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Title: I Francesi in Italia (1796-1815) - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero
Author: Fiorini, Vittorio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "I Francesi in Italia (1796-1815) - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero" ***


                                  LA
                            VITA ITALIANA

                              DURANTE LA
                   Rivoluzione francese e l'Impero


                _Conferenze tenute a Firenze nel 1896_

                                  DA

        Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili,
          Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti,
       E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi,
        Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi,
                           Enrico Panzacchi.



                                MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI

                                 1897.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                     _Riservati tutti i diritti_.

                        Tip. Fratelli Treves.



                        I FRANCESI IN ITALIA
                             (1796-1815)


                             CONFERENZA
                                 DI

                          VITTORIO FIORINI.



_Signore, signori._


Saranno cento anni compiuti fra pochi giorni.

Il 27 di questo medesimo mese di marzo, il cittadino generale Bonaparte,
prendendo il comando di quell'esercito d'Italia che per tre anni
continui aveva tentato indarno di rompere la cerchia delle Alpi
occidentali, a' suoi soldati “mal nutriti e quasi ignudi„ additava,
novello Annibale — e ne aveva l'età ed il precoce genio guerresco — “le
fertili pianure, le ricche provincie, le grandi città della penisola„ e
prometteva che laggiù li avrebbe tratti a trovarvi “onore, gloria,
ricchezze„.

Da quel giorno si apre uno strano e tumultuoso periodo della vita
italiana, e si chiude soltanto quando, dopo un'epica lotta, a due
riprese rinnovata, il Bonaparte — non più semplice generale ma Cesare —
fu ridotto all'impotenza: e ci vollero, per trascinarlo nella rovina
dell'immane edificio eretto dall'imperiosa volontà di lui,
“l'inestinguibil odio„ che per ogni dove la sua fortuna ed il prepotere
avevano acceso, e le forze dell'Europa intiera coalizzate contro lui
solo: e parve che soltanto l'onda sterminata del grande Oceano avesse
potenza di costringere tanta energia nell'inerzia.

Dal 1796 al 1815 son diciannove anni soltanto — neppure la quinta parte
di un secolo — ma sono anni che valgono da soli quanto un secolo di
storia: tanto è il moltiplicarsi degli avvenimenti, il succedersi
incessante di uomini, di istituzioni, di Stati, l'irrompere affollato e
precipitoso ed il cozzare vigoroso di idee nuove e vecchie, del
paradosso temerario coi suggerimenti del prudente buon senso,
dell'audacia con la paura: e tanto feconda di conseguenze sembra questa
età ed irti di difficoltà i problemi che presenta allo storico, il quale
voglia darne sicuro giudizio e determinarne gli effetti. È un dramma che
si interpone bruscamente, quasi ciclone turbinoso, fra la calma di due
età di lunga pace: quella che tien dietro alle guerre di successione ed
alla Pace di Aquisgrana, e che quietamente operosa lavora ad una
graduale trasformazione della società a beneficio e per opera del
principato assoluto: e quella che dopo il tumulto violento delle guerre
napoleoniche ed il non meno violento equilibrio imposto dalle paci di
Vienna e di Parigi, sembra adagiarsi paurosa e fiacca per stanchezza ed
esaurimento sotto l'occhio vigile e sospettoso della polizia austriaca e
dell'assolutismo. Dramma che è compiuto in sè e che per atti e peripezie
diverse si svolge parallelo allo svolgersi della vita e della gloria del
grande Capitano, il quale lo ha iniziato e ne rimane sino all'ultimo il
protagonista. Anche il dramma italiano prende le mosse dal proclamare in
nome della libertà e dell'eguaglianza la distruzione di tutte le forme
monarchiche ed aristocratiche della vita politica e sociale, poi passo
passo ritorna sulle vie del passato e riconduce la società, per una
gerarchia d'uomini nuovi e di nomi vecchi, entro la cerchia senza uscita
di una monarchia assoluta che si drappeggia nei ricordi di Augusto e di
Carlo Magno. Allora la catastrofe precipita: e come nei drammi del buon
tempo antico precipita con soddisfazione generale. Tolto di mezzo il
personaggio perturbatore che aveva annodato l'intreccio e ne teneva le
fila, ogni equivoco si dissipa, cessano i contrasti, uomini e cose
tornano al loro posto e la vita, momentaneamente deviata dal suo corso,
sembra ritrovare il suo letto.

Ma è proprio l'antico letto? e la vita va ancora dello stesso passo? Si
tratta davvero di un episodio improvviso, passeggiero e che resta
isolato o ha esso radici nel passato e rami fruttiferi nell'avvenire? E
quali son questi e dove erano quelle? Quanta parte di quella coscienza
nazionale che ha dato le forze all'Italia nuova e la volontà di
costituirsi una ed indipendente, dobbiamo rintracciare e riconoscere in
questa età breve ma piena di passione e di vita e nella quale per la
prima volta il popolo italiano sembra scuotere il sonno di lunghi secoli
d'inerzia per acquistare coscienza di sè? E sopratutto quanta parte di
questi avvenimenti non sono che riflesso della volontà di Napoleone e
per quanto invece si riflettono nella vita e nella gloria di lui? Poichè
se vi è nella storia personaggio del quale riesca difficile determinare
la linea di reciproca influenza che l'individuo ed i tempi esercitano
l'uno sull'altro, questi è Napoleone.

Affrontare siffatti ed altri non meno complessi problemi, che mi si
affacciano alla mente, costringere in un solo quadro tutte le figure e
tutte le scene di questa età non sarebbe possibile nel breve spazio di
tempo che la pazienza degli uditori suole concedere ad una conferenza e
sarebbe, d'altra parte, impresa superiore alle mie forze. Poichè alle
egregie persone che compongono il Comitato di queste pubbliche letture,
è piaciuto mescolare il mio nome oscuro con quelli d'uomini che
meritamente già illumina la fama, conviene che lor signori ne portino le
conseguenze: a me — lo confesso — è mancato il coraggio di respingere
l'onore di parlar dinanzi a così eletta riunione e nella città che una
troppo breve dimora nei miei anni di studio ha reso carissima al mio
cuore. Nè hanno valso a trattenermi — ed ora me ne vergogno e me ne
pento — la certezza di trovar qui, chiamati dalla squisita cortesia
dell'animo loro, alcuni de' miei più venerati maestri ed il timore di
dovere affrontare il giudizio di chi ha per sempre legato il proprio
nome alla storia di questi tempi: voi intendete che io parlo di Augusto
Franchetti, il quale, primo fra noi, di questa difficile età ha rivelato
l'anima e ne ha narrati gli avvenimenti con larghezza nuova di vedute e
di ricerche e con toscana eleganza di forma.

Perchè più lieve sia il danno vostro e minore il pericolo mio, io voglio
che il mio ufficio si restringa a disegnare la cornice di questa età o,
se più vi piace, a presentarvi il rude canovaccio su cui potrete
collocare le figure e le scene che collo svolgersi di questa serie di
letture vi passeranno sotto gli occhi.

                                 *

    Quel che dall'Alpi ora discende
    D'armi e d'armati inondator torrente
    Ceppi a noi reca o libertà ci rende?

Così, “chiaroveggente testimone de' tempi„ domandava in un sonetto
Lazzaro Papi, che più tardi della Rivoluzione francese narrò con rara
temperanza di giudizio i _Commentari_. — _Reca libertà_ — già da un
pezzo e anticipatamente (appena conquistata la Savoia) aveva risposto
per bocca del cittadino Grégoire la nazione francese. — _Libertà per
tutti i popoli come a fratelli, guerra e morte a tutti i governi come a
nemici!_ E la Convenzione Nazionale, consacrando queste parole del
vescovo costituzionale nelle solenni forme di un decreto, aveva promesso
“aiuto e fratellanza a tutte le genti che la libertà volessero
ricuperare„. Nè da quel dì la promessa era stata ripetuta poche volte; e
la repubblica batava era sorta a mostrare come la repubblica francese
cominciasse a mantenerla.

Ma questa _Libertà_ che il Presidente della Convenzione già
rappresentava “assisa sul Monte Bianco in atto di stendere, sovrana del
mondo, le mani trionfali alle nazioni di tutto l'universo risorte a
nuova vita al suono della sua voce„, gli Italiani la guardavano con
diffidenza, perchè la vedevano venire armata di baionette e di cannoni,
perchè temevano che dietro di lei irrompesse anche fra noi, intonando il
_Ça ira_, la turba degli scamiciati energumeni che avevano fatte le loro
prove nelle vie di Parigi e nelle sale della Convenzione e dell'_Hôtel
de la Ville_.

Poichè nella maggioranza del popolo italiano la rivoluzione aveva
sopratutto destato un senso di orrore e di terrore: gli italiani erano
stati colpiti dal suo carattere di irreligiosità, dalla frenesia di
ribellione contro tutto e contro tutti che pareva avesse invaso la
popolazione francese e dal sempre insaziato bisogno di distruzione che
traeva i cittadini furibondi alla strage ed alla rovina di tutte le
istituzioni divine ed umane. A chi è avvezzo a scivolare senza scosse
lungo la china della vita, adagiandosi pigro e felice nel beato
benessere che procura la tranquillità uniforme di uno spirito rassegnato
alla nullità della propria sorte e la persuasione che non avrà bisogno
neppure di alzare un dito per giungere pari pari fino in fondo, anche la
più piccola novità dà ombra e fa paura. Tale era la condizione degli
animi nelle moltitudini italiane. L'abitudine ininterrotta di piegare il
capo remissivo dinanzi al principio d'autorità, da chiunque o comunque
fosse rappresentato, e di lasciarsi guidare, sempre rassegnati, dalla
volontà altrui, avevano fiaccato nei più ogni forza di iniziativa,
distrutto ogni istinto di azione diretta a mutare in meglio le
condizioni della società.

Dio — e per lui migliaia di preti, di frati e di monache forti di dogmi
immutabili e di non meno immutabili superstizioni o privilegi — il
monarca — e per lui una folla di padroni, tutti armati di leggi e di
spade, dal vicerè, dal governatore, dal nobile all'ultimo bravaccio di
soldato — avevano in custodia la società per consenso di generazioni e
generazioni: e della loro vigilanza, fosse pur prepotente e molesta, le
moltitudini non sapevano più fare a meno. Certo vi erano sofferenze,
abusi, miserie, dolori, ingiustizie: ma anche il male e la miseria hanno
le loro risorse e creano abitudini cui il lungo tempo affeziona, sicchè
alla fine spiace lasciarle. Del resto, in tanto volger d'anni, ciascuno
aveva trovato — bene o male — il modo di fare il proprio comodo: perchè
dunque mutare? perchè rompere, con novità e per desiderio di un meglio
incerto, la quiete monotona ma tranquilla di una vita senza cure?

