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Title: Memorie di Giuda, vol. II
Author: Petruccelli della Gattina, Ferdinando
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Memorie di Giuda, vol. II" ***


                     F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA


                           MEMORIE DI GIUDA

                            SECONDO VOLUME


                       Seconda Edizione Italiana



                                MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                1883.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA

                         Tip. Fratelli Treves.



MEMORIE DI GIUDA



XVIII.


Restai confuso. L'apostrofe brutale di Moab m'immerse in un disordine
d'idee vicino alla stupidità. Una sola cosa non lasciava più alcun
dubbio: che questa Ida era la sorella del Rabbì di Nazareth. Di più!
C'era ben stato un Cajus Crispus comandante la cavalleria della 12.ª
legione che abitava Gerusalemme quando Pilato se ne stava in Antiochia;
ma aveva egli mai sposato questa ragazza che avea fatta comperare, e
fatta rapire? Era egli morto? Aveva divorziato da sua moglie, o lasciato
la sua ganza? Il cavaliere che io aveva veduto da Ida, nella notte
dell'uragano, era egli Pilato, o uno del suo seguito? Che era egli
andato a fare a quell'ora, con quel tempo, in quella casa? Io poteva
rimuginare tutto ciò, andare al fondo di questo intrigo; ed avevo paura
di conoscere la verità! La parola «sposare una tal donna, un simile
angelo» increspava il mio viso d'un sorriso da demente, e mi metteva il
delirio nei cuore.

Ero stato colpito dal sembiante d'Ida, al circo. Ne avevo accarezzata
l'immagine immergendola sempre più nel mio cuore durante un mese, e la
trovavo più bella ancora, più diabolicamente seducente. Il mio amore era
scoppiato come un vaso che rinchiude un liquore fermentato. Doveva io
resistere alla mia follia? Dovevo cedervi, sposarla, salvo, una volta
saziata la passione, a ripudiarla, ad ucciderla, ed uccidermi con lei?
Ma, anzitutto, consentirà ella a codesto matrimonio se io oso
proporglielo? Che agguato mi si tendeva? E c'era poi un agguato? Io era
idiota, ridicolo.

Meditavo tutte queste ed altre mille stravaganze avanzando lentamente
sulla strada di Gerusalemme. Tentai di distrarmi.

Mi recai la sera presso Hannah, e gli resi conto del mio viaggio. Fu
incantato dell'acquisto del Nazzareno. Gesù aveva fatto, e non senza
successo, le sue prime armi in Gerusalemme. Hannah l'aveva scorto, ne
aveva inteso a parlare; ed era ora più ardente di me stesso. Aveva
veduto Claudia, che l'aveva ammaliato.

Claudia gli aveva tenuto un linguaggio più preciso. Si trattava inoltre
di spiegare perchè Pilato, il quale aveva l'aria di dormire e vegliava
con ambi gli occhi, avesse fatto venire una legione di più nella
Samaria, un'altra in Galilea, una terza a Betlemme, ed aumentato di
varie coorti la guarnigione stessa di Gerusalemme. Claudia fu esplicita,
chiara, senza reticenze. Ella disse al sagan:

— Pilato vuol essere proconsole in Ispagna suo paese. A Roma si compra
tutto. Noi non abbiamo denaro. Il vostro Tempio, la tomba di Davide,
sono ricchi. Voi volete sbarazzarvi dei Romani: noi vogliamo sbarazzarci
di voi. Voi avrete l'indipendenza e tutto ciò che vorrete. Ma cosa
guadagneremo noi? Ebbene fate la vostra insurrezione. Noi vi lasceremo
agire, ma avendo la forza di schiacciarvi quando vorremo. Terremo i
nostri soldati nelle tre torri, nel palazzo d'Erode, nella fortezza
Antonia. Voi potete comperare una capitolazione al prezzo dei tesori che
vi ho indicati. Con quel denaro, noi compreremo i soldati che, potendo
vincere, potrebbero avere della ripugnanza a rendersi, gli ufficiali che
potrebbero resistere, il legato della Siria che potrebbe eseguire egli
ciò che non faremmo noi, comperare infine l'impunità della reddizione,
ed il governo della Spagna. Occorrono per tutto ciò milioni e
milioni.... Siete voi disposti a comperare la vostra redenzione?

Claudia aveva risolte tutte le difficoltà sollevate dal sagan, e
dissipati tutti i suoi dubbi. Hannah era sedotto, convinto, premuroso.
Occorreva solamente che la sollevazione del popolo fosse talmente
imponente, che Pilato potesse aver l'aria di dover cedere, senza che gli
si domandasse come a Varo: Che hai tu fatto delle nostre legioni? Ora,
per sollevare così il popolo, per riunire tutti i partiti e tutte le
classi in un solo slancio, era necessario che qualche profeta o messia
pieno di autorità facesse appello alle armi in nome di Dio e della
patria. Ogni altro nome, qualunque si fosse stata la sua posizione
sociale, non sarebbe riescito. Il sagan fu dunque fuor di sè dalla gioia
udendo il ritratto che io gli dipingeva del Rabbì di Nazareth, e noi
convenimmo di affrettare i preparativi, e disporre gli animi, onde
tentare il gran colpo nel prossimo paschah.

Lasciando il sagan andai da Claudia. M'accolse a braccia aperte come un
vecchio amico. Io diedi a lei ragguagli più completi, e valutai con più
calma le probabilità dell'impresa. Le mie domande la imbarazzarono più
forse di quelle del sagan. Ma in realtà, io prestava poca attenzione
alle sue risposte. Una cosa per altro mi colpì, perchè ella stessa n'era
impressionata. Claudia, dopo avermi raccontata la scena che seguì fra
lei e suo marito dopo la mia partenza, mi disse, che da quella sera
Pilato era divenuto invisibile e sembrava orribilmente triste. Arrivava
al pretorio all'ora della giustizia, poi si chiudeva nella sua torre
solitaria, e non se ne moveva più. Claudia non lo aveva intravisto, da
circa un mese, che due volte, per darle delle lettere di Tiberio. Ella
principiava a sospettare che suo marito l'amasse.

Ebbi paura di mettere questa lupa sulle traccie d'Ida, e di approfondire
questa coincidenza di malinconia. Tuttavolta le dissi:

— Claudia, conosci tu Cajus Crispus?

— L'ho veduto a Joppa quando arrivai nella Siria.

— È egli morto ora?

— Otto giorni fa egli viveva, credo, poichè ne ho udito parlare. Non so
se sia morto di poi.

— Conosci sua moglie?

— Mi fu mostrata a Roma spesse volte. È una delle Lesbiane alla moda, la
più conosciuta nelle terme, aveva per amante il gladiatore Lydius, e per
fellatore l'affrancato Cerinthus.

— A Roma! sua moglie non è dunque in Asia?

— Che io sappia almeno, no.

— Ma avrebbe egli ripudiato la sua moglie di Roma per prenderne una in
Siria?

— Ne dubito. Terentilla è ricca. È figlia di un senatore, e Cajus
Crispus è un ciompo, un legionario che ebbe fortuna. In quanto ad una
moglie ch'egli potrebbe avere presa in Siria, non ci vedo nulla di
straordinario. Tutti i nostri legionari si maritano nelle provincie ove
stanno di guarnigione; poi quando partono, scrivono alle loro vedove
desolate: «Cara amica, sono morto il venticinque del mese scorso» non
dimenticarmi troppo, consolati come puoi, e non divenir troppo brutta
nella tua vedovanza, addio.» I nostri legionarii, soldati ed ufficiali,
ripetono questi matrimonii per una stagione o due, ovunque essi vanno,
in Germania, in Ispagna, nelle Gallie, in Giudea, sotto ogni clima.

Ne sapevo abbastanza. Il destino di quella povera ragazza Galilea m'era
ora spiegato. Vi pensai sopra tutta la notte: la mia convinzione fu
completa. Ida era una vittima ed amava il suo carnefice, non dubitando
punto del suo destino.

L'indomani all'alba, montai a cavallo, e mi recai di galoppo a Berachah.
Moab vegliava in cima della sua piccola torre. La porta era chiusa.

— Ah! Giuda, mi gridò da quel posto senza muoversi, sei tu? Hai dunque
riflettuto al mio consiglio?

— Si tratta di ben altro che del tuo consiglio, Moab. Vengo a svelare
alla tua padrona il più infame tranello che si possa tendere ad una
donna, e che le è stato già teso.

— Davvero! sclamò stupito Moab: parla dunque.

— Non è mica a te che devo raccontarlo, non sei tu che io possa prendere
per confidente in affare così delicato.

— Sta bene. Va allora a raccontarla, la tua storia, al Monumento del
gran sacerdote.

— Moab, finiamo questo scherzo che principia ad offendermi.

— Tanto peggio. Ma se tu principii soltanto ad offenderti di ciò che
chiami il mio scherzo, io lo sono completamente di ciò che io chiamo la
tua impudenza. Con qual diritto vieni tu ad insinuarti qui per attentare
all'onore di una nobile dama che cerca la pace e la solitudine?

— Ma io vengo al contrario, per avvertirla.

— Di che?

— Ma bestia che sei, suo marito Cajus Crispus non è morto.

— E che importa a noi che il tuo Crispus sia morto o vivo?

— La tua padrona non è vedova.

— Ella vuol esserlo.

— Ella piange come un amore spento ciò che non è stato che un infame
mercato.

— Tutti i mercati sono infami; compreso quello che tu fai in questo
momento.

— Moab! Moab! la mia pazienza è stanca.

— E poi?

— Ma te ne supplico. Moab, lasciami vedere la tua padrona. Vengo a
portarle la gioja. È così dunque che l'ami tu?

— Non inquietarti del come io l'ami. Non inquietarti di ciò che non ti
risguarda. Non inquietarti del passato della mia padrona e di penetrarne
le angoscie. La mia conclusione è questa: io conosco il pudore, la
purezza, il profumo di questa viola mammola che custodisco da quasi due
anni, e quali che sieno le apparenze e le ombre che abbiano velato,
forse offuscato, il suo candore, non c'è una figlia di Sion che possa
esserle paragonata. Io la vedo disgraziata e sola. Sola, poichè io sono
tutto per lei, io straniero; io sono per lei padre, fratello,
protettore, custode. L'ho adottata, io, a cui la mia fede proibisce
d'amare la donna che avevo scelta, ed il figlio che la mi aveva dato. Io
non comprendo la mia fede; non la discuto. La trovo crudele, insensata,
immorale; ma non avendola inventata io, avendola accettata, la rispetto
straziando il mio cuore la notte, e soffocando le mie lagrime il giorno.
Ebbene, questa povera creatura sulla quale io veglio, colpita da un
seguito di sventure, di cui Dio solo può comprendere e giustificare la
durezza, questa povera vittima ha bisogno d'un protettore che la
difenda, d'un cuore che l'ami nobilmente e puramente. La tua fiamma,
Giuda, mi pare una di quelle luci che si scorgono la notte nei cimiteri:
una scintilla della putrefazione.

— T'inganni, Moab.

— Lascia che m'inganni; non c'è alcun male. Di tutti gli uomini che ho
conosciuti, Giuda, tu sei quegli che io mi ami di più dopo il Battista;
che io stimi meglio, malgrado la tua empietà ed i tuoi vizii. Sei l'uomo
al quale confiderei con minor timore il destino e l'avvenire di Ida;
perchè sono convinto che un giorno ella ti amerebbe, e che la tua
concupiscenza d'oggi, si cangerebbe domani in un nobile amore. Se tu
continui a vederla, la tua fiamma divamperà sempre più e non so che cosa
potrà accadere. Io non vorrei ucciderti pertanto! T'impedisco di
vederla. Tu la vedrai, quando l'avrai domandata in isposa.

— Ma, amico mio, come vuoi tu che io sposi una donna che non mi ama, e
che conosco imperfettamente?....

— Ecco perchè t'impegno a continuare la tua strada ed a lasciarci
tranquilli.

— Ma consentirebbe ella a questo matrimonio, anche quando io consentissi
a tentarlo?

— Ora no. Ma dal momento che tu sembrerai risoluto, io so il mezzo di
determinarla a tutto.

— Mi amerà essa?

— L'amore non si coglie come una rosa bella e sbocciata in primavera. Si
prepara, si coltiva, si accudisce, si chiama; e sta sicuro che un
giorno, quando ella t'avrà conosciuto, l'amore verrà.

— Ma lasciami tentare ancora una visita, lascia che io le parli ancora
una volta, non fosse altro per decidermi completamente.

— Cosa vuoi dirle?

— Lo so io forse? Moab, tu non hai mai amato, tu?

— Non so. Mi pare però che quando penso a quella disgraziata che
volevano lapidare come adultera, e che il Rabbì di Nazareth ha
salvata...

Moab s'arrestò. Sembrava soffocato da un singhiozzo.

— Moab, te ne supplico per la memoria di tua moglie e di tuo figlio, cui
ti prometto non lasciar mancare d'oggi innanzi più di nulla; Moab, te ne
scongiuro, fammi veder Ida ancora una volta io muojo d'amore per lei.

— Sia, disse Moab. Ma sarà l'ultima. Mi sono già spiegato abbastanza.

Io andava a tentare il mio colpo supremo, e non avevo un'idea nel mio
spirito, una parola nella bocca. Non sapevo neppure perchè mi trovassi
là. Il mio cuore mi soffocava.

Ida si era appena alzata. Era in una piccola stanza vicino al suo
_tablinum_ (il salotto d'oggidì), una specie di gabinetto ove ella
tenevasi pensosa, stesa sopra dei cuscini di seta. Era avviluppata in
una stola di lana bianca a grandi pieghe, che la copriva dal capo in
giù, non lasciando vedere che dei piccoli piedi calzati di stivaletti
rossi, piedi così piccini che parevano inverosimili. Noah aveva finito
di vestirla e le porgeva una coppa di latte caldo per quel primo pasto
che i Romani chiamano _jentaculum_. Ella si mostrò molto sorpresa, e
sgradevolmente, vedendomi. Moab mi precedeva.

In realtà, io aveva l'aria d'un importuno. Ciò raddoppiò il mio
imbarazzo. Quando si ama si diviene stupido. Io amava per la prima volta
nella mia vita. L'affrontai dunque con una sconveniente storditezza.

— Ieri, le dissi, ho dimenticato, nobile dama, l'oggetto principale che
mi aveva condotto dinanzi a te. Avevo a rimetterti questa collana cui
Erodiade, la moglie del tetrarca di Galilea, mi diede, dicendomi: La
presenterai alla donna che ami di più. Ida, degna di accettarla.

— Ti sbagli d'indirizzo, o giovane. Non è per me quel gioiello: riponilo
nel suo scrigno.

E non lo guardò neppure.

— Ti chiedo scusa, Ida, ripresi dopo un istante d'esitazione. Io non so
a chi offrirlo, secondo la destinazione che Erodiade gli ha dato. Non ho
moglie, non ho amica, non ho amante, mia madre è vecchia, le mie sorelle
sono ricche e maritate. Io sono solo.

— Conservalo allora per quando non potrai più ripetere ciò che dici in
questo momento. Non c'è motivo perchè io accetti il tuo regalo.

— Ciò mi avrebbe fatto pertanto un così gran piacere! Intorno a
qualunque altro collo, questa collana perderà il valore.

— Cessa, e se non hai altro a dirmi, addio!

Gettai il mio giojello a Noah, dicendole:

— Comprane la tua libertà, quando non avrai più una simile padrona.

Noah arrossì, tremò, e fuggì col suo tesoro.

— Ebbene, Ida, poichè mi condanni a non vederti più, concedimi di
parlare, avanti che io ti lasci.

Ida si sollevò sul suo gomito, con aria severa ed offesa, e non rispose.

— Non aggrottare il ciglio, Ida: non ti parlerò di me. Io non ho cercato
conoscerti. Taluni briccioli della tua storia sono giunti fino a me,
soli, inattesi. Ne so forse più di te stessa, poichè tu non t'immagini
certo neppure d'essere stata venduta per 15,000 sesterzii. Io conosco
tuo fratello, e chi t'ha venduta. Sospetto chi fu l'uomo che ti comprò.

— Tu deliri, esci da qui, gridò Ida.

— Io non deliro punto, ma continuo. Tuo marito non è morto. Ha un'altra
moglie a Roma.

Credevo di colpirla mortalmente: Ida si coricò lentamente sui suoi
cuscini. Ella dunque sapeva tuttociò. Continuai.

— Sei stata la vittima d'una infame mistificazione: io ti porto la
vendetta.

— Grazie, rispose Ida freddamente, riportala teco.

Mi ero fuorviato nuovamente. Toccai un'altra corda.

— Ida, sei sola, e ricca, continuai.

— T'inganni, interruppe Ida con un ghigno di disprezzo, sono povera.
Puoi andartene ora, mi pare, dopo una simile spiegazione.

— Tanto meglio, risposi. V'è una ricchezza che macchia. Ma dov'è tuo
padre? Ov'è tua madre? Ov'è tuo marito? Sono tutti morti per te, o io
m'inganno sul loro carattere. A chi dunque indirizzarmi per dire ciò che
tu rifiuti d'udire?

— Ma infine, gridò Ida incollerita, chi sei tu? Cosa vuoi?

— Chi io mi sia, Moab te lo dirà, tutta Gerusalemme potrà ripetertelo.
Ciò che io voglio, non oso dirtelo.

— E fai bene perchè io non voglio nulla sapere, e nulla intendere.

— Sei tu libera, Ida?

— Che t'importa ciò?

— Io debbo dunque soffocare nel mio cuore il grido che mi dice: questa
giovinetta sì rudemente provata dalla sventura, è il tuo destino!

Ida alzò le spalle sdegnosamente, e si ricoricò. Io continuai.

— Io t'ho veduta, Ida, per la prima volta al circo.

— Cinquanta mila persone mi hanno veduta come te.

— Nessuna coi miei occhi. Poichè da quel momento tu riempi la mia anima,
come l'anima riempie la vita.

— Via dunque! disse Ida con disgusto. Codeste passioni repentine e
chiacchierone si comprano bell'e fatte dai poeti e dagli istrioni.
Quanto ti ha dessa costato, giovanotto?

— Hai tu giammai amato, Ida?

— Che t'importa ciò?

— Oh, se hai mai amato, grazia per me.

— Ma veramente, giovane, tu deliri. Con qual diritto t'introduci tu
nella mia casa, sotto un ridicolo pretesto, per offrirmi un amore di cui
non ho d'uopo, che non ho in nessuna maniera nè autorizzato, nè
incoraggiato, cui io non voglio, cui respingo con isdegno? Da chi credi
tu trovarti? Quale ignobile impertinenza ti ha consigliato questo passo
che mi offende! Ah! proruppe poi sciogliendosi in lagrime. Ah! se non
fossi stata sola!

— Addio, Ida, le dissi. Tu hai mal giudicato le mie parole, ma hai
ragione. Io mi sono condotto male. Che vuoi? non si è sempre padrone dei
proprii istinti. Io venivo soltanto per avvertirti d'un pericolo, per
illuminarti. Accogliesti male le mie proferte; io mi ritiro. Ma
ricordati questo. Ida: io t'amo. Se un giorno, il dolore che ti
padroneggia in questo momento si calma, se la nebbia che ti ricopre si
dissipa, e se hai bisogno d'un amico che ti consoli, di' a Moab di
chiamarmi: io sarò sempre pronto, senza rancore, senza tiepidezza.
Bisognava bene che io provassi alla fine quel dolore spaventevole che si
chiama il primo amore.

Ida non intese forse una parola di ciò che io le dissi, poichè, la testa
immersa nei suoi origlieri, singhiozzava. Io mi sentiva morire. Il
sangue m'invadeva il cervello. Avevo voglia di gettarmi ai suoi piedi,
di ucciderla, di coprirla di lagrime e di baci. Osai prenderle la mano —
bella ed agghiacciata come quella d'una statua di Venere. A quel
contatto, Ida balzò e si rizzò a me dinanzi. I suoi occhi si tersero in
un istante.

— Che vuoi tu? la gridò. Noah! Noah!

La giovine schiava entrò.

— Indica la sua strada a codesto straniero, riprese Ida divenuta calma
di nuovo, e volgendomi le spalle.

— Ida, gridai alla mia volta, sei dunque stata ben provata dalla sorte
per divenire così crudele? Sono stato indiscreto forse, ma non ho
meritato d'essere trattato come un galuppo.

Ida sembrò commossa.

— Giovane, disse ella, tu non sai dunque che non si deve mai domandar
l'elemosina al ricco, il quale non comprende cosa sia la miseria? Tu mi
domandi, credo, dell'amore: lo domandi ad una donna che soffoca sotto
questo peso. Ebbene, io non ho nulla a darti. La mia ricchezza è forse
minacciata in questo istante. Che importa! gli è sempre vero, che non ho
nulla per te, nè per alcuno. Quando la rovina sarà certa, oh, allora,
ciò che si farà dei resti del mio cuore mi sarà indifferente. Se la
morte li respinge, li prenda chi vuole. Io non sarò più della partita.
Una carcassa senza anima, appartiene alla prima jena che vi si getta
sopra.

— Ida, mi prometti di ricordarti allora di me!

— Si ricordano i morti, o giovane, ma i morti, essi, non ricordano più.

Ida lasciò la stanza. Passando per la corte, dissi a Moab:

— Avresti fatto meglio di uccidermi sulla soglia.

— Io ti aveva prevenuto, mi rispose con voce accasciata.

I quindici giorni che seguirono questa scena non contano nella mia
esistenza.

Fuggii a Gerico. Mia sorella che m'amava tanto, che m'aveva fatto
giuocare sulle sue ginocchia quando ero bimbo, che mi era stata quasi
una madre, la mia povera sorella fu spaventata dal mio stato. Ella mi
credette talvolta pazzo, talvolta stupido. Poi, ebbi la febbre ed il
delirio. Chi non ha avuto una simile crisi nella sua vita? Tanto peggio
per queglino che non l'ebbero mai. Finalmente mia sorella entrò nella
mia stanza, un mattino, spaventata, e con voce concitata mi disse:

— Giuda, un corriere da Gerusalemme.

— Che mi vuol egli?

— Porta una lettera.

— La dia....

— È venuto a cavallo, e viene dal palazzo d'Erode.

— Dal palazzo d'Erode, o dall'inferno, per me è tutt'uno. Dove è la
lettera?

— Eccola.

L'aprii macchinalmente. Era di Claudia, e diceva:

   «Giuda, ho il cuore morso da un sospetto. Conducimi subito il tuo
   messia, dovessi tu farlo trascinare dai soldati. Ho d'uopo di
   consultarlo, ad ogni costo. Presto, presto, presto.

                                                         «CLAUDIA.»



XIX.


Il Rabbì di Nazareth lasciò la Galilea la notte stessa che avemmo il
colloquio in casa di Maria.

In meno di dodici ore, egli aveva traversato la crisi fatale della sua
vita. L'attitudine del popolo nella sinagoga, l'aveva scosso la mattina;
la prospettiva dell'immenso orizzonte che io aveva spiegato innanzi ai
suoi occhi la sera, lo aveva deciso. La sua anima era tocca. In mezzo ad
un amaro disinganno, una folgoreggiante visione l'aveva consolato ed
esaltato. Ma egli aveva paura della tempesta che aveva scatenata, forse
con più precipitazione e più prematura ch'egli stesso non l'avesse
desiderato.

Ormai, egli non poteva restare più sotto il bel cielo del suo paese, ove
aveva tessuto tanti idillii nella prima fase della sua missione. Dopo
aver gettato la sua terribile parola, che lo tratteggiava a figlio di
Dio, egli non poteva più abbandonarsi ai dolci amori dell'infanzia, dei
fiori, della donna, dei profumi, alla sua morale gaia, alla sua sottile
ironia contro le bizzarre pratiche dei Farisei. Gli era mestieri ora
regnare nelle regioni della folgore. Ma nessuno lo comprendeva più. I
suoi discepoli stessi lo trovavano strano, lo credevano tal fiata
demente, si raffreddavano, o si allontanavano. Egli sentiva che doveva
arrischiare un colpo decisivo; ed io gli offriva una gran parte, in un
grande teatro. Nulla ostante, non credendo alle mie parole, volle
assicurarsi dello stato degli spiriti, e per sua propria prova.

Il Rabbì era un cattivo Ebreo. Egli accettava le nostre leggi, le nostre
tradizioni, i nostri patriarchi, i nostri profeti e le nostre dottrine,
ma tutto sotto benefizio di stretto inventario; e ben poco ne lasciava
in piedi dopo il suo esame.

Un abisso separava l'anima sua dall'anima nazionale.

L'Ebreo è materiale, formalista, rozzo, puntiglioso, orgoglioso,
crudele, superstizioso, di passioni affatto vive e palpabili. Il Rabbì
era dolce, semplice, tollerante, popolare; elevava lo spirito e l'ideale
su tutto, e lasciava alla materia una grande libertà di sviluppo. Egli
aveva sfiorato le dottrine di Sakya-Mouni, di Gesù figlio di Sirach, di
Gamaliel, d'Hillel, d'Antigone da Soco, pigliando da loro i principii di
eguaglianza sociale, di carità, di semplicità nel culto e nell'idea di
Dio, di fratellanza umana. Ma egli faceva buon mercato del resto dei
principii, presi sia nei libri di Mosè e dei profeti, sia nelle masores
o tradizioni che formavano il corpo della legge orale. Respingeva,
motteggiandola, la massa delle dottrine dei Farisei, come altresì quella
dei Sadducei e degli Esseniani. Si alzava solo contro tutti: era egli
perciò più alto di tutti? Al regno del popolo ebreo, opponeva quello di
Dio. All'aspettazione di un messia più grande di Erode e di Giuda di
Gamala, egli offriva un messia paradossale, addobbato ad iperboli
incomprensibili, traboccante di promesse che se non erano delle
assurdità, lambivano la mentecattaggine. Salomone, Giona, non
arrivavano, diceva egli, all'altezza del suo malleolo[1]. Nonostante, la
sua opera si riassumeva in un tessuto di frasi oscure, ed alcune
guarigioni di ammalati, quali i ciarlatani della piazza pubblica
compievano essi pure, e che i maghi egiziani sorpassavano. Non lo si
comprendeva, egli diceva, irritandosi sempre maggiormente. Gli era forse
vero, ma sta sempre, che avendo urtato profondamente le credenze degli
abitanti dei villaggi del lago, sgomentati i Farisei, gettato la
diffidenza nella Casa Dorata, egli non poteva più restare nella Galilea.
Lo avrebbero perseguitato, e preso in qualche agguato.

  [1] S. MATTEO, Cap. XII. S. LUCA, Cap. XI.

Spronato dunque dalla paura, consigliato dalla prudenza di verificare le
mie parole, egli partì la notte stessa, seguito da soli due discepoli,
l'ambizioso e turbolento Simone, e l'indolente Giovanni, altrettanto
ambizioso, ma più poltrone del vecchio marinajo. Questi altresì si
aspettavano dal maestro, nel suo regno, dei posti di generali,
d'intendenti, di grandi sacerdoti, un'alta posizione in fine, con un
ricco seguito di donne, di schiavi, di provincie da governare, di
palazzi, di giardini, la porpora, le stanze dorate, e spingevano quindi
il Rabbì ai colpi decisivi[2].

  [2] La madre di Giovanni ed i fratelli di Gesù erano i più ingordi
  al bottino, secondo i Vangeli.

Traversarono la regione delle colline della Galilea, e penetrarono nella
pianura di Tiro. Percorsero a piedi il paese, dal piano di Sidon fino
alle montagne di Gilead, fermandosi poco, fiutando l'opinione pubblica,
non predicando nè insegnando; perchè credevano esser seguiti dalle spie
dei Farisei.

La cosa che pungeva di più i Farisei, gli era il voltafaccia di Gesù a
proposito dei pagani. Egli, che fino allora aveva rispettata la legge
della separazione dallo straniero, come impuro, conversava ora con una
Samaritana al pozzo di Giacobbe; dormiva sotto il tetto dell'uomo di
Sychar; entrava nelle città greche, romane, o fenicie; si mischiava ai
credenti di Baal e di Astaroth. Il popolo ebreo non era più per lui il
popolo eletto, per il diletto del quale Dio aveva creato questa terra
rivestita di fiori e di frutti, questo cielo inondato di astri. Egli
credeva all'uomo, questo messia del popolo di Dio.

Il viaggio si faceva in fretta; poichè dal primo suo passo sopra questo
suolo, ove l'attività umana si sviluppava con energia, Gesù comprese la
situazione degli animi. Questi popoli che correvano il mondo, che
trafficavano il mare, che esportavano ed importavano le ricchezze dei
differenti climi, che godevano di queste ricchezze nelle orgie che si
prolungavano fra due soli, che s'inebbriavano di donne, di vino, di
arti, di ornamenti, che abitavano dei palazzi soppannati di seta e
risplendenti di marmo e d'oro, questi popoli che divoravano le voluttà
della vita, e la vita stessa senza risparmio, non potevano odiare i
Romani che loro lasciavano una completa libertà di sviluppo, che
l'incoraggiavano e li favorivano. Essi non potevano in nessuna maniera
preferire una dominazione giudea, meschina, dura, barbara, limitata
nello spirito e nell'attività individuale, che scorgeva in ogni uomo non
circonciso un impuro da evitare o da lapidare.

Gesù in questo paese sentiva mancare il suo senso dell'ideale. L'aria
voluttuosa che respirava nelle città gli dava la vertigine. Si trovava
piccolo, disorientato. Egli che veniva a predicare la supremazia di Dio
sull'uomo, l'eclissi dell'uomo dinanzi lo spirito, trovava che qui
l'uomo era Dio, e creava come lui. I suoi due discepoli, che non
comprendevano nulla alla rivelazione ed alla rivoluzione che si compieva
nello spirito del Rabbì, che non avevano come esso una forte energia
morale per sostenerli, soccombevano sotto la fatica della corsa
vertiginosa che trascinava Gesù.

Il Rabbì vedeva il mondo chiudersi sopra di lui per soffocarlo. La
Galilea gl'involava il mondo ideale: qui, il mondo materiale l'assorbiva
nella sua esuberanza.

Non potendo fissarsi in questa pianura di Tiro e di Sidon, in queste due
città scintillanti di palazzi, ove il popolo lavorava per godere, non
potendo, egli credeva, ritornare senza pericolo nella Galilea, Gesù ed i
due discepoli vennero a cercar un ricovero nella Decapolis, gruppo di
città greche alleate che accampa alla punta meridionale del lago di
Gennesareth e sulle due rive del basso Giordano. In mezzo ai Greci ed
agli stranieri d'ogni paese che popolavano Hippo, Gadara, Pella,
Scitopoli, il Rabbì di Nazareth si credette sicuro.

Ma là pure, la sua anima non aveva eco, nè trovava quell'odio contro la
dominazione straniera, di cui io gli aveva parlato, e quel desiderio
della dominazione ebrea, che io attribuiva a quei paesi.

Qui, egualmente, il lusso, l'arte, il movimento per abbellire la vita di
piaceri e di agiatezze, la scienza, la poesia, l'esistenza facile, le
relazioni festevoli, si sviluppavano vivamente. Gli Dei erano umani ed
alla buona, e non dei tiranni brontoloni ed arcigni come il Dio degli
Ebrei. Omero, Platone, Tucidide, Erodoto, Anacreonte, non facevano punto
desiderare il Pentateuco, i libri di Salomone e dei Profeti, di Giobbe e
di Daniele. Qui, quell'ideale del popolo ebreo sembrava un cupo e mal
costrutto fantasma che era antipatico, ed offendeva lo sguardo. L'ideale
stesso di Gesù, così semplice, etereo, si annientava in quell'aria
febbrile, pregna di emanazioni umane, dell'eretismo dei sensi. Il Padre
ch'egli predicava nel paese giudeo, era qui una creazione fantastica cui
Platone aveva già abbozzata nella regione dei sogni. I miracoli
trovavansi classificati negli aforismi d'Ippocrate. Quegli allegri
bellimbusti dell'Olimpo ne avevano fatto di più belle.

Gesù non potè mantenersi neppure in quell'angolo d'un suolo, d'onde
scopriva nondimeno le cime del Carmelo ai cui piedi sorgeva Nazareth sua
patria, le roccie bruciate sulle vette delle quali poggiava Cafarnaum
ove dimorava sua madre, le spiaggie fiorite ove Magdala lavava i suoi
piedi, e cui Maria percorreva gli occhi assetati di rivedere il suo
Rabbì.

Gli è in quel sito che lo incontrò il messaggiero che io gli inviai da
Gerico dopo la lettera di Claudia, onde affrettare il suo viaggio a
Gerusalemme.

Se Gesù aveva per un momento azzannato all'avvenire splendido che io gli
aveva fatto intrasognare, e' si guariva ogni dì più delle sue speranze.
Sulle rive del Giordano, come nei piani e sulle spiaggie di Tiro e di
Sidon, egli comprendeva le terribili difficoltà della missione che io
gli proponeva, la ripugnanza che destava un messia politico. Magdala,
d'altronde, lo attraeva. Egli era come il Tantalo di quella casetta
linda e graziosa ove Maria lo circondava di cure, di carezze, di fede.
La tentazione lo vinse, prese il battello, e vi andò.

La voce del suo arrivo si sparse immediatamente. La gioja frenetica e
comunicativa di Maria lo tradiva. Poco alla volta, in quarant'ott'ore, i
cinque villaggi della costa orientale di Gennesarth furono commossi.
Coloro che credevano nel Rabbì ne aspettavano infine una manifestazione
che loro desse confidenza, e li ponesse in grado di respingere il
ridicolo di cui i loro nemici li coprivano. Questi nemici poi si misero
in posizione di tendergli nuovi agguati, per farlo esagerare nella sua
predicazione, e perderlo. Perocchè dessi non l'avevano nè dimenticato,
nè perduto mai di vista, nelle sue peregrinazioni.

La lotta principiava a divenire implacabile e il terreno si
circonscriveva sotto i piedi del Rabbì. Egli avrebbe voluto restare
nascosto per alcun tempo in quel ritiro, onde meditare, onde meglio
determinare la sua situazione, e poi decidersi sotto la pressione degli
avvenimenti. Non lo potè. E' non andò alla sinagoga; il popolo venne da
lui. La sua posizione era critica: eclissarsi e mostrarsi, egualmente
pericoloso. Del resto non gliene fu lasciata la scelta.

Gesù era sceso sulla spiaggia verso l'ora ottava per recarsi a
Cafarnaum, dalla moglie di Zebedeo che era ammalata. Alcuni Farisei ed
alcuni Erodiani che si trovarono là, lo circondarono, e il cerchio in
breve cominciò a farsi fitto. Gli agenti provocatori non mostrarono
nessuna disposizione ostile. Festeggiarono dapprima il ritorno del
Rabbì, perchè era corsa voce che avesse abbandonato il paese; poi
cominciarono ad interrogarlo, come gente che ha voglia d'illuminarsi.
Gesù comprese.

— Tu ci hai detto che sei il Messia, gli dissero, e noi siamo fortunati
di crederti. Ma mostraci almeno con un segno, che tu sei quell'inviato
di Dio che noi attendiamo.

Gesù sospirò profondamente. Capì la perfidia di questa domanda. Che cosa
doveva egli rispondere? che era il Messia, provandolo con delle cose
sorprendenti, e chiamando il popolo all'insurrezione? A pochi passi di
distanza, i soldati di Antipas lo spiavano. Rifiuterebbe di dare il
segno che gli si chiedeva? l'avrebbero beffato, bandito come un
impostore, posto alla berlina: ben felice se si fossero limitati ad
annegarlo nel lago. Gesù, le cui principali qualità erano la presenza di
spirito ed il sangue freddo, rispose:

— Quando la sera voi scorgete il cielo tutto rosso, voi pensate: domani
farà bello. Quando lo vedete rosso il mattino, voi sclamate: oggi farà
cattivo tempo. Ebbene, ipocriti, se voi potete indovinare i segni della
faccia del cielo, perchè non indovinate voi altresì i segni dei tempi?
Una generazione miserabile ed adultera domanda segni del cielo? Io non
ne ho alcuno a darle, eccetto quello del profeta Giona.

— Insultare non è rispondere, o Rabbì, gli gridarono da tutte le parti.
Se noi ti domandiamo il marchio del tuo apostolato di Messia, gli è
perchè tu ti presenti come tale, e la trinci da figlio di Dio. Se tu non
ti mostri così, sei un empio, e noi ti tratteremo come si trattano i
bestemmiatori.

I discepoli del Rabbì, che si trovarono presenti, intervennero. Gesù,
protetto da essi, indietreggiò di due passi e si gettò nella barca di
Simone che si dondolava sulla spiaggia. I suoi discepoli lo seguirono, e
fecero forza di remi. Era tempo: cominciavano già a lapidarli.

Questa scena imprevista sconcertò il piano dell'escursione di Gesù.
Invece di vogare verso Cafarnaum, a pochi minuti di distanza ove senza
dubbio si sarebbe rinnovata l'istessa scena, Gesù fece mettere la proda
verso la costa greca ove poteva trovare ricovero.

Sembrava scoraggiato, profondamente abbattuto. Egli vedeva che bisognava
rinunziare per sempre a questa contrada che gli parlava della sua
gioventù, della prima epoca della sua missione, profumata dalla memoria
della grande fede che vi aveva trovato, di tante belle opere fatte, di
tante belle parole dette. Un destino lo spingeva, e lo metteva
nell'impossibilità di resistere, di ricalcitrare.

Quando egli disse a Simone di dirigersi verso Bethsaida-Julia, questi
gli fece osservare che l'ora era avanzata, che la notte s'appressava e
che avendo lasciato precipitosamente Magdala, non avevano preso con loro
il pane.

— Che importa il pane? replicò Gesù.

— Bravo, osservò Giovanni indispettito, saremo obbligati d'impastare e
di mangiare il pane senza lievito.

Gesù l'intese e gli rispose seccamente:

— Come! ne siete ancora alla preoccupazione dei Farisei e dei Sadducei,
il lievito nel pane?

— Sta quieto, rispose Simone piano, toccando del gomito Giovanni; non
vedi che è in collera perchè non abbiamo preso il pane?

— Uomini di poca fede! interruppe il Rabbì, seduto alla poppa. Che
andate brontolando fra voi per non aver comperato il pane? Quante volte
ne avete mancato? Quando io vi parlava del lievito del pane dei Farisei,
è delle loro dottrine che io intendeva parlarvi.

Il Rabbì non si fermò a lungo a Bethsaida-Julia, alla sorgente del
Giordano. Quivi ancora, egli era troppo vicino; gli echi di Cafarnaum ve
lo inseguivano. Egli si sentiva eccitato da una forza invincibile che lo
spingeva avanti, a passare, come Cesare, il suo Rubicone. Si arrampicò
sulla collina e venne a Paneas, divenuta da poco Caesarea-Philippi.

Dominato dalla sua preoccupazione, credendosi assalito pure in questo
ritiro negli stati del Tetrarca della Golonotide — Filippo, un'altro
figlio di Erode — egli pensava nascondervisi per qualche tempo. Avrebbe
voluto sottrarsi alla fatalità che lo impelleva verso Gerusalemme ove io
lo attiravo. Chiese dunque ai suoi discepoli:

— Gli uomini di qui, dicono essi pure che io sono il figlio dell'uomo?

— Gli uni dicono, rispose Giovanni, che tu sei Johanan il Battista; gli
altri che sei Geremia; alcuni che sei Elija o un altro dei profeti.

— E voi, chi credete voi che io mi sia?

— Che tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente, rispose Simone
bruscamente.

Gesù che si compiaceva molto di questo titolo il quale rispondeva
meglio, pel suo vago, alle sue aspirazioni ancora indecise e assai
complesse, lodò Simone della sua adulazione, e l'incoraggiò con
promesse. Credendosi pertanto traccheggiato anche a Caesarea-Philippi
dai suoi nemici, congedò una parte dei suoi discepoli, e con due o tre
di essi soltanto, s'avanzò nelle vallate del monte Hermon onde
raccogliersi per alcuni giorni. Raccogliersi solo; poichè ormai aveva
presa una risoluzione.

Il Rabbì di Nazareth rinunziava definitivamente alla parte di messia
politico, che aveva per qualche tempo accarezzata, dopo il quadro che io
gli aveva tracciato della situazione degli spiriti nell'antico regno
d'Erode. Io non avevo nulla esagerato nondimeno, come gli avvenimenti
più tardi lo provarono. Ma Gesù, avendo nelle sue peregrinazioni toccato
soltanto i paesi fenici, greci e romani, aveva creduto che il popolo
ebreo dividesse con loro il sentimento di tolleranza del giogo romano.
Avendo abdicato il titolo di figlio di David, cui alcuni mesi prima
aveva vagheggiato, egli si era deciso per la parte di figlio di Dio che
viene ad annunziare il regno di suo padre. Questo bisticcio, che non
significava nulla, poteva prendere tutte le forme che le circostanze
avrebbero indicate.

Il tipo di Rettore universale concepito da Gesù era quello di un gran
sacerdote-re, il quale nel nome di Dio governasse e conducesse in via
assoluta corpi ed anime — la monarchia teocratica la quale non conosce
altro padrone che Dio con cui s'identifica, nè altro limite che le
proprie aspirazioni — (il papato come è inteso oggidì al Vaticano).

Questo tipo non era realizzabile nei paesi misti, sotto la dominazione
degli eredi d'Erode. La mescolanza di razze, di popoli, di credenze che
s'incrociavano nelle provincie sotto la dominazione indiretta dei
Romani, si opponeva a questa feroce autocrazia, quand'anche quei
suscettibili figli di Erode fossero stati così dabbene da lasciarle
gettare le sue basi nella loro casa. Occorreva dunque emigrare, e tosto;
perchè i pericoli crescevano, si accumulavano dinanzi il Rabbì. Dove
andare?

Io gli aprivo le porte di Gerusalemme, preparandogli una calda
accoglienza. Io aveva bene specificato a quali condizioni. Gesù voleva
sottrarvisi, e trar partito del favore che io gli preparava.

I primi colpi della contraddizione l'avevano cangiato. Era divenuto
irascibile, assoluto, collerico, esigente più che mai, non tollerante
alcun ritardo, alcun consiglio, alcuna controversia, alcuna resistenza:
non discussioni, non dubbii. Era divenuto spaventevolmente assorbente.
Egli comprendeva tutto ciò che la sua posizione aveva di terribile. Non
vedeva nessuna maniera di sfuggirvi senza scadere, rientrare nell'ombra,
annichilirsi, e morire di crepacuore nel ridicolo. Comprendeva che in
situazioni simili l'ardire solo può esser salvezza. Cesare s'era salvato
così. Pompeo ed Antonio avevano soccombuto per aver mancato di codesta
prontezza necessaria a parare i colpi del destino. Egli non aveva più
nulla a sperare dal tempo che facendogli violenza. L'occasione che io
gli offriva non si presenta due volte nella vita dell'uomo che provoca
la sorte. Occorreva agire, ora, e nient'altro che agire, sorprendere,
forzare quelle decisioni dietro le quali si rizza o l'altare o il
patibolo. I suoi nemici l'avevano compreso. Essi l'avevano segnato,
avevano posto gli artigli sopra di lui, e parevano decisi a non più
lasciarlo, che soccombendo essi stessi, o annientandolo.

Gli antichi partiti non potevano più vivere insieme con lui. Egli li
aveva provocati; essi avrebbero creduto abdicare se non avessero
accettata la sfida, e schiacciato l'audace che li aveva sberteggiati.
Gesù veniva a disfare cinquemila anni di giudaismo. Si poteva
incrociarsi le braccia e lasciarlo fare? Il tuono da lui assunto non
poteva del resto durare più oltre. La dottrina, tale quale egli
l'esponeva, si oscurava e diminuiva spiegandola maggiormente: al che lo
si spingeva ogni giorno. Il figlio di Dio stava in equilibrio sopra un
filo, fra il sublime ed il ridicolo, fra il messia ed il ciarlatano. Un
soffio, e l'idolo ascendeva ai cieli, o si affondava nel fango. Già i
suoi discepoli lo credevano un pazzo, ed i suoi nemici un demoniaco[3].
Ed egli si vedeva obbligato ad accelerare la progressione
nell'entusiasmo, onde non precipitare dalle cime ove erasi innalzato.

  [3] S. MARCO, cap. III. S. GIOVANNI, cap. VII, VIII, X.

Gesù aveva detto la sua prima parola: amore! Ora gridava freneticamente:
Io sono la spada, il disordine, il fuoco! Rinnegava la patria, la
famiglia, l'amicizia, la personalità: il sangue, il suo stesso sangue
l'inebbriava. Dichiarava guerra alla società, alla natura. Un uomo gli
disse: Io ti seguo, o Signore, ma lascia che prima io seppellisca mio
padre. «Lascia» gli rispose il Rabbì «lascia i morti seppellire i morti:
cammina». Ancora un passo, e questa fede, questa sicurezza, questa
confidenza in sè stesso, questo idealismo, questa visione, questa
fissità generavano la follia. Egli stesso me lo disse più tardi,
tratteggiandomi lo stato del suo spirito nella capanna della valle del
monte Hermon. Egli fe' violenza a queste riflessioni, tagliò corto
all'aspettare, ai nuovi progetti, sviluppo consecutivo della sua
dottrina e dei suoi piani, ed annunziò ai suoi discepoli che partiva per
Gerusalemme ove andrebbe ad attenderli pel paschah.

— Aspetta ancora, o Signore, gli suggerì Simone, non andare ad esporti
così presto.

— Indietro, Satana! gridò Gesù incollerito. Tu mi disgusti; perocchè tu
non assapori le cose di Dio, e ti inebbrii di quelle degli uomini.

Gesù partì effettivamente dalla Galilea un mese prima della carovana.
Andò a vedere sua madre a Cafarnaum — aveva rotto coi suoi fratelli che
lo spingevano a perdersi con dei colpi messianici avventurosi. Andò a
vedere Maria a Magdala, e le ordinò di unirsi alla carovana, e di
recarsi a Gerusalemme per la valle del Giordano. Egli prese in seguito,
solo ed a piedi, la via di Samaria, traversando Shichem, Shiloh e
Bethel, le tre città sacre che precedono Sion.

La sera del 13 Adar, giorno del digiuno di Esther, vigilia della festa
grottesca del Purim, le _saturnalia_ degli Ebrei (carnevale odierno), il
Rabbì di Nazareth, entrò a Gerusalemme pel sobborgo e la porta di
Beniamino, vedendo alla sua sinistra Bezetha colle sue case, le sue
sinagoghe, ed il nuovo palazzo di Antipas, alla diritta il Gareb coi
suoi giardini, le sue ville, la sua piazza per i supplizj, le sue grotte
e le sue tombe. Traversando la grande strada nella valle dei formaggiaj,
e voltando a sinistra a mezza via nella strada che conduce alla porta
delle Greggie, egli passò il letto disseccato del Cedron. Poi costeggiò
la china occidentale del monte degli olivi, ed a traverso una
piantagione di fichi e d'olivi arrivò a Bethany, villaggio a due miglia
di Gerusalemme, nella casa del suo amico Lazzaro.

Questa casa era bassa e nuda; aveva un tetto aperto, un solaio a calce e
sabbia, una piccola corte, e dominava la valle del Cedron, il mare
d'Asfalto, le montagne di Moab, e quel sentiero di pietre liscie e
sdrucciolanti sulle quali nè cavallo nè cammello possono tener piede, e
che da Gerusalemme conduce a Gerico. Fu lì, seduto fra le due sorelle di
Lazzaro, Marta e Maria, che rinvenni finalmente il Rabbì di Nazareth,
dopo esservi andato dieci volte per trovarlo.

Era tempo, imperciocchè ecco che cosa era accaduto.



XX.


Io non aveva mai compreso, nella nostra istoria, la violenza della
passione di Amnon per la sua sorella Tamar, e la sua indegna condotta.
La comprendevo adesso.

L'amore è sempre una malattia. In alcuni momenti, l'è una distruzione.
Durante quindici giorni la mia anima aveva dato un terribile
combattimento al mio cuore. Essa gli aveva presentato una ad una tutte
le impossibilità, le inconvenienze, gli oltraggi del mio amore per Ida.
Il cuore aveva sempre risposto: È vero, ma io l'amo. L'anima era restata
colle sue ragioni vittoriose; ma il cuore aveva trionfato. Partii dunque
da Gerico, risoluto di sposar Ida, checchè ne potesse accadere.
L'avvenire era armato da capo a piedi in mio favore, se mai mi
ripentissi. Poteva cacciarla, farla uccidere, ucciderla, se il delirio
della mia passione si fosse calmato. Nonpertanto, quantunque
assolutamente determinato al passo disperato di sposare l'abbandonata
favorita d'un ufficiale romano, volli, per giustificarmi ai miei propri
occhi, domandare un consiglio.

Arrivando a Gerusalemme andai a trovare Hannah.

Il sagan era uomo da darlo, questo consiglio.

Dopo la morte d'Erode, l'indomani stesso, due partiti si erano levati in
armi l'uno contro l'altro in Gerusalemme: il partito dei nobili,
depresso dai Maccabei; il partito dei separatisti, schiacciato da Erode:
i vecchi legittimisti[4], i quali sulla base della legge organica di
Mosè ambivano una grande libertà oligarchica; il partito democratico,
che mirava a monopolizzare e trar profitto del potere, oligarchico pure,
ma dal basso in sù. I due partiti erano ambo contrarii alla dinastia,
alle istituzioni di Erode, ed alla divisione ch'egli aveva fatto dei
suoi Stati. Il partito nobile aveva per iscopo di rovesciare l'etnarca
Archelao figlio di Erode, ed il gran sacerdote Joazar, della casa
Betusiana, e d'impadronirsi del governo civile e religioso. Il partito
popolare aveva per iscopo di rovesciare a qualunque costo Archelao,
figlio d'una regina Samaritana, quindi impuro, e di trattare con Joazar,
meno odiato, a causa delle sue maniere facili e nobili. Il capo del
partito nobile era questo Hannah, figlio di Seth, uomo di grande
nascita, di grandi ricchezze, dotato di coraggio, d'ambizione, di
perseveranza illimitata, quantunque d'intelligenza scarsa, e di costumi
depravati.

  [4] I _tories_, come li chiama il signor W. H. Dixon nel suo
  eccellente libro intitolato _The holy land_, che con molto frutto
  ho consultato sovente.

I due partiti avevano trionfato della famiglia di Erode. Archelao era
stato chiamato a Roma per render conto della sua condotta. Accusato da
tutti i partiti e dai suoi stessi fratelli, Augusto l'aveva esiliato a
Vienna. In seguito l'Etnarchia era stata annessa alla Siria come
provincia romana, mentre le due tetrarchie restavano ai due altri figli
di Erode, che ambivano d'annettere la Giudea e la Samaria ai loro Stati.
L'accusa principale contro Archelao era questa: ch'egli aveva cacciato
sua moglie Mariamne, e sposato Glaphyra, figlia del re di Cappadocia, la
quale era stata prima moglie di suo fratello Alessandro. Quando Archelao
fu esiliato, la bella e giovine regina ne morì di dolore. Cyrenius,
governatore della Siria, fu incaricato di organizzare le nuove provincie
sotto un governatore speciale, chiamato procuratore. Caesarea, sulla
costa, fu destinata a capitale e residenza di questo funzionario.

Cyrenius venne a Gerusalemme. Dopo aver tasteggiato tutti i partiti,
destituì Joazar il gran sacerdote popolare, e mise al suo posto Hannah.
Mentre il primo procuratore, Coponius, risiedeva a Cesarea, Hannah
regnava in Gerusalemme. Durante quindici anni, quantunque i Giudei
fossero oppressi d'imposte, addolorati dalla perdita della loro
nazionalità e del loro governo nazionale, nulla turbò l'impero di Hannah
e del partito nobile che governava Gerusalemme in nome di Roma. Ma
Valerius Gratus, il governatore della Siria inviato da Tiberio, si
avvisò di dare un altro assetto al dominio romano, forse perchè egli
vide la marea dello scontento ingrossare, e perchè sperava scongiurare
il pericolo appoggiandosi al partito popolare. Fatto sta che Hannah fu
destituito, e Ismael elevato a grande sacerdote.

Gratus comprese presto l'importanza del fallo che aveva commesso, dallo
scontento più grave ancora che seguì la destituizione d'Hannah,
scontento fomentato dal partito nobile. Non volendo indietreggiare, e
pur volendo calmare gli spiriti, destituì alla sua volta Ismael, e
nominò gran sacerdote Eleazar figlio di Hannah, lasciando a
quest'ultimo, col titolo di sagan (deputato), le funzioni spirituali, ed
il regolamento dei riti inerenti alla carica di gran sacerdote.

Gratus non poteva però consolarsi di essere stato costretto a tutto ciò
da Hannah e dai nobili. Per cui appena il potè impunemente, depose anche
Eleazar, ed elesse in suo luogo Simone. Nuovo fallo; perchè in meno di
un anno fu obbligato di deporre anche Simone e di nominare Caifas,
genero del sagan. Da allora il trionfo del partito nobile fu definitivo,
almeno per un certo tempo.

Pilato se ne fece un appoggio. Ma non riuscì nè a neutralizzare nè a
vincere con questo partito quello popolare. Questo abbracciò i principii
d'una fazione — la galilea di Giuda, di Gamala — cioè l'odio contro i
Romani, e l'attesa d'un messia, il quale doveva vendicare i Giudei,
spezzandone il giogo. Hannah vide questo partito ascendere, crescere,
divenire ardito. Sentendosi in mezzo a due pericoli, piaggiò Pilato, e
cospirò meco.

Tale era il sagan — un bell'uomo d'una cinquantina d'anni, rotto a tutti
i vizii ed a tutte le astuzie, — che io stava per prendere a giudice
della mia condotta.

Gli raccontai tutto: i miei passi presso l'Ida, l'accoglimento che ne
aveva avuto, la mia lotta interiore, la risoluzione da me presa. Hannah
m'ascoltò seriamente, tranquillamente, poi mi chiese:

— Hai tu la forza di strappare codesta passione dal tuo cuore?

— No. Ho provato, e non ci sono riescito.

— Lo vedo. Il tuo viso porta le traccie della sua lotta. Allora che
vieni a domandarmi? Ogni transazione per mascherare la vergogna del tuo
matrimonio, sarebbe un'altra vergogna. La passione non ha logica, non
può quindi avere un codice. Agisci francamente, apertamente, altamente.
Sposa quella donna, e aspetta dal tempo il rimedio.

— Ella non ha alcun parente a cui dirigermi. Non oso presentarmi a lei
di nuovo, per paura di romper tutto. Vuoi tu andare a domandarle per me
la sua mano?

— Son pronto.

— Non ne arrossisci? Non indietreggi dinanzi il rimprovero di esser
entrato in una casa impura?

— Per nulla. Soltanto combineremo una storia, che allontani più ch'è
possibile di tali rimproveri.

— Ti lascio piena libertà d'azione.

— Quando devo andare a vederla?

— Aspetta. Bisogna che io parli prima con Moab onde prepararla alla tua
visita. Temo di non riescire.

— Allora m'avviserai quando potrò presentarmi.

— In che maniera pensi tu di diminuire dinanzi il mondo la mia follia, e
di mostrare mia moglie ai miei amici?

— Molto semplicemente. Noi non possiamo presentarla come la vedova di
Cajus Crispus, che tutta Gerusalemme conosce, e sa essere vivo a Sebaste
in questo momento, e che può capitar qui domani forse, alla testa della
sua cavalleria. Gli è mestieri dunque far passare Ida per la moglie di
quell'ufficiale, ripudiata da lui perchè la trovò invincibilmente
attaccata alla fede dei suoi padri. Così, tutto è salvo. La bellezza
d'Ida giustifica la passione del Romano che l'ha sposata, sperando
convertirla in seguito. Questa perseveranza nel culto delle leggi di
Mosè allontana da lei il rimprovero di avere sposato un pagano, e noi
possiamo, senza contaminarci, entrare nella sua casa. Qualunque
onest'uomo può sposare una donna divorziata per simile ragione. Ma gli è
d'uopo d'una cosa: che Ida abbia uno scritto di suo marito che confermi
codesto divorzio. Ella non l'ha, probabilmente. Occorre ad ogni costo
che ne abbia uno, dovesse ella falsificarlo. Io m'incarico, se c'è di
bisogno, di far domandare da Pilato questo attestato, se Cajus Crispus
lo rifiuta. Nella condizione eccezionale di quella giovane, possiamo
alterare il rito ordinario del matrimonio, accorciare le dilazioni,
semplificare le formalità. In una parola, noi siamo padroni di agire un
poco a nostro comodo, e preparare così dei motivi di nullità di
matrimonio nel caso che tu te ne penta, o che abbandoni la tua follia.

— Grazie, Hannah, tu mi salvi. Corro a Berachah.

Vi corsi infatti immediatamente e vidi Moab. Gli dichiarai che volevo
sposare la sua padrona, e gli spiegai il tutto.

Egli comprese. Promise di fare tutto ciò ch'era necessario, d'ottenere
l'atto di divorzio, e di venire da me fra due giorni, per annunziarmi il
risultato dei suoi passi. Ritornai più calmo, e, devo confessarlo?
scusando me stesso della mia viltà.

Moab non disse una parola ad Ida di tutti questi accordi. A sua insaputa
andò a vedere Pilato, nel giorno stesso, alla sua torre di Mariamne.

Ho saputo da Noah e da Moab, più tardi, i fatti che sto per raccontare,
e li racconto qui onde far meglio comprendere le scene dolorose che
stanno per svolgersi.

L'uomo che io aveva veduto uscire dalla casa di Ida, la notte in cui vi
cercai un ricovero, era propriamente Pilato. Cajus Crispus non aveva mai
veduto Ida. Colui che l'aveva comperata e fatta rapire era lo stesso
Pilato. Il suo amante era Pilato. Nessuno conosceva questo amore. Egli
andava a vederla la notte, e quasi tutte le notti. L'amore d'Ida era la
brezza di quella vita bruciata da tante cupidigie e da tante passioni.
Dopo la terribile scena però, ch'egli aveva avuto con sua moglie, Pilato
aveva tremato forse; aveva avuto rimorso; in ogni caso e' voleva
prepararsi il diritto d'essere d'ora in avanti severo con Claudia.

Ida l'aspettava come sempre. Quando ella udì il rumore dei cavalli, il
rumore dei passi nell'atrium, corse, il sorriso sul volto, i baci sulle
labbra, le braccia aperte. Ventidue ore della sua giornata erano un
desiderio ed un preparamento a quelle due ore di beatitudine che passava
col triste e cupo Romano. Ella cominciava a perder la speranza di
vederlo in quella notte; la tempesta sfrenata metteva a soqquadro il
cielo; l'ora ordinaria era scorsa. L'arrivo di Pilato le parve dunque
una doppia festa. Ma appena fu egli penetrato nei raggi di quella camera
da letto rischiarata vivamente, ella indietreggia colpita dall'aspetto
di lui. Era orribilmente pallido, aveva gli occhi stravolti, gli abiti
coperti di sangue, il braccio ferito, Ida gettò un grido. Pilato quella
volta non le rese le sue carezze; non la calmò. Sedette, o meglio si
lasciò cadere affranto sopra dei cuscini, e piegò la fronte fra le mani,
sulle ginocchia. Ida corse a lui.

— Dio mio, Dio mio, cos'hai? gridò essa.

Pilato si alzò d'uno sbalzo, e baciandola in fronte le disse:

— Tranquillizzati. Questa notte hai d'uopo di tutta la tua calma. Vengo
ad annunziarti una disgrazia.

— Che! non m'ami più? sclamò Ida tremante.

— Peggio ancora, Ida.

— Impossibile. Ma parla dunque, parla, Dio buono.

— Ida, non ho che alcuni istanti a darti, e darei la mia vita, per
diminuirti l'amarezza. Ma non posso più nasconderti il vero senza
disonore.

Ida gettò le braccia al collo del suo amante, e con voce soffocata,
balbettò:

— Parla.

— Ida, io ti lascio.

— Come? tu mi lasci?

— Ida, amo mia moglie.

Le braccia d'Ida si sciolsero a poco a poco, un gemito sordo si
sprigionò dal suo petto, e cadde al suolo fulminata. Pilato la prese fra
le sue braccia, la posò dolcemente sul letto, e s'inginocchiò al suo
capezzale, spiando, con gli occhi annegati di lagrime, il suo ritorno
alla vita. Scorse lungo tempo. Finalmente, poco a poco, le pallide
guancie, le labbra scolorite d'Ida si animarono, un soffio ardente
traversò la sua bocca, le sue diafane narici palpitarono, le palpebre si
aprirono dolcemente, smisuratamente, l'occhio ceruleo brillò come la
stella mattutina, le lunghe ciglia tremarono; poi alzandosi di un colpo
sul letto, gettando le braccia al collo dell'amante, e scoppiando in un
riso convulso, ella gridò:

— Oh! amico mio, che sogno infame ho io fatto.

Pilato diede in un lungo sospiro, e tacque.

— Indovina! continuò Ida, ho sognato che tu mi lasciavi, dicendomi con
voce breve e mortale: Amo mia moglie.

— Ida, non hai sognato.

— Non ho sognato, dici? gli è dunque vero! è vero che m'abbandoni e che
ami quella donna, bella.... oh! bella, che ho veduta nel circo?

— È vero.

