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Title: Brani inediti dei Promessi Sposi - Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2
Author: Manzoni, Alessandro
Language: Italian
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                         NOTE DEL TRASCRITTORE


 -Corretti gli ovii errori tipografici.
 -Il testo in corsivo è reso come _testo_.
 -Il testo in grassetto è stato reso come =testo=.
 -Il testo in maiuscoletto è stato reso in TESTO MAIUSCOLO SEMPLICE.
 -Per la stesuradi questo testo è stato utilizzato il font
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  non possano essere correttamente visualizzati.
 -Le note a piè di pagina sono raccolte alla fine dell'opera.



                      OPERE DI ALESSANDRO MANZONI

                           _EDIZIONE HOEPLI_

                               Vol. II.

                            (in due parti)

                             BRANI INEDITI

                                  DEI

                            PROMESSI SPOSI

                                  DI

                          ALESSANDRO MANZONI

                               PER CURA

                          DI GIOVANNI SFORZA

                               PARTE II.

                     SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA

                    Milano--ULRICO HOEPLI--Editore



                             BRANI INEDITI

                                  DEI

                            PROMESSI SPOSI



                             BRANI INEDITI

                                  DEI

                            PROMESSI SPOSI

                                  DI

                          ALESSANDRO MANZONI

                               PER CURA

                          DI GIOVANNI SFORZA

                               PARTE II.

                     Seconda edizione accresciuta

                             ULRICO HOEPLI

                    EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA

                                MILANO

                                 1905



                         PROPRIETÀ  LETTERARIA

        Milano, 1905--Tipografia Umberto Allegretti, Via Orti.



  INDICE DELLA SECONDA PARTE


          Le prime accoglienze ai «Promessi Sposi», studio
          di GIOVANNI SFORZA                                    IX


    XII.--Fuga di Don Rodrigo                                  353

   XIII.--Ritorno di Lucia al suo paese                        363

    XIV.--Visita del Conte del Sagrato a Lucia                 373

     XV.--Cure del Cardinal Federigo per mettere
          al sicuro Lucia                                      387

    XVI.--Il tozzo di pane e il bicchier d'acqua del
          Cardinal Federigo                                    395

   XVII.--La carestia del 1628--Ragioni, rimedi e
          moti dell'opinione pubblica nelle carestie           405

  XVIII.--Don Ferrante e la sua famiglia                       433

    XIX.--Il passaggio de' Lanzichenecchi                      465

     XX.--Dialogo sulla peste tra Don Ferrante e il
          Signor Lucio                                         495

    XXI.--La peste a Bergamo--Ritorno di Fermo al
          paese nativo--Suo incontro con Don Abbondio
          e con Agnese                                         525

   XXII.--Fermo trova Lucia nel lazzeretto                     557

  XXIII.--Scioglimento del voto di Lucia e morte
          di Don Rodrigo                                       579

          APPENDICI                                            595

      I.--Il principio del Romanzo nella prima minuta          597

    II.--Il principio del Romanzo nella seconda
         minuta                                                604

   III.--Il principio del Romanzo nella copia per
         la Censura                                            607

    IV.--La fine del Romanzo nella prima minuta                611

     V.--La Serva di Don Abbondio                              618

    VI.--La confessione di Lucia e il consiglio
         d'Agnese                                              626

   VII.--Una disgressione                                      642

  VIII.--Il Padre Cristoforo ripreso dal Guardiano
         di Pescarenico                                        648

    IX.--Il tentativo fallito del matrimonio clandestino
         nella prima e nella seconda minuta                    653

     X.--Le correzioni all'«Addio ai monti»                    676

    XI.--L'Innominato; brano della seconda minuta,
         stralciato poi dall'Autore                            688

   XII.--Descrizione dell'autografo della prima
         minuta dei «Promessi Sposi»                           712



LE PRIME ACCOGLIENZE

AI

«PROMESSI SPOSI»


I.

Giulia, la primogenita del Manzoni, scriveva al Fauriel l'8 luglio
del '27: «Debbo dirvi che abbiamo provato un gran piacere nel vedere
il lieto successo del libro del babbo. In verità, superò non solo
la nostra aspettativa, ma ogni speranza; in meno di venti giorni se
ne vendettero più di 600 esemplari. È un vero furore; non si parla
d'altro; nelle stesse anticamere i servitori si tassano per poterlo
comprare. Il babbo è assediato da visite e da lettere d'ogni specie
e d'ogni maniera; furono già pubblicati alcuni articoli intieramente
favorevoli ed altri se ne annunziano».

Non senza una trepidazione grande l'aveva finalmente dato fuori,
come si rileva dalle lettere che il Tommaseo, allora a Milano e in
familiarità con lui, era andato di mano in mano scrivendo a Giampietro
Vieusseux[1]. «Il suo romanzo o addormentato»: (così il 12 novembre
del '26) «egli teme di pubblicarlo, tanta è la nausea che ispira a
ogni bene l'aspetto di quella canaglia che ha parte nella _Biblioteca
Italiana_». E di lì a dodici giorni: «Egli s'era scuorato un po', non
per tema di que' vili imbecilli, ma per quella stanchezza di mente che
nasce al pensiero di vedere male accolta un'opera che costò tanta pena,
e che, dic'egli, non fa male a nessuno. Io temo, soggiungea, che mi
vogliano far scontare la troppa aspettazione ch'egli hanno di questo
libro: aspettazione della quale, a dir vero, non è mia la colpa». Gli
tornava a scrivere il 2 decembre: «Manzoni ripiglierà il suo romanzo,
da cui l'aveva scuorato lo zelo dell'amicizia; voglio dire le critiche
fatte al 2º. canto del Grossi»[2]. In un'altra, senza data, ma del
febbraio o del marzo del '27, soggiunge: «Manzoni è all'ultimo capitolo
ancora. Ma incomincia a stampare l'altra metà dell'ultimo tomo; onde
innanzi alla fine dell'anno si può sperare di veder il Romanzo alla
luce[3]. Dev'essere un gran gridare, un gran sentenziare de' Classici.
E la _Biblioteca Italiana_ come lo prenderà d'alto in basso!» Gli torna
a scrivere il 12 maggio: «Manzoni non ha cominciato ancora a stampare
l'altra metà dell'ultimo tomo; ma non va, mi dice, in campagna, se non
se pubblicatolo. Io godo d'andarmene via: penerei a sentire la lotta
che forse gli si prepara, e forse non potrei non mischiarmivi».

Per «benevolenza modesta» dell'autore, aveva egli letta gran parte,
«innanzi che data alla luce», di «quella immortale più storia che
romanzo»; e, nel confidarlo al Vieusseux, la diceva «divina cosa».
Ne lesse anche de' tratti al Rosmini, «che, passeggiando la sua
stanza, sorrideva e ammirava»[4]. Avvenuta la pubblicazione, seguitò
a ragguagliare l'amico della varia fortuna del Romanzo. «I giudicii
sono ancor vaghi», gli scriveva il 20 di giugno. «Il pubblico è
incerto; il nome di Manzoni lo preme e incute rispetto. La virtù ha i
suoi diritti». E di lì a quattro giorni: «A Zaiotti e ad Ambrosoli
il romanzo del Manzoni non piace. Dicono che non conosce la lingua;
che il secondo tomo[5] meriterebbe di andar tutto al diavolo, ch'è
un disturbo dall'azione, che negli altri però l'_azione_ (sentite i
pedanti!) cammina bene. A molti piace molto: tutti però ci trovano
troppi particolari: quelli che sanno scrivere ci trovano delle
improprietà, e difetto di numero. Alcuni colloqui si notarono come
_eccessivamente veri_. Si confessa però ch'è un modello di stile
romanziero. Una signora ha trovato ottimo il titolo di _storia_[6],
perchè, dice, par tutto vero. Un'altra, malissimo prevenuta, dovette
pur piangere. S'accorse, per altro, ch'era un libro _pericoloso_,
perchè i contadini vi fanno miglior figura che i nobili. L'istesso
padre Cristoforo, diceva ella, è un mercante. V'ebbe chi ha trovato
che Manzoni guasta la letteratura, perchè... perch'è _inarrivabile_:
onde quelli che l'imitano, noi potendo agguagliare, non fanno che
inezie. Ad altri parve leggiero, e insignificante il titolo: ad altri
voluminosa la forma. Una famiglia inglese, che lo voleva comperare,
se ne tenne; perchè lo trova non libro da viaggio, ma da chiesa; non
romanzo, ma Bibbia». Il 18 di luglio seguitava a informarlo: «Parliam
di Manzoni... Si diceva che il suo merito è di _nulla tralasciare_,
neppure le menome circostanze, le menome pieghe del cuore; si lodava
l'artifizio della narrazione e dei passaggi; e che quel libro
doveva studiarsi anche per la lingua; e che nel secondo tomo quella
conversione è mirabilmente preparata e descritta; e che la prolissità
non annoia; e che il terzo tomo è di tutti il più bello; che quella
peste è cosa sovrana, quel _lazzeretto_ dalla potenza della pittura
aggrandito. Quest'ultima espressione annuncia un ingegno che giudica
un punto più elevato del solito: e questi sono gl'ingegni a cui deve
piacere Manzoni. Era ben piacevole, nei primi giorni in cui l'opinione
pareva pendere più al male che al bene, il vedere l'accanimento di
certe bestiucce letterarie a trovare i difetti, in quel libro in cui
poco innanzi non sapevano cercare che pregi. E per aver trovato in un
luogo _marmaglia d'erbe_, a gridare: vedete che improprietà... con
un'aria che inviluppava di disprezzo tutto il libro quant'era. Una
donna che, malgrado la presunzione contraria, è forzata a piangere in
quella lettura, val bene un articolo. Io confesso d'aver pianto anch'io
al terzo tomo: e un giorno dell'anno passato che fummo da Manzoni a
Brusuglio e ch'io leggeva quella medesima conversione del tomo secondo,
la trepidazione si leggea chiara nel volto di tutti gli udenti e del
medesimo autore. Quest'è il caso in cui un autore può senza orgoglio
lodare sè stesso. Ma se volete un giudicio d'altro genere, e non meno
onorevole: un vecchio, letto il primo tomo, trovava piacere a riportare
le cose lette, e narrarle anche a chi le sapea: e prima che il libro
uscisse, il legatore (poichè Manzoni si fece legare le copie in casa)
il legatore veniva congratulandosi con lui del merito di quell'opera,
e gliene ripeteva alcun passo nel suo dialetto, mostrando d'averlo
tutto inteso benissimo. I giudizii dei letterati sono ben diversi. Non
so se io v'abbia scritto di colui che trovava mirabile soprattutto nel
primo tomo la pagina 113[7]; quasi che in un'opera del Manzoni fosse
possibile o lecito prescerre una pagina. Altri trovava da lodare quegli
occhi del frate, paragonati a due cavalli bizzarri. Nei quali elogi
voi forse, così di lontano, non potrete sentire quanto di velenoso ci
sia[8]. Questi vili, non potendo sfogarsi sull'ingegno, gli mettono a
conto e il lungo studio ed il lungo tempo occupato, e la sua stessa
virtù». Soggiungeva poi: «Quello che offenderà molti, certamente, è la
troppa religione che c'è. Per apprezzar quel lavoro e comprenderlo,
conviene aver lungo tempo conversato con l'autore; conoscere le sue
idee letterarie e politiche, il suo modo di vedere le cose. Ed ancora
non basta: la storia di quel secolo egli l'ha studiata nelle prime
fonti, e ne' rivoli più solitarii: tante bellezze che paiono di
invenzione sono storiche, sono inspirate dal fatto, ch'è quanto a dire
sono doppie bellezze. Così tante sottili allusioni, che racchiudono
il germe d'un sistema. E v'ebbe chi trovò migliore il _Castello di
Trezzo_!» Lasciata la Lombardia e tornato nella nativa Dalmazia, il
Tommaseo seguita a parlar de' Promessi Sposi nelle sue lettere al
Vieusseux. «Da Milano» (così in una del 17 d'agosto) «si scrive che
le mille copie del Romanzo son tutte spacciate; che qualcuno ne ride
in segreto, che Monti chiacchiera dello stile[9]; che i più tacciono;
che molti applaudono, purchè però lo si chiami non romanzo, ma storia.
Sento che a Padova piacque molto alle donne».

Giacomo Leopardi ritrae al vivo l'opinione pubblica d'allora intorno
ai _Promessi Sposi_, in una lettera che scrisse, da Firenze, il 23
agosto del '27, al libraio milanese Antonio Fortunato Stella: «Del
romanzo di Manzoni (del quale io solamente ho sentito leggere alcune
pagine) le dirò in confidenza che qui le persone di gusto lo trovano
molto inferiore all'aspettazione. Gli altri generalmente lo lodano». Le
«persone di gusto», cioè i letterati, erano partigiane, più o meno, de'
vecchi pregiudizi della scuola classica, e per conseguenza il Manzoni,
che aveva voltato le spalle a questa scuola, dando un avviamento nuovo
all'arte, era agli occhi loro uno scrittore fuori di strada. Tutti
però si accordavano nel riconoscergli un grande ingegno, ma con questa
differenza: per gli arrabbiati era nè più nè meno un Attila della
letteratura e dove metteva le mani guastava ogni cosa: i temperati, pur
trovando ne' suoi scritti un'infinità di difetti, vi scorgevano però
de' tratti di singolare bellezza; tratti che non mancavano di gustare
con ammirazione schietta e sentita. È utile e curioso il rievocare il
ricordo di questa battaglia tra le «persone di gusto» e gli «altri»;
i quali, oggetto, sulle prime, di compassione, anzi di disprezzo,
finirono poi col vincere; tanta e così irresistibile fu la forza della
verità.

Fin dal novembre del '21 Giuseppe Carpani, uno degli arrabbiati,
scriveva all'Acerbi, in quel tempo direttore della _Biblioteca
Italiana_: «Manzoni avrebbe ingegno da fare cose bellissime e
originali; battendo la via che batte, non farà che pazzie strampalate,
sparse di qualche scintilla di luce, che si perde nelle tenebre
del tutto»[10]. A Torino, l'ab. Michele Ponza, dal suo _Annotatore
Piemontese_, scagliava questi fulmini: «Io reputo classico tutto ciò
che in sè non ammette confusione di genere. Il giardino italiano è
classico e l'inglese è romantico; la pianta ed il fabbricato di Torino
è classico, quello di Milano romantico; l'abito nero con pantaloni
bianchi è romantico, l'abito tutto nero con calzoni corti è classico;
la musica di Cimarosa è classica, quella di Rossini romantica; le
commedie di Destouches, di Regnard e di Goldoni sono classiche, quelle
di Kotzebue e di altri scrittori nordofili, gallofili, stranofili
sono romantiche; le tragedie d'Alfieri sono classiche, quelle del
Manzoni sono romantiche. Dunque, dove è ordine, armonia, regolarità è
classicismo; dove mancano queste condizioni è romanticismo». Giovita
Scalvini scriveva: «La poesia romantica fu trovata da Cam figliuolo
dì Noè. Ne' quaranta giorni che si trovò nell'arca, egli fece un
poema dove descriveva tutto ciò che aveva d'intorno. Unì le idee più
disparate, perchè vedeva presso sè l'agnello e il lupo; vedeva fuori i
pesci sulle cime dei monti: la sua musica, le strida de' moribondi».
E per mettere alla gogna i romantici ideava il dramma: _La creazione
del mondo e la fine_, con questi attori: «Il caos, le stelle, le
tenebre, la luce, il diavolo, il serpente. Gli animali di Daniele.
Il teschio di Adamo. La cometa che accompagnò i re Magi. Il libro
dei sette sigilli. Enos. Il cavallo della morte. Il bue, l'asino, il
corvo». Scene: «La creazione: una conversazione patetica fra Eva e
il serpente. Il diluvio. Un soliloquio del corvo sulla carogna che
sta per beccare». Carlo Botta scriveva da Parigi: «Io ho in odio,
peggiormente che le serpi, la peste che certi ragazzacci, vili schiavi
delle idee forestiere, vanno via via seminando nella letteratura
italiana. Io gli chiamo traditori dell'Italia, e veramente sono. Ma ciò
procede, parte da superbia, parte da giudizio corrotto; superbia, in
servitù di Caledonia e d'Ercinia, giudizio corrotto con impertinenza e
sfacciataggine». Gli battè le mani il _Giornale Arcadico_ di Roma: «Sì
certo, o Carlo Botta, _sfumerà questa infame contaminazione_: tempo
verrà, nè forse è lontano, che gl'italiani si vergogneranno di tanti
romantici vituperii, levati ora alle stelle dai goffi imbrattacarte
e ciarlatani di certi giornali: e frutto di questa vergogna sarà il
gittare sdegnosamente alle fiamme tutto in un fascio quel bastardume
d'_inni_, di _tragedie_, di _romanzi_, di che ora, parte ridono e parte
fremono i veri sapienti della nazione»[11].

A difesa de' Romantici si levò animoso Giuseppe Mazzini. «Gli uomini
che in tutti i loro scritti anelano al perfezionamento dei loro
concittadini; che avvampano per quanto di bello e sublime splende su
questa terra; che hanno una lagrima per ogni sciagura che affligga
la loro patria, un sorriso per ogni gioia che la rallegri; gli
uomini a' quali il vero è _fine_, la natura e il cuore son _mezzi_;
che trasportano il genio per vie non corrotte dalla imitazione, non
guaste dalla servilità de' precetti; che a favole, vuote di senso
per noi, sostituiscono una credenza che tragge l'animo a spaziare
pei campi dell'infinito; gli uomini che s'aggirano religiosi tra le
rovine dell'antica grandezza e dissotterrano a conforto dei nipoti
ogni reliquia dei tempi trascorsi; questi uomini non tradiscon la
patria; non son vili schiavi delle idee forestiere. Essi vogliono dare
all'Italia una letteratura originale, nazionale; una letteratura
che non sia un suono di musica fuggitivo, che ti molce l'orecchio, e
trapassa; ma una interprete eloquente degli affetti, delle idee, dei
bisogni, e del movimento sociale. Ogni secolo modifica potentemente
gli uomini e le cose; ogni secolo imprime una direzione particolare
all'umano intelletto... I veri Romantici non sono nè boreali, nè
scozzesi; sono italiani, come Dante, quando fondava una letteratura, a
cui non mancava di Romantico che il nome»[12].

Il Rosmini fin dal maggio del '26 aveva scritto a don Antonio Soini:
«Col Manzoni abbiamo parlato di voi. Che bontà di questo sommo poeta!
Che affabilità! Che anima sparsa in sul volto tutto e in sulle labbra!
Egli lavora nel suo romanzo assiduo. Temo assai della sua prosa; non
dubito delle immagini e dei nobili sentimenti: di quello spirito non
possono che uscire emule alla natura sublime, questi degni della
nostra immensa destinazione. Ma la lingua? Non può crearsela questa
lo spirito, alto quanto si voglia; gli bisogna ricorrere per essa
alla dotta memoria; e temo che questa non sia stata arricchita per
tempo di cotal mercè. Pare però che egli stesso lo senta; e se lo
sente, lo studio assiduo, ancorchè un po' tardi, acconcerà forse la
trascuranza dell'età prima». L'ab. Giuseppe Manuzzi, richiesto dal P.
Antonio Cesari, che cosa pensassero a Firenze de' _Promessi Sposi_,
gli rispose, suonarne «orrevolmente la fama, sì per l'invenzione, sì
per la lingua, e sopratutto per la profondissima cognizione del cuore
umano». Ma però soggiungeva: «Da alquanti brani ch'io ne lessi, la
lingua certamente non è della migliore: anzi, secondo me, poco buona, e
peggiore lo stile. Già voi sapete essere il Manzoni un forte campione
dei romantici: di che non è da meravigliare se trova lodatori in gran
numero. Leggeste voi nulla di suo? che ve ne pare? scrivetemene». Il
Cesari gli rispose: «Ho letto i _Promessi Sposi_ del Manzoni; mi ci
parve trovare suoi difetti; quanto ad episodi o digressioni, che non
s'innestano col fatto (è ciò che tiene il lettore forse a disagio);
quanto a lingua, egli ha studiato i nostri maestri, ma i Comici
sopratutto. Del resto nella eleganza dello scriver grave e naturale,
egli è ancora addietro: ma credo che in poco, si farà grande scrittore.
Nel colore, nella forza, nell'espressione tuttavia vale assai: nelle
pitturette fiamminghe è maraviglioso; come altresì nel toccare le
passioni, gli affetti e movimenti tutti del cuore, fino a' più minuti,
mi par gran maestro. Ingegno ha altissimo, acuto e facondo assaissimo.
De' suoi _Inni_ il migliore mi sembra quello della _Pentecoste_: sono
però sparsi tutti, qual più, qual meno, di concetti pellegrini, che
egli solo era atto a trovare. Risplende poi la sua pietà e religione: e
certo quel romanzo è un trionfo della virtù; e farà troppo più frutto,
che nessun altro quaresimale». Il Cesari[13] poi finiva una sua lettera
all'ab. Gaetano Della Casa: «Mi direte degli _Sposi_ del Manzoni e
de' difetti che ci noterete; a vedere se ci scontriamo. Ma bellezze
grandi!» Che cosa gli rispondesse non so. Giuseppe Pederzani, al quale
pure ne aveva domandato, gli replicava: «Del Manzoni ho letto un tomo
e mezzo il passato autunno; e più avanti non potetti, perchè chi mel
prestò, sel portò poi a Milano, che fu il Rosmini prete. N'ebbi piacer
molto, e certo ha tutti que' meriti che voi dite; tranne forse questo
solo, che a voi sembra, rispetto alla lingua, avere egli studiato ne'
classici più di quel che pare a me; ma io debbo stare al giudizio
vostro. Anche mi son paruti troppo lunghi e noiosi quegli episodi: ma
qui posso aver torto facilmente: imperciocchè comprendo bene, che in
fine formano la materia dell'opera. Forse alla seconda lettura non mi
parrà più così. A ogni modo, scritto assai dilettevole e buono».

Un altro pedante de' più arrabbiati, il corcirese Mario Pieri, così
discorre de' _Promessi Sposi_ nelle sue _Memorie_, che son rimaste
inedite:

«Firenze, 15 agosto 1827. Ho letto i primi due capitoli (non potei
averlo che per pochi momenti) del romanzo di A. Manzoni, del quale non
dirò nulla fino a tanto che non l'avrò letto tutto, benchè in quegli
stessi capitoli io abbia inciampato in più d'una cosa di cattivo
gusto, senza dir dello stile, che mi sembrò così tra il milanese ed il
francese. E questi godono fama di grandi scrittori!

«Firenze, 6 ottobre 1827. Leggo i _Promessi Sposi_, che ora mi stancano
colla soverchia prolissità e colle minutissime descrizioni.

«7, domenica. Il viaggio di Renzo (nel romanzo del Manzoni), da Milano
a Bergamo, è una bellissima cosa, e quivi stanno bene anche quelle
minutezze e particolarità, che ci vengono tanto spesso innanzi fino
al fastidio in quel libro. Grande ingegno è il Manzoni, ed è un gran
peccato ch'egli voglia farsi il corifeo del falso gusto in Italia! Ho
consumato gran parte del giorno (dalle due alle sei) alle Cascine,
passeggiando e leggendo i _Promessi Sposi_. La mattina ho letto una
prefazione, che il signor Camillo Ugoni pose alla testa d'una edizione
parigina delle poesie del Manzoni, in cui quel letterato bresciano,
romantico per la vita, delira, al solito, sui bisogni del nostro
secolo, sul dramma storico, sull'arte e sulla natura, sopra una libertà
ch'egli chiama _Scolastica_, ch'egli attribuisce all'Alfieri, e ai
seguaci de' classici, e simili follie. Povera letteratura italiana,
ecco i tuoi sostegni! Che mai diverrà questo secolo, quando Monti e
Pindemonte non saranno più tra di noi!

«Firenze, 22 ottobre 1827. Ho terminato finalmente i _Promessi Sposi_,
libro che, a malgrado del falso gusto, delle lungaggini eccessive,
delle troppo minute descrizioni, e simili altre tedescherie, manifesta
un grande ingegno nel suo autore, oltre l'animo gentile e gli egregi
costumi».

Chi vide e gustò le bellezze de' _Promessi Sposi_ appena che uscirono
dal torchio fu Pietro Giordani; e da Firenze, dove allora abitava, andò
manifestando agli amici le impressioni ricevute da quella lettura. Il
21 settembre del '27 scriveva a Francesco Testa[14]: «Del Manzoni siamo
perfettamente d'accordo: eccellente pittore, benchè fiammingo. Egli
è ora qui: amabilissima e modestissima persona: riverito e amato da
tutti, onorato straordinariamente dalla Corte». E che nel romanzo ci
sia del fiammingo, è vero; ma lì dove ha maggiore bellezza, bellezza
ineffabile. Il 15 d'ottobre chiedeva a Lazzaro Papi: «È venuto costà
[_a Lucca_] il romanzo di Manzoni? Com'è piaciuto?... Manzoni fu qui
molti giorni; ebbe grandi accoglienze da tutti; e straordinario onore
dalla Corte. È uomo di molta e amabile modestia, e belle maniere...
In Roma ora è proibito di vendere il romanzo di Manzoni, che pur vi
entrò con amplissime licenze»[15]. Il 22 del mese stesso torna a
scrivere al Testa: «Manzoni, amabilissimo per la modestia e la bontà e
l'ingegno, dev'esser partito assai contento di Firenze, e più contento
della Corte, che l'ha onorato straordinariamente. Del suo libro, poichè
volete, vi dirò che mi è piaciuto. Ci vedo un'assai fedele pittura
dello Stato di Milano in que' tre anni miserabilissimi 28, 29 e 30.
Verità somma e finitissima ne' dialoghi e ne' caratteri. Nobilissimo
il carattere del Cardinale: naturalissimi tutti gli altri inferiori:
la. stolidezza e la ferocia dei dominatori stranieri efficacemente
rappresentata: un modello di religione tollerabile, e anche utile.
Cominciano a insorgergli contradittori al solito: ma credo che il
libro vincerà e durerà. A me i difetti paion pochi e leggieri: i pregi
moltissimi e non piccoli. E poi è il primo romanzo leggibile che sia
sorto in Italia: è adatto a molte sorti di lettori: s'insinua nelle
menti: vi germoglierà qualche buon pensiero. Eccovi contentato, mio
caro: v'ho detto quel che penso; e non per politica, come m'imputano
alcuni: e non pensano che uno che non si cura nè del papa nè dei re,
non ha cagion di mentire per Manzoni, che biasimato non può mandarmi in
galera, nè lodato può farmi cardinale o ciambellaio». Così ne scrive
a Giuseppe Bianchetti il 13 decembre: «Il Romanzo di Manzoni mi par
bello come lavoro letterario; ma stupenda cosa e divina come aiuto
alle menti del popolo. Io credo che farà un gran bene; e i nemici del
bene se ne accorgeran tardi. Grande amor del bene, e gran potenza e
arte di farlo si vede in quell'ingegno». Di nuovo al Testa il 25 dello
stesso mese: «Ho letto più di venti romanzi di Walter; e quanti ancora
me ne restano!... Non mi maraviglio che in tutta Europa piaccia molto
il libro di Manzoni; e ne godo. In Italia vorrei che fosse letto a Dan
usque ad Nephtali: vorrei che fosse riletto, predicato in tutte le
chiese e in tutte le osterie, imparato a memoria. Se lo guardate come
libro letterario, ci sarà forse un poco da dire; secondo la varietà
de' gusti e delle abitudini. Ma come libro del popolo, come catechismo
(elementare; bisognava cominciare dal poco) messo in dramma; mi pare
stupendo, divino. Oh lasciatelo lodare: gl'impostori e gli oppressori
se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda testa, che potente leva
è, chi ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi minchione: ma
minchione a chi? agl'impostori e agli oppressori, che sempre furono e
saranno minchionissimi. Oh perchè non ha Italia venti libri simili!» E
al Bianchetti l'8 luglio del '31: «Bellissimo e utilissimo il vostro
Discorso sui romanzi storici, che io credo si potrebbero far belli, e
al nostro popolo proficui; purchè si seguisse la via di Manzoni. Ma chi
ha la sua anima? Di tutti gli altri che ho veduti, nessuno mi piacque;
anzi mi dispiacquero assai: imitazioni, e ben cattive e torte dello
Scott. Invece di scrivere contro tal genere (se pur è vero che scrive)
bisognerebbe pregare Manzoni che facesse un secondo lavoro simile; e
sarebbe, una vera salute per la povera Italia. Gli altri, che dopo lui
hanno guastato e guastano il mestiere, bisognerebbe pregarli a tacersi,
e aspettare che sorga un Manzoni secondo»[16].

Giambattista Niccolini a Firenze e Felice Belletti a Milano non si
fidavano del proprio giudizio e aspettavano quello «del sesso gentile».
Il Niccolini era «impaziente» da un pezzo di vedere i _Promessi Sposi_
del Manzoni e I _Lombardi alla prima crociata_ del Grossi, «avendo in
gran concetto il loro ingegno»; come scrisse al conte Fracavalli il 20
decembre del '25. Nell'aprile del '26 chiedeva a Felice Bellotti: «Il
romanzo del Manzoni quando uscirà?» Gli rispose il 29: «Del romanzo
di Manzoni altra notizia non posso darvi, se non che tra un mese si
comincerà la stampa del terzo ed ultimo tomo, essendo già finiti i due
primi, che però l'autore non vuol dar fuori se non insieme con l'altro.
Sicchè non penso che prima del luglio si potrà leggere». Il 2 agosto
del '27 il Bellotti tornò a scrivergli: «Del Romanzo di Manzoni, del
quale eravate curioso, or che l'avrete letto, che ve ne pare? Ha esso
nel vostro senso adempiuta l'aspettazione che se ne avea? Le donne
di Toscana lo leggono con piacere? poichè di tal genere di scritture
alle donne principalmente, ed al popolo non idiota e non letterato,
si vuol lasciare il giudizio, essendo principalmente diretto al loro
trattenimento e vantaggio. Se non che moltissimo io stimo il giudizio
di quei dotti (ma son pochi), i quali sanno farsi a giudicare anche di
romanzi, messe da parte certe prevenzioni e pretensioni importune: e
chi più di voi sagace nel discernere quali siano queste e più giusto
nello scartarle?» Ecco la risposta del Niccolini: «Il Manzoni è qui, ed
ho imparato a conoscerlo di persona: voi sapete che i buoni si credono
volentieri grandi: ma non temo che l'affetto m'inganni, reputandolo il
primo ingegno d'Italia[17]. Ho letto il suo romanzo tutto d'un fiato;
ma non mi fido del mio giudizio, e aspetto anch'io quello del sesso
gentile».

Il Rosmini piglia pure a ragguagliare gli amici intorno la fortuna
del libro: «I _Promessi Sposi_ sono avidamente letti, a malgrado
della lunghezza, che da tutti sento notare»; così al Tommaseo, in un
biglietto del 22 settembre '27. L'8 di novembre annunzia a un altro
amico: «Il Manzoni trionfò in Toscana; il suo romanzo è tradotto in
francese: si rende anche tedesco e parlasi d'una traduzione inglese.
Sono di quei pochi uomini che fanno ancora varcare il mare e l'alpi
il nome italiano». Il 22 di decembre torna a ripetere: «De' _Promessi
Sposi_ già se ne sono fatte tredici edizioni, credo, e traduzioni
in tedesco, in inglese, in francese. Pochi libri italiani hanno mai
avuto tanto favore in Italia». Al Manzoni poi scriveva il 26 marzo del
'30: «qui i _Promessi Sposi_ sono applauditissimi dal fiore di Roma; e
quelli che non la cedono a nessuno in commendarli e in proporli alla
gioventù sono i Gesuiti». Monaldo Leopardi lo conferma in una lettera
a Giacomo: «Appena letto quel Romanzo ne fui rapito e lo giudicai
prezioso non tanto alle lettere, quanto alla religione e alla morale.
Ebbi poi molta compiacenza nel sentire che in Roma i confessori Gesuiti
lo danno a leggere alle loro penitenti»[18].

Nel settembre del 1827 Raffaele Lambruschini, discorrendo
nell'_Antologia_ di Firenze d'una ristampa del _Quaresimale_ del
Segneri e delle _Prediche alla Corte del Turchi_, ricordò, per
incidenza, i Promessi Sposi, «che ora sono nelle mani di tutti;
notabile produzione d'un uomo in cui non si saprebbe cosa ammirare
di più, se i talenti o le doti del cuore, e di cui la nostra età e
la nostra Italia hanno ragione d'inorgoglirsi». E nel ricordarli,
ne riportò anche un brano: il colloquio tra il Cardinal Federigo e
l'Innominato. «Si tratta» (così il Lambruschini), «da una parte, di
un potente, rinomato per ardite ribalderie e per empietà, temuto ed
odiato da tutti; dall'altra, di un sant'uomo, che trovandosi nella
più ardita impresa a cui si possa accingere un sacro oratore, non
adopra altre ragioni e altra eloquenza che quella dei semplici e
degli umili»[19]. Lapo de' Ricci in una lettera inedita a Gio. Pietro
Vieusseux, del 25 settembre 1827, piglia a dire: «L'articolo del
Larabruschini è un capo d'opera nel suo genere; i preti non gliene
sapranno buon grado, perchè vorrebbero dominare ed esser asini. L'ho
letto a pezzi e brani a questo mio paroco, giacchè per l'intiero non
era possibile farglici prestare attenzione, ma ne ho letto tanto per
scuoterlo, e per commoverlo, finchè sentendo il sublime colloquio del
Cardinal Federigo coll'Innominato ha dovuto piangere, ed ecco una
vittoria per la morale». Lapo volle manifestare anche a Gino Capponi
l'impressione profonda che aveva ricevuto dalla lettura de' _Promessi
Sposi_, e gli scrisse il 4 gennaio del '28: «Non mi riesce di levarmi
dal tavolino quel diavolo di Manzoni. Io credo di averlo letto per
intiero sei volte, e dieci volte l'Innominato col Cardinal Federigo, e
sempre ho pianto; come faceva, e forse più di quel che faceva, quello
scellerato convertito. Scrissi a Vieusseux che leggendo quel tratto
al mio curato, per quanto più giocatore che leggitore, più bevitore
che uditore, lo feci piangere; ho anche sentito soffiarsi il naso,
ho veduto far contorcimenti ad alcuno dei miei contadini (e non sono
dei più delicati campagnoli), mentre glielo leggeva. Qualcheduno,
che aveva sentito leggere i _Promessi Sposi_, una sera ha lasciato
la partita dei quadrigliati per venire alla panca di cucina, che è
la sala di riunione, per sentirmi leggere. Hanno tutti riso a Don
Abbondio, ed hanno trovato il confronto subito: fra Galdino è _tale
quale fra Bonaventura di Radda_, diceva un altro: _certi miracoli senza
sugo_; ma sentito il pane del perdono di fra Cristoforo, silenzio, e
pianto nascosto: perchè un contadino, che piange raramente, e soltanto
perchè gli è morto il bue o l'asino, trova impossibile che si deva
piangere sentendo leggere... Ma quel Conte zio! ne conosci tu con
quel parlare misterioso? io sì. E quella sommossa di Milano! E Renzo
che gli pareva aver fatto amicizia col Gran Cancelliere! E il Notaro,
che dice che è per pura formalità che lo fa condurre in prigione! E
la Monaca per forza! e che so io? Vi può esser egli più verità? più
effetto? Io m'inquieterei come il Prior Albizzi con quei letterati che
vogliono giudicarne letterariamente, o che vorrebbero far cambiare il
romanzo perchè dicesse a loro modo. Quel libro mi pare che non possa
appartenere alla parte letteraria: è un gran libro di morale; e tale,
io crederei, da fare una rivoluzione come il _Don Quichotte_, se un
libro potesse far cambiare gl'istinti del cuore umano».

Mentre Lapo de' Ricci, che era semplicemente un colto gentiluomo,
non rifinisce di leggere il dialogo tra il Cardinal Federigo e
l'Innominato, e quel dialogo gli strappa le lagrime; un letterato,
e famoso, Francesco Domenico Guerrazzi, scrive, che del Cardinal
Federigo «il Manzoni potè fare un santo, ma non avrebbe mai potuto
farne un galantuomo»[20]. Non c'è che dire; tutti i gusti son gusti!
Col P. Cristoforo invece fu benevolo; e in un bizzarro giro che la
sua fantasia fece fare al Romanzo storico, menato che l'ha in Italia
«per ricrearsi», lo conduce «pei colli della Brianza, dove conobbe
Renzo e Lucia, prese tabacco nella scatola di fra Cristoforo[21]: un
degno frate in verità, ma il Romanzo dentro un orecchio ai suoi amici
susurrava sommesso, che tre quarti delle virtù del frate Cristoforo,
Alessandro Manzoni le aveva tolte a nolo da lui»[22].

Terenzio Mamiami, che era a Firenze nel 1827 quando vi andò il Manzoni,
racconta: «io l'ho veduto impacciato fuor modo degli encomii infiniti
che gli suonavano intorno. Rispondeva con parole poche ed avviluppate
e arrossiva tuttavia a somiglianza di fanciulla. Spesso il Leopardi
assisteva a codeste apoteosi. Ed io, vedutolo una sera rincantucciato
e solo, mentre il fiore de' letterari e degli studiosi affollavasi
intorno al Manzoni, lo incitai a manifestare quello che gliene paresse.
Me ne pare assai bene, rispose, e godo che i Fiorentini non si
dimentichino della gentilezza antica e dell'essere stati maravigliosi
nel culto dell'arte». Aggiunge: «Pochi anni dopo io l'udivo in Firenze
esprimere intorno al Manzoni questa riservata sentenza. Che l'avere
eletto pel suo romanzo una dell'epoche più sventurate e servili delle
storie italiane dee nascondere molte ragioni ed assai poderose[23];
ma certo non appariscono, e sembra invece uscire dal suo racconto la
deplorevole conseguenza che del presente non bisogna zittire, dacchè
gl'Italiani altre volte si trovarono molto peggio e l'Austriaco vale un
oro a petto del Castigliano»[24].

In due lettere, tutte e due dell'8 settembre '27, il Leopardi aprì
l'animo suo al padre e allo Stella. A quest'ultimo scriveva: «Io qui
ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di
trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità, e degno della sua
fama». E al padre: «Tra' forestieri ho fatto conoscenza e amicizia
col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l'Italia
parla». Di nuovo al padre: «Ho piacere che ella abbia veduto e gustato
il Romanzo cristiano del Manzoni. È veramente una bell'opera; e Manzoni
è un bellissimo animo e un caro uomo». E al conte Antonio Papadopoli:
«Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti,
mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno; e tale ho
conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco a Firenze.
È uomo veramente amabile e rispettabile».

Il barone Giuseppe Sardagna, il 25 febbraio del '28, dava questi
ragguagli all'Acerbi, allora console austriaco in Egitto: «Manzoni
scrisse un romanzo storico, _I Promessi Sposi_, di cui certamente
avrete letto qualche cosa anche in Alessandria, giacchè suppongo che
i giornali francesi almeno vi arrivino. Questo libro ebbe un successo
universale in Italia. L'autore vendette unicamente mille copie della
sua edizione originale, e se ne fecero già più di sei ristampe. In
tutt'altro paese questa produzione bastava per far la sua fortuna: in
Italia il suo profitto fu di lire seimila a stento»[25]. Col Sardagna
si accorda il consigliere Federigo De Müller, che nel descrivere nelle
proprie _Memorie_[26] una visita fatta al Manzoni nell'agosto del '29,
piglia a dire: «Gaetano Cattaneo mi raccontò che i _Promessi Sposi_ non
hanno reso al Manzoni più di 5000 franchi, mentre i librai ne hanno
guadagnato centomila; che il Manzoni non volle mai decidersi a fare una
seconda edizione per il suo editore, essendo d'opinione che vi sarebbe
stato molto da migliorare, e in tal modo dovette essere spettatore che
in tutte le più grandi città d'Italia si pubblicassero nuove edizioni e
ristampe, tutte travisate». Infatti nel 1827--l'anno stesso della prima
comparsa de' _Promessi Sposi_--furono subito ristampati a Livorno da
G.P. Pozzolini, col ritratto dell'autore; a Firenze da Gaetano Ducci;
a Lugano dal Veladini; a Napoli co' torchi del Tramater. In Torino ne
fece due edizioni Giuseppe Pomba; a Parigi li riprodusse due volte in
italiano il Baudry; a Berlino vennero tradotti in tedesco dal Lessman.
Nel '28 il Del Majno li ristampò a Piacenza, il Batelli a Firenze; il
Pomba ne fece una terza edizione a Torino; il Baudry mise in vendita
due altre sue edizioni a Parigi; dove furono pur pubblicate le due
traduzioni in francese del Rey Dusseuil[27] e del Gosselin; a Lipsia
uscì alla luce la traduzione in tedesco del Büllow, a Pisa quella
in inglese di Carlo Seven. In diciotto mesi si hanno dunque tredici
ristampe, delle quali nove fatte in Italia, quattro a Parigi; e cinque
traduzioni, due in francese, due in tedesco e una in inglese.

L'Elena, lo Zucchi e Gallo Gallina incominciarono a illustrare
il Romanzo con tavole litografiche[28]. Nella festa da ballo in
costume, data a Milano nel carnevale del '28 dal conte Bathiany, la
quadriglia che destò maggiore entusiasmo fu quella di _Don Rodrigo_
e dei bravi, anch'essa, insieme con gli altri costumi, riprodotta
in litografia[29]. La _Minerva Ticinese_ annunziava: «Quanto prima,
con musica del maestro Caraffa, deve comparire sulle scene del Teatro
italiano di Parigi un'opera tratta dal sì applaudito romanzo _I
Promessi Sposi_»[30].


II.

Non senza il suo perchè il barone Sardagna si lusingava che l'Acerbi
avesse avuto notizia dei _Promessi Sposi_ dai «giornali francesi»,
quasi tutti concordi nel lodare il nuovo romanzo, a cominciar dal
_Mèmorial catholique_, dove ne parlò il conte O'Mahony[31], a venire
alla _Gazette de France_. Quest'ultima tornò a discorrerne anche
nel '32, quando uscì alla luce la bella traduzione in francese del
Montgrand. «Ben mille romanzi ci furon regalati da due anni in qua»
(son parole della _Gazette_) «ed è anche troppo se di tutta questa
farraggine resterà un solo volume. Qual povera abbondanza mai! E
sarà vero che fra tanti scrittori, pieni d'estro, di fantasia, di
perizia nell'arte dello scrivere, non se ne trovi neppur uno che pigli
scrupolosamente a investigare la feconda miniera de' nostri fatti
domestici? E noi rimarremo così, noi la nazione più letterata del
mondo, senza avere il nostro Walter Scott e il nostro Manzoni?» È un
giudizio, come notava giustamente l'_Eco_ di Milano, (che lo riportò
traducendolo), «da fare insuperbire l'Italia, la quale ha dato i natali
al Manzoni, e da convincerla che anche in paese straniero e rivale si
rende giustizia ai geni della sua nazione ed ai loro capolavori»[32].
Proseguiva il giornale francese: «Vedete qua il Manzoni; si è
impossessato degli annali del suo paese, e le rozze pietre son divenute
diamanti sotto le sue mani... Non altro che col mettere in azione
i più reconditi segreti del cuore umano seppe trarre da un fondo
semplicissimo le scene sue più drammatiche e più care... I _Promessi
Sposi_ ebbero fortuna infinita in Europa; e pure, questo romanzo è
tutto quanto appoggiato a un pensiero affatto religioso, anzi, si
potrebbe dire, affatto cattolico».

Fino dal 1827 la _Revue encyclopèdique_, annunziando la comparsa de'
_Promessi Sposi_, aveva scritto: «Une multitude d'aventures et de
caractères remplissent le cadre de cet ingénieux roman. Des incidens
habilement disposés, une peinture fidèle et animée des moeurs de cette
époque, un style toujours approprié aux situations, une grande variété
de tons, telles sont les qualités qui ont mérité à ce bel ouvrage
le succès éclatant qu'il vient d'obtenir en Italie, et qu'il va sans
doute obtenir en France». La _Revue_ promise di riparlare di questa
«production littéraire aussi distinguée, et de payer un nouveau tribut
d'estime à l'auteur, déjà célèbre en Italie comme écrivain dramatique
et comme poète»[33]. Disgraziatamente ne tornò a parlare per bocca
d'uno de' nostri esuli, Francesco Salfi, che raggiunse addirittura il
grottesco; pigliando perfino come buona moneta il brano del «dilavato
e graffiato autografo» che il Manzoni riporta sul bel principio; brano
che è una contrafazione perfetta non solo dello stile e della lingua,
ma della stessa ortografia del Secento. Infatti, dopo aver detto, che
«le sujet du roman est tiré d'une histoire, peu connue, du chanoine
Joseph Ripamonti, et rédigée dans le style prétentieux et ridicule
du _Secento_», soggiunge, che il Manzoni «débute par un fragment du
manuscrit de Ripamonti et fait ainsi mieux sentir la nécessité d'en
réformer le style, à fin d'en rendre la lecture supportable à ses
contemporains». Il Ripamonti che diventa l'autore dell'immaginario
«scartafaccio»! È grossa, ma non è la più grossa che il critico sballi.
Nei _Promessi Sposi_ trova mancanza di coerenza organica e d'intreccio,
bassezza ne' personaggi. «Ce qui rend cette histoire plus repoussante
encore» (seguita a scrivere) «c'est l'intervention des fossoyeurs,
que l'auteur fait agir et parler trop longuement. Shakespeare s'était
permis de nous présenter pour quelques instants ces dignes personnages
s'entretenant entre eux. D'après son exemple, M. Manzoni est allé
bien avant: il nous apprend leurs occupations, leurs friponneries,
leurs bassesses. Ces détails, quelles que soient les beautés qui s'y
mêlent, sont trop hideux»[34] E così, per la prima volta, nel 1828,
la «modestia manzoniana» dovette ricevere da un critico ostile[35] la
suprema delle lodi per un poeta: quella di sentirsi nominare accanto a
Shakespeare.

Il Mamiani in un colloquio che ebbe a Parigi col Sismondi, ragionando
della _Morale cattolica_, l'udì concludere con queste parole: «il
vostro Manzoni argomenta bene, ma i vostri preti lavorano male; e
poniamo pure che il regolo non sia distorto, la Curia lo storce ella
al bisogno e avvezza gli occhi del volgo a falsar le misure. Oltrechè,
non è buona quella forma di culto che accarezza le pericolose tendenze
d'una stirpe di uomini piuttosto che di combatterle... Ad ogni modo,
proseguiva il Sismondi, se nella _Morale cattolica_ si ammira un
convincimento profondo, una rara potenza dialettica e certo sentimento
finissimo e delicatissimo dell'indole umana e del bene etico, non manca
qua e là qualche sforzo di apologista e qualche amplificazione acconcia
al proposito[36]. Invece ne' _Promessi Sposi_ il Manzoni è scrittore
stupendo e non superabile. Con che arte ti pone innanzi le istituzioni
cattoliche, i frati, le monache, i voti non revocabili, la confessione
e che so io? scegliendo i punti più favorevoli di prospettiva e
combinando in maniera gli avvenimenti che ogni colpa sia solo degli
uomini, e nessuna delle dottrine! Il fatto sta che un altro romanzo
non c'è in Europa, il qual goda forse di uguale celebrità. Nè il
Manzoni è inventore del genere. Nemmanco è inventore di quei «metodi
compendiosi e vivi, o di entrar nel racconto _ex abrupto_ per via di
dialoghi brevi e animati, o di abbellirlo e farlo evidente mediante
le spesse descrizioni: e queste condurre con maestria veramente
pittorica e qual direbbesi del genere fiammingo, non intralasciando
particolare nessuno ancorchè minutissimo, qualora aiuti l'intendere
bene un carattere, un'azione, una costumanza. Ma ciò ch'è novissimo
e farà immortale il vostro Poeta per ogni tempo fu il tessere una
epopea così casta e nobile, governata da sì eletta moralità, spirante
un aroma sì puro di religione, che ogni madre consegna senza paura
nessuna alla sua fanciulla quel libro, e ogni direttor di collegio e
di scuola fa il simile agli alunni suoi. Che dirò dell'aver posto con
nuovo esempio sul dinanzi della scena due umili popolani, e nell'ultimo
sfondo gli uomini e le cose accattate dalla storia? Qual concetto è
più cristiano dello sparger di luce la probità rassegnata della plebe
lavoratrice e raffrontarla con le colpe, le violenze, gl'inganni che
gli ordini superiori civili esercitavano impunemente sugl'inferiori,
i quali invece erano e sono il pupillo naturale e perpetuo consegnato
all'umanità e sapienza educativa dei primi; e vedersi oggi quel
che significa l'aver trasandato le obbigazioni e le cure della
indeclinabile tutela»[37].

Intorno ai _Promessi Sposi_ il Sismondi espresse il proprio pensiero
anche in una lettera che, da Ginevra, scrisse a Camillo Ugoni l'11
settembre del '29. Gli dice: «Je suis enchanté d'apprendre que vous
préparez une nouvelle édition de ses oeuvres[38]: c'est un homme d'un
beau talent et d'un noble caractère. J'apprends avec bien de chagrin
qu'au lieu de préparer quelque nouvel ouvrage dans le genre du roman
historique dont il a fait un prèsent à l'Italie, il écrit au contraire
un grand livre contre ce genre d'ouvrages. Il y avait du génie dans
ses _Promessi Sposi_, il y avait en même tems l'exemple du genre de
lecture, qui peut, en dépit de la censure, faire l'impression la plus
générale et la plus utile sur le public italien». A Fulvia, figlia di
Pietro Verri, che fu moglie del colonnello Jacopetti, uno de' prodi di
Napoleone, scriveva il 22 luglio del '30: «Si vous voyez quelque fois
Manzoni, parlez lui de moi, dites lui mon admiration pour son talent,
mon regret si vif, mon regret partagé par toute l'Europe, de ce qu'il
ne continue pas à marcher dans la carrière où il est si glorieusement
entré. Dites lui que jamais il n'avait servi, que jamais il ne pouvait
servir si puissamment la cause à la quelle il me reproche de ne point
m'accorder avec lui, que par le portrait du P. Cristoforo. Il y a dans
ses _Promessi Sposi_ bien plus qu'un bel ouvrage littéraire, bien plus
même qu'un genre nouveau donné à l'Italie, il y a une bonne action.
Pourquoi ne pas la répéter quisqu'il le peut? Par des livres sérieux
on ne répand les pensées sérieuses que parmi ceux qui les ont déjà:
mais lui il les a introduites dans un monde nouveau, qui n'avait jamais
réfléchi, qui n'avait jamais mêlé les meilleures émotions du coeur à
ses amusements».

Tra i giornali italiani, de' primi a parlare de' _Promessi Sposi_
fu _Il Nuovo Ricoglitore_, di Milano. «S'è finalmente veduto questo
romanzo del Manzoni, che aspettavasi da sì gran tempo; _ma le temps ne
fait rien à l'affaire_, direbbe anche qui opportunamente l'_Alceste_ di
Molière: non si badi dunque all'aspettazione, ma vediamone l'argomento,
discorriamone la tessitura». Dopo averne esposto «l'argomento» e «la
tessitura», prosegue: «Non sarà già qui tutta la storia compresa ne'
tre volumi? sento domandarsi da molti. Signori miei, l'è proprio qui
tutta intera, salvo certi tratti accessorii, che son parte, ma non
essenziale, del romanzo, e son molti, a dir vero: ma non vogliate
inferirne però che il romanzo abbia ad essere una seccaggine, un
sonnifero, una morte: leggete prima e sentenziate poi, che ne avrete
allora acquistato il diritto: ma voi dite che non volete comperare
questo diritto a un cotal prezzo; ebbene, udite adunque, non mica una
sentenza, ma quattro chiacchiere d'uno che ha già letto. Che le arti
abbiano un codice di leggi giustissime, chiarissime, opportunissime,
dalle quali uno non può discostarsi senza rendersi _ipso facto_ reo
di oltracotata prevaricazione, è questo un teorema così evidente
ch'io non so quello che mi direi o farei per sostenerlo; mi pare che
per difenderlo terrei di battermi ad occhi chiusi; che poi sempre
l'effetto d'un lavoro d'arte risponda alla bontà delle leggi e alla
diligenza con cui furono seguitate, gli è questo un fatto rinnovatosi
tante volte, che non vuoi essere recato in dubbio: or dalle generali
venendo, come l'ordine prescrive, a' particolari, dico che l'arte dello
scrivere romanzi ha sue leggi, le quali vi comandano di scegliere a
dovere argomento e personaggi, che hanno ad essere o cose famose per
le storie, ovvero imprese (se le create) d'un conio di grandezza e di
perfezione ideale, che le renda interessanti e cospicue: v'ingiungono
le leggi del romanzo d'annodare i fili della favola, e come gli abbiate
intricati quanto bisogna a destare interesse e un soave stringicuore
in chi legge, avete poi a progredire senza posa verso il disviluppo,
e quanto più difilato correrete a quello, tanto maggiore riuscirà il
diletto che il vostro romanzo procaccerà; son poi vietati dalle prefate
leggi i lunghi episodi, i parlari dell'autore, quand'anche sien posti
in bocca de' personaggi, i brani di morale, e siffatte cose, sotto pena
che il romanzo cada di mano al lettore addormentato: questo prescrivono
le leggi del romanzo, piene d'equità, ma contro a quelle stanno molti
fatti dove elle non ebbero alcun potere, e, per tacere d'altri esempi,
parlerò adesso dei _Promessi Sposi_. Il romanzo del Manzoni va contro
tutti gli ordinamenti prefati; lascio stare l'oscurità de' personaggi
che fanno da protagonisti, e dico degli episodi, che son tanti e sì
lunghi, che in essi la storia de' _Promessi Sposi_ si perde, e per poco
non diventa una cosa accessoria: che è mai infatti la storia, che sopra
ho descritta, rispetto alle tante altre cose che ingrossano questo
libro; in cui troviamo trattati di economia pubblica, disquisizioni
storiche, tirate di morale, omelie di vescovi, prediche di cappuccini,
ecc.? Per le quali cose, che altro dovrebbe accadere, stando alle leggi
dell'arte, se non istanchezza infinita nel lettore, sbadigli, sonno;
eppure la faccenda cammina diversamente, e ognun può vedere che il
romanzo del Manzoni corre rapidamente per tutte le mani ed è letto con
avidità. Qual cosa concludano poi tanti leggitori come son giunti in
fine, io non lo so, ma per il fatto mio affermo che questa lettura m'ha
trattenuto piacevolmente assai, e che m'è doluto quando col libro vidi
toccare il termine il mio diletto. Fenomeni! casi strani! Ma vediamo un
po' se ne venisse fatto di porre innanzi alcuna ragione ad intendere il
caso strano. Non togliamo più a ragionare delle leggi onde si governa
il romanzo, nè vogliasi inquisire se il Manzoni le abbia osservate,
e se questo sia quindi vero romanzo, o che altro sia; da chi volesse
contendere su questo punto io mi spiccerei con dire: amico, se nol vuoi
romanzo, sarà storia, sarà trattato, sarà un saggio, qualcosa sarà: e
per isfuggire anzi affatto ogni questione di titolo, lo chiamo libro.
Ora, in questo libro, l'autore deviando ad ogni tratto dalla storia de'
_Promessi Sposi_, scorre, come sopra io diceva, a ragionare d'altre
cose, che hanno bensì una relazione stretta col soggetto principale,
ma non era forse mestiere che vi si spendessero tante parole. Pur non
ostante, tutte coteste cose, che sembrano scucite, le stanno bene
insieme, e non mandano suoni discordi, e non isviano punto l'animo
del leggitore. Da qual movente può egli derivar questo? Sarebbe egli
mai che la condotta e il legame dell'affetto suppliscono a quella
condotta e a quel legame che mancano apparentemente nell'opera? Veggo
di vero che essa è tutta intuonata a un modo. L'ingegno sommo e il
cuor candido di chi dettò son le corde che risuonano da per tutto,
son quelle che mantengono una soave consonanza, che formano una reale
unità, una verace condotta; quella condotta appunto e quell'unità che
ammiriamo nelle odi di Pindaro, le quali pur toccano tante corde e così
disparate da parer cose strambe chi non sentisse che le stanno tutte
come a dire entro lo stesso accordo: e appunto d'un sì fatto genere
sono le opere del Manzoni; ma non ci discostiamo dai _Promessi Sposi_.
In questo libro l'A. ci dispiega un bel tratto di storia patria con
accurata fedeltà, con nitido ordine, con sottile e sana critica. In
questo libro abbiamo una viva pittura de' costumi del secolo XVII. In
questo libro troviamo rappresentati colle vere loro tinte caratteri
d'ogni maniera, d'ogni cognizione, d'ogni stato. Abbiamo dipinte
orrende scelleratezze, che son toccate con pennello sì gagliardo da
scuotere il cinico più gelato; poi t'imbatti in certe scene gioconde,
dove la forza comica è accompagnata ad una morale che ti consola; poi
siam trasportati in situazioni pietose, commoventissime. Il pensiero
dell'A. scorre leggerissimo sui vari soggetti, nè il seguirlo riesce
cosa grave alla nostra mente, poichè o penetri acutissimo, e sul fare
di Sterne, fin ne' più profondi recessi del cuore umano, o si levi
sublime con alti e luminosi concetti, o rapido voli a raggiungere
idee lontanissime e disparate onde farne ingegnoso ed inaspettato
confronto, tu travedi sempre la mente dell'A. tutta intesa con costante
perseveranza a dei casi veri, interamente, liberamente, e non con altro
animo, tranne quello che ne abbia l'umanità giovamento e diletto.
Io potrei avvalorare le cose sopraddette, trascrivendo qui dal libro
alcuni luoghi, belli in sommo grado e immaginosi. I vari quadri della
pestilenza; certi gruppi del sollevamento popolare; i passi drammatici
dove fa sì bello spicco quella grande anima di fra Cristoforo; il
sogno di Don Rodrigo, che pare uscito dal cervello di Shakespeare,
tanto è cosa caldamente immaginata; potrei trascrivere la descrizione
dei dintorni di Lecco, che la è felice e magnifica quanto un quadro
del Lorenese, e molti altri passi potrei allegare (se la legge della
brevità me lo concedesse) per li quali si verrebbe a mostrare quanta
energia, quale elevatezza, qual fonte d'affetto e di voluttà squisita
si contenga nel libro dei Promessi Sposi, comunque alcuni abbiano
affermato, nè io vo' negarlo, ch'e' sappia d'ascetico... Sì, signori,
d'ascetico: e ne tornerà per questo meno piacevole la lettura? Ma siamo
anime forti, e queste debolezze, che ponno intertenere i pusilli, non
entrano punto nei nostri spassi, se non quando le divengono soggetto
d'allegro ed ingegnoso motteggio nelle amene brigate. V'intendo, o
signori, e capisco che vorrete per conseguente essere anche persone
di _carattere_, n'è vero? In questo caso v'è sicuramente interdetto
il gusto di questa lettura. Poichè fra le vostre mani un libro mezzo
ascetico potrebbe farvi scadere da quella reputazione di gagliardia...
pensava per la soddisfazion vostra a un ripiego... Uditemi; e se vi
procacciaste questo libro di cheto e ve lo leggeste segretamente?»[39].

Nella _Gazzetta di Milano_ così ne scrisse Francesco Pezzi: «L'autore è
chiaro per molti conti. Nepote dal lato materno del gran Beccaria, egli
non si ristette al lustro che gli deriva da questa affinità. Giovane
ancora, il Manzoni alzò grido di facile ingegno. Più tardo, salì i
gioghi di Pindo con fausto successo. Il carme in morte dell'Imbonati
sta presso ai _Sepolcri_ del Pindemonte, del Foscolo, del Torti. Gli
inni in onor di Maria spirano la soavità della grazia terrestre. In
altri lirici componimenti la sua musa si spinse a nobile altezza.
Trattosi quindi nel sentiero in cui quel d'Asti raccolse il retaggio
della Greca Melpomene, il Manzoni volle trattare argomenti semplici
sulle norme della scuola romantica. Delle due tragedie ch'ei scrisse
non rimangono nella memoria che alcuni concetti ed isolate bellezze di
stile. In fine egli attese alla prosa. Il Manzoni può dirsi il primo
che abbia ora compiuto un vacuo fra noi in un ramo di letteratura, nel
quale gli stranieri peccano d'abbondanza. Sia storia o romanzo, il suo
libro mancava all'Italia. Da lungo tempo non facciam che discutere sul
modo di concepire e di scrivere. Il Manzoni frattanto non discuteva,
ma concepiva e scriveva. Il nuovo parto della sua mente incatena
l'attenzione del leggitore: crediamo con queste parole averlo definito
abbastanza. La ragione della voga di quest'opera salta agli occhi
immediatamente. Varietà ed importanza di avvenimenti; pittura energica
d'usi e di costumanze, di cui non si è perduta la traccia; caratteri
vivamente tratteggiati; passioni poste in contrasto, le vie dell'animo
ricercate, e tutto ciò senza sforzo, senza l'orpello dell'esagerazioni,
senza sussidio di mezzi incomprensibili; ecco l'origine prima da cui
deriva quell'allettamento che infondesi alla lettura dei _Promessi
Sposi_. Se a questo s'aggiunga un bel calcolato riparto di tanti
episodi, che presi isolatamente parrebbe a prima giunta non potersi
unire al soggetto fondamentale, ma che vi si combinano come tanti raggi
nel centro d'un disco, e si avrà ragione dell'aura ond'è onorato il
lavoro del Manzoni. L'autore non attinse la principal vicenda narratavi
a fonte luminosa, in quanto che i veri protagonisti dell'azione non
sono illustri per alcun conto. Ma s'egli non comincia a intertenerci
che della promessa fede di due amanti poveri e oscuri, mano a mano
che va tessendo la loro istoria, da semplice che era, s'avviluppa
con grande artificio, collegandosi ad avvenimenti ed a persone di
grande importanza; locchè addoppia la sollecitudine del leggitore nel
momento in cui crederebbesi che dovesse scemare». Il Pezzi piglia poi
a riassumere «le cose esposte, sviluppate e condotte con finissimo
accorgimento nel primo e nel secondo volume dell'opera del Manzoni»;
promette di parlare «quanto prima del terzo e ultimo»; e di ragionare
anche, «colla guida d'onesta critica», della lingua e dello stile
usati dall'autore, «non senza provare com'egli, tutto pieno del suo
soggetto, siasi mostrato ad un tempo filosofo, moralista, uom di mondo
e pittore»[40].

Curioso è il giudizio che ne dette il _Corriere delle Dame_: «Appena
uscita l'opera, ognuno si fece a dire: _è uscito un Romanzo storico di
Manzoni_. La celebrità del nome trasse tosto numerosissimi ammiratori
all'acquisto, ed alcuni, sempre fermi nel volerlo battezzare _Romanzo_,
lo trovarono, sotto questo aspetto, sterile e poco interessante.
Trattasi, dicono quelli, di due paesani (_Renzo e Lucia_) che s'hanno
a sposare e che un feudatario prepotente glielo impedisce con ogni
sorta di mezzi; dopo gran traversie si sposano, e lì finisce la
dolorosa istoria, poichè tutti gli altri fatti e narrazioni s'hanno a
considerare come altrettanti episodi, e formano invece il nerbo del
libro.--Io rispondo a questa prima questione che il rinomato autore di
tante belle poesie e di ben altri lodati componimenti non comincia
dal dire sua propria quest'opera, e quand'anche la si fosse, egli l'ha
intitolata: _Storia milanese del secolo XVII_; perchè dunque la si
vuole un _Romanzo_? Certo che se si fosse inteso di offrirci un romanzo
storico sulle tracce di Walter Scott doveasi innalzare fra più nobili
subbietti la scelta de' protagonisti, onde l'interesse generalmente
eccitato venisse per le avventure di personaggi degni veramente
d'istoria. Ma non vediamo noi forse che appunto l'illustre Scozzese,
costretto a non smuovere se non storicamente dalle capitali o dai
determinati luoghi i suoi personaggi illustri, inganna poi e tradisce
il lettore, facendo in un luogo accadere cose avvenute le mille miglia
lontane, e ravvicinando epoche distantissime fra loro, e confondendo
le costumanze e gli usi tutti propri di diverse età, soltanto per dare
in un _solo Romanzo storico_ l'idea completa di varie avventure, di
varie costumanze, e per stringere in un'epoca sola i vari periodi di
una vita illustre? Meno male sarà dunque che ideali sieno i personaggi
e tali da potere esser mandati qua e là ove più brama l'autore, purchè
storiche sieno le relazioni de' fatti che contiene il libro.--Meglio
sarebbe, lo dicon tutti e lo dico anch'io, che la scelta cadesse sopra
un'avventura d'illustri persone, e gli storici episodi corrispondessero
a que' tempi, per istruirne il lettore; ma qui sta la difficoltà, e non
già la difficoltà di invenzione, ma la difficoltà di rinvenire fatti
interessanti, contemporanei ad avventure particolari e specialmente
amorose di persone degne di storia.--Risponderà taluno, che è assai
comodo formare un romanzo di tal sorta, poichè non è alla fin fine
che una cronaca di quel determinato tempo, collegata ad una novella
amorosa qualunque ella siasi.--Sia pur facile e comodo l'inventare
una novelletta amorosa per condire quell'arida parte storica che vuol
narrarsi, non sarà comodo, nè a tutti facile sicuramente far buona
scelta dell'epoca che vuoi presentarsi, far che succosamente sieno le
cose narrate, e la sana filosofia, la buona morale, la vera politica
venga alla mente del lettore mediante la narrazione medesima; non sarà
comodo il frugare centinaia di volumi e manoscritti per determinare
alcune verità dapprima mal note; non sarà facile di belle e commoventi
pitture descrittive adornare l'opera che si offre; nè sarà tanto
comodo e facile mantenere le varie persone nel loro vero carattere,
e fare che le ammonizioni di un cardinale Federigo Borromeo sembrino
da quel medesimo chiarissimo porporato dettate e pronunziate; che le
espressioni di un prepotente signore sieno le vere e le sempre udite;
che la compassione fraterna di un P. Cristoforo dipinga una rara
pietà, ma probabile altronde in persone benemerite a Dio; che i tristi
effetti di una forzata monacale reclusione sieno que' tanti mali che
vediamo nell'opera del Manzoni vivamente scolpiti; non sarà facile,
nè comodo, in fine, far sì che in ogni parte dell'opera rilucente ed
esaltata veggasi la virtù, sotto rozzi panni, e in tutt'altri depresso
e annichilito il vizio.--Voi dunque, proseguon gli altri, ce lo date
per un capo d'opera, per un _non plus ultra_: ed io, che pur vorrei mi
si prestasse la debil penna a que' maggiori elogi che amo tributare ad
A. Manzoni, dirò che questo libro è bello, interessante e migliore di
tanti altri che menarono in questi ultimi tempi gran rumore: ma non
perciò lo veggo privo di qualche pecca, nè tale da dirsi insuperabile.
È prima, fra le cose ch'io prenderei a censurare, una prolissità che
sfinisce e stucca in più d'un luogo; e basti, per accennarne uno, il
dire che la sommossa, accaduta in Milano per la carezza del pane, e
il saccheggio che voleasi dare ad una bottega di fornaio, fa muovere
il Gran Cancelliere Ferrer per sedare il tumulto, e 14 pagine, belle,
lunghe e larghe, come sono, tutte vengono impiegate a descriverci
l'andata non più di cento passi della carrozza di Ferrer, circondata
dal popolo.--Viene, in secondo luogo, l'inutilità di alcune nozioni
che non fanno bella, nè più interessante l'opera, e fra queste quello
sciocco e lungo contrasto fra Bortolo e Renzo, il quale di tutto avea
bisogno fuorchè di perdersi a cicalare sul nome di _bagiano_ con cui
sogliono i Bergamaschi distinguere i Milanesi.--Renzo poi lo trovo
talvolta ingenuo fuor di misura, tal altra perspicace oltre la naturale
sua condizione, ed atto a riportarmi perfino un'intiera predica del P.
Felice; in qualche incontro mancante troppo di un necessario ardimento
e facile a confondersi pel più piccolo imbarazzo, ed altrove di una
fortezza d'animo che lo innalza all'eroismo, e pronto a pronunciar
sentenze ed a filosofare più che non gli convenga; furibondo amante
della sua Lucia, talora passa molt'ore e giorni senza pur rammentarla;
tratto alla città per quell'amore di cui tutto vive, n'è dimentico e
spogliato per seguire que' tumulti che fanno d'ordinario allontanare
anche i meno timidi ed i più avvezzi alle popolari sommosse.
Illetterato, com'egli è, tiene corrispondenza col mezzo di un amico
con Agnese, madre di Lucia, la quale, fra l'altre, accompagna una sua
lettera di un soccorso a lui di cinquanta scudi... e come dunque sta
in seguito che Renzo non avesse fatto confidenza a nessuno di quel
denaro avuto?... È Renzo perciò l'unico personaggio intorno al quale
potrebbero insorgere ben fondate censure, e d'uopo avrebbe d'una
lima accurata la parte che lo risguarda.--Ma, insieme strette tutte
queste cose, non appariscono che nei fra mezzo a tante bellezze; e
le copie di quest'opera furono in meno di due mesi tutte spacciate,
e se ne fa ristampa a Torino, a Livorno, e si stanno preparando
comiche rappresentazioni, tratte dall'opera medesima, e finalmente si
è aperta associazione a dodici tavole litografiche, che i punti più
interessanti della storia rappresenteranno, essendo affidata a valenti
artisti l'esecuzione dei disegni»[41].

_La Vespa_, un altro de' giornali milanesi d'allora, invece si avventò
contro il nuovo romanzo con rabbia feroce; e chi scese in campo a farne
strazio fu il suo «compilatore» Felice Romani. «Sepolta per tre anni
nel magazzino del Ferrario, esce finalmente alla luce questa vecchia
ringiovanita, di cui si dicevano le meraviglie dai pochi che l'aveano
veduta e dai molti che l'avean da vedere. Esce finalmente alla luce:
e corrono staffette per l'Italia, e galoppano corrieri oltre monti ad
annunziare la comparsa della Bella del secolo XVII, abbigliata alla
foggia del secolo XIX. Gli amici dell'A. la van portando in trionfo
per le vie, per le case, pei caffè: bella! dice un giornalista:
bella! ripete un libraio: bella di qua, bella di là, bellissima,
arcibellissima, meravigliosa! Ch'io pure possa darti un'occhiata, o
veneranda virago, che meni tanto trionfo, e fai girare il cervello
di tutti i Narcisi della nostra letteratura!--Ahimè, o lettori, io
l'ho veduta... Io non conosco il Manzoni nè per benefici, nè per
ingiurie ch'io n'abbia ricevute, nè ho mai potuto e voluto frugare
nella sua coscienza per giudicare della sua pietà. Le verità sociali
e cristiane son meritorie d'innanzi a Dio e d'innanzi ai Governi: e
il mio cuore e la mia voce venera e loda chi le possiede veracemente:
ma esse non accrescon dramma di merito sulla bilancia ove si pesano
i letterati. Questi van giudicati dagli scritti; ed io plaudo al
Manzoni come lirico di vaglia, quando leggo i suoi versi in morte
di Carlo Imbonati, qualche squarcio degli Inni sacri e la battaglia
di Maclodio; ma cattivo tragico lo chiamo quando esamino il Conte
di Carmagnola e l'Adelchi, nè lo reputo miglior romanziere quando
svolgo...--Alto là, non è ancor deciso se _I Promessi Sposi_ siano
un romanzo, o una storia.--Tanto peggio per l'autore! se siete ancora
indecisi sul genere del componimento. Voi date campo ai maledici di
poter dire ch'ei non è nè romanzo, nè storia. Ma questo non voglio dir
io; e poichè i _Promessi Sposi_ è pur forza che sian qualche cosa, li
riguarderò come un romanzo fondato sulla storia. E i più concorrono in
siffatta opinione. Non udite voi tutto il giorno gridare a gola aperta:
finalmente abbiamo un Walter Scott anche noi! finalmente il Manzoni
ha _riempiuto un gran vuoto_ che nella nostra letteratura esisteva.
Benigni lettori! lasciatemi dire quattro parole a costoro».

Risparmio queste «quattro parole» ai lettori e seguito a spigolare. «Al
Manzoni è piaciuto comporre un romanzo storico, e come tale fu accolto
dal pubblico, e il rapido smercio che in poco tempo egli ottenne,
prova abbastanza ch'ei fu giudicato eccellente. Più vera sentenza, o
lettori, non fu mai proferita, nè più umiliante per certe gloriole
letterarie, di quella che ai Romani scrittori gridava il Venosino
poeta, cioè che i libri hanno anch'essi il loro destino. E sapete voi
da che cosa dipende siffatto destino? Se Orazio non l'ha detto, io ve
lo dico: dipende da mille passioncelle che in ogni tempo governarono
la repubblica letteraria, dalle mire dei lodatori, dall'influenza dei
lodati, e più di tutto dalle stravaganze del secolo. Nè a questo io
faccio torto, affibbiandogli qualche stravaganza, poichè i passati
aveano anch'essi le loro. Se qualcuno fra i Secentisti avesse osato
menare la sferza contro il mal gusto de' suoi tempi e dire a quel Re
di Francia che premiava di tant'oro il più detestabile sonetto del
nostro Parnaso: Sire, quest'atto di vostra munificenza sarà biasimato
da tutti i secoli futuri; costui ne avrebbe riportate le beffe dei
suoi contemporanei, e non avrebbe trovato un solo che facesse ragione
alla sua giusta censura. Noi, per ventura, viviamo a giorni in cui le
stravaganze dei letterati non sono premiate dai Re; e se son mille i
bizzarri cervelli che ad esse corrono dietro, pochi non sono i sapienti
che fanno argine alla corrente e sono custodi del bello e del vero.
Pago del suffragio di questi, io non farò conto della disapprovazione
di quelli; ed esaminando liberamente il romanzo storico del Manzoni,
mi studierò di provare ch'ei pecca d'invenzione, di condotta, di
caratteri, di stile; e che paragonandolo a quelli del Walter Scott, gli
è l'istesso che scoprire agli stranieri le nostre miserie... Peggior
epoca della storia milanese non poteva egli scegliere per base del suo
romanzo: l'epoca della dominazione spagnuola, in cui due nazioni, anche
straniere, entravano in guerra per contendersi un piccolo principato.
Spento era il valore, morta ogni idea generosa, e la fame e la peste
desolavano queste infelici contrade. Ditemi ora, o lettori, qual sarà
il soggetto di un romanzo, che si raggira intorno a tal epoca? Quali
saranno le imprese dei Milanesi, perchè il romanzo è intitolato _Storia
Milanese_? O, per tacer delle imprese della nazione, quali almeno
saranno i fatti di un qualcheduno fra i Milanesi, quali le vicende di
lui, o vere, o immaginarie, che si colleghino colle vicende pubbliche,
e formino insieme un compiuto e commovente quadro dei tempi? Quali
saranno gli eroi? Forse l'ambizioso Governator di Milano promotore
della guerra che si accende in Italia? Forse il coraggioso Duca di
Nevers, che difende animosamente i diritti della sua casa? Forse il
Marchese Spinola, che viene a correggere gli errori del Cordova? Forse
gli oppugnatori o i difensori di Casale, di Vercelli e di Torino,
Spagnuoli o Francesi che sieno, Alemanni o Italiani, poichè tali sono
gli eroi e le vicende di quell'epoca? Nè un solo di cotesti personaggi
è l'eroe del romanzo, nè una sola di siffatte vicende forma il soggetto
dell'istoria scoperta e rifatta dal Manzoni. Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella, due poveri lavoratori del contado di Como, sono gli eroi
per cui dobbiamo interessarci; se si sposeranno, o no, è l'importante
vicenda che tener deve gli animi nostri sospesi... Eccovi, o
lettori, tutto il tessuto di questa istoria milanese rifatta: e s'ella
è cosa che meriti il nome di storia, giudicatelo voi... Ditemi, per
vostra fede, il soggetto è egli interessante? Due contadini, che per
prepotenza di un nobile e per dappocaggine di un curato non si possono
sposare, sono essi gli eroi da collegare degnamente ad un'epoca storica
qualunque ella sia? E questa epoca storica vi par ella bene svolta e
presentata nel suo più bel punto di vista? E che cosa avete imparato
dalle vicende dei vostri maggiori, per cui possiate gloriarvi, o almeno
intenerirvi e piangere con quel generoso sentimento che ispirano le
nobili sventure? Gentiluomini scapestrati o sciagurati, popolo avvilito
o affamato, peste fomentata per ignavia dei dominatori e per ignoranza
dei dominati! Dov'è un sentimento generoso, un nobile affetto, una
grande passione? Dov'è un eroe su cui riposino con compiacenza i vostri
occhi affaticati dallo schifo spettacolo che avete dinanzi? Dove
un grand'uomo, che comparisca qual faro nella notte di quest'epoca
tenebrosa? Il solo cardinal Borromeo, personaggio episodico, è l'unica
figura che spicca in certo qual modo in questo quadro disgustoso. Ma
se l'A. voleva introdurre il cardinal Borromeo, perchè confinarlo in
un villaggio ad affaticarsi intorno a cose di sì lieve momento? E
un uomo di tanta autorità non poteva essere posto in situazione più
degna di lui? E i vizi dei tempi non gli presentavano più vasto campo
ove luminose apparissero le sue virtù? È bensì vero che ei divide il
suo pane cogli affamati, che si adopera ad allontanare il flagello
della peste, che si mostra pieno di cristiana carità: ma tutto ciò è
raccontato per incidenza, e in nulla coopera all'andamento dell'azione,
alla sostanza del soggetto. E dove pure ciò fosse, il cardinal Borromeo
era egli un personaggio da romanzo?».

Il Pezzi nella _Gazzetta di Milano_ pigliò le difese del Manzoni,
scrivendo, tra le altre cose: «Il voler nei romanzi restringere
l'importanza dei principali personaggi alle sole classi elevate,
sarebbe lo stesso che stendere un piede alla catena quando si può esser
liberi. Con un tal principio infinità di romanzi bellissimi avrebbero
avuto l'ostracismo. Ci ha grandezza d'animo, virtù luminose, importanza
in tutte le condizioni. E quanto più l'umiltà di alcune è posta in
conflitto colla baldanza d'alcune altre, tanto maggiore è quell'effetto
drammatico che debbe essere lo scopo delle opere destinate a
commuovere. Che la storia sia combinata colla finzione e questa con
quella, in guisa che l'una non possa stare senza dell'altra, il prova
l'opera del Manzoni; per riguardo alla quale anzi non esitiamo a dire
che la finzione è talmente fusa nella storia, che non si saprebbe
scernere l'una dall'altra. Infatti, da questa fusione appunto, a cui
l'autore volse i maggiori suoi studi, deriva l'interessamento che desta
la lettura d'un romanzo, che, a parer nostro, veste tutti i caratteri
della verità. In quanto al modo, nessuno potrà negarlo alle venture dei
_Promessi Sposi_, poichè dal cominciamento allo sviluppo, la condotta,
piana e regolare, s'unisce naturalmente a episodi senza incontrare
ostacoli. In quanto allo scopo, esso è semplicissimo, perchè morale, nè
sapremmo al certo indicarne un migliore. In fine, che l'azione conservi
una tal quale unità e che gli episodi siano connessi all'azione in modo
di concorrere all'andamento di essa, è provato del pari nell'opera del
Manzoni con questo argomento: tolga la _Vespa_ un solo degli episodi
importanti dall'opera stessa e ne vedrà l'orditura scompaginata in
modo da non potersene raccapezzare il filo. Se la _Vespa_ voleva di
botto veramente dar nel segno col pungolo, l'opera presentavale un lato
vulnerabile in alcune prolissità, in certe minutezze ed in parecchie
locuzioni non lodevoli; le quali cose, quantunque possano riguardarsi
come lievi macchie in molta luce, sarebbero da sopprimere, o da
emendare»[42].

Il Romani, che non era uomo da perdersi ne' panni, non ci si perse,
e così prese a ribattere le critiche: «Sapete voi, o lettori, che si
è risposto finora?--_L'edizione fu esaurita in pochi giorni_.--Lo
so anch'io.--_Moltissimi leggitori, che non furono in tempo di
procurarsela, la chiesero a prestito_.--Questi furono i più
fortunati.--_Molti altri, per averne gli esemplari, li pagarono il
doppio e il triplo_.--E i più sfortunati furono questi.--_Per tacere
dei Fogli italiani, quelli dell'estero ne fanno gli elogi_.--Pesateli
bene.--_Se ne preparano nuove edizioni, traduzioni, incisioni, pitture,
ecc. ecc._--Se ne son fatte per libri peggiori di questo.--L'_autore
è festeggiato in patria e fuori_.--Davvero che ci ho gusto.--Ma
lo smercio, le edizioni, le lodi dei giornali, le feste degli
amici e le mense reali[43], e mille altre vie di farsi largo in
letteratura, come provano che il soggetto dei _Promessi Sposi_ sia
interessante?--E la pubblica opinione la conti tu per niente, direte
voi?--Alle volte molto, alle volte poco, dirò io. Non ho forse udito,
in Italia, fischiare ad una tragedia dell'Alfieri ed applaudire a
_Santa Margherita da Cortona_? Preferire al Tasso i _Lombardi alla
prima crociata_? Vilipendere il Chiabrera ed altri sommi poeti ed
encomiare le _Melodie liriche_? Nausearsi delle tragedie dell'Alfieri e
dilettarsi perfino di _Ser Gianni Caracciolo_?[44].--_Che il soggetto
dei_ Promessi Sposi _sia interessante, lo prova la spontanea universal
confessione di quanti lo lessero in buona fede, di non averne
potuto sospendere la lettura che a malincuore, e con impazienza di
riprenderla_.--Gli è giusto a cotesti lettori di _buona fede_ ch'io
cerco aprir gli occhi, e ch'io grido: Signori miei, non è tutto oro
quel che luce: non badate all'apparenza, esaminate la sostanza»[45].

Il Romani, benchè scrivesse in fine al terzo de' suoi articoli: «sarà
continuato», non proseguì; tanta e così generale fu l'indignazione che
si levò contro di lui, da ridurlo al silenzio. Con rabbia feroce aveva
dilaniato i _Lombardi alla prima crociata_ del Grossi; questa nuova
rabbia contro il romanzo del Manzoni era la seconda di cambio. Gli fu
detto basta, e intese.

