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Title: L'Arte
Author: De Roberto, Federico
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'Arte" ***


produced from images generously made available by The
Internet Archive)



                         NOTA DEL TRASCRITTORE

—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.

—Il testo in grassetto è stato reso come =testo grassetto=.



                                L’ARTE



                          DELLO STESSO AUTORE


                        =Filosofia e critica:=

  L’AMORE.
  UNA PAGINA DELLA STORIA DELL’AMORE.
  COME SI AMA.
  LEOPARDI.
  IL COLORE DEL TEMPO.


                         =Romanzi e racconti:=

  LA SORTE.
  DOCUMENTI UMANI.
  PROCESSI VERBALI.
  L’ALBERO DELLA SCIENZA.
  ERMANNO RAELI.
  I VICERÈ.
  L’ILLUSIONE.
  SPASIMO.
  GLI AMORI.


                             F. DE ROBERTO


                                L’ARTE


                                TORINO
                        FRATELLI BOCCA, EDITORI
                         MILANO—ROMA—FIRENZE
                                  —
                                 1901.


                         PROPRIETÀ LETTERARIA

     Torino—VINCENZO BONA, Tip. delle LL. MM. e dei RR. Principi.



PREFAZIONE


CHI ha letto la storia di Bouvard e Pécuchet, i due compassionevoli
enciclopedici eroi balzati fuori dalla mente creatrice di Gustavo
Flaubert, rammenterà che, dopo avere studiato tanti rami dello scibile,
la storia, la chimica, l’anatomia, l’archeologia, la politica,
l’agricoltura, l’igiene; delusi continuamente dalle contraddizioni,
dalle oscurità, dalle incertezze e dagli errori dei quali è piena la
scienza umana, ma non perciò stanchi ancora, costoro arrivano all’arte;
e che, arrivati all’arte, una primordiale difficoltà turba il loro
spirito inquieto: «Prima di tutto, che cosa è il Bello?». Non appena
significata la domanda, i contrasti e la confusione cominciano:
«Per lo Schelling è l’infinito esprimentesi col finito; per il Reid
una qualità occulta; per il Jouffroy un fatto indecomponibile; per
il De Maistre ciò che piace alla virtù; per il Padre André ciò che
conviene alla ragione. E vi sono parecchie specie di bello: un bello
nelle scienze: la geometria è bella; un bello nei costumi, non si può
negare che la morte di Socrate sia bella. Un bello nel regno animale,
la bellezza del cane consiste nel suo odorato...». Talchè il povero
Bouvard, non sapendo più che cosa pensare, esce finalmente in una
disperata sentenza: «Capisco: il Bello è il Bello!...».

In verità questa è la conclusione poco concludente alla quale si
arriva quando si leggono e paragonano le definizioni della bellezza
proposte dai filosofi. I più prudenti tra costoro confessano, come il
personaggio flaubertiano, la loro impotenza. Il Winckelmann, dopo aver
detto che l’unità e la semplicità sono le due vere sorgenti della
bellezza, riconosce che il Bello «è una cosa della quale è più facile
dire ciò che non è, che non dire ciò che è». Vittorio Cousin con forma
più intricata significa la stessa idea: «La bellezza si rivela mediante
l’impossibilità immediata nella quale noi ci troviamo di non giudicarla
tale; cioè di non essere impressionati dall’idea del Bello che essa
racchiude». Più concisamente il Royer Collard: «Il Bello si sente, non
si definisce». E il Töpffer, più assolutamente: «Una definizione del
Bello è impossibile». Lo stesso Aristotile non diceva che domandare che
cosa è il Bello è fare una domanda da cieco?

Se la bellezza è l’essenza dell’arte, e se questa essenza non si può
definire, una scienza dell’arte è impossibile. «L’estetica è una
scienza aggiornata,» ha detto Sully Prudhomme; la quale affermazione
non gli ha impedito di scrivere un libro... d’estetica. Altrettanto
hanno fatto molti altri pensatori. «Altrettanto vi preparate a far
voi», osserveranno i lettori. La loro critica sarebbe giusta se in
questo libro si presumesse di risolvere i problemi filosofici che
restano insoluti nonostante le dotte fatiche di tanti filosofi. Qui
invece si esamineranno le teorie d’arte che alcuni di essi hanno
proposte; e se, durante la discussione dei concetti altrui, accadrà di
esporne alcuni che potranno sembrare originali, si cercherà di evitare
che riguardino la metafisica dell’arte, e si procurerà di riferirli a
quistioni più semplici e concrete.



L’ARTE E LA NATURA


LE persone che meglio potrebbero ragionare intorno all’arte pare che
dovrebbero essere gli artisti. Un artista squisito, un poeta delicato
come Sully Prudhomme, il quale possiede, con le facoltà artistiche, una
solida cultura letteraria e, che più importa, scientifica, ci ha dato
il libro dell’_Espressione nelle arti belle_, che è tra i più ponderati
e ponderosi apparsi in questi ultimi anni. Quantunque il titolo parli
solo dell’espressione, molti altri problemi d’estetica sono compresi in
quest’uno che l’autore si propone di risolvere. Il primo di tutti è,
senza dubbio, quello che riguarda la natura dell’arte, o per dir meglio
il rapporto fra l’arte e la natura.


I.

Esclusa l’arte letteraria, perchè si serve delle parole, le quali sono
segni d’espressione convenzionali, Sully Prudhomme comprende fra le
belle arti l’architettura, la scultura, la danza, la musica, la pittura
e la recitazione, perchè fra queste l’espressione non è convenzionale,
ma reale, consistendo nelle forme, nei gruppi di sensazioni visuali e
uditive. Gli artisti che le coltivano si contraddistinguono, secondo
l’autore, per la giustezza e la finezza di un senso. Essere sensuale,
godere delle note, delle linee, dei colori, apprezzare le qualità
gradevoli o disgradevoli delle sensazioni, è per l’artista condizione
essenziale.

Qui si potrebbe fare una prima osservazione, quella già proposta da
Giulio Lemaître: qual è il senso eccellente del quale i comici e le
ballerine sono dotati? Noi chiameremo artisti tanto le une quanto
gli altri; ma possiamo negare questa qualificazione ai poeti, ai
romanzieri, ai commediografi? E che cosa reciterebbero i comici e
quali azioni rappresenterebbero le ballerine, se i commediografi
e i librettisti non fornissero loro i temi e le trame? Se le arti
_belle_ sono quelle che si propongono il conseguimento della bellezza,
negheremo che tale sia lo scopo dell’arte letteraria? Il poeta e il
romanziere non hanno un senso particolarmente fine, ma tutta quanta
la sensibilità pronta ed acuta. E dato che il possesso di un senso
eccellente è necessario a fare l’artista, quali arti coltivano coloro
che posseggono un olfatto finissimo o un palato squisito, se la
profumeria e la gastronomia non sono, come lo stesso autore riconosce,
arti?

Ma di ciò a suo luogo. Posto che un senso sicuro, sulla fede del quale
si possano apprezzare e verificare le sensazioni e godere della loro
armonia, è necessario all’artista, questa condizione essenziale non
è ancora, secondo l’autore, sufficiente: basterebbe a fare solo il
dilettante. Se non che, fra tutte le combinazioni di sensazioni che
un artista apprezza in virtù della finezza del suo senso—qualità
che ha comune con tutti gli altri artisti—ve ne sono alcune a lui
particolarmente gradite e care, perchè confacenti a ciò che si chiama
il suo temperamento; cioè alla sua natura fisica e morale. Poichè
dunque il temperamento è il principio della scelta, esso determina
l’ideale, cioè il termine astratto che serve di paragone. In arte,
come in tutto, noi valutiamo la qualità delle cose raffrontandole con
la qualità astratta che è il nostro ideale, e scegliamo quelle che
vi si accostano di più. L’ideale d’un artista è determinato dal suo
temperamento, dice Sully Prudhomme; l’uomo riverbera sè nell’ideale
suo, affermava il Bonghi, secondo cui l’ideale è «l’idea come
esemplare, tipo, meta».

Quando l’ideale dell’artista si è precisato, questi inventa e compone.
«L’invenzione,» dice Sully Prudhomme, «non fa nulla con nulla; essa
non crea nè i materiali sensibili, nè le leggi che ne regolano
l’armonia: adatta soltanto queste leggi a questi materiali in un modo
non attualmente osservato nella realtà, o non osservato interamente.
Per esempio: un pittore che posa il suo cavalletto dinanzi a un sito,
in campagna, non inventa nè il suolo, nè gli alberi, nè il cielo;
ma, scientemente o a propria insaputa, cerca di sentire l’armonia del
modello; e poichè egli la sente col proprio temperamento, non può fare
a meno di idealizzarla; ciò vuol dire che fra tutte le combinazioni di
sensazioni costituenti cotesta armonia, egli sceglie inevitabilmente
quelle che preferisce e che, per conseguenza, sono più conformi al suo
ideale».

Sully Prudhomme confonde qui in una sola parecchie operazioni, o
trascura di avvertire che l’operazione si compie in più tempi. Infatti:
quando il pittore va in campagna col suo cavalletto, non si ferma già
in un sito qualunque per coglierne certi aspetti; ma vede e giudica
parecchi siti, tra i quali sceglie quello che risponde al suo ideale
o—per dirla più semplicemente, e per evitare confusioni—alla sua
idea. Quando poi ha scelto il sito da rappresentare, e si pone dinanzi
al suo cavalletto con la tavolozza in mano, allora comincia una
seconda operazione: la scelta dei caratteri del sito da mettere in
evidenza nel quadro. Quindi, se vogliamo chiamare invenzione la scelta,
dobbiamo avvertire che questa scelta è duplice, e che la prima cosa che
l’artista sceglie è l’oggetto da rappresentare.

Per aver trascurato questa semplice osservazione, Sully Prudhomme è
caduto in molte ambiguità. Egli dice dapprima che non vi è oggetto
«bello in sè»; la bellezza dell’oggetto «è tutta relativa all’arte che
lo tratterà». Dice ancora, parlando particolarmente della pittura,
che il mondo visibile sembra all’artista tutto quanto armonico:
«se egli vi esercita la sua scelta, non fa così perchè abbia ad
evitare o a correggere false combinazioni di colore; ma perchè tutte
le combinazioni giuste non sono egualmente attraenti per lui, cioè
ugualmente adatte a soddisfare il suo temperamento e ad esprimere il
suo ideale. Il pittore non sente _quasi mai_ in difetto quella che
egli chiama natura; per questa ragione ne ha il culto, e ne spinge
talvolta l’idolatria sino ad accettarne tutte le impressioni, senza
discernimento». Se, dunque, il pittore non trova, la natura in difetto
_quasi mai_, vuol dire che qualche volta la trova realmente in difetto.
E infatti Sully Prudhomme soggiunge tosto che, se la natura è sempre
attraente per l’armonia dei colori, «non è sempre irreprensibile
nelle linee», e «produce i mostri». Ora, se vi sono in natura oggetti
attraenti, come sommamente armonici, e oggetti mostruosi, e quindi
repugnanti, non possiamo più dire che non vi è oggetto «bello in sè»
e che tutta la bellezza consiste nell’arte. Gli oggetti naturali sono
diversamente dotati di diverse qualità diversamente capaci di produrre
diverse impressioni. La prima scelta, adunque, o invenzione, da parte
dell’artista, si esercita tra gli oggetti naturali. Egli può bensì
scegliere, per riprodurli, gli oggetti brutti; e la sua riproduzione
dell’oggetto realmente brutto può essere artisticamente bellissima, o
viceversa; ma ciò dimostra appunto, come vedremo meglio più tardi, che
vi sono due bellezze diverse, la naturale e l’artistica, che non si
debbono nè si possono confondere.

Scelto l’oggetto, bisogna riprodurlo; ma questa riproduzione non è
totale, integrale; anzi non è vera riproduzione. Perchè lo scultore
riproducesse il modello, bisognerebbe che facesse una statua di carne,
d’ossa, di nervi, di tendini, di sangue, di pelle; se egli avesse
questa capacità non sarebbe un uomo, ma un dio creatore; e in tal caso
non è credibile che riprodurrebbe le creature esistenti nel mondo; ne
formerebbe certamente di nuove, secondo un suo proprio tipo. L’arte è
arte appunto perchè imita. Che cosa bisogna intendere per imitazione?

Io ho sotto gli occhi un oggetto; poi mi allontano da esso. Quando
l’oggetto visto, o sentito, o toccato, non è più sotto i miei sensi, io
ne serbo ancora il ricordo, l’immagine. Tra l’immagine psichica rimasta
dentro di me e l’oggetto sensibile che la produsse, tra il ricordo e
la percezione immediata, c’è una differenza, una distanza. L’arte sta
in mezzo. Essa non ricrea l’oggetto, perchè non può ricrearlo: può
soltanto materializzare l’immagine sua. Il ritratto d’un uomo non è
l’uomo vivo, ma non è neppure l’impalpabile impressione che l’uomo vivo
produce nel cervello dello spettatore: è l’impressione estrinsecata.
Certamente l’ambizione dell’artista consiste nell’estrinsecare
un’immagine la quale produca a sua volta negli spettatori una seconda
immagine quanto più è possibile simile a quella dell’oggetto reale;
ma egli incontra qui una difficoltà insuperabile nei mezzi dei quali
è costretto a servirsi. La creta, il marmo, il bronzo non dànno il
colore; nel quadro, col disegno e il colore, non c’è il rilievo.
Spingere l’imitazione oltre certi segni non è possibile senza uscire
dall’arte. Per esempio: i fiori artificiali rappresentano più da vicino
i fiori veri che non quelli dipinti nei quadri; ma i fiori dipinti sono
opera artistica, e i fiori di fil di ferro, di tela insaldata e di
carta non sono opera d’arte. Noi possiamo trovarne la ragione in questo
fatto: che quando l’imitazione è portata al grado estremo, senza che
sia, perchè non può essere, riproduzione, allora il sentimento eccitato
dentro di noi non è tanto d’ammirazione, non è tutto di compiacimento:
un disinganno e un rammarico lo turbano. Quanto più i fiori artificiali
sembrano veri, tanto più noi sentiamo che non sono veri realmente, che
non potranno mai esser tali, qualunque sia l’abilità e la pazienza
dell’artefice, qualunque sia la rarità della materia adoperata. Se
questi fiori ci dànno l’idea che siano vivi, noi cerchiamo in essi la
vita, e non trovandola proviamo una delusione per effetto della quale,
se prima attribuimmo ad essi un gran valore, lo neghiamo tosto, e li
chiamiamo anzi _finti_ o _falsi_. I personaggi di cera, nei musei
ambulanti, sono più vicini al vero che tutte le statue di gesso; ma
la vista di questi personaggi che sembrano vivi—della vita nostra—e
non ne hanno alcuna, ci fa semplicemente orrore. Sully Prudhomme ha
pertanto ragione di notare che l’arte non consiste nel riprodurre la
natura qual è, e che le imitazioni troppo servili, chiamate in francese
_trompe-l’oeil_, sono giustamente sdegnate dagli artisti; ma non ha più
ragione quando prescrive che l’arte debba correggere la natura.

Restringiamoci ad una sola arte, alla pittura: il critico francese dice
che il pittore si dà alla rappresentazione fedele di quanto vede, ma
che «non guarda senza scegliere: la ricerca del motivo è difatti la
sua prima cura; l’invenzione non consiste per lui nell’immaginare più
e meglio che la natura, poichè egli sa che costei prepara incessanti
sorprese ai suoi amanti, che c’è in essa più imprevisto che non vi
sia immaginazione nel più fecondo cervello: tutta l’invenzione si
riduce a discoprire l’aspetto dal quale il sito gli si mostrerà più
favorevolmente per la soddisfazione dell’occhio, e _a correggere con
tatto e riserva gli accidenti difettosi del modello_». Soggiunge
ancora che il pittore deve possedere «un senso sviluppato del bello
decorativo per _nobilitare_ le linee offerte dal modello e combinarle
con armonia.» Questa fiducia di poter correggere e nobilitare la natura
è presuntuosa. Prima di tutto, se noi potessimo correggere e nobilitare
la natura, dovremmo, _a fortiori_, poterla riprodurre com’è, cosa tanto
più facile; ma questa riproduzione pura e semplice è impossibile. Come
sarà possibile il perfezionamento? In secondo luogo, ciò che parrebbe
perfezionamento sarebbe alterazione. Se l’opera d’arte, intanto, non
corrisponde perfettamente, interamente, puntualmente all’oggetto
naturale, se l’artista ne coglie certi aspetti e ne trascura altri, ciò
non dipende da un espediente premeditato, da un’intenzione cosciente,
ma da una fatalità. Sully Prudhomme biasima che i pittori realisti
si diano al quadro di _genere_, trascurando la composizione storica;
perchè, dice, sta bene copiare esattamente ciò che si vede; ma l’arte
non è una copia. Ora, quando il pittore dipinge un quadro storico,
la sua prima cura non è quella di mettersi dinanzi a un modello che
somigli al personaggio storico, e di circondarlo degli oggetti usati
al suo tempo? Anche questa è pertanto una copia; soltanto essa è meno
esatta ancora che non sia quella delle cose presenti. L’artista sceglie
certi caratteri, negli oggetti da rappresentare, perchè _non può_
metterli tutti nell’opera sua. La fotografia, dice Sully Prudhomme,
ci informa senza impressionarci come opera d’arte, perchè non fa
nessuna scelta nei lineamenti del modello. Ora l’arte massima, l’arte
_ideale_ non sarebbe quella che, invece di ritrarre una persona,
con pochi o molti caratteri, la riproducesse, la rifacesse di sana
pianta? Questa cosa è impossibile; quindi noi dobbiamo contentarci
della fotografia, la quale non è arte non già perchè riproduce troppi
caratteri del modello, perchè dà una rassomiglianza troppo grande;
ma semplicemente perchè è un processo tutto meccanico. Tanto è vero
che i ritrattisti, e Lembach informi, non sdegnano niente affatto di
servirsene, lavorando sull’ingrandimento fotografico. La stenografia
servirebbe parimenti al romanziere e al commediografo, riferendogli
fedelissimamente i discorsi delle persone che egli vuoi mettere nel
romanzo e nella commedia; e la memoria, in verità, non fa altro che
registrare, come la fonografia, ma con minor fedeltà, le cose udite;
se non che, l’impossibilità di riprodurre esattamente e totalmente il
vero nelle arti della parola è ancora maggiore, e il romanziere e il
commediografo non riproducono sempre i discorsi veramente pronunziati
dai loro modelli; ma, compresa la passione di un personaggio in una
certa situazione, lo fanno parlare come essi medesimi, in quella
situazione e con quella passione, parlerebbero. Il romanzo e il dramma
non sono pertanto la vita, nè il ritratto e la statua sono l’originale;
perchè, quantunque in coteste arti figurative l’oggetto naturale possa
essere direttamente raffigurato, senza ricorrere a segni convenzionali,
e qualunque sia lo zelo del pittore e dello scultore nel procacciare di
raffigurarlo esattamente, essi non possono far altro che renderlo come
lo vedono; ora ciascuno di noi non vede le cose ad uno stesso modo.

E questo è appunto il secondo ostacolo che fatalmente impedisce
all’arte di dare alle sue opere i veri caratteri del vero; perchè il
vero, in sè stesso, non si sa come sia; nè l’arte, nè la scienza,
nè qualunque opera umana possono definirlo. Gli uomini non possono
far altro che esprimerlo come lo vedono; e questa visione è diversa,
poco o molto, da uomo ad uomo. Anche qui noi troviamo pertanto una
fatalità, e non un espediente. «L’alterazione dell’oggetto prodotta
dal temperamento che lo riflette,» dice Sully Prudhomme «costituisce
tutto l’interesse dell’opera d’arte, perchè tale interpretazione gli
dà la sua ragion d’essere; se no bisognerebbe dire con Pascal:—Che
vana cosa non è mai la pittura, la quale eccita la nostra ammirazione
riproducendo oggetti dei quali non ammiriamo gli originali!—». Ora,
dato che gli oggetti non possano essere riprodotti come sono, ma come
li vede il riproduttore, certamente questa visione ci interesserà
appunto per la sua particolarità o personalità; ma non bisogna tuttavia
dimenticare che la particolarità delle singole visioni non vieta la
loro sostanziale identità; perchè, se ognuno vedesse le cose in modo
assolutamente diverso da un altro, il mondo sarebbe una torre di
Babele. Dinanzi a un albero d’arancio, quantunque quest’oggetto sia
diversamente interpretato da cento spettatori, tutti e cento costoro
s’accorderanno nel giudicare che l’oggetto dinanzi al quale si trovano
è un albero d’arancio. E il quadro dove quest’albero è rappresentato
m’importerà bensì come documento della visione dell’artista, ma anche
come riproduzione dell’oggetto reale. Se, per esempio, l’artista
patisse di daltonismo, e avesse visto le arance di color violetto, e
perciò le avesse così dipinte, questa sua particolarissima visione,
importante per un medico, non solo non importerebbe niente ai semplici
spettatori, ma dispiacerebbe loro non poco. Gli uomini hanno sensi
diversamente impressionabili; ma se pure la diversità da uomo ad uomo
è da un canto notevole, è per un altro verso trascurabile; perchè
la media degli uomini sani ricevono dal mondo esterno impressioni
press’a poco identiche, e questa identità d’impressione consente loro
d’intendersi e di identificare la realtà circostante. Quindi la visione
dell’artista, mentre gli appartiene singolarmente, deve anche esser
simile a quella dei contemplatori dell’opera sua: i quali, nell’opera,
non apprezzeranno tanto ciò che è personale impressione di lui, quanto
ciò che è comune a lui ed a loro. L’arte deve dunque, nei limiti
che abbiamo visti, rappresentare fedelmente gli oggetti naturali;
intendendosi per oggetto naturale non la cosa in sè, sibbene la media
delle diverse impressioni che gli uomini normali ne ricevono. Se il
pittore desta la nostra ammirazione riproducendo cose delle quali
non ammiriamo gli originali, l’opera sua non si dirà perciò vana,
come vuole Pascal, bensì miracolosa; e questo è il miracolo compiuto
dall’arte, da ogni arte. Nell’opera artistica noi possiamo non soltanto
ammirare oggetti che, se li avessimo realmente dinanzi, ci lascerebbero
indifferenti; ma cose che, nella realtà, c’ispirerebbero paura, sdegno,
ribrezzo ed orrore.

  Il n’est point de serpent, ni de monstre odieux
  Qui, par l’art imité, ne puisse plaire aux yeux.

Come è ciò possibile?


II.

Sully Prudhomme, esponendo la teoria dell’espressione che riferiremo
meglio in un prossimo capitolo, spiega il miracolo in un modo che
conviene discutere. Tutte le sensazioni, dice egli, hanno qualità
affettive, la qual cosa significa che sono o gradevoli o sgradevoli
o indifferenti. Ogni stato dell’animo è parimenti o grato o penoso o
indifferente. Grazie a questa comunanza di carattere fra gli stati
d’animo e le sensazioni, queste possono essere espressive di quelli.
Per esempio: la sensazione dei cibi dolci è grata al palato e quella
degli amari ingrata; le cose morali hanno anch’esse qualità simili: un
rifiuto può essere amaro, ed un consenso dolce. Sully Prudhomme avverte
però che, in arte, le impressioni eccitate dall’artista debbono sempre
essere gradevoli, anche quando i sentimenti espressi sono dolorosi. «In
musica, la disperazione dev’essere espressa con armoniche combinazioni
di note; in pittura, un Cristo, quantunque debba eccitare in sommo
grado la compassione, deve nondimeno piacere al senso della vista con
la qualità gradevole dei toni; nella scultura, le linee del Laocoonte
gemente debbono formare armonici composti. In generale, bisogna sempre
che l’opera artistica carezzi i sensi, qualunque sia la commozione
morale che essa esprime».

Questi concetti non possono essere accettati così come sono
significati. Prendiamo, per amore di semplicità, uno degli esempii
addotti: quello del Cristo. Il quadro rappresentante Cristo, dice
l’autore, deve piacere alla vista con le qualità gradevoli dei toni.
Che toni troviamo in cotesto quadro? Il livido della pelle, il giallo
degli occhi, il paonazzo delle piaghe. Questi toni del quadro sono
inventati, diversi da quelli di un cadavere piagato? Niente affatto:
l’artista li ha colti, appunto, nel vero. Per conseguenza, se diciamo
gradevoli i toni del quadro, non dobbiamo anche dire gradevoli quelli
del vero, dai quali sono copiati? Se non che, dinanzi a un cadavere
piagato pendente da una croce noi restiamo inorriditi, e dinanzi a un
quadro rappresentante quest’oggetto di orrore restiamo meravigliati
ed estatici. Questo, abbiamo detto, è il miracolo compiuto dall’arte.
Essa lo compie perchè è arte, perchè non è la natura. I toni esistenti
in natura possono essere tutti gradevoli, o per dir meglio sono tutti
indifferenti: essi diventano gradevoli o sgradevoli secondo le qualità
delle cose alle quali appartengono. Il rosso è piacevole o dispiacevole
alla vista? Non possiamo dirlo, perchè il color rosso non si trova mai
solo; si trovano bensì oggetti colorati di rosso. Se noi vediamo il
rosso d’una rosa sul ramo frondoso, lo stimiamo incantevole; se vediamo
quello del sangue sgorgante da una ferita, lo giudichiamo orribile;
stupendo è il rosso del cielo all’alba o al tramonto; repugnante quello
della faccia di un ubbriaco. Il nero di due occhi vivaci è vaghissimo;
opprimente è il nero di una bara. Il verde d’una penna di uccello
ci piace, e quello della pelle di un rettile ci fa ribrezzo. Ora la
pittura, presentandoci non già le cose reali, ma le loro immagini
psichiche estrinsecate, toglie, sopprime, annulla le qualità delle cose
vere, dalle quali noi siamo tanto impressionati nel mondo. Dipinti,
il verde del rettile, il nero della bara, il rosso del sangue non
partecipano più delle qualità incresciose di cotesti oggetti reali; noi
possiamo quindi tranquillamente gustarli.