Perciò quando il soffio di idee più liberali e più umanitarie, movendo
dalla Francia, aveva commosso tutta l'Europa ed era passato,
attraversando anche la nostra penisola, sopra la morta gora di questo
popolo beato del suo sonno, i più alti, nobili e colti intelletti
avevano bensì aspirato a larghi polmoni questa nuova aura vivificatrice,
e d'un tratto v'erano fatti con ardore febbrile e con instancabile
attività propugnatori con gli scritti ed esecutori con leggi e decreti
di un movimento sociale più conforme al genio dei tempi ed ai bisogni
della universalità del popolo; ma nulla aveva potuto scuotere la gran
massa, per inerzia sua conservatrice, della popolazione italiana: nè la
penna eloquente o la parola persuasiva dei più profondi pensatori, nè il
consenso della parte più eletta della borghesia, della nobiltà e del
clero; e neppure la volontà risoluta e spesso generosa fino al
sacrificio di principi e di ministri.

Indifferente, dapprima essa lasciò fare: poi, quando l'urto fra i
diritti laici della società civile ed i privilegi ecclesiastici pose di
nuovo a fronte Chiesa e Stato, diventò alle riforme apertamente ostile.
Le popolazioni — specialmente quelle delle campagne, fra le quali più
radicate e meno razionali sono le consuetudini religiose ed
ascoltatissima sempre fu la parola de' parroci — non esitarono a
persuadersi che tutte queste novità erano malvagio suggerimento del
demonio, che ereticali erano le dottrine che venivan d'oltralpe e pieno
di pericoli l'accettarle.

Non pareva che appunto per dar ragione ai loro timori venissero i
terribili procedimenti della rivoluzione di Francia? E sembrò che a
questa opinione non il volgo soltanto, ma anche le classi sociali più
colte e gli stessi più caldi propugnatori delle riforme si lasciassero
condurre.

Stormi di preti francesi venivano ogni giorno fra noi fuggendo l'imposto
giuramento e si annidavano nelle maggiori città d'Italia prima di
raccogliere il volo — quasi tutti — nel seno della Chiesa di Roma:
principi di sangue, nobili di razza, fedeli servitori del re portavano
fra noi, emigrando, il loro terrore ed i loro propositi di vendetta.
Attraverso i racconti pieni di odio di questi fuggenti, nelle narrazioni
esagerate delle _Gazzette_, dei _Monitori_, dei _Mercuri_ del tempo e
ingrossando poi di bocca in bocca, giungevano alle plebi maravigliate,
penetravano entro le pareti tranquille ove patriarcalmente le famiglie
borghesi, ogni sera, da anni ed anni si raccoglievano a giuocare a
tarocchi, o nei salotti dove Clori, tra una tazza di caffè ed un
minuetto, ascoltava sorridendo dietro il ventaglio i complimenti
arcadici della sua corte amorosa, notizie che riempivano di sgomento, di
stupore e di sdegno: la Bastiglia era presa; il re era fuggito, preso,
arrestato, processato, poi morto cristianamente sul patibolo; i preti
assassinati a centinaia; le prigioni invase da una folla di sgozzatori.
E tutto questo in nome della libertà: oh libertà odiosa!

    Chiuder un Re in prigion senza perchè,
      Toglier la Religione e la Pietà,
      Far tanto un Regno intero uscir di sè
      Che ne scanni metà l'altra metà:
    Di florido che fu, guari non è,
      Ridurlo al verde, alla mendicità,
      Senza pan, senza onore, senza fè,
      Da far orrore alla posterità;
    Spogliare uccider dove mette il piè,
      Abusar d'ogni eccesso, d'ogni età
      Turbare i Regni, assassinare i Re;
    La Libertà francese ecco che fa.
      Ah tenga, o Roma, il Ciel lungi da te
      Quest'empia e detestabil libertà.

Questo sonetto e molti altri che allora corsero di mano in mano,
manoscritti e stampati, e i numerosi opuscoli che in quegli anni
sfornarono, a migliaia di copie, le officine tipografiche di Foligno e
di Roma stanno a mostrare quanta ripugnanza per le riforme e per la
rivoluzione di Francia era nella generalità del popolo italiano. Certo
non mancarono neppure fra noi teste esaltate — giovani specialmente —
che si lasciarono guadagnare dall'audacia delle nuove dottrine e dalle
persuasioni degli emissari francesi i quali volontari o mandati
percorrevano l'Italia. Qua e là furono affissi alle mura anonimi inviti
al popolo per chiamarlo a libertà; vi furon tumulti; nella nobiltà e
nella borghesia non mancarono i malcontenti che in segreto speravano e
nei colloqui fidati manifestavano la speranza di una prossima mutazione
di cose: v'è traccia di club organizzati, di cospirazioni pronte a
scoppiare. Emanuele de Deo ed una nobile schiera di giovani a Napoli ed
a Palermo, Luigi Zamboni e Giambattista de Rolandis a Bologna pagarono
con la vita il loro entusiasmo per le cose di Francia: altri ebber
carcere o cercaron salvezza nell'esilio. Ma sono casi isolati: la gran
massa del popolo non risponde agli inviti, non comprende questo
entusiasmo per ciò che le desta orrore, assiste indifferente al castigo
di chi dice di morire per la libertà di essa. Quando il popolo si muove
è soltanto per manifestare odio violento contro i francesi: gode delle
loro sconfitte, li insulta e li deride ne' suoi versi, corre anche al
sangue: basti ricordare per tutti il nome dell'infelice Basville.

Del resto, finchè il Bonaparte non ebbe con le sue vittorie portata la
rivoluzione fra noi e rotto l'incantesimo, non v'era alcuno in Italia,
nè principe nè popolo, che non fosse certo della vittoria finale delle
armi dell'Europa coalizzate. Dio ci prova: Dio alla fine deve vincere!
si era sempre affermato: ma col Bonaparte era venuto per tutti il
momento di dubitare e di domandarsi, come faceva il Papi, che cosa stava
per accadere.

                                 *

E dal canto suo, con quali intendimenti il Bonaparte poneva il piede in
questa penisola donde, non più di dieci generazioni innanzi, erano
usciti gli avi suoi che ai tempi del “popolo vecchio„ avevano seduto nei
Consigli del Comune di Firenze e poi avevano partecipato alle gloriose e
dolorose vicende della parte ghibellina di Toscana? In lui, che ora
scende facile promettitore di libertà e rigido partigiano di democratica
eguaglianza e che fra pochi anni tornerà restauratore dell'impero, parla
ancora qualche voce del sangue antico memore dei tempi, nella lor rude
semplicità felici, del _viver riposato_ che Dante rimpianse per il
Comune fiorentino, o fermentano ancora l'odio tenace e le speranze
sempre rinnovate dei ghibellini, cui alimentavano il triste esilio e la
grandiosa visione dell'aquila imperiale trionfante?

Non ignorava il Bonaparte queste vicende: i manoscritti laurenziani che
per le cure del nostro Biagi e del signor Masson hanno di recente
rivelato un Napoleone ancora sconosciuto, mostrano che nello studio
quasi esclusivo della storia, leggendo, analizzando, riassumendo
instancabile le opere di numerosi scrittori, si è venuta formando tra il
1786 e il 1792 la mente politica di lui, quale più tardi si rivela sul
campo dell'azione. E fra gli appunti allora raccolti piace vedere un
estratto di quella parte del secondo libro delle _Istorie_ del
Machiavelli dove è narrato dell'origine del Comune di Firenze e delle
prime contese fiorentine fra guelfi e ghibellini fino all'ultima
cacciata di questi.

Ma non quei lontani ricordi domestici, nè questi più recenti studi, ai
quali si direbbe che talvolta, sia pur inconsciamente, obbedisca il
genio di quel grande, parlavano alla mente di lui quando ai suoi soldati
mostrava come campo di conquista l'Italia. Nè ritornando alla patria
degli avi suoi, lo occupava il proposito, che più tardi, quando la mente
ammaestrata dall'esperienza ritornava “ai dì che furono„, volle far
credere essere stato il fine ultimo delle sue azioni politiche in
Italia: e cioè di rinnovarne le glorie antiche e di prepararle
quell'avvenire che nei pentimenti dell'esilio divinava non lontano e per
il quale tutti i popoli della penisola, per comunanza di linguaggio, di
costumanze, di letteratura formanti una sola nazione, dovevano riunirsi
sotto un solo governo il cui capo si sarebbe insediato in Roma.

Egli cercava gloria: gloria per sè come mezzo di farsi valere e di
imporsi a quanti allora in Francia primeggiavano e governavano. Per
quale via avrebbe raggiunta la gloria che cercava, quale forma avrebbe
assunto il primato che voleva conquistare, ei non vedeva allora, nè lo
poteva: ma già in sè aveva la fede sicura, incrollabile di essere il più
forte. Si vantò il Barras di averlo egli tratto fuor della volgare
schiera degli innumerevoli ambiziosi che la rivoluzione aveva fatti
salire a galla, e di averlo portato sulla grande scena politica col
chiamarlo, il 13 vendemmiatore, a spazzare a colpi di cannone per la
morente Convenzione le vie di Parigi: credeva il potente Direttore che
soltanto al favore di lui dovesse esser grato il Bonaparte del comando
dell'esercito d'Italia, ed ai suoi amichevoli uffici della mano da molti
ambita della elegante e bellissima creola che era stata moglie del
generale Beauharnais. E col Barras lo credevano tutti: non però il
Bonaparte. Egli era convinto di non dover nulla a nessuno, tutto a sè
stesso.

Giuseppina Beauharnais aveva piegato riluttante, come una capinera sotto
l'occhio del falco, al fascino inesplicabile fatto d'amore e di spavento
che lo sguardo dominatore del giovine côrso già esercitava tutto intorno
a sè. Lo confessa ella stessa, aprendo l'animo ad un'intima amica, pochi
giorni prima di consentire alle nozze fatali, le quali ebbero luogo la
vigilia della partenza del Bonaparte per l'Italia. E soggiunge: “Barras
mi assicura che farà ottenere al generale il comando supremo della
nostra armata d'Italia, se lo sposerò. Allorchè ieri il Bonaparte mi
parlò di questa preferenza, che, quantunque non sia ancora accordata, fa
di già mormorare i suoi compagni d'arme, mi disse: — Credete che io
abbia bisogno di protettori per far carriera? Un giorno essi si
reputeranno felici se io consentirò a favorirli. Tengo la mia spada al
fianco e col suo aiuto andrò lontano. — Cosa dite di questa certezza del
successo? Non dimostra una fiducia nata da un immenso orgoglio? Un
generale di brigata che vorrebbe atteggiarsi a fautore dei capi del
governo! Non so come avvenga — continua Giuseppina — ma talvolta quella
fiducia ridicola mi affascina al punto da farmi credere possibile tutto
ciò che quest'uomo così strano abbia fissato di ottenere. E chi tenendo
calcolo della sua immaginazione vivace può prevedere ciò che egli farà?„

Ciò che egli avrebbe fatto e qual uomo straordinario egli fosse,
cominciò per la prima volta a rivelarlo alla Francia ammirata e
all'Europa stupita ed intimidita questa sua spedizione d'Italia: e forse
allora soltanto anche il Bonaparte cominciò a leggere più chiaro in
quell'avvenire di grandezza che finora aveva sentito confusamente come
suo.

