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Title: Carlo Darwin
Author: Lessona, Michele
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Carlo Darwin" ***


produced from images generously made available by The
Internet Archive)



                         NOTE DEL TRASCRITTORE

 -Sono state seguite le seguenti convenzioni:
 -testo in corsivo (italic): _testo_
 -Testo in grassetto (bold): =testo=
 -Il testo in maiuscoletto (small caps) è stato reso come tutto maiuscolo.
 -È stato inserito l'indice mancante nell'originale.
 -Corretti gli ovvii errori tipografici.


                             CARLO DARWIN


                              M.  LESSONA



                             CARLO DARWIN


                              1º MIGLIAIO

                                 ROMA

                    CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C.
                        _3, Via Due Macelli, 3_

                                 1883


                         PROPRIETÀ LETTERARIA

           332.--Firenze, Tip. dell'Arte della Stampa--1883



                             AL PROFESSORE

                           FRANCESCO TODARO



                                   I


Il _Times_ non ha la pretesa di governare e volgere a sua posta la
pubblica opinione ma si contenta di esserne specchio.

Quel giornale, annunziando la morte di Carlo Darwin, ha queste parole:

«....Non è ancora deliberato dove debbano essere sepolti i suoi avanzi
mortali, ma il posto della sepoltura deve essere nel tranquillo
cimitero del villaggio di Down presso il luogo dove Darwin passò quasi
quarant'anni della sua vita....»

Ma la voce potente del popolo inglese gridò che la salma di Carlo
Darwin doveva collocarsi nella abbadia di Westminster cogli antichi re
e cogli uomini più grandi di quella grande nazione, accosto al Newton.
E ciò seguì immediatamente.

L'amplissimo giornale parlò della cosa come se non avesse potuto essere
altrimenti e riferì a lungo le onoranze di quella sepoltura.

Nella famiglia di Carlo Darwin il lavoro intellettuale e lo studio
della natura erano cosa ereditaria.

Erasmo Darwin, nonno di Carlo, fu uno degli uomini più insigni del suo
tempo, medico e naturalista originalissimo. Parlerò di lui a lungo più
oltre.

Terzo figlio di Erasmo Darwin, dal suo primo matrimonio, fu Roberto
Waring Darwin, padre di Carlo. Egli volse tutte le sue forze,
tutt'altro che scarse, alla medicina. Si riferisce che avesse una
meravigliosa potenza nel diagnosticare le malattie, col sussidio solo
di pochissime interrogazioni; egli indovinava anche senza parlare,
colla sola potenza investigatrice degli occhi, ciò che si passava
nella mente dei suoi malati. Era un uomo dabbene, pieno di benevolenza
pei suoi simili. Carlo Darwin, che si compiaceva nel parlare di suo
padre e rammemorarne le virtù, raccontava spesso l'aneddoto seguente.
Per beneficare i poveri, in Shrewsbury, dove esercitava la medicina,
Roberto Darwin si propose di dare gratuitamente i medicamenti a
chi, abbisognandone, non avesse potuto pagarli, e fece sapere la
cosa in paese. Egli rimase sorpreso di ciò, che pochissimi poveri
malati si acconciavano a godere di quel benefizio. Investigando le
ragioni del fatto, credette riconoscere che la ragione si fosse
questa, che ai poveri dispiaceva ricevere per carità le boccette; che
volentieri avrebbero gradito il dono dei medicinali, ma non sapevano
risolversi ad aver in elemosina i recipienti. Allora Roberto Darwin
fece sapere che avrebbe dato bensì i medicinali gratuitamente, ma
che voleva essere pagato delle boccette. Egli assegnava a queste un
prezzo insignificante, e i poveri accorrevano numerosi. L'aneddoto è
caratteristico tanto del medico quanto del contadino.

Prendo questi, come altri ragguagli, dal giornale inglese _Nature_ che
pubblicò nel corrente anno una serie di articoli di varii naturalisti
intorno a Carlo Darwin.

La madre di Carlo Darwin discendeva pure da uno stipite nobilissimo;
era figlia di Giosuè Wegdwood, quel grande fabbricatore di porcellane
che fu artista e scienziato e di cui anche oggi è in tutta Inghilterra
popolarissimo il nome. L'eredità, di cui doveva il Darwin studiare
tanto accuratamente gli effetti, lo aveva servito bene.

Nato a Shrewsbury addì 12 febbraio 1809, gli furono dati i nomi di
Carlo e Roberto, ma quasi sempre egli firmava solo col primo: passò
in quella piccola città i suoi primi anni, nella libera vita della
campagna, tanto favorevole allo sviluppo dei fanciulli. Frequentò la
scuola della città ed ebbe a maestro il reverendo dottore Butler, che
fu poi vescovo di Lichfield.

In età di sedici anni Carlo Darwin lasciò Shrewsbury per andare
agli studi in Edimburgo. Suo padre lo destinava alla medicina e
in Inghilterra si credeva che gli studi medici in quella città si
facessero meglio che non altrove. Poi, suo nonno Erasmo aveva studiato
medicina in Edimburgo. Ebbe a maestro colà il professore Jameson, che
non fu guari contento del suo scolaro; lo dichiarò svogliato degli
studi della storia naturale e inetto alla medicina.

Se il maestro era poco contento dello scolaro, lo scolaro non era guari
meglio contento del maestro. Dichiarava, in fatto di cognizioni intorno
al regno animale, di non essere andato al di là delle volpi e delle
pernici e, in quanto a medicina, di non volerne proprio sapere.

Allora il dottore Roberto Darwin deliberò di avviare suo figlio per la
carriera ecclesiastica, e lo mandò a Cambridge al collegio del Cristo.
Ma egli colà fu preso in breve di tanto amore per la storia naturale
che si volse tutto ad essa e non se ne staccò più mai per tutto il
rimanente della sua vita.

La cosa avvenne, se dobbiamo credere a ciò che il Darwin stesso
afferma, mercè l'opera di un buon maestro, che lo innamorò dello
studio della natura e si conquistò in sommo grado la sua affezione e
la sua ammirazione, tanto che egli lo amò ardentemente fin che visse
e ne conservò poi sempre affettuosissima memoria. Quel maestro era
il professore Henslow, che allora aveva lasciato lo insegnamento
della mineralogia per assumere quello della botanica, ma era pure
valente entomologo e in pari modo geologo valente e, in una parola,
versatissimo in ogni ramo della storia naturale.

Il professore Henslow portava seco il Darwin in escursione, lo
ammaestrava nello osservare e nel raccogliere, e in breve si destava
ardente nel giovane studioso l'amore delle collezioni, segnatamente per
la entomologia. Lo stesso Darwin ricordava sovente anche negli ultimi
anni della sua vita come il suo nome fosse stato stampato la prima
volta quando appunto egli studiava a Cambridge sotto la direzione del
professore Henslow, in proposito di un insetto di palude che egli aveva
trovato.

Nel giornale inglese _Nature_, che già ho citato, trovo riferito uno
scritto dal Darwin intorno al professor Henslow, che merita di essere
testualmente tradotto. Eccolo:

«Andai a Cambridge sul principio dell'anno 1828, e feci subito la
conoscenza, per mezzo di un entomologo mio compagno, del professore
Henslow, il quale prendeva interessamento e aiutava tutti coloro
che si dedicavano a un ramo qualsiasi della storia naturale. Non vi
poteva esser nulla di più semplice, cordiale e senza pretese, quanto
l'incoraggiamento che egli dava ai giovani naturalisti. Divenni in
breve molto intimo con lui, perchè aveva un modo di fare suo proprio,
per cui i giovani si sentivano a loro bell'agio in sua compagnia,
quantunque fossimo tutti meravigliati della somma di cognizioni che
egli possedeva. Prima di conoscerlo, io aveva sentito un giovane
riassumere il suo sapere con queste semplici parole:--Egli sa ogni
cosa.--Quando rifletto come in breve tempo si diveniva famigliari con
un uomo più vecchio, e per ogni verso tanto grandemente superiore
a noi, penso che ciò dipendeva tanto dalla somma sincerità del suo
carattere, quanto dalla bontà del suo cuore, e forse anche più dal non
avere egli per nulla una grande idea del proprio valore. Ci accorgevamo
subito che egli non pensava mai alle sue varie cognizioni, o al grande
intelletto, ma si occupava solo dell'argomento che stava trattando.
Un altro punto del suo carattere tanto simpatico ai giovani si era
che il suo modo di fare con una persona alto locata era lo stesso che
adoperava col più giovane degli studenti: con tutti la stessa attraente
cortesia. Egli mostrava interessamento alla più insignificante
osservazione sulla storia naturale e, per quanto assurdo fosse l'errore
fatto, egli lo dimostrava con tanta chiarezza e bontà, che si andava
via senza provare sconforto, ma deliberati ad essere un'altra volta
più attenti e accurati. Cosicchè nessun uomo sapeva meglio di lui
guadagnarsi la fiducia dei giovani e animarli a proseguire nelle loro
ricerche....

«Durante gli anni in cui fui tanto famigliare col professore Henslow,
non vidi mai una volta sola il suo umore alterarsi. Non prendeva mai in
mala parte il carattere di alcuno, sebbene fosse tutt'altro che cieco
sui difetti degli altri. Mi faceva sempre meraviglia vedere come la
sua mente non potesse provare nessun basso senso d'invidia, vanità o
gelosia.

«Malgrado questa uguaglianza di carattere, e questa notevole
benevolenza, il suo carattere non era insipido. Bisognava esser ciechi
per non accorgersi che sotto a quella apparente placidezza vi era una
volontà forte e piena di fermezza. Quando si trattava di un principio,
nessuna potenza umana avrebbe potuto rimuoverlo di un capello....

«Per ciò che riguarda l'intelletto, per quanto io potessi giudicare,
vi predominavano una grande potenza di osservazione, buon senso e
criterio molto cauto. Nulla pareva dargli maggiore soddisfazione quanto
il trarre conclusioni da osservazioni minute. Ma la sua mirabile
memoria sulla geologia di Anglesea ci mostra quanto grande fosse la sua
attitudine per osservazioni estese e larghezza di vedute. Riflettendo
sul suo carattere con gratitudine e riverenza, i suoi attributi
acquistano una preminenza, come segue nei caratteri più elevati, sopra
la sua intelligenza.»

Nell'anno 1831 Carlo Darwin conseguì il grado di baccelliere nella
Università di Cambridge, e si proponeva di prendere poco dopo quello
di maestro nelle arti, che corrisponde a un dipresso alla laurea in
filosofia come si dà nelle Università germaniche, ed ebbe fra noi il
Gené nella Università di Pavia. Ma sopravvenne una vicenda che gli fece
ritardare fino all'anno 1837 quella laurea, e gli anni che trascorsero
fra il baccellierato e la laurea ebbero una suprema importanza nella
vita e nelle opere del grande naturalista.

Un giorno, nell'autunno dell'anno 1831, il Darwin era in escursione col
professore Henslow, e il professore gli tenne il seguente discorso:

--Ho ricevuto questa mattina una lettera del professore Peacock. Questo
mio amico mi scrive che il capitano Fitz-Roy sta per imprendere il giro
del mondo sopra una nave dello Stato, e che avrebbe caro di avere a
bordo un naturalista giovane e valente. Vorreste voi andare?

Carlo Darwin si compiaceva molto della lettura dei libri di Humboldt e
vagheggiava i grandi viaggi coll'ardore de' suoi ventidue anni. Accettò
di slancio.

Il padre di Carlo Darwin fece qualche obbiezione, perchè non gli pareva
che quella fosse per suo figlio la via più corta per arrivare allo
stato ecclesiastico cui lo aveva destinato. Tuttavia si arrese in breve.

La nave che doveva fare quel viaggio di circumnavigazione sotto il
comando del capitano Fitz-Roy si chiamava il _Beagle_.

Il capitano Fitz-Roy doveva proseguire l'opera iniziata dal capitano
King dall'anno 1826 all'anno 1830. Egli doveva visitare diligentemente
la Patagonia e la Terra del fuoco, le spiagge del Chilì e del Perù e
alcune isole del Pacifico, e compiere una serie di misure cronometriche
intorno al mondo.

Carlo Darwin s'imbarcò, e fu accordato che egli non avrebbe avuto
stipendio, ma che sarebbe rimasto padrone delle sue collezioni. Fin
d'allora egli si proponeva di dare poi quelle collezioni a pubblici
istituti, come realmente fece.

Quel viaggio durò cinque anni, e il Darwin ne raccontò le principali
vicende in un volume intitolato: _Viaggio d'un naturalista intorno al
mondo_, che è certamente la cosa più bella che siasi mai fatta in tal
genere, sebbene molti naturalisti, diplomatici, viaggiatori di vario
genere abbiano pure narrato i loro viaggi in modo non indegno e talora
anche degnissimo e per più di un verso piacevole e vantaggioso.

Io ho tradotto questo volume di Carlo Darwin, e le ore che ho
consacrato a una tale traduzione le annovero fra le più piacevolmente
e nobilmente spese della mia vita. Ho imparato allora ad amare Carlo
Darwin, e ciò non può a meno di avvenire a chiunque sia per leggere
questo suo libro. La semplicità dell'animo, la bontà del cuore, la
finezza del criterio, la rettitudine del giudizio, la vastità delle
cognizioni, l'abilità nell'osservare e nel tener conto d'ogni fatto più
minuto tanto nel campo delle cose fisiche e naturali quanto in quello
più arcano delle passioni umane, il collegare fra loro i varii fatti
e segnalare il legame fra gli effetti e le cause, le considerazioni
sul passato e i prevedimenti dello avvenire, la maestrevolezza della
pittura, la potenza dei tocchi, la brevità mirabile e la mirabile
evidenza, la imparzialità in tutto e su tutto, fanno sì che ogni
lettore trova in questo libro diletto, ammaestramento, benefizio e
sollievo.

Sono trascorsi dieci anni da che mi venne fatta quella traduzione, e in
questo decennio, come in tutta la mia vita, non ho avuto guari tempo a
gustar la dolcezza di riposarmi col pensiero nel passato. Pure oggi ho
quel viaggio nella memoria come quando lo traduceva, e ancora tengo
dietro a passo a passo al grande viaggiatore, e sento vivo più che mai
l'affetto per lui che non ho mai veduto, con cui non ebbi mai che fare
altrimenti che per la lettura e lo studio de' suoi libri; ma il lungo
addentrarmi nel suo pensiero, il seguirlo nel suo vagar di spiaggia
in spiaggia e più nel pellegrinaggio sublime della mente, mi hanno
affezionato a lui per modo che egli ha preso posto nell'animo mio fra
le persone più care cui sia mai stata legata la mia esistenza.



                                  II


Il _Beagle_, salpando da Devonport, lasciò l'Inghilterra il giorno
27 dicembre 1831 e, toccando qualche punto secondario, il giorno 29
febbraio dell'anno 1832 approdava al Brasile, a Bahia, e il giorno 4
aprile a Rio-Janeiro.

Là ebbe il Darwin la prima occasione di fare quello che sempre
cercò poi di fare lungo il viaggio, e invero ripetutamente fece,
una escursione dentro terra. Un inglese di cui aveva fatto, appena
arrivato, la conoscenza, doveva andare a visitare un suo podere,
discosto oltre cento miglia dalla città; gli fece l'invito, che molto
di buon animo egli accolse, di tenergli compagnia. Partirono addì 8
aprile.

«La giornata, dice egli, era terribilmente calda, e nello attraversare
i boschi ogni cosa era immobile, tranne le grandi e splendide farfalle
che svolazzavano qua e là. Il paesaggio veduto nell'attraversare le
colline dietro Praia Grande era bellissimo; i colori intensi, e la
tinta dominante l'azzurro scuro; il cielo e le tranquille acque del
golfo splendevano a gara. Dopo di avere attraversato un po' di terra
coltivata, entrammo in una foresta, di una maestà al tutto insuperata.
Giungemmo a mezzogiorno ad Ithacaia; questo villaggetto è posto
in una pianura e intorno alla casa centrale stanno le capanne dei
neri. Queste, per la loro forma regolare e per la loro posizione, mi
rammentarono i disegni delle abitazioni degli Ottentoti nell'Africa
meridionale. Siccome la luna si alzava di buon'ora, determinammo di
partire la stessa sera per andare a dormire a Lagra Marica. Mentre
andava facendosi buio, passammo sotto uno di quei massicci, nudi e
scoscesi dirupi di granito che sono tanto comuni in questo paese.
Questo luogo è notevole per essere stato da lungo tempo la dimora di
alcuni schiavi fuggiti, i quali, coltivando un pezzetta di terra presso
alla cima, riuscirono a sostentarsi. Alla fine furono scoperti, e una
compagnia di soldati spedita contro di loro s'impadronì di tutti gli
schiavi, salvo una vecchia, la quale anzichè ricadere in schiavitù
amò meglio morire precipitandosi dalla rupe. In una matrona romana
quest'atto sarebbe stato chiamato amore nobilissimo di libertà; in
una povera nera era solo brutale ostinazione. Continuammo a cavalcare
per alcune ore. Per le ultime poche miglia la strada era intralciata,
e attraversava una landa deserta, sparsa di paludi e di lagune. Il
paesaggio veduto al chiaro di luna aveva un aspetto desolatissimo.
Alcune poche lucciole svolazzavano accanto a noi; e il beccaccino
solitario mandava, spiccando il volo, il suo grido lamentoso. Il
lontano mormorio del mare rompeva appena la quiete di quella notte.»

Lo spettacolo della schiavitù contristò profondamente l'animo del
Darwin. Più volte egli ne parla e quando, compiuto il viaggio, il
_Beagle_ tornò a Rio-Janeiro, al momento di salpare egli ha queste
parole:

«Ringrazio Dio di non aver mai più da visitare un paese di schiavi.
Fino ad oggi, se sento un gemito lontano, esso mi richiama alla mente
con dolorosa verità il senso che provava quando passando vicino a una
casa di Pernambuco, udiva gemiti pietosissimi, e non poteva supporre
altro che la tortura di qualche povero schiavo, mentre sapeva che
io era tanto impotente quanto un fanciullo per fare anche solo una
rimostranza. Io sospettava che quei gemiti venissero da qualche schiavo
torturato, perchè mi fu detto che questo era il caso in un'altra
circostanza.

«Presso Rio-Janeiro io abitava in faccia ad una vecchia signora che
aveva uno strumento a vite per schiacciare le dita delle sue schiave.
Io ho dimorato in una casa ove un giovane maggiordomo mulatto era
giornalmente e ad ogni ora avvilito, battuto e perseguitato per modo da
rendere stupido l'animale più basso. Ho veduto un fanciullo di sei od
otto anni, colpito tre volte con una frusta (prima che io avessi potuto
intervenire) sul capo nudo, per avermi portato un bicchiere d'acqua
non ben pulito; vidi il padre di quel bimbo tremare ad una occhiata
del padrone. Fui testimonio di queste ultime crudeltà in una colonia
spagnuola, nella quale si è sempre detto che gli schiavi son meglio
trattati che non dai Portoghesi, dagli Inglesi, e da altre nazioni
europee. Ho veduto a Rio-Janeiro un nero robusto spaventato ripararsi
da uno schiaffo che credeva rivolto alla sua faccia. Era presente
quando un uomo molto compassionevole stava in procinto di separare per
sempre gli uomini, le donne, i bimbi di un gran numero di famiglie che
da lungo tempo eran vissuti insieme. Non menzionerò neppure le molte
dolorose atrocità che ho udito menzionare da fonti autentiche; nè avrei
riferito i rivoltanti particolari suddetti, se non avessi incontrato
certe persone, le quali, accecate dalla indole naturalmente allegra
del nero, parlano della schiavitù come di un male sopportabile. Quelle
persone hanno frequentato in generale le case delle classi più agiate,
ove per solito i domestici schiavi sono trattati bene; e non hanno
vissuto al pari di me fra le classi inferiori. Cosifatti investigatori
chiedono ragguagli agli schiavi intorno alla loro condizione; essi
dimenticano che lo schiavo deve essere ben stupido se non calcola la
conseguenza che può avere la sua risposta se venisse all'orecchio del
padrone.

«Si è detto che l'interesse proprio può impedire una eccessiva
crudeltà; come se l'interesse proteggesse i nostri animali domestici,
che son molto lontani dal somigliare a schiavi degradati nel destare
la rabbia dei loro selvaggi padroni. È un argomento contro il quale
da lungo tempo ha protestato con nobile sentimento, e con esempi
notevolissimi, il sempre illustre Humboldt. Si è cercato spesso di
palliare la schiavitù comparando lo stato degli schiavi con quello dei
nostri più poveri contadini; se la miseria dei nostri poveri non fosse
cagionata dalle leggi della natura, ma dalle nostre istituzioni, il
nostro peccato sarebbe grande; ma non vedo come questo abbia rapporto
colla schiavitù; sarebbe come se per difendere l'uso delle tanaglie per
stritolare le dita in un paese, si dicesse che in un altro gli uomini
vanno soggetti a qualche terribile malattia. Coloro che considerano
con tanta benevolenza il padrone, e con tanta freddezza lo schiavo,
non si sono mai messi nei panni di quest'ultimo--quale desolato
avvenire, senza neppure la speranza di un mutamento! Immaginatevi
la probabilità, che sempre vi sta sul capo, di vedere vostra moglie
e i vostri bambini--che anche allo schiavo la natura dà il diritto
di chiamare suoi propri--strappati dal vostro petto e venduti come
animali al primo offerente! E questi fatti sono compiuti e sostenuti
da uomini che professano di amare il loro prossimo come loro stessi,
che credono in Dio, e dicono pregando che la Sua volontà sia fatta su
questa terra! Fa bollire il sangue, tremare il cuore, il pensiero che
noi inglesi ed i nostri discendenti americani, col loro vantato grido
di libertà, abbiano compiuto e compiano ancora simili delitti; ma è
una consolazione pensare, che noi almeno abbiamo fatto un sagrifizio
maggiore, non mai fatto da nessuna altra nazione, per espiare il nostro
delitto.»

In quelle prime sue gite nello interno del Brasile, poco dopo
l'approdo, imbattutosi per avventura in una discreta _venda_, o
locanda, dice:

«Siccome la _venda_ era qui molto buona ed io ho la piacevole, sebbene
rara, rimembranza di un eccellente desinare, mi mostrerò riconoscente,
e la descriverò come tipo della sua classe. Queste case sovente
sono grandi e fabbricate con pali spessi, diritti, con intreccio
di ramoscelli e quindi intonacate. Di rado hanno un pavimento, e
non mai finestre a vetri, ma per lo più hanno un tetto ben fatto.
Generalmente la facciata è aperta, e forma una sorta di veranda,
nella quale sono allogate tavole e panche. Le stanze da letto stanno
ai due lati, e là il viaggiatore può dormire comodamente quanto gli
è possibile, sopra una piattaforma di legno, coperta di un sottile
materasso di paglia. La _venda_ è posta in un cortile, ove mangiano
i cavalli. Appena arrivati solevamo toglier via la sella ai nostri
cavalli e dar loro del grano indiano; poi, dopo un leggero inchino,
domandare al _senore_ di favorirci qualche cosa da mangiare.--Tutto
ciò che volete signori,--era la risposta consueta. Per le prime
volte io ringraziava a torto la Provvidenza di averci condotti da
un uomo tanto buono. Mentre la conversazione continuava, il caso
diveniva costantemente deplorevole.--Potreste favorirci un po' di
pesce?--Oh! no, signore.--Un po' di minestra?--Oh! no, signore.--Un
po' di pane?--Oh! no, signore.--Un po' di carne secca?--Oh! no,
signore.--Quando eravamo fortunati, dopo aver aspettato un paio d'ore,
si otteneva qualche pollo, un po' di riso e farina. Non di rado
accadeva che eravamo obbligati ad uccidere a sassate il pollame per
la nostra cena. Allorchè, sfiniti al tutto dalla stanchezza e dalla
fame, osavamo timidamente esporre il nostro desiderio di aver presto la
cena, l'altera, e (sebbene vera) poco soddisfacente risposta era:--Sarà
pronto quando sarà pronto.--Se avessimo ardito d'insistere ancora,
ci avrebbero detto di continuare il nostro viaggio, siccome troppo
impertinenti. Gli osti hanno modi sommamente sgarbati e spiacevoli;
le loro case e la loro persona sono spesso molto sucide; è comune la
mancanza di forchetta, di coltelli e di cucchiai; e son certo che non
si trova una capanna o un tugurio in Inghilterra tanto sprovvisto di
comodità. Tuttavia a Campos Novas fummo trattati sontuosamente; pel
desinare ci vennero ammanniti polli, riso, biscotto, vino, liquori;
caffè alla sera, e pesce e caffè per la colazione. Tutto questo,
compreso un buon nutrimento pei cavalli, ci costò solo due scellini
e mezzo a testa. Tuttavia l'oste di quella _venda_, essendogli stato
chiesto se sapeva dirci qualche cosa di una frusta perduta da uno della
compagnia, rispose sgarbatamente:--Che cosa posso sapere io? perchè non
ci avete badato? Credo che i cani l'abbiano mangiata.--»

Il _Beagle_ doveva passar due anni nella esplorazione delle coste
meridionale e occidentale al sud della Plata. Ciò diede campo al Darwin
a rimanere a lungo in quelle contrade. Da Maldonado fece una escursione
al fiume Polianco, dove trovò superata la sua aspettazione rispetto
alla ignoranza di quelle genti, da cui, per la loro agiatezza, il
viaggiatore si potrebbe aspettare qualche cosa di meglio. Egli era lì
come un essere per ogni rispetto straordinario, e destava sovratutto
meraviglia una bussola che egli teneva in tasca. Ecco in qual modo
parla di ciò:

«In tutte le case mi chiedevano di mostrar loro la bussola, e con
quella ed una carta geografica segnare la direzione dei varii luoghi.
Destava una viva ammirazione vedere che io, al tutto estraneo, potessi
conoscere la strada (perchè la direzione e la strada sono sinonimi in
quella ampia regione) verso luoghi ove non era mai stato. In una casa
una giovane donna, ammalata in letto, mi mandò a pregare di andarla a
trovare per mostrarle la bussola. Se la loro sorpresa era grande, la
mia era ancor maggiore nel trovare una tale ignoranza in persone che
posseggono migliaia di capi di bestiame ed _estancias_ estesissime.
Questo non si può attribuire ad altro se non al fatto che quella parte
così remota di paese è visitata raramente dagli stranieri. Mi fu
domandato se sia la terra o il sole che si muova; se al nord faccia più
caldo o più freddo; dove sia la Spagna, e molte altre domande di questa
sorta. La maggior parte degli abitanti aveva un'idea indistinta che
l'Inghilterra, Londra e l'America settentrionale siano paesi separati
ma confinanti, e che l'Inghilterra sia una grande città di Londra. Io
portava con me alcuni zolfanelli, cui accendeva mordendoli; sembrava
così meraviglioso che un uomo potesse far fuoco coi denti, che per
solito si riuniva tutta la famiglia per vedere questo fatto; mi fu una
volta offerto un dollaro per farlo. Il lavarmi la faccia al mattino
destò grande stupore nel villaggio di Las Minas; uno dei principali
mercanti mi fece molte domande intorno a una pratica così singolare,
ed anche perchè portassimo la barba a bordo, cosa che aveva udito
raccontare dalle nostre guide. Egli mi guardò con molta diffidenza;
forse aveva sentito parlare delle abluzioni della religione maomettana,
e, sapendomi eretico, ne concluse probabilmente che tutti gli eretici
siano turchi. È costume generale in questo paese di chiedere l'alloggio
per la notte nella prima casa all'uopo. La meraviglia della bussola,
ed altri miei fatti da prestigiatore, mi erano fino a un certo punto
vantaggiosi, perchè con ciò, e colle lunghe storie che narravano le mie
guide del mio spaccare sassi, delle mie cognizioni intorno ai serpenti
innocui e velenosi, della raccolta che faceva d'insetti ecc., io li
ripagava della loro ospitalità. Scrivo come se fossi stato in mezzo
agli abitanti dell'Africa centrale; Banda Oriental non sarebbe molto
lusingata dal paragone; ma allora i miei sentimenti erano questi.»

La vita dei gauchos, il modo in cui adoperano il _lazo_ e le _bolas_,
si descrivono maestrevolmente dall'autore, che parla poi a lungo della
lotta fra gl'indiani e i bianchi, e della parte che aveva al tempo del
suo viaggio il generale Rosas nelle vicende della sua patria.

La lotta fra i bianchi e gli indiani è lotta di esterminio, e sono,
naturalmente, gli indiani quelli che hanno la peggio.

A Bahia Blanca un cotale raccontava al Darwin come un indiano inseguito
gli domandasse misericordia, mentre nascostamente si scioglieva le
_bolas_ dalla cintura per slanciargliele alla testa; poi soggiunse:

«Ma io lo atterrai con un colpo di sciabola, e poi, sceso da cavallo,
gli tagliai la gola col coltello.»

Soggiunge il Darwin:

«È questa una scena terribile; ma quanto più tremendo è il fatto
certissimo che tutte le donne le quali sembrano avere più di venti
anni vengono massacrate a sangue freddo! Quando io diceva che questo
mi pareva piuttosto inumano, mi si rispose:--Come si fa? sono tanto
feconde!--»

Vide là il Darwin due fanciulle spagnuole di meravigliosa bellezza, che
i bianchi, in uno scontro cogli indiani, avevano prese prigioniere;
quelle fanciulle erano state nella infanzia rapite ai genitori; non
ricordavano più nulla nè della famiglia nè della lingua in cui avevano
detto le prime parole.

«Quattro uomini in un combattimento fuggirono insieme; vennero
inseguiti, uno fu ucciso, tre presi vivi; si trovò che erano messaggeri
o ambasciatori di un grosso corpo d'indiani, uniti per la difesa
comune presso le Cordigliere. La tribù alla quale erano stati mandati
stava per tenere un gran consiglio; il festino di carne di cavallo era
apparecchiato e il ballo pronto; il mattino dopo i messaggeri dovevano
ritornare alle Cordigliere. Erano uomini notevolmente belli, di
carnagione chiara, alti 1 metro e 80 circa, e tutti in età di 30 anni.
I tre superstiti erano naturalmente bene informati, e per farli parlare
furono posti in fila. I due primi essendo interrogati risposero _nosè_
(non so), e fucilati l'uno dopo l'altro. Il terzo disse pure _nosè_,
soggiungendo:--Sparate, sono uomo e posso morire!--Non dissero sillaba
che potesse recar danno alla causa del loro paese! La condotta del
sopra menzionato cacico fu ben diversa; salvò la vita svelando il piano
di guerra concertato e il punto di unione nelle Ande.»

Ecco in qual modo il Darwin racconta l'eccidio di una tribù d'indiani e
il modo in cui un vecchio cacico riuscì a salvarsi.

«Quando le truppe vi giunsero per la prima volta, vi trovarono una
tribù d'indiani, dei quali ne uccisero una ventina o una trentina. Il
cacico si salvò in modo meraviglioso. I capi indiani hanno sempre uno o
due cavalli legati che tengon pronti per ogni occasione urgente. In una
di queste il cacico balzò sopra un vecchio cavallo bianco prendendo
con sè un suo bambino. Il cavallo non aveva nè sella nè briglia. Per
sfuggire alle palle l'indiano cavalcava nel modo particolare alla sua
nazione; vale a dire tenendo un braccio al collo del cavallo e con una
gamba sola sul dorso. Sospeso in tal modo, egli accarezzava il capo del
cavallo e gli parlava. I persecutori fecero ogni sforzo nella caccia;
il comandante mutò tre volte il cavallo, ma invano; il vecchio indiano
col suo figlio furono liberi.

«Che bel quadro ci possiamo formare nella mente: la nuda ed abbronzata
figura del vecchio indiano col suo bambino, cavalcando come Mazzeppa
sopra un cavallo bianco, lasciando lontano l'orda dei persecutori!»

Il Darwin fece per via di terra tutto il lungo tragitto da Bahia Blanca
a Buenos-Ayres, e all'ultima stazione ecco quanto gli avvenne:

«A sera cadde una pioggia dirotta; arrivati alla casa di posta, il
proprietario ci disse che se non avessimo avuto un passaporto in piena
regola, noi avremmo dovuto continuare la nostra strada perchè vi erano
tanti ladri da non prestar fede più ad alcuno. Quando lesse però il
mio passaporto, che cominciava con queste parole:--El naturalista
Don Carlos,....--il suo rispetto e la sua cortesia non ebbero limiti
come prima i suoi sospetti erano stati illimitati. Di ciò che sia un
naturalista nè lui nè i suoi compatriotti non hanno, credo, neppure
l'idea; ma probabilmente il mio titolo non perdette per questo nulla
del suo valore.»

In una escursione da Buenos-Ayres a Santa Fè dovette il Darwin passare
due giorni a letto per mal di capo, e ciò gli porse modo di avere un
concetto della medicina del paese.

«Una buona vecchia che mi accudiva, mi consigliò di provare molti
singolari rimedii. È qui una pratica comune il legarsi una foglia
di arancio, o un pezzetto d'impiastro nero, sopra le tempia; ed è
ancora più comune spaccare una fava in due, inumidirne le due metà e
metterle sopra ogni tempia, ove aderiscono agevolmente. Non si crede
bene di toglier via le fave o gli impiastri, ma si lascia che cadano
da loro, e talvolta se si domanda ad un uomo che cosa siano quegli
oggetti appiccicati sulla sua testa risponde:--Ho avuto mal di capo
due giorni fa.--Molti dei rimedii adoperati dalle genti della campagna
sono stranamente ridicoli, ma troppo disgustosi per essere menzionati.
Uno dei meno nauseanti è quello di uccidere e spaccare due cagnolini e
fasciarli da ogni lato di un membro rotto. I piccoli cani senza pelo
sono molto ricercati per farli dormire sui piedi degli ammalati.»

In quella escursione rischiò il Darwin di rimaner prigioniero e non fu
senza difficoltà che riuscì a potersene andare. Egli esprime così la
sua contentezza.

«Una città bloccata deve essere sempre un luogo di dimora poco
piacevole; in quel caso poi vi erano sempre da temere i briganti
interni. Le sentinelle erano le più da temersi, perchè pel loro ufficio
e per aver le armi in mano rubavano con un grado d'autorità che gli
altri uomini non potevano assumere.»

Procedendo nella Banda Oriental, verso Mercedes sul Rio Negro, domandò
il Darwin una sera l'ospitalità in un podere presso cui era arrivato.
Dice che quel possedimento era uno dei più vasti, che il padrone di
esso era uno dei più ricchi possidenti del paese, che il nipote del
padrone ne aveva allora il governo e la sera in cui egli giunse colà vi
si trovava pure un capitano dell'esercito fuggito pochi giorni prima da
Buenos-Ayres. Poi parlando di quei signori prosegue così:

«Considerata la loro posizione sociale, i loro discorsi erano assai
divertenti. Al solito mostravano una illimitata meraviglia della
rotondità del globo, e non potevano quasi credere che un buco fatto
nella terra sufficientemente profondo, verrebbe a riuscire dall'altra
parte. Tuttavia avevano sentito parlare di un paese, ove vi erano sei
mesi di luce e sei mesi di buio, e dove gli abitanti erano altissimi
e sottilissimi. Erano molto curiosi di conoscere il prezzo e la
condizione delle bovine e dei cavalli in Inghilterra. Avendo udito che
non prendevamo il nostro bestiame col _lazo_, esclamarono:--Ah! dunque
adoperate soltanto le _bolas_?--L'idea di un paese con recinti era al
tutto nuova per essi. Finalmente il capitano mi disse che aveva da
farmi una domanda e che mi sarebbe stato molto grato se avessi voluto
rispondergli con piena veracità. Tremai pensando quanto profondamente
scientifica doveva essere quella domanda; ed era:--Se le signore
di Buenos-Ayres non erano le più belle del mondo.--Io risposi, come
un rinnegato:--Precisamente così.--Egli soggiunse:--Io ho un'altra
domanda;--Le signore in qualche altra parte del mondo portano pettini
così alti?--Io con grande solennità lo assicurai di no. Questo fece
loro un grande piacere. Il capitano esclamò:--Vedete! un uomo che ha
visitato mezzo mondo dice che questo è il caso; noi lo abbiamo sempre
creduto, ma ora ne siamo certi.--Il mio eccellente giudizio intorno ai
pettini ed alla bellezza mi procurò il più ospitaliero ricevimento;
il capitano mi obbligò a prendere il suo letto, ed egli dormì sul suo
recudo.»

In sul finire del mese di novembre dell'anno 1833, lasciando la Plata
per veleggiare verso la Patagonia, il Darwin fa, intorno a quella gente
che sta per lasciare, queste considerazioni:

«Durante gli ultimi sei mesi ebbi l'opportunità di studiare alcun
poco l'indole degli abitanti di quelle provincie. I gauchos, o
campagnuoli, sono molto superiori a quelli che dimorano nelle città.
Il gaucho è invariabilmente più cortese, più educato, più ospitale;
non ho mai incontrato un caso di inospitalità o di scortesia. Egli
è modesto, rispetta se stesso e il paese, ma nello stesso tempo è
ardito e spiritoso. D'altra parte si commettono molti furti e molti
omicidii; l'uso di portar sempre il coltello è la causa principale
di questi ultimi. È penoso sentire quante vite umane si perdono in
dispute insignificanti. Nel combattimento, ogni avversario cerca
di segnar l'altro nel volto ferendolo sul naso o negli occhi, come
spesso è dimostrato da profonde e orribili cicatrici. I furti sono
una conseguenza naturale dell'uso comune di giuocare, di bere molto
e della somma indolenza. A Mercedes domandai a due uomini perchè non
lavorassero. Uno mi rispose con somma gravità che i giorni erano troppo
lunghi; l'altro che egli era troppo povero. Il numero dei cavalli e
l'abbondanza del cibo sono la distruzione di ogni industria. Inoltre vi
sono molti giorni festivi; poi nulla può riuscire se non è cominciato
quando la luna cresce, per cui la metà del mese si perde per queste due
ragioni.

«La polizia e la giustizia sono al tutto insufficienti. Se un uomo
povero commette un omicidio ed è preso, sarà messo in prigione e
forse fucilato; ma se è ricco ed ha amici, può esser tranquillo che
non incontrerà alcuna pena. È cosa curiosa che gli abitanti più
rispettabili del paese aiutano l'assassino a fuggire. Sembrano credere
che l'individuo pecchi contro il Governo e non contro le persone. Un
viaggiatore non ha altra protezione che le sue armi da fuoco, e l'uso
costante di portarle è l'unico ostacolo a più frequenti ruberie.

«Il carattere delle classi più alte e più educate che dimorano nelle
città, partecipa, ma forse in un grado minore, delle buone qualità
del gaucho, ma temo sia macchiato da molti vizii di cui quello va
immune. La sensualità, lo scherno di ogni religione, la più grossolana
corruzione non sono al tutto insoliti. Quasi ogni funzionario
pubblico può essere comperato. Il capo dell'uffizio postale vendeva
franchi governativi falsificati. Il governatore e il primo ministro
si accordano apertamente per saccheggiare lo Stato. La giustizia,
quando il danaro entra in giuoco, non esiste più. Conosco un inglese,
il quale andò dal primo giudice cui disse che, non conoscendo gli
usi del paese, tremava entrando nella stanza, e soggiunse:--Signore,
vengo ad offrirvi duecento dollari (di carta del valore circa di 125
franchi), se volete far arrestare prima di un certo tempo un uomo che
mi ha truffato. So che questo è contro la legge, ma il mio avvocato
(e lo nominò), mi ha raccomandato di fare questo passo!--Il primo
giudice aderì e sorridendo lo ringraziò, e l'uomo prima di notte era
in prigione. Con questa assoluta mancanza di principii nella maggior
parte dei governanti, col paese pieno di ufficiali turbolenti e mal
pagati, il popolo spera tuttavia che una forma democratica di governo
possa riuscire! Penetrando per la prima volta nella società di questi
paesi due o tre particolarità colpiscono come singolarmente notevoli. I
modi cortesi e dignitosi che s'incontrano in ogni classe, il buon gusto
delle donne nei loro abbigliamenti, e l'uguaglianza di tutte le classi.
Al Rio Colorado alcuni piccoli bottegai solevano pranzare col generale
Rosas. Il figlio di un maggiore a Bahia Blanca si guadagnava la vita
facendo carta per _sigaritos_, e si offerse per accompagnarmi, come
guida e servitore, a Buenos-Ayres; ma suo padre non acconsentì per
timore del pericolo. Molti ufficiali dell'esercito non sanno nè leggere
nè scrivere, tuttavia stanno nella società come uguali agli altri.
In Entre Rios, la Camera non è composta che di sei deputati. Uno di
essi aveva una botteguccia, ed evidentemente non si credeva degradato
per questo. Tuttavia ciò è naturale in un paese nuovo; nondimeno, la
mancanza di gentiluomini di professione sembra ad un inglese alquanto
strana.

«Quando si parla di queste regioni, il modo in cui sono state allevate
dalla loro snaturata madre, la Spagna, deve essere sempre presente alla
mente. Nel complesso forse, si deve dare maggior lode per quello che è
stato fatto, che non biasimo per quello che manca ancora. È impossibile
porre in dubbio che l'estrema libertà di questi paesi non debba infine
produrre buoni effetti. Il modo stesso con cui sono generalmente
tollerate le religioni straniere, l'attenzione che si porta ai mezzi di
educazione, la libertà della stampa, le agevolezze offerte a tutti i
forestieri, e, specialmente, mi sia permesso aggiungere, ad ognuno che
professi le più piccole pretese alla scienza, debbono essere ricordate
con gratitudine, da coloro che hanno visitato le provincie spagnuole
del Sud America.»



                                  III


In faccia alle pianure sterminate della Patagonia, un ufficiale del
_Beagle_ domandava al Darwin da quanti secoli quelle pianure fossero
nello stato in cui le vedevano, per quanti secoli ancora sarebbero
state per durare in tal modo. Il naturalista rispose colle parole del
poeta Shelley:

  Nissuno sa. Tutto ora sembra eterno.
  Parla il deserto un suo linguaggio arcano
  Che insegna dubbi spaventosi....

La immobilità e il dubbio colpirono il giovane naturalista in quelle
terre desolate soprattutto nel contemplare il proprio simile, l'uomo,
in così miseranda condizione e fuori d'ogni progresso.

Quando nella Terra del Fuoco il Darwin vide per la prima volta quegli
indigeni, non poteva dar fede ai proprii occhi.

«Non potevo credere che la differenza fra l'uomo selvaggio e l'uomo
incivilito fosse tanto grande; essa è maggiore ancora di quella che
passa fra l'animale domestico e l'animale selvatico, per la ragione
che nell'uomo v'ha una più grande potenza di miglioramento. L'oratore
principale era vecchio, e pareva essere il capo della famiglia; gli
altri erano giovani robusti, alti circa un metro e ottanta centimetri.
Le donne e i bambini erano stati mandati via. Questi abitatori della
Terra del Fuoco sono una razza molto differente da quei rachitici,
meschini, miserabili che stanno più all'occidente; e sembrano più
strettamente affini ai famosi Patagoni dello stretto di Magellano.
Il loro unico vestimento consiste in un mantello fatto colla pelle
del guanaco, colla lana al di fuori; lo portano gettato sulle spalle,
lasciando le loro persone tanto coperte quanto scoperte. La loro pelle
è di color rame rosso sudicio. Il vecchio aveva una rete di piume
bianche intorno al capo, che in parte tenevano indietro la sua nera,
ruvida e arruffata capigliatura. Il suo volto era attraversato da due
larghe striscie trasversali; una tinta di un bel rosso brillante andava
da un orecchio all'altro inchiudendo il labbro superiore; l'altra,
bianca di calce, si estendeva sopra e parallelamente alla prima, per
cui anche le sue palpebre erano in tal modo colorite. Gli altri due
uomini erano adorni di righe di polvere nera fatta con carbone. Tutta
la comitiva rassomigliava molto ai demonii che vengono rappresentati in
opere come il _Freischutz_.

«Il loro aspetto era basso e triviale, e l'espressione del loro volto
era la diffidenza, la sorpresa, e lo sgomento. Dopo che noi avemmo
loro regalato qualche pezzo di panno scarlatto, che si ravvolsero
immediatamente intorno al collo, si fecero subito famigliarissimi.
Il vecchio mostrava ciò battendosi sul petto colla mano, mandando
un suono chiocciante, come fanno alcuni quando danno da mangiare ai
pulcini. M'incamminai col vecchio, e questa dimostrazione d'amicizia
fu ripetuta parecchie volte; e fu conchiusa con tre forti percosse che
mi furono date sul petto e sul dorso contemporaneamente. Egli allora
si scoperse il petto onde potessi rendergli il complimento, ciò che
feci con sua grande soddisfazione. Il linguaggio di questo popolo,
secondo le nostre nozioni, non merita quasi il nome di articolato. Il
capitano Cook lo ha paragonato al suono che fa un uomo rischiarandosi
la voce; ma certamente nessun europeo si è mai rischiarato la voce
mandando suoni così aspri, gutturali e chioccianti. Sono eccellenti
mimi; appena qualcheduno di noi tossiva o sbadigliava, o faceva un
qualche movimento strano, essi immediatamente lo imitavano. Taluno
della nostra comitiva cominciò a guardar biecamente e far smorfie;
ma uno dei giovani indigeni (il volto del quale era tinto di nero,
tranne una striscia attraverso agli occhi) riuscì a far smorfie ancor
più brutte. Ripetevano correttissimamente qualunque parola di ogni
frase che noi rivolgevamo loro, e per un certo tempo si ricordavano
quelle parole. Tuttavia noi europei sappiamo quanto sia difficile
distinguere bene i suoni di un linguaggio forestiero. Chi di noi, per
esempio, potrebbe tener dietro ad un indigeno americano in una frase
che avesse più di tre vocaboli? Tutti i selvaggi sembrano avere in
un grado non comune questa facoltà d'imitazione. Mi fu detto, quasi
colle stesse parole, che questo curioso costume esiste fra i cafri;
parimente gli australiani sono da un pezzo conosciuti per la facoltà
che hanno d'imitare e di descrivere l'andatura di taluno in modo da
farlo riconoscere. Come si può spiegare questa facoltà? È dessa una
conseguenza di maggiore acutezza nei sensi, comune a tutti gli uomini
nello stato selvaggio, paragonati con quelli degli uomini civili?»

Della parte occidentale della Terra del Fuoco era anche più miserando
lo spettacolo che gl'indigeni presentavano al navigante.

«Un giorno, dice il Darwin, mentre andavamo a terra presso l'isola
Wollaston, passammo vicino a una barchetta con sei indigeni. Queste
erano le creature più abbiette e miserabili che io avessi mai vedute.
Sulla costa orientale, gli indigeni, come abbiamo detto, hanno
vestimenta di guanaco, e sulla costa occidentale posseggono pelli di
foca. Fra queste tribù centrali gli uomini generalmente hanno una pelle
di lontra, o qualche simile cencio largo appena come un fazzoletto,
che non basta quasi a coprir loro le spalle fino ai lombi. È tenuto
con cordicelle che attraversano il petto, e secondo la parte d'onde
soffia il vento è fatto girare da un lato all'altro. Gli indigeni
della barchetta erano al tutto nudi, e anche nuda era una donna che
si trovava con essi. Pioveva dirottamente, e l'acqua dolce unita alla
salata loro sgocciolava sul capo. In un altro porto non molto lontano,
una donna, che allattava un bambino nato da poco tempo, venne un giorno
vicino alla nave e vi rimase un certo tempo per semplice curiosità,
mentre il nevischio cadeva e s'induriva sul suo petto nudo e sulla
pelle del suo nudo bambino! Questa povera gente appariva stentata nel
crescere, i suoi orridi volti erano imbrattati di pitture bianche, la
pelle sucida e untuosa, i capelli arruffati, la voce discorde e i gesti
violenti. Guardando quella sorta di uomini non si poteva quasi credere
che fossero nostri simili e abitanti dello stesso mondo. È argomento
comune di congettura pensare quale piacere possano godere nella vita
gli animali inferiori: quanto più ragionevolmente si potrebbe fare
la stessa domanda rispetto a questi barbari! La notte, cinque o sei
esseri umani, nudi e appena protetti dal vento e dalla pioggia di
questo tempestoso clima, dormono sul terreno umido raggomitolati come
bestie. Quando l'acqua è bassa, d'inverno o di estate, di notte o di
giorno essi debbono alzarsi per staccare le conchiglie dalle rocce; e
le donne allora si tuffano per raccogliere ricci di mare, oppure stanno
pazientemente nelle loro barche e con una lenza adescata senz'amo,
fanno saltar fuori i pesciolini con una sferzata. Se una foca viene
uccisa, o il carcame galleggiante di una balena putrefatta viene
scoperto, allora si fa festa; a questo miserabile cibo vengono aggiunte
alcune insipide bacche e funghi.

