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Title: Donne e poeti
Author: Panzacchi, Enrico
Language: Italian
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  [Illustrazione: Enrico Panzacchi]



                           “_Semprevivi_„

                 BIBLIOTECA POPOLARE CONTEMPORANEA


                            E. PANZACCHI


                               Donne
                              e Poeti



                              CATANIA
                   CAV. NICCOLÒ GIANNOTTA, Editore
                   Librajo di S. M. il Re d'Italia
                 _Via Lincoln-Via Manzoni-Via Sisto_
                          (Stabili propri)
                               1902



PROPRIETÀ LETTERARIA

_ai sensi del testo unico delle Leggi 25 Giugno 1865, 10 Agosto 1875, 18
Maggio 1882 approvato con R. Decreto e Regol. 19 Settembre 1882._

Reale Tipografia dell'Edit. Cav. N. GIANNOTTA Premiato Stabilimento a
vapore con macchine celeri tedesche CATANIA — Via Sisto, 58-60-62-62 bis
— (_Stabile proprio_) — CATANIA



GIOSUÈ CARDUCCI


I.

Miei ricordi.

Il poeta ha toccato da molti anni il vertice della fama; e vi siede
tranquillo, con il consenso generale, senza contrasti.

Leone Tolstoi è glorificato insieme e scomunicato. Intorno al Carducci
non risuonano ora che lodi; e s'inchinano a lui, da un pezzo, anche gli
avversari di un tempo. Lo stesso Max Nordau, che ha messo tanto studio a
trovare il bacillo della «degenerazione» negli scrittori contemporanei
più in voga, si è come fermato dinanzi al Carducci: anzi ha espressa la
sua meraviglia che un ingegno così libero e animoso sia insieme così
equilibrato e così sano; e abbia potuto fiorire nel nostro tempo...

Che potrei io aggiungere adesso al gran coro plaudente? Vorrei invece
riunire qualche sparso fiore di ricordi e posarlo sull'altare della
memore Amicizia.

Ricordo, come se fosse adesso, la prima volta che sentii il suo nome.
Andavo per via Cavaliera, a Bologna, verso l'Università insieme al mio
povero amico Adolfo Borgognoni; e lo udivo ripetere ogni tanto, a voce
spiccata, come un ritornello, questi due ottonari:

    Sul Palagio de' Priori
    Ne la libera città...

Gli chiesi di chi fossero e mi nominò Giosuè Carducci. Quello stesso
giorno, cercai in biblioteca il periodico ove erano stampati (parmi che
fosse la _Rivista Contemporanea_) e lessi tutta l'ode con cui il poeta
aveva salutata l'alba del moto italiano a Firenze, nel 1859.

Non dico che proprio l'ode mi entusiasmasse; anche perchè, in quel
tempo, nei bolognesi s'ondeggiava ancora, quanto a gusto di poesia, tra
il Manzoni e Paolo Costa, e leggevamo troppi sonetti di monsignor
Golfieri; ma quella vigoria nella strofa semplice e schietta e quel buon
sapore di Trecento nella lingua, mi penetrarono; e quando rividi il
Borgognoni, gli declamai a memoria quasi tutta l'ode. La grande canzone
_A Vittorio Emanuele_ ribadì poi nel mio animo quella prima impressione
favorevole; e cominciai a volgere dentro di me la speranza che il
rinnovato popolo italiano potesse trovare il suo poeta giovane in Giosuè
Carducci.

                                  *
                                 * *

Bei tempi e dolci a ricordare! Nella libreria Marsigli e Rocchi
(antecessori Zanichelli) una sera conoscemmo Francesco Buonamici,
nominato di fresco a una cattedra di diritto nella Università di Pisa.
Passammo una piacevole serata col giovane professore pisano, parte
seduti dal libraio e parte passeggiando sotto i portici. Con la sua
bella parlata toscana, il Buonamici discorse prima con noi del
Salvagnoli suo maestro, del quale era stato, credo, segretario durante
il Governo provvisorio di Firenze; poi attaccò a parlare del suo amico e
condiscepolo Carducci con sì caldo entusiasmo che un poco ci mise in
diffidenza. Fummo però lieti di sapere che il poeta maremmano aveva già
in Toscana, specie tra i giovani, una schiera di ammiratori. Per conto
suo, il Buonamici mostrava di non dubitare che ormai quello doveva
essere considerato come il primo poeta d'Italia; ed esortava noi a
conoscerlo meglio dalle poesie stampate. Col tempo avremmo veduto
meraviglie.

Ripeto che, con tutte le nostre buone disposizioni, la voglia di
obbiettare non ci mancò. E il Prati? e l'Aleardi? A ogni modo, quella
specie d'apostolato del Buonamici, di una eloquenza così sincera, non fu
senza effetto in me e nell'amico Adolfo. E poichè s'era allora quasi
indivisibili, ci demmo a cercare insieme e a leggere con passione tutti
i versi e le prose del Carducci che potemmo avere sotto occhio. Quando
poi, di lì a qualche mese, si seppe che il ministro Mamiani — ricusando
il Prati — aveva nominato il Carducci alla cattedra di letteratura nella
Università bolognese, la nostra curiosità e la aspettazione furono
grandissime.

E si sa quale sia la sorte frequente delle aspettazioni grandissime; e
toccò anche al Carducci. Nè con la prolusione al corso, nè con le sue
prime lezioni sulla _Divina Commedia_, ottenne egli subito un successo
clamoroso. Eravamo avvezzi al tono e alle forme delle «lezioni
d'eloquenza». Non era allora il Carducci parlatore facile, e non voleva
essere fiorito; ma a tutti impose presto il convincimento che la materia
avesse in lui un maestro di forte ingegno e, per la età sua
giovanissima, mirabilmente preparato; e che per lui, come per il Gandino
e per il Teza, si venisse instaurando alla nostra Università un metodo
d'insegnamento letterario e filologico assai diverso da quello di prima.

Del poeta allora non si parlava; e pareva che amasse di celarsi dietro
l'insegnante.

                                  *
                                 * *

Poco dopo io passai a studiare nella Università di Pisa.

Sapendomi arrivato da Bologna, molti mi chiedevano del Carducci. — Che
fa? Come si trova a Bologna? Che incontro hanno fatto le sue lezioni? —
Io che, prima di partire, avevo trovato modo di conoscerlo, cercai
naturalmente de' suoi amici e, a breve andare, mi vidi ammesso nel
numerato cenacolo. Erano, oltre il Buonamici, Narciso Pelosini, Felice
Tribolati, Diego Mazzoni, Giuseppe Puccianti... Durante i miei quattro
anni, furono essi per me la compagnia preferita; e non solamente per la
naturale affinità degli studi.

Essendo spesso tra Pisa e Bologna, io divenni in qualche modo
l'intermediario tra il Carducci e gli amici pisani; e vedevo passarmi
sotto gli occhi le vicende e gli umori di quella amicizia. Gli umori non
erano sempre tranquilli; e pareva che le opinioni e le manifestazioni
letterarie decidessero perfino delle amicizie in quegli animi
giovanilmente inquieti e irritabili.

Insomma, il Carducci era per quella piccola schiera come un capo
lontano; e quindi facilmente discusso, perchè il capo e perchè lontano.
Il più pronto a mostrarsi scontento di lui era il Pelosini. Io lo
chiamavo il «Conte di Provenza», del quale avevo letto che passò la sua
vita a meravigliarsi perchè non era nato lui il primogenito, invece di
Luigi XVI. Aveva presa infatti il buon Narciso dentro al cenacolo una
certa aria di «pretendente», un poco perchè sentiva grandemente di sè e
un poco per il suo valor vero. Egli aveva esordito poetando con molto
successo; e da qualcuno si era sentito a dire che i suoi versi valevano
meglio di quelli del Carducci... Come poteva egli non tener conto di
un'opinione tanto ragionevole?... Fra gli amici pisani, così
appassionati e gelosi delle pure tradizioni del cenacolo, era dunque
nato il sospetto che Giosuè Carducci, vivendo al di là dell'Appennino,
letterariamente non si guastasse. Bologna era quasi la Lombardia; e
questa voleva dire romanticismo, manzonismo e chi sa che altro! L'ombra
di Pietro Giordani li ammoniva a vigilare.

Un giorno arrivò a Pisa un giornale con una lirica di Giosuè intitolata
_Carnevale_. Era tutta piena di _Voci_: voci dai palazzi, voci dai
tugurî, voci dalle soffitte, voci perfino da sotterra: una fantasia
macabro-sociale, che mandava insieme odore di Proudhon e odore di Victor
Hugo. Fu accolta dagli amici malissimo; e ci videro una prova di più che
il triste loro sospetto, pur troppo, s'avverava. Se ne parlava come
d'uno scandalo doloroso! L'ultimo a leggerla fu Cice Tribolati, uno dei
più cari, più colti e più bizzarri spiriti che io abbia mai conosciuto.
Spasimava per il secolo XVIII, le parrucche, gli spadini, i
guardinfanti, il marchese Algarotti e il rapè, che fiutava con passione;
e diceva d'amare anche l'imperatore Nerone; e teneva sempre due
pistolette cariche sul suo scrittoio, egli mite e gentile e
impressionabile come una vecchia gentildonna del suo gran secolo
preferito... Letta la lirica carducciana, il Tribolati volle subito
uscire dal caffè Ciardelli ove s'era fatto insieme colazione; e
piantatosi in mezzo al Lung'Arno, quasi deserto e pieno di sole, alzò le
braccia esili gridando con voce che volle essere terribile: — Dio
dall'arco d'argento! — Era la sua classica e unica bestemmia. Poi si
lasciò andare sul lastrico e si rotolò per un tratto, ammaccandosi la
tuba e riducendo in misero stato il pastranetto color tortora. Accorsero
alcuni credendo una disgrazia e fecero per sollevarlo. Allora l'irato
uomo se la pigliò in quegli importuni: — Si levassero di torno!... Se a
lui piaceva di passeggiare i Lung'Arni a quel modo, o che doveva
importare ad essi? — Io e Romeo Cantagalli, testimoni, avemmo a morire
dal ridere...

Ma poi gli umori del cenacolo pisano si calmarono; benchè altre e più
ostiche sorprese a loro serbasse Enotrio Romano!

                                  *
                                 * *

Una intima conoscenza col Carducci io però non la feci che qualche anno
dopo, finiti i miei studi e tornato da un anno d'insegnamento in
Sardegna. Nel 1867 rimasi a Bologna libero di me e vi fondai la _Rivista
Bolognese_, a cui il Carducci collaborò. Così la nostra amicizia si
strinse e si mutò in una consuetudine della vita, a me carissima e, ho
ragione di credere, gradita anche a lui. Non è già che io vivessi molto
col Carducci, poichè le nostre abitudini erano alquanto diverse; ma
quando l'occasione si presentava, facevamo volentieri delle lunghe
chiacchierate. La sua fama di poeta si andava intanto consolidando e
ampliando. Io ammiravo con passione i suoi versi e ne parlavo con
passione; ed era una gioia per me quando me li leggeva prima di darli
alle stampe; ed egli mostrava di leggermeli volentieri.

Alcune volte, alla buona stagione, nel pomeriggio, ci davamo un poco al
vagabondo e si finiva in qualche osteria di campagna a pranzare insieme.
Al momento ch'egli traeva di tasca il foglio per leggere, io mi sentivo
dentro una scossa per la viva impazienza e pareva che tutta l'anima mi
si raccogliesse negli orecchi onde non perdere una sillaba. In tal modo
io, forse il primo, ascoltai parecchie di quelle liriche potenti, che
fra poco dovevano diffondersi per tutta Italia a combattere, a vincere,
a trionfare. Così, o in circostanze poco dissimili, io conobbi l'ode per
Edoardo Corazzini, _La Consulta araldica_, quella per la decapitazione
di Monti e Tognetti e quella _In morte di Giovanni Cairoli_. Poi, dopo
il settanta, il canto _Per l'anniversario della Repubblica francese, Io
triumphe! Versaglia..._ Scoppi di collere civili, rimpianti amari,
glorificazioni radiose. Era quello il tempestoso periodo dei _Giambi ed
Epodi_. Ma ai rombi della tempesta si interponevano degli strappi di
serenità; e allora erano sonetti meravigliosi come quello _Il Bove_; o
salivano dal cuore dell'uomo le voci degl'intimi affanni, e un consenso
di dolcezza e di pietà infinita pareva che venisse dalla campagna
silenziosa nella luce del tramonto, mentre il poeta diceva i suoi versi.

    L'albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da' bei vermigli fior,

    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor...

Ho ricordato che, in quel tempo, la poesia e l'arte carducciana si
dilatavano nel trionfo, prendendosi allegre vendette delle piccinerie
della critica, dell'invidia, della diffidenza, delle stesse lodi
lesinate con avara mano e condizionate da riserve infinite. Ma le
resistenze erano ancora fortissime; ed è curioso adesso ricordare come,
in generale, si negassero al verso del poeta toscano proprio quei pregi
che ora maggiormente vi ammiriamo: la agilità magistrale e l'armonia
multiforme. Ma che intendevasi allora in Italia per verso «armonioso?»
Anche non pochi di quelli stessi che erano propensi ad ammirarlo per
vigore di concezione lirica ed altro, lo chiamavano verseggiatore duro,
duro, duro!... Poco prima che uscisse la edizione Barbèra, io, avutane
licenza dal Carducci, pubblicai l'_Idillio maremmano_ in un giornale
bolognese e ai miei lettori domandavo: è duro anche questo?... Certo è
che il tema simpatico e le mirabili bellezze dell'_Idillio_ operarono
rapidamente molte conversioni; come moltissime, e per ragioni più
complesse, dovette poi operarne l'ode alcaica _Alla Regina d'Italia_.

Il Carducci intanto s'era incaricato di rispondere per conto suo,
nell'ode _Per le nozze di Cesare Parenzo_, a quei molti che altre
durezze e asprezze in quel tempo gli rimproveravano.

                                  *
                                 * *

I limiti brevi di questo scritto mi hanno obbligato, si capisce, a
procedere e ora a fermarmi scartando ricordi innumerevoli e non
unicamente interessanti, io credo, per quella facile curiosità dei
lettori che ama vedersi rappresentato un uomo celebre anche nei tenui
particolari della vita.

Quella di Giosuè Carducci, quando potrà essere narrata in pieno, dovrà
riuscire un documento notevolissimo della vita italiana del nostro
tempo. E un capitolo molto importante certo dovrebbe essere quello che
studiasse i grandi e molteplici influssi che il Carducci effuse dintorno
a sè oltre la letteratura e la poesia, sugli uomini che l'avvicinarono.
E apparirà questo curioso contrasto: che pochi, discorrendo, forse
ebbero mai meno di lui l'aria di voler soverchiare con la propria
opinione ed imporla, tanto pareva remissivo e compiacente alle opinioni
degli altri. Ma poi, per un'intima vigoria di sentimento e di pensiero
che partiva da lui, spesso uno modificava o abbandonava quella opinione
sua che era uscita dal dibattito con una facile vittoria; e da ultimo
adottava quella che _sentiva_ essere in fondo all'animo del poeta.

Io da Giosuè Carducci troppe cose imparai, perchè potessi qui anche solo
enumerarle. Imparai sopratutto il rispetto alla sacra Poesia; non quello
che si espande in preziose sentimentalità e si pasce d'infatuazioni
orgogliose, ma quello che in faccia alla grandezza dell'Arte ci fa
sentire la gravità dei doveri per l'anima nostra e per quella degli
altri.

La sua fu una ascensione di oltre quarant'anni, perseverante e gloriosa.

In mezzo ai tanti disinganni che seguirono, tra noi, alle facili
speranze, in mezzo a tanti tramonti melanconici che contristarono il
nostro cammino, egli mantenne tutte le promesse della sua forte
giovinezza, all'Arte e all'Italia.

Questo, Giosuè Carducci non aveva certo bisogno che io ricordassi a lui;
ma provo bene io una gioia profonda nel ricordarlo al dolcissimo amico,
in questi giorni, abbracciandolo da lontano col desiderio e inchinandomi
dinanzi a lui.


II.

Odi barbare.

(Le terze)

Il libro non era per anco in dominio dei compratori e già se ne
leggevano le recensioni sui giornali. Poi si sono visti degli articoli
che, a conti fatti, debbono essere stati scritti appena tagliato e
scorso il volume, umido e adorante ancora dell'antimonio tipografico.

Troppa fretta, per dio, egregi miei confratelli, troppa fretta,
trattandosi di un libro a cui Giosuè Carducci ha confidata la
manifestazione dell'ingegno suo pervenuto al vertice della maturità!
Date al libro prezioso un po' più del tempo che, di solito, s'interpone
per i giudizi sui romanzi da salotto e sui libretti d'opera! Ma il
peggio è che questa urgente consuetudine della critica frettolosa è come
un torrentaccio di rapina, che trae con se tutti quanti, per amore o per
forza. Al giornalista in ritardo par di sentirsi stridere negli orecchi
il motto dei biricchini d'Orazio: _occupet extremum scabies_! Allora
egli dà di piglio alla penna e tira giù l'articolo, sacrificando anche
una volta al far presto il far bene in questo pallio sciagurato della
curiosità pubblica.

E anch'io cedo alla rapina torrenziale. Cedo però a malincuore. Malgrado
ch'io possa dire d'aver contratta una lunga e studiosa abitudine con
l'ingegno del Carducci, e appunto perch'io l'ho, sento oggi più che mai
che la sua novissima forma poetica, ardua e intensa, richiederebbe una
più riposata indagine della mente, una più intima compenetrazione e
assimilazione del gusto, a produrre un giudizio di coscienza pienamente
tranquilla. Ho letto con molta attenzione le _Terze Odi Barbare_,
parecchie delle quali conoscevo già: e ho richiamate alla memoria le
Prime e le Seconde Odi. Ho percorso in lungo e in largo il bosco
d'alloro e di mirto; ho raccolto i murmuri sommessi e le note squillanti
che escono dalle cime e dal folto degli alberi. Ma io non sono nè
Tiresia nè Sigfrido; e sento che dovrò anche ascoltare prima di
raccogliere dentro e gustare e giudicare completamente tutte le armonie
che escono dalla selvetta canora.

                                  *
                                 * *

Darò dunque, a modo di note in margine, più che i giudizi, le
impressioni vive e salienti che hanno suscitato in me, alla lettura, le
venti nuove _Odi Barbare_.

La prima (_Sole d'inverno_) assai mediocremente mi ha disposto l'animo
in favore del libro. La «cerulea gioia» che s'incontra nella seconda
strofa, è modo audace e nuovo, ma, a gusto mio, bello perchè
fantasticamente vero. Invece non finisce di piacermi, anzi addirittura
mi spiace, una sequenza di immagini affini che mi producono effetto
somigliante a una successione viziosa di quinte in un processo armonico
musicale. Dante avventò nel poema un sublime traslato: «lo mar
dell'essere», che doveva partorirne tanti e tanti! Carducci principia la
sua piccola ode col «solitario verno dell'anima» a cui tengono subito
dietro «le nuvole della tristezza.» Nella terza strofa ci mostra il
mobil vertice de' fantasimi da cui spicciano i memori affetti, scendenti
«con rivoli freschi di lagrime.»-Bellissimi quindi, schiettamente
carducciani i «murmuri che agli antri chiamano Echi d'amor
superstiti....» col resto della strofa; ma poi i rivoli delle superiori
lagrime ecco che dilagano in un limpido fiume; e nell'ultima delle sei
strofe si ritorna alla «nubila cima de l'essere;» e si chiude col «fiume
de l'anima» la breve ode, che col «verno dell'anima» aveva principiato!

Non è troppo? Non abbiamo noi qui abuso di immagini, tutte generate da
un medesimo motivo e quindi troppo fitte, troppo finitime, troppo
congeneri?

La seconda invece (_Primo Vere_) ha subito una di quelle immagini
fresche, limpide, colte sul vivo, squisitamente significate, che siamo
usi a considerare come un privilegio degli antichi e che fanno del
Carducci un fortunato superstite moderno alle vicende dell'arte
classica:

    Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi
    Ed ancor trema nuda al rigid'aere
    La primavera. Il sol tra le sue lagrime
             Limpido brilla, o Lalage.

Parecchi anni fa, uno dei molti rimatori che vivacchiano alla meglio nel
bello italo regno, fattosi una mattina alla finestra e visto i tetti
delle case e le prossime colline coperte di neve, pensò e mandò a uno
dei tanti _album_ di beneficenza che allora imperversavano (purtroppo
imperversano ancora!) i tre versi seguenti:

               Rose e viole:
    Sotto la neve bianca e sepolcrale
    Forse dormono i fior, sognando il sole.

Ma sentite con che elegante ricchezza assume e svolge il Carducci quella
idea buttata là alla buona di Dio:

    Da lor culle di neve i fior si svegliano
    E curiosi al ciel gli occhietti levano,
    E ne' lor guardi vagola una tremula
              Ombra di sogno, o Lalage.

    Nel sonno de l'inverno, sotto il candido
    Lenzuolo della neve i fior sognarono,
    Sognaron l'albe roride e gli splendidi
              Soli e il tuo viso, o Lalage.