Chi passò il segno anche più del Romani nel malmenare i _Promessi
Sposi_ fu l'ab. Giuseppe Salvagnoli Marchetti di Empoli[46]; e
il «sunto» che ne fece merita d'essere dissepolto. «Bel modo in
vero d'istruire le donne! Empir loro la testa di stravaganze, di
sciocchezze, di fatti e di passioni fuori del naturale, che invece
d'insegnarti il vero e di dilettarti col bello, col buono, ti traggono
la mente all'errore e il cuore al disordinamento delle passioni,
insomma alla follia. Che utile verrà mai alle donne, se in uno stile
bislacco e pieno zeppo di similitudini sconce, e che in nulla tengono
al paragone; di metafore ardite e stravaganti; di parole non italiane,
e proprie di un cattivo dialetto; di frasi, composte d'idee e di parole
fra sè contrarie; che utile, io dico, ne verrà mai alle donne, se,
fra tanta sozzurra, tu mostrerai a colori vivissimi un parroco, che
tradisce per paura il suo alto ministero; un signorotto, che ruba le
fanciulle, e fa uccidere chi gli dice una mezza parola in contrario;
un cugino di questo birbo, che a furia di scherni più e più lo aizza
al malfare; un zio, che atterrisce un provinciale di cappuccini e
lo forza a mandar cento miglia lontano un buon frate, che voleva
opporsi al nipote, perchè tanto male non mandasse ad effetto; una
signora, fatta monaca per forza, che rompe sfacciatamente i suoi voti,
che fa uscire di vita la sua conversa, la quale si è accorta della
sua tresca, e che finalmente consegna, perchè ne sia fatto scempio
d'iniquità, a quel birbo signorotto un'innocente fanciulla, a lei
sotto la fede dell'ospitalità, o sotto la parola d'onore affidata;
una fanciulla imbecille, che trema al bene e al male e che crede di
aver fatto voto di verginità perchè si è messa una corona al collo;
uno scimunito lanaro, che mentre dovea fuggire il potente che lo
inseguiva, si ubbriaca in un'osteria e a tutti racconta dall'a fino
alla z le cose sue; un signore, anche più birbone dell'altro, che fa
d'ogni erba un fascio, e che per le lacrime di una ragazza (e chi sa
quante ne aveva rubate, e alle lacrime di quante mai aveva insultato!)
diviene un agnello? Basterà forse il contrapporre a tanto male e a
tanta sciocchezza la vera carità e franca di un buon cappuccino, e
l'angelico carattere di un santo arcivescovo? No davvero: chè, pur
troppo, nella gioventù gli esempi del male fanno sì forte impressione,
che non bastano a cancellarla, cento mila volte duplicati esempi di
bene. Ed è troppo grave errore e troppo nociva cosa il dipingere agli
uomini, e specialmente ai giovani, le scelleraggini, e le conversioni
al bene sì repentine e sì facili, che essi possano trarre per
conseguenza:--_Operiamo pur male a nostro talento quanto ci piace,
alla fine, quando saremo stanchi, ci volgeremo a Dio, ed egli non
ci ributterà, purchè tenghiamo sempre sopra il letto l'immagine del
Crocefisso e della Madonna_.--Queste son dottrine che rovesciano ogni
legge divina e umana e che riducono la società ad una selva di bruti,
ove chi ha più denari, e in conseguenza più forza, opprime, strazia
e divora il suo fratello, insultando all'umana giustizia; persuaso
che la divina non ha saette per coloro che hanno fisso in cuore di
ritornare a Dio quando saranno tutte sbramate le voglie e tutte spente
le passioni. Oh! la divina morale!»[47].


III.

Del romanzo si occupò anche un valentissimo giureconsulto, il prof.
Giovanni Carmignani, e lo fece soggetto di un dialogo tra un critico
e un giornalista[48]. Il giornalista loda sempre e sempre difende; il
critico biasima e va cercando addirittura il pelo nell'ovo; finisce
però col ricredersi, e conchiude: «Eccomi pure a me:

  ..._il finto
  mio rigore abbandono._

E sapete perchè mi piacque essere rigoroso! perchè nel romanzo mi punse
la frase derisoria ch'io c'incontrai contro quel Metastasio, co' versi
del quale chiudo adesso il nostro colloquio, non essendomi sembrato,
che l'anima più drammatica, che abbia natura prodotta, dovesse
deridersi come pittrice di eroi paragonabili a gente da piazza e da
trivio. Del resto, io sono d'avviso, che il romanzo è una originale
e classica produzione; che son sogni e ciance i supposti plagi dal
Walter Scott nelle _Prigioni di Edimburgo_ e ne' _Puritani di Scozia_;
che l'A. ha finalmente dato un romanzo alla prosa italiana e ha fatto
cessare l'antico e giusto rimprovero dell'Arteaga allorchè nelle sue
note alla dissertazione del Borsa rinfacciava alla Italia di non avere
un S. Real ed un Marmontel; che, prescindendo da certa mancanza di più
verisimil cemento nella struttura dell'azione del romanzo, il merito
della esecuzione vince sempre e riscatta qualunque più minuto difetto
dell'opera. E poichè incominciai col mostrarmi nemico del romanticismo,
ingenuamente vi dico, che se vi ha componimento nel quale quel genere
possa essere, onde servire all'effetto, adottato, egli è certamente il
componimento in prosa e il romanzo».

De' tanti appunti fatti dal critico a' _Promessi Sposi_, uno mi sembra
degno di nota. Toccando della «mala voglia» con la quale Lucia «si
presta a sorprendere il parroco», trova che l'espediente del matrimonio
clandestino «non era certo peccaminoso», ma «di tale evidente
giustizia, che, prescindendo dalla logica dell'amore, se ella ne aveva
pure per Renzo, doveva a lei dimostrarla il rifiuto d'un parroco
ignorante, pauroso, avaro e usuraio, come l'Autor lo dipinge». Poi, in
nota, aggiunge: «Le denunzie erano già fatte e il matrimonio non poteva
dirsi più clandestino, non rilevando molto la sua celebrazione in luogo
non sacro. SANCEZ, _De matrim._, lib. III, disp. 15, n. 20. E qualora
le denunzie non fossero state fatte, i migliori moralisti son concordi
nel dire, che quando il matrimonio è ritardato dall'immaginevole
rifiuto del parroco, non è peccaminoso il sorprenderlo, per contrarlo.
PAUL. GABRIEL. ANTOINE, _Theol. Moral. univ. tractat. de matrimonio_,
§ 13, not. 3. Ecco dunque un romanzo, il qual poggia tutto sopra un
errore di gius canonico e sopra un error di morale».

Al Carmignani è però sfuggito un altro piccolo scappuccio del Manzoni.
Fa del P. Cristoforo il confessore di Lucia; ora, la giovane fidanzata,
nel 1628, non poteva confessarsi da lui, perchè «i cappuccini di
quei tempi, giusta l'inibizione delle loro costituzioni, tolta solo
qualche tempo dopo, non confessavano assolutamente persone estranee
all'Ordine[49]».

Un critico milanese, a cui piacque di restare anonimo[50], prese a
leggere i _Promessi Sposi_; e sebbene, durante la lettura, non venisse
«giammai scemandosi» in lui la «stima grandissima» che aveva per
«quel celeberrimo autore, di cui tanto è vulgata la fama, che non pur
nell'itala terra, ma in tutte le più colte nazioni è molto apprezzato»;
nel romanzo trovò quella «imperfettibilità», che è «indivisibile
compagna de' figliuoli di Eva». Pensò dunque di «schiccherare un foglio
d'alcuni cenni critici intorno a ciò che di meno pregevole e di meno
consonante al rimanente» vi aveva rinvenuto; manifestando nel tempo
stesso «le bellezze ancora dell'opera, benchè con minore verbosità
dei difetti». Lasciando in pace le «bellezze», diamo un saggio dei
«difetti» che la fantasia del critico nota: «Renzo ed Agnese volevano
che Lucia parlasse di che le avvenne con don Rodrigo: _Ora vi dirò
tutto, rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiale_. Se l'A.
laddove dipinge Lucia vestita nel giorno nuziale me l'ha presentata,
oltre agli spilli e al rimanente, con due calze vermiglie, con due
pianelle di seta a ricami, e mi ha passato sotto silenzio il grembiale,
io fui necessitato di attingere ch'ella in quel dì non lo cingesse.
Adesso poi veggio che appunto in quel medesimo giorno, e non ancora
tramutata di panni, si terse le lagrime col grembiale. Com'è questa
faccenda?... O Lucia aveva il grembiale, o Lucia non lo aveva; una
delle due. Se lo aveva, inavvedutamente l'Autore: 1.º ha trascurato di
farlo conoscere al proprio leggitore; 2.º gli ha dato verun prezzo,
facendogli esercitare l'officio del moccichino, mentre, se a tutto
l'abito doveva aver consonanza, saria pur valuto qualche cosa. Se
all'incontro non lo aveva dapprima, o l'A. ha preso adesso un abbaglio,
o fa duopo argomentare, non che inserire negli annali, che = uno
spirito, nel giorno 8 di novembre dell'anno di nostra redenzione 1628,
ha cinto di un grembiale Lucia Mondella, mentr'essa stava per favellare
di don Rodrigo con Agnese sua madre e con Renzo Tramaglino suo
innamorato =». Eccoci ad Agnese, che, in casa del sarto, si abbocca col
Cardinal Federigo e svela le colpe di Don Abbondio. «Udire una femmina»
(nota il critico) «inveir quasi, e dinanzi al Cardinale, e contra il
proprio curato, e perchè? perchè questi, onde scansare di perir tosto,
ha prorogato il giorno delle nozze: ov'è colui che non saria preso da
escandescenza contro della donna crudele, e non cercherebbe di turargli
la bocca e di troncargli nella strozza le parole, ove la donna non
fosse una larva che lo eludesse? Ma la passione del leggitore vuole pur
trovare il suo sfogo; sicch'essa, riversandosi almeno sopra le pagine
istesse, che ha dinanzi, chi sa quante insieme a quelle ne andranno
vittima! Il mio tirare di penna è sicuramente il minor male».

Giuseppe Veladoni riconosce «che le menti di tutti gli italiani, e si
potrebbe anche dire di molta parte d'Europa, restarono sopraffatte di
meraviglia, da entusiasmo e da vero diletto» a leggere i _Promessi
Sposi_. «Una tanta opera... non poteva esser pensata e scritta che da
un profondo filosofo, da un vero conoscitore del cuore umano e da una
penna condotta dai sentimenti più vivi di religione e di patria... Per
me, credo impossibile che siavi uomo di cuore che non abbia da rimaner
commosso sino alle lagrime in più e più luoghi di questa mirabile
prosa... Essa è un libro che non perirà mai e farà sempre grande onore
all'Italia del secolo XIX. Ma che? Non ha dunque difetti? Sì, ne ha:
ma tutti compensati da una straordinaria bellezza e sodezza, così di
pensieri, come di stile, considerati anche in sè stessi. Sono, per
esempio, moltissime le parti che potrebbero essere capaci di utile
restringimento, e queste per non raffreddare di troppo il calore della
storia principale. Tale, per esempio, la lunga conversazione, di cui è
testimonio fra Cristoforo, quando trova a tavola don Rodrigo. Ma non
è forse quella conversazione medesima una pittura vera e fedele delle
follie che passavano per la mente dei grandi d'allora? Dissero alcuni
altri, che la storia di Lucia e di Renzo, cioè del matrimonio di due
villici, è cosa troppo piccola per farne il soggetto di un'opera di tre
volumi, ond'è che le parti accessorie soffocare dovevano il principale.
Ma non è forse vero, che per questo appunto che il matrimonio di due
villici è una piccolissima cosa, tanto più ne risulta quindi l'evidenza
di questa gran verità, che in quei bruttissimi tempi, mentre i grandi,
avendo paura uno dell'altro, si rispettavano a vicenda, tutta la loro
prepotenza andava poi a scaricarsi nell'oppressione dei piccoli? Volete
sapere dove io non saprei come validamente difendere il grande autore?
Egli è sull'orrenda, scandalosa e ributtante comparsa, che malgrado
l'industria usata dal religiosissimo autore nell'accennare le cose, fa
nullameno in quest'opera quell'indegnissima monaca. Ben vedo e conosco
che lo scopo morale del grand'autore, anche in questo caso, fu quello
di far vedere a quali orrendi termini riesca una vocazione forzata, e
quanto grande peccato era egli quello delle famiglie di un tempo, che
monacavano le figlie per viste economiche e mondane affatto. Ma il
danno e lo scandalo di quella pittura è troppo potente per concepire la
speranza che fra cento lettori possano li novantanove raccogliere il
frutto dell'esempio, e non rimaner invece amareggiati dal fiele. E se
anche il danno non fosse che per uno solo?»[51].

A Torino, Federico Govean così salutava la comparsa de' _Promessi
Sposi_: «Mancava all'Italia un buon romanzo», che potesse rivaleggiare
con quelli del Lesage, del Cervantes e dello Scott. «Sorse quella
benedett'anima del Manzoni, onore e lume d'Italia, e non contento di
avere tentato una forse dannosa rivoluzione nella drammatica, e di
aver migliorata la lirica moderna, volle far dono all'Italia di un
romanzo, ma di un vero romanzo; opera degna di non altro ingegno se
non di quello che dettò la _Pasqua_ e il _Cinque Maggio_». L'avv.
Modesto Paroletti notava: «Un cospicuo letterato piemontese, che già
ebbe tentato il romanzo allegorico, aveva quindi intrapreso di battere
le orme di Walter Scott, pubblicando due storiette, scintillanti di
erudizione... Nelle altre contrade d'Italia parecchi autori stavano
in procinto di calar anch'essi nell'arena romanzesca per farvi pompa
dei loro lavori, fra cui giova distinguere il _Castello di Trezzo_ e la
_Battaglia di Benevento_; e quelli in cui, fra i subalpini, un dottor
tortonese faceva pur mostra di bell'ingegno, la _Sibilla Odaleta_ cioè,
seguita dalla _Fidanzata Ligure_. Ma la fama loro doveva ecclissarsi
dal romanzo de' _Promessi Sposi_ di Alessandro Manzoni: perchè, alla
chiarezza d'un tanto nome, ottenendo quest'opera la maggiorità de'
suffragi, allettando i più schivi, piacendo ai dotti e facendosi
leggere da ogni persona, fu acclamata qual libro popolare in Italia».
Ne loda lo stile, la scelta e la condotta dell'argomento. «Fra tutte
le difficoltà non era la minore quella dello stile in cui si avesse
a dettare. Dovendo purgarlo da ogni sentore d'imitazione straniera,
perchè ai dì nostri ogni cosa si desidera nelle prette forme italiane,
e dovendo nullameno renderlo grato pei modi del dire, ognuno può
giudicare quanto malagevole fosse tal cosa; mentre, se importava di
dare il bando ai modi francesi, per contro, era necessario lo schivare
quell'andamento stucchevole che presenta all'orecchio dei più lo
stile cruscante. E questa può affermarsi essere stata vittoria grande
riportata dal Manzoni, perchè lo stile del suo romanzo è schietto
italiano, senza macchia d'affettazione; è classico senza arcaismi;
ed è purgato, non senza una qualche tinta di popolarità, che molto
aggiunge alla verità de' ragguagli. Stile insomma da poter servire di
modello a chiunque voglia scrivere romanzi italiani». Dopo averne
con ammirazione schietta e sentita rilevato le grandi bellezze, tocca
de' difetti. «È danno che questo libro, il quale da romanzesco può
pigliar nome di storico, nelle parti più importanti diventi prolisso
di soverchio e alquanto noioso. A lato delle inimitabili descrizioni
rapide, vive e ben accennate, come quelle del lago di Lecco, della
notte in cui battevano i bravi condotti dal Griso per rapire gli sposi,
ed imprendevano questi a sorprendere il parroco, e poi del muoversi del
P. Cristoforo da Pescarenico, e dello scappare Renzo di là dall'Adda,
riprova il lettore un fastidio grande per le cotanto prolungate e
sminuzzate due descrizioni della carestia e della pestilenza»[52].

Il prof. Giuseppe Chiappa, dell'Università di Pavia[53], dice che
«i così detti romanzi istorici sono una sì fatta contraffazione
dell'istoria che non possono venir lodati di giusta e sincera lode.
Quel mescere il reale all'immaginario, quel confondere il vero al
falso, e il naturale al fittizio, non può dare che una mostruosa
opera e quasi ibrida e bastarda». Soggiunge però: «ma ove la finzione
sia ben innestata sul fatto istorico, e che quella non sia che un
colore, o mezzo, per isvolgere e mostrare lo stato reale delle cose,
serbando in ogni luogo le leggi della convenienza e del verisimile,
ne potrà risultare un utilissimo lavoro. E tale è il celebre romanzo
del Manzoni». Ne tesse le lodi, ne segnala le bellezze; poi conclude:
«Nessun altro romanzo venuto dopo, ha potuto appena toccare a un terzo
della gloria durevole del romanzo di Alessandro Manzoni. Lo stile
poi si è, quanto si richiede, convenevole al soggetto. Egli è vivo,
animato, franco e pieno di forza. Solo si fa desiderare più purgata la
lingua. Ma oltrechè finge l'A. averlo ridotto da una cronaca di que'
tempi corrotti, egli non ha poi volto lo ingegno che alla chiarezza
e all'evidenza, schifando ogni artificiosità e leziosaggine. Ed in
ciò è ottimamente riescito, conciossiachè nulla siavi che in quanto
a intelligenza abbia mai dato luogo a lagnanza. Ed in ciò egli ha
conseguito il principale scopo di ogni scrittura, quello di rendersi
intelligibile e chiarissimo a tutti»[54].

Due de' nostri esuli, Giovita Scalvini e Pietro Giannone, presero a
esaminare il romanzo del Manzoni. Giuseppe Pecchio scriveva da Brighton
il 10 gennaio del '30 a Antonio Panizzi: «La _Rivista italiana_ si
stampa. [_Pellegrino_] Rossi ha scritto l'Introduzione, Scalvini un
bellissimo articolo sui _Promessi Sposi_, [_Giovanni_] Arrivabene uno
su gli Istituti de' poveri de' Paesi Bassi. Si spera di avere dei
collaboratori tedeschi di primo grido. Si avranno traduzioni dallo
svedese. Quindi mi si scrive che passò stagione di osservazioni, e
giunta è quella di dar spalla all'impresa. È vero, e bisognerebbe
sostenerla con decoro almeno per un anno»[55]. La _Rivista_ ebbe vita,
ma per due mesi soltanto, e vi fece la sua comparsa l'articolo dello
Scalvini[56]; addirittura «bellissimo», anzi quanto di meglio venne
allora pensato e scritto intorno a' _Promessi Sposi_. E fu giustizia il
toglierlo dalla dimenticanza colpevole in cui giaceva, il ristamparlo
e il divulgarlo[57] a onore della critica e del nome italiano.

Il Giannone nel giornale _L'Esule_, che incominciò a stamparsi a Parigi
nel settembre del '32 con a lato la traduzione in francese; e lo
dirigevano Giuseppe Cannonieri, Angelo Frignani e Federigo Pescantini;
non si limitò a parlare del romanzo, trattò anche del _Carmagnola_
e dell'_Adelchi_, de' _Carmi_ e degl'_Inni sacri_[58]. Del romanzo
ne dette un largo sunto, poi pigliò a farne l'esame. «Un lettore
difficile» (son sue parole) «esigerebbe forse un piano più magnifico,
e condizione e caratteri meno comuni ne' due, che dan pure il titolo
all'opera. Le avventure de' promessi sposi son esse le principali, a
cui s'aggiungono come episodi il cappuccino Cristoforo, la monaca, il
moto de' Milanesi, l'innominato, il cardinale, la fame, il passaggio
d'un esercito, la peste e in generale la condizion di que' tempi, o
_viceversa_? Renzo che è? Un filatore di seta, onestissimo giovine per
altro, e, come dice egli stesso, un _buon figliuolo_, ma nè distinto
per altezza di sensi, nè per vigor di carattere, nè per altro che dia
lustro e importanza. Interessa, non per sè, ma per la persecuzione di
Don Rodrigo. Ne' moti di Milano soltanto acquista qualche valor che
gli è proprio, e nella costanza del suo amor per Lucia. Questa poi è
anche minore di lui, e se non si trovasse nel castello dell'innominato,
ov'è bella veramente e per dolore ineffabile e per isventura, la sua
rassegnazione abituale ci parrebbe mancanza d'ogni umana affezione. Il
medio evo offriva avvenimenti più splendidi e caratteri d'un'energia
che spaventa, per così dire. Che importa che nell'avvilimento in cui
sono gl'Italiani, sappiano che altre volte sono stati così, per trovare
un esempio e una scusa forse alla loro ignavia presente? Nel vedersi
presentare un quadro d'oppressione attiva da una parte e di passiva
stupidezza dall'altra, si consoleranno forse perchè que' tristi tempi
passarono, e soffriranno quindi pazientemente i mali che rimangono
loro, perchè in cumulo minore? Ma che han mai guadagnato? I pessimi de'
mali che gravan sempre sovr'essi, terribili, insistenti, mortali: la
divisione e 'l dominio straniero. Ecco ciò che un lettore severo, un
lettore che riferisca ogn'opera alla gloria e all'utilità della patria,
le uniche non usurarie e generose davvero, potrebbe osservare riguardo
alla scelta del soggetto; ma questa scelta non era nell'arbitrio
dell'A. per la difficoltà de' tempi e de' luoghi, e gli è costato, ne
portiam ferma opinione, mille volte più sforzo d'ingegno, il cercarlo e
il combinarlo così, che se avesse fatto altrimenti. Discutiamo dunque
sul piano com'è, senza cercare più oltre. Il sig. Manzoni volendo, e
noi ne siamo convinti non solo, ma certi, anzi tratto ci proverebbe,
non che così dovess'essere, ma che poteva essere solamente così.

«Questo fatto, sì breve, semplice e chiaro, ha però tali episodi e
schiarimenti così allungati, che distraggon l'attenzione da esso.
Quanto a questi ultimi, l'insistere che si fa, e nel bel principio
dell'opera, su la inutilità de' decreti contro i _bravi_, basterà,
crediamo, a provare, che le digressioni non son sempre nè felici, nè
brevi. Quanto a' primi, quello della monaca di Monza fa accorgere che
dovria finire molto più presto. Gli altri, la fame cioè, e il guasto
prodotto dal passaggio degl'imperiali, e la descrizione della peste,
nel tempo stesso che mostran la forza d'ingegno e di pennello di chi
ha saputo dipingerli con sì terribile evidenza, potrebbero spingere su
le labbra a più d'uno la breve, ma calzante sentenza: _non erat hic
locus_. Le pagine che riguardano il cardinal Federigo sono protratte in
modo da farci credere che l'autore temesse che quel prelato non fosse
conosciuto abbastanza, e ne faccia perciò il panegirico; e quelle poi
ove si parla del carattere e degli studi di don Ferrante, sembrano,
e quasi per confessione dello stesso scrittore, veramente perdute.
Ma vi sono due altri episodi, due, l'uno per la brevità, l'altro pel
legame immediato alla narrazion principale, entrambi per verità di
colori e per interesse fortissimo, la cui bellezza è rara veramente
e mirabile; gli eventi del P. Cristoforo quand'era al secolo, e
l'apparizione sulla scena dell'innominato. Peccato che il primo, a
cui ci eravamo tanto affezionati, scompaia quasi al cominciare, e non
ritorni che al finir dell'azione; e l'altro, il di cui carattere è
gigantesco senz'essere esagerato, non produca qualche cosa di veramente
straordinario e solenne come l'indole sua! Nella storia ciò accade
sovente; ma nel romanzo, e sia pure storico quanto vuolsi, lo scrittore
non ha il privilegio d'intendere con ogni sforzo all'effetto dell'arte?

«Da questo rapido cenno delle cose che ci sembrano mende
nell'esecuzione del piano tale qual'è, può indursi che lo stile
sia generalmente diffuso; e difatti a noi pare così. In quanto a
lingua, l'A. ha, più spesso che non si vorrebbe, fatt'uso di parole,
d'idiotismi e di maniere proprie del luogo ove l'avvenimento si compie.
Omero formava la sua lingua maravigliosa da' differenti dialetti di
Grecia, Dante da quelli d'Italia, ma questi due esseri straordinari
erano i primi. Gli altri grandi venuti dopo di loro, non l'hanno più
fatto, e la ragione n'è chiara; non ne avevan bisogno, nè credevano
o bello o necessario tentare ciò che i tempi non concedevano più.
Potrebbe aggiungersi anche, e senza tema d'errare, che la continua
tendenza ad essere facile, e stretto il più che si può alla natura
delle cose, abbia fatto trapassare d'un salto l'A. su certi modi, che
appartengono alla lingua parlata sì, ma non sempre alla grammaticale.

«Rispetto allo scopo morale di questo lavoro, a noi sembra che
sia e la purità del costume e la sommissione ai decreti della
Provvidenza suprema; due grandi insegnamenti ambedue, il primo
d'una utilità generale e che balza agli occhi d'ognuno, perchè
limpido come la luce del sole; il secondo d'un immenso conforto
nelle sventure, allorchè sono consumate e irreparabili, ma che può
avere un'influenza rovinosa e veramente fatale nell'atto in che le
sventure ti sovrastano o percuotono, essendo allora, com'è difatti,
soggetto a tante interpretazioni ed applicazioni quanti sono i
caratteri degli uomini, i loro interessi, le passioni, le circostanze
di famiglia, di patria, di religione, etc. etc. Perchè, quale sulla
terra può dirti sicuramente:--Questa sventura ti viene dal cielo, e
convien rassegnarviti; questa no, e puoi e devi lottare contro di
essa?--È forse che la lunga tolleranza de' popoli, riguardo agli atti
crudelissimi e nefandi della prepotenza feudale e dell'inquisizione,
deriva tanto da questo elemento astutamente impiegato, quanto dal
timore che si ha d'una potenza stabilita, sia pure qualunque, e dalla
naturale tendenza degl'individui alla calma, ove il moto offra un
evidente pericolo. Gli ambiziosi vestano poi il manto dell'umiltà
o quel degli onori, l'hanno, e spesso pur troppo! usato a lor fini
privati: in altre parole, l'altare ed il trono, o meglio ancora, il
potere spirituale ed il temporale, i quali per quanto altro possa
parere a' poco veggenti, si collegano in essenza fra loro, e sono per
ogni società costituita quello che l'anima e il corpo sono per l'uomo,
hanno fatto di esso ciò che un avaro fa d'una mina d'oro o d'argento.
In fine è tal arma che, secondo la man che la tratta, può essere spada
e scudo a vicenda, può salvare un popolo dall'infamia del servaggio,
e farvelo piegare vilmente. Ma ne' _Promessi Sposi_ quest'elemento è
esso presentato nella sua parte buona o cattiva? Noi oseremmo dare un
tal giudizio, quando, non per induzione soltanto, ma per esperienza
potessimo veramente sapere qual'è l'impressione che lascia nel comun
de' lettori. Certo è intanto che nelle circostanze e ne' tempi che
corrono, la virtù della rassegnazione non è quella che occorre alla
nostra povera patria: la sua sventura può essere combattuta e vinta
da una volontà forte e tenace, temprata dalla prudenza. Che se mai,
oltre lo scopo che abbiam creduto dovere accennare, si dicesse che
v'è quello anche di far conoscere i tempi e promovere il debito
abborrimento contro i privilegiati, un giudice severo risponderebbe
nel primo caso, che un tale ufficio tocca alla storia; e nel secondo,
che è prodezza intempestiva l'aprire ferite in un corpo già da tanto
tempo cadavere. La feudalità, questo mostro immanissimo, non somiglia
all'idra della favola: le sue teste cadute nè si riprodusser finora, nè
si riprodurranno mai più.

«Presentato ed accennato così il linguaggio della censura, ci si
permetta ora passare alla seconda parte della critica, non meno utile
e più piacevole a un tempo; nè faccia maraviglia il vedere lodato
ciò che ci è parso finora dar luogo a qualche rigida osservazione;
non v'ha cosa, che non possa offrire due aspetti. E primamente nella
scelta di due protagonisti volgari, il sig. Manzoni ha mostrato avere
un concetto, più sensato non solo, ma più generoso ed umano della
generalità de' romanzieri presenti. Perchè mostrare di credere che
qualche classe della società solamente meriti la menzione e gli onori
dell'eloquenza, ed il resto, che pure è base di tutto e fa vivere
queste classi medesime, debba essere condannato all'oblio? Strana
contradizione questa con lo spirito del secolo e col vantare che fanno
i più celebrati scrittori la dignità dell'umana natura, la quale col
fatto paiono restringere poi a sola qualche frazione di uomini! Ne'
_Promessi Sposi_ le debolezze, gli errori, i vizi e i delitti de'
potenti si presentano tai quai sono, e non con quell'aria d'amabile
storditaggine, d'interesse e di grandezza quasi, di cui li adornano e
li accarezzan sì spesso gli altri scrittori di simil genere; i quali,
magnificando i tempi feudali, non sembrano neppur dubitare che posson
mettere così in forse il loro titolo di promotori, sostenitori o
fautori almeno de' dritti imperscrutibili che la natura ci accorda.
Ma tranne il romanziere Britannico, che l'ha fatto con cognizione
di causa, e con animo, per quanto esser mai possa, deliberato, gli
altri, illusi non sappiamo da quale malia, hanno seguito la corrente,
senza pensare ad altro scopo che alla novità; ma speriamo che siano
per avvedersene in tempo. Il nostr'A. non è caduto in tal fallo; e per
certo, leggendo quest'opera, nessuno risentirà mai la più picciola
brama d'essere distinto da' suoi fratelli per qualche privilegio
mostruoso, ereditato od usurpato sovr'essi.

«Intanto la ricchezza, la varietà, l'evidenza delle descrizioni, sono
pregi che distinguono quest'opera dal principio alla fine. Gli episodi,
quelli stessi che sono meno giustificabili, offrono tale abbondanza di
cose, di pensieri, d'interesse, e tanta conoscenza del cuore umano, che
appunto per questo distraggono dall'azion principale. Commove e desta
un'ansia crescente il vedere con quali malizie fittissime la religiosa
di Monza sia tratta a compiere l'intiero sacrifizio di sè, e non si può
a meno, nel condannar le sue colpe, di sentirne un'affannosa pietà.
L'ammutinamento de' Milanesi è descritto sì vivamente, le particolarità
ne sono sì vere, che vedi agitartisi tutta quella calca su gli occhi,
ne distingui i volti, ne ascolti la voce. L'ebbrietà perfino del povero
Renzo non ti percuote meno dell'astuzia per la quale il bargello
riesce a carpirgli il nome di bocca. Ma ciò che supera ogni lode è
Lucia nel castello dell'Innominato. L'immagine d'un essere debole
ed innocuo di fronte ad un altro sì formidabile e spietato, e la
vittoria del primo, racchiudono in sè un profondissimo senso di morale,
che fa palpitare d'un impeto di speranza e d'ardire, ed eleva ogni
anima ben nata. I pensieri di quell'uomo feroce, que' pensieri che lo
traggono a disperare, e l'altro che gli arresta la mano; tutta quella
notte infine offrono un tal che di sì terribilmente vero, misterioso
e solenne, che a noi sembra poco il dire che negli altri lavori di
simil genere non v'ha brano che possa paragonarsi a questo. Nè si
creda che dopo un tal quadro la fantasia e il cuor del poeta mostrino
esaurimento o stanchezza. La descrizione della fame, e più ancora
quella della peste, fanno veracemente rabbrividire. In quest'ultima il
sogno di don Rodrigo nella notte stessa che n'è colpito, basterebbe
esso solo a far conoscere quanto l'A. senta avanti nell'arte somma
che segue sì dappresso la natura senza scoprirsi; e la madre che reca
la sua bambinella morta a' _monatti_, è tal misto di desolazioni, di
pietà, di amore, di dolor rassegnato, che, breve e toccato di volo,
com'è, ti si scolpisce indelebilmente in pensiero. Questi due brani
stanno, a parer nostro, con vantaggio in faccia a tutto lo splendore,
l'abbondanza e la verità di quella vivace e straordinaria pittura. I
caratteri sono disegnati a tratti sì giusti ed arditi e sostenuti con
sì gran maestria, che non si smentono mai; e quello di don Abbondio in
particolare è nel suo genere d'una verità che dispera. Quel colore
locale che non t'induce mai in errore, quell'esattezza di fatti che non
si trova mai

  _Dans les romans où l'on apprend l'histoire,_

come ha cantato scherzando un savio francese[59], sono qualità che,
unite ad uno stile pieno di vita, e vario sempre secondo gli accidenti,
e ad una lingua facile, ricca, armoniosa, assicurerebbero la fama di
questo libro, quand'anche non vantasse altri meriti, e, come speriamo
aver dimostrato, di gran lunga maggiori.

«Quantunque questo genere, per quanto ci pare, non debba porre gran
radici in Italia, perchè nell'ampissimo campo delle lettere, offre gli
stessi caratteri degl'Ibridi fra le piante, pure trattato da chi, oltre
la forza d'ingegno, si figga un alto, un utile proposito in mente, può
produrre nobilissimi effetti».


IV.

De' tanti giudizi dati da' giornali d'allora intorno a' _Promessi
Sposi_, due levarono un gran rumore: quello della _Biblioteca italiana_
e quello dell'_Antologia_: ma l'eco di quest'ultimo, scritto da Niccolò
Tommaseo[60], si dileguò ben presto; non così l'eco dell'altro, uscito
dalla penna di Paride Zaiotti[61], in voce di critico ingegnoso e
acuto tra' partigiani della vecchia scuola. Fin dal '24, appunto nella
_Biblioteca italiana_, aveva scritto un lunghissimo articolo intorno
all'_Adelchi_, diviso in due parti[62]; ma la Censura austriaca (è
proprio il caso di ripetere: _Tu quoque, Brute!_) ne corresse e mutilò
alcuni brani, con grave dispiacere del critico, che li mandò a leggere
manoscritti al Manzoni; il quale, vinto dal tratto cortese, fu forzato
a rispondergli e a ringraziarlo[63].

L'incarico di scrivere la rassegna de' _Promessi Sposi_ l'accettò
contro voglia: era un libro che non gli andava a sangue; lo riteneva
«sotto alcuni rapporti» inferiore alla _Sibilla_ del Varese che, a
suo giudizio, «era un romanzo, cosa che non osava dire degli _Sposi
promessi_». La scrisse finalmente, dopo essersela fatta aspettare un
gran pezzo; per concludere: «bello è questo romanzo, ma il Manzoni
potea fare anche di più». E si accordò con lui il Tommaseo ripetendo:
«dall'ingegno e dall'animo di Manzoni si deve pretender di più»[64].
Erano due delle tante «persone di gusto», che «lo trovavano molto
inferiore all'aspettazione».

Un bibliofilo romagnolo, Giacomo Manzoni di Lugo, il futuro ministro
della Repubblica Romana, inviando al P. Alessandro Checcucci l'articolo
dello Zaiotti: _Del romanzo in generale e dei Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni discorsi due_, l'accompagnava con questa lettera:
«Vi mando il libro dello Zaiotti, di cui vi parlai. E certamente
questo vi sarà dono gratissimo, chè due prose di questo genere, così
ben condotte, e scritte con pari facondia e modestia forse non le ha
l'Italia nostra. Fra le lodi le più smodate che da ogni parte son
piovute e piovono sopra il romanzo del Manzoni, fra il grido che lo
proclama capo-scuola del Romanzo storico e principe dei romanzieri
italiani, levarsi in piedi e pubblicare una censura di 101 pagine,
giusta dalla prima all'ultima parola, sempre dignitosa senza iattanza,
sempre riverente senza viltà, scriverla con istile che ogni letterato
vorrebbe invidiargli, piano, armonioso e variatissimo, e divulgarla,
e trovar plauso in Milano, sotto gli occhi del Manzoni, nel teatro
delle maggiori sue glorie, è impresa ardua davvero». Il P. Checcucci
si affrettò a fare una nuova edizione di «questi due maravigliosi
discorsi, sì perchè chi non l'ebbe ancora alle mani potesse ammirarvi
la vasta dottrina, la stupenda eloquenza, la profonda erudizione ed
il retto giudizio di quell'esimio scrittore; sì perchè i giovani
specialmente, usi a muoversi più per affetto che per ragione, nel
giudicare delle opere, sebbene d'uomini grandi e giustamente reputati,
prendano piuttosto norma dalle regole invariabili dell'arte, che dal
prestigio dell'opinione, alcune volte sospetta e ben sovente non
buona». Il Checcucci battezzò «quinta» la sua edizione[65], ignorando
che l'autore stesso già ne aveva fatta una «sesta» a Venezia[66]; nella
quale, per bocca del tipografo, manifesta l'intendimento suo: quello
di «preservare il cuore e l'ingegno» degli italiani «dalle dannose
influenze che recar potevano i grandi esempi di Gualtiero Scott e di
Alessandro Manzoni».

Lo Zaiotti, a cui non manca nè erudizione, nè urbanità, nè qualche
acuta osservazione particolare, in fondo ammirava il Manzoni, ma come
poeta e poeta lirico soprattutto. Fedele alla scuola de' classici,
che proscrive in letteratura quanto non ha faccia d'antico, parlò del
Manzoni tragico col preconcetto che fosse fuori di strada: «perchè
vorrà egli ostinarsi ad esser meno di Sofocle, quando l'Italia
gli offre la corona di Pindaro?» Parlò del Manzoni romanziere col
convincimento che il romanzo storico sia da rigettarsi; e appunto
perchè un grande ingegno si era dato a coltivarlo, gli parve una
missione riparatrice flagellare quel nuovo genere senza pietà. A
difesa del romanzo storico[67] si levò animoso Giuseppe Mazzini; pur
confessando (ed era giustizia) che «l'autore dei due discorsi scrivendo
a lungo del romanzo d'Alessandro Manzoni, il fece con sì gentile animo
e tanto affetto del vero, da insegnare ad ognuno, come la critica debba
trattarsi». Nota che lo Zaiotti, «prevalendosi della fama che circonda
il caro nome del Manzoni, attribuisce unicamente a vizio del genere il
difetto d'interesse e calore ch'ei trova nei _Promessi Sposi_. Forse il
difetto si esagera, e più d'una donna gentile che ha palpitato sui casi
dell'ingenua Lucia e impallidito al ritratto dell'Innominato, accusa
il giudizio di rigidezza; ma foss'anche vero, che trame? L'ingegno del
Manzoni è vastissimo; ma a nessuno è dato balzar fuori, in un genere
nuovo, perfetto come Pallade dal capo di Giove. Fors'egli avrebbe
dovuto scegliere i suoi e personaggi ideali in una condizione, che
ammettesse, se non più amore, modi almeno d'esprimerlo più caldi, e
mezzi maggiori d'azione. Fors'anco il fine ch'egli ebbe di rischiarare
un oscuro periodo del secolo XVII si svela troppo apertamente ad ogni
capitolo, sicchè n'è riuscita piuttosto una storia resa dilettevole
da romanzesche avventure innestatevi, che un romanzo fatto utile
dall'intreccio d'un quadro storico»[68].

Nell'esaminare l'_Adelchi_ lo Zaiotti ne propose un nuovo disegno,
«dove il notabile si è che violando la storia, viensi a provare come la
storia sia necessaria a poesia»[69]. Anche nell'esaminare i _Promessi
Sposi_ suggerì de' mutamenti; questo, tra gli altri: «anche il luogo,
in cui l'ottimo frate» [il P. Cristoforo] «viene ricondotto sopra la
scena, ne sembra da collocarsi fra quelli che permettevano all'autore
di aprire più largamente in suo volo... Era giusto che il tribolato
servo del Signore raccogliesse finalmente la palma di quel suo lungo
martirio, e felice era stata l'idea del Manzoni di presentarcelo
afflitto di peste, e tuttavia occupato a confortare gl'infermi:
anche l'aver colà ridotto don Rodrigo, ed uniti così l'oppressore, il
difensore e le vittime, era degno di massima lode, perchè dava campo
ai più gagliardi contrasti... Ma diremo noi che fosse impossibile il
far meglio che raccontarci così in due parole le morti di don Rodrigo
e di padre Cristoforo? Il Manzoni, meditando su quella situazione,
avrebbe senza dubbio trovato qualche alto concetto, al quale noi non
potremmo nè di lontano mai arrivare: tuttavia chi ne vieta di esporre
anche un nostro pensiero? Renzo, che ha già rinvenuta la sua Lucia,
torna dal frate per narrargli l'impedimento del voto ed implorarne
l'aiuto: ma il frate, oppresso dalla gravezza del male, è caduto presso
il letto di don Rodrigo che soccorreva, nè v'è più speranza ch'ei
si possa rialzare. Le preghiere di Renzo gli vanno all'anima, ma la
morte già vicina lo ha disteso su quella terra a cui sarà ricongiunto
fra poco. Corri, egli dice coll'ultimo avanzo della cadente sua voce,
corri da Lucia e qua la conduci, prima che venga la chiamata di Dio.
Il povero Renzo vola alla capannetta della fanciulla, che con passi
vacillanti, pallida pallida, lo segue, finchè giungono a quei due
moribondi, che aspettano una sì diversa mercede. Ecco gli accusatori,
il testimonio ed il reo: il Giudice sta più in alto, e fra pochi minuti
l'irrevocabile sentenza sarà pronunciata. Gran Dio, non entrare in
giudizio co' tuoi miseri servi! Noi non osiamo proceder più oltre,
che l'ingegno ne cade innanzi a tanto orrore e a tanta pietà: ma che
non avrebbe saputo fare il Manzoni? Gli effetti della Grazia erano già
stati descritti nell'Innominato; qui rimaneva a mostrarci la disperata
morte del reprobo, e il quadro riusciva perfetto, perchè lì presso ne
consolava la placida dipartita del giusto. Una maledizione su gli sposi
e sopra sè stesso è uscita da Rodrigo, padre Cristoforo ha sciolto il
voto, e benedetti i due giovani. Un profondo silenzio è succeduto a
quelle parole: tutto è finito. Si separino quei due corpi, che più non
saranno vicini in eterno. Guai a chi non intende la muta lezione che
s'innalza dalla polvere di quella capanna! È impossibile che i lettori
non si dolgano pensando al maraviglioso partito che la mente e il
cuore del Manzoni avrebbero tratto da tanta passione: ma anche qui è
sempre necessario ripetere, che senza mutare l'orditura del romanzo non
poteva arrischiarsi una scena sì viva. La narrazione degli avvenimenti
successivi dopo quell'impeto d'affetti non era più tollerabile, ed ivi
stesso, davanti a quel letto di morte, Renzo e Lucia doveano rinnovare
il loro giuramento, abbandonata ogni più minuta conclusione alla
fantasia de' lettori»[70].

Nell'ottobre del '27 mentre a Milano usciva alla luce il compimento
di questi discorsi, Niccolò Tommaseo veleggiava per l'Adriatico, e
parte negli ozi della traversata, parte in mezzo alle isole della sua
Dalmazia e nel porto d'Ancona fece una quantità di postille[71] sopra
un esemplare de' _Promessi Sposi_ donatogli dal Manzoni. Alcune sono
in lode; le più in biasimo e non senza acrimonia[72]. Il Manzoni,
raccontata la favola dello «scartafaccio», soggiunge: «Ed ecco
l'origine del presente libro». Il Tommaseo chiosa: «Questo non iscusa
la bugia. Si dirà che il Romanzo è tutto una bugia. Io rispondo che
mentire non è mai bello». Ritiene «che più naturale sarebbe stato,
invece di villani[73], scegliere una famiglia di città, povera, ma
gentile, chè anche allora era modo di dar risalto anche ai quadri
campestri». Trova «che don Abbondio in questo romanzo fa troppa
figura, occupa troppo spazio»; gli sembra «scarso di sovrane bellezze
tutto ciò che» nel secondo tomo «appartiene al cardinal Federigo e
all'Innominato»; e giudica si convertisse «troppo rabbiosamente»[74].
Del resto, a mettere in evidenza i biasimi tutti, bisognerebbe
trascrivere le postille in grandissima parte, e con le postille
l'ostico giudizio che inserì nell'_Antologia_[75]; dove la lode è
sempre misurata, il desiderio di censurare vivissimo sempre; e la
lode rivolta non al libro, ma all'uomo, «grande e per cuore e per
ingegno», «ingegno mirabile», «sovrano ingegno», «ingegno divino»,
«uomo divino», «genio e cuore apertissimo», «il giusto solitario»,
«il poeta del meglio», che si era perfino «abbassato a donarci un
romanzo»; _divinizzazione_[76] che dispiacque ai Leopardi, «perchè ha
dell'adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli».

Il Tommaseo a mano a mano andò temperando e modificando quel severo
giudizio, e quando nel '43 ristampò ne' suoi _Studi critici_ il vecchio
articolo dell'_Antologia_ molto vi tolse, non solo per condensar meglio
il pensiero, ma anche per renderlo meno aspro e meno reciso[77].
V'aggiunse un accenno alla lingua adoperata dal Manzoni ne' _Promessi
Sposi_; punto che fin allora non aveva toccato altro che in una lettera
confidenziale a Cesare Cantù, scritta da Parigi l'11 gennaio del
'37. Gli dice: «Godo che il Manzoni pensi a ristampare il romanzo,
egli stesso; e tanto meglio se con mutazioni e con giunte. Non ponga
indugio; non badi a' suoi scrupoli troppi, nè agli sdottoramenti dei
consiglieri immancabili, de' quali è provveduto appunto chi non ne ha
bisogno. Lasci stare ogni cosa, muti solo qualche parola o qualche
modo, se vuole: e anche questo con carità, senza spellare vivi quel
Renzo e quella Lucia»[78]. Le parole aggiunte al vecchio scritto son
queste: «Nella dicitura senti meditazione e cura continua. Io non dirò
se per tal cura Manzoni sia giunto a veramente italiana proprietà di
linguaggio e snellezza di stile: ma certo è che ne' modi lombardi e
francesi o non acconciamente toscani della prima stampa, quanto nelle
docili e felici (sebbene non sufficienti) correzioni della stampa
recente, è copia grande d'ammaestramenti agli amatori dell'arte»[79].
Il primo giudizio nella sostanza non lo mutò mai. Già vecchio, a
un amico, che voleva scrivere intorno a' _Promessi Sposi_ dava per
consiglio: «Com'egli» [il Manzoni] «senta e ritragga la natura visibile
è altresì da notare; il cielo, i monti; gli alberi, le acque; i suoni,
i colori; se non che alla freschezza del sentimento e alla maestria
dello stile, in quanto lo stile è concetto, non direi corrispondere
sempre, anzi di rado, la freschezza e franchezza dello stile in
quant'è lingua e armonia». Poi soggiungeva: «All'arte proprio direi,
che nell'esame di tale lavoro non sia da dare peso se non in quanto
essa è moralità». Voleva «della lingua e del numero» de' _Promessi
Sposi_ studiasse «quel che c'è di straniero, d'incerto, d'improprio, di
prolisso senza necessità di chiarezza»[80].

Giambattista Bazzoni[81], uno degli emuli, volle egli pure dire la
sua. «I _Promessi Sposi_ s'udirono annunziare tanto tempo innanzi che
apparissero al pubblico, ch'ebbero tutto il campo di ricevere dalle
mani abilissime del loro valente autore quella forbita, lucente e
veramente nuziale acconciatura di cui egli seppe adornarli. V'ha in
quei libri una inimitabile proprietà di vocaboli, espressioni fine,
vere, calzanti: vi si trova per tutto una vita, un'indagine profonda
del cuore, delle circostanze, delle cause; un nesso invisibile, ma
universale, efficace, che offre pascolo a tutti i gradi d'intelligenza;
è un complesso insomma di quadri affatto nuovi e sublimi. È vero però
che vi si rinvenne un lato vulnerabile come il calcagno nel fatato
corpo d'Achille; ma però le saette ad essi scagliate dai nostri Paridi
non li ferirono sì addentro da togliere loro la vita, che durerà anzi
sempre robustissima».

Ombra di Giambattista Bazzoni, che ti aggiri tra le rovine dimenticate
del tuo _Castello di Trezzo_, metti il cuore in pace: non ebbero da
quelle saette neppure scalfita la pelle; del resto, così dura, che
sfida i secoli!

  _Torino, 27 marzo 1905._

  GIOVANNI SFORZA.



XI.

FUGA DI DON RODRIGO.


Ma quella dea che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi, quante penne,
e tante lingue, quanti occhi, e (ma questo pare più naturale) tante
bocche, quante lingue, e finalmente tante orecchie, quanti occhi,
lingue e bocche (debb'essere una bella dea), questa ultima sorella di
Ceo e di Encelado, partorita dalla Terra in un momento di collera;
veloce al passo e al volo, che cammina sul suolo e nasconde il capo
tra le nuvole, che vola di notte per l'ombra del cielo e della terra,
nè mai vela gli occhi al sonno; e di giorno siede sui comignoli dei
tetti, o su le torri, e spaventa le città, portando attorno il finto e
il vero indifferentemente, costei aveva già, prima della notte, diffusa
nei paesi circonvicini la storia delle avventure di quel giorno. Per
fare intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato
formole che, a dir vero, appartengono esclusivamente alla poesia, ma
saremo scusati da coloro, i quali sanno che ad imprimere vivamente
una immagine nelle fantasie il mezzo più efficace è l'allegoria, e
singolarmente quella già nota e consecrata delle antiche favole: perchè
quando si vuol fare immaginar bene una cosa, bisogna rappresentarne
un'altra: così fatto è l'ingegno umano quando è coltivato con
diligenza. Siccome però a voler cavare dalle allegorie il senso vero ed
ultimo, quello che si vuol trasmettere, è necessario in ultimo pensare
alle cose che le allegorie fanno intendere, così non lasceremo di dire
che tutti gli abitanti del contorno, che erano convenuti quel giorno in
Chiuso, tornando la sera alle case loro, raccontarono ciò che avevano
veduto, ripeterono ciò che avevano inteso, commentando le circostanze
che per sè non avrebbero bastato a dare idea d'un fatto compiuto, e
inventarono gli episodj che erano indispensabili per dare continuità
alla storia. Ma il fondo delle loro relazioni era vero; e questo fondo
aveva abbondantemente di che eccitare una grande maraviglia e un grande
interesse. Il Conte del Sagrato era nome d'una terribile celebrità nei
contorni e assai più lontano, e una conversione tanto inaspettata e che
doveva portare tanti cangiamenti, era argomento all'universale di una
pia maraviglia, di esultazione, e di riconoscenza a Dio, e di nuova
venerazione per l'uomo di Dio, che ne era stato lo stromento. E quello
che rendeva ancor più interessante quella conversione era l'averne
veduto un effetto immediato, un testimonio vivo, già tanto interessante
per sè: una povera giovane restituita volontariamente dal carcere
privato alla libertà e alle braccia di sua madre. Ma pei parrocchiani
di Don Abbondio l'interesse era ancor più grande che per gli altri;
per essi la povera giovane era Lucia, quella Lucia che avevano veduta
fra loro modesta, bella, irreprensibile, allegra, che avevano pianta
sommessamente smarrita, della quale si sussurravano mille notizie
diverse e tutte lagrimevoli, della quale ora i suoi vicini potevano
dire: l'abbiamo veduta noi oggi con Agnese andare dal Cardinale, che le
voleva parlare in persona. Al mattino vegnente la fama si posò anche
sul comignolo del castellotto di Don Rodrigo; ed è facile immaginarsi
che la novella ch'ella portava fece sull'animo suo tutt'altro effetto
che sull'animo di quella povera moltitudine. Quella Lucia, ch'egli
aspettava da un giorno all'altro d'avere segretamente negli artigli,
ora pubblicamente libera; sventate e divolgate ad un punto le sue trame
abbominevoli, e quel suo alleato nel quale egli fidava, che con la sua
cooperazione doveva dare l'autorità del terrore al fatto, e far morire
il biasimo anche nelle bocche dei più arditi, ora disertato, divenuto
un oggetto di fiducia per gli avversarj. Don Rodrigo si sforzava di
ridere e guardava in faccia ai suoi bravi per attignere coraggio o
indifferenza, ma s'accorgeva che i bravi guardavano in faccia a lui
con la stessa intenzione; e per non trovare il coraggio il mezzo più
sicuro è di essere in molti a cercarlo: anche quel poco che ognuno si
sentiva se ne va: il Griso stesso[82] era avvilito. Costoro s'erano
tutti radunati nel castello come in un asilo, perchè non pareva loro di
star bene in nessun altro luogo. Girando il mattino, s'erano avveduti
che tirava un'aria estrania, inusitata: avevano osservata su tutti i
volti una esaltazione, una risolutezza, che aveva abbattuta la loro,
che veniva in gran parte dall'abitudine di mostrarla soli. Prima
d'allora quando un contadino s'avveniva in uno scherano, e vedeva in
lui non solo la forza sua e le armi che portava, ma tutta la potenza
dei suoi compagni e del capo, passava a canto con una umile riverenza;
se fosse stato insultato lo avrebbe tollerato in pace, perchè era certo
che gli altri che lo avessero veduto sarebbero stati molto contenti di
esserne fuori e non avrebbe avuto un ausiliario: ma ora, l'occasione
di esternare un sentimento unanime aveva fatta sentire a tutti una
fratellanza, una comunione d'idee e di causa; ognuno era certo che la
cosa era intesa da mille come da lui; e ognuno, comunicando agli altri
il suo nuovo coraggio, ne riceveva da essi, per la ragione inversa
di quello che era accaduto ai bravi e a Don Rodrigo. La conversione
del Conte, la liberazione di Lucia era l'argomento dei discorsi di
tutti quelli che s'incontravano; la gente si fermava in crocchj a
parlarne; un bravo che passasse in veduta dei crocchj aveva tutti
gli occhj addosso a sè, e la espressione di tutti quegli sguardi era
una, quella dell'orrore. Tutti parlavano sicuramente della pietà che
avevano provata, del timore che avevano avuto per quella innocente,
mettevano fuori i pensieri che avevano compressi o comunicati sotto
voce alla sfuggita, e trovando una conformità agli altri, sentivano che
a quei pensieri era unita una forza. La giustizia aveva trionfato, il
cielo s'era manifestato per l'innocente, e questa manifestazione, che
pareva una promessa d'ajuto, accresceva ancor più l'animo di tutti. Un
potente scellerato aveva pubblicamente abjurata col fatto la iniquità,
e l'aveva così vilipesa e indebolita nello stesso tempo. L'iniquità era
conosciuta, e perdendo un protettore terribile, aveva acquistato un
nemico pur terribile, un cardinale, un santo, un nobile, uno che aveva
mezzi di persuasione, di forza, di autorità, di aderenze. Quello poi
che rinforzava l'effetto di tutte queste considerazioni era la notizia
sparsa che il Cardinale veniva a visitare anche quella parrocchia, che
si fermerebbe qualche tempo nei contorni, che vi sarebbe folla d'uomini
condotti dallo stesso sentimento pio, avverso alla ingiustizia. E già
si diceva che il castellano di Lecco, quello spagnuolo per cui il
Podestà aveva tanta stima, si disponeva ad incontrare il Cardinale,
in gran pompa, coi suoi soldati: tutta la forza, tutto lo splendore
era per la pietà e per la giustizia. Ognuno pensava che gli scellerati
avrebbero dovuto convertirsi come il Conte, o perdersi d'animo e
fuggire.

Don Rodrigo, dopo non breve esitazione, prese quest'ultimo partito.
La violenza quando è assistita dalla fortuna ama a mostrarsi, ella ha
con sè come un argomento della sua bontà, o della sua ragionevolezza,
poichè ottiene il suo intento; ma quando è abbandonata dalla fortuna,
quando non valgono altri argomenti che quelli del diritto, del senso
universale della giustizia, che le mancano quando appare non solo come
ingiustizia, ma come sbaglio, allora la violenza vorrebbe nascondersi
anche a sè stessa. Don Rodrigo pensava che cosa mai avrebbe potuto fare
di conveniente che stesse bene in quei giorni, e non trovava nulla,
nemmeno un soggetto di discorso con chi venisse a visitarlo. E, d'altra
parte, s'immaginava bene che nessuno sarebbe venuto. Quei signori che
lo avevano adulato fin'allora, si sarebbero allora avveduti ch'egli
era un ribaldo, il Podestà doveva in quei momenti far dimenticare le
sue relazioni con l'uomo, che avrebbe dovuto reprimere e punire; al
più il dottor Duplica[83], il quale non voleva mai inimicarsi senza
speranza un signore, sarebbe stato quei giorni a poltrire in letto,
per potergli dire un giorno che una malattia gli aveva tolto il bene di
ossequiare il signor Don Rodrigo. Questi non vedeva così distintamente
tutte queste disposizioni, ma le sentiva confusamente come per istinto.
D'altra parte, come condursi col Cardinale? Tutti i signori del
contorno sarebbero andati a visitarlo, ed egli rimanersi solo a casa?
Che direbbe lo zio del Consiglio segreto? Andare dinanzi al Cardinale,
egli? gran Dio!

Ordinò dunque che tutto sì apparecchiasse pel ritorno in città, e al
più presto. Quando la carrozza fu pronta, vi fece salire tre bravi: il
Griso, come il più terribile[84], fu posto all'avanguardia sulla serpe,
tutto armato; al resto della famiglia fu dato ordine di venire a Milano
l'indomani, e si partì. Dopo i primi passi, Don Rodrigo vide coi suoi
occhi la via piena di viandanti che andavano in folla a Maggianico,
altri per vedere il Cardinale, per assistere alla solennità: giovani,
vecchi, benestanti e poveri in quantità, che sapevano di non tornare
con le mani vuote. Guardò alla sfuggita e conobbe in un punto su
tanti volti quale era il sentimento universale per lui: fremette, si
promise di vendicarsi, ma s'accorse che la menoma dimostrazione in quel
momento poteva far nascere una guerra della quale l'evento finale non
sarebbe stato dubbio: dissimulò dunque, ritirò la testa nella carrozza,
guardò i suoi bravi e lesse sui loro volti pallidi il desiderio di
esser fuori di quella processione e lontani dal paese. Sentì un romore
dietro, stette in silenzio, tendendo l'orecchio, e comprese che erano
urli e fischj. Allora mormorò fra i denti: vorrei che il Griso avesse
giudizio, che non mi facesse scene. Avrebbe voluto dare al Griso questo
consiglio della paura, ma la paura gli comandava di non muoversi, di
non farsi vedere, e stette in quella ansietà inoperosa fino a che la
carrozza, giunta al punto dove la strada si divideva, imboccò quella
che conduceva a Milano e si separò dalla folla che teneva a Maggianico.
Don Rodrigo e i suoi scherani respirarono allora dallo spavento, ma i
pensieri che rimasero a Don Rodrigo non furono molto più sereni. Il
cocchiere sferzò i cavalli per allontanarsi al più presto, e tutti i
viaggiatori, senza dir motto, lo lodarono in cuore e si rallegrarono
sentendo che la carrozza andava velocemente, senza impedimenti, in una
strada solitaria. Buon viaggio[85].



XII.

RITORNO DI LUCIA AL SUO PAESE.


Ma se le accoglienze dei paesani dì Lucia al Cardinale non poterono
essere più clamorose, nè più calde di quelle che gli avevano fatte
per tutto attorno, avevano però una espressione di una riconoscenza
speciale, che Federigo potè distinguere: anzi egli intese più d'una
volta nelle benedizioni che gli erano date, unito al suo nome suonare
quello di Lucia. Il buon vecchio tripudiò in cuore e per quella gioja
che dà sempre agli onesti il vedere l'espressione pubblica d'un
sentimento onesto ed umano e perchè con un tal favore del popolo gli
parve che Lucia potesse con sicurezza tornare, almeno per allora, a
casa sua. Ritiratosi pertanto, come abbiam detto, nella casa di Don
Abbondio, il Cardinale s'informò da lui e da qualche altro prete su
lo stato delle cose per rapporto a Lucia, e potè esser certo che ogni
pericolo era cessato per lei, giacchè il suo gran nimico e gli scherani
di questo se n'erano iti con la coda tra le gambe, e quand'anche
fossero stati sfrontati a segno di rimanere, i difensori di Lucia
sarebbero stati dieci volte in numero più del bisogno. Quando ebbe
questa certezza, Federigo ordinò che l'indomani di buon mattino la sua
lettiga andasse a prendere Lucia e la madre, e impose all'ajutante di
camera che si portassero provvigioni di vitto alla casetta delle donne,
perchè le poverette e Lucia principalmente non provasse quei mancamenti
e quei disagj che le avrebbero renduti increscevoli i primi momenti del
ritorno, e prolungato in certo modo il sentimento amaro dell'assenza.

All'indomani, alzatosi al solito di buon mattino, attese il Cardinale
alle consuete operazioni, s'intrattenne alquanto col Conte del Sagrato,
il quale non aveva mancato di venire a quella stazione della visita,
come negli altri giorni, poscia andò nella chiesa, come era uso. Le
funzioni non erano ancora terminate, che Lucia giunse con Agnese alla
soglia della casetta paterna. Agnese aveva parlato per tutta la strada;
la sua gioja, pel ritorno trionfale, la gioja di ricondurre salva a
casa la figlia da tanti pericoli, la gioja d'esser divenuta conoscenza
di Monsignore illustrissimo, l'aspettazione dell'accoglimento che le
farebbero i parenti, i conoscenti, tutti i paesani erano sentimenti
espansivi e distinti che si prestavano assai bene alla sua loquacità
naturale. Ma i sentimenti di Lucia erano misti, intralciati,
ripugnanti: erano di quelli sui quali la mente s'appoggia con una
insistenza dolorosa per distinguerli e per assoggettarli; di quei
sentimenti che non cercano di esser comunicati, nè trovano ancora la
parola che li rappresenti. Rivedeva ella la sua casa, quella dove aveva
passati tanti anni tranquilli, che aveva tanto desiderato e sì poco
sperato di rivedere, ma quella casa che non era stata per lei un asilo,
quella casa dove aveva data una promessa che non credeva di poter più
attenere, dove aveva tante volte fantasticato un avvenire, divenuto
ora impossibile. Era terribilmente in forse di Fermo: Agnese non le
aveva potuto dire se non quello ch'ella stessa sapeva confusamente;
che Fermo, cioè, dopo il tumulto di Milano del giorno di San Martino,
aveva dovuto fuggire dalla città e uscire dallo Stato per porsi in
salvo. E quand'anche Fermo fosse tornato tranquillamente, le ansietà
di Lucia si sarebbero cangiate, ma non avrebbero cessato, perchè ella
non poteva più esser sua. Tremava ancora nel pensiero che Fermo potesse
essere informato del suo ratto, della sua prigionia, e non sapesse
esattamente com'ella aveva fuggito ogni pericolo; la poveretta, mentre
aveva rinunziato a Fermo, avrebbe voluto ch'egli sapesse ch'ella era
in tutta degna di lui. Avrebbe voluto che Fermo fosse informato del
voto ch'ella aveva fatto, senza ch'ella glielo dicesse, che egli
l'approvasse con dolore, che non pensasse mai ad altra, nè più a lei,
o per meglio dire, giacchè questa non era l'idea precisa di Lucia,
avrebbe voluto che Fermo facesse tutti i giorni una risoluzione di non
più pensare a lei; che si fosse ben ricordato che era suo dovere di
dimenticarla. L'assenza del Padre Cristoforo accresceva ed esacerbava
tutti questi cordoglj: le mancava l'ajuto e il consiglio; quegli a
cui ella confidava anche i mezzi pensieri, quegli le cui parole la
rendevano sempre più tranquilla e più conscia di sè stessa. Quanto a
Don Rodrigo, egli era messo, almeno per qualche tempo, fuori del caso
di far paura, e la rimembranza di quest'uomo, trista certo e orrenda
per Lucia, non accresceva però le sue inquietudini. Pensava però che
Don Rodrigo sarebbe tornato e rimasto e che il Cardinale non avrebbe
potuto sempre aver l'occhio sopra di lei per difenderla, e da questo
pensiero deduceva la necessità di trovare qualche dimora più sicura, e
sperava che il Cardinale stesso ne avrebbe tolto l'incarico.

Così, dopo d'avere abbracciata la zia, che l'accolse piangendo, Lucia
la lasciò con Agnese, che se ne impadronì per raccontarle tante tante
cose, e si ritirò nella sua stanza. Ivi, dopo d'aver ringraziato Dio
dell'averla ricondotta quivi, oltre e contra la speranza, si mise
a rivisitare tutte le sue masserizie, come per provare se potesse
ricominciare la sua vita passata; ma non v'era oggetto nella casa, non
v'era angolo al quale non fossero associate idee divenute dolorose e
ripugnanti. Lucia prese come macchinalmente il suo arcolajo e sedette
a dipanare la matassa di seta che aveva lasciata a mezzo quando Fermo
venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino.

Dopo pochi momenti ecco giungere Perpetua affannata a dire che
Monsignore, tornato di chiesa, aveva chiesto se Lucia era arrivata, e
che udendo di sì, aveva ordinato che fosse tosto chiamata. Il signor
Curato poi, aggiunse Perpetua sottovoce, mi ha imposto di dirvi, o
Lucia, che vi ricordiate del parere che vi ha dato a Chiuso: ehm?
sapete? di non dir nulla di quel tale affare; Agnese, m'intendete? del
matrimonio, guardatevi dal parlarne, perchè, perchè i Cardinali passano
e i curati restano. Le due donne si guatarono in viso, come per dire
l'una all'altra: ora mò? non siamo più in tempo. Ma Agnese, fatta una
faccia tosta, disse a Lucia: certo non bisogna dir nulla; e mettendo la
bocca all'orecchio di Lucia continuò: del matrimonio clandestino. Guaj,
vedi, è un guajo grosso. Lucia con queste due ingiunzioni, l'una delle
quali era ineseguibile, e l'altra poteva dipendere dalle domande che il
Cardinale le avrebbe fatte, s'incamminò, tutta pensierosa e agitata,
con le due donne, alla casa del curato. Per la via incontrarono la
folla, che uscita dalla chiesa si diffondeva nel contorno; e Lucia fu
accolta con acclamazioni[86], e fermata ad ogni passo da saluti, fra
i quali, vergognosa, con gli occhi bassi e gonfj, entrò nella casa
parrocchiale, e fu tosto condotta nella stanza dov'era Federigo, il
quale la ricevè con le solite precauzioni.

Dopo alcune inchieste cortesi sul suo viaggio, sul piacere ch'ella
aveva provato nel rivedere la sua casa, Federigo la interrogò di nuovo
sull'affare del matrimonio. Lucia dovette rispondere e raccontò tutta
la faccenda fino al clandestino, dove si fermò come un cavallo che ha
veduto un'ombra, e ristà con una sosta improvvisa e singolare, che
non è quella solita d'allora che è giunto al termine del suo viaggio.
Federigo, che s'avvide di qualche cosa, domandò a Lucia che risoluzione
avesse presa ella, sua madre, lo sposo quando si videro chiusa la via
a quella unione che desideravano e che chiedevano legittimamente.
Agnese udendo questo, cominciò a far certi visacci a Lucia, cercando
di non lasciarli scorgere al Cardinale (cosa non molto facile), e
questi visacci volevano dire: rispondi: niente, abbiamo aspettato con
pazienza. Lucia stava interdetta: Federigo, che vedeva tutto--l'avrebbe
veduto un cieco nato--disse ad Agnese, con un contegno tranquillo e
serio: Perchè non lasciate esser sincera la vostra figlia? e volto a
Lucia: parlate liberamente, continuò: Dio vi ha assistita: dategli
gloria con dire la verità. Lucia allora spiattellò tutta la storia del
clandestino, e la narrazione divenne allora liscia, verisimile e ben
congegnata.

--Avete confessata una colpa, disse tranquillamente Federigo: Dio ve la
perdoni e... a chi v'ha dato una tentazione così forte di commetterla.
Ma d'ora in poi, buona figliuola, e voi, buona donna, non fate più di
quelle cose che non raccontereste volentieri.

Quindi passò a chiedere a Lucia dove fosse Fermo; che ora il matrimonio
poteva e doveva esser tosto conchiuso.

Questo era un punto ancor più rematico. Le dirò io... cominciava
Agnese, ma il Cardinale le diede un'occhiata, la quale significava,
ch'egli sperava la verità più da Lucia che da lei, onde Agnese ammutì;
e Lucia singhiozzando, rispose: Fermo, povero giovane, non è qui; s'è
trovato in quei garbugli di Milano e ha dovuto fuggire; ma son certa
ch'egli non ha fatto male, perchè era un giovane di timor di Dio.

--Ma che ha fatto in quel giorno? chiese ancora il Cardinale: quale è
la sua colpa?

--Non ne sappiamo di più, rispose Lucia.

Il Cardinale, giacchè altri non v'era a cui domandare, si volse ad
Agnese, la quale, rianimata, disse: Se volessi potrei inventare una
storia per contentare Vossignoria illustrissima, ma sono incapace
d'ingannare una gran persona, come Ella è; e non sappiamo proprio
niente di più.

--Dio buono! disse il Cardinale: insidie, colpe, sciagure, incertezze,
ecco il mondo dei grandi e dei piccioli. Ma voi, disse a Lucia, che
pensate adunque di fare intanto?

--Io, rispose Lucia, io vedo che il Signore ha deciso altrimenti di
me, che non mi vuole in quello stato, e ho messo il mio cuore in
pace. E se trovassi dove vivere tranquillamente, fuor d'ogni pericolo;
se potessi esser ricevuta conversa in un monastero... consecrarmi a
Dio...

--Oh che furia! sclamò Agnese.

--Voi vi siete promessa, buona giovane, disse Federigo: vi siete allora
risoluta a promettere senza riflessione, leggermente?

--Questo no, disse Lucia arrossando.

--Bene, disse Federigo, potrebbe ora dunque esser leggiero il
ritrattarvi. Se quest'uomo fosse innocente, se potesse sposarvi, che
mutamento è accaduto nelle vostre relazioni? Nessun altro che una serie
di sventure ad ambedue, e non è questa una ragione per separarvi.
Questo non è il momento di pigliare una risoluzione. Sospendete, fate
ricerche, aspettate che Iddio vi riveli più chiaramente la sua volontà.
L'asilo[87] intanto ve lo troverò io.

Lucia fu tentata più d'una volta di rivelare il voto, ma una vergogna
insuperabile la ritenne. Federigo l'assicurò che non sarebbe partito
da quei contorni prima d'avere stabilito qualche cosa per lei; e dopo
qualche altra parola di consolazione e di avviso la lasciò partire con
Agnese[88].



XIII.

VISITA DEL CONTE DEL SAGRATO A LUCIA


Abbiamo detto che il Conte del Sagrato era venuto ogni mattina a quella
chiesa che il Cardinale visitava in quel giorno. Stava alquanto con
lui in quell'ora di riposo che precedeva il pranzo, e poi ripartiva.
Ma in questo giorno egli era venuto con un disegno, che fu cagione di
farlo rimanere più tardi. Sapeva il Conte che Lucia doveva tornare alla
sua casa: il Cardinale lo aveva informato di questo, anzi gliene aveva
chiesto consiglio: perchè, dove si trattava di pericolo e di cautela,
di bravi e di tiranni, non v'era uomo più al caso di dare un buon
consiglio[89]: e il Conte aveva confortato il Cardinale ad installare
pure sicuramente Lucia nel suo pacifico albergo. Prevedendo egli dunque
che quel giorno Lucia si sarebbe trovata dal Cardinale, non vi si
presentò all'ora consueta, ma stette nella chiesa, aspettando l'ora
in cui il Cardinale era solito di desinare, e quando questa gli parve
dover esser giunta, entrò nella cucina, dove Perpetua stava in grandi
faccende, e le chiese, con umile affabilità, di potere ivi trattenersi
ad attendere che il pranzo fosse finito, per chiedere udienza a
Monsignore. Chi entra in una cucina in un giorno di cerimonie è sempre
il mal venuto; ma il Conte aveva una antica riputazione di ribalderia
e una recente di santità, che imposero anche a Perpetua, la quale, per
levarsi dattorno nel modo più gentile quell'incomodo arnese, propose al
Conte d'entrare nella sala del pranzo.--Si faccia avanti, diss'ella,
sulla mia parola: Monsignore la vedrà molto volentieri; e anche il mio
padrone e tutta la compagnia: non faccia cerimonie.

Ma il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto.
Perpetua lo fece sedere al posto d'onore della cucina, nel banco sotto
la cappa del cammino, dicendo: Vossignoria starà come potrà: veramente
avrebbe fatto meglio d'entrare coi signori, che quello è il suo posto:
basta, com'ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a
tenerle compagnia, perchè oggi ho tante faccende: ella vede. Il Conte
sedette, ringraziò, e cavato un tozzo di pane[90], che aveva portato
con sè, si diede a mangiare. Quando Perpetua vide questo, non lo volle
patire.--Come? un signore suo pari! non sarà mai detto ch'ella faccia
questo torto alla mia cucina. Ecco, si serva, mangi di questo: e lasci
fare a me per mandare in tavola il piatto senza un segno: non faccia
complimenti: che serve?--E come il Conte rifiutava, Perpetua gli si
avvicinò all'orecchio e gli disse a bassa voce:--Via, signor Conte;
che scrupoli son questi? so quello che posso fare; la padrona sono io
qui.--Ma tutto fu inutile. Il Conte ringraziò di nuovo, e continuò a
rodere ostinatamente il suo pane.

Quando poi da quello che accadeva in cucina s'avvide che erano cessati
i cibi e levate le mense, fece chiedere udienza a Federigo, dal quale
fu tosto fatto introdurre.

--Monsignore, diss'egli, quando gli fu in presenza, questo è un giorno
di festa singolare per questo paese e per voi: ma in questa allegrezza
comune, io, io ho una parte ben diversa da tutti gli altri; il gaudio
puro e sgombro della liberazione d'una innocente non è per colui che
l'aveva vilmente oppressa, angariata. A me conviene dunque un contegno
e un linguaggio particolare; lasciate che io faccia oggi la mia parte;
approvate che io vada ad implorare un perdono da quella innocente,
ch'io mi umilj dinanzi a lei, che le confessi il mio orribile torto, e
che riceva dalla sua bocca innocente dei rimproveri, che non saranno
certo condegni alla mia iniquità, ma che serviranno in parte ad
espiarla.

Federigo intese con gioja questa proposizione; e pel Conte, a cui
questo passo sarebbe un progresso nel bene e una consolazione nello
stesso tempo; e per Lucia, alla quale lo spettacolo della forza
umiliata volontariamente, sarebbe un conforto, un rincoramento dopo
tanti terrori; e pel trionfo della pietà, e per l'edificazione dei
buoni; e finalmente perchè una riparazione pubblica e clamorosa
attirerebbe ancor più gli sguardi sopra Lucia, e sul suo pericolo[91],
sarebbe una più aperta manifestazione del soccorso che Dio le aveva
dato, la renderebbe come sacra, e così più sicura da ogni nuovo
attentato dello sciaurato suo persecutore. Approvò egli dunque con
vive e liete parole la proposizione e aggiunse:--Dite: dite se
l'offesa la più ardentemente bramata, la più lungamente meditata, la
meglio riuscita reca mai tanta dolcezza quanto una umile e volontaria
riparazione?

--Ah! la dolcezza sarebbe intera, rispose il Conte, se la riparazione
potesse esserlo, se il pentimento, se l'espiazione la più operosa, la
più laboriosa potesse fare che il male non fosse fatto, che i dolori
non fossero stati sentiti.

--Ma v'è ben Quegli, rispose Federigo, che può far di più; che può
cavare il bene dal male, dare pei dolori sofferti il centuplo di gioja,
fargli benedire a chi gli ha sofferti. E quando voi fate per Lui e con
Lui quel poco che v'è concesso di fare, Egli farà il resto: Egli farà
che del male passato non resti a quella poveretta che un argomento
di riconoscenza e di speranza, e a voi di una afflizione umile e
salutare[92].

Detto questo, il Cardinale chiamò il curato, e gli impose che facesse
avvisare Lucia del disegno del Conte, e le dicesse ch'egli stesso la
pregava di accoglierlo. Partito il curato, Federigo richiese il Conte
che aspettasse tanto che Lucia potesse essere avvertita.

Dopo qualche momento il Conte uscì dalla casa di Don Abbondio e s'avviò
a quella di Lucia tra una folla di spettatori, fra i quali era già
corsa la notizia di ciò che si preparava.

La forza, che spontanea, non vinta, non strascinata, non minacciata,
si abbassa dinanzi alla giustizia, che riconosce nella innocenza
debole un potere, e domanda grazia da essa, è un fenomeno tanto bello
e tanto raro, che beato chi può ammirarlo una volta in sua vita. Quei
buoni terrieri (in quel momento erano tutti buoni) non si saziavano
di guardare il Conte, lo seguivano, lo circondavano in tumulto, lo
colmavano di benedizioni. Tanta è la bellezza della giustizia: per
tarda ch'ella sia, innamora sempre quando è volontaria: quelli che
dopo aver fatti patir gli uomini si vendicano dell'odio loro, che gli
tormenta, col fargli patire ancor più, non pensano che quell'odio è
pronto a cangiarsi in favore, in riconoscenza, al momento che una
risoluzione pietosa, un ravvedimento, anche senza confessione, faccia
cessare i patimenti.

Il Conte camminava ad occhi bassi e col volto infiammato, tutto
compunto e tutto esaltato, che poteva sembrare un re condotto in catene
al trionfo, o il capitano trionfatore, e Don Abbondio camminava al suo
fianco e pareva... Don Abbondio.

Giunti alla casetta di Lucia, il curato fece entrare il Conte, e con
ambe le mani ritenne la folla, o almeno le comandò che si rattenesse,
tanto che potè chiuder l'uscio, e lasciarla al di fuori.

Lucia, tutta vergognosa, condotta dalla madre, si fece incontro al
Conte, il quale, trattenendosi vicino alla porte, nell'atteggiamento
di un colpevole, le disse con voce sommessa: Perdono: io son quello
che v'ha offesa, tormentata: ho messe le mani sopra di voi, vilmente,
a tradimento, senza pietà, senza un pretesto, perchè era un iniquo: ho
sentito le vostre preghiere, e le ho rifiutate: ho veduto le vostre
lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi. Vi ho fatta tremare
che voi m'aveste offeso, perchè era più forte di voi e scellerato.
Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel colloquio, perdonatemi
quella notte; perdonatemi, se potete.

--S'io le perdono! rispose Lucia. Dio s'è servito di lei per salvarmi.
Io ero nelle unghie di chi mi voleva perdere, e ne sono uscita col
suo ajuto. Dal momento ch'ella m'è comparsa innanzi, che io ho potuto
parlarle, ho cominciato a sperare; sentiva in cuore qualche cosa che mi
diceva ch'ella mi avrebbe fatto del bene. Così Dio mi perdoni, come io
le perdono.

--Brava figliuola! disse Don Abbondio, così si deve parlare: fate bene
a perdonare, perchè Dio lo comanda; e già quando anche non voleste, che
utile ve ne verrebbe? Voi non potete vendicarvi, e non fareste altro
che rodervi inutilmente. Oh se tutti pensassero a questo modo, sarebbe
un bel vivere a questo mondo!

--È vero, disse Agnese, che questa mia poveretta ha patito molto...
ma bisogna poi anche dire che noi poveretti non siamo avvezzi a vedere
i signori venirci a domandar perdono.

--Dio vi benedica, disse il Conte, e vi compensi con altrettanta e
più consolazione i mali che io vi ho fatti, tutti quelli che avete
sofferti. Indi soggiunse titubando: Come sarei contento se potessi far
qualche cosa per voi!

--Preghi per me, disse Lucia, ora ch'è divenuto santo.

--Quello ch'io sono stato, lo so pur troppo anch'io: quello ch'io ora
sia, Dio solo lo sa, rispose il Conte... Ma voi, in questa vostra
orribile sciagura... in questa mia scelleratezza... non avete avuto
soltanto timori e crepacuori... La vostra famiglia... una famiglia
quieta e stabilita... i vostri lavori, l'avviamento... voi avete
sofferti danni d'ogni genere... se osassi... se osassi parlare di
compensar questi, io che v'ho fatto tanto male, che non potrò compensar
mai... ma Dio è ricco... frattanto datemi questa prova di perdono...
accettate, e qui cavò, con peritanza quasi puerile[93], un rotolo di
tasca... accettate questa picciola restituzione... non mi umiliate
con un rifiuto.

--No, no, disse Lucia: Dio mi ha provveduta abbastanza: v'ha tanti
poverelli che patiscono la fame: io non ho bisogno...

--Deh! non rifiutate, replicò il Conte con umile istanza: se sapeste!
questa somma... questo numero... pesa tanto in mano mia... e sarei
tanto sollevato se l'accettaste... Non mi farete questa grazia, per
mostrarmi che m'avete perdonato? e vedendo che il volto d'Agnese
esprimeva il consenso che il volto e le parole di Lucia negavano,
presentò alla madre il rotolo, implorando, pur con lo sguardo, il
consenso di Lucia[94].

--Grazie, disse Agnese al Conte; e tu, continuò rivolta a Lucia, ora
non parli bene. Questo signore lo fa pel bene dell'anima sua, e noi
poveri non dobbiamo esser superbi. Così dicendo svolse il rotolo e
sclamò: Oro!

--Vostra madre ha ragione, disse Don Abbondio: accettate quello che
Dio vi manda, e se vorrete farne del bene, non mancheranno occasioni.
Così facessero tutti! Così Iddio toccasse il cuore a qualchedun altro e
gli spirasse di compensare anche me, povero prete, delle spese che ho
dovuto fare in medicine per quella maledetta... Voleva dire paura, ma
ebbe paura di parlare imprudentemente e si fermò.

--Vi ringrazio della vostra degnazione, disse il Conte a Lucia, e del
vostro perdono. E se mai in qualunque caso voi credete ch'io possa
esservi utile, voi sapete... pur troppo... dove io dimoro. Il giorno
in cui mi sarà dato di fare qualche cosa per voi, sarà un giorno lieto
per me: mi parrà allora che Dio mi abbia veramente perdonato.

--Ecco che cosa vuol dire avere studiato! disse Agnese: appena Dio
tocca il cuore, si parla subito come un predicatore.

Lucia ringraziò pure il Conte, il quale, dopo d'aver ripetute parole
di scusa[95] e di umiliazione e di tenerezza, si congedò, uscì con Don
Abbondio, e sulla porta si divisero. Il Conte, tra le acclamazioni
della folla, prese la via che conduceva al suo castello, e Don Abbondio
tornò a casa.

Appena le due donne furono sole, Agnese svolse il rotolo e in fretta
in fretta si diede a noverare. Dugento scudi d'oro! sclamò poi; quanta
grazia di Dio. Non patiremo più la fame certamente.

