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Title: Donne, salotti e costumi - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero
Author: Martini, Ferdinando
Language: Italian
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                                  LA
                            VITA ITALIANA

                              DURANTE LA
                   Rivoluzione francese e l'Impero


                _Conferenze tenute a Firenze nel 1896_

                                  DA

        Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili,
          Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti,
       E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi,
        Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi,
                           Enrico Panzacchi.



                                MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI

                                 1897.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                     _Riservati tutti i diritti_.

                        Tip. Fratelli Treves.



                      DONNE, SALOTTI E COSTUMI


                             CONFERENZA
                                 DI

                         FERDINANDO MARTINI.



Una sera del maggio 1810, Alfonso di Lamartine, appena diciannovenne, in
una diligenza sconquassata e seduto accanto al cocchiere, entrava per la
porta San Gallo in Firenze. Poco innanzi, sua madre assestando la camera
di lui aveva trovato una rosa appassita, delicatamente avvolta in un
pezzo di mussolina, e dei versi:

    Ah! repose à jamais dans ce sein qui t'abrite
      Rose, qui mourus sous ses pas,
    Et compte sur ce cœur combien de fois palpite
      Un rêve qui ne mourra pas!

Un sogno che non morrà! Esperta che a' sogni di quella specie, in
quell'età vaticinati immortali, è quasi sempre, invece, micidiale il
mutamento di clima, la signora di Lamartine mandò sogno e figliuolo a
viaggiare per l'Italia; il figliuolo si fece più sano e robusto che mai,
il sogno lo uccisero le prime acute brezze dell'Alpi; ora per gli orti
fiorenti sulle estreme pendici dell'Appennino, inutilmente le rose
sporgevano di là dalle siepi le corolle fragranti: nello approssimarsi
alla città di Dante e di Michelangelo il giovinetto poeta non cercava
col guardo, non vedeva più che gli allori. Andava fresco della lettura
dei grandissimi fra' nostri scrittori, nella città che era già per lui
la città degli incanti e delle memorie; vi andava con fantasia accesa
così, che nel tragitto dalla porta San Gallo alla locanda di Parione ove
lo condusse il suo automedonte, si figurò scorgere fontane zampillanti
che non ci sono mai state; e perchè tra le fandonie di non so qual libro
di viaggi aveva imparata anche questa: che i soffitti delle case a
Firenze si costruiscono con legno di cedro, gli parve olezzassero del
profumo dei cedri tutte quante le strade.

Que' miraggi vanirono; ma innanzi agli occhi stupefatti, sfolgorarono in
splendori sempre più fulgidi le luci della storia e dell'arte. Il
Lamartine era partito dalla Francia con molte e ragguardevoli
commendatizie; dopo brevi ore di soggiorno a Firenze, deliberato a
vivere co' morti soltanto, s'era proposto di non recapitarne veruna. Se
non che, letto sul sepolcro dell'Alfieri innanzi al quale, secondo egli
scrive, sentì sorgere nell'anima il primo desiderio di fama; sul
sepolcro dell'Alfieri letto il nome della contessa d'Albany, pensò che
aveva una lettera anche per lei: quella, quella sola e subito lo punse
una impaziente bramosia di consegnarla. E uscì da Santa Croce, già
smanioso di conoscere la donna che l'Alfieri aveva fatta compagna della
propria vita e quasi partecipe della propria gloria; di penetrare in
quel salotto, celebre oltre i confini d'Italia, in cui certo sbocciavano
le più argute originalità del pensiero fra le più briose eleganze della
parola.

Ahimè! donna e salotto gli preparavano un disinganno per uno.

La contessa aveva allora cinquantotto anni; che nulla nell'aspetto di
lei ricordasse, per dirla col Lamartine, _la regina d'un cuore_
s'intende; ma egli soggiunge: e neanche _la regina di un impero_; parole
che, pur velando il rammarico di solennità, esprimono intorno alla
d'Albany il pensiero medesimo del Chateaubriand, cui ella parve “volgare
nel portamento e nella fisonomia„; del duca di Broglie che la giudicò
_une veritable commère_, e del Capponi che la disse “di forme massiccia,
d'animo materialotta, vestita come una lavandaia„. Il salotto lasciamo
che il Lamartine lo descriva da sè: “Dopo pranzo entrammo nella stanza
di conversazione, ove intorno alla contessa s'adunava seralmente una
schiera di uomini illustri o nati a Firenze o a Firenze venuti dalle
diverse regioni d'Italia. Ascoltavo con curioso raccoglimento i nomi
loro, via via che il servitore andava annunziandoli: nomi di famiglie
che le storie mi avevano insegnato a conoscere, nomi di professori e di
letterati ancor nuovi per me. A mano a mano che costoro entravano,
andavano a sedersi in semicerchio, intorno ad un tavolino carico di
volumi accatastativi sopra, e dietro al quale se ne stava la contessa
mezza sdraiata sopra un canapè.„