Ma nella letizia della rinnovata giovinezza dell'anno si mesce un senso
arcano di mestizia. Perchè domanda il poeta, la primavera sorride mesta?
Questa interrogazione melanconica sembra che continui a ondeggiare
vagamente sulla ode terza e quarta: _Egle_, che è una breve melodia
d'esametri e pentametri, e _Canto di Marzo_, una, per me, delle migliori
gemme del libro. Precede la bella similitudine umana, che fa pensare ai
passi migliori di Lucrezio, magistralmente protratta nella serie degli
incisi, che quasi la tramutano in una vivente ipotiposi:

    Quale una incinta, su cui scende languida
    Languida l'ombra del sopore e l'occupa,
    Disciolta giace e palpita sul talamo,
    Sospiri al labbro e rotti accenti vengono
    E subiti rossor la faccia corrono,
    Tale è la terra: l'ombra de le nuvole
    Passa a sprazzi su 'l verde tra il sol pallido:
    Umido vento scuote i peschi e i mandorli
    Bianco e rosso vestiti, ed i fior cadono.
    Spira dai pori de le glebe un cantico.

Meno mi piace la canzone dei fiori che segue nella terza strofa:

    O salienti dai marini pascoli
    Vacche del cielo, grige e bianche nuvole,
    Versate il latte da le mamme tumide....

Reminiscenza vedica. Certo non senza una ragione qui il poeta ha voluto
prestare ai fiori un linguaggio tolto dai miti vetustissimi; ma il genio
ellenico, per sè medesimo e per noi, mitigò, trasformò, corresse insomma
tutti quei miti zoomorfi; e gli incorreggibili e i non esteticamente da
lui accettabili, con un cenno della mano luminosa, ricacciò oltre i
confini di Samotracia e oltre il Ponto. Anche il mostro egli volle
rendere, alla sua maniera, bello. L'innesto, per esempio, dell'uomo e
del cavallo, de la donna e del pesce erano sì dei mostri ma suscettivi
di formosità; onde s'ebbero buone accoglienze il centauro e la sirena.
Queste vacche indostaniche invece, che pascolano in aria con gli overi
spenzolanti e gocciolanti, non trovarono grazia. — Ma, tolto questo neo,
l'ode è, ripeto, a mio gusto, una elegantissima cosa. E si eleva
superbamente nelle apostrofi finali, che l'anima commossa del poeta
lancia in mezzo ai sorrisi e alle inquietudini della Natura generante.

    Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
    Schiudetevi agli amori, o cuori giovani;
    Impennatevi ai sogni, ali de l'anime;
    Irrompete a la guerra, o desii torbidi.
    Ciò che fu torna e tornerà nei secoli.

                                  *
                                 * *

La ode quinta, _Cèrilo_, confesso di non averla capita bene. Vi domina,
forse, una soggettività troppo circonstanziata, che certo avrà dato
materia viva al poeta, ma che nel tempo stesso impedisce ora che l'unità
lirica si trasferisca in unità d'emozione e di fantasma dentro lo
spirito del lettore. S'io m'inganno altri mi corregga. Resta, a ogni
modo, di questo _Cèrilo_ come un soavissimo frammento di melodia nella
memoria:

    Sotto l'adulto sole, nel palpito mosso da' venti
      Pe' larghi campi aprici, lungo un bel correr d'acque,
    Nasce il sospir de' cuori che perdesi nell'infinito,
      Nasce il dolce e pensoso fior de la melodia...

Invece niente o pochissimo m'è rimasto dell'ode che segue: _Saluto
d'autunno_: e tralasciandola parmi che il volume non ne avrebbe
scapitato.

Eccoci alle odi: _Le due torri_ e _Miramar_. Con brevità concettosa e
fantastica il Carducci rappresenta nel linguaggio dell'Asinella, che si
lancia diritta in alto come una titanica antenna, e in quello della
Garisenda, che curva penosamente la sua mole immane, i drammi gloriosi e
dolorosi della vecchia città medioevale. Nella prima strofa le ingrate
alliterazioni di un verso (_E su 'l populeo Po pe 'l verde paese i
carrocci..._) ricordano una annotazione curiosa del Carducci, nella
quale confessò che alcuna volta egli è preso dal bizzarro compiacimento
di scrivere un verso scadente e mandarlo per il mondo a cercar sua
ventura. A ogni modo quella noticina stridula si perde nella severa
grandiosità armonica, che io quasi direi beethoveniana, del breve
componimento.

                    ASINELLA:

    Bello di maggio il dì, ch'io vidi su 'l ponte di Reno
         Passar la gloria libera del popolo,
    Sangue di Svevia, e te chinare la bionda cervice
         A l'ondeggiante rossa croce italica.
    . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Dante vid'io levar la giovine fronte a guardarci,
         E, come su noi passano le nuvole.
    Vidi su lui passar fantasmi e fantasmi ed intorno
         Premergli tutti i secoli d'Italia.

                    GARISENDA:

    Sotto vidimi il Papa venir con l'Imperatore
         L'uno all'altro impalmati; ed oh me misera,
    In suo giudicio Dio non volle che io ruinassi
         Su Carlo quinto e su Clemente settimo!

                                  *
                                 * *

All'ode _Miramar_ corrono subito, in questi giorni, gli occhi di quelli
che prendono in mano la prima volta il volume, tanto è la curiosità e
l'aspettazione della sua eccellenza, propagata da quelli che già la
conoscono. Una somiglianza classica s'impone subito con la quindicesima
del libro primo delle odi d'Orazio (_Pastor cum traheret_...) Allo
spunto della profezia di Proteo: _Mala ducis avi dumum!_... fa riscontro
evidente lo spunto della triste nenia fatidica che viene sul mare dalla
triste punta di Salvore:

     — Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro.
    Figlio d'Ausburgo, la fatal _Novara_...

Alla efficacia della lirica oraziana giova molto la brevità della
pròtasi; e quel subito irrompere del tragico vaticinio nel gran silenzio
dei venti e dei flutti. Il Carducci invece, ragionevolmente obbligato
dal soggetto, si indugia alquanto a descrivere la marina dintorno e
l'interno del castello. A questo preambolo felicissimo il poeta ha dato
alcune delle migliori strofe saffiche, che sieno uscite, io credo, dalla
sua penna:

    O Miramare, a le tue bianche torri
    Attediate per lo ciel piovorno
    Fosche con volo di sinistri augelli
                   Vengon le nubi.

    O Miramare, contro i tuoi graniti
    Grige dal torvo pelago salendo
    Con un rimbrotto d'anime crucciose
                   Battono l'onde.

    Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
    Stanno guardando le città turrite,
    Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo
                   Gemme del mare.

    . . . . . . . . . . . . .

    E tona il cielo a Nebresina lungo
    La ferrugigna costa, e di baleni
    Trieste in fondo coronata il capo
                   Leva tra il nembo.

    Deh come tutto sorridea quel dolce
    Mattin d'aprile, quando usciva il biondo
    Imperatore, con la bella donna
                   A navigare!

Ma come gli sposi hanno abbandonato il castello, «nido d'amore costruito
invano», principiano i terribili auguri. L'Erinni è salita coi due sulla
nave e spiega essa la vela. La Sfinge, tramutando sembiante, si rizza
dinanzi alla Imperatrice col viso di Giovanna la Pazza... È una
evocazione subitanea che mette i brividi, pensando al somigliante
destino che attende la infelice Carlotta; tanto che ne rimane come
illanguidito l'effetto della strofa seguente, che evoca il teschio mozzo
di Maria Antonietta e l'irta faccia gialla del Montezuma. Non era
bastantemente effigiata e riassunta nella demenza della povera donna
tutta quanta la tragedia di Queretaro? La lirica è tanto più potente
quanto meglio allaccia in una sola immagine le immagini circostanti.

Poi viene l'invito di Huitzilopotli, il dio messicano, che di sotto alla
sua piramide, nella tenebra tropicale, navigando con lo sguardo il
pelago e fissando la preda, grida all'infelice Imperatore: Vieni! —
Qualcuno vuole far colpa al poeta per questo intervento di mitologia
messicana. O perchè, domando io? Non è per vano sfoggio di miti esotici
che il nume carnivoro entra in campo. Qui Huitzilopotli è al suo posto:
difensore e vendicatore de' suoi nel rappresentante della razza bianca.
Il Carducci lo introduce nella sua ode con la stessa legittimità e
opportunità fantastiche con la quale il Camoens introdusse Adamastor
contro la impresa dei Lusitani. Si potrà, tutt'al più, giudicare
alquanto studiato e artificioso il legame che lontanamente unisce le
ferocie dei soldati spagnuoli alla espiazione compientesi in un povero
figliuolo cadetto della famiglia degli Ausburgo; e per questo, io ne
convengo, la invitazione del nume dell'antico Messico non possiede a
lunga pezza la perspicuità ideale e la equa rispondenza vendicatrice,
che è nella profezia del Nereo oraziano contro lo sleale figlio di
Priamo. Ma o io ho perduto affatto ogni senso di bellezza poetica, o
nessuno può ammettere ragionevolmente in dubbio la terribilità e
l'efficacia fulminea, delle tre strofe con cui l'ode si chiude:

    Quant'è che aspetto! La ferocia bianca
    Strussemi il regno ed i miei templi infranse:
    Vieni, devota vittima, o nepote
                   Di Carlo quinto.

    Non io gl'infami avoli tuoi di tabe
    Marcenti o arsi di regal furore;
    Te io voleva, io colgo te, rinato
                   Fiore d'Ausburgo;

    E a la grand'alma di Guatimozino
    Regnante sotto il padiglion del sole
    Ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
                   Massimiliano.

Qui la umana pietà si mesce senza sforzo e nobilmente, al tragico
terrore, come già vollero i greci. Virile, moderna, alta poesia insomma,
della quale l'Italia ha ragione di compiacersi.


Negli esametri e nei pentametri latini, che alcuni poeti nostri del
secolo decimosesto avevano rimesso mediocremente in onore, Giosuè
Carducci è riuscito a imprimere una armonia varia, snella, disinvolta e
potente che dà loro un diritto di durevole cittadinanza fra i versi
moderni. Su questo, il volume delle _Terze Odi Barbare_ dee levare gli
ultimi dubbi. Non è una esumazione ma una vera palingenesi. Nei distici
di _Mors difterica_ poteva credersi che il Carducci avesse fatto
l'ultima prova della tecnica sua; invece nell'ode: _Roma_ parmi che egli
sia pervenuto ad una più compiuta eccellenza:

    Monti d'Alba, cantate sorridenti l'epitalamio;
      Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;
    Mentr'io da 'l Gianicolo ammiro l'imagin de l'Urbe,
      Nave immensa lanciata ver' l'impero del mondo.
    O nave che attingi con la poppa l'alto infinito,
      Varca a' misterïosi lidi l'anima mia.
    Ne' crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
      Tranquillamente lunghi su la Flaminia via,
    L'ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
      La fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;
    Passi a i concilii de l'ombre, rivegga li spiriti magni
      Dei padri conversanti lungh'esso il fiume sacro.

Eccettuati questi distici e il quarto verso nella strofa alcaica, — il
quale non è poi altro che un decassillabo nostro accentato in modo da
ricordare il corrispondente verso antico, — tutte le odi del volume
continuano a porgermi de' bei versi italici con misura e con accenti
come li vuole il nostro orecchio moderno. La strofa della settima ode,
per esempio, che a primo aspetto si presenta quale una completa novità,
ha il primo e il terzo verso formato di un settennario a volta piano e a
volta tronco, unito ad un novenario piano. (_Triste mese di maggio — Che
intorno al bel corpo d'Imelda. Bello di maggio il dì — Ch'io vidi su 'l
ponte di Reno...._) Il secondo e il quarto verso è formato di un
decasillabo sdrucciolo. Se alcune volte il poeta si discosta, come fa
verso la fine dell'ode, da questa regola, (_Sotto vidimi il papa — Venir
con l'imperatore_) ecco che la strofa manda subito all'orecchio un
_hiatus_ o vuoi un'intervallo muto nell'armonia, della cui bontà io oso
dubitare.

Fin qui solamente arriva la grande ignoranza mia; tanto che coloro i
quali, a proposito delle _Terze Odi Barbare_, seguitano ad agitare
vecchi quesiti di metrica e di tonica, mi hanno un po' l'aria di brava
gente che vada in cerca del quinto piede del montone!

                                  *
                                 * *

E proseguendo le note in margine, dirò che le odi: _Roma_, _Su Monte
Mario_, _Davanti al Castel Vecchio di Verona_ e _Da Desenzano_ stampate
di seguito, formano un gruppo dintorno a un punto ideale che le domina.
È il concetto della evanescenza della vita umana comparata agli
spettacoli lieti della natura e ai grandi monumenti della storia. Il
poeta da principio tocca un momento questo concetto come uno dei soliti
richiami alla festività conviviale, secondo la tenue filosofia d'Orazio:

    Mescete in vetta al luminoso colle,
    Mescete, amici, il biondo vino, e il sole
    Vi si rifranga: sorridete, o belle;
                           Doman morremo.
    . . . . . . . . . . . . . .
    A me fra il verso che pensoso vola
    Venga l'allegra coppa ed il soave
    Fior de la rosa che fugace il verno
                           Consola e muore.

Ma poi subito il tono si eleva: il verso del poeta non è «pensoso» per
nulla. Sentiamo l'anima dell'uomo moderno che si pone dinanzi al nulla
della vita e lo contempla con mestizia serena. Che agile evocazione di
immagini e che ineffabile malinconia musicale nella strofa che segue!

    Diman morremo, come ier moriro
    Quelli che amammo: via da le memorie.
    Via dagli affetti, tenui ombre lievi
                              Dilegueremo.

Poi la mente del poeta, che dallo spettacolo di Roma contemplato sulla
cima di Monte Mario è tratta al pensiero della nostra caducità, si
innalza e si dilata nella immaginazione della catastrofe universale.
Anche la Terra rallenterà il suo corso «faticoso» dintorno al Sole. Dopo
aver sprigionato col suo calore innumerevoli vite e dolori e glorie
innumerevoli, anch'essa si raffredderà; e verrà un giorno in cui «dietro
i richiami del calor fuggente» l'ultimo uomo e l'ultima donna si
rifugieranno al sommo dell'equatore; e di là con gli occhi vitrei
vedranno tramontare «su l'immane ghiaccia» il Sole, per l'ultima volta.
Con questa visione d'origine byroniana, abilmente condensata e corretta
nelle linee dell'arte classica, il poeta termina questa ode, la quale
senza il freddo artificio della quarta strofa (_Lalage, intatto a
l'odorato bosco..._) sarebbe tutta un capolavoro; veramente mirabile, a
ogni modo, di proporzione, di fusione, di intonazione.

Nella apostrofe che il poeta intuona all'Adige, mentre il fiume,
infilando il ponte scaligero, gli canta sotto la sua «scorrente canzone
al sole» l'ode riprende il pensiero della precedente. Lo riprende, ma lo
tramuta e lo varia per modo, ch'io non so proprio comprendere come
altri, in buona fede, abbia potuto trovare il poeta in colpa di
ripetersi, mentre invece credo che qui si rendano più imperiosamente
degne d'ammirazione la sua arte e la sua vena. In vetta a Monte Mario
sono in tragico contrasto la fuggevolezza della vita umana con la durata
delle forze cosmiche, anch'esse moriture: qui, sulla riva del bel fiume
veronese, è invece il poeta che paragona la nota fuggevole del suo canto
con la voce del fiume perseverante uguale a traverso i secoli, a
traverso tante vicende di popoli e d'imperi. — Quanto tempo è passato
dal dì che Teodorico entrava vittorioso in Verona e la povera plebe
italica, raccolta intorno al suo vescovo, supplicava i Goti mostrando
loro la croce, a questo giorno in cui le bandiere abbrunate, sventolanti
sulle torri e dalle finestre delle case, ricordano l'anniversario
funebre di Vittorio Emanuele!... Tutto passa e si muta; non la voce
immortale del fiume:

    Anch'io, bel fiume, canto; e il mio cantico
    Nel picciol verso raccoglie i secoli,
        E il cuore al pensiero balzando
          Segue la strofe che sorge e trema.
    Ma la mia strofe vanirà torbida
    Ne gli anni: eterno poeta, o Adige,
        Tu ancor tra le sparse macerie
          Di questi colli turriti, quando
    Su le rovine de la basilica
    Di Zeno al sole sibili il colubro,
        Ancor canterai nel deserto
          I tedi insonni dell'infinito.

Ma l'ode: _Da Desenzano_ compie il pensiero solenne e triste del poeta
intorno alla vita, coronandolo d'una luminosa fantasia oltremondana. Già
nell'apostrofe a Roma s'è visto com'egli concluda augurandosi un
tranquillo passaggio «ai concilii de l'ombre» a rivedere gli spiriti
magni dei padri conversanti lungo il sacro fiume. Nei versi a Gino
Rocchi, tutti squisitezza e profumo di eleganze e di ricordi classici,
questa idea ritorna ed è svolta e colorita più precisamente. E non è
senza un vago tremito dell'anima che, un manzoniano impenitente par mio,
vede il poeta di Febo Apolline e di Camesana arrivare al suo bel sogno
classico, passando per lo mezzo al manzoniano ricordo delle monache
longobarde salmodianti nel silenzio notturno di un chiostro e mormoranti
«la requie.... sui giovani pallidi stesi sotto l'asta francica.» Chi non
vede profilarsi sotto la luna il volto bello e doloroso di Edmenegarda?
Chi non ricorda le «vergini indarno fidanzate» e le madri che videro i
pallidi nati trafitti dall'asta nemica, nel coro dell'_Adelchi_? — Ma
quella non è che una sosta fuggevole; il poeta s'affretta verso la
classica visione e attacca immediatamente:

    E calerem noi pur giù tra i fantasimi
    Cui nè il sol veste di fulgor porpureo
    Nè le pie stelle sovra il capo ridono
    Nè de la vita il frutto i cuor letifica.
    Duci e poeti allor, fronti sideree,
    Ne muoveranno incontro e — Di qual secolo
    — Domanderanno — di qual triste secolo
    A noi veniste, pallida progenie?
    A voi tra' cigli torva cura infoscasi
    E da l'augusto petto il cuore fumiga.
    Noi ne la vita esercitammo il muscolo
    E discendemmo grandi ombre tra gl'inferi.

                                  *
                                 * *

Qui l'argomento mi trae a violare l'ordine progressivo che mi ero
prescritto nel parlare delle venti odi. Salto la tredicesima e la
quattordicesima e arrivo all'ode: _Presso l'urna di Percy_ _Bysshe
Shelley_, aggiungendola al gruppo precedente, di cui ella appare come
una conclusione aspettata.

La poetica visione d'oltretomba si dischiude con una parafrasi scultoria
del motto di Federico Schiller: per rivivere nella serena bellezza
dell'arte le cose fa d'uopo che muoiano prima nella realtà:

    L'ora presente è invano, non fa che percuotere e fugge:
      Sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero.
    ..... O strofe, pensier de' miei giovani anni.
      Volate omai secure verso gli antichi amori.
    Volate pe' cieli, pe' cieli sereni a la bella
      Isola risplendente di fantasia ne' mari.

L'ode ci trasporta nell'«isola dei beati», sogno, desiderio, ricerca dei
sofi, dei poeti e dei navigatori dell'antichità. La descrive Pindaro
nella seconda _Olimpiade_ coi tocchi alati della sua lirica sovrana. Tra
i moderni il Tennyson nel più bello, io credo, de' suoi _Miti_ mette la
speranza di questa isola in bocca di Ulisse quando esorta i suoi vecchi
compagni a riprendere con lui la vita errante dei mari: «...Forse noi
toccheremo la felice Isola: forse colà rivedremo il grande Achille, che
noi così bene conoscemmo sovr'altri lidi!» Per altro l'isola beata nella
fantasia del Carducci assume un aspetto nuovo e tutto moderno. A prima
giunta par di riscontrare qualche cosa di contradditorio in questa
superba concezione carducciana. Ma giova anzitutto richiamare la parte
centrale e più importante del bellissimo quadro:

    Ivi poggiati all'asta Sigfrido ed Achille alti e biondi
      Erran cantando lungo il risonante mare:
    Dà fiori a quello Ofelia sfuggita al pallido amante,
      Dal sacrificio a questo Ifïanassa viene.
    Sotto una verde quercia Rolando con Ettore parla,
      Sfolgora Durendala d'oro e di gemme al sole:
    Mentre al florido petto richiamasi Andromache il figlio
      Alda la bella, immota, guarda il feroce sire.
    Conta re Lear chiomato a Edippo errante sue pene,
      Con gli ocelli incerti Edippo cerca la sfinge ancora:
    La pia Cordelia chiama — Deh, o bianca Antigone, vieni,
      Vieni, o greca sorella! Cantiam la pace ai padri.
    Elena e Isotta vanno pensose per l'ombre de' mirti,
      Il vermiglio tramonto ride a le chiome d'oro:
    Elena guarda l'onde: re Marco ad Isotta le braccia
      Apre, ed il biondo capo su la gran barba cade.
    Con la regina scota su' l lido nel lume di luna.
      Sta Clitennestra: tuffan le bianche braccia in mare,
    E il mar rifugge gonfio di sangue fervido; il pianto
      De le misere echeggia per lo scoglioso lido,
    O lontana a le vie dei duri mortali travagli,
      Isola de le belle, isola de gli eroi,
    Isola de' poeti! Biancheggia l'oceano d'intorno.
      Volano uccelli strani per il purpureo cielo.

