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Title: Il Re bello
Author: Palazzeschi, Aldo
Language: Italian
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                            ALDO PALAZZESCHI


                              IL RE BELLO



                       VALLECCHI EDITORE FIRENZE



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                  Firenze, 1921 — Stabilimenti Grafici
                  Attilio Vallecchi — Via Ricasoli, 8



IL RE BELLO


— Sua Maestà la Regina attende.

Il conte Ercole Pagano Silf, gran Maresciallo di Birònia, dette queste
parole rimase fermo nel mezzo della sala, sotto l'immensa scintillante
lumiera veneziana, considerando la persona del Re.

Ludovico XII, Re di Birònia, alzatosi in piedi incominciò a camminare
assalito da una palese agitazione, da un tremito nervoso. Andava e
veniva davanti alla specchiera della _consolle_, acciuffandosi gli
enormi baffi orizzontali, neri e ferrigni, fulminando sè stesso coi
terribili occhi rotondi dilatati, inarcando le spalle, spingendo in
avanti il petto robustissimo, aggiustandosi dipoi la giubba azzurra
gallonata d'oro. — Come a vent'anni — pensava Ludovico XII — peggio
assai che a vent'anni, io mi sento oggi più impaziente e imbarazzato di
allora.

— Tutto è pronto? — chiese il Re.

— Tutto, Maestà.

— Fu pensato a tutto?

— A tutto.

Voleva Ludovico XII domandare se già la preghiera nella cappella Reale
fosse incominciata ma non osava, non intendeva palesare di ammettere
soverchia importanza a quel fatto soprannaturale, e non avrebbe
voluto dopo rimproverarsene il torto. Era convinto che Dio, lo avrebbe
meglio esaudito direttamente che per mezzo del prelato di corte, ma
siccome altra volta ciò non era accaduto voleva che la formalità fosse
adempiuta.

E il conte Ercole Pagano Silf, al quale nulla sfuggiva del pensiero del
Sovrano, comprese.

— Monsignore vicario già da mezz'ora è genuflesso dinanzi all'altare
acceso, dall'alba di stamane le Orsoline alzano al cielo la loro
invocazione, Monsignora Superiora delle Clarisse fece eseguire il
digiuno di preparazione, e nella cattedrale fu adempiuto il triduo
solenne, al grido di tutte le vergini e le madri di Birònia.

— Andiamo — disse il Re interrompendolo bruscamente.

Il gran Maresciallo aprì la porta e, passato il Sovrano, lo seguì a
capo basso per il lungo e deserto corridoio della Reggia.

Giunti ad una porta si fermò il Re, il gran Maresciallo l'aprì, entrò,
e fattosi a un passo dalla soglia annunziò:

— Sua Maestà il Re.

Nel mezzo di quella camera tappezzata di seta azzurra a gigli
d'argento, cadente di ampi ricchissimi cortinaggi, cordoni e galloni,
sopra una _chese longue_, sorretta da innumerevoli cuscini la Regina
Sofia Clementina di Birònia era distesa, cerea, quasi dormente.
All'annunzio aprì gli occhi con quel terrore rassegnato ch'hanno i
moribondi davanti al sacerdote che porge loro gli ultimi conforti per
l'ignoto viaggio, e li richiuse quasi subito stancamente sopita.

Il conte Ercole Pagano Silf si ritirò, chiuse cautamente la porta,
restò un momento a capo basso, si dette a girellare su e giù per il
corridoio, e fermandosi davanti ad una finestra e levando in alto la
testa e le braccia parve volesse dire: — Signore, esaudiscilo!

                                   *
                                  * *

Ludovico XII Re di Birònia, Re assoluto, tipo straordinariamente
forte di soldato, aveva da poco varcati i quarant'anni, e regnava da
dodici sul trono di Birònia. Era adorato dal suo popolo che vedeva in
lui degnamente e fedelmente rispecchiata secondo quella tradizione
la grandezza, simbolica ormai, di Ludovico il Grande di Birònia
che quattrocento anni prima aveva riunito il Regno, dichiaratane
l'indipendenza, fissatane la costituzione.

Quando Ludovico XII passava fra le turbe riverenti e si volgeva da
destra a sinistra coi tremendi baffi orizzontali e gli occhi sgranati,
terribile, lanciando sguardi da sgherro d'operetta, le folle protese
a capo chino e scoperto se ne sentivano invase beatamente e possedute
tutte.

— Come gli è grande!

— Come Lui — ognuno diceva e pensava. — I baffi, gli occhi, la persona
tutta!

— Come gli è Re!

— Che garbo da Sovrano!

— Quanta maestà!

Sarebbero stati tutti ben volentieri ventiquattro ore digiuni per
offrire a lui un pranzo di gala, e si sarebbero sentiti tutti pieni,
e se taluno avesse toccato un filo d'erba solo in Birònia non un
cittadino sarebbe rimasto indietro d'un passo al suo Re per difenderlo.

Era il Regno della Birònia come una patriarcale famiglia.

Vicino alla figura fortissima del Re eravi quella della Regina, pallida
e sofferente da varii anni per una nevrosi cardiaca che le si andava
aggravando ogni dì, e la faceva rimanere sempre colla bocca aperta come
i pesci.

Raramente essa poteva mostrarsi al popolo così malata com'era, ma
quando nelle grandi solennità dello Stato vi era costretta e gli
compariva boccheggiando e dolorosamente sopita, ognuno guardandola in
espressione desolata e amorosa pareva supplicare: — Signore! Perchè,
perchè non l'hai esaudita? Perchè l'hai voluta sì infelice?

                                   *
                                  * *

S'era poco a poco addensata una nube sul limpido cielo di quel Regno,
una nube che pareva oscurare dalla fronte del Re quella dell'ultimo
cittadino.

E quando il Sovrano assorto nel pensiero divenuto fisso, dava un
enorme pugno sulla tavola, quello che si chiamava in Birònia il pugno
di Ludovico, e venivano a quel modo prese le decisioni supreme dello
Stato, e il giudizio inappellabile del Re era pronunziato, non si
poteva più dire ch'esso fosse divinamente puro, che un riflesso di
quella nube ne turbava la serenità.

Il conte Ercole Pagano Silf, gran Maresciallo di Birònia, era il
regolatore di quel pugno, e faceva colla sua parola, collo sguardo,
coi suoi mezzi tutti a che il braccio del Monarca si movesse il più
possibile in tempo, ed era riuscito, l'eminente uomo di Stato, a
farglielo tenere su alzato per tre quarti d'ora interi e a fargli dare
il pugno proprio nel momento giusto.

Quando Ludovico XII, allora Principe ereditario di Birònia, sposò
la principessa Sofia Clementina Spifz Mai de Burgo Manèro, nove mesi
in punto da quel giorno benedetto vide la luce la bella principessa
Eufrasia ora diciottenne. Esultò il popolo all'avvento, e non molto
tardò a nuovamente esultare quel popolo sapendo che un nuovo dono
regale attendeva dall'augusta coppia e fu la principessa Angelica,
alla quale seguì a breve distanza, quello delle principesse Giovanna
Francesca, e Maria Carolina. E siccome era tradizione dei Ludovichi
avere numerosa e fiera prole seguirono dipoi gli avventi delle
principesse Olimpia, Zelinda, Zaira, Colomba.

E fin qui nulla avrebbe turbato la pace del nostro Sovrano e del Regno
tutto della Birònia se a tale punto, per la fatica dei parti troppo
frequenti non ne fosse uscita turbata la salute della Regina Sofia
Clementina, che venne assalita da una ancor lieve affezione di cuore
per la quale i medici del regno e quelli chiamati dai regni limitrofi,
si pronunziarono per un certo periodo di riposo dai doveri coniugali, e
sopratutto a che Sua Maestà non avesse dovuto subire a breve scadenza
le fatiche di una nuova gestazione e di un parto conseguente, per non
dover gravemente risentirsene in salute.

Attese fiducioso il Re di Birònia, e non appena l'augusta consorte
parve guarita andò a lei con tutto il suo poderoso slancio e la più
ardente speranza sicuro che quella sarebbe stata la sua ultima fatica
e insieme il coronamento di tutte le altre.

Non mentì il sangue Ludovico, la graziosa signora potè in breve fare
annunziare a tutto il popolo suo che l'avvento troppo lungamente
anelato era prossimo.

Tutto fu alla Corte preparato colla sicurezza nel cuore, e primo il Re,
dopo quasi due anni di tregua, dopo la malattia della Regina, certo
sarebbe giunto quello ch'era aspettato in Birònia come il messia,
l'erede, colui che doveva essere Ludovico XIII.

Giunse il parto assai scabroso per la debolezza della Sovrana che fu
dovuta sostenere con farmachi, e quando il Gran Maresciallo si presentò
a darne annunzio al Re, che aspettava trepidante, comprese il Re da
quello sguardo.

— No! No! — gridò Sua Maestà — Vai via sai, brutto pagliaccio che non
sei altro, via!

E questa nuova principessa fu chiamata Geltrude.

                                   *
                                  * *

Da quel giorno si oscurò la pace del felice Stato.

— Sangue Ludovico! — urlava ora spaventosamente il Monarca come
un'invocazione una minaccia e una bestemmia.

Le nove principesse erano state segregate all'ultimo piano della
Reggia, e venivano condotte a prendere aria per i giardini nelle ore
che il Re dava udienze, acciò egli, attratto a carezzarle per quel
dolce istinto paterno che è in tutti gli uomini, non venisse assalito
dal pensiero orribile, che lo turbava dì e notte, proprio nel momento
che le piccole teste gli erano fra le mani e non si sentisse lanciato
a stritolarne una senza potersi rendere responsabile del suo operato.

Cadeva il Regno nelle mani dei Ludovichi Giulii, ramo bastardo dei
Ludovichi, e che viveva fuori Regno. Senza dubbio essi avrebbero
stretto alleanza cogli Sgòrpi, dominatori di quattro secoli prima,
vinti e cacciati da Ludovico il grande con soli settantasette uomini.
E sulla piazza dei Settantasette era il monumento equestre di Ludovico
il Grande. La Birònia sarebbe divenuta un lacchè della Sgorpìa. Tutto
finiva, la tradizione eroica, tutto cadeva, era la fine dei Ludovichi!

E tutto perchè una donna, una pallida donna dannata non riusciva a
dare alla luce che delle miserabili principesse. Quale gastigo! Era
dunque maledetta? Che aveva in corpo costei? E quella che aveva adorata
e stretta nelle estasi pure della giovinezza prese a odiare come il
peggiore nemico. Per la sua mano, per la sventura che l'aveva segnata
tutto cadeva, Birònia, dinastìa, Ludovichi, la pace, tutto! E sapeva
che il popolo con lui ne soffriva quanto lui.

Il conte Ercole Pagano Silf, aveva tentato di condurre il sovrano a
riflettere, si sarebbe potuta ritoccare la costituzione ed ammettere la
donna al regno. La bella principessa Eufrasia sarebbe stata una regina
meravigliosa.

— Mai! — urlava il Re. — Mai!

Sotto il regno dei Ludovichi la femmina era stata amata solamente come
tale, ma non le era stato concesso da nessuno dei dodici Re l'ombra di
accesso nelle cure dello Stato. Furono le donne dei Ludovichi sagge
ed ottime spose, e migliori madri; giunse taluna ad occuparsi colle
proprie mani della cucina della Reggia, non più in là. Che direbbero
gli occhi di Ludovico il Grande dalla Piazza dei Settantasette nel
vedere un giorno una gonnella ai suoi piedi, sul suo trono, per la
festa della costituzione?

— Mai!

Il buono e saggio Maresciallo aveva anche consigliato qualche
strattagemma per salvare la situazione e il Regno dalla rovina, avrebbe
potuto il Re segretamente giacersi con altra donna, fingere una nuova
gestazione della Regina, operare sapientemente il baratto, come in
mille altri casi del genere erasi usato.

— Mai!

E su questa faccenda il conte Ercole Pagano Silf non era mai riuscito
ad attaccare un filo solo al braccio del Monarca e il pugno Ludovico
era sempre caduto disperatamente senza pietà e fuori di tempo.

Non c'era che una via, sottoporre la Regina ad un'ultima estrema
prova e fu fatto. I medici, dopo avere preparata l'augusta donna al
cimento, e avere cercato prima ogni mezzo per sollevarla e rinforzarla,
si espressero che pure essendo assai pericoloso il farlo si poteva
tentare, e fu l'avvento, il decimo, della principessa Genovieffa.

E siccome Sua Maestà aveva resistito, pure soffrendo orribilmente,
Ludovico XII con tutta la furia della sua disperazione la costrinse
brutalmente ad un undicesimo fatto del genere che fu l'avvento della
principessa Penelope, durante il quale la Regina fu dichiarata perduta.

Nè si sa come riuscì dipoi a tenersi in vita, ma rimase in condizioni
tali da non potersi più sollevare, e colla bocca sempre aperta come i
pesci.

                                   *
                                  * *

Era avvenuto da due anni il parto tragico della principessa Penelope.

Il Re compariva ora solo, come un vedovo, nelle grandi solennità dello
Stato, guardava torvo, minaccioso, il popolo suo, ultimamente aveva
firmato una sentenza di morte colla più grande naturalezza di questo
mondo, cosa mai avvenuta in Birònia. Tutto il Regno ne era turbato,
sconvolto.

Consultati ancora una volta e chirurghi e ostetrici e specialisti e
fattone venire uno apposta dall'America, dopo due anni sua Maestà si
era ridotto a questo ultimo inumano tentativo pure nella certezza che
la Regina vi sarebbe rimasta definitivamente uccisa.

Ma che voleva dire ormai? S'ella avesse dato alla luce l'anelato erede?
L'eroe! S'ella moriva, moriva sì eroicamente per la sua patria! E il
conte Ercole Pagano Silf, e tutti i dignitari e medici della corte, e
lo stesso monsignore Vicario, e Monsignora Superiora delle Clarisse, e
Monsignora Generalissima delle Rocchettine ve l'avevano persuasa.

E allorchè il Grande Maresciallo di Birònia fu ad annunziare che Sua
Maestà la Regina lo attendeva nella camera dell'appartamento ufficiale
dove la prima volta l'aveva stretta fra le sue braccia possenti, folle
di amore e di desiderio, vergine, forte e bella, si sentì invaso da un
tremito convulso, egli andava per l'ultima volta da lei quasi morente,
ella si era rassegnata a soggiacere ancora una volta, poteva darsi
che gli rimanesse cadavere fra le braccia, pareva che l'odio gli si
placasse in cuore e vi rinascesse l'amore, per quella donna che poco a
poco aveva dovuto odiare, ma che tutto il suo istinto avrebbe portato
all'adorazione. Certo, prima di darle quella suprema stretta le sarebbe
caduto ai ginocchi ed avrebbe pianto con lei come un fanciullo in una
più viva commozione di quando soli a vent'anni si dettero il primo
bacio, ora che la sorte dopo tanto amore li aveva rabbiosamente divisi.

Due ore dopo la porta della camera regale fu aperta ne uscì il Re,
e vi entrarono con premura il medico e il chirurgo della Corte e le
infermiere e cameriere, e di lì a poco il Vicario. Il Gran Maresciallo
che aveva vegliato e forse sperato e pregato, seguì in silenzio Sua
Maestà che rientrò senza dir motto nelle sue stanze.

                                   *
                                  * *

Il sangue Ludovico che mai non mentì ebbe ragione anche questa volta
e pochi giorni dopo il popolo di Birònia seppe quello che doveva
aspettare.

— Santa creatura!

— Angelo sulla terra! — Gridava ogni cittadino.

— Ella muore per noi!

— Per salvare la sua patria diletta!

La Regina fu dovuta assistere durante la pericolosissima gestazione
quotidianamente con farmachi, caffeina, morfina e cocaina e strofanto.
Il Re rimase torvo, cupo, levando ora la testa al cielo in atto che
voleva essere di preghiera ma che pareva di atroce minaccia e di
bestemmia, ora l'abbassava alla terra quasi volesse schiacciarla tutta
come un rettile sotto il tallone, ora fissando paurosamente gli occhi
sbarrati sul povero Maresciallo che sembrava divenuto la causa di tutta
la sventura.

Quando il conte Ercole Pagano Silf comparve tremante ad annunziare al
Sovrano che Sua Maestà la Regina era stata assalita dal tremito del
parto questi gli fu addosso e afferratolo per la nuca lo schiacciò
a terra: «Odi, brutto pagliaccio che non sei altro, vai, annunzia al
popolo l'erede del trono o sei morto».

Sette ore dopo, fra gli squilli altissimi delle trombe e delle campane,
e sventolare di bandiere e di fazzoletti e cenci tutti della Birònia,
il conte Ercole Pagano Silf, Gran Maresciallo, apparve al balcone della
Reggia dove la porpora era distesa ed annunziò che Ludovico XIII era
nato vivo e vitale!

Solo allorquando l'urlo della gioia più selvaggia, ch'era sprigionato
così naturale dal seno di quella folla, fu potuto un pochino acquetare,
con gesto lento, con voce spenta, dolorosamente il buon maresciallo
annunziò che Sua Maestà la Regina Sofia Clementina era agonizzante.

                                   *
                                  * *

Lontano dagli occhi di tutti cresceva il giovine principe. Si sapeva
che mai non usciva dalle mani del suo istitutore, e mai non doveva
uscirne, uomo straordinariamente dotto e rigidissimo appositamente
fatto venire da Tatillon.

Pure anelava il popolo di potere anche fuggevolmente vederlo, il suo
giovine Re, ma non gli veniva concesso che assai di rado nelle più
eccezionali solennità dello Stato, quando vi compariva alla sinistra
del Monarca. Oh! Come ne gongolava tutto in quei giorni, in quei
brevissimi istanti che gli era concesso goderlo.

— Quali fattezze!

— Che pelle vellutata!

— Quali sguardi di fuoco!

— La magnificenza dei capelli!

— Come le ali dei corvi!

— Le labbra coralline!

— La bianchezza dei denti!

— Tu ci hai fatto languire ad aspettarti perchè eri tanto bello!

Si sapeva già di certi gesti imperiosi del Principe, di sguardi
sdegnati che avevano abbruciato interi personaggi nella Corte.

— Oh! s'egli era giustamente superbo d'essere tanto bello e tanto
grande!

Di tutti i Ludovichi questo, il più agognato, era il più bello e il più
sovrano, nella sua eccezionale figura.

La povera Regina s'era spenta nel dare alla luce un simile prodigio,
era rimasta ancora per quattro anni colla bocca spalancata in agonia,
prima d'esalare la sua anima purissima a Dio.

Ma che voleva dire? Ella si era tutta sacrificata per la patria
adorata, il sacrificio era stato a pieno coronato, s'era trasfusa
intera in lui, e in lui più grande risplendeva, e la si venerava già
come una martire santa.

Lo stesso Ludovico XII, dopo la nascita dell'erede si era placato,
offuscato, si sentiva più poco la sua presenza in ogni cosa, e infine
il suo pugno di ferro s'era fatto mansueto, e il conte Ercole Pagano
Silf poteva oramai manovrarlo come un manico qualsiasi attaccato alla
spalla del Re.

Un giorno, il bellissimo principe sarebbe stato incoronato! Con
quale grandezza avrebbe salito il trono, e cinta la corona e vestito
l'ermellino! Gli sarebbe stata scelta una sposa degna di lui, e tutto
ritornava a sorridere lietamente in Birònia dopo il dramma delle undici
principesse, e della infelice Regina Sofia Clementina.

D'anno in anno le principesse crescevano e andavano spose alle più
lontane e vicine corti, e venivano per loro mezzo strette nuove e salde
amicizie, in tutto era tornata la pace e la felicità.

                                   *
                                  * *

Compiva il ventesimo anno il giovine Principe, e Ludovico XII Re di
Birònia, moriva.

Si sa che negli ultimi istanti della sua vita volle al suo capezzale
solo il figlio, e che proprio prima di chinarvi sopra la testa
definitivamente fece chiamare ancora una volta il conte Ercole Pagano
Silf, che rimase fino all'ultimo presso il morente Sovrano, e a fianco
di quello che sorgeva.

E per primissima cosa terminati i funerali imponentissimi di Ludovico
XII ed il lutto brevissimo, se pure angoscioso e sincero, fu deciso di
dare una sposa a Ludovico XIII.

Il popolo reclamava il giusto atto, reclamava una Regina, della quale
da tanto si sentiva privo, degna di tanto Re.

E fu precisamente alla corte di Caudiria che una delle più pure e soavi
principesse della terra gli venne destinata.

I giorni che precederono le fauste nozze tutto il popolo andò
sottosopra per l'avvenimento, ognuno coltivò fiori nel campo e nel
giardino, nell'orto, sopra il balcone, e in un testo, nell'angolo del
più umile davanzale fiorì una rosa per quel giorno e fu la Birònia un
solo giardino.

Il Re di Caudiria conduceva di sua mano la graziosa principessa fino
alla soglia della Reggia di Ludovico XIII dove l'altare era inalzato,
ai piedi del quale ei l'avrebbe impalmata dinanzi al popolo.

Come egli fu bello quella mattina benedetta dal più smagliante azzurro
del cielo, dal sole più fulgido, si sarebbe lasciato uccidere ogni
cittadino per un suo bacio.

Escono maestosamente dalla porta della reggia le guardie reali, e dipoi
i componenti il corpo diplomatico e corpi religiosi, i grandi dignitari
della Corte, le dame, i cavalieri, gli ufficiali, squillano alto nel
cielo le trombe d'argento e il tutto s'apre in due bande, appare alla
soglia il Re coronato, fermo, alto, superbo, lanciando con divina
semplicità tali sguardi fieri sulle plebi in ginocchio ammonticchiate,
nella polvere.... tali sguardi che ognuno implora dal cielo gli
sia messo quel piede sopra le spalle per sentirsene schiacciato e
posseduto.

Altre trombe d'argento rispondono come coro di angeli dal fondo del
viale, una berlina come cigno d'oro si muove e al volo s'avanza. Il Re
di Caudiria conduce di sua mano la sposa, e appena la berlina giunge e
si ferma ne discende essa e il padre l'accompagna ai piedi dell'altare
dove Ludovico XIII con un sorriso sovrumano, alzando il braccio
verso di lei, intreccia la sua in quella mano, e insieme sul broccato
d'argento s'inginocchiano.

Nel silenzio della piazza e degli attigui viali, scoppiano e sussultano
i singhiozzi di tutto un popolo, nessuno ha saputo contenere il pianto.

E quante volte volle poi quel popolo che i graziosi sovrani venissero
al balcone della Reggia, mai dissetandosi di quella religiosa
ammirazione, nessuno poteva mai sentirsene satollo. E quel popolo
che aveva trascorsa la notte intera sul piazzale, che nemmeno la fame
sarebbe stata capace di allontanare, avendoci portate le provvigioni,
incominciò i bivacchi, furono accesi i fuochi dell'accampamento, in
attesa del dì seguente, per l'incoronazione del Sovrano e della sua
sposa.

                                   *
                                  * *

Congedati i grandi dignitari della Corte, quelli delle cariche, i
gentiluomini, i cavalieri, le dame, gli ufficiali, tutto quanto
il corpo diplomatico e corpi religiosi, i giovani sposi vennero
alfine lasciati soli. Ultimo a congedarsi fu il vecchio conte Ercole
Pagano Silf, che, fattosi presso al Sovrano, balbettò qualche parola
sommessamente, guardingo, in aria sospetta, alla quale il Sovrano
rispose con una mossa della più brusca e completa seccatura.

Aveva proprio bisogno di essere lasciato solo Ludovico XIII, anelava
un'ora di tranquillità e di riposo dopo la scena snervante del suo
matrimonio, il ricevimento ufficiale.... e il resto, non ne poteva più.

Ora andava di finestra in finestra per il salone che era quello delle
conversazioni e precedeva le stanze private del Re e della Regina.
Guardava assorto i bei colli della Birònia seminati di ville e di
villaggi, alzava di tanto in tanto la testa al cielo come per trarre
un più lungo respiro, torcendosi un po' nei regali indumenti quasi
vi si fosse sentito troppo stretto, ed avesse una grande voglia di
sciogliersi.

Nemmeno degnando di uno sguardo la tenera sposa che rimasta ferma
presso un tavolo gelido di musaici, colla mano appoggiatavi appena come
sul ghiaccio, tremante quale colomba attendeva senza il coraggio di
alzare il capo d'oro, un po' stopposo, sul suo Re, sullo sposo suo, sul
giovane bellissimo dal quale attendeva vacillante e ignara una prima
stretta.

Fece ancora alcuni passi dall'una all'altra finestra, Ludovico XIII, e
poi, come avesse dato corso ad ogni suo pensiero, e si sentisse stanco
e seccato si lasciò andare sopra una di quelle ampissime poltrone ad
occhi semichiusi.

Fu dopo alcuni minuti di questa posizione, che scossosi e riaperti
gli occhi, come sovvenendosi che un'altra persona era lì con lui nella
stanza, e che forse aspettava proprio una sua parola, un gesto, qualche
cosa da lui, la sua sposa, ancora in piedi, colla fronte a terra,
avvolta ancora nei veli candidi....

— Uhm.... — Sorrise Ludovico XIII scorgendola in quella posizione. —
Uhm.... siediti cara, siediti pure, sciogliti, mettiti pure in libertà,
fai il tuo comodo sai, anche te poverina devi essere stanca e stonata
quanto me, levati, levati pure, io sono addirittura smembrato, mi sento
la testa come un tamburo. Dio mio, che _corvè_! Uhm.... — la considerò
bruscamente, immobile — che faccia da stupida che c'hai — pensava. —
Oh! ma non ne hai mica colpa te, te l'hanno fatta così.

Si alzò, andò ancora verso una finestra, ma il suo pensiero era ora
vicino, lì in quella sala dalle grandi cornici che si attorcevano
dappertutto come serpenti d'oro, dove lui era colla giovine donna quasi
rattrappita dal suo contegno stranamente indifferente.

— Già.... — prese poi a dire come chi non sappia incominciare un
discorso difficile — già.... eh!... povera piccina.... Eh! sei venuta
qua.... anzi, ti hanno portata qua, te ci sei venuta.... come un
salame, non è vero? Povera creaturina! Sposa al più bel Re del più
beato regno della terra....

Andò ancora per la sala, imbarazzato dalla difficoltà delle proprie
parole, e per nulla aiutato dal contegno passivo di lei, ma poi,
avvicinandosi dolorosamente, accigliato: — che dici, che pensi di me,
che da un'ora sono qui e non ti abbraccio, non corro a ricuoprirti
di baci e di carezze, ora che sei mia, e non ci avvinghiamo insieme
immemori di tutto colla forza dei venti anni nostri?... Povera piccola
mia, sai? — e più le si avvicinava pietosamente carezzevole, con una
grande amarezza nelle parole; ella non sapeva più dove nascondere lo
sguardo per la soggezione, la gola le si era serrata, gli occhi le
si velavano, credendo che il momento ignoto fosse giunto, tremava
sentendosi così vicina la bella persona profumata, ancora stretta
nell'uniforme sfolgorante. — Un orribile inganno pesa su te, su
me, un orribile inganno, un destino perverso ci tiene nel suo pugno
e ghigna e ride in quest'istante della nostra sciagura. Guardami,
guardami, alza la faccia, alza la faccia sopra di me, guardami, ma
guardami per Dio! — Alzò la testa spaventata la Regina, e parve che
gli occhi arginassero un rivo di pianto che fosse per isgorgarvi,
guardami cara, la mia pelle, la mia bocca, il mio sguardo, i capelli,
le mani, ma guardami per Dio, non ti accorgi, di nulla ti accorgi? Non
senti?... Che senti vicino a me?... — Due grosse lacrime riuscirono a
sgorgare ed irrigarono le guance rosee della fanciulla che guardava
il Re senza nulla vedere, nulla comprendere, colla confusione di un
bambino che si senta rimproverare da una persona della quale abbia
la più grande soggezione. — Guardami.... ti sembra davvero che io sia
il tuo Re? Lo sposo tuo? Che senti vicino a me? Non ti agghiaccia un
poco — le prese la mano fra le sue — la stretta della mia mano troppo
morbida, e troppo bianca? Ti pare, dimmi, che con questi occhi possa
io impossessarmi della tua piccola anima intera, di te? Povera piccina
mia, sai, non sono un Re, non sono il tuo Re, il tuo sposo, trascino
da venti anni sopra la terra la più ridicola menzogna, ed ho giurato a
mio padre, al suo letto di morte di trascinarla sempre, sono dannato a
questa pena, questo solo tu dividerai meco, questa ridicola e infame
menzogna, questo solo ci unisce. Sei stata trascinata con me in un
gorgo infernale, questo solo ci unirà. — Vagò ancora per la stanza
scuotendo dolorosamente la testa, guardando coi grandi occhi perduti
nel vuoto dinanzi. — Sei venuta sposa.... al più bel Re del più beato
regno della terra — rise ghignando amaramente scandendo una ad una
le parole — bello come quello delle favole, non è vero? — Rise ancora
torcendo la bella bocca. — Non sono il tuo Re mia cara, no, no, eccoci
qui, siamo due regine.... — spalancò le braccia — proprio così — e le
lasciò andare giù morte lungo la persona.

Andò ancora Ludovico XIII verso la finestra che guardava i colli
verdeggianti della Birònia inondati dal sole.

— Oh! Ma non è per te sì crudele la sorte, tu, rifatta dallo stupore,
abituata a rivestire l'inganno atroce che ci avvince e nel quale siamo
insieme rinchiusi come in una botte di ferro, potrai ugualmente essere
felice, non disperare. — Si volse a guardarla ancora nella primitiva
posizione piangendo silenziosamente pure senza capire, piangendo per
il disagio di quel momento senza scorgere più in là, senza rendersi
ragione nemmeno un poco di quelle parole, di quel contegno così
inaspettato, sentendo che qualche cosa di ignoto e di orribile era su
lei.

— Vieni, vieni, guarda, disse ora il Re nella persuasione ch'ella
avesse seguito e compreso il suo discorso, le andò ancora vicino e
la prese per la mano dolcemente come si fa con un fanciullo al quale
si voglia ristagnare il pianto conducendolo finalmente alla cosa
desiderata, una chicca o un balocco, la portò presso la finestra e
le cinse il collo affettuosamente e se la strinse al petto — guarda
guarda cara, là, in fondo allo scalone, vedi quello lì, la guardia, la
guardia, vedi? Guarda come è bello nell'uniforme di gala, come è fiero,
alta la testa, avrà.... poco più di vent'anni, come noi, è uno dei
giovani più belli del Regno, dei più forti, è perfetto come un cavallo
di sangue, sono le nostre guardie d'onore quelle, le tue, guardie
fedeli come i cani, dove tu sei vigilano su te, sul tuo respiro,
guarda come i calzoni gli serrano bene le gambe robuste, guarda, su,
alla coscia, guarda, sembrano nude, lo vedi? e le mani forti stringono
la sciabola, con quanta vigoria, e quanta grazia! Oh! s'egli potesse
imaginare che in questo istante noi lo guardiamo avvinti dalla sua
bellezza! Pensa quale languore deve dare la sua stretta, pensa,
nell'oscurità della notte sentirlo arrivare clandestino dentro la tua
stanza furente di desiderio, pazzo di voglia, prenderti e stringerti,
possederti tutta, e abbandonarti svenuta fra le sue braccia dopo di
averlo atteso, atteso, ed ogni istante esser sembrato un anno! Pensa!
Guardalo, com'è bello! Appena ha ombrato il labbro superiore; guarda
la sua bocca fieramente chiusa eppure dolce, pensa immergere le tue
in quelle labbra, perdertici dentro, ah! che morsi deve dare quel
boia! Guardalo, ce ne sono tanti sai alla corte, ci sono i bruni, come
lui, hanno degli occhi che ti spogliano se ti guardano e ti frugano
e ti arrivano fino in fondo dove più non è vergogna e ragione, non
è pudore, hanno delle grandi sopracciglia folte, e ci sono i biondi,
belli quanto gli altri, e sono cose tue, tu, spiando dalla finestra,
puoi scegliere quello che il tuo capriccio il tuo desiderio vorranno,
e con un solo cenno, senza parola, la donna che ti è stata destinata
te lo farà la notte giungere fra le braccia, anche stanotte istessa se
vorrai, e potrai chiamarlo ancora e sempre, quando vorrai, ed essere
felice, e se ne vorrai un altro, potrai averlo, e un altro ancora,
tutto potrai, tu sei la Regina, padrona di lui, puoi farlo uccidere
se vuoi.... e puoi essere la sua schiava. Tu.... tu sei felice.... ma
io.... io.... — lasciando la spalla rattrappita della donna Ludovico
XIII si portò una mano alla testa arruffandone i magnifici capelli in
atto di disperazione — io.... no! Nulla è per me, il deserto è nel mio
cuore, la tortura più infame è nei miei sensi, io sono il Re, intendi?
— A questa frase ch'egli pronunziò imperiosamente alzando terribile
l'indice al cielo e lo sguardo fisso, dilatato, la giovane Regina
alzò la testa e lo guardò con tale faccia trasognata e rasciugata,
spalancando gli occhi, scostandosi poco a poco da lui, indietreggiando
cauta inorridita, assalita da un tremito di paura orrenda. Era un pazzo
dunque quello che le si era destinato per marito, un folle orribile,
questo solo comprese finalmente, nulla avendo potuto afferrare del
resto. Era la follìa, e tentava ora istintivamente di fuggire a quelle
unghie atroci che già si sentiva affondare nel collo.

Rise, rise, Ludovico XIII comprendendo il suo terrore. — Ma che! ma
che! grulla! ah! che grulla! ma che! stupida! Non ci credi? Vedrai,
vedrai, poi, ti farò vedere. Ora quando ci spogliamo, vedrai, vedi, se
mi tolgo questa corazza che mi serra sono come te, ce l'ho anch'io il
seno, guarda, come il tuo, tutto come te, sì, le poppe, come te, più
belle delle tue, vedrai, grulla!

Ma ella sempre più rattrappita rientrava in se stessa colla gola
serrata indietreggiava verso la porta chiusa nella certezza di non
potere più sfuggire alle grinfie orrende del mentecatto, come avesse
voluto scomparire sotto il pavimento. E Ludovico XIII lasciandosi tutto
andare sopra una di quelle ampissime e morbide poltrone rideva, rideva.
— Ah! Ah! Ah! Ah!

                                   *
                                  * *

E nell'ora dell'incoronazione la mattina seguente, e al pranzo di Corte
poi, fu Ludovico XIII di una grazia e di una gaiezza divine. Pareva
sprigionargli dagli occhi una felicità non più terrena.

La Regina gli sedeva accanto colla faccia cerea, un poco contratta e
sofferente di chi non abbia potuto dormire per una notte intera. Ma
di lui solo s'occupavano tutti, affascinati dalla sua prodigiosa e pur
delicata figura che tutto illuminava e riscaldava.

— Come gli è bello!

— E come è felice accanto alla sua sposa che pare una tortorella
spaventata.

— Dopo tanto trambusto di emozioni....

— Il viaggio....

— E la notte?

— Dove la mettete la notte?

— Come deve averla conciata!

— Poverina!

— Tutti così i Re di Birònia, tutti così!

E intanto che la cerimonia lentamente si svolgeva Ludovico XIII che
tutto cercò di illuminare intorno col suo sguardo e il suo sorriso,
sopra la piazza dei Settantasette non volle lasciare all'oscuro alcuna
delle magnifiche guardie reali che ai piedi del baldacchino impettite
e immobili per quattro ore rimasero come statue.

— Guarda, guarda — balbettò ad un certo punto impercettibilmente alla
sua sposa. — Guardalo come è bello eh? È quello di ieri. Sì quello di
ieri, ti ricordi? Alla finestra? Bello eh? Ti piace?

Videsi il collo della Regina ingollare un singhiozzo e gli occhi due
lacrime, e un «no» amarissimo parvero rientrare quelle labbra tremanti.

— A me sì. Come ti guarda! E guarda anche me, figlio d'un cane. Sapessi
un po' te che ci sta sotto!

E allorquando infine si avanzarono i paggi seguìti dal Gran Maresciallo
di Birònia Conte Ercole Pagano Silf, e da tutti i dignitari della
Corte e dalle altissime cariche dello Stato, e dal corpo diplomatico
e corpi religiosi, e i cavalieri tutti della Rosa di Birònia, e dame e
ufficiali, e furono i paggi inginocchiati ai piedi del trono reggendo
alto il cuscino di porpora, e le voci bianche, accompagnate da cento
violini intonarono l'inno a Dio, s'alzò Ludovico XIII, erano le plebi
nella polvere protese, e presa la corona di diamanti dal cuscino se la
pose lentamente sulla bella testa, con tale gesto sì solenne e grazioso
ad un tempo, come Re di nessun popolo di nessun tempo potè avere mai. E
fu un vero miracolo se ognuno di quei cittadini non ne ritornò, per la
gioia, pazzo alla propria casa.

                                   *
                                  * *

Circa tre mesi dopo questi memorabili avvenimenti, una mattina il
vecchio Maresciallo conte Ercole Pagano Silf veniva di premura chiamato
in udienza privata dal Re.

Ludovico XIII era ad attenderlo seduto al suo banco di lavoro con
la consueta aria seccata e distratta colla quale sbrigava con lui
le faccende più gravi dello Stato, accettando sempre con sorridente
ironica naturalezza, ogni consiglio dell'ormai infallibile uomo di
governo.

E non appena questi fu entrato e la porta fu bene richiusa dietro
a lui, gli fece cenno, il Sovrano, con l'indice della sinistra di
avvicinarsi più del consueto.

— Maresciallo, voi dite sempre: «poche parole» non è vero?

— Così è Maestà.

— Poche parole dunque: sono gravido.

— Oh! Sua Maestà!

— Il Re, proprio lui.

— Oh! che sciagura!

— Che sciagura d'Egitto? E non si sa che le donne fanno i figlioli, che
è una cosa nuova?

— Sì, sì, ma voi....

— Io io io.... io. Così doveva finire.

— E come fu?

— Fu.... fu una cosa molto semplice, semplicissima, non dovevano venir
di sopra quei giovinotti, i dragoni, per la Regina, la notte?

— Sì.... ma....

— Non siete voi che avete combinato il trucco?

— Oh!

— Già, e siccome la Regina poveretta è la più citrulla creatura che sia
sopra la terra, non ne ha voluto sapere, perchè crede sempre che io sia
il Re, e badate, non c'è da dire che non glie l'abbia fatto vedere che
cosa sono io, ma lei è tanto grullerella che non se ne persuaderà mai,
non gli c'entra, è inutile. Ho tentato di mostrarle.... tutto quanto,
si cuopre la faccia e scappa inorridita con la stessa vergogna come
se si trovasse davanti a un uomo davvero. D'altronde, non può farsene
una ragione e non ha poi tutti i torti, via.... convenitene, è un bel
trucco, ma bello davvero.

Il vecchio Maresciallo chinava la testa sotto il peso della nuova
arruffatura nell'intrigo reale del quale un giorno la disperazione
l'aveva reso autore.

— Allora.... allora — riprese Ludovico XIII con molta disinvoltura —
non avendone voluto saper lei, l'ho pregata, anzi, sarò sincero, ce
l'ho quasi costretta, a farmene sapere qualche coserellina a me, non ne
potevo proprio più sapete, scoppiavo.... ed ho preso il suo posto. Del
resto nemmeno questo è bastato a convincerla, sì, ci vuol altro....

— Oh!

— Che ragazzi, Maresciallo! Con quelli là non si estinguono i popoli,
vivete pure tranquillo.

— E voi, Maestà, ne avete conosciuto.... più d'uno?

— Quanti sono?

— La guardia reale si compone ora di... trentasei uomini.

— Eh.... allora....

— Che? Tutti?

— Ho paura di sì.

— Oh! Maestà! Maestà!

— Tanto, uno più o uno meno, a voi che vi fa?

— Bisogna allontanarli tutti dal regno, bisogna far cambiare la guardia.

— Basta che me ne lasciate almeno tre o quattro eh? Se volete che
le cose camminino, se no faccio baracca! Ve lo giuro io! — Poi
rabbonendosi, quasi supplichevole — almeno.... almeno.... uno guardate,
sono discreto, mi contento di uno, via siate buono maresciallino,
uno solo, uno.... del quale forse.... sono così. E che da tante sere
sempre ritorna, e vuole ritornare, sempre lui, il furfante, che animale
Maresciallo!