Perchè le colorazioni di un corpo vivo e florido sono tanto apprezzate
dall’occhio, e quelle di un cadavere disgustano? In sè stesse, le
tinte del cadavere non hanno niente di repugnante; possono anzi
essere stupende; ma, perchè siano gustate, bisogna fare astrazione
dal cadavere; la qual cosa l’occhio volgare non fa, e fa soltanto
quello dell’artista. Ora nel quadro c’è la tinta, c’è il disegno, c’è
l’immagine del cadavere, ma non il cadavere: allora anche l’occhio
volgare è libero di apprezzare l’intrinseca qualità delle tinte.

Sully Prudhomme vede nelle opere d’arte rappresentanti soggetti
incresciosi o tristi un contrasto: egli dice che queste opere ci
procurano tutt’insieme un piacere fisico e un dolore morale, e spiega
questo contrasto con la simpatia. «Lo spavento e la stessa tristezza,
provati per simpatia possono anche diventare godimento del cuore; la
simpatia, infatti, ci procura il sentimento di una vita differente
dalla nostra, essa ci fa vivere negli altri senza metterci a nessun
rischio». Se ciò è vero, dovrebbe esser vero tanto nell’arte come
nella vita. Poniamo che, trovandomi in pace con me stesso e col
mondo, io veda due uomini battersi ad oltranza. La vista di costoro
ecciterà dentro di me i sentimenti che essi provano, ma non li ecciterà
direttamente; io non mi sentirò prudere le mani per un motivo reale,
personale, per le offese che hanno spinto cotesti uomini a battersi; mi
sentirò invece agitato per simpatia, per imitazione, per contagio; a
qualunque grado possa arrivare questo contagio, se io pure sarò a mia
volta sul punto di prendere una sciabola per menar colpi a destra e a
manca, sentirò tuttavia che il sentimento eccitato dentro di me mi è
estraneo, che io non ho nessuna ragione di attaccar lite con nessuno,
che sono in pace con tutti. Per conseguenza il sentimento violento
determinatosi dentro di me, quantunque naturalmente penoso, non mi
procura pena, ma quasi piacere: perchè mi trae fuori di me stesso senza
mettermi realmente ad uno sbaraglio. Ora che cosa accadrà in me se non
vedrò una vera zuffa, ma la rappresentazione di una zuffa in un’opera
d’arte, in un dramma, in un romanzo o in un quadro? Accadrà lo stesso
effetto che dinanzi alla vera zuffa: io uscirò fuori di me stesso senza
perdere la coscienza della mia tranquillità presente. Se non che,
nella zuffa vera il sangue scorre, qualcuno dei combattenti è ferito o
muore; mentre nella rappresentazione artistica io so che ciò non può
accadere, che la zuffa posta sotto i miei occhi è fittizia. Questa
certezza diminuisce in quantità l’effetto del contagio simpatico,
ma lo migliora di qualità: io non uscirò tanto fuor di me stesso
quanto dinanzi a un vero duello, ma il sentimento della mia sicurezza
personale sarà altrettanto più saldo, quindi il godimento per simpatia
altrettanto più intenso. E questa è la vera ragione per la quale l’arte
ci rende grata la riproduzione di cose realmente repugnanti. Se la
simpatia fosse causa di piacere suscitando dentro di noi uno stato
penoso, ma fittizio, e sempre accompagnato dalla certezza della nostra
tranquillità e sicurezza personale, tutti gli spettacoli penosi, nel
mondo reale, dovrebbero procurarci un simile godimento. Perchè la vista
di un uomo morente dovrebbe turbarci? Quest’uomo muore, ed io sono
turbato dalla sua vista, esco fuori di me stesso, partecipo alla sua
agonia; ma sento nondimeno che io non muoio niente affatto, che sono
sano e pieno di vita: dunque dovrei provare quel piacere del quale
ragiona Sully Prudhomme. E infatti c’è una freddezza e un egoismo che
si compiace di questi spettacoli; ma noi non dobbiamo considerare gli
egoisti e gli idioti morali, sibbene gli uomini normali; e negli uomini
normali il dolore suscitato per simpatia, se non è tanto grande quanto
quello prodotto da un motivo reale, è ancora grande abbastanza da far
perdere od allontanare il senso della sicurezza personale. Nell’arte,
invece, il turbamento è meno intenso, perchè nessun’opera d’arte ha
l’intensità, il rilievo e la vita della vita; ma, per compenso, la
fiducia, la sicurezza intima è saldissima, perchè l’oggetto turbatore
non esiste realmente, è tutto immaginario. Dice Sully Prudhomme: «Il
piacere della simpatia può esser turbato, nel mondo reale, dalla pietà
dolorosa che ispira la vista delle sofferenze delle persone amate»; ma
contro questa proposizione si debbono muovere due obbiezioni: prima
di tutto, trattandosi, come si tratta, di oggetti penosi, la pietà
dolorosa non turba il piacere, ma anzi lo determina, come lo stesso
autore ha detto dal principio, grazie al contrasto col sentimento della
sicurezza personale; secondariamente, se le persone delle quali vediamo
le sofferenze ci sono care, allora il sentimento della sicurezza
personale non esiste più, e il nostro turbamento non è determinato per
simpatia, ma dalla lesione del nostro interesse, dell’affetto che ci
lega a coteste persone, cioè da una causa reale, diretta, positiva.
Sully Prudhomme si accosta tuttavia al vero quando soggiunge che al
teatro, «sia grande quanto si voglia l’illusione, essa non ci fa
dimenticare che le sofferenze alle quali assistiamo sono fittizie». Qui
è il secreto semplicissimo del miracolo compiuto dall’arte: l’arte che
riproduce il vero non lo rifà; ne dà soltanto l’illusione, ne offre
un’immagine.



LA BELLEZZA NELL’ARTE


IN campagna, dinanzi a un grazioso o grandioso paesaggio, noi
diciamo che sembra un quadro; e se cogliamo fiori o frutti stupendi
ripetiamo che sembrano dipinti. Incontrando per le vie una persona
straordinariamente ben fatta la paragoniamo ad una statua; udendo
narrare un fatto nuovo ed insolito esclamiamo: «Pare un romanzo».
Questi sono giudizii ripetuti quotidianamente da tutti. Che cosa
provano essi? Provano, manifestamente, che l’arte, immagine della
realtà, non ha rappresentato tutte le cose, nè una qualunque parte di
esse, indifferentemente; ma ha scelto le più belle, le più vistose, le
più notevoli.

Questa scelta è indispensabile, come dicono la più gran parte dei
critici; oppure non è obbligatoria, come soggiungono la più gran parte
degli artisti? La bellezza dell’opera d’arte deve consistere nelle cose
rappresentate, oppure nel modo della rappresentazione?


I.

Quali sono le cose che noi chiamiamo belle, e in che cosa consiste la
loro qualità?

Sully Prudhomme prende le mosse un poco da lontano per dire che il
bello è indefinibile. Egli ragiona così: l’anima umana aspira alla
felicità; ma, in questa vita, le aspirazioni oltrepassano le gioie;
quindi l’oggetto supremo dei nostri voti è alquanto indeterminato, e
sempre che il pensiero si volge alla felicità prende i caratteri del
sogno: allora l’anima sente come infinita la sua potenza di gioia.
Questo stato di sogno è l’estasi. «Contemplare è guardare con estasi,
ammirare è godere della contemplazione giudicando la cosa contemplata.
Ora ciò che si ammira nella cosa contemplata è la bellezza, cioè
l’espressione della felicità ideale per mezzo di una sensazione
eminentemente gradevole. Il bello, a causa della sua stessa natura,
è quindi impossibile a definire in modo adeguato, poichè implica un
elemento indeterminato, l’ideale, cioè l’irrealizzabile, che l’anima
può soltanto sognare e agognare. Affinchè il bello potesse essere
definito, bisognerebbe che l’anima conoscesse, mediante il possesso,
ciò che ella conosce soltanto per mezzo di ciò che il suo sogno
ambiguamente deduce da quel poco che ella possiede attualmente».

Alla stessa conclusione negativa si perviene con meno metafisica,
considerando l’ambiguità del linguaggio. «Il linguaggio», riconosce
Sully Prudhomme, «offre indicazioni preziose all’analisi, perchè l’uomo
non crea parole inutili, e perchè in tal modo le parole corrispondono
a distinzioni sempre vere per qualche differenza tra le cose
differentemente nominate. Ciò non vuol dire che le parole siano sempre
impiegate, dall’universalità degli uomini, con lo spontaneo e finissimo
discernimento che, in origine, ha riconosciuto la loro utilità e
precisato il loro senso». Pertanto, se il medico chiama bello un certo
caso di malattia, se il negoziante parla di un bell’inventario, e
via discorrendo, Sully Prudhomme crede che tutti costoro commettano
un abuso. Ma, per poter trovare qui un abuso, bisognerebbe anche
soggiungere qual è l’uso, l’uso retto, preciso, definito; il che vuol
dire che bisognerebbe dare quella definizione del bello che riesce
impossibile e che lo stesso autore non dà. Dunque non c’è abuso negli
esempii addotti, ma un uso indeterminato dipendente dall’ambiguità del
senso.

Bouvard diceva a Pécuchet che la geometria è bella: tale
qualificazione, negata da tutti gli studenti che non hanno potuto
superare il _ponte degli asini_, è ora sostenuta e ripetuta con nuova
efficacia. Emilio Picard dice che «l’aspetto artistico è uno dei
più importanti nelle matematiche pure»; ed Errico Poincaré che «lo
scienziato degno del nome, il geometra segnatamente, prova in faccia
all’opera sua la stessa impressione dell’artista: il suo godimento è
altrettanto grande e della stessa natura». Roberto di Adhémar, citando
questi scrittori e sviluppando il loro concetto, rammenta che il
bello, subbiettivamente considerato, è l’essenza del sentimento che
esso provoca, cioè il sentimento estetico. Ora l’attività estetica,
quell’attività che gode di sè stessa, si può trovare e si trova in
molte occasioni svariatissime. Il dottore che diagnostica un certo caso
di malattia, il computista che esamina un certo inventario, provano,
come il geometra e il matematico, un godimento estetico o estatico,
che li induce a servirsi della parola _bello_ come della più adatta.
Essi potrebbero adoperarne molte altre; potrebbero dire che il caso
della malattia è nuovo, raro, importante, complesso; che l’inventario
è chiaro, ordinato, fedele, preciso: se li chiamano belli, bisogna
credere che questa parola esprima meglio la loro impressione, la loro
soddisfazione, e non già che essi la adoperino a sproposito, come
gente che parlasse una lingua mal nota. E lo stesso Sully Prudhomme,
negando che si possa chiamar bello un caso di malattia, non ha
espressamente riconosciuto che vi può essere «un bel caso di gobba» per
il naturalista il quale ammira la coordinazione dei caratteri anatomici
del gobbo? Un gobbo che è brutto, può essere, nel suo genere, bello;
una rosa che è bella, può essere, nel suo genere, brutta.

Il concetto della bellezza è stato talvolta identificato con quelli
della bontà, dell’utilità, della convenienza; tal altra distinto da
questi. Anche qui troviamo una prova della sua indeterminatezza. Il
pipistrello pareva un uccello e la balena un pesce: l’attento esame
dei loro caratteri anatomici e fisiologici li ha fatti classificare
entrambi fra i mammiferi. Gli anfibii, quantunque i loro caratteri
siano stati esaminati, anzi appunto perchè sono stati esaminati,
restano anfibii. Altrettanto dicasi del concetto del bello. Per certi
rispetti il bello è il buono e l’utile; per certi altri è tutt’altra
cosa. Sully Prudhomme nega che si possa dire bello, come fa il
contadino, un formaggio; e infatti il formaggio è propriamente buono o
cattivo; ma, senza contare che la bellezza del formaggio può risiedere
nel suo aspetto apprezzato dalla vista, talchè un formaggio che pare
agli occhi bellissimo può esser pessimo all’olfatto e al palato,
bisogna ancora osservare che la stessa sensazione squisita dell’odorato
e del gusto possono essere e sono chiamate belle, oltre che buone, o
perchè buone, con un’apparente improprietà e una secreta e indefinibile
convenienza, della quale i Greci ebbero il senso, designando con una
sola parola il bello ed il buono.

Si vede dunque che la bellezza, nel mondo reale, è indeterminata e
relativa. Nel mondo dell’arte, invece, cioè nel mondo delle immagini
create dall’arte, è assoluta e determinata. Se l’immagine è fedele,
totale, nitida, vivace, animata, è bella senz’altro. Pare dunque che
la bellezza da chiedere all’arte sia quella della rappresentazione, e
non quella dell’oggetto rappresentato, la quale non si può propriamente
dire quale e come è.


II.

Ma supponiamo che la bellezza negli oggetti sia rigorosamente
determinata o determinabile; che non abbiano ragione l’analisi e la
critica sottile, ma il grosso senso comune, secondo il quale vi sono
cose belle e cose brutte, sicuramente riconoscibili come tali. La
rappresentazione ne potrà essere, a sua volta, bella o brutta. Quindi
si potranno dare quattro casi:

  1º: Oggetto brutto e brutta rappresentazione;
  2º: Oggetto bello e bella rappresentazione;
  3º: Oggetto bello e brutta rappresentazione;
  4º: Oggetto brutto e bella rappresentazione.

Il primo caso non è da considerare. Quando un brutto oggetto è mal
rappresentato, quando un povero tema è stupidamente trattato, tutti
concordemente voltano le spalle. Parrebbe anche che tutti siano
d’accordo nell’affermare che la bellezza dell’oggetto e la bellezza
della rappresentazione producono insieme il massimo piacere e sono
quindi entrambe da conseguire. Ma l’accordo apparente cela un dissidio
profondo, ed è antica la lotta che si combatte fra i partigiani del
contenuto e quelli della tecnica, tra i fanatici dell’idea—secondo
l’espressione del Fechner—e i zelanti della forma. Tutta la storia
dell’arte dimostra questo conflitto. «Io preferisco le idee ai
colori», dichiarava il Diderot. Viceversa, quando Zeusi espose il
quadro che rappresentava la Centauressa allattante i suoi piccoli,
e vide il pubblico ammirare la novità della composizione e restare
indifferente all’eccellenza dell’esecuzione, disse al discepolo;
«Andiamo: ravvolgi quella tela, e riportiamola a casa...».

Per risolvere questo dissidio il meno arbitrariamente possibile,
rammentiamoci che l’arte non è la natura e che perciò la bellezza
artistica è diversa dalla naturale. Se noi chiamiamo bello un redivivo
Apollo, e bello altresì il ritratto di un mostro dipinto da un gran
pittore, ciò non implica che le due bellezze siano dello stesso ordine.
Ora, come insegna l’aritmetica, le cose eterogenee non si possono
sommare. Una penna e un’altra penna fanno due penne; una penna e un
calamaio non fanno due, o fanno due in un senso molto largo, perchè
sono entrambi oggetti adatti a scrivere. L’opera d’arte che rappresenta
stupendamente cose stupende, non ha una bellezza doppia, ma due
bellezze diverse. E, come opera d’arte, la bellezza essenziale, la
prima bellezza che bisogna chiederle è l’artistica.

Noi possiamo così risolvere i tre casi proposti dianzi. Se l’oggetto
naturale è bello, ma la sua rappresentazione è brutta, l’opera d’arte è
mancata, assolutamente. Se l’oggetto è brutto, ma la rappresentazione
è stupenda, l’opera d’arte è grandissima, tanto grande quanto quella
che meravigliosamente rappresenta un oggetto meraviglioso. La bellezza
dell’oggetto è una cosa a parte: può esserci, e può non esserci. Se
non c’è, non guasta; se c’è, produce un nuovo piacere, ma può guastare.
Infatti, come accadde a Zeusi, l’ammirazione può rivolgersi tutta
all’oggetto, trascurando le qualità della rappresentazione, la qual
cosa non è giusta. Ma questo pericolo sarebbe trascurabile dinanzi ad
un altro molto maggiore. Prima dello spettatore, lo stesso artista
può essere tanto impressionato dalla bellezza reale dell’oggetto, da
trascurarne la rappresentazione. Questo sembra un paradosso, ma non è.
L’attenzione, la pazienza, l’abilità, la sagacia, lo sforzo producono
il miracolo della creazione artistica: la facilità è in casi rarissimi
condizione dell’eccellenza; ordinariamente ne è la peggiore nemica. Ed
una eccessiva facilità, con la relativa trascuratezza, è il difetto che
si nota comunemente nella rappresentazione di oggetti troppo belli.
Questo difetto si può trovare, sebbene in grado diverso, in tutte le
arti. Il contrasto fra contenuto e tecnica, fra idea e forma, dipende
appunto, in tutte le arti, da questa tendenza a trascurare la tecnica
e la forma ogni qual volta si bada troppo al contenuto e all’idea.
Il pittore che s’inquieta delle qualità intrinseche dei soggetti
da dipingere, dovrebbe poi renderli stupendamente: accade invece,
d’ordinario, il contrario; e la cosa è tanto frequente che le due
attitudini da conciliare, e veramente conciliate dagli artisti sommi,
sembrano, come nota anche Sully Prudhomme, incompatibili. Un attore che
vuole rappresentare una bella parte, un personaggio nobile, un’azione
magnifica, si affida quasi sempre alle qualità intrinseche della
parte, e trascura quelle della rappresentazione. Nel caso contrario,
nella parte ingrata, _difficile_, l’eccellenza dell’esecuzione è
indispensabile. L’arte della recitazione si esercita intorno alle
riproduzioni artistiche del poeta e dell’autor comico; vedremo più
tardi quali rapporti passano in musica fra gli oggetti rappresentati
e la loro immagine artistica; qui avvertiamo che il compositore
unicamente o principalmente attento alla bellezza intrinseca dei
motivi, al piacere che essi procurano, è d’ordinario il meno capace
di trovare espressioni adeguate alle cose da esprimere. In un’altra
arte, nell’arte narrativa, nel romanzo, questo difetto è evidentissimo,
insieme con un altro, con un nuovo e non meno grande pericolo.

Abbiamo osservato, cominciando questi ragionamenti, che quando
consideriamo oggetti naturalmente stupendi, un paesaggio, un
avvenimento, una persona, diciamo che sembrano un quadro, un romanzo,
una statua. Ma, reciprocamente, chi di noi, vedendo un quadro o
una statua o leggendo un romanzo troppo belli, non ha esclamato:
«Invenzioni! Fantasie! Cose simili non si trovano e non accadono?».

Tra gl’innumerevoli oggetti del mondo fisico e gl’innumerevoli
fatti del mondo morale, alcuni sono ordinarii, frequenti, comuni;
altri straordinarii, rari, peregrini. Sia quale si voglia la loro
singolarità, noi non possiamo negar loro fede. La loro esistenza è
indiscutibile; ci è rivelata dalle testimonianze dei sensi: abbiamo
visto, abbiamo udito, abbiamo toccato: dunque crediamo. Io ho visto
una volta, in un pomeriggio d’autunno, il cielo di madreperla. Era
coperto da una nube sottilissima, ondulata, come fatta di piccole
scaglie: i raggi del sole occiduo si rifrangevano in ciascuna
d’esse, e ne risultavano tante iridi innumerevoli, accostate,
sovrapposte, come un madreporico banco. Ho chiesto a molte persone
se è loro accaduto di vedere uno spettacolo simile: ne ho avuto
risposte negative. Ora supponiamo che io fossi pittore, e che avessi
dipinto quel cielo: tutti coloro che non lo avessero visto realmente
avrebbero giudicato stravagante e incredibile la rappresentazione
mia. Visitiamo un’esposizione di pittura: ad ogni passo ci accadrà
di vedere colorazioni di cieli, di mari, di monti, e forme di cose,
e proporzioni di parti che giudichiamo false, perchè non le abbiamo
viste nel vero come l’artista; o perchè, avendole viste, non abbiamo
più il vero dinanzi per poter fare un paragone e comprovare la fedeltà
della rappresentazione. I colori e le forme sono tuttavia, quantunque
mutevoli, quasi immutabili rispetto alla infinita varietà dei fatti
morali; e nell’arte che li narra, nel romanzo e nella novella, la
difficoltà di accordar fede all’artista è maggiore e quasi continua.
Noi sappiamo che nella vita avvengono cose che i romanzieri di fantasia
più sbrigliata non possono neppure sognare; e nondimeno, quando
leggiamo un romanzo che si discosta dalla realtà più notoria, subito
neghiamo credito all’autore; perchè il romanzo dà l’immagine della
vita, non già i documenti.

Nell’arte narrativa noi vediamo andare insieme e reciprocamente
aggravarsi i due inconvenienti che derivano dall’annettere troppo
prezzo alle qualità del soggetto dell’opera artistica. Il romanzo
d’appendice, per voler essere troppo bello—o più propriamente,
sebbene con parola barbara, _interessante_—per voler essere bello o
interessante della bellezza e dell’interesse intrinseci dell’argomento,
è tutt’insieme brutto ed incredibile. Esso non è già falso. Leggete
i _Delitti impuniti_ del Macé: troverete una quantità di storie
verissime, autentiche, passate sotto gli occhi dell’autore quando era
capo del servizio di sicurezza pubblica, le quali offrirebbero temi
straordinarii ai narratori. Un giorno, per esempio, si trova una donna,
una certa Hache, distesa al suolo della sua camera, morta, orribilmente
mutilata, con la testa quasi staccata dal busto, il naso tagliato, le
dita monche. La gente è accorsa al racconto di una ragazza che era
in portineria: un individuo le chiese del signor Hache; sentito che
non si trovava in casa ma che c’era la moglie, lo sconosciuto salì;
pochi minuti dopo andò via rapidamente: sul mantello aveva del sangue.
Il marito della morta, rincasando, esclama: «Sciagurato!... L’ha
uccisa!...». Invitato a spiegarsi, nega di avere alluso a qualcuno,
d’aver concepito un sospetto. È imprigionato insieme col cognato e
con un altro parente: tutti e tre dimostrano la loro innocenza, ma
non dicono nulla che guidi la giustizia. Il furto non può essere
stato lo scopo del delitto: denari e cose di valore sono intatti;
sottosopra e macchiate di sangue sono invece le carte, le lettere che
si trovano in un cassettone: dal loro esame non si ha alcun lume per
la scoperta della verità. Si viene a sapere soltanto che l’anno prima
un tentativo di assassinio era stato commesso sulla stessa donna: un
vicino di casa aveva udito il rumore d’una lotta e poi queste parole:
«Mi vuoi uccidere?...». Accorso, egli aveva visto un giovane uscire
tranquillamente dalla casa della Hache ed ella stessa tranquillamente
richiudere l’uscio. E null’altro si sa, dopo oltre quarant’anni. I
romanzieri e i lettori che riderebbero delle secrete intervenzioni di
persone potenti nelle cose della giustizia, delle tenebrose influenze
che alle volte ne intralciano o arrestano il corso, leggano le
dichiarazioni del Macé, il quale è persuaso che la luce non si fece
perchè qualcuno non volle che si facesse; leggano anche l’episodio
di _Monbéguin_. Cinque anni dopo l’assassinio della Hache, una sera
portano al Macé un cavaliere d’industria del marciapiedi, chiamato
_Monbéguin_ nei bassi fondi dove vive ed opera. Il capo dell’ufficio,
letto il verbale dell’arresto che il Macé gli sottopone perchè lo
firmi, dice al dipendente: «Rimettete quel giovanotto in libertà», e
non gli restituisce il documento. _Monbéguin_, udendo che lo lasciano
libero, esclama: «Lo sapevo!». Chi è costui? Non si sa. Richiesto dal
Macé di dire la sua opinione sull’assassinio della Hache, risponde, in
gergo, che l’autore è un figlio naturale della vittima e di una persona
alto locata: il _lupetto_ ha ucciso la madre per rubarle i documenti
comprovanti la sua nascita e tentare un ricatto contro il padre.
È vero? È falso? Chi era il padre? Come sapeva _Monbéguin_ queste
cose?... Il mistero dura ancora, e lo scrittore che lo prendesse a tema
di un romanzo potrebbe vantarsi di narrar cose straordinarie; ma, quasi
inevitabilmente, egli si lascerebbe tanto sedurre dalla singolarità
dell’argomento, che ne trascurerebbe la rappresentazione artistica, e
così, mentre non farebbe neppure opera di storia, non avrebbe diritto
al credito che noi accordiamo alla narrazione dello storico, del
sociologo, del moralista.


III.

Ma se le qualità della rappresentazione sono le prime ed essenziali,
perchè si conoscono, mentre quelle delle cose rappresentate sono
ambigue e possono anche alterare le prime, diremo che l’artista debba
scegliere, per darne un’immagine nell’opera sua, le cose brutte,
comuni, volgari ed insignificanti? No, certamente. Quando l’oggetto
possiede le migliori qualità, quando perfetta ne è l’immagine
artistica, e quando lo spettatore è capace di apprezzare le due
perfezioni, allora si hanno tutte le condizioni perchè l’effetto sia
insuperabile. Ma non tutte le statue sono la Venere di Milo, nè tutti
gli spettatori sono Canova.