Ora la prima domanda che si presenta alla mente del critico è questa:
come si conciglia la beatitudine di questo soggiorno con la permanenza
di tanti tragici ricordi? Perchè re Lear narra ancora le sue pene a
Edippo e questi si inquieta ancora per la Sfinge? E sopratutto che hanno
a vedere in questa isola «lontana alle vie dei duri mortali travagli»
quelle due sanguinose e piangenti figure di Lady Macbeth e di
Clitennestra? Ma la contradizione non è che apparente e armonicamente si
rissolve, subito che si pensi, che l'intimo senso e come il substratum
di questa fantasia consiste appunto nel magico e benefico potere della
idealizzazione poetica. Quello che è dolore, quello che è colpa e
punizione nella realtà, si converte in tranquilla e beata visione,
quando assurga alle sfere serene dell'arte liberatrice. I poeti guardano
e cantano; le ombre passano; ognuna nell'atteggiamento bello e pietoso e
terribile in cui i poeti le generarono nel calore degli estri divini. E
questa è la beatitudine. Siamo nel mondo incantato della divina epopea:

    Passa crollando i lauri l'immensa sonante epopea
      Come turbin di maggio sopra ondeggianti piani;
    O come quando Wagner possente mille anime intuona
      Ai cantanti metalli; trema agli umani il cuore.

In questa isola vive l'anima di Shelly, unico tra i poeti moderni.
L'ombra di Sofocle la trasse dal naufragio nelle acque del Mediterraneo
e la assunse ai cori del regno beato. — Io ignoro completamente il
perchè di questo sovrano privilegio negato a tutta la schiera dei poeti
moderni, tra i quali non bisogna dimenticare che contano pur qualche
cosa anche Goethe, Schiller, Byron, Foscolo, Leopardi, Heine, Victor
Hugo e qualcun altro: ma qualunque sia stata la ragione che mosse il
Carducci, questo nulla detrae alla superba concezione e alla grande
bellezza dell'ode.

Mi rimane anche a parlare di sette fra le venti odi che formano il
libro, e debbo studiarmi d'essere breve. Una memorabile data, 1848,
letta sulla pancia d'una bottiglia di Valtellina, inspirò al Carducci
una breve lirica tutta calda di eroici ricordi e di propositi animosi:

    E tu pendevi tralcio da i retici
    Balzi odorando florido al murmure
      De' fiumi da l'alpe volgenti
        Ceruli in fuga spume d'argento,

    Quando l'aprile d'Itala gloria
    Da 'l Po rideva fino a lo Stelvio
      E il popol latino si cinse
        Su l'Austria cingol di cavaliere.

Ma rapidamente ai lampi delle nostre vittorie e alle smisurate
confidenze succedeva l'«italo spasimo» per i disastri delle armi nostre.
Piace seguire il poeta nel rapido cenno d'un eroico episodio guerresco
nobilitante le nostre sventure:

    . . . . . Hainan gli aspri animi
    Contenne e i cavalli dell'Istro
      Ispidi in vista dei tre colori.

E seguirlo ne' fulgidi auguri, tratti dalla evocazione dell'ombre
magnanime e confidati all'avvenire:

    . . . . . . . . . . . .
      Sia gloria, o fratelli! Non anche
        L'opra del secol non anche è piena.

    Ma nei vegliardi vige il vostro animo,
    Il sangue vostro ferve ne i giovani:
      O Italia, daremo in altre alpi
        Inclita ai venti la tua bandiera.

È questa nel volume una delle odi più serrate e rapide per la fattura,
più concitata e quasi direi nervosa per il sentimento che l'anima. Balza
qua e là in queste otto strofe uno spirito «bacccante» che ricorda
l'antico.

Delle tre piccole odi: _Courmayeur_, _Convivale_ e _Colli toscani_,
quest'ultima mi pare di gran lunga la più sentita, la più spontanea e
per ciò la più bella. L'anima del poeta accompagna paternamente la sua
figliuola, sposa novella, verso i dolci

    Colli toscani ove il _suo_ canto nacque,

e scioglie i voti affettuosi e richiama le memorie mestissime e care:

    Colli, tacete, e voi non sussurratele, olivi,
      Non dirle, o sol, per anche, tu onniveggente, pio,
    Che oltre quel monte giacciono, lei forse aspettando, que' miei
      Che visser tristi, che in dolor morirono...

A me nel leggere questi distici rifioriva dolcemente, mestamente nella
memoria il sonetto rivolto molti anni fa al fratello sepolto del poeta,
quando moriva a questi il figliuolo:

      O tu che dormi là su la fiorita
    Collina tosca, e t'è già il padre accanto,
    Non hai, fra l'erbe del sepolcro, udita
    Pur ora una gentil voce di pianto?

      È il pargoletto mio,...

E rivedevo col pensiero i luoghi di Maremma «ove fiorìo la _sua_ triste
primavera» e riandavo le tante schiette ispirazioni carducciane derivate
dal bello e desolato paese, fra le quali sempre campeggia, ridendo a noi
nel suo selvatico fascino di Venere maremmana, la «Maria bionda»
dell'_Idillio_.

I poeti veri, i poeti che amiamo, anche questo hanno di particolare per
noi, che i loro componimenti si rincorrono l'un l'altro nella nostra
fantasia, si sorridono, si chiamano da lontano nelle memorie,
s'irragiano di scambievole splendore.

                                  *
                                 * *

O buon Regaldi, o vecchio bardo chiomato della nostra adolescenza
romantica, come mi ritorna caro il tuo nome associato ad una delle più
forti ispirazioni del poeta nostro! Altri professi, se vuole, opposto
giudizio; per me l'ode: _Alessandria_ sta fra le più belle testimonianze
dell'ingegno poetico di Giosuè Carducci e di quel suo sentimento
profondo e tutto particolare di _attualità_, che solo posseggono i
lirici veri, di razza (per dire la frase d'uso) e di temperamento.

Rileggendola, io sono tornato con l'animo all'estate del 1882, quando
dall'Egitto ci venivano tante strane e dolorose notizie, coronate poi
dal bombardamento e saccheggio d'Alessandria; e in quel mezzo arrivò
l'ode del Carducci a raffigurarci, in contrasto, i torbidi fatti del
presente con le origini eroiche e le glorie antiche della città. Chi non
sente il vetusto, l'Ermetico Egitto mirabilmente epilogato e scolpito
nelle prime tre strofe?

    Nell'aula immensa di Lussor, su 'l capo
    Roggio di Ramse il mistico serpente
    sibilò ritto, e 'l vulture a sinistra
                         Volò stridendo,
    E da l'immenso serapèo di Memfi,
    Cui stanno a guardia sotto il sol candente
    Seicento sfingi nel granito argute,
                         Api muggìo,
    Quando dai verdi immobili papiri
    Di Mareoti al livido deserto
    Sonò, tacendo l'aure intorno, questo
                         Greco peana . . .

È l'inno che intonano i soldati di Alessandro quand'egli torna dal
tempio di Giove Ammone che l'ha riconosciuto per figlio, e dinanzi
all'isola di Faro l'eroe segna il circuito della città che dovrà
inalzarsi nel suo nome. Nel quarto libro della sua storia Quinto Curzio
narra il viaggio d'Alessandro co' suoi attraverso il deserto al tempio
d'Ammone, e come egli al ritorno, fra il lago di Mareoti e l'isola,
datosi a contemplare il luogo (_contemplatus loci naturam_) decidesse di
fondare la città. La scena rivive, con toni e colori d'epica leggenda,
nella fantasia e nei versi del poeta:

    Tale il peana degli Achei suonava:
    E il giovin duce, liberato il biondo
    Capo da l'elmo, in fronte a la falange
                        Guardava il mare.
    Guardava il mare, e l'isola di Faro
    Innanzi, a torno il libico deserto
    Interminato: dal sudato petto
                        L'aurea corazza
    Sciolse, e gettolla splendida nel piano:
    — Come la mia macedone corazza
    Stia nel deserto e a' barbari ed a gli anni
                        Regga Alessandria. —
    Disse; ed i solchi a le nascenti mura
    Ei disegnava per ottanta stadi,
    Bianco spargendo su flave arene
                        Fior di farina.
    Tale il nepote del Pelide estrusse
    La sua cittade . . . .

Dove sono adesso le floride glorie di Alessandria? Il poeta dolorando lo
chiede al bardo novarese, il quale, fuggiasco in Oriente per amore di
libertà, la aveva pochi anni fa ammirata, mentre sempre

    Alacre, industre, a la sua terza vita
    Ella sorgea, sollecitando i fati.

Oggi non più. I vanti e le speranze dell'Egitto oggi minacciano di non
poter più vivere altrimenti che nel volume del ramingo poeta italiano.
Lontana poesia di memorie!

    . . . . . . . . . . . . .
    Oggi Tifone l'ire del deserto
                       Agita e spira!
    Sepolto Osiri, il latratore Anubi
    Morde ai calcagni la fuggente Europa,
    E chiama avanti i bestiali numi
                       A le vendette.
    Ahi vecchia Europa, che su 'l mondo spargi
    L'irrequieta debolezza tua,
    Come la triste fisa a l'orïente
                       Sfinge sorride!

Chi si piace, oltre che della nobilissima lirica, dei prestigi del
colore locale e storico, in questa ode ha, parmi, il fatto suo.

                                  *
                                 * *

Un'altra «maxima espectatio» del volume è certamente l'ode: _Scoglio di
Quarto_. Narrano che Frine per sapere da Prassitile quale delle proprie
statue avesse in maggior pregio, ricorse alla bugia d'un incendio.
Confesso che una bugia la direi io pure volentieri perchè il poeta
schiettamente mi rivelasse quale delle venti odi del volume egli creda
migliore; e confesso che amerei di sentirlo rispondere: la sedicesima.

_Scoglio di Quarto_ non ha l'impeto lirico che vi trascina nella seconda
parte di _Miramar_; non ha la ricchezza fantastica di _Alessandria_ e
dell'ode: _Presso l'urna di Shelley_; ma le vince, a mio giudizio, tutte
per quella che Leonardo da Vinci chiamava _la prisca euritmia_ delle
proporzioni e per un tono originalissimo, al tempo stesso umile ed alto,
che dà luogo a una singolare e toccante fusione di patetico e d'eroico.
Al disegno perfetto dell'ode corrisponde la forma; perfetta anch'essa, e
malgrado due piccole mende che voglio notare. Una è quel «palpido
lucido» dell'astro di Venere, che _tinge_, esso, il cielo, non ostante
il maggior lume della luna: l'altra quel «mendicando la morte» della
settima strofa, che parmi alquanto eccessivo ed enfatico. Le ho notate,
a costo di dar nel minuzioso, per il rispetto quasi religioso che questo
componimento m'ispira. E nemmeno voglio citarne dei passi staccati;
maniera di commento sempre pericolosa e in questo caso presso che
irriverente. Tanto varrebbe rompere un bel bassorilievo antico per
mostrare alcuni pezzi ai curiosi. Bisogna leggere tutta l'ode con
l'animo raccolto; e muovere da quella «breve striscia di sassi» che
sporge nel mare, e cogliere con l'occhio della mente il paesaggio
notturno, tranquillo, sereno, incantevole che è sopra e d'intorno, con
Genova vista là in fondo tra i lumi morenti e i canti che arrivano
fiochi da lontano... Poi veder comparire a un tratto la figura leonina
di Garibaldi, col suo puncio e la sua spada «la spada di Roma»
bilanciata sull'omero; e dietro lui giungere a piccoli drappelli «i
mille vindici del destino» che appena comparsi dileguano nell'ombra,
come dei pirati che vadano al malefizio e invece per amore d'Italia essi
vanno a cercare la morte «al cielo, al pelago, ai fratelli»... Poi
bisogna salire, salire e lasciarsi portare per questa atmosfera sacra di
ricordi, finchè vediamo toccarsi in una stessa idealità due figure,
Pallante e Garibaldi, i due lucidi poli remoti, tra i quali si svolge la
immensa epopea della vita italica. Su tutto il quadro e su tutta la
visione, brilla simbolicamente la stella di Venere, la stella d'Italia,
la stella di Cesare.....

                                  *
                                 * *

Mi rimane da parlare dell'ode: _Il liuto e la lira_, dedicata «A
Margherita Regina d'Italia». Tutti ormai conoscono le origini storiche
del componimento ricordate in una nota.

    Quando la Donna Sabauda il fulgido
    Sguardo al liuto reca e su 'l memore
      Ministro d'eroici lai
        La mano e l'inclita fronte piega,
    Commove un conscio spirito l'agili
    Corde, e dal seno concavo mistico
      La musa de' tempi che furo
        Sale aspersa di faville d'oro;
    E un coro e un canto di forme aeree,
    Quali già vide l'Allighier muovere
      Ne' giri d'armonica stanza,
        Cinge l'italica Margherita....

L'ode, come ognuno sente, esordisce con una intonazione idealmente
signorile e muove, fin dai primi suoi passi, con un incedere veramente
regale. Ci vorrebbero delle musiche di Gluk o di Sacchini, pure, dolci e
solenni, nei momenti che esprimevano le _entrate_ de le belle eroine
coronate sulla scena classica.

Il coro delle sostanze aeree è formato dalla _Canzone_, dalla
_Sirventese_ e dalla _Pastorella_.

Ognuna, presentandosi alla Regina d'Italia, parla di sè e de' suoi
nobili vanti. La Canzone ricorda Dante dall'anima del quale ella spiccò
il volo fino ai cieli: ricorda che passò sovra le lagrime del Petrarca e
accese pur lui «corone di stelle in sull'aurea chioma d'Avignone».
Quest'ultimo traslato, dico passando, a me non piace affatto. Avrebbe
scritto il Carducci, a proposito dell'amore di Dante, «sulla chioma
aurea di Firenze» volendo significare Beatrice? Bellissimo invece nella
verità che semplicemente esprime idealizzandola:

    Non mai più alto sospiro d'anime
    Surse dal canto...

Indi balza la Sirventese, con l'elmo l'asta e lo scudo, ed esprime il
suo amore per le bellicose gesta terrene e per le anime dei combattenti
sprezzatrici della morte. A me, essa grida.

    Piace, se lampi d'acciaio solcano
    Se ferrei nembi rompono l'aere
      E cadon le insegne davanti
        Al flutto e a l'impeto de' cavalli.
    A cui la morte teme non ridono
    Le muse in cielo, quaggiù le vergini.
      Avanti Savoia! Non anche
        Tutta dèsti la bandiera al vento...

Viene ultima la Pastorella e alla dolce Regina fa intendere le voci del
dolore umano che si levano sempre più intense dalle terre, quantunque
essa sia letificata di tanta civiltà:

    La Pastorella sono. Di facili
    Amori e sdegni, danze e tripudii.
      Non più rendo gli echi: una nube
        Va di tristizïa su la terra.
    A te da' verdi mugghianti pascoli,
    Da' biondi campi, da le pomifere
      Colline, da' boschi sonanti
        Di scuri e dal fumo de' tuguri,
    Io reco il blando riso de' parvoli,
    Di spose e figlie reco le lagrime
      E i cenni de' capi canuti
        Che ti salutano pïa madre...

Fin qui ho sentito la nobilissima lirica salire sempre come un'onda
vittoriosa. Da questo punto, per le cinque strofe che ancora rimangono,
sembrami invece d'avvertire un certo rallentamento e quasi un
raffreddamento. L'ode appare lunga. Nuoce quel subito intervento dell'io
del poeta dopo la serena oggettività della prima parte? Forse — lo so —
è audace il dire a un poeta, a un artista della forza di Giosuè
Carducci: era meglio che tu ti fermassi a un dato punto dell'opera tua
magistrale. Ma io sento, forse a torto, che, finita la triplice
apparizione, anche l'ode doveva finire o concludere più rapidamente.

                                  *
                                 * *

Ho detto anch'io il mio parere con tutta sincerità e senza una pretesa
al mondo. A chi poi mi domandasse un giudizio complessivo sul volume, io
direi semplicemente: le _Terze Odi Barbare_ sono per me degne delle
prime e delle seconde. È arte pura, è poesia che seguita a consolare
l'Italia della grande mediocrità artistica, la quale persiste, ahimè,
nel travagliarla!

È utile, è ragionevole, è (oserò aggiungere) artisticamente possibile
spingere molto innanzi certi confronti e pretender dimostrare, con un
termometro di nuovo genere alla mano, se il calore poetico del Carducci
sia cresciuto o diminuito d'un grado? A me basta rileggere _Miramar_,
_Alessandria_, _Scoglio di Quarto_ e sentirmi in presenza di un grande
artista; a me basta pensare che il nostro maggior poeta ha molte corde
alla sua lira e che sa tutte vibrarle potentemente, alternando e
rinforzando i suoni. Meno di due anni fa egli ci diede _Rime nuove_; ora
ci dà le _Terze Odi Barbare_; chi può dire le sorprese che egli ci serba
per l'avvenire? — Fra i nostri critici letterari, che io tutti
sinceramente rispetto, confesso che a me muovono una certa stizza coloro
che da qualche tempo hanno pigliata l'abitudine di parlarci di Carducci
come di un patriarca vivente della poesia italiana. Ma che patriarca
d'Egitto! Egli è nel forte vigore della vita e ha di poco varcati i
cinquant'anni, età nella quale in Francia, in Inghilterra e in Germania
i poeti e gli artisti sono sempre classificati tra i giovani.

E perchè al Carducci non dovrà essere riservata una longevità operosa,
come a Victor Hugo, a Tennyson e a Lecomte de Lisle?


III.

Carducci umorista.

Carducci umorista?... Certo non è la prima idea che si presenta a chi
pensi l'opera del grande lirico nostro. Ogni artista, ogni scrittore
eminente è come sopraffatto dal fulgore di certe sue qualità dominanti,
agli occhi della critica.

Vittorio Alfieri volle per forza aggiungere alla sua corona di tragico
quella di poeta comico e satirico; ma la musa dal facile riso e dai
sandali leggeri, all'ostinato invito si prestò di mala voglia e, diciamo
anche, di mala grazia il più delle volte; tanto che, ad argomento di
maggior gloria, nessuno, io penso, sente ora il bisogno di ricordare
dell'autore di «Saul» e «Timoleone», anche le satire e le commedie e gli
epigrammi, così laboriosamente meditati e composti sotto la alta
pressione della sua indomita volontà.

Per Carducci no. È vero che egli non mette subito in mostra il lato
umoristico del suo temperamento e, meno che mai, egli, scrittore, lascia
subito travedere una punta di riso arguto e bonario agli angoli della
sua bocca. Direste che ama invece di apparire tutto l'opposto.

    Superbo! e lui non tocca
    Gentil senso d'amore.
    . . . . . . . . . .
    Solitario, aggrondato
    Va pel divin creato.

Ora se questa è la leggenda che si è formata nel mondo sul conto suo,
bisogna ben riconoscere che poco egli ha fatto per impedirla; e che
invece si capisce benissimo che perfino i «cipressetti di Bolgheri»
parlassero tra loro e col vento delle «eterne risse» che fiottavano, un
tempo, e tempestavano dì e notte nel petto del poeta loro compaesano,
traboccando facilmente nel verso iracondo e sdegnoso.

    Tutto che questo mondo falso adora,
    Col verso audace lo schiaffeggerò:
    Ei mi tese le frodi in su l'aurora,
    A mezzogiorno io le distruggerò.

                                  *
                                 * *

È troppo naturale dunque che alla immagine di questo terribile
schiaffeggiatore non si vada facilmente associando l'altra di un poeta
umorista e anche meno quella di un poeta italicamente faceto. Eppure
l'uno e l'altro noi abbiamo trovato e ammirato più volte leggendo il
Carducci; e giova ricordarlo ora che tutta la sua opera poetica ci sta
dinanzi nel magnifico volume edito dallo Zanichelli.

Il Libro V della «Juvenalia» è unicamente formato di componimenti fra
burleschi e satirici. Dico subito che non vi si manifesta gran fatto
l'originalità del poeta. Qui anche più che nelle liriche giovanili
appare quella disciplina classica, che come ognuno sa, teneva il giovane
studente di Pisa nel suo assoluto predominio. Tutti i nostri migliori
berneschi fanno qui sentire la loro voce; il Berni, s'intende, il
Pistoia, il Burchiello, il Caro, il Lasca; di quest'ultimo specialmente
le reminiscenze fioriscono in copia nei sonetti dalla lunga coda. Chi
confronta quello che è a pag. 173 «Ancora i Poeti», sente per fermo
l'andatura e il tono di certe frasi e perfino certe progressioni e
ripetizioni della famosa invettiva che il Lasca scaraventò contro quel
povero Girolamo Ruscelli autore del famoso Rimario e sfrontato esibitore
di correzioni ai versi e alle prose di Dante e di Boccaccio...