— E conoscete il suo nome?

— Si chiama.... si chiama.... Gastone. È bruno, con delle enormi
sopracciglia nere e i grandi occhi fieri e dolci, dove arriva
quel ragazzo con quegli occhi.... e la faccia oblunga, e i denti
bianchissimi, quando ride è bello come il sole. In queste ultime notti
egli sempre volle ritornare ed io volli lui solo, e attende palpitante
l'ora del segnale, e di giorno mi beo, insospettato a guardarlo, a
fissarlo, quando è giù nel cortile a far la guardia, in fondo allo
scalone....

— Ma egli nulla sa?

— Nulla, nulla povero bamboccione mio, nulla, e come potrebbe? Nulla ha
compreso di chi abbia conosciuto. E guardate — alzò il capo fieramente
il Re, aggrottando imperioso la fronte — guardate che se gli torcerete
un capello solamente voi finite nel forno! Per il resto — continuò
abbassando di tono. — Per il resto.... farò quello che voi vorrete.

Taceva il vecchio Maresciallo colla testa stretta fra le mani, incapace
di trovare sul momento una via d'uscita dal groviglio.

— Mio caro Maresciallo, ne avete combinati tanti dei pasticci nella
vostra lunga carriera, e io ne sono un bell'esempio, mi pare, coraggio,
pensateci un pochino e ne troverete un altro senza dubbio che ci caverà
tutti dall'impiccio.

— Ma poi.... ma poi.... — balbettava smarrito il conte Ercole Pagano
Silf — Gennaio, Febbraio, Marzo.... — e calcava i mesi puntando
leggermente il polpastrello della destra sul banco del Sovrano —
Luglio, Agosto!

— Agosto, già, saremo lì, verso la metà del mese.

— Dio! Dio! È il centenario della costituzione! Il quarto centenario,
il quindicesimo giorno di Agosto.

— E cosa volete che ci faccia?

— Tutto, tutto in contrario.

— Rimandate le feste.

— Rimandare.... è una parola.

— Non mi farete mica venir fuori con quella pancia, o, peggio ancora,
appena sgravato, o partoriente? Bisogna rimandare le feste a Settembre,
a Ottobre, meglio, è più fresco.

— Ma voi Maestà, non conoscete il vostro popolo!

— E cosa me ne importa a me del popolo? Se sapeste un po' dove ce
l'ho io, il popolo, non sareste nemmeno capace di figurarvelo, signor
Maresciallo!

— Ah! Quale jattura!

— Insomma, fate come volete, basta che non secchiate me, c'intendiamo?
perchè io, non ne posso più.

                                   *
                                  * *

Ora accadde che Ludovico XIII venne assalito da certe febbri
intermittenti che poco a poco lo costrinsero a non uscire più dalla
Reggia.

Negli ultimi tempi si era presentato al popolo tutto ravvolto in
un'ampissimo mantello bianco. Era stato notato con muto lacerante
dolore il tremito delle sue labbra, e tutta una leggera deformazione
del bel volto purissimo come s'esso si maturasse, ingrossasse e
colorisse soverchiamente.

Anche nelle udienze di Corte si stringeva sempre addosso
freddolosamente quel solito mantello bianco così ampio come a nessun
re era stato veduto mai. Infine nessuno lo potè più vedere, eccetto il
Gran Maresciallo per gli affari urgenti del governo, e si recava nella
camera dalla quale il Sovrano più non usciva.

Il vecchio Maresciallo di Birònia gli era a fianco quasi costantemente
per confortarlo e incoraggiarlo, oltre che per le decisioni supreme
dello Stato.

— Coraggio, coraggio Maestà — esortava l'abile uomo politico divenuto
ricurvo sotto il peso degli anni e del governo aspro e difficile,
coraggio.

— Ah! Maresciallo mio, che frittata! Sono veramente una creatura da far
compassione ai sassi. E quella povera Regina anche è compassionevole,
disgraziata anche lei, in che ginepraio è venuta a ritrovarsi. Non
è più che un'ombra, io ingrosso tutti i giorni e lei sempre scema, è
tanto grullerella poverina. Eppoi? E dopo?... Dove andremo a finire? Si
può durarla in una situazione di questo genere? Ah! Padre mio! Padre
mio, che facesti mai! E anche voi c'entrate per la vostra parte. — Il
vecchio Maresciallo di Birònia chinava il capo dinanzi al Sovrano tutto
avvolto nell'ampissimo mantello. — Potevo essere felice.... e sono la
più miserabile creatura dell'universo, tutto per i vostri pasticci,
vecchio intrigante che non siete altro. Io.... non sono nulla....
non lo so nemmeno io che cosa sono, sento salirmi al cuore qualche
cosa a inondarlo di dolcezza, e subito un pensiero lo riavvelena, ah!
Maresciallo, che dolcezza sentirsi madre! E quando mi guardo con questi
calzoni addosso.... e questa panciona grossa grossa.... — faceva atto
di aprirsi l'immenso mantello davanti Ludovico XIII — mi viene da
piangere....

— Coraggio, coraggio Maestà, foste sì forte, sì superbamente forte
in ogni istante della vostra vita, vero sangue Ludovico è il vostro,
sangue d'eroi!

— Ah! questo è certo.

— Coraggio, ricordate il giuramento a vostro padre, egli vede e
benedice la vostra meravigliosa fermezza dal cielo.

— Benedice.... benedice.... e che cosa me ne importa a me se benedice,
e io sono così? Che colpa ne ho io? Che feci mai? All'ultima delle
dodici sorelle dovevano capitare tutte queste sciagure. Le mie sorelle
sono felici, sparse per tutte le corti del mondo, vivono e godono,
amano e sono riamate, possono partorire finchè vogliono circondate
di carezze e di affetto, io.... eccomi qui, non sono nè maschio nè
femmina, non lo so più neppure io che cosa sono....

— Coraggio, coraggio Maestà, ricordate la promessa a vostro padre, i
suoi occhi come vi fissarono in quell'istante supremo.

                                   *
                                  * *

Era la festa dello Stato. Il quattrocentesimo anniversario della
costituzione del regno di Birònia. Per quanto i festeggiamenti, che
avrebbero dovuto avvenire strepitosi, fossero stati rimandati per la
malattia del Re, i cittadini tutti fino dai grigiori dell'alba si
aggiravano cupamente sopra la piazza dei Settantasette che avrebbe
dovuto essere una giostra di colori, un vulcano di gioia e di felicità,
ed era invece grigia e muta in quell'alba, non uno spiraglio di
finestra vi era aperto in segno di lutto, cupamente si aggiravano
i cittadini dinanzi alla Reggia, sull'ampio piazzale, nei parchi
adiacenti, per i viali, a capo chino e scoperto.

La festa rimaneva serrata dentro i cuori, gelosamente custodita e il
gaudio vi si raccoglieva in un'invocazione al Signore perchè presto
facesse risanare il Sovrano adorato.

E in quell'alba istessa, il conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo
di Birònia, veniva d'urgenza chiamato al letto del Re sofferente.

— Ohi! Ohi! Maresciallo, ci siamo, lo fo! Proprio oggi, sembra fatto
apposta.

Corse il vecchio Maresciallo a chiamare il chirurgo di Corte che di
lì a poco giunse con un'infermiera, e insieme si chiusero nella camera
regale.

In poco tutto fu preparato e il conte Ercole Pagano Silf andava e
veniva per la stanza in una trepidazione incontenibile. All'uomo che
aveva atteso i dodici parti desolati della Regina Sofia Clementina,
pareva che una speranza fosse rimasta accesa sotto le ceneri in fondo
all'anima e giungesse ora ad irradiarne la pupilla.

— Ohi! Ohi! — gridava il Re tenendo la bella testa bruna scomposta
sui cuscini — Ohi! Ohi! — mordendo il fazzoletto che spremeva nella
mano bianca, mentre il chirurgo e l'infermiera gli sottoponevano aromi
alle narici affannosamente spalancate, e ne bagnavano con farmachi
ristoratori le tempie che pulsavano forte — Ohi! Ohi! Dio mio, che
male! Ohi! Ohi! questi non sono dolori da Re caro Maresciallo, vorrei
un po' sapere come ve la caverete ora! Ohi! Ohi! Uhm.... che male
atroce! Finchè era qui dentro.... Ohi! Ohi! era un'altra faccenda,
c'era il mantello che cuopriva ogni cosa.... Ohi! Ohi! Ohi! Ah! Che
tortura.... Uhm!... vorrei sapere come farete a ricuoprire ora, ci
vuole altro che mantello! Ohi! Ohi! Ohi!... Cosa pensate di farne di
questa mia povera creaturina?...

Neppure badava il Maresciallo alle parole del Sovrano spasimante,
ma continuava a passeggiare nervoso stirando le gambe, le braccia,
torturandosi l'una l'altra le dita.

— Almeno se ero nato maschio davvero! Mi sono toccate tutte le sciagure
delle donne, tutte quelle degli uomini senza un benefizio di nessuno.
Ohi! Ohi! Povera mamma mia, come devi aver patito a farci tutte e
dodici, scalcinata come eri povera donna! Questi uomini sono proprio
delle bestie irragionevoli, irragionevoli! Ohi! Ohi! Povero piccino
mio, tu non ne hai colpa ma mi fai soffrire troppo così. Chi sa suo
padre a quest'ora come se la gode, che ne sa lui, se ne frega, il
maiale! Ohi! Ohi! Ohi! Ah! Mi sento strappare i reni! Mi par d'averci
dentro un battaglione di soldati. Ohi! Ohi! Ohi! Maresciallino mio che
male.

Passeggiava nervosamente il vecchio Maresciallo invaso dal suo pensiero
che gli bruciava in seno e gli dava la febbre per tutte le membra.

Un urlo lacerante uscì dal petto del Re, alzò presto le coltri il
chirurgo e ne scuoprì il corpo candido, il parto era aperto. Tele
cerate e topponi e ovatte gli furono destramente posti di sotto, e
facendosi uno da un lato uno dall'altro il chirurgo e l'infermiera
presero le gambe d'avorio che si spalancarono, mentre un mugghio atroce
gli sussultava dal petto e gli moriva nella gola.

Il Gran Maresciallo di Birònia dietro, in mezzo ai due assistenti
spiava mandando da destra a sinistra la testa scheletrita fra le
fessure che i due lasciavano operando, e si vide ad un tratto il suo
collo lungo, fermo, rigido, uscito fuori dal busto come quello di un
pollo automatico che si sia guastato e più non lo possa rientrare,
e gli occhi anche parevano usciti dalla testa, senonchè dopo esser
rimasto a lungo in quella tensione orribile ne uscì dando un guizzo
ed un grido rauco secco che parve essergli, come la corda dell'arco,
schiantato il cuore in petto, ma invece delle grandi lagrime
ristoratrici gli inondavano le fosse delle guance incartapecorite e gli
scendevano giù giù sull'abito gallonato come quelle di un fanciullo.

Il vecchio, freddo e indurito uomo di governo, per la prima volta
piangeva così in vita sua, senza potersi più contenere, e come assalito
da follìa si gettò sui cuscini e stretta la bella testa del Sovrano si
dette a baciarne la fronte.

Ma Ludovico XIII ancora mezzo sopito sui cuscini si ritorceva
spasimando, mentre il chirurgo lo assisteva e l'infermiera che aveva
preso il neonato ne immergeva le fragili membra nel latte caldo, e ne
frizionava e profumava le tenere carni delicatamente.

— Presto! Via! Presto! Le girava attorno palpitante il conte Ercole
Pagano Silf scoppiando d'impazienza. — Presto! Via! Via! — ansava il
vecchio pestando i piedi come un fanciullo, non potendo più contenersi,
— mentre la donna curava ancora il corpicino. — Presto! Via! — E quando
fu bene mondo e ravvolto in flanelle e ricoperto in un broccato d'oro,
il Gran Maresciallo afferratolo nelle braccia fuggì dalla camera.

Come per incanto fu spalancato il balcone della Reggia e la porpora
cadde, suonarono le campane, squillò alto l'allarme per la nascita del
Re. La guardia reale sorpresa fuggì fuori senza il tempo di disporsi,
precipitosamente si gettò sul piazzale, ignara di quello che accadeva,
ignara della parte che pure in quello che accadeva rappresentava, si
schierò al completo in fretta e senza sapere che facesse presentò le
armi al Re.

Esce sul balcone della Reggia ad un tratto il conte Ercole Pagano Silf
Gran Maresciallo di Birònia coll'involucro d'oro alto nelle braccia e
grida: Eccolo! È lui! È lui! il Re!

Il popolo che dalle prime ore della mattina s'aggirava torvo
dolorosamente assorto nei pressi della reggia, s'adunò sotto al balcone
al richiamo inaspettato colla faccia tutta spalancata in su senza
potersi rendere in nessun modo ragione di quello che accadeva, senza
nulla comprendere di quella scena.

— È lui! È lui! Urlava il maresciallo a squarciagola tra il frastuono
delle campane delle trombe e del movimento delle folle accorrenti. — È
lui! Il Re! Popolo di Birònia! Il tuo Re!

Ma come? Ma che? Ma chi? Chi l'ha fatto? Pareva interrogare ogni
faccia. Che cosa era quello che succedeva? Nessuno potendo capire.

— Il tuo Re! Sì! No! — gridava il Gran Maresciallo cercando di superare
colla sua voce la marea montante della folla! Il tuo Re! — E si udiva
ancora qualche sua parola a intervalli — Ester! — Sì! No! Che? Chi? —
Giuditta! — Dove? Come? Quando? — Giovanna d'Arco!

Mentre il sole di mezzogiorno irradiando l'involucro d'oro lo faceva
risplendere come un astro.

— Vedi, vedi popolo! — Urlava senza più fiato il Maresciallo, e aperto
il broccato e lasciate cadere le flanelle che l'avvolgevano, scoperto
il corpicino e apertene le coscine morbide indicando nel mezzo il segno
impercettibile, come il pistillo del fiore, quel piccolo segno che
aveva amareggiato tutta la sua vita di governatore superando tutti i
rumori:-è Ludovico! — urlò.

Ma dalle vetrate della loggia lo si chiama affannosamente, al che il
Maresciallo non risponde, una mano si sporge recando un altro involucro
d'oro uguale al primo, egli accorre, un'altra creatura uguale gli
viene porta, mentre egli credendo di avere smarrita la ragione si sente
vacillare.

— Sì, maschio, anche questo, gli si grida di dentro. Sua Maestà! Or
ora! Senza capire più, agendo come in sogno il Grande Maresciallo
afferrò l'altra creatura nell'altra mano e fattosi al balcone urlò:

— Due! Due Re! Popolo di Birònia! Due Re!

Guardava in sul principio ognuno smarrito verso l'alto senza potere
capire in alcun modo che accadesse, in quell'immane frastuono senza
farsi una possibile ragione di ciò che accadeva.

— Due Re? Chi erano? Chi li aveva fatti? Chi li doveva fare? A chi
appartenevano?

Ma afferrato poi da quel delirio che dal balcone scendeva e invasolo
tutto — Evviva! Evviva! — si pose a gridare intero il popolo, come
vivesse un sogno. — Evviva! Evviva! — Tra gli squilli delle trombe i
doppî delle campane le note dell'organo gli scoppi dei mortaretti —
Evviva! — Quasi aspettandone un terzo uguale ai primi due — Evviva! — E
alle facce che giungevano interrogando: di dove sono venuti? — Il Gran
Maresciallo alzati i due corpi nudi nelle mani e alte le braccia verso
il cielo urlò ancora. Di lassù! — E l'urlo di tutto un popolo s'alzò
allora verso il cielo.

                                   *
                                  * *

Per quanto la situazione venisse poco alla volta chiarita essa rimase
sempre in un'atmosfera di leggenda e di mistero.

Il Re Ludovico XIII fu dichiarato creatura fuori del sesso, e al
disopra di ogni umanità, venuto sopra la terra solo per salvare un
paese giusto dalla rovina. Esso si dileguò dopo il miracolo, nessuno
n'ebbe più nuova, e certamente salì al cielo.

Il suo regno fu chiamato «il Regno Santo» o anche «il Regno della
Vergine» e ancora: «il Regno del Miracolo». Ne seguì il regno dei
Gemelli che si chiamarono Ludovico XIV, e Ludovico XIV e Mezzo,
per il qual modo la costituzione non venne toccata d'una virgola
sola. I Gemelli regnarono in maniera tanto mai esemplare, e furono
così fratelli come un solo uomo, col vantaggio che l'uno temendo e
rispettando il giudizio dell'altro ognuno si mostrò sempre tanto cauto
e pieno di riserbo che il più grande equilibrio ne risultò dall'unione.

E fu per questa giustizia detto il regno della bilancia, e con una
bilancia appunto si usò simbolizzarlo.

Essi ebbero poi due spose belle, forti, che si sedettero maestosamente
e piene di grazia al loro fianco sulla piazza dei Settantasette dove
solamente il baldacchino fu dovuto ingrandire un poco, senza ledere
per questo un pelo soltanto la grandezza e l'autorità di Ludovico il
Grande che sì fieramente dall'alto del suo cavallo il tutto vigilava.
Ebbero insieme ventisette figliuoli, diciotto dei quali maschi e fu
assicurato così per un millennio il regno alla dinastia dei Ludovichi.
Per le lontane e più luminose capitali d'Europa visse e vagò una certa
contessa Marina Del Pioppo, che tenne vita simpaticamente libera, e un
poco licenziosa dicono i peggiori critici sociali, la bellissima donna
suscitò profonde e folli passioni in molte anime e febbri in molti
corpi, alla bellezza essa accoppiava una maniera così aristocratica da
doversi dubitare qualche volta, pure ignorando sempre quali fossero i
suoi precisi natali, ch'ella discendesse da qualche gran sangue, pure
nessuno avrebbe mai osato pensare o intravedere in quella bellissima
donna, una spodestata Regina, nè, tanto meno, un Re assoluto.

Si sa infine, che una notte, anzi, nelle primissime ore del mattino
circa un mese dopo il Miracolo dei Gemelli, ad una stazione di
frontiera in Birònia, erano discese da una misteriosa vettura
due figure aristocratiche. Le persone di servizio non tardarono a
riconoscere nel vecchio signore il Conte Ercole Pagano Silf Gran
Maresciallo di Birònia, seppure in incognito e vestito in borghese e
a capo scoperto, gli si inchinarono dinanzi. Nessuno potè però fare
accertamenti a carico della signora, bellissima di figura, ma alla
quale un velo troppo fitto cuopriva interamente la faccia. I due
aspettando il passaggio del treno, parlavano assai intimamente e con
affetto e al momento di salutarsi volarono per l'aria delle parole
presso a poco come queste: — Eh! ci volevo proprio io, Maresciallo, per
salvare la Patria, e un poco anche voi, sì, vecchia trappola. — Alzato
quindi il velo fin sopra la bocca la bella signora posò la sua faccia
fresca su quella rugosa e dura di lui, e lo baciò come si bacia il
vecchio e caro padre.



L'ANIMA


— È come un grosso lupino d'oro con la sua campanellina che lo tiene
infilato alla catena.

— Ma sei proprio sicuro che non l'avesse portato addosso altra volta?

— Sono sicurissimo di non averglielo mai veduto. Io so tutto di lei,
essa non mi ha nascosto mai nulla, non c'è cosa ch'io non conosca,
che non abbia veduto, della quale non sappia a puntino la ragione, il
perchè, la provenienza. Ecco il primo segreto.

In questo giorno di disperazione, l'ultimo che ella è con me sotto il
nostro tetto di sposi felici per trenta anni, ecco la prima nube. Ed
io sono costretto a mescolare i miei singhiozzi più sinceri, il mio
lacerante dolore, a questo.... che non è un dubbio, non è un dubbio
sapete, perchè io sono sicuro di lei, della sua fedeltà, del suo amore;
non è un dubbio, è una cosa che non capisco; e siccome ho sempre capito
tutto della sua vita, mi sembra di profanare il nostro amore, il mio
dolore, parlandone solamente.

— Ed era nascosto dentro l'abito?

— Sì. Ella diceva spesso ridendo: «se muoio quello è l'abito che voglio
indossare». Me lo ha detto fino da quando aveva vent'anni, capite,
e allora la facevo tacere stringendomela al petto e cuoprendomela
di baci. In questi ultimi sei anni poi, dopo la morte di sua madre,
diceva: «quando muoio, l'abito deve essere quello che feci per il lutto
della povera mamma». E lo aveva messo là, in un angolo del suo armadio.
Io, stamane, sono andato per compiere di mia mano ogni atto pietoso
attorno alla sua adorata persona; dentro il giacchetto, attaccata con
uno spillo, ho trovato una busta; ho aperto, ed eccoti questa catenina
d'oro con questo medaglioncino, e nel foglio: «È la mia ultima volontà:
che mi sia messa attorno al collo questa piccola catena....».

— E sei proprio sicuro di non avergliela mai veduta, ch'ella non te ne
avesse mai parlato....

— Mai. Quando sei anni or sono morì sua madre, essa portò in casa
diversi gioielli e molti piccoli oggetti del genere, ma io vidi ogni
cosa, so tutto, aprendo i suoi cassetti non trovo una sola cosa che
mi sia sconosciuta. Dunque: «Che mi sia messa attorno al collo questa
piccola catena. Il medaglione non racchiude nulla: è la mia anima.»
La sua anima! Ma che cos'è l'anima? È.... tutto ciò che al momento
della morte finisce in noi, si distacca dal nostro corpo.... per
andare.... diciamo pure, nel cielo, e la sua benedetta e pura ci sarà
già a quest'ora. Che cosa vuol dire dunque? La sua anima staccandosi
dal corpo sarebbe venuta qui dentro? Ma sembra l'ultima affermazione
di una mente bizzarra, squilibrata, ed io so invece quanto essa fosse
equilibrata, semplice.... serena, saggia....

— Mio caro non fantasticare più, tu soffri terribilmente pover'uomo,
senza che nessuno se ne fosse mai accorto, quella creatura semplice,
serena, aveva dei pensieri suoi, una sua filosofia.

— Ma che filosofia, per carità, ma che filosofia, chi può conoscerla
meglio di me? Era intelligente.... sì, colta, tutto quello che volete,
ma incapace assolutamente di poter pensare a cose di questo genere.

Di una cosa soltanto non mi saprò mai dar pace: ella è qui nella stanza
vicina, morta, dopo trent'anni di amore, di fiducia, di idolatria,
dopo il dolore che m'ha lacerato il cuore, fra pochi istanti me la
porteranno via per sempre, per me è finito tutto, felicità, esistenza,
tutto, non mi resta nulla al mondo, e sono qui a discutere.... a....
baloccarmi fra le dita questa catena.... e questo ninnolo d'oro....

E sono sicuro della sua intera, luminosa fedeltà. Sono sicuro, capite,
perchè ho avuto, insieme con lei, vent'anni, e sono stato geloso,
sospettoso, l'ho provata.... sorpresa, la più limpida, la più amorosa,
la più pura anima di donna! Sono sicuro.... eppure.... non vorrei
metterle addosso questa cosa che vedo oggi per la prima volta. Vorrei
che questo giorno chiudesse la nostra felicità con un ultimo raggio di
quella luce di candore che illuminò sempre il nostro cammino.

— È come un grosso lupino d'oro, con la sua campanellina che lo tiene
infilato alla catena. Non si vede da nessuna parte la traccia di un
suggello; deve essere pieno, o quasi.

— Vuole portare con sè sotto terra la sua anima, e che male c'è?

— Nessuno, nessuno, avete ragione. Se io avessi un figlio, vedete,
una figlia, io le direi: va', ponile tu questo che è stato l'ultimo
suo desiderio. Avete ragione, è il dolore che mi fa sembrare grande
una cosa piccola. Io stamane la vestii, ed io debbo completare la mia
opera, portatemi, portatemi da lei.

Io rispetto il tuo ultimo desiderio.... sicuro, convinto, che esso
non lede un solo istante del nostro amore. Ti bacio.... per l'ultima
volta.... col mio povero cuore spezzato.... In trent'anni di amore,
non un solo punto nero macchiò la nostra felicità, eppure....
questo bottone d'oro sopra il tuo seno, mi sembra così nero.... così
grande.... come se tu.... non fossi stata mai mia.... no.... no....
no.... no....

                                   *
                                  * *

Volete sapere che cosa c'era dentro a quel bottone? Lo volete proprio
sapere? Ebbene, io so quello che c'era, una cosa molto semplice,
sentite.

Quella donna era stata davvero la più fedele, la più amorosa, la più
pura e saggia di tutte le mogli. Aveva quarant'anni e non aveva amato
che suo marito, non solo, ma non aveva tradito il suo amore nemmeno con
un pensiero o con uno sguardo.

Aveva quarant'anni e la sua fedeltà pareva oramai più che assicurata.
Non lasciava la casa che per recarsi col marito, o, se sola, per
recarsi da sua madre dove il marito andava, di solito, a riprenderla.

Sua madre abitava poco distante da lei, al primo piano di un elegante
grandissimo casamento. Ella aveva incontrate per quelle scale tante
svariate persone, ed aveva veduto tanti inquilini cambiarsi. Tutti
sapevano prima o poi chi ella fosse, e che cosa andasse a fare
là. Tanti uomini per quelle scale, e altrove, si erano soffermati
lanciandole gli sguardi più evidenti a sottolineare la sua squisita
finissima bellezza.

A quarant'anni era ancora giovane, fragrante di semplicità e di un
fascino infantile, contornata di un'eleganza severa e aristocratica,
aveva due occhi celesti scuri, grandi e buoni.

Un giorno incontrò, salendo dalla mamma, un nuovo inquilino del
mezzanino, un giovane tenente di cavalleria, bello alto, bruno, roseo,
elegantissimo: egli si appiccicò al muro per lasciarla passare, ed ella
sentì salendo, due occhi neri, vivi, che la seguivano, e le bussavano
a chi sa quale porta imperiosamente.

Perchè lo aveva notato? Perchè se ne ricordava? Pensò a lui per tutto
il tempo che stette dalla mamma, e scendendo temè di incontrarlo
ancora. La sera lo pensò. E quando fu vicina a suo marito sentì
fulminarsi addosso un brivido forte, come se quello fosse il primo
peccato.

Per le scale lo incontrò ancora tante volte.

Sembrava che lui l'aspettasse, e lei intanto si sentiva trascinata più
spesso dalla mamma, e a quelle ore solite.... Dio! Dio! Dio! Ma veniva
dunque così tardi per lei la perdizione?

Ora che si sentiva sicura, tanto lontana, e non pensava nemmen più....
Al tramonto della sua giovinezza, quel giovine che poteva avere poco
più di vent'anni....

Per quelle scale si incominciò con un saluto, un saluto più espressivo,
più lungo, più vicino, più insistente da parte di lui, con un
abbassare della testa da parte di lei assalita da un capogiro.... poi
occhiate.... strette tremende di mano, strette,... strette, poi.... poi
un giorno la mamma non c'era su, e lei andò.... ad aspettarla giù, al
mezzanino.

                                   *
                                  * *

Il loro amore durava da tre anni, nel quale tempo la vecchia madre
si era ammalata; e allora le visite erano divenute più frequenti,
e a qualunque ora, e senza una regola più. I due poterono amarsi
liberamente, perdutamente, senza che un solo lontanissimo sospetto
balenasse agli occhi di nessuno. Erano riusciti a nascondere.

Lei uscendo cercava con spasimo di non trascinarsi dietro nessun
tramite di contagio.

Il giovine buono, generoso, innamorato di quell'amore spontaneo e
fresco proprio della migliore più ignara giovinezza, che gode di
concedersi all'amore che sa, pure inconsciamente, assaporando il frutto
ormai giunto al pieno della sua maturazione che fra quelle mani al
contatto di quella freschezza più si spreme e in pieno disperatamente
esala le sue fragranze, l'aveva sempre aiutata, senza forzarla una
volta, solo attendendo quello ch'ella poteva dargli. E gli dava
un'anima, un corpo, tutto un amore, tutta un'angoscia, un dolore, tutta
una purità. Era l'inaspettato tramonto di fiamme dopo una giornata
limpida, adamantina.

La vecchia madre morì, ma ella potè tornare ancora nella casa, il
quartiere rimase suo per alcuni mesi; poi non fu più suo, vennero
i nuovi inquilini, lei non andò più là, poi.... ecco il baratro.
Bisognava sapere spezzare la propria vita! Doveva salvare quarant'anni
di virtù, doveva sapersi ritirare a tempo dalla rovina, tutto le
diceva: basta. E il suo cuore era di quelli che si lasciano abbrancare
da una mano spietata, e la sua mano fu la più spietata nell'abbrancarlo
per soffocarlo, per nasconderlo giù giù nell'imbottito, perchè nessuno
lo potesse più vedere, perchè nessuno potesse udire le sue grida.

Finito tutto, il giovine non accampò un diritto, non disse una sola
parola, si guardò attorno deserto, e cercò altrove amore, compagnia,
oblìo. Decise il suo matrimonio.

Pochi giorni prima che egli si sposasse ella gli ritornò per l'ultima
volta.

Nulla era fra loro nessun legame, non un biglietto, non un vecchio
fiore, non un sospetto nulla nulla nulla.

Il marito non aveva potuto accorgersi di niente, i tristi giorni della
separazione erano venuti con quelli della morte della mamma. Ella
pianse, passò giornate orribili; ma ne aveva ben ragione poveretta, era
così evidente.... E il buon marito fece di tutto per consolarla e fu
convinto infine di esservi riuscito.

La mattina delle nozze, ella, chiusa nella sua stanza, soffocata fra
due cuscini, pianse, urlò. Era tutto finito! Si guardò nello specchio,
era vecchia, vecchia, vecchia.

La sua vita serena aveva avuto quel tramonto di fuoco ed ora ne sentiva
il gelo nella notte.

                                   *
                                  * *

Gli sposi andarono, naturalmente, in viaggio di nozze.

Una sera, là, sulla riva di un lago, in un crepuscolo, mentre egli
era presso alla sua dolce e mite compagna, pensava alla donna che
lo aveva amato per quattro anni, che gli aveva donato un tesoro di
amore e di dolore, che aveva spasimato e sofferto, gioito con lui,
laggiù, nel vecchio nascondiglio. Pensò a quell'ultima volta, quando
ella gli ritornò, a quell'ultimo istante di lacerazione, pensò alla
mattina delle sue nozze, e la vide chiusa in una stanza, e ne sentì
i singhiozzi. Lasciata per un istante la giovane sposa, andò ad uno
scrittoio, prese un foglietto, vi scrisse una riga sola, e la mandò a
lei.

Quando essa la ricevè cambiò fulmineamente, come per incanto, non
pianse più, il suo dolore si calmò, la fronte si rifece serena, la
faccia giovanile come quattro anni prima. Bruciò la busta, tagliò con
cura la sola riga che il foglietto conteneva, ne fece un rotolino fra
il pollice e l'indice. Era quello che le restava del suo amore. Si
vestì con un lungo mantello nero, un cappello che le nascondeva mezza
la faccia, si cuoprì con due ben fitte velette, e così invisibile
andò da un orafo, vi scelse una catenina, un piccolo medaglione,
il più semplice, vi pose dentro il suo rotolino di carta, passò nel
lavoratorio perchè la saldatura ermetica fosse operata sotto i suoi
stessi occhi.

Quella riga diceva: «nessun corpo avrà mai la tua anima».

                                   *
                                  * *

Ora io la vedo quella donna, perdonatemi, la vedo sotto terra, ma
non ora, fra tanti tanti anni; ella non è più una donna, quello non è
più un corpo, non c'è più il vestito, nulla, solamente uno scheletro
candido, a cui vien giù sulla gabbia del petto, una catenina d'oro,
e in uno spazio, fra due costole, scende, quasi altalenandosi un
bottone....



L'INGEGNERE


Sono le otto della mattina. Ammettiamo di esserci levati così presto
e di essere già fuori. È una bella mattina a fine di Giugno, dunque
niente di così straordinario e possiamo ammetterlo quasi comodamente.

Noi girelliamo per uno di quei preferiti quartieri di vie secondarie,
aggruppamenti di piccole vie, viette, viuzze, smilze, tortuose, che
si rimescolano l'una nell'altra. Questi quartieri, situati nel centro
di una grande città, vi rimangono incorniciati dalle grandi arterie,
e in essi, venette venuzze, circola, rumina laboriosissima la vita
in sottana, quella stessa vita che per le grandi vene circolerà poi
rivestita. Da quelle vi traversa, se deve, frettolosa, vi sfugge
se può; mentre soltanto poche ore dopo, vi passerà tranquillamente,
beatamente in pompa magna.

Mi viene in mente una cosa: la più carina, la più affascinante delle
vostre amiche, vorreste vederla nel suo elegante salotto passeggiare
in gonnellino? Troverebbe ella le stesse pose, avrebbe gli stessi
movimenti morbidi e felini, del giorno, quando vi riceve alle cinque
per il thè? Mentre invece che essa passeggerà naturalissima col suo
sottanino nella camera da letto o da bagno, nel suo spogliatoio.

Perdonatemi la divagazione e ritorniamo nei nostri quartieri e
per le nostre vie. Esse hanno il loro odore particolare, che non è
quello delle grandi vie; i negozi di generi alimentari che vi sono
fittissimi, espandono i loro profumi, calcano la loro nota nell'aria,
e specialmente nelle belle mattine estive quando tutte le porte sono
spalancate e le mercanzie in parte esposte all'esterno, e dappertutto
circolano barrocci e panieri colmi di frutte e di verdure.

Noi girelliamo fra le servette rubiconde, e non rubiconde, fra le
grasse comari, e comari secche, in giro per le provvigioni della
giornata, vecchie beghine che fanno anch'esse qualche spesicciola
dopo avere ascoltata tre o quattro volte almeno la santa Messa, o
che si avvicinano alla candida latteria, linda come le loro anime di
fresco nettate, dopo le devozioni divenute poco alla volta necessità
quotidiana della loro esistenza scarnita. Potreste voi indovinare che
quelle figurine più o meno sbilenche che vi passano vicino, brune e
untuose, sono invece di dentro di sì lucente candore?

È fresco. Questi quartieri secondari della città, così imbottiti
nel centro, sono freschissimi anche d'estate. Le case molto alte,
le vie strette e irregolari, le loro tettoie quasi si ritoccano,
talune sembrano volersi baciare altre tenersi il broncio, e appena vi
lasciano scorrere un ruscello azzurro; il sole non vi può dare che una
sbirciatina sul mezzo del giorno, non più.

Però si presenta una giornata caldissima, l'aria è assolutamente ferma.

Noi girelliamo così per abitudine, scrutando sempre con più o meno
interesse la vecchia umanità e avendo tutta l'aria di fare un vecchio
mestiere.

Eccoci ad una piazzetta asimmetrica, piccolo largo fatto dinanzi alla
parrocchia. Saliamo tre scalini, e per la porta sgangherata e polverosa
entriamo. Noi entriamo anche lì naturalmente, è nostra abitudine di
non arrestarci davanti a nessuna porta. Una capanna meticolosamente
guernita di polverosissime cianfrusaglie. Sulle due file di panche
alcune vecchie qua e là biascicano con disappetenza le loro orazioni.
Un colpo di tosse, unico rumore. Ma ai piedi dell'altare maggiore, dove
si celebra la santa Messa, subito ci colpisce un gruppetto di persone.
Andiamo avanti; il gruppo è la sola cosa che possa interessarci
qua dentro, e non tardiamo a identificare il fatto: si tratta di un
matrimonio. Uno di quei matrimonî che debbono passare inosservati, per
un pelo non eravamo usciti di chiesa senza avvedercene; fra persone
perbene, che hanno tutte le buone ragioni per fare quel passo senza
solennità alcuna, senza il più lieve profumo di cerimonia.

Si potrebbe scommettere che le persone di quel gruppo vennero in chiesa
alla spicciolata e a piedi; infatti fuori, sulla piazzetta, nessuna
vettura attende.

Arriviamo fino alla balaustrata dell'altare maggiore per vedere le
nostre figure almeno di profilo. Sembra che non si accorgano affatto di
noi intente come sono a guardare l'altare dove il prete sta officiando.
Eppure i nostri passi hanno percosso come un martello di legno il
silenzio. Il gestante marito ad un certo punto volge cautamente la
testa per vedere chi osserva, ma si ricompone ben presto.

E giacchè ce li abbiamo sorpresi caldi caldi perchè non dobbiamo
cercare, se ci riesce, di ficcare un po' il naso nei fatti loro? Tanto
siamo a bighellonare per le strade, possiamo trattenerci qui un poco,
nessuno ci chiederà conto del tempo che avremo sciupato, non siamo noi
sfaccendati di mestiere?

Gli sposi sono in mezzo, in ginocchio; ai lati dell'inginocchiatoio due
signori in piedi; dietro, esse pure in piedi, due signore.

Anche le due signore si volgono quasi contemporaneamente dalla parte
nostra, ma non sembra che la nostra presenza dia loro troppo fastidio
e si ricompongono con molta naturalezza. I due signori ai lati sono più
duri, non si volgono affatto e non hanno punto l'aria di averne voglia.

C'è però nell'atmosfera rarefatta e stranamente profumata di questo
luogo, qualcosa che attrae sempre più la nostra indomabile curiosità.

All'entrare nella chiesa il gruppo sembrava di quattro persone e non
di sei, gli sposi, inginocchiati nel mezzo, non apparivano, e l'assieme
così stretto non saltava dapprima tanto agli occhi; se noi non avessimo
notato la loro attitudine estatica potevamo averli scambiati per uno
di quei famosi gruppetti di forestieri perduti dinanzi alle bellezze
dell'arte; è vero però che qui, di bellezze, sfido anche gli americani
di buona volontà a trovarne, ma non c'è mai da stupirsi, quella gente
è eminentemente prodiga di ammirazione artistica, e gira il mondo per
questo.

L'ora, pur non essendo fuori di regola, le otto della mattina.... ma
più il fatto di non avere attirata l'attenzione di nessuno entrando
nella chiesa. Si sa bene oramai che quando gli uomini fanno uno di
cotesti passi sul loro cammino, li circonda lo stupore di moltissima
gente, tanto che i poveretti, dispostissimi a fare con la massima
naturalezza il loro passo, vedendosi tanto osservati hanno tutta
l'illusione di mettere il piede in fallo e dare in un maledetto
ciampicone. Com'è possibile che nessuno segua il corteo di un
battesimo, e più, quello di un matrimonio al suo entrare nella casa di
Dio? Quello di un funerale? Quest'ultimo in special modo provoca lo
stupore; e considerando l'individuo avere fatti a quel certo momento
tutti i suoi passi, lo si va a salutare nè più nè meno come uno che
arriva alla stazione.

E il dover constatare che nessuno all'infuori di noi sia qua dentro ad
appagare una così lecita curiosità mi fa supporre che questa gente non
sia neanche passata per la porta. Sapete una cosa? Sono passati per la
sagrestia o per la casa del parroco.

La messa è quasi alla fine. Un fatto molto evidente che per primo ci
salta agli occhi è questo: la diversa età degli sposi. La fanciulla,
vestita di un semplice abito di panno grigio chiaro, cappello grande
di grossa paglia grigia con ali bianche, e velo rabescato dal quale
appena si intravede un visino pallido, oblungo, non può avere più di
vent'anni. L'uomo, forte, maturo, dalla faccia sanguigna, abbastanza
grossolano, capelli neri ancora per due terzi, vestito con semplice
abito blu, non può averne meno di quaranta.

A sinistra e a destra, evidentemente, i testimoni, non è facile
sbagliare. E curiosa che anche qui, benchè sia un fenomeno abbastanza
secondario, dobbiamo notare un nuovo squilibrio di età. Ma che cosa
stiamo dicendo, i testimoni sono belli di tutte le età, non debbono
mica sposarsi loro. Uno alto secco, di circa trenta anni, biondiccio,
con faccia lunga giallastra, inespressiva, miope, i capelli duri,
dritti come le setole di una spazzola, le lenti in oro che gli
annebbiano due occhi verde-grigio stagnati.

L'altro, un vecchietto rotondo, luminosamente calvo, accuratissimo,
saturo della sua posizione, con uno di quei _tait_ neri che rasentano
la cerimonia.

Le due signore dietro, una vicina ai quarantanni, figurina esile,
abbastanza signorile, ancora carina, vestita di un elegante abitino di
panno blu, cappello blu, ali rosse. L'altra, di circa sessanta, vestita
accuratamente in nero, cappello nero, ali nere.