Diremo allora che l’artista non debba badare alle qualità delle cose da
rappresentare, e debba soltanto porre ogni sua cura nel rappresentarle
ottimamente? Negheremmo così quella scelta, della quale già dimostrammo
la convenienza e la necessità. Nessun artista, non il realista, non il
naturalista più spregiudicato, trascura di scegliere e rappresenta le
prime cose che gli capitano sotto mano.

Giacchè abbiamo parlato dell’arte narrativa, osserviamo che cosa vi
accade. Come il poema, dal quale proviene, il romanzo narra in origine
le gesta magnifiche e le avventure memorabili; la novella, secondo
dice lo stesso suo nome, riferisce gli avvenimenti nuovi ed insoliti.
Paragoniamo i romanzi di cappa e spada e le _Mille ed una notte_
all’_Educazione sentimentale_ e alle novelline del Maupassant: daremo
ragione, sul principio, a chi sostiene che non c’è più scelta, che
l’arte se n’è affrancata, che rappresenta qualunque cosa, senza badare
alle qualità della cosa rappresentata. Ma il giudizio è inesatto.
Quando l’artista pare più indifferente, allora è più vigile. Le cose
narrate dal Maupassant non sono, come sembrano, fatti di cronaca,
volgari, senza significato: riflettono, al contrario, certi lati oscuri
della vita e della natura umana, racchiudono una filosofia o amara o
ironica, hanno una loro propria bellezza. Tranne che questa bellezza
non è riconoscibile da tutti, immediatamente: lo spirito attento e
penetrante dello scrittore ha saputo coglierla. Ora, se il concetto di
bellezza, nel mondo dei fatti e delle cose, è indeterminato e relativo
come abbiamo visto, il fatto che certuni o anche molti disconoscono
la bellezza di cotesti argomenti non vuol dir nulla, non prova nulla
contro il Maupassant che li ha giudicati bellissimi, senza di che non
li avrebbe rappresentati, e contro i molti che, trovandone un’immagine
stupenda nelle sue novelline, ammirano le novelle e ne gustano i temi.

Altrettanto dicasi delle arti figurative, della scultura, della
pittura. Se il pittore fa spontaneamente il ritratto di una persona
che a noi sembra brutta, state pur sicuri che egli ha trovato in lei
qualche bellezza. E se l’opera sua è bella, cioè da un’immagine precisa
della persona reale, noi stessi discopriremo le qualità che hanno
impressionato il pittore e determinato la scelta sua.



QUALITÀ DELL’ARTE


SE ufficio dell’arte è dare un’immagine del vero, la prima qualità
che conviene ricercare nell’opera d’arte pare che sia la verità, la
fedeltà, la precisione, l’esattezza. Questa convenienza è troppo
spesso disconosciuta, o riconosciuta tardi, difficilmente, dopo
molte contraddizioni, quasi a malincuore. Un esempio di singolari
tergiversazioni ha dato recentemente Constant Martha, filosofo erudito
e critico di buon gusto.

Opportunamente comincia egli col notare che, abolite le leggi alle
quali l’arte doveva sottoporsi secondo la tradizione della classica
antichità, lasciata da parte «la legislazione del Parnaso» sicura e
rigida quasi come la morale e la teologica, oggi non è più possibile
fondare l’estetica sopra astratte speculazioni e sopra una metafisica
oscura e screditata; conviene invece appoggiarsi alla psicologia,
osservare direttamente e personalmente gli effetti dell’opera
artistica, e da questi risalire alle qualità da richiédere all’arte.
Il metodo è buono, è anzi il solo buono; se non che l’autore non lo
segue come dovrebbe. Il suo volume è intitolato: _La delicatezza
nell’arte_, e sulla fede del titolo la dote principale dell’opera
d’arte consisterebbe appunto nella delicatezza; ma lo scrittore
spiega che con questa parola ha voluto designare e comprendere tre
doti diverse, le quali sarebbero: la precisione, la discrezione e la
moralità.

Discutiamole successivamente.


I.

«C’è una qualità, fra tutte le altre, senza la quale nessun’opera può
produrre piacere profondo e durevole; questa qualità indispensabile
deve dominare la composizione e lo stile, l’idea e la forma.
Un’opera d’arte che possiede questo merito è buona; se lo possiede
in parte è mediocre; se ne manca interamente è cattiva..... Questo
merito consiste nella precisione». Se per precisione s’intendesse
l’esatta corrispondenza fra le immagini artistiche e le cose che esse
rappresentano, noi troveremmo nel Martha un propugnatore del concetto
al quale ci arrestammo; ma l’idea dell’autore è un poco diversa.

Vi fu nell’antichità un popolo, i Rodii, che usava onorare d’una statua
ogni suo eroe; ma pare che gli eroi si moltiplicassero con tanta
facilità da mettere un forte aggravio sulla finanza pubblica; talchè,
volendo conciliare il dovere del tributo da rendere ai valorosi con le
necessità dell’economia, quegl’isolani deliberarono di cancellare i
nomi posti sotto le antiche statue e di dedicarle alla memoria di altri
grandi. Dione Crisostomo scagliò i fulmini della sua eloquenza contro
il meschino espediente che privava gli antichi eroi dell’onore dovuto
e ne tributava uno molto discutibile ai nuovi; il Martha aggiunge che
queste statue, diventate in tal modo poco «precise», non dovevano
essere molto importanti per gli amatori dell’arte plastica.

Diremo noi che queste statue fossero veramente poco precise? Se un
quadro rappresentante una campagna portasse per titolo: «Marina», noi
accuseremmo l’artista di mancanza di precisione; ma non confonderemo
questo difetto con quello di un altro quadro dove, dato lo stesso
soggetto campestre, e un titolo appropriato, troveremo che non sono
rispettate le leggi della prospettiva, o che in un paesaggio nordico
fioriscono piante da serra calda, o che gli ulivi sono del colore dei
pini e viceversa. La mancanza di precisione è esteriore nel primo
caso, come nelle statue dei Rodii, interiore nel secondo; un artista
non potrebbe commettere la prima se non per burla o stravaganza;
chi cadesse nella seconda non è artista. Dinanzi a una statua rodia
dissotterrata, come farebbe il Martha per decidersi ad ammirarla o
a criticarla? Dove prenderebbe l’eroe il cui nome si legge sulla
base—se si legge ancora e se pure c’è ancora la base—per giudicare
intorno alla rassomiglianza? Evidentemente intorno alla rassomiglianza
non si può più dare un giudizio; noi non possiamo far altro che dire
se la statua dissotterrata rappresenta bene o male una figura d’uomo
con un certo abito e in un certo atteggiamento. Il nome dell’originale
importerebbe allo storico, non già all’artista; parlando d’arte, la
precisione da esigere è l’intrinseca precisione artistica, la tecnica,
la formale.

Il Martha invece attribuisce il maggior pregio al contenuto. «Vi sono
certe bellezze», dice egli con Luciano nel _Zeusi_, «che possono in
parte sfuggirmi. La squisita correzione del disegno, certe combinazioni
di colori lascio che siano lodate dai pittori che hanno il dovere
di comprenderle. Da parte mia ammiro Zeusi per aver dato al suo
personaggio lineamenti tanto ben definiti, che appartengono a lui
solo». Tutti i critici fanno come il Martha e come Luciano: dànno
maggior prezzo al contenuto; tutti gli artisti giudicano inversamente
e dànno il primo posto alle qualità tecniche e formali. Ora, se la
precisione del contenuto è una bella cosa, se bisogna ottenerla,
l’opera d’arte non esiste senza queste qualità alle quali il Martha
assegna un posto secondario.

Il suo concetto della precisione è pertanto poco preciso, o poco
precisamente spiegato. Egli dice che la poesia, considerata come arte,
non fu «se non uno sforzo per arrivare alla precisione», e che tutti
i generi poetici non furono creati «se non per stringere il pensiero,
per imprigionare cotesto vagabondo e sottometterlo a certe leggi
che i luminosi genii primitivi riconobbero come le sole capaci di
allettare lo spirito». Vuol egli dire così che l’arte poetica è capace
di conseguire una maggior precisione delle altre? Se la precisione è
una qualità dell’arte, tutte le arti non debbono conseguirla, in modo
diverso, ma in egual grado? È vero che il verso imprigiona il pensiero
più strettamente che la frase prosaica; ma, per questa ragione,
mentre esso sembra ed è, da una parte, più preciso, sembra anche ed è
meno preciso dall’altra. Questo pare un giuoco di parole, perchè le
parole adoperate dal Martha sono alquanto elastiche. Il linguaggio
dei versi non è, propriamente parlando, più preciso che il prosaico:
le frasi e le strofe possono con pari precisione significare le idee:
tranne che le strofe, per le loro particolari qualità, si adattano a
certe idee particolari. Una prima operazione, da parte dell’artista,
consiste adunque nel riconoscere le qualità delle idee da esprimere:
se queste sono di natura poetica, egli adatterà il linguaggio poetico,
in caso contrario si servirà del prosastico. Qui non si tratta tanto
di precisione quanto di convenienza. La poesia lega il pensiero con
le rigide regole del metro; un verso può esprimere il pensiero con
una forma rigorosa, concisa, incisiva; ma non più precisa di una
proposizione; anzi, se dobbiamo parlare di precisione, la proposizione
libera può adattarsi più precisamente del verso a tutti i più
particolari andamenti del pensiero.

Ancora: nel poema, nel dramma, il Martha loda come effetto di
precisione ciò che è effetto della buona composizione: il rigetto dei
particolari inutili, la proporzione delle parti, l’ordine della loro
distribuzione. Se vogliamo comprendere tutte queste cose sotto il nome
di precisione, dobbiamo anche ammettere che essa non è soltanto della
poesia epica e drammatica, ma di tutte le opere d’arte: del quadro,
della statua, della costruzione architettonica.

Ma l’autore si serve spesso, invece della parola _precisione_, dei
sinonimi, e parla di un’_esattezza_, di una _giustezza_ che l’arte
dovrebbe avere di mira. Se egli vuole che l’artista, prima d’ogni altra
cosa, definisca in tal modo il proprio soggetto, che questo non possa
andar confuso con altri più o meno simiglianti, si potrà dire, più
semplicemente, che la prima qualità dell’arte dev’essere la verità.
Il Martha cita l’esempio del quadro di Timomaco rappresentante Medea
che, sul punto di colpire i proprii figli, rivolge loro uno sguardo
meravigliosamente rivelatore dei due opposti sentimenti cozzanti
nell’animo suo: la gelosia e l’amor materno: un poeta dell’Antologia
disse che il pittore aveva dato alla figura due occhi differenti:
uno furioso e l’altro intenerito. L’eccellenza di questa espressione
consisteva nella sua verità. Se l’espressione fosse stata quella della
sola gelosia o del solo amor materno, sarebbe stata parzialmente
vera, perchè ciascuno di questi sentimenti esisteva nel cuore della
sciagurata; ma una verità parziale non è la verità: la verità vera è
la totale. Lo stesso Martha si serve della parola _verità_ come di
un altro sinonimo di _precisione_, quando dice che nell’arte degli
attori e dei pittori gli atteggiamenti sono ordinariamente d’una
«verità approssimativa», e che i soli capaci di eccitare l’entusiasmo
sono quelli di una «verità esatta». Ora non è indifferente servirsi
della parola «verità» come sinonimo di «precisione», e fare della
precisione, e non della verità, la prima qualità dell’arte; perchè
può derivarne un malinteso, specialmente quando non si sono distinte
le qualità delle cose reali dalle qualità dell’arte che le riproduce.
Si dice, per esempio, e il Martha lo nota, che la poesia tanto più
è poetica quanto più è ambigua, misteriosa e indefinita. Questo è
veramente uno dei caratteri non già dell’arte poetica, ma di certe
cose naturali ed umane. Vi sono sentimenti reconditi, fuggevoli,
indeterminati, ineffabili: noi li chiamiamo poetici prima ancora di
farli argomento di poesia. Come dovrà esprimerli la poesia? Dovrà
esprimerli, evidentemente, come sono, con i loro caratteri d’ambiguità
e d’imprecisione. Per dimostrare che anche in questo caso l’arte
dev’essere precisa, bisognerebbe ricorrere a un bisticcio e dire
che la poesia dello Chateaubriand e del Lamartine ha la precisione
dell’imprecisione, riproduce cioè precisamente le cose imprecise.


II.

Un’altra qualità che il Martha cerca nell’arte, e che non trova nelle
opere contemporanee è la discrezione: egli si duole perchè l’arte
ai nostri giorni non sembra avere altra cura se non di descrivere
la realtà con «la più minuta esattezza». Si potrebbe pertanto sin
da questo momento osservare una contraddizione nel pensiero del
critico. Questa minuta esattezza che ora lo scontenta, non è quella
precisione che aveva prima tanto raccomandata? Se non che, egli fa una
distinzione: approva il movimento romantico contro l’arte classica
che non osava nulla dipingere precisamente, che era come svanita
nell’inanità della perifrasi; ma condanna l’usurpazione commessa dagli
artisti quando hanno preteso che l’arte viva soltanto delle cose
reali. «Gli oggetti dipinti per sè stessi» dice il Martha, «quando
non svegliano in noi qualche idea, quando non suscitano sentimenti,
non possono trattenere nè lo spirito nè l’anima». Adattiamo cotesto
principio a un’arte: alla pittura: «È necessario che in un quadro
si trovi qualche cosa che interessi lo spirito, un pensiero, un
sentimento, un’intenzione, diciamo in una sola parola: un soggetto».
Ma che cosa bisogna intendere per soggetto? «Noi non intendiamo
necessariamente una scena storica o aneddotica, come se ne possono
leggere nei libri..... Tutto può diventar soggetto..... una scena
campestre, anche meno, un animale, un albero, un fiore.... Non c’è
niente di vile in mezzo a ciò che può assumere un’espressione, che può
rivelare il pensiero dell’artista.....». Se il Martha concede tanto,
difficilmente troverà qualcuno che sia discorde da lui. Nel vasto
mondo ogni oggetto potrà rappresentare o simboleggiare qualche cosa:
se l’immaginazione si sveglia, se le idee cominciano ad associarsi,
si può andare molto lontano. «Qualche volta un cielo, un mare, un
deserto bastano: lo spirito dello spettatore s’incarica di riempire
il quadro». Bisogna tuttavia notare che, avendo ogni spettatore uno
spirito suo proprio, poco o molto diverso da quello del vicino, il
quadro sarà colmato in tanti modi diversi quanti sono gli spettatori:
noi vediamo pertanto che i critici d’arte, quando si occupano di
scoprire gli intendimenti degli artisti, non sono quasi mai d’accordo
e invece di rischiarare gli spettatori, li confondono peggio. Ecco
un quadro rappresentante una foresta: un filosofo probabilmente vi
leggerà la dimostrazione del panteismo, un agricoltore la necessità
del rimboschimento, un medico l’elogio della vita all’aria libera;
l’artista, intanto, ha voluto semplicemente dipingere una foresta, e
ciò che importa, per l’arte, è che la sua foresta sia ben dipinta;
quando questo patto è stato osservato, ognuno potrà vedere nel quadro
tutte le intenzioni, tutte le idee, tutti i sentimenti che eccita la
vista della foresta vera.

Ma se un cielo, un mare o un deserto, per confessione dello stesso
Martha, bastano ad esprimere qualche cosa, come può egli distinguere
il quadro «che fa vedere soltanto ciò che espone alla vista», da quello
dove c’è qualche altra cosa? Qualche cosa «d’altro» si può trovare
e si trova, come egli ha riconosciuto, in tutti i quadri, qualunque
oggetto rappresentino. Un quadro dove si vedano «prospettive fuggenti
nelle quali il nostro spirito s’ingolfa ed ama errare, un viale sinuoso
del quale la nostra immaginazione compie il giro, stabilendovisi come
in una cara solitudine», è lodato su tutti gli altri dal Martha. Ora
questa sinuosità dei viali e questa evanescenza delle prospettive non
sono già inventate dall’artista; egli le copia dal vero; come nel
vero questo medesimo artista, oppure un altro, copia le prospettive
nitide e i viali diritti. In mezzo agli infiniti oggetti reali,
alcuni hanno certe qualità, altri hanno qualità diverse o contrarie:
sarà da imporre all’artista la scelta di certi oggetti e lo scarto
di altri? Un sole smagliante sopra un’aperta spiaggia ha la sua
espressione, un’espressione tutta diversa ma non meno importante di
quella che ha un bosco vaporoso al lume di luna: non vi sarà arte, arte
lodevole, se non nella scelta dei soggetti vaporosi, oscuri, confusi,
indeterminati? L’arte ha fatto tutto quello che può e che deve fare
quando ha rappresentato l’oggetto con i suoi caratteri, in modo che la
sua immagine racchiuda tutte quelle espressioni e susciti tutte quelle
impressioni che racchiude e suscita l’oggetto reale. Tutti gli oggetti
hanno un’espressione e producono un’impressione; e lo stesso Martha lo
riconosce quando accorda un valore espressivo a certi quadri di artisti
nordici dove molti, per non dire quasi tutti ammirano soltanto la
fedeltà materiale della pittura; nelle rappresentazioni, per esempio,
«di una camera deserta, con l’impiantito ben lavato, coi mobili
rilucenti, con gli utensili della cucina; il tutto rischiarato da un
raggio di sole penetrante dalla finestra dischiusa». Si può qui trovare
un’idea o un sentimento? E il Martha risponde che, per dubitarne,
bisogna «non comprendere la vera poesia del Nord». Ora al Nord, al
Sud, all’Est, all’Ovest, e in ogni angolo del vasto mondo, ogni cosa
racchiude qualche idea e suscita qualche sentimento, direttamente o per
associazione. Non s’intende pertanto come il Martha, per arrivare a
questa semplice e innegabile conclusione, cominci con un’affermazione
contraria e biasimi, per soprammercato «le descrizioni delle cose
materiali che non ci apprendono nulla perchè ci sono familiari».

Ma egli dà alla legge della discrezione un altro valore. Egli vuole
che l’artista non dica tutto ciò che ha da dire, ma che lo lasci
piuttosto supporre e intravedere grazie all’abilità dei sottintesi.
Egli loda moltissimo il caso di Timante, pittore greco, che nel quadro
del _Sacrifizio d’Ifigenia_, dopo avere esaurito le espressioni
del dolore sui volti di Calcante, di Ulisse, di Menelao, non osò o
non volle ritrarre il dolore paterno, e rappresentò Agamennone con
la testa coperta d’un velo. Tutti i critici antichi si accordarono
nell’ammirare questo espediente, che noi chiameremmo _trovata_; il
quale è veramente abile e—se arte è sinonimo di abilità—si può
anche soggiungere artistico. Ma l’effetto del velo sulla testa di
Agamennone, nel quadro, non è maggiore di quello o diverso da quello
che si avrebbe nella realtà; e noi approviamo che la figura del
padre sia con la testa velata, come approveremmo che la faccia fosse
nascosta tra le mani, perchè realmente la vista della figlia morta può
essere ed è insostenibile agli occhi paterni. Il merito dell’artista
consiste nell’aver fatto quest’osservazione. Tutte quelle che sembrano
invenzioni dell’artista non sono altro che osservazioni da lui fatte
nella realtà. Il Martha loda certi moderni quadri militari dove si
vedono i soldati non nel momento della pugna, ma poco prima, quando si
preparano a combattere. Ora, che l’imminenza della battaglia faccia
una grande impressione, che la fantasia immagini la sorte destinata ai
combattenti, che li antiveda morti o moribondi mentre sono ancora pieni
di vita, che li ammiri o li compianga, sono tutte cose innegabili:
ma non perciò si dovrà dire che la battaglia non significhi nulla, o
significhi meno. Sono due momenti della realtà, ciascuno dei quali ha
la sua particolare espressione. La più gran parte dei pittori militari
suole scegliere il momento della battaglia; il primo che ha dipinto i
preparativi, l’ansia che passa tra le file dei soldati all’udire il
primo colpo di cannone, ha fatto una _trovata_: ma egli non ha trovato
nulla che non sia nel vero.

Il Martha osserva che «nei drammi moderni, quando una donna si getta
al collo dell’amante gridando:—T’amo! T’amo!—noi abbiamo ben poco
da apprendere sul conto suo; ma quando Ermione nasconde per alterezza
l’amor suo e per alterezza ancora la sua collera, quando non sa ella
stessa se ama o non ama, quando la vediamo ondeggiare tra l’amore e
il furore, noi passiamo di meraviglia in meraviglia, e ogni verso, in
quella tempesta dell’incostanza, splende come una nuova luce sulla
natura umana». Ora qui c’è un equivoco veramente imperdonabile.
Ermione è indecisa, e sta pertanto benissimo che l’artista antico
abbia stupendamente riprodotto i suoi tentennamenti; l’artista moderno
avrà torto marcio facendo gettare dalla sua protagonista le braccia
al collo dell’amante, se questa protagonista è indecisa come Ermione;
ma l’indecisione non è, per fortuna, lo stato abituale del cuore
delle donne o degli uomini, ed essi tutti si decidono e compiono
risolutamente azioni e dicono fermamente parole che l’arte deve
riprodurre con la fermezza e la risolutezza loro, sotto pena di esser
falsa, cioè di non esser arte.

Nell’arte letteraria la metafora, dice il Martha, «è l’immagine di un
oggetto che fa pensare ad un altro; la favola, l’apologo, l’allegoria
sono modi indiretti d’interessarci ad una verità lasciando che noi
stessi la troviamo... Con l’allusione voi designate una cosa che
non volete mostrare; con l’ironia fate comprendere il contrario del
vostro pensiero, con l’iperbole dite di più per fare intender di
meno...». Il valore delle figure non ha bisogno di esser dimostrato;
il Martha sfonda una porta aperta quando dice che non già la retorica
le ha imposte; ma che, al contrario, l’uso universale si è imposto
alla retorica; nondimeno, se esse sono leggi dell’arte, l’arte non
consiste in esse. «Le donne, che posseggono un senso così naturale e
fine dell’arte, hanno, grazie al più semplice istinto, dal principio
del mondo, inventato la civetteria, che consiste precisamente nel dar
prezzo alla bellezza nascondendola». Ora la civetteria è artifizio,
non arte. «L’arte» dice ancora il Martha «ama i giri e i misteri».
Una certa arte, se mai. Arte è sinonimo di abilità, di destrezza e
più semplicemente di maniera; ma tutte queste cose, necessarie alla
creazione dell’opera d’arte, non sono sufficienti; la sola abilità non
basta, e l’arte ammanierata è la più detestabile fra tutte. Il pensiero
dell’autore «non è di presumere che l’opera artistica si componga
soltanto con ricette arbitrarie e piccole combinazioni enimmatiche»; ma
egli loda veramente troppo le trovate ingegnose, gli espedienti della
destrezza. E perchè mai sarà da condannare sempre ed assolutamente lo
stile violento? Moderazione, certo, non è debolezza; è talvolta segno
della vera forza; ma le espressioni compassate, i sentimenti infrenati
non sono invariabilmente da preferire, perchè non sono i soli veri.
C’è bensì talvolta un silenzio più eloquente che la stessa eloquenza:
ma la gente non tace sempre; grida anche ed urla. La discrezione, la
moderazione, i sottintesi, sono mezzi adatti a provocare la commozione
estetica; ma non è possibile farne i soli, e non è giusto farne i
migliori. Perifrasi e metafore hanno il loro valore; ma in certi casi
non giovano; e una nuda e cruda parola, dietro alla quale non sia alcun
mistero da scoprire, ma che stia al suo posto, ha la sua efficacia. C’è
una brutalità estetica che impressiona, soggioga e suscita commozioni
gagliarde; come ci può essere una delicatezza anti-estetica, che lascia
freddi e indifferenti. E quando la discrezione fosse usata fuor di
proposito, non violerebbe quella legge della precisione che il Martha
vuole pure rispettata?


III.

E veniamo alla moralità dell’arte.

Il Martha nota innanzi tutto che dell’arte, come di ogni altra cosa, si
può abusare e si è abusato; e che, a parte l’abuso, una stessa opera
d’arte può essere morale ed immorale secondo le circostanze di tempo
e di luogo, secondo la condizione di chi l’apprezza: alle educande
non si può mettere in mano un romanzo d’amore; la statua di Venere
non si può collocare in un convento di frati, e via discorrendo. Nota
anche l’autore che, prima di affermare la subordinazione dell’arte
alla morale, sarebbe bene consultare la storia, la quale insegna che
la morale religiosa e filosofica non ha quasi mai voluto saperne
dell’arte e l’ha esclusa e bandita, a comminciare da Eraclito, secondo
il quale Omero doveva essere cacciato a schiaffi dalle scuole, e
venendo a Sant’Agostino, che dubitava dell’opportunità dei canti
armoniosi dentro le chiese. «Che ne sarebbe dell’arte, se fosse stata
sotto l’impero e l’influenza dei filosofi e dei dottori? Per buona
sorte essa è sfuggita loro di mano grazie alla sua alata natura».

