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Title: Memorie di Giuda, vol. I
Author: Petruccelli della Gattina, Ferdinando
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Memorie di Giuda, vol. I" ***


                     F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA


                           MEMORIE DI GIUDA

                             PRIMO VOLUME


                       Seconda Edizione Italiana



                                MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                1883.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA

                         Tip. Fratelli Treves.



SCHIARIMENTO.


_Fabrizio, che raccolse i codici apocrifi del Nuovo Testamento, non
conosceva questo, che fu ritrovato alla fine dell'ultimo secolo tra i
papiri d'Ercolano._

_Se la forma di questo codice ha qualche volta l'aria moderna, la colpa
è mia, che ho voluto mettere alla portata dei miei contemporanei delle
cose così vecchie._

                                                            P. D. G.

  Parigi, gennaio, 1866.



MEMORIE DI GIUDA



I.


Era il 15 del mese di Thisri, la sera della festa dei Tabernacoli, nel
settimo anno del governo di Ponzio Pilato a Gerusalemme.

La città formicolava di forestieri accorsi da tutti gli angoli della
Giudea, della Galilea, della Perea e dell'Idumea, sì dalle città greche
e romane, che dalle rive del mare e dai confini del deserto. Il
movimento raddoppiava da per tutto; la gioja scintillava nelle vie,
sulle piazze, sopra le colline che circondano il promontorio della
città, e rischiarava tutte le fisonomie.

La raccolta dell'uva era stata abbondante.

La si accalcava dunque sul ponte Xistus per venire da Sion al Tempio
sopra il Moriah, e portare l'offerta a Iehovah.

È così facile il ringraziar Dio nella gioja — quando non lo si
dimentica!

Ognuno s'affrettava, giacchè il sole segnava l'ora quinta, e bentosto il
corno di montone avrebbe suonato sulle terrazze del tempio per
annunziare che il sabato era per cominciare.

Una circostanza straordinaria aveva aumentato il concorso degli
stranieri. La moglie del procuratore arrivava da Roma. Il governatore
della Siria, Pomponius Flaccus, aveva lasciato Antiochia, ed era venuto
a Ioppa incontro alla nipote di Tiberio. Pilato aveva ordinato che si
preparassero delle feste al Circo in onore di Claudia sua moglie, e del
governatore.

La città di Gerusalemme aveva inviato a Ioppa una deputazione a fine di
accompagnare la nobile Romana. Pilato nondimeno, che doveva andarvi coi
membri dell'aristocrazia e del sacerdozio Ebreo, all'ultima ora era
caduto ammalato e li aveva lasciati partir soli. Ciò dava da parlare al
popolo; a me ed al Sagan da riflettere. In conseguenza di ciò il solo
punto di Gerusalemme che fosse nel silenzio e nella tranquillità, era
questa vetta di Sion, ove s'ergevano le tre torri, ed il palazzo d'Erode
steso al loro piede.

Eppure i viaggiatori arrivavano all'indomani!

In una camera al secondo piano del palazzo di Hannah quattro persone si
trovavano riunite all'istessa ora; Hannah ed io, sadducei; Moab,
esseniano; Menahem, l'ultimo dei figli di Giuda e di Gamala. Attendevamo
Jesu Bar Abbas, erodiano, e Justus, il fratello della moglie di
Gamaliele, fariseo, figlio di Simeone il rettore del gran collegio,
figlio egli stesso del famoso Hillel.

Nessuno di noi parlava.

Hannah, sotto sembianza di meditare, sonnecchiava.

Moab, sotto sembianza di pregare, accocolato in un angolo digeriva non
so quale disgustoso intingolo di cavallette che aveva inghiottito
qualche ora avanti, e che faceva passare sopra la sua faccia tutti i
colori dell'arcobaleno.

Menahem calmava la sua impazienza di andar a vedere le donne di Sion
alla fontana di Ezechiele, passeggiando pesantemente sopra i quadrelli
di granito della sala del Sagan, come se avesse camminato su i sentieri
da camelli della Galilea, e faceva levare in soprassalto di tanto in
tanto l'ex-gran sacerdote.

In quanto a me, io era in piedi, vicino ad una finestra dirimpetto al
tempio, guardando il sole che, discendendo dietro al Moriah, lo
spolverava di scintille dorate; e pensavo a Maria.

Eppure, noi ci eravamo riuniti colà per una ragione terribile.

Ma l'uomo non è mai così spensierato come negli istanti in cui il suo
destino bilica sopra un abisso. Era colpa mia? Il cielo era così
azzurro! Il Golgota, il monte degli Ulivi, il Gareb, il Bezetha si
panneggiavano nel loro mantello violetto della sera. Quella montagna di
marmo e d'oro che si chiama Moriah, civettava così fastosamente! Il
popolo rideva sì forte dalla strada! Il palombo gemeva sì dolcemente nel
cielo! Il vento autunnale, ancora sì caldo, accarezzava con tanta grazia
il dattero, il sicomoro, l'arancio, l'aloe, l'ulivo, il velo delle
donne, le bianche nuvolette — che non dovevano esser altro che le ali
dei cherubini di Dio, — ch'e' mi sembrava impossibile di levare lo
sguardo da quella festa serena e raggiante, per seppellirlo nel sangue.

Menahem mi venne vicino, e mettendo fuori alla finestra la sua testa
abbronzata sclamò:

— Ma non vengono dunque? non vengono?

— Quel galuppo di Bar Abbas ha i calli ai piedi, risposi tranquillamente
io.

— Gli è che fra un'ora le porte della città saranno chiuse, riprese
Menahem.

— Saresti tu invitato a cena da Pilato?

— No, ma restar fuori, sotto l'aria della notte e la rugiada del
mattino....

— Raffreddarsi questa notte, quando si deve esser crocifissi domani
sera....

— Domani è sabato, rispose Menahem senza scomporsi.

— Dopo dimani dunque.

— Tu credi che la finirà così?

— Diamine! Tutto dipende da voi.

Hannah mi chiamò.

Menahem restò a riflettere, il dosso appoggiato ad un angolo della
finestra, la testa alta, lo sguardo perduto nel cielo. Lo additai ad
Hannah che crollò le spalle.

Quella pietra pomice non si commoveva per nulla.

Menahem aveva allora l'età mia: non ancora ventitrè anni. Superava la
statura ordinaria degli uomini della Siria, solido come la torre
Ippiana. Il sole che tramontava, rischiarando la metà del suo viso, dava
dei riflessi dorati alla sua pelle abbronzata. Il suo naso leggermente
curvo, le labbra rosee e carnose, i denti bianchi come quelli dei
carnivori del deserto, la fronte annegata sotto una foresta di capelli
neri come quelli di Giuditta, separati in sul cocuzzolo, alla moda dei
Galilei, il suo collo alto, rotondo, liscio come una colonna di porfido,
tutto indicava in lui il coraggio, la forza, la volontà e l'amore. Io
ammiravo quella figura mezza nell'ombra, e mezza immersa nella luce,
quello sguardo che scrutava le profondità. Menahem portava una tonaca
color vino, legata al fianco con una ciarpa bianca, e da cui usciva una
spada ad impugnatura d'oro, più corta di quelle usate dai Romani. Un
mantello nero copriva tutta la persona fino alle ginocchia.

— Eh! diss'io alla fine, torcendo gli occhi da lui, al postutto, e' sarà
un pasto reale pei cani della Voragine dei cadaveri.

In quel momento, una voce stridula e dei passi rumorosi si fecero udire
alla porta della strada prima, e ben tosto nelle scale e
nell'anticamera. Poi la porta s'aprì e Bar Abbas, seguito da Justus,
entrò trionfalmente.

— Non è colpa mia, sagan — miagolò egli — non è mia colpa, così Satana
mi faccia gran sacerdote! se siamo in ritardo. È una storia graziosa, e
ve la racconto come la sta.

Là dove Bar Abbas entrava, entrava il rumore. In ogni sito ove egli si
presentava, tutti erano intorno a lui a festeggiarlo. Egli cominciava
per far ridere, si finiva col bastonarlo. Le brighe seguivano i suoi
passi. Se un giorno non riceveva delle busse, la sera era di un umore da
appiccarsi per la tristezza. Per consolarsi, si ubbriacava.

La sua persona andava tutta di traverso. La parte sinistra del suo corpo
spingeva avanti ed in alto la diritta: di maniera che i suoi occhi
correvano verso le tempie, la bocca verso l'orecchio, il naso, il mento,
tutto andava dall'oriente al ponente. Un colpo di cesto di un
gladiatore, ricevuto in una rissa, aveva causata questa deviazione sopra
la sua faccia. Dei denti, non si parlava più. Una barba grigia, dei
capelli grigi, facevano ombra al suo naso rosso, venato d'azzurro,
gremito di porri neri e velluto. Era piccolo, membruto e leggermente
claudicante.

Bar Abbas aveva servito nelle legioni Romane per vent'anni, a piedi ed a
cavallo, poi era ritornato a Gerusalemme, presso sua moglie, la quale,
credendolo morto dieci volte, se n'era consolata venti. Nessuno avrebbe
potuto dire a che Dio egli credesse, se questo disgraziato pagano non si
fosse affrettato di mostrare, dalle sei del mattino alle sei della sera,
che adorava Bacco e corteggiava la Dea Stercuzia. Nessuno poi gli aveva
mai veduto un mantello o una tonaca che non fossero a pezzi.

Un uomo simile, nato nella Perea, non poteva che arruolarsi fra gli
Erodiani e divenire uno dei loro capi.

Entrando, Bar Abbas pestò i piedi nudi di Moab, diede una spinta a
Menahem, allungò la mano per staccare la borsa dalla mia cintura, rotolò
sul sagan per sedersi presso di lui, e levandosi di un salto immerse il
capo nello stomaco di Justus. Aveva già brancolato dovunque, nei capelli
di Moab, sul mantello di Menahem, nelle tasche del sagan, sul tavolo per
prendere una carta, sopra un armadio per volgere una chiave nella sua
toppa. Finalmente sembrò equilibrarsi in mezzo del salone, e dopo aver
sbadigliato, com'uomo che ha fame, e fatto scoppiettar la lingua,
com'uomo che ha sete — del resto fame e sete aveva perpetuamente — gridò
con voce acuta:

— In fede mia, vo' a raccontarvela. Calza così bene all'affare come un
letto a dei sposi novelli.

— Fa d'esser corto, sopratutto, disse il sagan.

— Come sempre, o sagan. Sì, m'ero incontrato con Justus sotto il
porticato d'Erode ed ero andato con lui al Tempio per portare, come gli
altri, la mia offerta al Signore. Io volevo essere splendido, ed offrire
un giovine toro. M'avvicino, nel mercato, ad un mercante idumeo, e
gliene domando il prezzo. — Venti sicli (100 lire), mi dice egli. —
L'hai dunque rubato, gli rispondo io, per vendere un animale così nobile
ad un prezzo così vile? venti sicli? è regalato. — Mi scusi, grida il
mercante, venti sicli? ho detto venticinque. — Ah! così va bene,
rispondo io, e metto la mano nella tasca della tonaca a diritta. Cerco e
ricerco, non avevo i venticinque sicli. — Bene, dice Justus, offri
dunque un montone. — È vero, dico a me stesso, un montone l'è proprio
un'offerta da re! E mi volgo ad un pastore dei monti di Moab che ne
aveva in vendita uno di stupendo. — Che prezzo domandi di questa bestia?
— Venti denari, capitano, risponde il montanaro. — Vergogna! un montone
che ha delle corna da far morire di rabbia Mosè? che ha la lana soffice
come i mustacchi del rettore Simeone? Le bestie sono dunque in
abbondanza nel tuo paese eh? — E pongo la mano nella tasca sinistra. Non
avevo i venti denari. — Va là, disse Justus, offri un capriolo. — Bravo,
dico io, un capriolo è ciò che mi va. Io amo il capriolo: perchè il
Signore sarebbe più schifiltoso che non mi sono io, vecchio legionario
di Augusto e di Tiberio? — Sbircio in un angolo un uomo di Samaria che
aveva un superbo capriolo bianco con delle macchie scure e un muso rosa
come una vergine del Tempio, degli occhi teneri e velati da una lagrima.
Lo si sarebbe mangiato di baci — cotto in punto, e bagnato d'una rugiada
di acqua ed olio con un ramo di rosmarino. Non se ne domanda che tre
denari (due lire e mezza). Cavo la borsa dalla cintura: i tre denari non
c'erano più. — Senti, dice Justus, un colombo è ciò che ti va bene.
Comprane uno e finiamola. — Ma l'è precisamente quello che pensavo io
fino da questa mattina, rispondo. Un colombo bianco come le ali d'un
cherubino.... Sagan, hanno le ali bianche, i cherubini? Ben devi
saperlo, tu. Mi decido dunque pel colombo. Non costa che un mezzo
denaro. Guardo, frugo, rifrugo in tutte le mie tasche; poi stendo la
mano al mio amico Justus, e gli dico: prestami un mezzo denaro. Ah! se
aveste veduto che faccia m'ha fatto! Si sarebbe detto che gli avessi
domandato un dente.

— Gli è che, ripetè Justus, te ne ho prestati tanti di sicli, denari e
mezzi denari....

— Meglio, dico io, vai a ridomandarmeli mo! Finalmente, gettando un
sospiro da rovesciare la torre Mariamna, Justus mi pone in mano la
moneta che gli ho chiesta. Volete che ve lo dica? non avevo mangiato
nulla fino da jeri, e non avevo bevuto niente, all'infuori di alcuni
sorsi d'acqua della fontana di Salomone. Il Signore, lui, aveva ricevuto
un sì gran numero di bestie d'ogni specie, che appena appena avrebbe più
accettato la nobile testa del gran sacerdote Caifa. Mi decidevo dunque a
bere il mio colombo, e ponevo il mezzo denaro in tasca, allorchè delle
grandi grida si fanno udire dalla parte della porta di Bronzo. Un
tafferuglio nella città di Gerusalemme senza di me! dico io: sono
rubato! E corro. Era della bordaglia, che avendo trovato una giovine
donna nel sobborgo di Besetha, in flagrante delitto d'adulterio con un
soldato legionario Romano, la conduceva dinanzi il Sanhedrin perchè la
fosse condannata ad esser lapidata.

Moab alzò la testa, che aveva tenuta fino allora appoggiata sulle
ginocchia.

— La donna era giovine e bella ancora, continuò Bar Abbas, malgrado lo
strazio della miseria che si scorgeva nei suoi tratti e nei suoi
vestiti. Io la conosceva già. È di Gerico e si chiama Lia. Suo marito
essendosi riunito alla setta degli Esseniani l'ha abbandonata da due
anni insieme col suo bambino. Ella vive pettinando lana. Probabilmente
il lavoro le era mancato. Gli scribi ed i farisei, che erano nella corte
dei Gentili, e le guardie del Tempio, si affollavano intorno al gruppo
che trascinava quella donna scapigliata, affogata nelle lagrime e
gridante: Oh il mio povero figlio, il mio povero figlio! — To', dice
allora un levita: se andassimo a vedere cosa ne dice il Rabbì di Galilea
che predica lì abbasso, presso il pozzo di Salomone? — Sì, sì,
rispondono in coro tutti i parassiti del Tempio, conduciamola dal Rabbì
di Galilea. — Fino dal mattino questo Rabbì era andato di corte in
corte, e di portico in portico, facendo capannelli intorno a sè ed
indirizzandosi al popolo. Aveva provocato ed irritato i farisei
mettendoli in ridicolo e trovandoli in fallo. Aveva parlato contro il
Sabato, contro il lavarsi le mani, contro le pratiche esterne del culto:
e che so io! di tutto infine. Il popolo diceva: Ma vediamo dunque,
questo Rabbì non sarebbe egli un pochino profeta, un bricciolo di
messia? Ed egli non avea risposto nè sì, nè no, ma aveva lasciato andare
ora una parabola, ora un tale arruffamento di parole, che Satana
strangolerebbe chi ne avesse compreso una sillaba. I farisei credevano
ora di prenderlo in trappola. La legge di Mosè è chiara come la fontana
di Siloam. Si spinge dunque la donna dalla parte ove era il Rabbì, e
tutti si affollano per vedere ed intendere. Il caso era grave. La
risposta doveva esser precisa. Pilato se ne ride dell'adulterio, che per
lui non è nè un delitto nè un peccato. Ma il Rabbì cosa risponderà? Se
condanna la donna, si disgusta con Pilato; se l'assolve, si abbaruffa
con Mosè. Egli li lasciò venire. — Rabbì, Rabbì, gli si grida da ogni
parte, ecco una donna che abbiamo presa sul fatto stesso d'adulterio. È
maritata, tutti lo sanno, ed ella stessa lo confessa. — Hum, brontolò il
Rabbì senza alzar la testa ed avendo l'aria di continuare a tracciare
dei rabeschi sulla sabbia della corte. — Maestro, gridava disperata la
povera donna; avevo fame, il mio bambino aveva fame, eravamo digiuni da
due giorni. Non una bricciola di pane, non un denaro, il focolare era
freddo. Il Rabbì levò gli occhi sopra la donna, e dopo averla
considerata per alcuni istanti: — Sì, eh! mormorò continuando a
tracciare sgorbi nella polvere. — La legge di Mosè è chiara, osservò
Gamaliele che aveva seguito la folla. — Cosa ci comanda codesta legge?
domandò con calma il Rabbì. — Di ucciderla a colpi di pietra, si gridò
da ogni parte.

Moab che aveva ascoltato questo racconto di Bar Abbas, a questo punto si
levò d'un salto, come se avesse camminato sopra una vipera. Era
spaventevolmente pallido, ma non disse una parola. Noi lo guardammo,
sorpresi. Bar Abbas continuò:

— La povera donna non cessava dal gridare: grazia, grazia! Avevo fame,
il mio ragazzo aveva fame; non trovavo più lavoro, non avevo credito,
non mi si faceva carità. — Qual è la legge? disse ancora il Rabbì
volgendosi a Gamaliele. — Tu che insegni tante cose, rispose il maestro
del collegio, dovresti pur conoscerla. — La tua opinione dunque è che
ella sia lapidata? insistè il Rabbì. — È la legge, risponde Gamaliele. —
Bene allora, grida il Galileo levandosi e dominando col suo sguardo
quell'assemblea curiosa, e piena di ansietà. Bene! replica egli, colui
in fra di voi che si crede senza peccato le getti la prima pietra.

Questa frase fu come uno scongiuro magico. Tutta la folla restò sorpresa
per un istante, non comprendendo nè indovinandone il senso; poi ognuno
s'allontanò in silenzio, con la testa bassa, e gli occhi pensierosi. Il
Rabbì si avvicina allora alla donna che era caduta quasi svenuta nella
polvere, le pone in mano di nascosto una moneta, la sola forse che
possedeva, e le dice con soave sorriso: Va, povera donna, va e non
peccare più.

Vedendolo levarsi dal posto ove stava seduto, io aveva biascicato: To'!
ma gli è mio nipote codesto Rabbì!

Egli non mi aveva forse udito. Mi sono allora avvicinato. Voi lo
comprendete. Se io mi potessi attirare un uomo di simile levatura nel
nostro progetto, pensava io.... — Nipote, gli dissi, non riconosci più
il marito della sorella di tua madre? — Il Rabbì levò lentamente il
capo, e fissò il suo sguardo su me. Questo sguardo si rischiarò, si
dilatò, divenne infiammato. E' fece un passo indietro.... e mi disse:
Vattene, zio!

— Ma no, ma no, interruppe Justus, egli ti ha detto: Indietro, infame,
indietro. — E la sua voce, sì dolce un momento prima, rintronava nel
Tempio.

— Sì, sì, forse lo ha detto, continuò Bar Abbas. Io lo conosco; quel
giovine è sempre stato misantropo e poco rispettoso verso i suoi
parenti. Gli è per questo che io non ci feci attenzione, ed ostinato nel
mio progetto di metterlo a parte delle nostre idee, gli insinuai a voce
bassa una parola, domandandogli di unirsi a noi per liberare Israele
dalla contaminazione dei Gentili. Ah sì! egli continuava sempre a
gridare: Va....

— Indietro, infame, indietro, ripetè Justus.

— Poichè ti sta tanto a cuore, sia pure, aggiunse Bar Abbas. Allora
siamo usciti dal Tempio per la porta Dorata, ed eccoci un po' in
ritardo, temo.

Hannah aveva ascoltato questo racconto con pazienza, sclamando soltanto:
«Ancora quest'uomo!» allorchè Bar Abbas aveva nominato il Rabbì di
Galilea. Ma io l'aveva seguito con interesse; Menahem, con indifferenza.
Moab sembrava annientato. Alla fine, Hannah, sollevandosi a mezzo corpo,
disse:

— Non abbiamo tempo da perdere. Veniamo alla nostra faccenda. Non c'è
nulla da cangiare al piano già stabilito. Ecco ora le istruzioni
definitive che voi porterete al Consiglio dei Trentacinque, aggiunse
egli presentando a Menahem uno scritto. Dimani essendo Sabato,
l'esplosione della sommossa è aggiornata a dopo dimani. Se qualche cosa
dovrà essere modificata, lo saprete qui, domani, all'ora quarta.

— Spieghiamoci bene, disse Menahem. Dopo dimani entreremo nella città da
tre porte, in tre colonne, senza bandiera e senza armi per non dare
sospetto, e gridando: Abbasso l'acquedotto, abbasso l'acquedotto!
Rispetto per l'offerta, che è la moneta di Dio e non del popolo o di
Cesare.

— Va bene, rispose Hannah.

— Ci presenteremo dinanzi al Pretorio, e domanderemo di veder Pilato....

— Va bene, disse ancora Hannah.

— Allora, quando Pilato uscirà e domanderà che una commissione vada a
parlargli, Moab ed io esciremo dalle file del popolo e gli andremo
incontro.

— Sì, soggiunse Hannah.

— Presenteremo una carta a Pilato. Egli la prenderà, e, naturalmente,
l'aprirà e incomincierà a leggerla; allora Moab da una parte ed io
dall'altra ci slancieremo sopra di lui e lo uccideremo.

— Io non lo ucciderò, mormorò Moab lentamente, nel mentre si alzava: io
non ucciderò quell'uomo.

— Come! dimandò Hannah, inchiodando sopra Moab i suoi occhi
grigio-giallastri spalancati.

— No, ripetè Moab con fermezza, io non ucciderò mai quell'uomo.

Hannah si mordeva coi denti gialli le labbra grige, e non potendo
divenir pallido, diventava livido.

— Spieghiamoci, disse egli alla fine con voce tremante dalla collera. I
cinque principali partiti dell'antico regno d'Erode il Grande hanno o
non hanno eglino nominato quaranta delegati perchè s'intendano sopra il
mezzo di cacciare lo straniero dal suolo dei loro padri e del loro Dio?

— Sì, rispose Moab.

— I quaranta delegati non hanno essi scelto un consiglio di cinque dei
loro capi, e non sono io il presidente di questo consiglio?

— Sì, è vero.

— Gli Esseniani non ti hanno eglino delegato come loro rappresentante,
tu, Moab Bar Samuele di Bethabara? e non hai tu assistito alle nostre
conferenze, discusso e approvato i nostri piani?

— È vero, sclamò Moab.

— Il consiglio ha deciso di cominciare dal disfarsi di Pilato, per
mettere lo spavento e la confusione fra i Romani, e per poi poterli
distruggere più facilmente al grido di Dio e patria!

— Io non nego nulla di tutto questo, disse Moab. I nostri cinque nomi
soli sono stati posti nell'urna — poichè non si poteva comunicare un
simile secreto a quaranta persone — ed il mio è uscito pel primo, poi
quello di Menahem. Sì, è vero. Tuttavia io non ucciderò Pilato. Ella nol
vuole.

— Ella, sclamò il sagan, chi è dunque codest'ella?

— Ella, replicò Moab.

— Ma finalmente chi è dessa? è tua madre?

— No.

— Tua sorella?

— No.

— Tua moglie?

— No.

— È la tua ganza, la tua regina, la tua fidanzata? chi è dunque codesta
donna?

— No, no, no. È lei. È tutto questo, meglio, più di tutto questo. È lei.

— Quest'uomo è un pazzo o un vile, gridò il sagan.

— No, riprese Moab con calma, comandatemi di uccidere il gran Sacerdote,
il tetrarca, il rettore, il governatore della Siria, lo stesso Cesare,
ed io mi recherò a Roma immediatamente ed andrò ad ucciderlo. Ma Pilato,
no. Ella nol vuole!

— Vediamo un po', disse Menahem inframmettendosi; codesto è un mistero
che non sembra troppo vicino a schiarirsi; il _Shofa_ del tempio sarà in
breve suonato, quindi le porte saranno chiuse, ed i nostri fratelli
attendono nella valle di Josafat le ultime istruzioni. Se Moab dà
indietro, io resto sempre pronto, e credo che solo io basterò a compire
l'affare. Dio mi ha dato un braccio, che i miei nemici, siano i tiranni
del nostro paese o le bestie feroci del deserto, hanno appreso a temere.

— Prendo io il posto di Moab, gridai io allora.

— No, no, interruppe il sagan. Non è di ciò che si tratta. Non è
questione di un braccio di più o di meno, d'un uomo piuttosto che d'un
altro, per compiere questa santa opera. Si tratta di un giuramento.
Ebbene, voi avete tutti giurato sull'Efod, che coloro cui la sorte
additasse, compirebbero il sacrifizio del tiranno della Giudea. Ora uno
di quegli eletti dalla sorte ci dice: Io non voglio più mischiarmene
perchè c'è una donna che non lo vuole. Che mercato facciamo noi dunque
di Dio, del nostro giuramento, della nostra parola, del nostro onore?
Che sicurezza abbiam noi pel secreto confidato ad un uomo che pone un
_Ella_ al disopra del suo dovere?

— Basta così, gridò Moab, avanzandosi verso il tavolo del sagan. Dacchè
sorge un sospetto, la questione è sciolta. Era il mio destino che
lottava contro il mio dovere. Voi intervenite in nome di Dio; non ho più
nulla a rispondere. Ucciderò Pilato, e poi mi ucciderò anch'io sopra il
suo cadavere. Addio. Infrangerò il precetto della mia setta che abborre
dal sangue[1]; ma espierò il mio fallo uccidendo la mia anima, che era
_sua_, ed il mio corpo, che era vostro. Vado a raggiungere i nostri
fratelli.

  [1] Gli Esseniani erano opposti alla guerra. Ma quando il paese
  era minacciato, spiegavano un coraggio indomabile. Nella guerra
  contro i Romani essi accorsero alla difesa di Gerusalemme, e
  diedero un numero indicibile di martiri crocifissi, gettati nelle
  arene, o torturati dai vincitori. SALVADOR, I, pag. 166. GIUSEPPE,
  _Guerra degli Ebrei_, lib. II, cap. II. _Antichità_, lib. XVIII,
  Cap. II.

E ciò dicendo, Moab, il discepolo di Battista, alzò la testa bruciata
dal sole del deserto, fiera come le creste del Libano, girò su noi il
suo sguardo azzurro come il cielo, aggiustò intorno al corpo la sua
tonaca di pel di cammello, strinse la sua cintura di cuoio, scosse la
capigliatura nera e increspata come quella di Sansone, ed uscì.

La sua partenza fu seguita da un momento di silenzio triste e doloroso.

Il sagan lo interruppe.

— Allora, tutto è inteso, diss'egli. Non c'è nulla da cangiare, nulla da
aggiungere al piano stabilito. Se qualche nuovo incidente accade nella
giornata di domani, domani a sera decideremo.

— Va bene, rispose Menahem. Ora corro alla casa di Josafat.

Egli uscì. E nello stesso momento il suono del corno di montone diede il
segnale dalla collina del Tempio che principiava il sabato.

Bar Abbas aveva seguito Menahem, fermandosi nelle sale inferiori, e noi
lo intendevamo abbaruffarsi coi servitori del sagan, che non lo facevano
cenare a suo modo. Justus mi disse:

— Giuda, vai da Maria questa sera?

— Non so, risposi; ho bisogno di trovarmi solo con me stesso.

— Allora non andrò ad attenderti là.

— No.

— A domani dunque.

Il sole era tramontato dietro il Moriah, dietro Modin, nel mare di Joppa
e di Tiro. Il silenzio era disceso sopra la città. Hannah, colle folte
sopracciglia aggrottate, gli occhi fissi sopra i quadrelli di marmo del
pavimento, tenendo afferrato fra le mani il suo caftan, taceva,
meditava, — forse non pensava a nulla o meglio, era dietro a calcolare
ciò che meglio gli conveniva: di marciare colla cospirazione, o di
consegnare i cospiratori nelle mani di Pilato. Io pure taceva,
profondamente colpito dalla storia della povera adultera — che mi
sembrava certo dover essere la moglie di Moab, — e della creatura
misteriosa che aveva una influenza sì potente sopra quell'uomo di marmo,
dagli occhi d'aquila. Hannah alla fine mi domandò:

— Sai tu a cosa penso, Giuda?

— Perdinci, alle quattrocento concubine di Salomone.

— Domani arrivano la moglie di Pilato e il governatore della Siria....

— Bisogna forse assassinarli anch'essi?

— Pilato riceve quindi delle nuove coorti.

— Tanto meglio; più se ne ammazza oggi tanto di meno a combattere
domani.

— Saremo schiacciati.

— Che monta? altri faranno la prova dopo di noi, e riesciranno forse.

— Hum! brontolò il sagan, egli è che a me importa molto poco che gli
altri riescano o no: ma noi saremo esterminati senza dubbio.

— Avresti paura, principe mio?

— No; ma io non mi sono unito ai tuoi progetti per aver l'onore d'essere
appeso ad un patibolo sul Golgota.

— Parli d'oro, Sagan, risposi io, ma è troppo tardi ora per
indietreggiare. D'altronde tu devi arder di zelo pel Tempio, di cui un
pagano saccheggia il tesoro sotto il pretesto di costruire un acquedotto
per dar da bere a delle ciurmaglie che muoiono di sete. Poi, una
occasione come questa non si presenta tutti i giorni. Ci sono cinquanta
mila persone accalcate sopra le colline di Gerusalemme ed in Gerusalemme
stessa, venute da tutte le parti della Siria, e che ci daranno aiuto
senza fallo.

— Nondimeno, disse il sagan, se quella gente esitasse....

— Anzi tutti e' sarebbero decimati dalle armi dei Romani: ma è così che
si alimenta l'odio dei popoli oppressi contro gli oppressori stranieri.
Tu avrai, Sagan, un posto nella nostra storia, vicino al mio grande
antenato Mattatia il Maccabeo.

— Credo piuttosto, che sarò considerato come un meschino plagiario del
mio grand'avo Esaù...

Mezz'ora prima, la città brulicava di vita. Dacchè il Shofa era stato
suonato dalle mura del Tempio, il cuore stesso della città aveva cessato
di battere.

Il sabato pietrificava l'Ebreo.

Non più un rumore nelle strade, non più lumi alle finestre; il fumo
sulle terrazze delle case, il fuoco nei focolari erano cessati. La
creazione era ravvolta nel silenzio. Non era più permesso di uscire, di
andare a cercar acqua, di cuocere il pane, di accendere il fuoco se si
era intirizziti, di rimetter in piedi il ragazzo se cadeva per terra, di
abbracciare la giovine moglie, o di accomodarla nel suo letto di dolori.
Se la madre stava morendo, il figlio non poteva soccorrerla. Se il suo
asino cadeva in un fosso, bisognava lasciarlo divorare dai leopardi e
dagli sciacalli. Ciascuno doveva restare dove si trovava e nell'istessa
posizione; nè bere nè mangiare. Se l'inimico attaccava, bisognava
lasciarsi uccidere; e molte volte, fino a Giuda Maccabeo, i nostri
antenati erano stati trucidati così. Era nei giorni di sabato che gli
Ebrei avevano quasi sempre perdute le loro battaglie contro gli
stranieri, i quali, attaccandoli quando non potevano difendersi, ne
avevano facilmente ragione. Non si poteva in quel giorno nefasto
abbandonare il campo, continuare un viaggio, mettersi al coperto da un
sole omicida, dall'uragano o dalla folgore. Il suono del corno del
Tempio cangiava l'uomo in istatua come la moglie di Loth. Eccetto che
nel Tempio stesso, che solo continuava il suo traffico ordinario, che
riceveva le offerte — doppie di quelle degli altri giorni, — che
sacrificava le vittime, e bagnava col sangue le fiamme azzurrastre dei
suoi altari: eccetto in questo Tempio — perchè non c'era mai riposo per
questi sacri traffici — ovunque altrove, cessavano tutti i sintomi della
vita.

Noi altri Sadducei ridevamo bene di tutto ciò, avendo la massima che il
sabato è fatto per l'uomo, e non l'uomo pel sabato. Hillel e Gamaliele
avevano bensì detto ch'era permesso di fare buone opere durante il
sabato; ma i farisei restavano incrollabili. Di maniera che Gerusalemme,
a quell'ora, sembrava una città di tombe, ove l'aria stessa era divenuta
muta.

Cento mila persone respiravano senza far rumore.

Tutto ad un tratto, dalla parte della porta Giudiziaria e della porta
Genath, udimmo un fremito sordo, come uno sciame di api svegliate da un
calabrone. Alziamo il capo, tendiamo l'orecchio. Il susurro aumenta,
avanza, diviene più distinto. Sentiamo le voci e come uno strepito
d'armi. Vediamo, ad onta del sabato, tutte le finestre popolarsi di
teste di curiosi. Poi una luce rossastra, come di torcie accese,
rischiara il cielo, cui grossi nugoloni cominciavano ad oscurare; e ben
tosto dalle nostre finestre vediamo un gruppo di soldati trascinare in
mezzo a loro dei prigionieri. Il nostro cuore s'ingrossa. Il corteggio
avanza sempre più nel foro e si dirige poi verso le alture di Sion,
dalla parte della torre Faselo. Allora diamo indietro spaventati:
riconosciamo i nostri complici, ed alla lor testa, legati con delle
corde ed insanguinati, Menahem e Moab.



II.


Durante il mio soggiorno a Roma, io aveva spesso inteso parlare della
moglie del procuratore della Giudea, ma non l'aveva mai veduta. Claudia
abitava Capri.

Ella era l'ultima figlia di quella Giulia figlia di Augusto, cui questi,
dopo averla maritata a Tiberio, aveva esiliata, a causa delle sue
dissolutezze. Giulia aveva avuto nell'esilio una figlia da un cavaliere
Romano. Ma arrivata all'età di tredici anni ella l'aveva inviata al suo
ex-marito Tiberio, il quale addobbava di giovani coppie l'isola di
Capri, per rinverdire la sua caducità. Si conosce la storia «di quei
piccoli bambini un po' vigorosi, ma ancora alla mammella, ch'egli
abituava a giuocar fra le sue gambe, allorchè era al bagno, e che
chiamava i suoi pesciolini.... Si raccontava che un cittadino Romano gli
avesse legato un quadro di Parrhasius, ove Atalanta era rappresentata
con Meleagro nell'istessa posizione di quei bambini con Tiberio. Questo
quadro aveva il valore di un milione di sesterzi[2]».

  [2] SVETONIO, _Tiberio_ XLIV.

Ora Claudia esercitava con Tiberio la parte di Atalanta.

Claudia era uno degli astri, ed uno dei delitti della corte di Cesare.

Due o tre anni dopo, Ponzio Pilato, spagnuolo, arrivava a Capri. Egli
piacque a Tiberio, non si sa in quale maniera. Tiberio aveva tutti i
capricci del vizio.

— Che posso io fare per soddisfarti? gli domandò un giorno il vecchio
imperatore.

Pilato aveva veduto Claudia. Egli sapeva che funzione ella compiva alla
corte imperiale. Malgrado ciò, la domandò in isposa. Tiberio acconsentì.
La corte allora era a Baja. Tiberio ordinò che fossero condotti al
tempio di Diana, nella sua stessa lettiga, assistette in persona al
matrimonio, qual uno dei dieci testimonii richiesti dalla legge, e mise
egli stesso la mano di Claudia in quella di Pilato. Il matrimonio
compiuto una volta, Claudia, uscendo dal tempio, entrò nella lettiga
imperiale; ma al momento che Pilato si disponeva a seguirla, Tiberio lo
ritenne, e comandò agli otto schiavi liburniani di partire. Pilato tremò
in tutte le sue membra. Tiberio allora tirò un papiro dal suo seno,
glielo rimise, e si allontanò. Era l'ordine di recarsi a Gerusalemme in
qualità di procuratore della Giudea. Sejano lo attese egli stesso per
condurlo al mare, ove una bireme da guerra si dondolava nel porto,
pronta a spiegare la vela.

Questo è ciò che si diceva: Dio vedeva forse qualche altra cosa.
Scorsero sei anni. Giulia, la madre di Claudia, era morta. Tiberio era
forse sazio della sua Atalanta. Pilato inviava dispacci sopra dispacci,
che dipingevano quell'angolo della Siria da lui governato come una terra
minata da sètte ribelli, sempre pronta alla rivolta[3].

  [3] Ogni giorno si assisteva nella Giudea a sommosse di popolo, si
  citavano le provocazioni alla libertà di quelli che pretendevano
  fare dei miracoli e dei capi che promettevano di realizzare le
  profezie. Essi trascinavano le masse popolari nei deserti, e là
  venivano proclamati in qualità di Elia, di Cristo, di Messia....
  ed erano inviati al supplizio. SALVADOR, I, pag. 197.

Claudia era perseguitata dall'amore di Sejano.

Essa domandò a Cesare di andare a raggiungere suo marito, e l'ottenne.
Di più, egli così avaro, la colmò di regali: cavalli, schiavi, gioielli,
denaro, e scrisse a Pomponius Flaccus — lo stesso che egli aveva
nominato governatore della Siria, perchè avevano passato insieme a bere
due giorni e due notti consecutive — di considerare Claudia come una sua
parente, e di obbedirle ed onorarla come tale.

Il viaggio fu prospero.

Claudia non si fermò che pochi giorni a Rodi per riposarsi, poi andò a
sbarcare a Joppa.

Pomponius Flaccus l'attendeva di già. Gl'inviati della città di
Gerusalemme vi erano arrivati da due giorni.

Gionata, il secondo figlio di Hannah, era il capo di questa deputazione
Ebrea.

Il sole si alzava dietro le alture di Efraim, e colorava di porpora la
catena delle cime che si stende da Ramah al Carmelo, allorchè le
sentinelle, dall'alto del picco intorno al quale si agglomera Joppa,
diedero il segnale che indicava l'avvicinarsi della bireme imperiale.

Infatti, una galera a due file di remi, dalla carena dorata e dalle vele
di porpora, si avanzava verso la riva, spinta da un dolce e fresco
venticello.

Un grande movimento ebbe allor luogo sì nella città che sulla galera. La
guarnigione, i soldati che accompagnavano Pomponius Flaccus, questi
stesso in persona con una folla di gente componente la sua casa,
discesero sulle rive del mare, preceduti dalla commissione di
Gerusalemme, e seguiti da tutta la popolazione. Sopra la bireme, i
marinai siciliani si affrettavano ad asciugare la rugiada della notte, a
stendere i tappeti di Cartagine, e le schiave di Claudia si preparavano
a ricever la loro padrona, che si era alzata e si disponeva a venire sul
ponte.

Claudia sembrava incantata dalla vista di quella Joppa, alla quale Hiram
aveva inviato il suo legno di cedro, di quel porto ove Giona s'era
imbarcato per quel terribile viaggio che doveva finire in maniera così
insolita e così fantastica; di quella distesa di sabbia, punteggiata da
palme, da fichi, melagrani, posto avanzato in quella pianura di Sharon,
che i libri sacri hanno profumata di rose; di quella distesa di colline,
risplendenti di rose e d'ambra, che si stendevano dinanzi i suoi occhi,
e che formano il paese di montagna della Giudea, di Beniamino e
d'Efraim. Claudia restò a contemplare tutto ciò fino al momento in cui
la bireme approdò e fu tirata sulla riva, e che i marinai appoggiarono
alla prora una scalea in legno di cedro incrostata d'argento e di rame.
Pomponius Flaccus s'affrettò allora a montare sulla bireme, seguito
dalla commissione di Gerusalemme e ch'egli presentò a Claudia.

Gionata, bel giovane, le indirizzò un complimento da parte della
nobiltà, della gente del tempio, e del popolo della nostra città.

Scendendo sulla spiaggia, Claudia fu salutata con un grido immenso dal
popolo che vi si affollava.

La moglie di Pilato non ascese quella specie di cono intorno a cui,
simile ad un grappolo d'uva, è piantata la città. Ella non aveva bisogno
di riposo, e quindi la partenza per Ramah fu immediatamente decisa.

Tutto, del resto, era pronto.

Ventiquattro schiavi liburniani circondavano la lettiga, tutt'oro e
porpora: otto per tappa. Un camello già bardato; due cavalli, uno di
Selinunte e uno della Siria, scalpitavano sulla sabbia, rattenuti a
briglia corta da schiavi nubiani. Claudia poteva così alternare di
veicolo a suo piacere. Un nuvolo di cavalieri numerosi ed una mezza
legione di guardie servivano di scorta.

Una pianura coperta da uno strato leggero di rosea sabbia, sovrapposta
ad un altro di nero terriccio, si allargava dinanzi a loro, sparsa di
villaggi, di rovine d'antiche città, e di tombe, reliquie della nostra
vecchia storia e delle nostre disgrazie — ceneri di centinaia di
generazioni d'uomini, Filistei, Ebrei, Macedoni, Romani. Più lungi, ove
l'occhio non arrivava, Modin, che risuonava ancora del nome dei
Maccabei, e da lato Gaza, Ascalon — ove nacque Erode il Grande — tutta
quella regione che vide David abbattere il gigante, e Sansone prendere
le volpi.

Claudia montò sul camello, e dietro a lei prese posto una schiava
egiziana che teneva aperto un parasole per garantirla dai raggi del sole
ancora vigoroso.

Traversarono dei giardini d'aranci e di cedri, ove la vite ed i fichi
prosperano frammisti agli ulivi, ai mandorli, ai sicomori, alle palme.
L'uva era matura, i pomidoro scarlatti si allineavano a spalliera, le
mele della Siria rallegravano gli occhi col loro colore giallo o
porpora, il mirto e la rosa selvatica profumavano l'aria. Lo sguardo si
riposò sopra questi giardini fino a Beth Dagon — ove si trovano ancora i
ruderi di un tempio dedicato a quella divinità marina dei Filistei, per
la quale Goliath giurava, nel cui tempio Sansone, cieco ed avvilito, fu
ucciso, e che fu rovesciato dall'arca del Signore allorchè i Filistei la
misero nel suo tempio stesso, dopo aver vinto Hophni e Phineas, figli di
Eli. Al di là di Beth Dagon il paese si allarga, e delle greggie immense
di capre, di agnelli, di bufali e di camelli percorrono la pianura.

Il viaggio sembrava andar a genio di Claudia; e Gionata, che cavalcava
alla sua sinistra, le rammentava tutte le tradizioni e le istorie della
nostra patria, rammemorate dai siti che traversavano.

Ella era sorpresa delle gesta dei nostri padri, così differenti da
quelle dei suoi antenati.

Si sostò, per pranzare, a Ramah, la patria di Samuele.

Tutto era stato previsto e preparato dagli ufficiali che Pilato aveva
inviati lungo la strada. Si riposò alcune ore, giacchè il viaggio sul
camello, che Claudia provava per la prima volta, l'aveva affaticata,
tanto come il tramestio del vascello sul mare. All'ora nona, quando il
sole tramontava dalla parte di Ascalon, ella montò a cavallo, e sul
cader della notte, la piccola tribù cosmopolita di quella bella patrizia
romana si fermò ai piedi della collina di Modin, — collina in confronto
delle montagne della Giudea che si alzano dietro di essa, montagna in
confronto alla valle che chiude.

— Noi calpestiamo coi nostri piedi sito più sacro, ed il più fatale
della nostra storia politica, disse Gionata a Claudia.

— Quale? domandò ella.

— Quello che fu consacrato dalle gesta di Mattatia e dei suoi cinque
figli, i Maccabei.

— Conosco questa storia, rispose Claudia.

Di fatti ella aveva spesso sentito parlare degli Ebrei, alla corte di
Tiberio, allorchè questi li fece tutti cacciare da Roma, e rinchiudere
in luoghi malsani, sotto pena, se ritornavano, della schiavitù. Essa ne
aveva inteso parlare in seguito dalle lettere di Pilato, che dipingeva
con tetri colori quel popolo che non sapendo essere indipendente non si
rassegnava a servire[4] e aveva delle costumanze strane: il sabato, la
circoncisione, l'orrore degli stranieri e di una quantità di oggetti che
considerava come contaminanti; di quel popolo, infine, che adorava un
solo Dio, con riti altrettanto atroci che quelli degli infedeli. Claudia
si preoccupava di questi tumulti continui, di quelle sètte, di quei
messia che si attendevano, ed interrogava ora Trasilio, l'astrologo di
Tiberio, ora Seleuco, il grammatico che Tiberio fece prima esiliare
dalla corte e poi uccidere, perchè s'informava presso gli schiavi del
libro che Cesare aveva letto nella giornata.

  [4] _Augebat iras, quod soli Jodæi non cessissent._ TACITO.

Claudia aveva forse un interesse palpitante a conoscere a fondo il
carattere e il temperamento del popolo Ebreo.

All'indomani, nondimeno, siccome Modin non è che a tre ore di distanza
da Gerusalemme, mentre la scorta a piedi e l'immenso seguito di bagagli
e di bestie che accompagnava Claudia si metteva in viaggio, essa,
seguita da Flaccus, da Gionata e dalla truppa numida, arrivando alla
collina montò a cavallo per visitare il sepolcro di Mattatia. Gionata —
dall'alto di quel punto ove si abbraccia la vista magnifica della larga
pianura, della fiera vallata d'Ascalon e del lontano mare senza
navigatori — indicò a Claudia, rimpetto ad essa, la montagna rude,
triste, erta, ove Mattatia si rifugiò coi suoi figli, dopo aver ucciso
gli idolatri e rovesciato il simulacro di Giove nel tempio Madin; al
disotto, a sinistra, coronata da nuvole, l'alta cima di Beth Horon, ove
Giuda Maccabeo distrusse Seron, altro generale d'Antioco — uno contro
venti — come aveva già rotto ed ucciso Apollonius, come doveva
distruggere Lysias a Emmaus nel piano che si allunga dinanzi ad essi, e
Nicanor a Adassa, che si scorge quattro miglia più lungi.

— Battaglie di giganti, gridò Gionata, suolo bagnato da sangue eroico,
che illustrò la nazione, la vendicò dei passati oltraggi, la creò a
nuova vita, ed alla fine la uccise.

— Come, la uccise? domandò Claudia.

— Ahimè! sì, rispose tristemente Gionata. Quando i Maccabei rovesciarono
l'altare pagano a Modin, Israele non esisteva più che nei nostri libri
sacri. La fede israelita era morta nell'indifferenza del popolo, per le
leggi dei conquistatori stranieri. Il Tempio era profanato, la lettura
delle nostre vecchie leggi proibita, la circoncisione posta in
dimenticanza, l'osservanza del Sabato impedita sotto pena di morte; la
successione dei grandi Sacerdoti era interrotta. Onias, il vero
pontefice, aveva emigrato fra gli Ebrei che ormai popolavano Memfi e le
rive del Nilo. In mezzo a mille di essi, uno solo forse sapeva leggere
l'ebraico. Il caldeo, il siriaco, il greco avevano surrogato la lingua
nella quale Mosè aveva comandato in nome del Signore, David aveva
cantato e Salomone insegnato. Ma i Maccabei erano più uomini di mondo,
politici, soldati, oratori, amministratori, che preti. Essi discendevano
dagli esiliati di Babilonia, non già da quel vecchio stipite
dell'aristocrazia Ebrea che era restata fedele ai costumi, alle leggi,
alle tradizioni, agli usi e all'organizzazione sociale dei nostri padri.
Con essi arrivò al potere il partito della nazionalità politica e della
riforma. Essi accumularono il doppio potere civile e religioso.
Sostituirono la tradizione orale alla legge scritta di Mosè; la teoria
personale e variabile — legge vivente del gran Collegio — al patto del
grande legislatore. Provocarono e favorirono forse lo scisma, e furono
causa che il popolo ebreo si divise in Esseniani, Sadducei e Farisei,
laddove Mosè aveva stabilito una fede, un rito, un'arca, un tabernacolo,
un patto (ai nostri giorni si direbbe una carta) per tutto il popolo
d'Israele. All'unità del sacerdozio di Mosè, si rizzò di fronte lo
scisma, che trionfò nel governo civile e s'impose alla credenza
religiosa. Mosè, David, Salomone, i giudici che avevano fatto uscire
dall'Egitto il popolo Ebreo, al tempo dei Maccabei sarebbero stati come
stranieri nel gran Collegio, nella sinagoga, nel sanhedrin, nella scuola
di Hillel e Shammai, per quei grandi principi-sacerdoti, pei Samaritani,
pegli Ebrei infine. Mosè ormai era divenuto una memoria, una vecchia
gloria nazionale, e nulla più. Quella massa di bronzo, rozza, ma
compatta e solida, che Mosè aveva fusa e malleata a prova dell'urto di
tutti i popoli che circondavano Israele, fu rotta dai Maccabei a fine di
meglio lisciarla ed appropriarla alla moda del giorno. E fin d'allora la
condanna del popolo Ebreo fu pronunziata. Noi non siamo più noi stessi;
noi siamo ora un popolo come un altro a disposizione di tutti i popoli!
Volendo creare una nazione, i Maccabei hanno creato uno Stato. Il
carattere politico, così mondato, si era sviluppato: l'anima della
nazione era franta. A Modin aveva preso principio la reazione contro lo
straniero, ma in favore di un solo partito della nazione che esagerò il
pericolo, e non comprese l'essenza del carattere del popolo Ebreo. Il
rabbì prese il posto di Dio.

Ciò dicendo, sempre camminando, volgendosi ora a Claudia, ora a Flaccus,
Gionata entrò il primo nelle strette e nelle gole delle montagne ove
principia l'ascesa verso Gerusalemme.

Non c'era strada. L'olivo, il lauro, il mirto, il mandorlo, la ginestra
dal fiore d'oro, il frumento, crescono ancora in mezzo a quei gradini di
macigno; ma a misura che si ascendeva, il bianco-spino, il leccio, la
quercia nana, l'erica, la macchia, il picco nudo delle rocce, il sasso
grigio o rossastro, divenivano più frequenti. Seguivano il letto dei
torrenti. Non s'incontrava che dei guardiani di capre, dei poveri
contadini a piedi, o un rabbì sul suo asino. Un grande silenzio ovunque.
All'occidente, volgendosi, si scorgeva ancora il mare; di fronte, alture
sopra alture; ai fianchi dei precipizii spaventevoli. Essi non si
fermarono punto a Kirjath Jearim, ove i Daniti di Zorah e di Eshtaol
piantarono le loro tende avanti di ascendere alla casa di Micah, sopra
il monte Efraim, per rubare l'ephod, il teraphim e le imagini di
metallo. Là pure, era restata per vent'anni, presso Eleazar, l'arca del
Signore dopo che era stata perduta dagli Israeliti, presa dai Filistei,
posta prima nel Tempio di Dagon a Asdhot e poi venduta.

All'undecima ora, essi poterono vedere il bel villaggio di Emmaus — a
due miglia da Gerusalemme — in mezzo ai giardini verdi, brillanti,
profumati, ove il pampino porporino ed il grappolo dorato aspirano
all'ombra dell'ulivo, e si arrampicano intorno i fichi. Questa
vegetazione, in questo sito, è un fuggevole bacio della natura che
diviene sempre più aspra, nuda, dirupata a misura che si ascende verso
l'altipiano del monte degli Ulivi e di Sion.

Claudia e Flaccus raggiunsero qui quella parte della loro scorta che li
aveva preceduti, e passarono oltre camminando frettolosamente in mezzo a
rocce bianche, splendenti, frante e bruciate, per una strada fatta tutta
a zig-zag. Il sole del mezzogiorno li opprimeva.

Scorsero finalmente la lunga stesa di muraglie che circonda Gerusalemme,
le sue torri, il tempio, i suoi palazzi, il boschetto di datteri che
ombreggia la porta dei Pesci, e a diritta il monte degli Olivi.

In quel momento, le vedette che stavano alla porta di Genath, la quale
dà nei giardini del palazzo d'Erode, rientrarono per annunziare a Pilato
che i viaggiatori erano in vista e si dirigevano verso la porta dei
Pesci.

Pilato attendeva questi viaggiatori, o meglio questa viaggiatrice, da
sette anni.

Egli aveva stabilito la sua dimora nella torre Mariamna; ma fino
dall'indomani del suo arrivo a Gerusalemme, gli appartamenti detti di
Cesare e di Mariamna nel palazzo d'Erode, erano pronti a ricevere questa
ospite in ritardo. Non era passato un sol giorno, durante tutto questo
tempo, senza che Pilato venisse a passeggiare solo e per molto tempo in
questa abitazione splendida, ma silenziosa e fredda. Alla fine questo
lungo desiderio era per essere soddisfatto, questa sete inestinguibile
per essere calmata.

Quando il suo liberto spagnuolo venne ad annunziargli che sua moglie
toccava le mura di Gerusalemme, Pilato era terribilmente occupato. Egli
aveva ascoltato il rapporto che gli faceva il centurione Cneus Priscus —
fratello di quel Cesonius Priscus che era l'intendente delle voluttà di
Tiberio — sopra l'arresto dei cospiratori della notte precedente, ed
aveva incominciato ad interrogarli. Pilato interruppe sul momento questo
interrogatorio, saltò sopra un cavallo che gli si teneva pronto nella
corte, e si slanciò di galoppo, seguito da quegli otto schiavi nubiani,
la cui faccia, le armi, ed i cavalli erano color della notte, e la cui
fronte era cinta da una ciarpa rossa color dell'aurora, che componevano
la sua unica guardia, e quasi i soli muti compagni che avesse.

Pilato raggiunse il corteggio alla porta dei Pesci.

La sua faccia bruna sembrava di scarlatto.

Saltò a terra per stringere la moglie fra le sue braccia.

Claudia, che parlava in quel momento con Flaccus, continuò la
conversazione; poi si volse, e senza neppur alzare la _ricca_, di cui
s'era coperto il viso lungo il viaggio per tema di abbronzire la pelle,
presentò il fronte a suo marito. Pilato divenne pallido come una notte
di luna piena, rimontò a cavallo dopo aver salutato il governatore della
Siria, e si riprese il viaggio.

Gerusalemme sembrava un sepolcro. Non un uomo nelle vie, non un viso
alle finestre, non un soffio umano nell'aria, eccetto il rumore che
facevano gli uomini del corteggio che sfilando spaventavano le
lucertole, i sorci ed i serpenti che si deliziavano al sole. Si sarebbe
udito il ronzio degli insetti, e il gemitìo dei palombi del Tempio.

— È una città questa, o un cimitero? È la capitale della Giudea, o il
Mar Morto, questa vostra Gerusalemme? domanda Claudia a Gionata.

— No, Claudia, rispose Pilato, che voleva attirare la sua attenzione, è
il Sabato. Il Sabato che preme questo popolo come un mare di bitume.

— È l'animale che digerisce? domandò Pomponius.

— È forse la tigre che è alle scolte e striscia, rispose Pilato.

— Bah! esclamò il governatore di Siria.

— Vedrete domani, aggiunse il procuratore della Giudea.

Ed aveva ragione.

Lo si vedrà domani, e poi ancora, e poi ancora «fino al giorno fatale in
cui l'aquila piomberà sul serpente» come hanno profetizzato i nostri
veggenti. Pomponius Flaccus si alloggiò in quella parte del palazzo
detta di Cesare, Claudia, in quella detta di Mariamna. Pilato ritornò la
sera nel suo nido solitario della torre Mariamna.



III.


Ritorniamo ora sui nostri passi.

Un traditore s'era intromesso in mezzo a noi.

I nostri sospetti si fermarono per qualche tempo sopra Jesus Bar Abbas.
Ma la condotta susseguente di questo cinico parassita ci provò che, se
aveva tutti i vizii, aveva almeno la virtù del silenzio. Il fatto è, che
Pilato fino dalla vigilia conosceva, se non lo scopo, almeno il sito
della riunione dei nostri confratelli, nella casa della vallata di
Josafat. Egli sapeva forse qualche cosa di più ancora, poichè s'astenne
di andare incontro a sua moglie, facendole rimettere una lettera dove si
scusava e le annunziava: che, tenendo in mano le fila di una grande
cospirazione, la quale metteva in pericolo il governo Romano, egli non
poteva allontanarsi dalla città.

La casa della vallata era un gran cubo a due piani, diviso in due stanze
e preceduto da un piccolo giardino dinanzi la porta. Due finestre sul
davanti, due sul di dietro, casa stillante l'umidità nell'inverno,
infetta l'estate da scorpioni, lucertole, serpenti e topi, disabitata da
un quarto di secolo forse, poichè il suo proprietario se ne stava a
Cipro.

Fino dalla vigilia, una trentina di soldati dei più agguerriti, sotto il
comando di quel demonio di centurione chiamato Cneus Priscus, erano
usciti verso notte dalla porta del giardino del palazzo di Erode, per
non passare per le porte della città, e scorrendo vicino le mura erano
andati a prender possesso di quella casa. Avevano passato colà la loro
giornata in una mezza oscurità. Eccettuato alcuni caprai che avevano
condotto le loro bestie per leccare quel po' d'acqua fetida che viene
dalla valle di Hinnom, niun'anima viva si era avvicinata a quel sito.
Ma, dal momento in cui il sole principiò a declinare dietro il Moriah,
quei soldati avevano osservato verso il monte degli Olivi e lo Scopas,
dei piccoli gruppi d'uomini che venivano dalla parte di Goreb, da
Bezetha, dal Mizpeh, dall'Akra, gli uni discendendo il fianco della
collina, gli altri uscendo dalle porte, e che, stretti alle mura, si
avanzavano a passi lenti e misteriosi verso la casa. A certa distanza i
gruppi si scioglievano: alcuni si fermavano, mentre altri continuavano,
facendo in guisa che mai più d'uno alla volta varcava la siepe bucata
del giardino ed entrava nella casa. La porta non aveva serratura e
restava semiaperta.

I soldati di Priscus avevano chiuse le imposte e si tenevano ai due lati
della porta. Ne accadeva, per conseguenza, che appena uno dei congiurati
entrava e spingeva la porta dietro a sè, i soldati gli gettavano un
mantello sul capo, e afferrandolo per le braccia, lo trascinavano nella
stanza interna, lo legavano, gli sbarravano la bocca, e lo consegnavano
alla custodia dei loro compagni. Questa trappola prese così una ventina
di cospiratori, fra i più frettolosi. Ma quando il corno del Tempio
suonò, e le tenebre divennero più fitte, i cospiratori si avanzarono con
minori precauzioni affrettandosi per non essere in ritardo.

Quando Menahem varcò la siepe del giardino, una dozzina dei suoi amici
lo seguiva da presso. L'affare nell'interno non andava più coll'istessa
precauzione e lo stesso silenzio. Il selvaggiume incalzava il
cacciatore. Moab si dibatteva ancora quando Menahem si sentì prendere
dalle braccia. Egli comprese subito. Gridò. E siccome era molto forte,
cominciò a resistere. Questo rumore mise l'allarme negli ultimi che
ponevano già il piede nel giardino. Ascoltarono; non vedendo più chiaro
nella casa, sentendo dei gemiti repressi, un rumore d'armi e di lotta,
compresero che i loro complici erano caduti in un agguato. Allora si
allontanarono. Prisco li vide partire. Ma egli non aveva seco abbastanza
forza per inseguirli e nello stesso tempo vegliare sulla preda già
fatta.

— La tortura farà il resto, pensò: questi che ho in mano parleranno, e
riveleranno i complici.

Comprendendo ch'era ormai inutile di attendere più lungamente, temendo
forse che quelli che s'erano messi in salvo ritornassero con altri, in
numero sufficiente per liberare i loro complici, Cneus Priscus prese la
risoluzione di uscire dalla casa, e rientrare colle sue vittime a
Gerusalemme.

Per maggior sicurezza, le aveva condotte nella torre Faselo. La prigione
della città poteva essere infedele, o troppo debole per custodirle.

Tale era il rapporto che Priscus aveva fatto la sera stessa a Pilato, e
ch'egli aveva la mattina dopo ripetuto alla presenza dei prigionieri.
Dopo di che il procuratore aveva dato mano all'interrogatorio degli
accusati.

Le istruzioni scritte, che si erano trovate sopra Menahem,
semplificavano singolarmente la procedura. Pilato li interrogò uno dopo
l'altro a parte; nessuno disse una parola. Alla domanda: Perchè andavi
tu in quel sito solitario e remoto? tutti fecero l'istessa risposta: per
pregare!

Moab rispose con questa variante: Per pregar Dio che mi liberasse dagli
scrupoli di ucciderti, o Pilato!

E Menahem disse: io vi odio tutti, avoltoi romani: noi vi odiamo tutti,
e verrà il giorno in cui i nostri fratelli vi schiacceranno come vipere.

Pilato avrebbe dovuto sottoporli alla tortura per farli parlare, per
strappare dalle loro labbra il nome dei complici ed il piano della
cospirazione. Ma, sia ch'egli credesse ventidue vittime esser bastanti,
sia che disdegnasse colpire le altre, sia che conoscesse i nostri
progetti, sia pietà o sazietà, egli non ordinò di mettergli all'aculeo.

Egli confessava l'ultimo prigioniero, allorchè il suo liberto gli
annunziò l'arrivo di Claudia.

Il resto del Sabato, non si occupò più di quella gente. I doveri
dell'ospitalità verso il suo superiore, l'ansietà di trovarsi con sua
moglie, gli servirono di distrazione.

La conversazione ch'egli ebbe con lei non fu lunga. Lo si vide uscire
dalle stanze di Claudia abbattuto.

Il suo abboccamento con Pomponius Flaccus fu più lungo e più
soddisfacente.

Nondimeno all'alba del dì seguente egli discese al pretorio, e dopo aver
dato certi ordini in segreto ai capi delle truppe, ricominciò
l'interrogatorio dei prigionieri, e la discussione della sentenza coi
suoi consiglieri. Era a quel punto, allorchè i suoi emissarii vennero a
parlargli in segreto.

Il segreto era del resto inutile. Ciò ch'essi venivano a denunziare si
denunziava da sè.

La giornata del Sabato era stata lugubre. L'arresto di ventidue capi dei
più considerevoli e dei più arditi di tutti i partiti aveva colpito nel
cuore la nazione. Quelli che s'erano salvati, e noi stessi, commissarii
superiori, non avevamo potuto prendere nessuna risoluzione, sia che il
giorno del Signore ci paralizzasse, sia che temessimo di esser
sorvegliati. Noi ci attendevamo anzi di essere arrestati da un momento
all'altro. Alla sera le porte erano state chiuse contro l'abitudine del
tempo delle grandi feste del _Purim_, del _Peschah_ e dei Tabernacoli, e
i soldati romani avevano surrogato i nazionali. La guarnigione della
cittadella Antonia era restata in piedi tutta notte. Tutto insomma
indicava che Pilato seguiva le fila dei nostri progetti, e vegliava.

Io m'era nondimeno arrischiato ad andare a vedere alcuni dei nostri capi
che abitavano la città. Non ne trovai nessuno. Del sagan e di Bar Abbas
non sapevo che farmi. Justus venne a raggiungermi da Maria, come di
solito, ma tremava e non sapeva nulla. Io aspettava il giorno con ansia
febbrile per andare a vedere quelli di Galilea, Perea ed Idumea, che
erano accampati sotto le tende o le capanne di rami sulle colline da cui
Gerusalemme è coronata.