Non era ancora finito il secondo anno della sua presenza in Italia e già
in uno di quei momenti di intima espansione cui, nei rari intervalli che
la guerra gli concedeva, amava di abbandonarsi nella splendida villa di
Mombello, domandava ad uno de' suoi famigliari: “Che direste, o
Villetard, se io mi facessi re di Francia?„ Di Francia non d'Italia; chè
soltanto nella giovanile energia della nuova Francia, ei lo vedeva, gli
sarebbe stato possibile di trovare le forze per salire tanto alto:
l'Italia poteva essere il gradino, non il trono.

Ma io m'avvedo che mi accade ciò che pur era da prevedere come
inevitabile: la figura di Napoleone è tanta parte degli avvenimenti di
questa età che mi trae ad invadere il campo altrui: torniamo ai Francesi
ed all'Italia.

                                 *

Incominciò nel mese di aprile con impeto meraviglioso questa memoranda
spedizione: la rapidità de' suoi avvenimenti — farò mie le parole di
Alessandro Verri — ne rende breve il racconto. I Francesi col ferro,
senza artiglierie, guadando fiumi, correndo veloci benchè scalzi, senza
tende e vettovaglie, per quindici giorni continui sconfissero due
eserciti, il piemontese e l'austriaco, e li separarono. Inseguirono il
primo e al re di Sardegna, omai non più sicuro nella sua stessa reggia
di Torino, dettarono i patti di Cherasco: poi gloriosi e sicuri alle
spalle si volsero prontamente contro gli Austriaci, li sorpresero con la
rapidità dei movimenti inaspettati, li batterono e li costrinsero ad
indietreggiare, finchè ebbero dinanzi la fortezza di Mantova: era tutto
ciò che alla fine di maggio restava della dominazione austriaca in
Italia!

La Corte di Savoia per bocca del suo ministro degli affari esteri, aveva
ammonito l'Austria: “Se i Francesi abbattono il Piemonte, l'Italia è
perduta anche per la Corte di Vienna.„ E così fu. Posto che ebbero i
Francesi il piede in Lombardia, nè cinque formidabili eserciti, nè i
migliori generali dell'Austria, il Wurmser, l'Alvinzi, l'Arciduca Carlo,
valsero a cacciarneli, o a fermarne la marcia vittoriosa su Vienna, e ad
impedire che, fatto centro della Lombardia, dirigessero punte audaci
tutt'all'intorno a dettar leggi alla penisola intiera, occupando città
col solo presentarsi, traendo i popoli a sè con lo specchietto della
libertà, facendo con lo spauracchio della guerra fuggire o scendere a
patti i sovrani e tremare i governi.

Così, s'erano appena i Francesi affacciati all'Emilia, che già il Duca
di Parma era prostrato ai loro piedi ed offriva milioni, quadri, buoi,
viveri, foraggi, purchè non entrassero nella sua capitale. Buon per lui,
allora e finchè visse, che la pace conclusa da poco fra la Repubblica
francese ed i Borboni di Spagna, alla cui famiglia egli apparteneva,
stendesse la sua ala protettrice anche sopra il suo capo: sicchè egli
dovette, è vero, fondere i vasellami d'argento della sua mensa e
privarsi del mirabile San Gerolamo, che il pennello del Correggio aveva
dipinto; ma non ebbe il dolore di esser costretto a fare delle sue care
campane, cannoni; potè salvare tutte le madonnine e le statuette de'
santi che ornavano i suoi altarini di Fontevivo e Fontanellato e
continuare, così fino all'ultimo respiro, nel prediletto esercizio di
suonar le campane e di fare il sagrestano.

Ercole III, duca di Modena, non aveva trattati di parenti che lo
proteggessero: lo minacciavano invece la sua condizione di feudatario
dell'impero e di parente stretto dell'imperatore e ciò che, dati i
tempi, era più pericoloso, la fama generalmente diffusa dei molti
milioni che la parsimonia sua e dei suoi predecessori aveva accumulati
nelle casse estensi. Perciò, appena ebbe notizia della presenza dei
Francesi nel vicino ducato di Parma, con un bel manifesto annunciò ai
suoi sudditi che dopo aver _ponderata sulle bilancie della Prudenza la
presente critica situazione e richiamato ad uno ad uno i suoi doveri di
Principe_, s'era persuaso che il meglio era.... mettere in sicuro a
Venezia la sua _Serenissima Persona_, come in simile circostanza aveva
fatto il _Serenissimo Avo suo_. Le tradizioni di famiglia erano
rispettate, non c'è che dire: chi si trovò nelle peste fu la Reggenza
cui egli, fuggendo, aveva lasciato la tutela degli Stati suoi, con la
raccomandazione in caso di bisogno, di indirizzarsi _per qualunque
possibile assistenza_ all'Arciduca Ferdinando d'Austria governatore di
Lombardia e Serenissimo suo Genero. Bene indirizzati davvero! Due giorni
dopo il Serenissimo Genero aveva notizia che i Francesi stavano passando
il Po e, prese in mano le medesime _bilancie della Prudenza_ che erano
nel guardaroba di famiglia, s'era, come lo suocero, persuaso che nel
_rumores fuge_ stava riposta una antica ma grande verità; sicchè s'era
allontanato più che di corsa, portando seco il più ed il meglio che,
nella fretta dello scappare, potè raccogliere. La Reggenza modenese
rimasta a far fronte da sola alle difficoltà, scese a patti e comprò dai
Francesi, a suon di milioni, la promessa che sarebbe stata rispettata la
integrità dello Stato. Nel fatto ottenne questo bel risultato: che
appena tre mesi dopo — quando però già quasi tutti i milioni promessi
erano nelle casse del Direttorio — Reggio, segretamente istigata dai
Francesi, insorgeva e si sottraeva al governo estense ed i Francesi, col
pretesto che il Duca per avarizia indugiava a pagare, occupavano Modena
e tutto il resto dello Stato.

“Non basta la fortuna per comandare un esercito, ci vuole anche audacia
ed orgoglio!„ aveva detto il Bonaparte al marchese Costa di Beauregard
quando questi era andato al campo francese per trattare a nome del suo
re i patti di Cherasco. Nè audacia, nè orgoglio facevano, per vero,
difetto e al generalissimo francese ed ai soldati suoi: ne avevano anche
di troppo per la viltà sommessa dei principi italiani. Ferdinando di
Borbone, il Re Lazzarone, che finchè i Francesi erano lontani aveva da
solo fatto rumore per dieci e votate le tasche de' sudditi suoi per
mettere insieme un esercito di 60.000 uomini, non appena i Francesi
furono in Lombardia, aveva supplicato una tregua e l'aveva ottenuta. Pio
VI, il pontefice, contro i rivoluzionari, nemici della religione di
Cristo ed usurpatori dei dominii della Chiesa in Francia, aveva fino
allora lanciato condanne e scomuniche: ma alla notizia che i Francesi si
avvicinavano ai confini delle Legazioni, aveva fatto tappezzare le vie
delle città e dei borghi, le porte delle chiese e gli alberi della
Romagna di bandi nei quali raccomandava ai sudditi suoi d'accogliere i
Francesi, se fosser venuti, come ottimi amici suoi, e vietava persino il
suono delle campane nel timore che i Francesi ne prendessero sospetto o
pretesto di guerra. Sicchè bastarono ai Francesi pochi battaglioni ed
una passeggiata militare per prender possesso delle legazioni di Bologna
e di Ferrara: e fin d'allora essi avrebbero potuto occupare anche il
resto dei dominii papali, se il Bonaparte, per aver le mani libere
contro l'Austria, non avesse preferito scendere ad accordi e contentarsi
di quel che aveva preso, di alcuni milioni e di una prima scelta fra i
tesori d'arte raccolti in Roma. E mentre parte de' suoi stringeva
d'assedio Mantova ed altri occupavano le Legazioni, alcune poche
centinaia di soldati francesi occupavano Massa e Carrara in nome della
Repubblica, poi come se gli Stati del Granduca di Toscana fossero
territorio francese, un corpo francese li attraversava e si stabiliva a
Livorno per organizzarvi una spedizione contro la Corsica, ed il
Bonaparte in persona si presentava solo alle porte di Firenze e sedeva
da pari a pari alla mensa del Granduca.

Nè i monarchi soltanto il Bonaparte trattava da padrone: la potente
repubblica di Venezia, quelle di Genova e di Lucca vedevano occupate con
varii pretesti le loro terre, istigati i sudditi loro a ribellione e, a
scanso di peggior sorte, dovevano umiliarsi e poi metter mano alle borse
e cavarne denari. La sola repubblica di San Marino fu rispettata allora
e sempre: era così piccolo il suo territorio e così povera la
popolazione raccolta da secoli sul monte Titano, che il Bonaparte poteva
concedersi il lusso di inchinarsi rispettoso alla remota antichità
repubblicana di essa ed anche di regalarle due cannoni: erano affidati a
mani sicure.

Alla fine del 1796, in men di nove mesi, tutta l'Italia aveva piegato
dinanzi alla fortuna, all'audacia ed all'orgoglio del generale francese:
unica speranza dei nemici di Francia era Mantova, che ancor resisteva.
Cadde ai primi dell'anno seguente e gli effetti della sua caduta ebbe a
sentirli non l'Austria soltanto, ma anche il pontefice.

S'era illuso Pio VI nella fiducia che nuove forze mandate dall'Austria
in soccorso di Mantova avrebber potuto finalmente aver ragione del
Bonaparte, ed in tale illusione s'era troppo apertamente scoperto nemico
de' Francesi. Ora che l'illusione era svanita, ei si trovava esposto
solo alle vendette del Direttorio. Volle far viso forte a mala fortuna.
Alle milizie papali aveva dato un capo l'Austria, il general Colli:
attesero a pie' fermo sul Senio presso Faenza l'arrivo de' Francesi. È
vero che i cannoni papali furono caricati a fagiuoli? Fu detto e
creduto. Certo si è che, dopo le prime fucilate, i papalini, quando
videro i Francesi disporsi a guadare il fiume, voltaron le spalle e
corsero, corsero, corsero per duecento milia e solo ad Ancona raccolsero
il fiato. Fuga rimasta celebrata nella tradizione di poltroneria di cui,
fra il popolo, han sempre goduto le milizie papali: e che suggerì al
Leopardi, cantando le battaglie delle rane coi topi, i noti versi ne'
quali l'affannoso fuggire dell'“oste papale„

    Cui precedeva in fervide, volanti
    Rote il Colli, gridando: _Avanti! Avanti!_

è descritto colla più schietta comicità.