Queste osservazioni sono giuste e ragionevoli. Più lodevoli ancora
sono le altre con le quali il Martha risponde al quesito: deve l’arte
mettersi al servizio della morale? L’arte morale è noiosa, dice egli,
e puerile; il piacere prodotto dall’opera d’arte finisce quando
comincia la lezione. «Volentieri, se cerco la morale, mi rivolgo ai
moralisti; quando voglio invece ricrearmi con una finzione ricorro ai
poeti. Siccome l’arte e la morale sono entrambe belle e buone cose,
si è pensato, con molto torto, che mettendole insieme si renderebbe
il piacere più intenso e salutare. Questo principio è un’eresia in
letteratura come in gastronomia».

Se non che il Martha deve temere che queste sue parole sembrino
troppo arrischiate; perchè, dopo aver rivendicato così l’indipendenza
dell’arte, si affretta a giustificarla, a difenderla da accuse che
nessuno le ha fatte, e che se fossero fatte realmente non meriterebbero
di essere ribattute; e allora egli cade in molte contraddizioni che
offuscano il suo pensiero. Osserva, per esempio, che certe opere
dove le passioni e i vizii sono rappresentati con evidenza seducente
non possono, come certuni asseriscono, diffondere il contagio di
quelle passioni e di quei vizii. «Noi crediamo il contrario. Lo
spettacolo delle altrui passioni ci rischiara sulle nostre proprie».
Ma, accennando a un celebre romanzo moderno dove è messa in terribile
evidenza la rovina prodotta dall’ubbriachezza, egli dice, al contrario,
che questo libro è moralmente detestabile; perchè l’autore, pur dando
buoni consigli, immerge e trattiene il nostro spirito nell’abbiezione.
Come concilieremo questa critica con la prima affermazione? L’artista
dovrà forse rappresentare il vizio non come è realmente, ma purificato,
nobilitato, diventato virtù? Ma allora sarà più vizio? Dove se ne andrà
la precisione? E il Martha non ammira gli antichi appunto perchè, se
mettevano in iscena un eroe, lo facevano eroicamente parlare e gli
attribuivano la stessa bellezza corporea, mentre davano al vizio e al
delitto espressione ed aspetto repugnanti? È vero che, ammirando così
gli antichi, per la stessa ragione egli detesta i moderni, i quali non
esitano a mettere un’anima bella in un corpo orribile, un linguaggio
dignitoso in bocca a servi, un linguaggio da servi in bocca a re: ma
ignora forse l’autore, o disconosce la varia e innumerabile ricchezza
e complessità delle figure umane? Se di regola la bellezza esteriore
rivela l’intima bontà, quante altre volte questa corrispondenza non
esiste e l’aspetto mentisce? Lo stesso proverbio dice che l’abito
non fa il monaco; e perchè mai la storia dell’arte registra nelle
sue pagine la memorabile rivoluzione contro i troppo ligi seguaci
dell’antichità, contro i classici, se non appunto perchè questo
classicismo aveva creato certi tipi fissi, certe relazioni immutabili,
certe fatalità invincibili, quando la diretta osservazione della vita
ammoniva che queste fatalità, queste relazioni, e questi tipi non
esistono; che esistono invece uomini varii d’aspetto e di sentimento,
passioni diverse di forza e di durata, rapporti imprevisti fra le
condizioni della vita e dell’animo?

Il Martha, dopo aver giudicato eresia il credere che la mescolanza di
due cose belle e buone, come sono l’arte e la morale, raddoppierebbe il
piacere dell’effetto totale, soggiunge un ragionamento tutto contrario.
«Siccome», dice, «l’arte si propone di piacere—nel senso più alto
della parola—così essa naturalmente accarezza in noi i sentimenti che
più ci sono cari, e rispetta ciò che è oggetto dei nostri rispetti... I
sentimenti onesti, per la sola ragione che sono tali, sono sembrati in
ogni tempo uno spettacolo attraente... Due mila anni addietro Socrate,
che fu artista prima di essere filosofo, parlando col celebre pittore
Parrasio, gli diceva che l’arte ha il diritto di rappresentare tutte
le passioni, buone o cattive; ma soggiungeva:—Che cosa piace più
vedere, a tuo giudizio: i sentimenti belli, onesti, amabili; o quelli
vili, cattivi, odiosi?—Per Giove!—rispose Parrasio,—c’è una bella
differenza!». E il Martha conclude che l’arte contemporanea, quando
dipinge le cose brutte, manca non già alla legge morale, ma alla sua
propria legge, «che è la perfezione del piacere». Come sarà possibile
mettere d’accordo questa proposizione colla precedente? Se l’arte che
dipinge la bontà e la virtù produce un piacere perfetto, non sarà
falso, anzi sarà verissimo che il piacere dell’arte e della morale si
sommano quando le due cose si uniscono!

Noi abbiamo già risolto la contraddizione quando abbiamo parlato della
bellezza nell’arte. Dicemmo che la bellezza intrinseca dell’oggetto
rappresentato non si può sommare con quella della rappresentazione,
perchè le due bellezze sono d’ordine diverso; parimenti è impossibile
la somma della bontà dell’argomento con la bontà della trattazione,
per essere le due bontà impareggiabili. Un’opera d’arte è tanto
egregia rappresentando convenientemente un’azione eroica, quanto
rappresentando un’azione perversa: il piacere eccitato dall’arte non
è quello che dipende dalla scelta dell’oggetto da rappresentare, ma
dal modo col quale l’oggetto preferito dall’artista—preferito per
una ragione che può non essere la nostra, anzi essere contraria alla
nostra—è rappresentato. Una giornata di sole ci piace, e ci dispiace
una giornata di pioggia e di nebbia; ma è certo che un pittore potrà
fare un brutto quadro che rappresenti la giornata bella, o un quadro
stupendo che rappresenti una giornataccia. E il disprezzo per quelle
rappresentazioni artistiche dove l’oggetto rappresentato non è bello,
buono, grande o nobile, si spiega con una illusione che l’opera d’arte
produce e che è in ragion diretta della potenza dell’arte. L’illusione
consiste nello scambiare la rappresentazione con la cosa rappresentata.
Così, per continuare l’esempio della giornata bella o brutta, se il
cattivo tempo è mirabilmente rappresentato nel quadro, se voi vi
sentite quasi sbattere il vento in faccia e l’umido appiccicarvisi
addosso, accuserete l’autore di avervi procurato queste incresciose
sensazioni e dichiarerete che il quadro suo, artisticamente stupendo, è
brutto quanto realmente brutto è l’oggetto che vi è dipinto. Al teatro,
dove la maggior parte del pubblico è poco colto e molto ingenuo, il
fenomeno è più evidente. In America, narrano, uno spettatore tirò un
colpo di pistola contro un artista che rappresentava la parte del
traditore. Nel nuovo mondo, si dirà, sono ancora mezzo selvaggi; ma
non erano selvaggi in Grecia, e in Grecia, ad Atene, un personaggio
di Euripide fu scacciato via dagli spettatori tumultuanti, per aver
declamato, come la sua parte richiedeva, uno squarcio dove si sosteneva
che il denaro dev’essere preferito ad ogni altra cosa. Ora il Martha,
dopo aver detto che l’Americano assassino era un troppo ingenuo e
selvaggio amico della virtù, chiama indiscreto il grande tragico greco.
Ecco un’indiscrezione della quale ogni artista andrebbe superbo!

Probabilmente il Martha, affermando che il piacere è maggiore quando
l’arte rappresenta le cose buone, ha voluto negare che il piacere
della moralità si sommi con quello dell’opera d’arte quando la moralità
consista non già nel soggetto dell’opera, ma nel commento e nella
lezione. Espressamente egli dice che la moralità della predica è,
nell’opera d’arte, inutile, falsa, noiosa: «noiosa, perchè ciascuno
ama fare da sè stesso le proprie riflessioni... Il poeta» aggiunge,
«deve guardarsi dal predicare, dal far la lezione esprimendo le proprie
opinioni...». Ma come si potranno accordare questi consigli con le
lagnanze perchè «nelle opere d’immaginazione gli autori si piccano di
mantenere il proprio sangue freddo, di non lasciarsi commuovere dagli
avvenimenti patetici da essi rappresentati? Tra il vizio e la virtù
essi restano neutrali, col pretesto che tanto l’una quanto l’altra sono
fatti umani...». Ancora una volta, dunque, il critico si contraddice
per non voler riconoscere che l’ufficio dell’artista consiste nel
rappresentare gli oggetti naturali, eccitando il piacere con l’evidenza
della rappresentazione. È inutile soggiungere quali tra cotesti oggetti
è buono e bello, quale brutto e cattivo; perchè, se la rappresentazione
è fedele, le qualità belle e brutte degli oggetti riprodotti saranno
naturalmente palesi, senza bisogno di spiegazioni e di commenti.
Già bisogna avvertire che, se mai, i commenti e le spiegazioni non
sarebbero possibili se non nelle arti della parola, nella poesia, nel
romanzo, nel dramma; giacchè nelle arti figurative non c’è da far
altro che raffigurare le cose; ma nelle stesse arti della parola,
dove l’artista può significare la sua opinione personale intorno alle
cose riprodotte, non solamente questo intervento è inutile, ma non è
neppure artistico. Io scrivo un romanzo dove rappresento un eroe e
un brigante: che bisogno ho di dire: «Guardate che bisogna ammirare
l’eroismo e guardarsi dal brigantaggio?». Se la mia rappresentazione è
abile e perspicua, il lettore proverà dinanzi all’eroe rappresentato
la stessa ammirazione che eccita l’eroe vero, e dinanzi al brigante
immaginato lo stesso ribrezzo che per i briganti di carne e d’ossa.
Quando io poi volessi ad ogni costo esprimere il mio giudizio, tutte
quelle pagine del mio romanzo dove lo esprimessi, formerebbero uno
squarcio filosofico più o meno profondo, ma non apparterrebbero
all’opera d’arte; perchè il romanzo non ha da far altro che riprodurre
la vita. E finalmente, per cogliere ancora una contraddizione nel
pensiero del Martha, non ha egli chiesto nelle opere dell’arte i
sottintesi e la discrezione; non ha chiesto anche che lo spettatore e
il lettore collaborino con l’artista? Ora, che prova di discrezione e
di fiducia nell’intelligenza del pubblico vi sarebbe se l’artista gli
desse l’imbeccata? Il Martha non ha detto anche che, se si vuol trarre
una lezione da una commedia, non se ne trova altra fuorchè quella
data dall’«osservazione della vita?». Non ha egli detto altresì che
«ogni avvenimento notevole, sia pure fittizio, moralizza se è vero?».
Osservando che il romanzo somiglia alla storia, che i romanzi come la
storia hanno le loro peripezie e il loro scioglimento fatale, non ha
egli detto che tutte le passioni ammaestrano quando sia osservata una
regola semplicissima: «basta dipingerle con giustezza perchè diano la
loro moralità?...».



L’ESPRESSIONE NELL’ARTE


LA natura, il vero, la realtà è dunque il _luogo geometrico_—per
adoperare una espressione familiare agli studiosi delle scienze
esatte—di ogni motivo artistico. Bisogna pertanto, quando si ha da
studiare l’azione dell’arte, risalire subito all’origine, riferirsi
prima d’ogni altra cosa alla realtà; trascurando questo precetto
i malintesi, gli equivoci, le contraddizioni e le confusioni sono
inevitabili.

Si dice che l’arte è espressiva, nell’opera d’arte si cerca
l’espressione. Che cosa è questa dote? Sully Prudhomme comincia
egregiamente a studiarla nel mondo reale. La sua teoria è degna di
essere riferita, ma dev’essere anche, dove occorre, criticata.


I.

In ciascuno di noi, nel campo della nostra coscienza, che cosa si
trova? Si trovano, da una parte, le impressioni lasciate dagli oggetti
esterni; dall’altra idee, voglie, passioni, stati d’animo. Ora, per lo
stesso fatto che le impressioni dei sensi e gli stati morali coesistono
nel nostro cervello, nel nostro _io_, si stabilisce fra loro qualche
rapporto. Come mai il caldo prodotto in me da una stufa, o il suono
proveniente da una campana possono avere qualche cosa di comune col
piacere eccitato da una lode o col dolore provocato da un’offesa? Tra
queste cose che sembrano e sono di diversa natura, un che di comune
nondimeno esiste, e ne dà prova lo stesso linguaggio che adoperiamo
per significarle: noi diciamo che si _sente_ il caldo della stufa e il
suono della campana, come si _sente_ il piacere e il dolore. _Tatto_ e
_gusto_ sono nomi di due sensi; ma, oltre che per designare due sensi,
noi adoperiamo questi nomi per designare due attitudini dello spirito:
si dice uomo _di tatto_ e uomo _di gusto_ non per indicare chi è
delicato di epidermide o di palato, ma di sentimenti nella vita morale.
_Pensare_, operazione della mente, e _pesare_, operazione dei muscoli,
sono la stessa parola lievemente modificata. Quasi tutti gli aggettivi
con i quali noi qualifichiamo gli oggetti morali, gli stati psichici,
sono tolti, in ogni lingua, dalla nomenclatura degli oggetti fisici,
e quindi dalle impressioni che questi producono; per esempio: tepido,
cocente, freddo, gelato, aggettivi proprii a designare le sensazioni di
temperatura, servono anche per le passioni del cuore; di una verità si
dice che è palpabile come un oggetto materiale, una pena è acuta come
una freccia, un tradimento è nero, l’innocenza è candida, uno stile è
grigio, e via dicendo. Ora appunto in questa comunanza di caratteri fra
le impressioni dei sensi e gli stati morali, consiste l’espressione: i
caratteri comuni alle due serie si chiamano espressivi.

Sully Prudhomme non avverte che questa comunanza di caratteri è
più ideologica che reale. I caratteri appartengono veramente alle
sensazioni, e sono poi attribuiti ai sentimenti. Tutti i dati ci
sono forniti dal mondo esterno, dalle impressioni che ne riceviamo.
La dolcezza e l’amarezza, la chiarezza e l’oscurità, il calore e
la freddezza, tutte le qualità di ogni specie sono proprie delle
sensazioni, contraddistinguono le impressioni fisiche; quando noi
parliamo della dolcezza della lode, o della chiarezza d’un’idea, o
del calore di una passione, ci serviamo di modi metaforici. Il fuoco
arde; noi facciamo l’ardore morale mediante un processo di astrazione.
I sentimenti hanno dunque gli stessi caratteri delle sensazioni
per astrazione e similitudine: l’intima loro natura ci è ignota.
La conseguenza è pertanto che le sensazioni sono espressive dei
sentimenti, non già questi di quelle.

Il cielo è ingombro di nubi; a un tratto si schiarisce e torna sereno.
Il suo mutamento somiglia all’intimo nostro mutamento, quando,
dissipate le inquietudini, la tranquillità torna a regnare dentro di
noi. Noi diciamo pertanto che la tranquillità morale ha gli stessi
caratteri della serenità fisica, e alla vista del cielo sereno ci
sentiamo disposti alla pace. Questo adattamento del morale al fisico,
questa trasmissione al morale delle qualità dei caratteri fisici
rivelatici dalle sensazioni, si chiama simpatia: la nostra serenità,
alla vista del cielo sereno, è eccitata simpaticamente. Simpatizzare, o
_simpatire_, significa _sentire insieme_; ma, quando noi siamo sereni
col cielo, non possiamo dire propriamente che sentiamo insieme col
cielo, perchè il cielo non sente. Mettiamoci invece dinanzi a un uomo
dolente: vediamo allora membra accasciate, lineamenti scomposti, occhi
socchiusi o stravolti, e udiamo una voce cupa o stridente. Queste
qualità delle sensazioni: accasciamento, scomposizione, stravolgimento,
cupezza, stridore, eccitano dentro di noi, per vera virtù simpatica,
uno stato d’animo eguale a quello dell’uomo dolente. In quest’ultimo
caso, e sempre che, come in quest’ultimo caso, l’espressione ci rivela
un interiore stato altrui, Sully Prudhomme chiama l’espressione
obbiettiva. Quando invece, come dinanzi al cielo sereno, una
sensazione, un’impressione del mondo esterno determina in noi uno
stato d’animo, senza che vi sia una vera vita nella cosa espressiva,
l’espressione è subbiettiva. Questa distinzione ha bisogno di essere
approfondita e schiarita.

Non vi può essere espressione, e perciò oggetto espressivo, se non
c’è impressione, e perciò oggetto impressionato. Ciascuno di noi è
un soggetto; tutta la natura circostante è piena di oggetti. Bisogna
dire, pertanto, che l’espressione, consistendo negli oggetti, è sempre
obbiettiva; e che l’impressione, appartenendo al soggetto, è sempre
subbiettiva. Ma quali e quanti sono gli oggetti circostanti a ciascuno
di noi? Sono infiniti di numero, e diversissimi di qualità: dagli
uomini nostri simili, agli animali, alle piante, alle cose inanimate.
Consideriamo un uomo: noi, soggetto, abbiamo in tal caso dinanzi un
oggetto che è a sua volta un altro soggetto. Allora l’espressione e
l’impressione corrispondono puntualmente e totalmente. L’oggetto,
essendo un uomo come noi, esprime cose che ci impressionano come se le
avessimo espresse noi stessi. Quando vediamo quest’uomo atteggiarsi
come noi ci atteggiamo, naturalmente gli attribuiamo le stesse passioni
e gli stessi sentimenti che determinano in noi atteggiamenti simili.
Se quest’uomo ride, diciamo che è allegro, se piange che è triste, se
minaccia che è irato; come noi siamo allegri, tristi e irati quando
ridiamo, piangiamo e minacciamo. L’espressione di quest’uomo, di
quest’oggetto che è un soggetto, è veramente obbiettiva.

Consideriamo ora un cavallo, un cane, un qualunque animale: possiamo
ancora dire che dentro di lui operano gli stessi nostri sentimenti e le
stesse nostre passioni? Che cosa sappiamo dell’intima sua natura? Essa
è simile alla nostra solo in parte. L’espressione di questi esseri è
meno chiara, è chiara soltanto per quel che c’è di comune fra la loro
natura e la nostra. Passiamo nel mondo delle piante: opera anche qui
la vita, ma una vita ancora più rudimentale, incosciente. Arriviamo
nel mondo degli oggetti inerti: vi sono ancora qui forze operanti,
ma forze cieche. Ora, se tutti questi oggetti hanno un’espressione
obbiettiva, l’espressione loro è sempre più ambigua, confusa ed oscura.
Che cosa esprimono? Non c’è veramente in essi una virtù rivelatrice,
una potenza di significazione, un’anima eloquente. Tuttavia noi vi
troviamo un senso, un’espressione: diciamo che un cielo è ridente,
che un paesaggio è triste, che il fiume è vorace, che la montagna
è inclemente, che il vento è rabbioso, che l’onda è perfida, che i
fiori amano: a tutta la natura, le intime essenze della quale ci sono
ignote, accordiamo un’anima simile alla nostra; non potendo saper
nulla di ciò che è il mondo esteriore, lo giudichiamo dall’interno
mondo delle nostre idee e delle nostre passioni. È quel fenomeno
dell’antropomorfismo che Sully Prudhomme mette in evidenza. Il nostro
proprio tipo si sostituisce all’ignota essenza delle cose, invade il
mondo, lo fa in certo modo uomo sotto un’infinità di forme diverse.
Da quest’opera dipende l’espressione di tutti gli oggetti esteriori
diversi da noi. L’espressione, dunque, non è tanto in essi, quanto è
da noi attribuita ad essi. Di questa attribuzione tutti gli uomini
sono capaci, ma non egualmente. Se tutti trovano un’espressione di
tristezza nel cielo velato, soltanto i poeti dicono che la rosa esala
l’anima sullo stelo illanguidito. Qui non c’è dunque vera espressione,
espressione dell’oggetto, obbiettiva; ma un’impressione nostra che,
per antropomorfismo, noi obbiettiviamo mutandola in espressione
attiva, cosciente, degli oggetti inerti. Tranne quindi il caso di un
oggetto il quale sia attivo, cosciente, e perciò soggetto a sua volta,
e oggetto solo relativamente a noi,—nel qual caso abbiamo una vera
espressione obbiettiva—la significazione di tutti gli altri oggetti è
opera nostra, è attribuzione operata da noi.

Se l’antropomorfismo non è vera espressione, ma attribuzione di
espressione, neanche è vera espressione quell’altro fenomeno di
associazione psichica, grazie al quale non solamente risorgono le
sensazioni e le idee passate—che sarebbe la reminiscenza pura e
semplice—ma sono colti i rapporti anche più lontani fra le passate
e le presenti. Per quest’opera della mente l’espressione è spesso
adulterata, sopraffatta ed invertita. L’alba radiosa è solitamente
espressiva della serenità, del sollievo e della gioia; ma se noi ne
vedemmo spuntare una mentre eravamo in preda a un dolore atroce, la
vista di nuove albe può risvegliarlo in noi. Non c’è vera espressione
se non quando c’è comunanza di carattere—o per meglio dire
similitudine—fra la sensazione e la cosa espressa, nè l’associazione
è espressione; tuttavia essa produce effetti espressivi che è talvolta
impossibile sceverare dai genuini. Il principio dell’associazione ha
così gran parte nel sistema di alcuni filosofi, che il Fechner, per
citarne uno, paragona l’espressione vera allo scheletro, all’ossatura,
e l’associazione alla carne che riveste e dà forma.


II.

Tiriamo le somme. L’espressione degli oggetti dovrebbe essere
obbiettiva; ma per l’antropomorfismo che interpreta umanamente l’anima
delle cose, per l’associazione psichica che arricchisce, modifica
e inverte le significazioni più chiare, nel mondo della natura
l’espressione è principalmente subbiettiva, personale, relativa a chi
la coglie. Le sole espressioni obbiettive, o le più obbiettive fra
tutte, sono quelle dei nostri simili, degli altri uomini.

Che cosa sarà da dire rispetto al mondo dell’arte? Noi dovremmo dire
che l’opera d’arte è espressiva come l’oggetto reale che riproduce,
se non fosse che l’oggetto non è veramente riprodotto: ne è data
soltanto un’immagine, l’immagine concepita dall’artista. Quindi tutte
le volte che ci troviamo dinanzi a un’opera d’arte rappresentante
un oggetto qualunque, noi siamo bensì tentati di attribuirle, come
all’oggetto vero, una espressione nostra propria, subbiettiva; ma,
intanto che l’oggetto vero si presterebbe a questa attribuzione,
l’immagine offerta dall’artista vi si presta meno, perchè già contiene
e presenta i caratteri che egli vi ha impressi. L’opera d’arte ha una
espressione, in questo senso, principalmente obbiettiva; nel senso,
vogliamo dire, che l’oggetto non è più il vero oggetto, ma il prodotto
e la rivelazione del soggetto, diverso da noi, che lo ha apprezzato.
Questa distinzione non fa Sully Prudhomme, per il quale l’opera d’arte
ha una espressione obbiettiva «quando esprime un’essenza latente con la
quale l’autore ha dovuto simpatizzare, ma che non è la sua propria».
Ora nell’opera d’arte dove sono espresse le essenze latenti più nitide,
c’è sempre qualche cosa della latente essenza del loro autore; e come
mai, se questi ha dovuto simpatizzare con la cosa significata, non ha
espresso un sentimento proprio? Se ha simpatizzato, vuol dire che ha
sentito. Dall’altra parte Sully Prudhomme assegna all’opera d’arte
un’espressione subbiettiva quando essa esprime l’essenza latente
dell’autore. Questa essenza è espressa sempre in tutte le opere d’arte;
non ce n’è alcuna, per definizione, che non sia dovuta a un artista;
il quale, riproducendo qualche cosa, vi ha messo anche qualche cosa
di sè stesso. Ma quest’opera che ha un’espressione tutta subbiettiva
per lui, autore, il quale si è trovato dinanzi alla cosa reale, ha
un’espressione tutta o principalmente obbiettiva per lo spettatore, il
quale cerca bensì di apprezzarla, come la cosa reale, secondo la sua
propria natura; ma vi trova l’apprezzamento conferitole da chi l’ha
creata. E per evitare complicazioni e confusioni, come Sully Prudhomme
prudentemente vuol fare, bisogna in conclusione osservare che,
nell’espressione naturale, vi sono due cose: un oggetto espressivo e un
soggetto esprimente; nell’espressione artistica fra queste due cose sta
di mezzo una terza: l’artista. La conseguenza del suo intervento è che
gli oggetti sono due: il reale, e l’immagine sua; e che due sono anche
i soggetti: quello del creatore e quello dello spettatore.

Ma lasciamo da parte questa discussione un poco troppo filosofica,
e torniamo a quel fenomeno dell’antropomorfismo che dà ragione
dell’apparente espressione degli esseri diversi da noi e delle cose
inerti.

