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Title: Il codice di Perelà
Author: Palazzeschi, Aldo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il codice di Perelà" ***


                            ALDO PALAZZESCHI


                         _Il Codice di Perelà_



                       VALLECCHI EDITORE FIRENZE



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

     Firenze, 1920 — Stabil. Tipog. A. Vallecchi, Via Ricasoli, 8.



L'UTERO NERO


_Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe... Re.... La...._

— Voi siete un uomo forse?

— No, signore, io sono una povera vecchia.

— È vero, è vero sì, avete ragione, voi siete una povera vecchia, un
uomo sono io.

— Voi che cosa siete signore?

— Io sono.... io sono.... molto leggero, io sono un uomo molto leggero;
e voi siete una povera vecchia: come _Pena_, come _Rete_, come _Lama_,
anche loro erano vecchie. Vorreste dirmi se quello che si vede laggiù,
in fondo a questa via, è la città?

— Sì.

— Quella che si vede laggiù.... sarebbe forse la casa del Re?

— Quella è la porta della città. La casa del Re è situata nel mezzo,
ed è circondata da mura, e guardata dai vigili. Quei cittadini uccidono
sempre il loro Re. Ora è Re Torlindao. Voi andate alla città signore?

— Sì.

— Ci sarete fra poco. Di dove venite?

— Di lassù.

— Non vi hanno mai veduto in città?

— Ci vado per la prima volta.

— Guardate guardate quella nuvola di polvere che viene verso di noi,
sono i vigili del Re, è la scorta a cavallo, vengono per fare la
perlustrazione nelle vicinanze, io vi saluto, addio, addio signore,
vedendomi qui con voi potrebbero sospettare, sappiategli rispondere nel
caso, voi potete colpire i loro occhi. Addio, buon viaggio.


— Hai veduto come lo abbiamo impolverato?

Non si capiva più che cosa fosse.

— Quando siamo stati vicini mi è sembrato di averlo visto scomparire.

— Scomparire?

— Sicuro, anche a me.

— Ma quello non era un uomo sapete!

— Che cos'era sentiamo?

— Sembrava una nuvola.

— Lo abbiamo ricoperto di polvere, una nuvola sembriamo noi caro mio,
su questa porca strada!

— No no, l'ho veduto prima che la strada fosse invasa dalla polvere, è
un uomo di fumo!

— Imbecille!

— Va' là, uomo di fumo, sarà un arrosto di asino, hai sbagliato.

— Io gli ho visto benissimo le scarpe.

— Aveva degli stivaloni lucidi come quelli dei nostri ufficiali.

— Ma è un cavaliere antico però.

— Fermiamoci un momento.

— Perchè non torniamo indietro?

— Per far che?

— Per vederlo, almeno per interrogarlo.

— Per niente io non faccio un passo di più.

— Scommettiamo.

— Che cosa?

— Dite voi.

— Un paio di stivali come quelli del tuo asino antico, asino alla moda!


_Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._

— Ehi, galantuomo, dove andate?

— Alla città.

— Ci sapete dire un po' che razza di bestia siete?

— Io sono.... molto.... un uomo.

— Voi siete poco un uomo, di uomo mi sembra non abbiate che le scarpe.

— Di dove venite?

— Di lassù.

— Bel discorso, ehi galantuomo, lo sapete con chi parlate?

— Con la scorta del Re.

— Meno male, allora le ciarle sono inutili.

— Dimandiamogli di che cos'è.

— Domandaglielo te, imbecille.

— Di che cosa siete signore?

— Io sono.... molto leggero.

— Volevo dire: di quale materia è formato il vostro corpo?

— Fumo.

— L'avevo detto! Ecco! Ecco! È un uomo di fumo. Un uomo di fumo! Fumo!
Fumo! Fumo!

— Taci marmocchio, se non vuoi andare anche te in fumo.

— Ma egli ha ragione!

— Perchè ostinarsi poi?

— Non si vede bene tutti?

— Fumo! Fumo! Fumo!

— Taci....

— Ma no che è vero, ha ragione.

— A voi sta a cuore la vostra scommessa, ecco.

— Come sono belle quelle scarpe!

— Tacete....

— Ma è inutile, è vero.

— Fumo! Fumo! Fumo!

— Lo vediamo tutti.

— Andiamo a dirlo al Re?

— Andiamo a dirlo al Re.

— Sì sì, andiamo.

— Può aver piacere di vederlo.

— Chi sa che cosa dice!

— Un uomo di fumo!

— Fumo! Fumo! Fumo!


_Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._

— Niente per il dazio signore? Galantuomo non fate da sordo! C'avete
niente? Dentro le scarpe?

— Io sono.... molto leggero.

— Eh caro mio, ci sono delle cose molto leggere che pagano il dazio.
Coi vostri stivaloni potreste frodare benissimo il governo. Che tipo
buffo!

— Hai veduto che strano colore?

— Colore della nebbia caro mio.

— No!

— Che c'è?

— Ho capito.

— Che cosa?

— È di fumo!

— Ah! ah! ah! ah! ah!

— Sì, è di fumo!

— Venite a sentire, ha visto passare un uomo di fumo.

— Sicuro.

— Ah! ah! ah! ah! ah!

— Pazzo!

— Quanto gli hai fatto pagare?

— Tipo ameno te e lui.

— Vi assicuro, non poteva essere altrimenti egli ha detto di essere
molto leggero, l'ho visto bene da vicino!

— Ah! ah! ah! ah! ah!

— Voi siete un uomo, vero?

— Naturalmente.

— Sapreste dirmi chi è quell'uomo là? È un uomo anche lui?

— Ma si capisce, è un soldato. Egli è pronto per la guerra.

— La guerra!

— Non vedete come è ben guernito di ferro, di piombo e di acciaio? È un
soldato, si capisce.

— La guerra! Piombo.... ferro.... acciaio.... ma non sono queste cose
molto pesanti?

— Naturalmente. Non si può mica farsi sul nemico con dei confetti. Ma
voi che cosa siete?

— Io sono.... un.... molto leggero, sì, un uomo molto leggero.

— Che tipo strano!


Quante volte ho sentito questo nome: guerra. _Pena, Rete, Lama_,
leggevano sempre di guerre, ed io mi figuravo che gli uomini andassero
nudi alla guerra, facendosi leggeri; che i loro passi fossero
agili, silenziosi, come quelli di un leopardo; lanci furtivi, volute
serpentine per insinuarsi, per nascondersi, per sottrarsi; e li vedevo
carpire ali ad uccelli da usare quali strumenti. Piombo.... acciaio....
ferro.... E non cadono essi schiacciati sotto il peso dei loro arnesi?
Come possono velocemente inseguire il nemico, e inseguiti, come possono
velocemente fuggire?

Io vedevo dei campi tutti bollati di sangue vermiglio, come se quegli
uomini se ne fossero liberati per correre più leggeri a gridare la loro
vittoria!

Ora vedo la guerra.... un'enorme minestra grigia, scodellata con
stridulo crocrolo sciulo frastuono, e rimasta lì.... immangiabile.

— Gente! Gente!

— Signore! Signore!

— Signore! Correte!

— Venite!

— Anche voi!

— Correte presto!

— Dateci aiuto!

— Aiuto!

— Guardate, venite!

— Vedete, vedete questo pozzo? Affacciatevi, guardate. Si sono or ora
calate laggiù due fanciulle e non è possibile trarle fuori.

— A quest'ora saranno morte!

— Aiutateci signore!

— Dicono che questo pozzo non abbia il fondo!

— Quanto erano belle!

— I loro occhi sembravano quattro stelle del cielo!

— Avevano i riccioli neri più delle ali dei corvi!

— Le loro bocche sembravano due cofani di corallo pieni di perle!

— Erano nate per salutar l'aurora!

— Per amore! Per amore!

— Si sono volute uccidere!

— Tutte e due erano invaghite di uno stesso uomo!

— Fino alla perdizione!

— Egli è là che piange e si rotola sulla terra, sua madre lo tiene,
altrimenti si sarebbe già calato nel pozzo!

— Due fanciulle!

— Veneziane!

— Erano venute qui ad infilare le perle alle dame della città.

— E per amore hanno troncate le loro giornate.

— Amavano uno stesso uomo?

— Sì, signore.

— E perchè si sono gettate nel pozzo?

— Bella, perchè erano infelici. Come poteva egli con un cuore solo
corrispondere a due cuori così ardenti?

— E allora una sola doveva gettarsi nel pozzo.

— Tacete, cosa sapete voi?

— Chi siete?

— Una sola! Che faccia!

— Mandatelo via, fatelo andar via!

— Non vedete che uomo buffo?

— Non dev'essere mica un uomo, sapete.

— Che cosa dev'essere?

— È un poco di buono, ecco che cos'è!

— È un nuvolone venuto basso basso.

— Un nuvolone! Ha una cappa di piombo!

— Non è un uomo, non è un uomo!

— Sì è un uomo, ma è vestito di pelle d'elefante.

— Guarda che belle scarpe!

— L'ha rubate, l'ha rubate in qualche posto!


Amore! Quante volte sentii salire fino a me questa parola: amore. Io
ricordo _Pena, Rete, Lama_, quando pronunziavano questa parola: le
voci si facevano incerte, tremule, come se la parola dovesse elevarsi,
come il muoversi dei piccoli uccelli nel nido, ai primi pruriti vitali,
quando ancora inconsci intuiscono le loro ali e i loro voli. Amore. E
vedevo due creature dalla chioma d'oro coperte di vesti leggere, rosee,
guardarsi con un sorriso candido, e in un'aureola di ali bianche salire
salire nell'azzurro portate da una nube di rose....

Laggiù, nel fondo di quel pozzo oscuro.... egli è là che si rotola
sulla terra....

Vedo ora una vecchia dalle carni verdi, grinzita, tutta avvolta in uno
zendado nero, liso, divenuto turchiniccio col tempo, è inginocchiata,
ha in mano un pentolo oblungo di terra rossa, guardinga, torva, si
volge, spia, che nessuno la colga mentre versa dell'acqua gialla in una
fenditura nera del terreno.


— Entrate, entrate signore!

— Salite. Il grande cerimoniere della corte vi attende con tutti i
gentiluomini.

— Signore, in nome del Re, della Regina, e di tutta la corte, io vi
saluto ospite della reggia.

Il Re è stato informato della vostra presenza in questa città ed ha
subito espresso il desiderio di avervi sotto il tetto regale.

Le guardie reali non hanno punto esagerato portandoci le vostre
notizie, voi siete davvero l'uomo più singolare che si sia mai veduto
sotto tutti i regni di questo mondo. Voi venite dunque?

— Di lassù.

— Dove lassù?

— Lassù dove io rimasi sempre prima di scendere alla luce.

— Siete stato molto tempo prima di venire alla luce?

— Ci sarà stato quanto tutti gli altri, nove mesi.

— Forse più di trent'anni. Anzi, certo, trentadue in trentatrè anni.

— Ma ci canzona sapete, ci canzona.

— Non ha punto aria da canzonare, taci.

— Domandagli quando è nato.

— Quando siete nato?

— Non so. Stamane all'alba io discesi alla luce.

— Ma che diavolo vuol dire con questo scendere?

— Vuol dire che è venuto alla luce stamani, nascere e venire non è la
stessa cosa?

— Ma lui dice che è sceso.

— E quando uno nasce cosa fa, sale?

— Ma nemmeno scende. Ed è nato così grande e grosso?

— Ma è di fumo, è di fumo, cosa c'è da stupirsi?

— Scusate, siete nato con le scarpe?

— No, le trovai appena sceso.

— E dagli con questo sceso!

— Ma lui dice sceso per nato, cosa c'è da stupirsi?

— E avendo vissuto trent'anni e forse più, come voi dite, nel seno
materno, dovreste serbare un ricordo, una visione di quel tempo.

— Un ricordo, non una visione. Tutto io rammento ora per ora, ma vedere
non mi era possibile, intorno a me era tutto nero.

— Ma allora vedevate?

— Nero.

— Voi vedevate nero?

— Ma sicuro, ma sicuro, cosa c'è da farla tanto lunga, nel seno materno
non si può vedere che nero. Che cosa si deve vedere?

— Caro mio, nel seno materno si vede un bel corno!

— Si vede che lui ci vedeva, e vedeva nero, un utero nero, ecco tutto!

— Utero nero?

— Ma naturalmente, cosa c'è di strano?

— Diteci un poco, signore, come lasciaste vostra madre?

— Quando io discesi esse non c'erano più, ed io discesi appunto perchè
non udii più la loro voce.

— Esse? Chi?

— _Pena! Rete! Lama!_

— Chi sono?

— Sono le sue madri.

— Ma è pazzo, è pazzo!

— Come come come?

— Sì.

— Sì? Avete tre madri?

— È pazzo!

— Sicuro, ha tre madri, cosa c'è di strano, è un uomo strano, è strano
in tutto, cosa c'è di strano?

— _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._

— Chiamiamolo Perelà!

— Chiamiamolo Perelà.

— Ma no Perelà, cosa vuol dire Perelà?

— Ci fu un re che si chiamava Gola, cosa vuol dire Gola? Si può
chiamare lui Perelà.

— Ma dunque spiegateci, spiegateci per amor del cielo, che cosa
dobbiamo raccontare al Re?

— Dove io restai fino a stamane, non era il seno di una qualunque
madre, era la sommità di un camino.

— Ahaaaaa!

— Uhuuuuu!

— Ohooooo!

— Ecco!

— Un camino?

— Povero diavolo!

— Ardevano sotto a me costantemente alcuni tronchi, un perenne, mite
fuocherello, ed una spira di fumo saliva su su per il camino dove io
era. Non ricordo quando in me nacque la ragione, ma io incominciai ad
esistere, e gradatamente conobbi il mio essere, udii, capii, sentii.
Udii in principio una confusa cantilena di voci che mi sembrarono
uguali, capii che sotto a me esistevano degli esseri che avevano
qualche attinenza con me, sentii che io era una vita.

Intesi giorno per giorno meglio le voci, incominciai a distinguere le
parole, capirne il significato, e sentii ch'esse rimanevano in me non
inerti, ma incominciavano la trama di un loro lavoro.

Senza interruzione il fuoco ardeva e la spira calda saliva ad
alimentare questa mia vita. Io era oramai un uomo.

Sotto a me erano tre vecchie che alternativamente leggevano,
alternativamente parlavano. Appresi così quello che gli altri uomini
apprendono dai loro insegnanti. _Pena, Rete, Lama_, non tralasciarono
di prepararmi a nessuna utile cognizione.

Io imparai di guerra, d'amore, di filosofia.... tutto era in quel libro.

— Anche la filosofia?

— Sì.... una filosofia leggera.... leggera.... era quella che poteva
giungere sino a me.

— Meno male.

— E tutte le cose mi giungevano così.

— Le tre vecchie si chiamavano dunque?

— _Pena, Rete, Lama._

— Che nomi!

— Io ho conosciuto un uomo che si chiamava Dato, che prodezze!

— Quelli non erano i loro nomi, erano solamente tre parole che usavano
per distinguersi. Oh! Esse dovevano chiamarsi bene altrimenti!

— Ma sapevano che voi eravate lassù, alla cima del camino?

— Lo sapevano? Io non riuscii a scuoprirlo mai. Esse non dissero mai
una parola che riguardasse me.

— E voi non parlaste mai?

— Solamente stamane mi sono accorto di parlare, quando per la prima
volta le ho chiamate. _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe....
Re.... La...._

— Non piangete più.

— Fatevi coraggio.

— O bella, erano le sue mamme vè, lasciatelo piangere povero diavolo.

— Ma se stavano sempre lì a leggere avranno avuto la loro buona ragione.

— Potevano stare al camino per scaldarsi, o bella!

— Anche d'estate tenevano il fuoco acceso?

— Sempre.

— Allora lo sapevano, erano d'intesa di non parlarne.

— Ma voi che cosa pensate di voi?

— Fui ammassato e composto da quella spira di fumo, cellula per
cellula, come le pietre di un edifizio? In maniera che tutto il
prodotto di quel fuoco venisse usato per la mia costruzione....

— Ma il fumo non andava fuori dal camino?

— Il camino era otturato alla sommità dove io giungeva colla mia testa.

— Ah! Ecco! L'utero nero era dunque serrato.

— Come tutti gli altri uteri mi sembra, fin qui....

— O fui un giorno introdotto lassù uomo, come sono adesso, ma di carni
e con vesti uguali a quelle di tutti gli altri uomini?

— Ecco!

— Ora sì! Vi ci hanno nascosto!

— Quelle tre vecchie avevano il loro segreto.

— Ma è lampante, quella di non voler far sapere il loro nome....

— Eppoi di non volerne parlare.

— Allora, sotto l'azione del fuoco, io sarei giorno per giorno
lentissimamente carbonizzato, trasformato nel lungo volgere degli anni,
fino a rimanere intatto ma di compattissimo fumo. Fu questa la più
accurata purificazione che il fuoco abbia mai compiuta sopra la carne?

— Purificazione!

— Purificazione!

— Purificazione!

— È così, è così.

— Ma sì, sì è così.

— La purificazione!

— Sarà stato un loro amante, di quelle tre vecchie, e loro per lavarlo
dal peccato....

— Ma che amante d'Egitto!

— Quanti anni avevano le vecchie?

— Cento!

— Accidenti!

— E voi quanto siete rimasto nel vostro utero nero?

— L'ha detto, trent'anni circa.

— E a settant'anni avevano un amante?

— Eppoi, un amante in tre?

— Erano tanto vecchie!

— State pur certo signor Perelà, lassù vi ci avevano nascosto uomo tale
e quale voi siete, a furia di star sul fuoco siete diventato di fumo,
la cosa è naturalissima, se bruciamo qualcosa vediamo che si carbonizza
e dopo se ne va in fumo.

— Ma il fumo ti va per l'aria.

— Ma siccome quel camino era otturato alla sommità non poteva andar per
l'aria; mi sembra tanto naturale.... Ma vi pare, ammassato, costruito
di fumo? Il germe di un uomo ci doveva pure essere alla cima del
camino! L'utero, nero o bianco, ha bisogno di un seme per generare.

— E il seme per un camino è il fumo!

— Ma nossignore che lui è un uomo! State sicuro signor Perelà, ci
foste messo tale e quale voi siete, e potete avere appunto trentadue in
trentatrè anni, che cosa ne dite?

— Sì, sì.

— Mi pare ne dimostri di più.

— Sì, dimostrerà tutto quello che voi volete, ma non li può avere.

— Tanto ha vissuto uomo e tanto gli ci è voluto....

— Per purificarsi.

— Infatti! Trentatrè anni di peccato ne vogliono trentatrè di penitenza.

— Allora ne ha sessantasei!

— Vuoi finirla, mondo ladro?

— Voi siete, signor Perelà, un uomo purificato, e questo vi renderà ai
nostri occhi un essere di privilegio ed eccezionale.

— Chi sa il Re come ne godrà!

— Come sarà contenta la Regina!

— Due di voi vadano subito da Sua Maestà che attende con ansia, ditegli
che l'uomo lo abbiamo visto, toccato e interrogato, è veramente di
fumo, è un gran gentiluomo, e non c'è nulla da temere. Che stia pure
tranquillo, poi gli daremo ogni utile spiegazione. Il tutto si spiega
assai più facilmente e naturalmente di quello che a prima vista possa
sembrare. Presto, andate andate.


— E dunque eccoci, bravo bravo signor Perelà vi faremo preparare subito
l'appartamento, e per tutto quello che potrà occorrervi non avrete che
da dimandare.

— Certo certo, non può essere altrimenti foste messo lassù, per quale
ragione bene non si sa, gli stessi vostri abiti ce lo rivelano.

E forse avremo in seguito la rivelazione completa della vostra vera
ragione. Certamente.

Abbiate la compiacenza di girarvi. Ecco.... probabilmente sarete uno
spagnolo.

— O un francese.

— È un francese.

— Ma che francese!

— Se fosse francese si sentirebbe.

— Sembra un moschettiere.

— Ma che moschettiere!

— È un cavaliere scappato dalla rivoluzione, si vede dal costume.

— Sì sì, è un moschettiere!

— È scappato dalla rivoluzione.

— E vi sembrano gli stivali della rivoluzione quelli?

— Ma quelli gli ha trovati caro mio, gli ha trovati stamani prima di
venir via dal suo luogo, lassù....

— Che c'entrano con lui! Non sono già di fumo!

— Quelle sue vecchie signore glie li hanno fatti fare ultimamente da un
ottimo calzolaio, sono precisi a quelli di tutti i nostri ufficiali.

— Al taglio mi sembrano del calzolaio di mio fratello.

— Vedete che lo sapevano! Cosa se ne facevano tre vecchie di un paio di
stivali?

— Signor Perelà finite il racconto, come vi decideste a lasciare il
vostro nascondiglio?

— Tre giorni or sono io sentii spegnersi sotto a me la cantilena,
attesi, non udii più la voce adorata delle mie vecchie, dopo, anche
il fuoco si spense là sotto, e tutto attorno a me divenne freddo e
silenzioso. Le mie membra perderono gradatamente la loro immobilità,
incominciarono ad agitarsi. Attesi trepidante. Dove erano andate _Pena,
Rete, Lama_? Perchè mi avevano lasciato solo? Mi avevano abbandonato?
Per sempre forse? Io mi agitava, mi attorceva in uno spasimo terribile,
quel luogo mi era divenuto insopportabile, e mi svoltolavo da ogni
parte come un globo di una materia divenuta estranea in un organo
umano. Puntai le mani alle pareti, e poggiandomi colla schiena e
puntando le ginocchia, riuscii a scendere giù, dove il camino si
allargava, lì incominciavano gli anelli di una catena, a quella mi
aggrappai e discesi giù giù fino a terra. Sotto c'era ancora l'ultima
cenere e attorno al camino tre poltrone vuote, un grosso libro a terra
chiuso. Dove io avevo posato i piedi, accanto, un paio di bellissimi
stivali lucidi, questi. Io che mi sentiva così estraneo alla terra
e attratto ancora alla sommità del camino, infilai inconsciamente le
gambe in quelli stivali, e allora soltanto mi sentii sicuro, dritto,
piantato, capace di poterci restare, lasciai la catena e incominciai a
camminare. Corsi per tutte le sale della villa, vuote, non un mobile,
non una persona, non un segno di vita! Gridai fino a lacerarmi la gola:
_Pena! Rete! Lama!_ Nessuno! Urlai come un folle, piansi, mi disperai,
e quando credetti che tutto per me fosse finito, che la mia vita fosse
finita, mi trovai alla porta della villa. La porta era aperta, si
estendeva davanti polverosa la via provinciale che mena a questa città.

Sapevo tutto, come il cieco, senza avere mai veduto nulla. Mille
storie di uomini, senza sapere preciso come gli uomini fossero, tutti
i nomi delle cose, senza sapere quali fossero le cose che a quei nomi
corrispondevano, come il cieco cui sia donata per incanto la luce. Io
dovevo ora vedere.

— La reggia è circondata di popolo, tutti vogliono sapere, vogliono
vedere, conoscere Perelà.

— Si sa già dovunque il suo nome!

— Molti dicono di averlo visto passare, vogliono ad ogni costo vederlo.

— Il popolo fa ressa alla porta!

— Tutte le dame della capitale hanno telefonato per assumerne
informazioni.

— Il Re ha ordinato che Perelà sia ospitato con ogni onore come si
conviene ad un principe reale.

— La Regina annunziò che lo riceverà in udienza particolare.

— Il gran cerimoniere di corte prepara intanto l'ordine del giorno.


— Alcune personalità cittadine domandano di essere ammesse dinanzi al
signor Perelà. Possono essere ammesse?

— Signor Perelà, il vostro nome è sulle bocche di tutti, non si sente
parlare più che di voi, dell'uomo di fumo! Perelà! Perelà! Perelà
di qua, Perelà di là, ce ne vorrebbero dieci di uomini di fumo per
contentare tutta questa gente!

— Il signor Perelà sia fatto passare in sala di udienze, il gentiluomo
di servizio introdurrà i primi venuti.


— Il grande scultore nazionale Cesare Augusto Formichini.

— Illustrissimo signore, io mi tengo fortemente onorato d'essere
ricevuto da voi per il primo e vi esprimo subito la mia matura
risoluzione, e insieme il dovere, di assicurare alla patria il vostro
monumento. Nel bronzo sacro ai secoli e agli eroi saranno eternate la
vostra memoria e la vostra grandezza.

— Nel bronzo?

— Già, nel bronzo.

— Non è egli il bronzo una cosa dimolto pesante?

— E che intendete dire con questo? Che con esso non si possono
esprimere e riprodurre le cose più leggere? Le chiome fluttuanti di
Venere or ora sbocciata dalle onde? I veli di tutte le danzatrici di
Ninive? Lo zeffiro che sfiora la guancia vellutata di Narciso? Sapete
voi che sia il bronzo?

— Sapete voi che sia il fumo?


— Il pittore della Regina Crescenzio Pacchetto.

— Eccellentissimo signor Perelà, permettetemi di presentarvi insieme
ai più devoti ossequî i sentimenti della mia più viva riconoscenza.
L'onore che voi mi prodigate facendomi conoscere un uomo.... sì, un
uomo come voi, è da me altissimamente considerato.

Sono sicuro che risponderete affermativamente all'invito ch'io sono
per farvi. Io aspiro ad essere il vostro primo ritrattista. Sarete il
modello del mio capolavoro. Nessun ritrattista del mondo troverà mai un
modello quanto voi ispiratore, e alla prossima esposizione figurerete
al fianco della Regina.

Lasciate ora ch'io esponga al vostro inappellabile giudizio l'ultima
mia opera, quella che mi valse la celebrità.

Venite pure avanti, fermatevi, scuoprite.

Ecco, come voi potete bene osservare, signor Perelà, quella è una dama
del diciottesimo secolo, il cavaliere che le è a fianco si è di fresco
levato di ginocchio, dov'egli era per isporgere la sua dichiarazione
di folle amore. E la nobile dama, in piedi, la vedete? accenna vaga
coll'indice della sua pallida mano, la finestra, vedete quella rosea
porpurea che vi sembra scoppiata per incanto nella notte di attesa? La
vedete? Ecco, ella gli dice col gesto, prendetela. E non è come dire:
la vostra dichiarazione è coronata dal mio amore? L'attesa è finita?
Quel fiore che vi mancava eccolo, prendetelo, conservatelo sul vostro
petto? Pegno di un primo bacio? Non vedete com'ella lo guarda? E con
quanta grazia indica la bella rosa sul davanzale? Questo quadro si
chiama appunto: _il cavaliere senza la rosa._

— Che cosa dice quella signora?