«Sovente soffrono la fame; ho udito il signor Low, navigatore maestro,
il quale conosce intimamente gl'indigeni di questo paese, dare una
curiosa relazione dello stato di cento cinquanta indigeni della costa
occidentale, i quali erano magrissimi e in grande miseria. Una serie di
uragani aveva impedito alle donne di raccogliere molluschi sulle rocce,
ed essi non potevano uscire colle barche per prender foche. Una piccola
brigata di questi uomini partì per un viaggio, e gli altri indigeni gli
dissero che erano andati per un viaggio di quattro giorni in cerca di
cibo; al loro ritorno Low andò a incontrarli, e li trovò eccessivamente
stanchi; ogni uomo portava un gran pezzo quadro di balena imputridita
con un buco nel mezzo, pel quale avevano passato la loro testa, come
fanno i gauchos nei loro mantelli. Quando il pezzo di balena era in
un wigwam, un vecchio lo tagliava in fette sottili, e brontolandovi
sopra le faceva arrostire per un minuto, e le distribuiva alla famelica
brigata, che durante questo tempo conservava un profondo silenzio. Il
signor Low crede che quando una balena vien gettata sulla sponda, gli
indigeni ne seppelliscono grossi pezzi nella sabbia per adoperarli poi
in tempo di carestia; e un fanciullo indigeno che egli aveva a bordo
trovò una di queste provviste sepolte. Le differenti tribù quando
fanno guerra sono cannibali. Secondo concorrente testimonianza del
fanciullo preso dal signor Low e di Jemmy Button, è certamente vero che
quando in inverno sono stretti dalla fame, uccidono e divorano le loro
vecchie donne prima di uccidere i loro cani; il fanciullo al quale il
signor Low domandò perchè facessero questo, rispose:--I cani prendono
le lontre; le vecchie no.--Questo fanciullo descriveva il modo in cui
sono uccise, essendo tenute sopra il fumo e in tal modo soffocate; egli
imitava per scherzo le loro grida, e descriveva le parti del corpo che
sono considerate migliori da mangiare. Per quanto orribile debba essere
la morte ricevuta dalle mani degli amici e dei parenti, i terrori
delle vecchie quando la fame comincia a farsi sentire sono ancora più
dolorosi da immaginare; ci fu detto che sovente esse fuggono via nei
monti, ma che sono inseguite dagli uomini e ricondotte indietro per
essere macellate nelle loro proprie case!

«Le varie tribù non hanno nessun governo e nessun capo; tuttavia ognuna
è circondata da altre tribù nemiche che parlano differenti dialetti, e
sono separate fra loro soltanto da una landa deserta o da un territorio
neutrale: la causa della loro guerra sembra essere il modo di
sostentamento. Il loro paese è una massa rotta da aspre rocce, da alte
colline e da intatte foreste, e queste si vedono in mezzo alle nebbie
e alle infinite burrasche. La terra abitabile è ridotta ai ciottoli
della spiaggia; per cercarsi il cibo essi sono obbligati a girare
continuamente da un luogo all'altro, e la costa è così scoscesa che non
possono muoversi se non nelle loro miserabili barchette. Non possono
conoscere il piacere di avere una casa ed ancor meno quello degli
affetti domestici; perchè il marito è per la moglie padrone brutale di
una laboriosa schiava. Si vide mai un fatto più mostruoso di quello che
vide Bynoe, di una povera madre che raccolse il suo bambino morente e
coperto di sangue, che il marito aveva spietatamente slanciato contro
le rocce per aver lasciato cadere un cestino di ricci di mare! Quanto
poco possono le più alte facoltà della mente venir poste in giuoco!
che cosa vi è qui perchè l'immaginazione possa dipingere, perchè la
ragione possa comparare, perchè il giudizio possa decidere? Staccare
una conchiglia dalla roccia non richiede la più piccola maestria, il
più piccolo lavoro mentale. La loro abilità può essere per alcuni
rispetti comparata agli istinti degli animali; perchè non è migliorata
dalla esperienza; la barchetta, l'opera loro più ingegnosa, per
quanto povera, è rimasta la stessa, come vediamo da Drake, durante
questi ultimi duecento cinquanta anni. Osservando questi selvaggi si
può domandare: d'onde sono venuti? Che cosa può aver tentato, o qual
mutamento può avere obbligato una tribù di uomini ad abbandonare le
belle regioni del nord, a scendere le Cordigliere, la spina dorsale
dell'America, a inventare e fabbricare barche che non sono adoperate
dalle tribù del Chilì, del Perù e del Brasile, e poi entrare in una
delle più inospitali contrade del mondo? Quantunque queste riflessioni
debbano a prima vista occupare la mente, possiamo esser certi che sono
in parte erronee. Non vi è ragione per credere che gli abitatori della
Terra del Fuoco diminuiscano di numero; perciò dobbiamo supporre che
godano di una certa tal quale felicità, qualunque essa possa essere,
che rende loro cara la vita. La natura facendo l'abitudine onnipotente,
e i suoi effetti ereditarii, ha reso l'abitatore della Terra del Fuoco
acconcio al clima e alle produzioni del suo miserabile paese.»

Tre indigeni della Terra del Fuoco, un uomo adulto, un giovinetto e una
giovinetta, s'erano imbarcati sul _Beagle_ in Inghilterra. Il capitano
Fitz-Roy era già stato una volta, nel 1826, in quelle regioni, aveva
portato con sè quelle persone, le aveva fatte ammaestrare e quanto
meglio fosse possibile incivilire, e le riportava ora a casa loro.
Lo studio fisico e morale che fa il Darwin di quei fuegiani a bordo
insieme agli inglesi, e i fatti che racconta seguiti dopochè essi
furono riportati a casa loro, costituiscono uno dei brani più piacevoli
e ammaestrativi di questo suo libro che io non so ripetere abbastanza
quanto per ogni verso sia ammaestrativo e piacevole.

Prima di lasciare l'Oceano Atlantico per passare nel Pacifico, per due
volte il _Beagle_ approdò alle isole Falkland, e il Darwin, secondo
il suo consueto, fece lunghe e fruttuose escursioni nell'interno, e la
parte del suo viaggio che si riferisce a questo arcipelago non è meno
delle altre ricca di cognizioni importanti e di giusti apprezzamenti
sull'uomo e sulla natura.



                                  IV


Valparaiso val quanto dire Valle del Paradiso. Ciò basta a far
comprendere quanto debba essere attraente la regione cui venne dato un
tal nome. Ma quanto più doveva riuscire attraente ai naviganti che vi
avevano approdato col _Beagle_, venendo dalle spiagge desolate della
Patagonia.

Quella lunga striscia di terra che ha da tergo le Cordigliere e
davanti i flutti ora carezzevoli ora furiosi dell'Oceano Pacifico
rammenta, fatto il ragguaglio dal grande al piccolo, quella striscia
di terra tanto bella e cara fra noi, bagnata dal mare e sovrastata
dall'Appennino, che è la Liguria.

Come aveva fatto dalla parte dell'Atlantico, così pure il _Beagle_
doveva fare dalla parte del Pacifico, uno studio diligente delle
spiaggie dell'America meridionale. Perciò veleggiando per oltre un
anno andò su e giù lungo la costa del Chilì e anche a quella del
Perù esplorando arcipelaghi, isole, seni e porti. Come aveva fatto
dall'altra parte, il Darwin colse anche qui ogni opportunità che gli
si offerisse, sempre secondato dal degno comandante del _Beagle_,
per visitare le terre e farvi dentro lunghe, e talora lunghissime
escursioni.

Le fatiche di queste escursioni furono così grandi che alla fine di una
di esse, trascinandosi con molta pena gli ultimi giorni, arrivato a
Valparaiso il giorno 27 settembre 1834 dovette subito mettersi a letto
e vi rimase fino alla fine del mese di ottobre. Un inglese, il signor
Corfield, gli fu largo di una ospitalità della quale egli si ricordò
sempre poi con animo gratissimo.

Il Darwin trovò nel Chilì un qualche maggior grado di incivilimento e
nota la differenza fra i guasos e i gauchos.

«I guasos del Chilì, che corrispondono ai gauchos dei Pampas, ne sono
tuttavia ben diversi. Il Chilì è il più civile dei due paesi, e per
conseguenza gli abitanti hanno perduto gran parte del loro carattere
individuale. Le distinzioni di classi sono molto più fortemente
segnate; il guaso non considera per nulla ogni uomo come suo eguale,
ed io fui molto sorpreso trovando che ai miei compagni non piaceva di
mangiare con me nello stesso tempo. Questo sentimento di disuguaglianza
è una conseguenza necessaria dell'esistenza di un'aristocrazia del
danaro. Si dice che alcuni dei più grandi proprietari posseggono da
125,000 a 250,000 lire all'anno; questa disuguaglianza di ricchezze
non credo che si incontri in nessuno dei paesi di allevatori di
bestiame all'est delle Ande. Un viaggiatore non incontra qui quella
illimitata ospitalità che rifiuta ogni pagamento, ma che viene
accettata senza scrupoli. Quasi ogni casa del Chilì vi accoglierà per
una notte, ma l'indomani mattina sarà necessario dare una mancia; anche
un uomo ricco accetterà due o tre scellini. Il gaucho, quantunque possa
essere un assassino, è un gentiluomo; il guaso per alcuni rispetti ne è
migliore, ma nello stesso tempo è un uomo volgare e grossolano. Questi
due uomini, sebbene per molti riguardi abbiano le stesse occupazioni,
hanno costumi e aspetto differenti; e le particolarità di ognuno sono
universali ne' loro rispettivi paesi. Il gaucho sembra far parte del
suo cavallo e disdegna qualunque esercizio, tranne quello che fa
cavalcando; il guaso può esser preso a giornata per lavorare nei campi.
Il primo vive interamente di cibo animale, il secondo quasi tutto di
vegetale.»

Dall'una e dall'altra parte delle Ande la vita dell'uomo si lega a
quella del cavallo, dalle due parti v'ha tanta abbondanza di questi
animali che l'uomo li adopera senza pietà. Ciò mostra Darwin colle
seguenti parole:

«Un giorno mentre io cavalcava nei Pampas con un rispettabile
estanciero, il mio cavallo essendo stanco restava indietro. L'uomo
mi diceva spesso di spronarlo. Quando io gli diceva che io non aveva
cuore, perchè il cavallo era stanchissimo, egli esclamava:--Perchè no?
Non ci badate; spronatelo; il cavallo è mio.--Mi ci volle una certa
difficoltà a fargli capire che io non adoperava gli sproni per amore
del cavallo e non per amor suo. Egli con uno sguardo tutto meravigliato
esclamò:--Ah! Don Carlos, que cosa!--Evidentemente quell'idea non gli
era mai passata per la testa. I gauchos sono conosciutissimi per essere
eccellenti cavalieri. L'idea di cader da cavallo, qualunque cosa faccia
quest'ultimo, non passa mai loro per la mente. Secondo la loro opinione
un buon cavaliere è un uomo che sa domare un puledro selvaggio, o
che, quando il cavallo cade, scende di sella sui proprii piedi, o sa
compiere altre cosifatte gesta.

«Ho sentito parlare di un uomo che scommetteva di gettar giù il suo
cavallo venti volte ed egli rimaner ritto diciannove. Mi ricordo d'aver
veduto un gaucho che cavalcava un cavallo molto restìo, il quale per
tre volte di seguito si rizzò tanto alto da cadere violentemente
all'indietro. L'uomo cavalcava con meravigliosa freddezza e spiava il
momento acconcio per scender giù, non un momento prima nè uno dopo
del tempo giusto; ed appena il cavallo era di nuovo in piedi, l'uomo
gli balzava sul dorso, ed alla fine partirono di galoppo. Il gaucho
non sembra mai esercitare nessuna forza muscolare. Un giorno io stava
osservando un buon cavaliere, mentre galoppavamo rapidamente, e pensava
fra me:--Certo se il cavallo fa un salto, tu che sembri così noncurante
sulla tua sella, devi cadere.--In quel momento uno struzzo maschio
sbucò fuori proprio sotto il naso del cavallo, il giovane puledro
spiccò un salto da una parte come un cervo; ma tutto quello che si
sarebbe potuto dire dell'uomo era che egli si era scosso e spaventato
col suo cavallo.

«Nel Chilì e nel Perù si accudisce molto di più la bocca del cavallo
che non nella Plata, e questo evidentemente è una conseguenza della
natura più intricata del paese. Nel Chilì un cavallo non è tenuto per
veramente domato, finchè non si possa farlo fermare di botto, quando è
in piena carriera, sopra un punto particolare; per esempio, sopra un
mantello steso sul terreno; oppure slanciarlo contro un muro e farlo
alzare e graffiarne la superficie cogli zoccoli. Ho veduto un animale
pieno di spirito, il quale, guidato soltanto con due dita, prese
il galoppo attraverso un cortile, e fu fatto girare intorno ad uno
steccato di una veranda, con grande speditezza, ma conservando sempre
la stessa distanza, tantochè il cavaliere tenendo il braccio steso,
sfregò per tutto il tempo il suo dito contro lo steccato, poi facendo
un volteggio in aria, coll'altro braccio steso nello stesso modo, egli
ricominciò a correre con meravigliosa forza nella direzione opposta.

«Un cavallo cosiffatto è ben domato, e per quanto questo possa parere
a prima vista inutile, non lo è per nulla. Non si fa che quello che
ogni giorno vuol esser fatto, con perfezione. Quando un toro selvatico
è inseguito e preso col lazo, si mette talora a galoppare in giro, ed
il cavallo spaventato del grande sforzo, se non è ben domato, non
si metterà subito a girare come il perno d'una ruota. In conseguenza
di ciò molti uomini sono stati uccisi, perchè se il lazo si avvolge
per caso intorno al corpo di un uomo, esso viene all'istante, per la
forza dei due opposti animali, quasi tagliato in due. Per lo stesso
principio non si fanno grandi corse, e queste sono della lunghezza di
due o trecento metri, volendo avere cavalli che facciano uno slancio
veloce. I cavalli da corsa non sono ammaestrati soltanto per toccare
coi loro zoccoli una linea, ma per portare tutti quattro i piedi
insieme, onde al primo sbalzo mettere in giuoco la piena azione delle
parti posteriori. Mi fu raccontato al Chilì un aneddoto, che credo
vero; esso presenta un buon esempio dell'uso di un animale ben domato.
Un rispettabile signore incontrò, un giorno, mentre era a cavallo,
due uomini, uno dei quali montava un cavallo che quel signore sapeva
essergli stato rubato. Egli li accusò di questo; essi risposero
sguainando la sciabola ed inseguendolo. L'uomo, sul buono e veloce
cavallo, si tenne sempre a poca distanza da loro; mentre egli passava
accanto ad un fitto cespuglio, cominciò a correre attorno a questo e
mise il suo cavallo dietro a questo riparo. Gli inseguitori furono
obbligati a slanciarsi dall'una e dall'altra parte. Allora sbucando
fuori repentinamente, proprio dietro di essi, immerse il suo coltello
nel dorso di uno degli uomini, ferì l'altro, ricuperò il suo cavallo
dal ladro moribondo, e se ne andò a casa. Per queste gesta ippiche
sono necessarie due cose; un freno molto forte, come quello dei
mammalucchi, la forza del quale, sebbene adoperata di rado, è notissima
al cavallo; grandi sproni spuntati che possono essere adoperati talora
come un semplice tocco, talora come uno strumento dolorosissimo.
Comprendo che gli sproni inglesi, i quali pungono la pelle al menomo
tocco, sarebbero impossibili da adoperare con un cavallo domato al modo
del sud America.

«In un podere presso Las Vacas un gran numero di cavalle vengono
uccise ogni settimana per la loro pelle, sebbene questa non valga più
di cinque dollari di carta, o dodici franchi e mezzo l'una. Sembra
dapprima strano che valga la spesa di uccidere tante cavalle per un
prezzo così minimo; ma siccome in questo paese è tenuto come cosa
ridicola domare o cavalcare una cavalla, esse non hanno altro valore
tranne che da la loro riproduzione. L'unico caso in cui vidi adoperare
cavalle era per levare il grano dalla spiga; perciò erano fatte girare
in un recinto circolare ove i covoni erano distesi. L'uomo incaricato
di macellare le cavalle era celebre per la sua destrezza nel maneggiare
il lazo. Allogatosi alla distanza di dodici metri dall'ingresso del
recinto, egli aveva messo pegno che avrebbe preso le zampe di ogni
animale senza mancarne uno, mentre gli passava di corsa vicino. Vi
era un altro uomo il quale diceva, che egli sarebbe entrato nel
_corral_ a piedi, avrebbe preso una cavalla, le avrebbe legato le zampe
anteriori insieme, l'avrebbe tirata fuori, gettata a terra, uccisa,
scuoiata, e preparata la pelle per seccare (quest'ultima faccenda è
molto noiosa); ed egli si impegnava a compiere tutte queste operazioni
sopra ventidue animali in un solo giorno. Oppure ne avrebbe ucciso e
scuoiato cinquanta nello stesso tempo. Questo sarebbe stato un compito
prodigioso, perchè viene considerato come una buona giornata di lavoro
lo spelare e preparare le pelli di quindici o sedici animali.»

Il concetto dell'ufficio di un naturalista, secondochè il Darwin ebbe
campo a riconoscere, non era più preciso dalla parte occidentale delle
Ande di quello che egli lo avesse trovato ad Oriente.

«Un giorno, un raccoglitore tedesco di storia naturale chiamato
Renous venne a farci una visita, e quasi nello stesso tempo venne
pure un vecchio avvocato spagnuolo. Mi divertii molto al sentir la
conversazione che ebbe luogo fra loro. Renous parlava lo spagnuolo
tanto bene, che il vecchio avvocato lo prese per un Chiliano.
Renous volendo parlare di me, gli domandò che cosa pensava del
re d'Inghilterra che mandava un naturalista nel loro paese, per
raccogliere lucertole e scarafaggi e per spaccar pietre? Il vecchio
signore rimase meditabondo per qualche tempo e poi disse:--Non va
bene--_Hay un gato encerrado aqui_ (vi è un gatto chiuso qui). Nessuno
è tanto ricco per mandare in giro un uomo a raccogliere cosiffatte
porcherie. Non mi piace. Se uno di noi andasse in Inghilterra a fare
queste cose non credete che il re d'Inghilterra ci manderebbe via
subito da quel paese?--E questo vecchio signore, per la sua professione
apparteneva alla classe più istruita e più intelligente! Renous stesso,
due o tre anni prima, aveva lasciato in una casa a San Fernando alcuni
bruchi, sotto la sorveglianza di una fanciulla, perchè desse loro da
mangiare e divenissero farfalle.

«Questo venne saputo nella città e finalmente consultatisi insieme i
Padres ed il governatore, furono d'accordo per dire che doveva essere
qualche eresia. In conseguenza quando Renous tornò, venne arrestato.»

Non era molto più chiaro il concetto che si aveva là della differenza
fra un cattolico e un protestante. Presso Santiago.

«La sera si giunse ad un comodo podere, ove si trovavano varie belle
signorine. Esse furono molto scandalizzate sentendo dire che io
era entrato in una delle loro chiese per pura curiosità. Esse mi
domandarono:--Perchè non vi fate cristiano, mentre la nostra religione
è la buona?--Le assicurai che io ero una specie di cristiano, ma non mi
vollero credere, riferendosi alle mie parole:--Non è vero che i vostri
preti, i vostri vescovi prendon moglie?--L'assurdità di un vescovo
ammogliato era ciò che le colpiva maggiormente e non sapevano quasi se
ridere o inorridire d'una tale enormità.»

Al sud del Chilì è ancora numeroso l'elemento indiano puro, o misto,
e nell'isola di Chiloe il Darwin, parlando di una famiglia indiana
da lui veduta, e intorno alla quale dà, secondo il solito, con poche
parole importanti ragguagli, esclama:

«Fa piacere veder gli indigeni giunti allo stesso grado
d'incivilimento, per quanto basso esso sia, al quale sono giunti i loro
conquistatori bianchi.»

Questo grado d'incivilimento invero non è guari elevato.

«Gli abitanti, come quelli della Terra del Fuoco, girano principalmente
sulla spiaggia o nei loro battelli. Quantunque vi sia cibo in
abbondanza, gli abitanti sono poverissimi; non vi è richiesta di lavoro
ed in conseguenza le classi più basse non possono mettere insieme
danaro sufficiente anche per comprarsi le più piccole superfluità.
V'ha pure una grande deficienza di mezzo circolante. Ho veduto un uomo
che portava sul dorso un sacco di carbone, col quale voleva comprare
qualche piccola cosa, ed un altro portava una tavola per mutarla
contro una bottiglia di vino. Quindi ogni negoziante deve anche essere
bottegaio, e vendere di nuovo le merci che prende in cambio.»

A Castro, antica capitale di Chiloe, ora abbandonata e deserta,

«Si poteva ancora scorgere la disposizione quadrangolare delle città
spagnuole, ma le strade e la piazza erano ricoperte di una bella erba
verde sulla quale brucavano le pecore. La chiesa che sta nel mezzo è
al tutto fabbricata di legno, ed ha un aspetto piuttosto pittoresco
e venerabile. Si può immaginare la povertà di quel luogo da questo
fatto, che quantunque contenga alcune centinaia di abitanti, uno della
nostra brigata non riuscì in nessun luogo a trovar da comperare una
libbra di zucchero o un coltello comune. Nessun individuo possedeva un
oriuolo, ed un vecchio, il quale si supponeva avesse un'idea giusta del
tempo, era incaricato di suonare la campana della chiesa così a caso.»

Nell'isola di Lemuy gli abitanti furono meravigliatissimi di veder
arrivare gli inglesi, e compresero allora perchè poco prima avessero
veduto un gran numero di pappagalli e perchè il Cheucau, un uccellino
del petto rosso, mandasse con tanta insistenza un certo grido con cui
suole destare la loro attenzione nei casi più straordinarii. Quegli
abitanti

«Furono subito molto volonterosi di fare cambi. Il danaro non valeva
quasi nulla, ma la loro avidità pel tabacco aveva qualche cosa di
straordinario. Dopo il tabacco veniva subito l'indaco, poi il capsicum,
le vecchie vestimenta e la polvere da schioppo. Quest'ultimo articolo
era richiesto per uno scopo innocentissimo; ogni parrocchia ha un
moschetto pubblico, ed hanno bisogno della polvere per far rumore il
giorno della festa del santo o di altre feste.»

Quella gente sa contentarsi. A Castro

«A notte cominciò a piovere dirottamente, ciò che bastò appena ad
allontanare dalle nostre tende la folla dei curiosi. Una famiglia
indiana, che era venuta per trafficare in una barca da Caylen,
bivaccava accanto a noi. Non avevano nulla che li riparasse dalla
pioggia. Al mattino domandai ad un giovane indiano, bagnato fino alle
ossa, come avesse passata la notte. Pareva di buonissimo umore e
rispose:--_Muy bien, señor._--

Il giorno 20 febbraio 1835, a Valdivia, mentre il Darwin s'era sdraiato
nella foresta sulla spiaggia del mare per riposarsi, sentì una scossa,
per cui balzato in piedi provò l'effetto del mal di mare in un grado
leggero, come quando il bastimento non fa che dondolarsi. Era un
terremoto che il Darwin descrive in alcune pagine che sono fra le più
dotte e belle del suo dottissimo e bellissimo libro.

Il Chilì è terra classica pei terremoti, e in tutti i libri di geologia
si citano gli effetti prodotti in quella contrada dal terremoto
del 1822. Questi effetti ebbe campo ad esplorare il Darwin nelle
sue ricerche geologiche, che lo spinsero ad attraversare le Ande
partendo da Santiago e scendendo da Mendoza, pel passo del Patille
all'andata e per quello Acomagne o Uspallate al ritorno. Egli spese
ventiquattro giorni in quelle gite e dice che non aveva mai provato
tanta soddisfazione in tale spazio di tempo. Si può soggiungere
che difficilmente il lettore può ricavare da una lettura tanto
ammaestramento quanto è quello che si ricava dalle poche pagine in cui
egli descrive la sua gita.

Nelle numerose e lunghe sue escursioni al Chilì il Darwin si occupò
pure delle miniere, anche dal punto di vista applicato. Egli parla così
di quei minatori:

«I minatori chiliani sono pei loro costumi una singolare razza di
uomini. Vivendo per alcune settimane nei luoghi più deserti, quando i
giorni di festa scendono nei villaggi, non v'ha eccesso o stravaganza
cui non si abbandonino. Talora guadagnano una grossa somma, ed allora,
come fanno i marinai del loro danaro, essi cercano il mezzo più spiccio
per poterla scialacquare. Bevono all'eccesso, comprano un numero
sterminato di vestiti, ed in pochi giorni tornano senza un soldo nei
loro miserabili tugurii, per lavorare peggio di animali da soma. Questa
spensieratezza, come quella dei marinai, è evidentemente l'effetto di
un consimile tenore di vita. Il loro cibo giornaliero è assicurato, e
non acquistano nessuna abitudine di risparmio; inoltre, la tentazione e
le occasioni per cedere sono nello stesso tempo in loro potere.»

Ciò disgraziatamente non segue solo al Chilì. Come non segue solo al
Chilì che una società di miniere che potrebbe fare buoni guadagni vada
in rovina per mala amministrazione.

Il Darwin parla di società inglesi di miniere al Chilì e dice che
malgrado i grandi vantaggi, come è ben noto, finiscono per perdere
somme immense di danaro. La prodigalità del maggior numero dei
commissarii e degli azionisti va fino alla pazzia, in certi casi si
sborsano venticinquemila franchi all'anno per pagare le autorità
chiliane; biblioteche di libri di geologia ben rilegati, minatori fatti
venire per metalli particolari, come lo stagno, che non si trova nel
Chilì, contratti per fornire di latte i minatori, in luoghi ove non
si trovano vacche; macchine ove non è possibile adoperarle, e cento
simili disposizioni che dimostrano grande assurdità e che fino ad oggi
sono argomento di risa agli indigeni. Tuttavia non v'ha dubbio, che
lo stesso capitale bene adoperato in quelle miniere avrebbe dato un
immenso profitto; un amministratore di fiducia, un minatore pratico ed
un saggiatore è tutto quello che ci sarebbe voluto.

Egli trovò là un minatore inglese del Cornovaglia, sopraintendente
di una miniera presso Quillota, il quale aveva sposato una spagnuola
e aveva rinunziato al pensiero di ritornare in patria, pur sempre
conservando una carissima rimembranza e una grande ammirazione per le
miniere della Inghilterra.

Quel soprintendente di miniere fece al Darwin la seguente domanda:

«Ora che è morto Giorgio Rex, quanti membri della famiglia Rex
rimangono ancora?»

Il Darwin dice che questo Rex per certo deve essere parente del grande
autore FINIS, che scrisse tanti libri.

Al Perù, che si direbbe un paese condannato all'anarchia permanente,
le cose non andavano meglio di oggi quando il _Beagle_ approdò ad
Iquique e quindi al Callao. Perciò, tranne una diligente visita alle
cave di nitrato di soda di Iquique, il Darwin non potè dar guari
opera a ricerche di storia naturale. Egli fa invece assennatissime
considerazioni intorno alle febbri di quel paese e alle cause in
generale delle malattie prodotte dalla malaria, e riferisce certe sue
importantissime osservazioni intorno alle tracce che si riscontrano là
delle dimore e della vita degli abitatori antichi e antichissimi di
quella contrada, chissà quanti secoli prima che l'uomo incivilito vi
ponesse il piede.



                                   V


Il conte Camillo di Cavour stette ascoltando con molta attenzione un
progetto che gli veniva esponendo un signore di piccola statura, di
giuste forme, del sembiante quanto mai simpatico e intelligente, pel
quale il grande ministro mostrava molto riguardo. Questo signore era il
conte Giuseppe Canevaro.

Le isole Galapagos costituiscono nell'Oceano Pacifico un arcipelago
sulla linea equatoriale, a cinquecento o seicento miglia di distanza
dalla spiaggia americana della repubblica dell'Equatore. Presentano un
singolarissimo aspetto anche all'occhio di chi non abbia l'abito di
osservare e discernere le varie foggie e la varia natura dei rilievi
della superficie terrestre; sono di origine vulcanica e si contano un
duemila crateri che in periodi remotissimi della vita del nostro globo
sono stati in eruzione. Strane piante vestono quelle isole che nelle
parti più elevate hanno una vegetazione abbastanza rigogliosa, e le
popolano i più strani animali. L'uomo non vi pose mai ferma dimora.
Vi approdarono di tratto in tratto filibustieri e balenieri, vi si
allogarono un due o trecento banditi della repubblica dell'Equatore.

Il conte Canevaro voleva fondare là una colonia italiana.
Centocinquanta famiglie genovesi ne avrebbero costituito il primo
nucleo. Egli aveva già divisato il modo della distribuzione di quelle
famiglie e i varii compiti da assegnarsi a caduno dei loro componenti.

Dai segni frequenti di viva approvazione che di tratto in tratto era
venuto dando il conte Cavour, che non ne aveva mai interrotto il
discorso, dal vivissimo sguardo con cui cercava di leggergli negli
occhi, dal frequente animarsi della sua fisonomia tanto intelligente
ed espressiva, il conte Canevaro si aspettava che il ministro avrebbe
accolto con passione il suo progetto. La sua meraviglia fu quindi
estrema quando, finito il suo parlare, si sentì rispondere:--Non ne
faremo nulla.

Il ministro ammirò il progetto del Canevaro e se ne commosse e non fu
avaro di parole ad esprimere la sua ammirazione; ma gli spiegò pure
che una colonia di quella fatta aveva bisogno di essere sostenuta e
all'uopo protetta con tutta l'efficacia da un governo abbastanza forte
per non indietreggiare in faccia a nissuna evenienza, e che egli non si
sentiva di impegnarsi in una tale impresa.

Oggi con Assab ci andiamo più alla svelta.

Dal Perù il _Beagle_ fece vela verso le isole dell'arcipelago
Galapagos, dove approdò il 15 settembre e rimase fino al 20 ottobre
dell'anno 1835, navigando poi per tremila e dugento miglia per arrivare
a Tahiti di cui fu in vista il giorno 15 di novembre.

Dice il Darwin di Tahiti che essa è un'isola che deve rimaner per
sempre classica pel viaggiatore del mare meridionale; ne descrive le
bellezze e le particolarità più notevoli e dice:

«Quello che mi piacque maggiormente furono gli abitanti. La dolcezza
dell'espressione delle loro fisonomie bandisce ad un tratto l'idea di
un selvaggio; e l'intelligenza che vi brilla mostra che progrediscono
in civiltà. I popolani quando lavorano tengono la parte superiore
del corpo al tutto nuda, ed è allora che i tahitiani fanno più
bella figura. Sono molto alti, colle spalle larghe, atletici, e
bene proporzionati. È stato osservato, che basta un po' d'abitudine
per rendere all'occhio di un europeo una pelle nera più piacevole e
più naturale che non il suo proprio colore. Un bianco che si bagna
accanto ad un tahitiano, somiglia ad una pianta imbiancata dall'arte
del giardiniere comparata con un bell'albero verde oscuro che cresce
vigoroso in mezzo ai campi. La maggior parte degli uomini sono ornati
di tatuaggi, e questi ornamenti seguono le curve del corpo tanto
graziosamente, che producono un effetto elegantissimo. Un disegno
comune, che varia solo nei particolari, è alcunchè simile al capitello
di una palma. Esce fuori dalla linea centrale del dorso, e gira con
grazia intorno ai lati. La similitudine può parere fantastica, ma io
pensai che il corpo di un uomo cosifattamente adorno fosse simile al
tronco di un albero maestoso, stretto da una delicatissima rampicante.

«Molte fra le persone attempate hanno i piedi coperti di figurine,
messe per modo da sembrare uno zoccolo. Tuttavia, questa moda è in
parte scomparsa ed altre le si sono sostituite. Qui, sebbene la moda
sia tutt'altro che immutevole, ognuno è tenuto a seguire quella che
prevaleva nella sua gioventù. In tal modo un vecchio ha la sua età
stampata sul corpo, e non può atteggiarsi a giovanotto. Anche le donne
hanno tatuaggi come gli uomini, e comunissimamente li hanno sulle dita.
Una moda è ora quasi universale che non istà guari bene, cioè quella
di radersi i capelli della parte superiore del capo, circolarmente,
tanto da lasciare solo un anello esterno. I missionarii hanno cercato
di persuadere la popolazione a mutare questo costume; ma è la moda, e
questa risposta vale tanto a Tahiti quanto a Parigi.

«L'aspetto delle donne produsse in me un vero disinganno; per ogni
rispetto sono molto inferiori agli uomini. L'uso di portare un fiore
bianco o scarlatto sul di dietro del capo, o attraverso ad un forellino
dell'orecchio, è molto grazioso. Portano pure una corona di foglie di
cocco intrecciate per fare ombra agli occhi. Le donne sembrano aver
maggior bisogno degli uomini di qualche moda che vada loro bene.

«Quasi tutti gli indigeni capiscono un po' l'inglese; cioè, sanno il
nome delle cose comuni, e con questo e con l'aiuto di qualche segno si
può fare con essi una scarsa conversazione. Tornati a sera alla barca,
ci fermammo per osservare una scena graziosissima. Un gran numero di
bambini si trastullavano sulla spiaggia, ed avevano acceso fuochi
che illuminavano il placido mare e gli alberi circostanti; altri in
cerchio cantavano versi tahitiani. Ci sedemmo anche noi sulla sabbia,
e ci unimmo alla brigatella. Le canzoni erano improvvisate, ed avevano
rapporto, credo, col nostro arrivo: una fanciullina cantava un verso,
che il resto ripeteva in parte, formando così un coro molto piacevole.
Tutta la scena ci dimostrava con evidenza che eravamo seduti sulla
spiaggia di una isola del rinomato mare del sud.»

Più sotto, dopo d'aver parlato dei pareri discordi di Ellis e di
Beechey e Kotzebue intorno allo stato di quelle genti e all'opera dei
missionari, il Darwin soggiunge:

«Nel complesso mi sembra che la moralità e la religione degli abitanti
siano molto rispettabili. Vi sono molti che censurano, anche più
acerbamente che non Kotzebue, tanto i missionari, quanto il loro
sistema e gli effetti da esso prodotti. Quei ragionatori non comparano
omai lo stato attuale dell'isola con quello di soli vent'anni fa; nè
anche con quello dell'Europa d'oggi, ma lo comparano con quello della
più alta perfezione evangelica. Vorrebbero che i missionari compiessero
ciò, in cui non riuscirono neppure gli Apostoli. In qualunque parte
dove la condizione delle genti si scosta da quell'alto punto di
perfezione, si getta il biasimo al missionario, invece di lodarlo per
quello che ha fatto. Essi dimenticano, o non ricordano, che i sacrifizi
umani e la potestà dei preti idolatri--un sistema di scelleraggine che
non aveva riscontro in nessuna altra parte del mondo--l'infanticidio,
conseguenza di quel sistema; le guerre sanguinose nelle quali i
vincitori non risparmiavano nè donne, nè bambini, sono stati aboliti;
e che la disonestà, l'intemperanza, e la svergognatezza sono molto
diminuite dopo l'introduzione del Cristianesimo. In un viaggiatore,
dimenticare queste cose è una bassa ingratitudine; perchè se egli per
disgrazia naufragasse sopra qualche ignota costa, alzerebbe al cielo
una ben divota preghiera, perchè le lezioni dei missionari si fossero
estese fino a quella regione.

«In quanto alla moralità è stato detto che la virtù delle donne sia
una vera eccezione. Ma prima di biasimarle troppo severamente, bisogna
tener ben presenti alla mente le scene descritte dal capitano Cook
e dal signor Banks, in cui le nonne e le madri della razza presente
avevano molta parte. Coloro i quali sono i più severi, debbono
considerare come la moralità delle donne in Europa sia dovuta alla
educazione data di buon'ora dalle madri alle loro figliuole, e in ogni
caso individuale ai precetti della religione. Ma è inutile discutere
intorno a cosiffatti ragionatori; credo che delusi per non aver trovato
un campo di licenziosità tanto vasto quanto era prima, essi non
prestano fede ad una moralità che non desiderano praticare, o ad una
religione che non apprezzano, se pur non disprezzano.»

Un effetto opposto a quello di Tahiti producono nel nostro viaggiatore
le isole e le genti della Nuova Zelanda per modo che, partendone addì
30 dicembre 1835, egli esclama:

«Credo che fummo tutti ben contenti di lasciare la Nuova Zelanda. Non
è un bel luogo. Fra gli indigeni non vi è quella graziosa semplicità
che si trova a Tahiti e la maggior parte degli inglesi sono il rifiuto
della società. Neppure il paesaggio ha molte attrattive.»

Due mesi dopo lasciando l'Australia così esclama:

«Addio, Australia. Sei una fanciulla che cresce, e senza dubbio un
giorno regnerai come regina del sud, ma sei troppo ambiziosa per
ispirare affetto.»

Il 1º aprile 1836 il _Beagle_ veleggiava nell'Oceano Indiano a un
seicento miglia di distanza dalla costa di Sumatra e aveva alla vista
le isole Keeling, che diedero campo a Carlo Darwin a studiare e
riconoscere il modo di originarsi delle formazioni coralligene, isole
madreporiche, atolli, banchi, scogliere.

Il _Beagle_ proseguendo la sua via toccò l'isola Maurizio, il Capo di
Buona Speranza, S. Elena e nuovamente il Brasile per compiere la misura
cronometrica del mondo. Il giorno 2 ottobre 1836 Darwin rivide la costa
dell'Inghilterra e lasciò a Falmouth il _Beagle_ su cui aveva navigato
quasi cinque anni.



                                  VI


Ripensando al suo viaggio e ai vantaggi e agli svantaggi, ai piaceri e
alle pene che può dare una circumnavigazione, Carlo Darwin parla nel
modo seguente:

«Se taluno mi chiedesse il mio parere, prima di imprendere un lungo
viaggio, la mia risposta dipenderebbe dal suo possedere un gusto deciso
per qualche ramo di sapere, che con questo mezzo potrebbe progredire.
Senza dubbio è una grande soddisfazione vedere vari paesi e le varie
razze umane, ma i piaceri che si hanno allora non bilanciano i mali.
Bisogna sperare dall'avvenire la messe per quanto lontana possa essere,
quando un po' di frutto abbia maturato, qualche bene si sia compiuto.

«Molte delle perdite che si debbono provare sono evidenti, come la
società di ogni vecchio amico, e la vista di quei luoghi ai quali si
rannodano le nostre più care rimembranze. Queste perdite, però, sono
in parte riparate dalla inesauribile delizia di anticipare il giorno
lungamente desiderato del ritorno. Se, come dicono i poeti, la vita
è un sogno, son certo che in un viaggio sono le visioni che servono
meglio a far passare la lunga notte. Altre privazioni, quantunque non
si sentano dapprima, pesano molto dopo un certo tempo; queste sono
la mancanza di spazio, di reclusione, di riposo; il senso divorante
di una continua fretta, la privazione d'ogni piccolo comodo, la
mancanza di società domestica, anche di musica e di altri piaceri
dell'immaginazione. Quando si è fatto menzione di queste inezie, è
evidente che i veri mali, tranne quelli cagionati da accidenti della
vita di mare, sono terminati. Il breve periodo di sessant'anni ha fatto
una meravigliosa differenza nell'agevolare una lunga navigazione. Anche
al tempo di Cook, un uomo che lasciava la sua casa per imprendere
cosiffatte spedizioni, andava incontro a privazioni talvolta durissime.
Oggi un YACHT, con ogni comodo della vita, può fare il giro del
mondo. Oltre i grandi miglioramenti nelle navi e nella natura, tutte
le spiaggie occidentali dell'America sono aperte, e l'Australia è
divenuta la capitale di un nascente continente. Quanto sono diverse le
circostanze di un uomo che naufraga oggi nel Pacifico da quello che
erano al tempo di Cook! Dal tempo del suo viaggio un emisfero è stato
aggiunto al mondo civile.

«Se una persona soffre molto del mal di mare, questo è un inconveniente
che deve essere molto considerato. Parlo per esperienza: non è un
male di poco rilievo da curarsi in una settimana. Se, d'altra parte,
egli trova piacere nella tattica navale, certamente allora otterrà
piena soddisfazione pel suo gusto. Ma bisogna tener bene a mente la
grande proporzione di tempo che, durante un lungo viaggio, si passa
sull'acqua, in paragone dei giorni che si passano in porto. E che cosa
sono le vantate meraviglie di uno sterminato oceano? Una monotona
distesa, un deserto d'acqua, come lo chiamano gli Arabi. Senza dubbio
vi sono spettacoli deliziosi. Una notte di luna, col cielo sereno ed
il mare scintillante; e le bianche vele gonfie dalla dolce brezza di
un vento regolare; una calma perfetta, colla gonfia superficie, liscia
come uno specchio, e tutto silenzioso tranne talora lo sbattere delle
vele contro gli alberi. Per una volta è bello vedere una burrasca
mentre irrompe colla sua furia sempre crescente, o un forte vento
che fa alzare come monti le onde. Confesso, tuttavia, che la mia
immaginazione si era figurato qualche cosa di più maestoso, di più
terribile in una grande burrasca. È uno spettacolo infinitamente più
bello quando è veduto sulla terra, ove l'ondeggiare degli alberi,
il volo spaventato degli uccelli, le cupe ombre, i lampi repentini,
l'irrompere dei torrenti, tutto narra la lotta degli elementi
scatenati. In mare l'albatrosso e la piccola procellaria volano come
se la tempesta fosse il loro proprio elemento, l'acqua si solleva e si
abbassa come se compisse il suo consueto compito, solo la nave e i
suoi abitanti sembrano lo scopo di tutta quella furia. Sopra una costa
battuta dal tempo e desolata, lo spettacolo è invero differente, ma i
sentimenti che si provano partecipano piuttosto dell'orrore che non di
un selvaggio piacere.

«Vediamo ora la parte bella del tempo trascorso. Il piacere derivato
dal vedere il paesaggio e l'aspetto generale dei varii paesi da
noi visitati è stato invero la sorgente più grande e costante di
sodisfazione. È probabile che la bellezza pittoresca di molte parti
d'Europa superi ogni cosa da noi veduta. Ma vi è sempre un piacere
maggiore nel comparare il carattere del paesaggio delle varie regioni,
piacere che, fino ad un certo punto, è distinto da quello di ammirarne
solo la bellezza. Dipende principalmente dal conoscere le singole
parti di un dato panorama; sono fortemente indotto a credere che, come
nella musica, la persona la quale comprenderà ogni nota se è dotata di
un certo gusto, sentirà maggior piacere nel complesso, così colui il
quale esamina ogni parte di un bel panorama, può parimente comprenderne
l'effetto pieno e complesso. Quindi, un viaggiatore dovrebbe essere
botanico, perchè in tutti i paesaggi le piante formano l'abbellimento
principale. I massi ammucchiati di roccie nude anche se sono nelle
forme più selvaggie, possono per un certo tempo porgere uno spettacolo
sublime, ma in breve diverrà monotono; dipingetele di colori svariati
e brillanti, come nel Chilì settentrionale, diverranno fantastiche;
rivestitele di vegetazione, formeranno un quadro passabile se non
bello.

«Quando ho detto che il paesaggio di certe parti d'Europa è forse
superiore a qualunque cosa che abbiamo veduto, faccio una eccezione,
come di una classe a parte, di quello delle zone intertropicali. Le
due classi non possono essere paragonate assieme; ma mi sono di già
spesso dilungato intorno alla grandiosità di quelle regioni. Siccome
la forza delle impressioni dipende generalmente da idee preconcette,
posso aggiungere che le mie erano prese dalle brillanti descrizioni di
Humboldt nella _Personal Narrative_, che supera qualunque altra cosa
che io abbia letto. Tuttavia, con queste altissime idee, il sentimento
da me provato non ebbe neppure una tinta di disinganno quando sbarcai
per la prima e per l'ultima volta al Brasile.

«Fra le scene che si sono più fortemente impresse nella mia mente,
nessuna supera in grandezza le foreste primitive, non ancora tocche
dalla mano dell'uomo; tanto quelle del Brasile, ove predominano le
forze vitali, come quella della Terra del Fuoco, ove prevalgono la
morte e la distruzione.

«Entrambe sono templi pieni degli svariati prodotti del Dio della
natura; nessuno può trovarsi senza emozione in quelle solitudini, e
non sentire che nell'uomo vi è qualche cosa di più che non il solo
soffio del suo corpo. Richiamando alla mente le immagini del passato,
trovo che le pianure della Patagonia spesso mi ripassano sotto gli
occhi, eppure quelle pianure son dette da tutti desolate ed inutili.
Non si possono descrivere che con caratteri negativi, senza abitazioni,
senza acqua, senz'alberi, senza monti, allevano solo alcune piante
nane. Perchè, dunque, e questo fatto non è speciale a me solo, quelle
aride pianure si sono impresse con tanta forza nella mia mente?
Perchè i verdi, fertili, e ancor più piani Pampas, utili all'uomo,
non hanno prodotto una simile impressione? Non posso guari analizzare
questi sentimenti; ma debbono derivare in parte dal libero volo
dall'immaginazione. Le pianure della Patagonia sono sterminate, perchè
non sono guari valicabili, e quindi sono ignote; portano l'impronta
d'avere durato, nel loro stato attuale, per lunghi secoli, e non sembra
esservi alcun limite nel durare pel futuro. Se, come supponevano gli
antichi, la terra piana fosse circondata da un'invalicabile distesa
d'acqua, o da deserti scaldati all'eccesso, chi non guarderebbe quegli
ultimi limiti dalle cognizioni umane con sensi profondi e mal definiti?

«Infine, fra i paesaggi naturali, quelli veduti dalle alte montagne,
sebbene certamente non belli in un senso, sono molto memorabili. Quando
guardavamo giù dall'altissima cresta delle Cordigliere, la mente,
non disturbata da minuti particolari, era compresa dalle stupende
dimensioni dei massi circostanti.

«Fra gli oggetti individuali, nulla forse sveglia più certamente la
meraviglia del primo vedere un barbaro nel suo tugurio nativo, l'uomo
nel suo stato più abbietto e più selvaggio. La mente ritorna indietro
allora ai secoli passati, e si domanda se i nostri progenitori fossero
uomini come quelli; uomini, di cui i moti e l'espressione sono per noi
meno intelligibili di quelli degli animali domestici; uomini che non
hanno gli istinti di quegli animali, e non sembrano vantare la ragione
dell'uomo, o almeno le arti che derivano da questa ragione. Non credo
che sia possibile descrivere o dipingere la differenza che passa fra un
uomo selvaggio ed un uomo incivilito. È la differenza che esiste fra
un animale domestico ed uno selvaggio; e una parte dell'interesse che
si prova guardando un selvaggio è lo stesso che spingerebbe taluno a
desiderare di vedere il leone nel suo deserto, la tigre mentre dilania
la preda nella giungla, o il rinoceronte mentre si aggira pei piani
selvaggi dell'Africa.