Già vedemmo che le sensazioni sono espressive dei sentimenti, non
questi di quelle, perchè non c’è tra loro una vera comunanza di
caratteri, ma una simiglianza, una metaforica estensione ai sentimenti
dei caratteri appartenenti alle sensazioni. L’antropomorfismo è quasi
come un tentativo di reazione, quasi come uno sforzo per ristabilire
un’equazione realmente impossibile. Noi ignoriamo la vera essenza
delle cose diverse da noi, delle quali soltanto le sensazioni ci dànno
un’idea; ignoriamo anche la vera nostra essenza, la vera qualità
dei nostri sentimenti, che definiamo con lo stesso linguaggio delle
sensazioni. Posti fra queste due ignoranze, stabiliamo l’identità fra
il mondo esterno e l’intimo, tra il fisico ed il morale. Vediamo un
cielo, una terra, un mare: questo paesaggio ha certe linee e certi
colori nei quali troviamo qualità affini a un certo stato d’animo; lo
stato d’animo sorge in noi senza che nel paesaggio vi sia un’anima
come la nostra. Ma noi glie la conferiamo, e diciamo con l’Amiel
che il paesaggio, cosa inerte, o se non altro ignota e dissimile da
noi, è uno stato d’animo. Sully Prudhomme osserva acutamente che
tanta è la difficoltà di considerare nelle forme la rappresentazione
delle forze interne, dei principii animatori da queste ricoperte,
che spesso ci impressionano più i loro caratteri meno importanti.
Basta, per esempio, che un animale sia più grande d’un altro e che la
sua struttura si avvicini più alla nostra, perchè esso ci interessi
maggiormente; un piccolo insetto, sia mirabile quanto si voglia, non
è per noi rispettabile, mentre il cavallo ci par bello e nobile. Se
poi la forma d’un animale si avvicina alla nostra moltissimo e troppo,
accade un’altra cosa: la bellezza che inconsciamente gli chiediamo, è
la bellezza umana; e poichè non ve la troviamo, la sua espressione ci
dispiace. Il Rosenkranz, nella sua _Estetica del brutto_, non ha tenuto
il debito conto di questo fatto. Egli dice che vi sono certi animali,
come le scimmie, positivamente brutti, d’una bruttezza costituzionale,
perchè la natura non bada ad altro che a proteggere la vita della
specie. Più cautamente Sully Prudhomme osserva che «per sapere se le
scimmie sono brutte bisognerebbe chiederne... alle scimmie».


III.

Quali sono i caratteri delle sensazioni e come si possono essi
estendere ai sentimenti?

Il primo di tutti, quello che è veramente comune alle due serie di
fenomeni, consiste nell’esser tutti coscienti; per questa ragione
sensazioni e sentimenti hanno nomi diversi che però vengono entrambi
da _sentire_. Sully Prudhomme nota che per conseguenza la sensazione
è espressiva dell’intelligenza: la sensazione della luce è fra tutte
la più espressiva, perchè, rischiarando gli oggetti, permette di
apprezzare i loro rapporti, e l’apprezzamento dei rapporti è l’azione
principale dell’intelligenza. Vengono poi le sensazioni tattili,
espressive anch’esse dell’intelligenza perchè noi sentiamo la nostra
attività fisica esercitarsi ad afferrare gli oggetti materiali come lo
spirito afferra l’immateriale suo oggetto. Le percezioni uditive, come
più subbiettive, come più indipendenti dall’oggetto, esprimono meno
bene la funzione intellettuale, che presuppone essenzialmente l’oggetto
sul quale esercitarsi.

Il secondo carattere comune a tutte le sensazioni è la composizione o
complessità; si può anzi dire che non esistono sensazioni semplici,
elementari. Ma tale composizione non avviene sempre ad un modo; diversi
odori o sapori, infatti, quando sono avvertiti nello stesso tempo, si
modificano talmente da perdere il loro carattere. I colori e le note
possono ugualmente confondersi; ma possono anche formare certi composti
nei quali, pure modificandosi, restano distinti. Perchè le sensazioni
diventino materiali d’arte, occorre appunto questa condizione: che
si possano comporre, modificandosi ma restando distinte nel tempo
stesso: questa è la ragione per la quale le sensazioni olfattive e
del gusto non possono dar luogo a prodotti artistici; la profumeria
e la cucina, checchè ne pensino taluni, non sono arti. Il carattere
espressivo nella composizione delle percezioni sensibili è l’ordine.
L’atto eminentemente intellettuale è infatti quello di far scaturire
l’unità dalla diversità, di trovare il rapporto comune che leghi gli
elementi disparati. Così non c’è fisonomia senza l’unità risultante
dall’ordine dei lineamenti; e l’armonia di questi ultimi è espressiva
dell’intelligenza.

Un nuovo carattere importante delle percezioni sensibili è il
movimento: esso si avvera nello spazio, e ci è manifestato
principalmente dalle sensazioni visive; ma anche il ritmo musicale è
una specie di movimento nel tempo. Ora tanto questo carattere è comune
agli stati psichici, che le stesse passioni sono dette _movimenti_ o
_moti_ dell’animo. Il movimento è espressivo così nelle sensazioni
visive come nelle uditive: in musica la maggiore o minore rapidità del
ritmo esprime il languore o la vivacità delle commozioni; nel disegno e
nella plastica è espressiva la facilità o la difficoltà con la quale lo
sguardo segue le linee e le forme; la forma, come ha detto il Bergson,
è il disegno di un movimento.

Ancora: tutte le percezioni sensibili, i suoni, i colori, gli odori,
la resistenza, ecc., sono suscettibili di diversi gradi di intensità;
ora la nostra propria esperienza ci ammaestra che uno dei caratteri più
salienti delle affezioni morali è appunto la variazione dell’intensità.
Finalmente, tutte le sensazioni hanno qualità affettive, sono
cioè gradevoli o sgradevoli o indifferenti; tale carattere, che
contraddistingue anche gli stati psichici, è quindi altamente
espressivo.

Ciascuna arte, creando sensazioni particolari, consegue particolari
espressioni; ma, poichè vi sono caratteri comuni a tutte le sensazioni,
c’è fra tutte le arti una naturale affinità. L’importanza del concetto
di analogia fra le arti è, ai nostri giorni, tanta, che merita una
trattazione speciale.



ANALOGIA DELLE ARTI


NELLA produzione artistica contemporanea si è notata, con biasimo
da parte di alcuni, con soddisfazione di altri, una tendenza
all’invertimento dei processi e allo scambio degli effetti. I musicisti
hanno preteso dipingere come i pittori e narrare come i romanzieri;
i poeti hanno voluto sonare come i musicisti e scolpire come gli
scultori. Un breve esame di questi fatti non sarà inopportuno prima di
vederne il significato e di criticarne il fondamento.


I.

Teofilo Gautier, autore di una _Sinfonia in bianco maggiore_, afferma
nella prefazione ai _Fleurs du mal_ che lo stile di Tertulliano «ha il
nero splendore dell’ebano». Per il poeta, dice egli, le parole hanno,
oltre la significazione convenzionale che ad essi si attribuisce, uno
speciale valor proprio: «vi sono parole diamante, zaffiro, rubino,
smeraldo; ve ne sono altre che luccicano come fosforo quando sono
strofinate». Ed ancora egli dà lode al Baudelaire per aver saputo
esprimere l’inesprimibile: «quelle sfumature fugaci che stanno fra il
suono ed il colore e quei pensieri che somigliano a motivi di arabeschi
o a temi di frasi musicali». Lo stesso Baudelaire, del resto, disse che
l’anima sua libravasi tra i profumi come l’anima degli altri uomini si
libra tra le melodie. Gli effluvii odorosi non equivalevano per lui
solamente ai suoni, ma anche ai colori:

  Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
  Doux comme les hautbois, verts comme les prairies.

Se il Baudelaire parla di profumi verdi, il nostro Carducci ha detto
verde il silenzio; in un verso di Gabriele d’Annunzio

  Canta la nota verde d’un bel limone in fiore.

Da queste immagini letterarie alle invenzioni immaginarie di alcuni
moderni francesi c’è un gran passo. Luigi La Rosa, nel suo opuscolo
sulla _Inversione delle arti_, ne riferisce molte. L’«organo da
bocca» di Joris Karl Huysmans è una delle più famose. Quel romanziere
attribuisce al marchese des Esseintes l’invenzione di un organo
composto non già di canne dove l’aria vibri, ma di bariletti dai quali
i liquori sprizzano: corrispondendo il sapore del _curaçao_ al suono
del clarinetto, e il _kümmel_ a quello dell’oboe, e la menta al flauto,
e il _kirsch_ alla tromba, il matto protagonista si suona le sinfonie
sul palato. Costui è un personaggio inventato, il suo organo dei sapori
non esiste; persone vive sono invece quei poeti «strumentisti» a capo
dei quali sta Renato Ghil, trovatore delle equivalenze fra suoni
vocali e strumentali. Con le parole egli vuol dare «l’equivalente
immateriale e matematico» degli strumenti; nè si restringe a questa
sola corrispondenza, ma ne trova anche fra suoni e colori. Già Arturo
Rimbaud aveva definito nel suo celebre sonetto il colore delle vocali:

  =A= noir, =E= bleu, =I= rouge, =U= vert, =O= jaune;

ora il Ghil, in un altro sonetto, assegna, oltre che il colore, anche
il valore orchestrale di ogni vocale:

  =A=, claironne vainqueur en rouge flamboiement
  =E=, soupir de la lyre, a la blancheur des ailes
  Séraphiques. Et l’=I=, fifre léger, dentelles
  De sons clairs, est bleu célestement

  Mais l’archet pleure en =O= sa jaune mélodie,
  Les sanglots étouffés de l’automne pâlie
  Veuve du bel été, tandis que le soleil

  De ses baisers saignant rougit encore les feuilles.
  =U=, viole d’amour, à l’avril est pareille:
  Vert comme le rameau de myrte que tu cueilles.

Paragonando le due serie di equivalenze, risulta che mentre gli autori
sono d’accordo nel veder gialla l’=O=, verde l’=U= e l’=E= bianca,
discordano riguardo alle altre vocali: l’=A= è rossa per l’uno e nera
per l’altro, l’=I= è rossa per il primo e azzurra per il secondo.
Con fondamenti così solidi, il Ghil ha scritto un intero trattato,
mescolando insieme poesia, musica e pittura.

Ma le analogie e le equivalenze delle sensazioni non sono scoperta
dei letterati modernissimi. Il Daubresse rammenta in una sua nota
sull’audizione colorata che Leonardo Hoffmann sin dal 1786 assegnò
questi rapporti fra i colori e i suoni degli strumenti: indaco il
violoncello, oltremare il violino, giallo il clarinetto, rosso vivo la
tromba, cremisi il flauto, rosa l’oboe, violetto lo zufolo. Più tardi
Gioacchino Raff diede equivalenze molto diverse: per lui il suono del
flauto non è cremisi, ma azzurro; l’oboe non rosa, ma giallo; lo zufolo
non violetto, ma grigio scuro; soltanto nel giudicare scarlatta la
tromba si avvicina al giudizio dell’Hoffmann. Per il compositore Ehlert
l’aria in _la_ maggiore dello Schubert è «d’un calore tutto soleggiato
e d’un verde tenero». Per il Nüssbaumer la nota _re_ è scura con righe
chiare, _fa_ castana, _mi_ cuoio cupo e azzurro di fioraliso, _la_
giallo camoscio, _sol_ giallo limone, e via discorrendo. Più numerose
testimonianze si trovano in un libro del dottor de Mendoza su questa
audizione colorata, alla quale corrisponderebbe il fenomeno reciproco
che il Daubresse chiama visione sonora. Qualcuno, per esempio, ha
affermato di udire un ronzio contemplando il cielo stellato, e di
provare una sensazione di silenzio al tramonto del sole. Altri
colorano anche i periodi storici e i giorni: la domenica sarebbe
bianca. Altri ancora colorano gli odori, le parole, le cifre, le figure
geometriche. Di qui gli sconfinamenti delle arti.

La naturale affinità tra la pittura e la scultura è evidente nel
bassorilievo; ma ai nostri giorni, nell’opera di alcuni scultori, si
vedono, secondo il La Rosa, «certi raggruppamenti, certe omissioni,
certi sottintesi che soltanto il pittore potrebbe permettersi;
certi desiderii di trasparenze che soltanto il pennello potrebbe
raggiungere». Meno evidenti sono i tentativi di inversione
nell’architettura, e soltanto lo Schelling potè dire, teoricamente,
che l’architettura è la musica dello spazio, e che contiene una parte
ritmica, una armonica e una melodica. «La distanza delle colonne nello
spazio corrisponde, per il filosofo, alla distanza ritmica dei toni nel
tempo; la proporzionalità dei rapporti spaziali alla proporzionalità
numerica delle vibrazioni sonore. La melodia architettonica risulta
poi dall’unione del ritmo con l’armonia. Un tempio sarebbe, secondo lo
Schelling, un concerto simultaneo di armonie nello spazio, una musica
sentita con l’occhio». Non si è tuttavia visto ancora un architetto
costruire un palazzo sinfonico o un padiglione ballabile: sebbene
un compositore siciliano «tentò indovinare le note musicali cui
corrisponde un capitello corinzio.....».

Per concludere, noi vediamo che questa inversione delle arti, tentata
praticamente o solo accademicamente e romanzescamente affermata,
dipende dalle analogie e dalle corrispondenze che vi sarebbero fra
le diverse impressioni dei sensi: i profumi e i sapori sarebbero
espressivi come i suoni, i suoni come i colori e le forme; pertanto
tutti i sensi ne formerebbero uno solo, come uno solo ne formavano per
il Baudelaire:

  O métamorphose mystique
  De tous mes sens fondus en un:
  Son haleine fait la musique
  Comme sa voix fait le parfum.


II.

Al senso unico del Baudelaire corrisponderebbe l’arte unica. Uno studio
di Guido Cremonese intitolato La _solidarietà nell’arte_ tende appunto
ad affermare che tutte le arti hanno le stesse leggi, che l’arte è
una sola; quelle che noi chiamiamo arti «non sono che differenti
espressioni di uno stesso principio e di una stessa serie di leggi;
tecniche varie ossequenti ad un solo codice... L’arte è la legge,
l’_idea_, la figura psichica di ciò che si vuole descrivere, sia collo
scalpello che col verso od altrimenti; e lo scultore, il pittore, il
poeta, il musicista afferrano, concepiscono plasmano, maturano l’idea
in uno stesso modo e la traducono in fatto seguendo uno stesso cammino
psichico. Siccome, poi, ciascuno di essi ha l’abitudine di rendere il
pensiero sia col pennello che con lo strumento musicale od altrimenti,
ne deriva che l’estrinsecazione artistica ha aspetto diverso,
quantunque in sostanza sia identica; e ne deriva pure che l’arte è un
esercizio tecnico per mezzo del quale si può riprodurre variamente una
stessa idea, sia facendone un quadro, sia una statua, una strofa od
altro».

Il Cremonese afferma, per dimostrare il suo concetto, che la legge
comune a tutte le arti è quella della prospettiva. La prospettiva
comprende quattro effetti: di colorito, il quale consiste nello
sbiadirsi delle tinte secondo che gli oggetti si allontanano; di linea,
il quale consiste nel progressivo confondersi dei contorni degli
oggetti e dei loro particolari nella distanza; di proporzione, il quale
consiste nell’impiccolirsi degli oggetti; e finalmente di posizione, il
quale consiste nel mutarsi del rispettivo collocamento degli oggetti
secondo il punto di mira. Questi quattro effetti proprii della pittura
sono conseguibili, secondo l’autore, da tutte le altre arti.

In poesia vi sono effetti di colorito, perchè «il colore è un’idea».
Senza dubbio: io posso avere un’idea del color rosso sia vedendolo
direttamente, quando il pittore spalma questo colore sulla tela, sia
indirettamente, per suggestione, quando lo scrittore adopera la parola
_rosso_. Tuttavia l’intensità dell’idea è molto diversa nei due casi;
la parola _rosso_ non mi dà la sensazione presente di questo colore, ne
evoca soltanto il ricordo. Con le parole noi non possiamo avere idea
di colori che non abbiamo già visti, incapacità che esperimentiamo
tutti i giorni, quando la moda femminile adotta gradazioni di tinte
battezzate con nomi nuovi. Le parole sono anche incapaci di farci
vedere le cose, le forme delle cose che non conosciamo. Il paesaggio
pittorico avrà dunque il suo equivalente nella descrizione poetica;
ma la descrizione non sarà un paesaggio visto attualmente, sibbene
rammentato. La corrispondenza fra l’arte descrittiva e la pittorica
non è dunque perfetta: il poema e il romanzo non mi fanno vedere
direttamente le cose, me le rammentano soltanto, e non me le rammentano
se non le ho già viste; il quadro mi fa vedere le viste e le non viste.

Certi lavori letterarii sono detti _a forti tinte_; ma qui,
evidentemente, non si parla più del colore nè delle forme. «Il
componimento letterario,» dice il Cremonese, «a base di violenza,
di colpi di spada o di delitto, quello in cui lo scrittore si vale
di eccessi di idea per sostenere una tesi, corrisponde al quadro
dal colorito vivace». Questa analogia non si può ammettere. Al
romanzo _a forti tinte_ corrisponde il quadro che rappresenta azioni
straordinarie, spaventevoli, atroci; questo quadro può esser dipinto
a mezze tinte, con toni neutri; come quel romanzo può essere scritto
con uno stile grigio ed oscuro. L’analogia, fra i prodotti di diverse
arti, va cercata tra forma e forma, tra contenuto e contenuto; non
già tra la forma dell’una e il contenuto dell’altra. C’è anche una
intonazione morale, una «tinta intellettuale», secondo l’espressione
del Cremonese; e in questo senso le analogie si possono estendere
molto lontano; ma quanto più sono lontane, tanto meno sono probabili.

«È difficile cercare il colore nella parola», riconosce il Cremonese;
ma egli lo cerca nei suoni sillabici. «Si può dire che le consonanti
rappresentino varii tratti di linea cui le vocali coloriscono dando
loro un valore sonoro». Anche questa analogia è molto e troppo larga.
Consonanti e vocali sono indissolubilmente legate insieme; il disegno
può stare senza il colore. E dal fatto che le consonanti coloriscono
le parole, non si può dedurre che le coloriscano _come_ le tinte il
quadro. Il suono è vibrazione, ed anche il colore; e l’unica differenza
consisterebbe, secondo i fisici, nella maggiore o minore rapidità;
le vibrazioni da sedici a trentadue mila settecento sessantotto per
minuto secondo sono percettibili come suoni; quelle da quattrocento
trilioni a settecento cinquantasei trilioni per secondo, come colori.
Ma questa differenza, che è fisicamente di sola quantità, si traduce,
psichicamente, in differenza di qualità. Il suono è suono, e se
pure l’audizione colorata fosse un fenomeno costante ed universale,
bisognerebbe ancora che una stessa impressione acustica fosse vista con
uno stesso colore; la qual cosa non accade. E il colore, universalmente
e costantemente, non può essere rappresentato, coi suoni, se non per
suggestione, per rammemorazione.

Passando ad altri effetti prospettici, alla linea ed alla proporzione,
il Cremonese li trova anche nel romanzo. «In un buon romanzo il
protagonista dev’essere ben descritto, il suo carattere, delineato
perfettamente, deve apparire netto al lettore; mentre i personaggi
di secondo ordine vanno appena abbozzati, quelli di terzo devono
essere addirittura degli accenni, delle sfumature». Questa analogia è
innegabile; però gli effetti di proporzione, in pittura, sono soggetti
a leggi rigorose; fra la distanza dei piani e la grandezza degli
oggetti vi è una vera e propria proporzione matematica; nel romanzo o
nel poema la proporzione è più arbitraria, è quistione di gusto, non di
misura. Egualmente innegabile, ma non così rigorosa come il Cremonese
vuole che sia, è l’analogia fra il dramma e il quadro. Nel dramma
«le scene che variano a seconda della loro importanza, corrispondono
perfettamente ad un effetto di distanza nella prospettiva del quadro».
Questa e qualche altra simile corrispondenza si può affermare, ma non
credere perfetta. Lo stesso autore lo riconosce, perchè distingue due
forme di prospettiva, la fisica e la morale, avvertendo che quella
alla quale si adattano le leggi rigorose è la fisica, mentre l’altra
«è una semplice questione di logica»; e ancora perchè, notando che la
prospettiva è un fatto materiale, che nel quadro non si rende realmente
ma si rappresenta soltanto con l’artifizio delle linee, riconosce «che
tanto meno si renderà a perfezione la prospettiva con mezzi psichici»,
cioè con pensieri espressi per via di parole.

Della musica il Cremonese dice che è «indubitabilmente un’arte
descrittiva, come tutte le altre». Tuttavia soggiunge che le
descrizioni musicali «invece di toccare i sensi colpiscono il
sentimento». Più esatto sarebbe dire che la musica non descrive
tanto le cose sensibili quanto esprime gli oggetti morali, i moti
dell’anima. Anche in musica si può sotto un certo senso parlare di
linea: l’opera musicale deve conseguire quella che nel quadro si
chiama unità di disegno, senza di che si hanno lavori slegati. Una
analogia ingegnosamente osservata è quella fra i due nuovi processi,
fra le due nuove tecniche del wagnerismo e del divisionismo. Come nel
divisionismo, invece delle mezze tinte, si adoprano a tratteggi, a
puntini, i colori interi, dei quali a una certa distanza si vede la
sintesi; così nella orchestrazione wagneriana si coglie la somma delle
varie parti affidate ai singoli strumenti: «la parte melodica diviene
il contorno del disegno, la parte di accompagnamento diviene la linea
tratteggiata». Ma difficilmente si concepisce come il divisionismo
possa estendersi, «nel concetto e nella tecnica», a tutte le altre
arti, alla scultura, all’architettura, alla poesia, secondo predice il
Cremonese. E tra la musica e la pittura questa analogia di processo
non implica analogia dei risultati; perchè nè il divisionista può
rendere nel quadro gli effetti musicali, nè il musicista in orchestra i
pittorici.

L’impressionismo è una qualità, come ben nota l’autore, comune a varie
arti: dalla pittura è passato alla scultura, la quale tende, come
vedemmo col La Rosa, ad assumere il carattere di abbozzo o di macchia;
c’è anche un impressionismo in musica e in poesia: il Cremonese cita
opportunamente Orazio: «_Ut pictura poesis..._»; ma similitudine
non è identità, il paragone non è equazione. A parte il fenomeno
dell’audizione colorata, che il Cremonese non adduce a conforto
delle sue teorie, e che, se fosse universalmente e costantemente
apprezzato, dimostrerebbe senz’altro l’identità del suono e del
colore; a parte questo fenomeno, il linguaggio ordinario nota una
comunanza di carattere fra la pittura e la musica quando chiama certe
voci _bianche_, e quando riferisce l’intonazione ai colori; ma questa
comunanza di caratteri, colta «ideologicamente e inconsciamente», è
condannata a restare ideologica e a non uscire dall’inconscio. Il
Cremonese parla di «acquerelli musicali» e di «descrizioni ad olio»:
espressioni che, prese alla lettera, non hanno significato.


III.

A stabilire razionalmente le analogie fra le varie arti occorre prima
vedere le analogie fra le impressioni dei diversi sensi sui quali esse
agiscono. Queste analogie esistono innegabilmente. Quando noi chiamiamo
con uno stesso nome, col nome di senso, le varie facoltà del tatto,
del gusto, dell’odorato, dell’udito e della vista, già ammettiamo,
senza ancora saperlo, che qualche cosa di affine è tra loro, che
comune è il fondo o il sostrato sul quale risiedono, o il modo col
quale si esercitano. La teoria dell’espressione enunziata da Sully
Prudhomme ci ha mostrato che tutte le sensazioni sono coscienti, che
tutte sono complesse, che in tutte vi sono movimenti e diversi gradi
d’intensità e diverse qualità affettive. Alcuni pensano che i sensi
corrispondano più intimamente, che vi sia una sola cellula sensitiva
nella quale risieda l’unico e multiforme senso baudeleriano; ma questa
è affermazione ipotetica. L’audizione colorata della quale già tenemmo
parola non si può negare; ma se non dipende dalla suggestione o dalla
associazione delle idee, è con tutta probabilità un fenomeno morboso.
Le trasposizioni dei sensi sono proprie dell’isterismo, e patologiche
senz’altro. Nello stato di salute le sensazioni provenienti dai diversi
sensi hanno di comune soltanto i caratteri dianzi definiti; del resto
esse sono singolari e intraducibili. Dall’accettata comunanza di
caratteri deriva una innegabile analogia fra le arti; l’irriducibilità
dimostra come, tranne che nei casi morbosi, si burlino del pubblico
quegli artisti che pretendono eccitare sensazioni diverse da quelle
proprie alla loro arte.

Teofilo Gautier narrava le sue impressioni di audizione colorata solo
quando era in preda all’_hascisch_. Artisti la cui costituzione sia
isterica o in generale neuropatica sono sinceri nei loro tentativi
d’inversione artistica; e questa nostra età li gusta perchè le malattie
nervose e gli squilibrii cerebrali sono purtroppo molto frequenti.