L'effetto complessivo che ne riceviamo è questo: gente perbene. Infatti
noi non abbiamo sbagliato, e nei varî passi che siamo per citare
ci proponiamo di sostenerlo a spada tratta nel caso che taluno si
prendesse la bega di contraddirci.

Oh! se queste brave persone, sicure di essere sfuggite alla morbosa
curiosità del prossimo loro, sapessero che l'appunto noi ci siamo a
caso imbattuti nei loro interessi!

Ma chi sono? Chi sono? Ora che questa benedetta curiosità è lecita e
naturale accingiamoci ad un lavoro di identificazione. Anzi procederemo
con uno di semplificazione o di epurazione che dir vogliate, ci
libereremo del superfluo ringraziando i bravi testimonî del loro buon
servizio perchè noi non sappiamo più che farcene. Altrimenti dovremmo
occuparci del prete e del chierico, e delle beghine, e anche di quello
che tossì.

E rimaniamo allora con due sposi e due signore, o meglio, un maschio e
tre femmine.

Un maschio di quarant'anni circa, e tre femmine, una di venti,
una di quaranta e l'altra di sessanta. E anche questo sempre
approssimativamente giacchè per ora lavoriamo alla facciata.

Il maschio, ditemi un poco, volete sapere che cosa fa? Fa l'ingegnere.
È la sua professione. È lui l'ingegnere. È vero, chi poteva essere di
quelle quattro persone dacchè le altre sono tutte femmine? Un momento,
e chi vi assicurava che una di quelle tre signore non potesse essere
lei, proprio lei, l'ingegnere? Non è punto impossibile, si potrebbe
scommettere che in America, o anche solamente a Parigi, l'ingegnere
sarebbe stato lei, precisamente, un'ingegneressa. A noi non suona
ancora bene però, ci siamo abituati alla dottoressa, professoressa,
avvocatessa; ingegneressa non ci suona bene, architettessa.... perchè
l'ingegnere deve essere anche architetto.

Ma le nostre tre donne sono ancora da considerarsi come.... «attendenti
a casa». Così cantano gli atti dello stato civile.

Abbiamo già detto che il nostro eroe può avere circa quarant'anni,
ebbene, ora siamo in grado di affermare che ne ha giusti giusti
quarantacinque. Non per questa piccola differenza ci sentiremo
imbarazzati ad intraprendere con una certa rapidità il racconto della
sua vita, o meglio, a fissarne certi punti. Abbiamo detto ingegnere,
ingegnere sia, laureiamolo subito! Venticinque anni. Siamo più che a
metà delle nostre fatiche! E pensare, quanti sudori, quante lunghe ore
di tavolino, notti insonni, lotte di volontà, gli sarà costato quel
piccolo foglio di laurea; che noi gli diamo così.... su due piedi....
con tanta leggerezza! D'altra parte, nella vita di un ingegnere non
possiamo dare eccessiva importanza al tempo in cui esso costruiva i
suoi palazzi colla sabbia sulla spiaggia del mare, o colla mota, o
tanto meno al giorno in cui detto professionista spuntò il primo dente.
Noi dobbiamo considerare il suo esame di laurea come il suo primo
dente.

Appena laureato, a Pisa, il nostro giovinotto venne qui in questa città
vittorioso di un concorso che lo chiamava ingegnere municipale.

Il mio maliziosetto lettore sta per tirare ironiche somme; la storia è
alla fine, e il vostro eroe è bello e che sepolto. Non è mica vero che
facendo l'ingegnere comunale non si possano costruire bellissime cose,
come noi vedremo, un po' di pazienza, e bando all'ironia mio scaltro
amico.

Figlio di due onesti campagnoli, i campagnoli sono quasi sempre onesti,
che avevano fatto l'impossibile per far giungere a tanto il loro unico
figlio dotato da madre natura di spiccatissime spaventose qualità
numerarie, fu, dopo tanto prodigio, il prodigio finale della vittoria
di quel concorso, l'affermazione suprema: la gloria.

E d'altronde, giungere per la prima volta in una città, impiantarvi
uno studio, svelarsi, imporsi, costruirsi una clientela, costruzione
difficile anche per gli ingegneri, è cosa che fa sorridere anche te
cittadino autentico. Non era nemmeno il caso di pensare ad imprese
di questo genere. I buoni ed onesti genitori lo avevano mantenuto
facendo ogni sforzo, spremendosi fino all'ultima stilla, anzi, dovendo
attingere qualche gocciolina in prestito.

Ma il ragazzo, aveva corrisposto in una maniera inverosimile; alla fine
del mese i soldi gli erano sempre avanzati. Udite, studenti di tutti
i paesi e di tutte le facoltà, c'era una volta uno, tra voi, vi fu,
al quale i soldi del mensile avanzarono sempre, e per il quale l'anno
divenne, alle tasche del povero ma fortunato padre, di undici invece
che di dodici mesi; o voi, che non chiedereste di meglio ad un novello
Giulio Cesare, o a Numa Pompilio che ve lo rifacessero di ventiquattro!

Di questi giovani campagnoli che partono per l'università ve ne sono
che si gettano di sfascio, con tutta la forza della loro verginità, in
braccio all'ozio e ai vizi, e allora l'università, il tempio, diviene
l'ultima spelonca dei loro pensieri. Ma ve ne sono, pochi invero,
che appena voltisi attorno, fiutata la via, si isolano paurosamente,
diffidenti di ogni cosa, di ogni persona, seguono le lezioni come
cronometri, e se ne vanno a casa ratti, a testa bassa, per sfuggire
al sorriso dei burloni vagabondi. Saranno spesso dei poveri esseri
mediocri, questi, dei rustici, degli sgobboni; la loro volontà, la
loro forza d'animo, li faranno alla fine mirare assai più vicino al
proprio naso di che non possa guardare attraverso il fumo della propria
sigaretta l'ultimo dei fannulloni; ma quante lacrime essi risparmiano
agli occhi della loro madre lontana, quanti dolori al cuore del loro
padre che si va di giorno in giorno disperatamente sfiduciando sul
conto del proprio figliolo, e le più dolci e rosee illusioni, si vede
cadere da dosso desolatamente e si sente rimanere solo e ignudo ai
rigori del prossimo inverno.

Ma che cosa vado contando? Non sono le lacrime in apposite sacche
dentro i nostri occhi, che cosa ci stanno a fare? E il freddo non è
la salute dell'uomo? Gli accresce l'appetito e gli rassoda le carni,
e pare uccida anche un'infinità di bacilli, non escluso il bacillo
virgola.

Il nostro ingegnere, a dire la santa verità, era proprio nato
ingegnere, ma il padre, al solito, ne aveva sognato un avvocato. Uno di
quegli avvocati che vengono fatti cavalieri, commendatori, deputati....
del loro paese.... che quando arrivano le autorità vanno a salutarli
fino al treno, a prenderli colla banda, che si trattengono brevemente,
al più un giorno, nel quale debbono sbrigare migliaia di faccende,
udire migliaia di persone, pronunziare almeno tre o quattro discorsi.
Poi gli applausi.... lo stupore universale.... il banchetto, la
banda, le autorità e un'altra volta al treno! Cose da pazzi! Sogni che
facevano girare la testa a quel galantuomo, e i quali tanti sacrifizi
aveva fatti sotto forma di risparmio. Ma di fronte alle attitudini
indiscutibili del figlio.... Non era poi tipo da far l'avvocato....
parlava poco.... male.... timido.... onesto, con una fila di scrupoli,
arrossiva per nulla.... Notate bene, non vi sembra che quel campagnolo
lo volesse direttamente assassinare? Ma fu abbastanza ragionevole e lo
prese ingegnere. Non che ingegnere non sia una bella, bellissima cosa,
magnifica, mah!... Oh Dio.... sono sempre su per i ponti.... sulle
fabbriche.... fra i muratori, gli sterratori, gl'imbianchini, colle
scarpe impolverate, le mani anche.... C'è in tutto questo ancora troppa
terra per formare l'ideale d'un campagnolo ambizioso; egli non spiccava
il volo così alto sui poveri ignorantoni dei paesani che lasciava. Il
padre avrebbe voluto un mestiere per il quale tutti avessero dovuto
inginocchiarsi davanti al suo figliolo.

                                   *
                                  * *

A venticinque anni, risultato idoneo all'esame, entrò ingegnere civile
nel nostro municipio con uno stipendio di lire duecentocinquanta
mensili e che avrebbero potuto giungere alla fine della carriera fino a
cinquecento. Cifra molto rispettabile specialmente presso il suo paese
dove con cinquecento lire si pagavano tutti gl'impiegati del comune
messi insieme.

Per prima cosa bisognava trovarsi un alloggio, una camera in luogo
quieto pulito, presso una buona famiglia. L'ingegnere girovagò prima,
poi pensò meglio di rivolgersi ad un commissionario, di quelli che
lustrano anche le scarpe, e al quale spiegò come e in quali pressi
intendeva sistemarsi. Quel commissionario assicurato sul conto del suo
tipo, gli seppe fornire un indirizzo davvero eccellente. Una signora
con la figlia, vedova di un impiegato governativo, persone distinte,
che davano via una stanza per ricavare parte della pigione troppo
gravosa per le novanta lire mensili di pensione colle quali dovevano
vivere.

Il signor ingegnere fu ricevuto con tutto il rispetto, la vedova capì
subito che era una brava e buona creatura e gli prodigò le più cordiali
accoglienze. La casa, per la sua ristrettezza, esigeva la massima
familiarità fra quelle persone: tre stanze e la cucina. La stanza
d'ingresso, discretamente arredata, e tenuta con proprietà, serviva da
stanza da pranzo, da lavoro, da ricevimento. In fondo era la porta del
dozzinante, a sinistra quella della camera delle due signore, quella
della cucina, e un'altra porticina più piccina accanto, avete capito?
Questa era la casa.

Quando l'ingegnere, dopo essere stato per la prima volta in un caffè
pieno di luci e di splendori, la sera, alle dieci si ritirò, nella
stanza d'ingresso, attorno alla tavola erano tre persone. La giovine
seduta vicino ad un giovanotto bruno di ventiquattro o venticinque
anni; la madre in fronte eseguiva un lavoro d'ago.

Superate le prime incertezze furono fatti i convenevoli, e il
dozzinante venne dalla padrona di casa presentato con deferenza al
futuro sposo di sua figlia Margherita.

Il nostro giovine però si trovò imbarazzato, non era punto avvezzo alla
società, la stanza, la famiglia, tutto andava bene, ma dover passare
per quel salotto dove quelle signore stavano tutto il santo giorno, e
per di più la sera con quel terzo incomodo.... Quando glie l'avevano
fatta vedere, la camera, non glie l'avevano mica detto che quella
stanza d'ingresso lì, rappresentava un'infinità di altre stanze....

La sera dopo provò a rincasare più tardi, alle dieci e mezza. Quando
fu sotto guardò prima, inutile, il salotto era illuminato, bisognava
affrontare il saluto. Salì preparandosi ai convenevoli, cercò di aprire
l'uscio ed entrare con disinvoltura: le tre persone erano lì come non
si fossero mosse dalla sera avanti. Figlia, fidanzato, madre, tutti
allo stesso posto. Sotto la luce verdastra nobilitata dalla gonnella
d'un modesto lume a petrolio, se ne stavano in silenzio come spettri.
Si alzarono tutti, salutarono, si risederono.

L'ingegnere rimase desto, potè constatare che il fidanzato non se ne
andava che alle undici e mezza. Non c'era niente da fare, bisognava
abituar la faccia a quel saluto, o cercarsi un'altra camera. Salutare
tutte le sere, e anche tutti i giorni, insomma tutte le volte che
fosse venuto a casa. — E se una sera dovessi andare un momento di là? —
Pensava. Siccome però c'era in lui la stoffa dell'uomo che si abitua,
c'era a pezze intere, a magazzini pieni, ci si abituò, e si abituò
anche a fare ogni sera quattro chiacchiere, le solite, il tempo.... il
comune... le sue fatiche.... le preghiere della vedova per qualunque
cosa potesse occorrergli, che non facesse un complimento al mondo, che
non si riguardasse di nulla e facesse conto d'essere in casa sua.

— Ma si accomodi....

— Grazie.

— Un momento.

— Grazie. — Il fidanzamento, a quando le nozze, i lavori che le signore
avevano per mano, che erano naturalmente del corredo della figlia.

— Un momento soltanto.

— Grazie. — E non si accomodava mai.

E spogliandosi per andare a letto, sorridente e rubicondo, sodisfatto
della sua giornata, sodisfatto di sentirsi oramai lì come in casa
sua, sodisfatto dei suoi progressi di uomo di società, ripensava al
terzetto. — Gente perbene, molto perbene! Che fortuna avere incontrato
così subito, in una città grande, dove è tanto difficile imbattersi
in brava gente. Anche quel facchino, che galantuomo! Rimaner vedova
così giovane.... Poveretta.... Abituata bene.... ritrovarsi in
strettezze.... E come sanno mascherare bene il loro piccolo, con che
dignità! Chi sa quali sacrifizi dovranno fare.... Chi sa come mangiano
poco per potersi vestire con decoro... Anche il fidanzato sembra
tanto perbene, Antonio, bel nome.... bravo giovane.... Impiegato
ferroviario.... Oh! farà strada! La ragazza è molto carina, un po'
pallida.... La madre invece no, è bene in carne è una bella donna, e
non è punto vecchia.... che potrà avere? Trentasei o trentasette anni?
Li porta bene per Dio! È ancora una bella donna! Gentile, distinta....
ha dei begli occhi neri.... mi voleva dare anche l'acqua calda!...
Davvero che se avessi la disgrazia di ammalarmi qui non mi troverei
in pensiero, mi sembrerebbe d'essere in casa mia, son sicuro che non
mi lascerebbero un momento solo, che mi assisterebbero come fossi un
loro parente. E già in camicia, — si guardava nello specchio. Oh! Non
c'erano di quei pericoli per il momento! Poteva campar tranquillo,
aveva una faccia da crepar di salute.

                                   *
                                  * *

Una sera finalmente, dopo due mesi, l'ingegnere si accomodò. E si
accomodò poi tutte le sere. E i quattro incominciarono ad impegnare
vivaci e allegre conversazioni; e invece che alle dieci incominciò
a ritornare alle nove e mezza eppoi alle nove. Arrivava quasi sempre
contemporaneamente al fidanzato, spesso s'incontravano alla porta di
casa. Avevano messo su un accanito quartetto di scopone. La signorina
col suo futuro sposo, la vedova coll'ingegnere. E questi incominciò con
una bottiglia di Marsala, poi dei dolci.... Sul principio portava cose
di un ordine un po' scadente, ma senza che lui se ne fosse accorto, lo
avevano poco alla volta stradato nelle migliori ditte di quei generi,
e passando sopra al prezzo, si chiamava felice di farsene onore e di
riscuotere i complimenti della figlia e della madre.

Le serate passavano gaiamente, tutti e quattro allegri e contenti
giuocavano, ciarlavano, mangiavano e bevevano, giungendo fino a
toccare la mezzanotte. La casa pareva rianimata. Erano ormai tutta
una famiglia, quattro persone che si volevano bene, che si erano
simpatiche, che formavano un tutto invidiabilissimo.

Quando, un anno da questi tempi, la figlia, anzi, Margherita, si
fu sposata e partì per un paese della Calabria dove il suo Antonio
era stato destinato per far carriera, all'ingegnere balenò per la
buona, dolcissima anima, l'idea d'impalmare quella vedova, perchè
non avesse più a portare il luttuoso nome, e perchè in fondo, questo
bravo giovanotto amava le situazioni chiare come la luce del sole. Il
matrimonio dei giovani lo aveva messo in ottime disposizioni, ma la
donna che pure ne sarebbe stata felice, non aveva osato sperarlo.

Poi calcolò freddamente. Perchè questo eccesso di zelo? Le faccende non
erano chiare ugualmente? Incominciava a divenir cittadino davvero. I
quattordici anni di differenza.... tutto compreso, e tenuto conto che
nulla sarebbe cambiato ed avrebbe conservata tutta la sua libertà tirò
avanti, e lasciò ogni cosa al suo posto, nella casetta dove ora i due
vivevano lieti.

La donna fece il possibile per indurlo a mangiare in casa, con lei, gli
avrebbe preparato la mensa secondo i suoi gusti, ogni suo desiderio
sarebbe stato scrupolosamente sodisfatto. Perchè ostinarsi ad andare
alla trattoria dove tutto è falso e malsano, quando si poteva mangiare
così bene e così igienicamente in casa propria? Ecco perchè: per due
ragioni la brava vedova non potè giungere al suo scopo: prima, perchè
sembrava all'ingegnere che una volta accettata la vita in comune ci
volesse ad ogni costo quel benedetto pezzo di carta bollata, seconda,
perchè come noi sappiamo già, era uomo talmente abitudinario da
sentirsi una stretta al cuore a dover fare un bel giorno un'altra
strada per andare a mangiare.

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                                  * *

Mentre qui le cose andavano così benino, tutto camminava in santa
pace e beatitudine, laggiù nelle irsute Calabrie, tutto andava a
rifascio. Antonio, quel caro, quel bravo, il buono, il timido Antonio,
era divenuto ad un tratto un mascalzone; così, come due e due fanno
quattro. Faceva soffrire pene d'inferno alla povera Margherita, glie
ne faceva di tutti i colori e viveva maledicendo il momento di averla
sposata, imprecando contro di lei, contro la madre, contro la Calabria,
contro sua figlia, la piccola Vera, perchè bisogna sapere che dopo nove
mesi di matrimonio la Margherita aveva puntualmente dato alla luce una
bella bambina.

Era diventato un altro uomo, scriveva la Margherita, irriconoscibile,
la lasciava di notte e di giorno, giuocava, si ubriacava, la picchiava
anche nel tempo che aveva la creatura al petto.

Erano trascorsi appena due anni, quando la Margherita, pallida, magra,
sofferente, ritornò nelle braccia di sua madre avendo lei nelle sue
la piccola Vera. Il bello, il bravo, il timido Antonio aveva piantato
baracca e burattini, se n'era andato per conto suo, chi sa come chi sa
dove.

L'infelice sposina fu ricevuta nella sua casa con grande pietà ed
amore, sia dalla madre come dall'ingegnere. La faccia serena di
quest'uomo non si alterò, fece tutto quello che gli era possibile per
alleviare le pene delle due donne, e vi riuscì. Le conduceva a spasso,
a teatro, portava loro dolci, fiori, doni alla piccola Vera. Aveva
sborsato, a titolo d'imprestito, tutto ciò che possedeva dei suoi
risparmi. Si era comportato insomma più che da galantuomo da angelo
custode. Siccome però la piccina non sempre si poteva condurla, e sola
non si poteva lasciare, la nonna chinò la testa e incominciò il suo
sacrifizio, se ne rimaneva tranquilla e rassegnata colla sua bella
nipotina.

L'ingegnere e Margherita andavano oramai sempre insieme, per svagarsi,
per distrarsi, per dimenticare. Infatti la sposina infelice incominciò
veramente a dimenticare i due orribili anni della sua vita, l'orribile
delusione, la tragica fine del suo amore.

Al calore di tanto affetto vero che la circondava, incominciò a
riprendere, si rifaceva carina, ingrassava, si coloriva, ritornava
gaia, tanto tanto carina, nella sua buona casa colla sua amata
creatura. Solamente che quando pronunziava la parola Calabria le sue
labbra avevano ancora un fremito febbrile.

                                   *
                                  * *

Fu per virtù della Margherita che un giorno, il tanto atteso e non più
sperato familiare miracolo si operò fra quelle mura domestiche alle ore
dodici e un quarto.

La tavola fu circondata da quattro persone. L'ingegnere sedeva fra il
seggiolotto della piccola Vera e la Margherita, la nonna gli era seduta
di fronte.

Si pensò subito di cambiar casa per liberarsi da quelle strettezze e
se ne trovò una di cinque belle stanze e la cucina. Sala da pranzo e
salotto da ricevere; la camera dell'ingegnere, accanto c'era quella
della Margherita, che davano tutte e due sulla strada, la nonna e la
Verina dormivano insieme in un'altra che dava sul giardino.

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                                  * *

Quante volte l'ingegnere pensò di fare della Margherita la sua cara
e legittima sposa! Ma dove pescare quel demonio di marito? E come
imbastire un divorzio? Si sarebbe prestato il mascalzone? Dove era? Lo
si credeva in America, ma chi sa? È un'abitudine inveterata di pensare
a quel benedetto paese tutte le volte che un farabutto se ne va. Che
cattiva nube fra i due buoni esseri!

E il tempo passava e questa spina si conficcava sempre più nel cuore
dell'uomo ora maturo. Egli voleva avere una moglie, una moglie da far
vedere a tutti, ai suoi colleghi, agli amici, una donna che portasse il
suo nome, un essere adorato che potesse vivere con lui senza dover mai
mentire in nessuna ora e con nessuno.

E invece il tempo, incalzando, rendeva la menzogna sempre più grande,
sempre più indispensabile. La Vera, la piccina cresceva, era una
giovinetta ora, e minacciava di farsi un amore di ragazza.

Uscendo con queste due donne sentiva il bisogno di gridarlo per le
vie, a tutti, a chi non lo voleva sapere, che se quella non era la sua
legittima moglie la colpa non era sua, che lui non avrebbe domandato
di più e di meglio al creatore del cielo e della terra, che fosse sua,
sua proprio, a voce e per iscritto; e che per la fanciulla non sarebbe
stato no, un patrigno, ma il più tenero, il più amoroso padre che
fanciulla abbia mai avuto sotto la cappa del cielo.

E il tempo passava e l'uomo sereno si oscurò, la sua posizione sociale
gli era divenuta una fissazione. Il semplice e buon campagnolo non
poteva rassegnarsi a dover tanto amare per tutta la vita senza poter
contare una moglie al suo attivo, e una buona raccolta di figlioli.

Faceva lunghe passeggiate con la Vera la domenica, e sfogava con la
giovinetta il suo malumore, la sua malinconia indefinita, senza ch'ella
potesse imaginare la vera causa che l'alimentava.

Quel pezzo di diavolo grasso e rosso così triste, così sconfortato la
faceva di sovente dare in lacrime, e allora le lacrime di lui andavano
ad unirsi alle sue e fondevano insieme la loro tristezza. La fanciulla
era di natura malinconica sentimentale, egli lo era transitoriamente,
e le forniva un appoggio un ricovero sicuro, e a lui si stringeva
sempre di più. Lo chiamava signor ingegnere come lo aveva sempre udito
chiamare in casa, dalla nonna e dalla madre, ma provava per lui un
abbandono dolce, un benessere nel socchiudere gli occhi su quelle
solide spalle e su quel ben costrutto torace.

Egli osava talora fissare i suoi occhi in quelli della fanciulla e
si sentiva tremare le gambe mentre le guance di lei si cuoprivano di
un candido rossore. Incominciava a dubitare di sè, si sentiva tutto
agitato, come smarrisse la ragione, la rettitudine, non sapeva più se
fuggirla o stringersela disperatamente quella pallida e dolce creatura.
Ma oltre questa adunazione di nuvolaglia, oltre questa fuggente
tempesta, c'era il sereno per tutti e due, e malgrado i brontolii cupi
di tutti i tuoni, e le minacce metalliche più acuminate di tutte le
folgori, essi guardavano tranquilli un punto luminoso.

                                   *
                                  * *

È una cosa tanto logica e semplice! Eppure, agli occhi di chi non
abbia come noi veduto chiaro qua dentro, può sembrare complicata e
illogicissima. Ma dopo aver chiarito, tutto è chiaro! Non è vero? E
non era già chiaro di suo? Vi stupite forse di vedere lì, inginocchiati
dinanzi a quell'altare l'ingegnere e la bella e malinconica Vera? Con
dietro, composte e indifferenti, la Margherita e sua madre? E con ai
lati quei due signori che senza dubbio debbono essere le persone più
specchiate, più rette che possa vantare il nostro municipio?

Eppure, se bene ti ricordi, mio difficile lettore, l'ingegnere avrebbe
sposata, e a occhi chiusi, la Margherita, senza pensarci sopra un
minuto, con tutto lo slancio della sua anima buona e generosa. Che
colpa ne ha avuta se proprio non l'ha potuto fare? Se fra le loro
due bontà c'era di mezzo il male sotto forma di marito che li ha
irreparabilmente separati? Non solo, ma non gli era balenata per la
testa l'idea di sposare anche la madre, la nonna? Sissignori, quando
fu sposa la Margherita, se quella donna avesse voluto, lui l'avrebbe
fatto, con tutto il cuore e con tutta l'anima.

Noi dunque, nella nostra conclusione, non possiamo che, tutt'al
più, permetterci questa domanda, guardando il gruppetto ai piedi di
quell'altare, nella chiesuccia dove per caso capitammo stamattina:
che cosa penserà in questo momento la signora di sessantanni vestita
accuratamente di nero, cappello nero, ali nere? E quella di quaranta,
in elegante abitino di panno blu, cappello blu, ali rosse? E cosa
infine la tenera colomba di venti in grigio perla, cappello di grossa
paglia grigia, ali bianche? Ecco dove con tutta la nostra capacità
nemmeno noi possiamo arrivare.

A proposito, e l'ingegnere? L'ingegnere.... noi lo abbiamo visto
finalmente costruire qualche cosa: una solida barriera per la quarta
generazione.



L'ANGELO


_Oh!... oh!... mie.... Angelo!_ — In una vestaglia bianca di lino,
specie di lunga camicia, l'americana piagnucolava a scatti certi suoi
singhiozzini gutturali: — _Oh!... Oh!..._ — e diceva di tanto in tanto
frasi sconnesse, con un'intonazione alta in testa, sgradevolissima. I
suoi quattro capelli grigi, tirati fin sulla punta della testa peracea,
e stretti fanciullescamente con un nastrino, si ritorcevano in giù a
fontanina. Gli occhi bianchi, inespressivi, erano quasi completamente
fuori delle orbite. Aveva in una mano un fazzoletto, nell'altra uno
specchio ovale da _toilette_. Per la camera si espandeva palpitante la
luce delle candele di due candelabri posti ai lati del letto; attorno
ad esso erano, colla vecchia zittella, tre delle sue donne, mute,
gelide, incapaci di un gesto, di un sorriso consolatore, attendevano
pietrificate nella notte fatale.

Sopra il letto giaceva.... come una piccola foca di cioccolata
acquattata sui cuscini, inerte, dall'aspetto floscio, gonfio.

L'americana continuava i suoi vaneggiamenti. — _È foenita! Ah!...
È foenita!... Mie angelo! Mie vita!_ — Passò due o tre volte
il fazzoletto sopra lo specchio, e cogli occhi che sembravano
definitivamente vomitati dalle orbite lo sottopose alla bocca della
bestia e attese, nel freddo sepolcrale dell'istante, in una tensione
folle. Il cristallo appena appena si velò, la coda irrigidita della
bestia subì un'oscillazione impercettibile; l'americana emise a fila
tre o quattro di quei suoi singhiozzini sospiro, poi tacque.

La porta della camera fu aperta, un'altra donna entrò ed introdusse con
grande cautela un vecchio prete: egli ansava, e si sforzava di tacere
il suo ansito che nel silenzio di quella stanza si sentiva troppo.
La chiamata notturna dell'americana lo aveva messo tutto sottosopra,
infin Drusilla, la serva, che contro le chiamate di notte nutriva un
odio feroce, implacabile, quando sentì trattarsi di Miss Globe, cambiò
subito tono, corse difilato a fare alzare il prete, e quel torrente di
parole non seppe versare che a fiotti un monosillabo: — su.... su...
su.... su.... — intanto che lo aiutava ad infilarsi le brache.

Miss Globe era stata negli ultimi tempi la sola ed ultima benefattrice
della sganasciatissima parrocchia di quel povero villaggio, senza
di lei parroco e serva sarebbero andati qualche volta a letto senza
cena. Miss Globe aveva fornito il denaro per raccomodare il tetto
della chiesa e della casa del prete quando una famosa bufera li aveva
scoperchiati, lei aveva fatte riverniciare le panche ridotte in uno
stato compassionevole, e quattro ne aveva donate nuove, bastava insomma
ricorrere a lei per avere soccorso. Quando Don Pasquale andava per la
benedizione annua della villa la vecchia zittella lasciava affondare
di sua mano nella secchia dell'acqua santa un grosso pesce giallo, un
pezzo d'oro da cento lire, e accompagnava il gesto con monosillabi e
sorrisi di altezzosa noncuranza. Perchè poi quel bel pesciolino giallo
lucente non si trovasse a disagio o si dovesse insudiciare fra gli
oscuri compagni, Don Pasquale appena fuori dal cancello lo ripescava
bravamente con due dita e strofinatoselo alla tonaca se lo metteva in
tasca. Ecco perchè Drusilla non inveì contro i notturni disturbatori.
«Ci dovete pensare prima di buio quando avete qualcuno che deve morire,
non si aspetta all'ultimo momento! Ignorantoni! Il prete è troppo
vecchio, eppoi non meritate nulla!» Ecco perchè Don Pasquale arrivò col
fiatone, aveva fatta la salita a passo di corsa, gli sembrava d'esser
diventato un bersagliere. Ora era anch'egli ai piedi di quel letto e
non capiva nulla; Miss Globe non sembrava essersi accorta della sua
presenza, le quattro donne fissavano il bassotto morente con occhi e
lagrime vetrificati.... — Ma che cosa vogliono dunque? — Pensava il
parroco — Perchè mi hanno chiamato? Chi ha bisogno di me?... — A questo
punto gli balenò il sospetto — Non sarà mica.... per quello? — e i suoi
occhi rimasero affondati nella schiena gonfia e lucida del cane.

_Iere stava bene. Mie.... Tony! Ah!... Deciotto anne! Signor
Preore!_... — Don Pasquale si riscosse, ella si accorta della sua
presenza. — _È foenita! Signor Preore! Ah!... Onne domeneca mie
Tony.... ascoltare sua messa.... Signor Preore.... ah!... tutto
el tempo engenocchiato.... Pregare.... pregare per mie.... angelo!
Benedire!... Benedire!... È foenita!_... — Il vecchio parroco strizzò
forte le palpebre per accertarsi di essere desto. Dove era? Era proprio
sicuro di non sognare? — _Benedire!_ — Gridò l'americana volgendosi
finalmente verso di lui e mirandolo coi due occhi che sembravano
partire come proiettili. Le cinque donne caddero inginocchiate d'un
colpo, il vecchio prete non sapendo più come cavarsela, istupidito dal
caso, alzò la destra tremolante, segnò in aria una.... serpolina....
qualche cosa che potesse rassomigliare ad una croce ma che non lo
fosse, per amor di Dio! Che non lo fosse!

                                   *
                                  * *

Don Pasquale rientrando in casa a notte tarda usò ogni cautela per
non destare Drusilla, ma non vi riuscì, appena a caposcala la serva lo
chiamò, lo richiamò, domandò insistè: — ssss.... — fece due o tre volte
il prete, e spazientito andò difilato nella sua camera. — Che cosa
doveva raccontare? Di dove doveva incominciare? Quella donna era capace
di far nascere un putiferio — Non era però ancora entrato nel letto
che un'ombra bianca si fece alla sua porta: Drusilla in camicia. Ce ne
volle per rimandarla senza spiegazioni, e se ne andò con tale nodo di
rabbia alla gola che per tutta la notte borbottò ad altissima voce.

                                   *
                                  * *

All'alba fu lasciato alla parrocchia un biglietto urgentissimo da parte
di Miss Globe. Don Pasquale lo lesse, lo malmenò, girò su e giù per la
stanza, poi risoluto uscì gesticolando. Rincasò che erano suonate le
otto, e alle sette doveva dire la messa, era cupo inquieto. Drusilla,
muta, sibillina, seguiva ogni passo ogni gesto con piglio di minaccia,
come un Dio offeso terribile nella sua vendetta. Era la prima volta che
la fede aveva un mistero per lei.

                                   *
                                  * *

Alle undici la serva apparve con un nuovo biglietto. Il parroco seduto
al tavolo, fisso pensava, la donna entrò come caricata, quando fu nel
mezzo della stanza gettò la busta al prete con tale violenza che questa
andò a battergli sul nicchio e ruzzolò dipoi sotto la tavola. Girando
quindi sui tacchi, come un automa, Drusilla era per uscire.

— Drusilla! Drusilla! Gridò alla fine il prete serrandosi la testa fra
le mani — Drusilla!

— Ma che c'è? Si può sapere? Che c'è, vecchio scimunito?

— Senti però, senti, se parli t'ammazzo! Drusilla, t'ammazzo! T'affogo
nel pozzo!

— Ma parli giuraddio!

— Drusilla.... senti, ieri sera.... lassù....

— Sì.

— Lassù.... dall'americana...

— Sì! Sì!

— Dall'americana....

— Sì! Ho capito!

— Mi hanno chiamato....

— Lo so che l'hanno chiamato, dica!

— Sai per chi mi hanno chiamato?

— Per chi?

— Se ciarli t'affogo però....

— Uh! Mamma mia!

— M'hanno chiamato....

— Per pinco!

— Per il cane!

— Eh?... Il cane?

— Quel canaccio color tabacco, colle gambe rotte, è morto.

— La salamandra?

— E volevano che facessi con lui come coi cristiani, gli voglion fare
il funerale capisci? Portarlo in chiesa.

— La salamandra?

— Sì!

— Ma lei cosa gli ha risposto?

— Che non sono matto come loro, che non lo faccio, nemmeno se mi
ricuoprissero d'oro; hai capito Drusilla? E dire che l'ho mezzo
benedetto! È matta! È matta!... — Il vecchio tacque sprofondato nel
suo rammarico. Drusilla, che alla parola oro aveva dato uno scossone
istintivo, rimase un po' pensosa, poi andò a cercare la busta sotto la
tavola, inforcò gli occhiali, e con grandi movimenti delle labbra lesse
il biglietto dell'americana la quale si serviva di chiave americana
per forzare la serratura. «_Se fare funerale dare voi subito lire
diecimila. Jennet Globe_». Drusilla compitò prima la cifra poi gridò: —
diecimila lire? — Alzò in aria un grugno porcino come per acclimatarsi
in quell'atmosfera aurea, e siccome il prete taceva — Ohe! È sordo?
Diecimila lire!

— E che vuol dire?

— Diecimila lire: — ripetè la serva ninnolando le sillabe come fossero
monete — Se glie ne chiedessimo ventimila — pensava....

— Ma Drusilla! — Gridò il vecchio, non comprendendo il suo giro d'idee
— Drusilla?... Che pensi?... Drusilla! Un cane!

— Diecimila lire? — Ripeteva la donna ancora così estranea a quel suolo.

— Un cane! — gridò il parroco.

— Un cane! — Gridò la serva.

— Ma se si scopre?

— Avremo diecimila lire, ce le faremo dare avanti.

— Ma il vescovo!

— Per diecimila lire lo porterebbe anche il vescovo!

— Zitta! Zitta! È il demonio questo!

— È la provvidenza divina! Ma non lo vede vecchio balordo che si muore
di fame? Non s'ha olio nè per il sacro nè pel profano, se ci guastiamo
con quest'americana siamo belli e buggerati! Ci lascian crepare di
fame, e ci ridon dietro! Non ne vuol più sapere nessuno del prete, non
l'ha capita lei? E questa matta ci può far ricchi — chiediamogliene
ventimila — pensava, ma non osò. — Vado io dall'americana!

— Drusilla t'ammazzo!

— Questo cane è la provvidenza! È il cielo che ce lo manda, è il nostro
Signore che viene a sollevarci da questa po' po' di miseria! E lei
lo vuol calciare? Povero baggiano starà fresco! — La serva ora quasi
piangeva pel dolore di non poter convincere.

— Ma Drusilla, Drusilla, diceva il prete dolcemente per pacificarla,
Drusilla tu mi fai paura, pensa, un cane....

— Nossignore non è un cane non può essere.

— Ma ti pare che ci possa entrare il cielo con un cane? Tu sei ispirata
dal demonio in questo momento.

— Io non mi meraviglierei che venisse in forma di scarpione!

— Ma si scopre capisci, si scopre, sono sicuro, e ci capiterà di
peggio, ci manderanno via come cani rognosi.

— Ma avremo diecimila lire! Eppoi.... eppoi l'americana ch'ha fatta far
la buggerata, lei ci penserà! Quella matta ci può far ricchi, legheremo
il collare al fico! Vado io dall'americana!

— Fermati sai, brutta stregaccia!

— E allora vada lei, tincone!

— Senti Drusilla.... senti, dice che quella bestiola veniva alla mia
messa tutte le domeniche....

— Sicuro, ce l'ho vista le mille volte.

— Sì.... senti.... e dice che stava tutto il tempo della messa....
inginocchiato.

— Ha capito? Ha capito? Vada! Vada, giuraddio, vada!

                                   *
                                  * *

All'Ave Maria, quella sera, suonarono lungamente le campane a morto
— Un angelo! Un angelo! — correva su tutte le bocche — Un bimbo
venuto dall'America morto ad un tratto nella villa di Miss Globe — I
funerali, indetti per la sera dopo, sarebbero stati magnifici, come si
conveniva a un gran signore di quella specie. Cose mai viste. In poco
il villaggio fu pieno di questa notizia. Nella circostanza l'americana
gettava oro a palate, come il granoturco, tutti dovevano beccare. Le
regalìe furono stabilite in un'interminabile seduta che Miss Globe ebbe
con Don Pasquale.

Lire 500 alla banda paesana per il suo concorso, Lire 100 a ciascun
parroco che dai paesi vicini fosse intervenuto. Lire 100 a ciascuna
delle quattro fanciulle che a spalla avrebbero portata la baricella
coll'angelo. Lire 50 al crocifero e 25 ciascuno ai due portalanterna.
(Impubblicata rimase sempre la ricompensa per Don Pasquale). Ai
fanciulli sotto i sette anni che fossero intervenuti vestiti da angelo
Lire 10, Lire 5 finalmente a chiunque altro avesse seguito il funerale.

Avanti l'alba del gran giorno Don Pasquale partì, con una diligenza,
per la città, fece acquisti di parati, di torce torcetti candele
candelieri, infine una campana che nel campanile da più di dieci anni
mancava per fare il doppio. Miss Globe pagava. Drusilla era per le
furie. Come dovevano essere le ali degli angioli, come dovevano andar
vestite le vecchie, le spose, le giovani.... ma sopratutto le ali degli
angioli — Sotto i sette anni! — Gridava la serva con l'indice in aria
quasi fosse un articolo della legge — Sotto i sette anni! — Le ali,
le ali, domandavano tutti: — Figli di cani quanti ce n'avete di questi
angioli?

                                   *
                                  * *

_Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun bun.... Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun
bun...._

Dopo la banda paesana, a quattro o cinque passi di distanza
incominciava il funerale. Don Pasquale, primo, camminava un po' a
stento, il vecchio parroco era forse stanco dalle tante fatiche della
giornata. Dietro di lui salmodiavano sei preti venuti dai paesi vicini.
(Relativamente vicini perchè uno di essi aveva fatto a piedi trenta
chilometri di scorciatoie per intervenire). Poi la piccola bara dorata
dove in un prezioso cofano d'argento era stato deposto l'angelo,
veniva portata a spalla da quattro fanciulle vestite e velate di
bianco, e dietro uno sciame d'angeli di tutte le qualità, di tutte le
misure, di tutti i colori, in velo celeste, bianco, rosso, con cintura
ali e corona di carta dorata come piccoli diavoli e diavolesse, in
giallo, in verde, con un semplice grembiale, alla marinara, ma sempre
angioli colle ali, angioletti angiolini.... angioloni. Se ne vedevano
di quindici o sedici anni con due alette dietro e via. Cacione, un
brindellone di venticinque anni arrancava dietro idiotescamente con
due alucce di foglio, una in forma di cuore, l'altra di pera. Madri
che portavano l'angelo in collo, e lo tenevano voltato dalla parte
delle ali, ad uno appena nato le ali erano state messe davanti e gli
ciondolavano dal collo. Seguivano i fanciulli e le fanciulle della
prima comunione, quei pochi che non erano stati inclusi nella categoria
angeli. Le figlie di Maria cantavano.... stonavano per conto loro. Poi
le spose, le vecchie, e ultimi gli uomini. C'erano dei ciechi menati
per la mano, e due donne che portavano sopra una sedia un vecchio
paralitico. In ultimo, due grandi vetture nere a due cavalli: nella
prima Miss Globe sola, estatica nel suo dolore, nella seconda le sue
quattro donne.