All'alba ero in piedi. Uscii dalla mia casa del quartiere d'Ophel e mi
avvicinai alla porta della Torre delle donne, che conduce al sobborgo di
Bezetha-Gareb, aspettando che il guardiano aprisse.

Avevo meditato tutta la notte sopra la posizione della congiura dopo la
sua scoperta e l'arresto dei ventidue capi, ed avevo deciso che, in
qualunque evento, bisognava spingere le cose fino all'estremo.

Sapevo fino dal principio che tutto questo non avrebbe fatto progredire
d'un pollice ciò che si chiamava la liberazione nazionale, e non me ne
davo alcuna pena. Il mio progetto era di compromettere la gente del
Tempio, di soddisfarla per attaccarmela, e metterla male sempre più con
Pilato. Il sagan che non capiva niente, che non pensava niente, si
lasciava condurre, purchè lo si credesse l'anima di tutto il movimento,
e che fosse lui quegli che concepiva, che comandava, il padrone, il
cuore ed il cervello del popolo ebreo. Anche con me egli recitava
qualche volta questa parte. Una volta compita la rottura fra il palazzo
d'Erode ed il Tempio, tutto sarebbe andato per bene. Che importavano
allora l'insuccesso, le vittime, l'indietreggiare d'un giorno,
l'aggiornamento di alcuni mesi, il sangue degli uni o il trionfo degli
altri? Io intendevo dunque di andare a spingere avanti le genti di
Samaria e di Galilea che sono le più intraprendenti, ed attendevo
l'apertura delle porte. Udivo dall'altra parte un rumore più forte che
all'ordinario. Vedevo sul fianco della collina un movimento insolito, un
mormorio lontano, continuo, che veniva da differenti punti della città e
dai suoi contorni, colpiva le mie orecchie. Bar Abbas mi vide e mi venne
dappresso.

Egli toccava di già ad un sufficiente grado di ubbriachezza.

— Giuda, mi diss'egli, sai dunque...

— Tutto.

— Ed ora che gli altri sono presi, che dobbiamo fare?

— Andare sempre avanti. T'arresti forse tu, se in un campo di battaglia
un camerata ti cade vicino?

— È ciò ch'io mi diceva. Allora ho fatto bene...

— Che cosa hai fatto?

— Perdinci! Ho consigliato d'agire, come se nulla fosse accaduto.

— A meraviglia. Ora bisogna scuotere gl'indolenti, e rinfrancare i
dubbiosi.

— Io me ne vado dalla parte del mercato e alla piazza della Legna, e li
farò marciare come dei vecchi legionari. Addio; verrò a pranzo da te,
perchè ieri, per onorare il Signore, non ho messo nulla nella mia
bisaccia.

Le porte si aprivano. Un fiotto di popolo si precipitava nella città. In
pari tempo un formicaio d'uomini si svegliava e si animava in
quell'alveare di case, che dalla valle dei Cacciai fino alla cima
s'addossa al Moriah e al Sion. Vidi passare per quelle immonde straduzze
centinaia di giovani e vecchi che si dirigevano verso la piazza del
Pretorio. Questa piazza diveniva per necessità il centro del movimento.
Io mi ci recai pure. Passai però prima dal sagan. Egli mi attendeva.
Caifa era con lui, più scompigliato, più confuso, più pauroso e più
indeciso che lo stesso Hannah. Ottenni la loro attenzione, e li decisi,
facendo loro considerare che, non potendo più indietreggiare, si doveva
lasciar agire gli avvenimenti, che si producevano da sè medesimi.

Caifa uscì per far mettere all'opera la sua gente.

Hannah mi raccomandò d'eseguire strettamente le sue istruzioni.

Nel partire incontrai Justus quasi travolto da una immensa folla, che lo
portava in avanti come suo capo. La parola d'ordine era sempre la
stessa: Abbasso l'acquedotto! rispetto alle offerte!

I Romani hanno una marcata predilezione per l'acqua e le fontane nelle
loro città. Ne fanno un oggetto d'ornamento ed un mezzo d'igiene
pubblica. Pilato intendeva illustrare il suo governo a Gerusalemme
lasciandovi delle fontane, di cui la città, del resto, aveva ben d'uopo.
Egli aveva principiato un acquedotto di venticinque miglia per condurre
l'acqua da lontano: monumento d'arte e di pubblica utilità che avrebbe
rivaleggiato e forse eclissato l'Acqua-Giulia. Non volendo per
quest'opera caricare il popolo di tasse, aveva reclamato ed ottenuto da
Caifa, per forza o per amore, quell'imposizione di mezzo siclo che ogni
Ebreo è obbligato di pagare al Tempio tutti gli anni, ed il doppio se
paga il giorno di Sabato. Questo sacro tributo si chiamava l'offerta.

Mi avvicinai a Justus, e gli dissi a bassa voce:

— Sempre avanti. Nulla è cangiato.

Intanto dalla porta Dorata, che conduce pel ponte sul Cedron alle strade
del Giordano e del Mar Morto, dalla porta Giudiziaria, che s'apre sopra
le strade di Gaza e di Egitto, dalla porta di Efraim che mena a Samaria,
e da quella di Beniamino ove mette capo la via di Anathot e quella di
Betlemme, delle onde di provinciali s'ingolfavano nella città, condotti
da quei capi che erano scappati al tranello teso nella casa di Josafat
da Pilato. Tutti si dirigevano verso il forum di Gerusalemme, la piazza
del Pretorio che sta dinanzi al palazzo d'Erode. Io mi diressi da quella
parte, toccando la piazza del mercato.

Là, in mezzo ad una folla immensa, vidi Bar Abbas che gridava:

— Dannazione dell'anima mia! Dell'acqua? ancora dell'acqua? Abbiamo noi
bisogno d'acqua? a che serve l'acqua? È buona tutt'al più per annegarsi,
pelle persone sudicie che hanno d'uopo di lavarsi; e per quei zelanti
che non sfiorerebbero le labbra delle loro mogli senza credersi impuri!

— Sì, sì, abbasso l'acquedotto! gridava il popolo.

— Se si facessero almeno delle fontane di vino! allora si capirebbe. Il
vino! Vi piace il vino, ragazzi?

— Evviva il vino! vociavano i biricchini: gloria al vino e a chi ne ha!

— Del vino sopratutto, ragazzi, continuava Bar Abbas. Val bene la pena
di costruire degli acquedotti lunghi venticinque miglia per fornire
d'acqua il popolo di quel Dio che si divertì a fare il diluvio, il
popolo che durante quarant'anni ha bevuto dell'acqua nel deserto con
Mosè! Anche a Mosè piaceva l'acqua. Ecco perchè era odiato da sua
moglie. È dunque deciso. Non vogliamo acqua. Abbasso l'acqua! La pioggia
ci bagna già abbastanza, la Dio mercè, quando le nostre case sono
bucate.

— Abbasso l'acqua! abbasso l'acqua! rispondeva la folla.

— E rispetto all'offerta, figliuoli. La moneta santa! Per le corna di
Mosè! e che cosa farebbero i nostri preti? Vogliamo dunque ch'e'
diventino magri come tante cavallette? Si lagnavano già che la tassa
santa era troppo leggiera. Figuratevi se la confiscano. Ci metteranno
una tassa di un siclo a testa.

— Rispetto all'offerta! gridava la plebe.

— Mi piacciono i preti grassi, a me, seguitava Bar Abbas. Sono contenti,
e quindi di buon umore ed umani. Samuele era magro, e inquietò Israele.
Geremia era magro perchè non digeriva bene, e fece di Gerusalemme una
valle di lagrime. Si andava a nozze piangendo, si mangiavano dei buoni
pranzi versando lagrime, si abbracciava la moglie gemendo: si aveva
disimparato a ridere. Prendere l'offerta? ma si vuol dunque ridurre i
nostri amabili preti a nutrirsi di sterco, come.... rammentatemi un po'
il nome di quel profeta maiale...

— Vivano i preti grassi! rispetto all'obolo di Dio! gridava sempre la
plebe.

— E poi, ragazzi, i Romani devono forse darci da bere? non è abbastanza
che ci prendano quello che abbiamo per mangiare, senza che vogliano
ancora condannarci all'acqua per raffreddarci? Se amano l'acqua, vadano
a berla a Roma. Noi siamo figli di coloro che si regalarono nella terra
promessa di grappoli d'uva grossi come la torre Phasaelus. Non basta
dunque ai Romani di prenderci tutto: vogliono far tavola rasa, tavola
lavata, tanto che non ci resti più nulla sopra. Vogliamo essere sporchi
noi! I nostri profeti lo erano e conversavano con Dio, malgrado ciò.

— Abbasso gli acquedotti! abbasso gli acquedotti! continuava la plebe.

— Sì, agnellini miei, ed andiamo a cercare una spiegazione chiara dal
procuratore. Che lasci tranquilli i nostri preti! Quando i preti sono
contenti, tutto prospera, principiando dalle vostre donne. Il nostro Dio
è già abbastanza povero: lo derubano a chi può meglio. Vorrebbero infine
ch'e' si mettesse al servizio dei Romani, per vedere il colore dell'oro?
Egli fa dei miracoli: se vuole dell'acqua, come al tempo di Mosè, non ha
bisogno di comperarla.

— No, no, che non si tocchi il denaro di Jehovah!

— Ebbene, è questo che andiamo a cantare gentilmente al procuratore.
Seguitemi e zitti! Parlerò io per voi: unitemi soltanto alcuni di
Galilea e di Samaria. Io so come si parla ai capi. Ho parlato a Tiberio,
quando combattevo sotto di lui! Un capo fermo, quello! I vecchi avanti,
i giovani in mezzo, le donne ed i bimbi a casa o nel Tempio.

In un batter d'occhio, quella moltitudine immensa si mise in ordine, e
Justus ed altri quattro commissari si univano a Bar Abbas, costituitosi
oratore dei lagni popolari. Allora, salendo verso il Moriah, lasciando a
sinistra il palazzo dei Maccabei e l'Ippodromo a diritta, camminando
lungo il Tempio dalla porta Occidentale fino al palazzo degli Archivii,
essi traversarono la grande piazza, e si fermarono appiedi dei diciotto
gradini che formavano la scala del Pretorio.

Pomponius Flaccus, che era stato avvisato fin dalla vigilia di ciò che
doveva accadere in quel mattino, non si stupì nè si commosse per quelle
grida del popolo. Egli digeriva ancora, del resto, la cena ed il vino
della notte. Poichè Pilato, quantunque non bevesse che acqua pura, aveva
una cantina eccellente. Claudia Procula, che ignorava tutto ciò che
accadeva, si destò, o meglio, fu destata dalle sue schiave, spaventate
dalla sommossa.

Pilato fece avvertire la moglie di non temere di nulla; ma Claudia,
coperta ancora da quelle bandelle dell'acconciatura notturna di cui
usavano le dame romane per conservarsi la pelle più fresca e più bella,
si gettò sulle spalle una specie di pallium incarnato che la copriva da
capo a piedi, e salì sopra la terrazza che circondava il palazzo.

Essa dominava la città.

Pilato, all'avvicinarsi della folla, aveva inviato i suoi prigionieri
alla torre Phasaelus, temendo non glieli strappassero dalle mani. Aveva
appunto finito di scrivere la sentenza di condanna per essi, allorchè il
capo della guardia che vegliava alle porte del palazzo entrò per
annunziargli che una deputazione del popolo desiderava di parlargli.
Pilato esitò un momento fra il riceverla e il farla respingere a
scappellotti. Alla fine si decise a lasciarla entrare.

Jesus Bar Abbas si avanzò alla testa dei cinque altri parlamentari,
camminando nella sala con passo da re. I suoi stracci facevano spiccare
la dignità della sua andatura. Aveva l'intenzione, semplicemente,
d'esser sublime. Una mano al petto, l'altra sul fianco, la testa alta e
un po' indietro, mentre fissava lo sguardo su Pilato, sembrava ammirare
gli intagli in legno di cedro del soffitto. Puzzava d'aglio come tutti
gli spagnuoli uniti insieme. E siccome Justus lo incalzava troppo da
vicino, egli spingeva di tanto in tanto il piede indietro, affin
d'allontanarlo e tenerlo al suo seguito, non al suo fianco. Ond'è ch'ei
sembrava zoppicare.

Le sopracciglia di Pilato si aggrottarono, il suo respiro divenne
agitato.

— Signor procuratore, son io, disse Bar Abbas, avanzandosi davanti la
sedia curule di Pilato.

— Quella bruzzaglia non aveva dunque nulla di meno sporco da inviare
come suo ambasciatore? domandò Pilato volgendosi agli altri
parlamentari.

— La bruzzaglia sa che io sono un oratore, rispose Bar Abbas,
interrompendo Justus che era lì per fare una scusa; ecco, o Pilato, la
ragione perchè io varco la soglia del palazzo dei nostri padri.

— Dei tuoi padri? Sì, sì, disse Pilato sogghignando: parla dunque,
parla.

— Il popolo d'Israello.... cominciò Bar Abbas.

— La canaglia! interruppe Pilato da focoso spagnuolo ch'egli era.

— Se mi esprimo male in latino, che, per altro, ho parlato per vent'anni
nelle legioni di Cesare, ti arringherò in greco. Vedi, Pilato, sono
letterato, sai! Ho insegnato ai Galli il passo che David danzava dinanzi
l'arca, ed ai tuoi compatriotti il concime di quelle lenti per le quali
Esaù vendette la sua primogenitura.

Pilato si contorceva sulla sua sedia, ma Bar Abbas continuò:

— Non ho avuto tempo, o Pilato, di comporre la mia concione. Gli
avvenimenti mi hanno sorpreso nella piazza del Mercato, e l'amore pel
mio popolo m'ha detto: Va avanti. Mi sono posto alla sua testa, e vengo
a dirti a suo nome: _Quousque tandem abuteris, Pilate, patientia
nostra?_

— Non c'è nessuno fra voi che abbia un po' di senso comune per prendere
la parola? gridò Pilato battendo col pugno sul tavolo.

— Come, del senso comune! io vengo a nome del popolo ebreo per parlarti
dell'acqua e non del senso comune, io che ho avuto l'onore di parlare al
divino Tiberio, tuo padrone, e di dirgli: Buon giorno, Cesare!

— Gettami codesto galuppo fuori della porta a pedate, ordinò Pilato ad
un decurione di guardia nella sala.

Il decurione obbedì alla lettera; ed intento che eseguiva l'ordine, Bar
Abbas sgambettava gridando e grattandosi le parti offese.

— Andiamo, via, Lentulus, a modo, fa da vecchio camerata, più
dolcemente, non colla punta, dal lato... Ah, bravo, ora la tunica è
forata, ed ecco la mia faccia posteriore esposta agli sguardi del signor
Pilato e delle stelle della Siria.

Justus si avanzò allora, e domandando scusa delle buffonerie di Bar
Abbas, espose a Pilato i piati del popolo ebreo.

— Sta bene, rispose il procuratore: non ho consigli a prendere dal
popolo ebreo, e non ho conti da rendere che a Cesare. So quel che
faccio, e quel che faccio è ben fatto. La città ha bisogno di fontane,
ed io voglio farle. Se il popolo ebreo trova che agisco male
nell'adoperare l'offerta, invece di aggravarlo con un'altra tassa, e fa
come l'asino, che, soccombendo sotto il peso, dà delle calciate al
padrone, che si affretta ad alleggerirlo. Ecco la mia risposta. Andate.

— Dunque, dimandò Justus, l'acquedotto sarà finito, e l'offerta
continuerà ad essere spesa in quella costruzione?

— Sì. Andate.

La deputazione salutò e partì.

La folla rumoreggiava di già al racconto fantastico che Bar Abbas le
tratteggiava dell'accoglimento ricevuto. Quando gli altri commissarii
vennero ad annunziargli che la volontà di Pilato era incrollabile, che i
lavori dell'acquedotto non sarebbero sospesi, la tassa del Tempio non
rispettata, un grido immenso partendo dalla piazza del Pretorio, circolò
di strada in strada, di fila in fila, da Sion al Moriah, dall'Akra al
monte degli Ulivi, risuonò nell'aria, avviluppò la città tutta.

Claudia ne fu spaventata.

Flaccus si risvegliò.

Pilato sorrise. Egli l'aveva di già castigato, questo popolo, allorchè
non voleva che girassero per le vie della città le insegne con l'effige
di Cesare, la legge ebrea proibendo le immagini come idolatre. Senza
dunque commuoversi, fece chiamare Decius Crispus, comandante di tutte le
forze romane che occupavano Gerusalemme, e gli disse:

— Prendi le due coorti che stanno nella corte del centro, e, l'arma nel
fodero e la frusta alla mano, disperdimi quella marmaglia. Non fate
sangue; ma batteteli bene e forte.

Decius Crispus, che Pilato sceglieva perchè lo conosceva per umano e
dolce, lo salutò e cinque minuti dopo uscì dal palazzo.

La folla non s'era mossa, gridando sempre: Abbasso l'acquedotto! non
toccate l'offerta! Crispus le rivolse alcune parole concilianti,
consigliandola di cessare dal rumore e di rientrare nelle sue case. Fu
insultato. Allora diede ordine ai suoi di respingerla.

Ai primi colpi di frusta le grida raddoppiarono. Ma quelli che sentivano
cincischiarsi la faccia indietreggiarono e spinsero indietro gli altri.
Allora principiò la ritirata. Qualche pugno ricevuto dai soldati
accrebbe la loro collera e la forza delle loro braccia. Ma accadde per
disgrazia che uno dei soldati insanguinò di un colpo di frusta la faccia
di Bar Abbas. Il dolore gli strappò un grido terribile. Nello stesso
momento cacciò fuori di sotto il pastrano un coltello, e lo immerse nel
ventre al soldato. Il Romano cadde gridando: ci assassinano!

Questo fu il segnale.

I soldati che non avevano fatto uso fino a quel momento che delle
verghe, sguainarono le daghe e principiarono a ferire. Gli Ebrei erano
disarmati: la carnificina non incontrò ostacolo. I soldati di Pilato si
aprirono una strada di sangue attraverso quella moltitudine di vecchi e
di giovani che erano venuti lì più per supplicare che per rivoltarsi.
Essi li abbattevano a dritta e a sinistra come le spighe sotto le mani
dei mietitori. Quelli che fuggivano rovesciavano i più deboli e li
schiacciavano. Guai a coloro che cadevano: non si rialzavano più. Le
botteghe, le porte delle case si aprivano per dare asilo a quei
disgraziati; ma il sangue dava la vertigine ai soldati. Il tempio stesso
non fu rispettato: la corte dei preti come quella dei pagani, il
lishcath ha-Gazith, come il mercato sacro, i chiostri e le camere sante,
tutto fu contaminato dal sangue, e coperto di cadaveri. Tremila vittime
perirono, fra cui due soli soldati romani!

All'indomani le valli dell'Hinnom, di Josafat e il Cedron erano coperte
di cadaveri, per la maggior parte Galilei, sudditi del tetrarca Antipas
Erode.

Claudia, durante tutto il primo momento di quella protesta, si era
tenuta sul terrazzo ad ammirare lo splendido panorama che la circondava.
Ella contemplava il Tempio, il cui frontone, coperto di lamine d'oro
luccicanti al sole, l'abbagliava; la valle che sempre scendendo finisce
a Betlemme, a Gerico, al Giordano, al deserto, al mar Morto, vasto
spazio d'azzurro e d'oro, che chiudeva una parte dell'orizzonte come uno
zaffiro termina il rostro di una corona. Essa ammirava i giardini di
Silohè, i gruppi argentati degli alberi del monte degli Olivi, gli
splendidi giardini del suo palazzo, la catena delle montagne della
Giudea e di Beniamino, le quali si riattaccano con un altipiano ai due
speroni di Sion e di Akra; e molto lontano, al di là del Giordano e del
deserto, le montagne di Moab, che rassomigliavano ad una nuvola violetta
pagliettata di oro.

Quando si fece udire il terribile ruggito del macello, Claudia portò i
suoi occhi dal cielo alla terra, e seguì, senza impallidire e senza dare
indietro, il solco della daga romana a traverso i figli di David. Poi,
quando il sole cominciò a darle noia, temendo per la tinta della sua
pelle, rientrò lentamente mormorando a Cypros, la schiava gallica che
aveva la cura della sua testa:

— Arrivo a tempo!

Flaccus seppe nel suo bagno la notizia della carnificina, mentre i suoi
schiavi gli grattavano la pelle con una pietra pomice di Lesbo, dolce
come i labbri d'una fanciulla.

— Bah! disse egli, quei birbi se la caveranno coll'aguzzare di nuovo le
loro spade domani.

Ed ordinò che si ponesse un'altra pastiglia di mirra nelle cassolette
d'oro che profumavano il suo appartamento.

Pilato, invece, alla vista di quella terribile catastrofe si strappò i
capelli dalla disperazione. Si gettò di slancio sul primo cavallo che
trovò nella corte, e corse dietro agli uccisori, gridando: Fermatevi,
fermatevi!

Ma egli, ahimè, s'avanzava lentamente!

I cadaveri, i feriti, i caduti gli ostruivano la strada. Le grida di
maledizione che attristavano la via, lo opprimevano. Egli riescì alla
fine a calmare il furore dei soldati; ordinò che si ritirassero, e
ritornò egli stesso al palazzo col cuore piagato e l'anima piena di
dolore e rimorso. Entrò nella sala dei giudizii. Gli fu presentata la
sentenza contro i ventidue prigionieri ch'egli aveva condannati il
mattino. La rilesse, restò lungamente a riflettere, e domandò ai suoi
consiglieri se la era giusta e secondo la legge. Gli risposero
affermativamente.

— Allora, disse egli, fate venire i prigionieri.

Davanti le porte del palazzo — gli Ebrei separatisti si credevano
contaminati varcando la soglia della dimora di Pilato — si stende una
corte aperta, in mezzo alla quale, dacchè il palazzo d'Erode è divenuto
il Pretorio Romano, è incrostato un quadrato di mosaico che segna il
sito del giudizio. Noi chiamiamo quel luogo il Gabbatha. Nel mezzo del
Gabbatha si alza un piccolo banco di pietra, screziato di marmi a varii
colori, sopra il quale si metteva la sedia curule del pretore, quando
doveva leggere la sentenza dei delinquenti. Si poteva, secondo le nostre
costumanze, pronunciare la sentenza nella sala di udienza, ma la si
doveva pubblicare all'aria aperta innanzi al pubblico che voleva udirla.

Quando Pilato venne a sedersi al suo posto, i prigionieri, legati in due
catene di undici ognuna, lo aspettavano in due file, una a diritta,
l'altra a sinistra. Le guardie del Pretorio si stendevano in cerchio
intorno ad essi, ma popolo non c'era. La corte era vuota. Malgrado ciò,
Pilato passò oltre. Egli domandò ai condannati:

— Avete nulla da aggiungere in vostra difesa?

Nessuno rispose. Alcuni sorrisero sdegnosamente e con ironia.

— Leggi la sentenza, disse Pilato al suo scriba.

Questo personaggio lesse la sentenza in latino. Un interprete la
tradusse nella nostra lingua. In sostanza essa decretava così: i
ventidue prigionieri incatenati saranno esposti domani nell'anfiteatro
alla vista del popolo che non li ha veduti oggi, avanti che principiasse
lo spettacolo, e saranno frustati con dieci colpi di verga ciascuno.
Dieci di questi delinquenti (di cui la sentenza dava i nomi) saranno
crocifissi nella sera stessa. Sei altri (di cui parimente erano scritti
i nomi) saranno dati in preda alle bestie feroci nel secondo giorno. I
sei ultimi infine, i più vigorosi ed i più giovani, combatteranno il
terzo giorno le bestie, armati soltanto di spada corta. Quando la
sentenza fu letta, Pilato domandò di nuovo, rivolgendosi al popolo che
non c'era in realtà:

— V'è qualcuno che abbia osservazioni a presentare?

Naturalmente nessuno rispose. Allora egli si volse ai condannati, e
soggiunse:

— E voi avete niente da opporre? Avete qualche cosa da domandare, che
non tocchi la sentenza?

I condannati tacquero. Solamente dopo un minuto di silenzio, durante il
quale si avrebbe potuto udire i battiti di tutti i cuori, Menahem gridò:

— Dio che accende i giorni nel cielo maturerà quello della vendetta.

Pilato scosse lievemente il capo, e rispose con calma.

— Se codesto giorno trovasi in un anno qualunque, il tempo non l'ha
ancora segnato nel suo libro.

Un minuto dopo, l'usignuolo gorgheggiava nei giardini del palazzo, stesi
ai piedi dell'Ophel e bagnati dalle acque deliziose di Enrogel; le
tortorelle gemevano, il vento del mezzodì folleggiava con le fragranze
della valle di Siloam, le farfalle svolazzavano, spiegando il loro
scrigno di gioielli in mezzo ai fiori della corte.

Il pranzo di Pilato e del suo ospite era pronto.



IV.


L'anfiteatro di Gerusalemme era stato costrutto dal re Erode.

Il re sapeva benissimo che la legge proibiva il genere di spettacoli che
vi si danno per solito. Ma egli provava questo mezzo di seduzione, come
ne aveva tentato tanti altri, nobili, utili, politici, umani, per
spezzare quella cerchia di bronzo, ch'estraniava gli Ebrei dalla
comunanza degli altri popoli dell'Oriente e dell'Occidente. Egli fallì
in questa, come in tutte le sue altre idee, troppo grandi per un popolo
così incolto e così rozzo.

L'anfiteatro, al tempo di Erode, era sempre stato popolato, come lo è
oggidì quello di Pilato, da spettatori venuti perfino dalla Grecia e
dall'Egitto — da Damasco a Memfis, da Gaza a Tiro, — dalle città greche
e romane che s'innalzano sopra il suolo dei figli di Jacob, — Cesarea,
Gadara, Sephoris, Pella, Scitopoli, Hippos, Phasaelus, Tiberiade. Le
città di Samaria si vuotavano, tutti andando a vedere le feste di
Pilato, che coincidevano con quelle dei Tabernacoli degli Ebrei. Il
vasto circo rigurgitava quindi di popolo fin dalla mattina.

V'erano anche degli Ebrei, ma dei due partiti estremi: l'aristocrazia
sadducea, e quella infima plebe che non si classifica, ma si
ammonticchia. Siccome da noi non ci sono vestali, il podium era stato
riservato alle dame di alto grado, per le quali c'era una sportula
apposita di entrata. Le file superiori erano tutte occupate dalle donne,
quasi tutte velate; le prime, dagli uomini di condizione più elevata,
magistrati, principi, capi di milizia, preti, antichi ufficiali delle
sinagoghe. Una inferriata, non molto alta veramente, li proteggeva dalle
fantasie di quelle bestie che avessero voluto cercare altrove che
nell'arena un sito per rappresentare la loro parte.

Ad una delle estremità di questo ovale, a nove o dieci piedi al di su
dell'arena, si trovava la loggia di Pilato — rimpetto al podium —
separata dagli altri spettatori soltanto da una corda di seta ed oro,
tesa ai due lati, dalla graticola di ferro ai gradini superiori. Sul
davanti, sopra due sedie d'avorio incrostate d'oro, siedevano Claudia
Procula, con ai piedi dei cuscini di seta azzurra ricamata di argento, e
Pomponius Flaccus che li poggiava sopra un tappeto persiano. Dietro ad
essi il seguito delle loro corti e degli ufficiali. Pilato occupava un
seggio speciale un po' più lungi, come mastro dello spettacolo; poichè a
Gerusalemme non vi erano come a Roma edili o direttori speciali per
questo oggetto. Un velarium tessuto di bianca lana di Bethania, a righe
cremisine di lana di Sion, copriva bene o male tutto il vasto ricinto.

La varietà di costumi degli spettatori allettava lo sguardo. Ma coloro
che qualche volta nella loro vita avevano assistito ai circhi romani ed
agli ippodromi greci, ove il popolo è sì gaio e rumoroso, avrebbe
creduto di vedere, in quella folla così tranquilla e così seria,
un'assemblea che assiste ad un processo capitale in una corte di
giustizia. D'altronde quei combattimenti al cesto, quei _reziarii_, quei
_dimacheri_, quegli _andabati_, che potevano avere di interessante per
gente che si era trovata la vigilia presa in quella strana caccia che i
soldati romani avevano data al popolo ebreo, trafiggendo petti, dorsi,
fianchi, tagliando teste e membra, e correndo sempre innanzi, sempre
innanzi, sopra feriti, morenti e cadaveri? Non c'era una famiglia ebrea
che non avesse il suo lutto; donde poteva spillare la gioia? Nessuno
conosceva quei combattenti, nessuno scommetteva per uno o contro uno di
essi; come potevano interessarsene? Il popolo ebreo ha della sensualità
per la bellezza, come tutte le razze orientali, ma non il sentimento del
bello, come il Greco ed il Romano. Il popolo ebreo teme la forza ed è
malfidente della destrezza; egli non l'ammira, non la coltiva, e
nemmeno, a mo' dei Greci e dei Romani, l'apprezza. Come si sarebbe egli
appassionato per le belle forme dei gladiatori greci, per l'ammirabile
abilità di quei _dimacheri_ italiani, i quali, pugnando di spada e di
pugnale, senza armi difensive, si uccidevano a vicenda; o per l'agilità
di quel _reziario_, e di quel _mirmillone_, l'uno ucciso e l'altro
ferito a morte? Appena se si rise un po' degli sbagli di quei Galli
_andabati_, di cui uno — camuffati come erano di un elmo di ferro che
non aveva aperture che alla bocca ed alle orecchie — dopo diverse
balordaggini, ebbe un braccio spiccato fuor netto, e l'altro il ventre
squarciato. Tutto questo era accolto con freddezza.

Ma una scena d'altro genere venne ben tosto a destare una dolorosa
commozione.

La giornata doveva chiudersi con una pantomima di ballo e di canto di
una festa di Sileno, interrotta dall'irruzione di un toro, aizzato da
cani che lo cacciavano e che lasciavano il tempo così ai cori ed ai
cimbalisti di mettersi in salvo per la _sana vivaria_ e le altre uscite
dell'arena. Ma avanti che si rappresentasse questa commedia, Pilato
volle che la sua tragedia precedesse.

Le trombe suonarono. Il silenzio del deserto si fece profondo nella
festa. Allora un araldo si alzò dietro a Pilato, ed avanzandosi, gridò:
Ecco la sentenza dei cospiratori contro Cesare.

Dopo che l'araldo ebbe letto il decreto pronunziato il dì innanzi dal
procuratore, questi fece un segno. Allora il vomitorio che stava al
disotto del _podium_ si aprì, e apparvero i condannati. Erano divisi in
tre file, legati da corde pugno contro pugno. Quelli che dovevano esser
crocifissi la sera precedevano gli altri. Erano i più vecchi, i più
deboli; li conducevano soldati indigeni. Il secondo gruppo era composto
dei condannati alle bestie, in semplice tunica, con un solo pugnale a
difesa. Moab era alla testa di questo; dei soldati Romani marciavano
dietro a loro. Finalmente venivano i sei condannati alle bestie, ma
armati questi di tutto punto, eccetto la corazza e lo scudo. Menahem era
fra costoro; i legionarii gli scortavano.

Quando apparvero nel circo, un grido immenso echeggiò in mezzo alla
folla: Gloria ai figli d'Israele: coraggio, coraggio! Poi seguì un
silenzio che faceva fremere. I condannati non pronunziarono una parola.
Tutti avevano il passo sicuro, l'aria calma, l'aspetto dignitoso, quasi
andassero a compiere un sacrifizio religioso.

Menahem camminava, la testa alta, lo sguardo perduto nel cielo, come se
avesse voluto squarciare il velarium, e incontrare nel firmamento lo
sguardo, il sospiro, il bacio forse, ch'e' vi cercava. Moab scorreva
degli occhi ansiosi le gradinate dove stavan le donne, visibilmente
inquieto, concentrando tutta la potenza della sua vita in quegli sguardi
investigatori. Percorsero così tutta l'arena da dritta a sinistra,
tenendo il dosso voltato al _podium_, durante la metà del loro
passaggio.

Io stava rimpetto a quella parte dell'anfiteatro. Allorchè i condannati
arrivarono sotto la loggia di Claudia, alla vista quindi delle donne che
avevano preso posto nel _podium_, osservai un brusco movimento di una di
queste, che era seduta in prima fila, all'istesso livello della moglie
di Pilato. Mano mano che i condannati avanzavano verso quella parte
dell'arena, la agitazione di quella donna aumentava. Ella si alzò e
spinse il suo corpo sì avanti, sì avanti, che un'altra donna seduta
vicino a lei, la prese per la vita onde tenerla. Alla fine gettò un
grido. Tutti gli occhi si voltarono subitamente di là. Moab lo intese,
egli pure, e fu preso da un terribile tremito in tutto il suo corpo.
Appena se poteva più camminare; ma arrivato sotto quel sito, gridò egli
pure: Addio, Miriam!

— Moab! rispose la conosciuta, e ricadde sopra il suo cuscino, lasciando
andare la testa sulle spalle della sua vicina.

A questo movimento, il velo si sciolse. La fu una vista abbagliante per
tutti. Si sarebbe detto che il velarium si aprisse, e che il sole
inondasse l'arena. Mai non s'era seduta una simile bellezza fra le
figlie d'Israello fino da Esther, forse da Eva la figlia di Dio, in poi.
Un grido di sorpresa scoppiò in mezzo all'assemblea. Pilato impallidì
come un cadavere. Moab era caduto affranto, e lo avevano trasportato
svenuto. Claudia disse qualche parola al suo vicino Flaccus, questi le
ripetè a Pilato che non rispose. I suoi occhi erano fissi al posto ove
sedeva Mirjam. Questa si era alzata precipitosamente ed era sparita
sotto il vomitorio che conduceva dalla galleria interna al podium. Io mi
precipitai per vedere questa donna che m'era sconosciuta, a me che
conoscevo tutte le donne di Gerusalemme. Ma ella erasi deleguata come un
soffio d'aria, senza lasciar traccia di sè.

Questo incidente mise un po' di freddo nel resto dello spettacolo.

Uscendo dal circo, il popolo s'incontrò coi condannati che andavano al
supplizio.

Il popolo d'Israello, che non aveva assistito al combattimento dei
gladiatori, andò ad assistere alla morte dei suoi compatriotti. I
contorni del Golgota erano gremiti di gente; ma pareva che quelle
migliaia di uomini e di donne fossero pietrificate. Non un grido, non un
gesto: si respirava sordamente, ed ogni sospiro conteneva una
maledizione.

Mentre gli stranieri si divertivano coi gladiatori ed i mimi di Pilato,
i suoi carnefici alzavano la croce. L'operazione fu breve. Essi ne
avevano l'abitudine. Un'ora dopo avevano issato i condannati sulla
croce, piedi e mani legate; poi, quando tutti pendevano dal patibolo,
ruppero loro con una sbarra di ferro le gambe e le braccia, le coscie e
gli avambracci.

Al grido straziante dei suppliziati, rispose un grido terribile del
popolo: grido inarticolato che non esprimeva nulla e diceva tutto. E fu
il solo. Il popolo svignò dagli accessi del Golgota, come l'acqua
irrompe da un vaso forato.

La sera era fresca e bella. Io aveva cenato con Maria. Bar Abbas era
venuto a sparecchiare gli avanzi. Justus era arrivato un po' più tardi;
poichè quel cattivo mobile avrebbe passata tutta la sua vita ai piedi
della mia amante. Finita la cena, io li invitai ad accompagnarmi. Maria
volle venire anch'essa.

Uscendo dalla porta Giudiziaria, che s'apre sulla strada di Silo e di
Gabaon, lasciammo a sinistra la tomba di Anania, ed incominciammo ad
ascendere, a dritta, il piccolo cocuzzolo del Golgota. La luna lo
rischiarava completamente. Un venticello acuto cacciava dinanzi a sè una
peluria di bianco vapore frangiato in piccoli fiocchi, che svolazzavano
capricciosamente, lasciando puro e netto un firmamento azzurro come la
grotta dell'isola di Capri. La luna avanzava frettolosa.

Una fila di forme bianche che si staccavano sul fondo ceruleo, apparve
ai nostri occhi. A misura che ci facevamo più presso, quelle forme
prendevano una figura, e vedemmo i corpi nudi dei suppliziati.

Il sito era deserto. Le guardie, dopo aver ferito a morte i condannati,
non s'erano curate di udire l'ultima maledizione o l'estrema preghiera.
Dei cani vagabondi, che venivano dall'orgiare nel Carniere dei cadaveri,
abbaiavano per distrarsi. La civetta rispondeva loro. Un gemito sordo,
corto, affogato, rompeva il silenzio notturno.

— Questi infelici non avevano dunque nè sorella nè madre, nè....
mormorava Maria stringendosi a me senza finire la frase: essi muoiono
soli!

— Forse, risposi; ma la paura.... D'altronde è più triste il morire
senza funestare lo sguardo della vista di una faccia umana?...

Eravamo ai piedi delle croci. I condannati avevano gli occhi chiusi o
rivolti al cielo. Nessuno d'essi era ancor morto. I loro petti si
sollevavano con uno sforzo che faceva scricchiolare le loro coste. Le
ossa delle estremità erano rotte; il corpo contratto e impiccolito
projettavasi in avanti. L'agonia era orribile.

Udendo dei passi sotto di sè, una sola voce proruppe da tutte quelle
fauci bruciate e soffocate: Sete! sete!

Noi non avevamo acqua, nè scale. Bar Abbas si precipitò dall'altipiano
per andar a cercar qualche cosa. Quel buffone era anch'esso addolorato!
Io dissi il mio nome. Io ero conosciuto da tutti i patrioti dell'ex
regno d'Erode. Allora un'altra parola scappò fuori da tutte quelle
labbra infiammate come la bocca di un forno: Vendetta!

— Sì, fratelli, risposi io: morite in pace; voi sarete vendicati.

Due o tre di quei petti avevano cessato di sollevarsi.

Maria piangeva.

Justus, la testa china, sembrava desolato e guardava quella donna.

Io mi torceva, non potendo dar loro nessun soccorso, non potendo nè
alleviare nè abbreviare quell'agonia.

Restammo silenziosi, ascoltando quel singhiozzo che straziava l'anima.

La luna continuava la sua ridda scapigliata in mezzo alle nuvole
cacciate dal vento; il grillo si lagnava nelle fessure della roccia che
cominciava a divenir fredda; il cri-cri chiamava la sua compagna; il
cucullo gettava la sua monotona nota al vento che soffiava l'alito
appestato dalla valle ai nostri piedi; lo sciacallo più lungi latrava
dalla gioia. Mentre le finestre del palazzo d'Erode risplendevano per la
festa di Claudia e del governatore della Siria, il respiro dei
suppliziati poco a poco si spegneva. E Bar Abbas non arrivava! Non potei
più rattenermi.

— Addio, gridai, precipitandomi verso il giù della collina.

— Nel cielo! mi risposero le due ultime voci che restavano ancora
distinte.

Quegli infelici credevano quasi tutti alla risurrezione.

Poco dopo, Justus mi ricondusse Maria. Bar Abbas arrivò troppo tardi. Il
sacrifizio era consumato.

L'aria ripeteva ancora il grido: Vendetta! vendetta!

— Oh sì vendetta!... Chi era dunque quella donna che avevo veduta nel
circo? Come era bella, mio Dio, come era bella!

Il giorno seguente, fino all'alba, quegli ebrei che si erano astenuti la
vigilia di andar a vedere i giuochi dei gladiatori stranieri, occupavano
quella parte dell'anfiteatro che circonda come due ale la loggia di
Pilato, per andare a sollazzarsi del _morituri te salutant_ dei loro
martiri. Erano tristi, silenziosi, concentrati; si sarebbe detto che
fossero in corruccio.

Lo spettacolo di Pilato non valeva, certo, quello dei suoi padroni di
Roma. Egli non dava il combattimento di venti elefanti contro un pugno
di Getuli armati di giavellotti che Pompeo presentò nel suo secondo
consolato, nè le sessantatrè pantere di Scipione Nasica e di Lentulus,
nè i cinque ippopotami opposti ai ventitrè coccodrilli di Sagurus, nè la
caccia dei cento leoni organizzata da Silla, nè quella dei trecento e
quindici leoni data da Pompeo, o quella di quattrocento data Cesare. Non
c'erano i tremila e cinquecento leoni, tigri e pantere d'Augusto, nè
finalmente i trecento orsi contro altrettanti leoni e pantere di P.
Servilius. Ma il povero spettacolo di Pilato, tal quale era, bastava al
gusto poco ancora solleticato di quegli Asiatici.

Pilato faceva uccidere, in quella seconda giornata di feste, dieci
tigri, dieci coccodrilli, dodici leoni ed una pantera, che, dicevano, li
valeva tutti; e per aguzzare l'appetito, dodici condannati per delitto
d'alto tradimento verso Cesare: quarantacinque teste!

Allettato dal sangue della vigilia, il popolo si mostrava oggi di buona
voglia. Lo spettacolo non prometteva egli di essere ben atroce? Si
udivano qua e là ridere le donne, gli uomini smettevano la loro gravità,
e s'imbrattavano la faccia con grappoli d'uva, e là ove trovavasi Bar
Abbas era un susurro, uno scattar di lazzi, una gesticolazione animata,
un vociare alto, un tale sconcio diavoleto infine che pareva d'essere al
mercato dei legumi.

Credetti per un momento che quel monellaccio intavolasse da un capo
all'altro del circo una conversazione con me, o con Pilato, o che
scoccasse dei baci a Claudia, e dei torsoli di cavolo a Pomponius
Flaccus. Bar Abbas aveva portato sotto il mantello un piccolo maiale,
che aveva trovato non so dove, poichè quel quadrupede è cosa rarissima
ed antipatica nella Giudea ed a Gerusalemme. Lo mostrava di tanto in
tanto, lo mordeva all'orecchio, e lo faceva grugnire come un ossesso. È
in questa guisa che si era procurato un posto, e molto comodo, avendo
messo in fuga tutti i suoi vicini; di maniera che se ne stava tanto
comodamente quanto Pilato.

Al tocco, gli abitanti del palazzo d'Erode arrivarono, e si posero nei
loro posti come il giorno prima. Qualche minuto dopo, le trombe
suonarono per annunziare che lo spettacolo cominciava. Questo fu il
segnale per i bestiarii di sollevare le grate di ferro alle bestie
feroci, per i guardiani di condurre i prigionieri, e pel popolo ebreo di
levarsi come un sol uomo e scappar fuori dall'anfiteatro. Il vuoto più
assoluto si fece quindi intorno a Pilato, a sua moglie ed al governatore
di Siria, ai due lati dove stavano.

Justus ed io restammo soli, vicinissimi a Claudia. Io sperava di vedere
la maliarda del giorno precedente.

Claudia, Pilato e Flaccus si guardarono negli occhi.

L'effetto di quella protesta non durò lungamente. Altri oggetti vennero
a far diversione.

I guardiani del circo collocarono al fondo del circo i sei condannati.

Li avevano coperti di una camicia rossa, credo pel decoro dello
spettacolo, perchè i loro abiti erano stati ben maltrattati nelle
vicende dei giorni precedenti. Moab, questa fiata, era voltato dalla
parte di Claudia. Tutti sei, s'erano piantati all'estremità del recinto,
dosso contro dosso, serrati, le braccia incrociate al petto, la diritta
armata del pugnale in avanti. E' formavano come un pilastro: e non un
muscolo del corpo loro, o della faccia, tremava. Soltanto parevano molto
pallidi. Con la testa e i piedi nudi — quella panoplia vivente serbava
ancora un aspetto formidabile. Gli occhi giravano nelle loro orbite
lanciando degli sguardi terribili. Quei denti serrati, quelle bocche
semiaperte per respirare un alito potente, quelle narici dilatate
promettevano una lotta terribile: la carne morderà forse la bocca che
vorrà divorarla.

Ma quelle bocche altresì, erano spaventevoli.

Appena i bestiarii ebbero sollevate le grate, situate non alle due
estremità dell'anfiteatro, ma ai lati, ecco da una parte lanciarsi come
in un gruppo solo dieci tigri, dall'altra strisciar fuori come un fiotto
dieci coccodrilli.

Un fremito di piacere, anzi che di terrore, corse in tutte le fila.

Il silenzio era completo.

Le tigri entrarono prime. I loro sguardi furono all'istante colpiti
dalla presenza della folla che siedeva tutta intorno e di quel gruppo
rosso ed immobile che era più vicino ad esse. Le loro narici fiutavano
un odore forte, acre e pestilenziale. I coccodrilli coi loro occhi
piccoli e rossastri scorsero a prima vista le tigri che stavano loro di
faccia: e d'uno sguardo di traverso, a dieci passi dalla loggia di
Claudia, i condannati. Tigri e coccodrilli compresero immediatamente,
per istinto, che il loro più grande pericolo non veniva dagli uomini.
Tosto le due bande sostarono per osservarsi reciprocamente. Le tigri si
accosciarono ventre a terra, la testa allungata, lo sguardo fisso e come
affascinato. I coccodrilli si serrarono in linea, l'uno toccando
l'altro, non dando segno di vita che per un movimento inquieto degli
occhi. Uno solo fra essi, il più vecchio forse, una bestia enorme,
indietreggiò fino alla parete dell'anfiteatro, e col ventre appoggiato
contro il muro cominciò a farne lentamente il giro a ritroso.

— Olà, tigri, principi miei signori, gridò Bar Abbas dal suo posto,
attenti! attenti! ecco il sagan Hannah che vi minaccia alle spalle.

Un grande scoppio di risa accolse questa giullarata, ed il nome di
Hannah restò al coccodrillo della retroguardia.

L'esitazione dei due eserciti non durò a lungo. I coccodrilli si
decisero i primi. Essi avevano confidenza nelle loro corazze, come arma
difensiva, e nei loro rictus — vere voragini irte di pugnali — come arma
offensiva. All'uopo, la loro coda di porco avrebbe servito di clava.

Le tigri compresero che non avevano che a tenersi bene, e si tennero
bene. Uno dei coccodrilli, il più giovine, fece un passo avanti, levando
il capo radendo col ventre la sabbia, giacche è al ventre ed alla gola
soltanto che quei mostri sono vulnerabili. Il movimento audace del primo
trascinò gli altri; la banda intera, comprendendo la forza della sua
solidarietà, avanzò. Le tigri non lasciarono la loro posizione;
solamente da accovacciate che erano si appoggiarono sulle loro piote,
come per prendere uno slancio. Questa prudenza sembrò senza dubbio
disonorante per uno di essi, che gettando un urlo soffocato spiccò un
salto di fianco, isolandosi dai suoi colleghi. Dopo questo primo salto,
quel tigre audace ne fece un secondo da un altro verso, tentando una
diversione, e con un terzo, si slanciò sopra il coccodrillo dell'estrema
sinistra. Esso calcolava forse di piombargli sul dorso, ed impegnar la
lotta su quel terreno roccioso. Ma aveva mal calcolato lo slancio. Il
coccodrillo minacciato fece un piccolo scarto da parte, e ricevette il
tigre nella sua bocca. Fu affar d'un minuto. In un lampo si vide il
tigre tagliato in due, e il coccodrillo rovesciato sul dorso, col collo
orribilmente lacerato.

— Bravo! gridò Bar Abbas: l'onore è intatto dalle due parti. Se per
altro avessero pensato a profumarsi l'alito sarebbe stato migliore.

Infatti l'aria ne era infettata.

Mentre che due membri dei campi opposti avevano impegnato quello
sconsigliato duello, il resto dei combattenti, non cessava di
sorvegliarsi. Il risultato di quella prova, sembrò per altro
impressionare i coccodrilli, che si credevano invulnerabili come
Achille. Essi indietreggiarono leggermente. Al contrario le tigri, alla
vista del primo sangue, cominciarono ad agitarsi.

Non una di esse stava adesso tranquilla e silenziosa. S'udiva un ruggito
sordo come il borbottare lontano del tuono. Il gruppo si ruppe. Mentre
quattro o cinque si davano a scambietti fantastici, le altre si tenevano
ferme al loro posto.

I coccodrilli non comprendevano niente di quella danza pirrica dei loro
nemici. E' si sbrancarono per seguirli cogli occhi, e forse, prenderli
al volo. Ma in sul più bello di questa evoluzione sentirono che le tigri
danzatrici, piovevano sui loro dorsi come tanti blocchi di granito,
mentre le altre facevano un movimento di fianco per assalirli di dietro.
La mischia cominciava.

Le tigri s'erano accampate sui dorsi dei loro nemici, e dopo aver
provato colle zanne e le unghie, di sdruscirne le dure squame, li
abbracciarono, e cominciavano a straziare l'epidermide più tenera del
ventre. Così dilaniati, i coccodrilli si rovesciavano, e quelli che non
potevano colpire il loro nemico fuori di portata, divoravano l'inimico
aggrappato al dorso del fratello vicino. In un volger d'occhi l'arena fu
gremita di visceri e di brani di carne. Cinque coccodrilli e quattro
tigri erano morti.

Restavano ancora sei tigri, quattro coccodrilli e il solitario che Bar
Abbas chiamava Hannah, il quale continuava il suo giro d'osservazione
lentamente, non perdendo mai di vista il campo di battaglia, nè
staccando mai il suo ventre dai muri del circo. Ogni prudenza era ormai
cessata. I combattenti erano in preda al furore. I quattro coccodrilli
insanguinati inseguivano le tigri, strisciando rapidamente, presentando
sempre il loro rictus formidabile, ghignando atrocemente. Le tigri
saltabeccavano con rapidità vertiginosa da ogni parte, il più alto che
potevano, di maniera che i coccodrilli obbligati a tener la testa volta
in su, lasciavano scoperto il collo ed il fianco. Le tigri attaccarono
per di dietro. E l'attacco ebbe luogo ai piedi dei condannati, forzati
così ad entrare in battaglia.

Qui avvenne qualche cosa di spaventevole, di impossibile a raccontarsi,
perchè gli occhi non ebbero tempo di seguire l'azione.

Vedemmo succedersi due truci gomitoli che rotolarono nell'arena. Il
primo delle tigri aggraffate ai coccodrilli, dilacerantili, e
ritirantisi esse stesse straziate; il secondo, dei prigionieri gettatisi
su ciò che restava di quelle bestie feroci, tigri e coccodrilli,
accollacciantisi, e rivolgentisi nella sabbia. Il sangue spruzzava fino
a noi. C'era come una pioggia di lembi di carne, che volteggiava
nell'aria. I coccodrilli restarono a mezza via, estinti, distrutti. Ma
quel gruppo delle tigri aggrappate agli uomini, e di uomini attaccati
alle tigri, ora gli uni avendo il disopra ed ora le altre, rotolò a
balzi fino all'altra estremità del circo, dove si fermò, come una massa
ammadiata di sabbia, di sangue, di pelli, di carne e di stracci.

Un momento si credette che tutto fosse finito, e Bar Abbas già domandava
gli onori del trionfo pel prudente Hannah, che s'era tenuto a parte
della mischia. Ma ben tosto quel mucchio fangoso si animò nuovamente.

E allora vedemmo una testa spiccar dalle viscere di una tigre, e
sollevarsi con una precauzione infinita; poi una mano, tergere il sangue
dagli occhi. Il possessore di quella testa e di quella mano guardò da
prima il carnaio ove si trovava, poi attorno attorno, come chi si
risveglia da un sonno d'ubbriachezza. Questa ispezione non fu lunga.
Immediatamente un essere che aveva le forme umane, uscì da quella
pozzanghera infetta, e saltò in mezzo dell'arena, avendo cura di munirsi
d'un pugnale.

Nessuno a prima visto riconobbe quell'uomo. Era nudo, ferito, e come
emerso da un bagno di marciume e di sangue. Raccolse un lembo di
clamide, e si rasciugò il viso per vedere. Allora potemmo riconoscere
Moab. Egli guardava stupidamente intorno a sè. Ma un grido di Bar Abbas
lo riscosse in sussulto.

— Moab, in guardia, in guardia, Hannah entra in battaglia.

Difatti, il vecchio coccodrillo, vedendo che gli restava ancora un
pericolo in quel coso vivente che si agitava all'altra estremità del
circo, girò rapidamente e andò diritto verso di lui.

Non c'era tempo a riflettere. Il coccodrillo spiegava adesso altrettanta
attività, collera e decisione, quanto aveva fin qui mostrato di calma.
Moab, ferito, non poteva più correre a sua voglia. Il coccodrillo si
spingeva sempre più avanti. Non avendo più la celerità per difesa, non
restavagli che l'astuzia. Moab afferrò un blocco di carne e di stoffa in
quella pasta sanguinosa che gli stava vicino, prese posizione, ed
aspettò.

Il coccodrillo marciò sopra di lui con l'abisso della sua nera gola
spalancato. E' si rizzò per inghiottire l'uomo. L'uomo cacciò il suo
gomitolo di carne nella voragine. Non avea che un secondo di tregua. La
pillola non soffocava il coccodrillo: e' l'inghiottiva. Ma in quel lampo
di sosta Moab si gettò ventre a terra, saltò alla gola del mostro, col
suo pugnale, lo squartò d'alto in basso e si tenne avvinto al suo collo
come ad un albero. Il coccodrillo si dibattè ancora alcuni minuti, poi,
nell'ultimo spasimo dell'agonia, slanciò a dieci passi lontano Moab
svenuto, tanto per l'orribile fetore della bestia quanto per lo sforzo
fatto.

I guardiani del circo accorsero allora, onde spazzare quelle carcasse, e
trovarono Moab ancora vivente.

— Grazia, grazia, cominciò a gridare la folla.

Ma avanti che Pilato avesse tempo di decidersi, Claudia aveva alzato la
mano col pollice ritto come le vestali romane. La grazia era accordata.
Si trasportò Moab per la _sanavivaria_, e lo si lasciò alle cure dei
medici.

In pochi istanti, gli schiavi sbarazzavano l'arena, ed aprirono alcuni
vomitorii onde disinfettare l'aria il più presto possibile; poi con dei
rastrelli coprirono di sabbia le pozze di sangue. La seconda parte dello
spettacolo principiava.

Le trombe suonarono.

Il direttore dei giuochi fece aprire una porta di fianco, e sei
cavalieri entrarono nell'arena.

Erano sudditi di Aretas re di Petra. Le loro tuniche gialle
armonizzavano coi loro visi bruciati dall'alito del deserto, e coi loro
magnifici cavalli neri della Numidia. Portavano sul capo un superbo
turbante celeste, colore della loro tribù, ed erano armati di spade,
giavellotti, pugnali, e d'uno spiedo. I cavalli non portavano sella nè
briglie.

Dal lato opposto del circo, si condussero i sei condannati vestiti di
una leggera tunica rossa, la testa ed i piedi nudi, armati soltanto di
una daga romana.

I cavalieri fecero il giro del circo, e si fermarono in isquadrone sotto
il podium. I sei condannati vennero a mettersi davanti a loro alla testa
dei cavalli.

Allora il cancello sotto la loggia di Claudia si alzò, e dodici leoni
con lunga criniera irruppero nell'arena.

Passando dalle tenebre dei loro antri alla luce del giorno, sembrarono
come abbagliati. Gli uni sbadigliarono, gli altri ruggirono, alcuni si
misero a sgambettare, mentre ve n'era che si ruotolavano con voluttà
nella sabbia. Cosa era l'uomo per questi re del libero spazio perchè
essi dovessero prendersene pensiero o accorgersi della sua presenza? Ma
l'uomo non sembrava neppur egli tocco da quel formidabile pericolo. I
cavalli soli tremavano, e si ricoprivano di un sudore agghiacciato. Essi
allungavano le loro sottili teste sopra le spalle dei condannati
allineati dinanzi a loro, come per implorarne protezione. Un nitrito
imprudente scappato al più pauroso, li denunziò ai leoni.

In un lampo, e' si rizzarono tutti, orecchie tese, faccia al vento,
occhio scrutatore: e scoprirono di rimpetto il nimico e la preda che li
attendeva. I leoni per altro non si affrettarono. Alcuni, odorando
l'aria o battendosi i fianchi colla coda, sedettero sopra le lacche,
mentre gli altri fecero lentamente un movimento in avanti.

Uno dei cavalli, il più spaventato, vedendo avvicinare il pericolo, si
slanciò e cominciò a correre pel circo, demente e scapigliato,
trascinando il suo cavaliere. Questo fu il segno della caccia e del
combattimento.

Tutti i leoni corsero dietro al fuggiasco passando come turbine dinanzi
al gruppo dei cavalieri. Questi lanciarono i loro giavellotti in mezzo a
quella muta infernale, per attirarla a sè e liberare così il loro
disgraziato compagno. Quattro o cinque leoni, feriti, si fermarono di
fatti, e vedendo di dove era loro venuto il dolore e l'attacco, fecero
fronte gettando un ruggito che incusse sgomento negli spettatori. Il
fuggitivo fu raggiunto.

Egli abbattè un leone che aveva abbrancato il collo del cavallo; immerse
il suo spiedo nella gola d'un secondo, che gli aveva afferrato la coscia
colle sue zampe. Ma due altri leoni avevano azzannato per di dietro il
cavallo, che si abbiosciò dal terrore sotto il suo cavaliere. Cavallo e
cavaliere perirono. Nondimeno il terribile Siriaco, morendo, ebbe ancora
il coraggio di immergere il suo pugnale nel fianco d'un terzo leone.

Dall'altra parte, quattro leoni piombarono sopra la banda che stava
ferma sotto il podium. I condannati li ricevettero sulla punta della
daga, i cavalieri sui loro spiedi. V'ebbe un istante in cui non si
distingueva più nulla. Ad un punto, quattro cavalieri furono travolti
dai loro cavalli che nitrivano di spavento. Tre uomini a piedi, un
cavallo col suo cavaliere e i quattro lioni, non si alzarono più. Uno
dei combattenti, ferito mortalmente, rotolava dalla sua cavalcatura, e
arrestava, come il pomo d'oro di Atalanta, le bestie feroci che lo
inseguivano. I giavellotti solcavano l'aria del circo. Menahem
s'impadronì allora d'uno spiedo, e saltò sul cavallo che volava nel
ricinto come un'aquila. Gli uomini a piedi, tutti feriti, corsero sopra
i due leoni che facevano strazio del cavaliere caduto. Là s'aprì un
combattimento come nell'Iliade sul corpo di Patroclo. I cavalieri, non
potendo padroneggiare i loro cavalli, la cui paura sembrava delirio,
attirarono fuori della lotta i tre leoni di cui erano inseguiti,
aiutandosi dei loro giavellotti e dei loro spiedoni. I due uomini furono
messi a brani ed i leoni feriti gravemente, Menahem ne uccise un altro,
ma due cavalieri soggiacquero ancora.

Non restava dunque più fra i condannati che Menahem leggermente ferito,
ma il cui cavallo era intatto. Cinque dei Siriaci del re Aretas, erano
estinti. Otto leoni erano stati ammazzati, e gli altri quattro vagavano
feriti intorno al circo. Due uomini dunque contro quattro leoni; partita
in equilibrio.

Menahem prese l'iniziativa, ed assalì. Uno dei leoni gli saltò sopra,
mentre ch'egli uccideva l'altro conficcando nel suo potente petto la
daga che appoggiava sul suo cavallo fino a rovesciarnelo. L'ultimo dei
Siriaci lo disimpegnò, uccidendo quel mostro per di dietro,
traversandolo da parte a parte. Nello sforzo, per altro, l'infelice
Siriaco perdette l'equilibrio, e cadde. E' si trovò fra gli artigli dei
due ultimi leoni i quali, feriti mortalmente, ebbero però ancora
bastante forza per ridurlo a minuzzoli. Quando Menahem, rialzandosi,
accorse in suo aiuto, fu a tempo per finire i leoni ma non per salvarlo.
Quindi, di tutto il combattimento, restava solo Menahem ferito, ed un
cavallo, il quale era ito a morire a pochi passi da lui, esausto dalla
fatica e dal terrore più che dalle ferite.

La prova però di quel disgraziato non era ancora finita. Doveva
scontrarsi ancora con quella terribile pantera che si diceva fosse più
temibile che tutte le tigri ed i leoni già uccisi.

Ad un segno di Pilato una grata si alza, e la pantera è messa in
libertà, innanzi che Menahem abbia il tempo di riaversi. Egli aveva un
braccio divorato, il fianco sdrucito, ma la mano diritta intatta, le
gambe sane, e ogni specie d'armi a sua disposizione. Gli schiavi non
avevano spazzato fuor dell'arena i cadaveri e le carcasse dell'ultimo
massacro.

Uscendo dalla sua tana, e trovandosi in mezzo a tutta quella
carnificina, la pantera sembrò per un istante sorpresa. Indietreggiò, si
postò al muro, o piuttosto si accosciò sotto un fremito vertiginoso che
s'impadronì di tutto il suo corpo. L'istinto le rivelava la presenza di
un inimico che aveva causato quell'eccidio d'individui della terribile
sua razza. Non monta pel cavallo, non monta per l'uomo, ma chi aveva
ucciso tutti quei leoni? Tutto quel rosso l'abbagliava o meglio
l'affascinava.

Allungò il grugno non pertanto sopra una di quelle pozze di sangue e la
leccò. Quella libazione cominciò a inebbriarla. Un giavellotto che la
colpì sulle narici la fece balzare. Allora comprese il pericolo, e
scoprì l'inimico. Menahem si avanzava. Questa volta era l'uomo che dava
principio alla caccia.

Menahem conosceva le pantere, le tigri, i leopardi, gli sciacalli, come
i cani ed i gatti della casa paterna. Egli passava le giornate intiere
nelle solitudini del deserto, per stanare quei formidabili devastatori
delle greggie di suo padre.

Il dolore raddoppiò il fremito della pantera. Si slanciò su Menahem, che
si tirò da una parte e la punse dello schidone. Egli si divertiva ora.
La pantera si mise a sgambettare pel circo. Menahem la seguì,
scoccandole soltanto dei giavellotti. Voleva ucciderla sotto la loggia
di Claudia. La pantera balzava urlando orribilmente, si aggrappava alle
sbarre della grata delle bestie ed a quella che serviva di riparo agli
spettatori della prima fila, i suoi sbalzi erano prodigiosi, ma ovunque
trovava degli spettatori che la impaurivano. Menahem la incalzava senza
ressa, incrociava i suoi salti, la spingeva, l'incalzava sempre più
verso il sito ove voleva ucciderla, sbarrandole la strada, e non
cessando di tormentarla coi giavellotti. Il terrore della pantera
divenne demenza. Il suolo le sembrò mortale da per tutto.

Essa mirò allora a quella parte dell'anfiteatro, che gli Ebrei avevano
lasciata vuota per manifestare a Pilato il loro orrore. Menahem la
rigettava verso quel sito. La pantera, ridotta all'estremo, fece un
prodigioso salto. Passò al disopra delle sbarre che proteggevano gli
spettatori, e venne a cadere a dieci passi da me e da Justus, vicino a
Claudia. Un grido di terrore scoppiò in mezzo alla folla, ed un mortale
salva chi può cominciò. Claudia si alzò in piedi, e strappò dai suoi
capelli quel piccolo pugnale lungo ed affilato, di cui le Romane
facevano uso per tenere confitti sulla loro testa il giro di capelli
posticci che formavano torre. I centurioni, il governatore di Siria che
le stava vicino, suo marito, tutti si disponevano a coprirla del loro
corpo. Io mi alzai pure sguainando il mio pugnale.

— È una Romana, disse Justus, tirandomi della falda del mantello.

