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Title: Ugo Foscolo (1778-1827) - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero
Author: Chiarini, Giuseppe
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Ugo Foscolo (1778-1827) - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero" ***


                                  LA
                            VITA ITALIANA

                              DURANTE LA
                   Rivoluzione francese e l'Impero


                _Conferenze tenute a Firenze nel 1896_

                                  DA

        Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili,
          Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti,
       E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi,
        Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi,
                           Enrico Panzacchi.



                                MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI

                                 1897.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                     _Riservati tutti i diritti_.

                        Tip. Fratelli Treves.



                             UGO FOSCOLO
                             (1778-1827)


                             CONFERENZA
                                 DI

                         GIUSEPPE CHIARINI.



_Signore, Signori_,


Fatemi grazia, cioè lasciate ch'io faccia grazia a voi, del preambolo,
ed entri senz'altro in materia.

Ugo Foscolo canta nel Carme alle Grazie:

    Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
    Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi
    Sacri al tripudio di Diana e al coro;
    Nè ancor Nettuno al reo Laomedonte
    Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
    Bella è Zacinto! A lei versan tesori
    L'angliche navi, a lei dall'alto manda
    I più vitali rai l'eterno sole;
    Limpide nubi a lei Giove concede,
    E selve ampie d'ulivi, e liberali
    I colli di Lieo. Rosea salute
    Spirano l'aure, dal felice arancio
    Tutte odorate, e dai fiorenti cedri.

Chi scrisse questi versi era nato poeta, avea nelle vene il sangue della
greca poesia. L'isola natale che così sonante gli rifioriva nel verso
eraglisi trasmutata dal vero in questa splendida visione, per la lettura
degli antichi poeti. Il paganesimo, che nella maggior parte degli
scrittori contemporanei d'Ugo si componeva di reminiscenze di scuola e
di precetti accademici, era in lui un sentimento così vivo e profondo,
che egli allorchè, parlando dei suoi colli materni, diceva: “Ivi
fanciullo — La Deità di Venere adorai„, diceva una cosa essenzialmente
vera; tanto vera, che gli effetti di quella soverchia adorazione lo
tormentarono per tutta la vita.

L'isola di Zante, dove egli non vedeva che riso azzurro di cieli, selve
d'ulivi e vigneti, dove non sentiva che profumo d'aranci e di cedri, e
nei boschi il tumulto e lo strepito delle caccie di Diana, quell'isola
di Zante era ai tempi suoi poco più che un nido di selvaggi e di
briganti.

Ugo stesso quando, mortogli nel 1788 il padre, si condusse con la madre
e il rimanente della famiglia a Venezia, era (e rimase sempre) un po'
selvaggio anche lui. Qualche anno innanzi, a Spalatro, dove suo padre
era stato ufficiale sanitario dal 1784 in poi, avea fatto la scuola di
Umanità. Dove e come proseguisse gli studi a Venezia, s'ignora; ma che
quivi la giovinezza sua fosse tutta negli studi, lo mostrano i ricordi
ch'egli stesso ne lasciò fra le sue carte, e i versi che compose fra i
quattordici e i diciannove anni, dal 1792 al '97.

Da quei ricordi e da quei versi balza fuori, piena di ardore, la figura
del greco giovinetto, assetato di gloria, smanioso di farsi conoscere,
di far parlare di sè. E Venezia era campo propizio a quelle giovanili
ambizioni.

Quando egli arrivò là con la madre, la famiglia era così povera, che
andò ad abitare in una delle contrade più sudicie della città, e non si
cibava d'altro che di pane e riso.

“La casa, o per dir meglio catapecchia, scrive Mario Pieri, ove si
alluogò, era sì miserabile che nelle finestre non avea vetri, ma bensì
le impannate. Quel giovane per altro (è sempre il Pieri che parla) ben
lontano dal lasciarsi avvilire a quella intollerabile povertà,
scherzava, potrebbesi dire, con essa, e sfidavala, e quasi se ne
compiaceva, superbo del proprio talento, e consolato dalla speranza di
gloria che i suoi studi gli promettevano.„

“Rossi capelli e ricciuti, ampia fronte, occhi piccoli e affossati ma
scintillanti, brutte e irregolari fattezze, color pallido, fisionomia
più di scimmia che d'uomo; curvo alquanto, comecchè bene aiutante della
persona; andatura sollecita, parlare scilinguato ma pieno di fuoco;
mettea meraviglia il vederlo aggirarsi per le vie e pei caffè, vestito
di un logoro e rattoppato soprabito verde, ma pieno di ardire, vantando
la sua povertà infino a chi non curavasi di saperla, e pur festeggiato
da donne segnalate per nobiltà ed avvenenza e dalle maschere più
graziose e da tutta la gente.„

Il Pieri scrive ciò riferendosi al 1797, nel quale anno conobbe appunto
il Foscolo, ch'era già divenuto famoso, che avea già composto l'ode
_Bonaparte liberatore_, che avea già dato al teatro la sua tragedia, _Il
Tieste_, accolta da applausi incredibili e recitata ben dieci sere,
affinchè tutti i 150.000 abitanti della laguna potessero sentirla.

Com'è che il giovine greco avea penato così poco a conquistarsi la fama?

Al gusto e al giudizio nostro tutto il fardello delle sue poesie
giovanili, fino all'_ode_ e alla _tragedia_ inclusive, pesa ben poco;
dirò di più, in quei primi versi non c'è affatto la promessa del poeta
che pochi anni dopo dovea scrivere alcuni sonetti e le due odi famose.
Ma certo noi giudichiamo le poesie giovanili del Foscolo con criteri
molto diversi da quelli dei suoi contemporanei, e non abbiamo sotto gli
occhi il poeta giovinetto che con la sua singolarità e la sua stessa
povertà attirava sopra di sè l'attenzione, destava l'interesse del
pubblico.

Al ritratto di lui lasciatoci dal Pieri aggiungiamo qualche pennellata
presa alla tavolozza di altri scrittori contemporanei. Odoardo Samueli,
che aveva sentito il Foscolo recitare un canto di Dante, scrive di lui:

    Quand'io ti vidi rabbuffati i crini
    Con rauca voce e fiammeggianti sguardi
    Cantar in suon feroce i sacri ond'ardi
    Del tuo padre Alighier carmi divini;
    . . . . . . . . . . . . . . .
    Cingi, o Italia, gridai, le fulve chiome
    Del non tuo figlio col natio tuo serto;
    E ne scolpisci ne' tuoi fasti il nome.