— Prendete, quel fiore è vostro.

— Io credevo invece ch'ella dicesse: signore, uscite.

— Oh! Ma signor Perelà, che cosa dite mai? Non vedete come quegli occhi
brillano? Come quelle labbra sono avide di baci e d'amore?

— E non si può dire con un sorriso uscite, ad un uomo?

— No certamente, e come potrebbe dire così s'ella indica la finestra?

— E non si può uscire sorridendo per una finestra?

— Ma no, ma no, ma no vi dico, non si può uscire, è come se gli dicesse
io vi voglio vedere accoppato. Ella non può assolutamente dire questo,
vi pare, non può, il significato del mio quadro ne sarebbe totalmente
travolto.... Io vi prego caldamente di non dir ciò con alcuno, voi
pregiudichereste a fondo la mia opera.... la vostra interpretazione
in questo momento mi sarebbe fatale.... Venite pure avanti, fermatevi,
cuoprite, andate.


— Alcuni fotografi.

— Pianino, pianino, due alla volta, c'è tempo per tutti.

— Avreste la compiacenza di voltarvi, signore?

— Io approfitterò per il profilo.

— Vorreste sedervi?

— E leggere un poco questo giornale così? Ecco.

— E tenere nella mano questa sigaretta, così? E questo fiammifero,
così, in questa? Ecco, benissimo, ottimamente.

— Vorreste accavallare le gambe così?

— E le braccia così? Con questo dito qui, lì. Ecco, proprio.

— Potreste togliervi gli stivali?

— No!

— Per rimetterveli tosto ben inteso.

— No!

— Non vuol dire, lasciate pure, sarebbe stato tanto bello per il
cinematografo....

— No!

— Non vuol dire, lasciate lasciate pure.

— Ma vi pare....

— Prego....

— Ecco.

— Grazie.

— Grazie.

— Riverisco.

— Illustrissimo.

— Eccellentissimo.

— Signor Perelà.

— Obbligatissimo.

— _blgtssm._


— Il banchiere Fortunato Rodella.

— Appena venuto a cognizione della vostra presenza nella nostra città,
mi sono affrettato a presentarvi i migliori omaggi, e a pregarvi
altresì di ascoltare quanto sono per dirvi.

Io ho altresì udito che voi siete giunto sprovvisto di tutto, e solo in
possesso di un paio di bellissime scarpe.

— Eccole.

— Benissimo, dunque io vengo per mettere a vostra disposizione i miei
capitali, e questo, ben inteso, non per giovare solamente a voi, ma
perchè noi possiamo concludere associati ottimi affari.

— Io?

— Voi, precisamente.

— Io sono di fumo.

— Lo so, appunto.

— E come posso, di sì umile natura essere a voi fonte di ricchezze?

— Eh! non vuol dire, col fumo vedete, si possono fare le migliori
speculazioni di questo mondo. Basta saper dare il valore alle cose,
tutte le cose che ci circondano sono il nostro patrimonio, tutte
possono diventare moneta delle nostre tasche se sapremo valercene.
Lasciate fare a me. Il sole vedete, che pare la cosa più inaccessibile
di tutte, non è che un enorme biglietto di banca che se riuscirete a
spicciolare potrete spendere a vostro piacimento. E non vi dico poi la
luna.

— Il sole?

— Precisamente, il sole.

— È vero, non può essere che così, perchè se fosse tutto di moneta
metallica peserebbe troppo....

— Già, e cadrebbe, ineluttabilmente, anzi sarebbe caduto già.

— Invece essendo solamente un biglietto, un pezzo di carta, è
leggero....

— E sta su.

— E voi lo spicciolate?

— Non facciamo altro dalla mattina alla sera.

Eccovi il mio indirizzo e alla prima occasione non mancherò di
avvertirvi, e per tutto quello che vi possa occorrere subito io sono a
vostra completa disposizione. Signor Perelà i miei complimenti.


— Il poeta Isidoro Scopino.

— Quando ho udito pronunziare il vostro nome, per la via, io
passeggiava allora colla mia amante. Il nome che sulle volgarissime
labbra della plebe m'aveva lasciato indifferente, su quelle di lei
acquistò intero il suo significato.

Io le ho fatto ripetere mille volte il vostro nome, come ogni sera,
prima di spengere il lume, le faccio ripetere l'eterna parola:
_poesia_.

Su quelle labbra. _Pe....re....là..._ lo si vede sfuggire rapido,
come si vede partire per innalzarsi lieve, delicatamente la parola:
_poesia_. Voi sentite il suono di questa maliarda parola? Quelle
vocali. _o....e.... i.... a...._ E che cos'è mai una _p_ su quelle
labbra! Signor Perelà! È come la forza del soffio che la anima e le
da vita; e chi mi soccorrerà a dirvi che sia una s che la spinge, di
sotto, e la sostiene.... e la solleva, su, su, su!

— E che cos'è la poesia?

— La poesia, signor Perelà, è un mondo, è un globo tutto azzurro, ed è
il poeta, sul Parnaso, l'alito che lo gonfia, e lo prepara per la sua
ascensione celeste. Qual'è l'arte? Saperlo gonfiare, gonfiare fino a
renderlo trasparente perchè possa innalzarsi.

— E voi salite con lui dopo?

— Ma vi pare? Un corpo estraneo? Se mi ci attacco io addio Gesù,
quello rimane a terra, quando l'ho gonfiato lo mando via. Io resto sul
Parnaso.

— Voi dovrete allora sorvegliare mentre lo gonfiate, il vostro globo,
che nulla ci vada dentro.

— Ma certo, basterebbe un granellino della più semplice cosa e non
anderebbe più su. Pare che ci sia dentro chi sa che, e invece non c'è
nulla, ottenere il vuoto, qui è tutta l'arte del poeta e la poesia.

— Io comporrò per voi un'ode in tredicimila versi endecasillabi e un
settenario sdrucciolo, e ve la manderò quanto prima pubblicata sulla
migliore rivista del paese.

Eccovi il mio ultimo libro di versi: _Ballate.... malate_.

— Oh! che peccato poverette.

— Non vi prendete pena.

— E di che male soffrono?

— Nessuno, stanno benissimo.

— E allora perchè avete detto che sono malate?

— Perchè altrimenti nessuno si occuperebbe della loro salute; così va
il mondo signor Perelà. Contate sulla mia amicizia, ed io spero poter
contare sulla vostra, siamo in fondo due poeti, e potremmo benissimo
scrivere un poema drammatico in collaborazione.

Verrà subito dopo di me Costantino del Pesce, il critico, signor Perelà
io vi supplico di non ascoltare una parola sola di quello ch'egli sarà
per dirvi, il poltrone, è fuori della porta che attende, aspetta ch'io
sia uscito per potervi parlare, vi parlerà di me senza dubbio, il
parassita.

_Monsieur de Perelà j'espère de vous rencontrer dans le monde._


— Costantino Del Pesce critico della letteratura Nazionale ufficiale.

— Non vi meravigliate s'io mi presento a voi dopo quel po' po' di
fregnone, volle la sorte ch'io dassi a lui la precedenza ma ciò non
accadrà per molto tempo ancora che voi vedrete camminare le cose alla
rovescia.

— Chi? Quello del pallone?

— Già proprio lui, può aspettare benissimo a cantare dopo ch'io abbia
parlato, non è difficile indovinare le scempiaggini che dirà.

— E ve lo fa vedere gonfiato o da gonfiare?

— Che cosa?

— Il pallone.

— Me lo fa vedere gonfiato.

— E voi dovete sempre andare lassù dov'ei lo manda, il suo pallone?

— Ho il mio cannocchiale. Non conoscete il canocchiale della critica? È
il più lungo di tutti e insieme quello che si ripiega meglio. Lo porto
nel taschino del gilet, guardate, e me ne avanza.


— Il dottore della Corte Agostino Pipper.

— Sono il medico della Corte, signor Perelà, voi sapete che cos'è un
medico? È una fila di cose. E sono dì e notte perduto a vedere che sia
mai questo inquietantissimo corpo umano che pare una faccenda tanto
perfetta ed è di una grossolana scandalosa irregolarità, e di una
trivialità sconcertante. Se sapeste con quale cautela un uomo della
mia elevatura debba maneggiare la propria lingua. Scherzi pure finchè
vuole con quella degli altri, ma.... in guardia colla propria! Il
segreto è tutto lì, nel dire.... e nel non dire. Gli argomenti saranno
sempre buoni e in vostro favore, è il fatto che vi frega. Se voi dite,
poniamo: il malato guarirà, in men di due ore il fetente crepa. Se voi
dite poniamo: certamente muore, e quello vi guarisce dopo avergli fatto
dare l'olio santo. Sono il male e la medicina i due sposi più burberi
che mai si sia dato nel tempo, che non fecero al mondo che farsi
dispetti senza tregua, solamente in silenzio possono andare d'accordo.

Il vostro polso? Buono, buono.

La vostra lingua? Ottima.

Eccovi la mia carta, per quando possano venirvi utili i miei servigi,
sono ai vostri comandi.


— Il grande filosofo indipendente Angiolino Pila, detto Pilone.

— Non sono mica un filosofo sapete signor Perelà, non date mai ascolto
a quello che vi dicono. Quando un uomo ha detto del proprio simile
ogni sorta di sconcezze, ecco che è subito un filosofo, e più lo avrà
trattato come si meritava e più sarà grande lui, il filosofo.

Gli uomini hanno bisogno di sparlare sempre dei proprî simili e non
avendo generalmente il coraggio e l'intelligenza per arrivarci a dovere
inventano la verità detta da un altro e finiscono per credere che sia
proprio quello che avrebbero pensato loro.

Vede ognuno così tutti i suoi simili affogare nel pantano e lui se ne
sta a guardarli allegramente su dall'alto.

Ma voi, ditemi un poco una cosa, cosa siete venuto a fare qui?

— Nulla.

— Benone, e voi fatene un'altra, ritornatevene là dove siete stato fino
ad oggi che sarà meglio per voi, gli uomini li conoscerete un'altra
volta, non perderete molto, e non vi auguro che gli abbiate a conoscere
proprio questa.

Aspirate anche voi a diventare un tarlo come tutti gli altri? Gli
uomini rodono gli appartamenti della natura nè più nè meno come i tarli
rodono i loro appartamenti.

Sapete quale ragione adducono per giustificare questo rosicchiamento?
Dicono che la terra li attrae! Li attrae! Sfacciati che non sono altro!
Vi si sono spadellati, e vi si rotolano sopra mezzi vivi e mezzi
fritti! Oh! La terra li vomiterebbe volentieri tutti all'infinito!
Sono la sua pietanza più indigesta, gli ha tutti per la gola e sullo
stomaco, nessuno deve esserle passato ancora nell'intestino.

C'è però una cosa che gli uomini hanno veramente creato e bisogna
riconoscergliene il merito: la polvere! Guardate bene dove essi
camminano strofinando senza tregua le loro sbrindellate miserie,
guardate le vie che hanno pestate e sulle quali si strascicano con ogni
sorta di attrezzi per stropicciare il suolo affinchè ne dia quanto più
è capace. Si servono dei macigni più grandi per fabbricare dei pezzi
di roba che gli stanno poi nel palmo di una mano. Voi vedete oggi una
bella montagna di ròcce che vi sembrano inaccessibili, se gli uomini
incominceranno a praticarla, ad introdurvisi, ad operarvi, in poco
voi quella montagna non la vedrete più, che se ne saranno fatte tante
saliere o calamai. Eccovi un bell'albero ampio e diritto che tiene
nobilmente il suo legittimo regno, loro, questi sterpi ambulanti, vi si
metteranno alle radici coi loro piccoli strumenti, e dagli a stridere,
limare e rosicchiare, col più lungo e vile lavorìo ve lo faranno
cadere, e non c'è caso che se lo facciano venire sulla testa, un corno!
al momento giusto si fanno indietro. Un giorno vi accorgerete che con
quell'albero sono dietro a stuzzicarcisi i denti.

Datemi ascolto, non rimanete qui, andate a casa vostra, non vi
fidate, se vi fanno tutte queste smorfie, tutte queste moine, non vi
ci attaccate, essi godono ad inalzare un uomo a furia di spinte, per
potersi poi godere il doppio a lasciarlo andare giù di botto.

— Ma io sono di fumo....

— Già è vero, avete ragione, siete di fumo, e allora rimanete pure,
ciao, egregio amico!


— Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Arcivescovo.

— Voi vi chiamate dunque?

— Perelà.

— Ecco, benissimo.... Pe.... relà, sicuro Perelà. Dunque mio caro
signor Perelà io sono certo di potervi contare fra le mie pecorelle più
elette e predilette, perchè in fondo voi non siete che un uomo.

— Molto leggero.

— Ah! No no no no no, caro mio, essere leggeri di corpo non conta
nulla, voi più d'ogni altro avete bisogno di aiuto e di protezione,
bisogna essere leggeri di anima, e l'anima non si può alleggerire che
collo sgravio delle proprie colpe: allora soltanto può salire al cielo.
È un atto di umiliazione col quale anche i Re si sentirono sempre
innalzati.

— Di che cos'è fatta l'anima?

— Anima è spirito.

— E si vede?

— Ma lo spirito non si vede.

— Voi dunque non avete mai veduto un uomo salire al cielo?

— Tutti gli spiriti eletti vi salgono senza che noi li vediamo.

— E gli altri?

— Gli altri piombano giù, nell'inferno profondo.

— Perchè pesano di più.

— Naturalmente, non furono liberati dal peso delle loro colpe.

— Ecco.


— Io non sono che un umile e fedele servitore della reggia, Alloro, il
più vecchio cameriere delle stanze del Re. Ho veduto qui ed amato tanti
Re, ho gioito della loro grandezza e del loro splendore, ho pianto per
la loro morte. Ma oggi, quando ho sentito parlare di voi, e quando poi
vi ho visto, ho avuto la visione di un nuovo Re, più grande e più bello
di tutti gli altri. Ma è vero signore che siete proprio di fumo?

— Si.

— Come poteste rimanere sul fuoco senza bruciarvi? Come poteste
giungere a questo? La mia piccola mente si perde a tanto prodigio.
Permettetemi signore ch'io vi baci la mano. Consideratemi come il più
umile e il più devoto dei vostri servitori, e qualunque cosa possa
fare per voi ricordatevi che mi farete felice solo se mi comanderete,
se mi dimostrerete la vostra benevolenza e mi farete sentire il vostro
dominio.


— Il cerimoniere legge l'ordine del giorno, silenzio!

— Ordine del giorno.

«Domani venerdì a ore cinque, le dame della società e della corte
offriranno un _thè_ d'onore al signor Perelà».

— Con intervento della Regina?

— No, silenzio!

«Non saranno ammessi altri uomini che lui. Sua Maestà il Re ha dato
speciali disposizioni acciò la festa riesca intima e solenne.

Dopodomani sabato, a ore cinque, Sua Maestà la Regina riceverà il
signor Perelà in udienza particolare.

Domenica sera, ad ore ventuna, il signor Perelà sarà presentato al
popolo. Sarà fatto girare per tutte le vie della capitale e sobborghi,
nelle vetture reali, accompagnato dai nostri principali gentiluomini
della Corte, e dalle principali dame della Corte e della società. Sul
colle comunale il sindaco rivolgerà il saluto della cittadinanza.

La città sarà tutta illuminata e imbandierata, e nei punti più
frequentati suoneranno ben quattordici bande. La stessa sera, a ore
ventitrè, gran ballo a Corte con intervento del Re.

— Viva il Re!

— Inoltre.... silenzio! Inoltre, Sua Maestà il Re nominerà il signor
Perelà terzo membro nella gravosa e ponderosa e annosa compilazione del
nuovo Codice per il nostro paese».

— Viva il Re!



IL THÉ


— Noi tutte siamo tanto lusingate, non è vero mie care?

— Tanto!

— Tutte!

— Molto!

— Infinitamente.

— Già!

— Sì!

— Ma davvero!

— E come!

— Siamo tanto lusingate di accogliere, signor Perelà...

— Un uomo come voi!

— Pensate che il Re ci ha invitate a ricevervi con tutto l'onore.

— Col massimo onore.

— Come da tanto tempo non si era fatto alla corte con alcuno.

— Il Re.

— Sarete una gloria del suo regno.

— La sola.

— E ci ha fatto dire che ad ogni vostra richiesta... non potremo
rispondere: no.

— Perchè glie lo hai detto? Hai fatto male, non si può mai sapere.

— Ma voi sarete discreto non è vero?

— Oh! Discretissimo vedrai.

— Sarà come gli parrà d'essere.

— Noi ci rivolgiamo fin d'ora alla vostra delicatezza.

— Come potremo ottenere il suo interesse?

— Se vi annoieremo ci direte: basta: siamo qui per obbedirvi, non è
vero mie care?

— Sicuro!

— Certo!

— Già, sì.

— Sì, già.

— Già, già.

— Sì, sì.

— Come possiamo provarvi la nostra devozione?

— Noi sappiamo oramai tutto di voi, voi dovete sapere qualche cosa di
noi.

— Ma è vero signor Perelà che voi detterete il nuovo codice per il
nostro paese?

— Sicuro, non hai sentito ieri sera?

— Non dissero che lo dettava, dissero che avrebbe soccorso il ministro
e Torlindao.

— No signora, dissero che lo dettava, lo dettava lo dettava.

— Meglio, lo dettava lo dettava, cosa me ne importa?

— Dici che non lo dettava, lo dettava.

— Mie care è una questione inutile, se lo detterà vedremo e sapremo;
tacete. Le nostre leggi attuali, signor Perelà, hanno bisogno di
modificazioni radicalissime: poco si parla, nel vecchio codice, della
donna, e a sproposito, la donna deve entrare in assai più faccende,
bisogna, perchè le cose vadano come si deve; i signori uomini non
capiscono quasi niente.

— Niente affatto.

— E fingono di capir bene tutto

— Una tazza di _thè_?

— Il _thè_.

— Il _thè_.

— Ecco.

— Signor Perelà.

— Prendete?

— Gradite?

— Volete?

— Posso?

— Guarda come lo beve!

— Ne assaggia un sorso da ognuna

— Come siete gentile!

— Carino!

— Ah!

— Anche da me n'è vero?

— E da me?

— E da me proprio nulla?

— Io beverò dopo a questa tazza

— E tu perchè sei rimasta indietro?

— Signor Perelà non prendete il suo _thè_!

— Cosa c'ha fatto?

— Sentite, sentite come è amaro! Glie lo dava senza zucchero!

— Cattiva!

— Scompiacente e tignosa!

— Dispettosa dispettosa dispettosa!

— Vi piace?

— Proprio?

— Ah!

— Prende anche il _thè_!

— Ma voi siete un uomo come tutti gli altri allora?

— Oh! Migliore degli altri mia cara.

— Io non avrei mai creduto di conoscere sul serio un uomo di fumo.

— E di offrirgli il _thè_.

— E che lui lo bevesse!

— Quando ieri vi annunziarono in città non volli crederci.

— Io fui delle ultime a crederlo.... ma ora.... eccovi qui....

— Io ho sempre amato il fumo e ciò non m'ha stupito affatto.

— Anch'io sono sempre andata in estasi dinanzi al fumo. Sapete, dalla
finestra della villa, quando sono ospite di mia suocera, si vede la
grande ciminiera di un'officina, ed io ho passato delle ore intiere a
seguire l'esodo del fumo. Una volta il fumo usciva come alitato dalle
labbra della ciminiera, come se essa parlasse con una persona lontana
lontana, e facesse ogni sforzo per farsi intendere: _ha! pha! lha!_
Un'altra volta vidi proprio bene uscire una lunga fila di fanciulle
che si tenevano tutte per la mano, ricordate le donne che si fanno col
giornale quando siamo piccine?... Tutte attaccate per la mano....

— Le spose di Perelà.

— E quando mi dissero che c'era in città un uomo di fumo io non stupii
affatto e dissi: eh! Ma ne ho veduti centomila volte, dalla finestra di
mia suocera! Permettete signor Perelà che io vi lisci un pochino qui,
sopra un braccio. Sentite, sentite mie care, è morbido più del più fino
velluto, sentite.

— Uh!

— Un velluto inverosimile.

— Ma è sensazionale!

— È incredibile!

— Dio mio!

— Uhm!

— Che morbidezza!

— Ma sentite ma sentite!

— Sentitelo qui, qui, qui.

— Siete tutto così?

— Un cigno.

— Una nube mansueta.

— O uno di quei bei pennacchioni che saltano fuori dalle locomotive....

— Ma sentitelo in questo punto!

— Ehi, sfacciata!

— Prima che bruciaste, signor Perelà, il vostro vestito doveva essere
di un magnifico velluto.

— Oh! Rosso rubino! Ardente come....

— Taci sciocchina.

— Ed ora così tutto grigio....

— Una piuma sinistra.

— Perchè sinistra mia cara?

— Avete un aspetto tanto leale....

— E buono.

— Gentile poi....

— Io questa notte non mi potei addormentare pensando a voi, ditemi
signor Perelà, ditemi, voi pure non dormiste?

— Non le rispondete, ella fa per mettervi in imbarazzo.

— Non sai che lui non dorme mai?

— Già, dopo la sua trasformazione!

— Ed io pure non dormirò più.

— Stai zitta una buona volta! Vedete, la nostra cara amica, la Marchesa
di Bellonda, è una dolce e mite creatura, ma ha un carattere così
fantastico e malinconico che se le date retta rimarrete vittima delle
sue romanticherie.

— Piuttosto incominciamo un racconto.

— Ma un racconto leggero leggero.... come piacciono a lui.

— Riusciremo a tenervi allegro?

— Ditelo se vi annoiamo, e subito finiremo.

— Avete bisogno di qualche cosa?

— Volete ancora del _thè_?

— Un _Sandwich_?

— Un _fondant_?

— I signori uomini ieri vi avranno molto divertito coi loro svariati
argomenti, ma noi.... povere donne, ne abbiamo così pochi....

— Per un uomo come lui.

— Che cosa vuol dire?

— Vuol dire....

— Taci sciocca, che ne sai?

— Ognuna di noi cercherà nel fondo dell'anima, la sua cosa.... più
leggera. E se da tutte saprete forse la stessa cosa, perdonateci,
siamo così escluse.... I signori uomini possono appostarsi sopra un
piedistallo, col loro ingegno, colla loro scaltrezza, col loro denaro,
a noi solamente la bellezza può dare un piccolo privilegio. La politica
non ammette una sola pennellata del nostro colore sul suo quadro, la
religione ci ammette solo per cornice.

— Non possiamo celebrare.

— La scienza non ci appresta fiducia alcuna.... l'arte.... se non
è quella del canto.... I signori uomini ci riserbano che facciamo
scienza sì e no d'un po' d'amore, che loro ci richiedono poi come un
passatempo.... o peggio ancora.

— Zoe dirà per la prima. A lei spetta sempre ogni precedenza. Come
vedete, signor Perelà, ella ci supera tutte, e di gran lunga, in
bellezza, è giudicata la donna più bella del nostro regno. Avanti Zoe,
incomincia.


                     _La Duchessa Zoe Bolo Filzo._

— Essa ha fatto girare la testa a tutti gli uomini sapete.

— Gli ha posti tutti in ridicolo.

— Si è risa di tutti.

— E non si è concessa mai ad alcuno.

— Vuol restare fedele a suo marito.

— Cinque o sei si uccisero per lei.

— Cinque o sei? Almeno dodici mia cara.

— Vi basti ch'ella ha fatto suicidare un barone di settant'anni.

— Milionario.

— Pieno di nipoti.

— Uno di quegli uomini, signor Perelà, che dacchè è mondo, appena
appena il nostro venerato padre eterno può fare il miracolo di togliere
ai vivi.

— Ella ha fruttato alle società delle ferrovie assai più che i
pellegrini del Santo Padre.

— Un giovane avvocato le promise di uccidersi dopo un bacio solamente,
essa non volle darglielo e lui.... si uccise lo stesso.

— Mia cara quella volta però tu fosti della più infernale cattiveria.

— Non concedere all'uomo che muore per noi di potere almeno morire col
nostro bacio sulle labbra!

— E tu sei di un romanticismo del tutto teorico; l'avvocato dopo il
bacio non si sarebbe ucciso più, ed avrebbe preteso qualche altra cosa
o sarebbe andato a spacciare per il mondo che i baci della donna più
bella hanno in fondo lo stesso sapore di quelli di una donna mediocre.
Vedete signor Perelà, tutte queste mie buone amiche nella foga di
concedersi non si riserbano un istante per studiare i loro piani, e
rimangono quasi sempre avvilite, disgustate, vittime della brutalità
degli uomini. Bisogna invece che essi rimangano vittime del nostro
capriccio.

La loro vita si può esplicare sui più svariati campi d'azione dove
possono liberamente esercitare ogni loro attività, noi... ci hanno
ristrette in un unico campo, benissimo, li aspetteremo su quello.

Perchè andare a forzare le loro porte? Prepariamoci per quando verranno
a battere alla nostra. E tutta la nostra scaltrezza impieghiamola a
questo uso.

Che cosa importa a me che gli uomini che mi vengono dinanzi sieno
esperti di politica o di medicina, di commercio o di letteratura o di
scienza, quando sono del tutto inesperti nella mia scienza? Essi sono
assolutamente impreparati, io li vincerò sempre. Ad un nostro sguardo,
un gesto, un atto qualunque di seduzione, essi non sanno che c'è dalla
parte loro l'equivalente, il gesto, l'atto capace di neutralizzarlo,
niente, lo assorbono a occhi chiusi, essi ci assorbono, vedete, ci
bevono, ci buttano giù come un ubriacone vuota un dopo l'altro i
bicchieri.

Quando sono bene imbevuti di noi, proprio saturi capite, allora
scoppiano, e noi si lasciano scoppiare.

