamare un sorriso sul labbro e dissi: È
l'offerta della vedova...

--La più gradita al Signore;

--Ma non probabilmente ai feriti.

La mia interlocutrice fe' una boccaccia, e poi riprese di subito: Voi
siete Italiano?

--Sì... signora.

--Me ne ero accorto al vostro disprezzo per le cose sacre.

Rimasi di sasso; che avessi avuto anche a subirmi una romanzina in
tutte le regole? la signora difatti con voce calma, accento di madre,
cominciò a dirmi: Voi siete giovane, e son sicura che diventerete un
bravo soldato, ma anche voi pur troppo siete affetto dalla malattia
che condurrà a perdizione il vostro bel paese. Ma che vi ha fatto quel
povero vecchio di Pio IX per entrargli nella sua città a forza di
cannonate, per tenerlo prigioniero nel Vaticano?--E perché prender
Roma? Non è dessa la città di san Pietro, del Cattolicismo, di tutti
coloro che si son dedicati a questa sublime religione che ha per
precetto di dimenticare le offese, di amare tutti come noi stessi, di
sollevare quelli che soffrono?

Un amico un pochino più scettico di me, presente al colloquio, mi
susurrò negli orecchi: Questa non è una donna, è un priore di
campagna.

Io invece che non credo a nulla, compresi quello che passava nel cuore
della vecchia signora, e piuttosto che attaccare una disputa con una
che aveva tutta la poesia della fede, che mi simpatizzava per il modo
con cui ne faceva propaganda, mi contentai di dirle che non si andava
daccordo.

--Io torno alle mie elemosine--Allora la mi replicò--spero però che
resteremo amici!

--Sarò onorato di una tale fortuna.

--Se restate in Lione...

--Io parto stasera!... Ed ecco ci è là il nostro tenente che ci fa
cenno di seguirlo.

--A rivederci... A rivedervi colla commenda... e vestito da capitano!

--Potevate dire addirittura da generale!

--E perché no?... Il soldato francese ha in tasca il bastone da
maresciallo!

Io mi rammentai che ci avevo pochi soldi soltanto e mi passò la
poesia. La signora sorridendomi si era allontanata.

--Dove si va tenente?

--Non so, se a Autun o a Digione.

--Come... lei non lo sa?... O per che direzione si parte?

--Ma!...

--O chi ce lo deve dire?

--Il quartier generale doveva trasferirsi a Digione, non so se abbia
avuto ancora luogo un tal trasferimento. Lo dimanderemo al capo
stazione.

--Al capo stazione!...--Si ripetè tutti meravigliati--Per vedere di
queste cose bisognava venir proprio in Francia! E in Italia che
dicevamo nel 1867 di aver raggiunto l'apice della confusione! Un
innocentissimo capo stazione ridotto lì per lì a capo di stato
maggiore per provvedere al movimento dei corpi che son di passaggio,
ci riesciva proprio nuova di zecca!

E qui al solito tutti i discorsi di convenzione che si ripetono in
tutte le campagne.

--E se il capo stazione ci tradisse?

--E se fosse una spia dei Prussiani?

--O anche che non ne sappia nulla sarà un bel lavoro!

--Ma chi è quest'imbecille di tenente che non prende nemmeno ordini?

--Ve lo diceva che era anche lui della cricca!

--Già... e ora cerca tutti i mezzi per farci restar con Frapolli.

--Abbasso Frapolli!

--Abbasso il tenente!

E qualcuno gridò anche: Abbasso il capo stazione!... Povero uomo!...
come ci apparve impappinato quando si vide fatto segno di quel fuoco
di fila d'interrogazioni, alla maggior parte delle quali non sapeva
cosa rispondere!

--Li assicuro che Garibaldi è a Digione--Badava a protestare.

--Allora a Digione!--Gridammo tutti.

--A Digione--Ripetè, come eco, il duce nostro!

--Ma non so--Riprese il capo stazione--no so, se ci potranno arrivare,
se le linee saranno libere... tante volte i Prussiani... sono così
accidentati quei soldatacci di Bismark!

--Eh! non importa... noi si va.

--Faccian loro!

--Arrivederlo e stia bene!--E tutti via di corsa in un treno che era
lì pronto.

--Ma dove vanno, dove vanno signori?--Gridava con tuono di
raccomandazione quella povera vittima dell'ignoranza del tenente e dei
nostri capricci--Quel treno lì va a Marsiglia: montino in quell'altro!

--Sanno, cosa è--Proferì stizzosamente allora il nostro
accompagnatore--io con loro non ci voglio star più, e me ne lavo le
mani fino da questa momento: ecco la loro paga.

Nessuno protestò; nessuno scongiurò il tenente a ritirare quello che
aveva detto; ma egli, dopo averci dato un franco a testa, montò per il
primo in un vagone di prima classe, mentre noi fummo di nuovo pigiati
in una di quelle gabbie che a vederle sembrano molto più atte a
ricettar delle bestie che dei Cristiani... o degli Ebrei.

Il benefico Morfeo, ausiliato potentemente dalla fatica e dallo
strapazzo che ci avevano martoriati in quei giorni, scosse i suoi
papaveri intorno a noi, che ci addormentammo saporitamente. Con qual
voluttà si dormiva! non il più piccolo sogno, nè piacevole nè triste,
veniva a turbare la nostra quiete di morte: come si deve esser felici,
quando siam morti! Non sentire, non vedere più nulla, esser nulla...
ecco quello che devono anelare le anime generose, trambasciate,
sbattute in quest'orrenda burrasca del mondo, dove giungono a
salvamento solamente gli ipocriti e i vili.

Un urtone rompe l'incanto di quella calma. Che è? Siamo giunti a
Tournus: sono le nove e bisogna trattenersi fino alle due. Meno male
che troveremo qualche caffè, qualche bettola, pensammo tra noi e forse
potremo anche riposare su coltri più o meno sprimacciate quattro ore.

    »Chi mi darà la voce e la parola,

Per stimmatizzare degnamente questo iniquo paesucolo, in cui ci faceva
capitare la nostra malvagia fortuna. Io consacro Tournus
all'esecrazione di tutta la gente per bene; io auguro ai di lei
cittadini che il naso ghiacci loro, come ci si era ghiacciato a noi
quella sera.

La camera dei deputati quando parla Michelini è il luogo più popolato
del mondo appetto a Tournus: noi non ponemmo vedere un abitante;
picchiammo a due o tre osterie, non ci vollero rispondere: tirammo
pedate da orbi alle porte, vennero i gendarmi a pregarci gentilmente
che si smettesse; non un caffè aperto, non una finestra illuminata,
non il minimo indizio di vita. Persino l'orologio del campanile della
chiesa. maggiore era fermo e segnava le sette.

Nel mentre che noi avevamo dormito in vagone, la neve era cominciata a
cadere ed ora ricopriva col suo bianco lenzuolo tutte le circostanti
pianure; il freddo, il malessere in cui uno si trova quando viene
svegliato di soprassalto, il desio intenso di bere che ci
accompagnava, come l'angelo custode accompagna un cattolicone di
quelli coi fiocchi, ci avevano procreato un'arsione, come se si fosse
attraversato il deserto; e anelavamo un centellino di vino, come in
circostanze normali si anelerebbe un milione.

I cittadini di Tournus non dovevano aver molto in pratica l'Evangelo;
_battete e vi sarà aperto,_ diceva il divino maestro, e noi battemmo
colle mani, coi piedi, colle mazze: battemmo ovunque eravi un'insegna
d'albergo e di trattoria, nessuno ci rispose: in qualche casa si
sentiva metter la spranga. Tornammo tutti sconsolati alla stazione: la
trovammo piena di gente sdraiata, che cantava in coro una litania
d'invettive all'indirizzo di questo sconsacrato paese.

--Ma non vi è un _Restaurant?_--Domandammo a una guardia.

--Una volta ci era...

--Ed ora!

--Lo chiusero al principiar della guerra!

--E per bere come si potrebbe fare?

--Uhm!... Guardino là ci è una vivandiera.

Guardammo verso il punto che ci accennava quell'uomo e vedemmo difatti
un pezzo di ciccia del peso di un centinaio di chilogrammi:
quest'informe ammasso di carne in sottanina e cappello con piume, ci
sembrò bella come un angelo, come l'Angelo che insegnò alla povera
Agar la benefica polla che doveva rinfrancare di spirito e di vita
l'assetato Ismaele. Le chiedemmo da bere...

--Non ce ne ho che pochi bicchierini... ma sono per quelli della mia
compagnia.

--Va benissimo!... Borbottammo noi, emettendo un sospiro, che non
poteva sembrare enigmatico a chicchessia!

--Meno male che poco ci abbiamo da attendere!--Esclamò uno di noi.

Aveva appena terminato di dirlo, quando venne una guardia e
coll'accento più naturale del mondo ebbe il coraggio di dirci: Il
treno di Lione è in ritardo, bisognerà che aspettino altre due ore.

Noi eravamo prostrati... Andammo alla pompa che è lì a pochi passi per
rinfrescare la macchina: uno si mise a tirare come un facchino e gli
altri bevettero, bevettero con rabbia, quasi per protestare che, se la
fortuna ci era avara di vino e di liquori, essi se la ridevano di lei
e gliela facevano in barba. Poi si andò nel magazzino, ci sdraiammo
alla meglio su certi cassoni che vi erano e sonnacchiammo malamente
quelle maledettissime due ore.

Il fischio della locomitiva ci richiamò a noi stessi e dopo pochi
minuti eravamo tutti al nostro posto. Già da vario tempo avevo
cominciato a inebriarmi delle mille fantasmagorie che sogliono
produrre i beati momenti del dormiveglia, quando il treno si fermò; e
vidi baluginare dentro il nostro vagone, all'incerto chiarore del
lumicino, due fisonomie eteree, due di quelle fisonomie che ti
strappano di bocca un grido di ammirazione, tanto le ti sembrano
sovrumane: senza trarre il respiro, io le contemplava estatico e
pensavo che seguitasse una di quelle belle visioni che tanto mi
avevano entusiasmata la testa, pochi momenti innanzi: ma quale non fu
la mia meraviglia, allorché io sentii posarmi sulle spalle una manina
gentile, allorché un alito profumato mi carezzò dolcemente la
faccia?--Ma è egli vero quello che si svolge davanti a
me?--Riflettevo, quando una vocina simpatica, che mi s'insinuava
proprio nel cuore, mi rivolse queste parole:

--Tenete... Voi dovete averne bisogno.

E del pane, del salame e una bottiglia di vino generoso furono
lasciate a nostra disposizione da quelle simpatiche fate.

Eravamo arrivati a Macon, e le signore addette all'uffizio del
soccorso ai feriti, portavano, come d'ordinario, qualchecosa per
ristorare i soldati di passaggio.

Erano le sei della mattina: faceva un freddo tremendo, persino i
vecchi soldati, imbacuccati fino alla punta del naso, sbraitavano
contro una stagione sì perfida, e quelle donne, e quelle signorine
erano là da tutta la notte, portavano quell'immensi canestri con una
disinvoltura e con una grazia che forse si vede adoprare da chi porta
un mazzo di fiori: gelavano dal freddo, ma pure sorridevano: morivano
dal sonno, ma pure avevano una parola di conforto, una di speranza per
noi.

Ah! La donna!.. I miei lettori avranno osservato che io non l'ho punto
risparmiata ai Francesi, che io ho detto di loro tutto quello che
sentivo, che ho esposto alla libera le mie impressioni sul loro
contegno, e che l'ho chiamati degeneri, corrotti, indegni della fama
che si erano scroccati in Europa, ma in quanto alle donne bisogna
convenire, che avevano tutta l'abnegazione, tutti i riguardi, tutte le
doti, tutte le delicatezze di una madre, e tutto il coraggio delle
donne spartane: coraggio che le ha spinte a curare in prima fila i
feriti, e che poi ha fatto loro incontrare la morte sulle barricate,
quando Thiers ha iniquamente schiacciato e soffocato nel sangue la
generosa Parigi.

Ah! non si chiamino utopie gli sforzi generosi di certi publicisti che
vogliono collocare la donna nel posto che le si spetta: le donne hanno
già fatto abbastanza per mostrarsene degne, che anzi alla prova io le
ho vedute riuscir sempre a mille doppi dell'uomo.

Questo avvenimento, così inopinato, mi riconciliò lì per lì colla
Francia, con me, con la sorte: ringraziai alla peggio quelle vezzose
signore e mi misi a mangiare con un'appetito da cointeressato. Ci si
mosse quasi subito: i volontari salutarono con applausi fregorosi
quella città che si era mostrata tanto ospitale con noi.

Intanto albeggiava; la giornata almeno per quello che se ne poteva
preconizzare doveva essere uggiosissima: il cielo pareva di piombo, la
terra era coperta di neve, grossi stormi di corvi alleggiavano per
quei dintorni.

Sulla spianata di Baune io vidi un corazziere in alta tenuta, ritto,
stecchito al piede di un albero. Gli enormi cipressi, tutti nevicati
fuori che in punta, dove tuttora mostravansi verdi cupi, mi sembravano
tanti scheletri giganteschi col morione delle vecchie guardie i quali
ghignando sbirciassero quello omuncolo coperto di ferro e che in
faccia a loro stava nella medesima proporzione di un granello di rena
a una piramide dei Faraoni.

Dopo un'ora ci si fermava e questa volta ci si fermava
definitivamente. Per somma ventura di quei dieci o dodici lettori che
hanno avuto la più che cristiana pazienza di seguirmi fin qui, noi
eravamo giunti a Digione, a quella Digione che poco dopo doveva
illustrare il sangue di tanti prodi Italiani e che allora ci appariva
in mezzo alla nebbia coi suoi gotici campanili, colla sua semplice
guglia di San Benigno, come apparisce un'Oasi a chi si è sperso
nell'ampio deserto, come apparisce la meta allo stanco auriga che già
comincia a disperar del trionfo.

La stazione era ingombra di cannoni, di casse, dell'ambulanza, di
bagagli di tutte le dimensioni che appartenevano alle truppe ed ai
battaglioni che di poco ci avevano preceduto. Due o tre sentinelle di
guardie mobili passeggiavano per lungo sull'ambulatorio, facendo
sfoggio di una prosopopea, che te li avrebbe fatti gabellare per eroi;
d'altronde eravamo in prima linea, e quando il nemico non attacca, ci
si può prendere la scesa di testa di farla da gente feroce e
terribile,

--In rango--Gridò il nostro ufficiale con una voce da baritono molto
sfogata, e sfoderando per la prima volta la Durlindana.

Questo movimento in altre circostanze ci avrebbe fatti scompisciare
dalle risa: in quel momento eravamo troppo felici per aver raggiunto
lo scopo delle nostre fatiche, e dei nostri dolori, per poter nemmeno
prestare attenzione a questa spacconata.

_Per quattro fianco destro, avanti marchs!_

E mettendoci alla peggio per quattro, escimmo dalla stazione dietro
all'ardente condottiero, infilammo il viale dei Platani che vi
conduce, e passando di sotto all'Arco che fu inalzato ad onore dello
strenuisissimo Principe di Condè, entrammo nel capoluogo delle Côte
d'Or.



CAPITOLO VIII.


Traversammo la città e nella nostra traversata non ci fu dato vedere
alcuno amico, nè tampoco alcuno che rivestisse la divisa di
Garibaldino; in quell'ora così mattinale, i componenti dell'Armata dei
Vosgi, o erano occupati in recognizioni ed esercizi, oppure se la
dormivano saporitamente. Felici questi ultimi... noi cascavamo dal
sonno! ci portarono al quartier generale che era proprio in fondo
della città al lato opposto della ferrovia; il generale Garibaldi
abitava il palazzo della prefettura, dove erano stati anche impiantati
gli uffizi dello stato maggiore. Vedemmo alla porta in fazione un
carabiniere genovese ed una guardia nazionale.

Il rivedere la simpatica camicia rossa, ci fece nascere in cuore
un'emozione dolcissima; i nostri timori di non arrivare in tempo
eransi dileguati: entrammo nel cortile ilari, e svelti, proprio come
se uscissimo allora da un morbido letto.

Il tenente andò a prendere ordini; poco dopo tornò e ci disse: Loro
possono andare per la città: per ora non è stata data alcuna
disposizione per loro; a mezzogiorno sulla piazza delle _Mairie_ io
farò le paghe:

Dopo queste poche parole, se ne andarono tutti, e si stava per
andarsene anche noi dell'esigua combriccola, che si era mossa da
Firenze, quando ci sentimmo chiamare su di verso il terrazzo e avemmo
appena tempo di voltarci che si era abbracciati e baciati...

--Ne eravamo sicuri!

--Credevamo dì trovarvi quassù.

Guardammo e vedemmo il Piccini e lo Stefani già vestiti da
Garibaldini, che ci salutavano così affettuosamente.

--O Rossi?... Domandammo noi altri.

--Rossi è a lavorare... Riatta tutti i fucili della compagnia... Lo
vedremo più tardi!

--O come mai siete arrivati a raggiunger Garibaldi?

--È una cosa lunga!

--Allora ne riparleremo stasera, perché noi si ha un'appetito birbone,
e si ha una voglia di dormire grandissima.

--Per dormire non ci è bisogno d'andare all'albergo.

--Davvero?

--Sicuro!.. Venite con noi dal _mair_ ed avrete un biglietto
d'alloggio... qui in Francia, in tempo di guerra, i militari hanno
questo diritto.

--Evviva la Francia!.. Gridammo noi, sedotti ed entusiasmati dall'idea
di non spendere quei pochi piccioli che ci erano rimasti, onde
procurarci una stanza.

--Venite dunque con me--Disse il Piccini e tutti noi lo seguimmo verso
la piazza maggiore della città.

Durante il nostro tragitto cominciammo a farci un idea del corpo
d'armata che era stato affidato all'eroe dei due mondi; vedemmo i
Franchi tiratori, i Mobilitati, gli Spagnoli, la _Croce di Nizza_, le
Guide: i costumi, gli abbigliamenti di questi giovani soldati della
libertà, formavano un contrasto così bizzarramente artistico, che ti
faceva credere di essere in un mondo nuovo, in un mondo variato; ad
ogni cantonata tu vedevi un nuovo vestiario: pareva quasi di avere in
faccia agli occhi un caleidiscopio continuo; chi aveva in cuore un po'
di sentimento di artista, lo si poteva facilmente conoscere dal modo
con cui portava le piume al cappello e la svelta casacca; una
collezione di penne di tutte le qualità; dall'aristocraticissima penna
di pavone, alla plebea di gallina, che forse rammentava un
allungamento di mano non permesso dal Codice, tu vedevi brillare sui
cappelli di questi amabili matti, ogni specie di questi arnesi
indispensabili agli animali che s'elevano dal suolo.

I Franchi Tiratori ci offrivano l'esattissima riproduzione dei
volontari Italiani del 1860 e del 1866; tra loro spiccavano delle
distintissime fisonomie: tra loro figurava in mezzo ai figli della
montagna l'artista, in mezzo all'uomo del lavoro abbronzato dal fumo
dell'officine, il generoso milionaro abbronzato dal sole: tutti erano
rappresentati in quelle file, che lo spirito potente dell'amore di
libertà affratella nel momento supremo, in cui questa libertà versa in
pericolo, coloro che sentono rispondere generosamente il loro cuore
all'appello dei santi principii, che saranno il Vangelo dell'Umanità.

Una tal vista rallegrò i nostri spiriti: il sonno si era dileguato, si
era dileguato lo strapazzo, si era dileguata la fame. O divini
entusiasmi di colui che affronta la morte per un'idea generosa, perché
siete svaniti, e così presto svaniti?.. Siamo forse diventati vecchi
in due mesi?.. Le nostre fibre non si commuovono forse tuttora alla
corrente magnetica, che infonde le voce del dovere, della patria,
della società conculcata? Chi sa.... L'atonia in cui viviamo ci
ripiomba in uno scetticismo che voglio credere temporaneo... Tornino i
giorni felici, torni il santo momento di una rivoluzione, e scettici o
no, ci troveremo al nostro posto! Utilizzare la vita a prò di chi
langue: ecco quale deve essere in tanta tristezza di tempi, il
programma per chi ha cuore e coscienza.

Andammo alla _Mairie_ e volendo render meno dura che fosse possibile
la situazione, che ci si preparava, approfittandoci dei nosti abiti
cittadineschi, demmo a bere all'impiegato che eravamo ufficiali, e ci
fu sul tamburo steso un biglietto d'alloggio per uno dei primari
palazzi di Digione, nientemeno che il palazzo de Beverant.

Qui fummo accolti gentilissimamente da una vecchia signora, che ci
condusse in un magnifico appartamento e c'insegnò uno stanzino tutto
pieno di legna, dicendoci che con quel freddo ci avrebbero fatto assai
comodo! Eppoi la simpatica vecchia si intrattenne con noi in
amichevole conversazione; la ci disse le cose le più gentili, ci
salutò come gli angioli salvatori di quel disgraziato paese... E i
nostri buoni governanti d'Italia che ci riguardavano come diavoli, ed
i malvoni che ci tenevano a rispettosa. distanza, che ci gabellavano
per scavezzacolli, per beceri, per intrattabili?.. Proprio il caso da
dire _nemo propheta in patria_, e se i benigni nostri avversarii
avessero udito le gentili proteste a nostro riguardo indirizzateci da
quella donna, appartenente alla più pura aristocrazia della Francia,
scommetto la testa che alla lor volta sarebbero divenuti frementi.

L'ospite nostra ci ragguagliò su certe prodezze che avevano commesso i
soldati di re Guglielmo nella prima occupazione della città; il comando
generale gliene aveva messi in palazzo cinquantasei: e tutti
spadroneggiavano peggio che se fossero in una caserma; accendevano il
fuoco e facevano da cucina nelle magnifiche camere; avevan ridotto il
giardino a maneggio per i cavalli: pretendevano le legna, e qualche
giorno persino il vino e la carne. L'amor nazionale avrà forse fatto
esagerare un poco quella signora, ma è un fatto che molti tra i
soldati della grazia di Dio ne fecero di quelle di pelle di becco, a
detta di tutti; tutti però concordavano nell'affermare, che questa
gente, la quale dicerto non era stata restia nel far pompa di
prepotenza verso il popolo inerme, era rispettosissima, educatissima
verso il sesso gentile.

Sapemmo anche per mezzo della nostra interlocutrice, quanto fu lo
spavento da cui fu colto il generale Werder, quando Garibaldi tentò di
sorprenderlo la sera del 26 novembre: tutti i cariaggi erano stati
preparati, tutte le disposizioni per una ritirata erano state ordinate
in men che si dice; i soldati avevan fatto fagotto: i battaglioni di
riserva erano adunati nelle piazze, e di momento in momento altro non
si attendeva che l'ordine della partenza.

La signora ci rese informati di un episodio, che poi ci fu dato
raccogliere anche da tutti gli altri cittadini che avvicinammo;
episodio ben meschino a paragone di quelli che si svolsero in quel
maraviglioso periodo di storia che farà stupire i nostri posteri, ma
che ci si dava come ragione principale dello sgombro della città da
parte dei soldati Germanici. Io credo però che quello che ci si
raccontava, come verità indiscutibile, non fosse altro che una di
quelle storielle, che nascono non si sa come, che si propagano con
facilità straordinaria in un momento in cui una nazione ha perso la
bussola, ma che cadon di subito di faccia alle riflessioni che può
ispirare il più volgare buon senso.

Secondo questi discorsi il buon Werder, che è un cattolicone coi
fiocchi, uno di quei cattolici per cui il regno dei cieli è spalancato
come per tutti i poveri di spirito, dopo un lungo colloquio che aveva
avuto col vescovo di Djon, degno servo dì Dio, avrebbe preso le sue
carabattole e cheto come un olio, spaventato dalle minaccie dei
fulmini dell'ira divina aveva trasferito le sue tende ben lontano da
quella città, dove sarebbe piovuto acqua bollente se egli si fosse
piccato di continuare un occupazione in odio alle tremende divinità
che reggono il mondo.

Le frequenti visite che il generale Badese con un unzione veramente
apostolica faceva al vescovo, l'intimità più che fraterna che esisteva
tra questi due personaggi, il patriottismo ben noto del pastore che
aveva sotto la sua tutela i buoni abitanti delle Côte d'Or furono
dicerto la ragione precipua per cui nacquero e presero voga queste
chiacchiere di nessuna entità. Io non posso credere che un capo di
stato maggiore, reputatissimo come è il signor Moltk, possa ritenere
ai suoi ordini un sagrestano che si lascia imbecherare dalle fandonie
impossibili di un porporato qualunque.

Dopo aver bevuto dell'eccellente _Wermuth_, lasciammo il palazzo, che
cominciavamo a riguardar come nostro, e rientrammo in quelle strade,
dove un continuo viavai di soldati, di cavalieri, di carri,
d'artiglierie produceva un chiasso, una confusione che c'inebriava,
mentre avrebbe fatto venire un'emicrania solenne al pacifico e ben
pasciuto gaudente, che per caso si fosse trovato lassù.

Arrivati appena nella _rue Condé_, via principale della città, degli
applausi entusiastici ci colpiron gli orecchi; poi un correre
concitato di ragazzi e di donne; uno spalancarsi di finestre;
un'affollarsi repente lungo i marciapiedi, ed un gridìo unanime,
pieno, che ci produsse immediatamente una commozione indicibile. _Vive
Galibardi (!) Vìve le premier defenseur de la France_. Il primo
soldato della libertà dei popoli passava per quella strada, ed il
popolo che in tutto il mondo fa sempre sentire la generosa sua voce in
favore dei generosi che alla libertà dedicano la loro intiera
esistenza, accoglieva come si conveniva, ben differente dai grandi del
mondo che dispregiano sempre, chi è grande davvero.

Garibaldi!... Chi può rammentare questo nome, chi le gesta famose
dell'eroe divenuto già leggendario, senza sentirsi dì subito rapito in
una commozione divina?... Eccolo là, questo vecchio figlio della
rivoluzione, sempre giovine quando si tratta di rispondere ai di lei
magnanimi appelli! Eccolo là quell'uomo, che nel suo splendido passato
dall'ultima Montevideo alla vicina Mentana è stato sempre in prima
fila per la causa divina dell'Umanità!... A che mi si rammentano i
grandi, a che mi si rammentano gli eroi? Pari al sole che quando sorge
col suo Oceano di luce fa oscurare le stelle, quest'uomo ha fatto
oscurare la fama di tutti quelli che lo precessero. I posteri lo
crederanno un mito: perché la fortuna ha dato a questi tempi un
Garibaldi, quando non ci ha dato un Plutarco per rammentarne
degnamente le gesta? Ma i buoni popolani son pronti a rammentarlo
degnamente ai lor figli, ad insegnar loro a venerarlo come quelli da
cui dipende la felicità, l'avvenire di quelli che soffrono! Io per me,
le poche volte che mi è stato dato incontrarlo mi son sentito le
lacrime agli occhi ed egli mi è trasvolato davanti come un eroe dei
tempi sublimi, in cui i Cincinnati e i Fabbrizi lasciavano la spada
dopo aver salvato la patria, per tornare alle glebe natie, O alle
officine rese sacre dal sudore di quelli operai, che veramente erano
grandi per il lavoro e per la virtù cittadina. Benedetto da tutti
quelli che amano; implorato, come una speme da tutti quegli che
soffrono; terribile ai tiranni; sempre presente agli schiavi; invano
tenteranno d'abbatterlo i Giuda politici, che si inspirano ai fondi
segreti del ministero, mai alle azioni generose.

Il Generale era in carrozza con l'indivisibile Basso; ambedue erano
vestiti in borghese: Garibaldi aveva un cappello alla calabrese bigio
ed il _punch_ che sempre lo ho accompagnato in tutte le campagne;
dietro alla carrozza venivano a cavallo il maggiore Fontana dello
stato maggiore, e il capitano Galeazzi delle Guide, aiutante di campo.
Il Generale sorrideva a quei popolani che l'applaudivano con tanto
entusiasmo, e li salutava gentilmente con le mani. Il popolo di
Digione accompagnava sempre con dimostrazioni d'affetto il Generale, e
quello che si vedeva, si doveva d'ora in là ripetere ogni giorno
davanti ai nostri occhi.

Poco dopo che noi ci eravamo commossi ad un tale spettacolo, dovevamo
esser sorpresi da un'incontro non meno gradito di quello del nostro
Generale. Trovammo Rossi, nostro compagno sul _Var_, uno di quei pochi
Fiorentini, che sempre fedeli al principio Repubblicano, avevano
subito gli oltraggi dei giornali dello sbruffo, e l'ire delle
questura, e che ora, coerenti al proprio principio, dopo mille
peripezie, che più tardi racconterò ai miei lettori, era pervenuto a
raggiungere gli stendardi della, libertà e della emancipazione
sociale. Il Rossi era ingrassato in una tal maniera, che noi durammo
fatica a riconoscerlo: sembrava più un Domenicano che un Garibaldino;
gli si leggeva in volto la contentezza dell'uomo che dopo tante
fatiche, ha potuto raggiungere uno scopo per tanto tempo da lui
vagheggiato.

Andammo tutti insieme a pranzo: lì sapemmo a un'incirca tutto
l'andamento preciso dell'Armata dei Vosgi: questo mucchio di uomini,
abbastanza omeopatico, a cui superbamente si regalava il titolo
d'armata, era allora diviso in quattro brigate: la prima sotto il
comando del generale Bossak, aveva il suo quartier generale a
Fontaine, paesetto, a circa due kilometri di distanza da Digione: la
seconda, anticamente comandata da Delpeche, ed ora comandata dal
Lobbia, si era avviata verso Langres, e non si sapevano notizie
precise sul di lei conto: la terza, generale Menotti, era a Talant, e
ne formavano parte le due legioni italiane sotto gli ordini di Tanara
e Ravelli: Ricciotti con la quarta brigata era dalle parte di Poully,
lato Nord Est della città.

Le traversie che ebbero a subire Rossi e Piccini, Squaglia e
Baldassini per giungere in Francia, ci furono raccontate a quel
desinare e meritano, credo, l'attenzione dei lettori, se non altro
perché questo serva ad assicurarli del come, quando si nutrono certe
idee, si affronta qualunque pericolo da quel partito che i troculenti
avversarii, hanno osato qualificare per gente che non ha nulla da
perdere e che si pasce solamente di trambusti perché in questi ci è da
pescare nel torbido,

Rossi e gli altri, dopo il nostro arresto restarono in Livorno e
giungendo ad eludere quell'oculatissima pulizia, poterono giungere al
momento bramato di imbarcarsi su una piccola barca, colla quale si
accingevano a intraprendere una traversata che mette in pensiero
l'indolente e pacifico borghese che deve farla in piroscafo.
Perseguitati dalla polizia che non si ristava un momento da pedinarli,
con un tempo indiavolato essi poterono imbarcarsi verso mezzanotte,
due miglia lontani da Livorno. Il mare metteva spavento: ognuno potrà
facilmente rammemorarsi di quanto furono sconsocrate le giornate che
nell'anno passato annunciarono l'inverno; perfido il clima, continue
le pioggie, mai interrotte le burrasche; ora mi si mettano otto o
dieci persone sopra uno schifo, atto solamente a fare delle
passeggiate, eppoi se ne tragga l'unica conseguenza possibile, e la
non può esser che questa: i bravi giovani erano decisi a giocare di
tutto per raggiungere il loro scopo, e possedevano tempra, da
reputarsi più che miracolosa in questi tempi di unversali debolezze e
di codardia inesprimibile. Certo che chiunque avesse veduto quel
piccolo legno, sbattuto in mezzo agli spaventevoli cavalloni, sempre a
un pelo per far cuffia, sempre frisando gli scogli, sempre a pochi
passi dalla morte, non poteva fare a meno di esser colpito da tanta
sublimità, da tanta abnegazione, da tanto coraggio... Oh! non mi si
dica, che ai dì d'oggi l'antica virtù è un mito nel mondo... oh! no...
la virtù esiste: sarà a bella posta obliata; si tenterà di farla
passare per pazzia, ma a dispetto di chi non lo vuole, essa trova
sempre dei seguaci, dei seguaci che vivono e muoiono ignorati, ma che
sono anche troppo superbi per ottenere tale oblio, nel secolo in cui i
ciarlatani di professione, i codardi e colpevoli servitori delle corti
e del vizio sono portati in palma di mano da una folla più di loro
codarda e colpevole! La virtù la vìve, ma per volerla rintracciare,
bisogna andare tra quella gente che è posta in quarantina dalla
società degli uomini serii, bisogna rintracciarla nei bassi fondi
sociali, tra la gente che soffre, lavora e muore di fame; simile in
tutto alle perle che non si trovano che tra la melma.

Il vento impetuosissimo, i marosi che in conseguenza di questo avevano
raggiunto tutto ciò che può esservi di più orribile per il marinaro,
l'albero maestro troncato costrinsero i nostri giovani amici a
fermarsi a Vada, piccolo paese della Maremma, distante a dir molto
mezza giornata di cammino da Livorno.

Attorniati immediatamente dai carabinieri, essi dovettero ai
sentimenti generosi dei buoni popolani di lassù, il potersi ridurre in
salvo: si rifugiarono diffatti in un'abbaino, alle cui finestre non
erano imposte, nè vetri, e che aveva tanto basso il soffitto da
costringere chiunque v'entrasse, ad andarvi carponi. Vi doverono star
sette giorni: senza un pagliericcio, senza un brodo che loro
ravvivasse le forze già esauste; costretti a dormire, l'uno l'altro
abbracciati, per scongiurare la veemenza del freddo Siberico,
confortandosi e prendendo animo all'idea del santissimo sacrificio che
per santissimo intento essi in quel mentre facevano, passarono in
quella dolorosissima situazione degli istanti divini.

Riattato il piccolo navicello, essi a notte inoltrata poteron
ripartire: a bordo vi erano viveri, ma essendo durato il viaggio per
altri sedici giorni, i futuri difensori della repubblica, soffrirono
anche la fame ed arrivarono sfiniti, cascanti, dopo cento altre
peripezie a Bastia.

Nella capitale della Corsica, Rossi, Piccini, e i compagni, trovarono
una perfidissima accoglienza: tutti ci dichiararono umanimemente che
quegli abitanti, devoti alla causa Napoleonica, appena che ebbero
odorato, che i giovinetti, sbarcati dal quel navicello, stracciati, ed
in cattivissimo, stato, erano dei Garibaldini, non fecero che
guardarli in cagnesco, non risparmiando loro certi atti villani, che
sarebbero stati degnamente rintuzzati, se in quei momenti ragioni
potentissime non avessero consigliato sangue freddo e prudenza.

Ricevuti come cani alla prefettura, trattati, quasi come pazzi al
comando di piazza, guardati con diffidenza dal _Mair_, essi non si
perdettero di coraggio e fiduciosi nel proverbio che l'importuno vince
l'avaro, tanto almanaccarono, tanto scombussolarono, usando ora buone
maniere, ora sgarbi, pregando e protestando, che alla fine furono
imbarcati sopra un piroscafo, e inviati a Marsiglia, dove si erano già
costituiti i due celebri comitati Garibaldini.

Credendo dì aver toccato il cielo con un dito, i bravi nostri amici
salutarono Marsiglia, come il fanciullo che si è perduto nel bosco,
saluta il cammino della casa paterna. E furono accolti a braccia
aperte dal Comitato, ed i membri di questo furono loro cortesi
d'incoraggiamenti e di belle parole; nè quando accamparono il loro
desiderio di partir prontamente, fu fatta l'obiezione più piccola...
Meno male che la fortuna qualche volta corona felicemente gli sforzi
di chi ha sofferto--Pensavano i nostri, entusiasmati..--Oh sì, che la
pensavano bene! Essi non erano giunti che alla prima stazione del
Calvario che doveva menare, qualcuno di loro alla morte, e credevano
invece di aver preso possesso della terra Promessa.

Frapolli aveva in quell'epoca il suo quartier generale a Chambery, e
già stava instituendo un primo battaglione di fanteria a Montmèlian
nell'estrema Savoia. Là furono diretti i nostri amici, i quali, non
sapendo ancora, quanto fosse discorde il celebre grande Oriente della
Massoneria dai disegni del Generale, andarono alla loro destinazione,
allegri e contenti, con la ferma convinzione di raggiungere tra pochi
giorni, l'invitto capo dell'armata dei Vosgi.

Arrivati alle loro destinazione essi trovarono tra i componenti del
battaglione lo Stefani, venuto via pochi giorni avanti di Firenze.
Quattrocento giovinetti erano già adunati, ma nessuno di loro aveva
arme, nessuno di loro aveva il più piccolo distintivo che potesse
contrassegnarli, come soldati. I superiori, si sfogavano, a rammentare
ogni giorno, che presto anche loro sarebbero andati in prima linea, e
intanto esortavano i dipendenti a fare delle esercitazioni, le quali
tutte, si compendiavano in gite di 15, 16 e persino 20 chilometri, su
quei monti, dove la neve si alzava sette o otto metri dal suolo. I
continui strapazzi, tutti infruttuosi, il rigido clima di quelle
alpine ragioni influirono maledettamente sulla salute di quei poveri
diavoli di cui molti ne andarono allo spedale, mentre gli ufficiali
passavano allegre serate, ravvivati da cene Lucullesche, che il loro
capo scroccava ai buoni Massoni di quelle montagne; ragione questa per
cui ogni ufficiale che dipendeva dal buon Frapolli si faceva di subito
iniziare ai misteri della Massoneria!

Fu dato il comando del battaglione al Perla, a quest'eroe che ora è
una delle più belle figure nel Panteon dei martiri della libertà:
Perla, valoroso soldato delle nostre guerre dell'Indipendenza,
patriotta di romana virtù, comandando una frazione del microscopico
esercito del Frapolli, non si rese certamente complice dei bassi
intrighi del suo superiore, e lo mostrò chiaramente quando tra i
primi, raggiunse la legione del Garibaldi tra cui doveva incontrare
così gloriosamente la morte.

Rossi, Piccini, Stefani, in ricompensa di aver servito altre volte,
furono fatti sergenti, ma il tempo passava (erano già scorse due
settimane) e ancora non si veniva a capo di nulla; unica cosa fatta,
fu l'abbigliamento per i volontari: i giovani cominciavano a
mormorare: le notizie degli scontri che aveva sostenuto Garibaldi
erano giunte fin là, e troppo repugnava a giovine gente restare in un
deposito, mentre i fratelli si misuravano coll'inimico e spargevano di
nobile sangue gli ubertosi vigneti della Borgogna.

Tutte le sere in caserma succedevano concitatissime conversazioni; si
proferivano gridi che non erano certo d'ammirazione per i comandanti;
si fischiavano gli accaniti difensori degli ufficiali, era insomma una
confusione da metter pensiero a chi era incaricato di condurre tutta
quell'accolta di gente: una di queste sere, proprio all'impensata,
capitò a Montmelian Frapolli ed ordinò una rivista per il giorno
dipoi.

Dopo aver squadrato, così per pretesto, ad uno ad uno i suoi
dipendenti, il Frapolli fece formare il quadrato, e piantandosi in
mezzo alle file, sciorinò tutto d'un fiato un lungo discorso, dove chi
capì un acca potè chiamarsi ben fortunato. Parlò di trame e di
cospirazioni, protestò di esser calunniato, di andar d'accordo con
Garibaldi, ma che però non bisognava sposarsi a quest'ultimo, poiché
dei guerrieri bravi ce ne erano anche più di lui, poiché era succeduta
la rivoluzione anche nell'armi e nella strategia e che perciò ci
voleva gente nuova.

Un lungo mormorio ed anche qualche fischio accolsero le strampalate
parole del generale, che alzando, bruscamente le spalle e borbottando,
non so quali inpertinenze, si ritirò seguito dal suo stato maggiore.

Giunto il battaglione alla caserma, Piccini, incoraggiato e sostenuto
da Rossi e Stefani, scrisse addirittura una lettera a Garibaldi,
lettera nella, quale si metteva chiaramente a nudo la situazione e si
chiedevano consigli su ciò che era da operarsi: qualora non forse
pervenuta alcuna risposta i tre amici avevano deciso di disertare.

Come furono lunghi i cinque giorni d'aspettativa! quante polemiche,
quante questioni anche serie non accaddero in quel breve lasso di
tempo! i soldati cominciavano a perder la fiducia nel loro capo,
dacché subodoravano che tra lui e il grande Italiano non ci era più
quell'accordo, che solo può produrre buoni resultati; finalmente venne
il colpo dì grazia, e questo colpo fu giusto appunto la lettera con
cui Canzio a nome del Generale rispondeva a Piccini.

Frapolli vi tradisce, Frapolli è un'inviato del Governo Italiano, che
tenta di seminare la zizzania nel campo degli eroi delle libertà--Tale
era a un dipresso il sunto dello scritto di Canzio. Un fulmine e
questa lettera potevano produrre il medesimo effetto. I volontarii si
ragunarono tumultuosamente: siamo traditi: abbasso i traditori: viva
Garibaldi vogliamo partire... ecco le grida che sorgevano da tutti
quei petti, ecco le convinzioni che tutti quei giovani esprimevano
proprio all'unisono: invano gli ufficiali con preghiere, con moine,
con minaccie pretendono di far rientrare in caserma i sottoposti e di
ridurli a dovere; invano si rammenta loro la causa che sostengono e
che può esser compromessa con moti intempestivi e con deliberazioni
inprovvise: oramai tutti son rimasti troppo scottati dalle buone
parole, oramai tutti son stanchi di lasciarsi abbindolare di più; gli
ufficiali sono obbligati ad andarsene scorbacchiati e confusi; nè
potevano quei bravi avanzi delle guerre della libertà disapprovare in
cuor loro l'impazienza generosa di quei bravi ragazzi: difatti la
maggior parte degli ufficiali raggiunse poco dopo l'armata, e si portò
eroicamente: rimasero solamente quegli eroi che fanno la guerra per
diventare ricconi, che fuggono al fuoco, ma che sono i primi ad
attaccarsi i ciondoli del valor militare sul petto.

Dalla rivoluzionaria assemblea, fu conchiuso d'inviare una sommissione
al Generale e fargli noto, come idea decisa di tutti, fosse il
raggiungere i fratelli che si trovavano in faccia al nemico. Eletti a
far parte di questa commissione furono appunto i tre nostri amici
Rossi, Piccini, Stefani. Essi portaronsi immediatamente a Chambery,
dove si abboccarono col colonnello Pais, una delle onestissime persone
e dei repubblicani distinti che era rimasto acchiappato dalle reti del
Frapolli. Pais cominciò col fare qualche appunto al quartier generale,
deplorò le parole del Canzio, esortò i nostri giovani a non volere
attizzare quel fuoco, che divampando avrebbe distrutto la reputazione
di patriotti distinti e forse anche l'esito della intrapresa
repubblicana. I tre furono irremovibili: vedendo allora il Colonnello
come qualunque parola sarebbe stata vana a trattenerli, permise loro
di allontanarsi dal battaglione, anzi li pregò a presentarsi al
quartiere generale, allora in Autun, e a scongiurare coloro che
comandavano l'armata dei Vosgi a prendere una definitiva risoluzione
affinchè cessasse quel fatale dualismo che poteva condurre a così
triste, a così deplorevoli consequenze.

Accompagnati alla stazione dagli applausi di tutti i compagni, ed
imbarcatisi, dopo un viaggio lungo, anzichenò a causa
dell'interruzioni ferroviarie, i nostri amici arrivarono al capoluogo
del Giura, alla città che fu culla del noto Mac Mahon, e senza por
tempo di mezzo, si recarono alla sede del quartier generale.

Lobbia e Canzio accolsero i nuovi venuti più che se fossero amici,
proprio come se fossero stati fratelli. Tutti erano indignati per il
contegno tenuto dal Frapolli: difatti nessuno poteva farsi una ragione
del come quest'uomo daccordo coi Comitati accaparasse per se tutta la
miglior gioventù che veniva d'Italia, e la forzasse all'inazione, alla
vita coruttrice della caserma e della guarnigione, mentre il generale
Garibaldi non faceva che raccomandarsi a tutte le parti, perché gli
inviassero dell'uomini. No! Non erano induzioni fallaci, non erano
calunnie, quelle che si formulavano sopra quest'uomo. La ragione
ridicola che accamparono alcuni miei amici, svanisce davanti al primo
soffio del più volgare buon senso. Frapolli, dicevano questi, vuol
risparmiare il sangue di tanti generosi: ha preso il grado di generale
per impedire degli inutili combattimenti; Frapolli a tale scopo è
stato inviato dalle Massonerie. Io non voglio credere che
un'associazione che ha per base l'amore del vero e dell'umanità, abbia
non che autorizzato, permesso, che uno dei suoi più influenti fratelli
la facesse o da Don Basilio o da Arlecchino in momenti in cui il
sangue correva a ruscelli e in cui si poteva finalmente risolvere il
gran problema dell'emancipazione dei popoli. Io credo coi più, che
Frapolli non fosse che un'ambizioso di bassissima lega; un innocuo
coniglio che per poco tempo si era provato a indossare una veste da
leone, che aveva riconosciuto troppo pesante per lui; un ciarlatano
qualunque, uso in Italia a recitare due parti in commedia, deputato e
tribuno, scenziato e generale, capace di tutto fuori che di far tacere
la sua sperticata superbia, ed a combattere sotto gli ordini di chi ne
sapeva più di lui, di chi più di lui ne aveva il diritto.