Queste fulve chiome nei versi di un altro scrittore contemporaneo
diventano _ignite_; e lo scrittore vede il nome del poeta con le chiome
ignite _galleggiare, lucente, altero, su l'addensata notte dei secoli_,

    Quasi cometa per nemboso piano.

Si capisce a questi indizi lo stupore che il giovane Jonio avea destato,
fino dal suo primo apparire, nel pubblico veneziano. E quello stupore,
che non si produce mai durevolmente senza forti qualità dell'ingegno, ci
spiega il rapido sorgere della sua fama, alla quale, come dissi, le
condizioni di Venezia si porgevano favorevoli.

                                 *

Mentre l'Europa tremava sbigottita sotto il peso degli avvenimenti della
rivoluzione francese, che le intimavano giunta l'ora del rinnovarsi,
Venezia si divertiva. In una società come quella, in cui il principale
scopo della vita era godersi la vita, inutile dire che la libertà dei
costumi toccava la licenza. E in una società cosiffatta inutile dire che
il regno apparteneva alle belle donne.

Fra le più belle (e bellissima possiamo giudicarla veramente, più che
dagli attestati dei suoi adoratori, dal ritratto che di lei rimane,
opera di una pittrice insigne) era Isabella Teotochi Marin; la quale,
con poco piacere del marito, che pure pizzicava di letterato e di poeta,
avea fatto della sua casa il ritrovo di tutti gli uomini più o meno
illustri che dimoravano o capitavano a Venezia: notevoli fra i più noti
il Cesarotti, il Bettinelli, il Pindemonte, il Bertola. Quando e come vi
fosse introdotto il giovine Foscolo non saprei dire; ma è facile
intendere ch'egli dovea sentirsi quasi istintivamente attirato verso
quella società letterata, e che quella società letterata doveva essere
molto curiosa di conoscerlo e desiderosa di attirarlo: alla padrona di
casa sopra tutti, greca anche lei, dovea sorridere l'idea di prendere
sotto la sua protezione ed allevare con le briciole del suo affetto il
greco poeta.

Ugo dovette fare la conoscenza dell'Isabella fra il 1794 e il '96,
quando essa, già divisa dal marito, stava per ottenere, o avea ottenuto
il divorzio.

Vi figurate, o signore, o signori, questo brutto e ardente giovinetto di
pelo rosso, ostentante con aria di superiorità il suo logoro e
rattoppato soprabito verde, entrare ardito nelle aristocratiche sale,
dove la greca bellezza esponevasi all'ammirazione dei suoi adoratori? E
la greca bellezza accoglierlo con un sorriso pieno di grazia, che fece,
io credo, balzare con violenza nuova il cuore del selvaggio isolano? A
lui che fin da fanciullo adorava Venere nei materni suoi colli, dovette
sembrar di vedere la Dea in persona, salvo che un po' più vestita. — E
che cosa pensate voi, che avvenisse per questo incontro? — Io penso che
il poeta s'innamorò senz'altro della bella signora; nè mi fa ostacolo
ch'egli avesse diciassette o diciotto anni, e lei trentaquattro o
trentacinque.

Amori di questo genere sono comunissimi nei poeti; ed anche nei non
poeti. Nè la signora, io penso, per quanto vicina a passare a seconde
nozze col nobile uomo Giuseppe Albrizzi, si adontò dell'amorosa offerta
che il giovine poeta le fece del suo cuore.

Se questo ch'io penso è vero, la saggia Isabella sarebbe probabilmente
la Laura cantata dal poeta nelle _Rimembranze_, e fors'anche la celeste
Temira del romanzo autobiografico. Comunque sia di ciò, in questo amore
del poeta per Laura è indubbiamente il germe primo del _Jacopo Ortis_.

Venezia, ho detto, si divertiva; ma, fra mezzo al tripudio dei giuochi,
delle mascherate e dei balli, l'eco delle magiche parole _liberté,
égalité, fraternité_, con le quali la Francia rivoluzionaria avea
chiamato alla riscossa i popoli, e il suono delle vittoriose armi
francesi, avevano anche a Venezia smosso qualche cosa. Anche in Venezia,
come nelle altre parti d'Italia, era venuto sorgendo un partito
democratico, e s'era formato un comitato rivoluzionario, in
corrispondenza coi repubblicani di fuori. Ugo fece parte dell'uno, e
forse anche dell'altro, spiegando nell'opera di agitatore politico tutto
l'impeto della sua ardente giovinezza e della sua bollente natura; onde,
sospettato e perseguitato dal Governo, dovè nell'aprile del 1797
abbandonare Venezia. Riparò nella Cispadana, e si arruolò cacciatore
volontario in uno squadrone che si andava formando a Bologna.

Di lì a poco (12 maggio 1797) il Governo di Venezia cadde
ignominiosamente abdicando. Gli successe un Governo provvisorio
democratico; ed Ugo, appena avutane notizia, si affrettò a tornare.
Furono, per lui, e per gli altri come lui amanti sinceri della libertà,
giorni pieni d'illusioni; ma giorni soltanto. Si fecero feste e
luminarie, si fecero sciocchezze e pazzie per celebrare la
_rigenerazione_ della patria; si piantò nella piazza di San Marco (6
giugno) l'albero della libertà; e intorno ad esso ballarono, cantando il
canto della democrazia, vecchi, donne, fanciulli, sacerdoti, magistrati.
Il Foscolo ebbe un ufficio presso il Governo provvisorio, e pubblicò la
sua ode _Bonaparte liberatore_.

Intanto Bonaparte liberatore stava cedendo Venezia agli Austriaci.

Inutile dire lo scoppio d'indignazione dei liberali sinceri alla
dolorosa notizia.

Nell'animo d'Ugo essa fece una ferita immedicabile. Quando stavano per
entrare i nuovi padroni, egli capì che quella di Venezia non era più
aria per lui, e scappò a Milano, dove nei primi del 1798 diresse il
_Monitore italiano_ (giornale ch'ebbe pochi mesi di vita), e vi pubblicò
alcuni frammenti sullo stato d'Italia, i quali poi ricomparvero
nell'_Ortis_.