In quasi tutto questo Libro V sentiamo insomma che il poeta giovanissimo
è ancora tutto chiuso entro al periodo della sua «vigilia dell'armi» per
essere consacrato cavaliere dei classici. Il pregio di questi sonetti,
come arte, è tutto in un felice sforzo di assimilazione, così piena e
così intensa, che già dimostrerebbe per sè sola una invidiabile qualità
di scrittore. Il «Marium futurum» potrà anche balenare qua e là in
qualche tocco di vigorosa rappresentazione individuata e realistica, che
il solo studio dei modelli non basterebbe forse a spiegarci. Ma sono
baleni e non altro; e serviranno tutt'al più ai biografi futuri per
divertirsi a fabbricare dei pronostici retrospettivi...

La vita, la piccola vita pisana e universitaria, presenta qualche
figuretta e qualche motivetto che il brioso scolare acciuffa subito e
scarduffa volentieri, col manifesto intento di farne anche un suo tema
di stile e per adoperarvi attorno tutte le fraseologie che egli ha
saputo tesoreggiare saccheggiando a man salva dentro al repertorio dei
berneschi toscani; come pure si vede che anche alle divagazioni facete
dell'austero Parini lo scolaro toscano è andato guardando simpatia e con
profitto.

Vi è inoltre una nota negativa, ma assai significante. In tutti questi
sonetti nessuna reminiscenza giustiana: e si vuol ricordare che eravamo
nel decennio tra il cinquanta e il sessanta; quando cioè le satire del
Giusti avevano raggiunta in Toscana la maggior loro popolarità ed erano
divenute per tutta Italia il verbo civile degli studenti italiani.

                                  *
                                 * *

Ma prima d'uscire dal libro V s'incontra un componimento che è come un
suono nuovo nello strumento satirico carducciano.

    Oggimai che ritornati
    Son di moda e stanchi ed ossa
    E nè pure gl'impiccati
    Son sicuri ne la fossa,
    Anche a voi la requie spiace
    Fra' Giovanni de la Pace?

È il principio del gagliardico inno all'umile frate zoccolante, dal
quale l'arcivescovo di Pisa, e i canonici del duomo disseppellirono,
pare, le ossa nel 1855, con l'idea di dare un nuovo santo al calendario.
Qui, io credo, la satira carducciana lascia per la prima volta le
vecchie pastoie dello stile bernesco e si mette per una via nuova. Nel
grave e quasi liturgico andamento di questi versi ottonari e nella
sequenza delle strofe, hai senza dubbio un sapore di parodia manzoniana
delicata e piena di garbo; hai perfino in quello spunto interrogativo un
richiamo al principio dell'inno «La Risurrezione», che poi ritorna in
certe mosse di esclamazioni sobriamente esultanti, qua e là, nello
svolgersi dell'inno burlesco:

    Era tanto che giacevo!
    È tornato il medio evo!

L'inno al beato Giovanni della Pace significa, in sostanza, il primo
ingresso di Giosuè Carducci nell'umorismo moderno. Una volta entrato, il
poeta procederà con passo risoluto in questa come in tutte le altre
forme della sua arte.

A crearsi uno stile d'umorismo vero e personale io penso che il Carducci
tu anche tratto e quasi obbligato dalla sua indole forte e un po'
rubesta e dalla vita frequentemente battagliera. Come si fa a tuonare e
fulminare continuamente?.... Giova ancora che ogni tanto la ironia
faccia passare nell'aria il lampo della sua spada tagliente: giova
ancora che ogni tanto una forte e schietta risata temperi e fonda
insieme i sentimenti di commiserazione e di sdegno che gonfiano il petto
e investono l'anima di Enotrio combattente.

Così nacque e si formò e si svolse nei suoi vari elementi l'umorismo
lirico di Giosuè Carducci.

                                  *
                                 * *

Arte anche questa nel suo fondo e nella sua forma schiettamente
italiana, e fatta per debellare definitivamente il preconcetto che
l'umorismo debba sempre essere di origine e di fisonomia straniero:
vecchia scempiaggine messa in giro da gente nostra immemore di Dante, di
Cecco Angiolieri, di Nicolò Machiavelli, di Lodovico Ariosto, di
Alessandro Manzoni!

Avvenne, del resto, quello che doveva avvenire. Il Carducci dopo avere
rotto il circolo ristretto entro il quale (forse provvidamente) si erano
contenute per parecchi anni le sue facoltà giovanili, doveva spalancare
tutto il suo animo a tutte le grandi correnti moderne della ispirazione
e della coltura. E come il poeta lirico di Neera e di Febo Apolline,
potè giungere ad essere il poeta di «Carnevale», «Sui campi di Marengo»
«Notte di maggio» e «Alle fonti del Clitumno», nello stesso modo lo
stile bernescamente umoristico dei caudati sonetti pisani a «Bambolone»
e a «Messerino» potè evolversi, ascendere ed affermarsi poderoso nelle
grandi ironie della «Consulta Araldica», dell'«Intermezzo» e della
«Sacra di Enrico quinto».

Lo svolgersi della vita del poeta e il suo partecipare e mescolarsi con
l'azione alle vicende, in vero più tristi che liete, della vita italiana
dopo il 1866, dovevano di necessità eccitare e infervorare questi
spiriti nuovi entrati così impetuosamente nella sua lirica nuova. Il
poeta sentiva il bisogno di nuove armi; e queste quasi gli balzavano in
mano senza ch'egli si desse la briga di cercarle. La satira archilochèa
prorompeva nei giambi dalle punte arroventate, e negli epodi
sfolgoravano le indignazioni sante e feroci: sante anche quando non
movessero sempre da un misurato giudizio, perchè santa era la pietà
della patria e il sogno eroico della sua grandezza che affaticavano il
cuore dolorante del poeta. I diritti della giustizia storica erano e
rimanevano naturalmente inviolabili. Ma è certo, del pari, che quando
l'artista liberava dalla sua mano nervosa la strofa finale del suo canto
«Le nozze del mare» o ci lanciava in faccia dei sonetti come «Heu
pudor!» noi, allora giovani sentivamo che qualche cosa di più
gagliardamente vitale passava, a un tratto, nell'atmosfera d'Italia; e
prima o dopo tutti dovettero sentirlo.

I critici letterari di professione naturalmente non potevano mancare al
loro ufficio; e più d'uno crollò il capo e mormorò: Victor Hugo!...
Certo, anche Victor Hugo dovette contribuire a slargare l'orizzonte
ideale e a eccitare la fantasia del nostro poeta.

Ma questa è stata sempre l'arte e direi quasi il gioco singolare di
Carducci: muovere i primi passi avendo l'aria di uno che immiti; e poi
concludere con l'affermare tanta libertà e tanta potenza propria, che i
suoi primi modelli ne rimanessero oltrepassati o dimenticati.

Ditemi infatti: barattereste voi il libro «Les Châtiments» con una mezza
dozzina delle più potenti liriche ironiche e battagliere che sono in
«Giambi ed Epodi?»

Io, per esempio, no.



A “SFINGE„


Chi siete?

Io conosco la calligrafia che segnò le buone parole nella prima pagina
del libro[1]; e la scrivente mano femminile io sento d'averla più volte
tenuta nelle mie in una stretta amichevole e fors'anche baciata nel
momento d'una cerimoniosa presentazione... Ma perchè non posso io ancora
trarre dal fondo della mia memoria i contorni di una fisonomia da porre
come un bel suggello sopra quella scrittura?

  [1] _Femminismo storico._ Milano, Società Poligrafica.

Dopo le prime inutili fatiche, mi sono detto che probabilmente, leggendo
il libro, mi sarei visto balenare dinanzi all'improvviso il volto
desiderato. E ho cominciata la lettura e l'ho ripresa e sono arrivato
all'ultima pagina. Parecchi profili di donna sono passati sul piano
mobile della mia memoria, mentre procedevo leggendo o negli intervalli;
e il vostro qualche volta mi pareva di essere proprio sul punto di
afferrarlo... Vana fatica! E a lungo andare, tormento psichico!

In una tra le sue novelle giovanili, Ottavio Mirbeau ha descritto
stupendamente il sogno di un buon borghese appassionato pescatore di
lenza. Gli pareva di sedere sulle sponde della Senna, in una piccola
insenatura tranquilla, e d'essere sempre sul punto di pigliare una bella
trota che gli era sfuggita il giorno innanzi.... Il pesce è lì, sotto i
suoi occhi, scherza a fior d'acqua, facendo balenare al sole le squame
d'argento chiazzate di qualche macchiolina sanguigna... Poi s'accosta
all'amo e mostra d'abboccarlo una, due, tre volte; ma al momento
d'alzare la canna, il pesce ha dato un guizzo ed è scomparso nel cupo
fondo del fiume... Il cervello del sognante pescatore passa per tutte le
torture dell'attesa, dell'ansia, della gioia, del dispetto; e finalmente
quel povero cervello è svegliato da nient'altro che da un colpo di
apoplessia!

Questo non sia mai, o mia buona e cortese incognita!.. Io mi consolerò
della ignoranza del vostro volto con la conoscenza del vostro libro. Il
quale, sia che vada per il filo della narrazione storica o preferisca di
spaziare nelle considerazioni dottrinali e nelle polemiche, tocca sempre
di volo e sfiora alla epidermide tutto quello che tratta.

Come va dunque che, essendo gravi gli argomenti di cui discorre questo
vostro libro così leggero, abbia potuto interessarmi tanto alla lettura
e lasciarmi nell'animo una impressione così durevole?

                                  *
                                 * *

La spiegazione di questo piacevole enigma di cui voi siete la vera
«Sfinge» annunziatrice, mi pare abbastanza semplice e piana. Prima di
tutto, se vi è pseudonimo letterario che non vi convenga, e che anzi vi
stia male, parmi precisamente quello che avete prescelto. Non vi è nulla
di sinistro, nulla di enigmatico in voi; e il mitico Edipo non si
sarebbe fermato per voi sulla strada di Tebe. No, la vostra anima di
donna e di gentildonna (sento che il doppio titolo vi spetta) si
manifesta senza ambagi attraverso il vostro libro. Si manifesta intera,
candida, entusiasta, giovanile. È in voi un principio di fantasticheria
romantica che vi porta ad immaginare — forse a desiderare — voi stessa
alquanto diversa da quello che siete. È questo il vostro amabile errore,
che vi comunica ogni tanto certe velleità di singolarizzarvi
nell'audacia e nella ribellione, subitamente domate — forse con vostro
dispiacere — dalle forze sane del vostro temperamento.

E come poi fate bene ad abbandonarvi al suo dominio vittorioso! E se
sapeste, come riuscite più originale, rassegnandovi ad essere sincera!

Voi avete trascelto nella storia un bel gruppo di figure femminili. Non
giurerei che le abbiate tutte studiate molto; ma certamente molto voi le
avete amate, e l'amore ha dato un grande calore di simpatia alla vostra
rappresentazione. Questo io credo il successo vero della vostra arte.

Lo donne voi che avete fatto argomento di un vostro studio sono tutte
notissime; anzi intorno quasi a ognuna di esse esiste una copiosa
letteratura storica. Eppure voi, senza mai addurre nè fatti nè documenti
nuovi, sapete ricondurci ad esse e tenerci piacevolmente fissi e come
incatenati alla loro persona. Perchè?... Isabella d'Este Gonzaga, per
esempio, è bene la stessa grande signora (ammirata dai principi, dipinta
da Tiziano e cantata da Lodovico Ariosto) che della sua bellezza, della
sua cultura e della multiforme sua eleganza e munificenza, signoreggia e
sorride in mezzo al quadro magnifico del nostro Rinascimento. Eppure con
le trenta pagine vostre io sento che a quella bellissima figura voi
avete dato qualche cosa. In che consista precisamente mi sarebbe
difficile il dire a voi e a me stesso. Ma dopo di avere, con vecchie e
recenti letture, intorno alla signora di Mantova raccolti via via e
casellati nella mia memoria tanti aneddoti e tante memorie, è certo che
ho provato per lei un sentimento nuovo e quasi una più viva percezione
storica, vedendo come una donna italiana del nostro tempo può amare
quella principessa italiana del secolo XVI, circondandola d'ammirazione
appassionata e di nobile invidia.

Amo di ripetervelo: la seduzione del vostro libro è specialmente in quel
trasparire così limpido del vostro animo, in quel confidente abbandono
d'ogni vostro sentimento, sincero talvolta fino alla ingenuità.

Della vostra «femminilità» (questa parola, a me antipatica, vi piace
tanto!) voi, donna, avete naturalmente un concetto nobilissimo; ma
appunto per questo, voi sapete abbellirlo di grazia modesta e lo
temperate di rassegnazione. E deve essere così.

Le donne predilette da voi, le vostre eroine, appartengono a categorie
molto disparate; ma furono tutte bellissime o per lo meno furono delle
grandi seduttrici innanzi agli uomini e agli Dei. Voi vi studiate di
mantenere e di accrescere nella storia la loro potenza di seduzione; ma
cercate anche di giustificarla lumeggiandone i lati più nobili; e dove
il vostro spirito buono e retto non vi consente l'ammirazione, voi
ricorrete abilmente agli argomenti della compassione e della pietà. Si
sente insomma che ammirate prima di tutto la loro bellezza; ma voi avete
un altare anche per la bontà morale. Io molto amo, perchè pare uscito
dal più profondo del vostro cuore di donna, quel grido che voi mandate
di mezzo ai ricordi della trionfante perfezione plastica di Giulia
Récamier: «Nella vita umana la bontà non è ancora onorata abbastanza!».

Avrei voluto sentirvi discutere con Ernesto Renan, che era così facondo
e amabile dialogizzatore, quando voleva dimostrare che la piena bellezza
in una donna (e perchè non anche in un uomo?) il mondo civile doveva
valutarla come una virtù.

Forse non vi sareste trovati d'accordo col filosofo, appunto perchè voi
siete una donna....

                                  *
                                 * *

Anche il vostro femminismo, dunque, ritiene del vostro buono e schietto
temperamento di donna equilibrata. Non ha nulla di esorbitante di
teratologico: è una mite autolatria spoglia, per quanto è possibile,
d'egoismo individuale. Voi professate candidamente il culto del «genere»
come altri ha quello della «specie»; ma questo culto voi vi sforzate a
renderlo ragionevole e per nulla intollerante. Si comprende bene che
piuttosto che dar dentro nei rischi delle battaglie emancipatrici con le
improntitudini e con le violenze, voi magari vi rassegnereste alla
onesta e onorata servitù del buon tempo antico... Oh quel buon tempo
antico, che con tutto il suo ferreo genio di prepotenza mascolina, seppe
tessere tante corone e innalzare tanti altari alla visibile e invisibile
bellezza, sento che, in fondo, voi lo amate molto!

Le figure di donne celebri che voi ci recate innanzi una dopo l'altra,
formano, tutte insieme, un bel quadro vivente di rettorica generosa, ove
ogni figura volge a noi una occhiata persuasiva e un gesto insinuante...

Quale amate di più? Difficile arrischiare un giudizio. Io dico che
probabilmente voi le avete amate tutte a un modo di vera passione
nell'ora in cui le stavate, una per una, studiando e vagheggiando. Basta
osservare la cura che mettete intorno a Cleopatra onde far sparire dai
nostri occhi latini il «fatale monstrum» di Orazio e la femmina
«lussuriosa» di Dante, non lasciandoci vedere che la bella Maga
d'Oriente, per la quale la rinunzia all'impero del mondo non fu stimato
sacrificio eccessivo.

La stessa malìa ha esercitato su voi la figura di Giorgio Sand. Era
naturale che la vostra ardente fantasia si lasciasse prendere alla dolce
esca di intervenire nelle amorose peripezie di Aurora Dupin con Alfredo
de Musset, che hanno legato una sì lunga e intricata contesa a due
generazioni.

Quanto alla opinione espressa da voi, io vi dico seriamente che vorrei
fosse la vera. In un dramma di passione come quello, è sempre meno male
che, dei due, chi moralmente ne escì meno malconcia sia stata la donna.

Di quella che comunemente si è convenuto di chiamare «il dramma di
Venezia» voi dunque accettate la versione di Lelia, che è tutta in sua
difesa; e su quello scabroso episodio del medico Pagello, voi, con bella
coerenza, avete delle parole di un ottimismo idilliaco, che paiono prese
dal repertorio di Paolo e Virginia. Voi insomma non dubitate di chiamare
«trasparenti» le confessioni di Giorgio Sand, come se vi avessero
lasciato vedere proprio tutto il fondo e il profondo della sua anima e
della sua vita!...

Vi ripeto che vorrei proprio che aveste ragione. Ma se v'ingannaste? Se,
per esempio, le ultime confessioni (veramente mal consigliate) dello
stesso medico nonagenario, fossero venute a generare per forza qualche
dubbio importuno anche nei più risoluti partigiani di Lelia?...

Dopo tutto poi, non ci sarebbe nulla di sorprendente se gli occhi sereni
di una Sfinge giovane come voi, avessero per un momento spuntato il loro
acume a leggere negli occhi di una Sfinge vecchia come era la Sand;
veramente esperta degli uomini e della vita.

Ma voi avete tanto tempo da rifarvi!



DESDEMONA


Come mai la dolce figliuola di Barbanzio potè innamorarsi del Moro, e
fuggiarsi in casa da lui?

Il vecchio senatore, che avea votata forse una legge d'allora: _Dei
Malefitii et Herbarii_, urlava sulla strada che il Moro gli avea
pervertita la figlia col mezzo di un empio filtro. — Era altrimenti
possibile che una giovinetta così timida, così modesta, che «arrossiva
d'ogni suo movimento e si turbava al suono della propria voce,»
lasciasse la casa paterna, e andasse a buttarsi, svergognata, fra le
braccia di un uomo? Succhi malefici, arti d'inferno! Altro modo di
seduzione non era possibile supporre, per San Marco! Bastava guardare la
faccia del Moro...

A questo colore della faccia d'Othello s'appigliava invece con
sottilissimo accorgimento l'onesto Jago: — Badasse il marito: quella
giovane veneziana, cresciuta fra le più raffinate delicatezze, aveva
scelto per l'appunto lui in mezzo a tanti bei giovani del proprio
colore... lui dal volto nero, dai capelli crespi, dagli occhi
corruscanti e dalle labbra tumide. Non sarebbe per avventura indizio
questo di una qualche occulta perversità del sangue, incitante a gusti
morbosi? Di una propensione inconscia «ad uscire dalla traccia segnata
da natura» ad appetire lo strano, e quindi a svogliarsene rapidamente
dopo il possesso?... Badi il marito; e che dalla gelosia lo scampi il
cielo! —

Così il nobile Moro fu legato per sempre «alla ruota del tormento».

Eppure, dell'innamoramento di Desdemona egli aveva trovata una ragione
molto semplice, sulla quale la sua franca anima di soldato e di barbaro
dolcemente s'adagiava.

— Essa aveva occhi per vedere e scelse me. Il padre, che mi amava, mi
richiedeva spesso, in casa sua, del racconto della mia vita. La bella
Desdemona non batteva palpebra ascoltandomi; e per gli orecchi e per gli
occhi le entrò a poco a poco l'amore; un amore nato da meraviglia per i
tanti casi da me trascorsi, nato da pietà per i miei molti affanni
sofferti. Ecco il filtro, o Barbanzio, e le mie arti infernali. —

Il doge e i senatori ascoltavano nella notte la dolce eloquenza del
Moro, assentendo in silenzio.

Ma nella terribile scena V dell'atto III, dove, ad ogni gesto di Jago,
par di vedere un'aspide guizzare dalle sue mani e avventarsi di celato
al petto d'Othello, il principale argomento della sua fede ecco che
viene abilmente eliminato. Quando Jago se ne va, Othello rimane cupo e
cogitabondo, col suo nero volto dinanzi alla fantasia... il suo nero
volto in cui gli anni cominciano a mettere delle rughe!

La disgrazia del Moro fu di non aver mai conosciuta «la prima radice»
della passione di Desdemona per lui. Le guerre, i viaggi, i mali
sofferti furono solo la cornice, che egli scambiò col quadro. Mancavano
forse in Venezia, la città di Enrico Dandolo e di Marco Polo, uomini
forti e audaci, dalla vita poeticamente avventurosa e per giunta belli e
di bianco colore?

In questa concorrenza Othello sarebbe rimasto facilmente sconfitto, chè
la lotta era ad armi troppo disuguali per lui. Ma altra fu la ragione
occulta dell'amore.

                                  *
                                 * *

Quasi tutte le donne di Shakespeare amano e muoiono, ubbidendo ad un
istinto _ideale_, anzi ad una idea, nel senso che lo Schopenhauer dà a
questa parola. L'amore, ministro infaticabile della Volontà, distrugge
le differenze e gli ostacoli, convertendoli in tramiti d'unione feconda
e fatale. Giulietta ama un nemico, Ofelia ama un principe e un pazzo,
Desdemona subisce in Othello l'infinito prestigio dello «straniero» e si
dà a lui con tanto maggiore abbandono quanto più forti sono gli ostacoli
che la patria, la razza e il colore mettono fra loro due.

Allorchè Othello, dopo essersi difeso dinanzi al Doge e ai senatori,
invoca le testimonianze di lei, essa ricorda al padre i suoi doveri di
figlia obbediente, ma solo per concludere: — Ecco il mio sposo, il mio
signore! — E domanda in grazia al capo della repubblica di potersi
esporre in compagnia del Moro ai rischi del mare e della guerra. Non ha
essa cominciato ad amarlo mentre i suoi racconti glielo dipingevano in
mezzo a quei rischi, variamente sbalestrato dalla fortuna? Lo spirito
della giovane donna anela a vivere per davvero in quel mondo esotico e
fantastico, come un poema orientale, che il volto e le parole dello
straniero hanno saputo così bene suscitare dentro di lei.