— E l'amavi tu, quando m'hai presa? L'amavi tu durante quelle notti
lunghe e felici nelle quali mi hai mille volte ripetuto, che io era la
luce della tua vita? L'amavi, quando mi prendevi sulle tue ginocchia, e
la testa piegata sulle mie spalle, m'abbruciavi del tuo soffio, mi
compenetravi di un fuoco che ci faceva tremare insieme, come due foglie
sotto i buffi della tempesta? L'amavi tu, quando, qui, in questo posto,
dove tu sei, dove sono io, m'inondavi dei tuoi sguardi come d'un bagno
di fiamme, e che la tua anima si esalava in una cascata di baci? Dimmi,
dimmi, era a lei che tu pensavi quando eri così vinto di tristezza,
quando eri così fosco, quando sospiravi di così profondo, da sì lontano,
che quel sospiro pareva uscisse dalla tomba della tua anima?

— Ida, mia moglie non sa ancora che io l'amo, che l'amo da sei anni!
Ella non ha ancora ricevuto un solo bacio da me.

Ida balzò dal suo letto, e prendendo la testa di Pilato sul suo seno la
coperse di baci.

— È vero quello che mi dici? è proprio vero, amor mio?

— È vero, Ida. L'è la mia terribile storia. Ma non è meno vero,
figliuola mia, che io devo lasciarti per sempre, e che amai quella donna
fatale dal primo giorno che la vidi.

— Tu non m'hai dunque mai amata!

— Ho fatto meglio che amarti, Ida, io ti ho considerata come il riposo
della mia anima. I giorni felici della mia vita si contano con quelli
che ho passato vicino a te.

— Ah! me ne ricordo ora: tu non mi hai mai detto d'amarmi. Sì, almeno
non mi hai mentito. Ah! se tu sapessi, Ponzio, come io t'amo? Ma trovami
dunque un paragone perchè io possa esprimerti come io t'amo, perocchè
io, povera figlia del popolo, sono ignorante. Sì, ti sfido a trovare un
paragone che non sia pallido e mentitore. Ma perchè non m'ami tu? Sono
brutta forse? Sono cattiva? Mi vesto male, e non so dirti mille tenere
cose? Me ne passano tante nell'anima, pure; te ne dico tante, quando non
sei più là! Poi, non so come avvenga, dacchè tu arrivi, non so far altro
che guardarti, abbracciarti, e poi.... ecco tutto! Ebbene inventa
qualche cosa che valga un bacio tutto pregno di ciò che l'esistenza ha
di più ardente. Dimmi i miei difetti, Ponzio, me ne correggerò. La mia
testa, il mio corpo sono tuoi, fanne ciò che vuoi, col ferro e col
fuoco.

— Ida, tu sei la creatura la più bella, la più soave, che io m'abbia
vista in mia vita. Ma io amo mia moglie, che mi odia.

— Ma, io t'amo, io, Ponzio. Non sono così folgorantemente bella come tua
moglie; ma io t'amo, non amo che te, non ho mai amato che te. Questa
sera sono una stolida, vedi! Ho ricevuto un colpo troppo forte dalle tue
parole. Ma vedrai domani sera come ti dirò delle cose gentili, come mi
farò bella. M'adornerò dei bei giojelli che mi hai regalati. Il vecchio
Thorix mi coglierà dei fiori che metterò nei miei capelli. Vedrai come
Noah mi pettinerà bene. La povera ragazza ruberebbe la bellezza d'una
regina per adornarmene, e farti piacere. Ceneremo insieme domani sera.
Ti canterò quella bella canzone del tuo paese che m'hai insegnata.....
Vedi, Ponzio, ti parlerò in Iberiano.

— Ida, fanciulla mia, non c'è più «domani sera» per noi! Ti dico addio
per sempre.

— Oh! impossibile, impossibile, ti dico. Non si viene da una povera
ragazza che ti ama, che non ti ha mai fatto del male, e non le si dice
con quell'accento feroce che hai questa sera nella voce: Addio! addio,
sia pure: ma nel cielo. Uccidimi, ucciditi, ed andiamo a ritrovarci in
seno al Dio d'Abraham. Chi è dunque che ti ha consigliato di venirmi a
torturare così, stanotte, con codesto orribile scherzo? È tua moglie
forse. Ma di che sarebbe ella gelosa poichè la è così bella, più bella
di me?

Pilato si alzò. Questa specie di divagazione della giovinetta, lo
straziava.

— Ida, diss'egli, da alcune ore una nuova vita è principiata per noi.
Mia moglie ha un amante che io non ho il diritto di uccidere, ma ella ti
ucciderebbe se sapesse che tu sei mia. Eppure, Dio sa quanti rimorsi
m'hanno costato queste goccie di consolazione di cui tu hai sparso la
mia vita lugubre e disonorata. Io mi getto in un avvenire di tenebre,
cui non oso guardar di fronte, e nemmeno intravedere. Non so cosa
avverrà di me. So che non posso ormai continuare a vederti senza
insultarti, senza insultare me stesso, senza insultare la donna che
porta il mio nome. Tu ti consolerai, col tempo. Sei pura, sei restata
pura anche sotto i tristi baci strappati al mio dolore. Sei giovane,
l'avvenire è un abbagliante promettitore: confida in lui. Se sei stata
punta da un'ortica cogliendo delle mammole, i fiori che si schiudevano
nelle tue braccia non saranno men belli, quando il bruciore sarà
calmato. Ah! potessi dire altrettanto di me! Gli Dei mi hanno messo nel
cuore un amore per farne il mio carnefice....

— Cessa, o Ponzio, disse Ida, vedo che tu sei infelice, e che sei
determinato. Oh! come vorrei vedere tua moglie, e dirle quanto tu sei
buono, e supplicarla a ginocchio di amarti.

— Ida, Ida, sclamò Pilato abbracciandola in un accesso di delirio,
perchè non posso io dirti: t'amo! tu sei la più nobile di tutte le
creature!

Poi sciogliendosi ad un tratto da quella stretta, si precipitò fuori
della stanza gridando:

— Addio, mia gioja perduta, addio consolazione celeste, sii felice per
sempre!

— Pilato! Pilato! gridò Ida come risvegliandosi di un balzo, ancora una
parola, un ultimo bacio. Pilato! ascoltami, Pilato.....

Pilato era già nella corte ed usciva dalla cinta. Ida corse fino
all'atrio, e cadde svenuta nelle braccia del vecchio Thorix, il suo
giardiniere gallo.

Dopo quella notte, Pilato non uscì più dalla sua torre, consumato da una
implacabile malinconia.

Ida si strusse in lagrime, dopo due giorni di delirio, ed otto di
febbre. Noah, Febea, la vecchia moglie del giardiniere, vegliarono
giorno e notte su lei. Infine ella si alzò come dal fondo d'una tomba
ove aveva lasciato la sua gioja, la sua speranza, la sua gioventù. Il
giorno stesso in cui potè dare degli ordini, rese la libertà a tutti gli
schiavi di cui Pilato l'aveva circondata, come una piccola regina.
Thorix che da trent'anni abitava quella casa, passando di padrone in
padrone, attaccato a quella gleba di cui aveva fatto un piccolo
paradiso, a quelle piante, a quei fiori, a tutta la creazione che aveva
imposta a quelle nude roccie, non volle la libertà, onde non lasciare
quel mondo che era nato sotto le sue mani. Febea non abbandonò suo
marito. Noah rifiutò di separarsi dalla sua padrona.

Intanto, Ida — continuo a chiamarla così — avendo perduto l'amante, non
volle conservarne le reliquie. In questa casa, tutto le ricordava una
felicità svanita, un amore che aveva naufragato al primo volo. Ma dove
andare? Che divenire? Allora il pensiero di sua madre, della casa di suo
padre, brillò come un arcobaleno dinanzi ai suoi occhi. Bisognava far
loro conoscere la sua posizione. Chi inviare? Ella non aveva nessuno cui
confidarsi. Moab era ancora molto ammalato, malgrado le cure ed i
rimedii secreti di Febea che lo vegliava. Thorix non comprendeva quel
mondo di cose, che una donna sa, od indovina, e che Ida voleva far
conoscere a sua madre, per commuoverla. Prese una risoluzione, ed un
mattino fece montare Noah sopra un cammello, Thorix sopra un asino onde
accompagnarla, e li inviò a Nazareth.

Gesù conosceva da lungo tempo la dolorosa storia di sua sorella, dalla
sua vendita al suo destino finale. Non ne aveva detto nulla nè a sua
madre, nè ai suoi fratelli, nè a sua sorella. Noah trovò la famiglia
partita per Cafarnaum. Ida sapeva già la morte del padre. Gesù era
assente.

È impossibile descrivere il lutto che si abbattè sul cuore della povera
madre del Rabbì, al racconto misto di lagrime che le fece Noah. Ne parlò
ai suoi figli. Un grido di riprovazione sorse da tutta la famiglia.

I fratelli, l'altra sorella del Rabbì, erano gente di intelligenza
limitata, rozzi, senza cuore, pieni d'avidità, d'ambizione, d'invidia, e
di gelosia. La madre avrebbe voluto attendere a rispondere fino
all'arrivo di Gesù, che era allora il capo della famiglia, essendo il
primogenito. Ma gli altri figliuoli della moglie del carpentiere si
pronunziarono in forma chiara ed energica «Mirjam è una straniera per
noi, se la mette il piede in questa casa, noi la lasciamo tutti, ti
lasciamo tutti, madre, o l'anneghiamo nel lago.» Questa è la risposta
che la povera Noah udì tremante, e la sola che potè recare alla sua
padrona.

Ida aveva ricevuto questa comunicazione da due giorni, allorchè io
picchiai alla sua porta.

In questa situazione, si comprende la proposizione che mi venne fatta da
Moab. Occorreva a quella povera giovane un angolo per ricoverarsi,
poichè era decisa ad abbandonare la casa di marmo ed il delizioso
rifugio donato da Pilato.

Ida, nonpertanto, sperava ancora nel ritorno del suo amante. Non poteva
rendersi conto di ciò che era accaduto, e come in alcuni minuti avesse
potuto rompersi un legame tessuto d'oro e di raggi per due anni. Per
determinarla era mestieri un colpo decisivo.....

Moab stava per portarlo.

Egli si recò da Pilato.

Lo trovò in un piccolo appartamento nella torre Mariamna, molto poco ed
assai semplicemente ammobigliato. Dappertutto c'erano soldati romani,
cosicchè l'avresti detto alloggiato in un accampamento in tempo di
guerra. Moab fu introdotto appena fece dire qual era il suo nome, e che
veniva da Berachah.

Una certa emozione si dipinse sul viso di Pilato. L'aspetto di
quell'uomo gli faceva ricordare tante cose, tanti giorni felici,
irrevocabilmente tramontati! Imperciocchè Pilato era davvero cupamente
triste, pallido più del solito, e come consunto da una febbre che non
gli dava tregua. Lo si sarebbe detto convalescente. Aveva ancora il
braccio avvolto in un pezzo di stoffa.

— È accaduta qualche disgrazia? gli chiese Pilato ansiosamente.

— La disgrazia sta di casa da noi, rispose Moab, non può dunque più
arrivare.

— Parla, allora. È Ida che t'invia?

— No. Ella non conosce il passo che io faccio. Agisco di mia propria
ispirazione.

Pilato prese un'aria più fredda, e soggiunse:

— Cosa vuoi dunque?

— Ecco, in due parole: m'occorre una tua lettera ad Ida, nella quale tu,
nella maniera più definitiva e più formale, le dichiari che la non debba
più pensare a te, perchè tu sei felice con tua moglie.

— Proprio! sclamò Pilato.

— Che la debba maritarsi, se trova uno sposo, e dimenticare il passato.

— È tutto?

— Non ancora. Mi farai poi uno scritto, in nome di Cajus Crispus, che
dica ch'egli l'ha ripudiata, e che Ida è libera di convolare a nuove
nozze.

— Quante nozze nelle tue parole! Stanno esse soltanto nel tuo discorso?

— No.

— Come no! Ida si mariterebbe dunque di già?

— Non è lei che si marita, sono io che la marito.

— Tu? ma, fulmini di Giove! parla dunque chiaro e presto.

— Io procedo per ordine. Non posso principiare dalla fine.

— Allora?

— Ebbene! Tu sai che Ida non vuole nulla da te, che ti ha rinviato i
tuoi schiavi, e che si apparecchia a lasciare la casa che le hai data.
Ella inviò Noah presso sua madre a Cafarnaum. N'ebbe in risposta: che
non la conoscono più, e che se si arrischia a por piede in quella casa,
i suoi fratelli la annegheranno nel lago di Gennezareth.

— Bestie brutali.'

— Cosa vuoi? ci sono dei bruti simili, i quali considerano che l'onore è
ancora qualche cosa in questo mondo. Non sei dell'istessa opinione tu,
marito di Claudia Paolilla?

Pilato fulminò di uno sguardo il suo insultatore, e non rispose. Moab
continuò:

— Tu sai inoltre che Ida è povera, che è giovine e bella, e che,
malgrado il tuo contatto, la è una delle più pure figlie d'Israello. Che
diverrà ella quando sia uscita da quella casa, ove tutto le ricorda una
gioja estinta, un amore oltraggiato, l'onore perduto? La sua vita è
nelle lagrime; se non lascia quella casa, ella morrà.

— Che posso io fare?

— Quello che ti ho chiesto.

— Con quale scopo?

— Tel dico subito. Ti ricordi di quel giovane Giuda bar Simone da
Kariot, che nel circo salvò la vita di tua moglie, che tu facesti
arrestare, e ch'ella fece porre in libertà?

— Me ne ricordo.

— Ebbene questo giovane vide Ida nel circo, e ne fu colpito nel cuore.
Egli la cercò, mi cercò, ma non potè allora trovarci. Per uno strano
caso, una notte di tempesta, quella stessa in cui egli uscì dal palazzo
d'Erode ed andava a Betlemme onde veder sua madre, egli si ricoverò a
Berachah.

— Lo incontrai per via.

— Quindici giorni dopo, egli venne a ringraziar Ida; la rivide, la
riconobbe, e la sua pazzia scoppiò. Lo misi alla porta, dichiarandogli
che la vedova di Cajus Crispus non riceverebbe ormai che quegli che
venisse a domandare la sua mano.

— Ed è ritornato?

— Mi ha domandato, quindici giorni dopo, di sposare Ida. Non l'ha
riveduta. Non le ha nulla domandato. Vuole ora inviare il sagan a
portare il suo messaggio.

— E Ida non ne sa nulla?

— Assolutamente nulla.

— Tu dunque non vieni in suo nome?

— Te l'ho già detto.

— Ebbene, io respingo la tua dimanda.

— E perchè la respingi tu?

— Dapprima, perchè così mi piace; poi, perchè sei tu che me la fai;
finalmente, perchè non credo alla tua storia, e che essa deve coprire
qualche vergognoso mercato.

— Pilato, non abbiamo l'abitudine, noi, di comperare le nipoti a degli
zii infami, e di farle rapire. Io ti ho detto il vero. Tu puoi
assicurartene come meglio vorrai.

— Non ho d'uopo di verificare nulla; i vostri nomi me lo dicono
abbastanza.

— Non so quale obbjezione hai contro i nostri nomi, e non vengo a
spiegarmi a questo proposito. Si tratta d'altro.

— Di che dunque?

— Di che? disse Moab principiando a torcersi le mani e a respirare più
violentemente, di che? Tu hai disonorato una povera fanciulla che non
aveva nulla fatto per provocare una simile sventura. Questa fanciulla ti
ha amato, è ancora onesta abbastanza per rifiutare il prezzo dell'amore
ch'ella ti ha dato, e non venduto. Ora questa povera creatura, che ti
ama ancora, ha qualcuno che s'interessa a lei, e che l'ama, l'ama al
punto di dimenticare che la è stata gualcita....

— Sarebbe dunque ben felice, quel giovane, ottenendo Ida?

— Il passo ch'egli fa, lo dice ad esuberanza.

— Non la sposerebbe senza questi scritti che mi domandi?

— L'uno serve a decidere Ida; l'altro a redimerla, e rendere la sua
disgrazia dignitosa.

— Ed egli si riputerebbe ben infelice, codesto Giuda, se dovesse
rinunziare a lei?

— Lo credo. Io m'intendo poco d'amore, ma e' mi pare colpito da demenza.

— Ebbene, io rifiuto reciso di cooperare a codeste nozze.

— Ma rifletti, Pilato, che qui non si tratta di Giuda, ma d'Ida,
continuò Moab con grande calma nella voce mentre che i colori si
alternavano sul suo sembiante. Dimentica Giuda, e le ragioni che puoi
avere contro di lui, se tuttavia ne hai alcuna. Ma potrai tu riposar
tranquillo le tue notti, quando avrai gettato questa povera figlia sul
lastrico, forse in mezzo a quelle disgraziate che portano la testa
coperta ed il corpo nudo, agli angoli delle strade? Se io avessi un
ricovero, io non sarei qui, non ti parlerei supplicante come fo. Ma il
mio covo, il mio, gli è quello da cui scaccio nel deserto la tigre ed il
leopardo. Posso io condurre quella povera creatura in quell'inferno? Non
ho un pezzo di pane, vivo di radici, di locuste, di qualche lappata di
mele che disputo alle vespe. Posso nutrire quell'essere delicato di
queste immondizie? Non so lavorare. Il mio mestiere è di pregare, di far
del bene, di fulminare il vizio, d'amare il mio paese, di detestare e
combattere lo straniero. Varrebbe meglio forse coltivare la terra. Nol
so. Ma è troppo tardi per tornare a ciò. E poi non è di questo che ora
si tratta. Pensaci! cosa diverrà Ida una volta partita da Berachah?
Pilato non ascoltava più Moab, forse non lo vedeva più. Passeggiava a
passi concitati, e parlava a se stesso.

— Ecco gli amori eterni! L'eternità d'una donna, della più innamorata,
non è dunque che quindici giorni? Come! il suo viso è ancora rosso
dell'alito mio! i miei baci aleggiano ancora sulle sue labbra, le sue
pupille riflettono ancora il mio viso, e già, già! ella apre le sue
braccia ad un altro uomo! Puh! Ebbene, no; io non coopererò a questa
infamia. La prostituzione di questa ragazza principierebbe nel giorno
delle sue nozze.

— Pilato, non dir ciò. Gli è male ciò che tu pensi, e ciò che vuoi fare.
Tu non hai mai amato Ida; donde ti viene codesta gelosia?

— Non è gelosia, è nausea. Io vendico la morale.

— Marito di Claudia, ti proibisco di pronunziare codesta parola,
parlando d'Ida.

— Che! tu....

— Sei stato un infame, non esser vile.

— Va fuori.... fuori da qui, miserabile furfante

— Sì, uscirò, rispose Moab, ma quando l'avrò vendicata codesta morale,
l'onore, il mio paese, ed Ida....

E così dicendo Moab cavò un pugnale e si scagliò su Pilato.

Pilato gettò un grido: cinque o sei soldati si precipitarono nella
stanza.



XXI.


Io attesi Moab tre giorni. Non sapevo ch'egli era stato arrestato dopo
aver ferito Pilato alla spalla. Non osavo andare a Berachah. Una
inquietudine febbrile non mi lasciava decidere sopra alcuna risoluzione.
Percorrevo le vie di Gerusalemme dalla mattina alla sera, e dalla sera
alla mattina. Justus, che mi aveva evitato fino allora, credendomi
istrutto delle sue infamie, ora, più tranquillo, mi seguiva dovunque.

Avevo già visitato Lazzaro quattro o cinque volte, dopo il mio ritorno,
per aver notizie del Rabbì di Nazareth. Volevo inviarlo da sua sorella
onde intercedere per me; giacchè, certamente, il Rabbì non poteva
sperare uno scioglimento più fortunato dalla fatale posizione in cui Ida
si trovava. Finalmente, in una corsa fatta un mattino a Bethania, Marta,
sorella di Lazzaro, m'annunziò che il Nazareno arriverebbe per le feste
del _Purim_. Mi sovvenni allora della lettera sì pressante di Claudia,
ed andai al palazzo di Erode per dargliene notizia.

Ricorderò qui che io non conosceva nulla allora di tutto ciò che ho
raccontato di Pilato e d'Ida, e che io credeva sempre che ella fosse
stata l'amante di Crispus.

Claudia m'aspettava con impazienza da diversi giorni. Cento pazzie
fermentavano nel suo capo.

— E il tuo messia? — mi domandò avanti che io neppure avessi passato la
soglia della sua porta, — ove l'hai tu lasciato, il tuo messia? Perchè
non entra?

— È per istrada, Claudia; arriva fra pochi giorni, al quindici di questo
mese.

— Gli piacerebbero le mascherate, per avventura?

— Credo che non n'esca giammai, risposi ridendo. Hai dunque molta fretta
d'interrogarlo?

— È desso almeno del calibro di Simone di Samaria?

— Non posso compararli; non lavorano nell'istesso genere. Ma il mio
Rabbì, Claudia, mi sembra un compare non comune. È serio; è severo;
difficile a maneggiare, come un giovine mulo; non ha passioni che diano
presa su di lui; è ostinato e disinteressato; e vaneggia come dieci
profeti.

— È dunque la perfezione che sei ito a dissotterrare in quella
provincia! osservò Claudia. Mi dai la febbre dal desiderio di vederlo.

— Non potrei surrogarlo io, per un momento?

— Sei curioso? Ebbene non ti dirò nulla. Quando una donna ha una piaga,
è già molto se la mostra al suo medico.

— Preferisco vedere le tue belle spalle, o Claudia, ed i tuoi occhi
tumultuosi, che le tue piaghe. Ne ho abbastanza delle mie.

— Dimmi anzitutto a che punto sono i nostri affari più serii.

— Non potrebbero progredire più prosperamente. La Galilea e la Samaria
non attendono che una parola per insorgere. In quei paesi, gli Erodiani
ed i Zeloti che seguono i figli di Giuda di Gamala, sono animati d'uno
spirito irresistibile. Antipas arriverà per la festa del paschah con un
seguito numeroso, il quale prenderà le armi al momento della sommossa.
Un migliajo di giovani del suo Stato lo precedono in occasione della
festa, ed i sotterranei del palazzo d'Antipas si riempiono già di ciò
che occorre per armarli. Il popolo di Gerusalemme è molto eccitato. I
Farisei ed i Sadducei che si odiano fra loro, convengono in questo: che
val meglio, cacciati i Romani, che uno dei due partiti resti padrone,
dopo la distruzione dell'altro, anzi che lasciar dominare lo straniero,
il quale li schiaccia tutti, anche quando favorisce il Sadduceo. Gli
Esseniani, che professano principii contrarii a quelli dei due altri
partiti, s'accordano in questo con loro: che occorre purificare il suolo
d'Israello dalla presenza degli infedeli. Noi, Sadducei, vogliamo un
governo oligarchico che soggioghi il partito del Tempio, una repubblica
con gli efori come in Grecia. I Farisei vogliono una monarchia popolare,
ma sacerdotale: il prete ed il re, confusi nell'istessa persona. Gli
Esseniani vogliono una monarchia, o piuttosto una repubblica teocratica,
ma tutta del popolo, tutta per il popolo, e fatta dal popolo. I Zeloti
sono comunisti come gli Esseniani. Ma tutto ciò detesta Roma e vuole
frangere la potenza. Infine, il Rabbì che io conduco vuole
l'assorbimento del popolo e della nazione in un sol uomo, che emani
direttamente da Dio, che abbia potere illimitato sulle anime e sugli
individui, che confonda il trono e l'altare, che confonda le nazioni
nell'istessa abdicazione in favore di questo eletto di Dio, luogotenente
di Dio, onnipossente come Dio, arbitrario come Dio, figlio di Dio, e
dell'istessa sua essenza.

— Che abbominevole garbuglio!

— Questo garbuglio però, forma un massa contro Roma. Hanno delle armi,
del cuore, della disperazione e della costanza, sono irriflessivi ed
atroci.

— Il tuo Rabbì entra dunque egli pure nella politica?

— Per la porta di dietro, ma vi s'impianta come un pilastro.

— Legge egli nel pensiero?

— Io non l'ho veduto leggere che l'ebraico nel Torah, e molto bene.

— Indovina il futuro?

— Non è ciò che è difficile: il difficile è decifrare il passato.

— Compone dei filtri, dei veleni, degli incanti?

— Cosa non si farebbe per te, o Claudia? Chiedimi di servirti una stella
stemperata in una coppa d'acqua, ed io te l'appresto.

— E se ti chiedessi di uccidere un uomo?

— E che bisogno hai tu di me, mentre puoi ucciderlo con un solo tuo
sguardo? I tuoi occhi sono come quel piccolo pesce del mar indiano, che
d'un colpo di pinna sprofonda un naviglio.

Io principiava a dimenticare, in questi scherzi, la mia cupa
preoccupazione, quando il nostro conversare fu interrotto dall'arrivo di
Pilato. Eccetto il suo pallore, nulla tradiva la ferita che aveva
ricevuto da Moab. Avanzò lentamente nella stanza, ed i suoi occhi
s'animarono d'una subita luce, vedendomi e riconoscendomi.

Egli credeva sempre che io fossi l'amante di sua moglie. Claudia non
fece a lui maggior attenzione che se fosse stato uno dei suoi schiavi.

Pilato le porse una lettera dicendole:

— È di Cesare.

Claudia la prese, la guardò, la riconobbe e la gettò da parte,
domandandomi:

— L'è dunque burlesca la vostra festa del _Purim_?

— Valgono meglio le _bacchanalia_, risposi, alzandomi e salutando Pilato
come per partire.

— A proposito, Claudia, disse Pilato, bisogna che tu faccia un regalo di
nozze alla fidanzata di codesto giovine. Egli si ammoglia.

— È vero? mi domandò Claudia, con aria allegra.

— Pel momento, io risposi sull'istesso tuono, non è vero che per metà.
Sposo una donna che non lo sa ancora.

Claudia si alzò, entrò nella stanza vicina, e ritornò immediatamente con
un pugno di gioielli, dicendomi:

— Prendi, Giuda: per la tua fidanzata.

Pilato sembrava stupidito. Non comprendeva nulla a quell'indifferenza di
Claudia ad una notizia ch'egli le dava per atterrarla. Credette quindi
che noi fingessimo la calma.

— Ti ringrazio, risposi. Accetterò il tuo regalo quando il matrimonio
sarà deciso.

— Mi condurrai tua moglie, Giuda, riprese Claudia, se la non teme
contaminarsi entrando in una casa di pagani. Non dubito che la tua
compagna non sia una nobile, bella e pura fanciulla, che io sarò felice
di vedere.

— Sua moglie è tutto ciò, Claudia, rispose Pilato; io la conosco.

— Tu la conosci! sclamò Claudia rizzandosi sulla persona e fissando suo
marito negli occhi.

— Si, ho avuto diverse occasioni di portarle i messaggi di suo marito,
il mio amico Cajus Crispus.

— Che mi vai bisticciando?

— Sì, codesto giovane sposa la donna cui Cajus Crispus ha or ora
divorziato.

— Capisco, disse Claudia tristemente. Poi, dopo un istante di silenzio,
soggiunse: Avrei preferito ch'egli avesse sposato una giovinetta
conosciuta da lui, cui lo sguardo della madre non avesse abbandonata
giammai, e che fosse sempre restata sotto la protezione di suo padre.

— Hai ragione, Claudia, risposi sospirando; ma di tutti i tiranni, il
cuore è il più inesorabile.

— Ahimè! è vero! fece Pilato.

— L'è dunque assai bella, codesta giovine donna? chiese Claudia.

— Non come te, Minerva romana.

— È stupendamente bella, rispose Pilato. E fui anch'io sul punto di
diventarne innamorato, aggiunse sorridendo.

Claudia ed io lo guardammo con uno sguardo differente, ma egualmente
feroce.

— Mi permetterai tu, il mio giovine, disse Pilato con tuono
sdegnosamente sarcastico, di porgere un regalo di nozze alla dama, che
ebbi, non ha guari, ancora il piacere di vedere?

— Grazie, risposi freddamente: io non conosco nulla di più costoso d'un
regalo; ed io sono troppo povero per pagarlo, troppo orgoglioso per
riceverlo.

— Orgoglioso! disse Pilato sorridendo: difatti. Credo che Ida sia molto
ricca. Gli è vero?

— È falso. La donna che io prendo ha per unico adornamento i suoi
capelli, per tutta ricchezza la sua bellezza. Ella non ne porta
alcun'altra nella mia casa.

Pilato sorrise, e non rispose.

— Cajus Crispus sarebbe dunque così taccagno e così ignobile, osservò
Claudia, di riprendere alla moglie ch'egli rinvia, i doni che le fece?

— A proposito, disse Pilato, tre o quattro giorni fa, Ida m'inviò un
uomo per pregarmi di ottenere da Crispus l'atto del divorzio. Ho
ricevuto questa mattina codesto atto e mi disponevo a portarglielo. Ma
poichè il suo fidanzato è qui...

Feci un movimento di gioia, e arrossii.

— Vuoi tu incaricarti di questa piccola missione, giovinotto? fece
Pilato sorridendo sardonicamente.

— Volentieri.

— Dirai a Ida che il ritardo non proviene da colpa mia. Deve proprio
contar le ore, quella bella figliuola, dopo una separazione di due mesi
circa da Crispus, di passare in altre braccia più giovani, e più
carezzanti.

C'era in tutte le parole di Pilato un motteggio e un'amarezza, che mi
davano i brividi di collera e di sospetto. Gli risposi:

— Noi altri, rozzi ebrei, non siamo esperti nel ripetere di sì squisiti
complimenti iberici; lascio quindi cader qui le tue parole, e vi passo
sopra.

— Come vuoi. Questo complimento, portato al suo indirizzo e balbettato
da te o da uno schiavo, ha per me sempre l'istesso valore. Io parlo in
nome di Cajus Crispus.

— Cajus Crispus è, credo, in Antiochia.

— In Samaria.

— Ho letto in un libro egiziano, che le montagne talvolta s'incontrano.
Ci credi tu, Pilato?

— Più facilmente che gli uomini, quando l'uno è posto così alto e
l'altro così basso.

— Scusa! c'è un tratto di unione in acciajo che avvicina le distanze.

— E' può sopprimerle, piccino mio, non mai ravvicinarle. Del resto Cajus
Crispus è maestro in fatto di conoscenze di montagne che camminano, e
può darti migliori spiegazioni delle mie.

— Non capisco nulla a tutte codeste chiacchiere, disse Claudia. Io so
soltanto che Crispus è stato un uomo indegno ripudiando questa ragazza
ebrea, che è, dite voi, oscura, povera e modesta, e conservando la sua
moglie di Roma, che è ricca, infame, nella bocca di tutti i giovani
effeminati e di tutti i vecchi impuri della via Sacra.

— Lasso! fece Pilato, gli uomini non hanno sempre il coraggio di
uccidersi, quando contraggono la lebbra di certi amori, che divengono
come la tonaca di Nesso. Ho imparato a perdonare.

— Gli è che hanno dessi nell'anima una lebbra più sordida ancora di
quella del cuore, la quale li rende vili, fe' di rimando Claudia,
fissando sopra suo marito un tale sguardo di sprezzo, che avrebbe
sepolto a cento braccia sotto terra la statua di Giove Capitolino.

Pilato s'accorse che la conversazione prendeva una piega doppiamente
pericolosa; ma volle lanciarmi un altra freccia prima di partire. Io non
compresi la malignità di questa scena che più tardi, quando seppi che
Ida era stata sua ganza. Pilato mi odiava come amante di sua moglie,
come colui che gli rubava le ultime memorie di quella ganza, e gongolava
nello stesso tempo che la fatalità riparatrice gettasse fra le mie
braccia, come moglie, quella che egli aveva posseduto come favorita.

— Giovane, diss'egli, tu hai avuto fretta d'entrare in quel paradiso ove
i libri sacri del tuo paese nicchiano il serpente. Se ve lo trovi
ancora, se ti morde, ricordati che Ida, la quale conosce così bene il
valore del tempo, sa pure che ella conserva, anche dopo il divorzio,
quel diritto di cittadina romana che le aveva conferito suo marito, e
che v'è a Gerusalemme un procuratore di Roma per renderle giustizia.

Non attese la mia risposta e partì. Io era impaziente d'inviare ad Ida i
documenti ed il messaggio che dovevano decidere della mia sorte. Il
sagan si condusse lo stesso giorno a Berachah.

Una grande costernazione regnava nella casa, in causa della scomparsa di
Moab. Si passava in rivista ogni sorta di congetture, tutte lontane dal
vero. Ciò che Moab aveva fatto, era per induzione e per determinazione
personale. Ida non ne sapeva nulla.

Il sagan poco poteva apprenderle.

L'arrivo di questo personaggio, il più considerevole dopo Pilato ed il
governatore della Siria, accrebbe lo scompiglio. Noah lo introdusse
subito nel tablinum, e lo annunziò alla sua padrona.

Ida uscì immediatamente per ricevere Hannah. Come Pilato, come Moab,
come io stesso, egli fu colpito al cuore dalla bellezza fatale di quella
fanciulla. Appena trovò da biascicare qualche parola, porgendole il
pacco di lettere di Pilato. Ella tremò in tutta la persona, a questo
nome, e l'aprì precipitosamente.

L'involto conteneva un atto di divorzio di Cajus Crispus, ch'egli aveva
fatto redigere, ed una lettera ch'egli stesso scriveva ad Ida. La
giovinetta vide prima l'atto del divorzio, cui lesse, mostrandosene
sorpresa, e non comprendendone nulla. Poi ella lesse la lettera. Io
seppi più tardi tutto ciò. Ecco ciò che Pilato le scriveva:

«Ponzio Pilato a Ida, salute!

«Ida, il ritardo di questa lettera è involontario.

«Ne sono causa una ferita che ho ricevuto alla spalla dal tuo
messaggero, e la lentezza del corriere che ho inviato al mio amico Cajus
Crispus, ritornato soltanto questa mane.

«Ecco la risposta di Crispus.

«Così, tu puoi ora maritarti. Ti avevo detto addio per sempre. Te lo
ripeto ancora una volta. Amo mia moglie. Ti lasciai con rammarico il
giorno che mi separai da te. Mi parve che il tuo dolore avesse l'aria
della disperazione. Mi parve che tu mi amassi ancora. Questo rammarico è
ora cessato.

«Il tuo dolore, non ha avuto indomani.

«Il tuo amore, che si era svenuto nelle lagrime, si è risvegliato poche
ore dopo nelle braccia di un marito. Hai fatto bene. Grazie. Tu mi
guarisci dai rimorsi. Tu alleggerisci le mie memorie del passato dalle
preoccupazioni dell'avvenire. Il disinganno al postutto è un grande
beneficio: brucia le vecchie piaghe per guarirle. Io non aveva alcun
dritto ad una affezione di cui tu sola avevi formato il capitale. Non ho
dunque a rivolgerti alcun rimprovero, e, ne avessi anche il diritto, non
lo farei. Sii felice, se lo puoi, se la felicità può esistere in codeste
affezioni apopletiche che scattan di botto e muoiono all'istante. Però,
se un giorno fossi visitata dalla disgrazia, ricordati di me, che non
dimenticherò mai di qual balsamo tu hai profumato le ore del mio
spaventevole dolore. Addio.»

Ida lesse questa lettera cogli occhi acciecati dalle lagrime, il
singhiozzo nella gola, il rantolo nel petto. Alla parola «addio» cadde
al suolo svenuta. Il sagan che non sapeva nulla, nè dell'istoria di
Pilato, nè del contenuto della lettera, corse a chiamare Noah, che prese
fra le braccia la sua padrona, e la trasportò priva di sensi nella sua
stanza da letto.

Hannah attese più d'un'ora, solo, nel tablinum, prima d'aver notizie
dell'ammalata. Mille pensieri l'assalivano. Fu sul punto di partire per
ritornare un altro giorno; ma la curiosità, l'interesse ch'egli prendeva
per quella bella creatura, lo trattennero. Attese. Alla fine Noah venne
a dirgli che la sua padrona era in istato di riceverlo.

Entrò infatti nel piccolo gabinetto vicino al _tablinum_, ove trovò Ida,
stesa sopra un letto di cuscini, più calma, ma spaventevolmente pallida.

— Perdonami, o principe, diss'ella. Mi sono sentita morire, malgrado gli
sforzi che ho fatto per non mancarti di rispetto.

— Sei tu in grado d'ascoltarmi? Ho a farti un grave messaggio. Se sei
ancora debole, ritornerò domani.

— Oh! no; parla; io posso udir tutto, adesso. Ho subito la grande prova.

— Allora sarò corto e preciso.

— Occorre rinviare Noah? Ella conosce tutta la mia vita, tutta la mia
anima.

— Che resti dunque, disse il sagan. Ecco di che si tratta. Tu hai veduto
qui due volte un giovine mio amico, Giuda di Kariot.

— Credo di si.

— Egli ti ama.

— Disgraziato!

— Vengo in suo nome a chiederti in matrimonio.

Ida rimase come attonita.

— In matrimonio?

— Vengo a supplicarti a nome suo di non rifiutarlo.

— Questo scherno è crudele, mormorò Ida, sciogliendosi in lagrime.

— Non è uno scherno, Ida; io non son uomo da prestarmi a simili cose.

— Ma egli non mi conosce punto.

— Egli ti ama. E ti conosce abbastanza per condurti come sua moglie
sotto il tetto ove suo padre è morto, ove sua madre dorme, ed ove sua
sorella vive.

Ida dette di nuovo in singhiozzi.

— Dio mio! perchè sono io indegna della felicità, che è serbata alle
altre fanciulle della mia età!

— Consolati, Ida; tu non sei la prima donna ripudiata, la quale passi
dal letto desolato d'un marito che la respinge a quello di un marito che
l'attende come una benedizione.

— Io non sono una donna ripudiata, io.

— Che importa se il mondo lo crede, dacchè l'uomo che ti vuole sua
dimentica cosa sei!

— Ma io amo, amo ancora, non posso obbliare, io. Io ho l'anima, il
cuore, la bocca, gli occhi, tutta la mia esistenza, la notte come il
giorno, desta o sognando, pregni di quell'uomo che ha avuto il mio primo
bacio, che ha soffiato sulla bianca nuvola della mia infanzia.

— Giuda ti amerà per due.

— Oh! no; ciò è impossibile. Non aggiungiamo il rimorso al dolore. Non
aggiungiamo ai ricordi d'un cuore gualcito, la ripugnanza alle carezze
che sono sante dinanzi a Dio, e che diverrebbero infamia per me. Io non
posso accettare l'offerta di cui mi parli. Mi sprezzereste se lo
facessi.

— Se per mio conto io dovessi sprezzarti non sarei venuto a portarti la
parola supplichevole del mio amico. Puoi accettare senza timore.

— Ma io non l'amo. Non si può darsi senza amare.

— Credi che sia più difficile il darsi ad un uomo che non si ama, che il
prendere una donna che ne ama un altro?

Ida restò silenziosa per un istante.

— È impossibile, obiettò ella di nuovo. Non posso farmi a questa idea.
Lasciatemi respirare. Se sapeste sopra quali rovine voi camminate. Un
momento fa ho creduto morire. Mi si sospetta; mi si dice: Maritati! si
dubita del passato, mi si sprezza forse... Maritati! Ma egli crederebbe
tutto questo; riterrebbe certo che io non l'ho mai amato, che non l'amo
più: sarei infame ai suoi occhi! No, no. Che m'importa che egli ami sua
moglie, e che mi percuota le gote con codesto amore? Cosa sono io per
essere orgogliosa? Capisci, principe? Direbbe: ella si marita, eccola
lì. Ieri diceva ancora: ritorna! ieri ella sperava ancora, si
abbiosciava nella desolazione: oggi sorride al primo giovinotto che le
sorride, e lo segue. Ella mentiva. Che importa che codest'uomo si chiami
marito o amante? Ella lo segue. Il cuore non conosce nozze. Ebbene,
principe, vuoi tu che io sia disonorata agli occhi d'uno d'essi e
peccatrice dinanzi gli occhi dell'altro: indegna per entrambi? Ma non
senti tu dunque che quest'aria palpita ancora dei baci di un altro?

— Calmati. Tu entrerai in un altro mondo.

— Non ce n'è che uno di possibile per me: quello della tomba. Ovunque,
fuori di là, v'è il rimprovero e l'obbrobrio.

— Ascolta, figlia mia, disse il sagan prendendole le mani agghiacciate:
prima di vederti e di ascoltarti, nel mio cuore io condannava il mio
amico. Io mi diceva: Perchè far violenza ad una donna che ne ama un
altro? perchè urtare contro una passione che brucia di fiamme così cupe?
Ora io comprendo il mio amico. Non lo biasimo più, lo scuso. Lo
compiangerei, al contrario, se il mio messaggio non riescisse. Io peso
tutte le tue ragioni; e ti stimo. Ma rifletti d'altra parte, figliuola
mia, al tuo avvenire. Dico di più; rifletti all'attuale tua posizione.
Chi sei tu? Cosa sei tu? Ogni cosa che ti circonda è una creazione della
tua vergogna. Ogni soffio d'aria che respiri è pregno di disprezzo. Tu
trovi un uomo il cui possente amore ti attrae in una più pura atmosfera.
Non vuoi seguirlo perchè non lo ami, perchè ne ami un altro. Ti ama egli
dunque ancora, colui che ti respinge? Comprende egli dunque il tuo
sacrifizio? Che cosa ti consiglia egli?

— Mi disprezza, mi deride, mi crede già infedele alla sua memoria. Mi
spinge a maritarmi. Mi percuote sempre e poi sempre colla sua
confessione, ch'egli ama sua moglie.

— Vedi dunque; tu non sei più una donna per codestui. Tu sei una cui
egli ha beneficata, e ti accusa già d'ingratitudine. L'altro invece...

— Ma gli è precisamente perchè io stimo il tuo amico e ne ho
compassione, che io indietreggio, o principe. Fuggirò appena sia Moab di
ritorno. Non so cosa diverrò, ma non resterò più qui, ove io soffoco in
mezzo a tanti testimoni della mia defunta felicità.

— Cessa allora di resistere. L'amore che dimentica il fallo, saprà
addolcire il rimorso, consolare il dolore, e perdonare l'indifferenza.

Ida lottò ancora, ripetendo quanto aveva detto, trovando nuove ragioni.
Hannah trionfò di tutto. Finalmente ella sclamò:

— Tu lo vuoi, o principe? Egli lo vuole? Sia. Mi abbandono a voi tale
quale sono, prendetemi come raccogliereste un cadavere che chiede una
tomba ed un ricovero contro gli avoltoj e le jene. Non mi appartengo
più; dunque non posso più nulla dare in cambio di questo atto generoso.
Non mi resta che la riconoscenza.

— Ciò basta, rispose il sagan, tagliando corto al colloquio ed alleviato
dal dubbio se avrebbe o no vinta la resistenza di quella nobile
creatura.

All'indomani io andai a trovarla. Pianse vedendomi. Evitai la minima
allusione al suo passato: stornai sempre la conversazione da questo
soggetto, se ella v'entrava. Ella mi ripetè ancora che amava un altro, e
che non mi amava. Le risposi che io saprei farmi amare un giorno. La
lasciai non più tranquilla, ma più rassegnata.



XXII.


Era stato convenuto fra Hannah ed Ida, dopo la mia visita, che avremmo
prestato il giuramento del matrimonio, e che io le avrei dato il mohar
(regalo di nozze) la sera della festa del Purim. Era stato pure
convenuto che l'_anno della vergine_, che doveva, secondo il rito,
scorrere fra questo giuramento e quella sera fortunata in cui io
squarcierei il suo velo, la bacerei sulla bocca e la condurrei nella mia
casa, che quest'anno, dico, sarebbe accorciato — la qualità di donna
divorziata il permetteva, — e che l'ultima cerimonia avrebbe luogo la
sera della festa del paschah. Ahimè! come l'uomo, che è fatto, dicono,
ad imagine di Dio, è giuoco degli avvenimenti e delle vicende del caso!

La festa di Purim è appo di noi un'orgia celebrata alla più grande
gloria di Dio.

Fu istituita a Babilonia onde perpetuare la commemorazione della morte
d'Aman, e l'esaltazione di Ester. Ottantacinque anziani si opposero
all'adozione di questa festa persiana, quando Mordecai la propose la
prima volta; ma fu adottata malgrado ciò. Il popolo ebreo la celebrava
dovunque. A Gerusalemme la diveniva un delirio, dopo esser stata il
sospiro di tutto l'anno. Io aveva ora l'anima traboccante di gioia,
seguii quindi l'esempio degli altri.

All'alba, Bar Abbas batteva alla mia porta. Egli ritornava appositamente
per la festa. Più tardi arrivò Justus, e andammo insieme alla sinagoga.

La sinagoga era zeppa. Una folla immensa vi aveva fatto irruzione,
uomini, donne, fanciulli, vecchi, ciechi e zoppi, senza eccezione,
perfino i sordi. Queglino che non trovavano più posto dentro, passavano
la testa dalle finestre, o s'accalcavano alle porte. Un Giudeo si
sarebbe creduto disonorato, se non avesse in questo giorno lanciato la
sua maledizioncella postuma ad Aman, e data la sua avvinazzata
benedizione a Mordecai.

Il paraschà del giorno conteneva la storia che dette origine alla festa.
Il sheliach andò al suo posto, e principiò il seguente racconto:

«Allorchè Artaserse Longimano succedette a suo padre Serse, diede una
gran festa al suo popolo, sotto delle tende di porpora sostenute da
colonne d'argento ed oro. A mezzo il banchetto, riscaldato un tantinello
dal vino, il re giurò che non c'era in tutto il regno una donna più
bella della regina Vastiti. Un principe tributario del suo regno
dimostrò una tal quale incredulità. Il re andò in collera, s'ostinò
nella sua idea, e volendo provare al popolo che aveva detto il vero,
imaginò di far comparire la regina ignuda dinanzi ai suoi convitati.
Vastiti fu chiamata. Avendone appreso il perchè, rifiutò di obbedire.
Artaserse la fece chiamare di nuovo, poi di nuovo ancora: in tutto sette
volte. La regina rifiutò sempre. Il re si credette offeso da questa
disobbedienza. Uno dei grandi della corte, Memunean, dichiarò al re che
occorreva un esempio, senza che, incoraggiate dall'impunità della
regina, nessuna donna persiana avrebbe più obbedito al suo marito. Il re
comprese questa ragione di Stato, e Vastiti fu condannata ad essere
espulsa e surrogata da un'altra regina. Ma Artaserse l'amava. E' divenne
triste. I suoi amici lo consigliarono di neutralizzare questo amore con
un altro amore e di elevare al suo letto la più bella vergine della
terra abitata. Il re si rassegnò al rimedio, trovandolo dolce».

— Il povero uomo! esclamò Bar Abbas.

«Una caccia di vergini fu messa in campo, continuò il sheliach. I
differenti ufficiali che percorsero l'Asia a quest'oggetto ne riunirono
quattrocento.

— Soltanto? chiese Bar Abbas.

— Ahimè! sì, continuò il sheliach.

«Le vergini erano rare e le belle ancora più rare. Fra queste si trovò
Esther, la nipote unica d'un Ebreo di Babilonia. Era la più bella di
tutte. Quando gli eunuchi ebbero preparato per sei mesi queste vergini
con delle abluzioni, delle unzioni, e dei profumi, il re ne prese una
tutti i giorni nel suo letto, onde scegliere alla prova, e non sul
rapporto d'un eunuco. Allorchè giunse la volta di Esther, il re se ne
innamorò e la sposò. Ella non aveva detto a quale nazione appartenesse.
Allora Mordecai lasciò Babilonia e venne a Shushan. Una cospirazione
d'eunuchi essendo stata ordita contro il re, Mordecai la scoprì ad
Esther, e questa salvò il re. Mordecai fu autorizzato a dimorare alla
corte. Ora il re aveva un amico, un Amalecita chiamato Aman.

«Maledetto Aman! gridarono tutti da tutti gli angoli.

«Il re aveva ordinato che lo si adorasse come un altro lui stesso. I
Persiani, i Medi obbedirono. Mordecai, no.

«Bravo, Mordecai! gridò ancora il popolo, noi andremo a bere alla tua
salute.

— Bere e mangiare, se vi piace, interloquì Bar Abbas, e ancora qualche
cos'altro. Non si fa mai abbastanza per un grand'uomo.

«La nostra legge ingiungeva a Mordecai di non adorare che Dio, continuò
il sheliach. Aman si credette offeso: tanto più che l'audace refrattario
era un Ebreo, un prigioniero, quasi uno schiavo. Egli se ne lagnò al re.
Dipinse la nostra nazione come perversa, insocievole, nemica di tutti
gli altri popoli e di tutti gli altri culti; e lo persuase di
sterminarla per la maggior prosperità dei suoi sudditi. — Ma essi pagano
un tributo, osservò il re. — Ebbene, rispose Aman, io pagherò
quarantamila talenti a vostra divinità. — Il re rifiutò il denaro, e
sacrificò gli uomini. Aman decretò, in nome di Artaserse, sovrano di
cento ventisette provincie dall'India all'Etiopia, che al
quattordicesimo giorno del dodicesimo mese di quell'anno tutti gli Ebrei
del suo Stato, uomini, donne, e fanciulli, fossero distrutti.

«Oh l'infame manigoldo di re! urlò la folla.

— Ohe, disse Bar Abbas, rispetto ai re, dunque! Senza di essi, chi
potrebbe strozzarvi un poco, eh?

«Il popolo ebreo, tutto intero, stracciò i suoi abiti, si vestì di
sacco, si coprì di cenere, proseguì il sheliach. Mordecai parti dalla
corte, e si conformò al dolore dei suoi compatriotti. Esther ne venne a
cognizione. Ella ordinò agli Ebrei tre giorni di preghiera. Gli Ebrei, a
cui ella diede l'esempio, obbedirono e le inviarono una supplica pel re.
Ora Artaserse aveva fatto una legge, che chiunque gli si presentasse
senza essere chiamato, sarebbe ucciso. Esther sfidò il pericolo. Si
affusolò splendidamente di porpora e di pietre preziose: una schiava
sollevava lo strascico della lunga sua veste con la cima delle sue dita,
mentre un'altra la sosteneva sulle sue braccia. Abbagliante di vesti e
di bellezza, rossa d'emozione, Esther si recò così dinanzi al re senza
esserne dimandata. Artaserse, seduto sul suo trono, la corona sul capo,
lo scettro d'oro nelle mani, tutto ricoperto di giojelli, di tela d'oro
e di porpora, la squadrò corrucciato. Esther tremò, e cadde svenuta ai
piedi del trono. Il re, vedendola così bella, pieno d'amore scese dal
trono, la prese fra le braccia, e la richiamò alla vita coi suoi baci.
Le chiese poi cosa desiderasse, promettendole d'esaudirla. Esther lo
invitò nei suoi appartamenti, in una al suo amico Aman, ad una cena
preparata colle sue stesse mani. Il re ed Aman accettarono il banchetto,
si divertirono molto alla festa, e bevettero enormemente. Il re le
domandò quale grazia ella chiedesse. — Te lo dirò domani, giacchè io
v'invito di nuovo a cena, rispose Esther.

— Oh! il caro briciolo di tosa! sclamò Bar Abbas. Perchè mai non si
trovano ogni giorno di gioje simili nelle strade, come si trovano dei
cani e dei leviti!

«Aman ritornò allegro alla sua dimora. Sua moglie gli consigliò di far
rizzare nella sua corte una forca alta cinquanta cubiti per impiccarvi
Mordecai.

— Le donne danno sempre dei buoni consigli, osservò Bar Abbas.

«Il re, esaltato dalla bellezza della regina, non dormì in tutta la
notte, ma si fece leggere le cronache del suo regno. Si lesse fino
all'alba. Arrivato alla storia della cospirazione scoperta da Mordecai,
il gran sire domandò: Che ricompensa gli fu data?

— Che! che! l'è una fiaba codesta, osservò Bar Abbas: i re non si
ricordano mai i servigi ricevuti, e meno ancora le ricompense che
restano a darsi.

«Non gli si è dato nulla, rispose lo scriba del re. — Sta bene, disse
Artaserse. Ecco il giorno. Se v'è qualche amico arrivato nella mia
anticamera, fallo entrare. — Aman era di già lì. S'era alzato di
buon'ora per ottenere dal re il permesso d'impiccare Mordecai.

— Impiccare? corbezzoli! ciò non si ritarda giammai! sclamò Bar Abbas.

«Arrivi in punto, rispose il re. Consigliami come potrei onorare in
maniera degna di me una persona che io amo assai. — Autorizzandolo, Dio
mio, a passeggiare a cavallo cogli stessi emblemi della tua Divinità,
una catena d'oro al collo, e ordinando a tutto il tuo popolo di onorarlo
come tu lo onori.

— Va bene, rispose il re; cerca allora Mordecai, e fa tu stesso quanto
mi hai consigliato.

«Benissimo, bravo, viva il re! gridò il popolo.

«Aman che aspettava tale onore per sè stesso, parve confuso, abbattuto.
Pure obbedì. Mordecai ritornò alla corte. Aman andò a lagnarsi con sua
moglie. Fu chiamato alla cena per ordine della regina. Al banchetto, il
re domandò nuovamente ad Esther quale grazia desiderasse. Esther
principiò allora ad esporre, piangendo, le miserie del suo popolo, e
supplicò che l'ordine della sua distruzione fosse rivocato. — Chi ha
cagionato questo dolore alla mia regina? chiese il re. — Aman, rispose
Esther. — Artaserse lasciò il banchetto, ed uscì nei giardini molto
turbato. Aman cominciò allora ad intercedere la sua grazia presso la
regina, e cadde sul suo letto. Il re entrò in quel momento, e vedendolo
in quella postura, gridò: — Miserabile creatura, la più vile della
terra, osi anche fare violenza alla mia regina? — Un eunuco raccontò
allora al re la storia della forca destinata da Aman a Mordecai. Il re
ordinò che Aman fosse appeso al patibolo che aveva egli stesso
innalzato[5].

  [5] GIUSEPPE, _Antich._ XI, cap. VI.

«Viva il re, viva il re, dannazione ad Aman! vociò il popolo.

— Cara quell'Esther, giojello vero! sclamava Bar Abbas più forte degli
altri; ti nomino mia regina a vita.... dopo l'anfora del vino!

«Ed ecco come Dio liberò il suo popolo, come Mordecai scrisse a tutti
gli Ebrei di celebrare con una festa perpetua questo giorno della
liberazione. Andate dunque, figliuoli miei, e glorificate il Signore.»

— Ah! perchè questo popolo non è stato liberato tutti i giorni
dell'anno? osservò Bar Abbas.

Il popolo si precipitò fuori della sinagoga.

Il baccanale nella città principiò.

Gerusalemme era una mischianza d'individui di tutte le nazioni, in cui
gli Ebrei erano forse in minoranza. Il popolo di Dio era stato in ogni
tempo il focolare di vizii vergognosi e bestiali. Gli stranieri, che
l'avevano conquistato successivamente, gliene avevano inoculati
d'infami, e di empii. L'innesto s'era fatto con rigoglio. Alle
dissolutezze che avevamo apprese dall'Egitto, dalla Siria, dalla Persia
e dalla Fenicia, Alessandro aggiunse quelle della Grecia, Pompeo quelle
di Roma, Erode quelle del mondo intero. Il giorno del purim era quello
in cui tutte codeste dissolutezze sguazzavano in pompa reale.

In quel giorno, si sarebbe creduto trovarsi a Roma nella via Sacra,
verso l'ora nona. Nulla mancava. Nulla si mascherava, eccetto la virtù
per accatastare le briciole delle delizie del vizio. Gli uomini si
travestivano da donne, e le donne da uomini, le ragazze da cortigiane, e
queste da matrone. Chi aveva qualche cosa da mostrare, la metteva fuori.
Chi non aveva di che affusolarsi, si svestiva. Gerusalemme riboccava
tutta nelle strade: neppure le madri oneste, e le fanciulle pure
restavano a casa. Il pudore diveniva un'impertinenza, un'offesa a Dio.
Il Tempio si dava allo sciopero; poichè preti e leviti, membri del Gran
Consiglio e del sanhedrin, Simeon, Gamaliel, Caifa stessi, lo stesso
Hannah, potevano mascherarsi senza infamia da giocolieri, da istrioni,
da maghi, da pontefici idolatri, da becchi, o da buoi, a loro talento.

I bagni pubblici, le stufe, le osterie, gli alberghi, le botteghe dei
fornaj, dei beccaj, dei rosticciaj, dei barbieri, dei profumieri,
residenze ordinarie della prostituzione, issarono, dall'ora nona,
l'insegna di orribili Priapi, e misero delle lanterne a forma di
mostruosi phallus. Le cortigiane non erano in tal giorno obbligate a
mostrarsi in parrucca bionda, in coculla, o con un pezzo di stoffa di
oro sul seno — secondo l'editto degli edili romani, portatoci dai
procuratori. Potevano, se loro piaceva, adornarsi della stola, delle
bende bianche, e degli stivaletti rossi delle matrone romane. Ma non lo
facevano neppur per idea.

Le vie formicolavano di cantoniere venute da tutte le parti della Siria,
dall'Assiria, dalla Grecia, da Roma, dall'istessa Gallia. Esse si
pavoneggiavano. Talune attillate nelle loro tuniche gialle o verdi, con
sandali gialli legati al collo del piede da coreggie dorate, mostravano
i piedi nudi, bianchi e provocanti, tenevano il capo avvilupato in un
piccolo mantello di stoffa di color vivo, i capelli tinti in giallo con
dello zafferano, o in rosso col succo della barbabietola, o in celeste
con del pastello, o semplicemente spolverati con polvere d'oro, di
lapis, di guado, o stropicciati con cenere profumata. Altre, con vesti
babiloniche, o in tuniche di seta, trascinavano delle dalmatiche
abbottonate sul davanti, fatte di stoffe dipinte, variate di fiori e
ricami, ed avevano sul capo una mitra a colori, o una tiara scarlatta, o
un nimbo d'oro. Le _preziose_, le _meravigliose_, le _famose_, che ci
venivano dal superfluo di Roma, dietro le legioni, erano vestite di
quella stoffa di seta chiamata _Tiriana_ cui un poeta latino (Petronio)
addimanda _vento tessuto_, o di quella garza detta indiana, che era
trasparente come una nuvola d'estate, e rendeva più provocante la
nudità. Le _etere_ greche col loro grazioso camiciotto di lino aperto
sotto le braccia e scendente fino alla vita, in coturni dorati,
passeggiavano in lettighe aperte, portate da Abissinii. Alcune, coricate
sopra cuscini di porpora, tenendo in mano uno specchio d'argento
lisciato, delle palle d'ambra o di cristallo, un ventaglio od un
parasole, sporgevano un viso leggermente imbellettato, costellato di
piccoli nei onde rialzarne la tinta, mentre una bella schiava le
rinfrescava daccanto con delle penne di pavone, precedute e seguite da
eunuchi, da fanciulli, da suonatori di flauti, e da nani buffoni. Altre
ancora, in toga verde, guidavano esse stesse un carro leggiero. Poi
questa a cavallo, quell'altra sopra una mula di Spagna condotta a mano
da un negro.

Dietro questo corteggio seguiva un'appendice inevitabile: il libertino,
il bertone, vestiti di una clamide scarlatta, celeste, o verde; i
suonatori d'arpa, di flauto, e di tamburo venuti dalla Siria;
l'auletride jonia — cantante che si scritturava per le feste
particolari; — le fellatrici di Lesbos; gli effeminati, i delicati della
Frigia — giovani schiavi dai capelli lunghi ed ondeggianti, dai grandi
orecchini, dalle tuniche a larghe maniche e dagli stivaletti verdi. Poi
i bei giovanotti di Sibaris e di Taranto dalla pelle profumata, i membri
epilati, il corpo ricoperto di stoffe trasparenti, come le ninfe. Poi i
leziosi e le tribadi di Sparta, che _pytismate lubricant orbem_
(Giovenale), e sono rinomate nelle lotte femminili. V'erano ancora i
Marsigliesi dalle dita vellutate, e gli emigranti da Capua e da Opicus,
che si prestavano ai piaceri mostruosi. Intorno ed in mezzo a questo
nuvolo profumato, scintillante d'oro, di pietre preziose, di seta, di
colori vivi, svolazzava quella gioventù d'Alcinous di cui io era il capo
— assente in quel giorno — adornata, arricciata, profumata, azzimata di
_chiridata_ — la tunica siriaca a maniche lunghe e larghe color
ciliegia.

In mezzo a questa folla, la quale assorbiva, incantava, abbagliava la
gente onesta di tutti i giorni, si distingueva il mio ipocrita amico
Justus, mascherato da _saga_, che vendeva degli istrumenti infami, messi
in mostra su delle ceste portate da schiavi. Quel monellaccio offriva ad
un grave membro del Collegio un _phallus_ ad uso della famiglia; ad una
matrona, un _subliaculum_, o arnese della maternità, onde non
sopraccaricare di troppi bimbi la famiglia; ad una giovane sposa, una
serratura di castità; ad una ragazza una fibula; alle vecchie un enorme
_fascinum_ (phallus fittizio in cuojo, tela o seta).

