Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Cronache Letterarie
Author: Capuana, Luigi, 1839-1915
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Cronache Letterarie" ***


Libraries)



  LUIGI CAPUANA


  Cronache Letterarie



  CATANIA

  CAV. NICCOLÒ GIANNOTTA, EDITORE

  Via Lincoln, 271-273-275 e via Manzoni, 77.
  Stabile proprio.
  1899.


  PROPRIETÀ LETTERARIA

  CATANIA--Tipografia di Lorenzo Rizzo.



NUOVI IDEALI D'ARTE E DI CRITICA

(Conferenza detta il giorno 11 maggio 1899 nella sala del Teatro Nuovo
di Pisa, a beneficio degli Asili Infantili.)


_Signore e Signori._

Ogni volta che sento ragionare o sragionare di arte--e a me accade
spesso, bene o male, essa è il mio mestiere--mi torna in mente una
mirabile pagina di Francesco De Sanctis a proposito della Divina
Commedia. Con arguta genialità, egli dimostra come Dante, volendo fare
un'allegoria etico-religiosa, sia stato costretto dalla sua natura di
poeta a ribellarsi contro il concetto astratto, a dargli forma viva e
solida, a farne una creazione immortale. _La favola lo scalda, lo
soverchia_--egli dice--_e vi si lascia indietro come innamorato, nè sa
creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dall'ispirazione, non
gli è possibile starsi col secondo senso dinanzi (il senso
etico-religioso) e formar figure mozze che si rispondono appuntino,
particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce ai
mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene sè
stessa; il figurato scompare in tanta pienezza di vita, fra tanti
particolari. Indi la disperazione dei commentatori: egli fece il suo
mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini._

Fare il suo mondo e abbandonarlo alle dispute degli uomini, ecco quel
che mi sembra debba essere l'ideale di ogni artista. In altri termini,
questo vuol dire che l'essenza dell'Arte è la forma, nel più alto
significato di questa parola, e che tutto il resto è sostrato, materia
inorganica, di cui essa deve servirsi pel suo scopo creativo, e
nient'altro. Per ciò io mi sento invadere da un profondo senso di
tristezza e di scoramento ogni volta che nelle discussioni odierne
intorno al concetto dell'Arte odo ragionare di ideali nuovi, che poi
sono astrattezze estetiche o filosofiche, e mettere in seconda anzi in
ultima linea la quistione della forma.

Capisco benissimo che in un secolo quale il nostro, tutto pervaso di
positivismo e di riflessione, in un secolo che cerca ansiosamente
nuove vie nelle industrie, nelle scienze, nella costituzione sociale,
il problema dell'Arte s'imponga alla meditazione di coloro che
studiano i fenomeni dello spirito umano e vogliono rendersene ragione.
Mi stupisce però il vedere la confusione che avviene in questo studio
pieno di tanto interesse, lo scambio che suol farsi di quel che
costituisce la intima ed essenziale natura dell'Arte con altri
elementi, indispensabili certamente, ma secondari, se non si vuole
ridurla qualcosa d'irriconoscibile, di mostruoso, di ambiguo, Arte
insomma e nello stesso tempo non Arte.

È strano intanto che oggi questo non accada soltanto tra coloro che
sono critici, scienziati, pensatori; sarebbe spiegabilissimo. Accade
pure--e per ciò genera maggiore imbarazzo--tra coloro che hanno
chiesto o chiedono all'Arte le più elevate soddisfazioni e cercano di
farla vivere e prosperare rinnovandola, mettendola, dicono, a paro con
le altre funzioni dello Spirito, con la Scienza o con la Religione,
quasi l'Arte abbia qualcosa da spartire con queste due grandi forze
della vita civile.

Si dimentica con facilità che nell'Arte il pensiero opera, sì--e non
potrebbe accadere altrimenti--ma soltanto con una delle sue forme,
l'immaginazione. Che se egli dovesse operare da riflessione, vi
verrebbe a fare cosa fuori luogo, perchè Arte e concetto astratto sono
incompatibili tra loro. Chi ha voluto così è la Natura, la Legge
suprema dello Spirito, e noi non possiamo arbitrariamente mutarlo.
Tentandolo, commettiamo un sacrilegio o una sciocchezza, come meglio
piace. Ed è quel che mi sono proposto di accennare, ingegnandomi di
abusare il meno possibile della loro cortese indulgenza.

                              *
                             * *

Che cosa è l'Arte?

Se lo è domandato, per quindici anni, Leone Tolstoi, e alla fine il
grandissimo artista ha conchiuso la sua lunga inchiesta con la
condanna di quasi tutte le opere d'arte antiche e moderne,
cominciando, come Bruto, dall'ammazzare i suoi figli.

Terminata la lettura del suo ultimo libro, che ha per titolo quella
domanda, si rimane perplessi. Chi ha ragione? Lui o la storia? Lui o
l'umanità che non si sazia di ammirare le opere d'arte antiche e
moderne, e di chiederne ancora altre ai poeti, ai romanzieri, ai
pittori, ai musicisti?

Il suo libro, in certi punti, è di una logica così stringente che, se
per poco gli si mena buona una delle premesse, bisogna accettarne, per
non cascare in contraddizione, le conseguenze.

Fortunatamente, l'arbitrarietà di alcune premesse può sfuggire a
pochissimi lettori; e non ostante il rispetto che si ha per l'autore
dei due o tre capolavori che onoreranno, con pochi altri, presso i
posteri l'arte narrativa del morente secolo, si finisce con vincere la
perplessità d'un istante e sentire compassione del potente ingegno di
artista immiserito dal misticismo da cui è stato vinto in questi
ultimi anni. Compassione ed ammirazione in una; giacchè si capisce
quanta fortezza ed elevatezza di animo ci sia voluta per avere il
coraggio di condannare quel che ha cinto d'un nimbo di gloria il
proprio nome, la parte migliore del proprio pensiero divenuta
creazione vivente.

Si è parlato a questo proposito di Alessandro Manzoni; ma il paragone
non regge. Alessandro Manzoni rinnegava, tutt'al più, un genere di
opera d'arte, il romanzo storico e anche, logicamente, tutte le opere
d'arte dove i fatti immaginarii s'innestano sur un fatto reale: il
dramma, la tragedia. L'artista ripudiava un genere d'arte in nome d'un
principio d'arte. Forse, nel momento che s'induceva a scrivere la
severa e giusta sentenza, egli ripensava il processo di creazione con
cui erano venuti fuori nei _Promessi Sposi_ i diversi personaggi: Don
Abbondio, Perpetua, padre Cristoforo, don Ferrante da un lato:
l'Innominato, la Signora di Monza e il Cardinale Borromeo dall'altro;
gli uni tutti di un pezzo, organici, figli soltanto della sua
immaginazione; gli altri messi insieme con elementi imposti dalla
cronaca e dalla storia.

Forse ripensava la spontaneità con la quale i primi gli erano balzati
davanti agli occhi, con fisonomia, gesti e linguaggio proprii, simili
agli individui incontrati nella vita reale: e allo sforzo, allo stento
che gli erano costati gli altri, pei quali aveva dovuto interpretare,
indovinare molte cose, traendole da dati, da accenni che egli non
poteva troppo mutare secondo gl'intenti della sua opera d'arte. Anche
a lui don Abbondio è dovuto sembrare più vivo, più reale del cardinale
Borromeo del quale intanto egli poteva vedere il ritratto. Insomma il
Manzoni, parlando da critico, non cessava di essere artista; il
critico anzi mostrava, in modo più notevole, la sua coscienza di
artista.

L'unico punto di contatto tra il Tolstoi e il Manzoni può trovarsi
nel frammento pubblicato dal Bonghi, nella famosa opinione intorno
all'amore nell'opera d'arte: ma questa opinione è ragionata in modo da
far capire che l'autore dei _Promessi Sposi_ pensava, più che ad
altro, alla eccessiva sensibilità o sensualità italiana che non ha
bisogno di stimoli ma di freni, e che può quindi essere facilmente
indotta al peccato dalla vivace rappresentazione dell'amore. Anche
generalizzandola, si vede bene che il Manzoni la dava quale timida sua
opinione particolare e di pochi che la pensavano come lui; infatti con
essa non osa biasimare o condannare l'Arte che ha preso, sin dal suo
apparire nel mondo, a soggetto delle sue creazioni la passione
amorosa. S'intravede che, se il moralista non esita nell'esprimere il
suo convincimento, l'artista ne sente la enormità e non si spinge fino
a cavarne fuori tutte le conseguenze. Ossequiente alla sua idea, egli
ha tolto via dai _Promessi Sposi_ le scene di amore che nell'atto
quasi inconsapevole della creazione gli erano venute fuori e che egli
aveva accarezzate (lo confessa) anche meglio delle altre; ma l'aver
lasciato inedita quella dichiarazione fa sospettare che in lui
l'artista non dava completamente ragione al moralista cattolico.
Questi, in un certo momento, ha sopraffatto l'artista; l'artista però
gli ha tenuto il broncio pel sacrifizio a cui era stato costretto; e
vedremmo che l'artista aveva ragione, se l'autografo dei _Promessi
Sposi_ contenesse le scene passionali tolte via e queste venissero
pubblicate.

Nè si dica che il Manzoni è meno esplicito, meno ardito del Tolstoi
nel manifestare le proprie convinzioni; la condanna del Romanzo
storico è là per smentirci, senza contare la _Morale Cattolica_ ed
altri suoi franchi recisi giudizi intorno a diversi soggetti. Quella
dichiarazione sembra unicamente fatta per tranquillare i rimorsi della
sua coscienza di artista, quasi Renzo e Lucia, ridotti due larve
incolore, da amanti appassionati che erano nella prima redazione del
romanzo, non cessassero dal rimproverarlo della crudele operazione
fatta su loro.

Infine, col Manzoni si tratta della soppressione, di un sentimento
nelle creazioni dell'arte della parola, non delle soppressioni delle
varie manifestazioni dell'Arte con la parola, col disegno e il colore,
e col suono, se esse non sono asservite direttamente a uno scopo di
moralità religiosa o di insegnamento civile.

Qui, tra il Manzoni e il Tolstoi, non c'è più nessuna relazione,
nessuna lontana concordanza.

L'idea dell'elevato scopo dell'arte radunerebbe invece attorno al
Tolstoi una folla di scrittori che egli scomunica e maledice. Qual
artista ha mai sostenuto che l'Arte non debba servire a nulla, o
servire a corrompere piuttosto che a purificare il cuore e la mente?
Gli stessi esagerati partigiani della teorica Bellezza si fondano su
l'influenza, vera o supposta, della bellezza nella educazione del
cuore e dello spirito; e per loro essa è scopo supremo in quanto la
semplice bellezza della forma vien reputata capace di destare negli
animi bellezza di sentimenti, cioè produrre effetti di raffinamento
spirituale.

L'Arte, o Signori, non è una cosa convenzionale; ha avuto ed ha la sua
funzione nella storia della umanità: prima, certamente, una funzione
più grande, perchè era e Arte e Religione e Scienza nello stesso
punto: poi--quando la Religione e la Scienza si scissero dal
primordiale organismo per svilupparsi a parte, con organismi più vasti
e più propri alla loro natura--una funzione meno complessa ma più
determinata; forse meno importante, perchè prodotto, principalmente di
facoltà inferiori--immaginazione e sentimento--ma non superflua o
inutile; e molto meno dannosa, come giudica il Tolstoi.

Si direbbe che, per lui, l'Arte non ha storia.

Egli mette l'arte antica allo stesso livello della moderna nella
funzione sociale. Secondo lui, un poeta dovrebbe essere anche oggi
sacerdote, profeta. Che questa innocua illusione possa averla qualche
odierno poeta, passi. I poeti non sono obbligati ad essere storici,
critici di arte come colui che vuole occuparsi d'un problema di storia
e di critica d'arte. Un artista che intenda di sciogliere quel
problema, deve, innanzi tutto, sapere che egli entra in una funzione
molto diversa da quella da lui praticata facendo unicamente il
romanziere o il poeta, il pittore o il musicista. Leone Tolstoi, mente
superiore, lo ha capito ed ha voluto per ciò mettersi in condizione
di esercitare con pienezza di mezzi la sua funzione di critico. Se non
che, egli si è accostato al problema con un'anticipata soluzione in
tasca. Ha detto: Stiamo a sentire quel che hanno ragionato intorno
alla mia domanda--Che cosa è l'arte?--e critici e filosofi e
scienziati e uomini del mestiere. Sono convinto che hanno scritto un
ammasso di contraddizioni e di sciocchezze. Si trovano tutti fuori di
carreggiata, non hanno la divina idea direttrice del sentimento
religioso che guarantisce la verità del mio concetto. Pure, stiamo a
sentire.

E ci presenta la sfilata delle definizioni dell'arte dal Baumgarten,
fondatore dell'estetica, al Guyan, al Kralik, a Julius Mithalter; una
vera babele, secondo lui. Egli non si accorge che tutte quelle
definizioni sono vere e false perchè guardano l'arte da uno speciale
punto di vista e ne mettono in rilievo un lato solo, per via del
sistema da cui scaturiscono. «_Dopo un secolo e mezzo di
discussioni_--egli esclama--_intorno al significato della parola
bellezza, esso rimane tuttavia un enimma._» Che importa? Di tante
forze della Natura noi non conosciamo l'essenza, e questo non
impedisce di servircene e di applicarle ai nostri bisogni.

È appunto l'uso dell'arte, quale vien fatto nella società moderna,
quel che più irrita il Tolstoi. Egli non vorrebbe riprendere la
tradizione di Socrate, di Platone, di Aristotile, dei filosofi
buddisti e proscrivere l'Arte dal vivere civile, come pensano oggi i
maomettani e i pii contadini russi. Dice anzi che costoro fanno male
ripudiando qualunque genere d'arte, perchè così si privano del più
importante fattore di quell'unione senza la quale l'umanità non
potrebbe vivere. Semplicemente egli vorrebbe ridurre l'Arte a un mezzo
di propaganda religiosa, un che di simile a quei raccontini illustrati
che i protestanti fanno distribuire per le vie per ottenere la
conversione dei peccatori. Com'è al presente, l'arte, non che essere
un aiuto al progresso, n'è anzi il più grande ostacolo, egli
conchiude. «_Tutti gli sforzi_--sono sue parole--_degli uomini che
vogliono fare il bene devono tendere alla soppressione dell'arte
moderna, che è il più terribile male dell'umanità. Domandate a un vero
cristiano se sia meglio perdere, assieme col po' di buono che c'è,
tutto il falso dell'arte moderna, ed egli non potrà esitare di
rispondere, come Platone, come i Padri della Chiesa, come i
maomettani: Meglio non avere nessuna specie di arte, che continuare a
soffrire l'influenza deleteria di quella che ora abbiamo._»

E questo _che ora abbiamo_ non bisogna intenderlo ristrettamente per
la odierna produzione artistica, ma pure pei criterii che formano la
nostra guida nell'ammirazione dell'arte di tutti i secoli.
Quest'ammirazione, secondo lui è cosa tutta convenzionale. I tragici
greci, Dante, Raffaello, Bach vengono stimati grandi perchè così fu
detto da principio. Quali invenzioni più grossolane di quelle dei
tragici e dei comici greci, di Aristofane soprattutti? E Shakespeare,
e Milton e Michelangelo, _col suo assurdo Giudizio Universale_, sono
forse qualcosa di meglio? Da questa stolta ammirazione nasce il
_contagio artistico_ che produce l'enorme folla degli imitatori.

Non si può tener dietro al vertiginoso movimento di questa discussione
che si smarrisce spesso in discussioni incidentali, che dà importanza
uguale ai piccoli e ai grandi fatti, e che subordina tutto al concetto
religioso e morale, non tenendo conto del fatto che la vita spirituale
dell'umanità è molto complessa, nè riconoscendo che la vera umanità è
quella nella quale tutte le forze intellettuali hanno raggiunto il
massimo grado di svolgimento.

Per ciò egli ha potuto scrivere che l'Arte, per essere stimata buona
«_dovrà soddisfare i bisogni di tutte le masse popolari che vivono in
condizioni naturali, e non le fantasie dei privilegiati chiusi in un
ambiente fittizio_. E per ciò egli intravede _nel futuro la
generalizzazione della facoltà artistica, perchè l'arte, sdegnando le
complicazioni tecniche attuali che richiedono lungo studio e gran
perdita di tempo, allora non chiederà altro agli artisti all'infuori
della limpidezza, della semplicità della concisione_» quasi la
limpidezza, la semplicità, la concisione non fossero le più alte e più
difficili qualità della tecnica artistica!

Dopo tutto questo, in che modo meravigliarsi nell'udirgli proporre
come unici modelli dell'arte narrativa moderna _Les Misérables_ e le
_Pauvres Gens_ di Victor Hugo, i romanzi del Dickens, la _Capanna
dello zio Tom_ della Beecher-Stowe, e l'_Adamo Bede_ di Giorgio Eliot?
Come meravigliarsi vedendolo indignare della pretesa che pel giudizio
di un'opera d'arte occorre qualche preparazione, se non proprio
un'iniziazione? Allora si capisce come la leggenda o storia di
Giuseppe ebreo rimanga per lui il modello di tutti i capolavori
artistici. «_La gelosia dei suoi fratelli, la vendita di lui ai
mercanti, il tentativo di seduzioni da parte della moglie di Putifar,
l'assunzione del giovinetto a un'alta carica governativa, la sua pietà
pei fratelli, etc. sono fatti_--egli dice--_che provocano uguali
sentimenti nel contadino russo, nel cinese, nell'africano, nei ragazzi
e nei vecchi, nell'uomo istruito e nell'ignorante; e tutto il racconto
è scritto con tanto riserbo, con tanta assenza di particolari, che si
può trasportare la sua azione in qualunque ambiente, senza che essa
perda per questo di essere comprensibile e commovente._»

È inutile discutere. L'eccesso salta agli occhi; e dicendo eccesso
voglio essere moderato. Ma pure in quella farraggine quante
osservazioni argute, profonde; quante sincere premesse dalle quali è
poi sviata la conseguenza!

Fortunatamente per lui, e più per noi suoi contemporanei e pei nostri
posteri, la fama di Leone Tolstoi non è soltanto affidata ai suoi
libri di propaganda religiosa e sociale nè a questo _che cosa è
l'arte?_ derivazione da essi o variazione sul tema. Non ostante il
ripudio dell'autore, La _Guerra e la Pace_, _Anna Karenin_, e _La
Sonata per Kreutzer_ rimarranno nel patrimonio dell'arte mondiale, e
faranno dimenticare che nella vecchiezza l'illustre autore preferì di
essere un santo al continuare ad essere un meravigliosissimo artista.

                              *
                             * *

Ho voluto dilungarmi intorno a questa strana opinione del Tolstoi
anche perchè essa dimostra come non valga essere artisti--e fin grandi
artisti--per ragionare con giusti criterii intorno all'Arte.

Altre persone poi, e non meno autorevoli, profondono consigli e
ammonimenti a quanti oggi si occupano a scrivere romanzi, novelle,
liriche, drammi; e i loro discorsi ci rivelano quali dovrebbero
essere, secondo essi, i nuovi ideali d'arte, i nuovi ideali di critica
che debbono guidare la produzione letteraria futura.

--Voi scrittori--essi dicono--avete un gran torto: vivete tra le
nuvole, vi turate volontariamente gli orecchi per non udire, chiudete
gli occhi per non vedere. Vi siete formati nell'immaginazione un mondo
a parte, che ha poco o punto riscontro coi bisogni della società che
ci circonda, e vi deliziate in esso quasi esso fosse la vera realtà,
e la realtà, invece, ne dèsse un fantasma falso e disformato. La gran
corrente d'idee e di sentimenti che pervade il mondo attuale e lo
agita e lo tormenta e lo travolge non ha presa su voi. Dite di
possedere non sappiamo quale ideale di bellezza e volete attuarlo;
bellezza di concezione, bellezza di forma (con lo speciosissimo
pretesto che l'arte vostra consista soltanto in quella creazione, in
quella forma) e non vi curate di altro. E poi avete il coraggio di
lagnarvi che i lettori vi abbandonino, che non v'intendano più!

Perchè dovrebbero seguirvi? Voi fingete d'ignorare, o ignorate
davvero, quel che ora avviene nelle menti e nei cuori, quel che
sobbolle in alto e in basso. La politica vi mette orrore; le quistioni
sociali vi sembrano indizii di brutali appetiti avidi di saziarsi nel
modo più spicciativo possibile. I tentativi, le conquiste della
scienza vi lasciano indifferenti; le stesse speculazioni del pensiero
filosofico, ora condotte con metodo meno arbitrario di una volta, non
hanno potenza di attrarvi. Ve ne state chiusi dentro un'immensa
solitudine, in compagnia dei vostri fantasmi di bellezza o pretesi
fantasmi di bellezza (dovete permetterci di dire così perchè non è
provato che non vi inganniate intorno al valore di essi) e guardate la
gente con aria di compassione e di disprezzo. Ah, è proprio questo il
momento di non occuparci d'altro che della bellezza!

Se volete che l'arte vostra sia qualcosa di vitale, che eserciti una
funzione efficace nell'organismo della società moderna, scendete dalle
nuvole, sturatevi gli orecchi, aprite gli occhi; siate apostoli,
profeti o poeti, come vi piace, giacchè è tutt'uno; ma ogni vostra
pagina sia un'eco dei nostri dolori, delle nostre aspirazioni, delle
nostre lotte, delle nostre vittorie. Gridate, urlate con noi,
piangete, esaltatevi con noi! Le libertà politiche non sono cosa
vacua; le quistioni sociali non significano discussioni tecniche; la
scienza, che non è mai stata un giuoco, oggi non è tale più che mai;
la riflessione filosofica che rimescola i più alti problemi dello
spirito non rappresenta soltanto l'orgoglio e l'impotenza della mente
umana.

Noi non troviamo nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei
vostri lavori di arte, e per ciò buttiamo via il volume appena
scorgiamo di che si tratta; non lo apriamo neppure ormai, certi come
siamo di non trovarvi niente che possa interessarci. Ah, sì! Le nostre
passioni, le eterne passioni, sotto le mutabili influenze della razza,
delle circostanze passeggere, degli usi, dei costumi, della moda
anche; grazie tante! Come non vi accorgete che, con lievi apparenti
modificazioni, ci ricantate sempre la stessa storia? Sono secoli e
secoli che voi artisti ci parlate di amore, di gelosie, di tradimenti
coniugali e cose simili! Ne siamo stanchi, ne siamo sazii. L'amore?
Abbiamo già _Giulietta e Romeo_; non ci avete più saputo dare niente
di meglio. La gelosia? Abbiamo _Otello_ e non vi siete ancora
stancati di ricopiarlo. L'adulterio? Ma non vi sembra che bastino, per
non parlare degli antichi, _Madame Marneffe_ e _Madame Bovary_?

Tutta questa folla di creature appassionate, irrequiete, degenerate,
come oggi è moda di dire, che voi vi affannate di gettare in pascolo
della nostra fame spirituale, ci lascia, se abbiamo il coraggio
d'ingollarla, più affamati di prima. Mutate registro! _Ruit hora!_--

Non sono persone volgari coloro che parlano così. Sono anzi persone
colte, serie, e credono di discorrere seriamente, ragionevolmente.
Infatti, se uno di loro stèsse a sentire qualcuno che dicesse, per
esempio, a un sarto:--Eh, mio Dio, non sai far altro che vestiti! Ma
pensa che l'uomo non ha bisogno soltanto di essi; ha bisogno di
mangiare, di albergarsi in una casa, di scaldarsi, l'inverno, di
rinfrescarsi l'estate; ha bisogno di mezzi per coltivare i campi, di
macchine per condurre le sue industrie, di strade, di carrozze, di
teatri, di tante e tante urgentissime cose per tirare avanti la vita
in società. Per te l'importante consiste soltanto nel taglio degli
abiti, nella foggia, nella eleganza e nel lusso dello guarnizioni...
In che mondo tu vivi?--se uno di costoro stèsse a sentire qualcuno che
parlasse così, si stupirebbe, ne riderebbe, lo giudicherebbe un po'
leso nelle facoltà della mente. Ora, tali brave e intelligenti persone
non si comportano diversamente di fronte all'artista, e intanto
s'immaginano di ragionare a fil di logica.

--Eh, mio Dio! Voi artisti non sapete fare altro che opere d'arte,
cioè opere di creazione e di bellezza! Ma siate politici, sociologi,
scienziati, filosofi! E non a modo vostro, pelle pelle, per pretesto
di mettere un po' di sale e di pepe nella solita sciapa minestra; ma
realmente, profondamente, in modo che quel che ora è la lustra, il
pretesto, diventi scopo principale. Siate uomini, non fanciulloni. Il
regno dell'immaginazione è finito da un pezzo. Sostanza ci vuole oggi,
non apparenza: e la forma e la bellezza sono soltanto apparenze. Le
fiabe bisogna lasciarle ai bambini, in ogni caso; le nonne e le balie
bastano per l'ufficio di raccontarle al loro minuscolo uditorio e
farlo star cheto. Non siamo arrivati al XXº secolo per nulla!

Oh, perfettamente! Ma parlate chiaro, si potrebbe rispondere. Dite che
l'Arte non è più di questo tempo, che è diventata una superfetazione,
e forse potremmo ragionare, discutere. Abbiate la sincerità del
Tolstoi, maleditela quest'arte che vi sembra una vanità, se non volete
arrivare fino alla esagerazione del neo-mistico russo e chiamarla a
dirittura una calamità. Gli artisti, i veramente degni di questo nome,
non lavorano per l'oggi, per la moda passeggera. Ecco perchè si
affaticano a cogliere le caratteristiche più intime e più durature
dell'uomo; non vogliono fare opera effimera.

La politica? Ma quale? Quella di ieri non somiglia a quella di ieri
l'altro; quella di domani non sarà quella di oggi. Volete dunque che
l'artista introduca nella sua opera d'arte un elemento così mutabile
che ne abbasserebbe il valore in poco volgere di anni e forse di mesi?
Il romanziere, il drammaturgo italiano, per esempio, pensa alla sorte
dei romanzi del Guerrazzi e delle tragedie del Niccolini, e si guarda
bene dall'imitarli.

La sociologia? Ma tutto è ipotesi provvisoria in essa, se non volete
dire fantasticheria sentimentale. Come? Questa scienza, o pretesa
scienza, non riesce a risolvere degnamente i problemi che si pone
davanti, e voi pretendete che se ne impossessi l'artista, e ne accetti
e ne propaghi coi suoi mezzi le conchiusioni campate in aria? Per
questo scopo, c'è la _Repubblica_ di Platone, o la _Città del sole_
del Campanella, o i recenti volumi del Bellamy e di qualch'altro.
Sorbiteveli. Non vi sembrano sufficienti?

La scienza? Ma essa nega oggi quel che ha affermato con gran sussieguo
ieri! Nessuno peggio di lei, dà il doloroso spettacolo di credersi
infallibile, di ostinarsi, per anni ed anni, in una cantonata presa,
in un errore, per giungere poi a disdirsi e a ricominciare daccapo.
C'è stato un artista, o quasi, che si è baloccato a mettere un po' di
scienza in romanzo; viaggiate nella luna col Verne, passeggiate con
lui ventimila leghe sotto il mare, e lasciate in pace tutti gli altri!

La filosofia?... La religione?...

Ma come non vi accorgete che l'Arte dev'essere tutt'altra cosa? Come
non capite che i veri artisti si disinteressano soltanto in apparenza
di tutte le grandi quistioni che affannano l'umanità, perchè loro
dovere è unicamente mettere al mondo creature ideali, le quali poi non
sono per questo meno reali di quelle che sogliamo chiamare più
specialmente così; e che ognuna di tali creature è un'idea, un
sentimento fatti carne, ossa, sangue, non una vanità che par persona;
e idea fondamentale, sentimento perenne?

Voialtri, però, non volete andare oltre quella carne, quel sangue,
quelle ossa; badate soltanto all'esteriore. E se voi avete perduto il
giusto senso dell'Arte, che colpa ne hanno gli artisti? Essi debbono
fare opera d'immaginazione e di forma, e voi chiedete, all'incontro,
opera di riflessione, di puro pensiero; o, per lo meno, qualcosa che
stia nel mezzo, dove la forma non celi interamente il pensiero
astratto, il concetto. Voi chiedete l'assurdo; per ciò gli artisti vi
lasciano dire e continuano a produrre quel che debbono produrre.

Non pretendiamo affermare con questo che nella loro produzione siano
adempiute tutte le condizioni che costituiscono una pura opera d'arte.
Deficienze, stonature vi sono pur troppo e sarebbe miracolo quasi
incredibile se non ci fossero. Nella produzione artistica avviene,
come nella produzione naturale, un eccesso, quasi essa sia una serie
di prove e riprove, di tentativi e anche di aborti, per raggiungere
finalmente una altezza, una compiutezza che non è mai la perfezione
assoluta, l'ideale, ma qualcosa di approssimativo all'ideale.
Accettiamo come una necessità inevitabile questa ricchezza, questa
prodigalità generativa e, se così volete, questo sperpero inutile di
forze. Di cento romanzi, di cento novelle, di cento drammi, uno o due
soltanto supereranno la prova della sopravvivenza; è stato sempre
così; sarà sempre così. _Ruit hora!_ Sì, per noi misere apparizioni di
un momento; ma per una letteratura, per una nazione, per l'umanità
quelle due parole latine non hanno senso. Lasciamo che le cose vadano
pel loro verso: che l'Arte sia arte e la Scienza scienza.

Quando verrà il momento, se dovrà venire (nessuno di noi può
prevederlo con certezza) se l'Arte dovrà cedere il posto alla Scienza
o trasformarsi e divenire qualcosa di essenzialmente diverso di quel
che ora è, la trasformazione avverrà per forza fatale di circostanze;
ma non potremo chiamarla più Arte, come non potremo mai chiamare nero
il bianco, nè il bianco nero, se prima non ci metteremo di accordo che
_nero_ vorrà dire _bianco_ e viceversa. Avremo mutato il vocabolo, non
la cosa; e non mette conto di rifare per così piccolo scopo il
dizionario.

Pur ora dobbiamo riconoscere che creare forme di bellezza artistica
non è poco. La Grecia antica è immortale per aver fatto questo
soltanto. Le sue battaglie, le sue conquiste, i suoi sistemi
filosofici, le sue scienze embrionali hanno ormai un valore molto
relativo nel presente. Le divine opere di Omero, di Eschilo, di
Sofocle, di Aristofane sono qualcosa di così importante che, se
fossero andate perdute, ci mancherebbe la miglior parte di noi e il
danno sarebbe irreparabile.

Così parlando, non vogliamo fare presuntuosi o stolti confronti, nè
metter fuori vanitose pretese; l'artista di oggi è quel che
dev'essere; ed appunto perchè è qualcosa di diverso ha ragione di
esistere.

Sventuratamente una delle più evidenti caratteristiche di oggi è la
confusione delle idee. Forse, da questo caos verrà fuori il nuovo
mondo futuro; ma neppure questo nuovo mondo potrà fare che una cosa
sia e non sia nello stesso tempo; e possiamo quindi anticipatamente
proclamare che anche nel più lontano avvenire l'Arte sarà
semplicemente Arte o non sarà più. Da questo dilemma non si esce.

                              *
                             * *

Quale potrà essere l'Arte e in un non lontano avvenire, me lo
prediceva seriamente, mesi fa, un mio amico a cui la serietà degli
studi filosofici, scientifici e anche teologici non ha ammortito la
vivacissima fantasia.

Io ho trascritto per mio gusto, la sua improvvisazione di quel giorno,
quando egli, dopo aver divagato per più di un'ora intorno all'Arte
cosmica, preistorica, finì con fare un salto straordinario fino
all'Arte avvenire. E se avessi potuto riassumerla con tutto
l'abbagliante splendore della sua parola, spanderei un sorriso di luce
su la grigia intonazione della mia conferenza.

Siccome il pensiero umano e le sue forme e le sue facoltà esistevano
sin dall'inizio, sin dall'eternità, sin da quando lo Spirito di Dio
s'immerse nella materia imponderabile o etere che vogliamo chiamarlo,
così domanderà quale ha potuto essere allora la sua attività
funzionale come arte.

--Non possiamo figurarcela, altrimenti che paragonandola a un'attività
di sogno, anzi a una attività, per un certo lato, minore di quella del
sogno e dall'altro lato infinitamente maggiore perchè organica e
creativa.

Che altro possono essere stati se non una specie di sogno dello
Spirito, quel fermento di atomi, quell'aggregarsi, quel distinguersi,
quel combinarsi, e le consecutive formazioni sempre più addensantesi,
sempre più moltiplicantisi, fino al prodursi delle nebulose, fino al
condensarsi di essa in Soli immensi, fino al disgregarsi di questi
Soli in sistemi solari, fino alle formazioni particolari di ogni
singolo mondo di quei sistemi nei quali, forse, anzi senza forse,
nessuna delle combinazioni chimiche aveva qualche analogia con quelle
conosciute oggi; nessuna delle forme qualche lontana rassomiglianza
con le forme di oggi; sistemi solari, mondi, creature viventi morte e
sparite migliaia e migliaia di secoli prima che qualche indizio
apparisse dell'infinito universo attuale, che l'occhio nostro scorge
nelle notti stellate e che i nostri telescopii intravedono di mano in
mano che la loro potenza visiva si accresce.

L'opera d'arte allora, in quei lontanissimi secoli di secoli, era la
stessa creazione; e noi possiamo chiamarla tale perchè era forma,
forma materiale, incosciente, forma aggregativa, forma combinativa,
chimica, vegetale e anche vivente, quantunque chimica, vegetale, e
vivente in modo assolutamente diverso da quanto noi indichiamo oggi
con questi aggettivi.

E così dobbiamo supporre altre luci, altri paesaggi, altre figure,
altri profumi, altri suoni; e nelle creature viventi, altre facoltà,
altri sensi, altra intelligenza. Per quanto la nostra immaginazione
volesse sbizzarrirsi nelle concezioni più complicatamente strane ed
assurde, probabilmente non raggiungerebbe la mirabile diversità di
tutte le manifestazioni della forma e della vita che possono e debbono
essere apparse prima di queste da noi conosciute.

E ammettendo la ipotesi di creature vi venti, ammettendo in queste
creature sensi e facoltà di spirito diversi dai nostri, quale avrà
potuto essere la loro opera d'arte? Certamente in corrispondenza di
quelle facoltà, un'applicazione, un'estrinsecazione di esse, una
riproduzione idealizzata di quella loro natura esteriore e
interiore.... E dobbiamo arrestarci a questa affermazione; e dobbiamo
contentarci soltanto di pensare che la loro evoluzione ha dovuto
seguire le stesse norme della nostra: salire da una forma inferiore
alla immediatamente superiore: cioè, prima, sensazione, immaginazione,
poi riflessione. Se non che questi tre elementi possono essere stati
contemperati in modo da produrre qualcosa che ci colmerebbe di stupore
e di meraviglia, se, per fortuna, potessimo averne un saggio, e se le
nostre facoltà potessero adattarsi a sentirla e a intenderla per
poterla ammirare.

Qui la nostra intelligenza si confonde.

Da questi secoli iniziali, se pur si può parlare d'inizii ragionando
d'eternità, noi possiamo slanciarci fino alla fine dei secoli, alla
maturità, alla vecchiezza, alla decrepitezza del nostro sistema solare
e ricostruire con l'immaginazione, anticipatamente, quel che forse
sarà o potrà essere l'opera d'arte futura.

Abbiamo pochi elementi, ma essi ci basteranno per un'ipotesi, giacchè
sono elementi di fatto, quasi scientifici.

Notiamo il continuo perfezionamento dei nostri sensi. Il tatto, la
vista, l'udito, tutti i nostri mezzi di rapporti con la natura
esteriore si sono talmente perfezionati lungo il corso dei secoli, da
permetterci di affermare che noi siamo creature affatto diverse dalle
creature che furono i nostri primi progenitori.

Le evoluzioni delle arti sono un'altra prova convincentissima. Se
qualche mago, sacerdote o poeta delle età primitive, per un miracolo
d'intuizione le avesse annunziate agli abitatori lacustri, ai nomadi
delle grandi pianure e delle grandi montagne dell'Asia, a quelle genti
che ignoravano se stesse e che stimavano dovesse essere la vita una
perenne lotta col mammut, con gli ittiosami, con tutte le bestie
feroci brulicanti su la giovane terra--quelle evoluzioni sarebbero
state giudicate assurde, parto di fantasia morbosa.

Eppure dal grido bestiale quasi inarticolato, dalla mimica, dalla
danza sacra e guerresca noi abbiamo veduto scaturire a poco a poco i
poemi dell'India, la Bibbia, l'Iliade, la tragedia greca, la commedia,
i capolavori di Dante e dello Shakespeare, il romanzo e la lirica
attuale.

Ed ecco che nuove facoltà si rivelano oggi o almeno attirano
l'attenzione dello scienziato, agitano il nostro spirito e lo fanno
tremare di sgomento e di curiosità. C'è un altro mondo in questo
mondo, c'è un'altra natura dentro la nostra natura. S'intravedono
facoltà incredibili, si scorgono bagliori di forze prima ignorate o
trascurate. L'invisibile diventa visibile, l'occulto si manifesta;
leggi, o quelle credute tali, da cui sembrava che il nostro organismo
e la natura fossero ferveamente dominati, non appaiono più tali. Quel
che ieri era tenuto per fantastico, per impossibile, per
supernaturale, diventa realtà, o meglio viene scoperto realtà
altrettanto naturale che quello comunemente chiamato così. Tutti i
limiti cedono; non si allontanano soltanto, ma spariscono: e questo
dovrà naturalmente produrre tale rivoluzione nel mondo, che qualunque
superlativa nostra fantasticheria non potrà darne la misura.

Ormai nessuno può più dubitare di quella forza che il nostro
imperfetto linguaggio si rassegna a chiamare _psichica_, perchè la
scienza non sa a chi addebitarla, nè come contrassegnarla. Quel che
pareva un sogno di malati comincia a venir giudicato più che una
possibilità. Questo nostro pensiero che finora si è manifestato
servendosi della materia, marmo, tavolozza, suono, parola scritta,
pare abbia tanta potenza creativa in se stesso, da poter fare a meno
di questi mezzi che non riescono a renderlo con tutte le sue
sfumature.

Il marmo resiste, immobile, incoloro; la tavolozza non dà tutta la
luce e tutti i colori alle forme, e per quanto si aiuti con la
prospettiva e con gli scorci, è impotente a rendere il moto; la
musica, con le meravigliose combinazioni delle sue melodie e delle sue
armonie, rimane vaga, imprecisa, quantunque potentemente suggestiva:
la parola, che riesce a dare l'illusione complessiva di tutte le altre
arti e simulare la vita, si frange contro certi limiti del linguaggio,
e contro certi limiti parte sormontabili perchè convenzionali, parte
no, perchè inerenti alla stessa natura della sua opera.

Noi sentiamo che tutte queste arti c'impacciano, ci tormentano per la
loro impotenza a creare davvero la vita.

Ora, la forza _psichica_, di cui già parlasi con trepido stupore,
dovrà produrre nel lontano avvenire un'Arte della quale non possiamo
formarci neppure un'idea approssimativa, in corrispondenza della nuove
facoltà che avrà allora acquistato l'umano organismo.

Questa forza ormai la conosciamo come produttrice di moto. Sappiamo
che è possibile spostare oggetti materiali con la semplice
concentrazione della volontà. Sappiamo che un individuo, in certi casi
di cui ignoriamo il come e la legge, può con essa oggettivare,
materializzare il pensiero, dargli forma visibile e tangibile, forse
esplicando poteri intimi suoi propri, forse impossessandosi di
elementi circostanti e ignoti alla scienza. S'intravede però che quel
che è ora accidentale potrà, anzi, dovrà essere normale, soggetto alla
ragione, come sono divenute normali e soggette alla ragione tante
altre forze della natura; l'elettricità, per esempio.

Immagina dunque--e il mio amico entusiasmato dalla sua idea, mi
stringeva forte il braccio--immagina dunque che cosa potrà essere
l'opera d'arte quando il pensiero non incontrerà più ostacoli nel
marmo, nella tela e nei colori, nei suoni e nella parola; quando
l'opera d'arte si esplicherà, si formerà con la stessa rapidità e con
la stessa nettezza dell'idea, cioè, quando il pensiero diventerà
visibile, tangibile, quantunque fuggevole, forse, e mutabilissimo,
come la sua natura di pensiero comporta; quando insomma le creazioni
dell'intelletto immaginativo vivranno, sia pure per qualche istante,
realmente fuori di noi, quasi proiettate da un cinematografo
infinitamente superiore a quello inventato dai fratelli Lumière?

Ah, io non voglio mettere a dura prova la loro cortesia, continuando a
riferire lo svolgimento di questa ipotesi che la magia della parola e
dell'espressione riuscirono a farmi accettare senza nessuna
obbiezione, così rapida ed efficace era stata l'impressione
prodottami. E siccome sono un po' sognatore anche io--altrimenti non
andremmo molto di accordo con quel mio amico--confesso sinceramente
che oggi, nel riferire la sua ipotesi, non ho potuto sorriderne, come
il giorno in cui la udii la prima volta.

Ho visto diventare realtà tante cose giudicate da gran tempo
impossibili, che più non oso rimanere scettico neppure davanti
l'assurdo.



FELICE CAVALLOTTI

DRAMMATURGO E POETA.


I.

Si dava, per la prima volta, al Valle _La luna di miele_ del
Cavallotti. Teatro affollatissimo. Un occhio esperto avrebbe però
facilmente capito che il pubblico di quella serata era, in gran parte,
pubblico di occasione. Infatti gli amici politici dell'autore avevano
creduto di dover fare atto di fraternità accorrendo ad applaudire la
nuova produzione del recente promotore del _Patto di Roma_.

Il manifestino teatrale portava stampato con grossi caratteri il
titolo della commedia e il nome dell'autore; da piè, in carattere
minuscolo, avvertiva che lo spettacolo sarebbe cominciato con la
recita della commediola dello Scribe: _La camera affittata a due_.

L'orchestra diede l'ultima strimpellata d'un valzer, il sipario fu
tirato su; e sùbito si fece nella sala gran silenzio di vivissima
attenzione. Sin dalle prime scene un'ingenua ilarità cominciò a
serpeggiare per la platea, scoppiando di tratto in tratto, più che in
risate, in applausi mal frenati. Dalle poltrone, parecchi si voltavano
meravigliati di quella fermentazione di entusiasmo per una commediola
stravecchia; le signore dei palchi guardavano le persone delle sedie e
le altre in piedi, cercando di spiegarsi quel buon umore che di mano
in mano aumentava e accennava di prorompere.

Proruppe infatti, con fragorosissimi applausi e chiamate: _Fuori
l'autore! Fuori l'autore!_ appena la tela venne giù.

Si udì una voce:

--Zitti, cretini!

Era quella di Ettore Socci, allora non onorevole, ma sempre colta e
brava persona, che arrossiva e s'indignava pei suoi confratelli
politici e pel suo amico Cavallotti. Gli associati al _Patto di Roma_
non si erano accorti che la _Camera affittata a due_ non aveva niente
che fare con _La luna di miele_: e, venuti col proposito di applaudire
a ogni costo il Cavallotti, avevano sincerissimamente applaudito...
Eugenio Scribe!

Ricordavo quest'aneddoto accettando l'invito di scrivere uno studio
intorno al Cavallotti drammaturgo e poeta. La tragica fine di lui
mette in imbarazzo chi vuole ragionarne spassionatamente, senza
sottintesi politici. La pietà che ispira l'uomo così immaturamente
spento consiglierebbe di attendere ancora prima di pronunciare un
giudizio su l'opera letteraria di colui che fu un perpetuo combattente
nella vita e nell'arte, che fece per lo meno altrettante polemiche
quanti duelli, e che mise nei duelli e nelle polemiche gli stessi
elementi di foga, di eccessi, di sincerità e di partigianeria,
quantunque i resultati ottenuti con gli uni e con le altre siano stati
diversamente inefficaci. Io mi son sentito in buone condizioni. Ho
scritto una sola volta intorno a un suo lavoro; e siccome allora, a
proposito della _Sposa di Mènecle_, non esitai di dire a lui vivente
quella che mi pareva la verità, così non temo che si possa sospettare
che ora approfitti della sua sparizione per dire quel che mi sembra la
verità intorno alla sua produzione teatrale e poetica.

Come in quella sera al Valle, il drammaturgo e il poeta non sono stati
giudicati finora senza che intenzioni politiche, senza che amori o
rancori di parte non si siano mescolati ai criteri puramente artistici
che avrebbero dovuto ispirare la critica. Non era cosa facile mentre
l'autore viveva. Mancava a lui la serenità dell'artista che crea ed
abbandona alle discussioni del mondo l'opera sua. Appena si stimava
frainteso, voleva sùbito difendersi. Ma la polemica letteraria nelle
sue risposte s'inaspriva facilmente, e minacciava di finire o finiva
talvolta con un duello; non era il miglior mezzo per avere ragione. E
poi c'era nel Cavallotti una contraddizione che sembra inesplicabile a
molti e che pure non è rara. Uomo di idee e di sentimenti _avanzati_
in politica, era quasi _codino_ in arte, precisamente come parecchi
altri, moderatissimi in politica, sono audaci rivoluzionari da
artisti.

Le polemiche del Cavallotti riescono però documenti importanti:
permettono di riassumere i principii da cui scaturivano le sue opere,
e dànno spesso la opportuna misura per giudicare fin dove le
intenzioni sono arrivate ad attuarsi; fin dove sono rimaste semplici
intenzioni e nient'altro. In questi ultimi tempi la politica lo aveva
assorbito tutto. Si diceva appunto che egli voleva riposarsi dopo le
agitazioni e forse dopo i disinganni sofferti, dedicandosi nella
solitudine della sua villetta di Dagnente a un'opera drammatica. Una
triste fatalità ha distrutto per sempre i suoi disegni. L'uomo sparito
ci ispira un senso di compassione profonda; ma l'opera dell'artista
così malamente interrotta non ci desta nell'animo nessun rimpianto.
Niente faceva prevedere che la nuova concezione del drammaturgo
dovesse essere qualcosa di diverso da quel che era stata finora; un
dramma storico o una commediola di più, poco o nulla avrebbero
aggiunto al valore della vecchia produzione.

E intorno al valore artistico della sua opera letteraria gli spuntava
forse un dubbio nella mente matura; esso trasparisce da alcune parole
della prefazione al _Libro dei versi_ pubblicato pochi mesi avanti la
sua morte.