E questo funerale percorreva la via deserta del villaggio, non uno
era sulla strada a vederlo passare, tutto quel popolo era diventato
funerale. Chiuse le botteghe le case le finestre, non uno era rimasto;
una sola persona non si era mossa: Drusilla. Vegliava sugli eventi,
ferma al suo posto, pronta a tutto, a chiunque si fosse presentato,
preparava frasi per averle sulla punta della lingua al momento del
bisogno, e girando su e giù per l'andito fra la chiesa e la sagrestia,
borbottava, gestiva, si fermava, si puntava, si lanciava. — Quel
buon uomo è stato ingannato! È un povero baggiano, non ha colpa!
Quell'americana è matta da legare! L'hanno gabbato, siamo innocenti! —
Eppoi cambiando tono — Meglio un cane cristiano che un cristiano cane!
Porci! Porci! — Ma mentre per la bianca via provinciale si dilungava
nel bel tramonto d'autunno l'allegro funerale, la serva in fondo in
fondo carezzava un vecchio sogno. Le diecimila lire dell'americana
sarebbero bastate al suo progetto nel peggiore dei casi. E si vedeva
già in una piccola fiaschetteria della città, fra persone civili, i
soliti frequentatori.... essere chiamata.... padrona.... signora....
fare un po' di buona cucina, come la sapeva far lei quando non le
mancava il necessario, guadagnare, vivere agiatamente.... essere
ritenuta donna piena di quattrini.... E vedeva già il vecchio, non
più prete, tutto il giorno a fare la sua partita nel retrobottega coi
migliori assidui.... oh! egli non doveva pensare ad altro, lei avrebbe
saputo da sola far prosperare l'esercizio....

    _De profundis clamavi, ad te, Domine: Domine, exaudi vocem meam._
    _Requiem aeternam dona ei, Domine._
    _Et lux perpetua luceat ei._
    _Pater noster._

Don Pasquale sudava, sudava.... gli scendevano giù dei goccioloni
freddi, e sentiva un liquido gelido colargli nella midolla spinale;
le spalle gli pesavano come se piedi giganteschi vi premessero per
acquattarlo e schiacciarlo al suolo nell'ora suprema del sacrilegio.

    _Dies illa, dies irae...._

Aveva fatto il lungo percorso senza capire, senza vedere, ora nella
chiesa, dinanzi al suo altare diceva senza udirsi più. Al letto del
moribondo aveva segnato una croce che non era una croce, ma ora diceva,
doveva realmente dire le parole dei salmi, era in faccia a tutto il suo
popolo.

    _Requiem aeternam dona ei, Domine._
    _Et lux perpetua luceat ei._
    _A porta inferi_
    _Erue, domine, animam ejus._
    _Requiescat in pace._
    _Amen._
    _Domine exaudi orationem meam._
    _Et clamor meus ad te veniat._

Affranto, con mano tremante, senza vedere più, senza sentire
più, incensò benedisse. Le centinaia di lumi che irradiavano così
insolitamente in quell'ora la piccola e povera chiesa balzavano nella
nebbia come le lingue del rogo infernale sul quale si era gettato.

                                   *
                                  * *

Miss Globe comprò dal Municipio, tutto per sè, mezzo camposanto, e per
l'anniversario della morte del suo Tony vi fu inaugurato il monumento
opera di un illustre scultore fiorentino. Sopra una splendida base
marmorea, con quattro faci di bronzo agli angoli, un immane cane
bassotto, pure in bronzo, venti volte almeno il naturale, con due
immense ali d'aquila spiegate verso il cielo. In basso, alla base,
scritto: _Tony and Jennet Globe_. Fu creduto dai buoni paesani un
drago americano, anche uno stemma, quello dei Globe, altri disse che
quello era il leone di Venezia, ma nessuno seppe mai precisamente. Il
funerale rimase negli annali di quel popolo il fatto più celebre. Vi
furono famiglie che riscossero pel loro intervento settanta e ottanta
lire. Drusilla lo considerò sempre il colpo della provvidenza scesa in
soccorso del povero parroco; ella custodiva intatte le diecimila lire
nascoste dentro la materassa del suo letto — dovranno passare sopra il
mio corpo! — Aveva anche un gruzzoletto di certe astute economie fatte
il gran giorno dell'aurea grandinata, lei aveva pagato tutti e aveva
imposta qua e là qualche tara, specie di tacci, specialmente a quei
famosi angeli.

Don Pasquale rimase per molto tempo indisposto, taciturno, pauroso,
ogni rumore lo riscuoteva, non mangiava quasi più, quando officiava si
sentiva male, due o tre volte si abbasì durante la messa, nella chiesa
specialmente si sentiva triste.... Poi, poco alla volta si riebbe,
ricominciò a mangiare, Drusilla gli preparava tutte le sue passioncelle
con gran cura e senza economia.

Miss Globe divenne definitivamente l'amica della chiesa, ogni settimana
mandava doni, e forse almanaccava già pel suo immenso funerale.

Fu accomodato l'organo e questo servì a richiamare in chiesa qualcuno
di più, e Don Pasquale incominciò a riaversi, e andava ripetendosi
che non aveva officiato coll'anima quella volta, che infin dei conti
quel funerale non aveva nessun valore. E si ritranquillò, riprese,
si riebbe, tornò a sorridere, e la sua coscienza entrò pian piano in
una nuova fase: cominciò a pensare che quella bestiola fosse andata
davvero in paradiso, e nelle allucinazioni del suo benessere se ne era
fatto una convinzione. Il cagnolino non era stato proprio accolto in
paradiso, per le vie celesti fra i cori degli angeli, ma San Pietro lo
aveva trattenuto nella sua... specie di portineria, e se lo teneva, gli
s'era affezionato, gli faceva compagnia.... e gli faceva comodo, gli
serviva da guardia. Anzi, si domandava Don Pasquale, come mai nessuno
prima di lui avesse pensato a mandargliene uno, ad un posto come quello
ci voleva, era indispensabile. E la bestiola correva quando qualcuno
bussava alla porta, annusava, abbaiava qualche volta.... forse quando
avrebbe bussato lui chi sa che non lo avesse riconosciuto.... e gli
fosse saltato addosso a fargli festa... non era sempre andato alle sue
messe? E non era stato per tutto il tempo _engenocchiato_?



TRE DIVERSI AMICI E TRE LIQUIDI DIVERSI


Tolgo dalla prima lettera listata a nero che un amico mi scriveva dopo
la morte di suo padre: «Per quanto verso mio padre io non nutrissi
sentimenti di figlio affettuoso come mi avrebbe dettato, e come avrebbe
voluto il mio cuore, e, lasciamelo dire, la mia bontà pure, la sua fine
mi ha molto rattristato, ed ho sentito una grande voglia di piangere;
ho resistito fino all'ultimo, mi sono fatto forza, non ho voluto
cedere; ma sentivo quanto il mio cuore volesse il suo sfogo».

Leggendo questa lettera io pensavo: perchè ha rattenuto il pianto?
Perchè non ha pianto? Perchè?


Passeggiavo sulla cima di un bel monte con un amico che ero andato a
trovare lassù per qualche giorno.

— L'hai vista?

— Sì.

— È una bella donna, vero?

— Sì.

— Nel suo genere ben inteso.... una bella montanara....

— Sì.

— Ha un bel seno! Turgido! Eppoi, fresca....

— Sì.

— Hai visto come mi ride?

— Sì.

— Oh! figurati.... ha il marito in America.... Non è mica vero però
che quassù siamo fuori da tutte le tentazioni.... già.... vorrei saper
dove.... Tutte queste donne debbono stare senza il marito per mesi e
mesi, figurati un po' che voglia ne hanno, talune per anni.... e sono
giovani.... Che potrà avere?... Neanche trent'anni.

— Eh.... sì.

— Quasi quasi si finisce per essere più distratti in luoghi dove se
ne vedono delle migliaia, non ti pare? Non si ha il tempo di posar
l'occhio sopra una, che un'altra ti è davanti.... questa solitudine
finisce per....

— Già. Basta una. Eppoi.... può bastare anche di meno.

— Ma io non ci penso. Sono venuto quassù apposta per non pensarci. Non
è mica vero sai che sia una necessità per noi.... balle!

— Già.

— Non ne sei persuaso?

— No.

— Perchè?

— Perchè ci pensi.

— Sfido io, cosa vuoi, si vedono.... si guardano. Ti fanno capire che
ci starebbero....

— E dunque?

— Dunque che?

— Dunque....

— Ah! No! Ho detto di non pensarci, sono venuto quassù apposta,
figurati un poco, voglio rimanerci due mesi interi, non un'ora di meno,
e ci starò.

Mentre il mio amico parlava io pensavo: ma perchè? Perchè? Perchè?


Uscivamo dalla casa di una gentile ospite presso la quale avevamo
pranzato. Mezzanotte, la via era deserta. Vedo il mio amico appena
fuori dal portone dare in smanie, sbuffare, torcersi, dimenarsi,
correre verso il muro come se volesse buttarcisi dentro, e darsi con
quella po' po' d'agitazione a sodisfare un piccolo bisognino, piccolo
piccolo, il più semplice ed innocente di questo mondo.

— Beh! Sei impazzato?

— Oh! Uhf! Ehu! Ohi!

— Insomma!

— Sono da quattro ore in agonia! Ho sofferto le pene dell'inferno! Ma
non mi hai visto che non potevo più star fermo sulla sedia? Non hai
visto la mia faccia? E tu seguitavi a parlare della Divina Commedia,
del paradiso.... ti avrei sgozzato! In certi momenti ti ho odiato! Non
mi ero mai accorto quanto sei ridicolo e insulso quando parli.... che
gnola!.... Fai proprio voglia di vomitare! Oh! Mi par d'esser rinato!
Credevo proprio di scoppiare! Ma non m'hai visto quando ti facevo segno
d'andarcene?

— No.

— Sono arrivato che erano le sette e mezza passate, sono salito di
corsa.... non ho pensato.... Ho incominciato a soffrire dal principio
del pranzo, figurati un poco.... Quattro ore, capisci, quattro ore!

— Perchè?

— Come perchè?

— Sì.

— E come dovevo fare?

— Di fronte ad un bisogno così urgente....

— Non m'è capitata mai l'occasione.... lei non si è assentata un
minuto; eravamo lì, tre soli, tutta la sera come tre pioli....

— Appunto....

— Sì... la seconda volta che vai in una casa.... hai un bel dire....
Beh! oramai è andata così e non ne parliamo più.

Mentre il mio amico si torceva, si dimenava, sbuffava, si giustificava,
io pensavo: ma perchè? Perchè? Perchè?


Io mi domando perchè oggi mi vengono insieme alla memoria questi tre
diversi amici, e i loro tre liquidi diversi.... E mi domando ancora:
perchè? Essi avevano nelle loro persone queste tre sostanze fluide,
perchè si ostinavano a non lasciarle liberamente fluire? Perchè?



PICCOLO GIOIELLO SENTIMENTALE


«Come a quella povera piccina piacevano i fiori! Una cosa
straordinaria!». Ma non poteva averne che pochi e ben di rado. Che
infelicità! — I fiori sono delle spese inutili — le diceva la grossa
madre. — Una famiglia non può permettersi di gettar denaro in certe
buggerate. — Ella sarebbe andata volentieri a letto senza cena per due
belle rose.

Morì la piccola sentimentale.

Ora la madre le porta in cimitero, almeno due volte ogni settimana, i
più bei fiori che si possano trovare. «I suoi fiori!» dice la grossa
donna sbuffando lunghi sospiri: «come a quella povera piccina piacevano
i fiori! Una cosa straordinaria!».



PER UNA BELLA DONNA

(COMMEMORAZIONE)


Esco in questo momento dalla visita di una salma.

Ho fatto la strada assorto nei più rosei pensieri, e rientrando in
albergo penso ancora serenamente alla mia visita.

È morta una signora che conoscevo da molto tempo e che amavo
fraternamente. Ella è stata precocemente strappata alla vita, voi
penserete; no, noi eravamo amici stante l'enorme differenza di
età che ci separava. Io ho ora giusti ventiquattro anni, essa ne
aveva certamente settantaquattro, cinquanta di più. E stante ciò è
assolutamente necessario ch'io subito vi dichiari che i nostri rapporti
furono solamente quelli di una simpatica fraterna amicizia, e del più
schietto cameratismo.

È per una stranissima combinazione che ho potuto rivederla. Tutti e
due ci trovavamo contemporaneamente di passaggio in questa città senza
saperlo. Ella vi è morta, io, avutane stamani per caso la notizia,
sono corso a visitarla un'ultima volta prima che divenisse possesso del
becchino.

Sono andato. Il segretario dell'albergo mi ha fatto accompagnare
nella camera ch'ella occupava, trasformata in cappella ardente. Il
letto, coperto da una ricca coltre di velluto rosso, era circondato
da altissimi candelabri dorati a moltissime candele elettriche tutte
accese, e sul letto la mia povera amica era distesa. Nella stanza
cinque o sei tipi di estranei, nessuno che la mia memoria potesse
ricordare. Solamente Fanny, la sua cameriera, le stava vicino senza
piangere, ma intenta a vegliare il cadavere scrutandolo da capo a
piedi, come s'ella dasse quella rappresentazione, di mostrarlo alle
facce indifferenti che si trovavano nella camera. Quando sono stato
ai piedi del letto Fanny mi ha riconosciuto e mi ha rivolto un mesto
sorriso.

La mia povera amica non mi ha mai lasciato così sodisfatto di lei
come dopo quest'ultima visita. Mai, altra volta, partendomi da lei, le
ho rivolto così intero il mio pensiero, mai mi è piaciuta tanto come
quest'ultima volta.

Non un fiore intorno, la camera non portava nessun segno eccezionale,
nessun indizio di disordine riparato in fretta, non recipienti che non
fossero quelli dell'uso quotidiano, non bottiglie di farmachi rimaste
qua e là, nulla; tutto in bell'assetto come in ogni altro pomeriggio
quand'ella stava bene. Per tutto un odore fresco di rose.

Di dove è entrata la morte qua dentro? Io mi domandavo guardandomi
attorno.

La mia povera amica dunque giaceva supina, col busto rialzato,
in attitudine molto disinvolta, vestiva una tunica attillata,
semplicissima, di panno nero, senza alcuna guernizione, formata
davanti come a scapolare. Questa tunica, scollata un po' in forma di
rettangolo, lasciava scoperto tutto il collo e la sommità del seno che
apparivano di alabastro invece che di carne. Delle calze nere finissime
trasparenti, e dei meravigliosi scarpini di velluto rosso cupo con
ricche fibbie in oro e strasse. Le maniche, che finivano al gomito,
lasciavano venir fuori le braccia perfette e candide, e due manine
accuratissime, che sembravano di cera, riposavano ai lati del corpo
leggermente, con semplicità.

La testa era un capolavoro di eleganza. L'acconciatura dei suoi
magnifici capelli d'oro con grande cascata di anelli e ricci, sorretti
da un cerchio d'oro lucido, riusciva d'un effetto sorprendente; e
la faccia era preparata con tale insuperabile squisita finezza come
per un ricevimento o un ballo. Sfumate morbidamente le guance di un
roseo caldo, vellutato; le narici, le labbra, toccate di minio con
inarrivabile maestria; e alle orecchie, infiammate, due grosse perle
ai lobuli, tenute a vite. Sul seno, dalla parte del cuore, un gruppo di
rose, rosso cupo, del colore preciso degli stivalini.

Mi sono avvicinato fisso sulle rose, domandandomi se il delizioso odore
che invadeva tutta la stanza fosse emanato da esse, e quando sono stato
per chinarmi ad esaminarle, Fanny, con un gesto molto naturale, mi ha
fatto capire che erano finte.

Ella ha sorriso e ha fatto presso a poco il gesto che avrebbe fatto la
sua padrona se avesse potuto scorgere la mia curiosità.

M'ha assalito un desiderio pazzo di darle un bacio, ma un po' per la
vergogna di quegl'intrusi, un po' anche al pensiero di scomporre quel
volto perfetto, Fanny stessa certo me lo avrebbe impedito, mi sono
detto di non farlo. Ho guardato coloro che erano per la stanza. Ma chi
erano? Fanny non mostrava di curarsene, ella non si occupava che della
sua signora. Ad un tratto ha aggrottato le ciglia in un istante di
ansia, fissando strenuamente la piccola bocca vermiglia della padrona,
poi ha emesso un grande respiro sollevandosi. Di che aveva paura Fanny?
Che cosa poteva ormai succedere più di quello che era successo già?

Ho lasciato quella stanza squadrando in modo diffidente quei tipi,
sorridendo mestamente a Fanny. Ella m'ha sorriso astraendo per due
secondi la sua attenzione dal cadavere, e sono sceso, quasi quasi
preso da una.... da una volontà di fischiettare.... di ballettare....
Ho inchinato il segretario al _bureau_, ho fatto un profondo
ringraziamento al portiere che m'ha aperta la vetrata con premura, sono
rimasto un istante incerto sulla porta, poi mi sono deciso da quale
parte dovevo dirigermi e sono venuto qui, in albergo, a riposarmi un
poco e a pensare alla mia povera amica.

Se ella avesse potuto imaginare che per l'appunto io, di tutti i suoi
amici, doveva vederla oggi! Quale combinazione mi ha riserbato la
sorte! Ella è qui di passaggio, ci si ammala rapidamente, vi muore,
senza che nessuno ne abbia notizia; nello stesso tempo io mi trovo
in questa stessa città, a caso so stamani della sua morte, e giungo
proprio in tempo per rivederla poche ore prima della sua definitiva
scomparsa.... Io sono affondato in questa poltrona e non posso
distogliere il mio pensiero da lei, e forse per molti giorni questa
impressione mi seguirà.

Ma quella gente estranea.... Che fossero delle comparse? Delle persone
messe lì per chi potesse casualmente venire? Nessuno di quelli aveva un
aspetto troppo elevato per esserle amico.... eppoi la loro espressione
era precisamente quella di gente che sta lì pagata, a ore. Si tenevano
tutti indietro, senza nessuna intimità col cadavere.... Ma non era
dunque che una rappresentazione quella alla quale ho assistito? Io
ho avuto questa fortuna di goderla e il ricordo mi seguirà sempre. Ma
com'è che Fanny non è stata più espressiva con me?

Povera amica mia! Se lì mi avessero chiesto di comporre due parole per
la sua sepoltura avrei scritto così: _Qui fu sepolta una bella donna._
Mi sembra che queste poche parole comprendessero tutto. Nella strana
circostanza della sua morte invece non posso far nulla per lei. Se
io fossi ammalato di necrofilia potrei recarmi qualche volta a farle
lunghe visite al cimitero, intravedendola ancora, traverso la pesante
pietra che la ricuoprirà, tale e quale ella era la mia povera amica,
e illudendomi di andare ancora da lei. Se io credessi nell'altra
vita come ce la descrivono i nostri buoni parroci potrei almeno ora
imaginarla fra le turbe degli angioli del paradiso... ed ella dovrebbe
stare così bene vestita da angelo.... Una tunica leggera e volubile
come una nube, rosea, coi suoi bei capelli d'oro fermati dal cerchio
d'oro lucido.... e il fascio di rose sanguigne sul seno, dalla parte
del cuore... e gli stivalini.... Un angelo un po' troppo allegro, se
vogliamo, un po' turbolento, ma che rialzerebbe dimolto il morale di
tutta quella gente così monotona e sbiadita lassù.... Invece io non
posso far nulla; se non penso al suo passato non la vedo più e mi sento
cadere nel vuoto con lei. Chi mi dà la forza di vederla ancora se non
con quella tunica nera, coi ricci d'oro, e il cerchio, e gli stivalini,
e il fascio delle rose?... Io non riesco neppure a separarla da Fanny
che pure vive.

Io non sono che un povero scrittore e non posso che servirmi di questa
mia qualità per renderle un ultimo omaggio: commemorarla. Si fanno
tante commemorazioni per degli orribili uomini che seminarono la terra
della loro bruttezza, si può permettere ad un bravo giovinotto come me
di scrivere qualche parola per una bella donna.

                                   *
                                  * *

Nacque.... ma già, che cosa c'importa di sapere dove nacque una bella
donna? L'importante si è ch'ella nacque. La chiamarono Michelina;
un nome veramente che la rimpiccioliva un poco, ma secondo la
pessima abitudine glie lo avevano esotizzato, e la chiamavano tutti
_Micheline_. Noi per questa volta soltanto sopporteremo lo storpiamento
esotico, visto che nel caso nostro serve almeno a nascondere la
deficenza del brutto nome imposto ad una bella donna.

Tratteremo rapidamente, con molta semplicità, la sua vita,
soffermandoci, senza eccessiva importanza, nei punti più salienti.

Non ebbe una natura precoce, anzi, ebbe la caratteristica assolutamente
opposta. Questo dato è essenziale, noi dobbiamo ricordarlo come
cardine nella descrizione di questa vita. E allora sorvoliamo pure
sulla sua infanzia; ci assicurano che non fu una bella fanciulla ma
un tipo abbastanza comune. E sorvoliamo pure sulla sua adolescenza. A
vent'anni la dettero sposa ad un conte campagnolo piuttosto maturo, e
rimase con lui nella ricca sepoltura di una villa sontuosa per altri
venti. Ella aveva quarantanni quando questo marito morì, e noi dobbiamo
raggiungerla precisamente a questo punto. Come si fa presto non è
vero a scrivere la vita di una bella donna? Eppure credetemi è una
cosa simpaticissima, io la provo per la prima volta e ne sono tutto
entusiasta.

Voi potreste ragionevolmente imaginare che la mia fatica sia pressochè
al termine e mi guardate già con certa aria diffidente. Sento che state
per farmi una domanda molto naturale: era bella allora? Ecco.... non
era certo brutta.... ma non si poteva ancora dire ch'ella fosse già
una vera bella donna. In campagna aveva tenuto una vita più salubre
che elegante, aveva sempre vestito con semplicità eccessiva, quasi
con trascuratezza, non si era mai saputa, dicono, vestire, pettinare;
i suoi capelli erano belli sì, ma di un colore castano scuro poco
appariscente.... la sua bocca poco colorita non risaltava sul pallore
del viso, e gli occhi non vi si aprivano come due baratri infiniti.
La sua figura alta, forse un po' secca, un po' dura.... Da tutti i
dati da me scrupolosamente raccolti risulta insomma ch'ella fosse una
bella donna sì, ma non di quella quasi eccezionale bellezza ch'ella
fu poi. Voi osserverete senza dubbio, come posso io spiegare questo
fenomeno e parlare di albori di bellezza in un individuo all'età di
quarant'anni? Ma ve lo posso spiegare io questo? Sono io addentro
nei segreti della natura? Questo fiore che potevamo considerare già
appassito, prossimo alla seccagione, dobbiamo invece considerarlo un
compattissimo bocciuolo, e assistere meravigliati al suo smagliante
sbocciare. Io credo che tanto la bellezza femminile come la virile
possano eccezionalmente rimanere latenti in un individuo, per
svariatissime ragioni in attesa del loro naturale sviluppo. O natura
forse, questa madre tanto bizzarra, non segnò sul suo libro quel tempo
che certi beniamini sciuparono sulla cattiva strada? In ogni modo non
prenderemo il nostro caso come la regola ma come l'eccezione di essa.
Aggiungerò infine per documento comprovante la fedeltà delle mie parole
che, quelli che la conobbero, assicurano essere rimasta questa donna
quasi invariata dal giorno del suo matrimonio a quello della morte del
marito avvenuta giusti giusti vent'anni dopo.

Non ebbe figli.

_Micheline_ rimasta sola, abbandonò la campagna, venne ad abitare un
bell'appartamento di città. Ah! Giova dire che durante il lungo periodo
del matrimonio, essa fu la moglie più esemplare, la sposa più fedele,
e badate che il marito era tutt'altro che un magnifico signore, e
tutt'altro che una simpatica creatura: un uomo assai brutto, e molto
rozzo.

_Micheline_ diveniva bella bella bella. Qui incomincia il prodigio.
Metteva fuori la sua bellezza giorno per giorno, ogni giorno, nel suo
cammino sereno, sicuro, per andarsi a posare tranquillamente sulla cima
più alta della bellezza femminile. Sembrava che questa donna avesse
avuta la vita non simile ad una corsa tutta in lungo come le altre
misere mortali di questa terra, ma come un viaggio di andata e ritorno,
e che giunta ai quarant'anni dovesse poi contarne trentanove invece di
quarantuno, per uscire nel nulla dalla parte opposta.

I suoi capelli divennero biondi, morbidi, lucenti, ondulati,
voluttuosi; i suoi occhi s'ingrandirono, le narici si colorirono,
e le labbra, e i denti e il sorriso, divennero incanti di fascino e
la persona tutta si arrotondò, incominciò ad agitarsi in movimenti
di bellezza e di seduzione, come se una coscienza, un'anima, si
fossero poco a poco risvegliate dentro di lei. E tutto questo con una
grande infinita semplicità, con un'infantilità innata; diveniva bella
allegramente sempre più gaia, sempre più buona.

I suoi compagni furono i giovani, i giovanissimi, quasi i fanciulli,
amò.... le teste ricciute, immergere le sue dita bianche nei capelli
folti di un bel ragazzo, le labbra appena appena ombreggiate, e gli
occhi vivi, bramosi e inesperti. Fuggì l'uomo fatto, odiò Don Giovanni,
i trucchi, la politica, gli accidenti in amore, i piani fatti, gli
irresistibili.... niente niente di tutto questo. Cercava quello che
c'era di più fresco e di più buono, gioendo di tutte le inesperienze,
di tutte le follìe, ridendone fraternamente. Il piacere non era per
lei che l'ultima fase di un bel giuoco da bimbi che precedeva un sonno
tranquillo.

Ne amò di questi fanciulli? Forse più d'uno. Le ciarle, ahimè non
mancarono: ve lo figurate un po' questo lurido mondo davanti allo
spettacolo di così semplice e sana follìa? Le puntate? Le trovate di
spirito?... Ma non la toccarono mai, il male non aderiva alla pelle
di questa creatura privilegiata. Era un'anima divina. Nessuno come lei
può mai avere compreso ed amato tanto la giovinezza, lei, miracolo di
eterna giovinezza.

Ed eccoci al meglio. Noi dobbiamo ora discutere insieme quello che
chiameremo il capolavoro di questa esistenza, il momento più bello. E
siccome si tratta di un capolavoro sentimentale voi mi potete osservare
che l'età del protagonista deve essere pericolosamente avvantaggiata,
ma questo credetemi, non vuol dir nulla, non vedemmo noi artisti d'ogni
genere produrre la loro opera massima a venti a trent'anni, come a
sessanta o settanta? E non vi infusero i secondi come i primi la stessa
vita? Gli stessi tesori di forza di sentimento di giovinezza come
s'essi avessero generato la loro opera fuori del tempo? _Micheline_
ha, è vero, cinquant'anni, ma il più acuto osservatore, il giudice
più severo non può scuoprirgliene che trenta. Ella scherza, ride, ride
rumorosamente, lunghe, limpide risate zampillanti di giovinezza fra la
giovinezza, ma non ha mai amato davvero, o almeno non ha mai sofferto.
Ha amato tutto e tutti, la vita ecco.

Dalla gaia combriccola che la circonda, dalle proporzioni perfette di
questo quadro, qualche cosa esorbita dinanzi ai nostri occhi, qualche
cosa che richiama più insistentemente, che si illumina di più, troppo;
facendo piano piano oscurare il resto guastandone il divino organismo,
l'armonia.

_Micheline_ voi la vedete ora indugiarsi in lunghi colloqui, quelli
che si chiamano colloqui ma che non sono altro che lunghi silenzi
nei quali le parole smorzano di quando in quando l'ansia del tacere
spasimoso, come riposi del troppo che si dice tacendo. Il suo bel volto
si vela.... e si appanna la sua gaiezza.... Maurizio.... un bel bruno
di venti anni che le si avvince per quella forza di facili sentimenti
giovanili ancora informi mescolati fra loro. Vanità, desiderio, e
ignoto, ignoto sopra tutto. Ma _Micheline_ lo ama, lo ama davvero, si
sente oramai lontana da tutti e vicina solamente a lui. Lo ama colla
freschezza dei vent'anni ma con la forza dei suoi cinquanta. Ella ha
cinquant'anni perchè li deve avere, se andasse dove nessuno la conobbe
mai potrebbe avere la sua vera età. Ma tutti lo sanno attorno a lei,
il tempo è inesorabile, e ne aspettano anelanti il dissolvimento
giorno per giorno, la decadenza. Troppo ha pesato il suo avvallo sulla
perfidia degli altri. Che vuol dire, se in una lotta miracolosa ella
aveva vinto la sua stessa materia?

Una sera, questa strana fanciulla diceva:

— Maurizio, sono ancora bella?

— Tanto — ripeteva il fanciullo — tanto bella.

— Ma sono vecchia. Si vede, dimmi, dimmi profondamente sincero, sono
vecchia?

— No. Te lo giuro. — E il giovane fissava coi suoi grandi occhi il
viso di lei come per cercarvi in fondo quegli anni che non riusciva a
scuoprire.

— E allora perchè lo sono?

— Non lo sei.

— Di', mi potresti amare se fossi vecchia, se fossi brutta?

— No, non ti potrei amare.

— Puoi pensare che io lo sarò domani forse?

— Non ci posso pensare.

— Neanche io sai potrei sopportare il disfacimento, no, sarò bella per
te, per te soltanto, e finchè vorrai te, poi.., poi... più.

— Quanto credi Maurizio ch'io possa rimanere così?

— Sempre.

— No, Maurizio, parla sul serio, quanto credi?

— Molto, molto ancora.

— Ma quanto? Di' senza paura.

Il fanciullo voleva pensare ora a quello che diceva, sentiva senza
comprenderlo che la sua risposta in quel momento era la firma sopra
una cambiale; ma gli occhi di lei che ormai naufragavano nei suoi
lo decisero, e disse meno di quello che pensava ma più di quello che
voleva.

— Dieci anni.

E si sentì prodigo e avaro ad un tempo, generoso e pitocco. _Micheline_
con semplice risolutezza scrisse una data.

                                   *
                                  * *

Diremo subito per acquietare la curiosità del lettore che gli anni
furono veramente dieci, e che questo fu un vero e grande amore. Vero
perchè _Micheline_ innamorata sapeva essere la più ingenua la più
tenera colomba; grande perchè esso viveva la sua vita soprannaturale
nella maniera più naturale di questo mondo.

Poco a noi importa dell'uomo, è la vita della donna che ci piace
sottolineare ed esso ci interessa solo di riflesso.

Maurizio, nel suo amore, che non riusciva ad essere abbastanza sincero
per essere vero, si sentiva teso in un disagio al quale credeva potersi
sottrarre col ragionamento. Quella donna non era vecchia ma lo doveva
essere. Essendo esso il più comune essere di questa terra non sapeva
rimanere sereno di fronte al miracolo ed era necessariamente portato a
turbare l'incanto dei suoi occhi profanando il suo amore, rendendosi
indegno di quello che gli veniva concesso. Nei momenti dolorosi la
fissava tutta affannosamente, come per frugare nel suo corpo dove
nascondesse quei venti anni che le mancavano. Ma non era forse un
errore dello stato civile? A intervalli era riassalito dall'amore,
e dinanzi a lui s'ingigantiva serenamente la bellezza soprannaturale
della donna e della compagna. Eppoi ancora il dubbio si riaffacciava
a torturarlo. Egli dava in faccia a tutti la sua giovinezza ad una
vecchia, portava questo giogo immondo, senza un vincolo vero; per una
fanciullaggine, per un istante romanzesco che ora si doveva calpestare
per salvare la propria dignità, per sottrarsi alla vergogna, ora che si
sentiva di divenire un uomo. Questo era l'uomo.

Nulla sfuggiva a _Micheline_, tutto capiva, sicura di sè andava avanti
con una serenità divina, come quei sublimi artisti, consci del loro
valore, seguono il loro cammino fra l'indifferenza e le ostilità, certi
non di una pur lontana giustizia, ma certi e paghi solo di sè stessi.
Non m'accusate di lirismo o di esagerazione amici, non mi accusate di
volere ad ogni costo fare un simbolo di bellezza con un povero pezzo di
carne. Lettore, io ti supplico, aiutami a dir bene di questa donna, la
mia penna non arriva più dove ormai è la mia anima.

Passarono gli anni, cinque, sei, sette, otto....

L'unione era rimasta invariata, ma l'uomo era ora incatenato dalla
soluzione. Ella doveva uccidersi per lui, per il suo amore, lo aveva
giurato, lo aveva scritto quella sera. Egli aveva mantenuto nobilmente
la sua parola, i dieci anni, ella doveva mantenere la sua. Ma si
uccideva per lui? O piuttosto per non assistere al dissolvimento della
sua bellezza? Non era invece una pazzìa dettata dall'orgoglio folle di
quella donna? Ma intanto egli se ne liberava. Che ne avrebbe dovuto
far più? Essa si avvicinava alla decrepitezza! Dio! Dio! Come aveva
potuto amarla? _Micheline_ che si alzava così presto la mattina, non si
faceva vedere che tardi, mai prima delle dieci, si capiva tanto bene
che non ne poteva più, era finita, si reggeva per virtù di ripieghi,
con interminabili sedute di _toilette_, forse soffriva terribilmente e
nascondeva la sua sofferenza. Come poteva avere ancora voglia di vivere
e di amare a quell'età? Ella manteneva il suo contratto per onore alla
firma ma certo agognava la fine.

E la fine si appressava e Maurizio si sentiva sempre più ostile nei
suoi pensieri, nel suo dubbio. Sì, doveva morire, solamente colla morte
poteva ripagarlo di quello che così impudentemente gli aveva usurpato:
i suoi dieci anni di giovinezza.

Era la fine. Pochi giorni mancavano alla data.

_Micheline_ non aveva cambiato dal primo giorno, era rimasta
paurosamente uguale, il miracolo dava la vertigine del vuoto quando
l'essere comune che vi era dinanzi poteva guardarlo serenamente. Per
quanto la passione fosse morta in Maurizio, sull'ultimo si riaccese.
L'avvicinarsi di quel giorno metteva una certa paura addosso al
giovane, gli faceva sentire una sensazione di freddo. Eppure si doveva
ammazzare, quale orribile canzonatura per lui altrimenti? S'ella fosse
venuta ad implorare?... Se avesse chiesto tempo ancora?... Dio! Dio!
Quella donna gli faceva ribrezzo!

Ma fra loro nulla era apparentemente cambiato e non si parlò mai della
data.

La notte che precedeva il giorno fissato si presentò come ogni altra
notte del tempo vissuto assieme.

L'agitazione di quelle due anime invece di erompere e rivelarsi doveva
quella sera ricevere l'ultimo suggello, e mentre l'uomo non era
riuscito a leggere una sola parola in quella della donna, la donna
quella sera non aveva più una parola da leggere in quella di lui. E
dinanzi a questa grande superiorità come non dobbiamo noi sentirci
ammirati e commossi?

A Maurizio, che non aveva avuto la forza di credere, la notte portò
ore terribili. Si alzava dal letto, gli era impossibile di dormirvi,
guardava dietro la finestra e la persiana la via deserta, silenziosa,
la luce scialba che l'illuminava lo rabbrividiva come si fosse sentito
nudo nella nebbia, orecchiava con terrore, il tremito lo assaliva,
tornava a coricarsi a seppellirsi sotto le coltri, poi si rialzava
ancora, e ancora si ricoricava. Eppure non credeva, quella donna,
secondo lui, non era capace d'uccidersi, ne sbagliava il perchè, ma lo
sentiva, lo sapeva, non si sarebbe uccisa, non credeva ma aveva paura,
come quegli uomini vissuti tutta la vita senza una fede all'ultimo
istante domandano i segni della loro religione. È la paura di un grido,
di un tonfo, di un colpo, è una vile immonda paura questa!

La mattina egli sarebbe andato là.... nella sua stanza.... I brividi lo
riassalivano, si tappava le orecchie colle mani, quasi stesse per udire
un colpo. Attese. Come si sarebbe uccisa? Non sarebbe venuta a morire
alla sua porta? Gli sembrò di udire in basso, all'uscio, raspare. Dio!
No! Ebbe paura ad aprire, ebbe paura a tacere, il silenzio lo faceva
delirare, si stropicciava forte le orecchie colle mani, non voleva
più sentire, più vivere. Forse era lì, già morta! Come? Avvelenata
forse? Si fece forza, tacque, nulla. Si sarebbe forse gettata dalla
finestra? Avrebbe ad un tratto sentito uno schianto nella via....
Gli parve udire il cigolare di una persiana, una finestra che fosse
aperta con cautela. I suoi occhi, naufraghi per la stanza, incontrarono
finalmente la loro tavola di salvezza: il ritratto di _Micheline_, e in
quelli che li guardavano con dolcezza si affidarono immemori un'ultima
volta. Maurizio rimase così fisso. Riposò e si sentì sollevato. Ora
sarebbe andato, no, non doveva uccidersi povera donna no no! Ma dopo?
Che ne avrebbe fatto? Avrebbero pattuito, si sarebbero separati da
buoni amici. Si incominciò a vestire, tremava, tremava, nell'alba
tragica.... che cosa lo aspettava? Andando nel suo appartamento come
l'avrebbe trovata? Morta? Morta come? Come aveva potuto indugiare?
Voleva correre mentre continuava a vestirsi lentamente. Perchè non glie
ne aveva parlato la sera avanti? Essa lo aveva lasciato come ogni altra
sera.... che invece ella dormisse immemore il più pacifico sonno? Che
non ricordasse più la data? Che si fosse sbagliata? Dieci anni erano
passati da quella sera quando fu scritta, chi ne aveva parlato più da
allora? Non poteva star fermo, girava su e giù per la stanza, tutto gli
palpitava dentro, il suo cuore era per scoppiare.

Erano le sette, era appena il primo chiarore dell'alba, la luce grigia
penetrava a suoli dalle gelosie delle persiane chiuse per la stanza.
E _Micheline_ che non apriva la sua porta prima delle dieci! Attese,
attese, poi, trovato l'estremo coraggio uscì. Non seppe dirigersi
risolutamente, entrò nella sala da pranzo ancora tepida e profumata
dalla sera avanti. Sulla tavola erano sparsi avvizziti i petali di una
rosa ch'ella aveva sfogliato ninnolandosi; i mozziconi delle sigarette
erano nel piattino di porcellana insieme colla cenere e i fiammiferi
estinti; e il loro profumo vagava ancora prigioniero; e il profumo
di lei, il suo profumo lieve e fresco come quello delle rose.... Si
diresse alla porta tante volte, ritornò alla tavola, voleva sedersi,
voleva aprire, non voleva.... ma che cosa c'era dentro la sua anima, la
più grande tragedia o la più ridicola farsa?

La porta dello spogliatoio era aperta, il suo cuore si fermò ma ebbe la
forza di entrare, la porta della camera aperta.... entrò.... nulla....
nessuno.... il letto era rifatto, girò, cercò, nulla, più nulla,
non uno scritto, non ebbe fiato di chiamare ma le sue labbra pareva
gridassero: _Micheline! Micheline!_

                                   *
                                  * *

Un bel pomeriggio d'inverno, quasi dieci anni dopo da questo fatto,
Maurizio passeggiava sotto il bel sole napoletano della riviera
di Chiaia. Era divenuto un uomo posato, le sue arie frivole erano
scomparse, aveva quarant'anni oramai e li dimostrava perfettamente.
Non più così accurato ed elegante nell'abito, si era deciso a divenire
uno degli infiniti esseri di questa terra. Gli erano cresciuti
smisuratamente i baffi e gli davano un'aria anche più matura. Gironzava
sotto il delizioso tepore, lungo il mare, quando vide venire avanti
lungo la riva una bella signora alta, bionda, elegante, accompagnata da
un giovinetto men che ventenne, più basso di lei, pure elegantissimo,
tutti e due marciavano di buon passo allegramente. Potevano sembrare la
madre di quaranta col figlio di venti.

— Che bella donna — Pensò istintivamente Maurizio mentre la coppia si
avvicinava.

— Maurizio?

— _Micheline?_

— Tu qui?

— .... sì.... — Maurizio balbettava.

— Come mai?

— Da tre giorni, di passaggio.