--Mamma, disse Lucia, poichè quel signore ci ha costrette ad accettare
questo dono e ha preteso che fosse una restituzione... quei denari non
sono tutti nostri. Non siamo noi sole che abbiamo sofferti danni...
non sono io sola che abbia dovuto fuggire, intralasciare i miei
lavori. Io sono tornata finalmente... e se non istarò qui, ho almeno
chi pensa a me, chi non mi lascerà mancare di nulla... Un altro è
lontano, e Dio sa quando potrà tornare. Mi parrebbe di aver rubati quei
denari, se almeno almeno non gli dividessi con lui.

--Glieli porterai in dote, disse Agnese, studiandosi di rotolare
come prima gli scudi, che, facendo pancia da una parte o dall'altra,
sfuggivano dalle sue mani inesperte.

--Non parliamo di queste cose, mamma, disse Lucia sospirando; non ne
parliamo. Se Dio avesse voluto... ah! le cose non sarebbero andate a
quel modo. Non era destinato che fossimo... non ci pensiamo per carità.

--Ma s'egli torna, voleva cominciare Agnese.

--È lontano, è profugo, ramingo... ah! c'è altro da pensare: forse
egli stenta, forse non ha pane da mangiare. Forse con questo ajuto egli
potrà collocarsi bene altrove, farsi un avviamento, uno stato...

--Ohe! disse Agnese, tu non pensi più a lui?...

--Penso a toglierlo d'angustia e di bisogno, rispose in fretta Lucia.
Questo lo possiamo fare; al resto provvederà Iddio.

Agnese era onesta e buona, e per quanto le piacessero quei begli scudi
giallognoli, non avrebbe potuto possederli con un contento puro e
tranquillo quando le fossero divenuti in mano un testimonio di dura e
_bassa avarizia_. Consentì ella dunque a destinarne la metà a Fermo
e promise a Lucia che avrebbe cercato tosto il mezzo di farglieli
tenere sicuramente. Ma Agnese era rimasta colpita di quella nuova
rassegnazione di Lucia all'assenza del suo promesso sposo, e non lasciò
di tentarla con interrogazioni dirette, tortuose, calzanti, subdole,
per venirne all'acqua chiara. Lucia però seppe per allora e per qualche
tempo schermirsi dal soddisfare alla curiosità materna, allegando
sempre che era inutile il pensare a cose che le circostanze rendevano
impossibili[96].



XV.

CURE DEL CARDINAL FEDERIGO PER METTERE AL SICURO LUCIA.


Il Cardinale aveva risoluto di partire quella sera, di là[97], per
portarsi ad una parrocchia vicina; ma partiva col dispiacere di non
avere ancora potuto provvedere Lucia d'un asilo; e quantunque tutto
paresse ivi sicuro per essa, pure il cuore del buon vecchio non era
abbastanza tranquillo. Per avere la certezza che desiderava, egli non
si rivolse a Don Abbondio, perchè teneva per fermo (e nessuno dirà
ch'egli giudicasse temerariamente) che Don Abbondio per rispondere
Monsignor sì, o Monsignor no, avrebbe consultato piuttosto l'interesse
e la sicurezza sua propria, che quella di Lucia. Commise egli adunque
al suo cappellano crocifero di aggirarsi fra il popolo e di osservare
lo stato delle cose, la disposizione degli animi, di vedere se v'era
rimasta in paese gente di mala intenzione, se insomma si poteva
partire col cuore quieto, lasciando Lucia nel luogo dove alcuni giorni
prima non era stata sicura. Il cappellano fece ciò che gli era stato
imposto; parlò al sagrestano, agli anziani, al console, e da tutti fu
accertato che nulla v'era da temere. Anzi, appena si ebbe sentore dì
questa inquietudine del Cardinale, in un momento, giovani e vecchj
s'offersero di guardare la casa di Lucia, con quella risoluzione, con
quell'ardore con cui si veggono offrire le alleanze ad un principe
vittorioso.--Son qua io, diceva l'uno--tocca a me, diceva l'altro--io
son cugino, gridava un terzo--io, io che non ho paura di brutti musi,
schiamazzava il quarto, e così fino al centesimo. Non si sarebbe potuto
credere che Lucia pochi giorni prima avesse dovuto fuggire segretamente
da quello stesso paese. Perchè costoro non si presentavano quando v'era
il bisogno? Eh! perchè v'era il bisogno.

Avuta questa sicurezza, il Cardinale partì, facendo ancora ripetere a
Lucia ch'egli non si sarebbe scostato da quei contorni prima d'aver
provveduto alla sua sorte. Infatti, egli andò sempre in quei giorni
ripensando al modo di compire questa sua opera e ricercando in ogni
persona, in ogni circostanza se poteva farne un mezzo al suo benefico
intento. A forza di attendere e di ricercare, l'occasione si presentò.
Visitando una di quelle parrocchie, ricevette Federigo fra le altre
visite, che accorrevano da ogni parte, quella d'una famiglia potente di
Milano, che villeggiava in quelle vicinanze[98]. Don Valeriano[99],
capo di casa, Donna Margherita[100], sua moglie, Donna Ersilia, loro
unica figlia, e Donna Beatrice, sorella del capo di casa, rimasta
vedova nel primo anno di matrimonio e ritornata a vivere ritiratamente
in casa. Dei primi tre il Cardinale non aveva conoscenza molto vicina:
sapeva soltanto che la famiglia, benchè molto distinta, pure non faceva
terrore, che Don Valeriano non aveva riputazione di soverchiante e di
tiranno; e questo merito negativo bastava in quei tempi a conciliare
ad una famiglia potente la stima e la fiducia dei più savj. Oltre
di che, Donna Beatrice era nota a Federigo assai più da vicino; le
abitudini di una vita tutta consecrata alla pietà e alla assistenza dei
poveri, le avevano data, senza ch'ella se ne curasse, una riputazione
di santità, e il Cardinale, in più occasioni, incontrandosi con
essa nelle stesse intenzioni e nelle stesse occupazioni, aveva avuto
campo di accertarsi che quella riputazione non era menzognera. Quando
adunque questa visita gli fu annunziata, propose egli di trovare il
modo che Lucia andasse in quella casa; ma non dovette studiar molto
a condurre il discorso dov'egli desiderava: perchè l'affare di Lucia
era stato tanto clamoroso, che Don Valeriano non mancò di parlarne,
per fare un complimento al suo liberatore. Questi allora, dopo d'aver
modestamente rifiutate le lodi, ch'egli sapeva di non meritare,
raccontando semplicemente il fatto e togliendone tutto ciò che la fama
vi aveva aggiunto in suo onore, aggiunse che però tutto non era finito,
che quella povera giovane, uscita da un tanto pericolo, non era pure
in sicuro, non aveva un asilo, e che certamente avrebbe compiuta una
opera incominciata da Dio chi l'avesse raccolta. Don Valeriano guardò
in faccia a Donna Margherita, la quale assenti con una occhiata: Donna
Beatrice, non guardata da loro, gli guardò entrambi con ansietà per
vedere se avevano inteso, se avrebbero fatto vista d'intendere: Donna
Ersilia continuò a guardare la croce del Cardinale, la porpora, a
seguire con l'occhio la mano, per osservare l'anello, che erano le
cose per le quali s'era fatta una festa di venire a far quella visita.
Don Valeriano offerse al Cardinale di prendere Lucia al servizio
della casa, o come il Cardinale avrebbe desiderato. Il Cardinale
accettò lietamente: fece avvertire Lucia ed Agnese, le quali vennero
all'obbedienza: Lucia fu consegnata a Donna Margherita e posta ai
servizj di Ersilia. Don Valeriano fu molto contento d'avere esercitata
una protezione: Donna Margherita di avere in casa una persona, alla
quale potè metter nome: quella giovane che mi è stata affidata dal
signor Cardinale arcivescovo; Donna Beatrice, di vedere in sicuro una
innocente, e di poterla soccorrere e consolare; Donna Ersilia, d'avere
una donna al suo servizio con la quale potere parlare senza che le
fosse dato sulla voce. Lucia pure fu contenta di avere una destinazione
che la toglieva da quel contrasto doloroso tra il voto e il cuore;
Agnese, di vedere la sua figlia in salvo e in casa di signori; e
finalmente il Cardinale, di aver messa quella pecorella al sicuro dalle
zanne del lupo[101].



XVI.

IL TOZZO DI PANE E IL BICCHIER D'ACQUA DEL CARDINAL FEDERIGO.


Prima però di staccarci da Federigo non possiamo a meno di non
raccontare un tratto accaduto nella visita da lui fatta in quei
contorni[102]; perchè questo racconto, quale lo troviamo nel nostro
manoscritto e altrove, serve assai a dipingere i costumi di quel tempo,
tanto lontani dai nostri e osservabilissimi per una certa pienezza
d'entusiasmo, per una esplosione dì sentimenti clamorosa, per un impeto
veemente, come troppo spesso al male, così pure qualche volta verso
ciò che era veramente stimabile. Oltre di che, Federigo è personaggio
tanto amabile, nelle sue azioni anche le più comuni v'è sempre una
tale espressione di gentilezza, di bontà, che fa riposarvi sopra la
fantasia con diletto, e cogliere ogni pretesto per rimanere il più che
si possa in una tale compagnia; che se qualche lettore osasse dire che
noi ve lo abbiamo trattenuto troppo a lungo, osasse confessare d'aver
provato un momento di noja, bisognerebbe concluderne delle due cose
l'una: o che noi raccontiamo in modo da annojare, anche con una materia
interessante, o che questo lettore ha un animo ineducato al bello
morale, avverso al decente, al buono, istupidito nelle basse voglie,
curvo all'istinto irrazionale. Ma il primo di questi due supposti è
manifestamente improbabile a parer nostro. Veniamo al racconto.

Dalle chiese delle quali abbiamo parlato si era Federigo trasportato a
visitar quelle della valle di San Martino, che era allora nel dominio
Veneto e nella diocesi milanese; e per tutto dov'egli si andava
fermando, oltre la folla dei parrocchiani, la chiesa, la piazza, la
terra formicolavano di moltitudine accorsa dai luoghi circonvicini.
In una di quelle terre, avendo egli sbrigate nella sera stessa del
suo arrivo le principali faccende, aveva egli disegnato di partire
prima del pranzo, per giungere più tosto alla stazione vicina. Era la
chiesa, dov'egli si trovava, posta sulla cima d'un lento pendìo, che
terminava in una vasta pianura. Celebrati i santi misteri, si volse
egli dall'altare per favellare al popolo, e stendendo dinanzi a sè
il guardo, che dalla elevazione dell'altare poteva trascorrere, per
la porta spalancata, sul pendìo e nel piano sottoposto, vide, dalla
balaustrata del presbitero, nella chiesa, sul pendìo, nel piano una
calca non interrotta, come un selciato continuo di teste e di volti;
se non che, al di fuori, quella superficie uniforme era interrotta
da tende alzate, che facevano parere quel luogo un campo, o una
fiera; guardando poi più fisamente, scorse fra quella moltitudine
abiti diversi di ricchezza e di foggia, che dinotavano una varietà di
condizioni e di paesi. Chiese egli a chi lo serviva più da vicino,
che cosa volesse dire quel concorso; e gli fu detto, che era gente
accorsa da tutta la diocesi di Bergamo, e dalla città stessa, per
vederlo, per udirlo. E perchè, diss'egli, non gli accoglieremo noi
gentilmente come si conviene con ospiti? Quindi dette alcune parole
di insegnamento e di salute ai popolani, che non avendo avuto viaggio
da fare avevano i primi occupata tutta la chiesa, propose loro che
facessero gli onori di casa e cedessero il luogo a quegli estranei, che
erano venuti da lontano per sentire un vescovo. La voce corse tosto
per la chiesa e per lo spazio di fuori; questi uscivano e cedevano
il luogo con pronta cortesia, quegli entravano con ritegno e con
rendimenti di grazie: contadini e signori parevano in quel momento
gente bene educata. Cangiata a poco a poco l'udienza, il Cardinale
parlò a quei sopravvenuti come gli dettava la sua abituale carità e la
simpatia particolare che aveva eccitata in lui quella ardente e comune
volontà, la quale egli si sforzava di credere attirata in tutto dal suo
ministero e per nulla da una inclinazione alla sua persona. Terminato
il discorso, benedisse egli tutto quel concorso, lo accomiatò, e si
dispose a partire. Salito sulla sua mula, si mosse col suo seguito, in
mezzo a quella moltitudine, ma dopo alquanto viaggio, quando credeva
d'abbandonarla, s'avvide che la moltitudine lo seguiva. Si volse
egli allora, ristette in faccia a quella e la benedisse di nuovo,
come per congedarla ultimamente. Ma rimessosi in via, s'accorse che
non era niente, e che la processione continuava. Li fece pregare di
ritornarsene e di non aggravare inutilmente la stanchezza del cammino
già fatto, ma tutto fu inutile: gli era come un dire al fiume torna
indietro. Si erano già fatte più miglia di cammino, l'ora era tarda,
quando il Cardinale, che era digiuno e già da lungo tempo combatteva
con la fame, sentendo mancarsi le forze e visto che quel giorno gli
era forza desinare in pubblico, si fermò sulla cima d'una salita,
dove vide spicciare una sorgente da una roccia che fiancheggiava il
cammino e chiese, così a cavallo, che gli fosse servito il pranzo.
L'ajutante di camera tolse da un cestello un pezzo di pane e glielo
presentò. Federigo lo prese, indi chiese che gli fosse riempiuto
un bicchiere a quella sorgente. Mentre questo si faceva, cominciò
Federigo a banchettare, non senza un qualche pudore per tutti quegli
spettatori, e chiuse il banchetto col bicchiere d'acqua, che gli fu
porto. Quando tutta quella folla vide quali erano le mense d'un uomo
così dovizioso e così affaticato, insorse un grido di maraviglia, un
gemito di compunzione: e questi sentimenti crebbero quando, fra quegli
accorsi, alcuni, i quali conoscevano più degli altri le costumanze
del Cardinale, affermarono che questo era il suo solito pranzo quando
doveva farlo in cammino, e che quello che gli era imbandito in casa non
ne differiva di molto. I poveri si rimproveravano la loro intolleranza
nel disagio, i ricchi la loro intemperanza; e quivi tosto molti fra
questi distribuirono ai bisognosi i danari che si trovavano in dosso.
Il Cardinale, così ristorato, pregò i più vicini che finalmente
tornassero e persuadessero gli altri a tornare, e alzata la mano su
tutta la turba, che egli dominava da quella altura, la benedisse di
nuovo, stendendo poi verso di quella affettuosamente ambe le mani in
atto di saluto. La turba rispose con nuove acclamazioni, e non osando
più resistere al desiderio di quell'uomo, si rivolse e tornò addietro.
Federigo proseguì il suo cammino.

Venga ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di
gloria a quel pranzo del Cardinale, a renderlo un soggetto frequente
di ammirazione e di memoria; non gli verrà fatto. È forse da dire che
queste virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia
degli uomini di che ammirare? non già, poichè si parla tuttavia delle
magre cene di quel Curio mal pettinato, come lo chiamò Orazio; è viva e
comune la memoria del salino di Fabricio e del suo piattello, sostenuto
da un picciuoletto di corno. E perchè dunque il tozzo di pane di
Federigo e il suo bicchier d'acqua non potranno ottenere una simile
immortalità di gloria? Se alcuno ha in pronto una cagione ragionevole
di questa differenza, la dica; per me non ho potuto trovarne che una,
ed è: che il cardinale Federigo non ha mai ammazzato nessuno. La più
parte degli uomini, parlo degli uomini colti, non consente ammirare le
virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù
feroci un'altra ammirazione di terrore: non risguarda quelle come
virtù, che quando sieno unite ad un profondo sentimento d'orgoglio e
di disprezzo per qualche parte del genere umano. Se quel tozzo di pane
fosse stato mangiato da un generale in presenza di ventimila cadaveri,
sarebbe in tutti i discorsi, in tutti i libri; nessun fedele umanista
avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una amplificazione in
vita sua. Eppure, la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo
d'un uomo che avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne
asteneva per un sentimento profondo della dignità umana, e per dar
pane a chi ne mancava; quel tozzo di pane, mangiato tra le fatiche
d'un ministero di misericordia, di pace e di pietà, dovrebb'essere una
rimembranza più cara agli uomini che non quel salino e quel piattello,
che copriva la mensa d'un uomo, che era sobrio per potere esser forte
contra gli uomini[103]; che si accontentava di essere un povero
Fabricio, perchè fosse un potente Romano. Le idee dì cui si componeva
il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili, sprezzanti,
superficiali[104]; quelle di Federigo, umane, gentili, benevole,
profonde. In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio dette quelle
prove della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire
manifestamente quel suo animo: ivi, all'udire le dottrine epicuree
esposte da Cinea, disse egli quelle atroci parole, tanto lodate dagli
antichi, e, chi lo crederebbe? dai moderni[105]: Oh Ercole! (il santo
era degno del voto) oh Ercole! diss'egli, fa che queste dottrine sieno
ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto che saranno nemici del popolo
romano. Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sè,
se avesse potuto anche un momento desiderare la perversità ai suoi
nemici, ai nemici del suo popolo. Egli desiderava la giustizia, la
fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava per loro, per sè, per la
gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta la sua vita fu spesa a
promuoverla. La sua benevolenza non era nazionale, nè aristocratica,
egli non aveva bisogno di odiare una parte del genere umano per amarne
un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per
dividere la condizione dei suoi fratelli poveri e per migliorarla. A
dispetto di tutta la storia, di tutta la morale, di tutta la rettorica,
Federigo Borromeo era più grand'uomo che Fabricio, o, per meglio dire,
Federigo era veramente grand'uomo, per quanto un sì magnifico epiteto
può stare con un sì misero sostantivo[106].



XVII.

LA CARESTIA DEL 1628--RAGIONI, RIMEDI E MOTI DELL'OPINIONE PUBBLICA
NELLE CARESTIE.


Era quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata
piuttosto scarsità che carestia: le provvigioni rimaste degli anni
grassi antecedenti avevano supplito tanto o quanto al difetto di
quello e la popolazione era giunta al nuovo raccolto non satolla e non
affamata, ma certo affatto sprovveduta. Ora, il nuovo raccolto, nel
quale erano riposte tutte le speranze, fu scarso, come abbiam detto, e
lo fu d'assai più del primo, in parte per maggiore contrarietà delle
stagioni, e in parte per colpa orrenda degli uomini. Si guerreggiava
allora in Italia, e non lontano dal Milanese, il quale si trovò
soggetto ad alloggiamenti di truppe e a gravezze straordinarie.
Queste furono tanto intollerabili, e le estorsioni, le rubberie, il
guasto della soldatesca portati a tal segno, che molte possessioni
erano rimaste abbandonate, molte campagne incolte, e molti contadini
erano andati accattando quel vitto che avrebbero procacciato a sè
e ad altri col lavoro delle loro braccia[107]. E dove pure s'era
coltivato, le seminagioni erano state scarse, perchè l'agricoltore,
tentato dall'urgente bisogno, aveva sottratta e consumata una parte e
la migliore del grano che doveva esser destinato a quelle. Ottenuto
appena il raccolto, la guerra stessa, che era stata la principale
cagione a renderlo scarso, fu la prima a divorarne una gran parte. Le
depredazioni parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo sprecamento
infinito delle une e dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel
misero raccolto, che la fame fu preveduta, quasi sentita sotto la messe
stessa. I territorj che circondano il Milanese, in parte afflitti dalla
guerra, e tutti dalla sterilità comune di quell'anno, non lasciavano
speranza di cavarne ajuto di viveri. Sorse quindi quel sentimento di
ansia e di terrore nei più, di gioja avara e crudele in alcuni, che
nasce da una cognizione confusa, ma viva, della sproporzione tra il
bisogno di nutrimento e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame:
e questo sentimento produsse il suo effetto naturale, inevitabile:
la ricerca premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il
rincaramento.

Questa sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra,
perchè pesano ad un tempo sur una moltitudine: quando un tal male
esiste, i migliori mezzi per alleggerirlo, (giacchè toglierlo non è in
potere dell'uomo) sono tutte quelle cose che possono diffonderlo più
equabilmente, farne sopportare al maggior numero, a tutti i viventi, se
fosse possibile, una picciola porzione, affinchè a nessuno ne tocchi
una porzione superiore alle forze dell'uomo; fare che quel male sia
un incomodo per tutti, piuttosto che l'angoscia mortale per molti; e
la morte per alcuni. Quindi il primo, il più certo e il più semplice
mezzo di alleggiamento comune è l'astinenza volontaria dei doviziosi,
che si privino di una parte di nutrimento per lasciarne di più alla
massa del consumo universale. Poi tutto quello che può aumentare nelle
mani degl'indigenti i mezzi di acquistarsi il vitto, in proporzione
dell'aumento delle difficoltà, cioè del rincaramento. Aumento quindi
delle mercedi, e nuovi guadagni offerti per mezzo di nuovi lavori
ai molti a cui cessano in quelle circostanze i lavori e i guadagni
usati. Questo mezzo però sarebbe uno scarso rimedio, sarebbe anzi un
accrescimento del male, se non fosse accompagnato dalla cura attenta,
assidua di somministrare il vitto anche a quei molti che per debolezza,
o per infermità, non lo possono ottenere col lavoro: si avrebbero
allora dei lavoratori ben nutriti e degli impotenti morti di fame: e
la beneficenza sarebbe crudele per molti[108]. A questi ultimi non si
può provvedere altrimenti che con l'elemosina, tanto sapientemente
comandata dalla religione: quella elemosina di cui molti scrittori
hanno enumerati e censurati amaramente gli abusi. Nè a torto; poichè
è utile scoprire e censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però
cosa trista e dannosa che in soggetto di tanta importanza non si sieno
quasi considerati che gli abusi; e sarebbe da desiderare che alcune
pigliasse la bella e forse nuova impresa di ragionare del buon uso
della elemosina, di mostrare com'ella sia uno dei mezzi più potenti,
più semplici, e certo più irresponsabili a tutti quei fini[109] che si
propone una saggia e ragionata economia pubblica.

Questi, che abbiamo accennati, sono certamente i principali e più
sicuri rimedj alla penuria delle sussistenze; e quando si fossero
posti in opera, il meglio da farsi sarebbe sopportare quella parte
inevitabile di patimento con tranquillità e con rassegnazione, giacchè
tutte le ire, tutte le declamazioni, tutti i falsi ragionamenti non
ponno far nascere una spiga di frumento, nè accelerare di cinque minuti
il nuovo raccolto, che deve mettere alla disposizione degli uomini una
nuova massa di sussistenza.

Ma, oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo,
e moltissimi, per esacerbarlo, per accrescerlo, per rendere più trista
e complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e questi mezzi
sono stati, per l'ordinario, più adoperati dei primi, e sì possono
ridurre a due capi principali: le idee del popolo, e i provvedimenti
dei magistrati. Nella epoca di cui parliamo, le idee e i provvedimenti
concorsero potentemente a produrre quel tristo effetto in un grado
singolare.

Nei tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tatti i discorsi:
fatto ben naturale, ma degno di molta osservazione e di commento.
Tutti ragionano delle cause del male, tutti propongono i veri rimedj,
tutti dissertano di principj generali, di commercio, di monopolio, di
accapparramento, di importazione, di esportazione, di circolazione.
Ma la maggior parte non si è occupata mai in vita sua di questa
materia: i primi pensieri sono giudizj, e l'applicazione dei principj
precede alla ricerca di essi. Guaj allora a quegli che hanno pensato
a questi principj nel tempo in cui nessuno vi pensava; guaj a quegli
che dànno più degli altri un senso preciso a quelle parole che tutti
proferiscono; guaj a quegli che hanno esaminati con una vista generale
i fatti che sono l'argomento della discussione comune! Essi soli non
sono ammessi a parlare: essi debbono vedere pazientemente discorrere
i sofismi precipitati e baldanzosi della ignoranza, perchè chi può
fermare il sofisma? la ragione in bocca loro è paradosso, e quando non
si avesse altro da opporle, basterebbe quella accusa che le si fa di
essere stata sui libri. La parola che suona alto, che signoreggia in
quelle dolorose circostanze è quella della irriflessione: ma cessata
la carestia, cessano tutti i discorsi; nessuno ne vuol più parlare, nè
sentire a parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino
di quella materia, sono per lo più un soggetto di contraddizione per
un momento, e rimangono dopo quasi dimenticati: la società è in quel
caso simile ad un povero scapestrato, il quale, trovandosi all'estremo,
non ha parlato d'altro che di novissimi e di penitenza; convalescente,
accoglie ancora il prete per urbanità; guarito, allontana da sè tutti i
pensieri di quel momento del terrore.

Cessi il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo
che non ha mai avuto maestri, nè ozio; l'irritazione fanatica ad un
popolo che non trova pane col suo lavoro. Ma quegli che meritano
rimproveri acerbi e severi, quegli che per utile loro e d'altrui
vorrebbero essere sborbottati come ragazzacci caparbj, tanto che si
correggessero, sono coloro, i quali potrebbero meditare a loro agio
sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che
ne hanno cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e
procacciarsi così una opinione ragionata; e non lo fanno mai; ma, al
momento del serra serra, escono in campo a sentenziare furiosamente,
cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono,
vilipendono, calunniano le voci che nascono da un antico pensiero,
ripetono in un linguaggio meno incolto e più strano i giudizj storti,
le idee appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la
stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei raziocinj
che potrebbero illuminare l'opinione dell'universale sulla natura
e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione
più tranquilla, e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano: e
infervorati in queste degne imprese non si spaventano col pensiero
della loro ignoranza; anzi ne cavano argomento di gloria e di fiducia;
e a tutte le obiezioni, (o alla metà delle obiezioni, perchè di
rado lasciano terminare una frase ad un galantuomo) rispondono con
quell'inverecondo sproposito: noi non vogliamo teorie; non riflettendo
nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie;
diverse da quelle dei loro avversarj, in ciò soltanto che non sono
fondate sulla cognizione, o almeno sulla ricerca dei fatti.

Le storture del popolo e di questi che abbiamo detto intorno alla
carestia sono molteplici per sè, e infinite nelle loro applicazioni
e nei loro rivolgimenti; molte si possono vedere enumerate in alcuni
libri che le hanno esaminate e ribattute con più sagacità e pazienza
che profitto; ma si possono forse ridurre a due capi principali.
Il primo è l'opinione che il male non esista, che il difetto di
sussistenze sia soltanto una apparenza, nata da combinazioni perfide
degli uomini. Questa opinione viene sempre espressa e ripetuta con
una formola concisa, come tutte quelle che racchiudono un errore o un
equivoco: il grano c'è. Proposizione ambigua, che può intendere una
verità fatua e inconcludente, o una affermazione temeraria e fanatica.
Poichè se con quelle inconsiderate parole si vuol dire che esiste
una indeterminata quantità di biade, si dice il vero, ma che cosa
s'insegna? che cosa si vuol concludere? quella non è, nè può essere
la questione. Ognun sa che i grani si raccolgono una volta l'anno, o
a certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto
e l'altro ci debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse
assolutamente, non si parlerebbe più di stentare, ma di morire, e
tutti, e in pochi giorni. Se poi dicendo: il grano c'è, s'intende (come
s'intende) che ne esista una quantità eguale al consumo ordinario,
proporzionata al bisogno, o al desiderio della popolazione; come mai
una tal cosa si afferma senza conoscere, senza poter conoscere, senza
cercar di conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la quantità
del grano esistente? Eppure un fatto, che con le più minute indagini,
coi calcoli più scrupolosi, con l'esame il più freddo non si conosce
mai con precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza
indagini, senza calcoli, senza esame: un fatto, che appena si può
conoscere approssimativamente per gli indizj del prezzo, della ricerca,
della distribuzione, del consumo, si afferma assolutamente contra la
testimonianza di tutti questi indizj.

L'altra stortura, conseguente da questa, e pur madornale, è nel
supporre che il male sia il caro prezzo del grano: mentre questo
non è che un effetto del male vero, la sproporzione tra il grano
e il bisogno; è un effetto, e un doloroso, deplorabile, funesto,
acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete, non saranno mai troppi: ma
il sostantivo è: rimedio. Il caro prezzo è un rimedio, considerato
parzialmente per un territorio, perchè vi attrae il grano dai paesi
dove è meno scarso, e quindi a minor costo: è un rimedio considerato
generalmente, perchè, forzando pur troppo migliaia d'uomini a
diffalcare una parte del consumo ordinario, è cagione che si risparmj,
si distribuisca per tutto l'anno fino al raccolto la scarsa e mancante
vittovaglia. Se una forza qualunque potesse illudere, addormentare
fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di modo che in un
anno, scarso generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli anni
abbondanti, ne avverrebbe certamente che il consumo, fin che grano vi
fosse, sarebbe eguale a quello degli anni abbondanti: si viverebbe
lietamente a discrezione per qualche tempo: e l'ultimo effetto di
questo terribile beneficio sarebbe di fare sparire tutta la provvigione
qualche mese prima del raccolto.

Il linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due
storture è accetto al popolo, che patisce; e la cosa è troppo naturale:
non riconoscendo il male nella natura delle cose, attribuendolo
tutto alla perversità umana, essi mostrano nello stesso tempo una
compassione, che pare più sincera per chi soffre, un grande orrore
per chi fa soffrire, e fanno sempre intravedere la possibilità d'un
rimedio pronto ed assoluto. Ma quegli i quali veggono chiaramente la
realtà del male, non hanno cose gradite da dire a chi lo sopporta;
poichè chi, dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj per minorare il male,
confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda la rassegnazione, può
difficilmente far credere che compatisce chi nega all'addolorato che
la causa prima, unica del suo dolore, sia nella volontà scellerata
di alcuni; converrà che abbia ben fama di onesto e di umano perchè
l'addolorato si contenti di crederlo cieco e insensato, e non lo chiami
atroce, fautore, complice di quelli che creano il dolore. Sono i
chiaroveggenti, in quel caso, come un medico, che giunga al letto d'un
infermo circondato da una famiglia amante e ignorante, dove si trovi un
ciarlatano il quale assevera che il male è tutto nella cecità, o nella
impostura dei medici, e ch'egli tiene un'ampollina dov'è la salute. Se
il medico, il quale vede che la malattia è incurabile, si lascia uscire
dalla chiostra dei denti questo suo parere, la famiglia lo riguarderà
come un pazzo crudele che desidera di veder morire le persone.

Queste false idee che, a malgrado di tanti scritti ragionati e
dell'aumento di tante cognizioni, vivono tuttavia latenti e come
addormentate nella mente di moltissimi, pronte a ricomparire quando una
penuria (che Dio tenga lontana) dia loro occasione di mostrarsi, erano
ben più universali, più pertinacemente tenute, più furibondamente
applicate nei tempi della nostra storia, nei quali l'ignoranza era
tanto più generale, e la scienza, che era pure di pochi, consisteva in
un peripateticismo, inteso come si poteva e applicato come si voleva
a tutte le questioni possibili di ogni genere, in tempi in cui non
esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la scritta e ridotta
in trattati, perchè l'economia politica di fatto esiste nella società
necessariamente, più o meno spropositata.

Gli sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità
del raccolto, avevano vedute e sofferte le atroci dissipazioni della
soldatesca, e gli sventurati abitanti della città le avevano pure
intese raccontare: ma quando la carestia cominciò a farsi sentire,
nè gli uni, nè gli altri volevano accagionare di un tanto male una
causa passata e irrevocabile. Come se non avessero veduto nulla, o
tutto dimenticato, attribuivano il caro prezzo soltanto alla crudele
ingordigia di quegli che possedevano il grano. E una circostanza
speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più freddamente,
se l'esame freddo fosse possibile in quei casi. L'anno antecedente
era pure stato scarso; e si era per tutto quell'anno gridato contra
gli accapparratori come contra la sola cagione della carezza; si era
detto che il grano abbondava, ma era tenuto chiuso, stivato, murato
nei granaj degli avari. Ora l'anno era passato, si era fatto il nuovo
raccolto; sarebbe stata cosa molto naturale ricercare se quel grano
era stato finalmente venduto, o no. Nel primo caso, avrebbero dovuto
gli uomini conchiudere che s'erano dunque ingannati nell'affermare
che il grano abbondava, poichè s'era venduto a caro prezzo fino al
raccolto, appena aveva bastato. Che se il grano dell'anno antecedente
non era venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj
erano occupati; come dunque potevano essi fare ancora nuove incette?
Ma la popolazione, sfogando sempre il suo dolore con imprecazioni,
non pensava che le ultime contraddicevano alle prime. Si diceva anche
che molti accapparravano i grani per ispedirli in altri paesi; e in
questi altri paesi si gridava che i grani erano spediti a Milano.
Tutti quelli che ne possedevano erano oggetto di minaccia e di
abbominazione: i possessori che non lo vendevano erano tiranni; quegli
che lo comperavano per rivenderlo, mostri addirittura; i fornaj che ne
facevano provvista, scellerati che volevano ritirarlo dal commercio
e imporgli il prezzo che sarebbe piaciuto alla loro avidità. Che
ognuno provvedesse la quantità che poteva essergli necessaria fino al
raccolto, era cosa impossibile. Quindi se la popolazione avesse voluto
o potuto rendersi un conto esatto delle sue idee e dei suoi desiderj,
avrebbe trovato ch'ella voleva che il grano non fosse in nessun luogo.
Il prezzo, straordinario al momento stesso del raccolto, crebbe
nell'autunno, crebbe straordinariamente al cominciare dell'inverno, e
col prezzo crebbe il fremito e il clamore del popolo, il quale accusava
già apertamente i magistrati di negligenza, anzi di connivenza, con
coloro che lo affamavano.

Non è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro
molti spropositi; ma questi erano, in numero e in grossezza, ancora
ben lontani dai desiderj e dalle richieste del popolo. Il maneggio
delle cose forza a riflettere anche quelli che sono più nemici
della riflessione; e chi deve operare o comandare direttamente
scorge talvolta, anche a mal suo grado, anche chiudendo gli occhi,
l'impossibilità o l'assurdità d'un provvedimento che è domandato con
furore dai molti che lo stimano giusto, e lo credono agevole. Oltre
di che, l'effetto immediato di quegli spropositi era di esacerbare la
condizione universale; si sentiva crescere il male; e l'aumento si
attribuiva non già alla efficacia funesta degli spropositi fatti, ma
al non farne abbastanza[110]. Era stato tassato il prezzo massimo del
riso a lire quaranta imperiali il moggio per la città di Milano[111]:
la conseguenza fu che quegli che possedevano riso e potevano venderlo
a molto maggior prezzo per tutto altrove, non ne spedirono più un
grano alla città; e questa si trovò senza riso. Altro editto che
tassa il riso allo stesso prezzo massimo per tutto lo Stato: altra
conseguenza, che i possessori ricusino di vendere ad un prezzo
comandato quella merce a cui la rarità ne ha assegnato un maggiore.
Ordine di vendere il genere a chiunque ne offra il prezzo tassato:
industria dei possessori a nasconderlo, per poter rispondere: non ne
ho. Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo nasconde: nuova
industria, nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per evitare
le pene senza esser danneggiato. Comparvero allora, come dovevano
comparire, di quegli uomini i quali conoscono a perfezione l'arte
di eludere gli editti, arte tanto più facile, quanto più gli editti
sono assurdi. Costoro, osservato lo stato delle cose, fatte le loro
ragioni, trovarono che comperando il riso ad un prezzo molto maggiore
dell'assegnato arbitrariamente, si poteva fare ancor molto guadagno:
offersero quel prezzo ai possessori, i quali non rispondevano di non
aver riso da vendere a chi lo pagava più di quello che comandava la
legge. Questi nuovi compratori trovavano poi il modo di rivendere il
riso a maggior prezzo agli Stati vicini, dove non v'era tassa, o di
conservarlo nascosto in onta degli editti: il modo consiste, come ognun
sa, nello studiare non tanto la volontà unica donde è uscita la legge,
quanto le volontà molteplici, varie, più vicine, che debbono eseguirla,
e nel trovare i mezzi di eludere queste volontà, o di comperarne la
complicità.

Quello che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come
il possederli, il farne commercio, era un rischio dell'avere e della
persona, un soggetto di terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi un
marchio d'infamia, così avvenne che questo commercio non fosse quasi
più ricercato che dagli uomini i più esperti ad eludere il rischio,
i più agguerriti contra l'odio e contra l'infamia; i quali sapevano
come tutte queste cose, affrontate e sofferte con una certa sapienza
particolare, possono fruttare danari.

La scarsità del frumento e i mezzi posti in opera per renderlo più
comune lo avevano fatto salire ad un prezzo esorbitante. Si vendeva
cinquanta lire il moggio, se crediamo al Ripamonti, allora vivente:
settanta, anzi ottanta, se vogliamo stare al detto di Alessandro
Tadino, medico riputatissimo di quei tempi, che scrisse anch'egli
(a dir vero, con le gomita) una storia della peste e della carestia
che l'aveva preceduta. Ma supponendo anche esagerata l'asserzione di
quest'ultimo, il prezzo attestato dal Ripamonti era tale da porre in
angustia una gran parte della popolazione.

I mali nei loro cominciamenti producono nell'uomo, generalmente
parlando, una irritazione più forte del dolore. Sclama egli, da prima,
che i mali sono intollerabili, che sono giunti all'estremo, e tanto
fa, tanto s'ingegna, tanto s'arrabatta, che coi suoi sforzi crea
egli questo estremo, che naturalmente non sarebbe arrivato: s'accorge
allora che si può soffrire molto di più di quello ch'egli aveva creduto
dapprima, ogni nuovo colpo gli rivela una nuova facoltà dì patire e di
accomodarsi, ch'egli non sospettava in sè stesso; e salta per lo più
dalla rabbia all'abbattimento, senza aver toccata la rassegnazione.

Per sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo
secondo i suoi desiderj, l'uomo che partecipava delle sue idee, e che,
assecondandole, gli procurò una gioja corta e fallace, a cui doveva
succedere un nuovo dolore senza disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza
del delitto, lo spavento delle pene, e quindi la tranquillità stupida
della disperazione impotente.

Il governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava
allora a campo sotto Casale, per una guerra, atroce nella condotta,
orrenda nelle conseguenze, e nata da certi pettegolezzi, dei quali
parleremo più tardi e più laconicamente che sarà possibile[112].
Nella sua assenza governava lo Stato il gran cancelliere Antonio
Ferrer. Questi, stordito dai richiami continui e crescenti del popolo,
stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già dati, invece di
togliere il male, lo avevano accresciuto, non sapendo più che fare e
persuaso che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al partito
di quelli che non veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di
determinazione: fece un'ipotesi. Suppose che il frumento si vendesse
trentatre lire il moggio, nè più nè meno. Ammessa l'ipotesi, tutte
le cose si raddrizzavano e correvano a verso. Il prezzo del pane si
trovava proporzionato alle facoltà della massima parte, cessavano
quindi i patimenti, le minacce, le angustie; era un altro vivere.
Animato e rallegrato dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato,
Antonio Ferrer fece un altro passo: pensò che quel lieto vivere si
sarebbe ricondotto se si fosse potuto far discendere il pane al prezzo
corrispondente a quel prezzo ipotetico del frumento. Procedendo col
pensiero, trovò che un suo ordine poteva produrre questo effetto; e
conchiuse che bisognava dar l'ordine. Il pover'uomo non badò che
cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto, operare come se le cose
fossero in uno stato diverso da quello in cui erano: non pose mente
a distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto
fosse stato conseguenza naturale della proporzione tra la ricerca e la
quantità esistente, ma non un bene per sè, e in ogni modo. Non pensò
a niente di tutto questo; fece come una donna di mezza età che per
ringiovinire alterasse la cifra della sua fede di battesimo. L'ordine
fu dato, promulgato ed eseguito.

Ordini meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella
natura stessa delle cose, ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza
esecuzione, ma alla esecuzione di questo vegliava il popolo, il quale,
come era ben naturale, l'aveva accolto con un grido di esultazione; e
vedendo finalmente esaudito e convertito in legge il suo desiderio,
non sofferiva che fosse da burla. Il popolo accorse tosto ai forni a
domandare il pane a quel prezzo legale, e lo domandò con quell'aria di
risolutezza e di minaccia che danno la forza e la legge insieme unite.

Se era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che
strillassero i fornaj: un politico avrebbe potuto dire che quello
era il caso di fare soffrire un picciol numero per sollevare e
tranquillare una gran moltitudine: ma il male era che questo picciol
numero era appunto quello che doveva e che poteva solo dare in fatto
quello che la legge comandava e prometteva in parole; e a produrre
l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine
preciso, non bastava che avessero molta paura, che fossero disposti
a sopportare l'ultima rovina delle sostanze per salvare la persona:
era necessario che potessero. Ora, la cosa comandata, era non solo
dolorosa per essi, ma diveniva di giorno in giorno più difficile; ma
doveva arrivare un momento in cui sarebbe stata impossibile. Il popolo
stesso affrettava questo momento: quantunque gridasse risolutamente e
tenesse confusamente che quel prezzo stabilito era equo, ragionevole,
sentiva però anche confusamente che esso era come in guerra con tutto
il resto delle cose, che era l'effetto d'una volontà e non della
natura, e prevedeva pure confusamente che la cosa non avrebbe potuto
andar così sempre, nè a lungo. Approfittava quindi del momento di
baldoria, assediava continuamente i forni, come dice il Ripamonti,
si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato quasi da una
ventura momentanea, e la sua pressa indiscreta gareggiava con la
fretta e col travaglio dei fornaj. Così quella cieca moltitudine
consumava improvvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la
scarsa e preziosa provvigione, la quale però doveva servirgli, per
tutto l'anno. I fornaj, costretti ad affacchinare e a scalmanarsi per
discapitare, ponevano in opera tutte le arti per far perder tempo ai
chieditori di pane, senza irritarli all'estremo, adulteravano il pane
con tutte quelle sostanze che, senza troppo lasciarsi distinguere,
ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di domandare che
la legge fosse abrogata. Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i
richiami, come Enea agli scongiuri di Didone[113]. Generalmente
parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da una
sua ipotesi: con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei
fatti, perchè finalmente l'evidenza l'ha trovata; ma l'ipotesi l'ha
fatta egli; e l'ha fatta, non per ozio, nè per ispasso, ma per un
gran bisogno che ne aveva, per uscire da un impaccio. Oltre questa
cagione generale, si può supporre, senza temerità, che quell'uomo,
benchè dagli effetti avesse dovuto conoscere quanto il suo ordine era
stato pazzo, non voleva revocarlo egli e perdere così tutto il favore
del popolo, anzi cangiarlo in furore; giacchè certamente il popolo
l'avrebbe creduto subornato e corrotto, se avesse tolto ciò che egli
aveva stabilito come giusto. Prevedeva egli dunque che la cosa non
sarebbe durata, ma lasciava ad altri la briga di dichiararla cessata
legalmente. Come però spesse volte bisogna rispondere qualche cosa ai
richiami che non si vogliono soddisfare, Antonio Ferrer rispondeva
ai fornaj, a tutti quelli che per uficio erano costretti parlargli
dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i fornaj avevano
guadagnato assai in passato, e che era giusto che tollerassero allora
quella picciola perdita. I fornaj replicavano che non avevano fatto
questi guadagni, e che non potevano più reggere alla perdita presente;
Antonio Ferrer ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che
sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato
a tutto[114].

Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano, è vero, di
due difetti: d'esser troppo corto e d'esser troppo lungo; di passare
troppo tardamente, e d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione
primaria di questi inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel
tempo, il quale per sè è una gran bella cosa: ed è proprio un peccato
che nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli sia.

In questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi,
adir vero, gl'inconvenienti erano di quelli che col durare si fanno
più gravi. I fornaj avevano protestato fin da principio, che se la
legge non veniva tolta, essi avrebbero gettata la pala nel forno e
abbandonate le botteghe; e non lo avevano ancor fatto, perchè sono
di quelle cose alle quali gli uomini si appigliano solo all'estremo,
e perchè speravano di dì in dì che Antonio Ferrer, gran cancelliere,
sarebbe restato capace, o qualche altro in vece sua. Alla fine i
Decurioni (un magistrato municipale) vedendo che la minaccia de' fornaj
sarebbe divenuta un fatto, scrissero al governatore, ragguagliandolo
dello stato delle cose e chiedendogli un provvedimento. Probabilmente
il signor Gonzalo Fernandez di Cordova avrà avuto molto a cuore di
trovare un mezzo per nutrire stabilmente molti uomini; ma in quel
momento, impedito egli e assorto in una faccenda più urgente, quella
di farne ammazzare molti altri, non potè occuparsi della prima e ne
diede l'incarico ad una commissione, ch'egli compose del presidente del
Senato, dei presidenti dei due magistrati ordinario e straordinario
e di due questori. Si riunirono essi tosto, o, come si diceva allora
spagnolescamente, si giuntarono; e dopo mille riverenze, preamboli,
sospiri, proposizioni in aria, reticenze, tergiversazioni, spinti
sempre tutti verso un solo punto da una necessità sentita da tutti,
conscj che tiravano un gran dado, ma convinti che altro non si poteva
fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del pane, riavvicinandolo alla
proporzione del prezzo reale del frumento; e si separarono nello stato
d'animo d'un minatore che avesse dato fuoco ad una mina non caricata da
lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo nè quando, nè quale
egli sarebbe.



XVIII.

DON FERRANTE E LA SUA FAMIGLIA.


Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava
Lucia.

Don Ferrante[115], capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia
illustre, che pur troppo terminava in lui, uomo tra la virilità e la
vecchiezza, era di mediocre statura, e tendeva un pochette al pingue,
portava un cappello ornato di molte ricche piume, alcune delle quali,
spezzate nel mezzo, cadevano penzoloni, e d'altre non rimaneva che un
torzo. Sotto a quel cappello si stendevano due folti sopraccigli, due
occhi sempre in giro orizzontalmente, due guancie pienotte per sè,
e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano
mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una
minestra; sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di
merletti finissimi di Fiandra, lacera in qualche parte e lorda da per
tutto: una cappa di...[116], sfilacciata qua e là, gli cadeva dalle
spalle, una spada, col manico di argento mirabilmente cesellato e col
fodero spelato, gli pendeva dalla cintura; due manichini, della stessa
materia e nello stesso stato della gorgiera, uscivano dalle maniche
strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava talvolta
nell'una delle due sudicie sue mani; talvolta, perchè quell'anello
passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d'un usurajo;
e in quegli intervalli Don Ferrante gestiva alquanto meno del solito.

Questo contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del
suo carattere e delle sue circostanze: Don Ferrante, portato al fasto
e alla trascuraggine, era anche ricco e povero. Già da molto tempo
aveva egli divorato a furia di sfarzo, e lasciato divorare a furia di
negligenza e d'imperizia, il suo patrimonio libero; e sarebbe egli
rimasto povero del tutto e per sempre, se un suo sapiente antenato
non avesse anticipatamente provveduto a quel caso, istituendo un
pingue fedecommesso. Don Ferrante quindi, benchè nell'animo non fosse
molto dissimile dal selvaggio di Montesquieu, non poteva, com'egli,
abbatter l'albero per cogliere il frutto, e non poteva far altro
che lanciar pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato.
Viveva di prestiti: e per trovarne doveva ricorrere ai più spietati
usuraj, e subire le più rigide leggi che essi sapessero inventare
e per supplire alla legge comune, che non dava loro alcun mezzo di
ricuperare il prestato, e per pagarsi del rischio. E siccome nelle
idee di Don Ferrante le pompe e il fasto tenevano il primo luogo, così
alle pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che toccavano le
sue mani; e il necessario pativa. In mezzo a queste cure incessanti,
Don Ferrante non aveva lasciato dì coltivare il suo ingegno, e senza
essere un dotto di mestiere, poteva passare per uno degli uomini colti
del suo tempo. Possedeva una libreria di varie materie, la quale per
poco non aggiungeva ai cento volumi[117]: e aveva impiegato su quelli
abbastanza tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle
scienze più importanti e più in voga; teneva i principj e quindi non
era mai impacciato nelle applicazioni. L'astrologia era uno di quei
rami dell'umano sapere nei quali Don Ferrante era versato. Sapeva non
solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le influenze
che hanno in ciascuna i diversi pianeti, ma conosceva anche in parte
la storia della scienza, la quale è ragione della scienza stessa: ne
conosceva i cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e
ci doveva nascere: giacchè essendo il cielo un gran libro, e il cielo
dell'Assiria molto sereno, è naturale che ivi si cominci a leggere
dove i libri sono più chiari e intelligibili. Sapeva a memoria un
buon numero delle più stupende e clamorose predizioni che si sono
avverate in varii tempi: e aveva in pronto gli argomenti principali
che servivano a difendere la scienza contro i dubbj e le obiezioni
dei cervelli balzani degli uomini superficiali e presuntuosi, che ne
parlavano con poco rispetto; perchè anche a quel tempo v'era degli
uomini così fatti. Della magìa aveva pure una cognizione più che
mediocre, acquistata non già con la rea intenzione di esercitarla, ma
per ornamento dell'ingegno, e per conoscere le arti così dannose dei
maghi e delle streghe, e potere così entrare a parte della guerra che
tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del genere
umano. Il suo maestro e il suo autore era quel gran Martino del Rio,
il quale nelle sue disquisizioni magiche aveva trattata la materia a
fondo, aveva sciolti tutti i dubbj e stabiliti i principj, che per
quasi due secoli divennero la norma della maggior parte dei letterati
e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha
fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore
dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione pubblica, che il
metter dubbio su la esistenza delle streghe era diventato un indizio di
stregheria. A un bisogno Don Ferrante sapeva parlare ordinatamente e
anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del
maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i
segreti dei congressi delle streghe come se vi avesse assistito. Aveva
più che una tintura della storia in grande, per aver letta più d'una
volta quella eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi
singolarmente quella del tempo dei paladini, che aveva studiata nei
_Reali di Francia_. Per la politica positiva aveva egli principalmente
rivolte le opere dell'immortale Botero; e conosceva assai bene la
politica di Spagna, di Francia, dell'Impero, dei Veneziani e di tutti
i principali Stati Cristiani, e poteva pur dare una occhiatina anche
nel Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato per
gran tempo il Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al
secondo posto nel concetto di Don Ferrante e cedere il primo a quel
gran Valeriano Castiglione, che in quello stesso anno aveva dato alla
luce la sua opera dello _Statista Regnante_, dove tutti gli arcani i
più profondi e i più reconditi precetti della ragione di Stato sono
trattati con un ordine nuovo e sublime. E bisogna confessare che il
nostro Don Ferrante prevenne il giudizio del mondo sul merito del
Castiglione. Poco dopo, Urbano VIII lo onorò delle sue lodi; Luigi
XIII, per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia,
per esservi istoriografo; Carlo Emanuele dipoi gli affidò lo stesso
ufizio; il Cardinale Borghese e Pietro Toledo vicerè di Napoli lo
pregarono, invano però, di scrivere storie: e fu finalmente proclamato
il primo scrittore dei suoi tempi. Quanto alla storia naturale non
aveva, a dir vero, attinto alle fonti e non teneva nella sua biblioteca
nè Aristotele, nè Plinio, nè Dioscoride, giacchè, come abbiam detto,
Don Ferrante non era un professore, ma un uomo colto semplicemente;
sapeva però le cose le più importanti e le più degne di osservazione,
e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e
delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma
una nave nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che
la salamandra è incombustibile, che il cristallo non è altro che
ghiaccio lentamente indurato. Ma la materia nella quale Don Ferrante
era profondo assolutamente era la scienza cavalleresca, e bisognava
sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni, di paci, di mentite.
Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il Muzio, la Gerusalemme
liberata e la conquistata, i Dialoghi della nobiltà e quello della
pace di Torquato Tasso gli aveva a menadito; i Consigli e i Discorsi
cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più logori della
sua biblioteca. Anzi Don Ferrante affermava, o faceva intendere spesso,
che quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più
rematici; e parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione
che meritavano, e che, per verità, ottenevano da tutti, Don Ferrante
aggiungeva misteriosamente: Basta: ho messo anch'io un zampino in quei
libri.

Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don
Ferrante che non ne restasse qualche parte anche alle lettere amene:
e senza contare il Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti
di quel tempo egli aveva pressochè tutto a memoria, non gli erano
ignoti nè il Marino, nè il Ciampoli, nè il Cesarini, nè il Testi: ma
soprattutto aveva fatto uno studio particolare[118] di quel libretto
che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale diceva
Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle parole Fato,
Sorte, Destino e somiglianti, era pensiero pellegrino ed arguto. Aveva
poi un tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello
stesso grand'uomo; e su quelle si studiava di modellare quelle che gli
occorrevano di scrivere per qualche negozio, o per isciogliere qualche
ingegnoso quesito, che gli veniva proposto; e, a dir vero, le lettere
di Don Ferrante erano ricercate con qualche avidità, e giravano di mano
in mano per la scelta e la copia dei concetti e delle immagini ardite,
e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di porre la questione e di
guardare le cose: stavano però male di grammatica e di ortografia[119].

Vi sarebbero molte altre cose da dire chi volesse compire il ritratto
di questo personaggio, ma, per amore della brevità, ce ne passeremo,
tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia.
Veniamo dunque alla sua signora consorte.

Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era molto al di
sotto del suo marito. Il suo ingegno, a dir vero, non era niente
straordinario, ed essa non si era mai data una gran briga di
coltivarlo, almeno sui libri. Ma siccome la mente umana non può vivere
senza idee, così Donna Prassede aveva le sue, e si governava con
esse, come dicono che si dovrebbe fare cogli amici. Ne aveva poche,
ma quelle poche le amava cordialmente e si fidava in esse interamente
e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe anche
avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa: e
pare che il carattere trascurato[120] di Don Ferrante avrebbe dovuto
servire a maraviglia a questo desiderio della consorte: ma v'era un
grande ostacolo. La più parte delle idee in questo mondo non possono
esser messe ad esecuzione senza danari; ora Don Ferrante, poco o nulla
curandosi del governo della casa, aveva però ritenuto sempre presso di
sè il ministero delle finanze; e, a dir vero, gli affari ne erano tanto
complicati, che ormai nessun altro che egli avrebbe potuto intendervi
qualche cosa.

Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto
nuziale, e allo spirare d'ogni termine, dopo un po' di guerra, un po'
di schiamazzo, molte minacce di svergognare il marito in faccia ai
parenti, veniva essa a capo di riscuotere la somma che le era dovuta.
Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza, tutta l'insistenza, tutte le arti
di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare un danajo dalla borsa di
Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero, erano impegnate a
pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio fastoso di
Don Ferrante. Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che
su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone
addette specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don
Ferrante lasciava fare; poteva ella in somma dare tutti gli ordini
l'esecuzione dei quali non portasse una spesa, o che non fossero in
opposizione alle abitudini e alle volontà risolute di Don Ferrante. La
sua gran voglia di comandare, ristretta in questo picciol campo, vi si
esercitava con una energia singolare. Donna Prassede profondeva pareri
e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che dovevano
sentirla: e per quanto dipendeva da lei, non avrebbe lasciato deviar
nessuno d'un punto dalla via retta. Perchè, a dire il vero, questa
smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata; era
puro desiderio del bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo
discerneva istantaneamente in qualunque alternativa, in qualunque
complicazione di casi le si fosse affacciata da esaminare: e quando una
volta aveva veduto e detto che quello era il bene, non era possibile
ch'ella cangiasse di parere; e per farlo riuscire, predicava ed operava
fin tanto che avesse ottenuto l'intento, o la cosa fosse divenuta
impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare, per convincere
tutti che avrebbe dovuto riuscire.

La signorina Ersilia, anzi Silietta, giacchè come amici di casa noi
possiamo chiamarla col diminutivo famigliare che usavano i suoi
parenti, Silietta era un personaggio non troppo facile da descriversi,
nè da definirsi. Le sue fattezze erano senza difetti e senza
espressione: i suoi due grandi occhi grigj non si movevano che quando
si moveva tutta la testa; teneva la bocca sempre semiaperta, come se
ad ogni momento sentisse una leggiera maraviglia: rideva spesso e
sorrideva di rado; parlava lentamente e placidamente, ma volentieri e a
lungo tutte le volte che alcuno dei suoi parenti non fosse presente a
darle su la voce. Intendeva a stento, e talvolta a rovescio, quel che
altri dicesse; e quando ciò le accadeva con persona che ne mostrasse
impazienza, Silietta si scusava con dire: son corta d'ingegno; cosa che
s'era intesa dire spesso da Don Ferrante e da Donna Prassede e dalle
suore che l'avevano avuta in cura. Era destinata al chiostro, per la
ragione, facile ad indovinarsi, che Don Ferrante non poteva certamente
darle una dote proporzionata al partito che sarebbe convenuto alla sua
nascita e al grado che teneva la casa. Su questa sua destinazione non
sapremmo, per verità, dire quali fossero i suoi sentimenti. Non vi
aveva avversione, inclinazione nemmeno: risguardava questa destinazione
come una cosa a cui altri aveva dovuto pensare ed aveva pensato, e che
per lei era indifferente, a un di presso come l'esserle stato posto più
tosto un nome che un altro; anzi la risguardava quasi una conseguenza
naturale del suo sesso e delle circostanze della sua famiglia; e
ripeteva sovente ciò che le era stato detto nell'infanzia da una sua
governante: se fossi nata un maschio, sarei un gran signore. Ma la cosa
era fatta, e Silietta sapeva bene che non si nasce due volte.

Sotto due padroni, così diversi di inclinazioni e di occupazioni,
(giacchè Silietta, e per l'ordine naturale delle cose, e per indole,
non si contava come padrona) la famiglia era come divisa in due
classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali aveva nella famiglia
stessa un capo; le due persone cioè che erano più innanzi nella
confidenza dell'uno e dell'altro padrone. Prospero, il maggiordomo di
casa e il favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto
e composto, dotto a tutto fare e a tutto soffrire, abile a trattare
gli affari e a parlare senza mai proferire le parole che potevano
far sentire gl'impicci o offendere la dignità del padrone, sapeva
suggerir a proposito un invito da fare onore alla casa, trovare un
cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta che una rata di pagamento
stava per entrare nella cassa di Don Ferrante: e sapeva trovare
un prestatore ogni volta che la cassa era asciutta. L'antesignano
dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna Prassede, era
nominata molto variamente. Il suo nome proprio era Margherita, ma dalla
padrona era chiamata Ghita, dalle donne inferiori a lei e dai paggi
di Donna Prassede, signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante,
quando parlavano fra di loro, non era mai menzionata altrimenti che
la signora Chitarra. Pretendevano costoro che il suo collo lungo,
la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la vita serrata
dal busto e le anche allargate le facessero somigliare alla forma di
quello strumento: e che la sua voce acuta, scordata e saltellante
imitasse appunto il suono che esso dà quando è strimpellato da una mano
inesperta. Esercitava essa, sotto gli ordini immediati della padrona,
la più severa vigilanza sulle persone che dipendevano da questa, ed
era ministra di tutto il bene ch'ella poteva fare in casa e fuori.
Ma quanto alla gente di Don Ferrante, essa non poteva fare altro che
notare tutte le azioni disordinate che essi commettevano, disapprovare
con qualche cenno, o al più con qualche frizzo, e riferire poi il tutto
alla padrona, la quale pure non poteva fare altro che gemere con lei.
Prospero, com'è naturale, era l'oggetto principale di avversione per
Donna Prassede; ma inviolabile, com'egli era, se ne burlava in cuore,
non lasciando però di corrispondere con riverenze profonde agli sgarbi
della padrona, che rendeva poi con usura in tutte le occasioni alla
signora Chitarra. Benchè questi due capi col loro predominio fossero
passabilmente incomodi ognuno alla parte della famiglia che dirigeva,
pure l'una parte e l'altra aveva sposate le passioni e le animosità
del suo capo; l'una faceva crocchio a mormorare dell'altra; quando si
trovavano in presenza, sì scambiavano visacci, e talvolta parolacce;
cercavano scambievolmente di farsi scomparire e d'impacciarsi a
vicenda nella esecuzione degli ordini ricevuti. Don Ferrante però
aveva appena qualche sentore di questa guerra sorda, perchè egli non
osservava molto, e Prospero non si curava di parlargli di malinconie;
e le querele della moglie le attribuiva Don Ferrante ad inquietudine
di carattere, a giuoco di fantasia, come le domande di quattrini.
Silietta, senza prender parte attiva, secondava coi voti, e, quando le
era permesso, con le parole, il partito della signora Chitina.

Lucia si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede,
la quale certamente non intendeva di lasciare questa autorità in
ozio. Si proponeva ella, a dir vero, di farsi ben servire da Lucia
nella parte che le aveva assegnata; ma, oltre questo fine, che era
semplicemente di giustizia, Donna Prassede ne aveva un altro di carità,
disinteressata a suo modo, che le stava a cuore ancor più del primo, ed
era di far del bene a Lucia, la quale le pareva averne gran bisogno.
Perchè tutto ciò che Donna Prassede aveva udito in campagna, per la
voce pubblica, della innocenza di quella giovane, le affermazioni
magnifiche ed energiche di Agnese quando era venuta a proporle la
figlia, il volto, il contegno modesto, la condotta stessa così
irreprensibile di Lucia non bastavano a produrre un pieno convincimento
nella mente di Donna Prassede: e non poteva essa persuadersi che una
giovane contadina avesse levato tanto romore di sè, fosse passata
per tanti accidenti, senza averne cercato nessuno, senza essersi
gittata un po' all'acqua, come si dice, senza essere almeno una testa
leggiera. Donna Prassede teneva per regola generale che a voler far
del bene bisogna pensar male: la sua voglia di dominare, di operare
su gli altri, che anche ai suoi occhi proprj prendeva la maschera di
carità disinteressata, era come il ciarlatano che non dice mai a chi
viene a consultarlo: voi state bene; perchè allora a che servirebbe
l'orvietano? Oltracciò, l'aver ricoverata, sottratta al pericolo
d'una infame persecuzione una povera giovane, era un'opera certamente
non senza gloria; però in questo Donna Prassede non era più che uno
stromento quasi passivo, e la parte che le era toccata non domandava
altro che un po' di buona volontà, senza efficacia di azione e senza
esercizio di senno, era più un assenso che una impresa. Ma dopo aver
ricoverata la povera giovane, emendare anche il suo cervello un po'
balzano, rimetterla sulla buona strada, questo sarebbe stato non solo
compire, ma rassettare l'opera del cardinale Federigo, il quale era,
a dir vero, un degno prelato, un uomo del Signore, dotto anche sui
libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a discernimento di persone,
non ne aveva molto: questa insomma sarebbe stata gloria; e perchè Donna
Prassede potesse ottenerla, era necessario che Lucia avesse il cervello
un po' balzano, e avesse fatto almeno qualche passo su una cattiva
strada. Per averne qualche prova positiva Donna Prassede richiese qua
e là informazioni intorno a quel Fermo a cui Lucia era stata promessa,
e sulle avventure, sulla fuga del quale Donna Prassede aveva intese
in villa voci confuse, discorsi, ma tutte poco buone. Le informazioni
furono quali dovevano essere, che quel giovane era un facinoroso,
venuto a Milano per metterlo sossopra, per fare il capopopolo, ch'era
stato nelle mani dei birri, a un pelo della forca; e se ora respirava
tuttavia in paese straniero, lo doveva alla sua audacia nel resistere
alla giustizia e alla celerità delle sue gambe. Questa notizia confermò
il giudizio di Donna Prassede e le diede materia per le sue operazioni.
Dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come tutti
i proverbj non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere
infallibile l'applicazione che ne fa chi lo cita. Lucia aveva dunque
infallibilmente, non già tutti i vizj, che sarebbe stato dir troppo,
ma una inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il giudizio di Donna
Prassede. E il bene da farsi era non solo d'impedire che Lucia
ricadesse mai nelle mani di Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma
corrispondenza; bisognava andare alla radice, al più difficile, guarire
Lucia, farle far giudizio, togliere da quel cervellino l'attacco per
colui: attacco che, a dir vero, era il solo vizio essenziale di Lucia.
Questa allora sarebbe divenuta al tutto una buona creatura; e chi
avrebbe avuto tutto il merito dell'impresa? Donna Prassede.

La prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza
esteriore sopra Lucia, era particolarmente affidata alle cure di
Ghita. Doveva essa tenerle sempre gli occhi addosso, accompagnarla
alla chiesa, spiare s'ella parlava a qualcheduno, se qualcheduno le
faceva un cenno, osservare attentamente che qualche messo nascosto non
le si accostasse. Compresa e piena dell'uficio che le era imposto,
Ghita nella via andava sempre con gli occhi sbarrati e sospettosi; e
siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava gli sguardi, così
la guardiana si trovava spesso nel caso di fare il viso dell'arme ai
guardatori, o almeno di far loro intendere ch'ella vegliava e che
la loro mira era sventata: e quando s'avvedeva che la sua aria di
sospetto e di minaccia femminile, invece di stornare i tentativi,
avrebbe provocata l'insolenza, pericolo comunissimo a quei tempi,
allora accelerava il passo e lo faceva accelerare a Lucia. In chiesa
poi, se uno di quegli che si trovavano sui banchi vicini aveva guardato
attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita, continuando a mormorare
le sue orazioni, non pensava più che a guardare il suo deposito. Aveva
inoltre l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere scoperta,
nelle tasche di Lucia, per vedere se mai ella ricevesse qualche
lettera. Questa precauzione avrebbe potuto sembrare inutile, giacchè,
e qui dobbiamo apertamente confessare una cosa, che finora si è appena
indicata e lasciata indovinare, la nostra eroina non sapeva leggere;
ma Ghita pensava che le precauzioni non sono mai troppe. Quello poi
che in questo procedere vi poteva essere d'indelicato, non riteneva
Ghita per nulla; essa non vi sospettava nemmeno nulla di simile; non
conosceva nè la parola, nè l'idea; anzi la parola in questo senso non
esiste neppure ai nostri giorni nella lingua pura, e noi adoperandola
sappiamo d'essere incorsi in un brutto neologismo. Finalmente doveva
Ghita cercare di scovare nei discorsi di Lucia se mai ella avesse
qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita, farla ciarlare
artificiosamente su tutti quegli incidenti che avevano dato a Ghita
qualche sospetto.

Ebbene, signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di
operazioni, tutto questo lavorare sott'acqua non dava quasi nessun
incomodo a Lucia, o per dir meglio, ella non se ne avvedeva, e
benchè non potesse a meno di non sentire qualche cosa di minuto e di
pettegolo nella sollecitudine continua di Ghita, pure lo attribuiva
alla indole di lei e non mai ad un disegno profondo e comandato. I
pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo principale
della sua vita, la portava alla ritiratezza, ad astenersi da ogni
comunicazione, e quindi ella non era avvertita dolorosamente di ciò
che altri facesse per rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva
naturalmente. In altri tempi quella situazione così nuova, così opposta
alle sue abitudini, così lontana dalle sue affezioni, le sarebbe stata
penosissima, ma la facilità ch'ella vi trovava di ottenere quel suo
scopo faceva ch'ella vi stesse con rassegnazione, e quasi vi riposasse,
se non con piacere, almeno col desiderio di farsela piacere. E il suo
scopo era tuttavia quello di cui abbiamo già parlato: scordarsi di
Fermo. Si studiava ella quindi di rinchiudere tutte le sue idee nella
casa dove era stata allogata, di ristringerla alle sue occupazioni, si
metteva con grande intenzione a tutte le cose che le erano comandate,
si rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti doveri
che occupassero tutta la sua giornata, che non le dessero agio di
correre con la mente a desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi nelle
memorie d'un passato irreparabile. Le memorie tornavano però sovente a
tormentarla; l'immagine della madre era sempre la prima a presentarsi;
e mentre Lucia si fermava a contemplarla con sicurezza, con una
mesta affezione, l'immagine di Fermo, che le stava dietro nascosta,
si mostrava. Lucia voleva respingerla tosto; ma l'immagine, che non
voleva andarsene, aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso,
per obbligare Lucia a trattenerla almeno un momento, le ricordava in
aria trista e non senza rimprovero i pericoli che Fermo aveva corsi,
e quelli che forse gli soprastavano ancora, le rimostrava che quando
anche un nuovo dovere può far rinunziare ad un affetto già così
lecito, già così caro, non deve, non vuol però togliere la pietà, la
sollecitudine, la carità del prossimo. Lucia combatteva, rivolgeva la
mente ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella prima, tutte
la richiamavano. I luoghi, le persone: Don Abbondio avrebbe dovuto
pronunziare quelle parole per cui ella sarebbe stata di Fermo: i
consigli, le cure del Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per
Fermo: fino il monastero di Monza, fino il castello del Conte, fino
il cardinale Federigo, tutto si legava a Fermo, e molte volte Lucia,
ripensando a tutto questo, si accorgeva ch'ella si era immaginata di
raccontar tutto a Fermo. Con tutto ciò, ella combatteva, e la guerra
sarebbe stata se non sempre vinta, pure meno aspra e meno dolorosa;
Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo, almeno andargli sempre
da presso, se questo scopo non fosse stato anche quello di Donna
Prassede.

La brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva
trovato mezzo migliore che di parlargliene spesso. La faceva chiamare
a sè, e seduta sur una gran seggiola, con le mani posate e distese
sui bracciuoli, di qua e di là dei quali pendevano le maniche della
zimarra di damasco rabescato a fiori, che era stato l'abito di moda
nei bei giorni di Donna Prassede nel tempo in cui v'era buona fede
e semplicità, in cui tutti, fino ai giovani, erano savj ed onesti,
col volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero, che copriva
la fronte, e una enorme lattuga, che girava intorno alla gola e sul
mento, Donna Prassede ricominciava la sua predica, per provare a Lucia
ch'ella non doveva più pensare a colui. La povera Lucia protestava da
principio con voce angosciosa e timida, ch'ella non pensava a nessuno.
Donna Prassede non voleva mai stare a questa ragione e ne aveva molte
da opporre. So come vanno le cose, diceva ella, conosco il mondo, so
come son fatte le giovani: se v'è un ribaldo, è sempre il più accetto.
Fate che per qualche accidente non possano sposare un galantuomo, un
uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno scavezzacollo, non
se lo possono cavar dal cuore. Eh, figlia mia, non basta dire non penso
a nessuno, vogliono esser fatti, fatti e non parole. Così, seguendo
una sua idea, che è anche quella di molti altri, che per far passare
in una testa repugnante i proprj sentimenti, bisogna esprimerli con
molta efficacia, adoperare i termini i più forti ed anche esagerati,
Donna Prassede non risparmiava i titoli al povero assente, lo nominava
come un oggetto d'orrore, dì schifo, faceva sentire che sarebbe stata
cosa inconcepibile, mostruosa, che alcuno potesse avere interessamento
e peggio inclinazione per colui. Così ella otteneva appunto l'intento
opposto a quello ch'ella si proponeva. Lucia cercava di dimenticar
Fermo; ma quando una parola sgraziata e nemica glielo voleva a forza
rimettere nella mente in un aspetto odioso e spregevole, allora tutte
le antiche memorie si risvegliavano ed accorrevano per respingere
una immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era
stata avvezza a compiacersi. Il disprezzo con che il nome di Fermo
era proferito faceva ricordare a Lucia la condotta, il contegno, il
buon nome di Fermo, tutte le ragioni per cui ella lo aveva stimato;
l'odio faceva risorgere più risoluto l'interesse; l'idea confusa dei
pericoli ch'egli aveva corsi, anche dei falli ch'egli poteva aver forse
commessi, pericoli e falli che Donna Prassede rinfacciava a Lucia con
eguale amarezza, come un eguale motivo di avversione, suscitavano più
viva e più profonda la pietà, e da tutti questi sentimenti rinasceva
quell'amore che Lucia si studiava tanto di estinguere. L'amore,
acconsentito o combattuto che sia, dà a tutti i discorsi una forza e un
vigore suo proprio. Lucia diventava coraggiosa e giustificava Fermo, e
Donna Prassede approfittava di quelle parole come d'una confessione,
per provare a Lucia che non era vero ch'ella non pensasse più a lui. E
con questa prova in mano lavorava sempre più animosamente sull'animo di
Lucia, facendole vedere chi era colui ch'ella ardiva pure di difendere.
E che doveva ringraziare il cielo che la cosa fosse finita a quel modo,
altrimenti le sarebbe toccato un bel fiore di virtù. Buon per lui che
le gambe lo avevano servito bene, altrimenti avrebbe fatto una bella
figura, avrebbe tenuto compagnia a quei quattro altri galantuomini...
Quando la grossolana signora toccava tasti, d'un suono così orribile,
la povera Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra
il grembiale, portarlo al volto per nasconderlo e per ricevere le
lagrime che le sgorgavano dirottamente.

Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare
vendetta di qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che
producevano le sue parole gliele avrebbero forse fatte morire in
bocca, o cangiare in parole più dolci; ma Donna Prassede parlava per
fare il bene, e non si lasciava smuovere: a quel modo che un grido
supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare l'arme d'un
nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a Lucia tutte
le amare parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna
Prassede, che non era trista in fondo, la rimandava con qualche
parola di conforto e di lode, e rimaneva sempre soddisfatta di avere
acconciato un po' il cuore di quella giovane. Acconciato come una
gala di mussolo stirata da un magnano. La povera Lucia, riconoscendo
la buona intenzione, pregava però caldamente che queste prove
d'interessamento le fossero risparmiate.

Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra
Lucia, che sarebbe stato il compimento dell'opera, Silietta si
compiaceva molto nella compagnia di quella giovane, che era la sola
in casa che le desse retta e la lasciasse parlare; e Donna Prassede
pensava che si sarebbe fatto un gran benefizio a Silietta e a Lucia
stessa se si fosse potuto farle nascere la vocazione di andar conversa
nel monastero dove Silietta doveva esser monaca[121]. Quivi Lucia
sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di
Donna Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia
sarebbe divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della
sua padrona. Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con
quell'arte sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far
nascere spontaneamente nel cuore di Lucia questo desiderio.

A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più
chiare; e Lucia cominciava a comprenderle, ma però senza che le
cominciasse la voglia di acconsentirvi[122]. V'era nulladimeno per essa
un gran vantaggio, che Donna Prassede cadeva meno spesso, e con meno
impeto, su quel primo, più doloroso argomento; tanto più doloroso,
perchè Lucia non aveva con chi esilararsi della tristezza angosciosa
che quei discorsacci le cagionavano. La nostra Agnese era lontana, a
casa sua, dove pensava sempre a Lucia e andava spesso alla villa di
Donna Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre
date ottime, coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di
rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade,
con quella scarsezza di comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella
era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si rassegnava
all'idea di esser lontana da sua figlia come ai nostri giorni farebbe
una madre, della condizione di Agnese, che avesse una figliata
collocata in Inghilterra[123].



XIX.

IL PASSAGGIO DE' LANZICHENECCHI.


La milizia, a quei tempi, era ancora in molte parti d'Europa composta
in gran parte di venturieri, che si ponevano al soldo di condottieri
di professione, i quali andavano poi coi loro drappelli al servizio di
questo o di quel principe. Oltre le paghe, sulle quali non era da fare
assegnamento certo, quello che determinava gli uomini ad arruolarsi
era la speranza del saccheggio e tutte le vaghezze della licenza.
Disciplina generale non v'era in un esercito, nè avrebbe potuto
conciliarsi con le varie autorità private dei condottieri: e questi,
prima di tutto, non si curavano di mantenere una disciplina particolare
nei loro reggimenti, perchè non avevano per questa parte responsabilità
verso nessuno; e quand'anche alcuno di essi, a cose pari, avesse pur
desiderato di contenere i suoi soldati in un qualche rispetto per le
proprietà e per le persone degli abitanti, questo disegno sarebbe stato
per lo più o contrario ai suoi interessi, o superiore alle sue forze.
Perchè soldati di quella sorte o si sarebbero rivoltati, o avrebbero
tosto deserte le bandiere di un comandante nemico della violenza e del
saccheggio. Oltre di che, siccome i principi nel comperare i soldati
pensavano più ad averne in gran numero per assicurare le imprese, che
a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, la quale era
ordinariamente molto scarsa, così le paghe erano per lo più ritardate
e mancanti; e le spoglie dei paesi dove passava l'esercito divenivano
come un supplemento tacitamente convenuto degli stipendj. Quindi i
soldati di quel tempo e per le tendenze che gli avevano tratti a
scegliere quella professione, e per le abitudini di essa formavano come
una collezione di tutte le nequizie che può dare la natura umana nel
suo maggior grado di pervertimento. Ma quelli che allora scendevano nel
Milanese erano poi il più bel fiore di quella farina; erano in gran
parte gli stessi che guidati dall'atroce Wallenstein avevano poco prima
desolata la Germania in quelle guerre tanto impropriamente chiamate di
religione, poichè queste stesse masnade che avevano combattuto per la
parte che protestava di sostenere la religione cattolica erano composte
in parte di luterani.

L'annunzio della venuta di costoro portò il terrore nei distretti per
dove avevano a passare: nelle altre parti si diceva: povera gente!
stanno freschi: chi sa come gli acconciano coloro! vedrete che non
lasceranno loro altro che gli occhi per piangere: sia lodato Dio che
non passeranno per di qua. Ma chi sapeva che quell'esercito portava
la peste con sè, e l'aveva già disseminata nei luoghi dove aveva
stanziato, sentiva qualche cosa di più che una fredda pietà per altrui.
La maggior parte però degli abitanti del Milanese o non lo voleva
credere, o non se ne curava, o con quella fiducia, senza motivi, così
strana e così comune, diceva: Poh! che ha da venire la peste da noi?

Colico, sulle rive del lago di Como, presso alla foce dell'Adda, fu la
prima terra che toccarono quei demonj; dopo e d'averla messa a sacco,
l'arsero addirittura; se per rabbia di non avervi trovato abbastanza
bottino, o pel diletto di fare una baldoria, non si sa. Di là, senza
curarsi d'itinerario, nè di poste assegnate, ma guardando solo dove
fosse più da sperarsi bottino, si gettarono sopra Bellano, lieto paese
sulle falde d'un monte e alla riva del lago. Gli abitanti, ammoniti
dall'esempio recente e dalla prossima ruina, avevano o nascoste
sotterra, o trasportate in fretta sui monti le cose più preziose e
le più facili a trasportarsi; e molti di essi s'erano appiattati
lassù, abbandonando le case. Con tanto più di furore v'entrarono
quelle masnade, e delle cose lasciate presero tutto ciò che poteva
loro servire e sperperarono ed arsero il resto, mobili, botti,
travi. Quegli che erano rimasti colla speranza di preservare i loro
averi, ne videro la distruzione, videro l'abominevole sfrenatezza,
e per sopra più soggiacquero agli strapazzi, alle percosse e alle
ferite. Nè i campi all'intorno furono risparmiati; la vendemmia,
somma speranza dei terrazzani in quell'anno calamitoso, sparve in un
momento; coll'uve furono sterpate le viti, gli alberi abbattuti col
frutto, molti casali incendiati. Appena cessarono di farsi udire le
trombe che avevan sonata la partenza d'un reggimento, un nuovo squillo
dall'altra parte annunziava terribilmente l'arrivo di altra simile,
anzi peggiore brigata. I sopravvegnenti, trovando la distruzione dove
avrebbero voluto portarla, si vendicavano su le cose e su le persone
che capitavano loro alle mani, come di un furto che fosse stato loro
fatto: e tanta cupidigia frustrata tornava tutta in furore. Qualche
memoria del guasto di quel paese ci rimane in alcune lettere di
Sigismondo Boldoni, scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse
avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai
posteri se non fosse morto all'uscire della giovinezza, e sopra tutto
se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo in cui fosse stato
possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una importanza
perpetua, e per esporle trovare quello stile che vive. Questi, sulle
prime, non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad alloggio
ufiziali, parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati,
era venuto a capo di preservare la sua casa, e di difenderla poi quando
fu minacciata: e racconta agli amici i suoi pericoli e gli ultimi
disastri. V'è pure in una di quelle sue lettere un tratto singolare,
che merita d'esser ricordato. Il tenente del colonnello Merode, il cui
reggimento era venuto pel primo, entrato nel giardino di Sigismondo,
accennò un boschetto e domandò che razza di piante fossero quelle e
che frutto portassero.--Ahi barbaro! pensò il Boldoni: non conosce
l'alloro.--E conchiuse fra sè, che da tal gente non era da sperarsi
misericordia[124]. Desolato quel territorio, le feroci locuste si
gettarono nella Valsassina. È un gruppo di montagne e di valli, paese
poco visitato dal sole, intersecato da torrenti, petroso e selvatico
negli accessi, ma per entro rivestito in gran parte di ricchi pascoli,
e più fertile che non l'annunzi il suo nome: ha varie terre, quale sul
pendìo, quale nel fondo, a luogo a luogo assai vasto perchè si possa
chiamarlo pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono sparse bianche e
picciole casette, che da lontano raffigurano quasi un gregge sbandato
al pascolo. Non vi mancavano possessori agiati, ma la più parte
degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani, i quali vi dimorano
nelle stagioni più miti e passano al piano i mesi più rigidi. La fama
spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i valligiani
s'erano presso che tutti rifuggiti sulle somme alture, lasciando
deposte sotterra presso le case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi
a sè le mandrie, che sono la principale. Ma i saccheggiatori, ai quali
non bastava quello che era stato loro abbandonato, e a cui le arti di
preservazione degli abitanti avevano suggerite nuove armi di offesa e
di depredazione, si diedero a rintracciarli. Quelli che erano stati
più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei loro nascondigli,
strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse, ricondotti nei
villaggi, erano quivi sottoposti alle torture che può inventare la
cupidigia più crudele, perchè rivelassero i tesori nascosti. Due
passioni ben diverse, ma egualmente potenti, l'avidità e il terrore,
supplivano alle convenzioni del linguaggio e si spiegavano fra di loro
in un rapido e terribile dialogo. I gemiti, le voci supplichevoli,
le mani giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi
strazj: l'infelice, che si prostrava ad abbracciare le ginocchia dei
suoi oppressori, era rialzato a forza di percosse. Colui che aveva
riposto sotterra o danaro o suppellettili, o a cui il vicino, per far
pompa di previdenza e di sicurezza nei suoi ripieghi, aveva confidato
il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che acchetare
quella perversità, accennava premurosamente e con aria di sommessa
e quasi amichevole intelligenza ai soldati, che lo seguissero, e
mostrava loro la terra di recente smossa, o l'armadio murato di fresco;
e cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori, che, ciechi per
ingordigia, si gettavano a gara sulla preda.

Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco[125].

Le contingenze infelici della vita umana son tante, che non di rado
l'uomo oppresso da una sventura può consolarsi col pensiero d'altro
male o di peggio che senza quella sventura gli sarebbe capitato
infallibilmente. Se la infame passione di Don Rodrigo non fosse venuta
a turbare i placidi destini di Fermo e di Lucia, essi, dopo d'aver
passato un anno d'inopia, contra la quale chi sa se le loro facoltà
avrebbero bastato, si sarebbero ora trovati, probabilmente con un
bambinello, esposti nel loro paese a quella orrenda furia militare,
costretti a fuggire; e quando avessero schivati tutti i pericoli della
persona, tornando poi a casa non v'avrebbero trovate che le muraglie, e
quelle mezzo diroccate e i segni perversi e luridi del sozzo torrente
che v'era passato. Questi guai sembrano ora leggieri al paragone di
ciò che Lucia e Fermo hanno sofferto in quella vece, ma allora, non
v'essendo il paragone e non potendo essi nemmen per sogno immaginare
come possibili tutte le traversie che abbiamo narrate, quel minor male
sarebbe ad essi parato il colmo della infelicità. Comunque sia, in
mezzo a tanti mali fu una ventura per entrambi l'esser lontani da casa
loro in quel brutto momento.

E Agnese? Agnese si trovava mò proprio nell'intrigo. Vengono; hanno
saccheggiata Cortenova, hanno dato il fuoco a Primaluna, disertato
Introbbio, Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son qui, son
qui; così la fama andava di momento in momento crescendo e avvicinando
il terrore. Alcuni di quei poveri valligiani, che invece di rintanarsi
sui monti, dove forse non sarebbero stati sicuri, avevano stimata
miglior via di fuga, precorrere il nemico, giungevano ansanti,
spaventati, in disordine, come reliquie d'un esercito disfatto e
inseguito, e raccontavano cose orribili della crudeltà dei soldati,
principalmente contra coloro che fossero o paressero opulenti. Agnese
aveva ancora una ventina di quegli scudi d'oro che il Conte del Sagrato
le aveva donati così a proposito e quasi per ispirito di profezia; che
in quell'anno, senza quell'ajuto di costa, la poveretta sarebbe stata
ridotta a morire di stento, o a pitoccare disperatamente, come tanti
altri. Ma dopo d'aver sentiti i vantaggi della ricchezza, Agnese ne
provava ora tutte le cure e i terrori. È ben vero ch'ella aveva sempre
dissimulata prudentemente quella ricchezza, e il solo che fosse del
segreto era Don Abbondio, che era stato testimonio del dono, ed al
quale essa ricorreva per fargli di tempo in tempo cambiare uno scudo in
picciola moneta. Ma una indiscrezione poteva avere tradito il segreto,
o un sospetto averlo indovinato, e allora il pericolo sarebbe stato
terribile e la fuga mal sicura. Poichè era cosa nota che nei luoghi
dove la soldatesca era già passata, uomini, ai quali in verità non si
saprebbe trovare un epiteto, o per invidia, o per isperanza di premio,
avevano guidati quei masnadieri al nascondiglio di qualche lor paesano
denaroso, segnandolo così allo spoglio ed ai tormenti. Per queste
ragioni Agnese fluttuava in un dubbio tempestoso: più volte, vedendo
passare qualche frotta de' suoi paesani che tiravano verso i monti,
s'era mossa per mettersi in loro compagnia; e poi ristava, pensando
con raccapriccio ai pericoli che l'asilo stesso poteva essere per
lei. Ma dove trovare quello che le desse la sicurezza particolare di
ch'ella aveva bisogno? Maneggiando e rimaneggiando quegli scudi d'oro,
svolgendoli e rincartocciandoli, togliendoli di seno per riporveli
meglio, le sovvenne di colui che glieli aveva dati, delle sue proferte,
del suo castello posto al confine e in alto come il nido dell'aquila;
e si fermò tosto nel pensiero di cercarsi l'asilo colà. Aveva già
sotterrate, nascoste sul solajo, riposte alla meglio le masserizie
più grosse; sbarrò, come potè, le finestre; tolse un fardello, dove
aveva ragunato ciò che le sue forze bastavano a portare; ravvolse
per l'ultima volta quegli scudi d'oro e li cacciò sotto il busto, tra
la camicia e la pelle, uscì di casa, chiuse la porta, più per non
trascurare una formalità, che per fiducia che avesse in quei gangheri
e in quelle imposte, si mise la chiave in tasca e s'avviò. Trovandosi
così soletta in istrada, pensò quanto le sarebbe stato prezioso un
compagno in quel tragitto. Ma voleva esser galantuomo, galantuomo a
tutte prove, superiore ad ogni sospetto e più forte d'ogni tentazione.
Dove trovarlo anche questo? Il curato? Perchè no? la casa parrocchiale
è a pochi passi, tentiamo.

Chi non ha veduto Don Abbondio in quel giorno non ha un'idea vera
dell'impaccio. I nemici che si avvicinavano erano i più terribili
che egli avesse mai avuti a fronte, e quelli contra cui erano più
inutili tutte le sue armi, tutti i suoi stratagemmi. Non era gente
da ammansarsi colla pieghevolezza e colla sommessione, molto meno da
contenersi coll'autorità. Non v'era salute che nella fuga; ma, primo
di tutti a risolverla, Don Abbondio era poi rimasto indietro di molti
per le difficoltà che trovava nella fuga stessa e per le condizioni
ch'egli vi aveva voluto porre. L'ertezza del cammino lo spaventava, e
questo spavento gli aveva fatto perder qualche tempo a voler persuadere
or l'uno, or l'altro dei suoi parrocchiani che lo portassero in
lettiga; ma, in verità, quello non era momento da trovar lettighieri.
Era pure andato pregando tutti quelli che avevano buone spalle che
per amore del loro curato si caricassero delle sue masserizie, delle
sue provvigioni, anche dei suoi mobili, per portarli in alto e riporli
in salvo; ma si era indirizzato ad uomini occupati a scegliere tra i
pochi loro averi quello che si poteva trafugare, lasciando con dolore
il resto alle voglie dei ladri: e nessuno aveva spalle da allogare a
Don Abbondio. Pensava finalmente a nascondere il tutto sul luogo, ma
la cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva. Di più, non aveva
ancora saputo scegliere un asilo, e, senza farne mostra, era tormentato
dallo stesso timore che Agnese. Girava il pover'uomo per la casa, tutto
affannato e stralunato, non sapendo che farsi; se la prendeva, quando
col duca di Nivers, come diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in
Francia e voleva a forza esser duca di Mantova, quando col duca di
Savoja, che voleva ingrandirsi, quando coll'imperatore, che stava su
certi puntigli, e quando con Don Gonzalo di Cordova, che non aveva
saputo mandare quei diavoli per un'altra strada. Bestemmiava ancor più
la durezza dei suoi parocchiani, che non volevano dargli ajuto. Oh
che gente! sclamava, che gente! ognuno pensa a sè! non c'è carità! Si
faceva alla finestra e chiamava quelli che passavano, con una certa
voce mezzo piagnolente[126] e mezzo rimbrottevole. Venite a dare una
mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate
così cani. Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi
stracci, ripeteva, perchè nessuno sospettasse ch'egli avesse cose
preziose da salvare. Aspettatemi che venga anch'io con voi; aspettate
almeno che siate quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non
sia abbandonato. Volete voi lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste
che il vostro parroco fosse spogliato, ammazzato. Misericordia!
Fermatevi dunque. Eh! tiran di lungo. Oh che gente!

Bisogna dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per
parlare a quel modo. Quegli, a cui egli faceva quelle preghiere e
quei rimproveri, passavano dinanzi alla sua casa curvi sotto il peso
delle robe loro, quale trascinandosi dietro la sua vaccherella, quale
traendosi dietro i figli, che a stento lo seguivano, e la donna, che
portava quelli che non potevano camminare, quale reggendo un vecchio
o un infermo. Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre
masserizie finchè reggessero le forze e lo permettesse il pericolo.
Alcuni di loro non rispondevano a Don Abbondio, altri diceva: eh sì!
s'ingegni anch'ella, signor curato.--Oh povero me! oh che gente!
ripeteva egli. Ognuno pensa a sè; ognuno pensa a sè; e a me nessuno
vuol pensare.

Per buona sorte, Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo e
operava e dava consigli come Caterina I aveva fatto nel campo alle
rive del Pruth quando Pietro, stretto tra i Turchi e i Tartari, non
trovando uscita nè consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che
partito appigliarsi e non aveva più energia che per isfogarsi in
querele e in rimproveri. Perpetua, ben convinta che non era da fare
assegnamento sopra altri, aveva fatto due fardelli, uno per sè, uno per
Don Abbondio, e poi in fretta e in furia sparpagliava il resto delle
masserizie nei bugigatti più nascosti della casa, sul solajo, sotto il
pagliajo, dietro i tini. Quando questa faccenda fosse terminata alla
meglio, ella aveva proposto di presentare a Don Abbondio il fardelletto
destinato per lui e di intimargli di partire, giacchè in quel momento
era cosa evidente che il padrone non era in caso dì governarsi, e
pel suo meglio bisognava comandargli. È però vero che Perpetua aveva
creduto di riconoscere una simile necessità in mille altri casi che a
gran pezza non erano urgenti come il presente.

In questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua
risoluzione, fece intendere a Don Abbondio ch'ella poteva essere
opportuna anche per lui.

--Dite davvero, Agnese? disse Don Abbondio,

--È un buon parere, signor padrone, disse Perpetua: andiamo senza
perder tempo.

--Senza perder tempo, disse Don Abbondio, perchè costoro possono
giungere da un momento all'altro. Ma saremo sicuri in casa di quel
signore? Eh!

--Andiamo, disse Perpetua; sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo
amici: è stato nella mia cucina quieto come un agnello: è diventato un
uomo del Signore.

--Male non me ne vorrà fare, che dite eh? sarebbe un peccato senza
costrutto: quelle poche volte che ho dovuto trovarmi con lui, sono
sempre stato così compito! Andiamo, ma la mia povera roba![127].

--Anch'io ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una
povera vedova, disse Agnese.

--Sia fatta la volontà di Dio, disse Don Abbondio: e intanto Perpetua
gli diede il fardello, dicendo: porti questo, ch'io porto quest'altro.

--Oh poveretto me! disse Don Abbondio. Che ci avete messo?

--Camicie e abiti, rispose Perpetua; indi, fattasi all'orecchio di Don
Abbondio, domandò sotto voce: i danari li ha in tasca?

--Sì, zitto, zitto, per amor dei cielo, rispose Don Abbondio, e
prese il fardello. Sentite, Perpetua, riprese poi tosto, al momento
di partire, tirate fuori qualche altro abito che Agnese farà questo
servizio al suo curato di portarlo.

--Ma non vede che ho preso con me tutto quello di mio che poteva
portare? disse Agnese.

--Oh me poveretto! mormorò Don Abbondio, ognuno pensa a sè. Andiamo,
andiamo. Perpetua, chiudete bene la porta: alla custodia di Dio.
Aspettate... ma no, no, peggio: sono la metà luterani! misericordia!

Don Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che
alla prima gli era paruta un bel trovato per preservare la casa. Voleva
staccare dalla chiesa il quadro del Santo protettore e affiggerlo al
di fuori su la porta, per indicare che la casa era sacra e per fare in
modo che non potesse essere intaccata che per mezzo d'una profanazione;
ma s'avvide tosto che quel mezzo di difesa, molto debole per sè
contra soldati avidi di rapina, poteva in questo caso divenire una
provocazione a far peggio, giacchè fra quei soldati v'era di molti ai
quali uno sberleffo fatto coll'alabarda all'immagine d'un Santo sarebbe
sembrato un'opera meritoria, una espiazione anticipata del saccheggio.

Data una occhiata lagrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle
due vecchie amazzoni e per tutta la via non fece altro che sospirare,
lagnarsi dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi parrocchiani,
domandare a Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e
se credeva che non le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per
le quali il Conte sarebbe stato peggiore d'un cane se gli avesse fatto
male, e divisare dove si sarebbe potuto cercare un asilo se quello a
cui si andava fosse mal sicuro.

Giunti presso al castello, videro un gran movimento, gente che andava,
gente che veniva, uomini in arme appostati, altri che giravano in ronda
a tre, a quattro, tanto che Don Abbondio cominciò a scrollare il capo e
a dire: Che è questa faccenda? Ma Perpetua gli spiegò tosto che quegli
erano evidentemente uomini che vegliavano alla sicurezza del castello,
e di quelli che, come si vedeva, andavano ivi a rifuggirsi.

--Ohimè! ohimè! disse Don Abbondio: vedo che qui si voglion fare delle
pazzie; farsi scorgere appunto quando più si vorrebbe stare zitti,
rannicchiati, senza nè meno fiatare. Basta: vedremo: se fanno pazzie
per tirarsi addosso la burrasca, dei monti ce n'è, e i precipizj non mi
fanno paura: quando si tratti di salvare la pelle, ho coraggio anch'io
quanto chi che sia, andrei in mezzo al fuoco.

Dette sotto voce queste parole, Don Abbondio proseguiva lentamente,
guardando con attenzione a quegli armati, e cercando di comporre il
volto alla indifferenza e di non lasciar trasparire il suo pensiero,
che diceva dentro: Scommetterei che questo gradasso ha caro che sia
venuto un flagello così orribile per avere il pretesto di fare un po'
di rimescolamento. Oh che gente! Oh che gente!

Del resto, le cose erano quivi come Perpetua le aveva immaginate. Al
castello del Conte era rimasta unita una antica opinione di sicurezza
e di potenza; e i nuovi costumi del signore ne avevano cancellata
affatto l'idea di oppressione e di terrore; dimodochè la gente del
contorno dalla banda del Milanese vi accorreva come ad un asilo, forte
e pietoso nello stesso tempo. Il Conte, lieto di essere un oggetto di
fiducia a quei deboli che aveva tanto spaventati ed oppressi, raccolse
tosto i primi che si presentarono. Ma un tal uomo non avrebbe potuto
considerare la sua casa come un asilo disarmato, un nascondiglio di
paura, nè starsi con le mani in mano quando ad ogni momento poteva
presentarsi un'occasione di menarle santamente. Fece addirittura tirar
giù dal solajo le armi irrugginite, le fece ripulire in fretta, ne
distribuì ai servitori. Quindi a misura che accorrevano fuggiaschi,
egli trasceglieva gli uomini capaci di portare le armi, dava loro
moschetti e partigiane. Quando la provvigione fu esaurita, ne fece
raccogliere all'intorno: e scompartiva gli uficj a quei nuovi soldati;
altri mandava in ronda, altri più lontano per esplorare, altri stavano
raccolti per porsi in difesa. Quando uno era entrato nel castello
ed era passato in rivista dal signore, diveniva verso di lui come
un soldato col suo antico ufiziale, tanto il Conte possedeva quella
forte risolutezza che piega le volontà, e quella parola che toglie il
pensiero di fare diversamente da quello ch'ella suona. Aveva allogate
le donne e i fanciulli nelle stanze più riposte; i letti erano pei
vecchj e per gl'infermi: una gran sala serviva di magazzino per le robe
che erano portate su dai rifuggiti: tutto era collocato in ordine,
con numeri, dei quali il corrispondente era dato ai padroni; ed alla
porta della sala era posto come un corpo di guardia; chi aveva portate
provvigioni, viveva di quelle, e i poveri erano nutriti dal Conte con
razioni, che si distribuivano regolarmente come in un campo. Egli,
come l'Ariosto sognò di Carlo in Parigi, di qua, di là, non istava
mai fermo: dava ordini, visitava posti, metteva a luogo quelli che
arrivavano, governava ogni cosa; e dove nascesse qualche garbuglio,
qualche contesa, si mostrava, e tutto era finito.

Era appunto su la porta quando giunsero i nostri pellegrini; gli
riconobbe tutti e tre e gli accolse tutti con pronta cordialità;
ma alla madre di Lucia fece una accoglienza particolare, nella
quale traspariva come una gratitudine perchè ella gli desse ora una
occasione di compensare alquanto in quello stesso castello la terribile
ospitalità che vi aveva trovato la figlia.

--Bene avete fatto, brava donna, disse il Conte, di cercare qui un
ricovero. Bene avete fatto di ricordarvi di me: fate stima di essere in
casa vostra. Voi ci portate la benedizione.

--Oh appunto! rispose Agnese, sono venuta a darle incomodo.

Il Conte le chiese con premura novelle di Lucia, e quelle udite, si
rivolse a Don Abbondio, e disse: La ringrazio, signor curato, ch'ella
si degni scegliere un asilo in questa casa.

--Manco male che conosce i suoi meriti, pensò Don Abbondio, e cominciò
per rispondere: In questi frangenti... in queste circostanze... non
si... tutto è... Ma, vedendo che la frase così cominciata non poteva
venire a bene, la convertì in un inchino profondo.

--Son già arrivati alla sua parrocchia coloro? domandò il Conte.

--Dio liberi! rispose Don Abbondio: Dio liberi! Non sarei qui, vivo e
sano, ad implorare la protezione del signor Conte.

--Si faccia cuore, ripigliò questi: qua su non verranno; ma se
volessero tentar la prova, siamo pronti a riceverli. In ogni caso la
sua presenza è preziosa, signor curato: ella potrà animare questa buona
gente alla difesa della vita di tanti deboli, della pudicizia di tante
donne, che confidano in noi.

--Un corno, disse fra sè Don Abbondio.

--Ella potrà, proseguì il Conte, assistere quelli fra noi che
lasciassero la vita in questa impresa di misericordia.

--Signor Conte, disse Don Abbondio, sarà quel che Dio vorrà. E così
dicendo girava la testa a guardare qual fosse la più vicina e la più
alta delle cime che dominavano il promontorio su cui era posto il
castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i
combattenti.

Non rimaneva nel castello più che un letto libero, e fu dato, com'era
giusto, a Don Abbondio, prete e vecchio. Ma il Conte, memore della
notte che Lucia aveva quivi passata, non avrebbe potuto sofferire che
la madre di lei dormisse su la paglia. Fece quindi portare il suo letto
nel dormitorio delle donne e disporlo quivi per Agnese, intimando ai
servi che si guardassero bene dal dire che quello era il letto del
padrone: e nella sua stanza fece in quella vece portare una bracciata
di paglia.

Quindici giorni circa passarono i nostri rifuggiti nel castello;
quindici giorni di batticuore e di sospetto, di spauracchi subitanei
e di rincoranti _non è vero_, di vigilie, di allarmi, di pericoli,
che, grazie al cielo, tutti svanirono senza danno. Il castello era
fuor di strada e quei pochi demonj di lanzichenecchi sbandati, che
capitavano alle falde del promontorio, veggendo su per la via uomini
in arme, e non sapendo quanti più ve ne fosse in alto, più curiosi
allora di preda che di battaglia, se ne tornava pel loro meglio.
Oltracciò, la parte dell'esercito che nella marcia si distendeva lungo
l'estremo confine, aveva un interesse urgente di tenersi raccolta e
all'erta e di non disperdersi troppo a buscare. Sull'altro confine
era raccolta una forza dei Veneziani, la quale, sotto il comando di
Marco Giustiniani, provveditore all'armi in Bergamo, era destinata a
costeggiare l'esercito alemanno per tutto quel tratto del suo passaggio
che toccasse i confini della Repubblica; e a questa forza avevano dato
nome di squadrone volante. Alla presenza di questi, che certo non erano
amici, e che vedendo un bel tratto potevano far da nemici, bisognava
camminare con giudizio; e questa fu principalmente la cagione per
cui il castello non fu molestato. Ma anche questa, che in fatto era
salute, fu pel volgo inerme che vi era ricoverato, e per Don Abbondio
principalmente, un aumento d'inquietudine: poichè se il confine Veneto
fosse stato sguernito, Don Abbondio certamente l'avrebbe varcato
e sarebbe andato innanzi innanzi fino a che non avesse più inteso
parlare di lanzichenecchi. Ma ora, il poveretto non aveva più rifugio;
l'accesso ai monti, oltre la fatica, era pieno di pericoli pei predoni
che potevano trovarsi su la via: e attraversare lo squadrone volante
sarebbe stato lo stesso che correre in bocca al lupo: giacchè quella
era una marmaglia ragunaticcia d'uomini tagliati a un dipresso alla
misura dei lanzichenecchi; e nel paese che le era dato a proteggere
faceva il peggio che poteva.

Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei
quindici giorni. Stavasi colle donne, coi vecchj e coi fanciulli
nel luogo il più riposto del castello: di tempo in tempo la paura
lo cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non
gli accrescessero lo spavento. L'aspetto dell'armi, dei preparativi
di difesa, da una parte, lo rincorava alquanto; dall'altra, gli era
intollerabile, facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in
movimento a far carne. Si percoteva il petto e le guance, pensando
alla minchioneria che aveva fatta. Mi son messo in gabbia da me
stesso[128], diceva tra sè, sospirando. Oh che bestia! mi sono lasciato
condurre da due pettegole. E in questo pensiero s'infuriava tanto che
più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj
contra di essa. Ma quando Perpetua, giustificandosi, alzava la voce,
Don Abbondio la faceva tacere e cessava di garrire anch'egli, tutto
impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte, tornando
all'antica natura, non facesse il diavolo. Don Abbondio sedeva alla
tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la tavola dello
stato maggiore: v'erano i signori del contorno, che facevano da
ufiziali, le signore e qualche prete. La tavola era lieta: il Conte,
da buon generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad
ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in
comune, perchè i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento.
Bisognava dunque parlare e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio
era un supplizio: e quando il Conte gli rivolgeva in particolare il
discorso per animarlo un pochetto, egli allora, sforzandosi di mangiare
e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura
veramente compassionevole.

Ma tutte le cose hanno veramente un termine: passano i cavalli di
Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt,
passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi
quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo,
passano i Croati; quando piacque al cielo passò anche Galasso, che fu
l'ultimo. Lo squadrone volante de' Veneziani si mosse anch'esso per
tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta
dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due Stati, e portarsi poi
sull'Oglio a fare la stessa processione. Quando le due retroguardie
furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come
uno stormo di passeri si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e
fronzati d'una gran quercia, dove erano accorse a ricoverarsi dalla
tempesta. Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido,
per mirar tosto cogli occhj proprj il suo dolore e il guasto che v'era
stato fatto, e nello stesso tempo perchè i barberini, vedendo la casa
abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan
potuto lasciare. E poi per quanto il Conte avesse dato segni e prove
d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar
mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era stato altre
volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata.
Ma, dall'altra parte, lo riteneva la paura di abbattersi in qualche
lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in
porto. Era quindi sempre su le mosse e sempre s'indugiava, domandando
novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le
novelle erano dolorose. Quei pochi, rimasti colla speranza di guardar
le case, o discesi troppo presto, si erano trovati sbigottiti, storditi
dalle percosse e dallo spavento; ogni arredo, ogni masserizia sparita,
e in quella vece nelle case un impatto di strame, tizzoni di mobili
arsi, greppi di stoviglie sfracellate per istrazio dopo avervi bevuto
il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il
respiro, dimodochè ognuno tornando con ansia alla casa derelitta ne
usciva alla prima con fastidio e doveva farsi forza a poco a poco per
rientrarvi a renderla di nuovo abitabile. In qualche luogo il padrone,
avanzando così per la sua casa, udiva un gemito; guardava con sospetto
che fosse: era un soldato, che languiva infermo, che spirava: e il
padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e
di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle
membra macchiate del giacente l'immagine confusa, ma terribile della
peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.

Il Conte, argomentando da queste relazioni, che Agnese, se si fosse
affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare,
la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse, di quello che
gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di
biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e, caricatone
un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta
e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che
aiutassero la povera donna a ripulire la sua casa. Agnese partì dopo
molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio
e Perpetua le andarono in compagnia.

La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione
e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora. Alla
esclamazione, cento volte ripetuta, di _povera gente_, succedette il
_povero me_: parola che, generalmente parlando, esce da una parte più
profonda.

Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il
suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là
nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra, e tra
con questi rimasugli e con quel di più che il Conte le aveva dato
appresso, allogarsi in casa, se non come prima, almeno in modo da
poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi
paesani. Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione
più che mai di sclamare: oh che gente! oh che gente! La sua casa
era la più maltrattata del villaggio, perchè era la più apparente;
e gli ospiti eroi, sospettando che ci dovesse esser più che altrove
ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter
tutto sossopra. Il sospetto non era mal fondato, nè le cure erano state
inutili: e Perpetua, mettendo il piede su la soglia, tra mezzo i mobili
spezzati, i fogli lacerati e le piume delle sue galline, scorse tosto
con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver
meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan
più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don Abbondio,
spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal
ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza e lo
ritraeva, dava tre passi e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza,
oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale;
i segni d'un vasto saccheggio erano ragunati in un picciolo angolo,
come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo. Sul
focolare della cucina, per esempio, si vedevano più tizzoni spenti,
i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola,
il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino
dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva
riconosciuto il migliore amico del suo stomaco. Di questi e di tanti
altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere e di carboni
spenti; e con quei carboni, come per compenso e per un complimento al
padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di fantocciacci,
ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei
preti e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che, per
verità, non poteva fallire a tali artisti.

Don Abbondio, mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigi su
le tempie, balzò di casa come un forsennato e andò di porta in porta a
gagnolare, a scongiurare quegli, che tornati da qualche giorno avevano
assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di
governo alla sua; e nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più
fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in prestito da chi
una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola;
tanto che con gli ajuti e con le prestanze potè accamparsi quel giorno
in casa, per riconquistarla e riordinarla poi tutta a poco a poco.
Passati quei primi giorni e nel tempo appunto delle brighe e delle
spese, Don Abbondio ebbe con sè stesso e con Perpetua una guerra assai
fastidiosa. Perpetua, parte con la sua vista, acuta come il fiuto di
un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse
che molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai
barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini: ne
fece tosto avvertito Don Abbondio, perchè si facesse rendere il suo. Ma
Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che gli
dispiacesse assai vedersi così rubato a man salva e sapere il fatto suo
in mano d'altri, ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e
bizzarri arieti del suo gregge; quegli dai quali Don Abbondio aveva
sempre sofferto ogni cosa, piuttosto che provocarli al cozzo, che
aveva sempre accarezzati e lodati come i più savj ed esemplari. Sicchè
sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe
con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che
Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno di
quegli utensili che altri aveva fatti suoi.

--Vada a cercarlo al tale, che lo ha, diceva Perpetua, e che non lo
avrebbe tenuto fino a quest'ora se non avesse che fare con un... buon
uomo.

--Zitto, zitto, Perpetua, zitto.

--Zitto, zitto, rispondeva Perpetua, e così ella si lascerebbe mangiar
gli occhi del capo. Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non
rubare.

--Oh che spropositi! oh che spropositi! sclamava Don Abbondio. Ma
sapete pure... Col nome del cielo... volete la mia morte!...

La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre
vincitore, perchè quando si trattava di paura, egli mostrava una
risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter
competere, e taceva la prima. Tutto quello che fece Don Abbondio fu
di gittare in predica qualche motto sul dovere di restituire e su la
trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo diceva
con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore
ad un predicatore di Corte. E pure, appena quelle parole erano uscite,
gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per riparare un
qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare
dell'ira e della mansuetudine e del gran male che è l'infierire centra
quelli che non vogliono nè possono far difesa.



XX.

DIALOGO SULLA PESTE TRA DON FERRANTE E IL SIGNOR LUCIO.


Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano
quelli che i signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo
per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con
argomenti un po' più reconditi e si scatenavano contra il tribunale
e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più
filosofico. Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto riferisce
una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante
e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome,
accenna alcune qualità. Era costui professore d'ignoranza e dilettante
d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante,
anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; perchè i
libri, diceva egli, fanno perdere il buon senso. Ammetteva bene una
scienza che si poteva acquistare colla esperienza e comunicare per
mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è
da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so
per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che
bugie.

Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità,
che, divenendo di giorno in giorno più risoluti, cominciavano a non
far distinzione di persone e assoggettavano anche i potenti ad una
vigilanza incomoda.

--Tutto questo, diceva il Signor Lucio, in grazia dei libri, dei
sistemi, delle dottrine che hanno scaldata la testa d'alcuni, i quali,
per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia e
pietà nello stesso tempo il vedere quel buon vecchio di Settala, che
potrebbe fare il medico con giudizio e servirsi della sua buona pratica
acquistata in sessant'anni e del buon senso che gli ha dato la natura,
vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il
sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza
del contagio; perchè? perchè l'ha trovata nei suoi autori. Scienziati,
scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci.

--Piano, piano, disse Don Ferrante; il quale, benchè occupato a
dissertare in un altro crocchio, aveva intesa quella scappata del
Signor Lucio. Piano, piano; se si tocca la scienza, son qua io a
difenderla.

--Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che
gli comparte tanti favori, disse una signora; e il tratto riscosse un
mormorìo di applauso da tutta la brigata.

--Quand'anche ciò fosse vero, disse Don Ferrante, dopo aver pensato
soltanto per un mezzo minuto, una tale parzialità sarebbe da
attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del
sesso. Comunque sia, continuò egli, son qui a provare che la scienza
non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome.

--Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere,
rispose il Signor Lucio, che tutte quelle belle ragioni che si dicono
da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, o che so
io, non sieno cavate dalla scienza.

--Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie, rispose Don
Ferrante. Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il
contrario e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile,
una chimera, un non-ente.

--Sono cose che le donne possano intendere? domandò quella signora.

--La materia è un po' spinosa, disse Don Ferrante; ma vedrò di renderla
trattabile. Dico dunque, che in _rerum natura_ non vi ha che due
generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non
può essere nè dell'uno, nè dell'altro genere; dunque non può esistere
in _rerum natura_. Le sostanze... prego di tener dietro al filo
del ragionamento... sono semplici, o composte. Sostanza semplice
il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea,
perchè se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe
rimanersi a danneggiare i corpi: non è acqua, perchè bagnerebbe; non
è ignea, perchè brucerebbe; non è terrea, perchè sarebbe visibile.
Sostanza composta, nè meno, perchè tutte le sostanze composte si fanno
discernere all'occhio, o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi
sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto; non vi sarà quel Briareo
che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo
ora se può essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi
signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe
dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due
parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele
e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle
scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone
per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un
soggetto all'altro. Mi pare che la cosa sia evidente.

--Intanto, disse il Signor Lucio, senza tutti questi argomenti, col
semplice buon senso, tutti i galantuomini e il popolo stesso sanno
benissimo che questo contagio è un sogno.

--Non lo sanno; perdoni, rispose Don Ferrante, lo indovinano a caso,
come atomi senza cervello che, girando senza saper dove, concorressero
a comporre una figura regolare. Mi dica un po', di grazia, se sapranno
poi dire la cagione vera di questa mortalità.

--Oh bella! disse il Signor Lucio; la cagione è chiara; in tutti i
tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti, perchè v'ha più
malattie; e questo è il caso nostro.

--Si, disse Don Ferrante; ma la malattia, la cagione prima delle
malattie?

--Nè qui pure c'è sotto gran misterio, rispose il Signor Lucio: la
carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie.

--Tutto bene, disse Don Ferrante, ma la cagione prima?

--Io non so che cosa ella intenda per cagione prima, disse Don Lucio.

--Ora vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza, disse Don
Ferrante. Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia,
di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto,
bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla
negli aspetti dei pianeti. Perchè non si vuoi fare come il volgo,
che guarda in su, vede le stelle e le considera come tante capocchie
di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle
influiscono, ma non va poi a cercare nè come, nè quando. Abbiamo il
libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si
tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella
gran cometa, causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, _apparet
cometa magnus in cardine dextro_, la quale indicava chiaramente che
l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una
terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno,
con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: _Fames in Italia
morsque vigebit ubique_. Che se i dotti le avessero trovate prima, non
sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il
fatto anche i più ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare
e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra
predizione egualmente chiara; così non fosse!

Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se
stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò, la sua
voce prese un tuono lugubre e solenne, e articolò la formola terribile:
_mortales parat morbos_; _miranda videntur_.

--O poveretti noi! disse una signora, e, rivolta al suo vicino, chiese
che cosa volesse dire quel latino.

--Le prime parole, rispose egli, voglion dire che il morbo appare
mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente[129].

Don Ferrante continuò: Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove
sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare e
resistere all'evidenza e credono di spaventarci con un grande apparato
di dottrina, come se, alla fine, avessero a fare soltanto con gente che
non abbia mai toccato il _limen_ della filosofia. Non basta parlare, a
proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni
violacei, di furoncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte
parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...

--Eppure, disse il Signor Lucio risolutamente, perchè gli pareva di
avere alle mani una buona ragione, eppure anche quei medici non negano
che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni...

--E qui li voglio, interruppe Don Ferrante; qui dà in fuora lo
sproposito. Confessano questi signori, perchè a negare un tal fatto
ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato
dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica
da un uomo all'altro. Chi ha mai inteso che si possano comunicare le
influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come
tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze e
dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e
schiferete il male: come se le influenze, discese dai corpi celesti in
questo mondo sublunare, potessero schifarsi; come se quando le stelle
inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe
precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale
dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei
corpi celesti. Per me credo che anche questo accecamento dei medici,
e appunto dei medici, che hanno la mestola in mano, sia un effetto
di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato,
acciocchè, per giunta di tanti mali, ci tocchi anche il flagello dei
regolamenti.

Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era
contagioso; sapevano che era comparsa quella cometa; avevano inteso
dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto, ma da tutte
queste idee non avevano mai pensato a cavar quel sugo che Don Ferrante
espresse nella sua bella argomentazione. Uscirono tutti di quivi
più atterriti di prima e nello stesso tempo più irritati contra i
regolamenti e più disposti a trascurare come inutili tutte le cautele.
Lo stesso contraddittore Signor Lucio partì da quella disputa più
pensoso, perchè le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch'egli
riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.

Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute
generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute e predicate,
con che fiducia applicate ai casi e alle deliberazioni della vita, si
prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione
mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi;
non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto
trovarsi in quella età con le idee presenti sarebbe stato in molte cose
l'uomo il più illuminato e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le
contraddizioni[130].

Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se
anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar
molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare
impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura
fossero incocciati di errori tanto marchiani. E perchè no? Guardandoci
indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi
unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee
ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate
alla giornata a provarne altre, dominanti insomma per una, due, più
generazioni, talvolta senza proteste, senza richiami. Talvolta però ne
troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente
male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero
ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie
che l'annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro
verso. Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di
passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più
diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani
e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi
e con istravaganze volgari. Dal che si vede quanto fosse prepotente
l'autorità di quelle idee; giacchè non ardivano impugnarle che gli
uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire,
della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano
la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso. Volendo
poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee, si trova
generalmente che dopo quei primi assalti staccati, comparve qualche
scrittore pensante e metodico a combatterle in regola. Allora un
trambusto da non dire: quelle idee, disturbate seriamente nel loro
antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza è con
ardore. Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state così forti,
così inconcusse, come in quel momento: ma noi posteri, che vediamo la
cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella. Egli era come
quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo; gli
abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio
terribile; pare che vadano ad una conquista, o che celebrino una
vittoria; ma guardate al nido, è vedrete ch'egli arde; v'accorgete che
tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi
ad alloggiare.

È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino:
in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il
sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con
somma fidanza e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano
malconci e renduti inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono
talvolta molto arguti; ma per chi voleva riflettere, l'epoca stessa
della scoperta era un pregiudizio contra di essi; poichè sarebbe cosa
troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso
in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali
che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di conformità che
hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a
scovare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee,
per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle
non diceva nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe
non s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a
provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che
era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o
l'avevano rifiutata avvertitamente.

Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno
così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi e della
caduta loro. Si vedrebbero le più solenni stravaganze raccolte insieme
e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente
avute in conto di verità incontrastabili. Si direbbe: nel tal secolo
il negare la tal cosa, che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe
fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro, l'affermare la tal altra,
che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio, vi avrebbe fatto andar
prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere
ogni credito; in quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale
grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi
per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d'allora
era forse per lui stesso una sciocchezza badiale. Si vedrebbe un
tale errore proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia,
combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi
dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro, annunziato con
pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, creciuto e morto
in un paese: tale, recato da di fuori e ricevuto con gratitudine; tale,
sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti,
ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo
di dottrine; tale, scovato in un libro vecchio; tale, immaginato da
un corpo, da un uomo autorevole; tale, messo fuori da un uomo senza
credito e senza merito, aver fatto grande fortuna, perchè conforme ad
altre idee storte già dominanti e ad una generale disposizione degli
ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista,
che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe
tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico
dagli uomini i più colti e pensatori di un'epoca, e rispinto dal
popolo e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni
diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodochè su quel punto
i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali
hanno più di ammirazione.

Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno
scopo importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute,
si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni
a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse,
nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti
loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera. Questi caratteri
scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si
potrebbe osservare se fra le idee, dominanti al nostro tempo, ve
n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne
un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più
libero e più fermo, e con un certo sospetto, per vedere se mai non
fossero di quelle che una età impone a sè stessa come un giogo, che
le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacchè è cosa troppo
probabile che anche noi ne abbiamo di tali, e sarebbe pretensione
troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura, comune a tutti i
nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali
si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è
tanto manifestamente, che, senza studio, alla prima occhiata si può
scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si
ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un errore
della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione
a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto
all'autorità dei morti e al consenso dei vivi per chiamar tante voci
in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso.
Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza: quante dottrine non
predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo? Se v'ha chi lo nega,
è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare
egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno
venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente
provato che... Eh ma! signori, voi mi fate già la cera brusca!
Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il
manoscritto del mio autore e torno alla storia[131].



XXI.

LA PESTE A BERGAMO--RITORNO DI FERMO AL PAESE NATIVO--SUO INCONTRO CON
DON ABBONDIO E CON AGNESE.


Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero[132] ci conviene
andare in cerca d'un personaggio separato da lui per condizione, per
abitudini e per inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe mai
stata immischiata alla sua, se egli non lo avesse voluto a forza.
Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno
della carestia, parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo
buon parente; alla fine, per non essergli troppo a carico, intaccò i
cento scudi di Lucia, ma col proposito di restituire, se mai Lucia non
fosse più quella per lui. Il passaggio della soldatesca interruppe
quelle scarse e imbrogliate comunicazioni di pensieri e di notizie
che passavano tra lui ed Agnese. Dietro la soldatesca venne la peste,
ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo interdissero il
commercio col territorio milanese finitimo, mandarono commissarj ad
invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli. Pure, come era
accaduto nel Milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra,
più ingegnosa che la vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco
non credevano nè pur essi molto alla peste e trattavano di soppiatto
coi loro vicini; e, con molta fatica e con molto pericolo, ottennero
di potere avere anch'essi la peste in casa. Entrata che fu, invase
poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la città[133].
La peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i
suoi accidenti, presenta molti tratti di somiglianza notabile con
quelli del Milanese. Come in questo paese, così nel bergamasco, dopo
scoverta la peste, si trovò ch'ella si sarebbe dovuta prevedere per
evidenti segni astrologici e per inauditi portenti; v'ebbe pure la
incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle precauzioni;
v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini e il
rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che il
male fosse cessato. Quivi pure una processione, contrastata con ragioni
savie e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella
città; quivi pure molte vite generosamente sagrificate in pro' del
prossimo da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici; quivi pure
licenza e avanie degli infermieri e becchini, che ivi erano chiamati
_nettezzini_, come in Milano _monatti_; quivi pure preservativi e
rimedi strani o superstiziosi. Quivi pure, come in Milano, subitanei
spaventi per voci sparse di sorprese nemiche, sognate dalla paura, o
inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure
all'udire che in Milano v'era gente che disseminava il contagio con
unzioni, nacque un terrore che il simile non avvenisse, anzi parve
di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte e le pile delle
chiese[134]. Ma la cosa non andò oltre; e come in questo particolare,
così nel resto, gli accidenti tristi, che abbiam toccati, furono in
Bergamo men gravi, meno portentosi; l'incrudeltà fu meno ostinata, men
clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno feroce, la
violenza meno bestiale e meno impunita. Di questa differenza v'era
molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone e
quale nelle cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del
nostro argomento. Quello che ora importa di sapere si è che Fermo
contrasse la peste, e la superò felicemente. Tornato alla vita, dopo
d'averla disperata, dopo quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì
egli rinascere più che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure
e i desiderj della vita, cioè pensò più che mai a Lucia, alle antiche
affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto
tempo dei pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della
salute, della vita di lei, in quel tempo dove il vivere e l'esser sano
era una come eccezione alla regola. Tutte queste passioni crescevano
nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e
quando queste furono ben riconfortate, egli, con la risolutezza d'un
giovane convalescente, disse in sè stesso: andrò e vedrò io come stanno
le cose. Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello
che si passava in Bergamo egli vedeva che la peste assorbiva o affogava
tutte le sollecitudini, ch'ella era come un obblivione, o un giubileo
generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben
poca forza e poca voglia d'agire centra i delitti della giornata, e
tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva, per la voce pubblica,
che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era
ancor più grande. Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome,
di procedere con cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo
paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano. Con questo disegno,
egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente
era morto di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese
pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di companatico e
un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire
di luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al
lazzeretto.

. Il Manzoni ne possedette una copia fatta dall'ab. Bentivoglio, che
gli fu procurata dal suo amico Gaetano Cattaneo. Sulla peste conobbe
anche il _Ms.º Vezzoli_. _Preservatione_ | _dalla peste_ | _scritta dal
sig. Protomedico_ | LODOVICO | SETTALA | _con privilegio_. | In Milano
| Per Giovan Battista Bidelli. | M. DC. XXX; in-8º di pp. 60.

_Cura_ | _locale_ | _de' tumori_ | _pestilentiali,_ | _che sono il
Bubone, l'Antrace, o Car-_ | _boncolo_, _& i Furoncoli._ | _Contenente
tutto quello, che si ha da fare_ | _esteriormente nella cura di questi
mali._ | _Tolta dal Libro della cura della Peste_ | _del Signor
Protofisico_ LODOVICO | SETTALA. | In Milano, | Per Giovan Battista
Bidelli. 1629; in-8º di pp. 32.

_La peste del_ | MDCXXX | _Tragedia nouamente_ | _composta_ | _dal
padre_ | _Fra_ BENEDETTO CINQVANTA | _Teologo, e Predicatore_ |
_generale_ | _De Minori Osservanti_ | _Fra li Accademici Pacifici_
| _detto il Seluaggio_; in-24º di pp. 239, senza anno e note
tipografiche. [Il permesso della stampa, dato in Milano da fra Leone
Rossi, Ministro provinciale, è del «10 genaro 1632»; la lettera
dedicatoria del Cinquanta a «Gio. Battista Calvanzano, Mercante Pio e
diuoto», è data dal Convento di Santa Maria della Pace in Milano il
«6 genaro 1632». Parecchi versi di questa tragedia furon dal Manzoni
trascritti ne' suoi Estratti.]

_La pestilenza_ | _seguita in Milano_ | _L'anno 1630_ | _raccontata
da_ | _D._ AGOSTINO LAMPVGNANO | _Priore di San Simpliciano_ |
_Al Serenissimo_ | _Carlo primo Gonzaga_ | _Duca di_ | _Mantova,
Monferrato, Neuers,_ | _Vmena, Rethel, etc._ | In Milano per Carlo
Ferrandi, | con licenza de' Superiori. | 1634; in-12 di pp. 82.

_Raggvaglio_ | _dell'origine_ | _et giornali successi_ | _della gran
peste_ | _Contagiosa, Venefica & Malefica seguita nella Città_ |
_di Milano & suo Ducato dall'Anno 1629._ | _fino all'Anno 1632._ |
_Con le loro successive Provisioni & Ordini._ | _Aggiuntovi un breve
Compendio delle più segnalate specie di Peste_ | _in diuersi tempi
occorse_ | _diviso in dve parti_ | _Dalla Creatione del Mondo fino alla
nascita del Signore,_ | _Et da N. S. fino alli presenti tempi._ | _Con
diversi antidoti_ | _Descritti da_ ALESSANDRO TADINO _Medico Fisico_
| _Collegiato & de' Conservatori dell'Illustriss. Tribunale_ | _della
Sanità dello Stato di Milano._ | _All'Ill.ᵐᵒ Sig.ʳ Francesco Orrigone
Vicario_ | _di Prouisione della Città & Ducato di Milano._ | In Milano.
M. DC. IIL. | Per Filippo Ghisolfi. Ad instanza di Gio. Battista
Bidelli. | Con licenza de' Superiori & Privilegio; in-4º di pp. 151,
oltre 8 in principio e 1 in fine senza numerare.

_Alleggiamento_ | _dello_ | _Stato di Milano_ | _per_ | _Le Imposte,_
_e loro Ripartimenti._ | _Opera di_ | CARLO GIROLAMO CAVATIO |
_prosapia de' Conti_ DELLA SOMAGLIA, | _Gentilhuomo Milanese,_ |
_giovevole_ | Per _rappresentare alla Cattolica Maestà_ | _del Re N.
S._ | _Filippo IV. il Grande_ | _L'Amore Costante del Dominio,_ |
_E la forma facile di Benigno sollevamento._ | _Honorevole_ | _Per
le Prodezze de Cittadini._ | _Dilettevole_ | _Per le Storie, ed
Informationi._ | _Dedicata a gli Illustrissimi Signori_ | _Vicario, e
Sessanta_ | _del Consiglio Generale_ | _della Città di Milano._ | In
Milano M. DC. LIII.; Nella Reg. Duc. Corte, per Gio. Battista, e Giulio
Cesare fratelli | Malatesta Stampatori Reg. Cam. & della Città; in-fol.
di pp. 732, oltre 58 in principio e 76 in fine senza numerazione.

_Vita_ | _di_ | _Federico_ | _Borromeo_ | _Cardinale del Titolo di
Santa Maria degli Angeli,_ | _ed Arcivescovo di Milano,_ | _Compilata_
| _da_ FRANCESCO RIVOLA | _Sacerdote Milanese,_ | _e dedicata da'
Conservatori_ | _Della Biblioteca, e Collegio Ambrosiano_ | _Alla
Santità di Nostro Sig. Papa_ | _Alessandro Settimo._ | In Milano, |
Per Dionisio Gariboldi. M. DC. LVI.; in-4º di pp. 769, oltre 24 in
principio e 55 in fine non numerate.

_Il_ | _memorando contagio_ | _seguito in Bergamo l'anno 1630._ |
_historia_ | _scritta d'ordine pubblico_ | _da_ LORENZO GHIRARDELLI |
_libri otto._ | _Consacrata_ | _all'immortalità | della stessa Illᵐᵃ
Città_ | _di Bergamo._ | In Bergamo, M. DC. LXXXI. | Per li Fratelli
Rossi Stampatori di essa Città. | Con licenza de' Superiori; in-4º di
pp. 361, oltre 8 in principio e 1 in fine senza numerazione.

_Memorie_ | _delle cose notabili_ | _successe in Milano intorno al_
| _mal contaggioso l'anno 1630._ | _Del riccorso da Signori della
città a Padri Capuccini_ | _per il Governo del Lazzaretto._ | _Come fu
destinato il Molto Rev. Padre Felice da Milano della_ | _Nobilissima
Famiglia de Casati, ed il Rev. Padre Michele_ | _da Milano della
Famiglia de' Marchesi Pozzobonelli._ | _De' Portamenti d'essi Padri
in quelle calamità; e come entrasse_ | _la Peste ne' Conventi loro._
| _Delle ammirabili azioni, ed affannose fatiche d'Eccellentissima
Carità_ | _dell'Illustrissimo Signor Marchese_ | _Don Gianbattista
Arconati_ | _di Gloriosa ricordanza, luce splendidissima di que'
tempi,_ | _Reg. Senatore, e Presidente della Sanità._ | _Del bel
passaggio all'Eternità di molti Capuccini Vittime di_ | _Carità, E
d'altri risanati per intercessione della Gran_ | _Vergine Miracolosa
delle Grazie_ | _Nella Chiesa delli Molto Reverendi Padri Domenicani_ |
_in Porta Vercellina._ | _Con in fine tre Capitoli in compendio della
purga_ | _delle cose infette, e sospette usata._ | _Raccolte da Don_
PIO LA CROCE, | _Consagrate_ | _all'Illustrissimo Signore il Sig._ |
_Don Giuseppe Arconati_ | _Marchese di Busto Garollo_ | _Arconate,
etc._ | In Milano Nelle Stampe di Giuseppe Maganza. 1730; in-4º di pp.
92, oltre 8 in principio e 2 in fine senza numerazione.

Del conte Pietro Verri consultò e cita la _Storia di Milano_ e le
_Osservazioni sulla tortura_, che postillò; come postillò il suo
discorso _Dell'Annona_. Cfr. _Opere inedite o rare di_ A. M. vol II,
pp. 122-124 e 374-386. Cita pure il trattato _Del governo della peste_
di Lodovico Antonio Muratori, edizione modenese del 1714; cita _Del
morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera del
dott._ F. ENRICO ACERBI; l'amico e medico suo.

Cfr. inoltre: GHIRON I., _Documenti ad illustrazione dei «Promessi
Sposi» e della peste dell'anno 1630_; nell'_Archivio storico lombardo_,
ann. V, fasc. 4 [31 dicembre 1878], pp. 749-758.

Degli _Estratti_ manzoniani ne trascriverò qualche brano, per saggio.

«Danno portato dai soldati veneziani. Ghirar[delli], p.
55--Processione, p. 161--Sintomi della peste, p. 224.--Unzioni, p.
244.--Inumanità dei _nettezzini_, p. 252.--Non furono mai veduti tanti
frutti pendere dagli arbori, etc., p. 258.--Mortalità: città e borghi,
9,533; territorio, 47,322, p. 341.--Continuò la mortalità, sicchè
più d'un terzo fu trovato mancar di peste--Esenzioni per 10 anni ai
forestieri in Bergamo, p. 356».

«Deputati delle parrocchie. Rip[amonti], p. 58--10 cal. maii, p.
75--Quatuor homines deprehensos esse, etc., p. 111--Lazzeretto e P.ʳᵉ
Felice, p. 128--Diluvio ai 23 di luglio, p. 131--Sed belli graviores
esse curas, p. 245».

«Viveva in un certo castello, etc. Rivola, p. 254--Card. Fed. Borromeo
raccomanda ai parochi che inculchino il dovere di rivelare la malattia
contagiosa, p. 582--Condotte a termine di salire in fin sopra i tetti,
etc., p. 759».

«Morti della peste in Milano, 1630. Ripamonti, pagine 228-229, morti
140,000. Vedere il luogo, dove le ragioni per cui il calcolo sembra a
lui stesso al di qua del vero--Tadino, p, 136, morti 185,558--Somaglia,
p. 500, morti 180,000--Rivola, p. 584 (a mezzo settembre), morti
122,000--Ms.º Vezzoli, p. 73, morti 122,464--Lampugnani, pag. 67 (la
stessa avvertenza che al Ripamonti), morti 160,000».

In un foglio volante, non però di mano del Manzoni, si legge: «Il
giorno 21 giugno a Milano il sole leva a 4.ʰ 12.', tramonta a 7. 48.
Era uso in Italia incominciare a contare le ore o al preciso tramonto,
o ad una mezz'ora dopo di esso. Nel primo caso le 8 ore italiane
corrispondono a 3. 48 della mattina, ossia 24 minuti prima del levare
del sole; che è precisamente all'aurora. Se si contino le 24.ʰ mezz'ora
dopo il tramonto, lo che è il 2º caso, le 8 ore corrispondono a 4. 18
dell'orologio francese, perciò 6 minuti prima del levar del sole. In
Milano si contava dunque le 24 al preciso tramonto». (Ed.)]

I pochi, che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra
popolazione come una razza privilegiata. Una grandissima parte della
gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto
il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva
col tocco esser cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi
erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta
ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a
fuggire, e con tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante
precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto. I pochi
risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano
senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui
cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro: erano
come i cavalieri dell'undecimo secolo, coperti d'elmo, di visiera,
di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella
destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco,
una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno, agile
all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani
a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per
offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto
delle membra non atto ad altro che a toccar percosse. L'immunità del
pericolo ispira il sentimento e dà il contegno del coraggio; è la parte
meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è
sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo sicuro,
che in origine vale fuor di pericolo, fu traslato a significare anche
ardito. Con questa baldezza, temperata però dalle inquietudini che noi
sappiamo e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un
bel mattino d'estate, per coste amene, donde ad ogni tratto si scopre
un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il
fresco e spezzato luccicare della rugiada, all'aria frizzante dell'alba
e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte.
Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora,
del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo:
erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da
qualche cadavere, che era portato alla fossa senza accompagnamento,
senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti, che erravano,
infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria
aperta, birboni che agguantavano dove fosse da spogliare impunemente.
Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi; sul
mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si
rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più
infocate, riprese la sua strada; cominciò a riveder luoghi noti, misti
alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto
scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo ristette un momento,
come sopraffatto dalle rimembranze e dai pensieri dell'avvenire, e
ripreso fiato, procedette, entrò nel paese. L'aspetto era come quello
di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu
ben più forte che egli non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva
attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte
chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare,
lo guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male[135];
ma non fu riconosciuto da esso, che gli piantò in faccia due occhj
insensati, e non fece motto. Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe
risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella era quale
l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e
là, qua e là affumicata, e dentro vuota, ma non già pulita, che vi
rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo
in fretta inorridito, ritirando l'occhio dallo spettacolo e la mente
dai pensieri e dai ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si
incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico,
di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non
ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.

Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa,
dov'era pure la casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si
poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra
aperta e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in
campo nero, una figura immobile, appoggiata ad un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un
vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del
pittore e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro,
per la buona intenzione di ornare qualche solennità. Fermo, che aveva
sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza, lo riconobbe, e
da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue
traversie, sentì rivivere un po' di stizza e volle passar di lungo.
Ma tosto, l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire
una voce umana e conosciuta, così potente in quelle circostanze, la
speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero
nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando
il volto alla finestra, disse:--Oh, signor curato, come sta ella in
questi tempi?--Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era
sembrato di riconoscerlo; ma quando sentì la voce che non gli lasciava
più dubbio--Per amor del cielo! disse, voi qui? Che venite a fare in
queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella
di cattura...?

--Oh via, signor curato, disse Fermo non senza dispetto, mi vuol ella
fare anche la spia?

--Parlo per vostro bene, disse Don Abbondio, che nessuno ci sente.
Chi volete che ci senta. Non vedete che son tutti morti? Che venite a
cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato
finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perchè quando si
tratti di castigar voi e di tormentare me, pover uomo, vi sarà dei vivi
ancora.

--Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?

--Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri
noi! che serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far
giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?

--Ella deve ricordarsi, signor curato, disse Fermo con voce alquanto
risentita, che Lucia ed io... non eramo grilli.

--Oh! disse Don Abbondio, figliuol caro, voi avete sempre avuto il
timor di Dio, spero che non sarete cangiato. Per questo vi parlo con
libertà, da vero padre, perchè vi ho sempre voluto bene. So io quel
che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche
disgrazia--e già, pur troppo, non la schivereste--che crepacuore per
me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la
peste...

--La peste l'ho avuta, disse Fermo, son guarito, e non ho più paura.

--Vedete che avviso vi ha mandato il cielo, per farvi pensare al
sodo... Anch'io l'ho avuta e son qui per miracolo.

--Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?

--Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in
Milano; cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono
tanti.

--Ma noi siam pur vivi, e...

--Per miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam
trarre è di cacciar tutte le bazzecole dalla testa. In Milano,
figliuolo! chi vive in Milano? Questo è un purgatorio, ma quello è
l'inferno. Non vi passasse mai pel capo...

--E Agnese, signor curato?

--Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si
guarda, si guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate
fra piedi, che le fareste dispiacere.

--Sia lodato Dio; ma ella nè mi vuole ajutare, nè vuole che altri
m'ajuti.

--Che dite, figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perchè vi voglio
bene; e perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo... Dio
guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un
impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel
che dico, potreste trovare... chi sa? gente che vuol bene, ma ...
gente che si piglia impegni di proteggere, e poi... sostenere...
cozzare... basta, parlo con tutto il rispetto... ma, Dio solo è da
per tutto... Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno...
si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perchè la riordini
... e chi ne va col capo rotto è il curato... Fate a modo mio, tornate
dove siete stato finora.

--Basta, disse Fermo, non mi aspettava da lei più soccorso di quello
che mi abbia avuto. Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi
che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a
modo mio.

--No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete
in imbroglio me e voi. Abbiate compassione d'un pover uomo, che ha
bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la godesse. Quello
che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno. Ne ho passate
d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e
m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli occhi. Ho dovuto
fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come
selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono stato... e ho
dovuto... e basta... sono stato ricoverato da un degno signore...
basta so io quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere
agli appestati... e ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho
presa anch'io, e son qui vittima della mia carità; d'allora in poi non
son più quello. Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj;
e mi tocca servirmi da me, povero, vecchio e malandato, come sono.
Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi
travagli...

--Signor curato, disse Fermo, io le desidero ogni bene; e del travaglio
ella ne può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia. La spia
ella non me la vorrà fare; del resto, io mi rimetto nelle mani di Dio.
Attenda a guarir bene, signor curato.

--Sentite, sentite,--continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta
una riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di
Lucia.

--Oh povero me! questo ci mancava! continuò a barbottare fra sè Don
Abbondio, ritirandosi dalla finestra. Povero me! Se costui va a Milano,
se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato
l'imbroglio. Un Cardinale che dirà: voglio che si faccia il matrimonio;
un signore che dice, non voglio: ed io tra l'incudine e il martello.
Basta... disse poi soffiando, dopo d'avere alquanto pensato... muore
tanta gente... che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si
divertono a mettere le pulci nell'orecchio di me pover uomo!

Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il
lettore se ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria. Alla vista
di quel luogo una nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli
un gran sospiro, e bussò.

--Chi è là? gridò da dentro la voce d'Agnese: state lontano; non
bazzicate intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra.--Son io,
rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta, aveva
fatte in fretta le scale e apriva la finestra.--Son io; mi conoscete?
disse ancor Fermo, quando la vide.--Oh Madonna santissima! sclamò
Agnese: voi?--Io, rispose Fermo; sono il benvenuto?

--Oh figliuolo! sclamò di nuovo Agnese, quanto vi avrei desiderato, se
non avessi avuto paura per voi? Ma ora che venite voi a fare?

--A saper nuove di Lucia e di voi, rispose Fermo. A vedere se tutti si
sono scordati di me. Che n'è di Lucia?

--Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella
stava bene di salute; ma ora chi può sapere...?

--Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia, disse Fermo
risolutamente.

--Voi? disse Agnese: ma e... mi capite. Basta...

--Volete aprirmi e parleremo più liberamente?

--E la peste, figliuolo?

--Grazie al cielo ella non ha ammazzato me ed io ho ammazzato lei, e
son sano e salvo, come mi vedete. Aprite con sicurezza.

--Scendo ad aprire, rispose Agnese; oh con quanta consolazione v'avrei
riveduto. Ma ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano.

--Come vorrete, rispose Fermo.

--State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi
affacciate alla porta; lasciatemi rientrare; poi entrerete e vi porrete
in un angolo, lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno
bisogno di toccarsi. Oh quante cose ho da dirvi!

--Ed io a voi, rispose Fermo.

Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo
che stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo
entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si pose a
sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in
quel luogo, e sospirando; Agnese andò a richiuder la porta e venne
a sedersi nell'angolo opposto. E subito cominciò come una sfida
d'inchieste.

--Come vi siete fidato di venir da queste parti?

--Perchè Lucia non mi ha mai risposto?

--Come avete potuto fuggire?

--E perchè non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi
denari?

--Chi v'ha strascinato in quei garbugli?

--Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata
propriamente la cosa?

Fatte le prime interrogazioni più pressanti, ognuno cominciò a
rispondere brevemente a quelle del compagno. Fermo finalmente pregò
Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo
di soddisfarla egli poi della propria. Così Fermo conobbe per la prima
volta daddovero le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato.
Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto; ora diede dei
pugni all'aria ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento;
maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni e
benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il
perdono del cielo sopra Don Rodrigo. Ma un punto rimaneva tuttavia
oscuro, nè Agnese sapeva dilucidarlo. Perchè non è venuta con me? con
me, suo promesso? con me, che doveva, che poteva divenir suo marito?
che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che i denari, e il cielo
gli aveva mandati. Agnese non seppe dire, se non ciò ch'ella aveva pur
pensato: che Lucia fosse rimasta tanto stordita e sgomentata da quegli
orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da voler nulla, e
fosse disgustata d'ogni cosa.

--Oh? andrò io a saperlo da lei, disse Fermo; voglio vedere l'acqua
chiara. Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per
demeritarla; e se non mi vuoi più... e qui avrebbe pianto se gli
uomini non si vergognassero di piangere: se non mi vuoi più, me lo ha a
dire di sua propria bocca, e mi deve dire il perchè.

Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo
le narrò sinceramente. Questa storia fece molto piacere ad Agnese e le
rimise Fermo nell'antico buon concetto.--Voleva ben dire io; sclamava
essa di tratto in tratto. Se sapeste come la raccontavano qui, in cento
maniere, l'una peggio dell'altra. Ma voi non me l'avete mai fatta
scrivere ben chiara.

--E voi, madonna, disse Fermo, non mi avete mai data soddisfazione
sopra quello che io voleva sapere.

--Basta, disse Agnese, lodato Dio che abbiam potuto parlarci una
volta; valgon più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti
gli scarabocchj di questi sapienti. Ma voi come vi fidate di andare a
Milano, dove vi hanno tanto cercato, dove...?

--Chi mi conoscerà! rispose Fermo, non m'hanno visto che un momento; e
il nome... ne piglierò un altro; non ci vuoi gran lettera per questo;
e poi chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste. Sono
tutti in confusione. Muojono come le mosche, a quel che si dice... Ah!
pur che viva Lucia!

--Dio lo voglia! sclamò Agnese; e lo vorrà, io spero. Quella poveretta
innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per
salvarla ora, Ah! Fermo io ho buona speranza; andate pure; mi sento
tutta riconfortata dall'avervi veduto. Sento una voce che mi dice che i
guai sono alla fine; e che passeremo ancora insieme dei buoni momenti.

Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non li seppe dir altro se
non ch'egli era a Palermo, che è un sito lontano lontano, di là dal
mare. Scontento, e perchè sperava da lui ajuto e consiglio, e perchè
desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perchè avrebbe
riveduto volentieri quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione
e tanta riconoscenza. Disse però: brav'uomo! vero religioso! è
meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli. Agnese
offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni
sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di
non avvicinarsi a quell'altro luogo. Fermo accettò l'ospitalità ben
volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava. Era venuta
l'ora della cena, e la massaja si diede ad ammanirla. Pose al fuoco la
pentola per cucinarvi la polenta. Fermo, da giovane ben educato, voleva
risparmiare la fatica alla donna e fare egli il lavoro: ma Agnese,
levando la mano: guardatevi bene dal toccar nulla, disse; lasciate fare
a me. Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la
rimenava dicendo: Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che
la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona
compagnia. Fermo sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando
sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la
vacca» tornò con una brocca di latte, dicendo: vedete: quella povera
bestia da sei mesi è la mia unica compagnia. Prese un bel pezzo di
polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più
lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno
alla persona, perchè non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi, allo
stesso modo, gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena
si parlò dei disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome
dei padroni di Lucia; gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva
sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia
qualche ora dopo la cena. Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza
dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia. Fermo amò meglio di
andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione
per la salute. Prima dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a
Fermo due pani e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì
di vino il fiaschette ch'egli aveva portato con sè, dicendo: in questi
tempi potreste morir di fame prima di trovare chi vi desse da mangiare.
Il congedo fu quale ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di
accoramento e di speranza. Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno,
e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe
trovato più facilmente un ricovero al di fuori. Ristette di fatti in
una cascina deserta, a un miglio dalla città. Dormì su le stoppie, e
all'alba, levatosi, si avviò e fece la sua seconda entrata in Milano,
che gli comparve di un aspetto più tristo e più strano d'assai che non
era stato la prima volta[136].



XXII.

FERMO TROVA LUCIA NEL LAZZERETTO.


All'intorno del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di
capanne, e Fermo, giungendovi, lo vide occupato da una folla, distinta
in ragazzi, in donne e in uomini, tutti composti e in gran silenzio,
fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria, che
veniva dal tempio. Questo, elevato d'alcuni gradi al di sopra del
suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne, disposte in
circolo; nel mezzo v'era un altare, che si poteva vedere da tutti i
punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi
sono murati. Ritto sulla predella dell'altare stava un cappuccino,
alto della persona, fra la virilità e la vecchiezza; teneva con la
destra una croce, posata al suolo, che gli sopravvanzava il capo di
tutto il traverso; e con l'altra mano accompagnava di gesti il discorso
che andava facendo. Era questi il Padre Felice, sopraintendente del
lazzeretto. Fermo, giunto sull'orlo di quella adunanza, avrebbe voluto
avanzarsi a trascorrerla e cercare ciò che gli stava a cuore; ma, senza
contare un altro cappuccino che, con un aspetto tanto severo, anzi
burbero, quanto quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in mezzo
alla brigata per tener l'ordine; quella quiete generale, quell'attento
silenzio e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro
ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio
e irriverenza. Stette egli dunque alla estremità della brigata ad
aspettare e udì la perorazione di quel singolare oratore.

Diamo adunque, diceva egli, un ultimo sguardo a questo luogo di miserie
e di misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono
stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanti pochi al
paragone, siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce
da lodarne Iddio. L'anima nostra ha guadato il torrente; l'anima nostra
ha guadate le acque soverchiatrici: benedetto il Signore! Benedetto
nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte,
benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch'Egli ha fatto
di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio! Ah possa essere
questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta, da
questo momento, esserne un indizio manifesto! Attraversando questo
mare di guaj, diamo uno sguardo di pietà e di conforto a quegli
che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, oh quanto
pochi, potranno, come noi, afferrare un porto terreno. Ci vedano
uscirne rendendo grazie per noi ed elevando preghiere per essi!
Attraversando la città, già sì popolosa, noi, scarsa restituzione
dell'immenso tributo ch'essa mandò in questo luogo, mostriamo agli
scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì, ma rigenerato. Procediamo
con la compunzione nel volto e coi cantici su le labbra. Quegli che
son ritornati nella pienezza dell'antico vigore porgano un braccio
soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani
sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute
ritornata non apporta che pochi giorni di stento. E se in questo
soggiorno di prova, in questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam
peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se abbiamo sciupati
i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità;
ebbene! non abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono;
ricorriamo ad esso di nuovo. Per me...

E qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una
corda, che gli stava ai piedi, se l'avvinghiò al collo, come ad un
malfattore, cadde ginocchioni e proseguì:

Per me e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli,
siamo stati per una ineffabile degnazione trascelti all'alto privilegio
di servir Cristo in voi; se, come pur troppo, non abbiamo degnamente
corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto
un sì grande ministero... perdonateci! Se la fiacchezza o la
ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri bisogni, alle
vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza, se una noja
colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto
severo e fastidito, perdonateci! se la corruttela d'Adamo ci ha fatto
trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza e
di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine
che delle sue proprie colpe!

Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che
l'umile e cordiale suo prego era accetto ed esaudito. Un singhiozzo,
un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a rispondere.
Dopo qualche momento il frate s'alzò, prese la croce ad ambe le mani
e l'inalberò; scese dalla predella e quivi depose i sandali; gridò
ad alta voce: andiamo in pace; poi intonò il _Miserere_; e scalzo,
portando dinanzi a sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni
del tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto
che sbocca dinanzi alla mura della città, e s'incamminò verso quella.
Dietro lui s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che
potevano reggersi e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune
delle quali tenevan per mano o nelle braccia fanciulline, o bambini,
e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli
uomini, pur cantando; poi carri di convalescenti e delle bagagli e
di quei che partivano; quelle che in tanta confusione s'eran potuto
serbare e raccogliere. Ultimo veniva quell'altro cappuccino che abbiamo
menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con
gli occhi e con la voce teneva in sesto il convoglio. Era questi un
Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole, e come il
primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.

Fermo, tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che
parte s'avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi
innanzi, senza dare nè ricever disturbo, e sboccar poi di nuovo su la
strada per dove la processione doveva passare. Dalla porta meridionale
al tempio v'era infatti come una strada, uno spazio che s'era lasciato
sgombro di capanne per dar passaggio ai carri degli infermi, che per lo
più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano
a dritta e a sinistra, come si poteva. Fermo riuscì su quella, al mezzo
incirca, e vide venire il vecchio crocifero, lo vide passare, vide
passare i ragazzi e poi con un gran battito di cuore esaminò le donne,
che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perchè elle procedevano
a due a due. Passa, passa; guarda, guarda; qui non v'è, qui nè pure:
più che la metà è passata; poche ne rimangono; compajono le ultime
della fila femminile; ecco gli uomini; Lucia non v'era. Quanta speranza
svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i
primi erano carichi di donne. Stette dunque aspettando; lasciò passare
la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri. Passavano
lentamente, si arrestavano talvolta, come accade nelle processioni
e nelle marce d'ogni genere, di modo che Fermo potè aver la trista
certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla sua vista, e che
Lucia non v'era. Le braccia gli caddero quando si vide finire in mano
l'unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze. Anche prima
di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli sentiva
pur troppo quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei
tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati:
ma pure, come si suole, egli metteva il suo desiderio sul guscio della
speranza e faceva traboccare le bilance da quella parte. Ma ora egli
credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, nè tra i
convalescenti: la contingenza più lieta per lui, l'unica sua speranza
(quale speranza!) era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma viva.
Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise,
senza troppo pensare dove anelasse, su quella via rimasta sgombra, e
le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio. Quivi gli vennero alla
mente le parole del buon frate Cristoforo: Se non ve la scorgi, fa
cuore tuttavia... Cercala con rassegnazione[137]. Si prostrò su gli
scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o, per dir meglio, un
viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni,
di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non
si fanno agli uomini, perchè non hanno abbastanza penetrazione per
intenderli, nè sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi
per sentirne compassione senza disprezzo. Si levò di là più rincorato
e si avviò. Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale, a
cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro
di capanne, e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perchè
ivi facevano capo e giravano i carri che portavano alla fossa di San
Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto. Fermo
scelse quella via come la meno impedita e la più breve, e studiando
il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo
frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla
porta. Ma quivi un accorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi
che uscivano, faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo,
anzichè affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare
tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato. Le capanne in quel
luogo eran tutte abitate da donne, ed egli procedeva lentamente d'una
in altra, guardando. Or, mentre passando, come per un vicolo, tra due
di queste, l'una delle quali aveva l'apertura sul suo passaggio, e
l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima,
sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa,
sentì venire una voce... una voce, giusto cielo! che egli avrebbe
distinta in un coro di cento cantanti, e che, con una modulazione di
tenerezza e di confidenza, ignota ancora al suo orecchio, articolava
parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che
certamente non gli erano mai state proferite: Non dubitate; son qui
tutta per voi; non vi abbandonerò mai.

Se Fermo non mise uno strido, non fu perchè lo rattenesse il riguardo
di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso,
o cacciato; fu perchè gli mancò la voce. Le ginocchia gli tremarono
sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più
quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da
farsi, o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più concitato di
prima. In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna
inclinata sur un letto, che andava assestando.

Lucia! chiamò Fermo, con gran forza e sottovoce ad un tempo: Lucia!

Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare,
si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: Oh Signore
benedetto! Fermo rimase su la porta, tacito e ansante, e Lucia pure,
dopo quel grido, stette immota in silenzio più tempo che non bisogni
a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo
lasciata.

Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un
certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede. Ma, allo
spiegarsi della peste, questa signora, messe da un canto tutte le
altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma
anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe
più che un pensiero, dì guardarsi dal pericolo comune. Pensò ella
che per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e,
per allora, volle assicurar questa. Quanto al prossimo, non pensò
più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non li
comunicasse la pestilenza. Don Ferrante, invece, persuaso che tutte le
precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che là congiunzione
di Saturno con Giove non fosse avvenuta, nè stornare le conseguenze di
un avvenimento dì quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito
di vita, e contrasse la pestilenza, che[138] in un giorno lo spicciò.
Donna Prassede[139] s'era ritirata con la signora Ghita nella stanza
più remota della casa; Prospero, che alla morte di Don Ferrante era
certo di dovere andare a spasso, pensava a farsi un po' di fardello;
il resto della famiglia seguiva il suo esempio; e il povero astrologo
sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di
prestargli qualche servigio. Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì,
Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come insensata, e cadde senza
forze: Donna Prassede ordinò tosto che[140] ella fosse portata nella
via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto.
Così fu fatto, e così avvenne. Lucia, deposta in quella capannuccia,
stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender cibo, nè rimedi,
lottando il vigore della natura con la violenza del male, e non riprese
l'uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato. Ma quale
risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di guai,
senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare!
Pure in quel tempo, come in tutte le grandi calamità, la vista o il
racconto e l'aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto
anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione
della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata
addosso a Lucia, la fecero avvezzare ben tosto alla sua situazione;
la fiducia in Dio gliela raddolcì. La capannuccia non capiva che due
letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di
compagnia. Finalmente, quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu
portata una donna, che era moglie, anzi vedova d'un ricco mercante di
stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato
via. Questa, rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal
morbo, aveva chiamato un commissario della Sanità, che conosceva per
sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo,
e gli aveva raccomandata sè e la sua casa. Egli la fece chiudere e
sigillare, promise di vegliarla, e fece portare la donna al lazzeretto,
con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze.
Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia, e, come
è facile ad intendersi, tra quella che prestava sì pietosi servigj, e
quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue, s'era formata
una strettissima amicizia.

La vedova, prima di venire al lazzeretto, aveva nascosta nella sua
casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie,
protette dal sigillo pubblico, e ancor più dalla indifferenza dei
monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile smercio.
Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di
tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia, ringraziando Dio che le
aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo
aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver
notizie di sua madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile.
Ciò ch'ella aveva promesso alla sua compagna era dì non abbandonarla
finch'ella non potesse uscire dal lazzeretto; e perciò Lucia non s'era
unita ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del
Padre Felice. Ma la buona vedova, avvezza a quella dolce compagnia,
e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione,
esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore e si faceva rinnovare
da Lucia la promessa in cui trovava la quiete dell'animo suo. E per
dissipare appunto una di queste dubitanze, Lucia aveva dette le soavi
parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite.

Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era
rivolto su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e
fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva.

--Ah! siete viva e v'ho trovata! diss'egli, quando potè ricuperar la
parola; ed entrò nella capanna.

--Voi! sclamò Lucia.

--Son venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata! rispose Fermo.

--E la peste?

--L'ho avuta.

--Ah! fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un:
me ne rallegro infinitamente.

--Ma come... qui?

--Son venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m'hanno detto
ch'eravate qui; ci son venuto.

--Oh Signore! disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi
al cielo, e con una voce che i singhiozzi stavano per interrompere.
Poi, come entrata di repente in un altro pensiero, chiese ansiosamente:
Sapete qualche cosa di mia madre?

--L'ho veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere... era tutta
in pensiero per voi, e sospira di vedervi.

Lucia rispose con un altro respiro di consolazione.

Fermo continuò:--Sospira di vedervi, e crede... tiene per sicuro...
Ma voi,... voi mi parete stupita... ch'io sia venuto a cercarvi.
Io... son sempre lo stesso... non vi ricordate...? che è avvenuto,
Lucia?

--Tante cose! rispose ella sospirando.

--Ecco! disse Fermo: sa il cielo che cosa v'avranno detto di me!

--Che importa, rispose Lucia, quel che dica la gente?

--Dunque...

--Dunque... io credeva... che dopo tanto tempo... dopo tanti
guai... non avreste più pensato a me.

--L'avete creduto? e me lo dite? quando son qui...

--L'ho creduto, disse Lucia, troncando in fretta le parole appassionate
di Fermo, l'ho creduto, perchè sarebbe stato meglio... è meglio.

Lucia aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo, non senza
fatica, queste parole, chinò anche la testa e la tenne appoggiata sul
petto, come per riposarsi d'un grande sforzo.

--È meglio! disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e
guardando fiso nel volto di Lucia, per trovarvi la spiegazione di
quelle tronche ed oscure parole. È meglio! che cosa, v'ho fatto io?
è colpa mia se... Non sono io quello a cui avete promesso? Che vi
mancava perchè foste mia? un momento... e... ma gli ho perdonato. Non
siete voi più quella...? Dopo tanto sperare! dopo tanto pensare a voi!
dopo... Parlate chiaro; dite che non mi volete più; dite il perchè;
non mi fate...

--Fermo, disse con voce più riposata e solenne Lucia, che, mentre egli
parlava, aveva cercato di raccogliere tutte le sue forze.--Fermo,
ascoltatemi tranquillamente: pensate dove siamo: vedete questa buona
creatura che ha bisogno di quiete: ascoltatemi. Io non sarò mai di
nessuno... e non posso più esser vostra.

--No, non l'avete detta voi questa parola, rispose Fermo; no, che non
l'ascolto: che ho fatto io? perchè? chi ve l'ha detto? chi è entrato
tra voi e me? chi c'è entrato? voglio saperlo.

--Zitto, zitto, non andate avanti, per amor del cielo, disse Lucia.
Quando lo saprete, se siete ancora quello di prima, se temete Dio come
una volta, non direte così.

--Parlate, per amor del cielo!

--Sapete voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che
pericoli?

--Lo so, lo so, e... gli ho perdonato.

--Ora, sappiate quello che nessuno, nè pure mia madre, ha udito finora
dalla mia bocca. In una notte... Vergine santissima! qual notte!...
lontana da ogni soccorso... senza speranza di liberazione... sola
... io sola, in mezzo... all'inferno, ho guardato in su, ho domandato
l'ajuto di quel solo che può fare i miracoli... ho domandato un
miracolo, e ho dovuto fare una promessa... mi son votata alla Madonna
che se, per sua intercessione, io usciva salva da quel pericolo,
non... sarei mai stata sposa d'un uomo.

--Ahi! che avete fatto! sclamò dolorosamente Fermo: che avete fatto!

--Ho ottenuto il miracolo, riprese Lucia: la Madonna mi ha salvata.

--Bastava pregarla, e vi avrebbe salvata. Che avete fatto! Che avete
fatto! Non dovevate fare un tal voto.

--L'ho fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No,
no, Dio liberi! Egli pure è sempre a tempo a pentirsi d'avermi salvata.
Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi pregherei io?
che promessa potrei fare?

--Lucia, disse Fermo, e se non fosse il voto...? dite; sareste la
stessa per me?

--Uomo senza cuore! rispose Lucia, contenendo le lagrime, quando mi
avreste fatte dire delle parole inutili, delle parole che mi farebbero
male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste voi contento?
Partite, scordatevi di me: non eravamo destinati; ci rivedremo lassù.
Dopo queste parole, le lagrime soverchiarono, e fra i singhiozzi ella
continuò: dite a mia madre ch'io son guarita, che ho trovata questa
buona amica che pensa a me; ditele che spero ch'ella sarà preservata da
questi guai, che Dio provvederà a tutto, e che ci rivedremo. Partite,
per amor del cielo; e non vi ricordate di me che quando pregate il
Signore.

--Lucia, disse Fermo, con tuono riposato e solenne egli pure; noi siamo
due poveri figliuoli senza studio: quel brav'uomo, quel gran religioso,
quel nostro padre, il Padre Cristoforo...

--Ebbene?

--E qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati.

--È qui! disse Lucia: ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo,
sentir la sua voce! È egli sano?

--È in piedi, disse Fermo, ma il suo volto... Dio voglia che sieno
gli anni e le fatiche!

--Voi l'avete veduto! disse Lucia.

--L'ho veduto e gli ho parlato, rispose Fermo: egli mi ha fatto animo a
cercarvi, mi ha fatto promettere che tornerei a rendergli conto delle
mie ricerche. Corro da lui: egli ci ha sempre ajutati; e spero che ci
ajuterà anche in questa occasione.

--Che dite voi? che volete ch'egli faccia? preghiamo Dio che ci
ajuti... che vi ajuti a sopportare. Ditegli che io ho sempre pregato
per lui; che, se può, venga a trovarmi, a consolarmi, e voi...
voi...

Non tornate più qui, per amor del cielo, voleva ella dire, ma non lo
disse[141]. Dopo fatto quel voto Lucia aveva sempre creduto di essersi
legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai che alcuna autorità
potesse annullare un patto col cielo; aveva rispinto come colpevole il
pensiero stesso, e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso
segreto. Ma quando Fermo parlò d'una speranza nel Padre Cristoforo,
quella stessa speranza confusa, entrò nel cuore di Lucia; le balenò
nella mente un: chi sa? intravide come non impossibile che il Padre
Cristoforo potrebbe trovar qualche mezzo... e in quel dubbio ella
stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: non tornate. Egli partì
senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben tosto, e
s'avviò alla capanna del buon frate.

La vedova, compagna di Lucia, era rimasta con gli occhi sbarrati a
guardare quel personaggio sconosciuto e ad udire quel dialogo, nuovo
per lei; giacchè Lucia, la quale, come si è potuto vedere in altre
parti di questa storia, era molto discreta, non le aveva mai parlato
nè della sua promessa di matrimonio, nè per conseguenza delle vicende
conseguenti. Ma ora non potè scusarsi di fargliene il racconto: e, a
dir vero, la disposizione d'animo di Lucia, in quel momento s'accordava
assai bene con le voglie, curiose e benevole ad un tempo, della vedova.
Quelle memorie, compresse e rispinte per tanto tempo, s'erano ora
presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all'animo di Lucia,
che il parlarne diveniva per lei quasi uno sforzo necessario. Dopo aver
dunque risposto alla meglio ai rimproveri che la vedova le fece dì
un tanto segreto tenuto con lei, cominciò il racconto, che fu spesso
interrotto dai suoi singhiozzi e dalle esclamazioni e dalle inchieste
della ascoltatrice[142].



XXIII.

SCIOGLIMENTO DEL VOTO DI LUCIA E MORTE DI DON RODRIGO.