La nostra abilità è tutta nel fargli bere bere bere, giù giù giù, senza
che se ne accorgano. Loro non devono sentirsi che alla fine ubriachi.

Io godo tanto a vedermeli ballonzare attorno così accesi! Essi
illuminano grottescamente l'oscurità di questa nostra vita sciocca e
monotona.

Quando ero bambina, la notte, nel giardino di un mio buon avo, facevo
cercare tutti i rospi e ad ognuno versavo sulla groppa una buona
quantità di spirito o di benzina, poi con un fiammifero li accendevo,
e li lasciavo così liberi di correre e di saltare. Le povere bestiole
saltavano accese, e si vedevano per tutto il giardino tutte queste
fiammelle....

Più il fuoco arrivava la loro pelle e più i salti divenivano
giganteschi; io rideva!... rideva!... signor Perelà.... rideva....

Il mio buon avo morì, ed io non andai più in quel giardino, ma tanti
bravi giovinotti vollero continuare intorno a me lo spettacolo dei
rospi fuori del giardino.

Ed ora osservatemi signor Perelà, io poso le mie cinque dita così,
sull'anca sinistra morbidamente (siamo ad un ballo o ad un _thè_), ho
scorto dietro a me un giovane che non conosco e che da alcuni minuti mi
fissa, mi segue senza battere ciglio. I suoi occhi vanno poco a poco
ingrossandosi, voi potreste giurare che fra dieci o quindici minuti
essi esorbiteranno addirittura. Io continuo a parlare distrattamente
con la mia buona amica. Sollevo dall'anca le cinque dita e con tutte
e due le braccia mi appoggio alla spalliera di una sedia un po' bassa,
così, accavallo morbidamente le gambe, così. La mia veste che sarà....
di un morbidissimo raso nero o di velluto, attillata, mi avrà cinta
e seguìta in ogni movimento, come la pelle di una foca. Ma più ancora
della veste mi avrà seguita collo sguardo quel bravo giovinotto dietro
a me. Dategli un'occhiata, vedrete ch'egli ha preso la più perfetta
aria ebete che prender si possa. Ad un certo punto egli si porta una
mano alla fronte, tutto rosso, fradicio di sudore. Ci siamo. Io m'alzo
repentinamente e vado con tutte e due le mani a raccogliere alcuni
capelli che sento sparsi giù sulla nuca e per il collo, così.... così.
Il giovine, guardatelo, non può più contenersi. Mi volgo, striscio i
miei occhi su di lui rapidissimamente, e vado ad appoggiarli laggiù
nel fondo della sala, dove ci sarà senza dubbio un'altra mia carissima
amica alla quale sorrido dando alle mie labbra ondulazioni particolari.
Nove su dieci, signor Perelà, quell'uomo si farà presentare a me,
accerchierà la mia casa, riuscirà ad introdurvisi, mi soffocherà di
biglietti, di fiori, farà la sua squilibratissima dichiarazione di
folle amore, andrà sull'orlo del solito suicidio, concluderà con un
viaggetto a Montecarlo. Io non tradisco mio marito. È forse vero che
di tutte le donne del nostro regno sono la più bella? Dunque la più
assediata e tormentata dai signori uomini, e notate, con un'aspettativa
che è doppia, tripla, quadrupla, di quella ch'essi hanno per tutte le
altre. Il giorno che io mi concedessi ad uno, non potendo in fondo
dargli che tutto quello che gli hanno dato le altre prima di me,
finirei per concedergli una grande delusione; e dopo correrebbe sulle
bocche di tutti che le donne belle o brutte alla fine dei conti si
assomigliano. Questo sarebbe assai poco piacevole per me, ne convenite
signor Perelà?


             _La Principessa Nadina Giunchi Del Bacchetto._

— Illustre signore e mie povere amiche, io mi rifiuto recisamente, non
solo di dire alcunchè della mia vita, ma solo di rivolgere la parola
a cotesto essere che voi avete con tanta premura raccolto. Io sono
nauseata dalla sua presenza, e assai più dal vostro contegno.

— Uh!

— Mia cara tu commetti la più immensa villania verso di lui e verso di
noi tutte!

— E tradisci l'ordine del Re!

— Ogni cittadino, per primo il Re, ha deciso di offrire grande
ospitalità a questo signore.

— Cominciando dal Re!

— Peggio per lei, si metterà in rotta colla corte!

— Ma di certo.

— Qui tu sei la sola che parla in tale maniera, nessuna di noi rifiuta
al signor Perelà tutta la sua confidenza.

— Lui dovrà dettare il nuovo codice!

— Stai fresca cara mia!

— Stolte! Insensate! Costui afferma impunemente di essere di fumo non
è vero?

— Sicuro.

— Lo è.

— Come, non lo lisciasti or ora?

— Di fumo? Ma si può imaginare cosa più stomachevole? Più schifosa? Il
fumo!

— È una cosa tanto carina invece!

— Ma non capite ch'egli finirà per deturpare nella più sconcia maniera
le nostre vesti? Ch'egli s'introdurrà per le nostre narici, negli
occhi, a darci il più grande tormento?

— Ma taci!

— Sciocca!

— Il signor Perelà non è uomo da far questo.

— Oh! Egli è assai bene educato, assai assai più di chi m'intendo io.

— È l'uomo più squisito ch'io m'abbia mai conosciuto.

— Così malinconico nella sua eccezionale natura!

— Io vi dico questo solamente: non rivolgete a me una sola domanda,
e continuategli pure tutta la vostra stolida confidenza. Ricordatevi
però che non solo quel vezzoso signorino riderà delle vostre ridicole
avventure, ma anch'io con lui.

— Che villana!

— Faremo che questo giunga agli orecchi del Re.

— Sarai cacciata dalla corte.

— E non potrai più rimetterci il piede.

— È vero che voi vi riderete di noi?

— No vero?

— Non era possibile.

— Perdonate signor Perelà il piccolo incidente, quella povera donna non
sa quello che dice, voi dovete perdonarle.

— Ma il perdono è la sua gioia.

— Non è lui fatto per l'unica dolcezza del concedere?

— Mia cara Oliva anche tu divieni ogni giorno più insopportabile con
tutte queste malinconie. Che cosa ti capita che ti fa star male così?
Tu soffri mia cara, è evidente. Non le badate signor Perelà, essa è di
un carattere tanto mai afflitto che sovente ci affligge tutte e ci fa
passare delle orribili giornate. Donna Gioconda volete dire voi qualche
cosa?


                  _Donna Maria Gioconda Di Cartella._

Di tutte queste signore, mio egregio amico, io sono proprio quella
che dovrebbe tacere. La mia vita fu solo di rassegnazione e di
raccoglimento. Come bene vedete io non sono più giovanissima.
Venticinque anni or sono andai sposa al signore Di Cartella, ma egli
non riuscì a superare la mia verginità, non vi riuscì allora nè vi
riuscì più mai. Io sono ancora quella fanciulla che la mia amata
Superiora consegnò un giorno nelle braccia di mia madre.

Giovane, ardente, delusa, ferita, fui sul momento capace di meditare
una vendetta e cercare altrove quel naturale sfogo alla mia rigogliosa
giovinezza, e che alla mia legale unione veniva negato.

Poi.... volli dimenticare, volli usare tutta la mia forza per vincere
una piccola battaglia su me stessa, e la vinsi.

Il mio buon compagno che non poteva avere da me amore, si ebbe la più
fedele ed affettuosa compagnia che sorella abbia potuto mai prodigare.

— La sua generosità è favolosa.

— Era tanto spiccia!

— Trovare chi supplisse alla mancanza.

— E.... all'occorrenza cambiare.

— Ma certo.

— Mie buone amiche, voi sapete ch'io portai in dote al signor Di
Cartella tutti i debiti di mia madre, e mia madre tutt'ora non
cessa ogni mese di scrivergli lettere zeppe di amari rimproveri per
sottrargli del denaro.

Mi occupai di lavori femminili, fui presidente di tutti gli istituti di
beneficenza della capitale, fondai la società per l'emancipazione della
donna. Le mie giornate si seguirono piene di lavoro e d'interesse, e
la mia esistenza non fu per questo infelice. C'è però, signor Perelà,
una cosa che tanto mi turba, e tanto mi fa star male. Il signor Di
Cartella, a certi periodi.... quasi direi a scadenza.... sul mutare
delle stagioni.... circa ogni due mesi.... egli.... si sente....
crede.... di potere ritentare un'altra volta la dura prova. Sono oramai
venticinque anni, io so punto per punto tutto quello che accadrà,
ma debbo compiacerlo. Egli si crede.... si illude.... tentando nuovi
slanci.... cercando nuove maniere.... si illude ancora.... soffre....
Oh! signor Perelà, che pena.... che pena....


                   _La Contessa Carmen Ilario Denza._

Io ebbi, signor Perelà, un'adolescenza molto precoce, fino dai dodici
anni presi un'imponentissima aria maschia, e la mia figura si delineò
in ogni suo dettaglio virile. Poco è in me di quella grazia che avvolge
le mie buone amiche.

Quando a quindici anni lasciai il monastero sentivo già addosso, pure
ignorando ogni informazione su tale proposito, sentivo già un bisogno
spingente terribile di avvicinarmi ad un uomo. Il caso mi fu sempre
avverso. Mentre in me cresceva questa terribile smania io non avevo
ancora trovato un giovane che mi si fosse avvicinato guardandomi con
intenzione.

Al mio orizzonte non vedeva una promessa, una speranza di finire questo
martirio.

Non riuscivo più a soffocare in me il male, soffrivo, soffrivo, passavo
le intere notti a dibattermi sul pavimento, mi comprimevo, mi pestavo,
martirizzavo le mie carni ribelli, mi facevo male, ma nulla, nulla,
nulla.

La mia faccia si faceva di un orribile colore rosso vinastro e delle
chiose vi rimanevano sempre qua e là. Questo faceva sì che gli uomini
si occupassero ancora meno di me. Ero pura ed innocente e volevo
mantenermi tale, ma erano le vene che non potevano contenere il
sangue, ed io me le sentivo accese di dentro, e circolarvi come piombo
strutto infuocato, e trasformarvisi in dinamite per scoppiare nel
cuore orribilmente in un'enorme pozzanghera di tutta la mia infelice
robustezza.

Forse, io pensava, cento volte passai per la via dove abitava l'uomo
che avrebbe potuto, vedendomi, innamorarsi di me. Bisognava però
passare cinque minuti prima, o cinque minuti dopo. Forse noi camminammo
nello stesso senso, invece che nel senso inverso, e non ci potemmo
incontrare.

Nella mia famiglia vi furono in quegli anni tre o quattro lutti
strettissimi e così tutta vestita di nero io appariva, più che una
fanciulla, una grossa vedova.

Avevo oramai venticinque anni e non il primo uomo si era avvicinato a
me, ed avrei accettato l'ultimo degli uomini oramai.

La mia sensibilità si era talmente acuita ch'io sentiva a distanza
l'odore acre del maschio, come una bestia, e seguiva per le vie questi
sfilacciamenti di profumi selvaggi, che mi facevano poi delirare e
fantasticare atrocemente chiusa nella mia stanza, mi facevano divenir
folle, mi davano i più atroci martirii.

Una notte fuggii scendendo dalla mia finestra giù sul balcone del
giardino, uscii risoluta di stendermi col primo uomo che fosse passato.
Andai per le vie deserte, andai là sotto le caserme, dove tanti uomini
giacevano. Certo ognuno si sarebbe svegliato felice di avermi fra le
braccia, e io intanto morivo di desiderio, e non comprendevo più, e
mi sarei perduta per sempre. Dopo, ritrovai un po' la coscienza, e mi
sentii avvinta dall'orrore di essere scoperta, portata chi sa dove....
forse dai miei genitori.... Corsi a casa, pensando che avrei potuto
trovare ugualmente, avrei fatto salire un uomo dalla finestra, avrei
introdotto nella mia stanza un domestico, ma essere sorpresa lì, no
no no, Dio! Che orrore! Fuggii, e salii su dal balcone, riuscii a
scavalcare la finestra della mia stanza.

Pochi giorni dopo, fu da mio padre un amico, egli veniva mandato dal
conte Ilario Denza.

Non ci eravamo mai veduti, ci incontrammo, e in poche settimane il mio
matrimonio fu celebrato.

Nei giorni che lo precederono, io notai una certa quiete che
incominciava a germogliare nel mio spirito, come una frescura nel
sangue, come se vi fossero state iniettate fiale di un balsamo
ristoratore.

Nel brevissimo tempo del fidanzamento io e il mio fidanzato fummo assai
poco insieme, e non fummo mai soli sino al giorno delle nozze.

Il conte Ilario Denza fu su di me con quella violenza, credo, di ogni
altro uomo sano e robusto. Non intendo fare a lui carico alcuno, ma
io.... io, quello che dovei soffrire, a quale prezzo di angoscia e di
lagrime ottenni di rimanere inerte e di lasciarlo agire. Io sentivo,
per lo spasimo di non poterlo respingere, già le unghie aguzze della
follìa rimestarmi dentro nel cervello, per sbriciolarlo, per togliergli
ogni sua coesione, ogni sua unità vitale, poi il vuoto dinanzi a me,
come se un essere che non era io si fosse atrocemente ribellato in me.

All'alba fuggii da mia madre, le dissi che se il conte si fosse fatto
su me un'altra volta io mi sarei uccisa in quel momento.

Fu pattuita la nostra separazione il giorno stesso. Un'aspettativa
bestiale, feroce, di dieci anni, una lacerazione lunga, interminabile,
occulta di tutto uno spirito, che si chiuse nell'ultimo grido di dolore
alla lacerazione della carne, col disgusto supremo di tutti i sensi.

Signor Perelà, io portava in me senza saperlo il mio vero marito e non
ammetteva il tradimento.

— Ella è almeno sicura di confarsi seco lui nel carattere per tutta la
vita, non è vero signor Perelà?


                   _La Contessa Cloe Pizzardini Ba._

Mio caro signor Perelà o voi vi sarete meravigliato al racconto delle
mie ottime amiche, o voi vi meraviglierete proprio adesso, al mio.

Ditemi francamente, non le trovate un pochino esagerate?

Io considero questo fatto semplice e comune, come una quotidiana
necessità della nostra vita. Non so concedergli nessun fascino di
mistero, e non vale per me più nè meno del mio pranzo o della mia
colazione. Io mangio di buonissimo appetito almeno quattro volte
al giorno, ed il resto.... mi capite? E come non potrei pensare di
rimanere una intera giornata senza prender cibo, non potrei pensare di
rimaner senza... voi mi capite. Non volli che un uomo se ne andasse
da me col mio rifiuto, e questo badate non fu tutto per mia virtù. I
nostri uomini possono rendersi utili, nella maniera che piace a me, sì
e no una volta la settimana. Dunque vedete che la mia virtù è in fondo
abbastanza relativa.

Di tutti non conservo generalmente nessun particolare ricordo per la
pochissima importanza ch'io concedo appunto ad un tale fatto.

Ma che cosa direste di me, se io vi dicessi che non mi disgustò talora
l'odore acre della mia stalla ma anzi... mi appetì.... e che non mi
sembrò mai duro nè incomodo giaciglio la paglia o il fieno, l'erba, la
terra o il più umile muricciuolo....

E che cosa direste infine se vi confidassi ancora che, se mai,
lasciarono piccole tracce nella mia memoria, qualche indomabile
stalliere.... qualche semplice giardiniere....

— Signor Perelà, potete farvi avanti, Cloe non rimandò mai nessuno col
suo rifiuto.

— Vorresti pronunziarti negativamente proprio questa volta?

— Niente affatto mia cara, solamente mi permetto esprimere al signor
Perelà certe mie riserve.... per certe cose io nutro di voi una fiducia
limitatissima, perdonatemi ma mi sembra che il fumo.... non sia proprio
quello che ci vuole, ma possiamo sempre vedere del resto, vedremo
vedremo.


                    _La Marchesa Oliva Di Bellonda._

Vi è dinanzi la donna che non amò, che non potè amare.

Voi sapete che ognuno di noi nascendo porta in sè il cuore di un'altra
persona, e una fanciulla ha il cuore di un giovane, e un giovane ha
quello di una fanciulla. Noi cerchiamo, cerchiamo il nostro cuore per
il mondo, come un mendico cerca il suo pezzo di pane; e girellando
così col cuore del quale cerchiamo il possessore crediamo ad un certo
momento di esserci incontrati con lui, tutte le apparenze ci ingannano,
tutte le speranze ci tradiscono. Quando siamo a porre i nostri cuori
bocca a bocca l'uno su l'altro, ci accorgiamo, troppo tardi, che quello
che abbiamo trovato non è il nostro, e che non abbiamo esattamente
quello del nostro compagno.

Io non trovai il mio cuore e custodisco ancora inutilmente quello di
colui che non troverò più. Sono legata all'uomo che non aveva il mio, e
al quale non potevo dare il suo che non avevo. Ho girato tanto in cerca
di colui, dov'è? È egli morto forse? Dove me lo hanno celato? Dove è
egli andato a porre il mio povero cuore, come posso io vivere senza
di esso? Sono oramai desolata, e già mi vedo raminga di porta in porta
col mio fardello d'amore. Troverò colui al quale appartiene per operare
il baratto, tramite d'indissolubile amore? Dove cerca egli? Dove cerco
io? Perchè non ci possiamo incontrare? Chi ha il mio cuore? Chi me l'ha
rubato? Quando ti potrò avere tu che lo conservi?

— Povero infelice!

— Disgraziato!

— Io auguro a quell'innocente che non riesca mai a trovarti.

— Tu mia cara hai bisogno di chi abbia tutto il tempo da perdere per
ascoltare le tue romanticherie.

— Non le date ascolto signor Perelà, ella ha per marito uno dei
migliori uomini di questo mondo, sano e robusto.

— Bestemmiatrice! Dalla salute di mio marito io non ebbi che la più
sconcia brutalità, alla quale desolatamente sottostetti.

— Anche questa è un'esagerazione.

— Se tuo marito fosse stato malaticcio, mia cara, avresti piagnucolato
per averne uno sano.

— Insensate! Chi di voi conobbe l'amore?

— Basta basta per carità.

— Tanto si sa bene dove Oliva andrà a cadere.

— È di un romanticismo così ridicolo con quel suo cuore sempre
ciondoloni....

— Non vedete che il signor Perelà si annoia?

— Parli un'altra.

— Un'altra.

— Donna Giacomina!

— Sì, sì!

— Donna Giacomina!


               _Donna Giacomina Barbero Di Ca' Mucchio._

— Adesso avremo la parabola delle ciambelle!

— E l'apoteosi di Carlomignolo!

— Re Carlomignolo! Sentirete signor Perelà, è roba da crepare.

— Quello che per voi è nuovo mio caro, per noi è così vecchio.

— Tacete, questo Carlomignolo è stomachevole, io non posso pensarci
senza sentirmi tutta disgustata.

— Donna Giacomina ha la parola della scienza.

— Meglio assai di Oliva però, Donna Giacomina e il suo Carlomignolo
almeno sono molto simpatici.

— Insomma, lasciatela parlare.

— Silenzio!

— I dolcieri che fanno le ciambelle, maneggiano la pasta con grande
sveltezza e pongono sopra un asse, l'una presso l'altra, le ciambelle
pronte per il forno. Così voi non potete assolutamente giudicare della
loro riuscita.

La cottura, la maggiore o minore compattezza della pasta, il lievito,
faranno che all'uscita dal forno le ciambelle non saranno uguali fra
loro. Ve ne sarà taluna con un grosso buco rotondo, taluna oblungo,
un po' più piccolo, più ovale, taluna ne uscirà addirittura senza,
otturata. Ve ne sarà una infine nella quale il buco sarà rimasto
impercettibile, appena si può vederlo se si pone la ciambella contro la
luce. Un raggio solo vi può penetrare.

La natura, che tutti lodano maestra di perfezione, mio caro signor
Perelà, non è meno manuale del dolciere che fa le ciambelle, e gli
uomini, per quanto si assomiglino tutti fra loro, portano addosso le
più strane diversità. Ebbene, quella ciambella dove appena un raggio
poteva penetrare.... sono proprio io, io signor Perelà sono quella
ciambella.

— Non è vero che è carina?

— A me questa storiella fa sempre tanto ridere.

— A me dà però allo stomaco la faccenda di Carlomignolo.

— Avanti dite, dite, come fu che incontraste Carlomignolo.

— È colla parola della scienza che io vi parlo signor Perelà. La
mattina dopo le nozze, il mio matrimonio fu sciolto legalmente. Io fui
sulle bocche di tutti, e dovei allontanarmi per qualche tempo dal mio
paese.

La mia buona madre mi portò a viaggiare per distrarmi.

Incontrai talvolta alcuno che, per la comune simpatia, e per quel
giovanile trasporto di amore mi sembrò quello col quale ritentare la
dura prova. Piena di speranza e pur tremante di dubbio andai verso di
lui! Ahimè! Voi sapete meglio di me signor Perelà che quando si cerca
una tale cosa è proprio allora che ci si incontra nel suo contrario.

Colla mia buona madre visitai l'Europa e buona parte dell'Asia, fui
nell'India e nel Giappone, e mi accingevo a passare l'oceano, portando
così per tutto il mondo la mia infelicità, e per usare anche un poco di
quella grande ricchezza che in miglior modo mi era negato impiegare.

Noi eravamo in un pittoresco villaggio della montagna a trascorrere
il caldo dell'estate quando mia madre intese parlare da una lavandaia
di certo Carlomignolo. Mia madre senza punto scorgere nel significato
di quel nome, ma solamente attratta dalla curiosità, domandò alla
donna chi fosse quel tale e perchè lo chiamassero così. La donna si
mostrò subito tanto imbarazzata nel rispondere che mia madre, sempre
più incuriosita, incalzò nelle domande. Egli ha.... mia cara signora,
una cosa.... una cosa, mia cara signora, diceva la donna ridendo ma
arrossita e piena d'imbarazzo, una cosa.... che sembra il dito mignolo
di un fanciullo di quattro o cinque anni.

Mia madre, che non si aspettava la soluzione dell'enigma, diede un
grido, e quasi svenne. E la donna intanto incalzava: è un infelice
signora, tutte le donne del villaggio si sono burlate di lui, egli in
principio non capiva la propria sciagura.... tutti ormai lo sanno e
lo burlano e lui finirà per chiudersi nel chiostro dei capuccini. No!
No! No! gridava mia madre correndo avanti e indietro nella più feroce
impazienza. Carlomignolo venga dinanzi a me!

Mia madre tutto combinò a mia insaputa e ad insaputa di Carlomignolo.

Una mattina ella mi condusse in un leggiadro boschetto e mi lasciò sola
pregandomi di attenderla lì un poco.

Là in fondo, al principio del bosco, si aprirono d'un tratto, come
grandi portiere, due bellissimi rami, apparve nel mezzo un giovane alto
grosso robusto, biondo, con una bellissima faccia infantile rosea e
senza un solo pelo. All'aspetto poteva avere ventidue o ventitrè anni
e poteva essere il figliolo di un piccolo commerciante del villaggio o
di un qualche fattore.

Egli si fece innanzi; e per quanto impacciato e tremante, pure con aria
maestosa per la sua bellissima figura. Passandomi vicino mi chiese
con un filo di voce: la signora sua madre deve venir qui? Sarà qui a
momenti, se vi occorre qualche cosa potete attenderla. E sempre più
impacciato venne a sedermi vicino sulla nuda terra.

Come era bello! Sdraiato così tra il verde, in una attitudine forte e
maschia, quasi da eroe, eppure estremamente infantile. Incominciai a
sentirmi un poco impacciata anch'io, e piena di vergogna. Non sapendo
cosa dire gli chiesi: come vi chiamate? Carlo.... e s'interruppe.

I suoi occhi celesti si cuoprirono di due nubi turchine. Io ero tutta
turbata e lui era turbatissimo.

Quante volte avevo tremato così vicino ad un uomo! Avevo follemente
sperato.... tentato un'altra volta.... e tutto era finito in una
risata, nella più ridicola avventura, nel più crudele sgomento.

Carlo mi era vicino e tremava, ed io tremavo, ci saremmo slanciati
l'uno nella braccia dell'altro ma qualche cosa ci tratteneva, che?

Nessuno dei due sapevamo allora che cosa trattenesse l'altro, tremavamo
entrambi per la stessa pena. Come vincemmo il nostro terribile dubbio?
Non so.

Dopo qualche momento, dopo non so quale sopore, mi svegliai felice, non
credendo al prodigio. Io avevo conosciuto un uomo, signor Perelà, Carlo
aveva trovata la sua donna. La mia buona madre colla sua avvedutezza
aveva preparato il miracolo.

Il primo desiderio fu di ritornarmene in patria; ma data la inferiore
condizione sociale del mio Carlo non potei presentarlo alla società
e alla corte; egli è figlio di un piccolissimo albergatore di
quella campagna. Sul principio nessuno seppe nulla ed io potei
anche passeggiare impunemente col mio adorato consorte, ma siccome
tutti fantasticavano sui fatti miei, venne in luce la verità, e i
buoni burloni volevano portare in trionfo per la capitale il mio
Carlomignolo.

Egli vive con me, nel mio palazzo, o in alcuna delle mie ville, lungi
dagli sguardi di tutti.

— Dicono che sia un bellissimo uomo a vederlo così.

— Robusto!

— Donna Giacomina ne ha una cura....

— Sfido, dove ne troverebbe un altro?

— E pare che mangi per quattro!

— Quel po' po' di stallone!

— Io vedete, signor Perelà, se non fossi così di buon appetito, il
pensiero di cotesto Carlomignolo basterebbe a guastarmi lo stomaco per
una settimana.

— Oh! Ma tu hai uno stomaco da struzzo!

— Peccato che non facciano figlioli!

— La razza dei Carlomignoli!

— E delle ciambelle.... quasi otturate!


                   _La Contessa Rosa Ramino Liccio._

Io nacqui vestita, signor Perelà. Conoscete la misteriosa malìa di
questa parola: pudore? Non vi fa essa pensare a qualche cosa di tanto,
di tanto vestito ma che debba rimanervi dipoi nudo davanti?