Questa impresa costò al Papato la Romagna, nuovi milioni, altri quadri
ed altre statue: sarebbe costata di più se il Bonaparte, prevedendo
vicino l'ultimo e supremo duello col maggior capitano dell'Austria
l'Arciduca Carlo, non avesse spontaneamente fatte insperate aperture di
pace.

Anche l'Arciduca Carlo fu vinto ed il Bonaparte dettò davanti a Vienna i
preliminari di Leoben seguiti poi dalla pace di Campoformio, che costò
alla repubblica di Venezia la libertà. Per compiacere alle prepotenze
francesi l'antica repubblica s'era umiliata, s'era spogliata della toga
e dell'ermellino, aveva sostituito col democratico berretto frigio
l'aristocratico berretto ducale e aveva bruciato il libro d'oro;
compiacente, l'antico Leone aveva voltato pagina e sull'ex-Vangelo la
sua zampa additava _i diritti dell'uomo e del cittadino_: ma ora che i
neo-patrioti danzavano festosi attorno all'albero della libertà,
inneggiando alla redenzione che il sangue delle Pasque veronesi ed il
danaro di Pantalone avevano pagato, il Bonaparte faceva mercato di loro
e del loro territorio coll'Austria. Mai tradimento sembrò più perfido e
fu più vituperato: le parole commosse di Jacopo Ortis vengono sulle
labbra. “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto;
e la vita, se pure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere la
nostra sciagura e la nostra infamia.... Non accuso la ragion di Stato
che vende come branchi di pecore le nazioni; così fu sempre e così sarà:
piango la patria mia che mi fu tolta e il modo ancor m'offende!„

Quando l'Austria ebbe deposte le armi, ai principi italiani venne a
mancare ogni speranza, ai Francesi ogni riguardo. E fu un subito fiorire
di democrazia ed un crollare di troni da un capo all'altro d'Italia, che
continuò anche quando il Bonaparte, lasciata l'Italia, andò a
raccogliere a Parigi, negli applausi e nella ammirazione popolare, il
cercato compenso della sua fortunata impresa, ed a conquistare
nell'Egitto nuovi allori e nuova popolarità. Già la repubblica genovese
v'era sbattezzata: sfuggendo dalle mani patrizie dei discendenti dei
Doria, dei Grimaldi, degli Spinola, la Superba era caduta in quelle
imbrattate di triaca dello speziale Morando ed aveva insieme con le
vesti democratiche, creduto di poter assumere i petulanti atteggiamenti
della democrazia francese di fronte alla vicina monarchia sabauda.
Povero e santo re Carlo Emanuele IV! Come poteva la devota semplicità
dell'animo suo, fatto piuttosto per obbedire e soffrire entro un
monastero che per comandare e lottare su di un trono, far fronte alle
provocazioni, alle insidie, ai raggiri entro cui d'ogni parte i Francesi
l'avvolgevano, in casa e fuori, pur di metter le mani sui dominii di lui
e farne un dipartimento francese? Contro le perfidie degli uomini egli
volgeva gli occhi al Cuore di Gesù e pregava: e intanto con la dignitosa
e paziente rassegnazione di un martire, si lasciava toglier di dosso a
brano a brano ciò che gli dava aspetto di monarca: gli restava ancora la
corona, depose anche quella, poi povero — chè non volle portar seco nè i
gioielli della corona nè il danaro che aveva nelle sue stanze — prese la
via dell'esilio. Degli aviti dominii non gli restava che la fedele e
povera Sardegna: l'offrì a Pio VI, l'ottantenne vicario di Cristo, che i
Francesi avevano strappato al Vaticano e tratto prigioniero nella
Certosa di Firenze.

L'uccisione del temerario generale Duphot era stata l'occasione cercata
per togliere al pontefice ciò che dei dominii della Chiesa gli era
rimasto e la libertà, e per proclamare dall'alto del Campidoglio risorta
la Roma dei Bruti, dei Catoni e degli Scipioni.

Vindice della Cristianità colpita nel capo della Chiesa osò presentarsi
Ferdinando di Napoli: gli davano forza gli energici incitamenti del
Nelson e più la certezza che gli Inglesi fossero pronti a fargli spalla.

    Con soldati infiniti
    Si mosse da' suoi liti
    Verso Roma bravando
    Il re don Ferdinando,
    E in pochissimi dì
    Venne, vide e fuggì.

E con tanta paura fuggì da non tenersi sicuro finchè fra i Francesi che
l'inseguivano, e sè, la sua Corte, i suoi tesori, non ebbe interposto il
mar di Sicilia. Sorse allora — fiore di pura bellezza — in quel terreno
mal preparato, dove una plebe oziosa e corrotta imputridiva al sole e
dinanzi al mare nell'ignoranza e nella superstizione, la Repubblica
Partenopea. Lo coltivarono pochi eletti ingegni che lo studio
dell'antica filosofia aveva rinvigorito e nobilitato: e s'illusero — e
ne pagarono poi il fio con la vita — che l'esempio della virtù operosa
avesse forza di trascinare i lazzaroni, e che l'aiuto e la protezione
dei Francesi potessero essere disinteressati e sinceri.

Caduto il regno di Napoli, venne la volta della Toscana. Lucca
repubblica dovette per forza democratizzarsi e far il viso allegro. Al
Granduca Ferdinando non bastò l'aver spinto la longanime arrendevolezza
fino ad annunciare ai suoi sudditi che avrebbe considerato come una
_prova di fedeltà e di affetto_ per lui le buone accoglienze che essi
avrebbero fatte ai Francesi i quali venivano, ed ei lo sapeva, ad
occupare le sue città. Quando questi ebber posto piede in Firenze, gli
intimarono di partire entro 24 ore, ed egli se ne andò.

Così l'onda della rivoluzione aveva percorsa tutta la penisola e tutta
l'aveva sovvertita. Restavano in piedi degli Stati che i Francesi vi
avevano trovati, due soli e parevan esservi rimasti a derisione del
passato: la repubblica di San Marino ed il piccolo Stato del bigotto
campanaro di Parma.

                                 *

Nè soltanto mutati erano gli ordinamenti politici ed ai principati
antichi sostituite repubbliche nuove: pareva che anche nel popolo
italiano mutata si fosse d'un tratto la disposizione degli animi. Gran
maestri ed insuperati furono — e sono sempre — i Francesi nell'arte
difficile di mettere in iscena commedie e pur troppo anche tragedie
politiche, con tutto l'apparato e la montatura che occorre perchè esse
producano l'effetto voluto!

Sono scesi fra una popolazione che fino allora li aveva guardati con
orrore e con terrore, nemica del chiasso, aborrente dal disordine e
riposata nell'ozio, nelle inutili cure della galanteria e della piccola
vita di tutti i giorni: con violenza, l'hanno strappata alla sua quiete,
al suo ozio, ai suoi pettegolezzi graditi, al suo passato vuoto di
passioni: eppure della loro violenza non hanno raccolto frutto di odio!
Si direbbe anzi che la popolazione italiana altro non aspettasse che la
loro venuta: tanta esaltazione e così rumoroso entusiasmo accompagna i
Francesi ad ogni passo che muovono e così irrefrenabile sembra invader
tutti un bisogno febbrile di muoversi, di agitarsi, di scrivere, di
parlare, di urlare contro tutto quel passato che fino a ieri era
venerato e temuto.

Sulla scena della storia italiana non si incontravano di solito prima
che pochi nomi: quelli dei primi e dei sommi: il resto taceva o faceva
il coro: ora è una folla di artisti che si affaccia: e tutti vogliono
farsi sentire, tutti hanno la loro parte da recitare, la loro idea da
lanciare e sopratutto il loro posto da prendere sul proscenio. Un vero
bosco di variopinti e imbandierati alberi della libertà, una gaia
fioritura di coccarde tricolorate ricopre d'un tratto tutta la penisola:
e intorno a ciascun albero, nelle piazze delle città, nei sagrati dei
borghi e delle ville, infuria la danza e s'alzano tonanti gli inni
patriottici e le grida di evviva urlati da uomini e da donne d'ogni
condizione ed età: nobili e popolani, preti, frati, soldati, dame e
prostitute, tutti incoccardati, si danno la mano in fratellevole
comunanza e girano e sgambettano attorno al nuovo emblema della
rivoluzione che i Francesi hanno inventato:

    Ecco l'arbor trionfale
    A cui scritto intorno sta
    In carattere immortale
    Eguaglianza e Libertà.

A Milano un cappuccino si taglia la lunga barba e l'appende con la
grigia tonaca, trofeo della sua abiura, all'albero della libertà: ed il
Padre Appiani, sessagenario, professore di teologia, invaso da subito
furore, dà spettacolo grottesco ed inverecondo di sè ballando in Duomo
la _Carmagnola_. A Venezia fu vista una dama ballare con un frate, e
caduti, rialzarsi e continuare la spigliata _Carmagnola_: esempio di
virtù cittadina che fu pomposamente celebrato nel _Monitore Veneto_ del
tempo e al quale avevano dato occasione le prime nozze celebrate sotto
il simbolico albero da un giovane e da una donzella veneziani, che
v'andarono accompagnati da una bandiera col motto _Fecondità
democratica_. _È dolce l'aver figli che devono godere la libertà_,
diceva, in simile circostanza, la scritta d'un'altra bandiera. Ed
appunto per favorire la moltiplicazione di questa figliolanza fortunata,
Felice Lattuada, milanese, propugnava il divorzio, e Giambattista Giovio
— più radicale — proponeva addirittura di ammazzare tutti i padri e
tutte le madri nobili: così sarebbe stato possibile educare subito
democraticamente i figliuoli.