Bar Abbas, a cavallo sopra un asino, era imbacuccato d'un immenso priapo
in cartone che gli si rizzava sopra come un astuccio. Portava dinanzi a
sè una sporta ripiena di quelle ciambelle di frumento a forme impudiche,
che i Romani chiamano _coliphia_ o _cunni siliginei_, e ne offriva alle
donne, che le accettavano senza sembrarne offese. Poi dispensava delle
gerse di escremento di coccodrillo, di cerussa, o di gesso, delle fiale
piene di non so qual ingrediente, ch'egli indicava agli uomini per quel
terribile filtro che le venditrici di profumi dicevano venire da Roma, e
chiamavano coppe del desiderio, acqua d'amante, _satyricon_, _bulbus_, o
_hippomane_.

Ahimè! avevamo mandato a Roma circa due secoli fa (187 anni av. G. C.)
con Lucius Montius, il vincitore di Antioco il Grande, tutto questo
mondo di danzatrici, di suonatrici di flauto, di cortigiane, d'eunuchi,
d'effeminati, di bertoni, e con essi la lebbra, la terribile
elefantiasi, il mal di Venere delle nostre donne, ed il _morbus
indecens_ sotto tutte le sue orribili forme. Roma aveva innalzato tutto
ciò alla sua grandezza, aggiungendovi le infamie spigolate nel resto del
mondo, e ce lo rimandava trionfante, orgoglioso e risplendente.

I nostri Ebrei si contentavano di bere: i poveri, i nostri buoni vini
della Siria; i ricchi, i vini della Grecia o di Roma, il cecubo, il
falerno, il metimnese, con o senza aromi, e di berne fino al punto,
sempre maledicendo, di non più sapere se maledicessero Aman o Mordecai.

Alcuni anni avanti, due pii anziani, Rabba e Zira, avevano bevuto
insieme, e si erano altercati, cadendo sotto il tavolo, in tal guisa che
Rabba aveva ucciso Zira. All'indomani, quando il vino fu digerito,
Rabba, disperato d'aver ucciso il suo amico, pregò Iddio di
risuscitarlo, e Dio l'aveva compiacentemente esaudito. L'anno dopo,
Rabba propose a Zira di bere ancora insieme; ma Zira rifiutò, pel
ridicolo pretesto che Dio potrebbe non voler incomodarsi ogni anno a
fare un miracolo.

Mentre l'orgia s'impadroniva della città, all'ora nona, i miei amici ed
io, ci preparavamo ad andare a Berachah. Avevo invitato a dividere la
nostra festa e ad essere testimonii della mia gioja, Hannah che era
stato il mio ambasciatore, i suoi figli, Gamaliel, il suo vecchio padre
Simeone, direttore del grande collegio, Justus, che si divertiva
attendendo l'ora della partenza, Lazzaro, alcuni altri amici, ed il
Rabbì di Nazareth, cui io era andato a snidare dal Tempio ove fin dal
mattino predicava ed insegnava.

Traversammo la città, nel momento in cui la gioja era nel suo più grande
fermento. In ogni via, degli ubbriachi; in ogni piazza, della musica e
dei danzatori; in ogni luogo pubblico, la debolezza; le case pavesate di
fiori o di rami d'albero; ad ogni finestra degli spettatori; sopra ogni
tetto, delle bandiere, dei preparativi per l'illuminazione della sera.
Dapertutto lo schiamazzo; canti a tutti gli angoli delle strade; dei
motti allegri o lubrici in tutte le bocche; dei desiderii in tutti gli
sguardi, ma anche l'elemosina in tutte le mani. C'incontrammo con Bar
Abbas, che arringava in mezzo ad una folla immensa.

— Non vi spaventate, ragazze mie; io sono modesto; venite da me, gravi
mamme, io sono discreto; avvicinatevi, le mie vecchie, se la vostra
borsa è pregna e ha voglia di partorire, io sono un gaio compare; e voi
altri, branco di canaglie, vecchi libertini, preti modesti, gravi
farisei, dissoluti avariati, baldracche da elefanti, avanzate pure, io
non aggrotto le ciglia, sono un buon diavolo; pennone al vento, ma
silenzioso e perseverante. Cosa vi occorre? via, adoratemi un po', io
sono quegli che crea e quegli che disfà.

Vedendoci passare, Bar Abbas interruppe la sua allocuzione che io ho
resa più modesta. Gli si gittavano degli aranci, della poma, dei torsoli
di cavolo. I ragazzi mettevano dell'esca accesa sotto la coda del suo
asino, e lo facevano sgambettare come cinquanta istrioni.

— Figli della prostituzione, continuava, lasciate dunque che mi avvicini
a quella compagnia di scapati che va non so dove, a papparsi una festa
senza di me. Senza di me! e ci sarebbe una festa a Gerusalemme, senza
Bar Abbas? Tò! tò! anche mio nipote? Orsù! mucchio di botoli, lasciatemi
passare.

Ma essi s'erano attaccati alle sue gambe, alle orecchie ed alla coda del
suo asino.

— Dammi una chicca, barbiere della regina Saba, l'apostrofava una ganza
dalla gialla mitra persiana.

— Va a farti impiccare, confettiera di sterco di vacca alla crema;
rimbeccava Bar Abbas.

— Lascia dunque che ti abbracci, bardassa leccato dai dromedarii
d'Abramo, grugniva una vecchia, civettando e tendendogli le braccia.

— Abbraccia il mio asino sulla sua bocca senza denti, urlava Bar Abbas
percuotendola sulle mani col suo scudiscio.

— Se hai dei ninnoli, vieni da me, ciabattino delle volpi di Sansone,
mormorava una donzella, passando sul suo cammello.

— Del denaro! bellettatrice di giovani balene, replicò Bar Abbas, m'hai
tu preso per un ladro?

— Professore di lingua dell'asina di Balaam, hai tu cenato? gli chiese
dalla sua lettiga una _preziosa_.

— Ceni tu di un mercante di Tiro disossato, o di un prete cotto nel
miele, levatrice delle cagne di Jezabele?

— Pfuah! gridò una voce nella folla, ti sputo in faccia, venditore di
fanciulle.

— In fede mia, se mi fate dei complimenti, non ci sto più, e che il
diavolo vi prenda tutti, replicò Bar Abbas.

Nell'istesso tempo, gettando da parte l'infame astuccio che faceva di
lui un mostruoso phallus, si slanciò fuori della folla, nella direzione
ove eravamo scomparsi, e principiò a correrci dietro.

Quando arrivammo a Berachah, il giorno cadeva. Il cielo era tigrato di
rosse nuvole; un vento lamentoso tormentava i rami degli alberi, e
rendeva l'aria pungente. Degli avvoltoi si slanciavano dai crepacci
delle roccie al rumore dei nostri passi, e la jena squittiva di lontano.
Camminavamo silenziosi e preoccupati: nessuno avrebbe detto che andavamo
a nozze. Il più sereno di tutti era il Rabbì Galileo, che non sapeva
nulla della fidanzata, avendogli detto semplicemente che stavo per
maritarmi e che desideravo averlo fra i miei amici. Il più assorto era
il sagan. I servi che portavano i regali per la sposa ci seguivano.

La porta della casa di Berachah era chiusa. Il silenzio più completo
regnava in quell'abitazione che si sarebbe detta deserta. Thorix ci
aprì, ed i miei servi l'aiutarono a ricoverare sotto la tettoja le
nostre bestie. Quella corte così bene ordinata, quella fontana il cui
getto risuonava nella vasca di marmo, quei vasi di fiori, rigogliosi
come se fossimo stati nel mese di maggio, quei verdi arbusti, tutto
contrastava con la casa silenziosa di cui Febea ci apriva la porta.
Evidentemente non eravamo aspettati. Si era dimenticata la cerimonia che
doveva aver luogo, cerimonia pertanto che fissa un'êra nella vita di una
donna.

— C'è qual cosa di nuovo? domandai a Febea.

— Niente, mi rispose la vecchia Galla; Moab non è ancor ritornato.

Di guisa che, l'avvenimento più considerevole per quella casa, era
l'assenza misteriosa del custode fedele.

— E Ida? chiesi con ansietà.

— Ah! replicò la vecchia, non so. Credo che pianga.

Entrammo nel _tablinum_. E siccome la notte avanzava, Febea vi accese i
lumi. Noah aveva fatto preparare diverse lampade. Questa giovine, bella
e fedele schiava, era la sola che s'interessasse a me, e comprendesse il
mio amore. Il _tablinum_ fu dunque vivamente rischiarato. Thorix l'aveva
profumato con dei vasi di fiori, pei quali egli faceva nelle sue stanze
una temperatura tropicale. Riuniti in quella camera, ravvicinati, la
conversazione si animò un poco più. I miei servi deposero sulle tavole i
regali che avevo portati alla fidanzata. Erano delle pezze di tela di
lino di Egitto, delle stoffe tessute di porpora e d'oro nell'isola di
Cos, dei tappeti di Mesopotamia, delle garze dell'India, delle stoffe di
seta di Tiro e di Babilonia, delle belle tuniche siriache, due
magnifiche insista ornate di porpora, delle stoffe ricamate, bianchi
veli rigati d'oro e violetto, stivaletti di pelle rossa adornati con
oro, una veste galbanata per le feste, delle clamidi turchine ed oro,
alcune _amicola_ di lino sottile come un raggio di sole. Poi dei
giojelli, orecchini, collane, braccialetti, spilli, _fibulae_,
scheggiali. Poi profumi squisiti di tutte le qualità; la _nicerontina_,
quell'odore soporifero inventato dall'eunuco Nicerontas; il nardo di
Persia preparato dalla saga Folia, detto _foliatum_; il balsamo di
Mendes, gli unguenti di Cipro; il nardo Achaemenium, degli olii di
Arabia e di Siria, del malobathrum di Sidone; l'olio arabico pei
capelli, e quello di mirabolano pel corpo, l'opobalsamum di Gerico,
l'amone dell'Assiria, la mirra di Oronte, il timo di Cipro, il cinnamomo
dell'India, le pastiglie diapasmate inventate da Cosmos per profumare e
rinfrescare l'alito nelle ore dell'amore, l'unguento reale della
Partia.... Infine, tutto ciò che l'arte della profumeria di tutti i
climi e di tutti i paesi aveva inventato di più soave e di più
inebbriante.

Tutto ciò fu posto in bell'ordine su canestrine che stavano sul tavolo,
e risplendeva alla luce, deliziando la vista e l'odorato.

Il sagan ed io entrammo in una stanza laterale ove Noah venne a
raggiungerci e dirci che Ida fra qualche istante sarebbe pronta.
Infrattanto i miei servi, Thorix e Febea presentavano sopra bacini dei
frutti canditi, delle bibite agghiacciate, dei vini d'ogni paese,
profumati e puri, dell'idromele, ed una quantità di dolciumi che io
aveva inviati alcune ore prima.

Non ebbi il coraggio di veder Ida da sola. Ebbi paura di qualche
esplosione di dolore, di un nuovo accesso di pentimento. Lasciai ad
aspettarla il sagan, il quale, non avendo io parenti, faceva l'ufficio
di padre o di fratello.

Ida aveva pianto tutto il giorno. Venti volte aveva ordinato a Noah, di
mandarmi a dire che dovessi rinunziare definitivamente a lei. Dieci
volte ella aveva allontanato questa giovine schiava che voleva dar
principio all'opera della pettinatura e dell'abbigliamento. Poi s'era
rassegnata, affranta della persona e nel cuore.

Noah l'aveva consolata, aveva asciugato le di lei lagrime, rinfrescato
le guancie e gli occhi con dell'acqua di rosa; ma la non aveva potuto
far sparire il pallore, nè ottenere di correggerlo con qualche
cosmetico. Finalmente la teletta s'era terminata come Noah aveva voluto,
poichè Ida non aveva consentito a guardarsi una sola volta nello
specchio, a dar un consiglio, ad esprimere un'idea od un desiderio, ad
ajutarla per nulla. Si lasciava fare come se si fosse vestito il
cadavere d'una fanciulla che si conduce alla tomba. Impiegava tutta
l'energia del suo animo a contenere le sue lagrime, ed a mantenersi
nella risoluzione che le si era strappata. Quando fu pronta, Noah la
mise fra le mani di Hannah, il quale doveva introdurla nel _tablinum_, e
le si pose dietro, onde ripeterle incessantemente una parola fantastica,
preparata d'accordo prima, e che voleva significare: coraggio!
attenzione!

In quel momento si udì nell'_atrium_ la voce di Jesu Bar Abbas.

— Come, come? per le corna di Mosè! ci si marita qui senza informarmene!
Ah, ah! l'è proprio squisita questa; si fanno nozze senza di me!

Bar Abbas fece irruzione così nel _tablinum_, e si trovò di faccia a
faccia col Rabbì di Nazareth.

— To', brontolò desso, mio nipote! Oh! grazioso! Ci farai qualche
miracoletto come a Cana, non è vero, mio bel nipote? Non potreste mai
imaginarvi ciò che questo bell'imbusto di galantuomo seppe far credere
ad un branco d'ubbriachi, alla fine d'un pranzo di nozze? Che ei
bevevano del vino, nè più nè meno! mentre si riempivano i loro bicchieri
con dell'acqua arrossata alla barbabietola! Non andar dunque a far
sparire la sposa, almeno, nipote mio! Parola da Cesare! e' sarebbe ben
capace di cangiarla in una nuvola come l'angelo che precedeva gli
Israeliti, o in una bolla di sapone.

Mentre Bar Abbas snocciolava questo discorso, tenendo il Rabbì per la
sua tonaca violetta, questi indietreggiava, lanciandogli a voce bassa la
sua terribile parola: Infame! infame! Alla fine, addossato alla porta,
sempre spinto dall'impudente Bar Abbas, Gesù gridò ad alta voce:
Indietro, infame!

— Capperi! e' sembra che mi riconosca alla fine, sclamò Bar Abbas senza
scomporsi.

Nel medesimo tempo, l'uscio del _tablinum_, a cui era stato dietrospinto
il Rabbì, si aperse a due battenti, e comparvero il sagan ed Ida. Il
Rabbì di Nazareth si voltò, e tutti si posero in cerchio. M'avanzai, e
presi la mano sinistra d'Ida che tremava come una foglia.

Era vestita d'una lunga stola porpora — le vergini sole la portavano
bianca in tale circostanza. — Il suo capo era coperto d'un velo bianco
ed argento. I capelli, rialzati da un nimbo d'oro, ricadevano in ricci
sulle spalle insieme alle bende. Il collo s'intravedeva appena, e la sua
bianchezza sorpassava quella del lino.

Un silenzio profondo seguì questa apparizione, di cui le forme del
corpo, l'elevazione della taglia, la sveltezza, la molle e soave posa,
eccitavano una curiosità ansiosa. Io mi sentiva soffocare. Finalmente,
dopo alcune parole di presentazione dette dal sagan, egli mi fece segno
che io poteva sollevare il velo della fidanzata, avanti di prestare il
nostro reciproco giuramento.

Ahimè! quarant'anni sono scorsi da quel giorno fatale, ed io tremo
ancora scrivendo queste linee.

Senza abbandonare la mano di Ida, sollevai il velo con la mia mano
sinistra. Due gridi scoppiarono nel medesimo tempo nella sala, di cui
l'uno soffocò l'altro.

Un grido di meraviglia, sfuggì da tutte le bocche alla vista di quella
bellezza celeste, di cui l'aria infantile raddolciva lo splendore della
donna. Quella pelle diafana che sembrava imbevuta dei raggi del giorno;
quelle labbra rosse come gli spicchi del melagrano, mezzo aperte per
lasciar intravedere dei denti bianchi come il marmo di Paros, per
lanciar un soffio pari al respiro della viola; quei grandi occhi azzurri
nascosti sotto delle palpebre di latte, sormontati da due archi di
sopracciglia castagne; quel naso diritto, fino, dalle narici rosee, che
tradivano l'emozione; tutto l'insieme, in una parola, di quell'armonia
vivente strappò un'esclamazione di sorpresa e d'ammirazione. Ma nello
stesso tempo un altro grido risuonò al disopra di tutte le voci, quello
del Rabbì di Nazareth, che indietreggiando come spaventato fino al fondo
del _tablinum_, esclamò:

— Come! noi siamo qui in casa della ganza di Pilato! L'amante di Pilato
è la sposa!

Il sagan ed io sapevamo soltanto che Ida era stata l'amante di Cajus
Crispus, il quale consentiva finalmente a riconoscerla come moglie per
ripudiarla. Nessuno sospettava che Ida fosse qualcosa di peggio:
l'amante di Pilato.

S'imagini quindi l'effetto di questo grido del Rabbì, la portata di
questa accusa.

Tutti quegli Ebrei, che per la loro posizione dovevano mostrarsi
zelanti, si trovavano in una casa considerata come impura, e pel
carattere della donna, e per la frequentazione dello straniero. Impuro!
era la folgore sul capo dell'Ebreo!

La parola del Nazareno fu in effetto come il fulmine.

Le mani protese nell'attitudine della maledizione, gli occhi spalancali,
tutta quella gente principiò ad indietreggiare, rinculando, non potendo
staccare lo sguardo da quella magica figura.

Alla voce di Gesù, Ida alzò gli occhi, e riconoscendo il Rabbì, cadde in
ginocchio, fissò il suo sguardo divaricato ed ardente su di lui, gli
tese le braccia, e mormorò:

— Fratello, fratello, abbi pietà di me.

— Terremoto del Sinai! gridò Bar Abbas, non ci mancava altro; ecco mia
nipote! Sono in famiglia alla fine.

La mano d'Ida era caduta dalla mia, ed io mi copriva il viso. L'anatema
era sceso sul mio capo.

Dopo un simile scandalo, l'unione con Ida diveniva impossibile. Gamaliel
e Simeone mi presero per le braccia e mi trascinarono con loro. Io era
istupidito; non mi sentiva più vivere. Noah s'inginocchiò dietro la sua
padrona e la ricevette fra le sue braccia.

Il sagan solo restò come pietrificato, impassibile, assorto in un
turbine di idee. Noah aveva già trasportato fuori Ida, spezzata in due e
svenuta, ed Hannah era ancora al suo posto. In questa sala non ha guari
tutta gremita di gente, non restavano più che il sagan e Bar Abbas posti
alle due estremità. Hannah corse verso Bar Abbas, che se ne stava
egualmente indeciso fra il seguire gli altri o restare per parlare a sua
nipote, lo prese pel braccio e lo scosse.

— Ben m'avvisavo, brontolò Bar Abbas, che quel rabbioso di mio nipote ce
ne avrebbe fatta una delle sue.

— Hai detto «mia nipote?» susurrò Hannah.

— Sì, mia nipote.

— Quella che vendesti a Cajus Crispus?

— Disgraziatamente non ho avuto che una sola nipote da vendere.

— Devo parlarti.

— Parla.

— Vieni questa sera da me. Qui non posso.

Cinque minuti dopo, Thorix chiudeva la porta della corte, e la casa di
Berachah ricadeva nelle lagrime, nella disperazione e nel silenzio.

Chi ha mai detto che il dolore uccide?

Insensato!

E nondimeno la coppa era appena sfiorata.



XXIII.


Bar Abbas andò a cenare dal sagan.

— Poichè questo onorevole funzionario, si disse egli, vuol godere della
mia conversazione, e poichè la sua non mi diverte gran fatto, e' mi deve
un compenso. Mi rassegno ad accettare quello della sua tavola, che non è
gran che. Vi servono degli intingoli allo zafferano! se fossero
all'aglio almeno! E poi dell'aceto che si dà l'aria di vino, o una
bevanda che non vi resta tre minuti nel corpo. Ma, non fa niente, ciò
val sempre meglio che i manicaretti equivoci della vecchia Phlogis, la
quale principia sempre dal posare i suoi denti sul piatto, per timore
d'inghiottirli. Poi si chiacchiera bene quando lo stomaco è
convenientemente soppannato. Si può permettersi di sbadigliare
piacevolmente se la conversazione vi annoja. L'arguzia sbuccia sola se
la cicalata vi garba. Infine, sta sempre bene il premunirsi contro
l'incertezza del domani.

Ordinariamente, Hannah faceva pranzare Bar Abbas con i suoi famigliari.
Quella sera, l'ammise alla propria tavola; soltanto lo si relegò al
posto dei parossiti, che prendevano a volo ciò che restava delle vivande
servite agli altri convitati. Bar Abbas, difatti, brontolò durante tutta
la cena, altercò col servo che gli versava da bere, perchè non gli
riempiva mai interamente la coppa. La cena finita, il sagan gli fece
cenno di seguirlo, e lo condusse in una stanza remota, ove egli si
ritirava quando aveva bisogno di raccogliersi. Bar Abbas, già
malcontento della parte che gli era toccata a tavola, promise a sè
stesso di tener sodo e di giocar forte, poichè Hannah aveva bisogno di
lui, e di rifarsi. Hannah, dal suo canto, sapendo con qual uomo avesse a
fare, non perdette tempo in preliminari. D'altronde sembrava vivamente
eccitato.

— Ida, diss'egli, è proprio quella nipote che vendesti un dì a Cajus
Crispus, o a Pilato?

— La stessa, appuntino, salvo i cangiamenti causati dall'uso e dal
tempo, rispose quel cinico.

— Quanto ti dette Pilato, allorchè gliela consegnasti?

— Anzi tutto, egli la prese, e non fui io che gliela consegnai, perocchè
ciò avrebbe aumentato il prezzo. Ma quel furfante non si fece vedere
nell'affare, perchè ciò altresì avrebbe rincarito il mercato. Fece
comparire un ufficiale di non so qual legione, ciò che mi rese più alla
mano. So che quei ribaldacci non sono mai ricchi, neppur dopo un
saccheggio.

— Insomma?

— Insomma.... Bisogna dirti proprio la verità, eh!

— Senza dubbio, non siamo mica al mercato qui.

— Nè al Tempio. Ebbene, egli mi diede trenta mila sesterzii. Ed ancora,
quel mariuolo di Cneus Crispus, sono sicuro, me ne rubò dieci o quindici
mila.

— Te ne do altrettanti: conducimi qui tua nipote.

— Pubblicamente?

— Imbecille!

— Allora, principe mio, non ci siamo mica ancora.

— In che?

— Nel prezzo, per Dio!

— Sei tu che l'hai fatto.

— A quel tempo, sì: ma adesso la cosa è differente. Prima di tutto tu
non calcoli i miglioramenti: due anni d'educazione e di esperienza che
la tosa ha ricevuto da uno degli eleganti della corte di Tiberio, di cui
un poeta cantava: _tergo foemina, pube vir est_. Ciò si paga. Tu sei un
principe. L'altro era un soldataccio. A quell'epoca, Ida dimorava nella
mia casa, ora sta nella sua, è libera. Può chiudermi la porta sul viso,
se le aggrada.

— Quanto vuoi dunque?

— Ida ora si è sviluppata, ed è più bella che mai. Hai veduto le sue
labbra, eh? Se Dio le vedesse, farebbe piovere baci.

— Quanto dunque?

— Da due anni, questo genere è caro sul mercato. Si è obbligati di farne
venire dalla Campania, dall'Etruria, dalle Gallie; Sparta dà poco; Atene
è esaurita; Tiro spedisce robaccia; Babilonia de' brutti grugni.

— Quanto dunque?

— Poi, se vedesti che piede ha quella piccina; potrebbe ficcarlo nel tuo
naso senza farti starnutare. E che vita! fulmine d'un fulmine!
passerebbe per l'anello del tuo auricolare. Non parlo del suo se....

— Quanto, quanto?

— Oh! quell'effeminato di Giuda è di buon gusto, va! Aveva fiutato un
pezzo da imperatore. Darebbe venticinque anni a Matusalem.

— Quanto, quanto?

— Ma! poichè pranzo spesso da te, voglio andarci alla buona e lavorare a
questo affare per quaranta mila sesterzii.

— Canaglia! tu mi spennacchi, eh!

— Ebbene, prova se puoi averla a meno da un altro. Ah! dimenticavo il
Rabbì che potrebbe ora ficcare il naso negli affari di sua sorella. Ed è
un fiero compare, sai, il Rabbì: te lo giuro! È il solo uomo di cui io
mi abbia paura a Gerusalemme. Poi, ho delle spese di viaggio per recarmi
fino lì in fondo. Devo dare delle mancie alle persone che la contornano;
forse far anco un po' la corte alla sua giovine schiava, ciò che
m'imporrebbe la spesa per lo meno di una tunica nuova.... Non importa, è
graziosa quella schiava.... vi aggiungerò un mantello....

— L'ultima parola, insomma?

— Lo vedi.... Ah! bisogna poi condurla qui, e di nascosto ancora. Quanta
eloquenza mi farà d'uopo per persuaderla; quante bugie dovrò spippolare!
Ciò mi umilia! mancarmi di rispetto così! Devo quindi darle a
credere.... che cosa? che hai sposato sua madre e suo padre forse!
Diavolo! non si vende così facilmente il proprio sangue, quando si ha
della coscienza.

— Sia! quaranta mila sesterzi (10,000 lire). Quando me la conduci?

— Ah! ecco ancora una difficoltà! Non piglio nessun impegno prima di
averla veduta domani. Fortunatamente che so come si prendono le
fortezze: poichè, o sagan, se non sono stato generale, all'esercito, non
è colpa mia. M'è d'uopo comperare l'eloquenza di tutte le mezzane, e di
tutti i poeti di Gerusalemme.

— Basta così. Vattene, e vieni domani a dirmi cosa avrai fatto.

— Non ti lusingare però di giungere senza forse romper per via il tuo
bagattello. Tu vedi che io non ti dimando neppure caparra. Se per altro
vuoi darmi....

— Va via, e vieni domani.

All'indomani, il giorno non era ancora chiaro, che Bar Abbas si acculava
alla porta di sua nipote, attendendo che si aprisse. Egli comprendeva
che era mestieri presentarsi con un convenevole pretesto, e non lo
trovava. Non sapeva più a quale corda il cuore sanguinante di Ida
risuonasse ancora, in nome di chi parlare, e che speranza far brillare.
Egli ci era su a riflettere, allorchè Thorix aprì. Bar Abbas finse di
arrivare in quel momento.

— È alzata la tua padrona? diss'egli.

— Non so se la riceva. Chi sei tu?

— Un messaggero del sagan Hannah, e porto gravi notizie.

— Dalla parte di chi?

— Ohe! saresti tu incaricato di udire ciò che si ha a dire alla tua
padrona? Se la è così, a rivederci.

— Hai tu un nome in vita tua? Chi devo annunziare? Imperciocchè,
all'aria, puoi forse essere un re travestito, ma nulla tradisce il tuo
incognito. Sei tu il re di Persia, od uno schiavo del sagan che vuol
parlare alla mia padrona, o semplicemente un ladro?

— Tocco di birbo! saresti bene in trappola se io mi fossi un re, poichè
ti farei appiccare come un gufo alla soglia della porta. Va, di' alla
tua padrona che un amico del sagan deve parlarle a nome del Rabbì di
Nazareth.

Bar Abbas aveva trovato il suo _eureka_. Con questi due nomi, era sicuro
sfondare la porta, benchè il vecchio Gallo non ne sembrasse per nulla
ammaliato. Fu d'uopo però attendere che Ida, ancora spossata, si
levasse.

Quando Noah vide il grugno del messaggiero, la fece una smorfia che
diede a riflettere a Bar Abbas.

— I miei quaranta mila sesterzii sono in pericolo, con questa volpe
piccina, pensò egli.

Ida lo fece entrare nulla ostante.

Bar Abbas si atteggiò a modi di non dubbia autorità, quasi di parente
che ha diritto di occuparsi della sorte del suo parente minore. Ida
gettò un grido vedendolo e riconoscendolo. Ordinò quindi a Noah di
restare presso di lei.

— Che vieni a far qui? sclamò essa.

— Dopo la scena di ieri, avresti dovuto stupirti piuttosto se io non
fossi venuto, io, il marito vedovo ed inconsolabile della sorella di tua
madre.

— Non invocare quei nomi, gli ordinò Ida. Tu! tu non sei che l'infame
venditore di tua nipote. Vieni forse a vendermi di nuovo?

— Cominci male, figliuola, e non m'incoraggi certo a renderti servigio,
ingiuriandomi.

— Tu non hai che un solo servigio a rendermi, ripetè Ida con disprezzo;
uscire di qui.

— Potrei stabilirmi qui, fino a che tu ci resti, o condurti con me, fino
a che i tuoi fratelli o tua madre ti reclamassero. Ma non voglio
contrariarti. Non è per mia volontà che vengo qui, non è nè per me, nè
per te.

— Per chi dunque? perchè dunque?

— Gli è per tuo fratello il Rabbì.

— Che Dio gli perdoni, mormorò Ida.

— Egli si lascia sempre andare a delle violenze. Ma questa volta, a
quanto pare, corre dei veri pericoli.

— Quali pericoli? Che menzogna vieni a raccontarmi, ora?

— Tu sei bene la degna sorella di quel fratello, va! Sappi dunque che
Gesù attacca ora a Gerusalemme tutti i partiti. Egli carica d'ingiurie i
Farisei; colma di rimproveri i Sadducei; non risparmia nè gli Esseniani,
nè gli Erodiani; pungiglia i ricchi, i preti, gli scribi, i
pubblicani.... non so infine chi mai risparmia. Non parlo di me che egli
perseguita più degli altri, come se avessi messo fuoco al Tempio, o se
gli avessi rubato Dio, suo padre.

— Hai fatto ancora peggio di codesto, osservò Ida con disgusto; hai
accettato il prezzo del sangue di tua nipote.

— Sono malinconie codeste! Ricordati il covo sporco, cupo, e freddo ove
stavamo. Mosè non si sarebbe data la pena di grattare la terra, per
compiere da noi il miracolo dello sprazzo dei pidocchi. Ebbene guardati
intorno, ove sei di presente. È forse tuo padre il carpentiere che ti ha
somministrato quei cuscini di porpora ove riposi, queste sedie d'avorio,
queste tavole di madreperla o di tartaruga, questi vasi d'argento pieni
di fiori, queste ricche tonache che ti rendon sì bella? Non sarebbe
certo stato un marito artigiano — il solo al quale tu potevi ambire, che
ti avrebbe data questa casa, questo giardino, questi servi, questa bella
giovane schiava, che avrebbe diritto di esser regina.... Tu non
comprendi tutto ciò ora; sei giovane, fantastica, contenta. Il giorno in
cui avrai fame, quando coperta di stracci mendicherai un pezzo di pane
per non importa che, da non importa chi, comprenderai l'amore che ebbe
per te tuo zio, che conosce il mondo. Adesso insultami, disprezzami e
sospettami. Il genere umano è cattivo.

— Tu parlavi di mio fratello, disse Ida, finisci.

— Egli dunque ha posto fuoco ai quattro canti di Gerusalemme. Ora, ciò
non si fa senza provocare una terribile reazione. Egli l'ha provocata; e
tutti queglino che furono attaccati, l'attaccano a loro volta. Si sono
indirizzati al sagan, il più generoso, il più virtuoso, e l'uomo più
elevato della Giudea. Hanno accusato Gesù. Il sagan ha conversato con
tuo fratello qui, e si è preso di simpatia per lui. T'ha veduta, fu
testimonio della catastrofe a cui tuo fratello ti sospinse, ed ha avuto
pietà di te. Sa, che l'ultimo appoggio che ti resti omai, è questo
fanatico Rabbì. Vorrebbe stornare dai vostri capi, il fulmine da cui
sono minacciati. Ma non può rivolgersi direttamente al Rabbì, dapprima
perchè questi forse non l'ascolterebbe, poi perchè il sagan non può
urtare la suscettività dei suoi propri partigiani.

— Lasci dunque che la volontà del Signore si compia.

— Gli è precisamente ciò che gli ho detto io, io che preferisco sempre
compiere la mia volontà. Conosco il temperamento della famiglia, e trovo
la sorella calcata a pelo sul fratello. Ma il sagan non ha voluto
credermi. Mi ha anzi maltrattato, dicendomi, che non vi amo, che odio
Gesù. Allora mi son sobbarcato a tentare quest'opera di salvezza di
nipote maschio e femmina, a cui sentomi così poco attagliato. Non ho
voluto però vedere Gesù, che mi manca assolutamente di rispetto. Ho
promesso di vederti, ma ad una condizione....

— Quale, di grazia, affettuosissimo zio?

— Che sia egli stesso, il sagan, che ti dica ciò che ha detto a me;
poichè tu forse crederai a lui, meglio che a me.

— Difatti, io ho di che non crederti senza garanzia, e ancora...

— E ancora, che cosa?

— Ho ancora ad aggiungere, che in questo momento stesso tu menti, e che
questa storia che mi racconti è un nuovo tranello.

— Sei una sciocca figliuola, va, cara nipote. Non t'ho forse detto che
sono indifferentissimo alle disgrazie che cadranno sul capo di tuo
fratello, cui abbomino? Non t'ho detto che puoi andare tu stessa, quando
vorrai, ad informarti dal sagan, il quale è l'uomo il più saggio, il più
probo, il più stimato della Siria? Aggiungo di più: il sagan m'ha
confidato, che fra qualche giorno avrà luogo, in sua casa, una riunione
dei nemici di tuo fratello. Ebbene va a domandargli, se non mi credi, di
assistere, nascosta, a quella riunione. Questa domanda sarebbe, te ne
avverto, un insulto per l'uomo che ti previene a tempo del pericolo del
Rabbì, ond'e' si metta in guardia. Ma puoi dire al sagan, che il suo
messaggio pervenendoti da uno spezzaforche come tuo zio, il quale ti ha
già fatto delle monellate, non vi ti fidi, e che vuoi vedere ed udire da
te stessa. Quell'uomo tanto buono, che non ha rifiutato di andare a
domandare in isposa la ganza di Pilato per un suo amico, sarà tocco
dalle tue ragioni, e ti soddisferà; avvegnacchè, al postutto, e' non
prenda lo scorruccio se tuo fratello rovina nell'abisso cui scava sotto
i piedi dei nemici della nazione.

C'era nel discorso di Bar Abbas un tal misto abbominevole di sentimenti
di odio, d'indifferenza, di franchezza, di probabilità, di evidenza
possibile, di prove, e d'inverosimiglianze, che Ida ne rimase confusa e
perplessa. Non era impossibile che il nobile carattere di suo fratello
avesse colpito il sagan e ch'egli si fosse interessato alla sua sorte.
Il sagan non aveva forse mostrato per lei un affettuoso interesse? Bar
Abbas non parlava in suo nome, poichè confessava di abborrire Gesù.
Perchè Ida non andrebbe ad interrogare il sagan direttamente? Quale
sospetto poteva destare un uomo che era, dopo Pilato, il più grande
della Galilea e della Giudea? Che v'era d'impossibile che il sagan si
astenesse di agire direttamente in favore di Gesù, il quale l'attaccava,
attaccava il suo partito ed il suo genero Caifas? Ida restò quindi
silenziosa. Bar Abbas continuò.

— Ho adempita la mia commissione, contro mia voglia, lo confesso;
perocchè sarei beato che dessero una piccola lezione di convenienza e di
umiltà a tuo fratello. Egli si atteggia nè più nè meno che a figlio di
Dio! La tua povera madre è dunque non so cosa, e tu non gli sei niente;
ciò che ti ha del resto dimostrato ieri sera colla sua stupida
interruzione. Alla fin fine, io non ho nulla a rimproverarmi; poichè
tutte le volte che ho voluto farvi del bene — ammettiamo che io mi sia
ingannato nei modi, ma infine la mia intenzione era buona... — voi mi
avete colmo di calunnie e d'oltraggi. Non voglio più impacciarmene. Alla
mia età, vecchio soldato, la è davvero ridicola di essere sempre
ingiuriato... anche da te, miccina, non ancora sgusciata di chiocciola.
Dunque, riassumo: ecco di che si tratta. Tuo fratello corre un grave
pericolo. Il sagan te ne previene. Va a prenderne conto più minuto da
lui; va a domandargli, se vuoi, di verificare tu stessa la cospirazione
che si ordisce contro il Rabbì; fa quello che vuoi; non stare a
credermi; non dir nulla a tuo fratello, al sagan. Per me mi levo
d'imbarazzo, e me ne vado.

Ida era scossa. In quel punto arrivò Justus, il quale, secondo il suo
solito, cacciava sempre sulle mie peste. Era stato anch'egli colpito
dalla bellezza fulminante di Ida; più degli altri forse, fatalmente per
lui, come vedremo. Veniva ora, come amico mio, a domandare a quella
giovine donna che io aveva dovuto sposare, se avesse d'uopo di un
qualche servigio. Justus fu contrariato della presenza di Bar Abbas in
quel sito; questi, dall'arrivo di Justus che calcolava inopportuno. Ma
con la sua solita prontezza di spirito, volle profittare dell'intrusione
di quell'importuno. Gli si rivolse dunque e gli chiese:

— A proposito, Ida non vuol credere che suo fratello ha offeso tutti i
partiti a Gerusalemme, e solleva contro di sè una reazione viva e
pericolosa.

— È verissimo, Ida, fece Justus, interrogando dello sguardo Bar Abbas,
onde comprendere ciò che significasse la domanda che gli dirigeva. È
verissimo; ieri ancora, il Rabbì ha fatto uno scandalo al Tempio, ove
non ha alcun diritto di levarsi a padrone, ed ha suscitato una gran
collera nel capitano.

Ida non conosceva punto quell'intruso. Principiava a credere a Bar
Abbas; ma l'attestato che egli chiedeva ad uno sconosciuto le fece
l'effetto di una commedia tra compare e ciarlatano. Li sospettò ambedue.
Gli era proprio ciò che voleva Bar Abbas onde deciderla a rivolgersi al
sagan per sapere la verità. In fatti, Ida gli disse:

— Vi ringrazio dell'interesse che prendete per mio fratello. Io sono una
povera donna isolata, e non posso nulla fare per lui. Dio lo proteggerà,
se cammina nella sua strada. Addio.

Così dicendo Ida si alzò ed uscì. Noah indicò la porta a Justus ed a Bar
Abbas che non se lo fecero ripetere due volte. Però, quando furono sulla
strada, Justus si fermò, e guardando fisso negli occhi Bar Abbas gli
chiese:

— Per chi lavori tu?

— E tu? rispose Bar Abbas.

— Io? pel meglio del mio amico Giuda.

— Nobile cuore! sclamò Bar Abbas; ed io per tuo zio Hannah.

Justus tacque, e lasciò Bar Abbas ammirare tranquillamente da solo le
singolarità del paesaggio durante il cammino.

Ida, dal canto suo, appena rientrata nella sua stanza da letto,
raggiunta da Noah, non si fermò a lungo a riflettere. S'avviluppò in
ampia stola che la coprì da capo a piedi, e facendo segno a Noah di
seguirla, uscì. Ma prima di partire, diede ordine a Thorix di riportarmi
i regali che le avevo mandati la vigilia, poi di aspettarla sulla
strada, ai piedi del monte degli Ulivi.

Precediamola.



XXIV.


Il Rabbì di Nazareth era venuto a Gerusalemme in una disposizione di
spirito diametralmente opposta a quella in cui l'avevo lasciato a
Cafarnaum. Il rapido giro ch'egli aveva fatto nelle Provincie non ebree,
gli aveva aperto gli occhi su quell'orrore pei Romani, di cui io credeva
animato il popolo Israelita. La sua missione perdeva dunque la base
politica, sulla quale egli non avrebbe sdegnato di appoggiarla.

Egli riconosceva bene l'esistenza del sentimento ebreo che sospirava un
liberatore, un messia, il quale lo francasse dallo straniero. Ma egli
aveva riconosciuto altresì che questo sentimento non era abbastanza
intenso da farsene una leva di sovversione politica, e di elevazione
personale. Occorreva dunque rinunziare a quel mezzo di attrarre il
popolo dietro a sè. Egli attribuiva la tiepidezza della plebe alla
soddisfazione dei Sadducei, alla interessata rassegnazione dei Farisei.
In realtà, per gli uni, il dominio romano era la pace; per gli altri,
una tregua, durante la quale lavorerebbero a scalzare la supremazia dei
loro rivali. Il Rabbì detestava gli uni e gli altri come traditori verso
Dio, di cui egli si era proclamato figlio, e traditori verso il popolo
di cui egli si faceva sgabello. La sua grande parola pronunciata, la sua
missione dichiarata, esposte le sue dottrine, i suoi discepoli inquieti,
ma all'erta, — che poteva ormai fare il Rabbì? Il cielo stesso della sua
provincia rotolava tuoni contro di lui. Di tutte le mie insinuazioni,
non aveva ascoltato che il consiglio, appoggiato dall'evidenza
quotidiana, di cangiare il teatro delle sue prediche, e di venire a
spiegare la sua attività a Gerusalemme. Colpito il capo, il corpo
cadrebbe da sè. Era dunque arrivato a Bethania, la vigilia del Purim,
con un piano stabilito di condotta: confondere i suoi nemici, trionfare
o soccombere.

Il Rabbì non mi disse verbo pertanto nè del suo cangiamento interno, nè
delle sue disposizioni aggressive. Non lo seppi che troppo tardi, ahimè!
quando un seguito d'imprudenze aveva reso il male irreparabile, ed il
rimedio impossibile. Poi, altre complicazioni vennero a precipitare la
catastrofe.

Così, dall'indomani del suo arrivo, il giorno stesso del Purim, mentre
Gerusalemme guazzava nelle orgie dei suoi saturnali, il Rabbì di Galilea
principiava la sua gran battaglia sotto il portico di Salomone nel
Tempio. Quando arrivai per vederlo ed invitarlo alle mie nozze, lo
trovai circondato da popolo, da leviti, da scribi, sofisticando con un
astuto rabbino che gli aveva chiesto:

— Cosa devo fare per avere una particella nell'eredità della vita
eterna?

— Ciò che è scritto nella legge, rispose Gesù; l'hai tu letta?

— È il mio mestiere.

— E cosa vi hai letto?

— Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutto il
tuo spirito, ed il tuo prossimo come te stesso.

— Ebbene, replicò il Rabbì, fa tutto ciò e vivrai.

— Facile a dire, e ad ordinare, riprese il rabbino; ma in pratica la
cosa s'imbroglia. Chi è il mio prossimo?

— Ascolta, rispose il Rabbì. Un certo uomo, scendendo da Gerusalemme a
Gerico, cadde in mezzo a dei ladri, che lo spogliarono di tutti i suoi
vestiti, lo ferirono, e partendo, lo lasciarono mezzo morto.

— Ciò avviene sovente, interruppe il rabbino. La colpa è dei nostri
padroni, che ci mettono delle taglie pesanti per difenderci, e ci
lasciano in balia degli assassini.

— Ciò non mi riguarda, riprese il Rabbì. Ora avvenne che un prete per
caso passasse per quella strada.

— Tanto meglio pel ferito, sclamò il rabbino.

— Credi? ebbene, t'inganni. Il prete guardò, vide l'uomo moribondo, e si
tirò dall'altra parte della strada.

— Ebbe paura, osservò il rabbino.

— Sia, continuò il Rabbì, ma un levita passò pure per di là alcuni
minuti dopo. Si fermò, guardò alla sua volta, si assicurò dello stato
del ferito come aveva fatto il prete, poi alzò le spalle e proseguì la
sua strada.

— Temette l'istessa sorte, disse il rabbino, o forse anco, d'esser preso
per l'assassino.

— Forse fu così. Ma un altro non ebbe le stesse paure, e non si spaventò
d'esser confuso con dei ladri. Sai tu, ora, chi era quest'altro?

— Uno scriba, un uomo della legge senza dubbio, esclamò il rabbino.

— T'inganni: un Samaritano, — uno di quegli uomini che voi disprezzate,
considerandoli come impuri, e sui quali invocate tutti i malanni e tutte
le maledizioni. Sì, un buon Samaritano viaggiava anch'egli da quella
parte. Quando arrivò presso il ferito, e lo vide in quello stato, e'
scese dal suo asino. Poi, tocco da compassione, s'avvicinò, fasciò le
ferite del moribondo, vi versò dell'olio e del vino, lo accomodò sulla
sua cavalcatura, lo condusse in un albergo vicino e gli prodigò le sue
cure. All'indomani e' partì; ma prima, prese due monete, e dandole
all'oste gli disse: Abbi cura di questo disgraziato, e quanto spenderai
di più, te lo pagherò, ripassando per qui.

— Un Samaritano! esclamò il rabbino.

— Sì, affermò Gesù, un Samaritano. Io ti chiedo adesso, a te uomo della
legge, quale dei tre viaggiatori fu il _prossimo_ della vittima dei
ladri.

— Hum, brontolò il rabbino, quello che ne ebbe compassione.

— Allora, osservò il Rabbì, va e fa altrettanto[6].

  [6] S. LUCA, Cap. X.

— Come il Samaritano, non come i ladri, gridò una voce fra gli
spettatori. Manasse sarebbe capace d'ingannarsi.

Questo ripicco non diminuì punto l'impressione fatta da questa bella
parabola, che offendeva mortalmente i signori del tempio.

Abbassare il prete ed il levita al disotto di quello scomunicato, di
quel disprezzato Samaritano cui gli Ebrei detestavano peggio dei pagani,
al punto di dire che il pane dei Samaritani era come la carne del
maiale; glorificare quel lebbroso dell'anima a spese dei ministri di
Dio, parve il colmo dell'audacia, dell'impertinenza e dell'insulto: una
bestemmia, una violazione della legge. Ma Gesù non si fermò a mezza via;
e poichè aveva un così bell'uditorio intorno a sè, sguainò tutta la sua
collera contro i Farisei, chiamandoli: razza di vipere, ipocriti,
sepolcri imbiancati, mentitori, impuri dell'anima, intelligenze limitate
e false, vasi d'immondizia. Un sordo mormorio circolava nella folla,
taluni applaudendo, altri corrucciandosi. Allora il Rabbì vide un
mendicante cieco che entrava per la porta. Corse a quell'uomo e lo prese
per le mani.

— Maestro, dissero allora i suoi discepoli, chi è che ha peccato,
quest'uomo o i suoi parenti, perchè egli sia cieco?

— Nè lui, nè gli altri, rispose il Rabbì. Quest'uomo è in quello stato,
perchè io possa manifestare il mio potere.

Allora egli sputò per terra e compose una specie di pasta, mescolando la
sua saliva alla polvere. Lo vidi in seguito spalancare le palpebre del
cieco, con una punta brillante d'acciajo, toccare l'occhio infermo, e
cavarne come una pietruzza. L'uomo gettò un grido di dolore, che si
cangiò in gioia, poichè esclamò:

— Dio mio, vedo la luce.

Il Rabbì toccò nell'istessa maniera l'altro occhio e ne fece pure
spiccare una piccola rena. Il mendicante gittò un secondo grido:

— Dio mio; vedo le cose e gli uomini.

Il Rabbì applicò allora la sua belletta sopra i due occhi, impedendo
loro di vedere, e disse al cieco:

— Va. Fra tre giorni o quattro, lavati alle sorgenti di Siloam e credi
nell'inviato di Dio[7].

  [7] SAN MARCO, Cap. VIII, S. GIO., Cap. IX.

Questa guarigione era stata operata dal Rabbì in modo così pronto, abile
e rapido, che i suoi discepoli gridarono al miracolo! ed egualmente la
plebe. Ma i farisei, gli Scribi, e le altre persone istrutte se ne
spassarono come di una gherminella da cerretano.

I più coscienziosi fra loro lo chiamarono pazzo e demonio, e
principiarono ad interrogare il mendicante cui sospettavano forte di
essere un discepolo addestrato od un compare d'accordo.

Io vidi che la tempesta ingrossava, ed avvicinandomi al Rabbì lo
condussi meco.

L'ora della nostra partenza per Berachah s'appressava.

Dopo aver lanciato la terribile apostrofe che abbattè e schiacciò sua
sorella, Gesù scappò via da Berachah come da una fornace che l'avesse
bruciato.

Passioni e pensieri d'ogni fatta lo turbavano. Gli avvenimenti lo
mettevano da ogni parte alla prova; alle angoscie della vita pubblica si
aggiungevano gli spasimi del cuore. Quando arrivò a Bethania, la notte
era molto avanzata, il freddo intenso, il cielo puro e profondo. Sedette
sopra un banco di pietra nella corte e s'immerse nell'abisso dei suoi
pensieri. Tutti dormivano sotto quel tetto tranquillo, anche le due
sorelle affettuose che vegliavano alla sorte del Rabbì con tale
inquietudine di amore che cangiava in grazia la loro bruttezza. Il Rabbì
non risvegliò nessuno, s'avvolse nel suo mantello, e spiò il giorno.

Appena spuntò l'alba e' si rimise in via per Gerusalemme, pel Tempio.
Ormai ogni esitazione era cessata: il destino lo travolgeva nei suoi
fiotti. Adescato dal successo del giorno precedente, più focoso e più
incocciato all'opera che mai, entrò di buon'ora nel Tempio, e s'installò
sotto il portico di Salomone.

Appena fu visto, gli oziosi che venivano in quel sito per veder gente e
spigolar novelle, i devoti che ci venivano pel sacrifizio, le persone
del culto, lo circondarono. Nessuno ignorava come l'insegnamento del
Rabbì fosse originale, piccante, ed elevato. Quel giorno, il domani
della mia catastrofe, il Rabbì si lasciò andare al suo umore mistico,
cioè a quella parte della sua dottrina che urtava di più, a causa della
sua oscurità, la quale le dava l'impronta dell'assurdo. In fatti il
Rabbì assicurò ch'egli era la _porta del pecorile_, che egli era la
_buona gregge_, il _buon pastore_, che egli entrava solo da padrone in
quel sito, mentre gli altri vi si insinuavano come ladri per _uccidere_
e _distruggere_. Affermò che «suo Padre lo conosceva, e ch'egli
conosceva suo Padre, ed era pronto a dare la vita pel suo gregge,
ragione per cui suo Padre l'amava; che egli aveva il potere di dare e di
riprendere la sua vita; che egli si era attribuita questa missione ma
che suo Padre altresì gliela aveva imposta....» ed altre cose simili.

— È egli pazzo, od è osesso? chiedeva la folla. Ma altri che si
annojavano di quel garbuglio di parole, misero la questione in termini
chiari, dimandandogli:

— Per quanto tempo ancora ci lascerai brancolare nel dubbio? Se sei il
Cristo, dichiaralo senza ambagi.

— Ve l'ho già detto, rispose il Rabbì con voce ferma, e non senza
collera; ve l'ho detto e voi non avete voluto credermi. Le opere
pertanto che fo io in nome di mio Padre non sono esse sufficienti per
attestarvi il mio potere? Ma voi non credete, perchè voi non siete del
mio ovile, a cui solo do la vita eterna, perchè mi è stato affidato da
mio Padre, e mio Padre ed io non facciamo che uno[8].

  [8] S. GIO., cap. X.

Un grido d'orrore scoppiò in mezzo alla folla. Alcuni vollero lapidarlo,
altri l'accusarono di bestemmia. I Farisei, ingiuriati, fuggirono, verso
il Lishcathha Gazith (camera selciata) ove il sanhedrin sedeva fino dal
mattino, precisamente per giudicare il Rabbì.

Il Rabbì di Nazareth aveva dichiarato la guerra al dogma ebreo ed a
tutti i partiti della Giudea, senza formulare ancora la sua dottrina, o
ravvolgendola in una fraseologia che offendeva il gusto e non
rischiarava le intelligenze. I Sadducei, i quali, se non potevano
migliorare la loro situazione politica, preferivano conservare la pace
al conservare le dottrine giudaiche, s'erano mostrati più tolleranti
dinanzi gli attacchi del Rabbì. Gli Esseniani, che vedevano nel suo
insegnamento un primo passo verso la effettuazione delle loro idee, si
rassegnavano alle ferite che il Rabbì portava loro. Ma i Farisei non
sapevano restar impassibili sotto quella doccia incessante di motteggi,
di rimproveri, di censure, di villanie, di cui si sentivano sempre più
caricati. Avrebbero accettato di transigere con lui, se il Rabbì avesse
consentito a piantarsi a dirittura come un principe della loro casa
reale maccabea, sostegno della polizia separatista, ammiratore della
legge rivelata, ristauratore del regolamento indipendente, e
dell'indipendenza; in una parola: re degli Ebrei. Il Rabbì me l'aveva
fatto sperare. Io aveva portato a Gerusalemme tale speranza. Adesso,
egli mi scattava fra le mani, insistendo, con una pertinacia piena di
collera, sopra la necessità d'adottare una nuova legge, un nuovo
comandamento, una nuova forma di preghiere, una nuova vita religiosa.
Egli profanava il sabato. Faceva buon mercato di ciò che i Farisei
credevano impuro. Aboliva i loro riti, ed attaccava la loro rettitudine.
Il giorno prima aveva tocco il colmo delle sue invettive. I Farisei
avevano portato contro di lui, dinanzi al sanhedrin, l'accusa di cui Bar
Abbas aveva inteso parlare alla tavola del sagan, e che aveva raccontata
ad Ida.

Il sanhedrin si era radunato alla mattina nella sua sala di discussione,
detta Lishcath-ha-Gazith, sul grande bastione della parte occidentale,
rimpetto Sion, presso l'entrata principale del Tempio, che dava sulla
corte degli Israeliti e su quella dei pagani, per permettere l'entrata
agli Ebrei ed ai Greci.

Il sanhedrin si componeva di settanta a settantadue membri, scelti a
suffragio, fra gli Ebrei più considerevoli, più ricchi e più vecchi, non
solo di Gerusalemme, ma anche dell'Egitto, della Grecia e di Babilonia.
Prima di Erode, questo consiglio aveva un potere regio, temporale e
spirituale, essendo nell'istesso tempo corte d'appello e corte
giurisdizionale, civile e criminale, potendo nominare e deporre i re,
nominare i consigli provinciali, decidere delle questioni di pace e di
guerra, giudicare le tribù, il gran sacerdote, i falsi profeti, metter
in movimento gli eserciti. In breve, questo consiglio aveva diritto
assoluto sulle fortune, la vita, la morte, la coscienza dei cittadini,
eleggeva i suoi membri, pubblicava sentenze di morte, interpretava la
legge ed i libri sacri: Dio ed il sanhedrin non facevano che una cosa
sola[9]. Erode condannò a morte tutti i membri di questo corpo — due
eccettuati, Hillel e Shammai — e diminuì di molto i poteri del sanhedrin
cui riunì intorno a questi due illustri membri. Pilato diminuì ancora i
poteri che Erode aveva loro lasciati; ma ciò nondimeno, quelli che loro
restavano erano ancora considerevoli. Il governo romano però, si
riserbava la legalizzazione dei decreti del sanhedrin avanti la loro
esecuzione, eccettuati quelli che riguardavano l'educazione, la
liturgia, la fede ed il culto. Dopo gli errori di Gratus, Pilato aveva
compreso che questo corpo poteva essere un eccellente alleato, o un
nemico terribile.

  [9] Un sanhedrin che pronunciava la pena di morte una volta in
  sette anni meritava di passare per sanguinario. Rabbì Eliezer
  aggiunge: «Egli meriterebbe questa qualificazione condannando una
  volta in 70 anni.» Rabbì Tarfon e Rabbì Akiba dicono: «Se noi
  fossimo stati membri del Senato non avremmo giammai condannato a
  morte nessuno.» Ma Simon figlio di Gamaliel, rispose: «Non sarebbe
  ciò un abuso, e non avreste voi temuto di moltiplicare i delitti
  in Israello?» MISCHNÀ, _Trattato delle pene_, cap. I.

Il sanhedrin era scelto fra i preti, i leviti e la classe laica degli
Ebrei. L'elemento sacerdotale vi dominava. Il gran sacerdote lo
presiedeva, o in sua vece, il rettore del gran Collegio, assistito da
due segretarii.

Un atto d'accusa contro il Rabbì di Nazareth essendo stato portato il
giorno prima, Caifas aveva radunato il sanhedrin, che sedeva in
semicerchio intorno a lui. Dopo che l'atto fu letto, siccome occorreva
l'unanimità dei membri presenti del consiglio per pronunziare la
colpabilità e poi la pena, Caifas domandò se c'era nessuno che volesse
presentare delle osservazioni. Nicodemus, un sacerdote della famiglia di
Hillel, si alzò e disse:

— Padri della camera del giudizio, la nostra legge ci comanda di non
condannare alcuno prima di averlo udito. Ora, ci vien fatta un'accusa
contro questo Rabbì, ma le prove mancano. Possiamo noi procedere sopra
questo quaderno d'imputazioni soltanto? Possiamo inviare dinanzi al
giudice romano una sentenza senza base?

Gli altri membri del sanhedrin, preparati a lanciare un mandato
d'arresto contro il Rabbì, tennero conto di questa osservazione, e
l'assemblea era per isciogliersi, quando un gran numero di Scribi,
leviti, e Farisei irruppero nella sala del consiglio gridando: allo
scandalo, alla bestemmia! Raccontarono allora aver udito il Rabbì
proclamarsi figlio di Dio, e che egli era lì ancora, sotto il portico di
Salomone, per ripeterlo a chi volesse interrogarlo. Questa volta le
testimonianze erano concludenti, irrefragabili. Il mandato di arrestare
il Rabbì fu spedito all'istante. Gli ufficiali del Tempio ricevettero
l'ordine di eseguirlo.

Gesù predicava ancora ed insisteva, colla sua ordinaria tenacità, sopra
la sua asserzione.

— Voi dite che io bestemmio perchè ho annunziato che io sono il figlio
di Dio? Se io non fo le opere di mio Padre, non mi credete. Ma se le fo,
se non volete credere in me, credete in esse; giacchè allora voi potrete
conoscere e convincervi che mio Padre è in me, ed io sono in lui[10].

  [10] S. GIO., cap, X.

A queste parole gli ufficiali del Tempio si avanzarono per impadronirsi
di lui; ma nel medesimo momento, Gneus Priscus entrò sotto il portico, e
rivolgendosi a Gesù, gli domandò:

— Non sei tu il Rabbì di Nazareth?

— Sì, son io.

— Vieni con me allora; Claudia, la moglie del procuratore, t'invita alla
sua presenza.

Gli ufficiali del Tempio si ritirarono, accompagnati da uno sguardo
ironico del Rabbì, mentre Gneus Priscus lo afferrava senza troppe
cerimonie pel braccio, e lo conduceva seco.

Era l'ora quinta.

Claudia s'era risvegliata all'ora quarta (dieci ore del mattino), il
viso simile ad una maschera di creta, a causa della mollica di pane
bagnata nel latte d'asina che vi applicava durante la notte onde
conservarsi fresca e bianca la pelle, e che disseccava e si screpolava
la notte. Battè ad un timballetto d'oro posto sul tavolo dinanzi il suo
letto, e Nomas, che stava alla porta, coll'orecchia tesa, si presentò.
Claudia ordinò che venissero ad alzarla; e Nomas avendo aperto le
finestre, cinque o sei schiave si precipitarono nella stanza, per
aiutare la loro padrona a scendere dal letto ed a venire nel vicino
gabinetto, ove andava a principiare la grand'opera della teletta[11].

  [11] Vedi BÖTTIGER, _La teletta di una dama romana_.

Il gabinetto ove Claudia entrava era quello stesso ch'Erode aveva fatto
costruire per la regina Mariamne. Era un ottagono abbastanza grande per
contenere quell'esercito di giovani e belle schiave, nude fino alla
cintura, che dovevano compiere i sapienti misteri della trasformazione,
della creazione qualche volta, del culto della bellezza. Dai muri di
questo gabinetto pendevano delle stoffe di seta color di giacinto
rilevate di porpora [12] e ricamate in oro e in perso. Due intermedii di
finestre erano coverti di specchi dal su in giù. Il soffitto, di cedro
d'Africa scolpito, sembrava un pergolato dalle foglie d'oro, e dai
grappoli d'argento e di pietre preziose. Un magnifico tappeto di Smirne
ricopriva il mosaico del suolo in lazulite, agate e smeraldi, poichè la
stagione era fredda, benchè il sole entrasse a iosa dalle due finestre
aperte sui giardini. Alcuni dipinti poco modesti ornavano gli assiti
delle finestre, ed alcuni quadri, anche questi poco decenti, pendevano
dalle pareti; finalmente alcuni seggi coperti di cuscini ricamati.

  [12] Parietes tyriis et hyacintinis et illis regiis velis quæ vos
  operose resoluta transfiguratis, pro pictura abutuntur. TERTULL.,
  _de Hab. mul._, cap. V.

La schiava che attendeva alla porta chiese a Claudia, chi doveva lasciar
entrare durante la teletta.

— Il Rabbì di Nazareth soltanto, rispose Claudia, se si presenta. L'ho
fatto domandare fin da ieri sera.

L'opera delle schiave addimandate _cosmetes_ non durava a lungo con
Claudia, la quale non metteva che di rado un po' di rosso sulle labbra.
Chi legge ricorderà la funzione ch'ella esercitava a Capri presso di
Tiberio. Un poeta aveva cantato di lei, sotto il nome di Tais: _Tam
casta est rogo Thais? Immo fellat_: Perchè mai Tais è così casta? perchè
la sua bocca non lo è punto.

Del resto, nè capelli posticci, tagliati ad una fanciulla d'oltre Reno,
ed intrecciati da un'artista del Velabro: nè capelli tinti in biondo,
dopo essere stati lavati alla calce, colla pomata del Gallo del circo
Massimo; e neppure denti falsi, nè false sopracciglia.

Cinzia portò una coppa d'oro colma di latte d'asina munto in quel
momento, ed umettò con esso la crosta di mollica di pane della notte in
maniera da farla cadere. Poi Cinzia lavò la pelle prima con dell'acqua
tepida, poi con della fredda, in cui durante la notte era restato in
fusione del nardo d'Etiopia. Cloe si presentò con una conchiglia d'oro,
e dopo aver respirato sopra uno specchio, per mostrare alla sua padrona
che il suo alito era puro, e convenientemente profumato dalle pastiglie
di Cosmos, umettò con della saliva un pizzico di rosso molto allungato
cui distese leggermente sulle labbra di lei. Delia aveva già lavati i
denti di Claudia, con una dolce spugna di Bretagna.