— È una donna, risposi, collocandomi in guisa che la mia spalla toccasse
la persona di Claudia, separati soltanto dal cordone di seta che segnava
la demarcazione fra i Romani e la loggia. Claudia udì la parola di
Justus e la mia risposta.

In questo mentre la pantera si rialzava. Trovandosi in faccia ad un
nuovo pericolo, quando forse si credeva salvata, entrò in furore. Fece
un balzo per gettarsi sopra di me o di Claudia. Io l'aspettava al varco,
il braccio steso, il tallone sinistro appoggiato solidamente al muro del
vomitorio, e la gamba diritta in avanti. La pantera venne a rovesciarsi
su me. La ricevetti sul pugnale, ove s'infilzò. Il contraccolpo mi fece
piegare sui garretti, e mi respinse così vicino al petto di Claudia, che
l'alito ardente della belva ci percosse a entrambi la faccia. Il
pericolo era immenso. Con uno sforzo immenso rigettai la pantera nel
circo, e Menahem, che alla sua volta l'attendeva, la ricevè sul suo
spiedo e la sterminò.

— Il tuo nome, mi disse Claudia, per nulla spaventata di ciò che era
accaduto sì vicino a lei.

Io la guardai, poi salutandola con un sorriso, le risposi:

— Sei molto bella, o Romana.

E mi allontanai.

— Seguilo, la intesi dire a Cneus Priscus, che stava dietro a lei.

— Lo conosco, rispose il centurione.

Egli mi conosceva! Bel miracolo!

Chi era io?



V.


Chi era io?

La storia della mia famiglia si confonde con quella del mio paese.

Due giorni dopo quel macello d'uomini, di donne, di fanciulli e di
vecchi, fatto dai soldati d'Antioco nelle caverne del deserto che si
stendono dalle vicinanze di Betlemme al Giordano, — perchè gli Ebrei,
essendo giorno di Sabato, non si difesero — un adolescente di sedici
anni si presentò a Mattatia, il padre dei Maccabei, e domandò di
battersi contro il nemico d'Israele. Quell'adolescente si chiamava Gad,
e veniva da Kariot. Suo padre l'inviava, ma era troppo povero per dargli
delle armi. Mattatia lo provvide di una spada.

— È troppo brutta, disse il giovincello al gran sacerdote, non la
voglio.

— Ma allora, ragazzo mio, con che cosa ti batterai?

— Con questo, rispose Gad, tirando di sotto la sua tunica una specie di
coltellaccio, un lungo pugnale, fino a tanto che io mi abbia conquistato
delle armi che mi vadano a genio.

L'occasione non si fece aspettare.

Mattatia morì poco stante. Giuda gli succedette, e il suo primo scontro
con Apollonius, generale dei Samaritani, ebbe luogo. L'esercito nemico
fu battuto. Apollonius ed alcuni dei suoi luogotenenti cercarono di
arrestare gli Ebrei, ma Giuda Maccabeo e Gad si gettarono sopra di loro
come due leoni e li uccisero[5]. Gad prese le armi bellissime d'uno dei
capi dell'esercito di Apollonius, che sono sempre state di poi le armi
dei miei antenati, e sono tutt'ora le mie.

  [5] JOSEPHUS, _Antichità_, Lib. XII, cap. VII.

Da quell'istante, in tutti i campi di battaglia, Gad si trovò alla
diritta di Giuda. Egli era con lui allorchè Saron e ottocento dei suoi
furono uccisi a Bethoron: quando Gorgias fu sconfitto a Emmaus, ed in
seguito fino ad Ashdod, a Jenina e nelle pianure dell'Idumea. Egli era
con lui quando Lisias fu battuto a Bethsur, ed ebbe cinque mila uomini
uccisi. Gad accompagnò Giuda a Gerusalemme, che fu restituita al culto
di Jehovah ed al popolo ebreo. Gad partecipò poscia a tutte le gesta, a
tutte le glorie dei figli di Mattatia. Con Giuda egli concorse a domare
i discendenti di Esaù, gl'Idumei, a Acrabattene, poi gli Ammoniti, di
cui prese e distrusse la città di Jazer, e di cui condusse prigionieri i
figli e le donne. Con Simone Maccabeo, Gad prese Tiro e Tolemaide. Aiutò
Giuda e suo fratello Gionata a distruggere il paese di Gilead, e
percorse il deserto, spianando le città di Bosar, Malle, Casphore,
uccidendo tutti, aggiungendo all'orrore del deserto della natura,
l'orrore del deserto dell'uomo[6].

  [6] Ibid. Lib. XII, cap. VIII.

Timoteo, il comandante degli Ammoniti e degli Arabi, soccombette, come
tutti i generali dei re Siriaci; giacchè Naim ed il suo tempio furono
distrutti: tutto fu ucciso. A Ephon i maschi soli furono ammazzati; dopo
di che, si ritornò a Gerusalemme cantando salmi! Se a Dio piace lo
sterminio, doveva essere ben contento.

Ora si trattava di prendere la cittadella di Gerusalemme ancora in mano
dei partigiani di Antioco, che era morto in allora nell'età di cento
quarantanove anni, lasciando la corona ad Antioco Eupator, suo giovane
figlio. Gli assediati domandarono aiuto al nuovo re. Antioco partì da
Antiochia con un esercito di circa 100,000 fanti, 20,000 cavalli e 32
elefanti. Giuda gli venne incontro e si fermò a Batzachaviah, ove si
impegnò la battaglia.

Gad era con Eleazar, fratello di Giuda, allorchè, vedendo un magnifico
elefante, che egli credette portasse il re, si cacciò sotto il suo
ventre e lo uccise. Eleazar ne restò schiacciato. Gad potè salvarsi, e
seguì Giuda nella sua ritirata verso Gerusalemme, poichè il numero dei
nemici l'aveva spaventato.

Antioco assediò Gerusalemme. Giuda sostenne l'assedio con grande valore
e costanza. La fame, — tutto il paese era distrutto ed incolto a causa
dell'anno sabatico, — obbligò ben presto Antioco a levar l'assedio ed a
ritirarsi, tanto più che le faccende del suo regno lo richiamavano ad
Antiochia. Egli fu poi vinto ed ucciso da Demetrius figlio di Seleucus,
che s'impadronì del regno, ed inviò Bacchides per abbattere la potenza
dei Maccabei.

Bacchides ritornò senza aver fatto nulla contro l'inimico, Demetrio
inviò allora Nicanor. Questi tentò di impadronirsi di Giuda col
tradimento in un finto convegno. Gad scoprì il tranello da un movimento
fatto da Nicanor, ed ambi riuscirono a scampare. Nicanor fu battuto ed
ucciso ad Adassa, e il suo esercito fu disperso. In pari tempo Alcimus,
il primo gran sacerdote scelto dal re fuori della famiglia di Aron, fu
avvelenato dagli altri preti e morì. Giuda fu nominato allora dal popolo
a quel posto, riunendo così nella sua persona il potere politico ed il
potere religioso.

Gad accompagnò l'ambasciata che Giuda inviò a Roma per invocare
l'amicizia e l'appoggio del popolo Romano. Ma Giuda non ebbe il tempo di
goderne i beneficii. Demetrio lanciò di nuovo Bacchides sul nostro paese
per vendicare Nicanor, ed alla fine Giuda fu vinto ed ucciso sulla
montagna di Aza. Gad era stato gravemente ferito. Quando si rialzò dalla
sua lunga malattia egli prese per moglie Oldah, la primogenita delle
figlie di Simone, terzo fratello di Giuda.

Giuda aveva liberato la nazione dal giogo dei Macedoni, ma la sua opera
non era consolidata.

Gionata, che gli succedette nel doppio potere, lo vendicò, battendo
Bacchides e obbligandolo a levar l'assedio di Bethagla, dopo varie
vicende. Bacchides gli accordò alla fine la pace, ma Gionata dovette
rinunziare a Gerusalemme e ritirarsi a Michmash.

L'alleanza di Gionata fu più tardi domandata dai due re rivali:
Alessandro Bela e Demetrius, che ambi gli facevano grandi promesse. Gad,
che godeva di grande influenza sopra il suocero Simone, lo decise per
l'alleanza di Alessandro, ed egli a sua volta decise Gionata in questo
senso. Demetrio non ebbe il tempo di vendicarsene; fu ucciso in
battaglia essendo caduto col suo cavallo in un fosso. Alessandro permise
a Gionata d'indossare la porpora come i re.

Apollonius Daus, governatore della Celesiria per conto di Alessandro,
non si rassegnò al vedere Gionata sì libero e sì onorato. Gli cercò
briga. Gionata non indietreggiò dinanzi la guerra, e dopo aver
maltrattato l'esercito di Alessandro, prese e distrusse Ashdod, Ascalon,
ed altre città. Alessandro gli inviò in regalo il bottone d'oro per aver
battuto il suo governatore, il quale aveva dichiarato la guerra agli
Ebrei contro la sua intenzione.

La Giudea era divenuta un principato teocratico sotto la protezione dei
re di Siria, ai quali pagava un tributo di trecento talenti, le tre
toparchie di Samaria, Perea, e Galilea incluse. Gionata stette senza
decidersi apertamente e con abilità fra i due pretendenti al trono
siriaco. Dopo aver aiutato Alessandro Bela, aiutò Demetrius Nicanor suo
avversario, e quando Trypho, generale d'Antioco, figlio di Bela, attaccò
Demetrius, Gionata l'assistette ancora.

Lo scopo del governatore della Giudea era di sbarazzare della
guarnigione straniera la cittadella di Gerusalemme, che dominava il
Tempio e la città inferiore. Non ottenendo ciò da uno, sperava
nell'altro: egli tentò anche l'alleanza coi Romani; la cittadella era la
sua indipendenza. Egli non doveva assistere alla sua liberazione. Trypho
aveva concepito il progetto di uccidere Antioco suo padrone ed
impadronirsi del trono. Egli vide in Gionata un ostacolo, sapendolo
affezionato al re. Marciò quindi verso Gerusalemme. Gionata gli venne
incontro con un esercito di 40,000 uomini. Trypho dissimulò, ed ingannò
così bene il gran sacerdote, ch'egli licenziò il suo esercito e
accompagnò Trypho a Tolemaide con soli mille uomini. Una volta nella
città, Trypho ne fa chiudere le porte, uccide i mille uomini di Gionata
e lo ritiene prigione insieme con Gad.

Il popolo Ebreo nominò Simone gran sacerdote e successore di Gionata.
Trypho, chiamato dalla guarnigione di Gerusalemme assediata, accorse; ma
la gran quantità di neve caduta lo forzò a ritornare in Antiochia.
Arrivato a Gilead fa uccidere Gionata e Gad. Simone diede ordine che il
corpo di suo fratello fosse riunito a quelli di suo padre e di Giuda a
Modin, ove eresse il magnifico sepolcro che Claudia volle visitare. Alla
fine Simone liberò la cittadella dalla presenza dei soldati stranieri, e
redense il popolo Ebreo dal tributo ai Macedoni, dopo cento e
settant'anni di dominazione assira[7], da Seleucus Nicanor in poi. La
cittadella fu demolita, il Tempio fu riedificato più alto e dominò la
città. Il carattere del governo dei Maccabei si delineava sempre più.

  [7] JOSEPHUS, Lib. XIII, cap. V e VI.

Il governo di Simone, l'ultimo dei cinque figli di Mattatia, fu meno
turbato che quello di suo padre, ma la sua fine fu altrettanto tragica.
Sorpreso in una festa dal suo genero Ptolomeo, Simone fu ucciso, e sua
moglie e due dei suoi figli fatti prigionieri. Ptolomeo inviò anche due
assassini per uccidere Hircanus, il terzo figlio di Simone; ma avvertito
da Nahum figlio di Gad, egli potè salvarsi e rifugiarsi a Gerusalemme,
che lo riconobbe come successore di suo padre e rifiutò l'entrata a
Ptolomeo.

Hircanus, come i suoi antenati, ebbe lunghe contestazioni con i re di
Siria, e profittò dei loro dissensi per saccheggiare Samaria e stendere
e consolidare le sue provincie. Egli organizzò una guardia di soldati
stranieri, per pagarla mise la mano nel tesoro della tomba del re
Davide, fortificò la sua lega coi Romani, ond'essere più sicuro contro i
re Siriaci. Hircanus finalmente abbandonò il partito dei Farisei che
l'aveva sostenuto fino allora, ed ecco per quale causa.

Hircanus, essendo di buon umore, in un festino disse ai farisei:

— Se mai v'accorgete che io non cammino nella via della legge,
avvertitemene, e ritornerò indietro.

Un certo Eleazar, ch'era presente, gli rispose:

— Poichè tu vuoi conoscere la verità, eccola: Se vuoi essere un uomo
giusto, rinunzia al gran sacerdozio e contentati del governo civile.

— E per qual ragione dovrei io rinunziare, figlio mio, al gran
sacerdozio? domandò Hircanus.

— Perchè, rispose Eleazar, abbiamo udito dire dai nostri anziani che tua
madre era stata schiava sotto Antioco Epifanio.

Hircanus, punto da questa rivelazione, divenne malinconico, poichè amava
l'eroica madre sua: quella stessa che dall'alto delle torri di Dagon,
ove Ptolomeo la flagellava insieme agli altri fratelli d'Hircanus, gli
aveva fatto segno di non rallentare l'assedio, di prender la fortezza e
di castigare Ptolomeo, dovesse questi ucciderli tutti. Nahum[8] osservò:

  [8] Josephus attribuisce questo consiglio ad un certo Gionata.
  Lib. XIII, Cap. X.

— Ciò che Eleazar ti ha detto, gli è stato consigliato dai Farisei.

— È impossibile, rispose Hircanus.

— Ebbene, domanda loro che castigo merita Eleazar per l'insulto che ti
ha fatto.

Hircanus seguì questo consiglio. Gli fu risposto: Le verghe. Hircanus,
offeso, passò al partito dei Sadducei, e poco dopo morì.

Aristobulo, che succedette a Hircanus suo padre, fece il primo tentativo
per cangiare il governo in reame, e cinse la corona, 481 anni dopo il
ritorno degli Ebrei dalla cattività di Babilonia. Quest'uomo fu crudele.
Egli gettò in prigione i suoi fratelli, fece morir di fame la madre, ed
uccise per gelosia politica il fratello Antigono.

Ad istigazione di Alessandra, moglie di Aristobulo, Nahum l'avvelenò.
Alessandra era stata minacciata dell'istessa sorte.

Alessandro Inneus, fratello d'Aristobulo, gli succedette.

Questo re non ebbe un sol giorno di riposo. Gli intrighi delle alleanze
concluse al mattino e rotte alla sera, le continue guerre coi Parti,
cogli Arabi, coi Siriaci e cogli Egiziani, le insurrezioni interne, gli
dettero sempre da fare. Egli trucidò più di 30,000 dei suoi sudditi, che
durante sei anni sostennero la rivolta. Essi avevano cominciato ad
insultarlo a Gerusalemme, alla festa dei Tabernacoli, lapidandolo con
dei cedri[9].

  [9] JOSEPHUS, Cap. XIII e XIV.

Nahum fu una delle vittime di Alessandro Inneus. I Farisei eccitavano il
popolo. In una sola esecuzione egli ne fece crocifiggere 800, e fece
scannare le loro donne ed i loro figli appiedi di quelle croci, mentre
egli s'immergeva nell'orgie del suo palazzo colle sue concubine.
Ottomila dei suoi soldati abbandonarono la bandiera e si gettarono nelle
montagne per saccheggiare. Finalmente, dopo aver aggiunto diverse città
degli Stati vicini al proprio, consumato da una febbre ostinata e
dall'eccesso del vino, e' morì, dando il consiglio ad Alessandra, sua
moglie, di riavvicinarsi ai Farisei se voleva regnare tranquilla.

Alessandra seguì il consiglio, e col titolo di reggente, ma in realtà
lasciando governare i Farisei, tenne il potere per nove anni. Essa aveva
investito il figlio primogenito, Hircanus, della dignità di gran
sacerdote, conservando la corona pel secondogenito Aristobulo. Ella morì
a tempo, giacchè Aristobulo, aiutato dal mio bisavolo Amon, era riuscito
a scappare di notte dal palazzo e si era impadronito della maggior parte
delle fortezze del regno. L'avrebbe egli deposta, se la non fosse morta
a tempo. Il mio bisavolo, sadduceo come i suoi padri, aveva abbandonato
Alessandra quando ella si era gettata ciecamente nelle braccia dei
Farisei.

Hircanus, che era stato relegato nel Tempio da sua madre, non si
rassegnò a lasciare il trono al fratello Aristobulo. Essi principiarono
col farsi la guerra, ma poi vennero ad un accordo. Poco dopo però
Hircanus si rifugiò presso Aretas, capo dell'Arabia. Essi levarono
insieme un esercito, e vennero a mettere l'assedio a Gerusalemme. Essi
contavano senza i padroni che erano di già in Asia: i Romani.

Un luogotenente di Pompeo, il quale batteva Tigrane nell'Armenia, fu
inviato in Giudea. Scaurus ricevette l'offerta dei due fratelli —
quattrocento talenti — ma siccome egli riteneva che Aristobulo, essendo
più ricco e più generoso, fosse più solvente, rigettò le proposizioni di
Hircanus, e forzò Aretas a levar l'assedio del Tempio, ove Aristobulo si
era barricato.

Non era sufficiente l'aver comperato quei pirati Romani, l'essersi in
seguito fatta la guerra, e che Aristobulo avesse battuto Aretas e
Hircanus. I due fratelli portarono davanti a Pompeo stesso la loro
querela. Pompeo si spiegò in maniera ambigua. Aristobulo marciò col suo
esercito sopra la Giudea, e Pompeo gli tenne dietro. A Gerico, egli fece
prigioniero Aristobulo e salì verso Gerusalemme. Amon, mio avo, e
Absalon, zio e avolo di Aristobulo, chiusero le porte della città.
Gerusalemme ed il Tempio furono presi d'assalto, e la Giudea divenne
tributaria dei Romani, provincia della Siria, e diminuita di tutte le
città che i nostri antenati avevano conquistate sugli Stati vicini.

Pompeo si mostrò moderato. Egli ristaurò le città ch'erano state
danneggiate dalla guerra. Aristobulo ed i suoi figli furono inviati a
Roma. Gabinus, comandante delle forze romane nella Siria, abbattè poco
alla volta tutti i partigiani dei due fratelli, e divise la Giudea in
cinque provincie, ognuna amministrata da un consiglio.

Hircanus era restato gran sacerdote. Aristobulo riuscì a fuggire di
Roma: ma Gabinus lo riprese ben tosto e lo rinviò in ischiavitù. Il mio
bisavo Amon divise la sua sorte; mentre che Ozias, il padre di mio
padre, restava a preparare la sommossa che fu affrettata da Alessandro,
fratello di Aristobulo.

Alessandro si trovò ben presto alla testa di una forza di trenta mila
Ebrei. Ma Gabinus lo raggiunse presso il monte Thabor, lo sconfisse e
gli uccise dieci mila uomini.

Crassus, che succedette a Gabinus, saccheggiò le immense ricchezze del
Tempio, quantunque Eleazar, per salvarle, gli avesse scoperto e
consegnato il _balsamo d'oro_ che le valeva tutte.

Cesare, dopo aver trionfato di Pompeo, liberò Aristobulo e l'inviò in
Giudea con due legioni. Ma i partigiani di Pompeo lo avvelenarono, e
tagliarono la testa ad Alessandro, suo figlio, in Antiochia. La
discendenza dei Maccabei si trovava così, se non distrutta, avvilita; e
quell'Idumeo Antipater, che era stato l'amico ed il consigliere di
Hircanus, e che fu il padre d'Erode, insinuandosi nell'amicizia di
Cesare, divenne l'arbitro degli affari della Giudea.

Antipater, per ordine di Hircanus, assistette Cesare nella sua guerra
contro l'Egitto. Gli è per questo che alla fine della guerra, Hircanus
fu confermato da costui nella sua dignità di gran sacerdote, ed
Antipater venne nominato procuratore della Giudea, malgrado le proteste
di Antigonus, altro figlio di Aristobulo. Antipater, profittando della
sua autorità sopra il debole Hircanus, s'affrettò ad elevare i suoi
figli, l'uno, Phaselus, il primogenito, a governatore di Gerusalemme, e
l'altro, Erode, il minore, appena quindicenne, a governatore di Galilea.

Questo adolescente esordì coll'impadronirsi di Hezekiah, capo di
briganti e dei suoi complici, e col farli sterminare. Il sanhedrin si
commosse di questa infrazione alla legge; perocchè, presso di noi,
nessuno può essere messo a morte senza essere stato giudicato dal
sanhedrin. Hircanus, spinto da questo corpo, citò Erode a venire a
render conto della sua condotta. Erode si presentò dinanzi ai suoi
giudici circondato da una guardia così forte che li ridusse al silenzio.
Nondimeno, alla fine, il sanhedrin avrebbe pronunziato la sentenza di
morte d'Erode, se Hircanus non l'avesse salvo, consigliandogli di uscire
da Gerusalemme. Il governatore della Siria nominò Erode generale
dell'esercito di Celesiria. Ed egli avanzavasi verso Gerusalemme per
vendicarsi quando suo padre e suo fratello lo impegnarono a tornare
indietro.

La storia della Giudea principia da questo momento ad essere quella di
quest'uomo, e fu il più grande della nostra nazione, allato di Salomone
e di Giuda Maccabeo. La Siria divenne il campo delle lotte delle
depredazioni dei partigiani di Cesare e di Pompeo. Erode non si mise a
tutta prima con i partigiani di Cesare. Cassius lo protesse, Marco
Antonio lo ingrandì, Antipater era stato avvelenato. Erode lo vendicò
facendo uccidere l'assassino. Il mio avolo Oziaz restò fedele alla
discendenza dei Maccabei; mio padre si legò ad Erode, sedotto dalla sua
audacia. Erode era stato confermato da Cassius nel comando della
Celesiria.

Erode si trovava di fronte a tre pericoli: la vendetta di Antonio che
aveva vinto Cassius protettore di lui; la gelosia di Hircanus, che altri
cercavan sempre di eccitare; e le imprese di Antigonus, figlio di
Aristobulus. Erode comperò Antonio, che non solo gli perdonò, ma nominò
lui e suo fratello Phaselus a tetrarchi, e diede loro in mano gli affari
della Giudea. Erode sposò la figlia di Hircanus, avendo già un'altra
moglie della Idumea, Davis, che lo fece padre di Antipater. Egli si
preparava a calmare i partigiani di Aristobulus, sposando Mariamne,
figlia di Alessandro, uno dei figli di Aristobulus. Tutto ciò, per
altro, non stornò la tempesta. Antigonus, aiutato dai Parti, si
impadronì di Gerusalemme, prese per tradimento Hircanus e Phaselus, ed
obbligò Erode a fuggire in mezzo ai più grandi pericoli, con sua madre,
le sue mogli, sua sorella e i suoi amici. Egli li rinchiuse nella
fortezza di Masada, a fine di sottrarli alla vendetta di Antigono, che
aveva tagliato le orecchie al vecchio gran sacerdote Hircanus, ed
avvelenate le ferite che Phaselus s'era fatte battendo della testa
contro le mura della sua prigione per suicidarsi. Erode pure si sarebbe
data la morte dalla disperazione, se mio padre non l'avesse fatto
arrossire della sua viltà, e non avesse rialzato il suo coraggio[10].

  [10] JOSEPHUS, lib. XIV, cap. XII, XIII e XIV.

Dopo aver messo al sicuro nella fortezza la famiglia, i parenti ed
ottocento dei suoi amici, e dato congedo ad altri otto mila ch'egli non
poteva proteggere, Erode s'accinse a restaurare la sua fortuna. Mio
padre l'accompagnò presso Malchus re d'Arabia, che era stato colmato di
favori dal padre di Erode. Malchus gli rifiutò ogni aiuto. Allora Erode
si salvò in Egitto, ove Cleopatra si prese d'amore per lui. Mio padre lo
strappò dalle braccia di quella sirena, che aveva perduto tanti Romani.
Erode s'imbarcò in Alessandria onde andare a Roma, e venne a Pamphilica,
di dove una terribile tempesta lo sbalestrò in Rodi.

La città era rovinata dalla guerra contro Cassius. Erode l'ajutò a
riedificarsi. Egli si fece costruire una trireme, e approdò a
Brundusium, e di là si recò a Roma. Erode, sempre accompagnato da mio
padre, restò a Roma sette giorni, e furono bastanti. Egli ricomperò da
Marco Antonio il regno di Giudea, come aveva comperato la dignità di
tetrarca. Il senato pubblicò il decreto. Ottavio ed Antonio lo colmarono
di feste, ma egli partì immediatamente. La sua famiglia era assediata, i
suoi amici perseguitati. Sbarcò a Tolomaide, vicino a Joppa, s'impadronì
di tutte le città della Galilea, liberò la sua famiglia da Masada,
presso Gerico, saccheggiò la piazza, e dopo tre anni di combattimenti,
di avventure, di fortune e di rovesci, condusse il suo esercito sotto le
mura di Gerusalemme.

Antigonus era stato dichiarato nemico dei Romani, ed Antonio, allora
nella Siria, aveva inviato Sosius con diverse legioni per ajutare Erode.
Gerusalemme fu assediata dallo stesso lato nord, donde Pompeo l'aveva
presa. La resistenza degli assediati fu grande, ma alla fine le truppe
di Erode e le romane presero la città d'assalto. La strage fu sì enorme
che Erode intervenne, e domandò a Sosius se intendesse non lasciargli
che un deserto per regno. Ottenne in fine dai Romani che Gerusalemme
fosse risparmiata, pagando una taglia onde liberarsi dal saccheggio e
dallo sterminio. Antigonus andò a gettarsi ai piedi di Sosius, che lo
chiamò Antigono, ma lo trattò da uomo, ritenendolo prigioniero. Egli lo
presentò ad Antonio. Questi lo riserbava pel suo trionfo, ma Erode lo
comperò e gli fece tagliar il capo in Antiochia. E così finì, dopo cento
e ventisei anni, il regno degli Asamonei — famiglia di preti, illustrata
da tanti fatti coraggiosi, lasciando il regno ad un Idumeo, un mezzo
ebreo, di nascita volgare, ma di cuor forte.

Parlerò altrove d'Erode.

I Maccabei sono stati dipinti come tipi d'eroi. Cosa hanno fatto essi
pel loro paese?

Liberarono gli Ebrei dai Macedoni, e li diedero in mano ai Romani. Si
francarono dai re di Siria, per cadere sotto la protezione dei
proconsoli imperiali. Ma liberarono essi l'anima della nazione? L'Ebreo
restò ebreo — cioè al di fuori del movimento del mondo, suddito d'un
prete, allorchè si sarebbe dovuto alzarlo a cittadino libero. Ora il
giogo della dottrina farisea abbrutiva il popolo ben più che il giogo
della dominazione greca. Poichè si violava la legge di Mosè, non si
doveva sostituirle la legge orale delle sinagoghe e del gran collegio.
Il patto di Mosè era pesante; lo si fece più grave ancora con
un'aggiunta di ridicole ordinanze. I Maccabei avevano cumulate le
funzioni di gran sacerdote con quelle di re, ed avevano creato la
monarchia teocratica che è una tirannia sovrapposta ad un'altra
tirannia. Mosè aveva nel gran sacerdote abbozzato un sorvegliante del
re; i Maccabei ne fecero il complice e la ripetizione.

Coi Maccabei, la classe di mezzo trionfò. Questa era ritornata dalla
cattività di Babilonia non già istrutta dalla civiltà fastosa,
splendida, voluttuosa, attiva degli Assiri, ma turbata, spaventata
dall'idea che il popolo, sedotto da quell'esca, potesse sfuggirle di
mano, e invidiosa delle classi aristocratiche che tendono a dare al
popolo la libertà del benessere e quella della coscienza. L'esiglio per
questa parte degli Ebrei — l'aristocrazia sadducea — che godeva e
pensava, non era a Babilonia, ma in Gerusalemme. Il Fariseo era il
carceriere dell'anima di questo popolo, di cui Mosè aveva voluto fare
non lo schiavo di Dio, ma il suo sacerdote. Che aveva guadagnato questo
popolo ad essere liberato dai Macedoni? L'intolleranza, la miseria, la
solitudine. Il mondo si chiudeva intorno a lui; questo mondo era il
peccato, l'inimico, l'impurità, peggio ancora che sotto le leggi del
grande legislatore; la riserva che egli aveva imposto, aveva preso sotto
i Farisei le proporzioni di un delitto. I Maccabei non emanciparono la
nazione ebrea; la fecero soltanto cangiare di giogo.

Ecco da quali antenati io discendeva; ecco a qual setta io apparteneva.
La mia famiglia, sadducea e gente da guerra, aveva nelle vene una goccia
di sangue degli Asamonei; mio padre le infuse poi una goccia di sangue
straniero.



VI.


Io pensava a tutto questo, o per dir meglio tutto questo scorreva nel
mio pensiero, come l'acqua d'un fiume passa sotto i nostri piedi, mentre
che dall'alto del ponte noi contempliamo un lontano paesaggio perduto
nell'ombra. Le due parole di Cneus Priscus «lo conosco» rilevate da un
tal tuono amabile, che nella bocca di quel carnefice degli ebrei
diveniva sinistro, fiammeggiavano dinanzi al mio spirito, e lo
assorbivano.

La mia tempera non è di quelle che piegano sotto la paura. Io creava il
pericolo per avere la gioia dell'emozione. Lavoravo da due anni ad
infiammare la Giudea come gli altipiani di Puteoli, onde dare la caccia
ai miei nemici. Non m'ero per nulla nascosto, nè stato in guardia, senza
ostentazione però nè storditezza; in guisa che tutti sapevano che io
ispirava ed incoraggiava tutto ciò che aveva forma d'odio contro i
Romani. La gioventù di Gerusalemme mi salutava come suo capo, perchè io
mi decidessi ad essere tale. La mia nascita, il partito al quale
appartenevo, il mio lungo soggiorno a Roma, i miei viaggi in Grecia, in
Egitto, nella Fenicia e nella Siria, in tutta l'Asia insomma, i miei
gusti, le abitudini della vita, l'eleganza dei miei modi, le mie
relazioni, la mia apparente frivolità, le mie avventure, la mia ganza
Maria di Magdala, che io aveva messa su come regina di Gerusalemme,
tutto, incluso la mia persona, mi faceva risaltare come il punto più
saliente e più risplendente della città. Era egli da stupirsi, se Cneus
Priscus mi conoscesse? Nulla ostante mi sembrò che nella intonazione
dolce della sua voce vi fosse una minaccia, nel suo sorriso una
condanna.

Justus mi aveva seguito senza che io me ne fossi accorto. Mi trovai
senza avvedermene dinanzi la casa bianca di Maria, nascosta dietro una
verde cortina di tamarindi. Passando la soglia della piccola corte
scoperta che precede la casa, vidi Justus.

— A proposito, gli dissi io, vieni a cenare con noi stasera. Cerca di
trovare quella mala lana di Bar Abbas; ho d'uopo di distrarmi. E se
Menahem è in istato di venire, magari in lettiga, conducilo teco.

Mentre dicevo queste parole, Maria, che non era ancora rientrata dal
circo, si mostrò sulla porta. Justus, che partiva, si fermò come
affascinato. Egli aveva forse ragione.

Quella ragazza era risplendente di bellezza. Si sarebbe detta un raggio
d'aurora scolpito a donna. Uno sciame di giovanotti l'aveva accompagnata
fino alla sua dimora, raccontandole mille bazzecole, coprendola di
fiori, non potendola coprire di baci. Io l'avevo creduta la più bella
creatura della Giudea, prima di quel guizzo di donna che m'era apparso
nel circo chiamando Moab, e che dominava la stessa misteriosa nebbia in
cui Cneus Priscus aveva immerso il mio spirito. Maria non aveva nulla
conservato del costume delle figlie della Giudea. La si era foggiata una
forma di tunica e di peplum come una cortigiana greca, tagliati in una
stoffa di Babilonia. Pareva una Ester acconciata dalle mani di Laide.
Allorchè ella penetrò nella corte, mi sembrò che una nuvola cosparsa di
stelle argentee mi si sciogliesse addosso. Mi saltò al collo. Ella era
stata testimone della mia piccola scena colla pantera, e mentre tutta
Gerusalemme credeva che io mi fossi sottratto ai ringraziamenti di
Claudia per modestia o per noncuranza, Maria aveva pensato: È per me che
egli sfugge la vista dalla superba nipote di Cesare!

— Bravo il mio leone, esclamò ella, colmandomi di carezze. Oh! come eri
bello, e quanto t'amo!

Justus si precipitò al di fuori per andare in cerca di Bar Abbas.
Rientrammo, ed io mi lasciai cadere sopra i cuscini di porpora. Maria
s'accorse allora che ero pallido e distratto.

— Che hai, amor mio? sclamò essa. Si direbbe che t'abbi la febbre.

Raccontai a Maria le mie preoccupazioni. Ella scoppiò dalle risa.

— Abita forse la luna il tuo Romano?

— Mica d'abitudine, io imagino.

— Il bel miracolo allora ch'egli ti conosca! Ve ne sono forse due a
Gerusalemme che abbiano questi occhi azzurri come il lago di Genezareth;
questa pelle fina e bianca come quella delle figlie della Grecia; i
capelli biondi come quelli dell'angelo che tentò Eva; questa lanugine
che come un musco dorato sfiora le tue labbra ed il tuo mento; questa
bocca ove il bacio nasce come la Venere dei Greci nasce dalle spume del
mare; questa fronte, infine, questo tutto insieme che turba il sonno di
tutte le fanciulle di Gerusalemme, e brucia il sangue di tutte le donne
maritate?

Noto qui per incidenza che mio padre, accompagnando il re Erode nel suo
ultimo viaggio a Roma, vi incontrò un oratore brettone di Eboracum
(York), e ne sposò la figlia, che alla corte d'Augusto era chiamata la
Stella della Bretagna. Io era il ritratto virile di mia madre.

— Sì, risposi a Maria, ma Cneus Priscus non è nè una ragazza, nè una
donna maritata: egli è lo sciacallo di Pilato.

— Su via! continuò Maria, ve ne ha dunque un altro a Gerusalemme che
faccia del suo mantello un pallium, e se lo panneggi addosso come fai
tu? che domi un cavallo come te? che seduca una donna come te? che
racconti le sue impressioni di viaggio, che abbia l'epigramma e la spada
così pronti, sì l'uno che l'altro, che abbagli, che stordisca per la
bizzarria, pel lusso, per l'imprevisto, per la morbidezza quando sei
nella tua casa, per l'agilità nel ginnasio, per l'eleganza in pubblico,
per lo splendore e l'estro nei circoli.... come te, come te, mio tesoro,
cui tutta la gioventù imita o invidia, e cui tutti i mariti temono?

— Sì, risposi io, ma Cneus Priscus non è nè un giovine stravagante, nè
un marito geloso; egli è uno dei bracchi di Pilato.

— Oh! l'astuto bracco, sclamò Maria, per iscoprire un uomo che è
consultato dai savii del paese, al quale il sagan obbedisce, che i figli
d'Israello considerano come la loro anima, i guerrieri come la loro
spada, i timidi come la loro voce, i prudenti come la loro audacia, e
che risuscita i cuori morti alla speranza per la patria.

— Sì, la mia entusiasta; ma Cneus Priscus non è una pazzerella come te,
nè niente di tutto ciò. Egli è il boia di Pilato.

— Che si appicchi dunque al suo patibolo, Pilato! Sai che sua moglie è
molto bella?

— Davvero? non me n'ero accorto.

In quel momento Justus e Bar Abbas entrarono. Maria balzò dai miei
ginocchi. Le sue donne si facevano vedere alla porta della sua stanza,
onde abbigliarla per la cena.

— Ho fame, Maria, fa presto.

— Si parla di fame qui? chiocciolò Bar Abbas: presente! È la sola cosa
di questo mondo che mi sia restata fedele.

— E Menahem?

— Sparito. I Galilei l'hanno portato via dal circo.

— E Moab?

— Anche lui sparito. Gli Esseniani l'hanno trasportato nel deserto.

— Nessuna traccia di quella donna che sembra così innamorata di lui?

— Che disgrazia che io non l'abbia veduta! disse Bar Abbas. Guardavo
altrove; guardavo mastro Pilato divenuto bianco e verde come una foglia
di ulivo. V'è della gente che ha il colorito a molle: io non cangiai la
mia tinta di bronzo di Corinto, quando perdetti una scommessa di
cinquecento dramme. Quella infame pantera m'ha rubato. Credevo che
l'avrebbe ingojato Menahem, per far piacere alla Romana, e per l'onore
delle bestie del nostro paese. Niente affatto! s'è condotta vilmente
come le altre. Ah! perfino le pantere divengono lepri nel nostro paese.
Le tigri adottano i costumi romani.

— Ti spiace dunque che Menahem sia salvo?

— Non pel denaro perduto sulla parola e che del resto pagherò con
parole, ma per l'onore degli abitanti del deserto della nostra Giudea.
D'ora in poi bisognerà dare la caccia agli Essenii per avere una qualche
emozione. Non avremo più di feroce, in quanto agli indigeni, che i
grandi sacerdoti.

— E i creditori, credo.

— L'è roba vecchia codesta; quei carnivori hanno finito per consumare
financo i motteggi che si fanno sul lor conto. Ma v'è di peggio ancora
oggidì, ci son coloro che non vogliono più far credito. Ecco lì gli
implacabili.

— Cosa hai, Justus, che sei lì serio come un bue che rumina.

— Egli annasa dietro la porta la tua Maria che si veste, disse Bar Abbas
ridendo.

— Non sarebbe certo un famoso cane, risposi io, poichè siamo in mezzo ad
un aere pregno di profumo.

— Per conto mio preferisco il profumo della cucina, rispose Bar Abbas.
La più bella donna del mondo non vale un quarto di capriuolo bene
speziato.... quando si ha fame.

Maria apparve, e nel medesimo tempo uno schiavo egiziano aperse una
porta dal lato ove la cena ci attendeva. Nel medesimo tempo altresì
udimmo, all'entrata dell'abitazione, un rumore di passi misurati, come
quelli di legionarii che passano. Il rumore cessa, ma poco dopo udiamo
aprirsi la porta della corte, qualcuno camminare, e parlare allo schiavo
all'uscio della casa. Do un'occhiata al balcone. La notte era venuta, la
luna piena s'alzava maestosamente dietro la collina di Sion, e tuffava i
suoi raggi nel sobborgo di Bezetha.

Cneus Priscus s'era fermato sulla soglia della camera ove eravamo.
Sembrava un po' imbarazzato.

Noi ci trovavamo in una sala vivamente illuminata, dove un gruppo di
persone si disponeva a dar l'assalto ad una cena, ch'egli avrebbe
indovinata al suo profumo, se non avesse scôrto a diritta, per la porta
aperta, le tavole preparate ed i domestici all'opera; dall'altra, uno
sciame di giovani schiave che portano i cuscini, i ventagli ed i fiori
della loro padrona; e ritta nel mezzo della sala, bella come un giorno
di primavera, la padrona stessa circondata dai suoi convitati.
L'esitazione di Cneus Priscus non durò per altro che un istante. Egli si
avanzò con un sorriso sardonico che contraeva i muscoli del suo viso. E'
sembrava felice del contrasto di quella gioia con ciò ch'egli aveva a
dire ed a fare.

Se Cneus sapeva chi ero io, sapeva altresì ove trovarmi. Lo prevenni.
Lanciandogli uno sguardo significante per indicargli quella povera
donna, di cui egli stava forse per frangere, od almeno insanguinare il
cuore, gli dissi:

— Siate il benvenuto, ospite mio. C'è a tavola un posto che vi aspetta.

Cneus Priscus sembrò comprendere, se pur non era commosso.

— Giuda, figlio di Simone, e' rispose, vengo io invece ad invitarti a
cena da parte del procuratore, riconoscente del nobile sacrifizio di te,
di cui stamane hai dato prova.

— Codesto bruto non è poi affatto un bruto, dissi in vecchio ebraico a
Justus. — Poscia ad alta voce, in greco, lingua ordinaria di tutti
quelli che non conoscevano il latino, usato fra gli Ebrei ed i Romani,
aggiunsi: — Avevo qui dei convitati; ma essi mi perdoneranno se li
lascio per obbedire all'invito del generoso straniero, che me lo invia
per mezzo di colui che più sovente è il suo genio della morte.

Maria sembrava nulla comprendere; Justus divorandola dello sguardo, non
capiva nulla neppur egli. Bar Abbas rispose:

— Ti auguro che quella cena non ti dia una indigestione romana.

Baciai gli occhi e la bocca di Maria senza rispondere, e seguii Cneus
Priscus, che mi precedette senza salutare alcuno.

Alla porta della strada la scena mutò. I soldati che attendevano, dietro
un ordine, o piuttosto un segno di Cneus, mi circondarono, ed innanzi
ch'io mi avessi fatto un movimento, le braccia e i polsi m'erano legati.

— Dove andiamo? chiesi senza perdere il sangue freddo che mi ero
imposto, che non avevo mai perduto e non perdevo mai nelle circostanze
pericolose.

— Alla torre Phasaelus, rispose Cneus con un lieve sorriso. Vi sei
atteso per cenare.

— È là che Pilato ti manda i resti della tavola dei suoi schiavi?
domandai con aria insolente.

Cneus non m'intese forse: e' non rispose.

La città formicolava di popolo perchè le feste duravano ancora. Sotto le
tende delle grandi piazze alcuni cantavano, altri giuocavano o
passeggiavano al chiaro di luna. Le donne preparavano la cena e venivano
a cercar acqua alle fontane, la brocca sulla spalla, chiacchierando
dello spettacolo del giorno e del combattimento degli elefanti del
domani. Incontrai uno dei figli di Hannah che mi riconobbe e fece un
balzo di sorpresa. Gli dissi in vecchio ebraico: Sta calmo!

Dieci minuti dopo eravamo nella corte della torre di Phasaelus.
Abbandonandomi nelle mani del carceriere, Cneus osservò:

— Non è precisamente a cena che il procuratore t'invita, ma e' ti offre
un riposo tranquillo. In quanto alla cena, siccome qui noi non abbiamo
che i resti degli schiavi, non oserei umiliarti facendoteli presentare.
Buona notte, e che Venere ti dia in sogno ciò che la tua amante dà al
tuo amico in realtà.

— Grazie, camerata. La tua non ha più nulla a dare; la è stata
svaligiata. Tu sei più felice di me.

Fui condotto sotto la porta di un sotterraneo che s'addentrava nelle
viscere della collina. Mi sentii spinto, rotolai non so quanti gradini,
e mi trovai lungo disteso sopra un corpo fetido e molle urtando dei
piedi, nelle tenebre, in qualche cosa che mi sembrò una carcassa, e
toccando colle mani un non so che di freddo e di viscoso, che spiccò un
salto al mio contatto e che doveva essere probabilmente un rospo od una
lucerta. A questo senso di ripugnanza balzai, e mi arrampicai di nuovo
fino al gradino superiore della scala. Là cercai di restare in piedi il
più che potei; poscia, come io sentiva il sangue danzare un'ardente
pirrica nelle vene, e la vertigine mi trascinava ad onta della
tranquillità perfetta del mio spirito, sedetti.

I sorci, i rospi, le lucerte, che so io? si davano una festa od una
battaglia nel torace dello scheletro. Gridavano e si divoravan l'un
l'altro. Dei rettili più timidi strisciavano ai miei piedi. I gradini
della scala erano lubrici per l'umidità. Tutte queste cose schifose non
mi lasciavano dimenticare che avevo fame e sopratutto sete. La mia gola
sembrava accesa, la bocca era secca come le foglie del deserto. L'anima
fe' prova di domare il corpo; poi vi rinunciò. Io pensava freddamente,
mentre tutto il mio individuo bruciava. Cosa strana! nelle situazioni
difficili è il passato che ci accascia, e l'avvenire che ci sorride. Io
non aveva nulla per altro che dovesse inquietarmi molto, nessun
rammarico e nessun rimorso. A ventitrè anni non si hanno a contare che i
piaceri gustati. Tutt'al più delle pene d'amore. E io non aveva neppur
queste.

Avevo lasciato a vent'anni Roma, ove dei maestri greci avevano
perfezionato la mia educazione. Avevo viaggiato, tornando a Gerusalemme,
in Grecia, in Egitto, nell'Arabia, nella Fenicia, in tutta l'Asia,
infine, a traverso le cortigiane, le feste, le corti, le avventure le
più deliziose, avendo un corpo d'acciaio cesellato in forma di donna. A
Tiberiade, la mia parente Erodiade aveva fatto delle pazzie per
trattenermi. Maria che avevo incontrata a Magdala, mi aveva, dirò quasi,
rapito. Tutto ciò era gaio, rosa, trasparente, e ciò nonostante quelle
memorie mi opprimevano. Il piacere s'era volto in agro. Mio padre era
morto. Mia madre, sempre malaticcia e annoiata del sole della Siria, non
si occupava che di sè stessa, e un poco delle mie sorelle. Ma essa
fuggiva i dispiaceri come una minaccia di morte, e pensava solo alla sua
persona, alla sua vita, alla sua salute, al suo ben essere. Avrebbe
torto il collo allo Spirito Santo per farsene una coppa di bibita
lassativa. Avrebbe appreso con eroica rassegnazione che io era in
prigione.... per la causa del mio paese. Quella povera donna non odiava
che i Romani, e non comprendeva che la sua Bretagna.

Maria non aveva che a scegliere la sua consolazione, fra due: oh, povero
Giuda! Tutta la gioventù di Gerusalemme le offriva questo alleviamento
al suo dolore, compresi i vecchi, ed alla loro testa il sagan.

Perchè dunque io mi sconfortavo al ricordare mia madre e Maria? Le
tenebre, la fame e la sete si stemperano e stingono sull'anima: la
stoffa resta l'istessa; il colore s'insudicia. Cosa potevo io temere
dall'avvenire? La morte sulla croce e nel circo. A ventitrè anni questa
sorte era lugubre, quando la società e la natura hanno fatto di tutto
per seminarvi la via di felicità. Eppure io non me ne spaventava. Al
posto della croce io vedeva quella Romana, di cui avevo salvato la vita,
che dettava la sentenza dietro la sedia curule di suo marito; nel circo,
io vedeva quella donna misteriosa che si mischiava a tutti i miei sogni
e avviluppava le mie memorie e le mie speranze. Ovunque l'anima mia
s'apriva, la si urtava a quel fascino. Da quell'immagine principiò la
mia corsa a traverso il passato e l'avvenire. Sopra quell'immagine mi
addormentai.

Quanto tempo durò quel sonno? Era notte ancora, o il giorno era già
spuntato? Non ne sapevo nulla. Un dolore acuto mi risvegliò di
soprassalto. Un topaccio cominciava a rosicchiarmi il tallone dopo aver
divorato il sandalo. M'alzai. La battaglia sullo scheletro durava
ancora. E nessun altro rumore arrivava fino a me.

Diverse ore passarono ancora così. Questa fiata l'anima riposava; il
corpo si lasciava andare a tutti gli spasimi. Dico tutti gli spasimi;
realmente, uno li assorbiva tutti: la sete! Sentivo il sangue ribollirmi
negli occhi.

Alla fine mi parve d'udire un rumore nei corridoi della prigione; poi un
passo pesante avvicinarsi, una voce brontolare sordamente, un mazzo di
chiavi agitarsi, una chiave entrare nella serratura della porta contro
la quale io m'appoggiava, e sentii quell'uscio aprirsi, stridere sui
suoi cardini, colpirmi nelle spalle, spingermi con forza e precipitarmi
in fondo alla scala.

Allo scarso lume che filtrò da quell'apertura abbracciai in un colpo
d'occhio il quadro indefinibile della mia prigione. Tutti i figli della
putrefazione saltarono, fuggirono, s'arrampicarono, sguizzarono in ogni
senso, ed andarono a profondarsi in una specie di voragine nera ed
infetta che s'apriva spalancata in un angolo della prigione. Era uno
scheletro davvero che giaceva sopra quella terra nera ed umida come
quella di un pantano. Le mura verdastre erano marcate da segni fatti con
dei chiodi: forse delle memorie, forse delle maledizioni. In cima alla
scala, sulla soglia, nel vuoto della porta, staccandosi in nero per la
luce che lo rischiarava di dietro, tenevasi ritto il carceriere. Era un
vecchio.

— Hai dormito bene, ragazzo mio? — mi chiese egli con una voce melliflua
che mi diede un brivido, voce che rassomigliava al dolce nicchiar della
tigre quando giuoca coi suoi piccoli.

Lo guardai, salendo, alcuni gradini, e mi fermai d'un tratto vedendolo
indietreggiare di qualche passo.

— Perfettamente, risposi, e voi, babbo?

— Malissimo: una pulce mi ha dato rovello. Ma tu devi aver fame, povero
figliuolo, — continuò coll'istesso tuono di voce.

Io avevo preso l'abitudine, trovandomi in situazioni ardue, dinanzi a
cose od a persone che non comprendevo bene, di recitare una parte che si
presta a tutte le evoluzioni: la fatuità. La fatuità è un terreno neutro
da cui puoi prendere qualunque mossa. Un passo in dietro, è la
melensaggine: sei Antonio. Un passo avanti, è lo spirito: sei Cesare o
Alcibiade. Un passo da una parte, sei uno sciocco: Sansone o Goliath.
Uno dall'altra, è l'arguzia pretenziosa, è Salomone. In breve, dal punto
centrale della fatuità si può entrare in tutte le altre parti senza
sforzo, ed avere il tempo di scandagliare, di comprendere, di decidersi,
senza nulla compromettere storditamente. Così, per esempio, alla domanda
singolare del carceriere, io risposi:

— Fame? neppur per idea. Finisco di pranzare.

— Come dunque? gridò con voce rauca e tremante dalla collera. Avrebbero
forse preso la chiave dalla mia cintura?

— Niente affatto, caro babbo, risposi tranquillamente.

— E dunque allora?

— Allora, ho ucciso con un pugno un sorcio grosso come un lepre, che si
divertiva a provare i suoi denti contro questo sandalo, e l'ho mangiato.
Era delizioso! Altro che i grilli degli Esseniani del Giordano!

— Corpo di mille saette! gridò il vecchiaccio, e dire che non ho mai
pensato ad utilizzare quel selvaggiume per nutrire i miei ospiti!
Grazie, ragazzo mio: tu mi fai una rendita. Mi dispiace però che tu abbi
pranzato così bene. Avevo l'intenzione di darti un bel palombo arrostito
in mezzo a due fette di pane impregnato d'olio ed aceto, con due foglie
di lauro.

— Eccellente, babbo mio, eccellente: vi permetto di darlo per cena ad un
conduttore di camelli o di dromedarii, al quale andrà certo a genio.

— Te' te'! il re Erode se ne faceva un regalo.

— Il re Erode era il pronipote d'un cammellaio di Ascalon.

— E cosa diresti tu d'un piatto di fegato di capriuolo e di pollo al
rosmarino, cotto nel vino, reso più piccante con delle olive o dei
funghi, ovvero ancora di una frittura d'azzimi al latte e miele
innaffiata da un fiasco di vecchio Cipro?

— Sì, risposi io noncurante, ho veduto qualche volta regalarsene gli
schiavi galilei delle mie stalle.

— Ma dunque, il mio principe, cosa ci vorrebbe per incontrare il tuo
gusto? fece il vecchio brigante.

— Oh! il mio solito, e semplice; un filetto di tigre arrostito sulle
brage con sale e pimento, o delle animelle di coccodrillo bollite nella
mirra. Costa poco ed è squisito.

— I tuoi ordini saranno eseguiti, mio signore, disse quell'uomo
sogghignando, e se ne andò.

Il carceriere romano è atroce. L'ebreo è orribile. Io principiai ad aver
paura delle intenzioni sinistre che intravvedevo. Si mandava quel
miserabile per aggiungere al supplizio reale della fame e della sete,
quello dell'aspettare, della visione di un desinare che si voleva forse
farmi sperare senza darmelo mai. E il mio timore era confermato dalla
circostanza che l'ora ordinaria del pranzo degli Ebrei era passata da
lungo tempo; poichè alla luce del giorno che aveva intravvista, m'era
sembrato che metà della giornata era già scorsa.

La conversazione sul cibo aveva aumentato gli spasimi del mio stomaco.
Mi assisi di nuovo sull'alto della scala, e per distrarmi stetti ad
ascoltare.

La ronda infernale dei rettili e degli esseri striscianti della mia
carcere era cessata. Non c'erano più che le arterie del mio collo e
delle mie tempia che battessero, e di cui udissi il rumore nel vuoto.
Non avrei mai creduto che fosse così spaventevole per l'uomo il trovarsi
faccia a faccia di sè stesso nelle tenebre, nel silenzio e nella
solitudine. A forza di fissare la mia attenzione per discernere dei
suoni, echi della vita, m'addormentai, o piuttosto m'assopii di nuovo.

Quanto tempo passò ancora? Ero forse caduto dall'assopimento nello
svenimento? Non ne so nulla. Ritornai in me stesso al contatto d'una
mano che si posava sul mio collo a traverso la porta semichiusa, per
impedirmi di rotolare di nuovo al fondo del mio pozzo, ed alla luce
affumicata che spiccava la lanterna del mio carceriere. Questi aveva
l'aria un po' contrariata.

— Vieni, mi disse ruvidamente.

— Dove? domandai, stendendo le braccia e sbadigliando come qualcuno che
si sveglia.

— Dove? replicò egli; dove si va, uscendo da qui? dove si può andare?

— Alla propria casa, per Dio! risposi io, quantunque un brivido
percorresse le mie vene.

— Sì, disse la mummia; da suo Padre, certo.

Mi legarono le mani al dosso, e mi spinsero nella corte. Là, Cneus
Priscus mi attendeva con soli quattro uomini. Fece un segno. Uno degli
uomini mi attaccò sul viso un pezzo di vecchia stoffa, così stretto, che
per un momento temetti non mi volessero soffocare.

— Non posso più respirare, sclamai facendo uno sforzo.

— Non è punto necessario, rispose Cneus; è un lusso di cui metà della
creazione ha trovato la maniera di fare a meno.

Mi spingevano sempre.

Compresi che bisognava mettersi in cammino. L'aria fresca della sera che
aveva sfiorato la mia fronte mi aveva un poco rianimato. Il moto mi
faceva bene. La respirazione fuori dell'orribile puzzo della prigione,
quantunque non fosse pienamente libera, m'insoffiava la vita. Tutto il
creato taceva, eccetto la rondinella laboriosa, che prendeva in iscambio
le prime luci rosse della piena luna per quella del sole che tramonta.
Io aveva gettato un subito sguardo su quel ritaglio di cielo punteggiato
di stelle, che m'aveva incantato. Non sapevo ancora che il cielo fosse
così bello a contemplare! Uscendo dalla corte del castello cominciammo a
discendere; ma mi avevano fatto fare tanti giri e rigiri, e attraversare
tante porte e tanti corridoi avanti di principiare questa discesa che
non potei più orientarmi, nè comprendere dove andassimo. Questo mistero
a momenti mi spaventava, poi mi consolava.

— Da quando in qua Pilato è egli divenuto così pudico e così pieno di
cautele nelle sue esecuzioni? dicevo a me stesso. Da quando in qua,
aggiungevo, fa egli giustiziare avanti il giudizio? Questo romano è
scuro e severo, ma giusto, o meglio, è schiavo della legalità. L'uomo
che l'altro giorno ha trucidato un popolo disarmato, avrebbe del pudore
questa notte e civetterebbe col cosa se ne dirà a Gerusalemme? Hum, hum!

Un soffio d'aria profumata che mi carezzò le narici, malgrado la stoffa
tesa sul mio viso, m'avvisò ch'eravamo vicini ad un giardino. Ancora una
rivelazione. Per farmi cangiare di prigione o condurmi al pretorio o al
sanhedrin non c'era giardino da traversare. Penetrammo in un viale.
Sentivo sotto i miei piedi la fina sabbia del fiume. L'odore che
m'inebbriava non poteva venire che da qualche conserva, poichè l'autunno
nei nostri climi non ha di quei fiori. Udii qualcuno della scorta
allontanarsi, probabilmente per andar a prendere degli ordini, e
ritornare poco dopo, sempre silenziosamente. Nondimeno comprendevo
perfettamente ch'eravamo vicini ad una casa, perchè la mia benda non
impediva al rumore delle voci e del movimento di arrivare alle mie
orecchie. Attendemmo un quarto d'ora forse. Alla fine mi sembrò udire un
passo leggero e il fruscio di un vestito di donna. Non m'ingannavo. Udii
il passo della scorta che si allontanava, poi una mano di donna prender
la mia dicendomi dolcemente: «Vieni.»

Io non risposi. Il mio cuore batteva forte. Quella mano era così soffice
e così tepida, quella voce era così vellutata, che per un istante
credetti toccare quelle mani delle cortigiane romane che davano il
brivido allo stesso Catone, ed udire quella voce delle etaire di
Corinto, che turbava la ragione di Socrate stesso.

Seguimmo diversi corridoi e passammo per alcuni atrii, scendemmo per più
scale, mentre un delizioso mormorio d'acqua, cadente nelle vasche di
porfido, blandiva le mie orecchie, irritava la mia sete. Ci fermammo
ancora. La persona che mi accompagnava soffiò all'orecchio d'un'altra
alcune parole che non potei comprendere, quantunque io conoscessi il
greco. Cinque minuti dopo, la stessa persona ritornò; disse ancora
alcune altre parole nell'istessa maniera, e riprendemmo il cammino
discendendo alcuni gradini e seguendo un portico; poichè l'aria che
sfiorava la mia fronte era fresca. Finalmente penetrammo in una stanza
la cui atmosfera calda e densa era soffocante.

— Eccoci arrivati, disse ella, che gli Dei realizzino i tuoi desiderii.

Disparve. Io restai un momento silenzioso. Poi una mano sollevò la mia
benda, mentre un'altra tagliava le corde che mi martoriavano i polsi. Le
corde si staccarono, la benda cadde. Io vidi. E restai abbagliato.



VII.


In quell'istesso momento, i miei amici, in casa del sagan, mi davano per
perduto.

Era l'ultimo giorno della festa dei Tabernacoli, e l'ultimo delle feste
del circo date da Pilato. Gli Ebrei delle provincie, venuti a
Gerusalemme per la solennità nazionale, stavano per ritornare alle loro
case, nella notte o all'indomani. Gli Ebrei di Gerusalemme che avevano
preso posto sopra i gradini dell'anfiteatro erano stati ancora in minor
numero dei giorni precedenti. Il livello dell'odio della grande città
aumentava; il sangue spazzato via aveva lasciato traccie indelebili. I
capi partito della Galilea, della Perea, delle due tetrarchie, volevano
intendere l'ultima parola onde agire in conformità. La notizia del mio
arresto non era conosciuta che da loro, ed aveva irritato la loro
collera. Hannah tremava per sè stesso, ed era imbarazzato. L'altezza
alla quale io l'aveva condotto gli dava la vertigine.

Si sapeva che io era inghiottito nelle viscere della torre Phasaelus. I
bracchi del sagan avevano scandagliato il palazzo d'Erode: e' si taceva.
Questo silenzio spaventava ancor più il sagan. Maria credeva che dopo il
banchetto di Pilato io avessi fatto una gita a Gerico per vedere mia
madre.

Hannah avrebbe voluto evitare di ricevere i nostri emissarii delle
provincie, sapendosi sorvegliato da Pilato, e sapendo di più che c'era
una spia in mezzo a noi. Ma non poteva non riceverli senza abdicare,
senza sollevare i sospetti negli amici, come li aveva risvegliati
nell'inimico.

L'ex gran sacerdote si era giusto alzato dal suo sontuoso pranzo,
allorchè i cospiratori sfuggiti alla trappola di Josafat, principiarono
a fare irruzione nel suo superbo palazzo. Primo fu Jesus Bar Abbas, che
dopo aver fiutato tutto il giorno intorno la residenza del procuratore
onde buscar notizie, veniva ora dalla torre Phasaelus ove aveva
ricevuto, per sola guisa d'indizio, una serie di calci e scappellotti.
Decisamente, per essi, Moab era sparito ed io rapito. Bar Abbas entrò
grattandosi le parti abbondantemente offese e brontolando:

— Oh no! non si dirà più che Bar Abbas non paga i suoi debiti: questo
qui lo pagherò. Credo che ci sia lesione d'ossa nelle mie regioni
occipitali. E poi sono stato quasi quasi rapito ancor io. Forse che il
pranzo quotidiano mi darebbe una bella cera? Una mariuola, alla vostra
porta stessa, si è aggrappata al mio mantello, che non ne poteva più,
dicendomi con una bocca rosea, — che odorava deliziosamente di cipolla,
— che aveva adornato il suo letto con un tappeto dipinto d'Egitto, che
aveva profumata la sua stanza con mirra, aloè e cinnamomo, e che
m'invitava quasi che mi fossi il re Salomone[11]. E la tirava il mio
mantello da una parte, mentre io, premuroso di arrivar qui, lo tirava
dall'altra, ed ecco come la metà del mio copridosso se n'è andata dove
avrei voluto veramente andar ancor io. Avreste un mantello di ricambio
da prestarmi, sagan?

  [11] Proverbi, VII.

— Diverresti tu per caso un onest'uomo?

— Giammai. Ciò rimpicciolisce. Io aspiro a divenir gran sacerdote.

— Va a cena, disse il sagan ridendo. Un posto a tavola ti conviene
meglio, cred'io, che un posto di gran sacerdote.

Menahem, appoggiato ad alcuni dei suoi amici, entrava in quel momento, e
poco dopo arrivarono gli altri.

Il sito ove il sagan riceveva i cospiratori era una camera ritirata, in
un angolo remoto del palazzo, che sporgeva sopra un cortile e metteva
sulla strada per una porta nascosta in un assito. Le mura erano
incrostate di marmo verde, il soffitto di legno di cedro intagliato a
rosacci. Rischiarata da un solo candelabro, quella stanza aveva
l'aspetto funebre; quell'assemblea, l'aria di una riunione di banditi.
Perocchè le fisonomie di quei giovani erano in gran parte fiere e
tristi. La luce inondava della sua fiamma rossastra la testa gialla e la
barba grigia del sagan; ed i suoi occhi neri, vivi, inquieti brillavano
d'un doppio guizzo, aguzzati dalla lunga tunica bianca e da un caftan
celeste contornato d'un cerchio d'oro. Egli aveva l'aria grave e
tacevasi, giuocando colla sua lunga barba. Hannah era un uomo di poco
più della cinquantina. Si aspettavano da lui le spiegazioni sul mio
arresto e sulla mia situazione, sulla strage causata dalla richiesta
dell'offerta, sull'attitudine presa dagli abitanti di Gerusalemme, sulla
condotta che si doveva tenere. Vedendo che Hannah si preparava piuttosto
ad ascoltare che a parlare, Menahem disse:

Sagan, noi partiamo questa notte; che dobbiamo dire ai nostri fratelli
per consolarli della funebre notizia che ci ha già preceduti e che ha
messo il lutto in tanti cuori?

— Dite che bisogna sperare, rispose il sagan. Ove la semente cade, nasce
la spica.

— Non basta questo, riprese Menahem. Bisogna che sappiano quando questa
spica nascerà; chi la mieterà e di chi sarà l'alimento. Noi non abbiamo
tutti le stesse credenze e l'istesso scopo.

— Abbiamo tutti almeno l'istesso odio, spero.