Fermo intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e
avendolo veduto lì fuori, che, pregando, chiudeva gli occhi ad un
morente, si era ritirato nella capannuccia, senza dar voce, nè far
segno che turbasse quel pio e doloroso uficio. Quando il poveretto
fu spacciato, Fermo si mostrò, e il Padre Cristoforo andò a lui, che
tosto gli raccontò la lietissima scoperta ch'egli aveva fatta di Lucia
viva e sana e quell'altra scoperta che era venuta come a tradimento
a guastargli una tanta consolazione. Benchè egli, in questa parte
del racconto, volesse aver l'aria di chi propone un dubbio superiore
ai suoi lumi, aspettando il giudizio d'un sapiente, pure non lasciò
scappare nessuna occasione di qualificare d'imprudenza e di pazzia quel
voto, che veniva per lui così male a proposito. Così faceva sentire
che, per la parte sua, il giudizio era bell'e fatto; e intanto guardava
attentamente ai volto del Padre Cristoforo, per iscoprire un pensiero,
dal quale avrebbe potuto dipendere la sua sorte. Ma non potendo
leggervi nulla, terminò con una aperta domanda: Che ne dice, Padre?
Il Padre stava pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia
e la speranza di consolarla forse, e il timore di rendersi colpevole,
abbandonando per qualche tempo i suoi infermi. Dopo essere così rimasto
alquanto, pronunziò ad alta voce la conclusione del dibattimento che
era stato tra i suoi pensieri. Ho un dovere con quella creatura,
diss'egli. Dio l'aveva in altri tempi indirizzata a me, ed ora non me
l'ha fatta venir così presso perch'io ricusi di esserle utile. Andiamo.

Lasciò per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore
e si mosse con Fermo.

Questi andava innanzi tacito, facendo la guida per quel triste
labirinto, e dirigendosi al viale per cui era passato la prima volta, e
il frate, pur tacito, gli teneva dietro.

Gli oggetti, che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista,
tenevano occupato l'animo di quella compunzione che non trova parole; e
in quel momento su quel mesto spettacolo pareva che scendesse e pesasse
una mestizia più cupa e più grave dell'ordinario.

Una nuvola comparsa all'occidente aveva a poco a poco coperto tutto
il cielo: e alla oscurità crescente avresti detto che il giorno era
finito, se il sole, lontano ancor forse due ore dal tramonto, non
avesse mostrato, come dietro ad un velo spesso ed immobile, il suo
disco grande e biancastro, donde partivano non vivi raggi e diretti, ma
un barlume scialbo e circonfuso, che mandava[143] una caldura morta
e gravosa. L'aria non dava un soffio, non si vedeva muovere una tenda
delle baracche, nè piegar la cima d'un pioppo nelle campagne d'intorno.
Solo si vedeva la rondine, sdrucciolando rapidamente dall'alto,
rasentare con l'ali tese, per un picciol tratto, la superficie ingombra
e confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l'aria
in cerchi veloci e piombar di nuovo. Un'afa faticosa prostrava gli
animi con una oppressione straordinaria. La lotta del morire era più
affannosa; i gemiti dei languenti erano soppressi dall'ambascia; il
movimento delle opere era stanco, rallentato, come sospeso; quella
dubbia luce dava al colore della morte e della infermità un non so che
di più livido; un non so che di più squallido all'abbattimento onde
erano atteggiate le figure dei sani; e su quel luogo di desolazione non
era forse ancor passata un'ora amara al par di questa.

Eppure quegli che sopravvissero rammentarono quell'ora con gioja per
tutta la vita; era la preparazione d'una burrasca, che scoppiò la
notte, e menò poi per due giorni una pioggia continua, dopo la quale
il contagio cessò quasi ad un tratto. Sotto il fascio di quella comune
gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con la fronte bassa
il primo e con l'animo diviso fra lo studio della via, fra l'orrore
delle cose che vedeva e l'ansietà del suo destino futuro; e l'altro
levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta, come per cercare
un più libero respiro, e per secondare con quell'atto una speranza
interna.--È qui, disse Fermo con voce tremante, accennando la capanna;
e v'entrarono, che Lucia, col volto lagrimoso, stava proseguendo il
suo racconto. Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre
Cristoforo balzò dal saccone di paglia, ov'era seduta, e gli si gettò
incontro sulla porta.--Oh Padre!... Signore Iddio! come sta ella?
soggiunse poi tosto, vedendogli i segni della morte in volto.--Come Dio
vuole, mia buona figlia, rispose il frate; e presto spero starò bene
affatto.

--Come?... disse Lucia.

--Come Dio vorrà, riprese egli tosto: Parliamo ora di voi, per cui son
venuto.

--Oh Padre! quanto tempo! quante cose! disse Lucia.

--Quante cose! ripetè il frate. E certo, se fossimo là ai vostri monti,
seduti in su la porta della casetta di quella buona Agnese, mi lascerei
andar volentieri a farne lunghi discorsi. Ma qui il tempo è misurato. E
tosto, trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò: Fermo
mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi.

--È vero, rispose Lucia arrossando.

--Avete voi pensato allora, proseguì il vecchio, che voi avevate un
impegno solenne di matrimonio, e che offerivate alla Vergine una
libertà della quale avevate già disposto? E che riprendevate una
parola già data, senza sapere se quegli che l'aveva ricevuta avrebbe
consentito a restituirvela?

--Ho fatto male? chiese Lucia con sorpresa, e con un rimorso che non
era tutto doloroso.

--Avete voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno? interrogò
di nuovo il frate: avete chiesto consiglio?

--Non ho ardito, rispose Lucia.

--Ed ora, proseguì egli, che vi dice il vostro cuore di quel voto?

--Che vuoi ella che me ne dica? rispose Lucia, arrossando più che mai e
chiudendo quasi del tutto gli occhi, ch'erano già chini a terra.

--Se non lo aveste fatto, lo fareste?

--Se... non fossi in quel pericolo... in un grande pericolo... e poi
se non è permesso... non lo farei.

--Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare
quell'uomo a cui avevate promesso?

--Io credeva... che fosse male il pensarvi... ma poi ch'ella me ne
domanda... oh Padre sì!

Fermo intanto adocchiava ansiosamente verso quell'angolo, e la vedova
anch'essa stava in una tacita aspettazione. Il frate si fece presso
a loro, accennando a Lucia, che lo seguì con gli occhi bassi. Allora
egli, con voce spiegata, le rivolse questa nuova interrogazione:
Credete voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l'autorità di
sciogliere e di legare?

--Lo credo, rispose Lucia.

--Credete voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare,
o rimettere i voti che gli son fatti, interpretando la sua volontà in
questo, come nel perdono dei peccati, e usando una potestà che tiene da
lui?

--Lo credo, rispose ancora Lucia.

--Domandate voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità,
che avete fatto, o inteso di fare alla Madre santissima di Dio?

--Lo domando, rispose Lucia, con una prontezza, alla quale Fermo non
ebbe nulla a desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi, non
essendo stato presente a quell'atto, non rifletta che la solennità
della richiesta, l'aria autorevole di chi l'ha fatta, non lasciavan
luogo a titubamenti leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere
tutta nella sincerità.

--Ed io, disse allora il buon frate con tuono ancor più solenne, prego
umilmente la Vergine, regina di tutti i santi, che abbia sempre per
aggradito il sentimento del vostro divoto e travagliato sacrificio, e
lo offra al suo e nostro Signore; e con l'autorità, che la Chiesa mi
ha affidata, vi sciolgo dal voto, annullando ciò che vi potè essere
d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se ne avete
contratta.

Non parleremo dell'effetto che queste parole produssero nell'animo dei
due giovani: la buona vedova era tutta commossa. Il frate continuò,
rivolto a Lucia: Siate moglie pudica, moglie affettuosa, moglie
contenta dì quella contentezza che conduce all'eterna. Questo Iddio
ha voluto e vuole da voi. Quindi levò le mani verso i due giovani,
come per parlare ad ambedue. Essi caddero ginocchioni ai suoi piedi,
ed egli, tutto assorto, e quasi senza avvedersi di quell'atto, stese
le mani su le loro teste e stette un momento pensoso. Erano nel fondo
della capanna, come chiusi tra quello e il letto della vedova, che
teneva gli occhi fissi su di loro; i giovani inginocchiati con la
fronte bassa, e il frate ritto dinanzi a loro, con le spalle rivoltate
alla porta.

--Figliuoli, disse egli, che ho amati e che amerò sempre, ricordatevi
che se la Chiesa vi assolve da un sagrificio, non lo fa per procurarvi
le consolazioni di questa vita, che deve esser tutta un sagrificio, ma
per mettervi su la via della santificazione. Amatevi, come compagni
di viaggio, col pensiero di avere a lasciarvi, con la speranza di
ritrovarvi ancora e per sempre. Rendete grazie al cielo, che vi ha
condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e passeggiere,
ma coi travagli e fra le miserie, per disporvi ad una gioja raccolta,
temperata e continua. E nei vostri discorsi qualche volta, e sempre
nelle vostre preghiere, ricordatevi...

Queste parole, che rinchiudevano come un presentimento e un tristo
addio, rinnovarono nell'animo di Lucia l'impressione dolorosa che le
aveva prodotta l'aspetto di chi le proferiva. Levò ella gli occhi
quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo; ma
insieme con l'oggetto che cercava il suo sguardo, un altro inaspettato
le se ne offerse su la porta della capanna, alla vista del quale ella
mandò uno strido repentino. Tutti gli occhi si rivolsero a quella parte
donde le era venuta quella subita commozione[144].

Ritto sul mezzo dell'uscio stava un uomo, smorto, rabbuffato i capegli
e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto
mal coperto di avanzi di biancheria, pendenti qua e là a brani e a
filaccica; stava, con la bocca semiaperta, guatando le persone raccolte
nella capanna, con certi occhi, nei quali si dipingeva ad un punto
l'attenzione e la dissensatezza; dal volto traspariva un misto di
furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità
e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non
si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello
sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo
riconobbero gli altri due. Quell'infelice, da una capanna, posta lungo
il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti
quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti
Fermo e poi il Padre Cristoforo, senza esser veduto da loro. Quella
comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico furore e il
desiderio della vendetta, covato per tanto tempo, e insieme un certo
spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare
distintamente con la vista quelle immagini odiose, che le erano come
sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un
tale delirio, s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva
tenuto dietro da lontano a quei due. Ma quando essi, uscendo dalla
via, s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa
ritenere la traccia loro, nè discernere il punto preciso per cui essi
erano entrati in quel labirinto. Entratovi anch'egli da un altro punto,
poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia
dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna,
tanto che s'era trovato a quella in cui, mettendo il capo su la porta,
aveva riveduto in iscorcio quelle figure. Quivi, ristando stupidamente
intento, udì quella voce ben conosciuta, che nei suo castello aveva
intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con
rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una
impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della
malattia. Quella voce lo teneva immobile, a quel modo che altre volte
si credeva che le biscie stessero all'incanto, quando Lucia s'accorse
di lui. Dopo la sorpresa, il primo sentimento di quella poveretta fu
una grande paura: il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo,
bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione. Entrambi si
mossero verso quell'infermo stravolto, per soccorrerlo e per vedere
di tranquillarlo; ma egli, a quelle mosse, preso da un inesprimibile
sgomento, si mise in volta e a gambe verso la strada di mezzo; e, su
per quella, verso la chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin
sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve
corsa egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che, sciolto,
con la cavezza pendente e col capo a terra, rodeva la sua profenda:
il furibondo afferrò la cavezza, balzò su la schiena del cavallo, e
percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con
le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere e poi andare
di tutta carriera. Un romore si levò all'intorno, un grido di piglia,
piglia; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo, ma
questo, spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di
avvicinarglisi, s'innalberava e scappava vie più verso il tempio.

I due, dei quali egli era stato altre volte nemico, tornarono tutti
compresi alla capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.

--Giudizii di Dio! disse il Padre Cristoforo: preghiamo per
quell'infelice. Dopo un momento di silenzio, il pensiero che venne a
tutti fu di concertare insieme quello che era da farsi: e i concerti
furon questi: che Fermo partirebbe tosto, giacchè ivi non v'era
ospitalità da offerirgli, cercherebbe un ricovero per la notte in
qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo paese,
porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo
a disporre la casa dove intendeva di stabilirsi con la moglie e con
la suocera; e tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo paese, dove
dovevano celebrarsi le nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio,
il quale era da sperarsi che, invece di frapporre nuove difficoltà,
sarebbe vergognoso di quelle che aveva frapposte altra volta. Quanto
a Lucia, ella protestò, prima d'ogni cosa, che non si staccherebbe
dalla sua buona compagna, fin che questa non fosse affatto guarita, e
ristabilita nella sua casa. Il Padre la lodò, Fermo non v'ebbe nulla a
ridire, e la vedova, tutta commossa, promise che accompagnerebbe essa
Lucia a casa e la consegnerebbe a sua madre.

--E voglio farle il corredo, aggiunse all'orecchio del Padre, a cui
aveva fatto cenno di avvicinarsi.

--Dio vi benedica, le rispose il buon vecchio.

--E tu, disse poi a Fermo, che stai qui tardando? il tempo, come
vedi, si fa più nero e la notte si avvicina: affrettati di cercare un
ricovero.

Convien dire ancora, ad onore di Fermo, che in quel momento non gli
doleva tanto lo staccarsi da Lucia, appena trovata, è vero, ma ch'egli
contava di riveder presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì
a morire.

--Ci rivedremo, Padre? disse il buon giovane.

--Se Dio vorrà e quando Egli vorrà, rispose il frate, vincendo una
commozione, che andava crescendo. Va', va', che non c'è tempo da
perdere.

Fermo disse, con voce accorata, riverisco, al Padre, che lo benedisse
e gli strinse la mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo:
un arrivederci presto, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in
fretta, partì.

--Vi raccomando l'una all'altra, buone creature, disse il frate, e
fece atto pure di andarsene; ma, nel dare a Lucia uno sguardo di
commiato, vide nell'aspetto di lei, mista alla commozione, una grande
inquietudine; s'avvisò tosto di ciò che poteva esserne la cagione, e
disse: Di che state inquieta?

--Quell'uomo...! disse Lucia.

--Poveretto! rispose il frate, non è più in caso di far paura a
nessuno: non lo vedrete più, siatene certa. Pure, soggiunse dopo
d'aver pensato un momento, per ogni altro evento, sarà meglio ch'io
vi raccomandi a qualcheduno dei nostri. Così detto, uscì, girò un
poco in ronda, finchè trovò un cappuccino, e condottolo alla capanna,
gli mostrò le due donne, e gli disse: Sono due derelitte: vi prego di
averne una cura particolare. Vi lascio con Dio, disse poi alle donne,
e uscì dalla capanna. Lucia lagrimando lo seguiva, egli le imponeva
che tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove
videro una folla di monatti, che accorreva in tumulto, gridando:
aspetta, aspetta, ad altri monatti, che guidavano un carro verso
la porta. Il carro si fermò quasi davanti ai nostri due amici; quei
monatti sopraggiunsero tosto ansanti; e due, che portavano un morto, lo
gittarono sul carro, dicendo un d'essi: mettetelo bene in fondo costui,
che non torni a cavallo, a farci tribolare.

--Che diavolo è stato? disse più d'uno di quei carrettieri.

--Il diavolo, rispose il monatto, l'aveva in corpo costui: è andato su
e giù finch'ebbe fiato; se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma
è crepato egli, e allora, per amore, o per forza, ha dovuto venir giù.

Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia, le disse: ricordatevi
di pregare per questa povera anima, voi e vostro marito, per tutta
la vita, e di far pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede.
Tornate alla vostra compagna. Iddio sia sempre con voi. Dette queste
parole, prese in fretta il viale, per andarsene alla sua stazione;
Lucia, compunta di quella separazione e atterrita dallo spettacolo,
tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna, e Don Rodrigo,
su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva
dal lazzeretto per andarsene alla fossa.



APPENDICI



I.

IL PRINCIPIO DEL ROMANZO NELLA PRIMA MINUTA.


_24 Aprile 1821._

CAP. I.

=Il Curato di=...

Quel ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due
catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver
formati varj seni e per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza,
si viene tutto ad un tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle
onde si cangia in un corso diretto e continuato, di modo che dalla
riva si può, per dir così, segnare il punto dove il lago divien
fiume[145]. Il ponte, che in quel luogo congiunge le due rive, rende
ancor più sensibile all'occhio ed all'orecchio questa trasformazione:
poichè gli argini perpendicolari, che lo fiancheggiano, non lasciano
venir le onde a battere sulle rive, ma le avviano rapide sotto gli
archi; e presso a quegli argini uno può quasi sentire il doppio e
diverso rumore dell'acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli
cavalloni sull'arena, e a pochi passi, tagliata dalle pile di macigno,
scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale. Dalla
parte che guarda a settentrione, e che a quel punto si può chiamare
la riva destra dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato
alla estrema falda del Monte di S. Michele; il quale si bagnerebbe
nel fiume se l'argine non vi fosse frapposto. Ma dall'opposto lato
il ponte è appoggiato al lembo di una riviera che scende verso il
lago con un molle pendìo, sul quale per lungo tratto il passeggero
può quasi credere di scorrere una perfetta pianura. Questa riviera è
manifestamente formata da tre grossi torrenti, i quali, spingendo la
ghiaja, i ciottoli e i massi rotolati dal monte, hanno a poco a poco
spinte le rive avanti nel lago, ed erano abbastanza vicini perchè le
ghiaje gettate da essi a destra e a sinistra abbiano potuto col tempo
toccarsi e formare un terreno sodo. Allora hanno cominciato a correre
in un letto alquanto più regolare, poichè questi stessi depositi hanno
loro servito d'argine, e il successivo loro impicciolimento, cagionato
dall'abbassamento dei monti, dal diboscamento, e dalla dispersione
delle acque, gli ha rinchiusi in un letto più angusto. Così il terreno
che li divide ha potuto essere abitato e coltivato dagli uomini. Il
lembo della riviera che viene a morire nel lago è di nuda e grossa
arena presso ai torrenti, e uliginoso negli intervalli, ma appena
appena dove il terreno s'alza al di sopra delle escrescenze del lago e
del traripamento della foce dei torrenti, ivi tutto è prati, campagne
e vigneti, e questo tratto d'ineguale lunghezza è in alcuni luoghi
forse d'un miglio. Dove il pendìo diventa più ripido son più frequenti,
e assai più lo erano per lo passato, gli ulivi; al di sopra di questi
e sulle falde antiche dei monti cominciano le selve di castagni, e al
di sopra di queste sorgono le ultime creste dei monti, in parte nudo
e bruno macigno, in parte rivestite di pascoli verdissimi, in parte
coperte di carpini, di faggi e di qualche abete. Fra questi alberi
crescono pure varie specie di sorbi e di dafani, il cameceraso, il
rododendro ferrugigno ed altre piante montane, le quali rallegrano e
sorprendono il cittadino dilettante di giardini, che per la prima volta
le vede in quei boschi, e che non avendole incontrate che negli orti
e nei giardini, è avvezzo a considerarle colla fantasia come quasi
un prodotto della coltura artificiale piuttosto che una spontanea
creazione della natura. Dove poi la mano dell'uomo ha potuto portare
una più fruttifera coltivazione, fino presso alle vette non ha lasciato
di farlo, e si vedono di tratto in tratto dei piccioli vigneti posti
su un rapido pendìo e che terminano col nudo sasso del comignolo. La
riviera è tutta sparsa di case e di villaggi: altri alla riva del lago,
anzi nel lago stesso quando le sue acque s'innalzano per le pioggie,
altri sui varj punti del pendìo, fino al punto dove la montagna è nuda,
perpendicolare ed inabitabile. Lecco è la principale di queste terre
e dà il nome alla riviera: un grosso borgo a questi tempi e che altre
volte aveva l'onore di essere un discretamente forte castello; onore al
quale andava unito il piacere di avervi una stabile guarnigione ed un
comandante, che all'epoca in cui accade la storia che siamo per narrare
era spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre, dalle montagne
al lago, da una montagna all'altra corrono molte stradicciuole, ora
erte, ora dolcemente pendenti, ora piane, chiuse per lo più da muri
fatti di grossi ciottoloni e coperti qua e là di antiche edere, le
quali dopo aver colle barbe divorato il cemento, ficcano le barbe
stesse fra un sasso e l'altro e servono esse di cemento al muro, che
tutto nascondono. Di tempo in tempo invece di muri passano le anguste
strade fra siepi, nelle quali al pruno e al biancospino s'intreccia di
tratto in tratto il melagrano, il gelsomino, il lilac e il filadelfo.
Una di queste strade percorre tutta la riviera, ora abbassandosi, ora
tirando più verso il monte, ora in mezzo le vigne, ed ora sulla linea
che divide i colti dalle selve. Questa strada è talvolta seppellita fra
due muri che superano la testa del passeggero, dimodochè egli non vede
altro che il cielo e le vette dei monti: ma spesso lascia un libero
campo alla vista, la quale quasi ad ogni passo scopre nuovi, ampii
e bellissimi prospetti. Poichè guardando verso settentrione tu vedi
il lago chiuso nei monti che sporgono innanzi e rientrano e formano
ad ogni tratto seni o ameni o tetri, finchè la vista si perde in uno
sfondo azzurro di acque e di montagne; verso mezzogiorno vedi l'Adda,
che, appena uscita dagli archi del ponte, torna a pigliar figura di
lago, e poi si ristringe ancora e scorre come fiume, dove il letto è
occupato da banchi di sabbia portati da torrenti, che formano come
tanti istmi: dimodochè l'acqua si vede prolungarsi fino all'orizzonte
come una larga e lucida spira. Sul capo hai i massi nudi e giganteschi
e le foreste, e guardando sotto di te e in faccia, vedi il lungo
pendìo, distinto dalle varie colture, che sembrano striscie di varj
verdi, il ponte ed un breve tratto di fiume fra due larghi e limpidi
stagni, e poscia, risalendo collo sguardo, lo arresti sul Monte Barro,
che ti sorge in faccia e chiude il lago dall'altra parte. Ma non
termina quel monte la vista da ogni parte, poichè di promontorio in
promontorio declina fino ad una valle che lo separa dal monte vicino;
e come in alcune parti la stradetta si eleva al di sopra del livello
di questa valle, da quei punti il tuo occhio segue tra i due monti
che hai in prospetto un'apertura, che dalla valle ti lascia travedere
qualche parte dell'amenissimo piano che è posto al mezzogiorno del
Monte Barro. La giacitura della riviera, i contorni e le viste lontane
tutto concorrono a renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli
del mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia e della
puerizia e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi
che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono
associate le memorie di quegli anni[146]. [_Alla estremità del ramo_]
[_Sulla riva meridionale del ramo del_ [_Lario_] _Lario che_] Quel ramo
del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene non
interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati
varj seni e per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si
[_ristringe alla fine_] [_viene alla fine a ristringer per tal modo
che_] [_ristringe_] viene tutto ad un tratto a ristringere [_per tal
modo, e_ [_ri_] _avvicina le sue_ [_ri_] _due riviere a segno che
si può_ [_dire_] _fissare che a quel punto il lago cessi e il fiume
cominci_ [.] [_si può manifesta_] _e a cambiare l'ondeggiamento_] ivi
il fluttuamento [_vario_] delle onde si cangia in un corso [_diretto
e seguito che_] diretto e continuato di modo che [_si può_] dalla
riva si può per dir così segnare il punto dove il lago divien fiume.
Il ponte che in quel luogo congiunge le due rive, [_e che aumenta il
corso_ [_dell'acqua_] _e il rumore fluviale dell'acqua_ [_dell'acqua_]
_e le dà_ [_per così_] _un rumore per così dire fluviale_ [_compisce
all'occhio_] [_rendono_] _rende ancor più sensibile all'occhio questa
trasformazione_]». A questo punto si legge in margine: «[_gli argini_
[_che non lasciano batter_] _perpendicolari che non lasciano venir le
onde a battere sulla riva ma le costringono in un letto, e le fanno
correre sotto gli archi con uno strepito per così dire assolutamente
fluviale_]». Quindi prosegue nella colonna: «[_rendono_] [_rende ancor
più sensibile all'occhio ed alla fantasia_ [_ed all_] _questa subita
trasformazione_:] rende ancor più sensibile all'occhio ed all'orecchio
questa trasformazione: [_poichè gli argini_ [_non lasciano_]
_perpendicolari che lo fiancheggiano non_ [_perm_] _lasciano_]
[_poichè cessano le rive_] [_poichè gli argini perpendicolari che
lo fiancheggiano non lasciano ven_] [_poichè ivi cessano le rive_]
[_poichè gli argini perpendicolari che lo fiancheggiano non lasciano_]
[_poichè invece di batter sovra_] poichè gli argini perpendicolari che
lo fiancheggiano non lasciano venir le onde a battere sulla riva ma le
avviano rapide sotto gli archi; [_e l'uo_] [_e chi_] [_e l'uomo seduto
presso_] [_e stando presso gli argini_] [_e dove_] e presso a quegli
argini uno può quasi sentire il doppio e diverso rumore dell'acqua,
[_e dove ella_] la quale qui viene a rompersi in [onde sull] piccioli
cavalloni sull'arena, e [_dove scorre travolta dai_] a pochi passi
tagliata dalle pile di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito
per così dire fluviale». (Ed.)]

Su questa stradetta veniva lentamente, dicendo l'ufizio ed avviandosi
verso casa, una bella sera di autunno dell'anno 1628, il curato di una
di quelle terre che abbiamo accennate di sopra[147].



II.

IL PRINCIPIO DEL ROMANZO NELLA SECONDA MINUTA.


=Gli Sposi promessi.=



CAP. I.


Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, chiuso e come
guidato da due catene non interrotte di monti, stendendosi in seni e
golfi d'ineguale grandezza, a seconda dello sporgere e del rientrare
di quelli, viene quasi tutto ad un tratto a ristringersi e a prender
corso ed aspetto di fiume tra una montagna ed un'ampia riviera,
formata lentamente dal deposito di tre grossi e vicini torrenti. Il
lungo ponte, che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor più
sensibile all'occhio questa trasformazione, e par che divida il lago
dall'Adda. A diritta, la testa del ponte posa su le radici del monte
Sanmichele; l'altra è piantata nel lembo della riviera, che scende
con lento pendìo, appoggiata alle falde della montagna nominata _il
Resegone_ dai molti suoi comignoli acuti e separati a guisa d'una
sega. Il lembo estremo, interciso dalle foci dei torrenti, è di
nuda e grossa ghiaja, e ad intervalli uliginoso. Ma dove il terreno
comincia a sollevarsi sopra le escrescenze del lago e il traripamento
dei torrenti, tutto è prati, campi e vigneti, sparsi di ville e di
paesetti; al di sopra, dove l'erta si fa più ripida, e il monte
comincia a separarsi in promontorii e in valli, sono selve di castagni,
di carpini, di faggi, e al di sopra ancora le ultime creste dei monti,
in parte nudo ed eretto macigno, in parte rivestite di verdissimi
pascoli o di foreste, e cosparse di casali e di tugurii. Lecco, la
principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace su
la riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso,
quando egli ingrossa: un borgo considerevole al giorno d'oggi, e che
s'incammina a diventare città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che
siamo per narrare, Lecco era di più un passabilmente forte castello,
e aveva perciò l'onore di alloggiare un comandante, e il vantaggio di
possedere una stabile guarnigione di soldati spagnuoli, che insegnavano
la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di
tempo in tempo qualche marito, qualche padre, qualche fratello, e sul
finire dell'estate non mancavano mai di spandersi nelle vigne per
attaccare qualche grappolo ai tralci, ed aumentare così la vendemmia.

Dall'una all'altra di quelle terre, dalle alture al lago, da una altura
all'altra, giù per le picciole valli interposte, correvano, e corrono
tuttavia molte stradicciuole, ora erte, ora dolcemente inclinate,
or piane, chiuse per lo più da muri composti di grossi ciottoli, e
rivestiti qua e là di antiche edere, che dopo aver divorato colle barbe
il cemento, ne fanno le veci, e tengono legato il muro, che fanno
verdeggiare. Per qualche tratto quelle stradicciuole sono affondate
e come sepolte fra i muri, di modo che il passeggiero, levando il
guardo, non vede altro che il cielo e qualche vetta di monte; ad altri
intervalli il muro, che dalla parte più bassa sostiene la strada
a guisa di bastione, non s'innalza sul suolo di quella più che un
parapetto, e quivi la vista del viandante può spaziare per varii ed
amenissimi prospetti. Verso settentrione domina l'azzurro piano del
lago, tagliato da istmi e da promontorii, e su le rive paesetti che
l'onda riflette capovolti; a mezzogiorno l'Adda che appena uscita dagli
archi del ponte si allarga di nuovo in picciolo lago, poi si ristringe,
e serpeggia, e si prolunga fino all'orizzonte in larga e lucida spira:
sul capo del riguardante si mostrano i massi elevati, ineguali delle
montagne, sotto di lui il pendìo coltivato, i paesetti, il ponte, in
faccia la riva opposta del lago, e risalendo per essa il monte che lo
chiude.

Per una di queste stradicciuole tornava lentamente dal passeggio verso
casa, al cadere del giorno 7 di novembre dell'anno 1628, il curato
(questa è la prima reticenza del nostro autore) d'una delle terre
accennate di sopra.



III.

IL PRINCIPIO DEL ROMANZO NELLA COPIA PER LA CENSURA[148].

=Gli Sposi promessi.=



CAP. I.


Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, chiuso e come
guidato da due catene non interrotte di monti, stendendosi in seni e
golfi d'ineguale grandezza, a seconda dello sporgere e del rientrare
di quelli, viene quasi tutto ad un tratto a ristringersi tra una
montagna, ed un'ampia riviera formata lentamente dal deposito di
tre grossi, e vicini torrenti; _e prende quivi corso ed aspetto di
fiume_. Il lungo ponte, che in quel luogo congiunge le due rive, rende
ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione e par che divida
il lago dall'Adda. A diritta, la testa del ponte posa su le radici
del _monte_ Sanmichele; l'altra è piantata nel lembo della riviera
che scende con lento pendìo, appoggiata alle falde della montagna
nominata il Resegone dai molti suoi comignoli acuti e separati, a
guisa _dei denti d_'una sega. Il lembo estremo, interciso dalle foci
dei torrenti, è di nuda e grossa ghiaja e ad intervalli uliginoso. Ma
dove il terreno comincia a sollevarsi _al di_ sopra _delle_ escrescenze
del lago _e del_ traripamento dei torrenti, tutto è prati, campi e
vigneti, sparsi di ville e di paesetti. _Più su_, dove l'erta si fa
più ripida, ed il monte comincia a separarsi in promontorii ed in
valli, sono selve di castagni, di carpini, di faggi. _Più su_ ancora
le ultime creste dei monti, in parte nudo ed eretto macigno, in
parte rivestite di verdissimi pascoli o di foreste, e cosparse di
casali e di tugurii. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà
nome al territorio, giace su la riva del lago, anzi viene in parte a
trovarsi nel lago stesso, quando egli ingrossa: un borgo considerevole
al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventare città. Ai tempi in
cui accaddero i fatti che siamo per narrare, Lecco era di più un
passabilmente forte castello, ed aveva perciò l'onore di alloggiare
un comandante, ed il vantaggio di possedere una stabile guarnigione
di soldati spagnoli, che insegnavano la modestia alle fanciulle ed
alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo qualche marito,
qualche padre, qualche fratello; e sul finire dell'estate non mancavano
mai di spandersi nelle vigne per attaccare qualche grappolo ai tralci,
ed aumentare così la vendemmia. _Dall_'una all'altra di quelle terre,
dalle alture al lago, da una altura all'altra, giù per le picciole
valli interposte, correvano e corrono tuttavia molte stradicciuole,
ora erte, ora dolcemente inclinate, or piane, chiuse per lo più da
muri composti di grossi ciottoli, e rivestiti qua e _là di antiche
edere che divorando colle barbe il cemento, si pongono in suo luogo,
e tengono collegato il muro, che tutto d'esse verdeggia. Per qualche
tratto sono quelle stradicciuole affondate e come sepolte fra i muri,
di modo che il passeggiero, levando il guardo non iscopre altro che il
cielo e qualche vetta di monte_. _Altrove son terrapieni, o giranti
sull'orlo d'una spianata, o sporgenti in fuora dal pendìo come un
lungo scaglione, sostenuti da muraglie che piombano erte al di fuori
a guisa di bastione, ma sul sentiero non sorgono che ad altezza di
parapetto; e quivi la vista_ del viandante può spaziare per varii, ed
amenissimi prospetti. Verso settentrione, domina l'azzurro piano del
lago, tagliato da istmi, e da promontorii, e su le rive paesetti che
l'onda riflette capovolti; a mezzogiorno l'Adda che appena uscita dagli
archi del ponte si allarga di nuovo in piccolo lago, poi si ristringe
e serpeggia e si prolunga fino all'orizzonte in larga e lucida spira:
sul capo del riguardante si mostrano i massi elevati, ineguali delle
montagne: _al di sotto il_ pendìo coltivato, i paesetti, il ponte: in
faccia la riva opposta del lago, e risalendo per essa, il monte che lo
chiude.

Per una di queste stradicciuole tornava lentamente dal passeggio verso
casa, al cadere del giorno 7 di novembre dell'anno 1628, _don Abbondio
*** curato d'una delle terre accennate di sopra_. (_Il nostro autore
non la nomina; ed è questa la sua prima reticenza_).



IV.

LA FINE DEL ROMANZO NELLA PRIMA MINUTA.


Il tempo, che scorse tra le pubblicazioni e le nozze fu impiegato
dagli sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo e pel trasporto
colà del loro modico avere, e Agnese, la quale, come il lettore se
n'è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto,
povera donna, viveva per gli altri e faceva a modo dei suoi figlj,
anche in questo caso si arrabattò per la causa comune: la vedova
anch'essa non lasciava di dare una mano.

Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari
altrui, a prima giunta, che non vegga colui di cui sono gli affari,
dopo avervi molto pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia
volesse abbandonare il luogo natale, la sua casuccia, il suo picciol
fondo, ora che era tolto di mezzo colui che gl'impediva di posarvisi
tranquillamente. Per tre ragioni principalmente.

La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per
quella sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso,
pure un sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere
l'antica querela e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.

La seconda è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si
contano quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a
determinare che molte altre. Ciò che Fermo aveva sofferto e temuto nel
suo paese gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le
angherie d'un soverchiatore, i pericoli della prigione e di peggio, poi
il furore del popolo, che lo cercava a morte. Memorie di questo genere
disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamano, e se quei luoghi sono
la patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perchè gli guardava
prima con fiducia e con affezione. Anche il bambolo riposa volentieri
sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca
con avidità la poppa, che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta
quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa
d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da
quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.

Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste
circostanze gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro
professione; ma nè l'uno, nè l'altro aveva amore all'ozio; e il loro
disegno era di ripigliare tosto il lavoro, per vivere tranquillamente
e onestamente, e per nutrire ed allevare i figliuoli, che speravano,
come tutti gli sposi fanno. Ora, l'industria della seta, come tutte le
altre, era già decaduta spaventosamente nel Milanese, prima di quelle
recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo. Non
è questo il luogo di descrivere quello stato di cose e di toccarne
le cagioni. Già molte, nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità,
appajono anche troppo in questa lunga storia; chi volesse conoscere
le più immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche
del conte P. Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano;
e se vuol conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali da
cui quel valent'uomo ha cavate le sue memorie. Basti a noi il dire
che l'uomo, il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava
nel Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri Stati vicini, si
offerivano esenzioni, privilegii ed altri incoraggiamenti ai lavoratori
che volessero trasportarvisi. Questa differenza fece uscire una folla
di operaj e rivivere in quegli Stati molte manifatture che perirono
nel Milanese, dove avevano fiorito. Differente, per conseguenza, era
anche l'aspetto dei due paesi. In Bergamo (non vogliam dire che fosse
il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i
tristi segni e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre
incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio e
del vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una cert'aria
di allegria, nata, se non dalla abbondanza, almeno dalla sufficienza
dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far bene
trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta. Ma nel
Milanese una cagione viva e incessante di miseria sopravviveva alle
miserie della peste: un sistema che onorava l'orgoglio ozioso, che
favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli
studj del raggiro e delle ciarle, un sistema oppressivo e impotente,
insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva
l'industria, la pace e l'allegria.

Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi erano però impacciati del
come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese
dove erano nati: ma la fortuna--non osiamo dire la provvidenza--la
fortuna, che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia
terminar lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego
anche a questo. I beni di Don Rodrigo erano passati per fedecommesso
ad un parente lontano, il quale era un uomo di ben diverso conio, un
galantuomo, un amico del cardinal Federigo. Prima di anelare a prender
possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale, gliene
parlò.--Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il
male che ha fatto Don Rodrigo, gli disse il Cardinale, e gli raccontò
in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi
e il danno di ogni genere che ne avevan patito. Se son vivi tuttora,
soggiunse, non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa
bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane
ch'io mi ricordo sempre di lei e mi raccomando alle sue orazioni. Il
galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il villaggio
degli sposi e si presentò al curato. Don Abbondio, al vedere il nuovo
padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese,
affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si
può dire quanto ne fosse edificato. E quando quel signore lo richiese
di Fermo e di Lucia e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don
Abbondio non solo si prestò volentieri a secondarle, ma lo fece con una
ispirazione molto felice.

--Signor mio, diss'egli, questa buona gente è risoluta di lasciar
questo paese; e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di
comperare quei pochi fondi che tengono qui. A lei potrà convenire di
aggiungerli ai suoi possessi, e quella gente si troverà fuori d'un
grande impiccio.

Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don
Abbondio se non gli sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi
e insieme a conoscere quella brava gente.

--È un onore immortale, disse Don Abbondio, facendo una gran riverenza;
e andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la
proposta, che fu molto gradita. Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio,
a cui il signore disse all'orecchio che lo stabilisse molto alto. Don
Abbondio così fece: ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per
interrompere i ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel
suo castello pel giorno dopo quello delle nozze.

Quel giorno benedetto venne finalmente; gli sposi promessi furono
marito e moglie; il banchetto fu molto lieto. Il giorno seguente ognuno
può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don
Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale
ed onorevole nel castello che era stato di Don Rodrigo: a render
compiuta la festa mancava il Padre Cristoforo, ma egli era andato a
star meglio. Non possiamo però ommettere una circostanza singolare
di quel convito: il padrone non vi sedè, allegando che il pranzare a
quell'ora non si confaceva al suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh
miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere
a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di
prestar loro i più bassi servigj, in una malattia. Tanto anche a chi
è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere
una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e
chiaro non comandi la vittoria.

Il terzo giorno, la buona vedova, con molte lagrime e con quelle
promesse di rivedersi che si fanno anche quando si ignora se e quando
sì potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia e tornò a Milano: e
gli sposi con la buona Agnese, che tutti e due ora chiamavano mamma,
preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un
po' di crepacuore, ai loro monti, e s'avviarono a Bergamo. Avrebbero
certamente divertito dalla loro strada per fare una visita al Conte
del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste, contratta
nell'assistere ai primi appestati.

La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento col lavoro
e con la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da
portare attorno, e a cui dare dei baci, chiamandolo cattivaccio. Ella
visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella
giovane e per sentir chiamar bella giovane una Agnese, che Lucia
le diede qualche anno dopo il primo figliuolo[149]. Fermo pigliava
sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre:
d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in
piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra. Lucia
però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente
che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa
canzone e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo:
Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i
guaj, e i guaj sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire,
aggiunse ella, soavemente sorridendo, che il mio sproposito sia stato
quello di volerti bene e di promettermi a te. Fermo quella volta
rimase impacciato, e Lucia, pensandovi ancor meglio, conchiuse che le
scappate attirano bensì ordinariamente de' guaj; ma che la condotta la
più cauta, la più innocente non assicura da quelli: e che quando essi
vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce
e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè
trovata da una donnicciuola, ci è sembrata così opportuna, che abbiamo
pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti
che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.

17 settembre 1823.



V.

LA SERVA DI DON ABBONDIO.


Colla compagnia di questi pensieri [_Don Abbondio_] giunse a casa,
chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel
suo salotto, dove la sua serva Vittoria[150] stava parecchiando la
tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili
a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un curato agli
occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano
così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona,
che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia
Vittoria.

--Ma che cosa ha, signor padrone?

--Niente, niente.

Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non
la contò per una risposta, e proseguì:

--Come, niente? Signor padrone, ella ha avuto uno spavento: vuol darmi
ad intendere?...

--Quando dico niente, ripigliò Don Abbondio con impazienza, o è niente,
o è cosa che non posso dire.

Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato
in due botte e risposte, andò sempre più incalzando.--Che non può dire
nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi
rimedierà...

--Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò.

Quando Vittoria intese questo, fu certa che v'era una cosa da sapersi
e che la cosa era grave, e giurò a sè stessa di non lasciare andare a
dormire il curato senza averla saputa.

--Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa ha: vuol ella
ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?

--Si, si, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in
sospetto.

--Ma io non dirò niente, se ella mi toglie da questa inquietudine.

--Non direte niente, come quando siete corsa a ripetere alla serva del
curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e
m'avete messo nel caso di domandargli scusa, come quando...

Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un secreto
da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo
intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don
Abbondio, ma in aria sommessa:

--Oh, per amor del cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben
castigata; non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi
sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...

--Via, via, non giurate.

--Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero
parere da darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma
ella sa, e qui fece una voce da piangere, ella sa che i misterj non li
posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...

In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore,
onde fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti, le narrò il
miserabile caso: mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo
e l'inquietudine del fatto, che non poteva esser lieto, spalancò gli
orecchi e ristette colla posata alzata nel pugno, che tenne puntato
sulla tavola.

--Misericordia! sclamò Vittoria: oh gente senza timor di Dio, oh
prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni
d'inferno!

--Zitto, zitto, a che serve tutto questo?

--Ma come farà, signor padrone?

--Oh! vedete, disse il curato in collera, i bei pareri che mi dà
costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse ella
nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela.

--Sa il cielo se me ne spiace, signor padrone; ma bisogna pensarci.

--Sicuro, e nell'imbroglio son io.

--Pur troppo, disse Vittoria, ma non si lasci spaventare: eh! se
costoro potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio
lascia fare, ma non strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde.

--Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha morso?...

--Lo conosco e so bene che...

--Zitto, zitto, questo non serve.

--Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma intanto non cominci
a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone.

--Ma, se non ho voglia.

--Ma se le farà bene; e, detto questo, si avvicinò al seggiolone
dov'era il curato e lo mosse alquanto, come per dargli la leva: il
curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato
vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in
tempo qualche esclamazione, come: Una bagattella! ad un galantuomo par
mio, ed altre simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare
tranquillamente e ordinatamente sui casi suoi[151].

La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la
debolezza e la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia
doveva quindi essere incitata e ricevere l'incarico di proporre il
partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di
tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà
il dire che il partito di fare quello che si doveva, senza darsi per
inteso della minaccia, non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello
di assentarsi, tanto da aspettare qualche benefizio dal tempo, ma
questo anche fu rigettato, perchè non v'era spazio per eseguirlo.
La celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e
una partenza di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione,
avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci
e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando
intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più debole. Don
Abbondio si preparò a questo esperimento, passò in rassegna tutti i
mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza (in
paragone di Fermo) e la pratica gli davano sopra quel povero giovane,
e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio
appariranno più chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo
non si fece aspettare.

       *       *       *       *       *

L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera,
il tuono continuo di rimbrotto, senza un perchè, quel farsi nuovo del
matrimonio, che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando
mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più
non pensarvi, le insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da
un canto; il complesso insomma delle parole di Don Abbondio presentava
un senso così incoerente e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi
così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi
tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto. Stette Fermo in
forse di ritornare al curato per incalzarlo a parlare, ma, sentendosi
caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin
fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per
portare alla sposa questa triste nuova. Sull'uscio del curato abbattè
in Vittoria, che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse
da essa avrebbe potuto cavar qualche cosa, e, salutatala, entrò in
discorso con lei.

--Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria.

--Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino.

--Ditemi un poco, quale è la vera ragione del signor curato per non
celebrare il matrimonio oggi, come s'era convenuto.

--Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del signor curato?--È inutile
avvertire che Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non
si vuole esser creduto.

--Via, ditemi quel che sapete; ajutate un povero figliuolo.

--Mala cosa nascer povero, il mio Fermino.

Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo;
dirò soltanto che Vittoria, fedele ai suoi giuramenti, non disse nulla
positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri
colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella
sapeva, gli fece tante interrogazioni, e che toccavano talmente il
fatto, noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via anche un uomo
meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli
chiese se non s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente
avesse gettati gli occhi sopra Lucia, etc.; parlò dei rischj che un
curato corre a fare il suo dovere; del timore che uno scellerato
impunito può incutere ad un galantuomo; fece insomma intender tanto,
che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente, per
timore, come si dice, di cantare, si separò da Fermo, raccomandandogli
caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.

--Che volete ch'io taccia, disse Fermo, se non mi avete voluto dir
nulla.

--Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser
testimonio, ma vi raccomando il segreto.--Così dicendo, si mise a
correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata.
Fermo, che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era
ordita contro di lui, e che il curato la sapeva, non potè più tenersi,
e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire prima di
sapere i fatti suoi, che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato.

       *       *       *       *       *

--Mi promettete ora, disse il curato, di non dir niente?

Fermo, senza rispondere, gli chiese di nuovo perdono, e

                _da lui, che molto anco volea_
  _Chiedere e udir, qual lume al soffio sparve_.

Don Abbondio, dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò
Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.

Spesse volte è accaduto a personaggi assai più importanti di Don
Abbondio di trovarsi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere
quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da
fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione,
trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero al letto
colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo
a cercare, perchè se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno
passato, l'agitazione della notte e lo spavento replicato di quella
mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando
dal brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente
Vittoria. Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che
Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare due contadini suoi affidati
e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il curato
aveva la febbre. Dati questi ordini, si pose a letto, dove noi lo
lasceremo senza più occuparci di lui un tratto di tempo, nel quale egli
cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia. Soltanto per
prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo
timido, il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento, merita
meno pietà dello scellerato consumato, il quale, cercando il male e
facendolo spontaneamente, mostra almeno di avere una gran forza d'animo
e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per
quel meschino, credo di doverli informare che Don Abbondio non morì di
quella febbre.



VI.

LA CONFESSIONE DI LUCIA E IL CONSIGLIO DI AGNESE.


Parla! parla! Parlate! parlate! gridavano in una volta la madre e
Fermo. Lucia[152], atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando,
arrossando, sclamò: Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le
cose sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio dì Don
Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre la seta. Andava da
un fornello all'altro, facendo a questa e a quella mille vezzi, l'uno
peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista, a chi una peggio e si
pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e, pur troppo, v'era
chi lasciava fare. Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: badate
a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi, e borbottava
poi: gli è un cavaliere, gli è un uomo che può fare del male; è un uomo
che sa mostrare il viso. Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi
amici, gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle
tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed
egli mi disse in collera: ci vedremo: i suoi amici ridevano di lui
ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non andar più
alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina, per aver un
pretesto, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma
la filanda era sul finire, per grazia di Dio; e per quei pochi giorni
io stetti sempre in mezzo alle altre, di modo ch'egli non mi potè
cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui mi aspettava quando io
andava al mercato, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che aveva
paura d'andar sola, e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava
a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla; forse ho fatto male: ma
pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei
sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora... Qui le
parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di
pianto.

--Birbone! assassino! dannato! sclamava Fermo, correndo su e giù per
la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo
coltello.

--Ma perchè non parlare a tua madre? disse Agnese: se io l'avessi
saputo prima...

Lucia non rispose, perchè la risposta, che si sentiva in mente, non era
da darsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I
singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare.

--Non ne hai tu fatto parola con nessuno? ridimandò Agnese.

--Si, mamma, l'ho detto al Padre Galdino[153] in confessione.

--Hai fatto bene, ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto
il Padre Galdino?

--Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi, non
si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la
persecuzione, egli ci penserebbe.

--Oh che imbroglio! che imbroglio! riprese la madre.

Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un atto di
tenerezza accorata e rabbiosa e disse: questa è l'ultima che fa quel
birbone.

--Ah no. Fermo, per amor del cielo, gridò Lucia, gettandogli quasi le
braccia al collo. No, per amor del cielo. Dio c'è anche pei poveri.
Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?

--No no, per amor del cielo, ripeteva Agnese.

--Fermo! disse Lucia, voi avete un mestiere ed io so lavorare, andiamo
lontano tanto che costui non senta più parlare di noi.

--Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà
farci la fede di stato libero? non saremo pigliati come vagabondi?
dove andarci a porre?

Lucia ricadde nel pianto. Sentite, disse Agnese; sentitemi, che son
vecchia. Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di
rado, in caso di somma necessità e quando si trattava di dar fede alle
sue parole. Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi
troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera
gente le cose pajono talvolta imbrogliate, imbrogliate, perchè non
abbiamo la pratica per uscirne. Io ho veduto molte volte dei casi
che parevano disperati: un buon parere d'un uomo che aveva studiato
aggiustò tutto. Fate a modo mio, Fermo. Pigliate quei quattro capponi,
poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto:
teneteli bene stretti per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita
il dottor Pèttola?[154].--Lo so benissimo.--Bene, andate da lui,
presentategli i capponi: perchè, vedete, quando si vede che uno può
regalare, gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli
parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del
capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e
dopo d'avergli parlato tornarono a casa vispi come un tincotto che
saltellando nella barca, per disperazione, cade nell'acqua e si trova
in casa sua. Fate così, Fermo.

Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello
di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio
che suggerisca una risoluzione presenta ostacoli, difficoltà, nuovi
imbrogli: ma questo, di consigliarsi di nuovo e meglio, è semplice, non
nuoce e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo
mezzo si troverà una uscita[155].



VII.

UNA DIGRESSIONE.


Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente
parlando, si vive meglio che a questo mondo: ben è vero che vi
s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali,
scelleraggini più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite,
che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi
vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più
invidiabili si è che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta,
per quanto sieno inferiori di forze e battuti dalla fortuna, hanno
sempre in faccia dell'empio, ancor che trionfante, una sicurezza, una
risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la
buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini
realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia
senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in
favore della giustizia, sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere
a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera
senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di
tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti
necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela e di studio che
gli fa sovente scomparire in faccia ai loro avversarj, risoluti ed
incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte,
convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori.
L'uomo retto sente, a dir vero, con certezza e con ardore la giustizia
della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza
d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso
il suo animo: se egli la esprime, fa ridere l'avversario, il quale per
un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e
pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio
e per approvatore e che vede negli altri contraddizione e scherno perde
facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare, o almeno si
trova in quello stato di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato.
Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti
una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe quasi per la
serenità della buona coscienza, se fosse più placida e più composta, e
che l'uomo onesto e nella espressione esteriore e nell'animo interno
mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna, che
si crederebbe rimorso, dimodochè a poco a poco finisce per essere
soperchiato non solo nei fatti, ma anche nel discorso e nel contegno, e
sta come un supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è
veramente.

Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre
Cristoforo, il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento
della più stretta giustizia e la cessazione della più vile iniquità, si
rimase come confuso e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le
sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di
amici di Don Rodrigo, e in sua presenza[156].

       *       *       *       *       *

In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo
e dando urtoni e gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran
piatto piramidale di marroni arrostiti, e si portarono fiaschi
di vino più prelibato, di quello che in Lombardia si chiama vino
della _chiavetta_, e del quale, per un privilegio singolare, ogni
proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del vino,
com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però
cangiarla del tutto: il gridìo continuò per una buona mezz'ora: le
parole che si sentivano più spesso erano _ambrosia_ e _impiccarli_.
Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata:
e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al Padre
Cristoforo e lo condusse seco in una stanza vicina[157].

Ognuno può avere osservato che dalla peritosa sposa di contado fino
a... fino all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e, per
dirla in milanese, il più navigato, tutti hanno certi loro gesti
famigliari, certi moti insignificanti, dei quali fanno uso quasi
involontariamente, quando trovandosi con persone, colle quali non sieno
molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o aspettano il momento
di dir cosa la quale non è attesa, nè sarà molto gradevole a chi deve
intenderla. La differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son
costretto a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il
quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è
che i primi coi loro moti incerti e vacillanti e goffi mostrano sempre
più il loro imbarazzo e vi si vanno sempre più affondando, mentre negli
altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di eleganza
e di superiorità. Tutte le classi hanno una provvisione particolare e
caratteristica di questi atti, e questa distinzione era più osservabile
nei tempi in cui le classi erano più distinte per abitudini e anche pel
costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi
di questo genere. Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di
questi gesti, cominciando dai personaggi più celebri e dalle condizioni
più note degli antichi Romani, o anche degli Egizj, ma sarebbe troppo
provocare l'impazienza del lettore, avido certamente di seguire la
nostra interessante storia. Diremo soltanto che gli atti più usuali
dei cappuccini per avere, come dicono i francesi, _une contenance_,
erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi
indietro dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella
larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di
palpare ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario, che tenevano
appeso alla cintola. Questa ultima operazione appunto faceva il Padre
Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don Rodrigo; di modo che
si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il lettore
sa che il buon Padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di
Don Rodrigo non occorre parlare, giacchè ognun sa che nessuno è tanto
sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare.
Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di
quello che il Padre fosse per dirgli; sospetto che il contegno un po'
irresoluto del Padre aveva quasi cangiato in certezza, gli accennò con
sussiego che sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio
con queste parole:--In che posso obbedirla, Padre?--Questo era il
suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire
chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.

Il tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere
ogni imbarazzo al Padre Cristoforo; perchè, risvegliando quell'uomo
vecchio che il Padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto
quello che v'era in lui di più franco e di più risoluto: cosicchè,
invece di farsi animo, dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a
rispondere sullo stesso tuono, per non guastare l'opera delicata che
stava per intraprendere. Onde, con modesta, ma assoluta franchezza,
rispose:--Signor Don Rodrigo, il mio sacro ministero mi obbliga a
passare un officio con vossignoria. Io desidero ardentemente che
nessuna mia parola possa spiacerle, e per antivenire ad ogni disgusto,
debbo assicurarla che in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira
il bene di lei, quanto quello di qualunque altra persona.--Don Rodrigo
non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando
le ciglia e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e
sprezzante.



VIII.

IL PADRE CRISTOFORO RIPRESO DAL GUARDIANO DI PESCARENICO.


Intanto il Padre Cristoforo, benchè fiaccato e frollo delle corse,
dei disagj, delle inquietudini e delle parlate di quel giorno[158],
aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento, e
andava saltelloni giù per quel viottolo sassoso, torto e reso ancor
più difficile dalla oscurità; andava il povero frate, parte ruminando
gli accidenti della giornata e quello che poteva soprastare, parte
pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a
notte già fitta. Vi giunse pur finalmente, mezzo sconquassato, e toccò
modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare.
Il frate portinajo aperse e accolse il nostro figliuol prodigo con
quel maladetto misto dì sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di
commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione)
mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo, o anche
per qualche sventura, sembra loro stare in cattivi panni. Il Padre
Guardiano le vuoi parlare, disse costui al nostro amico, il quale seguì
la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a toccare
una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale
gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e
fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.

Giunto alla cella del Guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia
seria del Guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò
la testa sul petto e disse: Padre, son balordo. Era questa, chi noi
sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al
loro superiore. Bisogna sapere che il Guardiano era contento in fondo
del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un mancamento. Un
lettore di otto anni potrebbe qui domandare: perchè faceva il volto
serio, se era contento? e gli si risponderebbe, che appunto era
contento perchè il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto dì fargli
il volto serio. La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile
che il Guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui
della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di
punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser
daddovero il Padre Guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza
fare il dottore, senza disputare, dava però a dividere chiaramente
di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei
suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di
operare di concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente,
ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il Guardiano avevano per
lui più rispetto che amore. E il rispetto veniva, in parte, anche
dalla fama di santo che il Padre Cristoforo aveva al di fuori, e che
apportava al convento onore e limosine. Non è quindi da stupirsi
se il Guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel
Padre Cristoforo e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui e il
sentimento della propria autorità.

--È questa l'ora, diss'egli gravemente, di ritornare al convento?

--Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo.

--E perchè vi siete dunque tanto indugiato? perchè avete violata una
regola, che conoscete così bene?

--Fui trattenuto da un'opera di misericordia.

Il Guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire, e vide tosto
che se avesse voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto
rivelare al Padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde
gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si
era riconosciuto colpevole. Gli disse che preporre le opere volontarie
di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio e di amore alla
propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le
regole: che bisogna prima fare il dovere e poi attendere alle opere
di surerogazione: e altre cose di questo genere. Aggiunse poi che
egli, Padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza
fosse la regola da lui infranta e per la disciplina e per evitare ogni
scandalo; ma che per l'età sua e per esser questo il primo suo fallo
contro la regola, e perchè si teneva certo che non v'era altro che la
violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima
di coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate: e così lo
congedò e si gittò sul duro suo pagliaccio, più soddisfatto però che se
si fosse posto sul letto il più delicato, poichè non è da dire quanta
consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel
riprenderli quando se ne allontanano.

Questa fu la mercede che il nostro Padre Cristoforo ebbe della sua
giornata, spesa come abbiam detto. Tristo chi ne aspetta altre in
questo mondo. Egli recitò il suo buon _miserere_ e lo conchiuse
dicendo: Dio, fate misericordia a me e a quel poveretto che io...
toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero
Fermo, salvate Lucia e benedite il Padre Guardiano[159]. Abbiate pietà
dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli e degli infedeli,
degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti e
di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici,
dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi,
dei ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei
zingari, degli indemoniati, dei vivi e dei morti. Così sia. Quindi si
gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire, che ne ha
bisogno[160].



IX.

IL TENTATIVO FALLITO DEL MATRIMONIO CLANDESTINO.


_A_) PRIMA MINUTA.

Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha
detto uno scrittore privo di buon gusto, l'intervallo è un sogno di
fantasmi e di paure. Lucia era nelle angosce di questo sogno. Agnese,
la stessa Agnese, così risoluta e disposta all'operare, era sopra
pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma
al momento in cui l'azione comincia e l'animo che fino allora tollerava
i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda e tornando, è
costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo,
allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio, che
lo agitavano, succede un nuovo terrore, e un nuovo coraggio: l'impresa
si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata; si
scoprono mezzi e ostacoli non pensati; ciò che sembrava più difficile
si trova fatto quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le
membra niegano di moversi dinanzi ad un passo che era sembrato il
più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più
sicurezza.

Quando s'intese bussare sommessamente alla porta[161], Lucia fu presa
da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa,
di esser sempre divisa da Fermo, piuttosto che eseguire la risoluzione
presa; ma quando Fermo, entrato, disse: son qui, andiamo; quando tutti
si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già
determinata, Lucia, come strascinata, prese tremando un braccio della
madre e un braccio di Fermo e s'avviò colla brigata avventurosa.

Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero dinanzi alla
casa del nostro Don Abbondio, il quale era ben lontano pover uomo!
dal pensare che una tanta burrasca si addensasse sul suo capo. Qui
si separarono, come erano convenuti: e la coppia innocente, per
un viottolo tortuoso, che girava attorno all'orto del curato, e
sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della casa,
venne a porsi presso all'angolo di essa; Fermo e Lucia, per trovarsi
nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe;
Agnese, per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno. Toni,
destro, col disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e
senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla
porta e toccarono il martello.

--Chi è? gridò una voce alla finestra, che si aperse in quel momento:
era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, dovrei saperlo: è forse
accaduta qualche disgrazia?

--Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di
parlare col signor curato.

--È ora questa da cristiani? rispose agramente Perpetua: che
discrezione? tornate domani.

--Sentite: tornerò, o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi per
pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si può,
aspetterò un'altra occasione: questi so come spenderli, e verrò quando
ne abbia guadagnati degli altri.

--Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?

--Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non
mi volete, me ne vado.

--No no, aspettate un momento; torno con la risposta.

Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai
promessi, e, detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento; gli è
come far cavare un dente, venne a porsi dinanzi la fronte della casa,
aspettando che Perpetua aprisse, per far vista di passare.

Perpetua venne infatti tostamente, ed aperse la porta, e disse: dove
siete?

Quando i due fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e
salutò Perpetua, fermandosi un momento sui due piedi.

Buona sera, Agnese, disse Perpetua, donde a quest'ora?

--Vengo dalla filanda, rispose Agnese, e se sapeste... mi sono
indugiata appunto in grazia vostra.

--Oh perchè? riprese Perpetua: indi, rivolta ai due fratelli: entrate
disse, salite pure, che vengo anch'io.--Quegli entrarono.

--Perchè, ripigliò Agnese, una donna pettegola! non sanno le cose e
voglion parlare... credereste? si ostinava a dire che non vi siete
sposata con Beppo, perchè egli non vi ha voluto. Io sosteneva che voi
l'avete rifiutato...

--Certo, sono stata io; ma chi è costei?

--Questo non fa... ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di
non saper ben bene tutta la storia, per confonder colei.

--È una bugiarderia, disse Perpetua, la più nera. Sentite come andò
la faccenda, e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio, socchiudete la
porta, e salite pure, ch'io verrò poi. Tonio rispose di dentro che
si. Perpetua cominciò la sua storia e Agnese si avviò verso l'angolo
della casa, opposto a quello dietro cui erano in agguato i due
giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo voltò, seguita da
Perpetua: e voltatolo, tossì per dar segno. Il segno fu inteso, e
Fermo traendo Lucia, la quale correva come un leprotto inseguito, in
punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si
trovarono nel vestibolo coi due fratelli, che gli stavano aspettando.
Chiusero sommessamente il chiavistello[162] per di dentro e salirono
insieme, mentre Agnese moltiplicava le inchieste, per trattenere la
fante. I quattro congiurati, tutti diversamente commossi, ascesero le
scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce:
_Deo gratias_, ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio, che gli
aspettava, rispose: Avanti. Fermo e Lucia ristettero dietro la porta:
senza muoversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe
potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia. Toni,
entrato, socchiuse la porta dietro di sè. Don Abbondio, convalescente
della febbre, e non guarito della paura, stava seduto su un vecchio
seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un
vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e
teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno
l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una
vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna, che mandava una
luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle
tenebre. Presso alla lucerna, era il breviale, e aperto dinanzi a Don
Abbondio il Quaresimale[163].

--Ah! ah! fu il saluto di Don Abbondio.

--Il signor curato dirà che siamo venuti tardi, disse Toni
inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.

--Venite tardi in tutti i modi, rispose Don Abbondio. Basta, vediamo.

--Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo,
disse Toni, cavando un gruppetto di tasca.

--Vediamo, replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le
numerò, e furono trovate irreprensibili.

--Ora, signor curato, mi darà gli orecchini e la collana, della mia
povera Tecla.

--È giusto, rispose Don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una
chiave, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori,
aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse
la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò,
chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, c'è
tutto? disse, indi lo consegnò a Toni.

--Ora, disse Toni, mi favorisca di una riga di quitanza.

--Non vi fidate? rispose bruscamente Don Abbondio. Ecco, volete darmi
anche quest'incomodo.

--Che dice mai? s'io mi fido, signor curato: ma dalla vita alla
morte...

--Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga
inchiostro nel calamajo. Perpetua! dov'è costei? Perpetua!

--Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la
lasci stare, signor curato: anche il calamajo, che farà più presto.

Così, brontolando, tirò un cassettino dal tavolo, ne tolse carta,
penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi ad alta voce la
composizione. Frattando Toni e Gervaso, com'era convenuto, si posero
dinanzi allo scrittore in modo da toglierli la veduta della porta; e
come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar
agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi. Don Abbondio,
tutto nella sua quitanza, non badava ad altro. Al fruscio dei quattro
piedi Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò
con sè e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva,
e si collocarono dietro i due fratelli. Don Abbondio, finito ch'ebbe
di scrivere, rilesse attentamente da sè, quindi fatta lettura ad
alta voce, prima di alzare gli occhi dalla carta: sarete contento?
disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni, allungando la mano per
pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi
apparvero in mezzo[164] come all'alzare d'un sipario. Don Abbondio
intravide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una
risoluzione, tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire
le parole magiche: Signor curato, in presenza di questi testimoni,
questa è mia moglie. Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in
riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza fatta,
afferrata colla manca e sollevata la lucerna e tirato colla destra a sè
un tappeto, che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il
quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s'era avvicinato
a Lucia; la poveretta con voce tremante aveva appena potuto dire: e
questo... che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto
sulla testa e sul volto, e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto
sulla bocca, perch'ella non potesse proseguire, gridava a testa, come
un toro ferito: tradimento! tradimento! ajuto! ajuto! Il lucignolo
della lucerna, che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si
moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia, appoggiata a
Fermo, coperta così di quel ruvido velo, pareva una statua sbozzata
in creta, a cui un rozzo fattore dell'artefice copre la testa con un
umido panno. Cessata ogni luce, Don Abbondio lasciò la poveretta, la
quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com'era
del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò,
vi si chiuse e continuò a gridare: tradimento! Perpetua! accorr'uomo:
gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata!
fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei!
Nella stanza tutto era confusione. Fermo, inseguendo come poteva il
curato, aveva strascinata con sè Lucia alla porta e bussava gridando:
apra, apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo. Toni, curvo
a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e
Gervaso, spiritato, gridava e andava cercando la porta della scala per
porsi in salvo.

Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece
ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare ajuto. Batteva la
più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si
disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva
tranquillamente[165] con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il
sagrista, il quale, dopo suonata l'avemaria, era rimasto a scopare la
chiesa e a governare gli arredi dell'altare. Lorenzo! gridò il curato,
accorrete, gente in casa! ajuto. Lorenzo si sbigottì; ma con quella
rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di
dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva e di farlo senza suo
rischio. Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la
grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la
corda della più grossa campana e tirò a martello[166].

_B_) SECONDA MINUTA.

Tra il primo concetto d'una impresa terribile e l'adempimento (ha detto
un barbaro[167] che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno
pieno di fantasmi e di paure. Lucia era da molte ore nell'angosce di
questo sogno: e Agnese, la stessa Agnese, l'autrice del consiglio,
stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la
figlia. Ma al momento del destarsi, al momento in cui si vuol por
mano all'azione, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al
coraggio, che vi battagliavano, succede un altro terrore, un altro
coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una nuova apparizione:
ciò che più si apprendeva da prima sembra talvolta divenuto in un
punto agevole: talvolta s'ingrandisce l'ostacolo che appena si era
avvertito, l'immaginazione sì arretra spaventata, le membra negano il
loro uficio, e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più
sicurezza[168].

Al bussare sommesso di Fermo, Lucia fu presa da tanto terrore, che
risolvette in quel momento dì soffrire ogni cosa, di esser sempre
divisa da lui, piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando
Fermo sì fu mostrato, ed ebbe detto: son qui, andiamo; quando tutti si
mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa stabilita,
irrevocabile, Lucia non ebbe spazio nè cuore d'intromettere difficoltà;
e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un
braccio del promesso sposo, e s'avviò, senza far motto, colla brigata
avventuriera.

Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato uscirono dalla porta
e presero la strada fuori del paese. La più dritta e corta era di
attraversarlo per divenire all'altro capo, dov'era la casa di don
Abbondio: ma scelsero la più lunga onde camminare inosservati. Per
una giravolta di stradicciuole al di fuori, giunsero in breve presso
alla meta, e quivi si divisero. I due promessi rimasero nascosti
dietro l'angolo della casa, Agnese con essi, ma dinanzi, per accorrere
in tempo ad incontrare Perpetua e ad impadronirsene: Tonio col
disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il
quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e
toccarono il martello.

--Chi è, a quest'ora? gridò una voce alla finestra, che si aperse in
quel momento: era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, ch'io sappia:
è forse accaduta qualche disgrazia?

--Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di
parlare col signor curato.

--È ora da cristiani questa? rispose agramente Perpetua: che
discrezione! tornate domani.

--Sentite: tornerò, o non tornerò: ho riscossi non so che danari, e
veniva a saldare quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque
belle berlinghe nuove: ma se non si può, pazienza: questi so come
spenderli, e tornerò quando ne abbia riscossi degli altri.

--Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?

--Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non
mi volete, me ne vado.

--No, no: aspettate un momento; torno con la risposta.

Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò
dai promessi, e detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento;
gli è come far cavare un dente, venne a porsi lungo la fronte della
casa, poco lontano dalla porta, aspettando che tornasse Perpetua, per
giungerle addosso[169].

--Carneade! chi era costui? ruminava tra sè don Abbondio, seduto sul
suo seggiolone nella stanza da letto, con un libricciuolo aperto
dinanzi, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. Carneade!
questo nome mi par bene di averlo inteso o letto; doveva essere un
uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli:
ma chi diavolo era costui? Tanto il pover uomo era lontano dal pensare
alla burrasca che gli si addensava sul capo! Bisogna sapere che don
Abbondio si dilettava di leggere qualche linea ogni giorno, e un curato
suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo
l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in
quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento,
anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere,
era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e
udito con molta ammirazione, nel duomo di Milano, due anni prima. Il
santo vi era. paragonato, per l'amore dello studio, ad Archimede; e fin
qui don Abbondio non trovava inciampo; perchè Archimede ne ha fatte di
così belle[170], ha fatto dir tanto di sè, che per saperne qualche
cosa, non fa mestieri una erudizione molto vasta. Ma dopo Archimede,
l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e quivi il lettore era
rimasto arrenato. Perpetua annunziò la visita di Tonio.

--A quest'ora? disse anch'egli don Abbondio, com'era naturale.

--Che vuoi ella? non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...

--Se non lo piglio ora, sa il cielo quando lo potrò pigliare. Fatelo
venire. Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia egli, Tonio?

--Diavolo! rispose Perpetua, e scese, aperse la porta, e disse: dove
siete?

Tonio si mostrò; e in quel momento si mostrò pure Agnese, come se
passasse di quivi, e salutò Perpetua per nome, fermandosi sui due piedi.

--Buona sera, Agnese, disse Perpetua: donde si viene a quest'ora?

--Vengo dalla filanda, e se sapeste... mi sono indugiata appunto in
grazia vostra.

--Oh perchè? domandò Perpetua: e, rivolta ai due fratelli: entrate,
disse, che vengo anch'io.

--Perchè, ripigliò Agnese, una donna di quelle che non sanno le cose, e
voglion parlare... credereste? si ostinava a dire che voi non vi siete
sposata con Beppo Suolavecchia, nè con Anselmo Lunghigna[171], perchè
non vi hanno voluta. Io sosteneva che voi gli avete rifiutati, l'uno e
l'altro...

--Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! chi è costei?

--Ve lo dirò; ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non
saper bene tutta la storia, per confonder colei.

È una bugiarderia, disse Perpetua, la più infame! Quanto a Beppo, tutti
sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! socchiudete la porta, e
salite pure, ch'io vengo.

Tonio rispose di dentro che sì; e Perpetua proseguì la sua narrazione
appassionata. In faccia alla porta di don Abbondio si apriva tra
due casipole una stradetta, la quale non correva diritta più che la
lunghezza di quelle, e volgeva, dietro ad una di esse, nei campi.
Agnese vi s'avviò, come se volesse trarsi alquanto in disparte per
parlare più liberamente: e veggendo poi che la narratrice le veniva
dietro smemorata, voltò il canto, non senza un gran palpito, e Perpetua
dietro. Agnese allora tossì forte. Era il segno: Fermo lo intese,
fece animo a Lucia con una stretta di braccio, ed entrambi, in punta
di piedi, voltarono anch'essi il lor canto, strisciaron quatti quatti
rasente il muro, vennero alla porta, l'aprirono dilicatamente; uno e
due, cheti e chinati, furono nell'andito, dove trovarono i due fratelli
ad aspettare. Fermo abbassò pian piano il saliscendo nel monachetto: e
tutti quattro su per le scale, non facendo pur romore per due. Giunti
sul pianerottolo, i due fratelli si fecero in faccia alla porta della
stanza che era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero alla parete.

--_Deo gratias_, disse Tonio, a voce spiegata.

--Tonio, eh? Entrate, rispose la voce dì dentro. Il chiamato schiuse
le imposte appena quanto era necessario per passare egli, e il fratel
dietro. La riga di luce che uscì d'improvviso per quella apertura, e
scorse a traverso il pavimento oscuro del pianerottolo, fece trepidare
Lucia, come s'ella fosse scoverta. Entrati i fratelli, Tonio si
richiuse dietro le imposte: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre
con le orecchie tese, tenendo il fiato: il romore più forte era il
battito del cuore di Lucia.

Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola,
ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto
a foggia di camauro, che gli faceva cornice intorno alla faccia. Due
folte ciocche che scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli,
due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e
sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, parevano cespugli nevicosi
sporgenti da un dirupo.

--Ah! ah! fu il suo saluto, mentre si cavava gli occhiali e li riponeva
nel libricciuolo.

--Dirà il signor curato che son venuto tardi: disse Tonio,
inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente Gervaso.

--Sicuro che è tardi. Sono ammalato, vedete.

--Oh! me ne spiace.

--L'avrete inteso dire: sono ammalato; e non so quando potrò lasciarmi
vedere... Ma perchè vi siete tirato dietro quel... quel figliuolo?

--Così per compagnia, signor curato.

--Basta, vediamo.

--Sono venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a
cavallo, disse Tonio, cavandosi un gruppetto di tasca.

--Vediamo, replicò don Abbondio: e le prese, si rimesse gli occhiali,
le volse, le rivolse, le noverò, le trovò irreprensibili.

--Ora, signor curato, mi darà la collana della mia povera Tecla.

--È giusto, rispose don Abbondio; e andò ad un armadio, e cacciata una
chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori,
aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona,
introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno;
lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse il cartoccino, disse: va bene? lo
ripiegò e lo consegnò a Tonio.

--Ora, disse questi, si contenti di farmi una riga di quitanza.

--Anche questa! disse don Abbondio. Le sanno tutte: ih! come è divenuto
sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?

--Che dic'ella, signor curato? s'io mi fido! ma, dalla vita alla
morte...

--Bene, bene.

Così brontolando tirò a sè un cassettino del tavolo; ne tolse carta,
penna e calamaio; e si pose a scrivere, ripetendo a viva voce le
parole a misura che gli uscivano dalla penna. Frattanto Tonio, e ad
un suo cenno Gervaso, si posero in piedi dinanzi al tavolo in modo di
togliere allo scrittore la vista della porta; e come per ozio andavano
soffregando coi piedi il pavimento, per dar segno a quei dì fuori che
entrassero, e per isconfondere nello stesso tempo il romore delle loro
pedate. Don Abbondio, attuffato nella sua scrittura, non badava ad
altro. Al fruscio dei quattro piedi, Fermo strinse la mano a Lucia per
darle coraggio, e pian piano entrarono, Lucia più morta che viva; e si
appostarono dietro i due fratelli. Frattanto don Abbondio, finito di
scrivere, rilesse attentamente, senza sollevar gli occhi dalla carta;
la piegò, dicendo: sarete contento ora? e togliendosi con una mano
gli occhiali dal naso, sporse con l'altra il foglio a Tonio, levando
la faccia. Tonio, stendendo la destra a prenderlo, si ritirò da una
parte; Gervaso, ad un cenno, dall'altra: ed ecco, come al dividersi
d'una scena, apparire nel mezzo Fermo e Lucia. Don Abbondio intravvide,
vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione:
tutto questo nel tempo che Fermo mise a proferire le parole: signor
curato, in presenza di questi testimonii, questa è mia moglie. Le sue
labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già
lasciata cadere la quitanza, afferrata colla manca e sollevata la
lucerna, ghermito con la destra il tappeto, che copriva la tavola, e
tiratolo a sè con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e
polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola, s'era avvicinato
a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta
tremante, aveva appena potuto proferire: e questo... che don Abbondio
le aveva gittato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto,
per impedirle di pronunziare intera la formola. E per tenerle meglio
quel drappo ravvolto intorno alla bocca, lasciò cadere la lucerna:
gridando intanto a testa, come un toro ferito: Perpetua, Perpetua,
tradimento, aiuto! Il lucignolo, morente sul pavimento, mandava una
luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita,
non tentava pure di svilupparsi, e stava come una statua sbozzata in
creta, sovra la quale l'artefice ha gittato un umido panno. Cessata
ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tentone
la porta d'una stanza vicina, la trovò, v'entrò, si chiuse dentro,
gridando tuttavia: Perpetua, tradimento, aiuto, fuori di questa casa,
fuori di questa casa. Nell'altra stanza tutto era confusione: Fermo,
cercando di cogliere il curato, e remigando colle mani, come se facesse
a gatta cieca, era giunto alla porta, e bussava, gridando: apra, apra,
non faccia schiammazzo. Lucia chiamava Fermo con voce fioca, e diceva
supplicando: andiamo, andiamo, per amor di Dio. Tonio, carpone, andava
scopando colle mani il pavimento, per adunghiare la sua quitanza.
Gervaso spiritato gridava, e trasaltava, cercando la porta della scala,
per uscire a salvamento.

In mezzo a questo serra serra, non possiamo lasciare di arrestarci un
momento a fare una riflessione. Fermo, il quale strepitava di notte in
casa altrui, che vi s'era tramesso di soppiatto, e teneva il padrone
stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore:
eppure, alla fine del fatto, egli era l'oppresso. Don Abbondio,
sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente
ai fatti suoi, parrebbe la vittima: eppure egli era in realtà
l'ingiusto. Così va sovente il mondo... Voglio dire, così andava nel
secolo decimo settimo.

L'assediato, veggendo che il nemico non isgomberava, aperse una
finestra che dava in sul sagrato, e si diede a gridare: aiuto! Batteva
la più bella luna del mondo: e l'ombra della chiesa e del campanile si
disegnava bruna e distinta[172] sul piano verde e liscio del sagrato.
Per quell'ombra veniva tranquillamente, con un gran mazzo di chiavi
pendente alla mano, il sagrista, il quale, dopo suonata l'avemaria, era
rimasto a governare non so che arredi dell'altare. A quel gridìo levò
egli la testa.

--Lorenzo[173]! gridò don Abbondio: accorrete: gente in casa: aiuto!
aiuto!

Lorenzo, quantunque sbigottito, non perdette la testa; trovò in su
l'istante ch'egli poteva dar più aiuto che non gliene fosse domandato,
senza cacciarsi egli nel tafferuglio, quale ch'e' fosse. Corse
indietro alla porta della chiesa; tolse nel mazzo la grossissima
chiave, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della campana
maggiore e suonò a martello[174].



X.

LE CORREZIONI ALL'«ADDIO AI MONTI».


_A_) PRIMA STESURA.


I viaggiatori silenziosi, volgendosi addietro, guardavano [_il paese_]
le montagne e il paese, che la luna illuminava. Si distinguevano i
villaggi, i campanili, le capanne: il castelletto di Don Rodrigo colla
vecchia sua torre [_sovrastava fra le capanne e le signoreggiava_]
alto sulle capanne pareva un [_superbo_] feroce ritto nelle tenebre
che [_medita il delitto_] in mezzo ad una folla di coricati nel
sonno [_stesse_] vegliasse meditando un delitto. Lucia [_scorreva
coll'occhi_] lo vide, e rabbrividì; scerse coll'occhio verso il sito
della sua umile casa, vide un pezzo di muro bianco che usciva da una
macchia verde scura, riconobbe la [_ca_] sua casetta, e il fico che
ombreggiava la stessa: e seduta com'era sul fondo della barca, poggiò
il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte come per dormire; e
pianse segretamente.

Addio, monti [_ritti negli abissi dell'acque_] [_appoggiati negli
abissi delle acque ed elevati verso il cielo;_] posati sugli abissi
dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute a colui [_che
vi guardò colle prime sue occhiate_] che fissò sopra di voi i primi
suoi sguardi, e che visse fra voi, come egli distingue all'aspetto
[_gli uomini coi_] l'uno dall'altro i suoi famigliari, [_valli
segrete_] valloni segreti, ville sparse e biancheggianti sul pendìo
come branco disperso di pecore pascenti, addio! Quanto [_spiacevole_]
è [_doloroso il lascia_] tristo il lasciarvi a chi vi conosce
dall'infanzia! quanto è nojoso l'aspetto della pianura [_che fastidisce
l'occhio e lo conduce per lontani spazj dov'egli non trova che_] dove
[_quello_] [_lo spazio che si percorre somiglia a q_] il sito a cui si
aggiunse è simile a quello che si è lasciato addietro, dove l'occhio
[_fastidito_] cerca invano [_negli_] nel lungo spazio, dove riposarsi
e [_guardare_] contemplare, e si [_abbassa_] ritira fastidito come dal
fondo d'un quadro su cui l'artefice non abbia ancor figurata alcuna
immagine della creazione. Che importa che nei [_deserti_] piani deserti
surgano città superbe ed affollate? il montanaro che le passeggia [_non
può stupirsi degli edificj_] avvezzo alle alture di Dio, non sente il
diletto della maraviglia nel mirare edificj che il cittadino chiama
[_alti_] elevati perchè gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra
sopra pietra. Le vie che [_si lodano_] hanno vanto di ampiezza, gli
sembrano valli [_anguste_] troppo anguste; [_ed_ [_egli_] _egli sa_]
l'afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa del monte non
[_aveva_] [_pensava alla sanità che allor quando_] aveva forse provato
altro malore che la fatica, divenuto [_sospettoso_] timido e delicato
come il cittadino, [_parla_] si lagna del clima e della temperie, e
dice che morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col sole non
riposava che al mezzo giorno, e [_alla sera_] al cessare delle fatiche
diurne, [_ora_] passa le ore intere nell'ozio malinconico ripensando
alle sue montagne.