Eccettuati i casi patologici, ogni arte ha il suo linguaggio e le
sue forme. Una stessa idea non si può, come vuole il Cremonese,
riprodurre variamente in un quadro, in una statua, in una strofe, in
una sinfonia, in un edifizio, in un romanzo; ma, al contrario, bisogna
riconoscere, col Sully Prudhomme, che inventare, in un’arte qualunque,
vuoi dire «pensare in quest’arte», e che vi sono idee pittoriche,
musicali, architettoniche «assolutamente irriducibili»; queste idee
sono i _motivi_, che non bisogna confondere con i soggetti. Uno stesso
soggetto può convenire a parecchie arti insieme; per esempio: una madre
che allatta il suo bambino è un soggetto per lo scultore ed il pittore;
ma finchè questo soggetto è sprovvisto d’ogni speciale forma sensibile
non è _motivo_ d’arte: diventa _motivo_ quando è pensato dallo scultore
o dal pittore. E bisogna anche soggiungere che non tutti i soggetti
convengono a più d’una arte: la madre che allatta il bambino non si
può rappresentare in musica nè in architettura. Pittura e scultura si
possono scambiare molte volte i soggetti perchè, fondate entrambe sul
senso della vista, imitano gli aspetti, le figure, le forme delle cose;
nessuna delle due può scambiare i soggetti con l’architettura, che
non imita cose esistenti. La musica può, in taluni casi, scambiare i
soggetti con la pittura: la vita nella foresta che il Wagner descrive
nel _Siegfried_, può essere descritta da un pittore; ma ciascuno dei
due artisti coglie nell’oggetto da rappresentare una sola serie di
sensazioni: il musicista le acustiche, il pittore le visive. Udendo
la sola esecuzione orchestrale del pezzo wagneriano noi possiamo, a
occhi chiusi od aperti, vedere il verde degli alberi; ma questa visione
non è eccitata in noi direttamente, sibbene per associazione. Nel
mondo sensibile quasi tutti gli oggetti parlano a più di un senso in
una volta: quando noi pensiamo alla rosa ci rammentiamo la forma e il
profumo di questo fiore: vedendola dipinta ci potrà parere di sentirne
l’olezzo, senza che nessun effluvio impressioni le papille olfattive.
E l’associazione delle idee, molto più che la comunanza dei caratteri,
spiega il valore di molte espressioni. Quando giudichiamo nero il
tradimento, facciamo così associando all’idea della perfidia quella
delle condizioni nelle quali essa ordisce le sue trame: le tenebre
della notte e dei luoghi chiusi.

L’analogia delle arti dipende dai caratteri comuni delle sensazioni.
Esse sono, in primo luogo, tutte coscienti; ma l’analogia dipendente
da questo carattere è molto larga e lontana. Esse sono poi tutte
combinabili, e questa è la ragione per la quale tutti i prodotti
delle arti sono da noi chiamati composizioni: noi parliamo di
composizioni architettoniche, come di musicali: un quadro e un poema
sono composizioni come un romanzo e un dramma. La composizione delle
sensazioni è espressiva dell’ordine, dell’armonia: in tutti i prodotti
di tutte le arti possiamo trovare queste qualità—o il loro difetto.

Il terzo carattere comune alle sensazioni è il movimento: quantunque
esso appartenga principalmente alle sensazioni della vista, dicemmo
già nel precedente capitolo come e perchè il ritmo musicale è anch’esso
un movimento espressivo. Quando i musicisti parlano di un _disegno
melodico_, l’analogia che essi stabiliscono non è arbitraria; perchè,
quantunque i punti di un disegno coesistano nello spazio, mentre
nella melodia le note sono emesse una dopo l’altra, tuttavia queste
note coesistono nella memoria, e la loro composizione nella memoria è
paragonabile alla composizione delle linee nel disegno. Ma se c’è un
disegno melodico, ciò non vuol dire che per via dei suoni si possano
rappresentare le forme delle cose.

Tutte le sensazioni sono suscettibili di diversi gradi d’intensità,
e questo è il quarto carattere che hanno in comune: ne deriva una
analogia che bisogna contenere dentro i limiti naturali. Come in ogni
suono si trovano tre cose diverse: l’intensità, l’altezza e il timbro,
così, dice Sully Prudhomme, nelle sensazioni visive il maggiore o
minor grado d’illuminazione corrisponderebbe all’intensità acustica,
la vivacità del colore all’altezza del suono e il colore al timbro.
Ma qui già si vede una confusione. Se il colore è l’equivalente
del timbro, le sfumature del colore dovrebbero corrispondere alle
sfumature del timbro; ora il timbro non è suscettibile di sfumature,
di gradazioni: è quello che è. E le sfumature del colore non sono, più
propriamente parlando, alterazioni? Il rosa e il vermiglio non sono due
colori diversi? Da un colore fondamentale all’altro vi sono gradazioni
infinite, tutte distintamente percettibili; da una nota all’altra vi
sono intervalli. E Sully Prudhomme, mentre dice che «la gamma continua
è la stessa per tutti i colori come la gamma discontinua è la stessa
per tutti i timbri», avverte anche che «non è esatto dire la _gamma dei
rossi_ o _dei verdi_, come non si può dire la _gamma dei timbri_».

In questa ed in peggiori confusioni si cade quando si spinge troppo
oltre il paragone di due arti diverse come la musica e la pittura,
perchè la loro analogia è più ideologica che reale.

  Musica e poesia son due sorelle

cantò il Tasso, e queste due arti si dànno veramente la mano; ma non
come intendono gli strumentisti. Col suono delle parole non si possono
rendere gli effetti degli strumenti; si possono imitare certi suoni
naturali; e dell’onomatopeia e dell’armonia imitativa non occorre
addurre gli esempii. La poesia pertanto può benissimo essere musicale,
ma dentro certi confini; perchè con i suoni musicali si rappresentano
certi suoni naturali e si esprimono i moti dell’animo, mentre con le
parole si possono e si debbono rappresentare tutti gli oggetti ed
esprimere tutte le idee.

È impossibile pertanto concludere, come vorrebbe il Cremonese, che
non si debba più chiamare arte la pittura o la scultura o la musica,
ma «lo spirito sintetico di tutte esse, vale a dire quell’accolta di
leggi comuni che regolano il loro esplicarsi e che formano, di per
sè, un tutto filosofico, concreto, rigoroso». Il tutto è filosofico;
ma, appunto perchè filosofico, non è concreto nè rigoroso. Quando noi
chiamiamo arte tanto la pittura quanto la musica, tanto la poesia
quanto l’architettura, riconosciamo implicitamente la loro filosofica
affinità. Esercitate tutte dall’uomo, esse rivelano egualmente i
caratteri della natura umana. Se è vero che lo stile è l’uomo, in
tutte le arti si deve trovare, e si trova infatti, e il Cremonese
opportunamente lo nota, uno stesso stile o maniera morale. Essere
tutte coscienti è carattere comune a tutte le sensazioni; in tutte le
arti c’è pertanto uno stile chiaro od oscuro. Il simbolismo, che il
Cremonese giudica mancanza di _linea_, è più propriamente mancanza di
chiarezza, di precisione: qualità morali, gradi della coscienza, non
della tecnica; perchè nel quadro più simbolico che sia possibile, gli
effetti prospettici della linea devono essere e sono rispettati. Tutte
le sensazioni hanno intensità diverse e diverse qualità affettive, così
in tutte le arti c’è uno stile intenso o tenue, vario od uniforme,
rigido o grazioso. Innegabilmente è altrettanto difficile riuscir bene
in un’arte come in un’altra; ma che, per essere artisti, bisogni essere
«completamente padroni di tutte le tecniche delle varie espressioni
d’arte» non si deve concedere. Dalla padronanza di più arti si può
certamente trarre molto giovamento; ma non si vede che sia necessario
al pittore conoscere la prosodia o al poeta il contrappunto, e
viceversa, se l’eccellenza può essere ed è raggiunta in un’arte da chi
ignora non solo le altre più lontane dalla sua, ma anche alcuni generi
della sua stessa arte. Grandi paesisti non sono soltanto mediocri
scultori, ma infimi ritrattisti; poeti o romanzieri eccellenti cadono
miseramente come autori drammatici.

Noi diremo dunque che l’arte è bensì una, ma che questa unità morale ed
astratta non implica l’identità reale e concreta delle varie arti.



GERARCHIA DELLE ARTI


È costante tendenza dello spirito umano paragonare le cose simili o
affini, ed ordinarle per conseguenza secondo la diversa attribuzione
di valore e d’importanza. Se le arti non si possono unificare perchè
ciascuna ha i suoi proprii motivi, segue i suoi proprii metodi e
consegue i suoi proprii effetti, a quale di esse spetterà il primo
posto per avere i motivi più notevoli, per seguire i metodi più nobili
e per conseguire i più potenti effetti?

Un delicato poeta che fu nello stesso tempo un non volgare filosofo,
Victor de Laprade, assegnò ultimamente l’infimo posto alla musica: egli
espose le sue ragioni in alcuni saggi di _Critica idealista_ e in tutto
un libro intitolato appunto _Contro la musica_. Parlare a favore di
quest’arte, criticare gli argomenti dell’autore, sarà un modo di veder
chiaro riguardo al concetto della gerarchia delle arti.


I.

Contro la musica il Laprade adduce un argomento storico che, come tale,
merita di esser discusso prima di ogni altro. Egli dice che l’arte dei
suoni, lungamente trascurata nei primi tempi della civiltà, ha fatto
enormi progressi nell’êra moderna: essa è dissolvente appunto perchè
il suo sviluppo coincide con la corruzione generale. Ora, accordato
che la civiltà, dai primi tempi agli ultimi, non abbia fatto altro che
indietreggiare continuamente, basta sfogliare un qualunque manuale
di storia della musica per vedere come quest’arte non solo non fu
trascurata nell’antichità, ma godette del massimo credito. Secondo
gli antichi ebbe origine divina: gli Dei stessi la insegnarono agli
uomini. Fra gl’Indiani, riferisce il Bonaventura, l’invenzione dello
strumento chiamato _vinia_ fu attribuito alla Dea della parola «quasi
a significare l’unione ideale esistente tra la favella e la musica».
Questa unione non è tutta ideale, è anche reale; perchè le corde
vocali e le strumentali vibrano allo stesso modo, producono suoni
simili, e lo Spencer ha derivato da questa osservazione la sua teoria
dell’espressione musicale della quale ragioneremo fra poco. Notiamo
per ora che tra i Greci la musica non fu l’arte dei suoni soltanto, ma
si unì con la poesia e con la danza; presso quel popolo, come rammenta
lo stesso Bonaventura, era indecoroso non conoscer la musica, e le
quistioni ad essa relative erano quistioni di Stato.

Il Laprade fa alla musica un’altra accusa perchè i suoi cultori possono
essere e sono spesso ignoranti di ciò che non riguarda l’arte loro, e
perchè i più insigni musicisti, il Mozart e il Beethoven per esempio,
non possono menomamente paragonarsi, per la potenza intellettiva,
per l’estensione dello spirito, per l’universalità delle attitudini,
a un Leonardo o a un Michelangelo. Ma, senza parlare dei genii che
non sdegnarono occuparsi della musica insieme con altre cose più
gravi, come Pitagora, Sant’Agostino, Boezio, Marziano Capella, e
in tempi molto più vicini a noi, Salvator Rosa e il Rousseau e il
Goethe, si può concedere a Guido d’Arezzo qualche ingegno inventivo,
e Palestrina e Benedetto Marcello non pare che fossero piccole menti,
e ai nostri giorni un compositore ha dimostrato che si può essere
musicisti e filosofi e critici, e possedere tanta forza e originalità
d’ingegno da produrre una memorabile rivoluzione: non c’è bisogno di
nominare Riccardo Wagner. Il Laprade potrebbe obbiettare che questo
musicista non fu poi tanto originale quanto pare, se è vero che la
sua concezione estetica deriva dal concetto che ebbero della musica
i Greci, cioè dalla fusione dell’arte dei suoni con altre; ma, se è
vero che i Greci ebbero della musica un concetto tanto vasto, non
è più vero che quest’arte è l’ultima venuta, la cenerentola delle
sorelle: sarà soltanto da riconoscere che la tecnica musicale è stata
lenta nel progredire. E tutto il lavorìo filosofico dei pensatori
che precedettero il Wagner dimostra ancora che la musica non è niente
affatto incompatibile con le più serie manifestazioni del pensiero.
Edouard Rod ha messo in evidenza i rapporti dell’arte wagneriana con
l’estetica tedesca; ha notato come in Germania, dove la poetica precede
ordinariamente la poesia, e la critica precorre la creazione, la
riforma del Wagner già si annunziava negli scritti dei filosofi quando
l’autore della _Tetralogia_ non era ancor nato. Nella continuazione
del suo _Laocoonte_, Lessing diceva: «Sembra che la natura non abbia
soltanto destinato la Musica e la Poesia a procedere insieme, ma
piuttosto a fondersi in un’arte unica.... Vi fu certamente un tempo in
cui esse non formarono che una sola e medesima arte. Io non pretenderò
che la loro separazione non si sia operata in un modo naturale, ancor
meno biasimerò l’esercizio dell’una o dell’altra; ma mi rincresce
che questa separazione sia divenuta tanto assoluta che non si pensa
più a riunire le due arti, o che vi si pensi per ridurre una delle
due alla di parte ausiliaria subordinata all’altra, senza mirare ad
un effetto comune al quale entrambe contribuirebbero egualmente». E
l’Herder, nella sua _Conversazione sopra l’Alceste_: «Se il compositore
ordinario che mette orgogliosamente la poesia al servizio dell’arte
sua discendesse dalle superbe altezze, cercherebbe, in quella misura
almeno che è consentita dal gusto della nazione per la quale lavora,
di tradurre nella sua musica i sentimenti dei personaggi, l’azione
del dramma e il senso delle parole. Ma egli si restringe ad imitare i
predecessori oltrepassandoli secondo i suoi mezzi; e presto un altro lo
lascerà molto indietro, rovesciando la bottega delle opere di orpello
ed _innalzando un monumento lirico nel quale la poesia, la musica,
l’azione e la decorazione saranno combinate per ottenere un effetto
comune_».

Il Rod ha ragione di avvertire che sarebbe difficile preannunziare
_Parsifal_ con un linguaggio più chiaro; tanto più che queste non erano
idee isolate, ma sintomi della generale inquietudine degli artisti e
dei critici intenti ad emancipare il pensiero tedesco delle influenze
straniere. L’Hegel, fra gli altri, nel suo capitolo dell’_Estetica_
dove studia il rapporto dei mezzi d’espressione musicale col
soggetto espresso, dopo aver distinto la musica indipendente dalla
musica d’accompagnamento, dice che quest’ultima deve legarsi molto
strettamente al soggetto determinato. «Infatti il testo, dando per
sè stesso impressioni precise, toglie lo spirito da quello stato di
_rêverie_ al quale si lascia andare, senza esser turbato, nel corso
delle sue impressioni e dei suoi pensieri. Noi non abbiamo più tale
libertà di sentire e di gustare questa o quella parte in un pezzo di
musica, di essere commossi in questo o quel modo secondo le nostre
disposizioni personali. Tuttavia, alleandosi col testo, la musica non
deve ridursi in una condizione tanto subordinata che, per riprodurre
col loro carattere preciso le parole, essa debba perdere la libertà
dei proprii movimenti.... Da un altro canto, l’accompagnamento non
deve neppure, come è venuto in moda per opera della maggior parte dei
compositori italiani, emanciparsi interamente dal pensiero del testo,
scuoterlo come una catena e avvicinarsi così al carattere della musica
indipendente. L’arte consiste, al contrario, nel penetrare il senso
delle parole, delle situazioni o delle azioni espresse, e in seguito,
per mezzo di una ispirazione interiore, nel trovare un’espressione
piena d’anima e nello svilupparla musicalmente».

Questo concetto di un intimo accordo fra le due arti, musica e poesia,
è quello appunto del Wagner, il quale nella sua _Lettera a Federico
Villot_ già avvertiva, per biasimarli, lo sconfinamento e l’inversione
delle arti, e dichiarava di volersi attenere alle naturali analogie.
«Forte dell’autorità dei critici più eminenti», scriveva egli nel 1861,
«con l’esempio delle ricerche del Lessing sui limiti della pittura
e della poesia, io mi credetti in possesso d’un solido risultato,
cioè: che _ogni arte tende a una estensione indefinita della propria
potenza, che questa tendenza la porta finalmente al proprio confine,
e che questo confine non potrebbe essere oltrepassato senza cadere
nell’incomprensibile, nel bizzarro e nell’assurdo_. Arrivato a questo
punto, mi parve vedere chiaramente che ogni arte chiede, quando è ai
limiti della propria potenza, di dar mano all’arte vicina; e, rispetto
al mio ideale, trovai un vivo interesse nel seguire questa tendenza
in ogni arte particolare, e mi parve di poterla dimostrare con la
massima evidenza nei rapporti fra la poesia e la musica, segnatamente
considerando l’importanza straordinaria che ha preso la musica moderna».

La fusione, dunque, della musica e della poesia nel dramma lirico
avrà per effetto di modificare la natura delle due arti. La poesia,
arte concreta, cercherà di avvicinarsi all’astrazione finchè le sarà
possibile; e la musica, arte astratta, dovrà precisarsi compatibilmente
coi mezzi dei quali dispone. Abbiamo perciò da una parte i motivi-guida
(_leit-motiv_) che rappresentano, annunziano e accompagnano ciascun
personaggio; e dall’altra parte un libretto poetico liberato dalle
esigenze del dramma, puramente letterario, inteso a «spogliare le
azioni umane della loro forma convenzionale», per mostrare «la vita in
ciò che essa ha di essenzialmente umano, di eternamente comprensibile».

È ora facile scorgere la relazione che passa tra la riforma wagneriana
e la dottrina estetica dalla quale fu preceduta. La concezione tutta
hegeliana della sintesi delle arti, specialmente quella dell’intima
unione tra musica e poesia, che costituiscono insieme l’arte
_subbiettiva_, per opposizione all’arte _obbiettiva_ (rappresentata
dall’architettura, dalla scultura e dalla pittura) porta tanto il
filosofo quanto il compositore ad ammettere la supremazia della forma
teatrale—supremazia, si noti fra parentesi, legittima, perchè
dipendente dalla complessità di spettacoli ai quali più arti pongono
mano. Inoltre, l’idealismo trascendente del Wagner è una rivendicazione
dell’idealismo dell’Hegel; e tanto il filosofo quanto il compositore
studiano l’azione dell’arte drammatica sul pubblico per creare un’arte
nazionale. Finalmente, tanto per il filosofo quanto per il compositore,
il sentimento estetico si fonde da ultimo col sentimento religioso. «La
rappresentazione dell’Amore religioso» dice l’Hegel «è il soggetto più
favorevole delle belle creazioni dell’arte cristiana». E il mistico
Wagner del _Parsifal_ è condotto anch’egli a considerare l’espressione
più generale del bisogno metafisico dell’umanità, cioè la religione,
come la principale sorgente d’ispirazione artistica—tesi ch’egli
sviluppa in uno dei suoi ultimi opuscoli: _Religione ed arte_.

Diremo noi che una mente come questa, capace di concezioni simili,
sia angusta, povera, semplice? Tanto essa è grande, che la stessa
scienza, la quale cerca le ragioni del genio nella conformazione degli
organi, ha notato, se non misurato, la distanza che la separa dalle
menti dei semplici artisti, quantunque grandissimi. Dice infatti il
Gallerani, nella sua _Fisiologia del Genio_, che mentre lo sviluppo del
lobo parietale è molto maggiore nel genio artistico, si trova invece
nello scientifico un più grande sviluppo del lobo frontale: «il genio
scientifico presenterebbe quindi alcune condizioni anatomiche diverse
da quelle del genio artistico; Richard Wagner perciò si staccherebbe
da Bach e Beethoven in quanto presenterebbe uno sviluppo grande del
detto lobo frontale, oltre quello del parietale; Bach e Beethoven
avevano, secondo le successive ricerche di His e Flechsig, insieme ad
uno sviluppo considerevole delle regioni parieto-occipito-temporali e
delle medie cerebrali, uno sviluppo relativamente mediocre del lobo
frontale».

Si conclude da questa non breve dimostrazione che non è niente affatto
escluso, anzi è direttamente provato, che si può essere grandi
musicisti e grandi pensatori insieme. Se, d’ordinario, i compositori
di musica sono ignoranti di tutto ciò che non riguarda la loro arte,
altrettanto si può dire dei pittori, degli scultori, degli architetti,
degli attori: fanno eccezione soltanto quegli artisti che coltivano le
arti della parola, perchè la parola è pensiero.


II.

Il massimo e più serio argomento del Laprade contro la musica riguarda
la potenza d’espressione dell’arte musicale. Egli la paragona alla
pittura di paesaggio. «Le due arti si servono del medesimo linguaggio,
quasi dei medesimi termini: toni, tonalità, armonia, gamma dei sette
colori e gamma delle sette note; tanto che il padre Castel pretendeva
sonare i quadri sopra un cembalo di sua invenzione. Entrambe hanno
la stessa espressione ambigua, con due soli caratteri ben definiti:
la gaiezza e la tristezza. Entrambe valgono principalmente come
_complementari_: hanno bisogno d’una sostanza, d’un canevaccio che
le sostenga, per avere una significazione, per esprimere un pensiero
chiaro e preciso. Una ricopre la forma disegnata, l’altra l’idea
parlata, nello scopo comune di accrescere effetto all’opera».

Qui si trova, prima d’ogni altra cosa, un altro esempio della
confusione prodotta dalla soverchia estensione del concetto di analogia
delle arti. E, senza ripetere ciò che si disse a proposito della
tecnica della pittura e della musica, si vede come la nuova analogia
del Laprade sia insostenibile. La musica non sta alle parole come il
colore al disegno; perchè vi può essere, e c’è fin che se ne vuole,
musica senza parole, ma non c’è colore senza disegno. Nella natura
colori e disegni vanno insieme: ogni forma ha qualche colore, e ogni
colore sta in qualche forma. E anche nell’arte, se il disegno può
stare senza colore, il colore non può stare senza disegno. Quanto
ai rapporti delle parole e della musica, noi vediamo che le parole
hanno naturalmente, oltre al significato, che corrisponderebbe al
disegno, un qualche valore musicale, che corrisponderebbe al colore;
ma l’elemento musicale è tanto povero rispetto all’altro, da potersi
dire che le parole stanno da sole, incolori. Che cosa è dunque questa
musica, diventata arte, e arte tanto invadente, se l’elemento musicale
naturale è così meschino e trascurabile? Se tutta l’arte è, come si
disse, immagine della realtà, se la scultura da immagine delle forme,
la pittura delle forme e dei colori, il romanzo dei casi umani, di
che cosa dà immagine la musica? Quando io vedo uno stupendo ritratto,
quando vi fermo a lungo lo sguardo, m’illudo, credo di avere dinanzi
l’uomo vivo: quando odo una sinfonia, che illusione provo? Il pittore
trae l’immagine dal modello; quali sono i modelli dai quali il
musicista trae le immagini sue?

Sully Prudhomme dice che la natura quasi mai fornisce motivi alla
musica. Questa espressione non è precisa. L’arte musicale, come
tutte le altre, non crea nulla. Essa dà in parte immagine dei suoni
naturali: gemiti e fischi del vento, mormorio e scroscio delle acque,
fruscio e stormire delle frondi, gorgheggi e trilli di uccelli; ma,
principalmente, delle voci umane. Gli uomini, quando sono in preda a
vive commozioni, cantano, gridano, urlano, sospirano, singhiozzano:
le loro voci, in queste condizioni, hanno qualità particolari che la
musica esprime e significa. Ma qui si vede che il rapporto fra la cosa
rappresentata e la rappresentazione è in quest’arte molto diverso da
quello che si osserva nelle arti figurative. La statua e il ritratto
si possono chiamare una copia della persona viva; perchè, quantunque
non siano vivi, quantunque non riproducano interamente tutti i
caratteri di quella, pure le si accostano molto. Una sinfonia, invece,
si discosta molto dai rumori naturali e dalle voci umane; movendo
dalla realtà, essa compone e sviluppa con una ricchezza tanto grande
gli scarsi elementi da questa forniti, che pare una vera creazione
paragonatamente alla imitazione quasi servile della statua e del
ritratto. Si vede pertanto che una gerarchia non è possibile, o che
ne sono possibili due, ciascuna delle quali è il rovescio dell’altra;
perchè, se noi diamo importanza all’imitazione del vero, dobbiamo dire
che pittura e scultura sono le più importanti, come quelle che offrono
rappresentazioni di una fedeltà grandissima; se invece cerchiamo
principalmente la creazione, dobbiamo dare il primo posto alla musica.
E ciò che si dice a questo riguardo della musica si può estendere
all’architettura, la quale si dilunga tanto dalla realtà da parere
anch’essa una vera e propria creazione. La natura le dà linee e figure
geometriche, infimi elementi dai quali essa trae, col sussidio della
scultura, il miracolo del Partenone. Il Laprade le accorda il primo
posto per ragioni che vedremo fra poco; essa lo merita, con la musica,
se il criterio dell’assegnazione è la ricchezza della composizione e la
novità dei risultati; non lo merita, si deve anzi ridurre all’ultimo,
se il criterio è l’esattezza dell’imitazione.