Licenziata la coorte delle _cosmetes_, vennero le acconciatrici dei
capelli.

Claudia aveva una ricchezza imbarazzante di capelli neri, soffici,
lunghi fino alle ginocchia. Questa parte della teletta era la più
molesta; e le accadeva sovente, per impazienza, di mordere, di pungere
colla sua spilla, di pizzicare i seni delle sue schiave. Neera teneva lo
specchio mobile cui presentava alla sua padrona in tutte le posizioni.
Questo specchio non era altro che una piastra d'argento levigata,
contornata d'un rilievo d'oro riccamente cesellato ed ornato di perle.
Fiale sfece la pettinatura notturna, e diede dell'aria a quelle
splendide treccie. Ostilia le profumò di pomate preziose. Nape rotolò
con un ferro caldo i piccoli ricci delle tempie e della fronte.
Cypassis, una bella negra, intrecciò, annodò ed avvolse in forma di
torre le treccie di dietro. Galla le traversò di quel terribile spillone
di cui Claudia faceva un uso così omicida nella sua ira.

La fioraia egiziana Nemesis entrò di poi, seguita da due fanciulli
etiopi con due corbelli ripieni di fiori, e di rami colti nello stufe.
Claudia scelse un ramo di verbena ed alcuni narcisi, cui Phlogis le
piantò nelle treccie. Claudia, l'ho già detto, non portava mai gioielli.

Acconciata la testa, toccò la volta alle mani.

Fabulla le lavò con del latte tepido. Lilla le sciacquò all'acqua di
rose. Vetustilla le asciugò con una pasta di mandorle profumata, poi con
un lino d'Egitto fino come una tela di ragno. Sabina, che aveva tolto il
famoso anello di Tiberio, lo rimise all'annulare. Polla tagliò le
unghie, e le lucidò con un cosmetico oleoso e profumato. In quel
momento, mentre Chione, Clio, Calamide ed Eunoe si occupavano dei piedi
di Claudia, d'una bianchezza abbagliante, — quei piedi che davano il
batticuore alla gioventù d'Alcinous di Roma, quando ella passava per la
Via Sacra, — mentre Glicera le calzava degli stivaletti rossi dai
talloni dorati, e che Marcella li annodava con dei cordoni di seta ed
oro a quelle caviglie ed a quelle gambe tanto cantate dai poeti, due
adolescenti Galli, dai capelli castagni arricciati, e dalla schiappa
corta e bianca, portarono lo asciolvere di Claudia.

Uno d'essi teneva sopra un bacino una coppa di murrina che aveva il
valore d'una provincia, l'altro un vassoio d'oro con dei frutti. Nella
coppa fumava quel brodo squisito di succo di selvaggiume, allungato con
della crema, del mele e alcune goccie di vecchio Pollio di Siracusa,
inventato da Eumolpe, cuoco, o meglio medico di Claudia. Cleopatra le
presentò un pezzo di porpora per asciugarsi le mani, ma Claudia preferì
tuffarle nei capelli dei due giovani schiavi.

In quell'istante, venne la volta delle ornatrici. Ma nell'istesso tempo
Drusilla, la schiava della porta, annunziò Filottete, Curculio, ed il
Rabbì di Nazareth.

Claudia rinviò Curculio, lo schiavo che ogni mattina le raccontava gli
avvenimenti della città, ed ordinò di lasciar passare il Rabbì e
Filottete.

Questi era il filosofo di Claudia, il cui mestiere consisteva nel
recitarle dei versi greci e latini — i più liberi erano i meglio
accolti. Filottete doveva altresì pigliar cura delle piccole cagne,
insegnare a chiacchierare ai papagalli, ritrovare delle nuove pomate,
lavare i cagnolini quando avevano caldo, pettinarli ed uccidere i loro
insetti. Questo filosofo era calvo. Aveva una barba che gli scendeva
fino alla cintura, un mantello spelato e sordido, una tunica di lana
rozza che non gli copriva neppure le gambe nude e vellute, e dei sandali
grossolani. Era ghiottone a dar dei punti ad una _preziosa_; e siccome
Claudia nutriva le sue cagne in puerperio di fegati d'oca e di cialdelle
di sesamo, il filosofo le faceva partorire sovente, troppo sovente, le
condannava ad una dieta salutare, e ne divorava egli le leccornie.
Filottete veniva a presentare a Claudia la sua favorita Febea, la
cagnetta maltese che abbaiava a Pilato più delle altre, e che aveva dato
alla luce sei piccoli cui egli recava in un lembo del suo mantello.
Claudia accarezzò la cagna, e la rimandò col suo aio. Poi, volgendosi
verso Gesù, gli chiese in greco:

— Rabbì, che lingua devo parlarti? io non so l'ebraico; conosci tu il
greco od il latino?

— Parla il linguaggio che traduce meglio la voce del tuo cuore, rispose
il Rabbì.

Claudia aveva tutto il busto ignudo. La candidezza, la bellezza,
l'eleganza di quel corpo davano i brividi. Tiberio l'aveva temuto, e,
per gelosia d'imperio, era stato contento di allontanare Claudia di cui
temeva l'irresistibile influenza, ch'ella andava prendendo su di lui. Il
Rabbì la guardò come se i suoi occhi fossero stati di cristallo. Marcia,
la direttrice della guardaroba, venne a chiedere a Claudia che tunica
volesse.

— Una tunica a frange azzurre, ordinò Claudia, la damascata.

Mentre Marcia traversava un'infilata di stanze piene di schiave: nella
prima quelle che filavano e tessevano le stoffe; nella seconda le sarte;
nella terza, le ricamatrici; nelle altre le piegatrici, le stiratrici,
quelle che facevano gli ornamenti; mentre Marcia domandava alle schiave
la tunica disegnata, Claudia diceva al Rabbì:

— È molto tempo che ho dato l'ordine di farti venire. Non sei dunque
stato avvertito del mio desiderio? Non ti hanno trovato? Pure, se avessi
chiesto a Roma che mi si conducesse l'istrione Pilade, l'avrebbero
trovato all'istante.

— Sono arrivato a Gerusalemme soltanto avant'ieri sera, rispose Gesù.

Lo sguardo del Rabbì diveniva severo. Egli non sapeva che le dame
romane, anche le più austere, non avevano la castità degli occhi. Esse
si bagnavano nude nelle Terme miste cogli uomini. Claudia nondimeno
osservò il pudore del Nazareno, e come se quello sguardo fisso, acuto
come la lama d'un pugnale, la bruciasse o la pungesse, arrossì, e
sollecitò Paula a metterle la camicia di cotone a maniche corte.
Pyrallis le sostenne il seno, cura inutile, con una cintura.

— Che tempo fa, Rabbì? chiese Claudia per stornarne lo sguardo.

— Quando si vedono i tuoi occhi, o Claudia, rispose il Rabbì con
semplicità, non si cura di sapere se il sole brilla, o se si nasconde.

Claudia sorrise. Ella ignorava che quest'uomo, un momento fa così duro,
così brutale, così amaro contro i Farisei, si trasfigurava da che
scorgeva un fiore, un fanciullo, od una donna. Gesù sprezzava l'uomo.
L'uomo feriva la sua squisita sensibilità, il tatto voluttuoso dei suoi
nervi. Per contro il fiore lo incantava, il fanciullo lo inteneriva, la
donna riempiva la sua anima di ineffabile soavità. Il profeta si
cangiava allora in poeta; la voce si mutava in un canto; l'uomo che
brancolava sulla terra, navigava per i cieli. Il Rabbì colla forza della
sua volontà, aveva infranto la sua ruvida corteccia di Ebreo, e pulendo
la sua anima, le aveva dato uno splendore dolce e squisito.

— Sei tu ammogliato, Rabbì?

— No, rispose Gesù. La donna è troppo elevata per me, perchè io possa
innalzarmi fino a lei.

— Rabbì, riprese Claudia, non allogarla però così alto che la si trovi
relegata nella solitudine.

Marcia arrivò colla tunica e la porse a Polla. Questa prese quel vestito
di lana di Mileto, tessuto di cotone, dalle maniche serrate nell'alto,
aperte dal gomito ai polsi ove un braccialetto od un cordone di seta le
serra, tutta ricamata in azzurro, al collo, al petto e nei lembi.

— Hai mai assistito alla toeletta d'una donna, Rabbì? chiese ridendo
Claudia.

— Sovente?

— Sovente!

— Sì: a quella delle tigri nel deserto. E ti assicuro, bella signora,
che desse non sono meno lente, meno ricercate, meno difficili,
quantunque meno civettuole, che la moglie d'un procuratore della Giudea.

— Hanno esse specchi ed unguenti?

— Altro che! hanno il ruscello e la saliva, e quelle piote terribili
come i vostri spilletti, che sono ad un tempo un oggetto di ornamento ed
un'arma.

In quel punto Drosa presentava la _palla_ o mantello che finiva
l'abbigliamento. Il panneggiamento di questo vestito è la parte più
difficile della teletta d'una donna. L'è tutta una scienza, che esige la
conoscenza dell'architettura, della pittura, del gioco delle ombre e
della luce, che deve arrotondire, armonizzare, rilevare, rivelare tutte
le membra della donna, non nascondere alcun movimento del corpo e
fonderli tutti dolcemente. Claudia prese la _palla_ dalle mani della
schiava, e presentandola al Rabbì, gli disse sorridendo:

— Poichè sei così esperto nella civetteria delle tigri, io, che sono
pure civetta, sarei ben lieta vedere come desse t'hanno insegnato ad
aggiustare questo arnese.

Il Rabbì, con una condiscendenza squisita e delicata, prese il mantello,
lo posò sulla spalla dritta di Claudia, ne fece passare un lembo sotto
il braccio sinistro, lasciando nuda la spalla ed il braccio, e mentre le
due estremità scendevano fino ai garetti, diede per di dietro un tal
giro di pieghe al corpo del mantello, che provocò un grido di sorpresa
di Claudia, la quale si guardava negli specchi. La si sarebbe detta
nuda, talmente il busto, il basso dei reni, le anche erano soavemente
disegnate.

— Affè di Dio! Rabbì, disse Claudia ridendo, mi comprerai una tigre, per
aggiustarmi la stola. Sono divenuta difficile.

E fece segno alle sue schiave, che la lasciarono sola col Rabbì.

Allora la scena cangiò. Nè Claudia, nè Gesù, non erano più gli stessi.



XXV.


Claudia indicò un seggio al Rabbì e principiò a passeggiare per la
stanza d'un passo agitato.

— Sai perchè t'ho fatto chiamare? sclamò ella.

— Quando si domanda del medico, rispose tranquillamente il Rabbì, è
segno che si è ammalati.

— Potresti forse aver ragione. Ma dov'è il mio male?

— Dove tutte le donne han male: al cuore.

— Quando c'è un cuore! Sì, tutte le donne sono prese di là, ora perchè
non le si amano, ora perchè le si amano poco o troppo, talvolta perchè
esse amano. È malattia d'amore la mia? in quale categoria mi poni tu?

— Quando si è bella come sei tu, giovane, ricca, possente come sei tu,
di rado una donna si lagna dell'altrui amore. Che la si ami o no, ognuno
s'affretta a circondarla d'un'atmosfera d'amore alla temperatura ch'ella
desidera. Dunque, Claudia, tu ami.

— Io amo. Che vuoi tu che faccia una donna a ventiquattro anni se non
ama?

— Ami, e sei gelosa.

Claudia s'arrestò, e prendendo le mani del Rabbì gridò:

— Sì, sono gelosa, gelosa da morirne.

Il Rabbì afferrò le mani che Claudia gli presentava e le serrò,
quantunque ella a quel contatto ardente volesse ritirarle. In pari
tempo, il Rabbì inchiodò su di lei le sue larghe, calde, penetranti
pupille, simili a due raggi di fiamma, e Claudia accasciandosi sulla
persona cadde sopra un seggio. Il Rabbì si avvicinò ancora alla sua
fronte e chinandosi su di lei, la guardò con maggiore intensità ancora.
Claudia chiuse gli occhi. Dopo un istante, il Rabbì si allontanò.
Claudia si rialzò. Questa scena non durò che alcuni minuti.

— Che ho io dunque? disse Claudia, allungando le braccia, — sono
affranta, ho creduto di morire.

— L'aria di questa stanza è troppo calda, osservò il Rabbì aprendo la
finestra; la tua emozione ti ha dominata.

— Che ti diceva io or ora?... Ah! M'è stato parlato della tua potenza.
Ti credono un Messia, e tu ti spacci per figlio di Dio.

— Tu non mi credi?

— Figlio di Dio? perchè no. Enea lo era, Alessandro, Cesare lo erano;
non so quanti altri re, conquistatori, e maghi lo sono stati. Siilo tu
pure. L'opera che vuoi compire lo esige. Ti è egli stato detto, che io
vi do' aiuto?

— L'opera alla quale io lavoro, o Claudia, mi è stata ordinata da mio
Padre.

— Io non mi occupo di colui che ordina, ma di colui che deve obbedire.
Tu vieni per rovesciare Roma. In nome di chi vieni tu a tentare
un'impresa nella quale Alessandro e Cesare soccomberebbero? Quali sono
le tue forze? Con chi e con che vuoi tu surrogarle?

— Claudia, ti hanno male informata sul mio conto. Il mio regno non è di
questo mondo. Io non vengo a rovesciar Roma. Io vengo a dare al mondo ed
a Roma stessa ciò che alcuni Romani gli rifiutano: l'eguaglianza dinanzi
Dio[13]. Alessandro, Cesare, Augusto, Tiberio fallirebbero in questa
impresa, perchè vorrebbero imporla, mentre occorre indicarla, e
lasciarla compiersi da sè sola. La mia forza, è la verità; è questo
popolo, di cui si è fatto finora una cosa, e di cui io desidero fare un
uomo. Io pongo Dio al posto di Roma.

  [13] «Quale vita sarebbe sufficiente per narrare tutti i benefizii
  dell'eguaglianza?... Nell'universo, essa produce l'insieme; nelle
  città, la democrazia ben regolata, sì differente dall'oclocrazia
  ove la moltitudine ignorante ed appassionata vorrebbe comandare;
  nel corpo, è la salute; nelle anime, l'onestà e la virtù.
  L'ineguaglianza invece, è la causa prima del male che si fa
  quaggiù». FILONE. _Della creazione del principe_, ecc. Il precetto
  dell'eguaglianza non era quindi stato evocato e predicato da Gesù
  pel primo.

— Se questo è tutto ciò che tu proponi, puoi ritornartene in Galilea:
Pilato non ha d'uopo di chiamare nuove legioni. Rabbì, sai che sei qui
con una complice?

— Io non conosco complici; conosco dei messaggieri della mia parola, dei
credenti nella mia missione.

— Rabbì, tu parli già da padrone. Ciò non basta. Che hai tu fatto, che
puoi tu fare? M'è stato detto che hai guarito degli ammalati, e dato del
pane a degli affamati. Rabbì, per sollevare il popolo ebreo come una
marea spaventevole, e sommergere questo pugno di Romani che lo
schiacciano, Esculapio stesso sarebbe impossente. Occorre un Gracco, un
Cesare, un Mario, un Silla, od un Dio: perfino un Catilina.

— Donna, non affrettarti a giudicare l'operaio prima di veder l'opera.
Tu non hai la fede.

— La fede si prova, Rabbì: giacchè io non conosco nulla di così
incredulo, che la credulità. Manifesta il tuo potere, ed allora....

— Allora il figlio di Dio sarà disceso al livello di Simone, il mago di
Sichem. Gli è per domandarmi dei miracoli, come la plebe, che m'hai
chiamato?

— Non hai detto tu stesso che io era ammalata? Ebbene, tutte le azioni
della mia vita non tendono che ad uno scopo. Se io ti domando dei
miracoli, è che non ti considero come un mio schiavo, il filosofo
Filottete.

— Claudia, tu hai d'uopo di una spiegazione e non d'un miracolo. Tu
nascondi un segreto nel fondo della tua anima. Tu ami tuo marito, ma lo
disprezzi; e ti fai violenza e ti torturi per non farti indovinare. Tu
credi che Pilato t'abbia sposata per ambizione, e non per amore. Non
puoi comprendere che egli abbia potuto amarti, conoscendo le tue
costumanze alla corte di Tiberio, ma non sapendo che tu ti disonoravi
per ottenere la libertà di tua madre.

— Rabbì, Rabbì, gridò Claudia, chi ti ha detto tutto ciò?

— Tu stessa.

— Mai, mai io non te n'ho confidato una parola.

— La parola non apprende nulla a coloro che leggono nel cuore.

— Se tu hai questo potere spaventevole, Rabbì, sei più di Dio.

— Mio Padre, che mi ha inviato, m'illumina. Tu sei dunque gelosa.

— Allora dimmelo, mio marito mi ama egli?

— Hai tu un amante, Claudia?

— No.

— Se tu avessi un amante, ameresti tuo marito?

— Certo che no.

— Ebbene...

— Ebbene?

— Pilato ha una ganza.

— Tu menti, gridò Claudia, balzando come una tigre sul Rabbì,
scuotendolo pel braccio.

— Sai tu chi è la sua amante, Claudia?

— Lo saprò, e la ucciderò.

— Io te la denunzio: è mia sorella.

— Che!

— Pilato l'ha comperata da un miserabile parente la fece portar via, e
la nascose agli occhi del mondo. Ella lo ha amato.

— Ah! Disgrazia su loro. È essa bella?

— Non so. Ma non vi sono donne belle, ove sei tu.

— Allora ella si è servita d'un filtro. Conosci tu i filtri, Rabbì?

— Ne conosco uno che è irresistibile: il candore.

— Rabbì, disse Claudia con ansietà, tu leggi nella mia anima; tu mi
denunzii Pilato; mi denunzii tua sorella: chi sei tu? che cosa vuoi tu?

— Io sono l'inviato di mio Padre, quello che porta la luce. Voglio
insegnarti a perdonare. Poichè, se tuo marito ti amasse, cosa farebbe?
perdonerebbe le tue colpe. Ove eri tu? che facevi tu, quando tuo marito
trovava il suo letto vedovo, e sognava di sua moglie riposante in un
talamo adultero?

— È vero.

— Ebbene, ecco ciò che io vengo ad insegnare al mondo. Roma ti dice:
Uccidi tuo marito, uccidi la sua amante: io dico: Perdona, come desideri
di essere perdonata.

— Io non perdonerò mai.

— Ah! tu mi chiedevi qual'è la forza che sommergerà Roma? Eccola: il
rifiuto del perdono. I popoli la misureranno come ella li ha misurati.

— Che importa a me di Roma? Non vieni tu dunque per dire a questo popolo
vile: insorgi e schiaccia questi insolenti stranieri che ti schiacciano?
Non te li do io forse in mano? Rinunzi tu già al mandato accettato di
chiamare alle armi gli ebrei? Io non vedo che una cosa io, e non voglio
che una cosa: quella donna. L'uomo, lo tengo.

— Io non rinunzio a nulla, rispose il Rabbì; attendo la mia ora.

— Rabbì, ov'è tua sorella? Voglio vederla.

— Claudia, io non ti ho svelato un delitto: ti ho indicato una sventura.
Soffoca la tua sete di sangue. Se uccidi tuo marito, il tuo amore per
lui si cangierà in una veste di fuoco che ti consumerà per tutta la
vita. Se fai perire la povera vittima, l'amore di tuo marito per lei,
diviene immortale. Vuoi tu punirli? Dimentica e perdona.

— Rabbì, sono Romana, io. Mi vendico delle ingiurie che mi vengono
fatte. Questa religione del perdono è la religione degli schiavi, i
quali non hanno diritto ad avere dell'onore. Rabbì, tu che leggi negli
animi, devi leggere nella natura: indicami un filtro. Io voglio che egli
mi ami. Fino ad ora, ho sofferto in silenzio, pensando ch'egli pure
soffrirebbe del mio disprezzo, della sua solitudine, del vedovaggio al
quale io lo condannava. Poichè io sperava, lavoravo a soddisfare la sua
ambizione, e vederlo allora ai miei piedi. Tu hai posto un aspide nel
mio cuore. Egli ama altrove. Egli si rifà altrove del mio disprezzo. La
vittima dunque sono io. La condannata alla solitudine, sono io; egli mi
deride forse. Si delizia nella braccia d'un'altra. Impossibile. Bisogna
ch'egli m'ami: bisogna che quella donna sparisca dal mondo.

— Ne prenderà un'altra; ne ha di già forse un'altra.

— Taci; vuoi dunque rendermi pazza? Che vuol egli? Vuol essere prefetto
della Siria, delle Gallie, della Spagna, imperatore forse, che so io?
Ebbene Rabbì, all'opera. Poni fuoco ai quattro angoli di Gerusalemme;
incendia la Giudea; sii re degli Ebrei.... e dammi di che comperargli
Cesare, che vende perfino se stesso. Va, predica, tuona, fulmina; l'ora
è propizia. Pilato è assente. Io ti do tutto in mano, comando, palazzi,
torri, fortezze, legioni; consegnami tua sorella. Tu esiti?

— Ti compiango.

— Rifiuti? allora saprò ben trovarla da me. Cneus Priscus è riescito in
cose più difficili di codesto. Indicami almeno un filtro per
addormentare il mio cuore. Che Messia sei tu dunque? Canidia, la saga
del monte Esquilino, m'avrebbe di già soddisfatta. Vuoi dell'oro?

— Claudia, la pace non è nel delitto, ma nella verità. Hai mai chiesto a
tuo marito se egli ti amasse?

— Quel miserabile sarebbe capace di dirmi che mi adora. Non mi ha egli
sposata, togliendomi dal bagno di Tiberio? Arrossirei di rivolgergli una
domanda simile.

— Gli hai mai detto che lo amavi?

— Vorrei piuttosto mozzarmi la lingua coi denti.

— Come vuoi tu dunque conoscere il vero, se fai a te d'intorno le
tenebre?

— Rabbì, va, tu sei un povero allocco! Io ti chiedo un filtro, e tu mi
porgi dei consigli; ti domando una malìa, e tu mi dai delle parole; ti
dico, solleva il tuo paese! e mi rispondi che attendi la tua ora;
domando di veder tua sorella, e mi consigli di assicurarmi se Pilato mi
ami.... Donde vieni tu dunque, vaneggiatore? Non basta di aver scoperto,
Dio sa come, uno dei miei secreti. Non basta proclamarti figlio di Dio:
bisogna provarlo.

— Claudia, Dio non fa i miracoli per soddisfare la curiosità degli
oziosi, come il tuo cuoco fa delle leccornie per solleticare il tuo
palato, ma per manifestare i suoi eletti, ed indicare ai popoli la
giustizia e la verità. Tu mi vorresti complice d'un'atrocità; io vorrei
innalzarti alla luce della carità. Tu mi hai chiamato, io sono venuto:
ma per consolarti per illuminarti, per ricordarti il tuo dovere di donna
che solo può ricondurti il marito, e sottrarti all'infamia. Tu sei
sorda, e domandi dei miracoli, e mi spingi alla ribellione. Io non opero
pegli uni o pegli altri, Claudia; io mi voto e sacrifico per tutti. Nè
il tuo aiuto, nè la tua opposizione, non possono influire sopra i passi
del figlio dell'uomo: io sono l'eletto, io sono la volontà di mio Padre.
Tu ardi dal desiderio di vedere Gerusalemme nel sangue. Ahimè! la
vedrai.

— Rabbì, tu farnetichi. Un'ultima parola ancora, perchè, fin qui,
abbiamo divagato. Ecco la situazione. Amo mio marito. Sono gelosa e
dubito. Io cospiro contro il mio proprio paese per saziare l'ambizione
di Pilato. Ti ho chiamato per conoscerti, dopo che hai accettato di
divenire il capo dell'insurrezione della Giudea; per vedere colui che si
addimanda figlio di Dio, e fa dei miracoli; per conoscere da te, se i
miei dubbii e la mia gelosia sono fondati; per avere da te, uomo dei
prodigi, un qualche cosa, onde farmi amare, o cessare di amare. Tu non
m'hai soddisfatta in nulla.

— Me ne dispiace.

— Ciò m'importa poco. Sono stata maturata dalla disgrazia, in mezzo alle
feste ed ai piaceri, alla corte dell'imperatore del mondo. Non mi pasco
di frasi, che il mio _lorarium_[14] farebbe rientrare a colpi di verghe
nella gola del mio filosofo, se per caso ei se ne permettesse di simili.
Voglio delle risposte categoriche a domande precise. Pilato m'ama egli?

  [14] Schiavo che infliggeva i castighi del padrone agli altri
  schiavi.

— Non gli ho mai parlato. Nol so.

— Perchè dunque m'hai svelato che tua sorella era la sua amante?

— Perchè, a quest'ora tutta Gerusalemme forse lo sa; perchè iersera,
dinanzi un gran numero di persone, ho denunziato ciò; e perchè io non
mentisco giammai.

— E perchè in questo caso, rifiuti tu la tua opera per soddisfare il mio
amore?

— Perchè io insegno la parola di Dio, e non sono nè un'infame
profumiera, nè una saga, nè un giuocoliere.

— Perchè mi nascondi tua sorella, poichè tutti la conoscono?

— Perchè uccideresti una vittima e non una colpevole, e perchè mio Padre
mi ha ordinato di stigmatizzare il peccato e perdonare al peccatore.

— Sta bene. Ed ora, accetti tu la parte di messia che ti fu offerta?

— Io non accetto una parte come un istrione; io compio la volontà di mio
Padre. Se gli altri cooperano meco, tanto meglio; io non sono strumento
di alcun partito. Io sono ciò che voglio, ed ignoro ciò che altri
vogliano.

— Basta così, replicò Claudia dopo alcuni istanti di silenzio. Io saprò
ciò che ora tu mi taci. Tu poi saprai ciò che si vuole da te, e tu dirai
ciò che io voglio. Ma rifletti bene a questo: in cima di tutto ciò havvi
un abisso.

— L'ho compreso fin dal primo momento.

— Tu sai dunque che ti sei cacciato in una trama le cui braccia t'hanno
serrato, le cui ruote t'hanno afferrato. Bisogna ora andar avanti, o
essere stritolato. Tu sai troppe cose. Hai promesso. Hai principiato.
Una parte della strada ti fu appianata; non t'appartieni più: sei
nostro, o devi perire. Lascia lì codesto Padre la di cui missione
affermi di compire, e la cui voce dici di ascoltare. La voce che tu devi
ascoltare è la nostra: è la mia. Tu sei un porta-voce e non una voce.
Hai principiato a spacciarti per messia, e per figlio di Dio, per tuo
proprio conto; devi finire pel conto nostro. Se dei miracoli sono
necessarii, te ne appresteremo dei belli e pronti, e tu li farai. Se si
crede conveniente di dichiararti figlio di Davide o di Giove, troverai
la tua genealogia tutta in ordine. Hannah ti farà discendere dal cielo
sopra un carro di fulmini, se gli pare opportuno. Non inquietarti di
nulla. Se hai del Messia, del tuo, usane; se no, te ne daremo del
nostro. Ma sta in guardia contro le velleità intempestive. Resistere,
gli è perire. Addio.

— Claudia, mio Padre ti perdonerà poichè tu non sai ciò che tu dici, nè
ciò che insulti. Ma tu hai parlato di tutto, tranne del tuo secreto.

— Quale?

— Eccolo; tu tradisci i traditori.

— Cosa intendi tu di dire?

— Tu spingi alla rivolta, per ischiacciarla. Hai tutto preparato a
questo scopo; e quando la sarà domata dirai a Cesare: Pilato ti ha
salvato una grande provincia dell'impero, merita una ricompensa; dagli
il governo della Siria. Sejano ti ha dato questo consiglio in prezzo di
ciò ch'io non voglio dire, la vigilia della tua partenza da Roma.

— Tu sai tutto ciò? gridò Claudia impallidendo.

— Di più ancora, continuò il Rabbì. Tu desideri i tesori del Tempio e
della tomba di Davide, di cui la sommossa t'offre l'occasione
d'impadronirti, onde comperare l'assenso di Tiberio se egli resiste;
corrompere le legioni, se lo puoi, e in qualità di nipote d'Augusto,
rovesciare l'infame di Capri.

— Rabbì, disse freddamente Claudia dopo aver riflettuto, tu ne sai
troppo, troppo. Ne sono però contenta; poichè tu devi comprendere, che
chi ha penetrati misteri simili, deve per forza o per elezione, esser
complice e partecipare ai benefici, o morire. Or ora ti credevo un
ciarlatano; adesso ti credo un mago. M'hai tenuta un momento in tuo
potere, poco fa, quando m'hai annientata sotto il tuo sguardo. Ho
sentito che mi strappavi qualcosa dall'anima[15]. Sia pure. Se hai osato
tanto, gli è che pensavi di servirmi, e che io t'avrei aiutato. Il patto
è suggellato: silenzio, e va avanti. Mi dirai dopo il prezzo che esigi:
è già accordato. Hai compreso?

  [15] HERDER: _Del redentore degli uomini secondo i nostri tre
  primi Evangelii; Del figlio di Dio, salvatore del mondo, secondo
  l'Evangelio di San Giovanni_; PAULUS: _Commentario degli
  Evangelii; Vita di Gesù_; SCHLEIERMARCHER: _Dogmatica Lezioni
  sulla vita di Gesù_: — citate da STRAUSS; — HASE: _La vita di
  Gesù_, — e diversi altri scienziati tedeschi spiegano la parte
  taumaturga della vita del Nazareno mediante mezzi naturali, Paulus
  sopratutto. Hase invoca anche il magnetismo «questa forza
  misteriosa che si svolge dalle viscere della natura per agire
  sulla vita ammalata.» Giuda non ne sapeva tanto; egli racconta
  senza spiegare.

— Il mio premio è nel cielo; la terra non ha per me che una croce.
Addio.

Così dicendo, Gesù escì.

Prese la via di Bethania.

Una folla di pensieri d'ogni natura lo opprimeva. Si sarebbe potuto
crederlo imprudente nella sua conversazione con Claudia. E non pertanto,
tutte le parole avevano una ragione ed un intento.

Il Rabbì aveva rimarcato che l'ufficiale di Claudia aveva impedito agli
ufficiali del Tempio di arrestarlo. Sapeva che con i preti, i farisei,
il sanhedrin, era impossibile ogni riconciliazione, e che per lui non
c'era più grazia. Gli restava una sola probabilità di salute e di
resistenza: farsi scudo della moglie del procuratore. Lo tentò. Colpì lo
spirito di Claudia, strappandole prima, svelandole poi, il suo secreto.
Ma egli non domò punto quel carattere temprato negli intrighi della
corte di Tiberio. Il Rabbì si trovò più che mai preso nella
cospirazione, e più che mai minacciato. Questo sopraccarico di peso lo
minacciava. Egli aveva chiuse tutte le porte dietro di sè, e dinanzi a
sè: l'abisso lo assorbiva.

Il giorno era molto avanzato quando giunse a Bethania. Egli camminava
col dosso curvo, la testa bassa, lo spirito distratto, quando sulla
soglia della casa di Lazzaro, sentì le sue ginocchia avvolte fra due
braccia, e vide ai suoi piedi una donna che gridava:

— Pietà, fratello! pietà.

Riconobbe Ida.

Questa vista finì di abbatterlo, poichè sapeva il terribile pericolo che
minacciava quella giovine disgraziata.

— Cosa vuoi da me? sclamò il Rabbì. Fuggi, sparisci dalla terra,
infelice, se la terra ha ancora un angolo da ricoverarti.

Ida s'ingannò sul senso delle parole di suo fratello, che pensava alle
minaccie di Claudia.

— Fratello, rispose, io non vengo a chiederti una misericordia che non
puoi avere per me. Io vengo a dirti alla mia volta: fuggi, fratello,
lascia questa città maledetta ove si cospira la tua morte.

— Lo so e ci resto, replicò il Rabbì. Che vuoi, allora?

— Ciò che io voglio? ma io son dunque meno di una straniera per te? Tu
che hai avuto una parola di grazia per la donna adultera, una parola di
tenerezza per la donna di Samaria, una parola di perdono per la
peccatrice di Magdala, una parola di pietà per la fanciulla pagana di
Tiro, non hai dunque nulla per la figlia di tua madre, che peccò perchè
amava? Fratello, se sono nell'abisso, a chi il compito di farmene
uscire? Fratello, nel mio ritiro, ho seguito tutti i tuoi passi, mi son
fatta ripetere tutte le tue parole; io credo in te: salvami. Tutti
m'hanno abbandonata.

— Che posso io fare per te, figlia del dolore? L'avvoltoio ha il suo
nido, la volpe la sua tana, il sciacallo il suo buco, la tigre la sua
caverna; il figlio dell'uomo non ha un sito ove riposare il suo capo.
Posso io domandare l'ospitalità nella casa dell'onore, per la figlia
della colpa?

— Devo dunque perdermi, od uccidermi?

— Non c'è in tutto il mondo per te, che un solo rifugio: le braccia di
tua madre. Ch'ella ti perdoni, ed io t'assolvo. Ma il pericolo è
imminente.

— Che venga dunque, che ricada su me; ma tu, salvati, o fratello.

Il Rabbì rialzò sua sorella, sempre alle sue ginocchia, e baciandola in
fronte, le disse con voce molto commossa:

— Va, povera fanciulla, va e non peccar più.... Dio conterà le tue
lagrime, se piangi; e ti sarà molto perdonato perchè hai molto amato.

Ida gettò le braccia al collo del Rabbì, e gli coprì il viso di lagrime
e di baci. Una grossa lagrima navigò negli occhi di quell'uomo severo,
cui la disgrazia provava, e, come una perla d'una corona, la lasciò
cadere su quella bella giovine testa condannata.

— Nasconditi, figliuola, soggiunse il Rabbì; domani ti cercherò un
ricovero, e che Iddio ti dia pace. Fra due settimane tua madre arriva
pel paschah.

Ida abbracciò di nuovo suo fratello, e ritornò a Berachac ove io
l'attendeva fin dal mattino.



XXVI.


Non tenterò di descrivere lo stato del mio animo. Se non divenni pazzo,
gli è forse perchè il destino sapeva che la mia ragione doveva ancora
essere utile a qualcuno. Dopo che il Rabbì ebbe colpito sua sorella
dello stigmata indelebile di ganza di Pilato, Gamalial mi trascinò via
da Berachah, ed io seguii gli altri come trasportato da un uragano. Mi
ritrovai nella mia dimora, nel mio letto, senza avere coscienza di
nulla, e, cosa strana, m'addormentai d'un sonno stupido e pesante, come
se fossi stato affranto dalla fatica. Ma all'indomani, i primi raggi
dell'alba versarono nella mia stanza tutti gli spasimi che possono
straziare un cuore agitato da cento diverse passioni. La vergogna, il
rimorso, l'amore, il desiderio, il pentimento, il dispiacere,
l'orgoglio, un inferno, il caos, mi mordevano da qualunque parte mi
volgessi. Presi, e rigettai venti risoluzioni una dopo l'altra; volevo
uccider Ida, uccider me, sfidare la società, sposarla, assassinare
Pilato, violare Claudia per vendicarmi del marito, gettarmi ai piedi
d'Ida, supplicarla di perdonarmi, di accettar la mia mano. Le perdonavo
tutto, e tutto dimenticavo.

Avvolto in questo turbine d'idee, senza volerlo, senza saperlo, mi
ritrovai a Berachah. Il mio turbamento aumentò quando Febea mi disse che
Ida era uscita con Noah, e che suo marito mi aveva riportato tutti i
regali che io le aveva dati. Eravamo passati forse gomito a gomito sulla
via, senza che me ne fossi accorto. Mi lasciai cadere sull'orlo della
vasca della fontana, nel cortile, ed attesi. Attesi fino alla notte, e
tutto questo giorno scorse come un'ora. Febea mi offrì da bere, da
mangiare; io non le chiedeva altro che: Ida è ritornata? Ma passò l'ora
ottava, passò la nona. Febea stessa cominciò ad essere inquieta. Alla
decima, ascese sulla torre. Nessuno sulla strada, nè da vicino, nè da
lontano. All'undecima, vi salì ancora. Mi trascinò seco dubitando della
serenità della sua vista. Nessuno. Ella ora mi domandava cosa poteva
esser avvenuto della sua padrona, di suo marito, di Noah, in questa
lunga lunga giornata, dopo la tempesta del dì innanzi. Io era come
istupidito. Non so neppure se non sorrisi. Finalmente all'ora
dodicesima, quando il sole era già tramontato, Febea mi gridò dall'alto
della torre, che arrivavano. Ella li scorgeva appena, lontano, lontano,
ma il suo cuore li indovinava. Il mio li sentiva avvicinarsi; perocchè
galoppava a soprassalti, come un cavallo vizioso. La notte era scesa,
quando Ida entrò nella corte. Noah la seguiva, Febea la precedeva con
una lanterna, Thorix chiudeva la porta.

Ida mi passò vicino. La luce della lanterna mi rischiarava pienamente.
Mi guardò, impallidì anzi, e tremò, ma non volle vedermi. Restai
inchiodato al mio posto. Non un suono si potè articolare nella mia gola.
La seguii degli occhi, la vidi sparire nella casa, e restai nelle
tenebre. Credetti di sognare. Io mi chiedeva se era una visione che
traversava il mio spirito. Potei restare così durante un quarto d'ora.
Finalmente, sentii una mano di donna che mi guidava sotto il portico.
Era Noah. Nel vestibolo c'era una luce, e vidi nel fondo Ida traversare
per passare nella sua stanza da letto.

— Giuda, mi disse Noah, devi comprendere che ti è impossibile riveder
Ida. Ognuno dei tuoi passi è ormai per lei un oltraggio. Nulla tu puoi
dire ch'ella possa udire; e niente ella può dirti che non sia umiliante
per lei.

— È vero ciò che tu dici, osservai io. Ed è singolare che io non l'abbia
pensato.

— Ritirati dunque, Giuda, e cessa di pensare ad Ida.

— Eppure, le dissi, io veniva ad annunziarle che ad onta di tutto, io la
prendo per isposa.

— Giuda! sclamò Noah, possa tu dir il vero! Ma se ciò è veramente reale,
attendi, per apprenderlo ad Ida, di esser ben rimesso dell'uragano
d'ieri sera.... Che festa ieri sera! una fidanzata, degli invitati, dei
regali degni d'una regina! Ed ora qual silenzio, qual tristezza, che
tenebre! Non fa nulla, Giuda, ascoltami: vi sono due vie sicure per
arrivare al cuore di Ida. Metto da parte la prima, quella di Pilato.....

— Oh! mi vendicherò di lui!

— Io t'indico la seconda: quella di suo fratello. Che il Rabbì dica a
sua sorella: Accetta Giuda, ed ella.... ne sono sicura, Giuda, ella
anche ti amerà. Ma Ida corre un pericolo.

— Quale, gridai io?

— Nol so; ma è il Rabbì stesso che glielo ha detto; egli le cerca un
ricovero.

— Fino a che io vivrò, Ida non correrà alcun pericolo.

— Dio lo voglia. Infine, Giuda, mi permetti di rivolgermi a te in caso
di pericolo? Noi siamo sole. Moab ci ha abbandonate.

— No: quella nobile creatura tentò di uccider Pilato, non so perchè,
quantunque mel pensi, e avanti di partire per Sichem, Pilato lo ha
condannato a morire.

— Oh! nascondiamo ad Ida questo disastro. Ella è di già troppo
abbattuta. Io conto dunque su di te.

— Più ancora che sopra suo fratello; ma io veglierò dalla mia parte.

Io ignorava ciò che era accaduto fra il Rabbì e Claudia. La notte era
avanzata. Le porte della città erano state chiuse. Mi diressi verso
Bethania per interrogare Gesù, e passare la notte in quel villaggio,
fuori di Gerusalemme. Arrivai alla casa di Lazzaro, nel momento istesso
che Gionata, il figlio di Hannah, la lasciava. Egli aveva portato al
Rabbì un messaggio di suo padre. Lo trovai molto agitato. Il cerchio che
lo attorniava si faceva sempre più stretto. Egli mi raccontò ciò che era
successo al Tempio in quella mattina, poi la scena avvenuta fra lui e
Claudia, meno alcuni particolari che mi doveva dire più tardi, e che io
ho già raccontati.

Dopo la partenza del Rabbì, Claudia aveva fatto chiamare Hannah, e gli
aveva ingiunto di affrettare gli avvenimenti. Hannah le aveva fatto
conoscere ciò che il Rabbì aveva detto e fatto nel Tempio, e la
decisione presa dal sanhedrin. Gli affigliati alla cospirazione non
s'erano opposti all'ordine d'arresto; perchè desideravano, anzi, di
avere il Rabbì sotto il loro assoluto potere per renderlo più dolce,
piegarlo alle loro volontà, deciderlo ad accettare le loro dottrine, ed
agire secondo i loro desiderii. Claudia aveva consigliato allora, di
avere con lui un colloquio decisivo, di metter bene la questione, dirgli
chiaro ciò che si voleva da lui, ciò che gli si chiedeva, ed obbligarlo
ad una professione di fede netta e finale. Hannah inviò suo figlio a
portare questo invito al Rabbì.

Io conosceva quegli uomini. Sapevo che ciò non poteva condurre che ad
una rottura aperta, nella quale il Rabbì sarebbe stato spezzato senza
misericordia, e caricato di tutti i torti. Fino a lì, io aveva agito per
la cospirazione, non curandomi veramente se un rabbì o due vi sarebbero
stati schiacciati. Ora che la sorte del mio amore s'appoggiava sulla
testa di Gesù, egli mi diveniva prezioso sotto tutti i punti di vista.
Gesù aveva accettato l'invito di Hannah, ma aggiornandolo di una o due
settimane.

Egli voleva attendere che i suoi compatriotti della Galilea fossero
venuti a Gerusalemme per la festa del paschah, quantunque avesse poco a
sperare dalla loro protezione. Ma i provinciali, in una capitale ove
sono come forestieri, s'intendono meglio fra loro, che nelle città
native. Poi queglino delle altre provincie arriverebbero nel medesimo
tempo, ed in quei giorni di festa, i partiti in Gerusalemme si sentivano
meno padroni del solito. Non si sarebbero forse permessa una brutalità
contro il Rabbì, se ne avevano pure l'intenzione.... Io divisi
l'opinione del Rabbì, e per esser più sicuro, lo consigliai a lasciar
Gerusalemme la notte istessa, ed a ritirarsi presso uno dei miei amici
ad Efraim, grosso villaggio dalla parte del deserto della Giudea, poche
ore (otto o nove miglia) al nord di Gerusalemme, presso Salem, alla
sorgente ove egli si era separato dal Battista. Gli promisi di cercare
di saper tutto, di scandagliare gli animi, apprendere od indovinare i
progetti, e di andare a trovarlo.

Il Rabbì accettò il mio consiglio. Cenammo molto bene, grazie alle buone
sorelle di Lazzaro, ed a Lazzaro stesso, quantunque infermiccio, avendo
avuto il giorno prima un accesso dell'implacabile sua malattia: il mal
caduco. Due ore innanzi giorno, il Rabbì lasciò Bethania, ed io
l'accompagnai fino al momento in cui l'alba principiò ad imbianchire il
cielo. Allora lo lasciai e ritornai a Gerusalemme. Ero appena coricato,
quando uno schiavo di Claudia venne a dirmi che la sua padrona mi
chiamava, all'istante stesso, al palazzo d'Erode.

Sospettai della causa di questa chiamata così pressante e così
mattutina. Non mi affrettai dunque troppo. In guisa che, quando arrivai,
alla ora quarta, la trovai già vestita, e vidi nella corte una lettiga
per lei, portata da otto giganti della Cappadocia, ed un cavallo tenuto
in pronto per me.

— Giuda, mi disse ella, vado a trovare la tua fidanzata; tu
m'accompagnerai, o meglio, mi precederai per annunziarle la mia visita.

Queste parole, dette col sorriso sulle labbra, l'aria tranquilla e
graziosa mi gettarono in una costernazione spaventevole. Il Rabbì mi
aveva prevenuto. Che fare? Claudia certamente mi vide impallidire.
Ricomposi però il mio viso ad un sorriso riconoscente ed intravedendo,
con un colpo d'occhio, il pericolo delle varie risoluzioni che potevo
prendere, mi decisi ad accompagnarla, o meglio a condurla a Berachah.
Ero deciso, nella peggiore ipotesi, ad ucciderla, se avesse tentato
qualsiasi violenza contro di Ida. Poi, a dir il vero, ero contento nel
fondo, che Claudia conoscesse l'infamia di suo marito, e ch'egli la
tradiva.

Pilato aveva raggiunto Pomponius Flaccus a Sichem; poichè il governatore
della Siria, avendo appreso dal suo procuratore della Giudea che gli
Ebrei si preparavano ad un movimento, aveva preso delle misure per
schiacciarli immediatamente. Dopo aver inviato a Pilato alcuni rinforzi
ne conduceva seco ancora. Ei voleva consultare il procuratore su
l'essenza e l'estensione della cospirazione. Pilato aveva quindi
lasciato Gerusalemme due giorni prima, avvegnachè ferito. E fu fortuna
per lui, perchè se si fosse trovato a Gerusalemme, Claudia l'avrebbe
ucciso nel primo impeto. Non avendo sotto la sua mano questa vittima,
Claudia pensava disfarsi dell'altra cui Cneus Priscus aveva scoperta, e
col raffinamento o meglio col delirio della vendetta, desiderava avermi
seco. Partimmo.

Una mezza coorte di cavalieri ci seguiva.

Un'ora dopo, eravamo a Berachah.

La nostra presenza destò nella casa un profondo spavento. Ciò si
comprende. Cosa veniva a fare la moglie di Pilato dalla amante di
Pilato? Il nome di Claudia, in oltre, era circondato da quelle voci
misteriose e terribili che pesavano sopra l'infame ritiro di Capri.

Claudia andò dritto al tablinum, come se fosse entrata nella sua casa.
Potevo appena seguirla, tanto ella camminava presto. Non una parola era
stata scambiata fra noi durante la strada. Il suo sguardo stillava
l'odio.

Quando Noah andò a prevenir di questa visita la sua padrona, Ida tremò
da capo a piedi. Forse, se fosse stata nella casa propria, ella avrebbe
dimostrato un po' più di sicurezza. Ma nella casa di Pilato, ella si
sentiva sotto il peso d'un'accusa che la schiacciava. Laonde, ella si
fermò alla porta del fondo del tablinum, e le mancò la forza di
avanzare. Ida restava lì, immobile, senza respirare, il cuore che le
trasaliva, il viso bianco come l'alabastro, allorchè Claudia, entrando
dalla porta dell'atrium la vide. Quelle due donne scambiarono uno
sguardo, pronto come il lampo, prodigioso, luminoso, possente come lui.
Ida portò le sue mani sugli occhi, poi le unì sul suo petto, sclamando
involontariamente, vinta, trascinata da un impulso irresistibile:

— Dio mio! com'è bella!

Claudia udì questo grido e rallentò il passo. Si avvicinò tuttavia, e
considerò Ida dappresso.

Il contrasto fra le due donne era assoluto. Claudia trascinava i sensi
come un uragano, e passava: Ida penetrava nell'anima come un raggio di
luce, e vi si cristallizzava. L'una era la bellezza che vi strappa i
baci dal fondo della vita; l'altra era la bellezza che v'inizia in una
vita nuova piena di inebbriamenti ignoti: l'amore dal cervello. Quando
Claudia ebbe esaminato Ida con quella terribile curiosità, in cima alla
quale sta una questione di vita o di morte, ella le chiese con voce
lenta e sorda:

— Confessa ciò che hai fatto per farti amare da Pilato.

Non so che risposta attendeva questa Romana, che era stata mischiata a
tutte le opere tenebrose delle saghe, delle maghe, dei bertoni, delle
cortigiane, che mettevano l'amore nella potenza infernale dei filtri e
dei veleni. Ida che non conosceva punto di quelle infamie, rispose
ingenuamente:

— Ho amato; ma non sono stata amata.

— Come! non sei stata amata? sclamò Claudia.

— Ahimè! no. Io non sono stata per lui che il cuore ove veniva a
riposarsi dei suoi cordogli, e non il cuore a cui veniva a cercare la
consolazione e la gioia.

Claudia lasciò sfuggirsi dal petto un sospiro che risuonò in tutta la
sala. La tigre era disarmata e rientrava gli artigli.

— Non menti, fanciulla?

— Oh! vorrei ben mentire! replicò Ida. Se mentissi, tu non saresti là,
ed io non morirei di dolore.

Claudia sedette, e attirando Ida presso di sè, continuò:

— Dimmi chi sei. Raccontami come l'hai conosciuto, e ciò che è avvenuto
fra voi. Dimmi perchè ti ha lasciata: dimmi tutto, tutto, i più minuti
ragguagli, le più semplici parole, tutto ciò che ti concerne, tutto ciò
che lo riguarda.

— Ho poche cose a dirti, rispose Ida. Nol so, ma quando si ama, la vita
è così variata, così tempestosa e così semplice nel tempo stesso...

— Donde vieni?

— Sono nata in un villaggio della mia bella Galilea, a cui penso sempre.
Vi sei stata? Dei fiori da per tutto, la vigna dai grappoli violetti,
l'arancio dai frutti d'oro, il fico, il melagrano, la palma, l'ulivo, e
all'intorno le montagne azzurre, il cielo risplendente, la terra che
sorride. Dio mio! che mi sia permesso di rivedere quell'angolo della
terra della mia infanzia e di morirvi.

— Morirvi?

— Oh sì! morirvi. Io mi chiamo Mirjam; Ida è il mio nome di dolore. I
parenti di mia madre, poveri discendenti della razza di Davide, avevano
emigrato, come tanti altri, al tempo della carestia, dalla misera
Betlemme alla ricca Galilea, ove i Greci ed i Romani fanno vivere il
popolo, dandogli da lavorare. Mia madre aveva una sorella maritata,
colla quale doveva dividere la meschina eredità che lasciava suo padre.
Non aveva che sedici anni quando si unì, secondo le nostre leggi, a suo
zio più vecchio, più povero di lei, e che non amava. Nostro padre ci
nudriva del suo lavoro di carpentiere. La nascita di mio fratello
maggiore, conosciuto ora col nome di Rabbì della Galilea, diede causa a
delle querimonie di gelosia, e a dei sospetti ingiuriosi fra mio padre e
mia madre[16]; e fu perciò che i miei altri fratelli non amarono mai
Gesù, il quale invece amò più mio padre che mia madre.

  [16] Gli Evangelii e gli autori della vita di Gesù hanno
  raccontato le cause e le ragioni di questi sospetti, Mirjam
  ripeteva ingenuamente: _Nonne repetita est in me historia
  Adami?.... Munda sum, nullum virum cognovi. Dixit autem Ioseph: Et
  undenam est ergo quod habes in utero? Et respondit Maria: Vivit
  dominus meus quod non scio unde mihi est_. Proto Evangelio di S.
  GIACOMO. _Fabric._ I, pag. 23. Ispirata da questo _non scio_,
  l'opinione mondana acquistò di buon'ora una grande estensione,
  poichè la traccia n'è restata in uno scritto ebraico abbastanza
  reputato, quantunque ripieno di puerilità, e di insulsaggini da
  satirico, voglio dire il _Sepher Toledod Jeschri_, ovvero Libro
  degli atti di Gesù, tradotto in latino e confutato da Wagenseil
  nella raccolta intitolata _Tela ignea Satani_ (Vedi alla fine del
  volume la nota A). Origene parla pure di questo fatto, e dice:
  _Videamus an non cæci fuerint auctores hujus fabula? de virgine
  deprehensa cum juvene Panthera in adulterio et a fabro repudiata_.
  (Contra Celso, lib. I). Nell'evangelio di Nicodemo (_Fabric.
  Aport._ t. 1) gli anziani dei Giudei dicevano: Noi sappiamo che
  sei nato da un commercio illecito. Altri rispondevano: _Nos non
  dicimus natum esse ex fornicatione. Hic sermo vester non est
  verus, quoniam desponsatio facta est. Et responderunt: Omnis
  multitudo audienda est quæ clamat fornicatione natus est_.

— Comprendo, disse Claudia.

— Io, continuò Ida, venni per l'ultima, più amata di tutti, la sola che
Gesù amasse. Mio padre, costretto dal suo lavoro, si assentava sovente
dal villaggio, e correva i borghi e le cascine dei contorni, ed anche
più lungi, a Seforis, sul lago di Genesareth. Ma egli lavorava molto e
guadagnava poco. E la famiglia era numerosa, perchè mia madre, molto
bella, gli aveva dato parecchi figliuoli. Egli sperava di esser aiutato
dal suo primogenito, cui inviò a Seforis onde imparare il mestiere, di
cui egli non faceva che la parte più grossolana. Fu ingannato nella sua
aspettativa. Gesù non amò l'arte sua. Restava delle ore intiere sotto
gli alberi, dinanzi il suo banco alla porta della casa nel nostro
giardinetto, le braccia incrociate, gli occhi rivolti al cielo; e quando
il padre rientrava la sera non trovava nè tavole piallate, nè casse o
panche costrutte. Allora accadevano delle scene fra i miei fratelli che
lavoravano molto, e mio padre che non sapeva rimproverare Gesù, e mia
madre che voleva framettersi. La conclusione di quelle risse era che
all'indomani Gesù spariva dalla casa, e restava assente delle settimane,
dei mesi, un anno intiero. L'ultima volta, otto anni fa, non si vide per
tre anni.

— Ma dove andava egli? domandai io.

— Chi lo sa? Dappertutto, poichè ho inteso dire da mia madre che era
stato in Babilonia, a Roma, in Grecia, nelle Indie, a Menfi, in ogni
sito. Ma quando ritornava non portava che alcuni rotoli di carta, i
quali sparivano essi pure dalla casa all'indomani. Questi viaggi, la
frequentazione continua dei partigiani di Giuda di Gamala, il messia
galileo, lo allontanarono sempre più dal suo mestiere di carpentiere,
aumentarono la discordia nella famiglia, quando egli era a Nazareth.
Però Gesù, sia solo, sia con mio padre, correva coi suoi utensili per le
valli di Zebulon, Issachar e Neftali, per cercarvi lavoro; mentre io
conduceva sulla collina a pascere le capre e le pecore, e che mia madre,
alzandosi col sole, andava a comperare i legumi ed i frutti al mercato,
preparava i nostri alimenti — una zuppa di lenti, o un pezzo di carne —
filava, o tesseva per vestirci, cantava il suo salmo all'ora nona,
veniva alla fontana colle altre donne del villaggio, coll'urna sulla
spalla, e ritornava per ispazzare la piccola corte, stender per terra i
nostri materassi, e attenderci per cenare.

— E perchè hai tu abbandonato questa vita così semplice e così dolce di
cui tua madre ti dava l'esempio? domandò Claudia.

— Tel dirò. Cinque anni fa, mio padre morì. Io aveva allora tredici
anni. Gesù era assente da alcuni mesi. I miei fratelli mi detestavano e
mi battevano, appunto perchè Gesù mi amava. Mia madre non riusciva a
proteggermi; mia sorella mi maltrattava ancor più dei fratelli,
chiamandomi scioperata, infingarda. Eppure io non poteva filare e cucire
in casa, e custodire fuori la greggia, nel medesimo tempo. Trovavano che
mangiavo più pane che non ne guadagnassi. Finalmente, Gesù riapparve una
sera nella casa paterna, più cupo, più silenzioso, più strano che mai.
La morte di mio padre lo alzava al grado di capo della famiglia. Egli
non si curò di questo diritto. Restò alcuni mesi a Nazareth. Ma venne il
paschah e mia madre manifestò il desiderio di andare a Gerusalemme,
tanto più che sua sorella che era maritata in quella città con un
legionario, l'aspettava. I miei fratelli e la sorella l'accompagnarono.
Restai sola a casa con Gesù. Egli mi aveva insegnato a leggere ed a
comprendere il greco, che tutti parlavano intorno a noi. Mi accompagnava
sovente alla montagna, dietro le nostre capre e le nostre pecore. Ai
campi, e' non era più lo stesso uomo. Comprendeva il linguaggio dei
fiori, comprendeva ciò che si dicevano gli uccelli, ciò che il cielo e
le stelle cantavano. Mi attirava allora sulle sue ginocchia, passava le
sue mani nei miei capelli, sentivo circolare nelle mie vene una fiamma,
e poi mi addormentavo sul suo seno.

— Ah! sclamò Claudia che forse si risovveniva.

— Quando mi risvegliavo, continuò Ida, trovavo il suo sguardo vellutato
e materno che avviluppava il mio viso come di uno strato di nuvole; ma
io mi trovava così affaticata come se avessi fatto lunga strada e se
avessi lavorato a lungo. Una affezione profonda mi attaccava a mio
fratello. Non avevo altra volontà che la sua. Egli mi leggeva
nell'animo. Io comprendeva i suoi pensieri. Apprendevo tutto ciò ch'egli
voleva. Mi pareva identificarmi sempre più in lui. Avevo quattordici
anni. L'anima mia era pura come le nostre notti di primavera. Però io
principiava a risentire dei brividi incogniti. Mi sentivo attirata da
Gesù come lo è la foglia secca dalla fiamma. Gli raccontai la strana
sensazione che mi turbava: lo confessai anche a mia madre. All'indomani
Gesù non era più a Nazareth.

— Tu amavi dunque tuo fratello? sclamò Claudia.

— Sì, e no. Ho amato di poi. Il sentimento che il Rabbì m'ispirava era
diverso: era più che l'amore che si risente per la propria madre, e meno
violento di quello con cui c'incendia un amante. Questi vi mette il
fuoco nelle vene: allora io vi sentiva scorrere i raggi dell'aurora. Ma
ciò finì bentosto. Mia zia mi chiamò a Gerusalemme, e mia madre fu ben
contenta di allontanarmi. Mi congiunsi alla carovana che andava a
Gerusalemme pel paschah. Quel movimento tutto nuovo per me mi colmò di
gioia. Le vecchie ed i vecchi sopra gli asini ed i cammelli; i giovani
camminando loro vicino; i ragazzini correndo di gruppo in gruppo,
giuocando coi cani, cogliendo le bacche e le corolle selvatiche,
querelandosi, prendendo qua un buffetto, e là una ciambella. Per non
passare per l'impura Samaria, paese di pagani, prendemmo la via del
basso Giordano all'est, a traverso il Gilead e l'Ammo, fermandoci presso
un pozzo al tramonto del sole, accendendo un fuoco di rami per cuocere
una cenetta di legumi bolliti, frumento arrostito e fritto in un po'
d'olio, e qualche fette di poponi e di cocomeri. Ripassammo il Giordano
a Bathabara ove il Battista battezzava, sotto Gerico, camminammo dal
piano alla città sotto i verdi datteri, e di là arrampicandoci da una
collina ad un'altra, alla vetta superiore dopo l'inferiore, traversando
passaggi rocciosi del deserto, e le nude montagne, arrivammo a Sion,
avendo nelle mani i rami di mirto e di ulivo, e alla bocca il canto del
_schemah_.

— Felici ricordi, sclamai io.

— Presso Bethania, continuò Ida, la compagnia si divise. Quelli che
avevano degli amici a Gerusalemme, discesero il monte degli Ulivi e
passarono il Cedron, gli altri si ricoverarono nei casolari dei
dintorni, sotto le tende nelle capanne di foglie chiamate _succoth_,
come Giacobbe nel paese di Canaan, coprendo così l'Oliveto, il Mizpeh,
il Gibeon, il Rephaim, mescolati, tutti in una, asini, capre, cammelli,
pecore, uomini, donne e fanciulli, correndo dalla mattina alla sera alle
fontane di Siloam e di En-rogel. I Galilei, come al solito, si fermarono
al monte degli Olivi. È là che un messo di mia zia venne a cercarmi.
Ella era ammalata.

— Che età avevi allora? le chiese Claudia.

— Te l'ho già detto, quattordici anni. Non ti parlo della vita passata
con mia zia, donna stizzosa, inquieta, piena di bile, sempre
malcontenta. Dopo diciotto mesi, ella morì, e sei mesi dopo avvenne la
mia catastrofe.

— In che maniera? sclamò Claudia. Non nascondermi nulla.

— Perchè lo nasconderei? Andavo ogni giorno ad attingere l'acqua alla
fontana del Dragone, l'urna sulle spalle come le altre figliuole. Sembra
che Ponzio m'avesse incontrata tre o quattro volte, ed infatti mi
ricordo che un Romano a cavallo mi aveva seguita talvolta dalla fontana
alla casa di mia zia. Ma ci sono tanti Romani che vanno e che vengono a
Gerusalemme, che me n'ero appena accorta. Una notte io dormiva d'un
sonno profondo, sognando delle montagne di Nazareth, quando mi sentii
ravvolgere in una coperta, al punto quasi di soffocarmi. Fui rapita
così, e posta in una lettiga che partì al passo di corsa. Mi dibattei,
gridai. Mi sentiva morire: l'aria mi mancava. Finalmente udii aprire e
poi chiudere una porta della città. Allora la coperta che mi avviluppava
fu aperta e mi trovai nelle braccia di Noah. Un'ora dopo, ci
depositavano qui, a Berachah.

— Pilato ti attendeva? domandò Claudia.