«Fra gli altri più notevoli spettacoli che abbiamo veduto, si può
citare la Croce del Sud, la nube di Magellano, ed altre costellazioni
dell'emisfero meridionale; le trombe marine; il ghiacciaio che porta
la sua corrente azzurra di ghiaccio fino al mare cui sovrasta come uno
scosceso precipizio; un'isola dalla laguna che sorge per opera degli
animali del corallo; un vulcano attivo, e gli effetti disastrosi di
un terribile terremoto. Quest'ultimo fenomeno, forse, aveva per me
un interesse speciale per la sua intima connessione colla struttura
geologica del mondo. Tuttavia il terremoto deve essere per ognuno
un avvertimento che fa impressione; la terra, che fino dalla nostra
infanzia abbiamo considerata come tipo di solidità, ha oscillato come
una crosta sottile sotto i nostri piedi; e vedendo le opere fatte
dall'uomo rovesciate in un istante, abbiamo sentito la piccolezza della
sua tanto vantata potenza.

«È stato detto che l'amore della caccia è una gioia inerente all'uomo,
un avanzo di una passione istintiva. Se ciò è vero, son certo che il
piacere di vivere all'aria aperta, col cielo per tetto e il terreno per
mensa, è parte dello stesso sentimento, è il selvaggio che ritorna ai
suoi usi nativi e barbari. Io torno sempre con somma gioia colla mente
alle nostre escursioni in barca, ed ai miei viaggi per terra in regioni
non frequentate, che nessun paesaggio in paese civile avrebbe potuto
destare. Non dubito che ogni viaggiatore debba ricordarsi il senso di
piena felicità da esso provato, quando per la prima volta si è trovato
in un paese forestiero, ove l'uomo incivilito ha di rado o non mai
posato il piede.

«Vi sono parecchie altre sorgenti di piacere in un lungo viaggio che
sono di una natura più ragionevole. La carta del mondo cessa di essere
ignota; diviene un quadro pieno di figure svariatissime ed animate.
Ogni parte assume proprie dimensioni, i continenti non si considerano
collo stesso occhio come le isole, o le isole non si guardano come
macchiette, mentre in verità sono più grandi di molti regni d'Europa.
L'Africa e l'America del nord e del sud sono nomi ben sonanti, e
facilmente pronunziati, ma, solo quando si viaggiò lungo piccole
porzioni delle loro spiaggie, si è interamente convinti del grande
spazio che occupano questi nomi nel nostro immenso mondo.

«Considerando lo stato attuale è impossibile non prevedere con grandi
aspettazioni il futuro progresso di quasi tutto l'emisfero. La via del
miglioramento, in conseguenza dell'introduzione del Cristianesimo in
tutto il mare del sud, starà da sola nelle memorie della storia. È cosa
ancor più notevole pensare che solo sessant'anni fa, Cook, cui nessuno
negherà il retto giudizio delle cose, non poteva prevedere nessuna
speranza di mutamento. Tuttavia questi mutamenti sono stati compiti
dallo spirito di filantropia della nazione inglese.

«Nella stessa parte del globo l'Australia sorge, o meglio si può dire è
sorta, in un grande centro d'incivilimento, che, in qualche remotissimo
periodo, dominerà come regina l'emisfero meridionale. È impossibile ad
un inglese di vedere quelle lontane colonie senza provare un senso di
sommo orgoglio e di grande sodisfazione. La bandiera inglese sembra
portar seco, come certa conseguenza, la ricchezza, la prosperità e
l'incivilimento.

«In conclusione mi sembra che nulla può essere più utile ad un giovine
naturalista di un viaggio in paesi lontani. Esso rende più acuto e
mitiga in parte quel bisogno e quel desiderio, che, come osserva sir
J. Herschel, sente un uomo, quantunque ogni bisogno del suo corpo sia
pienamente sodisfatto. L'eccitamento per la novità degli oggetti e la
probabilità di riuscita, lo stimolarono ad una crescente attività.
Inoltre, siccome un numero di fatti isolati perde in breve il suo
interesse, l'abito di far comparazioni conduce a generalizzare. D'altra
parte, siccome il viaggiatore rimane solo un breve tempo in ogni luogo,
le sue descrizioni debbono essere in generale semplici abbozzi, invece
di essere osservazioni particolareggiate. Quindi ne viene, come ho
provato a mie spese, una costante tendenza a riempire i larghi vani del
sapere, con ipotesi trascurate e superficiali.

«Ma io ho provato un piacere troppo profondo in questo viaggio, per
raccomandare a qualunque naturalista, sebbene non debba aspettarsi di
essere tanto fortunato nei suoi compagni come lo sono stato io, di
approfittare di ogni occasione ed imprendere viaggi se è possibile per
terra, se non con una lunga navigazione. Può esser certo che incontrerà
difficoltà o pericoli, tranne qualche caso raro, non tanto cattivi
quanto se lo era immaginato. Da un punto di vista morale l'effetto sarà
quello di insegnargli una gioconda pazienza, lo libererà dall'egoismo,
gli darà l'abito di operare de sè, e fare il meglio possibile in ogni
circostanza. In breve, deve partecipare delle qualità caratteristiche
della maggior parte dei naviganti. Il viaggiare gli insegnerà la
diffidenza, ma nello stesso tempo gli dimostrerà, quante persone
veramente di cuore vi sono, colle quali egli non ebbe mai, o non avrà
mai più comunicazione, le quali tuttavia sono pronte a prestargli il
più disinteressato aiuto.»



                                  VII


I primi navigatori che percorsero le sterminate distese dell'oceano
Pacifico e anche dell'oceano Indiano lungo la zona equatoriale
provarono un'immensa meraviglia nel vedere certe isole di una foggia
al tutto inaspettata e singolarissima. L'isola è come un grande anello
rotto in una qualche parte in modo che rimane una comunicazione fra
l'interno e il difuori. Sul cercine è una vegetazione in cui campeggia
l'albero del cocco; l'interno della laguna è di un'acqua tranquilla
e limpidissima, mentre urtano fuori i cavalloni furiosi contro la
spiaggia e splende su tutto la volta azzurra del cielo. Gli uccelli
volanti e le correnti marine portano a quelle spiaggie varie sorta
di semi, talora un tronco d'albero o un viluppo di tronchi natanti
sulla corrente vi approdano portando vivi animaletti terragnoli che
vi si propagano, e anche una qualche grossa pietra silicea, prezioso
materiale all'uomo che vive su quella sorta d'isole singolari e non ha
che una materia minerale friabile e poco resistente nel materiale che
la costituisce.

Fin dal 1605 Francesco Pyrard, di Laval, in faccia a quelle singolari
isole cui venne dato il nome di atolli, esclamava:

«C'est une merveille de voir chacun de ces atolles, environnés d'un
grand banc de pierre tout autour, n'y ayant point d'artifice humain.»

Talvolta si ha, invece dell'atollo, una scogliera, cioè una grande
striscia del materiale medesimo che costituisce l'atollo, la quale
sta al davanti di una spiaggia, sovente per un lunghissimo tratto,
limitando fra la spiaggia e il mare aperto una laguna coll'acqua
limpida e tranquilla al riparo delle onde dell'aperto mare.

Sono altre volte banchi a fior d'acqua, o poco sotto il livello della
superficie, pericolosissimi ai naviganti, della stessa natura degli
atolli e delle scogliere, vale a dire fatti da animaletti della
famiglia di quelli che producono il corallo, onde il nome di polipi
coralligeni che venne loro dato. Furono poi chiamati in particolare
madrepore certi polipi che costituiscono la maggior parte di quelle
formazioni, che perciò furono chiamate formazioni madreporiche in
generale, isole e scogliere madreporiche e banchi madreporici.

Fin dal 1702 un viaggiatore inglese, del resto poco conosciuto, il
signor Strachan, aveva osservato come i coralli riescano a formare
grandi masse di rocce. Giovanni Rinaldo Forster, l'ingegnoso compagno
di Cook, nel 1780 dimostrò positivamente che un grande numero di isole
del mare del sud devono la loro esistenza a grandi agglomeramenti di
coralli. Poco dopo questa dimostrazione fu confermata e sviluppata da
Flinders e da Peron.

Due errori si produssero contemporaneamente a quella dimostrazione di
un fatto vero.

Quei primi osservatori credettero e fecero credere che le formazioni
madreporiche si incominciassero a produrre a grandi profondità
sottomarine salendo poi a mano a mano fino alla superficie e abbastanza
rapidamente. Questa credenza diede luogo a strani timori. Si calcolò
che in un dato tempo una grande parte dello spazio occupato dalle
acque marine avrebbe finito per essere riempita dalle formazioni
madreporiche, e che le acque avrebbero quindi dovuto riversarsi e
sommergere isole e continenti producendo modificazioni profonde sulla
superficie della terra e nella vita delle piante, degli animali e
dell'uomo. Ciò ora è dimostrato falso. Gli scandagli praticati dagli
ufficiali del _Beagle_ e riferiti dal Darwin, che ne fu testimone
oculare, dimostrano che la profondità consueta al disotto della
superficie dove i polipi coralligeni cominciano le loro costruzioni è a
diciotto metri. A trentasei metri se ne trova appena traccia, non se ne
trova più traccia al disotto di cinquantaquattro metri.

L'altro errore fu la credenza che i polipi facciano le loro costruzioni
per mettersi al riparo dei marosi e campar quetamente dalla parte di
dentro dell'atollo, mentre appunto è vero l'opposto.

Per spiegare il modo della formazione degli atolli si suppose che essi
fossero venuti su sopra i crateri di monti vulcanici sottomarini.
La forma cerciniforme dei crateri, costituiti appunto da un anello
incompiuto, o, come si disse, in foggia di ferro di cavallo, e la forma
somigliante degli atolli, spiegano come siasi potuto fare una tale
supposizione, che si trova anche nelle prime edizioni dei principii di
geologia di Carlo Lyell.

Questa supposizione, siccome ha dimostrato il Darwin, non regge quando
si consideri la forma e la mole di alcuni atolli, il numero, la
vicinanza, la posizione relativa di altri; così:

«L'atollo Svadiva ha il diametro di 44 miglia geografiche in una linea
e 34 in un'altra; Rimacko è lungo 54 miglia con 20 di larghezza, e ha
un margine stranamente foggiato; l'atollo Bon è lungo trenta miglia e
in media è largo solo sei miglia, l'atollo Munchiroff è fatto di tre
atolli uniti o attaccati insieme. Questa teoria, inoltre, è al tutto
inapplicabile agli atolli settentrionali Maldiva nell'oceano indiano
(uno dei quali ha 88 miglia di lunghezza e 10 a 20 di larghezza),
perchè non sono circondati come gli atolli soliti da strette scogliere,
ma da moltissimi e piccoli atolli separati fra loro; altri piccoli
atolli sporgono dalle grandi lagune centrali.»

Nessuno aveva cercato poi, mentre tutti si occupavano degli atolli, di
spiegare la formazione delle scogliere madreporiche e dei banchi.

Il Darwin studiò diligentissimamente le formazioni madreporiche così
numerosamente sparse lungo la via tenuta dal _Beagle_, e cercò dopo
il suo ritorno tutti i possibili documenti intorno a quelle che egli
non aveva vedute, ma che altri aveva visitato e descritto; dall'esame
diligente e profondo fatto, venne nella conclusione che sostanzialmente
la causa principale di tutte le formazioni madreporiche, atolli,
scogliere, banchi, fosse un lento abbassamento del suolo per modo che,
mentre il suolo andava scendendo, i coralli si andassero elevando.
Questa sua teoria egli corredò di tante dimostrazioni e di tante prove
che quando nel 1842 pubblicò in proposito il suo volume intitolato
_Coral reefs_, avvenne un fatto veramente raro, questo cioè, che subito
i geologi accettarono la sua spiegazione la quale, salvo piccole e non
sostanziali modificazioni, corre anche oggi.

Questa, certo, è la cognizione nuova geologica, derivata dal viaggio
di Carlo Darwin, la più importante e capitale. Ma è tutt'altro che la
sola. Al Brasile, nei Pampas, sulle Cordigliere, dappertutto, il Darwin
fece osservazioni geologiche importanti e nuove, dappertutto lasciò una
traccia della sua grande abilità nello spiegare le cose osservate in
questo come in tutti gli altri rami delle scienze naturali.

Bisognerebbe riportare tutto quanto il volume del Darwin per fare un
po' di rassegna delle sue osservazioni in botanica e in zoologia.
Dalle conferve microscopiche dell'oceano Indiano ai giganti vegetali
delle foreste vergini del Brasile, dagli infusorii alle balene,
lungo la sua via egli osserva tutto, e da tutto trae argomento ad
osservazioni nuove, singolari, curiose, importanti e profonde.

Ma invero, ripeto, qui non è possibile una scelta; bisognerebbe
riportar tutto e io non so far altro che raccomandare ancora al lettore
la lettura di questo bellissimo libro.



                                 VIII


La vita di Darwin, dopo che egli ebbe compiuto il suo viaggio, fu
tutta quanta consacrata allo studio della variabilità della specie.
Giova quindi cercare, nella relazione del suo viaggio, quei cenni che
egli dà intorno alle cose vedute e alle idee venutegli in mente per la
osservazione dei fatti che si riferiscono a questo argomento.

Presso Rio Janeiro egli trova in alcuni laghi conchiglie d'acqua dolce
e in altri conchiglie d'acqua salsa, e pensa all'adattamento di certe
specie all'ambiente. Ecco le sue parole:

«Lasciata Mandetiba, continuammo ad attraversare un'intricata
solitudine di laghi; in alcuni di questi vi erano conchiglie d'acqua
dolce, in altri d'acqua salsa. Del primo genere trovai una Limnea
molto numerosa in un lago, nel quale, secondo quello che mi dissero
gli abitanti, il mare entra una volta all'anno, o talora anche più
sovente, e rende l'acqua al tutto salata. Son certo che si potrebbero
osservare fatti molto interessanti, intorno ad animali marini e
di acqua dolce, in questa serie di lagune che limita la costa del
Brasile. Il signor Gay ha asserito che egli trovò, in vicinanza di Rio,
conchiglie dei generi marini _Solen_ e _Mytilus_, e ampullarie d'acqua
dolce, che vivono assieme nell'acqua salmastra. Io ho pure osservato
frequentemente nella laguna, presso il giardino botanico, ove l'acqua è
solo un tantino meno salsa di quella del mare, una specie d'idrofilo,
somigliantissimo ad un coleottero acquatico comune negli stagni
d'Inghilterra; nello stesso lago l'unica conchiglia apparteneva ad un
genere che si trova generalmente negli estuari.»

Questo adattarsi degli animali alle condizioni in cui si trovano, gli
ritorna alla mente visitando un grande lago salato nella valle del Rio
Negro, presso la città di Cannea o Patagones:

«Alcune parti del lago vedute non molto da lontano apparivano avere un
colore rossiccio, e ciò forse deriva da animalucci infusorii. In molti
punti il fango era spinto in su da un gran numero di animali vermiformi
od anellidi. Quanta sorpresa desta il fatto di animali che possono
vivere in mezzo a cristalli di solfato di soda e di calce! E che cosa
segue di quei vermi allorchè, durante la lunga estate, la superficie
si muta in un compatto strato di sale? Numerosissimi fenicotteri
dimorano e vivono in quel luogo; io incontrai in tutta la Patagonia,
nel Chilì settentrionale e nelle isole Galapagos, questi animali ogni
qualvolta v'erano laghi salati; li vidi qui che sguazzavano intorno
in cerca di cibo, probabilmente i vermi che si nascondono nel fango;
questi forse si nutrono di infusori o di conferve. In tal modo abbiamo
un piccolo mondo vivente in sè stesso, acconcio a questi laghi salati
interni. Si dice che un piccolo crostaceo (Cancer salinus) viva in
numero sterminato nelle pozzanghere salse a Lymington; ma solo in
quelle ove il liquido ha acquistato, per lo svaporamento, una notevole
saturazione, vale a dire, circa 93 grammi di sale in 56 centilitri
d'acqua. Possiamo ben dire che ogni parte del mondo è abitabile! Tanto
i laghi di sale, o quelli sotterranei nascosti sotto monti vulcanici,
le sorgenti minerali calde, la sterminata distesa e il profondo degli
oceani, le parti più alte dell'atmosfera, e perfino la superficie delle
nevi eterne, dovunque albergano esseri organici.»

A queste parole egli aggiunge la nota seguente:

«È un fatto singolare come tutte le circostanze che hanno rapporto
coi laghi salati della Siberia e della Patagonia siano somiglianti.
La Siberia, come la Patagonia, sembrano esser sorte recentemente sul
livello del mare. Nei due paesi i laghi salati occupano profonde
depressioni nelle pianure; in entrambi il fango del margine è nero e
puzzolente; sotto la crosta del sale comune si presenta il solfato di
soda o di magnesia, cristallizzato imperfettamente; ed in entrambi la
sabbia fangosa è mescolata a globuli lentiformi di gesso. I laghi
salati della Siberia sono abitati da piccoli crostacei ed i fenicotteri
(_Edin. New Philos. Jour._ Gen. 1830) li frequentano parimente. Siccome
queste circostanze, in apparenza tanto insignificanti, si osservano
in due distanti continenti, possiamo esser certi che sono gli effetti
necessari di cause comuni.--Vedi _Viaggi di Pallas_, 1793-1794, p. 129.»

Tre specie di uno stesso genere di funghi parassiti si trovano sopra i
faggi, una specie nella Terra del Fuoco, la seconda al Chilì, la terza
nella terra di Diemen, ed egli esclama:

«Quanto è singolare questa parentela fra i funghi parassiti e gli
alberi sui quali crescono, in parti del mondo tanto lontane!»

Nel tragitto da Bahia Blanca a Buenos Ayres, oltrepassata la piccola
città di Guardia del Monte, egli trova che nello stesso terreno a poca
distanza muta l'aspetto della vegetazione, come segue pure in alcune
località dell'America del nord, dove l'erba grossolana alta da uno a
due metri si muta in un terreno pastorizio comune quando è pascolata
dal bestiame, e soggiunge:

«Io non sono sufficientemente botanico per dire se il mutamento qui sia
dovuto all'introduzione di nuove specie, all'alterazione avvenuta nel
crescere di alcune, o alla differenza del loro numero proporzionale.»

La vita animale e vegetale alla Nuova Zelanda fa esclamare al Darwin:

«Rispetto agli animali, è un fatto notevolissimo, che un'isola tanto
grande, che si estende sopra una latitudine di oltre 700 miglia, con
varie stazioni, un bel clima e altitudini differenti, da 4200 metri
in giù, non possegga nessun animale indigeno, tranne un piccolo topo.
Le varie specie gigantesche di quel genere di uccelli, il Dinornis,
sembrano aver qui sostituito i quadrupedi mammiferi, nello stesso modo
dei rettili nell'arcipelago Galapagos. Si dice che il topo comune della
Norvegia, nel breve spazio di due anni, abbia distrutto in questa parte
settentrionale dell'isola le specie della Nuova Zelanda. In molti
luoghi notai parecchie sorta di piante, le quali, come i topi, fui
obbligato di riconoscere per compatriote. Una specie di porro aveva
invaso interi distretti, e si mostrava molto incomodo, ma era stato
importato come un regalo da una nave francese.

«L'acetosa comune è pure molto sparsa, e resterà, temo, prova
sempiterna della scelleratezza di un inglese, che vendè i semi di
quella pianta per semi di tabacco.»

I costumi degli animali, che porgono dappertutto al Darwin un campo
immenso a osservazioni tanto varie quanto importanti, gli fanno
scorgere come sovente certi animali modifichino il loro fare a seconda
dei casi.

«Ove la viscaccia vive e scava buche, l'aguti se ne serve; ma dove,
come a Bahia Blanca, la viscaccia non si trova, l'aguti si scava le
tane da sè stesso. Lo stesso segue colla piccola civetta dei Pampas
(Athene cunicularia), che è stata sovente descritta come sentinella di
guardia all'imboccatura delle tane; perchè nella Banda Oriental, in
mancanza della viscaccia, è obbligata a scavarsi la sua tana.»

Lo stesso organo viene talora adoperato da animali della stessa classe
in modo assai diverso.

«Così nell'America del sud troviamo tre uccelli che adoperano le ali
per altro scopo oltre il volo, il pinguino come pinne, il piroscafo
come remi, e lo struzzo come vele; e l'Apterice della Nuova Zelanda,
come pure il suo estinto gigantesco prototipo, il Dinornis, posseggono
soltanto rudimenti di ali.»

Un serpente velenoso di Bahia Blanca, una specie di trigonocefalo,
porge modo al Darwin di accennare al variar dei caratteri nella specie.
Egli dice:

«Cuvier, contro il parere di alcuni altri naturalisti, fece di questo
un sottogenere del serpente a sonagli, ed un intermedio fra esso e la
vipera. In appoggio a questa opinione osservai un fatto, che mi sembra
curiosissimo ed istruttivo, perchè dimostra come ogni carattere, anche
in qualche grado indipendente della struttura, abbia una tendenza a
variare lentamente. L'estremità della coda di questo serpente termina
in una punta che si allarga lievissimamente, e mentre l'animale
striscia, ne fa vibrare costantemente l'ultimo pezzo; e questa parte
urtando l'erba ed i ramoscelli secchi produce un rumore gorgogliante,
che si può distintamente udire alla distanza di circa due metri. Appena
l'animale veniva irritato o sorpreso, scuoteva la coda, e le sue
vibrazioni erano rapidissime. Anzi, finchè il corpo conservava la sua
irritabilità, era evidente una tendenza a questo movimento consueto
della coda.

«Perciò questo trigonocefalo ha, per alcuni riguardi, la struttura
della vipera, ed ha i costumi del serpente a sonagli; tuttavia il
rumore è prodotto da un congegno semplice.»

Nell'isola di Sant'Elena il Darwin trovò numerosissimi i topi.

«Se il topo sia realmente indigeno, è cosa molto dubbia; ve ne sono
due varietà descritte dal signor Waterhouse; una è di color nero,
con una bella pelliccia lucente, e vive sulla cima erbosa; l'altra
di color bruno e meno brillante, con peli più lunghi, vive presso lo
stabilimento della costa. Queste due varietà sono un terzo più piccole
del topo nero comune (M. rattus) e differiscono da esso tanto nel
colore quanto nel carattere della loro pelliccia, ma non in nessun
altro punto essenziale. Io posso appena mettere in dubbio che questi
topi (come il topo comune, che si è rinselvatichito), non siano stati
importati, e come alle Galapagos, abbiano variato per effetto delle
nuove condizioni a cui sono stati esposti; così la varietà della cima
dell'isola differisce da quella della costa.»

Nelle isole Falkland:

«Il coniglio è un altro animale che è stato introdotto, ed è riuscito
benissimo, cosicchè è molto abbondante in varie parti dell'isola.
Tuttavia, come i cavalli, i conigli stanno entro certi limiti; perchè
non hanno varcato la catena centrale di colline, e neppure si sarebbero
estesi alla base di queste se, come mi hanno detto i gauchos, non
ne fossero state colà portate alcune piccole colonie. Non avrei mai
supposto che questi animali, originari dell'Africa settentrionale,
avrebbero potuto vivere in un clima tanto umido come questo, e che gode
di così poco sole che anche il frumento matura solo qualche volta. Si
asserisce che in Svezia, dove ognuno crederebbe essere un clima più
favorevole, il coniglio non può vivere all'aria aperta. Inoltre, le
prime poche paia hanno dovuto contendere contro i nemici indigeni,
cioè la volpe ed alcuni grossi avoltoi. I naturalisti francesi hanno
considerato la varietà nera come una specie distinta, e l'hanno
chiamata Lepus magellanicus. Essi credono che Magellano, quando
parlava di un animale chiamato Conegos, nello stretto di Magellano,
si riferisse a questa specie; ma egli alludeva ad una piccola cavia,
che anche oggi vien così chiamata dagli spagnuoli. I gauchos ridevano
all'idea che la specie nera fosse differente dalla grigia, e dicevano
che in ogni caso non aveva estesa la sua cerchia più in là di quello
che avesse fatto la specie grigia, che le due non erano mai state
trovate separate, e che si riproducono insieme facendo prole pezzata.
Di quest'ultima posseggo ora un esemplare, ed è macchiato verso il
capo differentemente dalla descrizione specifica francese. Questa
circostanza dimostra quanto cauti debbono essere i naturalisti nel fare
nuove specie, perchè anche Cuvier, guardando il cranio di uno di questi
conigli, credette che fosse probabilmente distinto.»

Nella stessa località, parlando delle bovine, avverte come esse
differiscano molto nei colori e come nelle varie parti della piccola
isola predomini questo o quel colore.

«Intorno al monte Usborne, all'altezza di 300 a 450 metri sopra
il livello del mare, la metà circa delle mandre è di color topo o
piombino, tinta poco comune nelle altre parti dell'isola. Presso
Porto Pleasant predomina il bruno scuro, mentre al sud dello stretto
di Choiseul (che divide quasi l'isola in due parti) sono comunissimi
gli animali bianchi, colla testa e i piedi neri; in tutte le parti
s'incontrano animali neri e macchiettati. Il capitano Sulivan osserva
che la differenza nei colori dominanti era tanto evidente, che
guardando le mandre presso Porto Pleasant, sembravano da lontano
macchie nere, mentre al sud dello stretto Choiseul apparivano come
macchie bianche sui fianchi della collina. Il capitano Sulivan crede
che le mandre non si mescolino; ed è un fatto singolare che il bestiame
color topo, sebbene viva sui terreni montuosi, partorisce quasi un
mese prima che non le altre bovine colorite della pianura. È così
interessante vedere come il bestiame un tempo domestico si sia diviso
in tre colori, di cui uno probabilissimamente finirà per prevalere
sugli altri, qualora le mandre siano lasciate tranquille per parecchi
altri secoli.»

Nella Banda Oriental il Darwin trova una razza di bovine veramente
molto singolare, di cui parla nei termini seguenti:

«Incontrai due volte in questa provincia alcuni buoi di una
curiosissima razza detta Náta o Niata. Sembrano esternamente avere
quasi la stessa affinità coll'altro bestiame, come ha il cane mastino
cogli altri cani. La loro fronte è brevissima e larga, colla punta
nasale rivolta in su ed il labbro superiore molto all'indietro;
la mascella inferiore sporge oltre la superiore, ed ha una curva
corrispondente all'insù; quindi i loro denti sono sempre scoperti.
Le narici sono collocate in alto e molto aperte; gli occhi sporgono
all'infuori. Quando camminano portano il capo basso sopra un corto
collo, e le loro zampe posteriori sono alquanto più lunghe delle
anteriori che non sogliano essere. I loro denti scoperti, il capo
corto, le narici rivolte in su, danno loro un aspetto semifiducioso,
semi-provocante, quanto si può immaginare ridicolo.

«Dopo il mio ritorno, ho ottenuto il cranio di uno di questi animali,
per la gentilezza d'un mio amico, il capitano Sulivan R. N.; questo
cranio ora si trova nelle collezioni del Collegio dei Chirurghi. Don F.
Muniz di Luxan ha raccolto cortesemente per me tutte le informazioni
che ha potuto avere intorno a questa razza. Dalla sua relazione appare
che circa ottanta o novant'anni fa questi animali fossero rari e
tenuti come curiosità a Buenos Ayres. Si crede generalmente che questa
razza abbia avuto origine fra gli Indiani al sud del Plata, e che
presso di essi fosse comunissima. Anche oggi, quelli allevati nelle
provincie presso il Plata svelano la loro origine meno incivilita,
essendo più fieri del bestiame comune, ed abbandonando la femmina il
suo primo piccolo, quando è visitata o disturbata troppo sovente. È
un fatto singolare che una struttura quasi simile alla anormale come
quella della razza niata, caratterizza, secondo quello che mi ha
riferito il dottor Falconer, quel grosso ruminante estinto dell'India
che si chiama il Sivatherium. La razza è purissima, ed un toro ed una
vacca niata producono invariabilmente vitelli niata. Un toro niata con
una vacca comune, o l'incrociamento opposto, producono prole munita
di caratteri intermedii, ma quelli della razza niata sono spiccati:
secondo il signor Muniz, vi sono prove evidenti, contrarie alla
credenza comune degli agricoltori in casi analoghi, che la vacca niata,
quando è incrociata con un toro comune, trasmette le sue particolarità
più fortemente che non il toro niata quando viene incrociato con una
vacca comune. Quando l'erba è abbastanza alta, il bestiame niata
mangia colla lingua e col palato come le bovine comuni; ma durante le
grandi siccità, quando muoiono tanti animali, quelli della razza niata
soffrono maggiormente, e sarebbero distrutti se non fossero accuditi;
perchè il bestiame comune, come i cavalli, può mantenersi in vita,
brucano colle labbra sui rami degli alberi e nei canneti; i niata non
possono far questo tanto bene perchè le loro labbra non si congiungono,
e quindi si è osservato che muoiono prima del bestiame comune. Questo
fatto mi ha colpito come una buona prova della difficoltà che abbiamo
a giudicare, dai costumi ordinarii della vita, in quali circostanze,
che si presentano solo a lunghi intervalli, si possa determinare lo
scarseggiare o lo estinguersi di una specie.»

Nell'isola di Sant'Elena:

«Sulle parti più alte dell'isola, un numero notevole di una specie
di conchiglia, lungamente creduta marina, si trova incorporata nel
terreno. È riconosciuta essere una Cochlogenas, o conchiglia terragnola
di una forma particolarissima; unita a quella trovai altre sei specie;
ed in un altro punto un'ottava specie. È notevole che non se ne trovi
una vivente. La loro estinzione è stata probabilmente cagionata
dall'intiera distruzione dei boschi, e dalla conseguente perdita di
cibo e di ricovero, che seguì durante la prima parte dello scorso
secolo.»

Parlando delle isole Galapagos, che gli porsero campo ad osservazioni
zoologiche di grande importanza su certe specie di rettili che vi trovò
e descrisse, egli dice:

«La storia naturale di queste isole è sommamente curiosa e merita bene
tutta la nostra attenzione. La maggior parte dei prodotti organici
sono creazioni aborigene che non s'incontrano in nessun'altra parte;
vi è anche una differenza fra gli abitanti delle varie isole; tuttavia
mostrano tutti una spiccata affinità con quelli dell'America, sebbene
siano separati da quel continente da un vasto spazio di mare, largo
circa 500 a 600 miglia. L'arcipelago è in sè stesso un piccolo mondo, o
meglio un satellite attaccato all'America, dal quale ha tratto alcuni
pochi coloni dispersi, ed ha ricevuto il carattere generale delle sue
produzioni indigene. Considerando la piccola mole di queste isole,
sentiamo maggior meraviglia pel numero dei loro esseri aborigeni, e per
la ristretta cerchia di questi. Vedendo ogni altura coronata dal suo
cratere, ed i limiti della maggior parte delle correnti di lava ancor
distinti, siamo indotti a credere che durante un periodo geologicamente
recente, lo sconfinato oceano coprisse qui ogni cosa. Quindi, tanto
nello spazio, quanto nel tempo, ci pare di esserci in certo modo
avvicinati a quel grande fatto--quel mistero dei misteri--la prima
comparsa di nuovi esseri su questa terra.»

Se è per Darwin il mistero dei misteri il comparire di nuovi esseri
sulla terra, egli ci vede assai più chiaro nello scomparire delle
specie e nel legame fra le specie fossili e le viventi.

«L'affinità, sebbene lontana, tra la macrauchenia ed il guanaco, tra
il toxodon ed il capibara,--l'affinità ancor più stretta fra i tanti
sdentati estinti ed i viventi tardigradi, formichieri ed armadilli,
ora così grandemente caratteristici della zoologia del sud America--e
l'affinità ancor più stretta fra le specie fossili e viventi di
Ctenomys ed Hydrochaerus, sono fatti interessantissimi. Questa affinità
è dimostrata meravigliosamente--tanto meravigliosamente quanto quella
fra gli animali marsupiali fossili ed estinti dell'Australia--dalla
grande collezione portata ultimamente in Europa dalle caverne del
Brasile dai signori Lund e Clausen. In questa collezione vi sono specie
estinte di tutti i trentadue generi, eccetto quattro dei quadrupedi
terrestri che abitano ora le provincie in cui si trovano queste
caverne, e le specie estinte sono molto più numerose che non quelle
viventi oggi; vi sono fossili formichieri, armadilli, tapiri, pecari,
guanachi, opossum, tutti fossili, ed un gran numero di rosicanti del
nord America, di scimmie e di altri animali. Questa meravigliosa
affinità nello stesso continente fra i morti ed i vivi, spargerà, senza
dubbio, in seguito maggior luce sull'aspetto degli esseri organici
del nostro globo e la loro scomparsa da esso, che non qualunque altra
classe di fatti.

«È impossibile pensare al mutamento seguìto nel continente americano
senza provare la più profonda meraviglia. Anticamente esso deve
aver brulicato di enormi mostri; ora non troviamo che pigmei, se si
comparano colle razze affini antecedenti. Se Buffon avesse conosciuto i
giganteschi animali simili al tardigrado ed all'armadillo, ed i perduti
pachidermi, egli avrebbe potuto dire con maggior verità che la forza
creatrice aveva perso in America il suo potere, piuttostochè dire che
essa non aveva mai avuto grande vigore. La maggior parte, se non tutti,
di questi quadrupedi estinti vivevano in un periodo recente, ed erano
contemporanei della maggior parte delle conchiglie marine viventi. Dal
tempo in cui vivevano non può essere seguìto nessun grande mutamento
nella forma del terreno. Che cosa adunque può avere distrutto tante
specie o interi generi? La mente dapprima è irresistibilmente indotta
a credere a qualche grande catastrofe, ma per distruggere in tal modo
animali tanto grandi che piccoli, nella Patagonia meridionale, nel
Brasile, nelle Cordigliere del Perù, nel nord America sino allo stretto
di Behring, noi dobbiamo scuotere tutta l'ossatura del globo. Inoltre,
l'esame della geologia del Plata e della Patagonia induce a credere che
tutti i profili del terreno risultano da mutamenti lenti e graduati.
Dal carattere dei fossili in Europa, in Asia, nell'Australia e
nell'America settentrionale e meridionale, sembra che le condizioni che
favoriscono la vita dei quadrupedi più grossi fossero estese per tutto
il mondo; quali fossero queste condizioni nessuno fin'ora ha saputo
trovare. Non può essere stato neppure un mutamento di temperatura
quello che abbia nello stesso tempo distrutti gli abitanti delle
latitudini tropicali temperate ed artiche nelle due parti del globo.
Sappiamo positivamente dal signor Lyell che nel nord America i grossi
quadrupedi vivevano dopo quel periodo in cui i massi erratici erano
portati in latitudini ove oggi non giungono mai i ghiacci; da varie
cagioni indirette ma concludenti possiamo esser certi che nell'emisfero
meridionale anche la macrauchenia viveva molto dopo il periodo in
cui i ghiacci trasportavano i massi erratici. Potrebbe l'uomo, dopo
la sua prima invasione nell'America del sud, aver distrutto, come è
stato supposto, i pesanti megaterii e gli altri sdentati? Dobbiamo
almeno cercare qualche altra causa per la distruzione del piccolo
tucutuco a Bahia Blanca, e di molti topi fossili ed altri piccoli
quadrupedi del Brasile. Nessuno supporrà che una siccità, anche più
terribile di quelle che sono causa di tante perdite nelle provincie
del Plata, avrebbe potuto distruggere ogni individuo ed ogni specie
dalla Patagonia meridionale allo stretto di Behring. Che cosa diremo
dell'estinzione del cavallo? Queste pianure, che sono state poi
percorse da migliaia e centinaia di migliaia di discendenti della razza
introdotta dagli spagnuoli, hanno forse mancato di pascoli? Le specie
introdotte dopo hanno esse consumato il cibo delle razze antecedenti?
Possiamo noi credere che il capibara abbia preso il cibo del toxodon,
il guanaco quello della macrauchenia, i piccoli sdentati viventi quello
dei numerosi loro giganteschi prototipi? Certo, nessun fatto nella
lunga storia del mondo è tanto notevole quanto le vaste e ripetute
distruzioni dei suoi abitanti.

«Nondimeno, se noi consideriamo questo argomento da un altro punto di
vista, ci sembrerà meno incerto. Noi non teniamo presente alla mente
la profonda ignoranza in cui siamo delle condizioni di vita di ogni
animale, nè ci ricordiamo sempre che un qualche ostacolo impedisce
costantemente il troppo rapido accrescimento di ogni essere organizzato
lasciato allo stato di natura. In media la provvista del cibo rimane
costante; tuttavia la tendenza di ogni animale a crescere colla
propagazione è geometrica; ed i suoi effetti sorprendenti non sono
stati in nessun luogo più meravigliosamente dimostrati, come nel caso
degli animali europei che si sono rinselvatichiti in America durante
gli ultimi secoli. Ogni animale allo stato di natura si riproduce
regolarmente; tuttavia, in una specie da lungo tempo stabilita ogni
grande accrescimento di numero è evidentemente impossibile e deve
essere arrestato in qualche modo. Tuttavia raramente possiamo dire
con certezza, di una data specie, a qual periodo di vita o a qual
periodo dell'anno segua questo ostacolo, se solo abbia luogo a lunghi
intervalli, o anche quale sia la vera natura di questo ostacolo. Da
ciò probabilmente segue che proviamo pochissima sorpresa, vedendo
due specie, strettamente affini nei costumi, essere una rara e
l'altra abbondante nello stesso distretto, ovvero anche, che una si
trovi numerosa in un distretto, ed un'altra, che compie lo stesso
ufficio nell'economia della natura, abbondi in una regione vicina che
differisce pochissimo nelle sue condizioni. Se ci viene domandato come
questo segua, si risponde immediatamente che deriva da qualche lieve
differenza nel clima, nel cibo, o nel numero dei nemici; tuttavia
quanto raramente, se pur mai, possiamo segnare la causa precisa e il
modo di azione dell'ostacolo! Perciò siamo indotti a concludere, che
certe cause, quasi sempre al tutto inapprezzabili da noi, determinano
se una data specie sarà in numero abbondante o scarsa.

«Nei casi in cui noi possiamo segnare l'estinzione prodotta dall'uomo
di una specie, sia entro una vasta od una limitata cerchia, sappiamo
che essa diviene sempre più rara finchè sia perduta; sarebbe difficile
segnare una qualche esatta distinzione fra una specie distrutta
dall'uomo o dall'accrescimento dei suoi naturali nemici. L'evidenza
della scarsità che precede l'estinzione è più notevole negli strati
terziari successivi, come è stato notato da parecchi insigni
osservatori; è stato sovente veduto che una conchiglia, molto comune in
uno strato terziario, sia ora rarissima, e sia stata per lungo tempo
anche creduta estinta. Se dunque, come appare probabile, le specie
cominciano a divenir rare e poi si estinguono; se il troppo rapido
accrescimento d'ogni specie, anche fra le più favorite, è certamente
arrestato, come dobbiamo riconoscere, sebbene sia difficile dire come
e quando, e se noi vediamo senza la più piccola sorpresa, sebbene non
possiamo conoscerne la vera ragione, una specie abbondante ed un'altra
strettamente affine rara nello stesso distretto, perchè proveremo noi
tanta meraviglia di ciò, che lo scarseggiare faccia ancora un passo e
giunga all'estinzione? Un'azione che procedesse intorno a noi, fosse
anche appena apprezzabile, potrebbe certamente essere spinta un po'
più avanti senza eccitare la nostra osservazione. Chi proverebbe molta
sorpresa udendo che il megalonyx era anticamente raro a petto di una
delle scimmie viventi? E tuttavia in questa comparativa scarsità noi
abbiamo la più chiara prova delle condizioni meno favorevoli alla loro
esistenza. Ammettere che le specie divengano generalmente rare prima
di estinguersi; non sentir sorpresa della comparativa scarsità di una
specie rispetto ad un'altra, e tuttavia attribuire a qualche agente
straordinario l'estinzione di una specie e maravigliarsene grandemente,
mi sembra quasi lo stesso come ammettere che la malattia nell'individuo
è il preludio della morte; non sorprendersi della malattia, ma quando
l'ammalato muore meravigliarsi, e credere che sia morto violentemente.»

Parlando poi dei viventi lungo i due pendii delle Ande, egli dice:

«Rimasi molto colpito dalla notevole differenza che esiste fra la
vegetazione di queste valli orientali e di quelle del versante
chiliano; tuttavia il clima come pure la natura del terreno è quasi la
stessa, e la differenza di longitudine non ha importanza. La stessa
osservazione vale pei quadrupedi ed in un grado minore per gli uccelli
e gli insetti. Posso citare il topo, di cui ne ottenni sedici sulle
spiaggie dell'Atlantico, e cinque su quelle del Pacifico, e nessuna
di esse era identica. Dobbiamo eccettuare tutte quelle specie che
consuetamente o per caso frequentano le alte montagne, e certi uccelli
che si estendono al sud fino allo stretto di Magellano. Questo fatto
concorda perfettamente colla storia geologica delle Ande; perchè quei
monti hanno esistito come una grande barriera, dacchè le presenti
razze di animali sono comparse, e perciò, a meno di supporre che le
stesse specie siano state create in luoghi differenti, non dobbiamo
aspettarci nessuna più intima somiglianza tra gli esseri organici dei
versanti opposti delle Ande, che non fra quelli delle sponde opposte
dell'oceano. Nei due casi, dobbiamo lasciare in disparte quelle specie
che hanno potuto varcare la barriera, sia di roccia solida come di
acqua salsa.»

A queste parole egli soggiunge in nota: «Questo è semplicemente un
esempio delle leggi meravigliose, dimostrate per la prima volta dal
signor Lyell, sulla distribuzione geografica degli animali, sottomessa
all'azione dei mutamenti geologici. Naturalmente, tutta la teoria è
fondata sulla credenza dell'immutabilità delle specie, altrimenti la
differenza nelle specie di due regioni potrebbe essere considerata come
seguita durante un lunghissimo tratto di tempo.»

       *       *       *       *       *

Leggasi finalmente quanto segue:

«Il tucutuco (_Ctenomys brasiliensis_) è un curioso animaletto, che
si può descrivere in poche parole, dicendo che è come un rosicante
coi costumi di una talpa. È numerosissimo in alcune parti del paese,
ma è difficile da ottenere, e non viene mai, credo, alla superficie
del terreno. Ammucchia all'imboccatura della sua tana monticelli di
terra come quelli della talpa, ma più piccoli. Grandi tratti di paesi
sono scavati per modo da questi animali, che i cavalli nel passare
si affondano fin sopra al pasturale. Il tucutuco appare, fino ad un
certo grado, di costumi gregari; l'uomo che me ne procurò alcuni
esemplari ne aveva presi sei insieme, e diceva che questo era il
caso consueto. Fanno vita notturna; ed il loro cibo principale è la
radice delle piante, che sono lo scopo dei loro scavi tanto estesi e
superficiali. Si scuopre generalmente questo animale per un rumore
speciale che fa quando è sotto terra. Colui che lo sente per la prima
volta rimane molto sorpreso, perchè non può facilmente spiegarsi donde
venga, nè può comprendere quale sorta di creatura lo possa produrre.
Il rumore consiste in un grugnito breve, ma non nasale nè aspro;
e questo grugnito è ripetuto monotonamente circa quattro volte in
fretta; il nome di tucutuco gli è stato dato per imitazione di questo
suono. Dove questo animale abbonda si può sentire in tutte le ore del
giorno, e alle volte precisamente sotto i propri piedi. Quando si
tiene in una stanza, il tucutuco si muove lentamente e goffamente,
ciò che sembra doversi attribuire al movimento che fanno all'infuori
le zampe posteriori, le quali non possono affatto, per la mancanza di
un certo legamento nel cavo articolare della coscia, fare il benchè
minimo salto. Allorchè tentano fuggire sono stupidissimi; quando sono
in collera o spaventati mandano il loro grido di tucu-tuco. Di quelli
che tenni vivi, parecchi, anche dal primo giorno, divennero al tutto
fiduciosi, non tentando di mordere nè di fuggire, altri erano un po'
più selvatici.

«L'uomo che li aveva presi mi disse che se ne trovavano moltissimi
ciechi. Un esemplare ch'io osservai nell'alcool era in questo stato; il
signor Reid considerava ciò come un effetto dell'infiammazione della
membrana nittitante. Quando l'animale era vivo, gli accostai il dito
fino a due centimetri dal capo, e non se ne accorse affatto; tuttavia,
sapeva come gli altri girare per la stanza. Considerando i costumi al
tutto sotterranei del tucutuco, la cecità, sebbene tanto comune, non
può essere un male molto serio; tuttavia appare strano che un animale
qualunque abbia un organo il quale tanto sovente corre rischio di
venire ammalato. Lamarck sarebbe stato contentissimo di questo fatto,
se lo avesse conosciuto, quando meditava (probabilmente con maggior
verità di quello che non fosse solito) sulla cecità gradatamente
acquistata dello spalace, rosicante che vive sotterra, e del proteo
anguino, rettile che vive entro buie caverne piene d'acqua; entrambi
questi animali hanno l'occhio in uno stato quasi rudimentale, e coperto
da una membrana tendinosa e dalla pelle. Nella talpa comune l'occhio
è sommamente piccolo, ma perfetto, sebbene molti anatomici non siano
ben certi che abbia relazione col vero nervo ottico; la sua vista deve
essere certo imperfetta, sebbene probabilmente sia utile all'animale
quando esce dalla sua tana. Nel tucutuco, che io non credo venga
mai alla superficie del suolo, l'occhio è piuttosto più grande, ma
spesso diviene cieco ed inutile, sebbene ciò non rechi, a quanto pare,
grande disturbo all'animale; senza dubbio Lamarck avrebbe detto che il
tucutuco sta ora operando il suo passaggio allo stato dello spalace e
del proteo anguino.»



                                  IX


I viventi, animali e piante, che vediamo oggi intorno a noi tanto
numerosi, pei mari, sulla terra, nell'aria, dappertutto, sono essi
proprio somiglianti ai loro antenati più remoti? Le forme dei viventi
non hanno mutato col volgere dei secoli? Sono essi, i viventi, oggi
tali e quali furono i loro primi progenitori?

Ecco un quesito che generalmente l'uomo non si è guari fatto,
risolvendo preventivamente la quistione in modo affermativo.

L'uomo, in generale, ha creduto e crede che le forme dei viventi non
abbiano mutato e che quelle che vediamo oggi non differiscano da quelle
che le precedettero di generazione in generazione e non siano per
differire quelle che di generazione in generazione terranno loro dietro.

Il pino sul monte, il delfino nel mare, il leone nella foresta, il
lombrico nel terreno, non incominciarono altrimenti che coll'essere
un pino, un delfino, un leone, un lombrico, con quelle forme appunto e
quei caratteri e quel modo di vita in cui vi si mostrano oggi.

Una prima coppia di progenitori ha potuto dare origine a quel numero
sterminato di individui che si sono poi andati e si andranno ancora
moltiplicando, o anche un individuo solo, perchè non sempre è
necessario il concorso di due individui alla riproduzione. Ma quei
primi riproduttori avevano appunto le forme, i caratteri, il modo di
vita di tutta la loro discendenza.

A questa discendenza da una coppia di progenitori, o anche da un solo
progenitore in quei casi in cui va così la cosa, fu dato il nome di
_specie_. Partendo dal concetto della piena somiglianza dei primi
progenitori con tutta la loro discendenza si disse essere la specie
_immutabile_, o _fissa_, mentre il concetto opposto ammetterebbe la
variabilità di essa.

Nel sentimento del volgo la immutabilità della specie è un fatto fermo.
Tale fu anche per la maggioranza dei dotti, ma non per tutti.

Molto erroneamente si suol dire oggi che Carlo Darwin sia stato il
primo a mettere in campo il principio della variabilità della specie.
La cosa va ben altrimenti ed egli fu in ciò tutt'altro che il primo.