— Anche noi! — La signora era franca per quanto commossa. — Anche
noi, sì, partiremo fra due giorni per Palermo, siamo in quattro, una
carovana. Ah! scusa.... il signor.... _tal dei tali_, Maurizio, del
quale abbiamo tante volte parlato — I due si strinsero la mano — Bene,
io spero di poterti rivedere, noi siamo alloggiati qui, all'Hotel
Santa Lucia, vuoi venire a colazione da noi domattina? Maurizio annuì
senza capire quello che facesse — Allora.... a domani — La signora gli
strinse forte la mano, con un sorriso buono e caldo che somigliava
quello del vecchio sole. I due uomini si strinsero la mano con più
espressione stavolta.

Maurizio rimasto a guardar dietro la coppia che si allontanava....
quella bella donna dritta.... con quella magnifica figura.... quella
faccia.... quei capelli.... E quel giovinetto così educato.... pensava:
— Ma quanti anni ha? — Tutto disorientato — Ma quant'anni ho io?... E
quel tipo che c'ha insieme?... Hotel Santa Lucia....

                                   *
                                  * *

Ah! Nella presentazione che Micheline fece dei due signori, io mi sono
servito della vecchia e poco simpatica formula: _tal dei tali_, per il
giovine che l'accompagnava, ma mi era assolutamente impossibile fare
altrimenti; eppoi era anche inutile farlo perchè certo avevate già
capito da voi di chi si trattava.... ecco, bravi.



LA BOMBA


— Bum!

Primi a vederla furono due pensionati gottosi.

— Bum! Ah! Eh!

— Una bazzecola!

— E può bastare il calore del sole! M'intende? Un contatto!

— Vede l'asta a quel terrazzo? Un consolato.

— Austria?

— Paraguai, credo.

— E allora?

— Lo stesso.

Giunse una servuccia con una bambina per la mano.

— Bum! Eh! Eh!

— Mamma mia!

— Bomba.... bomba.... Potrebbe essere anche una bomba.

— E quella di Madrid?

Giunse un garzone di macelleria col panierone sotto il braccio.

— Bum! Eh! Eh!

— Per carità! Non si avvicini!

— Benedetta imprudenza!

— I giovani....

— Già.

— Alto là. — Fu gridato ad una vettura.

— Che cosa _essere_ questo?

— Bum!

— Nooooo....

— E le guardie? Le guardie....

— Già.

— La città corre un serio pericolo! I cittadini....

— Sono scarse di numero.

— E di zelo.

Passò un cittadino scettico senza voltarsi neanche.

— Eh! Eh!

— Involtata in un cencio di balla....

— Al solito.

— E Parigi?

Giunse un cittadino di dodici anni.

— In un cencio di balla....

Il cittadino di dodici anni fece atto di raccogliere un sasso.

— Misericordia!

— Accidenti ai ragazzi!

— Ih!

Il giovane di macelleria gli misurò il panierone sulla testa.

I due pensionati gottosi ripresero fiato, la servuccia si riebbe, tutti
si riavvicinarono.

— Bum! Eh! Eh!

— E Porto Arthur?

— I giapponesi?

— Già.

— E i Dardanelli?

— Una bazzecola!

— Mi capisce? Non si sa mai.... la forma è strana.

— È una pentola.

— Bum!

— Come quella di Madrid.

Si aggiunsero un barrocciaio, un frate, due ragazzucce anemiche.

Un altro cittadino scettico non si voltò nemmeno.

— Eh! Eh!

— Dopo mezz'ora non si vede il becco di una guardia!

— Sono tutte nel centro della città.

— E sul luogo del pericolo?

— Centro e non centro...

Il cittadino di dodici anni era tenuto d'occhio.

— Bum!

— E se non fosse?

— Eh! Eh!

— Caspita!

S'aggiunse un cittadino senza professione.

Fu guardato con sospetto. Egli considerava attentamente l'involucro.
Gli altri in cerchio consideravano lui attentamente, pure non perdendo
d'occhio nessuno, in special modo il cittadino di dodici anni.

Il cittadino senza professione guardava sempre più l'oscuro involucro
nel mezzo del viale. D'un tratto sembrò scattargli dentro una molla e
vi si buttò sopra.

— Bum!

Fu fatto il largo che avrebbe fatto la bomba esplodendo. I due
pensionati, benchè gottosi, seppero far lanci da cavallette.
La servuccia, le ragazzucce, fuggirono guaendo, il barrocciaio
bestemmiando, il frate tanto si rialzò la tonaca da mostrare due
mutandoni bianchi che gli scendevano fino a mezzo i polpacci.

Il cittadino senza professione rimasto solo, chinatosi, aveva
rovesciato l'oggetto, scucito la stoffa che lo ricuopriva....

I fuggiaschi a grande distanza ora guardavano la sua manovra.

Giunsero due guardie.

— Che cos'è?

— Un cestino di fichi secchi.

— Chi ve l'ha dato?

— Era qui.

— Date qua a noi.

— Ma io l'ho trovato.

— Per questo bisogna portarlo al Municipio, scaduta la prescrizione
sarà vostro. L'avrà perduto qualche barrocciaio.

— Ma io....

— Ma io.... ma io.... date qua, eppoi sappiamo il vostro nome, non
occorre spiegarsi troppo.

— Ma io ho rischiato la vita!

— Ah! Ah! Ah! Ah!

Tutti a poco a poco si erano riavvicinati.

— Sicuro ho rischiato la vita!

— Ah! Ah! Ah! Ah!

— Voi vi siete avvicinati quando avete visto che erano fichi secchi, ma
io l'ho preso quando era una bomba!

— Si allontanino signori.

— Fichi secchi! Fichi secchi!

— Phue!

— Ha rischiato la vita!

— Ah! Ah! Ah! Ah!

— Figlio d'un cane!

— Ma che razza di gente!

— Un lazzarone!

— Bell'originale!

— Pregiudicati.... c'intendiamo?

— Eh! Eh!



IL BORSAIOLO


Sorprese Guido il mio gesto rapido di nascondere, e mi fu addosso
incuriosito, nè io so perchè mi venne fatto così naturale di
nascondere quell'oggetto che a caso m'era capitato fra mano, forse per
risparmiarmi questa spiegazione, che, del resto, neppure so spiegare
perchè, a niun'altro avevo dato mai.

— Fammi vedere, va' là, sei buono.

— Ma nulla, nulla, non è nulla.

— Sì, qualcosa hai nascosto, una roba nera, è una calza, di' la verità.

— Ma che calza!

— Una calza d'una tua ex amante.

— Ma che amante!

— Una cosa nera, l'ho vista bene, hai fatto troppo presto a nasconderla
— E con tutta la persona riparavo il cassetto mezzo aperto — Deve
essere una cosa molto interessante perchè ti preme troppo di non
farmela vedere, ne sono incuriosito, sei buono....

— Ebbene via, ti voglio contentare, bracone che non sei altro, guarda.

Una borsa di velluto nero con cerniera e catena di metallo bianco.

— Ha appartenuto a tua madre? — Disse Guido deluso, dopo essere rimasto
zitto alcuni secondi.

— No.

— Ad una vecchia signora certamente.

— Eh.... forse, ne ha tutta l'aria, vero?

— Sei stato l'amante di una vecchia, me l'avevano detto una volta al
caffè, non volli crederci, ora incomincio a convincermene, sei stato
l'amante di qualche vecchia infame, bacchettona, e che tabaccava per
giunta, dentro c'è una tabacchiera, ci scommetto.

— Ma che vecchia, che tabacchiera, smetti grullo! Vuoi proprio sapere
come è venuta qui questa borsa? Senti: stavo per uscire, un giorno....
cinque anni or sono, ero fermo alla porta, mi infilavo i guanti e davo
qualche disposizione alla mia donna, essa teneva la porta mezza aperta.
Vennero dalla via a un tratto delle grida confuse, e quasi insieme,
ci capitò addosso senza che lo avessimo sentito, uno precipitandosi
violentemente dentro la stanza, la donna fuggì spaventata ma io
potei subito distinguere che le grida dicevano «al ladro! al ladro!»
Compresi, era lui. Chiusi istintivamente la porta, la donna era
affacciata cogli occhi fuori della testa, il ladro si era fermato in
fondo alla stanza, rasente al muro a capo basso, alzava gli occhi per
osservare la mia espressione senza supplicare, e senza avere per nulla
aria minacciosa, aspettava quello che io avrei fatto.

E proprio mentre io pure lo osservavo incapace di prendere su due piedi
una risoluzione qualunque, suonarono il campanello, feci lesto un cenno
al giovane di ritirarsi nella stanza vicina, la donna pure si ritirò,
aprii lesto, tutto pronto com'ero per uscire, cappello pastrano guanti
bastone.... una guardia municipale, e dietro, alle sue spalle facevano
capolino ansanti tre o quattro borghesi, e per le scale si sentiva
gente salire e vociferare.

— Scusi, è entrato qui, in questa casa, un ladro, uno che ha strappato
una borsetta ad una signora, l'hanno visto entrare in questa casa, ma
non ci riesce di trovarlo, non c'è.

— Ma.... non so davvero, io non mi sono accorto di nulla, qui non può
essere entrato certamente, io stavo per uscire ero qui, la porta era
chiusa, se vuole passi pure, ma è inutile.... è impossibile.... non
so....

— Oh! le pare, scusi....

L'intonazione delle mie parole fu tale che non lasciò adito a sospetto.

— Scusi, scusi — Disse due volte la guardia, avranno sbagliato, o sarà
scappato per il tetto... chi sa, ora vedremo — E siccome loro salirono
presto agli altri piani io richiusi.

Appena mi voltai ecco da una porta apparire la faccia esterrefatta
della mia donna gonfia di paura e di dispetto, doveva sentirsi bruciare
il pavimento sotto i piedi con quel tipo in casa, irata di fronte
alla mia naturalezza, ma incapace di trovare la prima parola per la
circostanza.

Sulla soglia dell'altra porta, in fondo, si fece il ladro, era rimasto
lì, solamente dietro la portiera, e si ripose come prima nella identica
posizione, allo stesso posto. Un ragazzo sui diciassette diciotto anni,
vestito non troppo male, come un operaio, un giovine meccanico, teneva
il berrettino in mano.

— Bene educato.

— Sì, mi guardava senza dir nulla.

Io andai su e giù per la stanza tre o quattro volte. Per le scale era
un saliscendi, alla porta di strada s'era adunato un enorme gruppo
di persone che vociferavano, alle finestre tutti erano affacciati;
e sbracciavano, sbraitavano «sì sì» «no no» «lì» «là» «su» «giù».
Chi l'aveva visto, chi no.... poco a poco tutti uscirono delusi
dall'infruttuosa ricerca, e la gente un po' alla volta si squagliò, le
finestre si richiusero perchè faceva freddo, il ladro era lì.

Rimanevamo in quella stanza io e lui e la donna che andava e veniva
colla testa alla porta, fulminandomi ansiosa cogli occhi, ma nessuno
dei tre era capace di dire la prima parola. La donna, si vedeva,
aveva più voglia di tutti di dire qualcosa, di sfogarsi, contro di me,
contro il mio modo di procedere, pigliarsi i ladri in casa, strapparli
dalle mani della giustizia, mettersi a rischio di finire in galera
con essi.... cose da dar la testa nel muro, ma non le riusciva di
cominciare, io sentivo che bisognava dire qualche cosa, bisognava
fargli una paternale, bisognava parlargli fraternamente, toccargli
il cuore, dissuaderlo dalla sua decisione, invitarlo a desistere, e
spiegare così la propria condotta, giustificare di averlo a quel modo
salvato, il mariolo. Ma siccome io lo avevo salvato per istinto senza
riflettere un solo istante, tutti i bei discorsi mi morivano sulle
labbra.

Lui non aveva in fondo voglia di dir nulla, la sua posizione era chiara
netta, si mostrava freddo, ed aspettava in fondo ch'io gli aprissi
la porta, non arrivando a comprendere che io avevo incominciato a
ragionare, e ragionando dicevo: se lo mando via ora così subito, è
troppo presto, c'è ancora qualcuno nella strada che può vederlo e
prenderlo o farlo prendere, la strada non può essere ancora del tutto
dimentica e distratta dal fatto occorso pochi momenti fa, qualcuno può
essersi appostato, gli feci cenno di accomodarsi.

— Si accomodò?

— No, rimase sempre in piedi appoggiato alla parete col suo berrettino
in mano, guardando in terra e alzando tratto tratto su me gli occhi
calmi, aveva dei capelli neri ricciuti scomposti, una bella testa bruna
da adolescente e tutta la faccia pallida sensuale, una figurina snella.
E quello che più di tutto mi turbava era la sua naturalezza, pareva
ora che fosse sicuro di quello che io sentivo per lui, mi considerava
colla freddezza del giuocatore nato che continua la sua partita senza
il movimento di un solo muscolo della faccia, quasi sicuro di essere il
padrone della situazione, e di dominarmi.

La donna dopo avere spiato un po' la scena, visto che nessuna
risoluzione veniva presa sia dall'una che dall'altra parte, si ritirò
nella sua stanza, messe il catenaccio con rabbioso furore, e si udì poi
il rumore di qualcosa gettato contro l'uscio.

Siccome però incominciava ad imbrunire, pensai che l'unica era di
farlo uscire, avrebbe potuto essere uscito benissimo da sè già da
molto tempo, io ero rimasto tante volte fermo guardando fuori dalla
finestra vagamente, ma non l'aveva fatto, sentiva che quella non era
la logica soluzione, si sentiva legato a me come io a lui. E quando
fu per scendere la sera mi messi la mano in tasca, estrassi dal mio
portafoglio un biglietto da cento lire gli andai vicino glie lo messi
nella mano senza dire perchè glie lo davo, e lui lo strinse appena,
senza avidità sempre seguitando a guardare in terra. Mi affacciai alla
finestra, scrutai bene la via nel grigiore del crepuscolo, andai alla
porta, l'aprii cautamente, orecchiai, mi volsi a lui, lui prima fece un
atto come per dirmi qualcosa poi alzò una spalla, decidendosi si mosse,
sempre col suo berrettino in mano mi strisciò dinanzi guardandomi
con disinvoltura senza timore e senza gratitudine strisciò ratto, io
richiusi. Aprii la finestra per vederlo uscire, non c'era più, era già
sparito.

— Avrà pensato che quelle fossero le tue consuetudini di padrone di
casa, vi comportaste entrambi a fil di galateo.

— Chi sa che cosa avrà pensato, io non ho mai potuto capirlo. Dopo
andai a chiamare la donna, ce ne volle per farla uscire, si era
barricata nella camera, prima non voleva rispondere in nessun modo
«Non c'è più, vieni, è andato via, vieni fuori» ce ne volle. Poi
borbottando, rimuovendo tutto quello che aveva ammassato dietro la
porta uscì indignata.

— Io me ne vado via su due piedi! Sono cose da mentecatti! Mettersi a
tali cimenti. Io non intendo di combattere così coi matti.

— È un disgraziato!

— I ladri in casa! Perchè non gli ha dato da bere? Perchè non lo ha
invitato a pranzo?

— Cosa vuoi, è un ragazzo, lui non ne ha colpa, chi sa come lo hanno
tirato su i suoi, chi sa di chi è....

— Sia chi si voglia io me ne vado....

— Ma no, stai buona — Poi si dette a frugare per tutte le stanze, negli
armadi, pei nascondigli, sotto i letti.

— Ma se è andato via, gli ho aperto io, l'ho mandato via io.

— Io non voglio saper tante cose, conosco i miei polli, non voglio mica
finire strangolata per lei sa, o al bagno! un corno!

— Ma che strangolata, ma che al bagno! ma che corno! E non seppe mai
l'affare delle cento lire che se no mi avrebbe dato il caffè amaro per
un anno intero.

— Giusto, e quelle cento lire perchè glie le daste?

— Non lo so. Perchè fosse contento della sua giornata? Non lo so.

— E come c'entra la borsa?

— Aspetta, la donna, dopo avere sbraitato, cercato frugato, messo
paletti e catene, la vedo andare nell'ingresso sotto il credenzone,
buttarsi tutta distesa in terra a cercarvi sotto, io ridevo credendo
che cercasse ancora il ladro — che cerchi? Ma sei pazza? E sbuffando
con grande fatica ne trasse fuori questa borsa. Lei aveva visto che
entrando il ragazzo aveva gettato qualche cosa sotto il mobile, io
non me ne ero per nulla accorto a quel modo come mi era precipitato
addosso, e si dette sempre borbottando a cercarvi dentro, eccola:
guarda, un fazzoletto bianco di tela il rosario, e questo portamonete,
dentro: dieci, cinque uno due, dieci venti trenta trentacinque:
diciassette lire e trentacinque centesimi. Mentre la donna frugava
nella borsa mi sovvenne che il ragazzo per tutto il tempo aveva
guardato là sotto, sotto al mobile dove l'aveva buttata. E io che non
lo sapevo, che non me ne ero accorto.

— Peccato perchè tu saresti stato davvero compìto prendendola fuori e
consegnandogliela con garbatezza, aver tenuta la borsa per te non va,
chi sa come ti avrà giudicato severamente quel bravo giovinotto!

— Ma già, già, sì proprio, voleva la sua borsa.

— Il borsaiolo ora sei te, meno male che non ti ha denunziato, l'hai
scampata bella, lo puoi ringraziare.

— Precisamente, certo, e come potevo fare? Ecco perchè prese il mio
denaro senza alcuno entusiasmo, voleva il suo, la sua borsa, quello che
ci doveva essere lì, anche se era meno di quello, lo avvinceva, non le
mie cento lire.

— Gli hai tolto tutto il gusto della sua professione.

— Ecco, bravo.

— Ma potevi pur sempre rintracciarlo, certi personaggi si sa presso a
poco dove capitano.

— Ma no, ma no.

— È vero, non si sarebbe fidato.

— Non c'era più ragione oramai. L'ho rivisto tante volte dopo, e
sempre in luoghi e in attitudine sospetti, fermo alle stazioni dei
tranvai, fuori alle uscite dei teatri dei caffè, per due o tre anni ho
continuato a rivederlo.

— Vi siete salutati?

— No, non ne ho mai avuto il coraggio, e il suo incontro mi ha sempre
turbato, mentre lui mi guardava sempre con la più grande naturalezza e
sicurtà, e bonomia.

— Non ti ha serbato rancore.

— E sulla sua fronte io leggevo bene: «rubo».

— Un bravo giovanotto in fondo, tu non gli hai mai restituita la visita
nè la borsa che aveva lasciata in casa tua.

— Poi non lo rividi più, non l'ho più incontrato da anni, chi sa dove
è andato a finire, soldato....

— In galera.

— Probabilmente, o sarà emigrato....

— In America.

— Forse.

— Ne senti un po' di nostalgia, di' la verità.

— No, ma conservo sempre questa borsa tale e quale, e qualche volta mi
accade di pensare a lui, alla nostra avventura.



ALLA MORTE NON SI SFUGGE


Se una ragazza giunge all'età di vent'anni con una dote abbastanza
vistosa essa ha certamente dovuto allontanare da sè qualche
pretendente. Nessuno fa ressa dove le tasche sono buie, ma dove c'è
qualche cosa che luccica tutti si avvicinano gonfi di curiosità e
di speranza. Sperare è lecito, e vale anche la pena di tornarsene
con un rifiuto. Il quale rifiuto del resto è sempre discreto: chi è
quell'imbecille che va a farsi dire un «no» bello tondo, sul muso? Ci
si avvicina pian pianino a spirale, come fanno i mosconi, stringendo
sempre più il cerchio, si fiuta, ci si posa magari un istante, magari
neanche, ci si allontana pian pianino, a spirale, tranquillamente, con
dignità ed eleganza.

La ragazza fa la schizzinosa, è scorbutica; si vede che ancora non
è venuto il suo momento, e non accetta la corte di quello, si mostra
seccata delle assiduità di quell'altro.... E gli anni passano, venti,
ventuno, ventidue.... la madre il padre i nonni gli zii i fratelli....
quella gran cicala che è il mondo incomincia a cantare. Come mai
questo? Perchè quest'altro? Bisogna proprio prenderlo questo famoso
marito, e la fanciulla piega la testa per il suo «sì» a colui che non
ama e non disprezza.

Una buona dote è anche un gran calmante al cuore e ai sensi di una
fanciulla; tutti le fanno coda ad occhi bene sgranati ed ella intanto
impara a sgranare i suoi, e tutti i ragionamenti che il cervello le
permette di fare in simili intervalli sono tante docce gelate sul suo
sangue vigoroso e bollente.

Colei che non ha dote invece non può permettersi il lusso di tanto
ragionare, il tempo stringe, e la fretta riscalda; attorno a lei i
giovani mosconi ronzano meno e con minore soggezione, fiutano, scrutano
liberamente pesano bene la loro mercanzia con la più grande calma
e pochissimo rispetto, oppure sono pieni, straboccano di amore, di
passione di follìe, di romanticismo, di cose poetiche, e mentre dalla
bene dotata si pensa per primissima cosa ad un buon pezzo di carta da
bollo che ne assicuri il patto matrimoniale, qua il pezzo di carta lo
si vede all'orizzonte lontano, piccino piccino, tanto che chi non abbia
vista più che buona può non vederlo addirittura.

Nel primo caso è il cancello chiuso pel quale si entra direttamente nel
giardino, ammettendo che sia un giardino, nel secondo è la panchina in
fondo ad un viale lungo eterno, di tigli e tutto assiepato di rose.
In quel giardino una volta dentro succederà quello che succederà; a
quella panchina invece non ci si arriva mai è un infinito languore di
passo in passo fino alla consumazione. Ed è una fortuna sapete che
quella panchina sia tanto lontana. Quando gli sposi finalmente, un
tantino sfibrati, vi arrivano si accorgono che è tutta sconquassata....
schiodata.... ci si sta così male.... un Dio ci liberi, e gira e rigira
non giungono mai a trovare la posizione, curiosa perchè da lontano
pareva tanto carina e tanto fatta bene....

E qui chiudiamo pure le nostre oziose considerazioni e incominciamo la
storia di una certa Elena la quale si trovava precisamente nel primo
caso suddetto.

Questa ricca fanciulla aveva dovuto decidersi al matrimonio, come un
dovere, non essendo conveniente rimanere oltre zitella a ventiquattro
anni suonati, dopo avere storta la bocca a qualche dozzina di
aspiranti. Scegli scegli, scelse uno dei tanti, per non dare scandali
scelse uno ricco come lei che non la sposava per il suo denaro, questo
almeno c'era di buono, per il resto vedremo poi.

Il _tran tran_ matrimoniale non andava malaccio, lo sposo buono,
gentile, educato, pareva fatto apposta per essere un bravo padre di
famiglia; la sposa buona, gentile, educata, pareva fatta apposta per
essere una brava madre. L'equilibrio della bilancia sembrava perfetto.

Elena nei primi due anni di matrimonio aveva dato alla luce due
bambine: Anna e Agnese. Esse formavano la tranquilla felicità di quel
padre e il miglior passatempo per quella madre.

Se tutta questa gente avesse seguitato così, e poteva anche darsi, il
nostro racconto minaccerebbe di essere poco interessante davvero.

Ma noi non ci contenteremo di una guardatina superficiale ad un
benessere superficiale, e secondo la cattiva abitudine precederemo
gli avvenimenti ficcando un po' il naso dentro le anime dei nostri
personaggi. E ci accorgiamo senza indugio che mentre uno è ben
piantato sul piatto della bilancia, l'altro non vi è che buttato sopra
provvisoriamente, e da un istante all'altro vedremo i piatti andare a
gambe all'aria e l'equilibrio con essi.

Mentre nell'anima di quell'uomo non era più nulla di esplorabile, nulla
da scuoprire, da svolgere, il suo filo era tutto sdipanato; la donna se
ne sentiva dentro un gomitolo intatto, stretto, compresso, un globo, e
lo sentiva pesare come una pietra dentro l'anima.

Talora le balenava pel cervello: «Se un giorno io troverò il capo di
questo gomitolo?» E il capo lo trovò alla fine, e tutti capite bene
di che capo si trattava: l'uomo, l'amore, l'abbandono, il piacere....
vivere e non più vegetare, come le diceva il suo cervello malleabile,
e, sotto la vernice, il suo brutale istinto.

Da quel giorno la sua faccia non fu più tranquilla, i suoi occhi
si svelarono e sprigionarono bagliori di fiamma, la bocca fiorì,
divenne sensuale, tutto l'essere subì, in ritardo, la sua maturazione
rapidamente, in pochi giorni quella donna cambiò tutta, divenne
un'altra.

Spero che voi non penserete che simile prodigio fosse operato per unica
consolazione e gioia di quel buon uomo ch'era suo marito; gli è che
il gomitolo aveva mostrato il bandolo, l'ora era scoccata, e la donna
afferratolo incominciava la sua corsa.

Voi sapete meglio di me quali possano essere gli indizî, per un marito,
del suo momento critico. Io non pretendo certo di aggiungere una pagina
alla grande _Fisiologia del Matrimonio_ dell'immenso Balzac, egli ha
illuminate abbastanza le teste maritali, perch'io pretenda di volerci
portare il mio moccolino. D'altra parte nel nostro caso non importava
chiedere aiuto al grande scrutatore del matrimonio, questa donna
voleva, risolutamente voleva e trovava giusta e logica la sua condotta.
Era divenuta intollerante cattiva. Rimaneva fuori di casa, quanto e
quando le piaceva, era del suo amore soltanto, non voleva essere che
di lui, sfidava tutto e tutti. Che cosa glie ne importava del marito,
delle figlie, dei parenti tutti? Amava. Non avevano capito che quando
questo istante fosse giunto ella non avrebbe arrestato di un attimo il
suo cammino, e sarebbe andata dritta al suo scopo? Non era un'ipocrita,
non ammetteva di prostituirsi, non si era data per quello che non era,
dovevano averlo capito, colpa loro.

Una sera essa fu, nella sua casa, aspettata lungamente. Un povero uomo
colla testa stretta fra le mani, attese colla pazienza del dolore
più rassegnato, più atroce: attese: due creature gli erano attorno
con occhi che parevano interrogarlo, e ai quali non seppe rispondere,
la vecchia zia, in un angolo, addolorata, muta, vegliava come ad una
salma.

Elena col suo amante era fuggita, via, lontana felice, felice di aver
calpestato tutto, oh! avrebbe voluto gridarglielo a quell'uomo che si
era illuso, a quel povero imbecille; quale era l'amore! Che credeva
egli? Non aveva sentito, piccolo essere, di avere accanto una cosa, ed
era convinto di amare e di essere amato, era convinto che quello fosse
l'amore vero, doveva andare a vedere ora quale era! Egli non ne aveva
mai neanche intraveduto il tacco di uno stivale! Ora sentiva tutta
la forza del suo sangue, della sua vita, la piena del suo cuore da
traboccare tutta in quello dell'amato. Poi non pensò più che alla sua
felicità e per tanto tempo non si ricordò di avere avuto un marito, di
avere partorito delle creature, nulla!

I due amanti vissero fuori, lontani dalla loro città, per tre
bellissimi anni. Come nei primi due anni del suo matrimonio Elena aveva
dato alla luce due bambine, così dalla nuova unione saltarono fuori due
maschietti che furono chiamati Natale e Stefano.

                                   *
                                  * *

Trascorsi questi tre anni, il suo amante non potè dispensarsi, per
urgenti affari dal tornare nella sua città. Elena naturalmente lo
seguì immemore ancora di avere là, in una via di quella città stessa,
abbandonato un giorno un altro uomo e due piccine. Vi ritornava con
questo che amava ancora come il primo giorno, e coi due maschietti
pei quali aveva quelle cure che tutte le madri hanno pei loro figli,
senza però avere ancora sentito neppure per essi il grande trasporto
materno, istinto per il quale una donna può rendersi capace di tutto,
dimenticando sè stessa, rinunziando alla propria vita per quella dei
figli. Ella fu soltanto bestia per il suo uomo, una parola doveva
renderla madre d'un colpo.

Rientrata nella sua città, Elena, viveva nella nuova falsa famiglia,
che secondo lei era la vera, con la più grande naturalezza. Molti dei
vecchi amici, anzi i più, non le rivolsero il saluto e la segnarono del
loro disprezzo. Essa era fuggita, ma chi sa quali e quanti pettegolezzi
avevano seguito la sua fuga! Aveva un'altra famiglia e vi ritornava con
quella indifferenza, era il colmo!

Viveva appartata, usciva poco, di rado. Alcune vecchie amiche però
furono molto liete di rivederla, e come se nulla fosse accaduto,
ghiotte di questo genere di lecconerìe, ficcarono finchè fu loro
possibile il naso nelle sue faccende. C'era anche chi la compativa;
tutte quelle mogli, ad esempio, che avendo incappato in un marito della
più ottima specie potevano permettersi anche il lusso di disprezzarlo;
quelle avevano per lei parole di scusa — Essa non aveva potuto amarlo,
il bestione, una donna d'impulso, di passione, come poteva rimanere
con una marmotta di quella pasta? Troppo aveva pazientato. — Di più,
quelle che si trovavano in posizioni simili alla sua corsero tutte,
divise, divorziate, rimaritate, raccerottate con altri uomini che non
combinavano perfettamente nel loro nome con quello che è scritto allo
stato civile per legittimo compagno, tutte quelle picce insomma non di
primo getto.

Un giorno, una di queste amiche che le davano di solito uno schiaffo
sopra una guancia affrettandosi poi a carezzarle la guancia opposta,
o viceversa, una di queste dunque le diceva: «Sapete mia cara Elena
che quel vostro marito è veramente un imbecille? Voi non potete mai
indovinare che cosa sia andato ad inventare alle vostre creature! Che
voi siete morta». — Morta! — Essa esclamò dando un balzo. Quella fu
la parola che barattò un cuore di amante in quello di madre. Elena
sentì bene il baratto dentro il suo seno — Morta! Vigliacco! — Ella
pensò — «Sicuro mia cara, e le piccole infelici pregano per voi, hanno
fatto presso al loro letto un altare al quale offrono fiori lacrime e
preghiere ogni sera e ogni mattina. Volevano in tutti i modi il vostro
ritratto, non gli è stato concesso, capirete mia buona Elena i vostri
ritratti sono tutti banditi da quella casa, eppoi per quel mezzo le
piccine potrebbero un qualche giorno giungere a riconoscervi; gli hanno
invece dato per il loro altare una fotografia della Vergine Santissima,
che esse dicono la loro madre».

— Morta! — Ella pensava fra sè questa parola come volesse dire: —
smemorata! E Anna? E Agnese? Io le aveva dimenticate. Come saranno?
Forse io le ho incontrate per via senza riconoscerle.... chi sa come
saranno cresciute.... Anna ha ora.... sette anni... e sei Agnese, le
mie bambine....

In quel momento dimenticò il suo amante, non solo, ma Natale e Stefano.

— Morta! Vigliacco! Si è vendicato! Forse.... avrà sofferto,
l'infelice, ed ora si vendica, mi ha uccisa nel cuore delle mie
bambine, che sono mie, perchè le ho fatte io, perchè ho sofferto
nel darle alla luce, ho gridato, è carne strappata dal mio corpo....
vigliacco! — Ella pensava — Vigliacco.... chi sa come avrà sofferto....
forse.... esse domandarono di me.... e lui non seppe che rispondere....
La zia Gilda forse ha detto senza pensare a quello che diceva.... senza
capire di far male.... di far tanto male.... ha fatto molto male quella
vecchia, bisogna riparare! Le mie bambine.... chi sa come saranno
belle.... Anna.... Agnese.... erano rosee.... perchè le ho abbandonate?

Il giorno seguente, là in una via eccentrica, solitaria, una via
fabbricata di piccole case signorili, una signora elegante, velata, con
visibile impazienza percorreva su e giù da un capo all'altro la strada.
Ecco sbucare ad un tratto trotterellando due bambine con una cuffina
nera, e dietro di un passo una vecchia signora: la zia Gilda; le due
bambine belle, fresche, sembravano una pariglia di cavallini neri che
trascinassero il pesante convoglio della vecchia. La zia riconobbe
subito la signora velata, le bimbe non capirono nulla; la signora venne
avanti, rimase a lungo ferma dinanzi alla porta dove esse salterellando
e ridendo erano entrate. La vecchia arrivò su senza fiato. La sera
parlò col nipote dell'apparizione, e piansero insieme. Quella donna era
capace di tutto, di qualunque bassezza, ed erano quasi in diritto di
dubitarlo, di qualunque vendetta, si sarebbe vendicata. La zia raccontò
di averla vista in attitudine imperiosa, crudele, spavalda, di belva
spietata quale era, ed aveva sentite le sue ginocchia piegarsi per le
piccole creature che nulla avevano compreso.

Ora quella signora quasi ogni giorno passava per la via, quando aveva
vedute le bimbe si dileguava. Talvolta era dentro una vettura chiusa,
ferma a pochi passi dalla porta, voleva sentire la loro voce.

Il marito, in preda a crudele agitazione, non usciva più di casa nella
tema d'incontrarsi con lei; la vecchia zia uscendo si raccomandava al
Signore perchè quella donna non giuocasse un brutto tiro alle piccine.
Esse le passavano talora daccanto senza badare, un giorno si fermò
a guardarle dietro, e Anna si voltò insieme con lei ma senza capire
nulla.... che cosa doveva capire povera bimba? Pensava la sua buona
mammina tanto lontana, e non le bastava il fiuto per sentirla invece
tanto vicina. La sera rimanevano lungamente in ginocchio dinanzi
all'altare della mamma «Dove sarai povera mammina nostra? In paradiso
da Gesù». E forse a quell'ora una donna misteriosa alitava attorno alla
casa.

Non si sa come mai alle due fanciulle venne questa idea: «La mamma
è morta, dunque bisogna andare a trovarla al camposanto». E non si
stancarono di chiedere e domandare.

Il povero padre pensava: — queste fanciulle crescono, incominciano
a capire, che sarà di noi? Come si può continuare? Quella donna sarà
spietata, io mi sono vendicato su lei; essa si vendicherà ferocemente
sulle sue creature.

Si dovè trovare un estremo espediente, comperare un posto nel cimitero,
uno di quei posti che si comprano in vita per la morte, porre una
lapide, e scrivere sopra il nome di quella donna. Avrebbe avuto il
coraggio di rovinare questo incanto per le innocenti? Forse si sarebbe
sentita avvilita, vinta, definitivamente, avrebbe ceduto, abbandonata
la preda. E l'uomo, pur lavorando per le sue creature, ebbe un
ultimo rancore di marito calpesto, rialzò la fronte: — sì, bisogna
seppellirla.

Il posto fu comprato e sulla lapide fu scritto: Elena Fascia Tarantini.

La zia ripeteva: «siete troppo piccine per andare al camposanto»; ma
loro tanto insistettero che un giorno bisognò condurvele. Cariche di
rose, le belle faccine salirono sulla vettura che le doveva portare
dalla mamma. Mentre la carrozza si muoveva la solita figura apparve
proprio in quel momento.

— Dove vanno? — Essa pensò — Portano i fiori alla maestra, o alla
Madonna, perchè voglia bene la loro mamma.... belle!.... Sembrano
anch'esse due rose.... invece Natale e Stefano sono così pallidi....
anemici.... Oh! Era naturale, quelle creature concepite negli spasimi
della voluttà, dovevano essere così, essi portavano in fronte la
macchia del piacere illecito, del vizio; le due bimbe invece no, non
furono concepite per il piacere dell'uomo, erano cresciute sane....
belle.... erano state concepite nella purità... Oh! avesse potuto
prenderseli tutti e quattro i suoi piccini e fuggire via con loro! Ma
l'avrebbero amata? Non avrebbero, un giorno, conosciuta la verità,
incominciato a odiarla.... a disprezzarla.... Dio! Che povera donna
infelice era lei! E in fondo che aveva fatto? Aveva amato un uomo, se
quello fosse stato il marito, se non l'avessero spinta al matrimonio
troppo presto, ora sarebbe stata felice, tranquilla.... Ma quei due
uomini perchè non si odiavano? Perchè non si mettevano l'uno di fronte
all'altro con una pistola in mano? Oh! Ella avrebbe voluto vederli
scomparire, e rimanere sola coi suoi bambini, uno non lo aveva amato
mai, l'altro non lo amava più. Amava i suoi figli, e specialmente le
sue bambine che la credevano morta. Morta! Che vigliaccheria! Bisognava
vendicarsi ma senza toccare le piccole, oh! i loro visetti rosei non
dovevano impallidire.

Un giorno, alcune delle solite amiche, le vennero a dire «Mia cara
Elena noi veniamo qui, a casa vostra, e vi troviamo bella e fresca
come un fiore, e quando andiamo in cimitero a pregare per i nostri
poveri defunti ci sentiamo prese dalla voglia di recitare anche per
voi qualche orazione. Le vostre piccine sono lì quasi ogni giorno a
spargere fiori sopra la vostra tomba».

— Oh! Porco! Anche questo! L'aveva seppellita! Non c'era più speranza,
non le rimaneva che farsi mettere viva in quella tomba per amore delle
sue creature! Era troppo! Era troppo! Ecco dove portavano le rose!

Andò al cimitero trovò la sua tomba colla lapide e attorno tante rose,
tanti fiori accomodati da quelle quattro manine....

Quel giorno essa aspettò ma le piccole non vennero. Si recavano là il
giovedì e la domenica, i giorni di vacanza. Ella tornò ancora e ve le
incontrò. Erano inginocchiate.... cogli occhioni belli, pensosi....

— Che succederà — pensò la vecchia zia tremando.

I primi giorni Anna e Agnese avevano domandate centomila cose, un
diluvio di osservazioni che nella loro ingenuità saltavano fuori così
profonde che la vecchia dovè radunare tutta la sua esperienza per
rispondervi senza sbagliare.

Perchè la lapide della mamma non era tutta scritta come quella degli
altri morti? La zia aveva risposto che quando il dolore è vero e grande
non si possono trovare tante parole. — E allora? — Avevano esclamato
le bimbe — tutte quest'altre? — E alla loro tenerissima età avevano
guardato quasi come un vecchio scettico le lunghe filastrocche, ed
erano contente che la mamma fosse così tutta bianca, si riconosceva
bene da lontano, si distingueva dalle altre con quelle tre parole sole
in mezzo.

Quando scelsero la cappina per l'inverno, la vollero nera ad ogni
costo. — La nostra passeggiata è sempre al camposanto, e al camposanto
ci si va vestiti di nero. — Là incontravano tante persone vestite di
nero cogli occhi rossi di pianto....

S'inginocchiavano una accanto all'altra, dicevano una preghiera
tutta loro, una di quelle preghiere vere, che dovrebbero andare di
volo dalle anime all'anima di chi porgesse orecchio ad ascoltarle. È
facile pregare macchinalmente, con vecchie parole, e i monaci possono
rimanere ore e ore ogni giorno biascicando le consuete frasi, ma se
essi dovessero pregare colle parole loro, oh! non durerebbero che pochi
minuti.

La preghiera di queste due bambine era una di quelle piccole cose fatte
apposta per far versare fiumi di lacrime ai cuori teneri; ma che noi
abbrevieremo per raccoglierne minor mèsse che ci sia possibile. Esse
dicevano presso a poco così: «Piccolo Gesù, la signora maestra ci ha
insegnato che tu risuscitasti dopo che eri morto, tu che sei tanto
buono insegna alla nostra mammina che è qui sotto, come hai fatto, e
allora lei ritornerà colle sue bambine». La vecchia zia dietro piangeva
e guardava all'orizzonte sempre temendo di veder comparire la solita
figura.

La signora vi si recava, e da lontano osservava la scena.

— Come sono punita! Quale cuore è più straziato del mio? Le mie
creature sono lì, e piangono e pregano sulla mia tomba, ed io a pochi
passi da loro non posso correre a rialzarle, abbracciarle e farle
felici. E sento che la forza che mi tiene mi abbandonerà, che io non
resisterò e non posso e non debbo andare!... Dio! come sono punita!
Nessun cuore può essere più lacerato di quello colpito nell'amore dei
suoi figli!

Ebbe un impeto di sdegno contro l'uomo che l'aveva sepolta.

— Ah! Tu mi hai uccisa e sepolta! Va bene! Sono morta, ma ancora in
tempo per risuscitare!

La domenica, quando le fanciulle furono allo svolto che recava alla
tomba della mamma, diedero insieme un grido, uno scatto, e una corsa.
Sulla lapide, in piedi, immobile, c'era una bella signora vestita di
nero, pallidissima, tutta coperta da un lungo velo nero.