Indarno il vecchio Barbanzio lancia un ultimo avvertimento, che suona
tetro come una profezia di sventura. Othello è pieno di fede. Desdemona
nel fondo della sua anima non ascolta più altro linguaggio che quello
antichissimo dell'amore «peregrino» che è stato causa di tante
emigrazioni e di tante fughe...

                                  *
                                 * *

Nella eterna leggenda dell'amore e nel regno della poesia, Desdemona e
Othello hanno antenati famosi. Non poteva essere altrimenti. Lo
«straniero» ebbe in ogni tempo, sopra i sensi della donna, lo ascendente
fortissimo del nuovo, dell'imprevisto, dello sconosciuto e del vago.

Un giovane è sceso nel porto, è entrato nella città: — Chi è egli? donde
viene? dove va? — E l'occhio femminile si attacca curiosamente alla sua
fisonomia. Vi studia l'indole, le passioni, i casi del passato, i
propositi dell'avvenire; scruta, indaga, indovina. Fantastica: come deve
essere bello e generoso avvincere il proprio destino al destino di
quest'uomo! Ed ama. Romeo e Tancredi hanno bisogno d'esser belli per
vincere l'avversione ereditaria di famiglie e di genti in guerra. Lo
«straniero» nel senso antico e leggendario della parola, è quasi
scomparso; il fascino del nuovo e dell'ignoto ora non circonda quasi più
la figura d'un uomo che ci arriva da spiaggie lontane. «Se avviene
(scrive il Thechery) che un italiano o uno spagnuolo o un russo produca,
con la sua aria esotica, una impressione pericolosa sulle signore di un
salotto di Londra, il rimedio non è difficile. Fate in modo che cinque o
sei individui dello stesso paese vi sieno presentati. In poche sere
l'equilibrio sarà ristabilito».

Ricordate l'episodio di Rebecca, sul tramonto, vicino alle porte di
Nachor? E l'episodio omerico di Nausicaa nella lieta isola dei Feaci? La
figlia d'Alcinoo re accoglie Ulisse naufrago e nudo sulla spiaggia, lo
rincora, lo veste e lo conduce sul suo cocchio al padre. Mentre sferza
le rapide mule, essa si augura in segreto che quello «straniero» sia lo
sposo destinatole dagli Dei. Lontanissimi orizzonti dell'amore umano!

                                  *
                                 * *

Una più intima somiglianza, quasi di sorelle, è invece — chi lo
crederebbe a prima vista? — tra la Desdemona del poeta inglese e la
Medea di Apollonio da Rodi.

È sempre in giuoco, lo stesso incantesimo. Giasone tocca i lidi della
Colchide, entra nella reggia di Eeteo, narra le vicende del suo viaggio;
e Medea bellissima figlia del re, la vergine sacerdotessa di Écate,
fredda e sorda fino a quel giorno ad ogni proposta di amore e di nozze,
si sente a un tratto avvolta da una vampa di passione. Che le gioverà
l'essere maestra di filtri e di sortilegi? Il colpo è stato fulmineo e
immedicabile la ferita. — Giasone si alzò dal suo scanno (è il poeta
greco che narra) e s'incamminò fuori del palazzo... La giovinetta lo
seguitava, spingendo gli sguardi obliqui attraverso il suo velo, col
cuore sempre più soggiogato.... Ritirata nelle sue stanze, ella rivolge
in se stessa tutti quei dolci pensieri con cui l'amore commuove
un'anima. Ogni cosa è ancora chiaramente davanti ai suoi occhi: vede la
figura di Giasone e il manto di cui si cuopre e ricorda tutte le sue
parole; ricorda l'elegante contegno col quale sedeva e la sua nobile
andatura mentre usciva dal palazzo. _Intanto la sua anima, dolorando, le
ripeteva che nessun altro uomo era simile a lui._ —

Questa delicatezza d'analisi e questo caldo soffio di passione, dalla
Grecia decadente passeranno presto nel mondo latino e diventeranno
poesia perfetta nel quarto libro dell'_Eneide_.

— O Anna, sorella Anna, chi è mai questo «straniero» venutoci dal mare?
Come è nobile il suo aspetto! Come grandi le sue gesta e pietose le
sventure che egli ci ha raccontate! —

E il debole petto femminile anche una volta sarà espugnato
dall'incantesimo irresistibile; e dopo il delirio beato e breve,
verranno per la donna l'abbandono, la disperazione e la morte.

Poichè bisogna pur confessarlo: nelle epopee e nei drammi lo «straniero»
rappresenta assai spesso l'egoismo mascolino, che raccoglie passando i
fiori e poi li getta e li dimentica... Lo straniero cammina dinanzi a
sè; e la mèta dell'uomo, pur troppo, è posta al di là dell'amore! Bacco,
Giasone, Ulisse, Enea, procedono alla loro mèta fatale, e lasciano le
donne a piangerli dal lido o a maledirli dal rogo.

La dolce Desdemona, non solamente paga intero il suo tributo a questa
idealità imperiosa e spietata, ma ne resta come tutta assorbita ed
annichilita. È la nota più singolare di questa singolarissima creazione
dello Shakespeare.

Dove sono la mente e la volontà di Desdemona? Essa certo le ha possedute
e ha mostrato di saperle adoperare assai bene, fino al limitare del
dramma.

                                  *
                                 * *

Dopo, tutto cangia. La sua volontà pare che svapori e si perda in quella
del Moro, il quale non solamente la domina con la volontà propria, ma la
sostiene e la volta qua e là, su e giù, come una piuma a mezz'aria col
soffio. Mai una resistenza nè un principio di reazione anteriore! S'egli
la percuote brutalmente dinanzi ai gentiluomini veneziani, appena
s'arrischia di piangere e subito dopo è rabbonita: quando egli le
annunzia che l'ucciderà, si contenta di chiedere la vita anche per una
mezz'ora. Othello è in tutto e per tutto «il suo signore».

Anche la mente della donna sembra discesa, a forza di rimanere immota in
un pensiero unico, allo stato di una ingenuità troppo elementare: —
Credi tu, Emilia, che vi sieno al mondo delle donne capaci d'ingannare
il marito?.. — È insomma scomparso affatto quel caldo e vivace
temperamento, che noi travediamo in principio, di una giovane veneziana,
cresciuta nel lusso e nelle eleganze del Rinascimento, amante della
danza e della musica, passionata nell'amore fino a fuggire dalla casa
paterna. Tutto questo ha l'aria di sciogliersi e degenerare in qualche
cosa di troppo lontano e troppo diverso. «Fredda, fredda come la tua
onestà!» geme disperato il Moro, abbracciando il suo bel corpo
inanimato; e in quel grido ci sembra di cogliere la sintesi del suo
carattere trasformato.

Ebbene no: Shakespeare nella giovane sposa di Othello ha vagheggiato un
tipo di delicata perfezione morale ed estetica e lo ha perfettamente
raggiunto.

Desdemona è il tipo delle donne che amano fino alla devozione, non solo,
ma fino alla perfetta abdicazione di sè. La remissione dello spirito e
la rinuncia del volere, che altre donne ottengono per mezzo della pietà
mistica, essa la raggiunse nell'amore, che è in lei monomania profonda e
idolatria serena. Il lato strano ed eteroclito della sua passione per il
Moro, in cui la infernale malvagità di Jago volle far sospettare «un
traviamento del senso», era invece una schietta emancipazione da ogni
sua tirannia. La giovane nel primo atto ha potuto dire al Doge e ai
Senatori: «Guardando Othello io non vidi che la sua anima:» e muore non
credendo nemmeno alla possibilità della colpa di cui è creduta rea.

E Shakespeare come l'ama questo fantasma così puro della sua mente! E
come con tocchi di dolcezza ineffabile par che si studi a compensare
questo carattere di tutto quello che esso gli toglie di vivo e d'umano
agli occhi dei volgari! Le frasi piene di poesia, di tenerezza e
d'ambascia desolata che il poeta fa pronunziare sommessamente a Othello
accanto al letto di lei prima di svegliarla, poi ruggire sopra di lei
dopo che l'ha soffocata, danno l'idea del bisso, degli aromi e dei
balsami preziosi in cui un padre, nei tempi antichi, avrebbe composto
nel sepolcro il corpo di una carissima figliuola.

In questa parte del tragico episodio, Shakespeare è veramente «il vate
dalla lingua di miele» come lo chiamavano i vecchi poeti inglesi suoi
contemporanei: _Sweet Shakespeare_!

Miranda e Titania ci fanno sognare: Giulietta, Ofelia, Cleopatra sono
amate da noi. Si può amare perfino lady Macbeth, se pur dobbiamo credere
a certi poeti della scuola del Baudelaire. Desdemona inspira un divino
sentimento di pietà; come sua sorella Cordelia, come l'Antigone greca.
Nel teatro di Shakespeare, a somiglianza del teatro antico, dietro il
fato che trascina alle orrende catastrofi, si appiatta sempre una Erinni
vendicatrice. Essa risale spesso alle colpe dei padri; ma attua,
comunque, una mistica legge di espiazione; e indi il terrore, che si
leva dal dramma, afferma, comunque, questa mistica legge e avvolge in
una nube fredda e sanguigna l'anima degli spettatori. Il vecchio Lear ha
commessa una stolta ingiustizia come padre e come re: Amleto fu spietato
con la madre, leggero e forse sacrilego verso il confidente amore di
Ofelia, a cui, per giunta, uccise il padre.

Invece nel dramma d'Othello noi cerchiamo invano la colpa. In che hanno
peccato, il Moro così nobile e così leale, Desdemona così amante e così
pura?

Dopo che la donna è spirata e Othello s'è tagliata la gola; dopo che
Cassio e Graziano e Montano e Lodovico e Rodrigo hanno abbandonata
quella stanza, ove non rimangono che due cadaveri — una salma bianca
«come l'alabastro della tomba» e un corpo nero tutto lordo di sangue —
la mente impaurita continua ancora a contemplare la scena e non cessa
dal chiedere: ma perchè?...

Ah povero, povero Moro, tu sei troppo da compiangere, perchè il tuo
delitto ti perseguita anche al di là del sepolcro! Pochi istanti prima
di morire, hai pensato all'orrore che proverà il tuo spirito
incontrandosi con quello della tua donna, _che non sapesti amare_....

Lei almeno consoleranno l'apoteosi della pietà umana e il compianto
immortale. Se crescono i salici lungo i fiumi dell'Eliso, essa, anima
solitaria, vi canterà la sua canzone melanconica e dolce; e, indarno,
dal virgiliano bosco dei mirti, le anime di Saffo e di Fedra, di Isolda
e di Francesca da Rimini la inviteranno ad unirsi a loro, per narrarle i
terrori e le gioie degli amori colpevoli...



NICOLÒ TOMMASEO


È certamente la figura di letterato più curiosa e più bizzarra in quel
lungo periodo nostro che va dal 1820 al 1870; nè vi ha scrittore che
abbia dato a quel tempo una produzione come la sua multiforme e
complessa, difficile a essere abbracciata in una sintesi e stimata al
suo conveniente valore. Dirò di più: nessun altro scrittore io saprei
trovare da mettere al paio con lui in tutta la nostra storia letteraria.
Per la vita agitata e per il temperamento di polemista irascibile e
perfino accattabrighe, potrebbe richiamare qualche nostro umanista dal
XV e XVI secolo: si è tentati di pensare al Filelfo, al Doni, financo,
per certi particolari, a Pietro Aretino; ma subito si è allontanati dal
confronto, come da una brutta ingiustizia, per la gran distanza che ci
corre nella moralità della vita, la quale, si voglia o no, fu sempre nel
Tommaseo altamente rispettabile e, in certi suoi aspetti e in certi
periodi, eroica.

Una cosa parmi certa: se Nicolò Tommaseo fosse nato francese, tedesco e
magari russo, chi sa quanti volumi si sarebbero stampati intorno a lui
uomo e scrittore! In Italia sono dovuti passare dalla sua morte quasi
trent'anni, prima che ci fosse dato di leggere un libro che tratti di
lui largamente e degnamente[2].

  [2] Paolo Prunas. _La Critica, l'Arte e l'Idea sociale di Nicolò
  Tommaseo._ Ed. Bernardo Seeber. Firenze.

E anche questo libro par che porti i segni di una paurosa fatalità.
Certa cosa è che il signor Luigi Prunas ha studiato a fondo il suo
autore e che, fatte le debite parti alla critica, lo ammira molto e lo
ama; ma nel l'affermare il suo giudizio procede sempre dubitoso e
circospetto, con temperamenti e cautele infinite; e dopo che s'è deciso
a fare un passo risoluto verso l'elogio, per chi si senta obbligato a
farne un altro verso il biasimo; e anche quando l'opera intellettuale
del Tommaseo gli si mostra evidentemente poderosa e la sua vita fuor
d'ogni contrasto ammirevole, anche allora il suo biografo pare occupato
a mettere dei sordini sulle corde che dovrebbe vibrare, senza ritegni, a
onore e a gloria di lui. Si direbbe che, scrivendo del fiero dalmato,
egli abbia sempre avuto dinanzi alla mente lo stuolo de' suoi più
terribili avversari. Forse la parrucca arruffata di Pietro Giordani,
forse il cipiglio di Niccolini e di Cattaneo?... Oppure che egli abbia
temuto di risvegliare le ire antiche su quel povero vecchio capo, che
dalla lunga vita travagliosa solamente potè riposare nel piccolo
cimitero di Settignano?...

                                  *
                                 * *

Certo, il Tommaseo non fu amato dai suoi contemporanei. Qualche
bell'anima giovanile, come Alessandro Poerio, potè esaltarsi di lui; ma
intorno gli si mantenne sempre un ferreo cerchio diantipatie e
diffidenze, di rancori più o meno simulati, di odi continuati e
implacabili anche dopo la sua morte. Le ragioni di ciò ho volute
indagarle più volte anch'io, che verso l'uomo e verso lo scrittore mi
sentivo invece sospinto da moti di curiosità affettuosa e da ammirazione
profonda, maturata nello studio della sua vita e degli scritti.

Al tempo della prima _Antologia_, uno dei frequentatori del gabinetto
Viesseux lo aveva chiamato «l'onágro». Il sopranome parve calzante ed
ebbe fortuna. E veramente poteva parere che ci fosse qualche cosa
dell'asino selvatico in questo dalmata permaloso, scontroso, iracondo,
violento, che durò per cinquant'anni a correre attraverso il campo
letterario, nei giornali, nei libri, nei discorsi e nelle lettere
private — talvolta anche senza scuse di provocazione alcuna — buttandosi
addosso a questo e a quello. E talvolta erano nerbate che levavano le
berze, talvolta punture che trapassavano le ossa.

Eccettuati, a mala pena, il Manzoni, il Capponi e il Rosmani, chi
risparmiò egli dei nostri letterati e uomini pubblici? Ugo Foscolo non
si salvò nemmeno con l'esiglio doloroso. Il pertinace avversario aveva
confessato di voler «fare il processo» a tutta la sua vita; e fin oltre
la vita egli prosseguì il suo disegno con la oculata costanza di un
inquisitore spagnuolo e con la inesorabilità di un pedante italiano.
Tutto gli pareva buono da scaraventare sul capo nemico: accuse grosse e
minuscole: offese gravi alla onorabilità della vita e modi orgogliosi
nelle relazioni sociali e ricercatezze nel vestire; il falsato ideale
della lirica paganeggiante e una svista di prosodia latina...

Ugo Foscolo fu splendidamente vendicato da un'articolo di Giuseppe
Mazzini, che anche all'onágro dovette passare la prima pelle. Disse in
fatti di voler rispondere _a quel povero Mazzini_; ma poi non ne fece
nulla, a quanto io ricordo.

Prosseguì invece per la sua strada senza ritegni e senza riguardi, nè
anche alle proprie contradizioni. Il Giordani, il Niccolini, il
Montanelli, il Carrer, il Guerrazzi, Massimo D'Azeglio, re Carlo
Alberto, Camillo Cavour (la lista potrebbe facilmente continuare)
l'ebbero un dopo l'altro, e tutti insieme, assalitore mordacissimo. Di
Giuseppe Giusti, appena morto, non dubitò di scrivere chiamandolo «gamba
di coniglio, cuore di gatto, Stenterello in mutande di Dante». Il
critico francese Planche riceveva dall'italiano una bella lezione di
temperanza! — Col Leopardi passò assolutamente ogni misura nello
acerbità della critica al prosatore e al lirico grande, scordandosi che
da quella «poesia dell'_imperocchè_» egli aveva pur cavato delle belle
immagini e portati via di peso parecchi versi; e neppure si guardò
dall'offendere l'uomo infelicissimo, con epigrammi volgarmente
crudeli... Quando poi si accorgeva che Giacomo Leopardi era veramente
una negazione troppo grossa di mandare giù in un boccone, allora faceva
di peggio; e tirava fuori quella sua prosa di critico capzioso e
sottile, in cui il sostantivo e l'attributo, il verbo e l'avverbio
giocavano tra loro così bene d'altalena, che i lettori arrivavano a non
capire più nulla nè del biasimo nè della lode. E in questo il Tommaseo
fu maestro, pur troppo, assai immitato!

                                  *
                                 * *

Chi volesse difenderlo di tutto questo farebbe opera insana, andando
contro la pia intenzione dello stesso colpevole, che più volte confessò
e pregò di essere perdonato.

Il Prunas cerca le cause: e le trova specialmente nello spirito di
contradizione che fu nel Tommaseo operosissimo; e nel grande suo fervore
religioso, che gli faceva riguardare come nemico del genere umano
chiunque si adoprasse a togliergli o a scemargli il conforto della fede
in una vita meno grama di questa. È vero infatti che quando nelle
polemiche il Tommaseo accenna a dispareri in materia di fede, il suo
linguaggio diviene facilmente concitato; e anche tra le frasi amorevoli
par di sentirvi un tremito d'ira contenuta. Alessandro D'Ancona mi
diceva, scherzando, intorno al 1865: — Se il Tommaseo fosse meno pio e
meno cieco, chi sa quanti di noi piglierebbe a calci! — Certamente nella
sua religiosità egli teneva di Tertulliano e di Calvino piuttosto che di
Francesco di Sales e di Fenelon; e resterà sempre significante il fatto
che solamente ad uomini coi quali sentiva intero l'accordo in materia di
fede (Manzoni, Capponi, Rosmini) egli diede intera la sua amicizia.

Io però sono convinto che a quella facile irritabilità e a quei
frequenti, dissidi un'altra causa debba ricercarsi meno personale
insieme e più profonda: una di quelle cause che, perdendosi nei misteri
della psicologia, bisogna contentarsi d'intravedere o di sentire
vagamente. In una lettera a Giorgio Sand, dandole conto di sè, il
Tommaseo parla della sua madre italiana, della lingua italiana che è la
sua, dell'Italia che adora e della vita tristissima che mena lontano da
lei. E scrive due volte, come in malinconico ritornello: _Mais se ne
suis pes ne' en Italie!_

Forse l'uomo di Sabenico, insistendo su quelle parole, intuiva la
fatalità di una legge atavica che doveva incombere su tutta la sua vita;
e se noi potessimo penetrare tanto addentro, forse troveremmo in quel
suo sangue misto la prima cagione di quella indole sua come turbata da
uno squilibrio saltuario; forse ci spiegheremmo ancora quel non so che
di rotto, di frammentario di eterogeneo, che si sente in tanti suoi
lavori, compreso alcuni di quelli che ei volle più armonici e più
compiuti; e quell'umor suo così rubesto e difficile, sempre pronto ad
alterarsi e a muovere in guerra, anche quando le sue labbra parlavano
d'amore e di pace. Le labbra erano certo sincere, ma esprimevano una
fraternità forse più voluta che rispondente ai segreti istinti delle
origini, nei quali un vero dualismo di razza sempre permaneva; e non
c'era saldatura, per quanto ben martellata, che arrivasse del tutto a
sopprimerlo. Curiosi fenomeni! Alcune fiere affermazioni dogmatiche,
alcune intolleranze, alcuni dispregi per la nostra civiltà che io
leggevo trent'anni addietro nei libri del Tommaseo, m'è parso di
risentirli, sulla stessa intonazione, leggendo gli ultimi libri di Leone
Tolstoi.

Io vedo insomma un lampeggiamento, o se meglio piaccia, un vago
annebbiamento di anima slava su tutta quella fioritura italica dallo
scrittore dalmata.

                                  *
                                 * *

E questo aiuta a spiegare molte cose: tutta quella sua tenerezza
mistica, tutta quella sua sottomissione religiosa unite a così frequenti
ardori di intellettuali e morali ribellioni; quel grande amore
all'Italia e alle sue tradizioni e quel desiderio, in tutto, di forme
nuove e diverse, quasi istinto nostalgico verso una vita diversa altrove
vissuta. Questo aiuta sopratutto a definire tutto il carattere singolare
e solitario del Tommaseo come artista italiano.