— Oh! no. Non venne per la prima volta che quattro o cinque giorni dopo.
Io non comprendeva nulla di quanto m'era accaduto. Credevo sognare,
vedendomi circondata di tanto lusso, e di tanta ricchezza. Noah si
asteneva affatto dal darmi alcuna spiegazione. Cosa si vuole da me? io
domandava, chi è l'incantatore che mi culla in questi splendori? Una
sera il mago si fece vedere.

Claudia trasalì, e divenne scialba. Ida continuò senza accorgersene;
imperciocchè, assorta nella sua vita passata, ella raccontava o meglio
dipingeva, dimenticando quasi che noi fossimo lì ad ascoltarla.

— Questa stanza era stata illuminata vivamente. Noah mi aveva quasi a
forza indossato dei vestiti ricchissimi che io sdegnava, come immodesti.
Mi aveva acconciati i capelli con dei fiori. Io non riconosceva più me
stessa e vergognavo. Ero dunque qui, ammirando i bei fiori posti in
questi vasi, allorchè la porta s'aprì, e vidi entrare uno sconosciuto,
che mi disse chiamarsi Cajus.

— Era Ponzio?

— Sì. Era molto triste. Credo che non mi guardò neppure. Mi chiese se
trovassi questa dimora convenevole abbastanza per me, se avevo a
lagnarmi di qualche cosa o di qualcuno. Gli raccontai il mio rapimento e
gli chiesi d'esser ricondotta ai miei parenti. Perocchè, lo ripeto
ancora, io non comprendeva per qual ragione ero stata gettata in mezzo a
quelle ricchezze. Non mi rispose, e mi lasciò. Ritornò due o tre giorni
dopo.

— Anche la sera?

— Sì, anzi io non l'ho mai veduto che di sera. Arrivava la notte, e
partiva avanti il giorno. Qualche volta solamente è partito verso l'ora
sesta. Questa volta pure ei sembrava molto oppresso. Si sarebbe detto
che si rimproverasse ciò che aveva fatto, e che avesse rimorso di ciò
che aveva intenzione di fare. Il nostro colloquio non fu lungo. Noah era
lì. Io mi chiedeva: Chi è egli! che cosa vuole? In breve, questo sistema
di silenzio e di riserbo non si alterò punto durante due mesi, ma le
parti stavano per cangiare. Io principiava a provare un interesse
inquieto, una simpatia insinuante, una compassione che mi turbava, per
quest'uomo che mi sembrava così buono e così infelice. Mi rassegnavo ad
una sorte che non comprendevo ancora, ma mi proponevo di conoscere il
dolore misterioso che torturava questo sventurato e di alleviarlo.

— E l'hai penetrato codesto misterioso dolore?

— Mai. Egli ha rinculato innanzi a qualunque spiegazione; ed anzi,
quando gli facevo delle domande su tale soggetto, egli accorciava la sua
visita, e restava più lungo tempo senza venire. Ora non vi è nulla di
più traditore per una donna, che la compassione. Essa cova, si
trasforma, scava, rode; poi un bel giorno, scatta e trovasi amore. Gli è
ciò che mi avvenne. A capo di sei mesi, io era pazza di passione.

— E lui?

— Sempre lo stesso: triste, freddo, pensieroso, qualche volta irritato,
altre tenero per cortesia; ma il suo aspetto calmo, la faccia cupa,
l'aria triste, lo scoraggiamento della vita, il suo abbattimento
sinistro e tenebroso, riprendevano sempre il disopra. In uno di quegli
accessi di passione, terribili e sconosciuti, che aveano tutte le forme,
dalla disperazione fastidiosa allo stordimento dell'ebbrezza, io
soccombetti.

Claudia balzò in piedi e si slanciò sopra Ida. Io la presi per le mani e
la feci di nuovo sedere. Ida si levò anch'ella ed indietreggiò.

— Continua, continua, balbettò Claudia passando le sue mani sul proprio
viso pallido, al punto che pareva non avesse più goccia di sangue nelle
vene.

— Ponzio....

— Chiamalo Cajus, gridò la romana.

— Restò otto giorni senza vedermi. Ma....

— Ma?

— Era divenuto mio amante.

— E ti amava?

— Non mi ha mai amata, te l'ho già detto. Si sarebbe creduto, alla
collera ch'ei vi poneva, che ognuno dei suoi baci, fosse una vendetta
contro qualcuno. Per conto mio, l'adoravo. Avrei dato la vita per
vederlo sorridere. I suoi trasporti amorosi andarono così a salti per un
anno. Passava da una frenesia di passione ad una frenesia di pentimento
e di malinconia. Sovente apriva le braccia per abbracciarmi, poi mi
respingeva, mi calpestava sotto i suoi piedi, mi batteva. Finalmente, o
si scioglieva in lagrime, o in baci, oppure fuggiva vergognoso,
disprezzandomi e disprezzandosi, odiando il cielo ed il mondo.

— Claudia, dissi io, non comprendi tu dunque questi parossismi di follia
di tuo marito.

— Glieli spiego adesso, replicò Ida interrompendomi. Dacchè sei arrivata
qui, o Claudia, non ho veduto tuo marito che sole tre volte. La prima,
la sera stessa del tuo arrivo a Gerusalemme, egli ha pianto sul mio
seno, da commuovere le pietre, e si è contorto su questo pavimento di
marmo come un serpente ferito. La seconda volta, mi ha divorata in una
esplosione frenetica di lascivia; ma io sentivo che quelle strette,
quelle morsure, quei baci, quelle carezze, si abbattevano su di me e
s'inspiravano altrove. L'ultima volta egli venne a dirmi: Addio, Ida. Io
ti lascio: io amo mia moglie.

— Che? gridò Claudia stringendo Ida nelle sue braccia. Egli te l'ha
detto?

— Cento volte in quella triste sera: amo mia moglie! Mi ha lasciata
svenuta, morente nella mia stanza, e non l'ho più riveduto.

— Mai più?

— Mai più. Non ho ricevuto sue notizie che per questa lettera che mi
portò Giuda. Vedila.

Ida prese da un armadio la lettera di cui ho già parlato e la diede a
Claudia. Questa la divorò degli occhi; poi stringendosela al petto,
sclamò;

— Ti perdono tutto. Ma odimi, figliuola: guai a te se tu lo rivedi
giammai. Maritati, fuggi, nasconditi. Se vuoi del denaro, ti arricchirò;
se vuoi traversare il mare, ti darò una trireme; ma ricordati bene
questo: guai a te, guai a te, se lo rivedi ancora.

E ciò dicendo, Claudia partì fuggendo di Berachah senza punto curarsi di
me. Arrivata al palazzo d'Erode fece montare a cavallo una coorte, balzò
ella stessa sopra un cavallo, ed immediatamente partì al galoppo per
Sebaste, andando incontro a Pilato.

Riguardai Ida. Sembrava pietrificata dall'esplosione della Romana, si
trovava annientata nel cuore donde sentiva schiantar quell'amore che si
sforzava di tenervi rinchiuso. Non osai dirle nulla. Presi la sua mano
ardente dalla febbre, e vi lasciai cadere una lagrima. Poi partii alla
mia volta per andar a raggiungere il Rabbì di Nazareth.



XXVII.


Io aveva accompagnato Gesù fino alla fontana di En-Shemesh, in quel
vallone selvaggio che è a poche ore da Bethania. Egli aveva continuato
la sua strada per Gerico, strada tante altre volte percorsa da lui in
condizioni più sorridenti di spirito. Aveva dormito nell'albergo che si
trova a mezza strada, di cui ho già parlato (che si chiama oggi Khan
Hudjar) e all'indomani di buon'ora, traversando la città delle Palme,
aveva continuato la sua strada, passato il guado del Giordano a
Bathabara e cercato un relativo ricovero nella Perea, Stato di Antipas.

Il Giordano, nel suo corso inferiore, divide la provincia romana della
Giudea, dalla provincia semi-indipendente della Perea, come nel suo
corso superiore separa la Galilea dalla Traconitide. Erodiade non amava
il Rabbì di Nazareth meglio che il Battista; ma Antipas conservava
rancore contro Pilato, a causa della carneficina di Galilei da costui
fatta al tempo della sommossa per l'offerta, considerando la propria
autorità conculcata dal supplizio dei suoi sudditi. Il Rabbì,
perseguitato in una provincia romana, poteva dunque sperare una tal
quale protezione nei dominii di questo principe a causa di questo
risentimento. Gesù per altro non si fermò nella Perea, e fece una rapida
corsa a traverso la Galilea e la Samaria.

Mano mano che gli avvenimenti precipitavano, e divenivano più cupi, il
Rabbì voleva formarsi un'idea sempre più chiara della sua posizione.
Aveva gettato il suo scudo, come il reziario davanti il mirmillone. E'
si sapeva ora designato, condannato, messo a caccia. La sola probabilità
di salute che gli restava era la protezione del popolo di queste
provincie; popolo il quale, odiando i Romani e l'aristocrazia di
Gerusalemme, poteva prendere una attitudine tale da consigliare ai suoi
nemici la sommissione od una tregua. Nel viaggio intrapreso dal Rabbì,
avanti la festa del Purim, per lo stesso scopo di esplorazione, egli non
aveva scorto alcun sintomo che potesse incoraggiarlo, o dargli qualche
speranza. Volle ciò malgrado visitar nuovamente quei paesi, poichè l'ora
di giuocare la sua ultima posta gli pareva arrivata.

Aveva sete di speranze e d'incoraggiamenti.

Quando io venni a raggiungerlo a Bathabara, ei non era ancora di
ritorno; ma i suoi discepoli lo aspettavano sotto le capanne del fiume.
Io lo attesi altresì, ma a Gerico, andando ogni mattina ad informarmi se
fosse arrivato.

Una mattina finalmente lo incontrai. Mi parve profondamente abbattuto.
Pure non manifestò nissuna idea di indietreggiare, o di cangiar
proposito. Lo scongiurai ancora una volta di lasciar per il momento la
parte di moralista e di umanitario da lui scelta, e di seguire l'istinto
della nazione che domandava un capo politico. Egli mi rispose che i
messia che l'avevano preceduto «erano dei ladri e dei briganti,» e che
egli non conosceva altra salvezza, ed altra possibilità di riescita, che
nell'assorbimento del popolo in Dio.

Vedendolo allontanarsi da Gerusalemme, onde evitare la spiegazione alla
quale era stato invitato, la gente del Tempio ed i Farisei non lo
tennero per sdebitato malgrado la sua fuga. Lo fecero cacciare dai loro
segugi, che lo snicchiarono al guado del Giordano, a cavallo fra i due
Stati, potendo in pochi minuti cercare un asilo dall'una o dall'altra
parte del fiume. Essi lo tenevano dalla parte del paese romano.
Bisognava dunque comprometterlo nella Tetrarchia. Antipas, o meglio
Erodiade, non aveva che una sola corda sensibile — quella che il poco
abile Battista aveva toccata, e ne era stato colpito di morte.

Gli agenti del tempio domandarono quindi al Rabbì, se un uomo poteva
scacciare sua moglie per qualsiasi cagione.

Le scuole di Hillel e di Shammai avevano già posata tale questione; ma
il Tetrarca della Galilea l'aveva risolta, e guai a chi si fosse
avvisato contraddirlo.

Il Rabbì fiutò la trappola, e con quell'ammirabile tatto ch'egli aveva
per istornare un'importuna interpellanza, colla squisita finezza che
sapeva mettere nelle sue risposte, quando non rispondeva bruscamente, o
motteggiando, egli disse:

— Il marito e la moglie non formano che una sola carne.

Una circostanza venne allora ad accelerare la catastrofe.

L'amico del Rabbì, Lazzaro di Bethania, giaceva nel suo letto gravemente
infermo e le sorelle di lui lo mandavano a chiamare per venirlo a
rilevare. Lazzaro era epilettico. Ma questa volta la malattia si era
complicata di segni pericolosi; imperciocchè, dopo che l'accesso era
passato, Lazzaro era restato rigido e freddo come una barra di ferro.
(L'accesso epilettico era stato seguito dalla catalessia). Questi
sintomi avevano allarmato le due donne. Quando il loro messo raccontò al
Rabbì lo stato dell'ammalato, egli non se ne mostrò inquieto. Vide in
quel fatto un'occasione felice, al contrario, per la sua glorificazione.

— Non è mortale la malattia di Lazzaro, osservò egli; ma per la gloria
di Dio, il figlio di Dio vi potrà attingere altresì la sua gloria.

Il messaggero riportò questa risposta.

Ora il Rabbì, che nella sua posizione pericolosa si afferrava ad ogni
bricciolo di speranza, riflettè sulla stranezza della malattia del suo
amico. Un'idea gli passò per la mente. Perocchè due giorni dopo la
partenza del corriere, egli annunziò ai suoi discepoli che andava «a
svegliare il suo amico che dormiva!»

Il Rabbì aveva un'influenza imperiosa sopra la complessione accasciata e
nervosa del suo ammalato. Bastava accarezzarlo della sua mano amica, o
semplicemente avvilupparlo del suo sguardo profondo e gioioso, per far
sì che Lazzaro sentisse un sollievo alle sue sofferenze e si
addormentasse nella calma. Laonde, il Rabbì era onnipotente in quella
casa di Bethania. Allorchè il messaggiero delle due sorelle fu di
ritorno con la sua risposta di consolazione, Lazzaro peggiorava. Poi, il
giorno stesso che noi lasciavamo il Giordano per risalire a Gerusalemme,
egli ebbe una crisi fulminante, dopo la quale le sue membra
s'irrigidirono, la respirazione cessò, la sua pelle s'agghiadò ed i suoi
occhi divennero vitrei.

Le due sorelle lo credettero morto.

L'ebreo è il solo popolo del mondo forse che non abbia il culto della
morte. La morte per l'ebreo è una contaminazione. Abramo, che doveva a
Sara delle compiacenze le quali rasentavano l'infamia, appena la vide
morta, gridò: Seppellite la mia morta lungi dai miei sguardi. Giacobbe
si diede appena il tempo di mettere una pietra sulla tomba di Rachele e
continuò il suo viaggio colle sue gregge. Tiberiade è una città impura
per gli Ebrei, perchè è costrutta in parte sopra i sepolcri di
generazioni sparite dalla memoria degli uomini. L'ebreo scaccia il morto
dalla dimora dei viventi, lontano, nei sinistri burroni, in preda allo
strazio delle iene e dei cani. Nè fiori, nè alberi, nè ricchi monumenti,
come appo i Romani. Un buco nella roccia è la tomba d'un re. Il Rabbì
chiamava i suoi nemici dei sepolcri.

Le due sorelle di Lazzaro, trovandosi dunque sole con quel cadavere,
elleno che erano forse di già noiate di quel vivente collerico,
inquieto, rabbioso, irritabile, egoista come tutti gli ammalati, si
affrettarono a sbarazzarne la casa.

Lazzaro aveva vicino alla sua dimora una grotta, la quale poteva servire
al bisogno da cantina, da stalla, o da sepolcro, protetta contro le
intraprese dei cani e delle bestie feroci da una pietra appoggiata alla
sua entrata. Marta e Maria avvilupparono il loro fratello in un sudario,
l'attorniarono di coperte e lo deposero in quello speco.

— Se Lazzaro è morto definitivamente, dissero a sè stesse, e' resterà
nella sua tomba; se non è che semplicemente caduto in letargia, come
cento altre volte, non avrà che a respingere la pietra della chiusura ed
uscire.

L'operazione del sequestro del corpo di Lazzaro compiuta, i vicini, gli
amici, principiarono a venir a visitare le due sorelle per consolarle.
Maria, la vaneggiante, conversava con loro, mentre Marta, la massaia,
prendeva cura nel giardino dinanzi l'uscio, dei cani, delle pecore, dei
colombi, e dei polli.

Verso la sera del secondo giorno da che avevamo lasciato Bathabara,
Marta era occupata nel giardino in queste faccende, quando ci scorse da
lungi e riconobbe il Rabbì.

Si precipitò al suo incontro, e gli raccontò tutti gli incidenti della
morte del fratello. Il Rabbì si turbò e sospirò. Marta lo lasciò e andò
ad annunziare secretamente il di lui arrivo alla sorella. Maria non
seppe nascondere la sua gioia. Diede in un grido ed accompagnata dai
vicini che le facevano visita, si avanzò verso il Rabbì che mi parve
terribilmente preoccupato. Maria gli raccontò allora altri particolari
della malattia, altri sintomi della morte. Gesù volle vedere, e si
diresse verso la grotta. Egli intravedeva in questa avventura — l'ho già
detto, ed egli stesso l'aveva detto — un'occasione di attestarsi in
maniera strepitosa come figlio di Dio «a causa del popolo che lo
circondava, e che poteva crederlo inviato da Dio[17].» La pietra della
porta tirata da banda, vedemmo Lazzaro coricato, la testa verso
l'apertura. Il Rabbì allungò la mano sopra di lui, la tenne lungamente
su quella testa e su quel petto, poi pregò, gli occhi rivolti al cielo.
Infine, sclamò:

— Grazie, Padre! tu m'hai ascoltato.

  [17] S. GIOV., Cap. XI, v. 42.

Allora, indirizzandosi a Lazzaro, gli gridò con voce possente:

— Lazzaro, alzati e vieni fuori.

Lazzaro si alzò come dal suo letto, senza dare alcun segno di stupore nè
di riconoscenza, e rientrò tranquillamente in casa. I suoi amici, che lo
avevano creduto morto, portarono a Gerusalemme la notizia che il Rabbì
di Nazareth l'aveva risuscitato.

Questa notizia non poteva a meno di giungere alle orecchie di Hannah e
di Caifa. Essi seppero così che il Rabbì era di ritorno a Gerusalemme, e
che veniva coll'intenzione la più determinata di provocarli. Hannah
pensò che il Rabbì venisse altresì per avere con noi quella conferenza
cui non ha guari aveva evitato partendo precipitosamente. All'indomani,
benchè giorno di sabbato, Gionata figlio di Hannah ascese a Bethania per
ricordare a Gesù l'impegno preso di incontrarsi coi delegati dei
partiti.

Lazzaro, avendo ancora d'uopo di riposo, Gesù aveva accettato a desinare
da Simone il lebbroso, invitandovi i suoi discepoli. Questi, sempre
poltroni, non avrebbero voluto lasciar partire il Rabbì dalla Perea,
dicendogli: Essi ti lapideranno. Ma uno di loro, ed io stesso, avendoli
fatti vergognare di tanta vigliaccheria, essi avevano accompagnato il
maestro, anticipando così di una settimana il loro arrivo per la festa.
Seguirono dunque il Rabbì dal lebbroso.

Questa audacia lambiva la demenza nella sfida che il Nazareno portava ai
Farisei.

La lebbra era appo gli Ebrei ed in tutta la Siria una malattia orribile,
prodotta sovente da vizii infami. E considerata quindi come un castigo
di Dio. Essa era però più frequentemente occasionata dalla mancanza di
cure, dal sucidume, e dalla stranezza di un clima ardente e secco. Si
riteneva dunque un lebbroso come un uomo colpito dalla collera di Dio;
ed i libri sacri e la legge orale erano stati relativamente indulgenti
classificandoli come morti: morti dinanzi la legge, i diritti civili e
le consolazioni del Tempio. Un lebbroso non poteva entrare nè in una
sinagoga, nè da un amico, nè in un pubblico uffizio, in nessun sito
insomma ove altri uomini si riunissero. Era obbligato di portar nudo il
capo, i vestiti fatti in certa maniera particolare, e di color giallo
come le prostitute, e di gridare, quando passava per le vie: «Fate
attenzione, un impuro!» Come un cadavere, egli non poteva restare una
sola notte dentro le mura di Gerusalemme. Lo si scacciava fuori dalle
porte della città nell'Hinnon e Giosafatte, nella valle della Gehenna e
dei cadaveri, riducendolo a disputare un buco ai cani ed alle bestie
feroci. Ecco perchè il ricco Simone aveva la sua abitazione nel borgo di
Bethania.

Ora, un lebbroso non era soltanto una persona maledetta, ma la sua vista
faceva orrore.

Il Rabbì accettò da pranzo presso questo contaminato: prima, perchè egli
non ne sentiva per nulla la ripugnanza, poi perchè sfidava la legge di
Mosè, e non ne divideva le viste sul capitolo delle impurità. I
discepoli accompagnarono il loro maestro, perchè e' non avevano volontà
propria, perchè avevano l'abitudine di sedersi a qualunque tavola che
lor offrisse da mangiare ad ufo, e perchè il pranzo di quel ricco
disgraziato prometteva d'esser sontuoso: buona fortuna che loro accadeva
raramente.

Il Rabbì, per conto suo, non sapeva mai ciò che mangiasse. Per lui una
radice d'erba ed uno storione avevano il medesimo valore. Ma i suoi
discepoli gustavano il lauto vivere, sopra tutti il piccolo Giovanni,
che era addimandato il figlio della folgore, e che avrebbe dovuto esser
chiamato il figlio della pentola. Il Rabbì ignorava il valore del danaro
e la distinzione della proprietà. Non era avaro di ciò che possedeva, ma
non faceva complimenti neppure per imporsi altrui con un'ospitalità
sovente incomoda e costosa. Ci trascinò quindi con lui alla tavola di
Simone.

Quando vidi quest'uomo, indietreggiai spaventato. Credetti trovarmi con
un leone reso deforme. Il suo viso era lucido come uno specchio. Il suo
alito infettava l'atmosfera. Il corpo coperto da tubercoli scagliosi e
grossi screpolava ad intagli come la pelle di un elefante. La grossezza
delle vene rendeva la pelle callosa. Nessun pelo sul viso. I rari
capelli che sbucciavano sul suo capo erano divenuti bianchi. La pelle
del capo si divideva essa pure in tagli molteplici e irrigiditi. La
faccia era coperta da escrescenze dure, appuntite, bianche alla cima,
verdastre alla base. Quando respirava mostrava una lingua irta di
tubercoli come grani d'orzo. Delle volatiche coprivano le dita, i
ginocchi, ed il mento. Le pomette delle guancie rosse e gonfie; gli
occhi di un colore di rame, oscurati, velati sotto le profonde rughe
cagionate dalle sopracciglia contratte; le labbra tumide; il naso carico
di sarcosi nerastre; i denti neri, le orecchie floscie, allungate come
quelle dell'elefante; in tutto il corpo, delle ulcere che davano un
umore nero e fetido, le nuove rodendo le vecchie... tale era Simone.

Quando vidi quel mostro spaventevole, protestai di non aver fame,
d'esser ammalato, d'aver bisogno d'aria, e restai nel giardino. Io vi
passeggiava quando entrarono, uno dopo l'altra, Maria di Magdala e
Gionata.

Maria non potendo più a lungo tollerare l'assenza prolungata del Rabbì,
aveva preso una singolare risoluzione, seguendo del resto il precetto di
costui.

Aveva venduto la sua piccola casa di Magdala. Del prezzo che ne aveva
ricevuto, aveva comperato da un profumiere di Tiberiade una fialetta di
essenza di nardo, e precedendo la compagnia dei Galilei, si recava al
paschah. Maria sapeva ove il Rabbì alloggiava, ed era venuta a
raggiungerlo. Sia che l'orribile puzza del sito le avesse ispirato tale
idea, o che avesse un progetto preparato, vedendo il Rabbì addossato al
lebbroso, ella si avvicinò a lui e gli versò sui capelli i profumi del
suo vaso.

Il Rabbì se ne andava in broda di giuggiole a questi atti di deferenza e
di delicatezza. Amava anche gli odori e i profumi, e molto i fiori; ma
sopratutto si mostrava tenero delle profusioni che si usavano per la
cura della sua persona. Ciò aveva un non so che d'aria regale; ed egli
si spacciava per figlio di Davide. L'atto fastoso di Maria lo inebbriò.
Tanto più ch'ella si mise ad asciugargli i piedi con la sua splendida
capigliatura, dopo averglieli profumati alla foggia romana. Ora questa
prodigalità di profumi non ebbe lo stesso successo appo i discepoli, che
appo il loro maestro. Simone, che conosceva il valore del denaro e
sapeva che da una settimana io riempiva una borsa che m'era stata
confidata vuota, brontolò senza ritegno; poichè quel villano era franco
nella sua rustichezza. Le osservazioni sopra questo spreco di odori
continuavano, allorchè si avanzò Gionata. Egli aveva assistito col
sorriso sulle labbra alla scena di Maria; ed il Rabbì lo aveva
osservato.

Gionata espose il messaggio di suo padre. I discepoli del Rabbì parvero
contenti di questo atto del sagan, perchè lo presero per un ossequio di
deferenza, forse di sommissione, e si videro quasi collocati sui gradini
di quel trono nelle tribù d'Israele cui il Rabbì aveva promesso a
ciascuno di essi. Se la madre di Giacomo e di Giovanni, quella piccola e
petulante mestatrice seccante che aveva chiesto al Rabbì un posto più
considerevole pei suoi figli, fosse stata lì, avrebbe pianto di gioia.
Gesù invece si turbò; io impallidii. Noi indovinammo quale sarebbe stata
la conclusione della conferenza. Ma l'aria offesa che mostrò Gionata del
trovarsi in un simile luogo, quantunque si fosse fermato sulla soglia
della corte interna, il contegno pressante manifestato dai discepoli, il
mancare di buone ragioni per evitare questa esposizione dei suoi
principii, cui si aveva diritto di chiedergli poichè egli insegnava nel
tempio, impedirono a Gesù di rifiutare o protrarre il convegno. Accettò
dunque, e la riunione fu fissata pell'indomani in casa del sagan,
all'ora ottava.

L'ora era avanzata, e temendo di trovar chiuse le porte della città, io
discesi con Gionata a Gerusalemme.

All'indomani di buon mattino, Gesù si presentò al Tempio. Bar Abbas si
recò da Ida.

Il Rabbì, da alcuni anni, insegnava sotto i portici di Salomone; e mai
la polizia del Tempio, od i dottori del gran Consiglio, non gli avevano
opposta la più piccola difficoltà; benchè, in ogni tempo, i suoi
precetti fossero stati contrari alle leggi di Mosè, ed all'insegnamento
dei successori di Hillel. Il sanhedrin era il solo giudice delle
dottrine che si professavano, e solo aveva il diritto d'accordare il
permesso di predicarle. Questa volta, siccome la lotta fra i partiti ed
il Rabbì aveva cominciato, taluni degli anziani avendolo trovato a
parlare in pubblico, gli chiesero, in virtù di quale autorizzazione egli
esponesse i suoi principii.

Una lunga esperienza non li aveva corretti dall'interrogare il Rabbì, il
quale aveva l'abilità suprema di confonderli con una buona ragione, o di
sfuggir loro con un motteggio o con un'altra interrogazione. Come
sempre, il Rabbì si burlò di essi. Egli chiese loro:

— Cosa pensate voi di Johanan, il Battista? Era desso un uomo od un
inviato del cielo?

Un gran numero dei discepoli del Battista circondavano in quel momento
Gesù. A quella domanda gli anziani tacquero sulle prime, poi, incalzati
dal Rabbì, risposero che non ne sapevano nulla. Essi avevano indovinato
l'agguato. Se avessero risposto che il Battista era un uomo, i suoi
discepoli, lì presenti, potevano maltrattarli e gettar loro delle
pietre; se rispondevano che veniva dal cielo, il Rabbì avrebbe sclamato:
Allora perchè non l'avete ricevuto?

Con un così fino casuista, la discussione diveniva terribile. Ciò
malgrado, i Sadducei vennero a molestarlo colla dottrina della
risurrezione, a cui non credevano, non trovandola nei libri di Mosè. I
Sadducei gli chiesero dunque, celiandolo:

— Una donna ha avuto sette mariti; a quale di costoro apparterrà essa
nel giorno della resurrezione?

Il Rabbì rispose scaltramente:

— Nel giorno della risurrezione, non vi saranno più nè mariti, nè mogli,
ma sarete tutti degli angeli di Dio nel cielo.

I Sadducei, come gli anziani, se ne andarono indispettiti, e odiandolo
più che mai.

I Zeloti, o a meglio dire i discepoli di Giuda di Gamala, vollero
scandagliarlo alla lor volta. La questione che gli proposero era
capitale.

L'ebreo paga due sorte di tributi: la tassa di Dio e la tassa di Cesare.
La tassa del Tempio — mezzo siclo — era stata per molti anni discussa
fra i Sadducei ed i separatisti. Questi ultimi avevano finalmente fatto
decidere dal sanhedrin che la era forzosa, e che la si doveva pagare al
primo del mese di nizan. Questo fondo serviva a comperare le legna da
brucio, l'incenso, il pane azzimo, ed a pagare i familiari del Tempio.
Il popolo aveva vinto in questo sopra l'aristocrazia che vi era
renitente. La tassa di Cesare invece era acconsentita dai Sadducei, e
contestata dai separatisti. L'aristocrazia sapeva che il governo costa;
che se il popolo non paga, le classi ricche sono responsabili dinanzi
alla legge. Il gran sacerdote Ioazar, secondato da Hillel e dai Farisei
moderati, aveva persuaso il popolo di pagare questo denaro per ogni
testa (ottanta centesimi), ed il popolo aveva pagato — tranne i Galilei
che consideravano quella tassa come un segno di schiavitù, e come
un'offesa a Dio, mettendo Dio e Cesare all'istesso livello.

Da questo punto di vista, i Zeloti proponevano al Rabbì una questione
capziosa, chiedendogli se si doveva pagare la tassa di Cesare.
Rispondeva di no? avrebbe avuto a fare con Pilato. Rispondeva di sì?
abbassava Dio al livello di Tiberio.

Il Rabbì, quantunque in apparenza semplice e ingenuo, scoprì la
perfidia. Egli si fece mostrare una moneta ove stava l'effigie di
Cesare, e rispose senza rispondere:

— Rendete a Cesare ciò che è di Cesare.

E lasciò il Tempio.

In quell'istesso momento Bar Abbas si presentava da Ida.

— Ah! ah! sclamò egli entrando nel tablinum, sono io, il tuo caro barba,
io Gesù Bar Abbas, ex-legionario romano, fulmini ed allegria! Devi esser
stata bene in allarme della mia lunga assenza, fanciulla mia. Ma cosa
vuoi? io mi sono ingolfato nella vita pubblica che mi assorbe, mi
divora, mi consuma: io mi voto alla patria. Gerusalemme non ha che due
cose necessarie e due meraviglie: il Tempio e me. Consolati dunque, cara
Miriam, eccomi qui.

— Ero già bella e consolata, rispose Ida.

— Ne sono incantato, abbagliato, sorpreso. Non abbiamo più quelle ubbie
per il capo, eh! Abbiamo fatto un bel bucato di tutte quelle grandi
passioni, quelle nostre disperazioni? Tanto meglio, bambina mia, tanto
meglio. Io ne perdeva la pace, il sonno e l'appetito.

— To'! ed io che volevo offrirti da mangiare.

— Mangiare! l'è questo il più bel verbo che esista in tutte le lingue
umane. Offrimi dunque; te lo permetto. Mangiare gli è sempre a
proposito, sia che arrivi come compenso del passato, sia che lo si
prenda come previdenza per l'avvenire, sia che lo si presenti come una
gentilezza del momento; e tanto più, carina mia, che io non mi ricordo
troppo bene se ieri ho coniugato quel verbo al tempo presente. Mi
dispiace solo di non poterti ricompensare con delle buone notizie.

— Che c'è dunque? sclamò Ida, non troppo spaventata però perchè
conosceva bene suo zio.

— Ma! gli è lui. Ho forse io altri soggetti di angustie in questo mondo?
è tuo fratello. Quel giovane è il mio verme roditore. Finirà
coll'uccidermi dal dispiacere.

— Che ha fatto dunque? Corre forse nuovi pericoli? è ritornato a
Gerusalemme?

— Per bacco, ieri; e ne ha già fatto una delle sue solite. Figurati che
se n'è andato a pranzare da un lebbroso di villaggio, accompagnato da
quei mascalzoni che lo seguono ovunque, con un'aggiunta di donne
equivoche.

— Non è vero.

— Sta attenta, che non è poi tutto. Del resto, il proprio figlio del
sagan, e Giuda da Kariot che erano lì, che l'hanno veduto, mi hanno
raccontato la cosa. Prima di tutto, siccome quei villanzoni hanno
soppresso l'uso di lavarsi le mani avanti pranzo, per dar lo gnorri ai
Farisei, puoi immaginarti che fondo di gamella doveva restare, d'un
lebbroso e quindici provinciali che tuffavan le mani nell'istesso
piatto! Erano lì tutti a sguazzar nella broda, ed il Rabbì succhiava
un'ala d'oca con lenti al burro pimentato — intingolo squisito, sai,
Mirjam! Te ne farò mangiare la prima volta che m'inviterai a pranzo. Il
Rabbì succhiava dunque tranquillamente la sua ala, pensando al regno dei
cieli, allorchè una certa pettegola di mia particolare conoscenza,
irruppe nella sala. Arrivava dritto dritto dal suo paese — da Magdala,
sai — portando la sua casa ed il suo giardino in una fiala d'alabastro,
con dentrovi non so quale malvagìa di sugna. Non disse nè buon giorno,
nè buona sera. Cavò fuori il suo vaso da sotto la tonica e crac! lo
ruppe sul capo del Rabbì. Ah! belloccia mia, non puoi immaginarti di che
odore delizioso — cosa dirti? di costoletta arrostita, di minestra
all'aglio, di rosmarino, che so io! — si riempì la casa. Ed eccoti il
Rabbì inondato da quell'untume che gli scorre da per tutto.... Guarda,
ne aveva tanto colato perfino ai piedi che Maria — la si chiama così —
principia ad asciugarli coi suoi capelli che sono magnifici.

— Tu menti, sclamò Ida; il Rabbì non l'avrebbe permesso.

— Gli è precisamente quello che si dicevano fra loro quei furfanti dei
suoi discepoli. Imperciocchè e' avrebbero preferito vendere quell'odore
prezioso, e mangiarlo in un bel desinare al paschah. Il Rabbì udì i loro
brontolamenti, e disse loro: Tacete, branco d'infingardi! C'è stato dei
paschah fino ad oggi e ce ne sarà anche per l'avvenire, lo avete fatto e
lo farete, fino a che non sarete impiccati; per me questo è l'ultimo....
Stropiccia, Maria, stropiccia, figliuola mia! I tuoi capelli sono dolci
come il più fino lino dell'Egitto, ed io ne basisco di diletto.

— Tu menti: mio fratello non avrebbe mai detto questo.

— Questo o qualcosa di simile. Io divido le opinioni degli scienziati
riguardo alle traduzioni libere. Il fatto sta che il figlio del sagan
venne via scandalizzato da Bethania, e che jeri sera ebbe luogo da
Hannah una riunione onde chiamare Gesù a render conto della sua
condotta. Tu comprendi che io difesi la libertà dei desinari, dei
lebbrosi, delle mani sporche, degli odori e delle profumatrici; ma fui
nella minoranza. Fu adottata la decisione, malgrado la mia ben nutrita
eloquenza — la sola cosa che io mi abbia sempre ben nutrito, — di
mandare una intimazione al Rabbì. Ciò è stato fatto, ed oggi egli
comparirà davanti i delegati dei partiti riuniti in casa del sagan.

— Vogliono dunque perderlo ad ogni costo?

— Ad ogni costo? Di' pure per niente, poichè e' non ci spendono nulla
per perderlo. Egli si perde da sè solo, quell'indiavolato. Questa
mattina infatti si è presentato al Tempio, ed ha ricominciato.... Io
l'ho incontrato sui gradini del Moriah. Me gli sono avvicinato
pulitamente, perchè ho appreso le belle maniere a corte, nelle legioni,
e nel contatto quotidiano dei grandi personaggi. Ma egli, che arriva
sempre dalla sua provincia, mi ha accolto coi soliti complimenti: di
infame, canaglia, miserabile e che so io! Ha una lingua fiorita, mio
nipote. I Farisei e gli Scribi ne sanno qualche cosa, perocchè i nomi
più teneri che loro dà, sono quelli di «briganti, ladri, razza corrotta,
razza adultera, razza di vipere, sepolcri imbiancati, ciechi, conduttori
di ciechi, ignoranti ipocriti, figli del demonio, insensati,
pazzi....[18]» Ma io non m'imbestio; lavoro, anzi, a migliorare la sua
educazione. Gli rispondo: ascoltami, nipote; rifletti, Rabbì; fa
attenzione, profeta; ma guarda, messia; degnati di ascoltarmi, figlio di
Dio; te ne supplico, Dio d'Israele.... A questo e' diventa più
pieghevole, ed allora parliamo di te.

  [18] SALVADOR, _Gesù Cristo e la sua Dottrina_. Tomo II, pagina
  146, ediz. del 1864, Parigi.

— Di me?

— E di chi vuoi tu dunque che parlassimo? Io non chiedo certo un posto
nel regno di tuo fratello. È troppo alto nel cielo. Peste! deve farci
troppo caldo o troppo freddo; non so troppo che. Allora egli mi dice:
Uomo...... Sì, uomo: del resto egli chiama donna tua madre. Mi dice
dunque: Uomo, va da Mirjam ed annunziale che ho bisogno di parlarle. So
che il convegno d'oggi deciderà della mia sorte. Ho talune cose a
comunicare a mia madre, cui Mirjam sola può riportarle. Che la venga in
casa di Hannah; la vedrò avanti e dopo il mio incontro coi principi del
Tempio.

— Tutto ciò non è vero, osservò Ida.

— Sciocca! Credi che se fosse vero te lo ripeterei? son proprio pagato
per questo! Parlo dunque per guadagnare un po' d'appetito, e tu puoi
andare o restare, venire con me o presentarti sola, credermi o no.... Ti
avrò sempre distratta dai tuoi cupi pensieri. Hai mille ragioni per non
credermi più. Mangiamo dunque.

Però Ida si ricordava che l'ultima volta Bar Abbas le aveva annunziato
che il Rabbì correva grandi pericoli, e che questi le aveva confermato
esser vero. Si ricordava che il Rabbì le aveva detto, l'ultima volta che
lo aveva visto, che ella non poteva ritrovare il perdono che sul seno di
sua madre! E se il Rabbì la chiamava veramente per confidarle qualcosa
per questa madre! Che interesse poteva avere Bar Abbas per farla andare
da Hannah, grande personaggio che godeva d'una eccellente
riputazione[19]?

  [19] Ananus era l'uomo il più giusto ed il più venerabile; la sua
  alta nascita e la sua dignità ricevevano un maggiore splendore
  dalla sua affabilità, e dalla cura che prendeva di farsi eguale ai
  più infimi. Amava con passione la libertà ed il regime popolare.
  Il bene pubblico aveva il passo sopra i suoi interessi privati.
  Faceva grande stima della pace, e non dubitava che la Giudea non
  dovesse perire, a meno di venire ad un compromesso onorevole coi
  suoi dominatori. GIUSEPPE, _Guerra giudaica_, lib. IX, cap. V.

— Non è un nuovo agguato che mi tendi? gli diss'ella. Ciò che mi riporti
sarebbe la verità?

— La verità? ohibò! Non mi prendono più a queste bazzecole. Una volta
sola in vita mia ho voluto dir la verità e ne zoppico ancora. Avevo
veduto, veduto coi miei proprii occhi, fuggire il tribuno della mia
legione. Ne lo rimprovero: mi scocca un calcio col suo zoccolo ferrato e
mi spezza una tibia. E da questo viene, che secondo voi altri insolenti
della famiglia, io zoppico, mentre tutto il mondo dice che io cammino
con molta grazia. Dopo di allora, mai più verità. Quindi, non stare ad
andare. Non tengo poi mica tanto a render servizio al Rabbì.

— Gli è impossibile: mio fratello non avrebbe dato una simile missione a
te.

— Hai proprio ragione: la sorella del re del cielo! Peste! Scusami,
principessa. Chi sono io? Un vecchio legionario, un compagno d'armi di
Tiberio, un allegro compare che tutti i guerrieri ed i cinedi di
Gerusalemme piangeranno, quando sarò morto, coprendosi di ceneri — se
hanno di che far fuoco; — che tutti i delicati della città sospireranno,
quando avrò finito di divertirli, lacerandosi gli abiti — se saranno
nudi. Bah! tutto ciò non basta per recare un messaggio alla figlia del
carpentiere di Nazareth. Non parliamone più, e grazie. Credo che m'avevi
offerto da mangiare, se non m'inganno anche in questo.

— Avrai tutto quello che vorrai, se Noah ha per di là qualche cosa, ma
dimmi se veramente mio fratello mi chiama.

— Egli ti chiama, ma la non è mica una ragione perchè tu vada. Il sagan
ha potuto venire da te senza pericolo, ma tu non puoi andare da lui.
Come dunque? in un palazzo di principe, in mezzo alla città, in pien
giorno, tu, ragazza pura ed innocente, andresti ad esporti ad un agguato
di tuo zio, quel brigante che ti ha già venduta una volta! No, piccola
mia, resta, resta, tuo fratello è un vaneggiatore, avrà bene abbastanza
da pensare a sè stesso, stanne sicura. Io sarò nel consiglio, e lo
difenderò, perchè io sono un vile senza dignità. Dunque fa conto che non
ti abbia parlato di nulla, e mangiamo.

— Potrò almeno condur meco Noah?

— Conduci teco Noè, l'arca, e tutte le sue bestie — compresi Thorix e
Febea che sono più vecchi delle piramidi. Ti prevengo però che costoro
resteranno nella corte; imperciocchè un uomo come il sagan non ha
l'abitudine di trovarsi con degli schiavi. Vieni dunque con me, o vacci
sola colle tue schiave ed io vi aspetterò alla porta; oppure non andare
affatto e credi che io voglio ingannarti; insomma fa ciò che vuoi. Io
non vedo e curo al mondo che una cosa: la mia nobile persona.

— A che ora il Rabbì si recherà in casa di Hannah?

— Alla settima, credo.

— Ebbene vi andrò. Tu m'aspetterai alla grande porta. Vi hanno delle
situazioni che assorbono come l'abisso.

— Che famiglia tragica è la mia, ed io, che lo sono così poco!
L'utilizzo come posso, in fede mia! Ma gli è mestieri che mi metta in
picca di eloquenza, a far sudare un rabbì del Gran Collegio.

— Ma dov'è Gesù? Perchè non lo vedrei io nel Tempio?

— Perchè egli non è nel Tempio, ove gli ufficiali lo arresterebbero, ma
in casa il sagan, il quale gli dà un asilo fino al momento che si sarà
spiegato.

— Chi devo domandare alla porta del palazzo?

— Poichè t'aspetto io?

— Ma se volessi andarci sola?

— Allora chiedi del re Salomone, o del profeta Elijah, e che la peste ti
stermini.

All'ora sesta, Bar Abbas se ne stava alla porta d'Hannah almanaccando
sui suoi quarantamila sesterzii.



XXVIII.


Uscendo dal Tempio, il Rabbì della Galilea si recò da me e pranzò.
Avemmo ancora un lungo colloquio insieme ed io mi sforzai di tracciargli
il quadro il più vero, il più vivente della situazione, di ciò che i
partiti esigevano, di ciò che la nazione aspettava, e di ciò che noi,
promotori della rivolta, speravamo. Egli mi rispose per monosillabi
vaghi; mostrandosi perfino incredulo che fossimo stati noi che gli
avevamo reso favorevole il popolo, l'avevamo messo in evidenza, fatto
risaltare le sue parole ed i suoi atti. Rientrò in sè stesso, si
ravvolse nel silenzio e nella tristezza, e prese a riflettere. Egli
sentiva che andava incontro ad un duello, nel quale avrebbe trovata la
morte; giacchè Gamaliele, il figlio del rettore del Gran Collegio, il
suo rivale, a cui era stato dato l'incarico d'interrogarlo e di
rispondergli, non era uomo da scompigliare con una parabola o da
abbagliare con un tratto di spirito. Io non turbai il Rabbì nel suo
raccoglimento fino all'ora settima. A quel momento solo uscimmo insieme
per recarci dal sagan.

Incontrammo Hannah alla sua porta. Usciva. Claudia l'aveva fatto
chiamare, scongiurandolo di accorrere da lei immediatamente, avendo a
fargli delle grandi comunicazioni. Ella e Pilato erano ritornati in
quella stessa mattina dal loro viaggio. Hannah ci pregò di entrare,
poichè eravamo attesi, ed egli aveva permesso di principiare la
conferenza senza di lui.

Nell'assenza del sagan, Caifas, il grande sacrificatore, presiedeva la
riunione. Non era molto numerosa. Oltre Caifas, c'era il vecchio
Simeone, Gamaliel, Menahem arrivato la vigilia, Eliseo governatore del
palazzo d'Antipas, il vecchio Jeù per gli Esseniani, Gionata il figlio
di Hannah, Polus il terapeuta, un membro della sinagoga di Alessandria,
inviato da Filone al gran collegio, ed io. Di maniera che tutti i
partiti erano rappresentati.

Hannah ci aveva riuniti nel suo grande gabinetto di studio, nella parte
più remota del palazzo ove egli si ritirava per meditare, o per
spogliarsi della gravità delle sue funzioni. Un andito separava questo
gabinetto da un piccolo appartamento addimandato _uccidi-pensieri_,
mobigliato come quello d'un re assiro, ed ove egli celebrava dei misteri
ben diversi da quelli del _sancta sanctorum_. All'estremità di
quell'andito s'apriva una porta sporgente all'angolo più appartato del
giardino, nel cui muro un altro uscio dava sopra una delle vie più
deserte di Gerusalemme. Lo si chiamava l'_uscio degli intrighi_, dal
quale un servo muto lasciava uscire, ma non lasciava entrar chicchessia,
se non presentando una tessera convenuta. All'altra cima dell'andito
trovavasi un piccolo gabinetto scuro, a tre uscite, l'una che immetteva
nel piccolo appartamento, l'altra al gabinetto delle meditazioni, e la
terza comunicava coll'andito, di rimpetto la porta donde si usciva nel
giardino.

Il Rabbì non condusse seco veruno dei suoi discepoli, onde essere più
franco nell'esposizione delle sue idee. Quegli uomini non lo
comprendevano giammai[20]. Finchè era restato in mia casa, il Rabbì mi
era sembrato estremamente inquieto, a causa di questa intimazione di
spiegarsi. Ma entrando nel gabinetto del comitato, egli ritrovò la più
completa serenità di spirito, e la sua figura così pronunziata, il suo
sguardo così potentemente mobile, presero un'aria di dolcezza infinita.

  [20] In fatto gli Evangeli sono ripieni di questa dichiarazione.

— Mi avete chiamato a questo convegno a porte chiuse, diss'egli, non so
con quale scopo. Io ho parlato nelle vie, ho insegnato nelle sinagoghe e
nel Tempio per degli anni, qui, ed in tutta la Palestina. Dovreste
dunque sapere ciò che voglio, e chi sono.

— Sì, rispose Gamaliele, noi ti abbiamo lasciato per lungo tempo la
libertà più completa d'insegnare e di agire, benchè avessimo il diritto
ed il dovere di chiuderti la bocca fino dalla prima ora, benchè tu ci
avessi colmati d'ingiurie e condannate le nostre dottrine. Ciò deve
provarti che noi non abbiamo nessun risentimento contro di te; che
professiamo la tolleranza di tutte le opinioni. Ma ogni cosa ha un
limite: quello che la forza maggiore impone alla volontà. «Posti fra
l'impazienza dei nostri connazionali e la vigilanza del demonio
straniero, fra le seduzioni del paganesimo e ciò che noi crediamo si
debba soltanto all'Eterno, noi siamo addossati al dovere di esigere
delle dichiarazioni formali da ogni qualunque pretendente al titolo di
messia. Noi siamo obbligati a dedicarci alla sua missione superiore, se
porta agli occhi nostri le condizioni volute di successo; nel caso
contrario, a prodigargli le rimostranze e gli avvertimenti; e dopo ciò,
si dia pure codesto pretendente per capo, per profeta, per figlio di
Dio, o per Dio stesso, se resiste alla legge e alla nostra autorità,
sovrana ancora, siamo obbligati a punirlo[21].» Ecco lo scopo della
spiegazione alla quale t'invitiamo.

  [21] SALVADOR: _Gesù Cristo e la sua dottrina_, volume II, cap.
  XXIX.

— Potrei declinare la competenza morale, e forse politica — io sono
suddito di Antipas — della vostra giurisdizione d'esame; ma non lo fo e
mi vi sottometto senza resistenza. Soltanto vi chiedo perchè, dopo una
longanimità così prolungata, mi chiamate voi a quest'ora onde rendervi
conto delle mie parole, dei miei errori, della mia missione? Cosa volete
voi, voi stessi, Sadducei, Farisei, Terapeuti, Esseniani, Erodiani,
partigiani di Giuda di Gamala, Antiochiani? Vi siete voi posti d'accordo
sopra una dottrina comune per erigervi a giudici di una dissidenza? Io
non rifiuto di spiegarmi: al contrario; ma desidero avere alla mia volta
delle spiegazioni.

— Noi siamo qui per chiederne, e non per darne. Abbiamo i nostri titoli
per interrogare; quali sono i tuoi per intimarci di dirti ciò che
vogliamo? Non abbiamo soffocata la tua voce fin dalla prima ora, è vero;
gli è questo un delitto? Sino a tanto che tu ti sei spacciato per figlio
di una vergine, della razza di Davide, messia; noi non abbiamo detto
nulla. Hai voluto importi come un Osiride, un Adone, un Budha, un
Ormuzd, un Mythra o non so qual'altra divinità dell'India, della
Fenicia, e dell'Egitto. Noi non abbiamo temuto questa importazione di
idoli nel nostro paese. Spetta ai figli di Erode ed ai Romani lo
inquietarsi di codesti discendenti di Davide. Anche noi attendiamo il
liberatore del nostro paese. Hai fatto dei miracoli. Atalide figlio di
Mercurio, Esculapio, Ercole, Gabienus, Policrate, Anfione, Eres, Orfeo,
le figlie del grande sacerdote Anius, le sacerdotesse di Diana, di
Feronia, d'Irpicus, Simone di Samaria, Apollonio di Thiane, Augusto,
tutti i medici, tutti i ciarlatani, tutti i sacerdoti delle religioni
straniere, il cavallo Pegaso, il pesce Oannes che predicava sulle rive
dell'Eufrate, tutti costoro ne hanno fatto, ne fanno altrettanti e così
miracolosi come i tuoi[22]. Noi ti abbiamo lasciato continuare i tuoi
prodigi.

  [22] Vedi VOLTAIRE: _Estratto dei sentimenti di Giovanni Meslier_,
  cap. II. _Dizionario Filosofico_, articolo Miracoli.

— Li avete calunniati.

— Ne abbiamo riso. Hai predicato la risurrezione, che non si trova nei
libri di Mosè; ma ti sei attribuita la massima d'Hillel: «Fa agli altri
ciò che vorresti si facesse a te stesso;» hai abbracciato la dottrina
dell'eguaglianza stabilita da Platone, e prima di lui, da Gesù figlio di
Sirach, da Aristobulo, e da Pitagora; hai anche accettato «la legge
orale trasmessa da Mosè a Giosuè, e da questi agli anziani che la
comunicarono ai profeti, e da questi ai dottori delle grandi sinagoghe,
come pure le tre sentenze emanate da questi ultimi: Siate lenti nel
giudicare; moltiplicate i discepoli; e fatevi bastione della legge.»
Allora, se tu hai stimatizzato il ridicolo dei nostri bigotti e dei
nostri zelanti, se hai trasgredito diverse delle nostre pratiche, se,
nell'interesse del tuo proselitismo, ci hai calunniati, abbiamo chiusi
gli occhi, perchè tu rispettavi il fondo della legge.

— L'ho poi violata forse?

— L'hai straziata; hai bestemmiato. Ci hai domandato un giorno: per
quale delle tue buone opere noi ti minacciavamo? Non è per nessuna buona
opera, nè per alcun precetto di buona giustizia e di buona morale; ma
perchè, essendo uomo, osi farti Dio[23]. Ora, la nostra legge è precisa.
Il signore ha detto: «Io sono Iehovah, l'eletto, l'eterno, il primo e
l'ultimo; io non trasmetto a nessuno nè il mio nome, nè la mia
gloria.... Non c'è stato alcun Dio avanti di me.... Non ce ne sarà dopo
di me.... Non ne esiste alcuno con me.... Io sono l'eletto che crea la
luce e le tenebre, che dà a volta a volta la pace o l'avversità.... Gli
è a me solo che appartiene la vita eterna; io solo sono il Dio forte, il
Dio giusto, il Dio liberatore, redentore, salvatore....»[24]. Non è
questa la legge?

  [23] S. GIOVANNI, cap. X, vers. 33. _Sed cum homo sis, teipsum
  facis deum_.

  [24] DEUTERONOMIO, cap. XXXII, vers. 39. ISAIA, cap. XLIII, vers.
  10, 11, cap. XLV, vers. 5-22.

— È la legge.

— Ora, la legge soggiunge: «Se dunque sorge in mezzo a noi un profeta o
un sognatore che faccia qualche segno o miracolo, e che il segno o
miracolo di cui egli avrà parlato si compie; s'egli vi propone nel tempo
stesso d'introdurre qualche altro dio, che voi non conosceste mai, e di
servirlo; voi non ascolterete le parole di codesto profeta o sognatore.
Iehova, il vostro Dio, colui che vi ha levati dalla casa della
schiavitù, vi mette alla prova per vedere se lo amate con tutto il
vostro cuore, con tutte le vostre forze.... Ma cotesto profeta o
sognatore morrà, e la mano del popolo tutto si porterà su di lui»[25]. È
questa la legge?

  [25] DEUTERONOMIO, cap. XIII.

— È questa.

— Ebbene, tu non ti sei proclamato Dio soltanto nella Galilea, nelle
sinagoghe, sotto i portici, e nelle corti del tempio, tu sei venuto
perfino a predicarcelo nelle sale del tesoro pubblico[26]. È ciò vero?

  [26] _In gazophilario_. S. GIO., cap. VIII, vers. 2-20.

— Sì. Ma cosa avete voi detto quando il re Erode alzò dei templi ad
Augusto, quando Antipas Erode alzò dei templi a Tiberio; quando alla sua
volta furono alzati dei templi ad Erode stesso, e quando furono tutti
ammessi come Dii?

— Le città ove sono stati commessi questi sacrilegi, sono greche, o
romane: tu ti sei proclamato Dio nel tempio stesso di Iehovah. Come
Ebrei, come fedeli alle leggi di Mosè, come dottori della legge, come
sacerdoti del tempio, come anziani, come membri del sanhedrin, possiamo
noi permettere simili profanazioni? Ora tu ci chiedi ciò che noi
vogliamo e se siamo d'accordo per condannare la tua dottrina.

— Ve lo chiedo ancora.

— Io ti rispondo. Siamo credenti e cittadini. Come credenti, i principî
che ci separano sono rari, quantunque non fossimo d'accordo sopra
diversi particolari della dottrina. Ma queste sono piccole varianti di
zelo; sono pratiche del culto; interpretazioni della legge; è il
progresso stesso di questa legge nei suoi rapporti col tempo, ed i
cangiamenti che vi hanno apportato le nostre disgrazie, ed i nostri
successi; è l'importazione di alcuni principii che i nostri fratelli di
Babilonia, d'Egitto, della Grecia hanno richiesto onde far concordare la
legge e la scienza; è il rigore degli Esseniani, o la troppa tolleranza
dei Sadducei.... Ma tutto ciò non cangia punto il carattere del nostro
patto, e le leggi organiche della nostra fede. Tu sei esseniano nel
fondo; ma fossi tu sadduceo come Hannah, o fariseo come me, noi vivremmo
sempre in pace nella stessa città, pregheremmo allo stesso altare,
insegneremmo dalla stessa cattedra. Il Tempio e la sinagoga sono
abbastanza grandi per abbracciare queste gradazioni, ed abbastanza
illuminati per tollerarne le differenze. Noi siamo adunque d'accordo
quanto basta per dirti unanimemente: tu bestemmii.

— Lo siete pure come cittadini?

— Meglio ancora.

— Eppure io credeva che il Sadduceo volesse restar attaccato al testo
della legge di Mosè ed alla giustizia, ch'egli respingesse le forme
esterne del culto, le credenze riportate dall'Oriente, ed importate
dall'Egitto e dalla Grecia — gli angeli, lo spirito, la resurrezione; —
ch'egli limitasse alla tomba il patto di Dio col suo popolo; mentre il
Fariseo ammette la legge orale all'istesso titolo che il Pentateuco,
sviluppa secondo i tempi la legge di Mosè e l'adatta alle circostanze,
lascia allo spirito una estrema libertà per interpretarla, ordina delle
pratiche esterne, onde salvare dal naufragio la nazione e la legge, fa
pompa di zelo, si adorna di filacteri, pone ai suoi vestiti una lista
rossa più larga degli altri, per distinguersi dai Greci e dagli Arabi,
crede alla risurrezione, ed alla giustizia dopo la morte, secondo le
opere.

— Sia pure. Ma queste sono sempre dissidenze e non bestemmie.

— La legge che ammette delle dissidenze non è più la legge. Poi, io
pensava che il Sadduceo riconoscesse la libertà assoluta dell'uomo,
contento della sua parte sulla terra, non domandando nè temendo nulla,
al di là; mentre il Fariseo insegna che Dio agisce a traverso l'uomo, e
che la libertà umana ha dei limiti naturali. Avevo sempre visto il
Sadduceo poco ambizioso, rassegnato al dominio romano, amante delle
scienze e delle arti coltivate in Grecia ed in Egitto, quantunque poco
premuroso di vederle adottate nel suo paese, senza zelo, disprezzante la
folla, amante lo straniero, inclinato ai piaceri, desideroso di esser in
buona vista di Dio e di Cesare, conservatore, tollerante, indifferente;
mentre il Fariseo usa di tutti i mezzi onde restare partito dominante,
attende un messia, si barcamena fra le idee ed i partiti, soddisfa le
esigenze straniere, carezza l'opposizione nazionale, fa rispettare la
legge, nel tempo stesso che mantien desta nei cuori la speranza di una
vicina liberazione, e non soffocando gl'istinti popolari e non si
lasciando sommergere dagl'impazienti, prepara i mezzi di resistenza, e
previene una catastrofe dall'Occidente, simile a quella che venne
dall'Oriente, e che perdette i nostri padri.

— Sì, è vero. E poi?

— Poi? Voi siete dunque d'accordo altresì cogli Antiochiani che lavorano
ad effettuare un compromesso fra il culto di Mosè ed il culto greco[27];
cogli Erodiani che vogliono farsi il tratto di unione fra il Moriah ed
il Campidoglio, trovando che il messia è venuto, e che fu Erode,
opponendosi all'insurrezione nazionale, e consigliandovi di pagare il
tributo a Cesare?

  [27] _Libro dei Maccabei_, cap. IV, vers. 9, 10, 14, 15.

— Ciò non è, ma fosse pure, tutto codesto non è un diniego della legge.

— Chi si scosta dalla legge, la nega. Voi siete dunque d'accordo col
terapeuta che adora forse ancora quella _regina cæli_, che tiene una
così grande parte nei misteri dei templi egizii e fenicii[28], che si
considera un cittadino più del cielo che di questo mondo, che abbandona
i suoi beni, che personifica l'opera di Dio e la creazione a mo' degli
Ebrei orientali, in un Adamo qualunque, che si affatica ad incarnare in
una manifestazione reale i precetti dei libri sacri, che vive
nell'isolamento, sobrio come la cicala che si nutre del suo canto
monotono, mantenendo il silenzio, il più umile di loro essendo il più
stimato; perocchè egli considera la schiavitù come contraria alla legge
di natura, ed alla volontà di Dio?

  [28] GEREMIA, cap. XLIV.

— Ma chi, chi fra noi si chiama figlio di Dio, e Dio? Ecco la questione.

— Lo siete voi dunque? Ecco ancora la questione. Ma dite, dite,
Sadducei, Farisei, Erodiani, Antiochiani, siete voi d'accordo con quei
risanatori (_terapeuti_) e con quegli Esseniani, che hanno libri,
dottrine, dogmi, misteri, una cabala propria che comunicano ai soli
adepti secondo il grado d'iniziativa? Odiate voi pure la guerra e la
servitù? adorate voi Dio nell'anima, e non con dei sacrifizii? praticate
voi la comunità dei beni, la castità, il ritiro, la cura degli afflitti
del corpo e dello spirito, studiando le virtù delle piante, delle terre,
dei minerali, delle forze della creazione? istruite voi, vestite voi,
nutrite voi dei fanciulli? proclamate voi l'immortalità dell'anima?
inviate voi le vostre offerte al Tempio senza andarci voi stessi?

— Tutto ciò è nelle nostre dottrine.

— Sì, so bene che il vostro Hillel ha detto: Amate la pace, amate gli
uomini, amate lo studio della legge; ma le vostre dottrine hanno esse
come l'essenianismo la triplice base dell'amore di Dio, l'amore
dell'uomo, l'amore della virtù? L'uomo è desso anche per voi sotto
l'assoluto dominio di Dio? Credete voi la preghiera più necessaria che
il sacrifizio, il combattimento ed il giuramento inutili? Ditemi, siete
voi dunque tutti d'accordo come credenti e come cittadini? avete voi
dunque abbandonato codesti principii che costituivano fino ad ora le
vostre dissidenze? formate voi un solo corpo per respingere da voi una
dottrina, che non accetta tutte le vostre, e giudicare l'uomo che
l'insegna, come si giudicherebbe un traditore verso Dio e verso la
natura?