— Sì, ma a chi profitterà l'esplosione di quest'odio? Quando Giuda venne
a visitare i nostri villaggi e mettere la mano sui nostri cuori
esulcerati; quando egli si inoltrò nel deserto per risvegliarvi delle
anime che abborrono il sangue e non hanno per patria che la pupilla di
Dio; quando egli legò all'istessa opera lo sdegnoso sadduceo ed il
cupido fariseo; egli aveva trovato un terreno neutro, ove della gente
che si batteva ieri, poteva darsi domani la mano.

— Egli aveva prefisso il terreno che io gli avevo indicato.

— Ebbene, gli è precisamente di codesto che noi ora dubitiamo. Giuda ci
aveva promesso: non più giudici, non più re, non più re-preti, non più
re-prefetti dello straniero, non più tetrarca o etnarca. I giudici hanno
finito con Samuele che rese il potere ereditario nella sua famiglia, nei
suoi figli prevaricatori, avari e crudeli, Joel e Abrà. I re ci hanno
condotto a Roboamo che diede occasione alla divisione della monarchia, e
ad Osea e Sedecia che causarono la schiavitù del popolo ebreo a
Babilonia. I re-preti ci hanno condotti al tiranno Aristobulus,
all'imbecille Hircanus, all'intervenzione romana. Il re-prefetto di Roma
ci condusse allo spezzamento della nazione in provincie straniere. Non
c'è più popolo ebreo. Ora gli è questo popolo ch'è mestieri far
rivivere!

— Non sono forse codeste le mie idee?

— Sì; ma a vantaggio di chi questo popolo rinascerà? Ecco ove la
questione si complica ed ove le opinioni si separano. Voi, Hannah,
vorreste farvi dichiarare nostro re ed investire vostro figlio della
dignità di gran sacerdote. E avete già preparata la via facendo occupare
questo posto dal vostro genero Caifa.

— Che graziosamente ci tradisce, sclamò entrando Bar Abbas, cogliendo a
volo questo nome sospetto.

Hannah lo fulminò di uno sguardo di sprezzo e senza degnarsi di
rispondergli, disse:

— Non ho quest'idea.

— Se non l'avete oggi la vi verrà domani, continuò Menahem. I farisei
vorrebbero ritornarci a' tempi della regina Alessandra, quando essi eran
tutto, regnando sulla regina e sul popolo. I sadducei dicono a sè
stessi: Se noi non governiamo il paese, meglio vale avere i Romani che
ci danno la pace e la sicurezza. Gli essenii vorrebbero fare una
comunità universale, abolendo il matrimonio, ed abbandonando così fra
cinquant'anni la Siria in preda ai leopardi ed ai lupi. Noi, figli di
Giuda il Golonite, vogliamo il regno del popolo, col popolo, pel popolo.

— Voi vedete dunque che tutto ciò essendo assurdo, interruppe Hannah,
bisogna fondere i partiti in una grande idea.

— Bisogna fonderli in un comune interesse, ci aveva detto Giuda,
continuò Menahem.

— Ascoltate, figliuoli, interruppe ancora Hannah: il generale Lysius,
che veniva ad irrompere sul piccolo esercito di Giuda Maccabeo,
conduceva seco dei mercanti di schiavi romani onde vender loro i
prigionieri che contava fare: e fu battuto. Non imitiamo quel pazzo.
Cacciamo prima i Romani, dopo vedremo.

— Codesto _dopo_ si troverà forse a fronte di una risoluzione già presa.

— La redenzione dei popoli è sempre stata un'opera di fede. Se è
discussa avanti, naufraga; se la si discute dopo, la si perde. Il popolo
domandò forse a Mosè: Ove ci conduci?

— Ecco la ragione per cui Mosè lo fece passeggiare per tanto tempo nel
deserto, nutrendolo di grilli alla salsa di rugiada, saltò su Bar Abbas.
Amo meglio le cipolle per conto mio, le quali, fra parentesi, sono
eccellenti in Egitto. Ci si dice: Fatevi uccidere, per aver poscia
l'onore di un sepolcro, o di mostrare le vostre cicatrici in un paese
sottoposto ad un indegno padrone! Grazie tante, papà: gli è un padrone
precisamente quello che io non voglio, sia esso Pilato o Hannah. Con
questo che si cena bene da te veramente, o sagan!

— Vediamo figliuoli; non è per discutere queste questioni che siete
venuti da me a quest'ora, alcuni istanti prima della vostra partenza.
Accorciamo. Cosa siete venuti a dirmi? cosa volete sapere?

Hannah sembrava annoiato. Tutti questi ragionamenti erano nuovi per lui.
Egli figurava come il capo di una cospirazione di cui perfino il
programma gli giungeva come una rivelazione. Egli non vi si riconosceva
più. Io non l'aveva mai iniziato allo scopo finale di quest'opera di cui
egli appariva creatore. Egli non era altro che un nome: perchè ne avrei
fatto un corpo, un pensiero, un essere? Ero stato costretto a spiegarmi
coi fratelli di Giuda di Gamala, perocchè costoro erano i soli uomini in
mezzo a tutti quei fanciulli che si credevano tali perchè avevano barba.
Ecco dunque il sagan imbarazzato e gli altri sviati. Menahem, che era il
più giovine dei fratelli di Giuda di Gamala, e che sostenne poi una gran
parte nel tentativo di liberazione del nostro paese, rispose:

— Abbiamo una cosa a dirti, sagan, e vogliamo saperne molte. Giuda è
caduto nelle mani dei nostri nemici. Bisogna a qualunque prezzo impedire
che lo uccidano. Se gli abitanti di Gerusalemme non sono abbastanza
forti per opporsi a questo attentato, noi non partiremo, e resisteremo.

— Se Giuda non è già caduto vittima, se Pilato non lo soffoca nel fondo
delle sue mude, Giuda sarà salvo, affermò il sagan.

— Lo promettete?

— Lo giuro, disse il sagan.

— Sì, replicò Bar Abbas, ma non ripetere, Hannah, codesto tuo giuramento
al tuo Vicario Caifa. Questi te ne farebbe sciogliere da Pilato,
effettuando tutto codesto trinceramento di _se_, di cui hai circondato
la tua promessa. Quel gran sacerdote lì, non m'ispira nessuna
confidenza. Quella figura appuntita, sopra un corpo frusto, quella
faccia gialla come un limone, sopra un corpo festonato di azzurro, d'oro
e di gioielli, m'ha l'aria d'essere un serpente rannicchiato nella pelle
d'una volpe. Egli vende le pecore ebree ai beccai romani, i quali a loro
volta gliene apparecchiano le costolette pel suo pranzo.

— È un'infamia codesta che tu dici, urlò il sagan. V'è nessun altro qui
che osi ripeterla?

— Nessuno l'oserà, osservò Bar Abbas, perchè l'infamia ha un privilegio
regale: poter dire tutto! Ma molti pensano come me.

— Basta così, sclamò il sagan. Sì, Giuda sarà salvo se Pilato ne ordina
il supplizio pubblico. Ma non siamo abbastanza forti per demolire le sue
torri. E dopo?

— Ecco ora quello che vorremmo conoscere, sagan, riprese Menahem. Che
dobbiamo noi dire ai nostri fratelli della provincia per giustificare
Gerusalemme della strage dei giorni scorsi?

— Che non volendo impegnare una battaglia, ma soltanto scandagliare lo
spirito pubblico, contarci, riconoscerci, non avevamo preparato nè
distribuito armi; che Gerusalemme è stata sorpresa, assalita
improvvisamente, e vinta prima che avesse neppur cognizione dell'attacco
del nemico; che Gerusalemme ha dato una larga parte di vittime, e che
voi l'avete veduta nel lutto, protestare, colla fuga e colla sua assenza
dagli spettacoli, contro un padrone straniero.

— E che diremo loro per illuminarli sull'avvenire?

— Che l'avvenire è sovente nelle mani di Dio, ma che l'uomo audace
glielo strappa sempre di mano; che bisogna volere, volere, e poi volere.
Chi vuole può.

— Noi vogliamo tutti, disse Menahem; ma che bisogna egli fare per
potere?

— Avere delle armi, saper servirsene; aver cuore, confidenza,
disciplina; non stancarsi mai; non disperare nei rovesci; non
inebbriarsi nei successi; credere alla propria forza, al proprio
diritto; non indietreggiare davanti nessuna cosa quando si tratta di
perdere l'inimico; restar uniti; guardarsi dalle carezze dello
straniero, rifiutarne perfino i beneficii, perfino la giustizia, perfino
l'amore; non dar mai quartiere; divenire un'idea modellata in un uomo, e
fare di questa idea una ostinazione.

— Noi lo faremo, disse Menahem.

— Allora, la vittoria è certa.

— Sono troppe cose che occorrono, brontolò Bar Abbas. Ho veduto gli
Spagnuoli, i Brettoni, i Galli, i Germani voler tutto ciò, e malgrado
tutto ciò soccombere. I Romani non conoscono che una cosa sola.

— Quale dunque?

— Il momento. Tutto è là. Quegli uomini lì passano la lor vita a
osservare la meridiana dei popoli. Varo, che era guercio, fu tagliato a
pezzi. Volete schiacciare i Romani? fatevi Romani. Dacchè sono Giudeo,
io non ricevo che dei calci; quando ero nelle legioni menavo botte da
orbo.

— Continuate, disse il sagan a Menahem.

— Cosa farà Gerusalemme?

— Darà il segnale.

— Hum! fece Bar Abbas. Non ho mai veduto i trombettieri battersi fuorchè
nelle rotte, ove ognuno se la cava come può. Preferirei che Gerusalemme
facesse qui la sua parte, mentre gli altri la fanno altrove, tutti
nell'istesso tempo.

Il sagan si contorceva, perchè, alla fin fine, quel birbo non aveva
tutti i torti.

— E poi? domandò Hannah.

— Quando suonerà l'ora dell'azione? In che luogo? A qual parola d'ordine
bisognerà dar principio? domandò Menahem.

— Ogni ora è buona quando s'è pronti. Noi vegliamo. Nessun luogo
disegnato prima dell'azione. Nessuna parola d'ordine, che può essere
male intesa. Nondimeno, venite al prossimo _peschah_ (pasqua) come
verreste ad una battaglia: dite addio alle vostre donne, ai vostri
figli, ai vostri vecchi, e.... mirate al Tempio. Dio è la forza e la
verità.

— Bah! bah! bah! esclamò Bar Abbas. Tutto codesto non è che un bisticcio
di coloro che vedono sempre le cose da lontano. Questa Forza e questa
Verità ci hanno fatto le più inette burle del mondo. Il popolo ebreo ha
sempre mirato al Tempio, e ciò non ha impedito che gli Egiziani, che gli
Assiri, che quelli, che questi, che tutti insomma che l'han voluto,
l'abbiano condotto schiavo come delle bestie da lavoro. Il Tempio è
stato preso, ripreso, bruciato, rifatto, profanato le tante volte; e la
Forza e la Verità non si sono mai incomodate per scoccare la folgore la
più piccola, la più ridicola, che qualunque Giove di villaggio avrebbe
trovato nel suo focolaio. Udite me, cari fratelli, che ho vissuto
vent'anni con quei bellimbusti. L'ora ed il luogo per estirpare i Romani
dal vostro suolo è quando essi se lo aspettano meno, dove essi se lo
aspettano meno, se tuttavia non potete attaccarli in ogni sito
nell'istesso tempo. Quanto alla parola d'ordine, non ce n'è che una:
Grazia a nessuno! distruzione, dispersione perfino delle ceneri di ciò
che avete distrutto. I Romani sono come una cimice, che, risparmiata
l'autunno, rinasce legione nella primavera.

Il sagan guardò Bar Abbas con un fulminante aggrottamento di ciglia,
urtato, irritato di vedersi contradetto da un uomo simile, e in quella
forma. Bar Abbas, fingendo di sbadigliare, gli fe' cenno schizzando
l'occhio in modo significante. Menahem domandò:

— È necessario il silenzio?

— La nostra lotta è quella del diritto contro la forza: non abbiamo
d'uopo dunque di parlare per giustificarci: abbiamo d'uopo d'agire per
riuscire. Il silenzio è la metà del successo.

— Ah! ancora delle parole vuote di senso, saltò su di nuovo Bar Abbas,
alzando le spalle. Il silenzio mostra paura. Perchè cangiare in una
cospirazione ciò che può, ciò che deve esser guerra? Per abbattere i
Romani abbiamo bisogno del numero; tutta la nazione deve metter le mani
alla scodella. Ora, se voi vi nascondete, se parlate basso, se non
chiamate che gli iniziati e gli eletti, sarete in piccol numero, e
schiacciati come lucertole. Se nessuno l'osa, m'incarico io di andare a
presentare a Ponzio Pilato — l'uomo dalla faccia livida e dal cuore di
sangue — il suo congedo pel 15 di nizam, giorno del peschah dei figli di
Giacobbe. Birbo di Vecchio! Fu egli fortunato di avere una moglie che
gli guarniva il letto di giovani ganze! Ah! no, non era lui, era suo
padre.... ma non fa niente.

— Allora che attitudine dobbiamo prendere di fronte ai due tetrarchi,
principalmente di Antipas?

— Il riserbo, disse Hannah. Osservarli, perchè essi non sono più gli
amici del popolo ebreo, ma i carcerieri di Roma.

— Questa poi l'è bella! sclamò Bar Abbas. Come! voi volete dunque
aumentare il numero dei vostri nemici? Non vi bastano dunque i Romani?
Bisogna comprometterli, al contrario, codesti tetrarchi; bisogna sedurli
coll'esca della ricostruzione del regno di Erode, ch'essi già ambiscono.
Più cacciatori avrete in questa maledetta caccia, e più sarete sicuri
d'ammazzare la belva. Vedremo poi chi s'avrà la pelle. Certo, non mi
sarò io quegli. Mi contenterò di averne gli avanzi come i cani.

— Ma allora chi sarà il capo che condurrà tutta questa grand'opera?
domandò Menahem. I tetrarchi, il sagan, il gran sacerdote, la sinagoga,
il sanhedrin, il gran collegio, i figli di Giuda di Gamala, i sadducei,
tutti si credono avere il diritto di comandare e di dirigere. A chi
dobbiamo noi obbedire?

— La direzione, rispose Hannah visibilmente imbarazzato da quella
domanda, spetta al consiglio dei delegati dei partiti. Durante il
combattimento, quando l'ora della battaglia sarà suonata, ogni partito
sceglierà il suo capo. Dopo il trionfo, tutti concorreranno alla nomina
del capo, se tuttavia capi e semplici gregarii non saremo tutti uniti
nell'istesso supplizio.

— Ecco un bel caos! obbiettò Bar Abbas. Capisco per altro che non è cosa
da potersi decidere prima. Il più ardito, il più fortunato, forse il più
ricco, il più astuto o il più intrigante, sarà il capo. Ma egli sorgerà
sicuro dagli avvenimenti, non egli s'imporrà ad essi. Supponete che sia
io che abbia la fortuna di cacciar via Pilato da Gerusalemme; credete
forse, potente sagan, che vi lascerei fare la pioggia ed il bel tempo
nella città, come fate ora? Ricordatevi Erode. Ma non tocchiamo questa
questione per ora. Si tratta di cacciare i Romani; ci scanneremo dopo
fra noi per darci un padrone che scannerà quelli che resteranno. Che
volete che faccia un padrone arrivato in questa guisa, se non si mette
anche lui a scannare un po'? Non vorrete certo che il vostro nuovo
signore muoia di noia. È così dolce il trucidare gli amici della vigilia
che diverrebbero sì esigenti all'indomani! Val meglio liberarsene e
restar franco.

Un vecchio, tutto vestito di bianco, abbronzato come un camellaio del
deserto, che era restato fino a quel momento silenzioso e ritirato, si
avanzò allora nel mezzo della sala, e interrompendo e scostando colle
mani Bar Abbas, gridò:

— Io ve lo dico: tutto codesto, non è che fanciullaggine. Ci vuole un
profeta od un messia[12].

  [12] «Un'altra ragione spiega l'incredulità della Giudea:
  l'abbandono col quale questo paese si dava in preda al
  maraviglioso. Era stato assogettato, dall'origine, ad una regola,
  che autorizza a non scorgere nei più sacri miracoli che una
  semplice questione di necessità e di costumi.» SALVATORE, pag.
  399. — GIUSEPPE, _Antichità_, XX, cap. II, VI, VI. — _Guerra_, II,
  cap. XXIII, — XXIII.

Questo esseniano aveva posto il dito sul cuore della situazione. La sua
proposizione riassumeva tutto, risolveva tutte le difficoltà, rispondeva
alle circostanze ed alle tradizioni del popolo ebreo. Un profeta è Dio.
Dio primeggiava su tutti, aveva diritto di pretendere a tutto, all'umano
ed al sovrumano. Un capo poteva imporre ai suoi subordinati
dell'eroismo; un profeta esigeva da loro dei miracoli.

Il lungo silenzio che accolse questa proposizione provava che
l'esseniano aveva colpito giusto. Tutte le coscienze gli rispondevano:
«Sì, è duopo d'un profeta.»

Hannah finalmente disse:

— Ebbene, sia: avrete un profeta.

— Quando? quando? domandarono tutti unanimi.

— Nol so, rispose Hannah. Abbiamo bene nel Tempio ciò che occorre per
produrre un messia: ma non possiamo abolire nè il tempo nè lo spazio.
Ora la Grecia, l'Egitto, l'India, la Persia, sono lontane: Apollonio di
Tiane, Jarchas, i Mitra, gli Orfei, gli Hermes, non si trovano a Gerico.
Poi, bisogna apparecchiargli un teatro e degli spettatori, a codesto
messia: delle donne ossesse che sputino fuori il diavolo e a tempo; dei
catalettici che si risveglino a ora fissa, degli epilettici
disciplinati... che so io? La scienza si compera, la fede si costruisce;
ma bisogna del tempo. Nondimeno io penso che quando ritornerete pel
peschah io vi presenterò un profeta bene ammannito, ben tarchiato, il
quale colla sua parola solleverà il popolo, come il vento alza la polve.

— Accettato, replicarono tutti i cospiratori; a rivederci a peschah.

— Infrattanto, aggiunse il sagan, preparate il popolo, e quando verrete,
dite addio alle vostre donne, ai vostri figli, ai vostri vecchi, e siate
armati. Si verrà qui per morire, forse.

— Avremo delle armi, risposero tutti ad una voce, e verremo per vincere.

— Allora che Dio sia col suo popolo, sclamò Hannah, con un tuono che
significava che tutto era stato detto e che l'assemblea era ormai
sciolta.

I delegati uscirono poco a poco, alcuni silenziosamente, altri dicendo
qualche parola al sagan. Bar Abbas restò per ultimo.

— Ora, miserabile, gridò il sagan furibondo, mi spiegherai alla fine ciò
che vuol dire l'attitudine impudente che hai presa stasera.

— Non l'hai indovinato?

— Io non indovino, rispose il sagan con tuono severo, io interrogo.

— Ebbene, ho voluto gettare la confusione in mezzo a degli spiriti che
avrebbero potuto principiare a vederci chiaro. Non ci andavi di mano
morta, tu, o sagan, a precisare, a scender nei particolari, e spiegare
filo per filo tutti i segreti delle nostre operazioni, a svolgere
l'andamento della nostra impresa! Diavolo! e non dubitavi tu che lo
stesso onest'uomo che ha tradito i nostri fratelli della casa disabitata
di Josafath, poteva forse trovarsi anche questa sera in mezzo a noi?

— Hai ragione, disse Hannah riflettendo.

— Ti ho parlato di Caifas: te lo denunzio nuovamente. Bisogna strisciare
per vedere nei fondi tenebrosi. Io credo di averlo indovinato.
Guárdatene bene. Tu sei minacciato pel primo da quella ambizione
infatica, ma persistente ed astuta.

Hannah sorrise e non rispose. Bar Abbas continuò:

— Dopo tutto ciò che ho detto io, quella gente non sa più dove dare del
capo, nè ciò che facciamo, nè ciò che faremo, nè ciò che dovrebbero far
essi. L'amico di Pilato, anche se vuole denunziarci, ha perduto la
pesta. Ti par dunque che quella gente lì debba pensare e sapere? Devon
essi forse conoscere per quale strada li conduciamo al macello? Insomma:
in tutto ciò che s'è detto questa sera, non c'è stata che una parola di
sodo.

— Il profeta?

— Il profeta. Sì, dobbiamo fabbricarne uno. Egli sarà il tuo scudo, o
sagan. E' ti covrirà nella lotta e tu t'innalzerai sopra di lui dopo il
combattimento. Soccomberemo? Pilato lo sacrifica. Trionferemo?
l'avveleni e prendi il suo posto. Tu non hai d'uopo certo che io
t'insegni come si fanno queste cose. Un messia! se ne trova a tutti gli
angoli delle vie, e sono cose molto utili. Le nostre provincie ne
producono a ufo, e la canaglia non crede che in essi perchè parlano in
nome di Dio. La canaglia non ha un orizzonte medio. Nel basso ove sta,
la non scorge che fango, o, levando gli occhi, che Dio nel cielo. Tu non
significhi nulla per essi, e quindi non hai presa su di loro, non hai
alcun potere.

— È vero, disse il sagan.

— Allora, facciamo presto, improvvisiamo questo profeta. Ah! che peccato
che non siamo nelle Gallie! ne ho vedute tante di drude o druide che non
so come le chiamino.

— Ci penserò, disse il sagan riflettendo.

— In questo caso non ho più nulla a dirti. Dammi un mantello, e puoi,
senza offendermi, offrirmi anche una tunica. Tuo figlio è della mia
statura.

— Sì, fece Hannah. L'hai ben meritato; e questo in più.

E così dicendo il sagan diede a Bar Abbas un pugno di monete d'argento.

— Diavolo, diavolo, urlò Bar Abbas, intascando il denaro. Spero che
troverò ancora all'angolo della via quella cialtrona che mi ha rubato la
metà del mio mantello.

— Non dimenticar Giuda, disse Hannah.

Bar Abbas assentì col capo.

Justus non aveva assistito a quella riunione.



VIII.


Essi mi compiangevano e mi credevano perduto. Ah! se avessero saputo!

Caduta la benda dai miei occhi, mi trovai in un gabinetto ovale, col
suolo a mosaico, le mura incrostate di marmo giallo d'Egitto, ed il
soffitto di legno di cedro a rosaccie. Delle sedie d'avorio ornate di
bronzo di Corinto, s'allineavano intorno al gabinetto, rischiarato
vivamente da una lampada d'oro. Quello era l'_apodyterium_, — sala del
palazzo d'Erode, per ispogliarsi prima d'entrare nel bagno — che io
conosceva. Al di là, una porta mezzo nascosta da una tappezzeria di
Mesopotamia. Scorgevo a me dinanzi il _tepidarium_, grande stanza
quadrata, in mezzo alla quale si apriva un bacino d'acqua tepida, pari
ad un piccolo lago, che ripeteva la fiamma dei numerosi candelabri
d'argento che lo circondavano come una fila di colonne.

Due giovani schiave galle, addette al mio servizio, s'impadronivano dei
miei vestiti, che caddero in un istante ai miei piedi. La vista
dell'acqua aveva svegliata la mia sete. Domandai da bere. Mi fu
presentata subito una coppa d'oro con due vasi di vino color ambra, ed
un'anfora piena d'acqua. Io bevetti dell'acqua appena ingiallita da
alcune goccie di quel vino, e sentii ritornar le mie forze. Vedendomi
affatto ignudo in mezzo a quelle due belle schiave, arrossii. Una d'esse
mi prese per mano e mi condusse nel _tepidarium_. In quell'istante una
dolce musica si fece udire, ed uno sciame di giovani ragazze, tutte
nude, incoronate di narcisi e di ninfee, irruppero da una sala laterale,
si precipitarono nella vasca, e principiarono a nuotare verso di me,
invitandomi in mezzo a loro.

Avevo ventitrè anni. La vista di tutte quelle beltà, tanto più
pericolose in quanto il cristallo dell'acqua e il riflesso della luce ne
aumentavano lo splendore, mi fece fremere dal piacere. — I colori si
alternavano sulla mia faccia. D'un tratto, scorsi in un angolo di quella
stanza, quasi nascosta sotto la tappezzeria di una porta, una figura di
donna mascherata della sua _ricca_, e avviluppata in una stola che le
scendeva dal collo ai piedi. Un lampo traversò il mio spirito. Mi dissi:
Cosa vuole quella donna che si nasconde e che mi getta in mezzo a
tentazioni così seducenti? Il cangiamento che s'era operato nella mia
posizione mi dava a riflettere. Per uno sforzo di volontà, finsi
l'indifferenza, e scendendo nella vasca d'acqua profumata, mi misi a
nuotare ed a giocare colle ragazze, assolutamente come se fossi stato
coi miei giovani amici nel Giordano, o nelle acque azzurre di
Genezareth. Non poterono strapparmi neppure un bacio; e Dio sa che
scrigno di bellezza e di gioventù era aperto dinanzi ai miei occhi!
Giuseppe ne sarebbe stato vinto. Durante tutto il tempo che io restai a
saltellare, a ridere, a cantare perfino, a giuocare con quelle naiadi
rapite al Caucaso, alla Gallia, alla Spagna, alla Siria, quella donna
non si mosse dal suo posto d'osservazione. Quando uscii dall'acqua, due
schiave egiziane s'impadronirono di me e mi condussero al _calidarium_.

Se io non fossi già stato a Roma, avrei creduto che mi si conducesse in
una sala di tortura. I muri erano coperti di una rete di tubi riscaldati
a rosso da una fornace esterna, e che erano maggiormente riscaldati dal
vapore che si sprigionava dal serbatoio d'acqua bollente che stava nel
mezzo di quella stanza circolare. Mi sentii venir meno e mi lasciai
cadere sopra uno dei seggi che occupavano le nicchie praticate
tutt'intorno.

Immediatamente uno degli schiavi tirò una catena, ed uno scudo d'oro,
che coronava il soffitto, s'aprì e mi inondò d'un soffio d'aria fresca e
di una sensazione deliziosa. Ogni qualvolta la temperatura diveniva
incandescente l'operazione dell'apertura della valvola si rinnovava, ed
un soave languore s'impadroniva di me. In quello stato mi avvolsero in
un mantello di lana scarlatto, e mi trasportarono in un'altra camera
riscaldata in grado minore, ove gli schiavi principiarono l'operazione
della frizione. Quando le mie membra furon rimescolate e le mie giunture
disarticolate, gli schiavi mi fregarono con olio profumato. Mi sentii
rinascere. Mi asciugarono infine con una dolce mussolina d'Egitto, e mi
lasciarono godere di alcuni minuti di riposo.

Due schiave italiane mi risvegliarono quasi, presentandomi una bianca
tunica ornata di frangie azzurre. Dopo avere pettinato e profumato i
miei bei capelli biondi, li cinsero di una corona di rose, come per le
vittime destinate al supplizio.

Durante tutto il tempo dell'abluzione e dell'abbigliamento, non rivolsi
una sola parola ad alcuno; lasciai fare, come un testimonio o come un
padrone.

Quando tutto fu in ordine, le mie unghie tagliate, i miei piedi
profumati, un'altra schiava vestita tutta di bianco e celeste con una
cintura di porpora, venne a prendermi. Quattro suonatori d'arpa la
precedevano. Io conosceva il sito. Traversammo due o tre sale
imbalsamate dalle esalazioni degli alberi e dai fiori del giardino, ed
arrivammo infine nel _triclinium_ riservato, che il re Erode aveva fatto
costruire per le sue cene voluttuose colla bella Mariamne, la più bella
e la più amata delle sue nove mogli e delle sue numerose favorite.

Quella sala, di forma ovale, non era molto vasta. Il soffitto era mobile
ed alternava secondo le ore e le fasi del pranzo, mostrando ora
l'empireo gemmato di stelle, ora dei quadri di dii e di dee ignude, le
cui voluttà esaltavano il cervello degli spettatori; altre volte
cangiavasi in un nuvoleto bianco e rosato che aspergeva i convitati di
una rugiada d'essenze odorose. Questa volta il soppalco rappresentava il
firmamento: e' si avrebbe creduto di cenare sotto i raggi delle stelle.
Delle colonne slanciate di malachite dai capitelli scolpiti e cesellati
come un gioiello della regina Cleopatra, sostenevano la vôlta. Queste
colonne facevano spiccare lo splendore delle pareti ricoperte di stoffe
bianche di seta della Persia, ricamate a fiori e in oro, inquadrate in
cornici pure di oro ornate di pietre preziose. Dieci piccoli quadri,
squisitamente voluttuosi, pendevano dall'alto dei muri a cordoni di
porpora e di oro. Il mosaico del suolo rappresentava la tavola di Giove
in mezzo agli Dei. Le due finestre laterali, aperte sopra i giardini,
erano mezzo nascoste da platani vigorosi innaffiati con vino. Tra i
frammezzi, nel basso, si trovavano delle tavole di legni differenti
incrostate d'argento, di bronzo, d'oro, di pietre preziose, qui rubini,
là smeraldi, altrove amatiste o agate, e arricchite da medaglioni
maravigliosamente dipinti. Su quelle tavole le schiave posavano i vasi,
le ricche dapi — _lancula_ — le vivande.

Non c'era che un sol letto per due persone. Questo letto era di scaglia
indiana, che pareva dell'ambra liquida, trasparente come il vetro e
tutta venata d'azzurro. Era incrostata di fileti d'oro e di piastre di
smeraldi e zaffiri. Questo letto era rimpinzato di piumini di cigno, e
coperto d'una stoffa di seta ed oro color porpora. Un _monopodium_ ovale
di madreperla, circondato da un cerchio d'oro scolpito ed ingemmato, si
stendeva dinanzi al letto, la cui spalliera era leggermente curvata, e
le cui braccia erano imbottite sofficemente dai cuscini di stoffa
bianco-dorata. Del resto per farsi un'idea della ricchezza di quella
tavola d'un re asiatico, si consideri che un semplice avvocato di Roma,
Cicerone, aveva pagato la sua, così mi dissero a Roma, un milione di
sesterzii (204,500 lire), ed un altro cittadino, Cæthegus, un milione e
mezzo. Tutt'intorno a quella magica sala, delle statue d'alabastro,
ignude, sostenevano dei candelabri che la rischiaravano come se il sole
del mezzogiorno l'avesse inondata della sua luce. Dei vasi di fiori
profumavano l'aere e accarezzavano lo sguardo.

Avanti di varcare la soglia, due schiave nubiane, una con un bacino
d'oro, e l'altra con una stoffa di porpora, m'offersero a lavare le
mani. Alla porta il maestro del banchetto mi ricevette e m'introdusse
presso il mio ospite.

Le mie previsioni non m'avevano ingannato. Era Claudia, e Claudia sola,
che m'invitava alla sua cena.

La sera dell'avventura della pantera, Claudia, distratta dalla festa che
Pilato dava a Pomponius Flaccus, ai capi delle legioni e a diversi
personaggi di Gerusalemme, non s'era ricordata di me. All'indomani,
avanti di recarsi all'anfiteatro, fece chiamare Cneus Priscus e gli
domandò conto della mia persona. Priscus le apprese che, dietro ordine
di Pilato, egli mi aveva arrestato il giorno stesso, e m'aveva gettato
nei sotterranei della torre Phasaelus.

Pilato nell'interrogatorio dei prigionieri non aveva raccolto elementi
sufficienti per condannarmi alla croce od al circo, ma ne aveva saputo
abbastanza sopra la mia condotta ed i miei sentimenti per diffidare di
me. Egli aveva inviato Priscus da Caifa onde averne delle informazioni,
e questi gli aveva risposto:

— Non ne conosco nessuno di più pericoloso a Gerusalemme. Si direbbe una
femmina al viso, all'eleganza, alla mollezza, alla frivolità, alla
noncuranza, ai gusti: guai a chi vi si lascia ingannare. La sua
avvenenza è come le foglie che nascondono l'abisso; la sua eleganza è
un'esca; la sua mollezza è l'elasticità dell'acciaio: la sua frivolità
maschera l'opera di un Catilina: la sua noncuranza è il riposo d'una
attività febbrile: i suoi gusti sono espedienti per riescire. Non
principii, non fede, non cuore; dei sensi a suo talento, la parola che
perde, il sorriso che uccide; il sangue, le lagrime e le carezze sono
per lui semplici mezzi. Se si annoia strazia il cuore d'una donna, o
mette a fuoco una provincia.

Questo ritratto astioso, in parte esagerato, in parte ridicolo, colpì
Pilato, che diede ordine di sorvegliarmi. Priscus, per sorvegliarmi
meglio, mi arrestò. Lo stesso ritratto, ripetuto a Claudia, affrettò la
sua curiosità di vedermi. Per suo ordine Priscus mi condusse a lei, che
assumeva di dare a Pilato delle convenienti spiegazioni.

Claudia volle mettermi subito alla prova. Assistè mascherata al mio
bagno singolare, e ritirandosi mutò le disposizioni della cena, che
doveva essere intima e semplice.

La ritrovai già distesa sul letto, bella come l'Ebe greca. I suoi
capelli neri come la notte s'intrecciavano in una corona di rose non
ancora sbocciate e scendevano in ricci sopra delle spalle ed un seno che
si sarebbero detti l'Eden della voluttà. Era vestita di un velo rosa,
quel tanto che bastava a rendere appetitosa l'immodestia. La si sarebbe
presa per una statua greca che un Dio animava per le sue ore di
frenetica ebbrezza. Si vedeva la sua carne palpitare sotto tutte le
emozioni. Il suo seno dava la vertigine, meglio ancora dei suoi occhi se
fosse stato possibile. Quegli occhi neri, profondi, grandi, vellutati,
avevano uno splendore che ammortiva la luce ripercossa da tutto
quell'oro e quelle pietre preziose. Le donne non si levavano i sandali
per cenare; ma ella s'era lasciata togliere i suoi per mostrare un piede
piccolo, bianco, elastico, arcano, delle gambe fine, ed il resto, sotto
onde di velo, da dare i brividi a tutti i sensi. Aveva la bocca un po'
grande: ma i denti scintillavano fra le sue labbra rosee e carnose, che
invocavano i baci. Claudia era una di quelle donne che uccidono e che i
morenti salutano con estasi: _Cæsar, morituri te salutant._

Vedendola n'ebbi come un abbarbagliamento, e per un momento mi credetti
perduto; poichè bisognava esser Tiberio per domare, per rattenere, per
fissare quelle belve dell'amore. Un lampo traversò il mio spirito. «Chi
sono io per provocare tanto fasto? dissi a me stesso. Cosa vuole ella da
me?»

Sì, io mi rivestiva di fatuità, quando ciò stava nei miei interessi; ma
non ne avevo poi tanta per credere di avere addomesticato con un solo
sguardo quella leonessa, che essa sola avrebbe incendiato un'orgia.
Quella donna aveva dunque uno scopo. La sua condotta la denunziava.
Avessi io fatto mille volte più che fatto non aveva per lei, fossi io
stato mille volte più venusto che non mi era, ella avrebbe potuto
ricompensarmi con un sorriso. Perchè dunque questi apparecchi d'una
festa frenetica?

Non comprendendola, mi trincerai nella mia finta fatuità, ed attesi.

Vedendomi entrare, Claudia mi fece segno di andare a prender posto
presso di lei, e col più grazioso sorriso mi disse:

— Siate il benvenuto, ospite mio, benchè sia la guardia del pretorio che
ti ha qui condotto.

— Se mi fosse dato averla fossile, quella guardia del pretorio, le
alzerei un cellario e l'adorerei, risposi. Orfeo traversò l'inferno, e
al postutto non ritrovò che sua moglie.

Claudia sorrise. Sedetti a lei vicino. La sua testa sfiorava il mio
petto.

— Ho un gramo cuoco, disse Claudia. Il mio Labdacus, nondimeno, è
scolaro del famoso Mosquion, detto il Fidia dei cuochi, quegli che con i
resti dei pranzi d'Atticus comperò due villaggi in due anni.

— Ho inteso parlare di quel povero diavolo a cui occorsero due anni per
raggranellare la miseria di tre milioni. Un uomo come lui che dava al
maiale il gusto dello storione, alle murene il gusto del cinghiale, che
serviva dei ravani per acciughe, che conosceva la geometria,
l'astronomia, la medicina, la pittura e la scoltura, mettere due anni
per comperare alcune centinaia d'uomini e poche leghe di terra? Era un
povero taccagno quell'Attico!

Le schiave che dovevano versarci il vino, presentarci le coppe,
aspergerci di foglie di rose e rinfrescarci con le penne di struzzo,
erano già al loro posto. Ad un segno dell'eunuco soprintendente al
banchetto uno sciame di schiave di tutti i colori, mezzo ignude, come la
loro padrona, irruppero nella sala, le une portando dei vasi o dei
bacini, le altre sostenendo un immenso vassoio contenente il primo
servizio.

— Ho ommesso, disse Claudia, tutte le ostentazioni, i giuochi, le
facezie; ho ommesso perfino i due nani che Tiberio ha fatto allevare per
me entro dei tubi, e che sono ancora più piccoli di Conopa, il nano
d'Augusto, che pure non era alto che due piedi e mezzo. Ti do da
mangiare soltanto, non t'invito ad una festa romana. Devi aver fame, a
quello che mi fu raccontato.

— Fame! Ahimè! la fame è una voluttà che Dio ha serbata alla plebe, che
neppur ne lo ringrazia. Io non principio ad aver fame che al sesto
giorno dopo l'ultimo mio pasto.

— È peccato che non l'abbia saputo prima, mormorò Claudia; ti avrei
procurato questo piacere, facendoti godere per qualche giorno di più
dell'ospitalità della torre Phasaelus.

Il primo servizio era composto d'ova, olive bianche e nere d'Atene,
cotogni del Libano conditi con miele e papavero, dei sanguinacci arrosti
serviti sopra un letto di prune della Siria, e pasticceti di
melogranate, di lattughe, e di _garum_ (il _caviale_ dei nostri giorni)
che si paga alla libbra quel tanto che basterebbe a mantenere una
legione.

— Ti piacciono le ova? mi domandò Claudia, mentre una schiava egiziana
ci presentava un paniere d'argento e ce ne offriva sopra un tondo
dell'istesso metallo.

— Sì, risposi io, ma ite in pulcini.

— Peccato, replicò Claudia, perchè eccole lì che se ne vanno in canari.

Infatti, rompendo le nostre ova di pavone, ne volò fuori un piccolo
uccellino giallo, nel tempo stesso che una uccelliera s'apriva all'altra
parte della sala e la riempiva d'un nuvolo d'uccelli di tutti i colori.
Si sarebbe detta una pioggia di pietre preziose. Svolazzarono per un
momento e poi fuggirono dalle finestre che davano sul giardino.

Da due giorni, io non aveva nel mio stomaco che due ova; Claudia lo
sapeva. Nondimeno mi limitai a sfiorare quelle vivande che avrei voluto
divorare.

— Pare che ier sera Cneus Priscus abbia avuto la inaccortezza di
arrivare nella tua casa all'ora della cena, e che abbia attristato un
bel visino.

— Sì, quel povero Bar Abbas, la cui parte dritta della faccia scappa a
furia per non veder la sinistra.

— E nessun altro?

— Ah! quell'ipocrita di Justus, forse, che mi sta sempre alla cintola,
striscia sempre a me vicino, arriva sempre avanti di me, e gode le
delizie che io mi sono preparate.

— Anche del bel musino color d'ottone.

— D'ottone! Dell'oro purificato e bronzato ai raggi del sole, vuoi dire.
Una donna bianca? Andiamo, via! La nera è la schiuma della grande
caldaia della creazione; la bianca è la diluzione finale, esausta; la
donna dalla tinta del bronzo levigato, l'è il metallo in ebullizione,
purificato, vigoroso, ricco di tutta la sua forza, di tutto il suo
valore. La donna bianca è la convalescente della specie.

— To', rispose Claudia ridendo, non mi credevo poi tanto ammalata. Una
donna color di casseruola deve piacere ai guatteri.

Ci versarono del vino speziato di miele e cinnamomo. Poi, ad un segno
dell'eunuco, le schiave si gettarono sulle vivande del primo servizio e
tutto sparì in un batter di palpebra. Una schiava gaditana ci presentò
del pane sopra un timballo d'argento. Un'altra mano di schiave, ancora
meno vestite delle precedenti, entrarono allora nella sala, avendo alla
lor testa un uomo con una lunga barba nera, vestito da mago, con una
bacchetta d'ebano alla mano. Esse portavano sulle spalle un altro
immenso vassoio coperto di una campana d'argento. Seguivale il cuoco
Labdacus in persona, tutto vestito di bianco, preceduto da due maghi e
seguito alla sua volta da una schiava nubiana che teneva nelle braccia
un piccolo burchiello d'oro. Quando le nuove masserizie furono posate
sopra le tavole, e che i vassoi furono scoperti, vedemmo servire sul
nostro desco dei fagiani, del selvaggiume, una testa di cinghiale
contornata da tordi, dei pasticci, dei crostacei; una lepre alata come
il cavallo di Pegaso. Nella piccola barca nuotava uno storione in un
mare di salse, in mezzo a triglie ed a piccole orate; e sopra una
piccola conca a quattro bacini d'oro, quattro satiri accoccolati, che
versavano dal ventre, quando era compresso, un liquore piccante ed
aromatico, a differenti sapori, onde servir di condimento allo storione.
Poi delle ostriche di Bretagna ingrassate nel lago Lucrino, un'anitra a
datteri della Tebaide, una lacca di orsacchiotto, dei fegati di
beccaccia al tamarindo, delle lingue di capriuolo al comino, una murena
alla senape, delle lumache sopra una graticola d'argento, e dei legumi
d'ogni sorta. Claudia bevette soltanto qualche goccia di vecchio Cipro,
rassomigliante all'oro in fusione, e del secas, ossia succo di palma. Io
gustai appena quei vini capitosi, vecchi d'un secolo, di cui i Romani
erano altrettanto ghiotti quanto vani.

— Se la danza o la musica possono rallegrare questa cena, ho delle
schiave che cantano e suonano così bene, che Tiberio le pagherebbe una
provincia ognuna.

— Non conosco nulla di più volgare che il diletto della musica, risposi
io, alzando le spalle. La musica è come il pane: tutti ne mangiano. Cosa
è al postutto il canto?

— Diamine! il canto...

— Perdio! è l'epilessia del sospiro, il sussulto del grido; mentre che
il suono è la contorsione d'una budella di cui si è fatto un Prometeo
attaccato ad un pezzo di legno.

— Per altro, credo che la Giudea ebbe un re che suonava l'arpa.

— Per lo appunto. Ma perchè prima d'esser re era stato capraio. Quanto a
me, io non conosco che una sola musica: il bacio; e mi vi tengo, fino a
quando non potrò regalarmi di quelle canzoni che un re di Siracusa si
faceva cantare da dei virtuosi chiusi nel ventre d'un toro di rame
arroventato.

— Non contesto punto il gusto del tiranno di Siracusa, replicò Claudia
ridendo: aveva del buono sicuramente. Ma non ammetto la musica del
bacio. Un bacio l'è un _cuac_!

— Sarei tentato di provarti il contrario, mi sclamai io.

— Come! e la donna dalla faccia di pentola?

— Non è là che sta il pericolo, dissi sospirando.

— Ci sarebbe dunque una retroguardia? interrogò Claudia.

— Credo che ben presto la formerà tutto l'esercito.

— Davvero! Raccontami come sta questa faccenda.

— Non si raccontano i sogni. Raccontandoli perdono la doratura e non
resta che il rame.

— Di' pur su; ti prometto di cambiarti codeste rame in oro.

— Ah! se ti prendessi in parola! risposi appoggiando le mie labbra sopra
un riccio dei suoi capelli, che un suo movimento aveva avvicinato al mio
viso.

La sentii fremere: impallidì, ma ebbe l'aria di non accorgersene.

Io non aveva commesso che un'imprudenza; avevo gettato uno scandaglio.
Ahimè! doveva uscirne una catastrofe.

Ad un segno dell'eunuco che dirigeva la cena, il secondo servizio fu
fatto sparire come il primo. Poi s'udì una musica rumorosa di flauti,
crotali, castagnette, timballi, tamburini, citare, eseguita da piccoli
mori, che precedevano una terza legione di schiave itale e greche quasi
nude, o meglio velate da una nube di azzurro e d'argento. Queste schiave
portavano il terzo servizio e le _bellaria_, ossia le ciambelle, le
composte, ed i camangiari zuccherati. Sopra dei vassoi d'argento dorato
e di porcellana delle Indie, trasparente come il cristallo, e dipinta di
fiori ed animali, s'ammonticchiavano i pasticci d'uccelletti,
beccafichi, tordi, ortolani, dell'uva di Corinto e di Sicilia, delle
noci inzuccherate, dei cotogni irti di chiodi di garofani che parevano
tanti porcospini, delle tarte al mele dell'Imetto, dei fichi, delle
pesche, delle fragole, mille frutti infine, ed un Priapo in pasta di
mandorle, il seno adorno di piccoli fiori e gioielli simulati in
zucchero, profumati come una cortigiana ed imitati alla perfezione. Le
schiave ci versarono nell'istesso tempo dei vini di Cadice e di Sicilia,
fluidi come l'olio, dolci come il mele, e che insinuavano la febbre e la
vertigine nelle vene. Quelle bellezze così perfette che mi passavano
dinanzi agli occhi, quei tesori di voluttà divine che sfioravano le mie
labbra, abbagliavano il mio sguardo, che io sentiva fremere; quella
Claudia di cui l'alito mi bruciava quando si voltava verso di me; tutto
ciò m'immergeva in una tale ebbrezza, mi ravvolgeva in un tal turbine di
passioni, mi dava tali stordimenti, tali spasimi, che io mi sentiva
svenire. Le tinte si succedevano sul mio viso come i lampi in una notte
di tempesta.

Un momento mi tenni per perduto. Avevo già commesso il fallo mortale di
accarezzare colle mie labbra un riccio dei capelli di Claudia.

Servirono tutte quelle leccornie sul nostro tavolo, mentre le schiave si
abbandonavano ad una danza sfrenata. Poi ci aspersero di profumi e di
foglie di rose, la cui freschezza mi temperò. Di poi, probabilmente
dietro un segno di Claudia, tutte sparirono, eccettuata una schiava
nera, che si sarebbe detta di marmo egiziano, tanto era bella, e che
restò ritta, immobile ai piedi della sua padrona.

Claudia, dopo ch'io le ebbi toccato i capelli colle mie labbra, non mi
aveva più indirizzato la parola, non si era neppur volta dalla mia
parte. Vedevo che io l'avevo offesa. Ma la confusione delle mie
induzioni s'imbrogliava sempre più nel mio spirito. «Perchè quest'orgia
e tanto ritegno?» mi chiedeva io. «Cosa mai vuol ella da me?»

Cangiai tuono.

— Questa schiava comprende ella il greco, Claudia?

— No.

— Siamo soli, dunque.

— Sì.

— Allora mi permetti di farti una domanda?

— Secondo. Ma non fa nulla, parla.

— Che cosa sono io qui?

— Ma, il mio ospite, credo, rispose superbamente Claudia.

— E dopo la cena?

— Un uomo che mi ha reso un servigio, ed a cui io lo pago.

— Grazie tante, feci io; io impresto sempre a fondo perduto. Lascierei i
tesori stessi della tua bellezza ai miei schiavi, o Claudia, se mi
pensassi ch'e' potessero essere un prezzo.

Claudia mi fulminò d'uno sguardo, che credetti mi profondasse nelle
viscere della terra. Tacque un momento, poi mi disse:

— Ti dipingono come un uomo pericoloso, ti accusano di cospirare contro
Tiberio ed il popolo romano.

— E non s'ingannano. Sì, io cospiro. Sì, io sono il più mortale nemico
del tuo popolo, o Claudia, e di tuo marito; e ne ho giurato la perdita.

Claudia sorrise, e soggiunse:

— Ti ho tolto via dalla prigione della torre Phasaelus; devo allora
tenerti prigione qui.

— Preferisco la torre Phasaelus.

— Ed io, questa.

— Questa mi disonora come un vile, mi fa forse sospettare come un
traditore; quella m'innalza alla grandezza del Bruto del mio paese.

— Hai ragione. Non ci avevo punto riflettuto, disse Claudia con voce
commossa. Noi altre donne siamo frivole. Va dunque, sei libero. Però,
credimi, lascia Gerusalemme questa notte stessa. Forse non potrei
salvarti una seconda volta.

— Io non lascierò punto Gerusalemme, dissi io, tocco dal cangiamento che
mi rivelava un altro aspetto del carattere di quella donna.

Ella aveva un cuore. Ma io non lo comprendevo bene ancora.

— Allora resterai qui, replicò con fermezza Claudia. Se gli è per
sfidare dei pericoli che tu vuoi partire, sta tranquillo, ne troverai
qui, e dei più mortali. Se gli è per vedere i tuoi amici, la tua
amante....

— Che m'importa tutto ciò! risposi io allora con un sentimento del più
alto disprezzo. Tutto ciò l'è roba che si compra, si paga, s'adopera, e
non se ne tien conto.

— Sarebbe forse per quell'essere misterioso?

Tacqui. Le imagini di quelle due donne s'urtarono nel mio spirito come
la folgore. Claudia anche ella aveva osservato, ed era stata abbagliata
dalla bellezza della donna misteriosa di Moab. Ella corrugò le ciglia
cariche di scintille.

— Io resto, dissi alla fine; ma potrò un giorno sperare?...

— Nulla, mai, sclamò Claudia, balzando sul suo letto. Tu cospiri contro
Tiberio, dici tu, Giuda, sei implacabile, tu dici.... ebbene le passioni
vere sono tiranne. Regnano sole. Resta. Resta.

— Sarebbe possibile? mormorai fra me stesso colpito da un lampo.

— Resta, resta, gridò Claudia. In questo mondo non c'è d'impossibile che
ciò che non si vuole, ed il.... bene.

Fece un segno. La negra uscì e ritornò subito con un'altra schiava.

— Cypros, disse Claudia, questo giovane è tuo prigioniero.



IX.


Justus non aveva assistito alla riunione in casa del sagan, perchè era
andato da Maria.

Le portava la notizia della mia prigionia nella torre Phasaelus.

Questo colpo, che aveva rallegrato Justus, non abbatteva Maria. Ella non
era donna da lagnarsi come una donna, da desolarsi, domandando aiuto al
cielo.

Justus non era tale un amico, da non trar partito della disgrazia d'un
amico.

Ritornando da Roma, io aveva incontrata quella ragazza sulle rive del
lago di Genesareth, al momento in cui aveva perduto il suo ultimo
parente, e restava sola nel mondo. Non mi occorse un lusso di seduzioni,
per persuaderla a seguirmi a Gerusalemme. Sapendosi bella, la non
disperava che un giorno o l'altro io mi sarei deciso a sposarla.
Conoscendo il proprio carattere determinato, pronto alle risoluzioni,
ricco di espedienti, ella contava far arrivare il più tosto possibile
quel giorno. Una settimana dopo che ella aveva preso dimora nella mia
casa, Maria aveva già compreso che i suoi progetti di Magdala non si
sarebbero mai effettuati. Non esitò molto a decidersi di trarre dalla
sua situazione il miglior partito possibile. Mi congedò, tra due dei più
ardenti baci della luna di miele dell'amore.

Era troppo tardi, e troppo presto. Troppo tardi, perchè io principiava a
sentire per lei dei violenti desiderii; troppo presto, perchè non n'ero
ancor sazio. In breve dopo una querela che durò tutta una notte ed una
parte del mattino, andammo d'accordo: Maria consentiva a continuare ad
amarmi, ma nella sua casa, padrona del suo domicilio, del suo cuore e
delle sue azioni, rinunciando a tutti i vantaggi che la legge giudaica
le poteva accordare su me. Per contro, io le diedi per abitazione una
bella casetta fra due giardini, alle porte della città, nel sobborgo di
Bezetha. E siccome io viveva quasi sempre con lei, vi portai tutto il
lusso, l'eleganza, i piaceri che avevo osservato presso le dame romane e
greche, e ci presi gusto anch'io.

Maria non aveva la tinta, in parte vera in parte presa a prestito dai
cosmetici, delle cortigiane romane; ma la aveva nel suo colorito d'oro
in fusione una freschezza, uno splendore, un mordente, un vigore, una
giovinezza che la rendevano mille volte più seducente. Ella non aveva lo
spirito, la coltura, il gusto, la grazia, il fascino morale della
cortigiana greca; ma ne aveva tutta la civetteria; tutti i capricci;
tutto l'imprevisto, tutte le voluttà, tutta la venustà scultoria delle
forme. Era Cleopatra: quella misteriosa e tetra regina che aveva stretto
il mondo due volte nelle sue braccia di bronzo, e l'aveva soffocato dei
suoi baci. Maria era l'ideale della donna siriaca che possiede la taglia
della palma, il color dell'aurora, gli occhi di serpente, la elasticità
della tigre, la bocca che contiene un Eden di passione, sia che rida, o
che morda. Questa regina di Saba ben presto adottò, dal momento che
divenne libera, delle abitudini fantastiche. Sdegnò la moda delle donne
ebree, pure così graziose e così semplici, e si compose un costume
assiro, il quale le dava lo splendore che la notte ed il cielo azzurro
danno alle stelle.

Non occorreva tanto per gettare lo scompiglio in mezzo alla gioventù
ricca ed elegante di Gerusalemme. Maria l'ebbe presto tutta ai suoi
piedi, mai nelle sue braccia. Giammai donna fu più fedele al suo amante
amato, di quel che lo era Maria per me cui ella amava sì poco. Dovunque
ella passava, tradita dai suoi profumi, dal suo seguito, dalla sua
abbagliante bellezza, dai suoi adornamenti, dalla sua insolenza, dal suo
riso che si sarebbe detto una cascata di perle sur un bacino d'oro, un
riddare di raggi, dovunque la si mostrava, un vivo commovimento
seguivala. Le altre donne impallidivano; gli uomini le si affollavano
attorno. I sorrisi, le offerte, le parole amabili, la gaiezza,
l'impertinenza, le risse, che so io? tutto scintillava e le turbinava
intorno come il delirio.

Justus non aveva resistito a quella seduzione involontaria; tanto più
che egli aveva visto Maria più da vicino, con me, nelle ore che la era
ella stessa e non s'infingeva per altrui, ed era allora le cento volte
più affascinante! Questa Greca di contrabbando era insomma una deliziosa
Ebrea. Ella aveva, come io stesso, avvertito l'amore silenzioso di
Justus, ma non fece mai nulla per provocarne la confessione; colui,
dalla sua parte, non l'osò mai.

Dopo il mio arresto — e si sapeva che gli arresti di Pilato, cui nulla
spaventava, erano mortali quasi sempre — Justus sperò; prese coraggio.
Maria invece, che fino allora m'aveva impartito un così modesto
bricciolo del suo amore, mi si diede con tutte le espansioni della sua
anima.

— Ebbene, diss'ella, se Giuda è arrestato bisogna liberarlo.

— Gli è che.... riprese Justus.

— Non ci sono _gli è che_: lo si deve, dovessi io abbandonarmi nelle
braccia del suo carceriere, come Giuditta, per strappargli le chiavi;
dovessi mettere fuoco ai quattro angoli di Gerusalemme. Quanto io ho,
fino alle trecce dei miei capelli, prendete tutto e comperate la sua
libertà.

— Maria, rispose Justus tutto tremante, ti sei mai accorta che io t'amo?

— Sì.

— Allora, puoi comprendere che farò tutto per piacerti.

— Va dunque e ritorna domani, quando avrai notizie più precise sulla
situazione di Giuda.

Non vi erano che tre uomini i quali potessero dire alcun che sul mio
conto: Pilato, Cneus Priscus, ed il vecchio carceriere della torre
Phasaelus. Non c'erano quindi che due uomini i quali potessero andare ad
informarsene: Hannah e Bar Abbas. Justus si rivolse ad Hannah, che
rifiutò per tema di attirare l'attenzione sopra sè stesso. Bar Abbas
accettò senza farsi pregare, perchè aveva già fatto i primi passi,
coronati da quella serie di calci che il vecchio carceriere gli aveva
regalati.

— Io non mi son mica uomo da aver paura nè di calci, nè di pugni, nè di
colpi di daga, rispose egli alla proposizione che Justus gli fece; ma
quando si agisce bisogna avere almeno una probabilità di successo; senza
di che, l'azione è una follia.

— Certamente.

— Ebbene, per lavorar con efficacia, ho d'uopo di denaro.

— Ti vendi dunque sempre, Bar Abbas?

— Imbecille! gridò il galuppo. Quel denaro non sarà nè per me, nè per
compensare i miei sforzi: devo corrompere qualcuno. Conosco il vecchio
Ruben. Sono stato il suo pigionale più d'una volta. È chiacchierone,
ubbriacone, goloso, infingardo. Ama le baldracche. Gli piace burlare.
Tutto ciò, mio caro idiota, si compra e si paga. Se fossi ricco, non
domanderei nulla. E non voglio andar a domandare nulla a Maria, perchè
ella darebbe tutto, ella.

Justus prese un pugno di sicli, e lo versò nelle mani di Bar Abbas,
dicendo:

— Non andar mai da Maria. Quando avrai speso questo denaro, ne avrai
dell'altro, poi dell'altro ancora, e così sempre.

— Alla buon'ora! giovine ipocrita. Vuoi monopolizzare tutta la
riconoscenza della pulzella. Va, va, fa la tua strada, ma sta in
guardia: non si incespica mai che quando si guarda il cielo. Si direbbe
che il cielo porta disgrazia.

— Ti metti subito all'opera, non è vero?

— Hai una premura che è sospetta, figliuolo mio. Sarei quasi tentato di
domandarti la mia parte.

— Di che cosa? della premura?

— Di ciò che la provoca.

— Tu sai che Giuda è amico mio.

— Ma! appunto per ciò mi stupisco della tua magnanimità. Non si fanno
tanti sforzi per un amico, che quando si tratta di perderlo.

Tre giorni dopo, Bar Abbas sapeva tutto.

S'era presentato al vecchio Ruben, per iscontare i calci della sera
precedente. Aveva principiato lo scambio, con dei cazzotti, nella
taverna ove il carceriere andava a gozzovigliare la sera, dopo di aver
coricato i suoi pupilli. La partita saldata, Bar Abbas, da vecchio
milite di fronte a vecchio milite — Ruben aveva combattuto contro Pompeo
alla presa di Gerusalemme, — gli aveva offerto una riconciliazione.

— Non voglio distruggerti, gli disse egli, preferisco ubbriacarti,
vecchio bestione.

La proposta non ammetteva una lunga riflessione, neppure per anomalia di
gusti. Ruben accettò, colla riserva di bere ma senza ubbriacarsi.
Promessa da beone. Egli bevve, s'ubbriacò, e parlò. Bar Abbas, per
saldare i conti, lo fece rotolare con un pugno sotto la tavola
dell'osteria, e uscì, mulinando così:

— Che la folgore soffochi il sagan, e Caifa in sua compagnia! Cosa
significa tutto ciò? Levato dal carcere di notte, con una benda agli
occhi, e condotto al palazzo di Erode per la porta del giardino? Che,
che! messer Pilato si darebbe il divertimento di strangolare i
prigionieri per suo proprio uso, in privato, senza giudicarli,
nottetempo, e di preparare alle sue vittime la sorpresa di sentirsi
torcer il collo, senza saper dove? Ciò è possibile. Le idee strane e
malinconiche posson venire a cui casca sulla testa una donna che avea
lasciata all'altro capo del mondo. Nonostante, gli è così dolce il
contemplare i proprii nemici far le smorfie sopra una croce, dall'alto
del monte Sion! Pilato è veluttuoso. No, no, egli non si sarebbe mai più
giuntato dello spettacolo di Giuda crocifisso, nei suoi deliziosi
panorami delle sere di autunno al chiaro di luna. C'è altra cosa.
Vediamo un po': l'è quella benda indiavolata che m'imbroglia. Perchè
hanno coperto il capo di Giuda di un lembo di drappo? Codesto mistero
non indica un concetto d'un uomo, a meno che quell'orco di Priscus non
abbia eseguito un ordine irregolare. Ma Bar Abbas mio caro, qual ordine?
Per esempio, quello di una persona la quale avesse interesse di veder il
prigioniero senza esserne conosciuta, in un sito remoto, e di farlo
ricondur poscia nel suo carcere. Hum! Bar Abbas mio bello, tu spazii
nella luna. Il vino di Gerico raffredda il tuo cervello. In fede mia, la
più corta ancora l'è d'andare ad informarmene.

Sopra questa saggia determinazione Bar Abbas si recò al palazzo di
Erode. Giuda non era ancora apparso al pretorio. Pilato adunque era
fuori di causa. Quest'uomo di guerra del resto aveva potuto essere
sovente aspro, ma non era mai stato soppiattone. Pilato posto da parte,
non restavano che Pomponius Flaccus e Claudia, che avessero il diritto
di far escire Giuda dalla sua prigione. Il governatore della Siria,
perduto nelle sue dissolutezze, passando i suoi giorni nel letto e nel
bagno, e le sue notti a tavola o altrove, avrebbe ben dato l'ordine di
rapire una ragazza, od un ganimede, per rallegrar le sue feste; ma egli
non si mischiava di sottrarre al carnefice le sue vittime. Pomponius
quindi pareva innocente. Dunque?

Gli appartamenti di Cesare, abitati da Claudia, sporgevano sui giardini.
Giuda era un bellissimo giovane. Le dame romane andavano pazze di orgie
misteriose. Claudia arrivava, preceduta da una tetra celebrità,
offuscata dall'odio degli schiavi contro i loro padroni. Ella aveva
distinto Giuda in quella bella scena, che aveva commosso tutto il
circo.... Occorreva altro? Bar Abbas diresse tutte le sue investigazioni
nei contorni della bella Romana. Attaccò il segreto dalla parte del
giardino e da quella della corte, con gli schiavi e con le schiave. Non
potè scovrir nulla. Ma le sue induzioni non ne furono che più
corroborate. Ruben mi aveva veduto passare pel giardino, e penetrare nel
palazzo; i soldati che avevano accompagnato Cneus lo confermavano. A
meno, dunque, che non m'avessero fatto escire di là morto o vivo, morto
o vivo dovevo trovarmi in quella parte del palazzo.

Quando questa idea fu entrata nel capo di Bar Abbas, egli ritornò da
Justus e gli comunicò le sue osservazioni. A Justus andarono a sangue;
perchè egli ci aveva interesse, quand'anche non le trovasse verosimili,
avendo in mente di profittarne.

Andò a vedere Maria.

— Ho scoperto il ritiro di Giuda, diss'egli.

— Il ritiro? Non è dunque più nelle segrete della torre Phasaelus?
domandò Maria.

— Sarebbe stato meglio per te che vi fosse tuttavia.

— Perchè dunque?

— Perchè? Ami tu Giuda, Maria?

— Rispondi alla mia domanda.

— Ebbene, perchè Giuda è stato condotto al palazzo d'Erode, di notte,
cogli occhi bendati, pei giardini, negli appartamenti di Cesare occupati
da Claudia.

Maria impallidì.

— Allora....? sclamò essa.

— Non comprendi dunque?

— Ho paura di comprendere.

— Eppure è chiaro. Non c'è più traccia di Giuda. Pilato non sa nulla di
tutto questo. La donna dalle orgie di Capri aveva ricevuto un servizio
da Giuda. Tu sai se Giuda è bello supremamente. Se dunque non lo hanno
ucciso, egli sdilinquisce nelle braccia della Romana che lo ricompensa
del suo atto di coraggio.

— L'è una infamia, a codesta donna onesta, di rubare così l'amante di
una favorita, per mandato della giustizia.

— Non hai altro da aggiungere?

— L'è una cosa infame, infame, ed andrò a proclamarlo in tutte le piazze
di Gerusalemme.