Egli parla di questo volume, dove ha raccolto quel che gli è parso il
fior fiore della _sua molta suppellettile_ poetica, più come di una
testimonianza del _suo intimo io_, che di un'opera d'arte; lo chiama
_la sintesi di tutta una produzione lirica, in rispetto unicamente al
soffio che l'animò, ai sentimenti che la destarono, un libro vissuto,
il compendio in versi delle memorie di un poeta_. E, con amarezza,
premette alle strofe del _Ritorno notturno: Fra la lotta politica e
l'arte, viene l'ora in cui pur troppo bisogna scegliere, ossia
scegliere fra gli aspri doveri contratti nella vita e i godimenti
della fantasia_.

Forse avrebbe detto meglio e più chiaramente: _o le ansie tormentose
della forma_. Ma egli queste ansie le conosceva poco. Nella lirica
come nel dramma, la forma è l'ultima sua preoccupazione; e dicendo
_forma_ non intendo parlare soltanto delle minuterie dello stile, ma
dell'intiera concezione, dell'organismo dell'opera d'arte. Un giorno
che, per capriccio, vuol darsi lo svago di fare un'ode saffica per
provare al Chiarini che non è assurdo scrivere versi italiani nei
quali si possano _conciliare le leggi metriche italiane con quelle del
ritmo latino vero_, è preso da congestione cerebrale, stramazza per
terra, e gli rimane un'invincibile e prudenziale avversione, egli
dice, contro i _metri barbari_.

Ma io credo che anche senza la paura di nuove e meno dannose
congestioni cerebrali, egli avrebbe avuto uguale avversione contro
ogni difficoltà di forma, contro ogni tentativo di novità da cui
potesse sentirsi troppo infrenato. Se si scorre, anche sfogliandolo,
questo volume di versi, si ravvisano a occhio, senza lèggere, le sue
preferenze pei metri facili ben sonanti, ben rimbombanti o ben
fluenti: quinari doppi, senari doppi, decasillabi, strofe quasi
cantabili di settenari, quartine di endecasillabi alternati con piani
e tronchi.

E come nella lirica, così nel dramma. La concezione di tutto il
lavoro, le passioni, i caratteri, la distribuzione delle scene, il
dialogo non escono un istante dalle usate forme teatrali. Non c'è un
lontano accenno di tentativo per vincere gli impacci di una delle
tante convenzioni che sono gli organi atrofizzati di un organismo
vivente e non più necessari alla esistenza: convenzioni che altri
combattevano già, che altri hanno già abbattute e vinte. Per ciò tutta
la sua opera drammatica, che pure dimostra un ingegno dotato di buone
qualità teatrali, rimane quasi non avvenuta, non lascia orma nella
storia della forma, come non lascia un personaggio, un carattere, una
creatura sopravvivente.

Eppure poche persone hanno tentato la lirica e la drammatica con
migliore e più soda preparazione di lui; poche persone hanno
teorizzato nelle polemiche con criteri più spassionati e più giusti
dei suoi, sia trattando le questioni dell'_idealismo_ e del _verismo_
nei giorni in cui lo Stecchetti le aveva suscitate con _Postuma_ e
con _Polemica_, sia trattando il soggetto dei metri barbari, dei quali
aveva, come ho accennato, un _prudenziale orrore_. E di questa
polemica, ora dimenticata, ma che può insegnare o rammentare parecchie
cose buone anche oggi, mi piace staccare il seguente tratto:

      «Questo bisogno di rinnovamento che è, direi, nel sangue e
      nell'aria, e travaglia gli artisti e via li porta nella sua
      rapina, si traduce ai più incoscienti in una ricerca quasi
      morbosa del nuovo e del bizzarro, come tale. Del processo
      intimo che la letteratura attraversa costoro sentono
      vagamente il soffio: intendono che qualcosa intorno ad essi,
      non nei tipi eterni, ma nelle forme dell'arte, si modifica,
      si trasfigura: e non avendone che una nozione confusa,
      tementi solo di rimanere in ritardo, o di parer fuori del
      movimento, corrono dietro affannosamente, come i fanciulli
      alle farfalle, ad ogni larva non veduta o strana, ad ogni
      luccicchio che passi loro davanti agli occhi, per l'aria.
      Ciò che nello ingegno dei migliori è un presentimento
      gagliardo di nova via e ragioni dell'arte ancor non note,
      ch'essi vanno tentando ed esplorando con orme insieme mal
      sicure ed audaci, aumenta l'impazienza smaniosa di tutti
      quelli che dietro a loro si affollano a far coda, aspettando
      che i novi sbocchi si aprano. Dove i primi mettono, tastando
      il piede, e tutti là corrono; se uno si addentra a capriccio
      in un viottolo, solo per vedere ove vada a por capo, e tutti
      dietro, credendo ch'egli abbia imbroccato la via; se quello
      sotto un andito si mette a cantare per sentir se c'è l'eco,
      e tutti a far coro, credendo che sia quella la poesia
      nuova. Quell'altro avrà poi un bel tornare indietro ad
      avvertire che il viottolo era chiuso e che sotto l'andito
      egli stava solamente provando la voce!

      «Così i tentativi, i capricci stessi dei migliori alimentano
      questa smania della novità per la novità... Nè si bada se
      dall'intima opera rinnovatrice si afferrino invece soltanto
      le accidentalità fuggevoli, i tentativi ingannevoli
      dell'esplorazione.»

Tutto questo è ben osservato e ben detto, quantunque non si tratti di
un fenomeno nuovo e speciale dei nostri tempi, nè tale da dover
suscitare sdegno o meraviglia. Se non che il Cavallotti non sentiva il
bisogno di quei tentativi, e neppure quello, meno lodevole, dei
capricci di cui egli parla. E la ragione della sua tranquillità
acquiescente io la trovo nel concetto che egli ha dell'arte, strana
confusione tra forma e concetto; nella pedestre interpretazione
dell'aforismo: _L'arte non deve avere altra finalità che sé stessa_.

Questa confusione tra forma e concetto e questa che io chiamo pedestre
interpretazione dell'aforisma _l'arte per l'arte_ ci daranno la chiave
per spiegarci in che modo un ingegno così riccamente dotato non sia
potuto uscire nella drammatica nè nella lirica fuori di quel limbo
della mediocrità che Orazio chiamò _aurea_ non saprei dire perchè.


II.

Per conoscere gl'intenti del drammaturgo, non saremo impacciati.
L'autore ci ha risparmiato il fastidio di andare a racimolarli qua e
là, a cavarli fuori dalla stessa opera d'arte quale si presenta agli
spettatori e ai lettori. Prefazioni, note, prologhi ne son pieni;
basta quasi aprire a caso uno dei volumi delle sue opere pubblicate
dalla Tipografia sociale E. Reggiani e C. di Milano. Nella notissima
lettera al Ferrigni (Yorich figlio di Yorich) sull'_Alcibiade, La
critica e il secolo di Pericle_, c'è un _credo_ in regola, che può
benissimo applicarsi a tutta la sua produzione teatrale.

Io l'accennerò tanto più volentieri, quanto più voglio limitare questo
studio ai lavori di soggetto greco, che sono la parte più
caratteristica della sua opera drammatica e senza dubbio la più
importante.

Al signor Roberto Stuart che gli avea rimproverato di non aver avuto
nessun intento nello scrivere le scene greche dell'_Alcibiade_, egli
rispondeva trionfalmente:

«Anzi ne ho avuto parecchi.

«Primo: Un intento drammatico... È una mia idea che dramma voglia dire
_contrasto di passioni_ e che questo contrasto, questa lotta possa
succedere tanto _fra_ più individui, quanto _in_ un solo...

«Una ragione storica, critica e filologica: offrire agli studiosi una
pittura, dei quadri, delle _scene_ della vita greca del secolo di oro,
colta nella sua fase forse più caratteristica e culminante....

«Terzo intento del lavoro: Un intento morale....

«Infine, una considerazione _storico-politica_».

Troppi, se si vuole, ma non guasterebbero, se l'intento drammatico
fosse rimasto davvero il _primo_; e doveva essere l'unico.

La lettera a Yorich figlio di Yorich è splendida per calore, per
ironia di buona lega, per erudizione. Essa e le note al dramma, spesso
spesso eccessivamente prolisse, dimostrano con quanta cura coscienza
il Cavallotti si sia preparato a scrivere il suo lavoro. Ma prima di
parlarne particolarmente, mi piace ripetere, intorno alla tesi
generale di queste interpretazioni artistiche di un fatto storico,
quel che scrivevo sedici anni fa a proposito della _Sposa di Mènecle_.

      «Quando penso che noi, generazione venuta su dopo il 48, non
      intendiamo più quasi nulla del gran complesso di sentimenti
      e di idee che formarono quella gloriosa rivoluzione; quando
      penso che il secolo decimottavo, del quale possiamo studiare
      da vicino qualcuna delle reliquie viventi, ci fa lo stesso
      effetto delle epoche greca e romana, tanto ci apparisce
      diverso da tutto quel che costituisce la nostra vita
      presente, mi meraviglio che si possa tentare con animo
      sereno una interpretazione artistica (la parola non è
      eccessiva) di epoche che per costumi, sentimenti, religione,
      scienza, filosofia furono quasi agli antipodi di quel che
      siamo ora noi.

      «Dicono: C'è il documento scritto, c'è il documento
      archeologico. Noi facciamo delle ricostruzioni
      meravigliosamente esatte. Per ogni parola, per ogni frase,
      vi presentiamo un testo, venti testi che potranno servirvi
      da controlli. Abbiamo i poeti lirici, gli storici, i comici,
      i tragici; abbiamo le statue, le pitture, le ruine, e poi
      tutto il grande arsenale archeologico, una infinità di
      arnesi domestici e di gingilli che ci mettono sotto gli
      occhi l'esteriore della vita antica in modo da non poter
      prendere nessun abbaglio. Quella vita intima d'allora, così
      diversa per chi la guardi alla superficie, studiata
      dappresso e minutamente, somiglia in moltissime cose, come
      due gocce d'acqua si somigliano, alla vita intima di oggidì;
      molti di quei tipi, di quei caratteri, di quegli affetti
      della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi,
      negli affetti e nei tipi della società nostra, riscontro
      meraviglioso[1]... A prima vista, la prova è, come suol
      dirsi, schiacciante. Quei personaggi non pronunziano una
      sola parola che non abbiano già detto Aristofane, Demostene,
      Menandro, Andocide, Platone, Eschine, Iseo, Luciano,
      Plutarco, Aristotile, Senofonte, Euripide, Alessi, Calisseno
      rodio, Teofrasto, Alcifrone, Eubulo, ecc., e che tutti gli
      scolasti e tutti gli interpreti non possano, all'occorrenza,
      confermare o schiarire...»

Facevo però osservare che:

      «la vera vitalità di un personaggio consiste nei suoi
      sentimenti, nelle sue passioni; e la realtà storica di
      queste passioni sta tutta nella loro caratteristica che li
      rende diversi dai sentimenti e dalle passioni di un'epoca
      precedente o posteriore. Senza dubbio l'amore di oggi ha
      molti punti di contatto con lo stesso sentimento provato dai
      greci e dai romani e anche dagli uomini primitivi; ma
      l'amore di oggi contiene, innegabilmente, elementi che
      allora non esistevano affatto, e non ha nelle stesse
      proporzioni di allora, gli elementi che una volta dovettero
      essere predominanti. L'artista che, volendo darci la
      rappresentazione dell'amore, non riesce ad afferrare la
      caratteristica propria di una data epoca, fa opera
      sbagliata. E questa caratteristica _sta tutta nella
      differenza_, non nella rassomiglianza...»

E citavo come esempio la tristezza, la malinconia, quel che di vago,
di sfumato del sentimento che la parola stenta a rappresentare. E
ammettendo che i greci antichi avessero dovuto provare anch'essi in
certe ore, in certe circostanze della vita, la tristezza, la
malinconia e, forse pure un po' di sentimentalità, soggiungevo:

      «Soltanto a giudicarne dalle testimonianze letterarie che ci
      restano, le proporzioni di tali sentimenti erano assai
      diverse presso di loro e per moltissime ragioni. La misura
      noi la sentiamo e la giudichiamo leggendo Eschilo,
      Aristofane, Euripide, Pindaro, Anacreonte, Menandro: è come
      un profumo, come qualcosa di imponderabile che si stacca da
      quelle opere immortali e ci dà la sensazione delle
      sensazioni dell'antichità.

      «I riscontri con la vita moderna vi s'incontrano di tratto
      in tratto e sorprendenti; ma sono più esteriori che intimi
      o, per dir meglio, che organici e fondamentali. Sarebbe
      proprio meraviglioso che non fosse così. In questo caso
      bisognerebbe convenire che l'opera di due civiltà, la romana
      e la cristiana (senza voler contare quella delle influenze
      intermedie) sia stata a dirittura o inutile o inefficace per
      lo spirito nuovo, e dovremmo dare una solenne smentita e
      alla storia e alla scienza»[2].

Queste ragioni il Cavallotti non voleva intenderle. Aveva detto, nella
prefazione all'_Alcibiade, che la natura umana è sempre la stessa in
ogni tempo_; e in una lettera a me diretta, credo nel _Secolo_, zeppa
al solito di citazioni, tentò di persuadermi che stavo dalla parte del
torto pensando diversamente da lui. In fondo anche lui era convinto
che, se lo studiare coscienziosamente un'epoca dovea essere obbligo
dell'artista, l'aver adempiuto quest'obbligo non bastava per l'opera
d'arte.

      «L'artista anzi tutto studii di immedesimarsi con quell'età;
      e alla verità delle passioni ritrovi gli accenti e le corde
      nella verità completa dell'ambiente. Allora l'illusione
      artistica sarà perfetta; allora le figure che l'artista
      evocherà saranno vere e vive, rappresenteranno _uomini_ e
      non _nomi_, _persone_ e non _personaggi_[3]».

Certamente egli si lusingava d'aver raggiunto lo scopo, se ha risposto
a certe critiche invocando per sua difesa l'esempio dello Shakespeare.
Poteva andare più in là: il _barbaro_ inglese non aveva gli scrupoli
di lui riguardo alla storia. Se gli faceva comodo, metteva
un'università a Vittenberga ai tempi di Amleto, spingeva il mare fino
in Boemia (_Novella d'Inverno_, atto III, scena III), faceva molto a
fidanza con la vivacissima immaginazione degli spettatori, si serviva
di tutte le libertà che l'organismo, ancora in formazione, dell'opera
drammatica gli concedeva; ma nello stesso tempo creava uomini di carne
e ossa; e se ogni parola dei suoi personaggi non poteva essere
giustificata con l'autorità d'uno storico, d'un cronista, di un autor
comico o tragico, non importava; essi parlavano secondo la loro vita
interiore, avevano sempre un motto profondo che rivelava gli abissi
del loro cuore, che metteva a nudo le loro anime non con un
ragionamento, non mostrando, per dir così, il filundente su cui aveva
ricamato l'autore, ma dandoci il resultato della nascosta operazione
dello spirito, come nella vita reale.

Lo Shakespeare sapeva il suo mestiere. L'autore drammatico non è uno
storico, non è obbligato alla scrupolosa esattezza dei fatti che mette
in azione: è solamente obbligato, o almeno, innanzi tutto, è obbligato
a creare personaggi viventi, a interpretare perciò la storia quando le
chiede in prestito un soggetto: il resto è cosa secondaria. E in
questa interpretazione lo Shakespeare è sovrano; dà l'illusione della
realtà, se non la realtà. La Venezia dell'_Otello_, la Roma del
_Giulio Cesare_, la Danimarca dell'_Amleto_ sono resurrezioni,
evocazioni che ci fanno stupire. L'erudizione non ci darà mai qualcosa
di simile, con tutta la sua precisione, con tutta la sua scrupolosità.
E quando essa verrà a dirci che documenti ora dissepolti dimostrano
Desdemona una donnaccia e il povero Otello il più tradito dei mariti,
noi sorrideremo ma non muteremo opinione. Questa Desdemona degli
archivi non c'interessa; per noi la vera Desdemona sarà sempre quella
dello Shakespeare, cioè una purissima e dolce creatura innamorata--a
dispetto di tutti i documenti, a scorno di tutti gli eruditi.

Il Cavallotti che non si vuol persuadere della necessità di
circoscriversi alla rappresentazione del proprio tempo, sente però
involontariamente di essere del suo tempo: la grande cura di
conformarsi alla storia, di giustificare con un'infinità di note ogni
parola e ogni azione dei suoi personaggi non significa altro. Il
Manzoni aveva detto che il dramma storico vive calcolando molto su la
ignoranza degli spettatori: e il Cavallotti, in omaggio al positivismo
odierno, non vuole che si pensi ch'egli abbia, per conto suo fatto
quel calcolo. Occorreva un ben piccolo sforzo per fare un passo più
innanzi, e riconoscere che il circoscriversi nella rappresentazione
del proprio tempo sarebbe stato omaggio migliore al positivismo
contemporaneo; e che il _verismo_, il _materialismo_ non erano
capricci di teste bislacche, scuse di artisti pigri, incapaci di
idealizzare, ma conseguenze della riflessione matura, da cui è stato
riconosciuto che un'opera d'arte è il prodotto di un tempo, di una
razza, di una civiltà, e che la storia, il passato ricostruito dalla
fantasia postuma è una fantasmagoria passata a traverso quegli
elementi e da essi modificata, trasformata e deformata. Si sarebbe
risparmiato parecchie volgarità; per esempio: che il _verismo_, il
_naturalismo_ pretendano che l'arte debba essere soltanto «la
fotografia di quello che esiste in natura e _come_ vi esiste; e che i
suoi uomini non debbano portare che il _frach_, e le sue donne non
debbano vestire che colle mode dell'ultimo figurino[4]». Si sarebbe
risparmiato di ripetere le sciocchezze che «fantasia, poesia,
idealizzazione del vero» siano oggi stimate «roba scolastica da far
dormire,» e che l'arte odierna consiste tutta in «un po' di spirito di
osservazione, per riprodurre, _tal quale_, quel che succede ogni dì,
in un po' di raziocinio per coordinarlo, in un problema sociale ed
economico da risolvere, o in un adulterio pudico da legittimare![5]».

Che ridurre il presente in opera d'arte non sia tanto facile quanto
egli credeva, lo dimostra l'opera drammatica sua stessa, quando,
lasciati in pace i greci del tempo di Alcibiade, i Messeni della 28.ª
olimpiade e quelli della 100.ª mette su la scena passioni e personaggi
contemporanei. Lo sforzo dell'erudizione dà qualche parvenza di vita a
quei greci, e Alcibiade, Timandra, il parassita Cimoto, Aristomene,
Laodamia, Mènecle e Aglae la vincono su la contessa Bice delle
_Lettere d'amore_, su la Lea del dramma che ne porta il titolo, su
l'Emma della _Figlia di Jefte_, sul _Povero Piero_, sui cugini del
_Cantico dei Cantici_, per nominare soltanto quei personaggi che mi
vengono in questo momento alla memoria. I greci guadagnano nel
confronto perchè non possiamo fare riscontri con la realtà; dobbiamo
contentarci del press'a poco che l'erudizione ci permette. E se la
creazione ci sembra insufficiente, siamo proclivi a scusare il poeta,
a tenergli conto dello sforzo che ha dovuto fare per imbastire quelle
figure, per dar loro un che di organico, servendosi di frammenti, di
accenni, di materiali diversi faticosamente raccolti qua e là. Coi
personaggi moderni il compito è facile; la loro manchevolezza, la loro
falsità, la loro convenzionalità saltano agli occhi. Possiamo
riscontrarli con noi stessi, coi nostri vicini, coi nostri amici, con
le persone che incontriamo per via, e misurarne subito il vuoto,
l'inefficacia.

Il Cavallotti dovea certamente sentire questa deficienza di forza
creativa, se non ebbe mai il coraggio di affrontare su la scena la
rappresentazione di un qualche alto fatto della vita moderna: se lui,
così mescolato nelle agitazioni sociali, così penetrante indagatore
della putredine parlamentare, così inesorabile censore di giornalisti
affaristi, di ministri da lui creduti dilapidatori del pubblico
danaro, osservatore e parte (_quorum pars magna fuit_) di commedie, di
drammi e di tragedie contemporanei, si sia soltanto rifugiato presso i
greci: e abbia preferito di dipingere i grandi quadri della splendida
decadenza della repubblica ateniese, l'eroica guerra dei messeni su
per le rocce del Dentelio o Deltanio che debba dirsi, e fra le gole di
Ecalia, quando ha voluto uscire dai piccoli fatti, dalle piccole
passioni; quando ha amato piuttosto farci sorridere e intenerirci coi
casi familiari del vecchio Mènecle e della sua giovane sposa Aglae,
che tentare il problema del divorzio nella società in cui egli viveva,
o altri problemi morali e sociali non meno elevati e non meno
attraenti di questo.

E sarebbe studio interessante il ricercare per quali ragioni un uomo
come il Cavallotti, che non è vissuto rinchiuso nelle quattro pareti
della sua biblioteca, svolgendo nella solitudine le polverose pagine
dei classici greci, che anzi ha passato tutta la sua giovinezza in
continue agitazioni di amori, di odii, di polemiche, di duelli, e che
ha pagato miseramente con la vita questa irrequietezza e questa
smaniosa rincorsa di ideali, diversamente giudicabili ma degne di
essere rispettate dopo ch'egli le ha suggellate col sangue a Villa
Cèllere. E nelle circostanze della sua vita si troverebbero certamente
molte scuse, molte dilucidazioni intorno ai pregi e ai difetti
dell'opera di lui; si vedrebbe quanto gli abbia nociuto la fretta per
quella ch'egli chiamava scherzando, in una delle sue ultime lettere,
_la fabbrica dell'appetito_; e si ammirerebbero maggiormente la sua
cultura e il suo ingegno. Giacchè, è innegabile, ingegno egli ne aveva
parecchio, e si può scorgere dalle circostanze in cui fu scritto, per
esempio, l'_Alcibiade_, l'opera sua più vasta e più poderosa.

Negli ultimi di giugno del '73 pubblicando il volume delle sue
_Poesie_ e temendo rappresaglie da parte del Procuratore del Re e
della polizia, egli va ad annidarsi nel granaio di una casa di
campagna presso Meina, in riva al Verbano: e istituito un eccellente
servizio di informatori, pel caso che la polizia fosse venuta a
ricercarlo lassù, lavora per quasi due mesi, dalle sei di mattina alle
dodici, spendendo le ore del pomeriggio nel consultare i classici e
nel prendere note; quelle note che poi metterà a piè di pagina, per
dimostrare che i suoi personaggi non hanno detto un'esclamazione, non
hanno formolato un pensiero che Aristofane, Menandro e i minori
comici, Platone, Plutarco, Luciano, Aristenete non abbiano espresso
quasi con le stesse parole. E in quel granaio che serviva per
l'allevamento dei bachi, il suo spirito non è tutto di Alcibiade e
degli ateniesi e spartani che formicolavano attorno a lui insieme con
gli sciti di Patti su l'Ellesponto; il padre e un amico lo tengono
informato delle cose di Milano, degli avvenimenti politici, e
dell'improvvisa morte del Billia che gli era amicissimo e compagno di
lotte nei fortunosi tempi di Lissa e Mentana, del processo Lobbia e
nella redazione del _Gazzettino rosa_, ricordato dai milanesi, credo,
ancora con terrore.


III.

_L'Alcibiade_, dopo la _Sposa di Mènecle_, è il lavoro del Cavallotti
in cui si mostrano meglio certe sue qualità di immaginazione e, stavo
per dire, di creazione, se la parola non potesse sembrare eccessiva
trattandosi di organismi rimasti a mezzo, più accennati, che
sviluppati. La vastità del quadro impòstosi lo costringe a far questo.
I personaggi passano davanti ai nostri occhi come le bizzarre figure
di un caleidoscopio; non abbiamo tempo di fissarle; appariscono e si
dissolvono; meno il protagonista che è, naturalmente, sempre in vista
e dà unità all'azione.

Unità però che è aggregamento, non organismo. Sarebbe stato meglio,
per esempio, che il drammaturgo non si fosse scusato di aver confuso
in uno due momenti della vita del suo eroe, peccato neppur veniale, e
avesse sviluppato più un carattere genialmente concepito e abilmente
tratteggiato, quello del parassita Cimoto che, da misero ricercatore
di pranzi a ufo, da punto coscienzioso agente elettorale, come diremmo
oggi, si eleva a poco a poco ad altezza di eroe nella scena finale.

I soldati di Lisandro, circondata la povera casa colonica in Frigia
dove Alcibiade e i suoi si sono ricoverati, vi hanno appiccato il
fuoco. Alcibiade tenta un'ultima resistenza, ma torna indietro ferito,
barcollante, quasi soffocato dal fumo. Timandra, la fedele cortigiana
che è stata il buon genio di lui, lo accoglie morente tra le braccia.

      ALCIBIADE. Timandra, un bacio!... Cimoto, a te la
      raccomando; non distaccarti da lei.

      CIMOTO (_piangendo e singhiozzando_). Oh, mio padrone! mio
      padrone!

      ALCIBIADE. Quando tornerai in Grecia, di' ad Atene che
      spirai col suo nome su le labbra.... e racconta a Socrate
      come son morto!... Addio!... Ricordati di Alcibiade!
      (_ricade e muore_).

E allora la cortigiana si purifica; vuol morire con l'amato, come
olocausto alla Dea sotterranea da lei invocata. Le fiamme crepitano da
ogni parte.

      TIMANDRA. Cimoto, vanne! Le fiamme incalzano! Ancora un
      istante e non sarai più in tempo.

      CIMOTO (_cupo_). E tu?

      TIMANDRA. Io... io compio il sacrificio... ed infioro la
      vittima... vanne! Le fiamme son qui.

      CIMOTO. Timandra, hai ben sentito che egli mi ha detto di
      non lasciarti? Dal dì che Alcibiade mi chiamava a sè, egli
      non offerse mai vittima ai Numi, senza che io ne avessi la
      mia parte. Qui si fa un sacrificio in suo onore. _Sono il
      suo parassita._ Ci resto!

E si avvolge nel suo mantello, attendendo, ritto e fermo, che le
fiamme lo avvolgano insieme con Alcibiade e Timandra.

C'è un: _Vanne!_ c'è un _quel dì_, e il _ci resto_ che può indurre in
equivoco, se Cimoto vuol restare _suo parassita_ o restare per prender
parte al sagrificio: piccoli nèi di forma che abbondano in tutti i
lavori del Cavallotti e che più stonano qui dove la perfezione dello
stile dovrebbe essere degna del soggetto greco. Ma questi nè altri nèi
impediscono di ammirare la concezione, come l'ammirazione non
impedisce di rimpiangere che il carattere di Cimoto non abbia potuto
disegnarsi completamente per giustificare il mutamento avvenuto in
lui.

Il poeta ha una scusa e l'ha detta: La vastità delle proporzioni della
tela. Ma è scusa insufficiente. Chi gli ha imposto quella vastità? Chi
gli ha imposto di dare a tutto il suo lavoro una forma vieta,
sorpassata, quantunque sia stata la forma adottata dallo Shakespeare
pei suoi drammi che racchiudono parecchi secoli della storia
d'Inghilterra? Allora certe convenzioni erano perdonabili. Lo
Shakespeare se ne serviva perchè non repugnavano a lui nè ai suoi
contemporanei, e se ne serviva (bisogna aggiungerlo) da pari suo.
Voglio pure ammettere, come larga concessione, che il Cavallotti le
adoperasse in quella riduzione dell'_Alcibiade_ destinata alla
rappresentazione; ma avrebbe dovuto farle sparire dal lavoro destinato
alla lettura. Bisognerebbe esaminare minutamente il quarto quadro,
quello della spedizione in Sicilia, per convincersi quanto il
Cavallotti abbia abusato di certi mezzucci convenzionali, quasi che
dallo Shakespeare in qua l'organismo drammatico non si sia sviluppato,
nè perfezionato in niente: quasi sia lecito a un artista del secolo
XIX ignorare questi svolgimenti e perfezionamenti o, per lo meno,
disdegnarli.

Per questa ragione _La sposa di Mènecle_ rimarrà il miglior lavoro di
tutto il teatro cavallottiano, accettato il genere a cui appartiene.

Il prologo è una bellissima trovata. Il poeta comico Eudemonippo, un
Felice Cavallotti greco (_eudaimôn_, felice, _ippos_, cavallo) ha
osato porre in iscena Mènecle, tesmotèta due volte, ambasciatore ai
Corinti per parte degli Ateniesi, governatore in Lesbo, e attribuirgli
un'azione che, secondo l'accusatore Beoto, _capovolgeva ogni concetto
della famiglia e della virtù_. Il poeta è citato a difendersi
nell'aula del _Batrachio_, davanti al Tesmoteta e ai giudici estratti
a sorte. Assistiamo a una seduta con arringhe dell'accusatore e
dell'accusato, con tutte le minute particolarità dei processi
giudiziari ateniesi. Durante l'ultima parte dell'arringa di
Eudemonippo, il Tesmoteta e i giudici dànno visibili segni di
stanchezza sonnolenta. Quando l'oratore ha finito e si leva la corona,
il Tesmoteta rialza, scotendosi vivamente, il capo.

      TESMOTETA. Finito?... Ah! Passeremo dunque, prima dei voti,
      alla recita della commedia in atti... Or quindi, o giudici,
      l'arringa che udiste...

      IL CANCELLIERE (_additando i giudici_). Li ha persuasi.
      Dormono.

      TESMOTETA. Davvero? (_vivamente all'accusato_) Recita che il
      momento è buono.

E cade la tela.

Nella _Sposa di Mènecle_ i caratteri sono disegnati e coloriti con
garbo. Quel po' di convenzionalismo che qua e là si scorge non giunge
a dispiacere; sembra un riflesso, un'eco della commedia menandrea
arrivati a noi a traverso di Plauto e Terenzio, e passati un pochino
pel Marivaux. Qualche volta il Cavallotti dimentica un po' i suoi
greci, come nella scena X.ª dell'atto terzo, dove Aglae, pur fingendo,
pur esagerando, se si fosse meglio ricordata della sua origine
ateniese dell'anno secondo della 100.ª olimpiade, non avrebbe dovuto
dire:

«Alla mia età, c'è qui dentro un cuore che batte, c'è un'anima che
ferve, che soffre, che s'irrita, che ha bisogno del suo lembo di mondo
e di cielo!... E quando la povera anima piange trovandosi al buio,
quando piange perchè trovasi al chiaro... la _si compiange_! Bel
conforto! tenetevelo.»

E infatti qui non c'è nota, non c'è richiamo di testo antico di sorta
alcuna.

Note e richiami invece troviamo dove forse non erano necessari. Non
occorrevano un testo di Alessandro e un altro di Euripide per
giustificare questo dialogo:

      MÈNECLE. E un amico come te...

      CROBILO. Per tutti e dodici gli dei! Voglio credere!...

      MÈNECLE. Val più d'un tesoro.

Eppure il Cavallotti ha cura di annotare:

      «Meglio un amico sulla terra e innanzi ai nostri occhi che
      un tesoro sotterra e lungi da noi (Alessandro, _Citarista_
      fram. 3). Nulla è più prezioso di un amico sicuro: nè
      ricchezze, nè regno. (Euripide, _Oreste_, v. 1155).»

Il convenzionalismo drammatico apparisce, come ho accennato, più
evidente nei lavori di soggetto moderno. Per la _Lea_, in un altro
prologo a bastanza originale, che mette in scena parecchie macchiette
di avventori del caffè del Teatro Manzoni di Milano--una specialmente
caratteristica, quella di Fulvio, ameno e onesto _boème_ a cui tanti
vogliono bene, autore di libretti melodrammatici, sempre in cerca di
cinque franchi o di un _francobollo_ che gli fa più comodo invece
d'un sigaro che gli viene offerto--il Cavallotti che ha profuso
prologhi in azione o in versi, per la _Lea_ dunque fa dire e dice:

    FULVIO.

    ... Eh, mi sembra, scusa se mal mi appiglio,
    Che il tema abbia la barba lunghetta un mezzo miglio.
    La va, capisco, al modo di svolgerlo... e poi, se
    Il tema è vero...

    AUTORE.

                      È storico...

    FULVIO (_incredulo_).

                                   Storico?

    AUTORE.

                                            Eh, altro che!

    Ti basti che nei fogli fu raccontato un fatto
    Preciso tale e quale lo narro al secondo atto.

    FULVIO.

    Ne dicon tante i fogli! E poi non è ammissibile
    che un fatto, perchè vero, debba anch'esser possibile.

Fulvio avrebbe, forse, voluto dire: possibile in arte, cioè reso tale.

E tale non è reso in _Lea_. Per ciò la catastrofe risulta violenta o
meglio melodrammatica.

Riccardo Verneda ha rapito Lea ed è andato a passare la luna di miele
in un villaggio remoto, per sfuggire alle ricerche dei parenti di lei
che avversano quell'unione. La madre di Lea infatti le tende un
tranello: si finge moribonda e richiama la figlia al letto di morte.
Riccardo non può impedire ch'ella parta. Lea dai suoi genitori vien
rinchiusa in un convento.

Riccardo, per otto mesi, ne ricerca invano le tracce, e all'ultimo
riceve l'atto di morte di lei. Un anno dopo egli sposava Ida, e ne
aveva un figlio. Passati sette anni, proprio il giorno in cui nella
villa di Riccardo fanno i preparativi per festeggiare il suo
onomastico, ecco Lea ancora viva, ancora innamorata, miracolosamente
fuggita dalla sua prigione monastica! Ci vuol poco ad accorgersi che
arriva terza molto incomoda nella famiglia del suo rapitore. Da
principio ella vuol farsi forte del suo diritto, riprendere il posto
di sposa; la legge sta dalla parte di lei. Ma un grido del figlio di
Riccardo:--_Mamma! Mamma! Non piangere!_--e un rimprovero rivolto a
lei, Lea:--_Signora cattiva, se facessero piangere la mamma
tua..._--le mutano a un tratto il cuore. Anche lei ha fatto piangere
la sua mamma fuggendo dalla casa paterna con un uomo, e l'ha fatta
morire di dolore! Quel che ora, ritrova, dopo sette anni, è il suo
gastigo. Riccardo le si getta ai piedi:

      RICCARDO. Lea!... perdonami!

      LEA (_chinandosi su lui e prendendogli la testa nelle mani,
      gli susurra all'orecchio con accento rapido a fior di
      labbra_).

      Mi ami ancora?... Mi ami?

      RICCARDO. Sì.

      LEA (_c. s._). Verresti meco?

      RICCARDO. Sì.

      LEA. Ah! era ciò che volevo!... Ora sì che l'andarsene è
      bello! No, no... Vivi a tuo figlio! Il passato sta nella
      tomba... Ebbe torto ad uscirne... e ci ritorna!

E si precipita dal balcone prima che Riccardo potesse trattenerla.

In tutte le sue produzioni di soggetto moderno non c'è un carattere,
una figura che possa star a paro col _Cimoto_ dell'_Alcibiade_; non
c'è una scena che si elevi dalla mediocrità, che possa attestare una
concezione, uno svolgimento fatti con elevate intenzioni di arte e con
novità di tecnica. Alessandro Dumas il giovane, l'Augier, insomma,
l'arte moderna è rimasta come non avvenuta per lui. Nè la stessa
_Sposa di Mènecle_ è tal lavoro che possa lasciare una lieve orma
nella storia dell'arte drammatica, anche restringendoci alla sola arte
drammatica italiana. Un lavoro che, pur attaccandosi al passato, non
porge addentellato per l'avvenire, è cosa nata morta.

Componiamolo nel sepolcro, e la terra gli sia lieve.


IV.

E ripensando all'eccessiva scrupolosità delle note ai suoi tre lavori
di soggetto greco (_Nicarete_ non ho potuto vederlo, credo non sia
stato ancora pubblicato) voglio qui rammentare un tratto
caratteristico dell'uomo, l'unica volta che l'ho conosciuto da vicino,
due anni fa.

Facevo parte, col Panzacchi e lui, della commissione esaminatrice
degli scritti per la gara finale dei Licei del regno, nella quale il
Ministero della Istruzione pubblica concede una medaglia di oro. Ci
riunivamo in una sala della Minerva due volte il giorno. Gli scritti
da esaminare erano una sessantina. Il Panzacchi aveva fretta di
tornare in Bologna, e appena gli capitava in mano uno scritto che
dalle prime tre o quattro pagine si palesava molto mediocre, tale da
non presentare nessuna probabilità di esser preso in considerazione,
subito proponeva:

--Smettiamo di andare avanti; non perdiamo il nostro tempo.

Io ero di accordo con lui; ma il Cavallotti si affrettava a dire,
quasi balbettando:

--No, no! Chi sa?... Vediamo. E poi, è dovere nostro.

Si leggevano altre due, tre, quattro pagine; il lavoro peggiorava.

Il Panzacchi, impaziente, alzando le spalle, brontolava:

--Ma insomma, che dobbiamo più vedere? Non va. Smettiamo, passiamo a
un altro.

Io ero di accordo con lui. Ma il Cavallotti insisteva:

--Ancora un po'. Chi sa?... Non precipitiamo il nostro giudizio...

E quando si era finito di leggere, il Panzacchi protestava:

--Hai visto? Ti sei persuaso che noi due avevamo ragione? E così
abbiamo perduto due preziose ore di tempo!

--Non importa. Ora sono tranquillo.

E per giustificare le sue esitanze, soggiungeva:

--C'è del buono, qua e là: ha un concetto patriottico... È vero?

E si rivolgeva a me che, sorridendo tranquillo e rassegnato,
rispondevo:

--Il patriottismo non è una ragione per malmenare la lingua e lo
stile.

E si passava a un altro scritto; e si tornava rifare la stessa scena,
quasi con le stesse parole, e con identico risultato. E non ci fu caso
che l'esperienza di otto o nove scritti inducesse il Cavallotti a
cedere, a non andare fino in fondo.

Faceva di più: nelle ore pomeridiane tornava alla Minerva un'ora
prima dell'ora fissata. Aveva paura che non si fosse lasciato illudere
da una lettura frettolosa, da una discussione in cui non avesse saputo
tener testa contro il Panzacchi e me, e tornava a rileggere da solo
quegli scritti. Il giudizio non mutava, ma egli si sentiva più
tranquillo. E al nostro arrivo, ci rileggeva qualche brano non mal
riuscito, specialmente quelli dove lo studente aveva infilato una
serie di belle frasi patriottiche.

--Peccato! Se fosse andato avanti così!

--Tu hai tempo da perdere!--tuonava baritonalmente il Panzacchi, e
rideva.

Rideva anche lui, il Cavallotti, e poco dopo eravamo daccapo:

--Vediamo!... Chi sa?... Forse, avanti...

Pareva un'esagerazione, una posa, e non era. Proprio come sembrano
un'esagerazione, una posa da erudito quelle note, quei riscontri,
quelle citazioni a piè di pagina, che raddoppiano e anche triplicano
il volume dell'_Alcibiade_ e quello dei _Messeni_ e della _Sposa di
Mènecle_ nell'edizione del Reggiani.

Io credo che il Cavallotti sia stato, tra gli autori drammatici
italiani, colui che abbia ricavato un maggior compenso dai suoi
lavori. Mi è stato detto che non si contentava dei decimi; richiedeva
anticipazioni a fondo perduto, sicuro che le sue commedie e i sui
drammi potevano contare su la benevolenza del pubblico. Non sarà
malignità aggiungere che l'influenza dell'uomo politico giovava
all'autore drammatico, ma stimo che si possa aggiungere ch'egli non la
sfruttasse per progetto. La politica s'infiltrava, non ostante la
puritaneria di lui, nei larghi successi dei suoi lavori. La misera
fine dell'autore ha prodotto in questi mesi una rifioritura di
rappresentazioni e di successi clamorosi. Le ragioni dell'arte però
non hanno niente che vedere con essi. _Le Rose bianche_, _Lea_, _Le
lettere di amore_, _Agatodemon_, il _Povero Piero_, non vivranno. Dei
_Pezzenti_ e dell'_Agnese_, drammoni in versi, non è da parlare.

La sera d'ogni prima rappresentazione il Cavallotti aveva la febbre;
sembrava quasi stèsse per ammattire. A ogni impuntatura di attore,
trasaliva, si agitava convulso, si arrampicava a una quinta, mandava
fuori qualche moccolo, si versava intere catinelle di acqua fredda su
la testa.

Alle prove, non era meno agitato. Un suo amico narra piacevolmente:

      «Bisogna sentirlo ora come legge le sue commedie, e come
      rifà la parte dell'_amoroso_ o del _primo attore_,
      servendosi alternamente dei suoi due registri vocali.
      Vedetelo là adesso, piantato a gambe larghe nel centro della
      scena--come direttore sceno-tecnico preferisce il _centro_
      alla _sinistra_, che gli spetterebbe--togliendo al
      suggeritore la vista degli attori, che pendono dalle sue
      labbra; vedetelo rosso in viso, con lo sguardo intento e
      l'orecchio teso ad ascoltare, tormentando quell'infelice
      baffo destro, che deve alla sua posizione topografica sotto
      il naso il continuo esercizio depilatorio, al quale, non so
      come, resiste, con meraviglia del suo omonimo fortunato di
      sinistra.

      «Ora sentitelo: interrompe la prova con un
      formidabile--_No!_--e si sforza di recitare a memoria, e con
      la dovuta intonazione, il periodo che qualche attore non ha
      inteso bene o gli ha storpiato; ma nella foga, spesse volte,
      replica ripetutamente una mezza frase che non riuscì a
      tirargli in mente l'altra metà. Allora si arrabbia con sè
      stesso, suda, si sbottona il vestito, getta via il cappello
      e strappa il copione dalle mani del suggeritore. Quando poi,
      con la scorta del manoscritto, ha rimesso in tono e
      raddrizzato i periodi, respira, si asciuga il sudore, si
      riabbottona, cerca il cappello, lo rimette nella consueta
      posizione e torna al posto».

Lo stesso amico, a proposito della prima rappresentazione dei
_Pezzenti_ a Milano, racconta il seguente aneddoto:

      «Il _Conte di Rysdal_ dorme in una delle due celle occupanti
      la scena. Svegliatosi, deve recitare una preghiera. Alzatosi
      il sipario, arrivato il momento, l'attore incaricato della
      parte non si move, non dà segno di vita. Il Cavallotti, che
      poco prima non aveva saputo spiegarsi un rumoroso e
      cadenzato respiro, al mormorio del pubblico capì subito di
      che si trattava. Slanciarsi contro lo scenario di fondo,
      darvi un solennissimo pugno accompagnato da un rabbioso e
      meneghino: _Porco sciampin!_ e rompere il sonno al
      malcapitato attore fu tutt'uno! Il pubblico non si accorse
      di niente e la rappresentazione proseguì senz'altri
      incidenti.»


V.

Probabilmente, nella lirica Felice Cavallotti non lascerà orma più
profonda che nell'arte drammatica. Il _Libro dei versi_ è quasi il suo
testamento poetico e una piccola biografia insieme, divisa in sei
parti con titoli diversi: _La mia Arte_, _Il mio Paese_, _La mia
casa_, _Sogni e sorrisi_, _Malattie_, _Ricordi scenici_. Dal volume
delle _Poesie_, dalle _Anticaglie_, dai drammi e dalle commedie, dove
il Cavallotti non ha mancato mai d'introdurre qualche personaggio che
scrive o recita versi, da riviste e giornali, fin da galanti
ventagli, egli ha scelto, secondo il consiglio del suo editore
Aliprandi--com'egli narra nella prefazione--quei componimenti _che il
cuore ripete più volentieri, quelli ai quali egli vuol più bene, non
perchè migliori degli altri, ma anche perchè, a differenza degli
altri, vi è appiccicato della sua vita_, un qualche cosa _il cui
ricordo lo fa triste ed allegro, una qualche memoria che il tempo non
ha cancellato_.

E di questa prefazione è notevole la chiusa:

      «Questo libro vorrebbe essere, per ciò che rispecchia, un
      libro _sui generis_: il libro cioè che il poeta, passato per
      molte lotte, arrivato a un dato punto della via, quando il
      crepuscolo si avanza, vorrebbe trovare vicino a sè nell'ora
      dell'andarsene, e lasciare di sè e dell'opera
      propria--quando il resto andasse perduto--come il più sereno
      dei ricordi, al figliuolo, come lui nato ad amare, come lui
      nato a lottare. E cioè vorrebbe essere come la sintesi di
      tutta una produzione lirica, in rispetto unicamente al
      soffio che l'animò, ai sentimenti che la destarono; un libro
      vissuto, il compendio in versi della memoria di un poeta.
      Ivi non saranno tutte le battaglie combattute: ma echi delle
      note che squillarono in tutte; ivi non saranno tutti i sogni
      sognati, ma parole e lavoro dei sogni che il poeta più amò.
      Sicchè coloro che non sciuparono il tempo nel tener dietro
      alla varia sua opera o nel leggere i volumi suoi possan
      dire, senza errore, di conoscerlo da questo: e quando ci sia
      passato fra i più, e data la molta sua suppellettile
      all'oblio, gli sorrida la lusinga di vivere in taluna almeno
      di queste pagine, e che a qualcuna di esse si arresti il
      sorriso di labbra gentili o il pensiero di qualche anima
      buona.»

Malinconiche parole che rendono pensosi e inducono a credere che un
confuso presentimento della sua prossima fine attristasse l'animo del
poeta, se si ricordano le altre parole riferite dai giornali e da lui
rivolte a un suo collega di deputazione poche ore prima dello infausto
duello: _Prepàrati a fare anche la mia commemorazione!_

Certamente in questo volume sono raccolti i versi del Cavallotti che
più volentieri si rileggono. Con bonomia tutt'ambrosiana, nell'autunno
dell'anno scorso, _in faccia agli ultimi raggi del sole che indoravano
la collina di Dagnente, fra due bicchieri di ottimo Miradolo_, il suo
editore--com'egli riferisce--gli diceva:

--Quei _versi lì_, così a naso, mi pare che sian quelli che si
capiscono di più e che girano meglio per le mani della gente. Lei ha
gridato tanto la croce contro i versi che la gente non capisce!...