Già quel tavolino, quella catasta di libri, quel semicerchio dicono
abbastanza; ma il Lamartine dice ancor più. Egli, disposto a veder tutto
bello, tenta in sulle prime dissimulare e dissimularsi la delusione che
gli toccò: ripensando gli scrittori e gli artisti ch'egli udì ricordare
in quel convegno, presso alla camera ove l'Alfieri era morto (a
cominciare dal Rinascimento e giù giù fino al Parini ed al Monti) esce
in un inno al genio italiano “pianta la quale vegeta, come i rovi del
Colosseo, più che ne' solchi, vivace fra le ruine„. Ma quando siamo allo
stringere, quando egli vuole schiettamente confessare agli altri ed a sè
le proprie impressioni, allora gli viene importunamente spontanea sotto
la penna, la più titubante parola del vocabolario: il _però_. _Però_, a
ben considerare, di che si discorse quella sera, in quella stanza, da
que' gentiluomini, da que' professori, da que' letterati? Di un
argomento unico, quasi proposto alla gara di erudizioni ingegnose e vane
per giunta; delle ragioni, cioè, di preminenza letteraria o artistica
che l'una città d'Italia poteva vantare in paragone delle rivali.
Dissertazioni, non conversazioni; gelidi colloqui di defunti, non
dialoghi attraenti di vivi. Che salotti? Oramai egli non si perita più
di chiamare le cose col vero nome: quella non era altro che
un'accademia. Ugo Foscolo non dà diverso giudizio: in quel crocchio,
egli scrive, io mi sto muto e freddo come la sedia che opprimo.

Ben diverse dalle riunioni nella casa del Lungarno a Firenze, le
riunioni nel palazzo di Via Montparnasse a Parigi, dove la contessa
abitò dal 1788 al 1791; e alle quali intervenivano, per tacer d'altri
moltissimi, e il Mercy d'Argenteau, e il Montmorin, e il Necker e
Giuseppina Beauharnais e gli Stael moglie e marito, e i Boufflers madre
e figlio, e il Cherubini radioso pe' felici successi della sua
_Lodoiska_ e il Beaumarchais prossimo a dar l'ultima mano alla sua
_Madre colpevole_; della quale, compiuta che sia, offrirà le primizie
alla D'Albany e agli amici di lei. Ma Parigi era Parigi; e se il
Lamartine si figurò di trovare a Firenze nel 1810 un salotto, il quale
rivaleggiasse coi francesi del secolo innanzi e ond'egli forse aveva
udito a casa narrar meraviglie, fu il suo errore tale, che soli valgono
a scusarlo la recente dimora e gli anticipati entusiasmi.