Come artista, fu combattuto, deriso e gettato nel dimenticatorio; tanto
che un bravo giovane solo adesso si arrischia a trarlo fuori e non senza
aver l'aria di chiederne scusa; e si contenta che, in grazia, sia
riconosciuto come «immitatore ingegnoso» o come «iniziatore modesto» là
dove l'opera del Tommaseo meritava ben altra lode.

Ora sarebbe tempo, per noi, di fare un bilancio onesto; e spero che
qualcuno presto lo farà.

Nella sua prosa narrativa, per esempio, tra pagine veramente stupende,
non manca la zavorra. Buttiamola pure in mare; e ci vada anche, con la
sua malvagia corte quel _Duca d'Atene_ che egli scrisse nel 1837,
quantunque immune di false immitazioni manzoniane, fra tanto contagio di
immitatori.

Egli aveva scritto nel 1838 e trovò un editore che gli stampò a Venezia,
nel 1840, un breve romanzo di vita contemporanea e di intonazione
schiettamente moderna, salvo qualche arcaismo nella lingua e qualche
toscanesimo ricercato. Era la storia di una bella ragazza italiana,
venuta su orfana e randagia, poi spersa nella gran vita parigina, buona,
debole, insidiata, amorosa e anelante a redimersi per virtù d'amore.
Trova di fatto un giovane italiano, buono e debole anch'esso, il quale,
consapevole di tutto, la sposa; e l'aiuta a vivere pura e a morire
cristianamente. Abbondano nel racconto le scene amorose, non mai
lubriche, ma rese con tocchi sinceri, quindi naturalmente piacevoli...
Bastò perchè anche i nostri lettori del marchese De Sade e gli
ammiratori del Batacchi si levassero contro il romanziere,
scandolezzati!

Fu questo, io credo, un curioso caso di ritorsione (per dirla come i
causidici) e che nella vita reale accade frequentissimo. Raccontate in
società la nuova avventura galante di una persona di mondo; e tutta la
gente bennata si contenterà d'invidiarle e di sorriderne discretamente;
ma se la cosa capita invece ad uomo o donna che professino austerità di
costumi e, Dio guardi, idee e abitudini religiose, allora è un'altra
faccenda; e sorge una gara di maligne meraviglie e di severe condanne.

Questa volta il caso accadeva nel campo dell'arte; e al povero autore,
credente e asceta, nessuna malignità e nessun rimprovero doveva essere
impernato; e fu sentito il bisogno di ricorrere perfino ai grandi motti
di Giovenale per flagellare degnamente una sì grande turpitudine!

Ma il romanzo _Fede e Bellezza_ rimase quello che era: un sincero studio
di passioni e di caratteri, un rispecchiamento, breve ma intenso e
fedele, di vita non immaginaria; e nel suo insieme, per la storia del
romanzo, una anticipazione audace e vittoriosa di una forma appena
albeggiante fuori d'Italia e a noi del tutto ignota.

Adesso parecchie pagine del racconto paiono invecchiate. Ma quanta
umanità in quel piccolo libro e che fonte di calde emozioni e che aroma
di sottile poesia nelle descrizioni di quei luoghi ricordati o abitati,
da quelle acque navigate e da quelle riviere e dalle memorie e dai
pensieri scritti, ove l'anima lasci una parte di sè, e dai dialoghi
improvvisi, ove l'anima improvvisamente si denudò, dall'amore, dal
dolore, dalla morte!

Certo molte cose noi abbiamo letto di Parigi. Emilio Zola ne' suoi
romanzi ce lo ha descritto nei mille suoi aspetti e movimenti; e da
ultimo gli ha dedicato un volume intero; ma quella grande e paurosa
immagine della Babilonia moderna che ci lasciarono poche pagine di _Fede
e Bellezza_ è rimasta dentro di noi incancellabile. Leggete per esempio
la corsa notturna di Maria e Giovanni attraverso la grande città, di
notte, sotto una pioggia invernale.

                                  *
                                 * *

Del resto, in tutti gli scritti del Tommaseo, anche in quelli
d'argomento più arido, guizza sempre qua e là uno spirito di poesia; ed
egli un giorno confidava a Gino Capponi che non riusciva a precisar bene
il limite che separa poesia da prosa. In questa confessione è tutto lo
scrittore.

Ma per giudicare il poeta bisogna cercarlo nel volume delle sue liriche.
Il Prunas merita una lode speciale per il bel capitolo che gli ha
dedicato. Qui sopratutto il Tommaseo si manifesta originale e novatore.
Per poco che il lettore stia attento, scuopre con sua lieta sorpresa che
questo «ragusèo» non creduto degno d'essere accolto nella schiera dei
sacri poeti italici, tra il 1830 e il 1840, cercava e tentava e trovava,
nei temi e nei metri, nelle comprensioni ideali e nelle forme
rappresentative, molte cose che furono poi cercate, tentate e trovate,
magari con maggior merito e certo con miglior fortuna, cinquant'anni
dopo.

Pel Tommaseo la poesia aveva veramente ufficio sacro. Era potenza di
visioni e di emozioni che dovrebbero penetrar tutta la psiche umana
rispecchiando tutte le forme della natura e dello spirito, della scienza
e della storia. Penetrarle quindi e illuminarle; e i suoi confini
dovevano ancora allargarsi coraggiosamente per tutto il mondo umano e
sopra umano. In questo, l'audace sua fantasia poteva dare dei punti agli
ultimi poeti forestieri e nostrani, cercatori infaticabili di forme
nuove.

Malgrado ciò, il volume delle liriche, edito dal Lemonnier, è ancora per
il maggior numero degli italiani colti come un bel cofano prezioso e non
esplorato. Qualcuno vi mise le mani con profitto; Gabriele d'Annunzio,
per esempio, attratto certo dalla singolare modernità dello spirito e
delle forme. Ma è da far noto che sieno più lette in seguito. Gioverebbe
senza dubbio che un uomo di buon gusto e di libero giudizio facesse una
cerna ingegnosa nel grosso e denso volume, togliendo dall'albero i rami
secchi. Allora, io credo, molti domanderanno come mai, accanto a tanti
versi mediocri mantenutisi in fama, questi potessero rimanere così
negletti e dimenticati; e anche la ricerca delle cause di tal fatto
potrà essere fruttuosa per la critica dell'arte e per la vita del nostro
paese.

Non altrimenti gli inglesi ritornarono, dopo mezzo secolo e con l'animo
più intento, alla lettura e allo studio di Perus Shelley; e si accorsero
d'aver lasciato passare, quasi inavvertito, un poeta vero, un poeta per
diritto divino.



ATTALA


Non spicca nella purezza del marmo antico come Antigone, Niobe,
Andromaca e Polissena; non possiede, a grande intervallo, l'idealità
umana di Francesca, di Cordelia, di Mignon, di Tecla; è una figura
indecisa e ondeggiante nei contorni; romantica, in una parola, ancorchè
ricca di vaghezza mistica, di passione e di novità.

Ma il libro porta nell'arte un coefficiente nuovo e importantissimo; e
Sainte-Beuve potè scrivere senza iperbole che con l'_Atala_ (1804) il
visconte di Chateaubriand «inaugurava» la nuova epoca letteraria
francese, che durò poi fiorente e feconda fino al 1850.

Quella figura voi non potete in alcun modo distaccarla dal suo contorno
esotico e bizzarro, perchè l'_ambiente_ comincia ad essere una parte
integrante e non separabile dell'opera d'arte. Levate infatti le sponde
del Mississipì e dell'Ohio, la verde solitudine delle savane, le scene
delle tribù indiane e dei missionari, e che cosa vi resta di Attala? Una
sorella minore di Cimodoce, una neofita ardente in lotta dolorosa fra
l'amore e la fede; troppo raffinata per una selvaggia; un bel fiore
delle grandi praterie portato in Europa dentro una porcellana di Sèvres.

Ma che stupenda intuizione della natura in questo breve racconto; ma che
meravigliosa poesia di paesaggio! Gian Giacomo Rousseau è grande, ma
Chateaubriand è più che un suo profeta. Nei suoi viaggi in America egli
ha avuto dinanzi agli occhi ben altro che i dintorni di Ginevra. E
peregrinando lungo le sponde di quei fiumi, di cui tanto aveva sentito
narrare e favoleggiare, e perdendosi per quelle foreste enormi e
terribili, e ingolfandosi per quelle distese di verde senza confini, un
concetto più vasto e un senso più profondo della natura si era formato
dentro di lui, che poi seppe trovare le parole per significarli e
dipingerli.

Quello che avvolge e penetra questo racconto, e forma il suo più forte
fascino per noi, è la poesia delle grandi solitudini. Non fu sconosciuta
ai poeti classici. Sofocle nel _Filottete_ fa risuonare la deserta isola
di Lemno di voci inspirate da questo sentimento vago, quando l'eroe
ferito e solo parla alle grotte selvagge, ai flutti del mare rompenti
contro gli scogli, al monte Ermeone «che tante volte ha ripercosso gli
urli del suo dolore» che niun uomo vivente poteva ascoltare e consolare.
Virgilio, nella divina sensibilità del suo spirito, mostra d'aver
sentito anche questo aspetto della poesia universale. Ricordate, fra
altri parecchi, quei due suoi versi dell'egloga VI:

    Incipiant sylvæ cum primum surgere, cumque
    Rara per ignotos errent animalia montes,

e massime il secondo, che trasporta a un tratto la fantasia nella
solitudine silenziosa di un mondo primitivo. È la rapida magìa di tutti
i grandi poeti.

                                  *
                                 * *

Quando Daniele De Foë, presa l'idea nuda da un racconto di Alessandro
Selkirk, e forse la primissima ispirazione dalla _Tempesta_ di
Shakespeare, componeva le sue _Avventure di Robinson,_ egli certo non
immaginava che metteva le mani a uno dei libri più avidamente cercati e
letti di cui s'abbia memoria.

Gli è che i tempi si erano maturati e volgevano propizi a questo
speciale genere di poesia.

Da un lato il logoramento delle vecchie mitologie, dall'altro il
dissidio sempre più vivo tra l'uomo moderno e i vecchi ordini sociali,
dovevano spingere, anche sull'arte, una potente azione sovvertitrice. Le
fantasie cercavano il nuovo; l'uomo sentiva sopratutto il bisogno di un
più intimo avvicinamento colla vita universale. I navigatori arditi e
romanzeschi avevano aperto vasti orizzonti a invenzioni narrative in cui
fosse principalmente protagonista l'uomo di fronte alla natura; l'uomo
come cercatore, conquistatore, contemplatore. Il punto culminante poi di
questa idealità nuova doveva essere l'individuo umano solo, non d'altro
armato che del suo volere e della sua mente, in lotta disperata con gli
elementi furiosi e ribelli, con le peripezie inaspettate, coi rischi
dell'ignoto. E in mezzo agli episodi delle lotte e dopo di esse,
scaturiva naturale dall'anima umana la lirica della contemplazione e del
rapimento vittorioso dinanzi a quelle solitudini per la prima volta
esplorate, piene di sorprese e di meraviglie. Di qui il fascino e la
fortuna immensa del libro di Daniele De Foë.

Ma all'irrequieto orangista della prima metà del secolo XVIII, così
acuto nell'osservare ed esatto nel descrivere, mancava una facoltà. Egli
non era artista, non era poeta nel senso eminente della parola. Oh
certo, se il De Foë avesse veduto il suo Robinson nell'isola deserta del
Pacifico, come Sofocle avrà contemplato il suo Filottete sullo scoglio
di Lemno, qualcosa ben altrimenti meravigliosa sarebbe uscita dalla sua
penna! Invece del romanzo avremmo avuto il poema.

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                                 * *

Quel senso poetico che fa difetto nello scrittore inglese, abbonda
invece in Chateaubriand. E notate differenza rispetto a quest'ultimo:
nel descrivere l'azione e la passione umana egli è spesso ricercato e
iperbolico. Per contrario, dinanzi alle grandi scene di paese egli
acquista una castigatezza potente e una precisione mirabile.

Disgraziato l'artista — osservò anche il Gioberti — che si pone a
lottare d'invenzione al cospetto della natura fisica! Egli non ha che da
osservare e da ritrarre; ma osservando e ritraendo mette in giuoco tutte
le sue più riposte e squisite facoltà estetiche. Guardando uno stesso
angolo di viali e lo stesso gruppo d'alberi nel bosco di Fontainebleau —
è l'About che ce lo narra — Alfredo de Musset, Giorgio Sand e Victor
Hugo attingevano tre diversi generi di ispirazione, ognuno bello alla
sua maniera: il guardaboschi intanto calcolava freddamente che dieci
carri di legna si potevano tagliare da quei begli alberi vecchi e che in
quell'angolo di viali c'era spazio adatto per innalzare una bella
catasta.

Lo Chateaubriand è pittore esatto ed è poeta. Nelle forme, nei colori e
nei movimenti della natura egli coglie l'_incognito indistinto_ che
Dante vedeva nell'ingresso del suo Purgatorio. La sinfonia immitativa
della foresta, che Riccardo Wagner ha tentato d'esprimere con tutti gli
strumenti della sua orchestra, lo Chateaubriand l'ha ascoltata prima di
lui, vagando sulle sponde dei fiumi americani: ha sentito cantare
l'anima di quelle selve primitive e ce la rende nei numeri della sua
prosa, in cui erra, come l'eco di un sinfonismo occulto, misterioso,
incantevole... «Quand tous ces fleuves se sont gonfilès des dèluges de
l'hiver; quand les tempètes ont abattu des pans entiers de forètes, les
arbres dèracinès s'assemblent sur les sources. Bientôt la vase les
cemente, les lianes les enchainent et des plantes y prenant racine de
toutes parts, achèvent de consolider cos dèbris. Charriès par la vague
ècumante, ils descendent au Meschacèbè. Le fleuve s'en empare, les
pousse au golfe Mexicain, les èchoue sur des bancs de sable, et accroit
ainsi le nombre de ses embouchures. Par intervalle, il èlève sa voix en
passant sous les monts, et rèpand ses eaux dèbordèes autour des
colonnades des forèts et des pyramides des tombeaux indiens; c'est le
Nil des dèserts. Tandis que le courant du milieu entraine vers la mer
les cadavres des pins et des chènes, on voit sur les deux courants
latèraux remonter, le long des rivages, des iles flottantes des pistias
et des nènuphars, dout les roses jaunes s'èlèvent comme de petits
pavillons. Des serpents verts, des hèrons bleus, des flamants roses, de
jeunes crocodiles s'embarquent passagers sur les vaisseaux de fleurs; et
la colonie, dèployant au vent ses voiles d'or, va aborder endormie dans
quelque anse retirèe du fleuve....»

Qui ogni senso di gonfiezza e prolissità vien meno; esse si tirano in
disparte e lasciano luogo ad una rigorosa e sapiente economia di frasi,
ognuna delle quali ha un valore netto e forte, non solo per sè stessa,
ma anche, e più, per la gradazione mirabile nella composizione del
tutto. Son tanti colpi di pennello guidati, non solo dal gusto del
colore, ma anche, e più, da un senso correttissimo della prospettiva
aerea.

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                                 * *

Talvolta lo scrittore (potrei dire il pittore) sente che le grandi linee
non bastano per rendere la poesia di quegli orizzonti senza confini, di
quelle vegetazioni colossali, di quelle interminabili gamme di suoni e
di colori; e allora egli trova nel vero l'episodio breve,
caratteristico, potente, che anima in un attimo tutta la scena, come una
macchietta i dirupi di Salvator Rosa, e in cui pare che tutta la vita
del paesaggio palpiti, si condensi, si riassuma. «...On voit dans ces
prairies sans bornes errer à l'aventure des troupeaux de trois ou quatre
mille buffles sauvages. Quelquefois un bison chargè d'annèes, fendant
les flots à la nage, se vient coucher parmi des hautes herbes, dans une
ile da Meschacèbè. A son front ornè de deux croissants à sa barbe
antique et limoneuse vous le prendriez pour le Dieu du fleuve, qui jette
un oeil satisfait sur la grandeur de ses ondes et la sauvage abondance
de ses rives...

«...De l'extremitè des avenues on aperçoit des ours enivrès de raisins,
qui chancellent sur les branches des ormeaux; des cariboux se baignent
dant un lac... des colibris ètincellent sur le jasmin des Florides, et
des serpents oiseleurs sifflent suspendus aux dômes des bois en s'y
balançant comme des lianes...»

Si potrebbero citare, e credo con gusto squisito di chi legge, delle
lunghe pagine maravigliose. Chi ha mai descritto meglio la terribilità
di un uragano, squassante e ruinante traverso le foreste della Luigiana?
Chi gli incanti e la tenerezza melanconica d'un plenilunio sul silenzio
verde d'una interminabile _savana?_

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                                 * *

Il dramma umano, lo ripeto, riesce in questo racconto soprafatto dalle
bellezze del paesaggio. Come è prolisso predicatore e fiacco ragionatore
quel buon padre Aubry! Leggete il lungo discorso nel quale, dinanzi alla
triste solennità della morte, cerca di persuadere ai fidanzati la
rassegnazione e il distacco da tutte le cose terrene. Può darsi
benissimo che il Manzoni se lo sia ricordato mentre metteva in bocca a
fra Cristoforo quelle ultime sue parole di ammonimento e di congedo a
Renzo e Lucia sulla soglia del Lazzaretto; ma che divario tra
l'eloquenza del cappuccino lombardo e quella del missionario francese!
Fra Cristoforo tocca della fugacità dell'amore con una delicatezza di
pessimismo cristiano, ineffabile; il padre Aubry prepara frasi ed enfasi
al futuro predicozzo del padre d'Armando nella _Dame aux camèlias._

Dei tre caratteri il meglio scolpito è quello di Ciactas. Questo
selvaggio che i casi della vita hanno portato in Europa; che ha visto
Versailles e Luigi XIV; che ha assistito alle tragedie di Racine; che ha
ascoltato le orazioni funebri di Bossuet, ma serba invincibile la
nostalgia delle sue foreste, e riprende la vita nomade e si mantiene
indiano e pagano fino alla cieca decrepitezza, parmi che mostri
nell'artefice che l'ha ideato e messo in azione, una facoltà addirittura
d'ordine superiore.

Alcuni tratti hanno, direi quasi dello shakespeariano. Attala è presso a
spirare e il prete le sta amministrando i sacramenti. Il giovane
selvaggio guarda muto, accorato e attonito a quegli apparecchi d'una
liturgica misteriosa; ma quando vede splendere le ampolle dell'olio
santo, rompe a un tratto il silenzio: «Mon père, cè remède rendrat-il la
vie à Attala?...»

E anche la povera Attala, se troppo spesso non la possiamo ammirare,
l'amiamo sempre in questo racconto e la ricordiamo con mesta dolcezza.
L'amiamo come un leggiadro e doloroso ideale femminino animante quel
paesaggio meraviglioso.

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                                 * *

Il suo funerale è una scena d'alta e pietosa poesia, che, una volta
letta, non si dimentica.

«La lune preta son flambeau à cette veillèe funèbre. Elle se leva au
milieu de la nuit, comme une blanche vestale qui vient pleurer sur le
cercueil d'une compagne. Bientôt elle rèpandit dans les bois ce grand
sècret de melancolie qu'elle aime à raconter aux vieux chènes et aux
rivages antiques des mers.» — O Lamartine, che cosa saprai tu dire di
meglio nella sonante melopea delle tue _Meditazioni_?

Mentre il bel corpo d'Attala è ricoperto dalla terra che vi lasciano
cader sopra le mani tremanti di Ciactas, anche il tipo della fanciulla
ci pare che ondeggi, si perda e svapori nel folto delle boscaglie, nel
verde delle praterie. Si lascia dietro un tenue vapore d'incenso; e
segue a suonare per l'aria d'intorno a noi il versetto di Giobbe, che il
vecchio missionario, rimasto solo, ricordando la bella e infelice
indiana, mormorava di notte alla grande foresta:

«Io sono passata come un fiore; io mi sono inaridita come l'erba dei
campi».



MIGNON


A chi legge il _Guglielmo Meister_ pare d'accorgersi che il Goethe
declina un poco. Già intorno alla sua grande figura incomincia a farsi
una solitudine triste. Federico Schiller è morto fin dal 1805; lo Herder
lo precedè di due anni nel sepolcro; il Wieland, il vecchio Wieland
nella cui anima serena il Goethe lietamente specchiava un aspetto
dell'anima sua, è morto egli pure. Anche la madre, anche la buona
Marianna da un pezzo lo hanno abbandonato. Ed egli ha ragione d'intonare
quel mestissimo canto posto innanzi alla seconda parte del _Faust_:

    L'anime a cui volgea di amor parole
    Udir più non mi ponno!...

Gli avvenimenti pubblici volgono pure infausti al poeta. Ha sentito
tuonare il cannone di Iena; ha visti dalla sua finestra a Weimar i
reggimenti prussiani in fuga; indi a poco i soldati francesi gli entrano
in casa, un po' ammiratori, un po' insolenti, e lo costringono a bere e
far brindisi.

È vero che ha poi la consolazione, durante il congresso di Erfurt, di
sentirsi dire da Napoleone: _Vous, monsieur Goethe, vous êtes un homme!_
Ma è probabile che questo egli lo sapesse anche avanti. Nella parte più
intima della vita gli cominciano pure i guai. L'amore al poeta
sessagenario non è più un facile e glorioso trastullo; e le belle
cominciano a non risparmiargli «l'ingrata verità» che ripetevano ad
Anacreonte e al Parini; mentr'egli non è sempre disposto ad accoglierla,
questa verità, colla gaiezza bacchica del primo e colla filosofia
rassegnata del secondo. (Vedi a questo proposito la storiella della sua
passione con Minna Herzlieb).