Non si direbbe che una pazzia abbia invaso il popolo italiano? Un
opuscolo del tempo è intitolato _Milano all'ospedale dei pazzi_; ma
Milano non è sola: tutte le città grandi e piccole, dove i Francesi han
posto il piede, sono in preda all'esaltazione. La rivoluzione francese
non spaventa più: anzi se ne celebrano come avvenimenti patriottici e
come trionfi dell'umanità democratica i più sanguinosi anniversarii: a
Milano, con gran pompa fu festeggiato il dì anniversario che Luigi XVI
ebbe tronca la testa sul patibolo; si gridò _Morte agli aristocratici_,
e si portarono in giro e si affissero cartelloni con le scritte: _Il
fulmine colga tutti i re in un fascio! Il pugnale di Bruto possa
spaventare gli schiavi di Cesare e gli imitatori di Antonio!_

Non vi spaventi — o signore — tanta ferocia di linguaggio: non prendete
sul serio le minaccie di questi improvvisati demagoghi che hanno la
bocca sempre piena di pugnali, di corda e di ghigliottina, quasi fossero
altrettanti Marat. A sentirli si direbbe che d'altro non si pascono che
del sangue di aristocratici, di preti e di tiranni; che il loro ideale è
battere sul tamburo la pelle di un papa con gli stinchi di un re. Non
v'è più Dio o religione per loro: di Cristo si lavano la bocca o lo
tollerano solo in quanto la democrazia gli permette d'essere considerato
come _primo autore del sanculottismo_: i santi li hanno aboliti: le vie,
le piazze, le porte ribattezzate: in teatro applaudono frenetici alle
volgari scempiaggini di uno spettacolo che rappresenta turpi amorazzi e
subdoli intrighi della Corte romana e vanno in visibilio quando da
ultimo il papa, fatto cambio del triregno con un berretto frigio e
offerto il braccio ad una madre badessa, dà il segnale di una specie di
_cancan_ cui tutti, sulla scena, partecipano, cardinali, monsignori,
preti, frati, monache, soldati. C'è chi — novella Erodiade — offre su
per i giornali la mano di sposa a chi le porterà sopra un bacile la
testa del papa: ed è una giovanetta ventenne, figlia di un chimico di
vaglia. C'è chi ha osservato che il ferro della ghigliottina, troncata
la testa, s'imprime troppo profondamente nel ceppo sottoposto sicchè si
deve penar molto a levarnelo. È un _inconveniente_ che nuoce alla
eleganza ed alla rapidità della patriottica operazione: bisogna
toglierlo; e propone di mettere sotto il collo del paziente un pezzo di
sughero. Non lo direste un boia consumato nell'esercizio delle sue
funzioni? o almeno un dilettante appassionato di ghigliottina il quale
studia i perfezionamenti dello strumento che ama, perchè funzioni
regolarmente? Niente affatto: è Antonio Ranza, un semplice imbrattacarte
il quale inonda di libri, di discorsi, di opuscoli, di proclami
incendiari la penisola: un vecchietto sparuto che all'ombra di una lunga
zazzera e d'un largo cappellaccio cova e sogna, senza tregua,
cospirazioni e rivoluzioni: ma che non ha mai, che io sappia, intinte le
mani nel sangue di alcuno. La sua passione la sfoga organizzando
banchetti fraterni, piantando alberi della libertà, facendo concioni
alla folla, denunziando colpe di anticivismo e di bigotteria, ma
sopratutto scrivendo, scrivendo e scrivendo. Vede rosso.... sulla carta
e quando parla: e come lui, di questi patrioti, dei quali dice il
Foscolo che “morte e sangue gridavano, feroci di mente mostrandosi,
prodi in parole e ad ogni impresa impotenti„ ce ne sono molti, e sono
quelli che hanno fatto tutto il rumore.

Così è anche di tutto questo movimento che la venuta dei Francesi ha
provocato in Italia. In Francia, dove è uscita spontanea dalle intime
condizioni del paese, la rivoluzione si fa sul serio: da noi, dove la
violenza delle armi l'ha portata dal di fuori, la rivoluzione si
rappresenta, e come attori di commedie, noi cerchiamo di farci il minor
male che si può: perciò là son fatti e sangue, qui son parole e
rettorica. In Francia le teste regie si tagliano per davvero: noi le
tronchiamo o le cambiamo alle statue e di un Filippo II facciamo un
Giunio Bruto, di Francesco d'Este una Libertà, di un Gregorio XIII un
San Petronio. In Francia i nobili e i preti si imprigionano, si mandano
a morte e i loro beni sono confiscati e venduti: da noi aristocratici ed
ecclesiastici sono coperti, è vero, di contumelie e minacciati ogni
volta che un patriota apre la bocca, ma alla fine dei conti ci
contentiamo di atterrarne gli stemmi e di costringerli a chiamarsi
cittadini, a portar la coccarda ed a giurare fedeltà.... alla Repubblica
francese. Si grida all'eguaglianza, ma si raccomanda anche ai nobili di
non licenziare i loro servitori e di non smettere le carrozze perchè non
si deve privare di lavoro e di guadagno il popolo. Il decreto che
dichiara la patria in pericolo fa balzare l'un dopo l'altro dal suolo di
Francia quattordici eserciti che corrono ai confini e salvano la patria:
da noi su tutti i toni si parla di civismo, di amor di patria, di doveri
patriottici, si esalta con parole reboanti l'acquisto fatto dei diritti
del cittadino e sopratutto di quello di portare le armi: ma quando si
trattò di armare davvero i cittadini e si volle a tal fine istituire la
Guardia Nazionale, non bastò neppure l'assicurazione che non sarebbero
condotti a combattere fuori della città, per indurre i cittadini ad
inscrivervisi numerosi. E di chi furono in gran parte composte le prime
milizie della libertà italiana, la legione lombarda, la cispadana, la
polacca, se non dei medesimi mercenarii che già servivano l'Austria, il
Duca di Modena ed il Papa e che la democrazia vituperava col nome di
sgherri della tirannide? Del resto, qual prova più evidente di quanto
fosse fittizio e superficiale il movimento rivoluzionario italiano, che
il veder le popolazioni esultare per la libertà ricuperata e compiacersi
de' suoi benefici nell'atto appunto che erano tratte a subire la
peggiore delle tirannie, quella della violenza e dell'arbitrio
militaresco?

Poichè le città italiane — salvo poche eccezioni dovute a ragioni locali
— non si sollevano contro gli antichi governi, non cacciano i loro
principi: quando con la fuga o con la sommessione questi han ceduto alle
arti od alle armi dei Francesi e queste ultime sono vicine, allora
soltanto l'entusiasmo per la libertà scoppia e si manifesta con tutti i
suoi eccessi. E non v'ha dubbio che, se i primi a dar la mossa son
coloro che per segrete intelligenze o per spontanea esaltazione o
tendenza nell'animo oppure per interesse o per speranza di nuova fortuna
o di vendetta o anche di riparare ad un passato non bello, già erano
disposti ad accogliere a braccia aperte i Francesi; se altri non pochi
son tratti a seguire quei primi dall'irresistibile fascino che esercita
sul volgo e sui deboli l'esempio, nella maggior parte della popolazione
il desiderio improvviso di libertà non è che l'effetto — pare un
paradosso — della servilità dell'animo. L'abitudine, per l'azione
continuata di secoli compenetrata nella natura italiana, di accogliere
col viso sorridente i padroni venuti dal di fuori, di piegare con
ossequiosa obbedienza il capo dinanzi a chi, legittimamente o no, ha in
sua mano la forza materiale, di adularlo, di compiacere premurosi ad
ogni desiderio suo, trae la massa del volgo a secondare — benchè non
siano le consuete che mostravano gli altri padroni — anche le voglie dei
Francesi, i quali del resto prepotenti sono come e più degli altri.

Ai Francesi piacciono gli applausi, vogliono che si balli, che si canti,
che si stia allegri, che si dica che essi sono fratelli e son
liberatori, desiderano che si imiti la loro rivoluzione, e gli Italiani

    “liberi no, ma in altro modo schiavi„

si rompono compiacenti le mani per applaudirli, ballan con furore,
cantano a squarciagola, si proclamano ai quattro venti i fratelli più
grati e più felici della liberazione ottenuta, e come istrioni — usiamo
l'espressione del Foscolo — si studiano di scimiotteggiare e di
esagerare l'andatura alla brava ed il sistema democratico dei loro
padroni.

                                 *

Sull'acquiescenza servile di questo volgo incurioso ed inerme che
l'ignoranza, la paura e la superstizione hanno abbrutito, il Bonaparte
era ben certo di poter far calcolo: le minaccie di feroci rappresaglie,
seguite dai sanguinosi esempi di Binasco, di Pavia e di Lugo, furono più
che sufficienti a mettere un freno alle velleità di resistenza, cui qua
e là — specie nelle campagne — parve dapprima che esso, per i consigli e
le istigazioni altrui, volesse cedere. Ciò però non bastava al
Bonaparte: egli voleva formare — come scrisse al Direttorio — l'opinione
pubblica, _donner la tournure à l'esprit_, per modo da renderlo
favorevole alla rivoluzione che portava in Italia. Per ciò egli cercò
subito e di proposito di attirare a sè le classi più alte e più colte.
La conquista degli animi fu metodica, come metodico e quasi uniforme era
stato, ne' più minuti particolari, il procedimento che egli ed i
generali francesi avevano adoperato fin dal principio nell'occupare le
città e gli Stati italiani.

Il Bonaparte sa di essere venuto in mezzo ad un popolo conservatore per
indole e religioso per fede e per abitudine: perciò s'adopra prima di
tutto a rassicurarlo che nè la religione nè la proprietà saranno
toccate. Lascia che gli ardenti, che gli ingenui, che coloro i quali,
nulla avendo da temere o da perdere per sè, son sempre pronti a ficcarsi
in prima fila, diano la stura a tutto il repertorio della rettorica
democratica; lascia che costoro — rassicurati e fatti audaci dalla
presenza delle armi francesi — si abbandonino a manifestazioni esagerate
del loro patriottismo di fresca data e dei loro nuovi principii, ma
esteriormente soltanto e in quanto tali manifestazioni possono essere
buon lievito a gonfiare l'ardore delle masse e stimolo a chi ha bisogno
d'essere spronato per muoversi. Ma quando vorrebbero e potrebbero
scendere all'azione cui egli sembrava li avesse spinti, li contiene e li
frena, perchè nè il sentimento religioso dei più ne riceva ombra od
offesa, nè le classi più alte e più agiate abbiano ragione di temere
pericoli per sè o per le cose loro. Agli uomini del medio ceto composto,
fra noi, di avvocati, di letterati, di medici, di artisti, di
commercianti, molti de' quali son già disposti dalla loro educazione ad
accogliere le dottrine che da un pezzo la filosofia francese ha messe di
moda, il Bonaparte apre le braccia e fa credere d'esser venuto per
scuotere il giogo che li opprime e che per verità ad essi era parso
molto leggiero: ne solletica la vanità o l'ambizione: offrendo impieghi
ed onori fa brillare ai loro sguardi ideali di grandezza e di libertà.
Ma per accoglier costoro non respinge da sè il clero e la nobiltà: chè
quello è autorevole e questa non suscita odii ardenti, come in Francia,
ed ha molte aderenze: clero e nobiltà dal canto loro, per abitudine e
per educazione, sono concilianti e quasi senza resistenza si prestano,
parte per paura del peggio, parte per speranza del meglio, a secondarlo.

Quanti nobili e quanti prelati, fatti cittadini, non accompagnarono poi
nelle fortunose vicende della sua vita il giovane côrso del quale
vedevano allora spuntare l'aurora! E come pronto ed acuto fu l'occhio di
lui a penetrare nel cuore e nella mente di quanti lo avvicinavano e a
discernere, fra la folla degli adulatori che gli faceva calca intorno,
gli uomini, fino allora ignoti a sè stessi, che per le qualità
dell'ingegno e dell'animo eran degni ch'ei facesse calcolo sopra di
loro; e come seppe senza esitare stendere ad essi la mano per innalzarli
e metterli al suo fianco! Alla folla il trastullo delle pompe e delle
forme, l'ebbrezza delle esagerazioni: questi pochi, tratti nell'intimità
e nella fiducia sua, educava e provava alla vita pubblica, rendeva
devoti e legava a sè, aprendo alle loro menti nuovi orizzonti e facendo
ad essi balenare lontane speranze per la lor patria, forse allora
sincere.