— La mamma! La mamma! — gridavano — Gesù! Gesù! Le si avvinghiarono ed
ella inginocchiata, se le stringeva, e piangeva e singhiozzava....

La vecchia ebbe un primo impeto sdegnato, e gridò:

— No! No! — Ma poi chinò la testa. E le piccole gridavano che Gesù
aveva fatto come gli avevano detto loro, glie lo avevano detto loro a
Gesù, e appena smessero di gridare le raccontarono.

Intanto due uomini erano giunti, e con due grossi pali di ferro avevano
sollevata la lapide dinanzi alle bambine. La tomba era vuota, bianca,
nuova, pulita. Come era bella la tomba dove era stata la mamma! Non
faceva punta punta paura! La mamma era risuscitata! La fecero salire
nella vettura, essa non voleva, ve la obbligarono, non fu possibile
resistere, la spinsero su tirandosela in mezzo.

Il padre era immerso nei suoi pensieri quando udì le grida e vide
l'apparizione. Rimase fermo senza poter capire.

— Risuscitata! — Gridavano insieme le fanciulle come la cosa più
naturale di questo mondo — Risuscitata! Non ci crede! Non è la mamma?

— Sì. Sì — Disse l'uomo con voce spenta, incapace ancora di
raccapezzarsi.

— E allora?

I due si avvicinarono, si strinsero piegando il capo ad un giogo che le
due creature imponevano colla freschezza di una corona di rose.

— Risuscitata!

                                   *
                                  * *

Ma.... alla morte non si sfugge, mia cara signora, nemmeno quando si ha
la fortuna di poter risuscitare: Lazzaro non è più fra noi.

In quella stessa ora, in un'altra casa di quella stessa città, un uomo
passeggia nervosamente avanti e indietro per una stanza; due fanciulli
pallidi che sembrano gigli sbatacchiati dalla tempesta: — la mamma? la
mamma? — domandano con un filo di voce.

L'uomo si morde il labbro inferiore aggrottando le ciglia, poi con una
mossa rabbiosa, pestando un piede, trita fra i denti una parola secca:
«morta!»



LE DUE FAMIGLIE


Quando la vedova del colonnello usciva per condurre a fare del moto la
sua famiglia, intraprendeva invero una faccenda che a qualunque altra
donna sarebbe riuscita molto difficile per non dire assolutamente
impossibile. Ma questa donna avrebbe saputa sbrigare a dovere quella
e ben altre faccende. Di mastodontica corporatura, bella ancora nella
sua eccessiva robustezza, figlia della forte Romagna, nascondeva sotto
il suo rigoglioso e virile aspetto, sotto la sua apparenza di burbera
e intollerante, un immenso dolcissimo cuore, una grande anima aperta
leale e generosa.

— Miei cari — soleva ripetere ai suoi amici — io vi vorrei vedere
un po' al mio posto, uscire con cinque ragazze di questa specie!
Traversare il centro di una città, passare sotto migliaia di occhi
indiscreti, dinanzi a tutti gl'imbecilli che vi si parano sul cammino.
Se fosse vivo quel brav'uomo del colonnello potremmo almeno dividerci
la razione! E le ragazze hanno bisogno del moto come del pane
quotidiano, hanno bisogno di luce, di aria, questi diavoli! Provate
a tenere fermo il vostro ferro; esso vi farà la ruggine, volete ch'io
lasci arrugginire una stirpe di tale specie?

Non sembra dunque ch'io conduca le puledre sul mercato? Non vi faccio
questo effetto? Mi sembra. Può darsi ch'io equivochi. Pensate ch'io
non posso neppure servirmi di una vettura pubblica, nossignore, per
condurle fuori, via, all'aria aperta, a scavallare un po' queste
bestiole; possono farsi strascicare per le strade sei donne a questo
modo tutte sopra una vettura? Possono, dite voi? Per divenire la favola
della città? Un carro simile? Per le strade della bella Firenze una
biroccia carica di grazia di Dio come questa? Migliaia di imbecilli ci
sventolerebbero i loro fazzoletti; non potendo più farci udire i loro
ridicoli commenti. Fino a poco fa, vedete, la faccenda non era poi così
complicata, ve ne erano delle bambine, ma ora sissignore, Valentina non
ha che dodici anni e mi dà pensiero come le altre, s'ella non mi sembra
già la più provocante di tutte nella sua fanciullezza. Noi marciamo due
per due, sissignore, come le educande di Santa Dorotea.

Questa esuberante donna, facile ad esagerare anche nell'esprimersi,
pure, quando parlava così non si può dire che esagerasse molto.
Aveva cinque figlie la maggiore delle quali, Federica, non aveva
ancora vent'anni; la seconda, Guglielma, diciannove; la terza Guida,
diciassette; la quarta, Pietra, quindici; e l'ultima, Valentina,
dodici.

Le prime quattro si rassomigliavano come gocce d'acqua, quattro belle
creature bionde, rigogliose, dalle figure alte, morbide, slanciate,
dai grandi occhi celesti, e con pronti e franchi sorrisi sulle labbra,
anime aperte, allegre, sincere. L'ultima, Valentina, aveva invece dei
bellissimi capelli neri, e grandi occhi azzurri pensosi, carni brune,
ed era, nella sua candida espressione, un pochino triste, strano
contrasto coll'eterna giovialità delle sorelle.

— S'io non fossi la donna che sono si direbbe che questa bella creatura
non fosse di quel galantuomo. Si è mai visto gatte bianche partorire
gatti neri? Suo padre voleva convincermi ch'essa è il ritratto della
madre sua. Come due animali rossi hanno potuto mettere assieme questa
creatura così nera? Sapreste voi dirmelo?

Questa vedova era stata, si vedeva ancora benchè prossima alla
cinquantina, una magnifica donna, di quelle monumentali, dai lineamenti
regali, dalla superba figura. Un felice impasto di popolo e di reggia.
Il povero colonnello l'aveva conosciuta oramai vicina ai trent'anni
e risoluta a non maritarsi più. In possesso di una grossa fortuna i
pretendenti non le erano mancati; ma per il suo impetuoso carattere
aveva sempre mandato sottosopra ogni cosa. Una volta fu chiesta da un
giovine aristocratico, un po' melenso e timidiccio; mentre ella gli
andava incontro a mano tesa e il giovine brancolava per portarsela alla
bocca e baciargliela, la ragazza sentendo in quel cincischiare la sua
mano prossima alla faccia dell'individuo gli assestò un così solenne
ceffone, tanto istintivo, ch'ella si chiese poi come fosse partito
dalle mani. Alle sue strette bisognava essere prevenuti; voi provavate,
prima, il netto distaccamento del braccio dalla spalla, dipoi,
sentivate come migliaia di formicole circolare al posto del braccio
che non sentivate più. Anche le sue risate erano favolose, altri le
chiamerebbe addirittura sconvenienti, superavano qualunque frastuono,
ed uscivano limpide, metalliche, che rivelavano la sua contentezza, la
serenità del suo cuore.

Col povero colonnello, morto di un colpo apoplettico quando Valentina
aveva appena quattro anni, nei momenti della massima comunione, dopo
avere più o meno amorosamente discusso o parlato, o altercato, di
faccende o di opinioni, finivano con una stretta di mano, ugualmente
mortale da ambo le parti, ma che dimostrava la reciproca stima dei due
focosi esseri. Cosa molto rara fra marito e moglie.

Quando ella, risoluta a non maritarsi più, s'imbattè in quella
buon'anima, allora capitano d'artiglieria, alle prime parole avute
con lui — ecco il mio uomo — disse, si scambiarono la prima di quelle
strette, s'intesero, si amarono.

— Tutti pretendevano un'unione piena di baruffe e senza prole,
sissignori, io e quel valentuomo c'intendevamo come il pane col
formaggio e per la prole eccovi, quale sorta di creature siamo stati
capaci di mettere alla luce del sole! La gente di questo mondo non apre
la bocca che per dire delle bestialità. Il pover'uomo era un santo! Che
anima! Che sangue! Per tutti i diavoli, era un uomo, non s'incontrano
più che degli scarabocchi! Bisogna ricorrere ai tempi antichi! Pure
è morto senza avere la sua sodisfazione. Dio non è giusto, ogni volta
ch'io era per partorire, egli, preparava segretamente un bel nome per
un fanciullo, sissignore, che per cinque volte ha dovuto assestarlo
a delle piscione come queste, oh, egli non si prendeva la bega di
cercarne un altro, in ultimo capì, il baggiano, che c'erano anche le
donne al mondo, per sua disgrazia, che bisognava trovare dei nomi a
doppio uso. Queste ragazze portano dei nomi come i maschi! Oh! povero
galantuomo, ti dò la mia parola, ti avrei dato un novello Garibaldi!
L'infelice mi cadde addosso come un cencio mentre disputavamo da buoni
amici, mi cadde nelle braccia fulminato, era nato per questo, si vedeva
bene, la sua faccia era un vulcano, il sangue gli invadeva la testa di
continuo.

                                   *
                                  * *

Quando la vedova del colonnello ancora giovane e bella, rimase sola,
molti le furono attorno a consigliarle un novello matrimonio. La sua
situazione, per quanto ricchissima, era delle più scabrose, con tante
figlie.

— Volete ch'io ricominci il mio lavoro? E dove troverei ancora una
vena di quel sangue? Credete ch'io potessi vivere con una marmotta
chicchessia? Mi credete incapace a trarmi d'impaccio con queste
piscione? Vedremo se io sono una donna!

Si era levata d'impaccio a meraviglia, l'unico esercizio che le pesava
era quello di condurle a spasso; ella lanciava occhiate furibonde a chi
sottolineava il passaggio o con sguardi troppo indiscreti o con parole
troppo lusinghiere.

— Ti sembrano bocconi per i tuoi denti, pezzo d'imbecille che non sei
altro? — Aveva qualche volta alzato l'ombrello da sole, e da acqua,
sulla testa di qualcuno.

— Io spero che le mie fanciulle non cadranno nelle mani di questi
piccoli fiorentinucci.

                                   *
                                  * *

I bei frutti si maturavano rapidamente e i primi di essi, nella loro
esuberante freschezza nei loro smaglianti colori parevano proprio dire:
«coglieteci, non ci lasciate cadere». E la colonnella era il ricco
ceppo ambulante che li sosteneva.

Era un po' difficile rompere il ghiaccio, non per quelle care e
belle creature, ma per la bollente madre, essa godeva, fra chi non la
conosceva bene, una fama del tutto sbagliata, la si considerava come
una donna terribile, e, qualche volta, un tantino volgare; bastava
conoscerla per convincersi che di terribile in lei non c'erano che le
parole, e che tutto il suo essere si sintetizzava in una sola parola:
salute. Era molto difficile meritare le sue strette ecco, e i suoi
scappellotti, che noi dobbiamo considerare come le carezze di un
affetto impetuoso e sincero.

Due tenenti di artiglieria, forti e bravi giovinotti, fraternamente
e saldamente uniti, impossessatisi a volo dei cuori di Federica e di
Guglielma, tentarono da eroi l'assalto alla fortezza; essa rispose al
primo attacco con mitraglia, ma al bell'aspetto florido e gaio dei due
tipi, e tenuto conto di un debole speciale per quell'arma, la fortezza
si arrese.

— Quest'artiglieria deve essere il Rubicone della mia famiglia! Da
bravi giovinotti! — E picchiando sopra le spalle dei saldi artiglieri
colpi da camerata la colonnella decise la sorte delle sue due figlie
maggiori.

— La mia non è più una casa, è un arsenale! Venite pure a vedere!
Queste bestie di artiglieri mi fanno il finimondo! — Eppoi con un
sorriso pieno di gioia — È pur sempre simpatico il rumore degli
speroni! Gran bella cosa! E questa masnada di donne non poteva durare
di più, io mi sarei data la testa nel muro! Venite a vedere, le mie
piscione si maritano!

Una volta in casa, i fidanzati, messero un ameno scompiglio. Guida e
Pietra si fecero un po' serie, un po' crucciate, sentivano di rimaner
sole e si appartavano malinconiche. Il loro sangue vivace dava loro una
naturale irrequietezza.

— Eccole, tutte in amore le mie gatte! A che cosa pensereste mai, voi,
signore piscione che avete ancora il latte sulle labbra?

Si respirava però un'aria già di matrimonio generale.

— Chi può fare tali proposte onoratamente? Volete ch'io metta le mie
creature nelle mani di un satiro? A quindici anni si debbono maritare
le ragazze? Ma in che mondo viviamo?

Quando Federica e Guglielma furono spose e partirono felici dietro
i loro compagni, non passarono molti mesi che un certo avvocato si
presentò di punto in bianco dalla colonnella e chiese risolutamente
la mano di Guida. La madre ne rimase di sasso, ma la figlia sembrava
prevenuta ed era raggiante nella sicurezza ch'essa non l'avrebbe
ostacolata. Questo avvocato era un bel giovinotto bruno, ricco
possidente palermitano.

— Palermo? Che discorsi mi fate? Andresti dunque fino a Palermo pure di
attaccarti ad un idiota di uomo? E che cosa sono mai questi avvocati
colle loro chiacchiere? Non è certo colle chiacchiere che si viene a
far mercato da me.

— Ma Palermo è una magnifica città, mammina.

— Andare fin laggiù, in quella orribile Sicilia!

— Mammina, ma la Sicilia è un incanto, il paradiso terrestre.

— Cosa ne sai tu che ne senti parlare per la prima volta dal tuo
avvocato?

— Eppoi verremo sempre a Firenze, spesso spesso, a trovarti, e tu
verrai da noi, laggiù, vedrai com'è bello....

— Tu sei esaltata, questo tuo avvocato ti ha confusa la testa colla
sua parlantina. Si capisce, è un incanto, è il paradiso della terra,
naturalmente, si può benissimo andare fino al Messico per correr dietro
a due calzoni! Scellerate! Voi non somigliate vostra madre! Nè a quella
buon'anima del colonnello! Il vostro aspetto si smaschera non appena
siate influenzate da un imbecille chicchessia. Sembrate delle monache
frustate e non avete poi vergogna a mostrarvi furibonde per il primo
idiota coi calzoni.

Ma anche l'avvocato siciliano, che era un bravo e simpatico giovinotto,
ebbe i suoi buoni colpi sulla spalla dalla colonnella e Guida, poco più
che diciottenne, partì beatamente per la sua Sicilia.

Un po' di riposo eppoi doveva essere la volta di Pietra; (che nome
povera piccina, mi pare che almeno questa volta il bravo colonnello
poteva darsi la pena di assestargliene un altro). La madre la teneva
ancora vestita da marinaio come una bimba, ed essa ne era mortificata.
Malgrado i suoi diciassette anni sentiva il gran momento assai più
vicino di quanto non lo pretendesse la madre.

— Ma che cos'hanno nel sangue queste infelici? Sono come delle bestie
in caldo!

Un compagno d'infanzia di Pietra e delle altre, ma che aveva sempre
avuta una particolare tenerezza per lei, benchè avesse quattro anni
di più, aveva or ora finito il suo corso di scienze sociali, e si
preparava a partire per un'ambasciata. La vedova del colonnello
annusava già la fine di questa infantile amicizia e si preparava a
scattare furibonda sopra il giovine che aveva conosciuto dalla nascita.

Una sera, dopo un pranzo dato ad alcuni amici, e al quale era stato
invitato anche il futuro diplomatico, la colonnella li sorprese, lui
e Pietra, in sentimentale colloquio dietro una tenda, nel vano di
una finestra. I colpevoli vennero in faccia a tutti smascherati e
minacciati della frusta.

— Che cosa sono queste tresche? Che cos'è la mia casa, il bordello
universale? Avete tutti congiurato contro di me? Furfanti! Mi lascerete
sola come un cane! Queste creature io le ho dovute precipitare,
assassinare tutte, le ho dovute mettere nelle mani dei primi venuti,
dei loro carnefici; prima che avessero terminato il loro sviluppo
naturale! Dovranno pentirsene! Io allora farò loro l'uscio sul muso!
Credete ch'io voglia essere la rovina delle mie povere creature? Cosa
pretendi tu colle tue ambasciate, di trascinarmi questa vitella al
macello? Nel centro dell'Africa? Fuori della civiltà? Fuori della
mia casa? Io sono furibonda! Non conosco più ragioni! Questa orribile
schiatta di animali mi ha fatto dar di volta al cervello! Rimango sola
come una bestia! Queste rinnegate, una volta via, non scrivono più,
non sanno pensare che ai loro despoti; la mia Federica ha già partorito
il secondo figlio! Ma che diventerà mai questa casa! L'arca di Noè in
persona! Questi insensati si riproducono come i conigli, che sanno?
Non sanno nulla, che sia la vita! Ai miei tempi era ben diverso, ora
tutto diviene caro in una maniera indegna! Si può pensare a maritarsi
con tanta leggerezza? Eppoi gente di questa specie? Che posizione è
mai questa della tua ambasciata? E questa creaturina dovrebbe venirti
dietro alle ambasciate? Mai! Volete farmi venire un colpo apoplettico,
come al colonnello? S'egli fosse vissuto, voi non avreste fatto di
vostra testa, le mie sgualdrinelle, avrei ben saputo farlo rispettare
io, quel povero baggiano! La mia opinione non conta più di una vecchia
ciabatta qua dentro, queste spudorate hanno fatto tutte di loro
capriccio, si sono lasciate tirar nel precipizio a occhi chiusi, io
mi troverò sul lastrico per loro! Che bailamme è divenuto mai questo,
con tutti questi mariti? Così sono fatte le belle ragazzine dei
nostri giorni, a dieci anni non arrossiscono più, agiscono come donne
qualunque, fanno cose da fare arrossire i carabinieri! E i genitori le
trovano nascoste dietro le tende! Questa non è la fiera, fuori, fuori
di casa mia!

Una di esse è a Torino, seguita a partorire figli come una gatta, e non
pensa più a sua madre. Una è a Belluno, capite? a Belluno! Che cos'è
mai questo paese di Zulù? Si può pensare che una delle mie creature
vive a Belluno? Ho io ragione di darmi la testa nel muro? L'altra è a
Palermo, in quell'orribile isola dei cataclismi, di tutti gli accidenti
della terra! Zeppa di briganti! Questa vuoi tu condurmela in capo al
mondo? Dove dunque? Dove? Fra i selvaggi? Io vi ripudio tutte! Io non
ho più famiglia, ho partorito stirpe di serpenti, e ne pago caro il
fio! Prendetevi dunque, andate all'inferno, ch'io non vi veda mai più,
ch'io non senta mai più parlare di voi, assassini che non siete altro!

E così le quattro sirene bionde avevano lasciata la casa ed erano
partite felici cogli amati compagni, accompagnate da molti scappellotti
e grida della colonnella, che ormai era abituata così a carezzare le
persone che amava.

Avvenne però che questa donna così esuberante ed espansiva, che
sentiva bisogno di agitarsi di continuo per vivere, e di mettere a
soqquadro tutto il suo mondo senza interruzione, era rimasta sola con
Valentina che aveva ora giusti sedici anni. Questa ultima figlia, nel
suo magnifico sviluppo era divenuta la più bella di tutte, ma aveva un
carattere tranquillo taciturno a differenza delle altre, sentiva certo
quanto e più di loro, ma non era così vivace ed espansiva quanto loro,
non amava il chiasso e si mostrava affettuosamente rassegnata a quello,
molto, che la madre le faceva dattorno. E la colonnella sbuffava,
incapace di attaccare con questa creatura e di prendere i suoi sfoghi
naturali indispensabili come il pane per la sua esistenza.

— Il mio sangue è tutto partito! È sparso per il mondo! Questa ragazza
non ha il mio sangue nelle vene, io sono un pesce fuor d'acqua con
lei! Dove sono le mie povere creature? Non si può fare un discorso
in regola, che cos'è questa sorniona? È un libro chiuso! È una
disperazione! Le altre erano aperte, si leggeva loro in fondo al
cuore a guardarle! Come ha potuto venir fuori quest'animale dalle
mie viscere? Si direbbe ch'io fossi stata conciata nel sonno. Questa
fanciulla non ha sensi, è un marmo! Chi si può già fidare di certi
tipi? Sono i peggiori! La mia signorina, sembra che voi non ne
vogliate, io non mi fiderei per questo di voi, e mi aspetto sempre che
ne facciate una delle belle!

Tutti questi quotidiani borbottamenti non approdavano a nulla, il
terreno era sfavorevole e il seme del fracasso vi rimaneva sterile, la
bella creatura rispondeva con gentili e buoni sorrisi, con monosillabi
rispettosi e niente più.

Un giorno la colonnella, vicina a sentirsi crepare per mancanza
di sfogo, uscì colla faccia congestionata, borbottando, sbuffando,
gestendo; ne ritornò di lì a poche ore con una bella cagnolina in
braccio, una piccola graziosissima _fox-terrier_.

— Ecco la mia creatura! Io potrò almeno sfogarmi un po' con essa! Si
può continuare a vivere con una sorta di persone come quella? Questa
bastarda è la mia disperazione, mi vedrà schiantare e non darà un
grido, non farà un gesto, la sua freddezza mi assassina!

La robusta vedova si sfogava ora colla bella cagnolina che si chiamava
Burrasca, ed era di una vivacità scandalosa, sembrava avesse il
mercurio nelle vene, proprio quello che ci voleva per lei; e le teneva
discorsi, rimproveri, si abbaruffava con la bestiola, erano insomma due
burrasche che andavano benissimo me per fare un temporale solo.

— Io non ho più che una figlia, la mia burrascuccia, l'anima mia,
s'ella è carina quel demonio! Che avrà in corpo che non si ferma un
minuto? Le mie figlie mi hanno rigettato o mi detestano, queste sono
le nostre vere creature, queste care gioie ci amano davvero; e il loro
amore è assai più disinteressato di quello della gentaccia di questo
mondo! Ella mi salta addosso per darmi la sua anima, non pensa ad
abbandonarmi, mi seguirebbe s'io me ne andassi al diavolo!

Un tenente di artiglieria chiese la mano di Valentina e gli fu concessa
immantinente senza punto sbraitare stavolta.

— È la mia stella, ve l'avevo detto! Venite a sentire; il rumore degli
speroni sulle mie scale! Mi pareva di vivere in un convento, questa
bambinuccia poteva far la monaca senza sentirne sacrifizio.

Per il matrimonio di Valentina erano presenti tutte le sorelle coi
rispettivi mariti e figli.

Rimasta sola la vedova del colonnello, sapete che fece? dispose per
prima cosa di alzare di un piano la sua bella palazzina.

— Come si può alloggiare una tribù di questo genere? — Per le nozze di
Valentina c'era chi aveva dormito per terra e sopra i sofà.

— La mia casa può da un momento all'altro essere ridotta in un ghetto
autentico! Pensate s'essi mi capitano tutti in una volta per un
accidente qualsiasi, dove posso io alloggiare quella banda? Vedete se
quello che mi succede è di nuovo genere! Ora che mi hanno lasciata sola
come un cane debbo alzare di un piano la mia casa.

Poi, rivolta alla sua burraschina che le si lanciava addosso come un
bolide ogni due secondi, osservò che si poteva ben dare un cencio di
marito anche a lei poverina. — Non hanno le bestie lo stesso istinto
nostro? Non ha anche lei questo diritto poverina? E le mie figliole che
sembravano delle sante Caterine unte non si sono nemmeno vergognate a
farsi vedere fuori di sè come tante cialtrone. Oh! Io non sarò certo il
tuo carceriere piccola anima!

E fu introdotto in casa uno sceltissimo campione della razza che si
chiamò Libeccio; e la burraschina di lì a sei mesi partorì due graziose
creaturine.

Spesso spesso la Colonnella si metteva in viaggio, una volta per
l'alta Italia dove erano due delle sue figliole, e si tratteneva
qualche giorno da ognuna. Scappavano fuori dei marmocchi da tutte le
parti! Maschi, femmine! — Che stirpe! — Gridava — Che sangue! Quella
buon'anima del colonnello! — Un'altra volta per la bassa Italia dove
ne aveva altre due, una a Palermo, l'altra a Napoli. I nipoti, erano
bruni come zulù, o biondi, dalle carni di oliva o dalle carni di rosa,
di tutti i colori!

Pietra era andata col suo _attaché_ a Parigi, ma la Colonnella non
aveva ancora saputo decidersi ad andare fin là. — Verranno essi da
me, alla mia età non è più possibile acconciarsi in una città di donne
sudice come quella.

Quando ritornava a Firenze non si poteva dire che ella fosse più sola.
Un'altra famiglia l'attendeva, ed aveva sostituito quella che poco per
volta si era dispersa. E come avrebbe potuto vivere senza un po' di
fracasso d'intorno quel flagello di donna?

La Burraschina e Libeccio avevano avuto due figli: Grandine e Bufera,
questi poi ne avevano avuti a loro volta tra loro fratelli.... e dalla
Burraschina stessa, la qual cosa era stata così straordinaria per la
vedova del colonnello che aveva ricoperta di vituperî la povera ed
innocente Burraschina. E pian pianino di questo passo la famiglia a
Firenze era giunta al numero di ventiquattro componenti. Ventiquattro
esseri che sembravano di gomma elastica e che tutti saltavano con molta
elasticità addosso alla loro amata signora. Dunque: Burrasca, Libeccio,
Grandine, Bufera, Tramontano, Briscola, Scamuzza, Menelich, Lampo,
Balilla, Culinsù, Schizzo, Folletto, Buzzetto, Belzebù, Trottola,
Saetta, Musolino, Monachina, Pandemonio, Bizza, Frizzo, Vituperio,
Terremoto.

— La mia famiglia se l'è portata via il vento, questa è la mia
famiglia! Partorite delle figlie eppoi vedrete. Esse vi abbandoneranno
come un cane rognoso; quando vi rivedono appena vi guardano, vi
considerano quanto uno strofinaccio, e vi accarezzano se occorrono loro
dei denari. Se direte loro una parola torta vi chiameranno carnefice,
si daranno arie da vittime. Per queste invece siete Iddio, siete tutto!
Potete batterle, credete che vi fuggiranno, nossignori, vi ameranno più
che mai!

Due volte all'anno, per il Natale e la Pasqua, la colonnella riunisce
per alcuni giorni, sotto il proprio tetto, al completo, le sue due
famiglie. Verso la metà di dicembre e dopo la metà di quaresima
incominciano a giungere le figlie, coi mariti figli balie bambinaie
cameriere. I nipoti non si contano più, quasi come quelli dei cani!

— La mia Federica già quattro me ne ha scodellati di questi vituperî,
vuol dare le paghe alla sua vecchia! Valentina è al suo primo ma non le
mancherà il tempo.

Solo Pietra e il suo _attaché_ non hanno ancora fruttificato.

— Che cos'è di voi due? Cosa sono queste arie da quaresima che vi
date? Che fate mai in quella maledetta Parigi? È l'aria che vi ha reso
sterili? Che cos'è mai quel pandemonio di città? Tutta rimescolata
questa gente, le grida i salti le risa, un uragano, il finimondo!
Credete che la vedova del colonnello si trovi imbarazzata in mezzo a
tale cataclisma? Ella dispensa sculaccioni, scappellotti, strette di
mano, colpi di spalla, riparando a tutto ed a tutti, presiedendo con
un'energia spaventosa una riunione delle più movimentate. I generi le
figlie i nipoti i cani le saltano addosso da ogni parte; e quando una
delle famiglie, la regolare, è più o meno regolarmente seduta a mensa,
l'altra, l'irregolare, circola irregolarissimamente sotto la tavola,
fra le sedie, le gambe, salta sopra le ginocchia, si rimescola nel
frastuono generale, e sulle onde di quell'oceano in burrasca di tanto
in tanto si fa largo sopra tutti i rumori il varo di una di quelle
belle risate sane e felici della colonnella.



IL MENDICANTE


Nel via vai del mezzogiorno appariva all'angolo della strada il nuovo
mendicante.

In quell'ora frettolosa non fu molto notato le prime volte.

Ma la sua giovinezza faceva pensare.

Non poteva avere più di venticinque anni. Vestiva di un abito nero
fuori di moda, vecchio ma non logoro, portava un cappello grigio di
feltro ancora in buono stato, e le sue scarpe pure non erano rotte.

Dall'abito non poteva ispirare alcuna pietà; ma la sua giovinezza
faceva pensare.

La faccia era pallidissima, e se un naso adunco vi grinfava sopra, due
occhi oblunghi, vissuti, semispenti vi naufragavano.

Faceva pensare ad un aquilotto malato.

Rimaneva immobile, muto, per circa un'ora su quella cantonata, dipoi
si allontanava camminando come un qualunque fornito cittadino di questo
mondo.

La sua mano restava, per tutta quell'ora, in atto supplichevole, non di
insistente richiesta.

Buoni padri di famiglia, ottime madri, depositavano monete nella mano
del giovine infelice. Ma questi, non serrando le dita per sostenerle le
lasciava giù rotolare nel mezzo della strada dalla mano immobile come
quella di una statua.

Questo strano contegno fu accolto assai diversamente dai più o meno
benefici cittadini.

Taluno credè ben fatto alzare ancora di un grado la temperatura della
sua pietà: raccolse pazientemente la moneta e gliela pose in tasca;
guardando quindi stupito il nuovo genere di accattone.

Altri si allontanò furibondo, nauseato.

Un'ostinata vecchia beneficatrice che seguiva la scena dalla finestra,
mandò cento messaggi di cuoco e cameriere e maestro di casa ad offrire
al giovine povero, cibo, alloggio, vestimenta, protezione. Invano. La
pietosa dama, perduto il lume degli occhi, gli sbattè così forte la
finestra sul muso che due vetri ne caddero fracassati sulla strada.

Una cicciuta vedova credè indovinare il bisogno del pallido mendico; e
dal suo balcone, gli fece intravedere a spiragli paradisi spalancati.

Il delegato di pubblica sicurezza gli piantò in faccia la sua, gonfia
di potere.

— Che cosa cercate dunque voi su questa cantonata?

Il giovane alzò il volto bianco su quello pregno di sussiego che lo
scrutava, e con semplicità rispose:

— Delle opinioni.

— Delle opinioni? Cospetto! Eh! Una bagattella! Uhm!...

Quando gli passò dinanzi il deputato del collegio, non sdegnò
fermarglisi vicino in attitudine paterna.

— Venite, mio caro, io sarò il vostro benefattore, — diceva il dotto
uomo. — Voi domandate delle opinioni, è una cosa troppo giusta, dovete
averne. Non potete continuare a vivere senza, affatto. Io.... sono
dispostissimo a darvi delle mie.

Siccome il mendicante non accennava neppure un qualunque «Dio ve ne
renda merito» l'onorevole soggiunse:

— Ringraziate almeno la sorte che vi ha fatto capitare così bene. Come
potreste seguitare a vivere in una simile condizione? Che diavolo!
Vi capisco tanto bene.... Avete mille ragioni.... non si può vivere
senza.... E dacchè dovete prenderne, meglio è che prendiate addirittura
delle mie.

Il mendicante non rispondeva.

— Scusate, non è meglio prendiate le mie che quelle di un altro? Non vi
pare?

— Sì. — Disse il giovine senza nessuna convinzione.

Del resto.... — incalzò l'onorevole sorridendo in tono di superiorità
— del resto.... come volete. Preferite le mie?

— Sì.

— Oppure vi fanno lo stesso quelle di un'altro?

— Sì.

— Quali preferite insomma?

— Lo stesso.



IL GOBBO


Quando natura manda fuori dalle sue fucine un gobbo, voi credete
certamente ch'ella si dia una grattatina di testa la quale altro non
vorrebbe dire che questo: «guardate un poco che cosa ho fatto, quello
che mi è successo!» E credete forse che rivolta alla sua creatura
essa esclami presso a poco così: «perdona, piccolo essere infelice,
mi è accaduto senza che io me ne accorgessi, ti domando scusa sai
poverino...». Niente di tutto ciò.

È, il gobbo, un argomento allegro, allegro per sè per gli altri e per
la natura stessa che dopo averlo creato sorride rapidamente dell'opera
sua. E quel sorriso, intendiamoci bene, non è rivolto al suo figlio
gobbo, ma ai suoi figlioli diritti; questo vuol dire quel suo risolino:
«Ah! voi credete ora di ridervi di lui? Vedremo».

Natura, infaticabile equilibrista, dopo averlo creato, il gobbo, se lo
prende amorosamente sulle ginocchia, lo esamina, lo palpa, l'accarezza,
intinge quindi la punta delle dita in un suo misterioso vasettino; e ne
spruzza di un qualcosa che sembra sale il corpiciattolo deforme. Ed è
a questo punto precisamente ch'ella permette quel suo rapido sorriso:
«Ah! voi vi eravate preparati a ridervi alle sue spalle? Ecco mio caro:
_spriffete e spruffete_».

Il gobbo, è un bel dire, si ride delle persone diritte assai assai più
ch'esse non si ridano di lui. È il suo compenso.

Avrà, il cieco, per questo senso di meno, più fini ed elaborati gli
altri sensi, e s'egli non può vedere le cose, vede nei fatti, intravede
nelle vicende, non soltanto, ma potrà per questa sua mancanza, vedere
il mondo molto più bello che non lo vedano coloro provvisti di due
buoni occhi. Il sordo sentirà cogli occhi.... amerà i colori, ne
penetrerà la vita, le sinfonie, come chi ci sente ama e penetra i suoni
e le lori orchestre.... e così via di seguito. Non accusiamo la nostra
grande madre di essere stata parziale con noi e di averci riserbata
una speciale sventura anche se siamo gobbi; essa ci scodella la vita a
tutti ugualmente come una identica minestra.

Se natura paga la vita in un solo pezzo dà a colui che lo dovrà
spendere tutta la necessaria avvedutezza per spenderlo nel momento
migliore. Se glie la paga in tanti centesimini spiccioli fornisce
quell'essere di tutta la pazienza che occorre per spenderla uno alla
volta. Quelli che si uccisero ebbero, è vero, una vita di scarto,
ma glie la dette come una cambiale in bianco, ed ebbero facoltà di
firmarne la scadenza quando più loro piacque. Coloro che vennero uccisi
non avevano avuta una vita ma erano gli aggregati di una vita. Allorchè
natura crea, ad esempio, un imperatore, aggrega alla sua vita migliaia
e migliaia di altre vite, ma non come vite ben inteso, come cose
indispensabili a quella vita.

Questo per dimostrarvi che essendo la vita uguale per tutti, non dovete
considerare un gobbo un uomo infelice perchè è gobbo, un essere triste
e avvilito, ma un essere come tutti gli altri, e anzi, dei più lieti.
— Giacomo Leopardi! — Io vi sento esclamare. Ebbene, amici miei, quel
dabbenuomo, assicuratevi, non fu così infelice per la gobba che portava
sopra la schiena, ma per quella più grossa assai che portava dentro
la sua grande anima di poeta. Che s'egli avesse avuta una gobba sola
sulla schiena, ve lo sareste visto pirular puntuto davanti e arzillo,
pieno di astuzia, con un tagliente risolino ironico fra le labbra, e
poco vi sareste azzardati a ridervi di lui e della sua gobba, nè ad
appressarvici troppo per trarne fortuna, nè ora il mondo si occuperebbe
più tanto di essa.

Un gobbo dunque si ride della gente diritta più che questa non si rida
di lui, della gente diritta intendiamoci bene, perchè un gobbo non ride
mai d'un altro gobbo.

Ecco il problema: quando due di questi esseri si trovano uno di fronte
all'altro. Conservano essi il loro umore faceto e pungente? No. Una
famiglia che fosse in possesso di due gobbi dovrebbe risolvere il
difficile compito del quieto vivere. Voi non invitereste certo a
pranzo due gobbi in una volta nè li porreste l'uno in faccia all'altro
nè a lato. E non avrete mai veduto per le vie due gobbi andarsene
amichevolmente a diporto.

Vantare un gobbo assiduo del proprio salotto è cosa veramente deliziosa
e di buon gusto; in ogni tempo, lo fu. Papi, Imperatori, e grandi
dame se ne tennero uno carissimo per tutta la vita. Un gobbo in una
comitiva è il sorriso, la gioia, il buon augurio, la felicità. E tutti
se lo accarezzano, non colle mani ben inteso, se lo rubano, se lo
giuocano, mah!... è un giuoco d'azzardo, che v'impone di misurare bene
ogni mossa. Ve ne furono, di queste piccole creature, dotate di tale
scaltrezza da comprendere, parlando, che il loro interlocutore era
tutto preoccupato od assorto nella loro gobba pure senza guardarla,
anzi, facendo ogni sforzo per distrarne lo sguardo. E fecero
impallidire o arrossire più d'un povero di spirito. Il gobbo è una
persona di spirito.

Ed ora, finite queste considerazioni, diciamo così, di razza,
occupiamoci del nostro gobbo.

Viveva in una piccola città della Toscana, si chiamava Mecheri, «il
gobbo Mecheri» o soltanto «il Mecheri». Era l'uomo più noto di quella
provincia. Le sue gesta correvano su tutte le bocche e si posavano qua
e là a colmare propriamente le molte ore d'ozio che sono la prerogativa
delle città provinciali.

Pare che con questo Mecheri natura, forse sbadatamente, avesse un po'
abbondato di quella presa che sembra sale, e ch'egli avesse avuto
compenso ad usura della sua disgrazia. Quando egli rideva, rideva
tutto, e la sua altissima gobba palpitava gioiosamente alla serenità
del suo riso. Alto un metro giusto, non era reale, ma bene dritto
davanti, snello, e dietro, dalla vita in su, gli s'inarcava una
gobba così alta e così puntita che guardandolo bisognava domandarsi
come spina dorsale avesse potuto seguire una curva così acuta senza
rompersi. Una faccettina rotonda, rossa, sbarbata, rosso di capello
e ricciuto, sempre con una bombetta nera in testa, e vestito con
un _tait_ verdognolo la cui falda gli scendeva giù a venti buoni
centimetri distante dalla persona. Era sua indispensabile compagna una
giannetta fine, che completava meravigliosamente la sua figura nel
camminare agile ballettato. Non poteva pesare più di una ventina di
chilogrammi: un gioiello insomma, la perfezione della specie. Celibe,
viveva di una piccola rendita lasciatagli da una zia. Questo stato di
agiatezza gli permetteva di esercitare comodamente ed esclusivamente
il suo mestiere di gobbo. Girare tutto il santo giorno pei luoghi meno
deserti della città, fermarsi ad ogni passo, sedere al caffè ore ore
ore, ridere e far ridere.

Tutti avevano finito per scrollare; prima o dopo, le spalle dinanzi
a lui, nessuno era stato capace di serbargli profondamente rancore,
nemmeno quando lo scaltro faceto avea passato la pelle colle sue
punture. Ed era in questo modo rubato da tutti: nei negozi se lo
tiravano dentro, dal farmacista, dal tabaccaio, dal parrucchiere,
avvenivano ovunque interminabili sedute: ognuno che entrava rimaneva
un po' a dissetarsi a quella limpida sorgente di giocondità. Era uno
dei rari uomini amati sinceramente, non invidiati da nessuno e cercati
sempre. Ogni giorno saltava fuori con nuove storielle, facezie, qualche
sortita spontanea, le donne erano la sua più grande palestra, esse
scrollavano più o meno bonariamente le spalle e si prendevano tutto in
santissima pace.


C'era però una classe di persone, esigua, che lo odiava di un odio
felino, tenace. Per l'uomo che aveva saputo ridere di tutto e di
tutti, c'era una cosa al mondo che lo faceva ridere in una maniera
particolare, con un'intensità inarrivabile: la vista di un altro gobbo.
Allora guardandolo voi non vedevate più l'uomo ma il riso.

In quella piccola città i gobbi erano cinque, egli aveva quattro
compagni, quattro nemici.

Questi poveri esseri se ne stavano celati, lo temevano, erano rimasti
talvolta passivi di scenate sulle pubbliche vie, quando la combinazione
li aveva portati dinanzi a lui, erano divenuti lividi, viperini, pur
non essendo capaci di articolare una sillaba di fronte alla terribile
e serena canzonatura. Lo scansavano con ogni mezzo, ma come si fa,
finisce per diventare l'incubo di un povero essere, in una città di
ventimila abitanti appena, dove gira e rigira siamo sempre lì, e ci si
deve vedere tutti almeno un paio di volte nella giornata, e col Mecheri
poi che era a zonzo tutto il santissimo giorno. Dovevano serrarsi
in casa per sempre? Non uscirne più mai come i detenuti? Come degli
assassini? Chiudersi vivi nella tomba?