— Ciò non ti restituirà punto Giuda. Claudia d'altronde è così bella!
Maria, in tutta Gerusalemme, in tutta la Giudea, in tutta la Siria, non
ci sei che tu — in ogni caso ai miei occhi — più bella di Claudia.

Maria restò pensosa alcuni minuti, cangiando ad ogni momento di colore,
gli occhi ardenti, fissi, lucenti come una lama di pugnale, le mani
increspate. Poi alzandosi con risoluzione:

— Justus, disse, l'altro giorno hai confessato d'amarmi.

— Io mi muoio di questo amore, Maria.

— Non te ne chiedo tanto. Vuoi tu, puoi tu salvar Giuda?

— Maria!... ma io t'amo. Non comprendi dunque tu che io ti amo, e che se
Giuda ritorna....

— Bisogna ch'io lo strappi a quella donna, a qualunque prezzo: capisci?
bisogna ch'io glielo strappi.

— S'egli fosse nella gabbia d'un leone, sotto le zampe d'acciajo di una
tigre, non esiterei un istante. Non ci vedrei nessun pericolo.

— Va, sarai pagato, per Dio, del tuo pericolo, usurajo, poltrone.

— Maria, io t'amo: mi ucciderò dopo, se vuoi.

— Cosa ti occorre dunque? parla, vigliacco, confessa i tuoi desiderii.
Vuoi forse che io ti getti il mio amore alla faccia?

— Un giorno, Maria, un'ora, ed io arrischio tutto. Io smuoverò il cielo,
abbrucierò il palazzo d'Erode per arrivare fino a lui, per strapparlo
dalle braccia, intendi? dalle braccia di Claudia.

— Tutto, tutto: io ti darò tutto, purchè tu riesca a liberare Giuda.
M'hai tu compreso? tutto.

Justus era caduto ai piedi di Maria e li baciava con ebbrezza,
sclamando:

— Gli è che io ti amo tanto, Maria! Gli è che traverserei il deserto
sopra le mie ginocchia per arrivare fino a te, Maria! Un anno, un anno
intero, mio Dio, ho sofferto il supplizio di vederti nelle braccia d'un
altro, di sentire il rumore dei suoi baci, di sfiorare il soffio delle
tue carezze. Mi sono trascinato la notte sotto le tue finestre, come un
essere che striscia, per aspirare un profumo che trapelasse dalla tua
camera, ed ho inteso.... Dio mio! e non sono ancora pazzo!

— Ma di che hai d'uopo ancora, cosa vuoi? Non ti ho forse detto tutto?
La promessa non ti è bastante forse? Vuoi un impegno? un giuramento?
Vuoi ch'io t'abbracci per farti partire, che mi getti ai tuoi piedi, per
darti fretta? Cosa vuoi altro? dillo, ma dillo dunque! E resti invece lì
ancora a leccare i miei sandali.

Justus si levò e sclamò:

— Maria, tu saprai ciò ch'io avrò fatto e giudicherai. Io non voglio
giuramenti; tu avrai compassione di me, non è vero, Maria? addolcirai
questo amore che mi uccide.

Alla sera, Justus ritornò da Maria. Bar Abbas aveva avuto ulteriori
informazioni. Bar Abbas aveva fatto dei progetti di liberazione che
Justus si attribuì agli occhi della giovine donna. Egli fomentava la
gelosia di Maria, e strappava alla gelosia ciò che l'amore gli aveva
rifiutato.

Qual era codesto progetto di Bar Abbas?

Bar Abbas era un vagabondo notturno. Gli restava ancora probabilmente
una casupola, ch'egli chiamava la sua magione; ma ordinariamente e'
passava la sua vita in casa altrui, o meglio nella casa di tutti: nelle
piazze pubbliche, all'angolo d'una via, nel bugigattolo di una di quelle
povere disgraziate che la notte sollecitavano i viandanti nelle
stradelle remote, o in prigione, raccolto ubbriaco fradicio dalle
guardie di notte, o facendo baccano all'uscio delle osterie. Gli
accadeva talvolta, pure, di restare fuori delle porte della città, e di
vagare lungo le mura a rischio d'esser divorato dagli sciacalli e dai
lupi, battendosi coi cani che risvegliava.

In quelle peregrinazioni notturne, gli era avvenuto di esser due volte
testimonio di una scena che lo aveva sorpreso. Aveva scoperto a una
svôlta di strada, cinquecento passi dai giardini del palazzo di Erode,
dalla parte d'Ophel, cinque o sei individui ravvolti nei loro mantelli,
in disparte nella corte d'una casa, vicino ai loro cavalli, pronti alla
partenza. Poi, più lungi, aveva veduto un'altra persona uscire da una
porta secreta dei giardini reali, aprendola per di dietro, richiuderla
ed allontanarsi. Quella scoperta gli aveva suggerito un'idea, una
bizzarria. L'aveva comunicata a Justus, che l'aveva approvata senza
discussione, giacchè gli era mestieri di raccontare a Maria un progetto
qualunque fosse. Justus era uno di quegli uomini che hanno del coraggio
in mezzo ad una mischia, e che sono poltroni di fronte ad un pericolo
isolato. Bar Abbas non gli aveva per altro svolto che lo schizzo del suo
progetto. Egli voleva, nella prossima notte, verificare la posizione, ed
assicurarsi, se la sortita di quell'uomo che aveva veduto, si
rinnovellava.

Difatti nella notte susseguente, mentre Justus alimentava la gelosia di
Maria, e insisteva nei suoi tentativi, mentre io filavo con Claudia una
passione ben altra che l'amore, Bar Abbas stava in attesa del visitatore
notturno dei giardini del palazzo. Egli restò al suo posto, dalla terza
fino all'ottava ora (due ore dopo la mezzanotte).

Gli otto uomini nascosti nella corte della casa vicina furono anch'essi
al loro posto; ma l'attore principale mancò. Bar Abbas non era uomo da
scoraggiarsi per uno scacco, sopratutto quando il suo stomaco era ben
soppannato da una buona cena, e da un fiasco poderoso dei colli
d'Emmaus. La seconda notte, e' fu più fortunato. Egli vide entrare
l'uomo alla quarta ora, ed uscire alla sesta.

All'indomani, il progetto fu fissato con Justus cui un primo bacio
rubato a Maria rendeva più audace. Justus riportò alla giovine donna,
che la notte seguente avrebbero tentato la mia liberazione. Un secondo
bacio rese Justus più che audace, temerario. Di che si trattava, in una
parola? Oh! la era semplice come un matrimonio disfatto per mancanza di
dote. Ma quella notte pure la buona stella di Justus che favoriva le sue
correrie di baci nei miei dominii, gli preparò un insuccesso. Le cattive
azioni hanno quasi sempre l'incoraggiamento della provvidenza. Bisogna
essere eroico in ogni maniera, per far il bene. La notte seguente però i
miei due amici furono ricompensati delle loro pene, e della loro
devozione alla mia disgrazia. Quando ci penso, mi sorprendo ad
allocchire: quel miserabile Bar Abbas era proprio ammirabile! Rischiava
la vita, perchè? Certo, non per dei baci, e neppure per distrarsi.

Alle cinque della notte, un uomo avviluppato nel suo nero mantello
rasentò il muro del giardino, senza guardarsi intorno, senza
preoccuparsi di essere o non essere scorto, la testa bassa, a passi
lenti. Arrivato alla piccola porta, cavò di tasca una chiave, aprì,
entrò, e respinse la porta che si chiuse con fracasso. Si sarebbe detto
che fosse il padrone di casa. Justus e Bar Abbas, che si trovavano più
lungi in un incavo del muro, videro tutto ciò, senza soffiar motto. Poi,
quando l'uscio fu chiuso, Bar Abbas afferrò la mano di Justus, che gli
parve agghiacciata, e gli disse: — andiamo!

Si appostarono uno per parte alla soglia che l'altro aveva varcata, ed
attesero.

La notte era fredda. Un venticello dispettoso si querelava colle foglie
degli alberi, colle terrazze delle case, in una maniera piagnucolosa,
stridente, paurosa come se qualche demone l'avesse minacciato, e
cacciava dinanzi a sè degli immensi nugoli neri, dal portamento
maestoso, che navigavano penosamente come navi ferite dalla tempesta.
Questi nuvoli venivano dal sud, dal fondo del mar Morto e dal Giordano,
e per conseguenza sopraccarichi di temporale. Dalla parte del nord,
venendo dalle montagne di Samaria, uno sciame di nuvolette bianche ed
impaurite se la svignava in fretta. Qualche stella abbastanza ardita per
farsi vedere, rientrava alla presta. Centinaia di cani ululavano in
lontananza, del non avere probabilmente trovato neppure una carogna
nella valle dell'Hinnom. Il Cedron borbottava; perchè il suo filuccio
d'acqua ed i suoi sassi si rincontravano fragorosamente dopo sei mesi
d'un'estate secca come il deserto. Tutto dunque faceva prevedere una
notte piena di strepito. Si udivano già alcuni sordi movimenti
nell'aria, come di un giovine tuono che provasse i suoi primi rulli.

— Felice chi ha una casa ed un letto, borbottò Justus.

— Ed una ganza dentro, aggiunse Bar Abbas.

— Credi che quel facchino ci lascierà intirizzire qui, a lungo, eh?

— Diamine! se quel facchino trova là entro ciò che noi ci auguravamo
testè, cioè un letto ed un'amante, ne ho paura.

— Preferirei finirla subito.

— Sei un eroe! se avremo mai una repubblica Ebrea, ti propongo per
generale del nostro esercito.

— Ho una grande inclinazione per l'acqua; preferirei esser ammiraglio.

Due ore erano scorse. L'oscurità era completa. Nessun rumore umano
annunziava che vi fosse qualche creatura svegliata all'infuori dei cani
e dei carnivori, che venivano a cercare nelle immondizie della città il
loro incerto pasto. Siccome l'ora della uscita dell'uomo ch'era lì
entro, s'avvicinava, Bar Abbas e Justus tacevano, l'orecchia tesa, il
naso al vento. Finalmente, intesero nel giardino come una porta che si
chiude con precauzione, poi lo scricchiolar della sabbia sotto i piedi,
poi il passo lento, pensoso, irregolare, a zig-zag, direi quasi
attristato, tanto era pesante ed intermittente. L'uomo si fermò
all'uscio.

Restò un momento lì, poi girò sui suoi talloni, guardando probabilmente
il palazzo che lasciava in quel punto. S'intese un grosso sospiro
precipitarsi fuori dal suo petto, come se avesse temuto di soffocarvi.
Questa pausa durò due o tre minuti. Pareva indeciso se ritornerebbe
indietro, o se sarebbe partito. Quest'ultima risoluzione la vinse. Girò
di nuovo, frugò nelle tasche, prese una chiave, aprì, uscì. Chiudeva già
la porta, quando una mano possente afferrò il suo pugno, mentre due
braccia vigorose lo stringevano. Mezzo inviluppato nel suo mantello,
quel visitatore notturno non avrebbe potuto opporre che una debole
resistenza. Egli non ne fece alcuna. Si voltò come un uomo sorpreso, ma
per nulla spaventato, come un uomo più maravigliato dall'audacia che
commosso da un attentato, e sclamò:

— Cos'è dunque?

Il tuono con cui disse queste parole, fece rabbrividire Justus. Bar
Abbas non si lasciò imporre da quel contegno, che ritenne preso a bella
posta.

— Niente affatto, o per lo meno poca cosa, rispose egli coll'istesso
tuono disinvolto. Ti domandiamo semplicemente quella chiave.

— Per che farne, se ti aggrada?

— Ma, una chiave, io credo, è fatta per aprire o per chiudere, per
lasciar entrare o lasciar uscire.

— E per rinchiudere anche.

— Precisamente, ma io, nella mia ignoranza delle finezze della lingua,
credevo che chiudere bastasse.

— Allora!

— Non hai ancora capito?

— Perfettamente; quantunque faresti meglio di parlare nel tuo
linguaggio, se ne hai uno, piuttosto che scorticare il greco.

— Ah! questa poi è graziosa! io che ho dato delle lezioni di pronunzia
ai Brettoni.

— Dunque, tu dici?

— Dammi quella chiave, o me la prendo.

— Siamo intesi. Però non m'hai ancora spiegato per qual ragione vuoi
penetrare in quel giardino.

— Per qual ragione ci sei andato, tu?

— Io, l'è ben differente. Sono medico, ed il padrone di casa ha un cane
che ha la gotta alle due zampe davanti, e non potrebbe sottoscrivere il
suo testamento.

— L'hai guarito, spero.

— In un lampo. Egli ti lega anzi qualche cosa in quel suo testamento, io
credo. Tra fratelli, del resto, è naturale.

— Come dunque! come! Un cane! capperi! saremmo noi entrambi dell'istessa
famiglia? Sì, davvero un cane è il solo parente che potrebbe, morendo,
lasciarmi qualche cosa.

— Egli è per questo che esso ti lascia la corda che domani io ti farò
mettere al collo.

— Domani, caro medico, è ancor lontano. Siamo appena a mezzanotte.

— E mezza. Sta bene, ti do la chiave. Ma non puoi dirmi cosa vai a fare
in quel sito? Io credo, che è per, per.... vorrei pur addimandar la cosa
con una parola pulita.... Ah eccola: per rubare.

— Folgore del Sinai! per chi ci prendi tu dunque, imbecille.

— Ma, vi prendo per delle persone delicate che vanno di notte ad
alleviare i ricchi del loro superfluo.

— Ebbene, marrano, t'inganni.

— In questo caso, virtuoso cittadino, te ne faccio le mie scuse. Avresti
tu dunque, lì dentro, un intrigo d'amore?

— Ah! e se ciò fosse?

— Allora ti offrirei i miei servizii.

— Tu m'hai l'aria d'un famoso compare. Dopo tutto, vediamo. Sei di casa,
tu?

— Un poco.

— Vuoi tu guadagnare... Hai dei bezzi, Justus?

— Sì, una ventina di sicli.

— Senti? vuoi guadagnare dunque una ventina di sicli, lasciando a me,
ben inteso, il dieci per cento?

— E perchè no? purchè ciò che mi domandate non sia troppo pesante.

— È leggiero, come l'ordinario mio desinare. Si tratta soltanto di
guidarci.

— Dove, se la domanda non è indiscreta?

— Lì dentro.

— Voi siete dunque curiosi di visitar il palazzo dopo mezzanotte?

— Noi siamo curiosi di trovare un amico che si è smarrito in quegli
appartamenti.

— L'è una bisogna filantropica. Vediamo, raccontatemi come sta la cosa.
Chi è codesto amico? come mai si è desso smarrito colà? Cosa cercava?

— Te lo dirò, camminando.

— Non mi piace conversare camminando. Spiegati prima.

— Avrei dovuto principiare coll'ucciderti, e prenderti la chiave, disse
Bar Abbas. È un'idea che mi viene adesso, in ritardo d'un quarto d'ora,
la sciocca. Non monta. Che tu sappia o no le nostre faccende, bisogna
che io penetri in quella casa infame, che strappa i prigionieri dalle
mude onde rischiarare le sue orgie.

— Cospetto! hai la collera virtuosa, mio bel profeta. Va innanzi.
Spiegati un po' più chiaramente, e ti prometto, sulla mia parola, ajuto,
protezione, ed impunità.

— Hum! sei troppo generoso per crederti solvente. Breve, te l'ho già
detto, uno dei nostri amici è stato preso, tolto via dalla torre
Phasaelus, dieci giorni fa, di notte, cogli occhi bendati. È stato
condotto qui, è entrato per quella porta, ed è là negli appartamenti
della moglie del procuratore probabilmente, con lei forse.

— Ascolta, disse l'uomo della chiave, tu verrai meco adesso in quella
casa, e se hai mentito, o se ti sei ingannato, non c'è croce abbastanza
lunga, non ci sono torture abbastanza atroci, per farti morire.

— Che io sia dannato! sclamò Bar Abbas, sei dunque Pilato, tu? E cosa
vieni a rubare di notte qui?

Pilato non rispose. Con una mano aprì la porta, coll'altra spinse dentro
i due avventurieri.

Sì, era Pilato in persona, l'uomo che a quell'ora usciva dagli
appartamenti di sua moglie, senza vederla, senza parlarle. Egli non si
curò di chiudere l'uscio. Afferrando i due accusatori di Claudia per i
polsi, come in una morsa, li trascinò seco al fondo del giardino, spinse
del piede la porta della conserva dei fiori, vi entrò e prendendo nella
sua tasca un'altra chiave, aprì la porta che metteva nella casa. Dei
deboli chiarori illuminavano i portici, i corridoj, le scale, e le
camere ch'egli percorse coll'impeto dell'uragano, avendo sempre le
braccia di Justus e di Bar Abbas chiuse nei suoi artigli di ferro,
quantunque al postutto e' non avesse bisogno di loro. Arrivato
finalmente ad una porta in cima ad una scala, bussò. La porta s'aprì e
nell'istesso tempo la luce rischiarò una giovine donna, Pilato e i due
suoi accoliti!

— Cypros, gridò Pilato, mi hai mentito.

Justus tremava; Bar Abbas, malgrado la sua impudenza, sentiva un brivido
percorrere la sua colonna vertebrale, all'udire la voce cupa e dannata
di Pilato.

— Sono perduta! mormorò Cypros. Oh povera madre mia, tu morrai schiava!



X.


Dieci giorni erano trascorsi dal mio arrivo al palazzo di Erode.

Io non aveva compreso perchè Claudia mi vi avesse condotto; comprendevo
ancor meno perchè mi ci tenesse. Tutte le congetture che avevo fatte su
quella donna, eran fallite. Trovai stupida la mia condotta, e più io
approfondiva il carattere di Claudia, più ella mi diveniva un mistero.

Non avevo, in tutta la mia vita, incontrato una donna più casta di
questa impura, la quale esalava la lussuria come una rosa di Sharon
esala l'odore. Non ho conosciuta una donna più fredda di quella cui
trovavo recondita nella tempestosa organizzazione di Claudia. Quella
civetta, era una matrona. Viveva separata da suo marito; ma io chiesi a
me stesso parecchie volte: Amerebbe ella dunque quest'uomo che la fugge?
All'impertinenza del primo giorno, era susseguita una familiarità, la
quale però intrometteva fra lei e me un mondo. La cortigiana delle feste
era figlia di Cesare nell'intimità. La dicevano frivola: ed il suo
spirito era ornato di tutte le gemme ed i profumi della poesia greca e
romana. A Capri, ella aveva figurato nella mandria di Cesonius Priscus,
l'intendente della voluttà di Tiberio, e vi aveva imparato la politica
del mondo, maneggiandola con Sejano che le faceva orrore. Claudia aveva
certamente uno scopo; io mi perdeva in un dedalo di supposizioni, e non
scopriva, dopo tutto, la verità in nessuna di esse. Non avevo più fretta
di lasciarla, e oggi ancora, dopo tanti anni, e dopo tanti avvenimenti,
cerco nel mio cuore perchè non l'amavo! Io era, certo, in quello stato
di spirito, in quell'ora della vita, ove avrei dovuto divenir pazzo per
quella donna. Maria passava allo stato di tramonto, nel mio amore. La
sconosciuta del circo inviluppava d'una nube luminosa i miei
vaneggiamenti; ma tutte due non colmavano il vuoto, che la vita a
ventitrè anni scava avidamente nell'anima. Claudia aveva tutto ciò che
un uomo elevato può desiderare: ella inebbriava i sensi con la sua
bellezza, dava la febbre all'immaginazione con la sua condotta, con la
elegante distinzione del suo spirito. Vi sono dei fenomeni psicologici
che si spiegano, ma non si comprendono.

Avevamo passato una parte della sera sul terrazzo del Sud, dinanzi al
quale si svolge la catena dei monti di Scopas e degli Olivi, e donde,
per un appiattamento di questi monti, si vede il mar Morto, come una
lama d'oro durante il giorno, come una nube violetta la sera ed il
mattino. Passeggiando lentamente, l'uno vicino all'altro; cogliendo qui
un fiore, là una foglia dai vasi di majolica azzurra, agli arbusti
odoranti schierati sul parapetto, io le aveva modulato quella cosa
selvaggia e splendida che si chiama: il Cantico dei Cantici di Salomone.
Ella aveva ascoltato distratta, poi mi aveva detto:

— Sì, codesto canto è bello come le armonie del deserto; ma io
preferisco l'Odissea.

Mi aveva poi sussurrato alcune elegie che Ovidio aveva scritte per sua
madre Giulia, dal fondo dell'esilio, ove il suo amore aveva fatto
naufragio. Una grave malinconia ci ravvolgeva. Il cielo era cupo, e il
temporale vi si addensava.

— Ho a parlarti, Giuda, mi disse finalmente Claudia. Attendi qui.
Licenzio le mie schiave, e ti farò chiamare.

La notte era scesa completamente. Poco alla volta l'assopimento s'era
impadronito della città. Io circolavo nelle tenebre, come un'ombra che
cerca riposo. Un'ora dopo, Cypros venne ad annunziarmi che Claudia mi
attendeva. Aprì infatti una porta che dava sul terrazzo, m'introdusse
nella stanza da letto della sua padrona, e si ritirò. Claudia le disse:

— Ti chiamerò forse: veglia.

Era la stanza che Erode aveva fatta costruire per Mariamna. Non c'era
nulla al mondo di più ricco e di più suntuoso. Il soffitto era di cedro
d'Africa, che valeva più dell'oro, scolpito a spalliera di fiori e di
foglie, con dei grappoli in rilievo. I muri erano tappezzati di una
stoffa che sembrava tessuta e filata di perle, profumata da viole, da
bottoni di rosa ed iridi, rallegrata da un nuvolo di uccelletti indiani
come il contenuto di uno scrigno di pietre preziose messe giù. Delle
svelte colonne d'oro separavano le pareti in diverse inquadrature e
sostenevano il soffitto. Uno spesso tappeto di Bactriana copriva il
suolo, di cui faceva un'ajuola di fiori. Il letto era basso, largo, in
scaglia di tartaruga del Gange a riflessi d'oro. Aveva la forma di una
conca marina poggiata sopra un piedestallo, di avorio di Troglodite e
d'oro, che simulava le onde.

Della lanugine di uccelli d'Africa, rinchiusa in una splendida stoffa
persiana, riempiva la conca. Un baldacchino di stoffa ricamata di perle
del golfo Persico e della Taprobana, di diamanti e di tutte le sorta di
pietre preziose, copriva il letto come una tenda. Una coperta di porpora
che valeva un milione di sesterzi, si stendeva sopra le lenzuola di tela
d'Egitto, e sopra i guanciali di tela delle Indie. Lungo i muri correva
una fila di guanciali di seta bianca trapunta a fiori, alcune sedie
d'avorio; un immenso specchio racchiuso in un cerchio d'oro cesellato,
sostenuto da due schiavi agginocchiati, in bronzo di Corinto, stava
dinanzi la finestra; e nel mezzo della stanza, un piccolo letto d'ebano
addobbato di cuscini bianchi e rossi ove Claudia si riposava mentre le
schiave finivano la sua acconciatura della sera e del mattino. Vicino
allo specchio, sopra un zoccolo di lapis-lazzuli si ergevano due vasi
murrini della Caramina, di un valore incalcolabile, — regalo di Tiberio
— e ripieni di fiori esotici nati e schiusi nelle conserve del palazzo.

La camera era rischiarata da alcuni candelabri d'oro posti ai quattro
angoli. Un profumo inebbriante impregnava l'aere. La porta a vetri
colorati che dava sui terrazzo fu chiusa; ma quando un lampo infiammava
il cielo, si vedeva quella porta cangiarsi in un rabesco di mille
colori.

Claudia era sola mollemente coricata sul suo letto di riposo,
abbigliamento da notte. Una larga tunica di lana bianca, sottile come il
vapore d'una sera d'estate, le inviluppava tutta la persona, eccetto le
braccia. Un cordone di seta azzurra le stringeva i lombi. Una rete rossa
imprigionava i suoi capelli neri ondati di azzurro, e traversati da un
pugnale a testa d'oro, fino come un ago. Nulla di più voluttuoso, e di
più casto: quella ricchezza era modesta. Pareva d'entrare in una stufa
da fiori. Sopra un tavolo, alla portata della mano brillavano una carafa
di cristallo di rocca e due coppe d'oro. Claudia riempì quelle coppe di
una deliziosa bevanda agghiacciata, composta di succo di granate ed
aranci misto a latte e mele, e me ne offrì una.

— Giuda, mi disse ella allora, demolisco Capua; devi partire.

— Son pronto, risposi sospirando dopo un momento di silenzio. Mi dirai
almeno, perchè m'hai chiamato, perchè m'hai introdotto in questo Eden
senza il serpente.

— Il serpente vi s'introduce, Giuda; è tempo dunque che tu te ne vada, e
che riprenda la strada che il tuo destino ti indica.

— Non è il mio destino che me l'ha indicata, Claudia, sono io stesso, o
piuttosto la mia noja. Tu conosci lo scopo che mi sono prefisso.

— Credo di averlo compreso.

— Intravvisto, forse.

— Compreso. Tu vuoi strappare la Giudea a Roma, sterminare i Romani che
l'occupano, fare del tuo paese una repubblica aristocratica, sotto
l'oligarchia sadducea, annientando i poteri pericolosi e cangianti del
Tempio, e la venale ingerenza della plebe.

— Sì, ecco il mio scopo. L'hai indovinato.

— Puoi rivelarmi i tuoi mezzi?

— Semplicissimi forse, forse impossibili: far convergere, in un momento
di tregua di Dio, gli sforzi di tutti i partiti che dividono la nazione
Ebrea al compimento di questa risurrezione nazionale, uguagliandoli
tutti nel costituirli separatamente; dare a questo moto un capo che
segua il mio impulso, al quale tutti obbediscano, e cui, una volta
compiuta l'opera, io sopprimerò, rientrando io stesso nell'orbita di
quella oligarchia dirigente, alla quale appartengo.

— Questo piano è insensato o grande, rispose Claudia dopo alcuni istanti
di riflessione. Il successo dirà se l'è una cosa o l'altra. Ma il
successo non sta nelle vostre mani.

— Gli è questo che non so ancora e che voglio sapere.

— Prova.

— Sei tu, moglie di Pilato, nipote dei Cesari, cittadina di Roma, che mi
dici: Prova!

— Io stessa.

— Ma allora, non m'hai compreso.

— Ho fatto più che comprenderti, sono convinta, e ti porto il mio
appoggio.

— Ripeti.

— Ti do il mio appoggio.

Sorrisi e sclamai:

— Che disgrazia, o Claudia, che io non possa trasformarti in Messia:
tutta la razza di Giuda cadrebbe ai tuoi piedi come dinanzi a Dio.

— È egli necessario d'esser Messia per concorrere a codesta liberazione,
Giuda?

— Non assolutamente. Ma in Asia, ove si son visti Romani distrugger
Romani per impadronirsi del potere a Roma e dello imperio del mondo, non
si sono ancora visti Romani distruggere Romani per liberare una nazione.

— In Asia ciò non si è veduto; ma in Europa si è veduto un capo di
legioni fortunato, un conquistatore marciare su Roma, e proclamarsi
dittatore. Perchè non si farebbe, partendo dalla Siria, ciò che si è
fatto partendo dalle Gallie?

Fissai gli occhi attoniti sopra Claudia e mi alzai. Ella non si mosse.

— Giuda, mi diss'ella, poichè l'ondeggiare della conversazione ci ha
gettati sopra questo terreno, bisogna spiegarci.

— Poichè folleggiamo al paradosso, osservai io, permettimi, Claudia,
d'aggiungere: Perchè stancarci ed andare fino a Roma, turbare la quiete
del marito di tua madre, poichè abbiamo dinanzi a noi tutta l'Asia da
risuscitare: l'impero di Ciro, d'Alessandro, di Dario, di Salomone
stesso? Restiamo da questa parte del Mediterraneo ove il clima è così
bello, la natura così ricca, l'uomo così vile, la donna così possente;
ove lo schiavo obbedisce, il padrone gode, l'oro nasce da sè solo; ove
la creazione ebbe la sua aurora, e vi spiega la sua opulenza
meravigliosa.

— Giuda, replicò Claudia impallidendo, tu hai ricordato mia madre e
Tiberio. Tu hai abitato Roma. Tu sai dunque una parte della mia storia,
la parte infame, quella che traboccava da Capri, e si spandeva in fetide
onde sopra la città dei sette colli. Hai udito forse raccontare delle
mostruosità che la plebe vigliacca ha bisogno di credere per non
confessare a sè stessa di non essersi sola imbragata nella poltiglia.
L'ho inteso io stessa, codesto racconto, contaminare le mie orecchie,
quando mi recavo a Roma e vedevo quel popolo che conduce il mondo
prosternarsi dinanzi la mia lettiga, come dinanzi l'altare della Venere
impudica. Non mi curai di confutare l'esagerazione di quelle fiabe. Ciò
che ne restava di vero era già troppo per l'infamia di tutta una
generazione d'uomini. Alla fine, tutto ciò ha fatto sanguinare il mio
cuore.

— Claudia, sta in guardia, la memoria ti trascina a parlare di cose, che
domani non vorresti mai aver rivelate agli orecchi d'un mortale.

— Poco monta ciò che io mi voglia domani. Credi tu che io ti abbia fatto
strappare dalla torre di Phasaelus, che ti abbia provato con delle
tentazioni alle quali un giovine di vent'anni avrebbe dovuto inciampare,
soccombere mille volte, credi tu che io ti abbia tenuto qui dieci giorni
per conoscerti, per comprenderti, che ti abbia fatto udire poco fa una
parola che ha risvegliato la tua incredulità; credi tu, dico, che io mi
sia lasciata andare a tutto ciò per capriccio, per ozio, e per
ricompensarti del colpo di pugnale dato alla pantera?

— Non interamente.

— Ebbene, non vi è nulla che inganni tanto, quanto il conoscere le cose
a metà.

— È vero: l'ignoranza completa val meglio.

— Hai tu osservato, Giuda, che io non porto mai su di me che due
gioielli: questo anello e questa spilla da capelli?

— In fatti, ciò mi aveva colpito.

— Un giorno, sei anni fa, Cypros arrivò da un'isola del mar Tirreno, e
mi presentò questi due oggetti. Sopra l'ametista di questo anello vi è
un profilo di Tiberio contornato d'edera con l'esergo _si vivet, vivam_.
Sopra questa spilla è incisa la parola greca: vendetta! Una donna,
morente quasi nella miseria e nella solitudine — ella, figlia di
Augusto, con questa sola schiava Gallica per compagna di disgrazie,
ella, giovine ancora, uccisa dal veleno di suo marito; ella, madre, che
sa la sua unica figlia, figlia dell'amore cento volte più cara della
figlia d'un marito imposto dalle convenienze, essere condannata ai più
infami mestieri — questa donna m'inviava questo triste regalo, la sua
ultima memoria per mezzo dell'ultima sua schiava. La donna era mia
madre. La schiava era Cypros, la quale in nome della sua padrona, dietro
l'ultima volontà della sua padrona, deve ripetermi ogni mattino quando
mi risveglio, tutte le sere quando mi corico, la parola: vendetta!

— Principio a comprendere.

— Aspetta. Avevo dodici anni.... Giuda, io ti faccio delle rivelazioni
che mio marito stesso, egli più di tutti, ignora.

— Perchè?

— Che t'importa! Avevo dodici o tredici anni, ero il solo sollievo cui
si consentiva lasciare a mia madre sulla sua roccia di Pantellaria. La
nostra vita era triste, povera, spaventata; ogni uomo che arrivava da
Roma poteva essere un assassino, o portare un veleno coll'ordine di
Cesare di trangugiarlo. Il nostro sonno, una nelle braccia dell'altra,
riassumeva tutti i nostri terrori, tutte le nostre felicità; noi eravamo
unite; potevano separarci! A quella povera madre non restavano che le
mie carezze. La mia voce le faceva tutto dimenticare. Un giorno,
nondimeno, ella prese una risoluzione disperata. Ella mi disse: Domani
partirai per Roma. Non la vidi più in tutta la giornata. Scrisse.
Scrisse una lunga lettera a Tiberio che io doveva rimettergli. Julia gli
si confessava. Ella gli rivelava il nome di mio padre già morto, le
circostanze della mia nascita, e domandava grazia per me. Partii. Vidi
Tiberio. Gli diedi la lettera di mia madre. Tiberio la lesse da cima a
fondo senza che il suo viso tradisse la menoma emozione. Poi la gettò
tranquillamente sopra un braciere che riscaldava la sua stanza. Mi
guardò fisso, lungamente, e accarezzò il mio mento. — Cosa t'ha ella
detto, tua madre? mi domandò finalmente. — Le sue parole sono state
queste, risposi io: Tu farai tutto, figlia mia, tutto, intendi bene, per
ottenere la mia grazia. — Hum, brontolò Tiberio, tutto! — Tu domanderai
questa grazia tutti i giorni, continuai ripetendo le parole di mia
madre; non vedrai mai Cesare senza ricordargli la mia grazia; e resterai
fino a che non l'avrai ottenuta. — Sta bene, replicò Tiberio, resta e
domanda tutti i giorni codesta grazia.

Claudia s'arrestò. Mi parve che fosse vinta dalla commozione. Ciò durò
un momento, poi riprese:

— Io feci tutto. Domandai la grazia. Non l'ottenni. Io non vendetti la
mia infamia; la mi fu tolta per nulla; quel Cesare mi derubò. Egli
sapeva bene, pertanto, che se io mi rassegnava a quegli obbrobri, gli
era per ottenere il perdono dell'esiliata. Egli scroccava la mia
vergogna. Ciò ch'io soffrii, nessuno lo saprà giammai. Dovevo sorridere
in mezzo alle sozzure di Capri, delle quali pensavo fare la redenzione
di mia madre. Essa morì. Io restai infame per niente.

— L'è orribile, codesta storia, dissi io inginocchiandomi dinanzi a
Claudia e baciando il lembo della sua tunica.

— Alcuni anni più tardi, Cypros arrivò col messaggio della morta,
continuò Claudia. Allora mi decisi a partire. Tiberio vi consentì. Ormai
e' non poteva più respirare la voluttà di uccidere la madre col disonore
della figlia: non poteva più vendicarsi di una madre, immergendo me
nella melma. Ma questo non era il mio solo supplizio. Io era maritata.
Chi mai conosceva la santa parola che io portavo nell'antro della
dissolutezza? chi sapeva che io m'inginocchiava davanti l'altare di
Priapo per implorare misericordia per mia madre? Ebbene,
m'inzaccherarono dei loro insulti, e la vergogna ricadde altresì sul
fronte dell'uomo che avevano associato al mio obbrobrio.

— Povera donna, feci io, è dunque per questo che la tua stanza nuziale è
vedova.

Claudia non rispose alla mia interruzione, e continuò:

— Tiberio abbandonava la sua preda. Sejano vi si opponeva. Quel
miserabile mi amava con frenesia. Ciò che ci volle di lotta, il mio odio
lo sa, e se ne ricorda. Avevo un bel fulminarlo del mio disprezzo, quel
Sejano, egli si aggrappò a me come le anime alla barca di Caronte.
Dovetti raccontargli ciò che io ti racconto ora. Quel fango ebbe la
pietà che Tiberio mi rifiutava. Mi rispettò. Mi lasciò partire. Mi diede
un consiglio. Oh! io non sono mica la sola che odii quel Cesare da
cloaca!

— Posso io chiederti qual consiglio ti diede il terribile favorito del
padrone del mondo?

— Te l'ho detto: prendere l'Impero a rovescio, e detronizzare Cesare.
Roma lo deride. L'Italia lo odia. Le legioni lo disprezzano. Le
provincie aspettano il primo che osi.... Ebbene, io oserò, io donna
oltraggiata; io che odo a tutti gli istanti del giorno e della notte
risuonare alle mie orecchie la parola di mia madre: vendetta! io che
porto sopra il mio capo il suo pugnale, e che vedo ogni mattina,
risvegliandomi, ogni sera, prima di chiudere gli occhi, la schiava
fedele che raccolse il suo ultimo alito. Intendi tu adesso, Giuda?
Comprendi perchè sei qui? Io ti ho messo alla prova: tu sei forte, hai
della volontà e della perseveranza, tu detesti i Romani, tu cospiri
contro Cesare: io mi associo a te. Avanti dunque. Se gli Dei sono
ciechi, gli uomini devono aprir gli occhi e correggere il destino.

— Claudia, codesta franchezza mi commuove, ma non mi spiega tutto. Vuoi
permettermi alcune domande?

— Parla.

— Pilato, conosce egli i tuoi progetti?

— In nessuna maniera. Se li conoscesse, mi darebbe in mano a Tiberio
come una delinquente. Egli non sa nulla, e nulla deve sapere. Egli deve
essere trascinato dagli avvenimenti.

— Pomponius Flaccus sa ciò che tu mediti?

— Pomponius Flaccus mi ama. Una mia parola, e farà tutto che io voglio:
tradirà Cesare, sua moglie, suo padre, la sua coscienza: quell'arnese da
crapula, per una notte d'orgia, metterebbe il fuoco al mondo intero.
Pomponius Flaccus è l'uomo in tutto l'impero che meno m'imbarazza.

— Pilato allora resisterà.

— Ma voi altri nei vostri piani, non avete voi calcolato sopra questa
resistenza?

— Sì, e io conto trionfarne.

— Ebbene, io cercherò diminuire l'urto diminuendo le forze ch'egli
potrebbe opporvi.

— Insomma, cosa pensi tu di fare? che parte ci lasci tu in questa
tragedia che può forse fallire, ma che mette conto di essere tentata?

— In due parole, ecco ciò che io penso di fare: e rifletti che questo
progetto è stato concepito da Sejano. La Giudea si ribella. I Romani
lasciano fare o resistono debolmente e la lasciano trionfare. Le legioni
della Giudea e gli Ebrei fanno alleanza ed obbligano le legioni della
Siria ad ammutinarsi. Questa diserzione sarà d'altronde pagata. Nel
vostro Tempio, nel sepolcro di Davide, vi sono ancora degl'immensi
tesori benchè in parte già saccheggiati. Noi contiamo su quelle
ricchezze. Con questo denaro si comprano le legioni della Gallia, della
Spagna, della Bretagna. Da tutte le parti queste legioni incedono su
Roma e rovesciano Tiberio, che si ucciderà, o sarà ucciso dai
pretoriani, prima che le legioni rimaste fedeli si muovano. Per prezzo
del soccorso che la Giudea ci avrà prestato, la staccheremo dall'Impero
e sarà emancipata. Ella riacquista la sua indipendenza del tempo di
Salomone. Il prezzo che la Giudea pagherebbe ti pare forse esorbitante?

— Per nulla.

— All'opera dunque. Gli avvenimenti correggeranno gli sbagli di questo
abbozzo, se ve ne sono.

— Claudia, diss'io alla fine, ho bisogno di crederti. Vi sono in questa
trama tante cose misteriose, colpevoli, vere, terribili, grandiose,
impossibili, sospette, ch'io vi crederei, anche se fossi sicuro che
tutto codesto è falso, che tutto codesto è un agguato. Tu hai scelto
bene il tuo istrumento. Il fantastico per me è il vero; l'assurdo è il
mio ideale. Dar la mentita alla ragione, gli è il supremo dei miei
piaceri. Io sono a te. Ma, confidenza per confidenza. Se tu mi hai
indicato lo scopo, lascia a me scegliere la strada, il tempo, gli
uomini. Il nostro popolo non è simile agli altri popoli. Noi facciamo
una rivoluzione per cangiarlo, ma non lo cangeremmo per fare una
rivoluzione. Da domani, io rientro in scena. Ma sai che tuo marito mi
sorveglia, e che il suo aguzzino mi ha arrestato per sottrarsi alla noia
di sorvegliarmi?

— Io ti domanderò a Pilato, e sarai più sicuro dell'imperatore stesso.

— Sta bene, soggiunsi commosso: io lascio questo palazzo in questa notte
stessa. Sono felice. Non mi annoierò più, farò del bene forse, in ogni
caso cercherò di piacerti. Avrei potuto vivere, lungo tempo forse, colla
Claudia di questa mattina senza amarla e senza desiderarla; non potrei
forse vivere due giorni ancora colla Claudia di questa sera senza amarla
alla follìa ed adorarla come un dio. Ho il presentimento, direi quasi la
certezza, che non riesciremo; che importa? Tu sei stata infelice, o
Claudia, la tua vita non è riempita di memorie sorridenti; ti ricorderai
di me. Dev'essere così dolce l'avere per tomba il cuore, o il pensiero
d'una donna!

— Tu sei un nobile giovine, Giuda, susurrò Claudia, gli occhi brillanti
di una lagrima che li dilatava.

— Perdonami, se ti ho mal giudicata.

— Tutti mi giudicano così. Perchè sarei inesorabile con te, mentre io
non serbo rancore ad alcuno?

— Addio allora, le dissi, prendendole la mano e portandola alle mie
labbra.

Restai un istante colle labbra su quella mano. Alzando il capo, vidi nel
vano della porta Pilato in piedi, gli occhi fissi e divaricati,
terribilmente pallido, immobile. Lasciai ricadere la mano di Claudia che
aveva il dosso voltato a suo marito. Allora Pilato fece uno sforzo sopra
sè stesso, e si avanzò.

La tempesta del cielo annunziava le sue prime convulsioni. Un colpo di
tuono scosse l'appartamento, un lampo lo rischiarò.

Pilato prese un aspetto sorridente. Venne dinanzi il letto di sua
moglie, che lo guardò appena senza dare alcun segno di commovimento.

— Sei tu, diss'ella volgendosi dall'altra parte, a quest'ora?

— Scusami, amica mia, rispose Pilato. Ho incontrato due persone che
cercavano codesto giovane, e mi sono indugiato un poco conversando con
loro.

Levai gli occhi, in fatti, e scorsi nell'altra stanza, rimpetto alla
porta, Justus e Bar Abbas.

Pilato, dopo le parole violente che aveva lanciate a Cypros, s'era
subitamente contenuto, ed aveva domandato delle spiegazioni. Sembra che
il solitario della torre Mariamna intrattenesse delle relazioni intime
colla giovine schiava. Tutte le sere, o quasi tutti i giorni, egli si
recava nella stanza della Galla, a quell'ora avanzata della notte, e
veniva a conversare con lei. Di che parlava Pilato con quella ragazza?
Cosa aveva a dirle, con quell'aria misteriosa? Dio mio! Colla schiava
Pilato andava a parlare di sua moglie. Le domandava i menomi particolari
della giornata di lei, i suoi pensieri, i suoi desiderii, i suoi
capricci, che so io! del vestito, del gioiello, del fiore, del riccio
dei suoi capelli non ben fisso, dei vapori, delle collere, di mille
nienti, e tante altre cose ancora.

«Questo Argo spia sua moglie, pensava Cypros; dunque non bisogna
dirgliene niente!»

E Cypros non gli diceva niente.

Sopra tutto, Pilato era dilaniato dal silenzio assoluto che Claudia
osservava sopra la sua persona. Cypros non ebbe mai a raccontargli che
sua moglie si fosse occupata di lui, che avesse pensato a lui, o lo
avesse nominato.

Cypros era ora côlta in fallo, ed in un fallo che ella stessa riteneva
per capitale.

Cypros aveva dei begli occhi, che non risparmiava punto di adoperare. La
mia carceriera non avrebbe forse desiderato niente di meglio che
alleviare la mia vedovanza. Poteva ella pensare che Claudia ed io
vivessimo come fratello e sorella? Tremò davanti Pilato; e confessò che
io era nella camera da letto della sua padrona. Pilato ebbe come una
vertigine. Poi si rimise, e venne.

— Questi amici hanno troppa fretta, rispose Claudia senza voltarsi.
Giuda era per partire. Ma trovo impertinente ch'essi vengano a cercarlo,
qui, alla mezzanotte.

— Scusa, amica mia, sono io che li ho introdotti qui onde procurare loro
il piacere di vedere il loro amico alcuni minuti più presto.

— Allora fammeli gettare alla porta a colpi di verghe.

— Ti domando grazia per loro. L'affezione è cosa sì rara.

— È vero, fece Claudia. Andate dunque e addio, o piuttosto a rivederci.

Pilato diede un passo indietro per lasciarmi passare.

— Procuratore, gli chiesi, hai ancora tua madre tu?

— E poi?

— Io sono stato arrestato una sera senza ragione, con una specie di
tranello, in quel giorno appunto in cui una simile punizione, anche
meritata, avrebbe dovuto essermi risparmiata.

— Non l'ho ordinata io.

— Ti credo. Mia madre però è stata informata del mio arresto. Io le dava
ogni giorno mie notizie e ricevevo le sue, poichè la povera vecchia è
ammalata, gravemente ammalata. Sono già dodici giorni ch'ella ignora la
mia sorte.

— Ebbene?

— Ebbene, io vorrei andare a Gerico in questa notte stessa, all'istante.

— Chi vi si oppone?

— Tu.

Pilato ebbe un movimento altero d'impazienza.

— Le porte della città sono chiuse, ed io non potrei partire che domani.

— In fatti, è vero.

— Allora io ti domando, se è possibile, una parola d'ordine onde farmi
aprire la porta di Bethlemme, ed uscire.

— Amica mia, disse Pilato riflettendo, hai tu qui ciò che occorre per
scrivere una linea?

— No, rispose Claudia.

— Sia, fece Pilato, ecco la parola d'ordine per passare: Claudia!

Claudia si voltò con un vivo movimento udendo pronunziare il suo nome.
Non si sarebbe mai aspettata forse, che il suo nome fosse stato dato da
Pilato. Questa impressione non durò per altro che un attimo. Claudia si
girò di nuovo lentamente dall'altro lato.

— Claudia! osservai io, va bene. Grazie per mia madre, procuratore.

Dissi addio di nuovo alla bella Romana e partii.

Claudia e Pilato restarono soli l'uno rimpetto all'altro.

Ho conosciuti più tardi i ragguagli di questa orribile scena. Poteva
egli mai pensare, Pilato, che un giovane di ventitrè anni ed una donna
di ventiquattro fossero restati dieci giorni insieme per dirsi dei
nonnulla durante tutto questo tempo e finire col cospirare d'accordo?



XI.


Pilato principiò col passeggiare per lungo e per largo nella stanza,
osservando ogni mobile, e gli accidenti del letto, e del letto di
riposo.

Ahimè! tutto ciò era vergine, in quella camera d'una impura.

Claudia comprese forse, e lo lasciò fare; forse era assorta in un altro
pensiero. Infatti, repentinamente, balzò in piedi, corse allo specchio
dinanzi al quale era una piccola lama d'oro sospesa fra due colonnine
d'agata, e la percosse a diverse riprese, convulsivamente, con un
piccolo martello d'acciaio. Poi ritornò al suo posto.

Al tintinnìo di quella piastra metallica, Cypros accorse. Sembrava
stravolta dal terrore avendo indovinato da quello strepito la tempesta
che agitava l'anima della sua padrona. Cypros si avvicinò tremante,
pallida come una landa di neve al chiaro di luna.

— Raccomoda la rete dei miei capelli, disse Claudia con voce sorda e gli
occhi fulminanti.

Cypros cadde alle sue ginocchia gridando:

— Grazia, padrona, io sono innocente.

Claudia fissò negli occhi della giovane i suoi occhi carichi di collera,
affascinandola, inchiodandola ai suoi piedi, affranta dalla paura. Poi
senza aggiungere una sola parola, mise lentamente la mano ai capelli, ne
tirò la spilla omicida, alzò il suo braccio e lo abbassò. Pilato vide
quel movimento e si precipitò sulla mano di sua moglie. Arrivò troppo
tardi. Il gioiello di Claudia aveva pugnalata la schiava delle Gallie.
L'infelice Cypros si accosciò e cadde stesa sul tappeto, mormorando:

— Povera madre mia, tu morrai schiava.

Uno spruzzo di sangue saltò al viso di Claudia e lordò il suo bianco
vestito. Ella contemplò per un momento quel cadavere, poi alzando lo
sguardo sopra suo marito esterrefatto gli ordinò:

— Spingi col piede questa carogna sulla terrazza.

E ricadde sul suo seggio.

Pilato prese nelle sue braccia il cadavere della ragazza. Egli
comprendeva ora perchè Cypros gli avesse nascosta la mia presenza presso
di sua moglie. Si sovvenne delle ore di gioia che Cypros gli aveva
procurate parlandogli di Claudia. Baciò castamente la fronte della
povera vittima, e la depose sulla terrazza, ove il sangue fu ben presto
lavato dalla pioggia che cadeva a catinelle. Un lungo sospiro che partì
dal cuore, più che dal petto di Pilato, riassunse tutti i gemiti che il
mondo serbava alla nobile creatura.

Pilato era atterrato.

Quest'uomo, sfuggito a tanti combattimenti, si sentiva soffocare
d'orrore e di spavento, alla vista di quel sangue tirato dal cuore d'una
donna, da una donna, con un gioiello.

Pilato era d'Hispalis (Siviglia), una delle quattro città della Betica,
i cui abitanti godevano del diritto di cittadini romani. Suo padre si
chiamava Marcus Pontius. In quella guerra di distruzione che Agrippa
inflisse ai Cantabri (Biscaglini), Marcus si segnalò forzando i suoi
grandi compatriotti ad uccidersi in parte, tenendo poi mano alla vendita
degli altri. Egli comandava quel pugno di rinnegati che volsero le armi
contro i loro compagni di schiavitù, gli Asturii. La Spagna sommessa
finalmente a Roma, — dopo due secoli di resistenza — Marcus Pontius
ottenne come segno di distinzione il pilum o giavellotto, da cui la
famiglia trasse il nome di Pilatus[13].

  [13] Fors'anco questo nome soldatesco veniva dal _pilum_,
  pestello, da cui si era fatto il dio Pilumnus nelle stanze da
  letto, e che, secondo sant'Agostino, personificava un Priapo.

Lucius Pontius Pilatus, suo figlio, si attaccò a Germanico, col quale
fece le guerre della Germania, e si trovò alla battaglia di Idistavisus
(Hassembeck). Dopo la pace, Pilato ritornò in Ispagna. Ma ben tosto,
stanco del riposo, venne a cercare a Roma il piacere, poichè Tiberio
vietava la gloria.

Germanicus era perito in Siria per ordine di Tiberio. Ponzio si presentò
a costui con una lettera di suo padre, che aveva combattuto con lui,
allorchè egli era tribuno dei soldati nella Cantabria, e poscia in
Germania. Tiberio l'accolse bene, troppo bene forse; poichè Ponzio era
designato a Capri col sopranome di sposo di Tiberio[14]. Occorre però
dire che nulla nella persona di Ponzio giustificava l'uffizio ch'egli
avrebbe riempito presso il vecchio imperatore, e che forse fu Sejano a
spargere quella voce onde screditarlo presso Claudia, di cui ambedue si
disputavano i favori.

  [14] Gli si applicava il verso di Marziale:

         _Tergo fœmina pube vir es._

Ponzio aveva trentacinque o trentasei anni; statura media, l'aspetto
severo, il colorito bruno, il corpo magro. I suoi begli occhi neri, come
pure la sua barba ed i suoi capelli davan risalto alla sua aria
malinconica, e rischiaravano la sua fisonomia, la cui gravità toccava
quasi alla durezza. La sua bella bocca dai denti bianchissimi raddolciva
questo insieme che ispirava più rispetto che simpatia. Egli aveva,
inoltre, maniere rozze e violenti movimenti subitanei, la collera
pronta, il colpo spietato. I gusti suoi erano volgari; la sua
intelligenza mancava di coltura. Mai, in tutta la sua vita, egli aveva
letto un poeta, una storia un filosofo; e nondimeno il suo spirito era
poetico, la sua anima triste e pensosa. Aveva delle passioni a sbalzi,
passando senza transizione dall'orgia furiosa all'ascetismo d'un
esseniano. La era ancora una natura selvaggia, cui la corruzione aveva
sfiorata, contrariandola, lasciandole l'istinto del bruto senza darle la
pulitura dell'epicureo e dell'effeminato. La sua gelosia raggiungeva la
follia. Il riguardo del suo onore si elevava all'idolatria. Generoso
quando la passione non tempestava, crudele nell'uragano del suo cuore e
dei suoi pensieri. Egli amava la lotta contro il difficile; quella
contro l'impossibile lo seduceva. Il sentimento della giustizia lo
ispirava sempre; ma egli aveva un criterio della giustizia secondo la
sua coscienza piuttosto che secondo il diritto e la legge. Maltrattava
volontieri l'uomo; per la donna era rispettoso, galante, condiscendente,
tenero anche, e cavalleresco. Uno sguardo di donna lo trasformava.
Epperò durante tutto il tempo che restò in Gerusalemme senza Claudia non
si disse molto male della sua condotta. Se non fu casto, fu riservato.
Non gli si conobbe nessuna relazione amorosa; vivendo anzi molto
rigidamente, preferendo stare in una torre, anzichè nel palazzo di
Erode, in fra i soldati anzichè fra gli schiavi dei due sessi che
ingombravano la sua residenza; lasciandosi andare ai suoi gusti
malinconici, evitando la gente, la luce, e correndo di notte pella
campagna. Non era cosa rara l'incontrarlo dopo mezzanotte a cavallo,
seguito soltanto dai suoi otto schiavi nubiani, muti come il fondo di un
pozzo. Regalava generosamente. Rispettava il popolo vinto, più che
poteva, quando Cesare o il popolo Romano non erano posti in questione.

Pilato aveva adesso un po' più di quarant'anni; ma il suo colorito
bilioso, le rughe precoci, avevano fissato sul suo fronte un'età
immobile; non era giovine, ma non invecchiava. Parlava poco ed
ordinariamente con tuono secco e duro. Ma si abbandonava volentieri
all'ironia, quando era meno triste, o al lirismo d'una imaginazione
febbrile, quando era animato da una passione qualunque. Portava un lutto
continuo; nessuno seppe mai di chi, nè di che cosa[15].

  [15] Filone (Ambasciata a Cajus) chiama Pilato _pervicaci duroque
  ingenio_, carattere tenace e duro, e gli attribuisce _venditas
  sententias, rapinas, clades, tormenta, crebras caedes
  indemnatorum, crudelitatem saevissimam_.... Non sembrerebbe di
  leggere il ritratto di Radetzki fatto dagli Italiani?

Eccolo ora di fronte a Claudia, giudice d'una donna che sembrava
colpevole, eppure commosso e quasi tremante. Le braccia incrociate al
petto, in piedi sulla soglia della terrazza, eccessivamente pallido, lo
sguardo profondo immobile sopr'essa, egli attendeva una parola onde
uscire dal cerchio magico del silenzio che l'attitudine fredda e
sprezzante di Claudia tracciava a lui dintorno.

— Ebbene, sclamò ella finalmente, chiudi quella porta, e vattene. È
tardi, sono stanca e voglio dormire.

— Ti chiedo scusa, o figlia di Julia[16], di avere turbato le gioie
della tua notte, rispose con calma Pilato. Vi sono stato spinto da
quegli uomini.

  [16] Macrobio racconta che questa figlia di Augusto non si
  abbandonava alla dissolutezza che allorchè era incinta, e diceva
  allora: «che non accettava passeggieri a bordo che allorquando il
  bastimento era carico, _navi plena, tolle vectorem_.»

— Non essere modesto, Pilato, riprese Claudia con un sorriso. Tu avevi
cercato una moglie nella pozzanghera di Capri per ambizione; sei stato
carnefice del paese che ti si era abbandonato a divorare: ora sei
divenuto una spia. Sei perfetto. Sposo di Cesare, sei ormai degno d'uno
dei _piccoli pesci_ di Tiberio. Adesso possiamo consumare il nostro
matrimonio.

Pilato balzò, e afferrando violentemente sua moglie dal braccio, gridò:

— Che cosa faceva qui, quell'uomo?

Claudia guardò in faccia a suo marito, senza turbarsi, poi colla mano
sinistra, tirò lentamente la sua terribile spilla dai capelli, e
trapassò il braccio di Pilato. Questi ritirò la sua mano. Claudia
rispose freddamente:

— È il mio amante.

Pilato contemplò con aria distratta il suo braccio che sanguinava, e lo
avvolse in un lembo della sua toga.

— È il tuo amante, dici? continuò egli. Io trovo un giovane nella stanza
notturna di mia moglie, a mezzanotte, soli, baciandole le mani; ho due
testimonii che possono affermarlo, ella stessa confessa che è l'amante
di quell'uomo. Io potrei ucciderla, potrei divorziarmi da lei, potrei
trascinarla dinanzi i giudici e infamarla.... Infamare...! Claudia, io
ti perdono.

Claudia tolse lentamente il suo anello dal dito, e mostrandolo a suo
marito, gli domandò:

— Conosci questo anello?

Pilato l'esaminò, e gettandolo in mezzo alla camera, osservò con
disprezzo:

— L'anello di Tiberio! Claudia aveva dunque mentito quando m'aveva detto
che le veniva da sua madre.

Ella rispose:

— Potrei inviarti l'ordine, sopra un pezzo di carta suggellato da questo
anello, di disonorarti, di esiliarti, di ucciderti, di abbandonare il
posto di procuratore, alla vigilia d'una esplosione terribile di questo
popolo, e di farti condannare come un vile o come un traditore.... Io ti
lascio vivere. Io lavoro al compimento della tua infamia.

Pilato non l'aveva forse compresa, giacchè riprese come se parlasse a sè
stesso.

— Al postutto, egli è giovine, è bello, è effeminato, ha mostrato del
coraggio.... Se ella lo ama.... ciò è spiegabile. L'è giovine anch'ella,
è bella, il suo sangue le fa violenza, la si annoja.... Dopo ciò che io
aveva veduto, dopo quello che sapevo, dopo quel passato.... un amante
solo, nel secreto della notte.... Oh, sì, sì, c'è un progresso nel bene,
Claudia, perdonami, sono assurdo, sono pazzo.

— N'è vero?

— Che vezzi mi aveva io per sedurti? Straniero, rozzo, triste, senza
nessuna di quelle eleganze della corte dei Cesari che abbagliano le
donne, senza vizii clamorosi, povero, penetrato della modestia della mia
posizione e del mio grado, troppo fiero forse.... oh! io comprendo tutto
ciò! un marito di questa qualità ha bisogno d'un complemento. Egli è il
masso informe, l'amante è la statua.

— Puoi dire meglio: egli è il vaso, l'amante è il mazzo di fiori.

— Ciò che accadde, doveva accadere, continuò Pilato, passeggiando a
passi lenti nella stanza, parlando a sè stesso, non vedendo più sua
moglie, nè ascoltandola. Io l'aveva veduta; era un rovo, e come tale
produceva delle spine.... Perchè mi stupirei adesso che questo rovo non
produca delle viole? Pazzo! L'hai voluto tu stesso, miserabile! Oh!
perchè non restai nel mio paese! Hispalis era così bella! Il suo bel
fiume limpido come il cielo; il suo cielo trasparente come le pupille
delle sue donne; i suoi giardini ove ondeggia la palma, ove s'apre il
fiore dell'aloè, ove la rosa canta, l'arancio scintilla dei suoi profumi
nelle notti imbalsamate.... era così bella Hispalis, dall'aere pieno di
dolci suoni, dai giorni pieni di sogni, dalle notti piene d'amore,
d'amore casto, puro, esclusivo, geloso, infinito, intero.... Che mi
andai a fare in Roma? Che andai a cercarvi, disgraziato....

— Il favore di Cesare, ed una provincia da saccheggiare, interruppe
Claudia con disprezzo.

— No: l'assassinio della mia giovinezza, del mio riposo, del mio cuore,
della mia felicità, di tutto. Io non sono ora che l'ombra d'un uomo,
ravvolto nel sudario dell'infamia. Mia madre lo diceva pertanto! Ella
non avrebbe voluto che io ponessi mai il piede in quel carnaio delle
virtù, dei diritti e dell'onore, che si chiama Roma. Ella m'additava per
compagna una nobile ragazza, pura come l'alito delle nostre montagne,
bella come le serate di Gades (Cadice). Io non l'ascoltai. L'ho voluto.
Di che posso ora lagnarmi? Ella ha un amante! Un solo amante, dopo
Capri? Tu sei una vestale, o Claudia!

— Perchè non hai tu ascoltato i consigli di tua madre, virtuoso
avventuriere?

— L'è il mio secreto e la mia vergogna.

— Te lo dirò io, il tuo secreto; te la farò conoscere io, l'estensione
della tua vergogna. Arrivasti a Roma ebbro d'ambizione. Ti presentasti
alla corte, che tutti giudicavano come un antro di sangue e di fango. La
tua fierezza vi fa contrasto il primo giorno: Sejano se ne stupisce;
Tiberio sbadiglia; Cajus Priscus corruga la fronte; Trasilio ne
trasecola; Cajus Caligula ne rabbrividisce. Nessuno osa avvicinarsi a
quella sconosciuta in quei luoghi, la fierezza! Nonostante il padrone,
che osa tutto, la sfiora del soffio delle sue notti; ed il leone si
cangia in majale.

— Tu pure, urlò Pilato fermandosi.

— Come tutti. I poeti ti hanno cantato.

— Sono infami.

— Forse. Ora, c'era in quell'antro una ragazza di diecisette anni, d'una
bellezza affascinante, la cui influenza si diceva onnipossente sul cuore
del padrone; di cui la storia era commovente, e la cui alta nascita
condita di mistero. Tutto ciò, ti colpisce e ti esalta. Quella
giovinetta aveva nelle vene del sangue d'Augusto. Che importa a te, che
quell'imperatore sia stato trattato di effeminato da Sesto Pompeo; che
Antonio lo abbia rimproverato di avere comperata l'adozione di Giulio
Cesare a prezzo della sua infamia: che Lucio, fratello di Antonio,
l'abbia accusato di essersi prostituito in Ispagna a Aulus Hirtius per
trecentomila sesterzii; ch'egli fosse adultero, dissoluto, che
s'imbragasse nelle orgie _delle dodici divinità_ ignude?... Egli era
Cesare[17].

  [17] SVETONIO, _Vita d'Augusto_, LXVIII.

— Io non ci pensava.

— Veramente! Eppure quella ragazza aveva per madre Giulia: gli è tutto
dire; e per padre un poco quello schiavo Telefo che cospirò contro
Augusto, e un poco quegli altri schiavi Andasius ed Epicade che vollero
rapirla da Pantellaria[18]. Che t'importava? La giovinetta era sempre
della famiglia di Cesare. Serviva a Capri ai piaceri più vituperosi. Tu
lo sapevi; più ancora, lo vedevi coi tuoi occhi. Che monta! la
domandasti in isposa.

  [18] _Idem_, ibid XIX.

— Ecco il mio fallo.

— Credi? Ma Sejano la voleva egli pure. Il commediante Accius la
domandava; il buffone Trullus, lo schiavo Parthenius, Nisia il mezzano
la domandavano altresì. Perfino il grammatico Seleuco, Pansa il
parassita, e Ortalus l'_ombra_, si posero della partita. Tiberio preferì
te, o eroe di Hispalis. Quella gente gli sembrò pericolosa troppo per
avere in moglie una nipote d'Augusto. Tu lo rassicuravi. Per te, un
posto di procuratore nella più ignobile delle provincie Romane, bastava.
Questo straniero, che veniva sì da lontano a battere alla porta della
fortuna, doveva trovarsi soddisfatto d'intravedere la mano della nipote
d'Augusto, e di andare a governare una provincia della Siria, sotto
quell'ubbriacone di Pomponius Flaccus, che può a sua voglia licenziarlo
come un servo. Tu restasti soddisfatto. Non restavi tu soddisfatto?

— È questo il mio secreto, e la mia vergogna, ripetè nuovamente Pilato.