Intanto ben diversa e dolorosa era la realtà che il Bonaparte poteva
loro offrire. Questa Italia che egli sentiva essere sua personale
conquista e per la quale vedeva disegnarsi e andava vagheggiando ideali
che pochi anni dopo l'egoismo suo, prevalendo, troncò, la sapeva
riserbata, nei reconditi disegni del Direttorio e dalle necessità
politiche della Francia, a pagare le spese della pace con l'Austria dopo
che avesse pagate alla Francia quelle della guerra. Ei doveva perciò
sfruttarla, dissanguarla, cavarne tutto il succo vitale per provvedere
ai bisogni dell'esercito, alimentare la sua impresa, e non offrire
all'Austria che un limone spremuto. E doveva in pari tempo impedirle di
acquistare tale saldezza di ordinamenti, così larga unione delle sue
parti e così libera autonomia di esistenza che potessero poi esser
d'ostacolo al mercato per cui la conquista era fatta. Onde la
instabilità degli effimeri stati democratici che all'ombra delle sue
vittorie o col conforto di molte promesse, lasciò sorgere nella
penisola.

Piccole repubbliche che si pavoneggiavano nei nomi gloriosi
dell'antichità classica, ma che funzionavano sopra una copia, ridotta
per comodo dei Francesi e per illusione degli Italiani, della
costituzione dell'anno V; che menavano vanto e discutevano con calore e
a grandi frasi dell'esercizio della libertà cui eran chiamati, che
evocavano ad ogni momento le ombre di Bruto, degli Scipioni e magari di
Camillo ed erano poi allo sbaraglio del primo caporale Gallo che volesse
essere insolente. Generali, commissari, agenti ordinatori, requisitori
straordinari ed ordinari, civili e militari venuti di Francia, tutti
comandavano, tutti insolentivano con prepotenza, tutti credevano di
avere il diritto di prendere per un orecchio e trattar da padroni questi
uomini liberi. E, come tutti comandavano, così tutti intascavano.
Parevano uccelli di rapina calati su di un campo di battaglia: non erano
mai sazii: tutto faceva per loro: oro, argento, viveri, quadri, oggetti
d'arte, persino i pegni del Monte di Pietà! Nel nome del Direttorio la
spogliazione si eseguiva in grande con la garanzia di trattati e di
compromessi e per mezzo di dotti e non dotti ufficialmente investiti
nella missione di far scelta — in lingua più povera si direbbe _rubare_
— del meglio che trovassero nelle gallerie, nei musei e nelle casse
pubbliche. Ma alla spogliazione ufficiale s'aggiungeva la privata.
Chiedendo a titolo di dono i più riguardosi, gli altri mettendo gli
artigli _impudentemente_ — la parola è del Bonaparte — su quel che loro
piaceva, ciascuno cercava di non tornare a mani vuote al di là delle
Alpi. E non era giusto che gli Italiani pagassero il beneficio della
libertà che i Francesi — bontà loro — avevano portato? i _Romani nella
Grecia_ non avevano fatto lo stesso? Ma Mummio, erano gli Italiani che
lo ricordavano: i Francesi parlavano invece di Catone e continuavano a
frugare nelle tasche dei loro nuovi fratelli. — “Cappello in testa e
mani nelle tasche!„ — consigliava in quei giorni di democrazia invadente
il Parini ad un campagnolo che per timidità o per abito di cortesia non
sapeva stare dinanzi ai magistrati col capo scoperto. Il Parini, al
quale il Monti nella Mascheroniana pone in bocca:

    il dolor della meschina
    Di cotal nuova libertà vestita
    Che libertà nomossi e fu rapina.
    Serva la vide, ohimè, serva schernita.

Oh l'Italia pagò cara questa libertà! e s'avvide da ultimo di non
stringere che un pugno di mosche. Quando il Bonaparte lasciò la penisola
e a questa venne meno con esso anche il freno che fino allora aveva
contenuto la più sfacciata ruberia ed impedito il trionfo della
demagogia piazzaiuola, già della libertà erano stanchi anche coloro che
più sinceramente le erano mossi incontro. I più abili ed i più onesti,
dopo avere indarno tentato di reagire contro tanta rovina delle loro
speranze e dei loro ideali, dopo aver cercato inutilmente di arrestare
l'onda invadente nella vita pubblica degli elementi più torbidi e più
violenti che il cieco favor popolare e il non disinteressato favore dei
generali e commissari francesi sospingevano innanzi, s'erano ritirati in
disparte. Il contrastare degli avidi, il rubare dei disonesti, le
piccole prepotenze dei cittadini che avevano il governo di nome e le
grandi dei Francesi che lo esercitavano di fatto, la confusione delle
attribuzioni, gli odii, le calunnie, la intemperanza del linguaggio
avevano, in tre anni, gettato l'Italia nello stato della più completa
anarchia.

                                 *

Allora appunto, nel 1799, cominciò la reazione antifrancese: ma, come la
rivoluzione, anch'essa venne fra noi dal di fuori.

Quasi ad un tempo fu trionfante alle due estremità della penisola.

Dalle Alpi calò in Lombardia il maresciallo Suwaroff, il terribile
tartaro che aveva massacrati gli ultimi eroi della libertà polacca, e
guidava Austriaci e Russi: piombò in Calabria dalla Sicilia il cardinale
Fabrizio Ruffo e lo seguiva un'orda disordinata di borbonici, di
briganti, di preti, di frati e di contadini che lungo il cammino diventò
folla. Un medesimo odio contro la rivoluzione guidava l'uno e l'altro,
il fanatico maresciallo scismatico, l'accorto principe della Chiesa
romana: pronti erano entrambi a qualunque eccesso pur di far trionfare
Cristo ed il diritto divino dei re.

Nuovo Attila, il Suwaroff, e come lui terribile nella bruttezza
ripugnante del volto e della piccola persona, si gittava furibondo in
mezzo alla mischia cogli occhi iniettati di sangue, e tenendosi ritto su
di un selvaggio cavallo della steppa, correva seminudo sotto una bianca
e lunga camicia tartara, donde pendevano decorazioni e reliquie, fra le
file de' suoi incitando alla strage, dandone l'esempio: i suoi urli
erano di belva inferocita, le pose e i gesti teatrali: quando
s'incontrava in una croce o in una immagine sacra scendeva da cavallo,
si gettava bocconi e colla testa beluina nella polvere baciava il suolo.

Il Ruffo, maestoso nella eleganza signorile della porpora cardinalizia,
incedeva sereno in mezzo alle turbe furibonde e fanatiche de' suoi nuovi
crociati. Dalla sua bocca di miele uscivano parole che suonavano pace e
perdono cristiano, ma che sulle turbe le quali lo ascoltavano col cuore
invasato di sacro odio producevano l'effetto di staffilate: gli
sciagurati che s'eran fatti nemici della religione e del re e che
conveniva richiamare, per salvezza delle anime loro e per tranquillità e
sicurezza degli altri, alla fede di cristiani e di sudditi, ei li
additava con la punta della spada: con la croce benediceva le schiere
che tornavano dalle stragi sanguinose: di tratto in tratto fermava i
suoi ad una chiesa ed intonava il _Tedeum_ al Dio della vittoria.

Una lunga traccia di incendi, di stupri, di saccheggi, di rapine, di
lascivie per cui il Suwaroff menava vanto e gli brillavano gli occhi di
gioia e il Ruffo mostrava di vergognarsi e dolersi, segnava il passaggio
in Lombardia e nel Regno delle milizie oltremontane e nostrane della
Santa Fede: e dietro la traccia, e per allargarla, accorrevano, come
iene attratte dall'odore della preda e del sangue, sempre nuove turbe di
insorgenti e più feroci, fiutando se vi eran superstiti alle prime
stragi, cercando se trovavano avanzi delle prime rapine, insaziabili per
timore che le vittime venissero loro a mancare.

Col successo il contagio si diffonde dalle estremità nel centro
d'Italia. Un selvaggio furore sembra invadere le tranquille e gentili
popolazioni della Toscana, dell'Umbria e delle Marche: cadono gli alberi
della libertà e sorgono per ogni dove le croci; cessano lo squillar
delle trombe e il rullar dei tamburi; fra un lento e continuo suonar di
campane, echeggiano da ogni parte grida selvaggie di _Morte ai
Giacobini, Viva Maria!_ Moltitudini sterminate di contadini armati di
picche, di falci, di fucili si muovono quasi in processione militare dai
loro borghi, si organizzano in bande, improvvisano capi. Centro
dell'armata della fede è in Toscana, Arezzo: generalessa una donna,
Alessandra Mari da Montevarchi che, novella Giovanna d'Arco, portando
un'imagine della Vergine, precede a cavallo la turba aretina e la
conduce delirante d'odio e di fede, fra il canto delle sante litanie,
alla caccia dei Francesi, dei giacobini, degli ebrei, di tutti i nemici
della fede.

D'onde in ogni parte di questa Italia, che ieri pareva delirare
d'entusiasmo per i Francesi, d'amore per la libertà, sono sbucate
d'improvviso tante _masse cristiane_ e così numerosi sanfedisti? Dove si
tenevano finora nascosti, e come tanto odio non visto covava? E dove
sono ora i molti che smaniosi di godere e di esercitare i diritti del
cittadino facevano ressa attorno ai pubblici uffici? i non mai sazi di
libertà? gli energumeni, i declamatori delle tribune, dei giornali,
delle piazze che parevan non trovar sufficienti parole per affermare e
ripetere il loro risoluto proposito di sacrificare la vita piuttosto che
la libertà acquistata?

Non si vedono più: si direbbe che una voragine li ha inghiottiti tutti.
È bastato che l'esercito francese vinto dagli Austro-Russi in campali
giornate, investito ed incalzato in ogni parte dalle bande degli
insorgenti, fosse costretto a sottrarre alle libere repubbliche italiane
il suo appoggio, perchè queste, come castello di carta al primo soffio,
crollassero. Per i loro ideali di libertà e di ordinato viver civile,
per l'esistenza di quello Stato che con fede di compiere cosa santa
avevano fondato pochi mesi prima, lottarono da eroi fino all'ultimo gli
uomini della Repubblica Partenopea, soli: ma non erano che un pugno di
forti e la reazione li soffocò col numero nel sangue. Abbandonarono
invece il campo, vergognosamente inerti, tutti gli altri nelle altre
parti d'Italia. I più compromessi fautori della libertà seguirono
l'esercito francese nella ritirata: quelli che credettero di rimanere
sul patrio suolo e che non poterono ottenere d'esser dimenticati o anche
di far accogliere i loro servigi dai nuovi vincitori, furono o
massacrati nel primo momento dal furor delle turbe o carcerati o
esiliati o tratti a morte più tardi, quando cominciò per mezzo di
persecuzioni e di processi la più misurata, ma non meno feroce e
sanguinaria, epurazione a freddo dei sospetti di civismo. Alle stragi di
Mario succedono le proscrizioni di Silla.