Canzio in special modo era irritatissimo: disse ai nostri amici che a
giorni sarebbe partito, come infatti partì, per condurre via tutti gli
uomini che erano adunati a Chambery e a Montmelian.

Rossi, Piccini, e Stefani non vollero tornare donde erano venuti,
quantunque loro si facessero conoscere delle prospettive di
avanzamenti sicuri; troppo contenti di aver finalmente raggiunto
Garibaldi, di aver potuto riabbracciare i vecchi compagni d'arme e di
trovarsi con loro, essi si strapparono i galloni di sergente ed
entrarono semplici soldati nella compagnia dei Carabinieri Genovesi,
compagnia che si costituiva allora sotto gli ordini del distinto
capitano Razzeto.

Dopo due o tre giorni il quartier generale erasi trasferito a Digione
ed i tre nostri amici, insieme al prode comandante dell'armata dei
Vosgi (chè la compagnia dei Carabinieri Genovesi mai si staccava da
lui) erano venuti in questa città.

Tale a un dipresso fu la narrazione che a pezzi e bocconi strappammo
durante il desinare ai nostri compagni, che si mostravano di un
buon'umore e di una gaiezza invidiabile. Entrarono nella trattoria e
si unirono con noi Mecheri e Ghino Polese, appartenenti ambedue alle
Guide, e già in Francia ambedue fino dai primi principii della
campagna. E qui furono lunghi discorsi, domande spesse, ripetute, alla
maggior parte delle quali era impossibile dare una risposta, tanto
rapidamente le si succedevano; era una conversazione briosa,
scapigliata, attraente; e a renderla più allegra e più rumorosa
influiva non poco lo squisito nettare, che producono i vigneti della
Côte d'Or, incantevole soggiorno per chi adora il dio Bacco.

Prometto che sarà l'ultima volta che mi perdo nel cantare le glorie
del vino; hanno ragione, purtroppo coloro, che dicono che noi abbiamo
troppo presenti le libazioni che abbiamo fatto nell'ospitale Borgogna,
e che ad ogni poco io apparisco più un ubriaco che uno scrittore: ma
mi crederei uno scrittore macchiato della più nera ingratitudine, se
io non ti rammentassi o liquore color d'ambra, che c'ispirasti tante
magnanime idee, che ci mantenesti in tanta salute per la modica somma
di cinquanta centesimi per bottiglia, mentre qua adulterato, bisogna
pagarti tre o quattro franchi..

Noi secondo l'abitudinaccia nostra si diceva male di tutto e di tutti,
si stroncava per passatempo qualche reputazione, si prendevano in
burletta certe cose che, convengo pel primo, sarebbe stato assai
meglio pigliare sul serio. Le nostre lingue sono un po' lunghe...
d'altronde è un difetto organico, che si sviluppa frequentando la
società!... Il Rossi soltanto non prendeva parte alcuna alle nostre
maldicenze; anzi con fare affettuoso e paterno ci faceva delle
reprimende che per lo più terminavano in lirismi ed in voti di
esagerate speranze per l'avvenire. Il Rossi aveva la fede e l'energia
di un apostolo, la fermezza di un cospiratore, il fanatismo del
martire. Sempre eguale a se stesso: nella sua officina a Firenze,
nelle prigioni che spesse volte aveva assaggiato per non voler troppo
bene al presente ordine di cose, nei combattimenti dove aveva a
incontrare poco dopo tanto gloriosamente la morte, egli avrebbe
creduto di peccare smentendo se stesso, anche così per far chiasso in
una conversazione d'amici. A sentir lui era certo il trionfo della
repubblica, non solamente in Francia ma in un'altro paese dove egli
era sicuro che Garibaldi ci avrebbe portato appena distrigati gli
ultimi conti coi fedeli alleati della Grazia di Dio. Figuratevi in
quella combriccola di scapestrati, quale effetto facessero le parole
calme, dolci di questo giovine la cui perdita ha lasciato tanto voto
nelle file dell'esiguo partito democratico della mìa bella Firenze.

È inutile: il Rossi parlava come un santo, ma quella sera doveva
essere baccano: si festeggiava il nostro arrivo e non poteva essere a
meno!... Squaglia, Baldassini, una caterva di Livornesi ci
raggiunsero, e tutti insieme rammentandoci le vaghe colline della
nostra Toscana, il nostro bel cielo, il volto delle nostre ragazze,
idealizzato dalla lontananza, le chiassose baldorie e le ribotte di un
tempo, incominciammo a intronare quegli stornelli, che si sentono
tante volte sulle labbra gentili delle nostre donne del popolo:
stornelli d'amore, malinconici come il ricordo di una svanita
illusione, modesti e simpatici come i fiorellini dei campi che l'hanno
ispirati, poeticamente rozzi, come coloro che senza alcuna istruzione
l'hanno composti.

Dagli stornelli passammo alle ardenti canzoni ed agli inni: la
Rondinella di Mentana, l'inno di Garibaldi, la Marsigliese... Era la
voce dell'Umanità e della Patria, che sorgeva gigante ad oscurare
quella della città e della famiglia, e che in mezzo alla orgia ci
faceva ricordar di essere uomini.

Escimmo cantando: quella sera ci si sentiva felici: i popolani si
accalcavano al nostro passaggio e ci accompagnavano coi loro applausi:
noi italiani in Francia abbiamo molta fama musicale, molta più di
quella che ci si merita: qualcuno di noi per esempio stuonava più di
un secondo tenore del teatro Nazionale, eppure sentimmo ripetere che
mai coro più accordato del nostro erasi sentito in Digione... Chi si
contenta gode!

L'orologio battè mezzanotte: l'ora era più che canonica: bisognava
ritirarsi: Rossi che voleva sapere l'andamento generale delle cose
d'Italia, e i progressi, che vi aveva fatto l'idea, e come le masse
accogliessero le notizie di Francia, volle in tutti i modi
accompagnarci a casa.

Povero Rossi!... Venne con noi, cominciò a domandare... ma noi con
poco rispetto attaccammo un sonno da paragonarsi solamente a quello di
un lettore delle Perseveranza, ed egli continuò a gestire, e
scalmanarsi per una buona mezz'ora, in mezzo alle note più o meno
sfogate delle nostre trachee cambiate lì per lì in contrabbassi.



CAPITOLO IX.


L'aver ritrovato i nostri amici, la contentezza di poter passare
qualche ora con loro ci aveva fatto dimenticare il ritrovo, a cui
eravamo stati invitati il dì innanzi dal nostro ufficiale. Un vecchio
soldato arriccerà il naso a questa notizia, e dirà, come di solito,
che primo ed essenziale requisito di coloro che bramano farsi onore e
debellare il nemico è la disciplina: ma noi che abbiamo a noia il
veder l'uomo ridotto allo stato di macchina, noi che siamo persuasi
che l'affezione a un'idea può benissimo generare l'eroe, che non hanno
mai generato le ridicole e assurde pedanterie, noi credemmo di non
aver dicerto peccato, se in quel primo giorno eravamo stati sordi
all'invito, decisi di raggiungere al domani la compagnia, o il
battaglione a cui eravamo stati aggregati.

Perciò appena albeggiò, escimmo di casa e ci avviammo verso il centro
della città per sapere le notizie che ci riguardavano. La piazza della
Mairie, era una delle più belle piazze di Digione: notevole per un
gran numero di baracche e di banchi dove alcune donne, tutte brutte,
ad eccezione di una sola, facevano spaccio, di sigari, di caffè e di
liquori. I volontarii si affollavano intorno a loro, e non avevano
torto: lì con dieci centesimi, avevano quello che nelle botteghe
costava quaranta e anche cinquanta centesimi.

Ad uno di questi banchi trovammo il nostro tenente: meno male!..
questo incontro ci rispiarmava il fastidio di dover interrogare altra
gente e di dovere impazzare per rinvenire la caserma.

--Scusi tanto...--Noi principiammo, avvicinandolo, ma egli tagliò ogni
discorso dicendoci:

--Ieri non si fece nulla..... Vengano oggi a mezzogiorno...è l'ora
delle paga: credo che nessuno mancherà.

--Duuque a Mezzogiorno?

--Sì.

--E dove è il nostro quartiere?

--Vadano alla _Madaleine_ e là troveranno i loro ufficiali... Loro non
dipendono più da me... Io appena che ho accompagnato le spedizioni, me
ne lavo le mani,

--A rivederlo!

--A rivederci!

Andammo allora al quartier generale; per quella mattina, non pareva
che alcuna cosa alla più lontana indicasse qualche probabilità di un
attacco da parte del nemico. I Prussiani difatti avevano sgombrato
Digione, per concentrarsi; si aspettava, che dopo tanti giorni di
quiete una gran massa di Tedeschi, col solito sistema che ha sempre
guidato i movimenti di Moltk, piombasse sulla città principale delle
Côte d'Or. Dicevasi anche che a ciò fosse stato pescelto il corpo
d'armata del principe Federigo Carlo, perché a Versailles si voleva
finirla una volta con questa riunione accogliticcia di giovanastri che
rompevano anche troppo le scatole alle truppe più agguerrite e più
disciplinate del mondo; ad ogni modo, e lasciando da parte qualunque
interpetrazione a cui dava luogo questa continua inazione dei nostri
nemici, quello che si può accertare si è che questi si erano
allontanati parecchi kilometri da Digione; le nostre scorrerie, le
recognizioni che senza posa facevano le truppe di linea, mai si erano
scontrate con loro, e tutti insieme concordavano nell'affermare che di
Prussiani non ci era il minimo segno in tutti i dintorni.

Garibaldi non si lasciava sfuggire questa bella occasione che gli
fornivano i propri avversarii: tutti gli uomini che dipendevano dai
suoi ordini a poco a poco si riunivano nella città dove egli aveva
posto il quartier generale; come abbiamo veduto, il brigadiere Lobbia
era stato da lui inviato verso la direzione di Langres dal lato di
Parigi; Canzio era partito per definire la questione con Frapolli e
portare all'Armata dei Vosgi, tutti quei volontari che fino allora si
erano tenuti lontani dal teatro della guerra. Le circostanti colline
formavano oggetto di studii speciali e si fortificavano alla meglio,
come lo consentivano gli scarsissimi mezzi di cui il governo era largo
con l'armata guidata dall'invitto Eroe dei due mondi.

Tutte le mattine alle quattro il generale esplorava la linea dei
nostri avamposti. Esso percorreva l'immensa estensione in carrozza e
sempre accompagnato da Basso: poi si riduceva al quartier generale da
cui era ben raro che si muovesse durante la giornata. Il povero
vecchio era torturato dai dolori attritici: ben di rado egli
abbandonava le grucce, ma pure si vedeva sempre sorridere, sempre
incoraggiare i soldati, beato di potere offrire anche una volta il suo
braccio in difesa dei santi principii, di cui è sempre stato il più
infaticabile apostolo e il più temuto sostegno. Ah!.. quanto ben
differenti da lui erano certi arfasatti che si erano ficcati nello
stato maggiore e pei quali chiunque è amico della verità, deve avere
delle parole assai dure e dei rimproveri che nessuno può tacciare
d'esagerati, perché naturali in chiunque abbia potuto conoscere vita,
morte e miracoli di quella gente che si muove solamente da casa per
speculare e per farsi ricca nel mentre che una nazione illaguidisce od
è per subire le più grande delle sventure che la possa colpire, voglio
dire le schiavitù. Gli appartenenti allo stato maggior generale, in
buon numero erano francesi; io non intendo minimamente attaccare gli
stati maggiori delle brigate, dove un Castellazzo, un Bizzoni, un
Sant'Ambrogio, un Vichard, un Canessa, e tanti altri, di cui noi non
potemmo sapere il nome, si coprirono di gloria e si mostrarono pari
alle generosissime idee che sempre gli hanno guidati. Io parlo
soltanto di quei famosi strategici, che dipendevano direttamente dal
generale Bordone.

Qui devo dire alcune parole di questo generale da alcuni troppo
abbattuto, da altri troppo esaltato. Io non voglio riandare la vita
passata del nostro capo di stato maggiore; mio compito è il riveder le
buccie a coloro che giraron nel manico durante il periodo che noi
fummo in Francia e non quello di nototmizzare le faccende trascorse
che a noi non riguardano, e delle quali noi non abbiamo a curarsi: noi
pensiamo che chi ha intenzione di far bene, e traduce in atto questa
intenzione, certamente si riabilita da ogni peccato che possa aver
contaminato la di lui fama antecedente.

Bordone era zelantissimo per il bene dei suoi sottoposti: Bordone
aguzzava di minuto in minuto il suo ingegno, si arrovellava, non
dormiva pur di fare all'esercito Garibaldino tutte quelle agevolezze
che da lui dipendevano. Infaticabile sempre, importuno col governo di
Tours egli era giunto ad ottenere armi, denaro, concessioni. Di più,
se si pensa, che rimanendo lui nel suo posto, toglieva all'ambizioso
Frapolli ogni speranza di poter comandare a bacchetta, bisogna
convenire che la cosa migliore per noi era che rimanesse quello che ci
era, invece che venisse fuori uno nuovo che probabilmente avrebbe
mandato in perdizione le nostre povere cose. Lobbia avendo lasciato lo
stato maggiore per assumere il comando della seconda brigata aveva
condotto con se il Castellazzo, nome a cui qualunque elogio sarebbe
superfluo; caro a chi ama la letteratura, come a chi ama la guerra;
eroe in tutte le battaglie che si son combattute, autore del _Tito
Vezio_ negli ozi della pace, in quegli ozi dove tanta gente che fa
professione di far le campagne si butta sull'imbraca e fa rivoltare lo
stomaco alle persone perbene.

Partiti questi, lo stato maggiore rimase molto, ma molto barbino. Mi
rincresce dover dir male di nostri compagni, me ne piange il cuore, ma
il culto della verità deve esser sacro per chi scrive e le segrete
tendenze dell'anima devono essergli sacrificate.

La più completa assenza di nozioni strategiche si poteva chiaramente
osservare in quelle sale dove si dormiva di giorno e dove molte volte
si giocava di notte: cosa quest'ultima che fece esclamare ad uno dei
nostri amici assai noto per le freddure, che stato maggiore più
solerte del nostro era inpossibile ritrovare, avendo i suoi membri ad
ogni ora in mano le carte. Una caterva di giovanotti raggruzzolati non
si sa come, certa gente di cui è bene non dir cosa alcuna, poiché
stando alle dicerie generali, i di lei fatti insudicerebbero troppo le
pagine di qualsivoglia libro... ecco a un dipresso, fatte poche
eccezioni, quale era il corteggio di Bordone. Oh! se non fosse stata
la mente del Generale, il valore e l'intelligenza dei quattro che
comandavano le brigate, l'innegabile slancio dei volontari, per il
nostro stato maggiore se ne poteva passar delle belle, e i Prussiani
potevano agevolmente circondarci in Digione, come avevano circondato a
Metz il famigerato Bazaine.

La maggior parte degli ufficiali, che dovevano provvedere alle sorti
della armata, e che dovrebbero avere avuto l'attribuzione di fare i
piani di guerra, oltre l'esser digiuni di qualunque nozione d'arte
militare, lo erano anche del minimo odore di polvere: tra gli altri
per esempio il figlio di Bordone finì la campagna come capitano: era
un giovanotto che poteva aver tutt'al più ventitre anni e che per la
prima volta si spingeva davanti al fuoco.... delle stufe del quartiere
generale!

Del resto di questi ufficiali improvvisati ve ne era un sacco e una
sporta. Conobbi un volontario che di _motuproprio_ si mise il berretto
di luogotenente e poco dopo ottenne quel grado; non vi è esagerazione
a dire che quando arrivammo a Digione, trovammo più ufficiali che
soldati: i sarti e i cappellai di lassù, che avevano buon naso,
riempivano lo vetrine di monture e di berretti più o meno gallonati.
Fin qui non ci sarebbe statò gran male; ma il male appariva
manifestamente ad ogni persona, quando si pensava che molti e molti
che a forza di fatiche e di sangue erano giunti a conquistarsi un
grado nelle altre campagne, non si erano voluti riconoscere o si erano
portati tanto pel naso che essi troppo disdegnando di sembrare
accattoni e in cerca di una posizione, preferivano servire da semplici
soldati. Il nostro Generale era del tutto estraneo a queste brutture,
le quali possono sembrare a qualcuno inverosimili, ma che sono vere
come la luce del sole. Materassi, Pacini (per non citare molti altri)
capitani nelle altre campagne, non ebbero alcun grado, furono appagati
però con molte promesse, con molte proteste di buone intenzioni, ma,
come dicevano i nostri antichi, di buone intenzioni è lastricato anche
l'Inferno.

Io non sono estraneo all'idea di accogliere gente nuova nelle file di
quei che comandano; il principio di rispettare l'anzianità per me deve
cedere a quello di rispettare il merito: si facciano pure dei nuovi
ufficiali, si cerchi pure di ringiovanire i ranghi della democrazia
militante, ma per attuare questo nobile proposito si possono scegliere
tanti e tanti avanzi della mitraglia, tanti e tanti che tuttora
soffrenti per antiche ferite son corsi di nuovo in faccia al nemico, e
non coloro che non fanno altro che salire e scendere le scale degli
astri maggiori dell'Orizzonte Garibaldino, lisciando tutti,
strofinandosi a tutti, menando buona ogui sciocchezza, ogni
spavalderia, purché venga dall'alto....

Dopo aver confabulato con varii amici nel cortile del quartier
generale, vedendo che l'orologio segnava le undici e mezzo, ci movemmo
verso la _Madaleine_, ansiosi di sapere in qual maniera ci avessero
cucinati. Impazzamo una buona mezza ora per rintracciare questa
caserma, che non era caserma ma un antica prigione, e che era situata
al lato opposto della città. Tra una caserma e una prigione io non so
trovare differenza alcuna e perciò trovai più che coerente colui che
aveva fatta la scelta.

Una scala, mezza rovinata, per la quale era necessario andar di
sghimbescio, portava ad una specie di torrione, il cui interno era
costituito da una stanza, più larga che lunga; il pavimento era tutto
coperto di paglia, sulla quale si vedevano sdraiati una cinquantina di
volontarii che aspettavano a braccia aperte l'arrivo dell'ufficiale
pagatore. Tra questi volontarii alcuni parlavano francese: sarà una
ridicolezza, ma io la voglio confessare tale e quale ai lettori;
d'altronde, dirò con Terenzio:

    _Ego homo sum et nihil humanum a me alienum puto;_

Io provai un pò di rabbia a veder vestiti colla camicia rossa
individui che non appartenevano all'Italia; saranno stati fior di
soldati, eccellenti ragazzi, patriotti e repubblicani a prova di
bomba, ma abituato a diffidare degli altri, m'annoiava un pensiero:
Chi sa, se noi avessimo vinto che tutto il vanto della vittoria non
fosse attribuito a quei Francesi che erano nelle nostre file, e che
invece tutte le invettive non si fossero volte al nostro indirizzo,
qualora le sorti dell'armi non ci fossero state propizie?! Eppoi chi
si sacrifica per un'idea buona, non può fare a meno di nutrire una
certa ambizione, ed io sentiva quella di far parte di un corpo
esclusivamente composto d'Italiani, se non altro per mostrare che
pochi o molti, anche nella nostra patria vi sono dei giovani sempre
pronti a versare il lor sangue per la repubblica. Tale idea,
rafforzata, anche dell'altra che forse ci avrebbero tenuto in quel
deposito per chi sa quanto tempo, mi fece prendere il proponimento
deciso di girar largo e cercare un'altro corpo, dove vi fosse la
certezza di prender parte al primo combattimento che sarebbe
succeduto.

Il tenente Zauli venne poco dopo: fece la chiama, diè la paga e poi
annunziò che in quel giorno avremmo goduto della libertà più
assoluta.

Eravamo tuttora lungo la scala, allorché comunicai ai miei amici le
mie impressioni, e tutti accolsero i miei progetti; appena fummo
esciti, ci capitò proprio la palla al balzo! Mecheri, Polese, ci
dissero, senza che noi loro facessimo interrogazione alcuna, di entrar
nelle guide, di cui si stava formando il quarto squadrone, e noi senza
frapporre tempo di mezzo andammo alla foreria, dove c'inscrivemmo nei
ruoli. Possedere un cavallo e seguitare sempre il Generale, per uno
che è abituato a andare a piedi e a venerare più d'ogni altro uomo nel
mondo Garibaldi non ci poteva esser prospettiva più attraente. In
seguito si vedrà, come anche questa bella visione non fosse per noi
che una Fata Morgana.



CAPITOLO X.


Le guide si erano costituite a Dôle sotto gli auspicii del capitano
Farlatti: da bel principio non furono che uno squadrone, poi due; poi
tre: ed ora il quarto, come abbiamo detto pocanzi, era in via di
gestazione; così Farlatti da capitano era divenuto maggiore; per
terminare la campagna come tenente colonnello: nel momento in cui noi
si arrivava, i primi tre squadroni facevano parte della Brigata
Lobbia, ed erano con questo partiti alla volta di Langres. Come ben si
vede, le guide facevano il servizio di cavalleria, e non erano
incaricate minimamente delle missioni a loro speciali: per le
esplorazioni erano sempre in giù e in su gli _Chasseurs d'Afrique_ e
gli Ussari; e ciò da un lato era più che naturale: pochissimi nelle
nostre file sapevano parlare il francese e anche tra questi alcuni ne
basticciavano solamente qualche parola a casaccio... ora era egli
possibile che per questo mezzo si potessero sapere informazioni
sicure, notizie esatte, ricevute dai paesetti dove trasitavano nelle
loro escursioni? Le guide non dovevano essere un reggimento, ma
tutt'al più uno squadrone, come era nel 1866, uno squadrone costituito
dall'eletta dell'armata... pochi ma intelligenti.

Nel nostro squadrone poi era un vero bailamme: cinquantaquattro uomini
con diciassette cavalli, di cui undici tanto malati da non potersi
muovere dalle scuderie; nessun vestiario; tanto cavalli che vestiarii
si aspettavano di momento in momento, i primi da Chambery dove Canzio
e Tironi erano andati per levarli a Frapolli, i secondi d'Autun.
Figuratevi dunque una cavalleria di persone in cilindro, in papalina e
col cappello alla Pouff, eppoi ditemi che noi non avevamo qualche
rassomiglianza, se non altro nella tenuta, con i celebri eroi del
novantadue.

A capo di quest'accozzaglia di gente poco cavalleresca, almeno
all'aspetto, era il tenente Ricci, buon patriotta di Forlì, ferito ad
Aspromonte, e reputato assai dal Generale. Il Ricci però, se era tra i
primi quando si trattava di condurre al fuoco i soldati, non si vedeva
mai alla caserma e lasciava andare le cose, o male o bene, per il loro
verso. Spadroneggiava per tale ragione al nostro comando, il
sottotenente Miquelf, francese corto di vista ma pieno d'ambizioncine
da femminuccia: sulla sua carta da visita si qualificava per
ingegnere, per sottotenente e per ***... questa cuspide, mi rammento
fece nascer discussioni tra noi più che ne abbia fatte nascere quella
famosa che si vuole o non si vuole appiccicare alla facciata del
Duomo. Miquelf era sempre in foreria a romper le scatole agli
scribaccini e a dettare ordini del giorno. Un prestigiatore,
congedandosi dalla società che lo ha onorato, suole fare apparir mazzi
di fiori dalle maniche, dalle punte degli stivali, dai capelli, dal
naso... il nostro sottotenente, senza essere prestigiatore, aveva un
ordine del giorno nel berrettino, uno in tutte le tasche, uno sotto il
panciotto, insomma un ammasso, una farragine di disposizioni, di
preghiere, di comandi gli scaturivano da tutte le parti, e sciorinava
paragrafi e pagine intiere di scritto, mezzo francese, mezzo italiano,
e faceva sgelare, ogni pochino il foriere, facendoglieli leggere a
noi. Tre appelli ogni giorno, la passeggiata ai cavalli, la _fienata_,
il _passamano_, la guardia alla scuderia; a dar retta a lui ci sarebbe
rimasto appena appena un poco di tempo per mangiare un boccone e
invece... invece nella nostra caserma c'era gente come a una lezione
popolare; le trombe che, secondo la sacra scrittura, fecero muovere le
mura di Gerico non erano buone a far muovere verso il quartiere una
sola Guida, e, se tu avessi voluto trovare qualcuno che apparteneva a
questo rispettabile corpo, tu lo dovevi andare a cercare in qualche
biliardo o in qualche caffè, o sulla piazza principale, dove delle
gentili venditrici per spacciare _Cognach_ e acquavite avevano
innalzato delle baracche proprio in faccie al magnifico palazzo dei
vecchi duchi della Borgogna. Tutti i servizi erano disinpegnati da tre
o quattro zelanti di... farsi pagare dai commilitoni più o meno
indolenti!

Nessuna notizia si aveva intanto sulle mosse del nemico; continuava e
pigliava piede la voce che i Prussiani si riconcentrassero sotto gli
ordini del principe Federigo Carlo per marciare poi separatamente
verso il mezzogiorno della Francia, tagliar fuori il Bourbaki, e
sbaragliare le nostre file e terminare così la campagna
contemporaneamente alla resa di Parigi. Garibaldi continuava ad
approfittarsi di questa tregua per concentrare a sua volta la piccola
armata dei Vosgi. La brigata Menotti e Bossak erano in Digione: si
temeva in quei giorni per Ricciotti, del quale non si sapevano sicure
novelle, quantunque si bucinasse di scontri e di prigionieri fatti da
lui: Lobbia erasi troppo inoltrato ed oramai era inutile lo sperare di
congiungersi a lui. Canzio, coi soldati che avrebbe portato da
Chambery e da Lione doveva costituire la quinta brigata; eransi anche
radunate ventimila guardie nazionali mobili capitanate da Pelissier...
ma di queste sarebbe meglio il non farne menzione: mai caricaturista
può avere ideato dei tipi più grotteschi di loro; gli stessi popolani
non potevano fare a meno di ridere in vederli passare: certe
fisonomie di paura, certe arie d'imbecillità da non farteli
dimenticare, neppure avendo la fortuna di campar quanto Matusalemme:
Loro non vedevano che Tedeschi, non sognavano che agguati: gli Ulani
si presentavano difaccìa alle loro immaginazioni alterate come le
versiere e le streghe ai ragazzi; se passava un di noi ci affollavano
con mille domande, alla quali noi rispondevamo sempre col dipingere
la situazione con colori molto più foschi di quello che era realmente;
e allora si vedevano picchiarsi il capo e poi andar via sconsolati e
quasi piangenti: e quel che è peggio arrestavano a casaccio per spie
persone onorabilissime e militari d'ogni corpo: un giorno ci volle del
buono e del bello a salvare delle loro unghie tre delle nostre Guide,
che essendo Pollacche, parlavano in modo da essere scambiate per
Tedesche.

Sei piccole mitragliatrici (che non furono mai adoperate) erano state
pure aggiunte all'armata dei Vosgi; il Colonnello Olivier, comandante
dell'Artiglieria, ed il maggiore Sartorio del Genio avevano fatto
qualche lavoro di fortificazione passeggiera sulle due colline di
Fontain e dì Talant, e queste due formidabili posizioni, secondo tutte
le probabilità, avrebbero dato molto daffare ai nostri avversarii,
qualora ne avessero tentato l'attacco.

La fiducia insomma dei Digionesi in quel momento era giunta al massimo
grado: difatti alla sottoprefettura ogni giorno veniva affisso un
bullettino in cui Bourbaki annunciava una vittoria: Gambetta aveva
fatto sapere a tutta l'Europa che l'uomo della situazione era venuto e
che quest'uomo era Chanzy: le notizie di Parigi erano rassicuranti:
Trochu giurava di tornare cadavere piuttosto che vinto: Faidherbe non
si ritirava... il buon popolo che, malgrado disillusioni su
disillusioni, ha sempre bevuto grosso, aveva tutte le buone ragioni di
cullarsi in liete speranze. Eppoi tutti i giorni, il bravo colonnello
Lhoste coi suoi _Francs tireurs_ faceva qualche prigioniero e questi
attraversavano Digione, e il popolino, sempre pronto a credere e ad
esagerare, chi sa quali idee rimuginava di sicura vendetta e di più
che sicuro trionfo!

La vita di quei primi giorni per noi non fu di certo una vita color di
rose: il freddo era a trentadue gradi, tre sentinelle gelarono agli
avamposti; molti volontarii erano negli ospedali assiderati in qualche
parte del corpo e di più ogni giorno noi eravamo sconcertati dal
tristo spettacolo di una infinità di bare e di casse da morto; il
vaiolo ed il tifo infierivano, e, come se fosse poco la guerra,
diradavano le file dei generosi campioni della libertà.--Se si torna è
un miracolo--ripetevamo tra noi--qui ci è il tifo, il vaiolo e i
Prussiani. Era tanto spaventevole l'idea di morire di malattia, che
tra i flagelli che ci minacciavano si ponevano in ultima linea i
Prussiani: la sorte voleva ben esperimentare la tempra dei giovani
soldati e questi hanno resistito alla prova.

Basti il dire che si era tutti infreddati... Oh! la prosa desolante di
una ostinata infreddatura! In certi momenti invece di essere tra
seguaci di Marte, si poteva creder benissimo di essere in un ospedale
di tisici al terzo stadio. Ma non cessavano per questo le burlette, ed
era un ridere continuato alle spalle di qualcuno che se la prendeva,
un avvicendarsi di prognostici di cattivissimo augurio che terminavano
con una bevuta alla salute di tutti noi altri... anche questi erano
mezzi per cacciare la noia di quei giorni monotoni! Eppoi Digione
offriva delle distrazioni anche in tempo di guerra e coi nemici alle
porte. Nel palazzo ducale eravi un museo, nel quale non facevano
difetto artistici capolavori; l'arte italiana vi era degnamente
rappresentata da alcuni quadri di Guido Beni, da una Sacra famiglia di
Andrea del Sarto, e da piccole pitture dei Caracci e del Francia; una
bellisima collezzione di litografie all'acqua forte, delle statue
moderne di qualche valore, diversi busti di uomini celebri, tra cui
quello di Piron, _celui qui ne fut riên, pas même academicien_, i
superbi mausolei dei duchi della Borgogna offrivano a chi desiderava
di ammazzare il tempo un divertimento geniale e istruttivo. Un
bellissimo quadro di una battaglia era sfondato... ci dissero che
autori di tale barbarie erano stati i Badesi nella prima occupazione;
i soldati delle monarchie, quando vincono, diventano Vandali.

Una biblioteca, assai fornita di libri, dava un'altro passatempo a chi
voleva far l'uomo grave: per gli scapati ci era il Caffè di Parigi,
dove si beveva e si giocava: lì era il convegno del fior fiore
dell'armata: lì vedevi l'elegante ufficiale di stato maggiore, lo
svelto _Franc tireur_, mobilizzato sornione, lo scapigliato
volontario, tutti affratellati davanti, a un banco di _lansquenet_, o
in una partita al Carambolo.

Le prime ore della sera noi le passavamo al _Restaurant_, cianciando
tra noi e mangiando e bevendo. Dopo si andava in una bottega di
tabaccaio, vicina al nostro palazzo, cioè al palazzo della nostra
ospite: bottega dove avevamo rinvenuto una gentile donnina, che ci
incantava per il suo spirito e per la sua educazione.

Questa graziosa ragazza che la nostra buona fortuna ci aveva fatto
incontrare, era figlia di un colonnello che era stato fatto
prigioniero a Sedan; suo zio generale, era pur egli prigioniero e
ferito gravemente a una coscia; ora la stava in casa della tabaccaia
che l'aveva veduta bambina e che l'amava come una mamma. Parlava di
piani di guerra con la medesima facilità che la quale un'altra donna
parlerebbe di _crochet_, d'orli, o di ricami; non aveva alcuna fiducia
del Bourbaki, disperava delle sorti di Francia e attendeva un
combattimento per poter recar soccorso ai feriti, tra l'imperversare
della mitraglia. Un tipo curioso, ma piena d'ardimento. Una volta
diede in presenza nostra uno schiaffo ad un mobilizzato della
Provenza, perché le aveva detto che era amica dei Prussiani; correva
tutto il giorno per gli ospedali, spendeva le sue piccole risorse in
quelle ghiottonerie che son tanto gradite ai convalescenti e si
sdegnava se qualcuno le proponeva di accompagnarla in queste pietose
escursioni: presto divenimmo di lei amici.. era tanto carina, che non
avremmo meritato scusa veruna a trascurarla.

Dopo cinque o sei giorni, dacché eravamo arrivati, fummo rallegrati
dai concenti più o meno armoniosi di trombe che suonavano marcie
Italiane: era la legione Tanara, che veniva per fermarsi qualche
giorno in città. I volontari marciavano come vecchi soldati e avevano
un piglio guerresco da farteli cari; il primo battaglione era
comandato da Ciotti; il secondo dal simpatico Erba; questo aveva una
bandiera tutta rossa sulla quale in lettere d'oro stava scritto:
_Patatrac_. I cittadini ogni poco ci fermavano per domandarci che
significava quella arcana parola, e noi rispondevamo loro che
significava ciò che era tanto bramato da noi, ciò che ora il
procuratore del re non mi permette di far sapere ai lettori.

La maggior parte dei componenti delle legioni appartenevano alle
provincie settentrionali d'Italia; tra gli ufficiali erano molti dei
compromessi negli affari di Pavia, commilitoni e fratelli d'idea del
martire Barsanti. Dietro pochi passi da loro io vidi l'Imbriani...
Povero Giorgio!... Come io ti vidi contento, per aver raggiunto
finalmente le schiere dei generosi difensori di quel principio che
avevi sempre adorato!.. Con quale affetto tu non mi stringesti la
mano, vedendo che io pure non avevo mancato all'appello? Eri giovane,
forte: l'avvenire ti si dipingeva davanti con i colori più rosei,
eppure un presentimento vago, indefinito ad ora ad ora ti sorgeva
nella anima «chi sa per quanti di noi sarà tomba questa città» tu mi
dicesti; e lo doveva essere anche per te; ed in mezzo al combattimento
mi doveva giungere la novella della tua fine; che, ardimentoso come
eri, tu dovevi morire tra i primi, ed io non era a te vicino per
poterti dare l'ultimo bacio dell'amicizia, per poter raccogliere il
tuo estremo sospiro!

Erano due anni che non ci si vedeva: ci avevamo lasciati ad un
banchetto, dove si era inneggiato alla Repubblica e alle barricate,
ora ci si doveva ritrovare per essere eternamente divisi.
Eternamente!.. Oh! la dura parola per chi ti ha conosciuto! Ora giaci
nell'Italia tua, vicino al tuo mare, sotto la volta del tuo splendido
cielo, là dove la poesia di una natura sempre maestosa aveva fatto
germogliare nel tuo cuore la fede per la quale ora giaci cadavere...
Tanto meglio... non contamineranno l'urna del martire le codarde
calunnie e le turpi accuse dei vili, pei quali noi affrontavamo la
morte e che erano ben lontani da ogni pericolo.

Addio, giovane di tempra romana, addio figlio prediletto della
democrazia... possa l'esempio delle tue virtù procacciarti degli
emulatori ed il fiore della speranza sorga sul tuo sepolcro, o fiore
più bello, troppo presto staccato dalla ghirlanda delle nostre
speranze!



CAPITOLO XI.


Ricciotti arrivava in questo frattempo a Digione, dopo aver sostenuto
diversi piccoli scontri con recognizioni nemiche, scontri in cui aveva
sempre ottenuto indiscutibili vantaggi; il di lui arrivo fu per noi
una vera festa: il giovine ed ardito condottiero che già erasi
acquistata tanta gloria in questa campagna, troppo ci aveva fatto
temere per il suo troppo coraggio ed era di troppa utilità al nostro
esercito, perchè non ne valutassimo l'arrivo come un lieto
avvenimento. Dipiù nella sua brigata noi avevamo amici carissimi: lo
Strocchi, l'Orlandi, Cardini erano nei _Francs chavaliers de
Chatillon_, squadrone di cavalleria che il prode e simpatico figlio di
Garibaldi aveva organizzato dopo la memorabile impresa che aggiunse
non poco lustro alle armi italiane.

Quasi nel medesimo tempo arrivava da Chambery il simpatico Canzio,
portando seco circa duecento uomini, che uniti a quelli del deposito,
a cui eravamo stati ascritti in principio, formarono un battaglione
sotto gli ordini del maggiore Perla, battaglione che fu denominato dei
Cacciatori di Marsala. Cavallotti, Rossi di Lodi e tanti altri
generosi si trovavano in quelle file: essi avevano lasciato il
Frapolli per essere in prima linea.

La gioia di questi arrivi fu per noi un po' amareggiata dalla notizia
che i famosi cavalli che dovevano arrivare con Canzio, sarebbero
arrivati due o tre giorni dopo... se ci avessero detto che non
dovevano arrivare mai, saremmo usciti addirittura dai gangheri e chi
sa quale determinazione avremmo preso!

Ai nuovi volontarii furono distribuite delle carabine _Weincester_,
bellissime armi ma che forse esigevano un po' troppo perizia in chi le
adoperava; avevano esse diciotto colpi di riserva, erano elegantissime
e quando se ne vedeva una in mano di qualche Garibaldino, ci si
affollava intorno a lui, e con noi si affollavano a bocca spalancata i
buoni popolani della città; difatti nelle piazze, nelle vie principali
tu non avresti veduto che gruppetti di gente, e in mezzo a questi un
volontario che dava tutte le spiegazioni possibili e immaginabili in
mezzo allo stupore e alla soddisfazione generale.

Bisogna esser giusti: nell'ultimo periodo della campagna i volontarii
non erano armati malaccio: i Carabinieri Genovesi avevano per esempio
delle buone carabine _Spencer_, con sette colpi di riserva nel calcio:
unico danno come diceva, poco anzi, era la difficoltà con cui potevano
adoperarsi da mani inesperte; per cui avrei reputato cosa molto
migliore il dispensare fino dal bel principio quei _Remingtons_ che
furono dispensati, come sempre succede, quando non ce ne era più alcun
bisogno.

Ai nostri soldati non si distribuiva alcun rancio: si dava loro un
franco il giorno, se erano di fanteria; uno e venticinque centesimi,
se di cavalleria: questo provvedimento, se era molto noioso per quando
le truppe si trovavano in marcia o nei passetti, era assai comodo per
quando le si trovavano in Digione. I cittadini non si potevano infatti
mostrare nè più ospitali, nè più generosi: accoglievano a braccia
aperte nelle loro case i giovani loro difensori e li trattavano
cavalierescamente. Gran bella città Digione--mi diceva un mio
amico--anche con pochi soldi ci è da farsi un peculio!... È un fatto
che gli abitanti delle Côte d'Or ci volevano un ben dell'anima;
bastava che le trombe del Tanara suonassero la ritirata perché
s'improvvisasse una dimostrazione con grandi evviva a Garibaldi e
all'Italia; allorchè fu data onorata sepoltura nel cimitero alla salma
del bravo tenente Anzillotti, tutta la popolazione prese parte alla
cerimonia pietosa, ed assistè religiosamente ai discorsi del Tanara e
di Canzio, quantunque fossero proferiti in lingua italiana: si erano
troppo assaggiati i soldati della grazia di Dio per non fare buon viso
ai soldati della Libertà.

La concentrazione di truppe continuava: giungeva pure in Digione
l'altra legione italiana comandata dal Bavelli: questa era costituita
di tre battaglioni, della forza di circa quattrocento uomini per
ciascheduno; se il nome del comandante giungeva a tutti nuovissimo, vi
erano sotto di lui bravi soldati e bene esperimentati patriotti. I
maggiori Pastoris, Ravá, i capitani Becherucci, Romanelli, Sartori, il
tenente Ademollo e tanti altri che non cito, perchè ciò troppo mi
trarrebbe fuori dal seminato. La legione era organizzata militarmente
più di ogni altra; aveva anche una piccola fanfara, nè eccellente, nè
perfida, ma lassù applauditissima.

Il trovarsi tutti riuniti produsse un brio generale: mai le strade
della capitale della vecchia Borgogna hanno assistito a un movimento,
a un brusio simile a quello di queste belle serate: ogni poco si
riconosceva qualcuno: ogni poco uno schioppettio di baci ti
solleticava dolcemente l'orecchio; e conforti reciproci, e augurii di
future vittorie, e strette di mano e ricordi del passato
s'incrociavano, si avvicendevano tra i varii individui. Oh!... Chi ci
rende quei momenti felici in cui non si pon mente al domani, in cui,
tanto vicini alla morte, si ritrova la calma e l'allegria del
fanciullo, in cui lasciata ogni maschera di convenienze sociali, si
parla col cuore sulla bocca, e si dà l'ultimo soldo all'amico,
persuasi di non fare nemmeno una gentilezza, ma di adempire a un
dovere!.. E ancora qui dal tavolino della mia camera, raffazzonando
questi appunti, io vi veggo sfilare a me davanti, o simpatici volti
dei miei compagni d'arme, e mi par d'esser tornato in mezzo alle vie
rallegrate dal vostro chiasso e dalle vostre canzoni: molti di voi non
sono più, ma se soltanto chi lascia eredità d'affetto ha gioia
dall'urna, voi vivrete eternamente nella memoria del popolo, come vi
giuro, che eternamente vivrete nella mia.

All'oscuro, come eravamo, sui movimenti del nemico, tutti noi eravamo
convinti che Garibaldi avesse intenzione di tentare un gran colpo. È
pur la brutta cosa esser soldato!... Non saper mai nulla su quello che
hanno intenzione di fare i superiori ed avere in capo una curiosità,
come avevo io!

La nostra perplessità non poteva durare molto a lungo: la domenica, 15
gennaio, una guida che doveva portare un dispaccio al Maggiore
Farlatti, tornò quasi subito, annunciandoci che a poco più di tre
chilometri dalla città vi erano i Prussiani. In questa stessa
domenica, passeggiando lungo il viale del Parco, bellissima
passeggiata con un getto d'acqua assai da ammirarsi, mi sentii toccar
leggermente sulle spalle. Mi voltai immediatamente, e non potei fare a
meno di proferire un grido di stupore.

Quella mano che mi aveva così gentilmente toccato, era la mano
d'Aissa. La gentile ragazza indossava un bellissimo costume da
vivandiera, tutto in velluto nero; il suo piedino aristocratico faceva
mostra di tutta la sua eleganza, a causa della corta sottana; un
piccolo _rewolver_ le stava alla cintola... era insomma un bel tipo.

--Voi qui?--Le dissi.

--Mi credevate incapace di mantenere una promessa.

--No... ma... e con chi siete?

--Sono con i mobilizzati dell'Isere... non vedete, son vivandiera!

--Mi rallegro con voi... E ci potremo vedere?

--Chi sa... ora vi lascio!

--Restate un pochino...

--È impossibile... son là col mio... col mio... non so come
chiamarlo... è geloso come una jena... A rivederci.

Le strinsi la mano, e guardai questo... non so come chiamarlo... e
vidi un capitano della guardia mobile, brutto come un brigadiere delle
guardie di sicurezza o poco meno; piccolo e grasso come una botte.
Capii la di lui gelosia... e lo compiansi: egli non era che un _pas
per tout_ per la avvenente fanciulla, che aveva trovato modo di
distrarsi e di essere utile a quella società, dalla quale aveva
ricevuto tanti sgarbi e alla quale aveva fino allora arrecati tanti
danni.

Avevo appena veduta questa vecchia conoscenza (dico vecchia perché una
conoscenza di un mese in quegli eccezionali momenti si può dichiarare
per antichissima) quando cominciò a cadere a larghi fiocchi la neve, e
questa persistè ostinatamente fino alla sera: ci alzammo al mattino
dipoi e continuava la poco aggradevole sinfonia: _il neigait, il
neigait, il neigait_, proprio come nella ritirata di Russia, così
ammirabilmente dipinta da Victor Hugo nei suoi _Chatiments_.
Figuratevi, quale allegria non fosse per noi, il vedere tutti quei
tetti acuminati, candidi come l'anima di una verginella; il
passeggiare quelle vie, quelle piazze dove si affondava fino a mezza
gamba, l'ammirare i nasi dei nostri compagni di sventura rossi come
peperoni, seccati chi sa da quanti anni!.. Ed il cielo ci fece questa
burletta fino a notte avanzata; decisamente il cielo sapendoci nemici
del trono come dell'altare, ci voleva amministrare una di quelle
lezioncine paterne, che ci facevano ricordare la dottrina Cristiana
del cardinal Bellarmino.

Quella sera noi non potevamo godere: poiché ci ricorrevano al pensiero
quei disgraziati nostri fratelli che si trovavano accampati o agli
avamposti. Poveri diavoli--si susurrava, scaldandoci davanti a un bel
fuoco--Poveri diavoli, quanti di loro hanno con gioia abbandonate
tutte le dolcezze di una vita beata, e forse ci sarà chi oserà mettere
in dubbio la purezza delle loro intenzioni, la lealtà dei loro
propositi, la fede che li ha sostenuti in mezzo a quest'avvicendarsi
perpetuo di peripezie, che a malapena si credono nell'udirle narrare?!
Meno male, che la bestemmia dei tristi giunge più cara agli orecchi di
chi fa il proprio dovere, della lode dei buoni. Declami pure, rida
pure la gente che non si muove da casa se non quando vi è la
prospettiva di un grande interesse... l'armata dei Vosgi ha troppo la
coscienza di quello che ha fatto per poter dare ascolto ai ragli e
agli impotenti grugniti dei pravi.