L'anno appresso (1799), Ugo, ristampando l'ode, vi premetteva la famosa
lettera dedicatoria, con la quale, invitando il conquistatore a tornare
in Italia, gli diceva, fra le altre cose: “tu sei in dovere di
soccorrerci, non solo perchè partecipi del sangue italiano, e la
rivoluzione d'Italia è opera tua, ma per fare che i secoli tacciano di
quel trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni e scemò
dignità al tuo nome.„

Un giovinotto di ventun anni, povero e quasi sconosciuto fuori del
veneto, che cercava un impiego dal Governo della repubblica cisalpina,
parlare così al conquistatore francese, che era il fondatore di quella
repubblica, che stava per toccare l'apogeo della sua fortuna e della sua
gloria, fu certo ardimento non piccolo. In questo contrasto fra il
bisogno che lo costringeva a importunare di domande i potenti e la
fierezza della sua natura che lo induceva a rimproverar loro arditamente
le loro colpe e i loro vizi, sta una parte notevole della vita e del
carattere del Foscolo.

                                 *

Io vi ho abbozzato, o signori, la giovinezza di quella vita; ora
dobbiamo vedere l'uomo, e nell'uomo considerare tre persone, il soldato,
il poeta, l'uomo propriamente detto.

Del soldato ci sbrigheremo brevemente; basterà ch'io vi legga il suo
stato di servizio, uno stato di servizio veramente onorevole.

Lo tolgo da un rapporto del Ministro della guerra al Vice Presidente
della Repubblica cisalpina, che porta la data del 30 ottobre 1802.
“Dalle carte presentate, dice il rapporto, risulta che il Foscolo fu
cacciatore a cavallo fino dall'anno 1797, e che ebbe un brevetto
onorario di tenente dalla Giunta di difesa generale Cispadana; che
combattè valorosamente a Cento, e fu ferito; che a Forte Urbano fu
prigioniero; che combattè alla Trebbia e a Genova, dove per attestati, e
per testimonianza del generale Massena (che lo nomina nel suo rapporto
stampato), ebbe gran parte nella importante vittoria, dei _due
fratelli_, e che fu nuovamente ferito; che fece le campagne della
Romagna e della Toscana, e che ha sempre dimostrato negli stati maggiori
dove ha servito per tre anni consecutivi tutto il coraggio ed i lumi che
caratterizzano un uffiziale. La sua nomina di Capitano aggiunto ha
origine da un ordine del generale in capo Massena, che a Genova lo
impiegò a richiesta dell'aiutante generale Fantuzzi.„

Nei cinque anni dei quali parla il rapporto (1798-1802), è la parte più
considerevole della vita militare del Foscolo. Dopo il 1802, egli non si
trovò più a nessun fatto d'armi. Dalla primavera del 1804 ai primi di
marzo del 1806 appartenne alla Divisione italiana mandata in Francia al
Campo di Saint-Omer; poi tornò a Milano, dove rimase a disposizione del
Ministero della guerra.

E qui, si può dire, finisce la vita militare del Foscolo; nella quale se
non andò più avanti del grado di capitano, se anzi questo grado gli fu
sempre contestato, e se non dimostrò le migliori attitudini come
ufficiale amministrativo, dimostrò però ampiamente di possedere ciò che
più importa nel soldato, il coraggio e il valore.

Ma cessando nel fatto dalla milizia, il Foscolo ne conservò gli stipendi
e la divisa, che di tratto in tratto indossava in qualche importante
occasione. Cotesti stipendi gli furono sempre pagati dal governo, perchè
potesse attendere ai suoi lavori letterari. E pure le sue lettere di
cotesto tempo ai superiori e agli amici son piene di lamenti perchè non
era abbastanza pagato.

La spiegazione di questi lamenti sta in ciò che narra di lui Mario
Pieri. Il Pieri che, come sappiamo, avea conosciuto il Foscolo a Venezia
povero in canna e superbo della sua povertà, narra che, rivedendolo
qualche anno dopo a Milano, lo trovò _tutto attillato e pulito_, che
abitava _un ricco quartiere_, che si faceva _abbigliare da capo a piedi
dal suo servitore, che frequentava le mense dei grandi, e veniva
predicando i comodi della vita_. Accostandosi alle mense dei grandi, Ugo
ne contrasse la malattia del voler parere grande, pur seguitando di
tratto in tratto a protestarsi povero; le quali proteste, chi guardi
bene addentro, erano anch'esse un effetto della sua megalomania; funesto
morbo, che gli guastò il carattere e gli contristò miseramente la vita.

Divenendo la capitale della repubblica cisalpina, Milano si era d'un
tratto trasformata come per incanto. Alla inerzia e al torpore degli
anni precedenti era succeduta una meravigliosa esuberanza di vita: da
tutte le parti d'Italia, quanto v'era d'uomini ingegnosi, arditi,
operosi, intraprendenti, accorreva a Milano.

La medaglia aveva, s'intende, il suo rovescio. Insieme agli uomini di
valore ed onesti erano accorsi d'ogni parte gl'intriganti, i quali
cercano sempre trar profitto da ogni mutazione di governo: l'antica
rilassatezza del costume non trovava certo nel nuovo ordine di cose un
freno salutare; tutt'altro.

Ugo, nella sua duplice qualità di soldato e di poeta, avea subito
trovata a Milano buona accoglienza fra i militari e fra i letterati.
D'uomini illustri nelle lettere e nelle scienze c'erano già, quando egli
arrivò, o giunsero poco dopo, il Monti, il Paradisi, Giovanni
Pindemonte, il Giordani, il Gioia, il Rasori e parecchi altri.

                                 *

Una delle prime amicizie che Ugo contrasse fu quella del Monti, una
delle prime cose che fece fu innamorarsi della moglie di lui. Non era
nuovo agli amori. Avea già avuto a Venezia i primi ammaestramenti dalla
celeste Temira. “Cogli i favori delle belle donne, come i fiori delle
stagioni, essa gli avea detto; ma bada, non innamorarti„: e lui avea
subito cercato di mettere in pratica il primo precetto. Quanto al
secondo, preso letteralmente, esso non era di attuazione possibile per
un uomo che già stava tramutandosi in Jacopo Ortis. Tanto non era
possibile, che la vita del Foscolo nelle sue relazioni col sesso gentile
fu da indi in poi un continuo succedersi, anzi intrecciarsi, d'amori,
per modo che prima che maturasse l'uno era spuntato già l'altro; nè era
vietato ai morti amori di rinascere, nè ai viventi di fare a pugni o
accomodarsi alla meglio l'uno accanto all'altro dentro il cuore del
poeta.