Ma questi sono piccioli dolori[175]. L'uomo sa tormentar l'uomo
[_nell'animo_] nel cuore; e amareggiargli il pensiero di modo che anche
la memoria dei [_tempi_] momenti [_lieti già pa_] passati lietamente
[_gli porta un rancore_] [_senza_] [_non misto di compiacenza_]
[_invece è tutta dolorosa_. _Addio, casa natale_] affacciandosi
ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non temperato da
alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto una certa
maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più
quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente
trasformata[176]. Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi
giuochi, delle prime speranze; casa [_dalla_] nella quale sedendo
con un pensiero s'imparò a distinguere [_dalle orme degli_] [_fra i
passi degli uomini_] dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma
desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella
quale la fantasia [_commossa_, _e_] intenta, e sicura vedeva [_il
soggiorno_] [_si era fabbricato il_] un soggiorno di [_compagna_]
sposa, e di compagna. Addio, Chiesa dove nella prima [_inf_] puerizia
si stette in silenzio e [colla gravità] con adulta gravità, dove si
[_cantò_] cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno
esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende
e le può tutte esaudire; Chiesa, dove era preparato un rito, dove
l'approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all'ebbrezza
della gioja il gaudio tranquillo e solenne della santità. Addio! Il
serpente nel suo viaggio [_tortuoso e_] torto e insidioso, si posta
talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi
conduce la sua famiglia, [_e l'uomo che_] riempie il suolo e se ne
impadronisce; [_ne scaccia l'uomo il quale_] perchè l'uomo il quale
ad ogni passo incontra il [_rettile_] velenoso vicino pronto ad
avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo senza
sospetto, che trema pei suoi figli [_abbandona la sua abitazione,
maledice il serpente sente_] sente venirsi in odio la sua dimora,
maledice [_il vicino nuovo_] il rettile usurpatore, e parte. E l'uomo
pure caccia talvolta l'uomo [_dalla_] sulla terra come se [_fosse una_]
gli fosse destinato per preda: [_fino a quel giorno in cui_] allora il
debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: [_fino
a quel giorno in cui_] [_un giorno poi_] ma i passi affannosi del
debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione.

La barca giunta alla riva, urtando sull'arena [_tra_] scosse Lucia, la
quale [_si alzò asciugand_] dopo avere asciugate in segreto le lagrime,
si alzò come dal sonno.


_B_) SECONDA STESURA.

I passeggieri silenziosi, volgendosi addietro, guardavano le montagne e
il paese rischiarato dalla luna, e svariato qua e là di grandi ombre.
Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il castellotto di don
Rodrigo colla vecchia sua torre, elevato sulle casucce ammucchiate alla
falda del promontorio, pareva un feroce che ritto nelle tenebre sopra
una folla di giacenti addormentati, vegliasse meditando un delitto.
Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio a traverso la china
fino al suo paesello: [_affisò l'estremità_] guardò fiso all'estremità,
scerse la sua casetta, scerse la chioma folta del fico che usciva
[_dal_] di sopra il muro: e seduta com'era sul fondo della barca,
appoggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte come per
dormire; e pianse segretamente.

Addio, montagne sorgenti dalle acque ed [_elevate a_] erette al cielo;
cime ineguali, conosciute a chi è nato fra voi, e distinte nella sua
mente non meno che lo sieno gli aspetti dei suoi più famigliari;
valloni segreti, ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi
di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il passo dell'indigena che
si allontana da voi! [_Quegli_] A quello stesso che volontariamente
vi volge le spalle, [_che va a procacciarsi fortuna_,] [_sente ad
un tratto_] [_vede nella_] [_vede e corre a_] [_e_] dirizzato a
procacciarsi fortuna, si disabbelliscono in quel momento i sogni
della ricchezza, e nulla gli sembra [_più_] desiderabile se non il
soggiornare tra voi. Il suo occhio si ritrae fastidito [_dal vuoto
uniforme aspetto della pianura_ [_dalla u_...] _e affaticato_] e
stanco dalla uniforme ampiezza della pianura; [_dinanzi agli edificii
delle città affollate_ [_egli pensa_] _egli entra_] l'aere gli simiglia
gravoso e senza vita: egli entra mesto e disattento nelle città
tumultuose; e dinanzi agli edificii ammirati dallo straniero, egli
pensa [_con diletto affannoso_] con amore affannoso [_ai suoi monti_]
al camperello [_che egli s_... _del vicino su cui egli ha posti gli
occhi prima di partire_] a cui egli ha posto [_add_] gli occhi addosso
da gran tempo, ch'egli si compererà tornando a casa dovizioso, e [_pel
quale solo si_] per amore [_del quale_] di cui egli si affatica ad
acquistare, e sopporta il tedio di viver lontano da' suoi monti.

Ma chi [_mai_] non aveva mai spinto al di là di quelli pure un
desiderio, nè una vaghezza aerea, chi aveva composti e intrecciati
con l'immagine di quelli tutti i disegni dell'avvenire, d'un avvenire
sospirato segretamente, e che [_pareva_] si credeva certo e imminente,
e ne è sbalzato [_lungi_] da una forza perversa! [_lungi_] e strappato
in una volta [_dalle_] alle costumanze più care [_e alle più care
speranze_] e turbato nelle più care speranze! [_e parte senza sapere
fra qua_] s'avvia in cerca di stranieri che non ha mai desiderato
di conoscere, e [_senza_] non può colla immaginazione [_precorrere
al_] trascorrere per uno spazio misurato all'assenza, al momento
stabilito del ritorno! Addio, casa natale, dove sedendo con un pensiero
[_nascosto_] segreto s'imparò a distinguere dal romore delle orme
comuni il romore d'un'orma desiderata con un misterioso timore. Addio,
casa ancora straniera, casa guardata tante volte alla sfuggita passando
e non senza rossore, nella quale la [_fantasia_] mente [_vedeva_] si
compiaceva di figurarsi un tranquillo e perpetuo soggiorno di sposa.
Addio, chiesa, dove [_era_] si cantarono tante volte le lodi del
Signore, dove era promesso [_un_], preparato un rito, dove il sospiro
segreto [_dell'animo_] del cuore doveva essere solennemente benedetto,
e l'amore chiamarsi santo; addio!

Di tal genere, se non tali affatto, erano i pensieri di Lucia, e poco
dissimili i pensieri degli altri due pellegrini, mentre [_il battello_]
la barca gli andava avvicinando alla destra riva dell'Adda[177].


_C_) TERZA STESURA.

L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una
striscia [_fuggente che_] increspata, che si andava allontanando
dal lido. I passeggieri silenziosi, [_volgendosi_ [_addietr_...]
_indietro, guardavano le mont_...] [_coi dorsi volti a quello, ma_]
[_coi vol_] _colle facce_ [_piegate_] _converse_ [_rivolte indietro_,]
[_girate indietro_] [_seduti colle spalle converse_] coi dorsi volti
a quello, [_ma coi volti girati_] e la faccia conversa indietro,
guardavano le montagne e il paese rischiarato dalla luna, e svariato
qua e là di grandi ombre. Si discernevano i villaggi, le case, le
capanne: il castellotto di don Rodrigo, colla [_vecchia_] sua torre
piatta, elevato [_sulle_] sopra le casucce ammucchiate alla falda
del promontorio, pareva un feroce, che ritto nelle tenebre sopra una
[_folla_] compagnia di giacenti addormentati, vegliasse, meditando un
delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio a traverso
la china, fino al suo paesello; guardò fiso all'estremità, scerse la
sua casetta, scerse la chioma folta del fico che sopravanzava [_le
muraglie_] sulla cinta del cortile; scerse la [_sua_] finestra della
sua stanza: e seduta com'era sul fondo della barca, appoggiò il gomito
sulla sponda, chinò su quello la fronte, come per dormire; e pianse
segretamente.

Addio, montagne sorgenti dalle acque, ed erette al cielo; cime
ineguali, [_conosciute_] note a chi è [nato] cresciuto tra voi, e
[_distinte_] impresse nella sua mente non meno che lo sia l'aspetto dei
suoi più famigliari; torrenti dei quali egli [_riconosce il fragore_]
distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche: ville
sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti;
addio! Quanto è tristo il passo dell'indigena che si allontana da
voi! Alla fantasia di quello stesso che [_volontariamente vi lascia_]
[_si parte da voi in cerca del guadagno_,] [_si di_] se ne parte
volontariamente, a procacciarsi guadagno, si disabbelliscono in quel
momento i sogni della fortuna; egli [_non sa capire come ab_] si
maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro,
se non pensasse che un giorno tornerà dovizioso. [_A misura ch'egli
discende_] Quanto più s'avanza nel piano, il suo occhio si ritrae
fastidito e stanco da quella ampiezza uniforme; l'aere gli simiglia
gravoso e senza vita; egli s'inoltra mesto e disattento nelle città
tumultuose; le case aggiunte a case, le vie che sboccano nelle vie
[_gli tolgono il fiato_] pare che gli tolgano il fiato; e dinanzi agli
edifizii ammirati [_agli_] dallo straniero, egli pensa con desiderio
inquieto [_alla casuccia_] al camperello del suo paese, alla casuccia a
cui egli ha già posti gli occhi addosso da gran tempo, e che compererà,
tornando ricco a' suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli nè pure un desiderio
sfuggevole, chi aveva [_intrecciati_] composti e intrecciati con essi
tutti i disegni dell'avvenire, d'un avvenire tacitamente bramato,
[_e_] che pareva [_ormai_] certo ormai e imminente, e ne è sbalzato
[_da una forza_] lontano da una forza perversa! Chi strappato ad un
tempo alle più care costumanze, e sturbato nelle più care speranze,
[_s'avvia_] lascia quei monti per avviarsi in traccia di stranieri
che non ha mai desiderato di conoscere; e non può colla immaginazione
trascorrere ad un momento stabilito [_del_] pel ritorno! Addio, casa
natale, dove sedendo con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere
dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma aspettata con un
misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata
tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale
la mente si compiaceva di figurarsi un soggiorno tranquillo e perpetuo
di sposa. Addio, chiesa, [_nella quale si cantarono tante volte le lodi
del Signore_] dove la mente si rasserenò tante volte, e tante cure
svanirono, cantando le lodi del Signore; dove era promesso, preparato
un rito, dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente
benedetto, e l'amore chiamarsi santo: addio! Quegli che dava a voi
tanta giocondità è dapertutto; ed Egli non turba mai la gioia dei suoi
figli, se non per prepararne loro una più certa e maggiore.

Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco
dissimili i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli
andava avvicinando alla destra riva dell'Adda[178].

_D_) IL TESTO DELLA PRIMA EDIZIONE, CON LE CORREZIONI DI QUELLA DEL
1840, RIVEDUTA DALL'AUTORE[179].

I passeggieri silenziosi, [_colla faccia rivolta_] con la testa voltata
indietro, guardavano [_le montagne_] i monti, e il paese rischiarato
dalla luna, e [_svariato_] variato qua e là di [_grandi_] grand'ombre.
Si [_discernevano_] distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il
palazzotto di don Rodrigo, [_colla_] con la sua torre piatta, elevato
sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un
feroce che, ritto nelle tenebre, [_sopra una_] in mezzo a una compagnia
[_di giacenti_] d'addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia
lo vide, e rabbrividì: [_discese coll'occhio a traverso la china_]
scese con l'occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò
[_fiso_] fisso [_alla_] all'estremità, [_scerse_] scoprì la sua
casetta, [_scerse_] scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava
[_sulla cinta del cortile_] il muro del cortile, [_scerse_] scoprì la
finestra della sua [stanza] camera; e, seduta, com'era, [_sul_] nel
fondo della barca, [_appoggiò il gomito_] posò il braccio sulla sponda,
[_chinò_] posò [_su quello_] sul braccio la fronte, come per dormire, e
pianse segretamente.

Addio, [_montagne_] monti sorgenti [_dalle_] dall'acque, ed [_erette_]
elevati al cielo; cime [_ineguali_] inuguali, note a chi è cresciuto
tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che sia l'aspetto [_dei_]
de' suoi più [_famigliari_] familiari; torrenti, [_dei_] de' quali
[_egli_] distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche;
ville sparse e biancheggianti sul [_pendìo_] pendio, come branchi di
pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto
tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne
parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna,
si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si
maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro,
se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s'avanza
nel piano, il suo occhio si [_ritrae fastidito e stanco_] ritira,
disgustato e stanco, da [_quella_] quell'ampiezza uniforme; [_l'aere_]
l'aria gli [_simiglia gravoso e senza vita_] par gravosa e morta;
s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte
a case, le [_vie_] strade che sboccano nelle [_vie_] strade, pare
che gli [_tolgano_] levino il respiro; e [_dinanzi_] davanti agli
[_edifizii_] edifizi ammirati dallo straniero [_egli_] pensa, con
desiderio inquieto, al [_camperello_] campicello del suo paese, alla
casuccia a cui [_egli_] ha già [_posti_] messi gli occhi addosso, da
gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli [_nè pure_] neppure
un desiderio [_sfuggevole_] fuggitivo, chi aveva composti in essi
tutti i disegni dell'avvenire, e [_ne è_] n'è sbalzato lontano, da
una forza perversa! Chi, [_strappato_] staccato [_ad_] a un tempo
[_alle_] dalle più care abitudini, e [_sturbato_] disturbato nelle più
care speranze, lascia [_quei_] que' monti, per avviarsi in traccia di
[_stranieri_] sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e
non può [_colla_] con l'immaginazione [_trascorrere_] arrivare [=ad=]
a un momento stabilito [_pel_] per il ritorno! Addio, casa [_natale_]
natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere
dal [_romore_] rumore [_delle orme_] de' passi comuni il [_romore_]
rumore [_di un'orma aspettata_] d'un passo aspettato con un misterioso
timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte
alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si
[_compiaceva dì figurarsi_] figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo
di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno,
cantando le lodi del Signore; [_dove era_] dov'era promesso, preparato
un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente
benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!
[_Quegli che]_ Chi dava a voi tanta giocondità è [_da_] per tutto; [_ed
Egli_] e non turba mai la gioia [_dei_] de' suoi figli, se non per
prepararne loro una più certa e [_maggiore_] più grande.

Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco
[_dissimili_] diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre
la barca gli andava avvicinando alla [_destra riva_] riva destra
dell'Adda[180].



XI.

L'INNOMINATO; BRANO DELLA SECONDA MINUTA, STRALCIATO POI
DALL'AUTORE[181].


Nello schizzo che siam per dare della vita e del carattere di
quell'innominato noi collocheremo alcuni passi del Ripamonti,
traducendoli alla meglio dal suo bel latino[182]. Pel rimanente non
abbiamo altra autorità che quella del nostro manoscritto.

L'innominato era un tiranno, nel senso che si dava allora alla
parola, che non mi andaste ad accusar per giacobino: tiranni,
nell'uso comune e nelle gride erano nominati coloro che col mezzo dei
loro servi o bravi, resistevano più o meno agli ordini ed alla forza
pubblica, e ne esercitavano una arbitraria, capricciosa, più o meno
iniqua sopra i meno possenti. Fra quelli ai quali le ricchezze e la
nascita rendevano, in quella condizione di tempi, possibile una tale
tirannia, ben radi erano che non ne usassero un pochetto, almeno
in certe occasioni, talvolta forse senza averne una coscienza ben
distinta; molti la usavano come una professione; fra i molti spiccava
quest'uno. Unico erede d'una famiglia primaria, nato con un talento
superbo, imperioso, feroce, cresciuto fra l'apparato d'una grande
opulenza e d'una gran forza domestica, fra il chinar riverente di
facce bellicose e le dimostrazioni d'una servilità pronta a tutto
intraprendere, fra il concerto di cento voci che esaltavano a gara la
potenza della casa; e divenuto padrone in età assai giovanile, egli non
fu contento della porzione di superiorità che avevano goduta i suoi
maggiori. Queglino erano riveriti; egli volle esser terribile: eran
lasciati stare anche dai più potenti e irrequieti; a lui pareva di
scadere, quando non facesse stare nessuno: erano per lo più rimasti
al di sopra in ogni impegno dove avessero parte; egli volle essere
arbitro negli altrui, in quelli dove non aveva pure un pretesto per
intromettersi. Già da più generazioni la sua casa spiccava per una
sontuosità principesca; egli riformò tutto quello sfoggio di conviti,
di caccie, di torneamenti, e ne impiegò il costo in aumento di forza,
in bravi, in armi, in ispedizioni. Passava allora una gran parte del
tempo in città, e quivi la sua prima occupazione o il suo divertimento
fu di andare in cerca di quelli che nella turba dei soverchiatori di
mestiere erano i più famigerati, di pararsi loro dinanzi in qualunque
occasione, per tastarli, per provarsi con loro e diminuire quella loro
gran riputazione, o farsegli amici, d'un'amicizia però subordinata
dalla parte loro, che era la sola che gli piacesse, la sola, per dir
così, ch'egli sapesse intendere. In poco tempo ne ridusse molti a
desistere da ogni rivalità e a dargli la mano in ogni congiuntura, ne
conciò male qualcheduno dei più superbi e indomiti, e n'ebbe molti
amici al modo ch'egli desiderava. Nessun d'essi lo avrebbe confessato,
ma tutti sentivano alla sua presenza, e pensando a lui, una certa
inferiorità, che gli sforzava a risguardarlo e a trattarlo piuttosto
come un capo, che come un amico. Nel fatto però egli veniva ad essere
il faccendone, lo strumento di tutti coloro, e alle volte in affari in
cui la cooperazione sarebbe sembrata anche a lui vile, obbrobriosa, se
non vi fosse entrata la difficoltà e la forza, cose che nel concetto
comune, e più nel suo, nobilitavano tutto. Era a quei tempi cosa trita
e quotidiana, massime fra i soverchiatori di professione, il richiedere
negli impegni scabrosi l'aiuto e l'opera degli amici; cosa disonorevole
il rifiutarla senza buone ragioni; e perchè l'ingiustizia o il pericolo
dell'impresa fossero contate come tali, bisognava che arrivassero a un
grande eccesso. Una simile consuetudine, che era pei tiranni un mezzo e
un carico del mestiere, secondo le occasioni, doveva naturalmente dar
molte faccende a un tiranno come questo. I molti suoi amici avevano
molte e varie passioni da soddisfare; la predominante in lui era
quella di far cose vietate e difficili, e di non iscapitare, massime
appo loro, di quel gran concetto di audacia e di potenza. Pigliava
quindi facilmente i loro impegni, concorreva alle loro spedizioni e le
dirigeva; mandava i suoi bravi a minacciare i loro rivali di amorazzi
e di precedenze; a questo faceva intimare che non passasse nella tal
contrada, a quello che non persistesse nella tal lite, risguardava il
renitente come suo nemico personale, lo affrontava nella via con un
pretesto, e gli dava una pena infamante sulla superficie del corpo,
o una più nobile al di dentro, secondo la condizione della persona.
E in quanti ebbe di questi scontri, in tanti rimase al di sopra, più
gagliardo, più coraggioso, più destro, com'era, e meglio accompagnato
d'ogni altro. Per una strada tale, e di quel passo, non si poteva,
manco in allora, andar lungo tempo senza incontrarsi colla giustizia.
Ben è vero che l'innominato non lasciava di adoperare tutte le cautele
usitate dagli altri per eluderla e scansarla; e massime nelle cose più
gravi, come per esempio quando si trattasse d'un omicidio premeditato,
o d'un ratto, andava travestito, cercava i luoghi, aspettava i momenti
scuri: anche i suoi bravi a fare le intimazioni più arrischiate e le
spedizioni più atroci, andavano acconciati in forma, parlavano in modo,
da lasciar conoscere a cui appartenevano, quanto era necessario per
incuter più terrore, non tanto che bastasse a provare che appartenevano
a lui. Di modo che ad ognuno di quei suoi attentati, la giustizia non
aveva fatta altra dimostrazione che di pubblicare una di quelle gride,
chiamate d'impunità, colle quali si prometteva questa e un premio
al complice che facesse conoscere l'autor principale o i principali
autori del delitto, dando indizii sufficienti a procedere: gride
che nei casi di quest'uomo non avevano mai prodotto alcun effetto,
per ragioni che in parte s'indovinano facilmente, e che in parte
accenneremo in appresso. Quanto alle violenze ch'egli aveva commesse a
fronte scoperta, in pien meriggio, nella via, v'era ad una per una il
verso di rappresentarle come necessitate dalla difesa, o dall'onore,
il codice del quale era allora molto più rigido e sofistico riguardo
alle offese, e infinitamente più largo riguardo alla misura e ai modi
delle soddisfazioni, che non lo sia al presente; e nello stesso tempo
era più considerato come obbligatorio anche dove fosse in opposizione
colle leggi, non solo dal più dei privati, ma anche da quelli che
promulgavano ed eseguivano le leggi. Con questi mezzi un uomo del suo
grado poteva assicurarsi l'impunità di mal fare, fino ad un certo
segno; ma costui passava tutti i segni. Ne faceva più che nessun altro
del suo mestiere; offendeva piccoli e grandi senza distinzione; e nello
stesso tempo trascurava altri mezzi indispensabili anche per fare
impunemente meno di lui.

Gli altri tiranni (prescindo da alcuni disperati, che in guerra aperta
colle potestà e colla società, vivevano or raminghi, or rintanati
nei loro castellacci, e stavano anche alla strada come veri capi di
masnadieri; parlo di quelli che volevano abitare in città e godere i
comodi, gli spassi, gli onori della vita civile) gli altri tiranni
mantenevano più aderenze che fosse possibile col poter legale, si
valevano delle parentele, coltivavano cogli ufici e col corteggio le
amicizie degli uomini più graduati si obligavano i subalterni colle
protezioni e con certi atti di cortesia degnevole, e avevano dipendenti
e creati fino tra gli infimi esecutori, ai quali compensavano le
minacce coi regali, Cercavano insomma di tenere una mano su le
bilance della giustizia, per farle tracollare dalla parte loro in
una occasione, in un'altra farle sparire che non si trovassero, per
darle anche, se veniva un bel tratto, su la testa di qualcheduno che
non avevano potuto finire colle armi della violenza privata. Costui,
all'opposto, dopo essersi inimicati molti potenti, dei quali aveva
toccati in varie occasioni i protetti, gli amici, i congiunti, non solo
aveva sempre sdegnato di fare il più leggiero uficio per raddolcire
quegli odii e per soddisfare quegli orgogli irritati, ma non s'era nè
anche curato mai di procacciarsi almeno amici egualmente potenti da
contrapporre a quelli. Le sommissioni, le pratiche, anco le cerimonie
necessarie a questo fine, gli erano insopportabili: affettare una gran
noncuranza per ogni autorità era un elemento della sua passione, uno
di quei piaceri per cui egli affrontava tanti pericoli e faceva tante
male vite. I suoi parenti stessi, che ne aveva più d'uno in alti posti,
oltre che gli era lor divenuto un peso con quel suo metterli sempre a
petto or d'un collega, or d'un superiore, col porli sempre al partito
di combattere con rischio, o di cedere con diminuzione di credito, se
gli era poi anche disgustati col suo tratto verso di loro. Avrebbero
essi voluto difenderlo, ma insieme regolarlo; rattoppar bensì certe
sue malefatte, ma tenersi in possesso di fargliene qualche buona
riprensione, e dì prescrivergli norme dì prudenza e di moderazione
per l'avvenire: egli con quel suo animo precipitoso e ricalcitrante
aveva altamente sdegnato favori di quella sorte. Con tutto ciò,
queglino, per l'onor del nome, avevano continuato per qualche tempo a
sostenerlo; ma finalmente, vedendo meglio d'ogni altro, nella regione
delle nuvole dove abitavano, il grosso temporale formato contro di lui;
informati che dalla bocca stessa del governatore erano usciti certi
tuoni sordi e cupi, per non commettere il loro credito nel sostegno
d'una causa che alla fine doveva esser perduta, s'erano ridotti a far
vista di abbandonarla volontariamente, a mostrarsi irritati più che
altri contra il loro scandaloso parente, a far gli antichi romani,
e lasciarsi intendere che, mettendo le leggi e l'ordine pubblico
innanzi agli affetti privati, avrebbero lasciato un libero corso alla
giustizia. Con lui non potevano altro che mandargli avvisi di tempo
in tempo, che s'egli tirava innanzi a quel modo, non facesse più
conto della loro assistenza. Quanto agli amici dell'innominato, essi
non erano per lo più gente che avesse voce per sè in quel capitolo:
alcuni, è vero, imparentati con togati potenti, facevano con essi
a favore dell'innominato gli ufici ch'egli sdegnava; ma tali ufici
indiretti avevano poca forza contra le ire radicate e le pratiche degli
avversarii, occulte, in parte, per timore, ma calde e insistenti.

Le cose erano in questo stato, quando una mattina si trovò in una
via il cadavere malamente trafitto d'un uomo ch'egli odiava: (il
manoscritto non dice di più), e la voce publica disegnò tosto
l'innominato come autore del fatto. In senato, nel palazzo del
governatore, nei gabinetti dei potenti, nemici dell'innominato, si
mormorò che era venuta la volta di dar finalmente un grande esempio.
Il capitano di giustizia ricevette ordine segreto di procedere alla
cattura. Ordini tali contra tali uomini era ancor più difficile
l'eseguirli che il darli: bisognava non lasciar traspirar nulla
dell'intenzione, per sorprendere il nemico, e insieme dar molte
disposizioni e mettere in campo forze straordinarie. Di queste forze
poi non si poteva far capitale che fino ad un certo segno: quando si
aveva che fare con un tiranno di conosciuta bravura, e circondato da
una mano di disperati, il più dei birri vi andavano di mala voglia,
alcuni si rincantucciavano anche per non lasciarsi trovare, o nel
bello della spedizione la davano a gambe, o abbassate le armi e cavato
il cappello dicevano: illustrissimo signore, vada pure liberamente,
che noi non siamo per fargli male. E quand'anche nessun di loro
avesse intelligenze coi bravi del tiranno, che si voleva prendere, se
ne sarebbe trovato più d'uno che pel solo amore della pace avrebbe
cercato qualche mezzo di farlo avvertire; acciocchè, fuggendo,
togliesse sè ed altri d'impaccio. Come che la cosa andasse in questo
caso, l'innominato ebbe tosto avviso da più d'un luogo dell'ordine
fulminato contra di lui. Non pensò pure di mettersi in salvo colla
fuga, non si curò di rimpiattarsi, si mostrò anzi in pubblico più del
solito con un più grande accompagnamento, per guardia insieme e per
ostentazione, non rimise punto della sua solita arroganza; anzi spiò
attentamente se qualche parente del morto gli passasse dinanzi con
aria di provocazione, se alcuno de' suoi nemici coperti volesse in
quella occasione alzare un po' la cresta e uscire appena appena dei
termini consueti di rispetto, deliberato e desideroso di farne in tali
circostanze qualche dimostrazione più strepitosa.

In questo mezzo fu avvertito che un bargello, famoso per varie
prese difficili, scaltrito negli agguati e intrepido negli assalti,
coraggioso per natura e obbligato ad esserlo sempre più per conservare
la sua riputazione di coraggio, essendogli stata questa volta promessa
da certi potenti una grossa somma di danari se facesse il colpo, ne
aveva preso l'impegno, e che troverebbe egli il modo di metter la
musoliera all'orso e di menarlo legato in gabbia. Da quel momento la
vita del bargello divenne un tormento per l'innominato; se lo sentiva,
per dir così, pesare su le spalle. Per adescarlo e crescergli animo,
finse d'essere entrato in timore, si tenne chiuso in casa, fece sparger
voce dì volere sfrattar di soppiatto e travestito. Molta gente diceva
che s'eran veduti altri birboni dopo averne fatte tante e tante perdere
in un tratto quel gran rigoglio quando la loro ora era venuta; gli
amici non sapevano più che pensare; egli rintanato coi suoi bravi non
si lasciava veder da nessuno. I birri, che fino allora avevano giucato
dalla lunga, cominciarono a ronzare in frotte nei contorni della casa,
a tenersi ai canti della via: il bargello lì metteva a posto, li
moveva, dirigeva ogni cosa, girava travestito, teneva e faceva tener
l'occhio, ora alla porta, ora agli sbocchi della via, sbirciava con
certi suoi occhi cervieri chiunque uscisse di qua o di là, temendo
sempre che il suo uomo non gli scappasse sotto qualche travisamento.
Ma l'uomo, che pensava a fargli tutt'altro tiro che quello, avvertito
un dì sul vespero che il bargello vigilante s'era piantato ad un
canto della via, chiama un suo ragazzaccio, ch'egli andava allevando
al patibolo, gli pone una valigetta su le spalle, e lo ammaestra che
esca da quel canto, strisciando dietro il muro a guisa di chi vorrebbe
passare inosservato. Mosso questo zimbello, egli mette l'occhio a un
pertugetto d'una imposta chiusa, per vedere che accade nella via, e
pochi istanti dopo vede birri a due, a tre venire innanzi e allogarsi
dietro gli angoli di questa e di quella casa vicina, e poi avanzarsi
il bargello in persona, entrare in una porta, star qualche momento,
uscire, entrare in un'altra più vicina, far capolino, guardar fuori.

Lascia in vedetta a quel pertugio un servo che desse un gran fischio
quando il bargello porrebbe il piè nella via e verrebbe verso la casa,
scende in fretta con molti altri, e li fa star pronti in arme sotto
il portico; egli cheto cheto va nell'androne a porsi a canto una
parete, tenendo colla destra il cane e il grilletto, colla sinistra
la canna d'una sua carabina, terribilmente famosa al pari di lui. Un
fischio, un salto alla soglia, una sguardata, una mira, uno scoppio,
il bargello per terra, tutto ciò avvenne in sei secondi. L'assassino
rientrò subitamente, chiamò i bravi, e alla testa loro piombò addosso
ai birri, che, sorpresi dal colpo e sopraffatti dal numero, la diedero
a gambe[183].

La città fu piena del caso. La notizia ne giunse al palazzo di
giustizia coi birri più corridori: il capitano corse a darla al
governatore. Per l'ordinario i governatori non s'impacciavano in queste
faccende: non già che fosse massima di lasciar fare i tribunali; era
anzi massima che i governatori potessero non solo far le leggi, ma
applicarle, derogare, dispensare, dare in ogni caso gli ordini che loro
paressero a proposito. Molti infatti ne venivan dati in loro nome; ma
per lo più non v'era altro che il nome; l'attenzione, la volontà e
l'opera loro si esercitava in tutt'altri oggetti.

Chi nasce in questo mondo nei tempi ordinarii, dice il
manoscritto[184], è come un sonatore d'una grande orchestra in una
festa, che si sveglia nel mezzo d'una sonata e d'una danza, e trova
una musica avviata, un tuono, una misura: bada un momento, per capirla
bene, e poi piglia il suo stromento[185] e cerca d'entrare in concerto.
Così quegli spagnuoli, che nascevano per essere governatori dello
Stato di Milano, trovavano una musica avviata di faccende in corso,
un gran numero d'idee stabilite e predominanti, e fra l'altre questa:
che la potenza spagnuola aveva, o voleva, o doveva avere su tutta
l'Italia, almeno un predominio. Quando uno veniva spedito a questo
governo, vi portava l'idea fissa che mantenere ed estendere questo
predominio doveva essere la sua grande occupazione. Lo era in fatti,
e lo sarebbe stata, quand'anche, egli, per impossibile, non avesse
avute nè istruzioni, nè inclinazioni a ciò. Perchè trovava incamminata
un'altra macchina opposta e complicatissima, mossa continuamente da
altre potenze, che non volevano quella storia del predominio, e ne
stavano sempre in sospetto, si trovava a fronte e da ogni lato un
vasto e confuso sistema di resistenze, di difese, di offese, centra
il quale gli bisognava pure ingegnarsi. Bisognava dunque vigilare
tutti i principi e gli Stati d'Italia, mantener questi nella devozione
consueta, contener quegli altri, o spaventarli, attirarli, conoscere
i loro pensieri, inimicarli, o riconciliarli, secondo le occorrenze:
un mondo di cose. Oltracciò i governatori erano capitani generali e
conducevano in persona le guerre, che avevano fatte nascere, o che
non era loro riuscito d'impedire, in Italia, o che vi si facevano
come parte di guerre più generali. Avevano quindi sempre gli occhi e
le mani in quella grande matassa che avevano trovata scompigliata,
e scompigliata lasciavano partendo dal governo, o dal mondo; e non
restava loro troppo ozio per le cose di governo interiore: le facevano
fare, o le lasciavan fare, mettevano di gran ghirigori in fondo a
molte carte, su le quali era scritto che eglino erano risoluti che le
tali cose andassero al tal modo, senza curarsi poi di sapere nè il
che, nè il perchè, fuor che in alcuni casi in cui per qualche cagione
straordinaria avevano essi realmente una volontà, o una. ne veniva loro
inspirata. Il caso dell'innominato era di questi: i suoi molti e grandi
nimici lo avevano dipinto al governatore come uno spirito rubello, un
perturbatore sedizioso, un uomo la cui audacia e impunità nel delitto
accusavano d'impotenza o di trascuraggine la pubblica autorità; e nel
vero non era calunnia. Il governatore, già irritato, al ricevere di
quella notizia, ritenne il capitano, ebbe a sè membri del consiglio
segreto, senatori, altri magistrati; si tenne consulta. Intanto colui
che ne era il soggetto, rientrato in casa, e ben rinchiuso, aveva
pigliata la risoluzione di non si muovere e si preparava ad ogni
evento; ma in quella notte stessa, qualche amico, venuto a lui di
soppiatto, gli comunicò di avere avuto avviso segreto e certo che
il governatore aveva personalmente preso impegno in quell'affare,
ed era deliberato di fare all'ultimo uscir del castello un corpo di
moschettieri che si unisse ai birri e desse l'assalto alla casa. Non
era più il caso di esitare: le forze d'un privato, anche nel supposto
inverisimile che in tanto pericolo fossero per serbarglisi costanti,
non potevano competere con un tale avversario, ogni volta che volesse
davvero adoperar tutte le sue. Sul far del giorno l'innominato uscì
con tutti i suoi bravi, e si andò a ritirare in un convento vicino.
In quei luoghi gli ospiti pari suoi, accompagnati, o no. dovevano
esser sofferti, anzi accolti, quand'anche fossero tutt'altro che
desiderati; e la forza secolare non supponeva pure che fosse possibile
d'introdurvisi. Un tal passo acquetò anche un poco la furia, e indebolì
l'impegno del governatore: perchè nei casi in cui si trattava più di
vincere un puntiglio che di punire un reo, la fuga di questo in un
asilo poteva parere una specie di soddisfazione alla potestà civile,
un confessare che non si ardiva di farle fronte nel campo della sua
giurisdizione; e per un uomo, che ha molti affari grossi, poco basta a
raffreddarlo in uno che non sia dei principali. Però comparve in quel
giorno una grida del governatore stesso, colla quale a chi consegnasse
vivo l'innominato nelle mani della giustizia, _in maniera che sopra di
lui ella potesse esercire li suoi atti_, venivano promessi mille scudi
di premio e la liberazione di quattro banditi, l'impunità propria al
consegnante, s'egli fosse complice, e la liberazione, s'egli fosse
bandito, purchè non lo fosse per certi casi riservati.

Vorrei poter risparmiare al lettore tutte queste notizie e riflessioni
generali su le opinioni, gli usi, le istituzioni di que' tempi, e
condurlo speditamente di fatto in fatto fino al termine della storia;
ma i fatti che mi tocca di raccontare sono talvolta così dissimili
dall'andare comune dei nostri giorni, così estranei alla nostra
esperienza, che a dar loro un certo grado di chiarezza, mi par pure
indispensabile di spiegare alquanto lo stato di cose nel quale e pel
quale potevano essere. Altrimenti, a quelli che non hanno fatti studii
particolari sopra quell'epoca, sarebbe come presentare un osso d'uno
di questi animaloni di razze perdute, senza dare un po' di descrizione
dello scheletro, o di quel tanto che se n'è potuto trovare e mettere
insieme, per la quale si vegga come quell'osso giuocava. S'io dicessi
semplicemente che tutte le promesse di quella grida non produssero
alcun effetto, senza darne alcuna ragione, forse a taluno la cosa
potrebbe parere strana e inverosimile; due parole dunque, abbiate
pazienza, anche su questo proposito.

L'intento delle gride, chiamate d'impunità, e che appunto avevano un
nome proprio per esser molto frequenti, l'intento era, come ognun
vede, d'indurre i rei medesimi a farsi ministri della giustizia, e di
seminare la diffidenza fra loro. Perduta la speranza e abbandonata
la pretensione di ottener l'effetto intero degli editti, si voleva
almeno, col sagrifizio d'una porzione del pubblico esempio, assicurarne
un'altra, e la più importante. Ma, senza parlare della sensatezza
dell'intento, nè del merito morale dei mezzi, che questi, in moltissimi
casi, riuscissero inefficaci a conseguirlo, ne abbiamo la prova in
molte gride d'impunità contra uno o più banditi, ripublicate molti
anni dopo la prima publicazione. L'impunità d'un delitto era un premio
di poco valore per complici che d'ordinario ne avevano addosso molti
altri, e che intanto godevano, con fatica, è vero, una impunità intera
all'ombra del loro capo. La liberazione era un debole allettamento per
banditi che non vivevano, nè volevano vivere se non di quelle cose per
le quali s'incorreva nel bando. Di più, per ottenere questi vantaggi,
quali che fossero, il complice o il bandito doveva necessariamente
aver che fare con la giustizia, confidarsi ad una autorità cavillosa
e malfida, la quale certamente desiderava più di sterminarlo che di
dargli una ricompensa, e che disponeva di procedure complicatissime,
e non solo operava ad arbitrio, ma ne aveva consecrato anche il nome.
Quanto a quell'esca del premio pecuniario, ella non poteva tentare
che una classe di persone: le gride costituivano birro o carnefice
ogni cittadino che avesse voluto farne l'uficio e meritarne la paga;
ma l'uso della forza publica e le idee comuni tendevano a tutt'altro
che a far risguardare come onorevole e virtuosa una tale cooperazione
del privato a quella forza, e nessun uomo dabbene e pacifico avrebbe
voluto affrontare un pericolo e l'infamia, nè vincere una ripugnanza
fondata in gran parte sopra motivi onesti, per amore degli scudi. Non
restavano dunque che i facinorosi di professione, e gli scherani stessi
del tiranno; ma quando uno di questi fosse riuscito a far sicuramente
il suo colpo, doveva poi aspettarsi la vendetta di lui, se, preso,
egli tornava in libertà, o dei suoi parenti ed amici, s'egli fosse
stato morto; doveva, dico, aspettarsela con certezza, in un tempo
in cui la vendetta era dai più tenuta come una obligazione d'onore,
e l'assassinio in questi casi non era contato fra quelle azioni che
lo tolgono. Tutto ciò quando l'impresa di prendere o di uccidere un
tiranno fosse stata per sè agevole; ma i tiranni adoperavano anch'essi
naturalmente tutti i mezzi che potevano, per assicurarsi contra la
forza aperta e contra le insidie; di questi mezzi ne avevano assai;
e quel che è osservabile, le gride stesse, fatte contra di essi, ne
suggerivano, ne somministravano loro alcuni, e dei più potenti.

Le società civili (ancora un momento di pazienza) sono state spesso
paragonate al corpo umano, i legislatori ai medici, le leggi alle
medicine: e in fatti queste cose si somigliano molto, se non altro in
ciò, che son tutte cose assai curiose. Hanno poi altre somiglianze
parziali; eccone una. Un medico amministra un rimedio ad intenzione che
faccia nel corpo una tale operazione, che il rimedio fa, o non fa, ma
ne fa poi sovente altre che il medico non ha volute, nè prevedute, che
non riconoscerà come conseguenze del suo fatto, quando si manifestino,
ma dirà: oh, vedete un po' che scherzi fa la natura! Lo stesso accade
sovente in fatto di leggi: e siccome poi le società civili sono infermi
di lunga vita, sono, per servirci di un modo proverbiale, di quelle
conche fesse che bastano un pezzo, così alle volte, appena dopo cento,
dugento, trecent'anni, si comincia a sospettare, ad aver sentore, che
certe doglie vecchie d'un corpo sociale, certi sintomi stravaganti e
non mai spiegati, sono effetti d'uno specifico mirabile applicato o
cacciato giù fin da quel tempo per ordine d'un medico valente, (parlo
in metafora) o per consulto di più valenti medici. V'ha anche alcuni
di questi effetti, nè voluti, nè preveduti dal legislatore, che danno
in fuori immediatamente. Le gride, di cui parliamo, dovevano produrre
inevitabilmente questo: che i tiranni, quanto più erano minacciati da
quelle, tanto più si tenessero intorno di quei malfattori segnalati,
ai quali le gride non promettevano grazia, e che non avendo altra
speranza di salvezza che nel loro signore, non solo non erano tentati
d'ordirgli insidie, ma interessati a guardarlo dalle altrui. Così
quegli atti legislativi tendevano, non per intenzione, ma in fatto,
a riunire i più perniciosi e determinati ribaldi, davano, per così
dire, un nuovo bisogno e un nuovo indicamento di organizzazione alle
forze nemiche della giustizia in tutti i sensi di questa parola. Che
se, per uscire da questo inconveniente, si fosse estesa ad ogni classe
di colpevoli la promessa dell'impunità e della liberazione, si cadeva
nell'altro terribile di rinunziare anche alla speranza, alla volontà,
di non lasciar senza pena almeno certi più atroci misfatti. Con queste
osservazioni si capisce tanto o quanto il come a nessuno venisse voglia
di prendere il tiranno innominato, nè tanti altri banditi come lui.

In quell'asilo egli dovette pensare ai casi suoi. Grazia dall'autorità
non era da sperarne, nè manco egli era inclinato a ricorrere ad un tale
rimedio; rimaner quivi rinchiuso, a che fare? e fin quando? Uscirne,
e tornare a casa sua a far la vita di prima, non era cosa riuscibile,
al punto a cui aveva spinte le cose. Risolvette dunque di sfrattar
dallo Stato. Suppongo che a questa circostanza debba riferirsi un
tratto della sua vita, che è menzionato nella storia sopra citata del
Ripamonti, un tratto che basterebbe a dare un'idea dell'uomo, e che noi
riporteremo perciò, traducendolo alla meglio dall'energico latino di
quello scrittore: «Una volta», dic'egli, «che costui, non so per qual
cagione, volle sgombrare il paese, la paura che mostrò, il riguardo e
la segretezza che usò, furono tali: traversò la città a cavallo, con
un seguito di cani» (gli uomini si sottintendono) «a suon di tromba; e
passando dinanzi al palazzo di Corte, lasciò alle guardie un'imbasciata
di villanie pel governatore». Uscito ch'ei fu dello Stato, si pubblicò
un altro bando che ne lo dichiarava cacciato, e gli _levava la
protezione regia, sì che, tornando, potesse esser fatto prigione e
impunemente offeso da tutti_, mantenute le promesse anteriori; e
aggiunta la liberazione di quattro banditi a chi lo consegnasse vivo o
morto. Dove egli andasse a posarsi, o dove errasse, che facesse fuori e
quanto tempo vi rimanesse, nè il manoscritto lo dice, nè altrove ne ho
trovata menzione: trovo soltanto che una mattina egli pigliò il partito
di tornarsene in paese. O fosse cangiato quel governatore che s'era
dichiarato suo nemico personale; fossero mancati di vita o decaduti
di potenza alcuni de' suoi più capitali nemici, o venuti in potenza
de' suoi amici; o fosse levato il bando per qualche potentissima
raccomandazione (che anche un tal supposto è verisimile in quella
condizione di tempi); o fossero nate altre circostanze qualunque da
inspirargli una nuova sicurezza, o quel suo animo gliene tenesse luogo,
certo è ch'egli stimò di poter tornare liberamente a casa sua e di
stabilirvisi, e vi tornò infatti, non però in Milano, ma in un castello
d'un suo feudo su l'estremo confine col territorio bergamasco, e allora
collo Stato Veneto. È parimente certo che nella sua assenza egli non
aveva rotte le pratiche, nè intermesse le corrispondenze con que' tali
suoi amici, e che stabilito nel suo castello continuò ad essere unito
con loro, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta
di consigli atroci e di cose funeste». Pare anzi che quel terribile
faccendone di misfatti approfittasse dell'esiglio per estendere tali
corrispondenze, e contraesse allora in più alti luoghi certe nuove
terribili pratiche, delle quali il Ripamonti parla con una sua brevità
misteriosa: «Anche alcuni principi esteri», dice questo scrittore, «si
valsero più volte dell'opera sua per qualche importante uccisione,
e in più d'un caso gli spedirono da lontano rinforzi di gente che
servisse a ciò sotto i suoi ordini». Noi abbiamo ben fatto il possibile
per trovar qualche più distinto particolare d'un fatto così importante
alla cognizione e del personaggio e dello stato della società in quel
tempo; ma senza effetto. La storia, e massime quella dei costumi, è nei
libri, come nei musei d'anticaglie, a pezzi e bocconi, e troppo spesso,
principalmente nei libri, se ne trova di quelli che non si possono
mettere insieme con altri pezzi e con altri bocconi, tanto da vederne
una figura, e da ricavarne una notizia[186].



XII.

DESCRIZIONE DELL'AUTOGRAFO DELLA PRIMA MINUTA DE' «PROMESSI SPOSI»[187].


1) «_Introduzione_».

Fogli 6 in-fol. di pp. 4 l'uno. Il primo non è numerato, gli altri
hanno la numerazione alla romana II-VI, fatta dal Manzoni stesso.
Comincia: «L'Historia si può veramente»; finisce: «non sarebbe pure
inteso». È il primo sbozzo autografo, ed è scritto a colonna, come
tutto il Romanzo. Forma il n. 1.ᴬ de' _Fogli staccati dai_ «Promessi
Sposi». Fu stampato da me a pp. 183-194 del vol. I degli _Scritti
postumi_.


2) [_Fogli di scarto del primo abbozzo dell_'Introduzione].

Fogli 2 in-fol. di 4 pp. per ciascuno. Il Manzoni, di sua mano,
numerò col III il primo di questi due fogli, ma poi dette di frego a
quel numero e lo mutò in II.ᵇⁱˢ Il secondo fu da lui numerato III.
Cominciano: «Ogni epoca letteraria»; finiscono: «a quelle nostre,
sacrificando». Formano il fascicolo n. 1.ᴮ de' _Fogli staccati dai_
«Promessi Sposi». Sono a stampa a pp. 194-198 del vol I degli _Scritti
postumi_.


3) «_Introduzione_».

Abbraccia 4 fogli in-fol. di 4 pp. l'uno, il primo senza numerazione,
gli altri numerati dal Manzoni 2-4. L'ultima pagina del quarto foglio
è bianca. Comincia: «La Storia si può veramente»; finisce: «del molto
più che egli stesso vi ha speso». Sta in fronte alla prima minuta del
Romanzo; ma in realtà è la seconda minuta dell'_Introduzione_. Fu
stampata a pp. 198-204 del vol I degli _Scritti postumi_.


4) «_Capitolo I_. _Il curato di_...».

È il primo capitolo del tomo primo, con questa data, su in alto: _24
Aprile 1821_. Si compone de' fogli: I, 2-5 e 8-14. Di quest'ultimo
è scritta soltanto la prima colonna. De' fogli mancanti 6 e 7, il 6
fu trasportato dal Manzoni nella seconda minuta, dove si trova. Gli
mutò il numero, prima in 7, poi in 8, rimastogli. Il foglio 7 nella
seconda minuta ebbe prima il numero 8, poi quello 9. Di esso, peraltro,
stracciò le due ultime pagine e ve ne sostituì due nuove. Le due pagine
vecchie hanno adesso il n. 17. Il capitolo comincia: «Quel ramo del
lago di Como»; finisce: «ordinatamente sui casi suoi».


5) «_Cap. II. Fermo_».

Si compone de' fogli 15, 17-23. Di quest'ultimo è scritta soltanto la
prima colonna. Il Manzoni trasportò nella seconda minuta le due prime
pagine del foglio 16; e lasciò nella prima le due ultime pagine del
foglio stesso. Il capitolo comincia: «La consulta fu tempestosa e durò
tutta la notte»; finisce: «che noi racconteremo nel seguente capitolo».


6) «_Cap. III. Il causidico_».

Prima era intitolato: «_Don Rodrigo_». Si componeva de' fogli 24-34,
che l'A. trasportò tutti quanti nella seconda minuta, dove hanno la
nuova numerazione 47-68. Incomincia: «I tre rimasti a consiglio»;
finisce: «Tanto è vero che un uomo colpito da grandi dolori non sa più
quello che si dica».


7) «_Cap. IV. Il Padre Cristoforo_».

Prima era intitolato: «_Il Padre Galdino_», Si compone de' fogli
rimasti 35-38. I fogli 39-46 furono dal Manzoni trasportati nella
seconda minuta. Comincia: «Era un bel mattino di novembre»; finisce:
«dicendo ad una voce: Oh Padre Guardiano!»


8) «_Cap. V. Il tentativo_».

Si componeva de' fogli 47-58, che il Manzoni trasportò nella seconda
minuta. Comincia: «Il qual Padre Guardiano»; finisce: «lo condusse seco
in una stanza vicina».


9) «_Cap. VI. Peggio che peggio_».

Si componeva de' fogli 59-67, che l'A. trasportò nella seconda minuta,
ma cancellandovi quasi per intiero la prima stesura e tornando a
riscrivere il capitolo. Nella prima minuta è rimasto soltanto il
foglio 68. Il capitolo comincia: «Ognuno può avere»; finisce: «di non
dir parola del disegno contrastato».


10) «_Capitolo VII. La sorpresa_».

Il Manzoni trasportò nella seconda minuta i fogli 69-80; lasciando
nella prima soltanto il foglio 81. Comincia: «Il Padre Cristoforo
arrivava nell'attitudine d'un buon generale»; finisce: «e la povera
Lucia appoggiata».


11) «_Capitolo VIII. La fuga_».

De' fogli che lo formano sono rimasti l'82, l'83, il 91 e il 92,
Quest'ultimo era prima numerato 90. Il Manzoni trasportò nella
seconda minuta il foglio 84, che divenne 86, l'85 mutato in 87, l'87
trasformato in 89, l'88 diventato 90, e l'89 cambiato in 91. Il vecchio
foglio 86 manca. Con questo capitolo finisce il tomo primo. Comincia:
«Ton, ton, ton, ton, i contadini»; finisce: «viveva delle sue stesse
speranze».


12) «_Cap. I. Digressione--La Signora_».

Prima aveva per titolo: «Cap. IX. Disgressione»; divenne poi, invece
dell'ultimo capitolo del tomo I, il capitolo I del tomo II. I fogli
che lo compongono hanno la vecchia numerazione manzoniana 92-101, ma
cancellata; uno soltanto, l'11 e ultimo, ha quella nuova, pur dategli
dal Manzoni. Comincia: «Avendo posto in fronte a questo scritto»;
finisce: «con la Signora a subire l'esame».


13) «_Capitolo II. La Signora tuttavia_».

Si compone de' fogli 12-23. Il capitolo termina nella seconda colonna
dell'ultimo di questi fogli. Comincia: «Le parole della Signora»;
finisce: «si sarebbe fatta per lo meglio».


14) «_Capitolo III_».

Si compone de' fogli 24-34. Comincia: «V'ha dei momenti in cui
l'animo»; finisce: «poteva esser un gran soccorso».


15) «_Capitolo IV_».

Si compone de' fogli 35-45. Comincia: «Appena cessati gl'inchini»;
finisce: «e come diremo nel seguente capitolo».


16) «_Capitolo V_».

Si compone de' fogli 46-53. Comincia: «Il quartiere dove abitavano le
educande»; finisce: «con un colpo la lasciò senza vita».


17) «_Capitolo VI_».

Si compone de' fogli 54-59. Disgraziatamente mancano i fogli 60-61.
Comincia: «Accorse al romore Egidio»; finisce: «non da un vecchio calvo
e barbuto».


18) «_Capitolo VII_».

Si compone de' fogli 62-74. Comincia: «Come una truppa di segugi»;
finisce: «era appunto per lui quel che il diavolo fece».


19) «_Capitolo VIII_».

Si compone de' fogli 75-87. Comincia: «Il mattino seguente»; finisce:
«la via che gli era prescritta».


20) «_Capitolo IX_».

Si compone de' fogli 88-95 e 95-1/2-99. «Comincia: «Quando Egidio si
avvenne»; finisce: «essere esenti da ogni perplessità».


21) «_Capitolo X_».

Si compone de' fogli 100-116. Comincia: «La carrozza correva tuttavia»;
finisce: «e mescolandovi del vostro il meno che sarà possibile». In
calce poi porta scritto: «_Fine del 2.º volume_».


22) «_Cap. I_».

È il capitolo I del tomo III, e su in alto porta scritto: _28 8bre
1822_. Si compone de' fogli 1-11. Comincia: «Il Cardinale Federigo
secondo il suo costume»; finisce: «seguirono posatamente la lettiga».


23) «_Capitolo II_».

Ha principio alla terza colonna del foglio ii e abbraccia i fogli
12-24. Comincia: «La casupola del curato»; finisce: «il nome del Conte
del Sagrato non ricompare poi più nel manoscritto».


24) «_Capitolo III_».

Si compone de' fogli 25-30. Comincia: «Quando il Cardinale, terminate
le funzioni, si ritirò»; finisce: «pregò egli il curato di portarsi a
Chiuso e di far sapere a Lucia ch'egli pensava a Lei e che stesse dì
buon animo».


25) [_Capitolo IV_].

Il Manzoni si scordò d'intestarlo, ed Ermes Visconti vi scrisse:
«_Cap._ (_quello che sarà_)». Abbraccia i fogli 31-50. Comincia:
«Dopo due, tre o quattro giorni spesi dal Cardinale nella visita»;
finisce: «per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un sì misero
sostantivo».


26) «_Capitolo V_».

Abbraccia i fogli 51-64. I fogli però 52-64, prima avevano un'altra
numerazione: il 52 era 51, e via di seguito. Comincia: «Ho visto più
volte un caro fanciullo (vispo a dir vero più del bisogno)»; finisce:
«che sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe
rimediato a tutto».


27) «_Capitolo VI_».

Si compone de' fogli 65-77. I fogli 65 e 66, prima erano numerati 64 e
65. Comincia: «Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è
vero di due difetti»; finisce: «Prendiamo dunque gli uomini come sono,
raccontando quello che hanno fatto».


28) [_Capitolo VII_].

Abbraccia i fogli 78-86 e le due prime colonne del foglio 87.
L'intestatura: _Capitolo VII_ fu cancellata dal Manzoni, che per un
istante vagheggiò di farne la prosecuzione del capitolo precedente;
pensiero che poi depose. Comincia: «La folla che all'avviarsi della
carrozza s'era tutta messa in movimento, per tenerle dietro, cominciò
a disperdersi»; finisce: «o a maggior pena pecuniaria o corporale ad
arbitrio di Sua Eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie».


29) «_Capitolo VIII_».

Ha principio alla terza colonna del foglio 87 e abbraccia i fogli
88-99. Incomincia: «A queste parole giunse egli alla soglia del palazzo
del Capitano di Giustizia»; finisce: «Lasceremo per ora Fermo, giacchè
si trova in una situazione tollerabile e torneremo colla sua e nostra
Lucia».


30) «_Capitolo IX_».

Abbraccia i fogli 100-110. Comincia: «Dobbiamo ora far conoscere al
lettore i personaggi coi quali si trovava Lucia»; finisce: «come ai
giorni nostri farebbe una madre della condizione di Agnese che avesse
una figliata collocata in Inghilterra». Segue, ma cancellato: «_Fine
del tomo III_. _11 marzo 1823_»; poi, senza cancellare, e aggiunto
dopo: «_segue_».


31) [_Aggiunta al Capitolo IX_].

Si compone de' fogli 111-113. Comincia: «La povera donna aveva un'altra
faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo»; finisce: «fin
che ella fu interrotta dagli avvenimenti, che racconteremo nel volume
seguente»; e poi: «_Fine del tomo III_». Questa aggiunta è formata dei
fogli 58 e 59 del tomo IV, che stralciò di là, dandogli i numeri 111
e 112, e del nuovo foglio 113. Nel vecchio foglio 58 cancellò le due
prime colonne, contenenti un brano che incominciava: «Fatte le parti,
i monatti lo posero [_Don Rodrigo_] nella bussola e lo portarono al
lazzeretto»: e che finiva: «Fermo era sempre rimasto a Bergamo, dove
era andato a porsi in salvo».


32) «_Capitolo I_».

È il capitolo I del tomo IV. Abbraccia i fogli 1-13. Comincia: «Dalla
fine dell'anno 1628 alla quale siamo pervenuti colla narrazione»;
finisce: «Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di
Lecco».


33) «_Capitolo II_».

Si compone de' fogli 14-25. Comincia: «Le contingenze infelici della
vita umana»; finisce: «vestimenta o cose di qualunque genere infette».
L'ultimo brano però si legge in margine alla prima colonna del foglio
26.


34) «_Capitolo III_».

Si compone de' fogli 26-37. Il 26, prima era 27, Comincia: «Il giorno
22 d'Ottobre di quell'anno 1629, Pietro Antonio Lovato»; finisce:
«ripiglio il manoscritto del mio autore e torno alla storia».


35) «_Capitolo IV_».

Si compone de' fogli 38-53. Il capitolo però termina nella prima
colonna dell'ultimo di questi fogli. Comincia: «Andavano intanto
coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando»; finisce: «Gli
abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa
storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero».


36) «_Capitolo V_».

Comincia nella seconda colonna del foglio 53 e abbraccia i fogli 54-66.
Principia così: «Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava
alla sua casa in Milano»; finisce: «e fece la sua seconda entrata in
Milano, che gli comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai
che non era stato la prima volta».


37) «_Capitolo VI_».

Non restano di questo capitolo che i fogli 67-73. Comincia: «S'io
avessi ad inventare una storia»; resta in tronco con le parole: «ma
egli era presso al termine della via, d'una via».


38) [_Capitolo VII_].

Di questo capitolo manca il principio; de' fogli che lo componevano
rimangono quelli 82-94. Nella quarta colonna di questo ultimo foglio
ha principio il capitolo VIII. Ciò che resta comincia con una colonna
tutta cancellata, che dalle parole: «il favore degli uomini benevoli»
arriva alle parole «dai suoi nemici, i quali del resto». Il capitolo
finisce: «andava cercando intorno dove fosse più bisogno della sua
assistenza».


39) «_Capitolo VIII_».

Comincia, come s'è detto, nella quarta colonna del foglio 94 e
abbraccia i fogli 95-109. Comincia: «All'intorno del picciolo tempio»;
finisce: «si rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita
commozione».


40) «_Capitolo IX_».

Si compone de' fogli 110-120. Comincia: «Ritto sul mezzo dell'uscio»;
finisce: «e di terminare con essa la nostra storia». Poi vi sta
scritto: «_17 settembre 1823_».



FINE DELLA PARTE SECONDA.



OPERE DI ALESSANDRO MANZONI

edite da ULRICO HOEPLI

_Sono pubblicati_:

=I Promessi Sposi=, illustrati con 40 tavole tratte da disegni
originali di GAETANO PREVIATI, e preceduti da uno Studio su _Gli anni
di noviziato poetico del Manzoni_ di MICHELE SCHERILLO      L. =5=,--

=Brani inediti dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni=, in due parti
inseparabili, per cura di Giovanni Sforza                   L. =8=,--

_Entro il 1905 si pubblicherà_:

=Tragedie, Odi, Poemetti=: con una introduzione di MICHELE SCHERILLO.

_In preparazione_:

=Gl'Inni sacri e la Morale cattolica= (la parte edita e l'inedita, e le
varie appendici), con una introduzione di MICHELE SCHERILLO.

=Carteggio Manzoniano edito e inedito=--Lettere di Lui e a Lui, per
cura di _Giovanni Sforza_. (_In 3 volumi_).

=Varietà Manzoniane inedite=, per cura di GIOVANNI SFORZA.

=La storia della Colonna Infame=, _il Discorso sopra alcuni punti della
Storia longobardica in Italia_, ed altri scritti; con una introduzione
di MICHELE SCHERILLO.

_Dirigere Commissioni e Vaglia all'Editore_ =Ulrico Hoepli=--=Milano=.



                                 NOTE:

[1] BARBI M., ALESSANDRO MANZONI E IL SUO ROMANZO NEL CARTEGGIO DEL
TOMMASEO COL VIEUSSEUX; nella _Miscellanea di studi critici, edita in
onore di Arturo Graf_, Bergamo, 1903; pp. 235-256.

[2] _I Lombardi alla prima crociata_, _canti quindici di_ TOMMASO
GROSSI, Milano, presso Vincenzo Ferrario, 1826; tre vol in-8.º di pp.
VII-143, 152 e 163, dettero occasione, come ebbe a dire Ermes Visconti,
a «un diluvio di libercoletti, quasi tutti pessimi, pro e contro»,
comparsi alla luce tra l'aprile e il maggio del 1826, per la più parte.
Cfr. VISMARA A., _Bibliografia di Tommaso Grossi_, Como, Ostinelli,
1886, pp. 37-40. A confessione del Tommaseo, il Manzoni, «uomo di pace,
non lesse di tutte quelle scritture che l'articolo nostro: fu poi
forzato a leggere quel di Parenti, che lo fece, dic'egli, star male
per quindici giorni». Anche «l'articolo nostro», cioè il secondo di
quelli che il Tommaseo inserì nell'_Antologia_, di Firenze [n.º LXX,
ottobre 1826, pp. 3-30], al Manzoni dispiacque. «Con quella sincerità
ch'è sua propria, ma che mi onora, disse d'aver letto l'articolo, e
che gli pareva impossibile che fosse mio.--E perchè? Vi traspare forse
l'astio? L'invidia? Io mi conosco abietto sì, ma non tanto da invidiare
al buon Grossi.--Astio no, ma disprezzo. Pare che le lodi ella le abbia
concesse alla compassione e al riguardo degli amici del Grossi; ma le
abbia insieme attemperate, anzi sepolte sotto la censura e il biasimo».

L'articolo di Marcantonio Parenti (nato a Montecuccolo nel Frignano
il 30 gennaio 1788 e morto a Modena il 23 giugno del 1862), che
fece giustamente indignare il Manzoni, sfuggì alla diligenza del
Vismara. S'intitola: _Riflessioni sulla Mitologia e sul Romanticismo
in occasione che si pubblica per la prima volta_ Il Doroteo
_dell'Ottonelli_. Si legge a pp. 401-418 del tom. IX e a pp. 3-41 del
tom. X delle _Memorie di religione, di morale e di letteratura_, di
Modena.

[3] In una lettera del febbraio '26 aveva scritto, parlando del
Romanzo: «prima della gita pedestre, non può finirlo». Si trattava
di un «viaggio pedestre di Manzoni nel Bergamasco», che il Vieusseux
riteneva desse «luogo a qualche bella descrizione nel suo romanzo».

[4] Il Rosmini, il 23 novembre del '26, scriveva al prof. Pier
Alessandro Paravia: «Leggo di questi giorni il Romanzo del Manzoni,
che parmi una maraviglia. Egli mel comunica per sua gentilezza: io me
ne inebrio, e penso che all'Italia apparirà come cosa nuova: e a sì
limpido lume novellamente acceso, a lei parrà esserle accresciuto il
veder della mente. Che cognizione dell'uman cuore! che verità! che
bontà, la quale ovunque trabocca da un cuor ricolmo!»

[5] Il secondo tomo della prima edizione abbraccia i capitoli XII-XXIV.

[6] Per testimonianza della _Gazzetta di Milano_, «fu voce generale»
che il titolo di _storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta_
«altro non significhi se non che l'autore tolse qua e là da croniche e
storie molti particolari della sua opera, ma che il merito di averla
tessuta e ordinata sia tutta di sua spettanza».

[7] È la scena nella quale il P. Cristoforo chiede perdono al fratello
dell'uomo che odiava cordialmente, e che uccise. A quella scena
sublime, taluno de' parenti, «che, per la cinquantesima volta, avrebbe
raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo in quella famosa
congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch'era quel
rodomonte che ognun sa, parlò invece delle penitenze e della pazienza
mirabile d'un fra Simone, morto molt'anni prima». È un accenno alla
vendetta che prese il conte Muzio Pallavicino contro il marchese
Stanislao Piasio; tremenda tragedia della quale in Cremona si parlò per
gran tempo e ne son piene le sue cronache.

[8] Io, per verità, non ci so vedere tutto il veleno che ci vede il
Tommaseo. È gente di corta levatura, che essendo incapace d'abbracciare
con uno sguardo solo la bellezza dell'insieme, la gusta ne' brani che
la colpiscono maggiormente.

[9] Il Monti però ne scrisse al Manzoni con viva ammirazione.
«Papadopoli e Prina» (son sue parole) «mi aveano messo in core la dolce
speranza che mi avreste presto consolato d'una vostra desideratissima
visita. Deluso di questa lusinga, e temendo che la mia imminente mossa
per Roma mi tolga la consolazione di più rivedervi, poichè l'un dì più
che l'altro sento avvicinarsi il mio fine, mi presento in iscritto
per dirvi che vado ad aspettarvi in cielo, dove ho certa speranza di
rivedervi a suo tempo. Intanto prima che il mio don Abbondio m'intuoni
il _proficiscere_, vo' dirvi che ho ricevuto i vostri _Sposi Promessi_,
e di essi dirò quello che già dissi del _Carmagnola_: vorrei esserne
io l'autore. Ho letta la vostra novella, e finitane la lettura, mi son
sentito meglio nel core. Sì, mio caro Manzoni; il vostro ingegno è
mirabile, e il vostro core è una fontana d'inesauribili affetti, ciò
che rende singolare il vostro scrivere e vi pone in un'altezza, cui
solo possono aggiungere i _pauci quos aequus amavit Jupiter_, al modo
stesso che pochi possono amarvi e stimarvi come il tutto vostro MONTI».

[10] A Mario Pieri sapeva un po' duro che «il dottissimo e classico
Niccolini siasi degnato di accostarsi ai Romantici; e tanto più che in
quel tempo appunto correvano alcune sentenze del signor Capo-Romantico
Manzoni, le quali facevano stomacare gli uomini di buon senno e
sogghignare gli stolti giovinastri della sua scuola. Allorchè uscì, per
esempio, quel bellissimo sermone del Monti in difesa della Mitologia, e
contra coloro i quali volevano proscriverla, il signor Manzoni andava
dicendo esser quello il ventottesimo _bullettino_ del Classicismo,
accennando al ventottesimo e ultimo di Napoleone; e quando uscì il
poema del Grossi, _I Lombardi alla prima Crociata_, il medesimo Manzoni
recitava per lo senno a mente gl'interi canti di quel poema, e i
fanatici Romantici, suoi seguaci, andavano esclamando: _Povero Tasso_!
_Povero Tasso_! _O povero Tasso_! Ora nessuno ignora di qual ridicolo
andarono ricoperte dalla giusta Italia quelle stolte sentenze». Il
Pieri vide per la prima volta «il corifèo del Romanticismo in Italia»
(così chiama il Manzoni) in casa Vieusseux e poi lo frequentò «alla
locanda delle Quattro nazioni Lungarno, dove albergava con tutta la sua
famiglia, cioè madre, moglie e sei figliuoli, per quei tre o quattro
mesi ch'ei si trattenne in Firenze» nel 1827. «La sua fisonomia palesa
a chi l'osserva» (son sue parole) «animo gentile ed alto ingegno. In
Milano io non l'avea cercato mai, per non rompere la vita solitaria
ch'egli amava di condurre in mezzo alla sua famiglia; la quale, secondo
allora si diceva, offeriva il modello delle ottime famiglie. Egli
è agiato di beni di fortuna, ma non gode salute nè egli, nè la sua
donna. È uomo religioso (dicono) e galantuomo. Peccato che sia invaso
dalla romanticomania! Ma egli forse direbbe di me: peccato ch'egli sia
invaso dalla classicomania!... Ma dopo averlo frequentato, mi vennero
udite in bocca sua tante e sì strane sentenze da trasecolare; nè io so
tenere per uomo modesto, e forse neppur vero religioso, chi si vuoi
creare capo-setta, e tratta con gran disprezzo i più grandi uomini
dell'Italiana letteratura, e sopra tutto il grandissimo e infelicissimo
Torquato Tasso. Indi a dieci anni mi venne per caso in mano una sua
scrittura inedita, che mi fece variare il mio primo sentimento e
raffermare nel secondo, siccome quella che me lo rappresentava un
fanatico, il quale per poco non si recherebbe a distruggere, come
papa Gregorio, tutt'i libri classici. Essa è in forma di lettera,
con questo titolo: _Sopra i diversi sistemi di Poesia, lettera di
Alessandro Manzoni, in risposta a rispettabile amico di Torino_ (ch'è
il fanatico vecchio Azeglio), _1823_. Nè alcuno immaginarsi saprebbe
le assurdità che quello scritto contiene. Il Romanticismo, egli dice,
si propone il vero, l'utile, il buono, il ragionevole. E giacchè egli
non fa che asserire senza provare, e propone un Romanticismo tutto
suo, e non qual si vede nella pratica degli scrittori romantici; io
risponderò francamente del no; ed avrò, ciò che a lui manca, per miei
argomenti il fatto reale; e dirò all'incontro, che il Romanticismo si
propone il falso, lo strano, il disordine, la deformità del vizio, lo
scandaloso, il delitto, l'assurdo. Vedi tutte le opere de' Romantici in
ogni genere di letteratura, ed anche nelle belle arti: vedi la grande
opera drammatica, il _Dottor Fausto_, del vostro principe Goethe, per
cui vi sentite struggere d'ammirazione, anzi che voi adorate qual
nume. E quali sono i protagonisti e gli eroi de' signori Romantici?
I carnefici, i ladri, gli scellerati d'ogni maniera, o contadini, o
buffoni, e simili personaggi: e le scene che ci presentano son tutte
degne di loro, e ci tocca veder su i teatri i patiboli e le torture, ed
ogni sorta di sacrilegi. Ecco la tendenza religiosa, e il bel vero, e
l'utile, e il buono, e il ragionevole del Romanticismo, come pretende
il signor Manzoni». Cfr. _Della vita di_ MARIO PIERI, _corcirese,
scritta da lui medesimo, libri sei_, Firenze, coi tipi di Felice Le
Monnier, 1850; vol II, pp. 63 e 67-69.

Anche a pp. 369-370 del tom. IV delle Opere, Firenze, Le Monnier,
1851, scaglia le sue folgori contro il Manzoni, e trova il _Conte di
Carmagnola_ «tragedia senza capo nè coda, e senza quasi nessuno di
que' pregi che rendono bella, e di assai malagevole composizione, una
tragedia». Riconosce però che «vi ha di be' versi, di belli e profondi
concetti, qualche bella parlata; ma nè un atto, nè un'intera scena che
corrano bene». Nè lo risparmia nel dialogo: _La letteratura classica e
la romantica_, che si legge a pp. 101-178 del tom. III delle _Opere_
stesse.

[11] _Giornale Arcadico_; tom. XXXII [1828], pp. 366-367.

[12] _Indicatore Genovese_, n.º 11, 9 agosto 1828, Cfr. MAZZINI G.,
_Scritti editi e inediti_ (4.ª edizione); II, 57-61.

[13] Il Cesari lasciò manoscritti alcuni Pensieri sui Promessi Sposi,
che vedranno la luce ne' suoi _Opuscoli linguistici e letterari_,
che sta raccogliendo e ordinando il sig. Giuseppe Guidetti di Reggio
dell'Emilia.

[14] In una lettera del Giordani al Testa, scritta da Milano il 5
novembre 1821, si legge: «Vidi la canzone» [_Il Cinque Maggio_] «del
Manzoni; lodata da molti. Non disputo sull'argomento: ognun dice quello
che vuole. Ma a me pare (quanto alla frase) che alle volte non abbia
saputo dire quel che voleva; e alle volte non so che cosa volesse dire.
È bello il suo Inno sulla Risurrezione di Cristo».

[15] GIORDANI P., _Lettere inedite a Lazzaro Papi_, Lucca, tip. di Gio.
Baccelli, 1851; pag. 105.

[16] Il 6 luglio del '32 scriveva a Ferdinando Grillenzoni, a Genova:
«Sarà costì il Manzoni; ed ella lo vedrà dal Marchese [_Di Negro_].
Io la prego di ossequiarlo da mia parte; e di scrivermene poi
copiosamente». E il 24 del mese stesso: «Mi piace che abbia veduto
Manzoni; e la prego di rammentarle una mia veramente affettuosa
venerazione; perchè io lo tengo per uomo glorioso e utile all'Italia
... Veda un poco se è vero quel che dice quel giornale, che ora
Manzoni siasi dato a studi di purismo; e in che forma: e che cosa sta
ora lavorando. E veda un poco (ma con garbo) se conosce le cose di
Leopardi, e che opinione ne ha». Il 30 gliene tratta di nuovo: «Le
ripeterò che bramo di sapere se Manzoni è costì per salute, o per
piacere. Desidero che sia per solo piacere. Egli ha la coscienza e
l'Europa, che devono rendergli inutili le ammirazioni di tutti i pari
miei: ma io confesso che mi fa un vero piacere l'ammirarlo. E prego V.
S. d'imprimersi bene in mente i suoi discorsi, per potermene far godere
in qualche modo. Io sento un pungente dispiacere di non esser costì,
e potere ascoltarlo. Se io fossi capace di fare una Deca di Livio (mi
pare dir molto), io cambierei questo piacere col piacere di udir lui.
E, per ispalancare il fondo dell'animo mio, ci sono alcuni (non molti)
ch'io posso ascoltar volentieri; ma egli è il solo ch'io veramente
desidero di potere udire, e in quelle cose ch'io non so, o alle quali
non ho pensato; e in quelle nelle quali non penso ora come lui. Egli
è il solo (Dio perdonami questa sciocchezza) dal quale io desidererei
imparare. Facilmente mi accorderei seco circa i romanzi storici (come
si chiaman ora), nè piangerei se il mondo non ne vedesse più. Ma non
consento di porre in quel genere i _Promessi Sposi_; che mi paiono uno
stupendo lavoro Senofonteo, un carissimo e utilissimo lavoro; e ben
vorrei che Manzoni (ch'egli solissimo può) ne facesse un secondo. Del
resto, la sua sentenza su tutte le finzioni è nobilissima; è degna
dell'intelletto giunto al suo equatore; e la ricevo nell'anima; anzi
già l'avevo, e mi giova di vederla confermata da lui. Oh mi è ora un
vero tormento al cuore non esser costì! Ella mi riverisca tanto, con
ogni effusion di sentimento quel Manzoni, che è proprio l'idolo de'
miei pensieri. Oh (mi viene in mente) quanto son poco degni di lodarlo
certi cervellacci frateschi; come per esempio quel frataccio Niccolò
[_Tommaseo_]. Ma di ciò zitto, veda: ch'io non voglio pettegolezzi. Ma
se lei come lei potesse destramente sentire che cosa pensa Manzoni di
quel sì fanatico e sconvolto cervello, l'avrei caro. E tal gente crede
d'avere la religione, la poesia, la filosofia di Manzoni! Ma dov'hanno
la sua testa e il suo cuore? Per dio, credo esserne meno lontano io,
colla mia impotenza poetica, e la mia piena incredulità. Io gli sono
lontano, e io meglio di tutti so il quanto; ma almeno non gli volto le
spalle». Il 17 d'agosto rincalza: «Mi riverisca senza fine Manzoni, e
molto le sue Signore. Ma è un eccesso di cortesia il dire che a lui
abbian potuto in nessun modo giovare le mie parole; perchè io lo vidi
troppo poco, a ragione del mio desiderio; e amai molto più (come ancora
farei) di ascoltarlo che di parlare; e poco, troppo poco potei goderne,
poichè tanti cercavano di occuparlo».

Sei anni dopo, il 27 novembre '38, scrivendo parimente al Grillenzoni,
esce a dire: «Compreso Walter Scott, non trovo uno di tanti romanzi,
che possa produrre un minimo bene: eccetto l'unico Manzoni; che mi par
sempre cosa bellissima e utilissima».

[17] All'attrice Maddalena Pelzet, la degna interpetre delle sue
tragedie, che era allora a Milano prima donna nella Compagnia
Rattopulo, scrisse il 19 febbraio del '29: «Ricordatemi al Bertolotti,
alla cui tragedia desidero un esito fortunato: se io fossi, com'egli
dice, il primo dei tragici viventi, bisogna dire che si stia male
davvero: egli parlerà del Manzoni, le cui tragedie, quantunque non
siano per la scena, almeno secondo le nostre abitudini, contengono
tante bellezze, che il plauso dell'Europa meritamente lo corona sopra
tutti. Voi sapete qual concetto io abbia fatto sempre di questo
veramente grand'uomo: ciò che vi scrivo a Milano, ve l'ho detto a
Firenze.»

[18] In una lettera di Pierfrancesco Leopardi al fratello Giacomo,
del 1º giugno '28, si legge: «Avendoci voi scritto una volta che
conoscevate il celebre Manzoni, ho pensato di farvi cosa grata col
mandarvi una copia dei suoi _Inni_. Volendo la marchesa Roberti
stampare qualche cosa per la monaca Rossi, babbo le propose
quest'_Inni_, e vi fece la dedicatoria. E vi mando questo libro, più
perchè leggiate questa, che gl'_Inni_, perchè m'immagino che lo stesso
Manzoni ve li avrà dati a leggere. Fatemi dire in una delle lettere che
ci scriverete, dove attualmente si trovi il suddetto Manzoni».

[19] _Antologia_, di Firenze, tom. XXVII, n. 81, settembre 1827, pp.
71-75.

[20] GUERRAZZI F. D., _Manzoni, Verdi e l'Albo Rossiniano, Milano_,
Tip. Sociale, 1874; p. 73.

[21] A proposito di questa scatola scrive lo STAMPA [II, 87-88]:
«Il Manzoni raccontò (e lo udii colle mie orecchie) «ch'egli aveva
l'intenzione di lasciar fuori, come superfluo, l'episodio del P.
Cristoforo che, chiamati a sè i due sposi, dice loro: _Figliuoli!
voglio che abbiate un ricordo del povero frate_, e dopo di aver data
loro la scatola, lavorata con _una certa finitezza cappuccinesca_,
contenente gli avanzi _di quel pane_, dice loro: _Fatelo vedere ai
vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo_... _dite loro che
perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino anche loro, per
il povero frate!_ Ma per l'appunto il consigliere abate don Gaetano
Giudici non gli permise assolutamente quella ommissione, dicendo che
era il più bello e commovente episodio del romanzo». Il figliastro gli
chiese la ragione di questo taglio che avrebbe voluto fare, e rispose:
«Che vuoi!... a me pareva un di più».

[22] L'editore Gaspero Barbèra, che il 7 settembre del '50 visitò
il Guerrazzi in prigione, racconta: «Saputo che ero allora allora
ritornato da un viaggio in Lombardia e nel Veneto, il discorso è caduto
sul Grossi... Del Manzoni ammirava più l'_Adelchi_ e il _Carmagnola_,
che non i _Promessi Sposi_; osservando che la lingua onde questi sono
scritti non è cosa da menare quel gran rumore che se ne faceva, dacchè
quando un toscano parla anche da sguajato, un po' più un po' meno, dice
quelle frasi che nei _Promessi Sposi_ si vedono collocate a far mostra
di sè». Cfr. BARBÈRA G., _Memorie di un editore_, Firenze, 1883; pp.
81-82.

[23] Il Giordani ne' suoi _Pensieri per uno scritto sui Promessi Sposi_
loda il Manzoni di «aver creato nuovo odio ad antichi rei di calamità
italiane», al «dominatore straniero e lontano, ignorante e crudele,
superstizioso ed improvvido». Cfr. GIORDANI P., _Scritti editi e
postumi_; IV, 132-134.

Giosuè Carducci, applaudendo in Lecco «all'interezza dell'arte in
Alessandro Manzoni», disse che «fece del romanzo la gran vendetta su 'l
dispotismo straniero e su 'l sacerdozio servile ed ateo». Cfr. CARDUCCI
G., _Confessioni e battaglie_, _serie seconda_, Bologna, Zanichelli,
1902; pp. 306-309.

[24] MAMIANI T., _Manzoni e Leopardi_; nella _Nuova Antologia_, vol
XXIII [1873], pp. 757-782.

[25] LUZIO A., _Giuseppe Acerbi e la_ «_Biblioteca italiana_»; nella
_Nuova Antologia_, serie IV, vol. LXVI, fasc. 23, 1º decembre 1896, p.
481.

[26] Il De Müller del 1829 venne in Italia e vi dimorò alcuni mesi.
Nelle sue _Memorie_, che son rimaste inedite, descrivendo quel viaggio,
parla a lungo della visita che fece al Manzoni a Brusuglio. Un brano
di questo episodio fu pubblicato a Weimar nel 1832 col titolo: C. W.
MÜLLER, _Goethe's letzte lit_. _Thaetigkeit_, e poi per intiero venne
messo alle stampe nel 1871 da C. A. H. BURKHARDT nel n. 45 del _Magazin
für die Literatur des Auslandes_. Ne dette la traduzione L. SENIGAGLIA
nella _Rivista contemporanea_, di Firenze, ann. I, vol. II, pp. 359-365.

[27] _Les Fiancés, histoire milanaise _du XVII siècle, découverte et
refaite par_ ALEXANDRE MANZONI; traduite de l'italien sur la troisième
èdition par_ M. REY DUSSUEIL, Paris, Ch. Gosselin et A. Sautelet, 1828;
5 vol. in-12º. Prix, 18 francs. Il traduttore vi premise un _Essai sur
le roman historique et sur la littèrature italienne_, che fu voltato in
italiano dal giornale milanese _La Vespa_ [ann. II, 1º semestre, pp.
225-230 e 276-279], facendovi, in nota, alcune osservazioni critiche.
«En revoyant notre travail» (così il Rey Dussueil nell'_Essai_),
«nous aurions pu faire aisèment disparaître toutes les tournures qui
s'éloignent un peu des tournures françaises; mais ce n'était point
une traduction que nous voulions donner au public; c'était, autant
que possible, l'ouvrage de M. Manzoni». La _Revue encyclopèdique_
[tom. XXXVIII, pp. 488-490] gli fece osservare: «Pour donner au public
l'ouvrage de M. Manzoni, il fallait avant tout lui donner un livre bien
écrit». Parlò di questa traduzione anche la _Bibliothèque universelle
de Genève_, nuova serie, tom. III [1836], p. 268.