Io non parlo, badiamo, de' salotti parigini nei quali si lavorava a
scavalcare o a tenere in sella un ministro, e la conversazione era, più
che altro, una scusa: di quelli, per citare due soli ad esempio e non
dei più celebri, della marchesa di Lambert sotto la reggenza e della
duchessa di Grammont durante il regno di Luigi XV. In Francia il
Molière, versificando una sentenza di Giovanni V duca di Bretagna,
affermò che una donna ne sa abbastanza quando è capace di distinguere
una giacchetta da un paio di calzoni; e lasciò intendere che una delle
poche occupazioni dicevoli alla più bella metà del genere umano era
appunto il cucire o rammendare calzoni e giacchette. Ma le francesi
degli alti ceti a tanta esiguità di nozioni, a tanta placidità di uffici
non si rassegnarono mai; e così prima come dopo gli ammonimenti del gran
comico, ambirono a governare lo Stato, e quando governare non potevano,
si adoperarono a sconvolgerlo; e invece di filare, com'egli avrebbe
desiderato, dettero del filo a torcere ai ministri e ai luogotenenti
generali della polizia. “Beati voialtri spagnuoli„, diceva il Mazarino a
don Luiz de Haro, intanto che insieme imbastivano la pace de' Pirenei.
“Beati voialtri spagnuoli. In Spagna le donne si contentano d'essere
galanti o devote, obbediscono all'amante o al confessore; da noi
pretendono di spoliticare e si arrogano di comandare anche al Re.„ E se
il Mazarino credè che debellata la Fronda, la Chevreuse sottomessa, la
Longueville esule in Olanda sarebbero stati alle donne in Francia esempi
di efficacia durevole, ognun sa di quanto ei s'ingannasse. Il secolo
seguente vide, nato da poco, la Maintenon spaventare la devozione di
Luigi XIV e ottenere più dura la persecuzione de' giansenisti; e lei
morta appena, per cinquant'anni segnatamente, dal 1720 al 1770, dal
giorno cioè in cui l'abate Dubois entrò nella diocesi di Cambrai a
riposare il corpo logoro dagli stravizi sulla cattedra onorata dal
Fénélon, sino al giorno in cui il duca di Choiseul andò confinato nel
castello di Chanteloup; trionfi e catastrofi di ministri e di cortigiani
furono opere femminili. Le donne, nota il Montesquieu, formano una vera
repubblica, uno Stato nello Stato, i cui cittadini operosissimi si
aiutano di servizi reciproci; e chi dimorando a Versailles, o a Parigi,
o in provincia mira affaccendarsi ministri, magistrati, prelati e non
conosce le donne che li sospingono, è da paragonarsi a chi vegga agire
una macchina, senza sapere per quali congegni si muova. È una donna,
M.me de Tencin, quella che suggerisce ad un'altra donna, la Chateauroux,
il più felice pensiero del nuovo regno, la presenza del re alla guerra
di Fiandra; è una donna, la Pompadour, quella che conduce la Francia
all'alleanza austriaca e alla guerra dei sette anni; più tardi la
Tallien preparerà Termidoro, e dopo Termidoro la Stael impedirà la
ristorazione della monarchia. Salvo brevi intervalli, in Francia nel
secolo passato, come altri avvertì, la donna è la sommità onde tutto
discende, il modello su cui tutto si foggia, la sorgente onde sgorgano
rapide fortune e sciagure improvvise. Essa dispone del danaro pubblico e
del sangue de' soldati, regola la politica estera, l'interna, la
militare; scrive note diplomatiche, fa sottoscrivere lettere
d'imprigionamento, invia piani di guerra a' quartieri generali e si
serve de' finti nèi rimasti sulla toilette per indicare le posizioni dei
reggimenti: essa è, in breve, il principio che governa, la volontà che
dirige, la voce che comanda.

Diverse, troppo diverse le nostre dalle condizioni della Francia in quel
tempo: e perciò non fu in Italia salotto, che avesse pur l'ombra
dell'importanza politica cui parecchi de' Francesi pervennero. Ma
neppure salotti di più geniale natura potevano nel secolo scorso non che
fiorire attecchire in Italia, da pareggiare quelli che furono scuola e
norma della colta, arguta, disinvolta garbatezza francese; dei quali sir
Nathaniel Wraxall scriveva che vi si era perfezionata la più utile e
gradevole delle arti, l'arte del conversare: e il Talleyrand che chi non
aveva frequentato que' ritrovi non conosceva il più dolce de' godimenti
dello spirito: salotti ove chiedevano in grazia d'essere accolti gli
ambasciatori subito dopo la presentazione a Versailles, i sovrani appena
giunti a Parigi.

In Italia, al fiorire, anzi al sorgere di ritrovi altrettali troppi
impedimenti si opposero: il generale costume, quando non la scarsità la
qualità della coltura, finalmente e principalmente le donne.

Perchè è tempo di ben determinare il significato delle parole: quando si
dice salotto si sottintende _padrona di casa_: dov'essa manchi, voi
potete sì adunare in una stanza quanti uomini vi piaccia spiritosi
insieme e eruditi (se pur la combinazione è possibile) e piacevoli e
originali conversatori e novellatori: e quello sarà un circolo, un
consesso, un areopago, un Olimpo, ma un salotto no. In Italia le padrone
di casa mancarono; onde pochi i salotti e tali che il Lamartine li
definì tutti quanti, allorchè, ricordando la D'Albany e gli ospiti suoi
scrisse: non salotto, accademia.