A spiegare tanta e così subitanea mutazione non basta dire che le
violenze e le ruberie dei Francesi, che l'anarchia dei governi da loro
istituiti avevano ingenerato odio a sazietà siffatta che gli Italiani
avrebbero accolto come liberatore anche il turco: conviene ammettere,
come io dicevo da principio, che al soffio delle idee francesi la
superficie soltanto della vita italiana si era mossa: che era spuma e
non onda quella che s'era sollevata. La natura italiana, nonostante
l'apparente consenso generale, non era stata toccata profondamente nel
suo organismo dalle novità francesi: un accesso violento di febbre che
la paura ed il contatto coi Francesi avevano provocato, l'aveva turbata
momentaneamente: passata la paura, cessato il contatto, le tendenze
naturali, sentendosi di nuovo libere di sè, avevano ripreso il
sopravvento ed avevano per reazione ecceduto nel volere dalla vita
italiana espellere ciò che l'importazione straniera vi aveva introdotto.

                                 *

Altri stranieri avevano dominato nei secoli precedenti l'Italia; ma
nessuno, prima dei Francesi, aveva voluto d'un tratto e per forza
innestare la propria vita, le proprie idee, le proprie ispirazioni nella
vita italiana: ciò che delle costumanze e del pensiero spagnuolo era
rimasto fra noi, era stato assorbito per lento e spontaneo infiltramento
nel volgere di molti anni. Del resto, che la violenta imposizione dei
principii della rivoluzione francese non solo si sia esercitata sopra un
terreno che in nessun modo era disposto ad accoglierla, ma che sia
venuta ad interrompere bruscamente il naturale svolgimento della vita
italiana, quando appunto cominciava a rinnovarsi da sè, lo mostra il
fatto che neppure il vivere più composto e ordinato di altri quindici
anni della dominazione francese restaurata fra noi nel primo anno del
secolo, hanno potuto radicarli. Certo per legge di adattamento essi
poterono in quegli anni guadagnar terreno e lasciarono traccia di sè in
molti che si erano trovati in condizione di vederne e di gustarne i
benefici: ma la grande massa del popolo italiano fu lieta che la
reazione del 1815 — più fortunata e più durevole di quella del 1799 —
rimettesse le cose come erano prima che i Francesi ponessero il piede in
Italia, e s'adagiò soddisfatta nel suo nuovo sonno, dal quale soltanto
la lenta e graduale preparazione di mezzo secolo potè destarla e
metterla in condizione di poter guardare con occhio sicuro il sole della
libertà.

Un uomo avrebbe potuto anticipare l'aurora di questo sole: Napoleone
Bonaparte se egli, quando fu padrone di sè e non doveva render conto ad
alcuno, come prima al Direttorio, dell'opera sua, avesse voluto essere
italiano soltanto e si fosse proposto di riprender le fila della
tradizione italiana là dove l'orrore per la rivoluzione francese, poi le
armi di Francia le avevano spezzate. Ma quando calò per la seconda volta
nella penisola per metter fine alla reazione che da tredici mesi vi
imperversava, e d'un sol salto, colla battaglia di Marengo, fu in sella
e di nuovo ebbe in mano il freno di lei ch'era “fatta indomita e
selvaggia„ egli non era più il giovane generale invaso dalla voglia
d'afferrare per i capelli la gloria e la fortuna dovunque le avesse
trovate. Gloria e fortuna le aveva già raggiunte e le teneva strette nel
ferreo pugno. Era il primo console, il vero signore della Francia: se in
altri tempi egli aveva potuto accarezzare la possibilità di congiungere
la propria fortuna alle sorti d'Italia e di far servire gli interessi e
le aspirazioni di questa alle sue personali mire d'ambizione e di
dominio, ora che il 18 brumaio aveva trasformato i suoi più alti sogni
in una realtà e trascinata la Francia ai suoi piedi, l'egoismo suo s'era
immedesimato del tutto con questa. Non vedeva più che la Francia
nell'Europa, e solo sè nella Francia: tutto nel mondo, l'Italia per la
prima, la più cara delle sue conquiste, doveva servire alla gloria, alla
grandezza, agli interessi della Francia perchè queste erano la gloria,
la grandezza, l'interesse di lui.

L'uomo della rivoluzione era finito col secolo ch'era morto. Colui che
con Marengo aveva aperto il secolo nuovo, dalla rivoluzione, attraverso
la quale era salito, aveva cominciato a staccarsi: non ne aveva più
bisogno, anzi la temeva e voleva per ciò all'opera distruggitrice e
disgregatrice del popolo far succedere quella ricostruttrice ed
ordinatrice dell'uomo di Stato. Disgraziatamente l'uomo di Stato non era
meno rivoluzionario del popolo: le forme della ricostruzione furono
diverse perchè personali, ma il metodo finì coll'essere lo stesso: la
prepotenza, l'arbitrio, la violenza, il capriccio, la collera, la
passione.

Al popolo italiano s'annunciò uomo d'ordine nelle prime parole che gli
diresse dopo la vittoria: “Il popolo francese viene per la seconda volta
a spezzare le vostre catene. Quando il vostro territorio sarà
compiutamente sgombro dal nemico, la repubblica sarà riorganizzata sulle
basi immutabili della _religione_, dell'_eguaglianza_ e del _buon
ordine_.„ Dell'antica formula rivoluzionaria restava la sola
_eguaglianza_: ciò che anche di questa restava, poteron scorgere subito
i Milanesi quando, dopo la vittoria di Marengo, videro il Bonaparte
andare in Duomo per assistere al _Tedeum_ sotto il baldacchino che
soleva essere preparato per i soli sovrani, circondato da uno stato
maggiore tutto oro e ricami, preceduto e seguito dalle guardie
consolari, con isfoggio di divise, di livree, di velluti, di pennacchi e
di ornamenti che ricordavano le pompe spagnolesche del tempo antico.
Cominciava il Bonaparte ad avvezzare gli occhi dei liberi cittadini,
prima di trasformarli in sudditi, alla teatralità dello spettacolo della
sua grandezza: non è lontano il tempo che tutto il mondo sarà in livrea
per far cornice e contrasto al suo grigio cappotto.

L'Italia non ebbe per il momento che ordinamenti provvisori: altre cure
chiamavano altrove lui che da solo voleva sostenere il carico della
reazione dell'Europa intiera. Soltanto allorchè ebbe costretto tutte le
orgogliose monarchie dell'antica Europa a stringere la mano vittoriosa
con cui offriva loro la pace, pensò ad ordinare più stabilmente la
nostra penisola. Era tempo: la _verace e saggia libertà_ che si era
attesa da lui non era venuta; le corruzioni, i disordini, le prepotenze
degli amministratori e delle amministrazioni provvisorie, le
spogliazioni, le requisizioni, le rapine, naturali conseguenze della
guerra, si erano rinnovate, come dal primo triennio della dominazione
francese ed avevano di nuovo resa odiosa la libertà.

V'era in Italia una popolazione che il Bonaparte prediligeva fra tutte:
quella che dalle Alpi per le pianure lombarda, emiliana e romagnola si
stende al di qua ed al di là del Po fino all'Esino. In mezzo ad essa,
nel 1796, aveva vissuto i suoi giorni migliori, quelli delle prime
glorie, che son sempre le più care, e gli pareva che là battesse il vero
cuore della nazione italiana: certo di là gli eran venuti gli uomini che
meglio fra noi lo avevano compreso e secondato e che ancora lo
circondavano. Per ciò, dopo Campoformio e contro le istruzioni del
Direttorio, le aveva permesso di formare col nome di repubblica
Cisalpina una forte unità di Stato, ed alla nuova repubblica aveva
dedicato cure e lasciato intravvedere alti destini e più larga unità.

Se il Bonaparte non volle mai dell'Italia tutta

                              le disciolte
    Membra legarle in un sol nodo e stretto,

lasciò però, che anche dopo il suo ritorno nella penisola questa unità
cisalpina risorgesse e rimanesse, della intiera nazione italiana, quasi
il simbolo, in attesa — ei lasciava creder di prometterle — che tempi
migliori le permettessero di esserne il nucleo. Ma intanto volle esserne
egli il padrone e la guida. Conclusa la pace generale, ne chiamò a
consulta i rappresentanti perchè studiassero un nuovo ordinamento di
repubblica rispondente ai bisogni della lor nazione ed alla volontà sua;
li chiamò a Lione, in terra straniera, davanti ai suoi ministri francesi
ed a sè stesso e della lor nuova repubblica volle che lo eleggessero
presidente.

Che importava? Ma con la nuova repubblica, che fu detta _italiana_,
usciva finalmente e per la prima volta dopo tanti secoli di storia
assumeva valore politico questo nome significativo di ideali e di
speranze che già erano nell'intimo pensiero o almeno nel sentimento di
molti; ma della nuova repubblica il Bonaparte affidava le redini, come a
vice presidente, al Melzi, l'italiano per integrità di carattere, per
altezza d'ingegno, per nobiltà di propositi più rispettato, l'uomo che
dell'avvenire d'Italia ebbe forse la più chiara visione e la più sicura
coscienza. Le circostanze e la volontà del Bonaparte non permisero che
quel nome d'_italiana_ assumesse più largo e più vero significato: chè
delle altre parti d'Italia già pervenute in mano di lui o che vi
pervennero poi, preferì o formare dipartimenti francesi o mantenerle
isolate o aggrupparle artificiosamente fra loro, anzichè allargare i
confini della repubblica italiana. Ma le speranze che nel Melzi erano
state concepite, cominciarono a divenir realtà: egli purgò la repubblica
dalla corruzione, restaurò il senso morale e la giustizia, ed iniziò con
mano tranquilla, con larghezza di vedute e con audacia temperata dal
senso pratico ch'egli aveva della vita, un'opera lenta di ricostruzione
sociale e politica, la quale poteva assicurare allo Stato lunga vita e
sicura. Parve un'êra nuova di prosperità e di benessere che s'aprisse:
pur troppo non fu lunga nè libera di difficoltà e di ostacoli. I
maggiori di questi venivano di Francia. Il Bonaparte aveva detto alla
Consulta di Lione: “Voi avete bisogno di leggi generali e di costumi
generali. Non avete eserciti, bensì avete gli elementi per crearli.„ E
la repubblica italiana ebbe per opera del Melzi savie leggi generali, e
pose le basi di quell'esercito che doveva essere la miglior scuola della
nazione italiana e che restò la visione gloriosa e più di frequente
evocata dai forti italiani, quando tornò per loro il tempo dell'inerzia.