— Rabbì, ancora una volta, non spostare l'accusa che noi portiamo contro
te. Tu hai professato, puoi professare ancora le dottrine che meglio ti
piacciono; nessuno ti metterà ostacolo. Ma tutto ci ordina di falciare
dalla radice la pullulazione di nuovi dii. Le differenze che ci
dividono, non colpiscono il cuore della legge. Te l'ho già detto:
qualche grado di zelo più o meno nelle pratiche del culto, dei rigori di
principii, alcuni cangiamenti di forma, un soffio di vita nuova ispirata
qui da Zoroastro, là da Pitagora, altrove da Zenone; una rassegnazione
al dominio straniero più o meno paziente, la dottrina della vita oltre
la tomba.... tutto ciò non cangia per nulla l'unità del popolo di Dio,
la cui missione è sempre stata la ricostituzione dell'unità umana. Tu
invece vuoi separarci.

— Sì, lo voglio.

— Lo confessi. Infatti, noi sappiamo che tu hai detto ai tuoi discepoli:
«Se alcuno non vi riceve o non ascolta le vostre parole, scuotete la
polvere dai vostri piedi, partendo da quella casa o da quella città, ed
io vi assicuro che saranno trattate con più severità che gli abitanti di
Sodoma e Gomorra. Poichè, non crediate che io sia venuto a portar la
pace sulla terra. Io sono venuto a portar la spada, a metter il fuoco
sulla terra: ed il mio desiderio è ch'essa bruci. Io porto la
separazione, la divisione tra il figlio ed il padre, tra la figlia e la
madre; i servitori d'un uomo saranno i suoi nemici; chiunque ama suo
padre o sua madre più di me, suo figlio o sua figlia più di me, chi non
odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli, le
sue sorelle, la sua stessa vita, non sarà mai mio discepolo»[29].

  [29] MATTEO, X, vers. 34-37. LUCA, XII, vers. 49-53. Id. c. XIV,
  vers. 31, 33, 25, 26.

— Io ho detto tutto ciò.

— Tu hai predicato queste selvaggie dottrine perchè tu ti sei alzato
rimpetto a Iehovah come suo eguale per dare un nuovo patto al suo
popolo. Ebbene, in presenza dello sconvolgimento del mondo politico che
Roma ora compie, noi vogliamo conservare l'unità del mondo morale, per
non essere completamente assorbiti.

— Sì, gridò con forza il Rabbì, io mi proclamo Dio[30]. Sì, io porto la
separazione sulla terra. Sì, io porto un nuovo patto. Se il genere umano
si componesse di uomini eletti come voi, la parte di Dio nel mondo, Dio
stesso sarebbe superfluo. Ma io miro ai popoli. Ora, qual'è la legge che
si è imposta ai popoli e che ha creato delle nazioni, che non abbia
avuto l'aria di un'ispirazione di Dio? Mosè non si faceva egli dare le
sue tavole da Dio stesso? Numa, che creò Roma, non si faceva egli
soffiar le sue leggi da una potenza soprannaturale? Come Mosè e come
Numa, io detto una nuova legge. Bisogna che Dio intervenga, e che Dio
parli. Io porto una separazione nel mondo, ma gli è il mondo che io
separo dalla vostra legge. Mosè vi aveva comandato di riconoscere lo
straniero come fratello; voi ne avete fatto un impuro. Il pagano e
l'ebreo erano figli dell'istesso Dio per Mosè; voi avete rigettato
questo fratello come il delitto e la maledizione. Oggi Rachele,
Zipporah, Ruth sarebbero maledette; Giuseppe che aveva sposata la figlia
d'un prete egiziano, e Salomone la figlia d'un re d'Egitto, sarebbero
espulsi dalle vostre sinagoghe. La vostra legge ha due pesi e due
misure. Se il Siriaco perde il suo cammello non può reclamarlo all'Ebreo
che lo ha trovato; e l'Ebreo può riprendere colla forza il suo, se l'ha
perduto. Se l'Ebreo uccide un Greco, può cercare un asilo a Kedesh, a
Sechem, a Hebron; se il Greco uccide un Ebreo, è considerato come degno
di morte. Una simile legge è iniqua; io me ne separo. Vi porto un nuovo
patto....

  [30] Strana coincidenza! Uang-mang sosteneva nella China l'istessa
  parte del Rabbì di Nazareth a Gerusalemme, all'istessa epoca. Vedi
  il curioso libro di Giuseppe Ferrari; _La China e l'Europa_ parte
  3.ª, Cap. 1.º

— Ma tu non hai insegnato un solo precetto che non sia stato ordinato
avanti di te dai nostri padri della sapienza. Mosè, Antigone di Soco,
Gesù figlio di Syrah, i profeti, Hillel, Schemaya, Abtalion, il Ietzira,
il Zohar, il Battista, gli Esseniani, Giuda bar Bethyra, Jonathan bar
Uziel... i nostri rabbini di Gerusalemme e di Alessandria, ed altrove
Sakya-Muni, Joe, Confucio... tutti hanno proclamato prima di te, le
leggi dell'amore e dell'eguaglianza. Qual è codesto nuovo patto che tu
porti? Cosa c'insegni di nuovo?

— Niente. Ma gli altri hanno insegnato, io voglio praticare; gli altri
hanno detto: Ciò è buono! io dico: ciò è dovere! Gli altri hanno detto:
Credete; io dico: Fate.

— Piuttosto che dire: Fate! sarebbe meglio fare. Tu sei stato educato
nella tua infanzia alle scuole esseniane che non fanno mostra
d'insegnare, ma praticano. Tu hai veduto nella tua infanzia, nel tuo
paese di Galilea, altri dottori che non hanno sprecato la loro voce a
ripetere delle dottrine, ad ingiuriare altrui, ma che hanno agito: Giuda
di Gamala ed i suoi adepti, i quali, per l'amor della patria, sono morti
a migliaia a migliaia sul campo di battaglia e sulla croce. Ecco i
dottori che noi veneriamo; ecco i messia che noi ammettiamo. Il mondo si
rigenera per l'azione. Quando vediamo in Germania cadere Arminio,
Sacrovir nelle Gallie, Tacfarinas nell'Africa, Giuda di Gamala in
Galilea, tutti per istrappare il loro paese a questo abbominevole
Polifemo di Roma che divora e digerisce popoli e nazioni, noi non
abbiamo neppure uno sguardo da gettare ai ribiascicatori di vecchie
parabole. Se tu non avessi fatto che questo, non avresti ora l'onore di
occupare l'attenzione del gran Consiglio, e dei partiti della Giudea. Ma
tu hai un'altra ambizione; noi abbiamo un altro scopo.

— Ma, non mi avete voi mandato a cercare nella Galilea? Non mi avete voi
invitato a venir a spiegare la mia opera in Gerusalemme?

— Noi abbiam mandato a chiedere un Giuda di Gamala, e non una melensa
parodia di Osiride. Noi avevamo veduto che la bordaglia ti ascoltava,
come la ascolta sempre queglino che attaccano l'ordine stabilito dei
fatti e delle idee. Noi abbiamo creduto nostro dovere di legalizzare
questa forza che commoveva il popolo, e farla convergere alla salvezza
della nazione. Ma tu hai tentato d'isolarti; hai sconosciuto i
sentimenti, le passioni, i bisogni dei tempi, l'istinto della nazione.
Sull'altare che noi avevamo innalzato per un nuovo Giuda Maccabeo, tu
hai provato di collocare te stesso sopra un Mosè postumo; e quando ti
abbiamo chiesto: chi sei tu? e cosa vuoi? hai risposto con delle
ingiurie, con degli equivoci, o con delle inezie che nulla
spiegavano.... È d'uopo che ciò finisca. Roma ci spia, e diffida di
codesti taumaturghi che si danno come figli di Dio, e figli di Davide,
che eccitano le turbe, ed avvolgono i loro progetti nelle nuvole del
regno di Dio. Ancora una volta, chi sei tu? cosa vuoi?

Il Rabbì di Nazareth stava per rispondere, allorchè Hannah tutto
sconvolto ed esterrefatto entrò nella stanza. Egli si avvicinò a Caifas
e gli disse di rientrare nel suo palazzo, poichè egli aveva veduto una
grande folla innanzi la sua porta e sospettava che fosse succeduta
qualche disgrazia.

Caifas uscì immediatamente. Allora Hannah ci disse che Bar Abbas aveva
ucciso Justus, e che egli ignorava la causa di questo delitto.

Questa notizia produsse un istante di diversione alla discussione. Ma
Hannah avendo preso il posto di Caifas, l'attenzione si riportò tosto
sopra il Rabbì della Galilea, cui Gamaliel costringeva ad una
rivelazione definitiva. Infatti il Rabbì, dopo essersi raccolto un
istante, rispose:

— Io sono il figlio dell'uomo nel senso dei vostri profeti. Sono Ebreo.
Il mio padre terrestre, carico di figliuoli e povero, mi confidò
dall'infanzia alla sollecitudine degli Esseniani[31]. All'età di cinque
anni, io apparteneva come ogni ebreo, alla legge. A dieci, fui iniziato
ai regolamenti ed alle ordinanze. A tredici, io compivo i precetti come
gli altri figli del popolo di Mosè. Avrei potuto ammogliarmi a diciotto
o a vent'anni. Fui circonciso, presentato al Tempio, e ricevuto come
figlio della legge. Portai la mia offerta al Tempio; osservai le feste e
mangiai l'agnello pasquale come ogni altro individuo della Giudea.
Frequentai la sinagoga, ove fui istruito, ove fui rischiarato sopra la
legge; e come ogni altro compiuti i tredici anni, presentai i miei dubbi
nelle discussioni pubbliche del Kaal (assemblea). Come Daniele,
le mie osservazioni, a quell'età, furono rimarcate[32]. A trenta
anni principiai come tutti i miei concittadini ad occuparmi
dell'interpretazione della legge, della tradizione, e della cabala[33].
Nella mia infanzia ascoltai la voce dei miei maestri e di Menahem, che
diceva: Amate; e la voce di Giuda il Golonite che diceva: Non più
padroni; distruggete lo straniero. E vidi migliaia di questi figli della
Galilea appesi alla croce dei Romani. Quando all'età prescritta dalla
legge, io principiai l'insegnamento, il popolo che udì la mia parola,
quelli che videro le mie opere, mi chiamarono figlio di Davide, messia,
profeta, figlio di Dio, figlio unico di Dio... Essi l'avevano detto!

  [31] SALVADOR, Tom. I, cap. III, pag. 270.

  [32] Giuseppe dice di sè stesso nella sua biografia «che a
  quattordici anni egli era tanto oltre nello studio dei libri
  sacri, che i sacrificatori ed i principali personaggi non
  esitavano a consultarlo sull'interpretazione delle leggi.»

  [33] MISCHNÀ, _Sentenze dei padri_, cap. V. SALVADOR, _Storia
  delle Istituz. di Mosè_, lib. VII, cap. V.

— E tu lo ripeti e lo confermi? disse Gamaliele.

— Il fatto rivela l'uomo, rispose il Rabbì. Voi trovate che la mia
dottrina è stata insegnata prima di me? La verità è eterna: gli agenti
di Dio possono dunque averla intravista. Ma questa parola dei miei
predecessori è stata come la pioggia caduta sopra la pietra: è restata
infeconda. Io sono in mezzo a voi come la pietra di paragone. Il cielo
mi separa dai Sadducei; la terra dagli Esseniani; la nozione della
patria, dai Goloniti; l'intelligenza della legge, dai Farisei. Voi
tutti, giudicate l'atto; io, interrogo l'anima. Il vostro Dio non è il
mio. Il vostro Iehovah è collerico, geloso, severo, e lungo nei suoi
castighi; egli cammina nella tempesta; si manifesta con dei terremoti;
scaccia Adamo; annega un mondo intero; distrugge popoli e città. Il mio
è un padre; là ove il vostro punisce, egli perdona.

— Rabbì, Dio è lo stesso ovunque, o non è più Dio.

— Voi ve lo fabbricate a vostra similitudine. Mosè è il vostro
legislatore. Egli è stato legislatore degli atti: io sono il legislatore
delle anime. Voi proibite l'assassinio; io proibisco di più: la collera,
e l'odio. Voi proibite l'adulterio: io proibisco più di ciò, il
desiderio impuro. Voi proibite lo spergiuro: io proibisco l'istesso
giuramento. Voi ponete come base del dritto il taglione; io pongo il
perdono. Io vengo ad ordinarvi la carità, la riabilitazione del caduto,
la mansuetudine. Voi avete degli schiavi; io vengo a ridirvi: gli uomini
sono fratelli. Io predico la solidarietà umana; la glorificazione del
debole e dell'abbietto: la supremazia dell'interno sull'esterno; la
ricompensa dell'opera dopo la vita. Io ordino la communanza dei beni per
mezzo della carità. Io vengo ad appianare la via del cielo che voi avete
seminata di bronchi e sbarrata di abissi. Io riconosco la perfettibilità
della legge, che voi avete cristallizzata nella durezza. Se Dio vede il
cuore, a che le pratiche esterne del culto? Dio assorbe l'uomo. Voi
arrestate il progresso crescente dell'opera e della dottrina di Mosè; io
gli do l'impulsione della vita coll'amore e la libertà del cuore e
dell'anima. Io aggiungo la fede al precetto; la passione alla sua
propagazione. Io porto la libertà morale.

— V'è bisogno d'un Dio per ciò?

— Sì; Dio solo può ciò. Dio purificato dalla sua paternità, si allarga,
si stende, penetra ovunque. Io sono la coscienza di Dio, e ve lo rivelo.
Io predico il regno di Dio, il regno dell'amore, della paternità di Dio,
che aspira il mondo nel suo alito di benedizione, di bontà, di perdono.
Non più intermediarii fra l'uomo e Dio. Il mio culto è quello della
purezza del cuore, della fraternità, della reciprocità umana, della
dolcezza. Io porto la calma interna. Voi vi preoccupate dell'eccezione:
io guardo l'universalità. Voi appoggiate la piramide dell'umanità sulla
punta; io la pianto sulla base. Voi considerate le classi: io innalzo il
popolo. Ed ora, se la legge nuova che io proclamo, non per gli Ebrei
soltanto, ma per il mondo, è un delitto, io sono colpevole.

Queste parole del Rabbì furono seguite da un profondo silenzio. Esse
avevano colpito la commissione. Gamaliele però, che sembrava il più
pensieroso, rispose:

— Rabbì, bisognerebbe anzi tutto metterti d'accordo con te stesso e
fissare la tua dottrina. Un giorno tu dici che sei la spada, il fuoco,
che porti la divisione nel mondo; all'indomani ti proclami il servo il
più umile, l'agnello, l'apportatore del ramo d'ulivo, ed assicuri che il
tuo giogo è soave. Un giorno tu chiami i Gentili ed i Samaritani cani e
porci, un altro spalanchi per loro le porte del regno dei cieli, e degni
fare per loro dei grossi miracoli. Un giorno accarezzi lo straniero come
Mosè; all'indomani lo respingi come noi; lo fuggi. Tu eviti le sue
città, dopo aver bevuto l'acqua alla giarra delle sue donne. Cosa vuoi
dunque? Questa dottrina di circostanza, non ce ne impone. Israele non
manca di dottori. Ma gli è questo forse ciò che ci occorre? Come! tu hai
udito l'ardente parola di Giuda di Gamala, hai veduto i suoi compagni
attaccati alla croce lungo le vie, vedi la guarnigione romana alla porta
del Tempio del tuo Dio, che dico? di tuo Padre! e tu vieni a spacciarti
come il Messia delle anime, il Cristo del perdono, ed unisci
nell'istesso abbraccio, la vittima ed il carnefice? Come! quando un
popolo intero attende col fremito dell'impazienza l'uomo che in nome di
Dio lo chiami alla libertà ed alla indipendenza, tu osi dirgli: Hai
torto, rendi a Cesare ciò che è di Cesare, obbedisci, taci; tu poni in
ridicolo i Farisei, e tu condanni i Zeloti? E storni la corrente delle
anime dalla patria, per sparpagliarle nel cielo? Come! quando questi
Esseniani i cui principii sono contrarii alla guerra; quando questi
Sadducei i cui interessi li invitano alla pace; quando questi Erodiani
da cui la riconoscenza e la propria salvezza esigono la continuazione
del dominio straniero sopra il suolo nazionale; quando tutti i partiti
infine si sollevano, cingono una spada, proclamano giunta l'ora della
risurrezione, tu vieni, chiamato da noi, tu vieni a dirci: Io sono Dio,
e vi ordino di amare i Romani? Davvero, Rabbì, tu hai ragione: tu non
sei di questo mondo, non sei di questo tempo, non sei di queste
contrade! E noi dovremmo autorizzare il tuo apostolato della codardia, e
permettere l'assassinio di questo popolo? Sì, il nostro Dio è il Dio di
Mosè, il vendicatore, fino a che non avremo una famiglia. Egli sarà il
padre, quando potremo chiamarci fratelli. Pilato, gli è dunque tuo
fratello, o Rabbì? Rimetti nel fodero codeste tue dottrine, che sono
quelle dei popoli liberi ed indipendenti. Esse non possono essere per
noi: noi siamo gli schiavi dello straniero. Tu predichi l'uomo; noi
cerchiamo dei cittadini. Tu ti atteggi a Cristo; noi cerchiamo un
generale. Tu ti proclami Dio; noi abbiamo d'uopo di un tribuno che gridi
al popolo: Sollevati, Dio lo vuole!

— Io non sono nulla di tutto ciò, gridò il Rabbì.

— Allora sei condannato, rispose Gamaliele.

— Voi volete dunque la guerra.

— Noi vogliamo che tu sii l'eco della nostra voce, il braccio della
nostra volontà, la parola della nostra bocca: un uomo-strumento, e non
un uomo-Dio.

— Eppure io sono l'uomo-Dio.

— Non spingerci ad esser severi, Rabbì.

— Mio Padre ordina, io obbedisco. Il mio sangue ricadrà sul vostro capo.

— Sia.

Un grido e uno strepito di lotta si fecero in questo momento udire
dietro la porta del gabinetto che serviva di comunicazione fra questa
stanza e l'appartamento segreto di Hannah. Questi si precipitò per
vedere cosa accadesse, mentre noi restammo uniti, fortemente scossi
dalle ultime parole del Rabbì.

Ma che avveniva dunque, dietro quel gabinetto?

Ida, accompagnata da Noah, si era recata alla pretesa chiamata di suo
fratello, comunicatale da Bar Abbas. Le due giovani donne avevano
trovato Bar Abbas alla porta. Egli aveva lasciato Noah nella corte, e
condotta Ida nell'appartamento _uccidi-pensieri_, ove Hannah li
attendeva, divorato d'ansietà. Alcuni minuti dopo, Justus venendo alla
riunione, nel traversare la corte aveva scorta e riconosciuta Noah.
Corse a lei. Noah gli raccontò come Gesù aveva chiamato sua sorella, e
come Bar Abbas l'aveva condotta negli appartamenti del sagan, ove il
Rabbì doveva incontrarla.

Justus sapeva già che il sagan ardeva di una passione frenetica per la
giovine, e che Bar Abbas gliel'aveva venduta. Ora, egli l'amava non meno
ardentemente del sagan, ed aveva vent'anni. Un lampo gli rischiarò lo
spirito. Il sagan aveva appena indirizzato alcune parole alla giovinetta
che Justus, il quale sapeva ove trovarlo, si presentò tutto trafelato,
ed annunziò ad Hannah che Claudia lo richiedeva all'istante.

Se la bella e terribile Romana gli avesse domandato una libbra della sua
carne, Hannah gliel'avrebbe forse accordata con meno rammarico, che
quest'ora cui egli scorciava dalla sua vita per lei. Era impossibile
però di rifiutarsi, od indugiare. Claudia non sapeva attendere. Era
arrivata nella mattina, e d'altronde poteva avere a fargli qualche grave
comunicazione, utile a conoscersi avanti di prendere una determinazione
sul Rabbì di Nazareth. D'altra parte, Ida era ora in casa sua, in suo
potere; valeva meglio trovarsi da solo a solo con lei, di notte,
sbarazzato da ogni altra preoccupazione, e da quegli uomini che a due
passi di distanza, decidevano del destino del loro paese.

Egli sospirò, e si decise ad obbedire.

Justus entrò dalla porta del gabinetto oscuro nella sala di riunione.
Hannah pregò Ida di attendere il suo ritorno ed il momento di vedere suo
fratello. Egli uscì dalla porta del giardino. Bar Abbas, che aveva
consegnata sua nipote, ne aspettava il prezzo, nella stanza vicina —
vestibolo che conduceva alla scala secreta.

Un quarto d'ora era appena passato dalla partenza di Hannah, quando Bar
Abbas udì nella camera da letto del sagan, la voce di sua nipote, ed uno
strepito di lotta, e di mobiglie rovesciate. Credendosi giuntato da
Hannah, egli aprì la porta, ed entrò per impedire la deteriorazione
della sua mercanzia, prima di averne palpato il prezzo. Restò stupidito.
Invece di Hannah, vide Justus che stava compiendo la più odiosa violenza
sopra la fanciulla, che si dibatteva eroicamente. Preso pel collo da Bar
Abbas, Justus gli diede un colpo di pugnale. Ma vedendo alla sua volta
luccicare sul suo capo il coltello di Bar Abbas, fuggì. Bar Abbas,
colpito soltanto nel mantello, lo inseguì a traverso il vestibolo, lungo
la scala secreta, nella corte, fuori della porta, e raggiuntolo nella
strada lo freddò di botto con un colpo di coltello, che entrando dalla
spalla, gli traversò il polmone. Justus cadde, senza profferir parola:
ma dei soldati romani che passavano, arrestarono Bar Abbas e lo
tradussero al pretorio.

Ida, restata sola, spaventata, lacerata, vergognosa, non sospettando
punto dei progetti del sagan, nel quale non scorgeva anzi che un
protettore, temendo di restare in quella stanza, perdendo il capo,
stravolta, aprì la porta del gabinetto. In quel momento la voce di suo
fratello dalla stanza vicina la colpì. Ogni suo sospetto si dissipò. Si
rannicchiò nel gabinetto oscuro, ed ascoltò, aspettando la fine.

Nel frattempo, Hannah si presentava a Claudia. Ella non l'aveva fatto
chiamare, ma mostrò piacere di vederlo. Il sagan le raccontò ciò ch'era
avvenuto dopo la partenza di lei, e le disse che doveva lasciarla per
assistere all'interrogatorio di Gesù.

— Vengo teco, sclamò Claudia.

— È impossibile, rispose il sagan; le nostre leggi proibiscono che una
donna, una straniera, assista alle deliberazioni del consiglio delegato
dal sanhedrin.

— Da quando in qua, sagan, objettò Claudia, le leggi sono state un
ostacolo alla curiosità di una donna? Io voglio vedere, ascoltare,
sapere, e decidere da me stessa. Volevo appunto provocare codesta
deliberazione, e dare le mie disposizioni. Sono contenta che ciò si
trovi fatto più presto che io non pensava.

Tutte le scuse, tutti i dubbi, tutte le difficoltà del sagan non
riescirono che ad infiammare il desiderio di Claudia, ed a svegliare i
suoi sospetti. Bisognò cedere. Soltanto ella acconsentì ad ascoltare
senza vedere, ed Hannah la condusse per la porta segreta del giardino e
pel piccolo andito, al gabinetto oscuro ove stava Ida.

Per via egli aveva appreso la sorte di Justus.

Ida, udendo la voce del sagan nell'andito, ebbe vergogna di lasciarsi
sorprendere, origliando alle porte. Uscì dunque immediatamente dal
gabinetto, ove Claudia s'installava e passando pel quale Hannah entrava
nella sala ove noi eravamo col Rabbì e Gamaliel, chiudendo la porta. Il
sagan non aveva traversato il suo piccolo appartamento per non svelare a
Claudia la presenza d'Ida. Questa aspettò un momento, restò un istante
alle scolte, e non udendo più nulla cedette all'invincibile interesse
che le ispiravano le mortali lotte di suo fratello col gran Consiglio, e
s'insinuò di nuovo nel gabinetto. Claudia vide entrare in quella
oscurità un'altra persona e non si mosse. Ma quando il Rabbì ebbe detta
la sua ultima parola, quando Gamaliele rivelò la cospirazione contro i
Romani, che covava in tutta la Palestina, Claudia pensò che quella
persona misteriosa, sopraggiunta lì, a fianco di lei, ne sapeva di già
troppo. All'ultima frase del Rabbì, un grido soffocato, o piuttosto un
sospiro prolungato sfuggì dal petto della fanciulla. Claudia allora
l'afferrò pel braccio e le dimandò:

— Chi sei tu?

— Ah! mi fai male, gridò la sorella di Gesù.

Claudia si ricordò quella voce, e aprendo la porta dell'andito, trascinò
seco Ida, e la riconobbe.

— Sei ancora tu? ruggì la terribile romana. Per chi sei tu qui? perchè
tremi tu?

Ida perdette la testa. Vedendo quel viso pallido dall'emozione, quelle
labbra tremanti, quegli occhi fiammeggianti ribaditi su lei, la Galilea
si sentì svenire. Poi senza sapere ciò che dicesse, credendo addolcire
la collera di quella donna la cui mano le bruciava la midolla delle
ossa, rispose:

— Per Pilato.

— Muori allora, gridò Claudia, cavando dalle sue treccie il suo
terribile spillone.

Hannah fermò il braccio omicida. Ida si sottrasse alla stretta di
Claudia, e vedendo aperta la porta del giardino fuggì. Una spiegazione
corta, netta, cruda, irrevocabile, ebbe luogo all'istante fra Claudia ed
il sagan.

— Spezzatemi codest'uomo, gridò Claudia, parlando di Gesù.

— Ma noi l'abbiamo chiamato, gli abbiamo preparato la strada, l'abbiamo
alzato nell'anima della folla...

— Ne avevamo bisogno allora; ora è inutile.

— Occorrono però dei riguardi....

— Nessuno.

— Il consiglio non l'ha ancora giudicato, esso non ha ancora deciso....

— Ho giudicato e deciso io. Schiacciatelo.

— Bisogna ucciderlo allora.

— Che lo si uccida.

— Ma il movimento che abbiamo provocato?

— Esso m'è inutile oggimai: soffocatelo, o Pilato lo soffocherà nel
sangue.

— Bisogna dunque spegnere quest'anima del popolo che avevamo
risvegliata?

— Sull'istante, se si può.

— È irrevocabile?

— Inesorabile.

— Tu rinunzi dunque a tutte le visioni così dolcemente carezzate?

— Ne carezzo una più dolce ancora: Ponzio mi ama ed io l'amo.

— Era dunque per questo che...

— Che? credevi forse ch'e' fosse per te e per i tuoi Ebrei?

Hannah vedeva chiaro alla fine. Entrò precipitosamente nella sala ove
noi eravamo, esitanti su ciò che dovessimo fare, sulla condotta che
avevamo a tenere verso il Rabbì. Hannah ci ascoltò appena, poscia
sclamò:

— «Una parte considerevole del popolo crede senza esitare a tutti coloro
che gli promettono la liberazione, e che si autorizzano di pretesi segni
o miracoli. Che il Consiglio si mostri dunque attento e risoluto,
imperciocchè, se noi lasciamo fare, i Romani che guatano l'occasione,
che sono preparati, verranno e distruggeranno la città, il Tempio, la
nazione intera. Per quanto rigorosa sia tale necessità, vale meglio che
un capo ribelle, che un uomo solo perisca, anzi che il popolo d'Israele
tutto intero[34]».

  [34] GIOV. cap. XI.



XXIX.


Lasciando la casa di Hannah, il Rabbì di Nazareth erasi recato da me. Un
sentimento di delicatezza lo allontanava ormai da Bethania. Lazzaro,
spaventato delle conseguenze di un interrogatorio al quale gli agenti
del sanhedrin l'invitavano, per ispiegare la sua singolare guarigione,
era sparito, consigliato forse dalle sue sorelle, le quali temevano lo
scandalo a proposito del seppellimento precipitoso del loro fratello. Si
affaticavano esse a dare una tinta miracolosa alla scena di Lazzaro. Il
sanhedrin usava del suo diritto andando al fondo delle cose.

Io aveva avuto un colloquio con Hannah, dopo che tutti erano partiti, ed
egli mi aveva raccontato ciò che fra lui e Claudia era intervenuto.
Avevamo quindi fisso il piano di condotta definitiva che le circostanze
c'imponevano.

Claudia, con una parola, distruggeva i nostri progetti, o piuttosto li
aggiornava. Essa cangiava in un intrigo di palazzo il movimento di
rigenerazione, che noi avevamo lentamente elaborato, preparato, maturato
e condotto alla vigilia di manifestarsi alla luce del sole.

Il Rabbì, che doveva essere una forza impulsiva, diveniva
inevitabilmente una vittima, sia che indietreggiasse, sia che avanzasse.

Rinnovai in quella sera i miei sforzi appo di lui, onde deciderlo ad
abbandonar la partita per il momento e ad allontanarsi da Gerusalemme.
Gli dissi tutto quello che l'amicizia mi consigliava. Gli dichiarai
francamente ciò che il mio dovere di cittadino mi imponeva. Non gli
nascosi che le truppe romane ci circondavano e riempivano le fortezze
Antonia, Mariamne, Phasaelus e David; che nuove legioni accampavano a
poca distanza dalla città; che Pilato sapeva tutto, e spiava il momento
per schiacciarci; che Pomponius Flaccus desiderava una rivoluzione nella
Palestina, onde estirparne gli ebrei agitatori, e ridur tutti alla
mendicità. Gli dissi che Hannah andava a dar contrordine ai cittadini di
Sion, i quali dovevano principiare il movimento nel giorno del paschah,
che Jehu andava ad imporre la calma agli Esseniani; che Menahem
annunziava di già ai suoi, che l'affare era rimesso ad altra epoca; che
io stesso doveva recarmi da Antipas, all'indomani al suo arrivo, e
consigliargli di far restare nel fodero le spade dei suoi Galilei... Non
gli nascosi nulla; gli parlai da fratello, come parla un uomo che
conosce il mondo ad un uomo che lo conosce male, un uomo calmo ad un
esaltato. Non riescii a nulla.

Avverso sempre alla parte di Messia bellicoso, l'unica che in quel tempo
potesse avere un senso ed una probabilità di successo, il Rabbì
s'inebbriava di fede nella sua parte di rigeneratore della legge. Ci
opponeva sempre il suo delirio dell'annientamento, dell'assorbimento del
popolo in un delegato o vicario di Dio — a noi, classi nobili, classi
ricche, classi sacre, che volevamo una repubblica oligarchica! Carezzava
la visione d'essere una specie di Faraone sacro sotto l'immanenza di
Dio. Voleva abbattere la gerarchia del Tempio e degli ordini sociali.
Noi, invece, volevamo innalzar tutto ciò a potere supremo — autorità
nell'alto, libertà nel basso, e non più Romani; mentre il Rabbì non
sdegnava di dare al suo Dio umanizzato la guardia di Cesare. Gesù mi
ascoltò attentamente. Ma, o non mi credette, o gli sembrò opportuno di
emanciparsi completamente da noi. Forse egli confidò nelle sue proprie
forze, o gli parve che fosse troppo tardi per dare addietro, o contò
sopra un concorso imprevisto, incognito a noi. Comunque sia, la sera
egli diè ordine ai suoi discepoli di sobillare le masse, ed intrattenere
nelle idee della rivolta i Galilei ed i provinciali che venivano alla
festa. Egli poi partì la stessa notte, solo per andar incontro alle
carovane della Galilea e della Perea che si recavano a Gerusalemme per
la via del Giordano. I suoi discepoli che si consideravano già come
assisi su quei dodici troni delle tribù d'Israello cui Gesù aveva loro
promesso, lo incoraggiarono nella sua ostinazione. Il mio buon senso
sembrava loro una viltà. Esaurii il resto di ragioni che la conoscenza
degli uomini e delle cose mi suggeriva, poi li abbandonai al loro
destino, preoccupandomi soltanto ormai di attenuare la loro caduta,
senza venir meno ai miei doveri di cittadino.

Debbo soggiungere che avendo incontrato Noah nella corte di Hannah, ed
avendo appreso che Ida era dal sagan, l'avevamo cercata, l'avevamo
trovata in una via recondita dietro il giardino, e che l'avevo alla
perfine decisa ad accettare un ricovero momentaneo nella casa un dì
abitata da Maria, ed ora vuota, onde sottrarla agli attentati ad alle
ricerche di Claudia, la quale, vedendosela sfuggire, le aveva gridato
dietro:

— Ti ritroverò!

La sera seguente, Antipas e la sua corte arrivarono nel bel palazzo del
sobborgo di Bezetha. Egli sembrò incantato di vedermi; imperciocchè con
me e' si spogliava della sua maestà e diveniva un allegro compare. E' si
affrettò a mostrarmi i suoi pappagalli, le sue scimmie, i suoi nani, le
dotte bestie che aveva acquistate dopo la mia ultima visita a Tiberiade,
e che conduceva seco, mescolati tutti insieme, querelandosi
continuamente e stuzzicandosi reciprocamente.

— Quando avrò annesso la Giudea e la Samaria alla mia tetrarchia,
diss'egli, allogherò tutte queste curiosità nella fortezza Antonia, ed i
miei sudditi andranno a vederle. Bisogna pur far qualche cosa per il
popolo, al postutto.

— Qualche volta, non sempre osservai io: ciò gli darebbe delle cattive
abitudini.

— Inoltre, Giuda, continuò egli, sono innamorato pazzo della figlia di
mia moglie. Dal giorno che quella piccina alzò il suo piede al livello
del mio naso, io ho le traveggole e non ci vedo che stelle. Quella
povera Erodiade fa ciò che può e ciò che non può per distrarmi, non mi
rifiuta nulla, si presterebbe a tutte le mie fantasie. Ma io le ripeto
quel verso d'un poeta latino cui Ifide, il mio nuovo buffone, mi ha
recitato: _Teque, duos putas, uxor, habere cunnos[35]?_

  [35] Questo verso infame fu indirizzato da Marziale a sua moglie.

— Spero che Erodiade non comprenda il latino.

— Le donne sanno per istinto tutte le lingue. Ma vediamo, Giuda, ragazzo
mio, parliamo un po' del regno di Davide. Codesto Davide mi umilia.
Custodire capre, tirar pietre, far versi, suonar l'arpa, rapire delle
donne, poi piangere sui loro baci... non è roba da re, codesta? Io sono
il successore di Salomone. Io non fabbricherò un altro tempio al mio
popolo; quello che abbiamo c'imbarazza di già mica male. Ma rallegrerò i
miei sudditi regalandomi il doppio di mogli e di favorite, che non
possedette il re della sapienza. Ti mostrerò che corona mi son fatta
preparare e che mantello reale. Io invero, mi vi trovo molto ridicolo.
Ma darò ordine al mio popolo di trovarmi sublime; e vedremo. Che
diavolo! si ha un popolo alla fin fine per fargli fare ciò che si vuole.
Che ne pensi tu?

— Esattamente ciò che ne pensi tu, principe mio.

— Ho anticipato di tre giorni il mio arrivo qui perchè desidero
mostrarmi al mio popolo. Ho studiato diverse pose le più favorevoli alla
mia persona; ma non sono ancora fisso nella scelta. Il mio damo Teseo
vorrebbe che mi mostrassi a tavola. L'idea mi seduce. Vi sto molto bene.
Poi ciò indica l'abbondanza, ciò dà pazienza al popolo che ha fame.
Bisogna pure aspettare che il suo re abbia pranzato, che abbia
digerito... diamine!...

— E contentarsi dei resti, se ne resta. Parli d'oro, o principe.

— Gli è precisamente ciò che mi dice il mio liberto Pallas. Ma, un'idea!
Qui, non ci sono che io che mi abbia delle idee. E il tuo Rabbì di
Nazareth? Egli non accettò la mia intimazione di venire alla casa
Dorata. Codesta gente a parole ha sempre delle fantasie stralunate. Ciò
non pertanto, se ha lavorato per me, bisogna bene che lo incoraggi. Che
posso fare per lui? Ci pensavo per via. Lo nominerò mio fattore
ordinario di miracoli, per cullare allegramente i miei riposi.

— Non hai d'uopo di far nulla, principe. Questo ingrato, questo grullo
ha preso la strada falsa. Egli ha rifiutato di servirci.

— Codesti Rabbì sono tutti gli stessi: incorreggibili! Giuda, figliuolo
mio, ricordami di proclamare, un di questi giorni, che, nel mio regno, è
proibito di pensare. Pensare, è cosa malsana per un popolo. La gente che
vaneggia, che si nutrisce male, è intrattabile. Ti devi ricordare di
quel Giovanni che si rimpinzava di radici e di grilli. Che ritorni in
Galilea il tuo Rabbì, allora: lo farò alloggiare nella gabbia delle
scimmie.

— Infrattanto bisogna fare ancor meglio, principe mio: bisogna ordinare
ai tuoi sudditi di restar tranquilli, di mangiar sobriamente il loro
agnello, e ritornarsene in Galilea. La danza che tu sai è aggiornata
all'anno prossimo. Pilato fa suonare una certa ridda ai suoi musici che
irrigidisce le gambe. Il Romano sa tutto.

— Malannaggia! Ci saria del pericolo per me qui? Rifletti, Giuda, che al
mio ritorno il mio istrione Agesilao deve recitare una nuova tragedia di
Eschilo.

— Pilato non oserà intraprendere nulla se non gli si dà l'occasione. Ma
bisogna ordinare alle tue genti che venivano preparate per un festino di
spade, di rassegnarsi ad aspettare un'ora più propizia. Qualunque cosa
accada, che restino impassibili. Credo che il Rabbì di Nazareth li farà
provocare....

— Che vi si freghi, che vi si freghi codesto gnocco che ha disdegnato di
venire a divertirmi un po' alla Casa Dorata.

— L'è dunque inteso. I nostri progetti sono tutti rimessi all'anno
venturo. Pilato ne circonda colle sue legioni, come gli ardiglioni
avviluppano l'istrice.

— Eppure! questo ritardo mi secca. Avevo progettato di far danzare
Salomè dinanzi al sanhedrin. Volevo dare al popolo di Gerusalemme lo
spettacolo di una balena meccanica che inghiotte un Giona maschio e rece
un Giona femmina, che pappa un Giona femmina e depone un Giona maschio.
Que' piccoli mariuoli, che cantavano così bene ora l'inno in mio onore,
sono capaci di trovarsi rauchi l'anno venturo. Avevo fatto comperare per
la mia entrata in Gerusalemme la corazza autentica che Giulio Cesare
portò nel suo trionfo, dopo Farsalia. L'anno venturo avrò preso
dell'adipe e non potrò più metterla: di già la mi pigia le costole. Che
diavolo farò delle cinquecento volpi che volevo porre in libertà nella
corte dei Gentili del Tempio, perchè portassero al deserto la notizia
della mia esaltazione al trono di Salomone? Ma poichè la dev'essere
così.... Cenerai meco questa sera, Giuda. Voglio la tua opinione sur un
pasticcio che il mio cuoco babilonese ha inventato testè. Ho dei dubbi
pel capo che questo scienziato mi dia a mangiare i miei nani disossati.
Me ne manca sempre qualcuno, e mi dicono che sono le scimmie che l'hanno
divorato.

Per non desolare Antipas, cenai con lui guardandomi bene, ad ogni modo,
di gustare quel suo pasticcio sì sospetto. Partendo però, mi assicurai
che ai suoi impazienti giovanotti, i quali, secondo la promessa,
venivano per battersi, avesse dato l'ordine positivo di restar
tranquilli per questa volta, e di non cedere ad alcuna seduzione da
qualunque parte loro venisse. Hannah, Jehu, Menahem passarono la stessa
parola d'ordine, e la fu ventura.

L'arrivo degli stranieri per la festa principiò all'indomani.

Il paschah era stato fondato in commemorazione della partenza degli
Ebrei dall'Egitto. La notte in cui l'angelo del Signore doveva fare il
giro e macellare in Menfi il primogenito degli uomini e delle bestie,
ogni ebreo aveva ricevuto l'avviso di scegliere un capriolo od un
agnello, maschio e senza macchia, di ucciderlo e di tingere del suo
sangue con l'issopo la soglia della porta; di arrostire la vittima, e
sul cader della notte riunirsi tutti, maschi e femmine, gli abiti
succinti, i sandali legati, pronti a mettersi in cammino, prendendo in
fretta un pezzo della carne arrostita, del pane azzimo e delle erbe
amare. Dopo quella fuga dall'Egitto, ogni ebreo, in qualunque punto
della terra si trovasse, ha osservato questo anniversario. Chiunque lo
poteva, doveva recarsi al Tempio in Gerusalemme, uccidervi un agnello e
pagare la decima ai preti.

Gerusalemme traboccava quindi di forastieri e di provinciali dall'8 di
Nisan fino al 24.

Non vi si veniva soltanto per compiere un atto di pietà ma altresì per
farvi degli affari. La fiera soppannava la festa. Vi si vendevano
derrate, si prendeva a prestito denaro, si scambiavano i prodotti, si
combinavano matrimonii, si rendeva o si pagava ciò che s'era mutuato o
comperato l'anno precedente; e chi non aveva nè devozione da soddisfare,
nè mercanzia da trafficare, veniva per divertirsi. La folla attirava
d'ogni parte i giuocolieri, le cortigiane, gl'istrioni, i giuocatori,
gli oziosi: si offriva e si comperava il piacere, il lusso, il
divertimento — musica, ballo e salmi inclusi. Tutte le case di
Gerusalemme si riempivano di ospiti o di avventori. Le pubbliche piazze
rassomigliavano ad accampamenti. Le alture che circondano Gerusalemme si
coprivano di tende e di capanne fatte di rami; uomini, donne, ragazzi,
fanciulle, bestie cornute e bestie da soma, si mescolavano e
fraternizzavano. Le ombre della notte nascondevano i misteri più strani,
più dolci, più inaspettati. I Galilei si riunivano sul monte degli
Ulivi. I viaggiatori del piano di Sharon si attendavano sul monte Gihon.
I pellegrini di Hebron occupavano la pianura di Rephaim. Altri
piacevansi far capannelli in altri punti. Tutto il mondo giudeo si
accalcava intorno al Moriah, ed aveva gli occhi rivolti al Tempio —
questo cuore della forte razza ebraica, che fu l'ultima cui Roma spezzò.

I pagani, greci o latini, si recavano anch'essi al paschah, ma per
godere dello spettacolo di tutti questi viaggiatori — felice diversione
alla monotonia abituale delle nostre città, ove le feste ed i
divertimenti erano così rari.

I discepoli del Rabbì avevano influenzato i Galilei. Questi provinciali
si piacevan bene a tartassare nel loro contado il Rabbì, ma malgrado
tutto, essi ringalluzzavano di vederlo brillare a Gerusalemme. Non
sembrava lor vero di far mentire il ribobolo: «Cosa può venire di buono
dalla Galilea?» Il Rabbì poi era andato incontro alla carovana che,
partendo dalla Perea e dalla Traconitide, paese popolato dai discepoli
del Battista, e da altri siti, preferiva la via più lunga e meno sicura
del Giordano e delle gole di Gerico, a quella della Samaria, paese da
pagani, piamente odiato. Il Rabbì s'era mischiato ai suoi compatriotti,
accarezzando i fanciulli, dicendo una saggia parola ai vegliardi, una
dolce parola alle donne.

I ricchi viaggiavano sui muli, i poveri sugli asini, le donne sui
cammelli, l'uomo di guerra e di governo a cavallo. Il Rabbì, a mo' dei
più poveri, viaggiava a piedi. Ma bentosto e' si addomesticò con tutti,
ed attirò a sè tutte le simpatie. Quando egli arrivò sulla cima del
monte degli Ulivi, l'8 di nisan (sabato 28 marzo), i suoi discepoli, che
avevano già data l'imbeccata alle loro conoscenze di Gennezareth, gli
andarono incontro con vive grida, e gli resero conto del risultato delle
loro pratiche. Il Rabbì parve contento e rassicurato. Lo era egli
veramente? Ne dubito. Perocchè egli che metteva come idea madre della
sua dottrina l'elevazione della plebe, la disprezzava forte, o piuttosto
ne aveva una pietà vicina al disdegno. Non contava dunque su lei. E' non
rinunziava però ai benefizi dell'imprevisto, della versatilità delle
masse, di un caso fortunato. Laonde e' si ostinò più che mai a tentare
un colpo di mano, un colpo di stato contro lo _statu quo_ di
Gerusalemme[36]. Si passò la notte a preparare un entusiasmo spontaneo
che doveva scoppiare a punto fisso, all'ora determinata, quando i nuovi
arrivati si recherebbero al Tempio l'indomani.

  [36] «Reimarus, dice Strauss (pag. 362), ha voluto vedere
  nell'entrata trionfale un attentato politico, mediante il quale
  Gesù, aiutato dal popolo, avrebbe voluto impadronirsi del potere.
  Altri son giunti perfino a contestare la realità dell'episodio,
  deducendolo dalla profezia di Zaccaria.... Gli è ben possibile che
  Gesù, il quale non pretendeva declinare assolutamente la parte
  messianica, ma che teneva a combattere il concetto regnante del
  messia bellicoso e terribile, si sia realmente appoggiato del
  testo di Zaccaria per presentarsi al popolo come il principe
  clemente della pace.» STRAUSS, _Nouvelle vie de Jésus_, t. 1.

L'indomani infatti, due o tre ore dopo il levare del sole, il Rabbì in
mezzo ad un gruppo amico di discepoli e di partigiani del Battista, si
mise in cammino.

Questa compagnia aveva qualcosa di così solenne, di così specifico, un
aspetto così determinato e così misterioso nell'istesso tempo, che colpì
tutte le menti. Gli indifferenti le tennero dietro dicendo: Andiamo a
vedere. Svoltando la cima del monte degli Ulivi, la città di Gerusalemme
si offrì ai loro sguardi. Il sole la bagnava interamente. Un cielo puro
come una goccia d'acqua della fontana di Siloam la copriva; un aer caldo
l'avviluppava. La primavera circolava già nelle viscere della natura.
Gli uccelli cantavano e gorgheggiavano. I fiori si aprivano. L'albero si
pavesava di un ricco adornamento per la danza dell'amore, di foglie e
fiori. La mammola arrischiava la sua umiltà, affacciandosi timidamente
fuori del suo cespuglio. Gli insetti svolazzavano nell'aria come gli
sprazzi di un arcobaleno polverizzato. Tutto era bello, era soave, era
ricco. La vita sbocciava e si schiudeva all'impazzata. Rimpetto, il Sion
ed il Moriah sfrangiavano, tagliavano l'azzurro del cielo, circondati,
trincerati dai burroni dei Gihon, dell'Hinnom, di Giosafatte. Lo
strepito confuso della vita come il mormorio d'uno sciame d'api,
arrivava fino a loro. Intorno alla città in festa, un accampamento
improvvisato, esso pure in festa, agitato da movimento febbrile. Ai loro
piedi il letto del Cedron secco, pietroso, trascinantesi sopra uno
strato di sabbia bianca e rosea traverso i giardini, le tombe, le nude
roccie, gli speroni della montagna, taglianti il deserto fino al mare
Asfaltide. Quel filo di acqua non mormorava; la frana era cupa; i
fianchi delle roccie erano scarni. A mezza via dal monte degli Ulivi al
Cedron, la piccola masseria di Gethsemani. Affatto in giù ove il letto
del torrente s'apre e sbadiglia, un tappeto di verdura, la fontana di
Siloam sì spopolata e le sue torri cadenti.

Al di là della triste vallata, si rizzava la collina di Moriah, coperta
dal Tempio, e dirupata — muro di marmo di cui da lungi si potevano
contare i massi di pietra enormi, mossi dalla volontà di Salomone,
livellati dal genio Tiriano, rialzati in fretta da Nehemia, colonne di
porfido e di serpentino, capitelli di bronzo, il tutto coronato
dall'edifizio di Erode il Grande. Di fronte i portici di Salomone sui
quali colonne di marmo sopra colonne di marmo, la corte dei Gentili, la
corte degli Israeliti, la corte delle donne, la corte dei preti, e, come
guglia di queste terrazze a gradini, il Tempio, il Santo dei Santi col
suo frontone ed i suoi tetti laminati d'oro.

Alla diritta del Tempio, unita alle sue corti da una colonnata,
torreggiava la fortezza Antonia, centro della vita e della forza romana,
aggrottando il ciglio, spiando il Tempio, e tenendo mezza città sotto il
suo corruccio. Più lungi, alla diritta dell'Antonia, sulla stessa
sommità della collina dei santi monumenti, ma separato da un fosso
naturale, e da mura non compiute, il bel sobborgo di Bezetha, popolato
di giardini, di palazzi, di monumenti, in mezzo ai quali splendeva il
palazzo di Antipas.

Ai lembi di questo primo piano della città si abbassava la valle dei
mercanti che separa il Moriah da Sion, traversata dal ponte Zystus. Al
di qua, il palazzo dei Maccabei; e sopra il Sion, più alto ancora del
Tempio cui domina, la città di David colle sue vecchie mura, i suoi
palazzi, le sue torri, la grande sinagoga, il palazzo di Erode — ora
pretorio, — il palazzo di Caifa e di Hannah, le torri d'Ippicus, di
Phasælus, di Mariamne; e più lungi ancora l'alta fronte del monte Gareb
— uno spicchio di giardini, di brughiere e di tombe.

Questo panorama incantevole e formidabile schierandosi di un tratto
dinanzi la vista del Rabbì, che lo considerava ora con altri occhi, lo
agghiadò e lo fece impallidire.

— Tutto ciò, fra pochi minuti, o sarà mio, o mi schiaccerà! pensava
egli. Ciò mi attira come il mio abisso, o come il mio cielo.

Affrettando il passo, egli principiò a discendere precedendo tutti.
Quella stessa vista esaltava anche i suoi discepoli i quali toccavano
già della mano la loro preda. Già alcune grida scoppiettavano qua e là.
I desiderii cominciarono a ribollire. I più ardenti tagliavano dei rami
d'alberi, ed intuonavano dei canti.

Il gruppo ingrossava: il contatto raddoppia la speranza, e dà coraggio
all'arditezza. E si avanzavano sempre. Ma alle falde della montagna,
alla porta quasi della città, quando il dramma toccava al suo apogeo,
sembrò al Rabbì che egli non potesse presentarsi alla testa di quella
turba come se la conducesse egli stesso, simile ad un capo di rivoltosi,
o ad un porta-bandiera a piedi di un manipolo di contadini. Rizzato
sopra una cavalcatura, l'effetto, il significato, la posizione
cangerebbero.

— Andate a cercarmi un cavallo, disse egli ai suoi discepoli.

All'istante, Simone e Giovanni si mossero.

Presso la zona del muro orientale della città vi era un podere ed un
giardino che si chiamava Bethfagè, con una casa e dei coltivatori. Ogni
benestante in Giudea possiede per lo meno un asino. Simone non trovò un
cavallo, ma trovò meglio che un cavallo, un'asina ed il suo piccolo.
Dimandò al coltivatore di prestargliela; e questi avendo appreso di che
si trattasse, prestò l'asina e seguì il corteggio.

Il Rabbì portava ordinariamente la tunica bianca degli Esseniani, ed un
mantello azzurro con le onde dell'Asfaltide. Egli era lindo, accurato,
civettuolo ed aveva un gran rispetto della sua persona. I suoi discepoli
indossavano i colori amati dai Galilei, la tunica bruna o celeste, il
mantello ciliegio, color feccia di vino o di robbia. Giovanni, bel
giovane di diciotto a vent'anni, pieno di pretese, ricco, vanitoso, si
pavoneggiava in un mantello color di robbia; Simone in un mantello
feccia di vino. Tutti due si levarono i loro vestiti, e ne addobbarono
l'asina. Gli altri discepoli fecero dei loro mantelli una specie di
seggio sul quale intronarono il Rabbì. Maria di Magdala e le altre donne
seguivano da lungi. Quando questi apparecchi furono finiti, si varcò la
porta delle Acque.

Allora i discepoli principiarono a gridare:

— Osanna al figlio di Davide!

— Benedetto sia colui che viene in nome del Signore!

— Osanna al re d'Israello![37].

  [37] LUCA, cap. XIX; GIOV., cap. XII.

Erano già nella città.

Il sole segnava mezzogiorno nel cielo.

Gerusalemme aveva 80,000 abitanti. Era l'ora in cui gli affari finivano,
in cui il popolo si riscaldava al sole per le vie, in cui si
raccontavano gli avvenimenti del giorno e della vigilia, gli aneddoti
del Tempio e del palazzo di Erode. Le strade affollate, le case ripiene,
le piazze ingombre: tutto pareva favorevole all'impresa. Chi non avrebbe
per sentimento, avrebbe seguito per curiosità; chi non si porrebbe alla
finestra per applaudire, lo farebbe per vedere. La folla crea l'opera.
Il Rabbì ed i suoi discepoli vi contavano.

Ahimè! il loro disinganno fu terribile.

Eccettuate alcune dozzine di biricchini, la folla restò fredda, ironica,
motteggiatrice. Ebbero paura, ricordandosi la mischia per l'offerta? O
deridevano l'impresa da campanile di quei provinciali? Od obbedivano
alla parola d'ordine ricevuta? Fatto sta che nessuno si mise o restò
alle finestre, nessuno si mosse, nessuno gridò, nessuno li seguì,
nessuno chiese di che si trattasse — eccetto qualche straniero di
Sidonia, di Tiro, degli Egiziani o dei Babilonesi — pagani insomma.

— Cosa è codesto? chiedevano costoro.

— Come! non sapete? sclamavano i discepoli: gli è Gesù, gli è il profeta
di Nazareth in Galilea.

E si gridava più forte ancora:

— Osanna al figlio di Davide, osanna al re d'Israello!

Passando sul Zistus, incontrarono taluni di buon senso, i quali, vedendo
quella misera dimostrazione, consigliarono:

— Rabbì, falli dunque tacere codesti sussurroni.

— Se essi si tacciono, rispose il Rabbì vivamente indispettito,
grideranno le pietre.

Il fatto è che nè le pietre, nè gli uomini gridarono; e che il corteggio
assottigliandosi di più in più, a misura che l'indifferenza o il
motteggio lo colpivano, arrivò molto ridotto al Tempio. Là il
coltivatore riprese la sua asina, i discepoli i loro abiti, i Galilei i
loro affari, ed il Rabbì si stabilì sotto il portico di Salomone pronto
a principiare un sermone.

Gli uditori non vennero.

Il Rabbì si trovò isolato. I suoi discepoli si sparpagliarono
sconcertati, disingannati. Un'immensa tristezza piombò sull'anima del
maestro. Egli lasciò il Tempio e si rifugiò sotto una qualche tenda in
cima agli Ulivi, mormorando: «Dio mio, salvami da questa ora!»

Un'aspra battaglia si combattè la notte nello spirito del Rabbì. Lo
scoraggiamento, l'esitazione, la sfiducia principiarono[38], la collera
vinse.

  [38] Renan si dimanda perfino «s'e' non si ricordò delle chiare
  fontane della Galilea, ove egli avrebbe potuto rinfrescarsi; la
  vigna ed il fico sotto cui avrebbe potuto assidersi; le giovanette
  che avrebbero forse consentito ad amarlo... e se non pianse di non
  esser restato un semplice artigiano di Nazareth». Pag. 378-379.

Fallito il colpo del dì precedente, all'indomani ne tentò un altro al
Tempio.

Il Tempio, durante gli otto giorni che precedevano e seguivano la festa,
rassomigliava ad un mercato. Qui, quelli che cambiavano la moneta romana
in moneta sacra, agenti dei sacerdoti; là, dei mercanti di tortorelle e
di piccioni; più lungi, dei venditori di agnelli e di capretti; altrove,
due piccole botteghe di fior di farina e di olio. Tutto questo però
limitato alla prima corte, detta dei Gentili, alla quale si scendeva per
quattordici gradini. Su quel terreno neutro era permesso comperare e
vendere. La corte dei Gentili era separata da quella degli Israeliti da
tre file di gradini, ed una balaustrata ad altezza d'uomo, forata da
diverse uscite. I mercanti non potevano varcare quella separazione.
Accadeva nonpertanto talvolta che, in quei giorni di folla e d'ingombro,
i sergenti del Tempio per ordine del gran sacerdote e del capitano
lasciassero correre.

Nulla ostante il Tempio non appartenendo ai sacerdoti ma alla nazione,
ogni Ebreo vi aveva diritto di polizia, e poteva far rispettare la legge
ed i regolamenti.

Qualche poveri venditori di tortore, ed alcuni cambisti, spinti dalla
folla cui lo spazio non poteva capire, avevano invaso un poco la corte
degli Israeliti. Arrivando la mattina nel Tempio, con lo spirito
esaltato ed il cuore esacerbato, il Rabbì osservò questi profanatori.
Corse a loro e respingendoli bruscamente, li rigettò al di là della
balaustrata, gridando:

— Toglietemi via codesto, e non fate un mercato della casa di mio Padre.

Quella povera gente, che non sapeva se egli avesse o no l'autorità di
agire così, o che, sapendolo, riconosceva il suo torto, si ritirò. Ma
dalla parte dei sacerdoti che soli si credevano padroni del sito, la
sorpresa fu grande. Accorsero. Forse non sarebbero stati dispiacenti di
vedere il popolo resistere e rispondere alla violenza con la collera.
L'attitudine rassegnata di quei mercanti li sorprese più dell'atto del
Rabbì. Allora il capitano del Tempio si limitò ad objettare
tranquillamente:

— Con qual diritto agisci tu così? Sei forse Hannah? Sei Caifa? Sei
Simeone? Chi sei tu? Chi ti ha data codesta missione?

— Mio Padre, rispose il Rabbì sempre più irritato. Questa è la casa di
mio padre, e non la vostra. Distruggete questo Tempio fatto da mani
umane, ed io lo riedifico entro tre giorni.

Uno scoppio di risa da un lato, un grido di furore dall'altro, accolsero
questo gricciolo di Gesù.

Il capitano si contentò di rispondere freddamente ed in tuono di
scherno:

— Si son messi quarantasei anni a costruire questo Tempio. Quanto tempo
perduto, poichè tu l'avresti alzato in tre giorni.

Ora, il Rabbì aveva commesso il più impolitico atto della sua vita.

Fino allora, egli aveva offeso i partiti, i sacerdoti, la società ricca
e potente. E' feriva adesso il popolo, nei poveri venditori di mercanzie
sacre. Egli meditava di confondere i sacerdoti come gente che tirava
partito da quella profanazione del Tempio. Il popolo prese l'insulto per
proprio conto, e non perdonò mai più all'audace Rabbì. Egli aveva
compiuto un fatto, e detto una parola, che avevano colmata la misura.

All'indomani, il sanhedrin si riunì da Caifa per prendere una
risoluzione definitiva.

Malgrado ciò, mentre il gran consiglio lo giudicava senza appello, il
Rabbì ritornava nel Tempio per continuare la sua polemica contro i
Farisei.

Certo, i nostri profeti sono inesauribili in ricchezza di imagini, in
parole insultanti, in ingiurie; ma il Rabbì raggiunse l'ideale nelle sue
prediche del 10, 11 e 12 nisan. Egli ebbe però un bel fulminare,
denigrare, deridere, la folla non lo circondava più. Il popolo non si
accalcava più intorno a lui. Il soffitto scolpito dei portici di
Salomone assorbiva le sue parole e non ne ripercoteva più l'eco.

Il sanhedrin aveva già emanato un altro ordine d'arresto contro di lui.
S'indugiò non pertanto ancora ad eseguirlo, per sottoporre la sua
condotta ad un nuovo esame.

Vi erano ormai due fatti capitali che gridavano contro di lui: «1.º Non
solamente egli non rispettava il Sabato, ma si faceva eguale a Dio[39];
2.º al suo entrare in Gerusalemme egli si era proclamato re dei Giudei,
figlio di Davide.[40]».

  [39] _Aequalem se fecisse Deo._ GIOV., cap. V, v. 16-18.

  [40] LUCA, cap. XIX; GIOV., cap. XII.

Egli era dunque empio e ribelle, aveva offeso Dio e Cesare.

Il gran consiglio era responsabile davanti Dio della legge di Mosè,
davanti Pilato dell'ordine pubblico.

Ora, giammai colpevole non si era presentato con due delitti così
grandi, e con delitti così recisamente definiti e provati. La sentenza
d'arresto fu pronunziata. Ma come la conseguenza del giudizio conduceva
inesorabilmente ad una condanna capitale; come il primo articolo del
simbolo fariseo suonava: Siate lenti nel giudicare (_estote moram
trahentes in judicio_); come si pronunziavano sempre a malincuore quelle
sentenze che obbligavano il senato a ricorrere all'autorità romana per
farle eseguire: e' si metteva sempre un intervallo di ventiquattro ore
fra la promulgazione della sentenza e la sua conferma che la rendeva
definitiva. Il sanhedrin condannò dunque il Rabbì il terzo giorno, 11
nisan (martedì 31 marzo): ma esso si riunì di nuovo all'indomani, 12,
onde dichiarare esecutorio il mandato. Nonostante il consiglio diede
ordine di non precipitar nulla, prima perchè quegli uomini erano gente
istruita e tollerante, poi perchè si voleva evitare l'occasione di un
tumulto, arrestando un Rabbì abbastanza popolare, al momento in cui i
suo compatriotti occupavano la città in sì gran numero.