Prima della rivoluzione la borghesia ha poca voce in capitolo: quali i
costumi, la coltura delle signore italiane, quali le occupazioni loro?
Se con la guida de' carteggi e dei libri di _Memorie_ che ci rimangono
di quel tempo, si percorra la penisola in lungo ed in largo, dal più al
meno le occupazioni loro son le medesime dappertutto: giuoco, teatri,
pettegolezzi, cicisbei.... o peggio. A Napoli più teatro, più
pettegolezzi che altrove, meno giuoco e pochissimi cicisbei. Ma non c'è
da rallegrarsene: poco limbo, più inferno. Io non riferirò qui ciò che
delle signore napoletane scrisse il Berenger, incaricato di Francia a
Napoli nel 1770: lascerò che una donna, una saggia donna, la signora di
Saussure racconti lei aneddoti, che danno di que' costumi una
chiarissima idea. Un giorno la signora di Saussure va in casa della
principessa di Belmonte a veder passare una processione; tornatane
scrive: “Spettacolo più nuovo assai era il contegno delle signore che mi
erano accanto su quella terrazza, e ch'io trovavo ogni giorno ora in una
casa ora in un'altra. Quando riconoscevano nella processione un dei loro
amanti — “Ah!„ gridavano — “ecco il tuo innamorato! Ecco, il mio! Ah!
come è bello! Gioia mia, che Dio ti benedica!„ e un ammiccare continuo
dalla strada alla terrazza, dalla terrazza alla strada, e grida e saluti
e scoppi di risa.„ — Nè la scostumatezza, cinica così da parere
inconsapevole, si fermava alla porta del palazzo reale. La principessa
di Pietra Perzia diceva alla Regina: “Io voglio un amante e Vostra
Maestà me lo ha da scegliere lei stessa,„ e l'altra: “Va bene, va bene
figlia mia, ve lo sceglierò io.„

C'era, come ognun vede, poco posto per i salotti: occupavano troppo
spazio le alcove. E se un'artista, la Vigée-Lebrun, fuggendo la
compagnia di donne che l'Hamilton qualifica, senza ambagi, ignoranti,
vorrà a Napoli frequentare chi non parli di mode, d'amore e di scandali,
le sarà giocoforza bussare alla porta di altri forestieri: o della
contessa Scawronska, moglie del ministro di Russia o del principe di
Rohan ambasciatore dell'ordine di Malta, o di lady Orford, o della
bellissima duchessa di Fleury, peccatrice emula delle napoletane, ma
peccatrice fantasticante e passionata, romantica prima del romanticismo;
nella consuetudine del conversare squisito addestrata così nel proprio
salotto alle scherme dialogiche, da rintuzzare con arguzia signorile una
triviale impertinenza di Napoleone. Rifugiatasi in Italia durante il
Terrore, ella tornò ne' primi anni dell'impero in Francia, dove le sue
avventure (altrettante sventure) eran note; e imbattutasi un giorno in
Napoleone, questi così la interrogò a bruciapelo:

— “Aimez vous toujours les hommes?„

E la duchessa: — “Oui, Sire, quand ils sont polis.„

A Roma, molte le case aperte, come suol dirsi, a giorno fisso: de'
Barberini, de' Cesarini, de' Patrizi, degli Altieri, de' Borghese, de'
Santacroce, de' Rezzonico, de' Bolognetti. Livree fiammanti, rinfreschi
sontuosi, statue stupende in ogni angolo, quadri stupendi per ogni
parete. Ma accanto a una statua greca un tavolino di tresette, sotto a
una Vergine di Raffaello un tavolino di tarocchi o di minchiate o di
faraone, perchè si giuoca sfrenatamente a ogni sorta di giuochi. Fra un
tavolino e l'altro, ingombro di abati intraprendenti, fra una partita e
l'altra chiacchiere e maldicenze. Se qualche forestiero vi capita capace
di increspare quella gora con aliti intellettuali, nessuno gli bada,
così almeno afferma il Reumont, cominciando dai padroni di casa. Di
quando in quando un po' di musica, piuttosto in omaggio alla moda che
per ricreazione degli animi o pascolo alle inclinazioni. Delle donne,
molte tagliate sul modello della bella Giuliana Falconieri principessa
di Santacroce cara a Papa Pio VI, la quale dicono provvedesse largamente
alla posterità senza presumere d'andarvi: ma vi andò pur troppo, avendo
per compagno il Cardinale De Bernis e per istoriografo il Casanova.
Altre foggiate a immagine della contessa Braschi, che si scusava di
mancare a non so quale convegno, descrivendo per filo e per segno il
piede malato del proprio cavaliere servente: e, forse a dimostrare che
la lunga consuetudine con Vincenzo Monti, segretario di suo marito, non
era stata per lei senza frutto di eleganze epistolari, chiudeva il
biglietto così: _L'amica scorta non potendo calzarsi il piede io non
verrò_. Altre finalmente sprovviste d'ogni elementare cultura come la
marchesa Lepri, che discorrendo del _Saul_ d'Alfieri diceva: _bello, sì:
peccato che sia troppo triste_.