Quegli studiosi che trattano oggi questo argomento con qualche cura,
dimostrano che Carlo Darwin ebbe in ciò molti predecessori.

È cosa degnissima di nota che fu predecessore di Carlo Darwin nel
sostenere la variabilità della specie il suo nonno paterno, Erasmo
Darwin, che nei suoi libri si dava modestamente il titolo di _medico di
Derby_, e che in sul finire dello scorso secolo menò molto rumore coi
suoi scritti in Inghilterra e anche fuori.

Ebbe veramente Erasmo Darwin un ingegno sommamente colto e originale.
Fu medico valente, studiosissimo dell'anatomia e della fisiologia,
filosofo investigatore, naturalista profondo e nella botanica
segnatamente eruditissimo, e poeta, certo fornito di una propria e
rimarchevole individualità.

Anche oggi in Inghilterra è popolare il suo poemetto che egli intitolò
_Giardino botanico_, il quale, mutandogli il titolo in quello di
_Amori delle piante_, tradusse in sciolti italiani il medico Giovanni
Gherardini di Milano.

Il poema è in quattro canti; fra il primo e il secondo canto, il
secondo e il terzo, e il terzo e il quarto v'ha sempre un intermezzo
che l'autore intitola: _Dialogo fra il poeta e il suo libraio_ e in cui
espone certi suoi concetti d'arte poetica con molta arguzia e con molta
evidenza.

Erasmo Darwin volle fare al tempo suo col verso per le piante ciò
che il Grandville volle fare al tempo nostro colla matita. Entrambi
riuscirono quanto era possibile in tal sorta di cimento. Ma nello
stesso modo in cui non sempre nei disegni del Grandville riesce
sodisfacente la espressione dei suoi fiori animati, così nel poema del
Darwin vi lascian talora freddi quei pastorelli in vario numero, che
son poi gli stami, e quelle ninfe che sono i pistilli. Ma splendono
di viva luce certi tratti del poema, sono brevi, efficaci, di calde
tinte certe descrizioni e sono poi rimarchevolissime le note che tengon
dietro a ogni canto, nelle quali veramente brilla il grande ingegno e
l'animo nobile e buono dell'autore.

Erasmo Darwin ha pur esso in certo grado quella bella qualità che ha in
grado altissimo il suo sommo nipote, di farsi amare nei suoi scritti.

Nelle note ai quattro canti del suo poema Erasmo Darwin appare,
siccome ho già detto, botanico eruditissimo, medico valente, filosofo
osservatore, uomo di cuore. Sono nobilissime alcune sue parole intorno
all'abuso degli alcoolici in Inghilterra. Certi tocchi intorno ai
caratteri delle piante, alla loro vita, al legame loro cogli animali,
alla eredità e allo ibridismo colpiscono per lo stretto rapporto che
hanno col concetto delle variabilità delle specie.

Ma questo concetto egli lo doveva esprimere poi più chiaramente nella
zoonomia, che veramente è un'opera meritevole della maggiore attenzione.

La zoonomia di Erasmo Darwin venne pubblicata in Inghilterra nel 1794
e poco dopo tradotta in tedesco dal Brandis. Fu anche tradotta in
italiano, e ne fu traduttore un medico che ebbe gran fama ai suoi tempi
ed ebbe pure nobile cuore di patriota, Giovanni Rasori. Il Rasori dava
tanta importanza alla zoonomia di Erasmo Darwin che volle che fosse
conosciuta nella nostra lingua prima di pubblicare la sua teoria del
controstimolo e, non facendo altri la traduzione, si accinse a farla e
la compì egli stesso. La prefazione che egli mise in capo a questa sua
traduzione ha la data del 3 gennaio 1803. Il primo volume fu pubblicato
in Milano, dai signori Pirotta e Maspero, stampatori librai in Santa
Margherita, in quell'anno 1803, l'ultimo nel 1805.

Erasmo Darwin aveva compiuto già da oltre vent'anni la maggior
parte del suo lavoro quando si accinse a pubblicarlo. Questo lavoro
è diviso in tre parti; la prima e più lunga contiene una serie di
considerazioni tanto svariate quanto importanti intorno ai viventi; la
seconda si riferisce alle malattie, alla loro enumerazione, alla loro
classificazione, alla loro cura; la terza parla dei medicamenti e della
loro azione.

Naturalmente, la prima parte soltanto è quella di cui qui mi devo
occupare.

Un capitolo notevolissimo tratta della vita delle piante, della
affinità tra le piante e gli animali, stimando che le piante si devono
tenere in conto come di animali inferiori; dimostrasi come un albero
dicotiledone si deve tenere in conto di un complesso di individui
piuttostochè di un individuo solo, e come ciò si deva dire di molti
animali marini, che in quel tempo venivan giudicati individui e sono
invece realmente un complesso d'individui collegati. Tratta a lungo dei
movimenti delle piante, della loro irritabilità, le crede suscettive
di sensazioni, e si ferma su certi fenomeni speciali e fra gli altri su
quelli presentati dalla _Drosera_. Questo capitolo è intitolato della
_Animazione vegetabile_. Che cosa poi egli intenda per animazione,
l'autore dice più tardi in un altro capitolo dove tratta della
produzione delle idee:

«Colla denominazione di spirito di animazione o potenza sensoria, io
intendo soltanto quella vita animale che l'uomo possiede in comune coi
bruti, ed alcun poco persino coi vegetabili; e abbandono la porzione
immortale di lui, oggetto di religione, all'indagine di quelli che
trattano della rivelazione.»

Un capitolo importantissimo della zoonomia di Erasmo Darwin è
consacrato all'istinto; in questo capitolo splende la vastissima
erudizione di quel grande naturalista, come lo acume della sua
osservazione e la finezza del suo criterio. Egli dice sostanzialmente
che nello istinto non v'ha nulla di cieco e di fatalmente necessario,
ma che gli atti che si chiamano istintivi si modificano e si mutano
a norma delle circostanze. Passa in rassegna gli atti della vita
di tutti gli animali, ma si ferma principalmente su quelli degli
animali superiori e parla a lungo delle migrazioni degli uccelli e
del loro nidificare, e di certe circostanze speciali in cui tanto le
migrazioni quanto le costruzioni dei nidi si sono modificate e si vanno
modificando; parla degli animali domestici e di parecchi atti della
vita tanto degli animali domestici quanto dei selvatici, che rivelano
un ammaestramento attuale ed ereditario. Questo capitolo finisce così:

«Le idee e le azioni dei bruti, simili in ciò a quelle dei fanciulli,
sono quasi sempre il prodotto dei loro piaceri e dolori presenti, e....
raro è che gli animali si occupino dei mezzi onde procurarsi felicità
futura o sfuggire futura infelicità, laddove l'acquisto della lingua,
l'esercizio delle arti, e ogni modo di industriarsi per guadagnar
danaro, nel che consistono finalmente tutti i mezzi onde procurarsi dei
piaceri, e così pure l'indirizzar preci a qualche divinità, come altro
mezzo con cui parimente procurarsi alcuna felicità, formano il tratto
proprio e caratteristico della umana natura.»

Rispetto all'argomento di cui parliamo qui, la variabilità della
specie, la discendenza degli animali gli uni dagli altri, il loro
adattamento alle condizioni esterne, il capitolo più importante della
zoonomia di Erasmo Darwin è quello in cui tratta della generazione, nel
quale espone a lungo gli argomenti in favore di questi concetti, ripete
e sviluppa quello che ha esposto altrove e accenna a una certa insita
virtù dell'organismo, produttrice di mutamenti più o meno profondi.

Tanto nella zoonomia quanto nelle note del _Giardino botanico_, Erasmo
Darwin si ferma a considerare i colori degli animali in rapporto alle
condizioni della loro vita.

«I colori degli insetti e di molti piccoli animali contribuiscono a
nasconderli alla vista di altri animali che li depredano. I bruchi che
vivono nelle foglie, sono generalmente verdi; e i vermi terrestri sono
del color della terra in cui abitano; le farfalle sono dipinte alla
foggia dei fiori che frequentano; gli uccelletti che svolazzano fra
le siepi, hanno il dorso verdiccio come le frondi, e il ventre d'un
color chiaro come quello del cielo, lochè li rende meno visibili al
falcone che passa sopra e sotto di loro. Quelli uccelletti che amano
di stare in mezzo ai fiori, come il cardellino, sono forniti di colori
vivaci. L'allodola, la pernice, la lepre hanno il colore delle stoppie
e della terra ove dimorano. Le rane cangiano il loro colore secondo
il fango dei rigagnoli dove s'abbicano; e quelle che vivono sopra li
alberi sono verdi. I pesci che aggiransi generalmente a fior d'acqua e
le rondini che generalmente volteggiano nell'aria, per lo più hanno il
dorso del color della terra e la pancia del color del cielo. Ne' climi
più freddi, molti di questi animali diventano bianchi durante i mesi
nevosi.»

In altra parte in cui Erasmo Darwin ritorna su questo argomento dei
colori degli animali e considera anche la cosa negli animali domestici,
il fatto lo colpisce, ne apprezza tutta la utilità, ma non ne sa
rinvenire la causa efficiente.

«Dei quali colori facilmente si comprende la causa finale, in quanto
che servono all'animale per qualche uso; ma la causa efficiente sembra
quasi al di là d'ogni conghiettura.»

La presenza di mammelle nei maschi fa dire a Erasmo Darwin: «Forse ciò
si deve a qualche cambiamento a cui hanno soggiaciuto questi animali
nel progresso graduale della formazione della terra e di tutti gli
esseri che l'abitano.»

Degnissimi di attenzione sembrano all'autore i cambiamenti in cui
sono venuti gli animali domestici e li espone lungamente. Quanto
ai cambiamenti avvenuti negli animali in natura, giova riferire
testualmente quanto segue:

«Un gran bisogno d'una parte del mondo animale ha dovuto consistere nel
desiderio dell'esclusivo possesso delle femmine; e a tal effetto, per
combattere cioè l'uno contro dell'altro, siffatti animali acquistarono
armi, come per esempio la cute densissima, aculeiforme, cornea della
spalla dell'orso, è soltanto una difesa contro gli animali della
propria specie di lui, che menano colpi obliquamente all'insù; e
certi denti di lui non hanno neppur essi altro uso, tranne quello di
servirgli di difesa, perchè egli non è naturalmente animale carnivoro.
Così le corna del cervo sono acute per offendere l'avversario, ma sono
ramose appunto per parare e ricevere i rami delle corna di cervio
simile a lui, e sono perciò state formate all'uopo di combattere contro
altri cervi per l'esclusivo possesso della femmina; e queste poi, come
soleano le dame dell'antica cavalleria, stanno attendendo per darsi
premio al vincitore.

«Gli uccelli che non portano alimento alla loro prole, e che per
conseguenza non si maritano, sono armati di speroni onde combattere per
l'esclusivo possesso della femmina, come sono i galli e le quaglie.
Certo è che queste armi non sono date loro per difendersi da altri
avversarii, giacchè le femmine della medesima specie ne son prive....»

E qui io mi fermo prima di proseguire nella citazione e prego il mio
lettore di badare alle parole che seguono, le quali sono nel volume
terzo della traduzione italiana della edizione soprammenzionata, a
pagina 229, linea 8.

«Sembra poi che la causa finale di questa guerra tra maschi sia quella
che la specie venga propagata dagli animali più forti e più attivi, e
vada perciò perfezionandosi.»

Non è d'uopo che io dica al mio lettore perchè l'ho fermato qui e l'ho
invitato a badar bene alle parole citate. Proseguo nella citazione.

«Un altro gran bisogno consiste nei mezzi di procurarsi alimenti, e
questo bisogno ha diversificate le forme di tutte le specie degli
animali. Per esso il naso del porco s'indurì onde poter volgere
sossopra il terreno in cerca d'insetti e di radici. La tromba
dell'elefante è un allungamento del naso ad oggetto di poter tirar
giù i rami degli alberi di cui si ciba, ed assorbir l'acqua che beve,
senza aver d'uopo di piegar le ginocchia. Gli animali da preda hanno
acquistato forti artigli e valenti mascelle. I bovi e le pecore, una
lingua ed un palato aspri per cacciar giù gli steli delle erbe. Alcuni
uccelli, come il pappagallo, becchi più duri per poter romper le noci.
Altri, come i passeri, becchi adattati a rompere i semi duri. Altri,
come gli uccelli di becco gentile, li hanno adattati a più molli semi
di fiori, o a gemme d'alberi. Alcuni hanno acquistato becchi lunghi,
capaci di penetrare nel terreno inumidito in traccia d'insetti e di
radici, come sono le beccacce; ed alcuni altri li hanno larghi per
filtrare le acque dei laghi, e ritenersi gli insetti acquatici di cui
si nutrono. Tutte le quali parti sembrano essere state gradatamente
prodotte pel lungo tratto di molte e molte generazioni dai perpetui
sforzi degli animali stessi per provvedere al bisogno d'alimento, e
tramandate alla rispettiva progenie con quel costante perfezionamento
che andarono acquistando nel servire a quelli usi determinati.

«Il terzo gran bisogno degli animali è quello della sicurezza; e
questo pure sembra aver molto contribuito a diversificare le forme ed
il colore dei loro corpi, ed è quello che produce i mezzi di evitare
la persecuzione degli animali più forti. Quindi alcuni animali, come
gli augelli più piccoli, acquistarono ale invece di gambe, onde poter
viemeglio fuggire, altri si formarono gran lunghezza di pinne o di
membrane, come il pesce volante ed il pipistrello, altri gran velocità
di gambe, come la lepre; ed altri dure scorze ed armate, come la
tartaruga e l'_echinus marinus_.

«Gli artifizi all'uopo di mettersi in sicuro, si estendono sino
ai vegetabili, come vediamo nei vari e meravigliosi mezzi con cui
nascondono e difendono il miele dagli insetti, ed i semi dagli uccelli.
D'altra parte il falcone e la rondine hanno acquistato gran velocità
di volo per tener dietro alla loro preda; e l'ape, la farfalla e
l'uccello ronzante hanno acquistata una proboscide ammirabilmente
costruita ad effetto di saccheggiare i nettari dei fiori....»

Cito questi brani che si riferiscono agli animali più elevati, ma
avverto che mutamenti di tal fatta, avvenuti «nelle serie lunghissime
di tempi, dappoichè la terra incominciò ad esistere, forse milioni di
secoli prima del principio della storia del genere umano,» l'autore
considera partitamente anche negli animali inferiori, come pure nelle
piante.

Il concetto del succedersi e perfezionarsi delle generazioni dei
viventi è fondamentale per Erasmo Darwin, e ad ogni passo in un modo o
nell'altro lo esprime. Mi contenterò di fare ancora una sola citazione.

«Siccome le parti abitabili della terra crebbero e tuttora continuano
a crescere per mezzo della produzione dei gusci delle ostriche e delle
coralline e per mezzo dei secrementi d'altri animali e vegetabili, così
fin dalla prima esistenza di questo globo terracqueo gli animali che lo
abitano andarono sempre perfezionandosi e sono tuttavia in uno stato di
perfezionamento progressivo.» (Vol. 3º, pag. 269).

Io mi sono limitato qui, siccome non poteva fare altrimenti, a poche
citazioni, tratte da taluno di quei punti nei quali l'autore parla
della variabilità e delle origini dei viventi. Anche in questo solo
campo avrei potuto dilungarmi assai maggiormente, e più ancora, sempre
solo rispetto a zoologia, nel capitolo dell'istinto. Ma questa parte
dell'opera di Darwin agli occhi di lui non era che accessoria, volgendo
egli tutta la sua attenzione allo studio delle funzioni, e ciò ancora
non come fine, ma come mezzo. Il fine per Erasmo Darwin, siccome ho già
detto, è lo studio delle malattie e del modo di curarle. La zoonomia
di Erasmo Darwin è uno di quei libri originali che meritano sempre di
essere studiati, anche quando il progredir della scienza è venuto a
mutare molti dei concetti e delle credenze del tempo. Un medico che
facesse questo studio non perderebbe neppur oggi il suo tempo, come non
perderebbe il suo tempo un naturalista che estraesse dalla zoonomia e
pubblicasse oggi, lasciando fuori il rimanente, tutto ciò che in questo
rimarchevolissimo libro si riferisce alla storia naturale.

       *       *       *       *       *

Mentre Erasmo Darwin sosteneva per tal modo in Inghilterra il principio
della variabilità della specie in sul finire del secolo passato, in
Germania pure in quello stesso tempo il medesimo argomento occupava
alcuni nobilissimi ingegni.

Fra questi vuol essere menzionato primo Volfango Goethe, il quale,
siccome oggi si incomincia a sapere generalmente, alla sua immortale
corona di poeta aggiunse pure il pregio di un culto felice e potente
delle scienze naturali.

Fin dal 1790 il Goethe espose i suoi concetti intorno alla _Metamorfosi
delle piante_, e sostanzialmente egli cercò di dimostrare che nel
regno vegetale vi ha un organo fondamentale unico, la foglia, che,
sviluppandosi e trasformandosi in svariatissimi modi, dà origine a
tutte le forme dei vegetali. Ciò si comprende chiaramente, diceva il
Goethe, considerando un tipo semplice, una forma semplice primitiva,
e tenendo dietro alla sua trasformazione in quel modo nel quale si
fanno nella musica le variazioni sopra un tema. Così il Goethe fece
considerare siccome foglie trasformate le varie parti del fiore, di cui
alcune poi sono destinate alla loro volta a trasformarsi in frutto.

Sebbene non si possa dire che questi concetti del Goethe intorno
alle metamorfosi delle piante siano stati subito accolti senza
contestazione, sebbene anzi si debba dire che incontrarono qua e là una
viva opposizione, convien riconoscere tuttavia che furono subito presi
in considerazione, furono discussi, e in complesso incontrarono favore.

La stessa cosa è da dirsi della teoria del Goethe, secondo la quale le
ossa del cranio si vogliono considerare siccome vertebre modificate.

Gli antichi anatomici, i quali unicamente si davan pensiero
dell'anatomia dell'uomo e non cercavano di comparare la struttura
di questo con quella degli animali, consideravano il cervello come
la parte sostanziale, e il midollo spinale come una sorta di coda,
un'appendice di questo. Corrispondentemente a ciò la scatola craniana,
destinata ad accogliere il cervello, era per essi una parte sostanziale
in cui non cercavano legame colle vertebre.

Oggi si sa che il cervello non è che un'appendice del midollo spinale
e il cranio un'appendice della colonna vertebrale. Ciò si scorge
esaminando lo sviluppo dell'uomo, come di tutti i mammiferi, nei
primordii della loro esistenza; ciò si scorge considerando la forma
più semplice fra i vertebrati, dove si trova un midollo spinale senza
cervello.

Io non posso parlare di ciò senza pensare a Dante che dice
chiarissimamente che il midollo spinale è la parte sostanziale, il
principio dei centri nervosi. Bertran del Bornio è condannato al
supplizio inimmaginabile di portare in mano, a guisa di lanterna, la
sua testa pei capegli e dice di sè:

  Partito porto il mio cerebro, lasso,
  Dal suo principio che è in questo troncone.

Passeggiando a Venezia sul lido, il Goethe vide a terra un cranio
spezzato di montone e n'ebbe la prima idea della teoria delle vertebre
craniane, la quale fu dapprima contrastata, poi accolta generalmente e
variamente modificata, e in questi ultimi tempi sapientemente studiata
e formulata dal Gegenbaur.

Il Goethe ebbe pure il merito di scoprire la presenza degli ossi
intermascellari nell'uomo, ciò che egli fece in rapporto col suo
concetto di uno strettissimo legame anatomico fra l'uomo e gli animali,
e sovrattutto i mammiferi che gli sono più affini, e segnatamente le
scimmie superiori e antropomorfe.

I mammiferi hanno alla mascella superiore due ossi, che stanno framezzo
ai due ossi mascellari, e perciò si chiamano ossi intermascellari; si
chiamano anche ossi incisivi, perchè reggono i denti incisivi superiori.

Gli studiosi della anatomia umana, al tempo del Goethe, dicevano che
questi due ossi, i quali si trovano in tutti i mammiferi, anche nei
mammiferi più elevati, anche nelle scimmie antropomorfe, mancano
nell'uomo. Si compiacevano di questa mancanza, siccome quella che
segnava un carattere differenziale fra l'uomo e la scimmia.

La marea cominciava allora a crescere. Intendo dire che pigliava sempre
più campo il concetto di intimi rapporti anatomici e fisiologici, di
uno strettissimo legame, fra l'uomo e gli animali, di una semplice
differenza di grado. L'uomo si difendeva e gli anatomici menavan vanto
di questa differenza (già eran ridotti a questo vanto meschino) del non
aver l'uomo le ossa intermascellari che hanno le scimmie. Il Goethe
non era persuaso; venne nel pensiero che gli ossi intermascellari ci
dovessero essere anche nell'uomo, li cercò e li trovò. Collo studio di
molti crani umani riuscì a riconoscere che talora questi ossi rimangono
distinti permanentemente, sebbene per lo più si saldino presto cogli
ossi mascellari accosto, ciò che è la ragione per cui non erano stati
prima riconosciuti. Riconobbe poi che si trovano sempre evidentissimi
nell'uomo nei primordii del suo sviluppo. Oggi è riconosciuto che si
saldano pure sovente e scompaiono come nell'uomo in certe scimmie
antropomorfe adulte.

Tanto più è meritevole il Goethe per questa sua scoperta, che egli la
fece perchè volle farla; cioè pensò che la cosa doveva essere così, e a
furia di investigazioni riuscì a provare che aveva pensato giusto.

Durante tutta la sua vita, e fino all'ultimo della sua vita, il Goethe
ebbe nella mente questo suo argomento del legame fra i viventi e del
passaggio delle forme dalle une alle altre. Ernesto Haeckel, nella sua
_Morfologia generale_, mette in capo a ciascun capitolo qualche brano
del Goethe relativo a questo argomento e ne riporta nella sua _Storia
della creazione naturale_ e nella _Antropogenia_. Eccone qualche saggio:

«Tutte le parti si modellano secondo leggi eterne, e ogni forma, per
quanto straordinaria, racchiude in sè il tipo primitivo. La struttura
dell'animale determina le sue abitudini, e a sua volta il suo modo di
vivere reagisce poderosamente su tutte le forme. Perciò si rivela la
regolarità del progresso, che tende al mutamento sotto la pressione
dello ambiente esterno.»

..................

«In fondo a tutti gli organismi v'ha una comunanza originaria; allo
incontro la differenza delle forme proviene dai rapporti necessari
col mondo esterno; dunque bisogna ammettere una diversità originaria
simultanea e una metamorfosi incessantemente progressiva, se si
vogliono comprendere i fenomeni costanti e i fenomeni mutevoli.»

..................

«L'idea della metamorfosi è comparabile alla _vis centrifuga_ e si
perderebbe nell'infinito delle varietà, se non trovasse un contrappeso,
vale a dire la potenza di specificazione, quella tenace forza
d'inerzia, che, una volta realizzata, costituisce una _vis centripeta_
che nella sua intima essenza si sottrae a ogni azione esterna.»

Nota giustissimamente lo Haeckel che col vocabolo _metamorfosi_ il
Goethe non intende già di parlare soltanto dei mutamenti che il vivente
sopporta nel corso del suo sviluppo individuale, ma bensì della grande
trasformazione delle forme organiche. Di ciò fanno fede le seguenti
parole:

«Splende il trionfo della metamorfosi fisiologica là dove si vede il
complesso suddividersi in famiglie, le famiglie suddividersi in generi,
i generi in specie, e queste in varietà che fanno capo all'individuo,
ma non v'ha soltanto suddivisione, v'ha anche trasformazione. Questo
procedimento della natura non ha altro limite che l'infinito. Per la
natura non vi ha riposo, non vi ha fermata; ma d'altra parte, essa non
saprebbe mantenere e conservare tutto ciò che produce. A partire dal
seme le piante sopportano uno sviluppo sempre più divergente, il quale
cambia sempre più i mutui rapporti delle loro parti.»

Fin dal 1796, parlando degli animali vertebrati, il Goethe diceva:

«Siamo giunti a poter affermare senza tema, che tutte le forme più
perfette della natura organica, per esempio i pesci, gli anfibi, gli
uccelli, i mammiferi e, in prima fila fra questi ultimi, l'uomo,
sono stati modellati tutti secondo un tipo primitivo di cui le parti
che sono le più fisse in apparenza non variano che entro a limiti
ristretti, e che, ogni giorno ancora, queste forme si sviluppano e si
metamorfosano riproducendosi.»

Undici anni dopo egli esprime anche più chiaramente questo concetto
fondamentale:

«Quando si esaminino le piante e gli animali che stanno al basso della
scala degli esseri, appena si possono distinguere gli uni dagli altri.
Per la qual cosa possiamo dire che gli esseri, dapprima confusi in
uno stato di parentela in cui appena si differenziano gli uni dagli
altri, a poco a poco sono diventati piante e animali, perfezionandosi
in due direzioni opposte, per far capo, le une all'albero durevole ed
immobile, le altre all'uomo, che rappresenta il grado più elevato di
mobilità e di libertà.»

Ho detto sopra che il Goethe si diede pensiero tutta quanta la sua
vita del grande argomento delle origini, delle affinità e delle
trasformazioni dei viventi. Ne è prova ciò che segue che io prendo
dallo Haeckel, come le precedenti e anche le seguenti citazioni.

Correva l'anno 1830. A Parigi, in quell'Accademia delle scienze,
Stefano Geoffroy Saint Hilaire sosteneva che gli animali sono foggiati
secondo un unico stampo (unità di composizione) che le specie mutano
col volger del tempo, che le varie forme attuali ebbero una origine
comune. Giorgio Cuvier negava l'unità di composizione e sosteneva
l'immutabilità delle specie, condizione, a parer suo, fondamentale per
una storia naturale scientifica.

Quest'ultima asserzione, fra parentesi, io l'ho sentita da un botanico
moderno, valente nella determinazione delle specie, il quale gridava
che il concetto della variabilità della specie è la rovina della
scienza; e ho sentito un suo interlocutore rispondergli con queste
parole di Giorgio Byron:

--Quanto sarebbe bello se l'uomo potesse proprio scorgere addentro la
verità delle cose, ma quanta buona filosofia andrebbe perduta!

Il Cuvier era eloquentissimo e si appoggiava a fatti attuali evidenti,
mentre Stefano Geoffroy Saint Hilaire, relativamente meno felice nello
esprimere i proprii pensieri, non poteva dimostrare palpabilmente
quanto veniva dicendo.

La grande maggioranza si schierò col Cuvier; non così il Goethe.

Ma in quello stesso anno si faceva la rivoluzione di Parigi che
inaugurava il regno di Luigi Filippo.

Un amico del Goethe, il Soret, il giorno di domenica 2 agosto 1830,
andò a trovare nel pomeriggio il sommo poeta che aveva ottantun anno.

Appunto allora i giornali davano la notizia dello scoppio della
rivoluzione.

Appena il Goethe ebbe veduto il suo amico, esclamò:

--Ebbene? Che cosa pensate voi del grande avvenimento? Il vulcano è in
eruzione; tutto è in fiamme; non si tratta più di un dibattimento a
porte chiuse.

--Sì,--rispose il Soret--l'avvenimento è grave. Ma da quello che si sa
dello andamento delle cose, e con un ministero di tal fatta, c'è da
aspettarsi che tutto finisca colla espulsione della famiglia reale.

--Ma noi non c'intendiamo, ottimo amico mio,--rispose il poeta.--Io non
vi parlo di quella gente. Per me si tratta di ben altro. Io vi parlo
dello scoppio seguìto all'Accademia, della discussione tanto importante
per la scienza, avvenuta fra il Cuvier e il Geoffroy Saint Hilaire.

Pel vecchio poeta una rivoluzione colla quale si mandava via un re per
metterne un altro, era un fatto di pochissima importanza rispetto a una
discussione in cui pubblicamente si proclamava un principio destinato a
portare un profondo cambiamento nella scienza.

--La cosa,--proseguì il Goethe,--è sommamente importante e non vi
potete figurare ciò che io provai nel leggere il resoconto della
seduta del 19 luglio. Ora abbiamo nel Geoffroy Saint Hilaire un
potente alleato che non ci abbandonerà. Vedo quanto si danno pensiero
della quistione i dotti francesi; perchè, a malgrado della terribile
animazione politica, la sala della seduta dell'Accademia era zeppa il
giorno 19 luglio. Ma la cosa più importante di tutto è che il metodo
sintetico inaugurato in Francia dal Geoffroy non può più scomparire.
Pel fatto di una libera discussione all'Accademia, in presenza di un
uditorio numeroso, l'affare è slanciato nel dominio del pubblico; non
è più cosa possibile il liberarsene con una esclusione segreta; non si
potrà più sbrigare o soffocare a porte chiuse.

Passati due anni, nel 1832, in età di ottantatrè anni, il Goethe
compiva un suo lavoro intorno allo stesso argomento e moriva pochi
giorni dopo.

       *       *       *       *       *

Nello stesso modo in cui la vista di un cranio spezzato di montone,
veduto dal Goethe a Venezia, fece nascere nella sua mente il concetto
delle vertebre craniane, così qualche anno dopo un cranio di cerva
biancheggiante lungo la via del Broken fece esclamare a Lorenzo Oken,
quasi come colpito da una rivelazione:

--È un pezzo di colonna vertebrale.

Gli scienziati per molti anni lasciarono in disparte il Goethe
e, nell'esporre la storia della teoria delle vertebre craniane,
incominciavano addirittura dall'Oken.

Ma Lorenzo Oken ebbe meriti ben più grandi come antesignano di quelle
idee che dominano ora nel campo della scienza; soltanto egli non può
dare nessun fondamento dimostrativo alle sue idee giuste e grandiose,
le quali, del resto, vanno confuse con molte altre insostenibili e
false. Il signor Ernesto Haeckel ha fatto un lavoro accurato di
cernita negli scritti dell'Oken tirandone fuori granellini d'oro dalle
arene. In sostanza l'Oken pone siccome punto di partenza di tutti
i fenomeni vitali, di tutti gli organismi, un sottostrato chimico
comune, una sorta di sostanza vitale, generale e semplice, che egli
chiama sostanza colloide primitiva, nella quale è facile ravvisare il
protoplasma dei moderni. In questa sostanza, che egli dichiara prodotta
dapprima spontaneamente dal mare, vede una forma primitiva vescicolare,
che è la cellula dei giorni nostri. Finalmente, egli ha queste parole
testuali:

--L'uomo si è sviluppato; non è stato creato.

       *       *       *       *       *

Intorno alla origine dei viventi si esprime in modo anche più esplicito
e con somma evidenza, contemporaneamente al Goethe e all'Oken, Goffredo
Rinaldo Treviranus di Brema; nella sua _Biologia_ egli dice:

«Ogni forma vivente può essere prodotta dalle forze fisiche in due
modi; può provenire, sia dalla materia amorfa, sia, per modificazione,
da una forma già esistente. In questo ultimo caso, la causa prima
della modificazione può essere, o l'influenza di una sostanza
fecondante eterogenea sul germe, o l'influenza di altre forze che
appaiono soltanto dopo la fecondazione. In ogni essere vivente risiede
la facoltà di piegarsi a una folla di modificazioni; ogni essere
ha il potere di adattare la sua organizzazione ai mutamenti che si
producono nel mondo esterno; si è questa facoltà, messa in opera
dalle vicissitudini sopravvenute nell'universo, quella che ha permesso
ai semplici zoofiti del mondo antidiluviano di arrivare a gradi di
organizzazione di mano in mano sempre più elevati, e ha introdotto
nella natura vivente una varietà infinita.»

..................

«Questi zoofiti sono le forme primitive da cui sono provenuti tutti gli
organismi delle classi superiori per via di sviluppo graduale. Inoltre,
noi crediamo che ogni specie, come pure ogni individuo, percorre certi
periodi di accrescimento, di fioritura e di morte; ma che la morte
della specie non è la dissoluzione, come è nell'individuo, ma bensì
la degenerescenza. Da ciò pare a noi che risulti che, contro ciò che
generalmente si crede, non sono le catastrofi geologiche quelle che
hanno sterminato gli animali antidiluviani; molti di quegli animali
hanno sopravvissuto, e, se scomparvero dalla natura contemporanea, ciò
è perchè le loro specie, avendo compiuto il corso della loro esistenza,
si sono fuse in altri generi.»

Avverte qui lo Haeckel che parlando di degenerescenza il Treviranus
intende questo vocabolo nel senso di adattamento o di modificazione
per via di cause esterne, e fa vedere quanto fosse giusto il concetto
che il Treviranus si faceva della mutua dipendenza di tutti i viventi,
riportandone le seguenti parole:

«L'individuo vivente dipende dalla specie, la specie dipende dal
genere, questo dipende da tutta la natura vivente; e quest'ultima
medesima dipende dall'organismo della terra. Dunque l'individuo
possiede una vita che gli è propria, e, per questo rispetto costituisce
un mondo particolare. Ma, per ciò appunto che la sua vita è limitata,
esso costituisce pure un organo nell'organismo generale. Ogni corpo
vivente esiste per via dell'universo, ma, reciprocamente, l'universo
esiste pure per via di questo corpo vivente.»

Non havvi pel Treviranus nella natura un posto speciale privilegiato
per l'uomo, non havvi lacuna fra la natura organica e la natura
inorganica.

«Ogni ricerca che abbia per oggetto l'influenza del complesso della
natura sul mondo vivente deve prendere le mosse da questo dato
fondamentale, che tutte le forme viventi sono dei prodotti fisici,
che appaiono ancora nella nostra epoca, e che vi sono state delle
modificazioni soltanto nel grado, nella direzione delle influenze.»

Il Treviranus soggiunge poi che con ciò «è risolto il problema
fondamentale della biologia.»

       *       *       *       *       *

Non si può parlare del movimento scientifico in Germania in sul finire
del secolo passato senza pensare al Kant, che vi ebbe una così larga
parte. È imminente in Italia il compimento di uno studio intorno
al grande filosofo tedesco per opera del professore Carlo Cantoni,
dell'Università di Pavia. Il lavoro del filosofo italiano intorno al
filosofo tedesco, condotto con lungo amore e con grande intensità
di applicazione, chiarirà molti dubbi e dimostrerà che non è senza
qualche esagerazione lo asserire che fanno taluni che troppo il Kant si
contraddica intorno alle leggi naturali che regolano i viventi. Qui ora
io sto pago a riportar le seguenti parole del grande filosofo:

«È bello percorrere, mercè l'anatomia comparata, la vasta creazione
degli esseri organizzati, per vedere se non vi si trova qualche cosa
di somigliante a un sistema derivante da un principio generatore,
per modo che non siamo per trovarci obbligati ad attenerci a un
semplice principio del giudizio (che non ci insegna nulla intorno
alla produzione di questi esseri) e a rinunziare senza speranza alla
pretesa di penetrar la natura in questo campo della scienza. Il
concordare di tante specie di animali con un certo tipo comune, il
quale non sembra servir loro di principio solamente nella struttura
delle loro ossa, ma anche nella disposizione delle altre parti, e
quell'ammirabile semplicità di forme che, accorciando certe parti e
allungandone certe altre, involgendo queste e svolgendo quelle, ha
potuto produrre una varietà tanto grande di specie, fanno nascere in
noi la speranza, sebbene, per vero, debole, di poter arrivare a qualche
cosa col principio del meccanismo della natura. Questa analogia di
forme le quali, a malgrado della loro diversità, sembrano essere state
prodotte secondo un tipo comune, fortifica l'ipotesi che queste forme
abbiano una affinità reale, e che vengan fuori da una madre comune
facendoci vedere come ciascuna specie si riaccosti gradatamente a
un'altra specie, da quella in cui il principio della finalità sembra
meglio stabilito, vale a dire l'uomo, fino al polipo, e dal polipo fino
ai muschi e alle alghe, infine, sino all'ultimo grado della natura
che noi possiamo conoscere, fino alla materia bruta, d'onde sembra
derivare, secondo le leggi meccaniche (somiglianti a quelle che essa
segue nelle sue cristallizzazioni) tutta questa tecnica della natura,
tanto incomprensibile per noi negli esseri organizzati che crediamo in
obbligo di concepire un altro principio:

«È permesso allo archeologo della natura di valersi dei vestigi che
sussistono ancora delle sue produzioni più antiche, per cercare in
tutto il meccanismo, di cui ha conoscenza o sospetto, il principio di
questa grande famiglia di creature (perchè questo è il modo in cui
bisogna rappresentarsela, e questa pretesa affinità generale ha qualche
fondamento).»

       *       *       *       *       *

Il signor Alfonso De Candolle ha parlato testè di un botanico ed
orticultore francese che prima ancora di Erasmo Darwin, vale a dire fin
dal 1766, parlò della variabilità della specie, e non in modo ambiguo e
dubitativo, ma con molta precisione. Questo botanico ed orticultore è
il Duchesne. Il volume in cui è trattato di ciò, pubblicato appunto in
quell'anno 1766, è intitolato: _Histoire naturelle des fraisiers_, ed
ha in appendice delle _Remarques particulières_.

Il signor Duchesne aveva raccolto presso Versailles semi di fragole
selvatiche e li aveva seminati. Con grande sua sorpresa trovò che le
pianticelle che ne otteneva avevano quasi tutte una sola fogliolina in
luogo delle tre consuete. Affidò novamente al terreno i semi di queste
pianticelle e ne ottenne altre somiglianti, e così successivamente,
ricavandone una sorta di nuova pianta di fragola alla quale venne dato
il nome di _Fragaria monophylla_. Da questi e altri fatti somiglianti
osservati nella coltivazione prese le mosse per ragionare, dice il
De Candolle, in un modo molto profondo, sulle forme nuove più o meno
ereditarie, e su ciò che si possa chiamare specie, razza o varietà.
Egli crede che molte delle forme designate col nome di specie sono
razze, di cui l'origine può essere riconosciuta o almeno presunta, e
vien fuori con queste parole:

«L'ordine genealogico è il solo indicato dalla natura, il solo che
sodisfaccia al tutto la mente: ogni altro è arbitrario e vuoto d'idee.»

Seguendo questo concetto egli si spinge persino a fare un albero
genealogico delle fragole secondo le derivazioni che egli conosceva o
presumeva.

Certo, tutto ciò è rimarchevolissimo, ma, da quanto pare, il signor
Duchesne non comprese l'importanza della grande verità che gli era
balenata nella mente, non s'applicò a considerare il fatto nella
pluralità delle piante, non pensò agli animali, non s'accorse ch'egli
aveva che fare con una legge applicabile a tutti i viventi, degna di
essere sostenuta e posta con ogni sforzo nella maggiore evidenza.

Ciò veramente si doveva poi fare in Francia, dopo il Duchesne, si
doveva fare con tutto l'impegno, con grande corredo di argomenti e di
cognizioni, con tutta la consapevolezza della importanza della cosa, da
un uomo che fra quelli oggi chiamati i predecessori di Darwin si doveva
spingere più avanti di tutti, sebbene, cosa miseranda a pensarvi, con
nessun visibile effetto pel suo tempo.

Parlo di Giovanni Lamarck. Questo grande naturalista ebbe chiarissimo
nella mente il concetto della variabilità della specie e si sforzò
d'investigare le cause adducendo argomenti di cui anche oggi non si può
a meno di tenere conto, sebbene oggi a questi se ne siano venuti ad
aggiungere altri che hanno un valore incomparabilmente più grande.

L'esercizio di una data parte del corpo di un animale produce un
maggiore sviluppo in quella parte; v'ha un maggiore afflusso di sangue
in quella parte che si esercita di più, una maggior nutrizione, un
aumento di volume. Di ciò ci si dà tutti i giorni più di un vistoso
esempio, anche nell'uomo nella vita civile. Il maestro di scherma
finisce per avere il braccio destro molto più grosso del sinistro; il
barcaiuolo ha sviluppatissime le braccia e le spalle, poco le gambe,
mentre i ballerini hanno enormi i polpacci. Un suonatore di violino ha
le dita della mano sinistra molto più lunghe di quelle della destra.
Tutto ciò per effetto del lungo esercizio della parte. Questi sono
caratteri che l'individuo acquista necessariamente ogniqualvolta si
trova nella condizione voluta. Si potrebbero anche trasmettere questi
caratteri di generazione in generazione e si verrebbero ad esagerare
grandemente quando di generazione in generazione i figli facessero
sempre quei medesimi esercizi che hanno fatto i loro genitori.
Supponiamo una lunga serie di generazioni in cui sempre di padre in
figlio si desse opera allo esercizio della scherma. Il carattere del
maggiore sviluppo del braccio destro s'incomincia a trasmettere fino a
un certo punto ereditariamente dal padre al figlio. Tutti sanno quanto
si trasmettano i caratteri per eredità. Ma il figlio che ha ereditato
dal padre questo braccio destro maggiormente sviluppato, a sua volta
lo accresce proseguendo costantemente nello stesso esercizio e lo
trasmette alla sua volta in un grado maggiore alla sua prole. Così,
ove, ripeto, si proseguisse nella vita civile per una lunga serie di
generazioni questo esercizio della scherma di padre in figlio, dopo
parecchi secoli si verrebbe ad avere negli ultimi discendenti una
differenza notevole nello sviluppo delle due braccia. Ciò invero non
capita nella vita sociale, dove i padri generalmente fanno fare ai
figliuoli un mestiere differente dal loro e dove più generalmente
ancora i figliuoli hanno poca voglia di fare il mestiere del padre.

Ma capita negli animali.

Lo esercizio di una parte in un dato animale promove lo sviluppo di
quella parte; l'animale trasmette ereditariamente questo sviluppo,
ma la prole con un nuovo esercizio lo accresce e lo trasmette
accresciuto, e così via via. Guardiamo come è fatta la talpa: le sue
zampe anteriori sono smisuratamente più grosse delle posteriori;
ciò si vede bene nella talpa in carne e pelle, ma si vede anche più
nello scheletro; l'osso della talpa che corrisponde al braccio è così
stranamente foggiato come non si vede in nessun altro caso; non è più
un osso lungo, è smisuratamente largo e grosso e coperto di fortissimi
rilievi e spigoli per dare inserzione ai muscoli poderosissimi che lo
devono movere; la stessa cosa si dica delle ossa dell'antibraccio,
delle dita e delle spalle; anche lo sterno qui si sviluppa con una
carena, sempre per lo scopo di porgere una maggiore superficie
d'inserzioni alle masse muscolari. Le parti posteriori invece sono,
al paragone, gracili e meschine. Noi possiamo benissimo supporre che
la talpa non sia sempre stata, ma sia invece diventata, come è ora, e
che quindi la sua forma attuale sia notevolmente diversa di quella dei
suoi remoti antenati. Possiamo supporre che dapprima la talpa avesse
una minor sproporzione fra le parti anteriori e le posteriori, e che a
poco a poco, inseguendo i vermi e gli insetti e le larve, e scavando
per inseguirli il terreno, abbia, per via di un continuo esercizio e
per via di una continua trasmissione ereditaria, acquistato l'attuale
suo poderoso sviluppo delle parti davanti, e con esso abbia a poco
a poco progredito nel suo menar quella vita sotterranea in cui la
vediamo oggi. Ma questo suo venire a poco a poco e di generazione in
generazione acconciandosi a una vita sotterranea, avrebbe poi prodotto
un altro effetto inverso, ma concepibilissimo nello stesso modo. Se
l'esercizio accresce lo sviluppo e le dimensioni di una data parte
del corpo di un animale, il fatto opposto, il difetto di esercizio,
deve necessariamente produrre un effetto opposto. A mano a mano che la
talpa venne acconciandosi alla vita sotterranea, sempre meno dovette
aver bisogno degli occhi. Nelle buie sue gallerie la talpa non ci ha
che vedere; avvezzandosi al buio di generazione in generazione, e
non esercitando più gli occhi, la talpa finì per vedersi stranamente
rimpicciolito, appunto per difetto di esercizio, il suo organo visivo.
Certe talpe hanno un piccolo occhiolino, che di fuori non si vede
affatto perchè affondato tra i peli, appena a fior di pelle, col quale
non possono forse altro discernere che la luce dalle tenebre. Altre
talpe hanno l'occhiolino anche più piccolo, addirittura coperto dalla
pelle. Qui si può supporre la riduzione a' minimi termini di un occhio
per difetto di esercizio, fino al punto che esso, mentre ancora è
presente in condizione rudimentale, pure non serve più a nulla.

Certi insetti che vivono in caverne fuori d'ogni luce furon detti
anottalmi dallo apparente loro mancare d'occhi; dico apparente perchè
non è che ne manchino affatto; ma appena li hanno, in condizioni al
tutto rudimentali e fuori d'ogni uso; in altri insetti che vivono nelle
foreste di castagni alle falde dei monti in buche sotterranee, scavate
da altri animali e coperte consuetamente dalle foglie cadute, ma di cui
pure alcuni hanno talora un po' di luce, vedesi mancar gli occhi nel
massimo numero, ma taluni aver occhi i quali, sebbene minutissimi, non
si possono dire tuttavia affatto senza uso. Il proteo anguino che vive
in acque buie ha gli occhi rudimentali e coperti dalla pelle.

Nell'uomo avviene, per disgrazia non tanto raramente, che una ottalmia
produca nel bambino un opacamento della cornea davanti alla pupilla.
Ove ciò avvenga, quell'occhio non ci vede più; ora, quando ciò segue
in un occhio e non nell'altro, coll'andar degli anni l'occhio che non
funziona, sebbene per tutto il rimanente integro, finisce per essere
notevolmente più piccolo dell'altro. Il difetto di esercizio trae con
sè difetto di sviluppo.

Si potrebbe fare uno sperimento, se pur non è stato fatto; prendere
un coniglio piccino e tenergli costantemente un occhio coperto;
quest'occhio nell'animale adulto riescirebbe notevolmente più piccolo
dell'altro. Si potrebbe tener coperti tutti e due gli occhi fin da
piccini a una coppia di conigli e poi alla loro discendenza, tenendoli
sempre pel rimanente in condizioni acconcie di nutrizione. In capo a
poche generazioni si avrebbero conigli con occhi normalmente piccoli,
in capo a molte generazioni si avrebbero conigli con occhi rudimentali.

La giraffa ha lunghissimo il collo, lunghissime le zampe davanti,
tanto che il suo dorso è un piano inclinato dal garrese alla groppa.
Fu sempre così? Nelle grandi foreste africane essa cerca il suo
pascolo fra le rigogliosissime fronde di quegli alberi sterminati.
Quel tener su continuamente il collo, quel sollevarsi sulle zampe
anteriori, quella continua tensione di muscoli, arrecando maggior copia
di sangue a tutte le parti in tal modo costantemente esercitate, ha
potuto dare un grande sviluppo in quel senso alla muscolatura e allo
scheletro della giraffa, che per tal modo si è potuta venire coi secoli
trasformandosi sino a ridursi nello stato veramente eccezionale in cui
si trova oggi.

Gli uccelli di ripa, col lungo sollevarsi sulle zampe ad allungare il
collo, han potuto finire per acquistare maggior lunghezza di zampe e di
collo; così la rana la sua palmatura e anche la foca, così il picchio
la sua lunghissima lingua, e il formichiere e il pangolino. Così, in
una parola, possiamo credere che si siano tanto venute modificando, per
via dell'esercizio e dell'inerzia di certe parti, le forme di tanti
animali, da essere ora i viventi grandemente diversi nella forma dai
loro primi progenitori.