Qual è intanto il valore espressivo delle composizioni e diremo anche,
nel senso che si è visto, delle creazioni musicali? Intorno al valore
della musica come linguaggio le discussioni dei filosofi non sono
ancora finite, e non finiranno, pare, molto presto. Dall’affermazione
di Gian Giacomo Rousseau, per cui la musica ha il solo scopo di
allettare l’orecchio, alla vivace esclamazione che il focoso Berlioz
rivolse all’Adam: «Croyez-vous que l’on écoute la musique pour son
plaisir?» c’è tutta una serie di opinioni alle quali qualche gran
nome conferisce autorità. La critica moderna ha nello Spencer il
più attento studioso del problema dell’espressione musicale. Egli
spiega con le leggi fisio-psicologiche come la musica tragga origine
dalle modulazioni della voce umana nei periodi di eccitazione. Ogni
sentimento, sensazione e commozione gradevoli o penosi stimolano il
sistema muscolare, in modo che ciascuno di questi fenomeni si rivela
per mezzo di una particolare modificazione di certi muscoli. Ora
ciascuna inflessione della voce dipende da uno speciale adattamento dei
muscoli che agiscono sul petto, sulla laringe e sulle corde vocali,
adattamento che è diverso per i diversi sentimenti di piacere o di pena
che lo determinano. Così ad ogni variare della commozione corrisponde
una qualità, un’intensità, un’altezza speciale di suono; e poichè,
mentre noi abbiamo coscienza di ciascuna nostra commozione, percepiamo
anche il suono che essa ci fa emettere, così stabiliamo un nesso fra un
certo suono e la commozione che ne è la causa; in modo tale che quando
quel suono non è emesso da noi, ma ci viene dall’esterno, dagli altri,
gli attribuiamo come causa la stessa commozione che lo determinava in
noi, e questa commozione altrui nasce in noi per la legge del contagio
simpatico. Così, secondo il filosofo inglese, la musica, portando al
grado estremo le inflessioni della voce, sarebbe un vero e proprio
linguaggio, capace di esprimere con molta precisione tutte le varietà
del sentimento. Noi vedremo ora fino a che segno si possa estendere
questo valore espressivo; notiamo qui la critica mossa dal Lechalas
alla teoria dello Spencer. Secondo quest’ultimo, il valore espressivo
dei suoni dipende, in ciascuno di noi, dalla costante esperienza del
rapporto che esiste fra le nostre commozioni e le corrispondenti
modulazioni della nostra voce. Ora, se è così, come mai si può dire che
il compositore, grazie alla straordinaria sua sensibilità, esprimendo
commozioni che gli altri uomini non provano o provano debolmente, è
capace di eccitare negli uditori sentimenti ad essi sconosciuti? Se un
suono è espressivo perchè noi vi riconosciamo la commozione che lo ha
prodotto, come potremo trovare in certi suoni che non abbiamo uditi mai
l’espressione di turbamenti che mai abbiamo provati? Il Lechalas, a
correggere questo difetto, spiega l’espressione musicale con le leggi
fisiologiche dell’_azione riflessa_ enunziate da Claudio Bernard. Ogni
azione sensitiva è capace di reagire sui nervi motori dando luogo a
movimenti involontarii; e siccome nei muscoli si immettono, oltre che i
filetti motori, anche i filetti sensitivi, e perciò la riflessione non
si arresta alle modificazioni del sistema muscolare ma ritorna verso il
centro cerebrale, così ci sarebbe una _riversibilità_ fra le commozioni
e gli stati muscolari corrispondenti; talchè il Lechalas crede che le
eccitazioni dei nervi acustici si riflettano in commozioni.

La teoria dello Spencer e questa del Lechalas dànno ragione
dell’espressione musicale. I primi uomini che, facendo vibrare le
corde e soffiando nelle canne, ne trassero suoni simili a quelli dei
rumori naturali e delle voci umane, crearono la musica: l’arte progredì
col tempo, lentamente, sino alla perfezione presente. Senonchè oggi
si presume, con la musica, descrivere le cose e sin anche narrare
i fatti; coloro che sostengono questa possibilità fanno all’arte
musicale, volendo innalzarla oltre ogni misura, i torti maggiori.
Le stravaganze della descrizione musicale sono note: il Berlioz ha
due pezzi che dovrebbero descrivere le rive dell’Elba e il gabinetto
da studio di Faust. Il Duesseck scrisse in musica una pagina di
storia e narrò melodicamente le sventure di Maria Antonietta: la sua
composizione finisce con una strisciata sulla tastiera dall’alto al
basso per significare la caduta del coltello della ghigliottina. Un
altro originale, il Reveroni di Saint-Cyr, andò più lontano: sostenne
che in musica, se l’immagine da rappresentare è resa perfettamente,
il segno visivo deve concordare col tratto vocale, e la forma stessa
dell’oggetto preso ad argomento deve trovarsi sulla carta, nella
disposizione stessa delle note scritte, purchè la si cerchi con
arte!... Pretese simili, aberrazioni di tal genere, spiegherebbero
una reazione anche più violenta che non quella del Laprade. Non sarà
possibile intanto definire razionalmente i limiti dell’espressione
musicale?

Agli avversarii della musica si deve accordare che essa non solo è
incapace di far vedere le cose, ma anche di significare i sentimenti e
le passioni. Quale compositore esprimerà con le sole note l’ipocrisia,
l’invidia o l’avarizia? La musica non può esprimere altro che le
commozioni. Quando di una commozione abbiamo detto che è ineffabile,
abbiamo detto quasi tutto. L’intima qualità non può esserne espressa;
noi non possiamo, con le parole, significare i profondi turbamenti, le
secrete agitazioni, gl’intimi fremiti della nostra fibra sensitiva. Non
le parole, ma le semplici esclamazioni o interiezioni le significano
in certo modo, in modo ambiguo e inadeguato. Con i suoni musicali il
compositore agisce direttamente sui precordii, affretta o rallenta
i battiti del cuore, eccita i moti dell’anima. Le commozioni non
sono sentimenti, ma si associano ad essi tanto intimamente che li
coloriscono: la musica può pertanto, significando direttamente le
prime, indirettamente significare i secondi. Il sentimento dell’amore
non può essere espresso per le vie melodiche; una melodia può
bensì significare l’esaltazione di un amore felice, l’ansietà e la
trepidazione di un amore scontento, l’abbattimento e il dolore di un
amore perduto. La concitazione significata dalla musica può esprimere
la gelosia, l’odio, l’ira, la vendetta, tutte le passioni che hanno
nella concitazione il loro colorito _emotivo_. Una determinazione più
precisa di sentimenti e di passioni non è possibile. Se un sentimento
come l’amore può manifestarsi con diverse commozioni, e se una stessa
commozione può essere caratteristica di parecchi sentimenti e
passioni, il numero delle commozioni è molto piccolo rispetto a quello
dei sentimenti e delle passioni: qui è la ragione della povertà del
linguaggio musicale. Tanto meno è possibile con esso significare le
idee, i pensieri, i ragionamenti, tutte le operazioni dell’intelletto;
soltanto, siccome commozioni e idee si trovano insieme nel campo della
nostra coscienza, così noi pensiamo anche udendo una sinfonia; tranne
che i nostri pensieri non sono espressi dalla musica, ma sorgono in noi
per la legge dell’associazione psichica. E siccome le associazioni,
in ognuno di noi, sono determinate dall’esperienza personale, così i
pensieri che pensano i diversi uditori d’una stessa musica non sono gli
stessi.

Il d’Alembert diceva che, fra cento individui di carattere diverso
intenti ad ascoltare una composizione musicale, nessuno prova le stesse
impressioni e commozioni del vicino; mentre il significato d’una
pittura o d’un poema è evidente e non dà luogo a dubbii o a confusione.
Il giudizio non è interamente esatto, perchè bisogna distinguere bene
l’espressione diretta dall’espressione per associazione. Le commozioni
direttamente significate dalla musica sono eguali per tutti i cento
uditori: l’eccitazione, la depressione, la trepidazione, lo slancio,
l’abbandono saranno comunicati a tutti identicamente per la virtù del
ritmò, con la forza o la flebilità dei suoni, e con nessun altro mezzo
potrebbero essere significate tanto mirabilmente; diverse saranno le
idee, i pensieri, i ricordi, i propositi, tutto ciò che nella mente dei
cento uditori si determina per associazione. L’espressione indiretta,
per associazione, si trova anche nelle altre arti. Il significato d’un
poema o d’una pittura non è tutto evidente e può dar luogo a qualche
dubbio quando lo spettatore o il lettore non si attiene alla cosa
direttamente rappresentata, ma rammenta e fantastica. Dinanzi alla
Venere di Milo cento spettatori avranno la stessa immagine d’una figura
di donna; ma un artista, un medico, uno scapestrato, una fanciulla
attribuiranno a questa figura significati molto diversi; perchè in
ciascuno di costoro si risveglieranno le idee, le aspirazioni, i
desiderii, le inquietudini, le memorie abituali. Dinanzi a un quadro
rappresentante una scena mitologica o storica tutti gli spettatori
vedranno le stesse figure raggruppate allo stesso modo e colorite
delle stesse tinte; ma il quadro non avrà significato per chi non
ha dimestichezza con la mitologia o con la storia. Le parole hanno
un valore molto preciso, tuttavia esso non è tanto preciso quanto
pare. Una proposizione è un pensiero; nondimeno, accanto e intorno ai
pensieri espressi con parole, altri ne sorgono che li modificano, li
piegano, li torcono. Il senso d’un poema e d’un romanzo, che dovrebbe
essere tanto chiaro, è suscettibile, come la critica dimostra da
secoli, di diverse interpretazioni.

Il Weber, in difesa della musica, adduce un argomento ingegnoso, che
potrebbe anche essere specioso. Quest’arte, dice, è accusata di non
saper significare un sentimento determinato: il dolore, per esempio;
essa può, tutt’al più, produrre una certa commozione dolorosa. Ma la
precisione che la musica non ottiene è forse ottenuta dalla poesia
o dalla pittura? La poesia non riesce ad esprimere il dolore, ma un
certo dolore; la pittura non può ritrarre l’albero, ma un certo albero.
Al ragionamento del Weber si oppone che la musica, significando ed
eccitando commozioni, non può raggiungere la determinatezza della
poesia e della pittura, perchè le commozioni non sono oggetti definiti
come quelli riprodotti da queste arti; e, chi ben guardi, l’argomento
dell’autore si può addirittura capovolgere; perchè, mentre la pittura
rappresenta volta per volta le infinite cose esistenti nel mondo
fisico, ciascuna delle quali è diversissima dall’altra, la musica
rappresenta le commozioni, ciascuna delle quali, nel suo genere, poco
e male si distingue dall’altra. Gli alberi sono di svariate forme
secondo la diversa specie della pianta, e in ciascuna specie ogni
singolo albero ha un aspetto suo proprio; il dolore, o per dir meglio
la commozione dolorosa ha poche varietà, e tutte le oppressioni, le
depressioni, gli accasciamenti e gli abbattimenti, quantunque dipendano
da cause molteplici, si manifestano identicamente. La poesia, la
parola, può significare le loro diversità; ma la più determinata poesia
dolorosa non produce in noi, sui nostri nervi, sulla nostra fibra
sensitiva, l’effetto di una marcia funebre o di una messa di requiem.
Viceversa, e quasi per legge di compenso, la commozione viscerale
prodotta dalle più diverse marcie funebri e messe di requiem è sempre
identica, e diversi possono essere soltanto i sentimenti e le idee che
esse svegliano per associazione.

Concludendo: in tutte le arti vi sono due specie d’espressione: la
diretta e immediata, e l’indiretta e mediata. La musica, come la
poesia, come la pittura, possiede tanto l’una quanto l’altra. Essa
significa molte cose indirettamente, e diciamo anche ambiguamente e
troppo confusamente. L’errore comune a molti critici consiste nel
fare maggior caso delle cose significate da lei indirettamente, per
associazione. È un errore simile a quello di chi giudicasse che
l’ombrello è un bastone troppo grosso e pesante. L’ombrello può servire
da bastone, ma è naturalmente adatto a riparare dalla pioggia. La
musica esprime male i sentimenti e malissimo le idee, ma essa soltanto
esprime gli stati dell’animo. Il Laprade l’ha paragonata alla pittura
di paesaggio, e l’Amiel ha detto che un paesaggio è uno stato d’animo;
ma l’espressione nel paesaggio è antropomorfica, non intrinseca; la
musica invece, tranne quando imita le voci della natura—cosa che non
fa troppo spesso—significa le commozioni direttamente: una sinfonia
è come un coro di voci, come una gran voce che eccita od opprime,
che piange o ride. Fuori del paesaggio, la pittura, come anche la
scultura, rappresenta tutto l’uomo; ma l’uomo muto, i cui stati
d’animo, le cui commozioni debbono essere da noi interpretate; ora
l’interpretazione non è espressione diretta. Tanto meno è espressione
immediata il simbolismo dell’architettura. Quindi una gerarchia delle
arti, conseguendo ciascuna di esse certe particolari espressioni, e
conseguendole con mezzi proprii, ciascuno dei quali è potentissimo
e inimitabile, non si può neppure stabilire considerando i mezzi
dell’espressione. Resta da considerare, come fa il Laprade, la qualità
delle cose espresse.


III.

L’architettura è per lui la più nobile di tutte le arti, perchè nel
tempio, che ne è l’opera principale, essa dà simbolicamente «un’idea
del celeste abitacolo, dell’universo considerato come simbolo del mondo
invisibile, di Dio stesso». Viene dopo la scultura, perchè quest’arte
attende a riprodurre la figura dell’uomo, che è il re del creato,
l’essere fatto a immagine e simiglianza di Dio; la pittura viene dopo
la scultura, perchè, riattaccandosi alla statuaria quanto al disegno,
contiene tuttavia un elemento puramente sensuale, che è il colore.
Il suono parla soltanto al senso, non dice nulla alla ragione; la
musica esercita la sua azione nel campo della sensibilità organica,
sul sistema nervoso: quest’azione ha un carattere di necessità, di
fatalità; l’uditore deve sopportarla senza poterla discutere; quindi
l’arte che produce simili effetti è arte inferiore.

Per stabilire con questi criterii una gerarchia delle arti, bisogna
prima stabilire una gerarchia delle facoltà umane, e dire che
l’intelligenza importa più della sensibilità. Così ha fatto Max
Nordau quando, senza distinguere l’una arte dall’altra, ha relegato
all’ultimo posto i genii artistici, attribuendo i massimi onori agli
attivi e intellettivi. Ma la scienza psicologica, distinguendo le
diverse facoltà, non solamente non perde tempo a discutere qual è
più nobile e quale meno; ma ne studia le affinità, le attenenze,
le relazioni e la fondamentale unità. Nella musica, del resto, non
manca una parte puramente razionale, rappresentata dalle leggi degli
accordi e dei ritmi, nè il Laprade lo ignora; ma egli afferma che anche
questo elemento razionale, nella musica, si contraddistingue per la
sua fatalità, giacchè l’intelligenza non è libera di discuterlo, nè
capace di intenderlo. Ora, prima di tutto, non è conforme al vero che
l’intelligenza non sia assolutamente capace di intervenire a questo
riguardo: poichè il problema dell’armonia, che ha affaticato durante
lunghissimi secoli le menti, è stato finalmente risolto proprio
dall’intelligenza, e come dice il Mach in una delle sue eleganti
_Letture scientifiche_, alla domanda formulata da Pitagora ha risposto,
dopo due mila anni, Helmotz; in secondo luogo, se c’è nella parte
matematica della musica qualche cosa di fatale che l’intelligenza
deve accettare senz’altro, questa medesima fatalità è nelle
matematiche pure, e in filosofia, e in tutti i rami della conoscenza
umana. Reciprocamente: l’elemento estetico non manca neanche nelle
matematiche; tanto è vero che il visconte d’Adhémar vuole, come
vedemmo, annoverare fra le arti l’algebra e la geometria.

Se dunque la stessa scienza, la più scientifica delle scienze, non
crede di perder nulla paragonandosi a un’arte, ottenendo un effetto
estetico oltre che raggiungendo uno scopo razionale, che valore avrà
contro la musica l’addurre che quest’arte ha un effetto estetico
soltanto? Non si potranno rovesciare i termini dell’argomentazione,
e affermare che questa è arte più pura, l’arte più arte, l’arte per
eccellenza? Il Laprade la giudica inferiore perchè, sola fra tutte,
esercita qualche influenza sugli animali, sui pazzi e sugli idioti.
Ora questo sarà, se egli così vuole, un segno d’inferiorità; ma,
siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, il segno d’inferiorità si può
considerare anche come prova di superiorità, come misura della maggiore
estensione degli effetti musicali.

Ancora: perchè il carattere delle opere musicali varia da un paese ad
un altro, il Laprade nega che la musica abbia un’influenza universale.
Ora, allo stesso modo e per la stessa ragione che non c’è una lingua
universale, ma altrettanti linguaggi quante sono le circostanze di
razza, di clima, e via dicendo, così vi sono idee melodiche diverse
secondo che diversi sono il clima, la struttura degli organi,
l’educazione. Un Turco, racconta il Laprade, richiesto del suo parere
intorno ad una sinfonia che l’orchestra aveva allora allora finito
di eseguire, rispose: «È bella, ma era meglio _prima_». Il _prima_
del Turco significava il frastuono degli strumenti che i sonatori
accordavano. Ciò non prova altro se non che il gusto e l’educazione del
Turco non sono i nostri. I Turchi vestono anche a un modo diverso dal
nostro; e i selvaggi dell’interno dell’Africa non si vestono affatto.
Un Italiano che senta parlar tedesco non ha l’orecchio piacevolmente
solleticato. Anche in musica i conoscitori distinguono lo stile delle
singole nazioni. E se l’ideale melodico, oltre che mutare di luogo in
luogo, muta in uno stesso luogo col passar del tempo, questo fatto non
è altro che una conferma della legge universale dell’evoluzione. Cambia
l’ideale musicale come cambia ogni ideale estetico, si modifica la
tecnica musicale come quella di ogni altra arte.

Una gerarchia delle arti non si può dunque fondare su questi criterii.
Il nemico della musica potrà dire che essa è inutile; ma dobbiamo
noi cercare l’utilità nell’arte? Se i varii ritrovati dello spirito
umano dovessero classificarsi secondo la loro utilità, come la
scienza sarebbe superiore all’arte, così l’architettura sarebbe la
prima delle arti; perchè gli uomini possono fare a meno di quadri e
statue, di drammi e melodrammi, non già di edifizii destinati agli usi
privati e pubblici; senonchè un edifizio non è un’opera d’arte per
la semplice ragione che è destinato a un certo scopo. Muri nei quali
siano praticate un certo numero di aperture e sui quali sia imposto un
tetto possono servire al ricovero degli individui e alla celebrazione
delle cerimonie collettive: l’arte comincia quando si aggiunge
_qualche altra cosa_, quando l’opera ha certe qualità, certi ornamenti
del tutto inutili allo scopo, alla pratica destinazione. Se c’è o
non c’è simmetria ed euritmia nel disegno d’una casa, che importa?
L’importante, riguardo alla sua utilità, è che non vi piova dentro:
una chiesa servirà egualmente bene alla celebrazione del culto tanto
se è provvista quanto se è sprovvista di colonne, di capitelli, di
guglie. Ora se l’arte è qualche cosa oltre l’utile; se è, in un certo
senso, l’inutile—il quale, in un altro senso e per altre ragioni, può
essere utilissimo—non è possibile ordinare le arti secondo l’utilità
dei loro prodotti; o, se mai, la più inutile sarà la prima. E la
musica potrebbe, per questa ragione, tenere veramente il primo posto,
se essa fosse inutile del tutto. Invece, come l’arte architettonica
si sviluppò dalle rozze costruzioni delle palafitte e dei recinti e
delle capanne dove i primi uomini si difesero dalle intemperie, così
l’arte musicale si sviluppò dai canti rauchi e dai rumori scomposti con
i quali gli stessi primi uomini credettero necessario accompagnare e
contrassegnare e provocare alcune manifestazioni della vita, come la
poesia si sviluppò dal linguaggio col quale essi appagarono il bisogno
di significare le idee.

Nell’architettura e nella scultura, soggiunge finalmente il Laprade,
c’è un’idea morale; mentre nella musica non c’è. Ma, prima di tutto,
l’idea morale, come avverte lo stesso autore, si potrà trovare
soltanto in certe opere architettoniche, nel tempio e nella statua,
e non già in tutte; secondariamente questa distinzione fra opere
architettoniche o scultorie più o meno morali, si può e si deve fare
tra le opere musicali; perchè le commozioni che queste eccitano non
sono tutte della stessa qualità; e se una marcia militare ci fa muover
le gambe in cadenza, una musica sacra ci comunica un turbamento
misterioso e ci dà quasi un’idea della potenza divina. Se noi
paragoniamo un tempio greco o una cattedrale gotica all’ultimo _cancan_
dell’ultima operetta, dovremo dire che la musica è arte inferiore; ma
se paragoniamo la messa di Papa Marcello a certi chioschi eretti in
certi luoghi appartati, diremo che è arte inferiore l’architettura.

Il Laprade, mentre loda la cooperazione delle varie arti
nell’antichità, quando il tempio era ornato di statue, di quadri,
di decorazioni, ed echeggiava dei canti e dei suoni degli strumenti
sacri, e le sacre danzatrici vi intrecciavano i loro balli, giudica
pervertimento intollerabile il teatro moderno, dove la decorazione,
la danza, la poesia e la musica si dànno la mano. Ora il concetto
della cooperazione delle arti si può accettare o combattere, ma non
accettare in un caso e combattere nell’altro. Il Wagner, come abbiamo
già visto, ha preso le mosse da quello stesso concetto antico che il
Laprade loda tanto. Se l’effetto totale dell’opera d’arte è tanto più
intenso quante più arti concorrono a produrlo, questa moltiplicazione
d’intensità si ottiene oggi nel teatro come una volta nel tempio.
La proporzione, e quasi direi la dose delle varie arti è mutata:
l’architettura era preponderante nel complesso artistico creato
anticamente, la musica aveva minor parte, la scultura maggiore; oggi
l’architettura nel teatro non ha l’importanza che aveva nel tempio, la
scultura è quasi scomparsa, la musica ha parte eminente. Qui troviamo
una naturale conseguenza delle mutate condizioni della vita morale e
delle circostanze materiali; ma non regresso nè progresso. E se la
fusione delle arti ebbe per iscopo, una volta, di parlare agli uomini
di Dio, anche ora il Wagner significa con la musica, con la poesia
e con tutto il quadro teatrale, il suo misticismo. E se egli non lo
significa sempre come in _Parsifal_, e se gli altri musicisti seguono
ordinatamente le ispirazioni profane, e se il teatro non è, insomma, il
tempio, noi potremo anche giudicare che la sostituzione dal primo al
secondo sia un danno rispetto alla religione e ai costumi; ma non già
rispetto all’arte. E dell’arte, appunto, era quistione.

Che resta dunque del concetto della gerarchia delle arti? Niente,
o ben poco. Ciascuna di esse ha un suo valore e una sua dignità
impareggiabili. Tuttavia una distinzione si può e si deve fare rispetto
ad un’arte sola: l’arte letteraria, produca essa poemi, romanzi o
drammi. Sully Prudhomme non la comprende nelle arti belle perchè si
serve di segni convenzionali, delle parole; mentre le altre creano
gruppi di sensazioni direttamente rappresentative, senza convenzione.
Ma appunto per questa convenzionalità dei segni essa ha un campo molto
più vasto che non le altre. Con le parole noi possiamo bene o male
descrivere i prodotti delle altre arti; con la musica, con la pittura,
con la scultura, con l’architettura non possiamo dire le cose che
diciamo con le parole. Nell’arte letteraria la sensibilità si unisce
più intimamente con l’intelligenza, e da questa unione nascono prodotti
che più direttamente significano la potenza dell’anima umana. Ma, ad
eccezione di lei, le rimanenti arti stanno tutte ad uno stesso grado.

Noi non abbiamo parlato sinora della coreografia e della recitazione
che Sully Prudhomme ed altri critici comprendono fra le arti belle.
È ora il momento di dire che queste ultime hanno veramente un posto
inferiore; non tanto perchè l’opera artistica, altrove distinta e
separata dall’artista che la crea, è in esse confusa con la persona di
lui; quanto perchè il loro valore espressivo è subordinato e veramente
complementare. Il Laprade chiama arte complementare la pittura,
perchè riveste le forme disegnate; ma, in natura, forme e colori,
ripetiamolo ancora una volta, fanno un tutto inseparabile; e se, in
arte, il pittore può disegnare soltanto e astenersi dal colorire,
quando colorisce, colorisce i suoi proprii disegni, non gli altrui; e
il colore, nel suo quadro, non è una cosa accessoria e trascurabile;
al contrario, dispiace che manchi. La musica non si può considerare
complementare della poesia per una ragione tutta contraria, perchè è
da essa indipendente, assolutamente distinta: può accompagnarla, ma può
non accompagnarla, senza che nessuna delle due soffra dell’isolamento:
la poesia sta da sè, e la musica strumentale, sinfonica, non serve
di complemento a niente. Se di arti complementari si deve parlare,
queste sono il ballo e la recitazione; perchè l’artista drammatico
non esisterebbe senza il drammaturgo, e perchè le ballerine non
esisterebbero senza i coreografi, nè i coreografi senza i compositori
di musica. Queste arti, nelle quali si può bensì raggiungere
l’eccellenza, ma col sussidio indispensabile di altre, traducendo
espressioni create da altri, sono propriamente da considerare come
secondarie e subordinate. Si noti ancora che, mentre l’artista
drammatico rappresenta tutte le passioni umane descritte dall’autore,
l’espressione conseguita dalle danzatrici è meno intensa e meno estesa.
I movimenti nel ballo esprimono, più che le passioni o le commozioni,
certe qualità gradevoli, la facilità, la grazia, l’eleganza; quelle
stesse qualità espresse dal semplice disegno ornamentale e dalla
pittura decorativa.



IL DESTINO DELL’ARTE


NON bisogna fare assegnamento sulla storia delle arti per dimostrare,
considerando le opere del tempo nostro, l’indefinita perfettibilità del
genio umano». Sono queste le parole con le quali Victor de Laprade,
l’avversario della musica e della pittura, significa la sua ammirazione
per l’arte antica e il suo disprezzo per la presente. Altri pensatori
hanno affermato, senza dolersene come lui, anzi compiacendosene, che
se il genio umano è in continuo progresso rispetto alla scienza, dà
indietro, quasi per uno scotto inevitabile, riguardo all’arte. La
scienza, dicono, è fatale all’arte; il regno della poesia è finito
quando è cominciato quello della critica e dell’analisi. Un poeta,
Francesco Coppée, ha detto che i poeti «sono poco meno che banditi
dalla società moderna». La società futura ricorderà veramente la poesia
e l’arte come il paleontologo ricorda i fossili delle antiche età?