CAPITOLO XII.


Così giungemmo al dì 17 gennaio dell'anno di Grazia
milleottocentosettanta.

Il cielo si era un po' rischiarato: ci destammo un poco più tardi del
solito, poiché in dormiveglia ci sentivamo solleticare gli orecchi dal
monotono tic tac dell'acqua che sgocciolava dai tetti, su cui si
sfaceva la neve.

Andammo al quartiere, nulla di nuovo; allora lasciati i compagni, me
ne tornai a casa a tener compagnia al Materassi che avendo mandato ad
allargare uno stivale, si trovava nella dura situazione o di marciare
a pie' nudo, o di aspettare il comodo del cittadino calzolaio;
sdraiato in poltrona, ed in faccia ad un camminetto le cui fiammate
eloquentemente addimostravano le prodigalità... dei nostri padroni di
casa. Materassi aveva prescelto quest'ultimo partito, e con una posa
tra il Pachà e il cuor contento aspirava voluttuosamente le boccate di
fumo, di una pipa da dieci soldi, che riteneva come un ricordo di
Lione.

Io era sdraiato su di un'altra poltrona davanti a lui: si discorse per
due ore buone: si discorse delle nostre padroncine di casa che tutti
ci elogiavano e che noi non avevamo per anche vedute: si fecero un
centinaio di progetti per giungere ad ammirare queste famose beltà: si
parlò di una nuova mitragliatrice che avrebbe ottenuto portentossimi
effetti: questo nuovo ordigno di guerra, invece di mitraglia, doveva
vomitar dei marenghi, e le truppe dell'inimico sarebbero state
sbaragliate più presto... ma sul più bello della discussione, sentimmo
un gran rumore per le scale: l'uscio s'aprì improvvisamente, la nostra
padrona, con una fisonomia da metter paura in corpo all'uomo più
sconclusionato del mondo, si buttò ai nostri piedi, gridando a
squarciagola: _Les Prussiens, Les Prussiens!_

--_Les Prussiens_?!--Grida il Materassi--Che siano giù per le scale?!

--Ma dove.. ma come.. ma quando?

--Per carità partite.

--Oh! non abbiamo bisogno delle vostre preghiere! Prendo le scale e
vado..

--Va'.. prima a pigliarmi lo stivale.. eppoi partiremo insieme.

--Ma ora..

--Permetteresti che io non venissi con voi?

--Hai ragione: in due salti, vado e torno

Scendo in strada: un movimento da dar la vertigine: un correre da
tutte le parti: un ritirarsi continuo dei cittadini dentro le porte: a
tutte le cantonate squilli di tromba che chiamavano a raccolta; e un
chiudersi di botteghe, un vocìo di donne che dalle finestre si
raccomandavano.. insomma una desolazione, uno spavento tale da non
farsene idea; spavento e desolazione che non hanno altro riscontro
all'infuori di quello prodotto da false notizie nella serata del
ventitre.

Via via che mi inoltravo verso la piazza, vedevo battaglioni di
guardia mobile che s'indirizzavano verso le porte della città; il
contegno di queste genti non era bellicoso di certo e sembravano più
montoni condotti al macello, che difensori di un sacrosanto principio.
Difaccia alla _Mairie_ incontrai la legione Tanara: i Garibaldini
cantavano. _Addio mia bella addio_ e interrompevano l'inni, soltanto
per prorompere in acclamazioni entusiastiche alla Repubblica e a
Garibaldi. Eppoi mi trasvolarono difaccia agli occhi due batterie con
i cavalli a trotto serrato; quindi venne la volta della brigata
Ricciotti; il simpatico giovane era alla testa, ed i suoi _Francs
tireurs_, col volto raggiante di gioia, colla testa alta, col passo
accelerato, quasiché loro tardasse il trovarsi a fronte col'oppressor
della Francia, avevano intuonato il magnifico inno dello Chenier:

    _C'est la republique, qui nous apelle
    . . . . . . . . . . . . .
    Un Francais doit vivre pour elle
    Et pour elle un Français doit mourir_.

--Dunque ci siamo per davvero?--Dicevo tra me e me, esaltato anche io
dalla febbre generale, trascinato dal potentissimo fascino
dell'entusiasmo--A rivederci a fra poco, o giovani soldati della
libertà, o eroica falange dei pochi che tra l'ignavia dei più vogliono
essere gli apostoli, i rivendicatori dell'umanità conculcata!... molti
di voi stasera non risponderanno all'appello, le vostre file diraderà
la mitraglia: siete giovani, ardenti, pieni di salute tra poco sarete
mutilati.... e che importa?.. Il vostro nome resterà eterno sulle
labbra dei reietti e dei diseredati, unica gente che ha cuore, essi
insegneranno ad adorarvi, siccome martiri, ai figli, e voi non
morirete del tutto...

    "....... Ai generosi,"
    "Giusta di gloria dispensiera è morte."

Arrivai dal ciabattino; lo stivale era nell'identico stato di quando
era entrato in bottega; lo agguantai non senza stiacciar qualche
moccolo e a passi di corsa ripresi la via.

Io sono molto nervoso, e la fantasia in me è proprio un cavallo che
non sente alcun freno: quel movimento, quelle grida, quell'entusiasmo
mi avevano dato il capogiro ed io saltava come un pazzo, agitando lo
stivale, in mezzo alla folla. O.. sentite un po' cosa mi va a capitare
per dato e fatto di quei baggei di mobilizzati, allucinati, secondo il
solito, da una paura birbona!....

Il vedere un'individuo, vestito metà da cittadino e metà da soldato,
vederlo andare di corsa ed esaminando la di lui fisonomia che certo
non era francese, fece nascere in quei cervelli balzani l'idea che
l'individuo in questione non fosse che una spia dei Prussiani.
Immaginatevi dunque che bella improvvista mi si preparava: giacché
colui che veniva preso di mira non era altri che il signor Mestesso.
Chi sa da quanto tempo io era pedinato da coloro che invece di correre
in faccia al nemico preferivano restare in città, ad arrestare chi
voleva andarci; io non mi era minimamente avveduto di nulla. Allo
svolto di Rue Piron, mi rattiene nella disordinata mia fuga, un
braccio che mi avvinghia alle spalle: mi volto per rispondere per le
rime, al villano che si azzardava fermarmi e mi veggo in men che si
dice, circondato da una folla di gente, che mi squadrava in cagnesco,
e che emetteva grida tutt'altro che rassicuranti.

--Cosa volete?--Proferii io maravigliato.

--_C'est un espion... c'est un Prussien!_

--Ma no... io sono un Garibaldino!--Risposi in francese.

--Non è vero.. non è vero!--Urlava più che mai indemoniata la folla..

--Me vi dico di sì... ve lo garantisco.

--Alla _Mairie, alla Mairie_

--Dalli alla spia!...

--Abbasso i Prussiani!

--_Caput_ a Bismarck!

Non ci è che dire io doveva esser proprio una spia; garantisco che in
tre campagne, e tra le mille peripezie che hanno agitato la mia
esistenza, garantisco di non aver mai passato un momento più brutto di
quello. La folla si aumentava a vista d'occhio e di momento in momento
diventava più minacciosa: mi aspettavo di udir gridare: _à la
lanterne_ e di sentirmi appiccare ad uno dei prossimi lampioni.

Per buona fortuna passò il nostro tenente, che attirato dal chiasso,
si avvicinò per curiosità al gruppo tumultuante; non sto a descrivere
lo stupore dal quale fu preso, vedendomi in mezzo a quei disperati; il
tenente era in alta montura e tutti gli fecero largo.

--Che c'è?--Mi domandò

--Si figuri, che mi hanno preso per una spia!

--Baie!

--Sul mio onore.

Il tenente che ne avea pochi degli spiccioli fece allora una paternale
numero uno, a quei mobilizzati che pretendevano di fare il sopracciò a
tre chilometri dal campo di battaglia: questi accettarono la
reprimenda a viso basso e confuso e ci lasciarono passare.

Appena scongiurato il pericolo, io mi rivolsi al mio salvatore e gli
domandai: Ma dunque ci si batte sul serio?

--Sembra di sì... Anzi venga con me al quartier generale, che presto
partiremo anche noi!

--A piedi?

--Ben'inteso: quando non ci sono cavalli!

--Vado ad avvertire Materassi e vengo subito.

--Gli raccomando sbrigarsi!

--Non dubiti: vado e torno!

Materassi mi accolse con un diluvio d'imprecazioni, a causa del
ritardo: l'imprecazioni arrivarono poi al grado superlativo, quando io
gli mostrai lo stivale, preciso come l'aveva dato al mattino. Che
fare? Tempo da perdere non ce ne era dicerto: bisognò prendere
un'eroico proponimento, e con un rasoio spaccarlo sopra la fiocca...
Se Materassi avesse saputo che doveva terminare la campagna con quello
spacco, non troppo elegante, chi sa, se avrebbe avuto il braccio tanto
fermo!

In due salti si arriva al quartier generale, i nostri compagni erano
già partiti: si domanda alle sentinelle per dove hanno preso ed esse
c'indicano la vicina strada della stazione; allunghiamo il passo e
tentiamo raggiungerli: per la strada non s'incontra nessuno: tutto è
calma all'intorno ed un combattimento non può essere ancora
incominciato: meno male, pensiamo tra noi, sentiremo il primo saluto,
ma più ci si avvicina, maggiore è il silenzio,

Fatto appena un chilometro, sempre per una strada, fiancheggiata da
campi che ci sembrano incolti, e da estese pianure, su cui si alzavano
a poca distanza da noi i due promontorii di Fontain e Talant,
cominciammo a vedere dei Franchi tiratori, delle Guardie mobili, dei
Garibaldini tra cui qualche Guida. Domandiamo il perché se ne tornano,
ed essi ci rispondono che tra poco tutte le truppe rientreranno in
Digione: che i Prussiani che erano alla viste, nonché avanzare, si son
ritirati, e che gli _Chasseurs_ han preso due cavalli ai cavalieri
nemici. Queste informazioni erano più che veridiche: pochi momenti
dopo, passava il Generale e lo stato maggiore; noi rientrammo in
città, insieme alla legione Tanara, le cui trombe suonavano
gioiosamente. Non si era trattato che di un falso allarme: un falso
allarme equivale ad un appuntamento al quale manchi la bella dei
nostri pensieri: io preferisco cinque battaglie, ad una sola delle ore
penose dell'aspettativa.

Quella sera la città fu ravvivata da un chiasso dei più clamorosi: o
male o bene si era veduto che dei Prussiani ce ne era dintorno a noi,
e così avevamo acquistato la certezza di potersi levare il pizzicore
dalle mani; non mi provo nemmeno a raccontare tutte le strampalerie
che furono proferite: tutti volevan dir la sua su quella sorpresa
dell'inimico: chi diceva che era un corpo sbandato, chi che avevano
avuto paura, chi che credevano pigliarci all'impensata: in tutti però
era certezza, che poco poteva tardare una battaglia.

La mattina dipoi, mentre eravamo a chiacchierare sul più sul meno
sulla piazza delle _Mairie_, vedemmo il colonnello Bossi con due
guide, e dietro a loro una diecina di prigionieri Prussiani.
Appartenevano tutti al 61 Reggimento, e procedevano stupidi e mogi in
mezzo a due file di popolo che non risparmiava di tanto ia tanto
qualche espressione poco gentile al loro indirizzo. Cercammo
avvicinarli: le maggior parte di loro bisticciava alla peggio il
francese: ci parlarono delle loro famiglie, come ne parlerebbe un
ragazzo lontano: ci chiesero con infantile curiosità dove li avrebbero
mandati, e ci domandarono se era loro permesso di accender la pipa e
fumare. Io ho osservato che nessuna altra categoria di persone è
disposta a bamboleggiare, come i soldati: il pifferaro Scozzese tra
l'imperversare della mitraglia a Waterloo ripeteva le canzonette delle
montagne native; il coscritto bacia i ragazzi che incontra e gli porta
in braccio con quella delicatezza con cui non son use a portarli le
serve: il prigioniero, tra le schiere nemiche, spesso tra i fischi del
popolo, si perde in che sa quali vaneggiamenti, e fuma
imperturbabile. Così è: i regolamenti militari o sviluppano la
malinconia in modo da render gli uomini stupidi, o gli rendono feroci
più delle belve. Quanto saremo civili, quando avremo abolite le
caserme, questo ricettacolo di gente che divora la parte più grossa
del ben essere di tutti, a beneficio di quello di un solo!

Questo piccolo incidente ci rallegrò un pochetto, ma la nostra
allegria crebbe a mille doppi per una buona notizia che ci fu
comunicata ai quartier generale. In un piccolo villaggio poco distante
da Fontain una recognizione Prussiana si era impadronita di centoventi
capi di bestiame, è poi se ne era andata zitta zitta e quasi di corsa.
Il coraggiosissimo colonnello Lhoste dei Franchi Tiratori da alcuni
paesani era stato informato del furto che avevano commesso i campioni
della Grazia di Dio e della legittimità. Appiattatosi con molti suoi
uomini in una boscaglia attese al varco i predoni, e mentre questi se
ne andavano sicuri e canticchiando a bassa voce certe canzoni che se
erano tedesche, non avevano niente che fare colle ispirate melodie che
si sentono sulle rive del Danubio e del Reno, una scarica a bruciapelo
originò una confusione universale. Chi cadde nei fossati vicini, chi
urlò come uno spiritato, qualcuno rimase ferito, e morti furono
pochissimi... chiunque era in grado di farlo, se l'era battuta senza
rifiatare nemmeno. Così fu ripreso tutto il bestiame, e il bravo
Lhoste coi bravissimi suoi volontari tornò nel villaggio in mezzo alle
benedizioni e agli applausi di quei paesani. Non ci era che dire: i
Franchi Tiratori non potevano fare a meno di addiventare gli _enfants
cheríes_ delle popolazioni: già si sapeva come essi nel novembre
avevano ritolto ai Prussiani, piombando loro addosso all'impensata, un
centinaio di Garibaldini che traducevano prigionieri: già si sapeva
con quanto ardimento essi disseminavansi nelle boscaglie e dietro le
siepi, da dove con un fuoco alla spicciolata scombuiavano i nemici,
più che, se si fossero trovati in aperta battaglia: già a tutti era
noto come i Prussiani ripetessero sempre, che non avrebbero dato
quartiere a questi bravi figli di Francia ed ai Garibaldini, mentre
trattavano da buoni figlioli gli appartenenti alla Guardia mobile;
insomma il nome di _Franc tireur_ ispirava in tutti rispetto, e tutti
si fermavano a veder passare questa eletta della gioventù francese che
per guerreggiare poteva dare dei punti alla truppa più agguerrita
d'Europa. Erano così svelti, così simpatici, così pieni di vita che
c'era da andarne matti per l'entusiasmo!

Il battaglione condotto da Canzio a cui dei nostri erano rimasti
soltanto mio fratello ed Omero Piccini, fu battezzato col glorioso
nome di cacciatori di Marsala, e il comando ne fu dato allo
strenuissimo Perla. I Cacciatori di Marsala, i Carabinieri Genovesi e
alcuni battaglioni dei mobilizzati dell'Isere formarono la quinta
brigata, al cui stato maggiore Canzio chiamò tra gli altri il Canessa.

Questi erano graditissimi avvenimenti per noi; ma il dolce ci doveva
essere amareggiato e non poco.

    «_Ahi sventura, sventura, sventura_

Quei celebri cavalli che si attendevano a braccia aperte, che dovevano
esser per noi la realizzazione di tanti e sì prolungati desiderii, i
celebri cavalli sfumarono come i 140 milioni dell'Onorevole
Mezzanotte. Tironi era rimasto a Remoully, dove organizzava uno
squadrone di cavalleria per la nugva brigata e noi rimanevamo a
piedi... A piedi!.. Oh la desolante parola! Dunque saremo d'ora in là
un corpo ibrido, di nuovo genere? Squadrone, speroni, grandi stivali e
niente altro. Fortuna che per chi lo vuoi trovare un fucile ci è
sempre, e noi fin d'allora proponemmo d'attenerci a questo partito,
che fu dipoi attuato a puntino.



CAPITOLO XIII


Il 19 gennaio, sul far del giorno tutte le truppe che erano in Digione
presero la campagna: i Carabinieri Genovesi furono mandati d'avanposto, a circa tre chilometri dalla porta Sant'Apollinare, poco
distante da una piccola borgata. Essi piazzarono le loro vedette
dietro un muricciolo, e poi si buttarono distesi nel campo, come loro
era stato ordinato; I Cacciatori di Marsala presero posizione sulla
loro destra sempre dietro quel piccolo muro che cingeva quelle
coltivazioni: In faccia dietro le case eravi una fitta boscaglia. Il
Generale si era portato tra i primi lassù... tutto in fine annunciava
per quel giorno un combattimento; ma anche per questa volta la
speranza degli animosi doveva esser delusa.

Noi fummo, consegnati al quartier generale e passammo tre o quattro
ore di noia, di pena, di continua ansietà; interrompeva solamente la
monotonia di quell'angosciosa situazione, l'ordine di portare qualche
dispaccio al comando d'artiglieria, alla _Marie_, a qualche caserma.
Non si può immaginare, non che descrivere quale voglia ci prendesse
tante volte, di dissigillare quei dispacci, e di giunger così a capir
qualche cosa anche noi... in quel momento si sentiva rifluire nelle
nostre vene il pretto sangue di quell'Eva che per vera curiosità si
giuocò il Paradiso Terrestre. Lo stare inattivi, mentre si presume che
i nostri amici agiscano come si conviene, per chi ha un poco di cuore
è un vero supplizio di Tantalo: per cui nel cortile dove eravamo,
cominciò a farsi un susurro: questo susurro prese delle proporzioni
imponenti, in tal modo imponenti che, lasciati due o tre pel servizio,
il Ricci ci disse di seguirlo, e tutti contenti prendemmo con lui, il
primo viottolo che è fuor della porta, sicuri con ciò di accorciare la
via.

Arrivammo difatti in poco più di mezz'ora alle prime linee dei nostri;
vedemmo il Generale e Canzio che, ritto in mezzo alla via, osservava
tranquillamente col suo canocchiale le mosse del nemico: si
distinguevano infatti in lontananza sopra una piccola spianata diversi
cavalieri prussiani, (certo uno stato maggiore) e al principiare della
foresta ogni tanto abbarbagliava la vista il luccichio di qualche
fucile o baionetta: la fanteria prussiana doveva esser ricovrata là
entro.

Ci dissero di buttarci, come tutti gli altri, per terra: la cosa era
un po' incomoda a causa del fango prodotto dalla neve che si sgelava,
ma _à la guerre comme à la guerre_: quella non era l'ora certo di
pretenderla a damerini. Cominciammo poco dopo a sentir fischiar delle
palle, i nostri avamposti risposero... poi tutto finì e fu un silenzio
lungo, ostinato fino sull'imbrunire: quella gente a cavallo che ci
aveva colpito le vista, appena che eravamo arrivati, si era dileguata.
Una guida di Ricciotti, il quale con tutta la sua brigata era alla
nostra sinistra, si avanzò arditamente per esplorare, e venne ricevuta
da una potentissima scarica: la credevamo morta, quando la vedemmo
apparire trionfante, avendo perduto soltanto il cappello.

Garibaldi tornò verso la città e noi lo seguimmo: i Genovesi rimasero
d'avamposto fino al mattino dipoi.

Quando rientrammo in Digione eravamo in uno stato compassionevole:
impiastricciati di fango dalla punta dei capelli a quella degli
stivali... eppure le belle donnine ci salutavano e ci sorridevano con
grazia: la vezzosa fata che passava le sue giornate dalla tabaccaia ci
volle offrire per forza dei sigari scelti, e ci mostrò con fierezza
romana, una cappa d'incerato alla manica della quale faceva uno stacco
molto sentito la fascia bianca colla croce rossa del soccorso ai
feriti. Giunti a casa trovammo sul camminetto una bottiglia di vecchio
Borgogna che in quel momento ci apparve più cara di tutte le moine.
Oh! non erano sconoscenti i buoni abitanti della Còte d'Or! Le
gentilezze di cui ci erano prodighi infondevano nuovo ardore nei
nostri petti, e tutti noi anelevamo un combattimento per mostrare che
non eravamo indegni della fiducia che in noi riponeasi.

E il combattimento poco poteva tardare: la era questione non di
giorni, ma d'ore: se per due volte di seguito avevamo tenuto la
difensiva, alla fine attaccheremo noi--si pensava. Garibaldi non è
uomo da lasciarsi posar mosche sul naso!--Erano istanti di febbrile
ansietà: specialmente la notte; ad ogni rumore ci si alzava dal letto,
si correva alla finestra, si tendeva l'orecchio: poi quasi dubitando
delle nostre facoltà auricolari, ci s'infilava alla peggio la giubba,
si scendeva in strada, si correva alla piazza... tutto silenzio....
tutti dormivano... e allora a rifare i nostri passi, ed a darsi del
bambino, del grullo, dell'uomo che s'impressiona per niente, e a
giurare di non muoversi più sino a che non venissero le trombe a
suonare sotto le finestre di case... sì... bei proponimenti, superbi
disegni! Batte una porta, una folata di vento agita gli alberi del
giardino, i cavalli della vicina scuderia urtano nella mangiatoia
colla testa, o scalpitano sulle pietre del pavimento.. ed eccoci di
nuovo in balìa delle nostre fisime..--E se ritornassi fuori?..
Lasciare il calduccino delle lenzuola per andare a scivolare sul
diaccio e a battere i denti, mentre vi sono tutte le probabilità che
non ci sia nulla di serio!.. Già i Prussiani dì notte non hanno mai
attaccato... ma se questa volta attaccassero, se si facesse sul
serio?.. Permetterò che i miei compagni si ammazzino, compiano il loro
dovere, ed io starò qui, poltrone, a sciogliere un'inno alla
beatitudine del dolce far niente?... Oh! no, sarebbe troppo egoismo,
confessiamolo pure, troppa vigliaccheria... se non dormo stanotte,
dormirò domani, non son mica venuto quassù per stare in panciolle!
Bisogna andare...--E via un'altra volta giù in strada e via a correre
come un matto, ad arrapinarsi, a ficcare per tutto il naso, che era
divenuto un vero pezzo gelato... e allora addio di nuovo belle
volontà, addio proponimenti di passar l'intera nottata ad aspettare
quelli che non venivano, e dì nuovo nel letto coll'idea fissa di non
addormentarsi e invece appisolarsi di subito, destandosi però ad ogni
momento, e tendendo l'orecchio, come le esterrefatte madri descritte
dal Foscolo.

La nottata passò, e nulla di nuovo ci annunziò il giorno seguente; i
Carabinieri Genovesi tornarono dagli avamposti, le legioni italiane
non si mossero neppure; per ora tutto annunziava riposo. Che giornata
triste, uggiosa, pesante! il cielo era oscuro, la neve caduta nei
giorni decorsi era ghiacciata, da un lato all'altro delle vie si
poteva patinare e furono fatti sdruccioloni tremendi. Ci dissero di
star pronti per il domani; noi trascorremmo cinque o sei ore a
chiacchera davanti il camminetto fumando, ragionando di Firenze, che
ci appariva come un sogno lontano e delle feste da ballo in cui
saranno stati immersi i nostri amici, allora nel pieno sviluppo del
Carnovale. Non si sperava che ci rammentassero: un giro di _wals_, una
stretta di mano, un'occhiata procace per la gioventù d'oggi ha molto
più attrazione della lotta tra l'Umanità e i suoi carnefici.

Andammo a desinare e trovammo la trattoria, più piena del solito; si
assisero al mio tavolino Rossi, Squaglia, Piccini e Stefani: eravamo
tutti uggiosi: pareva quasi si divinasse che erano l'ultime ore che si
ragionava con qualcuno di quelli che erano tra noi.

Venne a noi vicino il Maggiore Pastoris, accompagnato da
un'elegantissima signora: Pastoris ci disse che, quantunque in
permesso, egli non aveva potuto resistere all'idea che di ora in ora
potea nascere qualche attacco e che non poteva star più lontano da
noi.

Bevemmo allegramente tutti: eravamo sul più bello degli anni, tutti ci
si sentiva bollire nel sangue l'energia e l'attività.. non dovevano
passare venti ore, e Pastoris, Rossi, Squaglia, dovevano esser
cadaveri!

Ci ritirammo più di buon'ora del solito, nè, quella sera ci demmo alle
baldorie, a noi consuete. Io non credo ai presentimenti. Napoleone a
Waterloo preconizzava un secondo Austerlitz, ma o fosse il tempo, o la
noia, o qualunque altra ragione, il fatto è che quella sera eravamo di
pessimo umore.



CAPITOLO XIV.


Ed eccoci all'Epopea. O giorni sublimi, che resterete onorati fino a
che il cuore dei generosi palpiterà alla memoria delle azioni
magnanime e dei leggendarii eroismi, al rammemorarvi qual fremito
nuovo non m'infondete in tutte le fibre!.. La penna trema nelle mie
mani: troppo sono inferiore all'alto subietto!.. Eschilo solo, il
possente cantor di Prometeo, potrebbe degnamente parlare di voi,
giovani, cui rodeva il cuore, più tenace del favoloso avvoltoio
l'inestinguibile desio di redimere l'Umanità: ma ad Eschilo
sorridevano intorno le Grazie, abitatrici perenni degli incantati
recessi della poetica Grecia, ma ad Eschilo ritornato dal
combattimento non faceva difetto l'applauso ed il conforto dei suoi
cittadini entusiasti, mentre noi, privi della scintilla creatrice del
Genio, scriviamo tra gente che non comprende virtù, che ha pronti per
noi i dardi avvelenati del sarcasmo e della maldicenza, che, sempre
presta a giudicare una intrapresa dall'esito, corona di lauro e porta
in trionfo i fortunosi al Campidoglio, ed accenna ai disgraziati la
vicina rupe Tarpea.

Oh!.. questa umanità che dava in premio a Socrate la cicuta, a Dante
l'esilio, a Galileo la tortura, la prigione a Camoens, il rogo a Huss
e a Savanarola, e la forca a Jon Brownh, questa umanità può e deve
serbare un assoluto silenzio sulle eroiche vittime della Borgogna:
meglio così; il piagnisteo di plebi codarde, sarebbe un insulto a quei
prodi, e dalle loro ossa sorgerebbe una rampogna all'ingnavia dei
contemporanei; quando i vivi son morti, parlano un'eloquente
linguaggio gli estinti; qualche volta un cimitero ha demolito una
reggia. Giunto a questo punto supremo dei miei meschini ricordi,
quanto mi grava il non aver sortito dal caso una di quelle
intelligenze, che, come aquile, si elevano al disopra dello stupido
gregge degli umani! Qui cade ogni scetticismo, qui ogni dubbio non che
follìa sarebbe delitto. Esiste, esiste la fede, l'abnegazione, la
virtù anche in questo secolo nel quale ci s'inchina ai subiti
guadagni, alle problematiche fortune, all'oro, nel quale si calcolano
i benefizi di una battaglia da quanto rialza la borsa.

Io ti ho veduta, o sacra primavera d'Italia: io ti ho veduta affrontar
sorridendo la morte, correre incontro ai cannoni con la stessa
vaghezza con cui una fanciullina corre a cogliere un fiore,
accompagnare con guerresche canzoni il fischio delle palle, perdere
l'ultima stilla di sangue, col volto ispirato, coll'occhio raggiante,
come chi sa di riabilitare, morendo, l'umanità che lo spregia: io ti
ho veduta e d'ora in avanti in mezzo alle delusioni continue, alle
ambizioni codarde, ai vaneggiamenti ridicoli di questa società trista
ed ipocrita, il tuo glorioso ricordo infonderà nuova lena al mio
spirito, mi raffermerà sempre più in quei santi principii che mi sono
di guida, mi farà affrontare, se pur ne è duopo, a mia volta la
morte... La morte?.. Oh! ben felice chi la può incontrare col vostro
eroismo!

Calate, o corvi dall'alte montagne e dalle folte foreste vicine... i
re della terra vi apprestano per oggi un sontuoso banchetto: i re
della terra son vostri degni fratelli, e non si mostreranno oggi
dammeno della fama di splendidi, per cui l'inalzano a' sette cieli i
cortigiani ed i giornalisti venduti. Da una parte è l'avvenire, la
gioventù! dall'altra il passato, il calcolo freddo, impassibile come
il destino.

In oggi chi troverà il sistema di distruggere reggimenti intieri in un
colpo avrà lauri, corone, commende ed archi trionfali... i medici
condotti, questi poveri figli della scienza che sfidano l'inclemenza
delle stagioni, i disagi delle montagne, stentano la vita e maledicano
la fecondità delle loro compagne di sventura e di triboli... oh, è pur
giusta la giustizia dei re, ma qualche volta può anche sbagliare i
suoi calcoli!

Il progresso infrange l'edifizio granitico inalzato dall'oscurantismo
e sorretto dalla violenza: il progresso debella ogni ostacolo,
apparisca pur formidabile. Quando si fora il Moncenisio e si taglia
l'istmo di Suez, potrà l'umanità soffermarsi difaccia alla barriera di
un privilegio, più d'ogni altro schifoso, perché tenuto su da
baionette tuttora rosseggianti di sangue? Che si coronino adunque
d'elleboro, che danzino, come pazzi, sull'orlo della voragine, che si
inebrino ai baci comprati delle loro Odalische, che votino
allegramente quei calici dove il rosso licore dovrebbe rammentar loro
il sangue di popolo, da loro indegnamente versato... il _Dies irae_ ha
da giunger per tutti, la scienza ha già segnato nell'aule dei re il
_Mane, Tekel, Fares_, ed incapaci di rinvenire nell'estremo momento il
coraggio di Sardanapalo, noi li vedremo ricchi accattoni girellare nel
mondo, sfuggiti da tutti come belve feroci, impotenti e rabbiosi!..

Brillava ancora qua e là per il cielo qualche stella, che man mano
sbiancandosi andava a svanire nell'infinito come un generoso proposito
di una anima debole, e noi eravamo al quartier generale. Passammo lì
molte ore senza alcuna novella, quando ci fu detto che anche per quel
giorno non eravi alcuna cosa di nuovo; ma che però, stessimo pronti
per il domani che nel domani avremmo avuto una grande, una decisiva
battaglia. Rossi, Piccini, gli altri nostri amici della Compagnia
Genovese, ci confermarono l'esattezza di ciò che si sentiva e
tutt'insieme giurammo di pigliare la sera una sbornia solenne, per
rassomigliare almeno in qualche cosa a Leonida e ai suoi trecento
spartani che, come ognuno sa, banchettarono allegramente prima di
farsi incontro alle tremende falangi di Serse, dandosi appuntamento
pel dì dopo all'inferno... e nessuno di loro mancò alla propria
parola... Beati quei tempi!

Sul mezzogiorno però a tutti i canti della città suonarono le trombe;
i soldati furono in fretta e in furia mandati fuori della città... il
cannone tuonava: questa volta ci si era davvero.

Tutti si corse come un sol uomo, al palazzo della prefettura: là
trovammo il nostro tenente Ricci--Si vuole andare--Gridammo a coro
pieno--Andremo, rispose lui, anche senza arme, e poco dopo tutti ci
movemmo, senza curarsi nemmeno di avere un fucile.

Passammo dalla Porta sant'Apollinare dove trovammo Bordone con tutti i
suoi ufficiali: prendemmo a passo di corsa un viottolo, desiosi di
anticipare il momento, che anelavamo da sì gran tempo. Ad ogni minuto
il rimbombo dell'artiglieria, rassembrava una voce potente che ci
accusasse di essere lontani dal pericolo: i circostanti campi erano
ghiacciati: ghiacciati i fossi che fiancheggiavano la via, eppure si
sudava, eppure il cuore ci batteva forte forte nel petto e noi avevamo
la lingua fuori. Ad ogni colpo un sol grido elevavasi da tutti noi, un
sol grido che chiaramente mostrava la nostra animazione, la nostra
bramosia, il grido di: Avanti!

A mezzo chilometro dalla città, incominciammo a trovare delle guardie
mobili, o appiattate, o che si ritiravano: noi non facemmo loro alcun
rimprovero, ma invece con la più buona maniera del mondo, si
richiedevano del loro fucile. Molti lo diedero assai volentieri; molti
altri, inorridisco a dirlo, ce la venderono: pochi, messi su
dall'esempio, ci seguitarono. E intanto pochi passi ci mancavano
ancora per arrivare a Fontain; una salita, molto erta, e ci si era;
facemmo quella salita di corsa.

Al limitare del paese, due palle attraversarono la via; i più giovani
abbassarono istintivamente la testa, noi godemmo per aver raggiunto
finalmente la meta. Fontain era desolato: chiuse tutte le case, non un
abitante per le due o tre vie che costituiscono questa borgata.

Prendemmo la prima strada che ci si parò innanzi alla vista, ed
arrivammo ad una piazzetta, che è proprio sotto alla piccola collina,
sulla quale è situata la chiesa. La mitraglia imperversava, al nostro
arrivo: i piccoli muri che custodivano i vicini giardini, erano
battuti, scalcinati, rovinati addirittura da quest'uragano di nuovo
genere: andare in mezzo alla spianata sarebbe stato impossibile; meno
male che fu l'affare di pochi secondi!... Addossati a una cancellata
di un giardino, lì trovammo Kane, Niklatz è le altre due guide che
erano state attaccate al seguito del generale Bossak..

Kane mi trasse dapparte, e mi sussurrò negli orecchi: Si crede morto
Bassak: è da stamani che noi non l'abbiamo veduto....

Montammo su alla chiesa, una sezione d'artiglieria stava ai due lati
della modesta parrocchia; il colonnello Olivier, assisteva alle
operazioni dei suoi cannonieri: e a pochi passi da lui, con un sangue
freddo invidiabile, col suo breviario sotto il braccio se ne stava il
prior di Fontain. Il fuoco degli assalitori era diminuito; di tanto in
tanto qualche nuvoletta di fumo appariva improvvisamente sul
Orizzonte, e qualche scaglia veniva a cadere ai nostri piedi.

--Datemi un po' il canocchiale--Domandai a un'artigliere, un bellissimo
giovane.

--Tenete mi disse e non fu capace di darmelo che una palla gli faceva
schizzare il cervello... Fu l'unica palla di fucile che sentimmo
ronzare in Fontain,

Intanto un vivissimo fuoco di moschetteria cominciò a sentirsi dalla
parte della vicina Talant. Talant e Fontain son due collinette
isolate, che si elevano in una estesa pianura, frastagliata qua e là
da piccoli rialzi, e nel cui fondo è il piccolo paese di Daix, che era
stato sgombrato al mattino da due battaglioni di guardia mobile che
l'aveano in custodia. I Prussiani si erano spinti verso Fontain, poi
ritirandosi con una mossa improvvisa, si erano ricostituiti dietro il
villaggio di Daix, per piombare in grandi masse sopra Talant: per
conseguenza il fuoco di fronte a noi potea dirsi quasi cessato; mentre
cominciava, e senza posa, sulla nostra sinistra.

--Che facciamo?--Domandammo al Ricci.

--Andiamo laggiù...

E tutti scendemmo la strada e per far più presto entrammo nei campi:
lì cominciò la bella sinfonia delle palle... Addio Italia, pensammo
tra noi, addio occupazioni della nostra vita scapata... un grido ci
tolse alle reflessioni... il povero Gaido, colpito in mezzo del cuore,
cadeva a pochi passi da noi.

Si procede... riscontriamo un ferito che vien trasportato a braccia
alla vicina ambulanza... _Ciao_ ragazzi, ci dice, _viva la Repubblica_
e noi si procede ancora e vediamo il prode capitano Vichard, capo di
stato maggiore del Bossak, dilaniato da cinque ferite.

--Portalo all'ambulanza--Mi grida il tenente.

--Ma...

--Poi ci raggiungerai... tu sai dove siamo!

E io e il Bocconi, preso a braccetto il Vichard, rifacemmo quella via
sempre in mezzo all'imperversar delle palle, almanaccammo una buona
mezz'ora per trovare questa benedetta ambulanza, e quando ci fummo
arrivati, fummo dolorosamente sorpresi nell'osservare, che punto più
esposto di quello alle palle era impossibile il ritrovare; lì ci era
addirittura una grandine e molti feriti, credo, vi ricevessero il
colpo di grazia.

Dopo poco raggiungemmo i compagni....

Ed ora spingiamoci sotto Talant, dove aveva da essere la sublime
ecatombe, dove Garibaldi in persona, a cavallo, in prima linea
capitanava il combattimento. Nei campi sulla destra del paese avevano
preso posizione, e si accingevano a rintuzzare l'assalto dei
Prussiani, la Compagnia Genovese (capitano Razzeto) i Cacciatori
Spagnoli, del cui capitano sono rincrescevole di non sapere il nome, e
gli Egiziani, comandati da Zauli. I cacciatori di Marsala erano in
sostegno di queste compagnie. La legione Tanara era dall'altro lato
della via, mentre Ravelli coi suoi era in riserva nel paese. Tutta la
terza e quinta brigata erano insomma lassù.

Dai vigneti, dalle ville poco distanti i Prussiani cominciarono un
fuoco d'inferno: gli alberi erano scheggiati ad ogni minuto; le siepi
si stroncavano, producendo un fracasso indescrivibile: ogni poco si
spengeva per sempre una generosissima vita; ogni poco erano gemiti,
strida, imprecazioni; gli strazianti lamenti degli uomini avevano
riscontro in que' dei cavalli... povere bestie innocenti, che ad ogni
poco cadevano stramazzoni per terra in quella grandinata di
proiettili, che di minuto in minuto raddoppiava d'intensità.

I nostri erano imperterriti come vecchi soldati: gli Spagnoli
ammirabili; nelle legioni Italiane non mancavano spiritosaggini, nè
arguzie..

--Guarda, se con quegli elmi non paiono civiconi del
quarantotto!--Diceva uno.

--Mirali bene... che vadano a godere della sua grazia di Dio!

--Coraggio amici, si gioca l'ultima carta... o si sballa o saremo
eroi.

Conforti reciproci, incoraggiamenti non mancavano certo in quelle file
che decimava la morte. I Prussiani avevano fatto delle feritoie in un
muro difaccia e con tutta la sicurezza possibile miravano come se
fossero al bersaglio.

Nella prima mezz'ora, Squaglia ebbe una palla in bocca che poco dopo
lo rese cadavere. Povero Squaglia!... Quasichè presentisse la morte
aveva dato a tutti i compagni la sua carta di visita con l'indirizzo
preciso della propria famiglia.

Canzio, come sempre elegantissimo, se ne stava in capo alla via,
puntando i nemici col canocchiale, indifferente come se puntasse una
bella donna al teatro. Canessa era a pochi passi da lui. Menotti,
Bizzoni, Tanara, Erba trapassavano recando ordini, incoraggiando col
loro contegno i più timidi in mezzo a quel turbine di palle di ogni
qualità, che ci aveva ridotti, alla lettera, sordi. Garibaldi esposto
come tutti gli altri, più di tutti gli altri alle micidialissimo
scariche del nemico, era sorridente, tranquillo e faceva nascere nel
cuore d'ognuno un sentimento tale di dignità e di rispetto che credo,
sarebbe stato per chiunque impossibile il mancare al proprio dovere.

I nostri si mandarono a dare due cariche alla baionetta, cariche che
furono ricevute accanitamente dal nemico... Quante nobili vite non
furono spente!.. Il terreno era chiazzato di sangue, ad ogni passo
impediva l'andare un cadavere, via via che si procedeva i morti erano
ammonticchiati l'uno sull'altro.

E intanto si avvicinava la sera; e un'acqua fine fine ci filtrava
nell'essa; fu allora che vidi Mis Wite Mario passeggiare
intrepidamente lì proprio in prima fila con un sangue freddo da fare
invidia a un vecchio soldato; chiunque ha preso parte alle tremende
giornate di Digione, deve serbare eterna memoria di questa eroina, che
abbiamo veduta trasvolarci davanti, come un'esempio vivente di quanto
può fare una donna animata da generosi propositi; lei hanno ammirata
al proprio fianco i combattenti, lei hanno salutata come affettuosa
sorella i feriti; lei hanno riverito gli stessi nemici, in mezzo ai
quali passava dalle nostre file, per poter recare un sollievo a chi
era in angustie, per potere avere informazioni sicure su certe cose
che rimanevano al buio.

Mai la morte ha mietute tante vite magnanime in pochi momenti, come
quella sera a Talant. Gli Spagnoli si erano ridotti ad un piccolo
nucleo ed avevano perduto i loro ufficiali, lo stesso era
degl'Egiziani il cui prode tenente Zauli giaceva ferito; morto il
bravo tenente Gniecco dei Genovesi, ed esanimi al suolo giacevano già
Salomoni, Imbriani, Settignani, e Pastoris.

L'ecatombe stava per compiersi: a quelli in prima linea mancavano le
munizioni, e l'ostinatezza dei Prussiani raddoppiava: mentre difatti
essi avevano sgombrato quasi tutto l'esteso terreno che ci stava
dicontro, si agglomeravano in faccia a Talant, a Talant i di cui
difensori oramai potevansi calcolare a poche centinaie. Avevano i
nostri avversarii occupata una cascina al disotto del paese, e si
avanzavano a pelettoni serrati, e tirando su noi con una continuità
straordinaria.

Vien dato al battaglione dei Cacciatori di Marsala l'ordine di
avanzarsi e di caricare il nemico. Lo strenuissimo Perla col volto
raggiante, con piglio da infonder coraggio ad un morto si pone alla
testa. Genovesi, Egiziani, Spagnoli, quelli delle altre legioni, tutti
si raggranellano dietro di lui, tutti sono ansiosi di morire da forti
o di veder rinculare il nemico. Molti non hanno più cariche molti sono
sfiniti dalla stanchezza, molti non resistono più in mezzo a quella
desolazione e vanno incontro a una palla tanto per finirla una volta
con questo mondo codardo; avanti, gridano gli ufficiali, avanti
ripetono i più animosi, avanti grida nel cuore l'amore dell'umanità e
della repubblica, avanti la voce del dovere e tutti, come un sol'uomo,
si accingono alla titanica impresa. Cinquecento cori battevano in
quell'istante all'unisono!...

_Viva la Repubblica, viva Garibaldi_... giù la baionetta ed a passo di
corsa contro i soldati di re Guglielmo. Il fumo impedisce la vista: in
quella penombra, prodotta anche dall'ora divenuta tarda, ad ogni
secondo si vedono guizzare immense strisce di fuoco; si procede
pestando i cadaveri e seminando a ogni poco di nuovi cadaveri il
suolo; i Prussiani essi pure si avanzano, ma lentamente; il cozzarsi è
divenuto inevitabile e sarà un cozzo tremendo.

Lo slancio dei nostri è impetuoso... troppo impetuoso: Perla, il
veterano di tutte le campagne dell'indipendenza stramazza per terra
mortalmente ferito: Cavallotti è morto; moribondo il tenente Rossi di
Lodi: i soli cacciatori di Marsala hanno 17 ufficiali fuori di
combattimento. I Prussiani si asserragliano in due casette; vien dato
anche ai nostri l'ordine di ritirarsi; rimanendo la sola legione
Ravelli a guardia di Talant...

--Vieni via--Grida il Piccini al Rossi, quando tutti si erano
ritirati.

--Fammi utilizzare anche le ultime due cariche che mi sono
restate--Questi rispose... e si avanzò verso il nemico. Un vivissimo
fuoco di moschetteria, l'ultimo che si eseguisse in quel punto, uccise
il nostro amico diletto, il nostro compagno di tante sventure e di
tante peripezie. Nessuno più lo rivide: il giorno dipoi sapemmo da una
guida che egli era morto in conseguenza di tre ferite: due nel petto
ed una nella faccia.

Ci ritirammo; il cielo era ingombrato qua e là da densi nuvoloni; gli
alberi sembravano giganteschi; al fragore prolungato di poco fa era
succeduto un silenzio cupo, lugubre, interotto solamente a lunghi
intervalli da qualche colpo; rientrammo nella gran strada e qui un
viavai di carri, d'ambulanze, sopra uno dei quali vidi la simpatica
donnina che avevamo veduto dalla tabaccaia, e trasporti di feriti, e
imprecazioni di morenti, e un chiamarsi ad alta voce tra i carri e un
domandarsi informazione, accolte ora da sospiri, ora da bestemmie, ora
da un «meno male» proferito in senso stizzoso e soddisfatto; nei campi
adiacenti si vedevano a quell'incerto chiarore molti cadaveri; la luna
si mostrava timidamente in mezzo alle nubi. Mi venne in mente la
leggenda popolare che sostiene Caino esser stato relegato nella luna;
le macchie di questo pianeta mi sembravano in quella sera proprio gli
occhi di questo primo fratricida, che ora allegravasi a quella strage
fraterna.