Se nell'amore per la Monti il Foscolo trovasse corrispondenza, non si
può nè affermare nè negare. Il Pecchio lo crede, io non lo credo.
Comunque, Ugo lasciò scritto che si voleva ammazzare per lei, e lei
raccontò al Pieri che veramente egli tentò d'ammazzarsi: ma per fortuna
non ne fu nulla; e così potè invece cercare conforto in un amore nuovo,
nell'amore della giovine Isabella Roncioni, che conobbe passando da
Firenze nelle sue escursioni militari, e che ahimè era già fidanzata ad
un marchese Bartolomei, al quale poi andò sposa.

Che cosa fosse il Foscolo innamorato, chi in Firenze conobbe il
Niccolini, può averlo saputo da lui. Chi non lo conobbe può leggere ciò
che ne dice il Pecchio, che torna lo stesso. “Egli era, dice il Pecchio,
un oggetto per alcuni di terrore, per altri di riso.... diveniva mutolo,
accigliato, cupo, guardando con pupille sbarrate, immote, come quelle
d'un frenetico; e se rompeva quella terribile taciturnità, non era che
per brontolare alcune sentenze sul suicidio, o per ripetere le cento
volte a guisa d'un rosario alcuni versi allusivi al suo stato.„

Un amatore così fatto sembrerebbe dover fare paura alle belle signore:
invece, almeno a quel tempo, pare di no. Tanto che della perduta
Isabella potè ben presto consolarsi a Milano nell'amore della contessa
Fagnani Arese, una superba bellezza, alla quale piacque aggiungere nella
lunga lista dei suoi trionfi quello sul singolare poeta.

Ed egli allora (nel 1802) era veramente divenuto poeta, non solo
singolare, ma grande. Singolare piuttosto è, cioè può parere, che egli
diventasse gran poeta in quei cinque anni, che furono i più tumultuosi
della sua vita, e i meno acconci agli studi; nè solamente poeta, ma
anche prosatore. Egli andava correndo su e giù per l'Italia, da Milano a
Bologna, da Bologna a Modena, da Modena a Lugo, a Firenze, a Pistoia,
incaricato di commissioni militari, incaricato di dare la caccia ai
briganti; e intanto dall'ingegno suo sbocciavano quei tre sonetti
d'amore che il Carducci disse “mirabili di novità, di purità, di
movimento, vera lirica dell'affetto superiore ed intenso trasformato ed
idealizzato nel fantasma„. E intanto componeva l'ode alla Pallavicini,
che se nella combinazione dei versi rammenta il Parini, lo supera nella
eccellenza della esecuzione, e l'altra all'amica risanata, le cui ultime
strofe sono di una purezza antica quale fino allora non s'era veduta
nella nostra poesia. E intanto veniva elaborando le _Ultime lettere di
Jacopo Ortis_, e scriveva l'_Orazione a Bonaparte_ pel congresso di
Lione.

I tre sonetti sono scritti per la Roncioni, nel 1799. L'amore per la
Roncioni fu pure quello che fissò nell'ultima sua forma il romanzo. Il
primo germe di esso furono, come dissi, le _lettere a Laura_; le quali,
dopo l'amore per la Monti, si trasformarono ed allargarono _nella vera
storia di due amanti infelici_, cominciata a stampare dall'autore a
Bologna nel 1798, finita e pubblicata dal Sassoli, e dal Foscolo
rifiutata.

Ma non si può pensare senza disgusto che all'ultima elaborazione
dell'_Ortis_ partecipasse l'amore per la bella Signora milanese, che il
poeta celebrò nell'ode _all'amica risanata_.

Così quattro amori e quattro donne contribuirono alla formazione del
famoso romanzo, che fece versare tante lacrime a tante innocenti
fanciulle, che fece girare la debole testa a tante giovani spose, che
fece, come il _Werther_ in Germania, venir di moda il suicidio; che fu,
lasciatemi dire, la catena del forzato che Ugo si trascinò dietro per
tutta la vita. Meditando il suo romanzo, egli si era immedesimato
siffattamente col protagonista, che di fronte alle molte donne che
incontrò nel suo breve cammino non seppe recitare mai altra parte che
quella di Jacopo Ortis, salvo, s'intende, il suicidio. Ma in quel libro
malsano il poeta si rivelò prosatore nuovo, originale, efficace; meglio
che nella _Orazione_ pei Comizi di Lione, dove non seppe, o non volle,
liberarsi dell'antico paludamento.

Egli non aveva allora che ventiquattro anni,

                                 *

La rimanente sua vita può dividersi in due grandi atti, separati, o
meglio legati insieme, da un breve intermezzo. L'atto primo comprende il
tempo della piena espansione di tutte le forze intellettuali ed
affettive del poeta, alle quali una sola cosa mancò, il freno di una
forte volontà che contenendole sapesse guidarle a mèta sicura. È il
tempo dei _Sepolcri_ e delle _Grazie_, dell'_Aiace_ e della _Ricciarda_,
della traduzione d'Omero e delle lezioni d'eloquenza a Pavia; il tempo
degli amori per la Giovio, per la Bignami e per la Battaglia, a cui
servono come di contorno gli amori in Francia, gli amori con la saggia
Isabella e la Marzia, e gli amori bolognesi e fiorentini con la
Martinetti, con la Magiotti e con altre donne.

L'intermezzo comprende la breve dimora del poeta in Isvizzera
(1815-1816).

Nell'atto secondo è la catastrofe, cioè la vita dell'esule a Londra, dal
1816 alla morte, avvenuta nel 1827. Sono gli anni nei quali il poeta è
morto alla poesia, e la poesia è morta al poeta, gli anni dei faticosi
lavori d'erudizione e di critica, gli anni dei progetti di imprese
letterarie, sempre falliti e sempre rinnovati; sono gli anni della vita
galante nella gran società di Londra, gli anni dell'amore per la
Russell, gli anni delle spese pazze e della miseria.