Quando era nel monastero venivo assalita da crisi violentissime
di brividi perturbatori che si partivano dalle mie calcagna e mi
serpeggiavano dentro tutte le ossa, aggrappandomisi al collo in volute
vertiginose solo ch'io immaginassi che un uomo potesse vedere uno dei
miei polsi o un po' del mio collo. Non vi dico poi il resto. Oh! Come
io nacqui vestita! Usavo nel monastero indossare gli abiti monacali
e mi cingevo la faccia di bende fino sopra le palpebre e quasi fino
al labbro inferiore, e calavo un velo nero foltissimo sul viso se uno
doveva rivolgermi una parola sola. Portavo sempre anche i guanti.

Quando mi tolsero dal monastero mi consegnarono quindicenne nelle
braccia del mio fidanzato, il tenente Liccio. Quello che io provai
durante le pratiche amorose non potrei in alcun modo descrivervi; il
mio fidanzato, afferrato il mio temperamento, mi fece salire la scala
un gradino alla volta sempre in preda a queste vertigini per il mio
eccessivo pudore. Egli doveva violentarlo giorno per giorno cogli atti,
colle parole, cogli sguardi, e mano mano che si stendeva l'abitudine
sopra un passo già fatto egli provava un passo ancora.

Quando fummo sposi egli dovè praticare mesi e mesi per ottenere
quello che tutti gli altri mariti ottengono dalla propria moglie il
giorno stesso delle nozze. Solamente l'abitudine mitigava questa mia
ipersensibilità pudica.

Io nacqui rivestita da almeno mille mantelli, leggeri, impalpabili, e
all'unico scopo di rimanere alla fine nuda del tutto.

Il matrimonio per i primi anni ebbe tanti di quei mantelli da togliermi
che le mie ore passarono sempre più nuove, agitatissime, sempre
più interessanti e angosciose. Venne un giorno però che fatta già
l'abitudine sull'ultimo passo fatto, e io desideravo già l'avvicinarsi
del nuovo, mio marito non seppe levare quel giorno di dosso a me un
nuovo mantello, ed io di quei mille che vi ho detto sentivo di averne
ancora sopra almeno novecento. Fece ogni sforzo, il poverino, ma non
riuscì a spingersi oltre. Egli non sapeva fare di più, i suoi mantelli
forse finivano lì, era ormai nudo del tutto, ed io, ed io che me ne
sentivo addosso ancora tanti!

Quelli che prima portavo insensibilmente, leggeri, impalpabili, che mi
ero lasciata strappare con tanta dolce sofferenza, ora mi pesavano, oh,
mi soffocavano, come centinaia di cappe di piombo.

Un giorno, prendevamo il caffè, mentre mio marito mi faceva di quei
soliti oramai inutili complimenti, l'attendente era lì per non so
quale servizio, io mi lasciavo carezzare le mani e la fronte, fredda,
insensibile, ebbi la visione e il gesto risoluto che poteva liberarmi
da mi nuovo mantello e forse da molti più! Corsi a chiudere la porta
a chiave, e mi adagiai sul sofà trascinando mio marito per una mano,
i miei occhi tornarono quelli di qualche tempo prima, egli comprese.
Quello che io ho sofferto in quel giorno, quali spasimi crudeli, quali
brividi di morte, l'attendente corse all'uscio ma non potè uscire,
allora si pose in un cantone con due occhi quasi lagrimosi, e guardò,
guardò come un ebete sino alla fine. E io soffrivo, soffrivo tutte
quelle brividure terribili che mi scuotevano e mi liberavano, come un
serpente dalla veste, ogni istante da un nuovo mantello. Mio marito
pregò sempre dipoi l'attendente, il buono ed ingenuo campagnolo si
prestò, prima confuso, poi più disinvolto, poi scaltro, i suoi sguardi
divenivano sempre più maliziosi, egli incominciava a sorridere, a
sottolineare con gesti impercettibili la nostra scena, poi con gesti
arguti, osceni, parole oltraggiose, grida infami al mio indirizzo, ed
io lo fissavo avida, attratta, occupata solo di lui dal quale attingevo
tutta la mia indispensabile vergogna.

Ma il buono e semplice giovinotto ebbe anch'esso un termine, ed
io incominciai nuovamente a sentire sopra di me il peso di tutti i
rimanenti mantelli.

Fu poi un amico di mio marito, un giovane tenente. Egli stava alla
finestra leggendo il giornale, fumando una sigaretta, volgendosi di
tanto in tanto. Quegli occhi! Mi sentivo cadere cadere giù i mantelli
divenuti scarlatti di orrore. Poi anche l'amico gentile esaurì le sue
possibilità, ed un giorno furono due....

Signor Perelà, io sento che addosso a me ancora tanti ce ne sono
di questi orribili indumenti, e penso con terrore alla maniera di
liberarmene, il loro peso ogni giorno aumenta, e mi sento schiacciare
soffocare sotto il mio insopportabile vestito di pudore.

— Mia cara, con questa tua storta teoria di mantelli, io non mi
meraviglierei punto di vederti un dì o l'altro nel mezzo della strada
senza nessun mantello.

— Perchè non inviti il signor Perelà a vedere?

— Egli ha l'aria tanto riservata da fartene cascare una dozzina tutti
in una volta.


                _La Baronessa Gelasia Del Prato Solìes._

Per darvi un'idea di quale effetto diverso possa ottenere una stessa
causa io vi parlerò, signor Perelà, degli occhi di _Bobì_.

La mia illustre famiglia in seguito ad insensate speculazioni per parte
del mio avo e per parte anche di mio padre, cadde in istato di quasi
assoluta miseria; e fu con somma gioia di tutti che a rialzarne un
poco le sorti si ottenne di dare me in isposa al Barone Solìes, uomo
straricco, di sessant'anni, famosissimo libertino, paralitico, pieno di
acciacchi. Io avevo allora giusti giusti diciotto anni. Il mio marito
che fu nei primissimi tempi abbastanza sopportabile, mi condusse a vita
solitaria nella sua grande tenuta di Albè.

Io viveva rassegnata, noiata, tanto da non essere capace di pensare
che il giorno che sarebbe morto il mio vecchio signore, e mi avrebbe
lasciata la metà del suo denaro, sarei stata ancora in pieno mattino
della mia giovinezza.

Egli si ammalò più gravemente, non potè più uscire, più gravemente
ancora, e rimase costretto sopra una morbida poltrona sempre più
invaso da questa paralisi che lo aveva attaccato molti anni prima.
Siccome egli era gelosissimo, non mi permetteva d'allontanarmi da lui
che per brevissimi istanti. Io leggeva leggeva leggeva per tenerlo
distratto, e ai miei piedi riposava _Bobì_, il cagnolino, il mio
vecchio e inseparabile compagno sino da quando ero fanciulla. L'uomo si
ammalò sempre di più e dovè chiedere alla fine di vedere il suo nipote
tenente, ch'era insieme con me l'erede di tutto il patrimonio. Egli
venne lassù e s'intrattenne a ravvivare un po' quel languore di vita.

Ci familiarizzammo con lui, ed egli andava e veniva, si tratteneva,
tornava via, ritornava ancora.... Si chiamava Silvio, era un bellissimo
giovane biondo ed aveva ventisei anni.

Io leggeva leggeva leggeva, il vecchio nella sua poltrona sonnecchiava
sonnecchiava sonnecchiava, il nipote mi guardava mi guardava mi
guardava, _Bobì_, presso alla mia gonnella, si stringeva si stringeva
si stringeva.

E non nacque che quello che doveva nascere, per quanto io fossi
rimbecillita e assente, una corrente di simpatia, una corrente d'amore,
una corrente di passione.

Ma come lasciare il sospettoso vecchio? Quando uno si allontanava
egli trovava sempre la maniera che l'altro rimanesse lì, e quando
Silvio non c'era io non potevo muovermi. Nemmeno quando partiva io
potevo accompagnarlo, e dovevo sempre mangiare e dormire presso il
mio insopportabile consorte. Egli sonnecchiava sempre e non dormiva
mai. Dovei ricorrere ad una di quelle piccole astuzie che a noi donne
di solito non fanno difetto. Approfittai appunto della sua fatale
insonnia per parlarne col medico. Egli mi consigliò certe presine da
somministrargli nel _thè_ o nel caffè ogni sera prima di coricarlo, e
stese la ricetta.

Di queste piccole prese, innocue, io ne somministrai assai
abbondantemente al mio caro marito, tanto ch'egli incominciò a
schiacciare, anche nel mezzo della giornata, i più deliziosi e beati
sonnellini di questo mondo.

E con Silvio allora io passeggiava per il giardino, nel parco, nel
bosco, e proprio laggiù nel verde intenso dove nessuno ci poteva
vedere, ci intrattenevamo.

Su quel morbido e fresco tappeto naturale fra tutti quei rami
abbracciati, io non vedeva più che i baratri di due occhi che
attraevano i miei giù giù, per gli scoscendimenti più vertiginosi
dell'oblìo, giù in fondo, in un fondo introvabile, infinito, e tutta
la mia bocca era immersa, perduta in una nube soave di fili d'oro.
Oh! Questo amore fresco, nuovo, dopo tutte le ore concesse al vecchio
paralitico!

Io non so, ma un giorno, proprio quando tutto il mio spirito
soccombeva, non so come potè la coda del mio occhio avere la forza di
distinguere, _Bobì_, il piccolo _Bobì_, che non mi abbandonava un solo
istante, era disteso a pochi centimetri dalla mia guancia e mi sbarrava
in faccia i suoi occhioni neri, tondi, fermi, come due bottoni di _gé_.

Fu una doccia gelata nel momento più caldo della mia vita. Silvio si
accorse, chiese, ma io non volli spiegargli.

Eppure _Bobì_ era lì vicino, lui non comprese, non lo vide guardare,
non ci pensò.... chi sa.... io non volli spiegargli il mio turbamento.

Mio marito resistè sull'orlo dell'abisso ancora tre anni, ma da quel
giorno non lo tradii più nè con Silvio nè con altri.

Dopo ch'egli morì non potei avvicinare nessuno per molto tempo. Sentivo
così bene che _Bobì_ mi avrebbe seguita, e non sarei in nessun modo
riuscita a liberarmene senza rovinare ogni incantesimo.

Tre anni dopo la morte di mio marito, il mio _Bobì_, volle morire
anche lui; aveva diciannove anni l'indimenticabile compagno della mia
giovinezza.

Dopo, io conobbi altri uomini, ma.... in quel momento istesso....
quando tutto il mio spirito soccombe, una cosa rimane, eccolo lì,
_Bobì_, _Bobì_, il mio _Bobì_, eccolo lì, a pochi centimetri dalla mia
guancia, disteso coi suoi occhioni neri spalancati, fermi, tondi, come
due bottoni di _gé_.

— Sii sincera Gelasia, tu daresti tutti gli amanti di questo mondo per
risuscitare il tuo _Bobì_.

— Eh!... Forse.


                     _La Principessa Bianca Delfino
                          Bicco Delle Catene._

Se voi avete bene ascoltato le mie buone amiche, avrete certamente
compreso, signor Perelà, come esse facciano dell'amore sempre una
questione più o meno essenziale di vita.

Io non potei mai riflettere su questo fatto, nè ricordare di me un solo
particolare.

Per me fu sempre una questione di morte.

Io non seppi con un uomo giungere che ad un punto solo, alla morte, poi
vissi naturalmente morta, e non ricordai.

La morte nel suo più rigoglioso fiorire di petali freddi, con tutto il
ghiaccio della sua vita.

Quando vicina ad un uomo io rinasceva al mondo, e ricominciavano i
miei sensi di nuovo a funzionare, il mio compagno già aveva fumata
una sigaretta e ne accendeva una seconda, si arricciava placidamente
i baffi, leggeva tranquillamente il suo giornale. Dall'orlo della
sepoltura, ancora tutta immersa, bianca, morta ancora per tre buoni
quarti, intravedeva la sua faccia calma, serena, il suo aspetto
florido, sodisfatto, il suo roseo colorito.

Che cosa era accaduto? Quanto ero rimasta sepolta?

Io ora gradatamente mi disseppellivo, ma ero davvero morta, avevo
sentito la mia temperatura abbassarsi, i brividi insinuarsi per tutte
le mie ossa, per tutte le fibre, avevo sentito i muscoli irrigidirsi
tutti, e la pelle ritirarsi in una convulsione suprema. Io era entrata
nel nulla.

L'oltraggiosa indifferenza, la cinica irriverenza colla quale i signori
uomini trattarono sempre il mio eccezionale, quasi sacro sentire,
mi inasprì a tale segno che decisi di ritirarmi ad una solitudine
contemplativa nella mia villa fuori le mura, dove tuttora io vivo.

Come avrei potuto sopportare ancora vicino a me la presenza di una così
materiale creatura?

Io viveva là solitaria, frequentavo raramente alcune amiche e facevo
continue visite al vicino cimitero dove ha la sua sepoltura la mia
adorata mamma.

Aggirandomi così fra i morti pensava sovente al loro momento supremo.

Quante volte ero morta come loro!

In che consisteva la differenza?

Che loro non si erano ancora ridestati.

Sulla sera passeggiavo lungo il viale presso la mia villa, e vidi
una volta passare un ventenne, una dolce figura esile, un'andatura
aristocratica, delle guance bianche, degli occhi nerissimi infossati,
e dei capelli scuri ricciuti. Aveva in mano dei fiori gialli. Un
adolescente dalla bocca sensuale prematuramente sfiorita, un'aria
viziata.... ma triste però, senza il raggio del sorriso nè sulle labbra
nè dentro i bellissimi occhi.

Lo guardai, egli mi guardò. Anch'io passeggiavo come lui, triste, colla
mia aria di bella dissepolta....

La sera dipoi all'ora istessa il giovane passò e passò ancora tante
sere, tutte le sere.

Sempre più bianco, la bocca sempre di più sfiorita, sensuale.

Ci guardavamo come in uno specchio.

Una sera io uscii a tarda ora, non so perchè, c'era la luna
e fui tentata di uscire.... ero presa da un tormento.... da
un'oppressione.... avevo bisogno di prendere aria....

Appena al mio cancello, ecco scorgo l'ombra di uno poggiato sul
muricciuolo in attesa. La luna gli si era liquefatta sulla fronte.

Rimasi ferma, immobile, e immobile lui: lo specchio! E l'imagine sopra
vi si avvicinò, vi si avvicinò, come ad immergersi in uno stagno di
mercurio.

Filtrava per la mia bocca il liquido gelido, e s'insinuava veloce per
tutte le vene.

Quando io distaccai le labbra dallo specchio ed aprii gli occhi, egli
aveva ancora socchiusi i suoi, gli aprì lesto, scosso, come per avere
tardato un istante a riflettere.

Quel giovine era venuto ad abitare, con sua madre, una villa a poca
distanza dalla mia, e da quella sera, tutte le sere e' incontrammo.

Signor Perelà, io avevo finalmente trovato il mio amore!

Ma.... ahimè.... il fanciullo che moriva, che sapeva morire con me,
ogni sera mi appariva più bianco, gli occhi sempre più neri e che
venivano fuori sempre da più in fondo, attorniati da due corone nere
che dilagavano ogni dì maggiormente.

Una sera egli mi disse: andiamo laggiù.... c'è la luna....

Quale desiderio io non avrei appagato al mio fanciullo?

Passammo i campi e riuscimmo proprio sotto il cimitero, là dove il muro
è basso, egli m'invitò a scalarlo e scendemmo giù fra i morti. E lui
mi spinse, mi spinse fra quelle tombe, scansando le croci, passando
fra i piccoli cancelli, i lumi, i pilastri, i cespugli di fiori sopra i
morti, e in un punto si fermò, si distese, io lo seguii, e fummo quella
sera due morti che il becchino si era dimenticato di seppellire.

Tante tante sere ancora ritornammo, e ci indugiammo là sino a notte
tarda.

Io sentivo, signor Perelà, che una vita si era oramai tutta versata
nella mia, e ne contavo i sorsi allibendo al pensiero che ognuno fosse
l'ultimo.

Una sera il mio fanciullo fu più bianco ancora, più freddo, io morii
anche di più, e quando incominciai a ridestarmi, e il calore ritornava
a popolare il mio corpo, sentii che lui era ancora immobile.

La sua bocca fredda incominciava a farsi sentire come una gomma nella
mia che riprendeva la temperatura. Rimasi ferma, egli aveva sempre
fatto così, ora la morte lo teneva un poco di più; ancora, ancora,
nulla; il mio corpo era tornato vivo caldo, e l'altro era ancora
gelido. Mi scossi, forse un malore, lo carezzai, lo palpai, lo strinsi,
nulla, nulla, attesi ancora in un'ansia disperata, attesi, nulla!
Ma allora.... ma allora.... ma allora era vero.... era veramente....
morto.

Mi alzai, la notte.... il luogo.... la ragione tornata perfettamente,
mi feci vincere dall'orrore del caso!

Avrei dovuto rendere conto della sua morte! Tanti mi vedevano la
sera con lui, si sarebbe certo dubitato, eppoi... come sarei fuggita
lasciando lì morto il mio fanciullo?

No!... No!... No!... Bisognava trovare una via!

E il farnetico mi spinse a prenderlo in braccio: lo sollevai... e
su.... su... su... scavalcai il muro, e su, via... per i campi, su,
su, su, col mio fanciullo, su, su.... radunando tutta la forza del mio
corpo esausto, su, su.... per la potenza del mio spirito esaltato, su,
su.... riuscii senza esser veduta a trascinarlo a casa, su, su.... per
la scala.... su, nella mia stanza, lo adagiai.... su.... sopra il mio
letto.... e caddi, giù, sfinita.

Le forze mi ritornarono un poco dopo, e il mio cervello si posò un
poco. Chiusa lì dentro, io guardava il mio povero fanciullo bianco....
cogli occhi socchiusi, in fondo alle due ghirlande nere, enormi,
paurose.

Viveva ancora tranquillo l'ultimo istante di ebbrezza che io gli avevo
dato. Il mio fanciullo era morto.... per me.... con me.... laggiù.

E io che lo avevo portato via dal suo luogo! Perchè lo avevo portato
via? Per paura! Per paura di me, che mi trovassero là, che mi
prendessero, mi punissero, mi straziassero, che mi facessero morire? Ma
chi poteva oramai farmi morire, ora, che il mio amore era morto?

E lì, io non dovevo ugualmente rendere conto della sua morte?

Come era morto nelle mie braccia? Non dovevo ugualmente sottopormi
alle più orribili spiegazioni? E lo avevo strappato dal suo nido,
laggiù dove lui era voluto andare quella sera, e dove era sempre voluto
tornare, per rimanervi....

E io, io che lo avevo compreso, sola al mondo, lo avevo tolto, non
avevo saputo coronare il nostro amore, avevo tutto profanato in un
momento di paura! E paura di che? Paura di me!

Lo presi ancora addosso, colle braccia abbandonate giù dietro, e colla
testa poggiata sulla mia spalla come un fanciullo che dorme, e via, via
giù per la scala, attraversai la via, attraversai ancora i campi, non
vista, non udita da alcuno lo trascinai sul muro del cimitero, e senza
scomporlo, scansando le croci, i cancelli, i cespugli, ritrovai il
suo nido, il nostro, e dove la terra era ancora calpestata dai nostri
corpi, lo deposi con tutta la devozione, ferma, sicura, senza sentirmi
punto stanca, punto affranta, ora che avevo ritrovata la mia anima;
dritta dinanzi alla mia via, dritta sul mio fanciullo morto, immobile,
aspettai. Incominciava l'alba.

— È bella e paurosa la storia di Bianca, non è vero signor Perelà? Si
rimane dipoi così silenziosi....

— Ella sempre a questo punto si ferma, come quella mattina.

— Oh! Se sapeste, corsero a vederla dai paesi vicini. Ella rimase in
piedi, immobile sul suo morto fino alla notte del dì seguente.

— E ai primi accorsi gridò: io l'uccisi! Io l'uccisi! Io l'ho ucciso!
Col mio amore!

— Con quanto fiato aveva in gola.

— E tutto raccontò.

— Bagascia! Spudorata! Le gridavano tutti.

— Trusiana!

— Budello!

— E peggio ancora, signor Perelà.

— _Tu te rappelle mon ange?_

— Ella fu per molti mesi la favola del paese.

— Non fu punita perchè era imparentata colla corte, ma c'era chi la
voleva punire ad ogni costo.

— La madre del suo amante.

— Ma se era malato anche di prima!

— È vero, egli sarebbe morto ugualmente, la sua vita era oramai
spicciolata quando Bianca lo incontrò quella sera sul viale. — Avrebbe
solo potuto spenderla in un tempo un po' più lungo.

— Ogni notte, signor Perelà, io esco dalla mia casa, mi fermo al
cancello, traverso la via, i campi, scavalco quel muro, e là dove è
il mio fanciullo io mi distendo per rendergli quell'ultimo istante di
vita. È la nostra comunione. Io muoio in quell'istante, ed egli rivive
il momento supremo del nostro amore. Non sono più che il ciborio che
custodisce quella reliquia.

I preti s'illudono di avere nella loro ostia la parte di un Dio che non
hanno, ma io ho ancora in me l'ultimo sorso di vita che gli sugai.

— Chi è che ancora non ha detto nulla?

— Quella dispettosa di Nadina.

— Enos, Enos, non ha parlato!


                        _M.lle Enos Copertino._

— Enos Copertino, la più grande violinista del regno!

— Signor Perelà è inutile domandare a lei. La grande artista non ha mai
aperto a nessun cuore la sua confidenza. Ella non risponderebbe.

— Essa vive insieme con la celebre attrice Catulva.

— Se ne dicono però, per quanto non le dica lei.

— Enos vive in una sua villa misteriosa dove nessuno può entrare:
nessun uomo penetra mai.

— Le è compagna la Catulva, la grande attrice drammatica.

— Si racconta che di notte, nel loro giardino, si vedono due ombre,
che sembrano due lunghissime gonne brune, che si rotolano avvinte sulla
terra. Ma.... di lei.... nessuno sa.... nessuno può dire....



«DIO»


Penso oramai come voi, Perelà, a quelle tre donne, io sono alla sommità
di un camino e le sento parlare. Il loro bisbiglio attrae ogni mio
senso, io sono incapace di vedere, e di muovere anche poco le mie
membra. Esse parlano dell'umano dolore.

Quale delle tre parla? È _Pena_? È _Rete_? È _Lama_?

Una narra tutta la _pena_ di un cuore; una spiega tutta la _rete_
che lo allacciò, quel cuore; ed una tiene in mano la _lama_ che lo
trafiggerà.

— _Dio._

— Sì! Le sento, le sento! E non so che mi spinge a distinguere una cosa
di loro. Dite, signor Perelà, dite, quale cosa desideraste più vedere
di quelle tre donne? Quale fu quella cosa che imaginaste di più, o che
vi lusingaste di avere meglio imaginata?

— Gli occhi di _Pena_, le mani di _Rete_, il sorriso di _Lama_.

— Guardate, guardatemi negli occhi, guardate le mie mani, guardate il
mio sorriso. Io mi sento in quest'istante di riassumere tutte quelle
membra!

— _Dio._

— Dite, voi credevi, dite, che la Regina avesse altri occhi? Altre
mani? Altro sorriso? Le dame della società ieri certo v'intrattennero
allegramente, ma io.... io sono la Regina....

— _Dio._

— La Regina frugare non può nel suo passato, e s'ella scruta
nell'avvenire, ahimè, voi la vedete raccogliere una spada pesante
bagnata di sangue, e trascinarsi via con quella, via lontano, via....
scomparire.

Ma io vi posso insegnare un giuoco però, un giuoco da Regina, il giuoco
che si chiama dello Stato.

— _Dio._

— Prendete, ecco le carte, queste sono le dame, tenete, questi i
cavalieri, li tengo io, qua le carte di spade. Mescolate le dame voi,
io mescolo i cavalieri, mescolate le carte di denari, io le carte di
spade.

Io alzo un cavaliere, alzate voi la dama, alzate ora una carta di
denari; il cavaliere che s'incontra colla carta più alta di denari è il
Re, la dama che gli corrisponde è la Regina.

Ecco, questo è il Re, questa la sua Regina, il denaro allo Stato.
Mescolate il Re colle carte di spade, quando il Re si combina colla
carta più alta di spade muore.

— E se non si combina?

— Finchè non si combina regna.

— E dopo?

— E dopo ve l'ho detto, muore....

— _Dio._

— Ancora, ancora. Ha un regno molto lungo questo Re. Ecco trovata, il
Re è morto, la sua Regina raccoglie quella spada e qua, nel fondo della
tavola.

— E il denaro?

— Il denaro rimane dello stato.

Un nuovo Re, una nuova Regina, il denaro allo Stato, si rimescola il
Re colle carte di spade finchè non si combina colla carta più alta che
rimane, la Regina raccoglie quella spada e qua, nel fondo della tavola.

— Questo giuoco finisce?

— Questo giuoco non finisce mai.

— _Dio._

— Si fanno nuovi Re, nuovi cuori da trapassare, nuove carte di spade,
nuovo denaro, nuove regine a cui rimane una spada da trascinare.

— _Dio._

— Maestà, per tante volte ho sentito qui dentro pronunziare una parola,
mi volsi e non potei vedere....

— Una parola?

— Sì: _Dio_.

— Oh! Non ci badate, io ci ho fatto tanto l'abitudine che non me ne
accorgo quasi più. Venite, guardate, è il mio pappagallo, è qui alla
finestra nella stanza vicina, venite.

Vedete come è bello? Io non riuscii ad insegnargli una cosa soltanto,
nulla volle imparare, ritenne solo questa parola che udì chi sa
come.... e la ripete sempre. È strano non è vero? Egli dice una grande
parola, e non può capirne il significato, che volete, povera bestiola,
che sappia lui che è Dio!

— Voi lo sapete invece?

— E come? Certamente. Chi non lo sa? Dio! Ma Dio è.... Dio! Tutti
bene lo sappiamo noi, ma lui.... Ora mi farete compagnia per la mia
passeggiata quotidiana dentro il parco reale. A momenti è per calare il
sole, la vettura già attende, è l'ora, venite.