Su un carrettone vedemmo insieme a tanti altri lo Stefani che era
stato ferito in un braccio; noi c'inoltravamo serii serii in mezzo a
quelle confusione; nessuno avrebbe potuto scherzare: un giovinetto si
azzardò di intuonar sottovoce una cantilena fu acremente ripreso:
erano troppi i morti che avevamo veduti a quell'ora, eran troppe le
perdite che ci facevano sanguinare l'anima a tutti e, ce lo perdonino
gli spiriti forti, noi si sentiva voglia di piangere. Io comprendo in
certi momenti l'indispensabilità di una guerra, comprendo che nel
fervore delle pugne ci s'inebrii più che se prendessimo parte a una
scena d'amore e di ardentissimo amore, ma, quando tutto ritorna nella
solita calma; quando girando gli occhi non vedi che informi ammassi di
carne che saran putrefatti tra poco, e che poco tempo fa sentivano,
amavano, speravano; quando ripensi al dolore, alla disperazione di
migliaia di madri e di vedove, se non detesti questa macelleria
d'innocenti, questa violazione delle più care affezioni e dei legami
più sacri, bisogna dire che la natura ti ha dotato di un cuore di
pietra!.. I Chinesi, che noi abbiamo avuto il coraggio di chiamar
barbari sino a questi ultimi tempi, fino dall'età più lontane, come
ci dice Laotsu, imponevano ai loro generali di mettersi in lutto,
appenachè avevano vinto una battaglia: noi che ci si becca il titolo
di umanissimi e di civilizzati inalziamo sulle nostre piazze monumenti
ai generali, anche quando hanno perduto, purché abbiano tirato a far
ciccia. Evviva la civiltà!

Entrati in Digione, con grandissima nostra sorpresa, trovammo aperte
tutte le botteghe; andammo alla solita trattoria... era quasi
deserta; quanti di quelli che erano soliti a frequentarci non avevano
lasciato la vita, nel breve volgere di otto o dieci ore!...

Ogni persona che entrava, erano domande, grida di sorpresa, strette di
mano: e solamente allora si cominciava a forza di racconti a sapere
gli episodi gloriosi del combattimento, le perdite che avevamo subito,
l'andamento preciso della battaglia.--Il tale...? domandava qualcuno;
è morto, gli si rispondeva; e il tale altro?... Morto anche lui... e
tutti a sforzarci a sorridere per far gli uomini forti, ma il sorriso
moriva sul labbro e ci si sentiva invece un groppo alla gola che ci
faceva discorrere stentatamente, e avremmo pianto così volentieri, se
il pianto non fosse qualificato per una debolezza da donnicciole.

Le guide del generale Bossak ci annunziarono la morte di questo eroico
figlio della Polonia; come erano commosse via via che procedevano nel
loro racconto! Non era un superiore quello che avevano perduto, era un
fratello: Bossak aveva voluto dar loro di sua tasca ogni giorno il
doppio della paga che le ricevevano dal corpo; ogni giorno le voleva a
mensa con lui; il primo dell'anno fe' loro presente di qualche
marengo: una volta che la brigata mancava di viveri provvide, sempre a
sue spese, affinchè nessuno soffrisse la fame. La democrazia faceva
una perdita irreparabile con la morte di lui; figlio di una delle più
illustri famiglie Pollacche, si era posto a capo della rivoluzione nel
1864, ed esule in Svizzera confezionava le cartoline da spagnolette,
tanto per tirare avanti onoratamente la sua famigliola. Appenachè
seppe esser la Francia divenuta repubblica, si mise a di lei servizio,
e nella mattina di questo giorno glorioso, spintosi alla testa di una
ventina di guardie mobili, più arditamente di quello che sogliono fare
tutti i generali, aveva incontrato la morte, suggellando col sangue la
sua vita esemplare.

Verso le dieci io volli ridurmi a casa: la stanchezza mia è
indescrivibile; appena in strada incontrai i Carabinieri Genovesi:
saranno stati una trentina; gli Spagnoli che li seguiano erano tutt'al
più venticinque: quante vittime in quella giornata: quante nazioni non
affratellava quel sangue generoso sparso in prò di una repubblica!

Arrivato a casa, mi scinsi la sciabola: non guardai nemmeno una
vecchia bottiglia che ci aveva apprestato la padrona di casa, meditai
molto, riandai tutti i più piccoli episodii della strage a cui avevo
assistito, poi cominciai ad appisolarmi e un benefico sonno mi tolse
alle ansie, alle dolorose. ricordanze, alle considerazioni più o meno
filosofiche.

    »_La gioia dei profani
    » È un fumo passeggier._

Mi desto di soprassalto è sento di nuovo suonar delle trombe; credo
sul principio che ciò non sia che un giuoco della mia alterata
immaginazione: aguzzo l'orecchio, vò alla fine-* stra, la schiudo...
Non ci è che dire... sono trombe che ci chiamano un'altra volta a
raccolta--Ci siamo, dico tra me e non senza imprecazioni, mi ricingo
la durlindana e scendo in mezzo alla via. Doveva esser suonata di poco
la mezzanotte. I soldati si avviano verso la stazione; io tenni lor
dietro.

--Che ci è?

--I Prussiani si avanzano... hanno avuto rinforzi.

--O non si erano ritirati?

--Sì... ma ora ritornano.

--E noi?

--Si batte in ritirata.

--È impossibile... Garibaldi si farà ammazzare ma non vorrà dar loro
questa soddisfazione.

--Eppure vedrete... vi dico che si va a Lione.

--Smettete, pazzo!

--Non è vero!

--Se hai paura, và a letto.

--È impossibile!...

Insomma a forza di queste discussioni, si era giunti al cimitero che è
quasi difaccia alla ferrovia. Lì trovammo Garibaldi in carrozza, tutto
lo stato maggiore e alcuni battaglioni schierati. Degli scorridori
prendevano la via onde attinger notizie, o recar dei dispacci. Il
freddo era tremendo; tutti si batteva i denti, ci si strisciava le
mani, si passava infine un quarto d'ora più climaterico di quello di
Rabelais.

Fortunamente, dopo informazioni ricevute, il Generale ci rimandò tutti
a dormire: non era stato che un'equivoco, di cui noi avevamo pagato le
spese. Mezz' ora dopo, a dir molto, si dormiva di nuovo
tranquillamente.

CAPITOLO XV.

Quattro ore di sonno, e poi via di corsa in quartiere: quelli erano
giorni che si poteva affermare di essere esempii viventi della teoria
di là da venire, del moto perpetuo. La nostra scuderia aveva due nuovi
ospiti; due cavalli che Mecheri e Ghino Polese avevano preso sul
campo: questi due giovani, il giorno innanzi, distaccandosi con tre o
quattro altri da noi, erano corsi in prima fila, ed avevano ottenuto
dai presenti gli elogii più ampi per il loro sangue freddo e il loro
coraggio: Ghino, da quel capo ameno che era, tra una scarica e
l'altra, nel turbinio dello palle faceva un minuetto, destando unanimi
sorrisi d'ammirazione... non dico di più, perché non si abbia a dire
che l'amicizia ha potere di convertir noialtri scapati in società di
mutua ammirazione; chi li ha veduti non potrà dire che come me: con
loro fu ferito assai gravemente il nostro caporal furiere Pianigiani,
giovinetto Livornese quasi bambino, ma che per fermezza poteva dar dei
punti a un vecchio militare; il Mattei, guida pur egli, fu ferito a
una coscia da un colpo di mitragliatrice, mentre si disponeva ad
andare all'attacco.

Raggranello altri ragguagli del giorno innanzi: delle quindici guide
che si erano mosse a piedi col tenente Ricci, due erano morte e sette
ferite: il nostro deposito avea dato il suo contingente alla
carneficina.

Nella nottata due nostri caporali, Luperi e Aribaud avevan fatto
prigioniero il nipote del generale Werder, che si era addormentato in
una casetta.

Mi si parla di un Romagnolo, Salvadore Caimi, che, giacente in letto
all'ospedale, e dato per spacciato da medici, essendo afflitto da
perfidissimo vaiolo, all'udire il cannone saltò giù, si rinpannucciò
alla meglio, e corse in prima fila, ove morì, ma non colpito da palla:
tutti hanno da raccontare qualche eroismo che hanno veduto, qualche
atto di valore di cui furono parte: manco male, non avranno più il
coraggio di dire che gli Italiani non si battono! I preti, strano a
dirsi erano stati pel contegno loro ammirabili; alcuni signori dei
paesi a noi vicini si erano mescolati ai soldati, ed alcuni erano
caduti vittime del loro amore di patria. Se la perdita di molti nostri
compagni ci faceva essere di malumore, ci era anche di che rifarsi la
bocca!

Ci pongono in libertà, raccomandandoci di non scostarsi tanto dal
quartier generale: approfitto di questo intermezzo per recarmi a far
visita al ferito Stefani; la ferita era leggerissima, e lo avevano di
nuovo portato nella sua casa, che serviva anche d'ambulanza. Ci trovai
mio fratello, diversi della compagnia Genovese; tutti seduti intorno
al fuoco facevano piani di guerra, discutevano i comandi del giorno
avanti, rammentavano i morti, godevano ed erano sorpresi di averla
scapolata e giuravano che fuoco indiavolato, come quello sotto Talant
era più che impossibile, avesse di nuovo a farsi sentire. Vollero di
riffa che io facessi una corrispondenza per un giornale di Firenze e
tutti ci vollero mettere lo zampino.... immaginatevi che brodo lungo
la venne a riuscire, e come mostrasse eloquentemente che chi la
scriveva non era un Montecuccoli, nè un Napoleone.... pure ci sembrò
un capolavoro di descrizione, una vera pagina di dottrina
strategica... ci si contentava di tanto poco, dopo una batosta così
indiavolata!

A interrompere la nostra ammirazione, capita in mezzo a noi, come una
bomba, il Piccini; aveva l'amico un viso di tramontana da metterci i
brividi addosso e non aveva torto; partito a bruzzico insieme al
Baldassini per rinvenire il cadavere del suo già indivisibile Rossi,
per quanto avesse frugato, gli era stato impossibile effettuare questo
disegno; nelle sue investigazioni il giovine Garibaldino erasi spinto
tanto in avanti, che si era in una strada incontrato con una squadra
di Prussiani, che gli aveva fatto una scarica addosso, scarica alla
quale con favoloso coraggio aveva risposto con due o tre colpi,
rimanendo illeso proprio per uno di quei miracoli del caso che non si
sanno spiegare. A quel che ci diceva, anche in quel giorno avremmo
avuto battaglia sicura; confermò questa idea anche l'amico Mecheri,
che andato a Fontain a restituire quel cavallo che si era appropriato
il dì innanzi, aveva udito un rumore vivissimo di fucileria agli
estremi avamposti. Bisogna confessare che queste notizie non furono
accolte con molto entusiasmo da noi; quel giorno avremmo bramato di
riposare;.. si riposò anche Dio, secondo i cattolici: ma pure se ci
fosse l'ordine, se Garibaldi si fosse battuto, senza essere
onnipotenti come il Dio dei Cattolici, noi eravamo tomi da cacciar la
stanchezza e di fare quello che dovevamo fare. Andammo però alla
prefettura.

Il cortile di questa dava l'esattissima idea del vestibolo del
l'Inferno di Dante; non mancavano le diverse lingue, le favelle
orribili, le voci alte e fioche di chi dava schiarimenti, di chi
chiedeva informazioni, di chi narrava i fatti del giorno innanzi, nè
mancò il suon di mani, quando comparve la nobile figura di Garibaldi
sorridente più dell'ordinario. Montò in carrozza svelto, come ai suoi
bei tempi e montò insieme con lui, secondo il solito, Basso. Ci salutò
affettuosamente; poi ci disse: Oggi avremo vittoria. Parlò Spagnuolo
con due o tre figli d'Iberia che erano poco distanti dal nostro
gruppo, e si rallegrò con loro per lo splendido contegno che essi
avevano tenuto il dì innanzi: poi i cavalli si misero al trotto, il
generale si tolse il cappello in mezzo alle acclamazioni, e, partì
seguito da alcuni ufficiali di stato maggiore. Aveva appena
oltrepassata la porta che un colpo dì cannone ci annunziò che anche
per quel giorno ci si era.

I Prussiani, mentre potevano attaccare Digione al Nord Ovest, la dalla
_Ferme de Poully_, pianura senza la minima ombra di fortificazione,
commettendo un'errore che non si sa comprendere nei vincitori di
Sadowa e di Sedan, si ostinarono a tornare all'attacco di Talant,
precisamente come il ventuno. La brigata Menotti avveva a sostenere
adunque l'attacco e il degno figlio dell'eroe dei due mondi ebbe tutti
gli onori di quella giornata; diverse compagnie di Franchi Tiratori e
qualche pezzo d'artiglieria avevano durante la notte rinforzate le
file che dipendevano da lui.

Le legioni Italiane rimasero in seconda fila; ma varii se la
svignarono alla chetichella dai ranghi, e corsero tra il fischiar
delle palle e l'imperversare della mitraglia, presentendo quasi che la
vittoria annunziata da Garibaldi doveva avere la più ampia
realizzazione.

I colpi dell'artiglierie si succedevano senza tregua: i cittadini non
se ne addavano; quel giorno tutti avevan fiducia. Materassi e Polese
erano al seguito del generale, io, Mecheri, Bocconi pigliammo a piedi
la via e ci incamminammo verso Talant. Al principiar della strada
incontra***MO il maggior Sartorio che provvedeva a che fossero presto
recate a compimento molte barricate che s'inalzavano da operai,
requisiti a tale scopo. Era una vera giornata di primavera: il sole
era splendido, senza una nuvola il cielo: i due paesetti di Fontain e
Talant, con le due vaghe colline, staccavano sul fondo azzurro del
cielo e invitavano più a godere di quell'aria purissima, e ad
inebriarsi in quell'oceano di luce che ad andare a scannarsi. Splendi
pure, con tutta la potenza degli animatori tuoi raggi, o ministro
maggiore della madre natura, oggi almeno rischiarerai il trionfo della
Libertà!

A poco più di mezzo chilometro dalla città, vedemmo cinque o sei
cavalli morti; da uno di questi si partiva una striscia di sangue,
che, come la mistica colonna che guidò nel deserto gli Isrealiti,
doveva guidare i nostri passi fino a Talant. A piè della scala di una
casuccia, vedemmo steso morto un giovine Garibaldino; un campagnolo ci
mostrò una lettera che aveva trovato nelle di lui tasche... era una
lettera della sua mamma; la povera donna sperava di riabbracciare suo
figlio nelle feste di Ceppo: la data di quella lettera era di novembre
ed il giovine l'aveva tenuta sul cuore tutto quel tempo!

Arrivammo alle nostre batterie; il fumo impediva di poter scorgere ciò
che avveniva nel versante a noi sottoposto; un ronzio impertinente di
palle ci rendeva avvertiti che i nemici non erano molto lontani.
Garibaldi, Menotti, Bizzoni, Sant'Ambrogio in quel momento eran là.
Troviamo lo Strocchi che ci avevano dato per ferito, lo abbracciamo e
si aggiunge con noi. Il Generale era sceso di carrozza, esaminava i
tiri dell'artiglieria e dava consigli agli artiglieri. Uno di marina,
che faceva il servizio ai pezzi, puntò due volte il cannone e fece due
tiri ammirevoli: le nostre perdite erano fin allora pochissime e i
nostri nemici, non che avanzare, perdevano di momento in momento
terreno; allora fu comandata la carica alla baionetta.

I Franchi tiratori si lanciarono, come leoni, all'attacco: due zuavi
li procedevano di qualche passo, agitando, a mò di bandiera, i guidoni
delle compagnie a cui erano stati ascritti. Il momento era sublime! Il
fumo si era dileguato ed il sole ripercotendo i suoi raggi sugli elmi
dei nostri avversari, faceva apparire qua e là dei subiti guizzi di
luce, da farteli scambiare per lampi. Un gridìo continuo,
entusiastico, un prorompere di fucilate... eppoi i soldati di re
Guglielmo, pestati, inseguiti colla baionetta alle reni, abbandonavano
a rotta di collo il campo di battaglia, seminando il terreno di
fucili, d'elmi, di feriti e di morti, e ritirandosi per tre chilometri
buoni: tra gli altri trofei furono presi sette furgoni d'ambulanza del
valore di circa novantamila franchi.

Il bravo colonnello Lhoste però, caricando arditamente alla testa dei
suoi audaci Franchi Tiratori veniva mortalmente ferito. La battaglia
era compiuta, la vittoria aveva sorriso all'indomito coraggio, allo
slancio più che umano dei volontari della repubblica.

Tornammo subito indietro per annunziare la grata novella; quale non fu
la nostra maraviglia, quando, fatti pochi passi dal campo, incontrammo
delle signore che si erano spinte arditamente fino lassù; signore che
infangavano nelle pozzanghere i loro stivaletti aristocratici e che ci
salutavano sventolando i fazzoletti, sorridendoci con un'angelica
grazia.

Non era gioia, non era entusiasmo quello da cui era presa Digione la
sera del ventidue... era ebbrezza, delirio: a mezzo chilometro dalla
città era già affollata la via; donne vecchi, ragazzi ci saltavano al
collo, ci prendevano tra le mani la testa ci sollevavano dal peso
delle anni, ci insegnavano l'un l'altro, gridando a squarciagola:
_Vive les Galibardiens, vive Galibardi, vive l'Italie_. Ci portavano
quasi in collo dal mezzo di strada nelle trattorie, e lì ci offrivano
da bere, nè ci era versi di rifiutarlo; da ogni parte strette di mano,
da ogni parte baci: «come sono giovani» si sentiva ripeter da una
parte; son dei bravi soldati, si ripeteva dall'altra... oh! divini
momenti, oh! dolci soddisfazioni di chi compie un dovere, capaci di
riabilitare la persona più turpe, capaci di fare un eroe del più
pusillanime.

Ma echeggia un grido potente, non interrotto, che fa rintronare da un
capo all'altro la strada; le finestre si spalancano con forza; le
vecchie, rimaste uniche in casa, si affacciano, si spenzolano, agitano
le loro pezzole; un fremito nuovo di gioventù rianima quelle fibre
affralite dagli anni: non è il vincitore d'ingiuste battaglie quello
che passa, è l'apostolo delle cause giuste, è il propugnatore
dell'umanità, è l'eroe leggendario, l'uomo incorrotto che con un pugno
di ragazzacci fa retrocedere i soldati che han fatto tremare
l'Europa... è Garibaldi.

--Viva Garibaldi--Gridano tutti, e popolani, soldati si buttano verso
di lui, vanno quasi sotto i cavalli e le rote della carrozza: tutti
vorrebbero stringergli la mano, tutti vorrebbero divorarlo dai baci!

--Gridate: viva la repubblica--Grida il buon vecchio--e non sa
riparare a salutare, e sorridere.

I soldati che tornano hanno tutti un'elmo, un fucile preso ai
Prussiani; un giovinetto ha un piffero e fischia un'arietta in mezzo
agli applausi di tutti. Passano dei prigionieri; tutti gli guardano,
ma nessuno alza un grido... il popolo sente la generosità per istinto!
Per tutte le piazze è baldoria: per tutto si canta, si grida, si
applaude: sulla piazza del teatro si da fuoco persino a dei
mortaletti: la fiducia generale è rinata; gli elmi dei Prussiani
coll'annesso parafulmine fanno le spese di tutta la sera; contento
dell'oggi, nessuno cura il domani e tutti dimenticano l'ieri.

Si va a portare il fausto annunzio allo Stefani; sul principio credeva
che si scherzasse: gli avevano nientemeno dato a bere che si trattava
di fare una capitolazione e che i Prussiani si avanzavano verso
Digione a marcia forzata.

Io era stanco morto: tutte quelle emozioni, tutte quelle fatiche mi
avevano prostrato: mi pareva che la vita mi sfuggisse ed in camera del
mio amico ferito ebbi un trabocco di sangue.

--O guardiamo, se dopo che ti han risparmiato la palle, vieni qui a
far la morte della signora delle Camelie? Mi disse il Materassi, che
non si reggeva più dalla fatica, essendo stato in giro tutta la notte,
e a cavallo tutto il giorno.

--Non gli risposi, perché quest'ultimo incidente mi faceva uscir
proprio dai gangheri. Cheto, cheto me ne andai e neppur mezz'ora dopo
mi sdraiavo sul letto.



CAPITOLO XVI.


Per quanto facessi, mi fu impossibile in quella nottata il provare un
poco di sonno. La testa mi ardeva, la febbre in certi momenti mi
procurava la celeste voluttà del delirio; ora mi pareva di essere in
mezzo alla mischia, di vedere i nostri giovani battaglioni avanzarsi,
sgominare le schiere nemiche, ed annusavo a piene narici il simpatico
odor della polvere, e m'inebriavo ai mille episodii di un
combattimento e di una vittoria; ora mi pareva di essere tornato in
mezzo ai miei cari, e li vedevo a me d'intorno, raccolti, pendere
ansiosi dai miei labbri, interessarsi alle vicende delle battaglie,
alle storie che raccontavo e vedevo brillar delle lacrime, spuntar dei
sorrisi..... Finalmente venne il mattino, e parve che la luce, come
fugava le tenebre, fugasse da me i vaneggiamenti della immaginazione
malata. Mi alzai ed uscii; quelli non mi sembravano giorni da poltrir
sulle piume.

A tutte le cantonate della città era affisso un'ordine del giorno di
Garibaldi; ordine del giorno nel quale l'illustre comandante dei
volontarii, nonché inorgoglirsi ai fumi delle vittorie e proclamare i
suoi soldati per eroi, raccomandava a loro di moderare la foga dei dì
passati, di non attaccare in massa il nemico, ma sì in pochi, alla
spicciolata, e spronava in special modo gli ufficiali ad adempiere un
poco di più il proprio dovere.

Alla porta del quartiere delle Guide, vidi il Materassi che scendeva
da cavallo; mi accolse a braccia aperta e mi mostrò delle bottiglie di
vino generoso, urlando: Ecco lo specifico per la tua malattia!

Quel vino era stato trovato nelle ambulanze Prussiane e doveva far le
spese di un mattiniero banchetto che imbandimmo lì sul tamburo. Era
mezzogiorno e, malgrado tutte le dicerio, si cominciava a credere che
per quel giorno gli oppressori della Francia non ci avrebbero
molestato. Finito il pasto, ce ne andammo tutti a trovare lo Stefani;
dopo poco che eravamo entrati nella di lui camera, mi si cominciò ad
abbagliare la vista, sentii al palato un sapore di sangue, tossii a
più riprese e caddi sfinito sopra il divano. Non so quanto stessi in
quello stato in cui più non sentivo la vita: quando cominciai a
comprender qualchecosa tuonava il cannone, e lo Stefani, mezzo
vestito, stava per alzarsi da letto.

--Si son riattaccati?.. Domandai

--Altro che riattaccati!.. Affacciati alla finestra e guarda,
Guardai... confesso di non aver mai assistito a un così sconfortante
spettacolo!.. La gente scappava a rotta di collo per tutte le vie; le
porte si chiudevano ermeticamente; le finestre erano pure
ermeticamente tappate; ogni poco qualche guardia nazionale, o senza
fucile, o senza cappello, traversava a passo accelerato davanti a noi,
battendosi il capo, proferendo gridi di lamento o d'imprecazione;
donne piangenti che si portavano dietro i bambini, carri che si
caricavano, ufficiali d'intendenza che a gran passi si avviavano in
direzione del quartier generale....--Ma dunque siamo in completa
disfatta?--Dissi tra me, e inpaziente, colla più dolorosa angoscia
nell'anima, col dubbio che mi torturava il cervello, presi la mia
sciabola, ed andai anche io per strada, deciso di correre alla
prefettura, e di là portarmi sul campo. Sulla piazza del teatro, vidi
quattro batterie di cannoni guardate da due o tre guardie mobili..
Erano nuove artiglierie arrivate allora allora dalle fabbriche di
Lione e del Creusot... osservandole bene, lo si sarebbe agevolmente
compreso, ma in quel momento, in quell'esitazione le credei anche io,
come il popolo, un indizio di ritirata.

Ma donde venivano queste paure? I nostri avevan forse perduto?.. No;
come vedremo tra poco: ma alcuni battaglioni di guardia nazionale
presi dal panico a quel terzo assalto dei nostri nemici, atterriti
anche dal numero con cui questa volta si erano presentati, non
ascoltando più alcun comando, avevano retrocesso, e, siccome, valanga
erano piombati per le vie della città, travolgendo coloro che volevano
impedire questa ignobile fuga e facendo nascere l'allarme e lo
spavento per ogni dove.

I Prussiani, avvedendosi del grave errore che avevano commesso nei
giorni antecedenti, e pensando forse che le nostre truppe fossero,
almeno per le maggior parte, agglomerate in Fontain e Talant
(posizioni contro le quali essi si erano rotte le corna) si
concentrarono in grandi masse e prendendo la strada di Langres si
spinsero infino al castello di Poully. Garibaldi aveva ordinato alla
brigata Canzio, di avanzarsi verso la direzione, da cui venne difatti
il nemico, il quale, fugati ben facilmente i mobilizzati, che sparsero
poi tanta desolazione in città, erano giunti persino ad accerchiare in
una prossima masseria l'ardito Ricciotti, che coi suoi bravi Franchi
Tiratori, faceva una resistenza eroica, seminando la morte tra quelle
schiere che non si azzardavano ad assalirlo e tenute a rispettosa
distanza dal ben nutrito fuoco di fila, che a loro opponevano dalle
finestre, dalle feritoie, dalle siepi questi giovani soldati della
libertà. I figli di Garibaldi si mostrarono degni del loro genitore, e
la Francia ha da serbar eterna memoria del loro coraggio, delle loro
abnegazione, dalla loro bravura.

Le bombe solcavano l'aria, già impregnata di fumo: il sibilo delle
palle non avea tregua alcuna; i carabinieri Genovesi, i cacciatori di
Marsala, (tutta la quinta brigata) sdraiati pei campi o nelle vicine
praterie non facevano uso alcuno delle armi. Canzio osservava
impassibilmente le masse nemiche, ed ogni tanto andava da Garibaldi,
con cui confabulava. Tutto ad un tratto guizza, come un lampo dall'uno
all'altro dei militi, una notizia; un fremito generale si comunica di
fila in fila, come, se tutti quegli uomini subissero l'influenza di
una pila Galvanica: Canzio concitato, col viso raggiante, si alza,
grida a tutti i suoi uomini: Ricciotti è circondato, salviamolo, e,
come l'ultimo dei suoi subalterni, si lancia eroicamente alla carica.

La cavalleria Prussiana si schiera in ordine di battaglia difaccia ai
nostri; due tiri di cannone bene aggiustati bastano a metterla in
fuga, prima ancora che si ponga al trotto contro di noi; altri colpi a
mitraglia sbaragliano i battaglioni nemici che si ammassano, si
urtano, si infrangano contro la masseria, le cui mura sembrano di
fuoco; i Genovesi, i cacciatori di Marsala, gli Egiziani, gli
Spagnuoli e persino due battaglioni di mobilizzati di Saone Loire
animati dal nobile esempio dei volontari, si spingono dietro il prode
Canzio alla baionetta, gridando viva la repubblica, viva la Francia,
viva Garibaldi e intonando la Marsigliese e l'inno d'Italia. Che
spettacolo imponente... al solo pensarci si provano le vertigini, e
quasi si crede di avere assistito a una fantasmagoria.

La brigata Ricciotti si spinge eroicamente fuori della masseria e
arditamente dà di cozzo nelle file Prussiane: da tutte le parti è una
carneficina terribile; i cadaveri si addensano sopra i cadaveri; là
affusti di cannoni stroncati, qua siepi distrutte, alberi sbarbicati
dal terreno; per terra frantumi di bombe, pozze di sangue, ossa
scheggiate, rimasugli schifosi di corpi umani; i Prussiani non possono
più reggere; è troppo formidabile l'urto dei nostri soldati e non che
compatte colonne di uomini, sfonderebbe le muraglie d'acciaio. Le file
a noi dicontro, piegano, indietreggiano, si sparpagliano eppoi si
danno a disperatissima fuga.

Tito Strocchi e il capitano Rostain di Grenoble, raccolgono allora in
mezzo ai cadaveri di un picchetto che avevano sbaragliato, terminando
tutte le cariche dei loro _Spencers_, sempre tra l'infuriare delle
palle nemiche, lo stendardo del 61 Reggimento Guglielmo; reggimento
che in quel giorno fu quasi disfatto.

Io era arrivato poco prima dell'ultima carica; uscito appena di
Digione cominciai a imbattermi in mobilizzati senza il più piccolo
vestigio d'armi, che se la ritornavano tranquillamente in città: fatti
pochi passi vidi la strada tutta seminata di sacchi, buttati là da
questi prodi onde correr meglio e scappare: poi il consueto corteggio
di feriti e di vetture d'ambulanze: e il capitano Galeazzi e l'Orlandi
con la sciabola in pugno, e con due o tre guide che piattonavano i
fuggitivi e che si sforzavano dì rimandarli al lor posto: finalmente i
nostri compagni che si battevano accanitamente e che si disponevano
all'attacco.

Garibaldi corse subito sul luogo dove era stata definita la tremenda
tenzone, e dove era accaduto l'orrendo macello; tutti gli furono
intorno; tutti vollero dire qualchecosa... pochi e ben pochi furono
capaci di articolare un monosillabo; la gioia di quel momento è
inesprimile; nessuno sentiva più la fatica; eravamo tra mucchi immensi
di morti, si sentiva qualche fucilata lontana, indizio che i soldati
della grazia di Dio erano molto ma molto distanti da noi e che se la
battevano disperatamente: avevamo preso una bandiera: più bella
vittoria noi non la potevamo sperare, ed ora se ne aspirava a pieni
polmoni tutta la voluttà. Perché non poterono dividere le nostre
letizie tanti generosi che ora giacevano cadaveri, perché non le
doveva dividere il buon Ferraris il medico del generale, che dopo aver
recato un ordine, pochi momenti avanti era morto?

Mentre Garibaldi, dopo aver risposto ai più vicini, stava per
congedarsi da noi e tornare in Digione, una scarica quasi a bruciapelo
c'involse tutti in un turbine di proiettili che fortunatamente non
colpirono alcuno. Fu fatto voltare la carrozza e il Generale fu fatto
immediatamente ritirare. Da chi ci veniva fatta quella sorpresa?.. Io
non lo so; certo che gli autori ne ebbero poco gusto; i volontarii si
gettarono con rabbia verso la parte da cui così stranamente eravamo
stati salutati, e probabilmente altri cadaveri si aggiungevano ai
molti che ingombravano il circostante terreno.

I Genovesi e i cacciatori di Marsala, dovevano pernottare nelle loro
posizioni: salutai caramente i miei amici, ed appoggiato al braccio di
uno dei _Francs chevaliers de Chautillon_ piano piano me ne tornai
verso la città, persuaso di assistere, se pur era possibile, ed una
dimostrazione e ad un entusiasmo maggiore di quelli precedenti.

Avevo sbagliato i miei calcoli!.. Si aveva un bel dire ai cittadini
che avevamo conquistato una bandiera, che la nostra era stata una
completa vittoria, che i Prussiani erano lontani chi sa quante miglia,
oramai lo spavento si era loro infiltrato nel cuore, oramai vedevano
le cose dietro il prisma della paura: poche botteghe si riaprirono;
pochissime donne si azzardarono a far capolino dalle finestre;
difaccia alla Prefettura e alle _Mairie_ vi erano i soliti capannelli
susurroni, insistenti: fu insomma necessario che il _Mair_ facesse
battere i tamburi a tutte le cantonate, ed ivi dal banditore
annunziare ai Digionesi che potevano andare a letto, e prender sonno
tranquilli, poiché i Prussiani erano stati respinti su tutta la
linea.--Dietro questa confortante pubblicazione, ricominciammo a veder
del movimento per le strade; si riaprirono i caffè e la città riprese
il suo aspetto normale.



CAPITOLO XVII.


Alla mattina del ventiquattro la bandiera Prussiana fu mostrata a
tutte le truppe e suscitò ovunque l'entusiasmo più vivo; quella
bandiera era nuovissima, tutta in seta, magnifica. La popolazione
Digionese, accortasi dell'errore meschino in cui l'avevano fatta
cadere la sera precedente alcuni vigliacchi, non si restava dal
magnificare il nostro coraggio ed aumentava verso di noi di
dimostrazioni affettuose e gentili; sapemmo che causa principale dello
sgomento e dell'allarme era stato il colonnello dei mobilizzati
dell'Alta Savoja, che al primo rumore del combattimento, era corso con
diversi suoi uomini alla ferrovia, e lì aveva preteso che di riffe o
di raffe si mettesse in pronto un convoglio, onde partire alla volta
di Lione.

Tutto ci faceva sicuri che i Prussiani non avrebbero riattaccato; i
nostri amici erano all'avamposti; pensammo bene di far loro una visita
e intanto dare un'occhiata al terreno, dove poche ore avanti erasi
combattuta la sanguinosa battaglia, alla quale eravamo stati presenti.
Qual tremando spettacolo non ci offersero quei campi! Se io avessi la
potenza descrittiva di poterli ritrarre al vero, farei inorridire i
lettori... fortuna che non l'ho, e così risparmio loro un'emozione ben
cruda! Il più sfegatato paladino della guerra, ammenoché non fosse un
mostro, non avrebbe potuto fare a meno di fremere davanti a quella
carneficina autorizzata dalle così dette gente civili. In qualche
punto i cadaveri erano a strati; pochi i nostri, moltissimi quelli
Prussiani; i Tedeschi si erano battuti come eroi; nel posto dove fu
rinvenuta la bandiera si contavano uno accanto all'altro più di
novanta cadaveri, tra i quali quello di un maggiore; la prateria, la
strada, i viottoli erano ingombri di elmi, di fucili, di sacchi; ogni
passo che noi si faceva eravamo sicuri d'inciampare in un morto...
Quanta gioventù, quanta vita dileguata in un soffio!... Erano imberbi
adolescenti, uomini tarchiati; tutti avranno lasciato nelle proprie
case una sposa, una moglie, una madre: queste povere donne ogni giorno
saranno accorse al giungere della posta, avranno divorato coi baci le
righe, che tra le fastidiose occupazioni del campo, scrivevano i loro
cari: le avranno aspettate anche il domani quelle benedette righe, che
loro facevano spuntare tra ciglio e ciglio una lacrima e l'avranno
aspettate invano, e invano anche domani, e così via di seguito per chi
sa quanto tempo, eppoi finiranno col vestirsi a bruno, col piangere,
col pregare, coll'imprecare a chi ordinò, a chi volle, a chi fece la
guerra: ma re Guglielmo sarà salutato imperator di Germania, ma
Napoleone goderà in santa pace nei beati ozi di Londra i milioni
carpiti alla disgraziatissima Francia!

Oh! avessi avuto la virtù d'Ezzecchiello! Oh avessi potuto trasfondere
la vita in quegli esanimi corpi!... Sorgete, avrei voluto gridare con
voce tuonante, sorgete ed imprecate alle arpie coronate, ai potenti
del mondo; tornate nelle vostre città, nei vostri villaggi, nelle
vostre famiglie, predicate che si ha da esser tutti fratelli, che non
si deve sprecar più tanto coraggio per soddisfare l'ambizione di
quelli che ci opprimono, che si deve abolire il macello di creature
innocenti, fatte apposta per amarsi tra loro, l'une all'altre
simpatiche, perché legate dal santo vincolo della sventura... Se
Traupmann con otto omicidii fece rabbrividire tutto il mondo civile,
perché si devono dar ghirlande d'alloro a chi, a sangue freddo, ne fa
sgozzar centomila?

E mi pareva difatti che quei morti si levassero giganti, e colle
braccie poderose scaraventassero nel vano i tarlati troni delle
tirannidi umane.

Garibaldi traversò la via in carrozza con Canzio; i due illustri e
prodi soldati, arrivati che furono al punto di cui parlo, furono pur
essi commossi: no... non era soddisfazione, come dicevano alcuni,
quella che brillava sui loro volto, io credo che fosse disgusto. Il
guerriero è inesorabile, quando fischiano le palle, ma è commosso al
vedere le prove di un valore, che il caso non ha compensato, ma che è
innegabile.

Poco distante lì avevan passata tutta la notte i Carabinieri Genovesi.
Piccini ci accolse ridendo... Oh! la bella istoria che ho da
contarvi!--

--Raccontacela.

--In poche parole vi sbrigo... vedete quella casetta?... Terminata la
mia guardia sono andato lì per riposarmi... ci erano tre Prussiani
morti ed io mi sdraiai in mezzo a loro; appena steso per terra, è
inutile che vi dica, che attaccai un sonno birbone: mi ero
addormentato di poco, quando mi parve sentirmi girellare d'intorno,
non mi volli scomodare a aprir gli occhi, e il calpestio, non che
cessare, accresceva: una mano poco delicatamente si posò sul mio
petto, mentre un'altra si avvicinava con gran celerità alla mia tasca;
mi alzo allora, come di soprassalto e do un grand'urlo: Chi è?... Non
sono mica morto io, perché mi abbiate a frugare!... Un grido disperato
e una fuga generale tenne dietro alle mie parole: seguii i fuggitivi e
trovai due della mia compagnia che esercitavano questo mestiere
proficuo sì, ma schifoso...

--E domandaste loro, se avevano trovato molta roba?

--Sì... mi risposero anzi che tutti quelli che avevano frugato avevano
in tasca la bibbia, e moltissimi la carta geografica.

Era verità: nessun bass'uffiziale era sprovveduto della carta di
Francia: è così che si vincono le battaglie, e non come si fece nel
beatissimo regno d'Italia nella vergognosissima guerra del 66, ove le
carte non erano conosciute nemmeno di vista dai colonnelli di stato
maggiore..

Dopo avere scambiato qualche altra parola partimmo dalle linee dei
Genovesi e andammo per tornare a Digione: avevamo fatti appena pochi
passi, che sentimmo dei gemiti poco distanti da noi: questi gemiti
venivano da una specie di casaccia che era al principiar di una
viottola: quella casaccia non doveva servire di abitazione ad alcuno,
nemmeno in tempo di pace; era bassa, piccola, e non aveva finestre. Il
desiderio di giovare a qualcuno, l'idea che forse si poteva trovare lì
qualche amico, ci fecero entrare risolutamente in quella catapecchia.

Sopra una barca di concio vedemmo all'incerta luce che veniva dalla
piccola porta, un'involucro di carne; da questo partivano i lamenti e,
cosa strana, questi lamenti non ci parvero d'uomo; ma che lì dentro ci
fosse una donna?--accesi con mano tremante un fiammifero, mi
appressai... un urlo mi partì dalla strozza, il lume mi cadde di mano,
chè io non poteva credere a ciò che mi si parava davanti; era,
purtroppo, una povera donna colei che si lamentava in tal guisa e in
quella povera donna io riconobbi Aissa.

--Aissa, Aissa--Le dissi e fui incapace di proferire altre parole.

La moribonda mi guardò attentamente, direi quasi con ostinazione; si
pose una mano sul cuore, come per reprimerne i palpiti, stiè un poco
senza articolare parole, poi faticosamente, senza riconoscermi,
sussurrò a bassissima voce: portatemi fuori!

Interrogai con un'occhiata i compagni; vedendo com'essi erano propensi
ad esaudire quest'ultimo voto di quella bella creatura, la presi
amorevolmente pel capo, mentre gli altri adagino adagino la
sollevarono pei piedi, e la deponemmo su di un praticello, dove
l'erbetta era tutta ingemmata dalle stille della mattiniera rugiada, e
dove rimpercotevasi un vagabondo raggio di sole, che si era fatto
strada tra le nuvole che tutto ingombravano il cielo.

Aissa era rimasta prostrata; gli occhi le si erano chiusi; come era
bella!... Soffusa di un pallore che faceva apparire le di lei carni di
cera; coi magnifici capelli neri disciolti lungo le spalle, tu
l'avreste creduta l'angelo della grazia e della bellezza, morto esso
pure in tanto turbinio di barbarie! Poco più sotto del cuore, uno
straccio nell'abito, delle goccie di sangue rappreso indicavano dove
l'avesse colpita il piombo nemico! In quell'istante la si sarebbe
detta già morta, se un'anelito frequente muovendo ad ogni poco il
busto di lei non avesse ispirato la certezza, che ancora non si era
dileguato il soffio animatore di quella materia.

La discinsi; feci portare da uno dei nostri dell'acqua: con questa le
bagnai ambe le tempia, e poi colla faccia proprio sopra la sua, mi
misi a spiare il momento, in cui ella sarebbe tornata ad essere in se.

--Chiamino un medico!... Sentii esclamare una voce.

--Bravo--Gridai io in tuono d'assentimento, ma senza muovermi... e uno
in fretta e furia andò per il medico.

L'aria fresca rianimò la bella dolente; Aissa aprì le sue luci; girò
lo sguardo per le circostanti campagne e addiventò pensierosa: in quel
momento forse le tornarono in mente i molti fatti del lugubre dramma,
a cui ella aveva assistito negli ultimi giorni, mi osservò lungamente,
un sorriso sfiorò le di lei labbra sbiancate... ella mi aveva
riconosciuto.

--Vedete se ho bene adempiuto alla promessa che io vi feci a
Marsiglia.

--Ma dove siete stata ferita?

--Qui...--La rispose accennandomi, dove avevo veduto il sangue
rappreso.

--Ed è grave?

--Io credo che sia mortale... lo spero

Restai annichilito; sperar nella morte in quell'età, con quella
bellezza, con quel carattere ardente e leggiero che tanto mi aveva
sorpreso fino dal giorno che la conobbi!... Un fremito mi aveva invaso
ogni fibra, volevo persuadermi di assistere ad una allucinazione
mentale e avrei dato la mia vita, pur di non assistere a questo
tristissimo episodio, che doveva avere lo scioglimento in faccia ai
miei occhi.

--A che mi guardate così stranamente?--con voce sempre più tremula
continuò la moribonda--Oh! lo so cosa pensate tra voi!... Me lo
immagino... ma se sapeste, quanto mi sorride il lasciar questa vita,
che mi opprime come la camicia di forza del galeotto...--Oh! quante
volte ho proposto di farla finita per sempre e sul più bello mi è
mancato il coraggio!

--Ma voi non morrete--Interruppi io--voi siete sul fiorire degli anni,
siete robusta, la vostra ferita non è tanto grave...

--È mortale.. lo sento!... Non sprecate le vostre cure per me...
sentite... là... come urla quel povero soldato ferito... vedete,
scommetto che lui ha o una mamma, o una sposa... allora si soffre a
lasciare la terra, ma io... io..

--Voi potrete trovar degli amici

--Degli amici?!.. Ma dove?.. Ma come?.. Ma chi?..

--Io per esempio!

--Voi traverserete il mare, tornerete in mezzo ai cari vostri, e
presto, come tutti gli altri, vi dimenticherete di me... Noi donne
galanti, alla moda non sappiamo, non c'immaginiamo neppure l'amicizia;
l'amicizia richiede del cuore e a noi ce l'hanno strappato i signori
di cui siamo i giocattoli. Chi ci ha mai inculcata la santa religione
dell'affetto, delle fede? Chi ci ha mai rammentato di esser donne?
ripensando al passato una nube qualche volta passava sulle nostre
fronti... «Le vostre fronti son fatte per baci e per i diademi,» ci
dicevano i felici del mondo, e a noi diamanti, abiti, ricchezze...
qualche volta la miseria degli altri ci strappava dal ciglio una
lacrima. «i vostri occhi non son fatti per piangere, son fatti per
brillare di voluttà e di piacere,» ci ripetevano i nostri adoratori e
a noi le inebrianti emozioni dell'orgia. L'artigiano che ci disprezza
perché colla prostituzione si ha quello che egli non giungerà mai ad
aver col lavoro, ci addita alle sue figlie, come vampiri, come mostri
e queste ci salutano colle loro fischiate; i nostri protettori quando
si son sbizzarriti con noi vanno a cercarne delle altre, noi
ricorriamo a spese matte, a piaceri che abbruciano: i denari van via,
e viene l'età: la prima grinza fa fuggire l'ultimo adoratore e... e...
se non morissi qui, se continuassi a vivere, tra pochi anni, obliata
da tutti, morirei nel fondo di uno spedale... eccolo l'avvenire di noi
povere colpevoli coperte d'oro e di gemme! Fortuna che questa palla ha
troncato tanta colpa e tanta miseria!.. Ve lo ripeto, ve ne
scongiuro.... andate a soccorrere quel povero soldato.... forse
potrete risparmiare un gran dolore ad una povera madre, pensate alla
vostra che ora prega per voi in Italia... Oh se avanti di morire il
Cielo volesse concedermi là santa voluttà di una lacrima!