E sembra che abbia voluto dirgli:

--Negli altri suoi versi c'entra troppa politica, troppa
partigianeria. Nati in circostanze eccezionali, hanno tutti i difetti
delle produzioni che prendono occasione di un fatto politico
particolare, di cui, nel momento che esso avviene, non si può dare un
giudizio equo e sereno. Quando sopravvengono altri fatti che lo
commentano e lo spiegano, la spiegazione e il comento affrettati,
monchi, ingiusti ne diminuiscono il valore, specialmente se quei versi
non hanno tale eccellenza di forma da ridurli immortali. Lasciamo che
li ricerchino coloro che vorranno rintracciarvi i sentimenti e le
idee dell'uomo politico. Costoro non si arresteranno a un'epoca,
frugheranno qua e là, potranno cavarsi il gusto di trovare il poeta di
un tempo in contraddizione con quello di tempi posteriori. E avranno
torto di scandalizzarsi di certe contraddizioni tra i sentimenti e le
idee del giovane e quelli dell'uomo maturo--l'uomo tutto di un pezzo è
quasi innaturale--purchè gli entusiasmi di una volta non siano meno
sinceri degli entusiasmi di dopo. La politica è deleteria. Lo sa per
prova un altro poeta. Pochi critici riescono a mantenersi nei limiti
della discussione puramente letteraria, quando un concetto estraneo
all'arte vi si è infiltrato per dividerne gli animi, per eccitarli,
per offuscare le menti. Se occorrerà, se la forma ha avuto tanta
potenza da elevare la poesia di circostanza, anche appassionata, anche
ingiusta, anche maligna, a un'altezza sublime; se occorrerà, se sarà
il caso, quando le passioni, gli eccitamenti, gli odii, i rancori, le
invidie troppo personali non turberanno più gl'intelletti, la critica
saprà fare e farà il dover suo, guarderà soltanto l'opera d'arte e la
giudicherà unicamente come tale. Diamo per ciò tempo al tempo. Intanto
facciamo un volume che riveli l'uomo nel poeta, o meglio, il poeta
nell'uomo, se c'è; è più prudente, più pratico.--

Ecco quel che mi è parso d'intravedere in quelle parole di bonomia
tutt'ambrosiana, e che ho riferito apposta perchè anche io non voglio
ricercare il poeta lirico nei canti politici, ma circoscrivermi a
studiarlo nel _libro dei versi_.

Non già che qui siano soltanto componimenti con contenuto dove la
politica non faccia capolino e non lo invada intero con tutti i suoi
sdegni, con tutte le sue ire, con tutte le sue contraddizioni; sarebbe
quasi un miracolo, trattandosi di un uomo come il Cavallotti.

E a Giuseppe Garibaldi egli dirà:

    _Altra Italia sognavi!_ un'altra meta
      Accarezzavi nell'ingenua testa!
      Povero vecchio! il desiderio acqueta!
      Ecco l'Italia dei tuoi sogni è questa!

    Non pei suoi figli, tu ne' giorni rei
      Dolce speravi d'_una patria_ il vanto?
      Vuota formola Italia or più non sei,
      Tutto ora copri del tuo nome santo.

    Guarda le nude, le tetre pareti!
      Chiudono ancor le squallide _dimore_
      I generosi, i matti ed i poeti...
      Ma almen veglia alla porta il tricolore!

    Ve' tra gli inermi, come un dì, si sbranca
      Torma di sbirri per le dense strade!
      Lavorano le daghe a dritta e a manca...
      Ma almeno, almeno, son d'Italia _spade_!

    Oh dolce orgoglio! Non più lo straniero
      C'insulta nei cruenti parapiglia!
      Le prepotenze son le stesse, è vero...
      Ma almeno, almeno, son fatte in famiglia!

La forma non eleva l'ironia troppo volgare; e questo difetto fa
pensare che gli Dei hanno voluto bene al poeta, evitandogli il
pericolo di esser ministro e di trovarsi in circostanze che avrebbero
permesso, a qualche altro non meno volgarmente, di ripetere che anche
sotto il _governo di lui_ altri generosi, altri matti ed altri poeti,
o pretesi generosi, o pretesi matti e poeti, come si vorrà, avevano
abitato le _squallide dimore_; che altre daghe non meno sbirresche
avevano lavorato a dritta e a manca per le _dense strade_; giacchè la
politica gioca simili e peggiori tiri ai suoi adepti, e non c'è
abilità che possa evitarli.

Nella poesia _Dijon_, in morte del fratello Giuseppe, egli si lascerà
sfuggire:

    Oh, la notte che all'Alpi scoscese,
      Solo, in vetta, sostando fra i geli,
      Lungi il guardo _oltre i limpidi cieli_
      Sospingevi la Francia a cercar

    Di che lauri mai fosse cortese
      _Questo_ suol che a difender volavi,
      E qual messe superba ignoravi
      Tanto sangue dovesse inaffiar!

    Non pensasti la gallica boria.
      Curva ancor sotto l'asta germana,
      Pei _tornati_ guerrier di Mentana
      Ritrovante l'oltraggio di un dì;

    E spartirsi l'ausonia vittoria
      Quei che al Prusso voltarono il dorso.
      E i paffuti fuggiaschi del Còrso
      Scagliar fango a chi vinse e morì!

E annoterà: _Non è inutile per la storia il rammentare di che
gratitudine imperialisti, legittimisti, pseudo-repubblicani e
clericali rimeritassero in Francia il soccorso magnanimo del vinto di
Mentana_. Ma sùbito la politica della sua parte repubblicana gli farà
soggiungere: «_Per fortuna_... il VERO POPOLO FRANCESE... _ricorda con
ammirazione e gratitudine il nome del vincitore di Dijon_,» quasi
imperialisti, pseudo-repubblicani, legittimisti e clericali non
appartenessero al VERO POPOLO FRANCESE e non ne formassero la
maggioranza!

Sarà meglio rifuggiarsi spassionatamente nella critica letteraria e,
innanzi tutto, prender nota di una preziosa confessione del poeta:

    A me polito e terso
      Nel furiar de l'ore
      Non concessero il verso
      Le Pierie canore:
      E di squisiti carmi
      E d'armonia gentil
      L'estro ignorò fra l'armi
      Il delicato stil.

                              (_La lucerna di Parini_).

Infatti, proprio nel componimento che inizia il volume, nella prima
strofa, c'imbattiamo in questi versi:

    Ma già già l'ombre _fasciano_ il piano,
      Espero luccica ne lo zaffiro...
      Il lampionaio comincia il giro
      Per i _viottoli_ de la città!

                              (_Tramonto_).

E nell'ultima strofa:

    Or tu, fanciulla, che nel tripudio
      Dei cari aprili mi chiedi un canto,
      Tu, se dell'arte gentile incanto
      Perenne fascino rida a' tuoi dì.

    Nei tardi vesperi, su questa pagina
      Se un melanconico sguardo ritorni,
      Del fior più bello che il crin t'adorni
      Lieve una foglia _posala_ qui.

E più in là in questi altri, nella lirica _Alla Doccia perenne di
Dagnente_:

    Ecco, or _fantasima somiglio bianca_
      Che vada errando per la montagna...
      Di qualche morto l'anima stanca
      Che di _alcun_ torto forse si lagna...

    Senti, Giovanni, quando in lenzuolo
      Simile a questo porranmi un dì,
      In qual sia trovimi lontan suolo
      Di' la _mia bara_ la portin qui.

Non voglio affermare che uguale trascuratezza s'incontri in tutte le
sue liriche, ma è raro che qualcosa di trasandato, di dimesso, di
comune non dia a quasi tutte l'aria di facili improvvisazioni. I metri
troppo musicali lo affascinano, lo fanno trascorrere, gl'impediscono
di scegliere fra le tante immagini che gli si presentano davanti, di
indugiare su un aggettivo, di esitare intorno a una rima.
L'eccitazione lo spinge innanzi senza dargli tempo di voltarsi
addietro; le strofe sgorgano una appresso all'altra, lusingandogli
l'orecchio, ed egli cede volentieri alla loro malìa.

Certe volte la trovata è geniale, ma la verbosità per poco non la
sciupa; è gentile, ma fa rimpiangere che la forma non sia gentile
altrettanto. La sincerità spesso lo salva, giacchè dov'egli appare
anche più manierato si mostra pure sincero. In bocca a un altro questa
strofa oggi farebbe ridere:

    Oh melodi! o fantasime
      Superbe del pensiero!
      Santi dell'Arte fascini.
      Caste Pimplee del Vero!

    Triste chi osò di adùlteri
      Amplessi i vostri altar,
      Di servil carme i dèlubri
      Di Pindo profanar.

In bocca sua fa appena sorridere, perchè c'è sempre un dissidio tra la
sua forma e il suo concetto, quasi egli abbia gettato addosso a questo
la prima veste capitatagli sotto mano, senza badare se gli si attaglia
o no; forse, per la convinzione che il concetto, bene o male, più o
meno efficacemente, si farà intendere; e questo gli sembra
l'importante.

Infatti le naturali attitudini del suo ingegno sono ricche: l'impeto,
lo slancio, la commozione, la tenerezza, il sorriso, l'ironia, la
satira violenta si alternano, si mescolano, si confondono con vena
abbondante.

Quella monotonia che scorrendo il volume si fa vivamente sentire è più
nei mezzi ch'egli adopra, che non nella sostanza; nel verso, nel
metro, nella costruzione della strofa, e anche un po' nella concezione
generale. Si vede bene che, se egli non avesse avuto troppa fretta, se
non avesse sentito alle spalle l'urgenza di altre bisogne specialmente
politiche, l'opera sua avrebbe potuto riuscire assai ben diversa. Ma a
lui, che scorge soltanto gli eccessi di certe ricerche di stile e
giustamente le sdegna, anche il _limæ labor_ sembra, o almeno pare che
sembri, un eccesso. E perciò si fa dire dalla Musa:

    Fra pergamene logore, astruse
      Che andresti, misero vate, cercando?
      Astrusi ritmi, strofe confuse,
      Gergo dai vivi fuggito in bando?

    Odon gli stitici metri di notte
      L'ombre: _te i cuori ch'odano io vo'_:
      O scegli il plauso di scimmie dotte,
      O scegli i baci ch'io sola do.

                              (_L'Addio alla Musa_).

Ma forse quand'egli rimpiange, con insolita bellezza di forma,

    I bei razzi lucenti
      Lanciantisi alle stelle,
      In fasci aurei spioventi
      E in scintillanti fior!

    Per mille goccie belle
      Di color mille splende
      La pioggia ignea... discende
      Lenta ne l'aria... e muor

nella quale felicissima immagine adombra i fervidi giovanili sogni che

    Spingean superbi voli
      Incontro all'avvenir:

forse egli pensa quel che sarebbe stata l'opera sua letteraria,
soggiungendo con amarezza:

    Luce più lunga ed altro
      Solco _ne_ l'aria scura
      S'era il mio cor più scaltro
      Segnato avria il cammin!

    Cercando la ventura
      Per altre vie gioconde,
      Avria più liete sponde
      Raggiunto il mio destin!

E altri rimpianti, e altri dubbi intorno alla vitalità dell'opera sua
gli sfuggono frequentissimi, assieme con accenni al riposo finale,
quando il suo cuore avrà cessato di battere e la sua mente di
lottare. E questo senso di scoraggiamento e di tristezza rende
simpatico l'uomo anche a coloro che non amavano il partigiano politico
e il polemista irruente. L'arte non è eccelsa, ma il carattere fa
impressione; e qualche volta anche la persona prende rilievo e
apparisce viva, come nella lirica _I miei discorsi alla camera_.

Egli si leva a parlare:

    E sovra italiche labi e vergogne
      De l'ire chiuse puntando l'arco
      L'aspra parola, frenata al varco.
      Tenta di arguzie vestita uscir.

Ma i _forse_, i _quasi_, i periodi corretti, i cauti motteggi gli
sembrano una triste concessione, una viltà; e la parola scatta
arroventata.

    Ma inquieto l'occhio del presidente
      Attento, vigile sopra _gli_ sta,

    Fatto a l'orecchio la man riparo
      Ansio ogni sillaba segue il vegliardo;
      Or bieche lancia_gli_ rampogne il guardo,
      Ora par preghi_lo_...: Per carità!

Ed egli s'infrena, s'infrena; e il Biancheri lo ringrazia sorridendo.
Ma di là a poco, una forte scampanellata:

    Allora... allora... dal cor profondo
      Un _non so cosa_ sal di molesto...;
      E la man destra fa un certo gesto...
      Come di cetra corde toccar.
    Conclude in furia... finisce il fondo
      De l'acqua e zucchero... poi corre via...

E infatti parrà di vederlo a tutti coloro che hanno assistito a
qualcuna delle sue sfuriate parlamentari.

E per questa schiettezza di rappresentazione che ci mostra il poeta
calmo, sorridente, in un momento di galanteria anzi di _marivaudage_,
certe sue poesie minori, riunite nella parte IV appunto sotto il
titolo di _Sogni e Sorrisi_, hanno probabilità di vita più lunga delle
altre, anche perchè più accarezzate, in grazia forse della serenità
del momento, dal lato della forma.

Oh, egli sa benissimo di essere stato un combattente, un agitato, un
inesorabile; e la sua coscienza gli fa prevedere che neppur quando
sarà morto i suoi avversari gli daranno pace! Ma egli protesta, e
invoca l'amico _Primo_... perchè difenda la sua memoria dalle bieche
_ingiurie_ che tenteranno di _sterpare i fiori dalla sua fossa_:

    Tu, che da questi carmi udirai
      Note a te fremere pugne dal cor,
      Tu al buon Tersite dirlo potrai
      Se furon tinti del suo livor.

    Tu che gli sdegni vedevi e l'ire,
      E il giambo uscirne, beffardo suon,
      Tu al buon Tersite lo potrai dire
      Se vi eran lagrime nella canzon!

                              (_A l'amico Primo..._)

E quantunque questi versi siano del giugno 1879, non mi è parso
inopportuno ripeterli come chiusa di questo scritto.



ALFONSO DAUDET


Da quasi dieci anni Alfonso Daudet sopravviveva a se stesso. I suoi
intimi affermavano che la spinite da cui era reso mezzo inerte il suo
corpo non aveva menomamente intaccato le facoltà intellettuali di lui;
ma gli ultimi libri pubblicati mostravano una stanchezza, un
affievolimento di forze che smentivano presso gli ardenti ammiratori
la pietosa bugìa. Per ciò, oggi, al dolore per la perdita dell'autore
prediletto si è mista la pietà per l'uomo che ha cessato di soffrire.

La natura e le circostanze lo avevano colmato di doni. Alla bellezza
fisica si accoppiavano in lui un'immaginazione vivacissima, una
sensibilità squisita, quasi femminile, una geniale padronanza della
forma letteraria, un felicissimo intuito dell'opportunità, una sempre
giovanile freschezza di impressioni, di slanci di buon umore, di
malizia e di birichineria. Nato poeta, le necessità della vita lo
avevano fatto smarrire tra i romanzieri; e c'era voluta una gran
forza di volontà e di ostinazione per guadagnarsi e mantenersi fra
essi il posto che ha occupato per parecchi anni.

Pochi scrittori hanno avuto, come lui, la rara facoltà di
impossessarsi delle anime, di compenetrarsi con loro, di ispirare la
profonda simpatia che mette all'unisono il cuore dello scrittore con
quello dei lettori. I suoi stessi difetti lo aiutavano in questo.
L'eccesso di colorito, la mancanza di proporzioni e di equilibrio, le
trascuratezze apparenti o volute di molte parti dei suoi lavori
avevano un incanto particolare, di bizzarra noncuranza, di imprudenza
gioconda. Si perdonava facilmente ogni cosa a colui che ci commoveva
con le sue novelline, che ci interessava e ci sbalordiva con la
magnificenza delle sue descrizioni, con la passione e coi casi dei
personaggi dei suoi romanzi. In Francia gli han perdonato fin le
sgrammaticature; e il giorno che qualcuno, nella _Vie moderne_, si
compiacque di una lunga spulciatura pedantesca dell'_Immortel_, i
lettori francesi non gli badarono, e continuarono a leggere e ad
ammirare il Daudet, sospirando forse: Ne avessimo parecchi di simili
scrittori sgrammaticati! Giacchè egli, come tutti gli artisti di
razza, si era creato una lingua tutta sua, uno stile vivo, pieno di
efficacia drammatica, che non somigliava a quello di nessun altro. Se
la grammatica non ci trovava il suo conto, peggio per lei.

Eppure quella deliziosa facilità era frutto di paziente fatica. Le
novelline di poche pagine gli costavano otto giorni di lavoro. La
lucidezza e il fremito della sua frase risultavano da una cesellatura
amorosa, paziente che voleva raggiungere a ogni costo la perfezione.
Quando si parla di lingua e di grammatica, bisognerebbe sempre
rammentarsi che il Fénelon ha detto del Molière, da lui tanto ammirato
come autor comico: _Ah, se Molière sapesse scrivere!_ E il Molière
oggi è un classico.

Alfonso Daudet ha avuto tutte le fortune, non ultima quella di non
accorgersi di morire.

Autore dell'_Immortel_, satira spietata ed eccessiva dell'Accademia
francese, esecutore testamentario del De Goncourt per l'altra
Accademia dei Dieci che dovrebbe essere il contr'altare dell'Accademia
dei Quaranta, gli era toccata ultimamente anche la consolazione di un
primo sfavorevole giudizio dei tribunali verso gli avidi eredi del
fondatore. E forse dalle sue belle labbra, convulse per gli atroci
dolori che gli rodevano le ossa, uscivano inesorabili epigrammi contro
i quaranta _immortali_ nell'istante in cui la morte è venuta a
strappargli l'estremo grido, rovesciando su la tavola, fra lo spavento
della moglie e dei figli, la leggendaria testa capelluta, grigia per
gli anni e pei patimenti.

Non ostante i suoi ultimi lavori, sembrava che per lui la posterità
fosse cominciata da un pezzo, dopo _Sapho_. I giovani, con la
ingratitudine baldanzosa che è propria della loro età, osavano già
scrivere che il Daudet ormai era un grand'uomo soltanto in provincia,
a Tarascona da lui illustrata, a Nîmes dove era nato! E il suo stile
veniva qualificato di telegrafico, rozzo impasto di interiezioni e di
balbettamenti, linguaggio da _petit nègre_, cosparso di pariginismi in
voga! Tamburinaio traviato (alludevano al Valmajour del _Numa
Roumestan_) falso parigino, era stato creduto per un momento uomo di
spirito, stilista, artista e fin romanziere! Ma tempo, tempo fa!

Ai giovani è permesso di esagerare e anche di essere ingiusti. A
questi cercatori di novità sbalorditoie, a questi infatuati del
simbolo, a questi folli adoratori della preziosità della forma, uno
scrittore limpido, vivace, drammatico anche nel colore della frase
come il Daudet non può riuscire gradito. È troppo esteriore, secondo
loro, è troppo del suo tempo, e anche troppo personale. Probabilmente,
il giudizio della posterità non sarà proprio questo che essi han
pronunciato così alla spiccia nelle compiacenti colonne del _Figaro_ e
di altri giornali. Non sarà neppure un'ampia conferma, senza nessuna
obbiezione e riserba, di quello pronunziato dal pubblico, quando i
romanzi del Daudet gli mettevano sotto gli occhi creature che non lo
interessavano soltanto come creazioni di arte, ma anche perchè ne
stuzzicavano la curiosità come figure, appena velate, di personaggi
viventi o spariti da poco dalla scena del mondo.

Indagare quale potrà essere il giudizio dei posteri, e quale delle
opere del Daudet sarà capace di resistere all'edace lavoro del tempo,
mi sembra tentativo inutile oltre che irto di difficoltà.

Siamo vissuti con lui nello stesso ambiente letterario; abbiamo ancora
fresche le sue stesse convinzioni e, se così si vuole, i suoi stessi
pregiudizi estetici, da poterci astrarre da essi, e studiare l'opera
sua da un punto di vista così elevato e così imparziale che permetta
di adoprare come elementi di giudizio soltanto i più puri e i più
immutabili principî d'arte. Bisogna contentarsi di riandare tutta la
non vasta opera sua, metterne in rilievo i caratteri principali e
notare via via lo svolgersi delle qualità più personali che lo hanno
distinto tra la folla degli scrittori francesi contemporanei; bisogna
contentarsi di accennare quel che egli ha apportato di nuovo nella
forma narrativa, quel che, per caso, vi ha lasciato in germe e che
potrà fiorire a tempo opportuno, quel che anche oggi può facilmente
giudicarsi e manchevole e caduco. Questa sarà l'umile opera che
cercherò di fare alla meglio nel presente studio.

                              *
                             * *

Innanzi tutto, il Daudet dev'essere qualificato _impressionista_.
Questo miope ha una gran virtù di osservatore.

Lo sforzo per veder bene acuisce la sua attenzione, imprime più
profondamente nella sua memoria le cose vedute, e la vivace sua
fantasia meridionale non deve fare nessun conato per renderle col
magistero della parola. Certe volte l'evocazione è così intensa, che
perde la qualità di opera d'arte e, da descrizione che avrebbe dovuto
essere, riesce enumerazione e niente altro; ma questo, bisogna dirlo,
gli accade di rado.

L'osservatore è intanto anche un sensitivo, un sentimentale, un poeta.
La sua anima è piena di fantasticherie e di compassione; egli
s'intenerisce facilmente; ama meglio sorridere che sdegnarsi; perciò
mentre la sua visione delle cose esteriori è intensa e minuta, e le
impressioni del paesaggio e delle scene della natura si trasformano
agilmente dentro di lui in immagini artistiche, il suo sguardo non
penetra addentro nell'intimo spirito delle persone che non possono
riuscire simpatiche al suo cuore. Da ciò una sproporzione, un
disquilibrio nella sua opera d'arte. Il poeta guasta il romanziere.

E soltanto poeta egli arrivava a Parigi nel novembre del 1857 a
diciotto anni, portando con sè nella misera valigia la maggior parte
dei componimenti poi pubblicati sotto il titolo _Les Amoureuses_.

Un critico scrisse allora: «Alfredo de Musset, ha lasciato due penne a
disposizione di chi poteva prenderle: la penna della prosa a quella
dei versi. Ottavio Feuillet aveva già ereditato l'una; Alfonso Daudet
si è impossessato dell'altra.»

Si vede bene che i critici fanno male a indossare la veste di profeti!

Teodoro de Banville ci ha lasciato il ritratto del giovane poeta.
«Testa maravigliosamente incantevole; carnagione di un pallore caldo,
color d'ambra; sopracciglia diritte e morbide; occhi fiammeggianti,
vaghi, umidi in una e brucianti, pieni di fantasticherie, occhi che ci
vedono poco, ma belli a vedersi; labbra voluttuose, pensose, quasi
sanguinanti; barba fine, infantile; capellatura fitta, abbondante
bruna; orecchio piccolo e delicato; insieme di virile rigoglio e di
grazia femminile.»

I salotti e le signore avevano fatto la fortuna delle _Amoureuses_; Il
_Figaro_ doveva rivelare lo scrittore di novelline. Parecchie di esse
erano appena una transizione dai raccontini in versi e dialogati, come
_Le roman du Chaperon Rouge_, _les Rossignols des cimetières_,
_l'Amour trompette_. Brevi come questi, poetici nella sostanza e
nella forma, quantunque non vi fosse adoprato più il verso, essi hanno
preso posto nelle _Lettres de mon moulin_, nei _Contes du lundi_,
nelle _Lettres à un absent_. Sono fantasie, ricordi, note di
impressioni fugaci, che, dopo i disastri francesi del '70, assumono
talvolta un'elevazione tragica, un'espressione di sdegno non potuto
reprimere. Rammento _L'ultima classe_, _La partita di bigliardo_. Quel
povero maestro Hamel che col cuore infranto, dà l'ultima lezione in
francese ai suoi scolari alsaziani, perchè il governo prussiano ha
ordinato che da allora in avanti si dovrà studiare soltanto il tedesco
nelle scuole; e che alla fine della lezione, preso un gessetto, scrive
a grosse lettere su la lavagna: _Viva la Francia!_ e barcollante, con
le lagrime agli occhi, dice soltanto col gesto agli scolari
sbalorditi:--È finita! Andatevene!--quella figura di vecchio maestro
di villaggio, che ancora porta l'antico tricorno, rimane
indimenticabilmente impressa nella memoria, quantunque il racconto sia
di quattro o cinque paginette.

E come fa fremere quel maresciallo che, acquartierato in un castello
del tempo di Luigi XIII--mentre i suoi soldati intirizziscono fuori,
coi piedi nel fango, morti di fame--giuoca al bigliardo con un
capitano che perde appositamente per adulare il superiore da cui
dipende il suo avanzamento! I prussiani, sopravvenuti, hanno già
attaccato gli avamposti; la fucilata incalza, incalzano anche le
bombe. Gli ufficiali francesi accorrono dal maresciallo, chiedendo
ordini; ma egli non smette di giuocare, ingessa tranquillamente la
stecca, tenta delle carambole. Che gli importa se fuori si combatte e
si muore? Quando la sua partita finisce, i reggimenti francesi sono
già sbaragliati, e attorno al castello si ode soltanto un rumore
confuso di passi simili a quello di un armento che fugge!

In questi mirabili capolavori si trovano tutte le buone qualità
dell'ingegno del Daudet, senza nessuno dei difetti che egli mostrerà
quando dal quadretto di genere passerà a dipingere i grandi quadri
della corrotta vita parigina.

Da principio sembra che nei lavori di lunga lena egli facilmente si
annoi, e cerchi volentieri l'occasione di distrarsi. E le narrazioni
complicate assumono quindi fra le sue mani un'aria di cosa scucita,
frammentaria. Si capisce da un capitolo all'altro, la disposizione del
suo spirito. Mentre è ingolfato a raccontare il crudo dramma di casa
Risler, e già trova accenti di vigore e di forza nel descrivere e gli
adulteri amori di Sidonia con Giorgio Fromont, socio di suo marito, e
tutti gli infami intrighi di essa che conducono l'onesto e buon Risler
al suicidio, egli si sente a disagio tra quei personaggi. Ah, che
sforzi in questa continua tensione di spirito! E, appena può, scappa
via, in casa dell'illustre Dolabelle che lo diverte con la sua vanità
di comico di provincia smarrito per le vie di Parigi, con le sue pose,
col suo accento teatrale, con quell'aria di sacrificato in contrasto
con la sua pinguedine e con la lucentezza della sua pelle! E come lo
accarezza, come gli sta attorno, come se lo gode lui, prima di
presentarlo ai lettori! Ogni suo gesto, ogni suo atto è stato mimato
da lui, ogni sua parola gli è venuta su le labbra con lo stesso falso
accento di lui; egli è stato Dolabelle, immaginando e scrivendo. E
quando gli fa scappar di bocca una di quelle frasi incredibili che
sono stupende trovate di artista, la gioia e la soddisfazione dello
scrittore traspariscono tra le righe, invadono anche il lettore, che
si vede davanti agli occhi, vivo e parlante, il personaggio. Come, per
esempio, quando l'illustre Dolabelle conduce dietro il convoglio
funebre di sua figlia Desiderata tutti i comici dei teatrucoli di
Parigi, e invanito per la solennità della cerimonia, additando le due
carrozze che seguono il corteo, esclama serio e impettito:

--Due vetture padronali!

Così farà il Daudet più tardi nel _Nabab_, con la famiglia _Joyeuse_.
E gli parrà quasi di ritrovare un riscontro all'illustre Dolabelle in
persona del signor Joyeuse che, perduto l'impiego, per non addolorare
le figliuole, nasconde ad esse per tre lunghi mesi la sua disgrazia;
e tutte le mattine finge di andare, come era solito, al suo ufficio, e
passa la giornata errando qua e là per Parigi, fantasticando le
storielle che dovrà poi raccontare alle figlie a fine di far durare il
loro inganno.

Così praticherà, più tardi ancora, in _Numa Roumestan_.

Ma, a proposito di questo romanzo, bisogna aprire una parentesi.

Fra il gran tumulto della vita parigina, Alfonso Daudet ha
continuamente la nostalgia del suo mezzogiorno. La nebbia che là
infosca il cielo, il fango che imbratta scarpe e calzoni, gli fanno
sospirare il profondo azzurro del cielo provenzale e quello più
costantemente limpido di Algeri, dove, anni prima, avea dovuto
ricercare ristoro alla sua malferma salute. Da questa doppia nostalgia
era già scaturito _Tartarin da Tarascon_, armato di tutto punto per le
sue caccie di leoni!

Tartarin sognava caccie di orsi, di leoni, di elefanti, centellinando
bicchierini di rhum in quel suo salotto parato di armi d'ogni sorta e
di ogni tempo. E dire che, da buon provenzale, avrebbe dovuto
fantasticare soltanto bei colpi ai _berretti_, quei bei colpi con cui
i suoi amici si solevano compensare, nelle partite di caccia, della
selvaggina che non trovavano!

Ma di mano in mano che la fantasia di Tartarin si eccitava e
divampava, si eccitava maggiormente e prendeva fuoco la fantasia del
suo creatore. E questa volta era proprio vero che il Dio foggiava la
sua creatura a immagine e similitudine sua! Se non che, il Dio si
divertiva dell'opera che andava facendo e della caricatura di sè
stesso che ne scaturiva fuori. Il provenzale che, credendo di
ammazzare un leone, stendeva morto dietro una siepe un povero somaro,
non era diverso dal provenzale che si compiaceva di fargli fare quella
e altre ridicole prodezze. Tutti e due mentivano, esageravano,
prendevano diletto della propria esagerazione e della propria menzogna
scaturite dal fondo di un organismo infiammato dal sole della loro
cara Provenza. Rare volte una creazione artistica era riuscita così
intimamente improntata del carattere dell'autore e della razza.

Coloro che hanno avuto la fortuna di gustare la conversazione
famigliare di Alfonso Daudet dicono che par di riudirne la voce
durante la lettura dei suoi libri. Quello stile spezzato, di scorcio
scintillante di immagini, riboccante di esclamazioni, di apostrofi, di
tutte le figure che la rettorica ha enumerate e che là vengono al lor
posto spontaneamente, come ribollimento anzi spuma del pensiero
concitato, è precisamente la sua parola ordinaria un po' infrenata,
epurata, quasi inconsapevolmente adattata dall'arte. Sarà, forse
(diciamolo per compiacere gli stilisti) stile disuguale, scorretto; ma
ha il fuoco della vita, il fremito del movimento, la commozione, il
pittoresco, l'imprevisto, come secoli avanti l'aveva avuto, in
Italia, quello di Benvenuto Cellini, che non si curava anche lui della
grammatica dei pedanti e dettava, tra un cesello e l'altro, la
meravigliosa narrazione sventuratamente rimasta caso isolato nella
nostra letteratura.

E il Tartarin che scrive come ride delle famose gesta del Tartarin
eroe che gli balza vivo da ogni pagina, gesticolante, ebbro delle sue
stesse madornali fandonie, dalle quali egli si lascia illudere con
pienissima buona fede, quasi quanto gli altri a cui le sballa!

_Numa Roumestan_ è un Tartarin più elevato, ma artisticamente meno
sincero. Anche questa volta la nostalgia della Provenza ha invaso il
cervello del Daudet; ma questa volta risulta _Tartarin_ proprio lui
che racconta.

Ha avuto un colpo di sole; ha visto il Gambetta nel colmo della sua
potenza e n'è rimasto abbagliato. Infatti, nei primi capitoli del
romanzo il lettore non può far a meno di pensare al Gambetta; i nomi
cambiati non riescono a ingannarlo. Aps è Aix; Numa Roumestan è il
gran latino che ha conquistato nuovamente la Gallia. «Quella festa del
concorso nazionale nell'arena d'Aps (mi sia permesso ripetermi) sotto
il sole cocente, con quella folla in ammirazione davanti al grand'uomo
di provincia, Numa Roumestan, che distribuisce a destra e a manca
saluti alla buona, strette calorose di mano, incoraggiamenti e
promesse d'ogni sorta mentre le bande strepitano e i contadini si
slanciano a ballare la _farandole_ al suono del piffero e del tamburo
del Valmajour, primo tamburinaio della Provenza; quella festa ci
richiama alla mente altre riunioni della stessa natura, delle quali
abbiamo letto le descrizioni nei giornali, quando il latino dalle
larghe spalle e dalla parola possente andava attorno per convertire le
turbe al suo vangelo opportunista. Poi si torna indietro, assistiamo
ai primi passi del grand'uomo nella carriera politica. Quella testona
dalla nera capigliatura che gli _mangia_ metà della fronte, quella
faccia col sangue a fior di pelle, coi begli occhi dorati, di
ranocchio, quel giovane studente, insomma, che passa le serate al
caffè Malmus, nel quartiere latino, discutendo in dialetto coi focosi
compaesani, e poi quel processo di stampa del _Furet_ che rivela, più
che agli altri, a se stesso, un oratore di prima forza nel giovane
avvocato senza cause, ci ricordano anch'essi il latino dalle larghe
spalle e dalla parola possente, che sotto il secondo impero
frequentava, ancora studente, il caffè Procopio, esercitandosi con
colpi di pugni sui tavolini nella grand'arte della discussione, e che
dopo, nel 1868, già laureato e uscito dallo studio del Cremieux, nel
processo Baudin lanciava, invece della difesa del cliente Delescluze,
un terribile atto di accusa contro l'impero in via di sfasciarsi.

L'autore però, che non avea preso sul serio Tartarin, che lo aveva
accompagnato con un benevolo sorriso di compatimento e con risate
quasi di ammirazione dalla sua partenza per Algeri fino al trionfale
ritorno in Tarascona assieme col famoso cammello che ha voluto
seguirlo a ogni costo, commette lo sbaglio di accigliarsi, di
sdegnarsi a ogni atto e a ogni parola di Numa Roumestan, e ha
incaricato l'antipatica parigina, moglie di Roumestan, di far la parte
di moralista. La razza! La razza! Ed egli incolpa il Roumestan delle
cose più semplici e più innocue, quasi nessun parigino fosse mai
capace di dire una sola di quelle piccole bugie, che sono, più che
altro, espressioni di convenienze sociali!

Così Numa fa la corte alla figlia di un Consigliere della Corte
d'Appello; non l'ama, ma gli sembra conveniente sposarla. E siccome sa
che la ragazza non può soffrire i meridionali da lei stimati
grossolani, chiassosi, tenori da melodramma o negozianti di vino, il
giovane provenzale s'ingegna d'ingraziarsela; le ripete, forse
involontariamente--come nota l'autore--brani di discorsi politici da
lui recitati al caffè, nelle conferenze, e l'abbaglia con gli sprazzi
della sua fulgida eloquenza.

Delitto!

--Amate la pittura, signore?--ella gli domanda.

--Oh, signorina, se l'amo!--risponde Numa, quantunque sappia di non
capirne niente.

Delitto!

Eppure questa poca scrupolosa esagerazione meridionale monta la testa
anche al Daudet; non è compaesano di Tartarin per nulla.

--Flamme et vent du midi, vous êtes irresistibles!--egli esclama,
entusiasmato.

Quasi non fosse stata bastante l'esagerazione di lui posta per
epigrafe del libro: _Pour la seconde fois, les Latins ont conquit la
Gaule!_»

_Numa Roumestan_ ha un valore per la storia dell'ingegno artistico di
Alfonso Daudet: segna il punto di partenza della sua ultima
evoluzione. Si era smarrito, per qualche tempo, dietro gli
allettamenti del romanzo, diremo di circostanza, col _Nabab_ e _Les
Rois en exil_ e vi aveva profuso tesori di osservazioni e di
descrizioni che daranno a questi lavori il pregio di documenti storici
in avvenire; era fallito nella terza prova con L'_Evangéliste_. Ora,
col _Numa Roumestan_, pur cedendo un'ultima volta alle lusinghe di un
soggetto che lasciava trasparire qua e là personaggi viventi dietro le
figure dell'arte, sembrava si fosse, innanzi tutto, occupato della
forma, per rispondere a coloro che lo accusavano di servirsi di uno
stile troppo impennacchiato, troppo straluccicante; a coloro che gli
rimproveravano la mancanza di proporzione negli episodi, l'eccesso
evidente nella ricerca dei contrasti. E a forza di sorvegliarsi,
d'infrenarsi, egli, meridionale, compaesano di Tartarin, di quella
razza provenzale che vive all'aria aperta, inebbriata di sole, tutta
sensi, tutta esteriorità, che parla come l'uccello canta, facendo
della propria parola non un mezzo ma un fine; di quella razza che non
ha misura, che ha l'esagerazione nel midollo delle ossa, nei nervi,
nel sangue; egli, Daudet, riusciva grigio, monotono, per aver voluto
architettare il suo lavoro con regolarissime proporzioni di parti,
senza divagazioni, senza contrasti.

Ci fu allora chi, studiando questo strano fenomeno, si domandò: Che
vuol dire?

E rispose: «Secondo me, vuol dire che questo libro è la _forma
transitoria_ dell'evoluzione artistica del Daudet. Qui comincia a
mancare l'accento personale, la commozione intensa dello scrittore, e
i personaggi, se non si disegnano netti e spiccati, tentano di vivere
da per loro. Guardando all'ingegno di Daudet, non è ardito presagire
che nel suo prossimo romanzo potremo salutare la sua evoluzione
artistica già bella e compiuta».

Chi scrisse queste parole ebbe un senso di gran soddisfazione quando
_Sapho_ venne fuori a confermare mirabilmente il presagio.

                              *
                             * *

_Sapho_ fu una sorpresa per molti lettori del Daudet. Dietro quelle
creature, appassionate, tormentate, buone, cattive, stravaganti,
perverse, che annodano un dramma di spaventevole semplicità, non
s'intravedevano figure note, personaggi in vista.

I critici si sentivano anch'essi fuorviati, quasi ingannati. Come era
stato bello tormentare un po' l'autore, rimproverandogli di servirsi
della cronaca, dell'aneddoto contemporaneo, per dare ai suoi libri un
piccante che altrimenti non avrebbero avuto!

Com'era stato comodo fargli scontare la gloria letteraria attaccando
l'uomo, accusandolo di ingratitudine verso il conte de Morny, il
_Mora_ del _Nabab_; di calunnia contro Francesco Bravay, il _Nabab_ in
persona; di esagerazione contro il Thérion, l'Eliseo Méraut dei _Rois
en exil_; di sconvenienza verso Sarah Bernhardt sospettata di essere
l'originale della _Félicia Ruys_; di non so quale altra colpa contro
il senatore Numa Baragon che si diceva avergli servito pel _Numa
Roumestan_!

E ora, con _Sapho_, niente di tutto questo! Appena qualche sospetto
intorno al vecchio ingegnere galante Déchelette.

E quasi quasi se la prendevano con quei personaggi che vivevano
indipendenti, come nella vita reale, senza essere neppur dalla lontana
il riflesso di altre persone della società contemporanea; che amavano,
che tradivano, che si lasciarono illudere, che commettevano pazzie, e
che, pur non somigliando particolarmente a nessuno, erano come lo
specchio di tutti, perchè non rappresentavano più un caso
eccezionale, patologico ma la natura umana schietta, con le idealità,
le miserie, le falsità della passione e del vizio che rendono bella e
triste la vita, la giovinezza specialmente!

Eppure l'artista aveva adoperato con Fanny Legrand, _Sapho_, col suo
adorato Jean Gaussin, con l'ingegnere Deschalette e col marito di
Fanny Legrand, l'identico processo adoperato nel dipingere i grandi
quadri della vita parigina; cioè, aveva aguzzato gli occhi miopi
attorno a sè, aveva osservato, preso appunti, rimuginato impressioni,
fuso insieme due, tre, quattro personaggi della realtà per formarne
uno solo, eliminando alcune particolarità, accumulandone altre,
proprio come era riuscito a trarre Jansoulet dai pochi casi di
Francesco Bravay, attribuendogli una bella morte che il personaggio
reale, ridotto alla miseria, dovette spesso invidiargli; dandogli
un'ingenua nobiltà di animo che il personaggio reale non possedeva
così intera, mettendo nelle ultime parole del romanzo tutta la sua
tenerezza di poeta:

«Le sue labbra si agitarono, gli occhi dilatati, rivolti verso Géry,
ritrovarono prima di morire un'espressione dolorosa di implorazione e
di ribellione, quasi per prenderlo in testimonio di una delle più
grandi e più crudeli ingiustizie che Parigi abbia mai commesse».

È vero che nello scandalo letterario s'infiltrava un po' la politica.
I legittimisti non gli perdonavano di essersi acconciato tacitamente
al secondo impero e poi alla repubblica; non gli perdonavano--a lui
che aveva orgogliosamente detto al Morny: Io sono legittimista! sul
punto di diventare uno dei suoi segretari di gabinetto--di essersi
tenuto in disparte, di non essersi voltato un momento a guardare verso
il castello di Frohsdorf, quando era parso che la restaurazione della
monarchia stava lì lì per avverarsi. Fingevano di aver dimenticato le
roventi parole del Daudet nelle ultime pagine del _Robert Helmont_:

«O politica, io ti odio! Ti odio perchè sei grossolana, ingiusta,
strillona e chiacchierona; perchè sei nemica dell'arte e del lavoro;
perchè tu servi di etichetta a tutte le sciocchezze, a tutte le
ambizioni, a tutte le poltronerie. Cieca e appassionata, tu dividi
cuori fatti per stare uniti; tu leghi, al contrario, esseri
assolutamente dissimili. Tu sei il gran dissolvente delle coscienze,
tu dài l'abitudine della menzogna, del sotterfugio: in grazia tua,
vediamo brave persone diventar amici di birbanti purchè siano dello
stesso partito. Ti odio sopratutto, o politica, perchè sei fin
arrivata ad uccidere nei nostri cuori il sentimento, l'idea della
patria!»

Ma la più bella risposta dell'artista era il suo capolavoro, _Sapho_.
La curiosità, l'indagine storica faranno certamente ricercare nel
lontano avvenire le smaglianti pagine del _Nabab_, del _Numa
Roumestan_, dei _Rois en exil_ e forse anche dell'_Evangéliste_; ma
tutti i cuori tormentati dall'amore, ma tutti gli illusi dal falso
miraggio della passione torneranno a rileggere le pagine di _Sapho_,
dove ritroveranno non l'incidente d'un momento, l'aneddoto d'una breve
fase storica, ma l'eterno spettacolo dell'umana debolezza, narrato
serenamente, delicatamente e senza che la delicatezza noccia
all'efficacia e alla forza.

                              *
                             * *

Io non ho neppur fatto cenno di _Petit Chose_ e di _Jack_ che son
rimasti oscurati dai loro fratelli venuti dopo. Non dirò niente
dell'opera teatrale del Daudet, che non ha importanza di sorta,
quantunque egli abbia tentato di usare pel teatro tutte le sue belle
qualità di scrittore.

Che cosa è stato apportato dal Daudet nella forma del romanzo?

Egli sopravveniva in pieno naturalismo, per esprimermi con la formula
di uso, dopo il Flaubert, dopo i De Goncourt, dopo lo Zola. Alla
impassibilità troppo ostentata del primo, alle preoccupazioni
stilistiche e di colorito dei secondi, all'epica e un po' romantica
ispirazione del terzo, unita a un problematico rigore scientifico,
egli ha recato in contributo una bella facoltà di commozione, una
giocondità alata di poeta, la sincerità alquanto chiassosa di una
brava persona indulgente.

Ha mostrato che si poteva tentar di fare lavoro di artista senza nè
troppo nascondere nè mostrar troppo che, infine, l'opera d'arte è la
natura passata attraverso l'organismo dello scrittore e da esso un po'
modificata, se non del tutto alterata; che le preoccupazioni
stilistiche non debbono soverchiare nell'opera d'arte quel che ne
costituisce la parte essenziale, cioè, la creazione del personaggio
vivente; che la rigorosa osservazione non deve implicare
l'intromissione di argomenti scientifici da produrre, con la tesi, una
deformazione dell'opera d'arte; ha mostrato che si poteva tentare
tutto questo, e il suo tentativo non è stato vano.

Fino a che punto sia riuscito, quali influenze abbia egli esercitato
nell'arte narrativa contemporanea e se egli abbia lasciato germi che
potranno germogliare a tempo opportuno può, forse, risultare dal
frettoloso schizzo che ho fatto.

E poichè intendo finire questo studio parlando dell'uomo, dirò
qualcosa dell'_Immortel_ che sembra una stonatura nella sua carriera
di scrittore.

L'artista, in un cattivo momento--chi non ne ha nella vita?--aveva
ceduto a un impeto di sdegno, che egli, con la focosa natura
meridionale, si era compiaciuto subito di ingrossare. Aveva
fatto--sembra--come il proverbiale compare della mula di cui parla un
aneddoto siciliano. Costui andando a chiedere in prestito una mula da
un suo compare, riflette per via che questi troverà mille scuse per
non fargli quel favore. Supposizione, sospetto; egli però fantastica
tanto intorno a questa idea, che finisce con scambiarla per un fatto
già avvenuto. E tiene broncio al compare; se lo incontra per via,
finge di non riconoscerlo o non risponde al saluto di lui. Fa peggio:
con amici comuni dice male dell'ingrato compare che ha avuto il
coraggio di negargli così piccolo favore. Non gliela avrebbe rovinata
quella sua mula, caso mai! E più ci pensa su, e più s'imbroncia, e più
si sdegna. Alfine il compare va a domandargli:--Compare mio,
perchè?--Per la mula. Non avete voluto prestarmela.--Non l'avete
chiesta.--È vero. Ma ho pensato che non me l'avreste prestata lo
stesso....

Il Daudet rimase al broncio. Immaginando, forse, che l'Accademia non
avrebbe voluto saperne di lui, scrisse l'_Immortel_. La satira passò
il segno; la freccia rimase spuntata.

A furia di caricare d'obbrobrio l'accademico Astier-Réhu, l'artista
spinge il lettore a scuotersi dallo sbalordimento che gli danno tante
nefandezze e tante imbecillità, lo forza a riflettere; e allora tutto
il romanzo gli crolla davanti come un edificio di carte da giuoco, non
ostante la magìa di molti particolari, non ostante che lo stile si sia
avvantaggiato dell'eccitazione dell'autore per riuscire più vibrato,
più denso, elettrico quasi.

E forse l'_Immortel_ non era opera di malignità, nè di invidia, nè di
altro sentimento cattivo, ma una semplice birichineria, simile a
quelle che Ernesto Daudet ha raccontate nel volume _Mon frère et moi_,
quando Alfonso studiava assieme con lui nel liceo di Lione. Me lo fa
supporre la risposta da lui data a un compaesano che gli parlava
dell'indignazione suscitata fra gli accademici dall'_Immortel_:

--Eh? Un bel sasso nel pantano dei ranocchi! Gracideranno più di un
mese!

Lo divertiva l'idea di quel gracidìo di accademici.

Se non si accetta questa spiegazione, l'_Immortel_ rimane un atto
inesplicabile nella vita del Daudet, una aberrazione enorme.

Ma ora egli riposa nella pace della tomba e non gli importa più niente
di tutte le accademie di questo mondo, compresa anche quella del suo
amico De Goncourt.

Artista, ha avuto, vivente, tutta la gloria possibile.

Uomo, ha avuto nella famiglia tutta la possibile felicità. La sua
buona sorte non solamente lo aveva preservato dalla sciagura di uno di
quegli amori che gli hanno fatto scrivere, come ammonimento ai suoi
figli, _Sapho_; ma gli aveva regalato, nel fiore della giovinezza,
una compagna, un'anima di artista fina e seducente quanto lui.