— Maestà! Tutte quelle regine che voi ponevate in disparte colla carta
di spade.... le regine dei re morti.... nel fondo della tavola....

— Eccole, sono in fondo del parco reale. Guardatele camminare, come
pesantemente trascinano il loro manto di lutto! Guardatele come sono
tutte velate, dall'involucro nero solo il pallore del volto ne risalta.
Nella destra hanno la spada.

— E sempre si aggirano qui?

— Vivono in questo parco ombroso e umido, cimitero delle viventi,
restano sempre fuori vaganti, dentro la cancellata che le chiude.

— E non si divorano esse l'una con l'altra?

— E perchè? Non sono tutte uguali là dentro? Non furono tutte Regine
uguali? Non hanno tutte un manto uguale, un ugual velo? Me sola
divorano cogli occhi, e cennano guardandomi l'entrata del cancello.

Domani quella porta si aprirà un'altra volta forse....

Ogni sera la Regina le viene a visitare sul tramonto del sole. Ve ne
sono là dentro delle giovani e delle vecchie anche. Regina Cleofe c'è
da cinquantanni, è la più vecchia.

— Odiano o amano?

— Odiano la Regina senza spada, amano la loro memoria, trascinano la
spada che trafisse il cuore del loro Re.

Che cosa vi sembrarono signor Perelà?

— Mi sembrarono.... una enorme gabbia piena di grossi merli ai quali
sieno state impeciate le ali.



IL BALLO


— Ma come è stato bello!

— Bello, bello, bello!

— Che cosa?

— Bella, il corteo.

— Buona sera mia cara.

— Buona sera.

— Buona sera Gelasia.

— Non ti do un bacio perchè ti lascerei un segno.

— _Adieu mon ange._

— Buona sera Nadina.

— Tu già qui?

— Benvenuta.

— C'è Zoe?

— Non è ancora arrivata.

— Era nella seconda carrozza.

— Ma bello! Bello! Bello!

— Sapete? Io non sono riuscita a trovar posto nelle vetture, in
nessuna, ho dovuto da una vettura di piazza farmi condurre da mia
cugina Corilla, per vedere qualche cosa dalle sue finestre, sono
passati di sotto due volte, quando è stato proprio sotto a me,
ero tanto commossa, non sapendo cosa fare mi sono tolta dal seno
due garofani rossi e glie li ho gettati, lui ha sollevato la testa
facendomi il più garbato saluto, tutto per me, capite? Mi sono sentita
serrare la gola, ho pianto, ho pianto capite?

— Io lo avrei abbracciato!

— Che festa imponente!

— Come l'incoronazione del Re.

— Davvero.

— Ma la curiosità della gente!

— Favolosa! Favolosa!

— E lui che contegno!

— Che disinvoltura!

— Da Re!

— Diciamolo qui fra noi, da vero Re.

— Io avevo sempre paura di una qualche fucilata.

— Ma che! È amato sai, è stimato da tutti!

— Lui, in piedi nella sua vettura, salutava con un garbo.... con un
garbo.... Dio Dio Dio!

— Affascinante!

— _Quel charme_!

— Ma avete veduto quando le fanciulle gli hanno gettato i fiori?

— Che bei sorrisi gli hanno rivolto!

— Scarlatti.

— E lui col suo sorriso grigio....

— Vero?

— Io credevo che gli avessero tirato una qualche sconcerìa.

— Ma tu pensi sempre a male mia cara.

— Oh! Ricordi Iba?

— Iba! che cosa c'entra Iba? Vorresti fare dei confronti fra il signor
Perelà e Iba?

— Io stimo Iba assai assai di più.

— Perchè tu sei una sciocca!

— Una cattiva!

— Dispettosa!

— Insolente!

— Eppoi perchè ti sei impuntata a far l'eccezionale, credendo che tutti
si occupino di te. Hai sbagliato sai, cara bambina, abbiamo di meglio,
molto di meglio da occuparci.

— Com'è sconcertante!

— Se fossi in Perelà le riempirei tutti i polmoni di fumo per
asfissiarla.

— Odiosa!


— Ma dimmi una cosa, se veramente gli avessero tirato una fucilata....

— Già, era quello che pensavo ancora io, gli avrebbe fatto del danno?

— Ma forse no.... perchè essendo di fumo....

— Già.... essendo di fumo, la palla sarebbe uscita fuori....

— Ed avrebbe magari colpito qualche altro.

— Probabilmente.

— Per carità c'era accanto mio marito.

— Ma non pensarci mia cara, lo amano. Io ho udito i crocchi della gente
per le vie! Lo adorano! Diciamolo qui fra noi, vorrebbe il Re essere
amato così.

— Il bello è che oramai tutti ci credono.

— Tutti sapete!

— Già perchè molti prima dubitavano.

— A sentir dire che era di fumo....

— Ma ora che lo hanno veduto....

— Naturale.

— Tutti, tutti lo amano, non c'è che quella stupida di Nadina che gli
fa la guerra.

— Chi sa perchè.

— Ma lei lo fa perchè ci si occupi di lei, non lo sapete come è fatta
quella donna?

— Noi facciamo conto di nulla, vedrete come rimane male.

— La sciocchina!


— A momenti sarà qui.

— Lo portavano sino alle ultime case del borgo sapete?

— Anche i contadini hanno illuminato le loro finestre.

— Io non potrò mai dimenticare il frontone di porta Calleio, con tutti
quei lampioncini celesti, e in mezzo in lampioncini grigi scritto:
_Perelà_.

— Già perchè lui quando venne in città entrò per porta Calleio.

— Ah! Sì?

— Sì, non lo sapevi? Entrò per porta Calleio, per questo ci hanno
scritto il suo nome. Da oggi non è più porta Calleio, ma porta Perelà.


— Sapete che cosa dicono in anticamera?

— Che cosa?

— Dicono che questa sarà l'ultima volta che lo potremo avere così fra
noi.

— Perchè?

— Perchè?

— Perchè?

— Perchè deve ritirarsi per meditare il Codice.

— Oh! Dio mio, non ci mancava che il Codice!

— Ora che abbiamo trovato un uomo tanto carino ce lo toglieranno per
una delle loro solite stupidaggini.

— Ma è importante sapete, è importante, è il nuovo Codice!

— Glie lo hanno affidato definitivamente?

— Altro! Il Re e il ministro metteranno le firme sotto quella di
Perelà, essi non potranno replicare sopra uno solo degli articoli
ch'egli avrà dettato.

— E come farà per mettersi al corrente?

— Al corrente di che?

— Cosa vorrebbe dire?

— In certe cose mi sembra tanto ingenuo....

— Non è ingenuo sai, è che non ha ancora preso la pratica della nostra
vita.

— Ingenuo! La pratica! Non vuole sprecare il suo fiato per voi, ecco
che cos'è.

— Ed ora si ritira a meditare. Il Codice dovrà cominciarlo dentro
l'anno.


— Sai che cosa dobbiamo fare?

— Che?

— Dobbiamo incominciare da stasera a non perderlo un momento di vista.

— Per fare?

— Ma ti pare? Noi possiamo esercitare una grande influenza su di lui.
Se vogliamo andare al parlamento!

— E come?

— Se egli si innamorasse perdutamente di una di noi?

— Ma gli è che non può innamorarsi.

— Ma se s'innamorasse?

— Sì.

— Noi possiamo conciarlo in modo da fargli scrivere tutto quello che
vogliamo.

— È vero.

— Eppoi, non detta?

— Già, è vero.

— Lo facciamo dettare a noi, dica pure tutto quello che vuole, noi
scriviamo quello che vogliamo noi.

— È vero.

— Capisci?

— Naturalmente.

— Ma il guaio è che lui non può amare, non sente, non dorme, non
mangia, non fa nulla quel benedetto uomo.

— È indifferente a tutto.

— È di fumo....

— Ma come si fa ad essere così insensibile?


— Hanno detto che la Catulva darà una recita in onore di Perelà.

— _La signora Dalle Camelie._

— Ed Enos Copertino suonerà negli _entr'actes_.


— Ti piace la mia tolettina?

— Molto, molto carina. Quelle tre rose lì sono indovinatissime. E il
mio abitino è carino?

— _Un rêve._

— Molto semplice.

— Ma ti fa così carina.... quindici anni!

— La metà allora.

— Solamente?

— _Tu es méchante!_


— Hai veduto Giorgio?

— Com'è puntuale eh?

— Gli ho imposto di giungere qui dieci minuti prima di me.

— Perchè?

— Non ti sei accorta quando entra che io già sono nella sala?

— Non ci ho mai guardato.

— È uno scandalo.

— Ci guarderò.

— Se ne accorgono tutti.

— E con Federico poi come siete?

— Non me ne parlare! Mi hanno fatto impazzire sai, morire!

— Che mi dici!

— Giorgio voleva sfidarlo.

— Ebbene?

— Non ho voluto.

— Perchè?

— Ma ti pare! E se mi si ammazzano davvero? Ne ho bisogno ve', di tutte
e due.

— Hai ragione.

— Ma Giorgio è un fanciullo, un ragazzo da schiaffi ecco tutto!

— Che cattiva mammina!


_Pe.... perepe.... pepepe. Pe.... perepe.... perepe.... pepe!_

— Ah!

— Eccoli! Eccoli!

— Eccoli!

— Giungono!

— Arrivano!

— La vettura entra nel cortile!

— Dio! Dio!

— Evviva! Evviva!

— Evviva! Perelà!

— Perelà! Perelà!

— Evviva!

— Bello! Bello!

— Evviva il grande Perelà!

— L'unico Perelà!

— Dio! Dio!

— Evviva! Evviva!

— Bravo! Evviva!

— Che emozione!

— Evviva!


— Silenzio!

— Facciano silenzio!

— Come è commosso!

— Silenzio!

— Parla il Ministro!

— Dio mio!

— Silenzio!

«Gentili dame, illustri cavalieri qui adunati, io ho l'altissimo onore
di annunziarvi, che dietro proposta del Consiglio, con Reale conferma,
ed approvazione dell'eminentissimo nostro Cardinale Arcivescovo,
l'opera del nuovo Codice per il nostro amato paese viene affidata
totalmente a questa sapiente, a questa superiore, a questa eccezionale
sovrumana creatura che è Perelà.

Quale uomo di deboli carni e di fragili sensi potrebbe assumere tale
opera senza la tema di cadere in quelle inevitabili parzialità che
inconsciamente ci vengono dettate dal nostro sangue, dalle nostre
opinioni, dal nostro interesse, dal nostro partito? Quale uomo potrebbe
assumere questa immensa impresa sicuro di dimenticare di essere
anch'egli un uomo e di avere anch'egli da uomo gli stessi interessi di
tutti coloro per i quali il Codice viene dettato?

Egli non è un uomo, o meglio, è l'uomo su cui il fuoco passò,
purificatore supremo a interrompere, ad annientare l'egoistico lavoro
di tutti i sensi».

— Bravo!

— Bene!

«Non è egli la sublimazione del corpo e dello spirito umano? Non viene
egli quasi a darci la prova di altri destini, di un'altra vita, vita e
destini, nei quali gli umani egoismi, gli umani traffici non hanno più
la loro parola?

Non dobbiamo noi ringraziare la sorte di avercelo fatto capitare in
questo momento appunto quando dovevamo imparzialmente pesare la nostra
coscienza, per costituire un grado unico atto a pesare e giudicare la
coscienza di tutti?

E la sorte non ce lo inviò forse perchè noi le dovessimo questo grande,
nuovo, immenso, favore?

Noi ti ringraziamo, o benefica sorte, che al momento del dubbio volesti
giungere in nostro soccorso.

Noi ti ringraziamo, e ti giuriamo di saperci meritare il grande favore,
di renderci degni del tuo inviato!»

— Bravo!

— Evviva il ministro!

— Bene!

«Egli, essere vitale, che della vita conosce i più riposti segreti,
egli della vita non sente le comuni necessità, o ben poco le sente.
Egli, essere di solo pensiero, di solo spirito, non isdegna ma accetta
felicemente, di usare per noi tutto questo pensiero, tutto il nobile
lavoro di questo spirito».

— Bravo!

— Evviva Perelà!

— Evviva il ministro!

«Da lui non possiamo attendere che opera di purità e di equilibrio,
opera di sociale suprema giustizia».

— Bene!

— Bravo!

«Un'apposita commissione sarà nominata per accompagnare il signor
Perelà dove egli crederà opportuno. Egli potrà visitare i più riposti
cantoni della nostra terra, esplorare, ordinare, interrogare, poi si
ritirerà ad un periodo di profonda meditazione ed intraprenderà la sua
colossale opera».

— Evviva!

— Evviva Perelà!

— Evviva il ministro!

— Evviva il nuovo Codice!

— Evviva il Codice di Perelà!

— Viva! Viva!


— Come siete stato carino!

— Io ero nella seconda carrozza, non m'avete veduta? Guardate, alle
fanciulle sono avanzate alcune rose, e le hanno gettate a me. Eccole.
Non m'avete veduta?

— M'avete veduta vero alla finestra di mia cugina? Sì vero? Come
m'avete sorriso bene! Sapete che ho pianto, ho pianto dalla grande
commozione. Non ne potevo più.

— E così.... da domani avrete anche voi da occuparvi dei vostri affari.

— Hanno dato un'occupazione anche a lui questi signori uomini
occupatissimi.

— Hanno fatto per togliercelo.

— Era l'unico uomo sul quale si poteva contare..

— E loro.... niente! Porci!


— Ma quanta gente!

— Dio mio!

— Io incomincio a sudare.

— Fa un caldo....

— _Quelle chaleur!_

— Io non ho mai veduto la reggia in confusione come stasera.

— Sai cosa credo?

— Che cosa?

— Si devono essere introdotti anche molti non invitati, si vedono certe
facce....

— Naturalmente, di queste confusioni c'è sempre chi ne approfitta.

— Guardate! Guardate!

— Oliva!

— Oliva!

— La marchesa di Bellonda!

— Uh!

— In grigio!

— In grigio fumo!

— Ah! Ha avuto il lampo geniale.

— Per l'appunto lei che non risalta mai a nessuna festa.

— Come è carina stasera!

— Come ha fatto?

— Che bella idea!

— Io ho la _toilette_ grigia....

— Ma è fiammante la sua, come può aver fatto?

— Sapete? Le sarte sono state a casa sua tutta la notte e tutt'oggi per
compirla, il salone era ridotto un laboratorio. La _toilette_ è stata
ultimata dieci minuti or sono, vedete come è giunta in ritardo?

— Come le sta bene!

— A momenti può competere con Zoe.

— Stasera Zoe sta male con quell'abito rosso.

— Ma tu sai com'è fatta quella donna, purchè non si perda un grado
delle sue curve sciupa tutte le _toilettes_ del mondo.

— Ma Oliva! Oliva!

— Io ho un magnifico _boa_ grigio fumo appunto.

— Ma non si portano più.

— Non vuol dire, stasera era il caso di ritirarlo fuori.

— Io ho la _toilette_ grigia ma è tanto _fané_, l'ho portata tutta la
stagione l'anno passato.

— Sai cosa ho pensato? Mi fo fare un cappello come una ciminiera, e di
sopra ci fo uscire tanti sbuffi di penne grige, come se fosse fumo.

— Brava.

— Io ritiro fuori il mio _boa_.

— Per la serata della Catulva voglio avere il cappello assolutamente.

— Guarda guarda, va da Perelà.

— Come la saluta gentile lui!

— L'ha presa a braccio.

— La coppia di fumo!

— Carini!

— Ma davvero!

— Come stanno bene insieme!

— Lei colla sua facciona rosea sembra una rosa in in una nube.

— Ma è truccata sapete, è tutta tinta!

— Sì è vero?

— Oh! Sfido io, è sempre verde.

— Come sono carini!

— Ma guarda per l'appunto chi doveva avere l'idea geniale per stasera.


— Come sei deliziosa mia cara Oliva.

— Si?

— Ma davvero, hai anche altri occhi stasera.

— Un altro sorriso.... sembri un'altra donna.

— Ma che cosa hai fatto?

— Che idea squisita hai avuto.

— A nessuna era venuto in mente.

— Per l'appunto stasera in grigio non ci sei che te.

— Colore d'occasione.

— Non ho fatto per me sapete, oh! no, ma per rendere a lui questo
piccolo omaggio. Io non ho inventato nulla, ho copiato lui, lui....
il suo colore. E se qualcuna vorrà fare altrettanto sarà sicura di non
avere imitato me, ma lui, lui.... per rendergli omaggio.

— Hai fatto benone!

— Brava.

— Davvero.


— Avete sentito?

— Come parlava! Con che estasi!

— Ma è ammattita?

— Ammattita? È innamorata!

— Quel suo cuore.... ch'ella sempre cercava.

— È quello di Perelà.

— Un cuore di fumo?

— Sfido che non lo poteva trovare!

— Come stai?

— Così.

— Hai una faccia trasparente.

— È la morfina.

— Sciagurata!

— Lo so.

— Fanne a meno.

— Sei punture questa notte.

— È una follìa.

— Lo so.

— Pensa a Perelà.

— Perelà....


— Ciao amico.

— Vi saluto.

— Che cosa fate?

— Io? Nulla. E voi?

— Sto contando quante sedie ci sono. Alle feste io faccio sempre
questo mestiere, conto le sedie. Generalmente ce ne sono tante quanti
sono gl'invitati meno uno. Nessuno si siede, vedete? Tutti si credono
destinati al posto che manca, e quando tornano a casa dicono che sono
stanchi.

— Manca una sedia a questo ballo?

— Credo di sì.

— La mia, io non mi seggo.

— Ah! già, è vero avete ragione, non ci avevo pensato. Voi avete
perfezionato anche le feste da ballo.


— Delicata figura!

— Mesto sorriso della natura!

— _Mignonne créature._


— Ditemi sinceramente signor Perelà, siete voi davvero come tutti gli
altri uomini?

— Certamente illustrissima signora.

— Ah! Certe cose, di fumo.... come vi disprezzo!


— Dorme ritto e non si stanca.


— Hai veduto i baffi di Perelà come sono arricciati?

— Sembrano un capriccio di sigaretta.

— Geniale.

— Geniale.


— Che cosa sono mai queste nostre carni puzzolenti?


— Volevo fare un giro con lui, non balla.

— Ti pare? Pensa già al Codice. Quegli stupidi ce lo hanno rovinato!

— E incomincierà quanto prima a darsi delle arie anche lui.

— È inevitabile.


— Tre madri!

— E.... quanti padri?

— Che uomo insulso!


— Il culino degli uccelli.


— Sapete che cosa mi ha detto Perelà?

— Che?

— Che cosa?

— Mi ha detto: voi mi sembrate tanto, tanto leggera! Quasi più di me.

— Carino!

— Io non so che cos'abbia negli occhi quell'uomo, non riesco a
guardarlo fisso.

— Turba.

— È vero, è la parola, la vera parola, turba, turba.

— Turba.


— Ma è veramente un uomo sapete, un uomo come tutti gli altri.

— Un uomo? È l'uomo vorrai dire mia cara, l'uomo.

— Quale? Quello che cercava Diogene?

— Naturalmente.

— Ditemi un poco: quando si era veduto prima di stasera, alle
feste della corte intervenire con un paio di stivali da caccia o da
cavalcata?

— Sono tanto belli!

— Gli stanno d'incanto!

— Eppoi così lucidi.

— Oh! non ci mancherebbe proprio altro che non fossero nemmeno puliti.

— Per me lo prenderei colle scarpe ricoperte di fango.

— Non dubitate, di fango egli ne trascina ugualmente colle scarpe
pulite! Chi è? Di dove viene? Quale nome è il suo?

— Sì sì, come vuoi, tutto quello che vuoi purchè tu non ci secchi.

— Hai perfettamente ragione, sei padrona di pensare a modo tuo ma
lasciaci in pace.

— Antipatica!

— Io mi sento venire l'istinto di accecarla!


— Risolverà?

— Certamente si, risolverà.

— Già.

— Dopo Cristo, è Perelà.

— _Olì olì olà._

— Già già.


— Vedete tutti questi esseri dai colori delicati? Non vi sembrano tanti
piccoli angioli? Così ricoperti di fiori.... di veli.... di gemme....
Ebbene, sappiate, ognuna di quelle gemme ch'esse portano indosso,
ognuna, è l'occhio di un delitto! Io dico loro sempre: trappole d'uova
umane! Loro pigliano su e insaccano perchè hanno paura che gli dica di
peggio.

— Signor Perelà voi non dovete stare con quell'individuo,
assolutamente, non è l'amico che ci vuole per voi. Stasera è già la
seconda volta che vi ci vedo parlare. È un cattivo soggetto sapete!
Tutti se ne lagnano, tutti ne riconoscono la perversità, ma nessuno si
vuol decidere a cacciarlo dalla società. Lui dice che è un filosofo,
non gli date retta, è una linguaccia, è un cattivo soggetto! Dice di
noi cose infami che non sono vere, perchè è brutto e schifoso e nessuna
di noi lo ha mai degnato di uno sguardo. E noi dobbiamo sopportare
tutte le sue sconcezze per paura che ce ne dica delle peggiori.


— La legge c'è, gli è che nessuno la rispetta.

— Già.


— Risolverà?

— Olì olì olà.


— Ma dite un poco.

— Cosa c'è seccatura?

— Nessuno si è accorto che quell'uomo obbrobrioso è qui da quasi due
ore e non si è levato ancora il cappello?

— Nadina mia come sei stata profonda questa volta!

— Che cosa?

— Che vi ha detto?

— Dice che il signor Perelà non si è levato il cappello.

— Stupida!

— Ma non lo sai che non se lo può levare? Perchè è di fumo anche il
cappello?

— Ma lasciatela dire, è bene che dica delle stupidaggini, così se ne
accorgeranno tutti che donna è.


— Il Re!

— Il Re!

— Sua Maestà!

— Viva, viva!

— Evviva il Re!

— Evviva il nostro Re!

— Evviva Torlindao!


— La Regina!

— La Regina!

— Evviva! Evviva!

— Evviva la Regina!

— Viva! Viva!

— La Regina ha sorriso a Perelà.

— Come gli ha sorriso bene!

— Dolcemente.

— Attraverso un velo di mestizia.


Perelà non ha veduto il Re.


— Ma è vero signor Perelà che voi non avete veduto il Re?

— No, illustrissima signora.

— Era quello solo in seconda fila. Venivano prima i due gentiluomini di
corte, dopo lui, subito dietro mio marito....

— Quello che aveva la fusciacca gialla era vostro marito?

— No, era il Re, mio marito aveva la fusciacca verde. Sentite sentite,
Perelà ha creduto che il Re fosse mio marito!

— Non ha veduto il Re!

— Avete però veduto come la Regina vi ha sorriso.

— Chi non vi sorride!


— _Olì olì olà._

— Già.


— Amico, è vero che non avete veduto il Re?

— No mio caro.

— Non l'ho veduto nemmeno io. Come si fa a vederlo, passa fra tanta
gente, entra da una porta e prima che sia possibile esce dall'altra....
Da quale? Non si sa. Da quale porta entra il Re? Da quale esce?
Mistero. Oggi è questa, domani è quella là, dopo domani voi credete che
cambi ancora, niente affatto, esce ancora per la medesima.

— Ma può egli temere qui, nella sua casa?

— Nella sua casa! E la chiamate sua, una casa di questo genere? E la
chiamate una casa, questa? Mio caro! non si sa mai che una di queste
gentili dame non gli faccia annusare qualche mazzolino. Basterebbe che
s'intrattenesse pochi momenti al _buffet_. Al pranzo di corte il Re non
mangia mai, preferisce intrattenere il gentiluomo di destra o quello
di sinistra, e lo manda via colla fame in corpo, così lui ha mangiato
prima, l'altro, povero diavolo, va a mangiare dopo, e questo è il
pranzo di corte.


— Sono aperte le sale del _buffet_.

— Perelà! Perelà!

— Dov'è Perelà?

— Venite a prendere un rinfresco.

— Oliva! Oliva!

— Tu dai il braccio a Perelà.

— Come sono carini!

— La coppia di fumo!

— Evviva il fumo!

— E fumo sia!


— Qua, date a me la prima bottiglia!

— _Pha!_

— Qua, qua!

— _Pha!_

— Alla salute di Perelà!

— _Pha!_ _Pha!_

— Viva Perelà!

— _Pha!_

— Viva il ministro!

— _Pha!_

— Viva Torlindao!

— _Pha!_ _Pha!_

— Viva la Regina!

— _Pha!_ _Pha!_ _Pha!_

— Viva il nuovo Codice!

— _Pha!_

— Evviva il Codice di Perelà

— _Pha!_



VISITA A SUOR MARIANNINA FONTE SUOR COLOMBA MEZZERINO...


Una vettura attende nel cortile centrale della reggia.

Perelà seguito da tre gentiluomini si reca oggi al suo primo giro
d'ispezione.

_«Perelà, Signore._

_Ispettore generale dello stato, riformatore: degli uomini, delle
cose, e delle istituzioni. Con pieni poteri esecutivi, materiali e
spirituali... et ultra»._

Così parla la tessera che gli è stata consegnata e che porta la firma
di Re Torlindao e del ministro, e della quale se ne vede uscire un
pezzettino dalla cima dello stivale della gamba sinistra come il petalo
di una rosa.

Mentre egli sta per prendere posto nella carrozza gli si avvicina
Alloro, il vecchio domestico, e gli consegna, senza esser veduto, una
lettera.

Perelà e i gentiluomini partono, Alloro rimane fermo, incantato dietro
la vettura, col suo sorriso luminoso di ammirazione e di devozione.
Egli ripete sempre fra sè queste parole: «_Come ha egli fatto? Come ha
potuto fare? Di fumo!_».

«Vi ricordate di me signor Perelà? Io sono la marchesa Oliva di
Bellonda. Vi ricordate pochi giorni or sono quando vi ho parlato della
mia povera anima insieme colle mie amiche? Esse mi interruppero allora
e protestarono alle giuste parole di sconforto.

Non faccio a loro nessuna colpa badate, non per cattiveria respinsero
la mia desolazione, ma perchè esse vivono illuse di amare, o di avere
amato. Io sono quella.... che non amò, vi ricordate?