Le mani d'Aissa cominciavano ad agghiacciarsi, e posandosi sulle mie,
mi producevano la medesima impressione, come quando si tocca una
serpe.--Oh!.. un tempo... io ve lo voglio dire... un tempo io non era
cattiva!--La proseguì con tuono più flebile--Amai troppo, credei
troppo... e ne ho scontato anche troppo la pena. Ah! avessi dato retta
alla mamma... fatemi il piacere, levatemi dal seno, la crocellina che
è attaccata a questo piccolo nastro., ce la conservo da tanto tempo e
quando i miei amanti ci ridevano sopra, io correva a nascondermi e la
baciavo, la baciavo colle lacrime agli occhi e col cuore che mi si
stringeva dalla pena... vi raccomando di lasciarmela indosso anche
quando sarò morta: è il più caro ricordo che io abbia... l'ebbi da
lei, una sera, una bella sera di estate: eravamo sull'aja, e ci era
stato il prete a benedire il ricolto; l'immagine della madonna era
illuminata, un'andirivieni di lucciole faceva sembrare illuminate
anche le siepi, i contadini cantavano le litanie, io accarezzavo il
vecchio Bibi perché non abbaiasse; la mamma, finita la preghiera, mi
venne vicina, mi baciò e mi attaccò al collo questa crocetta... da
quella sera non lo ho più abbandonata e quando ero per darmi in
braccio alla disperazione, quando dentro me meditavo qualche vendetta
terribile, quando avevo commesso una colpa, guardavo quella crocetta e
mi tornavano in mente l'aja, il prete, le litanie, il vecchio Bibi, i
bei tempi insomma in cui ero giovine, in cui ero buona, e vendetta,
disperazione, come per incanto, sparivano, e le colpe mi sembravano
meno gravi, perché mi sembrava vedere la mamma che pregava per me, che
sorridente additavami il cielo... quel cielo che si acquista soltanto
coll'espiazione, e colle sofferenze.

Lo spirito che aveva animato quella donna a proferire il lungo
discorso, via via che la parlava sembrava che l'abbandonasse;
l'affievolita voce, il faticoso respiro che aveva preso tutte le
parvenze del rantolo mi convinsero che ormai niente vi era da sperare,
che oramai gli istanti di quella vaga creatura erano contati!

La squilla della vicina parrocchia di Fontain si fè modestamente
sentire; i tocchi di quella campana mi scesero in cuore mesti, siccome
la preghiera pei moribondi: traversò il viottolo a noi vicino una
vecchia cenciosa che portava per mano un ragazzo...--Nonna--disse
quest'ultimo--cosa fa tutta quella gente sdraiata?--Povero
bimbo--rispose la vecchia--quelli che vedi son morti--E non si
risveglieranno mai... mai più?... Mai più! Il bambino chinò gli occhi
e poi si rimpiattò nel fossato... intanto uno stormo di corvi
volteggiò intorno a noi!... la nonna si mise in ginocchio e pregò: il
fanciullo urlava e piangeva!

Uu prete col brevario sotto il braccio si avvicinò, quasi pauroso,
alla moribonda: io gli additai la crocellina che essa si era portata
alle labbra, egli se ne andò, al soldato che era per morire poco
distante da noi, ed intuonò ad alta voce le preci dei moribondi.

Cessa, o prete, dalla stolta cantilena; tu per il primo, dando
un'occhiata all'intorno, devi convincerti di quanto le tue preci sono
bugiarde! Se fossevi un Dio, potrebbe egli permettere un tanto
massacro?... È vero che voi, sacerdoti l'avete chiamato Sabbaot, il
Dio degli eserciti e delle battaglie; è vero che a lui in altri tempi
avete offerte vittime umane; è vero che nel suo santo nome avete fatto
sgozzare dai vostri sicari le donne e i fanciulli a Perugia, i giovani
generosi a Mentana, i padri di famiglia nelle mura stesse di Roma; ma
è vero puranche che i popoli hanno pieno diritto d'odiarlo e
d'abbatterlo, schifati alla idea delle carneficine che voi avete
perpetrato nel nome di lui, schifati all'idea del privilegio e della
rapina che avete benedetto, e resi sacri sotto la protezione di questa
divinità, che, onnipotente, avrebbe creato il male. O prete, se tu
fossi convinto, agiresti in altra maniera: cessa adunque dall'ipocrita
prece: noi, come te, non crediamo al tuo Dio!

Gli stormi dei corvi raddoppiavano; la nebbia sollevandosi a poco a
poco dall'estreme linee di quell'estesa pianura aveva offuscato il
sole e i grandi alberi della strada maestra in quell'incerto barlume
sembravano giganti che osservassero con fiero cipiglio quella scena
d'orrore: dei carrettoni traversavano innanzi a noi, come una triste
visione di mente impaurita; questi carrettoni erano colmi di cadaveri
e i carrettieri, sferzando i cavalli, fischiettavano le ariette dei
villaggi natii; ogni tanto qualche lurida faccia, tale da farti
ribrezzo solamente a pensarci, appariva in mezzo ai solchi, nei
cespugli, tra le siepi, disopra al ciglione dei fossi, che non pochi
erano quelli che giravano per frugare i cadaveri.

Aissa mi strinse forte forte la mano; parve che a furia di baci
volesse divorare la crocellina: si sforzò di richiamare sulle labbra
un sorriso e gli occhi invece le si empirono di lacrime, proferì
mestamente: a rivederci, chinò il capo, sembrò addormentarsi, e si
addormentò difatti per non destarsi mai più.

Il bambino si era fatto animo, era saltato dal fosso ed era venuto a
vederla, la volle toccare con infantile curiosità; la sentì fredda
come una pietra, e rimase impietrito; il prete e la vecchia
continuavano a biascicare orazioni, e i corvi si erano tanto a noi
avvicinati da sfiorarci il capo con le nerissime ali.

Nello stesso tempo esalava l'estremo respiro il soldato vicino,
susurrando a fior di labbra il gentil nome di Greetchein.
Greetchein!... Mi passò innanzi alla mente la poetica creazione di
Göethe e vidi in un remoto abituro una bionda fanciulla che in quel
momento fissando il cielo, pregava per l'amico lontano e che già
pregustava le gioie inenarrabili di un sospirato ritorno, che
l'affetto immenso di vergine suole ispirare fiducia; l'amico lontano
muore invece esecrato da tutti; muore in terra straniera, in terra che
egli calpestò vincitore e su cui battè prepotentemente la sciabola;
muore proferendo il nome di lei, senza che alcuno possa portarle
questa notizia, che le sarebbe non lieve conforto nelle future
afflizioni. Vestiti a bruno, o bionda fanciulla, ed impara ad esecrare
i tiranni: vestiti a bruno e grida insieme con me: Maledetta la
guerra!

Come erano belli quei due cadaveri!... Tutti e due erano morti,
ispirandosi a reminiscenze soavi... tutti e due assorti nell'ideale
sorridendo eran morti!... Io correva dall'uno all'altro, mi chinavo su
loro, li contemplavo, avrei voluto trasfondere nel suo corpo il mio
spirito vitale onde di nuovo animare tanta gioventù, tanta forza,
tanta bellezza... mi sembrava che il cervello avesse a darmi volta: i
miei compagni mi trascinaron via a forza dal triste spettacolo: quando
rinvenni dallo stupore aveva fatto più che mezza strada per arrivare a
Digione. La febbre mi aveva occupato tutte le membra.

--Và a letto--Mi dissero.

--Sì--Risposi, deciso di dare ascolto a un tal consiglio e lasciai gli
amici.

Arrivato appena in città trovai alla porta del quartier generale
Materassi, Piccini e alcuni altri.

--Vieni con noi--Mi dissero.

--E dove?

--Si va a vedere i morti che hanno già portato in città... chi sa che
non rinveniamo, il cadavere di qualche amico, di qualche conoscente.

Quantunque la scena a cui ci si preparava ad assistere offrisse una
prospettiva tutt'altro che ridente in special modo per un'ammalato,
come ero io, un po' per bruttissima curiosità (ripeto ai lettori che io
non bramo di farmi meglio di quello che sono) un po' per non sembrare
da meno degli altri, un po' per una vaga speranza di ritrovar forse una
memoria da consegnare ai parenti lontani di qualche estinto, seguii la
comitiva che si accingeva a questa visita lugubre.

Durante il tragitto, mi fu raccontata la storia luttuosissima del
capitano dei Franchi Tiratori, rinvenuto cadavere e tutto bruciato nel
castello di Poully. Garibaldi aveva ordinato un inchiesta su tale
nuova barbarie: io qui non voglio discutere, nè avrei dati bastanti
per farlo, se sieno o no vere le spiegazioni, che pretese dare il
Governo Prussiano con una nota pubblicata su quasi tutti i giornali
del mondo: quello che è certo si è che l'ufficiale aveva le mani
legate, che covoni di paglia già incendiati erano a poca distanza da
lui e che l'infelice, come ben si può osservare dalla fotografia, era
tutto coperto d'ustioni, all'infuori del capo. Con ciò non intendo
lanciare un'accusa generale a tutto il popolo Germanico; il soldato
abbrutito nella caserma, a qualunque nazione appartenga, spesso e
volentieri cessa di essere un uomo per addiventare la belva la più
sanguinaria.

Passata di poco la porta Sant'Apollinare, avanti di giungere alla
barriera vi è il convento dei Cappucini: ivi erano stati messi i
cadaveri, forse perchè si potessero riconoscere a bell'agio dagli
amici. Prima d'entrare la nostra vista fu dolorosamente colpita da due
carrettoni, zeppi di morti Prussiani; quale di questi ciondolava una
gamba, quale una mano; l'insieme ti offriva l'idea di una gran
montagna di carne; il pavimento era tutto cosperso di sangue, che
alcune ferite tuttora gocciavano.

Entrammo in una piccola stanza; sopra due tavoloni erano stesi una
ventina di Garibaldini, tutti privi di vita; tra questi lo Squaglia,
sorridente come vivesse tuttora; la maggior parte mancava di
qualchecosa di vestiario: gli avvoltoi della gloria, avevano, come
pocofà si è veduto, fatto man bassa sulle più piccole inezie, purché
vi fosse da ricavar qualche soldo. Noi procedevamo in silenzio: solo
il Piccini, incaponito di ritrovare il Rossi, esaminava ad uno ad uno
i cadaveri, passava per far più presto disopra alle tavole, sempre con
viso imperturabile, e con un sangue freddo da essere ammirato.

La seconda stanza era grandissima: avrà contenuto più di settanta
morti, disposti non colla medesima precisione di quelli che giacevano
nella prima; qui vi erano Guardie Mobili, Franchi Tiratori,
Garibaldini ed anche qualche Prussiano: vedemmo tra gli altri il
povero Pastoris col cranio tutto fracassato; il prode maggiore era
stato spogliato fino della camicia; questa profanazione mi fece
ribrezzo, e aggiunta al desolante spettacolo a cui fino dal primo
mattino assistevo, ebbe potenza di farmi rinforzare la febbre, che
credevo di aver fugata; frequenti brividi lungo le reni, mi rendevano
omai più che certo di questa nuova peripezia che veniva a
conturbarmi.

Ci fu impossibile ritrovare il Rossi; domandammo schiarimenti ai
guardiani e questi ci risposero che forse la salma del nostro amico
doveva essere nella stanza di quelli che erano morti di vaiolo.

Avanti di partire non potei fare a meno di rivolgere uno sguardo a
tutta quella gioventù, che si era dileguata come una meteora nel
cielo; un raggio di gloria, uno sprazzo di luce eppoi il nulla. Quante
illusioni, quante speranze, quanti pensieri non si erano spenti, per
sempre in quella clade sanguinosissima! Chi sa che tra quelli non vi
fosse uno nato a creare qualche nuovo ordinamento sociale, e che
invece finirà per procreare un cavolo, una pianta d'ortica? Felice
lui! che, se grande fosse riuscito realmente, avrebbe imprecato alla
vita, angariato dai ghigni e dalle calunnie dei contemporanei. Quante
madri, quante sorelle abbrunate--pensavo dentro di me e continuando a
guardare i cadaveri, sentivo commuovermi non tanto per loro, quanto
per le care persone che avevano lasciato.

La democrazia Italiana, credo bene ripeterlo, ha lasciato un degno e
glorioso contingente sui campi di Francia; la democrazia Italiana,
come sempre, anche nel 1871 ha immolato al principio repubblicano, i
cuori più giovani ed entusiasti, le immaginazioni più fervide, le
intelligenze più belle. Una pleiade di generosi scompare ogni volta
che la coscienza dell'umanità si risveglia, ogni volta che si
traducono in atto le sante credenze, le così dette utopie dei pochi
ispirati che ci han preceduto: solo col sangue rinvigoriscono le idee.
E sangue di eroi onorò le strade ed i campi dell'ubertosa Borgogna, e
una pleiade di magnanimi figli d'Italia scomparve, lasciando di se
imperituro ricordo in chiunque abbia il core informato al gentil culto
delle azioni generose. Perla, Pastoris, Settignani, Cavallotti,
Ferraris, Gnecco, Imbriani, Zauli, Salomoni, Canovi, Zerbini,
Anzillotti, Caimi, Ricci, Giordano, Valduta, Resegotti... dall'Alpi
all'estrema Sicilia la calunniata Penisola ebbe un figlio, per ogni
città, per ogni paese, da offrire in olocausto al sacrosanto
principio. Firenze ebbe nove morti: Rossi, Squaglia, Viti, Aterini,
Carli, Pini, Scali, Cortopassi e Signorini; la vicina Pistoia su sette
volontarii ebbe a piangerne quattro: Biechi, Ferrarini, Bongi e
Lanciotti. Se io avessi appunti precisi, vorrei citar tutti i martiri,
e ben si avvedrebbero gli odierni politicanti di Francia, i generali
famosi, allora rincatucciati per la paura, e in oggi spavaldi, ben si
avvedrebbero, dico, che l'italiana democrazia non mancò al proprio
dovere e che, superando ostacoli a lei frapposti dalla mancanza di
mezzi e dalla vigilanza la più sospettosa del timido governo del re,
corse volenterosa all'appello.

Ed i Digionesi con quel buon senso che suol distinguere i popoli, non
tardarono a esserne più che convinti ed a dimostrarcelo con ripetuti
segni di sincera affezione.

Nel ridurmi a casa difatti ebbi la prova più luminosa della fiducia
generale che si nutriva in Garibaldi ed in noi; dappertutto non si
faceva che domandar notìzie e porgere elogi all'eroico Ricciotti e
alla sua valorosa brigata; i nomi di Menotti, di Canzio volavano
accompagnati da lodi, per tutte le bocche; e le donne con quel
sentimento gentile, che ci rende caramente diletto quel sesso che,
sembra, esser stato messo quaggiù per asciugare le lacrime e per darci
un pietoso conforto in mezzo alle disillusioni e all'affanni,
accoppiavano a questi nomi, omai resi gloriosi, quello non meno caro,
quantunque modesto, di Teresita.

È stato detto che la superstizione è la poesia dell'ignoranza: io,
quando vidi in capo alla strada, dove abitavo, le donne affollarsi a
pregare davanti a un'immagine, per Garibaldi, per noi, per la Francia,
aspirai tutto il profumo di questa ingenua poesia, e rimasi a
contemplare estatico quel gruppo, che avrebbe offerto a un pittore un'invidiabile quadretto di genere, e che a me offriva un certo tal qual
refrigerio di cui non so farmi ragione.

Il male però progrediva spaventosamente: mi martellavano le tempie;
avevo perduto la voce, le gambe mi reggevano appena. Passando dalla
bottega della tabaccaia, vi entrai, e mi buttai rifinito su di una
seggiola.

La graziosa fanciulla, affidata alle cure della bottegaia, si svestiva
in quel mentre della sua cappa di appartenente all'ambulanza; aveva
già visitato tutti gli ospedali della città, aveva già fatto amicizia
con tutti i feriti Prussiani: mi disse tutto questo d'un fiato, senza
che la potessi interrompere; quando io cominciai a parlare, la buona
ragazza sentendo la mìa voce roca, esaminandomi fissamente nel volto,
con tono affettuoso mi disse: Ma voi avete bisogno delle mie cure...
voi siete malato.

--Che... non è nulla!

--Oh voi dovete curarvi... andare a letto!

--Vi pare... qui... in faccia al nemico...

--Il nemico ha di catti a rifarsi di forze, e credo che non avrà
intenzione di riattaccare.

--Ammettiamolo pure: Ma che vorreste... che io passassi uno, due,
forse tre giorni solo, come un cane?...

--Siete ingiusto... voi dimenticate gli amici...

--Son tutti occupati...

--E... le amiche? Ficcandomi gli occhi negli occhi proferì la ragazza.

--Le amiche!

--Sì andate ed ei vi prometto di venirvi a far visita, di passare la
maggior parte della giornata da voi.

--Davvero?

--Sul mio onore... via, via andate... non fate il bambino... il vostro
sarebbe un eroismo inutile...--E tanti altri bei discorsi, che uniti
al male che mi sentivo in dosso, e alla voglia di aver dei colloqui
intimi con quella gentile infermiera, di cui avevo imparato ad
ammirare il carattere, mi persuasero a cacciarmi nel letto, deciso
però di non badare a prescrizione veruna del medico, o di chicchessia,
qualora avessi udito suonare a raccolta le trombe, o tuonare il
cannone.

Dopo poco ero a letto; a letto, con una tazza di tisana a me vicina
sul comodino, apprestatami dalla mia gentilissima ospite.



CAPITOLO XVIII.


Se il trovarsi ammalato lontano dai suoi, in terra dove siamo
sconosciuti, nella solitudine, che, a detta di Pascal, fa giocare
persino alle carte con se medesimi, in generale è una disgrazia, godo
nel dire che io feci eccezione alla regola. La solitudine che io
temeva, non l'ebbi a provare che in qualche momento, gentili premure,
assistenza più che fraterna, riguardi inconcepibili non mi fecer
difetto ed io serberò riconoscenza indelebile per le generose creature
che, ispirandosi al santo amor della patria e dell'umanità, con le
loro attenzioni resero meno tristi le travagliate ore di un povero
malato. Se questi miei ricordi varcassero le Alpi, io l'avrei caro
soltanto per mostrare ai miei pietosi assistenti che sotto la camicia
Rossa del Garibaldino non batte il cuore di un ingrato, ma che, finché
campa, egli serba una soave reminiscenza di chi gli fece del bene.

Appena da un'ora ero in letto, quando capitò la mia vaga vicina in
perfetto abbigliamento da infermiera: andò al camminetto, attizzò il
fuoco e mi preparò della nuova tisana; poi mi disse che più tardi
avrebbe portato anche il medico, e cominciò a tirar fuori boccette
d'essenze, scatole di pasticche e, quel che più m'importava dei
libri... e che libri!... Le poesie di Alfredo di Musset e un paio di
romanzi di Walter Scott; un libro è un grande amico nella solitudine
ed io salutai quei libri con la medesima gioia con cui si salutano gli
amici più cari.

Per quella sera però non potei leggere: le palpebre mi si erano
appesantite: un sonno profondo, prodotto dalle febbre, mi rese inerte
durante tutta la notte. Al mattino stavo un pò meglio; pregai
Materassi e Bocconi che stavano di casa con me di tenermi informato a
puntino di quanto sarebbe successo, e di non por tempo in mezzo per
venire a avvisarmi, se vi fosse stata la probabilità di un nuovo
attacco. Cosa d'altronde poco probabile, chè i Prussiani ne avevano
buscate anche troppe!

Erano trascorse due ore buone e nessuna notizia erami per anco
arrivata: io tentava, per passare il tempo di legger qualchecosa, ma,
quantunque ciò che leggevo fosse bellissimo, il mio pensiero volava
lontano lontano, nientemeno che fino a Firenze. I miei occhi
percorrevano macchinalmente quelle linee stampate, le mie mani sempre
macchinalmente sfogliavano quelle pagine, ma io non mi occupava per
nulla di ciò che credevo leggere, che anzi leggevo di certo. Pensavo
alla mia povera mamma già morta: chi le avesse detto, quando proibiva
al bambino di correre, di pigliar fresco, di saltare, chi l'avesse
detto che il bambino diventato uomo, si avesse a trovare nella
situazione nella quale mi trovavo io in quel momento?... Povere
mamme... povere le vostre cure!... sarà una stranezza la mia: ammiro
la donna spartana, ma anco molto di più la povera vecchia che, da vera
bacchettona, si strascina a malapena a un'altare, onde implorar dal
Cielo che mai certe ideacce frullino nella mente di quel figliuolo, a
cui vol tanto bene... Eppoi la solitudine mi spaventava.--O cosa fanno
tutti i miei amici?.. Perche non vengono?... E se si battessero?... Oh
così la non può durare... oh! molto meglio una palla e farla finita
per sempre!...

Fu bussato dolcemente alla porta. Quale non fu la mia sorpresa,
quando, dopo aver detto: entrate, io vidi comparire in compagnia della
vecchia padrona, due graziose figurine, di donna degne proprio
dell'elegante pennello dell'ispirato Wattau.

Le principesse invisibili si erano finalmente degnate di scendere
dall'Olimpo per visitare un mortale... quelle due signorine erano le
figlie del proprietario del nostro ricco palazzo: le medesime, per
veder le quali avevamo tanto almanaccato nelle molte ore d'ozio che
avevano preceduto le tre giornate di combattimento. La fama questa
volta non era bugiarda; vi assicuro che erano proprio carine; modeste,
educate, geniali... tanta fu la mia sorpresa che non sapevo cosa dire,
e sul primo devo aver fatto la figura del collegiale più candido che
sia mai scappato dall'unghie dei reverendissimi maestri.

Si trattennero una mezzora; dissero, secondo il solito, ira di Dio dei
Prussiani, canzonarono i _moblots_ inalzarono al cielo i Garibaldini;
parlarono dell'Italia e del desiderio intensissimo che aveano di
vederla, mi fecero con mille moine trangugiare altri due bicchieri di
tisana, e protestando di non volere più oltre importunarmi, si
accomiatarono, promettendomi di tornar la sera a farmi visita.

Ero tutt'ora sotto la dolce impressione di questa visita inaspettata,
quando con strepito immenso entrò Materassi, seguito da uno sciame di
Guide.

--Notizie?--Domandai subitamente.

--Nessuna.

--La cronaca del giorno?

--Ah... La Corte Marziale ha condannato a dodici anni di galera una
guardia mobile che non ha voluto ricevere un'ordine dal suo tenente.

--Hai detto una guardia mobile?--Benissimo!... Meglio in galera che
averli tra i piedi!

--Approvato--Urlarono tutti.

--Di più--Continuò il Materassi--Sembra che i Prussiani marcino su
Dòle... tentando così di prenderci in mezzo...

--O di avere altre briscole!

--Speriamo che debba succeder così! Del resto per oggi puoi restar
tranquillamente a letto; da tutti i lati della città per ben molte
miglia è impossibile rintracciare un Tedesco, e noi siamo venuti qui
per far l'ora di andare al trasporto di Ferraris... credi che per oggi
non ci è timore di alcuna cosa!...

Dopo poco entrarono in camera mio fratello, i due Piccini e vari
altri; si poteva creder benissimo di essere in una caserma; per
ammazzare il tempo vari si posero a giocare alle carte: alcuni altri
chiesero aiuto alle muse, e si misero a sciorinare ottave, sonetti,
rispetti con una facilità più che Arcadica. Fra le altre birbonate,
sentii un rispetto non molto bruttaccio, e lo regalo ai lettori, se
non altro onde mostrare che a tu per tu colla morte, colla corte
Marziale, e col linguaggio barbino dei superiori e dei regolamenti,
qualcuno alla meglio o alla peggio trovava il momento di dedicarsi
alle arti gentili. Il rispetto era dedicato ai Franchi Tiratori, a
questi Beniamini della situazione. Eccolo:

    *Son della patria un Franco tiratore
    E vo pei monti a caccia dei Prussiani:
    Amor mi spinge contro all'oppressore,
    Amor dei cari miei, che or son lontani:
    Tra il fragor dei fucili e del cannone,
    Siccome a nozze, corro alla tenzone:
    Venga l'Ulano dall'acuta lancia...
    Io non ritiro il piè... Viva la Francia!
    Vengan di Prussia i difensor più saldi...
    Io qui l'attendo... Evviva Garibaldi!*

Ogni tanto la padrona di casa, veniva a pigliar mie notizie, dava un'occhiata a quei gruppi e se ne andava proferendo con amabil sorriso:
_Oh les braves garcons!_

L'ora di assistere alla cerimonia pietosa in onore del compianto
Ferraris si avvicinava a gran passi, e i miei amici mi lasciaron solo
di nuovo: questa partenza che lì per lì mi uggiva non poco, doveva
procacciarmi un paio d'ore di felicità, se almeno la felicità si
valuta dalla maggiore o minor prestezza con la quale volan gli
istanti... quelle due ore mi sembrarono infatti appena un minuto, ed
eccone la ragione.

Leggevo con più attenzione del solito una delle più bella poesie del
Musset, poesia un po' materialista, se vogliamo, ma non per questo
meno ispirata; il fino contorno di una gamba elegante, ed il piccolo
piede di una figlia d'Eva, attraente come la colpa, erano ivi
tratteggiate con una finezza indicibile dal poeta più simpatico della
Francia moderna: il mio pensiero vagava per orizzonti tutt'altro che
Platonici e la mia immaginazione esaltata riandava i bei piedini ed i
fini contorni di certe gambe, che lo zeffiro compiacente come un
ufficiale d'ordinanza di un re, tante volte aveva svelato al povero
_bohème_ che dalla porta di un caffè vede a trasvolarsi davanti, come
una visione, le belle del mondo privilegiato.

Leggera quasi farfalla, senza che io la veda, si è avvicinata al mio
letto la gentile infermiera, la pietosa visitatrice di tutte le
ambulanze: Essa mi guarda in silenzio; alla mia volta io la guardo e
sto zitto. Per cotesto, si principia benino!

Finalmente lei rompe il ghiaccio, e colla sua vocina simpatica la
comincia: Non ho potuto portare il medico, come vi avevo promesso.

--Non importa...

--Vi sentite meglio?

--Tanto meglio che domani mattina esco di casa.

--Voi non commetterete questa pazzia! Ve lo proibisco in nome di
vostra madre... pensate alla povera donna che forse vi aspetta...

--Mia madre è morta! Proferisco un po' commosso all'evocazione di tale
ricordo..

--A vostro padre...--Continua più affettuosamente la cara fanciulla.

--È morto!--Replico in tuono brusco

--Dunque siete orfano?..

--Purtroppo!

--Avrete una bella però?... confessatelo?

--No.

--È impossibile!

--Ve lo garantisco.

Osservo che la mia interlocutrice arrossisce molto facilmente ed ha un
nasino _rétroussé_ graziosissimo.

Altri due minuti di silenzio.

--Ebbene vi farò da sorella. Come vi chiamate?

--Ettore.. e voi?

--Luisa!

--Ho appunto una sorella che si chiama come voi.

--Benissimo!.. Allora ci faremo confidenze reciproche.

--Va bene?

--A meraviglia! Cominciate voi, che mi avete fatto tante domande e
rispondetemi a tuono... E voi...?

Non mi azzardo a continuare, ma l'altra capisce alla prima e volendo
soddisfare a quel sentimento di vanità, prerogativa del sesso debole
in generale e delle Francesi in particolare, si affretta a
rispondermi: Ah!.. Io appena sarà finita la guerra ho da essere
sposa..

--E chi è il fortunato?..

--È... Ve lo do a indovinare tra mille...

--Non saprei... qui non conosco nessuno.

--È nientemeno che un ufficiale Badese.

--Un vostro nemico?

--Io non ho alcun nemico.

--Ma... che so io... un oppressore.

--Che ci han che fare quei poveri diavoli!.. Oh! sentiste come la
pensa anche lui!... scommetto, che se vi avvicinaste, in pochissimo
tempo diventereste amici del cuore. È tanto buono, è così generoso!

--Sarà.. ma dove l'avete conosciuto?

--Qui all'epoca dell'occupazione: egli mi chiese in tutte le regole ed
io acconsentii.

Cosa strana, egoistica, tutto quel che volete! Io non sentivo nulla
per quella donna, ma provai dispetto ad udir quella confessione, che
così ingenuamente venivami fatta: per cui non potei fare a meno di
diventar brusco; Luisa se ne avvide e per placarmi si chinò su me e le
di lei labbra sfioraron le mie; non l'avesse mai fatto!.. un fuoco di
fila di baci, tutt'altro che fraterni, echeggiò sotto il padiglione
nuziale che adornava il mio letto. Povero ufficiale Badese, io mi
prevaleva un po' troppo dei diritti del vincitore, ma ora ti auguro un
brevetto di colonnello, una croce dell'aquila nera, un'eredità di un
mezzo milione, purché tu renda felice la mia assidua assistente!

Era tanto carina, quando partì, imbacuccata nel suo _water-proof!_
Giunta alla porta tornò indietro, si levò di tasca una medaglina, me
l'attaccò al collo... io la lasciai fare: era una medaglia della
vergine madre... oh! religione!... Eppure non ho mai abbandonato quel
microscopico pezzetto d'argento: non fremano i liberi pensatori: io
tengo molto alla religione... dei gentili ricordi!

Partita lei, tornarono le padroncine e insieme alla vecchia vollero
servire il mio desinare da ammalato: le più squisite galanterie, che
l'arte e l'umana ghiottoneria hanno inventato pei convalescenti, mi si
portarono davanti; a siffatta gentilezza, a vedere intorno a me le due
creaturine che sembravano angeli, mi vennero le lacrime agli occhi.
Gli spiriti forti hanno poco da ridere: Campanella, il quale non era
certo un debole nè una donnicciola, rifugiatosi a Marsiglia per
sfuggire alle persecuzioni ha confessato di aver sostenuto a ciglio
asciutto prigionia e tortura e di aver pianto sperimentando l'opera
benefica dell'illustre Pereiscius che l'ospitò: ed io che avevo non un
Pereiscius, ma delle donne e molto belline, per ospiti e che ancora
non ho provato torture, potevo piangere come il celebre perseguitato
dalla Corte di Roma.

«Cosa bella e mortal passa e non dura». La campana dei vespri mi rapì
la genial compagnia: in quella famiglia erano religiosissimi, come in
quasi tutte le famiglie delle classi aristocratiche e borghesi di
Francia. Mai ho maledetto San Paolino di Nola e la sua sconsacrata
invenzione delle campane, come lo feci in quella sera.

E a rincarar la dose del mio malumore, capitarono gli amici. Avevano
accompagnato la salma del Ferraris, ma, colla teorica degli antichi
Romani, dopo i funerali erano andati alle mense, e ciò si vedeva
chiaramente dalle accese loro fisonomie, dal lor modo di muovere i
passi.

Il Piccini entrò traballando, e parlando un francese che non si capiva
nè da Italiani nè da Francesi: ogni poco interrompeva il bisticcio per
vociare: _le saucisson de Lyon... en avant Garibaldiens_... Cosa
credeva di dire, non giungemmo mai a capirlo nemmeno da lui!... Il Dio
Bacco l'aveva inalzato, a dir poco, alla ventesima potenza
dell'ebrietà, e quando si mise a sedere attaccò un tal sonno, che per
portarlo via ci vollero persino dei pugni.

Giunsi a comprendere in tanto baccano che il funebre trasporto era
stato imponentissimo e che Canzio aveva proferito generose e ben degne
parole sulla tomba del figlio prediletto della democrazia Torinese.

Dopo aver rimesso un polmone, o poco meno, per mandar via di camera
tutti quegli indiavolati mi addormentai saporitamente... Con poche ore
di riguardo e di calma il mio male era passato.



CAPITOLO XIX.


Non ascoltando i consigli degli amici, io me ne andai il giorno dipoi,
secondo il solito, al quartiere, e secondo il solito, non vi rinvenni
alcuno. Facendo necessità virtù, mi misi a girellar per la piazza,
molto più deserta dell'ordinario. I volontarii erano stanchi e dopo
essersi battuti, come leoni sul campo, avevano anche ragione, se
voleano riposarsi: si sapeva che i nostri esploratori erano giunti
fino a Messigny senza rintracciare il più piccolo vestigio
dell'inimico, e il Garibaldino ha un'avversione pronuziatissima per
far l'eroe per chiassata. Tutti coloro che han fegato sono
scansafatiche per eccellenza: può sembrare alla prima un'assurdo, ma
ho provato che è vero.

Dopo poco rintoppai il nostro tenente Ricci, che aveva domicilio e
stanza d'ordini su quella piazza.

--Il generale è contentissimo di voi--Mi disse con la soddisfazione
sul volto--Dovreste fare un ordin del giorno?

--Chi?... io?

--No... Miquelf...

--O non sei tu il comandante il deposito?

--Che deposito d'Egitto!--e qui una bestemmia in Romagnolo--io non ne
voglio saper nulla... che faccia lui, che sa tutto--e qui una litania
d'improperi alle spalle del sottotenente.

Era sempre così; una lotta continua, un ricambiarsi perpetuo
d'impertinenze, che ci facevano godere amenissime scene: Miquelf non
sapeva l'Italiano, il Ricci non conosceva neanche di vista il
Francese, per cui noi si rideva e le cose del deposito andavano a
vanvera.

Dopo essermi assicurato che nulla di nuovo eravi al quartier generale,
lasciai il mio tenente, e presi la _Rue Condè_.

Vidi alle cantonate delle città una nuova sentenza della corte
marziale; questo tribunale, istituito dal dittatore Gambetta,
continuava a terrorizzare l'esercito, e solo, mercè l'influenza
benigna di Garibaldi, ora si addimostrava assai più benevole di quando
fu impiantato; sul principio non erano che sentenze di morte: per il
nonnulla più piccolo non si esitava a decretare la fucilazione di un
soldato: in Autun fu ucciso perfino un volontario, che, affamato,
aveva rubato una gallina... A Digione per colpe così gravi, ci si
contentava di mandar l'uomo in galera! Lo spirito bizzarro dei
Garibaldini però aveva ridotto a materia di scherzo questo tribunale
il cui nome faceva venir la pelle d'oca ai birbanti. Il gran giudice
veniva chiamato _Bertoldino_: il codazzo dei sommi consulenti erano
additati come le comparse della giustizia, o come le guardie di
sicurezza della libertà. Guardia di sicurezza nel linguaggio di uno
scavezzacollo significa, un animale irragionevole che ha del
pagliaccio e delle birbante, del coniglio e dell'uccello da preda,
sempre ridicolo e spregevole specialmente poi quando vuol fare l'eroe.

Leggevo la sentenza, quando mi sentii battere sulla spalla e vidi Tito
Strocchi con un berrettino da sottotenente.

--Mi rallegro!--Esclamai, stringendogli la mano.

--Cosa vuoi?! Bisogna rassegnarsi: con questo alluvione di gradi non
ci è ombrello che tenga.

--Ma tu te lo meriti--Interruppi io, volendo far rimarcare all'amico
la sua troppa modestia--Ti hanno promosso per il tuo contegno del
ventitrè?

--Sì... anzi volevano in tutti i modi portarmi da Garibaldi, ma io mi
vergogno.

O anima eccezionale!... O vera mosca bianca in quel turbinio di
ambiziosi sfacciati!... Il vero merito è modesto, ed è abbastanza
soddisfatto dalle voce della coscienza. Battano pur la gran cassa i
ciarlatani e gli eroi di professione, facciano pubblicare ai quattro
venti le loro mirabili gesta, chi ha fatto realmente il proprio dovere
non si cura se l'opinione pubblica fischi od applauda, troppo è
convinto che quest'opinione ha avuto sempre un ghigno per il grande,
una lode e un'applauso pel miserabile.

*Digione era allegra: un'insolito viavai di gente percorreva le
strade: le donne venivano sull'uscio delle botteghe per vederci
passare e tutte avevano un sorriso, un complimento per noi... per
niente non avevamo debellato i più celebri soldati della Pomerania!...
Oh! giorni!... O dolcezze perdute, o memorie!... Dirò con quel povero
Renato così tradito dalla moglie e da Piave!

Vicino alle caserme osservai un'affaccendarsi e un movimento
indicibile. Si temeva forse che i Prussiani ci riattaccassero? Nemmeno
per sogno! Si trattava di armare tutti i soldati, a qualunque corpo
appartenessero, colle carabine _Remington_ e in quell'ora appunto si
distribuivano quest'armi.

Questo provvedimento fu commendevolissimo: con tante specie di fucili,
così differenti tra loro il provveder le cartucce per tutti, era una
cosa assai malagevole: di più, mi pare averlo detto altra volta, le
carabine _Wincester_ esigevano una pratica d'armi, una avvedutezza in
chi le possedeva, come non si può che raramente trovare in un corpo di
giovinetti, la maggior parte dei quali è inesperta al maneggio delle
armi; nè minori cure esigevano le _Spencer_, per cui si trovò nei
combattimenti chi dopo tre o quattro colpi si ridusse
all'impossibilità di tirare. Il _Remington_ non offre difficoltà
alcuna, nè alcun pericolo in chi lo maneggia. Il provvedimento adunque
fu magnifico: peccato che fosse preso, quando, pur troppo, non aveva
ad esservi alcun bisogno di armi. È una cosa buffa: Mi rammento che
anche in Tirolo si cominciò a cambiare gli schioppettoni dei
volontarii in buone carabine di precisione, quando era già segnato
l'armistizio. Son le solite cose che toccano a quel povero uomo di
Garibaldi.

Al quartier generale mi si notifica che dopo tre giorni è stato
rinvenuto il cadavere del prode Bossak, e che gli si apprestano
funerali solenni: non funerali preteschi, veli, che di tali
sciocchezze all'armata dei Vosgi non se ne facevano di certo, ma
invece un'accompagnatura con tutta la pompa che si conviene ad un
generale morto in battaglia. Al quartier generale saluto
affettuosamente il capitano Bacherucci, il cui battaglione della
legione Barelli, si è coperto di gloria a Talant, sostenendo sulle
prime ore della sera l'urto formidabile degli irrompenti battaglioni
Prussiani e scaricando fino all'ultimo colpo: fa parte di quel
battaglione anche il capitano Romanelli d'Arezzo, giovine veterano
della guerra dell'Indipendenza, e patriotta di tempra Spartana; è
l'uomo più piccolo dell'armata dei Vosgi, ma forse dei più grandi per
coraggio: mi dicono che in faccia al fuoco ha voltato il cappotto
dalla parte della fodera rossa ed in tal modo ha sostenuto per più di
mezz'ora l'ostinato fuoco di fila delle compagnie nemiche.

Un altro capitano, Nizzardo credo, che è lì con gli amici, con una
franchezza piuttosto brusca, senza conoscermi, mi stringe forte forte
la mano e mi dice: finora credevo che le Guide non fossero buone che a
farsi vedere per i caffè, o a far la corte a queste pettegole... ma
l'altro giorno, vi ho vedute come noi col fucile, tra il fischiar
delle palle, bravi figliuoli, vi rimetto la stima.

Ritrovai molto dopo questo capitano, ma, con mia grande meraviglia, lo
riconobbi accanito più di prima nel suo odio contro le Guide. Le penne
dei nostri cappelli erano il suo cauchemar. Bisogna sentire che cosa
non ne diceva!... E se la bravura del nostro corpo si doveva
argomentar dalle nostre penne, convengo che l'amico non avea tutti i
torti. Mai collezione più originale può essere veduta nel mondo! Chi
ne aveva una lunga lunga: chi così piccola che per vederla ci volevan
le lenti d'ingrandimento: chi le aveva rossa, chi nera, chi verde ed
uno perfino se l'era messa celeste: aggiungete il colore sfacciato dei
molti cordoni che ornavano la nostra uniforme, eppoi ditemi, se
capitando in pieno veglione a un teatro, non ci era proprio da
scambiarci per una mascherata.

--Se fossi io nei piedi del Generale--Borbottò lasciandomi il vecchio
ufficiale--vi pianterei tutti nel treno.

--Io mi augurai che quel vecchio non diventasse mai un pezzo grosso
nella nostra piccola armata.

Ritorno a bomba per far sapere ai lettori che la legione Ravelli, che
noi non incontrammo nel combattimento si era comportata strenuame.
Ravelli era stato leggermente ferito, erano morti gli ufficiali Giomi,
Mauroner, Falchiero, Leviski e molti altri di cui non so i nomi;
stragrandi erano state le perdite della bassa forza.

Lasciai gli amici e il capitano e mi avviai verso casa. Per quel
giorno la repubblica non era in pericolo. Mi fermai a dire due
sciocchezze con la tabaccaia; la Luisa mi rimproverò perché io era
uscito, io le accennai che ritornavo in casa; ci si bisticciò, si fece
la pace, si rise eppoi andai in camera a scaldarmi.

Non sentendo più dentro me alcun'indizio di malattia, la sera me ne
andai al solito _Restaurant_; vi entrai tristo: ripensavo che l'ultima
volta ci ero entrato insieme con Rossi!

Appena aprii l'uscio, sentii un grand'urlo un urlo, come di chi prova
paura. Mai erami successo in tutta la vita di venire accolto in quel
modo nè sapea farmene ragione, per quanto mi scervellassi. L'urlo era
stato proferito dalla proprietaria, che finora si era mostrata
gentilissima ed educatissima a nostro riguardo.

--O non siete morto?--Mi disse finalmente di dietro il banco l'ostessa.

--Ma io credo di no!--Risposi immediatamente.

--È impossibile!--Questa replicò, turandosi gli occhi, quasiché si
trovasse al cospetto di un'ombra.

Non starò a riportare tutte le spiegazioni; basti il sapere che gli
amici mi avevano dato per morto, onde assister più tardi a questa
burletta,

    «_On est toujours trâhi, què par les siens_.

Come eran lunghe le serate a Digione! Cosa fare?... Gli altri
ammazzavano il tempo col fare frequenti libazioni in onore del
generoso paese che ci ospitava e del vino che produceva: io non era in
stato di farlo: mi misi a chiacchiera colla padrona ed insieme
combinammo che le avrei insegnato la lingua italiana.

Io non so chi abbia inventato l'accento; ma vi assicuro che, se gli
arrivassero le maledizioni che dentro di me gli scagliai nel mio
periodo magistrale, egli chiederebbe un permesso al Padre Eterno per
fare una scappatina nel mondo di qua, onde sfidarmi a duello... fu una
vera desolazione!... Dite lunedì--dicevo alla mia graziosa scolara; e
lei: _Lunedi_: dite casa, e lei _casà_; in sette o otto lezioni insomma
non arrivò che a proferire la sera che noi partimmo: _Buonà serà_.
Povero fiato!... È vero che se ci si perdeva di fiato, ci si
risparmiava di borsa, e quello che nelle prime sere io ed i miei
compagni si pagava tre franchi, nelle ultime si pagava un franco e
mezzo e anche meno.

A proposito di mangiare devo far notare ai gastronomi che avessero
intenzione di andare a Digione due grandi inconvenienti: primo la
eterna zuppa, che come in tutta la Francia, si mangia
indispensabilmente, quasichè non vi fossero fabbricatori di paste:
secondo l'ora regolare, indiscutibile del _dejuner_ e del pranzo. Un
povero disgraziato che capita in città dopo le undici, abbia pure le
saccoccie rigurgitanti di maranghi, farà la fine del conte Ugolino.

Dopo aver provato all'albergatrice che almeno per ora non ero anche
morto, ce ne andammo al _café de la Paix_, dove un subisso di mobili
raccontavano _mirabilia_ degli ultimi fatti. Tra questi predominava un
capitano lungo come una pertica, elegante come un perfetto _dandy_.

--Guarda ha la croce di Mentana!--Mi dice all'orecchio il furiere
Quaranta che in quella sera ci aveva accompagnato.

--Lascialo stare--Gli risposi io immediatamente, ma conoscendo l'umor
delle bestie, fino da quel momento previdi dei guai.

Godo dire che i miei amici furono delicatissimi e che per parte nostra
non sarebbe nato certamente diverbio di sorta. Si lasciaron cadere
inosservate le solite fanfaronate francesi, si lasciò correre su certi
eroismi di cui si facevano belli questi Don Chisciotte da dieci al
centesimo; ma quando in mezzo all'attenzione generale, il gallonato
cosaccio si lasciò scappare di bocca: _Les Garibaldiens sont dès
aventuriers_, ci alzammo tutti contemporaneamente da sedere e ci
avvicinammo a questi guerrieri da caffè.

Scommetto che il capitano non ci aveva veduti: me lo fa credere la sua
fisonomia pallida e sconvolta, che fece, appena che ci vide vicini.

--_Rèpetez, Monsìeur, ce que vous aves dit?_--Urlò come un indemoniato
il Quaranta.

--_Je vous assùre..._

--_Ah.. lache_--E un potente manrovescio fe' capitombolare sotto il
biliardo lo spilungone.

Ci si era: battaglia campale: volavano banchetti, tazze, piattini: fu
rotto uno specchio e chi sa quanti bicchieri: le guardie mobili sul
primo tennero fermo, poi, peste e malconcie, se la diedero a gambe. Al
capitano fu perfino tolta la sciabola; gli fu levata dal petto la
croce e gli fu battuta sul naso. Che gusto schiaffeggiare un'eroe di
Mentana, sputare in faccia a un difensore del papa!.. E come se ne
andò scorbacchiato e confuso!... Traballava come un briaco e non si
azzardava ad alzar gli occhi. Noi eravamo rimasti padroni del campo:
in cinque avevamo messo in fuga una ventina di _moblots_. Che bella
vittoria! E dire che la padrona pretendeva che le si rifacesse le
spese dei danni, che aveale recato il combattimento!... Da quando in
qua il vincitore paga qualche cosa dopo una battaglia? Nella terra di
Brenno, si dovrebbe conoscere il tradizionale: _Veh victis_!



CAPITOLO XX.


Il giorno ventisette gennaio si presentò colla solita mancanza di ogni
e qualunque movimento strategico. Finivo di sorbire un'eccellente
tazza di caffè, quando vidi entrare nella bottega il Perelli, sergente
del nostro squadrone, un Meneghino puro sangue, impavido al fuoco,
susurrone sempre.