Giuoco, libertinaggio, cicisbeismo, preziosità, ignoranza; queste
essendo le occupazioni, queste le consuetudini delle signore romane, non
è a meravigliare se Roma non ebbe ritrovi colti e geniali, quali a
Parigi quelli che presero nome dalla Geoffrin, dalla Du Deffand, dalla
D'Houdetot, dalla Lespinasse; Roma a cui pur l'Europa mandava in
pellegrinaggio i più illustri de' suoi scrittori, de' suoi artisti, de'
suoi filosofi, de' suoi poeti. V'erano, sì, due salotti che si
distinguevano dagli altri: l'uno della Maria Pizzelli dotta nel greco,
nel latino, nelle matematiche ed egregia verseggiatrice: egregia,
affermano i biografi, ed io lo ripeto sulla fede loro: i versi della
Pizzelli non li ho letti, e non prendo neanche impegno di leggerli. Ma
al solito, un'accademia; non vi si conversava: chiunque vi capitasse, vi
sciorinava una propria canzone, un'ode, un sonetto, e gli altri
applaudivano, aspettando di sciorinare e preparandosi ad essere
applauditi a lor volta. L'Alfieri leggendovi la _Virginia_ purificò
l'aria ammorbata dalla pioggia continua de' madrigali di un abate
Cunich, che insegnava alla Pizzelli il greco: lingua difficile, lezioni
lunghe e frequenti.... il maestro finì con l'innamorarsi della
discepola; dicono, inutilmente. L'altro salotto, quello di Donna
Margherita Boccapadule, nata dei Marchesi Gentili; ritrovo gradevole
secondo parecchie testimonianze, ma dove convenivano uomini di troppo
differenti animi ed abitudini; letterati, scapati, forestieri d'ogni
genere e qualità, sicchè spesso la conversazione avviata da Alessandro
Verri, cui la marchesa piaceva, era tratta in sentieri più ameni dagli
scapati che piacevano a lei.

A Firenze costumi più castigati; ma i signori serbano il meglio delle
loro entrate e delle loro energie per i faticosi ozi della
villeggiatura; i Corsini, i Riccardi, i Pucci, i Gerini, i Martelli, i
Rinuccini, i Gherardesca, passano la primavera in casini suburbani,
l'autunno nelle magnifiche ville del Valdarno o del Mugello; e quando
soggiornano in città vi menano vita molto monotona. “In carrozza il
giorno fino alla Porta Romana, trattenendosi alquanto sulla piazza
vicina, poi sulla piazza del Duomo innanzi al Caffè del Bottegone a
prendervi rinfreschi e aspettare l'ora del teatro.„ Così usavano nel
1770 quando fu a Firenze il Lalande: usanze non molto diverse da quelle
che vi trovò la Stael nel 1805, e che ella descrive nella _Corinna_ così
“Si va tutti i giorni nelle ore pomeridiane a passeggiare Lungarno e
s'impiega la sera a raccontare che ci siamo stati.„ Inoltre, a' tempi
del Lalande i signori fiorentini avevano la fissazione d'imitare le mode
e le costumanze inglesi: sicchè quando non c'era teatro, gli uomini la
sera se ne andavano da una parte, le donne da un'altra: quelli al Caffè
o al Casino de' nobili, queste sole, o a crocchio con altre donne, o a
quattr'occhi, occhi sonacchiosi, col cavaliere servente. Poche le
veglie, segnalata quella della Marchesa Niccolini in Via de' Servi; dove
a saziare la sete intellettuale degli ospiti bastava qualche sciarada o
qualche sonetto a rime obbligate; e, saziata che fosse, si giuocava
accanitamente come a Roma, come a Torino nonostante i severi decreti del
re, come a Milano dove Pietro Verri, sebbene assiduo nella casa della
coltissima e argutissima Marchesa Paola Castiglioni, diceva essere
oramai divenuto impossibile il conversare. Salotti che arieggino ai
francesi bisognerà dunque cercarli altrove: in casa della Isabella
Teotochi Albrizzi a Venezia, della Silvia Curtoni Verza a Verona, della
Cornelia Martinetti a Bologna; simili, ma d'importanza molto minore
quelli, anche a Venezia, della Giustina Michiel, a Bergamo della Paolina
Suardi Grismondi, la _Lesbia_ del Mascheroni.

De' salotti francesi molti ci serbarono le cronache, che il Feuillet de
Conches potò poi compendiare e colorire in istoria; questi italiani men
fortunati, o forse fortunatissimi, non ebbero finora storico alcuno.
Bisogna dunque ingegnarsi d'indovinare: agli amici che tesserono gli
elogi di quelle signore, a' poeti che le cantarono c'è naturalmente da
credere fino ad un certo punto. Chi prestasse fede al Bettinelli, al
Montanari, al Pindemonte in ispecie, che designò ciascuna di esse con un
epiteto particolare e chiamò _saggia_ l'Albrizzi e (speriamo con maggior
verità) _gentile_ la Verza, _amabile_ la Grismondi, dovrebbe persuadersi
che esse furono perfette d'intelletto, d'animo e di contegno: e i
salotti dei quali, per usare appunto le frasi de' panegiristi e de'
poeti, “_tennero lo scettro_„ altrettanti o _templi care alle Muse_,
come scrive il Montanari, o _grotte magiche_, come vuole il Bettinelli,
o _gabinetti d'Armida_, come piace chiamarli al Vannetti. Io scelgo
grotte, perchè non voglio nè mancare di rispetto ai templi, nè offendere
Armida: e voglio pur dire che ogni volta io m'accosto a quei penetrali,
sento uscirne puzzo di vanità e tanfo di pedanteria.