Ho cercato allora per voi di adornare le mie parole, e, come le mie
buone amiche forse vi ho parlato con troppa ricercatezza. Io vi ho
detto: ognuno di noi nascendo porta in sè il cuore di un'altra persona,
una fanciulla ha il cuore di un giovane, un giovane ha quello di una
fanciulla.... ricordate? Questo forse è anche vero. Pensate allora,
pensate all'orribile difficoltà di incontrarla nella nostra fuggevole
vita quella persona. Questo è vero, questo cuore oramai inutile noi
lo portiamo tutti addosso, questo pezzo di roba molle che diviene nel
nostro seno giorno per giorno una spugna carica di lacrime, è forse la
tragedia che inconsapevolmente trasciniamo, questo potrà anche essere
vero, ma oggi io non vi parlo più a quel modo, oggi io vi parlo in
un'altra maniera, e con tutta la mia semplicità vi dico: io non amai
perchè fino ad ora non avevo trovato l'uomo da potere amare, eppoi oggi
non vi saprei più parlare a quel modo, due giorni fa io era infelice
ora non lo sono più: vi amo.

Mi hanno detto che voi non mangiate, che voi non bevete, che voi non
dormite, che voi non fate nulla, che nulla è lecito sperare da voi,
ebbene.... io sono come voi, da venerdì, quando vi ho veduto, non ho
fatto più nulla nemmeno io, non ho fatto che pensare a voi.

Voi avete trentatrè anni non è vero? Come me, anch'io ho trentatrè
anni. Trentatrè anni or sono foste messo lassù, nel vostro camino,
appunto quando io nasceva. Se aveste continuato a vivere allora,
avreste ora sessantasei anni non è vero? il doppio di me. Sareste....
un vecchio.... un uomo vicino a morire.... forse.... forse sareste....
oh! no, Dio mio, no.... già morto, invece no, no, no! voi siete ancora
giovane, e un bel giovane, giovane come me; e come me rinnovato alla
vita, nuovo all'amore!

Una sola cosa io vi domando in cambio di tutto il mio amore, una parola
soltanto, ditemi che la mia non è una follìa, ma voi andaste lassù ad
aspettarmi! A metà del cammino vi siete fermato per aspettarmi, per
darmi tempo affinchè vi potessi raggiungere; io ero tanto lontana da
voi, e correvo.... ansavo.... Dio.... morivo, senza speranza di poter
giungere a portarvi tutto quello che di vostro avevo, ma.... voi siete
stato tanto buono con me.... mi avete aspettata.... ed io eccomi....
ora.... vi ho raggiunto!

L'espressione purissima del vostro viso mi è dinanzi: io sono di
fumo essa mi dice, ah! e credete che questa sia la barriera che
fermerà il passo alla marchesa Oliva Di Bellonda? Credete che io vi
ripeterò alcuna di quelle osservazioni che le mie amiche vi fecero
sopra la vostra natura? Ma che cosa me ne importa a me? Voi siete di
fumo? Benissimo, anch'io sono di fumo, vi amo, e chi ama nulla ha da
dimandare, chi ama deve sempre e solamente dare, dare! Dimandare vuol
dire: amarsi, non vuol dire: amare!

Ora il mio amore è fiorito! se la pioggia dei suoi petali caldi
può riuscirvi gradita sopra la bella fronte, e giù giù per tutta
la delicata persona, se proprio non vi dispiaceranno i miei petali
amorosi.... se non li ricuserete.... ebbene sappiate che il mio cuore
è un mondo per voi, tutto di giardini!

Non mi dovete rispondere, non mi dovrete dire mai se mi avrete amata,
questo non è quello che io voglio, perchè io vi amerei se mi odiaste,
vi amerei se vi fossi indifferente, vi amerei se mi amaste! Vi ho
scritto per una sola ragione: quella donna che vi fece udire i suoi
lamenti, che vi mostrò la sua faccia addolorata, che vi disse che
era infelice, oggi non parla più a quel modo, non si lamenta più, ha
un'altra faccia, la sua bocca ha trovato il suo sorriso, il suo cuore
la gioia, quella donna è felice, ed è giusto che voi ne sappiate la
ragione».


— Ecco suor Mariannina Fonte penitente.

— Quante volte peccaste suora Fonte?

— Un dì tre volte, signor Perelà.

— Ed ora voi dimandate sempre perdono del vostro peccato?

— Ogni dì tre volte.

— Ed ecco suor Colomba Mezzerino.

— Penitente?

— Peccatrice ella non è, signor Perelà, suor Colomba portò qui il fiore
della sua purezza e lo conserva, ella prega per i peccatori.

— Vi sono dunque due specie di persone, quelle che dimandano perdono
dei propri peccati e quelle che implorano per i peccati altrui?

— Ed un'altra specie signor Perelà, quelle persone che peccano
solamente. Per quelle suor Colomba eletta prega. Andate andate suor
Colomba ad implorare per quelle persone.

Io vi conduco per il monastero signor Perelà, passate, passate.



ALA


— Gli uomini muoiono nel peggior momento della loro vita, o è la morte
il peggior momento della loro vita?

— La morte è quel momento nel quale gli uomini anelano alla vita
di più. Essa non è che la porta della vita, ma alla soglia di essa
rimangono abbruciati dal suo calore.

— Se uno di questi potesse ridestarsi potrebbe allora dirvi che sia
la vita, il suo mistero. E forse domanderebbe a voi che sia la morte.
Forse.

— Io udii talvolta parlare di uomini ritornati in vita dopo essere
morti.

— I colpiti dal sonno della sincope. Essi non seppero però che fosse
quel supremo momento, furono arrestati a un passo da quella soglia e
non ne sentirono che una prima vampata che li lasciò solamente privi di
sensi. Quando essi morirono veramente allora poterono sentirne tutta la
forza. Vi era un tempo una piccola mondana la quale nel momento supremo
dell'amore soccombeva come affogando. Dalla sua gola si partivano degli
ingorghi violenti in un _glu glu glu glu_ precisamente come di una gola
che si riempe immergendosi nell'acqua. Rimaneva al fondo appoggiata,
la piccina, per ben quindici minuti senza più dar segno di vita. Dipoi
ella ritornava sempre a galla fresca e gaia come prima. Tutti volevano
provarla, e la chiamavano la cocotte palombara.

Ed ecco Ala, la portinaia del cimitero.

Affondata in una poltrona la vecchia custode non perde mai d'occhio la
soglia. La sua faccia avvolta in una pezzuola oscura sembra una noce
molto secca dentro il suo mezzo guscio.

— Questa donna, vedete, nessuno sa quando sia nata, essa stessa è
immemore del tempo. Si crede ch'ella abbia più di trecento anni.

— E come ha potuto resistere così?

— Voi sapete, signor Perelà, che la morte si serve di una falce per
raccogliere le erbe dalla terra e trasportarle nel suo fienile qua
dentro, ebbene, quando ella vi giunge carica della sua fascina non un
istante riposa, ma colla massima fretta posa, e fugge ancora al lavoro.
È tale la sua fretta nell'uscire di qui, che giunta alla soglia fa come
un piccolo salto celerissimo e la sua lama non tocca mai la terra per
raccogliere questo filo.



IL PRATO DELL'AMORE


— Signor Perelà, ecco il prato dell'amore.

— Si amano tutti costoro?

— Uno ama ed uno si lascia amare, di tutte quelle picce di cuori,
quello che ama è certo di essere amato, quello che si lascia amare è
certo di amare. È il dolce inganno questo.

— E se tutti e due si amassero?

— Il loro amore non esisterebbe, esisterebbe solo l'amore di ognuno,
essi camminerebbero come due linee parallele e non s'incontrerebbero
mai.

— E se nessuno dei due si amasse?

— Non verrebbero qui.

— E il loro amore dove li conduce?

— In nessun luogo, forse in una camera mobiliata.

Si estende là in mezzo alla valle il gran prato rotondo, è circondato
da un viale e lo fiancheggiano due magnifici filari di ippocastani
accoppiati. Là in mezzo, là sotto, vanno, vengono, s'incontrano,
s'incrociano senza guardarsi fra loro, a centinaia le coppie di amanti,
vanno, vengono, sostano, stretti l'uno all'altro, annodati, colle teste
vicine, sussurrano, sorridono, si sfiorano, si stringono, si guardano,
si bevono.... si asciugano.

Nessuno pone attenzione a quello che gli succede attorno, ed ogni due
occhi non ne sanno vedere che altri due.

Fanciulle che torcono fra le mani rami di rose, fanciulle appena in
boccio, esse sorridono mentre l'amante parla, e tacciono, ascoltano
rapite, e quando si sentono troppo penetrate dagli occhi di lui
abbassano i loro, e torturano quel ramo di rose, lo ritorcono. Donne
mature, quasi vecchie, passeggiano con un giovane, quasi un fanciullo,
esse incalzano le loro parole e spingono i loro occhi a punta di angolo
acutissimo verso quel cuore, come un pugnale arabo. Allora è lui che
abbassa il guardo, e continua il cammino con un sorriso pensieroso.

— Ma ditemi, che cosa si dicono tutti costoro?

— Parlano il linguaggio dell'amore. Voi potete supporre che i più
brillanti e svariati argomenti siano trattati da quella brava gente.
Ebbene, nessun argomento; uno solo, e il loro repertorio può giungere
fino a venti o venticinque frasi uguali per tutti, taluno ne ha appena
disponibili quattro o cinque, e compone la propria eloquenza di un
silenzio rotto qua e là dai più ebeti monosillabi.

— L'amore non abbisogna di parole, esso vive come le grandi opere
della natura, quelle cose che gli uomini chiamano mute perchè il loro
linguaggio non lo capiscono.

— Forse.

Dal centro del prato in fondo si allunga un viale morbido erboso
fiancheggiato di pioppi, i quali col sole riflettono sull'erba del
viale, e sembra di cavalcare sulla schiena di una zebra, e le coppie
vanno e vengono e s'incrociano sulle ombre dei lunghi pioppi, e sembra
allora di cavalcare la schiena di una tigre. E si passa, si va, si
viene senza essere osservati nel brulichìo di queste coppie....

— Pensano costoro?

— Neanche, la vita dell'uno si riversa in quella dell'altro per modo
che nessuno vive più la propria vita ma quella dell'amore.

Quando si è giunti al limite del viale e lo si vede lungo steso
dinanzi, s'apre in fondo, quasi vi fosse appeso, il grande prato
rotondo.

E le coppie lentamente si muovono in un dolce ondeggiamento di culla,
sembra ora che i pioppi si sieno avvicinati fra loro e si bacino, e
anche gl'ippocastani nel fondo camminano due a due torno torno al viale
abbracciati, lentamente come in un dolce sopore di vertigine tutto
si muove ad un tratto, soave ondeggiamento di culla, in oscillazioni
uguali, la lunga asta del viale e il disco del prato là in fondo....
il pendolo! L'immenso pendolo alto sul mondo che segna agli uomini
gl'istanti....

— Signor Perelà l'ora è avanzata.

— E tutti costoro rimangono?

— Dopo il calare del sole voi vedreste le coppie sfilare, una ad una
via dal prato, dirigersi alla città e via squagliarsi. Se ritornaste a
buio appena fatto, e così a caso v'inoltraste nel prato, potreste udire
qua e là dei gemiti lunghi, mal repressi....

— Qualcuno era rimasto?

— Sì.

Nell'oscurità della notte il pendolo va, va, va, va, nelle sue
oscillazioni regolari, senza interruzione.



IBA


— Iba, signor Perelà.

La cella è rischiarata da pochi raggi di luce che vengono su da una
grata a terra, una di quelle buche dove alloggiano i piccioni nelle
cattedrali. La porta, ermeticamente chiusa, ha un occhio di vetro dal
quale si può osservare il prigioniero.

Ma bisogna rimanere a lungo fissi, immersi nell'oscurità del tugurio
prima di potervi distinguere. Poco a poco si avanzavano, come da una
nube che si dilegua, i contorni di un involucro che solamente con molto
stento si può riconoscere per un involucro umano.

Ecco apparire un enorme naso bitorzoluto come tre grosse sorbe paonazze
in un ruffello di lana. La faccia è tutta ricoperta da un vello oscuro,
e cadono giù sulla fronte a nasconderla, grandi ciocche di capelli
ispidi, si vedono in ultimo due punti neri lucenti immobili; gli
occhi, che non si ricuoprono mai di palpebra ma che si restringono e si
dilatano nel loro cerchio come sotto la potenza del calore.

Moriva dieci anni or sono, non fu bene precisato se di colica naturale
o procurata, moriva dunque re Gallo. Saprete che non si approfondiscono
mai le indagini sopra la morte di un Re, il Re nuovo interrompe ogni
ricerca, e se il colpevole fosse pure indiziato, quell'uomo può stare
sicuro sopra ogni altro cittadino di essere il favorito nella grazia
sovrana.

Allo stato non rimaneva che dichiarare la bancarotta. Era la rovina
e la vergogna. La dinastia ne usciva malconcia. Fu deciso allora per
risolvere la tragica situazione, un estremo espediente: il cittadino
più ricco che intendesse rovesciare fino all'ultima stilla le proprie
sostanze nelle sacche vuote dello stato sarebbe stato il Re, chiunque
si fosse.

Era la mattina del contratto di Stato.

I gentiluomini più ricchi del regno, i banchieri più cospicui erano
nella sala del trono coll'inventario delle proprie ricchezze.

Ognuno salendo lo scalone della reggia colle tasche rigonfie di oro ne
scorgeva già in lontano la fusione, e si vedeva già ridiscenderla con
una corona sulla fronte.

La reggia presentava quel giorno un aspetto imponentissimo e insolito,
tutte le guardie d'onore, le scorte in alta uniforme, i domestici
nelle livree più smaglianti, facevano siepe all'ingresso e su per lo
scalone e ai lati della sala del trono. Quel giorno il silenzio vi
regnava pronto per l'unico rumore tintinnante dell'oro, perchè un pezzo
soltanto non sfuggisse al conteggio.

Chiunque poteva essere il Re, signor Perelà, chiunque volesse donare
allo Stato sofferente, il suo oro, per risanarne le piaghe.

Ecco avvicinarsi alla soglia della reggia, Iba, l'uomo che voi vedete
laggiù nell'angolo oscuro. Iba, l'alcoolizzato, notissimo in città,
il più famoso ubriacone, l'uomo a cui l'alcool aveva poco a poco
ingrossata la lingua fino a impedirgli di parlare, il lazzo dei monelli
nella strada e di tutti gli ubriaconi nelle più immonde bettole, l'uomo
che la mattina i vigili raccoglievano per le vie come uno sconcio
ammasso di lordure....

Sul momento si vuole impedirgli il passaggio ma l'uomo ha nelle
braccia, uno per parte, due grossi sacchi, e quel giorno ogni cittadino
godeva uguale diritto di entrata, tutti erano un po' il Re, come tutti
i giuocatori sono un po' il vincitore della lotteria prima che i numeri
vengano estratti.

Iba si avanza barcollante, ma il peso dei sacchi serve quasi a tenerlo
in equilibrio sulle gambe, e si regge meglio del solito, ma, come al
solito, la sua capigliatura è sconciamente arruffata, lanosa, intrisa
di polvere, di fango, di paglia, di tutto ciò ch'egli raccatta nei
suoi notturni giacigli, che sono per lo più la via o i fossati. La
barba bestiale gli ricuopre la faccia, il naso enorme e fungoso,
violaceo, sembra debba spruzzare il sangue di cui è rigonfio, il suo
riso sganasciato mostra due soli denti ai lati, e le sue vesti cadono
a brandelli di fango e di lordura.... sale, sale su per lo scalone
della reggia tra le file dei gallonati, il luccichìo delle decorazioni
delle sciabole, i colori fiammanti delle uniformi delle livree, sale,
sale fermandosi bene sopra ogni scalino con tutti e due i piedi per
stabilirvisi prima di tentare l'ascensione allo scalino superiore.

Quando giunge alla sala del trono, i gentiluomini si fanno tutti
indietro d'un colpo in un oh!... oh!... oh!... prolungato, interrotto
in tutti i toni, un oh!... di disgusto e di meraviglia, e non perchè
quell'uomo sia lì, ma perchè lo abbiano lasciato entrare.

Al salone del trono si forma una cornice nera di inappuntabili
_redingotes_, tutti si sono scansati e si fanno indietro incorniciando
di stupore il quadro, sembra un _presentat'arm_ a Iba che nel mezzo
barcolla, ride.... guarda senza distinguere....

Quando egli è al centro della sala e lascia cader giù, pesantemente i
due sacchi, nessuno rifiata più, torno torno è una fila di occhi che
s'ingrossano.... l'uomo si lascia andare in terra disteso e con mosse
infantili slega uno dei due sacchi e rovescia sul pavimento.

Vengono gli astanti su di lui come attratti dall'esorbitare dei loro
occhi, e senza più pensare al ribrezzo di quella lercia persona si
stringono attorno all'alcoolizzato. I sacchi sono pieni di oro, di
carta moneta, di gemme, denaro, denaro, denaro... pacchi di biglietti
di banca, già tutti ben disposti e contati, sacchetti colmi di monete
d'oro, di ben scelte fulgidissime gemme, un tesoro!

Quello che Iba veniva a gettare ai piedi del trono per potervi salire,
superava di molto quello di tutti i gentiluomini e di tutti i banchieri
del regno.

E l'uomo, carponi in terra, cacciava le mani nel suo tesoro come un
fanciullo giuoca colla sabbia sulla spiaggia del mare; e via via che
gli veniva tolto per essere contato e inventariato, alzava la testa
orrenda, guardava e rideva, rideva il mostro.

Nessuno seppe in quel momento trovare una parola.

Rideva, rideva il lupo di mare, disteso in mezzo alla sala del trono,
mostrando dal suo riso sganasciato i due soli denti bestiali ricoperti
di un orribile strato verde.

Dove aveva trovato il denaro? Il più vile degli straccioni, il più
vilipeso di tutti gli uomini, che aveva rubato spesso qualche soldo
per alimentare la sua arsione feroce di alcool, era lì con tutto quel
denaro.... era venuto a farne donazione allo stato.... diveniva.... il
Re! Era enorme!

Dove lo aveva trovato? Rubato? Aveva forse scoperto il tesoro?

Fu subito minutamente cercato in città, ma nulla, non fu possibile sul
momento rinvenire una traccia. Nessuno era stato derubato, nessuno era
stato assassinato.... dunque? E non era possibile rimandarlo, la legge
era chiara: _chiunque si fosse_ non si poteva, non c'era via di scampo,
quell'uomo diventava il Re. Bisognava incoronarlo.

Come di legge, ventiquattro ore dopo Iba fu incoronato Re.

La reggia si vuotò di tutti i gentiluomini, di quasi tutti i militi e
domestici, rimasero alcuni vigili. La berlina dell'incoronazione era
pronta nel cortile, e Iba vi saliva per presentarsi al popolo, al suo
popolo, percorrendo le vie principali della città. A mezzogiorno in
punto, fra lo scalpitare dei cavalli esce dalla reggia il nuovo Re.
Ha nella destra alzata un bicchiere, e ride, il lupo di mare, ride,
il suo sorriso estatico che sembra tenuto aperto dai due canini verdi
come da due puntelli, e i suoi occhi sfolgorano, e la faccia vellosa
immonda non è stata toccata per la circostanza, ha le vesti stracciate
ricoperte di fango e d'immondizie, non ha indossato il manto regale, ha
cinto la gemmata corona e vi è salito col suo bicchiere.

La berlina dell'incoronazione, culla preziosissima di argento con fregi
d'oro, è foderata di porpora, vi sono attaccati otto cavalli bardati in
oro e con zoccoli d'oro, e la guidano quattro postiglioni in livrea di
altissima solennità.

Appena fuori, non urla, non fischi, le vie sono deserte, non un solo
cittadino saluta il nuovo Re, da una ignota finestra parte intanto una
fucilata ma a vuoto, e durante il percorso glie ne furono tirate almeno
una ventina senza che nessuna lo potesse cogliere, una palla gli staccò
nettamente uno di quei ricci lanosi fischiandogli sopra la testa, e
lui impassibile, incolume, alto il braccio col bicchiere, alta la testa
bestiale, e avanti ridendo.

Ecco che una finestra cautamente si apre e ne viene giù un grosso
involucro che va ad infrangersi proprio sulla testa del Re: merda!

Allora, da tutte le finestre di tutte le case di tutta la città piovve
su lui nelle più svariate maniere la stessa cosa! I postiglioni
saltarono via, abbandonarono i cavalli per sottrarsi al getto, i
cavalli incominciarono ad andare piano, colla testa bassa, come ad
un convoglio funebre, come se lo sfregio li avesse irreparabilmente
avviliti, e il convoglio continuò lentamente per le vie deserte, senza
nessuna guida, sotto l'oscura bufera.

Solamente il Re, impassibile sorrideva, ma il suo sorriso non si vedeva
più, la bocca ne era piena, oramai, gli occhi.... tutto ne grondava,
e il bicchiere ancora alto ne traboccava continuamente, e i cavalli,
la berlina, tutto ne era ricolmo. Signor Perelà, non solo uomini, nè
fu affidata una tale impresa ad apposite persone di servizio, ma i
migliori gentiluomini della capitale lasciarono andare di propria mano
il loro fardello, e si videro piccole mani bianche, delicate, sporgersi
dalle finestre e gettare in fretta un loro fagottino ben confezionato
di detta cosa.

Dai tetti se ne rovesciavano recipienti enormi, non una persona rimase
sulla via dell'intera città, il percorso dell'incoronazione del nuovo
Re fu in breve un fiume così torbo, così torbo... come nessun fiume fu
mai.

Quando il convoglio reale rientrò così trionfalmente nella reggia, fino
all'ultimo domestico, tutti erano fuggiti esterrefatti.

Iba sale al trono e va a sedercisi sopra, le tracce ne furono gli unici
testimoni.

Le tappezzerie della sala del trono, la porpora della berlina reale
che aveva servito a più di cento incoronazioni di re, fu dovuto tutto
bruciare, la reggia inondata di acqua, e tutta la città allagata per
alcuni giorni onde pulirla dall'incoronazione di questo Re. Nessuno osò
aprire le proprie finestre per una settimana per l'esalazione orrenda.

Iba fu solo nella reggia.

Tutti intanto studiavano la maniera di risolvere la situazione e la
maniera fu presto trovata. In una capanna dove Iba, nelle rarissime
sere che ritrovava la via, andava a distendersi, in quell'oscuro e
immondo cantuccio furono rinvenuti due sacchi di denaro e di gemme
uguali a quelli ch'egli aveva portato il giorno del contratto. Il
delitto non aveva bisogno nemmeno di processo «_fino all'ultima
stilla_» diceva la legge, egli aveva sottratto metà del suo denaro, la
condanna era a vita.

Iba detronizzato, fu brevissimamente interrogato e rinchiuso: regnò
quattro giorni. Il suo favoloso patrimonio rimase proprietà del paese,
e con esso fu salvo e si potè dar nuovo corso nella dinastia.

Come potè avere somme così enormi? Nel borgo dove agli abitava era
morto in quei giorni uno di quei piccoli banchieri oscuri che fanno i
loro affari nelle provincie, un vecchio ebreo d'oriente, ritenuto pieno
di denaro che non fu trovato, dopo la sua morte, in possesso di un
soldo solo.

Avrebbe egli consegnato a Iba il denaro? O Iba capitando nella casa
del misterioso uomo dopo la sua morte se ne sarebbe impossessato? Forse
il vecchio strozzino anelava a divenir lui il Re, e vistosi alla fine
volle vendicarsi della sua sorte mettendo la fortuna in quelle mani? O
volle così rendere al bene di tutti il denaro che a tutti aveva poco a
poco tanto disonestamente carpito?

Iba non disse mai una sola parola.

Ecco, signor Perelà, l'uomo che fu Re quattro giorni e che salvò la
patria dalla rovina. Vedete, egli ha ai piedi un orciuolo colmo di
vino. Lo Stato glie ne passa quanto ne può assorbire. E può giungere
a cento litri nello spazio di ventiquattro ore. La cella è murata, il
vino nell'orciuolo ci va per un condotto. Venite, guardate, questa è
la botte che glie lo fornisce, questo vigile in alta uniforme ne è il
custode. Il miglior vino delle nostre vigne è per lui, per questo Re
prigioniero, è la grazia che il paese gli accorda. Forse egli è felice,
affonda la sua pancia oscena nell'immondezza colla quale un giorno
venne fatto Re.



VILLA ROSA


Un re.... assoluto, non si sa bene di dove. La Regina di Saba si veste
per recarsi da Salomone, Messalina guarda con disprezzo il gladiatore
addormentato, Nerone canticchia senza entusiasmo perchè Roma è già
bruciata da un pezzo. Napoleone si accorge troppo tardi che il mondo
è troppo grande, osservate com'ei si gratta la testa. Maria Stuarda
piange la sua testa caduta e Elisabetta d'Inghilterra s'infuria
vedendogliene un'altra. Luigi XIV, Federico Barbarossa, Cristoforo
Colombo pone la barchetta nel bicchiere. Vedete quello che trafora quel
pezzo di legno? È la testa dello Zar. Questo è un anarchico, costui
spiega sempre di un certo suo congegno politico ma non si arriva mai a
capirne una parola.


— I religiosi, signor Perelà. Tre cardinali in conclave, qua ci
dovrebbe essere la messa cantata. Ehi! Ehi! Ehi! Fate silenzio!

— E tacciono sempre?