Uno di essi era giovine di studio d'un avvocato, gobbo reale, ma brutto
però, colla faccia verdastra rugosa. Egli, dovendo indispensabilmente
percorrere le vie in forza della sua professione, era il più
rassegnato, alle risate indegne del Mecheri aveva risposto come aveva
potuto, e non era poco, con grida, lazzi osceni, ma era accaduto di
peggio, meglio era lasciarlo ridere quell'immondo. E gli altri, i
diritti, come dovevano non ridere quando era un gobbo che primo rideva
di un altro gobbo? Come potevano i gobbi essere rispettati in un simile
paese? Come trattati con quella speciale delicatezza che s'impone alla
loro specialissima condizione? Essi dovevano per forza rimanere il
ludibrio di tutti.

Il secondo era custode in una villa storica adibita a museo, alla
periferia della città; si vedeva di rado, nelle sue parti il Mecheri
non capitava, ed era quello che se la passava meglio, in centro cercava
di venirci il meno possibile.

Il terzo, un calzolaio che aveva avuto un tempo negozio in una delle
vie principali. Il buon uomo si era ritirato a lavorare in casa con
gravi perdite di interessi. Il Mecheri passando dinanzi al suo negozio
soleva fermarsi, affacciarsi a ridere, una volta si era introdotto
insieme ad altri con la scusa di farsi prendere le misure per le
scarpe. Ne era seguita una scena epica fra i due gobbi, il cervello del
calzolaio ne era uscito sconvolto.

Il quarto infine, un benestante, con moglie e due figlie, niente
affatto gobbe e quasi da marito; uomo grave, nel suo genere, a cui
sarebbe piaciuto molto uscir fuori liberamente a tutte l'ore, starsene
in caffè a discutere, e fare anche lui tranquillamente il gobbo
altolocato come lo comportava la sua natura. Dei quattro era i più
invelenito, nella sua apparenza dignitosa di cittadino benestante a
cui, pur essendo gobbo, era stata concessa in moglie una signorina di
ottima famiglia provvista di dote, e dalla quale aveva avute due belle
figlie niente affatto gobbe, covava il suo odio, calcolava, studiava
la sua vendetta. Doveva egli, uomo di riguardo, scendere sulla pubblica
via con un mascalzone? Perchè poi la scena avesse servito da carnevale
a tutto il paese? Egli in fondo, che non si considerava completamente
gobbo, in confronto col Mecheri poteva dirsi uomo normale, glie lo
avevan ripetuto centomila volte la moglie e le figlie, aveva talvolta
ricorso a viaggetti ch'erano durati fino a due e tre mesi era stato
fuori colla famiglia per respirare in aure libere. Doveva abbandonare
per sempre i proprî interessi? Ogni suo bene?

Questi quattro gobbi erano veramente quattro infelici, gl'infelici
della città. E perchè? Perchè un gobbo, un loro compagno, un loro
fratello, gobbo più di loro, il più gobbo di tutti, si rideva
spudoratamente della loro sventura. Oh! lo scherno di una persona
diritta non li inaspriva tanto, non lo temevano ma quello di un gobbo
era intollerabile.

                                   *
                                  * *

Si dice che una notte furono veduti giungere alla casa del gobbo
benestante, uno alla volta, tre gobbi, essi si sarebbero trattenuti
lungamente, e soltanto poco prima dell'alba ne sarebbero ripartiti.
Si sarebbero separati alla porta della casa andando ognuno per diversa
direzione.

Si aggiunge che nel separarsi, i tre gobbi, si fossero guardati
amorosamente, e dipoi serrati al seno l'uno dell'altro.

La voce circolò e circolando fu man mano sformata e da tutti creduta
una nuova burletta del gobbo Mecheri.


Era il venti settembre, la città tutta imbandierata e intrecciata da
festoni di lauri, di quercia, di allori, tutte le finestre pendevano
come frutti i lampioncini veneziani tricolori pronti già per la
luminaria della sera. La banda cittadina eppoi la militare dovevano
suonare tutto il pomeriggio nei giardini pubblici, tre bande venute
dalle vicinanze avrebbero suonato in altre ore in punti varî della
città.

Una magnifica giornata di fine estate, tutti erano fuori in grande
uniforme a far bella mostra di sè. Per le vie lunghe fila di banchi coi
dolci delle fiere, giocattoli, chincaglierie, stoffe, cappelli, frutta,
ovunque la gente si accalcava. I contadini dei dintorni cogli occhi
imbambolati dal movimento, intontiti dai rumori, ciondolavano distratti
fra il pulviscolo della festa.

Il nostro Mecheri dalle otto della mattina percorreva le vie principali
in lungo e in largo, tutti si fermavano con lui, lo salutavano, lo
interrogavano, come fosse stato un'autorità. Indossava il _tait_ buono
che ancora non aveva cominciato a buttare il verde, la bombetta nuova,
una bella catenona d'oro all'orologio, col corno di corallo, che
sembrava, perchè addosso a lui, mastodontica, e un'ampia cravatta di
raso bianco coi fiorellini verdi e rossi.

La gente si rimescolava sempre con crescente difficoltà per le vie e le
piazze che si gremivano a dismisura. Era un pomeriggio limpido, fresco,
e tutti ora si dirigevano verso i giardini pubblici dove le bande
dovevano eseguire il loro concerto.

La Marcia Reale fu salutata al suo termine da un enorme scroscio
d'applausi. Fu poi intonato l'inno di Garibaldi accolto pure
freneticamente da quel popolo; quindi ebbe principio il concerto con un
pezzo dell'opera «Norma». Il bravo Mecheri in un gruppetto di cittadini
parlava concitatamente, teneva cattedra di musica antica e moderna,
narrava di rappresentazioni celebri, di grandi cantanti, ballerine, e
fatti riguardanti il teatro.

Era il primo intervallo. Ecco giungere dal viale di mezzo e dirigersi
proprio verso il gruppo dove si trovava il Mecheri, a passettini
precipitosi un omettino alto non molto più di un metro, vestito con
certa presunzione, di un _tait_ nero e un cappellino di paglia dal
nastro marrone. Già da lontano, non era facile sbagliare, si capiva
trattarsi di un gobbo e di che gobbo! Come il Mecheri, con una sola
gobba dietro, ma così acuta che la punta gli giungeva all'altezza degli
orecchi. Un Mecheri venti centimetri più alto.

Un gobbo nuovo? Venuto di fuori? Per la festa? — È il famoso gobbo
pisano — pensò subito Mecheri mentre l'uomo si avvicinava. — Sicuro,
il gobbo pisano che veniva a fare una gita, ne aveva sentito parlare
mille volte, era proprio così, era lui, bisognava rimandarlo a Pisa a
raccontare qualche cosa della sua visita.

Il gobbetto, con la sua aria estremamente presuntuosa e spavalda era
proprio venuto a dividere il nostro gruppo, senza mostrare affatto
di accorgersi che vi era in esso alcuno che molto gli rassomigliava,
ma non vi fu appena in mezzo che le risate scoppiarono, squillarono
per l'aria come un esplosione di fuochi d'artifizio. Mecheri rideva
rideva, rideva additando il gobbo a tutto il mondo presente: oh!
come rideva questa volta, egli non aveva mai riso così; il riso si
propagava rapidamente scoppiettante, acuto, urlante, volante, e il
gobbo sembrava doversi liquefare tutto nel calore della sua gioia.
Il gobbo sconosciuto era passato senza punto curarsi del lazzo che
lasciava dietro di sè, ma non appena venti metri distante dalla
gaia combriccola, si fermò, corse rapido con la mano alla sua gobba
sotto il _tait_, ne trasse prestamente un grosso fardello di stracci
che dopo avere agitati in aria con grande abilità gittò lungi da
sè in un'aiuola, voltosi quindi al suo canzonatore e fattogli un
profondo inchino, con gesto elegante della mano parve invitarlo a
fare altrettanto. Dando quindi sui tacchi se ne andò tutto impettito,
omarino sì, ma diritto come un fuso.

La gioia a bollore del gobbo Mecheri ebbe come una congelazione
fulminea, egli tentò di ridere ancora, ma il colpo era stato visibile
a tutti. Quattro grandi risate gracchiarono nell'aria, e Mecheri
volgendosi scòrse quattro gobbi che lo circondavano in quadrato. Il
nemico era chiuso, prigioniero. I quattro gobbi ridevano velenosamente,
vomitando l'amaro livore ingoiato per tanti anni. Mecheri nel mezzo,
fra tutta la gente che lo circondava, tentò di ridere ancora, di
riattaccare la vena del suo magnifico riso, ma non vi riuscì, si
sforzò, ma tremava, barcollava, assalito da un tremito convulso.
Qualcosa si era fermato, schiantato dentro di lui: la molla della gioia
nel congegno della sua anima.

La burla corse in men d'un'ora su tutte le bocche, e fece poi le spese
delle molte ore d'ozio della città provinciale.

Tutti attendevano ansiosamente ciò che avrebbe fatto il Mecheri, come
si sarebbe rifatto, come si sarebbe comportato dopo che la guerra era
stata dichiarata tra i gobbi.

Il Mecheri tentò di sostenersi, di riprendersi, non vi riuscì, era
divenuto torvo, guardingo, e non fu più buono, per quanti sforzi
facesse, a ridere come una volta.

Non si sentiva più tranquillo che nella sua casa, chiuso, cominciò a
non uscire più tanto spesso, poi a non uscire più di giorno.

Invece per le vie si vedeva circolare indisturbato il gobbo benestante,
con aria assai grave andava e veniva per i fatti suoi. E si diceva
già con certezza che il gobbo calzolaio avrebbe aperta al più presto
una grande bottega sul Corso. Il gobbo custode ogni sera veniva in
centro a prendere il tabacco e vi si intratteneva tranquillo a fare
una buona pipata. Il giovane di studio era divenuto assiduo del caffè
per la partita dello scopone. Chi non si vedeva più era il Mecheri.
Tutti si domandavano come mai, che cosa gli era successo, come fosse
avvenuto questo cataclisma nella stirpe dei gobbi, come un uomo di
quello spirito avesse potuto impermalirsi di una burla, e cercavano
altrove la ragione del suo allontanamento. Mecheri usciva di notte,
strisciando i muri come una talpa, bagnando con amare lacrime di dolore
quel terreno che aveva un tempo inondato di gioia. Teneva gli occhi
socchiusi perchè temeva di scorgere nell'ombra la sua gobba mostruosa
che ogni giorno cresceva cresceva sulle sue spalle fino a toccare le
vette del firmamento. Poi non uscì più, non fu più visto da nessuno,
e si seppe ch'era partito per sempre, senza sapere per dove, senza un
perchè che gli altri capissero, ma che solamente un altro gobbo avrebbe
potuto capire.

                                   *
                                  * *

Una mattina, prima dell'alba, in una delle nostre massime città, gli
spazzini che spazzavano le vie, alla luce dei primi grigi bagliori,
scòrsero in un angolo del marciapiede un fardello di cenci. Uno d'essi
si avvicinò, sembrava che sotto ai cenci, al suolo, vi fossero come
dei tentacoli umani aderenti al lastricato, qualcosa che pareva una
gigantesca chiocciola vestita, chiusa e attaccata alla terra con la sua
grande casa sopra la schiena.

— Toh! È un gobbo!

— Un gobbo?

— Sì, venite a vedere!

— Guarda guarda, davvero!

— È un gobbo.

— Un gobbo!



LA VEGLIA


Alla soglia del salottino debolmente rischiarato dal trepidante lume
di una candela, apparve Rosina, con in mano la scodella del brodo nel
quale aveva sbattuto un rosso d'uovo.

Sembrava ch'ella si fosse fermata nella tema di venire respinta.

Poi, guardando con aria supplichevole la sua padrona, le si avvicinò,
e venne a posare sul tavolino, davanti a lei, con mano incerta, la
scodella.

Le due donne si guardarono negli occhi e dettero insieme in uno
scroscio di pianto. La signora Costanza singhiozzava e il voluminoso
petto le ansimava pesantemente, affranto. Le lacrime di Rosina
sgorgavano come da una polla, copiose e grandi; era il bel pianto
del bimbo il suo, erano perle che il tesoro della sua anima candida
generosamente elargiva, a dovizia. Che cosa avrebbe voluto dire alla
sua amata padrona! Ma non riusciva che a piangere; non riusciva che ad
esprimere così il suo dolore, e il suo amore.

La signora Costanza era una donna di quarant'anni, grossa, di media
statura, non bella, ma con una facciona sanguigna di donna franca e
sincera che subito le conciliava la simpatia. Aveva occhi grandi, neri,
vivaci, e capelli neri ancora completamente.

Rosina era secca, lunga, senza nessun garbo femminile nella persona,
un po' ricurva dalla vita alle spalle; con una faccia stretta,
rettangolare, dei lunghissimi denti da cavalla, e degli occhi gialli
inespressivi. Cogli scarsi capelli, di nessun colore, tirati sopra la
testa e alle tempie che le formavano dietro un miserabile tortellino.

A vederla così, di primo colpo, con l'ampia sottana di percalle a gala
in fondo, un giacchetto fuori di moda, con una lunga fila di bottoni
davanti, le si potevano dare fino a cinquant'anni ma non ne aveva che
trenta. Uno di quei poveri esseri che non furono mai giovani, uno di
quei corpi che passarono inosservati dinanzi a tutti, come se natura li
avesse abilmente fatti per celarvi il tesoro di un'anima splendente di
divina bellezza.

Quel nome di Rosina era così poco adatto a lei, le sue carni terrastre,
cosparse di lentiggini, come potevano ricordare le morbide voluttuose
sfumature di quel fiore? E nella figura non c'è davvero fiore al mondo
che le potesse rassomigliare; essa poteva tutt'al più somigliare ad un
asparagio.

Tremava dinanzi alla sua povera padrona, avrebbe voluto dire tante
cose, oh! il suo cuore era colmo di tenerezza, ma non sapeva che
piangere. — Un po' di brodo — Voleva dire — Sono due giorni che non
ha mangiato, che non ha voluto prendere nulla.... Anzi, si poteva dire
che i giorni fossero otto addirittura. — Si era tante volte provata ad
esortarla, questa volta aveva portato direttamente il brodo, sperando,
senza parlare, ch'ella avrebbe accettato di buttarlo giù.

Dalla scodella, posata sulla punta del tavolinetto da lavoro, le spire
calde salivano su su, e Rosina le guardava attraverso le belle lacrime
trasparenti. Ma la signora Costanza continuava i suoi singhiozzi senza
nulla vedere nulla guardare.

Poche ore prima le avevano portato via per sempre il suo Anselmo;
bravo, caro uomo, esemplare marito, a soli quarantasei anni, per una
violenta infiammazione di petto, in otto giorni era già al cimitero.

La signora Costanza, dopo la perdita di chi era tutto per la sua vita,
rimaneva desolatamente sola, e da uno stato di agiatezza piombava in
serissimi imbarazzi finanziarî.

Il signor Anselmo morendo non lasciava che un sincero rimpianto dietro
di sè, un disperato dolore, ma nessun diritto, per la vedova, del suo
buon impiego governativo che solamente da diciotto anni esercitava.

Erano stati sposi diciotto anni prima, erano venuti in quella casa
felici, vi avevano vissuto nel più perfetto accordo una vita serena e
tranquilla. Dopo tre anni la signora Costanza aveva preso seco Rosina,
una bambinetta di quindici anni, di Calamecca, su, sulle montagne
del Pistoiese; l'aveva scovata un anno che era andata lassù a passare
un mese dell'estate col marito. E come aveva saputo indovinare nella
scelta; fosse intuizione di quella brava donna, o fosse il fortunato
caso, ella aveva inciampato in un tesoro ma aveva saputo gelosamente
custodirlo. La piccola montanara, dalla sua alpestre miseria, si era
assuefatta al nuovo stato che le era sembrato fin dal principio di
signora addirittura. Tutto le era sempre parso troppo, e i due coniugi
l'amavano come la terza persona della loro famiglia. Raramente la
lasciavano in casa sola, se la portavano quasi sempre con loro, a fare
scampagnate, e qualche volta, in carnevale, anche al teatro.

Sradicata così tenera pianticella, Rosina, era cresciuta
nell'adorazione per i suoi padroni buoni, aveva imparato a cucinare,
stirare, a far tutte le faccende con tanto amore, quanto non ne avrebbe
potuto sentire per la sua stessa casa, era una donna impagabile, non si
fermava mai, trovava sempre qualche cosa da fare nel lindo appartamento
che fra donna e padrona tenevano lucido come uno specchio.

Quando la piccola domestica venne da Calamecca, con la sola camicia di
dosso, un abito di finta flanella, e un paio di scarpe coi chiodi, la
signora le cucì subito ella stessa, la biancheria, lavorarono insieme
ai vestiti, grembiuli, calze, tutto. Rosina nulla aveva dimenticato.
Il suo salario, prima di sei lire al mese, era giunto fino a dodici, le
quali venivano per tre buoni quarti risparmiate dalla sobria donna.

E ora? Una ventata malefica capovolgeva una felicità, bisognava
sopportarne il rovescio.

                                   *
                                  * *

Passato il primo stordimento del dolore la vedova incominciò a
guardarsi attorno: era d'uopo pensare, e senza indugio, al da farsi;
non un parente, non un amico intimo al quale domandare appoggio e
consiglio, rimaneva con le diecimila lire portate in dote, e le cinque
che il buon padre le aveva lasciato morendo. Il vecchio giudice negli
ultimi anni della sua vita aveva economizzato il centesimo per lasciare
qualcosa alla sua unica ed amata figliuola.

Ora la padrona, seduta al suo tavolinetto da lavoro, nel bel salottino
arredato con ricercatezza e tenuto con scrupolosa cura, in quella
stanzetta che aveva albergato per diciotto anni la sua felicità,
fissava dentro gli occhi Rosina, incerta, passiva di fronte alla
sciagura; si guardava dipoi attorno come avesse voluto dire: — La mia
bella casa, la mia roba, che ho tanto amata, che abbiamo messa assieme
poco alla volta, che ho curato religiosamente, pulita.... ecco....
bisogna dire addio a tutto, vendere tutto, dar di bacchio a ogni cosa,
e andarsi a rifugiare in una sola e povera stanza.... Con quindicimila
lire di capitale! Che rendevano, al quattro per cento, seicento lire
all'anno. Lavorare. Non c'era altra via, bisognava lavorare. E come?
Che? Cucire, era l'unico lavoro adatto; cucire biancheria, chè era
assai buona cucitrice. Andare a cercare il lavoro, andarlo a riportare,
ascoltare pazientemente i rimproveri, specialmente finchè non fosse
divenuta esperta lavorante.

Questi propositi sconvolgevano addirittura il cervello di Rosina, la
sua signora era così in alto nel suo intelletto, ch'ella non vedeva
nemmeno una relazione fra il dire e il fare cose di questo genere,
come se uno ci venisse a dire che la Regina d'Italia domani anderà a
spazzare le strade di Roma.

— Finire il capitale? Eppoi? Gettarsi nell'Arno. — Ma la signora
Costanza non era donna da far questo, era troppo sana, troppo
equilibrata; si sentiva forte anche di fronte alla sventura. — Mettere
le quindicimila lire in un'industria, aprire un piccolo commercio?
Ma non c'era tutto il pericolo di finirle e rimanere sul lastrico
addirittura?

In tutti questi pensieri che le turbinavano per il cervello, uno
scendeva a straziarle il cuore: bisognava abbandonare Rosina. Lei non
era buona che a fare le faccende di casa, sapeva cucire malamente,
venuta dalla montagna dove non aveva fatto che la guardiana di pecore.
Bisognava lasciarla, trovarle una casa degna di lei, e depositare il
tesoro. La povera donna lo capiva, se ne stava dinanzi alla padrona
fissa, coi suoi occhi giallastri, pronta a tutto! Oh! se non fosse
stata così timida, così povera di spirito, sarebbe andata a mangiare il
fuoco sulla piazza della Signoria per portare i soldi da campare lei
e la sua signora. E un'altra cosa le dava uno scoramento grandissimo,
l'abbatteva, l'avviliva: bisognava anche lasciare la casa, quelle
stanzette testimoni della sua felicità, che glie ne avrebbero giorno
per giorno suggerito i ricordi più cari, più belli, alle quali avrebbe
confidata la sua sventura ricevendone conforto, come da chi la conobbe
sotto la buona stella, dove tutto le parlava di lui, del suo adorato
sposo, dove lo aveva amato la prima volta; la camera dove gli aveva
chiuso gli occhi per sempre, dove, dopo una vita serena e tranquilla,
le era sembrato di dover morire insieme.

Ed ora, uno già morto, ancora giovane, l'altra sbatacchiata nel turbine
della vita e per chi sa quanto ancora!

Questa agitazione durò vari giorni; finalmente, una mattina, la vedova
alzandosi si avvicinò a Rosina con fare risoluto; la donna le stava
davanti senza trarre il respiro, i suoi occhi esprimevano il terrore;
certo, la signora le avrebbe data la sentenza: bisognava separarsi per
sempre.

— Rosina — le disse con voce tremante, commossa — io non ho più che te,
ti voglio bene come ad una sorella, come ad una figliola, io non posso
pensare nemmeno di abbandonarti, so che tu mi vuoi lo stesso bene, lo
so, mia cara, mia amata Rosina. — La donna, che aveva contenuto le
lacrime fino a quell'istante, non ne potò più, le traboccarono. Dai
suoi occhi scendevano rotoloni fino in terra, come avessero dovuto
rotolare anche sul pavimento. — Lo so, Rosina mia, lo so, tu sei un
angelo, noi non saremo d'ora in avanti che due sorelle, niente altro,
trovata la via d'uscita, forse ho trovato il mezzo di rimediare senza
dover rinunziare a quello che mi è più caro: a te e alla mia casa.
Amalia Polidori! — E disse questo nome e cognome come una rivelazione,
come s'esso avesse virtù, per il solo fatto di essere pronunziato, di
salvare la situazione.

— Tu la conosci?

— Sì — rispose netto la donna come chi giura, non arrivando a capire,
ma pronta ad accettare ad occhi chiusi qualunque proposta.

— È ragazza.

— Sì.

— Lei, come vive? Sai che non ha che trenta lire al mese di pensione
che le lasciò il padre, niente altro, trenta lire capisci, che
miseria! Nel suo quartierino di quattro stanze colla cucina ha due
dozzinanti, con essi ricava la pigione di casa e le rimane qualche
cosa da aggiungere al suo franco al giorno. Ha ormai vicino a
cinquantanni ed è da vent'anni che vive così, le camere rendono bene.
Amalia paga trecento lire all'anno di pigione e ne ricava forse più
di quattrocento, e tira avanti, è una donna che con un uovo campa un
giorno, ma io sono in condizioni migliori, ho di più, eppoi siamo in
due. Non abbiamo bisogno di nulla, la casa è questa, noi ci mettiamo ad
affittare.

— Sì.

— Dimmi Rosina, tu sei disposta a dividere con me il bene e il male di
questa vita?

— Sì. — La donna diceva il suo «sì» quando la padrona diceva la
penultima sillaba della sua frase, e lo diceva alzando la testa,
chiudendo gli occhi, come ricevesse l'ostia santa, o come ingoiasse
un ignoto boccone disposta a trangugiarlo per la salvezza del mondo, a
qualunque costo, fosse anche una presa di stricnina.

— Noi.... dobbiamo andare incontro a tutto! Può darsi che qualche
giorno dobbiamo contentarci di un magro desinare....

— Sì.

— E se un mese.... io non avessi da darti le tue dodici lire?...

— Sì — rispose anche stavolta Rosina.

— Oh! — Aggiunse poi — io non le voglio più, mi parrebbe di rubarle.

— Ma vedrai, vedrai.... — continuò la vedova sollevandosi alla speranza
— vedrai che il buon Dio ci aiuterà.

Ed ora incominciamo a stabilire qualche cosa. Bisogna, naturalmente,
che io rinunzi alla mia camera, eh! questo è un sacrificio
indispensabile; è la stanza più bella di tutto il quartiere, eppoi...
a me basta di vederla, di andare a farci la pulizia, di avere sempre i
suoi mobili; qualcuno me ne terrò, il letto forse. Quanto credi che in
una città come Firenze si possa pretendere di una camera così grande,
con due finestre, e così bene ammobiliata?

— Non lo so.

— Mettiamo trenta lire al mese, e mettiamone anche venticinque, sono
già trecento lire all'anno. Del salotto buono? È più piccolo, ma
arioso, quando ne abbiamo fatta una camerina vien sempre una bella
stanza, mettiamo di affittarlo a venti, a quindici, sono centottanta
lire anche di questo; e, naturalmente, bisogna ridurre a camera da
letto anche il salotto da pranzo; mettiamo altre duecento lire, si va
sulle settecento lire all'anno, ne paghiamo seicento.... Eppoi chi ci
dice che non affittiamo meglio? Abbiamo calcolato dei prezzi minimi.
A noi rimane il salottino da lavoro, che diventerà camera mia, la tua
camera, e la cucina. Seicento lire mie, più cento sono settecento che
sarebbero.... aspetta.... sarebbero circa due lire al giorno.... Eh!
Certo, bisognerebbe fare di più per andare avanti bene, almeno due lire
e mezzo.... Cercheremo di tenere alti i prezzi. Ma se poi ci rimangono
sfitte?

— Signora — esclamò Rosina già rinfrancata all'idea luminosa della
padrona — perchè non affitta anche il salottino da lavoro?

— E io dove vado a dormire?

— Nella mia camera, è bella, grande, c'è aria, luce.... Ci porta un po'
della sua mobilia buona....

— E tu?

— O non c'è lo stanzino?

— Ma ti pare!

— Un letto c'entra benissimo, quando ci sta il letto e la mia cassina
io sono contenta.... c'è il finestrino, è comodo anzi per me, accanto
alla cucina, gli attrezzi li mettiamo sul palco morto.

— Questo vedremo, insomma la via è trovata, domani vado dal padrone.
Una sola cosa mi spaventa: chi metteremo in casa? Pensa come bisogna
stare attenti! Amalia Polidori una volta mi raccontò un certo fatto
che se accadesse a me, ne morirei dal dolore e dalla vergogna. Ma
lei è sola capirai, deve forzatamente assentarsi, affitta a chi le
capita, purchè paghino, poveretta! Noi siamo in due non lasceremo la
casa nemmeno un minuto, sapremo fare il fatto nostro.... Eppoi.... il
Signore ci aiuterà, non sono donna da farmi canzonare molto facilmente.
I dozzinanti avranno tutto il rispetto, tutte le cure da parte nostra,
ma dovranno fare altrettanto da parte loro, se no, fuori! Pensa Rosina,
moglie di un alto impiegato del governo, un pezzo grosso dei Sali e
Tabacchi, figlia di un giudice, dover dar via delle camere! Il destino!
Intanto noi non affitteremo che a uomini, questo s'intende.

— Uomini! — Ribattè Rosina impugnando risolutamente questa bandiera per
la prossima campagna.

                                   *
                                  * *

Erano trent'anni che la signora Costanza affittava le camere. La sua
casa venne frequentata fino dal principio da persone della migliore
specie, alti impiegati, studenti di scienze sociali o di medicina,
professionisti.

Essa era una padrona un po' dispotica, ma i dozzinanti vi si trovavano
bene, come nella loro famiglia. Le camere erano tenute con tale
meticolosa proprietà, con tale nettezza, che nulla avevano di comune
coi soliti dubbî letti di dozzina. Era scrupolosa fino all'eccesso,
esigeva il massimo riguardo per la mobilia, la biancheria, le
tappezzerie, e sopratutto bisognava tenere un contegno da gentiluomini
perfetti. La sua camera, quella di Rosina, perchè questo angelo in
veste di serva era voluta andare per forza nello stanzino accanto
alla cucina, era proprio davanti alla porta d'ingresso, e sentiva
tutti ritornare la sera, il suo uscio rimaneva socchiuso, e quando
un dozzinante era novizio, ella dava due buoni colpetti di tosse le
prime sere, perchè capisse bene che non era possibile non rispettare la
legge, e di passarla liscia in caso contrario. Da quando era entrato
il primo ospite, la casa non era stata lasciata un solo minuto; il
portinaio, il padrone, gl'inquilini, tutti avevano rispetto e lode per
la loro inquilina, si sapeva per tutto il vicinato che il suo quartiere
era un santuario, che con quei principî si potevano affittare quante
camere si voleva e rimanere vere signore da doversi fare tanto di
cappello. Tutti le mostravano una grande deferenza; questa simpatica
donna piena di energia, onesta fino all'esagerazione, che aveva saputo
risolvere un così difficile problema con tanta dignità, meritava
veramente il plauso e la simpatia ch'ella riscuoteva da tutti.

Le sue camere furono ricercatissime. Il comm. Tabacchini, consigliere
di corte d'Appello, vecchio scapolo, vi morì dopo 17 anni che vi
abitava, era divenuto come persona della famiglia, la signora Costanza
lo aveva assistito fino all'ultimo momento proprio in quella camera
dove aveva assistito un tempo il suo indimenticato Anselmo. E anche
questo vecchio spirò nelle sue braccia benedicendo la sua assistenza
cristiana di vera sorella, e le lasciò in ricordo oggetti di molto
valore.

Sempre tutto affittato, anche il salottino da lavoro che era riuscito
un gioiello di camerina; e gl'introiti erano via via aumentati,
e per quanto il padrone di casa avesse poco alla volta portata la
pigione fino a ottocento lire, la signora Costanza col suo lavoro era
riuscita negli ultimi anni più che a raddoppiarla. Rosina fu l'angelo
custode. Non si stancava mai di lavorare, pulire, lustrare, curare la
biancheria, gli abiti, le scarpe dei dozzinanti, ella amava tutto ciò
che era lì dentro, tutto le era caro quando si trovava fra quelle mura;
le sue dodici lire ci furono sempre, le portava di sei in sei mesi
alla Cassa di Risparmio felice di accumulare dei soldi che potevano
un giorno venire a bisogno alla sua signora. Oh! come sarebbe stata
felice di fare quel sacrifizio, e rendere tutto quello che le era stato
dato. Ma non c'erano di questi bisogni, la barca andava a vele gonfie,
le due donne vivevano comodamente pure lavorando dalla mattina alla
sera e non uscendo che per le spese e le faccende indispensabili e la
domenica, una alla volta, per la messa. La mattina c'era da preparare
la colazione per tutti, il caffè nero, o caffè e latte, a seconda, e
anche quelli erano piccoli guadagni per la padrona, e Rosina a fine
mese riscuoteva le sue mance, che giungevano qualche volta a otto e a
dieci lire, e andavano ad accrescere il suo patrimonio.

Insomma la tranquillità si era poco alla volta ristabilita in quella
casa dopo una bufera di quel genere.

La signora Costanza era divenuta intima di Amalia Polidori, la
benedetta ispiratrice della salvezza; le aveva talvolta mandato dei
buoni inquilini serî, sicuri, di quelli che aveva imparato a conoscere
lei, ma non si sarebbe certo riguardata dal riderle sul muso se l'amica
avesse osato proporgliene uno dei suoi. Amalia Polidori, veniva, da
trenta anni, immancabilmente la domenica nel pomeriggio, e, con Rosina,
parlavano delle loro faccende, sopratutto dei loro ospiti. Qualche
volta si fermava anche l'uno o l'altro di essi a far due chiacchiere.
Nella sua cameretta alla cui parete centrale in una grande cornice
dorata pendeva l'ingrandimento fotografico del suo Anselmo, e sotto, su
di una mensola in un vaso era perennemente qualche fiore, la signora
Costanza presiedeva la conversazione non perdendo mai l'occasione
di ribattere i suoi ottimi sistemi di ospitalità, specialmente con
inquilini nuovi, studenti, ch'erano quelli che sorvegliava di più, e
in faccia alla Polidori specialmente ch'ella riteneva troppo corriva:
— Lei se ne viene qua poveretta, e là chi sa che diavolo le combinano
i suoi studenti! Che disgrazia rimaner soli a questo mondo! — E così
dicendo guardava Rosina che le rendeva uno sguardo pieno d'amore. —
Sicuro, io che ho gente mille volte più seria della sua non lascerei
la casa mezzo minuto secondo.... mah! questione d'idee! E anche star
sempre sola come un cane? Eppoi chi le compra quel boccone da mangiare?
Ha ragione, è in condizioni peggiori delle mie, la compatisco, ma
io voglio dire che una vera signora può dar via alcune stanze della
propria casa rimanendo sempre una vera signora. Nessuno le potrà
mai dare dell'affittacamere! — Ecco la parola che le stava sopra la
testa come il nembo, oh! se mai uno al mondo glie l'avesse detta!
Sarebbe divenuta feroce! Avrebbe fatta una pazzìa; povera donna, era
il suo prestigio, la sua giusta dignità la respingeva, era con tutta
la forza della sua vita che aveva lottato per tenerla lontana da sè
quella rovente parola, per esserne immune! E immune se ne sentiva,
pure vivendo in sospetto, come chi in tempo di epidemia si guarda per
il corpo spasmodicamente col terrore di vederne comparire il primo
segnale.

— Vi sono persone che non affittano e le loro case non sono per questo
delle case perbene. Questione di persone.

E talora narrava la sua storia, i suoi begli anni felici, la sua
giovinezza, l'amore del vecchio giudice per lei, e levando la testa al
quadro come al cielo, l'amore del caro sposo, il rovescio di fortuna,
la sua disperazione, e si penetrava nel racconto, riviveva tutta la
sua vita, l'uditore doveva forzatamente dare segni di gioia prima,
di cordoglio poi, e di plauso infine. Rosina ad un lato della tavola,
ascoltava in silenzio, curva sul suo lavoro di calza o di rammendo, e
quando la signora raccontava nei minimi particolari la sua sciagura,
due grosse lacrime solcavano le guance della vecchia fedele compagna.

                                   *
                                  * *

Invecchiando però la signora Costanza, bisogna dirlo, era divenuta un
po' brontolona, anche coi dozzinanti più provati, troppo sofistica,
troppo spedita nell'osservare, nel riprendere. Rosina se ne accorgeva,
ma non avrebbe certo osato trovare un torto addosso alla sua padrona,
cercava di essere ancora più buona e premurosa, raddoppiava lei in
dolcezza cogli inquilini. Specialmente aveva preso un po' la fissazione
di vantare la specchiabilità della sua casa, i suoi sistemi di
rigore, severi, espliciti; quando i dozzinanti rientravano la sera,
forse per l'insonnia senile, faceva sempre a tutti quei colpettini
di tosse che erano divenuti un po' ironici ormai, pareva quasi ci si
divertisse. Lo avevano capito a sazietà che lì non si scherzava, che
non era possibile ritornarsene in nessuna compagnia, non importava
continuasse a logorarsi i polmoni di più. L'uscio era socchiuso, poteva
ascoltare in silenzio. Quella tossettina pareva proprio dire: — Voi
non me la fate, sono io che la faccio a voi! — Inoltre, ultimamente,
era stata poco cortese con qualche amico venuto a visitare uno dei
suoi ospiti. Che pure avendola riverita com'era d'obbligo e d'uso, era
stato ricevuto bruscamente. Si seccava ad aprire troppo di sovente la
porta. Pretendeva sapere vita morte miracoli dei visitatori, pretendeva
sentire quello che dicevano, quando se ne andavano dovevano passare
sotto il suo sguardo investigatore e diffidente.

— Questa è diventata la casa di Nazareth! Io non faccio il portiere!
Questi cialtroni non si puliscono mai le scarpe, vengono su dalla
strada ricoperti di pillacchere e mi portano il fango in casa; mi
sporcano tutto! Questo ha una faccia poco rassicurante! Quello non
si degna nemmen di salutare! Cosa sono io, la sua serva? L'altro
ha sgocciolato l'ombrello nell'ingresso! — Si sa, era la vecchiaia,
aveva ormai varcata la settantina, e le persone più care e più buone a
quell'epoca prendono dei difetti anche se non li ebbero mai.

                                   *
                                  * *

Amalia Polidori, che aveva varcata la settantina da assai più tempo
della signora Costanza, un bel giorno sentì una voce che la chiamava
a sè e le pareva di seguirla come in un sogno. — Tu hai finito di fare
l'affittacamere povera creatura, ora dormirai senza dover rifare più il
tuo letto e quello degli altri.

Un inquilino della Polidori, una mattina venne ad avvisare la signora
Costanza che la sua padrona stava male, e la buona amica corse ad
assisterla, le prodigò cure e medicine, le fu vicina di notte e di
giorno, e quando rimaneva a casa per riposarsi, andava Rosina presso
l'inferma, anch'essa aveva fatte parecchie nottate. E dopo quindici
giorni, pare che la buona vecchia cedesse all'insistenza dell'invito,
e cedesse il suo vergine corpo alla terra, e la sua bell'anima (perchè
no?) al cielo.

E siccome morì che Rosina in persona era a farle la nottata, all'alba
spirò nelle candide braccia di quest'altra vergine ch'io non indugerei
a chiamare santa.

La signora Costanza andò ad eseguire di sua mano ogni pietoso atto
intorno alla salma dell'amica, e per la notte decise di fare lei
la veglia funebre. Senonchè tornata a casa per mangiare un boccone
espresse a Rosina un certo suo invincibile timore. Stare là sola, tutta
la notte con la morta.... in quella casa dove non c'era nessuno.... non
sapeva come mai.... le metteva un certo sgomento — Ci fossero almeno i
dozzinanti. — Ma appena la padrona si era ammalata uno aveva battuto il
trentuno, l'altro, uno studente, era andato a casa in vacanze. Rosina
insistè per fare lei da sola la veglia, — ma le pare, ma le pare! — e
l'avrebbe fatta con tutto il cuore e senza che la disturbasse nessun
triste pensiero, ma la padrona dopo averci un po' pensato pronunziò
l'ultima parola: — Andiamo tutte e due. — E la casa? — gridò Rosina ad
una notizia così strabiliante. Quella casa che per trent'anni non era
stata abbandonata un secondo, il cui onore era stato mantenuto alto
nella luce del sole con questo mezzo infallibile, ora la si abbandonava
per un'intiera notte.

— Stai sicura mia cara Rosina, la casa noi potremmo lasciarla d'ora in
avanti tutte le sere. Quando si semina virtù non si raccoglie vizio.
Eppoi non è che per una notte non c'è da dubitare. In trent'anni io
ho saputo insegnare alla gente come ci si comporta quando non siamo in
casa propria, e specialmente presso una signora a cui si deve tutto il
rispetto.

E sicura del fatto suo, orgogliosa, gonfia di raccogliere il frutto di
tanto virtuoso lavoro, decise di fare insieme con Rosina la veglia.

                                   *
                                  * *

Erano nella sua casa, in quel tempo, queste persone.

Un maggiore a riposo, gentiluomo verso i settanta, uomo spaventosamente
metodico, molto galante, e molto ciarliero pure parlando con una
lentezza ed una solennità imponentissime. Usava esso ogni riguardo
alla padrona, per la quale aveva complimenti severi, e colla quale
rimaneva, nei giorni di pioggia, in lunghi conversarî; facendo che,
molto a fiotti, la sua non breve esistenza sgorgasse dalle labbra, e
non sdegnando ascoltare con tutta gravità quella che torrenzialmente
ruzzolava fuori per quelle della vedova.

Poi c'era un dottore, assistente all'Ospedale di S. Maria Nuova,
giovine simpatico educato che non rimaneva in casa che per dormirci.

Vi era quindi uno studente di recitazione, romagnolo, tipo allegro,
si tirava su per brillante; la signora Costanza era stata molto dura
nell'accettarlo, il direttore della scuola di recitazione aveva scritto
di suo pugno una lettera raccomandandoglielo, ma non era troppo nel
suo calendario, e fu talvolta eccessivamente rustica con lui, egli
osò alzare la voce, lei lo rimesse al posto di santa ragione. Non che
fosse un cattivo ragazzo, tutt'altro, ma uno sciatto di prima riga,
uno spensieratone incurabile, lasciava la stanza in condizioni da
far pietà, ci voleva la serena anima di Rosina a non andar su tutte
le furie, a non sentirsi montare il sangue alla testa ad entrarci la
mattina per rifarla. Scarpe, cappelli, biancheria, parrucche, libri
tutto una minestra, il giorno del giudizio! E non c'era verso di
ottener nulla da quel satanasso.