Splendide le sale dell'Albrizzi, dove (canta il Montanari):

    Undici nazïoni in una sera.
    La Cinese tra lor . . . .
    . . . . . . . . concordi
    Offerivano incensi ad Isabella:

illustri gli ospiti, e basti dire che Ippolito Pindemonte, durante le
sue dimore invernali in Venezia, non lasciò scorrer sera che non vi
andasse per qualche ora; basti ricordare che o più presto o più tardi vi
passarono tra' forestieri il Denon, il Maisonfort, la Lebrun, il Byron,
la Stael, il Chateaubriand; fra gli italiani il Cesarotti, il Cicognara,
il Botta, il Monti, il Rasori, il Carrer, il Foscolo: il quale,
capitatovi giovinetto e persuaso dall'esperienza della _celeste Temira_,
che aveva diciotto anni più di lui, vi si indugiò ad ascoltare le prime
lezioni di filosofia della vita. Ma lasciamo i colloqui intimi; e
lasciamo anche le serate di gala, nelle quali l'italiano o il francese o
l'inglese famoso sono mostrati alla folla come insegna e richiamo:
veniamo a' convegni usuali, composti, pacati; chè allora si intende
quale sia il salotto: non così finchè undici persone di undici paesi
diversi, compreso un chinese, stanno lì a offrire incensi alla padrona
di casa.

Il Malamani scavò nel Museo Civico di Venezia certo scritto di Lorenzo
Paron, specie di processo verbale di una di quelle adunanze; ma nel
pubblicarlo, quasi a malincuore, soggiunse che per quel documento
pioveva sulla conversazione dell'Albrizzi un raggio pallido e strano. Io
posso riepilogare, non riferire lo scritto del Paron; avverto soltanto
che, invece di un raggio pallido, pare a me che esso mandi luce
vivissima. Da principio, dialoghi insulsi inframezzati di barzellette
grassocce; a un certo punto la signora, senz'appiglio alcuno, senza che
se ne sappia il perchè, esce fuori a domandare se vi sieno commentari
oltre quelli di Cesare: — “Uhm! no.„ — “No? e allora, — ribatto, — come
va che Plutarco che consultavo stamattina parla di commentari, ecc.,
ecc.?„

E io me li figuro que' dotti tutti o più o meno innamorati. “Ah! che
donna! che divino intelletto! Consulta Plutarco di mattinata!„ — Ognun
d'essi a farle colpo sfodererà la propria dottrina; e si palleggiarono
difatti, narra il Paron, Demostene, Livio, Seneca, Platone. Vi ricordate
le parole del Lamartine? Dialoghi di defunti: dissertazioni non
conversazioni. Il Denina del rimanente e in argomento di lode, lo dice
schietto del salotto della Verza a Verona: una vera accademia di belle
lettere: e il Montanari dichiarando, soggiunge: “nè quella che aveva
fondato in Milano un secolo prima Teresa Visconti, e di cui parla il
Tiraboschi nella storia della nostra letteratura, era stata men
benemerita.„