— Il tuo secreto, te l'ho già detto. Venivi a mendicare un posto, che ti
si gettò in fra i regali pelle mie nozze. La tua vergogna ebbe principio
da quel giorno. Tiberio non era ancor sazio. Gli piacevo ancora; lo
divertivo ancora; io era ancora assai giovane, assai bella, assai abile
ed a modo, sempre pronta, alla ricerca delle sue grazie. Io gli era una
varietà nei suoi piaceri, a causa della grazia che imploravo a
ginocchio, la faccia a terra, torcendomi dalla disperazione, a causa del
rifiuto, e sperando sempre! Mia madre viveva ancora. Tiberio paventava
un pericolo in quella figlia di Augusto, in quella esiliata che era
stata sua moglie, e le cui disgrazie facevano dimenticar le vergogne.
Egli mi ritenne. Io non era soltanto un balocco per quell'ignobile
vecchio, ero un ostaggio. Ti diede il diploma di governatore, e conservò
tua moglie. Tiberio era geloso; non li permise neppure di sfiorare le
labbra della tua donna, di dirle addio, di darle uno sguardo d'amore.
D'amore! oh ch'e' sarebbe stato bene al suo posto l'amore in fra lo
sposo e l'Atalanta di Tiberio! Ti risentisti tu? no. Tu partisti.

— E tu protestasti, tu?

— Io? io ti disprezzava prima di conoscerti. Ma, dopo quel giorno, ti
odio. Tu parli di vergogna? Hai ragione: essa sbucciava in tutto il suo
rigoglio. Dapprima si era oltraggiata l'orfana, la figlia dell'esiliata,
il rampollo sconfessato della dissoluta: oggimai, era la moglie di
Ponzio Pilato, era la donna del procuratore della Giudea, che si
disonorava. La voluttà era resa più sapida dall'insulto. L'insulto si
levava alto, folgoreggiante. Esso non colpiva più una povera
giovincella; esso fulminava un rappresentante di Cesare dinanzi i popoli
dell'Asia. Io mi meraviglio che Tiberio non t'abbia creato Re in qualche
sito onde meglio assaporare le mie carezze! Bisogna ch'egli ti disprezzi
molto, molto. Infatti egli mi ti ha dato come uno schiavo. La tua testa
è in quell'anello. Ti sei tu ribellato contro i vituperii che
t'inflissero? Parla, hai almeno protestato?

— No: ed e' son questi ancora una volta, il mio secreto e la mia
vergogna.

— Vuoi ancora della vergogna? Ebbene, Sejano mi ha amata. Comprendi? Il
domestico domandava gli avanzi del padrone.

— Basta, Claudia, esclamò finalmente Pilato fermandosi ritto inanzi sua
moglie.

— Eppure io era bella, continuò Claudia, avrebbero potuto amarmi,
interrogarmi. Chi sa? Mi avrebbero forse perfino stimata. Io valeva bene
la pena, mi pare, che l'uomo che aveva ambito alla mia mano senza
arrossire, avesse altresì aspirato al mio cuore, il quale non aveva
detto verbo in tutto quel fetido mercanteggiare. Io era giovine, avrei
forse potuto rialzarmi, riabilitarmi, giustificarmi dinanzi i santi lari
famigliari, obbliare lo Stige di Capri sopra la testa pura, negli occhi
innocenti dei miei figli. Avrei potuto piangere sur un fallo che non era
il mio; espiare un'infamia che era forse una luce celeste, una lagrima
di madre.... Dimmi, miserabile, cosa hai tu fatto, che hai tu tentato?
Tiberio mi disonorava; tu m'hai infamata. Ti meravigli ora tu se adesso
io ti odio? Con qual diritto mi domandi se ho un ganzo?

— Basta, basta, replicò Pilato. Potrei dirti una parola che mi
giustificherebbe forse: disdegno di dirla. Sei libera. Non ti domando
nulla, e non ti rimprovererò più nulla. Che vuoi di più? Ho provato
d'illuminare le tenebre del mio inferno. Non ci sono riuscito. Ho avuto
torto di provare. Il raggio che invocavo, mi ha fatto sembrare il mio
inferno più lurido, ed ho ucciso il mio diritto di rimproverare. Ed ora,
segui la tua strada, o Claudia. Io torno indietro. Sono stato complice
fin qui; gli è mestieri, ch'io mi renda ora degno di divenir giudice. Tu
non mi troverai più nel tuo cammino. I miei giorni saranno foschi, le
mie notti tempestose d'insonnia, la mia solitudine popolata d'una corte
più implacabile. Ma io mi preparo il diritto di dirti un giorno: Basta!

— Questo giorno non arriverà mai.

— Lo credi: ma allora, Claudia, ricordatene, guai a te, guai! Non è il
tuo anello che ti salva oggi: è la mia coscienza.

Così dicendo, Pilato uscì.

Claudia lo seguì dello sguardo, alzandosi dal suo seggio, poi ricadde
mormorando.

— La sua coscienza! Che? la sua coscienza avrebbe finalmente degli occhi
per vedere il nostro abisso? insorgerebbe essa alla fine? avrebb'essa
risentito la scossa della mia? Tanto meglio. Conoscerà allora quanto io
lo disprezzo, e quanto disprezzo me stessa. Amare un tal uomo! amare
l'uomo che ha fatto del mio obbrobrio scala alla sua grandezza? Che
delitto ho dunque io commesso, io sì giovane per meritare questo
implacabile castigo? Sarei io dunque stata scelta per essere l'Ifigenia
di tutte le scelleraggini di Cesare e della sua posterità?... O pure la
sua coscienza gli rimprovererebbe... che? amore...

Claudia si alzò d'un balzo; era spaventevole nel suo pallore.

— Oh! allora veramente sventura! sventura! come egli ha detto.

La tempesta spaziava a battaglia nel firmamento. Pilato traversò il
giardino. Uscì dalla porta secreta, si diresse verso il posto ove i suoi
nubiani l'attendevano, si coprì d'un mantello scuro che gli tenevano
pronto, montò a cavallo, e facendo loro segno, ordinò:

— Andiamo.

Erano le tre ore dopo la mezzanotte. La città di Gerusalemme sembrava
morta. Claudia che era uscita sul terrazzo per rinfrescarsi ai buffi
dell'uragano vide passare, e sparire come fantasmi, nove cavalieri.
Indietreggiando, urtò nel cadavere di Cypros. Gettò un grido e fuggì.

In quell'istesso momento, io varcava la porta del Gran Sacerdote, ed il
ponte sul torrente di Gihon, giravo le mura della città, e lasciavo alla
mia diritta la strada che conduce a Gaza e quelle che conducono ad
Emmaus e a Joppa.



XII.


Rientrando, avevo trovato in casa una lettera di mia madre
linfaticamente inquieta del mio arresto. Ne era stata avvertita con
precauzione. Diedi ordine che si preparasse il mio cavallo
immediatamente, e partii solo, all'ora istessa, malgrado la bufera che
incominciava.

Mia madre mi annunziava che la partiva il giorno stesso per Bethlemme
ove era chiamata da mia sorella, maritata in quella città e che si era
allora sgravata del suo primogenito. Io seguiva la strada del
mezzogiorno che conduce in Egitto, e la cui prima fermata di notte è la
città di Dain. Costeggiavo il monte degli Ulivi per la via che lambe la
valle del Cedron. Il ruscello era divenuto torrente, tumultuoso,
rissoso, sussurrone, urtando come un cieco in tutti gli ostacoli, e
trascinando seco tutto ciò che incontrava, alberi, ponti, carogne,
roccie e viaggiatori. Al chiarore dei lampi io lo vedeva balzare sotto i
miei piedi, bianco di spuma e rapido. Principiai poco dopo a varcare un
seguito di colli e di piccole vallate che si succedevano discendendo e
che io vedeva finire ai piè della montagna d'Elia la quale chiudeva
l'orizzonte. Il mio cavallo, spaventato dai tuoni e dai lampi, non mi
permetteva di avanzar rapidamente, quand'anche il cattivo stato delle
strade e le tenebre della notte non me l'avessero impedito. I Romani non
avevano curato la via di Egitto come quella da Tiro a Damasco.

Avevo camminato circa una mezz'ora fuori della città, quando udii un
rumore di cavalieri dietro a me, e me li vidi passare d'accanto come
delle ombre scure. Io pensai, vedendoli galoppare così velocemente, che
dovevano conoscere per bene la via, ed avere l'abitudine di percorrerla.

Intanto l'uragano infuriava. Non era più la pioggia che cadeva, ma
grandine, erano ghiacciuoli larghi come la mano e duri come ciottoli. Il
cielo sembrava un grande incendio, celeste e rosso, rischiarante
l'universo che crollasse. A quella funebre luce, scorsi, in un incavo
della collina, una casa nella piccola valle detta Berachah, ossia valle
della benedizione. Riconoscendo l'impossibilità di continuare il mio
viaggio a traverso quell'orribile scatenamento degli elementi, mi decisi
a domandare colà un'ora di riparo. Io la scorgeva a qualche centinaio di
passi da me, o piuttosto vedevo un grande quadrato di alte mura
biancastre, guarnite di un torrione, in cima al quale rizzavasi un'ombra
bianca. Nelle regioni remote del nostro paese, la sentinella su quella
torre tiene il posto dell'_hostiarium_ e del cane in mosaico presso i
Romani. Avvicinandomi, distinsi perfettamente il guardiano che stava in
alto al terrazzo. Allorchè fui arrivato alla porta, e' mi domandò che
chiedessi.

Quella voce non mi sembrò nuova; ma io conosceva tante persone, ch'e' mi
riusciva impossibile di precisare alcunchè. Risposi che desideravo pormi
al coperto per alcuni istanti.

Mentre la sentinella dava l'ordine di lasciarmi entrare, distinsi sotto
una tettoia dall'altro lato del quadrato di muro dinanzi cui mi trovavo,
diversi cavalli e cavalieri. Probabilmente erano gli stessi che mi
avevano poco prima oltrepassato, e che senza dubbio avevano cercato essi
pure un ricovero da quella demenza del cielo. La porta s'aprì e mi
trovai sotto una gran vôlta che metteva in una corte.

La corte era scoperta. Una fontana di marmo bianco risuonava nel mezzo,
circondata da un'aiuola di mirti e di fiori che potevo distinguere
appena. Un largo porticato si sviluppava intorno al muro esterno sopra
tre parti, poi questo muro correva lontano, e copriva la facciata di
dietro, racchiudendovi così un vasto giardino. Una piccola casetta tutta
bianca spiccava nel mezzo, avendo una bella terrazza al disopra del
portico che precedeva la porta. Le finestre erano illuminate. Ma il
servo che venne ad aprirmi, mi arrestò prendendo il cavallo per la
briglia. Intanto la tempesta raddoppiava. Il servo m'offrì da mangiare e
da bere. Rifiutai. Domandai a chi appartenesse quella casa, mi rispose:

— A Caius Crispus, comandante la cavalleria della 12.ª legione.

— È egli qui?

— È ad Antiochia.

— La casa per altro è abitata?

— Sì, da sua moglie: ed ecco perchè a quest'ora non si lascia entrar
nessuno.

— Come chiami tu la tua padrona?

— Ida.

— È giovane?

Il servo non mi rispose e fu l'ultima domanda che mi permise di
rivolgergli. Si vegliava nondimeno nella casa, poichè io vedeva
disegnarsi e muoversi delle ombre dietro le finestre. Scorse una
lunghissima ora. La tempesta si calmò. Vidi allora passare sul terrazzo
una figura di donna che veniva probabilmente ad assicurarsi se la
pioggia era cessata. Rientrò presto; e un quarto d'ora dopo vidi un uomo
ravvolto in un oscuro mantello, uscire, passare a diritta nel giardino,
aprire una porta segreta e partire. Volli andarmene anch'io nell'istesso
tempo. Lo schiavo mi trattenne. Cinque minuti dopo, udii lo scalpitare
dei cavalli che passavano di galoppo dinanzi alla casa, dirigendosi
verso Gerusalemme. Un quarto d'ora più tardi il servo si decise ad
aprirmi la porta e lasciarmi partire alla mia volta. Il temporale era
cessato.

Ogni sorta di fantasie mi danzava nel capo. Chi era quella donna? chi
era quell'uomo? chi mi aveva parlato dall'alto della torricella?

L'aria fresca del mattino, il quale cominciava ad imbianchire, calmò i
miei sogni. Io ascendeva il monte d'Elia. Ero intirizzito: ero tutto
bagnato dalla pioggia. Quando arrivai alla cima del monte, il sole si
alzava. Mi fermai per guardare a me d'intorno. Una folla di ricordi
m'assalse, poichè io aveva sotto gli occhi il teatro degli episodi più
memorabili della nostra storia.

Io amo risovvenirmi: quest'è un rifugio contro i propri contemporanei
che hanno sempre torto. Poi l'è una cosa involontaria. Lo spirito
viaggia senza attendere un congedo. D'altronde io ero all'istesso sito,
nell'istessa ora forse, ove una moltitudine immensa di soldati, di
popolo, di nobili, di sacerdoti, colle loro greggie, i loro servi, i
loro schiavi, mogli, ragazzi, vecchi, a piedi sopra queste pietre
roventi, sopra asini o sopra cammelli, guardavano per l'ultima volta il
monte degli Ulivi, dietro il quale Nabuchadnezzar prendeva il tempio,
bruciava la città, saccheggiava e demoliva il palazzo di Sion, cacciando
dinanzi a sè i saggi ed i profeti, Gionata e Geremia. La casa di Davide
aveva cessato di regnare, Israel era disperso nella Siria, nella Media,
al di là del Tigri, gettato in Babilonia. Quelli che restavano,
gl'invalidi, gl'impotenti, quelli da cui il padrone straniero non aveva
nulla a temere, avevano preso stanza sul Mizpeh, quell'altura al di là
di Sion. Ma questi pure, dopo l'assassinio di Gedaliah commesso da
Ishmael, videro da questo sito per l'ultima volta il cielo di
Gerusalemme, giacchè nè la voce di Geremia nè quella di Baruc ebbero
forza di persuaderli a ritornare sui loro passi. La voce del re di
Babilonia tuonava più forte di quella dei profeti, e profeti, capitani,
figlie del re, tutti andarono a chiudere i loro occhi in Egitto.

I monti di Gedor e di Gibeah mi circondavano. Ai miei piedi stendevasi
l'Ephrath d'una volta, il Bethlemme d'oggi. Il torrente Cedron
discendeva di gradino in gradino, di cascatella in cascatella, ed andava
ad immergersi nel mar Morto, lì, in fondo, in quel piano celeste al di
là del quale io scorgeva le montagne violette di Moab, ed il bianco
profilo delle torri di Makaur. Da una parte, la pianura di Sharon dalle
rose, verso Lod e la splendida baia di Joppa ed Askalun. Dall'altra, il
deserto, Gerico, il Giordano dalle limpide acque. Nel basso, Bethlemme —
quella verde collina, ancora risplendente ai raggi del mattino, adorna
degli ultimi fichi verdi, dei pampini violetti, di cedri ed aranci, un
mazzetto di giardini — di cui un labirinto di sentieruoli bianchi forma
un delizioso e profumato saico.

All'estremità di questo ammasso di cubi bianchi, e di pochi palazzi
chiusi da una seria di catene, si rizza sopra un'altura un po' più lungi
dalle altre abitazioni, fuori delle porte, una casa che pare un castello
a grosse mura, residenza un tempo di Booz e di Ruth, poi di Davide, poi
di Chimham. Ecco l'ancor candida tomba di Rachele. Ecco le grotte ove
David si nascose, ove dormì Saul, ove qualche volta ripara la iena, ed
ove una folla di pastori e di greggie sfuggono alle morsure del sole.
Ecco le colline ove David custodiva gli agnelli di suo padre, apprendeva
ad uccidere giganti, a raggiungere i lupi ed i leopardi alla corsa, a
suonare l'arpa, e ove s'inebbriava della rugiada dell'empireo, che
distillava poi in salmi ed in cantici.

Pare ancora di vedere sopra la marna rossastra delle fessure e dei
solchi della roccia, l'impronta dei piedi di Rachele, quando, venendo
dalla casa di suo padre, fu sorpresa dai dolori del parto e morì col suo
bimbo. Sembra di vedere tutt'ora le traccie di Saul quando andava ad
interrogare la maga di Engadi. Ecco il campo di Booz, il quale seguendo
i mietitori, guardando le gambe ignude delle spigolatrici, osservò la
sua nipote Ruth, che sua suocera introdusse una notte sul suo letto di
covoni. «Va dunque, lavati, profumati, metti i vestiti del Sabbato e
scendi nei campi.» Ruth, la Moabita, era, come la mia Maria di Magdala,
Galilea. Booz la lasciò spigolare, lasciò che si avvicinasse all'ombra
ove egli pranzava in mezzo alle sue genti, lasciò che bevesse della sua
acqua, permise che inzuppasse il pane nel suo aceto, e.... si risvegliò
una mattina nelle sue braccia.

Le notti di Bathlehem hanno risuonato delle canzoni di David, dei gemiti
della bella Moabita, dei ruggiti di Saul: i suoi silenzi covano i
terrori di Samuele e di Geremia. Gli è dinanzi quella tomba di Rachele
che Saul s'inginocchiò, e si rialzò re. Gli è da quella valle di Cedron,
che David si salvò dalla ribellione di suo figlio Absalon, il fratello
di quell'Amon che amò sua sorella Tamar.

Tutto ciò si agitava nel mio spirito e sotto i miei occhi quando
arrivai, a mezzo giorno, nella casa di mia madre.

Mia madre, tutta intenta al bimbo appena nato, si accorse appena della
mia presenza. Lasciò sfuggire un oh! lungo come la strada delle Indie, e
continuò a preparare non so qual bibita confortante composta di vecchio
Chios, latte e miele. M'affrettai del resto a tranquillarla, dicendole
fin dalla prima parola, che ero stato arrestato per un equivoco. Tutti i
parenti ed amici di mio cognato vennero la sera a bezzicare qualche
bricciola di notizie della metropoli, e chiacchierare sopra gli
spettacoli del circo, di Claudia, di Pilato, di Flaccus, di Hannah,
sulle stragi del giorno dei Tabernacoli, di tutti e di tutto.
All'indomani non avendo più nessuno da rassicurare sulla mia sorte, nè
notizie da propagare, me ne tornai a Gerusalemme.

La giornata era bella e calda quantunque fossimo già al principio di
_marchesvan_ (fine di ottobre). Le api lavoravano ancora. Le farfalle
imperlavano ancora il cielo delle loro ali. E il cielo nettato dal
temporale del giorno prima, confondeva il suo azzurro profondo con la
pupilla divina. Il Cedron cinguettava ancora colla sua striscia
argentea, cercando taccoli ai ciottoli candidi e rotondi, ed agli sproni
rocciosi delle montagne che lo indicavano. L'aspetto di quei poggi
scaglionati a forma di scala, dal piano all'alto di Sion, era tristo,
ignudo: si sarebbe detto avessero la calvizie d'una vegetazione perduta.
Dalla cima di una di quelle alture, verso mezzogiorno, immersi alla fine
lo sguardo nella piccola valle della Benedizione, civetta come una
fanciulla da marito.

In mezzo a tutte quelle roccie calcari, grigie e rossastre, quel boccon
di verdura e di fiori, che pareva lì preparato sopra un bacino di marmo,
rallegrava lo sguardo meglio di una festa. Un'alta muraglia inquadrava e
nascondeva il giardino e la casa. Due torricelle fiancheggiavano la
porta d'entrata, ma questa volta nessuna guardia vi vegliava. La casa in
pietre bianche, si apriva sur un portico di marmo rosso, che si
trasformava in terrazzo al dissopra. Il gran porticato a colonne di
granito grigio e nero, che si addossavano interiormente su tre lati al
muro esterno, mi sembrava lastricato di marmo bianco e rosso. La fontana
nel mezzo della corte era in marmo bianco, circondata da un labbro di
terra, coperta di fiori a varii colori. Una statua di donna genuflessa
portava la coppa di porfido, dal cui centro si slanciava un filo d'acqua
molto in alto e ricadeva dagli orli della coppa della vasca come un velo
d'argento. Dei vasi di maiolica, con degli arbusti fioriti, coronavano
le aiuole. Il giardino era uno spicchio di cedri e di aranci.

Provai tutte le tentazioni del mondo che mi spingevano ad introdurmi di
nuovo in quella dimora, così poco conforme ai nostri costumi ed
all'architettura giudea. Avevo pensato tutta la notte, tutto il giorno,
lungo tutta la strada, a quella casa, alla donna che l'abitava. Avevo
immaginato mille pretesti per penetrare là dentro. Arrivato alla porta,
trovai tutte le mie ragioni stupide, la mia associazione d'idee assurda.
Passai oltre, ma col progetto deciso, che ormai, qualunque fosse lo
indirizzo dei miei viaggi a levante o a ponente, al mezzogiorno od al
nord, io passerei per quella strada, dinanzi quella casa, in attesa
dell'occasione.

Dimenticavo di aggiungere, che, dall'alto del mio osservatorio, avevo
veduto passeggiare all'ombra di un boschetto d'aranci, una forma bianca,
la quale m'aveva tutta l'aria d'esser una donna. Poi, quei cavalieri
della notte precedente m'avevano avuto l'aria di somigliare molto agli
otto nubiani di Pilato.

Ruminavo ancora su tutto ciò, allorchè mi trovai senza pensarlo dinanzi
la porta di Maria. Appena fui scôrto, le porte s'aprirono, e tutti i
domestici della mia amante mi si precipitarono intorno. Avevano l'aria
costernata.

— Cosa è accaduto? domandai commosso alla mia volta.

— Egli è che la padrona, disse Sara, è uscita da due giorni e non è più
rientrata.

— Non più rientrata?

— L'abbiamo attesa giorno e notte.

— Da due giorni?

— Ha lasciato una lettera per te, o padrone, sopra il tavolo della sua
stanza da letto.

Entrai lentamente nella casa, quasi acciecato da un sospetto che mi
passò per la mente.

— Ella amava Justus, dissi a me stesso.

Sara m'accompagnava raccontandomi, come il giorno precedente, all'alba,
Justus era venuto ad annunziare a Maria che io era libero, e che avevano
conversato insieme alcun tempo, che Justus aveva baciato Maria sulle
guance, e che si erano lasciati dicendosi: A questa sera!... Poi, che
Maria s'era vestita di ciò ch'ella aveva di più vecchio e di più
semplice, che aveva preso pochi sicli soltanto, scritta la lettera ed
era uscita senza dir nulla a nessuno, sola coperta da un velo nero che
la nascondeva completamente, e che non era più ritornata.

Presi vivamente quella lettera, e lessi:

«Addio, Giuda. Tu non mi ami più. Avrei avuto il diritto di lasciarti e
di cadere nelle braccia che mi si tendono da lungo tempo per accogliermi
e stringermi con delirio. Non voglio macchiare la tua memoria; ciò che
avrei forse fatto in un momento di dispetto e di gelosia, se io fossi
restata. Tutto ciò che v'ha qui, t'appartiene. Io ti lascio. Non voglio
conservare di te altro che il sogno ardente e puro dell'amore che ti ho
dato, che avrei continuato a darti, e che tu non potevi più rendermi.
Addio!»

Questa lettera così secca, così fredda e così ardente nell'istesso
tempo, mi cadde dalle mani. Mi lasciai andare sopra il letto. Se quella
lettera mi fosse stata scritta da un'altra donna, l'avrei presa per un
tranello. Ma conoscevo il carattere franco, risoluto, spiccato della
giovane Galilea. Quelle poche parole di addio mi strinsero il cuore.
Restai diverse ore assorto, rimuginando nella mia memoria la storia di
questo amore spezzato in modo sì repentino. Io non aveva a fare alcun
rimprovero a Maria per consolarmi dei suo abbandono; ne aveva diversi da
fare a me stesso. Io perdeva il mio cuore a riposo. Perdevo un sorriso
sempre pronto a rallegrarmi, una parola sempre vivace per tirarmi dal
dubbio. Quell'amore bravo, disinteressato, leale mi aveva cullato per un
anno in una felicità senza enfasi, ma senza parsimonia. La sua
gentilezza ingenua, l'affetto, che la civetteria faceva risaltare come
fa un color vivo d'uno più dolce, l'attaccamento sì semplice come quello
di una sorella.... avevo perduto tutto ciò. E perchè? e per chi?

Il colloquio ch'ebbi la sera stessa col sagan mi ricondusse ad altre
idee. Io non gli dissi una parola di ciò ch'era accaduto fra Claudia e
me, nè degli accordi presi. Asserii di esser venuto fuori dalla
prigione, cui la moglie del procuratore aveva reso clemente, onde
ricompensarmi del servizio resole nel circo, e che mi aveva per ciò
fatto risparmiare da suo marito. Il sagan mi raccontò la discussione
dell'assemblea riunita in sua casa all'indomani del mio arresto, e le
risoluzioni che vi erano state prese.

— Il consiglio è buono, gli dissi. Viene da Jeù l'esseniano. Lo conosco,
e bisogna ascoltarlo. Io stesso avevo pensato di trovare un uomo
adattato, e di farne un messia bene istruito, e ben famigliarizzato con
la nostra opera.

— Giuda, figliuolo mio, disse Hannah, tu non sai ciò che proponi. Un
profeta è la bestia la più cocciuta dopo il mulo, se dobbiamo credere
all'esperienza che ne fecero i nostri padri. Non è difficile
d'improvvisarne uno, imbeccato convenevolmente. Ma diviene quasi
impossibile di sbarazzarsene quando non se ne ha più di bisogno.
Finiscono tutti per lavorare per proprio conto.

— Oh! non aver timore di ciò, risposi io. Se dopo averci servito, il
nostro profeta non vuol abdicare volontariamente, prendendo egli stesso
l'iniziativa, m'incarico io di farlo sparire. Ma ciò che mi pare più
problematico, gli è di trovare un messia a modo, che rappresenti
fedelmente la sua parte, e che sia per noi ciò che la favella è pel
pensiero. Trovi tu la stoffa di un tal uomo in Gerusalemme?

— Proprio no.

— Ed io neppure. E soggiungo che, quand'anco uomo da tagliarvi un
profeta si trovasse nella nostra città, bisognerebbe lasciarlo da parte.
Lo si conoscerebbe di primo getto e lo s'indovinerebbe subito. Egli non
avrebbe alcun ascendente sopra il popolo. Da ogni parte gli direbbero:
Ma io ti ho veduto sacerdote, sarto, mercante, falegname, conciatore di
pelli che so io?[19] Bisogna che un profeta caschi dalle nuvole, venga
di lontano, ch'egli si faccia passare per figlio d'un agnello, o di Dio,
parlando con Dio entro una botte, o sopra una montagna. In breve occorre
l'incognito che si diverta ad impanicciar dell'impossibile.

  [19] «Quando egli ritornò nel suo paese e predicò nella sinagoga,
  il popolo attonito si diceva: Ma donde è venuta la scienza e la
  potenza a quest'uomo? Non è egli figlio del falegname la cui madre
  si chiama Maria, ed i fratelli, Jacopo Giuseppe, Simone e Giuda?
  Le sue sorelle non sono esse con noi? Dove mai quest'uomo ha preso
  tutto ciò?» MATTEO cap. XIII, v. 54, 55, 56.

— Ne convengo anch'io, disse il sagan, ma sono dieci giorni che ci penso
sopra, e non trovo la strada da uscirne. Vuoi tu farne discender uno
dalla luna o farlo arrivare dalle Indie, dall'Egitto, o da qualunque
sito meglio ti piace? Io non posso che pagarlo.

— Credo di aver trovata la strada che cercate. Ho in vista qualcosa. I
profeti ed i messia non mancano sul suolo della Giudea, ove sono una
produzione indigena, e credo quasi esclusiva. Se posso decidere colui a
cui miro a divenire un'eco, e cessare d'essere una voce, l'affare sarà
buono, non costerà nulla, e non andremo molto lungi per comperarne la
semente. Vuoi lasciarmi preparare questa faccenda a mio piacere?

— Non domando di meglio, ragazzo mio, che tu mi liberi da questo incubo
di profeta che da qualche tempo turba le mie notti. Io non sogno più che
di Samuele che accoltella Abimelech, di Ezechiele che pranza poco
pulitamente, di Balaam che parla con le asine.... Oh! chi mi sbarazzerà
da questa cattiva società?

— Io. Sta bene: parto domani, e confido di riescire.

— Dove vai?

— Non so ancora. Forse mi spingo fino al Cairo, fino a Rodi, fino a
Roma, fino nelle Gallie; insomma, non ritornerò senza condurti per le
orecchie un profeta.

— Hai bisogno di denari?

— Sì, e no. Sì, se passo il mare.

— Siamo intesi allora, disse Hannah sorridendo. Procura almeno, onde
coltivare il favore delle donne, che il tuo messia non sia troppo
brutto. Se le donne si mettono della partita, il tuo messia avrà un
successo pazzo.

— Magari! in ogni caso, ne terremo in pronto uno di ricambio.

Rientrando nella mia casa, diedi gli ordini per partire all'indomani, al
levar del sole. Ma il sole non era ancor levato che già Bar Abbas arriva
da me, tutto bardato come per mettersi in viaggio.

— Da bravo! gli dissi, dove vai tu dunque?

— Lo vedi: alla caccia con te.

— Con me! grazie tante. Non mi piacciono i segugi che abbaiano.

— Tacerò.

— Non amo i cani che azzannano il selvaggiume.

— Guarda: non ho più denti. Appena se posso rosicare i pranzi che mi
contrastano e che devo prender d'assalto.

— Allora, lasciami in pace: io vado alla pesca.

— Non potevi cader meglio: ti preparerò gli ami.

— Sai pescare la balena all'amo, tu?

— Non ho fatto altro in tutta la mia vita, per Bacco!

— Avresti fatto meglio a pescare dei sorci, ed educare delle rane pel
Tempio.

— To'! l'è un'idea questa: al mio ritorno creerò questa industria. Il
Signore deve amare la zuppa di rane, sopratutto quando le rane sono dei
rospi svestiti.

— Buon viaggio allora. Noi non prendiamo l'istessa via.

— Precisamente l'istessa.

— Io vado a sacrificare dei conigli al tempio di Girizim in Samaria.

— Vado pazzo per l'intingolo di coniglio; ma non voglio bene a Giove. È
brutale: ha dei gusti troppo singolari.

— Finalmente, ove vuoi venirne?

— Ho veduto il sagan ieri sera. Mi ha raccontato la conversazione che
avete avuto insieme. Sono anch'io dell'affare. Che diamine vuoi tu ch'io
mi faccia a Gerusalemme, quando c'è da trar partito in un altro sito del
commercio dei profeti?

— Quella bestia non sa dunque custodire un secreto?

— Come! come! Non ti fideresti di me, forse? D'altronde, io ho
appoggiato la proposizione quella sera che la fu fatta. Io me n'intendo
di codesta mercanzia. Ne ho praticato poi tanti nelle Gallie: credo anzi
d'aver un giorno mangiato un pezzo di profetessa arrosto. Ti racconterò
la cosa come avvenne, per istrada. Ti annoieresti a morte, solo, in
codesta spedizione. Tu non hai l'istinto del bracco.

— Lo vuoi proprio?

— Ho persino promesso una visita ai figli di Giuda e di Gamala.

— Sia dunque: ma ad un patto.

— Fammelo dolce, codesto patto.

— Che quando io discingerò la mia cintura, in qualunque sito si sia, e
con qualunque persona io mi sia, senza dir motto, senza obbligarmi ad
aprir bocca, mi lascerai solo.

— Ma se la discingi codesta cintura per causa d'indigestione.

— Non voglio repliche. Io conduceva meco un servo, ne conduco due.

— Ti prendo in parola, Giuda. Dà dunque ordine che mi apparecchino un
mulo per metterci in viaggio entro mezz'ora.

— Eh?

— Che si ponga inoltre sul cammello una tenda e tutti gli arnesi
necessarii per allestire il pranzo, e per dormire. Traverseremo forse il
deserto. Sopratutto del buon vino. E delle armi. Le iene, alla notte,
non sono come le damigelle dell'angolo della strada che si lasciano
accarezzare. Poi, una pelle dolce per coricarmivi, e delle coperte per
guarentirmi dal fresco del mattino. Che mi si prepari inoltre un
mantello più caldo. Non so quanto tempo resterò in viaggio: il mese di
_tevet_ ha dei giorni piovosi, e delle notti agghiacciate.

— Hai finito, bestione?

— Triplo bestione, se vuoi: ma ascolta i consigli d'un uomo che durante
trent'anni ha corso il mondo.

— M'hai capito?

— Io spiego i geroglifici delle Piramidi: vedi un po' se posso capir te!

Un'ora dopo uscivamo dalla porta Dorata, passavamo sul ponte del Cedron,
lasciavamo alla dritta la strada che conduce a Engadi ed al mar Morto,
prendendo quella che mena a Gerico ed al Giordano.

Incominciammo una discesa interminabile di escrescenze rocciose,
scaglionata come i gradini di una scala che va a metter capo al deserto.
La vista è squallida, il paese pietroso e selvaggio. Vi si incontrano
più sovente le pantere e le iene, che l'erba e gli arbusti. Qualche
felce, e qualche ginestro squarciano qua e là le grigie roccie.
L'orizzonte immenso, il sole festoso, il cielo scintillante di raggi di
oro. Nel basso, la desolazione; in alto, lo splendore.

— Vorrei proprio sapere, diceva Bar Abbas, perchè i nostri padri
sprezzarono tanto Babilonia e l'Egitto, per ritornarsene in questa
lugubre e sterile solitudine. Puoi tu dirmelo, Giuda?

— Probabilmente, perchè in Egitto vi sono troppi Egiziani color
zafferano, ed i nostri padri erano annoiati di vederne tanti.

— Io non trovo ch'e' fosse più divertente il vedere un naso adunco che
fa la scolta sopra una lunga barba sotto il dominio d'uno sporco
_caftan_, ed un lembo di cuoio bilioso, spaventato da due avide pupille
— ciò che si addimanda un Giudeo. I nostri padri ebbero altre ragioni
per abbandonare la cuccagna d'Egitto.

— Allora sarà perchè le donne del paese putivano troppo la cipolla.

— Bisognava mangiar dell'aglio e confondere le due essenze.

— O che avrebbero avuto paura dei coccodrilli?

— Il coccodrillo è l'esagerazione della lucertola. Un coccodrillo, lo si
vede sempre; non così una lucertola. E nel nostro paese ce ne son tante,
che quando dormo in casa mia, il mattino, svegliandomi, me ne trovo
piena la barba, ove son venute a deporre i lor piccoli durante la notte.

— Sarebbe forse perchè i nostri padri erano scandolezzati di veder Dio
sotto la semplice attillatura di un cane?

— Avrei preferito, io, di avere un cane dio, piuttosto che averlo così
vicino, codesto cane, che se volgo gli occhi soltanto, mi acchiappa il
pranzo.

— In questo caso t'incarico d'indovinarlo tu stesso, perchè io non
comprendo la preferenza.

— Io non ne trovo che una di buona fra tante ragioni....

— Quale?

— Che Zipporah, la moglie rabbiosa di Mosè, si annoiò di contemplare i
trentanove secoli che la contemplavano dall'alto delle piramidi....

— Dev'essere diabolicamente vecchia quella figura di trentanove secoli,
arrampicata ed accoccolata là in cima, a sbirciare la gente.

— Appunto, ed ecco la donna civetta volle darsi la distrazione di
viaggiare.

— E siccome aveva paura delle tigri del deserto, persuase suo marito di
prendere per compagni di viaggio i suoi compatriotti.

— Questo non si trova, in ogni caso, nei nostri libri santi. Ma siccome
è Mosè stesso che li ha scritti e' non ismaniava di scoprire i secreti
di casa sua.

Verso l'ora sesta, arrivammo all'ospizio del Samaritano, in cima ad una
brutta e squallida collina. Era la sosta per la notte, a mezza strada
fra Gerusalemme e Gerico. Di là a Gerico occorreva una giornata,
dappoichè e' non era punto sicuro, neppure pei viaggiatori a cavallo, di
continuare la strada dopo il tramonto del sole, a causa delle bestie
feroci che scorazzavano il paese. Queste case di riposo, là dove c'è un
villaggio, sono una specie di annesso a quella del capo di questo
villaggio, il quale ha il dovere di proteggere l'ospite e lo straniero.
A Betlemme per esempio, è nell'antica casa di Booz, di David, di Chimham
fuori di città, che i viaggiatori trovano il ricovero notturno, al punto
ove s'incrociano le vie di Gerico, Erodion, Engadi e Tekoa. In mancanza
di villaggi, ad ogni sette od otto miglia romane, la pietà dei buoni
uomini, la previdenza delle tribù, o la magnificenza dei principi hanno
fatto costruire questi alberghi che non rassomigliano punto a quelli che
s'incontrano sulle grandi strade romane.

Un'immensa cinta di solide mura, fiancheggiata da scuderie, o da tettoie
fatte con rami d'albero, per le bestie e pegli uomini, allorchè v'è
folla, come al tempo delle feste di Gerusalemme; un gran cortile con un
truogolo; una fila di arcate aperte dai quattro lati[20]; talvolta una
torre per vegliare sulla sicurezza dei viaggiatori; un uomo che veglia
sempre alla porta: ecco i nostri alberghi giudei.

  [20] Come la corte dei conventi dei nostri giorni.

Questo asilo è sacro come una sinagoga. È aperto per ogni sorta di
gente, d'ambi i sessi, di tutti i paesi. Non si paga nulla, ma non vi si
riceve nulla, all'infuori dell'ombra, del riparo, della sicurezza contro
i malandrini. Sotto le arcate, i mercanti s'affrettano a mostrar le loro
mercanzie, l'ambra del mar Baltico, lo giojellerie di Alessandria, le
spezie dell'Arabia, e le essenze preziose dei giardini di Moab. Qui, dei
viaggiatori si lavano le mani; là, degli altri tiran fuori dai loro
sacchi gli alimenti belli e preparati, o gli arnesi per prepararli. Da
un'altra parte, le persone stanche stendono per terra una pelle di
montone, una stuoja, un tappeto, un pugno di foglie o di paglia, ciò che
hanno in fine, ed avviluppati nei loro mantelli, o nelle loro coperte,
si dispongono al riposo. Altri s'affrettano a caricare sopra i loro
asini e i loro cammelli, le loro donne, i figli, le mercanzie e partono.
Si va e si viene come si fosse in casa propria.

Trovammo posto in questo asilo abbellito e ristaurato dal re Erode,
quantunque affollato ancora a causa di quel resto di popolo che era
stato alle feste del Tabernacolo a Gerusalemme, e vi aveva fatto un più
lungo soggiorno. Incontrammo pure un gran numero di convalescenti fra
queglino che furono colpiti nel giorno del tafferuglio per l'offerta. I
pedoni passano quivi la notte. Pranzammo in mezzo al tumulto causato
dalla petulanza, l'importanza, e la sfrontataggine di Bar Abbas. Pareva
egli un imperatore che viaggiasse incognito.

Finito il pranzo, continuammo a scendere e montare le colline che
conducono al Giordano, costeggiammo monti petrosi, e ci riposammo per
bere alla fontana Elisha, vicino alla valle limitata dalla via romana
che mena a Gerico. Il sole tramontava, ed avevamo sotto gli occhi i
sobborghi della città — uno sciame di casuccie bianche in mezzo ai
sicomori — e la superba città di palazzi, festosamente adorna di piante
balsamiche ed odorose.

Gerico è la città amata da Cleopatra — da Cleopatra che aveva Menfi ed
Alessandria; — la città preferita da Erode, che possedeva Gerusalemme,
Cesarea, Ptolemaide e ove egli visse ed ove morì. Le torri, le porte, i
teatri ricordavano una di quelle belle città d'Italia ove la vita non ha
altro scopo che di divertirsi nei circhi, di mendicare il pane presso i
padroni, e di andare a saccheggiare il mondo. I giardini d'aranci, di
datteri, di melagrani circondavano i bastioni della città; e rose la
profumavano. Al di là dei muri, l'anfiteatro; al di dentro, dei portici,
delle sinagoghe, un tempio a Zeus, dei palazzi da re. A Gerico non sai
più se ti trovi sui Nilo, o nelle isole dell'Arcipelago. Più lontano,
c'è quella splendida residenza d'Erode, ch'egli chiamò Erodion (il
Versailles di quel Luigi XIV).

A notte fatta, traversando le vie gremite di popolo, discendemmo nella
mia casa o meglio in quella di mia madre. Mia sorella maggiore, la
vedova, mi ricevette nelle sue braccia.

All'indomani ero alzato col sole. Andai a svegliare Bar Abbas e gli
dissi:

— Su, in piedi.

— Di già?

— Che! vorresti farne la tua Capua, di Gerico?

— No, la mia mangiatoja. Io vi stava così bene. Tua sorella prepara così
deliziosamente il farsito di coniglio alle olive ed al rosmarino.

— Avrei ancor meglio.

— Cosa dunque?

— Degli intingoli di locuste, delle locuste col sale, delle locuste con
olio e aceto, delle locuste col miele.

— Dove andiamo dunque, Dio mio!

— Al deserto: a far visita al Battista.

— L'aveva già pensato. Tu hai il fiuto per stanare i bricconi.



XIII.


A pochi kibrat barat (miglia) fuori delle porte di Gerico entrammo nella
pianura che è una prolungazione del deserto della Giudea.

Questo deserto che fummo costretti a traversare, principia alle porte di
Gerusalemme stessa e di Hebron, si stende al di là ed al disotto di
queste città al sud ed all'ovest, e copre i declivi della Giudea, dalla
cresta dell'altipiano dell'Ulivo e di Ramah fino alla fonte Elisha, ed
alle rive dell'Asfaltide — il mar Morto. Betlemme e Gerico sono
rinchiusi in questa regione selvaggia come due sorrisi nella tristezza,
e l'Erodion brilla colle sue colonne, i suoi portici, i suoi giardini e
coi suoi appartamenti voluttuosi, in cima ad un colle fra le due città,
come una stella in mezzo alle nubi. Noi andavamo a Bethabara, al passo
del Giordano, o un po' più lungi, a Ænon presso Selim. La pianura che
traversavamo, è un mare di sabbia bianca e solforosa che si alzava in
polverio sotto i nostri passi e ci avviluppava, affaticando gli occhi
colla sua implacabile tinta, ed il respiro per infiltrazione nei nostri
petti. Montagne in faccia e montagne ai lati. Le fortunate pioggie
dell'autunno avevano rinfrescato l'aria sì pesante di questa valle
soffocante. Nessun vestigio di vegetazione, nè un albero nè un'erica, nè
un'erba non rallegravano la vista. Degli avvoltoi facevano circolo
solennemente sui nostri capi. Lo sciacallo fuggiva spaventato e gemendo.

— Non c'è più dubbio, noi andiamo a vedere quel Johanan il Battista, che
i suoi discepoli danno come un essere risuscitato, sclamò Bar Abbas.

— Precisamente.

— E cosa vuoi tu fare di quel bagnaiuolo burbero ed irascibile?

— Proprio nulla. Mi compiaccio a vedere le bestie curiose.

— Guardale, guardale, ma non lasciartene infinocchiare. Le bestie
curiose sono sempre pericolose. Il shiloh di cui andiamo a caccia non è
mica nella pelle del Battista. Riflettici. Noi altri delle sêtte
militari, Goloniti ed Erodiani, non comprenderemmo codesti manipolatori
di bisticci. Per noi ci vuole un Giuda Macabeo, un Giuda di Gamala, un
Erode che percuota forte, e non si diverta a raccontare parabole. A voi
altri, Sadducei, occorrerebbe un Davide od un Salomone, educato alla
scuola di Babilonia, incivilito a Roma ed in Atene, che abbia accomodati
in versucoli i rozzi libri di Mosè. I Farisei sognano un soldato, un
principe, un giudice più valente di Gedeone, più fortunato di Sansone,
reso maneggevole alla scuola di Hillel e di Shammai. Tutto codesto,
tutti costoro possono combinarsi, accordarsi. Ma che diavolo vuoi tu che
facciamo di un negrognolo in camicia di pel di cammello, che si fa
chiamare _voce nel deserto_, e che viene a parlarci di _figlio di Dio,
d'agnello divino, del verbo della vita_? che ci spinge alla penitenza,
al pentimento, al battesimo? Penitenza di che? Perchè codesto battesimo?
Siamo forse pagani noi?

Bar Abbas aveva completamente ragione. Nondimeno siccome io non voleva
dargli l'importanza di un consigliere, nè dirgli che io non cercava un
shiloh, ma la stoffa di un profeta per farne una bandiera del nostro
colore, un shiloh che ripetesse la nostra lezione, un messia che venisse
a prendere il moto d'ordine della sua parola di Dio nel nostro
gabinetto, così allargai la mia cintura. Bar Abbas comprese e si tirò
indietro brontolando.

Arrivammo sulle rive del Giordano. Ma siccome il suo largo letto è
disceso diversi piedi al disotto del suo antico livello, non fu che
quando ne fummo ben vicini, che potemmo scorgerne l'allegra frangia di
verzura, di canne, di fichi enormi, di tamarindi, d'acacie, e di roveri
che ne adombrano le sponde. Il suolo è seminato di sale. Il Giordano si
svolge in una fessura del piano e congiunge come un tratto d'unione il
lago di Genesareth al mar Morto, quel bacino di smeraldo, a questo Etna
ringhiottato e cangiato in una coppa di zaffiro.... Al punto ove
eravamo, a Bathabara, vicino a Gilgal, ai piedi d'una montagna, il piano
ombroso era seminato di capanne di canne e giunchi coperte di rami
d'alberi; ma esse erano vuote. In quel sito — il guado ove Giosuè, le
dodici tribù e i suoi quarantamila combattenti passarono dal paese di
Moab nella Cananea — la corrente ha formato una sbarra di pietre e di
marna sopra la quale l'acqua mormora e scorre in una specie di bacino. È
là che Johanan battezzava. Ma l'autunno essendo avanzato, egli aveva
abbandonato il fiume. Ne fui contrariato. Bisognava ora traversare il
deserto, costeggiare la punta orientale del mar Morto ed andare a
cercarlo nella sua caverna del Cedron sotto Betlemme, e forse fino a
Jutta nel suo villaggio natìo.

Mentre io visitava le capanne lasciate vuote dai credenti del Battista,
— che Bar Abbas chiamava dei bagnanti, — accorsi da Gerusalemme, da
Betlemme, da Gerico, da tutte le parti, Bar Abbas preparava il pranzo in
una di esse. Egli non aveva alcuna ragione di serbar rancore; e, ne
avesse pur serbato, un grasso e grosso pollo arrosto, dell'uva di
Betlemme, delle fette di mele del Libano, del pesce fritto, delle olive
salate l'avrebbero calmato. Dei lunghi amplessi ad una piccola otre di
vino finirono d'annegargli nello stomaco il cattivo umore.

A mezzo giorno eravamo di nuovo in cammino.

Andavamo a traversare il paese abitato dai figli abbronzati di Esaù, ove
gli Esseniani dimoravano nelle grotte, in mezzo d'una contrada
selvaggia, rocciosa, abrupta, di pozzi disseccati e di caverne di bestie
feroci. Seguivamo la traccia battuta dai cammelli e dagli asini, lungo
una specie di terrazza sovrapposta a un'altra terrazza, come questa
sopra una terza, formando tutte insieme i gradini di un anfiteatro di
giganti, intorno alla vasca cerulea dell'Asfaltide che si profonda ad
alcune migliaja di piedi sotto la spiaggia di Joppa. Queste terrazze
sono dei letti lasciati vedovi da quel mare che si abbassa di secolo in
secolo, come se un demone lo bevesse nel fondo dell'abisso. Sulle rive,
là ove il Giordano si getta nel mare, una moltitudine di coni dai
fianchi rotondi e lisci come i denti della corona di Davide, sbucciano
dal suolo all'istesso livello, a guisa di piramidi di cinquanta piedi
d'altezza. Che spiriti rinchiudono esse, quelle tombe? Là le montagne
d'Abraham, le creste di Gilead, più lungi le città di Loth bruciate. Non
una nuvola nel cielo, non un soffio nell'aria, non una ruga sull'acqua,
non una voce d'uccello o il ronzìo d'un insetto: la vita era condensata
come il ghiaccio sulla cima del Carmelo. La luce acciecava. Una tigre,
da lontano, adagiata sul ventre, ci contemplava immobile come se la
fosse stata di marmo giallo d'Egitto.

Ben presto lasciammo il piano, che forma come un orlo di verdura a
quella splendida coppa, e voltando le spalle al mare di Loth,
incominciammo a montare quella serie di contrafforti che si
sovrappongono gli uni agli altri fino a Gerusalemme. La volpe,
l'avvoltojo, la jena, il leopardo popolavano il paese; ma l'uomo che vi
si climatizza e vive, se non è una creatura pia, vi diviene più
selvaggio di quelle bestie selvaggie. I pozzi sono secchi, gli alberi
bassi e rari, i precipizii ricolmi di pietre e senz'acqua; delle caverne
tristi, riparo oggidì di leoni, altravolta di re pazzi, fuggiaschi.
Seguivamo ora il letto d'un torrente, ora la costa di un colle,
ascendendo sempre e poi sempre.

Il paesaggio cangiava ad ogni istante ed era sempre l'istesso. In un
solo sito trovammo una donna quasi ignuda, abbronzita come un vecchio
sicomoro, che abbeverava delle magre capre vicino ad un pozzo. Oh! non
era Rebekah che diede da bere ad Eleazar al pozzo di Haron, e fu scelta
per sposa d'Isaac; non era Rachele che Giacobbe abbracciava presso
quell'istesso pozzo, dopo aver dissetata la sua greggia; nè Zipporah e
le sue sei sorelle, cui Mosè aiutò ad attinger l'acqua dal pozzo di
Madian.

— Ecco lì la serva d'un Esseniano, dissi io, troppo rigoroso per
permettersi una moglie, troppo appassionato per far a meno di una
femmina.

— Ne dubito, replicò Bar Abbas; ella mi par piuttosto la sorella
primogenita delle sue capre, solamente la scabbia le ha fatto perder il
pelo.

La notte scintillava già dei suoi milioni di stelle, quando arrivammo
alla lugubre frana che si sprofonda nella valle del Cedron, fra
Gerusalemme e il mar Morto, a tre ore dai colli di Betlemme. Questa
trincea selvaggia, aperta nella roccia, dalle bianche labbra, dal fondo
rossastro, è bucata da caverne, come le colline di Betlemme e di
Herodion, ove le bestie feroci e gli uomini cercano un riparo dai dardi
di sole. Al tempo di Erode, un pugno di Farisei e di Esseniani vi
accorreva per isfuggire alla vista della città, dei palazzi, dei teatri,
delle terme, dei giardini che sbucciavano sotto gli ordini di quel re,
come il mondo sotto il _fiat_ di Dio. Dalle alture circonvicine, essi
potevano scorgere le cupole del Tempio e il suo frontone listato d'oro.
Ai piedi d'una roccia, zampillava un getto d'acqua dolce e pura, la
benedizione di queste contrade ove l'acqua è uno sguardo fluido di Dio.

Il Battista aveva qui la sua residenza, quando lasciava le sponde del
Giordano. Un certo numero de' suoi discepoli abitavano con lui nelle
grotte della montagna, vestendosi di foglie o di pelli di montone, non
cibandosi che di erbe e di radici del deserto, non bevendo nè vino nè
alcun'altra bevanda fermentata, non tagliandosi nè capelli nè barba, non
toccando a nulla di morto, fosse il cadavere della loro madre. Il loro
costume era lo stesso ch'Elijah portava dinanzi il re Achab e la sua
regina sidoniana. Questa maniera di vivere, la stessa che diversi
profeti avevano adottata onde rendersi altrettanto aggradevoli a Dio che
dispettosi agli uomini, era seguita da Johanan e dagli Esseniani e
Sabei, che aspettavano il loro trentesimo anno per darsi all'istruzione
del popolo.

Mentre Bar Abbas faceva rizzare la nostra tenda sotto quel burrone, nel
letto stesso del Cedron, io ascendeva il sentiero e andavo a cercare
Johanan. Banù il figlio di Jeù, che più tardi si diede ai Farisei,
m'informò che Giovanni era stato chiamato da Antipas, alla casa Dorata,
in Tiberiade, che là aveva avuto una viva discussione a proposito di sua
moglie Erodiade, e che questa l'aveva fatto rinchiudere nella fortezza
di Makaur, ove Jeù s'era recato da alcuni giorni, avendo udito che
Giovanni versava in qualche pericolo.

— Giuda, provveditor mio, ascoltami, disse Bar Abbas. Lasciamo su
codesti profeti, i quali non sono nemmeno buoni a farsi trovare a posto
— vanno alla corte in fede mia! — ed andiamo a vedere i figli del
Golonita. Il nostro affare è colà.

— Se sei stanco, ritorna a Gerusalemme.

— Non è per ritornare a Gerusalemme che sono venuto nel deserto. Ma
spero, almeno, che non staremo qui ad aspettare quel lavandaio di pelli
conce. Se egli è a corte, andiamo a corte. Là sono come in casa mia.
Antipas mi pizzica l'orecchio, ed Erodiade mi chiama ruzzone. Siamo
della famiglia. Essi sanno che io lavoro per loro, que' rampolli
tisicuzzi di un grande avo. Gli Erodiani mi stimano. — Ah tu mi guardi!
ebbene, sì, mi stimano. Oh che! tu stimi bene Hannah, tu. Solamente se
l'avessi saputo là su, avrei domandato a Pilato di prestarmi una toga.
Sarei stato bello eh! in una toga con delle frangie verdi e rosse nel
basso.

— Tu conosci dunque abbastanza Pilato, per ciò?

— Eh! sì, sì. Abbiamo fatto un baratto insieme. Un giorno gli ho venduto
una colomba. Deve ricordarsene quel bellimbusto.

— Hum! sta bene. Domani partiremo per Makaur.



XIV.


Due giorni dopo, mettendo piede nella fortezza di Makaur dissi a Bar
Abbas:

— Siamo qui in mezzo ai tuoi amici. Tu hai a dir loro due cose: che si
tengano pronti alla prima chiamata; che vengano alle prossime feste del
paschah in gran numero, lasciando al paese i vecchi, le donne ed i
ragazzi: tutti armati. Gli avvenimenti possono farci prendere delle
risoluzioni impreviste.

— Ma per che e per chi dovranno esser pronti ed armati? E' me lo
domanderanno, per fermo.

— E tu risponderai, che si dispone della pelle del leone quando lo si è
ucciso. In ogni caso non ci sono che i figli di Erode che abbiano
diritto all'eredità del loro padre. Il premio della corsa è sempre per
colui che arriva primo. Che gli Erodiani si affrettino.

— Che Antipas Erode non dorma, replicò Bar Abbas.

Ora Antipas dormiva, o presso a poco, ed e' non ci conveniva troppo di
risvegliarlo.

Antipas era figlio di Erode il grande e di Cleopatra di Gerusalemme, una
delle nove mogli di quel re. Alla morte di suo padre, egli aveva avuto
in parte la tetrarchia di Galilea, cui egli vagheggiava, fra due
sbadigli, di allargare fino ai limiti del regno di suo padre, e cercava,
a furia di attenzioni, di adulazioni e di regali, di piacere ai romani,
onde ottenerne le provincie date a suo fratello o annesse all'Impero.
Egli innalzava dunque delle città e dei monumenti, cui conferiva il nome
dei signori di Roma, ed era sempre sulla strada d'Italia.

Il re Erode, tribolato continuamente al suo confine di mezzogiorno dal
re Aretas e dai suoi Arabi, sovente battuto mai tranquillo, risolse un
giorno, secondo la sua politica, di soffocare l'ambizione fra due baci.
Egli maritò dunque Antipas, il suo erede prediletto, a Sara la figlia di
Aretas, e si assicurò così la pace, ed un aiuto potente per effettuare
un giorno il suo gran progetto di estirpare i Romani dall'Asia e
sottomettere questa parte del mondo al suo potere, più grande di quello
di Salomone, più grande di quello d'Alessandro, più grande di quello di
Augusto, più grande infine di quello di Ciro. Fino a che egli visse,
Antipas e Sara furono felici. Sara era molto bella, molto prudente, di
costumi puri, piena di dignità, di risoluzione e di coraggio: l'antitesi
di suo marito, molle, dissoluto, incerto, ed infingardo. Dopo la morte
di Erode, Antipas scosse il giogo morale di questa nobile principessa
Moabita.

In uno dei suoi viaggi a Roma egli vide Erodiade, la figlia di
Aristobulus e di Mariamne la Maccabea, maritata a suo fratello
Erode-Filippo, figlio di quell'altra Mariamne, figlia di Simon, figlio
di Boethus, il gran sacerdote della discendenza di Onias della razza di
Aaron che era restato in Egitto. Fra le due Mariamne non aveva giammai
esistito ombra di accordo. Erano due orgogli, rampolli di due razze, di
cui l'una, la Maccabea, aveva esclusa l'altra, l'Aaronniana, dalla
successione del gran sacerdozio. La figlia del gran sacerdote cospirava
onde assicurare il potere d'Erode, al suo figlio Erode-Filippo, a
scapito dei figli della nipote d'Ircanus, il discendente dei Maccabei.
Erode, offeso da quell'intrigo di palazzo, se ne sovvenne vergando il
suo testamento, ed Erode-Filippo fu diseredato. Non pertanto egli aveva
prima tentato di ravvicinare quelle due ambizioni, dando in matrimonio
al figlio di Mariamne la betusiana Erodiade, figlia di Aristobulus,
figlio di Mariamne la Maccabea. Erodiade era giovine, ardente, bella ed
ambiziosa; Erode-Filippo, più vecchio di lei, di carattere indolente,
deciso a non forzare il destino, disperando di vincere l'antipatia del
padre, rassegnato ad una sfortuna ch'ei non poteva scongiurare.

Antipas vide sua nipote, moglie di suo fratello, e si lasciò abbagliare
dalla sua cupa e fatale bellezza. Essi risolsero di maritarsi, ad onta
dei costumi, delle leggi, e delle convenienze. Di già Erode aveva
insegnato alla sua famiglia che le leggi del matrimonio per i principi
non sono le istesse che pel popolo, avendo sposato, per amore o per
politica, le sue nipoti, le sue cugine, delle ebree, delle straniere.
Messo in un posto appartato, in mezzo a popoli che la legge di Mosè
stimmatizzava come impuri, Erode e la sua famiglia non avevano molto a
scegliere; si maritarono dunque in famiglia. In attesa del matrimonio,
Antipas prendeva le arre dell'amore. Egli invitò Erodiade nel suo
palazzo stesso di Tiberiade, ed ivi tramavano come l'uno si
sbarazzerebbe della figlia di Aretas, l'altro del figlio d'Erode.

Sara, che aveva già avuto conoscenza di questo amore, e che si sentiva
oltraggiata nella stessa sua casa, risolse di abbandonare il tetto di
suo marito, onde evitare almeno il veleno, cui Erodiade le avrebbe
certamente versato per essere francata dell'ostacolo. Sara finse, nella
primavera, di voler andare a godere l'aria della montagna nella
residenza di Makaur.

Makaur è una piccola città forte, sopra una collina in mezzo alle aride
lande dell'Arabia, un altipiano roccioso, sul quale Erode il Grande
aveva fabbricato un immenso edifizio, metà palazzo, metà castello, a fin
di tenere in rispetto le tribù arabe. Perocchè Makaur è alle frontiere
del paese di Moab, ove i dominii di Aretas cominciano, e la Perea,
dominio di Erode, finisce. La città era posta in alto come una vedetta
del deserto, merlata, solitaria, avendo dell'acqua, delle solide mura, e
qualche ciuffo di verdura.

L'Arabo veniva a frangersi contro questo ostacolo.

Era dunque nel bel palazzo che si alza nel mezzo della fortezza che Sara
cercò un rifugio. Ma ella aveva di già avvisato suo padre dell'oltraggio
che le si faceva, e del suo progetto di fuga. Uno stuolo di Arabi, posti
in agguato al sito opportuno rapirono la figlia di Aretas agli ufficiali
e ai soldati di Antipas, i quali l'accompagnavano, e la condussero a suo
padre, a Petra, ove era il nido di quell'aquila.

L'aquila poi discese nel piano e principiò la guerra contro Antipas. Ma
che gl'importava la guerra a costui? Egli era libero adesso di sposare
Erodiade la quale era la sua fatalità. Ella ripudiò suo marito. Questo
fatto enorme, sconosciuto nella nostra storia, contrario alle nostre
leggi, che pure permettevano al marito di ripudiare la moglie, allarmava
i nostri costumi. Il marito vendette sua moglie.

La guerra divenendo ardua sulla frontiera, la coppia amorosa lasciò la
Casa d'oro di Tiberiade e si recò a Makaur.

Traversando la Galilea e la Perea, Antipas udì parlare del Battista e
dell'influenza che costui esercitava sul popolo. Un profeta è uno degli
elementi della vita ebrea[21]. Noi ne usiamo in tutte le circostanze;
mischiandolo a tutti gli avvenimenti, ingannandolo e lasciandoci
ingannare da lui coll'istessa indifferenza, ma ascoltandolo con
interesse, con passione, come un attore della tragedia sociale della
nazione.

  [21] Era anzi previsto dalle leggi come un delitto. Il Sanhedrin
  condannava: _tr. bus, pseudo-prophetas, sacerdotes magnos._
  MISCHENA, t. IV, cap. I.

Erodiade, dimenticando la parte che Natan in una situazione analoga
aveva sostenuta con Davide, ed Elijah con Achab, si lusingò di sedurre
il nazir del Giordano e di servirsene per calmare l'avversione e
pacificare lo scandolo cagionato dal suo matrimonio. Johanan fu
invitato, o meglio obbligato, a recarsi a Tiberiade. Johanan, a cui
piaceva imitar Elijah col quale i suoi discepoli lo identificavano fino
al punto di dirlo Elijah risuscitato, afferrò l'occasione d'imitare quel
profeta, ed invece di accarezzare la passione dei due padroni, fulminò
contro di essa. Erodiade avrebbe forse soffocato immediatamente quella
voce impertinente. Antipas si decise ad aspettare a fine di raddolcire
quel zelante predicatore, e di non sollevare dietro a sè i bigotti,
avendo già dinanzi gli Arabi.

In questo stato di cose arrivai a Makaur.

Io vi era conosciuto. Erodiade sapeva che io aveva come lei il sangue
dei Maccabei nelle mie vene. Antipas sapeva che io cospirava per
rovesciare il dominio romano nel nostro paese. Ora chi era il possessore
legittimo di queste contrade una volta liberate se non il successore del
grande Erode? Erodiade, di cui io aveva delusi altri intendimenti, non
nutriva in favor mio l'istessa confidenza. Più astuta, più perspicace di
suo marito, ella prevedeva che uomini come Hannah e come me, non si
esponevano a pericoli infiniti, supremi, per porre la corona di un sì
gran principe sopra una testa così poco degna di portarla. Ciò
nondimeno, fui accolto a meraviglia dal tetrarca e da sua moglie.
Antipas, in oltre, aveva in quel momento una cagione di rancore di più
contro Pilato. Questi aveva fatto trucidare, esporre nel circo e
crocifiggere dei soggetti della tetrarchia, sui quali non poteva
esercitare alcun diritto. Questo insulto esigeva una vendetta, od una
riparazione.

Io mi astenni dal rivelare tutti i miei piani ad Erodiade o ad Antipas.
Dissi loro giusto quel tanto che occorreva a deciderli a darmi l'aiuto
che loro chiedevo. Toccai dunque la questione che mi consegnassero
Johanan, se questo selvaggio rabbì voleva mettersi al nostro servizio.
Erodiade protestò.