Egli ha ringraziato con eloquenti parole colei che è stata fino
all'ultimo la sua regolatrice del lavoro, la discreta consigliera
delle sue ispirazioni, la serena stella della sua casa:

«Ella è così artista! Ha preso tanta parte in tutto quel che ho
scritto! Non c'è una sola delle mie pagine, ch'ella non abbia
riveduta, ritoccata, e dove ella non abbia sparso un po' della sua
bella polvere azzurra e dorata. E così modesta, così semplice, così
poca donna di lettere! Io avevo espresso, un giorno, tutto questo e la
testimonianza della sua tenera ed instancabile collaborazione in una
dedica del _Nabab_, che mia moglie non ha voluto permettermi di
pubblicare e che ho conservato soltanto in una dozzina di esemplari
regalati ad amici.»

Ella, alla sua volta, ha svelato con grazia squisita il segreto della
loro collaborazione:

«La nostra collaborazione? Un ventaglio giapponese: da un lato,
campagna, personaggi, cielo; dall'altro, ramoscelli, petali di fiori,
lievi accenni di fronde, quel po' di colore, quel po' di doratura che
rimane all'ultimo nel pennello di un pittore. E questo lavoro minuto
lo faccio io, badando che le mie cicogne volanti non guastino il
paesaggio invernale, o, la mia vegetazione, sul fondo bruno dei
lembi, il paesaggio primaverile che è dipinto dall'altra parte».

E intanto tutto è finito! Questa mirabile armonia di due cuori e di
due menti è rotta per sempre!

La folla che settimane fa si accalcava per le vie di Parigi facendo,
riverente e commossa, ala al passaggio del feretro di Alfonso Daudet,
oggi irrompe furibonda per le stesse vie, insultando chi si è
generosamente costituito cavaliere della giustizia e della libertà,
Emilio Zola. Se qualche eco dell'indegna gazzarra arrivasse laggiù, o
lassù, fino a lui, Alfonso Daudet avrebbe ragione di ripetere:

--_O politique, je te haïs!_



GOETHE.


Qualcuno ha detto:--Davanti a una bell'opera d'arte io ammiro come un
bruto.--Probabilmente questo è il miglior modo di ammirare. Sentirsi
compenetrare dall'intimo senso della bellezza, da non aver tempo di
ragionare o di sofisticare, è anche la più alta prova del valore di
un'opera d'arte. Ma è difficile mantenere immacolata questa specie
d'innocenza battesimale del senso estetico. Lo spirito umano ha
bisogno di variare le sue impressioni; così alla sua ammirazione da
bruto segue sempre l'ammirazione che ragiona o che pretende ragionare.
C'è qualcosa del fanciullo in noi, che permane non ostante l'età; a un
certo punto, vogliamo tutti vedere com'è fatto quel giocattolo che ha
servito a divertirci, e spesso, per soddisfare questa curiosità,
distruggiamo il giocattolo, l'opera d'arte, proprio come fanno i
fanciulli.

Veramente il paragone non è esatto: l'opera d'arte rimane quella che
è; il disastro avviene nelle nostre impressioni. Gli antichi su
questo particolare erano, o sembrano, più fortunati di noi. Non
ricercavano col lumicino quali relazioni avesse l'opera d'arte col
carattere, con l'organismo, con l'atavismo dell'autore, o almeno non
si accanivano in questa ricerca come facciamo noi e non ne traevano le
conseguenze che ne tiriamo noi. Se ci fossero pervenute tutte le
scolie dei grammatici, possederemmo forse oggi indiscrezioni, notizie,
favole, intorno agli antichi autori, da farci vedere che il
pettegolezzo dei critici non è poi cosa tutta moderna. I pochi
documenti che ci rimangono autorizzano questa supposizione. Così, per
esempio, sappiamo che Orazio aveva gli occhi cisposi; che lo stomaco
di Virgilio digeriva difficilmente; che Sofocle si era così senilmente
affezionato al figlio naturale avuto da una donna di Sicione, da
provocare un processo in famiglia; ma gli occhi cisposi di Orazio, lo
stomaco debole di Virgilio, la senile affezione di Sofocle non sono
serviti, per quel che ne sappiamo, di cemento estetico-psicologico
alle odi, alle epistole, alle egloghe alla Georgica, all'Eneide, nè
all'Antigone o all'Epido a Colono.

Oggi no. Così dicendo non mi passa pel capo di voler discreditare gli
studi psicologici o psicopatici che sono, con tutte le loro
esagerazioni, gloria e onore della scienza moderna. Noto il fatto per
discuterlo un po' a proposito di un libro che chiama alla sbarra
della giustizia Volfango Goethe[6], e gli chiede conto,
rispettosamente, coi riguardi dovuti a tanta grandezza, del processo
creativo con cui sono state messe al mondo tutte le sue opere d'arte.

                              *
                             * *

In Edoardo Rod è avvenuto il fenomeno a cui accennavo in principio.
«Dieci anni fa, egli dice, ebbi l'occasione di fare nella Facoltà di
lettere di Ginevra, un corso di lezioni intorno al Goethe. Come tutti
coloro che si accostano al grand'uomo, ne sentii fortemente
l'influenza. Le mie lezioni e alcuni articoli da me pubblicati in quel
tempo furono l'espressione di un entusiasmo senza riserve di sorta
alcuna. Un viaggio a Weimar, nuove letture e nuove riflessioni
arrecarono a poco a poco sfumature e modificazioni nelle impressioni
primitive. Il Goethe è, tra gli scrittori, quello che ha preso
l'atteggiamento più schietto di faccia ai problemi della vita; è
dunque naturale che il giudizio intorno a lui si vada trasformando con
la esperienza dell'età.»

Egli ha riacquistato, in questa sua nuova condizione, quella libertà
di spirito ch'era stata sopraffatta dalla violenza delle prime
impressioni, ed ha avuto la buona idea di liberamente scrivere un
libro liberamente pensato, senza fanatismo, nè acrimonia. Per questo
il suo lavoro è riuscito interessantissimo, e sarà letto con profitto
anche da coloro che dissentono dai principî che gli servono a
sostenere la sua tesi.

Giacchè il libro ha una tesi; e forse a parecchi, arrivando all'ultima
pagina, parrà o che l'autore non sia molto convinto della bontà di
quella, o che la luce del gran sole goethiano sia riuscita ad
abbagliarlo di nuovo. E questa ultima pagina sarà giusto trascriverla
intera. Ma prima bisogna dire qual'è la tesi. L'opera d'arte del
Goethe, o quella parte della sua opera dove la creazione artistica ha
raggiunto il culmine della perfezione, è talmente legata alle
vicissitudini della sua vita, e questa vita è stata, per forza di
innato vigore e per forza di volontà, foggiata talmente da riuscire
essa stessa una grand'opera d'arte, che diventa difficilissimo il
giudicare l'opera letteraria, senza cedere alla tentazione di metterla
in riscontro con le circostanze che l'hanno prodotta.

Se non che, in questo genere di critica con cui gli avvenimenti della
vita dell'autore vengono usufruiti per rivelare le intime ragioni del
processo artistico, si corre facilmente il pericolo di dare troppa
importanza alla realtà materiale dei fatti e di diminuire il valore
della realtà spirituale dell'opera d'arte dalla quale è stata
trasformata, fino a renderla quasi irriconoscibile, l'altra che n'è la
causa occasionale; o di non scorgere la manchevolezza dell'opera
d'arte, illusi dalla corrispondenza di essa coi fatti reali d'onde la
creazione artistica è venuta fuori.

                              *
                             * *

Il pericolo di cui parlo diventa maggiore quando un'idea di moralità
s'infiltra nel giudizio intorno alla vita, e da questo passa
inavvertitamente a influire su quello intorno all'opera d'arte.

Il libro del Rod mostra sin dai primi capitoli che la personalità del
Goethe gli è un po' antipatica; ma fa scorgere anche che quel che più
gli rende antipatico il Goethe è il _goethismo_, cioè l'adorazione
incondizionata del modo con cui l'autore del _Fausto_ adatta
spregiudicatamente sè stesso alle circostanze della vita, e queste
alla libera espansione e formazione di sè stesso. Ora il _goethismo_ è
una stupidaggine di cui il Goethe non può essere stimato responsabile.

Quel che gli si può attribuire è l'_olimpismo_, come il Rod lo chiama
dopo tanti altri, cioè l'egoismo elevato a forza di coscienza, di
riflessione, di raffinatezza fino a l'ennesima potenza; teorica
ragionata e pratica, sapiente e speciosa, aggiunge il Rod, la quale
però non lo differenzia da quella media umanità che fa dell'egoismo,
senza elevatezza ma con contegno, la regola ordinaria delle sue
azioni.

Qui mi sembra stia l'inganno. Quest'egoismo, che il Rod ben
definisce:--indifferenza verso qualunque cosa che non sia il proprio
sè; ferma risoluzione di voler ignorare gli sconvolgimenti che menano
con loro gli avvenimenti quotidiani della vita; cura continua di
allontanare dallo spirito qualunque impressione penosa, dal cuore
qualunque sentimento che potrebbe agitarlo; e decisa volontà di tirare
innanzi per la sua strada senza darsi pensiero del danno che si arreca
agli altri--quest'egoismo comune, volgare, non dà frutti; è sterile
quand'anche non riesce nocivo. Qualunque mascalzone può esserne
capace; e se non provoca la nostra indignazione, non attira affatto
l'ammirazione, pure quando, talvolta, ci trova quasi indulgenti.

All'_olimpismo_ del Goethe, invece, l'umanità intera deve qualcosa.
Esso non è servito unicamente a lui, ma a tutti; per questo l'umanità
sente il dovere non soltanto di essere indulgente ma di ammirare. Se
c'è degli imbecilli che si assumono il diritto di volerlo imitare, il
torto è tutto di costoro. Sono occorsi secoli di civiltà, circostanze
straordinariamente aggruppate per produrre il fenomeno spirituale che
ha nome Volfango Goethe; e queste circostanze non si ripeteranno più.
È puerile, è sciocco, ostinarsi a tentar di rifare artificialmente un
prodotto simile, cioè un organismo e uno spirito talmente equilibrati,
in così felice corrispondenza tra loro, da dar vita a capolavori che
faranno eternamente parte del patrimonio intellettuale dell'umanità, e
che danno e daranno ancora per un pezzo mirabile impulso alla nostra
vita interiore.

In non lontano avvenire, la posterità farà la sua scelta anche tra le
opere del Goethe. Molte ne dimenticherà, per esempio, tutti i suoi
lavori drammatici e qualche romanzo. E le belle pagine nelle quali il
Rod analizza il _Torquato Tasso_ per giustificare le parole del suo
autore: _Esso è l'osso delle mie ossa, la carne della mia carne_,
basteranno a coloro che vorranno conoscere come certe forme d'arte
possano riuscire incompatibili anche con un genio universale qual'era
quello del Goethe.

Confessioni, documenti di ogni sorta, studî, interpretazioni,
raffronti però non ci riveleranno mai il segreto con cui lo spirito
del Goethe ha prodotto quell'organismo, o, se così si vuole, il
segreto con cui quell'organismo ha prodotto quello spirito. Questa
grande divina operazione rimarrà sempre un mistero per noi, come tutte
le operazioni consimili della Natura. La necessità e la libertà hanno
operato assieme; il Goethe non è, in questo, diverso da una magnifica
quercia che s'impossessa, con le sue vaste radici, di tutti i più
eletti succhi nutritivi del terreno dove è nata, a detrimento delle
altre piante circostanti. Come noi domanderemmo invano alla Natura il
segreto della vegetazione di questa quercia gigantesca, così
domanderemo invano il segreto della vita di quell'uomo gigante. Se i
critici non se ne vogliono persuadere e non sanno rassegnarsi a tale
ignoranza, vuol dire che non hanno spirito scientifico e filosofico.
Se gli imitatori, i fanatici non sanno scegliere tra la piccola
personalità originale, che ogni individuo possiede appunto perchè è
individuo, e la copia della personalità altrui che li rende impotenti,
sterili, mediocri, peggio per loro. Mi sembra troppa degnazione
l'occuparsene. E poi, il _goethismo_ passerà, com'è passato il
_volterianismo_; resterà Volfango Goethe, o meglio resteranno i suoi
capolavori, e anche il capolavoro della sua vita, non quello scritto,
ma il vissuto, e che farà ripetere alle generazioni venture il motto
di Napoleone:--Voi siete un uomo, signor Goethe!

Ed è, infine, la conchiusione anche del libro del Rod. Libro che ha
pagine veramente magistrali di analisi arguta e pacata, e che risponde
allo scopo per cui è stato scritto, quello cioè di spingere gli
intelletti indipendenti a studiare le opere del Goethe senza
preconcetti, di gustarle senza esserne sopraffatti, di ammirarle senza
dare in stravaganze.

«All'ultimo, egli conchiude dopo tanta analisi, si è sempre costretti
a salutare in lui un uomo che si è sviluppato secondo la sua propria
legge, realizzando giorno per giorno le sue più intime virtualità, col
pieno sviluppo di quei germi nascosti che muoiono spesso infecondi
nei recessi delle anime ordinarie. E questa legge, dalla obbedienza
alla quale proviene la di lui forza, può essere espressa in termini
altrettanto chiari quanto l'idea fondamentale del suo capolavoro che
anch'esso ne dipende: Avendo amato l'azione, egli ha conformato tutta
la sua vita e adattato il suo intelletto a questo principio
dominatore. Qui consiste la sua grandezza, e forse tutt'intera. Che
cosa sia stata la sua incessante attività a traverso i molteplici
scopi, sarà dannoso per la gloria di lui ricercarlo molto da vicino.
Così, si può benissimo parlare a lungo intorno a lui, raccontarne la
vita, discuterlo, smarrirsi nelle tenebre della sua cronologia o del
suo pensiero senza mai poter giungere una di quelle sentenze che
dannano o santificano. Le stupende parole del coro degli angeli che
riassumono il suo capolavoro, riassumono egualmente, in ultima
analisi, l'insieme delle riflessioni che egli ispira. E arrivando al
termine di questo lungo studio, non possiamo far altro che ripetere
con lui arrivato al termine del suo poema:

«Colui che si sforza a un'aspirazione costante, colui può essere
salvato.»

C'è un'ode tra le poesie del Goethe che dà un'immagine schiettissima
della mirabile operazione che egli metteva in atto per trasformare la
realtà delle circostanze in una realtà spirituale superiore. Ricordate
il mito di Ganimede rapito da Giove? Niente di più materiale. Ora
leggete:

«Come tu m'inondi dei tuoi ardori, o amata primavera, nello splendore
del mattino! Ineffabili voluttà si destano nel mio cuore, invaso dal
sacro sentimento della tua eterna bellezza, o Infinito!

«Oh potessi io stringerti tra queste braccia!

«Oh, io poso sul tuo seno e languisco, e le tue erbe e i tuoi fiori
premono il mio cuore. Tu estingui l'ardente sete che mi divora, dolce
brezza del mattino! Tu mi porti il canto dell'innamorato usignuolo,
che m'invita dal nebbioso fondo della vallata. Eccomi! Eccomi! Dove io
vo? Dove?

«Lassù, lassù io aspiro! Le nuvole nuotano, discendono, si abbassano
verso l'ansioso amore.

«Venite, venite! Accoglietemi nel vostro seno, abbracciante
abbracciato! Lassù! Padre dell'universale amore!»

Tutta la vita e tutta l'opera d'arte di Volfango Goethe son
simbolizzate in quest'ode.



GIOVANNI MELI

(G. Pipitone-Federico, _Giovanni Meli_. I tempi, la vita, le opere.
Palermo, Sandron 1898.)


Le quattrocentoventiquattro pagine di questo volume potrebbero essere
ridotte quasi a metà, levando via le lunghe citazioni, qualche volta
ripetute in diversi capitoli, di brani di componimenti del poeta
siciliano. Ma per coloro che conoscono poco o niente del Meli e che
non possono facilmente procurarsene le opere, o non sentono grande
curiosità di ricercarle sospettando insormontabili difficoltà
nell'intenderne il dialetto, il libro del signor Pipitone-Federico
riesce utilissimo.

Lo studio intorno ai tempi e alla vita del poeta è fatto ampiamente;
quello intorno alle opere, un po' farraginoso e troppo polemico.
All'ultimo, si ha, è vero, l'impressione di aver conosciuto un Meli
molto diverso da quello, diciamo così, leggendario, e infinitamente
più simpatico; ma l'apologia del poeta lascia perplessi. Il critico
insiste più del convenevole su le qualità di pensatore, di filosofo, e
per poco non dimentica che si tratta di un poeta, di un artista.

La fama del Meli varcò, lui vivente, i confini dell'isola, ed ora il
suo nome va accompagnato nel continente a quelli del Belli e del
Porta. Ma i più ne parlano per sentita dire. Gli stranieri forse lo
conoscono assai meglio di molti italiani. Le traduzioni lo rendono più
facilmente accostabile; ma le qualità di stile e di forma, che si
alterano straordinariamente nel passaggio da una lingua all'altra,
specie trattandosi di poesie dialettali, non daranno mai elementi sodi
e sicuri per un equo giudizio.

Io, come siciliano, non posso essere sospetto se non sarò pienamente
d'accordo col signor Pipitone-Federico nella grande ammirazione pel
Meli. Anni fa, nel _Fanfulla della Domenica_, osai dire che
bisognerebbe tradurre il Meli in siciliano. La espressione è forse
eccessiva, ma, anche dopo la lettura di questo volume, non esiterei di
ripeterla. Parto da un concetto della poesia dialettale che mi sembra
giusto tuttavia, nonostante quel che il signor Pipitone-Federico ha
diffusamente scritto in difesa del Meli.

E il giudizio del Finzi, che il critico riporta e che io ignoravo, mi
pare il più esatto che si sia dato intorno al poeta siciliano finora.
Dirò subito la ragione. La poesia dialettale implica naturalmente
l'idea della forma popolare. Il Porta e il Belli, due grandissimi
poeti, lo hanno istintivamente capito e messo in atto. Il Meli, no. E
quando dico forma, non intendo solamente la parola del dialetto, ma
il modo di sentire e di concepire il soggetto. Il Porta e il Belli non
hanno mai dato impronta _letteraria_ alle cose loro; e questo
costituisce il massimo loro pregio. Il Meli, invece, è raramente
popolare, anche dove più la sua natura di poeta e l'argomento lo
spingevano ad esser tale. Da ciò la meraviglia di coloro che
accostandosi, timidamente, per la prima volta, alla lettura delle sue
poesie, le trovano di più facile comprensione che non si erano
immaginati.

Certamente il vocabolario del Meli è più vario e più ricco, se si
confronta con quelli del Porta e del Belli; ma questo avviene perchè
più di metà dei vocaboli che egli adopra sono siciliani fino ad un
certo punto, o almeno non sono propriamente popolari; così le frasi,
così il giro del periodo poetico.

A un siciliano di buon gusto, il Meli fa l'effetto di uno che traduca
alla meglio per farsi intendere da coloro che capiscono soltanto il
suo dialetto. L'affermazione pare enorme; un esempio la schiarirà.
Ecco pochi versi, scelti a caso dall'_Idilliu 1º_:

    Tacinu l'ocidduzzi 'ntra li rami;
      Sula la cucuccinta, ch'era stata
      La prima a lu sbigghiarsi, ultima ancora
      Va circannu risettu pri li chiani:
      Ed ora l'ali soi parpagghiannu,
      Si suspenni 'ntra l'aria; ora s'abbassa,
      Ripitennu la solita canzuna.

Traduciamo:

    Tacciono gli augelletti in mezzo ai rami;
      Sola l'allodoletta, ch'era stata
      A svegliarsi la prima, ultima ancora
      Va cercando ricetto per le piane;
      Ed or con l'ali, a guisa di farfalla,
      Si sospende nell'aria, ora si abbassa
      Ripetendo la solita canzone.

Questa traduzione sembra l'originale. Si capisce sùbito che il poeta
ha sforzato il dialetto, e che, scrivendo, aveva nell'orecchio un
movimento ritmico disadatto alla natura di esso.

Si noti inoltre che ho scelto un passo dove il dissidio tra la forma e
il concetto è meno apparente.

Ma questa discussione mi menerebbe troppo lontano e non potrebbe
interessare tutti i lettori; mi basta averla accennata. Interesserà
invece la figura del Meli quale risulta dalle pagine del signor
Pipitone-Federico, che ha potuto usufruire di molti documenti
recentemente pubblicati e ignorati fuori dell'isola.

Il titolo di abate che va inseparabile dal nome del Meli; molte sue
poesie, piene di facile e amabilmente stoica filosofia, hanno dato
origine alla creazione del personaggio fantastico d'un poeta gaudente,
sensuale, adulatore, parassita. Si diceva: Il poeta ha adombrato sè
stesso nella _Cicala_ da lui cantata:

    _Cicaledda, tu t'assetti
      Supra un ramu la matina,
      Una pampina ti metti
      A la testa pri curtina,
      E ddà passi la jurnata
      A cantari sfacinnata._

Povero abate Meli! Egli quasi prevedeva questo equivoco quando
scriveva all'arcivescovo Lopez, suo amico e protettore: «L'abate Meli
(abate però di sole spoglie, senza titolo, senza pensione) fu una
cicala che assordì col suo canto molta estensione di paese». E
soggiungeva: «Il secolo ed il paese in cui nacque e visse, e la
professione che esercitò, fecero sempre a calci con la di lui indole e
temperamento (_sic_). Vide e gustò qualche volta il piacere, la pace,
la consolazione, ma soltanto nei sogni che gli somministrarono i
soggetti delle sue poesie.»

Nato in Palermo il 3 marzo 1740, da un orefice di scarsa fortuna, fu
messo a studiare nelle scuole gesuitiche; e vi apprese il latino,
passando sette anni attorno alla grammatica del Padre Emmanuele
Alvarez, anni che egli rimpianse argutamente nel suo poemetto _La Fata
galante_. I _Reali di Francia_, i drammi del Metastasio, l'_Orlando
furioso_ dell'Ariosto svegliavano la sua fantasia; e l'istinto poetico
del giovinetto cominciò a rivelarsi in componimenti di imitazione. _La
Fata galante_, scritta a diciotto anni, è già un gran passo; è la
splendida aurora di un bellissimo giorno.

Intanto, tra un canto e l'altro di quel poemetto, tra un'ode e l'altra
di fattura rollesca o vittorelliana, tra un capitolo bernesco e
l'altro, egli studiava medicina. E appena era in caso di
esercitarla--la laurea non esisteva ancora nell'Università di
Palermo--le strettezze della famiglia lo costringevano ad accettare
il posto di medico comunale nel villaggio di Cinisi, a ventiquattro
miglia dalla capitale. Qua egli era vissuto tra gli accademici della
_Galante conversazione_, come s'intitolava una riunione di begli
ingegni e di coltissime persone, e il suo nome accademico era _Lu
stravaganti_: a Cinisi, si trovava faccia a faccia con la Natura, in
mezzo a un paesaggio incantevole, tra uomini di vita semplice e
laboriosa. Curava i suoi malati, si divertiva con la caccia al roccolo
e con la pesca, e continuava alla meglio i suoi studi di medicina e di
filosofia. La vita frugale gli permetteva di mandare quasi intero il
suo magro stipendio alla famiglia. E tra _quelle collinette, tra
quelle valli, tra quelle roccie rivestite di muschi e di edera_, egli
concepiva e scriveva la _Buscolica_, che rimarrà il suo maggior titolo
di poeta.

Era andato in Cinisi innamorato; cinque anni dopo tornava a Palermo,
chiamatovi dal suo professore di clinica che voleva affidargli la sua
clientela durante la sua assenza per un viaggio all'estero. Il primo
amore era sfumato; e il giovane dottore, con l'aureola di poeta e in
fama di uomo di spirito e di persona gioviale, si vedeva festosamente
accolto dall'alta società palermitana, specialmente dalle belle
signore che si disputavano l'onore di aver dedicata e d'ispirare
qualcuna delle sue odi. Il titolo di poeta noceva un po' all'esercizio
della sua professione, non ostante che il Meli avesse usata la
precauzione di vestire l'abito talare, come allora facevano i medici
per poter avere tra la loro clientela le suore dei monasteri. Pare che
molte delle sue odi non siano state semplice esercizio poetico,
reminiscenze o ispirazioni del vecchio Anacreonte. Una baronessa
Martinez, bellissima e colta giovane signora, la non meno bella
marchesa Regiovanni, una signora Mantegno, che aveva sul petto un
graziosissimo neo, entrarono per qualche cosa nell'ispirazione del _Lu
gigghiu_, _Lu pettu_, _Lu neu_. Il Meli menava di fronte la scienza,
la poesia e la galanteria: ed è curiosa una sua lettera amorosa che si
conserva nella biblioteca comunale di Palermo:

«Non è più tempo di dar fede ai pregiudizii dell'infanzia ed alle fole
dei poeti che vi dipingono Amore fiero, indomito, lascivo, crudele al
par di un'arpia e d'una megera. Crediamo piuttosto alle veridiche voci
della natura. Ella non è un nome vano e senza effetto; è un principio,
un nome, una pura causa, una parte di Dio medesimo, che, occultata nel
più recondito recesso del cuore umano, ispira, agita e si palesa sotto
la mascherata (_sic_) di un istinto o sia di un sentimento vivo ed
animato...... Or questo stesso principio che vi fa amar noi in noi,
comanda di amar noi in altri. Per sovrumana metamorfosi di amore, chi
ama vive nell'oggetto amato e questo in lui. Adunque dovendo amar voi
in voi, dovrete amar voi in me, per diritto di natura, di gratitudine,
di convenienza.

«Mi direte che in questo istante non sperimentate in voi le voci del
sentimento così vive che vi spingano ad amare. Sia così; ma di grazia,
cancellate quella stima pel cagnolino, discacciate il passerino,
lasciate di apprezzare quelle gioie, quegli arredi, quelle galanterie,
insomma rivocate quell'affetto disperso in mille oggetti e riunite le
divise forze d'una potenza così nobile impiegata stoltamente in
oggetti ignobili e materiali. Ed allora sentirete destar la natura ed
esortarvi ad impiegare il ricco capitale dei vostri affetti in un
cuore come il mio, nel quale chi ve ne impiega una parte, nel momento
appresso ne avrà rese mille per quell'una.»

La galanteria non gli aveva impedito di scrivere le _Riflessioni sul
meccanismo della Natura, in rapporto alla conservazione e riparazione
degli individui_ e il discorso _Sulle attrazioni elettive adombrate
nella mitologia degli antichi_, lavori che dimostrano come sotto il
poeta ci fosse il pensatore positivo, se non originale, certamente
audace riguardo ai tempi e alla cultura del suo paese. Le _Riflessioni
sopra il meccanismo della Natura_ suscitarono quasi uno scandalo, e
l'autore ne fu intimidito e non scrisse gli altri due libri che
dovevano compire il lavoro. Non si deve però attribuire al suo merito
scientifico l'elezione a professore di chimica nell'Università di
Palermo, che egli ottenne nel 1786; si volle, con essa, dare una
rimunerazione al poeta. Il Meli in chimica era un mediocre teorico:
uomo di ingegno e di buona volontà, aiutato dal suo operatore Stefano
Chiarelli, potè per sedici anni contribuire a diffondere in Sicilia le
teoriche del Lavoisier.

Intanto, alle sventure domestiche, si aggiungevano una lunga malattia
e un furto che lo metteva sul lastrico. I ladri gli avevano svaligiato
completamente la casa, portandogli via trecento ducati di laboriosi
risparmi, biancheria, vestiti, arnesi. Senza l'aiuto dell'arcivescovo
Lopez, il Meli sarebbe morto quasi di fame. E di questa disgrazia,
scriveva poco dopo, scherzando all'arcivescovo lontano: «Intorno al
rispondere, che sarebbe il maggior incomodo, mi rimetto al laconismo
della prima lettera di Cicerone: _Si vales, bene est, ego valeo_,
potendosi risparmiare il _tua tueor_; perchè io in questo mondo non ho
nè beni, nè affari, nè pretensioni, onde alcuno potesse assumere per
me la cura: nè io medesimo ho niente da sbrigare, o da custodire,
giacchè i ladri, com'Ella sa, mi hanno di questa gran cura liberato.»

Il padre del Meli era morto pazzo; uno dei suoi fratelli si era
rovinato per eccessivo scrupolo nei suoi doveri di procuratore; la
sorella, che poi moriva matta anche lei, era invasata da tale ardore
di carità da vendere mobili e biancheria per maritare e dotare le sue
serve e le loro figliuole; un secondo fratello, monaco domenicano,
processato dagli altri monaci come dilapidatore dei beni del convento,
ricorreva al povero abate per farsi cavare da impicci che potevano
disonorare la famiglia; e viveva alle spalle di lui, quantunque
abitasse nel convento di Santa Cita. L'abate aveva in mano certe carte
da cui risultava un credito di once quattrocento (più di tre mila
lire) in favore del fratello morto e da cui egli aveva ereditato; ma
un frate lo imbroglia, gli leva le carte di mano col pretesto di
adoperarle per un accomodamento, e sparisce e non si fa più
vedere..... Il poeta ha raccontato tutto questo in una specie di
memorietta da lui scritta, non so a che proposito, in terza persona; e
finisce malinconicamente: _«Oggi che trovasi ridotto all'osso, altro
non desidera che questo almeno possa portarlo intero sino alla
tomba»._

Nel 1806, a un tedesco suo ammiratore, traduttore di parecchie sue
poesie, e che gli chiedeva notizie per un cenno biografico, il Meli
scriveva:

«Volete che io mi lusinghi coll'idea di qualche postuma
considerazione? Vano e miserabil compenso! Non vale al certo la pena
che io vada riandando nella memoria le miserie ed amarezze di mia
vita, quelle che con tanto studio ho cercato di coprire e di palliare
a me stesso ed agli altri con le poetiche illusioni e col trasportarmi
alle antiche età del mondo, per togliermi da questa almeno col
pensiero e colla immaginazione..... Ho fatto poca fortuna nella
professione della medicina, facoltà in cui non ci ho veduto mai chiaro
ed a cui sono stato negato per natura, perchè nemico del
ciarlatanismo, del corteggiamento, e dippiù per il peccato originale
nel paese di essere appreso (_sic_) per poeta..... Conchiudo: leggete
le mie poesie e divertitevi e scordatevi della mia vita, come me ne
sono scordato io, o guardatela come me nel migliore aspetto: quello
cioè di non aver nemici (salvo che non lo sia un fratello monaco, che
non accosta mai da me) di non aver litigio, di non desiderare, di non
invidiare nessuno, e di lusingarmi di essere amato dalle persone che
mi conoscono».

Il cav. Luigi Medici, che gli voleva bene e lo ammirava e lo aiutava,
gli consigliò di chiedere al re l'abbazia di San Pancrazio allora
vacante.

--Ma io non sono prete, non ho neppure gli ordini minori!--rispondeva
il Meli.

--Si fa presto a prendere gli ordini minori--replicò l'amico.--Al
resto penserò io.

Il poeta obbedì e poi scrisse, per supplica, un sonetto con la coda
dignitoso e malinconico, che dà una gran tristezza. Ma appunto allora
la Corte borbonica, caduto Napoleone, tornava a Napoli; la supplica si
smarriva tra le carte burocratiche portate via. Venuta tardi a galla,
era rimandata al governo di Sicilia _per informazioni_; e quando la
nomina finalmente arrivava in Palermo, l'abate Meli era morto da
parecchi giorni nella più squallida miseria, maledicendo il giorno in
cui si era messo a fare il poeta: «_Or che sono adulto, anzi vecchio,
ne sto piangendo le conseguenze_--scriveva al suo amico dottor
Troysi.--_Imperciocchè mi è d'uopo appoggiar le speranze della mia
sussistenza nell'altrui patrocinio.--Maledictus homo qui confidit in
hominem!_»

A settantacinque anni posando in pieno inverno per un busto nello
studio dello scultore Villareale, si era buscata una punta, e il 20
dicembre del 1815 cessava di vivere per peripneumonia biliosa.

L'uomo fa ammirare maggiormente il poeta. E che il Meli fosse davvero
un gran poeta nessuno vorrà negarlo, non ostante il dissidio che c'è
tra la forma dialettale e il concetto in quasi tutte le sue poesie. Il
signor Pipitone-Federico non nega recisamente questo difetto, ma cerca
di scusarlo e di spiegarlo là dove è più evidente. Senza dubbio, i
tempi, le circostanze speciali della cultura siciliana hanno influito
sull'ingegno del poeta. Nato nel continente, con la padronanza della
forma del Parini, del Foscolo, del Monti, egli avrebbe raggiunto
un'altezza e un'originalità che l'impaccio di dar forma letteraria al
dialetto gli ha vietato di raggiungere. Studiare fino a qual punto gli
abbia nociuto quest'impaccio e i tempi e le circostanze, studiarlo
anche dopo quel che con ampiezza ne ha detto l'autore di questo
volume, sarebbe interessante: ma occorrerebbe più spazio che un
giornale non può concedere; e per ciò me ne astengo.



GABRIELE D'ANNUNZIO

(_La città morta_--Fratelli Treves editori. Milano, 1898.)


Poichè le rappresentazioni di essa in Italia sono ritardate, si dice,
fino a giugno, tentiamo di darcene intanto una rappresentazione
ideale.

Abbiamo il volume sotto gli occhi. L'immaginazione è assai più
compiacente della realtà. Un'attrice, un attore hanno sempre qualcosa
di più e qualcosa di meno nell'aspetto, nella voce, nel gesto con cui
dovrebbero far vivere sul palcoscenico un personaggio. Particolari che
sembrano insignificanti attenuano grandemente il godimento estetico in
teatro, quando non gli nuocciono a dirittura. Tentiamo dunque di darci
della tragedia dannunziana una rappresentazione ideale, cioè conforme
all'idea voluta attuare dal poeta.

Fino a pochi mesi fa dovevamo contentarci di conoscere le intenzioni
di lui per mezzo delle interviste dei suoi ammiratori ed amici.
Intorno alle intenzioni di chi si accinge a fare un'opera d'arte è
imprudente discutere. Bisogna dire soltanto:--Va bene; mettetele in
atto; ne ragioneremo poi.

Non già che non si possano talvolta discutere le intenzioni, quando,
per esempio, sono evidentemente assurde. Ma siccome dal detto al
fatto, secondo il proverbio, corre gran tratto, così mi par meglio
rassegnarsi ad attendere. Le intenzioni, lungo il cammino, inciampano
in difficoltà di esecuzione che ne modificano le crudezze, ne
infrenano gli eccessi. Quel che di raramente buono c'è in esse, si
trasfonde intero nell'opera d'arte; il po' di strambo, di cattivo che
non vien potuto eliminare non risulta poi tale da danneggiarla
fortemente.

Infondere nell'anemico organismo della drammatica moderna tutta la
maestà, tutta l'idealità ieratica della tragedia greca, fino a
sconvolgere i mezzi materiali di cui si serve il teatro attuale, e le
abitudini del pubblico a un certo modo di rappresentazione; far
sorgere in Albano, in vista del lago, fra gli ulivi, un teatro di
foggia antica dove i capolavori della musa tragica greca e i
capolavori della musa tragica contemporanea, o, più modestamente, i
lavori, i tentativi di essa si alternerebbero davanti a un pubblico
capace di intenderne le bellezze e di apprezzarne le arditezze, non
erano, secondo me, intenzioni così strane, così assolutamente
impossibili da permettere di condannarle anticipatamente.

Le riproduzioni dei drammi di Eschilo e di Sofocle, avrebbero potuto
riuscire cosa assai diversa dalle recitazioni scolastiche fatte ogni
anno dagli studenti inglesi e tedeschi al cospetto di professori e di
dotti, pei quali non hanno misteri le più riposte meraviglie del testo
originale. Un pubblico speciale avrebbe potuto, per qualche ora, darsi
il gusto di rivivere un'altra vita intellettuale, e ottenere
direttamente quelle grandiose impressioni che formarono la delizia del
popolo più artistico che mai sia stato al mondo.

In quanto ai lavori nuovi, imitazioni, derivazioni dagli antichi
esemplari, perchè diffidarne prima di averli sott'occhio? Ferve negli
scrittori e nel pubblico l'ansiosa ricerca di qualcosa di meglio, di
più elevato, di più raro che non somministrino le commedie e le
_pochades_ da le quali sono a stento alimentate le fiacche
rappresentazioni dei nostri teatri. Parecchi tentativi hanno avuto la
fortuna di vincere gli ostacoli di un'educazione estetica molto
scarsa, e quelli, anche più ardui, delle vecchie abitudini. Buon
numero di convenzioni teatrali, che già s'imponevano come dommi, sono
state eliminate; concetti che sembravano repugnanti alla forma
drammatica sono apparsi sul palco scenico, dando vita a personaggi, a
caratteri, a passioni, a catastrofi che hanno allargato i confini,
dentro cui si era aggirata finora questa forma d'arte.

Perchè altri tentativi non avrebbero potuto farsi, cavando fuori
nuove conseguenze da vecchie promesse, facendo germogliare semi
rimasti addormentati, operando innesti fecondi, procurando anche
ibridismi che trasporterebbero nel dominio dell'arte scenica i
miracoli ottenuti dalla istancabile pazienza dei floricultori?

--Anche il _simbolismo_?

A _priori_, io non oso dire di no. Tutto sta nel modo e nella misura.

Per parecchi secoli, l'arte drammatica si è servita del _tipo_: poi,
per logica evoluzione, ha messo fuori l'_individuo_: prima, per
esempio, con caratteristiche generali, l'_avaro_, il _geloso_; poi, un
tal _geloso_, un tal _avaro_, Otello, il notaio Guerin. Presentare ora
personaggi, caratteri, situazioni che, sorpassando il significato
individuale, aprirebbero alla intelligenza e alla fantasia degli
spettatori orizzonti più larghi, e darebbero anche sensazioni più
profonde, più complicate di quelle che sogliono scaturire da
individui, da caratteri, da passioni, da situazioni determinate,
perchè mai, dico, dovrebbe sembrare a _priori_ impossibile?

Questo però presuppone che un artista, intraprendendo un'opera d'arte,
conosca innanzi tutto la intima essenza di quella forma e i limiti ad
essa imposti dalla sua natura; presuppone che egli sappia che
l'essenza d'una forma d'arte è superiore a qualunque potenza
d'ingegno, e che neppure il genio sconvolge o inverte le funzioni
vitali di essa, anzi le sente e le incarna più compiutamente di ogni
altro; così compiutamente talvolta, da esaurire tutte le possibilità
d'una forma e chiuderne il ciclo di evoluzione.

La tragedia con personaggi moderni non è precisamente una novità.
Invece di tragedia è stata chiamata dramma. Non è una novità il
tentativo di trasportare in un soggetto moderno il Fato degli antichi
greci. Zaccaria Werner l'ha fatto nel 1810, col suo _Ventiquattro
febbraio_, di cui ci ha dato, se non sbaglio, la traduzione e uno
studio critico il Mazzini. Questo non significa che non si possa
ritentare con altro modo, con altra misura. Del _Fato_ dei greci non
abbiamo idee esatte; filosofi ed eruditi non sono punto di accordo
intorno al vero significato di questa concezione religiosa. Pel
D'Annunzio, per esempio, l'interpretazione del _Fato_ consisterebbe
nell'influenza dell'ambiente, nella violenza che la passione esercita
su la ragione, nelle determinazioni prodotte nel cuore e nella
intelligenza dagli studi particolari a un individuo.

Siamo lontani dal _Fato_ greco, molto lontani da Edipo destinato ad
essere uccisore del padre, marito della madre e per questi involontari
delitti condannato ad errare cieco e miserabile pel mondo, fino a che
non troverà requie nel bosco delle Furie e non diventerà
genio benefico per la città di Atene. Non importa. Il pregio
dell'indeterminatezza di certi concetti consiste appunto nelle diverse
interpretazioni che essi permettono all'artista per scopi artistici.
L'essenziale è che questi scopi artistici siano raggiunti.

Dicevo dunque che fino a pochi mesi fa dovevamo contentarci di
conoscere le intenzioni di Gabriele D'Annunzio. Ora che abbiamo sotto
gli occhi l'opera bell'e compiuta, cerchiamo di renderci conto se alle
intenzioni ha corrisposto il fatto.

                              *
                             * *

Siamo avvertiti dal titolo che non dobbiamo attenderci niente di
reale, o poco assai. La città morta è Micene _ricca d'oro_,
nell'Argolide _sitibonda_, come dicono le scolie con perdonabile
pedanteria. Bisogna dimenticare che gli scavi di Micene furono fatti,
tra il '73 e il '78, dal mecklemburghese Schliemann e dalla sua
Signora, e non stupirsi se gli scavi del lavoro di fantasia danno
risultati alquanto diversi da quelli descritti dal vero scopritore
delle tombe degli Atridi. Non si tratta di una ricostruzione, ma d'una
creazione che toglie in prestito dalla realtà i particolari che gli
fanno più comodo. Il poeta ha diritto di agire così.

Le _dramatis personae_ (dire personaggi è parso una volgarità?) sono
indicate con semplici nomi, quasi per spogliarle di ogni bassa
caratteristica. Forse notare, invece di _Alessandro_, _Leonardo_,
_Anna_, _Bianca-Maria_, notare soltanto: _Un Uomo_, _Un altr'uomo_,
_Una donna_, _Una_ _Vergine_, _Una Vecchia_ sarebbe stato meglio; lo
dico senza malizia, giacchè il poeta vuol raggiungere l'idealizzazione
dei personaggi anche con questi espedienti. Nelle rappresentazioni di
Parigi ha vestito le donne con larghe tuniche greche, e gli uomini....
da biciclisti, come ci ha fatto sapere il Sarcey, se pure questa non è
stata un'irriverente grossolanità del critico francese.

Tutti i personaggi sono oppressi dall'ossessione archeologica. Per
Leonardo, la cosa è naturalissima: è invasato dall'idea di scoprire le
tombe degli Atridi. Si capisce pure che un poeta come Alessandro, che
ha voluto accompagnare l'amico nella difficile e nobile impresa, viva
con l'immaginazione nel mondo mitologico di Omero e di Sofocle.

Sembra un po' strano che le due donne, Anna e Bianca-Maria, non
leggano altro all'infuori dell'_Antigone_ durante la monotonia delle
lunghe giornate d'ozio; e che Anna, la cieca, racconti alla nutrice la
favola della ninfa _Io_; eppure reca meraviglia che il poeta abbia
ceduto un momento alle lusinghe della verosimiglianza facendo
addormentare la vecchia a quel racconto.

Sarebbe ridicolo avere un attimo di curiosità intorno alla condizione
dei personaggi. Anna è divenuta cieca dopo il matrimonio? O
Alessandro, vinto da un impulso di generosissimo affetto, l'ha sposata
proprio per quei begli occhi limpidi, ma muti alla luce? Immaginate
quel che vi pare. Tanto più che la stessa Anna sembra di scordarsi di
essere cieca quando dice, parlando di Zacinto: _Io non conosco
l'isola; ma una sera, nel mio primo viaggio la vidi di lontano e mi
pareva l'Isola dei Beati._ Queste minuzie non hanno niente che fare
con l'azione, col dramma intimo che i personaggi ci vogliono
raccontare, adoperando un linguaggio adatto all'ambiente, tra quei
tesori di arte antica che ricompaiono al sole dopo migliaia di
secoli--avori, vesti, diademi, maschere del Re dei Re, di
Clitemnestra, di Cassandra, ogni cosa di oro massiccio--tra i versi di
Omero, di Eschilo e Sofocle che suonano a ogni istante su le labbra di
tutti.

In una rappresentazione ideale noi possiamo prestare docile orecchio
ai periodi ondulanti, spiegantisi con lenta maestà, scandentisi al
pari dei greci trimetri, degli anapesti, dei tetrametri-trocaici, dei
giambici eschilei e sofoclei. È vero che dobbiamo foggiarci uno
special modo di recitazione simile a melopea, che di tratto in tratto,
si esalti fino a divenire melodia; ma nella nostra condizione è lecito
permetterci tutto.

I personaggi si sono sollevati molto in alto, in una regione dove
possono sentire e pensare a modo loro, fuori d'ogni volgarità, fuori
anche dell'umanità, ed esprimersi in conseguenza. Sono nel dramma,
cioè nella tragedia, e nello stesso tempo quasi estranei a quel che
accade dentro di loro e attorno a loro.

Anna, la cieca, sente, indovina che Bianca-Maria le toglie il cuore
del marito, eppure compatisce, perdona e pensa di eliminare l'ostacolo
all'unione dei due cuori: sè stessa.

Bianca-Maria è appena turbata dall'impuro amore che le è germogliato
nel petto.

Alessandro, il poeta, fa serenamente olocausto della moglie al suo
nuovo amore per Bianca-Maria; e quando la vergine gli domanda:--_Che
volete fare di me, della creatura che amo, che amate? Dite!_--egli
risponde:--_Lasciate che il destino si compia._

Leonardo è preso da folle passione per la sorella; e venendo a
cognizione ch'ella ama, riamata, Alessandro, pensa soltanto a
purificare per sempre quella creatura, annegandola nelle acque della
fonte Perseia. E allora si sente tutto puro anche lui!

--_Se ella ora si levasse, potrebbe camminare su l'anima mia come su
neve immacolata... S'ella rivivesse, tutti i miei pensieri per lei
sarebbero come i gigli, come gigli._

Lo stesso Alessandro, il poeta innamorato, davanti al cadavere
dell'amata non ha uno scatto; soltanto, _con gesto imperioso_, dice
all'assassino, no, al purificatore:--_Non la toccare! Non la
toccare!_--E l'altro, indietreggiando, risponde:--_Non la tocco...
Ella è tua, ella è tua!_

Anna, la cieca, finalmente, inciampando nel cadavere dell'amica, ha un
grido:--_Ah! Vedo! Vedo!_

E noi dobbiamo rimanere nell'ideale e ignorare precisamente in che
modo ella veda.

                              *
                             * *

Senza dubbio, c'è in tutto questo, nel concetto e nella forma, una
continua cura di sfuggire il comune, il volgare; ma c'è anche una non
meno continua cura di sfuggire la logica della passione e delle
circostanze. Nessun artificio teatrale è messo in opera per ottenere
qualcuno dei soliti effetti; sono però adoprati altri artifici per
raggiungere determinati effetti, e viziosi quanto quelli voluti
evitare.

Tutti i personaggi hanno orrore di dire la parola giusta, di servirsi
dell'espressione più semplice e quindi più efficace. Nel punto in cui
l'anima loro sta per penetrare nell'intimo del _pathos_, si ritraggono
sùbito indietro, quasi abbiano paura di dire qualcosa di umano, di
vero.