Insomma, anche per l'olimpico Goethe la vecchiaia è alle porte.

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                                 * *

Nel _Wilhelm Meister_, un romanzo che sulle prime ha il fare del _Gil
Blas_, ma poi prende un po' troppo le forme dei racconti sentimentali
allora in voga, le avventure e gli accidenti inaspettati si accumulano e
si succedono di soverchio. Le divagazioni e le disertazioni critiche sul
teatro sono sempre belle ed elevate (basterebbe per tutte l'analisi
dell'_Amleto_), ma raffreddano l'azione.

Si va innanzi un poco tastando e sonnecchiando. Quando ecco un soffio di
vera poesia giovanile passa a un tratto per l'anima del Goethe ed egli
ritorna a scrivere, direbbe il Leopardi, «con quel suo cuore d'una
volta.» Esce la figura di Mignon.

Mignon è sorella minore di Dorotea, di Clara e di Margherita; ha l'aria
di famiglia; riconoscibile, non tanto per la intima ricerca delle cause,
che sono sempre molto oscure, quanto per gli effetti che vi lascia
nell'animo. Appena il poeta vi ha delineata a pochi tratti la sua
«giovane e mesta figura,» essa vi domina: non la dimenticate più,
l'aspettate, la cercate ansiosamente per i meandri del racconto, e
quando compare, vi fa sempre l'effetto di un bel raggio di sole che al
tramonto di una piovosa giornata di primavera entri di improvviso nella
vostra stanza.

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                                 * *

Una mattina Guglielmo ode nella via una strana e bella voce infantile
che canta, accompagnata da una chitarra:

«Conosci tu la regione dove i cedri fioriscono?

«Fra il cupo fogliame brillano i frutti dorati; un vento dolce spira dal
cielo azzurro; il mirto modesto sorge vicino al lauro superbo... La
conosci tu?

«Là, là, o amor mio, io vorrei andar con te!

«Conosci tu la casa? Il suo tetto è sostenuto da colonne, la sala
luccica, le stanze splendono e le figure di marmo si alzano e mi
guardano: «Che vi hanno fatto, povera figliuola?»

«La conosci tu?

. . . . . . . . . . . . . .

«Conosci tu la montagna e il suo sentiero tra le nubi? La mula cerca la
strada fra la nebbia; nelle caverne dimora l'antica stirpe dei draghi;
il masso precipita e dietro ad esso il torrente.

«La conosci tu?

«Quella, quella è la nostra via: o padre mio, partiamo!»

Poco dopo Mignon entra nella stanza di Wilhelm, gli ripete la sua
canzone, resta un poco silenziosa e guardandolo fissamente gli dice:

«Conosci tu quella regione?

— Dovrebbe essere l'Italia, risponde Wilhelm. Dov'hai imparato questo
canto?

— L'Italia! — ripete Mignon con aria pensosa. — Se tu vai in Italia mi
prenderai con te. Qui ho freddo!

— Sei tu stata mai in quel paese!»

La fanciulla a questa domanda rimane muta e fantastica.

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                                 * *

Se il signor Thomas, che pure ha scritto su questo argomento un
melodramma pieno di finezze poetiche, avesse penetrata davvero la
profonda significazione psicologica che ha quel canto in bocca a Mignon,
non si sarebbe mai arrischiato ad innestarlo in un duetto come risposta
della fanciulla alle domande che il cavaliere le fa sulla sua origine
misteriosa.

Egli ne ha cavato un bellissimo partito per il pezzo musicale; ma la
vera poesia del cauto di Mignon per due terzi almeno va in fumo. La
lirica si converte in dialogo, il rapimento solitario e fantastico
dell'anima della fanciulla scende a far l'ufficio di _botta e
risposta_....

Ah! se i nostri maestri, non eccettuati i migliori, prima d'affrontare i
grandi soggetti della poesia e imprigionarli nelle scene deformanti di
un _libretto_, pensassero un poco di più, ci sarebbe, a dir vero, un
tanto di guadagnato per la poesia e per la musica.

Ignoro se la canzone della piccola _boema_, così com'è nella sua purezza
lirica, abbia tentato qualche grande compositore di musica in Germania,
oltre il Beethoven. Certo lo Schubert l'avrebbe rivestita d'una melodia
soave e lo Schumann d'una melopea profonda.

Il Goethe intanto ha fornito ai maestri passati e futuri delle
«didascaliche» preziose:

«Mignon cominciava ogni strofa pomposamente, solennemente, come per
preparare l'attenzione a qualcosa di straordinario. Al terzo verso il
canto diveniva più sordo e più grave. Quelle parole: _La conosci tu?_
erano espresse con riserva, con mistero.

«Il «là, là» era pieno di desiderio irresistibile. Ogni volta ella
sapeva mutare così il tono delle ultime parole: «Vorrei andarci con te!»
che esse erano via via supplichevoli, insistenti, piene di trasporto e
di ricche promesse.»

                                  *
                                 * *

I pittori hanno tentato più volte di rendere in fattezze visibili questa
strana figura, che il poeta ci mostra sempre in una penombra vaga. Il
quadro di Ary-Scheffer, se non è il migliore, è certo il più celebre e
il più noto per la bella incisione. Ma della Mignon, come della
Margherita del pittore francese, giudicava, parmi, colla sua solita
arguzia profonda Enrico Heine: _C'est bien la figure de Wolfang Goethe;
mais elle a lu tout Frédéric Schiller; elle est beaucoup plus
sentimentale que naïve, elle a plus d'idéalité pesante que de grâce
facile._

La _grazia facile_, ecco la suprema difficoltà di questi concepimenti
artistici. Un punto, un segno, un nonnulla in più o in meno, sconvolge
il loro leggerissimo organismo; e il capolavoro discende dalla sua
guglia altissima nel piano nobile dei lavori ben fatti. Lo provò anche
il Walter Scott, che volle ripresentare in pubblico questo tipo
goethiano, alquanto ritoccato dalle sue mani, e lo guastò, e meritò che
il Goethe si burlasse un poco di lui nelle sue conversazioni
coll'Eckermann.

                                  *
                                 * *

Chi ha insegnato a Mignon la sua canzone? Chi ha insegnato il suo
gorgheggio al passero del bosco? In fondo all'anima la fanciulla ha
serbato un ricordo della sua terra natale; meglio che un ricordo è un
senso tenue, confuso, evanescente nei primi crepuscoli della memoria.
Eppure, di là da quel fondo oscuro, di tanto in tanto le sale al
cervello come un vapore caldo e profumato, mentre che il corpo gracile e
flessuoso trema di freddo e i suoi occhi si fauno sempre più profondi e
mesti, sotto il cielo straniero. In quel fantasma di caldo e di profumo
essa sente la sua prima patria; e allora una tristezza nostalgica invade
tutto quanto il suo essere e si sfoga nel canto. Le cose che essa
ricorda nel canto esistono davvero, o sono il ricordo di un sogno che
accarezzò il suo sonno infantile? Essa ignora.

A un tratto sopraggiunge l'amore, un amore strano come tutto l'essere
suo, la sua origine, il suo nome; un amore che anche prima d'avere
coscienza di sè diviene gelosia spasimante e terribile...

La fanciulla innocente pensa: che gioia vivere una notte accanto a Lui,
giacere nel suo stesso letto, stringerselo tacitamente sul cuore, essere
stretta da lui fino a perderne il respiro!... Detto fatto: essa decide
che entrerà non vista nella stanza di Guglielmo prima di lui e
l'aspetterà nel suo letto... Ma mentre sta per portare ad effetto il suo
disegno essa vede un'altra donna entrare di traforo prima di lei in
quella camera...

Insuperato, divino scultore d'anime Volfango Goethe! Egli nel ritrarre
le passioni e i caratteri possiede il segreto di quella perfezione
semplice e monumentale che ammiriamo nei bassorilievi di Fidia. Per
questo i suoi tipi non invecchiano mai e ci restano nella mente come
altrettante figure da pantheon.

In questa semplice limpidezza della linea sovrana, oso affermare che
egli passa talvolta innanzi a tutti i moderni. È davvero il poeta «dal
nero occhio lucente» come ce lo scolpisce lo Heine; un occhio nero e
lucente che penetra nelle più gelose intimità degli spiriti e ne trae
fuori l'immagine pura e compiuta.

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                                 * *

Ricordate la morte di Goetz di Berlichingen?

Ricordate, nell'_Egmont_, l'ultima scena di Clara col giovane
Brackenburg? E la passeggiata notturna d'Arminio con Dorotea, la
ricordate?

      ..... Tra foglia e foglia
    La luna con la sua tremola luce
    I giovani adocchiava, infin che tutta
    Si celò nelle nubi ed allo scuro
    Lasciò la coppia. Sostenea con cura
    Il robusto garzon la giovinetta
    Tutta china su lui; ma della scesa
    E dei gradini mal esperta, il piede
    Dorotea pose in fallo e sdrucciolò.
    Pronto il giovin si volse e, steso il braccio,
    Con vigor la sorresse; e dolcemente
    La giovinetta sul petto gli cadde.
    Seno a sen, guancia a guancia allor s'uniro...
    Ma pari a marmo effigiato, Arminio
    Nel suo ferreo voler rimase immoto.
      ..... La bella persona
    Fra le braccia sentia, sentia vicino
    Il tepor di quel cuore; egli respira
    Il respiro di lei..... Ma della donna
    La dignità magnanimo rispetta.

E sempre la stessa semplicità scultoria e sempre il medesimo sentimento
sano e profondo della vita; e trova parole che sa pensare più che non
dicano.

                                  *
                                 * *

E questo è il grande magistero. Emilio Zola, nel pianterreno del
_Voltaire_, confessò che gli manca il senso _ad hoc_ per capire tante
bellezze fantastiche in Shakespeare. Ed io ci credo; e penso che se gli
si presentasse occasione di giudicare sul teatro il Goethe, colla sua
lodevole schiettezza, farebbe la medesima confessione. Gli è che oggi
nei romanzi si fa di molta fisiologia e patologia a braccia; e invece si
studia poco ciò che più importerebbe; lo spirito umano nella sua ingenua
e profonda verità. Si spendono venti pagine a fotografare un mercato, a
descrivere una stamberga, a _vivisezionare_ il carattere di un portiere,
a dipingere le mosse, il vestito e le abitudini di una _cocotte_; ma
quando si è al dramma vivo e profondo dello spirito, spesso si tira via
di maniera.

Però vedete quel che accade. Dei romanzi oggi più in voga quello che più
resta in mente, dopo la lettura, sono i luoghi dove i fatti si svolgono;
i personaggi poco si staccano dal fondo e presto si confondono e sfumano
nella memoria.

Invece Mignon, parcamente tratteggiata dal Goethe, rimane un tipo
indimenticabile. Anche molti anni dopo letto il romanzo, alla più
piccola occasione che ve la richiami, la ripensate con amore, vorreste
fare con lei una conoscenza più intima e per poco non vi vengono alle
labbra le parole di Guglielmo: — Dove sei stata sinora? Raccontami
tutto.... Tentiamo, se è possibile, di farci illusione e riguadagniamo
il tempo perduto dall'amore! —



SILVIO PELLICO


Quando si ricominciò in Italia a parlare di Silvio Pellico, a proposito
del centenario della sua nascita che la città di Saluzzo si
apparecchiava a celebrare degnamente, quanta parte di lui era ancora ben
viva nella coscienza civile e nella cultura letteraria del popolo
italiano? Sono scabrose le indagini e mal sicuri i calcoli su questa
materia, tanto soggetta al giuoco ingannevole delle apparenze! V'hanno
autori dei quali si continua a parlare e a scrivere con frequenza mentre
si potrebbe scommettere che i loro volumi non escono più che assai di
rado, se pure escono, dagli scaffali delle biblioteche: d'altri autori
invece si tace quasi affatto, mentre i loro libri, continuano ad avere
lettori numerosi per ogni dove; e potrebbero assomigliarsi ad acque
scorrenti per una pianura in silenzio.

Quando nel 1827, o in quel torno, si divulgò la voce per tutta Italia
che il povero Pellico aveva dovuto soccombere agli affanni e ai disagi
del carcere austriaco, un poeta pietosamente cantò:

    Pace, o morente! Agl'itali
    La tua memoria è pianto.
    Caggia quel dì dai secoli,
    Quel dì che Italia al santo
    Cenere teco non plori,
    Nè la memoria onori
    Di chi per lei morì.

Com'era falsa allora la nuova della morte, vero invece e universalmente
sentito dovette essere l'accento di quella apostrofe vaticinante la
gloria futura del poeta saluzzese, che adesso suonerebbe alquanto
stonata e iperbolica.

Quanti cambiamenti, d'allora in poi, nelle opinioni e nel gusto del
pubblico italiano! Ma non credo che s'abbia esempio, rimanendo nei
limiti del secolo XIX, di una fortuna letteraria più rapidamente
declinata di quella di Silvio Pellico. Perchè? Non solamente il fatto si
spiega, ma parmi ancora che molte ragioni congeneri si uniscano a prova
a renderlo abbastanza chiaro.


I.

Anzi tutto l'opera letteraria di Silvio Pellico non solo non rispose
alle speranze, ma riuscì di gran lunga minore di esse.

L'Italia aveva ragione d'aspettarsi moltissimo da chi, non uscito ancora
dalla prima giovinezza, aveva già composto la _Francesca_, l'_Eufemio_,
la _Laodomia_. Quest'ultima, come è noto, venne soppressa dall'autore
malgrado le lodi del Foscolo; ma le lodi vengono da tale giudice che
spunta naturale il rammarico per quella soppressione, e spunta insieme
il dubbio che Silvio Pellico, mandandola ad effetto, non abbia commesso
un grave torto verso l'opera propria. Chi sa! Allora la sua mente era
tutta volta all'ideale romantico che sorgeva e accennava a trionfare in
Italia; e forse gli piacque di offrire alla nuova scuola la ecatombe di
questa tragedia di classico argomento, al quale è probabile che gli
amici non avessero fatto troppo buon viso. Chiunque bazzichi nel mondo
letterario sa quanto peso abbia per ogni chiesuola, massime se giovane e
fervente, la scelta dei soggetti. Meglio per loro, a occhi chiusi,
meglio cento volte la _Francesca_! E il sacrifizio della greca
_Laodomia_ fu consumato. Pel Foscolo intanto, che subito alle prime
scene dice di aver pianto di commozione, essa dimostrava nel Pellico
«un'anima alta, un cuore ardente, un'immaginazione abbondante ed un
ingegno insomma che fa sperare moltissimo, appunto perchè sbaglia per
troppo ingegno e per ardita imprudenza». E soggiunge nella lettera: «Ti
dirò che tu ti mostri poeta anche a chi non vedesse fuor che soli certi
bei versi di questa tragedia».

Ma qualunque fosse il valore oggettivo di questo giudizio dell'autore
dell'_Aiace_, certo è che la figura di Silvio Pellico in quel primo
periodo della sua vita letteraria si presenta piena di fulgidissime
promesse. Tutti lo riconoscono e lo sentono predestinato a cose
veramente grandi; e grande e libero è l'orizzonte che si schiude dinanzi
a lui.

Un bisogno vago, inquieto e potente di novità intellettuali e letterarie
cominciava a fermentare anche in Italia; e Milano era, anche in questo,
a capo d'Italia. La Stendhal scriveva allora, con una delle sue solite
iperboli da innamorato, che spesso dentro a palchetto del teatro della
Scala si riuniva più forza di pensiero e movimento d'idee che in una
grande capitale d'Europa.

Casa Porro era il centro della cultura milanese; e qui Silvio Pellico
conversava con madama di Stäel, con l'Hobhouse, con uno degli Schlegel,
dissertando, infiammandosi per le idee nuove. Giorgio Byron lo
accarezzava e gli voltava in inglese la _Francesca da Rimini_. — Poi
viene l'impresa del _Conciliatore_; e Pellico, malgrado la giovinezza e
l'animo remissivo e modesto, vi campeggia dentro e quasi vi comanda
d'autorità. Lo stesso Lodovico di Breme l'«inspirato» di quel cenacolo,
è pieno di rispetto per il giovine saluzzese; e Borsieri, Camillo Ugoni,
Giovanni Berchet, Giovita Scalvini, Giuseppe Pecchio, perfino il
Romagnosi, perfino Alessandro Manzoni paiono delle figure secondarie
vicino a lui....

Una lettera del Maroncelli annunziante il prossimo ingresso di Silvio
nella Carboneria e intercettata dall'Austria, ruppe a un tratto e
tragicamente questo bellissimo periodo di preparazione e di promesse.
Silvio Pellico si vide piombato in uno di quei lunghi e duri cimenti
dove le anime umane sono messe a prova difficilissima e decisiva.

È inutile sottilizzare; la prova fu più forte dell'animo. Il triste
fatto bisogna accettarlo e riconoscerlo: ma quale esso fu, includendovi
tutti i suoi coefficienti, senza restrizioni sofistiche, senza
spiegazioni arbitrarie. Alcuni, per esempio, hanno voluto di questo
relativo smarrimento o infiacchimento dello spirito di Silvio Pellico
dare colpa alla sua pietà religiosa, come se non bastasse l'esempio del
Manzoni a provare quanto vi sia di avventato in questo giudizio. No, la
causa fu generica insieme e complessa. I Piombi di Venezia e le
casematte dello Spielberg non furono che il teatro doloroso in cui tutto
un fascio di energie morali e fisiche s'andò logorando e disfacendo. La
natura umana ha questo veramente di nobile e di resistente, che, in
qualunque più misera condizione cada, essa può sempre mettere in salvo
la propria dignità morale presidiata dalla rettitudine degli
intendimenti. E il povero Silvio n'è una prova e noi in quella sua
paziente mansuetudine siamo obbligati a vedere un carattere di
grandezza, che sta da sè, che non abbisogna di altri aiuti, che non teme
di nessun altro confronto, che infine trova in sè stessa un compenso e
quasi un guadagno di fronte a tutte le altre sue grandissime perdite. Ma
dopo che questo abbiamo ben volentieri riconosciuto, rimane anche da
riconoscere un fatto evidente; e questo è che la personalità letteraria
del Pellico restò colpita nel momento felice della propria formazione; e
tanto mortalmente rimase colpita che riuscirono poi vani tutti gli
sforzi per farla riavere.

_Silvio non è più!_.... Con questo grido finisce la lirica per la
creduta morte da me citata più sopra; e diceva, in un senso, il triste
vero. Quel Silvio, che la gioventù lombarda e romagnola avevano salutato
come il giovine principe di una letteratura nuova; l'Euforione fortunato
che, un momento, parve destinato a rappresentare nelle lettere italiche
le armonie dell'antica e della moderna bellezza, ecco che, appena tocco
il suolo, veniva rapito dalle inimiche potenze e andava a spegnersi in
un tetro emisfero di sconforto di fiacchezza e di umile abbandono.

Ma chi voglia, andando un pò terra terra, studiare le vere cause del
fatto credo che molto debba soffermarsi a considerare la educazione
letteraria di Silvio Pellico, la quale fu incoerente, debole,
incompiuta. Qui forse è il punto vitale della dimostrazione. Terenzio
Mamiani scrivendo di Alessandro Manzoni dopo la sua morte, disse già che
il vero stato civile della sua lingua e del suo stile italiano bisognava
andare a cercarlo, piuttosto che alle anagrafi di Firenze, a quelle di
Parigi. Vero anche questo; ma io, guardando agli effetti che ne
seguirono, non mi sento il coraggio di sentenziare che quello fu proprio
un male o solamente un male. Certo è che il Manzoni, andato giovinetto a
Parigi, si trovò subito in compagnia di uomini d'alto ingegno e di un
gusto nelle lettere più castigato e severo che i tempi non
comportassero. Con la guida specialmente del Fauriel, egli bevve alle
fonti più pure della prosa e della lirica francese e neolatina; poi
aggiunse di proprio uno studio così serio e così perseverante della
italianità che nello scrittore le ragioni dello stile nazionale rimasero
sostanzialmente incolumi, mentre il suo contatto coi più grandi modelli
della letteratura francese non era senza grandi vantaggi. I puristi
strepitarono allora e non tacciono anche adesso; ma io seguito a credere
che al Manzoni, e per conseguenza a tutta la letteratura italiana, quel
contatto e quella fusione furono assai più di giovamento che di danno.

Il buon Pellico invece, stabilitosi anch'egli giovanissimo a Marsiglia,
nella città mercantile, in un ambiente di mediocrità, si volse tutto
alla letteratura francese, deliberato a farne la professione della sua
vita; e per sua maggior disgrazia trovò i maestri e i modelli in quella
compassata e gonfia e vuota poesia del primo Impero, che meritò i severi
giudizi di Sainte-Beuve.