Tutto l'uomo è nel giovane. Questa sentenza del Giordani, verissima per
molti scrittori, vera per tutti, per nessuno è di una verità così
lampante come per il Foscolo. Perciò io mi sono trattenuto a parlare
della giovinezza di lui forse più che non paiano comportare i limiti di
una conferenza.

Quel sentimento, tutto pagano, di ammirazione e adorazione della
bellezza plastica femminile, misto ad una tetra malinconia, che avea
bisogno di alimentarsi nella infelicità dell'amore e nelle sciagure
della patria; quel sentimento e quella malinconia, che nella vita del
Foscolo giovine produssero gli amori per la Roncioni e per l'Arese, e
nell'arte le due odi, alcuni sonetti e l'_Jacopo Ortis_; quel sentimento
e quella malinconia governano tutta la posteriore vita dell'uomo e dello
scrittore.

Tornato di Francia, dove pure avea fatto un po' l'Jacopo Ortis con una
signora inglese ed una signorina francese, Ugo andò per alcuni mesi a
Venezia, a rivedere la madre che adorava, e a riprendere gli amori suoi
con l'Albrizzi. Là ebbe, io credo, la prima idea del carme _I sepolcri_.
Lo scrisse poi tornato a Milano, e lo stampò a Brescia nell'aprile
dell'anno appresso (1807). Non che gli mancasse a Milano il sorriso
animatore delle Muse, cioè delle belle signore (ce ne aveva a bizzeffe);
ma andando a Brescia, e trattenendovisi a lungo per la edizione delle
opere del Montecuccoli, egli s'incontrò in una nuova Musa, Marzia
Martinengo Cesaresco (le Muse erano per lui molte più delle nove che
registra la Mitologia), e si affezionò ad essa; e sotto la protezione
dell'amore di essa diede alla luce il _Carme_, che fu e rimase la più
alta espressione del suo ingegno poetico e del suo caldo patriottismo.

Intendiamoci, la signora non ebbe alcun merito nel merito di questa
poesia, che germogliò nella mente del poeta per tutt'altro influsso che
di bellezze femminili, e ne balzò fuori d'un tratto intera e perfetta.
Anzi, le bellezze femminili, troppo idoleggiate dal poeta, furono forse
cagione che questo mirabile carme rimanesse unico nella produzione
poetica dell'autore.

Egli intorno a quel tempo avea meditati e abbozzati, e in parte scritti,
altri carmi; non meno di sei.

Si vede dai titoli, ed è confermato da ciò che il poeta scriveva in quel
tempo agli amici suoi, che negli argomenti e nella materia dei carmi
c'era assai varietà; ma nessuno di quei carmi ebbe compimento; e gli
squarci che l'autore ne compose andarono poi tutti a finire in un carme
solo, che fu come il testamento poetico di lui. È questo il carme _Alle
Grazie_, nel quale il poeta intendeva fin da principio idoleggiare tutte
le idee metafisiche sul bello.

Glie ne venne il pensiero dal gruppo delle Grazie scolpito dal Canova;
ne scrisse forse qualche primo frammento sul lago di Como quando conobbe
la famiglia Giovio e s'innamorò della Cecchina, una seconda edizione
dell'amore per la Roncioni; se non che questa volta il poeta avea
lasciato due pezzi del suo cuore a Milano, uno in potere della Lucietta
Battaglia, l'altro di Maddalena Bignami. Non so se della prima di queste
due donne, che fu amata furiosamente dal poeta, ci sia qualche accenno o
allusione nel _Carme_, come una volta sospettai; ma la Bignami
rappresenta in esso una delle figure principali. Le altre due donne, che
con lei formano il perno intorno al quale si aggira il poema, sono la
famosa Cornelia Martinetti, che Ugo corteggiò nel suo passaggio da
Bologna per Firenze, nel 1812, e la bella Eleonora Nencini, antica sua
conoscenza, ch'era stata la confidente de' giovanili amori di lui per la
Roncioni.

A Firenze il poeta, grande ammiratore, e nei suoi primi lavori poetici
imitatore dell'Alfieri, si fece assiduo alle conversazioni della
contessa d'Albany, dove conveniva il fiore delle bellezze fiorentine, la
Rondoni e la Nencini comprese; e qui incantato dalla grazia, dallo
spirito, e diciamo anche dalla civetteria delle più belle fra quelle
signore (i poeti in ispecie sono molto facili a bever grosso in questa
materia e a prendere per grazia e per ingenuità la civetteria),
incantato dalla eleganza della città, inebriato dall'aria balsamica dei
suoi colli, non respirando, non sognando che grazia ed eleganza,
s'innamorò, s'infatuò talmente del suo carme _Alle Grazie_, ch'esso a
poco a poco assorbì ogni suo pensiero poetico, e venne prendendo
proporzioni così larghe, che d'un inno com'era in principio, diventò
nell'ultimo disegno, un poema, diviso in tre inni, e ciascun inno in tre
parti.

Il numero tre pei poeti, è contagioso. Tre le Grazie, tre gl'inni e tre
le sacerdotesse delle Grazie.

    Tre vaghissime donne a cui le trecce
    Infiora di felici itale rose
    Giovinezza, e per cui splende più bello
    Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra
    Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.

Così comincia l'Inno secondo.

L'ara è a Bellosguardo, dove il poeta dimora, e dove scrive il suo
carme. Le sacerdotesse sono le tre belle signore che sopra ho nominate,
ciascuna delle quali ha suoi speciali attributi nel culto che il poeta
rende alle amabili Deità.

La Nencini, abile suonatrice d'arpa, rappresenta la _grazia
simboleggiata negli effetti della musica_; la Martinetti, piena di
spirito e cultissima, _la grazia della fantasia espressa nell'amabilità
della parola_; la Bignami, gentile danzatrice, _la grazia apparente al
guardo dall'eleganza delle forme nei moti del ballo_.