— Questo insultatore non è l'uomo della situazione, diss'ella. Egli non
comprenderà punto ciò che gli si domanda. Codesta gente del deserto
hanno la patria delle belve: lo spazio. Codesto Johanan potrebbe forse
provocare qualche voce fra la plebe e vomitare maledizioni; egli non
solleverà mai un braccio per combattere. Ora a noi occorrono degli
uomini d'arme, degli uomini che sentano la dignità della patria, e non
mica degli schiamazzatori.

— Lo so, risposi, e per ciò io non accetto il shiloh tale qual è, ma
vorrei provare se posso addomesticarlo ad essere ciò che voglio io.

— Non mi oppongo al tuo tentativo, replicò Erodiade. Ma se tu riesci,
devi tanto più diffidare d'un istrumento che cangia di tempra per un
interesse qualunque, e che può frangersi al primo urto.

Correva l'anniversario della nascita di Antipas. Ci era dunque festa al
palazzo, e molti capi militari, governatori di città, ufficiali della
tetrarchia erano stati invitati. Il momento dell'abboccamento con il
Battista non mi pareva opportuno. Imperciocchè, siccome gli era lasciata
una grandissima libertà, egli aveva veduta una grande parte dei suoi
discepoli e poteva o non sentire il peso della solitudine, o conoscere
gli affari del mondo più che non occorreva. In ogni caso, avrei voluto
parlargli da solo a solo, senza apparato, senza quella messa in iscena
che poteva stuzzicarlo a rappresentare una parte mentre io aveva duopo
di trovare l'uomo. Erodiade che diffidava di me, che aveva tante e così
pronte ed ardenti passioni, volle che questo interrogatorio avesse luogo
subito, alla sua presenza ed a quella di suo marito. Ella si condusse
nel gabinetto ove soleva trattare gli affari e ordinò che il Battista vi
fosse introdotto.

Erodiade era seduta dinanzi una tavola di malachite coperta di carte;
giacchè era dessa che amministrava le provincie, riceveva i rapporti, e
dava gli ordini: mentre suo marito godeva delle voluttà della vita,
inventate a Babilonia, esagerate in Roma, abbellite ad Atene. Io mi
tenevo in piedi dietro la sua sedia. Antipas, coricato sopra un monte di
cuscini, giuocava con dei globuli d'ambra, che palleggiava,
sbadigliando, nelle sue mani, e stuzzicava un leopardo addomesticato,
accovacciato ai suoi piedi.

Johanan, entrando, girò il suo sguardo sopra la scena e le persone,
quello sguardo sospettoso ma perspicace degli abitanti del deserto, i
quali fiutano a volo il suolo, l'aria, il cielo, l'acqua, e sospettano
ovunque un pericolo od un nemico. Egli poteva avere da trentaquattro a
trentacinque anni. Una foresta di capelli e di peli gli copriva il viso,
non lasciando scorgere che una piccola lista del fronte, le poma delle
guancie bronzate, e due occhi profondi e scintillanti. Un vecchio
straccio di pel di cammello, serrato alla vita da una coreggia, gli
scendeva fino alle ginocchia, lasciando nudo il collo, il petto, i
bracci, le gambe ed i piedi che si sarebbero detti di granito rosso. Le
sue labbra livide fremevano di una commozione, che non potendo essere la
paura doveva essere la collera o l'ansietà.

— Cosa si vuole da me? disse egli entrando, con voce ruvida come un
ruggito, e alta per fierezza.

Erodiade impallidì e tacque. Io non mi credeva autorizzato a prendere la
parola, allorchè quei padroni potevano e sembravano volerne far uso essi
stessi. Antipas rispose con voce bassa ed indolente:

— I tuoi amici di Gerusalemme t'inviano un messaggio ed un messaggiero.
Sta ad udire.

— Ah! fece Johanan, alzando il capo ed inchiodando sopra di me il suo
sguardo selvaggio. Ah! codesto giovine viene da Gerusalemme? So dunque
quello che e' vuol dirmi. Jeù me l'ha già annunziato. Egli può ritornare
là donde è partito. Non ho nulla a rispondere.

Erodiade mi guardò con un'ombra di sorriso sulle labbra, quasi che
avesse voluto dirmi: «cosa ne dici di questo essere eteroclito?»[22].

  [22] Lo stesso Gesù non giudicava con benevolenza il Battista.
  Egli lo chiama _incostante e leggiero_, e gli fa degli altri
  rimproveri. Vedi S. LUCA VII; S. MATTEO IX.

Il tuono rozzo e deciso del Battista abbreviava ma non tagliava corto al
colloquio. Domandai dunque ad Erodiade se mi permetteva di continuare la
conversazione. Ella mi fece cenno di sì, ed io dissi all'irascibile
rabbì:

— Rabbì, il duro messaggio che tu m'imponi di riportare ai nostri amici
di Gerusalemme, mi prova che tu sei stato male informato, e che non sai
a che cosa rispondi.

— I tuoi amici, prima di tutto, non possono essere i miei. Io arrivo dal
deserto; tu sembri giungere da Roma o da Babilonia, effeminato nei tuoi
modi, effeminato nella tua lingua, effeminato nelle tue vesti. Ma non
temere l'equivoco. Io so benissimo a che mi risponda. Tu vieni a
domandare la mia complicità per ristaurare sul trono di Davide gli eredi
del capo Arabo; ed io te la rifiuto.

Se fossimo stati soli, avrei disingannato Johanan: in presenza di
Erodiade e di Antipas, dovetti mascherare il mio pensiero, e risposi:

— Ma quando ciò fosse, o rabbì, domando io: il popolo d'Israele ha egli
avuto dopo Salomone, un re più grande di questo figlio dell'Arabo
Antipater, di Erode?

— Allora tu non lo conosci punto, replicò Johanan. Arabo di nascita,
Romano di ambizione, Greco nell'anima e nei gusti, Ebreo di necessità,
Erode è stato la più grande calamità che abbia afflitto il popol di Dio.
Ai grandi sacerdoti che si succedevano ereditariamente, egli sostituì i
grandi sacerdoti che si pescano ove si puote, come un ufficiale delle
armi o un collettore delle tasse. Ai grandi sacerdoti che stendevano il
loro potere sopra Israello, egli ha sostituito dei parassiti, che
limitano la loro autorità alla soglia del Tempio. Il gran sacerdote, che
torreggiava sul capo del re, non è più che un ufficiale della sua corte.
Egli cangiò di gran sacerdoti, uccidendoli, a seconda delle fasi della
sua politica. Egli abbattè, con un intrigo del suo serraglio, Ananelus
cui aveva cercato in Babilonia; uccise Aristobulus della razza dei
Maccabei; inviò a cavar fuori di Egitto Simone. Cominciò ad edificare il
Tempio con una mano; con tutte e due cooperò ad alzare il Tempio dei
Samaritani a Gerizim, fabbricò quello d'Apollo a Rodi. Sacrificò a
Jehovah, e protesse Astharot a Sidon, Moloch per i Sirii, Iside pegli
Egiziani, Dagon pei Filistei, Manah pegli Ismaeliti, Artemis per i
Greci, e Giove pei Romani. Servitore di Dio, campione degli Dei, il suo
vero Dio fu Cesare, pel quale alzò un tempio alla sorgente del Giordano.
Eravamo un popolo grave, con leggi severe, separato per avversione
d'animo dagli stranieri, che ci circondavano di costumi stranieri, che
ci serravano sulle nostre frontiere onde guizzare in mezzo a noi e
preparare la strada ai dominatori pagani...

— Ma, rabbì, tocca a noi forse, interruppi io, giudicare un principe,
che è stato servito da tutto un popolo, e che ne fu adorato per tanti
anni, e che tutti i re d'Asia e d'Europa hanno applaudito?

— Se non istà a te il giudicarlo, giovine Babilonese, replicò il
Battista con tuono altero, sta a me. Ora, Erode strappò la corona ai
nostri principi maccabei; uccise settanta membri del sanhedrin che
l'avevano accusato di omicidio innanzi ad Ircanus; mietè le famiglie
principesche e sacerdotali della Giudea; coprì tutti i suoi Stati di
palazzi, teatri, terme, ginnasii, circhi, di collegi, di residenze
voluttuose, e di giardini. Fabbricò delle città alla greca ed alla
romana, con architettura pagana, e stabilimenti pagani. Introdusse fra
noi i giuochi olimpici, e le feste oscene. Alzò fortezze da per tutto,
perfino alla porta del Tempio, dominando così la città: Sion divenne un
quartiere di Roma. Egli fabbricò una capitale pei Samaritani, che erano
stati, come empii, maledetti dai nostri padri: sacrificò ai dii pagani.
Le nostre leggi ci proibiscono di avvicinarci agli stranieri; Erode
sposò le loro donne. Egli aveva già la sua Araba Doride, quando sposò
Mariamne la Maccabea, di cui aveva esterminata la famiglia; poi
l'Egiziana Mariamne figlia del gran sacerdote Simon; poi la Samaritana
Malthacè di Sebaste. Sposò la figlia di suo fratello; poi quella di sua
sorella; poi Cleopatra di Gerusalemme, Fedra di Rodi, Elpis
d'Antiochia[23]. E chi potè contare le sue favorite, la più svergognata
delle quali fu Cleopatra, quella regina d'Egitto ancora calda degli
abbracci d'Antonio, il quale l'aveva fatto re? Assiro nei suoi amori,
Egiziano nello sposare le sue parenti, fu Parto, uccidendo mogli,
parenti ed amici. Cospirò per la morte di Cleopatra; uccise Mariamne la
Maccabea ed i due suoi figli, cui aveva fatto educare alla corte di
Augusto; uccise suo cognato Aristobulus; uccise la moglie del suo gran
sacerdote Ircanus; uccise suo zio Giuseppe ed il marito di sua sorella,
Cortobanus; uccise suo figlio primogenito Antipater; uccise la sua ava
Alessandra, la quale, per piacergli, aveva torturata la figlia Mariamne
strappandole riccio per riccio tutti i suoi capelli d'oro; uccise i suoi
amici ed i suoi complici, Doseteo, Gadias, Lisimaco. I suoi Stati furono
arrossati dal sangue dei suoi omicidii. Ed egli aveva accumulato
nell'anfiteatro di Gerico «gli uomini più eminenti della nazione giudea»
per farli uccidere e frecciate, avanti la sua morte, dopo aver tentato
di suicidarsi[24]; ma i suoi ordini non furono eseguiti. Ora, son gli
eredi di tal mostro, mostruosi come lui, che si vuol far sedere sul
trono d'Israello, e si domanda la mia cooperazione?

  [23] JOSEPHUS, _Antiq._ XVII.

  [24] JOSEPHUS, _Antiq._ lib. XVII, C. 6 e 7.

— Rabbì, gli diss'io, non t'ho interrotto perchè ero curioso di sapere
come si apprende la storia nel deserto. Ebbene, rabbì, quella che tu hai
tratteggiata può essere la storia saporitamente leccata dai becchi e
dalle iene, dai cammelli e dalle asine, ma non è certamente quella di
questo gran principe. Se un uomo, che si crede ispirato da Dio, potesse
imparare qualche cosa, ti direi ben io cosa fu Erode, e ti abbaglierei
dello splendere di questa grande figura del nostro paese. Ma un
apprendista profeta non sa che farsene della verità istorica.

— Di' pure, urlò Giovanni: sono curioso alla mia volta, d'imparare come
si traveste la storia davanti ai principi.

— Ebbene, continuai, sappi dunque che Erode fu l'Augusto della Giudea.
Egli ci portò le arti, le scienze, la tolleranza, la fraternità dei
popoli, il rispetto alle altrui credenze. Egli ci apprese a sprezzare le
minaccie dei Farisei e degli Esseniani; abbattè quella potenza del
sacerdote, che turbava lo Stato ad ogni istante, e demolì i privilegi
del Tempio. Erode ci inoculò uno spirito virile, guerriero industrioso,
attivo; ci rivelò i poeti ed i filosofi della Grecia i quali valgono
meglio delle grida da energumeni dei nostri profeti, pieni di non sensi
che passano per bellezze. Fortificò le nostre città, e le portò
all'altezza delle città degli altri popoli pei loro pubblici
stabilimenti. Innalzò il popolo a spese dei preti e dei principi; tentò
fondere quell'ammasso di gente d'ogni fatta che occupa il nostro suolo,
onde farne una sola nazione, un solo popolo, e le fuse nella sua
famiglia sposando, per amore o per politica, delle donne di tutti i
partiti, di tutte le razze. Lo splendore del tempo di Salomone era una
notte in confronto di quello che Erode sparse sulla Giudea. Egli
rovesciò i partiti dei Maccabei, dei Betusiani, del Tempio, della
Sinagoga, del Sanhedrin, e costruì la forza una, la forza per tutti,
quella del re: a Sebaste e a Seforis egli era altrettanto potente che a
Gerico ed a Gerusalemme. Cesare lo trattava da fratello. Da Damasco ad
Alessandria, il suo braccio era temuto, il suo consiglio ascoltato. Ebbe
una corte il cui splendore offuscava quella di Tiberio; un esercito di
cui si paventava l'urto. Lo si invoca ancora come un Dio. Se gli spiriti
limitati, ed i bigotti, e le mummie dei nostri antichi usi, ed i
zelanti, ed i più stupidi tra i Farisei non lo compresero e gli fecero
la guerra, è egli colpa di quel gran principe che volle ricondurre il
suo popolo alla sua epoca, e cancellare questo anacronismo dall'Asia e
dall'Europa? Erode era la conciliazione; si volle che fosse il
ristoratore dei vecchi riti e delle viete ridicolaggini del popolo
d'Israele. Egli si vide contrariato nel suo disegno di fare della Siria
una nazione cogli splendori e la civiltà greca, e s'irritò. Gli
s'introdusse la cospirazione contro la sua opera nella sua stessa
famiglia: e fu obbligato di frangerla.

— E dove ha condotto tanto genio, tanta eloquenza, tanta forza, tanta
cortesia, tanto valore e buon gusto? interruppe Johanan: ov'è il regno
fondato da codesto principe? Due frammenti ne sono stati lasciati ai
suoi figli, affine di ricordarci sempre di maledirlo e di disprezzarlo:
il resto è di Roma. Erode abbassò il principe, il sacerdote, il nobile:
ov'è il popolo ch'egli creò? Gli mancò qualche cosa al tuo gran re, o
giovane Assiro: il soffio che vien da Dio, la fede; il soffio che vien
dal popolo, il sentimento di quella libertà che fece sì grandi Roma e la
Grecia. Ma se questo gran re era piccolo, cosa sono i suoi figli, i
quali contaminano il nostro suolo con tutte le infamie del padre senza
avere alcuna delle sue virtù e delle sue grandezze? La casa di Erode è
una scuola d'incesti e d'adulterii. Si può dire al popolo: Rispetta il
tuo re, difendi il tuo re, quando codesto re sarebbe questo Antipas
Erode, e la regina questa Erodiade, cui io ho supplicati colle lagrime
agli occhi di tirarsi dal loro delitto, di lavarsi dell'impudicizia?

— Basta così, Giannuzzo, esclamò mollemente Antipas continuando a dare
dei buffetti sul grugno del leopardo: tu vaneggi, e biascichi sempre
l'istesse cose. Mi piacciono molto i profeti; dopo aver ascoltato tutta
una mattina dei buffoni, dei nani, dei parassiti e dei commedianti, dopo
essermi cibato di un pranzo prelibato, regalarmi di un'ora di profeta
può divertirmi ancora, per diversione, e per prepararmi dolcemente a
quel riposo pomeridiano così bene inventato dagli Spagnuoli. Ma se
codesto profeta diviene monotono, e rivomita sempre e poi sempre le
stesse impertinenze, con meno spirito che i buffoni, allora ciò mi fa
sbadigliare. Tu lo vedi, Giannino, io sbadiglio, e ciò mi farà male alle
mascelle pel pranzo. L'è una cosa imperdonabile. Masticherò male, e
digerirò peggio. Ora io ti perdono di chiamarmi adultero ed impudico; ma
di essermi causa d'un'indigestione! alto là, ser colui!

— Non sono io che venni, sei tu che m'hai chiamato.

— Io? no, veramente. Ti ho lasciato venire. Questo giovane, che non
dubita di nulla, credeva che i profeti potessero talvolta avere del buon
senso. Io era curioso di vedere se ciò fosse vero. Che vuoi? Si vedono
così poche cose bizzarre, nuove o miracolose in questo mondo! Come
ritardare d'altronde quell'ora del pranzo che arriva sempre quando non
si ha fame. Ah! Giovanni, che bella cosa l'aver fame! Io passerei
volentieri un paio di giorni con te nel deserto per darmi questa
voluttà, se tu avessi però un buon cuoco. Ebbene, t'ho ascoltato. Hai
parlato male di mio padre, assolutamente come s'egli ti avesse
beneficato fin ch'era vivo e nominato suo erede dopo morto. Tu hai
creduto di farmi dispiacere. Ti sei ingannato. È la sola cosa nuova che
io mi abbia udito a proposito del grande Erode, dacchè sono tetrarca. Tu
sai che non si crede mica agli dii che si fabbricano nella propria
bottega. La mia povera Erodiade ne è tutta verde. Capperi! l'hai
chiamata impudica alla bella prima[25]! Ella ha udito ciò sì di sovente
che ne avrebbe sbadigliato: ma la inghiotte i suoi sbadigli, il che le
causa quel pallore che scorgi in lei. Ora, Giannuzzo, ciò che contraria
di più un principe è il noioso. Si può egli uccidere un uomo perchè vi
fa sbadigliare? Il noioso gli prova che egli non può far tutto. È male
Giovanni. È male agire così. Per uno che vuol divenire messia, tu sai
poco quel che si deve al rappresentante di Dio sulla terra.

  [25] «Giovanni Battista non era chiamato, come Gesù, a conquistare
  il cuore delle donne, ma le nature robuste della sua nazione.»
  SALVADOR, pag. 321.

— Posso andarmene allora? sclamò Giovanni bruscamente.

— Un'ultima parola, gli dissi io. Rabbì, tu vedi il levar del sole al
nord. Tu guardi la famiglia d'Erode invece di guardar Roma. Non è ciò
che occorre nella Casa Dorata, o nel cuore d'una nobile donna, che
interessa i destini del nostro paese: gli è ciò che avviene nella corte
di Cesare e nel cuore di Pilato. Nè tu, nè alcun altro ha il diritto di
contare i baci d'una donna e di scandagliare l'immensità di
quell'infinito che si chiama l'amore. Ma noi tutti abbiamo il dovere di
protestare contro il dominio straniero, e di infamarne l'obbrobrio e le
miserie.

— Io non sono nè profeta, nè messia, rispose Giovanni, nè uomo di
guerra, nè uomo di corte. Roma dunque non mi risguarda punto. Quando un
popolo soffre simili oltraggi, ne è degno, o li espia. Io sono un uomo
giusto, che predica contro il peccato, che spinge alla penitenza, e
annunzia il castigo. Ora il peccato è qui: il peccato è questa donna, è
quest'uomo, sì alto locati che il popolo li vede, e potrebbe imitarli.
Io devo prevenire questo pericolo; ecco perchè io dico: Erode, cessa lo
scandolo; rinvia la moglie di tuo fratello; spegni i fuochi della tua
lubricità. Erodiade è il tuo delitto; ella sarà la fatalità della
discendenza di Erode. Ecco ciò che io sono, ecco ciò che voglio
regolare.

— Ma no, Giovanni, no, osservò Antipas con impazienza, non è così che tu
devi dir ciò. Occorre che io ti faccia dare qualche lezione dal mio
tragico Ajace che ho condotto meco al mio ultimo viaggio di Roma. Vedrai
come egli recita codeste cose nell'_Oreste_ di Sofocle. Nel deserto si
apprende male a maledire; si squittisce come volpi. Poi, caro te, non
venirmi tanto vicino. Puzzi troppo la cipolla. Io non sapeva che nella
mia casa si nudrissero così male i profeti. Gli è per questo che tu fai
della politica così cattiva. L'ho sempre detto io: la buona politica si
prepara nello stomaco, e si formula nella camera da letto. Ma sta
tranquillo, Giovanni, m'incarico io d'oggi innanzi del tuo cibo. Se non
fossi vestito così sommariamente ti inviterei a pranzo stassera alla mia
tavola, in mezzo alla mia corte ed ai capi del mio Stato. Ma i miei
buffoni ti tormenterebbero troppo e le donne troverebbero troppo
naturali i tuoi vestiti. Non fa nulla, t'invierò, sopra un bel bacino,
ogni sorta di buone cose che restano al mio desco, e quando ti avrai
mangiato la tua pappa, sono sicuro che ai frutti ed alle bellaria,
verrai a bere alla mia salute.

Erodiade non aveva detta una parola durante tutto questo colloquio. Ella
aveva affettato di sfogliettare dei rapporti e delle epistole.
All'ultima frase di Antipas, ella alzò gli occhi, ed un lampo passò
sopra la sua cupa figura, rendendola potentemente raggiante. Un'idea
terribile aveva, forse, traversata quell'anima.

— Tetrarca della Giudea e della Perea, riprese Johanan avvicinandosi
fino ad afferrar Antipas per il braccio, io ti fo, nel nome di Dio,
un'ultima intimazione: licenzia quella donna. Pentiti, ripudia il
peccato, cancella il delitto e lo scandalo. Non stancar più la
misericordia di Dio: licenzia quella donna, purificati....

— Già, Gianni, vattene, ripetè Antipas afferrando il suo leopardo alla
nuca; non ti avvicinare; guarda Cacus che si alza. La sua pelle freme. I
suoi occhi s'infiammano. Tu senti troppo il deserto... Egli comprende il
suo linguaggio... Vattene, o io non rispondo più di nulla. Cacus
potrebbe dimenticare che è qui, e credersi sulle spiagge del mar Morto.
Dovreste conoscervi, pure: egli dovrebbe stimarti. Cacus, giù gli
zampini, gioia mia. Tu non rosicherai il mio profeta. Ti avvelenerebbe,
sai?

Johanan gettò su noi un immenso sguardo di disprezzo e si allontanò
lentamente, brontolando, gli occhi rivolti al cielo:

— Signore, tu puoi scatenare i tuoi fulmini ora; tu lo puoi. La tua
parola è stata annunziata a questi empi, ed essi l'hanno disprezzata. Il
tuo fulmine, o Signore, il tuo fulmine!

Antipas che era grasso, corto, un po' gottoso, si levò dolcemente, come
se avesse assistito ad una commedia di Aristofane, e prendendo il mio
braccio; disse:

— Vieni, Giuda, andiamo a fare un giro sulle mie terrazze, e cercarvi
pel pranzo un po' di quel brigante d'appetito che non viene mai. Voglio
mostrarti i due miei poeti, che ho fatto pescare ultimamente in non so
quale cloaca di Roma. Li tengo in due gabbie separate per impedire che
si divorino, e li nutro di erbe amare onde neutralizzare la loro bile...
Diamine! scrivono un poema pel mio matrimonio colla mia cara Erodiade.
Mi atteggiano a Giove che cade in pioggia d'oro sopra Danae. «Padrone,
mi dice l'un d'essi, piovi dunque un po' su di me, come fai su di
Danae.» — «Sopra di te? grida l'altro; padrone, egli non è nemmeno degno
che tu gli p.... sopra!» Voglio che tu mi dia un consiglio, Giuda.
Bisogna che io stabilisca nel mio Stato un ginnasio per educarvi i
profeti. Vedi come si educano male al deserto! I profeti, i messia, i
shilok sbucciano spontaneamente nel mio Stato. Vi sono più comuni che i
conigli. Se ne incontrano in tutti i crocicchii[26]. Quando li avrò
meglio preparati, ne farò un oggetto di esportazione.

  [26] «Questa disposizione ad applicare il nome di figlio di Davide
  e di Cristo era passata in abitudine. Le truppe del popolo si
  proposero più tardi d'innalzare altresì Gesù, onde farne un gran
  capo, un re di antica razza, ed opporlo ai principi di razze
  straniere.» SALVADOR, pag. 286.

E, scilinguando ciò, Antipas baciava sulla fronte Erodiade divenuta
pensosa, e noi uscivamo da una porta, nel punto proprio che da un'altra
entrava una fanciulla di una quindicina d'anni, ed andava a gettarsi
nelle braccia di sua madre la quale le apriva per riceverla.

La giornata passò gaiamente, in attesa della cena e della festa
ufficiale della sera.

Più di cento convitati circondavano l'anfitrione reale nella splendida
sala costrutta dal re Erode. Erodiade era coricata vicino ad Antipas, ed
io seduto come gli altri, vicino a lei. Tutto ciò che si può immaginare
di più prezioso in vasellame ed in porpora, tutto ciò che si può
concepire di più delicato in cibi ed in vini, copriva la tavola di quel
principe sontuoso e voluttuoso. Il deserto, il mare, i fiumi, le stalle,
i giardini e le cantine erano stati esauriti per celebrare questa festa
che doveva sedurre quelli che facevano la guerra per il loro padrone, e
quelli che avevano ripugnanza a favorire i suoi amori. I discorsi
allegri, lusinghieri, bellicosi s'incrociavano in mezzo ad un brillante
rumorìo da un capo all'altro della sala. I fiori imbalsamavano, il vino
inebbriava, gli effluvii misti dei cibi e dei profumi mettevano in fuoco
il sangue. Questo splendore di vasi d'oro, di lumi, di stoffe dai vivi
colori di cui i convitati si erano pavesati, il sorriso delle donne, le
canzoni degli istrioni, i bizzarri motti dei buffoni, le smorfie dei
parassiti.... tutto ciò aveva esaltato gli spiriti ad una temperatura
infernale. Ad un tratto, una musica dolce ed invisibile irrugiadò il
banchetto, come per calmarne la febbre e preparare l'assopimento. Si
aspirava questa freschezza di melodie, ciascuno si cullava a
quell'ondulazione di suoni profumati d'estasi. Ma ecco che ad un cenno
di Erodiade, una porta s'apre, cinquanta schiave nubiane nude si
dispongono in fila con candelabri d'oro alle mani, ed una visione simile
ad un raggio di sole s'insinua nella sala.

Fu un soprassalto generale. Antipas, mezzo nudo, si rizzò sul suo gomito
come abbagliato.

Era Salomè, la figlia di Erodiade e di Erode-Filippo suo primo marito,
che faceva invasione nella sala, bella come una collana di stelle del
mattino, appena coperta da un velo leggero che scendeva fino alle
ginocchia, le sue ciocche d'oro ondeggianti, un cerchio d'oro sul
fronte, sormontato da una stella di diamanti, che pareva Vesper. Al
suono di una musica lenta ed in sordina ella cominciò ad atteggiarsi in
una successione di pose, ove il suo giovine corpo, bianco come la cima
del Carmelo nell'inverno, parve più flessibile d'una pantera. Poi, la
musica animandosi, Salomè principiò a volteggiare, ed il velo
trasparente che la ombrava, ondeggiando con lei, le dava l'aspetto d'una
farfalla che gavazza follemente nelle ajuole d'un giardino, nella
primavera. Finalmente la musica diviene turbinosa. Fu allora un getto di
fiamma che ravvolse tutta la festa. Salomè poggiando sopra un piede,
alzando l'altro al livello del suo braccio, girò sopra sè stessa,
svelando dei tesori di bellezza e di gioventù, che davano la vertigine.
Fuori di sè, come eravamo tutti, Antipas gridò:

— Che io possa divenire povero come Giobbe, se non accordo a questa
fanciulla qualunque cosa la mi chiegga, fosse pure la metà dei miei
Stati.

Salomè si fermò, ansante, palpitante, gli occhi dolci e brillanti, la
bocca semichiusa, respirando non aria, ma baci. Ella scivolò sulla punta
dei piedi e venne a cadere sul seno d'Antipas che le sfiorò, colla bocca
i capelli.

— Di', Salomè, di', gioja mia, cosa vuoi? Un palazzo?

— No.

— Dei giojelli?

— No.

— Ami qualcuno?

— No.

— Cosa vuoi dunque? Il mio Stato per una delle tue carezze.

Salomè prese allora sovra una credenza un gran piatto d'argento, ove
erano stati serviti dei dolciumi, si avvicinò ad Antipas e gli disse una
parola all'orecchio. Antipas sembrò stupito.

— Domandami altra cosa, ragazza, diss'egli.

— No, rispose la giovinetta: aspetto.

— Vuoi tu la città di Tiberiade?

— No.

— Vuoi il lago di Genezareth coi suoi cento villaggi?

— No. Voglio quello che t'ho detto: ed aspetto.

Antipas sospirò. Un grido unanime si alzò dalle tavole.

— Accordato, accordato. Tutto ciò ch'ella vuole è accordato. Tu l'hai
giurato, o Tetrarca.

Antipas si chinò all'orecchio d'uno dei suoi ufficiali, e gli disse
alcune parole. L'ufficiale, senza mostrare la minima esitazione, prese
il piatto che Salomè teneva ancora nelle mani, ed uscì.

La dolce musica ricominciò! Il silenzio era profondo fra i convitati:
tutti attendevano, ansiosi e curiosi di vedere il dono domandato dalla
giovane aurora. Si sarebbe detto che quella bocca, ove l'amore aveva
deposto le sue ebbrezze, avesse pronunziato qualche cosa di strano e di
terribile.

L'aspettazione non fa lunga. Salomè era andata a mettersi all'uscio,
gettando uno sguardo nella sala del banchetto, un altro negli
appartamenti ove l'ufficiale era scomparso. Finalmente arrivò. Salomè
gli strappò il bacino, e presentandolo a sua madre, lo scoprì.

Conteneva la testa del Battista.

Un fremito corse in tutti i convitati.

Si racconta che una dama romana punse colla sua spilla da capelli la
lingua di un avvocato che aveva fatto condannare suo marito. Erodiade,
lei, avvicinò la coppa d'oro alle livide labbra di quella testa
tagliata, le versò nella bocca una parte del suo vino, o disse:

— Il profeta beve alla salute del Tetrarca Antipas e di sua moglie
Erodiade; io bevo alla sua salute!

Un grido immenso, che rianimò il festino, accolse questa atroce facezia
della amante di Antipas. I cortigiani ed i soldati si alzarono tutti e
bevvero alla salute d'Erodiade. Solo Antipas ed io restammo tristi e
muti.

Alla fine Antipas riprese il suo buon umore e mi disse:

— Non affliggerti, Giuda, se ti hanno servito il tuo profeta sopra un
piatto. Verrai con noi a Tiberiade dopo domani, ed io ti prometto di
offrirti un messia in una gabbia. Ordinerò una caccia di profeta apposta
per te.

       *       *       *       *       *

Due giorni dopo, lasciammo Makaur, seguendo il Tetrarca ed Erodiade.

Bar Abbas, che io non aveva più visto dopo il nostro arrivo, mi si
avvicinò, e disse ad alta voce:

— Che bell'idea di avermi condotto teco! Ho mangiato come dieci, bevuto
come cinquanta, e parlato come cento. Ebbene, tutti i soldati d'Antipas
sono nostri! gli Erodiani non aspettano che un segno. Mille giovanotti
verranno al prossimo paschah a Gerusalemme, armati di spade. Noi
prepareremo loro gli scudi. Al primo segnale, scanneranno i Romani.

— Bar Abbas, gridai furibondo, se continui a chiacchierare in questa
guisa, ti farò rinchiudere in una muda, fino a tanto che avrai mangiato,
dalla fame, metà della tua lingua.

— Sarà il più ghiotto boccone che avrò fatto nella mia vita, rispose Bar
Abbas. Ma non seguire, o Giuda, codesta ispirazione: diverrei dopo
troppo difficile da nutrire.



XV.


Noi abbandonammo Makaur all'alba passando sotto quel maraviglioso albero
di ruta, grande come un fico, e divergemmo per un momento dalla nostra
via verso il nord, a Baaras, nel vallone che circonda la città, per
cercarvi quella terribile radice, che brilla la sera come un lampo, che
si allontana dalla mano che vuol coglierla, cui non è possibile di
prendere se non che inaffiandola o coll'urina d'una donna o col sangue
mestruale d'una ragazza, che anche dopo ciò uccide chi la tocca, essa
che ha il potere di cacciare il demonio fuori dal corpo degli
ossessi[27].

  [27] JOSEPHUS, _Guerre Giudaiche_ VII, cap. VI. Giuseppe che
  racconta tutto questo, indica però il mezzo di estirparla
  impunemente dal suolo. Si scava un fosso profondo per isolare la
  radice, fino alle sue più tenui barbe. Si attacca un cane alle
  ultime che la tengono al suolo; il padrone del cane parte; la
  bestia fa uno sforzo per seguirlo, rompe questi ultimi legami,
  trascina la radice, e muore. L'uomo morrebbe anch'egli se tentasse
  fare altrettanto. Si tocca poi e si adopera impunemente la pianta.

Passammo da presso alle fontane d'acqua calda e fredda che operano delle
cure così sorprendenti. Seguimmo una strada frastagliata, costeggiante
delle creste ritte sopra abissi, come i lati d'un triangolo, ed entrammo
in quel profondo e pericoloso burrone, che aprendosi alla base della
fortezza si divarica e scoscende spaventevolmente per sessanta stadii
fino alle rive del lago d'Asfalto. Seguimmo la riva meridionale di
questo mare, poi la sinistra del Giordano per tutta la sua lunghezza,
ora sopra una banchina di verdura ombreggita da canne e tamarindi, ora
sopra uno strato di sabbia bianca che abbagliava la vista, e rendeva
difficile il respiro alzandosi in polverio, e talvolta lungo i
contrafforti e le vecchie montagne di Galaad, ora Perea.

Nel punto ove il Giordano sgorga dal lago di Genesareth, sotto quella
collina in forma di gobba di cammello sulla quale è fabbricata la città
di Gamala, come appostata sul lago, trovammo la flottiglia del Tetrarca
che ci attendeva in un piccolo seno. Erodiade, Antipas, io, i principali
ufficiali della corte di quel principe, montammo sopra una bireme bianca
come un cigno, dalle vele di porpora; il resto del seguito invase le
triremi e biremi da guerra. Bestie e schiavi continuarono la strada
lungo la costa. Il sole tramontava dalla parte della Giudea. Il lago
sembrava un lembo di cielo stemperato in una coppa d'oro. Il cielo era
una cupola azzurra infinitamente profonda. La luce abbagliava del suo
sorriso tutta la natura che si svolgeva sotto il nostro sguardo.
L'Halin, il Tabor, le montagne di Safed, i precipizii nevosi
dell'Hermon, ondeggiavano da lungi d'una luce dorata e violastra.

Al primo piano di questo anfiteatro di basalto — dalla forma di fico, la
cui base è all'immissione, ed il peduncolo alle foci del Giordano — si
stendevano delle città e dei villaggi che gli ultimi raggi del sole
doravano come melaranci. Gli altipiani ondulati della Golonitide e della
Perea, aprendosi a mo' di terrazza fino a Cesarea di Filippo al nord,
rizzandosi di tanto in tanto in picchi deserti ed inaccessibili,
sembravano coperti d'un tappeto di velluto celeste ondato di viole. Il
flutto dolce e sonoro baciava la spiaggia, giocando colle piccole
conchiglie nel piccolo estuario formato dal fiume salato di Tabiga,
perdendosi nelle ajuole di fiori e d'erbe di Tarichea, alla uscita del
Giordano e sulle rive della pianura di Genesareth. Dei piccoli
promontorii, rivestiti di tamarindi e di capperi spinosi e di oleandri,
si disegnavano sulla sabbia. Una vegetazione abbagliante, dalla noce del
Caspio al fico della Siria, alla palma del Nilo, al cedro ed all'arancio
della Sicilia, fino alla quercia ed al cipresso del Nord, copriva
d'ombra i giardini e sfidava i cocenti raggi d'un sole indiano. Dei
casali, dei villaggi, delle ville s'addossavano alle colline che
circondano il lago: in minor numero, nella costa più arida del
mezzogiorno, le cui montagne erte e rocciose caddero in eredità alla
discendenza di Manasseh; in più gran numero, sopra le rive occidentali
del nord e dell'ovest. Là, Gamala; da lato Tarichea, Hippos, Pella,
Gadara città greche; sopra la costa della Galilea, Magdala Delmanutha,
Capharnaum, Chorazin e Tiberiade dalla fronte d'oro; sulla costa di
Golonite, Bethsaide unita da un ponte a Julia e Gergesa; a nord, Cesarea
di Filippo, e quella grotta di Panium, dalle salutari sorgenti,
circondata da statue di Pan, da Ninfe, da Eco, ed il tempio che Erode
fece alzare ad Augusto. Sopra ogni punto della roccia vulcanica, sopra
ogni fessura della montagna, una capanna di pescatore o di battelliero;
sopra ogni bricciola di terra, un mazzo di frumento, di viti, d'alberi,
di fiori, di verdura. Le acque delle sorgenti e dei ruscelli
rivaleggiavano di limpidità, di dolcezza, d'azzurro, colle acque del
lago, calme come la pupilla d'una giovine Brettone. Delle nuvole
d'uccelli, bianchi e grigi, dalle piume scintillanti, giravano in corona
sulla nostra bireme che volava verso Tiberiade come un alcione.

Il sole era scomparso, ma il cielo ardeva ancora, rosso dei suoi ultimi
raggi, i quali indietreggiavano dolcemente dinanzi una miriade di
stelle, svelantisi gradatamente, quando la bireme si fermò nel porto di
Tiberiade.

La capitale d'Antipas si svolgeva ai piedi d'una collina dirupata,
presso una sorgente d'acqua calda, sulle rovine d'una città, e di tombe
d'un popolo di cui è perduto il ricordo. Tiberiade era una città romana,
una Napoli, una Baja, una Pozzuoli, una Siracusa dell'Asia, con tutti
gli edifizii pubblici delle città romane, tempii, collegi, ginnasii,
stadium, palazzi, forum, teatri, circhi e terme. Un castello coronava la
città; e sotto la protezione di quella fortezza, al di sopra della
città, sorgeva la Casa Dorata, residenza d'Antipas, il cui tetto era
coperto di lamine d'oro, come il Tempio. Un alto muro, scendendo dalla
fortezza fino al mare, circondava la città. Un porto, delle gittate,
delle porte che davano su l'acqua, delle torri, delle terrazze, nulla
mancava. Centinaia di barche, come tante nere bagnanti dalle pezzuole
multicolori, si cullavano nelle limpide acque. Volendo popolare
rapidamente le belle vie e le belle case della sua città, Antipas ne
aveva fatto un asilo pei malfattori, un mercato libero pei commercianti,
un sito di delizie per i ricchi, un rifugio pegli impuri, un luogo molto
lucroso pegli artigiani e gli artisti, un tesoro pel povero che vi
cercava lavoro, un terreno neutro per tutti i popoli. Per ciò, Tiberiade
era popolata da cittadini di tutte le nazioni; Italiani, Greci,
Asiatici, di tutte le parti. Lo schiavo che ne toccava il suolo
diventava libero. Il malato che veniva alle sue fontane se ne tornava
guarito. Antipas comperò degli schiavi e diede loro un angolo di casa
nella sua città. Tutto vi abbondava: le cortigiane, i divertimenti, le
derrate, il lavoro, gli dei, gli uomini d'arme, le fortune da tentare,
le scienze da acquistare, la pace dell'anima, l'ebbrezza dei giuochi.
Antipas, quantunque sedesse alla sinagoga, andasse al Tempio, e si
ragunasse con gli altri al shema, era un Romano pel vizio, un Greco pel
gusto, un Egiziano pel piacere. Egli comprendeva tutto, ammetteva tutto,
e tutto amnistiava. Dava la mano a Jehovah, un sorriso a Venere,
rispettava Iside, e si acconciava in buoni rapporti con tutti gli dei
che si importavano nei suoi Stati.

La mia intenzione non era di godere lungamente della vita ardente della
Casa Dorata, che m'era tanto andata a genio alcuni mesi prima. Lo scopo
della mia escursione era di trovare un capo popolare per la grande
sollevazione che io tramava contro il dominio Romano. Il Battista mi era
scoppiato fra le mani, bisognava cercarne un altro. Antipas mi aveva già
parlato d'uno dei suoi sudditi, ch'egli fece invitare il giorno stesso
al suo palazzo. Ma io mi fermava al progetto di ritornare sui miei
passi, e d'andare a Gamala per vedervi i figli di Giuda il Golonite, di
cui il più giovane, Menahem, ha già figurato fra i delegati dei partiti
al consiglio rivoluzionario di Gerusalemme.

Alle terme ove m'ero recato Bar Abbas mi raccontò confusamente di non so
quali miracoli d'un rabbì che meravigliava i pescatori della costa di
Cafarnaum. Ora, siccome io nei miei viaggi ne avevo veduti tanti di
codesti giocolieri delle pubbliche piazze, non feci gran caso della
scoperta di Bar Abbas. Per altro essendo l'indomani sabato, e il tempo
bello, e le rive dell'acqua deliziose, bisticciando con Bar Abbas,
passeggiai dalla parte orientale del lago. Volevo veder da vicino, in
cima alla roccia su cui è fabbricata Cafarnaum, quella splendida
sinagoga di marmo bianco, che da lungi scintilla al sole sul lago; poi,
ritornando, frugare un po' in Magdala onde cercare qualche traccia di
Maria che era sparita senza lasciarne alcuna.

Uscii dalla Casa Dorata all'alba, seguii la via romana che corre da
Damasco a Tiberiade, passando dinanzi Magdala, traversando il rigagnolo
d'acqua salata che zampilla da alcune larghe sorgenti, a pochi passi dal
lago, e si getta in mezzo ad uno spesso tuffo di verdura, montando la
china tagliata nella roccia, verso la bocca del Giordano, e tagliando la
base di quella collina, ove è posta Cafarnaum.

La sinagoga è un'istituzione popolare, come il sanhedrin è
un'istituzione aristocratica, del popolo giudeo. Essa rimonta un po' al
di là dei Maccabei.

La sinagoga è una casa di riunione per pregare, per cantare i salmi di
Davide, leggere il Pentateuco, ascoltare delle lezioni morali e
discutere la dottrina: un tempio, una scuola, un palazzo municipale in
caso di bisogno.

Quando tutti comprendevano l'ebraico, il Tempio stesso era inutile: ogni
focolare era un altare. Mosè aveva ordinato di fare la lettura pubblica
dei libri sacri ogni sette anni. Ma dopo il ritorno da Babilonia,
l'ebraico era divenuto una lingua da letterati che si imparava come
un'altra. Il popolo non parlava più correntemente che l'arameno,
dialetto siriaco misto d'ebreo. La lettura dei libri di Mosè non poteva
esser fatta dunque che da una classe scelta.... Un po' più ancora, e
quei libri sarebbero stati obbliati. Allora Ezra fondò una riunione
ebdomadaria per cantare i salmi e leggere i profeti. Questa istituzione
divenne popolare: la sinagoga nacque; dieci persone bastavano per
costruirla. L'architettura n'era semplice: si imitava la tenda che era
stata imitata dallo stesso Tempio. Più tardi se ne fecero dei monumenti.

La sinagoga costrutta dal cittadino romano in cima alla collina di
Cafarnaum era splendida, di marmo bianco, che spiccava vivamente sul
basalto grigio di cui era fabbricata la città: il frontone ornato di
colonne a capitelli corintii, un portico dinanzi la porta ed un
magnifico cornicione d'ordine composito.

Era l'ottava ora del mattino. Dei gruppi di conciatori di pelli,
tintori, fabbricanti di sapone, mercanti d'olio, venditori di cacio e di
frutta, dei pastori, dei marinai, dei pescatori, dei giardinieri facevan
capannelli sul piccolo piazzale della casa di riunione, attendendo il
momento d'entrare, e in attesa di occuparsi della salute dell'anima,
trafficavano fra loro.

Cafarnaum è la prima città, sulla via da Tiberiade a Damasco, che abbia
guarnigione romana.

La sinagoga era bagnata di una calda luce che faceva scintillare di
rosee tinte i muri di marmo bianco, sotto un cielo azzurro, sopra un
lago ceruleo circondato da verzura e da roccie vulcaniche. Passai, ed
innanzi di entrare, immersi le mani nella vasca d'acqua presso alla
soglia, nettai i piedi alla lama di ferro posta vicino, feci una
riverenza all'arca, e mi fermai alla porta rivolta all'occidente. Poco
dopo il popolo principiò ad entrare, imitando ciò che io aveva fatto. I
dieci del batlanim (oziosi) avevano già preso posto nella piattaforma
elevata del mezzo della sinagoga. I ricchi andarono a sedere sui loro
alti posti vicino all'arca; i poveri si accalcarono sulle panche di
legno coperte da stuoje; i fanciulli mezzo nudi ed intieramente
abbronzati al sole, s'accoccolarono sul suolo di nudo marmo, facendo
degli sberleffi, pizzicandosi di nascosto, più vogliosi di andar a
giuocare sulla piazza, che di stare lì dentro. Le donne occupavano già
il loro nido dietro una larga grata nella galleria superiore, vicina al
tetto. Il _Hazzan_, che è il guardiano della sinagoga, vi mantiene
l'ordine, e compie certe funzioni, fece il giro della sala per vedere se
tutto andava convenevolmente. Gli anziani stavano sulla piattaforma, ed
il loro capo aspettava che il Hazzan gli dicesse che tutto era in ordine
per dare il segnale del servizio. Il segnale fu dato. Il capo del
batlanim bruciò dell'incenso che riempì del suo bianco fumo e del suo
forte profumo tutta la sinagoga, ed intuonò un salmo di David che fu
cantato dall'intera assemblea. Finito il salmo, il Hazzan andò
all'estremità orientale della sinagoga, allontanò, inchinandosi, il velo
che copre l'arca, l'aprì e ne tirò fuori il _Torah_ — ruotolo ove sono
scritti i cinque libri — lo portò intorno ai banchi del popolo, di
maniera che tutti potessero baciarlo, o toccarlo colla mano diritta, ed
ascendendo i gradini della piattaforma, lo presentò al _Sheliach_.

Questo vegliardo, prendendo il ruotolo nelle sue mani, si levò e,
mostrandolo aperto alla congregazione la quale si alzò pure, gridò:

«Ecco la legge che Mosè dettò al popolo d'Israello, la legge che Mosè
c'impose, l'eredità dei figli di Giacobbe. Le vie del Signore sono
perfette. Le vie del Signore sono provate. Egli è lo scudo di tutti
queglino che credono in lui.»

Lo Sheliach aprì poi il ruotolo sul leggìo, lesse ad alta voce il
capitolo pel parashà, o sermone del giorno. Il popolo seguiva questa
lettura cogli occhi, col cuore, le braccia alzate. Ogni sillaba, ogni
pausa era marcata. Quando la lettura del parashà fu finita, e la
spiegazione fatta, il Hazzan riprese il Torah, lo rimise al suo posto
chiudendo il velo che lo ricopre. Il popolo gridò nuovamente:

«Il nome del Signore sia lodato; il suo nome sia esaltato poichè la sua
gloria vola nel cielo e sulla terra.»

Allora si cantò un altro salmo, poi il capo degli anziani principiò il
suo midrasch, specie di commentario sul capitolo letto dallo Sheliach.
Appena ebbe egli finito, un uomo, il quale stava seduto vicino a me
sulle panche del popolo, si alzò e domandò di nuovo il Torah.

Io non aveva prestato la minima attenzione a ciò che avveniva nella
sinagoga, distratto da prima dal guardare alle finestre il popolo che,
non avendo trovato posto di dentro, cercava di fuori di raccapezzare
quanto poteva della lettura o del commentario, ed assorto poi dalla
grata delle donne.

Quando il canto ebbe principio, credetti intendere una voce che io
conosceva, avendo con essa cantato e commentato il Cantico dei Cantici.
Quella voce mi aveva colpito. Poi m'era parso distinguere una forma, uno
sguardo che si turbava sotto il mio, una persona che si tirava addietro.

Intieramente fisso a quella grata, io non aveva osservata la persona,
seduta come me sul banco dei poveri, ma circondata da un certo numero di
amici che le parlavano con rispetto, l'ascoltavano con deferenza e
spiavano tutti i suoi moti. Avendo domandato il Torah, mentre il Hazzan
andava a riprenderlo, quella persona si avanzò sulla piattaforma, e
montò al leggìo del lettore. Il rabbì sembrava essere molto conosciuto,
poichè il popolo l'accolse con un mormorìo benevolo, ed un movimento
d'attenzione si propagò su tutti i banchi. Avendo ripreso il ruotolo,
l'aprì, e lesse di nuovo il parashà del giorno, sopra il quale
incominciò a dare delle spiegazioni a suo modo. Egli parlava, lo si
ascoltava, ed io l'esaminai. La donna alla grata, che s'era tirata
indietro, riapparve sul davanti.

Il nuovo lettore era un uomo d'una trentina d'anni, di statura
ordinaria, agile e magro. Aveva la tinta biliosa e bronzata, la barba
nera, tagliata in punta, i capelli neri egualmente divisi sulla fronte
alla moda Galilea, e gettati all'indietro in lunghe ciocche. Il fronte,
un po' basso nella parte anteriore, si allargava alle tempie. Non si
scorgeva del viso che le pomette un cotal po' accentuate, ed il naso
leggermente ricurvo. I mustacchi coprivano le labbra sottili e
scolorate, la bocca larga rialzantesi agli angoli e i suoi denti color
avorio. Tutto ciò sarebbe stato volgare, se dei grandi occhi neri, colle
sopracciglia folte e quasi riunite sull'alto del naso, dallo sguardo
potente, vellutato, voluttuoso, dolce o carico di lampi a suo piacere,
non avessero rischiarato quella fisonomia mobile, cangiante secondo il
pensiero o l'interna passione che l'agitava. La sua voce era dolce,
singolarmente melodiosa, sopratutto quando voleva accarezzare. Le sue
maniere erano gravi. Una grande dignità risaltava da tutto l'insieme
della persona, dal suo portamento, dalle sue parole e dei suoi modi[28].

  [28] Giuda conferma l'opinioni di Tertulliano, di S. Clemente
  d'Alessandria, d'Origene, e di S. Agostino che danno a Gesù un
  viso piuttosto brutto che bello, ed un esteriore sgradevole. Me ne
  dispiace per Pijart, il quale nel suo trattato: _De singulari
  Christi Jesu D. N. Salvatoris pulchritudine_, combatte i santi
  Padri suddetti; e pel fumoso ritratto che si attribuisce a
  Lentulus, il quale non fu mai il predecessore di Pilato, essendolo
  stato Valerius Gracus dall'anno 14 all'anno 25.

Io intravidi tutto ciò in un batter d'occhio, poichè ero sempre attratto
dalla grata. Non intesi quindi ciò che il nuovo lettore disse, come non
avevo udito il parashà dell'anziano che l'aveva preceduto. Una voce, che
partiva dalle sedie dei ricchi, mi richiamò alla lezione. Ogni individuo
avendo il diritto di fare delle questioni, un ricco mercante di grano
gli aveva domandato:[29]

  [29] Questa scena s'avvicina molto a quella raccontata da S.
  GIOVANNI, cap. VI.

— Rabbì, donde ci vieni tu?

Mi volsi allora verso un giovane che sedeva a me vicino, mostrandomi
molto soddisfatto di ciò che il Rabbì andava dicendo, e molto
malcontento dell'interruzione, e gli chiesi:

— Qual è il nome del Rabbì che parla ora?

— Da che sotterraneo sbuchi tu per non conoscere il nome del nostro
Rabbì?

— Sbuco da un sotterraneo che si chiama Casa Dorata a Tiberiade, e da un
deserto che si chiama Gerusalemme; scusa dunque la mia ignoranza.

— Ebbene, gli è il Rabbì di Nazareth. Lo conosci ora?

— Meno di prima. Ma non monta. Chi è codesto tuo Rabbì?

— Quegli che sazia le moltitudini con pochi pani.

— Mi meraviglierebbe se la saziasse con dei ciottoli, o con delle foglie
d'alberi, come le vacche. È dunque un figlio di Salomone o d'Erode, il
tuo Rabbì di Nazareth?

— Meglio assai, straniero, rispose il giovine con disprezzo: egli è
figlio di Dio.

Non ebbi a replicare. L'entusiasta mio vicino, che era discepolo del
Rabbì, e si chiamava Giovanni, alludeva ad un fatto accaduto alcuni
giorni prima, in cui il Rabbì, avendo condotto seco un certo numero di
discepoli in una escursione nelle montagne, aveva loro fatta la gradita
sorpresa di distribuire del pane preparato la vigilia, regalo al quale
non s'attendevano in quel sito. Questa attenzione li aveva tocchi al
punto che paragonavano la generosità del maestro a quella leggenda
d'Elijah, che moltiplicò l'olio e la farina della povera vedova di
Sarepta la quale gli aveva dato da bere, e ad Eliseo che aveva nutrito
gli abitanti di Guilgal in una carestia, con venti pani d'orzo.

Alla domanda del mercante di grano: donde vieni tu? il Rabbì non rispose
categoricamente; ma facendo allusione alle voci propagate dai suoi
discepoli, disse:

— Sì, sì, voi mi domandate ciò, perchè avete udito parlar d'un miracolo,
e perchè vi piace di saziarvi d'un pane che non costa nulla[30]. Ebbene
non vi date pena per un alimento che si consuma, ma per quell'alimento
che dura sempre, e che il figlio di Dio, solo, può darvi. Dio il Padre
vi è garante per lui.

  [30] S. GIOVANNI, cap. VI, vers. 26.

— Tutto questo è molto bello, sclamò un pescatore dai banchi del popolo;
ma che occorre egli fare per meritarsi da Dio codesto prezioso alimento?

— Poca cosa, replicò il Rabbì; per piacere a Dio, bisogna credere in
colui ch'egli ha inviato.

— Dio ha inviato dei profeti, disse allora un anziano ed essi si sono
manifestati con le parole, e gli atti. Ora che segno ci porti tu, pel
quale potessimo vedere e credere in te? quali sono le tue opere? I
nostri padri mangiarono la manna nel deserto, ciò è scritto, ed essi
credettero in Mosè, il quale loro distribuiva così il pane del cielo. E
tu, che hai fatto tu? Dov'è la tua manna?

Sfidato a dare questa spiegazione, obbligato a declinare i suoi titoli
di parentela con Dio, il Rabbì rispose con un motteggio:

— Voi siete degli sciocchi, e null'altro, credendo alla vostra manna
scesa dal cielo per quarant'anni, e sempre a tempo. _Mosè non diede del
pane del cielo ai vostri padri_[31]; ma gli è il padre mio al contrario,
il quale vi darà il vero pane celeste. Imperciocchè, gli è il pane di
Dio soltanto che piove dal cielo, e dà vita al mondo[32].

  [31] S. GIOVANNI, cap. VI, vers. 32, 33.

  [32] idem cap. VI, vers. 34.

— A meraviglia, osservò ironico il capo degli anziani, punto molto che
il Rabbì non avesse trovato buono il suo parashà: a meraviglia, maestro,
ma dacci dunque di codesto pane miracoloso che non costa nulla, nutre
così bene, e viene da così alto[33].

  [33] idem cap. VI, vers. 35.

A una domanda così impertinente, ad una derisione così fina, il Rabbì
rispose con un'altra dell'istesso calibro.

— Come, anziano mio? tu vuoi di questo pane tu? Ebbene, niente di più
facile, e di più alla tua portata. Eccomi. Io sono il pane della vita.
Chi mangia di me non ha mai fame, e chi mi crede non ha mai sete[34].

  [34] S. GIOVANNI, cap. VI, vers. 36 e seg.

Uno scoppio di riso accolse questo scherzo.

— Ah! fece un fornaio su i banchi dei ricchi: alla buon'ora! così non
sarò rovinato, io.

— Io lo mangerei in due pasti, quel magrolino lì, urlò un enorme
facchino dietro a me; ma dopo?

— Ne parli a tuo comodo, tu, osservò un altro, tu lo mangeresti in due
pasti, e per noi altri, allora?

— Ebbene, mangerete dell'arrosto di montone, perdio! e state zitti voi
altri, vociò Bar Abbas, che dalla strada sporgeva la testa in dentro
pella finestra.

Per un istante il Rabbì sembrò turbato da quei lazzi, e la sua figura si
animò. Era per rispondere vivamente, ma, riprendendosi tosto, affermò
con calma:

— Non voglio soggiungere che questo: voi mi avete veduto, e non mi avete
creduto. Ma sappiate che tutto ciò che mio Padre mi dà verrà a me, e
chiunque verrà a me, non lo respingerò mai, avvenga ciò che vuole;
poichè io sono disceso dal cielo, non per fare le mie volontà, ma quelle
di colui che m'ha inviato. Ora è volere di mio padre che m'ha inviato,
che io non debba nulla perdere di ciò ch'egli mi ha dato, ma che debba
renderglielo di nuovo all'ultimo giorno. Gli è ancora volere di colui
che m'ha inviato, che chiunque vede il Figlio, e crede in lui, possa
avere una vita eterna. Ed io lo risusciterò all'ultimo giorno.

Gli anziani, il Batlanim, il Hazzan, si guardarono in faccia l'un
l'altro; al banco dei poveri, si restò stupefatti non comprendendone
niente; ai seggi dei ricchi si mormorò; dietro la grata delle donne si
udirono dei lunghi sospiri. Bar Abbas insinuò di nuovo la sua testa
nella sinagoga ed osservò:

— Nipote mio, nipote mio! tu viaggi nella luna.

— Ma non è egli Gesù il figlio di Giuseppe il falegname e il figlio di
Maria? Non conosciamo forse più suo padre e sua madre, noi? Perchè ci
viene dunque a cantare che è disceso dal cielo? Per chi ci prende
egli?[35]

  [35] S. GIOVANNI, cap. VI, vers. 41, 42.

Gesù fece un movimento d'impazienza e sclamò:

— Non mormorate fra voi[36]. Resistete? Tanto peggio. Poichè nessuno può
venire a me, se non vi è spinto dal Padre che mi ha inviato. Ciò è
scritto nelle profezie di Isaia, di Geremia e di Micah; ed è Dio che li
ispirò. Ogni uomo, quindi, che ha udito ed imparato la volontà di Dio,
viene a me. Non già che nessuno abbia visto il Padre; quegli soltanto
che è di Dio ha visto il Padre.

  [36] idem cap. VI, vers. 43 e seg.

— L'hai veduto tu, dunque, o Rabbì? gli domandò un giardiniere.

— È desso grigio o biondo, tuo padre, nipote mio? interrogò Bar Abbas.
Lo rinneghi dunque quel povero disgraziato di carpentiere di Nazareth?

— È morto, disse un altro.

— Non lo frastornate dunque, voi altri, gridò il mio giovane vicino: non
lo interrompete. Sì, Rabbì, tu hai veduto il Padre e noi ti crediamo.

— E fate bene, rispose Gesù. Sì, sì, ve lo ripeto e ve lo affermo, chi
crede in me, avrà una vita eterna.

— Ma, giurabacco, gridò un mendicante, parliamo un po' del pane, e
lasciamo da parte il Padre ed il Figlio. M'inquieto io assai di tutto
codesto. Hai del pane, Rabbì?

— Io sono il pane della vita, continuò Gesù gravemente e con più forza.
I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto, e sono morti. Gli è
qui il pane sceso dal cielo, affinchè colui che ne mangia, non muoia
punto. Io sono il pane vivente; se qualcuno mangia di questo pane, vivrà
eternamente; ed il pane che io gli darò, è la carne mia che darò per la
vita del mondo[37].

  [37] S. GIOVANNI, cap. VI, vers. 48 e seg.

Lo scandalo fu al colmo. Le interruzioni s'incrociarono, partendo da
tutti gli angoli d'ogni natura, inette, burlevoli, gravi, irritate[38].

  [38] idem cap. VI, vers. 53 e seg.

— Ma dicci almeno, nipote, a che condimento dobbiamo mangiarti? brontolò
Bar Abbas di nuovo colla sua testa alla finestra. È buono conoscer
tutto. Chi sa? in un giorno di fame! Poi, come ucciderti senza farti
male? Dovresti, mi pare, occuparti un po' di ciò. Tu sei troppo duro
ora, alla tua età, per mangiarti crudo. Occorrerà lasciarti stagionare
una coppia di giorni forse?

Tutti rincarivano in queste buffonerie. Ma una interrogazione
primeggiava su tutte.

— Come mai può egli dare da mangiare la sua carne?

Gesù, ostinandosi nel suo singolare paradosso, rispose:

— Sì, sì, se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo, e se non
bevete il suo sangue, non avrete più in voi la vita. Quello che mangia
la mia carne e beve il mio sangue è in possesso della vita eterna, ed io
lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perocchè la mia carne è veramente un
nutrimento ed il mio sangue una bevanda. Colui che mangia la mia carne e
beve il mio sangue, dimora in me, ed io in lui. Ora siccome io vivo pel
Padre che mi ha mandato, così quello che mi mangia vive per me. Ecco il
pane che è sceso dal cielo. Questo pane non è come la manna che i vostri
padri hanno mangiata, e che non li ha impediti di morire. Colui che
mangerà di questo pane vivrà eternamente.

— Traduci ora tutto ciò a portata del senso comune, soggiunse Bar Abbas.

Il Rabbì, stanco di tante obbiezioni, d'avere sì a lungo parlato, egli
che aveva la parola corta, d'avere fatto un sì grande imbroglio di
parole, egli che per solito era chiaro e pratico, scese dalla
piattaforma, e venne a sedere in mezzo ai suoi discepoli. Uno fra essi,
pescatore dalla faccia di granito fortemente delineata, profondamente
bronzata, mormorava fra sè stesso ad alta voce:

— L'è un po' troppo! l'è un po' troppo! come si fa a sentire
tranquillamente simili frascherie?[39]

  [39] S. GIOVANNI, cap. VI, vers. 60, 64. S. Giovanni dice anzi:
  diversi dei suoi discepoli.

Gesù l'intese borbottare e gli rispose:

— Ciò ti urta, cuore di macigno! Cosa sarà dunque se io vi dirò che il
figlio dell'uomo ascenderà nel cielo, ove egli era prima!

Io sorrisi. Gesù se n'accorse, ed il giovinotto mio vicino mi disse:

— Sei un fariseo, tu che ridi e non ci credi punto.

— È lo spirito, che vivifica, aggiunse Gesù fissandomi: la carne è
ottusa. Ora, le parole che ho dette sono dello spirito, ed esse sono la
vita. Ma vi è chi non ci crede.

— Tu sei il Cristo, figlio di Dio, gridò il ruvido barcaiuolo.

Intanto la riunione si separava, e tutti uscivano irritati, il viso
rosso dalla collera, o composto alla berta. Il Rabbì uscì anch'egli,
accompagnato dai suoi discepoli, in mezzo agli sguardi furiosi, stupidi,
severi o burlieri. Io m'avvicinai a Bar Abbas e gli ordinai:

— Segui quel Rabbì; ho bisogno di parlargli domani.

— Non ti sfuggirà, va!

Poi, appostandomi ad un angolo della porta, assistei all'uscita delle
donne. L'ultima fermò il mio sguardo. Ella si mise a seguire da lungi il
Rabbì, ed io, lei.

Gesù camminava lentamente, in silenzio, profondamente contrariato, anzi
irritato. Al basso della città, volse coi suoi discepoli a sinistra,
mentre la giovine donna prendeva la diritta seguendo la via romana che
conduce a Magdala. Non mi avvicinai. Ella non si volse indietro. Per
altro la mi aveva osservato, poichè l'avevo veduta abbassare il velo che
le copriva la testa, e tremare in tutta la persona.

Non m'ero ingannato: era Maria.

A Magdala, ella penetrò nel villaggio e per una viuzza ascese alla cima
della costa, all'ultima casa che s'apriva sui giardini della collina.