Troppo francese adunque, e francese della peggior fatta, fu la
educazione letteraria di Silvio. Arrivò è vero il carme foscoliano _I
Sepolcri_ a scuoterlo, a infiammarlo, a dargli una specie di febbre
nostalgica della letteratura della sua patria, alla quale ritornò quindi
con tutte le forze dell'animo; ma una evoluzione letteraria, e di tanto
peso, non era facile a compiere, come, ahimè, una evoluzione politica! A
Milano Silvio Pellico insegnò francese e giova credere che studiasse
l'italiano. Ma gli uomini e i fatti lo traevano come in un vortice; e
non credo che egli trovasse mai il tempo tranquillo che gli abbisognava
per compiere il «salutare lavacro» e uscirne veramente «rinnovellato».
In sostanza, agitandosi con ardor giovanile tra il Monti e il Foscolo,
tra classici e romantici, tra letteratura e politica, egli scavizzolò
alla meglio una forma letteraria che non era più francese ma che certo
non poteva dirsi vigorosamente italiana; e spinto dalla necessità di
fare, mise fuori i suoi primi componimenti, tra i quali la _Francesca_,
che «non ebbe dai giornali milanesi fuorchè vituperii». Per fortuna il
pubblico non badò che alla geniale e giovanile anima di poeta che
traboccava da ogni scena e quasi da ogni verso della nova tragedia
d'amore, rendendo scusabili e amabili persino i difetti suoi.


II.

Sulla _Francesca da Rimini_ fermiamoci un poco perchè rappresenta il
momento aureo della vita del poeta. Gli applausi, le lagrime e la
grandissima fortuna teatrale non hanno impedito l'ufficio della critica
su questa tragedia fin dall'origine; e credo anzi che abbiano piuttosto
contribuito a renderla severa. Esaminato il canto dantesco, Francesco De
Sanctis conclude: «Quando io penso a Silvio Pellico, non so persuadermi
come tante sfumature, tante finezze e delicatezze di sentimenti gli
siano potute sfuggire, e come gli sia uscita dalla penna una Francesca
tutta di un pezzo e di una fattura così grossolana».

Questa sentenza del De Sanctis viene dopo una investigazione del tipo di
Francesca come si formò e visse nella visione ideale di Dante; e nella
terribilità di quell'immediato confronto troppo si spiega la severità
del giudizio. Già all'audace giovane saluzzese aveva ammonito il
Foscolo: — Lascia stare i morti di Dante; farebbero paura ai vivi! — Ma
messo in disparte Dante, dal quale in sostanza nulla di essenziale prese
il Pellico, tranne la reminiscenza del «libro galeotto» goffamente
spostandola e più goffamente ancora intercalando, fra i suoi, due versi
del canto V, contentiamoci di considerare la _Francesca_ nella linea
storica del nostro teatro tragico. Qui si comprenderanno anche i pregi
del lavoro e si avrà la spiegazione della costante fortuna che ebbe e
che non gli è ancora del tutto cessata dinanzi al pubblico.

Chi legge, non più l'Alfieri, ma le tragedie degli imitatori che in quel
tempo pullulavano e hanno seguitato pur troppo fino al nostro tempo,
vede che dalla serrata rapidità dell'azione e dalla energica interezza
dei tipi siamo passati ad una specie d'immobilità declamatoria e ad una
secchezza addirittura extraumana. In quelle condensazioni, tutte
meccaniche ed esteriori, ogni spirito di vita è sempre più eliminato dal
dramma. Oramai si è ridotti ad aspettare quasi tutto l'effetto da certe
_battute_ sentenziose dei personaggi, facendo assegnamento sulla
corrispondente mimica degli attori. Intorno all'_Ajace_ che il Foscolo
stava componendo, Camillo Ugoni scriveva allo Scalvini: «Non mi ricordo
delle parlate lunghe e importanti, se non che sono eminentemente belle,
ma i brevi tratti sublimi mi stanno in mente:

    _Un araldo_ | Ajace re de' Salamini.
    _Agamenone_ | Attenda.

Che grande zittìo nel teatro allora! Che brivido farà nascere questo
«attenda» pronunciato da un attore che conosce la dignità e la maestà
della scena! Che torrente di fuoco e di bile magnanima e di
forsennatezza guerriera sarà per quell'Aiace! «Scalvini mio, io vorrei
dirlo questo _attenda_!...» Più sotto la lettera prosegue: «E quel
saluto così omericamente maestoso in bocca di Teucro e diretto
all'Atride,

    T'onori Giove, o re dei forti!

Dimmi, quel saluto non ti alza egli quattro palmi da terra?» Bellissima
cosa senza dubbio; ma lasciando anche da parte Sofocle e Shakespeare, è
certo che nemmeno i tragici francesi del buon secolo erano arrivati mai
a elevare di tanto i discorsi sull'azione e il valore astratto delle
sentenze sull'atteggiamento vivo e personale dei caratteri.

Ora qui sta il nuovo e il buono della _Francesca_ di Pellico. Chi non lo
vede? Il tipo della protagonista discende d'un tratto immenso dalla
luminosa altezza poetica in cui Dante ce l'aveva mostrata; l'azione
tragica è meschinella, l'andamento scenico è impacciato e tautologico,
lo stile invero è scialbo, i versi hanno spesso appena appena quel tanto
che basta perchè non si debbano dire dei versi zoppi... Eppure noi
sentiamo in questa tragedia un'aura insolita di vita, che ci attrae e ci
appaga. Nel suo breve ambito sentiamo la pietà e il terrore di un dramma
vero; sentiamo umanamente veri i personaggi e passanti per quella
varietà direi quasi accidentale di motivi psicologici, che ci fa fede
della naturalezza e della sincerità delle loro passioni; e per questo li
amiamo e ci appassioniamo di loro. Lanciotto (novità arditissima a quel
tempo) non è il solito tiranno alfieriano o alla francese, che accampa
la sua indomita ferocia e vi si drappeggia dentro come antitesi
d'obbligo con l'amore e col dolore degli altri personaggi. Bellissimo
carattere questo di Lanciotto e generato vivo vivo da una facoltà
veramente personale del poeta. Fin dalla sua prima scena con Guido,
sentiamo, che egli darà forse un fiero colpo alla tragedia dell'amore,
mettendo in una penosa controversia i moti della nostra pietà; ma egli
trionfa sulle morbide suggestioni del nostro egoismo di spettatori
parziali; e si finisce con ammettere volentieri che egli trionfi.

    . . . . . . . . . . O Guido!
    Quando canute avrò le chiome anch'io,
    E vivrò nel passato e freddamente
    Guarderò i vizi e le virtù mie antiche,
    Anche allor rimembrando un'adorata
    Sposa che mi tradìa, tutta l'antica
    Disperata ira sentirò nel petto,
    Ed imprecando fuggirò col guardo
    Verso il sepolcro......

Linguaggio vero questo e cavato dalle viscere dell'anima. Dite lo stesso
delle due scene tra' fratelli, specie quella proprio stupenda dell'atto
quarto.

    _Lanciotto._      Di'; se tua sposa
          Fosse?...

    _Paolo._      Francesca? Ah, d'un rival pur l'ombra
          Non soffrirei!

    _Lanciotto._  Se un tuo fratello amarla
          Osasse?

    _Paolo._     Più non mi saria fratello.
      Guai a colui che osasse amarla! Il giuro,
      Guai a colui! Lo sbranerei col mio
      Pugnal, chiunque il traditor si fosse.

    _Lanciotto._

      Me pure assal questo desio feroce,
      E trattengo la man che al brando corre;
      Credilo, a stento la trattengo!...

Lo stesso dicasi della scena fra Paolo e Francesca nel terzo atto, a cui
nuoce qua e là la frase enfatica e il verso deficiente; ma dove scorre
una corrente calda di vera passione amorosa a una scioltezza e un
abbandono, che i tragici contemporanei del Pellico (il Niccolini
compreso) non osarono forse mai.

Chi volesse persuadersi meglio della verità di questo elemento schietto
e giovanile che il Pellico portava nella tragedia italiana, potrebbe
opportunamente confrontare la sua _Francesca_ con quella di Edoardo
Fabbri cesenate, che pure ebbe molti e non immeritati lodatori. Forte
ingegno e bel carattere il Fabbri, tutto nutrito del più puro midollo
alfieriano, che lo sostenne tanto nelle lettere che nella degnissima
vita tutta infiammata d'ardori patriotici! Compose dodici tragedie, tra
le quali una _Francesca da Rimini_, che certamente ha pregi non comuni e
la vince su quella del saluzzese, oltre che per la italianità dello
stile, per ciò che oggi si chiamerebbe la ricerca dell'ambiente storico.
Nella prima scena Francesca veglia sola di notte e ascolta il mare che
mugge in gran tempesta:

    . . . . . . . . . . . . O Santo,
    O Forte, o Sempiterno! Deh, perdona
    Ai naviganti e al pellegrin smarrito....
    Dal mar, dal ciel, dal tuo sdegno percosso.
    Che vale il picciol uom? Di già le stelle
    Tramontano fra' nembi e pur non viene
    Pietoso il sonno!.... Malatesta è sordo
    A rimorsi, a procelle,... io veglio e peno!....
    Dunque han pace i tiranni, e l'innocenza
    Ognor geme?

Quando sopraggiunge la cognata Ricciarda e gli annunzia che Paolo,
creduto morto, è tornato e l'ha visto, Francesca grida:

    . . . . . . . . . . . . . Fugga,
    Si salvi, se talor dorme il tiranno,
    Tirannìa va d'intorno e non chiude occhio.

Ma in sostanza, questo _tiranno_ o questa _tirannia_ pesano su tutta la
tragedia come una cappa di piombo. Dei momenti, a giudicarla dai
discorsi, Francesca piuttosto che una moglie che si tormenta per un
affetto colpevole, fa pensare a una principessa romagnola del Dugento,
che trami contro il marito e apparecchi un colpo di Stato; in molti
punti il dramma amoroso minaccia di convertirsi in una congiura
politica, sempre contro il tiranno. Costui poi non è solamente un mostro
di crudeltà, ma se ne vanta e c'insiste sopra come per tema che il
pubblico non lo sappia abbastanza. Onde accade che non solamente ogni
spirito di pietosa poesia dantesca viene escluso dalla tragedia del
Fabbri, ma anche ogni senso di umana simpatia ne è quasi eliminato. I
personaggi, uomini e donne, parlano in un medesimo stile sincopato e
sentenzioso, che ferma e spezza e dissolve l'emozione del lettore. Ed è
peccato veramente, perchè in quei rari punti ove il Fabbri alquanto
s'abbandona, si capisce subito che la vena dei sensi altamente umani non
era scarsa in lui. Alla troppo famosa apostrofe all'Italia, che il
Pellico pone in bocca a Paolo, parmi che si contrappongano efficacemente
questi versi messi in bocca dal Fabbri a Paolo stesso:

      Patria per me? qual nome! all'infelice
    Cui vien rapita ogni cosa diletta,
    All'infelice cui la speme anch'essa
    Fallì per sempre, è ricordanza amara
    Di patria ragionar. Sta nella patria
    Ogni ben degli umani! Io non ho al mondo
    Che i mali miei!...

Ebbe anche il Fabbri la buona idea di convertire in scena finale della
tragedia la lettura degli amori di Ginevra e di Lancillotto, durante la
quale Giovanni li sorprende e li trafigge; ma l'azione ha da prima tanto
divagato per avvolgimenti poco omogenei, che l'idea del «fato amoroso»
la quale avrebbe dovuto intensamente dominare tutta la tragedia, è
presso che smarrita nell'animo degli spettatori; onde avviene che quella
scena finale vien fuori come un accidente sinistro in cui i due amanti
sono all'improviso colti e ammazzati dal tiranno e nulla più. Fatto
luttuoso, insomma, che chiude comunque la tragedia; ma non catastrofe
vera.


III.

E torniamo a Silvio Pellico. Quale meraviglia se, sopraggiunto il
carcere e col carcere le mortali malattie e i mortali abbattimenti e, di
conserva, la dissuetudine e l'impossibilità degli ordinati studi e
l'ozio forzato e gli stessi faticosi esercizi mnemonici e l'isolamento e
la mancanza di consigli e di critiche nel grande e vitale ambiente della
pubblicità, quale meraviglia, dico, se nello spirito del prigioniero
quel suo nutrimento letterario, già per se scarso, presto venne meno e
lo lasciò quasi vuoto ed esausto? Nel rileggere in questi giorni le
molte liriche religiose e le _Cantiche_, che il Pellico compose durante
e dopo la sua prigionia, mi si è venuta formando in mente l'idea di una
speciale malattia psichica, ch'io chiamerei _anemia letteraria_. Non è
che il poeta sia morto in lui; vive anzi in una specie di anelito
incessante, in uno sforzo fervoroso che gli si leva dal fondo
dell'anima, e col quale egli vorrebbe toccare un alto segno. Ma egli
s'agita un poco e ricasca spossato. Non di rado l'inizio d'un
componimento o, come direbbero i musici, lo _spunto_ è felice e si vede
che il tema si era presentato, alla prima, dinanzi alla fantasia del
poeta con linee vaghe e nuove, con colori freschi e attraenti. Non è
bello l'esordio della cantica _Tancreda_?

    E voi pur mie native itale balze
    Siate albergo ai prodi. A quelle antiche
    Lance il mio sguardo affiso, onde severo
    Di questa sala addobbo han le pareti,
    E in ciascuna vegg'io di queste lance
    La storia di un eroe. Tu generosa
    Fanciulla del Chiusone abbi il mio canto.
    Del torrente Chiusone io visitai
    La sacra valle, e visitai quel loco
    Ove le gorgoglianti acque comprime
    Di qua e di là deserto, orrido monte;
    E orrido più a sinistra e di pendenti
    Alto rupi tutto irto, il Mal-Andaggio;
    E salii quelle rupi, ed ombreggiata
    Di scarsi annosi pini una fontana
    Mi dissetò...

Non è pieno di gentili promesse il principio della lirica in morte della
Teresa Gonfalonieri?

    No, pia, no, gentile
    Per me non sei morta!...

E molti altri esempi potrei citare: ma appena l'artista ha fatto pochi
passi, subito lo invade una estenuazione e una insufficienza di forze
che lo costringe a vacillare e piegare sotto il peso. Sono locuzioni
intralciate, trapassi faticosi, innesti sgraziatissimi di modi
volgarmente prosaici accompagnati ad altri tutti affettazione rettorica.
È uno stento, un languore che fa pena. L'onda lirica si rompe e svapora
in quei tentennamenti dello stilista inesperto ed esaurito. I più nobili
entusiasmi spirituali non serbano nemmeno la sincerità dell'accento e
paiono esaltamenti a freddo; la stessa pietà religiosa inciampa e smania
nelle minuzie di un bigottismo da femminuccie. Il poeta stesso se ne
avvede, se ne addolora e ne chiede ragione a Dio con un'apostrofe
abbastanza felice:

    Perchè mi hai dato questa inneffabile
        Sete di canto?
    Perchè poni tu in me questi palpiti
        Ricchi d'amor?

Egli, soggiunge, non ha «l'energico inno del possente Manzoni» egli non
può che versare gemiti e lagrime ai piedi del trono divino. Iddio gli
risponde nel dialogo, confortandolo: — Ispirai l'alto carme d'Isaia; ma
anche la rozza parola di Amos può consolare gli uomini e chiamarli a
verità. — Ma mentre ci aspettiamo dunque gli accenti rudi, schietti,
efficaci di questo profeta popolare, ecco che vien giù una sbroscia di
strofe come queste:

    — Da più secoli squarciano Italia
    Parti luttanti: (?)
    Fa ch'io rotto impostori e magnanimi
    Scerna fra lor.
    — Del Vangel l'amantissimo spirto
    Luce sia a tua ragione, a tuoi canti:
    Spirar dei l'amor patrio de' Santi,
    Ch'è bontà, sacrificio ed onor...

Così miseramente terminò il poeta che aveva esordito salutato
dall'ammirazione di Giorgio Byron e dalle speranze di tutta Italia.

Però la critica è obbligata a fermarsi dinanzi a un fatto che contiene
una forte obiezione. Silvio Pellico, mentre appunto volgeva, anzi mentre
si compiva il periodo di quel suo dissolvimento letterario, scriveva _Le
mie prigioni_, un libro che non solo è il suo capolavoro, ma che, a
ragione, si considera come un modello di narrazione sobria, equilibrata,
potente di poesia e di verità. Pietro Giordani, che non aveva alcuna
ragione d'amare in Pellico nè le idee nè la letteratura e che molte
ragioni invece aveva di non amarlo, non seppe trattenere la propria
ammirazione per questo libro, confessandosi «spaventato» dinanzi alla
sua efficacissima semplicità. Anche adesso che i fatti narrati sono
tanto lontani e che la pietà è naturalmente illanguidita e che la
suggestione politica non entra più, segreta consigliera, a piegare
l'animo in favore del libro, il libro resiste agli assalti del tempo,
alle mutate ragioni delle idee e del gusto, alla stessa voglia
preconcetta che uno potrebbe benissimo avere di trovarlo minore della
fama e della fortuna. Si prende in mano il volumetto, si procede d'uno
in altro capitolo, tante volte letti, e a breve andare la prima
ammirazione vi ripiglia, vi domina, vi soggioga. Si rivedono i luoghi,
le persone, gli episodi del lungo dramma doloroso, ripensato con tanta
mansuetudine e raccontato con tanta naturalezza; s'arriva all'ultima
pagina, si ripone il piccolo libro, ma si è convinti che verrà un giorno
in cui bisognerà riprenderlo e rileggerlo... Il libro delle _Prigioni_
avrà insomma dei difetti letterari, ne ha anzi senza dubbio, ma non
certo di quelli pei quali un tempo Ruggero Bonghi lamentò e cercò di
spiegare la scarsa corrispondenza che esiste fra la curiosità del
pubblico e i libri scritti nella nostra lingua. E questo certamente non
è piccolo pregio.

È il miracolo non infrequente della letteratura auto-biografica. Silvio
Pellico, nel periodo del suo scadimento letterario, ebbe ancora la forza
di osservarsi e di raccontare: l'osservazione fu nitida, la narrazione
fu sempre, non so se storicamente ma certo artisticamente, sincera; e il
bellissimo libro venne fuori. Fu come un drappo prezioso e pietoso che
il liberato dallo Spielberg gettava sopra la sua morta giovinezza d'uomo
e di poeta.

L'anemia letteraria poteva continuare il suo corso. Oramai lo stesso
Pellico ne era convinto. Si sentiva infiacchito, sfinito; e anche di
questo si rimetteva con umiltà cristiana al buon Dio, che dona e che
toglie.

Quanta ressa di consigli, di eccitamenti, di rimproveri, talvolta anche
acerbissimi, non fu fatta per vent'anni intorno al povero Pellico perchè
ripigliasse la penna e non deludesse più a lungo il pubblico italiano di
grandi aspettazioni che avevano tutte le apparenze per dirsi non solo
legittime ma ben anche imperative! Talvolta egli, tanto per dimostrare
la sua buona volontà, si rimetteva a qualche lavoro di lena e ritentava
la tragedia, la cantica, il romanzo; ma io tengo per fermo che non gli
avrebbero sorriso, come un beneficio postumo, le postume pubblicazioni
della _Civiltà Cattolica_ e di altri.

La verità sul proprio fato di poeta egli l'aveva ben chiara nell'animo,
il buon Silvio; e l'aveva molto onestamente scritta a Federico
Confalonieri nel Maggio del 1838. «Tu ed altri buoni mi consigliereste a
scrivere..... Ottima è la vostra cara intenzione; e seguirei il
consiglio se potessi. Mi manca la salute, mi manca quel pungolo
d'ambizione e di speranza che sprona; mi manca la fiducia delle mie
forze, le quali davvero conosco deboli: sono un uomo che ho poco fiato,
un uomo che vive poco distante dalla tomba e sorride alle voci che gli
dicono: sorgi!... Sì, amico e fratello mio, sorgerò, ma non più sulla
terra. Qui la mia parte è oramai finita; e se ora ve ne ha una, ell'è di
patire e amare in silenzio. Del resto è assai verosimile, che se invece
di pochissimi volumi da me scritti, ne avessi dato ancora parecchi al
pubblico, l'effetto sarebbe stato minore....»

Bisogna chinarsi con riverente pietà dinanzi a questa confessione.



INDICE


  Giosuè Carducci                          Pag.   1
      I. _Miei ricordi_                     »   ivi
     II. _Odi barbare (Le terze)_           »    17
    III. _Carducci umorista_                »    64
  A «Sfinge»                                »    77
  Desdemona                                 »    91
  Nicolò Tommaseo                           »   109
  Attala                                    »   129
  Mignon                                    »   147
  Silvio Pellico                            »   165



OPERE DI E. PANZACCHI

=Prose=

  _Teste quadre_ (Zanichelli)
  _Al rezzo_ (Sommaruga)
  _Critica spicciola_ (Verdesi)
  _Saggi critici_ (Chiurazzi)
  _Nel mondo della musica_ (Sansoni)
  _Nel campo dell'arte_ (Zanichelli)
  _I miei racconti_ (Treves)
  _Donne Ideali_ (Voghera)
  _L'Arte nel secolo XIX_ (Belforte)
  _Morti e Viventi_ (Giannotta)

=Poesie=

  _Visioni e immagini_, 2 vol. (Zanichelli)
  _Liriche_ (Treves)
  _Rime novelle_ (Zanichelli)



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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