Dunque accademie; e diciamo pure benemerite, sebbene non si vegga quali
fossero le vantate benemerenze, ma salotti no. Non già che non possa
parlarsi in un salotto, e non si parlasse forse anche a Parigi, di
Platone o di Seneca; ma qui se ne parlava soltanto per far pompa di
un'erudizione che era fine a sè stessa. Tutte quelle donne, alle quali
il bravo Girolamo Pompei aveva insegnato il greco, non potevano stare se
non rammentavano a tutti ogni momento che lo sapevano. Non un pensiero
originale mai, non mai un'arguta sentenza, di cui dovrebbe trovarsi ne'
carteggi o nelle _Memorie_ la traccia. La maggior parte de'
frequentatori di que' salotti era quello che era: nè poteva aspettarsi
che dalla testa di Mario Pieri, dell'abate Franceschinis o di Clementino
Vannetti uscisse ciò che usciva dalla testa del D'Alembert, del Grimm,
del Diderot; ma lo stuolo eletto c'era anche qui. Se non che, in Francia
la D'Houdetot, la Geoffrin paiono avere a regola e guida la risposta di
Curzio Dentato a' Sanniti: “Io fo poco conto dell'oro: molto di
signoreggiare su coloro che lo posseggono„; così ad esse piuttosto che
l'ostentare il proprio ingegno e la propria coltura premeva incitare
l'ingegno, sfruttare la coltura altrui, e vi si adoperano con tatto
meraviglioso. Non pretendono insegnare, osservano e imparano, mutando a
poco a poco la istintiva chiaroveggenza in sagacia incomparabile. _Vous
avez été charmant aujourd'hui_, diceva una volta la Geoffrin a Bernardin
de Saint-Pierre dopo aver lungamente conversato con lui: e l'altro: _Je
ne suis qu'un instrument dont vous avez ben joué_. L'Albrizzi, la Verza,
invece, primeggiano nei loro salotti: e composto intorno a sè un
uditorio, fanno cattedra del canapè. La conversazione perciò a casa loro
cammina sulla traccia segnata dal loro ingegno mediocre, dalla loro
coltura grave ed angusta. La Geoffrin, la D'Houdetot pensano agli altri:
battono selce con selce, per isprigionare scintille onde poi si
accendano e propaghino nuove luci a irraggiare la Francia; la Verza,
l'Albrizzi pensano a sè; vogliono andare a' posteri e, perchè sentono
che non han forza a tanto viaggio, cercano chi le accompagni e sorregga.
C'è, sì, anche a Parigi, una donna che non si rassegna nel proprio
salotto alla parte modesta di ascoltatrice attenta o di incitatrice
opportuna, e disputa e giudica e impone: la Du Deffand: ma quale donna!
l'acume e lo spirito fatti persona. Le sue lettere, documento prezioso
alla storia politica, sociale, morale della Francia d'allora, sono
capolavori di naturalezza, di grazia, di malizia, di profondità.
Paragonate, i suoi _Portraits_ con i _Ritratti_ della Verza e
dell'Albrizzi: quelli potrebbe averli fatti il Saint-Simon, questi, a
dire il vero, non vorrei averli fatti nemmeno io.

Ancora: io non vi do quelle donne francesi per stinchi di santo, ma la
civetteria era bandita da' loro salotti: ne' salotti invece della Verza,
dell'Albrizzi, della Martinetti è uno spasimare continuo e un continuo
provocare gli spasimi. Spasima il Monti per l'Albrizzi:

    Chiudi, o misero cor, chiudi la porta:
    Non mostrar tue ferite alla superba,
    Chè in quel bel seno la pietade è morta.

Spasima (o si sfoga quasi con le parole medesime) il Costa per la
Martinetti:

    Atti soavi, altere voglie oneste,
    Senno e virtude non mai pigra o stanca.
    Fuor che un po' di pietà nulla le manca.

E spasima il Giordani, ma egli si sfoga con parole troppo più acerbe.

Io non mi ricordo nemmeno più se i sospiri sieno piacevoli nei colloqui
in due; certo è che in tre sono insopportabili; peggio fra dieci o
dodici. Nulla di più antipatico che i languori portati a processione,
nulla che geli più la conversazione della presenza d'un innamorato
infelice. Il salotto della Recamier, che rammenta quello della
Martinetti, guasto appunto dalla coorte degli spasimanti inascoltati,
per cagion loro appare agli occhi nostri meno attraente di quelli che lo
precederono.

Ve la ricordate la Recamier? Due generazioni di uomini illustri le si
prostrarono innanzi adoranti; fu tenuta per la più bella donna di quel
tempo, che pur mirò la Tallien, la Santacroce, Giorgina Spencer e la
duchessa di Devonshire. Luciano Bonaparte smaniò, Augusto Kotzebue
sofferse, Matteo di Montmorency pianse, Beniamino Constant impazzi quasi
per lei: a lei il Ballanche e il Chateaubriand volsero morendo gli occhi
amorosi.