I.

Il critico di cui abbiamo particolarmente esaminato le teorie
estetiche, Sully Prudhomme, fa alcuni ragionamenti che potrebbero dare
ragione ai pessimisti. Egli trova una causa di decadenza per l’arte nel
progresso scientifico e industriale. Quanto più i processi meccanici,
grazie alle scoperte della scienza, si perfezionano, tanto meno la
forma delle opere umane, delle macchine, degli utensili, di tutte le
cose che adoperiamo e che ci stanno intorno, diviene rappresentativa.
Il mulino a vento, il vascello a vela, le vecchie armi rappresentavano
la forza che mettevano in opera; nei congegni moderni essa è cresciuta,
ma più cresce più si nasconde. «L’azione della forza della natura, più
sapientemente trasformata mediante ingegnose combinazioni, ha perduto
ogni carattere rappresentativo quando arriva al punto dove si esercita:
essa vi giunge irriconoscibile. Le armi da fuoco, molto più efficaci
che non fossero quelle dei nostri antenati, non hanno già un aspetto
più terribile; e il progresso, in questo genere d’industria, sarà tanto
più notevole quanto maggiore sarà la portata di congegni meno pesanti
e più mobili, cioè meno rappresentativi della loro solidità, e per
conseguenza della loro potenza». Per questa medesima ragione «i vecchi
mestieri sono più attraenti per il poeta che non i nuovi: esercitati
dalla mano stessa dell’operaio, essi partecipano, per così dire, della
sua condizione; la natura, meno destramente asservita, vi è più libera
e più palese».

Queste osservazioni sono giuste; ma diremo noi perciò che i
perfezionamenti della civiltà abbiano distrutto ogni espressione? Essi
hanno distrutto l’espressione più appariscente, la quale potrebbe
anche essere la più grossolana; e se, come dice lo stesso autore, i
congegni umani «simboleggiano il pensiero umano molto più che non la
forza dalla quale sono mossi», questi ritrovati dell’industria, questi
adattamenti della scienza moderna simboleggiano il genio dell’uomo
molto meglio che non facessero le cose antiche e primitive. Il vecchio
vascello ci sembra più bello del presente piroscafo; ma questo giudizio
dipende dal paragone: quando non c’erano piroscafi, si può credere che
la gente non restasse estasiata alla vista dei vascelli. Con molta
probabilità, quando un battello mosso da una forza ancora più potente
del vapore, provvisto di macchine ancora più delicate delle presenti,
avrà sostituito il piroscafo, i moderni piroscafi sembreranno belli
ai nostri posteri. Un gran poeta lo ha detto: «Sol nel passato è il
bello....». Tutto ciò che è apparenza e contorno va a poco a poco
veramente perdendosi nei prodotti della nostra civiltà, e gli artisti
se ne rammaricano perchè vedono scarseggiare i motivi nella realtà
circostante; ma ciò accade perchè abbiamo ancora gli occhi pieni
di altre cose, perchè non ci siamo ancora avvezzi a considerare,
ad apprezzare il nuovo genere di bellezza delle cose nuove. «La
disproporzione tra la loro utilità e la loro potenza rappresentativa»,
dice Sully Prudhomme, «rende molto difficile l’adattamento delle
arti ai prodotti industriali». Difficile, non impossibile. Ed egli
stesso ne conviene quando ragiona intorno agli effetti dei progressi
industriali nell’architettura. Noi siamo abituati a certi rapporti
determinati fra il volume e la resistenza dei materiali da costruzione:
per lunghissimo tempo le basi sono state più massicce dei coronamenti;
oggi, con l’impiego del ferro, gli effetti sono capovolti, e sottili
colonnette sopportano grandi masse. Quella che resta qui offesa è la
nostra «regola empirica», il nostro «pregiudizio secolare», la nostra
«estetica tradizionale». Col tempo ci assuefaremo ai nuovi effetti; e
già essi non ci sconcertano più come prima.

L’architettura non è dunque destinata a morire, al contrario: un grande
avvenire le si schiude dinanzi; e i nostri giudizii saranno equi
quando non saranno fondati sul paragone fra le costruzioni antiche e
le moderne. Il paragone è odioso ed ingiusto. L’arte non è una cosa
morta, vive della nostra vita, è il documento della nostra storia.
Ogni sua forma corrisponde a un determinato periodo di civiltà. In
Grecia, per esempio, con una educazione tutta fisica, con il culto
della bellezza plastica, la statuaria perviene ad una magnificenza
di sviluppo non più raggiunta. Si dirà perciò col Renan che il tempo
della scultura è finito «quando s’è cessato di andar mezzo nudi?».
No, risponde il Guyau, filosofo fiducioso nell’avvenire dell’arte.
Se è vero che le proporzioni del corpo umano e l’armonia delle sue
linee si sono alterate nell’invadente sviluppo del sistema nervoso, se
i muscoli si sono inflacciditi a benefizio del cervello, il viso ha
acquistato una nuova e varia mobilità di espressione. La purezza dei
contorni, la fermezza delle membra, l’imperturbata serenità della posa
di una antica statua sono certo qualità altamente apprezzabili; ma un
moderno vi cercherebbe invano l’espressione e il movimento. Un paio di
gambe ben modellate, che l’esercizio della corsa ha meglio sviluppate,
sono ammirabili; ma una fronte dietro la quale martelli il pensiero ha
pure la propria bellezza, una bellezza che noi gustiamo di più. In una
parola, se gli antichi hanno conosciuta la statica dell’arte, resta ai
moderni, con l’espressione e il movimento, ciò che si potrebbe chiamare
la _dinamica_ dell’arte.

Si accuserà il progresso scientifico di aver debellato la pittura?
Ma gli astronomi hanno un bel misurare la distanza che ci separa dal
sole: questo ci dispensa egualmente i suoi splendori; e la fisica potrà
a tutt’agio spiegare la formazione dell’arco baleno: non riuscirà
mai a spezzarne la curva grandiosa e variopinta. Il sentimento del
colore, non che affievolirsi, si è complicato. Gli effetti di luce,
le sfumature e le combinazioni di colori si sono venuti moltiplicando
straordinariamente, e mentre i Greci non avevano nomi che per un
piccolissimo numero di tinte, nella sola manifattura dei Gobelins se
ne sono prodotte quattordici mila varietà. Che nuova ricchezza per la
tavolozza del pittore!

La musica? Ma l’avvenimento della musica è contemporaneo a quello della
scienza; quest’arte, non che decadere con la presente civiltà, è oggi
al culmine della potenza; è, per antonomasia, l’arte del nostro tempo.
Se pure in tutte le altre vi fosse vera e propria decadenza, e non già
trasformazione, essa ci resterebbe, e per essa potremmo dire che l’arte
non è morta. Predire, dall’altro canto, che la musica, compiuta la
sua evoluzione, presto si esaurirà, è un’asserzione improbabile. Per
ora, invece, tutto dimostra che, come ogni altra idea artistica, anche
l’idea melodica risponde a un determinato stato intellettuale e morale,
e muta col mutare di esso. A quel modo che la scultura non è finita con
Fidia o con Michelangelo, che la pittura non è morta con Zeusi o con
Raffaello, il regno dei suoni non è cessato col Rossini o col Wagner.


II.

Ma veniamo alla poesia.

La poesia è per questo la prima delle arti: perchè le facoltà poetiche
non sono soltanto necessarie al compositore di versi, ma a tutti gli
artisti. L’arte, per la sensibilità squisita che richiede, e per la
scelta che esercita, è sinonimo di poesia. Ma lo spirito scientifico
non spegnerà lo spirito poetico? L’immaginazione, l’istinto creatore,
il sentimento, tutte le facoltà essenziali del poeta, non resteranno
soffocate in questo moltiplicarsi dell’investigazione positiva?

Alcuni credono che l’ombra, il mistero, la stessa superstizione siano
necessarie perchè l’immaginazione poetica spicchi il volo. Un paesaggio
confusamente intravisto al candore dei raggi lunari è poetico, dicono;
una via diritta, lunga, crudamente rischiarata dal sole, no. La
scienza, scrutando il segreto delle cose, mostrandole nei loro aspetti
più freddi, più duri, strappa tutti i veli, distrugge ogni incanto,
tarpa le ali della fantasia.

Scienza e poesia si possono confondere, ma si debbono distinguere.
Esse sono, al dire dell’Arnold, due interpretazioni del mondo; ma le
interpretazioni della scienza non daranno mai quel senso intimo delle
cose che la poesia disvela. La spettroscopia, a cagion d’esempio,
dimostrando che le stelle non sono altro se non ammassi di metalli
in fusione, non impedirà mai che l’anima del poeta, dinanzi allo
spettacolo del firmamento, si commova e provi un senso d’inquietudine
e tenti di slanciarsi verso gl’inaccessibili azzurri; non impedirà
che un amante trovi una superstiziosa corrispondenza tra il proprio e
il destino d’un astro. E quando pure la scienza precludesse una via
all’immaginazione, glie ne schiuderebbe, nello stesso tempo, mille
altre. Vi sono forse scoperte che non trovino dinanzi a sè altri,
più grandi misteri? Se da una parte Galileo, col suo cannocchiale,
rivelò le macchie che corrompono il vivo specchio del sole, ripudiando
dall’altra il sistema tolemaico per il copernicano assegnò al grande
astro un più nobile posto e una coorte di seguaci. Uno scienziato
poeta, Lorenzo Mascheroni, giudicava che questa fosse come una
riparazione:

      .....e fatta accusa al sole
  Di corruttibil tempra, il locò poi,
  Alto compenso, sopra immobil trono.

Che cosa direbbe l’ammiratore di Lesbia Cidonia se sapesse che
l’immobil trono è fatto mobile, e che il sole nostro, animato da un
moto vertiginoso, si dirige verso una stella più grande, traendo con sè
lo stuolo di mondi che gli gravitano intorno? Qual nuova, più poetica
imagine gli ispirerebbe questa corsa per le plaghe sconfinate del
cielo, verso una mèta oscura e profonda?

Lo stupore, fonte di commozione poetica, va quindi crescendo. Del
resto, v’ha un mistero che la scienza non potrà mai distruggere: il
mistero metafisico. Arrivato al problema ultimo dell’essenza della
realtà, delle origini e delle cause finali, lo scienziato depone i suoi
strumenti d’indagine e si lascia cullare «al vento dell’ignoto, nelle
sublimità dell’ignoranza», secondo l’espressione di Claudio Bernard.
Non basterà questo mistero per conferire all’arte, oltre quello del
bello, il sentimento del sublime?

Ma l’immaginazione, da sola, non è nulla; bisogna che il poeta sia
animato dal genio, cioè dallo spirito creatore. Ora questo istinto
non andrà perduto quando l’umanità, sotto l’impero della scienza,
sarà divenuta più riflessiva? E il sentimento, che eccita e feconda
immaginazione e istinto creatore, non sarà spento dall’analisi?

I sentimenti dell’uomo allo stato primitivo, di natura, sono
spontanei, irriflessi ed hanno obbietti limitati; poi, secondo che
egli progredisce, diventano riflessi, coscienti, ed hanno mire più
generali, più astratte. Così, per esempio, i sentimenti di patria e
di pietà si sono nel corso dei tempi modificati; la patria fa per noi
parte dell’umanità; la pietà e che fra i poeti greci era rivolta ad
una persona determinata, ora ci fa palpitare per tutta una classe, per
tutto un popolo. Quante trasformazioni nel sentimento dell’amore! È
dapprima, nel mondo pagano, tutto sensuale; si fa mistico nel medio
evo; si complica stranamente, si approfondisce, si arricchisce ai
nostri giorni. Il progresso moderno non soffoca quindi i sentimenti, li
rende allo stesso tempo più comprensivi e più profondi. C’è, in breve,
compenetrazione fra la sensibilità e l’intelligenza; un uomo colto non
gode se la mente non riceve la sua parte di soddisfazione. A che si
riduce dunque il vaticinato decadimento delle facoltà poetiche? A un
nuovo adattamento, che non è ancora compiuto. Noi soffriamo appunto
perchè siamo ancora nel periodo transitorio.

«La scienza non avrebbe che un solo pericolo per il poeta, quello
di assorbirlo interamente». Questo è, in fatti, il solo, il grande
pericolo. Giovanni Psychari, additandolo, non sembra però temerlo
troppo, poichè chiede non solo che la poesia diventi puramente
scientifica, non solo che tutti i nostri sentimenti riflettano le
nostre inquietudini scientifiche, non solo che il vocabolario poetico
si rifonda interamente; ma che il poeta, entrando nel cuore stesso
della scienza, presenti i suoi risultati in tutta la loro esattezza,
astenendosi da ogni comento personale; e che, armato degli strumenti di
essa, si faccia freddo indagatore; in poche parole: che, ripudiando le
vani finzioni, lavori a diffonder la scienza ed anche a crearla.

Qui si manifesta la vera antinomia fra l’attività scientifica o
filosofica, e la poetica. L’elemento personale, nella scienza, è
nullo; gli astronomi hanno cura di sbarazzare le loro osservazioni
di ciò ch’essi chiamano _equazione personale_, cioè la differenza
di apprezzamento dipendente dalle attitudini di percezione delle
quali ogni individuo è fornito. L’arte, invece, non vive che di
questa equazione personale. Sopprimetela, sopprimerete l’arte stessa.
Non vi sono due dimostrazioni del binomio di Newton; vi sono tante
interpretazioni d’un bel tipo quante sono le immaginazioni che lo
raffigurano. In questo senso Sully Prudhomme ha ragione di dire che la
scienza comincia dove la poesia finisce; «finisce quando la forma,
considerata indipendentemente dalla sua virtù simpatica, e spoglia
per conseguenza di ogni espressione obbiettiva e subbiettiva, reale
o immaginaria, non costituisce più se non un sistema di rapporti al
servizio dell’intelletto». E i suoi tentativi di poesia scientifica e
filosofica ne sono una riprova.

I processi della scienza o della filosofia: esperimento, analisi,
ragionamento, non possono diventar poetici; i loro risultati sì. Perchè
le verità scientifiche si mutino in materia d’arte, occorre che siano
tanto diffuse, talmente familiari al poeta ed ai suoi lettori, da
assumere l’intensità, l’efficacia del sentimento; bisogna che dalle
aride regioni del pensiero astratto scendano nei lussureggianti campi
dell’immaginazione. Nulla è più alieno dal movimento poetico quanto
la pesantezza della compilazione e la freddezza dell’esposizione
sistematica.


III.

Questi problemi sono siffattamente collegati fra loro, che non si può
proporne uno, senza che gli altri si presentino subito alla mente e
domandino d’esser risolti. Poichè, dunque, la poesia ha assicurata
lunga vita come sentimento, vivrà essa altrettanto come forma? Dovrà
essa ancora servirsi di quel vecchio arnese che si chiama il verso,
fra rigide, immutabili norme? Il linguaggio più vario, più pieghevole
della prosa non potrà tradurre più esattamente, più obbiettivamente
le ispirazioni che l’arte deriverà dalla scienza? Che bisogno c’è di
costringersi in una forma di convenzione?

Il Guyau comincia dal negare l’artificialità del verso. Attenendosi
ai dati della fisiologia e della psicologia, egli accerta che sotto
l’influenza di sentimenti molto vivi, i nostri gesti, i nostri
movimenti divengono ritmici. Ogni eccitazione, secondo la legge della
diffusione nervosa, tende a propagarsi dal cervello in tutte le
direzioni; secondo la legge del ritmo, quest’agitazione burrascosa
si muta in ondulazione regolare. Più che nei gesti, il fenomeno è
manifesto nella voce; essa, sotto l’influenza d’una eccitazione,
diventa ritmica; un oratore, animandosi, mette nelle sue parole una
cadenza, qualche cosa di musicale; il linguaggio della passione ha una
misura, un movimento, come di strofe liriche grossolanamente abbozzate.
Il verso, dunque, considerato nella sua ragion prima, che è la misura,
non è qualche cosa di fittizio, ma un prodotto naturale, determinato
dalle leggi fisio-psicologiche. Non basta: oltre che esprimere la
commozione, esso, per virtù dell’altra legge del contagio simpatico, la
propaga. Non basta ancora: esso permette, nella sua misurata brevità,
una condensazione del pensiero, mentre riesce nello stesso tempo il
mezzo più acconcio per concentrare, senza alcuna perdita di forza
viva, l’intelligenza dell’ascoltatore; infatti la regolarità del suo
suono, l’immancabile eguaglianza della sua durata risparmiano lo sforzo
intellettuale, ne fanno uno strumento di maggior portata.

Ma esso ha un altro elemento, contro del quale si rivolgono gli assalti
dei suoi denigratori: la rima. Concedono bene costoro che il ritmo
sia l’espressione naturale della commozione; ma la rima, dicono, è
veramente artificiale. Questa distinzione è un poco arbitraria. Rima e
ritmo voglion dire, etimologicamente, la stessa cosa: _rhythmus_. La
rima è come il ritmo della strofe. Una successione di versi non rimati
ha certo un’armonia propria, ma ambigua e inafferrabile; la rima vi
mette un ordine, e mentre preserva l’individualità dei singoli versi,
li avvicina, li rende aderenti, dà corpo e compostezza al tutto. Se
poi a questa considerazione si unisce l’altra del piacere prodotto
dalla ripetizione d’uno stesso accordo armonico, l’uso della rima resta
pienamente giustificato. I veri poeti si serbano ad essa fedeli; Vittor
Hugo la chiama schiava regina; il Carducci, un «ribelle», la proclama
_bella imperatrice_, _regina del metro latino_:

  Cura e onor de’ padri miei,
  tu mi sei
  come lor sacra e diletta:
  Ave, o rima! e dammi un fiore
  per l’amore,
  e per l’odio una saetta.

Ma dal fatto che la misura e la rima sono i naturali interpreti della
commozione, segue forse la necessità che il poeta pensi soltanto e
principalmente alla forma, trascurando il pensiero che essa riveste? Ha
ragione la scuola dei parnassiani, ultima derivazione del romanticismo,
quando sostiene che la bella poesia consiste nella rima ricca, nelle
sillabe sonore, nelle accese metafore, e che non importa quel che si
dice purchè sia detto armonicamente?

L’armonia, senza dubbio, è un requisito essenziale, non che al
poeta, al prosatore. Il Flaubert era un avido ricercatore di effetti
armonici; nella proprietà delle parole, nella precisione delle loro
combinazioni egli trovava una specie di forza divina. Se leggendo una
frase ad alta voce, diceva, essa opprime il petto e disturba i battiti
del cuore, vuol dire che è mal fatta, che bisogna ancora correggere,
ritoccare. Prima di lui, il Giusti aveva visto «quanto giovi
all’armonia l’aggiungere o il togliere una lettera o il sostituirne
una ad un’altra». I giudici competenti di ogni scrittura, secondo lui,
sono l’occhio e l’orecchio, e «quando non si ascoltano insieme si
corre rischio che l’uno corrompa le ragioni dell’altro; però è sempre
bene leggere ad alta voce le cose scritte....». Conseguire una forma
armoniosa, perfetta, è dunque per il poeta un obbligo imprescindibile;
ma se egli vuole destare nel proprio lettore una viva commozione,
bisogna che egli stesso senta e palpiti e frema; un meccanico e freddo
esercizio di prosodia, una semplice successione di rime risonanti,
solleticherebbero l’orecchio, nulla direbbero allo spirito. Forma
e pensiero debbono essere inseparabili. Lo stampo maestrevolmente
plasmato ma vuoto, il bronzo forte ma informe, non valgono; la statua
sfida i secoli, in un consenso di ammirazione.



BIBLIOGRAFIA


SULLY-PRUDHOMME: _L’expression dans les Beaux-Arts_. Paris, Lemerre.

CONSTANT MARTHA: _La Délicatesse dans l’art_. Paris, Hachette.

ROBERT D’ADHÉMAR: _Art et science_. Revue des deux mondes, 15 janvier
  1900.

LUIGI LA ROSA: _L’inversione delle arti_. Roma, casa editrice italiana.

GUIDO CREMONESE: _La solidarietà nell’arte_. Trani, Vecchi.

M. DAUBRESSE: _L’audition colorée_. Revue philosophique, mars 1900.

EDOUARD ROD: _Wagner et l’esthétique allemande_ (_Études sur le XIX
  siècle_). Paris, Perrin.

VICTOR DE LAPRADE: _Essai de critique idéaliste_. Paris, Didier.

VICTOR DE LAPRADE: _Contre la musique_. Paris, Didier.

GIOVANNI GALLERANI: _Fisiologia del genio_. Camerino, Savini.

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E. MACH: _Letture scientifiche popolari_. Torino, Bocca.

HENRI BERGSON: _Le rire_. Paris, Alcan.

M. GUYAU: _Les problèmes de l’esthétique contemporaine_. Paris, Alcan.

JEAN PSICHARI: _La science et les destinées nouvelles de la Poésie_.
  Nouvelle Revue, 15 février 1884.



INDICE DEI NOMI PROPRII


  Adam, p. 127.
  Amiel, p. 86, 134.
  André, p. 8.
  Aristotile, p. 9.
  Arnold, p. 153.

  Bach, p. 123.
  Baudelaire, p. 94, 98.
  Beethoven, p. 117, 122.
  Bergson, p. 89.
  Berlioz, p. 127, 129.
  Bernard, p. 128, 154.
  Boezio, p. 117.
  Bonaventura, p. 116.
  Bonghi, p. 15.

  Capella, p. 117.
  Carducci, p. 94, 159.
  Castel, p. 123.
  Chateaubriand, p. 57.
  Coppée, p. 147.
  Cousin, p. 9.
  Cremonese, p. 98, 104, 106, 109, 110.

  d’Adhémar, p. 35, 137.
  d’Alembert, p. 131.
  d’Annunzio, p. 94.
  d’Arezzo, p. 117.
  Daubresse, p. 96.
  de Laprade, p. 115-117, 123, 124, 129, 134-147
  de Maistre, p. 8.
  de Mendoza, p. 96.
  Diderot, p. 39.
  Dione, p. 53.
  Duesseck, p. 129.

  Ehlert, p. 96.
  Eraclito, p. 66.
  Euripide, p. 70.

  Fechner, p. 38, 83.
  Flaubert, p. 7, 160.
  Flechsig, p. 123.
  Fidia, p. 152.

  Galileo, p. 154.
  Gallerani, p. 122.
  Gautier, 93, 105.
  Ghil, p. 95.
  Giusti, p. 160.
  Goethe, p. 117.
  Guyau, p. 151, 158.

  Hegel, p. 119, 122.
  Helmotz, p. 136.
  Herder, p. 118.
  His, p. 123.
  Hoffmann, p. 96.
  Hugo, p. 159.
  Huysmans, p. 94.

  Jouffroy, p. 8.

  Lamartine, p. 57.
  La Rosa, p. 94, 97, 103.
  Lechalas, p. 128, 129.
  Lemaître, p. 14.
  Lembach, p. 21.
  Leonardo, p. 117.
  Lessing, 118, 120.
  Luciano, p. 54.

  Macé, p. 43, 44
  Mach, p. 136.
  Marcello, p. 117.
  Martha, p. 51-68, 70, 72
  Mascheroni, p. 154.
  Maupassant, p. 46, 47.
  Michelangelo, p. 117, 152.
  Mozart, p. 117.

  Newton, p. 156.
  Nordau, p. 136.
  Nüssbaumer, p. 96.

  Omero, p. 66.
  Orazio, p. 104.

  Parrasio, p. 68.
  Palestrina, p. 117.
  Pascal, p. 24.
  Picard, p. 35.
  Pitagora, p. 117.
  Poincaré, p. 35.
  Psychari, p. 156.

  Raff, p. 96.
  Raffaello, 152.
  Reid, p. 8.
  Renan, p. 150.
  Reveroni, p. 129.
  Rimbaud, p. 95.
  Rod, p. 118, 119.
  Rosa, p. 117.
  Rosenkraz, p. 87.
  Rossini, p. 152.
  Rousseau, p. 117, 126.
  Royer Collard, p. 9.

  Sant’Agostino, p. 66, 117.
  Schelling, p. 8, 97.
  Schubert, p. 96.
  Socrate, p. 68.
  Spencer, p. 116, 127, 128, 129.
  Sully Prudhomme, p. 9, 13-17, 19-21, 23, 25, 27, 29, 30, 34-37, 40,
    77, 79-81, 85, 86, 88, 106, 108, 109, 125, 141, 142, 148, 150, 156.

  Tasso, p. 109.
  Tertulliano, p. 93.
  Timante, p. 61.
  Timomaco, p. 56.
  Töpfer, p. 9.

  Villot, p. 120.

  Wagner, p. 106, 117, 120, 122, 140, 141, 152.
  Weber, p. 132, 133.
  Winckelmann, p. 8.

  Zeusi, p. 39, 152.



INDICE DEI CAPITOLI


  _Prefazione_                  _pag._   7

  L’arte e la natura              ”     13

  La bellezza nell’arte           ”     33

  Qualità dell’arte               ”     51

  L’espressione nell’arte         ”     77

  Analogia delle arti             ”     93

  Gerarchia delle arti            ”    115

  Il destino dell’arte            ”    147





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