La descrizione della suonatrice d'arpa è uno dei più bei pezzi del
_Carme_, anzi della moderna poesia, denso di pensieri, abbagliante
d'immagini, affascinante di suoni come una sinfonia rossiniana. Sentite:

      Già del piè delle dita e dell'errante
    Estro, e degli occhi vigili alle corde
    Ispirata sollecita le note
    Che pingon come _l'armonia diè moto_
    Agli astri, all'onda eterea e alla natante
    Terra per l'oceàno, e come franse
    L'uniforme creato in mille volti
    Co' raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno,
    E i suoni all'aere, e diè i colori al sole,
    E l'alterno continuo tenore
    Alla fortuna agitatrice e al tempo,
    Sì che le cose dissonanti insieme
    Rendan concento d'armonia divina
    E innalzino le menti oltre la terra.
      Come quando più gajo euro provòca
    Su l'alba il queto Lario, e a quel sussurro
    Canta il nocchiero, e allegransi i propinqui
    Liuti, e molle il flauto si duole
    D'innamorati giovani e di ninfe
    Su le gondole erranti; e dalle sponde
    Risponde il pastorel con la sua piva;
    Per entro i colli rintronano i corni
    Terror del cavriol, mentre in cadenza
    Di Lecco il malleo domator del bronzo
    Tuona dagli antri ardenti; stupefatto
    Pende le reti il pescatore, ed ode.
    Tal dell'arpa diffuso erra il concento
    Per la nostra convalle; e mentre posa
    La sonatrice, ancora odono i colli.

                                 *

Io fui forse troppo severo con le _Grazie_ e con le belle signore quando
una volta, a proposito degli amori del Foscolo, scrissi che natura lo
avea creato alla grande poesia di cui son saggio i _Sepolcri_, e
ch'egli, per piacere alle amanti, volle essere il poeta delle _Grazie_.
Fui troppo severo, forse ingiusto; ma spero parere non immeritevole di
perdono anche agli occhi vostri, o gentili signore che mi ascoltate.

Certo la bellezza è nel mondo una benedizione di Dio, e la bellezza
femminile è una delle più gentili parvenze che rallegrino la vita
dell'uomo: nessuna bella cosa è più bella di un bel volto di donna
irradiato dalla bontà e dall'ingegno. Parlano all'anima un linguaggio
misterioso, eccitano nel cuore ineffabili godimenti gli infiniti aspetti
della natura animata ed inanimata, il sorgere del sole, un cielo
stellato, il canto degli uccelli, lo stormir delle frondi, il profumo
dei fiori, il fremito della primavera; ma un giovine innamorato ritrova
tutti quei godimenti ed altri maggiori nella contemplazione di due begli
occhi di donna. La gioventù non è però tutta la vita; nè può tutta la
gioventù vivere della sola contemplazione della bellezza. L'uomo non
appartiene a sè solo, appartiene alla grande famiglia umana, e la grande
famiglia umana ha, oltre quello della bellezza, altri e più alti ideali
che debbono guidarla e sorreggerla nel cammino interminato dell'umano
perfezionamento. Egli è perciò, o signore, o signori, ch'io, rammentando
gli effetti prodotti in me dalla lettura del carme _I sepolcri_, lo
preferisco alle _Grazie_, e mi dolgo che il troppo amore di queste
distogliesse il poeta dagli altri carmi.

L'ingegno poetico del Foscolo fu essenzialmente lirico; direi quasi,
esclusivamente. Il poeta scrisse anche satire, ed, oltre il _Tieste_,
che ho già nominato, altre due tragedie, l'_Ajace_ e la _Ricciarda_: ma
così nelle satire, come nelle tragedie, ciò che v'ha di meglio sono
squarci di poesia narrativa e descrittiva appartenenti al genere delle
_Grazie_ e dei _Sepolcri_.

L'_Aiace_ rappresentato con grande aspettazione a Milano nel 1811, finì
fra le risate del pubblico. Occasione alle risate furono, voi lo sapete,
i Salamini (sudditi di Ajace); ma la cagione vera, che la tragedia era
mortalmente noiosa: la gente non va al teatro per sentir recitare
qualche migliaio di versi, siano pur belli. E non c'è bisogno per ciò nè
di palco scenico nè d'attori. Il dolore del poeta per l'insuccesso
dovette esser grande. Chi pensò a compensarnelo furono i suoi nemici,
ch'erano molti, e tristi e sciocchissimi.

Egli avea sempre tenuto verso Napoleone ed il suo governo in Italia,
così al tempo della Repubblica cisalpina come del regno Italico, il
libero e fiero contegno assunto fino dal 1799 con la lettera dedicatoria
dell'ode _Bonaparte liberatore_. Nell'orazione pei comizi di Lione, più
che tessere le lodi dell'Imperatore, avea fatto un'aspra e violenta
censura dei mali che per opera del suo governo travagliavano la patria.
Quando, nominato professore a Pavia, stava preparando l'orazione
inaugurale, fu pregato d'introdurvi qualche parola di lode
dell'Imperatore, com'era d'uso; ma egli rispose, no; e no fu. Notisi che
lo stipendio di professore, di cui tutti i suoi predecessori si erano
contentati, parendo a lui troppo piccolo, avea chiesto ed ottenuto che
gli si conservasse metà del soldo militare. Egli era così, e si conservò
sempre eguale; chiedeva quasi in tuono di comando, e riserbandosi piena
la sua libertà di giudizio e di parola. Ma quanto più i governanti gli
si dimostravano benevoli per la stima che facevano del suo ingegno,
tanto cresceva l'ira dei suoi nemici contro di lui.

È noto l'epigramma che dopo la recita della tragedia corse per Milano:

    Per porre in scena il furibondo Ajace,
    Il fiero Atride e l'italo fallace,
    Gran fatica Ugo Foscolo non fe':
    Copiò sè stesso e si divise in tre.

Questo fu niente: i nemici del poeta andarono spargendo che l'_Ajace_
era una satira dell'Imperatore Napoleone. Non si poteva inventare bugia
più sciocca: ma non c'è bugia, tanto sciocca, che a forza di gridare non
si riesca a farla credere una verità. Così accadde; la polizia dovè
occuparsene, e il poeta dovè esulare dal regno. Egli, che con una parola
avrebbe potuto giustificarsi, preferì fare la vittima, poichè così la
tragedia acquistava un'importanza politica, che lo compensava
dell'insuccesso nel teatro. L'esilio, che gli fu condito di tutte le
dolcezze possibili, diventò una specie di viaggio trionfale alla volta
di Firenze, dov'egli, già noto e famoso, arrivò più famoso e festeggiato
che mai. Un po' di persecuzione, o vera o apparente, aggiunge sempre
qualche raggio all'aureola di un uomo illustre.