--_Oui ti_--Mi disse abbordandomi--Ti è passata la malattia?..

--Mi pare!

--Allora in servizio...

--Questo poi...

--Meno osservazioni...

--E che ho a fare!

--Devi portare questo plico a Fontaine, quando sei lassù, piglia pure
una cotta... te lo concedo.

--Ma dimmi perché non ci vai tu?

--Ecco lascierò il tuono di superiore e te lo chiederò in piacere...
sai quante volte ti ho risparmiato la guardia... se tu conoscessi le
occupazioni che ho!... Figurati, bisogna che contenti tre o quattro
ragazze...

--Scusate, se è poco!

--Eh!... non è niente! non fo che pigliare la rivincita di ciò che
fecero i Francesi da noi nel cinquantanove... d'altronde i Garibaldini
son troppo necessari all'Umanità e per conto mio, cerco tutte le
strade per eternarne la razza...

--Va bene... dunque parto!

--Addio!

Il plico che avevo a portare era per un certo Meyssac o Meglac salvo
errore, maggiore dei mobilizzati dell'Ain. Mi aggrego il tromba delle
Guide, un Romagnolo che ha la pretesa di far dello spirito. Infatti,
passando sotto la chiesa di _Nôtre Dame_, chiesa mezzo rovinata, la
sbircia ben bene eppoi dice: I Francesi non credono alla verginità di
Maria...

--E perchè?

--Perchè in tal caso la chiamerebbero _nôtre demoiselle_!

Chiedo scusa ai lettori per il disgraziatissimo tromba.

Passammo la barriera e rivedemmo quei luoghi tanto illustrati dai
recenti combattimenti; non un cadavere si vedeva per l'immensa
estensione: solo qualche albero stroncato, qualche muro disfatto,
qualche casa scortecciata, crivellata dalle palle faceva supporre la
tremenda tenzone che si era svolta in quei luoghi. Un sole bellissimo,
come mai avevamo veduto dacché eravamo arrivati in Francia,
ripercoteva i suoi raggi in quella campagna squallida e tetra, o che
forse tale ci appariva al ricordo di tante generose esistenze che ivi
erano state tolte alla patria, agli amici per saziare la indomabile
sete di sangue che suole distinguere i re.

Giunti a Fontain andammo per informazioni alla scuola, che per la
prima ci si parava davanti. Domandammo ad un uomo in _blouse_ turchina
che era sulla porta, dove si trovasse il maestro. Con nostra gran
sorpresa ei ci rispose che il maestro era lui.

Tutte le attribuzioni che Sue nel Martino il Trovatello dà ai maestri
campagnoli non sono che vere, come vero purtroppo è il meschino
stipendio con cui vengono retribuiti nella _grande Nation_. Il maestro
rimette l'orologio della parrocchia, suona le campane, pulisce il
giardino, spazza le scale, fa tutto... tutto quello che troppo repugna
al gran ministero dell'insegnamento. È una cosa desolante!... Nei più
piccoli borghi è proibita la mendicità, e si fa languir quasi di fame
questo pover'uomo che suda, che si affatica per provvedere il pane
intellettuale ai poveri Paria della montagna.

Il maestro fu con noi gentilissimo, conosceva il posto a cui noi
dovevamo arrivare, e c'insegnò una scorcitoia; questa scorcitoia
doveva procurarci degli impicci gravissimi. Avevamo appena passato un
viottolo, che una voce imponente, ci grida: _Qui vive_, e cinque o sei
canne di fucili si abbassano in nostra direzione, procurandoci col
loro barbaglio una sensazione non troppo piacevole.

--_France_!--Gridammo io e il tromba, proprio all'unisono.

--Alto... o fò fuoco!

--Per Cristo!--Strilla il tromba--E' son capaci di farlo!.. questi
mobili lontani dal fuoco sono capaci di tutto.

--Dove è il capoposto? Cominciai io avvicinandomi.

--_Present_--Declamò con burbanza un ghiozzo, rinfagottato sotto un
involto di panni... un vero sacco di panni sudici legato in mezzo: e
dietro a lui altri cinque o sei che non aveano da invidiargli nulla in
bellezza ed in eleganza si presentarono a noi con baionetta calata, e
con quel piglio da eroe che suole assumere l'uomo che esponendosi a un
pericolo è sicuro della vittoria.

--A noi--replicai io immediatamente--Ci ho qui un plico da consegnare
al vostro capitano, conducetemi a lui, chè non ho tempo da perdere.

--Assicuratevi bene di loro--Comandò ai suoi uomini il capoposto, e
poi rivoltosi a noi con fare sdegnoso, borbottò: seguiteci.

Il capitano era in una specie di bettola, ridotta lì per lì in stanza
d'ordine; era un coso rimpresciuttito, che parea proprio dovesse
regger l'anima coi denti: sdraiato su di una poltrona impagliata,
teneva tra le labbra la pipa, di cui si divertiva ad esaminare con
certa voluttà le nuvolette grigiastre di fumo, che man mano andavano a
dileguarsi in quell'ambiente.

Consegnai il mio plico; _Monsieur_, così lo chiamavano con grande
unzione i suoi sottoposti, prima mi sbirciò ben bene con tale
ostinazione che mi ridestava il pizzicor nelle mani, poi cominciò a
capolvogere, e spiegazzare quel povero foglio in tutti i versi,
finalmente si decise a porvi gli occhi. Per maledetta disgrazia
quell'ordine era stata fatto in lapis: di qui non sto a dire quanto
aumentassero i sospetti in quella zuccaccia ignorante.

--_C'est un affair tres serieux_--Proferì rivoltandosi al sergente _Ces
coquins de Prussiens ont trop d'espions..._--poi di nuovo girando la
faccia verso di me, mi domandò: _Vous etes Polonais_?

--_Non, monsieur, je suis Italien_.

--_Attendes_--E senza dire ai nè bai, ci lasciò in asso in mezzo a quei
mammalucchi.

Si aspettò cinque minuti, se ne aspettò dieci, l'affare cominciava a
diventar serio davvero: ogni poco venivano a frotte dei mobili e ci
guardavano, come se fossimo bestie feroci: le donne di casa, una
vecchia e una fanciullina avevano a nostro riguardo lo stesso contegno:
sbaglio, la fanciullina ci faceva le boccacce.

--O bada... che le do uno scappellotto--Mi diceva il tromba
digrignando i denti.

Io non gli rispondeva: se però fossero arrivati al Perelli, che ci
aveva mandati lassù, tutti gli accidenti che gli augurai in quella
mezz'ora, il povero diavolo chi sa mai quante volte avrebbe fatto il
fatale viaggio che gli avevano risparmiato le palle prussiane.

Esaminando però tanto per ammazzare la noia e il malumore quei gruppi
di mobilizzati che convenivano in quella stanza, sempre più mi
convincevo della decadenza tanto fisica e morale della disgraziata
nazione francese. Quella gente rachitica, mingherlina, paurosa non si
poteva certamente chiamare la genia dei Cimbri e dei Galli, l'orgia e
il deboscio han dato il colpo di grazia all'antica terra di Brenno e
dei Druidi, l'orgia e il deboscio hanno ridotto una baracca dei
burattini la così detta signora del mondo: qualche bel tipo raramente
si trova nei campagnoli, ma la gioventù delle città muove a schifo.
Per me la generazione è un diritto pubblico, non un diritto privato, e
se ogni giorno si fanno, delle leggi per il miglioramento della razza
equina e canina, perché non si hanno da istituire delle leggi che
provvedano al miglioramento della razza umana? L'uomo è il re della
natura, dicevano gli antichi: oh sì, che la dissero grossa... tra un
leone ed un gobbo non può esser dubbio su chi ha aspetto più sovrano!

E il tempo passava e non il più piccolo indìzio che avesse a cessare
la nostra prigionia.

--Si può mangiare? Domandai ad uno.

Questi alzò disdegnosamente le spalle e se ne andò--O guardiamo, se
questi pezzi d'ira di Dio finiscono col farci far la morte del conte
Ugolino?

Dopo un ora rientrò l'invitto duce, seguito da una scorta tutt'armata, che ci prese nel mezzo.

--E ora che ci fanno? Mi domandò con emozione il tromba.

--Scommetto che ci fucilano qui sulla piazza... raccomandati
l'anima--Io gli risposi per ridere... Ma che brutta faccia non fece a
tale annunzio il mio compagno di sventura!

--Per Cristo!... Esser fucilato dai Francesi non me l'aspettavo.

I mobili ci accompagnavano con fischi ed imprecazioni a cui facevano
eco i borghigiani di tutto Fontain che si erano accalcati lungo la
via.

Vidi che i nostri carnefici avevano intenzione di ricondurci in città:
per nostra buona fortuna un capitano Nizzardo tutto vestito di rosso,
ci vide, ci riconobbe (eravamo stati insieme il giorno ventuno) fece
una partaccia al capoposto, ci tolse di mezzo ai soldati e ci condusse
a bere con lui. Ci raggiunse il maestro di scuola e ci chiese un
milione di scuse per averci cacciati in quel laberinto. Gli facemmo
toccare il bicchiere con noi, e tutti insieme propinammo alla felicità
della Francia, di quella Francia i cui figli ci trattavano con tanto
riguardo.

In fretta e furia tornammo a Digione al nostro quartiere: là ci furono
date due novità: la prima che erano stati incorporati nelle guide quei
quattro Pollacchi, che erano di scorta al generale Bossak: questi
disgraziati non sapevano un ette nè d'italiano, nè di francese e poco
tardarono a diventare i buffoni dello squadrone: ci sembravano bravi
ragazzi: ci guardavano attoniti, ci offrivano il loro tabacco, e
divennero poi i cirenei del servizio: la seconda si fu che Miquelf con
otto guide era partito insieme colla colonna dei Franchi Tiratori
Alsaziani, comandata dal maggiore Bun, allo scopo di far saltare
alcuni ponti che erano nelle vicinanze. Se la partenza di Miquelf ci
fece tutti respirare dalla contentezza, il perdere anche per pochi
giorni Materassi e altri amici lasciò un voto intorno a noi.

Una ben più dolorosa notizia doveva però poco dopo recarci turbamento:
il generale Cremmer aveva abbandonato Dôle, lasciandoci così quasi
accerchiati dai Prussiani, rimanendo libera, al caso di una ritirata,
soltanto la via di Lyon. Il generale Cremmer pareva messo a bella
posta a noi vicino per scombuiare i disegni del pro' Garibaldi: a
Baune attaccando intepestivamente il fuoco e non volendo servirsi
dell'aiuto del nostro piccolo esercito aveva dovuto ritirarsi,
mettendo i nostri in falsa posizione: ora era la causa vera
dell'ultimo disastro di Francia, poiché l'armata di Bourbaki nella
disastrosissima sua ritirata avrebbe potuto appoggiarsi a questo
paese, invece che di gettarsi in Svizzera.

Il governo della difesa nazionale cominciava a prendere in
considerazione la fin qui disdegnata armata dei Vosgi, e si bucinava
in quei giorni che la somma delle cose militari sarebbe rimessa nelle
mani del general Garibaldi: ottimo provvedimento che, ne siamo certi,
avrebbe salvata la Francia e che in allora reclamava ogni ceto di
cittadini. Parigi non ancora arresa e coi suoi trecentomila uomini,
gli eserciti dì Chanzy e di Faidherbe, lo spirito pubblico rialzato
con le tre ultime vittorie, una direzione franca, ardita,
incorruttibile non potevano non influire contro un esercito da otto
mesi entrato in campagna, vittorioso sì ma omai stanco di
guerreggiare in terra straniera, ma omai affralito dalle intemperie
del cielo, dalle malattie, dalle morti; io credo infine che più
fiducia in Garibaldi avrebbe servito per salvare la Francia; è una
idea, come un'altra, e perché non l'han voluta attuare, io ho tutto il
diritto di gabellarla per ottima.

Non vennero rinforzi di uomini, ma furono però a noi spedite, e
giunsero in quel giorno in città, nuove batterie che, almeno a
vederle, prometteano assai;

Quella sera dopo il pranzo ci saltò il ticchio di dar dietro a qualche
figlia del piacere, di cui vi era in Digione un vero formicolaio. O
sia che molte bocche vote di Parigi fossero piovute nella capitale
della vecchia Borgogna, o che piuttosto tutta quanta la Francia sìa
appestata da una corruzzione ributtante, è un fatto più che provato
che il cinismo con cui ti abbordavano, che la franchezza con cui di
caffè in caffè, di bottega in bottega queste disgraziate trascinavano
le loro grazie e la loro prestituzione era tale, che non potevi fare a
meno di sentir dentro di te un disgusto che non eri capace di
mascherare: no, non è stata l'abilità degli strategi Germanici quella
che ha debellato la Francia, lo torno a ripetere a rischio di passar
per un predicatore noioso, è stata la corruzione aiutata e sorretta da
un governo corrotto che voleva distrarre, divertendolo, il popolo
dalle materie di stato.

In Italia non ci si può fare un'idea di cosa erano le strade di
Digione sulle prime ore di sera; bisogna aver veduto quelle giovinette
che col sorriso più provocante fermavano vecchi, giovani, soldati e
ufficiali, che li prendevano a braccietto, che proferivano i più laidi
discorsi con una indifferenza, con una leggerezza da darti la nausea,
e tutto per scroccare una cena. Io non sono un puritano: quando si
tratta di scherzare ci sto, ve lo provi il mio contegno di questa
sera, ma se è permesso ad un soldato approfittarsi delle circostanze,
in un pubblicista, se tale pur posso chiamarmi, sarebbe delitto il non
alzare la voce su certi scandoli che deturpano l'umanità.

Tenemmo dietro a due giovinette e secoloro entrammo in una via che
rimane sotto i bastioni della città. La porta della _Maison du
Plaisir_ era tutta crivellata da colpi di revolwer. Gli ufficiali
prussiani, superbi e sguaiati, come tutti i conquistatóri, avevan
provato diletto a rovinar tutti gli usci, e tutte le vetrate di quella
strada dedicate al piacere. Aggiunsi anche questo a tutti gli altri
soprusi che avevano commesso i soldati della grazia di Dio, e mi
tornarono in mente le parole dell'inno di Handt:

    Dove non radica straniero vezzo
    Dove ha l'onesto stima: e al disprezzo
    Il vil si danna...
    È sol sol'ella
    L'intiera ed una Germania è quella.

È deliberato che i poeti non abbino ad imbroccarne una sola. Lo
stendardo Germanico, finchè è nelle mani di un re, rappresenterà
l'oppressione come tutti gli altri stendardi monarchici.

Entrammo in una bella sala, circondata da divani in velluto, tutti
occupati da _moblots_ d'ogni grado, intenti a ber della birra e a far
la corte alle damigelle: una ventina di bottiglie stappate erano
disposte in batteria sul tavolino; sei erano le disgraziate, passabili
ma avvizzite; in un canto ve ne era una ubriaca; quasi tutti fumavano
_cigarettes_; predominava sulle altre un'Alsaziana, bella, ma
stupida... una vera rosa del Bengala; bellezza senza profumo: la
degnava solamente con gli ufficialetti, a cui ogni poco chiedeva da
bere.

Il nostro ingresso non provocò certamente una dimostrazione: le donne
rimasero indifferenti: i _moblots_ facendoci il viso dell'arme ogni
tanto ci occhiavano a squarciasacco: per far qualchecosa ordinammo da
bere e uno dei nostri andò al pianoforte.

Gli illustri campioni di Francia si misero a ballare... ci pareva di
assistere al ballo dell'orsi: come è ridicolo un'uomo che balla sul
serio!.. I nostri cantavano: tutto andava benissimo, quando uno dei
nostri, un po' allegro, ci disse: Scommettiamo che mi metto a far la
corte a quel biondino difaccia.

Detto fatto, la proposta venne accolta: era deciso che i _moblots_
fossero gli _jocrisses_ del momento; di più il biondino in questione
era un'individuo rubicondo e pasciuto, un traccagnotto che avrebbe
fatto figura a vender castagne e polenta in mezzo ai buzzurri; le
stesse donne mentre ne accettavano le gentilezze lo canzonavano dietro
alle spalle.

Il nostro amico gli va risolutamente daccanto! tutti noi ci
avviciniamo per goder la scenetta: lo guarda con un occhio di triglia
da fare sdilinquere una pulzellona, e a fior di labbra, pigliando una
posa da Paolo nella Francesca, gli dice: _Combien tu es gentil!.._

--_Que ce que vous dites?_--Riprese l'altro di subito, e l'innamorato
con più anima gli ripetè le frase.

Immaginatevi come rimanesse il povero grullo! Da bel principio non
sapeva che pesci si prendere, guardò un paio di volte il soffitto,
diventò rosso come una ciligia, eppoi si decise a far l'Indiano, ma
l'altro gli posò gentilmente sulla spalla una mano.

--_Vous vous trompez_--Borbottava allora--_je vous assure.. je vous
prie ne me fâcher d'avantage._

Quando ecco che uno dei nostri per compire il mazzo leva di sul
tavolino il tappeto e lo butta sul lume.* quindi buio pesto, buio come
in cantina: ed i nostri si misero ad abballottare donne e guardie
mobili: e fu un'urtarsi, uno spingere un'inciampare, un ruzzolarsi per
terra; strida, bestemmie, risate, un vero pandemonio. Ansioso di
terminare la burla, giunsi a farmi strada in mezzo a quel diascoleto:
a tentoni trovai il tavolino, tolsi via il tappeto e la luce fu fatta.
I _moblots_ accettarono la burla: bisogna convenire che non sangue, ma
acqua di malva avevano
nelle loro vene.



CAPITOLO XXI.


A causa della presa di Dôle fu necessario che le nostre truppe,
eseguendo nuovi movimenti, occupassero le posizioni situate al Sud Est
di Digione, posizioni fino allora sguernite. La brigata Menotti
traversò la città, portandosi da Talant al suo nuovo destino. Nel
comando dei _Francs Tireurs réunis_ era succeduto al bravo Lhoste
l'Italiano Baghino: qualche volontario da Marsiglia o da Lione era
giunto a rafforzare le file delle nostre compagnie, già abbastanza
stremate nell'ultimi fatti.

La mattina del ventotto il generale Garibaldi passò in rivista la
brigata di Canzio: le truppe erano schierate in battaglia lungo il
viale del Parco: il nostro generale più sorridente del solito traversò
in carrozza sulla loro fronte; quindi assistè a vederle sfilare. I
battaglioni dei mobili passandogli davanti lo acclamarono, plutone per
plutone, con entusiasmo; i cacciatori di Marsala, i carabinieri
Genovesi, questi giovani eroi, procederono come vecchi soldati e il
prode vecchio si fè più sereno, guardando quei veterani sul fiorire
degli anni.

Nel tempo che io pure guardava un così consolante spettacolo, mi
sentii chiamare, e volgendomi vidi il fratello di Perelli che mi
salutò caramente: egli aveva il braccio al collo: sapevo che era stato
ferito e fui felice di vederlo così presto sulla via di guarigione.

Rammento ai lettori questo mio amico che di diciassette anni era là in
mezzo a noi, lo rammento perché nel raccontarmi come buscò quella
palla adoperò con me una verità da reputarsi impossibile.

--Alle prime palle ebbi una paura birbona--mi disse il buon
ragazzino--pensai alla mia povera mamma, che mi proibiva di saltare,
di pigliare il fresco, che stava in pensiero, quando tornavo tardi, e
che ora non era più buona a proteggermi... mi addossai a im muro tutto
rannicchiato, facendomi piccino, piccino e ci stetti qualche minuto:
passarono gli Egiziani, uno di loro mi disse: sei un vile; mi saltò il
rossore alla faccia, avrei ucciso quell'uomo, poi vidi che aveva
ragione, ripensai anche allora alla mamma, alla mamma che piuttosto di
vedermi infamato, piuttosto di piangere su me vivo avrebbe pianto
sulla mia tomba, e mi accodai all'Egiziani, con loro mi stesi lungo i
vigneti, con loro sostenni due ore di fuoco, con loro caricai alla
baionetta, fino a che mi sentii percuotere questo braccio, come da una
bastonata e caddi per terra... ero ferito!...

La rivista era terminata: allegri e contenti tornammo in città;
l'eccellente spirito da cui erano animate indistintamente le truppe,
la fisonomia sorridente di Garibaldi, il piglio ardito e simpatico di
Canzio, la memoria dei generosi amici nostri che ci avevano dimostrato
come si deve morire allorché siam guidati da magnanimi proponimenti,
una certa tal quale ambizione di avere assistito ad uno dei drammi più
splendidi dell'Epopea Garibaldesca, sempre più ci stimolava ad
adempire scrupolosamente il nostro dovere, sempre più ci rendeva
sicuri di brillanti, di memorabili trionfi: ma a che serve la fede,
quando i traditori ed i mercanti di popolo paralizzano coll'alito
gelato del calcolo le sublimi abnegazioni delle minoranze da loro
dette fazioni? Mentre l'avvenire ci si dipingeva davanti con i colori
più rosei, mentre germogliava viepiù gigante nel petto dei prodi
l'inestinguibile desio di quella gloria che sola è da rispettarsi,
perché nasce nel sacrificio e nel sacrifizio consolidasi, Favre coi
suoi prestigiatori camuffati da repubblicani, segnava la vergogna
della Francia: la patria di Danton diventava la cloaca dei Cesari; il
berretto frigio che aveva sul capo le si tramutava, in meno che lo si
dice, nell'ignobile berretto del galeotto; ed un tal berretto nelle
ultime circostanze a me parve il più adatto, che i popoli che hanno
sentimento vero di libertà e di giustizia sanno morire sotto le ruine
delle loro città: informino Sagunto, Saragozza e Missolungi: i popoli
invece, i quali sono corrotti, vigliaccamente si accasciano sotto le
verghe dei Napoleonidi, o sotto alle bombe a petrolio dei manigoldi di
un Thiers.

Chiami pur vandali i primi e civili i secondi la stampa venduta; tra
il vandalismo di cruenta ma eroica protesta e il civismo di chi si
appoggia alla prepotente codardia della forza, io m'inchinerò sempre,
io sempre mi farò di cappello al primiero.

Ma a noi non doveva esser noto per anche il grande avvenimento che
fece andare in solluchero i borsaioli (vedi negozianti di borsa che
alla fine è tutta una zuppa e un pan mollo) e tutti gli Arlecchini
quattrinai di questa valle di trappolerie.

Una nazione che cade fa arrichire un banchiere: il pianto delle vedove
e degli orfanelli che reclaman vendetta e che son costretti a piegare
il capo alla tremenda necessità della forza fa alzare il
_sessantacinque_ al _settanta_: vinca il nemico: se rialzano i fondi,
ben vengano l'umiliazione, le rapine, gli incendii; s'impingui la
borsa, e poi si balli il _cancan_ colle baldracche più laide tra le
rovine tuttora fumanti della nostra povera patria, tra i cadaveri dei
nostri fratelli che avendo sortito dal caso un generoso carattere
hanno preferito all'ignominia la morte... son storie vecchie quanto
Noè, ne convengo, ma son vere come è vera la luce del sole... oh!
benedetta l'aristocrazia dell'oro, del prezioso metallo che solamente
qualche scalzacane ha potuto qualificare per vile: oh, benedetto il
trionfo della classe borghese, di quella classe che ha per patria le
mura del proprio negozio, o del palazzo carpito a forza di scrocchi e
d'usure a un rampollo di magnanimi lombi, che si è giocato a bambara
gli averi e la reputazione dei vetusti parenti!

I nobili dei tempi andati avevano, se non altro, delle tradizioni alle
quali si mostravano ligissimi; spinti da queste (inutile sarebbe il
negarlo) hanno regalato al mondo degli eroici tratti, che giocoforza è
ammirare; _noblesse oblige_: tale era la loro divisa, e si facevano
uccidere per quel re, a cui avevano giurato devozione illimitata; per
un sorriso, per un'occhiata, per una sciarpa della bella dei loro
pensieri col sorriso sul volto andavano incontro, al pauroso fantasma
degli spiriti deboli, alla morte: loro cantava il trovatore nella
mesta ballata, o nell'ispirato inno di guerra: loro salutavano come
protettori gli artisti.... erano nel falso, dovevano cadere, chè la
legge del progresso non ammette ostacolo alcuno, sia pure attraente;
ma era un falso splendido, era un falso del quale, nostro malgrado,
non potevamo non ammirare in qualche parte la cavalleria; esso ci
rammentava la Tavola Rotonda, le crociate, le battaglie di Luigi XIV;
e quando quest'aristrocrazia si vide impotente ad impedire la marcia
del progresso ella cadde eroicamente, cospergendo di sangue glorioso i
campi della Vendea: questo sangue segnó la morte del nobilume: in oggi
i rampolli degli antenati magnanimi o funghiscono nella loro castella,
o fanno da comparse nel _Club_.

Ma l'aristocrazia dell'oro? Nata nel lurido bugigattolo di uno
strozzino, cresciuta nella stanza di affari di un ladro intendente,
rinvigorita nello splendido palazzo di un commendatore banchiere che
pur ieri vendeva i cenci o raccattava le cicche, vergognosa del
proprio passato, piena di sospetti per l'avvenire, codardamente
accanita alla sola idea di perdere o di scapitare su dei capitali
accumulati a forza d'infamie, e di bassezze, è lei sola il vero
sostegno delle tirannidi, è lei sola che fa cadere nel fango i popoli
più gloriosi, è a lei sola che si devono attribuire i disastri del
mondo: poiché, se l'antica aristocrazia a un'idea falsissima
sacrificava e vita e agiatezza, la moderna all'agiatezza e alla vita
sacrifica tutto. Io non ammetto nemmeno la così detta aristocrazia
dell'intelligenza: il nascer savi è caso e non virtù, dirò
parafrasando i celebri versi del Metastasio; ed allora? mi domanderà
qualcheduno: allora, rispondo, io non ammetto che una sola
aristocrazia, aristocrazia basata sull'eguaglianza, l'aristocrazia del
lavoro!...

Mi scusino i lettori, se io vado di palo in frasca: mi scusino le
lettrici che potranno ravvisare in me più un predicatore noioso, che
un narratore giocondo; tra i miei appunti ho trovato anche queste
linee e non sono stato buono di sacrificarle; non saprei dirne il
motivo; ma per non fare brontolare nessuno rientro a gran carriera in
carreggiata.

Mecheri, Materassi, Piccini, Bocconi ed io eravamo nella nostra
camera, sognando tra una boccata e l'altra di fumo nuove battaglie, e
per conseguenza nuovi trionfi. «Quando il vecchio passa in rassegna i
soldati, si pensava tra noi, ci è sempre per aria qualche cosa di
grosso». Per tranquillizzare gli amici e i parenti si scrivevano
lettere nelle quali si magnificava il bel cielo che ci faceva credere
di essere in primavera (come han sentito i lettori erano giornataccie
piovose da metter l'uggia in corpo anche ad un'ombrellaio); si
descriveva i nostri adipi che addivenivano d'ora in ora da canonici,
si dava ad intendere che si apprestavano feste da ballo. Chi parlava
di andare a Parigi, chi di riprendere Metz, chi di schizzare diritti
diritti a Berlino...

    _... Oh degli eventi umani
    Antiveder bugiardo!_

Spalancando la porta con una pedata, entra in camera Ghino Polese con
un viso da far rizzare i bordoni all'uomo più apatista del mondo.

--Che è?--Gli si grida tutti a una voce.

--È...--e qui un moccolo da Livornese puro sangue--È... che si tratta
nientemeno...

--Di assedio della città?

--Peggio... potremmo morire con le armi alla mano.

--I Prussiani son entrati?

--Ma peggio!

--Ma cosa dunque... per carità!

--Ci è l'armistizio!...

Un fulmine che fosse caduto in mezzo a noi poteva produrre il medesimo
effetto. Prima un silenzio di morte, poi una salpa d'imprecazioni;
tutte allo stesso indirizzo.

--Ma sei ben sicuro di quello che dici?

--Me lo ha assicurato un'ufficiale di stato maggiore...

--È impossibile! Parigi si difenderà fino all'ultima pietra.

--Parigi ha capitolato!...

Altro silenzio, poi tutti mossi dallo stesso pensiero giù a rotta di
collo per la scala, onde portarci al quartier generale.

Sulla cantonata incontriamo la vaga Luisa... _Dites donc_...
proferisce ed io secco secco la congedo con un «non ho tempo da
perdere» e continuo la via... Dei gruppi concitati s'incontrano in qua
e là... la parola vile errava dì bocca in bocca.

--E Favre che giurava che finchè esistesse una pietra di queste città
l'invasore avrebbe trovato un baluardo.

--Ed è stato lui che ha segnato la capitolazione.

--E noi cosa faremo?--Gridava un disertore dall'esercito.

--Imparerete a servire la Francia--Di rimando rispondeva un Gallofobo.

E i popolani abbassavano il capo, quando noi si passava, che la
maggioranza dei Digionesi era republicana: e lo svelto ed allegro
Garibaldino era divenuto sornione e lo vedevi trascorrere colle mani
in tasca, col berretto sugli occhi e mordendosi i labbri, e ad ogni
poco sentivi ripetere, commiserandoli, i nomi dei prodi caduti... solo
i volti dei _moblots_ brillavano per insueta gaiezza... non ci era più
dubbio.

Colle gambe che ci facevano cilecca arrivammo alla prefettura; una
folla di gente si accalcava intorno alle due colonne che son di fianco
alla porta, e su cui si attaccavano i dispacci e le comunicazioni
officiali: tutti si alzavano in piedi, e, quando erano pervenuti a
leggere, si ritiravano mandando imprecazioni e grattandosi il capo. Si
sarebbe detto che le magiche parole del convito di Baldassare fossero
là, scolpite su quei marmi e che tutti coloro che vi si avvicinavano
ne risentissero i terribili effetti.

Due sole righe di scritto: due righe che contenevano però la più
dolorosa notizia per chiunque preferisce la dignità al beato
vivere--«Oggi è stato concluso un'armistizio di ventun giorno». E dire
che mani francesi non avevan rifiutato di firmare un patto, che
segnava lo stigma sulla fronte di quella nazione che fin'ora come il
favoloso Dio dell'Olimpo bastava muovesse le ciglia per fare allibire
il mondo tutto dalla paura; e dire che un Favre era stato tra i
manipolatori di tale infamia! Oh, allora si vide chiaramente che il
vecchio republicano aveva ciurlato nel manico, oh! fin d'allora la
gente dal cervello sottile preconizzava nel difensore d'Orsini, nel
montagnardo dell'Impero uno dei tanti carnefici che hanno straziato la
Francia. Impotente contro i Prussiani, si macchiò nel sangue dei suoi
cittadini: ora si è ritirato, ma non tanto lontano che a lui non
pervenga l'eco dei pianti e dell'imprecazioni delle migliaia d'orfani
e di vedove che per lui son ridotte a stendere la mano! Ma di maggiore
infamia si doveva macchiare Favre contro Garibaldi e di ciò sapranno
tra poco i lettori.

L'armistizio fu la testa di Medusa dell'entusiasmo nostro; io vidi
qualcuno piangere: la maggior parte si sbizzariva lanciando improperii
a Favre e alla Francia: quella sera non canti per le vie, non le
allegre conversazioni dei giorni passati, ma una musoneria generale...
non vi era più fede!

Un'ordine del giorno di Garibaldi nel quale ci si esortava ad
addestrarsi nelle armi, ad attender preparati il momento della
riscossa, fece credere a diversi che non sarebbe stata cosa
impossibile il potersi di nuovo misurare col nemico e ciò fece
rinascere un poco quella gaiezza di cui davano tanta prova ne' dì del
pericolo i Garibaldini. Per conto mio non mi illudevo: armistizio non
poteva significare che pace disonorante: la resa di Parigi lo diceva
troppo chiaràmente, eppoi da quando in qua i seguaci di Garibaldi
potranno ottenere un completo trionfo?.. Gli unitari d'oggi non lo
relegarono nel 60 a Caprera, mentre volava alla conquista di Roma? Gli
arfasatti che gli si caccian sempre davanti non gli han fatto
sgombrare il Tirolo, quando palmo a palmo lo aveva conquistato, mentre
a Lissa e Custoza veniva oltraggiata la bandiera italiana?.. Non fu il
prode Generale ferito da piombo italiano a Aspromonte?.. Non fu
lasciato dopo la vittoria di Monterotondo, solo a Mentana e si
lasciarono scannare i suoi generosi, mentre trentamila uomini di
truppa italiana erano sul confine? Non si è sempre cercato di
sfruttare i suoi trionfi, facendolo poi passare quasi per un pazzo per
un avventuriere? Non si è avuto il coraggio di stampare, che lo si
aveva aiutato, mentre si era tentato ogni mezzo per avversarlo o per
screditarlo?.. I repubblicani francesi erano presso a poco gli stessi
pagliacci dei consorti italiani, ed era da prevedersi quello che era
avvenuto, quello che avvenne dipoi. Ma muovan pur guerra le anime vili
e i livreati pigmei a quest'uomo che da solo basterebbe a riabilitare
la società, tentino pure di schiacciarlo e di avvilirlo, Garibaldi
vincerà sempra in nome della libertà, vincerà anche perdendo perché il
suo nome oramai rappresenta una idea e le idee non si vìncono.



CAPITOLO XXII.


Passammo il lunedì svogliatamente, senza conclusione alcuna: fino
allora il pensiero dell'Italia di rado balenava nella nostra mente, ma
dall'ora fatale in cui cominciò a tenzonarci nel capo il dubbio che
non avremmo fatto più alcuna cosa, vennero ad assalirci tutte ad un
tratto le care affezioni alle quali avevamo dato un'addio, ed un
cocente desiderio di rivarcare le Alpi occupò le nostre anime.

--Noi abbiamo finito di combattere--Dicevo alla vaga Luisa che colla
testolina chinata sempre osava appena guardarci.

--Oh! voi siete felice.. voi rivedrete la vostra bella io me la
immagino... _una charmante pétite Italienne_.

--No, assicuratevelo, io non son punto felice!

--E perché?

--Voi... Francese... mi potete domandare il perchè?

--Io Francese vedo che siamo traditi.

--E... e..--gridai io dimenticandomi di parlare con una donna.

--Ed ho pianto--Sussurrò lei con le lacrime agli occhi.

--Vi ricorderete di me?

--Sempre... ci avete il vostro ritratto?

--No!

--Me lo manderete?

--Ve lo prometto!

--Grazie... io voglio tanto bene ai Garibaldini.

Questa parola fu un balsamo per l'esacerbato mio spirito; di cosa non
è capace una donna?... Per niente gli antichi non immaginarono Ercole
che fila ai piedi di Onfale.

E così venne il martedì, giornata che noi credevamo simile alle altre
che ci aspettavano, per monotomia e che grazie alla lealtà dei
governanti francesi doveva esser pregna per noi di avvenimenti di
nuovissimo genere.

Usciti di casa riscontrammo la legione Ravelli, che colla musica in
testa marciava verso la direzione della barriera del Parco.

--Dove andate?--Domandai al capitano Becherucci che si era staccato
dalla sua compagnia per salutarmi.

--Ma... sento un presentimento che mi dice che ci si avvia verso
l'Italia.

Il mio amico doveva esser profeta.

Erano appena le undici e Mecheri, Ghino ed io mangiavamo delle paste
in una bottega di faccia al teatro. Digione era piena di pasticcerie,
dove si mangiavano dei pasticcetti eccellenti.

Tutto ad un tratto, quando meno lo si aspettava, vedemmo formarsi dei
capannelli di gente che discorreva con animazione: poi ci giunsero
agli orecchi dei colpi d'artiglieria: credevamo sognare: si pagò il
conto, si andò in strada e cercammo raccapezzare qualchecosa tra le
mille versioni che si davano del fatto inopinato.

--I Prussiani si avanzano...

--O l'armistizio?

--Quei barbari non rispettano niente!

--No... è Menotti che di motuproproprio ha attaccato il fuoco.

--Ed ora espone la città a chi sa quale disastro!

--È impossibile--Urlammo noi--Menotti sa il suo dovere.

--È vero, è vero--Ripetevano allora i popolani e davano del grullo a
chi aveva accampato un così sciocco discorso.

--Qui non si saprà nulla--Disse Mecheri--andiamo alla caserma che è a
pochi passi.

*Era così giusto questo consiglio che non differimmo un'istante a
metterlo in pratica.

Alla caserma il foriere aveva fatta caricare tutte le casse e i
registri su di un carro a cui era già stata attaccata la rozza più
arrembata della nostra scuderia.

--Partiamo?--Si domandò, appena giungemmo.

--Non lo so.

--E allora a cosa servono questi preparativi?

--Questi preparativi?... Gli ho fatti per precauzione... però ho
mandato a prendere ordini al quartier generale...

--O il tenente?

--Non l'ho veduto

--E tutti gli altri?

--Nemmeno per sogno!

Frattanto le trombe della compagnia delle mitragliatrici, compagnia
che aveva stanza poco distante da noi, suonavano a raccolta e poco
dopo i soldati della medesima si muovevano in completa assetto di
marcia. Poco dopo gli Usseri, nostri vicini di caserma, montavano a
cavallo e partivano a mezzotrotto.

Decidemmo di prendere la stessa direzione, allorché vedemmo venire a
noi il sottotenente Mussi e il caporale Luperi, che essendosi portati
fuori della città per recare una lettera al colonnello Tanara, ci
ragguagliarono, essere cominciato un fuoco abbastanza lento tra le due
artiglierie. Ci dissero essere ottimo lo spirito dei volontari, ma che
nessuno sapeva farsi ragione, del come i Prussiani, violando i
trattati si avanzassero verso di noi con colonne strapotentissime. Tra
gli altri Garibaldini in faccia al nemico si trovava quel giorno il
bravo Pais, che deposto il berretto da colonnello e, messosene uno di
pelo, marciava come un semplice soldato, munito di carabina. Dopo
essere stato destituito da Frapolli, l'integro patriotta, l'onesto
repubblicano era corso là dove aveva spedito tanti uomini che non si
volevano far partire, esponendosi fino d'allora ad essere destituito e
a subire un consiglio di guerra.

Si andò alla prefettura; v'incontrammo Ricci che ci ordinò di star
pronti; domandammo ragione di quel diascoleto ed ei ce lo spiegò con
poche parole.

Il governo della difesa Nazionale, non ultima disgrazia della
disgraziatissima Francia, non aveva compreso nel patto proposto i
dipartimenti della Côte d'Or, del Doubs e del Jura. Quindi sospensione
d'ostilità per tutti gli eserciti fuori che per il nostro: si voleva
avere il gusto di vedere sconfitti anche i pochi cialtroni che
sapevano farsi ammazzare, perchè non avevano niente da perdere... a
detta di loro!--Nessuno avviso era stato comunicato a Garibaldi su
questa clausola dello iniquo contratto: così si ricompensava l'eroe
generoso, che unico aveva vinto, che unico aveva strappato una
bandiera ai Prussiani: così si ricompensava l'ardente figlio della
libertà, che, pur di porre il suo braccio a disposizione della
repubblica, aveva dimenticato le prodezze francesi del 1849, le
maraviglie degli _Chassepots_ che il vile de Failly aveva provato
contro i petti dei generosi figli d'Italia a Mentana.

Sorpresi da imponenti colonne nemiche nelle loro posizioni, i nostri
sarebbero caduti vittime dell'infame tranello e già i Prussiani
triplicati di numero pregustavano le gioie di una facile vittoria, ma
i traditori francesi e i generali nemici avevano fatto i conti senza
Garibaldi: non mi si venga ad impugnare la valentia strategica
dell'illustre Italiano, non mi si dica che solo alla fortuna e al
coraggio si debbano i grandi trionfi che egli ha riportato: quel
giorno si videro chiaramente le sue virtù militari, ed egli fu più
grande nella precipitosa ritirata dalla Borgogna che nelle tre celebri
giornate che tanta gloria aggiunsero alla nostra povera Italia.

I nemici furono tenuti a bada per tutto il giorno dai nostri cannoni:
Menotti, i suoi ufficiali facevano da puntatori, e in questo tempo le
truppe si avviavano verso Chagny.

--Ma sicché dobbiam proprio partire?--Domandammo al nostro tenente che
ci dava tutti questi ragguagli.

--Purtroppo.

Andammo a casa: facemmo in pochi momenti il nostro modesto bagaglio e
senza avere il coraggio dì salutare i nostri ospiti, scendemmo a rotta
di collo le scale.

--_Ou allez vous_?--Ci domandò allorché ci vide passare la Luisa,
sorpresa in vederci in perfetta tenuta di marcia.

--Andiamo a batterci--Rispondemmo noi tutti.

--_Vraiment_?

--Sulla nostra parola!

--_Sayes prudents_--susurrò a mezza bocca e volle a ogni costo
baciarmi alla presenza di tutti. Gli angioli del Signore, favoleggiati
dai buoni credenti, non avrebbero avuto di che velarsi la faccia, e
quel bacio doveva esser l'ultimo che io riceveva dalla vezzosa
fanciulla.

Arriviamo al quartier generale, il partire dei carri aveva prodotto
un'adunanza insolita di gente davanti alla porta: tra le molte persone
scorgo le due gentili figliole della nostra padrona di casa: cerco
sfuggirle: mi chiamano: non vi è dubbio, esse pure mi ripeteranno
l'importuna e dolorosa richiesta.

--Dove andate?

--Partiamo.

--Sul serio?

--Così non fosse!

--Ma la ragione?...

--Chiedetela a Favre ed agli altri vigliacchi che volevano
ricompensarci di quel poco che abbiamo fatto, mettendoci in trappola.

Le ragazze mi guardaron fisse negli occhi, poi chinarono i proprii e
si tacquero; e in questo tempo mille altre domande sullo stesso tenore
si rivolgevano a noi, e noi ci sfogavamo a dire tutto il male
possibile degli eroi da commedia che per vigliaccheria rovinavano in
quel momento la Francia, ed i Digionesi facevano eco alle nostre
invettive.

Arriva il Piccini tutto sonnacchioso. Che ci è di nuovo?--Proferisce
con uno sbadiglio.

--C'è di nuovo che noi si parte.

--E perché?

--Perché non siamo compresi nell'armistizio.

--O la mia compagnia?

--Sarà partita.

--Ed io?

--Vieni con noi!

--Vengo subito: vo a dire addio a due bambine e vi raggiungo.

E via a gran carriera.

--Le Guide alla Stazione--Grida poco dopo il Ricci--la tromba vada
suonando per chiamar gli sbandati.

A quattro a quattro, con accompagnamento di tromba e di bestemmie,
traversando la città le cui botteghe eransi chiuse ad un tratto,
arrivammo al gran piazzale, dove si doveva attendere quei pochi che
avevano un cavallo e che dovevano ricevere ordini sull'itinerario che
avevasi da percorrere per recarsi a Chagny.

Sul piazzale vi era una confusione indicibile: cariaggi, cannoni,
trasvolavano tra l'incerto chiarore (era sorta la notte) a noi
davanti, provocando esclamazioni che io non riporto per non fare
arrossire la mia leggitrice: tutti eravamo stizziti e non si cercava
che un pretesto qualunque onde dar sfogo alla bile.

Un vivandiere della guardia mobile arrota col suo baroccio un di
noi...

--Figlio di un cane!... Accidenti a te e alla Francia...

Strilla l'offeso e un concerto di fischiate si fa udire per
quell'aure.

I _moblots_ si erano addossati ai lati della piazza, mettendo in fasci
i loro fucili e intuonando ad ora ad ora la Marsigliese... ci voleva
il loro coraggio!... Questi canti che mai eransi da loro uditi,
durante il pericolo, fecero saltare a qualcuno dei nostri più bizzoso,
il pulcino, e quindi lotte con scambi di pugni, subito appacificate
dai superiori: qualcuno altro per far la burletta si divertiva a
vociare: _Les Prussiens, les Prussiens_ e compagnie intere scappavano,
poco curandosi dei loro armamenti: ma allorché potemmo ammirare una
fuga dirotta, si fu, quando un cavallo del treno, lasciato in balìa di
se stesso si diè a saltare a scavezzacollo in mezzo alla piazza. Un
grido immenso, un'urtarsi, un rovesciarsi addosso ai fasci di armi,
una Babilonia insomma da far perder la testa.

Ricciotti era vicino all'arco di trionfo, battendo i piedi e
sbuffando: poco più in là un volontario consolava in Italiano un bel
fior di ragazza che si struggeva in lacrime; a poca distanza una guida
per smaltire il malumore si divertiva a pestare i calli, di alcuni
mobilizzati che si erano sdraiati. Il cannone era cessato: la notte
era fredda, ma tranquillissima; un bel chiaro di luna faceva spiccare
sul fondo stellato, nel quale errava qua e là qualche vagabonda
nuvoletta bianca e diafana, le purissime linee della guglia di San
Benigno... Le case non apparivano che incerte masse nere ad ora ad ora
intramezzate da un lumicino, o dall'argenteo riflesso dei raggi
ripercossi sui vetri: un chiarore confuso s'inalzava sui tetti.