Io ricevetti comunicazione della sentenza dal sagan, e mi recai dal
Rabbì onde istruirlo del fatto, e scongiurarlo ancora una volta di
allontanarsi. Egli era ancor libero di ritornare in Galilea o in Perea,
di andare dovunque e' volesse.

La mia proposizione fu accolta freddamente, sdegnosamente.

Il Rabbì mi riteneva l'autore principale dello scacco del suo ingresso a
Gerusalemme. Io non lo era. Ma se il mio dovere di cittadino me lo
avesse imposto, io lo sarei stato realmente. Per tutta risposta, il
Rabbì m'invitò a cena con i suoi, l'indomani sera, 13 nisan (giovedì 2
aprile). Nella giornata, e' non comparve al Tempio e non discese neppure
a Gerusalemme. Delle spie del consiglio lo aspettavano a tutte le porte
della città. Si era deciso di non impadronirsi di lui durante il giorno,
mentre era in mezzo ai Galilei. In tutto quel dì, io non incontrai
alcuno dei suoi discepoli. Scorsi soltanto Maria di Magdala, vestita da
donzello. Quel nobile cuore spiava gli spioni del sanhedrin, affinchè il
Rabbì si tenesse in guardia.

Andai a vedere Ida, onde avvertirla del supremo pericolo in cui versava
suo fratello.

La povera creatura non poteva nulla. Ella non sapeva neppure ove suo
fratello si nascondesse. Finalmente giunse la sera.



XXX.


La giornata era stata pel Rabbì un altro giorno di combattimento.
Memorie e paure, dubbi e speranze lo indebolirono; un amore immenso, e
un immenso disprezzo, volta a volta e ad un tempo, commossero le sue
viscere. La vita, che da lui si accomiatava, spiegava dinanzi ai suoi
sguardi tutte le sue feste, tutti i suoi dolci incanti; la morte, come
un punto d'interrogazione dell'infinito, che toccava il cielo e la
terra, si rizzava dinanzi a lui. Ebbe paura; sperò; cercò di fuggire; si
abbiosciò; si rialzò; tremò ancora; si contenne; reagì; e la sera quando
scese in Gerusalemme era ancora arrovellato dalla febbre. Uscì dalla
capanna, ove aveva passato la giornata con sua madre, e con quelle donne
equivoche che lo seguivano ovunque, e che provvedevano alle sue
spese[41].

  [41] «Lo si vedeva continuamente circondato da uomini e da donne
  poco commendevoli... Agli occhi degli anziani del popolo questa
  circostanza era aggravata da una anomalia: che, a trent'anni, il
  maestro di Nazareth non era ammogliato... Nè essi approvavano di
  più le sorgenti d'onde egli attingeva i suoi mezzi giornalieri di
  esistenza». SALVADOR, tom. II, pag. 146. _Et iter faciebat per
  civitates et castella; et cum illo mulieres multae: et Maria quae
  vocatur Magdalena... et Johanna uxor Tusae... et Susanna et multae
  aliae quae ministrabant ei de facultatibus_. LUCA, cap. VIII, v.
  2-3.

Il sole si coricava dietro il Moriah. Il sanhedrin aveva posto i suoi
agenti sorveglianti alle dodici porte delle quattro parti della città
affine di seguirlo in qualunque sito egli andasse, e d'impadronirsene
nel suo ricovero notturno. Il Rabbì era molto conosciuto dagli ufficiali
del Tempio, e da coloro che lo frequentavano. Quindi lo si vide passare
per la porta dorata, e lo si accompagnò fino alla casa di Nahum bar
Lotan nel quartiere di Ofel, ove Simone e Giovanni gli avevano preparata
la cena. La notte scendeva.

Durante tutta la cena, il Rabbì si mostrò molto agitato (_egli fu
vivamente turbato nel suo spirito_, dice Giovanni, XIII, 21). Divagò nei
suoi discorsi, per balzi ora pieni di unzione, ora pieni di asprezza.
Non mangiò quasi nulla, ma esaminò con uno sguardo inquieto e scrutatore
il contegno dei suoi discepoli. I suoi occhi si fermarono sopratutto su
di me, carichi di una tal collera, di un tal odio, che io ne rimasi
colpito. Che aveva mai contro di me? Alla fine trascinato dalla foga
della sua lotta interna, sclamò:

— Uno di voi mi ha tradito.

Questa parola formidabile ci sembrò quasi insensata. Ci guardammo tutti
l'un l'altro, non per sorprendere sul viso del traditore le emozioni del
tradimento, ma per domandarci se il Rabbì non delirasse. Gli dimandammo
tutti, com'era naturale, l'un dopo l'altro: Sono io, Rabbì?

Arrossì e non rispose. Nondimeno m'accorsi che dei sospetti indegni lo
esacerbavano contro di me.

Gli sforzi che io aveva fatto per salvarlo, i consigli salutari che gli
avevo dati onde metterlo in avvertenza, ed impegnarlo perfino a lasciar
Gerusalemme, erano stati interpretati in modo sinistro. Io mi sentiva
profondamente ferito, insultato nel mio onore e nella mia lealtà. Rimisi
le ulteriori spiegazioni ad un momento di calma, e da solo a solo;
imperciocchè i suoi discepoli non comprendevano nulla della situazione
degli uomini e delle cose.

Partiti dalla provincia, colle piccole ambizioni del villaggio e le
grandi avidità del basso popolo, quei pescatori e quei pubblicani non
avrebbero potuto apprezzare l'attitudine dei partiti in Gerusalemme, il
contegno delle alte classi rimpetto ai Romani, l'istinto del popolo
ebreo in faccia allo straniero. Il Rabbì non aveva egli detto forse
quella parola mostruosa, insultante, crudele anche: «Rendete a Cesare
ciò che è di Cesare?».

I patriotti della Gallia e della Germania avevano un altro linguaggio.

Uscii dunque dalla sala, senza nascondere il mio sdegno al Rabbì, e
gettandogli uno sguardo di provocazione. Egli lo comprese, ma di
traverso ancora, poichè mi gridò dietro:

— Fa presto quello che devi fare.

Sorrisi di sprezzo: ma mi sentii colpito di un altro quadrello al cuore.
Varcando la porta della strada, incontrai Maria, sempre vestita da uomo.
Erano le due ore di notte. Ella mi mostrò due agenti del Tempio
accoccolati dietro una casa, gli sguardi inchiodati sulla porta.

— Essi l'aspettano, mi diss'ella.

— Tanto peggio, risposi, io non posso più nulla. Il Rabbì ha le
vertigini.

— Ma tu cos'hai? Tu sei furibondo.

— Il peggiore di tutti i supplizii, ragazza mia, è quello di vederci in
mezzo a ciechi, che vi credono cieco come loro.

Maria mi prese le mani, e soffocata dalle lagrime mi disse:

— Giuda, ancora uno sforzo: salviamolo suo malgrado.

Questo accento d'un immenso amore, d'una tenerezza infinita ed ingenua
mi commosse, e mi calmò ad un tratto.

— Nessuno, le dissi, può revocare la sentenza del sanhedrin, altri che
il sanhedrin stesso. Esso nol farà, non lo potrebbe nemmeno, dopo le
considerazioni che l'hanno deciso ad emetterla. Vi sono però due uomini
che possono ancora salvarlo, se il Rabbì vuole prestarsi a motivare la
loro indulgenza; essi sono Hannah e Pilato. Recati nella tua antica
dimora a Bezatha ed annunzia alla sorella del Rabbì che suo fratello è
perduto, se ella non piega Pilato alla clemenza. Per mia parte, io me ne
vo ad agire sul sagan. Poco spero. Però non voglio avere il rimorso di
essere stato negligente.

Io le diceva queste parole, allorchè vedemmo il Rabbì ed i suoi
discepoli uscir dalla casa, e nello stesso tempo i due uomini appiattati
nell'ombra avanzar fuori e seguirli da lontano. Noi pure li seguimmo
fino alla porta della Vallata. Maria s'avvicinò al Rabbì e gli disse che
gli agenti del Tempio lo spiavano. Egli non le rispose, e continuò la
sua strada. Maria l'accompagnò fino al pressoio del monte degli Olivi;
poscia, secondo il nostro accordo, ella si recò prima da Ida, e poi
venne ad aspettarmi alla porta del palazzo di Hannah.

Il sagan era desolato della sorte del Rabbì. La nostra partita contro i
Romani era aggiornata, ma non abbandonata; non potevamo quindi veder un
uomo come il Nazareno, che poteva divenire, malgrado tutto, una forza
nazionale, perdersi in un momento di allucinazione. Hannah ed io eravamo
convinti che egli avrebbe finito col comprender meglio la situazione, e
che avrebbe barattato la sua parte di riformatore morale, per quella di
agitatore politico. Noi discutevamo dunque ancora sul mezzo di salvarlo,
senza oltraggiare nè la legge, nè il gran consiglio, nè la sentenza
pronunziata, nè il sentimento popolare, conversavamo ancora sui sospetti
che l'entrata del Rabbì in Gerusalemme e le sue parole imprudenti
avevano destati in Pilato, quando un membro del sanhedrin venne a
raguagliarci di ciò che era accaduto.

Gli agenti del Tempio avevano accompagnato il Rabbì fino a Gethsemani, e
si erano assicurati che egli vi passerebbe la notte; poichè i suoi
discepoli si erano coricati nella corte, e aggrovigliati nei loro
pastrani russavano pacificamente. Uno di questi agenti ne aveva dato
notizia a Caifa, il quale aveva fatto immediatamente partire una o due
dozzine di guardie del Tempio, armate dei loro bastoni. Ma arrivati sul
sito, l'ufficiale che li conduceva aveva osservato alcuni sintomi
inquietanti. Anzitutto taluni di quei discepoli avevano delle armi più
serie dei bastoni; poi essi erano tutti là, ed una dozzina di uomini
validi, di quella provincia di Galilea così battagliera, così rissosa,
non doveva lasciare agguantare il suo Messia, figlio di Dio, e Dio,
senza opporre una resistenza accanita; finalmente, Gethsemani era ad una
mezz'ora dall'accampamento dei Galilei, e si vedeva al chiaro di
un'ammirabile luna piena, che vi regnava ancora un gran movimento, e che
gli uomini non vi dormivano ancora. Se dunque s'impegnava una lotta, non
accorrerebbero probabilmente i Galilei in ajuto dei loro compatriotti?
Non considererebbero essi come una vergogna di lasciar arrestare il
profeta del loro paese, il loro concittadino, che gli uomini della
città, forse per gelosia, si affrettavano a far disparire? Da queste ed
altre considerazioni, l'ufficiale che comandava la brigata del Tempio
aveva dedotto la necessità di richiedere l'ajuto della forza militare
romana, alla quale nessuno avrebbe osato resistere, perocchè ciò
costituiva un delitto di lesa autorità di Cesare, ed era inesorabilmente
punito.

Caifa, apprezzando queste ragioni, aveva fatto chiedere al comandante
della fortezza Antonia un rinforzo, che gli fu accordato senza esitare,
e che stava per mettersi in via immediatamente. Questa notizia fissò i
nostri progetti. Hannah mi diede un ordine pel comandante della brigata
del Tempio, col quale gl'ingiungeva di condurre da lui direttamente il
prigioniero. Poi io doveva arrivare fin presso al Rabbì e prevenirlo
segretamente d'opporre una negativa assoluta, a tutte le domande che gli
sarebbero state indirizzate dal sagan, nel caso che, al momento del suo
arrivo, si trovassero con lui altri membri del sanhedrin.

Io non sperava alcun buon risultato da queste pratiche, conoscendo la
cattiva impressione che i miei consigli producevano sul Rabbì. Pure non
esitai ad incaricarmene. Maria, che mi aspettava, mi indicò il sito ove
il Rabbì dormiva quella notte, e venne insieme con me.

La notte era bella ma fredda, ed io scorgeva quella povera creatura
tremare sotto la tunica leggera e frusta che aveva potuto procurarsi. Le
porte del Tempio, che si aprivano a mezzanotte la vigilia del paschah,
stavano per aprirsi; un gran movimento quindi principiava nelle strade.

In tempo di festa, le porte della città non si chiudevano: però, al di
là della cinta, tutto era tranquillo. I rumori misteriosi della notte
riempivano l'aria; ogni albero, ogni cespuglio, ogni siepe assumeva una
forma ed un'attitudine. Il brulichio della lontana vita risvegliava
degli strani echi. Camminavamo lesti. Io udiva i battiti del cuore di
Maria soffocare il suo respiro accelerato. Non una nuvola nel cielo, non
una stella assente; la luna cantava il suo splendore.

Ad una cinquantina di passi dalla cascina, di cui scorgevamo la siepe,
si rizzava un gruppo di olivi vecchi ed asserrati. I rami, curvandosi
sul suolo, facevano quasi una vôlta sulla strada che da quel sito
conduce al pressoio. Là il chiaro di luna filtrava appena, e la terra
rossastra pareva scura. Traversavamo quel punto della strada, allorchè
ci sentimmo afferrare pel braccio. Maria, vergognando del suo
travestimento, fece uno sforzo, e lasciando nelle mani delle guardie del
Tempio dei brani della sua veste, se la svignò. Io restai preso.
Condotto dinanzi al capo gli mostrai l'ordine del sagan. L'ufficiale lo
lesse, e mi disse: Sta bene!

Ma non mi permise di continuar la mia strada. M'accordò soltanto di
accompagnarlo.

In quello stesso momento arrivarono i soldati romani.

Ci avanzammo allora alla porta del pressoio.

Le guardie del Tempio circondarono il sito. I Romani si presentarono
all'entrata. Le loro armi avevano fatto dello strepito. La porta della
cascina si aprì, o meglio si socchiuse, ed una testa si mostrò per
vedere ciò che avveniva al di fuori. Seguì un istante di silenzio. Noi
stavamo alla porta. In quel momento degli uomini traversarono la siepe
per di dietro e scapparono, ascendendo il sentiero che conduceva
all'accampamento dei Galilei. Le guardie li inseguirono per qualche
tempo, poi furono richiamate dal suono del corno del loro capo.

Erano i discepoli che abbandonavano lestamente il Rabbì e fuggivano!
Gesù, che non dormiva, che aspettava forse i soldati, che avrebbe potuto
fuggire come gli altri, restò, ed aperta la porta a due battenti,
dimandò:

— Non cercate voi forse il Rabbì di Nazareth?

— Sì.

— Son io: eccomi.

I soldati e le guardie che temevano una certa resistenza, sospettarono a
bella prima un agguato. Io mi avvicinai al Rabbì, ed a voce bassa, in
vecchio ebreo gli dissi all'orecchio[42]:

— Il sagan vuole salvarti: nega tutto se non è solo.

  [42] Ecco ciò che nella storia maligna degli evangelisti fu
  cangiato in un bacio, e divenne la sorgente di tutte le assurdità,
  messe perfettamente in chiaro dagli storici di Gesù Strauss e
  Renan.

Il Rabbì non mi rispose, e rinculando da me, si avvicinò all'ufficiale
romano, e soggiunse:

— Son pronto, andiamo. Ma perchè mi trattate come un malfattore, e
venite ad arrestarmi di notte, a mano armata, mentre io era con voi ogni
giorno nel Tempio, e che vi era così facile l'impadronirvi di me?

Questa tranquillità, questa spontaneità sedussero il centurione romano.
E' diede ordine di mettersi in cammino conversando col Rabbì che gli
camminava vicino, preceduto dalle guardie del Tempio, e seguito dai
Romani. Per nulla sorpreso dell'accoglimento che avevo ricevuto dal
Rabbì, lo precedetti dal sagan. Era la mezzanotte. Hannah ci attendeva
ed era solo. Potevamo dunque parlare liberamente.

— Rabbì, gli disse il sagan, dopo aver licenziato le guardie
all'anticamera, e facendolo sedere, tu sai di che ti accusa il
sanhedrin?

— Per nulla.

— Tu hai detto: «Io sono il pane disceso dal cielo; nessuno è asceso al
cielo, se non quegli che ne è disceso; quegli che è venuto dall'alto, è
al disopra di tutti.... Io sono disceso dal cielo, vengo da Dio, e
ritorno da mio Padre; tutto ciò che il Padre fa, il figlio fa pure; come
lui, come il Padre, il figlio ha la vita in sè stesso. Mio Padre ed io
siamo la medesima cosa; chi vede me vede anche mio Padre[43].» Tu dunque
ti sei fatto Dio?

  [43] GIOV., cap. III, v. 13, 31; cap. V, v. 19, 26; cap. VI, v.
  51; cap. VIII, v. 42; cap. X, v. 30; cap. XIV, v. 8, ecc.

— Io mi son fatto Dio.

— Hai detto ad un ammalato a Cafarnaum, continuò Hannah: «I tuoi peccati
ti sono perdonati.» Tu hai per tal modo usurpate le attribuzioni di Dio,
che solo può perdonare i peccati. Tu dunque sei empio davanti la legge
ebrea, ed hai meritato la morte per lapidazione.

— Ho perdonato i peccati, rispose il Rabbì.

— Hai detto altrove, riprese il sagan. «Il mondo è giudicato; i principi
di questo modo saranno scacciati[44].» Tu ti sei fatto proclamare re,
figlio di Davide, ed hai tentato di far insorgere Gerusalemme. Sei
dunque colpevole dinanzi a Cesare, e condannato ad essere crocifisso.

  [44] GIOV., cap. XII, v. 21.

— Sono pronto.

— Noi vogliamo salvarti: aiutaci a trovarne il mezzo.

Il Rabbì fu colpito da questa proposizione: arrossì, impallidì, la sua
respirazione divenne affannosa. Egli era in procinto di piegare, ed
abbandonarsi a noi. Un sospetto gli traversò lo spirito. Dubitò d'un
tranello, e serbò il silenzio. Il sagan lo comprese, ed aggiunse:

— Noi abbiamo intrapreso un'opera che deve o salvare o perdere
completamente la nostra patria, perdendoci con essa. La rassegnazione
che dimostriamo pel dominio straniero, è finta: noi vogliamo
addormentarlo. La soddisfazione che noi delle classi elevate mostriamo
per la nostra posizione, sarebbe un'infamia se la non fosse una
menzogna. Noi non abbiamo mai, in nessun caso, in nessun tempo, tradito
il nostro paese, mancato alla sua chiamata, fallito ai suoi bisogni. Noi
cospiriamo del sorriso. Scaviamo un abisso sotto i passi dello
straniero, coprendolo di rose. Cesare crede, ed il popolo ebreo pensa,
che noi dormiamo nei nostri palazzi, che ci inebbriamo alle nostre
tavole, che conduciamo una allegra vita nei nostri giardini, colle
nostre mogli e colle nostre favorite; ed invece noi discutiamo in qual
modo compiere la perdita del Romano. Per l'essere noi i primi fra i
servi, siamo noi meno servi? E noi siamo stati i padroni quando il
popolo della Giudea era libero! Noi nol dimentichiamo. Noi vogliamo
esserlo ancora, avvenga quello che può avvenire. Il dominio dello
straniero è per noi l'incertezza: il padrone cambia; cosa sarà domani di
noi? Poi, noi siamo Ebrei, e non Latini. Abbiamo soccombuto quando
eravamo deboli; perchè rinunceremmo a divenir forti, e a prendere la
rivincita? Ecco l'opera che noi tramiamo in silenzio, lentamente, con
precauzione, raccogliendo tutte le bricciole della forza nazionale,
sotto non importa qual forma essa voglia rivelarsi e venire a noi.
Rabbì, noi non ti respingiamo. È contro i nostri interessi il perderti.
Tu puoi esserci utile un giorno, quando avrai meglio compreso l'istinto
nazionale, il bisogno, la volontà del paese. Accetta la parte che ti
diamo; aspetta l'ora che ti fisseremo; limita il tuo campo d'azione a
quello che ti indicheremo, e cerchiamo insieme di farti uscire dalla
disgraziata posizione in cui ti sei gettato alla cieca.

Queste parole leali furono come luce pel Rabbì, ma esse furono causa
altresì della sua disperazione. Egli riflettè, poi rispose:

— È impossibile. Ciò che tu mi proponi è sempre la morte. La morte
naturale, o la morte morale, la morte di domani, o quella di dopo
domani, che monta! Tu mi proponi di perire in ogni modo.

— T'inganni.

— Io mi sono rivelato al mondo come l'inviato di mio Padre; ho
annunziato alla terra una parola del cielo. Voi mi proponete di
dichiarare che ho mentito. Chi mi crederà il giorno in cui verrò a
portare un'altra novella? Voi volete salvarmi, vale a dire, voi volete
esiliarmi dal suolo della Siria. Poichè ove potrei io vivere senza
incontrare uno sguardo che non mi lanci un rimprovero, una coscienza che
non m'accusi di aver cercato di sedurre il popolo colla menzogna? Non si
dirà ovunque che io sono un ciarlatano? Voi invocate la salvezza della
patria. Io non credo alle patrie. Gli uomini, figli dell'istesso Dio,
sono fratelli, e la terra appartiene all'umanità. Che m'importa che sia
il Romano, il Greco o l'Ebreo che occupa questo angolo del suolo della
Palestina, se io trovo in lui un amico, un aiuto, un conduttore, se egli
obbedisce alla stessa legge morale, allo stesso Dio? Io non comprendo la
politica, la libertà, l'autorità dell'uomo sull'uomo: io comprendo
l'eguaglianza di tutti, sotto la supremazia di Dio. Che m'importa che il
mio padrone si chiami Tiberio, Erode, Faraone, o Salomone, se è un
padrone? Or di padroni io non ne conosco che uno, quegli che assume la
rappresentanza di Dio sulla terra e lo imita per la misericordia e la
verità. Il Romano non è mio nemico: io non combatto che il malvagio, e
colui che si impone alla mia coscienza. Le vostre vanità di classi e di
razze non mi toccano punto; io le ignoro: esse sfuggono alla mia
intelligenza.

— Rabbì, rispose pacatamente il sagan, non è più il momento di
discutere. La mosca non chiede al ragno: perchè mi prendi nella tua
ragnatela? Tanto peggio per la mosca se non si sforza di stracciare la
tela in cui è presa, e se non cerca di fuggire. Noi ti offriamo di
essere con noi, padroni o martiri, come avverrà. Saremmo sciocchi se ti
permettessimo di essere contro di noi, di fare diversione al nostro
intento per un altro intendimento che disdegniamo di analizzare. Tu non
comprendi la patria, non comprendi la nazione, non comprendi la libertà;
ammetti lo schiavo; chi sei tu dunque? Tu ci proponi la mostruosa
autocrazia di Dio, incarnato in un uomo....[45] Codesto è delirio! Tu
non sei degno di vivere.

  [45] Innocenzo III ha definito il papa con queste parole:
  _Vicarius Jesu Christi, successor Petri, Christus Domini, Deus
  Phardonis, citra Deum, ultra hominem, minor Deo, major homine_. —
  Serm., _De Consacr. Pontif._

— Perciò io non lo chiedo punto, disse Gesù.

— Però rifletti ancora, o Rabbì, durante questi pochi minuti che la mia
benevolenza ti accorda. Tu hai una madre, una sorella, degli amici, sei
ancora giovane, hai uno spirito elevato, un grande tatto, molto sapere e
una grande confidenza in te che prende tutte le forme della fede. Un
avvenire sorridente ti stende le sue braccia. Se tu scadi oggi, ti
rialzerai domani sotto un altro aspetto; le circostanze creano l'uomo.
Tu non sarai più il figlio di Dio; ma puoi ancora essere il padre dei
Maccabei, che rovescia l'altare dell'idolo, ed uccide il primo infedele.
Questa parte ti sembra dunque troppo meschina? Noi avremo dei riguardi
per te. Non ti chiederemo conto della divergenza delle tue idee e delle
tue dottrine dalle nostre; se ci accordiamo, bene inteso, su questi due
punti: rispetto alla legge fondamentale di Mosè: odio ai Romani.

— Odio per nessuno, interruppe il Rabbì: rispetto per nessuna altra
legge che quella che i nuovi tempi ispirano al nuovo organo di Dio. Non
mi tentate più oltre. La mia situazione non ha uscita per altra porta
che quella della tomba. Voi mi uccidete uomo; le mie parole, se
ricordate, mi confermeranno come figlio di Dio. Io mi son creato, con
l'anima, un deserto intorno a me, un deserto in mezzo alla vita, ai
popoli, alle grandi città, agli amici, ai parenti, alle creature che mi
amano e che mi è vietato di amare; questo deserto è un supplizio, in
paragone del quale le vostre pietre e le vostre croci sono dei baci. Io
vi ringrazio di codesta parola franca ed amica che m'avete detta in
quest'ora di turbamento e di lotta: voi m'avete deciso nella mia via, e
mi avete dato la calma della rassegnazione.

— Rabbì....

— Basta così. Io non posso ascoltar altro; io non posso nulla accordare.
Il mio destino è più grande di me: esso mi assorbe.

— Rabbì....

— Finiamo. Il più corto sarà il più dolce.

— Allora tu sei deciso a perire.

— È necessario.

— Sia, e che il tuo sangue ricada sul tuo capo.

Il Sagan prese un quadrato di pergamena e vi scrisse alcune linee, nelle
quali diceva in sostanza: che egli aveva interrogato il Rabbì Jesus Bar
Joseph di Nazareth, e che l'aveva trovato fellone verso Dio e verso
l'autorità di Cesare, e quindi degno di morte. Fece quindi entrare
l'ufficiale del Tempio, — i soldati romani si erano ritirati, — e
consegnando loro il prigioniero e la sentenza, li inviò da Caifas.

All'alba dell'indomani, 14 nisan (venerdì 3 aprile) il sanhedrin si
riunì presso il gran Sacerdote. La calca nel Tempio, in un tal giorno,
dispensò Caifas di convocare l'assemblea nel Lishcat-ha-Gazith, ove il
gran consiglio teneva le sue ordinarie sedute.

L'interrogatorio non fu lungo. Il Rabbì non negò alcuna delle
proposizioni che gli si citavano come da lui sostenute: egli non
contestò alcun fatto[46]. Egli fu riconosciuto fellone verso Dio e verso
Cesare, come il sagan lo aveva caratterizzato. Non pertanto, avanti di
pronunciare la suprema sentenza, Caifas, quasi avesse voluto impegnarlo
a ritrattarsi, per risparmiare al consiglio la penosa necessità di una
condanna capitale, chiese nuovamente al Rabbì:

— Io ti fo precetto di dichiararci se sei il Cristo, figlio di Dio.

  [46] «Ho parlato apertamente al mondo; ho insegnato nella sinagoga
  e nel Tempio ove si recano tutti gli Ebrei; non ho mai nulla detto
  in secreto. Perchè ti rivolgi a me? Domanda a coloro che mi hanno
  udito, ciò che ho detto. Essi lo sanno.» S. GIOVANNI, cap. XVIII,
  vers. 20-21.

— Io lo sono, rispose Gesù, e voi vedrete venire sulle nuvole del cielo
il figlio dell'uomo, seduto alla dritta del Dio onnipotente.

Tutto era detto. La pena di morte fu decretata.

Uscendo da Hannah, ove io non aveva aperto bocca, il Rabbì ebbe vergogna
dei suoi sospetti, e mi disse addio! Io gli susurrai all'orecchio:

— Spera, io non lascio la partita finchè mi resta un dado da giuocare.

Non attesi dunque il risultato del giudizio del sanhedrin cui già
prevedevo. Mi recai da Claudia. Ma mettendo il piede nel palazzo di
Erode vidi, alla porta del pretorio, una donna, ravvolta in denso velo,
domandare di Pilato, inviandogli un foglietto di pergamena. Credetti
riconoscere Ida.



XXXI.


Erano ott'ore del mattino[47]. Claudia era appena risvegliata, e Nomas
aveva aperto le finestre, permettendo ai primi raggi del sole di nisan
(aprile) di venire a folleggiare nel santuario di questa beltà italiana.
Nomas mi conosceva, avendomi veduto sovente colla sua padrona, e nella
massima intimità. Malgrado tutto ciò, stentai a fare pervenire, ad
un'ora così indebita, un piccolo viglietto nel quale la supplicava di
ricevermi immediatamente, avendo a parlarle di cose gravi.

  [47] Per essere più chiaro, traduco, per questo capitolo, le ore
  ebraiche, in ore come noi le contiamo oggidì.

Claudia, dopo la effettuazione del suo matrimonio con Pilato, in piena
luna di miele, non si copriva più il viso di pappa la notte, onde tener
soffice la pelle e fresco il colorito. La sua teletta quindi era meno
complicata, e la poteva farsi vedere di buon mattino, non avendo bisogno
di levar via l'impiastricciata della notte. Ricevendo il mio viglietto,
Claudia mi fece introdurre tosto nel suo gabinetto di teletta, ove venne
a raggiungermi alcuni minuti dopo. Io non aveva tempo da perdere in
preliminari. Le esposi dunque in poche parole le ragioni che mi
conducevano da lei, e l'immenso servizio che le domandavo. Claudia non
esitò un momento, perchè il Rabbì l'aveva profondamente colpita. Ella
voleva essere sbarazzata di quest'uomo, di sua sorella sopratutto che
ella odiava, ma non ne desiderava punto la morte. Voleva anzi inviarlo a
Roma con sue lettere, raccomandandolo a Tiberio come un abile indovino.

— Che occorre fare? mi chiese.

— Poca cosa. Ottenere da Pilato che non tenga conto dell'accusa di
sacrilegio, e che esigli il Rabbì in qualche città romana della Siria,
come punizione del suo delitto politico.

— Pilato può farlo?

— Può tutto, se Pomponius Flaccus non vi si oppone.

— Proverò.

— Ma bisogna far presto. Il tempo stringe. Ascolta! odi tu questo ronzìo
nell'aria? Si conduce il prigioniero davanti tuo marito.

— Lo faccio chiamar subito.

— Sarebbe meglio andarci tu stessa. Giacchè, trovandosi in faccia dei
delegati del sanhedrin, che gli conducono un prigioniero o gli
presentano la sentenza di morte da essi pronunziata è probabile che egli
non verrà qui immediatamente. Ora, se egli conferma la sentenza, tutto è
perduto.

— Hai forse ragione. Ci corro. Aspettami pochi minuti fuori, onde io mi
vesta.

Uscii sulla terrazza che dava sulla piazza, e vidi infatti Gesù,
preceduto e seguito dalle guardie del Tempio, da quattro commissarii del
gran consiglio, e da uno sciame di curiosi. Essi entrarono nella corte
scoperta del palazzo, ove era il _bima_ sul _gabbatha_, e l'oratore del
sanhedrin ne fece avvertire Pilato.

Pilato sapeva già ciò che significava quel rumore, ciò che la
commissione desiderava, e chi era il prigioniero che si trascinava
innanzi a lui. Ida lo aveva istruito di tutto.

Mentre io pregava Claudia, ella supplicava Pilato.

La donna che io aveva veduta, era Ida.

Pilato, ricevendo il suo viglietto, l'aveva fatta introdurre
immediatamente al pretorio — al pretorio a bella posta — non volendo
dare a quel colloquio nessun altro significato che una domanda di
grazia, e ad Ida nessun'altra attitudine che quella di supplicante. Ma
quando la vide, così pallida, inondata di lagrime, affranta di dolore e
d'emozioni d'ogni fatta, in disordine di spirito e di vestiti, egli si
sentì commosso profondamente, e tutto quel mondo d'amore, di gioia, di
consolazioni, di dolcezze che aveva provato durante la sua relazione con
Ida, si risvegliò nel suo cuore. Le ricordanze lo battevano in breccia
d'ogni lato. E chi sa? ora che aveva gustato il frutto contestato di
Claudia; chi sa, dico, se la fanciulla pura e amorosa che aveva
abbandonata, non gli sembrasse mille volte preferibile a quella ardente
tigre romana, che lo inebbriava, che lo ardeva, ma che lo padroneggiava
altresì? Pilato era sole vicino ad Ida, ombra rimpetto a Claudia. E'
corse dunque incontro alla giovinetta e fece uscire tutti.

Ida tremava così forte, vacillava talmente, che Pilato la raccolse nelle
braccia onde impedirle di cadere svenuta al suolo. Il contatto del petto
del suo damo fece l'effetto di un ferro rovente sopra la Galilea. Ella
si allontanò di un balzo, e indietreggiò fino alla porta.

Pilato la riprese per le mani, e con l'accento più dolce che potè
trovare, con l'espressione più tenera che seppe dare alla sua voce, le
chiese cosa desiderasse. Ida con poche parole, male articolate, espose
la posizione di suo fratello, il pericolo che egli correva tale quale
Maria glielo aveva spiegato, e che Pilato conosceva già pei rapporti dei
suoi agenti.

Vi sono delle posizioni inesorabili, che impongono certe delicatezze,
cui sembra impossibile obliare o violare. Tale era quella di Pilato
rimpetto ad Ida. Egli non l'aveva amata. Ella veniva, ella che l'aveva
amato ed era stata abbandonata, a supplicarlo di salvar suo fratello,
disonorato da lei, disonorato da lui, ma in pericolo di morte. Tutto
vietava all'amante ed all'amata il minimo ritorno verso il passato, la
più piccola reminiscenza d'un amore messo allo scarto, e che non poteva
in nessuna maniera esser richiamato in scena, in questa circostanza,
esso, fomite di voluttà, per assumervi le sembianze della pietà. Non
pertanto il cuore, che deride sempre la ragione, non tenne nessun conto
di queste convenienze nè dalla parte di Pilato, nè dalla parte di Ida e
dimenticando l'una il fratello, l'altro la moglie, si lasciarono andare
alle memorie passate. Pilato aveva a spiegarsi; Ida a giustificarsi.
Moab aveva gittato in fra di loro un equivoco; Claudia un pericolo; io
un pretesto. Tutto ciò era stato in seguito posto in chiaro. Ma essi
erano ancora in sul broncio, e si trovavano uno rimpetto all'altro,
esigendo non più un ritorno all'amore, che pareva impossibile, ma una
restituzione di stima, che era un dovere. Non ho mai conosciuto i
particolari di questa scena breve, febbrile, rapida, tenera, piena di
passioni, e che sarebbe forse stata coronata da un bacio, se il rumore
degli agenti del tempio, non li avesse richiamati alla terribile
situazione del momento.

— Sei almeno felice ora? gli domandò Ida con un accento di sensibilità e
di tenerezza infinita.

Pilato esitò un momento a rispondere — è lui stesso che me lo disse poi
— indi esclamò:

— Come un uomo che dopo aver delibate le aurore profumate della
primavera sotto il cielo della Campania, nel golfo di Baia, si trova
trasportato, in pien meriggio, sotto il sole di luglio nelle pianure
della Siria. Il sole è bello, splendido, ma brucia ed uccide.

— Il mio amore, gli disse Ida, non ebbe che uno scopo: consolarti dei
tuoi misteriosi dolori. Conosco ora questo mistero. Nato dalla
compassione, quell'amore non poteva essere che puro e santo. Esso lo fu.
Io non ho rimorsi. Il tuo abbandono non è che una cessazione di gioia.
Ebbene, si prende l'abitudine del silenzio, della solitudine, del
dolore. Tutto ciò ha ancora delle ebbrezze, quando si può dirsi: ho
fatto del bene. La macchia che io aveva gettata sulla mia famiglia è
lavata: essa mi ha ripudiata. Mia madre, la mia stessa madre non ha
voluto rivedermi. Ma la mi ha perdonato; ciò mi basta. Io non tengo più
a nulla in questo mondo. Posso partire o restare, cadere o rialzarmi,
senza che un occhio amico mi segua, che un pensiero s'attacchi a me. La
povera mosca ha preso il volo: essa appartiene oramai allo spazio ed
alla natura ingannatrice.

— E se io osassi dirti: Ida, spera! sospirò Pilato scosso profondamente.

— Ti risponderei, replicò Ida, che non ne ho più di bisogno. Chi si
preoccupa del domani ha d'uopo della speranza — questo fiore avvelenato.
Io non ho dimani, e ne sono felice. La notte ha tutte le voluttà di cui
quelle del nulla sono le più inebbrianti. Che m'importa come ciò finirà?
Il sole è coricato, ed io non aspetto l'aurora.

In quel momento lo strepito della corte richiamò Ida e Pilato alla
situazione cui avevano il torto di aver dimenticata. Il tribuno di
guardia al pretorio venne ad annunziare a Pilato, che il gran Consiglio
gli inviava un condannato. Il procuratore uscì secondo l'uso e si assise
sulla _bima_. Allora Osea figlio di Elah, oratore del sanhedrin, gli
presentò la sentenza del Consiglio ed il prigioniero. Pilato lesse la
condanna ed esclamò:

— La morte!

— Sì, rispose Osea. Noi abbiamo una legge: secondo questa legge, egli
deve morire, perchè si è fatto figlio di Dio[48].

  [48] GIOV., cap. XIX, v. 7.

— Ciò non mi riguarda, disse Pilato con impazienza. La spada di Cesare
non vendica gli Dei cui Cesare non conosce.

— Ma la spada di Cesare, rispose Osea, punisce queglino che si
proclamano re, là ove desso è imperatore. Ora, noi non abbiamo altro re
che Tiberio. Se tu ne conosci un altro, assolvi il prigioniero[49].

  [49] Idem., cap. XIX, v. 12-15.

— Allora io voglio sapere, e scandagliare io stesso la verità. Fate
passare codesto uomo nel pretorio, ond'io lo interroghi.

Pilato rientrò nella sala del giudizio ove i soldati romani introdussero
il Rabbì. A quella vista, Ida gettò un grido, e si avvicinò a suo
fratello; ma questi ritrovandola alla presenza di Pilato, arrossì ed
indietreggiò. Ida comprese e cadde ai piedi del procuratore. In quel
momento stesso apparve Claudia, e vide Ida in ginocchio, mentre Pilato
si piegava per rialzarla, sfiorando delle sue guancie i capelli della
fanciulla, respirando il suo alito e dicendole alcune parole di
consolazione.

Fu un lampo.

Io seguiva Claudia.

Alla vista d'Ida e di suo marito in quella posizione, così vicini l'uno
all'altro, Claudia diede un ruggito che avrebbe spaventato una leonessa.

— Tu ancora? gridò la forsennata. Ah! ti tengo alla fine.

Ed acciuffandola dai capelli, rapendola di un sol balzo, Claudia varcò
la sala e sparve dalla porta d'onde eravamo entrati, chiudendola dietro
di sè. Questa apparizione sinistra non durò che un momento, ma il
terrore s'impadronì di noi tutti. Io volli slanciarmi dietro alle due
donne. La porta era serrata a chiavistello. Volli uscire. Il Rabbì mi
sbarrava la porta della corte, sulla cui soglia egli restava freddo ed
immobile.

Egli mi avvischiava ad un altro disastro.

Pilato profondamente turbato da ciò che era allora accaduto e prevedendo
forse l'atto terribile che stava per compiersi negli appartamenti di sua
moglie, senza ch'egli potesse impedirlo, passeggiò per alcuni istanti
nella sala. Ida, il Rabbì, Claudia si confondevano nel suo spirito
velato, e danzavano in una nuvola di sangue. Si fermò finalmente
rimpetto al prigioniero, e con una grande veemenza, quasi fuori di sè,
gli chiese:

— Chi sei tu?

— Gesù da Nazareth, in Galilea.

— Ma allora tu sei suddito di Antipas Erode, ed egli è qui. Io non posso
giudicarti, non voglio giudicarti. Conducete costui dal tetrarca.

Il tribuno Popilius, a cui quest'ordine era dato, escì nella corte col
Rabbì, e consegnandolo nuovamente alla commissione del sanhedrin ed alle
guardie del Tempio, loro comunicò la risoluzione del procuratore.

Osea riprese il prigioniero, ed uscì brontolando.

Io mi presentai allora da Claudia onde saper qualche cosa della sorte
della disgraziata Ida. Nomas mi rispose a nome di Claudia, che questa
era nel bagno, e che potevo ritornare più tardi. Interrogai Nomas. Ella
sclamò quasi spaventata:

— Domandalo al _lorarium_.

L'anima ripiena di un nuovo terrore a questa parola sinistra di
_lorarium_ — il carnefice — corsi al palazzo di Antipas per provvedere
alla sorte dell'altra vittima.

Il Rabbì si trovava già in presenza del tetrarca.

Questi non era ancora alzato; ma vivamente compiaciuto della deferenza
che Pilato gli mostrava questa volta, ricevette il prigioniero stando
nel suo letto.

Antipas era coricato in un letto di tartaruga ed oro, sulla seta e sulle
piume, coperto di porpora ricamata a pietre preziose. Davanti il letto
restava lungo disteso il suo leopardo. Sul letto stesso, uno sciame di
pappagalli, di piccoli cani, di scimmiotti scambiavano colpi di becco, e
colpi di denti, aizzati l'un contro l'altro ora da Antipas ora dai suoi
nani, e facendo un diavoleto indescrivibile. All'estremità del letto
tenevasi una bella schiava greca che profumava i piedi del tetrarca.
Alla testa, una schiava siriaca ancora più bella gli strappava i capelli
bianchi. E nello spigolo di dietro, una schiava galla, più bella e meno
vestita delle altre due, tingeva le sopracciglia ed i lembi delle
palpebre di quell'allegro compare, di già imbellettato come una _lupa_
dei sobborghi di Roma. Una folla di schiavi d'ambi i sessi giravano
nella stanza, gli uni per preparargli la teletta del suo alzarsi dal
letto, gli altri per porgergli la porzione di suco d'aranci misto al
latte caldo, al mele ed al cinnamomo, per la quale il tetrarca
rinnovellava le sue relazioni quotidiane col suo stomaco.

— Ah! Ah! sclamò Antipas scorgendo il prigioniero: eccoti qua, Rabbì! Tu
vieni questa volta senza essere invitato, eh! Come sei amabile! Arrivi,
in mia fede, bell'a proposito. Ho il mio leopardo molto malinconico da
ieri in qua, tu devi distrarlo, o se è ammalato, guarirlo. Ti do parola
che questa mattina son proprio in vena di vedere dei bei miracoletti. Ho
dormito allegramente bene la notte scorsa. E tu, Rabbì? Ora, comprendi,
ho una voglia pazza di veder Salomè. Tu puoi mostrarmela in un bicchier
d'acqua del pozzo di Giacobbe, che ho là; ma, sta ben attento! non
voglio vederla tra addobbi, e tra veli, eh! Non voglio che tu mi giunti
e mi mostri invece la maga d'Endor. Io voglio veder Salomè, tale quale,
precisa com'è, intendi? Nasca, ragazza mia, fa attenzione, m'hai levato
un capello nero. Ah! sei lì anche tu, Giuda! farai colazione con me
allora, bello mio. Aveva ragione io, quando ti diceva che il tuo Rabbì
mi aveva l'aria di un selvaggio. Gli parlo, gli dimando un miracolino
ch'è proprio nulla, che il mio filosofo fenicio spiccerebbe colla stessa
facilità che tu inghiotti una ciliegia.... Ne avrai questa mattina delle
ciliegie, Giuda: n'ho ricevuta la primizia da Alessandria. Ma rispondi
dunque, Rabbì. Perchè diavolo me lo conducete dunque, qui, se egli non
trova nulla per distrarmi e se non fa nulla per divertirmi?

Una speranza mi luccicò nell'anima. Gli dissi dunque:

— Gli è, principe mio, che il re dei Giudei è di cattivo umore perchè i
suoi sudditi gli hanno mancato di rispetto. Ripara il mal fatto. Dagli
un mantello di porpora, e rimandalo via col migliore dei tuoi cammelli;
ed egli andrà al tuo ritorno al palazzo di Tiberiade, a mostrarti più
prodigi che non ne fecero mai i maghi di Faraone.

— Darei volentieri il mantello al mio re, ma non posso rimandarlo,
poichè codesto piccolo procuratore romano me l'ha lanciato qui, non so
perchè.

— Perchè l'assassino del Battista, rispose il Rabbì, assassini pure il
figlio dell'uomo.

— Eh! eh! tu canti bene, Rabbì. È l'istesso tuono, e il salmo ha lo
stesso stile. Ma io non amo i plagiarii. Ti perdonerei piuttosto di
cantar falso, che il cattivo ribiascicar di quell'altro.

— Tetrarca, disse allora Osea, che comprese la mia astuzia e temeva la
frivolezza d'Antipas, il procuratore romano t'invia questo prigioniero,
condannato a morte dal gran Consiglio della Giudea, perchè tu confermi
la sentenza, poichè quest'uomo è tuo suddito. Egli ha bestemmiato Dio,
usurpato i diritti di Cesare: si è proclamato re e Dio.

— Sei modesto, Rabbì. Poichè eri in vena, valeva meglio proclamarti
Cesare di un tratto e marciare sopra Roma alla testa delle tue
legioni....

— Di angeli, interruppe Osea: l'ha detto.

— Se la è così, Rabbì, io ti conduco meco, subito, libero, festeggiato,
se mi presti una o due delle tue legioni, per dare una correzione a quel
birbo del mio ex suocero Areta, che mi fa guerra, perchè la sua
figliuola, color zafferano, non mi piace più. Cosa ne dici? Accetti?

Il Rabbì taceva. Ciò scoraggiava Antipas che amava il rimbecco fosse
anche contro di sè. E' soggiunse:

— Rabbì, mi hanno raccontato tante cose di te, e tante tue parole, che
io ti farei re degli Ebrei senza esitare, se fossi imperatore dei
Romani. Intanto fa qualche cosa per me. Ho un dente smosso, e diversi
capelli bianchi. Erodiade non si rassegna a ciò, e Salomè dà la berta ai
miei cinquant'anni. Liberami da queste noje. Che diamine! se tu puoi far
passare i demoni dai corpi delle donne in quelli dei maiali — hai dei
demoni proprio compiacenti — ebbene puoi bene raffermare il mio dente, e
regalarmi una capigliatura bionda. Ti chiederò poi da solo a solo
un'altra cosa — e se puoi riescire in ciò che non potei ottener da alcun
filtro, ti dò la Perea.

Il Rabbì volse il capo con disgusto, e mormorò una parola di disprezzo
che non intesi bene. Antipas vedendo allora che non c'era nulla da
cavare da quell'ostinato, sclamò:

— Andate ad impiccarlo, se vi aggrada, codesto vostro re degli Ebrei,
sia egli o no mio suddito. Voi lo vedete! egli non è neppur buono a
guarire i miei calli. Gratta, Calliope, gratta, piccina mia, tu mi
solletichi deliziosamente i piedi.

— Principe, osservai io nuovamente, non permettere che si giustizii un
tuo suddito fuori dei tuoi dominii. Se il Rabbì è colpevole, giudicalo a
Tiberiade.

— Che! che! Cosa vuoi che io faccia di codesto bruto silenzioso lungo il
mio viaggio? Poi bisogna rendere a Pilato la gentilezza usatami, non
fosse che per insegnargli che non si perde mai ad esser convenevole coi
principi. Conducete, conducete via subito codesto rustico, che non si
degna neppur di rispondermi, e di fare un miracolo da quattro soldi.

Osea non chiedeva di meglio, poichè egli sembrava poco rassicurato sul
leggero contegno del tetrarca. Egli preferiva l'asprezza di Pilato.

Quando Antipas aveva detto che darebbe un mantello di porpora a Gesù, il
suo liberto s'era affrettato a spogliare il Rabbì del suo mantello
azzurro, cui trovava di sua convenienza. Ma il tetrarca non avendo poi
realizzato il suo proposito, il Rabbì se ne tornò colla sua sola tunica
bianca.

Era passato il mezzogiorno quando ritornammo al palazzo d'Erode.

Mentre il Rabbì ricompariva dinanzi a Pilato, io mi recavo da Claudia.

Maria fu la sola fra gli amici e i discepoli di Gesù che assistette
all'interrogatorio.

Pilato riapparve sulla _bima_, di molto cattivo umore. Egli credeva
essersi scaricato sul tetrarca d'un giudizio che gli pesava, a causa di
Claudia, e d'Ida. Poichè, qualunque fosse stata la sua sentenza, essa
ferirebbe una di quelle due donne ch'egli amava.

— Il tetrarca, disse Osea, non vuole confermare la nostra condanna.
D'altronde non ne ha precisamente il diritto. Il delitto è stato
commesso sopra un suolo di tua e di nostra giurisdizione: noi soli
abbiamo il diritto di condannare.

Pilato alzò le spalle con un atto di sprezzo e di impazienza, ed
indirizzandosi al Rabbì, gli disse bruscamente:

— Li ascolti? Tu sei dunque re degli Ebrei, tu?

— Questa domanda viene da te, oppose il Rabbì, ovvero tu ripeti ciò che
gli altri dicono di me?

— Sono forse Ebreo io? I tuoi compatriotti ed il tuo sanhedrin ti
conducono da me, come colpevole. Che hai fatto dunque? È egli vero che
hai tentato di conquistare questo regno?

— Questo regno? Apprendi dunque, agente di Cesare, che il mio regno non
è di questo mondo. Se lo fosse, la mia gente avrebbe combattuto per me,
m'avrebbe tolto alle mani degli Ebrei, e ti avrebbe ridotto
all'impotenza. Ma, lo ripeto, il mio regno non è di questo mondo.

— Così, tu sei veramente re, allora?

— Tu l'hai detto, rispose Gesù, io sono re. Gli è per questo che io
nacqui, gli è per questo che sono venuto al mondo. Io debbo attestare la
verità. E chiunque è nel vero, ascolta la mia voce.

— Ma cosa dunque è la verità[50]?

  [50] GIOV., cap. XVIII, v. 33, 34, 35, 36, 37, 38. Vedi pure la
  nota B.

Il Rabbì non rispose più. Osea sclamò:

— Come? tu cerchi ancora la verità, ufficiale di Cesare? Non ha egli
detto chiaramente che egli è re degli Ebrei?

— Precisamente perchè egli lo ha detto così chiaro, io ne dubito. Se
fosse colpevole, egli avrebbe negato. Egli è dunque pazzo. Io non posso
condannare alla croce un uomo che ha perduto la ragione.

— Fa attenzione, procuratore! disse Osea. Quest'uomo non è nè pazzo, nè
visionario. Egli è rivoluzionario. Tu ci offendi, se non vendichi la
bestemmia contro il nostro Dio. Non ha egli detto perfino che se
demolissimo il Tempio, egli lo ricostruirebbe entro tre giorni?

— Vado a farlo flagellare allora per farvi piacere, ripetè Pilato. Ogni
altro castigo mi sembra enorme.

— Enorme! mormorò Osea. Procuratore, sta attento. Interroga tutta
Gerusalemme che l'ha veduto, quattro giorni fa, entrare nella città
accompagnato dai suoi compatriotti che gridavano: Osanna al figlio di
Davide, Osanna al re degli Ebrei! Se un fatto simile fosse accaduto a
Roma, Tiberio l'avrebbe egli tollerato? La nostra fedele città non ha
ceduto alla tentazione, ed ha lasciato passare la sommossa. Ora noi non
vogliamo, noi che siamo responsabili dell'ordine nella nostra città, che
la notizia ne sia portata a Cesare, e ch'egli ne prenda pretesto per
aggravarci di nuove tasse. Noi abbiam fatto il nostro dovere. Abbiamo
preso, condannato, e presentato al tuo tribunale il colpevole d'un
tentativo d'insurrezione contro l'imperatore; noi ci scaricheremo presso
di lui con una ambasciata. Noi non abbiamo alcuna sete di sangue; ma tu
resti responsabile delle conseguenze.

— Io non temo le vostre accuse contro di me. Cesare mi conosce. Ma io
non voglio creare fra noi dei nuovi appigli di dissapori. Voi volete che
quest'uomo, che questo vaneggiatore sia condannato alla croce? io lo
condanno. Ma siccome tutti gli anni, alla festa del paschac, io fo
grazia ad un condannato, vi propongo di farla al Rabbì. Ho in questo
momento quattro condannati a morte fra le mani: costui, un ladro
d'Emmaus, l'esseniano Moab che ha tentato di assassinarmi, e Gesù Bar
Abbas che ha assassinato Justus. Scegliete.

— Gesù, Gesù! gridò la gente che riempiva il tribunale.

— Ve l'accordo, disse Pilato sorridendo. Popilius, libera quest'uomo.

— Non costui, non costui, replicò la folla, Gesù Bar Abbas.

Pilato impallidì, e fissò il Rabbì. Questi sorrise tristemente. Pilato
rientrò nella sala del giudizio, e dettò la sentenza.

In quel momento, io entrai pure nella sala.

Io era inorridito di ciò che avevo veduto.

Maria attendeva al di fuori.



XXXII.


Scorgendomi da lungi Claudia, mi gridò con voce piena di gioia.

— Ah! vieni a cercar notizie della piccola Ebrea! Ne avrai. L'ami molto
dunque?

— Claudia, non c'è nella lingua umana una parola che esprima quanto io
l'ami.

— Ne sono felice, allora.

Claudia aveva trascinato Ida pei capelli, fino al suo appartamento, dopo
aver chiuso a chiave la porta della sala del giudizio, che metteva in
comunicazione questa stanza del palazzo di Erode cogli altri
appartamenti. I suoi schiavi, i suoi ufficiali della corte avevano
indietreggiato dinanzi la leonessa che portava la preda nel suo covo, e
l'avevano lasciata passare, silenziosi e spaventati. Claudia, arrivata
in una delle sue stanze, aveva fatto chiamare il _lorarium_, e
mostrandogli quella cosa svenuta ed affranta stesa a terra, gli aveva
detto: «Pei miei pargoli, all'ora ordinaria». Il detto era già
conosciuto da quell'esecutore dell'alta e bassa giustizia che appendeva
pei capelli le schiave nude, e le flagellava fino alla morte.

Il _lorarium_ era un Lucano, di una piccola città detta Grumentum,
omicciattolo tutto muscoli, tutto pelo, dal viso atroce e dall'anima
annegata nel sangue, di forza erculea, coraggioso come un lupo affamato.
Quest'uomo prese a mezzo corpo la giovinetta svenuta e la portò via.
Claudia entrò nel suo gabinetto di teletta.

Io arrivai al momento in cui i misteri delle lozioni e degli unguenti
erano ultimati.

Claudia aveva preso il suo secondo pasto. Dopo di questo, ella aveva
l'abitudine, quando il tempo era bello, di recarsi nei giardini del
palazzo, e di gironzare, cogliendo fiori a bracciate ed assistendo al
pranzo dei suoi pargoli.

I pargoli di Claudia erano le murene.

In una immensa vasca di marmo bianco dalle sabbie muscose, ella ne
nutriva diverse centinaja cui aveva fatto venire dalla baja di Puteolis
che produce le più belle.

La murena è un serpente di mare, lungo due, qualche volta tre braccia,
dalla testa e coda appuntite, dal corpo sviluppato, coperto di una pelle
viscosa color giallo scuro tigrata di chiazze nere. Questo pesce è
avidissimo di sangue e di carne; ed i Romani per regalarlo d'una
leccornia, e renderlo più saporito, gli gittavano di tempo in tempo uno
schiavo.

Claudia, come i suoi compatriotti, aveva un vivaio di questi pesci, e
prendeva un singolare piacere nell'andarli a vedere, quasi ogni giorno,
all'ora del pasto, divorare un montone, quando la non aveva a servir
loro una delle sue schiave. Questa volta preparava loro una festa
imperiale.

Ella mi attendeva per farmi partecipare al suo divertimento.

Sull'orlo del bacino erano state preparate due sedie, e quattro schiavi
liburniani, quattro giganti, si tenevano in piedi dietro di esse per
farci onore.

Claudia non volle lasciarmi aspettare. Mi prese per mano, e senza dir
motto mi condusse nel giardino. Quando scorsi che la mi conduceva verso
il sito della vasca delle murene, un brivido mi corse per tutte le
membra, tremai ed impallidii. Non osai dirigerle una domanda. Claudia
fe' sembiante di non avvedersi di nulla.

Quando fu giunta vicino al bacino, sedette e mi fece segno di sedere.
Poi con un movimento del capo diede un ordine al _lorarium_, che stava
ritto all'estremità opposta del vivajo.

Le murene che conoscevano l'ora del loro pasto, brulicavano,
saltabellavano nell'acqua, guizzando da ogni parte, accorrendo ad un
piccolo scoppiettìo della lingua di Claudia, appello a cui ella le aveva
abituate.

— Sono graziose, non è vero? mi disse l'atroce Romana: vedrai come
all'opera sono ancor più gentili.

Non risposi verbo. Il mio cuore scoppiava. Allora Claudia volgendosi
verso di me, l'aspetto sarcastico e la voce severa, soggiunse:

— Ebreo, la prima sera che mi hai veduta, a cena, hai osato appoggiare
le tue labbra sopra un riccio dei miei capelli. Ho cercato a lungo la
maniera d'esprimerti il piacere che ne provai. Ho trovato l'equivalente
del tuo bacio. Gioia per gioia.

Il _lorarium_ apparve portando Ida nelle sue braccia. Volli alzarmi. Le
otto mani degli schiavi liburniani che stavano dietro la mia sedia
m'inchiodarono immobile. Volli parlare; un mondo di maledizioni,
d'ingiurie, d'imprecazioni, di parole di disprezzo, si precipitò sulla
mia lingua: ma questa restò paralizzata. La mia vita scoppiava nei miei
occhi.

Il _lorarium_ portò Ida presso al vivajo, e con un sol colpo di mano le
strappò tutti i suoi vestiti, e la mise a nudo. Ella gettò un grido che
arrivò a Dio nel cielo. Claudia la contemplò impallidendo — ed aveva ben
ragione di divenir pallida. Fece un nuovo segno. Il _lorarium_ afferrò
la fanciulla, le legò i piedi, e la lanciò nella vasca.

Quarant'anni sono scorsi da quest'avvenimento. Ho assistito a tutti i
disastri che possono colpire un uomo; nulla ormai mi commuove. Eppure
descrivendo questa scena, il mio vecchio sangue s'agghiaccia ancora
nelle mie vene.

Appena il corpo d'Ida cadde nel bacino, quelle centinaja di serpenti,
come in un sol gruppo, si scagliarono sopra di lui. Ida si rialzò, e
tentò di star in piedi. L'acqua la copriva fino al petto. Cominciò a
strappar colle sue mani le murene che, come enormi sanguisughe, le si
attaccarono con la bocca tutta aperta, formando un disco armato di
succhiatoj, e la morsero. Le sue mani scivolavano su quei corpi
glutinosi, il cui contatto e la cui vista le cagionavano più orrore che
il suo sangue stesso, il quale scorreva da ogni parte sulla sua carne
che era maciullata. Ella non gridò. Un gemito sordo, profondo,
inarticolato, sfuggiva a sua insaputa dalla sua gola, col suo respiro
rantoloso. Per una murena che riesciva a staccarsi dal corpo con un
lembo di carne, dieci se le slanciavano alle braccia, al petto, al
collo. Gli occhi dilatati schizzavano dalle orbite. I muscoli del viso
si contorcevano come quelli d'una isterica. Le murene sprofondavano le
loro teste acute nel suo corpo, e l'allacciavano, come potevano, delle
loro spire poco flessibili.

Ida ricadeva e spariva sotto l'acqua per un istante; poi si rilevava. Il
suo collo, le sue guancie erano state invase e morsicate. Si sarebbe
detta una testa di Medusa. Le mani, le braccia erano avvinghiate di
quegli orribili mostri. Era divenuta una sola piaga: l'acqua arrossava.
In quel punto una murena le saltò alle labbra. Ida piegò. Altre le si
appresero agli occhi. Gettò un grido; fece uno sforzo supremo per
sbarazzarsi da quelle morse viventi, da quei ferri divoratori, riuscì a
sbrattarne per un istante ancora il suo bel viso, orribilmente lacerato,
poi vacillò e si abbiosciò.

Io la vidi spasimar sotto l'acqua, aggrapparsi alla sabbia, mordere i
rettili che la mordevano. Poi i suoi movimenti rallentarono, cessarono.
Ella s'irrigidì, si agghiadò, ed un istante dopo il suo corpo non era
più che uno scheletro. Feci uno sforzo per fuggire.

Claudia era scomparsa. Gli schiavi liburniani non mi ritennero più. Il
_lorarium_ restava sempre ritto ed impassibile all'altra estremità del
bacino. E gli uccelli cantavano; le api ronzavano; le farfalle andavano
a zonzo; l'aria era profumata dai primi baci della primavera. Dei fiori
delle ajuole, dei verdi ramoscelli sugli alberi, e dinanzi a me la sola
donna che io ho amata, divorata! Fuggii, e non so come mi trovai nella
sala del giudizio, ove caddi annichilato.

La voce dello scriba che leggeva la sentenza del Rabbì, mi scosse. Corsi
a Pilato e con voce sorda gli dissi:

— Tua moglie ha assassinato la sorella; non uccidere il fratello.

— Come! cosa vuoi dire?

— L'ho veduta io stesso, vengo di là, dalla vasca delle murene.

— Ah! la sciagurata! sclamò Pilato coprendosi il viso colle mani.

— Salva almeno quest'uomo, continuai.

— Nol posso, diss'egli disperato: queste tigri attendono la loro preda.
La legge è inesorabile.

— Ma gli uomini sanno ridersene, quando vogliono.

— Che posso fare?

— Chi è il centurione che incarichi dell'esecuzione?

Pilato mi guardò fisso, poi disse:

— Sta bene: sarà Lentulus.

Ed uscì sul bima e lesse la sentenza che condannava Gesù a morire per la
croce.