— Purchè la voce sia molto robusta. Costei parla con Santa Caterina
da Siena. Prendete prendete pure signor Perelà, se volete avere la
bontà d'inginocchiarvi.... le ostie gli vengono fornite nuove tutte
le mattine ed egli le conserva nel suo ciborio con tanta cura come
in pochi altri, credo, vengano conservate. È il più buono, il più
squisitamente gentile di tutti i ricoverati. Solamente passando dinanzi
a lui non bisogna dimenticare l'atto cristiano. Osservate con quale
espressione di dolcezza e di serenità egli vi guarda. Tutto il suo
volto è composto al sorriso più candido. Se taluno passando in fretta
non si ferma a prendere l'ostia ch'egli porge, il suo viso si fa
doloroso, gli occhi affacciano due lagrime del più profondo dolore. Non
rivolge mai la parola ad alcuno, e, interrogato, non risponde, la pace
è in lui colla follìa, pare felice. La Veronica, essa rasciuga tutti
i volti ma non vi accostate perchè il suo fazzoletto è bagnato. Di
solito lo mantiene teso per dodici ore consecutive nella più assoluta
immobilità. San Francesco d'Assisi fa la predica alla tartaruga, è
la sola bestia che gli è rimasta fedele. San Pietro, le chiavi non le
ha più perchè una volta ruppe la testa a un inserviente e gli furono
tolte. La Maddalena, il Battista, badate badate, quel pentolo è pieno
d'acqua, l'esperimento non è molto piacevole, se può arrivare non
risparmia. Noi gli mettiamo sotto qualche volta la Maddalena, quando si
lamenta troppo.

Dio. Quei veli bianchi e neri ch'egli avvolge incessantemente attorno
alla sua persona sono le nubi, attraverso a quel giuoco di danza egli
guarda, appare, scompare. Quest'uomo si era figurato la divinità
un'immensa pergola sopra la testa degli uomini. Da essa, dai suoi
grappoli d'oro, scendeva su loro il liquore della divina clemenza.
Un giorno egli intese dalla viva voce del suo vescovo dire che Dio
era tremendo nella sua giustizia, e la sua mente ne uscì sconvolta,
non vide più la beata pergola sopra di sè, ma si vide dinanzi un uomo
come gli altri, con le sue ire e le sue passioni. Guardate quali lampi
satanici sprigionano i suoi occhi e a quali orribili atteggiamenti
ritorce i muscoli del suo viso.

E ora passiamo a manìe varie, tutti più o meno furiosi. In questo
stabilimento, signor Perelà, è in vigore il sistema di coricare e
legare non in piena crisi, ma appena la crisi si accenna. Il malato
allacciato in pieno del suo furore sciupa una quantità enorme di
energie, ciò si usa generalmente negli stabilimenti o nei reparti dove
non si paga, qui, siccome tutti pagano la loro pensione, nulla si fa
per abbreviare di un sol giorno la loro esistenza.

Questo, vedete, assicura di non essere un uomo e crede che tutti sieno
in errore su tale fatto, l'uomo secondo lui sarebbe un'altra cosa, non
ha mai saputo dire però che cosa sia. Egli ha, per tutti quelli che gli
vengono dinanzi, una smorfia di disprezzo: «ah tu credi di essere un
uomo!» egli vuol dire, «no! no! no!». In certe mutazioni di tempo o di
stagione egli grida furiosamente il suono «no!» a tutti.

Il nemico. Fate osservazione agli occhi dilatati di questo giovinotto.
Egli ha in sè il nemico e fissa tutti nella più terribile angoscia di
trovarsi da un momento all'altro di fronte ad esso. I suoi occhi non
si serrano più, egli non può riposare, solo veglia e guarda. Fuori era
ridotto a camminare girando continuamente su se stesso per assicurarsi
che il nemico non gli giungesse alle spalle.

— Esiste forse quell'uomo, o egli lo imagina?

— Può esistere, anzi esisterà certamente, il caso è abbastanza
comune, ed è al tempo stesso uno degli stati d'animo più spasmodici.
Una signora aveva questa orribile manìa, la faccia odiata esisteva
realmente, quella persona per una strana combinazione aveva potuto a
caso impossessarsi di un terribile segreto della sua vita, la signora
visse nella tema di incontrarla per ben vent'anni, lo stato di tensione
tutti i giorni saliva in lei di un grado, ella non poteva più pensare
che a questa cosa: «eccola, quella faccia io la vedrò ora dinanzi a
me!» Pur non conoscendo quella persona la sua faccia le si era scolpita
tanto di dentro da prendere il posto del suo cervello, della sua
coscienza, di tutto l'essere suo. Sapete dove ella finalmente incontrò
quel viso dopo venti anni? Nel cimitero, in un piccolo ritratto di
porcellana incastrato in una di quelle colonnette che si pongono ai
defunti per ricordo. La persona temuta, da tanto tempo era morta. La
signora ne perdette la ragione e poco dopo morì. La tensione del suo
spirito l'aveva tanto inalzata e alimentata ch'ella si sentì d'un
tratto lasciare come un corpo nel vuoto, e cadde giù sfasciandosi di
scoppio.

Manìa suicida, questo è il solo ricoverato guardato notte e giorno, non
si può abbandonarlo un istante, è il più furioso di tutti e al tempo
stesso può parlarvi con tale ragionevolezza da lasciarvi convinto che
non sia pazzo; ha una sua curiosa filosofia che sempre finisce nel
suicidio, ha tentato suicidarsi colle sue stesse mani aprendosi il
ventre, rovesciando la testa furiosamente sul pavimento, qualche volta
si è posto a non volere più respirare per soffocarsi, ci sono voluti
quattro uomini per aprirgli la bocca. Non è possibile lasciarlo per
due secondi, notte e giorno è guardato, e a passeggio, mentre egli si
reca conversando come la più equilibrata e tranquilla persona di questo
mondo, viene condotto per mano da due robusti inservienti.

— Lasciato solo egli si ucciderebbe subito?

— Istantaneamente. Impazzì perchè fu riacchiappato per le gambe mentre
si era gettato da una finestra.

— Vi saluto, mio caro signore, io leggeva appunto di voi stamane sopra
questo giornale, siete l'uomo di fumo non è vero? Mi sono molto in
questi giorni interessato di voi, ma perdonatemi, non posso approvarvi
che per metà. Voi avete un merito infinito senza dubbio, ma giacchè
foste capace di una cosa così grande, dovevate rimanere sul fuoco in
maniera da bruciare davvero. Voi siete nelle mie stesse condizioni,
quel vile di mio padre mi prese per i piedi quando mi ero già lasciato
andare nel vuoto, voi vi siete saputo fermare quando non eravate più
che a un metro da terra. Voi amate Dio?

— L'uomo che abbiamo visto poco fa?

— Ma no, quello è un povero scemo, Dio, non sapete che cos'è Dio? Dio è
nulla. È la perfezione inventata dagli uomini, essi hanno voluto dare
una parola al nulla, e l'hanno per conseguenza fatto diventare una
cosa. Come voi, voi siete ancora uomo, voi siete qualche cosa, fumo
non è nulla, è fumo, come Dio che non è nulla non può essere nulla se
è Dio. Voi potreste essere benissimo un Dio per gli uomini. Essi hanno
bisogno di un nulla che non sia proprio nulla, e che si possa dipingere
sopra la tela e scolpire nella pietra. Gli uomini pregano Dio, sapete
perchè? Perchè esso li tenga il più possibile lontani da lui, se il
diavolo fosse sopra la terra il diavolo sarebbe il loro Dio. Essi non
muoiono mai, e considerano la morte come un caso eccezionale. Quando
hanno un morto a mano non la finiscono più, fanno vomitare i sassi, li
avete veduti? lo girano, lo rigirano, lo portano a spasso a piedi e in
carrozza, lo posano, lo ripigliano su, lo posano ancora, è una bellezza
credetemi, ne aspirano le fetide esalazioni con tutta la voluttà dei
loro sensi, e non si stancano mica di cullarselo sopra le spalle, e
non si seccano mai la gola di gridargli attorno. Gli è che sono nati
carcassa, caro signor Perelà, e sentono già dalla nascita il fetore del
morto venir fuori dal loro corpo, e si ricuoprono di cenci colore del
cielo e delle rose, si soffocano di fiori e d'incensi nè più nè meno
come si fa nei cimiteri, e il bello è che il puzzo lo sentono di più.
Quando poi un d'essi muore, ecco la cuccagna, gli si stringono tutti
addosso bene bene, e si assicurano così che il fetore che annebbia
l'aria è tutto di quello morto, e gli si accerchiano più che sia
possibile, anzi, se lo pigliano in collo addirittura, e via in giro
per parteciparne l'esalazione al prossimo, e si gonfiano, si gonfiano
in una loro espressione sodisfatta, sentite, essi vi dicono con quella
loro faccia beata, sentite questo orribile fetore che noi andiamo
spargendo per l'aria? Questo sconcio che attossica tutto? Sentite
che riprovevole cosa? Ebbene non siamo mica noi sapete, è costui che
abbiamo qua disopra, è lui, è lui solamente!

Gli uomini innalzarono a Dio grande quantità di torri per avvicinarsi
a lui, e per gabbarlo, mio caro signore, quelle torri non servono che
per salvarli dal fulmine, esse dovrebbero invece essere le stazioni
dalle quali gli uomini partono per giungere al loro Dio, si dovrebbe
dai tetti lasciarsi cadere giù sulle folle ad ogni istante, e uomini
imbevuti di dinamite e di alcool dovrebbero fragorosamente scoppiare
nei pubblici teatri, nella piena dei più importanti ritrovi....

— Legatelo legatelo, bisogna prevenire, egli può essere attaccato da
un crisi. Sentite se sua eccellenza può ricevere il signor Perelà.
Vi faremo conoscere il principe Zarlino, il pazzo volontario, ovvero
il pazzo dilettante, o meglio ancora il pazzo cosciente, come dice
lui, il più pazzo di tutti qua dentro, come diciamo noi. Un cervello
appositamente costruito per la follìa che non ha trovato nel suo
cammino un appiglio per giustificarla, esso non ha alcuna manìa
precisa, è pazzo per essere pazzo, la raffinatezza del morbo. È uno
degli uomini più ricchi del regno, ed avrebbe potuto essere il re ai
tempi della bancarotta. Egli profonde tutte le sue ricchezze in questo
sanatorio dove abita, ha al suo comando venti o venticinque uomini che
lo assecondano in tutto, una specie di compagnia per mettere in scena
ogni sua nuova creazione. Molti ricoverati sono sussidiati da lui, egli
vive fra loro per elezione, è il patrono, e vengono da esso ricoperti
di doni; asseconda ogni manìa, si immedesima in tutti i cervelli, non
avendo lui una manìa fissa e spiegata può sentirsi pazzo in tutte le
diverse forme che gli faccia piacere.

— Il Principe attendeva con ansia il signor Perelà. Sia fatto entrare
sul momento.

— Oh! Caro, caro, caro amico mio, venite pure avanti. Io vi sono tanto
grato della vostra visita, e permettetemi prima di tutto che vi osservi
attentamente, da alcuni giorni voi esercitate sopra di me un fascino
straordinario. Mi sono sempre informato di voi e delle vostre cose e
anelavo il momento di potervi conoscere, e di parlarvi. Certo che voi
dovete avere destato in tutti una grande meraviglia. Gli uomini che non
hanno la fortuna di essere ricoverati in un manicomio sono facilissimi
alla meraviglia, una mosca che vola gli fa fare degli oh! eh! uh!
ih! ah! non è vero, ve ne siete accorto? voi sentirete sempre ronzare
intorno queste vocali. Qua dentro è una cosa ben diversa, non si sciupa
il fiato per così poco, e non si spende il proprio cervello se non per
occuparsi della cosa che ne vale la spesa.

Vi avranno detto che io sono il pazzo volontario.... il pazzo
dilettante non è vero?... che io sono il matto più matto di tutti
i matti! Non vuol dire mio caro, questo a me non interessa, ciò
che si può dire non mi riguarda. Io ho parlato di voi con tutti i
ricoverati ed ho cercato di farvi comprendere nel vostro giusto grande
significato, nel vostro eccezionale valore. Sono rimasto addolorassimo
di non avere trovate certe menti preparate a comprendervi, ma state
sicuro vi riuscirò, bisogna cogliere il quarto d'ora dei varî cervelli.
Quando accade un fenomeno per il quale fuori tutti sono rimasti a
bocca aperta per ore intiere non sapendo trovare per argomenti che quei
famosi ah! eh! ih! oh! uh!, di cui vi dissi, lo stesso fatto qua dentro
non desta alcuna meraviglia e lo si definisce spesso con l'espressione
più semplice, più vera, più giusta un gesto risoluto può bastare a
definirlo sicuramente.

Tutti quelli che s'introducono qua dentro noi li vediamo passare con un
guardo ebete e pietoso, e alla fine li sentiamo con la massima gravità,
frutto di tutta la loro ponderatezza, dire una profonda coglioneria.
Essi dicono delle cose profonde e finiscono per essere degli imbecilli;
ma bisogna invece dire delle cose imbecilli ed essere profondi, mio
caro amico. Coloro passano commiserando tutto senza aver capito nulla,
e compiangono questi poveri di cervello con una parola che svela subito
l'irreparabile miseria che ne hanno essi. Oh! stieno pure tranquilli,
essi non impazziranno mai! Per divenir pazzo, Signor Perelà non occorre
che una cosa: un grande cervello da gettare magnificamente in un sol
pugno al vento, loro non ne hanno tanto da poterlo tirar su con due
dita. Qui sono i grandi signori, i miliardari delle teste umane, che
spesero per un solo capriccio tutto il loro denaro, essi sono ora paghi
e felici, l'oggetto che poterono acquistare colma la loro vita.

Signor Perelà, io poteva essere il re, voi saprete della famosa
bancarotta? ma sentivo che dopo due giorni io sarei stato quel re che
voleva essere tutti fuori che il re. Io vivo qua dentro la mia vita
sommamente cerebrale che mi fa essere tutto! Dicono che sono pazzo,
benissimo, e che cosa me ne importa, sono venuto ad albergare in un
manicomio per questo, dunque.... ma badate però non sono pazzo come
vogliono gli altri, sono pazzo come voglio io. Ecco il mio sistema. Il
pazzo non annunzia mai quello che farà e io invece annunzio sempre e
tutto. Io dico per esempio: ora emetterò ottantotto grida altissime. Un
altro pazzo al secondo o terzo grido è già legato. Tutti si preparano
rassegnatamente al mio esercizio polmonare. All'ottantottesimo grido
in punto mi fermo. All'ottantanovesimo mi avrebbero già legato. È
l'istante che loro attendono e che io non gli darò mai.

Non meno di una volta la settimana io mi diletto impartire la
benedizione papale. Fuori questa operazione mi era quasi impossibile,
credetemi era impossibile. Vedeste come tutti sono prostrati a terra,
in mezzo a quale devozione io posso brandire il pastorale e cingere la
tiara e il piviale.

Mi piace di spogliarmi nudo innanzi a tutti, poi sono re, sono fabbro,
sono ragno, sono tavola, sono il sole, sono la luna, sono tutto quello
che mi pare e piace. Una notte io fui cometa, fra le due torri della
villa era appesa la mia coda di tela d'argento illuminata da appositi
riflettori elettrici, e rimasi lassù un'intera notte, e mi sentii
veramente cometa, io non fui più uomo, nulla, io fui astro. Udii
tutto ciò che si disse di sotto, l'osservazione dei ricoverati, degli
inservienti, e intanto mi sentivo così lontano dalla terra, su su alto
nel cielo....

Raccolsi tanto di sensazioni che sono nella mia mente come un bel poema
vissuto che si intitola: La Cometa.

Ora ditemi un poco mio caro amico, posso io uscire per le comuni vie
con una coda di tela d'argento lunga settantacinque metri? Appena mi
scorgono mi prendono, mi legano e mi portano qua dentro come un matto
qualsiasi....



DELFO E DORI


Questi due piccoli villaggi, signor Perelà, sono i più graziosi dei
nostri dintorni. Sulle rive di questo grosso fiume vivono la loro
vita fraterna guardandosi amorosamente. Osservate la simmetria del
loro assieme, due torri identiche, hanno entrambi una chiesa uguale,
con uguale numero di guglie, si può dire che i loro tetti abbiano lo
stesso numero di tegole e le case lo stesso numero di finestre. Essi
vivono nella pace più serena, ed il fiume vi scorre in mezzo limpido
e azzurro. La sera, al chiaro della luna, voi vedreste traghettare
dall'una parte e dall'altra, alcuni giovani, s'incontrano e si
salutano, si scambiano le parole più cortesi, un saluto cordiale.

Vanno cantando e colla gioia nel cuore, si recano a visitare quelle che
saranno le loro spose. Si usa che gli uomini di Dori scelgono in Delfo
la loro compagna, e quelli di Delfo in Dori. Ma questa bella pace non
regnò sempre fra essi, e il fiume che ora s'abbandona nel mare in un
ultimo flutto di dolcezza, gli portò un giorno il boccone più amaro che
il suo stomaco abbia mai potuto digerire. Questo fiume fu un giorno il
campo di una stranissima battaglia.

Sappiate intanto che da allora Delfo è abitato da quelli di Dori, e
Dori da quelli di Delfo. I due paesi si odiavano dai tempi più remoti.
Non era possibile piantare un arbusto soltanto sulla riva di Dori, che
non ne venisse piantato uno consimile su quella di Delfo. Non una sola
pietra veniva mossa di qua senza ch'essa ricadesse di là come un bolide
d'odio e d'ira.

Un giorno imperversò un orribile temporale su questi villaggi e ben
otto saette caddero insieme sulle piccole case di Dori, senza che
nemmeno una vittima si avesse a lagnare. I poveri paesani spaventati,
scampati al flagello, vollero innalzare in ringraziamento una torre
alla Vergine santissima, e porre in cima a detta torre una statua della
Vergine medesima. La torre è quella che voi vedete. Quando fu essa
all'altezza dei tetti, e venne osservato dagli occhi scrutatori di
Delfo un certo brulicare di uomini prima, e l'alzarsi di un edifizio
poi, quei paesani non contennero più la loro rabbia. Che cosa dovevano
fare? Alzare anch'essi una torre? Ma sarebbero rimasti indietro ed
avrebbero finita l'opera con grande ritardo sugli odiati difaccia.
Eppoi non erano cadute saette in Delfo onde ringraziare la Vergine
santissima. E ancora: una volta al lavoro chi dei due avrebbe posto
l'ultima pietra della torre nel timore che l'altro avesse prolungato
ancora di un poco il suo lavoro? Quando avrebbero terminato? Dove
sarebbero mai giunte le torri dell'odio? Doveva la terra squilibrarsi
colla costruzione di due nuove Babele? No, no, bisognava finirla, ci
volevano mezzi molto più spicci. In Dori si lavorava indefessamente
alla costruzione di una torre? Benone. In Delfo fu incominciato colla
febbre nel cuore il lavoro di ben altra costruzione, barche, barchette,
zattere, navicelle, pertiche e remi. Il fiume giallo dell'odio non era
stato fino allora solcato, questa era la sua volta.

Dori giorno per giorno assumeva un bell'aspetto maschio coll'elevarsi
della torre superba, mentre riposta nel ventre di Delfo si agitava una
mostruosa creatura: la guerra.

Le barche, le zattere, le piccole navi, le pertiche, i remi, tutto in
breve fu pronto, la notte designata giunse.

Cauti calarono i paesani di Delfo i loro legni nel fiume, muti vi
presero posto e a furia di braccia l'intero paese ecco traversa, è in
Dori.

Dormivano tranquilli, quelli abitanti, il più beato sonno quando
sentirono bussare violentemente alle case, atterrarne le porte,
sbarrarne le finestre. Fuggirono nudi dai loro giacigli i sorpresi, in
preda alla disperazione, incapaci ancora di difendersi colti così alla
sprovvista.

Tutti fuggivano gridando, e intanto il nemico si installava nelle loro
case.

Come essi non si attendevano un così mostruoso oltraggio da quel vile
paese dirimpetto? Come non avevano provveduto ad una difesa contro
sì malvagia gente? Correvano, fuggivano terrorizzati e nella fuga
si ritrovarono tutti sulla riva del fiume. Alcuni vi erano corsi per
gettarvisi dentro, altri per allontanarsi lungo la riva e mettersi in
salvo.

Erano tutte le case di Dori ormai in possesso del nemico, e gli
abitanti tutti al largo sul fiume. La riva assiepata di legni, di
barche, barchette, videro, capirono questi, e ci si rovesciarono presto
e a forza di remi furono in poco tutti in Delfo. Là trovarono il paese
vuoto, non uno solo vi era rimasto, le case aperte, le credenze ben
fornite, i letti comodamente preparati per coricarvisi, un paese uguale
in tutto a quello che avevano lasciato, vi si installarono.

Quando quelli di fronte venuti al fiume trionfanti per stabilire già
il possesso su tutti e due i paesi, (pensavano che quelli fossero ormai
lontani le miglia e le miglia e non avrebbero mai più osato tentare il
ritorno) giunsero e videro.... Che cosa era successo? Nulla, avevano
entrambi conquistato il paese rivale, la guerra non poteva essere più
vittoriosa.

Rimasero così, e così nessuno potè più insidiare l'altro, le barchette
da quel giorno servirono per i buoni rapporti d'interessi e di affetti
che fra i due paesi regnarono poi sempre.


Domani mattina a ore dieci, sulla Piazza d'Armi, il signor Perelà
passerà in rivista le truppe.



LA FINE D'ALLORO


Al crepuscolo, quando la vettura con Perelà e il suo seguito rientrava
nel cortile del palazzo, la reggia era tutta in scompiglio per questo
fatto avvenuto, assai strano.

Alloro, il decano dei domestici reali, dalla sera avanti non era stato
veduto. E siccome era addetto alle stanze del Re la sua assenza venne
notata subito la mattina.

Si andò a cercarlo nella sua camera, e vi fu trovato tutto in ordine,
il letto rifatto, il vecchio non doveva averci dormito.

Aveva una figlia che abitava in città, e dalla quale si recava spesso
nelle ore libere, si corse da lei, ma essa non sapeva nulla, non lo
aveva veduto da due giorni, la povera giovane entrò subito nella
più orribile agitazione, disse di avere dei brutti presentimenti,
temendo che suo padre avesse commessa qualche grossa sciocchezza.
Quando due giorni prima era stato da lei l'ultima volta, si era
mostrato di un'allegria così spinta e così insolita ch'ella ne era
restata perplessa: sembrava invaso da un pensiero fisso che lo faceva
ridere come un folle. Si era anche mostrato impaziente, egli che era
solitamente silenzioso e calmo era diventato irrequieto, non poteva
rimanere a lungo seduto, si alzava, andava alla finestra guardando
distratto, non sentiva più quello che gli si diceva, perdeva il filo
del discorso, e incominciava dipoi a stropicciarsi lesto lesto le mani
l'una contro l'altra insaccando la testa nelle spalle tutto sorridente
di speranza come uno che pensi di vincere un grosso premio della
lotteria.

Fu cercato dappertutto. Quale ragione poteva farlo celare? All'ora
della mensa non si presentò. Che gli fosse colto un malore mentre
disimpegnava qualche servizio? Come? Dove? Era oramai settantenne
e il caso era molto probabile. Fu rovistato ogni cantuccio, ogni
nascondiglio, nulla. Si intraprese la ricerca nei sotterranei, nelle
cantine, nei vecchi depositi di armi, per le antiche prigioni. Ed
eccoci finalmente all'ultima grande volta, quella che sostiene il
torrione angolare della reggia, la volta è chiusa, la porta è serrata
per di dentro, ma da alcune impercettibili fessure s'insinuano
acutissime, quasi inavvertibili, spire di fumo, e odore acuto di
fumo si avverte tutto intorno. Quella porta viene presto con enormi
picconi smantellata e cade. Una nube violenta, formidabile di fumo
denso si rovescia sugli astanti che retrocedono mezzo accecati.
Bisogna attendere che il fumo si scarichi un poco, così è impossibile
di entrare, ma non appena esso incomincia a dileguarsi, a espandersi,
tutti si precipitano ancora verso la soglia.

Sotto l'ampia volta del sotterraneo s'incomincia, fra la nube del
fumo che si dilegua, a distinguere. Nel mezzo, in terra, una grande
spianata di cenere e di carboni ancora qua e là accesi; al soffitto,
dall'anella centrale, scende una catena di ferro, fino a due metri dal
suolo, a quella è appeso in fondo.... come un crocicchio di tronchi
carbonizzati, che si dondolano in mezzo orizzontalmente. Pareva proprio
l'unione di due tronchi d'albero così rudimentalmente congiunti, e non
era che un ultimo avanzo umano: Alloro.

Fu subito corso ad informarne il Re e tutta la corte; il fatto fece
inorridire tutti, la povera Regina che si fece forza a udire il
racconto diede alla fine un grido acutissimo e cadde priva di sensi.

Dopo pochi minuti tutti si trovavano nella penombra del sotterraneo
attorno alla cenere e ai carboni non ancora completamente spenti, e
tutti guardavano con aria esterrefatta l'avanzo di quell'uomo appeso
che si dondolava girando lentamente su se stesso appena appena come per
equilibrarsi nel suo atteggiamento orizzontale.

Si trattava di un assassinio?

Un assassinio in quelle circostanze?

Sotto il tetto regale?

Di un suicidio dunque?

E perchè quell'uomo aveva voluto finire tanto miseramente i suoi
giorni? Quale ragione lo aveva spinto al passo disperato? Nessuno
riusciva a trovarla questa ragione. Eppoi, come aveva potuto pensare
a togliersi la vita scegliendo una sì atroce maniera di morire?
Tutti attorno guardavano assorti, fantasticando nel proprio cervello
e comunicando di tratto in tratto agli altri solo il proprio
raccapriccio.

Uno paffuto piccolo, che pareva un abate, colle mani composte sulla
pancia rotondetta, di tanto in tanto dava due scossettine dentro
i panni, come sentisse mi grande prurito per la schiena e volesse
grattarlo contro di essi.

La scena del sotterraneo era impressionante, l'aria calda, l'odore
acutissimo del fumo non ancora bene dileguato, la spianata di ceneri
bianche, il silenzio rotto dai sussurri.

Si faceva sera, non ci si vedeva quasi più là sotto, e furono accese
agli angoli della volta, alcune torce.

La catena abbastanza grossa pendeva dall'anella del soffitto, ed
in fondo l'uomo vi era allacciato con una catena più piccola che lo
cingeva al petto sotto le ascelle. Così tutto carbonizzato il peso
del cranio equilibrava perfettamente col resto del corpo e lo faceva
rimanere orizzontale; le mani, i piedi non c'erano più, le gambe
finivano come due tizzi a punta, e delle braccia rimanevano soltanto
gli omeri spalancati.