«BIANCA MARIA. Le mie labbra erano pure, sono pure... Per la memoria
di mia madre, per il capo di mio fratello, io vi giuro, Anna, che
rimarranno pure, così, suggellate dalle vostre stesse mani. (_Ella
preme su la sua bocca le mani della cieca_).

«ANNA. Non giurare! Non giurare! Tu pecchi contro la vita; è come se
tu uccidessi tutte le rose della terra, per non donarle a chi le
desidera. Abbi fede! Attendi ancora un poco!»

È un momento grave, solenne, veramente tragico.... Ma Anna, a un
tratto, divaga:

«Senti l'odore dei mirti? È inebriante come vino caldo...» E in quella
divagazione lirica intorno ai mirti di Megara, alle rive di Zacinto
(nessuno dei personaggi dice mai Zante!) e intorno alle voci
misteriose delle fontane, non si sente il fremito di chi divaga a
posta, per sviare il discorso, per reprimere la commozione. La parola
non dice una cosa per farne intendere un'altra, la più importante, no;
si compiace della bella descrizione, delle dolci immagini, delle
sottili comparazioni, fa un esercizio retorico.

Così ogni volta che la situazione drammatica vorrebbe forzar la mano
al poeta.

La grande, la ieratica idealità greca? Ma tutto è umano in quella
grande idealità. Antigone che affronta consapevolmente la morte per
dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice e compire un atto
religioso che avrebbe permesso allo spirito di lui il passaggio
nell'Eliso, Antigone rimpiange la vita e le nozze. Edipo passa di
angoscia in angoscia, tentando di trovarsi innocente, e rimanendo
sempre dubbioso ed incredulo davanti alle prove più evidenti della
fatalità che lo incalza. E Filottete? Che accenti di dolore, che
imprecazioni, che suppliche nella sua misera condizione!

La grande, la ieratica idealità greca! Dove mai? Nel concetto? Il
dramma, la tragedia, giacchè così si vuole, qui risulta per via di
artifici. Quei personaggi pensano e agiscono a quel modo, perchè il
poeta ha voluto che pensassero e agissero a quel modo. Anzi, per dire
la verità, essi non c'entrano. Il poeta ha parlato per conto loro,
togliendo a ognuno di essi la propria personalità, fin nella maniera
di esprimersi. E quando ho detto: _agiscono_ ho parlato
impropriamente; essi agiscono così poco, che non potrà sembrare
esagerazione l'attenuare che non agiscono affatto.

Ora niente è più contrario all'essenza della tragedia greca, che è
tutta azione; azione breve, ristretta, circoscritta dai limiti che le
condizioni teatrali e l'indole di rappresentazione religiosa
imponevano con gli intermezzi del coro, impaccioso residuo della forma
sacra primitiva; coro che in Sofocle comincia già a trasformarsi in
personaggio.

La grande, la ieratica idealità greca! Dove mai? Nella forma? Ora
niente di più semplice, di più limpido, di più trasparente della forma
greca; cioè niente di più perfettamente compenetrato col concetto che
essa vuole esprimere. Nel caso però che si voleva fare un _pastiche_,
bisognava imitare il Goethe, scegliere un soggetto greco, e dare ad
esso quell'apparenza di bassorilievo ch'egli ha tentato di dare alla
sua _Ifigenia_.

Ma anche a proposito del Goethe, si può ripetere il motto del Taine:
_Non c'è altre tragedie greche che le greche!_

                              *
                             * *

Non sarebbe qui inopportuno discutere le intenzioni del poeta. Ma a
che prò?

Io capisco che un ingegno come quello di Gabriele D'Annunzio ha fatto
così la _Città morta_, in massima parte perchè ha voluto farla così.
Nella _Città morta_ c'è il germe di un'azione veramente drammatica, e
qua e là un accenno di organico svolgimento di essa. Questo, forse,
può significare che un'altra volta, se non vorrà fare a posta
così,--cioè rinunziare di proposito ai perfezionamenti che la forma
drammatica ha raggiunto dai greci fino a Shakespeare, e da Shakespeare
fino ad oggi--Gabriele d'Annunzio ha tanta forza da prendere
facilmente una rivincita, purchè non dimentichi che l'essenza d'una
forma d'arte è superiore a qualunque potenza d'ingegno, come l'ha
sventuratamente dimenticato scrivendo questa _Città morta_, morta
davvero come opera drammatica.



EMILIO ZOLA

(ÉMILE ZOLA, Paris, Charpentier, 1898.)


Ironia della vita! Mentre Emilio Zola pubblicava nel _Journal_ gli
ultimi capitoli del suo romanzo, che è la glorificazione anticipata di
quel Parigi fantastico da cui l'_umanità dovrà ricevere il dono
dell'emancipazione definitiva_, il Parigi reale, preso da un accesso
di follia, insultava il coraggioso scrittore che appunto in quei
giorni si era costituito paladino della libertà e della giustizia.

Rileggendo in volume quelle pagine che uscivano quasi
contemporaneamente con le relazioni delle sedute della Corte d'Assise
pel processo del loro autore, si ha l'impressione di un senso
artistico divinatorio che meraviglia. L'anarchico Salvat sembra un
simbolo: il processo di lui una esattissima previsione di quel che
sarà il processo Zola. Ecco qui:

«Nella gran folla, un mescolarsi di abiti chiari di signore, di toghe
nere di avvocati, tra cui si distingueva appena la toga rossa dei
giudici negli stalli così bassi, che lasciavano scorgere a stento, su
le altre teste, la faccia bislunga del presidente. Molti osservavano i
giurati, tentando d'indovinarne qualcosa dai loro visi; parecchi non
levavano gli occhi d'addosso all'accusato.... Salvat si alzò in piedi;
il presidente cominciò l'interrogatorio. E apparve con tragica
nettezza, il contrasto: da una parte i giurati nell'ombra anonima,
_con l'opinione già bella e fatta sotto la pressione del pubblico
terrore, riuniti là per condannare_, dall'altra l'accusato....

«Il procuratore generale prese la parola, severissimo. Era noto per le
sue relazioni con tutti i partiti politici e per la sua destrezza
nell'essere sempre amico degli uomini al potere; d'onde il suo rapido
avanzamento nella carriera giudiziaria e i favori di cui era
costantemente colmato.... E continuò per due ore, _sdegnando la verità
e la logica, cercando soltanto di impressionare le immaginazioni,
cavando partito dal terrore che aveva invaso Parigi, incoraggiando il
giurì a fare il suo dovere condannando_ l'assassino, giacchè il
Governo era risoluto _di non indietreggiare di fronte a qualunque
minaccia...._

«Dopo una deliberazione di appena un quarto d'ora, i giurati
rientravano nella sala, con gran rumore di tacchi sui banchi di
quercia. Riappariva anche la Corte. Un crescendo di emozione agitava
la folla, quasi un vento di ansietà scuotesse tutte le teste. Molti
si erano levati in piedi, lasciandosi sfuggire qualche lieve grido. E
il capo dei giurati, grosso, con faccia rossa e tonda, dovette
attendere prima di leggere:

--Sul mio onore e su la mia coscienza, davanti a Dio e davanti agli
uomini, la risposta del Giurì è questa: Su la domanda intorno
all'assassinio, _sì, a maggioranza...._ Salvat capì subito di che si
trattava dal silenzio che seguì, _senza che si parlasse di circostanze
attenuanti_.»

I lettori del _Journal_ in quei giorni dovettero sospettare qualche
sbaglio d'impaginazione, mescolando la relazione della seduta del
processo Zola con la relazione del processo Salvat.

Nel romanzo, il Salvat, condannato a morte, si rizza bruscamente; e
mentre le guardie lo conducono via lancia con gran voce il grido: Viva
l'anarchia! Lo Zola risponde al verdetto dei suoi giurati, con un
libro, con un'opera d'arte che è anch'essa un gran grido. Viva la
giustizia!

                              *
                             * *

_Paris_ chiude la trilogia delle _Trois villes_. _Lourdes_ e _Roma_
erano le premesse; _Paris_ è la conchiusione, la conseguenza del
sillogismo. Pietro Froment, giovine prete, sentendosi venir meno nel
cuore e nell'intelletto la fede religiosa, ha cercato un rimedio al
suo male prima a _Lourdes_, nella piccola città dei miracoli, nella
piscina odierna, poi a _Roma_, nel centro di vita del grande organismo
cattolico.

A _Lourdes_ ha trovato, o gli è sembrato di trovare, la superstizione,
anzi lo sfruttamento quasi commerciale delle umane miserie fisiche; a
Roma, la religione divenuta organizzazione politica, immobilizzata nel
domma, ridotta sterile e tiranna dei corpi e delle anime. Quel
socialismo cattolico, con cui sembrava che il papa volesse vivificare
e consolidare la chiesa, gli si era rivelato un espediente
transitorio, un'abile menzogna diplomatica.

Ed era tornato a Parigi profondamente disilluso, minacciando di
scrivere un libro incendiario contro Roma, «dove avrebbe messo tutto
quel che aveva visto, tutto quel che aveva udito; un libro dove
sarebbe apparsa la Roma vera, la Roma senza carità e senz'amore, e già
agonizzante nell'orgoglio della sua porpora».

Il libro lo ha scritto il suo autore per lui, infondendo un grandioso
soffio d'arte in tutto quel che aveva _visto_; facendo sforzi
d'intuizione straordinari, ma insufficienti, per quel che aveva
_udito_: libro però dove la Roma vera (la Roma dei papi e la Roma
italiana) non è intesa o è fraintesa, perchè l'abate Froment era
venuto a cercare una Roma di sua immaginazione, e in tre soli mesi di
dimora non si è potuto accorgere del suo inganno. Nè forse se ne
sarebbe accorto in dieci, in venti anni, come la sua compaesana de
l'Ile-de-France, cameriera in casa Boccanera, che gli confessa: _Voicì
vingt-cinq ans que j'habite leur pays, et je n'ai pas encore pu my
faire à leur satanè charabia!_

L'abate Froment ricercava un'astrattezza, e si era trovato faccia a
faccia con l'incarnazione di un'idea, cioè con una realtà ricca di
tutti i pregi e di tutti i difetti derivanti dalla natura umana e
dalle condizioni sociali, ma non perciò meno elevata, meno possente,
meno divina. L'idea astratta gli sembrava perfetta perchè spoglia di
particolari, di accidenti; ed egli non sapeva riconoscere, nel gran
rigoglio della vegetazione cattolica, appunto quell'idea che n'era il
succo vitale.

Ed eccolo ora in quel Parigi, dov'egli spera di ricevere una risposta
definitiva ai dubbi della sua mente, alle angosce del suo cuore.

Partendo da Roma egli aveva esclamato: «Giustizia, sì! Ma non più
carità! La carità ha reso durevole la miseria; la giustizia forse
l'annienterà!»

E tutto il _Paris_ è un largo comento a quel grido.

Questa volta però l'autore non si trova in un mondo potuto conoscere
molto esteriormente con tutta la buona fede e la buona volontà che
egli aveva adoperato, e l'opera d'arte si giova di tale condizione;
risulta viva, quasi spigliata, e rivela qualità che finora sembravano
negate al suo autore. L'abate Pietro Froment non apparisce più un
vanesio, un orgoglioso che tenta di imporre le sue fantasticherie
umanitarie a papa Leone XIII col libercolo _La Roma nuova_. La sua
importuna personalità sparisce in mezzo al gran formicaio parigino
dove fervono tutte le attività scientifiche, socialistiche,
anarchiche, insieme col fasto della ricchezza, con le orgie del vizio,
con le disperazioni della miseria. Sì, come nel _Lourdes_ e nel
_Rome_, egli serve da filo conduttore a traverso gli avvenimenti
molteplici del Romanzo, ma non è più il protagonista o, almeno, non se
ne dà l'aria. Le lotte della sua coscienza qui ci interessano, ma
quanto quelle di suo fratello, inventore di un terribile esplodente
che dovrebbe dare alla Francia il predominio della forza su tutte le
nazioni del mondo. Il suo carattere ci diventa simpatico, ma quanto
quello di Maria, l'orfanella ricoverata in casa del fratello di lui e
già sua promessa, che poi, invece, diventerà la moglie dell'abate
quando egli avrà buttato alle ortiche la sottana.

Nel _Rome_ egli diffonde attorno a sè una fosca influenza che vela,
attrista ogni cosa; un senso di rancore e di dispetto, stavo per dire
di pettegolezzo, quasi egli non sappia come sfogare la stizza di
sentirsi piccino e impotente di fronte alla grandiosa mole
dell'organismo cattolico; nel _Paris_, invece, egli versa su le cose e
su gli uomini, un così largo sentimento di compassione, di carità, di
amore, da far dimenticare l'infausto banchiere Duvillard, l'adultera
ebrea convertita sua moglie, la cinica sua figlia che contende
l'amante alla mamma e se ne fa un marito, la strana e corrotta
principessa di Harth che cerca nel misticismo, nel saffismo, nel
decadentismo, e fin nell'anarchismo, sensazioni sempre nuove e sempre
più acute; e tutto il vermicaio di deputati, di giornalisti, di uomini
di affari, tra i quali appare scomposta, losca e seducente, la figura
della cocotte Silvana che fa battezzare col suo nome un ministero; da
far dimenticare, insomma, tutto il laidume della società borghese e
aristocratica parigina, al confronto di quelli entusiasti per una
generosa idea, di fronte a quelli invasati dal furore della
distruzione, lanciatori di bombe omicide, preparatori di ordegni e di
esplodenti che debbono predicare a modo loro la giustizia finale.

E questo senso di compassione e di tenerezza è tale che il lettore si
accorge troppo tardi della parzialità del giudizio, dell'artificiosità
dei mezzi di cui si è servito l'autore.

È una gran vittoria per l'artista. Ed è nello stesso tempo la parte
caduca che il preconcetto ha infiltrato nel romanzo.

Bisogna però concedere qualcosa alle ragioni dell'arte. Questo mondo
nuovo in creazione, in fermentazione (se pure è nuovo) occorreva
metterlo in riscontro con quello che esso intende rovesciare; dargli
un risalto tale da porlo in grande evidenza, e non soltanto nei
tratti principali, ma anche nelle sue gradazioni, nelle sue sfumature.
Guglielmo Froment troneggia su gli altri personaggi; carattere solido,
tutto d'un pezzo a cui il sentimento o meglio la sentimentalità
annebbia un momento l'intelletto, fino a suggerirgli l'idea di far
saltare in aria la chiesa del Cuor di Gesù quando migliaia di
pellegrini vi si affollano per una sacra funzione; ma cuor retto,
animo capace di alti sacrifici, una delle più simpatiche figure che lo
Zola ha messe al mondo.

Viene poi Maria Courturier, figlia d'un amico di Guglielmo, inventore
di genio, che aveva sciupato il suo patrimonio in fantastiche
scoperte. Guglielmo ha ricoverato in casa sua l'orfanella. Mente sana
in corpo sano, ella ha ricevuto una solida istruzione ed è rimasta
ingenua quanto bella.

È il simbolo zoliano della donna futura, di un ateismo tranquillo, con
completa noncuranza del di là. E quando l'abate Pietro le confessa i
tormenti della sua coscienza, il gran vuoto che gli ha lasciato nel
cuore la perdita della fede, la disperazione di non sapere che cosa
sostituire al Dio perduto, ella lo guarda stupefatta:

--Ma voi siete matto!--gli dice.--Disperarsi, non più credere, non più
amare, perchè l'ipotesi del divino è crollata, e appunto quando il
mondo ci si apre vastissimo davanti, con tutti i doveri della vita,
con tante creature e tante cose degne di essere amate e soccorse,
senza contare l'attività universale, dove ognuno ha un còmpito da
eseguire! Ma voi siete proprio matto!.... Tornate con noi alla scuola
della buona natura. Vivete, lavorate, amate, sperate!

Ella dice delle belle e dolci parole, ma fa anche delle belle ed umili
cose; è una buona massaia, e si capisce facilmente come, per lei,
l'abate Froment diventi l'operaio Pietro Froment.

Ma io mi occupo più del contenuto che della forma, e trattandosi di
un'opera d'arte non sta bene.

Mi limiterò a dire che _Parigi_ ha portato buona fortuna a Emilio
Zola. Mai egli è stato così semplice, così spigliato, così efficace;
mai ha mostrato meno di ora quell'impaccio, quella gravità richiesta e
quasi impostagli dal suo metodo di composizione. Ha buttato via tutta
la scoria; appena appena qua e là qualche accenno del suo simbolismo,
ma fatto con garbo, senza calcar troppo la mano.

«Il sole, vicino al tramonto, dietro un roseo velo di nuvolette,
dardeggiava Parigi, simile a un seminatore gigante che lanciasse da un
punto a l'altro dell'orizzonte colossali manate di oro.

«--Parigi sementato dal sole!--esclama Pietro.

«--Sì, è vero--dice Maria,--Parigi sementato dal sole! E con che gesto
egli butta la semente della salute e della luce fin nei più lontani
sobborghi! Cosa singolare! A ovest, i quartieri ricchi sembrano
avvolti da bruna rossastra, mentre la buona semente dorata cade su la
riva diritta e sui quartieri popolosi a est! Là, è vero, dovrà
spuntare la messe.»

E Guglielmo soggiunge con allegra espressione di voce e di gesti:

--E non tardi a spuntare su questo buon terreno del nostro Parigi,
arato da tante rivoluzioni, concimato da tanto sangue di lavoratori!
Non c'è altra terra al mondo per far germinare e fiorire le idee. Sì,
Pietro ha ragione: il sole sementa Parigi, e il mondo futuro nascerà
soltanto da lui!

E lo Zola nell'ultima pagina del romanzo riprodurrà questa immagine e
ne farà la chiusa sinfonica. Non più distinzione di quartieri, ma
tutto Parigi sementato ugualmente dai grani di oro del sole. E la
messe sembra già maturata, ondeggiante come un gran mare biondo a
perdita di vista, sul vasto terreno della riconciliazione fraterna.

Pietro Froment, non più abate; ma padre di una bella creatura, prende
in braccio il figlioletto Giovanni, e lo leva in alto quasi in offerta
all'immensa Parigi sementata dai raggi del divino sole, d'onde nascerà
la futura messe di verità e di giustizia.

Ma al poeta che spicca un così lirico volo nei secoli avvenire
divinando la missione redentrice di Parigi, Parigi non ha concesso
l'illusione di un istante. Mai con più bestiale smentita è stato
risposto, non da una città ma da tutta una nazione, al sogno
umanitario di un'anima avida di verità e di giustizia. Che importa, se
questo sogno ci ha fruttato una bella, una grandiosa e severa opera
d'arte?

In quanto all'avvenire, noi sappiamo che lo Spirito soffia dove vuole,
che nessuno può dire anticipatamente:--La redenzione verrà di là! Il
mondo attuale non ha niente che vedere col mondo avanti la
Rivoluzione; è sazio di astrattezze.--Non più carità, ma
giustizia!--Ma qualche altra nazione dà già al mondo lo spettacolo
meraviglioso della più grande tolleranza possibile, che è forse la
forma più pratica della giustizia su la terra; e l'esempio non sarà
senza influenza per le altre nazioni. E con la tolleranza, la carità
dovrà riprendere l'opera sua consolatrice, e tutte le forze dello
spirito dovranno concorrere alla grand'opera. La carità non ha fatto
bancarotta, come non l'ha fatta la scienza, come non l'ha fatta la
ragione, checchè ne pensi l'abate Froment così scandalizzato dalla
Roma papale. Il vero divino sole dello Spirito si leva su l'orizzonte
per tutti i popoli, sementa tutte le terre: e se si dovesse fare
un'ipotesi ragionevole--si badi, dico: un'ipotesi!--si dovrebbe dire
che la giustizia, invece che nel terreno dove sono spuntate le
astrattezze della libertà e dell'uguaglianza, germoglierà nel suolo
d'onde si è sparso per tutto il mondo civile l'albero immortale del
Diritto.

       *       *       *       *       *

I giornali avevano annunziato il suo ritorno a Parigi nella prima
settimana di questo mese. Egli avrebbe lasciato il misterioso rifugio
per riprendere il suo posto accanto all'eroico Picquart nella immane
lotta per la verità e la giustizia, alla quale ha, da quasi un anno,
sacrificato la sua tranquillità di uomo e la sua gloria di artista.

Gli stessi giornali oggi annunziano invece che egli parte per
l'America a farvi delle conferenze, non dicono precisamente intorno a
quale soggetto, forse intorno ai tristi avvenimenti della sua patria
che destano tanta ansietà e tanto interesse dovunque.

Io non so quel che ci sia di vero in queste contraddittorie notizie, e
può darsi benissimo che Emilio Zola ci prepari qualche sorpresa che
non sarà il suo ritorno in Francia o il suo viaggio in America. Vorrei
però che questa sorpresa fosse un'opera d'arte, un romanzo.

La missione di pubblico accusatore, ch'egli si era generosamente
imposta, è ormai finita. Qualcosa di più potente che la voce di uno
scrittore, quantunque grande e famoso, la terribile eloquenza dei
fatti, ha preso il posto di lui e parla, anzi tuona alla coscienza del
popolo francese. Emilio Zola è passato in seconda linea.

Questo non diminuisce punto il valore della nobilissima parte da lui
rappresentata nel nefando intrigo che supera quanto di più putrido e
di più immondo egli è stato accusato di ammassare nei suoi romanzi.

Doveva accadere così. Egli però n'è stato ricompensato a bastanza.
Mentre la Francia soldatesca e reazionaria lo insultava, tutto il
resto del mondo civile teneva fissi gli occhi su lui, lo accompagnava
coi voti, augurandogli quel trionfo che oggi è quasi raggiunto.

In quei giorni niente faceva prevedere quel che ora è avvenuto. Su
tutti i personaggi del triste dramma grandeggiava, calma e serena, la
figura del romanziere accusatore; e non valevano a sbigottirlo i
feroci attacchi della stampa partigiana, gli urli della folla pagata o
miseramente illusa, le sentenze dei giurati terrorizzati dalle minacce
dei capi dello Stato Maggiore che, luccicanti di spalline dorate, di
decorazioni, impennacchiati e pettoruti, erano comparsi unicamente per
quello scopo davanti a loro. I pochi che lo ignoravano come
romanziere, avevano appreso ad amarlo e a riverirlo come difensore
della vittima del più indegno delitto che abbiano mai commesso il
militarismo, la politica, la intolleranza religiosa. In certi momenti,
i più gravi interessi delle nazioni erano diventati meschina cosa di
fronte alla titanica lotta da lui combattuta.

Poi sembrò vinto, disfatto. La sua scomparsa veniva giudicata una
fuga; il dubio e lo scoraggiamento cominciavano a insinuarsi fin fra
coloro che più avevano avuto fede in lui; e i suoi avversari
sogghignavano di scherno alle parole: _Sarò al mio posto, quando verrà
l'ora opportuna!_

Tutt'a un tratto il rasoio del colonnello Henry recide i primi lacci
della mostruosa matassa... e l'Accusatore sparisce dietro le sinistre
figure dei falsari venute inattesamente in pienissima luce.

                              *
                             * *

Voglio sperare che Emilio Zola non stimi questa sua grande vittoria,
questa sua sublime ora di trionfo superiore o uguale alle vittorie e
ai trionfi da lui ottenuti nel campo dell'arte. Il valore di un'azione
va anche giudicato dalle conseguenze che può produrre. E intorno a
queste, pel processo Dreyfus, non c'è da farsi illusioni di sorta
alcuna.

In meno di un lustro, Dreyfus, l'Isola del Diavolo, il colonnello
Henry e compagnia brutta saranno certamente dimenticati.
All'agitazione presente succederanno altre e non meno violente
agitazioni. La vita--che ne dica la ballata--corre più presto dei
morti. E poi, Calas e Voltaire non hanno impedito che, appena dopo un
secolo, una quasi identica situazione si riproducesse, cioè che un
innocente fosse condannato e che uno scrittore, un semplice scrittore,
non magistrato, non avvocato, sorgesse a difenderlo e riuscisse, come
ci auguriamo tutti, a salvarlo dell'atroce prigione, più fortunato del
suo predecessore che potè solamente rivendicare la memoria
dell'infelice vittima della superstizione religiosa.

Ci sono voluti degli eruditi per rammentare la bella azione del
Voltaire. Tutti coloro che hanno letto e leggono _Candide_, o la
ignoravano o non se ne rammentavano più; ed io temo che il nuovo
esempio dello Zola non varrà neppur esso a impedire che qualche altro
infelice sia vittima di altri falsarii o di miserabili di specie
diversa. Mutano le apparenze, le passioni assumono altre maschere, ma
la malvagità umana permane identica. E quando i nuovi Esterhazy, i
nuovi Henry, i nuovi Paty de Clam, i nuovi Gonse e Boisdeffre
entreranno in ballo; quando avranno ordito peggiori tranelli e più
formidabili falsità che non ne abbiano accumulato i maldestri di oggi,
troveranno sempre una folla che si lascerà ingannare, che sentirà il
bisogno di essere ingannata per sfogarsi contro qualcuno delle
sciocchezze e degli errori da lei commessi e dei quali non saprà
rassegnarsi a soffrire le conseguenze; troveranno altri interessati a
coadiuvarli, altri furbi che vorranno giovarsi delle loro birbanterie
e che li lasceranno liberamente agire con questo secondo fine. E
allora niente varrà che altri eruditi rammentino Voltaire e Calas,
Emilio Zola e il capitano Dreyfus. Non sempre i Voltaire e gli Zola
hanno la fortuna di trionfare, caso mai se ne potessero trovare a ogni
occasione; e non si trovano, ahimè!

                              *
                             * *

Se Emilio Zola non avesse fatto altro che difendere la innocenza del
capitano Dreyfus, avrebbe raccomandato il suo nome a un molto debole
sostegno.

Fortunatamente per lui e per noi, egli ha fatto ben altro.

Ed ecco perchè io sono lieto che l'illustre autore dei
_Rougon-Macquart_ sia giunto al termine della sua campagna. Ed ecco
perchè mi auguro ch'egli testimone e _magna pars_ in questi
avvenimenti dai quali sono tenuti tuttavia sospesi gli animi--perchè
non è ancora certo che le bieche ragioni di Stato non prendano il
sopravvento su le ragioni della giustizia--meglio che scrivere un
libro di storia e di polemica, come è stato detto, ritorni all'arte,
al romanzo.

La politica, oh no! non lo tenterà. Egli deve sentirne un'immensa
nausea, dopo aver potuto scrutare da vicino di che laidumi sia
impastata.

Ch'egli scriva dunque quest'altra _Debacle_ assai più terribile della
prima! Ch'egli attacchi a una gogna immortale--l'arte sola dà
l'immortalità--tutti questi farabutti che disonorano l'esercito
francese e la Francia intera! Quando le misere agitazioni presenti
saranno appena un vago ricordo per li ultimi sopravvissuti della
nostra generazione, e quando soltanto gli storici si occuperanno del
processo Dreyfus consacrando ad esso qualche breve pagina, l'opera
d'arte soltanto terrà ancora in vita, bollate da un marchio di fuoco,
le ignobili figure della seconda repubblica, che ecclisseranno i poco
scrupolosi faccendieri del secondo impero transustanziati dalla
immaginazione nei _Rougon-Macquart_.

Mai più tetra e tragica materia si è presentata all'immaginazione di
un grande artista, mai, o quasi, la realtà è stata così superiore alle
combinazioni più assurde di un'ardente fantasia! Mai il còmpito di un
artista è stato più difficile e nello stesso tempo più tentatore.
Emilio Zola ha il poderoso petto che occorre per affrontarlo.

I suoi famosi documenti umani egli non dovrà stentare per trovarli; ne
ha già troppi sotto mano.

O tranquilla palazzina di Médan, ieri violata dalla volgare persona
degli uscieri, umili strumenti di una giustizia indegna di chiamarsi
tale, quando aprirai a due battenti il tuo cancello al profugo
artista? Allora veramente entrerà assieme con Lui nelle tue vaste sale
la solenne vindice Giustizia: ed ha un nome altrettanto nobile e
santo; ella chiamasi l'ARTE.



UNA JETTATURA


Sto per credere di averla addosso, se mi capita così frequentemente di
vedermi frainteso. Aveva pur troppo ragione il Voltaire quando diceva:
Datemi tre righe di un galantuomo e ve lo faccio impiccare. Io ne ho
scritte più di tre a proposito di Emilio Zola e della parte da lui
presa nell'affare Dreyfus, ed ecco il _Fanfulla_ che mi denuncia come
reo di lesa maestà della nazione francese, ed ecco il nostro _Marius_
che mi fa una lavata di capo, quasi io abbia mancato di rispetto a
Emilio Zola, augurandogli di riprendere presto la sua penna d'artista.

Gli spropositi dell'articolista del _Fanfulla_ potevo lasciarli
passare inosservati. Quando uno ha il coraggio di proclamare Emilio
Zola il più gran malfattore che abbia oggi la Francia, il maggior
responsabile di tutta la corruzione che rode come un cancro la società
contemporanea francese, non c'è da discutere. Si ride e basta. Ognuno
è spiritoso come può. Se i lettori del _Fanfulla_ si contentano
dell'amenità che lo _Zio Tobia_ ha loro ammanito, tanto meglio, o
tanto peggio, per essi. Forse pensano che certe sciocchezze sono
talvolta più esilaranti di un bel tratto di spirito; questa per
esempio: «La Francia, atterrata, ma non soffocata dalle sventure del
1870, avrebbe dovuto riprendere in breve tempo i sentieri luminosi
della civiltà; ma trovò sul suo cammino Emilio Zola e ricadde più
ferita di prima: anzi strozzata addirittura.»

A chi osa di scrivere queste parole (non hanno bisogno di un
qualificativo, ed io sarei imbarazzatissimo se dovessi trovarlo) posso
facilmente perdonare la ignoranza che dimostra intorno alle mie
convinzioni letterarie, e rassicurarlo che dicendo male dello Zola non
si è comprata, come egli crede, _a contanti_ la mia _irosa
inimicizia_; sarebbe troppo a buon mercato.

_Marius_ però deve avere la pazienza di ascoltarmi.

Da qual parte del mio articolo egli ha desunto che io mi permetto di
fare a Emilio Zola una _ramanzina, come ad un ragazzo impertinente che
trascura i suoi doveri_?

Debbo supporre che _il fioco lume d'una luna amareggiata da molte
nuvole_ e _il fioco lume della lampada del vagone_, o la narcotica
virtù del mio articolo lo abbiano ridotto in un dolce stato di
dormi-veglia che lo hanno poi indotto a fraintendermi?

Io ho voluto dire soltanto questo: Emilio Zola ha ormai compiuto il
suo dovere di cittadino. Coloro che egli accusava sono smascherati.
«Qualcosa di più potente che la voce di uno scrittore, quantunque
grande e famoso, la terribile eloquenza dei fatti, ha preso il posto
di lui, e parla, anzi, tuona alla coscienza del popolo francese.
Emilio Zola è passato in seconda linea. Questo non diminuisce punto la
nobilissima parte da lui rappresentata... Ritorni all'arte e scriva
quest'altra _Debacle_ più spaventevole della prima.»

E conchiudevo:

«O tranquilla palazzina di Médan, ieri violata dalla volgare persona
degli uscieri, umili strumenti di una giustizia, indegna di chiamarsi
tale, quando aprirai a due battenti il tuo cancello al profugo
artista?

«Allora veramente entrerà, assieme con Lui, nelle tue vaste sale la
solenne vindice giustizia; ed ha un nome altrettanto nobile e santo:
ella chiamasi l'ARTE.»

Quando mai mi è passato pel capo di diminuire il valore del coraggioso
atto cittadino del romanziere trasformatosi inattesamente in pubblico
accusatore?

Quando mai mi è passato pel capo d'insinuare che Emilio Zola, così
facendo, abbia voluto formarsi un _piedistallo di questa questione_, e
che abbia _preso il destro di afferrare quest'arma per servirsene a
vantaggio suo e dei suoi_?

_Marius_ ha trovato proprio le tre righe per farmi impiccare: le ha
strappate dal nesso logico del mio articolo, e ha impreso
caritatevolmente a lavarmi quel lucido capo, che appunto per questa
sua condizione non ne ha punto bisogno.

Se dire ad un artista, a un grande artista: Avete compiuto la missione
che vi eravate imposta con generosità senza pari. I resultati della
vostra lotta sono forse superiori a quel che voi vi attendevate. Ora,
per attaccare a una gogna immortale coloro che han disonorato
l'esercito francese e la Francia, scrivete un libro degno di voi,
prendendo a soggetto i tetri e tragici fatti di cui siete stato
testimone. «Mai còmpito di artista è stato più difficile e più
tentatore: voi avete il poderoso petto che occorre per affrontarlo»:
se dire questo a Emilio Zola significa fargli una ramanzina come a uno
scolaro che ha trascurato il suo dovere, io lo lascio giudicare ai
lettori della _Tribuna_, e mi rassegno anticipatamente alla loro
sentenza.

Le tre righe incriminate da _Marius_ volevano dire soltanto che
l'opera d'arte, per la sua speciale natura, ha un valore assai
superiore a qualunque nostro atto semplicemente morale. E citavo per
ciò Voltaire e Calas.

L'opera d'arte infatti, anche quando non ne ha la precisa intenzione,
è atto di alta moralità, di giustizia spirituale. _Io accuso!_ Ma
Emilio Zola, si può dire, non ha fatto altro in tutta la sua
dignitosissima vita. I suoi ventitrè romanzi sono atti di accusa e di
condanna nello stesso tempo; ed io non credo di ingannarmi dicendo
che quando, nel lontano avvenire, e anche nel non lontano, non si
parlerà più del processo Dreyfus e del coraggioso promotore della
revisione di esso, i _Rougon-Macquart_, e _Le trois villes_ con tutti
i loro difetti, e non ostante questi, vivranno nella memoria degli
uomini e continueranno ad accusare e a condannare il secondo impero e
la seconda republica.

_Io accuso!_ Emilio Zola lo ha lasciato trasparire anche troppo da
tutta la sua produzione di romanziere, e qualche volta fin facendo
sottostare le ragioni dell'arte alle sue convinzioni personali. La sua
carriera di critico e di artista è stata una lotta incessante. Il
_conspuez Zola_, prima che dalla gola della folla anti-semitica e
reazionaria, era risuonato parecchie volte dalle colonne dei giornali
per opera di articolisti che si affibbiavano la giornea di campioni
della morale e dell'arte; e i rammolliti decadenti e i pretesi
neo-spiritualisti avevano già ripreso a urlare quel _conspuez_ anche
dopo che gli altri si erano stancati.

Emilio Zola non si è minimamente commosso per questi incessanti
attacchi, come non si è impaurito delle dimostrazioni della folla che
minacciava non la sua opera d'arte, ma la sua vita.

La sua imperturbabilità di artista e di cittadino dimostra ad evidenza
che egli non ha mai avuto bassi secondi fini.

Quella ricchezza che è venuta a lui per virtù del suo ingegno, egli
l'ha messa a repentaglio spensieratamente per una causa che gli è
parsa altrettanto nobile e santa quanto la sua opera d'arte. Se questa
volta si fosse anche ingannato, le sue intenzioni non avrebbero potuto
essere giudicate meno disinteressate e generose.

E perchè convinto di questo, non ho potuto lasciare senza risposta le
parole dell'egregio _Marius_.

Al quale auguro in altra occasione una luna _meno amareggiata da molte
nuvole_ e una lampada di vagone _meno fioca_.



LA CHIMERA.


Quando sento dire d'un giovane:--È serio, assennato, non ha chimere
pel capo--subito mi domando:--Ma è proprio giovane costui?--Mi sembra
impossibile: non so figurarmi la giovinezza _senza chimere pel capo_.

La _chimera_ ordinariamente è l'ideale; il nuovo che sta per
schiudersi e che si fa intravedere appena: il sogno che si agita per
divenire realtà; il feto che si matura nel seno oscuro, dove succhia
tutti gli elementi della vita e dà nausee, dolori, malessere sui
generis, alla creatura gestante di cui è sangue del sangue, carne
della carne. Una giovinezza che non rincorre l'alata chimera
dell'ideale, che non sogna e non si agita dietro i primi luccicori
dell'avvenire che sta per schiudersi, che non sente in sè il malessere
intellettuale di una gestazione potente, è inferma, senza rimedio, di
vecchiezza precoce.

Per ciò io mi sento attratto in singolar modo verso tutti coloro che
si mostrano giovani davvero e inseguono con foga e temerariamente una
qualunque _chimera_. Non già perchè io sia convinto che sempre e in
ogni caso la chimera di oggi sarà la realtà di domani, ma perchè
quella rincorsa dietro un'ideale è buon segno di vitalità, di forza, e
perchè da questa confusa e talvolta pericolosa agitazione di discordi
elementi la sapienza organatrice della Natura trae l'artista, il
grand'uomo, il genio che darà vita a un capolavoro.

Che importa se per molti la chimera sarà stata alla fine una dolorosa
delusione? Che importa se il cammino percorso trionfalmente da pochi o
da uno solo è funestato dallo spettacolo di tanti che sono caduti fra
i tormenti di terribile agonia a metà di strada, maledicendo la
chimera che non si è lasciata raggiungere? La vita è così; ha la sua
legge, la sua ferrea necessità, ed è stolto pensare che avrebbe potuto
essere costituita diversamente.

O Romanticismo, chimera della generazione che precedette la nostra! O
Verismo o Naturalismo, che sei stato anche la mia chimera quando avevo
folti capelli scuri e baffi neri e non sospettavo di dover scrivere un
giorno due volumi di Fiabe, che allora mi sarebbero parse vigliacca
rinnegazione della mia fede!

O Idealismo, o Simbolismo, chimera della generazione presente! O sogno
di bellezza estetica che dinanzi al vocabolo raro, al periodo
armonioso e voluttuosamente snodantesi come collo di cigno o come
corpo di serpe che rinnova la sua spoglia sotto i raggi canicolari,
dimentichi che il vocabolo è segno e confondi l'essenza della musica
con l'essenza della parola!

O unica e sola Chimera, che assumi diversi aspetti, iridando le penne
delle tue ali ad ogni nuovo riflesso di luce, e che sei stata
Romanticismo e poi Verismo e oggi Idealismo o Simbolismo e assumerai
domani chi sa quale inattesa e più lusinghiera sembianza! Noi tutti
abbiamo bisogno di te, anche quando arriviamo a comprendere che tu sei
l'inafferrabile, l'irraggiungibile e, spesso, anche nient'altro che
l'inganno!

Io fantasticavo così poco fa, terminando di leggere il libro di un
giovane[7] che avevo visto già correre con forte lena dietro l'attuale
Chimera, in due suoi lavori precedenti. E mi vedevo davanti agli occhi
un altro scrittore, giovane anch'esso e non nostro, che la stessa
Chimera aveva allettato e fatto fuorviare, ma che si è poi sottratto
vigorosamente al mortale miraggio fatto balenare da essa agli ansiosi
sguardi di lui, quando lo allettava a scrivere _La course à la Mort_,
_Le sens de la Vie_, _Les trois coeurs_, tre romanzi di idealismo
trascendente, dove era tentato l'assurdo di ridurre l'opera d'arte a
pura opera di pensiero; dove i personaggi erano semplici nomi,
semplici segni, senza carne nè ossa. E pensavo al poderoso sforzo che
Edoard Rod aveva dovuto fare per sbarazzarsi dalle allucinazioni della
Chimera idealista e simbolista, e arrivare all'ultima, sana e
rigogliosa manifestazione del suo ingegno, a _Le Ménage du Pasteur
Naudié_ apparso appunto in questi giorni.

Veramente Enrico Corradini non era andato tant'oltre, come lo
scrittore francese, tra le nebbie dell'idealismo e del simbolismo, o
dell'_intuitivismo_ come il Rod lo chiamava.

Nel _Santamaura_ stava ancora molto vicino alla realtà e i suoi
personaggi erano quasi tutti solidi e robusti; se non che si
smarrivano un po' nel labirinto dell'azione e, di tratto in tratto, si
scolorivano, non sembravano più persone vive o almeno ben organate,
quasi fosse venuta meno la vital forza della immaginazione che li
aveva messi al mondo.

Dopo, era uscita fuori _La Gioia_ preannunciando una trilogia, un
trittico narrativo, come oggi è di moda; e molte pagine di questo
nuovo romanzo raggiavano di lieta luce, sorridevano; e i personaggi di
esso, se mostravano ancora qualche rapporto di fratellanza (come no?)
con quelli di _Santamaura_, avevano aria di miglior salute, quantunque
meno robusti e anche meno attraenti di quegli altri, dotati di una
simpatica rustichezza, di una strana vigorìa di sentimenti che li
fissava nella memoria del lettore. In _La Gioia_ mancava infatti una
figura da poter stare in confronto col vecchio sognatore umanitario
Romolo Pieri a cui il misero villaggio di Santamaura deve la sua
trasformazione industriale; e il protagonista Vittorio Rodia che vuole
ricercare «soltanto nel proprio spirito il piacere della vita» perchè
è convinto che «dallo spirito nasca ogni desiderio e ogni visione di
felicità»; non vi fa intravvedere in che modo egli diventerà _Il
Signore della vita_ (seconda parte della trilogia) nè quali potranno
essere i risultati della sua esperienza negli _Ultimi giorni di
Vittorio Rodia_, terza parte della trilogia.

La chimera, che meglio si scorgeva proseguita in quei due primi
romanzi, era quella dello stile, con una preoccupazione insistente; un
po' chimera propria, un po' quella di un altro che già affascina
parecchi e toglie a molti giovani l'impronta della loro personalità.
Mentre però si scorgeva in _La Gioia_ uno sforzo, spesso vittorioso,
di liberarsi dalla malìa della chimera altrui per questo riguardo, vi
apparivano pure i segni della sopraffazione di un'altra chimera
appunto nel protagonista Vittorio Rodia, che richiamava spesso alla
mente l'Andrea Sperelli, il Tullio Hermil e il Claudio Cantelmo dei
noti romanzi del D'Annunzio.

Ma nè _Santamaura_, nè _La Gioia_ facevano sospettare, neppure in
rapido baleno, _La Verginità_ ultima arrivata.

Quando si tratta d'un ingegno non comune, com'è quello del Corradini,
non c'è da impaurirsi tanto pel suo avvenire. Io, per esempio, che ho
seguìto attentamente tutti i suoi passi, non temo che egli voglia
ripetere, all'inverso, tra noi, il caso letterario del Rod: non temo
di vederlo smarrire irrimediabilmente tra la nebbia dell'idealismo e
del simbolismo, non ostante che in _La Verginità_ egli abbia calcato
la mano o, meglio, si sia lasciato andare troppo oltre verso queste
due azzurre chimere che infestano il cielo dell'arte narrativa
odierna, proponendo ai giovani scrittori, come la mitica Sfinge,
enimmi insolubili o che paiono tali, e colpendoli fatalmente se non
riescono a risolverli.

Chi ben guarda, trova in _La Verginità_ l'ingrandimento,
l'esagerazione di certe tendenze manifestate dal Corradini nel suo
dramma _Dopo la morte_ e nei due romanzi citati. Ma mi sembra sia un
caso naturale, come il necessario germoglio di certe cattive erbe non
strappate da un campo, e riproducentisi con invadente vegetazione
maligna. Altre cattive erbe--e si scorge--il Corradini ha strappate,
impedendo loro di riprodursi in questa sua nuova opera di arte:
affettazioni di stile, imitazioni, forse irriflesse, di stile altrui,
eccessi d'immagini, eccessi di colorito inopportuno: ed è qualcosa. La
rinnovazione procede così, dall'esterno all'interno: dalla parola,
dalla frase, all'organismo dell'opera d'arte. Quando si vede che uno
scrittore caccia via dal suo stile quel che è falso, quel che è
inutile, e cerca di dare alla parola la limpidità, la trasparenza che
la riducano tutta una cosa col concetto, c'è da scommettere che
opererà lo stesso lavoro di rimonda, di semplicizzazione, di
_inveramento_, come direbbe il Vico, anche nell'organismo della sua
concezione. Perchè cancella una parola, e muta e rimuta una frase, e
le martella e le ripulisce fino a che non corrispondano a quelle che
devono essere? Senza dubbio, perchè comincia a convincersi che la
semplicità, la schiettezza, la sincerità sono le vere doti naturali
dello stile, e che la semplicità, la schiettezza, la sincerità
diventano, secondo il concetto, forza, colore, tutto.

Così avverrà a poco a poco coi suoi personaggi; li vorrà semplici,
schietti, sinceri, perchè non potrà più tollerare una stonatura tra
essi e la forma. E capirà che semplicità non significa povertà; nè
schiettezza e sincerità, ingenuità.

Attilio Palagonia, l'attrice Saveria ed Ercole Grabba, i tre
personaggi di _La Verginità_, appaiono creature complicate per effetto
d'una illusione di ottica d'arte. In se stessi sono, non solamente
semplici, ma dirò quasi poveri. Sono creature sensuali, voluttuose;
nient'altro. La complicazione la vuole e la ricerca l'autore a furia
di analisi, o meglio prestando ai suoi personaggi la sua ricchezza.
Per riempire il loro vuoto, ha dovuto ricorrere a mezzi di messa in
iscena, anzi di scenario che, se provano la sua abilità descrittiva,
scoprono maggiormente la deficienza delle sue creature. E che sforzo
per illudersi sul conto loro e illudere il lettore! Basterà leggere
gli splendidi capitoli _Nel sole_, _La passeggiata notturna_:
splendidi non tanto per quel che sono, quanto per quel che fanno
scorgere della forza artistica del loro autore. Attilio Palagonia,
Saveria, Ercole Grabba sembrano degli agitati, dei malati che non
scorgono più la realtà delle cose e dei sentimenti; ma la veggono
mostruosamente sviluppata per qualche infiammazione che, dopo avere
alterato i loro organi visivi, si sia comunicata alle loro menti.

Perchè mai Enrico Corradini, che ha creato Romolo Pieri, suo figlio
Mauro e la brutale campagna socialista di lui; che ha concepito e
delineato bravamente la spigliata figura di Natalia, le grottesche
sorelle Florimo, la sensibile Concettina Croce (cito a caso e di
memoria) nei due romanzi precedenti, qui, in _La Verginità_, ci ha
fatto intravedere soltanto a sbalzi qualcosa di umano, di non voluto,
di non troppo ricercato?

Ah, la Chimera, la Chimera!

Ed io ne capisco tutte le seduzioni e non mi sdegno e non ne faccio un
rimprovero alla giovinezza dell'autore.

Creare un'opera d'arte dove lo stile, i personaggi, la natura, le
sensazioni, i sentimenti, le idee siano, tutt'insieme, un'armonica
luce di bellezza; dove il reale e l'ideale si confondano e si
compenetrino talmente da far risultare la concezione artistica verità
materiale e simbolo in una!... Come resistere agli incanti di tale
Chimera?