Per tal modo, secondo il Lamarck, l'uomo deriva dalla scimmia. Egli
non dubita punto di ciò, anzi ci si ferma sopra a lungo, cercando il
modo per cui la trasformazione deve essere avvenuta. Gli uomini più
degradati derivarono da scimmie di struttura molto elevata, che a poco
a poco si erano avvezzate a star su due piedi. Così venne col lungo
sforzo di generazione in generazione a modificarsi la forma del tronco
tenuto eretto, e si vennero differenziando le quattro estremità. Le
due estremità posteriori diventando a poco a poco inferiori, si fecero
più robuste, si appiattì il piede e si svilupparono i polpacci, mentre
le estremità inferiori si foggiarono in quello strumento meraviglioso
che doveva tanto aiutare l'uomo nel suo progresso: la mano. All'uomo
in posizione eretta si presentavano in condizioni di molto più grande
agevolezza di osservazione gli oggetti esterni, mentre la mano, come
più unicamente strumento di prensione, ma pur anco di esplorazione e
di esame, dava maggior contezza di essi all'intelletto che per tal
modo si veniva sviluppando. Questi primi uomini derivati da scimmie
di maggior elevatezza ebbero una vita sociale più intima, presero a
meglio aiutarsi nei loro bisogni, dovettero adoperarsi continuamente
ad uno scambio maggiore di pensieri, onde una serie di gridi sempre
di più svariati che venivano a far capo a un linguaggio articolato il
quale, per quanto dapprima rozzo e limitato, non ha pur potuto a meno
di segnare un immenso progresso nello sviluppo dell'uomo; progresso di
cui l'effetto principale non può a meno di essere stato un maggiore
sviluppo del cervello e un più lungo esercizio di quelle facoltà di cui
esso è strumento.

Ciò, ripeto, pel Lamarck non ammette dubbio, egli ci insiste.

A dare un concetto del modo in cui il Lamarck considerava l'origine,
le trasformazioni, le derivazioni, le affinità fra i viventi, varrà
meglio di ogni discorso riferire testualmente queste sue parole:

«Le divisioni sistematiche, classi, ordini, famiglie, generi e specie,
come le loro denominazioni, sono un lavoro puramente artificiale
dell'uomo. Le specie non sono tutte contemporanee; sono discese le une
dalle altre e non hanno che una fissità relativa, e contemporanea;
le varietà danno origine alle specie. La diversità delle condizioni
della vita influisce, modificandola, sulla organizzazione, sulla forma
generale, sugli organi dell'animale; si può dire tanto dell'uso come
del difetto d'uso degli organi. Dapprima furono prodotti solamente gli
animali più semplici, e le forme più semplici, poi gli esseri dotati
di una organizzazione più complessa. La evoluzione geologica del
globo e il suo popolamento organico ebbero luogo in un modo continuo
e non furono interrotti da rivoluzioni violente. La vita non è che un
fenomeno fisico. Tutti i fenomeni vitali sono dovuti a delle cause
meccaniche, sia fisiche, sia chimiche, aventi la loro ragione d'essere
nella costituzione della materia organica. Gli animali e le piante più
rudimentali, collocati nello scalino più basso della scala organica,
nacquero e nascono anche oggi per generazione spontanea. Tutti i corpi
viventi od organismi della natura sono sottomessi alle stesse leggi dei
corpi privi di vita o inorganici. Le idee e le altre manifestazioni
dello spirito sono semplici fenomeni di movimento che si producono nel
sistema nervoso centrale. In realtà, la volontà non è mai libera. La
ragione non è che un grado più alto di sviluppo e di comparazione di
giudizi.»

Fra i manoscritti del Museo zoologico di Torino si trova qualche
appunto di Franco Andrea Bonelli da cui si vede, e così pure da qualche
lettera, come egli fosse stato colpito dalle idee del Lamarck e ne
fosse diventato seguace. Il Bonelli morì giovane e l'immensa mole del
lavoro che egli fece nella sua breve vita gli impedì di occuparsi
di questo come di tanti altri argomenti che pure aveva divisato di
trattare.

Sosteneva le idee del Lamarck all'altro capo d'Italia Michele Foderà di
Girgenti, professore di fisiologia a Palermo. Egli era stato a Parigi,
alunno del Blainville, che s'era atteggiato a oppositore di Giorgio
Cuvier; ritornato in patria, sostenne nelle sue lezioni la mutevolezza
della specie e lo scomparir lento di certe forme senza scosse violente.

Così in Italia ebbe ascolto il Lamarck più assai che non in Francia.
Ma ancora si tratta di casi isolati, e il Bonelli e il Foderà non
lasciarono pubblicazioni in sostegno di questo loro avere accolto le
idee del Lamarck.

È cosa che desta la più grande meraviglia questa, che l'opera del
Lamarck sia passata allora inosservata; non solo non abbia avuto lodi,
ma nemmeno biasimi; sia stata lasciata in disparte e non degnata
nemmeno di una discussione.

La spiegazione del fatto sta in ciò, che allora teneva il campo
onnipotentemente la scuola di Carlo Linneo e di Giorgio Cuvier,
che intorno all'argomento della specie aveva messo come cardine
fondamentale il principio opposto.

       *       *       *       *       *

Carlo Linneo aveva risollevata la storia naturale all'altezza di
scienza. Dopo quasi venti secoli aveva ripreso l'opera di Aristotile
e l'aveva fatta progredire. Aveva dato le norme per riconoscere,
distinguere, denominare, descrivere, ordinare le innumerevoli specie
dei viventi e ciò con tanto criterio, con tanto acume, con tanto senno,
con tanto ingegno, da non lasciar più guari che fare ai suoi successori.

Ma rispetto alle specie egli ne aveva dichiarato assolutamente
l'immobilità. Egli aveva detto esplicitamente, che esistono tante
specie quante ne sono state create. Le specie sono state create tutte
insieme, la specie è il complesso di tutti gli individui che sono scesi
o si possono considerare come scesi da una coppia di progenitori o
anche da un solo progenitore; dal giorno della creazione non ha mutato,
non muta, non sarà per mutare.

Così i viventi sono stati fatti tutti insieme, tutti in una volta. Si
è parlato anche di una virtù generatrice della terra in qualche modo
fecondata. Vincenzo Monti, rivolgendosi alla _Bellezza dell'universo_,
dice:

  Tumide allor di nutritivi umori
    Si fecondâr le glebe, e si fêr manto
    Di molli erbette e d'olezzanti fiori.

  Allor degli occhi lusinghiero incanto,
    Crebber le chiome ai boschi, e gli arboscelli,
    Grato stillar dalle cortecce il pianto.

  Allor dal monte corsero i ruscelli
    Mormorando, e la florida riviera
    Lambir freschi e scherzosi i venticelli.

  Tutta del suo bel manto primavera
    Coprìa la terra; ma la vasta idea
    Del gran Fabbro compita ancor non era.

  Di sua vaghezza inutile parea
    Lagnarsi il suolo, e con più bel desiro
    Sguardo e amor di viventi alme attendea.

  Tu allor, raggiante d'un sorriso, in giro
    Dei quattro venti sulle penne tese,
    L'aura mandasti del divino Spiro.

  La terra in sen l'accolse e la comprese,
    E un dolce movimento, un brividìo,
    Serpeggiar per le viscere s'intese;

  Onde un fremito diede e concepìo,
    E il suol che tutto già s'ingrossa e figlia,
    La brulicante superficie aprìo.

  Dalle gravide glebe, o meraviglia!
    Fuori allor si lanciò scherzante e presta
    La vaga delle belve ampia famiglia.

  Ecco dal suolo liberar la testa,
    Scuoter le giubbe, e tutto uscir d'un salto
    Il biondo imperator della foresta;

  Ecco la tigre e il leopardo, in alto
    Spiccarsi fuori della rotta bica,
    E fuggir nelle selve a salto a salto.

  Vedi sotto la zolla che l'implica,
    Divincolarsi il bue, che pigro e lento
    Isviluppa le gran membra a fatica.

  Vedi pien di magnanimo ardimento
    Sovra i piedi balzar ritto il destriero,
    E nitrendo sfidar nel corso il vento;

  Indi il cervo ramoso ed il leggiero
    Daino fugace, e mille altri animanti,
    Qual mansueto e qual ritroso e fiero;

  Altri per valli e per campagne erranti,
    Altri di tane abitator crudeli,
    Altri dell'uomo difensori e amanti.

  E lor di macchia differente i peli
    Tu di tua mano dipingesti, o Diva,
    Con quella mano che dipinse i cieli.

  Poi di color più vaghi onde l'estiva
    Stagion delle campagne orna l'aspetto,
    E de' freschi ruscei smalta la riva,

  L'ale spruzzasti al vagabondo insetto,
    E le lubriche anella serpentine
    Del più caduco vermicciol negletto.

  Nè qui ponesti all'opra tua confine;
    Ma vie più innanzi la mirabil traccia
    Stender ti piacque dell'idee divine.

  Cinta adunque di calma e di bonaccia,
    Delle marine interminabil'onde
    Lanciasti un guardo sull'azzurra faccia.

  Penetrò nelle cupe acque profonde
    Quel guardo, e con bollor grato natura
    Intiepidille, e diventâr feconde,

  E tosto varii d'indole e figura
    Guizzâro i pesci, e fin dall'ime arene
    Tutta increspâr la liquida pianura.

  I delfin snelli con le curve schiene
    Uscir danzando, e mezzo il mar coprîro
    Col vastissimo ventre orche e balene.

  Fin gli scogli e le sirti allor sentîro
    Il vigor di quel guardo e la dolcezza,
    E di coralli e d'erbe si vestîro.

È una creazione questa a rovescio, per cui si comincia dal fine e si
termina col cominciamento. Vengono prima le fiere, poi gli animali che
devono servir loro di pasto, e il bue, che vien fuori dalla terra bue
addirittura, e non toro; poi gli insetti, poi ultimi gli animali delle
acque, e i pesci prima e i coralli dopo!

Giorgio Cuvier ritenne invero il concetto Linneano rispetto alla
immobilità della specie, e lo pose anzi a fondamento della zoologia. Ma
egli segna tuttavia un progresso, e un grande progresso, su Linneo.

Il Cuvier si applica allo studio dei fossili, che prima era campo
miserando di errori; riconosce che altri viventi diversi dagli attuali
hanno popolato la terra in epoche remotissime, anteriori all'esistenza
dell'uomo; che le forme primitive erano più semplici, che la struttura
dei viventi si andò man mano complicando, che la struttura più perfetta
si trova nei viventi dell'epoca attuale, l'epoca umana. Questa verità
lo condusse a una teoria, secondo la quale sarebbero avvenuti sulla
terra molti e grandi e repentini rivolgimenti di tal fatta da mutar
tutto a ogni volta alla superficie di essa. Il nostro globo ha avuto
grandi e spaventose rivoluzioni, susseguite ciascuna da un lunghissimo
tratto di calma. Ogni rivoluzione spegne sulla terra qualsiasi traccia
di viventi, si distruggono di colpo le piante e gli animali; ma
rimessa la calma si fa una nuova creazione e i vegetali e gli animali
dell'ultima creazione che vien dopo sono sempre più complicati, più
elevati, più perfetti di quelli della creazione precedente; così, a
poco a poco e di miglioramento in miglioramento, si viene all'epoca
attuale, contrassegnata dal più perfetto di tutti i viventi che è
l'uomo.

       *       *       *       *       *

Il Cuvier trovò un potente alleato alla sua teoria dei rivolgimenti
nel signor Elia de Beaumont, il quale non solo accettò la cosa in
complesso, ma credette di poterne anche definire i particolari:
considerando le grandi catene di montagne in ogni parte del globo,
studiandone la natura e le direzioni, esaminandone ogni particolare,
egli credette di essere riuscito a determinare il numero e le
successioni di quei grandi rivolgimenti.

Giorgio Cuvier s'era elevato ad un'immensa celebrità colla grande
opera sua. Egli aveva molto migliorata la classificazione di Linneo;
aveva preso a rivelare i rapporti degli animali mercè una diligente
investigazione della loro interna struttura; aveva insegnato
l'importanza della subordinazione de' caratteri, aveva posto le
fondamenta di quella grande scienza che è l'anatomia comparata, aveva
fatto conoscere un gran numero di forme e di strutture prima di lui
ignote o mal note; era sommamente operoso, eloquentissimo, popolare nel
senso più elevato della parola e dappertutto si giurava nel suo nome.
Egli aveva mostrato un profondo disprezzo per la teoria del Lamarck, e
i suoi contemporanei disprezzarono pure la teoria del Lamarck tanto da
non crederla neppure degna di biasimo.

Poco prima di morire, Giorgio Cuvier ebbe a sostenere una lotta
con Stefano Geoffroy Saint Hilaire, quella lotta di cui ho detto
precedentemente parlando del Goethe. Stefano Geoffroy Saint Hilaire
sosteneva la unità dell'organizzazione, o, come si diceva allora,
la unità di composizione, la unità del piano della struttura degli
animali. Secondo il suo concetto la specie è variabile, le forme mutano
costituendosi innumerevoli differenze da una origine comune; gli agenti
esterni hanno una grande azione in questi mutamenti. Nelle vicende
geologiche passate venne un giorno in cui scemò la quantità dell'acido
carbonico nell'atmosfera e ciò valse a promuovere la trasformazione
di taluni rettili che, con una maggior intensità di respirazione, di
circolazione, mutarono in penne le scaglie e assunsero forma di uccelli.

In verità non era al tutto ingiusto il rimprovero che si faceva a
questi concetti di aggirarsi troppo nei campi della teoria. Se a ciò si
aggiunge quanto già sopra è detto intorno allo ascendente del Cuvier
sui suoi contemporanei, si intende come il Geoffroy Saint Hilaire non
apparisse aver riportato nella sua grande discussione gli onori della
vittoria.

Giorgio Cuvier morì nel pieno splendore della sua gloria e senza ombra
di sospetto che fossero minacciati quei principii scientifici di cui
ben si poteva vantare di aver posto le fondamenta. Ciò non fu dello
Elia de Beaumont, il quale ebbe a provare l'ineffabile dolore di vedere
crollare il suo edifizio e trovarsi da ultimo solo colle sue opinioni.

       *       *       *       *       *

Il grande geologo tedesco Leopoldo De Buch, nella sua _Descrizione
fisica delle isole Canarie_, pubblicata nel 1836, parlando della
distribuzione delle piante, fa le seguenti considerazioni, le quali
sono tanto più importanti per quello che dice contemporaneamente
intorno ai dialetti:

«Sui continenti, gli individui dei gruppi organici si spandono, si
disseminano lontano, e, per azione della differenza dello _habitat_,
della alimentazione del suolo, formano delle varietà le quali,
trovandosi le une discoste dalle altre, non possono andar soggette ad
incrociamenti ed essere per tal modo ricondotte al tipo principale;
si è perciò che esse, alla fine, diventano delle specie costanti,
particolari. Poi le specie le quali sono state simultaneamente
modificate, si ritrovano in contatto colla varietà primiera, per tal
modo modificata; ma a un tal punto esse sono abbastanza differenti e
non possono più mescolarsi insieme. La cosa va in ben altro modo nelle
isole. Ivi, ordinariamente confinati entro a valli anguste e entro a
zone ristrette, gli individui si possono raggiungere e possono in tal
modo distruggere ogni varietà in via di costituirsi. Si è senza dubbio
in questo modo che certe particolarità, o certi vizii di linguaggio,
dapprima particolari al capo di una famiglia, si estendono con questa
famiglia a diventare comuni a un intero distretto. Se questo distretto
è separato, isolato, se non hannovi continui rapporti coi distretti
vicini che riconducano costantemente il linguaggio alla sua purezza
primiera, da questa deviazione linguistica nascerà un dialetto. Quando
segue che certi ostacoli naturali, le foreste, la configurazione del
suolo, anche il governo, vengano a collegare anche più strettamente fra
loro gli abitanti nel distretto di cui parliamo, questi si separeranno
anche più schiettamente dai loro vicini; il loro dialetto si fisserà e
diventerà una lingua perfettamente distinta.»

       *       *       *       *       *

Nell'anno 1818, il dottor M. E. Wells leggeva alla Società Reale di
Londra un suo rapporto intorno ad una fanciulla di razza bianca colla
pelle avente parzialmente l'apparenza della pelle dei neri. In quel
lavoro il dottor Wells avvertì che tutti gli animali, entro una certa
misura, hanno tendenza a mutare, e che, mercè questa proprietà, i
coltivatori possono, colla scelta degli individui, migliorare i loro
animali domestici; poi soggiunse:

«Ma pare che l'equivalente del risultamento artificiale ottenuto
in tal modo si produca pure, sebbene con maggior lentezza, nella
organizzazione delle razze umane, le quali si sono adattate alle
contrade in cui vivono. Fra le varietà umane accidentali, che appaiono
in mezzo ai rari abitanti sparsi per la regione africana, se ne
trovano di quelle che resistono meglio delle altre alle malattie del
paese. In conseguenza di ciò queste ultime razze si moltiplicano,
mentre le altre diminuiscono, e non diminuiscono solamente perchè sono
meno atte a resistere alle malattie, ma perchè non sono in condizione
di reggere alla concorrenza di altre più robuste. Io ammetto come
dimostrato che il colore di queste razze più vigorose sia di una
tinta intensamente colorita. Ma siccome la tendenza alla formazione
di varietà sussiste sempre, col tempo si forma una razza sempre più
nera; e, siccome la razza che ha la tinta più cupa è la meglio adatta
al clima, essa finirà per essere, se non la sola, almeno la razza
dominante.»

       *       *       *       *       *

Il Darwin, nella sesta edizione inglese del suo volume sulla _Origine
della specie_, in un breve cenno storico preliminare, menziona parecchi
altri contemporanei che poco prima della pubblicazione della sua opera
espressero più o meno chiaramente il concetto della variabilità della
specie. In una nota a quel breve cenno storico ha le parole seguenti:

«Aristotile (_Physicae auscultationes_, libro II, cap. 8) osserva
che la pioggia non cade per far nascere il grano, come non cade per
guastarlo quando viene trebbiato a cielo scoperto, ed applica lo stesso
ragionamento agli organismi. E soggiunge (fu il signor Clair Grece che
mi additò questo passo): «Che cosa impedisce che anche le parti (del
corpo) in natura si comportino (a caso) nella stessa guisa, che, per
esempio, i denti crescano per necessità, e cioè gli anteriori taglienti
ed atti a fendere, al contrario i molari larghi e atti a triturare
il nutrimento, poichè non diventano tali a siffatto scopo, ma questo
si raggiunge in modo accidentale. Altrettanto avviene nelle altre
parti, nelle quali sembra sussistere un adattamento ad uno scopo. Ora
le cose, nelle quali ogni singola parte si forma come se fosse fatta
per uno scopo speciale, mentre si sono costituite spontaneamente in
modo adattato, si conservano, e quelle invece perirono e periscono,
in cui la stessa cosa non successe.» Noi troviamo qui un oscuro cenno
al principio della selezione naturale, ma quanto Aristotile fosse
lontano dal comprenderla pienamente ce lo insegnano i suoi asserti
sulla formazione dei denti.» (_Sulla origine della specie_, traduzione
italiana sulla sesta edizione inglese, per cura di GIOVANNI CANESTRINI.
Torino, Unione tipografica editrice, 1875).

Recentemente il signor Ernesto Haeckel, in un suo discorso al
Congresso dei fisici e naturalisti tedeschi in Eisenach, parlò dei
filosofi dell'antichità che sostennero il principio della derivazione
dei viventi dalla materia inorganica e del succedersi di essi
trasformandosi a mano a mano.

Anassimandro sostenne che la infinita materia eternamente in moto ha
dato origine ai corpi celesti condensandosi a mano a mano i fluidi in
materia salda e che la terra è uno di tali corpi. I primi viventi
si generano nell'acqua per l'azione del sole, poi passano, piante e
animali, a vivere sulla terra asciutta. L'uomo deriva per una serie
graduata di trasformazioni dagli animali, e probabilmente da animali
acquatici pesciformi. Eraclito di Efeso è anche più esplicito. Un
grande e non mai interrotto processo di sviluppo domina il mondo
intero, tutte le forme sono travolte in una corrente incessante e la
lotta è «madre di ogni cosa.»

Empedocle di Agrigento afferma il mutare incessante dei fenomeni, e
riconosce siccome fondamento e causa della continua lotta universale
due opposti principii in azione, il principio dell'odio e quello
dell'amore, che sono appunto ciò che i fisici moderni chiamano
attrazione e ripulsione. Così l'unione dei corpi è prodotta dall'amore
e la loro separazione dall'odio. Questi due grandi principii operanti
hanno pure prodotto i corpi organici. Dalla lotta dei due principii
vennero fuori vittoriosamente quelle forme che vivono ora, e si
trovarono preparate alla battaglia e atte a reggersi nella vita.

Così queste, che noi chiamiamo teorie moderne, hanno la bella età di
venticinque secoli.

Ma perchè, esclamerà qui il lettore, se queste idee hanno venticinque
secoli, ci vieni qui tu ora a far perdere il tempo con Carlo Darwin?
Se in venticinque secoli queste teorie hanno fatto così poca strada da
essere state dimenticate tanto che ora si riprendono per nuove, non è
questo un troppo forte argomento contro di esse?

Questa domanda non si può fare che da un lettore ignorante; ma appunto
io credo il mio lettore ignorantissimo.

I dotti non badano a me.

Dunque rispondo al mio lettore ignorante, che altro è avere la
intuizione di una verità ed esprimerla, altro è avvalorare la propria
asserzione con argomenti, i quali, se non ne danno una dimostrazione,
valgono almeno a farla considerare come una ipotesi ragionevole, o
meglio come una buona teoria.

La sfericità della terra, la circolazione del sangue, la pressione
atmosferica, la costituzione dell'aria e dell'acqua, la stessa grande
attrazione universale, ebbero accenni più o meno remoti da questo o da
quel filosofo, e talora tanto espliciti da riempirci ora di meraviglia.
Ciò non toglie che siano state accolte universalmente o come verità
dimostrate o come teorie razionali solo quando venne chi, comprendendo
tutta l'importanza della cosa e applicandovisi con tutte le forze,
addusse argomenti persuasivi in favore della sua asserzione.

Carlo Darwin sentì e comprese primo tutta la grande, la somma, la
immensa importanza del principio della variabilità della specie e vide
il nesso di questo grande problema con tutti quegli altri più elevati
e sublimi che son degni di esercitare la intelligenza dell'uomo; sentì
e comprese la necessità di studiarli addentro il più possibile, e a
questo grande compito consacrò tutta la sua mente poderosa e grande,
tutta la sua vita nobile e generosa, e vinse.

Pochi sanno oggi e sapranno in avvenire chi fosse e che cosa
facesse Anassimandro, tutti sanno e sapranno finchè durerà l'uomo
nell'incivilimento chi sia Carlo Darwin e che cosa abbia fatto.



                                   X


Quando Carlo Darwin s'imbarcò giovinetto per quel grande viaggio di
circumnavigazione, conosceva certamente le idee del suo nonno, Erasmo
Darwin. Non si può supporre che non avesse letto la _Zoonomia_ e il
_Giardino botanico_ colle note, non si può supporre che conversando in
famiglia non ne avesse frequentemente udito parlare da suo padre.

Tuttavia è certo che egli non aveva accolto quelle idee: egli stesso
dichiarò esplicitamente che quando faceva il suo viaggio credeva
alla immutabilità della specie. Il professore Henslow, secondo ogni
probabilità, non dava valore alle idee sulla specie di Erasmo Darwin.

In Inghilterra le idee di Erasmo Darwin avevano suscitato un certo
commovimento al loro apparire, erano state molto biasimate, poi erano
state lasciate in disparte; il medico filosofo era stato sepolto,
s'era conservato vivo il poeta, che il Byron giudicò non indegno dei
suoi sarcasmi, dicendo che egli era grande maestro nell'arte di mettere
insieme rime che non significassero nulla.

Carlo Darwin aveva certamente letto il Lamarck, e l'aveva letto come
egli sapeva leggere un libro di scienza. Ciò risulta dalle citazioni
che ho fatto in principio di questo volume di brani del suo viaggio.
Ma risulta però che in sostanza allora egli si atteneva al concetto
scolastico della specie, cosa la quale, ripeto, egli ebbe poi
espressamente a dichiarare.

Nei brani del viaggio che ho riferito si vede come egli qua e colà
osservando certi fatti, e osservando da quell'osservatore ch'egli era,
ne rimanesse colpito, e primieramente nascesse nell'animo suo il dubbio
intorno all'invariabilità della specie.

Molti anni dopo, addì 8 ottobre 1864, egli scriveva a Ernesto Haeckel:

«Nell'America del sud, tre classi di fenomeni fecero sopra di me
una viva impressione; primieramente, il modo in cui certe specie,
vicinissime, si succedono e si rimpiazzano a mano a mano che si va dal
nord al sud; in secondo luogo, la prossima parentela delle specie che
abitano le isole del littorale dell'America del sud e di quelle che
sono proprie di quel continente; ciò mi stupì grandemente, come la
varietà delle specie che abitano l'arcipelago delle Galapagos, vicino
alla terra ferma; in terzo luogo, i rapporti stretti che collegano i
mammiferi sdentati e i rosicanti del nostro tempo colle specie estinte
della medesima famiglia. Io non dimenticherò mai la sorpresa che
provai nel dissotterrare un avanzo di un gigantesco armadillo analogo
all'armadillo vivente.

«Riflettendo su tali fatti, comparandoli con altri dello stesso ordine,
mi parve verosimile che le specie vicine potrebbero ben essere la
posterità di una forma antenata comune....»

       *       *       *       *       *

Ritornato dal suo viaggio, il Darwin si trovava in cattive condizioni
di salute per le grandi fatiche patite e soprattutto pel mal di mare
che sempre aveva sofferto in modo straziante. Le conseguenze di quel
viaggio rispetto alla sua salute gli si fecero sentire per tutta la
vita. Ebbe sempre una certa difficoltà nel digerire e, se potè campare
a lungo e lavorar tanto, ciò fu dovuto alla vita regolata che egli
seppe menare, cercando ogni suo conforto là dove sempre si trova, nel
lavoro intellettuale e nell'esercizio del bene.

A Londra prese, appena ritornato, ad occuparsi delle sue collezioni.
Nel 1837 andò a Cambridge, dove aveva ottenuto soltanto il grado di
baccelliere, e prese quello di maestro nelle arti, che, siccome ho già
detto, è a un dipresso equivalente alla laurea in filosofia che si dà
in Germania. Poi andò da un suo zio, nello Straffordshire, e sposò sua
cugina Emma Wegdwood, che gli diede una degna figliuolanza e gli fu
degna compagna.

Dico che Emma Wegdwood fu degna compagna a Carlo Darwin, e dico ciò
non per modo di dire, ma come cosa positiva e meritevole di essere
riferita. Emma Wegdwood, donna veramente rara per altezza d'animo,
per verecondia, per bontà, fu degna di Carlo Darwin, del quale seppe
comprender tutta la grandezza non soltanto intellettuale ma anche
morale, e a cui si pose in faccia come un diamante limpidissimo in
faccia a un raggio di sole.

Il Balfour, che doveva morire così poco tempo dopo il Darwin e in così
giovane età, in modo tanto inaspettato e doloroso e con tanto grave
danno della scienza, quando morì Carlo Darwin esclamò:

--Si è spezzata la meglio unita famiglia di tutta l'Inghilterra!

       *       *       *       *       *

Nell'anno 1842 Carlo Darwin pose la sua dimora nel piccolo villaggio
di Down, presso Beckenam, nella contea di Kent, e vi passò tutto il
rimanente della sua vita, quarant'anni, di cui non so se nella storia
dell'umanità si possano annoverare altri più degnamente vissuti.

Facciamogli una visita.

Il professore Nicolaus Kleinenberg, della Università di Messina,
invitato dai suoi scolari, appena il Darwin fu morto, ne fece una
commemorazione, che veniva pubblicata col titolo: _Carlo Darwin e
l'opera sua_. È una delle più belle cose che io mi abbia letto nella
mia vita; son trenta pagine, trenta perle in un filo d'oro.

Visitiamo, col Kleinenberg, Carlo Darwin a Down:

«Aprite il cancello e vi ricevono le fresche ombre di esculi altissimi
e folti. Un po' in là c'è la casa, una di quelle solide costruzioni
del secolo passato, tanto caratteristiche per la campagna inglese,
non molto bella, nè grande, ma spaziosa e comoda; poi il giardino con
delle stufe per la coltivazione di piante esotiche, abbastanza vasto
per un privato; e poi entrate nel parco, nella silenziosa campagna;
estesi prati di quella freschezza, di quella verzura smagliante, che
il mezzodì non conosce, alberi così sani e così alti, qua e là piccoli
gruppi di bei cavalli e di vacche che quando passate alzano lentamente
la testa a guardare il forestiero coi loro occhi limpidi e scuri, e poi
tornano tranquilli a pascere; e nell'aria quella leggiera vaporosità,
che ammorbidisce ogni contorno del paesaggio, come un velo sul volto
di una donna. Nella casa quel _comfort_ che a noi pare lusso, mentre
in Inghilterra non significa se non che un uomo colto si trova in
regolate condizioni finanziarie; un'amabilissima famiglia; libri,
strumenti, ecco l'insieme pacifico dal fondo di cui staccasi l'alta e
serena figura di Darwin. Soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscerlo
personalmente può intendere il fascino che esalava la sua anima pura e
semplice. C'era qualche cosa della gentilezza e dell'ingenuità di un
fanciullo in quell'uomo forte, che gli dava una grazia inesprimibile.
Intorno a lui era un'atmosfera piena di rispetto e di simpatia.

«Darwin era liberale, non solamente nel significato abbastanza
meschino a cui l'uso politico ha ridotto questa parola, ma era liberale
in quel magnifico senso che intendevano i trecentisti: un uomo largo di
mente, largo di cuore e largo di mano.

«La vita pubblica gli ripugnava; non ha bramato nè accettato alcun
posto nel governo dello Stato. Lesse parecchi suoi scritti nella
Società Reale e nella Società Linneana, ma non parlava pubblicamente,
e rare volte scrisse sui giornali. Ma quando sentiva il dovere di
pronunziare la sua opinione, allora la disse, modesto sì, ma franco e
fermo, senza badare nè alla persona degli avversari, nè alla propria
popolarità. Insomma, l'uomo più grande dei nostri tempi era un semplice
gentiluomo di campagna.

«E da quella pacifica casa di campagna partì l'impulso che propagavasi
con velocità inaudita attraverso l'intero mondo intellettuale,
scuotendolo nelle sue fondamenta più salde. Qual contrasto tra la vita
privata di Darwin e la gigantesca lotta sostenuta dai suoi libri! Per
certo Darwin non era un agitatore, non era affatto nelle sue intenzioni
il commuovere le masse, ma il pensiero, si sa, una volta sprigionato
dal cervello, ha vita propria e non bada nè punto nè poco ai desiderii
del suo creatore.»

       *       *       *       *       *

Il pensiero di Carlo Darwin, appena egli ebbe posto definitivamente
dimora in Down, il suo pensiero dominante, fu lo studio del grande
argomento della variabilità della specie. Ma tuttavia, mentre
incominciava le sue ricerche intorno a questo argomento, dava pure
opera ad altri lavori, di cui alcuni erano in rapporto col viaggio
fatto, altri si riferivano a ricerche originali. Tra i primi conviene
menzionare il volume intorno alle isole del corallo di cui ho parlato
sopra, e altre pubblicazioni geologiche relative al viaggio, e anche
di geologia delle isole britanniche. Qui pure prende posto il volume
nel quale egli racconta il suo viaggio, quello intorno a cui mi son
tanto dilungato in principio. Fra i lavori zoologici originali del
Darwin, pubblicati in quel tratto di tempo, ha un grande valore la
sua _Monografia dei Cirripedi_. Sono due volumi di un migliaio di
pagine, con quaranta tavole. Molti fatti nuovi si vennero a rivelare
per quel lavoro, e di grande importanza. Differenze sessuali enormi,
l'unisessualismo, l'ermafrodismo, la condizione complementare di alcuni
maschi, tutto nella medesima specie, onde il Darwin stesso diceva non
trovarsi nulla di somigliante a ciò che egli era venuto riconoscendo in
tutto il resto del regno animale, ma trovarsi bensì in alcune piante;
e conchiudeva soggiungendo, che nella serie dei fatti che egli era
venuto investigando, appariva una singolare illustrazione di più di una
cosa da lungo tempo nota, che la natura, cioè, muta gradatamente da
una condizione all'altra, e nel caso di cui egli stava parlando, dalla
bisessualità alla unisessualità....

Per tutte le vie il Darwin si trovava ad arrivare alla stessa
conclusione; la verità di cui si era consacrato alla ricerca lo veniva
stringendo da tutte le parti.

Ma la via principale per cui Darwin venne ad investigare il fatto della
variabilità della specie e a rintracciarne le cause, la via che, appena
vi ebbe posto il piede, gli si appalesò tale da menarlo ad una grande
meta, fu una via la quale era stata sempre aperta a tutti, patente,
amplissima, in cui tutti avevano sempre camminato senza saper quello
che facevano, come il borghese gentiluomo del Molière aveva sempre
fatto della prosa senza saperlo.

Fu la osservazione degli animali domestici e delle piante coltivate.

Nessuno prova meraviglia di quelle cose che ha quotidianamente
sottocchio. Perciò non ci meravigliamo delle modificazioni che l'uomo
induce negli animali domestici, per quanto esse siano meravigliose.

L'uomo modifica a sua posta, direi quasi si aggiusta a suo piacimento
gli animali domestici, secondo i suoi bisogni, i suoi gusti e i suoi
capricci. Ne muta il colore e la qualità dello integumento, la mole, la
forma, le proporzioni, le viscere, gli organi dei sensi, tutto.

Se un naturalista, approdando ad un'isola non ancora visitata
dall'uomo, trovasse forme come il cane di Terranova, il veltro, il
bracco, il botolo, non avrebbe neppure per un momento l'idea che
potesse trattarsi di animali della medesima specie.

Il cavallo da corsa inglese, allungatissimo, fino, sottile, tutto
muscoli, meravigliosamente atto a percorrere un grande spazio in
brevissimo tempo, comparato col poney piccolissimo e tarchiatello,
e col macchinoso e pesante cavallo da tiro, sembrerebbero, a chi li
vedesse per la prima volta, animali ben diversi.

Dal maiale l'uomo non vuole che carne e grasso, ed è arrivato a
ottenere una razza in cui nell'adulto il corpo non appare più che
un otre enorme rimpinzato di grasso e di carne. Le zampe sono tanto
piccole che l'animale non ci si può reggere, non si muove, non opera,
non sente; ingoia, grugnisce, procombente a terra aspetta la morte.

L'uomo ha voluto conigli con le orecchie giù penzolanti e li ha avuti,
ha voluto anche conigli con un orecchio su e l'altro giù e li ha avuti
pure; galline grosse come tacchini e galline grosse come quaglie, con
ogni maniera di ciuffi e di creste e perfino col piumaggio al rovescio,
pecore, capre, bovine senza corna, cani senza coda, piccioni con coda
di pavone, piccioni con becco di falco, piccioni capitombolanti, pesci
con duplici e triplici pinne, filugelli con bozzoli di una data forma,
di un dato colore, di una data qualità di seta, e via dicendo.

Come uno scultore si modella l'argilla, a poco a poco l'uomo si modella
la forma animale e se la foggia a suo piacimento.

Come fa ciò l'uomo?

Anche il contadino sa rispondere a questa domanda, sa che ciò si fa con
un mezzo tanto facile e semplice quanto efficace e sicuro.

La scelta dei riproduttori.

Vien su accidentalmente in una greggia un capro senza corna; dico
accidentalmente per dire che non so come la cosa sia avvenuta; se
questo capro avrà una figliuolanza, è molto probabile che tra i
suoi figli qualcuno riesca pure senza corna. Quando per avventura
in quella greggia si fossero trovati accidentalmente un capro senza
corna e anche una capra senza corna e questo maschio e questa femmina
fossero stati messi insieme a dare opera alla riproduzione, anche più
probabilmente qualcuno dei loro figli sarebbe venuto su senza corna.
Dico qualcuno, non tutti; o fors'anche nessuno, ma, poi, un figlio di
questi figli. Comunque, se l'allevatore prende questi nati senza corna
e fa in modo che fra loro producano figliuolanza, i nati della seconda
generazione senza corna saranno più numerosi di quelli della prima.
Così più che non quelli della seconda saranno numerosi senza corna
i nati della terza generazione, e più ancora quelli della quarta, e
via dicendo. Scegliendo sempre gli individui senza corna e facendoli
riprodurre insieme, si finirà per avere una razza di individui tutti
e sempre senza corna. Tutti e sempre, salvo forse una volta o l'altra
un qualche raro individuo che nascerà colle corna per ricordare
ancora il carattere dei suoi antenati, al quale fatto venne dato il
nome di _atavismo_, che è sempre più raro quanto più son numerose le
generazioni discese dai primi progenitori senza corna, vale a dire
quanto più è antica la razza.

Ora è un secolo da che nacque nel Massachussett un montone che aveva
il corpo allungato e le gambe corte e torte come il cane bassotto. Il
proprietario della greggia che ebbe quel montone pensò che sarebbe
stato vantaggioso per lui avere molti montoni di quella sorta, perchè
non avrebbero potuto saltar fuori dal ricinto e gli sarebbe stato più
facile custodirli. Fece adunque riprodurre quel montone di cui i figli
vennero pure col corpo lungo e colle gambe torte, e ne ebbe in breve
tutta quanta una razza.

Il dottor Gaspare Pacchierotti di Padova regalò al professore
Canestrini un cane da caccia nato colla coda corta, figlio di due
genitori che avevano avuto tagliata la coda. (Vedi _La teoria di
Darwin_ criticamente esposta da GIOVANNI CANESTRINI, Milano, Dumolard,
1880).

In Piemonte nel principio del secolo, quando erano esclusivamente
adoperati per la caccia delle quaglie i cani bracchi a cui si soleva
tagliare la coda, il nascere dei cagnolini bracchi senza coda era un
fatto frequente, e mi ricordo bene di averne veduti, e soprattutto di
aver inteso parlare della cosa siccome veduta da molti, e frequente
tanto da non destare nessuna meraviglia. Ho anzi intorno a ciò una
ricordanza al tutto speciale. Mio padre mi fece vedere un giorno uno di
quei cagnolini senza coda, ancora poppante, e me ne parlò come di un
esempio molto evidente della ereditarietà dei caratteri negli animali
domestici.

A Roma, nell'orto botanico a Panisperna, v'è un bel cane da guardia che
si chiama Orso, ed è in questo momento ben lontano dallo aspettarsi che
venga stampato il suo nome. Orso non ha coda e nacque senza coda. Il
professore Pedicino, che lo ebbe poppante, attesta il fatto, il qual
fatto è comune fra i pastori della campagna romana ed era già noto fin
dal secolo passato.

Presso Iena, alcuni anni or sono, un toro al quale, pel chiudersi
repentino della porta della stalla, s'era strappata la coda, fu padre
di vitelli senza coda.

Un toro nato senza corna da genitori cornuti, al Paraguay, nell'anno
1770, accoppiato con una vacca provveduta di corna, produsse vitelli
senza corna, i quali si propagarono sempre collo stesso carattere
negativo, per modo che, mercè la scelta degli allevatori, oggi al
Paraguay i bovi cornuti sono rarissimi ed è invece al tutto dominante
la razza delle bovine senza corna.

Le pecore merinos degli spagnuoli furono perfezionate in Inghilterra e
in Germania. Si pratica una scelta a tre riprese degli individui che si
vogliono destinare alla riproduzione; si collocano i più belli sopra
una tavola, se ne esamina attentissimamente la lana, e si tirano fuori
quelli che l'hanno più fina; poi si mettono sulla tavola questi soli, e
fra essi ancora se ne separano i migliori; poi si fa una terza scelta,
di alcuni pochissimi, ottimi fra tutti. Questo lavoro, per lunghi anni
compiuto nello Elettorato di Sassonia, ha prodotto una razza di cui
ciascuna pecora è di una rara perfezione.

Appunto per essersi fatta nell'Elettorato di Sassonia questa razza, la
pecora che le spetta ebbe il nome, popolarissimo fra gli allevatori, di
_Pecora elettorale_, nome che mi produce un certo effetto ora che lo
scrivo, perchè lo scrivo appunto mentre bolle il lavoro elettorale con
suffragio allargato e scrutinio di lista.

La scelta dei riproduttori è adunque il mezzo capitale che l'uomo
adopera per farsi le razze degli animali domestici, e a questo poi,
naturalmente, aggiunge quei mezzi accessorii che ottiene col porre
l'animale, che vuole sviluppare in un dato senso, nelle condizioni
meglio acconce allo intento; la quantità e la qualità del nutrimento,
le abitazioni, gli esercizi, l'aria, la luce, l'uomo regola intorno
all'animale secondo i casi. Così esercita nella corsa il puledro,
mentre tiene nell'immobilità il maiale, e avvezza i piccioni
viaggiatori al ritorno portandoli un po' discosto e abbandonandoli
appena sanno volare, e a poco a poco allungando sempre le distanze.

La stessa cosa come per gli animali domestici avviene, mercè l'opera
dell'uomo, per le piante coltivate, e non è d'uopo dire quanta sia la
varietà dei frutti, dei fiori, delle forme stesse delle piante che
l'uomo coltiva; le esposizioni che si fanno ora tanto frequentemente
hanno messo ognuno in condizioni di verificare la cosa. La via per
ottenere tante e tante singolari varietà costanti è la stessa, la
scelta dei semi di quelli individui che hanno in maggior grado il
carattere che si ricerca e lo adattamento delle condizioni esterne,
quanto più si possa, allo scopo che si vuole ottenere.

       *       *       *       *       *

Questo argomento delle modificazioni che l'uomo induce negli animali
domestici e nelle piante coltivate, della via che tiene e dei
risultamenti cui giunge, fu, come ho detto, lo studio principale fatto
da Carlo Darwin negli anni che tennero dietro a quello in cui fermò
in Down la sua dimora. Studiò tutto, ma si applicò segnatamente allo
studio delle razze dei piccioni. Questi uccelli domestici sono stati
profondissimamente modificati e svariati in numerose e differentissime
razze dall'uomo, e danno certezza allo studioso (ciò che non si può
dire sempre degli altri animali domestici) di provenire tutti da una
sola specie selvatica, il comune piccione terraiolo. Carlo Darwin si
fece membro di società inglesi che danno opera allo allevamento dei
piccioni, scrisse in ogni parte del mondo, ebbe esemplari in pelle
di tutte le razze e ragguagli di ogni sorta da persone intelligenti
e capaci di comprendere bene e di rispondere acconciamente alle sue
domande.

Così egli si compenetrò scientificamente e riuscì a comprendere tutta
la importanza della verità volgare che l'uomo ottiene tanto differenti
le razze degli animali domestici e le varietà delle piante coltivate
mercè la scelta dei riproduttori, o come egli disse, la scelta
artificiale, contrapponendo questo nome a quello della scelta naturale
che egli riconobbe essere il grande fattore della modificazione e della
trasformazione delle specie dei viventi, animali e piante, in natura.



                                  XI


La teoria dei cataclismi, dei grandi rivolgimenti, delle rivoluzioni
del globo, la teoria di Cuvier era caduta, morta e sepolta.

Carlo Lyell, pubblicando nel 1830 i suoi _Principii di geologia_,
era venuto a mutare le opinioni allora in corso, e quella sua
pubblicazione fu tanto sapiente, tanto limpida, tanto persuasiva,
tanto ricca di dimostrazioni e di prove, fin là dove possono andare
le prove e le dimostrazioni in fatto di geologia, tanto stringente
nelle argomentazioni dove non era più questione di prove, che si
osservò questo fatto notevole di un profondo rivolgimento operato nel
campo della scienza in un tempo breve e con così poco contrasto come
raramente suole avvenire in tal sorta di casi.

Carlo Lyell dimostrò che quei mutamenti profondi sulla superficie della
terra di cui appaiono tanto evidenti le traccie, non sono già avvenuti
mercè scoppi, cataclismi, azioni violentissime in modo istantaneo e
repentino, ma bensì a poco a poco, lentissimamente e per l'azione di
quelle medesime cause che operano anche oggi.

La vita di un uomo, la vita di parecchie generazioni d'uomini, è troppo
breve a riconoscere certi mutamenti che avvengono alla superficie
della terra. Questi mutamenti non si fanno riconoscere che in capo a
molti secoli. Il suolo si muove, si può dire, in ogni parte, qua si
solleva, là si abbassa, questi sollevamenti e questi abbassamenti sono
lentissimi, si fermano, riprendono, proseguono, per tornare a formarsi
e per tornare a proseguire; il fondo dei mari si solleva, la terra
emersa si sprofonda, l'acqua e l'aria intaccano le rocce e la materia
solida si altera, si sgretola, s'intacca, si scompone e costituisce
nuove combinazioni; tutto si muta, e dove prima era un clima caldo
diventa temperato e poi freddo, e dove era ghiacciato tutto l'anno
s'apre il campo a poco a poco ad una lussureggiante vegetazione. Dico
a poco a poco, lentissimamente, col volgere di centinaia e migliaia di
secoli.

       *       *       *       *       *

Così i viventi hanno potuto di generazione in generazione trovarsi
in condizioni che siano venute mutandosi lentissimamente; questi
mutamenti esterni hanno potuto bene, anzi hanno dovuto trarre con sè
la modificazione di alcuni caratteri. Gli individui di una data specie
di animali in natura si rassomigliano moltissimo fra loro; tuttavia
una qualche differenza individuale c'è; in una località dove il clima
si vada facendo più freddo, quegli individui di questa o quella specie
di mammiferi che per avventura abbiano un po' meglio dei loro compagni
folto e lungo il pelame, si troveranno in condizioni migliori e avranno
maggior probabilità di campare e di invecchiare, di propagarsi, che non
gli altri. Questi individui più riccamente forniti di pelo produrranno
figli in pari modo, gli uni più e gli altri meno, privilegiati per un
pelame più ricco e meglio protettore; quei figli che saranno meglio
privilegiati avranno maggior probabilità di sopravvivere e trasmettere
a loro volta il carattere benefico ai loro discendenti. Così a poco
a poco, dopo molte generazioni, si avrà un cambiamento stabile per
questo riguardo e i discendenti avranno sopportato un mutamento
rispetto agli antenati, appariranno diversi da quelli, la specie avrà
variato in natura, come varia in domesticità e si modifica la razza.
In domesticità la modificazione segue mercè la scelta artificiale
che fa l'uomo degli individui meglio forniti del carattere che si
trasmette. In natura la scelta avviene da sè stessa col sopravvivere
e propagarsi degli individui che hanno il carattere favorevole, e si
ha quindi la _scelta naturale_. Tutti sanno che il colore del pelo,
delle piume, delle scaglie, della pelle nuda, dello integumento degli
animali, si conforma al colore del mezzo in cui questi vivono. La
raganella che sta nel fogliame degli alberi e la cavalletta che sta
nell'erba dei prati sono verdi, l'orso delle regioni polari è bianco
come la neve, gli insetti son variopinti come i fiori in cui vivono,
la lucertola muraiola ha il color dei muri, la steppa, il deserto,
danno il loro colore agli animali che vi albergano. La stessa cosa è
nel mare. Le alghe marine hanno belle e svariatissime tinte, sovente
sfumature delicate e gradazioni da pareggiare i fiori dei prati e dei
monti, ma dominano soprattutto tre grandi tinte, la verde, la rossa e
la bruna. Quei pesciolini del mare che vivono fra le alghe e i nostri
pescatori denominano collettivamente col nome di pesci di scoglio,
son bruni, verdi, rossi, variopinti, conformemente al color delle
alghe in mezzo alle quali s'aggirano guizzando; così hanno il color
delle alghe le chiocciole e le limacce marine, i gamberelli, e via
dicendo. Ciò segue mercè la scelta naturale. Se in un prato vi fossero
cavallette di varii colori, alcune verdi, altre rosse, altre gialle,
altre bianche, più facilmente senza dubbio le prime si sottrarrebbero
alla vista degli uccelletti che ne fanno loro pasto, più facilmente le
altre sarebbero beccate. Così a poco a poco verrebbero a scomparire le
cavallette colorite altrimenti che non in verde, mentre quelle colorite
di questo colore si salverebbero. Alla lunga, il color verde finisce
per rimaner solo in campo scomparendo tutti gli altri mercè l'opera
irresistibilmente efficace della scelta naturale. Lo stesso si dica per
gli altri esempi citati e per gli innumerevoli che si potrebbero citare.