Anche quello che il Bonaparte aveva chiamato il costume, cioè il
carattere ed il sentimento nazionale, si era proposto e si studiò il
Melzi di formare: aveva accettato di essere l'uomo del Bonaparte
rispetto alla nazione italiana e voleva essere — ei diceva — anche
l'uomo della nazione rispetto al Bonaparte; ma perchè potesse
raggiungere così nobile intento conveniva che cessasse l'asservimento
alla Francia. Il contatto coi Francesi era troppo continuo, perchè non
fosse cagione di spiacevoli contrasti: la dipendenza dalla Francia
troppo diretta e troppo presente perchè gli interessi di questa non
avessero a prevalere su quelli che avrebbe imposto la nazionalità della
serva e più bisognosa sorella. E invece che diminuire l'asservimento
diventava ogni giorno più duro, e più ferrea e più imperiosa si faceva
sentire la volontà di Napoleone. Prima erano consigli e raccomandazioni
al Melzi: diventarono poi ordini e ingiunzioni fatte — nonostante
l'affetto e la grande stima che il Bonaparte nutriva per il patrizio
milanese — con quel tono secco di militaresca villania che al Talleyrand
faceva dire col suo fine sorriso: — “Peccato che un uomo di tanto
ingegno sia tanto male educato!„ Il Melzi era costretto quasi sempre a
piegare il capo: non vi si rassegnava però che riluttante e dopo di
avere con coraggio, che era già di pochi e che presto non sarebbe stato
di nessuno, tentato di persuadere e di resistere.

Di mano in mano che il Bonaparte si avvicinava alla corona imperiale,
tanto più invadente, accentratrice si faceva la personalità sua: ogni
azione altrui dalla sua restava soffocata e distrutta: una volontà sola,
una sola vita vi doveva essere in Europa, la sua.

Il Bonaparte fu chiamato _il primo dei controrivoluzionari_: e per vero
egli aveva creduto di fermar l'opera della rivoluzione rimettendo la
società sopra le basi donde la rivoluzione l'aveva spostata: l'ordine e
la religione. L'operosa ricostruzione interna del consolato, la pace
generale con l'Europa, il Concordato col papa parevano nel 1801 voler
mantenere la promessa. Ora il Cesarismo lo aveva ricondotto di nuovo là
dove la rivoluzione con la violenza era giunta. Non la Francia soltanto,
ma l'Europa intera turbata; principi e popoli in istato di continua
instabilità ed in pericolo di sovvertimento ad un sol cenno di lui; il
Pontefice, come ai tempi della rivoluzione, strappato alla sua sede e
trascinato in Francia e le coscienze religiose turbate.

Seguirlo in questa fase ultima della sua vita politica non tocca a me
nell'ordine di queste letture; è giunto il momento in cui la
individualità del Bonaparte ha talmente assorbito la vita di tutta
l'Europa da formare con essa una sola ed indivisibile cosa. Napoleone è
già il Giove terreno che fulmina, che riceve gli incensi, che si sente
al difuori e al disopra del genere umano.

    E torrenti di luce il sol diffuse
    Napoleone Dio, Napoleone!
    Rispondeva la terra, e il ciel si chiuse.

Miseri mortali costretti a vivere fuor delle loro condizioni normali, ad
obbedire senza discutere, ad ammirare sempre; sempre in attesa di
qualche colpo di scena che d'un tratto muti le loro sorti; sempre nel
timore che un segno di penna annulli la loro esistenza, che li privi
delle sostanze, che strappi i lor figli alla casa paterna e li balzi qua
e là per tutta l'Europa. Mai la ragion di Stato aveva annientato tanto
l'individuo! Nulla aveva più valore nella vita dell'uomo privato, nè in
quella dei popoli. Che importa alla storia sapere quali principi
Napoleone abbia posto sui troni o quali ne abbia balzati? restano ombre
prive di corpo, nomi vani, quando attraverso ad essi non si vada a
cercare il sole che li illumina e li vivifica. Che importa sapere come
Napoleone abbia riunito all'impero francese l'uno dopo l'altro il
Piemonte, poi Genova con la Liguria, poi Parma, Piacenza, Lucca, poi la
Toscana, dopo averne fatto un effimero regno d'Etruria, e da ultimo
Roma? Quali destini serbava all'eterna città quando, attingendo ancora
una volta alla forza della sua tradizione gloriosa, faceva di essa la
seconda metropoli dell'impero, poi del figlio lungamente desiderato, un
re di Roma? Ne voleva far centro della nuova nazione italiana? Chi può
seguirlo attraverso il fantasmagorico mutare e rimutare della sua
volontà, e cogliere in mezzo il barattare continuo di troni e provincie,
quale sia l'ultima mira dell'azione sua?

Il bel nome italico rimaneva al regno, in cui la repubblica italiana
s'era trasformata: ma il Melzi non v'era più a governarla. Al suo posto
Napoleone aveva posto un giovanetto francese, il figliastro suo Eugenio:
e francesi, come Eugenio, tratti dalla famiglia di Giove furono pure
Giuseppe e Gioacchino Murat che successivamente Napoleone fe' passare
sul trono abbandonato da Ferdinando di Borbone. Continua nel regno
italico, s'inizia nel regno di Napoli il rinnovamento legislativo,
economico e militare del paese; e possono, ne' primi momenti del fasto
teatrale delle nuove Corti e della gloria militare cui sono chiamate a
partecipare, restare abbagliate le popolazioni italiane. Ma la realtà
finisce coll'imporsi: al fasto principesco, alla gloria militare erano
sacrificati gli interessi del popolo; per la grandezza dell'impero di
Francia prosciugate le risorse pubbliche, seminate di lutti le case dei
cittadini. Resistere alla volontà di chi disponeva della loro sorte non
osavano i principi, era impotente il popolo: ond'è che gli Italiani
ricaddero di nuovo in quello stato di inerzia passiva che già altra
volta era succeduto alla momentanea effervescenza che l'amore per la
libertà pareva avesse destato fra noi: di nuovo nel segreto del cuore
covarono gli Italiani l'odio contro gli stranieri oppressori. Ma l'odio
questa volta era più intenso perchè più lunga era stata l'educazione
politica, più sicuri erano divenuti i criteri per distinguere il bene
dal male, l'apparenza dalla realtà: ed il contrasto stesso che nella
repubblica e nel regno italico gli Italiani avevano avuto sotto gli
occhi, dei benefici che da savi ordinamenti liberi avrebbero potuto
ritrarre coi mali che per l'assoggettamento a Francia nel fatto ne
ritraevano, acuiva l'odio ed il dolore.

Il Franchetti in una delle sue migliori monografie su questi tempi ha
dimostrato che l'odio sorto fra noi dalle sofferenze, dalle prepotenze,
dalle delusioni subite durante la dominazione francese fu il fuoco sacro
che ha acceso il sentimento patrio italiano, prima dell'89 vivo soltanto
nella comunanza del linguaggio, della coltura e delle tradizioni
storiche. Un medesimo odio e una comune miseria hanno fatto cercare la
medesima salvezza; così la coscienza unitaria della nazione italiana fu
formata. Dal male nasce più spesso che in altro nido il bene: e
basterebbe ciò perchè a questa età tumultuosa noi dovessimo rivolgere
grati lo sguardo, quando anche non le dovessimo d'averci richiamato alla
milizia e dato l'esempio dei primi larghi ordinamenti legislativi che
rimasero poi fermi nella nostra tradizione.

La coscienza nazionale italiana portava però ancora con sè il segno del
peccato d'origine: era nata dall'odio e non poteva per anco aver altro
carattere che distruttivo; non sentiva allora altra necessità
all'infuori che quella di togliersi di dosso chi la soffocava, e per il
momento non vedeva e non cercava come le sarebbe stato poi concesso nel
fatto di costruire l'unità della patria.

Per ciò il popolo italiano assistè plaudendo al crollo della fortuna
napoleonica, dove non diè mano esso stesso a quella rovina: per ciò
respinse con repugnanza le offerte di indipendenza che la voce francese
del vanitoso Gioacchino Murat gli vantò da Rimini e respinse anche
quelle di Eugenio di Beauharnais, che pur era degno di miglior sorte. Ma
poichè l'odio solo l'avea mosso e non avea pronta e chiara davanti agli
occhi la vera soluzione del suo avvenire, dopo esser corso dietro alle
speranze — e fu errore scontato collo Spielberg — di una restaurazione
liberale ed autonoma sotto gli auspici dell'Austria, finì col cadere
nella servitù e passare da una ad un'altra dominazione straniera, la
quale gli tolse anche quelle speranze di libertà e quelle illusioni di
gloria che la dominazione francese gli concedeva.

Eppure, se fra tanto tumulto di passioni l'Italia avesse prestato
attento orecchio, avrebbe inteso una voce che dalle pagine ora
dimenticate di un tenue opuscolo, dirigendo un _Appello ad Alessandro
imperatore autocrate di tutte le Russie sul destino d'Italia_, additava
con mano sicura donde la salvezza futura sarebbe venuta. “Offrasi —
diceva la voce dell'anonimo solitario — offrasi a questa nazione
l'indipendenza, l'unione e la scelta di un governo.... Gli occhi d'ogni
italiano, nel di cui petto arde il sacro amor di patria e a cui l'onore
nazionale è caro, rivolti sono da gran tempo sopra quello che tutto
appella a far nostro capo e sovrano. Restaci ancora un principe
legittimo e degno di esserlo, la di cui famiglia tutto ha nelle vene il
più puro sangue italiano. Un principe nato fra noi, fra noi allevato,
che noi tutti conosciamo e che conosce noi tutti. Egli ha i nostri
costumi e le inclinazioni nostre, le nostre abitudini. L'illustre casa
di Savoia è italiana e gli avi suoi sono dell'Italia la gloria e
l'orgoglio. Che i monarchi alleati, che Vostra Maestà la richiamino al
proprio antico dominio non solo, ma che a regnare s'inviti su tutti gli
Italiani che desideran divenirne sudditi. Si presenti il Re di Sardegna
agli Italiani tutti come il centro della loro unione e gli Italiani
tutti accetteranno con viva gioia e trasporto il magnanimo dono e
benediranno la mano donatrice: correre tosto scorgerebbonsi da ogni lato
dell'afflitta Italia giovani ardenti a salutare l'augusto, il nazional
sovrano e ad offrirgli le braccia ed il sangue loro.„

La voce del solitario italico che con occhio così limpido vedeva la
futura missione rendentrice di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II e
preannunziava i plebisciti dell'Italia nuova, cadde allora nel silenzio.
Altro odio doveva nascere da altre e più dure ed umilianti sofferenze;
dolorosi sacrifici di sangue e di ideali dovevano essere imposti dalle
esperienze fallite cercando per vie diverse la patria, prima che la
coscienza nazionale italiana fosse compiuta e che non più soltanto dalle
elucubrazioni politiche dei pensatori ma dalla educazione generale del
popolo si invocasse e si imponesse la redenzione del nostro paese.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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