Eppure io credo che Enrico Corradini resisterà. Sarebbe proprio una
disgrazia, se egli dovesse rimanere tra quelli che agonizzano a metà
di cammino, nella via dell'arte, prima di aver stretto fra le braccia
la forma sognata e adorata.

Nel paese della Chimera, che qui significa dell'idealismo, del
simbolismo, dell'_intuitivismo_, Edoardo Rod si era inoltrato più
arditamente e più spensieratamente di lui, e n'è tornato addietro sano
e salvo e più vigoroso e più forte. Non è male avventurarsi in questo
viaggio; qualcosa dell'ideale inseguito si trasfonde sempre nell'opera
d'arte, quando si possiede ingegno solido e ben organato. Per esempio,
quanta idealità, quanta serenità in quest'ultimo romanzo del Rod. _Le
ménage du Pasteur Naudié_! E quanta passione vibrante e profonda! Si
vede bene che la Chimera non è stata inseguita inutilmente.

E questo vorrei poter dire del Corradini e di un suo prossimo libro.



E. ROD--E. LESCA

(E. ROD, _Nouvelles études sur le XIX siècle_, Paris, Perrin, 1898--E.
LESCA, _Leggendo e annotando_, Roma, Loescher e C., 1898.)


Un libro di critica è spesso, oggi, un'opera d'arte.

L'autore non lo ha composto tranquillamente, di proposito, capitolo
per capitolo, col pensiero fisso a un'idea cardinale e intento a farne
risaltare la dimostrazione in pro o contro uno scrittore, una moda, un
genere letterario. Gli articoli che formano il volume sono usciti
fuori alla spicciolata, in occasioni diverse, con intervalli di anni
qualche volta, ma sotto la vivissima impressione di una lettura, di
una discussione: e ne portano l'impronta nel contenuto e nella forma.

L'autore ha avuto il buon senso di riprodurli in un volume quali
comparvero nelle colonne di un giornale o nelle pagine di una rivista.
Lo svolgimento di qualche soggetto sarà insufficiente; e fra un
articolo e l'altro ora si potrà scorgere qualche contraddizione che
indica come il pensiero dello scrittore abbia fatto cammino, e si sia
maturato nello spazio di tempo corso fra i due scritti: tanto meglio.
Il volume acquisterà, anche per queste insufficienze e contraddizioni,
un'aria di vita e di cosa d'arte, che le facili correzioni e le
aggiunte gli avrebbero tolto.

In Italia i volumi di critica letteraria sono assai rari, per ragioni
commerciali dipendenti da quelle della nostra cultura generale.
Bellissimi e interessantissimi articoli, che non hanno niente o assai
poco da invidiare agli scritti delle migliori rassegne estere,
rimangono sepolti nei fascicoli della _Nuova Antologia_ e delle altre
poche consimili riviste o nelle colonne di qualche giornale
quotidiano. I loro autori sono convinti che troverebbero difficilmente
un editore; e gli editori sanno per prova che questo genere di volumi
non va. Parecchi scrittori poi non mettono insieme, in uno o due anni,
tanto materiale da formare un volume. La critica letteraria non è una
funzione, o meglio una carriera tra noi: è una esercitazione casuale,
capriccio di un momento, spesso atto di compiacenza verso un autore,
concessione all'entusiasmo passeggero per un poeta o romanziere in
voga, per un principio d'arte che la moda mette in evidenza e che
interessa realmente con la sua elevatezza e con gli eccessi.

Non occorrono tutte le dita di una mano per segnare i nomi di coloro
che seguono, da critici competenti, il nostro movimento letterario e
ne notano, di tratto in tratto, i prodotti di qualunque natura e di
qualunque valore essi siano. E questi medesimi non sentono mai il
bisogno di rivolgersi addietro, di riprendere in esame la molteplice
produzione di uno scrittore, e riguardarla da un nuovo punto di vista,
e cavarne i segni caratteristici, o sviscerarne il concetto morale che
si nasconde sotto ogni opera d'arte.

Infatti, a quale scopo? La gente che legge appena l'opera d'arte o va
a sentirla a teatro, non leggerebbe quel che vorrebbe dirgli il
critico. L'interessamento di essa non passa oltre la buccia di un
certo pettegolezzo. Una discussione o un esame fatti con serietà la
seccherebbero.

E così avviene anche che il critico italiano, specialmente quello
d'occasione, non ha sempre ben sciolta la mano, non sa assumere quella
spigliata aria discorsiva che rende ordinariamente gli articoli
originali delle riviste e dei giornali esteri una specie di vivace
conversazione tra scrittore e lettore, dove il lettore ha il piacere
di star ad ascoltare e l'altro tutto l'interesse di rendersi parlatore
gradito.

Facevo queste riflessioni leggendo interpolatamente i due volumi
annunciati, uno francese e l'altro italiano; e mentre non mi sembrava
ambizioso il titolo del volume del Rod, avrei desiderato meno dimesso
quello del volume del giovane professore Lesca, quantunque corrisponda
benissimo alla natura degli scritti in esso raccolti, anzi appunto per
questo.

Gli studi del Rod sono quasi tutti riassuntivi. Non già che pretendano
di dire l'ultima parola intorno alla produzione, o al carattere di
essa, di autori che si chiamano A. Daudet, A. France, V. Hugo, E.
Hennequin, A. Fogazzaro. Per alcuni di questi, l'ultima parola oramai
spetta alla posterità; per altri non sarebbe possibile dirla,
trovandosi oggi nel vigore degli anni e nella piena maturità della
creazione.

Ma il loro autore, vi adopera tale sagacia, tale serenità da far
stimare che ben poco l'avvenire correggerà o cancellerà di parecchi
suoi giudizi, almeno nei punti più rilevanti. Per altri punti, dove
l'affetto esagera un po' l'ammirazione, come nello scritto intorno al
Daudet; dove la imparzialità coscienziosa del critico, la suggestione
artistica o intellettuale sentite leggendo, gli impediscono di
prendere un più risoluto atteggiamento, come a proposito di A. France;
dove il sentimento di amicizia e la compassione davanti alla tomba di
un giovine d'ingegno, morto a ventinove anni, gli ingrandiscono le
proporzioni del valore critico del povero E. Hennequin, annegato, per
congestione cerebrale, prendendo un bagno nella Senna; infine, dove,
ragionando del Fogazzaro romanziere e poeta, rimane più sur un terreno
di cortesia che di osservazione a fondo e di precisione di fatti; per
quest'altri punti, dico, le correzioni, le attenuazioni le va facendo
lo stesso lettore via via che procede di pagina in pagina senza
arrestarsi o stancarsi.

E infatti il minor merito di tal genere di scritti non è certamente la
muta, interiore discussione provocata durante la lettura; specialmente
quando uno scrittore come il Rod, alle funzioni di critico d'arte,
mescola con abilità quelle di moralista elevato.

Il volume del prof. Lesca, ripeto, risponde benissimo al titolo:
_Leggendo e annotando_. Certamente egli legge con molta attenzione,
annota con fine intelligenza, con garbo e qualche volta con vivace
arguzia: vedi lo scritto: _Un preteso dialogo di Torquato Tasso_.

Ma, sia un po' colpa dei soggetti, sia un po' qualche residuo non
potuto ancor vincere delle funzioni scolastiche dell'autore, mi sembra
che manchi appunto in questi scritti quella facile ma non superficiale
scorrevolezza, quell'agile eleganza di presentazione del soggetto,
senza perdersi in cose minute, ponendo subito in vista l'essenziale;
insomma quel che, _ddu tali nun-so-cchi_ (a lui che è stato in Sicilia
e ne parla anche in questo volume a proposito del Bazin, si può dirlo
col Meli) quel _che_ per cui l'articolo di critica assume senso e
forma di opera d'arte.

E non c'è nello stile del Lesca niente di ammanierato, di grave, di
pedantesco; soltanto il concetto non prende le ali, non tenta di
diventare qualcosa di organico, o di meno scucito che il semplice
annotare. Io avrei voluto vedere smentita la modestia del titolo del
suo volume; cosa che all'autore non sarebbe stata difficile volendo,
perchè ne dà un esempio nello scritto: _Foscolo Manzoni Leopardi_, a
proposito del libro dallo stesso titolo, di Arturo Graf; e avrebbe
potuto darne un altro esempio, parlando della _Sicile_ del Bazin;
tanto più che egli aveva ricordi personali da contrapporre o
aggiungere alle impressioni dello scrittore francese.

E a proposito di queste _annotazioni_, da uno che è vissuto qualche
anno in Sicilia, non mi attendevo generalizzazioni molto simili a
quelle da lui rimproverate al Bazin, o meraviglie e stupori davanti a
spettacoli di miseria o di poca nettezza, quasi essi fossero una
specialità della Sicilia e non se ne vedesse neppur l'ombra altrove,
nel continente italiano e fuori!

Egli descrive con gran compiacenza di particolari un misero albergo di
Giarre e la difficoltà di procurarsi un po' di carne e delle uova...
Ma forse questo avviene soltanto a Giarre, paesetto dove la ferrovia
ha ormai reso superflui gli alberghi che vi erano prima, quando esso
era punto di fermata del viaggio in diligenza o in carrozza fra
Catania e Messina?

Un giorno, anni fa, il Verga ed io pensammo di fare una bella
passeggiata e andare da Milano a Sesto. Ma non era domenica, e nei due
o tre ristoranti, che la domenica rigurgitavano di avventori, non
c'era anima viva. Chiesto invano da mangiare a due ristoranti
indicatici come migliori, dovemmo rassegnarci a ricorrere al terzo. Il
padrone ci guardò con aria così ansiosa, che ci lusingammo di essere
capitati bene. Il locale non era veramente di gran lusso, ma
decente.--C'è qualcosa di pronto?--Niente; tutto da farsi.--Allora,
spaghetti al pomidoro.--Oggi, cari signori? Impossibile!--Due
cotolette ai ferri; intanto un po' di salame, un po' di burro.--Il
padrone si grattava poco pulitamente la testa.--Insomma?...--Quel che
vogliono; ma, oggi...

E dovemmo contentarci di un po' di pane non fresco, di un po' di
gorgonzola o stracchino, non ricordo bene, e qualche mela. A Sesto! A
poche miglia da Milano! D'estate! Cioè, quando quel paesetto diventa
luogo di villeggiatura domenicale pei buoni ambrosiani che non possono
correre alle montagne o al mare!

Il Verga ed io ci contentammo di ridere, e di andare a desinare a quel
Biffi che avevamo voluto fuggire. E stia sicuro il prof. Lesca che,
nel caso che io avessi la tentazione di mettermi a scrivere le mie
memorie, non dirò--glielo giuro--che Sesto, nel 1889, era un posto
selvaggio, dove due viaggiatori potevano facilmente morire di fame!



VITTORIO PICA


Il suo ultimo libro s'intitola: _Letteratura di eccezione_; ed è
un'eccezione anche lui, l'autore, che si è formato una specialità
della critica letteraria ed artistica, senza mai invadere altri campi.
Per ciò è riuscito un critico che sa molto bene il suo mestiere, cosa
rara tra noi.

Si può anzi dire che un eccessivo scrupolo di coscienza lo abbia
indotto a limitare lo spazio dei suoi studi d'arte letteraria alla
sola letteratura francese contemporanea, e, in questa, particolarmente
alla produzione che ha lo spiccato carattere della ricerca del nuovo a
ogni costo e, appunto per tale smania, invece dell'originalità, trova
spesso la caricatura di essa, lo strano, l'assurdo. Giacchè si è
originali senza volerlo e quasi senza saperlo, per naturale
conformazione dell'ingegno, come si hanno quella fisonomia, quei
gesti, quel tono di voce, quei modi di sentire e di esprimersi che
costituiscono la individualità d'ogni creatura umana, e la distinguono
da tutte le altre. Questa originalità naturale, istintiva, organica,
non mostra nessuno sforzo, nessuna deliberata intenzione di voler
essere tale; non architetta anticipatamente teoriche che debbano
regolarla e giustificarla; si manifesta genialmente, vivendo,
operando, cioè producendo l'opera d'arte più conforme ai suoi mezzi di
creazione.

Di questo è convinto pure Vittorio Pica, e lo dà a vedere con la
moderazione dei suoi giudizii, anche quando la sua tormentata
curiosità gli fa preferire lo studio di quelle opere letterarie da lui
chiamate _di eccezione_, alterando un po' il significato di questo
vocabolo, e dandogli un senso di scusa indulgente.

Egli si lascia attrarre più volentieri da certi caratteri morbosi, da
certe mostruosità psicologiche o di forma, con le quali si rivelano in
ogni opera d'arte l'aspirazione a qualche cosa che esca dall'ordinario
e il faticoso vano processo per raggiungere quello scopo.

È simile a un medico che si compiace dei _bei_ casi di malattie
complicate, a un chirurgo che si entusiasma davanti a una _bella_
piaga purulenta e cancrenosa. Certamente, come nel medico, c'è in quel
compiacimento di lui il pensiero dell'opera d'arte sana e piena di
rigoglio; c'è, come nel chirurgo, l'idea sottintesa dell'abile
operazione che farà rimarginare quella piaga.

E per questo il lettore dei sei lunghi e minuziosi studii intorno al
Verlaine, al Mallarmé, al Barrès, al France, al Poictevin, al
Huysmans, gli perdona facilmente quel compiacimento e quell'entusiasmo
quasi inerenti all'ufficio di critico, come li perdona al medico e al
chirurgo in grazia della scienza della salute.

Senza l'entusiasmo ed il compiacimento del nuovo e dell'esotico, che
spinge il Pica a traverso la letteratura decadente francese e l'arte
dell'estremo Oriente, noi non avremmo questi studii letterari nè gli
altri intorno alla pittura moderna che ne formano il compimento,
ispirati e spinti come sono da identica intenzione verso le varie
ricerche di nuove forme e di nuovi processi, sia per mezzo della
parola, sia per mezzo del disegno e dei colori.

Qualcuno gli fa una colpa della sua preferenza per la letteratura
moderna francese. Dice:

--Se vuol trovare dei malati, dei cancrenosi, perchè non cercarli
anche fra noi? Mancano forse?

--Non mancano--potrebbe rispondere il Pica--ma sono malati di
contagio, di suggestione nevrotica. Io faccio come quei dottori che,
volendo studiare il colera, sono andati nell'India, per meglio
osservarlo nel paese dove l'infezione è di prima mano. I nostri
decadenti sono derivazioni, riflessi,--nella lirica, nel romanzo, nel
dramma--dei decadenti stranieri; e, al pari di tutti gli imitatori, se
hanno importato il morbo, ne hanno anche alterato il carattere,
esagerandone le qualità cattive, non mantenendo le buone, se di
qualità buone può parlarsi trattandosi di malattia. E le derivazioni,
le imitazioni, i riflessi non mi interessano punto.

Egli ha ragione. Nella stessa artificiosità dei decadenti francesi c'è
un che di spontaneo che la rende interessante; c'è, per lo meno, una
logica necessità di circostanze particolari che le danno
un'espressione di sincerità personale in ogni suo primo e valido
campione. Negli imitatori, no. Per ciò avviene che i primi, non
ostante le loro strane esagerazioni, lascino dietro a sè qualcosa che
sopravvive e che forse non sarebbe sopravvissuto senza la stranezza di
quelle esagerazioni. Lo ha notato il Pica, parlando dei Parnassiani.
Essi vollero esiliare a ogni costo la passione dalla poesia, tenersi
paurosamente lontani dal tumulto della vita contemporanea che ferveva
attorno a loro, dedicarsi esclusivamente al culto esagerato della
forma, fin a detrimento dell'idea; ed ebbero torto. Ma il loro
disinteressato e religioso amore per l'arte ha prodotto una perfezione
di fattura nel verso francese non mai raggiunta prima di oggi. La loro
voluta impassibilità davanti al dolore volgare

    _Qui pousse des cris importuns_

è sparita, come spariscono le esagerazioni di ogni sorta; le loro
conquiste tecniche sono, in gran parte, rimaste. Così Teofilo
Gauthier, Leconte de Lisle, il Banville non ci dicono più niente come
poeti, ma il verso francese non potrà mai più cancellare l'impronta
profonda segnatavi dalle loro abilissime mani. Così il Mallarmé sarà
per gli avvenire più incomprensibile che non sia ora pei suoi stessi
ammiratori, ma qualche lembo del suo sogno di esteta non è morto per
sempre con lui, e forse diverrà bellissima realtà domani, tradotto,
nel verso, nel romanzo, nel dramma, da uno che saprà dargli forma
organica e viva.

Ora io comprendo, in qualche modo, che possa applicarsi la qualifica
di letteratura di eccezione alla produzione del Verlaine e del
Mallarmè. L'eccezione, nella natura e per ciò anche nell'arte, è il
vigoroso sviluppo di certe qualità rimaste insignificanti o soffocate
negli esseri e nelle creature ordinarie; e questo sviluppo, nel
Verlaine e nel Mallarmè, sarebbe rappresentato dal senso vivissimo
della musicalità e del colorito della parola; dal bisogno del raro,
del raffinato, come oggi si dice; dal concetto della idealizzazione
della forma in maniera che possa essere simbolo anche essa di quel
gran sogno che noi chiamiamo stoltamente realtà. Non so comprendere
però per quali ragioni egli annoveri tra le opere letterarie di
eccezione quelle del Barrès, del Poictevin, del France e di Joris-Karl
Huysmans. In queste, la eccezione non riguarda la forma o almeno la
riguarda in parte secondaria: l'eccezione è nel concetto; pel Barrès,
nella teorica del culto dell'io: pel Poictevin, nello studio di ciò
che «vi ha di vago, di misterioso nell'intimità dell'anima, studio che
gli fa creare, non di rado (cito le parole del Pica) a bella posta,
delle complicazioni per poterle sbrogliare, delle difficoltà
per poterle superare, in modo da passare inconsapevolmente
dall'osservazione semplice e sincera ad una specie di arbitrario
acrobatismo metafisico;» pel France, «nell'egoistica civetteria
cerebrale di critico», nella ironia, nella scettica crudezza
dell'osservazione, nella continua propensione al paradosso, nello
spensierato dilettantismo filosofico; per l'Huysmans, infine, nella
irrequieta tristezza della coscienza religiosa.

Eccezioni di concetto, forse, certamente riflessi, derivazioni di
speculazioni filosofiche o di ipotesi scientifiche che pervadono le
intime fibre del pensiero moderno; ma eccezioni di arte letteraria in
che cosa mai?

È questo il solo appunto che si può fare al bel volume del Pica.

I sei studi, del resto, sono condotti con straordinaria accuratezza,
mescolando la biografia alla parte critica, con larghe e opportune
citazioni perchè i lettori abbiano anche essi sotto gli occhi qualche
documento da aiutarli a riscontrare le osservazioni e le affermazioni
del critico; fin con indicazioni bibliografiche da soddisfare quei
meticolosi che danno molta importanza a un'edizione, a una data.

Certe volte il suo entusiasmo lo trascina un po' oltre. Non nega, per
esempio, che il Mallarmè abbia spinto le circonvoluzioni del suo stile
fino alla più completa oscurità e che i suoi ammiratori abbiano torto
di ammirarlo là dove è più incomprensibile; ma le dubbie tenebre nelle
quali qualcosa si può intravedere lo seducono fortemente. E a
proposito del frammento del dramma o tragedia, _Erodiade_--l'unico
pezzo che il Mallarmè ne abbia scritto--il Pica ci rivela quella sua
debolezza pel raffinato, pel malato in arte a cui ho accennato da
principio.

«Intendo benissimo--egli dice--che, alla prima lettura di questo
frammento di poesia anche gli spiriti sottili e comprensivi (dei
mediocri e dommatici non è neppure il caso di parlare) debbono
rimanere un po' smarriti e debbono sentire una specie di ostilità
contro il linguaggio prezioso, le metafore strane, le imagini
arditissime di questo dialogo in versi, e sopra tutto contro la
generale intonazione sibillina; ma se lo _rileggeranno attentamente e
pazientemente_ (sottolineo io) si sentiranno a poco a poco conquidere
da un arcano fascino e si convinceranno che _anche quelli che a bella
prima paiono difetti_ (sottolineo ancora io) contribuiscono
possentemente al mirabile effetto totale» (p. 147).

In queste poche righe c'è intero il carattere del volume _Letteratura
di eccezione_ e c'è la immagine netta della fisonomia di critico
dell'autore.



ENRICO IBSEN

(_Gian Gabriele Borckman_, Dramma in 4 atti.)


Ha sessant'anni; e i capelli e la barba interamente incanutiti lo
faranno sembrare più vecchio che non sia. La catastrofe finanziaria
che lo ha buttato giù, trascinando nella rovina tanti altri che
avevano avuto fiducia in lui, lo ha reso--com'egli dice--_un Napoleone
storpiato da una palla nella sua prima battaglia_. Ma, dopo di aver
espiato la pena a cui è stato condannato, chiuso nelle stanze del
primo piano della sua casa, dove sua moglie non sale mai, dove va a
visitarlo, accompagnato dalla figlia giovanetta, soltanto un ingenuo
poeta--una delle moltissime vittime finanziarie di lui, e che pure gli
rimane fedele, ancora soggiogato dalla forza di quell'anima
indomita--Gian Gabriele Borckman, senza amici, senza famiglia, senza
niente, sogna intanto la rivincita, vive della grande illusione di
tornare ad essere più potente di prima.

--I miei nemici verranno qui, a prostrarsi ai miei piedi, a
supplicarmi di prender le redini della nuova banca, di quella banca
che essi hanno fondato e che sono incapaci di reggere!... Ed io li
riceverò ritto, con una mano appoggiata a questa scrivania... E
detterò i patti; ed essi li accetteranno, per forza, sì, per forza! Se
non fossi certo di questo, mi sarei già tirato un colpo di pistola da
un pezzo!

Egli parla così a un altro povero sognatore, a un poeta che spera
egualmente la sua rivincita in teatro. Borckman lo commisera, lo
compatisce. L'arte! Oh, si tratta di ben altro per lui! Creare dei
milioni, farli scaturire dalle miniere, dalle strade ferrate, dalle
forze idrauliche, dalle industrie, dai commerci per mare e per
terra... ecco il miracolo che egli avrebbe compiuto, se fosse stato
solo!...

Ma egli, il forte, ha avuto una debolezza: ha creduto nell'amicizia!

--C'è qualcosa al mondo peggiore dell'assassinio, del furto, del
giuramento falso: l'abuso di confidenza di un amico a danno d'un
amico!

--C'è un peccato imperdonabile--gli dirà, poco dopo, una
donna:--Quello che ha troncato la vita di amore in un essere umano!

Ed hanno ragione tutti e due.

Egli, uomo, guarda il mondo dal punto di vista della prosperità
sociale; e tutto quel che non ha stretta relazione con tale scopo gli
sembra inezia. Per colei, donna, niente dovrebbe prevalere sui
diritti del cuore!

E s'ingannano tutti e due!

Gian-Gabriele Borckman ed Ella Rentheim non sono due formole messe là
da Enrico Ibsen per dimostrare un concetto. Sono due personaggi vivi;
per ciò hanno ragione e nello stesso tempo s'ingannano.

Nella vita agiscono forze complesse. Un uomo può incarnare per qualche
tempo le aspirazioni di un popolo e guidarne i destini; ma vien l'ora
in cui il segreto della sua idea gli è tolto di mano. Altri lo metterà
in atto più vigorosamente di lui. Una donna può esercitare durante
qualche tempo una benefica influenza su la vita d'un uomo; ma arriva
pure il momento in cui questa influenza perde possa, per necessità
naturale, ed è sostituita da altre influenze più elevate o più
poderose.

Enrico Ibsen ha osservato questo terribile dramma della vita e lo ha
magistralmente rappresentato in quest'ultimo suo lavoro, mostrando
un'abilità di fattura che nelle precedenti sue opere non aveva
raggiunta.

Qualcuno vi ha visto una rinnegazione della sua _maniera_, un
regresso. Qui tutto è chiaro, evidente, vivente. Il concetto è
divenuto realtà. Nessuno dei personaggi discute; tutti sentono,
pensano, agiscono secondo il loro carattere, secondo le loro passioni,
le loro illusioni; e il dramma (stavo per dire, la tragedia con
l'antica fatalità) scaturisce violento dal cozzo dei caratteri, delle
passioni, delle illusioni, al pari che nella vita reale.

--Come! Niente simbolo?--gli è stato rimproverato.

--Ma io non sono mai stato o almeno non ho voluto mai essere un
simbolista alla vostra maniera--ha risposto il gran drammaturgo.--Noi
siamo tutti tanti simboli viventi. Obbediamo a leggi fisse, anche
quando crediamo di non assoggettarci a niente, all'infuori che alle
nostre passioni e ai nostri capricci. Rendere sensibili, visibili
queste leggi per mezzo di un'azione, di caratteri, di passioni, ecco
quel che io ho sempre inteso di fare. In questo senso soltanto sono,
forse, stato un simbolista.

Infatti che cosa ha egli osservato prima di scrivere il _Gian-Gabriele
Borckman_?

Ha visto un uomo assetato di potere, di ricchezza, che vuol
raggiungere un'alta cima di prosperità generale, smovendo, agitando,
guidando tante forze sparse, rimaste inefficaci e disperse prima della
sua potente iniziativa. Con lo sguardo fisso all'eccelsa mèta, egli
procede senza badare a quel che abbatte e calpesta nel suo cammino.
Opera come le grandi e cieche forze della natura. La morale, il
diritto, la legge, gli affetti, non debbono impacciarlo e impedirgli
di spingersi avanti. Egli sa di non dovere curarsi al presente, ma
occuparsi di creare l'avvenire; e sa che per creare deve distruggere.
Il vero torto di quest'uomo non consiste nel male che così fa agli
altri, ma nel non averlo fatto compiutamente, da solo. Egli ama una
donna, e la cede a un amico che l'ama ugualmente, pel motivo che
questi può essergli di valido aiuto nella sua vasta intrapresa. Il
sacrificio non gli giova. Se egli cede, non cede la donna, che ignora
il mercato. Colui crederà che il rifiuto di essa è opera segreta di
lui, e si vendicherà rovinando il preteso rivale col palesare il
segreto che ne avrebbe prodotto il gran trionfo.

Ha visto una donna, innamorata non ostante l'abbandono, che tenta di
salvare dalla rovina il figlio di colui che l'ha posposta, per
calcolo, alla sorella.... E questo giovane le sfugge, invischiato
dalle arti di una cattiva signora!

Ha visto una mamma che vorrebbe riabilitare nel figlio il nome del
padre insozzato da una condanna infamante; che tenta di educarlo in
modo da corrispondere a questo suo ideale, segregandolo fin dalla
compagnia di suo padre non volendo ch'egli, adottato dalla zia,
perdesse il nome che doveva rialzare: ha visto insomma una donna
chiusa, per questo, a qualunque altro affetto terreno... e che viene
schiacciata anche essa dalla violenza delle circostanze superiori al
suo potere.

Ha visto due altre creature affascinate da altri sogni: il poeta
Foldal, da un sogno d'arte; Frida Foldal, sua figlia, da un sogno di
ricchezza e di piaceri.

E vedendo e osservando, ha penetrato col suo acutissimo sguardo, fino
all'intimo fondo, quelle creature umane, là dove le leggi della vita
si rivelano nella loro fatale rigidità; ha veduto l'inanità degli
sforzi individuali nella lotta dell'esistenza, se le circostanze non
li favoriscono. Eppure il pensatore si è sentito invadere da profonda
e ammirativa simpatia per quelle creature dolorose, ognuna con la sua
croce, o con la sua illusione, che è tutt'una; e l'artista ha sentito
il bisogno di fissare le fuggevoli figure dalla realtà, spingendole
vive e palpitanti sul palcoscenico, perchè altri osservasse e
riflettesse come lui, perchè ognuno vi ritrovasse, per conto proprio,
qualcuno dei mille pensieri che si sono agitati nella mente di lui,
durante la gestazione creativa.

Ma questa volta egli ha voluto che le sue creature apparissero
compiutamente staccate dal suo pensiero, segnate dal suo marchio si
intende--come sarebbe stato possibile il contrario?--ma creature di
carne e di ossa, con la loro particolare fisonomia, coi loro gusti,
con la loro voce speciale, con le loro passioni, con le loro
debolezze, coi loro sogni, con le loro allucinazioni, e senza
l'impaccio di un preconcetto, di una tesi... o almeno con quel tanto
di tesi che è indispensabile sostrato di ogni opera d'arte.

Infatti egli diceva ultimamente al suo traduttore francese, conte
Prozor:

--L'importante, la cosa principale in un'opera teatrale è l'azione, la
vita. Il resto è accessorio.

--Per noi semplici mortali, non grandi artisti come lei--rispondeva il
Prozor--non sono cose accessorie le idee.

--Ma tutti scrivendo manifestano idee. Che cosa fanno dunque gli altri
autori drammatici?

La domanda manifesta l'ingenuità di un uomo di grandissimo ingegno.

Che cosa fanno?

Precisamente il contrario. Niente azione, niente vita. E così il
preteso lavoro drammatico si risolve in un noioso soliloquio
dell'autore... per bocca di parecchi personaggi.



DI UN'OPINIONE DI E. ZACCONI


A proposito della rappresentazione del _Gian-Gabriele Borckman_
dell'Ibsen è stata rammentata la risposta di Ermete Zacconi ai critici
tedeschi che lo accusavano di eccessivo verismo patologico negli
_Spettri_ dello stesso autore.

Confesso sinceramente che la ignoravo (non siamo obbligati di sapere
tutto) e aggiungo non meno sinceramente che essa mi sembra una
risposta sbagliata.

Se lo Zacconi si fosse contentato di dire soltanto:--L'Ibsen ha voluto
così quel personaggio di Osvaldo--e, ove gli fosse sembrato
necessario, si fosse spinto fino a dimostrarlo, la risposta sarebbe
stata degna di quel grande artista che egli è.

Invece si è compiaciuto di manifestare la sua particolare teorica
intorno all'interpretazione rappresentativa di certi lavori
drammatici, e si è lasciato scappar di bocca, o meglio, dalla penna,
un'incredibile enormità che contraddice quanto poco prima egli aveva
affermato.

Egli soggiunse (ripeto le sue parole su la fede altrui, ma non ho
nessuna ragione per sospettare che non siano riferite esattamente):

«Nella interpretazione dei capolavori dei sommi non bisogna arrestarsi
sempre davanti alla semplice opera d'arte. C'è il pensiero che va più
in là dell'arte. Così nell'Ibsen bisogna distinguere prima il
filosofo, poi il simbolista, e soltanto in ultimo l'artista. Egli è
grande per la forza del pensiero, non per la forza artistica».

Tradotto in parole più semplici e più chiare, questo significa: Vi
sono opere d'arte sbagliate, dove il concetto non è riuscito ad
assumere la forma che gli spettava. Le opere drammatiche dell'Ibsen
sono di questa categoria. Nella rappresentazione di esse si deve
quindi badare più al pensiero che alla forma...

In che modo, io sarei curiosissimo di apprenderlo dallo stesso
Zacconi.

Ho assistito più volte alla sua mirabile incarnazione nell'Osvaldo
degli _Spettri_, e non mi è parso di scorgervi quell'eccesso di
verismo patologico rimproveratogli dai critici tedeschi. Osvaldo è
malato moralmente e fisicamente; la sua intelligenza vagola in mezzo
alle nebbie incipienti della follia alcoolica ereditaria; la sua
lingua incespica, come le sue gambe che si risentono della debolezza
della spina dorsale. A poco a poco, quelle nebbie della mente si fanno
sempre più dense, il suo tormento è atroce; egli ha coscienza dello
stato in cui si trova; ha strappato al medico la verità. E negli
ultimi luccicori dello intelletto, rinfaccia alla madre quella vita
che gli è stata malamente data senza che egli l'avesse chiesta. Tutt'a
un tratto, chiude l'uscio a chiave; nessuno deve più uscire di là,
nessuno può più entrarvi!... La madre, spaventata, tenta di calmarlo.
Intanto spunta il sole e indora le cime delle montagne che si scorgono
dalla finestra aperta. Osvaldo, immobile su la seggiola, si è già
sperduto nella tenebra della pazzia.

--Mamma, dammi il sole!--balbetta.

E alle parole disperate della signora Alving ormai egli non saprà
rispondere più altro:--Il sole! Il sole!...--disfatto, ebete, con gli
occhi quasi spenti che guardano nel vuoto.

Dov'è qui il _pensiero che va più in là dell'arte_? Il concetto
dell'eredità è divenuto personaggio vivente. Osvaldo non discute una
teorica scientifica, la mostra. Così, più o meno, tutti gli altri
personaggi dei lavori drammatici dell'Ibsen. La stessa Nora delle
ultime scene di _Casa di bambola_ è, se vogliamo, una persona che
ragiona male, unilateralmente, ma forse per questo schiettamente donna
più di quel che non si creda.

In ogni modo, è strano che un attore faccia la distinzione di tre
Ibsen, uno filosofo, l'altro simbolista, il terzo l'artista, e dica
che questo è il meno a cui si deve badare.

L'Ibsen, al contrario, chiede di essere considerato principalmente
come artista. Per lui tutta l'opera drammatica consiste nell'azione,
nei caratteri. Se sotto quell'azione, sotto quei caratteri formicolano
idee, è naturale che sia così. Un'opera d'arte è un concetto astratto
materializzato nella forma.

Il dovere dell'attore è quindi soltanto quello di cooperare con essa
per mezzo di efficace interpretazione.

Certamente in questa interpretazione ogni attore dovrà dare, secondo
le sue facoltà, maggiore o minore rilievo ad alcuni particolari
caratteristici, ma non gli è lecito di spingere tale suo diritto fino
al punto di svisare, di disfare la concezione dello scrittore.

So che oggi cominciano a prevalere criteri diversi. Attori ed attrici
si credono liberi di abbandonarsi alla così detta _creazione_ del
personaggio, senza tenere gran conto delle precise intenzioni di chi
primamente lo ha messo al mondo. E mi sembra grave errore. L'opera
d'arte drammatica è esposta, per sua natura, a questo pericolo. La
deficienza di un attore o di un'attrice può influire sulla sua sorte
presso il pubblico, che spesso non è tanto colto e tanto avvisato da
distinguere il valore dell'opera d'arte da quello della
rappresentazione che essa riceve.

Così, per esempio, si è potuto vedere ad essere bene accolta dal
pubblico e dalla critica un'interpretazione che trasformava Margherita
Gautier quasi in personaggio simbolista. Bisognava invece indignarsi,
protestare.

In Francia, dove il senso dell'arte è meno corrotto, si è fatto
altrimenti. _La Dame aux Camélies_, dopo quasi cinquanta anni di vita,
è stata riputata un'opera di arte storica. Costumi, sentimenti, azione
sono parsi talmente lontani e dissimili dagli attuali, da far
comprendere la necessità di accordare ad essa il privilegio delle
opere classiche, cioè la riproduzione esatta coi costumi dell'epoca. E
si è venuto a questo lentamente, di mano in mano che certe stonature
col presente si sono rese più visibili. Anni addietro, quando il Dumas
viveva, per evitare il ridicolo al personaggio di Armando, si erano
dovute elevare le somme di denaro ch'egli spende per la sua amante.
Poi neppur questo piccolo ripiego è parso sufficiente. Armando sembra
un collegiale di fronte agli amanti nostri contemporanei: il padre di
Armando, un buon borghese; Margherita, un'ingenua in confronto delle
attuali _cocottes_ e orizzontali che invadono la società e quindi la
scena.

Bisognava dunque riportare la commedia nel suo ambiente; vestire gli
attori coi figurini dell'epoca; spogliare Margherita dei ricchi
costumi odierni, indossarle il modesto scialle di allora e il
cappellino a cuffia (non so se mi esprimo bene) che le ho veduto in
testa nei ritratti riprodotti in un interessante studio intorno a lei
e pubblicato, quattro o cinque anni addietro, nel _Livre_. E se ancora
Sarah Bernhardt non ha saputo sacrificare a questo scopo le sue
eleganti toelette, vuol dire che la vanità femminile è qualche volta
superiore anche al genio di una grande artista.

E stato notato che, per certi capolavori drammatici, arriva un'epoca
che potrebbe dirsi dell'_età ingrata_; stanno come a cavallo di due
fasi di vita civile, non a bastanza invecchiate da farle chiamare
antiche, nè a bastanza giovani da permettere di crederle del nostro
tempo. Durante questo spazio di anni esse perdono valore.

Ci vuole un pervertimento di senso artistico nell'attore, una
deplorevole mancanza di cultura nel pubblico per permettersi e per
applaudire una profanazione artistica come l'idealizzazione simbolica
della Margherita Gautier.

Vien naturale su le labbra la domanda: Chi crea il personaggio?
L'autore o l'attore? La risposta non può essere dubbia. E appunto
perchè la creazione vien fatta dall'autore, che ha le sue belle
ragioni di produrla nel tale e tal modo, l'obbligo dell'attore è
unicamente di renderlo quale quegli lo ha formato. Un personaggio è
simile a un individuo vivente; non può essere ridotto irriconoscibile
dal nevrotico capriccio di un attore o di un'attrice. Essi si mostrano
tanto più grandi, quanto meglio arrivano a riprodurlo in tutti i
minimi particolari quale l'autore lo ha concepito. L'individualità di
quel personaggio implica una serie di gesti, di espressioni del viso,
di inflessioni di voce, di rivelazione di sentimenti e di passioni che
non debbono poter essere confusi neppure con quelli di un altro
individuo che ha qualche apparente rassomiglianza con esso. Quanto
maggiormente l'attore riesce a rappresentare integra quella
personalità, e tanto più elevatamente fa opera di artista.

L'autore, scrivendo, ha la realtà di quel personaggio davanti agli
occhi; lo vede muoversi, gesticolare, ne sente la voce; per via di
questo sforzo di suggestione, arriva a immedesimarsi con esso, a
strappargli il segreto della sua vita. Ma, disgraziatamente, il potere
dello scrittore è limitato. Quando egli ha messo su la carta, per
esempio, un _Ah!_ non può andare più oltre. Quell'_Ah!_ gli è risonato
nell'orecchio con la sua precisa intonazione, che nella scrittura va
perduta; così tutte le inflessioni del dialogo. Spetta all'attore il
ritrovare nuovamente, a forza di studio, quell'intonazione, quelle
inflessioni e pure quegli atteggiamenti, quei gesti che lo scrittore
ha udito e visto scrivendo e che non ha potuto notare, come avrebbe
fatto un musicista. Quell'_Ah!_ in quel dato momento dell'azione, può
avere soltanto un'inflessione, perchè si tratta di una situazione
particolare, impossibile a ripetersi due volte. Bisogna trovare, a
ogni costo, quell'inflessione; non è lecito sostituirla con un'altra
che, alla men peggio, si riduce a un misero press'a poco. E quel che
accenno per le minutezze, vale maggiormente per la massa del carattere
e della stessa figura del personaggio.

Nel 1865, a Firenze, l'attore Samson della Commedia francese mi diceva
che in quel teatro non si rappresentava da quarant'anni il _Burbero
benefico_ del Goldoni perchè non c'era stato un attore, durante quel
tempo, che avesse _le phisique du rôle_. Scrupolo che può forse
sembrare eccessivo, e non è.

Tutto questo non mi ha allontanato troppo dal mio soggetto, cioè dalla
risposta di Ermete Zacconi ai critici berlinesi.

Dicendo che nell'Ibsen l'ultima cosa da considerarsi era l'artista,
Zacconi si dava la zappa sui piedi. Un lavoro teatrale dove la forma
sia l'ultima cosa da considerarsi, non è opera d'arte. E i critici
berlinesi avrebbero potuto soggiungere: Ma, in questo caso, è assurdo
che voi lo scegliate per rappresentarlo... o avete la grande superbia
di credervi capace d'infondere la vita in una cosa morta.

Invece Ermete Zacconi giudica male e razzola bene.

Era tanto più semplice e più esatto il dire:

--Io rappresento Osvaldo Alving così, perchè da ogni atto, da ogni
frase, da ogni parola di questo personaggio risulta che l'autore lo ha
voluto così! Ho fatto il mio dovere e nient'altro.



ASCENSIONI UMANE.

(Baldini e Castoldi editori, Milano 1898.)


Antonio Fogazzaro ha dato questo titolo a un volume dove ha raccolto
parecchi suoi scritti di origine diversa ma di unico soggetto:
discussioni, conferenze, polemiche riguardanti il problema
dell'origine dell'uomo e l'ipotesi darwiniana dell'evoluzione.

Cattolico, egli chiede libertà di discussione intorno a un argomento
pel quale la Chiesa non ha finora detto la sua assoluta parola. Uomo
colto, che tende l'orecchio alle discussioni degli scienziati e scorge
com'esse siano talora frantese dalle persone mezze ignoranti e per ciò
più presuntuose, egli vorrebbe persuadere quei mezzi ignoranti o
coloro che sentono vacillare la fede di fronte alle affermazioni
spesso premature della scienza, che tra la recente ipotesi
dell'evoluzione e le credenze della religione non vi è dissidio o
contradizione, almeno finchè il problema rimarrà nello stato presente.
Poeta, spiritualista, egli vuole esercitare il diritto di intervenire
nella quistione e di manifestare certe sue aspirazioni e farle
partecipare e infonderle agli altri, per contribuire, secondo le sue
forze, a quell'ascensione che ha tratto dal bruto l'uomo barbaro, dal
barbaro l'uomo cosciente e riflessivo, dall'uomo religioso e poeta il
filosofo e lo scienziato, e che trarrà da questi l'uomo spirituale,
spirituale anche di corpo, affrancato dagli impacci della materia e
ridotto veramente simile a Dio alla cui immagine e similitudine è
stato creato.

Innamorato della bellezza dell'idea di evoluzione che mette in pace la
sua coscienza di credente con l'altra di uomo moderno pel quale i
simboli della fede non bastano più (e uno dei suoi scritti s'intitola
infatti _Per la bellezza di un'idea_) egli si è imposto una specie di
apostolato, in cui si fondono insieme le sue facoltà di artista, le
sue convinzioni estetiche, le sue credenze religiose, la sua cultura
scientifica.

E se nella trattazione di un soggetto come questo tali diverse facoltà
e qualità potessero bastare, si dovrebbe dire che raramente un
apostolato sia stato intrapreso con maggior ricchezza di mezzi.

La profonda sincerità delle sue convinzioni religiose dovrebbe
rassicurare i credenti; la sua imparzialità nell'esporre le dottrine
degli avversari appagare coloro che ripongono tutta la loro fiducia
nella parola positiva della scienza; la sua elevazione di sentimento
poetico, trascinare infine coloro i quali, e sono la maggior parte,
piuttosto che discutere, amano abbandonarsi alla delizia dei voli
dell'immaginazione e facilmente penetrare in regioni che la fede non
illumina della sua luce e che la scienza sdegna di esplorare perchè le
stima proprio fuori del suo dominio.

Invece, io credo che questo volume sia destinato a non contentare
nessuno. Non sarebbe un gran difetto, perchè è molto difficile, come
dicono i nostri vicini, contentare _tout le monde et son père_. Credo
così perchè mi pare che manchi in tutta la trattazione variamente
ripresa un elemento importantissimo: l'elemento filosofico.

Un libro del Le Conte, professore di geologia nell'Università di
California--_L'evoluzione e le sue relazioni col pensiero
religioso_--una tesi del Grassmann, professore del seminario di
Freising, lo hanno spinto ad approfondire il concetto di S. Agostino e
di parecchi Padri della Chiesa intorno al gran problema delle origini;
ed egli è stato consolato dal vedere quanta larghezza di vedute,
quanta libertà d'interpretazione essi adoprassero nel distrigare
dall'involucro del simbolo un'opinione ragionevole, quasi scientifica.
Allora egli ha voluto conoscere fino a qual punto le affermazioni
della scienza, di quella che non è soltanto particolare convinzione di
alcuni scienziati, siano conformi alla natura di essa, o se
oltrepassino la sua competenza cedendo alle lusinghe di ridurre a
tesi ciò che avrebbe dovuto rassegnarsi a rimanere semplicemente una
ipotesi.

E quando si è sentito rassicurato della libertà d'interpretazione
reclamata anche oggi da alti ingegni cattolici, che non hanno
giudicato mettersi in contraddizione coi dommi della loro Chiesa
pensando liberamente sopra un argomento ancora lasciato aperto alle
ossequiose discussioni; e quando si è convinto che gli scienziati più
positivi non pretendono di dichiarare, come certi loro colleghi,
perfettamente dimostrata un'ipotesi che pure serve a risolvere molte
questioni di grandissima importanza per l'umanità, desiderosa di
credere e riflettere insiememente senza supina sottomissione e senza
orgogliosa ribellione, egli ha stimato che occorresse soltanto
l'intervenzione del poeta perchè il simbolo della fede,
transustanziato in affermazione scientifica, e aiutato dal calore e
dallo slancio della fantasia, si impossessasse di tutti i cuori e di
tutte le menti, e spingesse tutti a quell'ascensione dell'umanità che
le credenze religiose e la storia testificano e che la irrequietezza
delle nostre aspirazioni ci comprovano doversi ancora produrre
nell'avvenire.

Così, leggendo il suo volume, mi meravigliavo di trovarvi una lacuna
che la fede, la scienza positiva e la esaltazione poetica non possono
all'atto colmare. E rammentavo un libro di un pensatore italiano,
probabilmente dal Fogazzaro ignorato (e che io gli consiglio di
leggere) di uno scienziato che era religioso nel senso più elevato di
questa parola, sommamente positivo perchè non ignorava e non
disprezzava i metodi e le ricerche e le conquiste della scienza
contemporanea, e che infine era poeta--non nel piccolo senso oggi
accordato a questa denominazione, ma in quello vero e primitivo di
creatore, cioè di restauratore del processo ideale della Natura e di
profeta dell'avvenire.

È morto da pochi anni, e i suoi scritti parte sono rimasti quasi
ignorati, parte inediti e forse dispersi. Ma il _Dopo la laurea_, _Lo
Stato_, _I tipi vegetali_, _I tipi animali_, il frammento _Deus
creavit_ avranno un'eco nell'avvenire, e Camillo De Meis prenderà,
quando verrà il momento, una più larga influenza sul pensiero italiano
e su quello mondiale.