[28] Il 29 settembre del '28 la _Gazzetta di Firenze_ nel suo n.º
109 dava questo annunzio: «La lettura del romanzo i _Promessi Sposi_
dipinge all'immaginazione alcune scene con tanta forza, verità e
precisione, che chiunque sa far uso della matita sentesi invogliato
di rappresentare coi mezzi dell'arte pittorica ciò che l'autore seppe
con rara maestria descrivere. Il sig. Gallina, valente artista,
già noto per alcuni pregiati lavori, formò dodici composizioni dei
casi più interessanti del suddetto romanzo, e queste, da lui stesso
litografate, verranno impresse nello Stabilimento Ricordi. Il formato
della stampa sarà di oncie 8¾ per 6½; giusta dimensione per ornamento
di un quartiere. La collezione verrà divisa in sei fascicoli, di due
stampe per ciascuno, e se ne pubblicherà un fascicolo ogni mese. Il
prezzo di ogni stampa è fissato a paoli 9 in carta della China e a
paoli 6 in carta velina». L'_Eco_ di Milano [ann. II, n.º. 51, 29
aprile 1829, p. 204] le lodò, «tanto per l'invenzione, quanto per
l'esecuzione». FRANCESCO PASTORI [_Bibliografia italiana ossia Giornale
generale di tutto quanto si stampa in Italia, libri, carte geografiche,
litografie e novità musical_i, ann. I [1828], p. 76] trovò «lodevole»
il pensiero del sig. Gallina di dare disegnati in litografia i quadri
principali del bellissimo romanzo del sig. Manzoni»; ed ebbe a dire
«che l'impresa, ben pensata e lodevolmente eseguita, prestava materia
di gradevolissimo ornamento».

[29] _Costumi vestiti alla festa da ballo data dal Signor Conte
Batthyany_ (sic), Milano, litografia Elena. [Ogni fascicolo costava 20
lire italiane].

[30] _La Minerva Ticinese_, fasc. 50, 16 decembre 1829.

[31] Il «giudizio del conte O' Mahony sui Promessi Sposi di Alessandro
Manzoni» fu ristampato, con la traduzione italiana a fronte, a pp.
391-413 del tom. III dell'edizione del Romanzo fatta a Lugano, presso
Francesco Veladini e comp., nel 1829.

[32] _L'Eco_, ann. VI, n. 1, 2 gennaio 1833.

[33] _Revue encyclopèdique_, tom. XXXVI [octobre 1827], pp. 411-412.

[34] _Revue encyclopèdique_, tom. XXXVIII [avril 1828], pp. 376-389.

[35] Non senza interesse sono due lettere del Niccolini a Salvatore
Viale, una del 21 e una del 5 luglio '28. La prima è questa: «Il
_Globo_ ha delle dottrine ultra-romantiche, e nella _Rivista_ il
Salfi sta pedantescamente attaccato ai precetti dei classici. Questa,
per chi la discerne, è disputa in gran parte di nomi, ma pur divide
la repubblica letteraria in due fazioni e offusca coi pregiudizi
l'intelletto. Il Salfi accusa il Manzoni nel suo articolo sugli _Sposi
promessi_ d'essere fautore delle istituzioni monastiche. Quest'accusa è
ingiusta, e non può cadere in mente di chiunque legga spassionatamente
quel libro, ed io che intimamente conosco l'autore, e sono stato la
persona colla quale ei più conversasse in Firenze, posso far fede
che la sua pietà è scevra di superstizione, e che non ama i frati».
Nell'altra scrive: «A me premeva d'investigare le ragioni del silenzio
del Salfi, ma senza però ch'ei mi potesse credere un accattalodi...
Io amo più di conservare la dignità dell'animo, che mostrarmi ghiotto
d'uno sciocco articolo di quel canuto e solenne buffone. E meritamente
io lo chiamo così, perchè non v'è pazienza che sostenga di leggere i
suoi imbratti sull'opere ch'escono in Italia: egli loda quello che fra
noi si disprezza, o s'ignora, mentre maltratta e calunnia il Manzoni,
primo ornamento delle lettere italiane».

[36] Giuseppe Giusti racconta in una sua lettera, scritta nell'aprile
del '36: «Finalmente ho parlato a Sismondi, e per due volte mi son
trattenuto seco lungamente... Parlammo di Manzoni, e qui apparve
singolarmente l'uomo grande. Io introdussi il discorso colla massima
delicatezza, ma a bella posta, perchè voleva chiarirmi d'un dubbio,
nato in me alla prima lettura di quel libro del Manzoni, ove confuta
gli ultimi due capitoli della _Storia delle Repubbliche_. Sismondi
parlò di quell'opera, dicendo che era ammirato della maniera urbana
con la quale fu distesa: lodò la sincerità dell'autore, e ne compianse
le ultime disgrazie, le quali, secondo lui, hanno contribuito non poco
a confermarlo ne' suoi principii; aggiunse poi, sempre moderatamente,
che gli pareva che si fosse partito da un punto molto diverso dal suo,
poichè esso considerava le cose come sono attualmente, e Manzoni come
dovrebbero essere. Nè so dirti quanto fossi contento di vedere che io
non m'era ingannato. Credei bene di dirgli che gl'Italiani non avevano
fatto gran plauso a quel libro, e che anzi, senza scemare in nulla la
debita reverenza al Manzoni, era stato riguardato piuttosto come un
errore, o almeno come un'opera suggerita da qualcuno che lo avvicina
per secondi fini, i quali, dall'altro canto, non capiscono nell'animo
integerrimo di quel sommo italiano».

[37] MAMIANI T., _Manzoni e Leopardi_; nella _Nuova Antologia_; XXIII,
760-762.

[38] _Tragedie e poesie varie di_ Alessandro Manzoni, _colle
prose analoghe ed un'apposita prefazione del barone_ CAMILLO
UGONI--_Quindicesima edizione_--Lugano, Giuseppe Ruggia e C., 1830; in
16º. di pp. XXVIII-272. La «prefazione» dell'Ugoni abbraccia le pp.
V-XXVIII e porta la data: «Parigi, 19 novembre 1829». Ne diede un cenno
il Tommaseo nell'_Antologia_, tom. XXXIX, n. 151, luglio 1830, p. 136.

[39] _Il Nuovo Ricoglitore_, ann. III, part. I, n. 30, giugno 1827, pp.
446-451.

[40] Cfr. _Gazzetta di Milano_ dell'11 luglio 1827.

[41] _Corriere delle Dame_, n. 36, 8 settembre 1827, pagine 285-287.

[42] _Gazzetta di Milano_ del 15 ottobre 1827.

[43] Da una lettera di Giovanni Pagni (il noto Farinello Semoli delle
baruffe del Monti con la Crusca) al marchese Gian Giacomo Trivulzio,
scritta da Firenze il 5 ottobre 1827, tolgo questo brano: «Ha passato
in Toscana, tra Livorno e Firenze, una cinquantina di giorni il celebre
Manzoni, decoro di questa capitale. Non può credere quanto sia stato
onorato e distinto dalla maggior parte dei letterati e dei nobili più
culti, che si son dati la premura di conoscerlo e di ammirarne il
carattere. S. A. R. [_il Granduca Leopoldo II_] lo ha invitato alla
sua mensa, trattenendosi molto con esso lui ed ha voluto mostrargli in
persona la preziosa ricchissima sua biblioteca. Io ho avuto il piacere
di far compagnia alla sua famiglia, che avevo conosciuta a Milano, e
che, dotata di morali virtù, è degna di tanto padre di famiglia».

[44] È un'allusione al _Sergianni Caracciolo, dramma storico del prof._
G. B. DE CRISTOFORIS, Milano, 1826; in-8º. del quale parlò il Tommaseo
nell'_Antologia_, n. LXIX, settembre 1826, pp. 104-111. Alle _Melodie
liriche_ di Samuele Biava di Bergamo dette «gran lode» il Cantù nel
_Ricoglitore_. Invece la _Biblioteca italiana_ «tolse a provare che
poteano mostrarsi ai giovani come agli Spartani l'ilota ubriaco. Il
colpo era diretto a sbalzarlo d'impiego: ma uscì una risposta, forte
sino alla violenza, e segnata C. C., dove era difeso il Biava e
investito il suo avversario. Fu atto generoso, perchè quell'avversario
avea in mano i processi e potea mandarlo allo Spielberg; onde va data
lode al difensore, che era Carlo Cattaneo». Cfr. CANTÙ C., _Italiani
illustri ritratti_; III, 79.

[45] _La Vespa_, ann. I [1827], pp. 17-20, 38-43 e 96-103.

[46] Nacque l'8 settembre del 1799; involto nelle cospirazioni del
'21, «negò denunziare i compagni ed ebbe da Ferdinando III, Granduca
di Toscana, per carcere un convento di frati in paese ameno, di dove
lo trasse a Roma lo zio monsignore [_Giovanni_] Marchetti, dotto uomo,
ma più illiberale del Principe lorenese, che fu ben lieto dell'esser
libero da quel prigione». Cfr. TOMMASEO N., _Di Giampietro Vieusseux
e dell'andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo_,
_memorie_, Firenze, 1863; p. 44. «Passati gli anni successivi in
privati impieghi, non però alieni da' cari studi, in Rimini e indi a
Roma, appena tornato a Empoli nel settembre del '29, fu sorpreso da
febbri violente, che si volsero in tisi, e il 16 decembre tolto a'
viventi». Così il MONTANI [_Antologia_, n.º 108, decembre 1829, pp.
96-97], che aggiunge: «Ei meditava, dicesi, un'opera storica; e forse
per consacrarvisi avea rifiutata la sopraintendenza agli studi nel
Seminario di S. Marino, offertagli dal celebre Borghesi a nome de'
magistrati di quella Repubblica... Ultimo scritto di lui, e soggetto
d'ancor recenti, nè punto blande censure, fu quello sugl'_Inni_ del
Manzoni. Io tremava, lo confesso, al pensiero che queste censure
potessero, nello stato in cui egli trovavasi, pervenire al suo
orecchio... Innamorato delle forme classiche, siccome quegli che
dall'adolescenza fu sempre co' latini e co' greci, e co' nostri che
meglio li imitarono, ove gli parve di trovar meno di queste forme,
gli parve trovar meno di poesia. Così, trattandosi di teorie (veggasi
la maggior parte de' suoi articoli dell'_Arcadico_) ove gli parve di
trovar discrepanza da' principii de' classici, gli parve di trovare
opposizione assoluta da' principii dei gusto».

Appunto nell'_Arcadico_ [XXXVI; 305] discorrendo della versione
delle _Odi_ di Pindaro fatta da Giuseppe Borghi prese a mordere «la
miserabile e bislacca e torta foggia di metri regalataci con tante
altre cose non poetiche e non italiane da Alessandro Manzoni». Il
Borghi, in una lettera a Gaetano Cioni, stampata nell'_Antologia_
[n.º 87, marzo 1828, pp. 166-167], sorse a difesa del Poeta; ma
l'iroso critico, duro più che mai in quel suo giudizio, diede fuori
lo scritto: _Intorno gl'Inni sacri di Alessandro Manzoni dubbi_ di
GIUSEPPE SALVAGNOLI MARCHETTI, Roma 1829. Presso la Libreria Moderna,
Via del Corso n.º 348 [In Macerata, presso Benedetto di Antonio
Cortesi]; in-16.º di pp. xxiv-112. A questi «biasimi da pedante»,
come li chiama il Tommaseo, l'_Arcadico_ [XLII, 131] applaudì di gran
cuore. La _Biblioteca italiana_ [tom. 55, luglio 1829, pp. 1-20], pur
non menandogli buone tutte quante le censure, concluse: «Il parlare
di originalità, di nuova scuola, d'ingegno divino, di culto, è un
sostituire l'entusiasmo alla ragione, un traviare il giudizio dei
giovani e dar nascimento a quelle tante poesie che il Manzoni non
vorrebbe al certo aver fatte e nemmanco approvate, e non di meno si
credono manzoniane». Enrico Mayer, peraltro, nell'_Antologia_ [n.º 104,
agosto 1829, pp. 92-99] prese «a difendere» (son parole del Tommaseo)
«non tanto il nome dell'Italiano poeta, quanto l'onore d'Italia», e
«lo difese con alto sentimento dell'arte e con facondia cordiale».
Videro pure la luce le _Osservazioni di un giovane italiano sui Dubbi
del signor Giuseppe Salvagnoli Marchetti intorno agli Inni sacri
di Alessandro Manzoni_, Reggio, tip. Toreggiani e comp., MDCCCXXX;
in-16.º di pp. 230. Sono di Luigi Fratti, che, sebbene pregato dalla
modestia del Poeta a «mettere da banda» il lavoro, per consiglio
del P. Bottini gesuita, lo diede alle stampe. Cfr. intorno a questa
controversia: GAMBINI CARLO, _Richiamo di alcune verità manifestate
nel 1829 dal Salvagnoli sugli Inni sacri del Manzoni_, Milano, tip.
Galli e Raimondi, [1882]; in-16.º di pp. 12.--_Intorno gl'Inni sacri di
Alessandro Manzoni dubbi di_ GIUSEPPE SALVAGNOLI MARCHETTI, _ristampati
con aggiunte, in forma di dialogo, fatte da_ FEDERICO BALSIMELLI,
Bologna, tipografia pont. Mareggiani, 1882; in-16.º di pp. 360.

[47] Questo «sunto» si legge in una recensione che il Salvagnoli
Marchetti fece delle _Prose scelte_ del principe don Pietro Odescalchi,
e che inserì nel _Giornale Arcadico_, tom. 42, aprile-giugno 1829, pp.
95-109. La recensione e il «sunto» gli attirarono sulle spalle alcune
sferzate della _Biblioteca italiana_ [tom. 55, luglio 1829, pp. 29-31],
che lo fecero talmente andare in furore, da scrivere: «a ingiurie sì
fatte, quali sono le vostre, meglio si converrebbe, se fosse lecito,
rispondere con la spada che con la penna». Cfr. Giornale Arcadico, tom.
cit., pp. 355-364.

[48] _Nuovo Giornale de' letterati_, di Pisa, tom. XV. Letteratura,
scienze morali e arti liberali [1827], pp. 215-232 e tom. XVI.
Letteratura, ecc. [1828], pp. 64-93.

[49] P. Felice da Mezzana cappuccino, Cenni sul P. Cristoforo del
Manzoni, Crema, tip. S. Pantaleone di L. Meleri, 1899; p. 6.

[50] Sui Promessi Sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e
rifatta da Alessandro Manzoni, ragionamento critico di Don Anonimo,
autore di varj opuscoli pubblicati colle iniziali P.º G.º S-P.º,
Milano, coi torchi di Omobono Manini, dicembre 1827; in-16º. di pp. 64.

[51] _Giornale dell'italiana letteratura, compilato da una società
di letterati italiani sotto la direzione ed a spese di_ NICOLÒ DA
RIO, tom. LXV della serie intiera, serie IV, tom, I [Padova, tip. del
Seminario, 1828], pp. 265-268.

[52] _Rivista, letteraria dei libri che si stamparono in Torino negli
anni 1827 e 1828_, Torino, per gli eredi Botta, 1829; pp. 119-120 e
138-146.

[53] CHIAPPA G., _Sui Romanzi in generale ed in particolare sul
Gerolimì ossia Nano di una Principessa dell'autore della Sibilla
Odaleta_; in _La Minerva Ticinese, giornale di scienze, lettere, arti,
teatri e notizie patrie_, fascicolo 37, 16 settembre 1829; pp. 635-637.

[54] Anche Trussardo Caleppio volle scoccare i suoi fulmini contro il
nuovo romanzo, censurandolo acerbamente nell'ALMANACCO CRITICO PEL
1830 DI UN MILITARE IN RITIRO, Milano, Manini, 1829; in-16º. Cfr.
ROBECCHI, L. _Questione classico romantica, saggio d'una bibliografia_;
in _Poesie di_ CARLO PORTA _rivedute sugli originali e annotate da un
milanese_, Milano, tip. Ditta Wilmant di G. Bonulli e C., 1887; p. 707.

[55] _Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici
italiani_ (1823-1870) _pubblicate da_ L. FAGAN, Firenze, Barbèra, 1880;
p. 80.

[56] _Dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni_. _Articolo primo_,
Lugano, coi tipi di Gius. Ruggia e comp., 1831; in-8º. di pp. 56. E
firmato: A. H. J.

[57] Fu ristampato a Brescia nel 1883 dallo Stabilimento
stereo-tipografico di G. Bersi e C.; in-8º. di pp. 46. Nella breve
avvertenza è detto: «Il manoscritto sopra del quale fu condotta la
presente edizione è una copia precisa, identica all'autografo lasciato
dell'esimio autore; non già copia od estratto da quei pochissimi
esemplari che vennero alla pubblica luce l'anno 1833» [_correggi_:
1831] «in un periodico mensile, compilato da molti esuli italiani a
Parigi; periodico ch'ebbe vita di più poco che due mesi e dal quale
furono ritratte poche copie per regalo ad amici e parenti». Sebbene
«compilato da molti esuli italiani a Parigi», però si stampava a
Lugano coi torchi di Giuseppe Ruggia. Negli _Scritti di_ GIOVITA
SCALVINI _ordinati per cura di_ N. TOMMASEO, _con suo proemio e
altre illustrazioni_, Firenze, Felice Le Monnier, 1860; in-16.º di
pp. xvi-400, non fu riprodotto l'articolo «bellissimo» sul Romanzo
del Manzoni, benchè promesso dall'editore stesso nella prefazione:
«De' lavori suoi critici recherò quasi per intero le considerazioni
sull'_Ortis_ del Foscolo, e quelle sui _Promessi Sposi_, degne
dell'opera». Questo articolo, col titolo: _Considerazioni critiche
scritte nel 1829 da Giovita Scalvini_, venne premesso all'edizione de'
_Promessi Sposi_ fatta a Firenze nel 1884 da' Successori Le Monnier,
ecc.

[58] GIANNONE P., _Delle opere di Alessandro Manzoni_; in L_'Esule,
giornale di letteratura italiana antica e moderna_--_Tomo
primo_.--Parigi, dai torchi di Pihan Delaforest (Morinval), rue des
Bons-enfants, 34, M. DCCC.XXXIII; pp. 262-302. La traduzione in
francese, che l'accompagna, è del sig. Lemonier, autore dei _Souvenirs
d'Italie_.

[59] M. de Gourbillon.

[60] _Antologia_, n. 82, ottobre 1827, pp. 101-119. L'articolo, invece
del Tommaseo, doveva scriverlo il dott. Gaetano Cioni, come si rileva
da una lettera di Giuseppe Montani, del 16 di settembre: «L'articolo
sugli _Sposi Promessi_ lo fa il dottor Cioni. Manzoni è qui [a Firenze]
adorato da tutti. Il Granduca ha voluto veder lui e il suo bambino,
che sempre lo accompagna. Gli ha fatta, mi dicono, la più affettuosa
accoglienza». Il 1º agosto aveva scritto: «Aspettiamo di giorno in
giorno il Manzoni, e mai non lo vediamo. Del suo romanzo (crederesti?)
non è ancor giunta copia, se non al Batelli, che gli fa il brutto
complimento di ristamparglielo».

[61] _Biblioteca italiana_, n. 141, settembre 1827, pp. 422-472; e n.
142, ottobre 1827, pp. 32-81.

[62] La prima fu stampata a pp. 322-337 del t. XXXIV [marzo 1824]; la
seconda a pp. 145-172 del tom. XXXV [aprile 1824].

[63] Pubblicai questa lettera, scritta da Brusuglio il 6 luglio del
'24, in _Milano vecchia, strenna del Pio Istituto dei Rachitici di
Milano, Anno IX_, Milano, tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C., 1889;
pp. 51-58.

[64] Come si accorda quello che il Tommaseo scrisse de' _Promessi
Sposi_ nelle sue lettere al Vieusseux con quello che stampò
nell'_Antologia_? È un repentino voltafaccia: non si può chiamare
con altro nome. Il Barbi si domanda: «Ma è stato preso proprio pel
suo verso quell'articolo? Ne dubito. Occorre, a intenderlo bene,
una ricerca psicologica sul Tommaseo uomo e scrittore, e storica
sull'ambiente, e dimenticare l'impressione che fa oggi generalmente
il romanzo... E non può essere, che dove il Tommaseo tocca d'alcuni
difetti, avesse in animo d'attenuarli e giustificarli, e che
l'intendimento apologetico non appaia chiaro, o perchè così ha voluto
l'autore, o per mancanza di quei nessi logici e formali che egli era
solito trascurare? Avrebbe così ottenuto effetto contrario a quel che
si proponeva; ma, si sa, altro è scrivere, altro riuscire a farsi
intendere!» Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non mi persuade.
Leggendo le postille e l'articolo si vede che a ogni istante la viva e
sincera ammirazione del Tommaseo per i _Promessi Sposi_ è come troncata
dagli occulti paragoni ch'egli fa inconsapevolmente tra il Manzoni e
sè stesso; e appunto quel continuo guardare a sè stesso gli svia il
giudizio. Mentre riconosceva che il grande Poeta aveva «divinizzata
la lirica, ricreata la tragedia, insegnata agl'Italiani la vera via
della storia», e che in tutti questi campi gli era superiore; ho il
convincimento che come romanziere ritenesse di stargli alla pari e
anche di sorpassarlo. In fin de' conti che cosa significano le sue
tante censure e correzioni ai _Promessi Sposi_? Significano: Avrei
fatto meglio io!

[65] _Del Romanzo in generale e dei Promessi Sposi di Alessandro
Manzoni discorsi due_--_Quinta edizione_, Urbino, coi tipi della V.
Capp. del SS. Sacram. per Giuseppe Rondini, 1846; in-16º. di pp.
VIII-142.

[66] _Del Romanzo in generale e dei Promessi Sposi, romanzo di Manzoni,
discorsi due. Sesta edizione, accresciuta d'altri scritti_. In Venezia,
nella Tip. Emiliana, MDCCCXL; in-16.º di pp. VI-236.

[67] Trovò un difensore anche in Giuseppe Bianchetti di Treviso. Cfr.
_Sopra i Romanzi storici_ [lettera] _Al barone cav. Ferdinando Porro_,
_Milano_; in _Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie Venete_,
n.º 107-108 del vol VI della _Continuazione_, bimestre di settembre e
ottobre 1830. Fu ristampata a pp. 71-114 dei _Discorsi critici intorno
alla questione se giovi di ammettere o no nella letteratura italiana il
Romanzo storico_, Treviso, coi tipi di Gio. Paluello del fu Antonio,
MDCCCXXXII; in-16.º ed a pp. 503-522 del libro: _Dei lettori e dei
parlatori, saggi due di_ GIUSEPPE BIANCHETTI--_Alcune lettere di lui
medesimo_, Firenze, Felice Le Monnier, 1858; in-16.º

[68] _Indicatore Genovese_, n. 5, 6 e 7, giugno 1828. Cfr. Mazzini G.,
_Scritti editi ed inediti_ [quarta edizione], volume II, Letteratura
vol I, pp. 41-51.

[69] TOMMASEO N., Studi critici, Venezia, Andruzzi, I, 290.

[70] E altrove: «Vogliamo almeno terminare con un voto, che è certo
comune a tutta l'Italia. Perchè il Manzoni, così grande poeta, non
ha intramesso alla sua prosa alcun verso? Perchè non ha egli seguito
l'esempio del suo Goethe e di tanti altri illustri romanzieri, che
ne aggiunsero questo diletto? La materia di frequente si prestava
volentieri alla poesia... Chi non vorrebbe ascoltare il divoto cantico
e le _laudi_ dei valligiani che s'affollano con santa allegrezza
incontro al Cardinal Federigo? Chi non intenderebbe un orecchio bramoso
alle _giulive canzoni di guerra_ dei soldati che vanno all'impresa
di Mantova? Tutti ricordavano il sublime canto per la battaglia di
Maclodio, tutti aspettavano rinnovata quella robusta armonia. Nè
mancherà, in ispecie fra coloro che più strettamente appartengono alla
scuola romantica, chi si dolga di non sentire espressa la _canzonaccia_
de' monatti, che viene appena accennata».

[71] Fin dal 1890 ne dette un saggio il prof. EMILIO TEZA [_Postille
inedite di_ N. TOMMASEO _ai_ «_Promessi Sposi_»; nella _Nuova
Antologia_, serie III, vol XXVII, pp. 560-566]; poi, nel 1897, vennero
stampate per intiero da GIUSEPPE RIGUTINI. Cfr. _Postille inedite di_
NICCOLÒ TOMMASEO, _precedute da un discorso critico e accompagnate da
osservazioni_, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1897; in-16º. di pp.
VIII-332.

[72] Eccone un saggio: «È affettato--Pesante--È da buffone:
tuono che Fautore assume talvolta--È brutto--È duro--Non mi
piace--Miseria--Piccolezza--Cattivo--Inezia--Importuno--Non va--Quanta
roba!--È goffo--Mal detto--Pedantesco--Affettazione--Pare un goffo
dialogo di Goldoni--Rettoricume--Bassezza--Evviva i soliloqui!--È
vecchiume--È un guazzabuglio questo periodo--Malissimo detto--Inezia
grande--Lungherie misere--Falso--È ridicolo--È da retore e mostra la
stanchezza dell'autore--Affettato e prolisso--Gretto e stracco»; e giù
di questo tono, con mano sempre prodiga.

[73] I critici si trovarono concordi nel biasimare il Manzoni d'avere
scelto a protagonisti due operai; all'infuori però del Sismondi, del
Pezzi, del Giannone e di pochi altri, tra' quali Giovita Scalvini,
che scrisse: «Ha scelto Renzo e Lucia per isvergognare e ridurre al
niente i Rodrighi e gli Egidii; per additarne come l'occhio di Dio,
dinanzi il quale cessa ogni disuguaglianza, sappia scernere infra la
turba gl'_ignobili_ e _spregevoli_ che in lui bene confidano, e la sua
mano sollevarli sulla malvagità illustre e tremenda... Vuolsi dunque
considerare Renzo e Lucia come un simbolo di tutti i deboli, di tutti
quelli che soffrono, e ai quali la giustizia è dovuta... Che se a
qualcuno e' paiono troppo piccioli, perch'ei sia curante dei loro umili
casi, pensi che a lui per l'appunto il Manzoni li propone in esempio;
affinchè corregga il suo orgoglio; nè da loro rivolga indifferente gli
sguardi, senza dirizzarli verso Colui che li ha posti sulla terra,
ascolta le loro imprecazioni, e non li lascerà cadere: chi non può
stare con loro, come prossimo, se ne faccia scala a sani pensieri fuori
e più alti di loro».

[74] Nel dar conto nell'_Antologia_ [n. 93, settembre 1828, pp.
120-132] d'un mediocrissimo romanzo francese: _Gertrude_, _par mad._
HORTENSE ALLART DE THÈRASE, Florence, Ciardetti, 1827, scriveva: «Tutto
ciò ch'è grande, è difficile: e però quant'è più l'altezza a cui si
tende, più frequente è il pericolo della caduta. Troppo insistere sulla
storia dell'uomo interiore, può generare facilmente sazietà e noia;
può torre al poeta la forza e lo spazio di rappresentare i segni e
gli effetti della passione; può renderlo affettatamente minuzioso ed
ardito a spacciare de' fatti dell'anima passionata, i risultati o della
fredda meditazione, o d'un'esperienza angusta, immatura. La maggior
difficoltà sta nel cogliere appunto la reale gradazione dell'affetto; e
mostrando il passaggio dell'anima dall'un grado all'altro, esser vero.
Questa difficoltà non mi par superata in un de' tratti più mirabili
de' Promessi Sposi; la conversione dell'Innominato. Le disposizioni di
quell'anima annoiata del male, i primi tocchi della pietà ch'è, già
per sè medesima un cambiamento in quel cuore ferreo, la confusione che
lo assale alla vista della sua vittima, tutto è fin qui sovranamente
côlto, è quasi tutto con egual potenza indicato. Ma quando siamo
alla notte, i sentimenti di rabbia, di disperazione, d'orgoglio che
l'assalgono con tanta furia di quanta è capace un'anima ancora verde
nel delitto, non mi paiono direttamente condurre a un così prossimo
cambiamento. Un carattere come l'Innominato, e non cangiato ancora, non
ricevere alcuna impressione di sdegno, d'orgoglio da quel suo passaggio
in mezzo alla folla meravigliata e sospettosa, non mi par verisimile.
La storia dice che l'Innominato, dopo avuto un colloquio col Borromeo,
cangiò vita: ma non dice, parmi, che l'Innominato sia ito a cercare
la presenza del vescovo, in mezzo alla moltitudine radunata, in un
giorno ch'era giorno di festa per tutto il dintorno. Egli scende tatto
irritato di quella gioia comune, scende non per altro che per saperne
il motivo, e va difilato a cercare dell'arcivescovo di Milano. Forse
il passo parrebbe men brusco, se l'A. avesse dipinti i sentimenti che,
cammin facendo, agitavano quell'anima umiliata. Ma umiliarla conveniva
dapprima, umiliarla agli occhi suoi propri; giacchè la stanchezza del
male non genera che maggior perversità, quando non conduca ad arrossire
della propria bassezza. Io so bene che descritti tutti i gradi
intermedii della conversione, la cosa sarebbe troppo ita in lungo,
so che allora sarebbe stato assai più difficile rendere teatrale e
romanzesca quella conversione: so in fine che nella pittura del nostro
Manzoni, c'è tanta profondità da ammirare, che non è quasi lecito il
mostrare desiderio di quello che manca».

[75] L'_Antologia_ [n. 116, agosto 1830; pp. 140-142] tornò a parlare
de' _Promessi Sposi_ pigliando occasione dalla ristampa che ne fece a
Firenze, nel '30, la tipografia Passigli, Borghi e C. in un vol in-8.º
e in sei volumetti in-32.º con vignette. Dell'articolo, scritto dal
Montani, è notevole questo brano: «Walter Scott, ha già detto qualcuno,
va dalla storia al romanzo, Manzoni dal romanzo alla storia. Da questo
loro andamento diverso risulta che ciò che nelle composizioni dell'uno
forma, per così dire, lo sfondo delle composizioni medesime, in quello
dell'altro forma il soggetto principale. Quindi non fa meraviglia ciò
che da un anno si va bucinando, e in un giornale assai recente si
narra senza mistero, che il Manzoni in uno scritto, che verrà presto
alla luce, sul romanzo storico, si separi interamente da Walter Scott.
Può egli non separarsene in teorica, quando in pratica ne va tanto
lontano?».

[76] Singolare è questa lettera del Tommaseo al Vieusseux, scritta da
Milano il 12 novembre del '26: «Manzoni forse per la primavera vegnente
verrà con la famiglia a Firenze... Del resto, se egli venisse a
Firenze, vedreste un uomo che dall'assenza di ogni singolarità è
reso agli occhi d'ognuno che non gli dissomigli, affatto singolare e
mirabile. Una statura comune, un volto allungato, vaiuolato, oscuro,
ma impresso di quella bontà che l'ingegno, non che guastarla, rende
più sincera e profonda: una voce di modestia e quasi di timidità,
cui lo stesso balbettare un poco giunge come un vezzo alle parole,
che paiono escir più mature, più desiderate: un vestito dimesso, un
piglio semplice, un tuono famigliare, una mite sapienza che irradia
per riflessimento tutto ciò che a lui s'avvicina... Questo è l'uomo
direste, il cui nome sarà simile di qui a mill'anni, adorato, com'io
venero oggi il suo volto. Questo è l'uomo che in ogni via che calcò
impresse un'orma indelebile; che ha divinizzata la tragedia, che ha
insegnata agl'Italiani la vera via della storia; che ha fatto il
romanzo la lettura del Genio e della Virtù; ch'ebbe amici i più buoni
del secol suo; che fu pio, semplice, generoso; che trasse il suo
genio dal cuore: e potreste aggiungere (questo è forse il maggiore
degli encomii) che fu visto più d'una volta piangere sulle sventure
degl'infelici».

[77] Il RIGUTINI ristampò il vecchio articolo dell'_Antologia_, in
fronte alle _Postille_ [pp. 1-21], ma senza accennare per nulla ai
tanti cambiamenti che vi aveva fatto l'autore nell'edizione del '43 ed
ai lievi ritocchi di quella del '58.

[78] _Il primo esilio di Nicolò Tommaseo_ 1834-1839, _lettere di lui a
Cesare Cantù_, Milano, Cogliati, 1904; p. 102.

[79] TOMMASEO N., _Studi critici_; I, 304-312.

Cfr. _Ispirazione e arte o lo scrittore educato dalla società e
educatore_, _studi di_ NICCOLÒ TOMMASEO, Firenze, Felice Le Monnier,
1858; pp. 417-426.

[80] TOMMASEO N. _Dizionario estetico_, Firenze, Successori Le Monnier,
1867, pp. 622-623.

[81] Nacque a Novara il 12 febbraio del 1803; si laureò in legge a
Pavia; presa la carriera della magistratura, al pane onorato del suo
forte Piemonte e de' suoi vecchi Re preferì quello dell'Austria, e morì
il 9 ottobre del 1850, consigliere dell'I. e R. Tribunale criminale di
Milano.

[82] Il Visconti fa in margine l'osservazione seguente: «Lascerei come
una inezia questo cenno sul Griso. Ha del rettorico o per dir meglio
del Tassesco:

  _Argante, Argante stesso ad un gran urto_
  _Di Rinaldo abbattuto appena è surto._»

[83] È il famoso Azzecca-garbugli, che prima chiamò _Pèttola_, poi
_Duplica_. (Ed.)

[84] Valente. [Postilla del Visconti].

[85] Quest'episodio è un brano del capitolo III del tomo III. (Ed.)

[86] Lascerei queste righe, per dare maggiore brevità, e perchè queste
acclamazioni sono cosa troppo simile alle altre in cui Lucia fu
nominata plaudendo al Cardinale. [Postilla del Visconti].

[87] Un asilo, caro Alessandro, pare che il Cardinale voglia metterla
in monastero a fare il noviziato. [Postilla del Visconti].

[88] È un brano del capitolo IV del tomo III. (Ed.)

[89] Il consiglio chiesto dal Cardinale mi piace, ma assai. Rialza
in un modo inaspettato il Conte dopo la sua conversione, lo rende
sempre più vivo. Ma bada bene: che il Cardinale aveva ordinato la
lettiga subito dopo aver parlato coi preti, e l'ultimo consiglio
dev'essere quello del Conte, come il più di peso. Non ti spiacerebbe
di soggiungere in quel luogo dopo le parole: _Quando ebbe questa
certezza_, nella quale fu riconfermato dall'opinione d'un altro
personaggio, di cui lasceremo per ora che il lettore indovini il nome,
_Federigo ordinò_, ecc.? [Postilla del Visconti].

[90] _Tozzo di pane_ mi pare troppo da pitocco, direi un pane.
[Postilla del Visconti].

[91] Lascerei _e sul suo pericolo_, che imbroglia; pare che fosse
attualmente in qualche pericolo per parte di Rodrigo. [Postilla del
Visconti].

[92] Di fianco alla presente risposta di Federigo e alle parole del
Conte: _Ah! la dolcezza_, ecc. il Visconti scrisse: «Lascerei questi
due punti: non bisogna poi essere prodigo dì riflessioni ascetiche
in un Romanzo. Anche per l'edificazione de' lettori--non ridere tu,
sebbene io rida di me stesso--è meglio presentare più che si può con
disinvoltura le idee Cristiane». (Ed.)

[93] Leverei la _peritanza quasi puerile_, per stare alle parole del
Ripamonti; vorrei che avesse sempre il Conte nostro qualche cosa di
soldatesco. [Postilla del Visconti].

[94] Leverei _implorando_, ecc. per la ragione dianzi detta, e perchè
il Conte era uomo avvezzo ad agire, e chi è avvezzo ad agire fa
addirittura. Doveva beneficare con quella risoluzione con cui dava
dapprima de' colpi di spada. [Postilla del Visconti].

[95] Non sarebbe meglio, _di pentimento e di affezione_? [Postilla del
Visconti].

[96] È un altro brano del capitolo IV. «La scena del Conte merita
un capitolo a parte», scrisse il Visconti in margine al principio
dell'episodio; soggiungendo: «In questa porzione del Romanzo giovano,
mi pare, i periodi piuttosto brevi: e contenenti un oggetto solo,
per quanto si può. Dunque: Capitolo... (quello che sarà). _Il Conte
del Sagrato era venuto_, ecc.». Arrivato poi alle parole: _rendevano
impossibili_, tornò a notare: «Qui finirei il capitolo. Al seguente
ci penserai tu, mentre vuoi cangiare, come mi hai detto, il modo di
mandare Lucia in quella casa di signori». (Ed.)

[97] Dal paese di Lucia. (Ed.)

[98] A cominciare dalle parole: _Visitando una di quelle parrocchie_,
ecc. fino a quelle: _dalle zanne del lupo_, con cui ha fine questo
tratto del Romanzo, il Manzoni diè di frego a ogni cosa, scrivendo in
margine: «Invece di questa visita, ecc. sia Don Abbondio che avendo
saputo come Donna Prassede cercava una donna di servizio, suggerisca
ad Agnese di proporre Lucia; e lo faccia per mostrare interessamento,
e per isbrigarsene nello stesso tempo. Agnese vada da Donna Prassede,
che villeggia a qualche miglio di là e deve partire all'indomani per
Milano. Lucia è accettata. Il Conte e le conseguenze si raccontino nel
capitolo IX». (Ed.)

[99] Lo ribattezzò poi col nome di _Don Ferrante_. Quello di
_Valeriano_ gli fu suggerito dal «gran Valeriano Castiglione», autore
dello _Statista regnante_. (Ed.)

[100] Divenne poi _Donna Prassede_. (Ed.)

[101] È un brano anche questo del capitolo IV. (Ed.)

[102] Nel paese di Lucia. (Ed.)

[103] Segue, cancellato: «che nella sua povertà privata, godeva della
potenza soverchiatrice, della cupida ambizione». (Ed.)

[104] Segue, cancellato: «superficiali: se fossero diventate comuni,
se molti uomini di tutte le nazioni le avessero ricevute e messe in
pratica, fossero divenuti virtuosi come Fabricio, vi sarebbero state
molte nazioni forti per la loro temperanza e avide di dominare, le
qua[li]. (Ed.)

[105] Di fianco al periodo, che incomincia colla parola: _superficiali_
e che termina qui, il Manzoni segnò una linea e scrisse in margine:
«Direi, se si può, che quelle idee adottate universalmente avrebbero
prodotti uomini poveri e forti e ambiziosi: non migliorato il
mondo, etc. queste invece avrebbero introdotta una equa e pacifica
distribuzione delle cose necessarie, poveri soccorsi e ricchi
astinenti: cresciuta la pazienza a misura che ne sarebbe scemato il
bisogno». (Ed.)

[106] Col racconto di questo episodio della vita del cardinal Federigo
ha termine il capitolo IV del tomo III della prima minuta. (Ed.)

[107] Lampugnano, _La pestilenza seguita in Milano_, Milano, 1634, pag.
19. [Nota del Manzoni].

[108] Quest'inciso, mi pare, imbarazza la serie delle idee,
massimamente perchè _beneficenza_ significa più direttamente dono
gratuito, che una ricerca di lavoro. [Postilla del Visconti].

[109] A _molti_ di quei fini, se non m'inganno. [Postilla del Visconti].

[110] Qui il Manzoni aggiunse, in margine, ma poi cancellò: «Gli
uomini facevano allora quello che pur troppo hanno fatto quasi sempre.
Dicono intollerabile la sventura quando è ancora in picciol grado,
la rassegnazione sembra loro impossibile quando è ancor facile:
s'ingegnano tanto che la rendono più grave, e che la spingono talvolta
ad un segno, in cui non resta più nemmeno ad essi la forza necessaria
per essere impazienti, ed hanno, ben più della rassegnazione, lo
stupore». (Ed.)

[111] Il Manzoni vi ha scritto di fianco: «Grida del 2 Agosto 1628».
(Ed.)

[112] Eccone il racconto: «Non la guerra propriamente detta, ma un
passaggio di truppe, più funesto agli abitanti che nessuna guerra
più accanita, desolò una parte del Milanese, e condusse la peste,
dalla quale nessun angolo di quel paese fu salvo. Ci conviene ora
accennare brevemente le origini di tanta rovina. Vincenzo I Gonzaga,
Duca di Mantova, era morto nel 1612, lasciando tre figli. Il primo,
Francesco, morì nello stesso anno, e non rimase di lui che una figlia,
per nome Maria; Ferdinando, che dopo di lui tenne lo Stato, morì
senza prole legittima nel 1626; Vincenzo II, l'ultimo dei fratelli,
gli succedette in età di 32 anni, già consumato dagli stravizi, senza
speranza di prole e manifestamente vicino al sepolcro. Già molte
ambizioni, molte cupidigie, molti sospetti stavano all'erta aspettando
ch'egli vi scendesse. Ma egli aveva instituito erede per testamento
Carlo Gonzaga, Duca di Nevers, del resto suo parente più prossimo. E
per assicurare l'effetto di questa disposizione, aveva segretamente
fatto scrivere al Nevers che mandasse a Mantova il figlio, pur Carlo,
Duca di Rethel, affinchè al momento che il ducato verrebbe a vacare,
potesse pigliarne il possesso in nome del padre. Ma, oltre il ducato
di Mantova, dalla successione del quale erano per investitura escluse
le femmine, Vincenzo lasciava pur quello del Monferrato, al quale, pel
complicato, confuso, incerto, variamente applicabile diritto pubblico
d'allora, Maria, nipote di Vincenzo, poteva aver qualche ragione. Per
togliere ogni soggetto ed ogni pretesto di dissensioni, pensò il Duca
Vincenzo, o chi pensava per lui, a dare quella Maria in moglie al Duca
di Rethel, che aveva fatto chiamare. L'aspettato giovane arrivò che il
Duca Vincenzo era agli estremi: le nozze, che questi aveva proposto, si
fecero nella notte dopo il 25 Dicembre 1628, mentre egli moriva.

«La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le
commedie del teatro, ma danno sovente principio alle tragedie e alle
commedie della vita reale. Al mattino lo sposo comparve in grande
abito da lutto, assunse il titolo di Principe di Mantova, e padrone
delle armi e della cittadella, fu senza difficoltà riconosciuto dagli
abitanti. Ma v'era altri a questo mondo che avevano qualche cosa da
dire in quella faccenda.

«Luigi XIII re di Francia o per dir meglio il Cardinale di Richelieu,
sosteneva il Nevers, uomo d'origine italiana, ma nato francese; anzi
aveva egli, il Cardinale, per mezzo di legati, avuta gran parte nel
testamento del Duca Vincenzo. Don Filippo IV, o per dir meglio il
Duca d'Olivares, non poteva patire che un principe francese venisse
a stabilirsi in Italia, e sosteneva le pretenzioni di Don Ferrante
Gonzaga, parente più lontano del Duca Vincenzo.

«Carlo Emmanuele Duca di Savoja aveva pure antiche pretenzioni sul
Monferrato; i Veneziani, ai quali dava ombra la grande potenza
spagnuola in Italia, favorivano il Duca di Rethel, ma con trattati,
con promesse e con minacce; e Urbano VIII, inclinato a quel Duca
e sopra tutto alla pace, ajutava, come poteva, queste due cause
con raccomandazioni e con proposte di accomodamenti. Finalmente
l'imperatore Ferdinando II pretendeva che il Duca di Nevers, erede
trasversale, non aveva potuto senza il suo consenso impossessarsi di
feudi dell'impero, la successione ai quali era rivendicata da altri.
Richiedeva quindi che il possesso degli Stati fosse depositato presso
di lui, finch'egli gli aggiudicasse per sentenza, e citò il Duca
di Nevers con tutte le formalità allora in uso. V'erano poi altre
pretenzioni secondarie e più intralciate, che passiamo sotto silenzio,
per non annojare il lettore, il quale comincia forse a mormorare; e
certamente non saprà abbastanza apprezzare la fatica che facciamo
per restringere in brevi parole tutta questa parte di storia. Il
Duca d'Olivares, istigato continuamente dal Cordova, governatore di
Milano, strinse un trattato col Duca di Savoja contra il novello Duca
di Mantova. Questi si pose sulla difesa, si venne alle mani, Carlo
Emmanuele invase il Monferrato, e Cordova pose l'assedio a Casale. Il
Duca di Mantova, stretto da due nemici potenti, invocava gli amici; ma
i Veneziani non volevano muoversi se il Re di Francia non mandava un
esercito in Italia, e il Re di Francia, o il Cardinal di Richelieu,
era impegnato nell'assedio della Rocella. Presa questa, parati o
vinti certi intrighi imbrogliatissimi di Corte, il Re e il Cardinale
s'affacciarono all'Italia con un esercito, chiesero il passo al Duca
di Savoja; si trattò, non si conchiuse, si venne alle mani, i Francesi
superarono e acquistarono terreno, si trattò di nuovo, il passo fu
accordato, il Re e il Cardinale s'avanzarono, trassero agli accordi il
Cordova spaventato, gli fecero levare l'assedio di Casale, vi posero
guernigione francese, e tornarono a casa trionfanti, e accompagnati da
due sonetti dell'Achillini. Il primo, quello che comincia col famoso
verso:

  _Sudate, o fuochi, a preparar metalli,_

è tutto di lode; l'altro è di consiglio, perchè la poesia ha sempre
avuto questo nobile privilegio di ravvolgere avvisi sapientissimi e
insegnamenti reconditi negli idoli lusinghieri della fantasia e nella
magica armonia dei numeri. L'Achillini consigliava il Re di Francia,
vincitore della Roccella e liberatore di Casale, di tentare l'impresa
del Santo Sepolcro, nè più nè meno. Però il Cardinale di Richelieu non
ne fece nulla: convien dire che avesse altro in testa. Ma i Veneziani,
che allo scendere de' Francesi, s'eran dichiarati e mossi, istavano
per legati e per lettere presso il Cardinale perchè l'esercito da lui
condotto non tornasse indietro, e adducevano mille ragioni, per provare
che non era da far conto su quei trattati; ma il Cardinale badò alla
prosa dei Veneziani come ai versi dell'Achillini. La guerra continuò
infatti contro il Duca di Mantova. Questi aveva fatte e andava facendo
tutte le sommessioni immaginabili all'imperatore a fine di placarlo e
di piegarlo ad accordargli l'investitura. Ma Ferdinando stava fermo in
esigere che i ducati fossero a lui ceduti in deposito; e irritato dalle
ripulse del Duca, più che ammansato dalle sue riverenze; irritato di
più dell'aver questi domandato il soccorso francese, stimolato dalla
Corte di Madrid, si dichiarò anch'egli nemico del Duca di Mantova.
L'esercito Alemanno, di circa trentasei mila uomini, ragunato sotto
il comando del Conte di Colalto, ebbe ordine di portarsi all'impresa
di Mantova; la vanguardia che, già da qualche tempo aveva occupato
ostilmente il paese de' Grigioni, si diffuse per la Valtellina e ai 20
di settembre entrò nello Stato di Milano». Questo brano è tolto dal
capitolo I del tomo IV. (Ed.)

[113] Lascerei questo paragone così intempestivo in materia così
triste. [Postilla del Visconti].

[114] Qui termina il capitolo V del tomo III. Il brano che segue è il
principio del capitolo VI. (Ed.)

[115] Prima, come fu detto, gli pose nome _Valeriano_; poi lo
ribattezzò Don Ferrante. (Ed.)

[116] Lacuna dell'originale. (Ed.)

[117] FRANCESCO D'OVIDIO [_Manzoni e Cervantes_; in _Discussioni
manzoniane_, Città di Castello, Lapi, 1886; pagine 68-72] col solito
suo acume paragonò la biblioteca dì don Quijote con quella di don
Ferrante. LORENZO STOPPATO [_La Biblioteca di don Ferrante_, Milano,
tip. Bortolotti di Giuseppe Prato, 1887; in-16º di pp. 59] ne fece
soggetto di una geniale conferenza, letta a Milano, il 17 febbraio
1887, nella sala dell'esposizione permanente di belle arti. Cfr. pure:
_I Don Ferranti ossia i moderni avvocati della peste_; in _La Civiltà
cattolica_, anno XIII, serie V, vol. II, quaderno 291 di tutta la
collezione, 3 maggio 1862, pp. 257-268.--BACCI O., _Don Ferrante nei_
«_Promessi Sposi_»; in _Saggi letterari_, Firenze, Barbèra, 1898; pp.
87-129. (Ed.)

[118] Segue, cancellato: «delle poche rime stampate e di quelle
poche prose di Claudio Achillini»; e poi: «delle rime stampate, del
discorso accademico e delle poche lettere di Claudio Achillini». Qui
il Manzoni accenna senza dubbio alle _Rime_ | _e Prose_ | _di_ CLAUDIO
| ACHILLINI. | _In questa nuova impressione_ | _accresciute di molti
sonetti,_ | _et altre compositioni_ | _non più stampate:_ | _Con
aggiunta di diverse_ | _Bellissime Lettere di Proposta, e_ | _Risposta
del medesimo autore._ | In Venetia, M.DC.LVI. | Per Giacomo Bortoli. |
Con licenza de' Superiori; in-12º. È questa infatti la prima volta che
furono raccolte e stampate le «poche lettere» dell'Achillini, mentre
le sue _Rime_ avevano avuto una quantità di edizioni. Essendo state
raccolte e stampate nel 1656, non potevano figurare nella biblioteca di
Don Ferrante, morto nel 1630; il Manzoni cancellò dunque l'accenno e
corse al ripiego di fargli invece possedere «una raccolta manoscritta
di alcune lettere» dello stesso grand'uomo. «Poche lettere», (nota il
mio amico Luigi D'Isengard), «ma c'è da imparare una nuova maniera di
estetica:--_Il sonetto inviatomi da V. S. è cosa angelica, per non
dire un angelo in versi. I due terzetti sono due Chori di Grazie. La
chiusura è una prigionia di maraviglie._--Dopo il qual giudizio non è
da mettere in dubbio che _il maggior poeta di quanti ne nascessero,
o tra i Toscani, o tra i Latini, o tra i Greci, o tra gli Hebrei_
sia Giambattista Marini; e non è da stupire che la sacra eloquenza
fosse tutta nel saio d'un cappuccino _così macilente e confitto e
sepolto dentro ai panni, che si vede, anzi non si vede, e non si ode
che una lana agitata che sgrida, un mantello vocale, un cappuccio che
atterrisce; un fuoco che scintilla fuori dalle ceneri, una nuvola bigia
che tuona spaventi, una penitenza spirante, un sacco di querele che
si riversa addosso ai peccatori. Oh Dio, quanto è vero, che questo
è il vero modo di predicare; e se tutti i predicatori fossero tali,
so certo, che più consideratamente camminerebbe il mondo_». Cfr.
D'ISENGARD L., _Claudio Achillini e Don Ferrante_; in _La Rassegna
nazionale_, di Firenze, anno XX, vol CIV, fascicolo del 1º dicembre
1898; pp. 629-636. (Ed.)

[119] Segue, cancellato: «Non vorrei con tutto questo che alcuno
pigliasse Don Ferrante per un uomo straordinario, perchè avendo
studiato un po' tutta la sua vita ed inclinando ora alla vecchiezza,
fra gli autori che teneva in stima particolare contasse molti recenti,
alcuni viventi, e alcuni perfino assai più giovani di lui. Don Ferrante
era quello che doveva essere, quello che sono sempre stati e saranno
sempre gli uomini provetti, i quali già da gran tempo hanno veduto dove
stia la perfezione del sapere, hanno adottato un sistema, e chiuso il
numero delle loro idee. La loro avversione, i loro sospetti, le loro
ire non sono già contra gli uomini nuovi, ma contra le idee nuove; anzi
se fra i giovani sorge taluno, che ricevendo con molta venerazione le
dottrine che trova trionfanti, le studia, vi si affonda dentro, e le
estende e dà loro un nuovo lume, i provetti riconoscono il suo merito
e lo esaltano con ammirabile imparzialità. Oh! se al tempo di Don
Ferrante fossero venuti oltre giovani che avessero ardito riesaminare
quelle idee che dovevano soltanto ricevere ed applicare, giovani che
avessero frugato in tutti quegli assiomi, di quegli che invece di dire:
Capisco, dicono: Perchè? avreste veduto come Don Ferrante gli avrebbe
pettinati, ma per buona sorte non ve n'era uno». (Ed.)

[120] Nell'autografo, forse per una svista, c'è scritto: _strascurato_.
(Ed.)

[121] Di Silietta il Manzoni parla di nuovo nel capitolo I del tomo IV.
«Dalla fine dell'anno 1628», (così scrive) «alla quale siamo pervenuti
con la narrazione, in sino alla metà del 1630, i nostri personaggi,
quale per elezione e quale per necessità, si rimasero a un di presso
nello stato in cui gli abbiamo lasciati: e la loro vita non offre in
questo tempo quasi un avvenimento che ci sembri degno di menzione. Noi
non poniamo, per esempio, tra gli avvenimenti memorabili la vestizione
di Silietta, come non si considera per una epoca importante nella
storia astronomica una piccola eclissi preveduta e calcolata e non
visibile in Europa». Il tratto però che riguarda Silietta è cancellato.
(Ed.)

[122] In margine il Manzoni notò poi questo pensiero: «La signora le
aveva lasciata una impressione confusa, ma spiacevole, etc.». (Ed.)

[123] Segue, ma cancellato: FINE DEL TOMO III. _11 Marzo 1823_.
Questo Brano forma il _Capitolo IX_ appunto del tomo III della prima
minuta. Vi aggiunse quest'altro brano: «La povera donna aveva un'altra
faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo. Quantunque egli
non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure sapendo che
egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo.
Faceva scrivere ad Agnese, per chiederle nuove della figlia; dico
faceva scrivere, perchè i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero,
non conoscevano l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e
interpretare le lettere, e incaricava pure altri della risposta. Chi
ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie, sa come son
fatti e come intesi. Colui che fa scrivere dà al segretario un tema
ravviluppato e confuso; questi, parte frantende, parte vuol correggere,
parte esagerare per ottener meglio l'intento, parte non lo esprimere
come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa
leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete e con le
sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro
aveva afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi
fra loro come due filosofi trascendentali. Il peggio è quando la
situazione della quale si vuol render conto è complicata e i disegni
e le proposte che si vogliono fare sono contingenti e condizionate.
Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di stabilirsi a Bergamo,
di viver quivi della sua professione e di farsi con quella anche un
po' di scorta, di preparare un buon letto a Lucia e che allora essa
venisse a Bergamo con la madre ed ivi si concludessero le nozze. Ma
i tempi non erano propizii. L'amore, che dipinge le cose facili,
bastava bensì a persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe
potuto eseguire in seguito; ma non poteva nascondergli che per allora
era ineseguibile. Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad
Agnese questo miscuglio di speranze fondate, anzi certe, di impaccio
attuale, di sì nell'avvenire e di no nel presente; Agnese ricevette
la lettera dopo il ritorno da Monza, intese e fece rispondere come
potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito che la voce ne giunse a
Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della liberazione.
Pure ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie. Se Lucia
fosse rimasta nel suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto
dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi,
come che fosse, vi sarebbe andato. Ma egli seppe anche che Lucia
era partita per Milano; e in tale circostanza, non solo il pericolo
diventava per Fermo, incomparabilmente maggiore, ma il tentativo
incomparabilmente più difficile e l'evento quasi disperato. Dovette
egli dunque contentarsi di chiedere schiarimenti ad Agnese. La buona
donna trovò il mezzo di fargli avere, per mezzo d'un mercante quei
cento scudi, che Lucia aveva destinati a lui, ed una lettera, nella
quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di tutto l'accaduto. Ma
questa lettera non isgombrò le inquietudini e le ansietà di Fermo; anzi
i cento scudi le accrebbero: giacchè, pensava egli, ora che Lucia, per
una ventura inaspettata, possiede tanto che basta perchè noi possiamo
viver qui marito e moglie, perchè non viene ella e mi manda invece
questi denari, come un dono, come una elemosina, come... e qui Fermo
si sentiva scoppiare... come un congedo? Voglio io denari da lei? E
se ella non è mia, pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? Per
quanto Agnese avesse cercato di fargli scriver chiaro che Lucia dallo
spavento in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla
vista di quei denari e dati a quel modo era assalito da mille dubbi
torbidi e strani. Le lettere che egli faceva scrivere a Lucia, cadevano
tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non le consegnava a cui
erano indiritte, ma, pel meglio, le leggeva e si regolava su le notizie
che ne ricavava. Fermo, sempre più inquieto, chiedeva ad Agnese la
spiegazione di quei dubbii e del silenzio di Lucia. Quand'anche Agnese
avesse saputo scrivere, non avrebbe potuto soddisfare il poveretto,
perchè la cagione del silenzio le era ignota, ed essa pure non capiva
bene il contegno di Lucia con Fermo. La spiegazione di tutto era nel
voto fatto da Lucia, e che essa non aveva confidato nè meno alla madre.
La corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi fin che essa fu
interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel volume seguente. Fine
del tomo III». (Ed.)

[124] A Sigismondo Boldoni, che visse dal 1597 al 1630, l'11 settembre
del 1899 fu eretto un monumento nel suo nativo Bellano. L'ab. Luigi
Vitali nel discorso inaugurale, che pronunziò, diceva: «il Boldoni, in
alcune sue lettere, con viva e commovente verità, ci descrive una delle
molte discese dei barbari, il passaggio dei Lanzichenecchi, descrizione
che forse ha ispirato alcune delle belle pagine dell'immortale
romanzo _I Promessi Sposi_». Cfr. VITALI L., _Patria e Religione,
commemorazione_, Milano, Cogliati, 1903; pp. 534-535. Da quelle lettere
trasse infatti più d'una ispirazione il Manzoni. (Ed.)

[125] Qui termina il capitolo I del tomo IV e incomincia quello II.
(Ed.)

[126] Prima scrisse: _piangolente_. (Ed.)

[127] Segue, cancellato: «La vita, signor curato, la vita, disse
Perpetua». (Ed.)

[128] In margine il Manzoni aggiunse: «son venuto a fuggir l'acqua
sotto una grondaja». (Ed.)

[129] Segue, cancellato: «Il Signor Lucio volle ancora opporsi,
ma l'impressione di terrore che Don Ferrante aveva prodotto su
gli uditori, gli rendeva poco disposti a sentire la forza delle
opposizioni. Io non so niente, disse il primo, di tutte queste
predizioni; so però che senza di esse si capisce benissimo perchè
ora tanti muojano: muojono perchè è venuta la loro ora. Nessuno badò
all'argomento del Signor Lucio». (Ed.)

[130] Il Manzoni aveva in animo di rimaneggiare tutto il rimanente di
questo brano. Infatti v'incollò un fogliolino, che dice: «Deduzione più
logica: 1.) generazioni; e divenute poi il ludibrio delle generazioni
susseguenti; 2.) _Sarebbe una storia_ fino a _più di ammirazione_; 3.)
_Talvolta senza richiami_, etc. fino a _rifiutata avvertitamente_; 4.)
Conclusione: _Ma una siffatta storia_, etc. Rifondere il tutto per
adattarlo alla nuova deduzione». (Ed.)

[131] Il Manzoni soppresse questo dialogo, con il quale termina il
capitolo III del tomo IV della prima minuta; ma, nel capitolo XXXVII
del testo definitivo, raccontando come morì don Ferrante, non mancò
di esporre quello che esso pensava intorno la peste. Ecco le parole
del Manzoni: «Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto
tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch'era stato dotto,
l'anonimo ha creduto d'estendersi un po' più; e noi, a nostro rischio,
trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.

«Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante
fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino
all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma
con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la
concatenazione.

«_In rerum natura, diceva_, non ci son che due generi di cose: sostanze
e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser nè l'uno nè
l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le
sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza
spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è
inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte.
Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro
parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse tale, in vece di passar
da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea;
perchè bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perchè
brucerebbe. Non è terrea; perchè sarebbe visibile. Sostanza composta,
neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al
tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da
vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi
signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; che questo è
il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza
costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente
trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la
filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non
può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla,
si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi;
perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come
vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a
parlare di vibici, di esantemi, d'antraci...?

«Tutte corbellerie, scappò fuori una volta un tale.

«No, no, riprese don Ferrante: non dico questo: la scienza è scienza;
solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi,
bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili,
che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che
fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose,
anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.

«Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva
che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi
attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande
l'autorità d'un dotto di professione, allorchè vuoi dimostrare agli
altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere,
e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva
già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma
nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non
si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi,
trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a disteso
era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a
pezzi e bocconi.

«La c'è pur troppo la vera cagione, diceva; e son costretti a
riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in
aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione
di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze
si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi
negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian
lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un
guancialino...? Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori
medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna,
e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate
là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de'
corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E
tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove?
brucerete Saturno?

«_His fretus_, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna
precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire,
come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».

OLINDO GUERRINI [_Achillini e Manzoni_; in _La Rassegna settimanale_,
di Roma, vol III, n.º 59, 16 febbraio 1879, pp. 130-131] notava,
per il primo, che il ragionamento posto dal Manzoni in bocca a don
Ferrante, lo «copiò di sana pianta, senza dirci dove l'avesse preso»,
e ne indicava la fonte: una lettera di Claudio Achillini ad Agostino
Mascardi. Tornava a trattare la questione, con grande serenità e molto
garbo, LUIGI D'ISENGARD [_Claudio Achillini e don Ferrante_; in _La
Rassegna nazionale_, di Firenze, anno XX, vol 104, 1º decembre 1898,
pp. 629-636.]

Agostino Mascardi di Sarzana, che visse dal 1591 al 1640 ed ebbe grido
tra' letterati d'allora, mentre a Milano e nel resto d'Italia infieriva
la peste e correvano le più strane e orribili voci intorno gli untori,
scriveva all'Achillini: «Ditemi, di grazia, signor Claudio, che credete
delle cose di Milano? Non parlo degli accidenti di guerra e della
peste, che per via d'ordinario contagio si propaga, ma di quell'altra,
che si dice esser seminata dagli uomini con mistura d'incanto. Io per
me, come non sono dei più arrendevoli a creder tutto quello che si
attribuisce al diavolo, così non lodo l'ostinata credulità di certi
filosofastri, che, per far troppo del saccente, danno nell'infedele.
Che in altri tempi si sia trovata cotal sorte di peste, dalla malvagità
degli uomini appiccata con diverse misture, è notissimo». Qui tira
in ballo Seneca e Tito Livio, Paolo Diacono e Procopio, Pomponio
Leto e Gregorio Nisseno, Evagrio, Cedreno e Sigiberto; poi prosegue:
«Può nondimeno accadere che la moltitudine, credula al suo peggiore
e inchinata alla superstizione, v'aggiunga molte cose del suo, in
virtù dell'eccessivo timore che la toglie di senno. Però, figliuole
della paura e della sciocchezza stimo io quelle larve di Principi, di
vecchi e di palazzi, delle quali s'empiono i fogli di Lombardia, quando
non sieno macchine mal composte di qualche ingegno, più curioso che
discreto, per dar materia di spavento alla plebe, e agli uomini sensati
o di riso o di sdegno. È certo nondimeno che nelle pubbliche calamità
gli autori antichi osservano molte fiere visioni, o vere, o immaginate
dalla paura... Tantochè, per abbattere dalle sue fondamenta Milano,
era necessario che alla fame compassionevole, alle violenze di barbara
soldatesca, alle ruine di tanti anni di guerra, alle stragi della peste
comune, s'aggiungesse il veleno, dirò insanabile, se è composto fin
nell'Inferno con liquori nel nostro mondo non conosciuti».

L'Achillini gli rispondeva dalla sua villa al Sasso, nella valle del
Reno, dove s'era rifugiato per paura del contagio: «È toccato alla
peste lo svegliare il mio nome che dormiva sotto i ricchi padiglioni
della vostra memoria: nè voglio già ringraziamela, perchè non merita
grazie una siffatta disgrazia; ben rendo grazie a voi che cotanto
m'avete onorato con la vostra eloquentissima ed eruditissima lettera,
alla quale come potrò mai rispondere a parte a parte, se, subito ch'io
l'ebbi ricevuta, vennero a me alcuni gentiluomini bolognesi, fra i
quali un Paride letterato la riconobbe per un'Elena e me la rubò?...
Voi mi richiedete il mio senso intorno agli spettri di Milano e alla
magica peste portata dalla fama su certi fogli curiosi, che vanno
attorno. Qui, o ragioniamo del potere, o del fatto. Se del potere,
chiara cosa è, e la teologia non ci lascia dubitare, che il Demonio può
naturalmente queste e cose maggiori, purchè Dio non gli sottragga il
potere: intendo però, s'egli eserciterà le sue forze naturali dentro
alla latitudine del moto locale, trasportando e applicando gli agenti
alle materie: perchè se noi credessimo che nei predicamenti della
qualità, della quantità o della sostanza egli potesse immediatamente
produrre sì fatti termini, noi, s'io non m'inganno, faressimo errore.
Se poi ragioniamo del fatto, certo che per le continue relazioni che
vengono da Milano, anche in quest'ultimo spaccio, io molto agevolmente
m'induco a crederlo; ma non già credo quelle favolose circostanze che
questa estate andavano attorno, le inverisimilitudini delle quali
erano troppe note a chi leggeva quei fogli: e che altre volte siano
avvenute sì fatte pestilenze, o col concorso del Demonio, o con l'arte
ignuda degli uomini, oltre le nobilissime autorità addotte da voi, io
mi rimetto ad un certo trattatello manuscritto, che va attorno, il
cui titolo è: _De peste manufacta_, nel quale sono registrate molte
altre autorità di simil fatto; ma quello che mi confonde l'ingegno si
è come si trovino uomini di barbarie tanto inumana, che cospirino coi
Diavoli alla distruzione di tutta la propria spezie. Io qui impazzirei
col pensarvi, e però vengo ad un'altra non meno curiosa maraviglia, e
chieggo a voi che cosa è egli mai questo fomite, o seminario pestifero,
che resta impresso nei panni e con fecondità così tragica fruttifica
la morte delle famiglie e dei popoli interi? È egli accidente, o
sostanza? Se accidente, o è trasportato, o prodotto; al primo modo
repugna la filosofia, la quale non ammette il passaggio degli accidenti
da un soggetto all'altro. Al secondo pare che ripugni il non potersi
intendere con quale energia possa l'appestato tradurre dalle radici o
dalle potenze dei panni agli atti una sì fatta qualità, oltre che non
sarebbe agevol cosa lo assegnare in quale spezie di qualità dovesse
riporsi. Se è sostanza, come vogliono tutti gli antichi e Greci e
Latini, o è semplice, o è composta: se semplice, o ella è area, e
perchè in breve tempo non vola alla sua sfera, liberandone i panni?
O è acquea, e perchè non bagna, o non è dall'ambiente, tante volte
accidentalmente secco, disseccata e consumata? O è ignea, e perchè non
abbrugia? O è terrea, e perchè non si vede, o col tatto non si sente?
Se è sostanza composta, torno a dire che dovrebbe, o coll'occhio, o
col tatto discernersi; e pure egli è verissimo che un panno bianco,
mondissimo agli occhi nostri, ucciderebbe una città intera».

Queste lettere, che subito furon date alle stampe, levarono un gran
rumore e più volte tornarono a veder la luce. La prima edizione ha
questo titolo: _Due lettere_ | _L'una_ | _Del Mascardi all'Achillini_
| _L'altra_ | _Dell'Achillini al Mascardi_ | sopr_a le presenti
calamità._ | _Dedicate all'Illustriss. Signora_ | _D. Maria Pepoli_ |
_Contessa di Castiglione, Sparvi,_ | _E Barragazza._ | _In Bologna,
per Francesco Casanio 1630. Con licenza de' Superiori_ | _Ad istanza
di Bartolomeo Cavalieri et Cesare Ingegneri_; in-4º picc. di pp. 24.
Furono riprodotte: _In Firenze_, _MDCXXXI_. | _Nella Stamperia di
Pietro Nesti al Sole_ | _con licenza de' superiori_; in-4º di pp.
16--_In Roma, Per Lodovico Grignani_, _MDCXXXI_. | Con Licenza de'
Superiori; in-4º di pp. 20--_e In Roma, et in Milano_ | _Ad istanza di
Gio. Batt. Bidelli_ | _MDCXXXI_; in-18º di pp. 32. Poi vennero inserite
nella raccolta delle _Rime e prose_ dell'Achillini, stampata a Venezia
nel 1656, 1673, ecc. È probabile che il Manzoni leggesse la lettera
ispiratrice in una di queste ultime edizioni; ma non si può escludere
che potesse avere avuto tra mano anche una delle altre stampe, sebbene
assai rare. Infatti consultò un numero grande di libri e di opuscoli
intorno alla peste del 1630; quanti ne potè trovare. E poi pizzicava
di bibliofilo. Sta lì a provarlo un esemplare, postillato di suo
pugno, della _Serie_ |_ de'_ | _testi di lingua_ | _usati a stampa
nel Vocabolario_ | _degli Accademici della Crusca_ | _con aggiunte_
| _di altre edizioni da accreditati scrittori molto pregiate,_ | _e
di osservazioni critico-bibliografiche,_ | _Bassano MDCCCV. Dalla
Tipografia Remondiniana_ | _con R. permissione_; in-8º; che si conserva
nella libreria di Brusuglio.

Il prof. LORENZO STOPPATO [_La Biblioteca di Don Ferrante_, Milano,
tip. Bortolotti di G. Prato, 1887; pp. 47-49] pigliò le difese di don
Ferrante, ponendogli in bocca questa risposta al Guerrini: «Caro signor
mio, Ella mi imputa di plagio? Ma non sa Ella che il distinguere fra
_sostanza_ e _accidente_ è una delle formule più consuete e precise
della filosofia aristotelica, e che l'applicazione della formula
importa uno sviluppo eguale di ragionamento, per ogni caso? Che non
varia altro che la materia alla quale viene applicata? E mi crede
così da poco da aver bisogno di copiare un ragionamento, come farebbe
uno scolaretto? E Lei mi fa un gran caso dell'aver io considerata la
peste come sostanza e come accidente? Ma non sa che gli scolastici
hanno disputato per fino se Dio fosse accidente o sostanza». Fin qui
la difesa non fa una grinza; dove zoppica è in quello che segue: «Nè
mi venga a dire che io ho copiato dall'Achillini... Dica piuttosto
che anche l'Achillini ha copiato quel ragionamento, e lo ha copiato
precisamente da Massimiliano Viani di Pallanza. Costui infatti,
nei suoi _Dialoghi su i rimedi efficacissimi per guardarsi dal mal
contagioso_, stampati a Milano, dal Rolla, l'anno 1630, a pag. 40»
[correggi pp. 44-45], «scrive:--Per compiacervi dirò quello che dice
alcuno filosofo sopra tali particolari, circa il punto che sii questo
fomite, o seminario pestifero... Se egli sii accidente, o sustanza.
Se accidente, o è trasportato, o è prodotto. Al primo modo repugna
la filosofia, la qual non ammette passaggio degli accidenti da un
soggetto all'altro... Se sustanza, o è semplice, o è composta. Se
è semplice, o ella è aerea, e perchè in breve tempo non vola alla
sua sfera? O è acquea, e perchè, o non bagna, o non è dall'ambiente,
tante volte accidentalmente secco, disseccata e consumata? O è ignea,
e perchè non abbrucia? O è terrea, e perchè, o non si vede, o col
tatto non si sente? Se è sostanza composta, dicono che dovrebbe, o con
l'occhio, o col tatto discernersi... Quanto poi alla generazione di
questo male, può seguire per alterazione o correzione d'aere, cioè per
l'aere viziato e corrotto per aspetti nemici di stelle--». Lo Stoppato
conchiude: «Eccovi, caro signor critico, che anche il vostro Achillini
è un plagiario e ha copiato _ad litteram_ dal Viani».

Ho qui dinanzi il suo libro e comincio col trascriverne il titolo:
_Remedii efficacissimi_ | _per_ | _guardarsi dal mal contaggioso,_ |
_Accioche non vadi infettando i Vicini,_ | _nè faccia progresso;_ |
_con altri avertimenti_ | _necessarii per tali bisogni._ | _Opera_
| co_mposta in forma di Dialog_o | _da_ MASSIMIGLIANO VIANI | _di
Pallanza_ | _Per beneficio pubblico._ | _In Milano,_ | _Appresso
Carlo Francesco Rolla Stampat._ | _vicino al Verzaro._ È un volumetto
in-8º di pp. 51, oltre 8 in principio e 3 in fine. L'anno manca; ma
si deduce dalla lettera dedicatoria del Viani _All'Ill.ᵐᵒ Magistrato
della Sanità dello Stato di Milano_, scritta da «Milano li 23. Giugno
1657»; nonchè dall'approvazione del Magistrato stesso, che è del 27
del medesimo mese. In questa approvazione si commenda anche il libro,
e si esortano le Comunità, «per il loro particolare beneficio, a
provvedersene d'una copia, prohibendosi a ciascun stampatore et ad ogni
altra persona il stampare, far stampare, o introdurre da di fuori di
questo Stato per anni dodici prossimi avvenire la medesima opera; et
ciò sotto pene pecuniarie et anco corporali». Ecco dunque provato che
l'Achillini non è per nulla un plagiario. Lo sarà il Manzoni? Osserva
Luigi Morandi [cfr. _La Perseveranza_ del 19 febbraio 1879]: non solo
non può parlarsi «di plagio, ma neppure d'imitazione, almeno nel
senso più ovvio che si da a questa parola»; è «una trovata storica»,
la quale prova che anche i personaggi e i fatti inventati, furono
dal Manzoni «coloriti con tinte ricavate da fatti e da personaggi
consimili e realmente storici di quel tempo». Ribadisce Orazio Bacci:
«Non si potrebbe parlar mai di un plagio, sibbene di un substrato
storico--quasi direi--che l'autore volle dare alla sua figura; e la
citazione della fonte non era necessaria, nè forse artisticamente
possibile». Notevole è poi ciò che scrive il D'Isengard: «Che il
Manzoni, volendo ritrarre nel suo romanzo la Lombardia del secolo XVII,
abbia fatto uno studio accuratissimo di quell'età, dei luoghi, dei
costumi, dei caratteri e degli avvenimenti, è cosa risaputa... Non si
contentò di studiare quel secolo nelle linee principali, ma scese ai
particolari; ben sapendo che i _fatti minimi_, come insegnò Bacone,
giovano a spiegare i _fatti massimi_. Colla virtù assimilativa dei
grandi ingegni, e coll'industriosa abilità delle api, fabbricava il suo
miele. Nel libro di Stefano Stampa si legge:--_Una volta mi mostrò nel
Ripamonti [Qui lo Stampa è tradito dalla memoria. Gli mostrò invece
il La Croce, dove a pag. 77 si riporta la predica. (Ed.)] il testo
somigliantissimo della predica del padre Felice, dicendo_:--_Vedi son
quasi le stesse parole delle quali mi son servito io_.--Della lettera
dell'Achillini avrebbe potuto dire egualmente: Vedete, per far parlare
a don Ferrante il linguaggio della pedanteria, con tutti gli errori e
le superstizioni del tempo, non m'è parso vero di trovare in quella
lettera il fatto mio. Ma come l'orpello dell'Achillini nel crogiuolo
manzoniano sia divenuto oro purissimo, questo è un segreto dell'arte».
GIUSEPPE GALLI [_Un'operetta inedita del Card. Federico Borromeo sopra
la peste in Milano ed i_ «_Promessi Sposi_»; nell'_Archivio storico
lombardo_, ann. XXX, vol XX, pp. 110-137] scoprì che il Manzoni
approfittò di un'opinione espressa dal Lampugnano a p. 13 del suo
libro: _La peste seguita a Milano l'anno 1630_, stampato nel 1634, per
metterla in bocca a don Ferrante. L'opinione del Lampugnano è questa:
«Nè finalmente mi da l'animo di concedere che la peste sia qualità
contagiosa. Perchè sarebbe accidente. Nè potendo l'accidente essere
contrario alla sostanza, non capisco come possa da subietto in subietto
passare ad operare la corruzione». Sentiamo adesso la medesima opinione
uscita dal crogiuolo manzoniano: «Riman da vedere se possa essere
accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si
comunica da un corpo all'altro; che questo è il loro achille, questo il
pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo
accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che
fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara,
più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto
all'altro».

Il Manzoni dice che nella «scienza cavalleresca» don Ferrante «meritava
e godeva il titolo di professore», e non a torto, giacchè «aveva nella
sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più
riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea,
il Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di
Torquato Tasso».

_Il Forno o vero della nobiltà, dialogo del signor Torquato Tasso_,
vide la luce a Vicenza, nel 1581, per Pierin Libraro; il _Trattato
del modo di ridurre a pace l'inimicitie private_, di Fabio Albergati,
fu pubblicato a Roma, co' torchi dello Zannetti, nel 1583; i
_Discorsi cavallereschi del conte_ ANNIBALE ROMEI, _divisi in cinque
giornate_, vennero impressi a Venezia dallo Ziletti nel 1585. Di
Girolamo Muzio, giustinopolitano, si hanno ben cinque opere: _Le
Risposte cavalleresche_, Venezia, Giolito, 1551; _Il Duello_, Venezia,
Giolito, 1558; _La Faustina, dell'armi cavalleresche a' Principi e
cavalieri d'onore_, Venezia, Valgrisi, 1560; _Il Cavaliero_, Roma,
Blado, 1569; _Il Gentilhuomo, distinto in tre dialoghi_, Venezia,
Valvassori, 1575. Lo spagnuolo Girolamo d'Urrea è autore del _Dialogo
del vero onore militare, nel quale si definiscono tutte le querele
che possono occorrere fra l'uno e l'altro uomo, con notabili esempi
di antichi e moderni_, che fu tradotto in italiano da Girolamo Ulloa
e stampato a Venezia dal Sessa nel 1569. Di Fausto da Longiano si ha
_Il Gentilhuomo_, diviso in due parti, Venezia, 1542 e 1544; e Il
_Duello regolato alle leggi dell'onore, con tutti i cartelli missivi e
responsivi_, Venezia, Valgrisi, 1552; e di Paride dal Pozzo i _Libri
IX del Duello_, Venezia, 1521. Oltre questi «antichi», c'era un suo
contemporaneo, che don Ferrante riteneva «l'autore degli autori», il
«celebre Francesco Birago». E anzi il Manzoni nota che «fin da quando
venner fuori i _Discorsi cavallereschi_ di quell'insigne scrittore,
don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest'opera avrebbe
rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con
l'altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso
i posteri». _Li Discorsi cavallereschi del Signor_ FRANCESCO BIRAGO,
_Signore di Melone e di Siciano, ne' quali, con rifiutar la dottrina
cavalleresca del Signor Gio: Battista Olevano, s'insegna a racchettare
honorevolmente le querele nate per cagione d'honore_, ebbero una prima
edizione a Milano, dal Bidelli, nel 1622, che poi li ristampò «riveduti
et accresciuti» nel 1628. Oltre un _Trattato cinegetico, o vero della
Caccia_, Milano, Bidelli, 1628, il Birago compose tre altre opere
cavalleresche, «nobili sorelle» de' _Discorsi_, cioè: _Dichiaratione et
avvertimenti poetici, istorici, politici, cavallereschi e morali sulla_
Gerusalemme conquistata _del Tasso_, Milano, Somasco, 1616; _Consigli
cavallereschi, ne' quali si ragiona circa il modo di far le paci, con
un'Apologia cavalleresca per il Sig. Torquato Tasso_, Milano, Bidelli,
1623; e le _Decisioni cavalleresche_. Si hanno insieme raccolte col
titolo: _Opere cavalleresche del Signor_ FRANCESCO BIRAGO, _distinte
in quattro libri, cioè; Discorsi, Consigli libro I e II e Decisioni_,
Bologna, Longhi, 1686; in-4º.

Il dott. UBALDO MAZZINI [_La Cavalleria nei Promessi Sposi, nuovo
contributo alla ricerca dei fonti manzoniani_; nella _Rassegna
nazionale_, di Firenze, ann. XXI, vol. 109 della collezione, 16
settembre 1899, pp. 333-346], ritiene che il Manzoni «ha avuto per
guida un'opera soltanto d'un solo di quegli autori», i _Consigli
cavallereschi_ del Birago. «Gli altri autori e le loro opere» (così il
Mazzini) «ha trovato citati ne' _Consigli_ ad ogni capitolo, ad ogni
pagina, e parecchie volte: con questo però non voglio escludere che
egli li abbia consultati; _ma più letti che studiati_, come direbbe
egli stesso». No: il Manzoni era troppo coscienzioso, troppo diligente,
per contentarsi di bere a una sola fontana; gli ha letti tutti, gli
ha tutti studiati; c'è da giurarlo. Scorrendo i _Consigli_ (è sempre
il Mazzini che scrive) «non solo è facilissimo trovarvi il riscontro
con alcuni passi dei _Promessi Sposi_, ma ben si comprende ancora come
abbia fatto del Birago l'autore prediletto di don Ferrante, il suo
amico; come io elevi sopra tutti gli altri, e il perchè della profezia
intorno all'Olevano. Ultimo venuto nella nobile falange dei trattatisti
dell'_honore_, contemporaneo e compatriota di don Ferrante, il
Birago, per lo stile, il gusto, il modo di argomentare caratteristico
dell'età in cui visse, è ben naturale che tanto andasse a' versi di
don Ferrante... Si può pensare che lo stesso nome di don Ferrante il
Manzoni l'abbia tratto dai _Consigli_ del Birago, giacchè nel Consiglio
IV, in cui si esamina il _caso di chi pretende essergli stato venuto
meno della parola_, si tratta appunto della vertenza insorta tra certo
signor _Ferante_ Novà ed il signor Giovaniacomo Latuada».

Intorno a questa incarnazione d'un dotto del Seicento, morto,
«come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle», è pure
da consultarsi: ALBERTAZZI A., _Don Ferrante_, in _Fanfulla della
Domenica_, ann. XXII, n. 6. (Ed.)

[132] Il lazzeretto. (Ed.)