Gli animali da preda, le fiere, gli uccelli rapaci, e tanti altri
animali più piccoli, ma non meno fieri predoni, debbono lottare fra
loro di forza, di velocità, o altrimenti, per campare la vita. Data una
località dove i predatori siano numerosi e le vittime vi vadano, per
una delle tante cause che possono produrre questo effetto, facendosi
più scarse, i più deboli fra i predatori soccomberanno, mentre i più
forti persisteranno, e questi saranno i più veloci, i meglio armati,
quelli per qualsiasi carattere più favorevole in condizioni migliori
per vincere, e questi caratteri favorevoli si verranno sempre più
sviluppando e seguirà nella specie una trasformazione.

       *       *       *       *       *

Invero, la lotta per la vita è una legge fatale, dolorosa, crudele,
di tutti i viventi: di tutti i viventi non escluso l'uomo. Malthus
dimostrò come nelle generazioni degli umani segua questo fatto, che
nascon molti più bambini di quello che si possa alimentare di uomini,
quindi c'è una certa quantità di umani che langue, deperisce, muore
vinta nella lotta per l'esistenza, fierissima nelle società incivilite.

Questa lotta per la vita che è nella umanità, è in tutti i viventi
in natura. L'uomo potrà forse un giorno farla cessare e potrebbe fin
d'ora attenuare in parte gli effetti tremendi di questa lotta quando
veramente il forte si volesse dare più pensiero del debole. Nei viventi
in natura non c'è rimedio.

I naturalisti si son divertiti qualche volta a calcolare il numero
degli individui che deriverebbero da una sola coppia di animali,
quando tutti i loro nati crescessero e si propagassero a loro volta
per un certo tratto di tempo. È una cosa che fa spavento. Le aringhe
nate dalle ova di un'aringa sola, ove ciò avvenisse, in pochi anni
empirebbero tutti i mari.

È terribile invero questa legge che condanna il maggior numero dei
viventi a perire prima di arrivare allo stato adulto, prima di
soddisfare al compito supremo della riproduzione.

Il Kleinenberg ha in proposito le seguenti notevoli parole:

«La sproporzione tra gli individui virtualmente esistenti e quelli
che realmente arrivano al completo svolgimento di tutte le funzioni,
è senza dubbio un fatto generale nel regno organico. L'ammissione di
questo fatto come principio scientifico incontra tuttavia, al parer
mio, alcune difficoltà. Invero l'indomabile tendenza degli esseri
organici a moltiplicarsi oltre i limiti del realmente possibile, non
mi pare comprensibile senz'altro come una qualità fondamentale della
materia vivente; sarebbe una relazione ragionevolissima se la vita si
mantenesse eternamente in proporzione diretta coi disponibili mezzi
di sussistenza. D'altro canto s'intende che questo fenomeno biologico
non possa essere effetto della selezione naturale, imperocchè la sua
esistenza è precisamente la necessaria presupposizione, senza la quale
non si avrebbe nè la lotta per l'esistenza, nè la selezione naturale.
La lotta per l'esistenza quindi non può essere una condizione
primitiva della vita e deve aver avuto origine da certe relazioni
posteriori. Sarebbe una ipotesi forse accettabile che la vita comparve
sulla terra per la prima volta in quantità assai scarsa relativamente
all'esuberanza di elementi vitali offerti dalla natura; che tale
sproporzione in favore alla vita ne provocò la rapida moltiplicazione e
che l'abbondante riproduzione ben presto diventò abituale, ereditaria.
In questo primo periodo della vita terrestre non esisteva nè lotta
per l'esistenza, nè selezione, nè sviluppo. Ma appena fu raggiunto
l'equilibrio, esso fu immediatamente disturbato a causa dell'ereditaria
rapida propagazione, la vita traboccava, la bilancia si abbassava
dal lato opposto, e da quel momento incominciano la concorrenza, la
soppressione del meno perfetto, le trasformazioni.

«Quanto alla lotta per l'esistenza, essa è fondata sulla tendenza
del vivente a conservar sè stesso, tendenza che è assolutamente
inseparabile dal concetto della vita in qual modo pure vada formulato;
la selezione è poi una conseguenza della lotta, e ne risulta, dato un
certo numero di variazioni, con necessità inevitabile, la formazione di
nuove specie.»

       *       *       *       *       *

Erasmo Darwin parla di una lotta che segue in natura nel regno
vegetabile, e dice:

«Tutto il mondo vegetabile si contende a vicenda e luce e aria; gli
arbusti s'inalzano disopra le erbe, e, togliendo loro la luce e l'aria,
arrivano a danneggiarle a segno che le fanno perire, gli alberi
soffocano e danneggiano gli arbusti, le piante parassite arrampicanti,
come l'_edera_ e la _vitalba_, nuocciono agli alberi più alti, ed altre
piante parassite, che sussistono senza essere abbarbicate entro la
terra, come il _Visco_, la _Fillandsia_, l'_Epidendrum_, i _Muschi_ e i
_Funghi_, nuocciono agli alberi sopra cui vivono.

«Una delle gramigne indiche, _Paniscum arborescens_, il cui stelo non è
più grosso d'una penna d'oca, s'inalza tanto alto, quanto i più grandi
alberi, per cagione di questa contesa per l'aria e la luce....»

Qui Erasmo Darwin parla della lotta fra le varie specie di vegetabili.
Accenna, per verità, alla gramigna indica diventata così alta, ma non
esprime chiaramente il concetto della lotta fra i varii individui di
una stessa specie per la quale finisce la specie per trasformarsi.

       *       *       *       *       *

In una fitta foresta le piante arboree tenderanno sempre ad allungarsi
verticalmente e salire, mentre un albero che cresce liberamente solo in
una ampia pianura tenderà ad allargare i suoi rami, e quando i semi di
questo per una lunga serie di generazioni venissero a trovarsi sempre
nelle medesime condizioni finirebbe per derivarne una forma d'albero
poco alto con espansissime fronde.

Gli alberi in montagna han foglie sottili e rami orizzontali, nelle
condizioni migliori per resistere al vento e alla neve; possiamo
benissimo intendere come, per una lunga serie di trasformazioni
lentissime mercè la scelta naturale, sian venuti al punto in cui oggi
li vediamo; come intendiamo il caule brevissimo di altre piante alpine,
di alcune delle quali possiamo tener dietro allo accorciarsi del caule
a mano a mano alle varie altitudini.

       *       *       *       *       *

Venticinque anni or sono (scrivo ora nell'ottobre del 1882), entrai
un giorno nel Museo zoologico di Torino, nello studio di Vittore
Ghiliani, entomologo valentissimo, ma ancora uomo di cui la virtù e
la bontà superavano il sapere, per quanto questo fosse grande. Trovai
quell'ottimo uomo curvo sul tavolino colla lente; aveva davanti una
tavoletta di sughero stretta e lunga, con sopra insetti coleotteri
infilzati. Levò il capo, mi corse incontro a stringermi affettuosamente
la mano. Io dimorava allora in Genova e solo di rado capitava a Torino.

C'era sempre qualche cosa da imparare quando il Ghiliani parlava, e
io gli domandai che cosa stesse guardando con tanta attenzione al mio
arrivo.

--Sto guardando--mi rispose concitatamente--questa prova che ho qui
sotto gli occhi del fatto, che in natura non vi sono specie. Vedete
qui; osservate, di questa dozzina di forme, la prima e l'ultima; vi
paion ben differenti l'una dall'altra; tanto che non vi viene in mente,
se mettete le due sole accosto, di dire che appartengono alla medesima
specie: ma guardate quelle che stanno in mezzo, guardatele l'una dopo
l'altra nell'ordine in cui sono disposte: la prima è talmente affine
alla seconda che voi non credete di poterla separare specificamente;
ma questa seconda si lega nello stesso modo alla terza, la terza alla
quarta, e così via. La prima è della schietta pianura, la seconda
delle falde del monte, le altre del monte stesso a mano a mano sempre
a un'altezza maggiore. Le specie si modificano salendo, e ciò non solo
negli insetti, ma in generale negli animali e nelle piante.--

Queste parole io le ascoltava dal Ghiliani, due anni prima che venisse
fuori con uno scoppio, che doveva echeggiare per tutto il mondo, il
volume intorno all'origine della specie, di Carlo Darwin.

Nessuno più di Vittore Ghiliani era in condizioni di comprendere quel
volume, e invero egli sommamente se ne compiacque e nella sua immensa
ricchezza di cognizioni entomologiche trovò poi pel rimanente della sua
vita argomenti suoi in appoggio di questa dottrina.



                                  XII


Il moltiplicarsi di una data specie di viventi in una data località
è sovente in rapporto colla esistenza di altri viventi, talora assai
lontani e diversi dai primi e tali che non si crederebbe mai, quando
la cosa non fosse dimostrata dalla osservazione, che possano gli uni
giovare o nuocere agli altri.

Una sorta di gambero marino chiamato _Paguro_ dai naturalisti, comune
lungo le spiagge italiane, e notissimo ai pescatori che lo cercano per
inescarne i loro ami, presenta questa singolare conformazione, che
quella parte che volgarmente nel gambero si chiama la coda, ma che
invero è il ventre, invece di avere la copertura di scaglie che hanno
gli altri gamberi, si trova in esso al tutto nuda e con una pellicina
sottile. Con un ventre di tal fatta allo scoperto il paguro non
potrebbe vivere; oltrechè la pellicina sottile si lacererebbe contro
gli spigoli delle pietruzze e delle arene, ogni sorta di pesciolini di
scoglio la morderebbero e ne farebbero pasto. Singolare forma questa
del paguro, che mentre ha il capo e il petto saldati insieme e protetti
da una salda corazza, ha il ventre molle e indifeso. A ogni costo
bisogna che il paguro faccia una difesa a quel suo ventre nudo; la fa
in singolarissimo modo. Dove esso vive fra gli scogli, sulle ghiaie
e nelle fanghiglie sottomarine lungo la spiaggia, vivono parecchie
sorta di chiocciole di mare, le quali siccome vivono muoiono. La parte
molle dell'animale si disfà tutta dopo la morte e rimane la conchiglia
vuota. Il paguro prende questa conchiglia e ci alloga dentro il suo
molle ventre e se la trascina dietro camminando. Se le conchiglie
vuote son molte e i paguri pochi, tutto va bene; ma se i paguri son
molti e poche le conchiglie vuote, tutto va male. Seguono fra i paguri
fiere battaglie pel possesso di una conchiglia. Avviene talora che un
paguro, annoiato di trascinarsi sempre la conchiglia dietro, la lascia
per darsi un po' di sollazzo e fare una passeggiatina. Un altro paguro
subito se ne impadronisce e quando ritorna il primo proprietario se
ne trova espropriato. I combattimenti fra i paguri pel possesso delle
conchiglie sono tanto frequenti che quegli animaletti si son fatto un
certo abito del combattere e quando due s'incontrano s'azzuffano per
tenersi in esercizio. Qui adunque si ha un crostaceo di cui la vita
dipende dalla vita, o piuttosto dalla morte, di un mollusco; ma lo
scarseggiare o lo abbondare del mollusco è in rapporto colla quantità
dei suoi varii predatori, colla quantità e colla qualità delle alghe
di cui esso si pasce, le quali sono in rapporto colla qualità della
roccia, colla condizione di movimento e di purezza dell'acqua, e via
dicendo.

In alcune vallate presso Genova, dice il professore Arturo Issel
(_Varietà di Storia naturale_, Milano, Treves, 1866) scarseggiano le
chiocciole, perchè esse sono avidamente divorate dai topi, che quivi
molto abbondano; una sola specie vi è comunissima (_Helix cespitum_)
e, a quanto pare, essa sfugge alla regola, perchè vive sul cespite dei
cardi spinosi, i quali coi loro pungenti aculei le fanno schermo contro
gli attacchi dei suoi nemici.

Una mosca, chiamata dai naturalisti _cecidomia_, depone le uova sugli
stami di una scrofularia, e secerne un veleno producente una galla, di
cui si nutre la larva; un altro insetto, chiamato _misocampo_, depone
le uova entro quella galla nel corpo stesso della larva della mosca,
e così si nutre della sua preda vivente. Ne risulta che un imenottero
dipende da un dittero, il quale dipende a sua volta dalla proprietà che
possiede di produrre una secrezione mostruosa in un organo particolare
di una certa pianta.

Il bue, il cavallo, il cane, non sono ritornati allo stato selvaggio
nel Paraguay, mentre ciò avvenne di questi animali un po' più al nord
e un po' più al sud di quella contrada. Due naturalisti benemeriti pel
grande studio che hanno fatto della zoologia dell'America meridionale,
Azara e Rengger, hanno trovato la ragione di questo fatto. È comune al
Paraguay una sorta di mosca, la quale depone le sue uova nell'ombellico
dei cani, dei buoi e dei cavalli appena nati, e li fa morire. Questa
mosca ha per nemici gli uccelli insettivori e i suoi parassiti, e il
più o il meno di questi viene così ad operare sui bovi, sui cavalli e
sui cani.

Giova riferire le seguenti parole del Darwin:

«....La visita delle farfalle è assolutamente necessaria a molte
nostre orchidee per spandere il loro polline e fecondarle. Abbiamo
esperienze che ci convincono che i pecchioni sono quasi indispensabili
alla fecondazione della viola del pensiero (_viola tricolor_), perchè
le altre api non vi si arrestano. Ho anche scoperto che parecchie
specie di trifoglio richieggono la visita delle api per divenire
feconde: per esempio 20 capi di trifoglio olandese (_trifolium
repens_) diedero 2290 semi, mentre 20 altri individui di questa
specie, inaccessibili alle api, non ne diedero uno solo. Così 100
piante di trifoglio rosso (_trifolium pratense_) produssero 2700 semi,
ma altrettante pianticelle difese dalle api non diedero semente di
sorta. I soli pecchioni visitano il trifoglio rosso; le altre api non
ne possono suggere il nettare. Si è sostenuta l'idea che le falene
potessero cooperare alla fecondazione dei trifogli; ma io dubito che
ciò sia possibile pel trifoglio rosso, giacchè il loro peso non
basta a deprimere i petali della corolla. D'onde può inferirsi che se
l'intero genere dei pecchioni divenisse molto raro o si estinguesse in
Inghilterra, probabilmente la viola del pensiero ed il trifoglio rosso
diminuirebbero assai o scomparirebbero interamente.

«Il numero dei pecchioni in qualsiasi regione dipende in gran parte
dal numero dei topi campagnuoli che distruggono i loro favi e i
loro nidi; e M. H. Newman, che osservò lungamente le abitudini dei
pecchioni, crede che «più di due terzi di questi sono così distrutti
in Inghilterra.» Ora, il numero dei topi dipende principalmente, come
tutti sanno, dal numero dei gatti; e il signor Newman dice che presso i
villaggi e le borgate egli ha trovato i nidi dei pecchioni in maggior
copia che altrove, il che egli attribuisce al gran numero dei gatti che
distruggono i topi campagnuoli. È dunque credibilissimo che la presenza
di un gran numero di animali felini in un distretto, determini,
mediante l'intervento dei sorci e delle api, la quantità di certi fiori
nel distretto stesso.

«La moltiplicazione di ogni specie è dunque sempre inceppata da diverse
cause, che agiscono in varii periodi della vita e nelle differenti
stagioni dell'anno; alcune sono più efficaci, ma tutte concorrono
a determinare il numero medio degli individui od anche l'esistenza
delle specie. In alcuni casi si può dimostrare che in diverse regioni
agiscono cause diverse sopra le medesime specie. Quando si considerano
le piante e gli arbusti che coprono un terreno incolto, siamo indotti
ad attribuire il loro numero proporzionale e le loro specie a ciò
che chiamiamo il caso. Ma quanto falsa è questa opinione! Quando si
atterra una foresta americana sappiamo che sorge una vegetazione
diversissima; pure si è notato che le antiche rovine indiane del
mezzogiorno degli Stati Uniti, che un tempo erano state spogliate dei
loro alberi, spiegano al presente la medesima meravigliosa diversità
e proporzione di razze, quale è quella delle vergini boscaglie
vicine. Quale tenzone deve essersi continuata per lunghi secoli fra
le differenti specie di alberi, quando ciascuna spande annualmente i
proprii semi a migliaia! Quale guerra degli insetti contro gl'insetti;
degli insetti, lumache e altri animali contro gli uccelli e gli animali
rapaci! Tutti sforzandosi di moltiplicare e tutti nutrendosi gli uni
degli altri o cibandosi a spese degli alberi, dei loro semi, dei loro
pollini o d'altre piante che prima coprivano la terra e impedivano
conseguentemente lo sviluppo degli alberi! Che si getti in aria un
pugno di penne e ognuna ricadrà al suolo secondo leggi definite; ma
quanto è semplice il problema della loro caduta in confronto di quello
delle azioni e reazioni delle piante ed animali innumerevoli che nel
corso dei secoli determinarono i numeri proporzionali e le specie degli
alberi, che ora crescono sulle rovine indiane!» (_Sulla origine delle
specie_, traduzione di GIOVANNI CANESTRINI. Torino, Unione tipografica
editrice, 1875).

Questo grande principio della scelta naturale è come un sole splendido
e fiammeggiante che illumina e rende in ogni parte riconoscibili una
infinità di fatti intorno ai quali prima era buio. Non tutto a ogni
modo, nel regno dei viventi, si spiega con questo principio. Non si
spiega, o almeno non si spiega sempre la differenza, talora molto
grande, che si scorge negli animali fra le femmine e i maschi.

Dico che nella scelta naturale non si spiega sempre la differenza
fra le femmine e i maschi, perchè in qualche caso veramente si può
spiegare. I fagiani presentano grandissime differenze nei due sessi,
come tutti sanno. I maschi hanno un piumaggio bellissimo variopinto,
mentre le femmine hanno un modesto colorito uniforme; ma le femmine dei
fagiani covano sul suolo, non protette da fronde o fogliame od altro, e
quando avessero vivacemente colorito il piumaggio, facilmente sarebbero
scorte dagli uccelli rapaci e predate. Il modesto piumaggio in armonia
col colore circostante protegge queste femmine dei fagiani; si può
adunque credere che qui si sia fatta una scelta naturale sopravvivendo
le femmine più brune e soccombendo quelle meglio colorite, e che questo
carattere ereditariamente si sia andato trasmettendo sempre alle
femmine di generazione in generazione tanto da diventare costante.

Ma questa spiegazione che sta pel fagiano non sta nella maggioranza dei
casi, che sono numerosissimi, di differenze fra i maschi e le femmine
in tante sorta di animali.

Generalmente il maschio è quello che si modifica di più e varia di
più nelle sue modificazioni. Il maschio ha maggior bellezza, maggior
vigore, indole più battagliera, organi dei sensi più fini, maestria
di canto, ghiandole odorose, certi caratteri qualche volta che non
gli servono nella vita ordinaria e non si possono intendere che come
ornamenti fatti per meglio piacere alle femmine. Talora il maschio
si fa bello al tempo degli amori e si tramuta per modo da non essere
più riconoscibile e sfoggia la nuova bellezza e fa strani atti ed
inconsueti davanti alla femmina, e combatte furiosamente e uccide i
rivali.

I maschi più gagliardi e più belli in ogni tempo hanno dovuto avere
maggior facilità di debellare i rivali e piacere alle femmine; la
gagliardia e la bellezza dei padri ha dovuto trasmettersi ai figli, e
così nuovi caratteri differenziali fra il maschio e la femmina a poco
a poco hanno dovuto apparire e trasmettersi e costituirsi. Per tal
modo s'intendono queste differenze sessuali e s'intende come i giovani
somiglino alle femmine e i caratteri differenziali non appariscano che
più tardi.

A questa maniera di scelta per la quale si vengono differenziando i
sessi e che è diversa dalla scelta naturale, perchè i maschi hanno
acquistato la loro attuale struttura non già per essere meglio atti
a sopravvivere nella lotta per l'esistenza, ma per avere acquistato
un vantaggio sopra altri maschi e per averlo trasmesso ai loro figli
maschi, a questa maniera di scelta il Darwin diede il nome di scelta
sessuale, e con essa spiegò buon numero di fatti inesplicabili
altrimenti.



                                 XIII


Per oltre a venti anni nel secolo passato Erasmo Darwin meditò e lavorò
intorno alla sua zoonomia prima di farne la pubblicazione. Per oltre
a vent'anni nel nostro secolo Carlo Darwin meditò e lavorò intorno
alla origine delle specie prima di dirne una parola per le stampe. La
suprema importanza dell'argomento che egli sentiva tutta, e questo è
sommo suo merito, lo rendeva dubitoso. Voleva venir fuori con buone
ragioni a sostegno delle sue idee, voleva che i fatti fossero la base
delle sue meditazioni e di quelle conseguenze grandiose alle quali
la sua mente veniva arrivando. Viveva lontano dai tumulti, libero
del suo tempo, intento tutto e sempre all'opera sua. Si rivolgeva da
ogni parte a chi potesse dargli aiuto, e veniva esponendo a due suoi
dottissimi amici, Carlo Lyell e il dottor Hooker, i risultamenti delle
sue ricerche e i suoi pensieri. Dopo cinque anni di assiduo lavoro in
questa via egli incominciò a scrivere alcune annotazioni; e nell'anno
1844 fece un abbozzo dell'operato suo, notando le conclusioni cui
era venuto. Di questo suo scritto ebbero conoscenza i suoi due amici
sopranominati, e il dottor Hooker lo lesse tutto.

Carlo Lyell e il dottor Hooker sollecitavano vivamente il Darwin a
pubblicare qualche cosa intorno ai suoi studi e ai suoi concetti,
ed egli rispondeva di sì, ma non ne faceva nulla. Sebbene avesse
raccolto un grande corredo di fatti a sostegno delle sue idee, non
gli pareva mai di averne abbastanza e andava sempre procrastinando
il giorno di una pubblicazione preliminare. Forse avrebbe ritardato
indefinitamente, forse, come quei grandi artisti ignorati di cui
taluno narra che abbiano accarezzato tutta quanta la vita un concetto
senza mai incarnarlo, avrebbe proseguito sempre nelle sue ricerche
senza creder mai di essere arrivato al punto di poterne parlare, se
non fosse sopraggiunta una circostanza, la quale fece sì che i suoi
amici insistessero presso di lui più del consueto ed egli finisse per
arrendersi.

Il signor Alfredo Russel Wallace, sommo naturalista e viaggiatore, per
molti anni esplorò le isole dell'arcipelago della Sonda, si addentrò
fra le foreste vergini dell'arcipelago indiano, studiò dal vero vivi e
in azione i prodotti della natura in quelle rigogliose contrade tanto
abbondanti di vita. Viaggiando, osservando, meditando, Alfredo Russel
Wallace venne alle stesse conclusioni intorno alla variabilità delle
specie cui era venuto Carlo Darwin. E a Carlo Darwin egli mandò, l'anno
1858, uno scritto intorno a questo argomento, pregandolo di darlo a
Carlo Lyell, il quale lo presentò alla Società Linneana.

Ma allora Carlo Lyell e il dottor Hooker fecero comprendere al Darwin
che non era più tempo d'indugiare, ed egli alla perfine si arrese.

       *       *       *       *       *

Il volume intorno alla _Origine delle specie_ venne fuori a Londra il
giorno 24 novembre 1859.

In due parole ne è così espresso il carattere fondamentale:

«Quando si riflette al problema della origine delle specie,
considerando i mutui rapporti di affinità degli esseri organizzati,
le loro relazioni embrionali, la loro distribuzione geografica, la
successione geologica ed altri fatti analoghi, si può conchiudere che
ogni specie non è stata creata indipendentemente dalle altre, ma bensì
discende, come le varietà, da altre specie.»

Nella introduzione il Darwin espone così limpidamente, in brevissimo
spazio, il piano del suo lavoro, che non si può far meglio che riferire
le sue proprie parole:

«...Fino dai primordii delle mie ricerche fui d'avviso che un accurato
studio degli animali domestici e delle piante coltivate mi avrebbe
offerto probabilmente i dati migliori per risolvere questo oscuro
problema. Nè mi sono ingannato, mentre non solo in questa circostanza,
ma ben anche in tutti gli altri casi perplessi, ho sempre trovato che
le nostre esperienze, relative alle variazioni degli esseri organizzati
avvenute allo stato di domesticità o di coltura, sono tuttavia la
nostra guida migliore e la più sicura. Io non esito ad esprimere la mia
convinzione sull'alta importanza di questi studii, benchè troppo spesso
siano stati trascurati dai naturalisti.

«Per questo motivo io consacro il primo capitolo di questo compendio
all'esame delle variazioni allo stato domestico. Vedremo da ciò,
che sono per lo meno possibili sopra una vasta scala variazioni
ereditarie, e quel che più importa, vedremo quanto grande sia la
facoltà dell'uomo di accumulare leggiere variazioni, per mezzo della
elezione artificiale, cioè mediante la loro scelta esclusiva. Passerò
poscia alla variabilità delle specie nello stato di natura; ma io dovrò
a malincuore trattare con troppa concisione questo soggetto, che non
può svolgersi convenientemente se non colla scorta di lunghi cataloghi
di fatti. Potremo nondimeno discutere quali siano le circostanze più
favorevoli alle variazioni. Il capitolo successivo tratterà della
lotta per l'esistenza fra tutti gli esseri organizzati del globo,
lotta che necessariamente deriva dal loro moltiplicarsi in proporzione
geometrica. È questa la legge di Malthus applicata a tutto il regno
animale e vegetale. Siccome gli individui d'ogni specie che nascono
sono di numero assai maggiore di quelli che possono vivere, e perciò
deve rinnovarsi la lotta fra i medesimi per l'esistenza, ne segue
che se qualche essere varia, anche leggermente, in un modo a lui
profittevole, sotto circostanze di vita complesse e spesso variabili,
egli avrà maggior probabilità di durata e quindi potrà essere _eletto
naturalmente_. Inoltre, secondo le severe leggi dell'eredità, tale
varietà eletta tenderà continuamente a propagare la sua forma nuova e
modificata.

«Di questo principio fondamentale di elezione naturale tratterò
diffusamente nel quarto capitolo: e noi conosceremo in qual modo questa
elezione naturale produca quasi inevitabilmente frequenti estinzioni
di specie meno adatte e conduca a ciò che io chiamo divergenza dei
caratteri. Nel seguente capitolo io discuterò le leggi complesse e
poco note della variazione. Altri cinque capitoli risolveranno le
difficoltà più gravi e più apparenti della teoria. In primo luogo la
difficoltà delle transizioni, cioè come possa darsi che un essere o un
organo semplice siasi trasformato in un essere più complicato oppure
in un organo più perfetto; secondariamente l'istinto e le facoltà
mentali degli animali; in terzo luogo l'ibridismo o la sterilità delle
specie incrociate e la fecondità delle varietà incrociate; da ultimo
l'insufficienza dei documenti geologici. Nel capitolo successivo
io considero la successione geologica degli esseri organizzati nel
corso del tempo; nel dodicesimo e tredicesimo la loro distribuzione
geografica nello spazio; nel decimoquarto la loro classificazione e
le loro mutue affinità tanto nello stato adulto quanto nello stato
embrionale. L'ultimo capitolo comprenderà un breve riassunto di tutta
l'opera con alcune osservazioni finali.

«Se teniamo conto della nostra profonda ignoranza sulle reciproche
relazioni di tutti gli esseri che vivono intorno a noi, non possiamo
fare le meraviglie se ci restano ancora inesplicate molte cose sulla
genesi delle specie e delle varietà. Come può spiegarsi che mentre
una specie è numerosa e sparsa sopra una grande estensione, un'altra
specie assai affine trovasi rara e in uno spazio ristretto? Ora
questi rapporti sono della più alta importanza, giacchè determinano
il benessere presente e credo anche la prosperità futura e le
modificazioni di ogni abitante di questo mondo. Noi conosciamo poi
ancor meno le relazioni reciproche degli innumerevoli abitanti
terrestri in molte fasi geologiche del loro passato sviluppo.
Quantunque molte cose restino oscure e rimarranno tali ancora per lungo
tempo, io non posso dubitare, dopo lo studio più esatto e il giudizio
più coscienzioso di cui sono suscettibile, che l'opinione adottata
dalla maggior parte dei naturalisti e per lungo tempo anche da me, cioè
che ogni specie sia stata creata indipendentemente dalle altre, sia
erronea.

«Io sono pienamente convinto che le specie non sono immutabili;
ma che tutte quelle che appartengono a ciò che chiamasi lo stesso
genere, sono la posterità diretta di qualche altra specie generalmente
estinta, nella stessa maniera che le varietà riconosciute di una specie
qualunque discendono in linea retta da questa specie. Finalmente, io
sono convinto che l'elezione naturale sia, se non l'unico, almeno il
principale mezzo di modificazione.»

Questo suo lavoro l'autore non lo considera che come un estratto, e ne
lamenta la imperfezione.

«L'estratto che oggi metto in luce è dunque necessariamente imperfetto.
Io sono costretto ad esporvi le mie idee senza appoggiarle con molti
fatti o con citazioni di autori: e mi trovo nel caso di contare sulla
confidenza che i miei lettori potranno avere sull'accuratezza dei miei
giudizi. Senza dubbio questo libro non sarà esente di errori, benchè
io creda di non essermi riferito che alle autorità più solide. Io non
posso produrre se non le conclusioni generali alle quali sono arrivato,
con alcuni esempi che tuttavia basteranno, credo, nella pluralità dei
casi. Niuno è penetrato più di me della necessità di pubblicare più
tardi tutti i fatti che servono di base alle mie conclusioni, e spero
di farlo in un'opera futura. Imperocchè io so bene che non vi è un
passo in questo volume, al quale non si possano opporre argomenti,
che, in apparenza, conducano a conclusioni diametralmente opposte. Un
risultato soddisfacente raggiungesi soltanto raccogliendo tutti i fatti
e le ragioni favorevoli e contrarie ad ogni quistione, e pesando gli
uni contro gli altri; ciò che nell'opera presente non posso fare.»

Per buona ventura il Darwin visse ancora dopo la pubblicazione del
volume intorno alla origine delle specie, abbastanza per poter
pubblicare tutti quegli altri lavori che egli ne considerava come il
complemento. Ma anche quando non avesse potuto far ciò, il volume
intorno alla origine delle specie avrebbe bastato a dar salde
fondamenta alla nuova teoria e avrebbe portato quel grande rivolgimento
nelle menti e quel grande progresso nel sapere umano che appunto ne
derivarono.

La prova che il volume sulla origine delle specie non aveva bisogno
d'altro, si ha nello immenso effetto che ne conseguì appena venne
pubblicato e lo scoppio di furore frenetico da una parte e di amore
indomato dall'altra che subito produsse. «La storia, diceva il _Times_
in un cenno necrologico su Carlo Darwin, di una di quelle scene quale è
quella che seguì nel celebre _meeting_ della Associazione britannica ad
Oxford nel 1860, e della battaglia campale fra il vescovo Wilberforce
e il giovane e ardente signor Huxley, si legge come una scena della
storia antica, come un episodio nella persecuzione di Galileo, o un
preliminare della scomunica di Spinoza....»

La frenesia contro il Darwin da parte di molti suoi avversari, oltre
alla sostanza della cosa, si accresce anche per ciò che quest'uomo
sommo, senza grandi attrattive di stile, senza ombra di ricercatezza
nella forma, senza apostrofi, senza mire ad effetto, irresistibilmente
si cattiva l'animo del suo lettore, il quale, rapito da quel purissimo
amore del vero che splende in ogni parola del Darwin, rapito da
quella calma sublime che non lo abbandona mai, ammirato di quella
imparzialità veramente unica, colla quale il grand'uomo in luogo di
scansarle va in cerca delle obbiezioni e le più gravi se le fa da
sè, prende ad amarlo e si compiace del suo consorzio come di cosa
sommamente desiderabile e cara.

Sentite queste stupende parole del professore Kleinenberg:

«Lo stile di Darwin è estremamente semplice, senza alcuna declamazione,
senza ornamenti retorici e manca perfino di frasi e di motti incisivi.
Eppure i suoi scritti sono di una straordinaria, immediata efficacia, e
pieni di vita e di armonia. Ciò dipende in gran parte dal modo in cui
sono esposti e disposti i fatti e le conclusioni; in questo riguardo la
maestria del Darwin è impareggiabile; nessuno scrittore scientifico fra
antichi e moderni, che io conosca, ha dominato mai la sua materia--e
quella del Darwin era difficilissima e affatto nuova--con sì assoluta
sovranità. Ne risulta un mirabile ordine ed una unità dell'opera,
che mi ricordano sempre quei templi dorici di Pèsto e di Girgenti,
le creazioni più sublimi dell'arte architettonica, che producono
così profonda impressione per la sola vastità e armonia delle loro
proporzioni.

«Le opere del Darwin posseggono in massimo grado una qualità comune
a tutte le emanazioni del genio: sono persuasive. Ma l'energia
irresistibile con cui esse s'impadroniscono della mente del lettore non
sta solamente nell'ingegno superiore e nell'arte della composizione,
un altro elemento v'influisce forse più di quelli, ed è il carattere
morale di Darwin. Ogni pagina dei suoi libri vi dice ad alta voce: chi
mi scrisse è un uomo onesto e sopra ogni cosa veritiero. Quello spirito
che, partendo dal foro, dalla stampa, dalle assemblee politiche,
invade sempre più la coscienza pubblica ed insegna che per difendere
la verità è d'uopo esagerare, nascondere i proprii lati deboli e
scoprire spietatamente quelli dell'avversario, e dire ancora--s'intende
sempre in omaggio alla verità--ogni tanto qualche piccola bugia;
questo spirito che al nostro tempo anticlericale alle volte dà un non
so che di gesuitico, la mente di Darwin non l'aveva sfiorato. Egli
difende la verità, ma con la sola verità. Nessuno ha più freddamente
di lui denudato le debolezze della sua teoria, nessuno è stato più di
lui abile nell'escogitare ingegnose difficoltà e obbiezioni alla sua
dottrina, mai egli ha taciuto un fatto sfavorevole, mai ha soppresso
una apparente contradizione. Ne volete la prova? Leggete gli scritti
dei più fieri avversarii del Darwin--ben inteso fra i naturalisti--e
vedrete che essi molti dei più forti argomenti contrarii li hanno presi
in prestito dalle opere dello stesso Darwin. Era un grande ingegno, ma
il suo carattere era più grande.

«Permettetemi, o signori, un ricordo personale. Quando io l'anno
passato era ospite di Darwin, gli dissi:--Avrei poca ragione di
rileggere la vostra _Origine delle specie_, poichè il suo contenuto
teorico credo averlo assimilato, per quanto me lo concede il mio
ingegno, e per i miei lavori mi occorrono gli stessi animali vivi
piuttostochè libri. Ma, vedete, sono un uomo debole. Ogni tanto, ora
per colpa mia, ora per colpa altrui, si scatena in me uno scirocco che
intristisce tutta l'anima mia. Allora la vita mi pare tanto brutta,
insipida la scienza, vuota l'arte. Ebbene, la lettura di qualche vostra
pagina tutte le volte mi ha rialzato da questo avvilimento. Dimodochè
un giorno, a Napoli, senza sapere proprio quel che mi facessi, quasi
meccanicamente, scrissi col lapis sul margine del vostro libro queste
parole italiane: _Qui si sana!_--E Darwin mi porgeva la mano e disse
che questa era la miglior lode che avesse ricevuto in vita sua.»

       *       *       *       *       *

Un anno dopo la prima edizione della _Origine delle specie_ se ne
fece una seconda, nel 1864 se ne fece una terza, e il Canestrini,
che già aveva tradotto la prima nel 1875, pubblicò in Torino coi
tipi della Unione tipografico-editrice una nuova traduzione fatta
sulla sesta edizione inglese notevolmente ampliata. Parecchie altre
edizioni, invero non so quante, ne vennero fatte poi e si faranno in
avvenire, perchè questo è un libro destinato a rimanere nella scienza
immortalmente.

       *       *       *       *       *

Ragion voleva che il Darwin, secondo l'impegno che aveva preso con sè
stesso e coi suoi lettori, volendo sviluppare per via di fatti e di
deduzioni da essi il concetto della variabilità delle specie, esponesse
quanto aveva veduto negli animali in istato di addomesticamento e nelle
piante in coltivazione e quelle conclusioni che aveva saputo trarre
dalle cose vedute.

Perciò nell'anno 1868 egli pubblicò una grande opera sulle _Variazioni
degli animali e delle piante allo stato domestico_, di cui pure il
professore Giovanni Canestrini fece la traduzione, stampata dalla
Unione tipografico-editrice torinese. Sono, nella traduzione italiana,
oltre a ottocento pagine con molte incisioni intercalate.

Ecco quanto dice lo stesso autore di questa sua pubblicazione:

«Lo scopo di quest'opera non è punto il descrivere le molte razze
di animali che l'uomo seppe addomesticare, nè le piante ch'ei seppe
coltivare; se anche avessi le cognizioni che si richiedono per compiere
un'impresa così gigantesca, in questo caso sarebbe opera superflua.
Io intendo unicamente di esporre, tra i fatti ch'io potei raccogliere
ed osservare in ogni specie, i più atti a mostrare la importanza e
la natura delle modificazioni subite dagli animali e dalle piante
sotto il dominio dell'uomo; e spargere un po' di luce sui principii
generali della _Variazione_. Solo tratterò più diffusamente dei colombi
domestici, di cui descriverò tutte le principali razze, la storia,
l'estensione e la natura delle loro differenze, e lo stipite probabile
della loro discendenza. Ho prescelto questo esempio ad ogni altro,
perchè, come si vedrà nel corso dell'opera, esso fornisce materiali più
acconci degli altri; e un esempio pienamente descritto può illustrare
tutti gli altri. Mi fermerò pure più particolarmente sui conigli, sui
polli e sulle anatre domestiche.

«I subbietti che si svolgeranno in questo volume sono collegati in
modo tale, che riesce difficile decidere quale sia il migliore modo di
ordinarli. Io ho creduto bene di esporre nella prima parte un complesso
considerevole di fatti che si riferiscono a varii animali e piante, dei
quali fatti, a prima vista, alcuni pareano non avere che una piccola
relazione col nostro subbietto, e dedicare l'ultima parte a generali
disposizioni. Quando poi mi parve necessario estendermi in maggiori
particolari, per corroborare qualche proposizione o conclusione, mi
sono valso dei tipi più minuti. Così feci acciocchè il lettore, che
accetta senz'altro le conclusioni, o poco si cura dei particolari,
distingua i passi ch'ei può trasandare; però mi si permetta di dire che
alcune di queste disquisizioni meritano l'attenzione, almeno di chi fa
professione di naturalista.»

In questo libro espone il Darwin la sua teoria della pangenesi.
La trasmissione dei caratteri per via della eredità lo conduce a
domandarsi «come avvenga che un carattere, proprio di un antico
progenitore, riapparisca improvvisamente nella sua discendenza;
come gli effetti dell'accrescimento o della diminuzione d'uso di
un membro si possano trasmettere alla seguente generazione; come
l'elemento sessuale maschile possa agire non solo sull'ovulo, ma
qualche volta anche sulla forma materna; come possa prodursi un ibrido
dall'unione del tessuto cellulare di due piante, indipendentemente
dagli organi della generazione; come avvenga che un membro possa
riprodursi esattamente nella linea di amputazione, senza che vi sia
eccesso o difetto di sviluppo; come esseri organizzati, identici
sotto tutti i rapporti, possano essere di continuo prodotti in guise
tanto differenti, come sono la germinazione e generazione seminale; e
finalmente, come accada che di due forme affini, l'una attraversi nel
suo sviluppo delle metamorfosi complesse, e l'altra no, e tuttavia allo
stato maturo sieno simili in ogni dettaglio di struttura.»

Il concetto della pangenesi esprime ancora il Darwin nel modo seguente:

«Si ammette quasi universalmente che le cellule, o le unità del corpo,
si propaghino per divisione spontanea o prolificazione, conservando la
stessa natura, e trasformandosi da ultimo nei varii tessuti e sostanze
del corpo. Ma oltre tale maniera di moltiplicarsi, io suppongo che
le unità emettano dei minuti granuli, che sono dispersi in tutto il
sistema, e allorquando hanno ricevuto una sufficiente nutrizione, si
moltiplicano per divisione, e si sviluppano da ultimo in cellule
simili a quelle da cui derivano. Questi granuli possono chiamarsi
gemmule. Esse sono raccolte da tutte le parti del sistema, per
costituire gli elementi sessuali, ed il loro sviluppo nella prossima
generazione costituisce un nuovo essere; ma esse possono trasmettersi
in uno stato dormente alle future generazioni, e poi svilupparsi.
Il loro sviluppo dipende dall'unione con altre gemmule parzialmente
sviluppate, che le producono nel corso regolare della crescenza. Noi
vedremo, quando discuteremo l'azione diretta del polline sui tessuti
della pianta madre, la ragione per la quale io impiego il termine di
unione. È supposto che le gemmule sieno emesse da ciascuna cellula
od unità, non solo allo stato adulto, ma in ogni stadio di sviluppo
dell'organismo. Infine, io immagino che nel loro stato dormente le
gemmule sentano le une per le altre una mutua affinità, dacchè risulta
la loro aggregazione in gemme o in elementi sessuali. Per cui non sono
punto gli elementi riproduttori, nè le gemme che producono i nuovi
organismi, ma le cellule od unità stesse dello intero corpo.»

Ho citato queste parole nella summenzionata opera del Darwin,
_Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico_. Il
Darwin espone a lungo la sua ipotesi nel capitolo XXVII di questa
opera, e direi che questo capitolo è veramente un meravigliosissimo
capolavoro, se non fosse che parlando del Darwin di troppi altri
capitoli è ciò da ripetere. In una nota il Darwin parla di parecchi
autori che dalla antichità in poi hanno emesso opinioni più o meno
affini a questa sua, e menziona specialmente il Mantegazza dicendo che
egli (è il Darwin che parla) «previde chiaramente la mia dottrina sulla
pangenesi.»



                                  XIV


«L'uomo sta in mezzo ad un movimento universale: intorno a lui
tutto gira, tutto s'avvicina o s'allontana, ed esso stesso si sente
trascinato in questo vortice, che non ammette resistenza e non lascia
speranza di un solo minuto di riposo assoluto. Eppure per mille e mille
anni tutto ciò che toccava così intimamente l'esistenza umana, anzi
che ne formava tanta parte, tutto ciò restò un'apparenza fantastica,
enigmatica, incomprensibile, e quando nascono le prime idee sulla
natura di tali fenomeni, esse sono piuttosto emanazioni dell'interno
sgomento, della profondamente sentita impotenza rimpetto all'attività
delle forze mondiali. Ancora l'acuto ed elevato ingegno dei Greci non
seppe trovare la soluzione, benchè il problema gli si presentasse in
mille forme diverse; Archimede arrivò a formulare alcune leggi della
statica, ma per la dinamica mancava l'organo all'intelligenza antica.

«Nacque Copernico e morì il vecchio sistema mondiale. La coscienza
umana ricevette una delle più forti scosse che mai abbia subìto. Ma
la dimostrazione del movimento della terra intorno al sole non è che
un fatto, un fatto d'immensa importanza sì, nient'altro però che un
fatto nudo e isolato. Sicuro, tanto bastava a distruggere la superba
superstizione dell'uomo che lo faceva credersi possessore del centro
dell'universo, ma la storia insegna che spesso una superstizione va
vinta da un'altra; e dove erano gli elementi per inalzare sulle rovine
del vecchio un nuovo mondo? Copernico era un titano che buttò giù il
cielo e la terra, ma non era lo spirito generatore da crearne dei nuovi.

«Il mondo nuovo lo fece Galileo. I concetti della eternità del moto e
del momento meccanico determinabile in ogni sua attività aggiungevano
alle facoltà intellettuali un altro elemento essenziale, un novello
organo di cui la funzione sta nella trasformazione dei fenomeni del
moto in semplici modalità del pensiero, e nell'assegnare quindi ai
primi il carattere della necessità. Con ciò l'uomo aveva ricuperato
il suo posto nell'universo e, quel che è più, in ricambio del vecchio
ambiente oscuro e fantastico, ne aveva trovato uno più vasto, più
profondo, sovrattutto intelligibile. Quel che caratterizza l'epoca
moderna dell'umanità in fondo in fondo non è altro che l'evoluzione
del pensiero di Galileo; sulle spalle di quel fiorentino riposano la
nostra scienza, la nostra cultura, e in certo senso anche la nostra
morale. Nei duecento anni che lo seguirono l'intelligenza umana non
si è essenzialmente allargata se non mediante la filosofia critica di
Kant, la quale ai fenomeni assegnava il loro vero valore psicologico; e
con la recente dimostrazione dell'unità delle forze fisiche.

«I principii meccanici spiegarono i movimenti terrestri e celesti,
e più, indicarono l'origine e il destino finale dei mondi che
nell'infinito etere circolano, ma non ci fecero intelligibile
l'esistenza della più piccola mosca. L'organico era la soglia che
il pensiero meccanico non varcava. Eravamo più in casa nostra tra i
pianeti che non tra gli esseri viventi, i continui compagni della
nostra vita. È vero che l'anatomia e la fisiologia avevano raccolto
grande quantità di preziosissimi dati e soltanto guidati da tali fatti
era possibile toccare i problemi; tuttavia il contenuto veramente
scientifico era oltremodo scarso, e se i problemi erano proposti
mancavano le soluzioni. Ci voleva un nuovo organo; ora l'abbiamo: è la
teoria di Darwin. E in questo senso l'opera dell'inglese è contemperata
a quella dell'italiano. Il mondo organico diventa intelligibile, i
fenomeni vitali assumono il carattere della necessità, non solo il
come, ma il perchè dell'organizzazione diventa il fine della ricerca.
Ogni forma organica ha la sua causa efficiente determinabile; ogni
funzione è un adattamento all'ambiente acquistato nella lotta per la
esistenza; ogni organo è la realizzazione morfologica d'una funzione.
La vita, unica nella sua origine, si manifesta in mille e mille forme,
ma tutte queste forme riunisce un principio generale. Dall'inferiore
e semplice nasce il superiore complicato. Senza l'amiba non sarebbe
l'uomo, data l'amiba e l'ambiente era inevitabile necessità nascesse
l'uomo. Non l'essere, il divenire è il principio del mondo.

«A noi zoologi rincresce quasi essere la teoria darwiniana diventata
una questione personale dell'uomo. Si starebbe tanto meglio, il lavoro
manterrebbe molto più facilmente la sua equanimità scientifica se non
venissero le passioni, l'odio e la provocazione a disturbarci. E poi,
l'applicazione della teoria della discendenza alla morfologia dell'uomo
non ha proprio un'importanza particolare. L'origine dell'uomo è in
questo senso un problema speciale, limitato, come lo è l'origine di
qualsiasi altra specie, neppure tra i più interessanti. Imperocchè
la struttura del corpo umano è conforme a quella di certi mammiferi
superiori sino a tal segno che alcuni vecchi anatomici osarono le
loro preparazioni dei muscoli, nervi, vasi, ecc. delle scimmie,
rappresentare come quelli dell'uomo, e ciò con grave offesa alla buona
fede, ma senza notevoli inconvenienti per l'uso pratico nella medicina.
La fabbrica del corpo umano e le sue funzioni inferiori non offrono
alcun problema che non si ripeta in altri organismi, e spesso più
evidente e puro.