La povera Quirina Magiotti, la sola donna forse che lo amò veramente,
che lo soccorse generosamente (e che non ebbe un solo verso dal poeta
delle _Grazie_, poichè i poeti sono spesso ingrati), la povera Quirina
si sentì tremar tutta la prima volta che lo vide, arrivato di fresco,
passare per ponte vecchio; tanta era la fama che avea preceduto il suo
arrivo. E quanto dovette soffrire la povera signora quando tornato Ugo a
Milano, dove lo richiamarono, non tanto gli avvenimenti politici, e la
recita della _Ricciarda_, quanto il suo furioso amore per la Battaglia,
trovò in alcuni frammenti di lettere di lui la conferma dei tradimenti
d'amore, che pur troppo avea sospettati. Ciò non pertanto la brava donna
rimase amica al poeta, amica affezionata fino alla morte, fin dopo la
morte. Ciò fu per lui la Provvidenza.

Tornato a Milano, il Foscolo rivestì la divisa militare, come aiutante
del generale Fontanelli. Ma gli avvenimenti precipitavano: caduto
Napoleone e con lui il regno Italico, Ugo dovè scegliere fra mettersi a
servizio dei nuovi padroni, o andarsene. Ebbe qualche momento
d'esitazione, entrò anche in trattative per la fondazione di un giornale
in servizio del nuovo Governo: finalmente vinsero i suoi istinti
migliori, e fuggì nascostamente in Isvizzera, con piccol bagaglio, con
pochi denari, senza saper nemmeno lui troppo bene che cosa avrebbe
fatto, e come avrebbe vissuto. Quando fu a corto di denari, si rammentò
della sua buona amica di Firenze, e lei fu tutta felice di aiutarlo. Ma
anche fra i ghiacci e le nevi di Hottingen il vecchio peccatore ebbe una
quantità di avventure stranissime, e s'impigliò nelle reti di un brutto
romanzo d'amore, che gli fece commettere quello ch'ei chiamò il secondo
delitto della sua vita: e alla povera Quirina toccò di sentirne la
confessione. Finalmente, raccapezzati, con l'aiuto del fratello Giulio,
un po' di denari, mosse alla volta dell'Inghilterra, e l'11 settembre
del 1816 arrivò a Londra.

                                 *

La vecchia Britannia, superba di avere abbattuto Napoleone, ammirò ed
onorò nel Foscolo, non solo l'autore dell'_Ortis_ e dei _Sepolcri_, ma
l'uomo che dinanzi al colosso di Francia, a cui tutti s'inchinavano,
avea sempre tenuto alta la testa. Egli fu subito accolto nella migliore
società di Londra. La vita che condusse là fino dai primi tempi fu, come
quella che avea condotta a Milano, la vita del gran signore, salvo che
costavagli molto più cara. Le centinaia di lire che gli dava a Firenze e
gli mandava in Isvizzera la buona Magiotti sarebbero state una goccia
d'acqua in un bicchiere vuoto; e d'altronde a Firenze e in Lombardia
correvano novelle ch'e' fosse arricchito, perchè le persone andate a
visitarlo lo avean trovato in un alloggio signorile, con tutte le mostre
dell'agiatezza: di che egli scusavasi nelle lettere agli amici d'Italia,
dicendo che l'usanza del paese e la necessità di guadagnare lo
costringevano a quel lusso apparente, che nascondeva una miseria reale.
Se non la scusa, la miseria era vera pur troppo.

Nel 1818 si ritirò in campagna, per economia, diceva lui, e per poter
lavorare con più quiete; ma seguitò a tenere il quartiere che aveva
affittato in città, spese alcune migliaia di lire per arredare la villa,
e mise cavallo e carrozza, per potere andare e venire tutte le volte che
gli occorresse. Vi raccomando questa razza d'economia.

Perchè non lo diremo? — Fu proprio l'economia intesa e praticata a
questo modo che trasse in rovina il povero Foscolo, al quale non mancò
nè anche a Londra l'aiuto largo, generoso e costante degli ammiratori e
degli amici.

Una delle famiglie con le quali fino dal 1818 avea stretto più intima
relazione era la famiglia Russell. Ugo andava spesso a pranzo da loro,
andava in compagnia loro e d'amici comuni a partite di piacere, a feste
e conversazioni, mandava e portava loro libri da leggere, e leggeva con
le due figlie maggiori, Caterina e Carolina, le poesie del Petrarca.
Come con la famiglia Russell, usava familiarmente con altre; ed uno dei
suoi piaceri preferiti era spiegare alle signore e alle signorine le più
astruse teorie d'amore.

Quella lettura del Petrarca fatta con le due Russell, una delle quali,
la Carolina, bellissima e piena di spirito, si porgeva acconcia alle
dissertazioni care al poeta, ma anche era, per un uomo come lui, tutto
che avesse i suoi quarant'anni suonati, cosa molto pericolosa. Il padre
delle ragazze ne lo aveva avvertito, ma invano. Accadde quel che doveva
accadere, che cioè il poeta s'innamorò; e benchè la ragazza gli dicesse
chiaro e tondo che un poeta di quarant'anni e povero non poteva sperare
da lei nient'altro che stima e amicizia, non ci fu verso; seguitò per
oltre un anno e mezzo a proseguirla delle sue furie amorose. Tant'è, non
sapeva capacitarsi che un uomo come lui, al quale nessuna donna avea
detto di no, dovesse trovare proprio a Londra la fenice del genere. Fece
e scrisse una quantità di pazzie; minacciò di ammazzarsi; ma il buon
senso, la fermezza e la calma della fanciulla finirono, dopo una serie
di lezioni abbastanza dure, col richiamarlo alla ragione.

Non tutto il male viene per nuocere.

Dalla lettura del Petrarca fatta in casa Russell, nacquero i _Saggi sul
Petrarca_, cioè la migliore opera che Ugo scrivesse a Londra, quella che
lo rivelò sotto un aspetto nuovo, l'aspetto del critico. Chi pensi alle
condizioni di tempo e di luogo nelle quali il Foscolo scrisse questi
saggi, e i discorsi sul testo di Dante e del Boccaccio, non può non
restare meravigliato, non dico della dottrina, ma dell'intuito felice
col quale egli vide molte cose, che il progresso degli studi critici
dovea poi dimostrar vere. E chi pensi alle condizioni domestiche e di
salute nelle quali egli dovè attendere a questi ed altri lavori, la sua
meraviglia si cambierà in istupore. Il Foscolo, dissi, era nato poeta.
Strappato dalle necessità della vita alla poesia, e costretto a scrivere
della prosa pe' librai e pei giornalisti, applicò la potente visione
poetica allo studio delle opere altrui, e divenne critico nuovo e
potente; lasciatemi dire, l'instauratore della critica nella nostra
letteratura.