[133] Il canonico GIOVANNI FINAZZI, amico del Manzoni, pubblicava a
pp. 409-485 del tom. VI della _Miscellanea, di storia italiana, edita
per cura della Regia Deputazione di storia patria_, Torino, Stamperia
Reale, 1865, la _Relazione della carestia e della peste di Bergamo
e suo territorio negli anni 1629 e 1630, scritta da_ MARC'ANTONIO
BENAGLIO, premettendovi, tra le altre, queste parole: «_Chi volesse la
storia della peste di Bergamo del 1630, la c'è_ (dice il Manzoni al
cap. XXXIII de' suoi _Promessi Sposi_), _scritta per ordine pubblico da
un tal Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque
contenga forse più roba, che tutte insieme le descrizioni più celebri
di pestilenze_. E quantunque il Ghirardelli, come pubblico cancelliere
della città e dell'offizio di sanità, fosse uno di quegli uomini, _ai
quali_ (per dirlo collo stesso Manzoni nella _Colonna infame_) _in
qualche caso può esser comandato e proibito di scrivere la storia_,
nondimeno pel carattere di onoratezza e lealtà sua propria, e pel savio
e liberale incarico raccomandatogli dal voto del maggior consiglio
della stessa città, con rara accuratezza dei più minuti dettagli (come
appunto portava la parte presa in proposito il 26 dicembre 1631 dal
maggior consiglio) descrisse le vicende e il successo di quella peste
_dai primi pronostici che se n'ebbe e dai primi principii ond'essa
pullulò e andò serpendo nel territorio, con i progressi, accrescimenti
e strage atrocissima, così nella città, come nel contado; narrando e
descrivendo non solo li ordini e provvisioni fatte dal Magistrato della
sanità per la preservazione universale, ma anco gli errori occorsi per
aversi poco esperienza di sì fatti maneggi, con filo continuato di
narrar veramente tutte le cose più notabili, con l'ordine e serie de'
tempi, sino all'intiera e totale estirpazione_. Ma di quella peste,
che fu sì fiera e desolante, oltre al Ghirardelli, altri de' nostri
lasciarono più o meno dettagliate memorie, che se fossero pubblicate
tornerebbero per avventura di non inutile commento o supplemento alla
storia di esso Ghirardelli, e potrebber recare alcune particolarità di
fatti, da far meglio conoscere quel tratto di storia patria, più famoso
che conosciuto. Ora fra gli scrittori di così fatte memorie crediamo
di dover prescegliere Marc'Antonio Benaglio, cancelliere che fu del
venerando consorzio della misericordia: che in più succoso e vivace
stile, che non facesse per avventura il Ghirardelli, ce ne lasciò una
dotta e coscienziosa _Relazione_». (Ed.)

[134] Dal capitolo IV del tomo IV tolgo il seguente brano riguardante
gli untori: «La cagione d'un così subito e portentoso aumento del
male fu data a voce di popolo agli _untori_: si disse con asseveranza
e si ripetè con furore, che quegli uomini, congiurati allo sterminio
della città, prendendo il destro della processione, che l'aveva posta
tutta unita, per così dire, in loro balìa, avevano unti in quel
giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri
venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai
piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti.
L'opinione delle unzioni, che fino allora non aveva prodotta che una
vaga inquietudine e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran
fatto, cominciò a partorire ben altri effetti. Due principali furono
distinti e notati dal Ripamonti, uomo che, in molti punti, liberandosi
e segregandosi dalla opinione pubblica dei suoi tempi, volse la mira
delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno
avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini della
questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere
che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare
il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua
storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo
stesso. Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati
in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei
segreti delle corti per arzigogolare quale dei principi, quale dei
re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a
quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste;
e spaventati poi dalla vastità supposta e dalla oscurità stessa delle
insidie, si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza,
che è compagna della disperazione. L'altro effetto più deplorabile,
atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e di
giustificare, di santificare tutte le offese più crudeli, che quei
sospetti potevano suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico,
dalla via pubblica si temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del
servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa.
Ma orribil cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale.
Il viandante straniero che, non ben sapendo fra che uomini si trovava,
si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdraiasse
per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo
la mano, colui che inavvertitamente toccasse la parete di una casa,
l'affrettato che urtasse altri per via, erano _untori_; al terribile
grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era
oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o trascinato alle
carceri, tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore
affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto. E
quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore
comune di quegli stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d'un
simile furore.

«Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa
ed arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta. Dico
l'irreligione, perchè se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose
fisiche, e tutte le altre cagioni, di cui abbiamo parlato di sopra,
poterono far ricevere comunemente l'opinione astratta di unzioni e
di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di
quel popolo corrotto, che rendettero quella opinione attiva e feroce
nell'applicazione. Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi
effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che
prepara gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a
pensar di nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su
le persone, se fosse stata insomma congiunta con quella carità che è
paziente, benigna, che non si irrita, che non pensa il male, che tutto
soffre. Ma l'intolleranza della sventura, la disciplina e l'oblio delle
speranze superiori a tutte le sventure del tempo, l'orrore pusillanime
e furioso della morte erano le cagioni che mantenevano negli animi una
irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di
fatti che ne dessero l'occasione, quindi ancora pronta a trovar questi
fatti ad ogni momento.

«Il Ripamonti riferisce due esempi di quel furor popolare, avvertendo
bene i suoi lettori di averli trascelti non già perchè fossero dei più
atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perchè di quei due
egli fu testimonio.

       *       *       *       *       *

«I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo
furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati
al pari di quei popolari, che abbiam riferiti, con carneficine più
lente, più studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto
silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di
quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe
troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad
un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo
ora; e davvero».

Nel capitolo V del tomo IV della prima minuta il Manzoni prese a
trattare esclusivamente del processo degli untori; poi stralciò que'
fogli, per formarne un'appendice al Romanzo, svolgendo il soggetto
in modo più largo. Se ne conserva il primo sbozzo, già intitolato:
_Capitolo V_, poi _Appendice storica su la Colonna infame_. Sono 60
fogli di 4 pp. l'uno, il primo de' quali non è numerato: gli altri
portano la numerazione 1-59, fatta dal Manzoni stesso. Alcuni fogli
serbano, ma cancellata, la numerazione che ebbero quando fecero parte
del manoscritto del Romanzo e sono: 53, divenuto I; 54-57, divenuti
2-5; 62-67, divenuti 10-15; 65-67, ripetuti, diventati 18-20; 68-70,
mutati in 21-23. Comincia: «Due femminelle, Catterina Rosa e Ottavia
Boni, trovandosi sgraziatamente alla finestra di buon mattino il giorno
21 di giugno»; finisce: «e noi con uno scopo ben meno importante, e con
tanto minor corredo d'ingegno, ci siamo però proposti di fare ciò che
non era ancor stato fatto».

Quando il Manzoni depose il pensiero di stamparla insieme col Romanzo
e invece stabilì di farne una pubblicazione separata, la intitolò:
_Storia della Colonna infame_, e vi premise queste parole: «Fra i molti
giudizj legali che nel 1630 e al di là, furono portati in Milano, su
persone accusate d'aver propagata la peste con unzioni, uno parve ai
giudici così degno di memoria, che decretarono un pubblico monumento
a mantenergliela; e fu quella colonna nominata infame, che stette
in piedi cento quarantott'anni. E in questo eglino s'apponevano: il
giudizio fu veramente memorabile. Ma un monumento non è una storia:
anzi talvolta è, non solo meno, ma qualche cosa di contrario alla
storia. Ma se quei giudici non ci avessero dunque lasciato altro, ci
avrebbero dati, per verità, ben pochi mezzi per conoscere ciò di che
volevano farci ricordare. Ma, senza volerlo, e probabilmente senza
pensarvi, essi furono occasione che altri, probabilmente ancora senza
averne l'intenzione, conservasse al pubblico i materiali bastanti
per la storia di quel giudizio. In mezzo a quei tapini accusati si
trovò, per le singolari circostanze che racconteremo, un uomo di gran
condizione. Quest'uomo, potendo per la sua giustificazione ricorrere
a mezzi dei quali gli altri non avevano per avventura nemmeno l'idea,
e che non sarebbero stati in poter loro quand'anche i difensori gli
avessero loro suggeriti, quest'uomo, dico, pubblicò con le sue difese
e in appoggio di quelle, un grande estratto del processo, che, come a
reo costituito, gli fu comunicato. Su quel volume, che non debb'essere
mai stato comune, ed ora è singolarmente raro, si è principalmente
compilata la seguente storia. Il soggetto di essa è il giudizio dei
due condannati, il nome dei quali fu iscritto nel monumento, e quello
dell'uomo di condizione che fu assoluto. Degli altri avviluppati in
quello sciaguratissimo affare si citerà ciò che serve ad integrare la
storia principale, o anche quei tratti che per la loro singolarità e
importanza loro possono parere sempre opportuni, e che uno non saprebbe
risolversi ad ommettere, quando vi sia un appiglio per farli conoscere».

In fine allo sbozzo dell'_Appendice_ il Manzoni scrisse la seguente
dichiarazione: «Alcuni libri, collezioni, manoscritti, rarissimi, ed
anche unici, da cui l'autore ha ricavato molte notizie per questo
lavoro, e per quello che lo precede, gli furono comunicati con molta
gentilezza, e lasciati con molta sofferenza o da amici, o da persone
ch'egli non ha l'onore di conoscere personalmente, ma che per obbligar
qualcheduno non hanno bisogno di conoscerlo. Si degnino tutti di
gradire l'attestato della sua gratitudine, e l'omaggio reso ad una
cortesia che in altri casi potrebbe essere di molto vantaggio alle
lettere».

Tra le carte del Manzoni si trovano alcuni fascicoli, che egli stesso
intitolò: _Estratti e citazioni per servire alla descrizione della
peste, al processo degli untori, alla storia politica di quel secolo_.
Son copie di documenti tratti dall'Archivio Civico e dall'Archivio di
S. Fedele di Milano, spogli di gride, appunti presi da manoscritti e da
opere a stampa. Con la guida di questi _Estratti_ e delle citazioni che
il Manzoni stesso fece ne' capitoli XXVIII, XXXI e XXXII de' _Promessi
Sposi_, do qui un elenco delle fonti alle quali attinse nel descrivere
la carestia e la peste famosa.

JOSEPHI RIPAMONTII | _canonici scalensis_ | _chronistae urbis_ |
_Mediolani_ | _Historiae patriae_ | _decadis V_ | _libri VI_. |
Mediolani | Ex Regio Palatio, Apud Io: Baptistam et Iulium Caesarem
Malatestam Regios Typographos, senza anno; in-4º di pp. 419, oltre 42
in principio e 1 in fine non numerate; col ritratto del Ripamonti,
disegnato dallo _Storer_ e inciso in rame dal _Blanc_.

JOSEPHI RIPAMONTII | _canonici scalensis_ | _chronistae urbis
Mediolani_ | _de Peste_ | _quae fuit anno CIƆ_ |_Ɔ CXXX_. | _libri
V._ | _desumpti_ | _ex Annalibus_ | _urbis_ | _quos LX._ | Decurionum
| _autoritate_ | _scribebat_ (In fine:) Mediolani | Apud Malatestas,
Regios ac Ducales | Typographos, senza anno; in-4º di pp. 411, oltre 12
in principio e 1 in fine non numerate. [Nel primo libro tratta della
carestia e della peste, nel secondo degli untori; il terzo ha per
soggetto le geste del cardinale Federigo Borromeo e del clero durante
il contagio; nel quarto parla del Magistrato di Sanità; nel quinto
paragona la peste del 1630 con quelle precedenti. Le postille che vi
fece il Manzoni sono a stampa a pp. 449-453 del vol. II delle sue
_Opere inedite o rare_. Cfr. anche: _La Peste di Milano del 1630 libri
cinque, cavati dagli Annali della città e scritti per ordine dei XL
Decurioni dal canonico della Scala_ GIUSEPPE RIPAMONTI, _istoriografo
milanese, volgarizzati per la prima volta dall'originale latino da_
FRANCESCO CUSANI, _con introduzione e note_, Milano, tipografia e
libreria Pirotta, 1841; in-8º gr. di pp. XXXVI-362.--Cfr. pure:
CUSANI F., _Paolo Moriggia e Giuseppe Ripamonti, storici milanesi_;
nell'_Archivio storico lombardo_, ann. IV, fac. I, 31 marzo 1877, pp.
43-69].

BORROMEO card. FEDERIGO, _De pestilentia quae Mediolani anno 1630
magnam stragem edidit_; ms. nella Biblioteca Ambrosiana di Milano.
[Cfr. GALLI G. _Un'operetta del card. Federico Borromeo sopra la peste
ed i_ «Promessi Sposi»; nell'_Archivio storico lombardo_, serie III,
ann. XXX [1903], vol XX. pp. 110-137

[135] In margine il Manzoni vi scrisse: «Stupido: gli parve Gervaso ed
era Tonio». (Ed.)

[136] Questo brano è tolto dal capitolo V del tomo IV. (Ed.)

[137] Nel precedente capitolo, che è il settimo del tomo quarto, il
Manzoni, tra le altre cose, descrisse l'incontro di Fermo col Padre
Cristoforo nel lazzeretto. Ma di quei capitolo non restano che dei
frammenti; e la scena dell'incontro in gran parte è perita. Eccone
un saggio: «Gran Dio!» (è il Padre Cristoforo che parla) «questo
flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna
già maledetta: tanti grappoli abbatte, e quei che rimangono son più
tristi, più agresti, più guasti di prima. Tu stesso, qui dove l'uomo
non dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!

Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.

--Or va, disse il Padre, alzandosi; Iddio benedica le tue ricerche.

--Vuol dire, Padre, ch'io la troverò? richiese Fermo ansiosamente, come
se parlasse ad un uomo che ne potesse saper più di lui.

--Cercala con perseveranza, rispose il Padre, cercala con
rassegnazione. Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso.
Ti ha promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi
t'ha offeso; ti ha promesso di renderti felice per sempre al fine
di questa vita, se tu osservi la sua legge. Non ti basta? Va, e
qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni a darmene contezza;
noi ringrazieremo Iddio insieme. Così dicendo, egli pose le mani su
le spalle di Fermo, e stette un momento colla faccia elevata, in atto
di preghiera e di benedizione. Poi, staccandosi, disse: Intanto io
pregherò per voi: assistendo a questi nostri fratelli, io pregherò per
voi.

Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento, con le mani compresse
al volto, piangendo e pregando, s'alzò, guardò intorno, uscì dalla
capanna, e si diresse alla chiesa, come gli aveva indicato il
cappuccino. Egli era scomparso, e andava cercando intorno dove fosse
più bisogno della sua assistenza». (Ed.)

[138] Segue, cancellato: «lo spicciò in pochissimo tempo, Il signor
Prospero gli tenue dietro. Lucia, alla quale erano toccati i servigj
più». E di nuovo: «Don Ferrante l'appiccò al suo Prospero, questi ad
una donna di casa, e questa a Lucia». (Ed.)

[139] Aveva scritto, ma cancellò: «Il primo pensiero di Donna Prassede
dopo questa disgrazia fu di congedar Prospero, e tutta l'altra gente
di Don Ferrante, ma nè Prospero, nè gli altri gliene diedero il
tempo, perchè egli il primo e tosto gli altri in fila s'infermarono,
e furono». Segue, pur cancellato: «Donna Prassede, combattuta tra il
timore di tenersi un appestato in casa e il timore di attirarvi i
monatti, non risolse nulla, ma stette in una stanza remota, aspettando
che». (Ed.)

[140] Prima scrisse: «quando si sentisse appressare un carro del
lazzeretto». (Ed.)

[141] Segue, cancellato: «Quando Lucia nella sua angoscia aveva fatto
quel voto, non credeva (e, se mal non mi ricordo, abbiam fatta questa
riflessione a suo tempo) che». (Ed.)

[142] È il principio del capitolo VIII del tomo IV. (Ed.)

[143] Il Manzoni sopra _mandava_ ha scritto _pioveva_. (Ed.)

[144] Qui finisce il capitola VIII e incomincia quello IX. (Ed.)

[145] Sarà curioso e utile il vedere di quali e quante correzioni e
pentimenti l'A. tempestò questo primo periodo e quello seguente. Scrivo
in corsivo e metto tra parentesi quadre le parole cancellate: «[_Quel
ramo del lago di Como_ [CHE] _donde esce l'Adda_

[146] Nella _Guida di Lecco, sue valli e suoi laghi, compilata da_
GIUSEPPE FUMAGALLI, _con topografia descrittiva del romanzo_ «I
Promessi Sposi», _e scritti vari di_ ANTONIO GHISLANZONI, del dott.
GIOVANNI POZZI _e di altri autori_, Lecco, Vincenzo Andreotti detto
Busall, editore [Milano, Stab. G. Civelli, 1882]; in-16º, con una carta
topografica, si afferma che i panorami del territorio di Lecco non
si possono ritrarre per virtù di parole e che il Manzoni non riuscì
in questa descrizione, e non ottenne l'intento neanche con l'addio,
il quale ci commuove fortemente sol perchè in esso «sta la sintesi
di tutti quei dolori che lo determinarono» [p. 50]. B. ZUMBINI [_I
Promessi Sposi e il Lago di Lecco_; in _Studi di letteratura italiana_,
Firenze, Successori Le Monnier, 1892, pp. 280-281] fa notare «a codesti
egregi autori» che, «trattandosi di cose del Manzoni, era meglio se ne
ragionasse con minor disinvoltura», poi soggiunge: «mi pare evidente
che il Manzoni abbia adoperata la descrizione non già per far visibili
alla mente le cose, quali sono nella loro realtà, ma piuttosto per
derivarne nuovo pregio a quella rappresentazione di fatti umani, ch'era
il suo più alto intento. E ciò fece con quella profonda consapevolezza
di fini e di mezzi, di cui diede chiare prove in ogni altro suo lavoro,
e con quel raziocinio che in lui non fu meno meraviglioso delle facoltà
poetiche. E veramente, da ogni particolare di quella descrizione e da
tutto ciò che seguita nel romanzo, s'intende com'egli volesse destare
in noi l'immagine di un dolce e riposato ostello, i cui abitatori
sarebbero stati felicissimi, se non li avesse contristati la violenza
de' signorotti paesani e degli Spagnuoli». (Ed.)

[147] Cfr. SFORZA GIO., _Saggio di una edizione critica dei Promessi
Sposi_, Bologna, tipografia Zamorani e Albertazzi, MDCCC XCVIII; in-fol.

[148] Racconta lo STAMPA [_Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i
suoi amici_; II, 175]: «Il Manzoni non diede ad altri da ricopiare il
suo romanzo, e udii raccontare da lui stesso che finito il romanzo
ed avendo sul tavolo il mucchio di carte che lo componeva, invitato
dal Grossi a darlo allo stampatore, gli rispose:--Oh giusto! ora
bisogna copiarlo per porlo in netto, perchè lo stampatore possa
raccapezzarsi.--Ebbene, fallo copiare, disse il Grossi.--Oh giusto!
bisogna che lo copi io stesso, per fare in pari tempo quelle correzioni
che saranno del caso.--Come! esclamò il Grossi, vuoi fare la fatica
bestiale di copiare tutto quel mucchio di carta? Ma sei pazzo!--Che
vuoi che ti dica? Non posso fare a meno. Bisogna che faccia alla
mia maniera.--Ed ebbe la pazienza di copiare lui stesso tutto il
manoscritto dei _Promessi Sposi_, e mi pareva che nel raccontare tal
cosa ne provasse una certa soddisfazione». Lo Stampa nell'affermar
questo è stato tradito dalla memoria. Il Manzoni, condotta a fine
la prima minuta, non poteva darla a copiare ad altri, perchè non si
trattava di una trascrizione, bensì di un rifacimento, che bisognava
scrivesse da per sè; come infatti fece. Della copia per la Censura,
che è d'altra mano, ed è la trascrizione della seconda minuta, resta
soltanto il primo volume; gli altri due sono andati perduti. Dunque il
consiglio del Grossi, se pur lo dette, fu accolto e seguìto. Questa
copia ha molte correzioni autografe del Manzoni, che a volte rifà
di suo pugno anche de' lunghi brani, o in margine, o incollando sul
manoscritto qualche brandello di carta. Nel presente saggio, che ne do,
stampo in carattere corsivo le correzioni di mano di lui. (Ed.)

[149] Il Manzoni nel testo definitivo si diffuse maggiormente a
raccontare la vita de' suoi protagonisti anche dopo maritati.
Parlandone a uno de' propri congiunti, che lo lodava appunto per
questo, gli disse: «Che vuoi? sarò probabilmente criticato di avere
diminuito l'effetto della fine del romanzo continuando a descrivere la
vita dei due sposi. Ma anche a me piace di più il lieto fine; e non ho
potuto trattenermi dalla tentazione di stare un po' ancora in compagnia
de' miei burattini». Lo racconta lo STAMPA [_Alessandro Manzoni, la sua
famiglia, i suoi amici, appunti e memorie_; II, 177]; e aggiunge [p.
183]: il Manzoni «non si sarebbe accinto a scrivere un altro romanzo
sul tipo de' _Promessi Sposi_, ma ebbe una volta la tentazione di
scrivere un altro romanzo di genere fantastico, di cui pur troppo non
mi ricordo il titolo che doveva portare e la sua traccia generale; ma
la seppi». (Ed.)

[150] Nella stessa prima minuta la ribattezzò poi _Perpetua_; nome,
come tanti altri de' _Promessi Sposi_, divenuto famoso. In uno studio
molto geniale del GRAZIADEI [_La Serva di Don Abbondio_, Palermo,
Reber, 1903] si legge: «In quella casa, piccola, che in tre passi si
traversa una stanza e s'è nell'altra, non v'ha di grande che il buon
senso di Perpetua, e solo la lingua di lei si move in fretta». (Ed.)

[151] Qui termina il capitolo I del tomo I della prima minuta, e
incomincia il capitolo II. (Ed.)

[152] LUIGI SETTEMBRINI [_Lezioni di letteratura italiana_, settima
edizione; III, 315] si domanda: «Come sono gli occhi di Lucia?» E
risponde: «Non si sa; essi li teneva quasi sempre chinati a terra
per pudore. Un altro poeta, e specialmente un francese, quali occhi
avrebbe dati a quella fanciulla!» Nella prima minuta la descrizione
degli occhi di Lucia c'era, ma nella stessa prima minuta la cancellò.
Ecco il passo. Scrivo in corsivo e metto tra due parentesi la parte a
cui dette di frego. «Oltre questo, che era l'ornamento particolare di
quel giorno, Lucia aveva quello quotidiano di una modesta bellezza[.
_Questo era l'ornamento particolare di quel giorno, ma Lucia ne aveva
un quotidiano, che consisteva in due occhi neri, vivi e modesti, e in
un volto di una regolare e non comune bellezza_]; la quale era allora
accresciuta e per dir così abbellita dalle varie affezioni dell'animo
suo in quel giorno. Poichè appariva nei suoi tratti una gioja non senza
un leggier turbamento, un misto d'impazienza e di timore, e quella
specie di accoramento tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto
delle spose, e che temperato dalle emozioni gioconde e liete, non turba
la bellezza, ma l'accresce e le da un carattere particolare».

Il consigliere Federico de Müller raccontando nelle proprie _Memorie_
una visita che fece al Manzoni a Brusuglio, nell'agosto del 1829,
scrive: «Discorremmo molto dei _Promessi Sposi_. Io gli detti copia
d'una lettera in cui una amica, di molto ingegno, si manifesta
molto entusiasta di questa opera. Ne ebbe gran gioia; ma contro
l'osservazione che vi si trova, esser cioè Lucia più un ideale che una
vera figura d'italiana, affermò subito che la purezza e la castità
delle contadine lombarde supera ogni aspettativa, e che egli ritrasse
Lucia fedelmente dal vero. Madama» [_Enrichetta_] «Manzoni s'accordava
in ciò perfettamente con lui, e m'assicurò che tra le contadinelle di
que' contorni esiste una tale esagerata morigeratezza e ritrosia, da
costringerle a ben guardarsi, quando vanno la domenica a passeggiare
col fidanzato, dal prenderlo per la mano e dall'esser famigliari con
lui, se non vogliono correr pericolo divenir diffamate dal popolino».

Racconta lo STAMPA [_Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi
amici_; II, 167]: «Un giorno il Manzoni, al caminetto del suo studio,
mi domandò spontaneamente e senza che me l'aspettassi:--Dimmi un po',
non ti pare che, come contadina, abbia idealizzato un po' troppo
la Lucia?--Risposi francamente:--No! perchè ho avuto occasione di
conoscere qualche contadina che aveva dei sentimenti puri ed un cuore
delicato come quello della tua Lucia.--Mi parve che gradisse molto
questa risposta e che rimanesse molto soddisfatto di questa mia
assicurazione». (Ed.)

[153] Lo ribattezzò col nome di Padre Cristoforo nel capitolo IV del
tomo I della stessa prima minuta; nella quale, da principio, lo fece
anche guardiano del convento di Pescarenico; carica, per altro, che gli
tolse quasi subito. Il nome di Galdino lo dette invece al cercatore
delle noci, prima da lui chiamato fra Canziano. Costui fa la sua
comparsa nel capitolo III del tomo I. «S'ode picchiare all'uscio e
nello stesso momento un sommesso, ma distinto _Deo gratias_. Lucia,
immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un
inchino, entrò infatti un laico cercatore cappuccino colla sua bisaccia
pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa attorcigliata
e stretta nelle due mani sul petto.--Fra' Canziano, dissero le
due donne.--Il Signore sia con voi, disse il frate: vengo per la
cerca delle noci; e come il raccolto è stato buono, voi ne darete
a Dio la sua parte, affinchè ve ne dia un altro eguale o migliore
l'anno venturo; se però i nostri peccati non attireranno qualche
castigo.--Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri, disse Agnese».
Mentre la figlia eseguisce la commissione, fra Canziano racconta alla
madre il miracolo delle noci, avvenuto in Romagna, dove egli era stato
cercatore; e avvenuto al tempo del «padre Agapito» (ribattezzato
nel testo definitivo _padre Macario_), «che era un santo». Poi così
prosegue il racconto: «Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico
di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i due capi sospesi
colle braccia tese e allungate. Mentre fra Canziano si tolse la
bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di quella per
introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e
severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata,
che voleva dire: mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in elogj, in
augurj, in promesse, in ringraziamenti; e, rimessa la bisaccia, si
avviò; ma Lucia, fermatolo:--Vorrei una carità da voi, disse. Vorrei
che diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma
premura; e che mi faccia la carità di venire da noi poverette subito
subito, perchè io non posso venire alla chiesa.

--Non volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino.

--Non mi fallate.

--State tranquilla; e così detto, partì, un po' più curvo e più
contento che non quando era arrivato.

Il Padre Galdino era un uomo di molta autorità fra i suoi e in tutto
il contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a
questa specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di
venire da lei; la commissione non gli parve strana niente più che se
gli si fosse commesso di avvertire il Padre Galdino che il Vicario di
Provvisione e i Sessanta del Consiglio generale della Città di Milano
lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto, Re
di Castiglia, di Leone, etc. Non vi era nulla di troppo basso, nè di
troppo elevato per un cappuccino: servire talvolta gl'infimi, ed esser
serviti dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa
aria mista di umiltà e di padronanza; essere nella stessa casa un
soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva
nulla; cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la
chiedevano al convento; a tutto era avvezzo un cappuccino, e faceva
tutto a un dipresso colla stessa naturalezza, e non si stupiva di
nulla. Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile
che prima di tornarsene si abbattesse, o in un principe che gli
baciasse umilmente la punta del cordone, o in una mano di ragazzacci
che, fingendo di essere alle mani fra di loro, gli bruttassero la
barba di fango. La parola frate in quei tempi era proferita colla
più gran venerazione e col più profondo disprezzo; era un elogio e
un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi
due estremi, perchè senza ricchezze, facendo più aperta professione
di umiliazioni, si esponevano più facilmente al vilipendio, e alla
venerazione che possono venire da questa condotta. La considerazione
poi data generalmente al loro Ordine li poneva nel caso sovente di
giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi
ostacoli, e da quindi anche la varietà del sentimento che si aveva per
essi, e delle opinioni sul conto loro. Varii pure e moltiformi erano
e dovevano essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi
in un esercito così fatto. Uomini compresi della eccellenza di quello
stato, che allora era esaltata universalmente; altri per acquistare
una considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come
allora si viveva, nel secolo; altri per fuggire una persecuzione, per
cavarsi da un impiccio; altri dopo una grande sventura, disgustati del
mondo; talvolta principi, o fastiditi o atterriti del loro potere;
molti perchè di quelli che entrano in una carriera per la sola ragione
che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di Dio e
degli uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa
loro intenzione (perchè quando si è persuasi d'una verità bisogna
dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i caratteri
indegni di quella che si usa verso i potenti), questa loro intenzione
non era una pia illusione, l'errore d'un buon cuore e d'una mente
leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi non sa, o
non considera le circostanze e l'idee di quei tempi: era una intenzione
ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e in fatti con
queste intenzioni molti, abbracciando quello stato, facevano del bene
tutta la loro vita; anzi molti, che sarebbero stati uomini pericolosi,
che avrebbero accresciuti i mali della società, diventavano utili con
quell'abito indosso. Ho fatta tutta questa tiritera, perchè nessuno
trovi inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione,
senza stupirsi, si sia incaricato di dire nullameno che al Padre
Guardiano che s'incomodasse a portarsi da una donnicciuola, che aveva
bisogno di parlargli».

Il mutamento del nome seguì, come s'è detto, nel capitolo IV, che prima
intitolò: _Il Padre Galdino_, e poi: _Il Padre Cristoforo_; e seguì
dopo che n'ebbe scritte alcune pagine. Son queste: «Era un bel mattino
di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le più alte cime
erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte, ma che stava
per ispuntare dietro a quella montagna, che dalla sua forma è chiamata
il Resegone (Segone), quando il Padre Galdino, a cui fra Canziano
aveva esposta fedelmente l'ambasciata, si avviò dal suo convento per
salire alla casetta di Lucia. Il cielo era sereno e un venticello
d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava qua e là.
Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si
vedevano splendere le viti per le foglie colorate di diversi rossi,
e i campi, già seminati e lavorati di fresco, spiccavano dall'altro
terreno come lunghi strati di drappi oscuri stesi sul suolo. L'aspetto
della terra era lieto, ma gli uomini che si vedevano pei campi o sulla
via mostravano nel volto l'abbattimento e la cura. Ad ogni tratto
s'incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti, invecchiati nel
mestiere, ma fra i quali molti si conoscevano per forestieri, che la
fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove la carità consueta
non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto ai pitocchi
indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano guardati
in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si vedevano alcuni, i
quali dal volto, dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa
la mano e di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano
cheti a canto al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza
dirgli nulla, perchè la sola parola che indirizzavano ai passeggieri
era per chiedere l'elemosina, e un cappuccino, come ognun sa, non aveva
niente. Ma il buon Padre Galdino si volgeva a quelli che apparivano più
estenuati, più avviliti, e diceva loro in aria di compassione:--Andate
al convento, fratello; finchè ci sarà un tozzo per noi, lo
divideremo.--I contadini, sparsi pei campi, non rallegravano più la
scena di quello che facessero i poverelli. Salutavano essi umilmente
il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come l'andasse:--Come
vuole, padre? rispondevano: la va malissimo.--Alcuni, che in tempi
ordinarj non avrebbero osato fermare e interrogare il Padre Guardiano,
fatti più animosi per la miseria dei tempi, gli dicevano:--Come anderà
questa faccenda, Padre Galdino?

«--Sperate in Dio, che non vi abbandonerà. Povera gente! Il raccolto è
proprio andato male?

«--Grano non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate, e il
lavoro cessa da tutte le bande.

«Questa vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon
cappuccino, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore di
andare ad udire una qualche sventura.

«Ma perchè pigliava egli tanto a cuore gli affari di Lucia? E perchè
al primo avviso si era egli mosso come ad una chiamata del Padre
Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?»

Ecco la prima volta che dà al frate il nuovo nome. Ne fa questa
pittura: «Il Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessanta
anni» (poi corresse: _più presso ai sessanta che ai cinquant'anni_):
«e il suo aspetto come i suoi modi annunziavano un antico e continuo
combattimento tra una natura prosperosa, robesta, un'indole ardente,
avventata, impetuosa e una legge imposta alla natura e all'indole
da una volontà efficace e costante. Il suo capo, calvo e coperto
all'intorno, secondo il rito cappuccinesco, di una corona di capelli,
che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di tempo in tempo per un
movimento di spiriti inquieti e tosto si abbassava per riflessioni di
umiltà. La barba, lunga e canuta, che gli copriva il mento e parte
delle guance, faceva ancor più risaltare le forme rilevate, alle quali
una antica abitudine di astinenza aveva dato più di gravità che tolto
di espressione, e due occhj vivi, pronti, che di tratto in tratto
sfolgoravano con vivacità repentina: come due cavalli bizzarri condotti
a mano da un cocchiere col quale sanno per costume che non si può
vincerla, pure fanno di tratto in tratto qualche salto, che termina
subito con una buona stirata di briglie.

«Il signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che
facendosi poi frate prese il nome di Cristoforo), il signor Ludovico
era figlio d'un ricco mercante cremonese, il quale negli ultimi anni
suoi, vedovo e con questo unico figlio, rinunziò al commercio, comperò
beni stabili, si pose a vivere da signore, cercò di far dimenticare che
era stato mercante, e avrebbe voluto dimenticarlo egli stesso. Ma il
fondaco, le balle, il bracciò gli tornavano sempre alla fantasia, come
l'ombra di Banco a Macbeth».

Per quali ragioni l'Autore prima lo chiamò Galdino e poi Cristoforo?
DAMIAMO MUONI [L_'antico Stato di Romano di Lombardia ed altri Comuni
del suo Mandamento, cenni storici, documenti e regesti_, Milano,
Brigola, 1871; pp. 243-244] rinvenne negli Archivi di Finanza di Milano
«un documento del massimo interesse», che «potrebbesi denominare:
_Incarico impartito il 21 ottobre 1646 dal Rev. P. Cristoforo da Como,
Guardiano di Manza, a frate Lorenzo da Novara, Ministro Provinciale,
per verificare quali furono i PP. Cappuccini, che si distinsero in
caritatevoli servigi, massime all'epoca della peste del 1630_».
Il P. FELICE DA MEZZANA, cappuccino, [_Cenni sul Padre Cristoforo
del Manzoni_, Crema, tip. S. Pantaleone di L. Meleri, 1899; p. 12]
osserva giustamente che è un titolo «dato con inesattezza, perchè da
esso titolo risulta il guaio che un inferiore (_Guardiano_) darebbe
ordini ad un superiore (_Provinciale_)». Propone dunque che invece
s'intitoli: _Processo autentico, istituito per commissione Generalizia,
sui Cappuccini assistenti al lazzeretto e sul servizio ivi prestato
nella pestilenza del 1630, compilato l'anno 1646_. Da questo _Processo_
risulta che il P. Vittore, uno de' superstiti, dichiarò che tra i
cappuccini che prestarono l'opera loro nel lazzeretto di Milano vi
fu anche il «Padre Fra Cristoforo Picenardi da Cremona, sacerdote,
che morì nel mese di giugno dei suddetto anno 1630 di peste, stimata
da lui catarro, ma dagli altri tutti giudicata vera peste, havendo
servito con molto fervore di carità et esempii religiosi a' poveri
appestati». Fra Bonifacio, laico, altro dei superstiti, depose che
il «Padre Fra Cristoforo servì e morì di peste al lazzeretto»; e
il P. Felice Casati, terzo e ultimo dei superstiti, ripetè che il
«Padre Fra Cristoforo servì nel lazzeretto e vi lasciò la vita». La
scoperta fece chiasso, e il «documento» fu mostrato al Manzoni, il
quale corse nella sua libreria e tornò con le _Memorie delle cose
notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l'anno 1630_,
ec. _raccolte da Don_ PIO LA CROCE, in Milano, nelle Stampe di Giuseppe
Maganza, 1730; in-4º. Son le memorie stesse che cita nel cap. XXXII de'
_Promessi Sposi_, dicendole tratte «evidentemente da scritto inedito
d'autore vissuto al tempo della pestilenza; se pure non è una semplice
edizione, piuttosto che una nuova compilazione». Tornò dunque con
queste _Memorie_ e lesse al suo visitatore quello che vi sta scritto
a pag. 12. «Nelli stessi giorni» (così il La Croce) «il P. Cristoforo
da Cremona, sacerdote, molto avanti già eletto a quel servizio, tolti
gli ostacoli che in allora gliel'avevano impedito, alla fine entrò nel
desiderato arringo: e ben si può dire desiderato, perchè più volte fu
udito dire:--Io ardo di desiderio di andare a morire per Gesù Cristo,
ed ora mi pare mill'anni.--Desiderio che ebbe poi felicissimo l'effetto
corrispondente, a' 10 pure di giugno, morendo di peste per il servizio
di quei poveri, nella persona de' quali serviva il suo diletto Gesù».
Cfr. STOPPANI A. _I primi anni di Alessandro Manzoni_, _spigolature_,
Milano, Bernardoni, 1874; pp, 135-138.

Il Muoni tira la conseguenza che, «giusta siffatto documento, il P.
Cristoforo anzichè essere al mondo un Ludovico, nato da un semplice
mercante di provincia, apparterrebbe in quella vece all'antica e
patrizia famiglia dei Picenardi di Cremona». Il «documento» invece
prova soltanto che il P. Cristoforo, morto di peste al lazzeretto,
apparteneva alla famiglia Picenardi di Cremona. Ora, siccome a Cremona
delle famiglie Picenardi ce n'erano parecchie, alcune patrizie, altre
no, resta a vedersi da quale di esse sia uscito. Della «nobilissima
famiglia dei Picenardi» già l'aveva detto il P. MASSIMO BERTANI
da Valenza [_Annali Cappuccini_, part. III, vol III, n.º 30]; ma
ottantaquattro anni dopo la morte del P. Cristoforo e senza darne
nessuna prova. Ai giorni nostri se n'è fatto caldo sostenitore Don
LUIGI LUCCHINI, che più volte è sceso in campo. Cfr. _Fra Cristoforo
dei_ Promessi Sposi, _personaggio storico cremonese, illustrazione
documentata, scene della braveria cremonese_, Bozzolo, tip. Arini,
1902, in-8.º--_Commentario dei_ Promessi Sposi, _ovvero la rivelazione
di tutti i personaggi anonimi_, Bozzolo, tip. Commerciale, 1902,
in-8.º--Lo stesso, _Seconda edizione, riccamente illustrata da
medaglioni_, Lecco, tip. arciv. del Resegone, 1904, in-8.º Le sue
conclusioni son queste. Trova ne' libri de' battezzati di Cremona un
Lodovico, figlio di Giuseppe Picenardi e di Susanna Cellana, nato il 5
decembre 1568, non però appartenente ai «rami più cospicui del casato»,
ma alle «altre famiglie dei Picenardi, ricche di censo, senza però un
cenno di nobiltà»; e trova che questo Lodovico era uno spadaccino e un
attaccabrighe, in discordia con la prepotente e sanguinaria famiglia
cremonese degli Ariberti. Esclama: questo è il Picenardi che si fece
cappuccino, e tutto quello che scrive il Manzoni del P. Cristoforo è
la biografia di lui, «non un parto inverosimile, creato dalla fantasia
del romanziere». Il P. Felice da Mezzana [Op. cit.; pp. 7-8] gli
risponde: «che ci sia stato un Lodovico nella nobile famiglia Picenardi
poco importa, e il Lucchini avrebbe dovuto fare a meno della fede di
nascita; si dovrebbe mostrare: 1.º che questi si fece cappuccino;
2.º qual fu la causa che diede l'ultimo colpo alla sua vocazione».
Il Lucchini non riesce a dimostrare nè una cosa, nè l'altra; e «dopo
d'aver avuta la bella ventura di poter assodare, con documenti e
prove abbastanza copiose, la vita drammatica di Lodovico Picenardi, è
abbandonato dalla capricciosa fortuna nel momento più bello, quando
trattavasi di trovare, stabilire, assodare storicamente l'ultimo atto,
o lo scioglimento del dramma».

Pio La Croce nelle sue _Memorie_, oltre il P. Cristoforo da Cremona e
tanti e tanti altri cappuccini che prestarono l'opera loro generosa
durante l'infierire della peste, rammenta anche un P. Galdino della
Brusada, non già laico, ma sacerdote, che «con purità particolare»
servì egli pure gli appestati. Il Manzoni dette dunque questo nome
di Galdino al tipo ideale di cappuccino che andava immaginando; nome
già portato da un arcivescovo di Milano, che fu cardinale e santo, e
talmente caritatevole da restare in proverbio il _pane di S. Galdino_.
Ma poi trovando nelle stesse _Memorie_ rammentato un P. Cristoforo
da Cremona, morto nel lazzeretto assistendo gli appestati; appunto
per aver egli fatto olocausto della vita in quel tremendo luogo di
dolore, fu in lui e col suo nome che idealizzò il proprio eroe della
carità cristiana. E a fra Canziano dette il nome di Galdino; il «nome
soltanto, si badi»; e ripensando al proverbio milanese _el pan de San
Galdin_, «di qui dovè forse venire al romanziere l'idea di metter quel
nome ad un frate cercatore; da lui destinato a rappresentare uno degli
aspetti della vita conventuale», come nota col suo solito acume il
D'OVIDIO [_Fra Galdino_; in _Le correzioni ai_ Promessi Sposi _e la
questione della lingua_, Napoli, Morano, 1893; pp. 259-260], Racconta
lo STAMPA [Op. cit.; II, 149]: «Un giorno che il Manzoni sorrideva
delle sciocche accuse di bigottismo che gli erano affibbiate... venne
fuori a dire:--Non hanno capito che ho messo a posta nel romanzo
quel personaggio di fra Galdino per porre in ridicolo per l'appunto
i pregiudizi bigotti?--». Il Manzoni, discorrendo col Bonghi, ebbe a
dire: «M'hanno chi lodato, chi rimproverato d'aver voluto rimettere in
onore i Cappuccini. Non ci ho neppure pensato. Gli ho messi così nei
mio romanzo, perchè mi son parsi una forza viva e attiva in quei tempi.
Ora, non gli credo più utili alla religione». Cfr. D'OVIDIO F., _I
pensieri inediti del Bonghi_; in _Simpatie_, Palermo, Sandron, 1903, p.
79.

Oltre il D'Ovidio, si occuparono di fra Galdino, LUIGI ERCOLANI, _Fra
Galdino a Francesco D'Ovidio_, Reggio, tip. Lipari, 1879; in-8º;
ALBERINO BONDI, _Fra Galdino_, nella _Psiche_, di Palermo, ann. XVI,
n.º 21, 1º novembre 1899; e FRANCESCO LO PARCO, _Due frati nei_
«_Promessi Sposi_», Ariano, Stab. tipografico Appulo-Irpino, 1901;
in-8.º Di fra Galdino tratta a pp. 5-17 e 44-46; l'altro frate è il P.
Cristoforo.

LUIGI SAILER [_Il P. Cristoforo nel Romanzo e nella Storia_; in
_Discussioni manzoniane_, Città di Castello, Lapi, 1886, pp, 147-196]
trova «parecchi riscontri curiosi» tra Alfonso III d'Este che,
rinunziata la corona ducale di Modena, si fece cappuccino, e il
frate manzoniano. NICCOLÒ RODOLICO [_L'abdicazione di Alfonso III
d'Este_, Acireale, tip. dell'Etna, 1901, pp. 87-92] non crede «esatto
storicamente il _continuo trascendere_, che il Sailer nota, _delle
virtù effettive ed eroiche del Principe, in eccessi viziosi di cui
appariscono tutti i germi nel P, Cristoforo del Manzoni_». Per il
Rodolico «la splendida figura del P. Cristoforo non ha, per la sua
verosimiglianza, bisogno di riprove istoriche in episodii della vita
del Duca cappuccino. Essa vive nell'anima buona eterna dell'Umanità,
che ama il P. Cristoforo, poichè corrisponde a ciò che è in essa
di veramente buono, di quel Buono che talvolta, come scintilla del
fuoco divino, sprizza di luce nelle azioni umane dei padri Cristofori
della Storia». RODOLFO RENIER [_Un riscontro al_ serio accidente _per
cui indossò la tonaca P. Cristoforo_; in _Giornale storico della
letteratura italiana_, XXXVIII, 247-250] nega che il Manzoni «abbia in
modo alcuno esemplato il Duca cappuccino. Troppe e troppo palesi sono
le diversità. Ma se il Manzoni conobbe la storia di Alfonso (e chi
sappia quanto accurata sia stata sempre la sua preparazione storica
non dubiterà che l'abbia conosciuta), è probabile, anzi quasi certo,
che da essa tolse più d'una ispirazione per delineare, in conformità
allo spirito del tempo, la figura di Lodovico-Cristoforo». In un brano
della prima minuta, che ho riportato qui sopra, il Manzoni annovera
tra quelli che si fecero cappuccini «talvolta Principi, o fastiditi, o
atterriti del loro potere». È un accenno ad Alfonso III, la cui vita
ritengo abbia appresa dal Muratori, non già nelle biografie che ne
scrissero il P. Giovanni da Sestola, il P. Giuseppe Maria Mozzarella e
il P. Gaspero De Rougnes.

GIOVANNI LIVI [_Il duello del Padre Cristoforo in relazione a documenti
del tempo_; nella Nuova Antologia, fascicolo del 16 giugno 1899]
rintracciò una grida de' Rettori di Brescia del 5 maggio 1589, con
la quale, «considerando con quanta facilità il più delle volte, per
causa della sola precedentia della strada, succedono homicidii de
importantia», si ordina, sotto gravi pene, «che nell'avenire...
incontrandosi gentilhomini o altre persone che pretendino la
superiorità della strada, sempre quello che caminarà dalla banda del
muro con la mano destra verso a esso muro non sia, nè possa essere
sforciato a partirsi da suo luogo, nel qual modo l'uno et l'altro
haverà la banda destra». Il Manzoni anche nell'episodio del duello
di Lodovico dipinge i tempi con tale verità, che se ne ha la piena
conferma ne' documenti. Questo prova la grida, e niente altro; ma che
la grida fosse conosciuta da lui, che gliela potessero avere inviata
o Camillo Ugoni, o il Mompiani, o Giambattista Pagani, come vuole il
Livi, è un correr troppo. A buon conto, quando il Manzoni scriveva il
romanzo, il Mompiani era sotto processo; l'Ugoni in esilio; il Pagani
non si occupò mai di ricerche erudite.

Il prof. Rodolfo Renier riporta una curiosa lettera d'Isabella Gonzaga
al marito, che è del 17 decembre 1507, nella quale lo ragguaglia che
a Mantova, «essendosi incontrati a caso, suso uno cantono, messer
Francisco Suardo et Zoan Lodovico da Gonzaga, per non cedersi l'un
l'altro la via, sono stati fermi più de un'hora, contendendo de
precedentia, l'uno per esser cavaler, l'altro de la casa del Gonzaga».
Finalmente ebbero un'idea felice: «se voltarono l'uno al contrario de
l'altro, ritornando per la via dove erano venuti».

Il marchese Bartolommeo Ariberti di Cremona, trovandosi a Bologna,
fu richiesto d'aiuto da Niccolò Soresina, suo concittadino, che
essendo venuto a litigio col figlio del Doge di Venezia, là studente,
temeva «che, accompagnato dalla sua numerosa fazione di venti o
venticinque che si fussero fra servidori e scolari», avesse risoluto
di affrontarlo e di torgli il muro». Il marchese gli dette braccio e
«si trasse pertanto avanti il suo camerata, per sostener quel muro e
quella mano che gli si doveva, e che gli avversari, co' quali egli
nè haveva conoscenza, nè alcun disparere, tentavano fuor di ragione
di usurparsi. A quest'atto, che parve ardito a chi supponeva di non
trovar resistenza, ma di potersi ingoiare a man franca col grosso
numero dei seguaci l'avversano, tratte dall'una e dall'altra parte le
spade, campeggiò la bravura del marchese sì fattamente, che cagionò
terrore agli oppositori e meraviglia grande agli spettatori, vedendolo,
con cinque sole persone, passare avanti vittoriosamente ed illeso,
sostenere al maggior colmo l'honore all'amico ed a sè». _Vita del
Marchese Bartolomeo Ariberti, dedicata all'Illustriss. Signore il Sig.
Marchese Girolamo Ariberti da_ GIENSERICO FRANCOMONO SCIRTIBARGAMO
[Giacomo Ariberti], In Gormalta, senza note tipografiche, [1649]; pp.
8-10. Cfr. anche: MANACORDA G., _Il duello di Lodovico e un duello
storico_; nel _Giornale storico della letteratura italiana_; XLIV,
273-276. Di questi esempi, rovistando per gli archivi, ce n'è da
trovarne un'infinità. (Ed.)

[154] Nella stessa prima minuta cancellò qui e altrove questo nome,
sostituendovi quello di _Duplica_, che poi nella seconda minuta diventò
_Azzecca-garbugli_. E cancellò anche il nome della serva di lui, che
nella prima minuta era _Felicina_. (Ed.)

[155] Quest'episodio è tolto dal capitolo III del tomo I della prima
minuta. (Ed.)

[156] Il Padre Cristoforo assiste al pranzo di Don Rodrigo. «Era questi
in capo alla tavola: alla sua destra sedeva il giovane Conte Grazio»,
[divenuto poi _Attilio_ nel testo definitivo], «cugino di Don Rodrigo,
suo compagno di libertinaggio e di soperchieria, e che villeggiava
con lui; alla sinistra il Podestà, che Don Rodrigo aveva invitato non
senza perchè, potendo trovarsi in un impegno dal quale si sarebbe
cavato meglio quando la Giustizia fosse tutta disposta in favor suo.
Il Podestà mostrava di ricevere l'onore di sedere famigliarmente a
tavola d'un cavaliere con un rispetto misto però d'una certa libertà
che gli dava il suo uficio; accanto a lui e con un rispetto il più
puro e il più sviscerato sedeva il nostro dottor Duplica, il quale
avrebbe voluto essere il protetto di tutti quelli che eran da più di
lui e il protettore di tutti quelli che gli erano inferiori: due o tre
altri convitati di ancor minore importanza attendevano a mangiare e a
sorridere con una adulazione ancor più passiva di quella del dottore:
e quando questi approvava con un argomento, o con una lode, che voleva
esser ragionata, essi non sapevano dire più in là di: certamente».

La disputa cavalleresca, nella quale il conte cugino e il Podestà erano
di contrario parere e in cui bisognò che anche il Padre Cristoforo
dicesse come la pensava, fu suggerita al Manzoni dal Birago. Il dott.
Ubaldo Mazzini nello scritto già ricordato: _La Cavalleria nei Promessi
Sposi_, prova, che «il luogo dei _Consigli_ del Birago che ci mostra
a luce meridiana esser quel libro il vero fonte a cui ha attinto è
il _Consiglio II_, cioè _il caso di bastonate date ad un portator
di sfida_, che trova riscontro nel capitolo V dei _Promessi Sposi_.
Non solo qui il caso è perfettamente identico; ma identici sono i
personaggi, identiche le citazioni, spesso identiche le parole». (Ed.)

[157] A questo punto termina il capitolo V del tomo I della prima
minuta e incomincia quello VI, intitolato: _Peggio che peggio_. (Ed.)

[158] È la giornata che, chiamato da Lucia, corre alla sua casetta,
e trova la giovane in angoscia per l'impedito matrimonio e per le
persecuzioni di don Rodrigo. Il Padre Cristoforo, dopo, «si avviò
al suo convento. Ivi andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise
alla parca mensa, e allora più parca del solito per la carestia che
cominciava a farsi sentire dappertutto, e dopo raccomandati al Vicario
gli affari del suo piccolo regno, si pose in via verso il covile
dell'orso, che si trattava di ammansare; senza avere, a vero dire,
molta speranza del buon successo del suo tentativo». Di ritorno dal
«castellotto di don Rodrigo», corre di nuovo alla casetta di Lucia,
«nell'attitudine di un generale» che ha «perduta, senza sua colpa, una
battaglia». (Ed).

[159] Segue, cancellato: «Quindi si gittò egli pure sul suo canile,
dove lo lasceremo dormire, che ne ha bisogno». Quello che vien dopo,
l'aggiunse poi. (Ed.)

[160] Questo brano è tolto dal capitolo VII del tomo I della prima
minuta. (Ed.)

[161] Era Fermo, il quale menava con sè Tonio e Gervaso, che dovevano
servire da testimoni al matrimonio. (Ed.)

[162] Variante: «saliscendo». (Ed.)

[163] La felice trovata di Carneade, come vedremo, balenò alla mente
del Manzoni nella seconda minuta. (Ed.)

[164] Segue cancellato: «Don Abbondio non aveva avuto tempo di
spaventarsi, nè di maravigliarsi, nè di vedere, che Fermo aveva già
pronunziate le parole magiche: Signor curato, in presenza di questi
testimonj, questa è mia moglie». (Ed.)

[165] Segue cancellato: «il sagrestano». (Ed.)

[166] È un brano del capitolo VII del tomo I della prima minuta. (Ed.)

[167] Prima scrisse: «(ha detto un barbaro che di tanto in tanto esce
in qualche bella scappata d'ingegno, ma che nel complesso non può non
accontentar noi gente «di gusto raffinato, avvezza a composizioni
così continuamente ragionevoli, così rigorosamente sensate)». Nel
testo definitivo è rimasto: «Tra il primo pensiero d'una impresa
terribile, e l'esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era
privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di
paure». Il _barbaro_ è Shakespeare, il quale espresse questo pensiero
nell'atto secondo del suo _Julius Caesar_. Il reverendo Carlo Seven,
che prese a tradurre in inglese i _Promessi Sposi_ appena vennero alla
luce, arrivato a questo passo, dette in furore e scrisse al Manzoni
una lettera stizzosissima, chiedendogli conto e spiegazione di un tal
giudizio. N'ebbe la seguente risposta, che ha la data del 25 gennaio
1828. «Pregiatissimo Signore, Si ricorda Ella di quel personaggio
della commedia, il quale, strapazzato e battuto dalla sua sposa, per
sospetto geloso, si rallegra tutto di quegli sdegni, benedice quelle
percosse, che gli sono testimonianze d'amore? Ora, pensi che tale, a un
di presso, è il mio sentimento, nel veder Lei così in collera contro di
me, per difendere il mio Shakespeare: giacchè, quantunque io non sappia
un iota d'inglese, e quindi non conosca il gran poeta che per via di
traduzioni, pure ne son sì caldo ammiratore, che quasi quasi ci patisco
se altri pretende esserlo più di me. E un tempo ch'io me la pigliava
più calda che non adesso per la poesia e pei poeti, non le so dire
quanta rabbia mi facessero quelle così rabbiose e così inconsiderate
sentenze di Voltaire e de' suoi discepoli sulle cose di Shakespeare.
E forse più ancor delle ingiurie mi spiaceva quel modo strano di
lodarlo dicendo che, in mezzo a una serie di stravaganze, egli esce
di tempo in tempo in mirabili scappate di genio: come se la voce del
genio, che in quei luoghi leva, per dir così, un grido, non fosse
quella stessa che parla altrove; come se la stessa potenza, che ivi fa
di sè una mostra straordinaria, non si mostrasse, con meno scoppio,
ma con maravigliosa continuità, nella pittura di tante e tanto varie
passioni, nel linguaggio di tanti caratteri e di tante situazioni, così
umano e così poetico, così inaspettato e così naturale; linguaggio
cui non trova se non la natura nei casi reali, e la poesia nelle
sue più alte e profonde inspirazioni; come se la stessa potenza non
apparisse nella scelta, nella condotta, nella progressione degli
avvenimenti e degli affetti, nell'ordine, così negletto in apparenza
e così seguito in effetto, che uno non sa se debba attribuirlo a
un mirabile istinto, o ad un mirabile artificio: o piuttosto v'è
straordinariamente dell'uno e dell'altro, etc. etc. E appunto contro
quel sentimento di Voltaire (sul quale, del resto, è stato detto da
altri, prima di me, meglio ch'io non saprei mai dire) io me la son
voluta prendere con quella mia frase ironica; la quale, intesa da Lei
in senso proprio, non maraviglia che l'abbia così scandalizzata. Ma,
poichè Ella l'ha intesa così, mi domanderà certamente come io abbia
creduto che Ella l'avesse a intendere altrimenti. Le dirò che mi son
fidato, prima di tutto, nelle parole stesse; le quali, se Ella vi
pon mente, son tanto strane, a pigliarle sul serio, che m'è sembrato
che avvisassero per sè di doverle pigliare pel verso opposto. Quelli
che han voluto metter più basso Shakespeare, lo hanno detto un genio
rozzo, indisciplinato, ma tutt'altro che volgare: la mia proposizione,
intesa secondo la lettera, verrebbe a dirlo un ingegno barbaro e
mediocre. E un giudizio, così lontano da tutti i giudizi, riuscirebbe
ancor più strano e inintelligibile nella circostanza in cui è messo
fuori, a proposito cioè d'un luogo famoso, d'un passo che, anche da
quelli che non apprezzano lo scrittore, è conosciuto e citato come uno
dei più nobili di tutta la poesia. Oltracciò, io mi son fidato nella
supposizione che i miei lettori (dei quali, com'Ella dee aver veduto,
io pronosticava al mio libro un numero ben minore di quello che gli ha
dato la sorte) conoscessero la mia ammirazione per Shakespeare, e da
questa conoscenza fossero guidati a interpretare (se ve n'era bisogno)
le mie parole. Ma come l'avevano a conoscere? mi domanderà Ella di
nuovo. Per un mezzo che mi viene a punto per fare una mia vendetta, una
vendetta proprio di quelle atroci, alla moda di noi altri italiani, per
castigarla, s'Ella mi permette, dell'aver pensato così male di me. E
il suo castigo sarà di leggere una mia lettera, in francese, intorno
alle unità drammatiche, lunga di molte buone pagine e pubblicata già
da qualche anno. Ma io veggo ch'Ella domanda misericordia, e non
voglio esser crudele: ridurrò dunque la pena allo stretto necessario;
e, per uscir di scherzo, la pregherò di guardare nell'edizione, fatta
costì [_a Pisa_] da codesto sig. Capurro, di varie mie corbellerie, i
luoghi di quella lettera dove è parlato di Shakespeare. E sono, alla
pag. 409, un piccolo confronto tra il concetto generale dell'Otello e
quello della Zaira di Voltaire. Poi, alla pag. 414, dove, confessando
che non mi gusta la mescolanza del serio e del giocoso nei drammi di
Shakespeare, Ella vedrà s'io rinnego l'uomo, e se dibatto punto della
mia ammirazione per esso. Alla 421, dove, per la parte mia, Shakespeare
non è quasi altro che nominato, ma vedrà come e in che compagnia: quivi
poi son riferite osservazioni d'un mio amico, le quali Ella leggerà
sicuramente con piacere. Finalmente, s'io ho ben frugato per tutto,
alla pag. 429, dove comincia un transunto del Riccardo II; un transunto
magro e atto forse a dimostrare che chi l'ha steso abbia poco veduto
in Shakespeare; ma non certamente che vi abbia poco guardato. Ciò non
di meno, l'effetto che la mia frase ha prodotto in Lei così contrario
al mio intento, mi dà giusto sospetto di non essermi spiegato così
chiaro come avrei dovuto, e mi fa temere che un effetto simile non
sia prodotto nel più degli altri lettori ch'io avrò da Lei: sicchè,
non solo io consento (come Ella gentilmente mi propone); ma la prego
ch'Ella voglia prevenire ogni simile interpretazione in quel modo che
le parrà migliore. Le rendo nuove grazie dell'onore che Ella mi fa
coll'occuparsi della mia favola-storia; e sento lietamente la speranza
che Ella mi da di potere presto aver quello di conoscerla personalmente
e di esprimerle a viva voce la mia riconoscenza e i sentimenti
dell'alta stima, coi quali mi pregio di rassegnarmele Dev.ᵐᵒ obb.ᵐᵒ
servitore ALESSANDRO MANZONI».

Carlo Seven stampò la lettera a pp. XI-XVII della _Preface_ che sta
in fronte al vol I. della sua traduzione, accompagnandola con queste
parole: «This passage» (l'accenno al _barbaro che non era privo
d'ingegno_) «contains a sentiment from Shakespeare; and i was struck,
as every one who reads it must be, with the parenthetical remark; in
which the author styles the King of Bards _a barbarian not entirely
destitute of talent_, Indignant, as a loyal subject should be at the
aspersions of a rebel, I dared to fling the gauntlet at his feet; and
in a letter to M. Manzoni (to which I was encouraged by a previous
communication), I charged him zealously if feebly, with his crime.
In the reply, which I am permitted to annex at foot, he condescends
to rebut the charge; and extend a friendly hand, where I looked for
a hostile glaive. He alleges, as will be seen, that the passage is
ironical--but I will not spoil the defence by garbling it. Let the
Reader consider it with attention; and while attracted by the beauty
of the Autor's style--the force and warmth of his panegyric on
Shakespeare: while admiring the ingenious mode by which he deprecates
our English prejudices--let him recommend to this highly gifted
individual, henceforward to be less frugal of a note of admiration! And
let him add, in the language of one among the consummate masters of
Irony that England has had to boast

«_To statesmen when we give a wipe_, _We print it in Italic type_».

Cfr. _The betrothed lovers;_ | _a_ | _milanese tale of the XVIIth.
century:_ | _translated_ | _from the italian_ | _of_ | ALESSANDRO
MANZONI. | _In three volumes._ | _Vol. I_ | Pisa: | Niccolo Capurro,
Lung'Arno | 1828; pp. VIII-X.

[168] Segue cancellato: «Un matrimonio clandestino era per Lucia
Zarella quello che l'uccisione d'un dittatore per Marco Bruto». (Ed.)

[169] Segue cancellato: «Perpetua era salita a portar l'ambasciata a
don Abbondio, il quale, convalescente della febbre dello spavento, anzi
più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, stava
sul suo seggiolone, con un libricciuolo aperto dinanzi. Il pover'uomo,
tanto era lontano dal pensare alla burrasca che gli si addensava sul
capo! andava cercando nella sua memoria chi fosse stato Carneade.
Bisogna sapere che don Abbondio si». Il Manzoni nel correggere la copia
per la Censura troncò qui il capitolo, e di quello che segue ne formò
il principio del capitolo VIII. (Ed.)

[170] A proposito dell'accenno a Carneade il prof. NINO TAMASSIA [_Due
note manzoniane_; in _Giornale storico della letteratura italiana_;
XXI, 182] scrive: «chiedere perchè il Manzoni tirò fuori il nome di
quel _letteratone del tempo antico_, sembrerebbe forse una stranezza
bell'e buona: e pure non è così. Accostiamo alle parole messe in
bocca di don Abbondio queste altre di un dialogo di Agostino [_Contra
Academicos_, cap. III, n.º 7; in _Opera_, ed. Venet. 1833, I, p.
305]: _Tum Licentius: Carneades, inguit, tibi sapiens non videtur?
Ego, ait, Graecus non sum, nescio Carneades iste qui fuerit._ Non
coincide la domanda di don Abbondio: _Carneade! Chi era costui?_ con
la frase di Agostino: _nescio Carneades iste qui fuerit?_ Il Manzoni
aveva studiato il gran dottore africano, e ne fa fede la lettera sua
al Poujoulat... nella quale, da par suo, cerca di determinare dove
precisamente sorgesse il celebre _Cassiacum_, ove Agostino si era
ritirato con la madre, il figlio e gli altri amici, per prepararsi al
battesimo. E notisi che il dialogo _contra Academicos_ è opera nata
dalla conversazione di Agostino e de' compagni, durante il tranquillo
soggiorno di Cassiaco. Non parrà dunque più strana, dopo queste
considerazioni, l'ipotesi che il Manzoni, scrivendo i _Promessi Sposi_,
ricordasse il _nescio Carneades iste qui fuerit_, e lo facesse dire al
povero don Abbondio, come saggio della non troppo ampia cultura del
clero d'allora».

Proprio dopo le parole della seconda minuta, che ho stampate: «perchè
Archimede ne ha fatte di così belle», il Manzoni scrisse, ma cancellò:
«che non occorre esser molto erudito per saperne qualche cosa. _Ceda
Carneade_, proseguiva poi il panegirico. Carneade! ruminava tra
sè il lettore: chi era costui? mi par bene... Perpetua entrò ed
espose la domanda di Tonio». È evidente: la fonte alla quale attinse
il Manzoni, non si deve cercare nel passo di S. Agostino, ma nel
«panegirico in onore di S. Carlo, detto con molta enfasi, e udito con
molta ammirazione, nel duomo di Milano, due anni prima». Il LUCCHINI
[_Comentario dei_ Promessi Sposi, _ovvero la rivelazione di tutti i
personaggi anonimi_, Lecco, 1904; pp. 129-130] afferma recisamente:
«Il libro sul quale meditava in quel momento don Abbondio... era
un panegirico in onore di S. Carlo... Quel panegirico... avea per
titolo _La Fenice_, e il suo autore fu Lucio Giuseppe Avogadro della
Congregazione di Somasca e professore di teologia a S. Maria Segreta
in Milano, ove era prevosto». _La Fenice, oratione in lode di S. Carlo
Borromeo... di Don_ LUTIO GIOSEPPE AVOGADRO, fu recitata _alli 4 di
Novembre 1652_; venne stampata «in Milano» appunto nel MDCLII, e non
c'è rammentato nemmen per sogno _Carneade_! Si tratta invece d'un altro
panegirico, recitato nel 1626. Bisogna frugare per le Biblioteche di
Milano e scovarlo. L'ho tentato, ma per ora senza frutto. Coraggio e
avanti; la fortuna arrida al nuovo Colombo! (Ed.)

[171] Prima aveva scritto: «Beppo Calcarello» e «Anselmo Stacchi». (Ed.)

[172] Le parole: «bruna e distinta» furono aggiunte dopo, in margine.
(Ed.)

[173] Nella copia per la Censura e nella stampa lo ribattezzò
_Ambrogio_. (Ed.)

[174] È un brano del capitolo VII del tomo I della seconda minuta. (Ed.)

[175] Fin qui il brano è tolto dal foglio che il Manzoni numerò prima
90, poi 92, e che nella nuova numerazione a matita è il 68-69. Questo
foglio appartiene al tomo primo della prima minuta. Il brano che segue
è tolto dal foglio 91, numerato recentemente 66-67. (Ed.)

[176] Il Manzoni notò in margine: «Dolore speciale: la contemplazione
della perversità d'una mente simile alla nostra: idea predominante in
chi è afflitto dal suo simile». (Ed.)

[177] Si legge in margine del foglio già ricordato, che il Manzoni
numerò prima 90, poi 92. (Ed.)

[178] Si legge nel capitolo VIII del tomo I della seconda minuta. In
realtà è la terza stesura. (Ed.)

[179] Le parole tra parentesi quadre, in carattere corsivo, son quelle
della vecchia edizione originale, che mutò. (Ed.)

[180] Il prof. GIOVANNI NEGRI [_Sui Promessi Sposi di Alessandro
Manzoni, commenti critici, estetici e biblici; premessovi uno studio
su l'opinione del Manzoni e quella del Fogazzaro intorno all'amore_,
Milano, Scuola tip. Salesiana, 1903; part. I, pp. 149-157] fa alcune
osservazioni intorno a questo «Addio», piene di finezza e d'acume. (Ed.)

[181] L'autografo di questo brano forma il fascicolo secondo de'
_Fogli staccati dai Promessi Sposi_. Il M. lo tolse via dal tomo II
della seconda minuta, dove occupava il foglio 75 (già 93) e i fogli
successivi 76-86. (Ed.)

[182] Ecco nel loro «bel latino» i passi del Ripamonti che riguardano
l'Innominato: «Memorabo casum unius, qui procerum urbis quum haud sane
ultimus esset, rura sibi urbem fecerat, ac magnitudine facinorum,
iudicia, iudicesque et fasces ipsos imperiumque contemnebat. Posito in
extremis provinciae finibus domicilio, solutam quandam ac sui iuris
vitam agebat, receptator exulum et exul aliquandiu ipse, postea redux,
eousque progressus, ut externi principis uxorem, cum ad maritum sponsa
deduceretur, raperet sibique haberet, ac iusto denique matrimonio
iungeret et nuptias illas innuptas celebrari nostra aetas vidit. Domus
erat illa velut cruenta officina mandatorum, capite damnati servi et
capitum obtruncatores: non coquo, non aquariolo cessare licitum erat:
pueris imbutae sanguine manus: et facili in Cenomanos, Bergomatesve
transitu, tanto magis contumax adversus edicta maiestatemque imperii
huius familia tota erat. Herus ipse cum solum aliquando, nescio,
qua de causa vertere statuisset, adeo modeste id, adeoque occultus,
trepidusve fecit, ut per mediani urbem cum suis canibus haud sine tubae
etiam sonitu transveheretur, regiaeque ipsi obequitaret, ac Regio
Gubernatori dicenda convitia portae custodibus in transitu mandaret. De
hoc homine fama erat, tanquam domitis etiam adversus Ecclesiae leges
et mysteria fraenis, in praecipitia penitus ac derupta abiret. Sicut
ingenia eiusmodi sunt, nunquam id obiisse mysterium aiebant, ut peccata
confiteretur. Voluit iste accedere ad Cardinalem, cum haud procul
terribili domicilio, visitationis ordine, incessuque constitisset.
Facile benigneque admittitur. Duas amplius horas in colloquio retentus
est. Quae dicta fuerint haud sane comperimus, quia neque Cardinalem
interrogare quisquam nostrum super ea re auderet, neque alter ille
quicquam est effatus. Tanta certe mutatio repente facta est animi et
vitae morumque illius, ut mirifica et magna et nova res ad colloquii
virtutem et efficaciam haud dubie referretur: opusque Cardinalis id
familia tota illa gladiatorum agnosceret, ac, velut erepta sibi stipe,
detestaretur. Etiam alia per utramque provinciam locis opportunis
dispersa familia quam truculenti nutus et patratae vel patrandae caedes
alebant, mansuefacto hero, duceque sensere damnum. Simul pleriqui
procerum urbis multa et occulta consiliorum atrocium funestarumque
rerum societate cum eo coniuncti postea quam ea quae communicata
et inchoata facinora habebant, relinqui ab eo deserique senserunt,
intellexere simul, id quod erat, diversa itinera vitae ingressum neque
tantae rei mutationisque authorem ignoravere. Et externorum quoque
Principum nonnulli, quibus particeps et minister alicuius saepe magnae
caedis ex longinquo ipse fuerat, sive qui auxilia et ministros ei
saepe miserant, cito sensere mutationem. Sed causam anxii exquirebant,
donec hanc etiam pertulit fama et nuntiavit. Ego sicut augendae rei
causa nihil ex vano attulisse velim: ita ne his quidem demere fidem
debeo, quae comperta habemus. Vidi paulo post eum virum in cruda
adhuc viridique senecta, nihil ex pristina ferocia retinentem praeter
vestigia et notas, quarum argumento natura unumquemque nostrum insiti
vitii rerum facit. Et has tamen ipsas recens assumpta mansuetudo
castigabat scilicet atque inflectebat, ut quasi magno verbere victam
et domitam esse naturam appareret». Cfr. IOSEPHI RIPAMONTI, _canonici
scalensis, chronistae urbis Mediolani, Historiae patriae decadis V
libri VI_. Mediolani, ex regio Palatio, apud Jo. Baptistam et Julium
Caesarem Malatestam, regios typographos, senza anno; pp. 308-311.

Dell'Innominato ne tocca anche Francesco Rivola, biografo di Federigo
Borromeo. Ecco quello che scrive: «Così copiosi ed abbondevoli furono
i frutti che dalla spiritual visita della sua diocesi colse Federico,
che non mi dà il cuore di potergli qui tutti sotto gli occhi d'ognuno
pienamente rappresentare... Viveva in un certo castello, confinante
col dominio di straniero Principe, un Signore altrettanto potente
per ricchezze, quanto nobile per nascita, il quale, datosi ad ogni
maniera di misfatti, opprimeva con la sua potenza quando l'uno, quando
l'altro degli habitatori, arbitro facendosi degli altrui affari,
così pubblici, come privati; e minacciando, anzi offendendo chiunque
a' suoi cenni ardito havesse di contrariare; intanto che fatto era
terrore di tutti que' contorni. Giunto in quelle parti Federico la
sua diocesi visitando, volle con esso abboccarsi, per veder pure di
distorlo dalla mala via e di ridurlo a porto di salute; e tanto disse,
rappresentandogli con pastoral zelo il suo stato miserabile ed il
pericolo dell'eterna dannatione, che lo dispose all'ammenda e fece
sì che da quel giorno innanzi, con maraviglia di quanti erano de'
suoi depravati costumi molto ben informati, deposta ogni presuntuosa
alterigia e ferocia, tutto mite, piacevole ed ossequioso verso di tutti
dimostrossi, nè fu mai più alcuno che d'un minimo suo eccesso potesse
ragionevolmente dolersi». Cfr. _Vita di Federico Borromeo, Cardinale
del Titolo di S. Maria degli Angeli ed Arcivescovo di Milano, compilata
da_ FRANCESCO RIVOLA, _sacerdote milanese, e dedicata da' Conservatori
della Biblioteca e Collegio Ambrosiano alla Santità di Nostro Sig. Papa
Alessandro Settimo_. In Milano. Per Dionisio Gariboldi, MDCLVI; pp.
253-255.

Ne parla pure BIAGIO GUENZATI nel cap. 22 del lib. II della sua
_Vita di Federigo Borromeo, Cardinale di Santa Maria degli Angioli,
Arcivescovo di Milano, compilata di nuovo e accresciuta_, che si
conserva inedita nella Biblioteca Ambrosiana. Scrive: «Ammirò ancora
il mondo convertire le Tigri di crudeltà in Agnelli mansueti, e
squagliati in lagrime di penitenza li cuori più indiamantiti per le
destre maniere di Federigo. Tra li confini del dominio Milanese, Veneto
e de' Grigioni godeva asilo securo un mostro di fierezza, cui per altro
rendeva autorevole e temuto la nobiltà del sangue e la potenza. Questo,
raccogliendo tutta la feccia dell'iniquità, che per purgarsi cacciavano
fuori gli Stati confinanti, aveva al suo comando squadre di sgherri
e tagliacantoni, che pascevansi colle stragi e col sangue, svenando
vittime umane all'altrui odio. A quel castello, come al tribunale di
Eaco o di Radamanto, ricorrevano tutti gli avidi di crudeli vendette;
in quello macchinavansi tradimenti e spacciavansi sentenze di morte,
che venivano eseguite in mille guise da palliati carnefici». Qui
racconta varie imprese di lui; poi prosegue: «Portatosi dunque in quei
contorni il Cardinale, ebbe ad albergare ancora in quella piccola
Terra ove risiedeva questo Ministro di Morte. Volle questi, forse per
compiere solo al debito della sua nascita cospicua, visitarlo e si
trattenne segretamente con esso per due ore. Non si penetrò di che si
discorresse fra loro; nè meno il Cardinale mai lo palesò».

In una grida del 10 marzo 1603, pubblicata «In Milano, per Pandolfo et
Marco Tullio Malatesti, Stampatori Regi Camerali», il Governatore di
Milano, Don Pietro Enriquez de Azevedo conte di Fuentes, «conosciuto
per esperienza di quanto commodo et utilità sia stata a questo Stato
la grida d'ordine suo pubblicata sotto li 12 marzo 1601 contra banditi
et assassini et altri facinorosi; et desiderosa l'Eccellenza sua che
questi sudditi, tanto affetionati alla Maestà Catholica et da lei
commessi al suo governo, possano vivere con quella maggior quiete
et sicurezza che sia possibile et i malfattori siano castigati et
distrutti, ha deliberato (col parere ancora del Consiglio Secreto
et del Senato) che la sudetta grida si rinovi nel modo et forma che
segue: Commanda S. E. che niuno, di qual conditione si sia, ardisca
ricettare, nè alloggiare, o dare alcuno aiuto o favore in qualsivoglia
maniera ad alcuno condannato capitalmente di morte naturale, et
bandito, o assassino, sotto pena della vita et confiscatione de' beni;
nè si ammetterà escusatione a' padri o fratelli o altri parenti che
habbiano ricettato o dato aiuto a figliuoli, fratelli o altri parenti,
i quali siano banditi, o assassini». Qui seguono sei pagine di stampa
fittissima nelle quali il Governatore ordina alle varie autorità di
ammazzare, scorticare e impiccare oltre dugento banditi, di cui dà
il nome; poi prosegue: «Et perchè sono dispiaciuti oltre modo a S.
E. gli eccessi seguiti nella persona di Lucia Vertemate, moglie che
fu di Gio. Battista Piacenza, et nella persona di Geronimo Cusano
et suo figlio; et parimente gli enormi et brutti misfatti commessi
da Francesco Bernardino Visconte, uno de' feudatarij di Brignano
Geradadda e da' suoi seguaci; concede S. E. che qualunque consegnerà
vivo o ammazzerà alcuno degli infrascritti, oltre il premio pecuniario
promesso nelle gride, possa liberare due banditi per qualsivoglia caso,
fuorchè gli eccettuati in questa grida». Dà quindi il «Nome de' banditi
per la morte della Vertemate,» il «Nome de' banditi per la morte de'
Cusani,» e «Li nomi di Francesco Bernardino Visconte et suoi seguaci
banditi», che son questi: «Francesco Bernardino Visconte di Brignano
sudetto; Pompeo, suo uccellatore, habitante in Brignano; Battista
Boldono, Cesare Zallatino et Dominico Rozzono, detto il Pelato, tutti
tre habitanti in Triviglio; Gio. Battista Nicoletto da Caravaggio;
l'appellato il Casale da Bagnolo Cremonese; Camilino di Salamene
Parmigiano, altre volte habitante nel detto luogo di Brignano in casa
del detto Francesco Bernardino Visconte». Quindi prosegue: «Nè vuole
S. E. che li sudetti condannati per la morte delli detti Vertemate et
Cusani et per li già detti delitti di Francesco Bernardino Visconte et
complici possano godere del beneficio della presente grida; anzi li
dichiara per sempre indegni di liberatione et di potere habitare in
questo Stato, salvo però se alcuno dei sudetti complici ci consegnasse
o ammazzasse il principale, cioè il Conte Francesco da Vimercate, o
Carlo Cusano, o Francesco Bernardino Visconte, in tal caso quel tale
possa godere del detto beneficio di questa grida, et non altramente».

La grida, secondo il solito, non produsse nessun effetto; e senza
nessunissimo effetto fu rinnovata il 30 maggio del 1609 e il 2 giugno
del 1614. Bregnano, castello anche al giorno d'oggi di proprietà de'
Visconti, resta dove il Milanese confina col Bergamasco. «I tempi
rispenderebbero» (scrive il Cantù): «l'uomo era terribile: la grandezza
e potenza di quella famiglia, illustre e allora e adesso, poteva
trattener la penna degli storici: veggano i lettori qual peso sia a
dare a questo supposto, del quale noi ci professiamo debitori allo
stesso «Manzoni». Cfr. CANTÙ C. _Sulla storia lombarda del secolo XVII
ragionamenti per commento ai_ Promessi Sposi _di Alessandro Manzoni_,
Milano, coi tipi di Luigi Nervetti, 1831; pp. 56-57.

Francesco Bernardino era figlio di Giambattista Visconti e di Paola
Benzoni di Crema. Il LITTA [_Famiglia Visconti di Milano_, tav. VIII]
lo dice «assoggettato alla confisca nel 1603 per commessi misfatti»;
nè altro aggiunge di lui. Del padre scrive: «Del consiglio de' LX
Decurioni, fatto cittadino di Cremona nel 1570. Nel 1577 era capitano
generale delle cacce. Dilapidatore al giuoco del proprio patrimonio,
morì in Brignano nel 1595». Dice che lasciò tre maschi: Francesco
Bernardino, Galeazzo ed Ercole. Quest'ultimo era naturale; come, delle
tre femmine, furono naturali Giulia e Maddalena; legittima, Caterina,
che sposò Ersilio Del Maino.

Afferma il Cusani che il canonico Giuseppe Ripamonti «faceva parte
del seguito del cardinale Federigo Borromeo nella visita pastorale
della pieve di Treviglio nel 1608, ove ebbe luogo la conversione del
famigerato Bernardino Visconti, feudatario del vicino Brignano, cui
piacque a Manzoni appellare l'Innominato». Cfr. CUSANI F., P_aolo
Moriggia e Giuseppe Ripamonti, storici milanesi_; nell'_Archivio
storico lombardo_, ann. IV [1877], fasc. I, pag. 58. Della conversione
del Visconti ne aveva già discorso nel giornale _La Perseveranza_
del 14-16 luglio 1876. Dopo di lui ne trattarono: F. D'OVIDIO, _Due
parole sull'Innominato_, nell'_Illustrazione italiana_ del 27 maggio
1894; A. GRAF, _Perchè si ravvede l'Innominato_? in _Foscolo, Manzoni,
Leopardi, saggi_, Torino, Loescher, 1898, pagine 113-138; e G. NEGRI,
_La conversione dell'Innominato e il convito della Grazia_, e _Se la
conversione dell'Innominato fu per il Manzoni un miracolo_, in _Sui_
Promessi Sposi _di A. M. commenti critici, estetici e biblici_, Milano,
Scuola tip. Salesiana, 1903, part. II, pp. 157-282. (Ed.)

[183] Qui finiva il capitolo XIX e incominciava quello XX. (Ed.)

[184] Prima scrisse: «Chi nasce in questo mondo, dice il manoscritto,
e principalmente chi nasce nei luoghi dove si maneggiano i grandi
affari». (Ed.)

[185] Prima scrisse: «ed entra in concerto. Si dà qualche volta il caso
che un sonatore con disposizioni straordinarie si svegli tra una sonata
e l'altra, mentre gli stromenti sono in disarmonia e si litiga perchè
ognuno vorrebbe dare il tuono: lo dà egli, fa sonare e ballare a modo
suo fino a un certo segno, mena la danza, come si dice in proverbio,
e per lo più la mena in modo che finisce col farsi rompere il suo
stromento in mano e dar tutti gli altri su la testa: ma queste sono
eccezioni che non fanno al nostro proposito». (Ed.)

[186] Segue cancellato: «Il castello dell'innominato era posto a
cavaliere ad una valle angusta ed uggiosa, su la cima d'un poggio, che
sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe
ben dire, se congiunto ad essa, o separato, per un mucchio di greppi
e di dirupi e per un andirivieni di tane e di precipizii, così sul
di dietro, come sui fianchi. Il lato, che risponde nella valle, è
il solo accessibile: è un pendìo anzi erto che no, ma continuo, a
pascoli in alto, a colture nella più bassa falda, e sparso qua e là
di abituri». FERDINANDO RANALLI [_Degli ammaestramenti di letteratura
libri quattro_, Firenze, Le Monnier, 1863; vol III, pp. 211-213] dice
corna della descrizione del castello dell'Innominato fatta dal Manzoni,
e riporta la descrizione di un altro castello fatta dal Bartoli, che
leva al cielo; senza accorgersi che appunto in quel raffronto sta la
vittoria dell'autore de' _Promessi Sposi_, da lui voluto annientare!
(Ed.)

[187] Si conserva nella Sala Manzoniana della Braidense; dove si
trovano pure la seconda minuta, anch'essa tutta di pugno del Manzoni;
la copia per la Censura, d'altra mano, ma corretta da lui; e i Fogli
staccati dai Promessi Sposi, parimente autografi. (Ed.)





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