«Ma la scienza ha ancora un altro lato che è altrettanto grande; non
solo il modo esterno, non solo le condizioni che determinano la
sua esistenza materiale sono fenomeni che l'uomo cerca di rendere
intelligibili, anche le manifestazioni di quell'intimo suo essere, che
egli chiama l'anima, formano l'obietto del suo pensare. Conoscere il
mondo e conoscere sè stesso, ecco l'intero compito della scienza. E
dalle azioni dell'anima vale lo stesso che dissi delle azioni esterne;
molte rimangono fuori della coscienza; altre c'entrano, ma confuse,
indistinte, poche sono chiare, determinate, di nessuna sinora fu
detto il perchè. Mancava l'organo ed ora l'abbiamo, per imperfetto
che sia. I problemi della vita sociale, del pensiero, del sentimento
sono teoricamente solubili se consideriamo il loro contenuto non
come eternamente stabilito, creato, ma come diventato. Lo so bene
che per raggiungere questa meta ci vuole assai, che non abbiamo i
mezzi da poter attaccare direttamente neanche i più semplici di tali
problemi, che coloro--non pochi disgraziatamente--che oggigiorno vi
offrono le soluzioni bell'e fatte, dello scienziato posseggono forse
l'arditezza, ma certo non l'assennatezza nè il sentimento della propria
responsabilità, ma tuttociò non impedisce di veder aperto l'orizzonte
da cui sorgerà la luce per tramandare i suoi raggi sino alle più
profonde tenebre del nostro interno.»

       *       *       *       *       *

Il Darwin aveva compreso bene che la maggior difficoltà, per molta
gente, a che la teoria della variabilità delle specie fosse accolta
era questa, che con una tale teoria si veniva necessariamente a far
derivare l'uomo dagli animali, e propriamente dalle scimmie colle
quali, mal suo grado, si è sempre sentito legato in strettissima
parentela. Perciò nel volume intorno alla origine delle specie egli
lasciò in disparte la questione dell'origine dell'uomo, sebbene avesse
fatto molte ricerche intorno ad essa e preso molte note. La lasciò in
disparte per non suscitare più forte la tempesta che pur prevedeva
sarebbe stata prodotta dal suo libro. Ma in breve, appunto per
l'immenso scoppio che tenne dietro alla pubblicazione di quel volume, e
pel buon accoglimento fatto alla teoria della variabilità delle specie
da uomini di gran sapere, egli sentì che non doveva tacersi più oltre,
e venne fuori con un grosso volume intorno alla origine dell'uomo, che,
poco dopo la pubblicazione nello originale inglese, la quale fu fatta
nell'anno 1871, io tradussi, pubblicandosi la mia traduzione dalla
Unione tipografico-editrice di Torino.

Quest'opera è divisa in due parti; la prima tratta propriamente della
origine dell'uomo, la seconda tratta della scelta sessuale.

La prima parte è divisa nei sette capitoli: _Evidenza dell'origine
dell'uomo da qualche forma inferiore._--_Comparazione fra la potenza
mentale dell'uomo e quella degli animali sottostanti._--_Paragone fra
le facoltà mentali dell'uomo e quelle degli animali sottostanti._--_Del
modo di sviluppo dell'uomo da qualche forma inferiore._--_Dello
sviluppo delle facoltà intellettuali e morali durante i tempi
primitivi e i tempi inciviliti._--_Delle affinità e della genealogia
dell'uomo._--_Delle razze umane._

Della scelta sessuale il Darwin aveva detto pochissimo nel volume
intorno alla origine delle specie, per cui s'indusse a parlarne qui a
lungo. Esposti pertanto, nella seconda parte di questo suo volume, i
principii della scelta sessuale, egli esamina a mano a mano i caratteri
sessuali secondari in tutte le classi del regno animale, con sterminata
erudizione e colla consueta mirabile potenza di osservazione anche di
quei fatti che possono a primo aspetto parere i più insignificanti
e che, osservati da lui, acquistano una importanza capitale per le
conseguenze che ne sa ricavare.

Egli conchiude così:

«Considerando la struttura embriologica dell'uomo; le omologie che
presenta cogli animali sottostanti; i rudimenti che conserva, e i
ritorni a cui va soggetto, possiamo in parte richiamarci alla mente
la primiera condizione dei nostri primi progenitori; e possiamo
approssimativamente collocarli nella propria posizione nella serie
zoologica. Noi impariamo così che l'uomo è disceso da un quadrupede
peloso, fornito di coda e di orecchie aguzze, probabilmente di abiti
arborei, e che abitava l'antico continente. Questa creatura, quando
un naturalista ne avesse esaminata tutta la struttura, sarebbe stata
collocata fra i quadrumani, colla stessa certezza quanto il comune è
ancora più antico progenitore delle scimmie del vecchio e del nuovo
continente. I quadrumani e tutti i mammiferi più elevati derivano
probabilmente da qualche antico animale marsupiale, e questo per una
lunga trafila di forme diversificanti da qualche creatura rettiliforme
od anfibiforme, e questa del pari da qualche animale pesciforme. Noi
possiamo scorgere, nella fosca oscurità del passato, che il progenitore
primiero di tutti i vertebrali deve essere stato un animale acquatico,
fornito di branchie, coi due sessi riuniti nello stesso individuo, e
cogli organi più importanti del corpo (come il cervello e il cuore),
imperfettamente sviluppati. Questo animale sembra essere stato più
simile alla larva della nostra esistente Ascidia di mare che non a
qualunque altra forma conosciuta.

«La più grande difficoltà che si presenta, quando siamo tratti alla
sovraesposta conclusione intorno all'origine dell'uomo, è il livello
elevato di potenza intellettuale e di disposizione morale cui egli è
giunto.»

.................

«Lo sviluppo delle qualità morali è un problema interessantissimo
e difficile. Queste qualità si fondano sugli istinti sociali che
comprendono i legami della famiglia. Questi istinti sono di natura
sommamente complessa, e nel caso degli animali sottostanti producono
tendenze speciali verso certe azioni definite; ma gli elementi
più importanti per noi sono l'amore e la distinta emozione della
simpatia. Gli animali dotati di istinti sociali si compiacciono della
compagnia del loro simile, si difendono a vicenda dal pericolo, si
aiutano fra loro in molti modi. Questi istinti non si estendono a
tutti gli individui delle specie, ma solo a quella medesima comunità.
Siccome essi sono sommamente benefici alla specie, sono stati molto
probabilmente acquistati per opera della scelta naturale.

«Un essere morale è quello che può riflettere sulle sue azioni passate
e sui motivi di esse, approvarne alcune e disapprovarne altre, ed il
fatto che l'uomo è quella tal creatura che certamente può essere in
cosiffatto modo indicata, è la più grande di tutte le distinzioni
fra lui e gli animali sottostanti. Ma nel nostro terzo capitolo
ho cercato di dimostrare che il senso morale deriva, prima, dalla
natura persistente e sempre presente degli istinti sociali, nel qual
rispetto l'uomo concorda cogli animali sottostanti; secondo, dal
poter egli apprezzare l'approvazione e la disapprovazione dei suoi
simili; e terzo, da ciò che le sue facoltà mentali sono sommamente
attive e le sue impressioni dei passati avvenimenti vivacissime, nel
qual rispetto egli differisce dagli animali sottostanti. A cagione
di questa condizione di mente, l'uomo non può evitare di guardare
dietro e innanzi a sè, e comparare le sue passate impressioni. Quindi
dopo che qualche temporaneo desiderio o qualche passione hanno vinto
i suoi istinti sociali, egli rifletterà e comparerà la impressione
ora indebolita di quei passati impulsi, cogli istinti sociali
sempre presenti; e sentirà allora quel senso di scontento che tutti
gli istinti insoddisfatti si lasciano dietro. In conseguenza egli
si determina ad agire differentemente in avvenire, e questa è la
coscienza. Qualunque istinto che è permanentemente più forte o più
persistente che non un altro, origina un sentimento che noi esprimiamo
dicendo che deve esser obbedito. Un cane _pointer_, se fosse capace di
riflettere alla sua passata condotta, direbbe a sè stesso: io avrei
dovuto (come invero diciamo di lui) postare quella lepre e non aver
ceduto alla fuggitiva tentazione di saltar su e darle caccia.

«Gli animali sociali sono spinti in parte da un desiderio di porgere
aiuto ai membri della medesima comunità in un modo generale, ma più
comunemente a compiere certe azioni definite. L'uomo è spinto dallo
stesso desiderio generale di assistere i suoi simili, ma ha pochi o non
ha affatto istinti speciali. Differisce pure dagli animali sottostanti
per la facoltà che ha di esprimere i suoi desideri colle parole, che
così divengono la guida dell'aiuto richiesto ed accordato. Il motivo di
dare aiuto è parimente molto modificato nell'uomo; esso non consiste
più soltanto in un cieco impulso istintivo, ma è grandemente spinto
dalla lode o dal biasimo dei suoi simili. Tanto l'apprezzare quanto
l'accordare la lode ed il biasimo riposano sulla simpatia; e questo
sentimento, come abbiamo veduto, è uno degli elementi più importanti
degli istinti sociali. La simpatia, sebbene acquistata come istinto, è
pure resa più forte dall'esercizio o dall'abitudine. Siccome tutti gli
uomini desiderano la propria felicità, si dà lode o biasimo a quelle
azioni ed a quei motivi secondo che conducono a quello scopo; e siccome
la felicità è una parte essenziale del bene generale, il principio
della più grande felicità serve indirettamente come un livello quasi
sicuro del bene e del male. Man mano che le potenze del ragionamento
progrediscono e si acquista esperienza, si scorgono gli effetti più
remoti di certe linee di condotta intorno al carattere dell'individuo,
ed al bene generale; e allora le virtù personali venendo entro la
cerchia della pubblica opinione, ricevono lode, e le opposte vengono
biasimate. Ma nelle nazioni meno civili la ragione sovente erra, e
molti cattivi costumi e basse superstizioni vengono nella stessa
cerchia; e in conseguenza sono stimate come alte virtù, e la loro
infrazione come enormi delitti.

«Le facoltà morali sono in generale stimate, e giustamente, come molto
superiori alle potenze intellettuali. Ma dobbiamo sempre aver presente
che l'attività della mente nel richiamare con vivacità le passate
impressioni, è una delle basi fondamentali, sebbene secondarie, della
coscienza. Questo fatto somministra l'argomento più forte per educare
e stimolare con ogni possibile mezzo le facoltà intellettuali di ogni
creatura umana. Senza dubbio un uomo di mente torpida, qualora le sue
affezioni e simpatie sociali siano bene sviluppate, sarà indotto a
compiere buone azioni, e può avere una coscienza pienamente sensitiva.
Ma qualunque cosa che renda l'immaginazione degli uomini più viva e
rinforzi l'abito del ricordare e del comparare le passate impressioni,
renderà la coscienza più sensitiva, e può anche compensare fino a un
certo punto gli affetti e le simpatie sociali più deboli.

«La natura morale dell'uomo è giunta al più alto livello finora
ottenuto, in parte pel progresso delle forze del ragionamento e in
conseguenza di una giusta opinione pubblica, ma specialmente per ciò
che le simpatie sono divenute più dolci e più estesamente diffuse per
gli effetti della abitudine, dell'esempio, dell'istruzione e della
riflessione. Non è improbabile che le tendenze virtuose, mercè una
lunga pratica, possano essere ereditate. Nelle razze più incivilite,
il convincimento dell'esistenza di una Divinità onniveggente, ha avuto
una azione potente sul progresso della moralità. Infine l'uomo non
accetta più la lode o il biasimo del suo simile come guida principale,
sebbene pochi sfuggano a questa azione, ma le sue convinzioni abituali
governate dalla ragione gli somministrano la regola più sicura. Allora
la sua coscienza diviene il suo giudice e mentore supremo. Nondimeno
il primo fondamento e la prima origine del senso morale si basa
sugli istinti sociali, compresa la simpatia; e questi istinti senza
dubbio vennero primieramente acquistati, come nel caso degli animali
sottostanti, per opera della scelta naturale.

«La credenza in Dio è stata sovente posta come non solo la più grande,
ma anche la più compiuta di tutte le distinzioni fra l'uomo e gli
animali sottostanti. È tuttavia impossibile, come abbiamo veduto,
asserire che questa credenza sia innata o istintiva all'uomo. D'altra
parte una credenza in agenti spirituali onnipotenti sembra essere
universale; e da quanto pare deriva da un notevole progresso nelle
potenze di ragionamento dell'uomo, e da un ancor più grande progresso
delle sue facoltà immaginative, la curiosità e la meraviglia. So che
l'asserita credenza in Dio è stata adottata da molte persone come
un argomento per la sua esistenza. Ma questo è un argomento ardito,
perchè saremmo così obbligati a credere nell'esistenza di molti
spiriti crudeli e maligni, che posseggono appena un po' più di potere
dell'uomo; perchè la credenza in essi è molto più generale che non
quella in una Divinità benefica. L'idea di un benefico ed universale
Creatore dell'universo non sembra nascere nella mente dell'uomo, finchè
questa non siasi elevata per una lunga e continua cultura.

«Colui il quale crede che l'uomo proceda da qualche forma bassamente
organizzata, chiederà naturalmente come questo possa stare colla
credenza nell'immortalità dell'anima. Le razze barbare dell'uomo, come
ha dimostrato sir J. Lubbock, non hanno una chiara credenza di tal
sorta, ma gli argomenti derivati dalle primitive credenze dei selvaggi
non hanno, come abbiamo veduto testè, che poco o nessun valore. Poche
persone provano qualche ansietà per l'impossibilità di determinare
in quale preciso periodo nello sviluppo dell'individuo, dalla prima
traccia della minuta vescicola germinale al bambino, prima o dopo la
nascita, l'uomo divenga una creatura immortale; e non vi può essere
nessuna più grande causa di ansietà, perchè non è possibile determinare
il periodo nella scala organica graduatamente ascendente.

«Sono persuaso che le conclusioni a cui sono giunto in questo
lavoro, saranno da taluno segnalate come grandemente irreligiose;
ma colui che le segnalerà è obbligato di dimostrare perchè sia più
irreligioso spiegare l'origine dell'uomo come una specie distinta che
discenda da qualche forma più bassa, mercè le leggi di variazione e
la scelta naturale, che spiegare la nascita dell'individuo mercè le
leggi della riproduzione ordinaria. La nascita tanto della specie
come dell'individuo sono parimente parti di quella grande fila di
avvenimenti che le nostre menti rifiutano di accettare come l'effetto
cieco del caso. L'intelletto si rivolta ad una tale conclusione, sia
che possiamo o no credere che ogni lieve variazione di struttura,
l'unione di ogni coppia in matrimonio, la disseminazione d'ogni seme,
ed altri cosiffatti eventi, siano stati tutti ordinati per qualche
scopo speciale.»

       *       *       *       *       *

Il libro si termina con queste parole:

«Mi fa rincrescimento pensare che la principale conclusione a cui sono
giunto in quest'opera, cioè che l'uomo sia disceso da qualche forma
bassamente organizzata, riescirà sgradevolissima a molte persone. Ma
non vi può essere quasi dubbio che noi discendiamo dai barbari. Non
dimenticherò mai la meraviglia che provai nel vedere la prima volta un
gruppo di indigeni della Terra del Fuoco raccolti sopra una selvaggia
e scoscesa spiaggia; ma mi venne subito alla mente che tali furono i
nostri antenati. Quegli uomini erano al tutto nudi, e imbrattati di
pitture; i loro lunghi capelli erano tutti intricati, la loro bocca era
contorta dall'eccitamento, e il loro aspetto era selvaggio, sgomentato
e sgradevole. Non avevano quasi nessuna arte, e come gli animali
selvatici vivevano di quello di cui potevano impadronirsi; non avevano
alcun governo, ed erano senza misericordia per chiunque non fosse stato
della loro piccola tribù. Chi abbia veduto un selvaggio nella sua terra
nativa non sentirà molta vergogna, se sarà obbligato a riconoscere
che il sangue di qualche creatura più umile gli scorre nelle vene. In
quanto a me vorrei tanto essere disceso da quella eroica scimmietta che
affrontò il suo terribile nemico per salvare la vita al suo custode, o
da quel vecchio babbuino, il quale, sceso dal monte, strappò trionfante
il suo giovane compagno da una folla attonita di cani; quanto da un
selvaggio che si compiace nel torturare i suoi nemici, offre sacrifizi
di sangue, pratica l'infanticidio senza rimorso, tratta le sue mogli
come schiave, non conosce che cosa sia la decenza, ed è invaso da
grossolane superstizioni.

«L'uomo va scusato di sentire un certo orgoglio per essersi elevato,
sebbene non per propria spinta, all'apice della scala organica; ed il
fatto di essere in tal modo salito, invece di esservi stato collocato
in origine, può dargli speranza per un destino ancora più elevato in un
lontano avvenire. Ma non si tratta qui nè di speranze, nè di timori,
ma solo del vero, fin dove la nostra ragione ci permette di scoprirlo.
Ho fatto del mio meglio per addurre prove; e dobbiamo riconoscere, per
quanto mi sembra, che l'uomo con tutte le sue nobili prerogative, colla
simpatia che sente per gli esseri più degradati, colla benevolenza che
estende non solo agli altri uomini, ma anche verso la più umile delle
creature viventi, col suo intelletto quasi divino che ha penetrato nei
movimenti e nella costituzione del sistema solare, con tutte queste
alte forze, l'uomo conserva ancora nella sua corporale impalcatura lo
stampo indelebile della sua bassa origine.»



                                  XV


Nel mettere insieme i materiali pel suo libro intorno alla origine
dell'uomo il Darwin fu tratto a fare uno studio sul modo con cui l'uomo
e gli animali sottostanti esprimono le varie emozioni, e ad esaminare
a qual punto le emozioni siano espresse nello stesso modo dalle
varie razze umane. Egli si proponeva di esporre nel volume stesso i
risultamenti cui, mercè lo studio fatto, era venuto. Ma, da una parte,
la mole già considerevole del volume in questione, da un'altra parte la
grande copia dei materiali raccolti, furon causa che egli abbandonasse
quel pensiero e si deliberasse a pubblicare più tardi un volume
speciale sulla _Espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali_.
Questo volume fu pubblicato in Inghilterra nell'anno 1871, e venne
tradotto dal professore Giovanni Canestrini e pubblicato in Torino coi
tipi della Unione tipografico-editrice.

L'autore non trascurò, secondo il consueto, di consultare, anzi di
leggere colla massima attenzione, tutto ciò che era scritto prima di
lui intorno all'argomento; ma trovò un materiale assai scarso, e dovè
pure riconoscere che quegli scienziati e quegli artisti che avevano
pubblicato qualche cosa intorno alla espressione dei sentimenti non
avevano fatto che poco o nulla nella via che egli credeva quella che
dovesse essere percorsa in questo campo di investigazioni. Dovette far
tutto da sè, e fece con quella sua solita diligenza di ricerche e acume
e potenza di deduzioni che sono fra i dati più caratteristici della
sua mente. Scrisse una serie di quesiti intorno alla espressione dei
sentimenti nelle varie razze umane e li mandò in tutte le parti del
mondo a quelle persone direttamente o indirettamente di sua conoscenza
da cui poteva ragionevolmente aspettarsi soddisfacenti risposte. E le
risposte vennero invero, soddisfacenti e numerose.

La comparazione del modo di esprimere i sentimenti fra gli animali
e l'uomo, egli la dovette sostanzialmente far tutta da sè, perchè,
sebbene gli accenni in proposito nelle varie letterature siano
tutt'altro che infrequenti, una investigazione regolare dell'argomento
non era mai stata fatta.

Tre principii fondamentali, secondo il Darwin, rendono conto della
maggior parte delle espressioni e dei gesti involontarii nell'uomo e
negli animali, come si producono sotto l'impero delle emozioni e delle
diverse sensazioni. Questi tre principii sono i seguenti:

«I. _Principio dell'associazione delle abitudini utili_.--In date
condizioni dell'animo, per rispondere o per soddisfare a date
sensazioni, a dati desiderii, ecc., certe azioni complesse sono di una
utilità diretta; e tutte le volte che si rinnovella il medesimo stato
di spirito, sia pure a un debole grado, la forza dell'abitudine e
dell'associazione tende a produrre gli stessi movimenti, benchè d'uso
veruno. Può nascere che atti ordinariamente associati per l'abitudine
a certi stati di animo siano in parte repressi dalla volontà; in tali
casi, i muscoli, sopratutto quelli meno soggetti alla diretta influenza
della volontà, possono tuttavia contrarre e produrre movimenti che ci
paiono espressivi. Altra volta, per reprimere un movimento abituale,
altri leggeri movimenti si compiono, e pur essi sono espressivi.

«II. _Principio dell'antitesi_.--Talune condizioni di spirito
determinano certi atti abituali che sono utili, come lo stabilisce
il nostro primo principio. Dappoi, allorchè si produce uno stato
dell'animo direttamente inverso, siamo fortemente e involontariamente
tentati di compiere movimenti del tutto opposti, per quanto inutili, e
in alcuni casi questi movimenti sono molto espressivi.

«III. _Principio degli atti dovuti alla costituzione del sistema
nervoso, affatto indipendenti dalla volontà e, fino a un certo punto,
anche dall'abitudine_.--Quando il cervello è fortemente eccitato, la
forza nervosa si produce in eccesso e si trasmette in certe determinate
direzioni, dipendenti dalle connessioni delle cellule nervose, e in
parte dall'abitudine; oppure può avvenire che l'afflusso della forza
nervosa sia, in apparenza, interrotto. Ne risultano effetti che noi
troviamo espressivi. Questo terzo principio potrebbe per maggior
brevità dirsi quello dell'azione diretta del sistema nervoso.»

I primi tre capitoli dell'opera sono consacrati alla spiegazione di
questi tre principii fondamentali. Il capitolo seguente tratta dei
mezzi di espressione negli animali, la emissione di varie sorta di
suoni e i suoni vocali, il sollevamento, per terrore, dei peli e
delle piume, i movimenti delle orecchie, e via dicendo. Il capitolo
quinto è consacrato alle espressioni speciali di certi animali,
movimenti diversi nel cane, nel cavallo, nei ruminanti, nelle scimmie,
espressioni di gioia, di affetto, di dolore, di collera, di stupore, di
spavento.

Un capitolo è consacrato alle espressioni speciali all'uomo, dolore,
pianto nelle varie età della vita, effetti della repressione del
pianto, singulto. Poi si passano in rassegna le espressioni molteplici
di affanno, sconforto, disperazione, gioia, amore, devozione,
riflessione, meditazione, ira, odio, orgoglio, sorpresa, stupore,
paura, orrore, modestia, vergogna, e via dicendo.

In tutto ciò l'autore dimostra come l'eredità abbia una amplissima
parte; per la qual cosa il libro si chiude colle seguenti parole, che
dimostrano il legame suo colla quistione principale che tenne la mente
dell'autore per tutta quanta la vita:

«Noi abbiamo veduto che lo studio della teoria dell'espressione,
conferma fino a un certo punto l'idea, che l'uomo abbia avuto la
sua origine da una bassa forma animale, e appoggia l'opinione della
specifica o subspecifica identità delle diverse razze umane; ma, a
mio giudizio, ciò abbisogna appena di una tale conferma. Noi abbiamo
anche visto che l'espressione in sè o il linguaggio del sentimento,
come fu anche talvolta denominata, è certamente importante per il
benessere dell'umanità. L'imparar a conoscere, per quanto è possibile,
la fonte e l'origine delle diverse espressioni, che ad ogni momento ci
è dato osservare sulla faccia degli uomini (per non parlare affatto
degli animali domestici), dovrebbe avere un grande interesse per
noi. Per questi motivi noi possiamo conchiudere che la filosofia del
nostro soggetto è degna di tutta l'attenzione che le fu già concessa
da parecchi distinti osservatori e che essa merita uno studio sempre
maggiore da parte di tutti i distinti fisiologi.»



                                  XVI


Non meno degli animali Carlo Darwin studiava le piante. Il cenno che
egli dà intorno alla distribuzione delle piante nelle isole Galapagos,
quale gli era venuto fatto di osservare durante il suo viaggio, come
parecchi altri cenni intorno ai caratteri della vegetazione nei paesi
cui visitava, dimostrano come pure la botanica occupasse i suoi
pensieri ed egli fosse assai avanti in questa scienza. Il giorno in cui
incominciò a fare a sè stesso il quesito della variabilità delle specie
e si propose di cercare i materiali per una risposta ad esso, fece le
sue ricerche nel regno vegetale al paro che nel regno animale.

Queste ricerche lo menarono alla medesima conclusione per le piante
come per gli animali, ed anche per la via della botanica egli dimostrò
non esservi una distinzione fondamentale fra la varietà e la specie, e
dimostrò il modificarsi degli organi e il trasmettersi ereditariamente
dei caratteri e il variar delle forme. Ma lungo la via mentre andava
facendo le sue ricerche, gli venne fatto di trovare altre cose nuove, e
le sue scoperte in questo campo sono pure tanto importanti che i dotti
riconoscono che anche qui egli venne a dare un grande contributo alla
scienza.

Scolasticamente si asseriva esserci, fra le altre differenze
fondamentali che distinguono gli animali dalle piante, questa, che
le piante non hanno il potere di muoversi. Il Darwin dimostrò che
giova dire piuttosto che le piante acquistano e adoperano questo
potere soltanto quando ne possono ricavare un qualche vantaggio; e
che ciò avviene in esse meno frequentemente, perchè stan radicate nel
terreno, e l'aria e la pioggia portano loro il nutrimento. Dimostrò una
sensitività nelle piante in rapporto con certi movimenti e consacrò un
grosso volume ai movimenti delle piante, considerandoli per ogni verso
fin dai primordii del loro sviluppo; e un volume speciale alle piante
rampicanti esaminando il vario modo e i varii strumenti coi quali esse
si vanno arrampicando.

Studiò il Darwin il modo speciale di fecondazione delle piante della
famiglia delle orchidee, facendo in proposito una pubblicazione, e
un'altra ne fece sullo incrociamento e la autofecondazione nel regno
vegetale, e un'altra ancora sulle differenti forme dei fiori nelle
piante della medesima specie. Il lavoro che queste pubblicazioni hanno
costato al loro autore, lavoro di osservazione e di sperimentazione, è
veramente immenso, e tale che la mente al pensarvi rimane atterrita. Ma
tutte le credenze scolastiche sullo ibridismo, sullo ermafrodismo, sul
modo di compimento della fecondazione nei vegetali son venute a mutarsi
e nuovi orizzonti si apersero alla scienza, splendidi e forieri di luce
anche più sfavillante in un avvenire forse poco lontano.

Una differenza capitale si ammetteva pure siccome costantissima e senza
ombra di dubbio fuori di ogni e qualsiasi eccezione, fra gli animali e
le piante; questa, che gli animali si nutrono di materie organiche e i
vegetali di materie inorganiche. I vegetali, si diceva, preparano il
cibo agli animali; prendono dal terreno e dall'atmosfera i materiali
del loro accrescimento e del loro sostentamento, e compiono questa
meraviglia fra le meraviglie di trasformare la materia inorganica in
materia organica, di cui poi, direttamente o indirettamente, si nutrono
gli animali. Direttamente gli animali erbivori, indirettamente gli
animali carnivori, essendo poca fra queste due schiere di animali,
considerata dal punto di vista chimico, la differenza del cibo, sebbene
poi differiscano notevolmente fra loro gli animali erbivori dagli
animali carnivori per molti rispetti, nella struttura, nei mezzi di
offesa e di difesa, nella prolificità, nei costumi.

Si sapeva di certe piante, che quando un insettuccio si viene a posare
sopra una delle loro foglie, ci trova la morte. Ma nessuno aveva mai
sospettato che in queste piante l'insettuccio acchiappato servisse
di cibo alla pianta stessa, che si compisse dalla foglia una vera
digestione, quale è quella che si fa dai carnivori nel regno animale.
Il Darwin dimostrò colla maggiore evidenza questo fatto; diede a queste
meravigliose piante il nome di piante insettivore, e pubblicò intorno
ad esse un grande volume, che pur esso solo basterebbe larghissimamente
a dare al suo autore un posto immortale nella scienza. Egli non si
contentò di dimostrare la cosa, ma la investigò sapientissimamente
con molte sorta di sperimenti, esaminando gli effetti prodotti sulle
foglie da varie sorta di sostanze alimentari animali, da veleni, da
anestetici, e via dicendo.

Come sempre, egli applica quel suo mirabile metodo critico con cui
passa in rassegna diligentemente ad una ad una tutte le spiegazioni
possibili di un fatto, e a mano a mano elimina sempre con saldissimi
argomenti quelle che non si possono ammettere. Era vicino ai
settant'anni quel sommo uomo, quando si mostrava così profondamente
versato nella fisiologia vegetale e nella chimica fisiologica e porgeva
una incomparabile guida a chi voglia cimentarsi nella via sperimentale
con quella varietà di procedimenti e con quella severità di critica che
sono necessarie alla buona riuscita.

       *       *       *       *       *

Non fu tuttavia quello l'ultimo lavoro di Carlo Darwin. L'ultimo
suo lavoro, non meno caratteristico della sua tempra, non meno
ben condotto, non meno ricco di osservazioni, di sperimenti e di
deduzioni, non meno fondato sui fatti, quei fatti che appaiono
insignificanti agli altri e che per lui sono fecondi di conclusioni
tanto grandiose, è un lavoro sulla formazione della terra vegetale
per l'azione dei lombrici, di cui appunto in questi giorni la Unione
tipografico-editrice pubblica una mia traduzione. Nel 1837 il Darwin si
occupava già del modo di formazione della terra vegetale. In quell'anno
egli pubblicava, nelle memorie della Società geologica di Londra,
un lavoro intorno a questo argomento. Per quarant'anni, in mezzo a
tante altre ricerche, egli condusse avanti anche queste, e le espose
alla perfine in un volume destinato non meno degli altri a destare la
più viva ammirazione per l'autore e arricchire di nuove conquiste il
patrimonio della scienza.

In tutti i suoi libri il Darwin dà in poche parole un sunto di ciò che
ha esposto, nel primo o nell'ultimo capitolo, riassumendo limpidamente
le cose principali del libro. Così fa anche qui nell'ultimo capitolo,
il quale, siccome assai breve, credo utile riferire.

«I lombrici hanno avuto nella storia del mondo una parte molto più
importante di quello che molti possano pensare. In quasi tutti i paesi
umidi essi sono numerosissimi, e per la loro mole posseggono una
grande forza muscolare. In molte parti d'Inghilterra ogni anno una
quantità di terra asciutta del peso di oltre a dieci tonnellate (10,516
chilogrammi) passa pei loro corpi ed è portata alla superficie per
ogni acro di terra; cosicchè tutto lo strato superficiale di terra
vegetale passa pei loro corpi nello spazio di pochi anni. Pel crollare
delle buche più antiche dei lombrici, il terreno vegetale è in continuo
sebbene lento movimento, e le particelle che lo compongono vengono
così sfregate assieme. In tal modo nuove superfici sono continuamente
esposte all'azione dell'acido carbonico nel suolo, e degli acidi
dell'humus che sembrano essere ancor più efficaci nel decomporre le
rocce. La produzione degli acidi umici viene probabilmente affrettata
durante la digestione delle numerose foglie semi-infracidite che
i lombrici consumano. Così le particelle della terra, che formano
lo strato della superfice, vanno soggette a condizioni sommamente
favorevoli alla loro decomposizione e alla loro disintegrazione.
Inoltre, le particelle delle rocce più molli sopportano un certo grado
di trituramento meccanico nel ventriglio muscoloso dei lombrici, nei
quali le pietruzze fanno ufficio di pietre da macina.

«I rigetti finamente levigati, quando sono portati alla superfice in
condizione umida, scivolano durante la pioggia sopra un pendio moderato
qualunque; e le particelle più piccole sono trascinate molto più in giù
anche sopra a una superfice poco inclinata. I rigetti asciutti spesso
si sbriciolano in pallottoline, le quali possono rotolare lungo una
superfice in pendenza qualsiasi. Ove la terra è interamente piana e
coperta d'erba, e ove il clima è umido tanto che la polvere non può
essere portata via dal vento, sembra a prima vista impossibile che vi
possa essere una quantità apprezzabile di denudamento subaereo; ma i
rigetti dei lombrici sono portati via, specialmente mentre sono umidi
e vischiosi, in una direzione uniforme dai venti dominanti che sono
accompagnati da pioggia. Con questi varii mezzi il terreno vegetale
della superfice non può accumularsi ad un grande spessore; e uno strato
denso di terra vegetale arresta in molti punti lo sgretolamento delle
rocce sottostanti e dei frammenti della roccia.

«Il mutar di luogo dei rigetti dei lombrici per le cause sopra indicate
produce dei risultamenti che sono tutt'altro che insignificanti. È
stato dimostrato che uno strato di terra dello spessore di 5 millimetri
viene annualmente in molti punti portato alla superficie per ogni
acro; e se una piccola parte di questa quantità scorre, o rotola, o
è trascinata dall'acqua, anche per un breve tratto, lungo un pendio
qualsiasi, o viene portata via dal vento in una direzione, nel corso
dei secoli tutto ciò deve produrre un grande effetto. Colle misure
prese e coi calcoli fatti si è trovato che sopra una superficie di una
inclinazione media di 9° 26', 37,5 centimetri cubi di terra emessa dai
lombrici, formano, nel corso di un anno, una linea orizzontale lunga
90 centim., cosicchè in 100 anni 3750 centimetri cubi formerebbero una
linea lunga 90 metri. Questa quantità allo stato umido peserebbe chil.
4,29.

Così un peso notevole di terra viene continuamente movendosi lungo
ogni fianco di ogni valle, e col tempo deve giungere al letto di essa.
Finalmente questa terra sarà trasportata dai corsi d'acqua che scorrono
nelle valli fino nel mare, grande ricettacolo di tutta la materia del
denudamento della terra. Si sa, per la quantità di sedimento che ogni
anno viene portato al mare dal Mississippi, che questa enorme area di
drenaggio deve in media diminuire ogni anno di millimetri 0,6575; e
questo basterebbe in quattro milioni e mezzo di anni ad abbassare tutta
l'area di drenaggio a livello della spiaggia del mare. Cosicchè, se
una piccola frazione dello strato di terra fine, dello spessore di 5
millimetri, che viene ogni anno riportata alla superficie dai lombrici,
viene portata via, non può mancare di prodursi un grande effetto in un
periodo che nessun geologo considera come estremamente lungo.

«Gli archeologi debbono essere grati ai lombrici, dell'avere essi
protetto e conservato per un periodo indefinitamente lungo ogni
oggetto non soggetto a decomporsi, caduto sulla superficie della
terra, sotterrandolo sotto ai loro rigetti. Così pure, molti pavimenti
quadrellati eleganti e curiosi e altri avanzi vennero conservati;
sebbene senza dubbio i lombrici furono in questi casi grandemente
aiutati dalla terra trascinata dall'acqua e dal vento dal terreno
contiguo, specialmente quando questo è coltivato. I pavimenti a mosaico
antichi hanno, tuttavia, sofferto sovente per essersi abbassati
disugualmente, per essere stati disugualmente minati dai lombrici.
Anche gli antichi muri massicci possono venire minati e abbassarsi, e
nessun fabbricato ne va immune per questo rispetto, a meno di avere
dei fondamenti profondi m. 1,80 a 2 metri sotto alla superficie, a una
profondità ove i lombrici non possono lavorare. È probabile che molti
monoliti e certi muri antichi siano crollati per essere stati minati
dai lombrici.

«I lombrici preparano il terreno in modo eccellente pel crescere
delle piante dalle radici fibrose e per i seminati di ogni sorta.
Essi espongono all'aria periodicamente il terreno vegetale, e lo
stiacciano per modo che nessun sasso più grosso delle particelle che
possono inghiottire rimane in esso. Mescolano tutto intimamente, come
fa il giardiniere quando prepara la sua terra fina per le sue piante
più scelte. In questo stato esso è bene acconcio tanto per trattenere
l'umidità e assorbire tutte le sostanze solubili, quanto pel processo
della nitrificazione. Le ossa degli animali morti, le parti più
dure degli insetti, i nicchi dei molluschi terrestri, le foglie, i
ramoscelli, ecc., vengono in un tempo non molto lungo sepolti sotto
a rigetti accumulati dei lombrici, e sono così messi in uno stato di
decomposizione ancora più grande a portata delle radici delle piante. I
lombrici tirano un numero infinito di foglie nelle loro buche, in parte
per turarne l'apertura e in parte per nutrirsi.

«Le foglie che sono portate nelle buche per cibo, dopo d'essere
state sbriciolate in pezzettini, in parte digerite, e saturate dalle
secrezioni intestinali e urinarie, vengono mescolate con molta terra.
Questa terra forma quell'_humus_ ricco, di color bruno, che copre quasi
in ogni parte la superfice della terra di un manto bene definito.
Von Hensen mise due lombrici in un recipiente del diametro di 45
centimetri, pieno di sabbia su cui erano sparse delle foglie; e queste
furono in breve tratte entro alle loro buche ad una profondità di 7
centimetri e mezzo. Dopo 6 settimane circa uno strato quasi uniforme di
sabbia, dello spessore di un centimetro, era convertito in _humus_ per
avere attraversato il canale alimentare di quei due lombrici. Alcune
persone credono che le buche dei lombrici, le quali sovente penetrano
nel terreno quasi perpendicolarmente ad una profondità di 1 m. 50 a
1 m. 80, agevolino materialmente il suo drenaggio, sebbene i rigetti
viscidi ammucchiati sulle aperture delle buche impediscano o arrestino
l'acqua dal penetrare profondamente entro alla terra. Esse agevolano
pure molto il passaggio dello scendere a delle radici di piccola mole;
e queste vengono nutrite dall'_humus_ con cui sono spalmate le buche.
Molti semi vanno debitori del loro germogliamento allo essere stati
coperti dai rigetti; e altri sepolti a una profondità notevole sotto a
rigetti accumulati giacciono inerti, finchè in un tempo avvenire siano
scoperti per accidente e possano germogliare.

«I lombrici sono meschinamente provveduti di organi di senso; perchè
non si può dire che abbiano la vista, quantunque possano distinguere
tra la luce e l'oscurità; sono interamente sordi, e hanno poco odorato;
solo il senso del tatto è bene sviluppato. Possono quindi conoscere
poco di ciò che sta loro attorno nel mondo esterno, e fa meraviglia
come possano mostrare una certa abilità nello spalmare le loro buche
coi loro rigetti e colle foglie, e, nel caso di alcune specie,
ammucchiare i loro rigetti a mo' di edifizi torreggianti. Ma è ancor
più sorprendente che possano mostrare un certo grado d'intelligenza
invece di un semplice impulso dell'istinto nel modo di turare le bocche
delle loro buche. Operano quasi nel modo stesso come farebbe un uomo il
quale avesse da chiudere un tubo cilindrico con varie sorta di foglie,
di picciuoli, di triangolini di carta, ecc., perchè ordinariamente
ghermiscono questi oggetti per la parte più aguzza. Ma gli oggetti più
sottili sono tirati dentro per lo più per le estremità più larghe. Essi
non operano nello stesso modo in tutti i casi, come fanno molti animali
inferiori; per esempio, non tirano dentro le foglie pel loro picciuolo,
a meno che il gambo sia tanto sottile quanto l'apice, o più stretto di
questo.

«Quando noi stiamo a guardare una distesa larga coperta d'erba,
dobbiamo ricordarci che la sua levigatezza, dalla quale tanto dipende
la sua bellezza, è dovuta in parte all'opera dei lombrici che hanno
lentamente spianato tutte le sue scabrosità. È stupendo pensare che
tutto il terreno vegetale della superfice di una distesa erbosa
qualsiasi è passato e passerà di nuovo ogni tanti anni pel corpo dei
lombrici.

«L'aratro è una delle più antiche e più utili invenzioni dell'uomo; ma
molto prima che esso esistesse la terra era infatti regolarmente arata,
e continua ad essere arata dai lombrici o vermi della terra. Si può
mettere in dubbio se vi siano molti altri animali i quali abbiano avuto
una parte tanto importante nella storia del mondo quanto quella avuta
da questi esseri dall'organismo tanto basso. Tuttavia vi sono altri
animali, di una organizzazione ancora più bassa, vale a dire i coralli,
che hanno compiuto un'opera ancor più cospicua, avendo costrutto un
numero sterminato di scogliere e di isole nei vasti oceani; ma questi
sono quasi tutti limitati nelle zone dei tropici.»



                                 XVII


I fisiologi moderni insegnano che la riproduzione vuol essere
considerata come una maniera di nutrizione, una nutrizione in eccesso
per la quale la porzione eccedente si costituisce in un nuovo
individuo. Dante aveva già chiarissimo nella sua mente questo concetto.
Una parte del sangue, la parte più pura, che non viene assorbita, e che
risulta evidentemente da un eccesso di nutrizione,

  Quasi alimento che di mensa leve,

è quella che è destinata a trasformarsi nel nuovo individuo. Ma la
virtù attiva per cui s'ingenera il nuovo individuo è appena quale è
quella di una pianta. Con questa differenza capitale tuttavia che la
pianta è destinata a non andar più oltre, è arrivata alla sua meta,
mentre l'animale è appena in strada.

  Anima fatta la virtute attiva,
  Qual d'una pianta, in tanto differente,
  Che questa è in via e quella è già a riva.

Nei primordii del suo sviluppo, quell'essere che è destinato a
diventare un uomo, ha una sensitività e un movimento quali spettano
agli animali inferiori, alle spugne del mare, che Dante considerava
come i più semplici fra tutti gli animali.

  Tanto erra poi, che già si muove e sente,
  Come fango marino, ed ivi imprende
  Ad organar la possa ond'è semente.

L'embriologia ha dimostrato ai giorni nostri, come il feto umano compia
i suoi passaggi per gli stadi inferiori.

       *       *       *       *       *

L'uomo si vergogna oggi di discendere dagli animali, si ribella al
concetto di una tale provenienza, come prima si ribellò al concetto del
movimento della terra e del suo roteare intorno al sole e del suo far
parte, e piccola parte, di un sistema di corpi celesti, vergognandosi
di non essere nel centro dell'universo, e di non poter considerare
come fatti per lui il sole, la luna, i pianeti, tutti gli astri del
firmamento.

Sentite il Kleinenberg:

«I principii meccanici spiegarono i movimenti terrestri e celesti,
e più, indicarono l'origine e il destino finale dei mondi che
nell'infinito etere circolano, ma non ci fecero intelligibile
l'esistenza della più piccola mosca. L'organico era la soglia che
il pensiero meccanico non varcava. Eravamo più in casa nostra tra i
pianeti che non tra gli esseri viventi, i continui compagni della
nostra vita. È vero che l'anatomia e la fisiologia avevano raccolto
grande quantità di preziosissimi dati e soltanto guidati da tali fatti
era possibile toccare i sommi problemi; tuttavia il contenuto veramente
scientifico era oltremodo scarso, e se i problemi erano proposti
mancavano le soluzioni. Ci voleva un nuovo organo; ora l'abbiamo;
è la teoria di Darwin. E in questo senso l'opera dell'inglese è
contemperata a quella dell'italiano (Galileo). Il mondo organico
diventa intelligibile, i fenomeni vitali assumono il carattere della
necessità, non solo il come, ma il perchè dell'organizzazione diventa
il fine della ricerca. Ogni forma organica ha la sua causa efficente
determinabile; ogni funzione è un adattamento all'ambiente acquistato
nella lotta per l'esistenza; ogni organo è la realizzazione morfologica
d'una funzione. La vita, unica nella sua origine, si manifesta in mille
e mille forme, ma tutte queste forme riunisce un principio generale.
Dall'inferiore e semplice nasce il superiore e complicato. Senza
l'amiba non sarebbe l'uomo, data l'amiba e l'ambiente era inevitabile
necessità nascesse l'uomo. Non l'essere, il divenire è il principio del
mondo.

«A noi zoologi rincresce quasi essere la teoria darwiniana diventata
una quistione personale dell'uomo. Si starebbe tanto meglio, il lavoro
manterrebbe molto più facilmente la sua equanimità scientifica se
non venissero le passioni, l'odio e la provocazione a disturbarci. E
poi, l'applicazione della teoria della discendenza alla morfologia
dell'uomo non ha proprio un'importanza particolare. L'origine dell'uomo
è in questo senso un problema speciale, limitato, come lo è l'origine
di qualsiasi altra specie, neppure tra i più interessanti. Imperocchè
la struttura del corpo umano è conforme a quella di certi mammiferi
superiori sino a tal segno che alcuni vecchi anatomici osarono le loro
preparazioni dei muscoli, nervi, vasi, ecc. delle scimmie rappresentare
come quelli dell'uomo, e ciò certamente con grave offesa della buona
fede, ma senza notevoli inconvenienti per l'uso pratico nella medicina.
La fabbrica del corpo umano e le sue funzioni inferiori non offrono
alcun problema che non si ripetesse in altri organismi, e spesso più
evidente e puro.

«Ma la scienza ha ancora un altro lato che è altrettanto grande: non
solo il mondo esterno, non solo le condizioni che determinano la
sua esistenza materiale sono i fenomeni che l'uomo cerca di rendere
intelligibili, anche le manifestazioni di quell'intimo suo essere, che
egli chiama l'anima, formano l'obbietto del suo pensare. Conoscere il
mondo e conoscere sè stesso, ecco l'intero compito della scienza. E
delle azioni dell'anima vale lo stesso che dissi delle azioni esterne:
molte rimangono fuori della coscienza, altre c'entrano, ma confuse,
indistinte, poche sono chiare, determinate--di nessuna sinora fu
detto il perchè. Mancava l'organo ed ora l'abbiamo, per imperfetto
che sia. I problemi della vita sociale, del pensiero, del sentimento
sono teoricamente solubili; consideriamo il loro contenuto non come
eternamente stabilito creato, ma come diventato. Lo so bene che per
raggiungere questa meta ci vuole assai, che non abbiamo i mezzi da
poter attaccare direttamente neanche i più semplici di tali problemi,
che coloro--non pochi disgraziatamente--che oggigiorno vi offrono le
soluzioni bell'e fatte, dello scienziato posseggono forse l'arditezza,
ma certo non la assennatezza nè il sentimento della propria
responsabilità; ma tuttociò non impedisce di veder aperto l'orizzonte
da cui sorgerà la luce per tramandare i suoi raggi sino alle più
profonde tenebre del nostro interno.

«Nessuno si ribella all'idea esistere entro ai limiti del genere umano
un legame che noi viventi connette al primo uomo comparso, essere
ogni nuova generazione l'erede di tutte quante la precedettero, di
modo che quel che siamo non lo siamo se non per le virtù e i vizi
dei nostri antenati. Ma qui non possiamo fermarci: per comprendere
l'umanità bisogna varcare i limiti dell'uomo. Vediamo preceduta la sua
apparizione da altri organismi che non erano uomini, ma certamente
possedevano i germi sviluppati poi nel pensiero e nel sentimento umano;
ed anche questi organismi avevano i loro predecessori e via sempre così
dal superiore all'inferiore, sintantochè si arriva alla sostanza, la
quale dalla materia inorganica non si distingue che per quest'ultimo
carattere: vive.