Statua maravigliosa che nessun Pigmalione valse a smuovere dal suo
piedistallo, si serbò pura della purezza del marmo, fatto apposta per
sfidare gl'incendi. Sotto il Consolato, quando ella entrava ne' diciotto
anni, già eran celebri i ritrovi nella sua casa in Via del Montebianco,
o nella sua villa a Clichy: là fremevano del sollecito oblìo i letterati
della rivoluzione, il Lemontey, il Legouvé, il Dupaty: là gemevano sulle
sorti della Francia i vecchi cortigiani di Luigi XV, il De Guignes, il
Narbonne, il Lamoignon: là bramosi di fortuna e di gloria, ineggiavano
alla Francia nuova il Massena, il Bernadotte, il Beauharnais: là il
Fouché dimostrava la utilità del regicidio al principe Pignatelli che
non lo stava a sentire, intenti gli occhi malinconici nei grandi occhi
azzurri della padrona di casa. In mezzo a loro la divina Giulietta,
sempre vestita di bianco, con un fisciù rosso _alla creola_, solo
ornamento de' capelli ondati, abbondanti. _Nimium pulchritudini nocet
ornamentum_; i troppi ornamenti nuociono alla bellezza, le aveva
insegnato il Bouilly, con le parole di Apulejo. Cortese con le donne,
con gli uomini affabile, salutava e questo e quello con vocativi diversi
e tutti innocenti: _mon ami_ al Chateaubriand, _mon camarade_ al
Bouilly, _mon petit frère_ al Dupaty: e così ogni sera fino all'ora
dello svenimento. Perchè pur troppo nessuno a questo mondo è perfetto e
la Recamier aveva anch'essa il suo mancamento e si sveniva tutte le sere
alle undici in punto. Bisognava portarla di peso sul letto: riavutasi,
gli ospiti le sfilavano innanzi inteneriti, rapiti: e il cortinaggio,
scrive il Lamartine che pur crede simulati gli svenimenti, il
cortinaggio scendeva a separare le ineffabili grazie dai desideri
ineffabili.

Della Martinetti, Ernesto Masi, il quale pare di lei innamorato tanto
quanto il Costa e il Giordani medesimo, scrive: l'adorazione sottomessa
e rassegnata fu il sentimento di cui ella più si compiacque. Sarà: io
non voglio avvelenare di dubbiezze o sospetti l'animo dell'indulgente
biografo: soltanto poichè ho detto che il salotto della Martinetti per
la folla degli adoratori si assomigliava a quello della Recamier, debbo
aggiungere che la Recamier se s'inebriava degli incensi, non aizzava i
turiferari. Per la Martinetti, vedutala a Bologna, il Foscolo prese di
primo acchito una delle solite ubriacature, e andatosene a Firenze
perseguitava la bella Cornelia con lettere bollenti. Ella rispose,
grave, che smettesse: si sentiva (son parole sue) soavemente sicura del
proprio cuore, perciò l'insistere fatica buttata; egli malazzato avesse
cura di sè, badasse a curarsi e non s'ostinasse in quelle fantasie.
Brava! e benedetta la sincerità! Se non che il Foscolo, replicando, le
scrive: “avrò cura di me: qui la prima lezione diceva _abbi cura di te_,
l'avete mutata; ho poi trascorsa tutta la vostra terza facciata ed ho
trovato sotto la correzione del _voi_ molte traccie del _tu_„. Via, qui
non c'è indulgenza che tenga: quando una donna scrive ad un uomo ha da
esser decisa sul pronome da adoperare; quando una lettera non esprime
chiaro il pensiero si strappa; quando una parola si cancella, si
cancella per modo che non appaia; quando si mettono gl'innamorati alla
porta, non si lascia la porta socchiusa. Ma erano, su per giù, tutte
così quelle signore: mezze donne e mezze uomini; degli uomini avevano
tutte le ambizioni, delle donne tutte le debolezze; tutti i pregi fisici
del loro sesso, molti difetti morali dell'un sesso e dell'altro.

Così, sebbene materiale di letteratura, sebbene sempre attorniate da una
cerchia di letterati, passarono, senza esercitare alcuna influenza sopra
la letteratura del tempo loro, senza lasciare un libro, una pagina, un
motto che a quel tempo sopravvivesse. Noi, infermi di curiosità, ci
affatichiamo oggi a rintracciare per gli archivi e le biblioteche le
orme loro, ci affacciamo in ispirito a que' salotti, riponiamo al loro
posto i medaglioni, gli specchi, gli stucchi, le stoffe, delle quali c'è
noto perfino il colore; ma al primo sussurrare delle voci, ci assale un
senso di stanchezza e di noia. Aria! Aria! Apriamo le finestre: entrino
nei salotti ammuffiti nuove correnti di sentimenti e di idee. Ecco,
quanto sentiva di rossetto e di cipria, quanto sapeva di goffa
imitazione francese, è spazzato: la Verza, la Grismondi, l'Albrizzi, la
Martinetti, si dileguarono come fantasmi; i pastelli di Rosalba Carriera
presero la via del museo. Eccolo il salotto italiano. Potete voi entrare
a scaldarlo con la fiamma degli animosi presagi, o Teresa Confalonieri,
o Costanza Arconati, o Cristina di Belgioioso!



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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