O Digione, o Digione come mi apparivi cara in quel tristo momento!...
Come mi si strinse il cuore al pensiero di doverti lasciare! Il sangue
generoso dei nostri compagni morti nelle fertili pianure che ti
ricingono ti ha legata all'Italia!... Le gentilezze che tu facesti ai
suoi cari, le cure assidue, più che fraterne che hanno da te ricevuto
i nostri feriti hanno a te legato l'Italia--Oh! venga il nemico--Io
pensava tra me nell'esaltazione del dispiacere--venga e mi uccida qui,
proprio sotto quest'arco... Oh! che io possa morire piuttostochè di
accingermi a questa dipartita fatale, che mi fa sprezzare l'umanità,
che mi fa vergognare di essere uomo.

--Su... su... non ci è tempo da perdere--Mi grida il foriere--Alla
stazione.

--Partiamo col treno?...

--Sì nello stesso convoglio del Generale.

Con uno sforzo sovrumano arriviamo a varcare i cancelli: un'infinità
di mobilizzati ed anche qualche Italiano, o di riffe o di raffe,
pretendevano forzare la consegna e risparmiarsi, assoggettandosi a
degli urtoni o al pericolo di qualche partaccia, una trentina di
kilometri da farsi colla cavalcatura di San Francesco.

Arriviamo sotto la stazione: lì troviamo qualche aiutante del
Generale, diversi ufficiali di stato maggiore e un convoglio a cui era
già stata attaccata la macchina.. quel convoglio però non era per noi,
esso era stato serbato ai feriti.

Garibaldi non era anche giunto: il generoso eroe dei due mondi voleva
partire soltanto, allorché sarebbe stato sicuro che nessuno dei suoi
cari, sofferente, potesse cadere nelle mani dell'inimico.

Appena partito il treno, cominciano ad arrivare nuovi stroppi: si
buttano sulle panche della stazione gemendo ed urlando; alcune donne
prestano loro qualche soccorso o qualche conforto.

Si appresta un'altro convoglio--Speriamo sia il nostro dice qualcuno;
si domanda al capo stazione, o a una guardia qualunque e ci risponde
negativamente. Allora la solita storia delle mille chiacchiere
inutili.

--O sta a vedere, che ci prendono come salami!

--Sentite ma certe ostinazioni non le si capiscono.

--E se andassimo in quel treno lì?

--Ma noi si ha l'ordine di star qui.

--Eppoi abbandonereste il nostro vecchio?

--E se fosse partito?

Un grido di disapprovazione copriva queste ultime parole, e il
disgraziato che sbadatamente le aveva proferite, ebbe dicatti a
rincantucciarsi e a non farsi più vivo durante tutto il viaggio.

Qualcuno più furbo di lui, ma con la stessa tremarella, mentre gli
altri si perderono in chiacchiere, facendo lo zoppo od il monco, entrò
in qualche vagone, gabbando le guardie e anticipando il momento di
scappar di mano a quei Prussiani che l'esaltata immaginazione facea
vedere a pochi passi.

La locomotiva dà un fischio, ed il triste convoglio dei feriti si
dilegua ai nostri occhi.

La stazione resta un po' più libera!.. Si attacca la carrozza del
Generale; è un vagone di prima, a cui fa seguito uno di seconda per lo
stato maggiore: è preceduto da due carri per i bagagli.

Entrano il colonnello Bossi e il Capitano Galeazzi.

--Guide--Dice quest'ultimo--Che nessuno monti in questo convoglio.. ad
eccezione di voi...

--E dove andremo?

--Su.. tra i bagagli.

Prendiamo d'assalto i due carri, dove ci accomodiamo alla meglio. Dopo
pochi minuti subito una questione in capo del carro..

--Giù... sacramento!

Che c'è?

--Siamo Italiani come voi, Dio.....

--C'è l'ordine di non far salire che Guide.

--E noi siamo della legione Tanara.. della legione di ferro..

--O di ferro o di rame noi rispettiamo gli ordini.

--E noi siamo qui...

--Giù... giù.

E qui qualche colpo di mano e qualche pedata: quindi gran discussione
di ufficiali, a cui finiamo col prender parte noi tutti.

--Dagli ragione--Mi dice un Livornese--Non vedi che fiasca di vino
hanno a tracolla... per strada fa comodo.

Si urla, si strepita.. molti scendono, poi risalgono e i due non van
via...

--Il Generale--Grida una voce.

Tutto tace e nessuno più pensa al meschino incidente.

All'udire che ci è Garibaldi, mi si prende uno stringimento di cuore,
e mi spenzolo dal carro onde meglio vederlo. Povero eroe!.. Come ti
han ricompensato i falsi repubblicani di Francia, ma tu sai deludere
le inique lor mire, ma tu sai sventare i loro infami tranelli!

Garibaldi era serio, ma, come sempre, sereno, ma come sempre spirante
dal volto una bontà che è impossibile descrivere: lo accompagnava il
generale Bordone, che non partì con noi: a poca distanza da lui
venivano il maggior Fontana e il tenente Grossi.

Tutti quelli, che erano sotto la stazione si levarono il cappello: il
Generale, appoggiandosi su un bastoncello, stiè un pò fermo e girò uno
sguardo malinconico all'intorno. Parlò a lungo con un signore, tutto
vestito di nero, con barba, (credo il sindaco od il prefetto) poi si
mosse per montar nel vagone.

Un vecchio venerando gl'impedisce l'andare per serrargli la mano. Il
Generale lo guarda, poi ricambia affettuosamente la stretta. Non so
perché, ma ho voglia di piangere.

Tutti ci sentiamo commossi: un guardatreno grida: _Vive Galibardi_...
nessuno risponde: in quell'istante ogni evviva era superfluo: la vera
grandezza disdegna le facili manifestazioni del volgo.

Il Generale è in carrozza: la locomitiva fischia: siamo in movimento.

Do un'ultima occhiata a Digione, appena mosso, nè mi sento capace di
staccar più gli occhi da lei. Quanti ricordi, quanta parte di cuore
noi non lasciamo là entro! Come mi tornarono in mente in quel brutto
istante tutti gli sforzi che avevamo fatto per giungere in Francia,
come mi apparvero caramente dilette le peripezie che ci avevano
conturbato, come desideravo che il tempo avesse potenza di tornare
indietro tre mesi per provare di nuovo le belle emozioni che tanto mi
apparvero gradite in allora! Oh! come mi sembrarono giusti i versi del
gentile poeta:

    _«Les chants, que on les entend le soir dans la campagne
    «Plus ils vont s'eloignant, plus leur charme nous gagne....
    «Ainsi de souvenirs qui bercent nôtre coeur!_

Erano dolci memorie quelle che cullavano il mio spirito affralito, e
nella dolce serenità del ricordo lontano io giungevo a raccapezzare un
po' di quella poesia che purtroppo erasi estinta!

Garibaldi, non è inutile il ripeterlo, si mostrò abilissimo generale
nella precipitosa nostra ritirata: niente restò in mano a un nemico
che ci capitò addosso, quando meno lo si aspettava: il primo febbraio
la Côte d'Or era sgombra assolutamente dall'armata dei Vosgi.



CAPITOLO XXIII.


Batteva mezzanotte e noi ci fermavamo a Chagny: non una persona era
nella stazione: Garibaldi e il suo seguito si ritirarono nella stanza
di aspetto dei viaggiatori di seconda classe.

Una guardia mi battè sulle spalle e accennandomi il Generale che
entrava in quella stanza, sorreggendosi al braccio del capitano
Galeazzi, con voce commossa mi disse: Cinque uomini, come quello, e la
Francia era salva! Per tutta risposta io gli strinsi calorosamente la
mano.

Il breve viaggio che avevamo dovuto fare in ferrovia era stato più che
sufficiente per aggrappirmi tutte le membra, poiché quel diabolico
freddo che ci aveva perseguitato, durante tutta la campagna, non aveva
la minima volontà di cessare; ci buttammo per questa potentissima
ragione nel caffè dove fortunatamente vi era una stufa, e cercammo di
riscaldarci alla meglio.

--E non potremo andare in città?--Azzardò qualcuno di domandare al
Ricci.

--Noi dobbiamo stare a guardia del Generale.

--E sia--Rispondemmo in coro, ordinando una, o più bottiglie di vino.

Poco dopo vedemmo Garibaldi che ascendeva la piccola scala, che è in
fondo al caffè della stazione di Chagny: l'uomo eroico ci volse uno
sguardo, uno di quelli sguardi mestamente soavi, nei quali è compreso
un poema: noi tutti lo capimmo alla prima e istintivamente ci levammo
il cappello: era impossibile non venerare l'eroe che per un'idea aveva
affrontato nella vecchiezza disagii, fatiche inesprimibili, era
impossibile non venerare l'uomo che così infamemente ricompensato,
collo sconforto nell'anima, aveva un'occhiata di conforto per noi:
quella semplice occhiata ci rendeva più grandi, più generosi. Ah!..
non mi scappi fuori una scuola novellina a sostenere che i popoli si
debbano solamente muovere per gl'interessi materiali: oh... non mi si
dica che il correre dietro ai sogni e alle generose utopie addimostra
un'ingenuità d'animo quasi primitiva!.. Io li capisco sogni siffatti,
io li capisco tanto, che ne sono entusiasta. Oh, mi si lasci morire
per una di queste generose utopie, mi si facciano provare tutte le
asprezze della vita disagiata del campo, tutte le emozioni di colui
che dice un addio per il vagheggiato ideale alle dolcezze della vita;
in oggi che si fa guerra ad oltranza alla poesia, oh, si lasci questo
piccolo scampo a chi vuole appartarsi da questa società di calunniati
e di calunniatori, di strozzini e di morti di fame, oh! ci si permetta
di utilizzare delle vite, forse disutili, per le nostre aspirazioni,
che si potranno mettere in ridicolo, ma sulla cui santità nessuno
onesto potrà nutrire sospetto veruno!

Erano passati pochi minuti, allorché un ufficiale ci notificò, che non
ordine ma desiderio del nostro generale era quello che si andasse a
riposare in città: tanto Garibaldi al contrario dei soliti generali
pieni di boria ha carità, dei suoi sottoposti!

Non vi sto a dire come questo desiderio corrispondesse al nostro, pure
tutti noi ad una voce dicemmo che nessuno avrebbe abbandonato quel
luogo, tenendosi tutti troppo onorati di mostrare al grande uomo,
quanto fosse la nostra riconoscenza e il nostro rispetto per lui.

--No, no--Ci ripetè l'ufficiale--Qui non vi è alcun pericolo: qui non
vi è bisogno di guardie: Garibaldi si avrebbe molto per male, se voi
non lo secondaste.

E allora?.... Via a rotta di collo in paese.



CAPITOLO XXIV.


Tutto era calmo: il rumore dei nostri squadroni e dei nostri sproni
turbava soltanto il sepolcrale silenzio in cui erano avvolte le poche
vie di Chagny: nella quiete quasi lugubre di quella serata a mille
doppi sembrava più potente il rumore prodotto da noi, e ripercosso
dall'eco: s'illuminò qualche finestra, ma per pochi minuti: il
pacifico cittadino, rassicurato che non vi era nulla a temere,
spengeva il lume e tornava di certo a gustare il calduccio delle
coltri, quel calduccino che io cominciava a vagheggiare come un sogno
irrealizzabile.

Con molta fatica si perviene a trovare la _Mairie_: meno male che le
finestre sono illuminate. I nostri capi, riflettiamo fra noi, avranno
telegrafato, e gli alloggi saranno già pronti. Le nostre induzioni
erano, come d'ordinario, falsissime.

--Dove è il _Maire_?... Domandiamo a un villanzone che scaldandosi le
mani alla stufa andava tanto in brodo di giuggiole da non avvedersi
nemmeno che noi eravamo entrati.

--Son io--Ci risponde questo con certo sussiego. Cosa desiderano?

--Cosa desideriamo?.... Ci vuoi poco a capirlo!... Un biglietto
d'alloggio.

--_Sapristi_!,.. Vi pare ora conveniente?

--Siamo arrivati ora!...

--Ma ora dormono tutti:

--Poco importa!... Li sveglieremo.

--Ma... guardino!

--Pretenderebbe che sì dormisse in strada?..

--Dopo quello che si è fatto per voi?--Aggiunse un amico in pretto
Livornese--Ah! Francesi, Francesi, se si fosse, mondo birbone, soldati
del vostro schifoso imperatore o del papa...

Il Maire confuso, senza capire un'acca all'ultimo discorso, andò a un
tavolino per stendere i famosi biglietti.

Un urtone spalanca la porta, ed un'altra mandata dei nostri si butta
addosso al tavolino.... I nuovi venuti son la bellezza di diciassette,
tra cui una vivandiera.

--_Sapristi_--Ripete il sindaco con voce stizzita--_C'est impossible
loger tout ce mond là!..._

Descrivere il bailamme che succede a tale esclamazione sarebbe cosa
impossibile: tutti parlano a un tempo, tutti intendono snocciolare le
loro brave ragioni, e quel pover'uomo, che rappresenta l'autorità,
pare il sor Cecchino.

--Ecco come ci ricompensano--Continua a vociare il Livornese.

--Vogliamo giustizia--Interrompe un altro.

--Io voglio soltanto un alloggio....

--_Vous étes un cochon..._

E giù di seguito sullo stesso tenore. Io e Bocconi arriviamo a
strappare di mano il primo biglietto vergato e via di galoppo...

--_Rue Saint Antoin?_--Domandiamo al primo che passa.

--_C'est là bas._--Questo ci risponde e va via a passi concitati.

Arriviamo alla destinazione: Numero 41 si picchia: silenzio glaciale:
si ripicchia, la stessa accoglienza: allora pedate; è poco anche
questo: son morti dunque in questa casa? Si sfoderano gli squadroni e
si comincia una sinfonia infernale alla porta del mal capitato, che il
municipio ci aveva destinato per ospite.

--_Mon Dieu_--strilla una voce femminea--_Il y a donc de Prussiens?_

--Siamo Italiani... il cittadino Bicornet abita qui?

--Sì cittadini... ma è a letto!

--Si svegli!

--E cosa volete?

--Abbiamo il biglietto d'alloggio...

--_C'est impossible!_.. Noi abbiamo di già uno zuavo...

--Solite storie!... Aprite o vi sfondiamo la porta!

--_Nom de Dieu!_... veniamo, veniamo.

Non ho mai veduto in mia vita una fisonomia più ridicola di quella del
cittadino Bicornet. Cogli occhi tuttora fra il sonno, con un berretto
da notte dal quale scappavano fuori due orecchi che non avrebbero
minimamente stuonato sulla testa di un coniglio, il povero diavolo,
basso e traccagnotto come un fattore ti dava l'idea di Don Bartolo,
quando rimane immobile coma una statua nel finale del primo atto del
Barbiere di Siviglia.

--Cittadini... fratelli... amici... Italiani... sul mio onore è
impossibile che vi possa albergare.

--E perché?

--Guardate... e, se siete giusti, giudicherete da voi stessi.

Guardammo: in quella miserabile stamberga difatti noi non scorgemmo
che un meschino lettuccio, su cui era disteso un bel giovine dalla
barba bruna, probabilmente lo zuavo, il quale aveva tuttora il braccio
al collo; una vecchiarella sdraiata su di un pagliericcio alzò la
testa al nostro arrivo e ci guardò con occhi stralunati.

--Signori--Ci disse il giovine--Il buon soldato deve aver sempre
rispetto... Guardate se il mio ospite non vi diceva la verità...

--Non ve la rifate con noi, ma col _Maire_, perché c'invia qui, quando
ci siete voi.

--Il _Maire_ l'ha presa con noi--Borbottò il buon'uomo--Al principio
della guerra ebbe il coraggio un giorno di mandarmene quindici!

--E noi che faremo?--Domandammo in tuono di compassione a Monsieur
Bicornet.

--Aspettate--Disse questi dopo aver riflettuto--venite con me alla
_Mairie_ e vi fo fare un biglietto per un mio amico.

--Tentiamo anche questa.--Riflttemmo noi due e col buon'uomo rifacemmo
i nostri passi.

Il _Maire_ non oppose alcun osservazione al cambiamento dell'alloggio,
e noi insieme con Bicornet, andammo in fondo al paese in una meschina
casupola, alla cui porta il nostro accompagnatore bussò
replicatamente. Quello che doveva albergarci era un macchinista della
ferrovia; egli ci accolse con un sorriso gentile, e, appena passati,
si mise a rifarci un lettuccio che era a un lato della stanza, mentre
nel fondo della medesima dispiegava tutta la sua pompa un letto
nunziale, dalle cui coltre vedemmo scappar fuori una testa di donna,
giovine certo, bella non sì poteva propriare, poiché il lumicino che
era stato acceso al nostro arrivo non aveva la potenza di rischiarare
quella stanza, quantunque la fosse stretta e corta come una carcere.

Rifatto il letto, il macchinista con franchezza tutta popolana ci
disse: Ora spogliatevi e dormite, che dovrete averne bisogno.... Buona
sera!

Lo spogliarsi in faccia a una donna che ci vedeva per la prima volta,
ci arrecava un certo fastidio: pure la necessità era troppo imperiosa,
e dopo pochi minuti noi stiravamo le nostre membra intirizzite sotto
le lenzuola.

Il sonno si ostinava a non venire, quasichè il caso volesse proprio
farci assistere a un tormento di nuovo genere, al supplizio di Tantalo
riveduto e corretto per conto nostro.... Prima delle dolci parole tra
i coniugi, poi uno scoccar di baci....

Noiato dalla scena che rappresentavo, feci un solennissimo starnuto;
ahi non bastò; degli interrotti sospiri....

Diedi nel braccio al Bocconi, egli era desto come me, e finimmo con
un'omerico scoppio di risa.

D'allora in poi fu silenzio e noi attaccammo un sonno magnifico!



CAPITOLO XXV.


Chagny fu per noi una vera desolazione: fortuna che ci si trattenne
soltanto due giorni. Immaginatevi un paesucolo più sudicio di quelli
del Napoletano: degli abitanti a cui non pareva vero di esserci
prodighi di sgarbi e d'impertinenze, e non avrete immaginato che una
metà delle nostre noie. L'intiera armata dei Vosgi si riversò, come
valanga, su queste prime case del dipartimento della Saône et Loire ed
all'ora in cui noi ci alzammo da letto ci fu impossibile il rinvenire,
neppure a peso d'oro, un tozzo di pane.

I soldati affaticati dalla lunghissima marcia si buttavano lungo le
strade: i carriaggi si succedevano a ogni minuto: a ogni minuto vedevi
un via vai di ufficiali di stato maggiore, di staffette, di batterie;
alle botteghe di fornaio, ai caffè, ai _restaurants_ una pigia di
persone concitate che bestemmiavano e facevano ai pugni tra loro; noi
eravamo affamati, ci avevano detto al quartier generale che per quel
giorno saremmo rimasti in paese, e non si trovava un tozzo di pane per
sfamarci.... Oh! la dolorosa situazione.... In campagna, alla guerra,
ci si adatta l'idea del sacrificio, di un dovere da compiersi offre
soddisfazioni più belle dì quelle di un bisogno naturale soddisfatto,
ma sicuri di non scaricare più il fucile, testimoni di una pace
disonorevolissima che veniva vigliaccamente subita da una nazione,
fin'ora rispettabile, noi ci sfogavamo con imprecazioni, e forse
saremmo stati anche capaci di qualche malestro, pur di fugare la
minima sofferenza.

Finalmente, verso le due, mi riescì d'agguantare in un'osteria di
sesto ordine una bella bistecca e la mangiai senza pane. La sera andai
a dormire in una chiesa, poiché il biglietto d'alloggio era per un
giorno soltanto. Verso le due erano arrivati i nostri compagni delle
Guide che avevano cavallo.

Il giorno dipoi partenza di tutte le truppe: Garibaldi accompagnato
dal suo stato maggiore partì per Chalons sur-Saone: noi avemmo
l'ordine di rimanere. Nella giornata liti immense con i Francesi.
Ghino dà dei pugni al caporale Aribaud, questi scappa e vuol
protestare: subissato dai nostri discorsi tace. Il tenente Raffoni
insolentisce un capitano delle guardie mobili ed uno dei carabinieri;
lo traducono alla corte marziale: salta fuori un nuvolo di testimoni
ed è assoluto.

Noi siamo chiamati di guardia al quartier generale; alcuni, essendo
restati soli in paese, cominciano a mormorare ed a dire che i
Prussiani sono a quattro passi e che ci faranno viaggiar _gratis_ fino
a Berlino; improvvisiamo una cenetta in corpo di guardia rallegrata da
Ricci e Fabbri che pretendono parlare francese e che attaccano briga
con un Ussero di piantone, che si permette di sedere con noi dopo
essersi permesso di russare come un violoncello antecedentemente.
L'ordinanza di Bordone ci porta una forma di cacio, e noi, andando
nella stanza di ordini, rubiamo due bottiglie di vino generoso,
riservato per gli ufficiali di stato maggiore. Gismondi, un Genovese
rovinato nella faccia da una palla a Monterotondo, si aggiunge a noi e
porta due altre bottiglie di vino... quindi baldoria generale. Nel più
bello del chiasso, si schiude la porta con impeto e vediamo ritto,
stecchito davanti a noi, truce come lo spettro di Banco il generale
Bordone. Stupore generale, e relativi moccoli a fior di labbra.

Il generale ci da una sbirciata e invece di farci un rimprovero, si
rivolge al nostro tenente e gli dice: Mandi un sergente e quattro
uomini a rimetter l'ordine in casa di questo povero vecchio, dove sono
entrati tre Franchi Tiratori, pretendendo farci di tutto un po'.

Mecheri, sergente, e tre o quattro di noi ci moviamo col vecchio che
era rimasto a caso nell'ombra: eccoci ridotti anche carabinieri! Non
nego, che un tale incarico mi andava poco a sangue: io non ho mai
nutrito una decisa simpatia per gli agenti della legge, che d'altronde
sono riveriti come angeli custodi da tanti che meriterebbero di andare
in prigione assai più di quelli che ci vanno: eppoi... il vecchio che
ci accompagnava, mi aveva una fisonomia proibita: qualche cosa di
prete smesso o di mezzano amoroso.

Arriviamo alla casa: per le scale non ci è lume e nessuno ha
fiammiferi.... si comincia benino!...

--Mi piglino per una falda e salgano.--Ci dice il vecchio.

Ci si attacca tutti alla falda.... maledizione!... la scala è a
chiocciola e la falda a una voltata resta in mano a uno dei nostri.

--_Mon Dieu!_--Grida la povera vittima di quelle tenebre.

--La ci tenga un lume!--si contenta di aggiungere con filosofia
l'autore dell'eccidio.

La moglie del vecchio, avvisata forse dal chiasso improvviso, ci
comparisce davanti con una lucernina. Quantunque la nuova venuta fosse
in perfetto _deshabillè_ non ci faceva peccare di gola. Credo che
donna più brutta non sia stata mai messa al mondo per dar di bugiardi
a coloro che asseriscono esser la donna l'ideale della creazione.

Tra moglie e marito avevano tutti i requisiti per farsi odiar
cordialmente.

--Aiuto... carità... protezione--Urlava la megera.

Entrammo colle mani sull'elsa dei nostri squadroni: credevamo di
trovare tre indemoniati: quale non fu la nostra meraviglia? Ci vennero
incontro tre buoni figliuoli, che cominciarono col chiederci scusa di
averci disturbati, narrandoci per filo e per segno tutti i particolari
del disgustoso incidente. Provvisti di biglietto d'alloggio, essi si
erano presentati al padrone di quella bicocca ed egli aveva negato con
mal garbo di ricettarli; gli avevano detto che erano stanchi, che
avrebbero anche pagato, ed egli duro come un Tedesco. Allora loro,
esasperati, erano entrati per forza in camera ed avevano approfittato
del divano ove si erano addormentati.

Il vecchio era uno sfegatato Napoleonista, e giurava che a' tempi
della tirannide non si offendeva la pudicizia di una signora,
svestendosi innanzi a lei. A tale protesta nessuno potè trattenere le
risa: persuademmo i giovani a venir via, si diè due prese d'imbecille
al tarpano, e tutti insieme si andò in una vicina casetta, dove
bevemmo di nuovo.

Tra un bicchiere e l'altro, sapemmo che i Prussiani avevano fatto
fuoco sull'ultimo convoglio di Garibaldini che era partito da Digione,
convoglio nel quale tra gli altri si trovava il Piccini: nessuno fu
offeso ad eccezione del Macchinista che restò morto sul colpo.

Il giorno dopo, noi partivamo da Chagny, diretti a Chalons sur-Saone,
dove si trasferì il quartier generale. L'annunzio della partenza fu
salutato da tutti, con gioia inesprimibile. Se io avessi un nemico
accanito, lo manderei a domicilio coatto a Chagny, certo che dopo
poche ore implorerebbe la pena di morte.



CAPITOLO XXVI.


Prima di terminare il racconto è necessario che io parli della seconda
brigata, comandata dal Lobbia, di questa brigata che, quantunque
lontana dalle altre e perciò non abbastanza rammentata nelle molte
memorie che si son pubblicate sulla campagna di Francia, non si è meno
coperta di gloria, nè ha meno faticato delle altre. I dati della
relazione che io farò ai miei lettori, mi furono forniti a Chalons da
un distintissimo ufficiale di stato maggiore che era al seguito del
colonnello Lobbia, e il pubblico avanti di parlare del nostro
soggiorno in quella città, poiché avendo fin'ora discorso di guerra e
dovendo d'ora in là discorrere di pace, qui mi sembrano nel posto più
adatto.

Sul finire del dicembre, erano in Soulieu il colonnello di cavalleria
Bossi, il maggiore Farlatti con uno squadrone di Guide e una piccola
compagnia di pionieri comandati da Kauffman: questa spedizione aveva
per scopo di danneggiare le comunicazioni dei Prussiani, appunto sulle
famose linee che dovevano servire all'esercito di Manteuffel per
venire a combattere le truppe di Bourbaki.

Oltre ad altri ingegni di guerra, il capitano Kauffman avea con se due
furgoni pieni di materia incendiaria e di dinamite, che dovevano
servire a una importantissima operazione della quale si faceva un gran
segreto; e che consisteva noi far saltare un _tunnel_ della ferrovia
di Strasburgo.

Pare che tra Kauffman e Bossi non s'intendessero molto e le operazioni
non procedendo, come avrebbero dovuto, Garibaldi richiamò quest'ultimo al quartier generale e diede un tale incarico al colonnello di
stato maggiore Lobbia, nominandolo brigadiere e destinandolo al
comando della seconda brigata.

Questa era costituita nel modo seguente:

    Stato Maggiore                        Uff.    7      Uom.    14
    Genio                                  »      3       »      20
    Guide                                  »      9       »     150
    _Francs tireurs de la Bigorde_         »      3       »      35
    _Égalitè_                              »     12       »     175
    _Chasseurs d'Orient_                   »     16       »     270
    _Marin_                                »      4       »      55
    _Atlas_                                »      4       »      60
    _Guerillas Marseilles_                 »     18       »     280
                                                 --            ----
                                           Uff.  75      Uom.  1059

Lobbia partì da Autun, conducendo con se per ufficiali di stato
maggiore il capitano Pozzi ed i tenenti Scipione, Primerano e Bonomi:
partì secoloro il signor Visitelli, corrispondente del _Dayl Neuw_. Il
capo squadrone Castellazzo partiva per Chatau Chinon, Clamecy e
Vermenton, incaricato di tenere relazione tra la brigata Ricciotti e
Lobbia e sorvegliarne le operazioni, servendosi dei telegrafi e di
tutti gli altri mezzi che le sottoprefetture e i sindaci dovevano
mettere a di lui disposizione.

Da Autun la seconda brigata si portò a Soulieu per Lucenay, quindi a
Precy e a Vitteau. La marcia è lunga e fu resa più disagevole
dall'immensa quantità d'impedimenti che venivano dietro ai soldati e
che occupavano a dir poco tre chilometri di spazio: carri con gli
equipaggi dei soldati, barrocci, trabiccoli dei vivandieri... donne...
insomma una vera marcia di barbari!

Le compagnie dei _Francs tìreurs_ erano scarse: ve ne erano persino di
dieci uomini, ma anche queste avevano tre o quattro ufficiali... già,
se durava un altro pochino la campagna di Francia avremmo finito
coll'avere diecimila generali e nemmeno una tromba!...

Mentre Lobbia marciava verso Vitteau, Ricciotti aveva che fare coi
Prussiani di Montbard. Questo paese era difeso da 4000 uomini e 6
pezzi di cannone. L'ardimentoso figlio di Garibaldi tentò l'assalto,
il giorno 6 di gennaio. Sul più bello dell'impresa egli però si vide
accerchiato dai Prussiani che in forza di 2000 uomini avevano intanto
marciato sopra a Semour. Ricciotti tenne fermo fino alla sera, e
ritiratosi a Montfort per sentieri appena tracciati, potè sul mattino
eludere la vigilanza dei nemici che lo volean prigioniero e si ritirò
sano e salvo presso Les Lommes.

La seconda brigata, a cui Castellazzo aveva comunicato l'ordine del
Generale di fare un movimento in avanti per distrigare Ricciotti, potè
continuare la sua via e di concerto colla quarta brigata che pur si
ritirava per la medesima strada verso Digione, potè manovrare così
bene da schiudersi l'adito in mezzo alle colonne nemiche che già si
avanzavano numerose per le vie di Chatillon, Aignay le Duc e Precy;
era una marcia difficilissima, di fianco, che avrebbe potuto
compromettere la sicurezza di quella brigata, se questa non avesse
avuto la precauzione molto giusta di proteggersi sul suo lato sinistro
per mezzo della cavalleria dì Farlatti che eseguì egregiamente questo
difficilissimo compito.

Al villaggio di Marai-sur-Tille la brigata Ricciotti si divise da
quella di Lobbia, essendo stata la prima richiamata a Digione e
dovendo proseguire la seconda per il compito a lei designato. Qui
raggiunse la colonna il capo squadrone Castellazzo. Egli veniva da
Grancey le Chateau, dove poco corse che rimanesse prigioniero colla
somma di 90,000 lire. Lobbia lo aveva infatti mandato a prender denari
a Digione, e aveva fissato di attenderlo a Grancey. Castellazzo
attendeva da parecchio tempo e nessuno arrivava: i Prussiani avendo
saputo dalle chiacchiere dei borghigiani qualche cosa, mandano
venticinque usseri nel paese; e, mentre il nostro amico aveva fatto
attaccar la carrozza, i cinque uomini dell'avanguardia nemica
annunciano al capoposto che non vi erano Garibaldini. Senza por tempo
in mezzo, senza aspettare che gli usseri si ricredessero dal loro
sbaglio, Castellazzo salta in carrozza, e prendendo un altra via gli
riesce di raggiungere il corpo. Erano novantamila lire che egli
salvava dagli artigli dei soldati di re Guglielmo: certo che se questi
l'avessero potuto immaginare, per un uomo solo erano capaci di
assediare il paese.

La seconda brigata da Maray-sur Tille si recò a Selongey diretta per
Langres. Siccome però numerosi si avanzavano i nemici dalla parte di
Grancey, minacciando di tagliare la strada di Prauthoy, Lobbia con
ottimo intendimento fe' fare alla sua truppa il giro di Fontaine
Francaise e di Champly recandosi a Chalindrey ed a Langres, dove
arrivò il 15 di gennaio, sempre attorniato dai Prussiani, con una
felicità veramente meravigliosa.

A Langres, dietro ordini del Generale, furono lasciati tutti i
bagagli, compresi i due furgoni di dinamite e il capitano Kaupffeman.
La brigata si pose a campo pei boschi di Bouchemin, di Marat e di
Faverolle, minacciando le comunicazioni prussiane di Chaumont, Arc en
Barroi, e Auberive sulle quali passavano le truppe dirette a Digione.

L'incertezza del generale francese Meyer, il quale negò ogni appoggio,
diede meno importanza di quello che si meritava, al movimento: avendo
perciò il brigadiere dovuto rinunciare all'idea di attaccare
Chaumont, occupato da 6000 uomini, troppi al certo pel di lui piccolo
effettivo, portavasi il 22 a Perrogney e Pierre Fontaine e, di lì
passando per Auberive, muoveva alla testa della cavalleria sopra il
villaggio di Germain per sorprendervi quel posto.

Tra i due paesi sono tre chilometri di scesa e tutto il terreno era
una crosta di ghiaccio: ad onta di questo la distanza fu percorsa in
una carica sola a carriera sfrenata: guai, se un cavallo fosse
caduto!... Non poteva fare a meno di succedere un monte generale, una
vera cuffia, come si direbbe in termine basso.

Il nemico che stava poco sulle intese, parve che non avesse nemmeno
tempo di montare a cavallo: gli Usseri Rossi si erano ammucchiati nella
scuderia; i meno, incerti se avessero a difendersi o a darsi
prigionieri, i più, cercando nascondersi in tutti i buchi e perfino
nel fieno.

Furono presi 12 uomini e 15 cavalli: gli uomini erano superbi: alti,
benissimo vestiti e riccamente equipaggiati: quasi tutti del Posen; le
loro pipe, pagate ben inteso a pronti contanti, furono i trofei più
ricercati della vittoria.

Dopo questo brillante episodio, Lobbia tornò a Auberive, da cui si
mosse dirigendosi verso Vaillant: a poca distanza da questo villaggio
giunse la notizia che il sindaco del medesimo veniva trascinato a
Prauthoy da una trentina di ulani: nuova carica sul ghiaccio: gli
ulani lasciano la preda e via a carriera verso Esnoms, e siccome chi
corre corre e chi fugge vola, quando i nostri arrivarono a quel paese,
i nemici erano già a Prauthoy.

Gli oggetti requisiti ed il sindaco rimasero a noi, e quest'ultimo
offrì in Vaillant un pranzo Lucullesco agli ufficiali di stato
maggiore.

La notte fa passata a Pierre Fontaine; il 25, avvisato che una
sessantina di Prussiani che facevano scorta a un centinaio di
prigionieri francesi, dirigevansi da Prauthoy sopra Auberive, il
colonnello Lobbia con cinque ufficiali del suo stato maggiore e con
una compagnia di _Francs Tireurs_ faceva un'imboscata nella foresta di
Mont'Avoir per sorprendere il convoglio: verso sera però gli
esploratori avvertirono che i nemici avevan presa altra strada, quella
di Grancey.

Avanti di continuare, sento il dovere di esporre un fatto che torna a
grandissimo onore del Lobbia. Allorchè nel giorno precedente imbandite
le mense, altro non si aspettava all'infuori che il colonnello si
assidesse nel posto d'onore, egli domandò se era stato pensato ai
prigionieri, ed avendo ottenuta una risposta negativa, energicamente
protestò, minacciando di non prender parte alla mensa, qualora non si
trattassero con umanità quelle povere vittime della fortuna guerresca;
nè qui si arrestò l'uomo generoso: a sua iniziativa fu fatta una
colletta tra gli ufficiali, colletta che fruttò un sette franchi a
testa pei prigionieri: e questi, vedendosi fatti segno di tal
gentilezza, sentendosi sempre palpitare il cuore anche sotto la tunica
di gregario, piansero, piansero come fanciulli e gridarono: Viva
Garibaldi, Viva l'Italia. Povera gente!... Lontana da suoi, in un
paese che del bene non gliene voleva dicerto, paurosa di tutto, al
balsamo della consolazione sentiva stemprarsi quel gelo, che le si era
voluto addensare sull'anima dagli stupidi ed infami regolamenti che
vorrebbero fare degli uomini la macchina più iniqua, che torturi la
povera umanità!

La notte Lobbia, Castellazzo, Pozzi e due ufficiali di stato maggiore
s'incamminarono verso Vaillant: gli altri li seguitavano a un
chilometro di distanza: giunti a due chilometri da Vaillant, quattro
ombre, silenziose come quell'oscurità, si avanzano... si dà loro
l'_alto_: Castellazzo si avanza arditamente, e domanda chi sono. Essi
esitano a rispondere. Pozzi grida: sono Prussiani, abbassate le
armi.... ed i quattro ubbidiscono senza far motto. Si disarmano e poi
vengono consegnati ad una compagnia che si avanza a passo di corsa.

Passata quella notte a Vaillant, l'indomani la brigata si portò di
nuovo a Pierre Fontaine e di qui passò ad Augeres, dove la sera del 27
arrivarono due compagnie di linea con parecchi ufficiali, inviati dal
generale Meyer onde coadiuvare i garibaldini nell'attacco di Prauthoy:
il rinforzo era comandato dal capitano Mas, vecchio soldato d'Affrica.

Fu tenuto consiglio di guerra nella stanza da letto del sindaco: vi
assistevano Lobbia, Castellazzo, Pozzi e altri due di stato maggiore.
Il Mas era un po' in bernecche, e invasato dai sacri furori che il Dio
Bacco suole prodigare ai suoi fedeli seguaci, si riprometteva con le
sue due compagnie di mangiare in un colpo tutti i Prussiani; domandava
soltanto un po' di tempo per far prendere il caffè ai soldati.

Castellazzo osservò che era assai meglio che lo prendessero dopo aver
mangiato i Prussiani, per aiutare la digestione..

Mas, con serietà imperturbabile, chiese allora che i suoi dipendenti
fossero messi al posto d'onore (all'avanguardia).

Lobbia accettò e commosso da tanto eroismo, fè la consueta _grimace_,
Castellazzo citò i versi del _Miles gloriosus_ di Plauto:

    _...... virum
    Fortem, atque fortunatum et forma regia, tum bellator Mars
    Haud ausit dicere: neque aequiparare suas virtutes ad tuas_.

Il vecchio soldato non sapendo che si rispondere a quel complimento in
lingua a lui incognita; scambiando forse Mars per Mas fa' una gran
riverenza e si avvolse in dignitoso silenzio.

Alle 11 di sera tutti erano a cavallo: per sentieri tutti incrostati
di ghiaccio la brigata arrivò a Lucenay. Mentre sul viso dei
coraggiosi si leggeva chiaramente l'ansia, il desio prepotente di
misurarsi coll'inimico, i soldati di linea perdevano un tempo prezioso
a prendere il caffè e a fare il chilo.

Dopo mille e mille sollecitazioni a partire, alla fine si avviarono:
si avviarono, ma con tale un passo da tartarughe, che invece di
arrivare, come era stato previsto, a Prauthoy alle quattro di notte,
ebbero il fresco cuore d'arrivarci alle sei del mattino.

Aveva preso stanza in questo villaggio il 2° battaglione del 61
reggimento Guglielmo di Pomerania: battaglione che apparteneva giusto
appunto, come rammenteranno i lettori, a quel reggimento che tanto era
stato battuto il giorno 23 alla masseria di Poully e la di cui
bandiera era già in nostra mano: 800 fanti, 50 cavalli e varii
cariaggi: tale era l'effettivo di cui disponeva il nemico.

Le compagnie di linea francese aveano avuto l'ordine di penetrare nel
villaggio, senza trar colpo; esse invece si fermarono a trecento passi
dal medesimo e per avvisare il nemico si misero a sparare alle
passere. Convenne allora far di necessità virtù: si spiegarono le
colonne e ci si accinse a dare l'assalto.

I Prussiani avevano occupate le case, il cimitero, la chiesa e di là
facevano un fuoco d'inferno.

Gli _Chasseurs de Lyon_ e le guide (per la maggior parte italiane) si
portarono eroicamente: qualche altra compagnia fe' il proprio dovere,
qualcuna, purtroppo, scappò, sparando all'aria, o, quel che è peggio,
addosso agli ufficiali di stato maggiore che cercavano arrestarle
nella corsa disordinata. Ad onta però di tal confusione la costanza
dei pochi prevalse e dopo quattro ore circa di fuoco, i Prussiani,
perduto il loro comandante e dopo aver lasciato sul campo un centinaio
tra morti e feriti si salvarono con dirottissima fuga pei campi. La
giornata era vinta.

Noi avemmo 49 morti e 62 feriti: gli avversarii oltre i morti e i
feriti, lasciarono nelle nostre mani 14 cavalli, 73 prigionieri, 14
cariaggi d'avena e di pane, una ingente quantità d'oggetti rubati tra
cui orologi, bauli e argenteria, 200 fucili, la contabilità, la cassa
con 1,500 talleri, un furgone da munizioni e diversi carri
d'ambulanza.

Tutto insieme fu uno dei fatti più brillanti della campagna di Francia
e se monsieur Mas, il _miles gloriosus_, avesse secondato a dovere il
resto della brigata, sarebbe rimasta prigioniera l'intera colonna
Prussiana.

Inutile il dire che Castellazzo in quel giorno si condusse da eroe:
chiunque l'ha veduto in altre campagne, può e deve giustamente
argomentarlo: Pozzi e Farlatti riscossero l'ammirazione di tutti, e
non ultimo certo tra i valorosi si addimostrò il signor Visitelli, il
corrispondente del _Dayly News_.

Per quel giorno e per la notte vegnente si trattennero gli stanchi
soldati in Prauthoy; il domani si portarono a Langres, onde
accompagnare i prigionieri, riportare la preda e apprestarsi a nuove
avventure. Il 31 Lobbia si spinse e Neully l'Eveque a 12 chilometri da
Langres: il nemico si era raccolto in forze a Montigny le Roi e la 2a
nostra brigata si preparava per andargli a fare una delle solite
visite, quando arrivarono anche lassù le prime notizie
dell'armistizio.

Il generale Meyer, protestando di eseguire scrupolosamente i decreti
del suo governo, non permise alcun movimento e così la brigata Lobbia
restò isolata dal rimanente dell'armata dei Vosgi, nè si seppe più
alcuna notizia di lei, fino a che il Castellazzo, travestitosi da
contadino, dando prova di un favoloso coraggio, traversò
imperterritamente le linee prussiane, e portandosi a Autun, venne di
là a Chalons-sur Saône, latore di notizie e dispacci.

Terminato che fu l'armistizio e conclusa la pace, la brigata Lobbia
con lascia passare Prussiano passò in mezzo alle schiere nemiche che
le resero gli onori militari: da Langres venne a Chalons, dove furono
tolti persino i mantelli alle Guide, che così bene avevano adempiuto
il loro incarico, che tanto si erano coperte di gloria per difendere
quella Repubblica Francese che ora in tal modo le ricompensava.



CAPITOLO XXVII.


Torniamo a noi: i giorni delle belle emozioni erano cessati:
prolungare dettagliatamente questa mia storia, sarebbe un voler
portare il cane per l'aia, e terminerei rendendomi assai più noioso di
quello che son riuscito fin qui.... ed è tutto dire!.. Pure, qualche
episodio della nostra guarnigione, qualche sbozzo alla peggio di certe
scene, che, se non altro, possono illuminare qualcuno sullo spirito
che dominava allora in Francia, non sembreranno superflui ai lettori e
serviranno, quasi di cornice al quadro che male o bene ho tentato di
tratteggiare sin qui: stacco perciò dal mio libriccino di appunti le
pagine meno seccanti e ben volentieri le offro a quei Cirenei, che
hanno subito il peso della mia croce per tanto tempo, dando prova in
tal modo di più che cristiana pazienza.


Chalons ha da essere un soggiorno incantevole; ha strade e piazze
pulite, eleganti e con sfarzosi negozii: il suo _quai_ sur la Saône
rammenta i nostri lungarni: il fiume è però più bello e più tranquillo
dell'Arno: sul far della sera quando arriva _Parisièn_, il piccolo
piroscafo che viene da Lione, disegnando una striscia di fumo sulle
limpide plaghe del cielo sereno, si gode una incantevole poesia e
troviamo artisticamente superbi i visi sin'allora simpatici
semplicemente delle cittadine: Il desiderio di rivedere l'Italia si fa
più vivo... a che ci tengono qua, se non ci è più da menare le mani?


Vien dato a me e a Gismondi un biglietto d'alloggio per un palazzo in
_Rue aux Fievres_: il nome non è di buon'augurio: Troviamo un prete,
un vecchio signore ed una ragazza nè bella, nè brutta: fanno mille
difficoltà: Gismondi va in bestia, e piglia quest'occasione per dire:
maledetta la Francia!...--Parlate Italiano?--ci dice subito la
ragazza: l'amico rimane di sasso: e allora sappiamo che la ragazza ha
studiato la nostra lingua tre anni; cosa che non impedisce di
scambiarla, quando pronunzia, per un'Abissina. Dopo mille daddoli, ci
accomodano nella camera delle cameriere. Meno male.


Oltre il quartier generale ha stanza in Chalons l'eroica brigata
Ricciotti: ritroviamo lo Strocchi, l'Orlandi e altri amici. Si passano
le giornate _aux Vendange de Bourgogne_, dove una ragazza robusta e
impertinentemente carina serve da pranzo, e mesce gli asenzii e i
cognak. _Mademoiselle Marie, après la guerre je vous epouse_ si sente
ripetere ad ogni minuto e con tutto questo ci si noia, come a un pezzo
di musica dell'Avvenire. Meno male, che a giorni sono l'elezioni;
l'agitazione politica ci stordirà, eppoi chi può predire di cosa sieno
gravide l'urne.


Questa è carina! Viene da me il solito tromba Romagnolo: mi chiama in
disparte eppoi mi dice con importanza.:

--_Chat_ in Francese non vuoi dire altro che gatto?

--Di certo.

--E _pigeon_ piccione?

--È innegabile!

--Dovevo immaginarlo!... Esclamava allora in tuono tragico, battendosi
il capo.

--Che ti è successo?!--Proruppi io stimolato dalla curiosità--Versa in
seno dell'amicizia quello che ti grava nel cuore.