«Sicuro che l'uomo diventato, sviluppato non è più quel semidio che si
credeva al disopra di ogni comunanza colla natura: però la scossa che
gli dà il trasformismo non è, in un certo senso, nemmeno tanto forte
come quella che la sua arroganza ricevette dal sistema copernicano;
questo, smovendo la terra dalla sua posizione centrale, non le
lasciava che un posticino modesto, subordinato nel meccanismo solare,
mentre la teoria di Darwin non contrasta in niun modo la superiorità
dell'uomo sugli altri organismi; lo comprende bensì per la più perfetta
realizzazione, cui la vita cosmica sinora è pervenuta. Ma la parentela
cogli animali, cui siamo usi a guardare con tanto disprezzo, ripugna
sempre, ed è naturale: non sì facilmente si abbandonano i pregiudizii
secolari, e la trasformazione dei cervelli non succede da oggi a
domani. Se io vi mostro una di quelle belle meduse, fiori animali del
nostro mare, e vi dico che questo organismo tanto semplice rappresenta
uno stadio decisivo nello svolgimento paleontologico dell'uomo, forse
anche fra noi sarà qualcuno per rispondermi: fantasticherie! Oh sì!
il veramente fantastico già non è l'arte, la quale senza tradire
la sua indole non può mai discostarsi dall'apparenza, il veramente
fantastico sono i principii della scienza, che tutti quanti sono
evidenti contraddizioni della nostra immediata esperienza. Neanche
il più semplice problema meccanico si comprende senza l'assioma che
il moto abbandonato a sè stesso perdura eternamente, e non vediamo
forse fermarsi ogni corpo in movimento, tostochè gli vien meno la
forza motrice? Nessuno di noi dubita del girare della terra intorno al
sole, e giorno per giorno i nostri occhi ci dicono che il sole si alza
nell'oriente, sale e poi discende dalla parte occidentale per tuffarsi
nel mare. La scienza insegna la trasformazione degli organismi e noi
non vediamo nascere che uomini da uomini e mosche da mosche.

«In quest'ultimo caso i teoremi sono però alquanto più in armonia colla
comune esperienza. La mia medusa non vi persuade? Ora, permettetemi
di presentarvi un altro animale. Eccolo qua: la sua organizzazione
differisce essenzialmente da quella dell'uomo, è molto inferiore;
quest'organizzazione è mirabilmente adattata ad un modo di vivere,
che però non ha nulla di comune con la vita umana; le sue facoltà
intellettuali sono senza dubbio assai al disotto di quelle della
formica, è oltremodo brutto colla sua sproporzionata testa, coi suoi
tozzi arti, colla larga coda, ed ora vi dico che questa cosa sarà una
donna la cui mortal bellezza deciderà inappellabilmente sul destino
della vostra vita, o sarà un uomo dall'ingegno sì potente da dominarci
tutti quanti. Quell'animalaccio! impossibile! Questa volta però, o
signori, il vostro impossibile non vale: perchè quello che vi feci
vedere era un embrione di uomo. Ora, se siamo costretti ad ammettere
di essere stati ognuno nella stessa nostra esistenza individuale, sia
anche per soli pochi giorni, così inferiori, così brutti, così stupidi,
non mi pare tanto offensiva l'idea che milioni di anni fa i nostri
progenitori non fossero nè più nè meno di quell'embrione imperfetto
si ma dotato d'un'immensa facoltà, d'evoluzione. Per sapere quel che
siamo, bisogna sapere quel che eravamo.

«Si accusa la teoria della discendenza di materialismo; ciò non ci fa
nè caldo nè freddo. Nessuna grande scoperta, nessuna nuova idea nella
scienza, nessun liberale concetto della morale contro cui non sia
stato gridato l'anatema. Così la va da secoli e così seguirà ancora
per un pezzo. Un significato preciso lo cercherete invano in quella
parola, e praticamente essa non è che la protesta di chi non vuole il
progresso, non vuole la verità, non vuole la scienza. Ma se prendiamo
il materialismo nel senso che, se non ha, dovrebbe avere, allora si
scorge subito essere la dottrina di Darwin antimaterialista. Niuna
teoria biologica concede maggior spazio all'attività dello spirito,
dell'anima. È egli materialismo vedere l'origine dell'uomo in animali
di cui si riconosce la mirabile intelligenza ed il puro e gentile
sentimento, mentre il volgo e una tradizione corrotta li chiama bruti?
L'avvenire, l'evoluzione futura del genere umano, la teoria non può nè
vuole determinarli; c'è campo per le più profonde degenerazioni e per
il più alto infinito perfezionamento. Io, che forte sento il bisogno
di credere, credo in una cosa, nell'indeterminato perfezionamento
dell'uomo: due manifestazioni della sua anima me lo garantiscono:
l'arte e la scienza. Non disprezzo per certo l'enorme sviluppo
materiale di cui va tanto superba la nostra età, ma non posso che
dire, con un convincimento, il quale s'avvicina di molto all'evidenza
scientifica, che nell'evoluzione dell'umanità un canto di Dante, un
quadro del Dürer, valgon più di tutte le ferrovie del mondo e che una
pagina di Galileo e di Darwin è nella lotta per l'esistenza un'arma
assai più potente degli eserciti e de' cannoni. Sia vicino il tempo ove
la lotta per l'esistenza sarà compresa come la lotta per l'umanità!»

Il Morselli, che ha fatto un bellissimo studio su Carlo Darwin (_Carlo
Darwin_ per E. MORSELLI, Milano, Dumolard) dice che «nissun libro
ebbe mai sullo scibile umano l'influenza che ebbe il piccolo volume
della _Origine delle specie_, in cui si condensavano il lavoro, le
meditazioni, le esperienze, le veglie di ventotto anni.» Ma soggiunge
ragionevolissimamente che Carlo Darwin era pienamente consapevole dello
effetto che sarebbe stato per produrre il suo libro. In prova di ciò
egli non trova di poter far meglio che citare alcune parole del Darwin
medesimo, che stanno in fine al volume. Anch'io credo di dover far lo
stesso, ma, avendo maggior spazio disponibile, faccio la citazione un
po' più lunga e la faccio colle parole della traduzione del Canestrini.
Ecco le ultime parole che si leggono nel volume della _Origine delle
specie_.

«Quantunque io sia pienamente convinto della verità delle idee esposte
in questo libro sotto forma di compendio, non ho alcuna speranza di
convincere gli abili naturalisti che hanno la mente preoccupata da
una moltitudine di fatti considerati, per molti anni, da un punto
di vista direttamente opposto al mio. Egli è tanto facile capire la
nostra ignoranza, nelle espressioni analoghe a queste: il _piano
della creazione_, _l'unità di tipo_, ecc., e crederò per questo di
dare una spiegazione, quando invece altro non si fa che constatare un
fatto. Chiunque propende ad annettere un peso maggiore alle difficoltà
non spiegate, che alla dimostrazione di un certo numero di fatti,
respingerà senza dubbio la mia teoria. Pochi naturalisti soltanto,
dotati di molta flessibilità di spirito, e che hanno già cominciato a
dubitare dell'immutabilità delle specie, possono tener conto di questo
libro; ma io guardo con calma e fiducia l'avvenire, e quei giovani
naturalisti che ora si formano, i quali saranno capaci di esaminare
ambi i lati della questione con imparzialità. Coloro che professano i
principii della mutabilità delle specie presteranno un ottimo servizio
esprimendo coscienziosamente la loro opinione; perchè in questo modo
soltanto potranno dissipare tutti i pregiudizi che circondano questo
argomento.

«Parecchi naturalisti eminenti hanno pubblicato recentemente l'opinione
che una quantità di specie credute tali in ogni genere, non sono specie
reali; ma che altre specie sono appunto reali, vale a dire, sono
state create indipendentemente. Mi pare che questa conclusione sia
singolare. Essi ammettono che una moltitudine di forme, le quali fino
ad ora essi avevano riguardate quali creazioni speciali e che anche la
maggior parte dei naturalisti considerano tuttora come tali, le quali
hanno per conseguenza ogni esterna apparenza caratteristica di vere
specie, essi ammettono che queste forme siano state prodotte per mezzo
della variazione, ma ricusano di estendere il medesimo concetto alle
altre forme leggermente diverse. Tuttavia essi non pretendono di poter
definire o congetturare, quali siano le forme della vita create, e
quali quelle prodotte da leggi secondarie. Essi ammettono la variazione
come una _vera_ causa nell'un caso, ma la respingono arbitrariamente
nell'altro, senza porre alcuna distinzione fra i due casi. Verrà giorno
in cui questa idea sarà riguardata come un comico esempio della cecità
delle opinioni preconcette. Questi autori non mi sembrano maggiormente
sorpresi da un atto miracoloso di creazione, che da una nascita
ordinaria. Ma credono essi realmente che, nei periodi innumerevoli
della storia della terra, certi atomi elementari siano stati
improvvisamente riuniti a formare dei tessuti viventi? Credono essi che
ad ogni supposto atto di creazione si sia prodotto un solo individuo
ovvero molti? Tutte le innumerevoli sorta di animali e di piante furono
create allo stato di uova e di semi, oppure interamente sviluppate?
Nel caso dei mammiferi, dobbiamo credere che questi fossero creati coi
falsi contrassegni degli organi, per mezzo dei quali traggono il loro
nutrimento dall'utero dell a madre? Senza dubbio codeste questioni non
possono risolversi nemmeno da coloro che, nello stato presente della
scienza, credono alla creazione di poche forme originali od anche di
una forma di vita qualsiasi. Fu detto da diversi autori che non è meno
facile il credere alla creazione di cento milioni di esseri, che a
quella di uno solo; ma l'assioma filosofico di Maupertuis _della minima
azione_, dispone lo spirito ad accogliere più volentieri il numero più
piccolo; e certamente non dobbiamo pensare che gli esseri innumerevoli
di ogni grande classe siano stati creati con caratteri evidenti, ma
ingannevoli, che proverebbero la loro provenienza da un solo parente.

«Come ricordo ad uno stato passato di cose io ho conservato nei
paragrafi che precedono ed altrove parecchie proposizioni, da cui
risulta che i naturalisti credono ad una separata creazione di ciascuna
specie, e fui molto censurato perchè così mi espressi. Ma tale era
indubbiamente l'opinione generale, quand'io pubblicai la prima edizione
dell'opera presente. Io aveva parlato prima con molti naturalisti
sul tema della evoluzione, e non avea trovato nemmeno una simpatica
accoglienza. Probabilmente alcuni credevano allora ad una evoluzione;
ma o se ne tacquero, o si espressero in modo così ambiguo, che tornava
difficile capire le loro idee. Ora le cose sono affatto cambiate, e
quasi ogni naturalista ammette il grande principio della evoluzione.
Ve ne hanno tuttavia ancora alcuni, i quali ritengono che le specie
abbiano potuto produrre repentinamente con mezzi del tutto sconosciuti
delle forme valenti all'idea di modificazioni grandi e repentine. La
ipotesi che nuove forme siansi sviluppate dalle vecchie e interamente
diverse in modo subitaneo e con mezzi sconosciuti, considerata come
punto di vista scientifico e come introduzione ad ulteriori indagini,
non può recare che un ben piccolo vantaggio di fronte alla credenza che
le specie siano nate dal fango della terra.

«Potrebbe chiedersi quale sia l'estensione che io attribuisco
alla dottrina della modificazione delle specie. A tale questione
difficilmente può rispondersi, perchè quanto più distinte sono le
forme da noi considerate, tanto più gli argomenti divengono deboli. Ma
certi argomenti del massimo valore si estendono assai. Tutti i membri
di intere classi possono collegarsi insieme con vincoli di affinità,
e tutti possono classificarsi, pel medesimo principio, in gruppi
subordinati ad altri gruppi. Gli avanzi fossili tendono talvolta a
riempire le vaste lacune che si trovano fra gli ordini esistenti.

«Gli organi rudimentali dimostrano evidentemente che un antico
progenitore li possedeva in uno stato di completo sviluppo; e ciò
implica in alcuni casi una enorme quantità di modificazioni nei
discendenti. In certe classi varie strutture sono formate col medesimo
sistema, e nell'età embrionale le specie si rassomigliano molto fra
loro. Perciò non posso dubitare che la teoria della discendenza
modificata abbracci tutti i membri della medesima classe. Io credo
che gli animali derivino da quattro o cinque progenitori al più, e le
piante da un numero uguale o minore di forme.

«L'analogia mi condurrebbe anche più avanti, cioè alla opinione che
tutti gli animali e le piante derivino da un solo prototipo. Ma
l'analogia può essere una guida ingannevole. Nondimeno tutti gli
esseri viventi hanno molte qualità comuni, la loro composizione
chimica, la loro struttura cellulare, le leggi del loro sviluppo, e
la facoltà di essere affetti dalle influenze dannose. Noi lo vediamo
anche nelle circostanze meno importanti; per esempio, il medesimo
veleno colpisce ugualmente le piante e gli animali; eppure il veleno
che si depone dal _Cynips_ produce delle protuberanze mostruose nei
rosai e nelle quercie. In tutti gli esseri organizzati la unione di
cellule elementari del maschio e della femmina sembra necessaria
occasionalmente per la formazione di un essere nuovo. In tutti, per
quanto oggi sappiamo, la vescichetta germinativa è la stessa. Per
modo che ogni essere organico individuale parte da un'origine comune.
Anche se consideriamo le due divisioni principali, cioè il regno
animale e il regno vegetale, certe forme inferiori sono intermedie
pei loro caratteri, al punto che i naturalisti disputarono a quale
dei due regni dovessero riferirsi; e come osservò il professore Asa
Gray «le spore ed altri corpi riproduttivi di molte alghe inferiori
possono condurre sulle prime una vita decisamente animale, indi una
indubitata esistenza vegetale.» Perciò, secondo il principio della
elezione naturale colla divergenza di carattere, non può sembrare
incredibile che da una di queste forme inferiori ed intermedie siano
sorti gli animali e le piante; e se noi ammettiamo ciò, dobbiamo anche
concedere che tutti gli esseri organizzati, che esistettero sulla
terra, possono essere stati prodotti da una qualche forma primordiale.
Ma questa deduzione è principalmente fondata sull'analogia e poco monta
che sia accettata o respinta. Il caso è differente nei membri di ogni
grande classe, come i vertebrati, gli articolati, ecc., perchè qui,
come abbiamo osservato, abbiamo nelle leggi della omologia e della
embriologia, ecc., diverse prove, che tutti sono provenuti da un solo
stipite.

«Quando le idee da me esposte in questo libro e sostenute dal Wallace
nel _Linnean Journal_, o idee analoghe sull'origine delle specie,
saranno generalmente accettate, possiamo vagamente prevedere che
avverrà una notevole rivoluzione nella storia naturale. I sistematici
potranno continuare i loro lavori come al presente; ma essi non
saranno più molestati continuamente dal dubbio insolubile se questa
o quella forma sia in essenza una specie. Sono certo, e parlo per
esperienza, che questo non sarà un piccolo vantaggio. Si porrà
fine alle molte discussioni che si sono fatte, per decidere se una
cinquantina di specie di rovi inglesi siano vere specie. I sistematici
avranno solo da decidere (e ciò non sarà sempre facile) se ogni
data forma sia abbastanza costante e distinta dalle altre forme, da
essere suscettibile di una definizione; e quando possa definirsi,
se le differenza siano abbastanza importanti da meritare un nome
specifico. Quest'ultimo punto diverrà una considerazione assai più
essenziale che oggi non sia; perchè le differenze, per quanto piccole,
fra due forme qualsiasi, quando non siano connesse da gradazioni
intermedie, sono considerate dalla maggior parte dei naturalisti
come sufficienti ad elevare le due forme al rango di specie. Quindi
noi saremo costretti a riconoscere che la sola distinzione possibile
fra le specie e le varietà ben marcate consiste in ciò: che queste
ultime sono attualmente collegate da gradazioni intermedie, mentre
al contrario le specie furono in tal guisa collegate in epoca più
antica. Per conseguenza, senza rigettare la considerazione della
esistenza presente di gradazioni intermedie fra due forme qualsiansi,
noi saremo condotti a pesare con maggiore accuratezza e a dare un
valore più forte all'attuale complesso delle differenze che passano
fra le medesime. Egli è molto probabile che le forme ora conosciute
generalmente come semplici varietà, possano in seguito meritare un
nome specifico, come la _Primula vulgaris_ e la _Primula veris_; ed
in tal caso il linguaggio comune ed il linguaggio scientifico saranno
in armonia. Insomma, avremo da trattare le specie come si trattano i
generi da quei naturalisti che ammettono essere i generi combinazioni
puramente artificiali, fatte per comodità. Questa non può essere una
prospettiva molto lieta; ma noi almeno saremo liberi dalla vana ricerca
dell'essenza ignota del termine _specie_.

«Gli altri rami più generali della storia naturale presenteranno allora
un interesse maggiore. I termini impiegati dai naturalisti, come:
affinità, parentela, unità di tipo comune, paternità, morfologia,
caratteri di adattamento, organi rudimentali ed abortiti, ecc., non
saranno più metaforici, ma avranno un significato evidente. Quando non
riguarderemo più un essere organizzato nel modo con cui un selvaggio
considera un vascello come una cosa interamente superiore alla sua
intelligenza; quando conosceremo che ogni produzione della natura
ebbe la sua storia; quando contempleremo ogni struttura complicata
ed ogni istinto come il risultato di molti adattamenti, ciascuno dei
quali fu vantaggioso allo individuo, quasi nella stessa guisa con cui
consideriamo ogni grande invenzione meccanica come il prodotto del
lavoro, dell'esperienza, della ragione e anche degli errori di numerosi
operai; quando noi prendiamo ad esaminare ogni essere organizzato da
questo punto di vista, posso dirlo per esperienza, quanto diverrà più
interessante lo studio della storia naturale!

«Un vasto campo di osservazione, quasi sempre inesplorato, sarà
aperto sulle cause e sulle leggi della variazione, sulla correlazione
di sviluppo, sugli effetti dell'uso e del non uso, sull'azione
diretta delle condizioni esterne, ecc. Lo studio delle produzioni
domestiche crescerà di valore immensamente. Una varietà nuova, allevata
dall'uomo, formerà un soggetto più importante ed interessante di
studio che una specie di più, aggiunta alla moltitudine di specie già
conosciute. Le nostre classificazioni diverranno, per quanto si potrà
fare, altrettante genealogie; e così ci daranno veramente ciò che
può chiamarsi il piano della creazione. Quando avranno in vista un
oggetto definito, le regole di classificazione diverranno certamente
più semplici. Noi non abbiamo in tal caso nè alberi genealogici, nè
prosapie araldiche; e dobbiamo scoprire e tracciare le molte linee
divergenti della discendenza delle nostre genealogie naturali, per
mezzo dei caratteri d'ogni sorta che furono ereditati da lungo tempo.
Gli organi rudimentali ci indicheranno infallibilmente la natura delle
strutture perdute in epoche remote. Le specie e gruppi di specie, dette
aberranti, e che possono fantasticamente chiamarsi fossili viventi,
ci aiuteranno a compiere il disegno delle antiche forme della vita.
L'embriologia ci rivelerà la struttura, che rimase alterata, dei
prototipi di ogni grande classe.

«Quando potremo essere certi che tutti gli individui della medesima
specie e tutte le specie strettamente affini della maggior parte dei
generi, sono derivate in un periodo non molto lontano da un solo
progenitore ed emigrarono da un dato luogo di origine; e quando saremo
più addentro nella cognizione dei molti mezzi di migrazione, allora,
pei lumi che ci fornisce attualmente e che continuerà a fornirci la
geologia, sugli antichi cambiamenti di clima e di livello delle terre,
noi saremo in grado sicuramente di seguire, in un modo mirabile, le
antiche migrazioni degli abitanti del mondo intero. Anche al presente,
paragonando le differenze che presentano gli animali marini sui
lati opposti di un continente e la natura dei diversi abitanti del
continente stesso, in relazione ai loro mezzi apparenti di migrazione,
potrà darsi qualche nozione sull'antica geografia.

«La nobile scienza della geologia perde la sua gloria per l'estrema
imperfezione delle memorie. La crosta della terra, coi suoi avanzi
sepolti, non deve riguardarsi come un museo completo, ma come una
scarsa collezione fatta a caso o ad intervalli rari. Si riconoscerà
che l'accumulazione di ogni grande formazione fossilifera dovette
dipendere da uno straordinario concorso di circostanze e che gli
intervalli di riposo e di inazione fra gli stadii successivi furono di
una lunga durata. Ma noi giungeremo ad apprezzare la durata di questi
intervalli con qualche sicurezza, facendo il confronto fra le forme
organizzate anteriori e le posteriori. Noi dobbiamo essere molto cauti
nel cercare di stabilire una correlazione di esatta contemporaneità fra
due formazioni, le quali racchiudono poche specie identiche, mediante
la successione generale delle loro forme di vita. Siccome le specie
si producono e si estinguono, per cause che agiscono lentamente e che
esistono ancora, e non già per atti miracolosi di creazione e col
mezzo di catastrofi: e siccome la più importante di tutte le cause dei
cambiamenti organici è quasi indipendente dalle condizioni fisiche
alterate, e forse anche improvvisamente alterate, voglio dire, la
mutua relazione di un organismo all'altro, poichè il perfezionamento
è l'esterminio degli altri, ne segue che l'insieme dei cambiamenti
organici nei fossili delle formazioni consecutive, probabilmente può
darci una precisa misura della durata del tempo che effettivamente
trascorse. Tuttavia un certo numero di specie, che si conservano
riunite, possono continuare per un lungo periodo senza modificarsi;
mentre durante il medesimo periodo alcuna di queste specie, emigrando
in nuovi paesi ed entrando in concorrenza colle specie straniere
associate ad esse, possono subire delle modificazioni; per modo che non
dobbiamo esagerare l'applicazione dei mutamenti organici nella misura
del tempo.

«In un lontano avvenire io veggo dei campi aperti alle più importanti
ricerche. La psicologia sarà fondata sopra il principio già bene
propugnato da Herbert Spencer, che cioè ogni facoltà e capacità mentale
siasi necessariamente sviluppata a gradi. Si spanderà un viva luce
sull'origine dell'uomo e sulla sua storia.

«Alcuni autori fra i più eminenti sembrano pienamente soddisfatti
dell'opinione che ogni specie sia stata creata indipendentemente. Nel
mio concetto, si accorda meglio con ciò che noi sappiamo, intorno alle
leggi impresse dal Creatore alla materia, l'idea, che la produzione e
l'estinzione degli abitanti passati e presenti del mondo siano dovute
a cagioni secondarie, simili a quelle che determinano la nascita e
la morte degli individui. Allorquando io riguardo tutti gli esseri
non come creazioni speciali, ma come i discendenti diretti di pochi
esseri, che esistettero molto tempo prima che si formasse lo strato
più antico del sistema siluriano, mi sembra che quegli esseri si
nobilitino. Giudicando dal passato, possiamo inferire con sicurezza che
niuna delle specie viventi trasmetterà la sua configurazione identica
alle future età. Pochissime specie, ora esistenti, trasmetteranno
una progenie qualsiasi alle epoche avvenire; perchè il modo con cui
tutti gli esseri organizzati sono insieme congiunti, dimostra che
la maggior parte delle specie di ciascun genere e tutte le specie
appartenenti a molti generi, non hanno lasciato alcun discendente, ma
rimasero interamente estinte. Noi possiamo anche penetrare nel futuro,
con uno sguardo profetico, fino a predire che le specie comuni e più
ampiamente diffuse, appartenenti ai gruppi più vasti e dominanti di
ogni classe, saranno quelle che in ultimo prevarranno e procreeranno
delle specie nuove e dominanti. Siccome tutte le forme viventi della
vita sono i discendenti diretti di quelle che esistettero molto tempo
prima dell'epoca siluriana, possiamo essere certi che la successione
ordinaria, per mezzo della generazione, non è mai stata interrotta e
che nessun cataclisma non venne mai a desolare il mondo intero. Quindi
possiamo pensare con qualche confidenza ad un tranquillo avvenire, di
una lunghezza egualmente incalcolabile. Se riflettiamo che l'elezione
naturale agisce soltanto per il vantaggio di ogni essere, col mezzo
delle variazioni utili, tutte le qualità del corpo e dello spirito
tenderanno a progredire versa la perfezione.

«È cosa molto interessante il contemplare una spiaggia ridente,
coperta di molte piante d'ogni sorta, cogli uccelli che cantano nei
cespugli, con diversi insetti che ronzano da ogni parte e coi vermi
che strisciano sull'umido terreno; ed il considerare che queste forme
elaborate con tanta maestria, tanto differenti fra loro e dipendenti
l'una dall'altra, in una maniera così complicata, furono tutte prodotte
per effetto delle leggi che agiscono continuamente intorno a noi.
Queste leggi, prese nel senso più largo, sono: lo Sviluppo colla
Riproduzione; l'Eredità che è quasi implicitamente compresa nella
Riproduzione; la Variabilità derivante dall'azione diretta e indiretta
delle condizioni esterne della vita e dall'uso o dal non uso; la
legge di Moltiplicazione in una proporzione tanto forte da rendere
necessaria una lotta per l'Esistenza, dalla quale deriva l'Elezione
naturale, la quale richiede la Divergenza del Carattere e l'Estinzione
delle forme meno perfezionate. Così, dalla guerra della natura, dalla
carestia e dalla morte segue direttamente l'effetto stupendo che
possiamo concepire, cioè la produzione degli animali più elevati. Vi ha
certamente del grandioso in queste considerazioni sulla vita e sulle
varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore in poche forme
od anche in una sola; e nel pensare che, mentre il nostro pianeta si
aggirò nella sua orbita, obbedendo alla legge immutabile della gravità,
si svilupparono da un principio tanto semplice, e si sviluppano ancora,
infinite forme viepiù belle e meravigliose.»

       *       *       *       *       *

Sublimemente grandiosa è la poesia che raggia da queste parole del
Darwin. Tuttavia essa non fu guari compresa fino ad oggi. Non fu
compresa nemmeno dai poeti. Parlo dei poeti italiani. I nostri poeti
che parlano del Darwin ne parlano con scherno. Prati, Zanella, Rondani
potrebbero essere citati. Ma io mi permetto di domandare a questi
signori, o piuttosto domando a me stesso, se veramente essi abbiano
letto l'_Origine delle specie_, l'_Origine dell'uomo_, e le altre opere
del Darwin.

Quando io pubblicai la traduzione dell'_Origine dell'uomo_ di Carlo
Darwin, ci misi in capo una prefazioncina (gli editori vogliono sempre
almeno una prefazioncina) nella quale io raccontava il fatto che era
stato raccontato a me di un gentiluomo napoletano che ebbe quattordici
duelli per sostenere la preminenza del Tasso sull'Ariosto, e che
all'ultimo, ferito a morte, sclamò:

--E dire che non ho mai letto nè l'Ariosto, nè il Tasso!

Ripeto ora le stesse parole. Da quel tempo in qua si è fatto più che
mai un gran parlare di Carlo Darwin, in male e in bene, ma pochi fra
quelli che ne hanno parlato e ne vanno parlando, interrogati se lo
abbiano letto, quando volessero essere sinceri, potrebbero rispondere
affermativamente. Eppure nessun libro è più ammaestrativo dei libri
di Carlo Darwin, nissun libro può produrre più vario e più grande
frutto dalla sua lettura. Come si facevano nel medio evo ammaestramenti
sopra Aristotele, come in Germania si fa anche oggi un insegnamento
su Dante (si fa anche in Italia per verità, ma si dovrebbe fare assai
più), così vorrei che in ogni città italiana si facesse un pubblico
insegnamento su Carlo Darwin, salvo a decidere sul miglior modo in cui
dovrebbe essere fatto e sulla migliore scelta di chi lo dovesse fare.
Dico ciò perchè se il ministro della pubblica istruzione dovesse dare
l'incarico, andrebbe incontro al rischio di incaricare, in buona fede,
di insegnare il darwinianismo un di quei tali che parlano di Carlo
Darwin senza averne mai letto i libri.

Ma i libri di Carlo Darwin si leggeranno sempre più d'ora in avanti e
nessun uomo studioso potrà fare a meno di una tale lettura.

       *       *       *       *       *

Carlo Darwin morì il giorno di mercoledì 19 aprile del passato anno
1882, alle ore 4 pomeridiane, circondato dalla sua famiglia. Era
sofferente di cuore, e se riuscì a lavorar tanto fino all'ultimo ciò
fu mercè le grandi cure che seppe aversi e la somma regolatezza della
sua vita. La notte del martedì egli fu preso da dolori nel petto con
deliquii e nausee. Queste sofferenze, con qualche leggero intervallo
di alleviamento, si proseguirono fino all'ultimo, senza togliere al
morente la coscienza di sè e la conoscenza dei suoi cari, che perdette
solo un quarto d'ora prima di morire.

       *       *       *       *       *

La morte di Carlo Darwin ridestò più vivo l'indomato amore dei suoi
seguaci e l'odio accanito dei suoi avversarii. Si potè vedere quanto
l'amore prevalga, ma si potè vedere ancora quanto l'odio sia intenso,
tanto nel volgo quanto pure fra gli scienziati. Io cito ancora una
volta il Kleinenberg, ed è l'ultima volta, perchè sono al termine del
mio lavoro, il quale si salverà colle citazioni. Il Kleinenberg chiude
così il suo scritto su Carlo Darwin:

«Non solamente il sentimento popolare, ancora la stessa scienza muoveva
opposizione al trasformismo. Anche la scienza ha i suoi uomini che
guardano sempre all'indietro perchè non sanno guardare innanzi, che non
hanno nè abbastanza coraggio nè sufficiente discernimento per liberarsi
dall'incubo della più logora tradizione.

«L'ignoranza poi crede disfare le incomode idee, che non intende,
burlandosene. Così è andato sempre il mondo. Al prepotente romano e
allo scettico greco doveva sembrare oltremodo ridicola la pretesa
divinità di un povero giudeo, di un figlio di quel popolo umile e
disprezzato, di un uomo cui un impiegato romano qualunque poteva
torturare ed ammazzare senza veruna difficoltà; al cristiano pare
ridicola l'idea che scorge anche negli animali un pochettino d'umanità.
Un giornale illustrato ha creduto di fare dello spirito annunziando la
morte di Darwin con una caricatura, dove vedesi il busto dell'inglese
circondato da una ciurma di scimmie, le quali esprimono il loro
buffonesco lutto. Questa volgarità non mi offese tanto, mi rese invece
pensieroso e tornai colla mente in altri luoghi e in altri tempi.

«A Roma nel Museo Kircheriano c'è un graffito del secondo secolo,
trovato sul Palatino. Rappresenta una croce cui sta inchiodato un corpo
umano con la testa d'asino; allato della croce è un uomo all'impiedi.
Sotto v'è questa iscrizione in greco: _Aleximenos adora il suo Dio_.

«Nel Museo di storia naturale di Firenze esiste una specie di
monumento, la cosidetta Tribuna di Galileo; è una cosa fatta con gran
lusso ma con poco gusto. Le pareti sono coperte di affreschi. In uno
di questi è dipinto Galileo che tiene in mano un piccolo modello
del semplice apparecchio per studiare le oscillazioni del pendolo;
attorno a lui molti uomini, preti e laici, che ridono. La spiegazione
dice: _Galileo deriso dai filosofi_. Il quadro è cattivo ma mi fece
impressione. E pensai: se l'idea appartiene allo stesso pittore,
peccato che egli all'essere un mediocre artista non ha preferito
essere un buon scienziato, che tale sarà per certo chi comprende così
profondamente il significato della scienza e il destino che le spetta
nel mondo.

«Ma no! non voglio terminare con un pensiero amaro. Sarebbe ingiusto
e sarebbe indegno della memoria serena del grande morto! Darwin non
fu un martire. Nessuno ha osato toccargli un capello, nessuno gli ha
imposto la revoca della verità, allato di lui stava l'ombra di Galileo
per difenderlo contro ogni offesa. I suoi avversari più aperti l'hanno
stimato ed amato. Non solo il mondo scientifico ha rimpianto la sua
perdita, sinanche dal pulpito abbiamo sentito calde parole di dolore e
di conforto. Che un prete dell'ortodossissima chiesa anglicana abbia
potuto dire alla sua comunanza, la domenica dopo la morte di Darwin,
queste parole: «Fra i più grandi interpreti della parola di Dio, il
Darwin deve sempre avere un alto e onorevole seggio,» questa è una
testimonianza preziosa che non dimenticheremo, perchè prova essere la
civiltà moderna non solo la più potente ma ancora la più tollerante.
Onore al secolo nostro, onore al secolo di Darwin!»

       *       *       *       *       *

Dunque rallegriamoci!

Ma, in verità, mi viene in mente il mi rallegro di Don Abbondio!

Il prete inglese mette un po' d'acqua nel suo vino, ma, dovunque sia
nato e in qualsiasi tempo abbia vissuto, il prete prima d'ogni altra
cosa è stato ed è prete.

Penoso pensiero questo, come una piccola schiera di uomini si sia
sempre staccata dalla grande maggioranza dei proprii simili e abbia
preso a vivere alle spese di questi sfruttandone la debolezza, le
paure, i vizii, le viltà, promovendo la discordia, l'odio, la strage,
lo sterminio, il delitto.

Lucrezio esclamava già:

  _Tantum religio potuti suadere malorum!_

Ma dopo Lucrezio le guerre religiose si fecero ancor più feroci,
i fratelli contro i fratelli, i figli contro i padri, tradimenti,
delazioni, roghi, miseria, abbominazione.

Io vidi in Cairo un uomo a cavallo cogli occhi bassi e le labbra in
lieve movimento, e altri uomini gittarsi forsennatamente sotto ai piedi
del cavallo per farsi calpestare, perchè era la festa del profeta.
Quegli uomini eran molti, tanti che facevano sotto ai piedi del cavallo
un pavimento non interrotto, e la folla intorno mandava urli come gli
sciacalli nelle foreste.

Io vidi in Alessandria di Egitto, alla processione per la fiera di
Tantah, uomini ignudi, che si foracchiavano le carni con chiodi
e dilaniavano coi morsi grossi serpenti che furiosamente si
attorcigliavano loro fra le mani.

Mentre io stava guardando quello spettacolo, udii dietro di me queste
parole in dialetto genovese:

--Non c'è poi mica tanta differenza dalla festa di san Paolo a Malta.

Mi volsi. L'uomo che aveva detto quelle parole era un marinaio.

Vidi io pure a Malta la festa di san Paolo. Quando il grosso fantoccio
di legno appare in capo alla via lo scoppio delle voci selvagge che
prorompe da tutti i petti rintrona l'isola intera, e una parte della
folla segue festosa e plaudente a passo a passo qualche disgraziata
donna che trascina penosamente una enorme catena, facendo un terribile
sforzo a ogni movere di piede e lasciando sul terreno una striscia del
sangue che le sgocciola dalle carni, in cui sono entrati gli anelli
della catena. Io vidi le faccie stravolte delle donne nelle chiese di
Napoli, di Napoli ove ogni anno bolle pubblicamente il sangue di san
Gennaro. Io vidi in Liguria la Madonna entrare in chiesa di gran corsa
fra gli applausi della folla e un uomo cader morto sotto al peso di una
croce enorme che portava sullo stomaco in processione.

La madonna di Lourdes è visitata oggi da personaggi segnalati di tutta
Francia, da signore delle classi più colte, che si precipitano ai piedi
di quei confessori che non hanno orecchi che bastino per dar loro
ascolto.

La confessione auricolare, questa orrenda mostruosità, questo maleficio
spaventoso da cui scaturiscono tanti danni, è in pieno vigore ancora
nella mia patria, e i miei amici liberi pensatori mi parlano anche
oggi della necessità di un freno per le loro mogli e pei loro figli,
e non sanno che da se stessi aprono ad un nemico una finestra dalla
quale egli può vedere quanto si passa nella loro casa e leggere anche
nei loro pensieri, e danno al nemico il modo di volgere e dominare a
sua posta le persone che essi più dovrebbero tutelare. Dico un nemico,
perchè il prete è nemico ora doppiamente. Non si contenta più, come al
tempo di Dante, di essere peggiore dell'idolatra, non si contenta più
di essersi fatto un Dio d'oro e d'argento, ma si è fatto strumento di
una politica avversa alla patria e s'affanna a disfare l'opera della
unione nazionale costrutta con tante vittime e con tanto sangue. Il
prete, sono ancora parole di Dante, si indraca contro chi fugge e si
placa come un agnello a chi gli mostra il dente o la borsa. Quanto più
volentieri ci abbrustolirebbe sul rogo quel prete che oggi, vista la
mala parata, pone Darwin fra gli interpreti della parola di Dio! Quanto
furore compresso! Quanta smania di vendetta! Quanto cupo anelare a
riscossa!

Rallegriamoci col nostro secolo che non consente più al prete di
conficcarci nelle carni le tanaglie roventi, ma non dimentichiamo che,
se potesse, ciò farebbe ancora.

Rallegriamoci, ma pensiamo che sempre la umanità è divisa in due
schiere disugualissime, di cui una, la più numerosa, continua a bever
grosso, l'altra, più scarsa, continua a darla a bere.

Un filosofo moderno, il Gavarni, fa dire a Tommaso Vireloque, quella
sua creazione originale del buon senso in cenci, che la storia antica
era tutta divoratori e divorati, la storia moderna è tutta blagatori e
blagati.

Non credo che il verbo blagare, coi suoi derivati, sia di buona lingua,
ma è noto che fra le mie poche virtù, se pur ne ho qualcuna, la buona
lingua non è la prima.

Verrà un giorno in cui l'uomo sia per essere un po' meno pecora e un
po' meno lupo?

       *       *       *       *       *

Caro Kleinenberg, vi stringo affettuosamente la mano.

                                 FINE



               PUBBLICAZIONI PRINCIPALI DI CARLO DARWIN


                         DI ARGOMENTO GENERALE

_A naturalist's voyage round the world on board of H. M. S._ Beagle,
1831-86.

_Journal of researches into the natural history and geology of
countries visited by H. M. S. Beagle_, 1845.

_On the origin of species by means of the natural selection_, 1 vol.,
1859.

_On the variation of organic beings in a state of nature_, (Journal of
the Linnean Society, 3 vol., _Zoology_), 1859.

_The variation of plants and animals under domestication_, 2 vol., 1868.

_The descent of man and selection in relation to sex_, 2 vol., 1871.

_The expression of the emotions in man and animals_, 1 vol., 1871.

_The formation of vegetable mould_, 1881.


                               ZOOLOGIA

_The zoology of the voyage of H. M. S. Beagle_, edited and
superintended by Ch. Darwin, 1840.

_Observations on the structure of the genus Sagitta._ (_Ann. his._, 13
vol. 1844).

_Brief description of general terrestrial Planariae_ ecc. (Ibidem, 14
vol., 1844).

_A Monograph of the Cirripedia_, parte I, _Lepadidae_, _Roy. Soc._,
1851.

_A monograph of the Cirripedia._ Part. II. _Balanidae_, 1854, _Roy.
Soc._

_A monograph of the fossil Lepadidae. Pal. Soc._, 1851.

_A Monograph of the fossil Balanidae and Verrucidae. Pal. Soc._, 1854.


                               BOTANICA

_ On the action of seawater on the germination of seeds._
(_Journ. Linn. Soc._, 1 vol., 1857).

_On the agency of bees in the fertilisation of papilionaceus flowers._
(_Ann. nat. hist._, 2 vol. 1858).

_On the two forms or dimorphic condition of the species of Primula._
(_Journ. Linn. Soc._, 7 vol., 1862).

_On the various contrivances by which British and Foreign Orchids are
fertilised_, 1862.

_On the existence of two forms and their reciprocal sexual relations in
the genus linum._ (_Journ. Linn. Soc._, 1 vol., 1868).

_On the sexual relations of three forms of Lythrum._ (_Journ. Linn.
Soc._, 8 vol., 1864). _On the character and the hybrid-like nature
of the illegitimate offspring of dimorphic and trimorphic Plants._
(_Journ. Linn. Soc._, 10 vol., 1867).

_On the specific difference between_ Primula veris _and_ P. vulgaris
ecc. (Ibidem, 10 vol., 1867).

_Insectivorous Plants_, 1 vol., 1875.

_On the movements and habits of climbing Plants_. (_Journ. Linn. Soc._,
10 vol., 1865).

_The Effects of cross and self fertilization in the vegetal kingdom_,
1876.

_On the different Forms of Flowers on Plants of the same species_, 1877.

_The Power of Movement in Plants_, 1880.



                               GEOLOGIA


_On the formation of mould_. (_Trans. geolog. Soc._, 5 vol., 1837).

_Origin of the saliferous depots of Patagonia_. (_Journ. geol. Soc._, 2
vol., 1838).

_On the connection of the volcanic phenomena in South America_.
(_Transact. geolog. Soc._, 5 vol., 1838).

_On the parallel roads of Glen Roy_. (_Trans. Phil. Soc._, 1839).

_On the distribution of the erratic boulders in South America_.
(_Trans. geol. Soc._, 6 vol., 1841).

_On a remarkable bed of sandstone of Pernambuco._ (_Phil. Mag._, 1841).

_Notes on the ancient glaciers of Caernarvonshire_. (_Phil. May._, 20
vol., 1842).

_The structure and distribution of coral-reefs_, 1844.

_Geological observations on volcanic islands_, 1842.

_An account of the fine dust which often falls on the vessels in the
Atlantic Ocean_. (_Proc. geol. Soc._, 1845).

_On the geology of the Falkland island_. (_Journ. geol. Soc._, 1846).
_On the transportal of erratic boulders from a lower to a higher
level._ (Ibidem, 1848). _On the power of icebergs to make grooves on a
submarine surface._ (_Phil. Mag. Any._, 1855).

_Geological observations on South America_, 1846.


                          TRADUZIONI ITALIANE

_ Viaggio di un naturalista intorno al mondo_,
trad. del prof. M. LESSONA. Torino, Unione tip. tor.

_Sulla origine delle specie per elezione naturale_, trad. del prof. G.
CANESTRINI. Ibidem.

_I movimenti e le abitudini delle piante rampicanti_, trad. dei prof.
G. CANESTRINI e _P. A. Saccardo_. Ibidem.

_Variazione degli animali e delle piante_, trad. del professore G.
CANESTRINI. Ibidem.

_L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto col sesso_, trad. del
prof. M. LESSONA. Ibidem.

_Dell'espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali_, trad. del
prof. CANESTRINI. Ibidem.

_Le piante insettivore_, trad. dei prof. CANESTRINI e SACCARDO. Ibidem.

_Degli effetti della fecondazione incrociata e propria nel regno
vegetale_, trad. del prof. SACCARDO. Ibidem.

_La formazione della terra vegetale per l'azione dei lombrici_, trad.
del prof. M. LESSONA. Ibidem.

_Intorno ai diversi apparecchi atti a promuovere la fecondazione delle
orchidee col mezzo degli insetti o sull'utilità dell'incrocio_, trad.
del prof. CANESTRINI. Ibidem.



                                INDICE

  I                                        pag.   7
  II                                             17
  III                                            35
  IV                                             45
  V                                              61
  VI                                             69
  VII                                            81
  VIII                                           87
  IX                                            111
  X                                             161
  XI                                            177
  XII                                           187
  XIII                                          197
  XIV                                           213
  XV                                            229
  XVI                                           235
  XVII                                          247
  PUBBLICAZIONI PRINCIPALI DI CARLO DARWIN      279



                             CASA EDITRICE
                         ANGELO SOMMARUGA E C.
                                 ROMA
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     Edizione principe. Formato 30 × 45                35 --

  =U. Fleres.= _Versi_                                  2 --

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  -- _Storielle Bizantine_                              2 --

  =G. Faldella.= _Roma Borghese._ Elegantissimo volume
     di pagine 300                                      3 --

  =L. Morandi.= _Shakespeare, Baretti e Voltaire_,
     300 pagine                                         3 --

  =E. Onufrio.= _Albàtro._ Elegante volume              1 50

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  =C. Pascarella.= _Er Morto de Campagna_              -- 50

  =G. Carducci.= _Eterno Femminino Regale._ (Terza
     edizione)                                          1 25

  =E. Panzacchi.= _Al Rezzo._ Elegantissimo volume
     di pagine 300. Prima edizione                      2 50

  =G. D'Annunzio.= _Primo Vere_                         3 --

  =C. Rusconi.= _Memorie Aneddotiche_ per servire
     alla storia del rinnovamento italiano              3 --

  =Principessa della Rocca.= _Errico Heine._ Ricordi,
     note e rettifiche                                  2 --

  =G. Chiarini.= _Ombre e Figure._ Elegantissimo
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  =A. Baccelli.= _Germina_                              1 --

  =M. Lessona.= _C. Darwin_                             2 --


                         LA CRONACA BIZANTINA

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  2. =G. Carducci.= _Confessioni e Battaglie._ (Serie I).
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  4. =A. Ademollo.= _Il Carnevale di Roma nei secoli
                  XVII e XVIII._
  »  =C. Lombroso.= _Due Tribuni._
  5. =G. Mazzoni.= _Poesie_ con prefazione di G. Carducci.
  »  =R. De Zerbi.=  _Il mio romanzo._

                     Un numero separato Cent. 50.

Hanno diritto al premio soltanto coloro che si abbonano DIRETTAMENTE
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                                  Iena.
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                                  G. CARDUCCI.
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   7. A. ADEMOLLO              =Il Carnevale di Roma= nei
                                  secoli XVII e XVIII.
   8. C. LOMBROSO              =Due Tribuni.=
   9. P. LIOY                  =Altri Tempi.=
  10. NAVARRO DELLA MIRAGLIA   =Le Fisime di Flaviana.=
  11. L. CAPUANA               =Storia Fosca.=
  12. C. R.                    =La nullità della Vita=--L'Infinito.


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  14. O. GUERRINI              =Brandelli=, Vol.   I.
  15.     --                       Id.          II.
  16.     --                       Id.         III.
  17.     --                       Id.          IV.
  18. G. SALVADORI             =Vigilia d'Armi.=
  19. C. DOSSI                 =La Colonia Felice.=
  20. G. A. COSTANZO           =Nuovi Versi.=
  21. C. DOSSI                 =Ritratti Umani.=
  22. R. BONGHI                =Il papa.=
  23. N. MISASI                =Marito e Sacerdote.=
  24. E. ONUFRIO               =L'Adultera del Cielo.=
  25. M. SERAO                 =A mosca cieca.=
  26. G. MARRADI               =Ricordi lirici.=

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                        LA DOMENICA LETTERARIA

                              DIRETTORE:
                         =FERDINANDO MARTINI.=

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  1. =G. Chiarini.=         _Ombre e figure._
  2. =G. Carducci.=         _Confessioni e Battaglie._ (Serie I).
  3.    --                _Confessioni e Battaglie._ (Serie II).
     ={A. Ademollo.=        _Il Carnevale di Roma nei secoli_
  4. ={=                    _XVII e XVIII._
     ={C. Lombroso.=        _Due Tribuni._
  5. ={G. Mazzoni.=         _Poesie con prefaz. di G. Carducci._
     ={R. De Zerbi.=       _ Il mio romanzo._

Hanno diritto al premio coloro soltanto che si associano direttamente
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  =G. Carducci.= ODI BARBARE                       3 --
    -- NUOVE ODI BARBARE                           3 --
    -- LEVIA GRAVIA                                3 --
    -- IUVENILIA                                   4 --
    -- G. GARIBALDI                                1 50
    -- NUOVE POESIE                                3 --
    -- GIAMBI ED EPÒDI                             3 --
    -- SATANA E POLEMICHE SATANICHE                1 --
    -- IL CANTO DELL'AMORE                        -- 50
  =E. Panzacchi.= TESTE QUADRE                     3 --
    -- LIRICHE                                     3 --
    -- RACCONTI E LIRICHE                          3 --
  =L. Stecchetti.= POSTUMA                         3 --
    -- NUOVA POLEMICA                              4 --

   _La Casa Editrice_ =A. SOMMARUGA= E =C.= _ha in corso di stampa i
                           seguenti libri:_

  =R. Bonghi.= ORÆ SUBSECIVÆ.
  =E. Scarfoglio.= LA PRIMA FEMMINA. Romanzo.
  =G. Ferri.= MANOLA. Romanzo.
  =O. Guerrini.= IL TRENTANOVELLE.
  =G. D'Annunzio.= L'ALBERO DEL MALE. Romanzo.
  =A. G. Barrili.= CANZONI AL VENTO.
    -- SIRENA.
  =V. Imbriani.= DIO NE SCAMPI DAGLI ORSENIGO.
  =G. Carducci.= I TROVATORI ALLA CORTE DI MONFERRATO.
    -- VITE E RITRATTI.
    -- LA CANZONE DI LEGNANO.
    -- SCATTI E SCHIZZI.
  =E. Castelnuovo.= IL PROF. ROMUALDO.
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