Qual cangiamento!

Quella piccola casa aveva la forma oblunga, l'aspetto d'una tenda, le
mura nude forate da buchi quadrati, senza cornice, nè camini, la
finestra della camera, al secondo piano, nascosta da un pergolato che
teneva lontani gli sguardi curiosi. Alla cima, una terrazza circondata
da una balaustra merlata di tegole vicine le une alle altre, sopra la
quale le donne ebree, col velo alzato e le calzature lasciate nel basso,
coi vestiti rialzati, stendono e seccano il formentone, nutriscono le
colombe ed i piccioni, ed alla sera si lavano e filano. E' fu sopra una
simile terrazza che Betsabea mostrò il suo seno a Davide, che la spiava
dall'alto del suo palazzo.

Una domestica che ci aveva preceduti o era restata a casa, ci aprì la
piccola porta praticata nel muro di pietre rozze che circonda il
giardino, nel cui mezzo sorgeva la casa. La parte anteriore di questo
giardino era quasi invasa da un enorme fico; quella posteriore
all'abitazione montava l'alto della costa, e guardava sul lago. Dalle
due parti c'erano dei legumi. Traversando la porta della casa, passammo
per un corridojo a vôlta, che conduceva ad una piccola corte interiore
aperta (il _patio_ degli spagnuoli). Due porte che davano nelle due
stanze, s'aprivano dalle due parti della corte. L'inverno non era ancor
giunto. Maria viveva tutta la giornata in questo sito a cielo aperto.
Forse ella vi trascinava la notte il suo materasso e la coperta e vi
dormiva sotto lo sguardo delle stelle.

Le famiglie giudee si coricano in quella specie di corte tutti insieme,
madre, padre, fratelli, figlie, ragazzi, mogli e mariti, ed i loro
bimbi; felici, quando le tenebre coprono i misteri della notte. Allorchè
principia il freddo, tutti si rifugiano in una di quelle camere
laterali, chiuse da un tappeto abbassato.

I muri erano imbiancati di calce e nudi, il suolo in calce e sabbia
battuta. Una panchina che serviva di sedile il giorno, e di letto forse
la notte, occupava un angolo del muro, una lampada di terra rossa, due o
tre sedie di legno, un piccolo mulino da grano, una brocca di terra
cotta per andare ad attingere e conservar l'acqua; ecco tutti i mobili
di questa donna, che a Gerusalemme viveva come una cortigiana di
Corinto, sopra i tappeti e le piume, circondata di lusso e delicatezze.

Non scambiammo una sola parola lungo la strada. Arrivato nella sua casa,
Maria, mi ricevette come se fossi stato suo fratello. Non un'allusione
al passato. La mi parve sì profondamente cangiata, sì tranquilla, sì
felice, che non osai risvegliare nessuna di quelle memorie che m'erano
pur tanto care. Era mezzogiorno: un giorno di sabato. Maria servì una
manata di civaie cotte la vigilia, un pezzo di carne fredda, del pane, e
avvicinò la brocca d'acqua.

— Io non rispetto scrupolosamente il sabato, mi diss'ella, se avessi
prevista la tua visita ti avrei ricevuto meglio. Ma, se pranzi male,
spero che cenerai un po' meglio.

— Un buon pranzo, una buona cena sono due eccellenti cose, risposi, ma
non sono tutto. Io sono felice di vederti.

— Ebbene, mi vedrai ugualmente, sia che resti seduta, o che mi muova un
po' per prepararti qualche cosa da metter sotto ai denti, al tramonto.
Dove abiti ora?

— Alla Casa Dorata, a Tiberiade.

— Dev'essere un po' più comodo di qui, credo.

— Non così bene, Maria.

— Tanto meglio. Se tu sapessi che attrattive ha la semplicità!

— Credi dunque molto semplice una casupola che tu riempi dei tuoi
sguardi e della tua persona?

Maria lasciò passare tutti i miei complimenti per non rimettermi sulle
traccie del passato. Tutt'al più sorrise. Passammo la giornata, fra la
corte scoperta ed il giardino, a chiacchierare. Io la seguiva da per
tutto. La vidi cogliere i legumi, lavarli, cuocerli, preparare ed
arrostire un pollo; impastare il pane, ammadiare la pasta per farne dei
pasticcini fritti rimpinzati di mandorli, di latte rappreso e di miele;
cogliere i fichi e l'uva ancor fresca nel suo giardino, ed allestire i
fiaschi di vino del paese. Poi quando il sole principiò a scendere, la
vidi posarsi sulla spalla una brocca ed andar a cercar l'acqua alla
fontana nel basso del villaggio. Io chiedeva a me stesso: È dessa
l'istessa donna! cosa ha potuto cagionare un simile cangiamento?

Essa portava una tunica bianca, incrociata alle ascelle, ed un'altra
celeste sovrapposta che discendeva fino a sotto le ginocchia, stretta
alla vita da una cintura di lana nera.

La giornata scorse rapida come un'ora. Il sole tramontava già tutto
rosso, le leccornie preparatemi da Maria ingombravano il tavolo, ed
eravamo sul punto di sederci nella corte scoperta, quando udii un rumore
di passi nel giardino.

— To', disse Maria senza parere sorpresa, quantunque con emozione, gli è
forse il Rabbì di Nazareth, che hai veduto questa mattina nella
sinagoga.

— Sarei felice d'incontrarlo, diss'io, ma non in questo momento: sono sì
felice di trovarmi solo con te.

Eppure era ben desso, il Rabbì, e non era solo. Giovanni, il figlio di
Zebedeo, il giovine che era seduto a me da presso nella sinagoga,
l'accompagnava; e tre minuti dopo apparve anche Bar Abbas.

Gesù m'imbarazzava; ma al postutto avrei tirato partito dal caso che me
lo conduceva sì opportunamente. Gli altri due mi tediavano. Giovanni,
vedendo tante buone cose preparate sul tavolo, gonfiava le sue giovani
narici, e fiutava il pranzo come un cane da caccia. Il ragazzo si
prometteva un piccolo festino. Ma questa non era la mia intenzione.
Volevo esser solo fra questa donna ch'io sapeva muta, fedele, prudente,
ed il Rabbì a cui volevo parlare. Feci dunque cogli occhi un segno a Bar
Abbas, indicandogli il piccolo Giovanni, ed allargai la mia cintura. Bar
Abbas comprese, rammentandosi della nostra conversazione. Egli prese
dunque pel braccio Giovanni e conducendolo fuori del giardino:

— Vieni, gli disse, voglio regalarti all'osteria. Hai quattrini,
ragazzo?

Ahimè! Giovanni aveva compreso il mio segno; s'era veduto frustrato di
quell'appetitosa cena, egli che era sì ghiotto, e così permaloso! Non me
la perdonò mai più. Nulla potè, nelle nostre relazioni posteriori,
raddolcire la reciproca nostra antipatia[40].

  [40] Questo, e qualche altro incidente simile, ci spiega l'inetta
  calunnia del tradimento di Giuda da Kariot, che questo apostolo
  evangelista inventò e raccontò, che altri ripeterono, e che si è
  perpetuata nel mondo. Le grandi fortune e le grandi disgrazie
  derivano sempre da piccole cause.

La cena fu fraterna e dolcemente gaja. Finita che fu, presi il braccio
del Rabbì e lo condussi in quella parte del giardino che era dietro la
casa.



XVI.


La notte era bella. La luna piena, specchiandosi nel lago, le dava quei
riflessi brillanti e vivaci, cui l'aurora dà al tetto del Tempio, irto
di lame d'oro. Milioni di stelle volteggiavano nell'azzurro silenzioso
del firmamento. Nessuna voce umana arrivava fino a noi: le voci stesse
della notte non avevano principiato le loro armonie. Maria, che aveva
osservato il segno da me fatto a Bar Abbas per isbarazzarci di Giovanni,
ci aveva lasciati soli. Il Rabbì ed io passeggiavamo sotto un pergolato
di vite carico ancora di pampini violacei e di grappoli dorati,
contemplando in silenzio il grandioso spettacolo del lago e le montagne
vaporose della Galilea e della Perea, le piccole ville e i villaggi, che
riposavano sulle rive dell'acqua, in mezzo ai giardini profumati.

Il Rabbì sembrava assorto. Evidentemente lo smacco del mattino, lo
scandalo, i rumori, le risa, i motteggi che egli aveva suscitati nella
sinagoga l'avevano colpito, anzi ferito. Egli, così grave, così
positivo, era stato messo alla berlina sur un ribobolo — sfuggitogli per
rispondere ad una importuna domanda — vi era stato confitto
implacabilmente, e ricondotto a quella sua parola, quando se ne
staccava, con una crudele ostinazione. Gli era stato mestieri svolgere
una corona di non sensi come parole profetiche, ed alzare un bisticcio
al grado di una promessa messianica. Io era stato edificato della sua
persistenza del suo sangue freddo, della sua ostinazione, e della sua
presenza di spirito. Egli che d'ordinario parlava poco, aveva lungamente
dissertato; niente l'aveva scosso. La sua imperturbabilità, anche nel
paradosso, m'aveva cattivato. La potenza della sua volontà, per non
andare in collera, l'elasticità del suo spirito, per trovare e
presentare sempre una nuova faccetta della sua prismatica assurdità,
m'avevano sedotto. Dissi a me stesso: ecco il mio uomo, se vuol essere
un uomo! L'ardire, la calma, la tenacità, la franchezza, la finezza, la
frase misteriosa, l'accento seducente, lo sguardo fascinatore, la
poesia.... nulla gli mancava per dare alla plebe un'anima ed un braccio.

Siccome il Rabbì, immerso nei suoi pensieri, continuava a tacere, io gli
dissi:

— Rabbì, ero questa mane alla sinagoga. E' sono stati implacabili.

— Bisogna scusarli; non m'hanno compreso, rispose Gesù con dolcezza.

— Non t'hanno compreso, e non era poi molto facile il comprenderti. Ad
ogni modo, la cosa è spiacevole, perocchè sono dei malintesi che
divengono talvolta fatali. Un mio fido ha vôlto la cosa in ischerzo. Le
sue buffonate hanno soffocata e stornata la collera che si accendeva
negli occhi di quei sozzi bigotti. Senza ciò, non so' come il tuo
parashà avrebbe finito.

— Il popolo principia sempre per mormorare e finisce quasi sempre
coll'adorare. Ma chi sei tu che così t'interessi a me?

— Da questa mane, sono tuo discepolo.

— Mio discepolo? Sai tu dunque ciò che occorre per esserlo? La regola è
dura: io sono assorbente come la donna.

— Dimmi le prove che esigi.

— Lascierai tuo padre.

— È morto.

— Tua madre.

— Ahimè! la povera donna mi vede sì di raro, e mi desidera così
tiepidamente.

— Lascierai tua moglie.

— Non ne ho.

— Lascierai i tuoi fratelli e le tue sorelle.

— Non ho fratelli. La mie sorelle pensano ai loro figli, ai loro mariti.

— Venderai quanto possedi, e lo darai ai poveri.

— Non ho d'uopo di vendere nulla, e farò qualche cosa meglio che dar i
miei beni ai poveri. Li metto nella borsa comune, Rabbì, e vi si troverà
sempre qualche cosa quand'anche gli altri non vi mettessero nulla[41].

  [41] È noto che Giuda era il cassiere degli apostoli i quali
  prendevano più che non mettessero nella cassa. Essi gironzavano
  dietro il maestro, e non avevano tempo da lavorare. Nondimeno,
  mangiavano, ed erano perfino ghiotti di buoni bocconi. Vedi
  STRAUSS, RENAN e SALVADOR, _vita di Gesù_.

— D'onde vieni, tu?

— Donde vengo? Arrivo da Makaur, Rabbì, ed ho veduto la testa del
Battista servita sopra un piatto alla festa anniversario della nascita
di Antipas.

— L'hanno dunque ucciso? gridò Gesù vivamente colpito.

— Per piacere ad una giovinetta, che ha danzato un passo voluttuoso.

Gesù si tacque, e restò concentrato per alcuni istanti, poi sclamò:

— Ch'egli abbia la pace nel cielo! Iohanan era un giusto.

— Questa mattina, o Rabbì, ho lasciato la Casa Dorata di Tiberiade. Ci
sarai forse invitato domani.

Gesù fece bruscamente alcuni passi verso la porta del giardino. Poi si
fermò come vergognoso del suo istinto alla fuga, ed affermò:

— Non vi andrò.

— V'hanno, o Rabbì, degli inviti che rassomigliano ad ingiunzioni. Se tu
non ci vai, ti faranno prendere.

— Allora che la volontà di mio padre sia fatta. Seguì un istante di
silenzio. Io ripresi:

— Rabbì, Maria m'ha assicurato che tu sei uscito poco al di fuori del
raggio di questo bel lago; che al più al più sei andato fino a Tiro ed a
Sidone; che non hai mai posto piede in una città greca o romana. Non
l'avevo creduto. Ma mi sento disposto a crederlo, vedendo la tua
rassegnazione.

— E perchè?

— Tu non conosci il mondo. Gli è proprio qui soltanto che tu vuoi, o
Rabbì, restringere e seppellire la tua missione? Hai mal scelto il tuo
teatro. Pochi mesi fa, sei quasi stato sul punto di essere precipitato
dall'alto d'una roccia, a Nazareth, per esserti dichiarato l'_unto del
Signore_; oggi ti avrebbero lapidato se non avessero riso, perchè ti sei
spacciato come il _pane della vita_. Tu sei in mezzo ad un popolo che
aspetta dei fatti, e tu gli annunzi delle verità. Essi domandano di
vedere, tu imponi loro di credere.

— Credere, è vedere dell'anima.

— Il popolo non ha anima. L'anima si forma; ed esso non ha il tempo di
formarla. Tutt'al più il popolo ha un cuore, per balzi.

— Ecco la mia missione: io porto un'anima a questo popolo.

— L'è molto bella; ma tu non hai ancora sballata la tua mercanzia, ed io
credo che questo non sia il mercato conveniente per metterla a partito.
La Galilea non è il tuo forum, la tua sinagoga, il tuo tempio, come
meglio t'aggrada. La Galilea è il giardino della Siria, un pezzo
d'Italia sotto il cielo dell'Asia. Al mormorio delle sue dolci acque,
all'ombra dei cedri del suo Hermon, delle quercie del suo Carmelo, delle
palme dei suoi colli coperti di mirti, di vigne e di aranci; alle
attrattive di questa natura che ricorda le rive del Nilo e di Damasco,
si ama, o Rabbì, ma non si crede. Qui, i Romani hanno tracciato le loro
strade della Campania; i Greci e gli Egiziani, i larghi sentieri a
cammelli di Memfi. Questo angolo della terra racchiude i più bei
paesaggi che l'est e l'ovest svolgano con incanto.

— Tu credi?

— Quando gli uomini del mare abbatterono Tiro e Sidon, onde sopra onde
di Cipriotti, d'Egiziani, di Macedoni, d'Italiani e di Arabi, da quelle
piaggie conquise si sparsero sopra questa provincia, parlando diversi
idiomi, vestendo costumi proprii, adorando dei particolari, trascinando
con loro nelle città ch'essi avevano fatto sbucar dalla terra, le loro
ricchezze, le loro credenze, le loro arti, la loro scienza. La casa ebbe
una famiglia, cui il Giudeo ritiene come impura, il tempio ebbe un Dio,
cui il Giudeo ritiene come un demone.

— Sì, si confusero insieme, ma non si mischiarono.

— Cosa importa, Rabbì? Il coltivatore cananeo, il vignajuolo giudeo,
hanno essi potuto far a meno di frequentare per forza l'artigiano, il
commerciante che discendevano forse da quei principi di Tiro e di Sidon
cui Alessandro e Pompeo rigettarono dal mare nel centro di queste
montagne, o che vennero d'Antiochia, d'Alessandria o da Roma? Nelle
città della costa, Tolemaide e Tiro, nelle città forti dell'interno,
Sephoris e Gadara, si accumularono gli artisti, gli operai in oro e
marmo, i rettori, i pittori, gli oratori, le danzatrici, i poeti
lubrici, i professori di tutte le arti, i propagatori di tutti i vizii
venuti dalla Grecia, i legionarii, gli avvocati, i gladiatori, le
cortigiane, i cocchieri, i procuratori, la polizia... un mondo intero
distillato dalle cloache della Gallia, della Spagna e dell'Italia. Ma i
figli di Esaù, che vivono sotto le loro nere tende del deserto, e sopra
le rudi e nude montagne al sud del Giordano, possono essi far a meno
d'incontrarsi, d'intravedersi, di odiarsi anche, se il vuoi? I rivali di
questo suolo non si uniscono guari in matrimonio, non vivono nelle
istesse città, si evitano il più che possono; ma c'è una corrente che va
dagli uni agli altri: c'è un sentimento che non conosce ostacolo, che si
slancia dalla tenda dell'Arabo, che passa sulle città murate del Greco,
che invade le città aperte del Giudeo, e la capanna del Siriaco — l'odio
— e questo legame comune è indissolubile.

— Sì, poichè essi non hanno ancora udito la grande parola che io loro
reco: la fratellanza.

— La fratellanza tra la tigre ed il lepre? Rabbì, ciò che la magia
dell'arte greca non ha ancor fatto, ciò che la potenza di Roma non ha
ancor ottenuto, là dove la grande personalità del re Erode ha
naufragato, nessuno riescirà. Nessuno, nè un Samuele, nè un Elia, nè tu,
nè Dio stesso. L'argilla di cui l'uomo è impastato, è eterna ed
invariabile. L'ebreo e questi stranieri sono separati da una maledizione
irrevocabile: l'impurità. Il giudeo è una anomalia nella società umana.
Egli non può avere nulla di comune collo straniero; non può toccar nulla
di ciò che lo straniero ha toccato; non può bere all'istessa tazza,
sedere alla stessa tavola, dormire nella stessa città, passare la soglia
dell'istessa casa che il Greco o il Latino passarono. Lo spirito cupo ed
insocievole dell'Ebreo non si rischiara all'attrazione raggiante dei
popoli europei. La legge ebrea è inesorabile.

— Io vengo per cangiar codesta legge, rispose Gesù con tuono ispirato.
Io vengo a cominciare un'altra êra del popolo di Dio. Noi non imiteremo
più degli antenati, di cui non dobbiamo che arrossire. Noi non
riconosceremo più come padre quell'infame Abramo, che obbliga Sara sua
moglie a provvedere il suo letto di concubine, e che la prostituisce per
danari ai re Abimelech e Faraone, facendola credere sua sorella. Noi
rinneghiamo quell'infame Loth, che dorme colle sue figlie al chiarore di
Sodoma bruciante ancora; quell'infame Isacco che trafficò di sua moglie
Rebecca e visse di questa prostituzione; quel dissoluto Giacobbe che
passa da Rachele a Lia, dalle due sorelle alle loro schiave, l'istesso
giorno, l'istessa notte, lordando la religione del matrimonio. Il padre
di Giuda, che ebbe un commercio vergognoso con Tamar, vedova dei suoi
due figli, la quale si mascherava sotto il vestito delle prostitute e
che quel patriarca frequentava, ci fa orrore. Noi ci vergogniamo di
Davide che fece uccidere il suo ufficiale Uria per prendergli la moglie,
avendone già tante altre; di Salomone che sposa trecento donne, avendo
già settecento concubine e delle innumerevoli figlie di re; di
quell'Osea, primo fra i profeti, che ebbe dei figli da una donna
pubblica, e la rinnegò; di quel traditore Geremia, che profetizzava in
favore di Nabuchadnezzar; d'Isaia che passeggiò nudo in mezzo a
Gerusalemme; di quell'Ezechiele a cui Dio ordinò delle cose così
immonde, e che lo fece parlare così impudicamente. Noi veniamo a
rovesciare le leggi di quel Mosè che commise un omicidio, fu ladro in
Egitto, ebbe diverse mogli, e fece delle azioni inique. Io porto un
nuovo codice che non ha che un precetto: gli uomini sono fratelli.

— Non si tratta punto della tua dottrina, o Rabbì. Che monta che tu abbi
del grano d'Egitto, se lo semini sulle roccie di Moab? Sopra un suolo
ove sono passate dodici generazioni, vicine le une alle altre senza
darsi la mano, senza scambiare la parola del viaggiatore, la fratellanza
è una burla, se pure si arrivasse a comprenderla. La Galilea è la terra
dei messia, perchè questo popolo attende un vendicatore. Il messia è un
generale che giunge dal cielo per condurli alla vittoria con meno
fatica; la vittoria è l'espulsione dello straniero. Ecco il messia che
la Galilea saluterà con entusiasmo, e seguirà con fede. Ma, d'altra
banda, qual'è la sorte che i minacciati preparano a codesti portatori
della collera divina?

— Ahimè! terribile.

— Sì, o Rabbì, i messia non ci sono mai mancati. Sakya-Muni, Hillel il
babilonese, ebbero la scienza. Erode, Giuda il figlio di Ezechia, Simon
lo schiavo, Athrongeus il sacerdote ed i suoi quattro fratelli, Theudas,
Giuda di Gamala ed i suoi figli Simone e Giacomo ebbero la spada. Ma
essi apparirono e passarono. Gli Ebrei non compresero Erode e la sua
missione di fusione, che tu chiami fratellanza. Al di là del deserto,
presso Gerico, Gratus schiacciò ed uccise Simone che aveva bruciato i
palazzi d'Erode a Gerico e nei suoi dintorni, Theudas che bruciò il
palazzo del re ad Amathus ed a Betharemphta presso il Giordano, e
Athrongeus che si era incoronato[42]. Là in faccia a noi si rizzò come
gigante quel nobile Giuda di Gamala. Devoto alla legge orale, e' predicò
la libertà nazionale, l'eguaglianza degli uomini, e che non vi doveva
essere nè re nè padroni del mondo all'infuori di Dio. Lo si credette
come un profeta, lo si seguì come i fratelli Maccabei. Insegnò il
disprezzo della morte, e sancì le sue parole con un sublime eroismo,
combattendo. Giuda tuonò contro le imposte esatte dai romani, ordinò al
popolo di rifiutarle e di resistere. Il popolo minuto gli si strinse
intorno. Un nobile fariseo, Sadok, gli si unì nella missione. Da ogni
parte il popolo si sollevò. Cirenius andò incontro a loro, li battè, li
schiacciò, mise in croce Giuda e Sadok. Cirenius credette di aver
trionfato. Pilato doveva imparare a sue spese che quel trionfo non era
stato completo, poichè Giacomo e Simone, figli del martire, non
rinunziarono all'opera del loro padre. Giuda lasciò dietro a sè una
setta: gli Zeloti; un testamento; mai tregua ai romani! o Rabbì, il
popolo attende ancora il suo liberatore.

  [42] Vedi JOSEPHUS _Antiq._ XVII, cap. X, e la nota dell'edizione
  inglese su codesto Theudas, diverso da colui che apparve più tardi
  e portò lo stesso nome.

— È arrivato.

— Se è arrivato, egli comprenda che il suo assunto è terribile, e che il
suo posto non è nella Galilea.

Questo suolo è fatale. Jeri periva il Battista; domani perirai forse tu
pure, o Rabbì. L'inimico qui è potente; e quand'anco si giungesse a
vincerlo, niente è fatto fino a che resta a Gerusalemme. Gli è di là che
deve venire il colpo: gli è là che lo si deve portare.

— Gerusalemme divora i profeti.

— Sì, i profeti che piagnuccolano, non quelli che agiscono. Certo, a
Gerusalemme il successo è più difficile, il pericolo più grande:
perocchè là bisogna contare forse più con i partiti che con i soldati.
Ora i partiti sono trincierati dietro a palizzate di bronzo. Bisogna
intendersi con loro; bisogna cercare il punto comune di contatto. Esiste
esso codesto punto? I Maccabei hanno franto l'antico mondo giudeo; ma
essi trovarono aperta la breccia. La breccia era stata fatta a
Babilonia. Il povero, incolto e primitivo Giudeo era stato abbagliato in
una città, ove l'arte, la ricchezza, il lusso, l'attività, ed il piacere
prendevano le sembianze di meraviglie. La loro dottrina mosaica fu
scossa da quella di Zoroastro. Due generazioni, che vissero in
Babilonia, consideravano ormai la Giudea come una terra di condanna — le
classi ricche, le nobili ed istrutte principalmente; giacchè esse erano
più al caso di comprendere quelle arti e quella scienza, di godere di
quegli splendori. I vecchi libri, la vecchia lingua di Mosè furono
dimenticati. Un nuovo partito si formò nella vecchia massa; i Sadducei
restarono fedeli, a lor modo, all'ebraismo; i Farisei proclamarono la
necessità della riforma. Tutti ritornarono dall'esilio, con Babilonia
nel cuore.

— Ecco il fallo.

— Ecco, io credo invece, il progresso. In ogni caso i Sadducei,
invaghiti più degli altri di quella civiltà piena di lusso, cercavano di
farsi perdonare i loro gusti con una apparenza di più stretto
attaccamento al vecchio patto di Mosè; i Farisei, che vedevano la
breccia praticata nelle antiche leggi dal contatto dei Caldei, tentarono
di legalizzarla e ristringerla, proclamando, come altrettanto sacra, la
tradizione degli anziani, detta legge orale.[43] La civiltà caldea
importata da quelli che ritornavano da Babilonia s'incontrava con quella
che la Grecia aveva soffiata sulle coste di Tiro, di Sidon, di Gaza, di
Joppa, o che veniva da Cipro e d'Antiochia. Questa trionfò.

  [43] Questa legge non è come le Decretali d'Isidoro, o la
  donazione di Costantino ai papi, e si trova rude e maschia nella
  Mischnà, «_Moses accepit legem (oralem seu traditionalem) de Sinai
  et tradidit eam Ichoschuae; Ichoschua vero senioribus; seniores
  prophetis. Prophetae tradiderunt eam synagogae magnae. Isti
  dixerunt tres sententias. Estote moram trahentes in judicio;
  constituite multos discipulos; et facite sepam pro lege._»
  MISCHNÀ, t. IV. _Capita patr._ cap. I. In quanto ai partiti ed
  alle loro dottrine, vedi GIUSEPPE, _Antich._ lib. VIII, cap. I.
  _Guerra Giud._ lib. II. cap. VIII.

— Ecco la disgrazia.

— No, Rabbì, ecco ancora il progresso. Era però naturale, che quando i
Maccabei infransero la potenza macedone, succedesse una reazione. Essi
erano stati aiutati nella guerra dai separatisti, che si chiamavano
Farisei; questi presero il potere e dettarono la legge. I Sadducei che
accettavano tutte le forme esteriori della vita, tutte le trasformazioni
della coscienza, ma lasciavano intatta la legge nel tabernacolo, furono
messi da parte, come gente strana nei costumi, retriva nello spirito.

— A che setta appartieni tu dunque?

— Alla sadducea.... ed a nessuna. Il gran collegio decise che la legge
orale era eguale al patto di Mosè. Da allora quella legge divenne
formidabile. Mentre però essa era obbligatoria, mentre discendeva a
regolare fino le più piccole azioni dell'uomo, fino alla maniera in cui
doveva tener le sue mani, ed a quale temperatura poteva riscaldar
l'acqua, era proibito l'insegnarla, e la lettura non ne era permessa che
ad uno scarso numero di privilegiati. Gli Ebrei dopo questo nuovo codice
divennero un popolo di macchine: l'iniziativa, la libertà, lo spirito
furono inutili, furono anzi un delitto. Le più stolide scempiaggini
divennero un dovere e furono sacre. La legge di Mosè faceva dal popolo
ebreo il primogenito dei popoli; la legge orale ne fece un idiota
presuntuoso e barbaro, che respinge la luce, la scienza, la
socievolezza, la fratellanza degli uomini.

— So tutto ciò; ecco perchè io condanno i Farisei ed i Sadducei.

— E gli Esseniani?

— Sono fanatici che cangiano, esagerandolo, il bene in male. Io li
condanno anch'essi.[44]

  [44] Gesù non fece per altro che incarnare la dottrina di questa
  setta. Qual era questa dottrina? «La triplice base
  dell'essenianismo, dice Filone, è l'amore di Dio, l'amore della
  virtù, l'amore degli uomini. Presso di loro, l'amore di Dio
  comprende la castità, l'avversione al matrimonio, l'esclusione del
  giuramento, la certezza che Dio fa tutto pel bene, niente pel
  male. L'amore della virtù produce la pazienza, il coraggio di
  soffrire, la semplicità, la frugalità, la facilità nel commercio
  della vita, l'amore ed il rispetto delle leggi. L'amore degli
  uomini si manifesta coll'amicizia, coll'eguaglianza — benefizio
  superiore a tutti — e la comunanza dei beni.» Filone: _Che tutti
  gli uomini giusti, sono liberi._

— Ebbene, o Rabbì, hai torto di condannarli. Il tuo compito è di
conciliare. La separazione uccide la nazione ebrea. Occorre trovare il
punto di contatto, il terreno neutro ove tutti i partiti possano darsi
la mano, lasciando ad ognuno il movimento libero nel suo proprio
cerchio.

— Questo terreno esiste forse?

— Esiste. Gli è l'odio di tutti e di ciascuno contro lo straniero.

— L'odio! sempre l'odio! gridò Gesù dolorosamente. Ed io che sognava di
fare dell'amore il codice del mondo.

— Rabbì, hai detto il vero quando dicesti che sognavi. L'amore uccide,
Rabbì. È questa roccia dell'odio, è questo amore in rivolta che dà al
mondo la energia e la varietà. Dio scacciò Adamo dall'Eden perchè vide
la sua creazione in pericolo di sciogliersi; come una perla di neve al
sole, in quell'interminabile assopimento dell'amore. Non cercare di
renderci tollerabili i nostri oppressori. Tutte le nostre dissonanze si
mettono all'unissono in questo grido di esecrazione. Ciò che ci occorre,
Rabbì, gli è che Dio pure entri nella partita, e che l'uomo che si dice
il suo profeta, il suo messia, od il suo figlio, getti l'istesso grido
in nome di Dio.

— Dio anch'egli si metterebbe dalla parte della distruzione? sclamò Gesù
commosso.

— Rabbì, ascoltami con attenzione, poichè il caso m'ha posto sulla tua
via, e che abbiamo toccato un così grave soggetto. Tu ti sei dato a
Nazareth per il Messia che ogni Giudeo accarezza nel suo cuore; e qui,
questa mane, per il figlio stesso di Dio. A Nazareth hai eccitato la
collera; qui, l'ilarità. Questo angolo del mondo che tu avevi scelto per
i tuoi traffichi di divinità è stato da prima mal scelto, ed alla prova,
esso ha respinto i tuoi tentativi. Ti è impossibile continuare la tua
missione nella Galilea. Soccomberesti, o cadresti al livello di quei
fascinatori di serpenti e venditori d'impiastri che servono di
distrazione nelle strade. La Galilea attende qualche cos'altro, e gli
stranieri che vi sono in gran numero, e potenti, non ischerzano coi
messia. La sorte del Battista ti dice abbastanza quella che ti riserva
la Casa Dorata, e ciò che nasconde l'invito che sei per ricevere.
Occorre dunque lasciare la Galilea, o ritornare modestamente, dopo
esserti proclamato figlio di Dio, e non so che altro, a fare delle
casse, e allestire dei burchielli. Ti convien essa, codesta caduta, che
ti farebbe correr dietro tutti biricchini delle strade? Dopo aver
sognato qualche cosa di più grande d'un grande sacerdote, di più potente
del re Erode stesso; dopo esserti librato coll'aspirazione al disopra di
tutto il paese d'Israello; dopo aver attaccato i Farisei, i Sadducei, i
ricchi, i principi ed i sacerdoti; dopo esserti proclamato successore
dei profeti del popolo di Dio; dopo aver veduto, nelle estasi delle tue
notti insonni, i popoli prosternati ai tuoi piedi, dimmi, o Rabbì, ti
convien forse di ritornare alla tua bottega, alle tue tavole, alla tua
pialla? E i miracoli che hai fatti? e la parola che hai annunziata come
la verità? Ed i discepoli che ti hanno seguito come la face del loro
spirito? E quei potenti della terra che ti hanno temuto come un
riparatore? E i meschini che avevano posto in te la loro fede, in te,
voce d'amore, d'eguaglianza e di carità? Tutto ciò non sarebbe stata che
una ciurmeria d'un ciarlatano? Rabbì, ciò è impossibile. Ucciditi,
ucciditi piuttosto, ma non cadere. Io te l'ordino in nome della dignità
umana.

— Non hai duopo di simili intimazioni.

— Tanto meglio, maestro, tanto meglio; poichè nessuno più di te ha
elementi così scelti, così completi, per avere una gran parte in questo
mondo. Il mondo, maestro, appartiene ai sognatori perseveranti. Ebbene,
lasciando la Galilea, non puoi venire che a Gerusalemme. Se Gerusalemme
ti adotta, come adottò Giuda Maccabeo, e' non ci sarà gloria al disopra
della tua. Tu passi per figlio di Dio che libera per la terza volta il
suo popolo. A Gerusalemme i tuoi nemici sono i partiti. Essi saranno
tutti contro di te, se ti proclami un partito. Tu devi invece innalzarti
al disopra di tutti: e trar profitto delle loro comuni passioni. Se tu
prendi questo posto, tutti cadranno d'accordo per ammetterti come figlio
di Dio; perocchè quegli orgogliosi non si rassegnano a sottomettersi che
a Dio. Il sagan, il gran sacerdote, il gran collegio, il sanhedrin, le
sinagoghe, i Sadducei, i Farisei, gli Esseniani, i Betusiani, gli
Erodiani, i Zeloti, tutti crederanno di non abdicare, piegandosi dinanzi
la parola che in nome di Dio dirà loro: la vostra patria vi appartiene!
Allora i miracoli, sotto la tua mano, si faranno da sè stessi. Il tempio
s'aprirà dinanzi a te, come dinanzi l'arca del Signore. Le tue vie
saranno coperte di rose; i tuoi giorni un inno continuo; le tue notti
una danza d'astri, che risuoneranno del tuo nome come del nome di Dio.
Dimmi ora, o Rabbì, di', vuoi tu venire a Gerusalemme?

— Verrò, rispose Gesù con accento profondo e commosso; sì, verrò.

— Ne sono felice, o Rabbì. Ma ricordati che in Gerusalemme non c'è altro
posto per te, che o il palazzo di Davide, od il Calvario.

— Che la volontà di Dio si compia!

Uscii.

Ogni altra parola sarebbe stata inutile, inopportuna od imprudente.
Traversando la parte anteriore del giardino, incontrai Maria. Ella ci
aveva lasciati tranquilli, ma aveva compreso l'importanza del lungo
nostro colloquio. Ella conosceva lo scopo della mia vita. Maria mi
fermò, e gettandomi le braccia al collo, sclamò con un accento pieno di
disperazione:

— Oh! Giuda, non rapirmelo; io l'amo.

Fui tocco da questa parola sfuggita da quel cuore in tumulto, e le
risposi baciandola sulla fronte:

— Cara Maria, hai ben ragione. Un cuore come il tuo è degno di
quell'amore.

All'indomani, colmo di regali per le mie sorelle lasciai Tiberiade.
Antipas convinto che io agiva per lui, mi aprì le casse del suo tesoro,
e promise di venire a Gerusalemme pel paschah. Erodiade mi disse:

— Giuda, tutto ciò che una donna possiede, tutto ciò che una principessa
può.... disponi di tutto, e rialziamo questa grande casa di Erode che il
destino dirupa.



XVII.


Io aveva lasciato Tiberiade con l'intenzione di recarmi a Sephoris, per
vedere i tre figli di Giuda di Gamala. Un incidente mi fece cangiare di
piano. Venni ad urtare in uno di quei piccoli nulla che decidono sempre
dei grandi avvenimenti, e che doveva avere una così grande importanza
nell'insurrezione del popolo ebreo che io mi ordiva.

Io aveva osservato l'invincibile ripulsione, l'orrore che la voce e la
vista di Gesù Bar Abbas svegliavano in Gesù da Nazareth. Camminando
all'indomani sulle rive del lago, gli chiesi:

— A proposito, potresti tu dirmi per quale causa il Rabbì di Nazareth ha
per te una così profonda antipatia?

— Sei ben curioso, per esempio!

— No. Soltanto, ora ho il dovere di conoscere il più che posso di
quell'uomo, onde afferrarne l'intera fisonomia, sotto tutti i rapporti.
È altrettanto difficile di penetrare direttamente in queste nature
mistiche, che agognano alla consustanzialità con Dio, che di penetrare
nei segreti dell'Etna. È mestieri quindi metterli in camicia, a loro
insaputa.

— Hai dunque definitivamente fissato le tue viste su quel Rabbì?

— Definitivamente? No. Ma egli ha delle attitudini, dei tratti, che ben
diretti, potrebbero farne un porta voce ed un porta bandiera abbastanza
conveniente.

— Per me ho contro codestui le istesse prevenzioni che avevo contro il
Battista, di cui fortunatamente siamo sbarazzati.

— Che prevenzioni?

— Il Rabbì di Nazareth giuocherà la partita per suo proprio conto
servendosi dei nostri dadi puntati — se pure giuoca il nostro giuoco. Ma
non darà nella trappola. È così dolce l'essere adorato come figlio di
Dio, grattandosi.... le chiappe, raccontando delle storielle morali, e,
nell'ozio, dando alle donne isteriche delle pillole per far loro
vomitare il diavolo. Codesti biascicatori di frasi vuote, cui nessuno
comprende — neppur chi le fabbrica — non arrischiano certo la loro pelle
ben grassa, per demolire dei Cesari. Demolire dei Cesari! Mille pesti!
bisogna avere più di pelo nel cuore che sulle labbra o sul mento.
Vogliamo altra cosa, noi: un messia corazzato.

— Tutto ciò è stato detto, e ripetendolo tu vuoi sfuggire di rispondere
alla mia domanda.

— Io non cerco mai di sfuggire, quando ci sono dei colpi da ricevere, o
delle vergogne da vantarsi. Io metto al sole le mie piaghe con voluttà —
per nauseare coloro che me le hanno prodotte.

— Cospetto! tu m'intenerisci. Saresti tu convertito al regno di Dio, di
tuo nipote? T'avrebbe egli promesso un posto in quel regno?

— Avrei preferito che mi avesse dato un posto alla sua scodella, se ne
avesse una di ben provveduta. Ma ecco la ragione del nostro disgusto,
quella che sembrami probabile almeno, perocchè non so proprio bene
perchè egli mi glorifichi sempre del nome d'infame, ogni qual volta mi
trova sulla sua strada. Infame! Cosa diavolo vuol dire? Credo che derivi
dal latino _in fame_, o da qualcosa che significa aver sempre fame.
Ebbene, a mia fe', bimbo mio, tu hai doppiamente ragione: ho sempre fame
io.

— Sei sapiente come Gamaliele figlio di Simone. La tua spiegazione
dell'infame è ammirabile. Ma principia un po' questa tua storia.

— Eccola qui in due parole. Io aveva reso un servizio al comandante
della quarta legione in Germania; uno di quei servigi che si dimenticano
raramente. Ritornato dalla guerra povero come un lebbroso, divenendo di
giorno in giorno sempre più mariuolo a Gerusalemme, avevo inteso dire
che questo Claudio Pellas, il comandante della quarta, essendosi
disgustato con Augusto, era stato esiliato nella Golonitide, e aveva
ottenuto di vivere nella Galilea. Gli è quello stesso che ha fatto
regalo della loro sinagoga ai marinai di Cafarnaum. Decisi di andarlo a
vedere. Vi fui infatti e lo trovai in quel bel villaggio di Nazareth,
circondato dalle cure d'una donna eccellente, maritata ad un falegname
chiamato Giuseppe. Il mio Romano mi ricevette come un Parto. «Chi sei
tu? io non ti conosco, va all'inferno e lasciami in pace.» Lo lasciai in
pace, e per sopramercato perdetti la mia, poichè presi moglie. Visitando
quel caro Pellas incontrai una vedova, sorella del carpentiere, che
possedeva un pezzo di terra presso Betlemme. Sposai la terra, la vedova,
ed il suo cattivo temperamento.

— Le vedove hanno sempre torto. Non c'è questione.

— Eppure la mia, posseduta da cinque o sei dozzine di legioni di
diavoli, voleva sempre aver ragione. «Gesù, non bere. Gesù, non
giuocare. Gesù, non aver sempre delle brighe con tutto il mondo, Gesù,
non far la corte alle femmine delle strade. Gesù lavora.» Lavora
sopratutto! Era la sua manìa! Lavora! lavora! Come se la fosse stata una
festa quel rabberciare dalla mattina alla sera delle ciabatte, e il
giorno dopo ricominciare, e ricominciare sempre per settimane e mesi!
Mille fulmini di fulmini! Maneggiare la lesina dopo aver maneggiato la
lancia e la spada! coprirsi il petto d'un grembiale di pelle di becco,
dopo averlo avuto coperto di una corazza d'acciaio! tagliarsi le dita
con un trincetto, dopo aver ricevuto delle ferite, e dei colpi di daga
alla guerra! Ah! vecchia carogna! va, va, non mi dirai più lavora,
lavora....

— È morta dunque?

— Sì, Dio mercè, è morta. Insomma, come vedi, quella donna rabbiosa ed
io, vivevamo molto male insieme. La mi aveva nondimeno acchiappato un
bamboccio, nella ubbriachezza, in una di quelle notti d'inverno in cui,
a mancanza di meglio, la moglie ti serve di stufa. Quel marmocchio era
grazioso: non mi rassomigliava punto. A due anni, beveva già del vino,
rosicava dei peperuoli intossicati, e mordeva sua madre. Mia moglie era
sempre stata malaticcia. Non si pensa ella ora di cadere proprio
ammalata? Era cardatrice di mestiere. Obbligata di porsi a letto, fece
venire una figlia di suo fratello per assisterla, ed attendere al bimbo.
Un giorno, infatti, o meglio una sera, rientrando, trovo una ragazza
buona a portare un marito, ed un amante per soprassello, la quale mi
accosta timidamente, e mi prodiga dei «barba mio» ad ogni motto. Non
osservai punto quella tosa. Ho saputo di poi che il mondo la trovava
bella.

— Non la vedesti dunque?

— Io la vidi al contrario, per un anno o due, ma non la guardai mai.
Quell'oggetto delicato, bianco, diafano, sfuggiva al mio sguardo
abituato ai grossi selvaggiumi notturni. Per finirla, mia moglie morì, e
mi lasciò sulle spalle il marmocchio coll'appendice di quella ragazza di
cui io non sapeva che farmi. Una circostanza mi cavò d'imbarazzo, e mi
porse il modo d'utilizzarla.

— Hai così poca immaginazione tu, di non trovare un mezzo d'utilizzare
una fanciulla?

— Non ridere, Giuda: n'ebbi ripugnanza. Vi sono dei pregiudizii che si
piantano nell'animo come degli uncini di ferro, e si ha un bel fare, non
s'arriva a svellerli. La mia piccola, che come sua madre si chiamava
Mirjam, andava tutte le sere a cercar l'acqua alla fontana del Dragone
in una giara che portava sulla sua spalla dritta. Pare che fosse
incontrata da qualcuno che, trovatala di suo genio, la seguì fino alla
mia abitazione e s'informò di lei e di me.

— Sono sicuro che gli si diedero sopra di te delle informazioni
rassicuranti e lusinghiere.

— Così lusinghiere e rassicuranti, ti dico, che un giorno.... tu
conosci, credo, Cneus Priscus?

— Se lo conosco!

— Ebbene, quell'orso mal leccato m'incontrò un giorno come per caso, e
facendomi l'onore di considerarmi come un vecchio legionario romano,
m'invitò — all'occorrenza dell'anniversario d'una battaglia perduta da
Tiberio cui si festeggiava come se fosse stata vinta — a venire ad un
banchetto della sua centuria.

— Non si rifiuta di bere alla salute di Cesare, che diamine!

— È precisamente quello che io dissi a me stesso. Ci vado. Si parla. Si
vi riscalda; s'alterca; corrono parole grosse come la torre di Davide, e
dei colpi di daga da calibro. E quelli che restano divengono amici. È la
storia dei mio banchetto. Abbrevio.

— Non abbadarci, va sempre avanti.

— Dopo delle circonlocuzioni assai goffe, Cneus Priscus mi disse che il
comandante di non so qual legione era innamorato cotto di mia nipote. Io
era già mezzo brillo a forza di vecchio Chios; nondimeno l'idea di fare
una buona speculazione di quel pezzo di carne senza sangue, mi balenò
subito dinanzi agli occhi. — Mia nipote si vende e non si dà, risposi io
sentenziosamente alla maniera del vecchio Hillel. — E chi ti ha mai
detto, brutto muso, che la si volesse gratis, tua nipote? A quanto la
libbra la vendi tu? — Io la valuto all'ingrosso. — Quanto? — Ne domando
diecimila sesterzii.... — Te ne spippolo quindicimila. Vuoi tu giuocarli
adesso, e guadagnarne tre o quattro volte tanto, comperarti una bottega
di manichi da coltello e finire la tua vecchiaia in mezzo ai corni di
bove e di montone? — Io ti giuoco l'anima, se ne hai una, e se vuoi
arrischiarla, per farne delle suole a sandali da prete. — Avanti dunque,
ma ai dadi, sai. — Eccoli, guardali. — Sta bene, ma il denaro? — Non mi
devi tu quindicimila sesterzii? — E tu, non mi sei tu debitore di tua
nipote? — Prendila dunque: o vuoi che te l'imballi con della paglia? —
Va bene allora. Andrò a cercarla. Soltanto bisogna andar d'accordo in
talune precauzioni. — Quali? — Verrò domani sera a mezzanotte, e avrò
una lettiga per riporvela convenientemente. — Abbi tutto quello che
vuoi. — Griderà forse? — Ciò ti risguarda. Io ti apro la porta; ti
conduco nella sua stanza; tu mi dai il denaro.... e che il diavolo ti
porti. — Ci mettiamo a giuocare. Guadagno cinquemila sesterzii. — Ti
devo ventimila sesterzii, camerata, disse Cneus Priscus; a domani sera.

— E venne?

— Se venne! esatto come il gnomo del monumento d'Hircanus. A mezzanotte
una lettiga portata da quattro schiavi neri si fermò dinanzi la mia
porta. Cneus mi rimise una borsa col denaro: ventimila sesterzii! Mentre
io li contava, egli entrò nella camera ove Mirjam dormiva col bimbo
nelle braccia. Si gettò il bertuccino da una parte, s'inviluppò la testa
della ragazza in non so cosa, una coperta credo, la si tolse su come una
piuma, e due minuti dopo era sparita. Se il marmocchio non avesse
gridato, nulla avrebbe interrotto il silenzio imponente della notte.

— E non sai cosa ne è avvenuto di poi?

— Sono due anni che non ho più inteso parlarne. Ella si è ecclissata, se
però è tuttora di questo mondo.

— Ed è il comandante d'una legione romana che te l'ha pagata?

— Codesta l'è un'altra faccenda. Io credetti riconoscere quegli schiavi
neri....

— I negri si rassomigliano tutti.

— Ecco precisamente ciò che mi sono poi detto a me stesso.

— Davvero, Gesù, tu hai commesso là una ben infame cosa, poichè
l'infamia ti stuzzica.

— Tu parli come gli sciocchi. Vediamo un po'. Un uomo che paga
quindicimila sesterzii, — e Cneus me ne ha rubati per certo altrettanti,
— un uomo che compera questa leccornia al prezzo con cui avrebbe
comperato uno storione del Tirreno, non è certo per ucciderla. Gli è
dunque perchè egli ne è stupidamente innamorato. Ora cosa si fa delle
donne che si amano? Si diviene loro schiavi. Ebbene! semplicione, cosa
poteva sperare quella povera mendicante di mia nipote? Tutt'al più di
sposare un vignaiuolo del suo paese. Il bel negozio! io ne ho fatto una
piccola regina; io amo la mia famiglia, io, e lavoro alla sua grandezza,
al suo splendore.

— Pare, per altro, che gli altri non prendano la cosa da questo
magnanimo punto di vista.

— Lo so bene! quel piccolo rozzo carpentiere mio nipote avrebbe forse
preferito, lui, di vedere sua sorella serva d'un cammelliere. Dappoichè
io suppongo che la piccina ha dovuto scrivere ed informare sua madre
della sua posizione, e che il piccolo Gesù ne sa sul proposito più di
me. La prima volta che mi vide, mi prese pel collo gridando: «Infame,
cos'hai fatto di mia sorella?» e di poi, tutte le volte che mi incontro
con lui, mi accoppa sempre di questa ingiuria. «Cosa hai fatto di mia
sorella!» Imbecille! o che ne so nulla io?

Questo racconto mi gittò in un inatteso ordine d'idee. La vista di Bar
Abbas essendomi divenuta insopportabile, lo inviai solo a Sephoris, ed
io presi la via di Gerico e di Betlemme.

O che ne so nulla io? aveva detto Bar Abbas.

— Sono sulle traccie, dissi a me stesso.

Tre giorni dopo, a mezzogiorno, mi presentai alla porta della casa
solitaria di Berachah, la valle della Benedizione, risoluto questa volta
d'entrarvi ad ogni costo, e di vedere la vedova di Cajus Crispus, la
quale doveva probabilmente sapere qualche cosa di Mirjam, amante d'un
camerata di suo marito, sorella del Rabbì di Nazareth.

Il mio _ad ogni costo_ fu inutile. Trovai Moab sulla porta semi aperta,
che si arrostiva le gambe al sole. La vista di Moab mi richiamò alla
memoria la donna del circo, ed il caos per un istante dominò il mio
spirito.

Moab era ancora un cotal po' convalescente delle sue ferite. Tuttavia e'
mi parve meno impensierito di esse che affetto di profonda tristezza.
Aveva l'aria abbattuta, scoraggiata, sudando lagrime da tutta la
persona.

— Oh! come sono felice di vederti, Moab, sclamai fermando il mio cavallo
e smontando onde esprimergli la mia gioia più da vicino. Tu risusciti,
ragazzo mio. Oh come sei bravo, bravo, bravo! Cento come te, e Pilato
andrebbe a remigare sur una barca del Tevere! Come stai? Dove sei stato
fino ad ora? Non sai, il tuo capo, il Battista, è stato servito alla
tavola di Antipas a Makaur come l'agnello del paschah.

— Si tratta bene di lui, si tratta.... gridò Moab sospirando.

— Ma che hai dunque, amico mio? posso io fare qualcosa per te? Non far
complimenti, sai. A proposito, Moab, poichè sono qui, bisogna che
ringrazii il padrone di questa casa, che dodici giorni fa mi ha dato
ricovero una notte in tempesta.

— Non c'è padrone qui, disse Moab con aria ruvida.

— In somma, vi è qualcuno.

— C'è una padrona: ma tu non puoi vederla.

— E perchè? Divoro forse le donne io? o sono un così spaventoso
spauracchio da farle partorire se sono incinte, o un brigante da rapirle
se sono vergini?

— No, ma essa non riceve in questo momento.

— Aspetterò riposandomi, perchè, amico mio, io vengo da lontano.

— Non è questione d'ore. La mia padrona è stata colpita da una disgrazia
e muore di dolore.

— Diamine! ragione di più per presentarmi; un po' di distrazione la
solleverà forse dalla sua tristezza.

— To'! difatti, potresti aver ragione. Ma non so se codesta distrazione
le possa andar a genio.

— È giovine la tua padrona? E cosa intendi con questa tua «padrona»
anzitutto? Sai che....

— Io sono il suo cane, il cane di questa bella e nobile donna.

— Alla buon'ora! Ebbene, Moab, puoi lasciarmi passare. Una vecchia ti
sgriderebbe forse; una giovine, essa pure, se io fossi un vecchio savio,
noioso, e di quelli che si mischiano di dar consigli. Io invece ti
prometto di ridere.

— Oh! se tu potessi darle un po' di gaiezza, Giuda!

— Proviamo, Moab, proviamo.

Entrai. E per paura che Moab si pentisse, gli lasciai nelle mani le
briglie del mio cavallo ed in due salti mi trovai sotto il piccolo
portico davanti la porta della casa. Non c'era nessuno. Vado avanti, e
fo' un po' di strepito. Finalmente scorgo una giovine schiava che mi
viene incontro, tutta attonita di vedermi colà.

— Introducimi dalla tua padrona.

— Ma chi sei tu, o straniero?

— La tua padrona lo sa. Precedimi a lei dinanzi.

Noah non replicò, traversò una corte scoperta interna, che i Romani
chiamano _cavædium_; entrò nel _tablinum_ ove si ricevono gli ospiti,
aprì una porta invetriata nel fondo di questa stanza, sotto un piccolo
portico che conduceva alla parte posteriore del giardino, e mi additò la
sua padrona.

Io aveva seguito Noah senza aprir bocca.

— Padrona, disse la giovane, uno straniero che dice esser da te
conosciuto, domanda vederti.

— Non ho detto conosciuto, ragazza mia. Ti ho detto: La tua padrona lo
sa — supponendo che questa nobile signora fosse stata informata dai suoi
schiavi, che una notte, circa dodici giorni fa, un viaggiatore chiese un
ricovero dal temporale, e che la porta di questa casa si aperse alla sua
preghiera. Quel viaggiatore, nobile dama, sono io, che vengo a
porgertene i ringraziamenti.

Queste frasi, cui scrivo qui correntemente ora, ebbero pena a formarsi
allora nel mio cervello e ad uscire dalla mia bocca. Io era sbalordito.
Aveva dinanzi a me quella donna del circo, che da un mese dominava i
miei pensieri, riempiendo i miei sogni, spronando i moti del mio cuore.
La mia sorpresa raddoppiò, allorchè, rispondendomi, m'indirizzò la
parola in lingua ebrea.

— Io non so che ricovero tu abbi qui trovato. La mia porta s'apre a
tutti queglino che vi picchiano. I ringraziamenti sono superflui, per un
semplice dovere compiuto.

— È precisamente perchè ciò potrebbe rassomigliare ad un dovere che te
ne ringrazio. Il dovere è il più pesante dei balzelli.

— Non mi è stato insegnato codesto.

— Permettimi ora, nobile dama, di esprimere la mia soddisfazione nel
trovare in te una compatriotta, dove mi attendevo trovare una straniera.

Ida non rispose. Riprese una ciarpa che aveva cessato di cucire quando
io entrai, e continuò il suo lavoro, coll'apparenza di persona che
desidera terminare il colloquio. Ma non era codesto che io cercava.

— La vista di questa casa, dall'alto della collina, continuai io, è
incantevole. Si crede d'immergere lo sguardo in una cesta di fiori e di
verdura. L'è una sorpresa in mezzo a queste desolate montagne.

Stesso silenzio da parte d'Ida. Principiavo ad esserne inquieto.

— Ho creduto vedere delle rose nei tuoi bei vasi di maiolica d'Italia. È
un prodigio in quest'epoca dell'anno. Io vengo da Tiberiade; ebbene,
alla Casa Dorata non ce n'eran più.

Ida non mi ascoltava. Era assorta altrove, e mi sembrava abbattuta e
scoraggiata. Insistetti.

— Hai tu udito parlare di quel bel paese di Galilea, nobile dama?

— Poco.

— Oh! è l'Eden delle Indie, sotto il cielo della Siria. Nulla vi manca.
Perfino i messia vi germogliano all'aria aperta.

— Ne hai veduto tu, dei messia?

— Se ne ho veduto! Ne ho anzi fatto provvista.

— Per che farne?

— Capperi! per farne di tutto. È il mio commercio.

— Li rivendi dunque?

— No, li do a nolo.

— Ma a che si può impiegare un messia?

— A che? a cento piccole inezie, ed a mille grandi cose. Prima di tutto,
fanno dei miracoli.

— Possono essi render dolce la morte a chi la desidera e ha paura di
darsela?

— Meglio ancora! risuscitano ciò che è morto.

— Anche un cuore disseccato?

— Questo oltrepassa i loro poteri.

— Ne dubitavo bene, fece Ida sospirando.

— E avevi ragione. Ma c'è un mago che fa ciò che Dio stesso non
tenterebbe neppure.

— Come lo chiami tu codesto mago?

— L'amore.

Ida piegò il capo senza rispondere, e vidi un istante dopo caderle una
lagrima sulla mano.

— Vuoi tu vedere, nobile signora, il messia che io ho scritturato per
venire a far dei miracoli a Gerusalemme?

— Tu l'hai dunque nei tuoi bagagli?

— Lo aspetto fra poche settimane. Ti assicuro che è molto abile. L'ho
visto, sabato scorso, invitare il popolo nella sinagoga di Cafarnaum a
mangiarlo ed a beverlo, senza scomporsi.

— E l'hanno mangiato?

— Nemmen per ombra. Hanno avuto paura di rompersi i denti: le donne
sopratutto sono fuggite serrando il velo sulla loro bocca. Conosci tu
Cafarnaum?

— No.

— Ebbene, quelle belle donne, e quel mucchio di pescatori, di
conciatori, di marinai, si son posti a gridare: Chi l'avrebbe mai detto
che il figlio del carpentiere di Nazareth ci tenderebbe un simile
agguato?

— Come si chiama il tuo messia?

— Gesù il Nazareno, figlio di Giuseppe il carpentiere.

Ida trasalì, e tacque.

— Stavano per lapidarlo. Allora io, e lo zio di quel Messia, Gesù Bar
Abbas, ci siamo messi di mezzo; l'abbiamo salvato, e l'abbiamo arruolato
nella nostra compagnia santa, per il prossimo paschah.

Ida, di già molto pallida, divenne come una morta. Io non dubitava più
che ella non fosse Mirjam sorella del Nazareno; ma volli esserne più
completamente convinto.

— Vuoi dunque, bella dama, che te lo conduca qui un giorno, il mio
messia? Passo sovente davanti la tua porta: vado a trovar mia madre a
Betlemme.

— Grazie, disse Ida, non sono curiosa.

— Di miracoli, lo credo. Gli è più facile fare un miracolo che una
nobile azione. Ma il Rabbì di Nazareth non rende soltanto la vista ai
ciechi, e le gambe ai paralitici; guarisce anche i cuori ammalati.

— Ne dubito.

— Eppure io sono stato testimonio di un miracolo simile. Conoscevo una
giovincella di Magdala che aveva lasciato il suo ganzo a Gerusalemme, ed
era fuggita col cuore sanguinante d'amore. L'ho trovata a Magdala, ho
cenato con lei e col mio Rabbì, che l'aveva guarita radicalmente.

— Vuol dire che non era ammalata, rispose Ida sospirando.

— Sei ben triste, o giovine donna, ripresi. Perdona la mia
indiscrezione. Ma ho veduto cadere una lagrima sulla tua mano, e te ne
navigano ancora per gli occhi. Io sono uno straniero: ma sono giovane.
Il mio cuore non è indurito verso i disgraziati, ho la gioia sempre a
mia disposizione; scusa se io oso dirti: il dolore di una donna è la
negazione di Dio. Posso io far qualche cosa per alleviarlo?

— Grazie. Tu t'inganni; io non ho alcun dolore.

— M'era per altro sembrato...

— Ti sei ingannato. Noah, offri a questo straniero dei rinfreschi se lo
desidera.

Ida si alzò. Mi congedava.

— Non pensavo di offenderti, nobile dama, replicai. I miei occhi sono
stati indiscreti, il mio cuore uno sciocco. Mi ricorderò questa lezione,
e forse altri ne soffriranno. Ma tu sei la donna d'uno straniero, mi fu
detto. Tu sei ebrea; tu sola hai un aspetto a scorruccio in mezzo agli
splendori che ti circondano. Io ho sofferto sul suolo straniero dei
dolori che nessuno ha consolato... Se ti ho offesa dicendoti: posso io
renderti dei servigi, avendone ricevuto uno da te, — perdonami. Avrei
creduto di mancare al mio dovere d'uomo agendo differentemente.

M'era alzato io pure, ed avevo nella voce una tale emozione, ed un'aria
così fiera e così compunta, che Ida si fermò, e m'inondò del suo
sguardo, pieno come il sole a mezzogiorno. Dio mio! quanto era bella,
quella giovine donna!

Portava un lungo vestito viola molto accollato, stretto alla vita da una
cintura di seta nera, ed i ricci dei suoi capelli d'oro, gittati
all'indietro, ricadevano sulle sue spalle e sul suo seno. Guardandomi,
la sua figura così triste si animò per un istante; il sangue corse alle
sue labbra, che avrebbero fatto pianger d'invidia i petali di una rosa
di Pæstum, e le sue piccole narici si gonfiarono.

— Ti ho detto grazie, replicò, e te lo ripeto. Non hai alcun servigio da
rendermi. Se avessi un dolore sarebbe di quelli che durano sempre, anche
quando si credono estinti, che straziano, e non uccidono. Ma io non ne
ho; sopratutto non ho nessuna indelicatezza a rimproverarti.

— Grazie, nobile dama: non avrei mai perdonato a me stesso d'essere
stato così malaccorto.

— Ti aggiungo di più, continuò Ida, se un'altra volta, il temporale, la
fatica, il sole, se infine una ragione qualunque ti costringe a cercare
un ricovero, non dimenticare di picchiare alla mia porta, fino a tanto
che io resto qui.

Era tutto ciò che io voleva sapere; la conclusione che io desiderava di
più. La salutai e uscii, ebbro d'amore, pazzo di desiderii, avendo delle
vertigini negli occhi e nel cervello.

— Ebbene, ha ella riso? mi domandò Moab venendomi incontro.

— Presso a poco. Non credere già che sia così facile di far ridere una
donna in quello stato, come edificare il Tempio quando si posseggono le
ricchezze di Salomone. Ridere! Cospetto! avrei voluto che mi avesse
chiesto... Oh! lo stordito ch'io sono! Avevo portato questa bella
collana, che Erodiade mi ha dato per farne un regalo alla mia amante e
l'ho dimenticata. Gli è ch'ella mi ha colpito, Moab, mi ha colpito al
cuore. Gliela presenterò nella prossima volta. Ho bisogno, di parlarti,
Moab. Io sono pazzo per la tua padrona. L'amo...

— Che! gridò Moab.

— Ebbene! sì, io l'amo; l'amo tanto da morirne.

— Tu puoi morire allora, rispose Moab, freddamente. Tu non passerai più
questa soglia, o io ti uccido, o tu uccidi me.

— Sei pazzo?

— Ascoltami, Giuda! Ho lasciato mia moglie ed i miei figli il giorno che
ho abbracciato la dottrina esseniana. Ho adottato questa nobile
giovanetta di cui tu vedi lo splendore del volto, e non puoi vedere lo
splendore dell'anima. Io mi sono dato ad Ida, come la mia mano si è
dedicata alla mia vita. Se ella mi chiedesse di demolire il Tempio coi
denti, comincierei domani a divorarlo. Ho dunque il dovere di vegliare
alla sua pace, al suo onore, alla sua anima. Ami Ida, tu dici? L'ami?
Ebbene, non si amano le donne come colei, che quando se ne fa la propria
moglie. Tagliami a pezzi se vuoi, ti perdono come ad un maniaco; ma non
pensarti di lordare quella donna col tuo amore, neppure in sogno, perchè
io ti strappo il cuore come ad una bestia feroce, e ti schiaccio come
una bestia immonda.

E così dicendo, mi gettò alla porta e la chiuse dietro a me.


FINE DEL PRIMO VOLUME.


  DEL MEDESIMO AUTORE:

  Le notti degli emigranti a Londra               L.  1 —
  Il sorbetto della regina (_Seconda Edizione_)   »   1 —
  Il Re prega                                     »   3 —
  Il Concilio                                     »   1 —



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (ronzio/ronzìo, sêtte/sètte e simili), correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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