Io uscii con Pilato, ed osservai che uno dei commissarii del sanhedrin
era uno dei miei amici, Giuseppe di Ramatha. Gli dimandai:

— Non hai tu un giardino presso il Golgotha.

— Sì, perchè?

— Reclama a Pilato il corpo del condannato.

— Cosa vuoi che me ne faccia?

— Te lo dirò, reclamalo.

Quando Pilato ebbe letta la sentenza, ed era per rientrare nel suo
palazzo, Giuseppe gli disse:

— Questo condannato non ha parenti. Io ti chiedo il suo corpo per dargli
una tomba.

— Prendilo, rispose Pilato, e si schivò.

I commissarii del sanhedrin consegnarono il prigioniero alle guardie
romane.

Vidi allora il Rabbì, fermo fino a quell'istante, vacillare e quasi
svenire.

Non c'era tempo da perdere. Erano quasi le due ore, ed alle sei, ora in
cui principia il sabato, tutto doveva esser finito, il supplizio
compiuto, i suppliziati seppelliti. Gli altri prigionieri furono tirati
della prigione. Moab e Zabdi mostrarono una grande tranquillità. Bar
Abbas, graziato, principiò a sgambettare nella corte, e dire e fare
mille buffonerie agli Ebrei che avevano ottenuto la sua grazia.

Furono cavate tre croci dai magazzini del pretorio, ed ogni condannato
prese la sua. Il Rabbì avendo protestato che non aveva la forza di
portare il suo legno, si pagò un contadino che s'incaricò della bisogna.
Insorse contestazione tra Osea e lo scriba del pretorio a proposito
della scritta che doveva essere affissa alla croce del Rabbì.

Lo scriba passò oltre, ed il corteggio si mise in cammino. Mi avvicinai
a Gesù e gli susurrai all'orecchio: spera!

Egli sorrise di nuovo tristemente.

Era di costume di dare a bere ai condannati, prima di attaccarli alla
croce un certo vino aromatizzato che li stordiva. Se il condannato non
aveva nè un parente nè un amico per offrirgli questo beveraggio, se
nessuna donna pietosa della città non compiva quest'opera di carità, il
fisco somministrava il vino.

Prevedendo come il processo del Rabbì sarebbe terminato, io aveva fatto
comporre un vino fortemente narcotizzato, di cui bastavano alcune
lacrime per dare l'immobilità cadaverica del coma. Mandai Maria a
prender codesta droga a casa mia, e col cuore lacerato dal dolore,
seguii i condannati.

Quel povero affettuoso Moab mi commoveva. Egli mi chiese d'Ida. Gli
risposi, per non rendergli più amari i suoi ultimi istanti, che sua
madre la conduceva seco a Cafarnaum.

Il supplizio doveva aver luogo al sito ordinario, sul Golgotha.

Partendo dal palazzo d'Erode, la strada era corta. Passando sotto la
torre di Davide, uscimmo dalla porta Genath, e traversammo i boschetti
di mandorli, ed i giardini che coronano la fontana di Hezekiah. Sul
Gareb, fuori della porta, stava il monumento del grande sacrificatore
Giovanni; a pochi passi, il piccolo giardino del mio amico Giuseppe di
Ramatha; ancora un po' più lontano, la piccola altura del Golgotha,
arida, nuda, di pietra bianca calcare. Tutto ciò al nord-ovest della
città. Su quel rialzo di terreno, venivano suppliziati i ladri, gli
assassini, i pirati, gli empii, i traditori, i rivoltosi, i falsi
profeti, ed i falsi rabbì.

Il Rabbì di Galilea andava a frangervisi come falso messia, empio,
ribelle.

La sua condanna era sopratutto politica.

Giuseppe mi aveva presentato al centurione come colui a cui egli doveva
consegnare il cadavere concesso da Pilato, ed aveva posto a mia
disposizione il suo giardino, il giardiniere e sè stesso.

Egli aveva probabilmente indovinato le mie intenzioni.

Ascendendo il colle dei supplizi, Maria mi raggiunse col fiasco del vino
narcotizzato. Le indicai allora Lentulus, un uomo da quarantacinque a
cinquant'anni, dal viso bitorzoluto, il naso rosso, il cranio calvo, le
labbra pendenti, gli occhi infuocati e lagrimanti — in una parola, il
campo di battaglia ove tutti i vizii avevano fatto ressa, e lasciato le
loro ruine.

Io non poteva agire direttamente su quel Romano.

I miei tentativi avrebbero avuto l'apparenza di una grossolana
corruzione, e sarebbero certamente andati a vuoto. Lasciando agire
Maria, tutto ciò ch'ella otterrebbe, e non importa a qual prezzo, per
non importa qual mezzo, acquistava il sembiante di una tenera seduzione,
di una profonda affezione pel condannato, di una faccenda di cuore, che
giustificava nell'istesso tempo e chi la intraprendeva e chi cedeva, ed
aveva un grande valore morale. Maria, d'altronde era ancora così bella,
aveva la voce così dolce, il viso così carezzevolmente seducente, la
parola così penetrante, il fascino così assoluto, che nessuno avrebbe
avuto il coraggio di condannare il legionario voluttuoso se avesse
subìto una malìa, a cui lo stesso austero Rabbì di Nazareth non avrebbe
potuto sottrarsi.

Maria comprese la sua parte, e l'accettò con quella specie di sublime
abnegazione della sua persona che ella metteva in tutte le sue azioni.

Quella donna era un cuore.

Allora io mi diedi a consolare gli ultimi momenti di quell'altra nobile
creatura, Moab, sempre dirigendo Maria con gli sguardi e con monosillabi
nella nostra lingua, che nè il centurione nè i suoi soldati, Siri e
Fenici del resto, non intendevano.

Arrivati al sito dell'esecuzione, i condannati deposero le loro croci. I
fori per riceverle erano bell'e pronti, poichè, per disgrazia,
Gerusalemme non mancava mai di supplizii. Ma questi supplizi erano quasi
tutti ordinati dalle autorità romane, ragione per cui il popolo, che
suole amare questi drammi sanguinosi e commoventi, li lasciava di
frequente compiere nella solitudine.

Il popolo protestava così contro l'oppressore straniero.

Poche persone infatti si trovarono presenti al Golgotha. E ciò ancora
per la ragione che erano circa le quattro, e che il sabato principiava
alle sei, e che bisognava terminare i grandi preparativi della festa del
paschah, e riempire i proprii doveri verso il Tempio. I commissarii del
sanhedrin avevano abbandonati i condannati, dal momento in cui Pilato
aveva confermato la loro sentenza, e ne aveva assunto la esecuzione.

I tre condannati furono spogliati nudi, secondo l'uso. Maria si avvicinò
al Rabbì per fargli bere il vino preparato. Il Rabbì si opponeva. Maria
con un segno degli occhi lo decise, ed egli ne inghiottì uno o due
sorsi. Non era abbastanza, ma non era neppur poco. Moab ed il suo
compagno Zabdi bevvero senza rimorso.

Il Rabbì era agitato da un'inquietudine straordinaria. L'aspetto della
morte lo spaventava. Ebbe delle debolezze che mi sorpresero. Si lamentò
degli uomini e di Dio. Forse non aveva torto. Nessuno dei suoi discepoli
lo assisteva. Alcune donne galilee, che un tempo gli avevano manifestato
tanto attaccamento lo contemplavano ancora da lungi, mezzo nascoste
dietro i mandorleti. Io mi mostrava sollecito piuttosto per Moab, Maria
fu eroica; perocchè ella sentiva gli spasimi doppi soffrendo ad un tempo
per lei e pel Rabbì.

Maria ottenne, dopo aver scambiato qualche parola con Lentulus, che non
si traforassero con chiodi i piedi del Rabbì, ma le mani soltanto.
Ottenne ancora che gli si ponesse sotto ai piedi una tavoletta solida
per sostenere il corpo, e fra le gambe un ceppo fortemente conficcato
nel tronco della croce per farvelo sedere e diminuire così lo strazio
delle mani.

Lentulus accordò tutto, pigolando intorno a Maria come un vecchio
colombo. In dieci minuti ella ne aveva fatto il suo schiavo.

Quando tutto fu pronto, il Rabbì si coricò sulla croce. Gli si legarono
fortemente i piedi alle cavicchie. Egli inforcò il più comodamente che
potè, il piuolo, e tese le mani. Il Rabbì gettò un grido acuto quando i
chiodi gliele traversarono. Di natura eminentemente nervosa, sentiva
vivamente il dolore. Maria gl'innondò il viso di lagrime, dicendogli
dolci parole.

Il Rabbì non rispose motto. La lotta interna gli si dipingeva sul viso,
crispava la sua fronte, offuscava volta a volta, o faceva fiammeggiare
il suo sguardo.

Quando egli si fu convenientemente adagiato sul suo altare di morte, lo
si rizzò dolcemente onde non iscuoterlo troppo; si lasciò scorrere
l'estremità inferiore della croce nel suo buco e la si consolidò con dei
coni. Prendendo la posizione verticale, un'onda di sangue colorò il viso
di Gesù. Ma gli era piuttosto un effetto dell'emozione morale, che del
dolore materiale. Una febbre intensa s'accese immediatamente nel suo
sangue. Poco dopo, e' chiese da bere. Imbevvi una spugna nel vino
speziato, e la portai alle sue labbra. Il Rabbì bevve, e dieci minuti
dopo cadde in una specie di coma così completo, così potente, che Maria
ed io tememmo per un momento che la forte dose di narcotico, che doveva
alleviare i suoi spasimi non l'avesse invece avvelenato.

Erano scorse le quattr'ore della sera.

I pochi curiosi che avevano assistito all'esecuzione erano rientrati in
città. Una dozzina di soldati ed il loro capo, Maria ed io, restavamo
soli sul Golgotha intorno ai crocifissi. Maria sollecitava Lentulus ad
abbreviare la faccenda e Lentulus sembrava più premuroso ancora di lei.
Ma se il Rabbì mostrava tutti i sintomi della morte, gli altri due
condannati parevano ancora rigogliosi di vita. Si fece loro inghiottire
il resto del vino aromatizzato onde stordirli e finirli. Il tempo
stringeva.

Erano le cinque ed alle sei tutto doveva essere terminato, le croci
abbattute, i cadaveri seppelliti per non contaminare il sabato del
Signore, il più solenne di tutto l'anno. Fu mestieri ricorrere al
_crurifragium_ ordinario. Fortunatamente, i due altri suppliziati
principiavano essi pure a cadere come il Rabbì nell'annientamento della
morte. Lentulus diede l'ordine di frangere le gambe e le braccia di Moab
e di Zabdi. L'ordine fu eseguito.

Da un'ora, Gesù non dava più segno di vita. I soldati si accinsero ad
abbassare le croci. Non si usarono molti riguardi nel rovesciare le
croci dei due disgraziati a cui nessuno s'interessava. La croce del
Rabbì invece fu coricata dolcemente per di dietro; ed io m'affrettai a
tagliare le corde dei piedi, mentre due soldati levavano i chiodi delle
mani.

Lentulus, avvegnachè fosse inebbriato dagli sguardi di Maria, non
dimenticava interamente la sua responsabilità. Allontanò dunque i suoi
soldati, e fece che si occupassero dei due altri suppliziati. Questi
furono trasportati, morti o no, sull'orlo del cocuzzolo che domina quasi
a picco la orribile valle dell'Hinnon, e vi furono precipitati. I cani,
gli avvoltoi, i lupi, le aquile, le iene ne fecero la loro pasqua. Il
cadavere del Rabbì mi fu confidato. Lentulus affrettò la sua partenza —
sei ore erano vicine, — promettendo a Maria di ritornare, appena
spicciato il suo rapporto a Pilato.

Mentre io asciugava le qualche goccie di sangue che zebravano il corpo
di Gesù, Maria ed il giardiniere di Giuseppe da Ramatha stendevano un
lenzuolo nel quale lo avvolgemmo per meglio portarlo.

C'era in un angolo di quel giardino una grotta, nella quale il
giardiniere riponeva i suoi utensili, ed ogni sorta di oggetti che
ingombravano il sito. Noi ripulimmo quella cellula e vi deponemmo il
corpo. Il giardiniere fu mandato via. Ciò che restava a fare Maria lo
avrebbe compiuto.

Lentulus ci raggiunse un'ora dopo, portando dei cordiali ed alcuni
vestiti, di cui l'astuto compare prevedeva la necessità.

Maria fu sublime fino all'ultimo istante.

Il terzo giorno, ella sparse la voce fra i discepoli del Rabbì che
questi era risuscitato.

Ciò era necessario onde assicurare il successo di quanto avevamo fatto,
l'impunità di Lentulus, l'oblio di Pilato, e calmare le coscienze
timorose dei membri del sanhedrin, che avevano creduto oltraggiata la
legge e dovevano crederla vendicata.

Pilato ed Hannah seppero però da me la verità.

I discepoli, la cui vergognosa vigliaccheria non aveva scuse,
tribolarono Maria, chiamandola visionaria, quando ella annunziò loro che
il corpo del Rabbì «era stato tolto della sua tomba, e che non si sapeva
punto ove lo si fosse messo[51].»

  [51] GIOV., cap. XX, v. 2; LUCA, cap. XXIV, v. 11. _Et visa sunt
  illis sicut deliramentum verba ista et non crediderunt illis._

E' non credettero mai — quei semplicioni! — alla resurrezione del loro
maestro.

                    *       *       *       *       *

Tre mesi dopo, mia sorella vedova, Noah, il mio amico ed io c'imbarcammo
a Joppa per Taranto.



XXXIII.


Tre anni sono scorsi dagli ultimi avvenimenti che ho più su raccontati.

Siamo a Roma.

Un giorno, andando alle Terme, incontrai Pilato, il quale, avendo finito
i suoi dieci anni di potere, ritornava a Roma.

Io aveva allora ventisei o ventisette anni.

Avevo adottato il costume greco, e passavo per un cittadino di Rodi. La
mia barba era cresciuta, la vita elegante della gioventù d'Antinoo che
io menava aveva profondamente alterato i miei lineamenti. Malgrado ciò
Pilato mi riconobbe e mi venne incontro.

La sua prima parola fu pel mio amico. Un sospiro doloroso sfuggì dal mio
petto. Mi dimandò di visitarlo. Gli risposi di affrettarsi poichè le ore
di quel disgraziato erano contate. Pilato non fece neppur un'allusione a
sua moglie. Il nome solo di Claudia mi dava i brividi. Pilato mi confidò
ch'egli non voleva vivere a Roma, ove ad ogni momento si urtava a
memorie che l'oltraggiavano, e che partiva tra pochi giorni per la
Spagna, per il suo bel paese d'Hispalis (Siviglia) ove andava a fissare
la sua dimora con i suoi due figliuoli.

All'indomani, Pilato venne a trovarci.

Era tempo.

Avevamo una piccola casa sul monte Esquilino con un bel giardino sul di
dietro.

Era il principio di maggio, all'ora quarta. Una giornata splendida; il
sole era in festa. L'aria ripiena di canti e di profumi; la terra dei
fiori. Sotto un piccolo portico che copriva il ballatoio dei gradini del
giardino, sopra dei cuscini, avviluppato di coltri giaceva un ammalato.
Noah se ne stava dietro di lui, e mia sorella di fronte avendo alle mani
una coppa con non so che cervogia.

Il mio amico moriva di consunzione.

Aveva voluto vedere il sole per l'ultima volta e spirare guardando il
cielo.

È sì triste morire fissando un soffitto di legno!

Da tre anni, il mio amico deperiva. Era sempre malinconico, sovente
cupo. Non sorrideva più. Parlava pure raramente, evitando ogni memoria
del passato. Non volle vedere nessuna delle sue antiche conoscenze. Solo
Maria di Magdala gli scrisse tre o quattro volte, implorando che la
lasciasse venire a raggiungerlo a Roma. Il mio amico, vivamente
commosso, profondamente tocco, le rispose, ma le ingiunse di restare
nella Siria. Un uomo però fu da lui ricevuto: un certo Saul da Tarso,
uomo di spirito elevato, ma panneggiato di roffia ed entusiasta. Costui
vide due volte il mio amico e conversò con lui da solo a solo
lungamente. Poi più nessuno, più nulla. Il mio amico viveva in una tomba
in mezzo al mondo vivente.

Egli non godeva della creazione che per buffi; talvolta un'alba
splendida, talvolta un tramonto malinconico, talvolta un chiaro di luna
inebbriante, un fiore di qui, di là una carezza di quella buona Noah o
una dolce parola della mia eccellente sorella, la quale l'amava come la
mi amava — vale a dire come dieci madri! Ora il momento fatale era
arrivato. L'olio della lampada era consumato fino all'ultima goccia: la
vita era usata.

Io aveva chiamato dei medici greci ed asiatici. Nessun d'essi non aveva
trovato la benchè minima cosa per involare un'ora alla clepsidra del
tempo. Avevo comperato dei filtri alle _sagas_; i loro beveraggi avevano
invece forse affrettata la catastrofe. Il mio amico si era prestato a
tutto per compiacermi, ma fino dal primo giorno, mi aveva dichiarato che
la sua vita era stata estinta, e che lo smagamento ed il disinganno lo
uccidevano.

Il disinganno! Quanti grandi spiriti non furono spenti da questa
spaventevole ed incurabile malattia!

Il mio povero amico non era più riconoscibile. Del suo sembiante così
accentuato, non restavano più che gli occhi, quantunque il loro
splendore così mobile, così potente, così diverso, fosse estinto.

Le sue mani erano agghiadate, il pallore della sua fronte principiava a
divenir livido. Il suo cuore non si udiva più battere. Il suo alito si
spegneva. La morte lo invadeva. Pure riconobbe Pilato, quando questi,
entrando, venne a porsi dinanzi a lui. L'amico mio sentì un lampo di
vita traversargli la persona. I suoi occhi brillarono, aprendosi in
tutta la loro grandezza. Potè dire, tentennando leggermente del capo:
Grazie! Poi l'immagine d'Ida rizzandosi forse nella sua anima, e'
s'offuscò, nascose il viso nel seno di Noah, e vi restò assorbito per
due minuti. Pilato non osò aprir bocca.

Il mio amico sapeva ciò che quest'uomo, brusco ma buono, aveva fatto.

Finalmente il mio amico alzò il capo e lo rivolse verso il sole.

— Dio mio! come la luce è bella! e' sclamò!

E restò coi grandi occhi aperti fissi sul cielo.

Ma poco a poco noi vedemmo quegli occhi oscurarsi, le pupille
restringersi, le palpebre ricadere. Un soffio leggero si sprigionò dalla
sua bocca, questa si rischiarò d'un sorriso, la testa s'inchinò sul suo
petto....

Egli era morto.



NOTE



Nota A.


Il Talmud, capitolo VI, Sanhedrin, parla della lapidazione di un Gesù di
Nazareth convinto di magia, di seduzione e di corruzione dei suoi
correligionari. Al capitolo seguente si trova menzionato un altro Gesù
figlio di Pandira e di Maria, crestaia, moglie di Studa, ovvero di una
certa Stada moglie di Papus, figlio di Iehuda. Questa Maria era di Lydda
e visse circa 70 anni dopo Maria, madre del Gesù dei cristiani. Gli è
questo il Gesù che, ci dice Raban Maur, i Giudei maledicevano in tutte
le loro preghiere come empio, figlio di un empio, il pagano Pandera, e
dell'adultera Maria. Infine, un terzo Gesù, dugento anni circa innanzi
il Cristo, aveva, dicono gli Ebrei, istituita l'idolatria della croce.
(_Disputat. R. Jachiel cum Nicol._ apud _Wagenseil Tela ignea Satanae_,
p. 16 ad 21. — _Raban Maur_, lib. _contra Judaeos_, n. 40, apud
_Chifflet, Int. scriptor. veter. de fid. cathol._, p. 333).

Il libro del _Toldos Jeschuà_ dà molti altri ragguagli. Eccone un
estratto.

Wagenseil, ove noi gli abbiamo attinti, avverte che Raymond Martin, nel
suo _Pugio fidei_, ne aveva già dato dei brani alquanto diversi da
quelli che egli pubblica. Ma le citazioni di questo libello fanno
stomaco. Le tralascio per ciò, come pure tralascio di riassumere
l'_Istoria di Jeschua di Nazareth_ di J. J. Huldrie, che si può leggere
in Potter, _Hist. du Christ_, ed altri documenti curiosi pubblicati a
Lipsia da Constantinus Tischendorff: _Evangelia apocrypha_, ecc. Traduco
invece dal Fabricius: _Codices apocryph. novi Testam._, i brani seguenti
del Protoevangelio attribuito a S. Giacomo. Le anime pie me ne sapranno
forse grado.


VIII.

Maria era come una colomba allevata nel tempio del Signore e riceveva il
suo nutrimento dalle mani di un angelo. Quando ella ebbe dodici anni, si
tenne (nel tempio del Signore) un consiglio di sacerdoti, dicendo: Ecco
che Maria ha dodici anni nel Tempio del Signore, che le faremo, onde
allontanare la paura che la santificazione del Signore nostro Dio non
sia maculata? Ed i sacerdoti dissero a Zaccheria: Principe dei
sacerdoti, presentatevi all'altare del Signore e pregate per lei; e
quello che Dio ci avrà manifestato, noi lo faremo. Ed il principe dei
sacerdoti avendo rivestita la sua lunga tunica a dodici campanelli,
entrò nel santo dei santi, e pregò per lei. Ed ecco che l'angelo del
Signore si presentò dicendogli: Zaccheria, Zaccheria, esci e convoca i
vedovi del popolo e ch'essi portino ciascuno una verga[52], e la sarà
donata in guardia per moglie a colui a cui Dio avrà mostrato un segno.
Ora, dei banditori pubblicarono questo avviso in tutte le regioni della
Giudea, la trombetta del Signore suonò[53], e tutti accorsero.

  [52] NUM., cap. XVII.

  [53] LEVIT., cap. XXV, v. 9.


IX.

Ora, Giuseppe avendo gittata la sua accetta, uscì loro davanti, ed
essendosi assembrati, e' se ne tornarono al gran sacerdote dopo aver
preso le loro verghe. Il gran sacerdote ricevendo queste verghe dei suoi
banditori, entrò nel Tempio e pregò. L'orazione terminata, prese le
verghe ed uscì. Allora le rese ad ognuno di loro, ma alcun segno non
apparve. Giuseppe ricevè l'ultima verga, ed ecco che una colomba scappa
fuori da essa e vola sul capo di Giuseppe. Ed il gran sacerdote gli
dice: Voi siete scelto dalla sorte divina per prendere in guardia in
casa vostra la vergine del Signore. E Giuseppe si scusa dicendo: Ho dei
figli e son vecchio, ed ella è giovane; quindi temo addivenir ridicolo
agli occhi dei figli d'Israello. Ma il gran sacerdote risponde: Temete
il Signore vostro Dio e risovvenitevi quali grandi cose fece Dio[54]
contro Dathan, Abiron e Corè, e come la terra si aperse e li ingoiò a
causa della loro contraddizione. Temete dunque Iddio adesso, Giuseppe,
onde queste cose non avvengano in casa vostra. Giuseppe atterrito,
ricevè la vergine e le disse: Maria, ecco che io prendovi nel Tempio del
Signore e vi lascio a casa. Vado per esercitare la professione di
carpentiere (e ritornerò a voi). E che il Signore vi conservi (ogni dì).

  [54] NUM., cap. XVI.


X.

Ora, e' si tenne un consiglio di sacerdoti dicendo: Facciamo un velo (o
tappeto) pel Tempio del Signore. Il principe dei sacerdoti disse: Fatemi
venir delle vergini senza macchia, delle tribù di Davide. Si misero in
cerca. Ne trovarono sette. Il principe dei sacerdoti si risovvenne di
Maria, anch'ella della tribù di Davide e non per anco contaminata. Il
principe disse: Tirate a sorte a chi di voi filerà del filo d'oro (di
amianto) e di lino sottile (e di seta) e di giacinto, e di scarlatto, e
della vera porpora. E Zaccheria si ricordò di Maria della tribù di
Davide; e la vera porpora (e lo scarlatto) cadde a lei per sorte, ed
(avendoli ricevuti) se nè tornò a casa. Ora in quel tempo Zaccheria
perdè la parola[55]. Samuele prese il suo posto fino a che Zaccheria non
ricominciò a parlare. Maria avendo ricevuto la porpora (e lo scarlatto)
filò.

  [55] LUC. cap. I, v. 20.


XI.

Ed avendo preso un'anfora, uscì ad attinger l'acqua[56]. Quand'ecco una
voce che le dice: Vi saluto, piena di grazie[57]; il Signore è con voi;
voi benedetta fra tutte le donne. Maria guardò a dritta ed a manca per
scorgere donde quella voce venisse. Poi tutta tremante tornò a casa e
lasciò l'anfora, ed avendo presa la porpora, si assise alla sua sedia
per lavorare. Ed ecco che l'angelo del Signore se le presenta e le dice:
Non temete, Maria, voi avete trovato grazia appo il Signore. Ed
ascoltandolo, Maria pensava fra sè: Concepirò per il Dio vivente e
partorirò come ogni donna che genera? E l'angelo: E' non sarà così,
Maria! lo Spirito Santo verrà su voi e la virtù di Dio vi coprirà della
sua ombra. Ed ecco perchè il santo che da voi nascerà[58] sarà chiamato
il figlio del Dio vivente. Gli darete il nome di Gesù, perchè sarà desso
che salverà il suo popolo dai peccati di lui. Ed ecco pure che la vostra
cugina Elisabetta ha concepito un figliolo nella sua vecchiezza, e
questo è il sesto mese per lei che era addimandata _sterile_, perciocchè
tutto quanto io vi dico, non sarà impossibile per Dio. E Maria: Ecco la
serva del Signore; che sia fatto secondo la vostra parola.

  [56] _Genes._, cap. XXIV, v. 15.

  [57] LUC., cap. I, v. 28.

  [58] LEVIT., cap. I, v. 35.


XII.

Ed avendo terminato la porpora e lo scarlatto, li portò al gran
sacerdote. E' la benedisse e disse: O Maria, il vostro nome è
magnificato e sarete benedetta in tutta la terra. Maria avendo concepita
una grande gioia, se ne andò ad Elisabetta sua cugina e picchiò alla
porta. Elisabetta, intendendola, accorse, aperse e le disse[59]: Donde
dunque mi capita questa fortuna che la madre del mio Signore venga a me?
imperciocchè quello che è in me, ha trasalito e vi ha benedetto. Ora[60]
Maria ignorava ella stessa questi misteri di cui l'arcangelo Gabriele le
aveva parlato. E guardando il cielo le disse: Chi sono io perchè tutte
le generazioni mi dicano così avventurata? Ma di giorno in giorno il suo
ventre ingrossava, e, presa da paura, Maria se ne tornò in sua casa e si
nascose dai figli d'Israele[61]. Ella aveva sedici anni quando questo
mistero s'operò.

  [59] LEVIT., cap. I, v. 43.

  [60] Id., cap. II, v. 33-50.

  [61] Id., cap. I, v. 24.


XIII.

A capo del sesto mese, ecco che Giuseppe ritornò dai suoi lavori di
carpentiere, ed entrando in casa sua vide incinta Maria. Col viso
abbattuto (e' si gettò per terra e pianse amaramente) dicendo: Di qual
fronte oserò guardare io il Signore Iddio? quale preghiera farò io per
questa piccola creatura che ricevei vergine dal Tempio del Signore Iddio
e non l'ho guardata? Chi mi ha ingannato? Chi ha fatto questo male in
casa mia? Chi ha cattivata e sedotta la vergine? Non mi è avvenuta una
storia simile a quella di Adamo? perchè all'ora della sua gioja il
serpente entrò, trovò Eva sola e la sedusse? Sì, sì, simile cosa emmi
arrivata. E Giuseppe risorse di terra, ed avendo presa Maria, le disse:
O voi che eravate così gradita al Signore, perchè avete voi fatto ciò ed
avete obliato il vostro Dio, voi ch'eravate stata allevata nel santo dei
santi? Perchè avete voi avvilita l'anima vostra, voi che ricevevate il
vostro nutrimento dalle mani degli angeli?[62] Perchè avete fatto ciò?
Ma ella piangeva amaramente dicendo: Io sono pura; io non ho conosciuto
alcun uomo. E Giuseppe di rimando: E donde vi viene dunque codesto che
avete nel seno? Maria rispose: Il Signore mio Dio è vivente: io ignoro
donde questo mi venga.

  [62] LUC., cap. VII.


XIV.

E Giuseppe, affatto interdetto, persisteva nel suo pensiero: Che mi farò
io di lei? Poi dicevasi in fra sè: Se nascondo il suo peccato, io sarò
trovato colpevole nella legge del Signore[63]; se la denunzio agli occhi
dei figli d'Israello, temo che ciò non sia giusto e che non trovino che
io consegno il sangue innocente ad un giudizio di morte. Che farò dunque
di lei? Certo, io l'abbandonerò di nascosto. La notte lo sorprese. Ed
ecco che l'angelo del Signore gli apparisce in sogno dicendogli: Non
temere di ricevere codesta giovinetta, perocchè ciò che è nato in lei è
dello Spirito Santo: ella partorirà dunque un figliuolo, e tu gli darsi
il nome di Gesù, perchè sarà desso che salverà il suo popolo dai suoi
peccati. Giuseppe si alzò dopo questo sogno, e glorificò il Dio
d'Israello che avevagli fatto questa grazia. E tenne seco la fanciulla.

  [63] DEUT., cap. XXII, v. 13.


XV.

Ora, lo scriba Annas venne a Giuseppe e gli disse: Perchè non avete voi
assistito all'assemblea? E Giuseppe: Ero stanco del viaggio e mi sono
riposato il primo dì. Ed essendosi vôlto, lo scriba vide Maria incinta.
E' se ne andò correndo al prete, e disse: Giuseppe, che voi avete
garantito, ha peccato gravemente. Ed il prete: Cosa è dunque? E lo
scriba: Ha contaminata la vergine che aveva ricevuta dal Tempio, ha
celate le sue nozze e non le ha dichiarate ai figli d'Israele. Il
principe dei preti rispose: Giuseppe ha fatto ciò? E lo scriba Annas a
ripetere: Mandate dei ministri e la troveranno incinta. I ministri
andarono infatti e trovarono vero il detto dello scriba. Essi condussero
con loro Maria e Giuseppe al giudizio. Il prete disse: Maria, perchè
avete voi fatto ciò? perchè avete voi avvilita l'anima vostra ed avete
obliato il Signore vostro Dio, voi ch'eravate stata allevata nel santo
dei santi, che avevate ricevuto il vostro cibo dalla mano dell'angelo,
che avete udito i suoi misteri (ed avete palpitato di gioia alla sua
presenza): perchè avete voi fatto ciò? Ma ella piangeva amaramente
dicendo: Ne attesto il Dio vivente! sono pura alla presenza del Signore,
non giacqui con uomo. Il prete disse a Giuseppe: Perchè avete voi fatto
ciò, voi? E Giuseppe: Il Signore Dio è vivente (ed il suo Cristo[64] è
vivente) perchè io sono puro di lei. Ed il prete di nuovo: Non dite una
falsa testimonianza[65] ma il vero: voi avete nascoste le sue nozze e
non manifestate ai figli d'Israele; e non avete inclinata la vostra
testa sotto la mano onnipotente[66] affinchè la vostra razza fosse
benedetta. Giuseppe si tacque.

  [64] SAMUEL., cap. XII, v. 3-5

  [65] ESOD., cap. XX, v. 14.

  [66] PIET., _Epis._, cap. V, v. 6.


XVI.

Il prete riprese: Restituite la vergine che avete ricevuto dal Tempio.
Giuseppe ruppe in lagrime. Ed il prete: Vi farò bere dell'acqua del
convincimento[67] ed il vostro peccato sarà manifesto ai vostri propri
occhi. Ed il prete avendo preso di quell'acqua, ne diede a bere a
Giuseppe e lo mandò nelle montagne e ne ritornò sano. (Ne diede a bere
anche a Maria cui mandò pure nelle montagne donde ritornò sana
anch'ella.) E tutto il popolo ammirò che il peccato non si fosse in loro
manifestato. Il prete disse: Dio non ha manifestato il vostro peccato,
io non vi giudico. E li rimandò assoluti. Giuseppe avendo ricevuto
Maria, se ne ritornò a casa gaudioso e glorificando il Dio d'Israello.

  [67] NUM., cap. V, v. 18.


XVII.

Ora, si pubblicò un decreto di Augusto Cesare per fare iscrivere tutti
coloro che erano a Bethleem[68]. Giuseppe disse: Avrò cura di far
iscrivere i miei figliuoli, ma che farò di questa giovinetta? (Come la
iscriverò io?) la iscriverò come mia moglie? (Ella non è mia moglie
perchè l'ho ricevuta dal Tempio per conservarla) come mia figlia? Ma
tutti i figli d'Israele sanno ch'ella non lo è. Che ne farò io dunque?
Sicuro, il giorno del Signore, farò come il Signore vorrà. E Giuseppe
sellò un'asina e la fece cavalcare su quella. Ora Giuseppe[69] e Simone
seguivano a tre miglia. E Giuseppe volgendosi vide che Maria era triste
e disse tra sè: forse ciò che è in lei l'affligge. Poi volgendosi una
seconda volta la vide ridere, e soggiunse: Cosa è Maria, che la vostra
faccia è ora gaia, ora malinconica? E Maria a Giuseppe: Gli è che io
veggo dinanzi agli occhi miei due popoli[70], l'uno che piange e geme,
l'altro che sussulta di gioia e ride. Giunti a mezza via, Maria gli
disse: Scendetemi dall'asina, quegli che è in me fa ressa per uscire.
Giuseppe la discese dall'asina e le disse: Ove vi condurrò io poichè il
luogo è deserto? Ora, Maria disse ancora una volta a Giuseppe:
Conducetemi, portatemi via, quegli che è in me fa estremamente premura.
E subito e' la portò via.

  [68] _Luc._, cap. II, v. 1.

  [69] MARCO cap. VI, v. 3. Questo Giuseppe è altresì nominato Josè,
  ed i quattro fratelli di Gesù sono Giacomo, Giuseppe, Giuda e
  Simone.

  [70] _Genes._, cap. XXV, v. 23.


XVIII.

E trovando quivi una caverna, ve la fece entrare e la lasciò in custodia
a suo figlio, mentre egli andava in cerca di una levatrice ebrea nelle
regioni di Bethleem. Ora, come Giuseppe era in cammino, egli vide il
polo, o il cielo a fermarsi, l'aria tutta interdetta, e gli uccelli del
cielo arrestarsi a metà del loro corso. E guardando la terra, scorse una
pentola di carne preparata, e degli operai assisi a tavola, le mani
nella pentola; e masticando, e' non masticavano nulla, e quei che
portavano le mani al capo non vi prendevano nulla, que' che le
presentavano alla bocca non vi portavano niente, ma le facce di tutti
erano intente verso il cielo. Ed ecco che delle pecore si erano disperse
(non avanzavano punto), ma stavano ferme. Ed il pecoraio levando la mano
per percuoterle della sua verga, la mano restò tesa in alto. E guardando
nel torrente, vide il muso dei becchi approssimato alla verità
dell'acqua ma non bere; (infine, ogni cosa, in quel momento, stornata
dal suo corso).


XIX.

Ed ecco che una donna, scendendo dalla montagna, gli dice: Vi dimando,
uomo, ove andate voi? E Giuseppe: Cerco una donna levatrice ebrea. Ed
ella: Siete d'Israele, voi? Sì, risponde Giuseppe. E colei: Chi è dunque
la donna che partorisce nella caverna? — È la mia fidanzata. — Non è
dunque la vostra moglie? — E Giuseppe: Non è mia moglie, ma Maria,
allevata nel santo dei santi al Tempio; la mi cadde in sorte, ed ha
concepito per lo Spirito Santo. — E la levatrice a riprendere: È ciò
vero? — Venite e vedete, sclamò Giuseppe. La levatrice andò con lui. Si
fermò innanzi la caverna. Ed ecco un nugoletto luminoso ombreggiava la
caverna. La levatrice gridò: Oggi l'anima mia è stata magnificata,
poichè i miei occhi hanno visto delle cose stupende ed il salvamento è
nato in Israello. Ora, di un tratto il nugoletto penetra nella caverna,
e con esso una sì grande luce che gli occhi non la potevano tollerare.
Poco a poco però la luce si moderò, di guisa che si potè scorgere il
bambino che prendeva le mammelle di sua madre, Maria. La levatrice
gridò: Questo di oggidì è un gran giorno per me, perchè ho visto un così
grande spettacolo. Ella uscì dalla caverna ed incontrò Salomè a cui
disse: Ho un grande spettacolo a raccontarvi; una vergine ha concepito
colui che la natura sua non comporta (e questa vergine è restata
vergine). E Salomè: Per il Signore Iddio vivente! se io non esamino la
sua natura, non crederò che la ha partorito.


XX.

La levatrice entrò e disse a Maria: Coricatevi, perchè una grande prova
si prepara per voi. E quando Salomè l'ebbe toccata nel luogo proprio,
uscì gridando: Sventurata me, empia e perfida, perchè ho tentato il Dio
vivente, ed ecco che la mia mano (bruciante di fuoco) cade dal mio
braccio. Poi ella si genuflettè innanzi a Dio e disse: Dio dei padri
nostri, sovvengavi di me, perchè io mi sono della razza di Abramo, di
Isacco e di Giacobbe; io non mi disonorerò innanzi ai figli d'Israello;
ma restituitemi ai miei parenti; perchè voi sapete, Signore, che gli era
in vostro nome che io adoperavo tutte le mie cure (e le mie vocazioni) e
da voi ricevevo la mia ricompensa. Allora l'Angelo del Signore si
presenta a lei e dice: Salomè, Salomè, il Signore vi ha esaudita;
presentate la vostra mano al bambino e portatelo; egli sarà per voi
salute e gioia. Salomè si avvicinò e lo portò, dicendo: L'adorerò perchè
è desso il gran re nato in Israello. Ed avendo portato l'infante, di un
tratto Salomè fu guarita, e la levatrice uscì dalla caverna
giustificata. Ed ecco che una voce le dice: Non annunziate le grandi
cose che avete viste fino a che il bambino non entri in Gerusalemme. E
Salomè si ritirò giustificata.



Nota B.


Ciò che segue è estratto dal Vangelo di Nicodemo, o attribuito a questo
discepolo, che attestò principalmente la passione e la resurrezione del
rabbì di Nazareth. Egli non è naturalmente d'accordo con Giuda. Noi
avremo date per tal modo le due versioni; il lettore sceglierà, secondo
il suo spirito.


I.

Perchè Annas, e Chaiphas, e Summas, e Batam, Gamaliel, Judas, Levi,
Nephtalim, Alessandro e Ciro, e gli altri Giudei vennero verso Pilato, a
proposito di Gesù, accusandolo di parecchie cattive azioni e dicendo:
Noi sappiamo che Gesù è figlio di Giuseppe il carpentiere, nato di
Maria, ed e' dice ch'è figlio di Dio[71], e re, e non solo dice ciò ma
vuole abolire il sabbato[72] e la legge dei padri nostri. I Giudei gli
dicono: Noi abbiamo per legge di non guarire altrui in dì di sabbato;
ora, egli ha guarito zoppi, sordi, paralitici, leprosi, ciechi,
demoniaci, per mezzo di cattive pratiche. Pilato disse loro: Come, per
mezzo di cattive pratiche? Essi risposero: Sì, egli è mago, ed è per
mezzo del principe dei demoni ch'egli scaccia i demoni e che questi gli
sono tutti sommessi[73]. Pilato osservò: Non è possibile cacciar via i
demoni per mezzo dello spirito immondo, ma per la virtù di Dio[74]. I
Giudei gli risposero: Noi preghiamo Vostra Grandezza che lo facciate
comparire innanzi al vostro tribunale e lo interroghiate. Ora, Pilato,
chiamando un cursore gli domandò: Per qual modo si può condurre il
Cristo qui? Il cursore uscì, lo riconobbe, l'adorò, e stese per terra un
mantello ch'ei portava al braccio, dicendo: Signore, camminatevi sopra,
entrate, perchè il governatore vi chiama. Ma i Giudei, vedendo ciò che
il cursore aveva fatto, se ne lamentarono a Pilato dimandandogli: Perchè
non gli avete voi fatto intimazione per usciere anzi che per un cursore?
Questi, vedendolo, lo ha adorato, ha steso il suo mantello per terra.
Pilato chiamò il cursore e chiese: Perchè avete voi fatto ciò? Ed il
cursore: Quando mi mandaste di Gerusalemme ad Alessandria[75], io vidi
Gesù cavalcare un'umile asina e gli Ebrei a gridargli dietro: _Hosanna!_
tenendo dei rami nelle loro mani; poi altri spiegavano le loro vesti
sulla via e dicevano: Salvateci voi che siete nel cielo, benedetto sia
colui che viene nel nome del Signore. I Giudei gridarono dunque contro
il cursore osservando: Gli è vero, i figli degli ebrei gridavano in
ebreo; ma voi, che siete greco, come mai comprendevate la lingua degli
ebrei? Il cursore rispose: Interrogai qualcuno dei Giudei chiedendo:
Cosa dunque quei figliuoli gridano in ebraico? e' me lo spiegò dicendo:
gridano _Hosanna!_ ciò che vuol dire: Signore rendete santo, ovvero
Signore, salvate. Pilato obbiettò loro: E voi, perchè attestate voi le
parole che quei fanciulli dissero? in che il cursore ha peccato? E' si
tacquero. Il governatore ordinò al cursore: Uscite, e di qualunque
maniera siasi, fatelo entrare. Il cursore uscì, fece come la prima volta
e disse: Signore, entrate, il governatore vi appella.

  [71] MATT., c. X. v. II; MARC., c. XV. v. 2; LUCA, c. XXIII, v. 2.

  [72] MATT., c. XII; LUC., cap. XIII, v. 18; GIOV., cap. V, v. 18.

  [73] MATT., cap. IX. v. 34, e cap. XII, v. 14; LUCA, cap. X, v.
  17.

  [74] MATT., cap. XII, v. 13; LUCA, cap. II, v. 2.

  [75] ACT., cap. IV, v. 6.

Gesù entrò e si avvicinò ai portastendardo che tenevano i loro pennoni.
Le loro teste s'inchinarono ed adorarono Gesù. I Giudei gridarono sempre
più, contro i portabandiera adesso. Ora Pilato disse ai Giudei: Voi non
approvate che le sommità degli stendardi si siano curvate da sole ed
abbiano adorato Gesù. Ma come gridate contro i portabandiera perchè si
sono bassati e l'hanno adorato? Essi risposero: Noi abbiamo visti i
porta insegne curvarsi ed adorare Gesù. Pilato chiamò costoro e chiese:
Perchè avete voi fatto ciò? I portainsegne risposero: Noi siamo pagani e
servitori dei tempj; come potevamo noi adorarlo? Ma come noi tenevamo i
nostri pennoni, questi si sono inclinati e lo hanno adorato. Pilato
disse ai capi della sinagoga: Scegliete voi stessi degli uomini forti,
ch'essi tengano gli stendardi, e vediamo se questi si curvano da sè
soli. Gli anziani dei Giudei vedendo dodici uomini ben vigorosi, diedero
loro gli stendardi e li fecero comparire avanti al governatore. Pilato
ordinò al cursore: Fate uscire Gesù e fatelo rientrare come vorrete.
Gesù ed il cursore uscirono dal pretorio. Pilato chiamò i primi porta
insegne, giurando loro per la salute di Cesare, che se e' non tenessero
fermi gli stendardi quando Gesù entrerebbe, farebbe loro tagliare la
testa. Ed ordinò che Gesù rientrasse. Il cursore fece come la prima
volta e pregò Gesù di camminare sul suo mantello. Gesù entrò, camminò su
quello, e gli stendardi si curvarono e l'adorarono.


II.

Pilato, vedendo ciò, fu preso da terrore, e volle alzarsi dal suo
seggio. Ma come e' pensava a ciò fare, la sua sposa, che era lontano,
mandogli a dire: Non vi mischiate di codesto giusto[76]; perocchè io ho
molto sofferto in sogno la scorsa notte, a causa di lui. I Giudei,
udendo ciò, dissero a Pilato: Non vi avevamo noi prevenuto ch'egli è
mago? Ecco che egli ha mandati dei sogni a vostra moglie. Pilato chiamò
Gesù e gli disse: Udite voi ciò che e' depongono contro di voi? e voi
tacete? Gesù rispose: S'e' non avessero facoltà di parlare, non
parlerebbero. Ma perchè ciascuno ha il potere di parlare, bene o male,
essi vedranno. Gli anziani dei Giudei dimandarono: Cosa vedremo noi? La
prima cosa che abbiamo visto di voi, gli è che voi siete nato dalla
fornicazione. Poi, che alla vostra nascita, i fanciulli di Betleem sono
stati trucidati. In terzo luogo, che vostro padre e vostra madre Maria
se la svignarono in Egitto perchè non avevano confidenza nel popolo.
Qualcuno dei Giudei presenti, che pensavano bene, soggiunsero: Noi non
diciamo che egli è nato dalla fornicazione; codesto discorso non è vero,
perchè il matrimonio fu compiuto, come lo attestano persone stesse della
nostra nazione. Annas e Caiphas dissero a Pilato: Bisogna ascoltare la
moltitudine che grida ch'egli è nato dalla fornicazione ed è mago.
Coloro che negano ciò, sono suoi proseliti e suoi discepoli. Pilato
domandò a Annas ed a Caiphas: Quali sono codesti proseliti? Risposero:
E' dicevano or ora ch'erano pagani, ed eccoli di un tratto divenuti
giudei. Elièzer, Asterius, Antonio, Giacomo, Cyrus, Samuel, Isaac,
Phinees, Crispus, Agrippa, Annas e Giuda risposero a volta loro: Noi non
siamo proseliti, ma figli di Ebrei ed attestiamo la verità, perchè
abbiamo assistito al matrimonio di Maria. Ora, Pilato, volgendo la
parola ai dodici uomini che avevano ciò detto, disse: Ve ne scongiuro
per la salute di Cesare, è costui nato dalla fornicazione? ciò che voi
dite è vero? Essi risposero: Noi abbiamo per legge di non giurare perchè
ciò è peccato; ma che costoro giurino essi per la salute di Cesare che
noi abbiamo mentito, e noi ci dichiariamo colpevoli di morte. Annas e
Caiphas osservarono: Codesti dodici non ci crederebbero; ma noi sappiamo
che il rabbì è nato dal delitto ed è mago. Egli dice inoltre esser
figlio di Dio e re, ciò che noi non crediamo, e perfino temiamo di
udire. Pilato fece uscire tutti, eccetto i dodici che attestavano non
essere il rabbì nato da fornicazione, fece tirar da parte anche costui,
e dimandò loro: Per quale ragione i Giudei vogliono far morire Gesù? I
dodici risposero: Il loro zelo proviene da che il rabbì guarisce in
giorno di sabbato. E Pilato: Gli è dunque per un'opera buona che
vogliono dargli la morte? Sì, signore, sclamarono i dodici.

  [76] MATT., c. XXVII, v. 19.


III.

Pilato uscì allora dal pretorio e disse agli Ebrei, con grande collera:
Prendo la terra a testimonio, che io non trovo colpa in questo uomo. I
Giudei risposero: Se e' non fosse un malfattore, non ve lo avremmo
menato qui. E Pilato: Prendetelo dunque e giudicatelo secondo la vostra
legge. I Giudei fecero osservare: Non ci è permesso di mettere alcuno a
morte. Pilato disse ai Giudei: La vostra legge vi dice dunque: non
uccidete[77]: non è lo stesso di me? Ed entrando per la seconda volta
nel pretorio, Pilato fece venir Gesù solo e gli chiese: Siete voi il re
dei Giudei? Gesù rispose: Dite voi ciò da voi stesso o altri ve lo hanno
detto di me? Pilato sclamò: Sono Giudeo io forse? La nazione ed il
principe dei sacerdoti mi vi hanno consegnato. Cosa avete voi fatto? E
Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se lo fosse, i miei ministri
avrebbero resistito e non sarei stato gittato ai Giudei; ma ora il mio
regno non è qui. Pilato chiese: Voi siete dunque re? Gesù rispose: Voi
dite che io sono re. Poi soggiunse: Io sono nato in ciò, sono nato per
ciò, per ciò son venuto, vale a dire, per rendere testimonianza alla
verità; e chiunque appartiene alla verità ode la mia voce. Pilato
chiese: Cosa è dunque la verità? E Gesù: La verità è del cielo. La
verità non è dunque sulla terra? osservò Pilato. E Gesù: Fate attenzione
che la verità è sulla terra fra coloro che mentre hanno il potere di
giudicare, si servono della verità e rendono giuste sentenze.

  [77] ESOD., cap. XX, v. 15.


IV.

Pilato lasciò Gesù nel pretorio, uscì fuori verso i Giudei e disse loro:
Io non trovo una colpa sola in Gesù. I Giudei gli rammentarono: Egli ha
detto[78]: Io posso distruggere il Tempio di Dio e rifabbricarlo in tre
dì. Pilato domandò: Di qual Tempio parla desso? I Giudei risposero: Di
quello cui Salomone edificò in quarantasei anni[79]; ed egli ha detto
_che egli può_ distruggerlo e rialzarlo in tre dì. Pilato replicò: Io
sono innocente del sangue di quest'uomo; voi vedrete. Ed i Giudei:
Ebbene, che il suo sangue _sia_ su noi e sui nostri figliuoli. Pilato
chiamò gli anziani e gli scribi, i preti ed i leviti ed in segreto disse
loro: Non fate ciò: io non ho trovato nulla degno di morte nella vostra
accusa in quanto alla guarigione dei malati e la violazione del sabbato.
I preti ed i leviti risposero: Per la salute di Cesare, se qualcuno ha
bestemmiato[80] è degno di morte. Ora, costui ha bestemmiato contro il
Signore. Il governatore fece uscire una seconda volta i Giudei dal
pretorio e richiamando Gesù, gli disse: Che ho a fare di voi? Gesù
rispose: Come sta detto. E Pilato: Come è dunque detto? Gesù gli
apprese: Mosè ed i profeti hanno annunziato la mia passione e la mia
risurrezione. Quando i Giudei appresero ciò ne furono grandemente
irritati, e sclamarono: Volete voi dunque udire più oltre le bestemmie
di codesto uomo? Pilato disse: Se questo discorso vi sembra una
bestemmia, prendetevelo, citatelo alla vostra sinagoga e giudicatelo
secondo la vostra legge. I Giudei risposero: La nostra legge decide che
se un uomo pecca contro un uomo egli merita ricevere quaranta _colpi_
meno uno[81]; ma se ha bestemmiato contro il Signore, di essere
lapidato. Pilato soggiunse: Se questo discorso è una bestemmia,
giudicatelo voi stessi secondo la vostra legge. I Giudei continuarono:
La nostra legge ci ordina di non uccidere alcuno[82]. Noi vogliamo
ch'egli sia crocifisso, perchè è degno della croce. E Pilato: Non è bene
che sia crocifisso; ma castigatelo e rinviatelo[83]. Ora il governatore
guardando al popolo giudeo che lo circondava vide taluni piangere. Ei
disse al principe dei sacerdoti: Tutta la moltitudine non desidera la
sua morte. Gli anziani invece osservarono: Noi e tutta la moltitudine
non siamo venuti qui che per domandare ch'egli muoia. E Pilato: Perchè
morrebbe egli? Ed essi: Perchè si dice figlio di Dio e re.

  [78] GIOV., cap. II, v. 20.

  [79] Si trova lo stesso numero nel vangelo di SAN GIOVANNI, cap.
  II, v. 20, quantunque Salomone l'abbia fabbricato in soli sette
  anni, lib. III. _Reg._, c. VI, v. 38, e sia stato riedificato da
  Erode in nove anni e mezzo. GIUS., _Antich._, lib XV, cap. XIV.

  [80] LEVIT., cap. XXIV, v. 16; DEUT., cap. XIII, v. 10.

  [81] II, _Corint._ cap. XI, v. 24.

  [82] ESOD., c. XX, v. 15.

  [83] LUCA, cap. XXIII, v. 16.


V.

Ora, un certo Nicodemo, giudeo, si presentò innanzi al governatore e
disse: Vi prego, giudice misericordioso, che vogliate ascoltarmi un
istante. Pilato rispose: Parlate. E Nicodemo: Sono io che ho detto agli
anziani, agli scribi, ai sacerdoti, ai leviti ed a tutta la moltitudine
dei Giudei nella sinagoga: che vi volete da quell'uomo? egli fa parecchi
prodigi, buoni e gloriosi, tali che alcun uomo sulla terra non ne fece
mai nè ne farà; licenziatelo e non gli fate alcun male. Se egli è
Dio[84], i suoi prodigi sussisteranno; se è uomo, saranno dissipati.
Avvenne lo stesso quando Mosè, inviato di Dio in Egitto, fece dei
prodigi che Dio gli aveva ordinato di fare innanzi a Faraone re
d'Egitto. Vi erano Jannés e Membrés,[85] maghi. Essi rifecero per
gl'incanti i prodigi fatti da Mosè, ma non tutti; ed i prodigi fatti per
malìa, non essendo di Dio, come voi sapete, voi scribi e farisei,
perirono in una a coloro che li avevano fatti ed a coloro che li avevano
creduti[86]. Lasciate dunque andare codesto uomo, perchè i prodigi di
cui lo accusate sono di Dio, ed e' non è degno di morte. I Giudei
risposero a Nicodemo: Voi siete divenuto suo discepolo e parlate per
lui. Nicodemo replicò: Ed il governatore è anch'egli divenuto suo
discepolo? eppure, egli parla in favore di lui, egli che tiene la sua
dignità da Cesare. I Giudei fremettero, intendendo queste parole,
mostrarono i denti a Nicodemo e dissero: Ricevete da lui la verità ed
abbiatevi il vostro possesso col Cristo. Nicodemo riprese: Sia pure
così, e ch'io lo riceva come voi dite.......

  [84] _Atti_, cap. V, v. 38.

  [85] II, TIMOT, cap. III, v. 8, si legge _Jambres_.

  [86] _Atti_, c. V, v. 37.


IX.

E Pilato facendo venire Nicodemo ed i dodici uomini che avevano detto
che Gesù non era nato dalla fornicazione sclamò: Che farò mai, poichè si
dichiara una sedizione nel popolo? E noi: Non sappiamo; che coloro che
eccitano la sedizione veggano essi stessi. Pilato fece ritornar la
moltitudine una seconda volta e parlò: Voi sapete che è vostro costume,
il giorno degli azzimi[87] che io metta in libertà un prigioniero. Ho un
prigioniero insigne[88] omicida, chiamato Bar Abbas, e Gesù che chiamasi
Cristo nel quale non trovo alcun delitto di morte. Quali di questi due
volete voi che io grazi? Tutti gridarono: Liberate Bar Abbas. E Pilato:
Che farò allora di Gesù detto il Cristo? Ed essi: Che sia crocifisso.
Poi gridarono di nuovo[89]: Pilato, voi non siete l'amico di Cesare se
voi lo assolvete, perocchè egli ha detto esser figlio di Dio e re:
volete voi che sia re costui e non Cesare? Allora Pilato pieno di
collera sclamò: La vostra nazione è sempre stata ribelle e voi vi siete
mostrati nemici a coloro che vi fecero del bene. I Giudei risposero: Chi
sono coloro che si sono mostrati favorevoli a noi? E Pilato[90]: Il
vostro Dio che vi ha tirati dalla dura schiavitù degli Egiziani.........

  [87] GIOV., c. XXIII, v. 39.

  [88] MATT., c. XXVII, v. 16.

  [89] GIOV., c. XIX, v. 12.

  [90] _Atti_, c. VII.


XI.

Il centurione, ritornando al governatore, gli riferì tutto ciò che era
accaduto. E quando il governatore ebbe ciò appreso, ne fu afflitto; e
riunendo tutti i Giudei in una volta disse loro: Avete voi visti i segni
comparsi nel sole e tutti i prodigi avvenuti mentre Gesù moriva? I
Giudei ciò udendo, risposero: L'eclissi è arrivato come di antico
costume. Ora tutti queglino che lo conoscevano si tenevano di lontano,
allo stesso modo che le donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea, e
guardavano le cose. Ed ecco un certo uomo di Arimathie, chiamato
Giuseppe[91], discepolo anch'esso ma di nascosto per paura dei Giudei,
eccolo venire al governatore e pregarlo di permettergli di togliere il
corpo di Gesù dalla croce. Il governatore il permise. Nicodemo arrivò
portando seco un miscuglio di mirra e d'aloe di circa cento libbre. Essi
discesero piangendo, il corpo di Gesù dalla Croce, lo avvolsero in
pannolini con aromi, secondo l'uso di seppellir dei Giudei, e lo misero
in un monumento nuovo che Giuseppe aveva fatto costruire tagliandolo
nella pietra, ove alcun uomo non era stato mai messo. Poi rotolarono una
grande pietra alla bocca della caverna.

  [91] GIOV., c. XIX, v. 38.


XII.

I Giudei ingiusti, apprendendo che Nicodemo aveva dimandato e seppellito
il corpo di Gesù, lo cercavano con gli altri dodici uomini, che avevano
detto Gesù non esser nato dalla fornicazione, e gli altri che avevano
attestato le buone opere del rabbì. Tutti si erano celati per paura,
tranne Nicodemo, che si mostrò loro quando entrarono in sinagoga.......


XIII.

Come tutti ammiravano queste cose, ecco un dei soldati di guardia al
sepolcro che dice nella sinagoga: Mentre noi guardavamo il monumento di
Gesù, un tremuoto ha scossa la terra[92] e noi abbiam visto l'angelo di
Dio. Egli ha rimossa la pietra del monumento, vi si è assiso sopra, ed
il suo sguardo somigliava al fulmine, le sue vestimenta sembravano neve.
Noi siamo divenuti come morti di paura. E l'abbiamo udito dire alle
donne, ravvicinate al sepolcro: Non temete; so che cercate Gesù
crocifisso; egli è risuscitato qui come aveva predetto. Venite,
osservate il sito ove l'avevano allogato, ed andate a dir subito ai suoi
discepoli, ch'egli è risuscitato da morte, che vi precederà in Galilea,
e che sarà quivi che lo rivedrete, come egli vi aveva promesso. I Giudei
fecero venire tutti i soldati che avevano guardato la tomba di Gesù, e
chiesero: Chi sono codeste donne a cui l'angelo ha parlato? Perchè non
le avete arrestate? I soldati risposero: Non sappiamo chi fossero quelle
donne; ma essendo noi divenuti come morti per paura dell'angelo, come
potevamo arrestarle? Ed i Giudei: Pel Dio vivente, noi non vi crediamo.
Ed i soldati: Voi avete udito e visto Gesù fare di sì grandi miracoli e
non credeste; come potreste creder voi? Voi avete detto molto bene: Pel
Dio vivente! sì, il Signore è veramente vivente. Noi abbiam saputo che
avete rinchiuso Giuseppe, che aveva seppellito Gesù, rinchiuso in una
camera di cui avevate suggellata la toppa, e che, aprendola, non ve lo
avete più trovato. Restituiteci Giuseppe cui avete custodito in una
camera e noi vi restituiremo Gesù che noi abbiamo custodito in un
sepolcro. I Giudei risposero: Vi daremo Giuseppe, dateci Gesù. Giuseppe
è nella sua città di Arimathia. Ed i soldati di rimando: Se Giuseppe è
ad Arimathia, Gesù è in Galilea come abbiamo udito dall'angelo
annunziarlo alle donne. I Giudei, udendo ciò, temettero e si dissero:
Coloro che ascolteranno questi discorsi crederanno in Gesù. Essi
raccolsero dunque molto danaro e dandolo ai soldati soggiunsero: Dite
che come voi dormivate la notte, i discepoli di Gesù sono venuti e vi
hanno rubato il corpo. E se ciò sarà raccontato a Pilato noi
risponderemo per voi e vi metteremo in sicurtà. I soldati ricevendo i
danari dissero ciò che i Giudei avevano ordinato ed i loro discorsi si
divulgarono ovunque.

  [92] MATT., c. XXVIII, v. 2.


XIV.

Ora, un certo sacerdote chiamato Phinies, e Ada maestro di scuola, ed un
levita per nome Agèe vennero di Galilea a Gerusalemme e dissero al
principe dei sacerdoti ed a quanti erano in sinagoga: Il Gesù che avete
crocifisso lo abbiamo veduto noi assiso fra i suoi undici discepoli
parlar sulla montagna degli Olivi[93].

  [93] MATT., c. XXVIII, v. 16.

                    *       *       *       *       *

Ma Annas e Caiphas consolandoli dissero: Dobbiamo noi creder forse i
soldati del sepolcro di Gesù? I suoi discepoli li hanno pagati per
rubare il corpo e farli dire che l'angelo aveva rimossa la pietra dal
monumento. Non si deve credere in alcun modo a codesti stranieri, che
hanno ricevuto da noi pure dei denari: ed han ripetuto i nostri detti.
Essi sono fedeli o a noi o ai discepoli di Gesù.


FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.



DEL MEDESIMO AUTORE

  Le notti degli emigranti a Londra              L. 1 —
  Il sorbetto della regina (_Seconda Edizione_)  »  1 —
  Il Re prega                                    »  3 —
  Il Concilio                                    »  1 —



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Sakya-Muni/Sakya-Mouni, Jeschua/Jeschuà e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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