--Se tu sapessi.... io faceva la caccia a una bella bambina: ed ero,
cioè credevo di esser corrisposto... stamani vo in casa, l'abbraccio,
lei non si muove, ma nel più bello, nel calore dei discorsi, mi ha
cominciato a dire: _Mon chat, mon pigeon_ dunque vuole in tutti i modi
battezzarmi per una bestia.. io era indeciso, ma ora...

--Son le gentilezze che usano le innamorate di qua..

--Forse perché riconoscono quelli che ronzan loro dintorno, ma io non
sono del mazzo e protesto.


Un proclama di Gambetta, affisso alle cantonate, invita i cittadini ad
accorrere unanimi alle urne, chiama sosta la sospensione dell'arme,
non risparmiando certe spavalderie che non dovrebbero essere più di
moda. Interrogo difatti varie persone e tutte mi rispondono, facendo
voti per la pace, e arrivando perfino a confessare che preferiscono la
caduta della repubblica a nuove guerre e a nuovi disastri. Ah!...
Francia, Francia come sei caduta nel basso: perché non ritrovasti in
tanto sterminio l'eroismo di Missolungi?... Io non ti posso stimare.


Il sottoprefetto di Chalons è una pasta di zucchero: Corso, è
contrarissimo a Napoleone: sottoprefetto è un _sansculot_ di prima
forza! Oggi ero di guardia: si è trattenuto un poco con me sul
terrazzo: mi ha parlato della Francia colle lacrime agli occhi ed ha
finito con accenti di disperazione. Sul far della notte ha mandato una
damigiana di vino e del salame ai soldati.


Garibaldi si è ritirato a un chilometro dalla città: noi non sappiamo
che pesci si prendere: cominciano i bullettini dell'elezioni: si
ritiene che uscirà eletto Garibaldi. Tornano Miquelf; Materassi e le
altre Guide, che si credevano già putrefatte, o per lo meno nelle mani
nemiche. Materassi ci racconta che hanno fatto saltare due ponti, che
hanno visitato un visibilio di paesi, ricevuti sempre bene, ma sempre
costretti ad udire discorsi in favor della pace. Non ci è caso: la
Francia è sfiduciata, la Francia è come colui che, finita ogni
risorsa, preferisce portar la livrea di coloro che l'hanno spogliato e
non sa trovare il coraggio di uccidersi.

La corruzione di Chalons non la cede per nulla a quella di Digione. Il
_quai_ è un continuo viavai di donnette che ti lanciano occhiate
assassine. Non vi è soldato che non abbia un'amante. O mariti Italiani
che nel 1859 coronaste d'alloro i vincitori di Magenta e ne aveste in
ricambio altre corone, gioite: i vostri compatriotti sanno ben
vendicarvi!


Il maggiore di piazza è un militarista accanito: mi ha fermato nella
_grande rue_ perché non l'ho salutato. Ha minacciato di far sciogliere
le guide, perché vanno di trotto al passeggio e perché non vanno alla
piazza a prender l'ordine del giorno. Sì.... i nostri soldati non sono
venuti per questi servizii vigliacchi--urla Ghino allorché riferisco
la commissione--ci pare ora di tornare in Italia!.. E nessuno va al
comando di piazza.


Giorno dell'elezioni: le sale ove sono le urne riboccano di gente:
vedo due liste di candidati: in una figura Garibaldi nell'altra Mac
Mahon: non riescono nè l'uno nè l'altro nel dipartimento di Saône et
Loire. Garibaldi è eletto però in cinque dipartimenti ed ottiene in
tutti gli altri splendidissime votazioni. La sera delle elezioni più
animazione e più chiasso nelle trattorie e nei caffè. Chi la vuol
lessa chi arrosto: tutti però si aspettano una Camera molto meno
peggiore di quella che resulta realmente.


I coscritti della nuova classe, preceduti da un tamburone attraversano
la città, gridando: Viva Garibaldi, Viva la guerra, Viva la Francia. A
che tanto entusiasmo?.. Son tutti giovani di 18 e 19 anni, perché non
hanno preso il fucile, quando la patria era in pericolo?.. Uno
spilungone, vero pagliaccio, ha in testa un morione da guardia
imperiale e agita una canna da capo tamburo... Ah, Francesi, quando
sarete più serii?!.. A che conservare quella _blague_ schifosa che vi
rendeva spregevoli anche a dì del trionfo? Meditate sulle vostre
sventure, e non fate gli eroi quando ne è passato il tempo, se non
volete rassomigliare...

    «Al nobile guitto
    «Che senza un quattrino
    «Ostenta il diritto
    «Di andare al casino


Giunge il maggior Tironi a fare uomini pel suo squadrone dei
Cacciatori d'Italia che si costituisce a Reumelly: è indirizzato al
nostro corpo: si consegnano a lui tutti i Francesi che figurano nei
nostri quadri. Tra questi infatti ci è della robaccia in tutta
l'estensione del termine: tra gli altri il sergente di scuderia che
converte la biada dei cavalli in bottiglie d'eccellente Borgogna: i
nostri cavalli sono ridotti allo stato di quello dell'Apocalisse.
Rimasti tra noi, in famiglia, si respira un po' più liberamente.


Arrivano da Marsiglia un centinaio d'Italiani, che il maggior
Pennazzi, aggregherà alla compagnia Egiziana. Arrivano a tempo.....
per ritornare con gli altri in Italia! Giungono pure due o tre che son
disertati dal Frapolli: ci raccontano come in Lione dei volgari
truffatori e dei veri e proprii malandrini da strada disonorino il
nome italiano in tal guisa da veder scritto a parole cubitali lungo le
vie: _Defendue la chémise rouge_. Ricomincia un po' di vaiolo! ne è
attaccato anche il nostro foriere: morire ora... la sarebbe birbona!..


Garibaldi parte per Bordeaux onde intervenire all'assemblea: lo
accompagnano Fontana, Gattorno, Vivaldi Pasqua e Galeazzi. Menotti
arrivato al mattino piglia il comando dell'armata dei Vosgi
interinalmente: è con lui Bizzoni.


Mi alzo più presto del solito, e vo' dalla bella _Marie_ a bever la
_goutte_--Socci--Mi grida una voce di basso profondo: mi volto e veggo
Galliano--Tu qui.... ora?--Vienci prima, se ti riesce!... il sor Bolis
mi ha tenuto fin ora in prigione: appena sono stato libero, son venuto
qua con dieci uomini.--Ma ora torniamo indietro....--Neanche per sogno
io li sò i progetti del generale.... se tu sapessi!....--Che
c'è?--C'è... ma per ora non lo dire a nessuno.... c'è, che ora si
scende in Nizza, si proclama la repubblica....--Sogni!--Vedrai.--E
t'han fatto nulla?--Son capitano--Si bagneranno i galloni?--Lasciami
prender l'entrata in campagna.--E a qual corpo ti hanno aggregato?--A
qual corpo?!... A dirtela non lo so neppure io.--Tanto meglio....


Una triste notizia; il colonnello Bossi, mentre accingevasi a partire
da Chalons è assalito da un trabocco di sangue e cade tra le braccia
dell'ufficiale di stato maggiore che lo ha accompagnato alla stazione.
Bossi era un vecchio soldato: franco e leale; non troppo ben visto dai
proprii dipendenti per la sua rigidezza, ma patriotta di antica tempra
e di coraggio prodigioso. Veterano di tutte le campagne d'Italia
lasciava colla sua morte un voto molto sensibile nelle file della
democrazia militante.


Passeggio svagolato sul _Quai_: sento fermarmi, mi volto credendo
ravvisare un amico e invece vedo un vecchio di fisonomia
rispettabile, che porta all'occhiello la fettuccia rossa della legione
d'onore. Siete Italiano?.... Mi domanda nel nostro idioma.--Sissignore, rispondo--Volete venire a farvi il ritratto?--Io lo sbircio bene bene, e quasi quasi suppongo che sia un
pazzo.--La mia domanda è assai strana, si affretta a soggiungere--ma
io sto facendo un'_Album_ dove intendo far collezione de' figurini dei
differenti corpi dell'Armata dei Vosgi.--Sicché io dovrei
venire?....--A fare da figurino delle Guide.--perché no?!--Borbotto:
dopo tutto è bellina! Non potendo farla da eroe sono utile almeno a
far da figurino!.... Mezz'ora dopo in eroico atteggiamento sono in
_posa_ difaccia a Monsieur Philip che mi parla di Firenze da lui
veduta, or sono trent'anni, che mi offre un _punch_ eccellente, e che
mi fa vedere un piccolo album tascabile, sul quale _en passant_ per la
via, ha schizzato dieci o dodici caricature di Garibaldini tra cui
quelle di tre miei amici, ripresi alla perfezione.

Esco dal pittore e vedo davanti al quartier generale: una folla
straordinaria di gente: i ragazzi si aggrappano alla cancellata del
giardino: i popolani formano dei crocchi: tutti discorrono
concitatamente e sgranano certi occhi da non avere invidia con quelli
di un bue, nella direzione del palazzo. Che è, che non è? Mille dubbi
tenzonano nella mia mente: mi faccio largo tra la calca a forza di
urtoni, tratto male le sentinelle che volevano precludermi il passo,
e tocco, come si suol dire, il Cielo con un dito, quando posso
sbirciare una guida, a cui immediatamente domando: Che è successo di
nuovo?--Nulla, sono arrivati due parlamentarii Prussiani....
l'armistizio è stato protratto e vengono a fissare le linee di
demarcazione.--Non chiedo altre spiegazioni e vo su nella sala
d'ordini: tutti gli ufficiali leggono pacificamente i giornali;
qualcuno si scalda al camminetto: ciò non mi produce alcun senso, gli
avevo veduti usare in tal modo nelle circostanze supreme, possono fare
così anche ora! ragioniamo con alcuni altri coi due bassi ufficiali
che hanno accompagnato il colonnello di stato maggiore che fa da
parlamentario: con nostra maraviglia li troviamo istruitissimi: ci
parlano con rispetto degli Italiani, ci dicono francamente che senza
di noi sarebbero andati a Lione, ma ci dichiarano con altrettanta
franchezza, che da noi non si aspettavano simile ingratitudine, da noi
che eravamo andati a Venezia soltanto per dato e fatto della Prussia.
Questa è proprio carina!.... I Francesi ce ne dicono di tutte un po',
perchè ci siamo dimenticati di Magenta e di Solferino, non accorrendo
come un'uomo solo dall'Alpi a Lilibeo, a dar due botte ai Prussiani: i
Prussiani ci gabellano addirittura per ingrati perché abbiam loro
strappato uno stendardo a Digione. La morale?.... La morale è questa:
Guai a coloro che hanno bisogno di una mano per sollevarsi; fortunati
coloro che sanno fare da se: chi fa da se fa per tre, dice un
proverbio e i proverbii, a detta di Salomone, sono la sapienza dei
popoli.

Dopo un lungo colloquio il parlamentario ritorna verso la Côte d'Or:
il popolo lo saluta con fischi. Assai brutta idea si devono aver fatta
quei Tedeschi della civiltà Francese; un popolo deve essere feroce
nella lotta d'indipendenza, ma dee mai sempre rispettare il diritto
delle genti e, cessati i guai, ha da ravvisare un fratello in colui
che ridotto macchina nelle mani di un re, può avergli fatto del male.

Ci giungono notizie dì Bordeaux.... e che brutte notizie!.... Le
nostre previsioni non sono andate fallite. La Francia accasciata sotto
la vigliaccheria, ha mandato al corpo Legislativo l'assemblea più
retrograda che immaginar si possa. Lo spirito generoso delle città è
stato soffocato dall'alito maligno della reazione provinciale. Niente
di strano: tutti in Chalons a mò d'esempio desiderano la pace,
riaccetterebbero Napoleone pur di non vedere un Prussiano: il mio
amico pittore tratta di buffone Gambetta, il padrone di casa maledice
la repubblica perché ha i suoi campi occupati dal nemico: nessuno
prenderebbe un fucile per ricacciare gli stranieri oltre Reno.... I
popoli hanno il governo che si meritano: in nazioni come la Francia
corrotte, son degni presidenti i Thiers, e veri rappresentanti i
_ruraux_ di Versailles.

Si leggono i giornali: Garibaldi è stato ricevuto iniquamente
nell'Assemblea: gli si è vietato persino di discorrere: una voce sola
ha tuonato in mezzo ai codardi in difesa dell'eroe: è la voce generosa
che si elevò da Guernesey in favore dei caduti di Mentana, è la voce
che ha agitato le fibre della decrepita Europa, e che ha fatto
allibire sui troni i regnanti: è la voce di Victor Hugo; fra tanti
cialtroni Garibaldi non poteva esser compreso degnamente che
dall'autore dei _Miserabili_.

Il Generale dava le sue dimissioni. Queste notizie finiscono di
rovinare il morale dei volontarii. Nessuno presta servigio, tutti
vogliono tornare in Italia.

Vedo _aux Vendanges de Bourgogne_ Castellazzo: mi perdoni l'egregio
amico, ma lo avevo scambiato per un barocciaio. Ha un cappellaccio di
pelo e una casacca pure di pelo. Gli parlo: egli, con
quell'abbigliamento, è riuscito a deludere la sorveglianza del nemico
ed ha attraversato le file prussiane. Anche lui è sfiduciato e mi dice
che in quanto al partire per noi può essere questione di giorni.


Siamo chiamati in quartiere: il nostro tenente dice di averci a fare
una importantissima comunicazione e fa leggere al foriere il seguente
ordine del giorno:

  «Ai bravi dell'Armata dei Vosgi.

  Io vi lascio con dolore, miei bravi, e sono costretto a tal
  separazione da circostanze imperiose.

  Ritornando ai vostri focolari raccontate alle vostre famiglie i
  lavori, le fatiche, i combattimenti che abbiamo sostenuti insieme
  per la santa causa della repubblica.

  Dite loro sopratutto che aveste un capo che vi amava come figli e
  che andava orgoglioso della vostra bravura.

  A rivederci in circostanze migliori.

                                      GIUSEPPE GARIBALDI

Terminata questa lettura, do un'occhiata ai compagni, vedo degli occhi
lustri e non posso fare a meno di notare un silenzio molto eloquente:
non vi è che dire; i miei compagni sono tutti commossi, quanto lo sono
io. Le generose parole dell'eroe sono scese nel cuore di tutti: ci
insultino pure i Giuda politici, i prezzolati campioni della
Monarchia, ci chiamino vagabondi e gente che non ha nulla da perdere,
le nostre fatiche non potevano esser meglio ricompensate, le nostre
idee non potevano esser meglio comprese. Una sola parola di elogio
sgorgata dalle labbra intemerate di Garibaldi vale di più di tutti i
belati della mandra comprata; il nostro non è feticismo, non è un moto
idolatra, è la giusta estimazione che gli uomini di cuore devono mai
sempre nutrire per coloro che hanno tanta benemerenza verso l'umanità,
per coloro la di cui vita è stata sempre un continuo sacrifizio, una
continua abnegazione in favore delle magnanime idee.

Si legge anche un ordine del giorno di Bordone; non manca pur questo
di generosità, ma quali parole possono fare effetto dopo quelle del
Romito di Caprera?


Tornano da Digione alcuni nostri feriti, tra i quali Pianigiani. Non
si lagnano del contegno dei Prussiani, e fanno molti elogii di quello
del popolo, sempre repubblicano anche in presenza degli invasori. Ci
parlano della magnificenza dei funerali del Perla. Un battaglione
Prussiano ha reso gli onori militari alla salma: tutta la popolazione
è corsa lungo le vie da cui è passato il funebre corteo; la madre del
prode maggiore non ha curato i lunghi disagii del viaggio ed è corsa
onde essere in tempo a far meno triste l'agonia del figliuolo; essa lo
ha accompagnato al sepolcro. Povera donna!.. se tuo figlio è morto
gloriosamente, se il di lui nome sarà eternamente celebrato tra quello
dei martiri della libertà, tu non cessi di esser madre e hai diritto
di piangere: le lacrime delle madri sono la rugiada benefica che fa
rinvigorire le magnanime idee. Distruggiamo i tiranni e nessuna avrà
da piangere su di un figlio innanzi tempo rubato all'avvenire e alla
patria.

È partito per Avignone il terzo degli usseri. Erano buoni figliuoli e
durante la campagna hanno fatto un servizio di ferro Li abbiamo
accompagnati alla stazione: hanno voluto abbracciarci e ci hanno
lasciato gridando: Viva l'Italia, rammentatevi di noi!... Non temete,
bravi figliuoli, noi non potremo dimenticarvi: noi vi abbiamo veduto
volare intrepidamente di faccia al nemico, noi abbiamo spezzato il
poco pane con voi, noi vi si siamo affezionati nelle fatiche, nei
disagi che abbiamo sostenuti per la repubblica... certe cose le non si
dimenticano mai!


Un'altra bellina!... L'amico Kane si trova senza quattrini e sente
tutta la necessità di fare un pranzo lucullesco. Cosa inventa? Va da
Monsieur Coq, il nostro cittadino trattore, e a faccia tosta gli
annunzia di esser passato ufficiale. Monsieur Coq lo guarda con aria
d'ammirazione e gli dà il mi rallegro. Kane gli fa osservare la
necessità di dare un banchetto agli amici, e, consenziente il
trattore, ordina un lautissimo desinare da pagarsi appena riscossa
l'entrata in campagna. Io sono del bel numero uno degli invitati. Il
giorno dopo, si hanno da vendere i cavalli di rimonta e, a farlo
apposta, tra le povere vittime designate per condurli in giro e per
trovar compratori è designato anche l'apocrifo ufficiale. Non senza
stiacciare dei moccoli, il disgraziato agguanta le redini di uno dei
più sghangherati Bucefali e va cogli altri sotto l'obelisco della
Piazza per portarlo all'incanto. Noi cerchiamo in tutti i modi di far
prender cappello al nostro amico: ora gli si da la baia, ora si esige
che metta al trotto la bestia: sul più bello delle nostre burlette,
capita in mezzo a noi, come lo spettro di Banco, il povero Monsieur
Coq, vede il preteso ufficiale che fa quel basso servizio, fa un
urlaccio e rimane come Don Bartolo: dal canto suo Kane non sa quali
pesci si prendere, e ci dà certe occhiate da commuovere i sassi, ma
che ci fanno scompisciar dalle risa. Silenzio di un paio di minuti,
finalmente l'amico nostro si risolve, empie di chiacchere la testa
dell'oste e te lo ingarbuglia in modo tale da persuaderlo a comprare
il cavallo e così tra sconto, tra senseria ed altri ammennicoli, chi
ha avuto ha avuto e tutti rimangon contenti!


Il comando dell'Armata dei Vosgi è passato nelle mani del vice
ammiraglio Penohat. In tempo di rivoluzione niente di strano che un
uomo di mare comandi un armata di terra.... eppoi, ce lo han ripetuto,
egli viene per scioglierci. _Laus Deo_: ci leveremo alla fine da
questa vita noiosa, di cui le feste improvvisate all'_Hotel du Parc_,
le facili conquiste delle Veneri appassite che passeggiano sui
_Quais_, la maldicenza su tutto e su tutti, compendiano tutte le fasi.
Se si restasse un altro mese, ci abbrutiremmo di più degli ubriachi
d'assenzio che riscontriamo ogni mattina, quando ci si leva dal letto.
Questi ultimi non sono pochi. L'uso dell'assenzio è stata una delle
rovine di Francia.

Altri due parlamentari Prussiani! La popolazione s'insospettisce: la
strada infaccia al quartiere generale è gremita di gente: si sussurra,
si grida: bisogna rinforzare la guardia al cancello. I parlamentari
partono quasi subito e la calma si ristabilisce. Alcuni dicono che il
nemico concede altri otto giorni d'armistizio, purché sia occupato
anche il dipartimento di Saone e Loire... Vedremo!


Vien l'ordine di restituire i nostri cavalli e di portarli al deposito
di rimonta a Macon. Buon segno!.. Io sono incaricato della missione,
prendo meco dieci uomini e vo per quella direzione. Appena arrivati,
sentiamo tutti un gran desiderio di mangiare e di vedere una nuova
città. Lasciamo nei vagoni i cavalli, senza curarci di dar loro quel
pasto che tanto si anela per noi ed a corsa entriamo in Macon: si
questiona col sindaco per aver il biglietto d'alloggio; finalmente ci
vien concesso, io vado in casa di una bellissima vedova: mi metto a
dormire in uno stanzino accanto alla sua camera; però prima lei chiude
l'uscio con doppio giro di chiave; le precauzioni non sono mai troppe!
Al mattino ci rammentiamo dei cavalli: si vanno a prendere e ci si
monta a pelo per condurli al deposito. Ci riceve un vecchio capitano
che ci guarda a squarciasacco, arricciandosi i lunghi mustacchi, e
battendo il frustino sugli stivali. Ci ordina di metter le bestie in
una vastissima scuderia. Maledizione! Queste hanno tanta fame che si
mettono a dar dentate al legno della mangiatoia. Si figurino i lettori
quali occhi piantasse nei nostri il capitano! Sbuffò come un istrice,
bestemmiò un paio di _sacres tonners_ e poi in tuono burbero ci
chiese: Ma da quanto tempo non mangiavano questi cavalli?--Fingi di
non capire il francese, mi sussurra un vecchio merlo che ho accanto.
Così faccio, non rispondo ad alcuna domanda, il vecchio soldato ci
manda al diavolo e noi andiamo a desinare. Il nostro pasto si prolunga
tanto, che non solo non possiamo veder la città, ma arriviamo a buco
per la partenza del treno.

Appena scesi dalla stazione di Chalons, ci colpisce la vista un
insolito brulichio di persone: la vasta piazza dell'obelisco è
occupata da capannelli che si agitano, si sbracciano, discorrono ad
altissima voce. Domandiamo a qualcuno che cosa è avvenuto: ci si
risponde che domani i Prussiani saranno in città. Ci si stringe nelle
spalle e si entra nella _grande Rue_: questa è tanto affollata che
bisogna procedervi a forza di spinte; per pervenire alla
sottoprefettura ci è necessaria una buona mezzora. Il popolo è più
abbattuto che mai: qualcuno si azzarda a proferire a bassa voce la
parola tradimento. Pesco altre notizie: oggi scade l'ultima proroga
dell'armistizio, nessuno avviso è venuto, niente di più facile che
ricomincino l'ostilità. Incontro finalmente il nostro tenente--Stia
pronto a partire, mi dice--Verso Chagny?--Nemmen per idea, noi andiamo
a Macon--O i Prussiani?--Ci crede anche lei?... Va via il quartiere
generale, ecco tutto; in settimana ci danno il congedo, fra quindici
giorni siamo in Italia--E si parte?--Domattina alle quattro.--La
partenza dello stato maggiore aveva prodotto quel panico da cui era
occupata tutta la città.


Vo a casa: per via non posso fare a meno di pensare a tutti gli addii,
a tutte le promesse, a tutti i pianti che si faranno nel corso di
questa nottata; sento la voluttà di non lasciare nemmeno uno spicchio
di cuore in questa graziosa città. Annunzio ai miei ospiti la mia
vicina partenza; mi dicono le solite cose e mi offrono da bere; passo
in salotto e mi trovo in compagnia con un prete che dice ira di Dio di
Vittorio Emanuele perchè ha osato di entrare nell'eterna città: messo
a punto, è la prima volta che faccio il realista (che il Cielo me lo
perdoni!): nasce un battibecco, i padroni di casa mi fanno il viso
dell'arme: mi avveggo che se domani non partissi loro troverebbero
qualche pretesto per mettermi gentilmente alla porta. Vo in camera è
comincio a fare i fagotti: sento bussare dolcemente alla porta e vedo
entrare Maguelonne, un bel tipo provenzale, una delle _bonnes_ della
famiglia. È in completo _deshabillè_ le domando cosa desidera--Son
venuta ad aiutarvi, mi risponde con una mossa provocante e lanciandomi
un'occhiata assassina--Capisco l'antifona, ma mi ha messo tanto
malumore la disputa col curato, ma son tanto felice di andarmene che
risolvo di far l'indiano per vedere se la appetitosa fanciulla mi si
leva d'intorno. E pensare che il mio compagno d'abitazione le he fatto
una corte spietata e che dopo un'infinità di salamelecchi non è giunto
a ricever da lei che... uno schiaffo. Proprio la fortuna favorisce i
poltroni! Prima il solito discorso della mia amante italiana, poi le
solite proteste d'affetto ai soldati, mille bei discorsi insomma a'
quali rispondo, come le mura testimoni di quel colloquio. Il vecchio
Giuseppe Ebreo è un Don Giovanni a paragone mio... in questa sera.
Terminato che ho d'accomodar la mia roba, cogli occhi fissi in terra,
che alzandoli ho paura di perdere la tramontana, auguro la buona notte
all'inaspettata visitatrice. Oh! disillusione!... Essa mi stende
graziosamente la mano e con un tuono di voce gentile mi dice: E non
avete da dar nulla alla _bonne_? Alzo gli occhi; la stoccata fa perder
la poesia; le do uno scudo che m'esce dal cuore e vo per darle anche
un abbraccio... è troppo tardi: lo schiaffo del mio povero compagno
riceve una seconda edizione nella mia povera guancia!... vo a letto
bestemmiando, mentre sento nella stanza accanto le risate della
birichina.


Mi alzo elle quattro: è un buio d'inferno: per rischiararmi la vista
prendo due _gouttes_, poi vo di corsa alla foreria. I nostri sono già
in rango: si aspetta mezz'ora, cominciamo a impazientirsi.... dopo
un'ora eccoti l'ordine che partiremo alle dieci. Rinunzio a descrìvere
la salva d'imprecazioni con cui viene accolto un tale annunzio! Si va
al caffè; trovo un campagnolo che mi si appiccica: va a Belfort, suo
fratello fa parte di quella eroica guarnigione che sola in tutta la
campagna ha capitolato coll'onore dell'armi; sarà morto, sarà ferito
il povero diavolo? Il mio nuovo conoscente non ne sa un'acca, ma spera
ed è allegro come uno sposo novello; mi invita ad ogni costo a far
colazione con lui; la colazione è sì lauta che le trombe chiamano a
raccolta e noi non abbiamo ancora finito di trincare. Esco mezzo in
bernecche, mi accodo agli altri; appena arrivato sotto la stazione
schizzo in un vagone di prima; cinque minuti dopo mi addormento
saporitamente per destarmi a Macon.



CAPITOLO XXVIII.


Mi perdonino i lettori, se tanto li ho intrattenuti con certi dettagli
di minima importanza e forse tali da raffreddar l'interesse di questa
mia narrazione, se pure da qualcuno di facile contentatura ci si può
ravvisare dell'interesse: oramai avevo buttato giù queste note e non
ho potuto resistere al desiderio di pubblicarle: nella vita oziosa,
monotona che siamo, purtroppo, costretti a condurre in Italia, le
reminiscenze di un tempo che, se non era bellissimo, ci offriva almeno
il destro di poter favellare col cuore sulle labbra e dire cogli amici
ad alta voce i propositi ardenti che ci bollivano in seno, senza aver
paura dei birri e del procuratore del re, parlano una voce così
eloquente al mio cuore, che il più piccolo nonnulla di tale epoca, che
in tanta degradazione io veggo passarmi davanti agli occhi della
fantasia, caramente diletta come una illusione svanita, o come un
sogno perduto, m'ispira un'affezione che non saprei abbastanza
spiegare, ed egoista come tutti gli uomini che sono sotto
l'impressione di un'affetto dimentico gli altri per non deliziar che
me stesso. Fatte alla peggio queste mie scuse, ritorno al racconto
che, grazie al cielo, è quasi giunto al suo termine.

Macon è il capoluogo del dipartimento di Sâone et Loire; in tempi di
pace è celebre per il _buffet_ della stazione e per le mode originali
delle sue donne del popolo; in tempo di guerra noi vi trovammo delle
gentilissime signore che rivolgevano ogni cura per alleviare i feriti
e per recar conforto ai soldati di passaggio: in tempo d'armistizio,
come ci si capitava ora, non rinvenimmo che di bei _caffè_, delle
donne eleganti e un giornale Buonapartista ad oltranza, che ci
screditava facendo di noi certe biografie imposibili, piene di una
filza di menzogne.

Non sto a dire qual folla di gente invadessero i pacifici uffizi della
_Mairie_, appena noi fummo arrivati. Il _Maire_ protestava sbuffava,
sudava: tutti volevano esser serviti alla prima ed egli non serviva
nessuno: per temperamento fu deciso di dare solamente i biglietti
d'alloggio agli ufficiali: mi fo prestare il berretto al tenente Mussi
e in poco tempo non che con uno mi trovo con quattro biglietti in
saccoccia. Il primo di questi era per un marchese, il secondo per un
droghiere, il terzo per un macchinista della ferrovia. Preferii
quest'ultimo: piccato ad osservare, volevo conoscere intimamente i
sentimenti del popolo e di più provavo il bisogno di ritemprar la mia
anima in una atmosfera serena, in quella calma che sempre si trova nel
tugurio del povero, quasi mai nella dorata magione del ricco Nababbo.

Nè mal mi era apposto: una fanciulla dall'aria ingenua, dal vestitino
d'indiana mi ricevè con aria franca, poi l'andò a chiamare la mamma:
questa era una vecchiarella che si perse in inchini, che mi sgranò in
faccia due occhioni grossi come pan tondi quando seppe che io era nato
in Italia e che per andare da Macon ai confini d'Italia ci erano più
di duecento miglia: le due donne mi prepararono una cameretta pulita,
modesta, degna di accogliere una vergine: non so perché, ma quell'aria
mi purificava, e non trovavo verso di staccarmi da quelle due
donnicciole che parlavano il linguaggio dell'ignoranza, l'unico che
si parte veramente dal cuore.

Noi eravamo andati a Macon per disciogliersi; pure ci trattennero due
giorni in un ozio increscioso: a romper la monotonia di quelle lunghe
ore venne il _Journal de Macon_. In un articolo pieno di bile la più
velenosa, il venduto imbrattator di carte si scagliava su noi in modo
veramente indecente. Dopo aver detto ira di Dio di Garibaldi e
Gambetta, l'articolista aveva lo spudorato coraggio di chiamarci i
cavalieri erranti della repubblica, i fannulloni Italiani che erano
andati in Francia a fare i signori, gli spavaldi guerrieri che non
avevano mai veduto il fuoco ma, che trattavano il dipartimento di
Saône e Loire, come se fosse un paese conquistato.

Mettere una mano in un alveare e scrivere quella robaccia fu la
medesima cosa! In poche ore più di trecento Garibaldini corsero
all'ufficio del malcapitato giornale: un pagliaccio qualunque,
allibito dalla paura, si scusava, si profondeva in mille proteste,
dava insomma tal prova di vigliaccheria, che nessuno dei nostri volle
sporcarsi le mani col dargliele sul muso.

Il giorno dopo il giornale escì fuori colle due prime colonne in
bianco: più sotto vi era una protesta, in cui si dichiarava che la
libera stampa deve tacere là dove regna la sciabola. È un fatto: i
giornalisti codardi e venduti son come i rospi, bisogna schiacciarli.

Dopo tale incidente cominciava a rinascere in noi il malumore. A che
ci trattengono? si cominciava a dire tra noi; forse non è finita la
guerra?... Non veggono forse come noi cominciamo a trovarci in una
situazione abbastanza anormale?.... E qui gli stessi lamenti, e gli
stessi lunghi discorsi, da cui, stringi stringi, non si poteva
rilevare che l'immenso desiderio che occupava noi tutti di rivedere al
più presto l'Italia.

Alcuni avevano già indossato abiti cittadineschi: non vi erano più
appelli, non si salutavano più i superiori; ai caffè erano liti
continue e baruffe da dare scandalo alla popolazione: alcuni per
distrarsi si affidavano all'opera energica del _vieux Mecon_ e quindi
sbornie a cascare su tutta la linea. Era infine una vitaccia
inconcludente che ci rovinava la salute e che ci faceva mandare in
quel paese da tutti coloro che amano la pace.

Arriva finalmente la legione Ravelli per essere disarmata; lo stesso
giorno disarmano noi, promettendoci pel dì dopo due mesi di paga e il
congedo. Due mesi di paga e a spese nostre il viaggio!.... E pensare
che il soldato avea un franco il giorno!.... La repubblica Francese
non fu certamente prodiga con coloro che così prodigalmente avevano
esposto la vita per lei.

Pure quella sera fu baldoria: si trattava di tornare in Italia, di
riveder la famiglia, gli amici, e non osavamo misurare col pensiero
quelle poche ore che ci dividevano dall'istante bramato, tanto era la
nostra bramosia d'arrivarvi: mai ho sentito l'amor di patria, come
quando ne sono stato lontano: so anche io che l'idea falsa della
nazionalità deve o prima o poi cedere in faccia a quella santissima
dell'umanità, ma che volete? Noi, che abbiamo avuto la disgrazia di
nascere in un periodo di transizione, noi che siamo stati tirati su
colle idee vecchie, noi che abbiamo veduto il sacrificio di tanti
martiri, che abbiamo assistito alle lotte generose che i giovani più
magnanimi hanno intrapreso contro i governi e contro gli eserciti
stranieri per raffermare il principio della nazionale unità, non
abbiamo potuto non affezzionarci a quella patria che ci hanno
insegnato a rispettare più di noi stessi gli scritti di tanti filosofi
ed il sangue di tanti eroi. Capisco tutto l'immensa poesia del futuro,
mi sento capace di sacrificarmi per la causa della libertà in
qualunque luogo la vegga risorgere o la vegga in pericolo, ma a conti
fatti se a qualche straniero saltasse il ticchio di voler venire a
spadroneggiare di qua dall'Alpi mi sento pure capace d'impugnare un
fucile anche colla monarchia e forse collo stesso entusiasmo, con cui
lo facemmo nel 1866. Non vi nego che in ciò si possa riscontrare della
contradizione, ma a certi sentimenti non si comanda ed il cuore, vero
rivoluzionario, non si può piegare alle disquisizioni dei dottrinari,
i quali per predicare son usi a dar dei punti a Fra Girolamo,
buon'anima sua, per fare sono più impotenti dei poveri Eunuchi.

Furono disarmate le legioni Italiane (mi dimenticavo di dire che era
arrivata anche quella del valoroso Tanara) furono disarmati i _Franc
Tireurs_: molti di questi ultimi non volevano depositare le loro armi:
gli Spagnoli minacciarono un ammutinamento «con queste armi noi
vogliamo passare i Pirenei e mandare a gallina quel buffone che
l'Europa ha voluto regalarci per re» tali a un dipresso erano i loro
discorsi. E quando, ridotti a buon partito dai consigli dei superiori,
si decisero di sciogliersi pacificamente, ci vollero stringer la mano
e dicendoci addio aveano le lacrime agli occhi.

Voi ci diceste addio, o giovani generosi che nei giorni del pericolo
ci siamo abituati ad amare come fratelli, ma io, e con me tutti i miei
compagni d'arme, vi diciamo: a rivederci. La libertà non ha ancora
piantato radici nella decrepita Europa, e poco può tardare un nuovo
appello che richiami i generosi di qualunque nazione ai santi
combattimenti a prò di un'idea. In quel giorno io sono sicuro di
rivedervi, io sono sicuro di tornare a divider con voi le lunghe
fatiche, i diuturni disagii, forse anche la morte, ne sono sicuro,
perchè io vi ho veduti intrepidi difaccia al fuoco dell'inimico,
sublimi nei sacrifizii, sempre pari ai principii magnanimi che vi
covano in seno. A rivederci adunque, o figli prediletti della libertà,
o generosi precursori di quel beato avvenire in cui tutti saremo più
che compagni fratelli, in cui non ci saranno le guerre, in cui ogni
uomo sarà eguale davanti all'altro uomo. Posando le vostre carabine,
tornando alle vostre case, parlate ai fratelli, agli amici le sante
parole del vero, dell'eguaglianza, della giustizia: battaglieri in
tempo di guerra, siate apostoli in tempo di pace... A rivederci per
poco, a rivederci... allorchè tuonerà di nuovo il cannone, allorchè un
altro popolo sorga dal fango, dove lo han tenuto i suoi re, ed abbia
la forza d'insorgere, nessuno di noi mancherà all'appello glorioso; le
file dei soldati della libertà saranno rinforzate dai nuovi campioni,
ma io sono sicuro di ritrovarvi al vostro posto, di ristringervi la
mano tra il fischiar delle palle è il gemitio dei feriti!.. A
rivederci!

Miquelf ci chiama in fretta e furia, ci da i due mesi di paga e ci
ordina di partire il giorno dopo col treno delle quattro e quaranta
antimeridiane.

Decidiamo di non andare a dormire: vo a casa, faccio alla meglio il
mio piccolo involto, bacio tutta la famiglia dei miei ospiti, torno
dagli amici, che sono _au soleil couchaut_, trattoria dove si mangia
benissimo, e beviamo un'infinità di bottiglie.

Il primo giorno che arrivammo a Marsiglia avevamo cercato allegria al
Dio Bacco: se non altro per debito di riconoscenza, dovevamo offrirgli
copiose libazioni anche nelle ultime ore che ci si tratteneva nelle
terre di Francia.

A mezzanotte si chiuse la trattoria; girellammo per persi un'oretta
nelle deserte vie di Macon: per passare le altre tre, ed essendo
abbastanza assonnati, credemmo che non sarebbe stato cosa malfatta
sonnecchiare un pochino, ma quasi tutti avevamo detto addio a coloro
che ci avevano ospitato; per cui ci riducemmo in dodici nella camera
di un nostro amico: la notte antecedente alla mia partenza di Firenze
aveva un degno riscontro nell'ultima che passavamo lassù. Quattro
saltaron sul letto, gli altri, me compreso, si buttaron per terra
facendo un diavoleto indescrivibile. Nessuno potè dormire: tutti ci
perdevamo in congetture più o meno umoristiche sulle accoglienze che
avremmo avuto in Italia.

Suonarono le tre e ci avviammo alla stazione: si bevve per l'ultima
volta una buona bottiglia di _vieux Macon_ e poi ci buttammo nei
vagoni a noi destinati.

La macchina fischia: il treno è in movimento: ci spenzoliamo,
quantunque sia sempre buio, per dare un ultimo saluto alla città, e
non possiamo a meno di ripeter tra noi: Povera Francia! Si cammina, si
cammina per tutta la mattinata; traversiamo l'Est della Francia: si
arriva alla Savoja: traversiamo i suoi monti, siamo colpiti
dall'immensa poesia che fanno piover nel cuore le folte boscaglie, gli
scoscesi macigni, il verde cupo degli alberi, tutt'a un tratto
intramezzati da estese pianure di neve. La ferrovia va per lungo
spazio sul lago di Chautillon: quel lago stretto, monotono, lungo:
quella neve, quella solitudine così bella nella sua orridezza ha
qualcosa d'imponente: quanto volentieri me ne anderei sul muricciolo
di quella chiesetta che sbuca sulla cima del promontorio: La è
circondata da pini: una cascata che va a versarsi nel lago scaturisce
a pochi passi da lei e di lassù ci deve essere un incantevole colpo
d'occhio. Delle mandre di pecore s'inerpicano sui sassi che le fanno
ghirlanda: il montanino vi corre per dare un pensiero ai suoi morti e
poi ne ritorna cantando le ispirate canzoni che suol dettare ne'
vergini cuori la poesia dell'aperta campagna.... ah! come sarei felice
di viver lassù, lontano dal rumore del mondo, solo con le mie
meditazioni, salutando con un inno il sole che nasce, ritrovando una
lacrima, quando la squilla della sera che invita a pregar pei morti
ripercotesse quell'aure calme, che t'incitano a esser buono e a
sperare.

Mi avveggo che io, fumatore per eccellenza, ho da due ore il sigaro
spento e che non ho importunato alcun'amico per avere un fiammifero.

Giungiamo a Chambery; ci tratteniamo alcuni minuti: tanto, perchè le
gentili signore della capitale della Savoia ci offrano una
refezioncella, a cui facciamo onore con un'appetito invidiabile.

Altre montagne, altri boschi, Montmelian in lontananza, ecco cosa ci
offre il breve tragitto che da Chambery ha da farsi per arrivare a
Saint Michel. Qui ci si ferma una buona mezz'ora: fa un freddo
indiavolato: ci sembra di esser ritornati ai primi giorni della
campagna: si monta nel treno Fell, e ci si accinge a traversare le
Alpi.

Il passeggio delle Alpi colla ferrovia Fell è una cosa imponente: il
pauroso che si affaccia al vagone in tal traversata, son persuaso, che
passa un cattivo momento: ma per noi, che tanto poco curiamo i
pericoli, vi assicuro che è uno dei più attraenti spettacoli. Trovarsi
in cima a burroni tanto scoscesi da perder gli occhi per volerne
rintracciare la fine, vedere ogni tanto qualche picco, passare in
mezzo a una neve perenne, osservare le centinaia di croci che in
ricordo di disgrazie avvenute son seminate lungo la via, ti da un
ebbrezza da farti pigliare la vertigine. Ah! potenza del progresso!...
Quell'Alpi che Annibale e Napoleone giunsero solamente a valicare con
tanta iattura dei suoi, or si sorpassano in poco più di quattro ore,
e, quando sarà compiuto il foro del Moncenisio, i cui lavori non
possiamo a meno di ammirare anche trasvolando quassù, il più imbecille
dei commessi viaggiatori supererà i baluardi della natura, fino ora
detti insuperabili, nel medesimo tempo che agli eroi ci voleva per
muovere solamente di un passo una balestra o un cannone.

Traversiamo Modane: Modane è un grazioso, bizzarro e pittoresco
paesucolo di case di legno, di capanne fatte alla peggio, ove abita la
gran quantità degli operai che sono occupati ai lavori della ferrovia.
Ci si beve una grappa eccellente: le donne vi posson trovare a
qualunque ora un buon bicchiere di latte.

Il nostro guardatreni scende e ne sale uno nuovo, il quale fa presto
amicizia con noi: ci dice in buona lingua Italiana che alla mattina ha
accompagnato tre ufficiali dello stato maggiore italiano e che uno
scese più avanti per studiar quelle posizioni. Gran meraviglia da
parte nostra: tre ufficiali di stato maggiore che studiano, ma dunque
in Italia voglion morire?!

Vediamo il forte d'Esilles.

--Ora siamo in Italia--Mi dice il guardatreni.

Sento allargarmi il cuore: un senso di dolcezza mi corre di fibra in
fibra e ripeto, entusiasta agli amici: Siamo in Italia.

--E ora?--Mi risponde uno in tuono di dubbiosa ansietà.

--E ora che?... Di rimando rispondo.

--Come ci tratteranno i nostri padroni?

Restai pensieroso, ma uno, certamente più giovine e per conseguenza
più poeta di me, prese la parola e schiccherò questo bel discorsino.
Come vuoi che ci trattino?... Io lassù in Francia ho letto dei
giornali e tutti dicevano bene di noi e celebravano le vittorie di
Garibaldi: la nostra gloria, assicuratevelo, ha avuto un'eco potente
nelle nostre città, quantunque avvilite e prostrate sotto il falso
sistema che le corrompe, tenendole schiave: noi non siamo fuggiti:
reietti dal governo Francese, pochi, senz'arme abbiamo vinto: i nostri
compagni più cari, i giovini in cui l'Italia riponeva ogni sua
speranza si son lasciati cadaveri: la morte ha falciato nelle nostre
file con più animazione di quella con cui il colono falcia le spiche:
poveri siamo partiti, più poveri siamo tornati: abbiamo affrontato
fatiche che a narrarle soltanto possono sembrare impossibili, abbiamo
fatto sempre il nostro dovere... come vuoi che ci accolga il nostro
popolo, come vuoi che ci accolga il nostro governo? Abbiamo forse
fatto disonore all'Italia? le glorie della camicia rossa non sono
state oscurate: il nostro debito di graditudine verso la Francia è
stato pagato; abbiam vinto, abbiam tolto una bandiera al nemico ah!
non temete: il governo Italiano non si darà per inteso del nostro
arrivo, e non ci farà dei soprusi... è impossibile!... La gloria
Italiana si è arricchita di una nuova pagina, e chiunque si sente
balzare nel petto un cuore che risponda degnamente a' sentimenti
italiani, non potrà che applaudirci.

--Va bene--Gridammo noi tutti solleticati a tale speranza--Va
bene--Viva l'Italia!

--Evviva tutti coloro che non son mai mancati al proprio dovere!...

--E che gli avversarii onesti sono in obbligo di rispettare...

--Come farà il governo Italiano!

--Susa!...--Grida in perfetto accento piemontese la guardia della
stazione.

--Ci siamo!--Si grida noi tutti, emettendo un sospiro di contentezza.

Scendiamo, anche avanti che il treno si fermi: calpestiamo con
compiacenza la terra italiana, le parole semibarbare di due o tre
paesani che ci stringono la mano, ci sembrano una musica
paradisiaca...

--Facciano il piacere di venire con noi--Mi dice battendomi sulla
spalla, un carabiniere.

--E dove si ha andare?...

--Dal sor Delegato...

--Ho capito...

Povero amico!... Come hai speso bene il tuo fiato, quando ci hai
voluto convincere sulle buone grazie che il governo Italiano avrebbe
usato a nostro riguardo!... Seguitiamo dunque i carabinieri e andiamo
dal sor Delegato...



FINE





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Da Firenze a Digione: Impressioni di un reduce Garibaldino" ***

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