Pensavo appunto a quel _Dopo la laurea_ dove l'ascensione umana è
proclamata ben diversamente e più elevatamente che non venga fatta dal
Fogazzaro, con tutti i sussidi della fede che discute liberamente,
della scienza che non trascende oltre il suo limite, e della
riflessione filosofica che integra organizzando e compie ciò che la
fede e la scienza e anche la poesia, sono, tutte unite insieme,
incapaci di compire. E mi piace di qui trascrivere una pagina del
meraviglioso libro, nella quale il Fogazzaro riconoscerà--e se
n'intende--un anticipato altissimo senso di quella poesia a cui egli
tende e che vuole essere religione, scienza e riflessione filosofica
in uno. Eccola:

«Crescere, decadere e perire è il destino di tutti gli uomini, di
tutti gli animali, di tutte le piante--e diciamolo pure, di tutti i
sistemi planetarii. Questo cosmos ha i suoi giorni contati come gli
abbiamo noi che ne siamo gli endozoi; solamente che egli ha la vita
più dura, ed è più lungo il suo tempo e più lunga la sua durata
naturale: per cui, come la balena e l'elefante vivono più di un uomo e
un pino e una quercia vivono più d'un elefante, così lui, il cosmos--e
per cosmos intendi questo nostro sistema solare, viva più della
quercia e del pino--ecco tutta la differenza.

Ma quando il suo giorno fia giunto, esso perirà come uno di noi
uomini, come una pianta, come un animale: e non il nostro soltanto, ma
tutto questo gruppo di sistemi solari, gli uni formati, forse, e già
perfetti, gli altri ancora incompiuti e in via di formazione, che
compongono questo nostro sistema sidereo, se tant'è che formano un
sistema; e tutta questa natura che ci circonda, e quest'universo di
cui l'uomo è il compimento e l'ultima perfezione perirà come un sol
uomo; e forse dal seno dell'infinito un altro universo è già sorto e
gli germoglia allato un'altra natura, forse anche più perfetta di
questa, che la dovrà surrogare».

Intorno alla quistione che più particolarmente interessa il
Fogazzaro, il De Meis sin dal 1868 aveva scritto:

«Sì, certamente, l'uomo è il portato spontaneo dalla natura. Egli è la
spontanea generazione della terra; dalla quale certo non è nato
immediatamente in forma di uomo. Dalla terra, dal cosmo, che abitiamo,
in somma dal nostro sistema o uomo solare, non è nato che il primo
essere vivente, di cui l'uomo è l'ultimo sviluppo, la finale e
definitiva trasformazione... Ma non è l'accidente, non sono gli agenti
esterni casualmente combinati in un dato modo, che hanno dato origine
a quel primo essere, e l'hanno successivamente trasformato e cangiato
alla fine in un uomo; e voi, osservatori ridicoli, e impostori in
buona fede, perdete il vostro tempo a cercar di riprodurre quelle
combinazioni fisiche e chimiche, perchè quella è una chimica e una
fisica divina.

«Fra quegli agenti e quegli elementi ci è Dio in persona. È Dio che
prepara di lunga mano la combinazione: è lui che concentra la natura
in un punto e crea la vita: è lui che feconda la terra e ne fa uscire
le forme viventi originarie, similitudini imperfette e rozze della
idea divina, e germe della perfetta forma umana».

Il Fogazzaro si meraviglierà di scoprire che un professore di Storia
della Medicina nella Università di Bologna, abbia proclamato prima di
lui, con più calore di lui e con più competenza di lui--non se
n'offenda--e in nome della filosofia e della scienza l'opera di Dio
nella creazione. Solamente può darsi che il Dio del De Meis sia un po'
diverso dal Dio del Fogazzaro; ma il Fogazzaro non vorrà certamente
sostenere che l'idea ch'egli ha di Dio sia perfettamente identica a
quella che ne ha l'umile feminuccia quando lo invoca nelle preghiere.



TULLO MASSARANI

(_Diporti e Veglie_, 2ª. edizione, Milano, Hoepli 1898.

_Poesie scelte_ di Elisabetta Barrett Browning, versione libera,
Milano, Fratelli Treves 1898.)


La varia attività del senatore Tullo Massarani sembra voglia
dimostrare che gli anni non hanno nessun potere su lo spirito anche
quando il corpo è infermo. Per quanto non grave, la malattia a cui
egli accenna malinconicamente nella nobilissima epistola al Faldella
pel _Cinquantennio dello Statuto_, avrebbe dato ad altri plausibile
ragione di riposarsi.

Ma egli è così abituato a riposarsi mutando soltanto soggetto di
lavoro, che continua a fare come ha fatto prima, quando tra un severo
studio storico e l'altro, tra l'assidua frequenza alle sedute del
Senato, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale, ha trovato
modo di mandar fuori la traduzione del _Libro di Giada_, le popolari
_Conversazioni del Dott. Lorenzo_ i canti della _Odissea della Donna_,
illustrati da molti suoi disegni; dare a giornali e riviste gran
numero di articoli non brevi e tutti coscienziosamente meditati nella
sostanza e nella forma; e, quasi per svago, mettersi a tradurre una
scelta di poesie della poetessa inglese Elisabetta Barrett Browning,
impresa che, per le tante difficoltà che presenta, avrebbe scoraggiato
l'ardimento di un giovane.

Bisogna proprio credere che gli uomini della generazione del '48 erano
fatti di altra pasta. Dice un proverbio siciliano: _lu bon vinu finu a
la fezza: lu bon pannu, finu a la pezza_; ed è verissimo. Avevano un
grande ideale, la Patria, e questo li rende ancora vigorosi e forti
tra i disinganni e i pericoli; sentivano altamente la dignità della
libertà individuale, e questo apre il loro animo a tutte le
ragionevoli aspirazioni sociali.

       Se più acconcie forme
    Fia che rivesta e più discrete quella
    Che pur nei cuori e nell'istoria vive
    Carità di fratelli, e di rinforzo
    Le sia l'oprar comune, e il mutuo aiuto
    A augmento e vigor, ben venga, amico
    Ogni primizia, ogni disegno, ogni arte,
    Che uomo a uomo ravvicini, e il fosso,
    Da Pluto re scavato in mezzo, colmi![8]

Augurio caldo e sincero, che non impedisce al Massarani di veder
chiaro nell'avvenire, di paventare che

    sulle spente libertà si assida
    Sovrano e universale archimandrita
    Il peggior d'ogni autocrata, lo Stato.

Ma io non voglio ragionare di politica, e perciò non farò cenno di uno
dei più bei scritti dal Massarani nel volume _Diporti e veglie_,
intitolato: _L'utopia della Pace_ che finisce con un voto alla
fraternità di quella che Cicerone, da lui citato, chiama la _infinita
societas generis humani_.

In questa seconda edizione, il volume è stato arricchito di nuovi
scritti di diversa natura: _Josè Espronzeda_, _Pagine del martirologio
nazionale_, _In Calabria_, _San Marino_, _Un raro cimelio_ (che è il
libro _L'Italia_ del Tommaseo), _La seconda Mostra mondiale di Belle
Arti in Venezia_, _L'Ulisse dantesco_. E già bastavano a dargli molto
valore quelli soltanto raccoltivi prima. Dopo la varietà anzi
disparità dei soggetti che confermano la soda e riposta cultura
dell'autore; dopo quella viva fiamma di entusiasmo che investe ogni
pagina, sia che egli si trovi dinanzi alle lettere di Giordano Bruno;
alle tele di un pittore moderno, l'Induno; alle opere di Leone e
Pompeo Leoni, padre e figlio, scultori del secolo XVI; e alla
ricchezza d'arte internazionale accorsa a far mostra di sè nella
splendida città della Laguna; o sia ch'egli si fermi qua e là, a
Verona, a San Giulio sul lago d'Orta, davanti al palazzo Marino, egli
che chiama i patrii monumenti: _il primo, il più eloquente, il più
solenne e più legittimo testimonio della nostra storia e della nostra
grandezza_ (pag. 203); dopo tutto questo, impressiona maggiormente nei
diversi scritti l'aria di buon senso pratico che li rende simpatici,
l'accento fervido e persuasivo, la schiettezza e la franchezza di
certe confessioni; insomma quella bonomia cortese e gentile, che
giunge talvolta fino a far sembrare un po' troppo grave la forma
cesellata e raffinata che la riveste. E di tutti questi scritti citerò
una sola mezza pagina in conferma di quel che ho detto. A proposito
dell'_Arte nella società moderna_ egli ha il coraggio di scrivere:

«Piuttosto rozzi e poveri, che veder rovinare la patria per esserle
mancato, come dice il Macchiavelli, _una cosa sola, il provvedersi
bene dell'arme...._»

Ma il Massarani non è artista per niente, e poco appresso soggiunge:

«Io mi ricordo, per parlare ancora dei tempi andati d'aver visto ogni
giorno su per le scale degli Uffici di Firenze, la cacciatora di
frustagno dell'artigiano o del contadino, e i larghi cappelloni di
paglia delle loro donne; e d'avere udito, davanti ai capolavori della
Tribuna, fior di giudizi da quegli ingenui compaesani del capraio che
aveva nome Giotto, del pecoraio che si chiamò il Baccafuni, e del
vaccaro che fu Andrea del Castagno.

«Spesso invece, nè mai senza una giaculatoria secondo la mia
intenzione, mi rompo gli stinchi, nei vestiboli delle Pinacoteche e
dei Musei, in quello strumento di supplizio che non ha nome italiano,
e che chiamano il tornichetto. E perchè di questa guisa, tormentando
pazienza e tasche, cogli spiccioli del forestiero più spesso che non
coi fogliolini sudici del concittadino, i sopracciò vengono poi
comperando a lor volta degli spiccioli di pittura e di scoltura,
credono o dicono d'incoraggiare le arti. Povere arti, che vivacchiano
su l'ostracismo del popolo, a cui si predica educazione e si sottrae
di tutti i magisteri educativi il più gentile, il più gradevole, il
più potente sulle fibre del cervello e del cuore!»

Nel presentare al pubblico la presente raccolta, egli si augurava che,
capitando a qualcuno fra mano, quegli scritti inducessero i giovani a
pensare di cavar dalla vita un costrutto migliore; i vecchi, a
compatire chi ha tentato di allegerirne a sè il peso senza altro danno
del prossimo. Modeste parole, che faranno sorridere tutti coloro che
dalla lettura di essi saranno usciti con qualcosa di più
nell'intelletto, con qualcosa di meglio nel cuore.

                              *
                             * *

Lo studio intorno a Enrico Heine, pubblicato dal Massarani molti anni
fa, quando del lirico tedesco si conosceva in Italia poco più del
nome, non ostante il tempo e le circostanze in cui fu scritto, è
rimasto uno studio diffinitivo. Così la introduzione alle poesie
scelte della Browning, intitolata _La donna e la poetessa_, rimarrà
pure uno studio definitivo di quest'anima poetica che amò tanto
l'Italia.

Se la signora Zampini-Salazar, che ha dedicato alla Browning e al
marito di lei una serie di belle conferenze per diffonderne il culto
in Italia, gli ha messo addosso una gran voglia di conoscerli più da
vicino, il Massarani non si è arrestato alla lettura delle loro sole
opere poetiche: ha consultato i lavori biografici pubblicati dalla
signora Sutherland Orr, dall'Ingram, dalla signora Vilson, e tutta la
vasta congenie di pubblicazioni browninghiane da cui è stata inondata
l'Inghilterra; che è quanto dire ch'egli si è messo in caso di
trattare il suo soggetto con la competenza del più fanatico
browninghiano, senza il suo fanatismo si intende, e non senza quella
abituale galanteria, per cui preferirà, per esempio, la data del 1809
a quella del 1806 parlando della nascita della Browning, data che
gliela _figura più giovane_.

Così, accennando al poemetto _Gli Adoratori di Donna Giraldina_, e non
volendo tacerne i difetti, metterà il giudizio in bocca dei lettori.
«Questa storia di Donna Giraldina, temo che mi direte, è un po'
lunghetta, e non è sempre verosimile». Aggiungerà però subito: «Ma che
sia viva e forte e audace, spero che me lo vorrete concedere». Di
altre leggende dirà francamente e che mostrano troppo la intenzione
didattica o ascetica, e che sono un poco offuscate dalla maniera
ultra romantica del tempo; ma non saprà arrestarsi di soggiungere: «A
me, lo confesso, queste romanticherie tornano ancora, per amore dei
ricordi, bene accette, come quelle del Prati e del Carrer, a cui tanto
somigliano.»

Per questi sentimenti egli si trova più a contatto con l'opera da
tradurre, e potrà essere traduttore libero quanto è possibile e quanto
le diverse indoli delle due lingue richiedono.

A prima vista, senza avere il testo sotto gli occhi e senza conoscere
altri tentativi di traduzione, a coloro che conoscono bene lo stile e
dirò anche la maniera del Massarani, la lettura del volumetto
elegantemente stampato dai Treves fa sospettare che il traduttore
abbia interpretato con troppa larghezza la concessione di certe
libertà consentite ai traduttori di opere poetiche. Ed io sono stato
tra questi sospettatori: ma ho dovuto ricredermi. Senza dubbio, il
Massarani ha dato (e poteva fare altrimenti?) l'impronta sua
caratteristica alla forma della Browning. Il concetto della poetessa,
passando a traverso la mente del traduttore, si è qua accorciato, là
disteso; qua ha preso un'aria di persona agghindata, là di persona che
si lascia un po' andare; se però si guarda bene, dovrà convenirsi che
tra le torture del metro e delle strofe, non ha mai perduto molto e
qualche volta anzi ha guadagnato in chiarezza. Lo dimostrerò con pochi
esempi.

Questa traduzione in prosa di due quartine del VI di quei sonetti che
narrano la storia del felice amore della Barrett col Browning, io la
tolgo in prestito dal libro della signora Zampini-Salazar.

      «Lasciami! Eppure io sento che resterò da oggi innanzi
      sempre nell'orbita tua. Mai più sola sull'uscio della porta
      della mia esistenza individuale, potrò ordinare la vita
      dell'anima mia, nè alzare lo sguardo serenamente ai raggi
      del sole, come prima, senza risentire tutto ciò che io
      provai quando nella mia tu posasti la tua mano.»

E il Massarani:

      Vanne, deh vanne. Ma nell'ombra tua
    Sento che quind'innanzi io saprò sempre:
    Non fora mai che l'ignorata prua
    Ad altronda si volga e non s'insempre
      Con quest'una che invan volle esser sua:
    Arbitra io non son più delle mie tempre,
    Ch'ogni pensiero, ogni voler s'indua,
    E di desìo la man par che si stempre.

E dal XX sonetto, la signora Zampini-Salazar.

      «Amato, mio ben amato, quando io penso che tu eri al mondo
      un anno fa, mentre qui sola io sedevo, senza scorgere orma
      di passi su la neve!»

E il Massarani:

      Diletto mio, diletto mio, se penso
    Ch'eri nel mondo ora fa proprio un anno
    E ch'io, 'l piè nella neve e in cor l'affanno,
    Non isperavo a' mali miei compenso!

Dai due esempi si scorge bene il processo con tutti i suoi pregi e i
suoi difetti; ma da quest'altro che riporterò si scorgerà anche con
quanta bravura il Massarani superi certe difficoltà dei metri con cui
ha voluto spesso rendere esattamente i metri originali. Prendo a caso
due strofe del poemetto _Pan è morto_, e traduco letteralmente:

      «Queta, in antico, la barca andava innanzi--quando un grido
      più forte del vento--salì, ingrossò, e corse verso il
      sole--e il sole si nascose e si fece pallido--dal buio pesto
      di dietro--soffiatogli incontro dal gran lamento:--Pan, Pan
      è morto!

      «E i rematori dai banchi--si ritrassero, ciascuno
      abbrividendo in volto--mentre partenti influssi--spargevano
      addietro un freddo attraverso il luogo--e l'ombra della
      barca--vacillava lungo l'immota profondità:--Pan, Pan è
      morto!»

Ed ecco con che sveltezza e con che fedeltà rende il resto il
Massarani.

    Queto un naviglio un giorno
      Se n'gìa, lorchè d'intorno
    Voce suonar s'udì.
      Salìa, salìa più forte,
    Movea al Sol dal norte,
      Moveva d'in fra le tenebre
    Dal cupo al chiaro dì:
      Il sol si fece pallido
    A quel messaggio squallido,
      Che «Pan--dicea--morì.
        È morto Pan, è morto
        È morto, è morto, è morto,»
    I remator sospesero
      Sul banco i remi, e intesero
    Un soffio a trapassar,
      Un soffio che mortale
    Parea sovresso l'ale
      Al fronte che n'abbrivida
    Rancura apparecchiar.
      Ed il naviglio intanto
    Scorreva, e in suon di pianto
      L'onda parea solcar.
        «È morto Pan, è morto,
        È morto, è morto, è morto!»

Il Massarani ha voluto darci un saggio di tutti i generi poetici
minori, tentati più o meno felicemente dalla poetessa inglese; e
coloro che non possono accostarsi al testo gliene debbono essere
grati, perchè così potranno formarsi un'idea quasi completa del
carattere di essi.

Per noi italiani è quasi un debito non ignorare almeno le cose
minori--che non sono poi le meno belle--di una inglese che fu italiana
di elezione e che ha cantato le speranze, le gioie, i dolori del
nostro risorgimento nei componimenti _Napoleone III in Italia_, _Prime
nuove da Villafranca_, _Commiato fra amanti_, e in _Poetessa e madre_;
di una inglese che, annunciando la morte di Cavour, scriveva: «Posso
appena comandare alla voce ed alla mano di nominarlo. La grand'anima,
che ha meditato e fatto l'Italia, è passata a più divina contrada. Se
lagrime di sangue avessero potuto salvarlo, egli avrebbe avuto le
mie.»



E. DE AMICIS E F. MARTINI.


Si parla molto di tutti e due in questi giorni.

Nella maturità del suo ingegno, nella pienezza della sua fama, Edmondo
De Amicis dà un nobile esempio di onestà letteraria rifiutando di
accettare l'elezione a deputato del primo collegio di Torino. La
politica gli fa paura; egli vuole restare quel che è stato finora, uno
scrittore, un artista. Non bisogna prendere alla lettera le ragioni
del rifiuto da lui addotte. Possono mancargli, sì, alcune delle
facoltà richieste dall'ufficio di deputato; ma parecchie non sarebbe
stato difficile acquistarle, e in poco tempo, a un uomo come lui. Le
hanno già acquistate persone che avevano cultura e ingegno assai meno
di lui, e che non le esercitano certamente con l'efficacia che a lui
avrebbero consentita e l'autorità del nome e la sincerità delle
convinzioni. Le lotte? Egli non le ha sfuggite. Attorno al suo nome,
al suo valor di scrittore c'è sempre stato un accanimento di lodi e
di biasimi che non lo ha mai turbato, che non lo ha fatto
indietreggiare nè deviare. Quando la sua sentimentalità, tante volte
rinfacciatagli, si è convertita a un alto ideale sociale, egli ha
coraggiosamente affrontato il giudizio dei suoi ammiratori e dei suoi
avversari. Nell'entusiasmo di neofita, avea promesso un libro intorno
ai nuovi ideali da cui era stato commosso il suo cuore e attratta la
sua mente. Non lo ha scritto? O non ha voluto pubblicarlo perchè la
sua coscienza di scrittore non n'è rimasta contenta? Io non lo so; ma
questo non significa niente, o significa una probità letteraria degna
di grandissima lode.

In ogni modo, più che altro, la sua lettera agli elettori socialisti
del 1º collegio di Torino e a quelli non socialisti che hanno votato
in favore di lui _per semplice sentimento di benevolenza_, com'egli
dice, significa che egli crede di poter servire meglio la causa del
socialismo restando scrittore e nient'altro.

Nessuno può oggi decidere se il De Amicis abbia ragione, e se il suo
convincimento sia una lusinga. Quando il libro promesso--trattato di
volgarizzazione o opera d'arte--verrà fuori, allora sarà il caso di
discutere, di vedere se egli si sia ingannato o no. Dovesse anche
risultare da questi futuri suoi lavori che egli ha preso un abbaglio,
la onestà e l'elevatezza delle sue intenzioni non ne sarà diminuita.

Scrittore ed artista, Edmondo De Amicis può essere diversamente
apprezzato. Gli eccessivi lo stimano poco come scrittore, pochissimo
come artista. I suoi _Bozzetti militari_, le sue novelle, i suoi
ultimi romanzi scolastici--osservano gli eccessivi--sono opere d'arte
fiacche o abortite; le sue descrizioni di viaggi, fantasmagorie che
corrispondono poco o niente alla realtà; il suo tentativo psicologico
degli _Amici_, un opprimente cumulo di osservazioni o non nuove o
comuni. I suoi versi... Dei versi del De Amicis gli eccessivi non
vogliono nemmeno parlare, quasi ne sentano nausea. L'editore delle
opere di lui ha una risposta trionfale: il copioso numero delle
edizioni, le traduzioni di esse in tutte le lingue europee. Nessuno
scrittore italiano contemporaneo ha ottenuto finora così splendido
successo di ristampe. _Cuore_ è arrivato, credo, al duecentesimo
migliaio.

Certamente il numero delle edizioni non è un elemento di giudizio da
trascurarsi. Libri che trovano così straordinaria folla di lettori
debbono aver qualità tali da far anche perdonare facilmente i difetti
ch'essi hanno. La semplicità, l'efficacia della forma, una leggera
nervosità di quando in quando, l'assoluta trasparenza dello stile che
rende subito assimilabile il concetto, non sono doti comuni e
spregevoli a questi lumi di luna tra noi. E quando la sincerità del
sentimento si aggiunge alla sincerità della forma, e stabilisce una
corrente di simpatia tra lo scrittore e il lettore, non è il caso di
fare i difficili, gli scontenti.

A me, per esempio, la troppa sentimentalità non piace affatto; mi
sembra un falso modo di sentire e di vedere le cose. Eppure a me è
accaduto di essere commosso e di vedermi improvvisamente inumidire gli
occhi alla lettura di qualcuna delle scene militari descritte dal De
Amicis. Sorgeva dentro di me una specie di lotta tra il raziocinio che
giudicava e il sentimento che veniva eccitato. Mi sdegnavo di essermi
lasciato quasi prendere alla sprovveduta, ma non potevo negare
l'effetto ottenuto dallo scrittore, l'effetto a cui egli mirava.

Ora questa sentimentalità, di cui lo stesso De Amicis, se non mi
inganno, ha sorriso in un suo componimento poetico, sarà un difetto
spinta tropp'oltre come spesso gli avviene, ma è una qualità preziosa
che molti debbono invidiargli.

Se egli dunque vuol rimanere scrittore e artista, cioè esercitare col
mezzo che crede più adatto alle sue facoltà un'influenza qualunque sul
pubblico che lo legge, che lo segue, che lo ammira anche con tutti i
suoi difetti, io gli batto le mani.

La politica è fatale all'arte, è troppo assorbente. Quel che essa
richiede dai suoi adepti, dai suoi cultori, ha poco o niente da
spartire coi mezzi di cui dispone l'artista. La sentimentalità, che
può essere anche un pregio in arte, è spesso in politica, più che un
difetto, una colpa. Per ciò poeti, romanzieri, drammaturghi sono
apparsi sempre spostati nell'aula parlamentare. E vi hanno fatto udire
raramente la loro voce, o non hanno prodotto nessun notevole effetto.
Al D'Annunzio, per esempio, la politica non ha ispirato finora altro
che una splendida stonatura di stile che ha dovuto far strabiliare
moltissimi dei suoi elettori, e una corrispondenza in un giornale
americano intorno ai fatti del maggio 1898, che ha mosso a riso e a
sdegno anche coloro che gli vogliono più bene.

Senza dubbio, il nostro Parlamento dev'essere onorato di veder sedere
nei suoi stalli un D'Annunzio, un Panzacchi, come il Senato un
Carducci; ma più a ornamento che ad altro. O deve rassegnarsi a veder
sparire l'artista davanti all'attività e alla giusta ambizione del
deputato. È il caso di Ferdinando Martini, governatore dell'Eritrea.

Ahimè! I giornali, che ne annunziano il felice ritorno in Italia, ci
parlano del bilancio della colonia da lui preparato, commettono
indiscrezioni intorno ai progetti di lui per assestare definitivamente
l'amministrazione civile di quei nostri possessi, ma non ci dànno
nello stesso tempo notizia di nessun nuovo libro che il Martini abbia
scritto o ideato di scrivere. La sua trasformazione è mirabile. Con
poco, il brillante articolista del _Fanfulla della domenica_ è
divenuto uno dei più affascinanti e più seri oratori. Il critico
arguto e coscienzioso si è mutato in politico ricco della stessa
finezza, dello stesso buon senso e della stessa competenza adoprata in
soggetti di arte drammatica. Il facile ed elegante narratore di
_Peccato e Penitenza_ ha adoperato ugualmente nel suo libro
_L'Affrica_ tutte le meravigliose sue qualità di statista e di
colorista rese ancora più splendide e più solide... Ma l'arte ormai lo
ha perduto. Egli, evidentemente, si allontana a malincuore della meta
a cui miravano i begli entusiasmi della sua giovinezza; di tratto in
tratto si ferma, si rivolge indietro, ma ormai... l'Affrica, la sua
Affrica, se lo è preso, e non ci renderà più il Martini di una volta.

L'Italia avrà trovato probabilmente in lui un amministratore coloniale
eccellente; ma, cercando bene, amministratori di ugual valore si
sarebbero potuti trovare o creare. Un giorno, in Parlamento, o nel
Consiglio dei ministri, Ferdinando Martini sarà una gran forza per
l'esperienza amministrativa acquistata, per la maturità dei suoi
consigli, per la bontà dei suoi progetti... Ma nessuno potrà togliermi
di capo che altri avrebbero potuto fare, più o meno bene, quel che
egli è andato a fare laggiù; ma nessuno vorrà affermare che non sia
stato un gran peccato che Ferdinando Martini, il brillante articolista
del _Fanfulla della Domenica_, il critico arguto e sensato, abbia
sacrificato alla politica meravigliosi doni letterari che tutti
dobbiamo rimpiangere.

E, mentre scrivo, mi passano davanti agli occhi, come in turbinosa
fantasmagoria, i bei giorni di Firenze, quando egli giovane, biondo,
pieno di entusiasmi per l'arte, riempiva con lo scintillìo della sua
parola il _foyer_ del teatro _Niccolini_; quando niente faceva
prevedere che all'autore di _Fede_ e dei proverbi drammatici, lavori
con cui egli faceva allora le sue prime prove di artista, dovessi io
dare il saluto di ben arrivato da Massaua con queste malinconiche
parole.



LA NEVROSI ARTISTICA.


                                                      A RASTIGNAC:


Il tuo benevolissimo giudizio intorno al mio racconto _Scurpiddu_ non
mi ha fatto piacere soltanto perchè lusinga grandemente il mio amor
proprio, ma perchè dà una soddisfacente risposta al dubbio che mi
tormenta da un pezzo: Se noi siamo oggi condannati anche in arte alla
nevrosi del concetto e della forma.

Ci ripensavo tristamente giorni fa, leggendo un recente romanzo
italiano che avrebbe potuto essere un bel libro se non fosse stato,
fra le altre cose, troppo prolisso. E durante la lettura, ricordando
certe violente tirate di uno scrittore francese contro la letteratura
odierna già parsemi eccessive, sentivo infiltrarmi nella mente il
sospetto che fossi stato eccessivo pure io giudicandole tali.

«Noi manchiamo, egli dice conchiudendo, della serenità che rende
incantevoli i classici. La nostra forma ha la febbre, la nostra
ispirazione somiglia alla demenza. Nessuno tra noi raggiunge la
bellezza: lo sforzo e l'entusiasmo non bastano a questo: occorre la
calma che è la virtù delle anime forti. Le nostre idee, invece,
scoppiano tumultuose; si direbbe che provengano dai sensi non dallo
spirito. Lo stile che le riveste mostra il suo peccato di origine: non
ha calore, nè limpidezza, nè splendore: ribolle, fa la schiuma, è
torbido. È frutto del disordine della concezione, quando niente è
chiaro, niente al suo posto. Felici quelle età che ignoravano questa
precipitazione e questa febbre. L'artista allora contemplava a lungo
le sue idee, le penetrava, le animava, e quando si accingeva ad
esprimerle, le rivestiva di luce, di serenità, e l'anima del lettore
vi beveva a lunghi sorsi il ristoro e la gioia.»

Raramente, bisogna confessarlo, questo ristoro e questa gioia vengono
sentite leggendo un libro d'arte moderna.

I fisiologi o i psicologi hanno proclamato che oggi noi siamo tutti
malati di nevrosi; gli artisti non hanno inteso a sordo, e, dalla
vita, hanno trasportato la nevrosi nell'opera d'arte. Dovevano in
qualche modo, aggiungo io, fare così. Ogni periodo letterario è una
involontaria pubblica confessione della società che lo produce. Ogni
opera d'arte, dramma, commedia, lirica, romanzo, una specie di
processo verbale dei sentimenti, delle idee che rendono affatto
diversa una società da quella che l'ha preceduta e da cui è nata.

È impossibile che l'opera d'arte si astragga dal suo tempo, s'isoli,
parli un linguaggio che differisce dal linguaggio usato da tutti;
corre pericolo di non essere intesa, di riuscire ridicola.

Ma in questo, però, c'è modo e modo. Anche lo spirito ha le sue fogge
strane, i suoi capricci passeggeri. L'artista non è davvero artista se
non sa distinguere tali caratteri e scegliere. Questo è il punto per
cui i classici dovrebbero rimanere sempre nostri ascoltati maestri.

Essi sono di tutti i tempi, di tutte le nazioni. Ma, indiani, greci,
latini, italiani, francesi, inglesi, tedeschi, anche oggi si fanno
intendere, ci entusiasmano, ci commuovono pur esprimendo sentimenti e
concetti che, in gran parte, non sono più nostri. La loro narrazione è
così limpida, così viva, che le disparità, le differenze rimangono
inavvertite. Sita, la bella e immacolata moglie di Rama, non ha niente
che vedere con la donna moderna. Ettore e Priamo, sono principe e re
che non presentano il minimo punto di somiglianza coi principi e coi
re delle case regnanti attuali. La reggia d'Alcinoo, donde la dolce
Nausica esce col carro carico di biancheria da lavare, e dove l'edo
Demodoco canta su la cetra gli intrighi amorosi di Venere a Marte, o
le prodezze dei greci all'assedio di Troia, è così diversa dalle
reggie odierne, che noi dovremmo sentire repugnanza e noia nel leggere
i canti di Valmichi e di Omero, se la forma non producesse il miracolo
di una rappresentazione così netta, così evidente da farci
dimenticare, come dicevo, tutte le disparità e tutte le differenze di
sentimenti e di idee che il lungo corso dei secoli ha frapposto tra
essi e noi.

Sembra che in quei capolavori, tra il concetto e la sua
rappresentazione, non ci sia entrato niente in mezzo; forma e concetto
sono divenuti così identici che non possiamo più dividerli, nè
considerarli separatamente.

Io non sono tanto sciocco e ignorante da non riconoscere e da non
accettare le modificazioni avvenute da allora in poi nel modo di
concepire e di esprimersi. Ma non sono neppure così ignorante e
sciocco da credere che l'essenza dell'arte sia mutata.

Oggi, per esempio, ci riempiamo la bocca col tronfio assioma che
l'arte è e dev'essere _aristocratica_, quasi l'arte non fosse stata
tale in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Niente di più aristocratico
di Omero, che pure ai suoi tempi era un cantastorie poco diverso, per
certe circostanze, dai ciechi siciliani che vanno pei larghi e per le
fiere a stonare le storie in versi dei paladini, dei briganti famosi,
dello sbarco di Garibaldi a Marsala e della sua gloriosa entrata in
Palermo. Ma la divina aristocrazia di Omero non consiste però in una
nebulosità che offende gli occhi del pensiero, nè pretende di dover
essere intesa e compresa soltanto da un ristretto numero di affiliati.

Consiste nella grandiosa semplicità delle linee, nella meravigliosa
trasparenza della forma che rende la concezione talmente reale e viva
sotto gli occhi, che la stessa realtà non potrebbe darci di più. Se
questo fosse facile, se democraticamente potessimo praticarlo tutti,
Omero e i pochi classici che sopravvivono immortali su l'immenso
cumulo di tentativi d'arte ammucchiato dai secoli, non ci
sembrerebbero più una meraviglia.

L'artista è aristocratico senza saperlo, e senza volerlo; anzi è
soltanto tale quando non vuole esser tale per forza.

È sintomo d'impotenza la smania di aristocrazia che ha invasato e
continua a invasare l'arte contemporanea? Sarebbe quasi da crederlo,
guardando gli effetti dell'ossessione di questa idea.

Sì, è vero, noi siamo nevrotici, ma non nel modo nè nella misura, che
l'arte odierna vuol darci a intendere. O, se siamo così nevrotici,
l'arte moderna si inganna nei mezzi che adopra per mettercelo sotto
gli occhi. L'inganno apparisce evidente dai resultati. Sovraccarica di
colore, di inutili particolari, di capricciose divagazioni, essa, avrà
(se così vuolsi) l'aristocrazia dell'artifizio, ma non quella
dell'arte. Vi si scambia il colore col colorito, la sovrabbondanza
impacciosa dei particolari con l'esattezza parca che serva soltanto a
dar rilievo. Vi si cerca non l'eccezione caratteristica che è una
delle supreme necessità dell'arte, ma l'eccezione foggiata di maniera,
che non può ricevere il soffio vitale della creazione perchè le leggi
della vita vi sono manomesse o assenti del tutto.

Io credo che niente potrebbe meglio guarire questa malattia dell'arte
moderna quanto lo studio spassionato e accurato di quel che v'ha
ancora nella nostra società di spontaneo, di semplice.

È facile, più non si voglia far credere, accumulare cinque sei
aggettivi addosso a un sostantivo, invece di ricercare e trovare il
solo, l'unico che dovrebbe sinceramente e quindi efficacemente
qualificarlo. È facile con forza di arcaismi, rimessi in corso senza
necessità, mascherare agli occhi della gran folla la inanità del
proprio stile e sbalordire gli ignoranti.

E, a furia di così miseri mezzi e mezzucci, siamo arrivati a perdere e
a far perdere al pubblico il vero senso dell'arte e della bellezza.

Lo so, tutto questo è passeggero. Lo spirito umano, presto o tardi,
riprende i suoi diritti e spazza via quel che non corrisponde alle sue
leggi supreme; ma il male non è meno deplorevole per ciò, e può
lasciare lunga traccia.

Non vorrei intanto essere frainteso. Con te non c'è questo pericolo.
Mi dispiacerebbe però se qualcuno supponesse che queste parole sono
unicamente un'abile orazione _pro domo mea_. Io sono convinto che uno
scrittore, qualunque sia la sua virtù, deve abbandonare la sua opera
d'arte al giudizio del pubblico e attendere pazientemente. Le lodi dei
giornali non accrescono punto il valore di un'opera d'arte; possono
forse, creare una momentanea illusione; niente altro. E in tutta la
mia non breve vita mi sono confermato a questo convincimento e spero
non dipartirmene fino a che potrò conservare intatta la ragione.

Ho voluto semplicemente affermare che se noi siamo nevrotici, l'arte
che tenta rappresentare la nevrosi non dovrebbe essere, alla sua
volta, nevrotica, cioè malata.

E poi, caro _Rastignac_, ci sono ancora nella vita angoli intatti,
inesplorati, angoli limpidi e sereni come certi piccoli laghi che
riflettono il cielo e le colline dattorno meglio di uno specchio.

Non è vero che il nostro occhio sdegni oramai simili spettacoli; non è
vero che il nostro cuore rimanga sordo alle suggestioni delle cose e
delle creature semplici e che hanno un particolar splendore di
bellezza.

L'Arte non perde affatto la sua naturale aristocrazia accostandosi ad
esse; giacchè, non bisognerebbe mai dimenticarlo, l'aristocrazia
dell'Arte è tutta riposta nella forma, cioè nella concezione e nello
stile in una; ed è un'aristocrazia così elevata che pochi sono i
fortunati capaci di raggiungerla.

Tu intanto non dire che ti ho rimeritato malamente della tua
benevolenza, scrivendoti in pubblico tutto questo.



DOMANDO LA PAROLA


Domando la parola per un fatto personale! Capisco: il _Marzocco_ ha
inteso di farmi una cortesia chiamandomi _strenuo campione del
naturalismo in Italia_, e di questa gentile intenzione gli sono
gratissimo; ma siccome io ho la coscienza di non essere campione del
naturalismo, nè di altra qualunque scuola letteraria, o chiesola, o
setta che si debba dire, così chiedo il permesso di protestare, per la
seconda ed ultima volta, contro l'etichetta che critici benevoli e
valevoli si compiacciono, da anni, di appiccare al mio nome.

Sissignore, io ho difeso il _naturalismo zoliano_ in parecchi miei
scritti, facendo però sempre le debite riserve contro l'esagerazione
del sistema: ho dedicato a Emilio Zola un mio romanzo giovanile
_Giacinta_ in segno di viva ammirazione per lo scrittore; e forse
allora mi illudevo che quel romanzo derivasse dalla sua scuola. Ma i
critici non si sono mai accorti che era proprio un'illusione; me ne
accorgo ora io che posso guardarlo con occhio imparziale e
commiserante, e stupisco della miopia dei critici, che pure dovrebbero
vederci assai meglio di noi autori.

Poi, bene o male, ho scritto quasi un centinaio di novelle, una
cinquantina di fiabe, due romanzi, _Profumo_ e _La Sfinge_, e parecchi
altri volumi di critica letteraria dove ho chiaramente espresso il mio
credo artistico. Da questa varia produzione, qualunque sia il giudizio
che voglia darsi intorno al suo valore, appare evidente che unica mia
cura è stata sempre quella di raggiungere la maggiore sincerità
possibile di osservazione unita alla maggiore sincerità possibile di
espressione.

Quando il soggetto di una novella, di un romanzo, di una fiaba mi ha
attirato, io non mi sono mai chiesto se esso era naturalista, verista,
idealista o simbolista; ho badato soltanto a dargli la forma più
schietta e più conveniente ad esso; se io sia riuscito o no è un'altra
quistione. Mia intenzione era unicamente fare opera d'arte. Non ho mai
pensato che o una fiaba o una novellina per bambini potesse essere
cosa diversa da una novella, diciamo, psicologica o pure di soggetto
paesano, o da un racconto di larghe proporzioni o da un romanzo.
Convinto che la forma è tutto, o quasi, in un'opera d'arte, mi sono
ingegnato di dare alla fiaba, alla novellina per bambini, alla novella
psicologica o paesana, al racconto e al romanzo la loro natural
forma, ora ingenua, ora semplice, ora un po' più complicata; e dicendo
forma non intendo parlare soltanto della lingua e dello stile, ma
anche dell'intimo organismo di ciascuna opera d'arte. Ripeto: se io
sia riuscito o no nel mio intento, è un'altra quistione.

Qui si ragiona solamente d'intenzioni, di convinzioni, d'ideali
appartenenti in modo speciale a una scuola estetica più che a
un'altra; e per ciò posso lagnarmi della disgrazia di vedermi franteso
che mi perseguita da un pezzo.

Ho un bel sforzarmi di esprimere nel modo più chiaro il mio concetto;
si prende un periodo, una frase, staccandoli da quel che li precede e
li segue, e in questa maniera mi si condanna ad esser naturalista _per
forza_, e _campione del naturalismo_ non meno per forza.

Ho protestato per una prima volta[9]; ma inutilmente, se un giornale
come il _Marzocco_ e con l'intenzione di farmi un complimento, torna a
dirmi quel che tante volte mi è stato sbadatamente ridetto.

È appunto quest'intenzione che mi spinge a protestare di nuovo e per
l'ultima volta.

E perchè l'equivoco finisca--se pure è possibile, giacchè il mutare
un'etichetta sembra fatica straordinaria agli etichettai--ecco, per
chi vuole saperlo, il mio credo letterario. Invece di riassumerlo,
potrei metterlo insieme citando una buona quantità di brani di miei
articoli di critica dai quali risulterebbe che io ho avuto sempre, più
o meno chiaramente, la stessa opinione; e accennando, nel medesimo
tempo, i miei lavori di arte che sono, o che dovrebbero essere,
secondo me, la conferma, il documento probante delle convinzioni del
critico divenute opera d'arte. Ma non voglio incombrare le colonne del
_Marzocco_ per risparmiare un po' di fatica ai curiosi che volessero
accertarsi se alle mie intenzioni hanno davvero poi corrisposto i
fatti.

Dico dunque semplicemente che io, caso mai, sono naturalista, verista,
quanto sono idealista e simbolista: cioè che tutti i concetti o tutti
i soggetti mi sembrano indifferenti per l'artista ed egualmente
interessanti, se da essi egli riesce a trar fuori un'opera d'arte
sincera. Il mondo è così vasto, ha tanta moltiplicità di aspetti,
esteriori e interiori, che c'è posto per tutti questi diversi aspetti
nel mondo superiore dell'arte. Perchè vogliamo restringerlo,
limitarlo? Perchè vogliamo imporre a tutti l'afflizione di doverlo
riguardare dal medesimo punto di vista?

Ma noi abbiamo bisogno di fare, di tratto in tratto questioni di lana
caprina; abbiamo bisogno--ed è peggio--di arruffare le discussioni più
semplici, scambiando le carte in mano all'avversario, e scambiando i
termini della discussione perchè il nero sembri bianco e il bianco
nero. Così arriviamo a non intenderci più.

Io dico, per esempio: il concetto in un'opera d'arte è una cosa
secondaria: l'importante è che esso diventi forma viva, altrimenti noi
confonderemmo l'opera d'arte con l'opera di pura riflessione, di puro
pensiero. Questo non significa che un concetto elevato, se arriva ad
assumere forma artistica, non aumenti il valore dell'opera d'arte;
significa soltanto che esso può produrre quest'effetto unicamente
quando raggiunga quella metamorfosi per via della forma.

Naturalisti, veristi, idealisti, simbolisti non dovrebbero essere
d'accordo su questo elementarissimo canone di arte?

Dovrebbero; ma non sono.

Io dico, per esempio, che le forme artistiche debbono essere talmente
connaturate al concetto da non poterle distinguere da esso. Per ogni
concetto o sfumatura di concetto ci è una sola unica forma: il
difficile sta nel raggiungerla. Per ciò ogni soggetto richiede uno
stile diverso, suo proprio, e l'artista deve avere, per dir così,
altrettanti stili quanti sono i soggetti che tenta, e seguire con essi
tutte le gradazioni, tutte le sfumature, senza alterare niente, senza
tralasciare niente, conformandosi a tutte le sinuosità, a tutte le
accidentalità del soggetto.

Naturalisti, veristi, idealisti, simbolisti non dovrebbero essere
d'accordo su quest'altro elementarissimo canone di arte?

Dovrebbero; ma non sono.

E si continua a fare lunghe discussioni bizantine. Si scartano certi
soggetti, si colpiscono d'interdizione; si bandiscono certe formole
stilistiche, si getta l'anatèma su altre. Per quale ragione? Per un
capriccio di moda forse.

In quanto a me, non ho mai avuto preferenze per questo o per quel
soggetto, per questa o per quella formola di stile. Ho tentato
soggetti di ogni specie ed ho cercato di esprimerli con lo stile più
adatto.

Lo stile delle mie _Paesane_ non è quello delle novelle, diciamo,
psicologiche. Fra lo stile delle _Paesane_ e quello di _Profumo_ e di
_La Sfinge_ c'è un abisso, come c'è un abisso tra il contenuto.

Io, lo confesso, e sia detto per incidente, non ho saputo persuadermi,
per quanto mi sia ingegnato di farlo, in che cosa mai differiscano
_Profumo_ e _La Sfinge_ dai così detti romanzi idealisti; potrei quasi
farmi la stessa domanda intorno a _Giacinta_, non ostante la dedica a
Emilio Zola. Mi son fin domandato come mai due volumi di fiabe, e due
di novelle dove studio il mondo dei bambini con lo stesso metodo di
osservazione praticato per gli adulti, possano permettere di classarmi
a ogni costo fra i naturalisti.

Ebbene tanta diversità e varietà di concetti e di forme non avrebbero
dovuto mettere in guardia i critici prima di _etichettarmi_
assolutamente _naturalista?_

Resta per loro scusa, la quistione, come dicono ora, stilistica. Io
non sono certamente uno stilista.--Oh, no!--sento mormorarmi
all'orecchio--E aggiungo che non vorrei esserlo, caso potessi. Sono
diventati stilisti tante brave persone che poi non hanno altro
all'infuori di quel tale _stilismo_, che non credo di dire una cosa
assurda asserendo che a furia di pazienza e di studio avrei potuto
divenire loro emulo anche io. Il vocabolario, per fortuna, non è
proprietà esclusiva di nessuno, e i modelli da copiare o da imitare
molto meno. Dico questo perchè la semplicità, la nudità del mio stile
non sia attribuita al mio naturalismo e non sembri una prova lampante
di esso; non già per scusarlo o per difenderlo. È giusto che questa
orazione _pro domo mea_ rimanga nei limiti dei principî e delle
intenzioni.

In quanto al resto, non debbo e non voglio entrarvi. Non ho mai fatto
polemiche, da giovine, per difendere questo e quel mio libro; e non
voglio cominciare ora che... non sono più giovane.

E mi si permetta di finire, con l'autorità che consentono gli anni,
raccomandando a tutti coloro che ora hanno l'invidiabile tesoro della
giovinezza:

--Lasciate da parte le discussioni astratte, le polemiche; non vi
compiacete delle belle etichette, che in fine non vogliono dir nulla
se il liquore della bottiglia non è poi di ottima qualità; siate
sinceri, se potete e se sapete, siate sinceri, sinceri, sinceri; il
resto, come dice il Vangelo, vi sarà dato in più dal gran Padre che
sta nei cieli!



PER UN ROMANZO

(UGO OJETTI: _Il Vecchio_, romanzo--Milano, Casa Editrice Galli,
1898.)


Un'opera d'arte bisogna accettarla qual'è, senza cercarvi l'attuazione
delle teoriche dell'autore, se queste son note.

È riuscita bella? Tanto meglio per le teoriche e per l'artista. È in
contraddizione con esse? Tanto peggio per le teoriche. L'importante è
che un'opera d'arte sia una bell'opera d'arte.

Secondo me, l'artista può mettersi in piena contraddizione col
critico, nella stessa persona. Discutere intorno ai principii estetici
è funzione molto diversa dall'adoperare l'immaginazione nel creare. E
pensavo appunto questo, leggendo i primi capitoli di _Il Vecchio_.

La lunga agonia della moglie del senatore Alessandro Zeno; il triste
via vai dei parenti, degli amici, degli indifferenti; le estreme cure
date dal marito e dal figlio al cadavere della morta; tutti i minuti
particolari, fino al ritorno dall'accompagnamento al cimitero, che
dànno vivissima la sensazione della nauseabonda realtà, mi
richiamavano alla memoria le invettive contro i così detti _realisti_,
accusati di compiacersi di descrizioni repugnanti. E il non aver
voluto evitare d'incorrere nello stesso biasimo, e l'aver anche
calcato un po' la mano su certi punti, mi sembravano begli atti di
coraggio e di sincerità artistica dell'autore.