La quarta ed ultima persona era un poeta, astemio, poco più che
ventenne, bruno, una figurina esile squisitissima. Era il cucco della
vedova, di questo giovine prudente e delicato si sarebbe fidata
a lasciargli la casa una settimana intera. Lui le portava in dono
giornali, riviste, qualche volta della cioccolata e talora dei fiori,
che finivano, si sa, davanti al quadro del defunto marito. Ella n'era
commossa, conquisa, le ridevano i bulbi dei capelli quando il compito
giovine le strisciava i suoi inchini, faceva tre passettini di corsa
per stringerle la mano, salutarla, riverirla, e le snocciolava un
«signora» con una lunghissima «o» come si conviene ad una vera dama.
Non metteva punto in disordine la stanza, si scusava sempre e di tutto,
anche se non ce n'era bisogno, un inquilino d'oro, da tenerselo come la
rosa al naso.

Siccome gli altri erano fuori, la signora Costanza bussò alla porta
delle muse, che le vennero incontro domandando ansiosamente notizie
della signora Polidori. All'annunzio della morte il giovine poeta ne
fu così costernato, così affranto, che la vedova ne rimase incantata.
— Che angelica creatura — pensava, e quasi gli stava per porgere
coraggio.

— Senta, io le faccio una raccomandazione.

— Ma faccia, ma dica....

— Voglio fare la veglia alla povera Amalia, e siccome a star là
sola tutta la notte mi fa un certo effetto, cosa vuole, anch'io sono
vecchia, se ci fossero stati i dozzinanti....

— S'immagini!

— Ho deciso di far venire anche Rosina.

— Ma certo.... lei deve bene aver qualcuno, le pare, star là sola tutta
una notte....

— Già. Rosina viene dopo, a buio, quando ha finito di far le faccende.
Quella povera diavola è sola come un cane.

— Ah! Poveretta!

— È giusta che finisca così, senza che nessuno pensi al suo cadavere,
nulla, una santa creatura come quella?

— Ancora giovane!

— Oh per questo, felice lei, ha finito di tribolare!

— Oh! Ma lei ha ragione. Ma signora, signora, com'è buona, com'è
caritatevole, — e strascicava quell'«o» il poeta. — Avrei potuto
accompagnarla io, tenerle compagnia, avremmo vegliato assieme.

— Troppo, troppo buono, mi raccomando la casa, la prego, so che non
c'è pericolo, conosco con chi ho da fare, in ogni modo mi raccomando.
Alle otto tornerà anche il signor maggiore, glie lo dica lei che siamo
andate via, lui lo sa già che è morta. Domattina saremo qui presto,
Rosina lascia tutto preparato.

Verso le sette, tutta vestita di nero, con una sciarpa nera in testa
anche Rosina lasciò la casa.

— Signorino mi raccomando, io vado via. — Il poeta si fece alla porta.
— Domattina vengo per la colazione e per i panni, è per non farla star
là sola tutta la notte poverina, ha capito? io volevo che mandasse me,
non ha voluto. Si è strapazzata tanto in questi giorni. Arrivederlo
signorino.

                                   *
                                  * *

Nella stanzuccia bislunga e disadorna come un pezzetto di andito,
miseramente arredata, sul suo lettino di ferro, la povera Amalia
Polidori giaceva vestita di nero. Le mani composte al petto stringevano
il crocifisso.

Sul comodino erano accese due candele in due candelieri di vetro, sul
cassettone altre due in due candelieri d'ottone.

Il lettino era rasente al muro, all'altro muro, sedute l'una accanto
all'altra, la signora Costanza e Rosina pregavano. Col rosario fra
le dita passavano le orazioni lentamente; erano avvolte, l'una in un
grosso scialle, la signora in un'ampia mantella pellicciata, ed aveva
il cappello in capo perchè faceva molto freddo. A momenti la padrona
quasi si appisolava, allora Rosina le sorreggeva lo scaldino sulle
ginocchia per paura che le si rovesciasse addosso, ma poi sussultando
riprendeva le preghiere, il suo animo però non era tranquillo, il
gelido spettacolo della morte la turbava, si faceva forza per ritrovare
la padronanza di sè, e considerare serenamente l'amica morta.

Rosina invece no, serena dinanzi a quel fatto naturale, guardava con
occhio calmo quel corpo esanime, e su quella fronte bianca pareva vi
leggesse la parola: pace. Non aveva nemmeno sonno, ed era la seconda
notte che vegliava.

A certi momenti dicevano il rosario assieme, poi la padrona si fermava
assorta nei suoi pensieri; e la donna continuava sola sottovoce. —
Certo, di me non sarà questo squallore, Rosina farà le cose come si
deve, oh! ne sono più che sicura. — Ella da tanti anni aveva fatto il
suo testamento in favore di Rosina, e pareva pregustare la immensa
meraviglia che ne avrebbe provato quell'angelo, e la sua eterna
gratitudine. — Il maggiore, o chi al suo posto, era fissato, avrebbe
dovuto cedere la stanza, quella dove aveva amato la prima volta, dove
era morto il suo Anselmo, e da dove doveva essere presa per venire
trasportata al suo posto laggiù, vicino a lui, dove l'attendeva da
trent'anni! Eppoi.... i suoi dozzinanti non sarebbero certo fuggiti,
le pareva di vederli, attorno al suo letto, sarebbero venuti anche dei
loro amici, quelli che anche lei conosceva bene, sarebbero andati tutti
dietro alla sua bara come dei parenti, avrebbe avuto senza dubbio due
belle ghirlande: una di Rosina, una degli inquilini. Che differenza!

Eppure era stata anche lei una diseredata, come Amalia Polidori,
la differenza consisteva nell'aver saputo fare, tenere una donna,
essersela affezionata più di una figliola, più di una sorella,
questione di saper fare a questo mondo! Questa povera diavola, sola
come un cane, cambiando inquilini ogni sei mesi, ecco come è andata a
finire! Se non avesse avuto me sarebbe stata fresca! —

Tali pensieri la rincuoravano e riprendeva la preghiera con fervore,
incoraggiata. Ma quando furono le cinque la testa non le stava più su,
era stanca, finita. Rosina che non aveva avuto un sopore in tutta la
notte le diceva: — si appoggi, si appoggi qui a me. — Ma non voleva,
aveva paura di addormentarsi in quel luogo, aveva paura di doversi
risvegliare lì, non voleva dormire, e non ne poteva più. — Senti Rosina
— disse infine — non ne posso proprio più, mi sono strapazzata troppo
in questi giorni, facciamo così: io fra poco vado a casa, a momenti
farà giorno, scaldo il caffè per tutti e mi butto un po' sul letto, tu
m'aspetti qui, verso le dieci ritorno e vai via te, ma ora ho proprio
bisogno di sdraiarmi nel mio letto, mi bastano due o tre ore, faccio
colazione e vengo via, voglio rimanere fino all'ultimo oramai, alle
quattro e mezzo vengono a prenderla, il Signore vedrà che abbiamo fatto
il nostro dovere.

Rosina strinse bene la mantella addosso alla sua padrona, le girò due
volte attorno al collo una sciarpa di lana. — Si copra bene per carità
— le ripetè mentre le faceva lume per la scala, e se ne ritornò sola e
tranquilla presso la donna morta a pregare.

                                   *
                                  * *

Era l'alba, un'alba cupa, erano ancora accesi i lampioni, ma per le
vie circolavano già i barrocci colle derrate alimentari che andavano
al mercato di S. Ambrogio. I lattai, col biroccino a cofano sotto al
quale il lampioncino acceso tremulava come una gocciola. Gli operai
attraversavano la città per recarsi al lavoro. Era quel primo movimento
frettoloso dell'alba invernale.

Quando la signora Costanza pigiò la chiave dentro la serratura le parve
di cascare addosso alla porta che si apriva, tanto aveva sonno, tanto
era stanca, tanto le sue vecchie ossa erano intirizzite. Anelava il
momento di potersi sdraiare sul suo buon letto.

Aprendo intravide della luce venir fuori dalla camera del poeta
presso la sua, un lume vi era acceso, la porta spalancata. Si udiva
l'orchestra di vicine e lontane respirazioni pesanti nel sonno. Fece
un passo, urtò in una sedia rovesciata, presso alla quale raccolse una
giacca da uomo, inciampò ancora in qualcosa che rotolò: una bottiglia.

Dall'orchestra di quelle respirazioni si alzò uno sbadiglio acuto, poi
alcune parole:

— C'è gente! Ehi! L'avevo detto io! Ci siamo addormentati! Ehi! Fufi!
Fufi! Sei morto? È giorno! Ah! Ah! Ah! La vecchia!

Battè forte gli occhi, fu desta d'un colpo. Una donna seminuda, con la
sola camicia e la sottana le fu davanti sulla soglia, nella penombra,
pareva sorridesse, dalla faccia trasognata, sembrò intravedere un
uomo rovesciato che dormiva attraverso un letto. Dalla porta vicina
fuggì come uno spettro un'ombra bianca ed entrò nell'uscio di fronte.
Un'altra ombra si fece alla porta ma non ne apparvero che due grandi
occhi ebeti esterrefatti.

Ombre, ombre, non più figure; grida sconnesse non più parole, singulti,
non più oscurità e grigio dinanzi agli occhi, ma tutti i colori dello
spettro ballanti una ridda spaventosa, penetrando nelle pupille lame
colorate acutissime accecatrici, raggi fusori nelle molecole del
cervello....

La vecchia corse due volte su e giù sobbalzando pesantemente per
il corridoio, afferrò la maniglia di una porta, sbatacchiandola,
sussultoriamente, entrò ballonzolando sulle gambe irrigidite come su
dei trampoli. Fu nel mezzo della camera, nell'aria calda e pregna di
fumo, dinanzi ad una poltrona dove un vecchio era sconciamente disteso,
seminudo, ravvolto in uno scialle, addormentato profondamente. Ella
pareva fare un gesto disperato per svegliarlo, pareva volesse emettere
un grido, ma le sue mani, come grinfie spiegate in alto, parevano
arranfare il cielo, e la sua bocca rimaneva aperta paurosamente
spalancata vuota e nera. Sobbalzò ancora tutta la persona in un
tremito sussultorio, orribile tarantella di morte, mentre alla soglia
apparivano e sparivano, si stringevano e si dilatavano occhi grandi
spauriti trasognati. I suoi immensi occhi neri come due altre bocche
parevano volere inghiottire quel vecchio che continuava il suo sonno.
Dalla gola le salì uno strappo come la corda di un violino troppo
tesa che si schianta, e cadde giù pesantemente nel mezzo della stanza
producendo un cupo rimbombo per tutta la casa.


La prima edizione del più pettegolo dei giornali portava questo
stelloncino di cronaca:

«_Stamani alle ore sette nella Via*** N.*** l'affittacamere Costanza
Chiodaroli veniva colpita da apoplessia rimanendo all'istante cadavere.
Essa veniva prontamente soccorsa dai suoi numerosi inquilini, e da
alcune.... signorine certa Nella B*** certa Olghina le quali, non si sa
come, si trovavano precisamente nella sua casa. Dette signorine per lo
spavento provato si sono date a gridare dalle finestre e per le scale,
mettendo sottosopra tutto il vicinato, e facendo accorrere gente anche
dalla via. La scena era delle più interessanti. Le brave ragazze appena
riavutesi dallo spavento subito si sono date, nel loro costume ridotto
ai minimi termini, a vegliare religiosamente la salma della povera e
compiacente padrona di casa. Non occorre aggiungere trattarsi di una
casa.... da thè. Il bello poi è questo, che il contado raccapricciato
dallo scandalo è indignatissimo contro la defunta che si era fatta
abilmente ritenere da tutti come una donna delle più scrupolose e
costumate. Nel suo genere ben inteso_».



INDUSTRIA


— Ma che bel bambino! Bello bello bello! Ce ne sono molti ve' di
belli quassù, ma questo è il più bello di tutti. — La giovine madre
che teneva in collo il fanciullo sorrideva. — Ventotto mesi! Sembra
di quattro anni! Davvero! Ma che bei ricci!... Ma gli occhi!... Gli
occhi.... Vuoi venire con me?

— Vuoi andare con questa signora? Il bel ricciuto rise stringendo forte
con tutte due le braccia il collo della madre. Le sue braccine grasse
grasse facevano una profonda risega alla fine del polso, e le manine,
fino alle dita, sembravano due guancialini. — Mah!... — La signora
guardò suo marito presso a lei — Andiamo Narciso? — Il marito annuì
col capo e un poco colla persona — Mah.... Addio bello!... Addio....
Buonasera.

— Buonasera signora.

Anche il marito salutò toccandosi con due dita la tesa del cappello.

Da un paio di mesi questa scenetta accadeva quasi ogni sera. I
due signori, coniugi senza figli, il marito muoveva appena i primi
passi nella cinquantina la moglie tirava via a far gli ultimi della
quarantina, passavano da molti anni l'estate lassù a Vincignano, il
delizioso paesello della Toscana verso il confine Umbro; affittavano
sempre la stessa villetta, e la sera puntualmente al calare del sole
salivano fino alla piazza del villaggio, si sedevano allo stesso
tavolino del Caffè Nazionale, prendevano entrambi un _bitter_ al
_seltz_, e dopo mezz'ora se ne ritornavano a casa prima che fosse
proprio buio. La giovine col fanciullo era la moglie di un contadino
che abitava sulla via maestra a pochi passi dal paese. Quest'anno
i coniugi facevano in più la fermatina per salutare il piccino; a
quell'ora la donna era di solito sul cancello, quando non c'era
aspettavano un po', guardavano dentro, e se ne andavano molto a
malincuore se non era stato loro possibile di vederlo. E lì: — Che bel
bambino! Che begli occhi! Come questo non ce n'è! Non è vero Narciso?
Ma che ricci.... Vuoi venire con me?... — E dall'altra parte: —
Nossignora, sissignora.... ecc....

Ecco il primo germe di questa industria.

Una sera la signora disse scherzando: — Volete vendermi questo bambino?
Voi potete farne subito uno più bello, io invece.... — La giovine
madre sorrise. La sera dopo la frase fu ripetuta con minore accento
scherzoso, la madre sorrise appena, la sera dopo ancora: — Ci avete
pensato? — E la donna fu seccata di questo stupido discorso.

Parlando col marito disse dell'ammirazione che i due avevano per il
piccino e disse che quella signora ripeteva ogni sera di volerlo
comprare. — Sono cose che non si dicono neppure per ischerzo —
concluse.

                                   *
                                  * *

Era la fine di settembre, i coniugi lasciavano la campagna per
tornarsene a Roma dove abitavano; quel giorno nella loro casa si
concludeva solennemente un importantissimo affare: la proprietà di un
certo Beppino di mesi ventinove passava a loro. Essi lo comperavano. Al
tempo stesso firmavano in suo favore il loro testamento, lasciandolo
erede di ogni loro bene. Pretendevano solamente, i nuovi genitori,
che al nome di Beppino fosse anteposto quello di Cesare, nome troppo
adorato e che custodivano intatto da quasi trent'anni.

I genitori di Beppino ebbero in compenso lire cinquemila. Fu sulle
prime la moglie a volerle sborsare tutte lei, quasi riconoscesse, in
quell'istante di felicità, tutto suo il torto nella infruttuosa unione
e intendesse così pagarne la pena; e allora saltò fuori il marito che
le voleva pagare tutte lui come convenendo allo stesso modo di essere
lui solo il colpevole. Infine, dopo in lungo colloquio, decisero di
mettere ognuno lire duemilacinquecento. Dovevano essere unite le due
parti. — Così si fa, così debbono fare tutti, anche quelli che fanno i
figli davvero.

                                   *
                                  * *

Beppi.... pardon, Cesare, fu portato a Roma e non tardò a
familiarizzarsi ed affezionarsi ai nuovi genitori. Chi sa mai quello
che sarà passato per la sua testolina ma le condizioni del baratto
erano così favorevoli ch'egli si trovò magnificamente nella capitale
d'Italia dove lo avevano chiamato a regnare.

E quei coniugi, quella gente misurata e metodica, era diventata altra
gente, gente nuova; avevano mandate al diavolo le abitudini ed erano
tornati fanciulli. Non si occupavano più che di giuochi, di piccoli
indumenti, di belle passeggiate al sole, corse sui prati.... tutta una
vita rimasta in loro latente, ora si sviluppava, così tardi.

Si passavano l'oracolo dall'uno all'altro, ridevano, gridavano,
correvano, gioivano.... spudoratamente; e quando la sera il piccolo
chinava la testina dopo aver bevuto tutto il suo latte, se lo portavano
a letto, e uno da un lato, uno dall'altro cooperavano a spogliarlo così
addormentato e a metterlo presto sotto le coperte, eppoi lo baciavano,
zeffirandogli appena le guance perchè non si destasse, assaporando il
suo alito candido di latte. E lo guardavano ancora, e si guardavano
incontrandosi in una frase lampante sebbene non espressa: — Quelle
gioie potevamo averle provate da quasi trent'anni! Di chi la colpa?
— Passava velocemente quest'ultima nuberella fra i due — Però....
però.... — diceva un ultimo sguardo pacificatore: chi sa se loro
sarebbero riusciti ad averne uno tanto bello.

                                   *
                                  * *

Prima che la vita di questi pseudo genitori fosse così totalmente
cambiata, essi avevano a Roma due buoni, due cari amici, un'altra
coppia di coniugi sulla cinquantina, come loro, come loro senza figli,
non perchè gli fossero morti, ma perchè non erano mai riusciti ad
averne, come loro: Pippo e Lavinia Tuzzo. I quattro si trovavano al
pomeriggio per la passeggiata, alla sera per il caffè o il teatro, e in
ogni luogo dove ci fosse da andare andavano insieme. Pagavano a metà la
vettura, a metà il palchetto, pagavano a metà anche al caffè perchè le
signore prendevano tutte e due il cappuccino, gli uomini tutti e due
il caffè. Si facevano buona compagnia, si comprendevano a meraviglia,
avevano le stesse abitudini, gli stessi gusti, i medesimi rimpianti.
Andavano di sovente in quei giardini dove i bambini giuocano, e le
mogli emettevano i medesimi sospiri, si lasciavano andare le stesse
confidenze, le stesse piccole amarezze. I mariti dietro dietro, più
severamente, facevano eco alle mogli. Quando si trovavano dinanzi
ad una madre di numerosa prole, e magari orribilmente gonfia di un
nuovo essere, le due donne guardavano la povera giovenca con grande
ammirazione, la seguivano attonite. — In fondo era una donna in tutto
e per tutto come loro, perchè doveva essere così beneficata? Che cosa
aveva ella? Che cosa non avevano loro? — E quando i due mariti erano
di fronte ad un mesto, preoccupatissimo padre di molti marmocchi, lo
squadravano dalla cima dei capelli alle suola delle scarpe, quasi
avessero voluto dire: — Che bel ragazzo! — Perchè ognuno di quei
quattro riconosceva nel coniuge la colpa maggiore, ma in fondo erano
tutti colpiti da quello del proprio sesso che si era così potentemente
affermato. E questo sfregacciamento fra le due coppie serviva un po' a
riscaldare la gelida tana delle loro unioni infruttuose.

Quando Lavinia e Pippo Tuzzo andarono alla stazione a salutare i loro
amici di ritorno dalla campagna, non si potè dire che la sorpresa che
gli avevano preparata li mettesse di buon umore. Credettero prima
ad uno scherzo, poi, vedendo che quelli non avevano punto aria di
scherzare e si portavano a casa con grande premura il fanciullo,
rimasero fra loro pensierosi.

Una barriera insormontabile veniva a dividere i vecchi amici, il _tran
tran_ della stessa vita non era assolutamente possibile riprenderlo. Le
antiche abitudini se ne andarono tutte a capo fitto. I due non uscivano
più la sera perchè non avrebbero mai eppoi mai affidato il piccino
nelle mani della donna di servizio, uscivano invece presto la mattina,
perchè Cesare abituato alla campagna doveva rimaner fuori più che
fosse possibile: andavano per i viali, per le ville, col piccolo che
si trascinava dietro un carretto, o un treno, un cavallo, dei palloni
variopinti, si camminava secondo il volere di Cesare, si andava dove e
come piaceva a lui, tutto era cambiato dalle fondamenta, non c'era più
che una parola che valesse al mondo, un'idea, un nome: Cesare.

Lavinia e Pippo Tuzzo si mischiarono in principio a questa gioia, ma
gli altri in fondo non ne godevano, non sapevano più che farsene, si
capiva bene; rimanevano impacciati davanti a loro, non potevano godere
più così spudoratamente come quando erano soli. — Siamo i nonni.... —
dicevano: — Siamo.... come nonni.... — Ma lo dicevano male, si sentiva,
per paura di essere corbellati, perchè loro non si sentivano nonni un
corno, ma si sentivano il padre e la madre di quel fanciullo e niente
altro.

Poi, il bimbo che diveniva sempre più festoso, sempre più sorridente,
dispensava anche agli intrusi le sue grazie, e loro non volevano
assolutamente essere così generosi da lasciargliele andare. — Eppoi....
eppoi infine.... — questo bambino è stato.... come trapiantato, avendo
già cambiato i genitori una volta, se non ha sofferto nel mutamento
è un vero miracolo, non è bene farlo accostare a troppa gente, se si
vuole acclimatarlo bene al nuovo terreno.

— Certo certo — interloquiva il marito — naturalmente.

Le due amiche divennero fredde, e anche un poco insidiose, gli uomini,
molto più sereni, riconobbero nella loro flemma che non era più
possibile vivere insieme come prima.

Le visite furono diradate.

I coniugi senza figlio trovarono sul principio immensamente ridicola
la condotta dei loro amici. — Per aver comperato un fanciullo erano
divenuti due perfetti imbecilli. Alla loro età era anche molto
pericoloso lasciarsi scorgere in pasto a simili debolezze. — Ma....
soli.... divennero malinconici, incominciarono fra loro i piccoli
malumori.... piccoli malintesi.... dissensi fino allora sconosciuti....
per la prima volta si guardarono in cagnesco rimproverando l'uno
all'altro la propria sventura. E un giorno poi scoppiò fra i due la
vera guerra, due parole s'incontrarono come due micidiali siluri. Il
marito lanciò dalla sua parte, con tutta la violenza di cui poteva
disporre, questa parola: Sterile! — La moglie quest'altra: — Allentato!
— E i due rimasero lungamente senza guardarsi.

Lavinia Tuzzo corse dalla vecchia amica e senza un ritegno più parlò
della sua situazione, della solitudine, del dissidio col marito. —
Mia cara, voi dovete fare precisamente quello che abbiamo fatto noi:
prenderne uno, noi siamo felici! Pensate alla gioia di avere una di
queste creaturine per la casa, sentirsi chiamare mamma, e avere una
persona tanto carina alla quale volere tutto il nostro bene, alla quale
dare tutto, tutto il nostro pensiero, lasciare quello che abbiamo.
Volete anche voi lasciare il vostro denaro a dei lontani parenti che vi
riderebbero dietro? Mia cara, io ti giuro che non v'è nulla di meglio
al mondo che vedersi saltare sulla ginocchia uno di questi piccoli
esseri. Queste creature prese così piccine sono come nostre, non v'è
differenza alcuna, noi le educhiamo, le tiriamo su come vogliamo
noi.... come un fiore. Voi dovete fare subito come noi: prenderne
uno, scriverò io a Vincignano per informazioni, subito, non dubitate,
dovete prenderne uno anche voi, di genitori sani, robusti, ben inteso,
conosciuti, come abbiamo fatto noi, scriverò subito alla madre di
Cesare io stessa....

La madre di Cesare non tardò la sua risposta. Ella era incinta già
da quattro mesi, ma non avrebbe acconsentito mai a ripetere il suo
fallo. Dopo la cessione di Beppino era stata molto male, si era sentita
tanto sola che non vedeva il momento di avere messo alla luce un altro
Beppino.

Fu replicato, ribattuto, i Tuzzo stavano per andare in persona a
Vincignano quando giunse questa lettera:

  «_Illustrissima signora_,

«_Il mio uomo mi forza anche questa volta a fare lo sbaglio che io non
vorrei fare, cioè di fare quello che feci con Beppino, io non volevo
a tutti i modi ma lui ha voluto, se no dice che io sono una madre
snaturata, dice che il Signore ci benedirà perchè leviamo i poveri
alla miseria e mettiamo al mondo dei signori invece che dei tristi. Sia
fatta la volontà di Dio e del mio uomo anche per questa volta. Dunque
rimane fissato che appena io mi sono sgravata gli faccio il telegramma
perchè loro vengono colla balia, perchè sento lo vogliano allattare da
sè. Per il fissato del prezzo dice Nando non meno di diecimila perchè
se no sarebbe troppo sagrifizio. Dice il mio uomo non credino che
lui se li voglia mangiare questi soldi ma li asserba per una figliola
quando verrà per farci la dote perchè anche lei sia una signora come
i suoi fratelli e non una trista perchè se no ci potrebbe un giorno
maledire. Dia per me un bacio a Beppino che sono tanto contenta che
stia bene, e mi firmo sua umilissima serva Filumena e con più la saluto
tanto anche da parte di Nando e saluti anche quegli altri signori e il
suo consorte_».

Quattro mesi dopo arrivò questo telegramma:

«_Filomena sgravata felicemente di una bella bambina vengano pure colla
balia. Nando_».

Fu un disastro, un disastro! Una giornata orribile! I Tuzzo volevano
il maschio e nasceva una bambina! Che cosa dovevano fare? Dovevano
prenderla? I genitori, di solito, si rimettono nelle mani della
sorte per questa faccenda, ma non era la stessa cosa; eppoi gli amici
avevano avuto il maschio.... Infine loro erano genitori in condizioni
tutt'affatto speciali, e potevano anche permettersi il lusso della
scelta, avevano, è vero, impegnato il figlio, ma sicuri che fosse stato
un maschio. Chi poteva pensare?... Saltò fuori una loro amica, vedova
benestante, sola, quasi cinquantenne, decisa a non riprendere marito;
ella avrebbe tanto volentieri rilevata una bambina per sua compagnia,
purchè di buoni genitori, sani, e di indole mansueta. Fu stabilito di
andare tutti assieme, la vedova e i Tuzzo, a Vincignano, e andarono.

La vedova pattuì per la bambina dietro compenso di lire quattromila
non appena avesse compiuto l'anno e fosse slattata, e i due coniugi,
ormai in fregola, e oramai a Vincignano, comprarono da due forti e bei
genitori un magnifico maschio di tre anni giusti.

Non era compiuto l'anno dunque che a Vincignano erano stati venduti
questi tre fanciulli.

Sembra che la voce circolasse rapidamente, per Roma e fuori di Roma;
tutti parlavano di questi fanciulli. — I fanciulli di Vincignano! I
fanciulli di Vincignano! — I fanciulli di Vincignano divennero celebri,
argomento di tutte le conversazioni di quei coniugi senza figli. Molti
andarono in persona e vi trovarono veramente una magnifica razza, e
una gran quantità di genitori dispostissimi a cedere rampolli dietro
compenso e alle condizioni suddette: che fosse fatta loro donazione
di beni in vita o in morte, e che venisse loro assicurata una buona
posizione.

L'anno seguente ne furono venduti nove, il terzo anno, ventidue, il
quarto, sessantasette, il quinto, questo, ha avuto luogo in Vincignano,
il primo mercato. Quei paesani, decisi a non vendere più la loro
mercanzia alla spicciolata, stabilirono di tenerne una volta l'anno, in
epoca da destinarsi, sulla piazza di Vincignano, un regolare mercato.

                                   *
                                  * *

Una bella mattina di giugno il sole aveva riserbato nelle sue tasche
per i colli toscani una speciale riserva d'oro, il piccolo gruppo
di case sulla cima palpitava alla vivacità della luce e del calore.
Vincignano, uno degli ultimi villaggi delle catene toscane verso
l'Umbria, guardava giù i pendii verdi, arati di vigne, inargentati dai
morbidi manti degli oliveti, cosparsi di cipressi, questi obelischi
vivi della natura messi qua e là come puntelli nel divino paesaggio
toscano, perchè tutto non si confonda in una divinità di luci e di
colori davanti agli occhi dell'umile osservatore.

Dalle primissime ore del mattino il paese era tutto in movimento.

I fanciulli dovevano venire anche dalle vicinanze, purchè fossero
venduti lì, a Vincignano, su quella piazza, dovevano avere questa marca
di fabbrica «Vincignano».

Si erano installate lassù, già da vari giorni, coppie attempate,
zitelle, zitelli, vedovi, facce più o meno arcigne che venivano
incontro ad un torrente di gioia. I piccoli alberghi, le case,
rigurgitavano. Un americano giungeva dall'America espressamente per
comperare dodici fanciulli da portare in dono alla sua sterile sposa.
Egli diceva di assicurare ai piccini un milione per ciascheduno. Due
coniugi francesi dal muso d'uccello, volevano due maschietti colle
gambe secche e dritte da introdurre come innesto per tentare la
ripopolazione della Francia. Da ogni parte si domandavano informazioni
e spiegazioni.

— I genitori! I genitori! — Bisognava vederli, farli visitare dal
medico e accuratamente, bisognava essere certi della razza, al momento
del mercato il medico avrebbe dato il responso.

— Io mi accontento del collo del padre. A me basta — diceva una
secchina arricciando naso e bocca. — E i denti? I denti? — Incalzava
un'altra colla faccia d'arancia e due occhi come grani di pepe — dove
li mettete? _Phue!_ — Il seno della madre! — Soffiava un grassone dalla
faccia paonazza — È importante!

— I capelli! I capelli! I capelli! Non li contate voi? Non guarda ai
capelli lei? È tutto. — Lasciava precipitare uno alto quasi due metri,
secco secco, con un tubino grigio sotto al quale, nella cute bianca,
nasceva una ghirlandina di lunghe setole giallicce.

Vincignano si popolava si popolava, si riempiva. Da tutti gli
sbocchi apparivano sulla piazza donne che conducevano fanciulli,
piccoli in fasce più grandicelli, se ne vedevano fino agli otto e
ai dieci anni. Ce n'erano dall'espressione triste, malinconici o che
piagnucolavano, altri in piena allegria e floridezza andavano incontro
spensieratamente al loro destino. Alcuni, bambine in specie, parevano
fiutare sottilmente una nuova vita di agi e di ricchezze. Erano tutti
ben messi, i più piccini seminudi mostravano braccia e gambe paffute.
Una madre ne teneva uno a gambe all'insù mostrandolo sotto come una
meraviglia, infatti il piccolo agitandosi esponeva carni meravigliose
di freschezza e di colore. Altre erano intente a ravviare capelli,
soffiare per l'ultima volta un naso. Poi facevano passeggiare in bella
mostra il loro prodotto mettendolo più in evidenza che fosse possibile.
Un giovanotto ne prendeva uno e se lo portava sopra la testa, e il
bimbo brillava e rideva al giuoco. Chi ne trascinava uno a forza come
al macello.... chi ammoniva con promesse esorbitanti, chi ne ricuopriva
uno d'improperî, chi gli stringeva forte le dita per farlo star su,
dritto, o perchè sorridesse ai signori che circolavano, e l'innocente
faceva sempre più la faccia d'uggia. Intorno, sulle panchine della
piazza, si vedevano madri che davano il latte alla loro creatura
sfoggiando ai passanti una mammella portentosa.

E fra tutta questa gente circolavano i concorrenti. Le signore coi
loro occhialetti giravano, cercavano, si chiamavano, accarezzavano,
domandavano, tutti si rimescolavano oramai sulla piazza. Ve ne erano
anche venuti in gita, per pura curiosità, e ridevano, e facevano mille
meraviglie per la novità del caso. — Il Condotto! Il Condotto! — Fu
gridato da una parte. Il medico corse all'appello e fu rinserrato da un
aggruppamento istantaneo di persone.

Il mercato era aperto. Fu venduta per lire quattromila una bambina
di quattro anni, bruna, la quale per il grande trambusto e per la
soggezione del momento si diede a piangere dirottamente. Portata
subito nel vicino caffè le furono presentati vasi di confetti e
_drops_ dinanzi ai quali la piccina ristagnò le lacrime, e accennava
timidamente quali di quei dolci le convenivano di più.

Il mercato era aperto.

Si correva da destra a sinistra e tutti via via s'aggruppavano dove un
affare si concludeva.

— Uh! Bellino!

— Che spalle!

— È vaccinato?

— Che occhi!

— Fategli aprir la bocca!

— Che dentini!

— Perle!

— Com'è tondo!

— Un tordo!

— Grasso! Grasso!

— Guardi qui!

— Qua! Su! Giù!

— _Sciu! Scia!_ — Uno sculaccione e la vendita era fatta.

Chi portava via un fanciullo in collo di tutta corsa, coppie che ne
tenevano uno in mezzo e camminavano chinati per guardarlo bene, non
ancora capaci di stringerselo e di baciarlo. I due si guardavano in
viso ancora una volta: — Avremo combinato bene? Sarà sano? Sarà buono?
Mah! Speriamo! — Dissensi che saltavano fuori all'ultimo momento
fra coniugi che si guardavano velenosamente prossimi ad acciuffarsi.
I poveri fanciulli erano ormai intontiti, si portavano loro dolci,
giuochi, si tiravano, si alzavano, si spogliavano, si rivestivano, si
stringevano in quel fracasso d'inferno.

L'americano ne aveva già comperati quattro per un complessivo di lire
venticinquemila — Cento! Cento! — Gridava correndo in cerca di nuovi
soggetti, sodisfattissimo della razza.

I due francesi se ne tiravano uno per la mano in cerca disperata
dell'altro da portare come innesto per la ripopolazione della
Francia. I ragazzi andavano a ruba. Alle undici non ce n'era più uno
disponibile. Alcuni genitori si decisero sul momento a venderne uno,
vista l'affluenza sul mercato.

Si gridò a più riprese: — C'è più nessun fanciullo in vendita? Nessuno,
il mercato era finito, la piazza si spopolava; tutti correvano a fare
i passi necessari per l'acquisto della proprietà, interrogavano i
genitori sulle abitudini sui gusti. Il Condotto era strappato da tutte
le parti, tutti se lo contendevano.

Nella piazza tornata in calma, la gente sedeva sulle panchine
commentando, discutendo delle vendite, pro e contro la nuova industria.

Una piccola zitella di una cinquantina d'anni girellava delusa. Era
venuta anche lei per comprare ma non si era fatta avanti, troppa
confusione, eppoi i prezzi enormi.... non ne erano stati venduti a meno
di tremila lire. Lei infine non poteva promettere che una posizione
modesta, aveva da vivere appena comodamente. Si fermò vicino ad una
panca, vi sedeva una donna grassa di mezza età, al suo fianco, quasi
nascosto, nel cavo della sua vita, un piccolo essere, un bambino secco,
gracile, vestito con calzoncini e giacchetta di grossa roba di lana, un
lungo mento e un berretto da marinaio che gli calzava fino sugli occhi.

— Questo? — disse la zitella soffermandosi — è vostro?

— Sì — rispose la donna.

— Non lo volevate vendere?

— L'ho portato solamente per provare. Più degli altri avrebbe avuto
bisogno di essere venduto ma.... io non ho voluto esporlo, avrebbero
forse riso, lo avrebbero schernito poverino, è un infelice. — E
alzandolo su lo mostrò in piedi. — Era gobbo, mostruosamente gobbo. —
È nato così. Oh! Avrebbe bisogno lui di trovare protezione, noi siamo
dei poveri contadini, e in casa c'è pane solo per chi può lavorare, lui
forse non potrà....

La donna parlava profondamente amareggiata, aveva vedute vendere tante
belle teste ricciute, andare incontro agli agi, alle ricchezze, aveva
veduti i loro genitori riscuotere sacchetti d'oro.... — Qui vengono
solo a cercare i belli e i sani.... —

La zitella accarezzava il fanciullo teneramente. La madre la guardò in
maniera espressiva, le due donne si capirono.

— Mah!... — disse la zitella — poverino.... io cercavo una bambina....

— Ma glie lo darei per poco, è buono sa, tanto buono, si affeziona, e
non si staccherebbe mai da una persona quando gli vuol vene.

— Ma io cercavo una bambina.... — Intanto qualcosa di fossilizzato
a quel calore si disfaceva in lei e le veniva dolcemente agli occhi,
alla bocca alle mani al cuore.... ad inondarla tutta: la sua maternità.
L'amore per l'essere infelice, la cura per il meschino, la dedizione
pietosa.... tutto un poema di tenerezza e di amore ella intravedeva.
Oh! essere madre di belle e sane creature non era così grande come
essere madre di un infelice.

— Glie lo darei anche per cinquecento lire — incalzò la donna.

La zitella sentì di doverselo stringere al seno; lo prese, lo circondò,
lo baciò, lo strinse. La creatura dalla bazza puntuta la baciò nella
bocca viscidamente, un bacio malato, ma dal quale si travasavano gocce
della sua povera anima molle.

A questo punto viene su dal fondo della piazza un nuvolo di persone.
È l'americano che sbraita inseguito da gente che ride sorride
sghignazza....

— _Empossibole! Empossibole!_

Non era riuscito che a comperare otto fanciulli, e non avrebbe lasciata
l'Italia senza i dodici da portare alla consorte. Ne cercava ora da
comperare di seconda mano, a qualunque prezzo, a qualunque condizione.
Giunto alla cima della piazza, scorta la zitella che abbracciava il
piccolo infelice si avvicinò.

— Questo? Questo?

— È infelice signore — disse la madre.

— _Non emporta._

— È gobbo.

— _Non emporta._

— Questa signora lo prenderebbe....

— _Quanto dare?_

— Cinquecento lire — balbettò timidamente la zitella lasciando il
fanciullo.

— Mille — disse l'americano.

La zitella còlta da uno scatto di rabbia per la spavalderia di quel
tipo disse secco secco:

— Millecinquanta.

— Millecinquecento!

— Milleseicento — ritossì la zitella.

— Duemila.

La piccola zitella tremava di rabbia, era divenuta livida, guardava
la madre saettandola, facendole gesti, segni cogli occhi, ma essa non
guardava più che l'americano, esterrefatta per il sopraggiungere così
inatteso della fortuna.

Un bell'umore del gruppo gettò un grido:

— Cinquemila lire!

— Diecimila! — Gridò l'americano.

— Ventimila! — Venne ancora fuori dal gruppo aizzato al giuoco.

— Un gobbo! Un gobbo! — Dicevano tutti — Mamma mia! — E ridevano e
gridavano....

— Trentamila! — Urlò l'americano senza neppure voltarsi.

— Ma un gobbo!

— Gesù mio!

— Porta fortuna!

— È la fortuna! — Fu gridato in vari punti della piazza.

— Porta fortuna!

— Quarantamila!

— Cinquantamila!

La madre divenuta pazza, furente, assalita da un fremito febbrile,
salita sulla panca col povero infelice in braccio, e mentre la piazza
rumoreggiava ancora una volta affollata, mentre tutti gridavano,
ridevano sconciamente, incominciò a togliere le vesti di dosso al
fanciullo e a lanciarle via alzandolo nudo sopra là sua testa, gridando
da forsennata:

— Guardatelo! È vero! È vero! È reale! — pazza, lanciando il figlio
nudo verso il sole! Le due curve mostruose di quel povero torace
rilucevano ai raggi.

— Centomila! — tuonò l'americano sorpassando ogni rumore, girandosi
paonazzo verso la folla in atto di sfida.

La piazza rimase muta d'un colpo.

                                   *
                                  * *

Non è vero che questa industria è straordinaria? Ma il più
straordinario è questo: che il nostro buon Giolitti non abbia ancora
pensato di farne un monopolio dello Stato.



INDICE


  Il Re bello                           _Pag._   5
  L'anima                                       47
  L'ingegnere                                   59
  L'angelo                                      85
  Tre diversi amici e tre liquidi diversi      103
  Piccolo gioiello sentimentale                109
  Per una bella donna                          113
  La bomba                                     135
  Il borsaiolo                                 143
  Alla morte non si sfugge                     155
  Le due famiglie                              173
  Il mendicante                                193
  Il gobbo                                     199
  La veglia                                    215
  Industria                                    245



Opere di ALDO PALAZZESCHI

(Edizioni Vallecchi)

  _Il Codice di Perelà._ Romanzo, 2.ª edizione. L. 6
  _Il Re bello._ Novelle. L. 6
  _Due imperi.... mancati._ Romanzo. L. 6

  PROSSIMAMENTE:

  _L'Incendiario_, Liriche, 1905-1909. 3.ª edizione definitiva.
  _Poesia_, Liriche, 1910-1914.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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