                                 *

Un giorno si presentò a lui una vecchia dama in compagnia di una
giovinetta, e gli disse: Ecco, signore, questa è vostra figlia; io, sua
nonna, la affido a voi, e vi affido insieme la piccola dote che ho
potuto assegnarle.

La giovinetta, che poteva avere sedici o diciassette anni, era frutto
dell'amore che il poeta, come accennai, ebbe con una signora inglese nel
tempo che militò in Francia. Ugo accolse con lieto animo la figlia, e
pensò a mettere in luogo sicuro la dote. Così non ci avesse pensato! Gli
venne l'idea di fabbricare, di fabbricarsi la casa, che doveva essere
l'asilo della sua vecchiezza, e, morto lui, il patrimonio della figlia:
ne fece il disegno da sè, e da sè attese a mobiliarla e adornarla con
l'eleganza di un artista.

Come andasse non so, il fatto è che prima ancora che la casa fosse
finita, si trovò in tali angustie, che dovè ricorrere per aiuto agli
amici; e Lady Dacre, una donna d'alto animo e d'ingegno, che gli voleva
bene e lo ammirava, promosse una sottoscrizione per un corso di letture,
che gli accrebbero riputazione e gli fruttarono circa un migliaio di
sterline. Si figurò di potere con queste accomodare tutte le sue
faccende e rimanere un signore. Ciò accadeva nel 3 marzo del 1823. Ai
primi del 1824 alcuni creditori lanciarono contro di lui un mandato
d'arresto; ed egli, per sottrarsi alle loro persecuzioni, dovè
abbandonare di nascosto la propria casa, e andare errando dall'uno
all'altro dei più poveri quartieri della città.

Le fatiche e i dispiaceri gli avevano rovinato la salute. Non visse più
che quattro anni non interi; e furono quattro anni di patimenti
inauditi, materiali e morali. Più d'una volta, mal reggendosi in piedi,
dovè andare attorno vendendo qualcuno dei suoi libri, per potersi
sfamare. Tanto sentiva di non essere più lui, che nascose il proprio
nome sotto quello della figlia.

Se furono grandi i suoi errori, fu anche grande l'espiazione; e
sopportata eroicamente.

                                 *

Quella che ho tentato di adombrarvi non è certamente, o signore, o
signori, la vita di un uomo savio, nel significato che si dà usualmente
a questa parola; ma se è bene che la grande maggioranza della società
sia di uomini savi, non è male che di tratto in tratto sorga fra essi
qualche pazzo, chiamiamolo pure così, cioè no, diamogli il suo vero
nome, qualche eroe, qualche poeta, capace di scrivere dei versi come
quelli dei _Sepolcri_; versi che una volta letti vi si conficcano nella
memoria e diventano parte dei vostri pensieri, che vi ricercano le
intime fibre, che vi trasportano in un mondo ignoto, che vi fanno
maggiori e migliori di voi stessi, risvegliando le più nobili energie
che dormivano nascoste nell'intimo dell'essere vostro.

Che importa che il Foscolo avesse come uomo delle debolezze? Quando noi
le abbiamo sapute, i suoi _Sepolcri_ non rimangono egualmente belli, non
rimangono la prima voce più altamente e liricamente patriottica
dell'Italia moderna? È solo speciosa quella trita sentenza che _pel
cameriere non ci sono eroi_. Sapete perchè il cameriere non vede l'eroe?
Non già perchè l'eroe non ci sia, ma perchè il cameriere è un cameriere.

La critica moderna, che scruta le vite de' grandi uomini, ci abbassa pur
troppo spesse volte a quell'umile ufficio. Facciamone onorevole ammenda,
lasciando la parola al poeta.

Io lo so bene, i versi che vi leggerò voi li avete letti chi sa quante
volte; forse, anzi senza forse, li sapete a memoria; ma la bella poesia
è come la bella musica, quanto più si risente tanto più piace. Ad ogni
modo io non saprei trovare scongiuro migliore per farmi perdonare da voi
la noia di questa conferenza.

    A egregie cose il forte animo accendono
    L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
    E santa fanno al peregrin la terra
    Che le ricetta. Io quando il monumento
    Vidi ove posa il corpo di quel grande
    Che temprando lo scettro a' regnatori
    Gli allôr ne sfronda, ed alle genti svela
    Di che lagrime grondi e di che sangue;
    E l'arca di colui che nuovo Olimpo
    Alzò in Roma a' celesti, e di chi vide
    Sotto l'etereo padiglion rotarsi
    Più mondi, e il sole irradiarli immoto,
    Onde all'Anglo che tanta ala vi stese
    Sgombrò primo le vie del firmamento;
    Te beata, gridai, per le felici
    Aure pregne di vita, e pe' lavacri
    Che da' tuoi gioghi a te versa Appennino!
    Lieta dell'aer tuo veste la luna
    Di luce limpidissima i tuoi colli
    Per vendemmia festanti; e le convalli
    Popolate di case e d'oliveti
    Mille di fiori al ciel mandano incensi.
    E tu prima, Firenze, udivi il carme
    Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco;
    E tu i cari parenti e l'idïoma
    Desti a quel dolce di Calliope labbro,
    Che Amore, in Grecia nudo e nudo in Roma,
    D'un velo candidissimo adornando,
    Rendea nel grembo a Venere celeste.
    Ma più beata che in un tempio accolte
    Serbi l'itale glorie, uniche forse,
    Da che le mal vietate Alpi e l'alterna
    Onnipotenza delle umane sorti
    Armi e sostanze t'invadeano, ed are,
    E patria, e, tranne la memoria, tutto.

Questi versi, composti novant'anni fa infiammarono di santo sdegno i
cuori di quelli uomini gloriosi (ora ahimè, tutti scomparsi) che ci
crearono la patria. La santa ombra del poeta ci assista, ed ispiri a
quelli che restano le virtù necessarie per conservarla.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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