«Fece uno sforzo supremo; premette col fazzoletto le gote fredde
(_della morta_); ma sotto la pressione troppo forte, il siero
all'improvviso pullulò dalla bocca rigida, quasi fermentando, formò
una bolla come un velo viscido tra labbro e labbro sui denti, e la
bolla scoppiando sprizzò sul volto del vecchio...»

«Ne guardò il volto curiosamente. Le labbra erano ormai esangui, del
color della prima cera, e nei due angoli insisteva quel solco rosso
che il succo gastrico vi aveva sùbito dopo la morte segnato
scorrendo.»

Un _realista_ non avrebbe potuto dirlo con maggiore evidenza.

E per ciò già credevo di trovarmi di faccia a un'opera d'arte
schietta, che non voleva essere nè realistica, nè ideologica, nè
idealistica, nè simbolistica, ma viva rappresentazione di caratteri,
di sentimenti, di impressioni; di faccia a un'opera d'arte dove le
preoccupazioni stilistiche non cercavano di sopraffare l'espressione
più diretta e più immediata del concetto; insomma di faccia a qualcosa
di fresco, di giovine, di rigoglioso, non ostante la tristezza del
soggetto; ma l'autore si era affrettato a disingannarmi.

Parecchi splendidi paesaggi; alcune belle scene ma brevi, quasi egli
se le fosse lasciate sfuggire dalla penna con rincrescimento; e, qua e
là, certi penetranti accenni di osservazione psicologica, non mi
avevano all'ultimo compensato della monotonia di quella specie di
soliloquio di quasi trecento pagine, a cui si era ridotto, dopo i
primi quattro capitoli, tutto il romanzo.

Ricordavo qualcosa di simile pel concetto, una novella del Tolstoj,
che appunto descrive il terrore della morte nella persona di un uomo
di età matura; ma non volevo fare confronti. Là tutto era
rappresentazione, azione; qui il movimento, la rappresentazione,
l'azione rimanevano esteriori al personaggio, pretesti di un continuo
maniaco rimuginamento della stessa idea. E poi, nel senatore
Alessandro Zeno non era tanto il terrore della morte, quanto l'odio
della vita degli altri quel che formava il pernio della morbosa
attività cerebrale. Attività vacua, astratta, perchè non rivelava
niente di personale, di caratteristico, tanto da apparire, di tratto
in tratto, mera esercitazione scolastica.

A un certo punto mi era sembrato che il concetto del libro doveva
forse essere la lotta tra sentimenti ed idee che stanno per tramontare
e idee e sentimenti che si levano su l'orizzonte con rosei trionfanti
splendori.

L'autore ci dice che tra il senatore e il figlio Andrea c'erano state
lunghe lotte e dolorose. Il padre, metodico lavoratore, non intendeva
il lavoro libero, di artista (Andrea studiava pittura), a cui suo
figlio si consacrava.

«Il miraggio della burocrazia lo occupava, come occupa ancora tutta la
penultima generazione nostra e la parte più fiacca ed inerte ed amorfa
dell'ultima.... La non curanza del domani per la tutela promessa dallo
stato, la ricerca del minimo sforzo per conseguire, quella prestituita
mercede, attiravano tutti i deboli incapaci di lotta e i servili.»

E (non si sa se per conto proprio o per conto di Andrea) l'autore
continua a sparlare del «governo dei Vecchi, perchè, sia in buona fede
che in perfidia, essi fanno leggi e morali atte a ridurre i giovani
fiacchi e degni di morte come essi ormai sono;» delle scuole «che sono
un tradimento della vecchiaia contro la gioventù e tendono solo ad
abbassare gli ingegni giovani audaci al livello dei maestri affraliti
dagli anni e dalle desolate dottrine;» della schiavitù burocratica
«causa di decadenza altrettanto potente che l'antica schiavitù
giuridica e la medievale schiavitù monastica.»

Si capisce però che tra padre e figlio, più che lotte, erano avvenute
discussioni forse un po' animate. Il senatore «incapace di intendere
non pur l'arte del figlio (Andrea era simbolista, o almeno
ideologico, in pittura) ma anche l'antica fungosa arte accademica,
avea finito col credersi il più liberale dei padri, poichè lasciava
che Andrea a suo piacere vivesse di quel passatempo fastoso.»

Di tali discussioni, o lotte che si vogliano dire, non appare più
ombra nel libro. Dànno una rapida vampata in una conversazione tra un
giovane poeta, amico di Andrea, e lui e il senatore, e si estinguono
sùbito.

Si ragionava di un vecchio pittore, disonesto intrigante.

«Alla parola _vecchio_ Alessandro Zeno si scosse:

--Insomma il suo massimo torto è di esser vecchio?

--No, è di essere disonesto. Ma anche la vecchiaia, quando è cieca a
quel modo, è un torto che fa degno di morte e non di onori.

--Insomma, lasciando da parte l'onestà, se egli fosse stato in
giovinezza un pittore eccellente, e poi, fissatosi nella sua maniera,
non intendesse le vostre massime nuove, lo si dovrebbe segregare dal
consorzio umano?

--Se fosse onesto, egli se ne dovrebbe allontanare da sè.... Dovrebbe
lasciare il campo a noi.»

E il ragionamento dal fatto particolare, balza a un concetto generale.
Il giovane poeta parla del _Vecchio_ «del Vecchio che si rinchiude nel
passato e nega l'aurora solo perchè non potrà vedere il giorno; del
Vecchio che, vedendo le tenebre attorno all'opera sua, dice:--Il
mondo finisce. Le tenebre saranno sempre sul mondo. Il sole non
sorgerà più!--E combatte chi aspetta e canta e glorifica il sole
futuro.

«--Quel vecchio,--egli conchiude--se è così cieco deve ritirarsi, deve
deporre le armi dalle mani inette. Voi, senatore, dite che non lo
vogliamo lasciar vivere. Vivere? Ma egli deve lasciar vivere noi. Noi,
lo lasceremo tranquillamente morire.»

Ragionamento specioso, per non dire illogico. Il poeta così e non
vuole la lotta, e anche pretende che _un cieco_ faccia atto di persona
che ci vede bene; ma passi. Si deve però credere che l'autore non
abbia riferito questa conversazione per niente; ci attendiamo infatti,
da un momento a l'altro, qualche atto del vecchio senatore che
giustifichi la necessità di quella scena, di quelle parole così
severe. Il Vecchio invece non fa nulla che abbia almeno l'apparenza di
un'ostilità alla giovinezza. Lascia vivere in pace gli altri, se non
vive in pace, interiormente, lui.

Egli, che il giorno della morte di sua moglie aveva detto ad Andrea,
con ira:--Vattene, figlio mio: tu penserai a lavar me, quando anch'io
starò lì, così...... E sarà presto!--ora, vedendo Andrea lagnarsi di
divenir calvo, pensa che la vita «correva _anche per lui_, che nelle
estasi artistiche si angosciava ad arrestarla.... Non egli solo moriva
un poco ogni giorno, ma anche Andrea; e anche gli altri giovani
attorno..... tutti..... tutti! Via!... La vita correva!»

Allora egli si sforza di riafferrare, come tavola di salvezza, il
sentimento religioso, e tenta di pregare nell'umile chiesetta di
campagna dove fa celebrare, due mesi dopo la morte della moglie, un
ufficio in suffragio dell'anima di lei; ma egli esce dalla chiesa più
solo che mai, più scorato che mai.

Tutto l'offende, tutto lo irrita; vorrebbe che attorno alla sua vita
vicina a spegnersi non sorgesse nessun altro nuovo germoglio di vita;
o che le nuove cose e i nuovi uomini nascessero su dalle vecchie cose
e dai vecchi uomini e fossero grati ad essi. «Invece tutti i germogli
e tutti i giovani disprezzavano quelli da cui erano nati..... Nessuna
gratitudine, fuori del formale rispetto; ma ribellione, disprezzo,
indipendenza non ostentata ma originale e franca.»

Perchè se ne meraviglia lui che aveva sentito «un soddisfacimento
segreto e pensava che quel giovane ambizioso (suo figlio Andrea) dagli
occhi lucenti, dalle bianche mani nervose era nato da un ignobile atto
di lui, come un fiore dal fimo?»

Più di ogni altra cosa, lo cruccia la compassione. Sente dire, non
visto da sua figlia Luisa e dal marito di lei, in giardino:

«--Egli pensa sempre alla mamma, e ha il colore di un cadavere.

--È vero.

--Povero babbo, se ne andrà presto anche lui!

--Chi può impedire la morte!»

E gli sembra ch'essi lo consegnino nelle mani della morte o lo
spingano «malamente nel sepolcro sdrucciolo buio freddo profondo.»

Che vuole? Che pretende? Non lo sa. Una volta aveva pensato la gioia
dell'ultimo uomo che vedrà l'ultimo sole; e questa idea che lo
riprende, dopo che un bagliore di coscienza sincera, gli ha fatto
riconoscere che i giovani, apparentemente disprezzati, erano in
realtà, invidiati da lui affralito e senescente.

Ma l'autore è proprio sicuro che tutto quel chimerizzare intorno al
giorno finale del mondo sia del vecchio senatore, e non di lui,
romanziere, che ha voluto compiacentemente regalarglielo? È proprio
sicuro che non sia artificioso, per non dire falso, il grand'odio
attribuito al vecchio contro il pastello dove il figlio aveva tentato
di fissare i lineamenti della madre morta?

«All'improvviso si ritrasse, afferrò il vaso delle rose che era sul
pianoforte, il vaso delle rose donde il dì innanzi erano caduti petali
rossi su la tastiera logora, e lo scagliò con violenza contro il
ritratto. Si frantumò il vetro, si lacerò la carta, e il vecchio in
una furia di distruzione con le tremule mani ancora assalì l'opera del
figlio, il ritratto della morta, calpestandolo, con basse violente
parole vilipendendolo.»

Egli cerca di scusarlo, di giustificarlo, e gli mette in bocca queste
parole:

«Noi (_vecchi_) coscientemente danneggiamo il mondo. Sì, sì, solo
invidia mi respinge da Andrea, solo paura mi allontana da quel
ritratto di Nannetta (_la moglie morta_). Ecco, ecco (_Andrea_)
scoprirà la rovina compita da me quando stamane per un attimo sono
stato sincero nel fatto, ed egli finalmente mi deriderà e intenderà la
vera causa dei miei disdegni e non mi rispetterà più. Io morrò
ridicolo.»

E appicca fuoco alla stanza, per nascondere con l'incendio il delitto
del ritratto distrutto.

Io che mi ero un po' inalberato leggendo quella specie di
settecentesca visione che chiude il capitolo intitolato _Arcobaleno_,
non mi aspettavo però di veder intervenire _un sogno_ (l'autore non
può far a meno di chiamarlo: _miracoloso sogno ammonitore_) perchè
riuscisse meno ostico il mutamento finale del Vecchio. E a questo
punto non bisogna più dire il senatore Alessandro Zeno, ma soltanto il
Vecchio. Egli è divenuto una entità astratta, da personaggio vivente
che era nei primi capitoli. Si è venuto di mano in mano
assottigliando, ed ora non ha più niente delle nostre miserie umane; è
un ragionamento puro e semplice. Ci voleva quel _miracoloso sogno
ammonitore_ perchè egli, che odiava tutte le creature viventi, tutte
le cose esistenti per l'unica ragione che vivevano ed esistevano e
sarebbero vissute ed esistite dopo sparito lui; ci voleva proprio un
miracolo perchè egli che ieri si rallegrava al pensiero che creature e
cose avevano però dentro di sè, al pari di lui, il germe distruttore
della morte, oggi--con la _chiarezza del recente sogno_ in cui aveva
visto _il suo stesso cadavere_--si senta perfettamente cambiato e
possa riflettere: «La vita è il mutamento continuo della materia.
Perciò la vita è dovunque, anche dove non giunge la luce, dove non
penetra l'aria. La Morte non esiste, e _tu morendo puoi negarla_.»

Ma come? Non sapeva questo il senatore Alessandro Zeno? E ci voleva un
_miracoloso sogno ammonitore_ per rivelarglielo? E doveva egli
arzigogolare tanto, per venire poi alla risoluzione di finirla con
quella sua esistenza, che infine non era cattiva?

«Nessun odio più lo accendeva, egli era calmo e solenne come un
sacerdote che compia un sacrificio comandato da Dio.... Prese, quasi a
tentoni, la piccola boccia del veleno d'oro e lasciò sopra un largo
pezzo di zucchero cader molte gocce finchè gli parve che lo zucchero
ne fosse ben saturo. Poi lo ingoiò e corse al letto.»

Poco dopo Gino, figlio di Luisa, vien mandato su a chiamare il nonno
per la cena. Chiamatolo a nome e non ricevendo risposta, il bambino,
toccata la mano del vecchio che era gelata, altro non osò.

«Quando entrò nella luce, in cospetto dei tre giovani (cioè nella
sala da pranzo illuminata, al cospetto dello zio Andrea e dei genitori
Luisa e Giorgio) disse senza timore:

--Il nonno dorme.»

Così finisce _Il Vecchio_ e faticosamente, sarebbe puerile non dirlo.

Ho cominciato a leggerlo con animo sereno. L'ho terminato col profondo
dispiacere di chi vede sciupato in malo modo molto sforzo di ingegno e
di coltura. Giacchè è evidente che l'Ojetti ha composto così il suo
romanzo in ossequio alla sua fissazione del romanzo ideologico e un
po' simbolista. Che egli volesse mettere in un romanzo idee e simboli
non era poi cosa tanto strana e insolita da dovergli sembrare anche
audace. Più o meno, via, in un romanzo ci son sempre idee divenute
personaggi con caratteri e passioni speciali, e personaggi e
sentimenti che possono, con un pochino di buona volontà, passare per
simboli. Solamente per fare un'opera d'arte, le idee non bastano, o
bastano per fare _Il Vecchio_ e non mai per ridurre _Il Vecchio_ _Un
Vecchio_, cioè il senatore Alessandro Zeno. Questo Ugo Ojetti lo sa;
ma gli è parso fosse meglio far una bravata fingendo di averlo
dimenticato; e che lo sappia lo dimostrano i primi capitoli del libro
e alcune scene, qua e là, sobrie ed efficaci nei capitoli _Il piccolo
abbandonato_, _La tentazione_ e in parecchie descrizioni notevolissime
per colorito, non ostante che, con meraviglia, nella forma semplice,
e schietta, si notino certi residui stilistici contro cui egli ha
gridato a ragione.

Ho polemizzato qualche anno fa con l'autore di _Il Vecchio_, e
parecchi, che per ragioni diverse, non gli vogliono bene, mi hanno
biasimato di aver discusso con lui, quasi mi fossi ingenuamente messo
al servizio della sua smania di far rumore in tutte le occasioni e con
tutti i mezzi.

Quantunque l'Ojetti sia stato poco garbato, anzi insolente con me, io
non mi pento di quel che ho fatto. Bisogna perdonar molto all'età; e i
giovani a me piacciono (che che egli ne pensi) specialmente quando,
assieme coi pregi, mostrano tutti i difetti della loro condizione:
l'orgoglio, l'entusiasmo, la fede cieca.

Molto orgoglio, molto entusiasmo, molta fede cieca traspariscono dalle
trecento ottantaquattro pagine di questo volume, cioè molta
giovinezza, inficiata però da inopportuna serietà, da voluta gravità
nella scelta del soggetto e dei mezzi per svolgerlo. Se è vero, come
asseriscono, che noi così detti _veristi_ o _realisti_ abbiamo uggito
il mondo dei lettori, non mette conto diventare ideologi e simbolisti
per uggirlo allo stesso modo e anche peggio!

Siano sinceramente e schiettamente giovani i giovani!

È consiglio disinteressato di un vecchio.



DIALOGHI D'ESTETA

(_Romolo Quaglino._ Dialoghi di esteta. Milano, tipografia Treves,
1899. Un vol. di 270 pag. in 16.)


Chi apre il libro, allettato dalla simbolica copertina--un vaso da
profumi, da cui sortono nuvole d'incenso dentro i vortici delle quali
s'intravedono figure in atteggiamenti ed espressioni diverse--può
credere, a prima vista, che si tratti di un volume di poesie. Tra i
grandi margini bianchi si allineano infatti righe più o meno corte che
hanno l'apparenza di versi, di strofe: ma cominciando a leggere, egli
si avvede che l'esteta ha voluto ingannarlo. Ingannarlo fino a un
certo punto: giacchè se non ci sono i versi, c'è la poesia; se non ci
sono i piedi esatti degli endecasillabi, dei settenari, c'è però un
quissimile di ritmo che non irrita l'orecchio e che anzi lo alletta
con studiate cadenze di accenti, con abili avvolgimenti di periodo da
tenere benissimo luogo di verso, senza la ibrida intenzione della
prosa poetica. Aperto a caso il libro, egli legge:

    Sul roseo avorio de le carte,
    bruni ed alati,
    come uccelli stanchi,
    dormono i sogni:
    reliquie e diane
    di cuori vecchi e nuovi,
    pianto di avelli.
    Ma se la dolcezza
    di grandi occhi feminei,
    sole e rugiada, cali,--
    se una voce pallida,
    nel silenzio odoroso d'un talamo
    esile mormorio, li ravvivi;
    se una mano bianca e fine,
    gigli su rose,
    fremendo,
    con la diafana unghia
    li carezzi,--
    su dal sepolcro del volume
    avello bianco
    ove il dolore si acqueta,
    vagano bruni ed alati
    come uccelli all'alba,
    e bisbigliano,
    e l'anima del poeta
    sale, per le dita, lieve
    a baciar, ebbra di amore,
    le inanellate gemme della Pietosa.

E il caso ha servito bene il curioso lettore. Egli allora farà come la
Pietosa--non importa se la sua mano non è rosea, e se le sue unghie
non sono diafane--sfoglierà altre pagine, cercherà altri segni pei
quali possa davvero sentire l'anima del poeta salir su ad
accarezzargli--se non _le inanellate gemme_ o la chioma, forse,
assente--il cuore o lo spirito; e vorrà cominciare daccapo.

Certamente la lettura non riesce facile. Questi dialoghi che l'esteta
intraprende con figure evocate, sogni, simboli d'idee o di
sentimenti--Ignazio di Lojola, la fede dominatrice; il Valentino,
l'astuzia e la forza; don Giovanni, l'amore l'insaziabile e insaziato;
Fausto, l'ansioso e vacuo ricercatore della scienza assoluta; Salvat,
il bruto ribelle; o con creature senza nome, pittori, poeti, vecchi,
monaci, folla; o con esseri ai quali la sua immaginazione, usando del
primitivo privilegio dei fanciulli e dei selvaggi, concede vita,
anima, volontà, parola; o col demone tentatore che è dentro di lui;
tutti questi dialoghi non potevano essere ragionamenti ordinati,
filati, discussioni pedantesche, poichè dovevano e volevano riuscire
espressione lirica di concetti e di sentimenti, poichè richiedevano
all'onda musicale di un particolar ritmo e all'immagine la loro forza
di rappresentazione, la loro forma.

L'esteta è un irrequieto. Il pensatore contrasta col rincorritore del
fantasma della bellezza. Che vuole? Che sogna? Vorrebbe un mondo più
buono, più giusto, e sopratutto più bello. E' vede un continuo,
incessante trasformarsi di tutte le forze naturali, comprese quelle
del pensiero. E se gli nomini, la storia, il passato, non rispondono
alla sua insistente interrogazione, si rivolge alla Natura, dove c'è
anche il pensiero involuto nascosto, e tenta di aver da essa una
risposta.

    Ne la fede de l'immortalità
    rapida corre
    l'ora nemica:
    ne l'orgoglio degli ordini
    ancor l'insanie
    appar feconda.

Che importa?

    L'idea è l'inarrivabile amore
    tutti soffrono per lei,
    tutti sanno
    che nessuno mai la stringerà
    tra le braccia, vinta.

Ed egli inneggia agli _Stiliti_ che salgono su la colonna di Simeone e
tendono le braccia al cielo, immemori delle miserie terrene.

    esulare dal corpo, è la gioia
    almeno, l'illusione buona dell'ora:
    esular, quietamente,
    come un'umile cosa,
    come un'anima pavida tra le anime.

Deliziosa elevazione che dura poco; il mondo si agita, vuole operare;
nell'azione è la forza; ma fra tante orgogliose forze operanti per la
vita materiale o per la gloria, l'_Esteta_ è tentato soltanto
dall'orgogliosa umiltà di fare un'opera di bellezza, _olocausto a Dio
e agli uomini_,

    senza che la vanità di un nome
    inutile sgorbio, la profani.

E il compenso?

    Che vale la passione dell'opera
    senza il premio di un bacio?

D'un bacio e dell'amore; se pure l'amore varrà a saziare o a dar pace
all'anima irrequieta, al corpo fremente.

Che vale l'amore, se non può essere trasfusione di un corpo in altro
corpo, di un'anima in altra anima? E mentre egli anela al corpo della
sua _Esteta_, il ricordo della madre lo turba, e l'amore carnale gli
sembra una profanazione, anzi quasi un incesto. E la _Esteta_ gli dice
tristamente:

    --Volete che io mi allontani?

                   L'ESTETA

    Lo desidero:
    la voluttà non ci darebbe che rimorsi,--
    la creazione indicibili angosce,
    e rimorsi fors'anche.

                   LA ESTETA

    Non ci ritroveremo mai più?

                   L'ESTETA

    Un giorno, si compirà forse
    il miracolo d'oblìo.
    Qui, dove la vostra anima bambina
    e la recente anima vostra pensa,
    qui, forse.

                   LA ESTETA

    Vi sovvenga che la mia vita è così umile
    che la morte non saprebbe esserlo di più.

Ma a che giovano queste rinuncie? Il cuore non appaga, la mente non si
acqueta. L'avvenire urge; _Il trionfo dell'Idea vuole tutte le braccia
e tutte le menti_.

L'Esteta è pieno di scoramento:

    Ancora ne li attoniti occhi,
    reca lo spasimo d'una mortale caduta
    il terrore d'un incubo
    improvvisamente scomparso.
    Sognò lotte e baci,
    dominazioni e rinuncie,
    cose belle oltre la Verità,
    dolci, oltre l'Amore,
    eterne, oltre la Fede.

    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

    Sorrise a tutte le veneri,
    benedisse a tutte le forze,
    a tutti i connubi sospirò.

    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

    Doloroso miracolo:
    la visione tangibile si oscura
    di maligne nebbie.

E finisce con domandarsi tristamente: Sia pure che l'uomo nello spazio
e nel tempo s'inganni, ma esso è però un mondo, un occhio
dell'infinito;

    perchè dunque
    non vuol recare intorno
    la serenità e la luce,
    come il cielo e le stelle?

Ho tentato di riassumere questo poema lirico di una anima solitaria,
che si tormenta fra le strette del sillogismo e del sentimento,
citando il più largamente possibile per dare ai lettori un'idea
approssimativa non soltanto dei concetti ma anche della forma.

Secondo me, il poeta ha fatto bene a sciogliersi dalle pastoie del
ritmo, che non concede certe libere agilità neppure ai suoi più
poderosi domatori. E se nel suo tentativo ha qualche volta ecceduto,
sia condensando troppo, sia trascorrendo in istonature prosatiche
incurante di mettere a dura prova l'intelligenza o la schifiltà
stilistica del lettore, non bisogna fargliene troppo carico, in grazia
di quei larghi brani dell'opera sua dov'egli raggiunge l'ideale voluto
attingere, come nei canti _L'orgogliosa umiltà_, _La metamorfosi_ e
specialmente nel _Preludio_ al canto _Marmi e bronzi_, invocazione
della Bellezza, e nella _Oscura rinunzia_, che mi sembra la cosa più
squisita di tutto il volume.

Il quale, se, come ho accennato, non è di facile lettura, è poi tale
perchè, nell'intenzione dell'autore, non è destinato al volgo dei
lettori.

    Nel grottesco s'adombra
    qualche aristocrazia;
    nel crudele, qualche idealità;
    e il valore della vita
    consiste nel saper morire.

Ecco una sua schietta dichiarazione.

Al Quaglino intanto non si potrà dire che abbia scelto questa libera
forma di ritmo perchè il verso non obbedisce alla sua mano. Egli ha
pubblicato due volumi di versi, dove alla vigoria e all'originalità
del concetto è accoppiata una vigoria e sovente una stranezza di
forma--stranezza più visibile nel primo, _Modi, anime e simboli_, che
nel secondo _Fiori brumali_--le quali dimostrano ch'egli si sente
anche capace di abusare della padronanza della forma ritmica,
contorcendola a sua voglia e capriccio, e non sempre con buon
resultato.

Dopo questi _Dialoghi d'esteta_, che hanno nel loro sciolto ritmo
dolcezze e sfumature veramente notevoli, è da augurarsi che il
pensiero del poeta divenga più limpido, più tranquillo, più
trasparente, e che il sentimento prenda la mano su di esso, perchè,
ritmo rimato o sciolto, la sua parola trovi più larga eco nei cuori: e
non intendo dire: nel volgo dei cuori.



EDOARDO BOUTET E LE SUE CRONACHE DRAMMATICHE.


Ricordano il _Moschettiere_ di Alessandro Dumas, il vecchio, giornale
che era scritto da _Alessandre Dumas père et seul_, e che fece
sorridere e anche ridere, al suo apparire, per la ingenua vanità di
quel _seul_. Il _Moschettiere_ parlava di tutto: dall'articolo di
fondo spoliticante, passava alle ricette culinarie, delle quali il
Dumas era forse più orgoglioso che del _Conte di Montecristo_ e dei
_Tre Moschettieri_; gli articoli di viaggi e di varietà si
avvicendavano coi capitoli degli ultimi suoi stanchi romanzi, con
frammenti di memorie, cioè, di strabilianti fantasie. Veramente il
_seul_ non era poi una novità. Alfonso Karr aveva scritto anche lui da
solo, _Les Guépes_, ma non aveva inalberato quell'aggettivo con la
spavalderia del simpaticissimo fanciullone che fu per tutta la vita
Alessandro Dumas.

_Le Cronache drammatiche_, apparse ieri l'altro, somigliano al
_Moschettiere_ e alle _Vespe_ in questo soltanto: saranno un opuscolo
settimanale scritto tutto da Edoardo Boutet e si occuperanno
unicamente di cose riguardanti il teatro.

Arrivano in buon punto. Da qualche anno, per opera di attori e di
scrittori, viene risuscitato nel pubblico italiano l'interesse, se non
l'entusiasmo, di trenta anni fa, quando una nuova produzione
drammatica, data nella capitale provvisoria, occupava per settimane
gli spiriti e faceva quasi tacere le discussioni politiche.

Oggi, l'interesse non è scevro di un senso di scetticismo, effetto
delle delusioni seguite alle illusioni eccessive. Ma bisogna dire che
noi, da schietti meridionali, da latini, siamo trascorsi dall'eccesso
delle speranze all'eccesso della sfiducia: e se le _Cronache
drammatiche_ riusciranno a mettere le cose in equilibrio, faranno
opera degna di grandissima lode.

Nessuno, io credo, in Italia, è più adatto di Edoardo Boutet a operare
questo miracolo. Egli è un topo di palcoscenico. Da anni, sua
occupazione e preoccupazione sono stati gli attori e gli autori
drammatici. Con franchezza straordinaria, spesso brutale, egli ha
detto la sua opinione su tutto e su tutti, ogni volta che l'occasione
si è presentata. I suoi articoli nel _Corriere di Roma_ dello
Scarfoglio lo misero in vista. La gente che leggeva quegli scritti, si
domandava con curiosità:

Chi è mai questo nuovo _paysan du Danube_ che irrompe nella cronaca
teatrale?--E la curiosità non veniva eccitata soltanto dalle cose che
egli diceva, ma dallo stile con cui le diceva; stile pieno di
immagini, lutulento, imbarazzato, eppure innegabilmente efficace.
Sotto l'impaccio della parola e della frase, si sentiva l'uomo
sincero, convinto; una specie di apostolo e di profeta.

Allora il giornale quotidiano non era un organo frettoloso
d'informazioni com'è divenuto oggi. Il cronista teatrale aveva dignità
di critico; non si trovava obbligato di far sapere la sua opinione
immediatamente dopo lo spettacolo a cui aveva assistito; dal teatro
non doveva correre in tipografia, e là improvvisare l'articolo e darne
le cartelle ai compositori di mano in mano che le scriveva, senza
avere tempo neppure di rileggerle. Durava il bel costume
dell'appendice del lunedì; delle novità date il venerdì sera--e che
egli era in caso di riudire nelle sere seguenti, se state tali da
ottenere di essere replicate--l'_appendicista_ poteva scrivere
pensatamente, con comodo; e la curiosità del pubblico veniva anche
aguzzata dall'attesa, e trovava piena soddisfazione nel poter leggere,
il lunedì, i giudizii degli appendicisti teatrali più in voga; giacchè
allora accadeva che alcune _appendici drammatiche_ assumessero il
valore di un piccolo avvenimento letterario.

Edoardo Boutet portava qualcosa di nuovo, di speciale nella critica
drammatica: la perfetta conoscenza dei misteri del palcoscenico. Di
rimpetto a lui, gli _appendicisti_ del lunedì di dieci anni avanti
sembravano persone impettite, troppo serie, quasi accademiche. Egli
era uno sbarazzino e nello stesso tempo uno che _credeva_, che si
infiammava, e che talvolta arrivava fino ad assumere atteggiamenti
apocalittici, fino a far intravvedere che tra la critica teatrale e
lui egli supponesse un'assoluta identità di persona.

Anche quando era ingiusto, o meglio, anche quando s'ingannava (non c'è
ingiustizia nello ingannarsi) sotto la violenza del giudizio e della
frase si scorgeva benissimo la sincerità del suo sdegno. Quella che
per lui era un'offesa all'arte, sembrava anche si mutasse in offesa
personale; ma sembrava così per la montatura del periodo che gli si
aggrovigliava tra le mani tremanti di santissimo sdegno. I puristi,
leggendo, si sentivano venire la pelle d'oca, ma non cessavano di
leggerlo. Gli attori flagellati a sangue, le attrici contristate nella
loro vanità, gli autori redarguiti con accompagnamento di sferzate
fingevano di disprezzarlo, di sorridere di quelle sue sfuriate, ma poi
gli davano ragione. Conosco qualcuno che non ha potuto tenergli
broncio neppure un giorno, dopo un articolo che lo aveva stritolato la
sera avanti, nel primo _Capitan Fracassa_ di gloriosa memoria. Critico
e autore, il giorno dopo erano a braccetto in Piazza Colonna e
ridevano assieme, con gran meraviglia di parecchi che immaginavano
forse di doverli vedere piuttosto presi pei capelli, dato che
l'autore drammatico avesse avuto dei capelli afferrabili; e non ne
aveva.

Da quei giorni, molt'acqua è passata sotto i ponti del Tevere. Edoardo
Boutet ha sentito anche lui la mortificazione degli anni. Può
darsi--ma non pare--che il vedersi mancare lo spazio e il tempo, per
le invadenti necessità giornalistiche, lo abbia un po' scoraggiato. I
suoi grandi articoli, le sue encicliche drammatiche si erano fatte
rare. Di quando in quando, la _Nuova Antologia_, la _Rivista d'Italia_
portavano un suo studio di attrice, una sua disquisizione intorno a
qualche soggetto di attualità drammatica; studio e disquisizione dove
egli mostrava la grande abilità di sapersi adattare all'ambiente, di
parlare con moderazione di concetti e di forma--sì, anche di
forma--che gli dava l'aria di persona un po' costretta a raffrenarsi,
a comportarsi come chi si trova in un circolo di conversazione fuori
dell'usuale.

Di quando in quando, una scappata, un razzo, l'iniziamento di una
serie di studi sur un particolare soggetto presto interrotta e non più
ripresa; nient'altro.

Si vedeva l'uomo che avrebbe voluto parlare, chiacchierare a suo agio
e che non poteva più farlo, perchè il proto gl'insidiava le righe,
perchè l'articolo politico, la cronaca, la satira gli contendevano lo
spazio. Edoardo Boutet però è un parlatore brioso, delizioso, un
conversatore; e il suo dialetto napoletano non forma la minore
attrattiva delle sue improvvisazioni familiari. Ha dovuto dire dentro
di sè: Mi si tura la bocca o, per lo meno, mi si trattiene il braccio,
mi si lesina lo spazio? Ebbene, io non posso sentirmi soffocare, io
voglio sfogarmi. Ho tante e tante cose da dire! Debbo attendere
un'occasione propizia che forse non si presenterà o chi sa quando si
presenterà? No; fondo una piccola rivista settimanale e in essa sarò
libero di sfogarmi e di scapricciarmi come voglio e come non posso più
fare da un pezzo!

Ed ecco le _Cronache drammatiche_, comparse il 2 aprile, col sorriso
della Pasqua di Resurrezione, quasi anche il giorno della prima
pubblicazione dovesse essere un buon augurio! Sedici fitte pagine in
16º.

Ora _Caramba_ è a suo agio. Ogni domenica, egli avrà la sua tribuna,
il suo pulpito, o più propriamente il suo salotto. Egli non scrive,
discorre. Qualcuno che lo vede frequentemente e che prende gran gusto
nello stare ad ascoltarlo, ha esclamato: Ah, se Edoardo Boutet si
risolvesse a scrivere le sue _Cronache_ in dialetto napoletano! Che
festa sarebbe!

Sarà una festa egualmente! Anche a dispetto di certe velleità di
affettazioni stilistiche che da qualche tempo egli predilige, come
questa che chiude il suo primo articolo, _Il sogno della Duse_:--E
intanto, in cosiffatta imperante e straripante dissennattezza, si
compie, forse, il delitto di uccidere la ignota anima _destinata di
un teatro italiano a gettar le fondamenta_!

Sarà una festa egualmente. Edoardo Boutet non diverrà mai un pedante:
non _scriverà_ mai, _parlerà_: ed è la sua caratteristica e sarà la
sua forza. Passare una mezz'ora con lui, per via di quelle
fosforescenti e svariate pagine delle _Cronache drammatiche_,
diventerà presto un piacere che si tramuterà in dolce abitudine, anche
per coloro che non si occupano esclusivamente di cose drammatiche.

E sarà una festa e una cosa seria.

Le cose che egli dice ridendo sono anzi le più serie.

Leggete l'aneddoto intorno ad Adamo Alberti, illustre impresario,
tempo fa, del teatro dei _Fiorentini_ a Napoli; leggete l'articolo
_Spettacolo di onore_ che chiude il primo fascicolo. Sono del Boutet
più schietto, e di quello che non ha bisogno di scrivere in dialetto
napoletano per riuscire efficace e nello stesso tempo divertente.



LA SOCIETÀ PER GLI STUDI FRANCESI IN ITALIA.


Eh, sì, mancava! Ed ho fatto tanto di cuore leggendone l'annuncio in
una rivista genovese.

Questa volta eravamo davvero ingrati, come ci qualificano i francesi.
Da parecchi anni molte brave persone si sono sbracciate in Francia per
fondare una _Società di studi italiani_ col generosissimo scopo di far
sparire qualche _piccolo malinteso nato in questi ultimi tempi_ tra
l'Italia e la sua sorella latina; e nessuno finora aveva pensato di
far sorgere qualcosa di simile tra noi per aiutare quelle brave
persone nella fratellevole impresa!

Di tratto in tratto, a grandi intervalli in verità, i giornali
francesi recano la notizia di una conferenza molto applaudita di
soggetto italiano, dell'invito a uno dei nostri scrittori più in voga
per andare a conferenziare colà; e il rumore degli applausi e dei
brindisi nei banchetti passa le Alpi e commuove i cuori sensibili di
quegli italiani che amano politicamente la Francia per lo meno quanto
la loro patria, e, stavo per dire, anche più. Milano ci ha dato
l'esempio di una doverosa cortesia invitando Edoardo Rod per una
conferenza: ma il caso è rimasto isolato.

Durante questo tempo, i francesi hanno iniziato per la letteratura
italiana contemporanea quel che facevano da un pezzo per altre
letterature straniere. Si sono degnati di accorgersi che c'è un po' di
buono anche tra noi. Un accademico, che aveva prima scoperto i
romanzieri russi, scopriva Gabriele D'Annunzio e lo presentava
all'ammirazione del mondo intero, giacchè quando Parigi ammira, per la
sua naturale funzione di cervello del mondo, induce tutte le nazioni
civili a sentire e pensare come lui. Rivolti, così per caso, gli occhi
a quest'umile Italia, meravigliati che avevamo anche noi parecchi
poeti, parecchi romanzieri degni della loro curiosità i francesi si
sono messi a farseli tradurre, per risparmiarsi la fatica di leggerli
nella lingua originale. E così è avvenuto che parecchi italiani, che
non avevano mai sentito la tentazione di leggere il loro D'Annunzio
nelle belle edizioni del Treves, hanno avuto il piacere di gustarlo
nelle traduzioni dell'Hérelle.

È probabile che in questo _emballement_, come colà dicono, di Parigi
per la letteratura italiana, la _Società di studi italiani_ entri per
qualche cosa; è probabile anche che non c'entri nè punto nè poco. Io
non ho elementi per giudicarlo. I _piccoli malintesi nati in questi
ultimi tempi_ fra l'Italia e la Francia non hanno, mi sembra, niente
che vedere con la letteratura; e se si dovesse badare allo scopo della
_Società per gli studi italiani_ e apprezzarne il risultato dai fatti,
non si avrebbe, credo, nessuna ragione di rallegrarsi dell'efficacia
di quegli studi. _I piccoli malintesi_ permangono, se pure non
aumentano. La _Società per gli studi italiani_ non ha potuto, per
esempio, impedire che i francesi, quando han voluto trovare l'epiteto
più infamante con cui bollare Emilio Zola, scegliessero quello
d'_italiano_. Venduto agli ebrei, tedesco, traditore della patria,
insultatore dell'esercito non sembrando sufficienti, ogni insulto è
stato riassunto in quella parola!

Qualche scontroso potrà dire:

--Siamo proprio buffi! Che alcuni francesi, di buona volontà abbiano
sentito il bisogno di fondare una _Società per gli studi italiani_,
non c'è da stupirne. Tra cento mila francesi, appena appena uno
intende un po' l'italiano. Tra gli scrittori francesi, a stento tre o
quattro non hanno citato un periodo, una frase italiana senza
infiorarla di spropositi. È naturale dunque che essi si vergognino
della loro ignoranza e cerchino di porvi riparo. Ma noi? Noi leggiamo
tutto quel che ci viene dalla Francia; noi conosciamo la loro
letteratura contemporanea quasi assai meglio della nostra; le nostre
riviste, i nostri giornali letterari, i nostri stessi giornali
politici rigurgitano di saggi, come si dice, di studi, di recensioni
di libri francesi; dovrei dire di panegirici, di inni, anche per libri
mediocrissimi che, scritti in italiano passerebbero inosservati. Che
diamine dobbiamo studiare più di quel che facciamo?

C'è chi si sente commuovere le viscere pei trionfi del D'Annunzio, per
le traduzioni dei romanzi del Serao, del Rovetta, del Butti, del
Neera? Primieramente questo fatto non ha niente di speciale. È venuta
la nostra volta. Passata la moda dei romanzieri russi, dei drammaturgi
e romanzieri norvegiani, la curiosità si è rivolta verso di noi, come
domani si rivolgerebbe verso i Lapponi e gli Ottentoti, se essi
avessero la fortuna di possedere una letteratura.

Questa curiosità intellettuale però fa molto onore ai francesi di
oggi; è una loro qualità nuova, e di cui bisogna rallegrarsi in onore
dello spirito umano. Ma coloro che vedono in questa curiosità un
sintomo di sentimenti di altra natura, si ingannano grossolanamente.

Per disgrazia, la letteratura è una cosa, la politica è un'altra.
Politicamente tra francesi e tedeschi c'è un dissidio mortale.
Spiritualmente, mai come oggi la cultura tedesca è stata assorbita e
assimilata in Francia; se ne veggono i segni dappertutto, nella
scienza e nell'arte. Chi da questo assorbimento e assimilamento
volesse indurne che francesi e tedeschi siano avviati a darsi un
abbraccio politico, direbbe una corbelleria.

La letteratura è come la religione; invade la immaginazione, il
sentimento, ma diventa cosa pratica fino a un certo punto; mai più in
là. Così noi, teoreticamente cristiani, praticamente siamo tali fino a
un certo punto, e forse non andremo mai più in là.

È male, è cosa deplorevole, ma non possiamo impedire che sia così. In
certi momenti, quando interessi tutt'altro che spirituali vengono in
ballo, la bestia che dorme nel nostro organismo si sveglia a un tratto
e ruggisce e sbrana e divora a dispetto di tutto e di tutti. I
fratelli cristiani si ammazzano tra loro peggio dei turchi e dei
selvaggi; le nozioni del tuo e del mio, i sentimenti di tolleranza, di
libertà, di eguaglianza diventano belle parole e nient'altro, utili
soltanto per darla a intendere ai semplici, agli sciocchi che si
lasciano illudere facilmente.

Diciannove secoli di cristianesimo, di filosofia, di scienza, non
hanno cavato un ragno dal buco, non sono riusciti ad ammansire un po'
la bestia umana! Di addomesticarla non si può parlare.

Ora nei _quelques travers_ a cui accenna il programma della _Società
francese per gli studi italiani_--e che non sono di _ces derniers
temps_, e non hanno origini così antiche che bisognerebbe andare a
indagarle nelle tenebre preistoriche--quei _quelques travers_ tra
italiani e francesi riguardano la bestia, cioè la politica; e non c'è
società di studi francesi e italiani che possano dissiparli. In questo
caso:--Chi si guarda si salva, dice il proverbio.

Ma io tolgo la parola allo scontroso; non voglio impicciarmi di
politica per conto suo. E siccome egli ha parlato di bestia ed ha
citato un proverbio, aggiungerò soltanto che è bene non fidarsi troppo
delle bestie; e che l'altro proverbio:--Il lupo cangia il pelo e non
il vizio--non deve intendersi unicamente per questi poveri animali. E
torno alla letteratura.

Oh, nessuno è più lieto di me che sia, finalmente, arrivato in Francia
un buon quarto d'ora per gli scrittori italiani; ma ne sono lieto più
pei francesi che per noi. Gli scrittori italiani insomma, rimangono
quel che sono. Hanno valore? Riconosciuto o no dagli altri, questo
valore non aumenta, nè diminuisce. Non hanno valore? E l'immeritata
ammirazione sarà fenomeno effimero, senza importanza.

Mi fa gran piacere intanto che lo spirito francese abbia abbattuta
un'altra barriera e varcato un altro confine intellettuale. Era
eccessivamente esclusivo; troppo e orgogliosamente si lusingava e si
compiaceva che poco o niente esistesse nel mondo fuori dei suoi poeti,
dei suoi romanzieri, dei suoi drammaturghi. Ora invece può giustamente
e diversamente inorgoglirsi, vedendo che il resto del mondo non ha
lasciato passare nessuna forma della letteratura francese senza
giovarsene, senza appropriarsi tutti i processi tecnici di essa, ma
anche non senza aggiungervi qualcosa, non senza apportarvi qualche
necessaria innovazione. E la letteratura italiana contemporanea gli
darà probabilmente, per ragione di conformità d'indole e di
tradizioni, maggiore elemento di orgoglio che qualunque altra.

Noi italiani abbiamo forse barriere da abbattere, confini da varcare,
specialmente con la Francia letteraria? Se mai, abbiamo bisogno di
ritrarci un pochino in casa nostra, per rifarci la salute con la sana
aria paesana.

E poichè per la politica la _Società degli studi francesi_ non
approderebbe a niente, come a niente ha approdato in Francia la
_Società per gli studi italiani_; poichè, per quel che riguarda l'arte
letteraria, essa risulterebbe assolutamente superflua, conchiudo:

--Vogliamo fare ancora un altro po' di accademia? Facciamola pure.
Vogliamo prendere altre indigestioni con banchetti internazionali, e
sgolarci in risonanti brindisi, e smanacciarci in applausi di
convenzione? Divertiamoci pure. Si fanno tante cose inutili in questo
mondo, che una di meno o una di più non sarà la rovina di nessuno.


NOTE:

[1] F. CAVALLOTTI: _La sposa di Mènecle_, Pref. XIII.

[2] L. CAPUANA, _Per l'Arte_, pag. 15 e seg.

[3] F. CAVALLOTTI, pref. all'_Alcibiade_, pag. 11. Ediz. citata.

[4] _Cavallotti_, Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle, pag.
269 edizione citata.

[5] Ivi, ivi.

[6] (EDOARDO ROD. _Essai sur Goethe. Paris, Perrin et C. editeurs,
1898_).

[7] ENRICO CORRADINI, _La Verginità_, Firenze 1898.

[8] _T. Massarani_, Epistola al Faldella pel Cinquantesimo dello
Statuto--Roma, Forzani e C. 1898.

[9] Vedi a pag. 50 dei miei _Ismi contemporanei_.


INDICE


  Nuovi ideali d'arte e di critica, conferenza       pag. X
  Felice Cavallotti, drammaturgo e poeta             »    3
  Alfonso Daudet                                     »   53
  Goethe                                             »   81
  Giovanni Meli                                      »   93
  Gabriele d'Annunzio                                »  103
  Emilio Zola                                        »  125
  Una jettatura                                      »  145
  La Chimera                                         »  153
  E. Rod - E. Lesca                                  »  165
  Vittorio Pica                                      »  175
  Enrico Ibsen                                       »  185
  Di un'opinione di E. Zacconi                       »  195
  Ascensioni umane                                   »  203
  Tullo Massarani                                    »  215
  E. De Amicis e P. Martini                          »  227
  La nevrosi artistica                               »  237
  Domando la parola                                  »  247
  Per un romanzo                                     »  257
  Dialoghi d'Esteta                                  »  271
  Edoardo Boutet e le sue cronache drammatiche       »  281
  La Società per gli studi francesi in Italia        »  291



  NOTA DEL TRASCRITTORE

  Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come
  le grafie alternative (studi-studî, vigoria-vigorìa,
  d'Annunzio-D'Annunzio e simili), correggendo senza annotazione minimi
  errori tipografici.
  Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo
  originale):

  viii - delle premesse [promesse], bisogna accettarne
    70 - di sconvenienza verso Sarah Bernhardt [Shara Bernardth]
   157 - l'Andrea Sperelli, il Tullio [Tullo] Hermil
   159 - la schiettezza [schietta], la sincerità diventano
   203 - Baldini e Castoldi [Gantoldi] editori
   240 - ci riempiamo la bocca col tronfio [trionfo] assioma





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Cronache Letterarie" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home