Aveva dovuto radunare pazientemente un buon cumolo di legna, dipoi
salendoci sopra, o con qualche sgabello, doveva avere allacciata alla
catena che pendeva dal soffitto quella che gli cingeva il corpo, in
qualche modo acceso il rogo.... e rimasto lì.... penzoloni come un
salame.... ad aspettare la morte.

Come si può fare un così lungo preparativo di morte senza un
pentimento? Come non essersi disciolto al primo lambire della fiamma le
sue misere carni?

Non fu trovato nè una lettera che giustificasse, che spiegasse....
nulla, il vecchio non lasciava alcuno scritto.


Ecco giunge correndo, ansando, una giovine donna scarmigliata,
trafelata, non è stato più possibile trattenerla, si è divincolata come
un rettile sgusciandosi fra le mani pietose che la tenevano. Giunge
cogli occhi sbarrati e al suo apparire alla soglia del sotterraneo
spalanca la bocca come se dovesse ingoiare tutta l'aria dell'universo
nei suoi polmoni d'un sol fiato perchè il suo grido possa dopo arrivare
fino al cielo.

— Folle! Folle! Padre mio! Padre mio! Che hai fatto? Che hai fatto?
Folle! Folle! E io che non ho imaginato! Credevi di poter divenire come
Perelà!

— Perelà? Perelà? Perelà? — Tutti esclamano, nessuno aveva ancora
saputo scorgere un legame fra Perelà e questo fatto. Ora tutti pensano,
deducono, fantasticano, ricostruendo ognuno l'accaduto a modo proprio.
— Perelà? Perelà? Perelà? Perelà?

— Che hai fatto? Perchè padre mio? Perchè padre mio? Perchè mi
lasciasti? Perchè hai voluto troncare tutte e due le nostre vite?

— Perelà? Perelà? Perelà? — Tutti esclamano; la donna si contorce fra
gli spasimi dei suoi singhiozzi.

— Divenire come Perelà?

— Ha voluto imitare Perelà?

— Non è possibile!

— Perchè non è possibile? Possibilissimo, sperava diventare di fumo
anche lui.

— È diventato di carbone.

— Di fumo? Pianino!

— Diteci, povera ragazza, come vi venne questo sospetto?

— Da quando quell'uomo è qui, mi capite, Perelà, il mio povero padre è
diventato pazzo! Egli, una volta, pochi giorni or sono, quasi mi fece
intravedere la sua follìa, ma io non avrei mai supposto ch'egli fosse
capace di tanto! Era divenuto demente di adorazione per quel mostro che
viene qui ad introdurci la disgrazia!

— La disgrazia? La disgrazia? — Tutti ripetono sempre più stupiti. — La
disgrazia?

— Sì la disgrazia! Assassino! Mio padre si è ucciso per lui? Egli
ripeteva sempre: «Come potè divenire di fumo? Come fece?» Ed un giorno
a me disse: «vorrei anch'io essere come lui!» E rideva di gioia al
pensarlo. Oh! io non avrei mai creduto però che avesse osato tanto! Ed
io sempre gli rispondeva: «credi tu che se noi bruciassimo rimarremmo
come lui? Pazzo! Pazzo!» Io gli dicevo: «se tu bruciassi, tu moriresti,
povero uomo, e faresti morire anche me di dolore!» Padre mio! Padre
mio!

Le supposizioni erano svariatissime, chi non sapeva vedere un solo
legame fra Perelà e l'accaduto, chi ce ne vedeva invece molti e
strettissimi. Si assicurava che Perelà e Alloro erano stati veduti di
sovente in segreto colloquio. Perelà gli affidava le sue commissioni,
e il vecchio lo serviva pieno di giubilo, con tanto zelo, quanto non ne
aveva avuto mai per nessun Re. Non gli avrebbe Perelà stesso inoculato
la fisima nel cervello?

— In questo caso egli sbaglierebbe la sua propaganda. — Disse uno con
un tono di straordinaria importanza.

— E di grosso!

— Come come come? Propaganda autoincendiaria? È formidabile! — Ripetè
un altro con una pancia enorme ed una grossa faccia violacea.

— L'incendiario di se stesso! — Incalzò uno piccolo piccolo con un
vocino da beccafico, e due baffettini aghiformi e le lenti sopra un
nasino così fino sulla costola da sembrare una lama di coltello.

— Folle! Folle!

— Che liquidazione! — Interruppe bonariamente un bell'ufficiale.

— L'uno farebbe lume all'altro! — Rincalzò il gentiluomo beccafico —
come ai tempi di Nerone, come ai tempi di Nerone! — e rideva un suo
_ihihih_....

Qualcuno ricostruiva l'operato con Perelà collaboratore di Alloro;
Perelà avrebbe legato il vecchio alla catena, e il vecchio fanatico si
sarebbe lasciato legare.

— Oppure.... chi sa.... — diceva dimenando la testa quadra uno alto
secco coi capelli corti corti e grigi che gli nascevano a mezzo
centimetro dalle sopracciglia, tipo di criminale — chi sa.... Chi
poteva udire quello che succedeva quaggiù stanotte o stamani prima
dell'alba?

Mentre si facevano tutte queste supposizioni la vettura con Perelà e
il suo seguito rientrava nel cortile della reggia. Perelà veniva subito
condotto nel sotterraneo..

— Vedi? Vedi che hai fatto? Vecchio rospo affumicato?

La donna fu fatta tacere, tutti intorno fissavano Perelà spiando la
sua espressione, anelando la sua parola. Egli, guardava serenamente
l'uomo ciondoloni e dopo qualche minuto di assoluto silenzio si lasciò
sfuggire dalla bocca alitate dolcemente queste tre parole: «voleva
divenire leggero».

La perfetta calma colla quale furono pronunziate, la dolcezza
dell'espressione colla quale Perelà guardava quell'avanzo di suicidio,
quel teatro di morte, inasprì e stupì talmente gli astanti che tutti
parlarono ad un tempo.

L'aiutante del Re si avvicinò a Perelà in tono molto mansueto, untuoso,
quasi per condurlo a ragionare, e gli disse piano con molta deferenza:

— Divenir leggero.... va bene mio caro.... ma... egli voleva uccidersi
mi pare! Divenir leggero.... altro che leggero, si è ucciso.... non è
la stessa cosa....

— Capperi! — acutizzò il beccafico.

— Bisognerà chiarire questo torbo — borbottò il gentiluomo delinquente.

— Qui se non usciamo si crepa! — sbuffò il grassone dalla faccia
violacea che era divenuta gonfia come un pallone. — _Ahuff!_

Perelà non disse altro.

Poco alla volta non rimasero nel sotterraneo che la figlia di Alloro,
mezza stupidita dal dolore e con due lagrime ghiacciate all'argine
delle ciglia che non potevano più sgorgare, rimasero alcuni domestici,
e i gentiluomini e gli ufficiali e soldati risalirono tutti negli
appartamenti della reggia.

Furono fatte grandi osservazioni sull'indifferenza di Perelà, egli fu
trovato per la prima volta indifferente.

Si andò dal Re a riportare il resoconto dell'accaduto. La fine di
Alloro e l'indifferenza di Perelà, indifferenza che taluno osò, tra
un brivido e l'altro, chiamare timidamente cinismo. Nessuno però volle
esprimere chiaramente il proprio parere, e l'uno invocava tacitamente
quello dell'altro, ognuno sperando in ognuno come primo lanciatore di
un'accusa senza volerlo essere nessuno.

Si concluse convocando per la sera stessa il consiglio di Stato.


La rivista militare, che doveva aver luogo domattina, è stata rimandata.



IL CONSIGLIO DI STATO


«Io lo vedo ancora quel piccolo vecchio dalla faccia sorridente,
coi dolci occhi azzurri, eccolo là, tranquillo e calmo, giunto ai
settant'anni di vita laboriosa, di probità e di obbedienza. Non
un'ombra nella sua onesta vita, non una macchia nella sua anima.
L'amore del suo Re, ch'egli servì con cuore fedele, l'amore della
figlia diletta, l'amore del suo Dio su tutti e su tutto.

E l'uomo che visse fino al limitare della sua esistenza in questa
serenità dello spirito, in tanto candore di dolcezza, ad un tratto si
cambia, si muta; la mente si turba, si sconvolge, i pensieri più soavi
più puri e lucenti si oscurano e divengono baratri tenebrosi dove si
annida la passione insana, una vertiginosa follìa.

E dopo lo spettacolo di amore e di pietà ch'egli ci ha offerto per
settant'anni, ci prepara lo spettacolo orrendo del suicidio, del più
folle suicidio, e pone davanti ai nostri occhi una scena infernale di
fiamme, di ceneri, e di fumo!

Ah! miei buoni signori, e figlioli diletti, io vi domando ora
come poteva quella coscienza travolgersi ad un tratto, come poteva
germogliare d'un colpo la sterile pianta del male se questi semi non
vi furono in essa per il passato, come, senza che uno di questi semi
fatali sia riuscito a penetrarvi? Come poteva da sola perdersi se
taluno approfittando di un istante di debolezza della sua mente di
vegliardo non l'avesse sconvolta e guidata sulla via irreparabile della
perdizione?».

— Voi sapete però eminentissimo signore ch'egli fu sempre un adoratore
fanatico di tutti i Re, e forse più per il loro altissimo grado che per
la loro persona.

— E che cosa volete dire con questo, Pipper?

— Chi ci assicura che quell'umile persona non racchiudesse fino ad oggi
inespressa una grande, sconfinata ambizione?

— Mio caro Pipper, come potete dire questo? Chi servì fedelmente il
proprio signore voi lo chiamate ambizioso? Ma via....

— Servì quelli che ai suoi occhi erano grandi e privilegiati, e in
quella esaltata ammirazione alimentò un sogno di grandezza che gli
cresceva nel seno. Quando si è trattato di potere lui stesso divenire
un essere privilegiato, capace ai suoi occhi di attirare la vana
ammirazione di tutti non ha pensato nemmeno più alla propria vita.

— Ciò che per voialtre pecore è il colmo.

— Pilone non incominciate colle vostre solite parolacce.

— Pecore!

— Pilone state quieto.

— C'è tanto bisogno di raccoglimento.

— Bisognerebbe assolutamente espellerlo dal consiglio, si riduce tutti
i giorni più insopportabile.

— Pecore no? Scimmie! Quali sono le bestie più ridicole? Le scimmie,
rispondete voi, precisamente, sono quelle che vi somigliano di più.

— Pilone, fate il piacere di tacere fino al vostro momento.

— Dunque, eminentissimo, la vostra opinione sarebbe?...

— La mia opinione dunque... ecco... la mia opinione è molto
semplice.... ed è precisamente questa, ecco... da un certo tempo su
questa terra non si è fatto che seminare fumo, ora la terra incomincia
a fumare, e mi sembra un fatto logico, naturale naturalissimo.

Se voi seminate sulla terra frumento raccoglierete spighe di frumento,
avete seminato fumo raccogliete messe di fumo, ceneri e fiamme, si
capisce, non potete certo raccogliere fascine di legna.

Daste un eccessivo valore ad un fatto che non lo meritava, parve non
ci fosse al mondo di meglio del fumo, parve che con esso tutte le più
gravi questioni si sarebbero risolte, non si vide più che fumo, uomini
e donne vestiti di quel colore, feste, balli, banchetti, inni tutto in
onore di questa orribile cosa....

— Eminentissimo, voi stesso però, ricordate, accorreste a porgergli
omaggio quando egli giunse, siete stato anche voi dunque tratto
nell'inganno come noi tutti.

— Va bene, è vero, anch'io sono corso, ma.... un momento, io corsi....
prima di tutto per vedere di che bestia si trattava, tutti correvano,
pareva che il mondo dovesse divenir suo d'un colpo, capirete, volli
assicurarmi coi miei occhi che razza di bestia fosse.... e m'accorsi
subito.... che la bestia era molto pericolosa e non avrebbe tardato a
nuocere, ecco, ci siamo.

— E perchè non lo diceste subito?

— E come lo potevo dire? Tutti bravo, bravo, bello, bello! Per poco non
l'avete fatto imperatore. Dovei entrar nella corrente, e invece pensai:
questo non è il momento di parlare, lasciamoli correre.... e corriamo,
quando saranno stanchi si fermeranno.

— Che cosa vi disse nell'udienza che aveste con lui, eminentissimo?

— Mi disse.... che so.... le sue solite parole sconnesse.... ch'era
leggero.... e che pareva non stimasse altra cosa al mondo all'infuori
di questa sua leggerezza.... eresie.... affermazioni da miscredente
della peggiore specie.

— E che cosa proporreste di fare?

— Riparare, siete ancora in tempo per riparare. Lo avete innalzato? E
voi lo riabbassate. Gli avete affidate opere serie, gravi opere, senza
comprendere quali enormi spropositi stavate commettendo, e quelle opere
voi glie le togliete presto, subito, e sopra tutto.... allontanatelo
dalla società.... fate in modo di farlo scomparire, per il bene di
tutti.... escludetelo.

— Pilone se avete qualche cosa da dire....

— Oggi è una bellissima giornata, proprio bella, un magnifico e vivido
splendore di sole, gli uomini sono tutti fuori senza ombrello, e si
gongolano, passeggiando stupidamente come al solito, sculettano come
tante oche, dondolandosi fra di loro, strofinandosi, rimescolandosi
come le rane in una pozzanghera.... Ad un tratto il cielo si annuvola,
in quattro e quattr'otto vien giù un bell'acquazzone; tutti scappano,
saltano di qua, saltano di là, guardano in su, ah! eh! ih! oh! uh!
i ranocchi, gridano, scivolano, si rintanano le vecchie talpe, e
s'annaffiano tutti ch'è un piacere. Ah! Ah! Ah! Ah!

— Che uomo sconveniente!

— Domani il temporale si è dileguato e non si vedono che passare
rapidamente, altissime e leggere le ultime nubi scariche. Tutti quelli
che passano hanno sotto il braccio il loro ombrello, e se lo tengono
bene stretto, i macacchi e le bertucce, nessuno passa senza. Giunge la
sera, non è piovuto. Ah! Ah! Ah! Ah!

— Ma che manieraccia di ridere!

— Che paradossi santo Iddio!

— Ebbene?

— Che cosa intendete di concludere col vostro frizzetto?

— Che siete una manica d'imbecilli!

— E di Perelà che cosa ne pensate?

— Quello che penso di voi.

— E voi che cosa siete?

— Si crede di essere tanto in alto perchè deve pubblicare un libro che
non esce mai.

— _Il giudizio universale._

— La grandezza è tutta lì.

— Caro Pilone, e il vostro prestigio sta tutto nel vostro disprezzo.

— Naturalmente.

— E credete che questo possa inalzarvi tanto?

— Oh! mi basta poco, tanto da potervi sputare in capo.

— Che uomo irragionevole!

— La sua presenza nel consiglio è perfettamente inutile oramai, si sa
benissimo quello che Pilone dirà: «imbecille o imbecilli» a seconda dei
casi.

— «Ebeti e scimuniti».

— Già.

— Ma via Pilone, voi passate per l'uomo più dotto della terra, dar del
coglione a tutti a questo modo....

— E in consiglio di Stato.

— Ma se è mezzo analfabeta!

— Insomma che ne dite?

— Sbrigatevela.

— Che cosa ne dite di Alloro?

— Sbrigatevela.

— Che cosa ne dite di Perelà?

— Sbrigatevela.

— Rodella, che ne dite voi?

— Parmi che il nostro tempo sia assai male speso.

— Ma noi gli abbiamo affidato il codice per Dio!

— Bisogna toglierglielo!

— E come si fa?

— Bene, gli si leva, non gli si fa scrivere.

— Ma gli è stato affidato pubblicamente, con reale decreto!

— E gli si leva pubblicamente, con reale decreto!

— E la tessera?

— «_Ispettore generale dello Stato!_»

— «_Riformatore!_»

— «_Degli uomini delle cose e delle istituzioni!_»

— «_Con pieni poteri esecutivi!_»

— «_Materiali e spirituali...._»

— «_et ultra!_»

— Ah!

— Ah!

— Ah!

— Gli si ritira, e si brucia.

— Bruciatela per amor di Dio!

— E gli si rende di fumo come è lui!

— In carattere.

— Benissimo pensata.

— E l'opinione pubblica?

— Al Diavolo!

— Ma chi fu quell'idiota che parlò par il primo di codice?

— Il Re!

— Fu il Re!

— Che ne sa lui? Cosa c'entra lui?

— Fece per scaricarsi il peso dalle spalle, non l'avete capito?

— L'uomo di fumo credeva gli fosse stato mandato apposta chi sa da
quale stella!

— Egli aspetta tutti i giorni dei messaggi dai mondi di là, si è così
immedesimato nella parte.... e non sa poi che pesci si pigliare col
mondo di qua.

— Ma il Re l'ha fatto per non scriverlo lui il codice, si capisce, ha
pensato: chi sa quali baggianate saltano fuori, così io non c'entro,
c'entra Perelà, se la rifacciano con lui.

— Perelà è di fumo, Perelà bisogna rispettarlo, e io me ne infischio di
tutti i codici.

— Ha preso la palla al balzo.

— Ecco.

— E il baggiano è lui.

— I baggiani siamo noi!

— Eppoi sapete che cos'è?

— Che cosa?

— Il Re non teme Perelà, è di fumo.... dite quel che volete, il fumo
sarà sempre fumo.

— Ma dopo la riforma del codice?

— Ah! Questo poi.....

— Sarebbe a dire, dopo la riforma?...

— Vedete a quali passi siamo arrivati?

— Non avevate pensato che quell'uomo riformando il codice poteva fare
un primo articolo, per esempio, nel quale si dicesse che solamente gli
uomini di fumo possono regnare e governare? Non ci avevate pensato a
questo?

— È enorme!

— E farsi Re assoluto?

— Che gravità!

— Imperatore!

— Gesù mio!

— Nominarsi Zar!

— Bruciarci vivi tutti!

— Mamma mia!

— Ma perchè fummo così sciocchi?

— Perchè?

— Perchè?

— Perchè?

— In certo modo noi abbiamo consegnate nelle sue mani le chiavi del
nostro stato, della nostra casa, della nostra vita, tutto! A un uomo di
fumo!

— Pensateci, senza saper nemmeno se era un uomo o no.

— E non lo è.

— Dio mio!

— Al primo venuto.

— Certo, si poteva aspettarne un altro almeno.

— Chi sa poi quanti ce ne sono!

— Sarà meno raro di quello che si crede.

— Dicono che ci sia un paese dove nascono come i funghi!

— Chi sa chi è.

— È enorme!

— Che gravità!

— Ma scusate, ma scusate, e quando anche lui avesse scritto tutti gli
articoli di questo mondo, noi abbiamo paura di lui?

— Il fumo sarà sempre fumo.

— E con una buona soffiata lo possiamo mandare a gambe all'aria anche
dopo averci scritto diecimila codici.

— Fatelo portar via dal vento.

— E l'opinione pubblica?

— Un corno!

— Ma se davvero ci fosse stato mandato?

— Mandato?

— Da chi?

— Di dove?

— Non saprei....

— Dall'inferno!

— E perchè no?

— Dal diavolo volete dire?

— E perchè no?

— E al diavolo lo rimanderemo!

— Se fosse l'ombra del Diavolo?

— E perchè no?

— Ne ha tutta l'aria.

— _Jesus Maria!_

— Il figlio di Satana sulla terra!

— E perchè no?

— Il figlio di Belzebub!

— Uh!

— Non mandò Iddio il suo, ora ce lo ha mandato lui si vede.

— Poveri noi.

— E lo abbiamo ricevuto!

— Eccome!

— E con quali onori!

— Tutti gli onori!

— Che vergogna!

— Come ci siamo cascati bene!

— L'altro, quello del Dio sommo ed eterno, fu perseguitato e crocifisso.

— Questo lo abbiamo innalzato sugli altari.

— Non se ne indovina mai una.

— È una trappola che ci è stata tesa di sicuro.

— E noi ci siamo entrati.

— Fitto fitto!

— È il figlio di Satana!

— È il figlio di Satana!

— Il figlio di Banzebub!

— Il Cristo del Diavolo!

— Ma naturalmente, tutto nero a quel modo! Ci voleva tanto poco a
capirlo.

— Ora capisco!

— Di dove volete che venga un uomo tutto nero, se non viene
dall'inferno? Ci scommetterei.

— E lo dite con tanta indifferenza?

— _Jesus Maria!_

— E se fosse mandato da Dio anche questo?

— Impossibile!

— Non regge!

— Egli mandò un'altra volta il suo figliolo.

— Non lo rimanda più, statene certi.

— Non si può mai sapere.

— Ma egli disse pure che sarebbe ritornato.

— È impossibile!

— Ascoltate.... era di candide carni e pure essere di luce e d'amore,
questo è un coso tutto grigio che non sente nulla, è come se fosse di
mota, la stessa cosa.

— Effettivamente.

— Ma dopo tanti anni....

— Può aver cambiato di colore.

— Non regge.

— È scappato dall'inferno state tranquilli.

— Ascoltate, ascoltate, io sono il vostro Arcivescovo, e vi assicuro
che il buon Dio lo ha sulle corna quanto me questo vostro uomo di fumo!

— È mandato dal demonio!

— Dio Dio!

— È il figlio del diavolo.

— _Brrrrr!..._

— Miseri noi che lo abbiamo raccolto!

— Eminentissimo! Benediteci, benediteci, per carità, egli è già entrato
forse un poco in tutti noi!

— Bisogna cacciarlo!

— Come si fa?

— Incominciamo a fare gli esorcismi venite via.

— _In nomine Patris, et filii, et spiritus sancti, Amen._

— Se se ne andasse da sè sarebbe meglio.

— Fatelo portar via dal vento.

— È vero, è vero, non è mica tanto prudente sapete mettersi in ruzza
anche col diavolo.

— Deve essere un certo arnese....

— Per amor di Dio!

— Bisogna allontanarlo bonariamente.

— Senza farglielo trapelare che ce ne siamo accorti.

— No! Ma che! Lasciatevi guidare da me, sono il vostro arcivescovo,
coll'aiuto del buon Dio potremo schiacciarlo.

— E l'opinione pubblica?

— Sveleremo tutto!

— Diremo quello che è.

— Ha ucciso!

— Benissimo!

— Diremo che è il figlio di Belzebub e il popolo farà giustizia da sè,
lo massacrerà.

— No, no, no! Non ci mettiamo tanto in ruzza col diavolo vi dico.

— Voi non volete mettervi in ruzza con nessuno!

— Ci sono degli uomini di stoppa a questo mondo!

— Ha ucciso allora!

— Sveleremo!

— Ci vuole un processo.

— Si farà.

— Benone!

— Un processo!

— Il processo!

— Il processo!

— Il processo del figlio di Satana.

— Io me ne lavo le mani!

— No, senza dire che è il figliolo del diavolo, non è necessario, non
bisogna dirlo.

— È meglio fingere di non averlo capito.

— Il processo come a un malfattore qualunque, troveremo il modo.

— Ha ucciso!

— Voleva bruciarci tutti!

— Bene!

— Ha fatto fuoco sotto la reggia!

— Bravo!

— Incendiario!

— Omicida!

— Vile!

— Deve, finire da vile!

— Ha ingannata l'opinione pubblica!

— Benissimo!

— È enorme!

— Si è burlato di tutti!

— Si è burlato di noi!

— Del governo!

— Che spavento!

— Ha ucciso!

— Incendiario!

— Assassino!

— Morte!

— Morte!

— Morte!

— Imbecilli!

— Ma Pilone....



PERCHÈ?


Il consiglio ebbe luogo la notte stessa del giorno nel quale Alloro fu
trovato carbone.

Prima di salire alla reggia l'eminentissimo Cardinale arcivescovo era
disceso nel sotterraneo ad impartire, non già come a un suicida, ma
in quanto assassinato, l'assoluzione alla misera salma del vecchio.
La mattina seguente i poveri avanzi dovevano essere trasportati al
cimitero. E vi furono trasportati per tempissimo, quasi segretamente,
poche persone vi assisterono, poche persone poterono accorgersene. La
figlia di Alloro era stata pietosamente trattenuta alla reggia, anche
perchè essa non mettesse sottosopra tutta la città col suo disperato
dolore.

Non si voleva ancora prendere una decisione precisa sul contegno da
adottare dinanzi all'opinione pubblica. Si doveva d'un tratto far
cadere l'accusa, risultata dal consiglio di urgenza, come un bolide
sopra la città, si doveva dichiarare Perelà in istato di arresto, o era
meglio agire con qualche riserbo, spiando prima bene quale dirizzone
prendesse l'opinione pubblica? Non era meglio spingervela piano piano
con qualche astuzia sul cammino voluto?

Una volta che il popolo avesse gridato «morte» tutto era a posto e si
poteva uccidere finchè si voleva, ma era bene però quest'ultima parola
farla venir fuori dalla viva voce di esso.

Intanto Perelà dal momento della scena nel sotterraneo non era più
uscito dal suo appartamento. Nessuno si era recato a chiamarlo, nessuno
a chiedergli spiegazioni.... nulla. «Perchè?» Fu convocato il consiglio
d'urgenza, la seduta ebbe luogo senza che si fossero fatti vivi ad
avvertirlo, come tutte le altre volte, ad invitarlo a parteciparvi.
«Perchè?»

Egli passò la nottata pensando a tutte queste faccende, ricordandosi
una ad una le facce dei presenti nel sotterraneo al momento del suo
arrivo. Quelle facce erano molto cambiate verso di lui, i gentiluomini
lo avevano guardato in una tale maniera che a lui giunse completamente
nuova. «Perchè?» Per lo scalone, quando erano risaliti negli
appartamenti della reggia, avevano tenuti discorsi a voce bassa, in
modo che lui non potesse capire, pure accorgendosi che si parlava di
lui appunto. «Perchè?» Che cosa aveva fatto? Non aveva detto la verità?
Non si era comportato come sempre? Non aveva egli tenuto il solito
contegno? Forse non era stata compresa la sua frase? Come potevano
dubitare di lui? Che cosa ne sapeva lui? Quel vecchio non gli aveva
mai neanche lontanamente fatto dubitare la sua idea, egli lo avrebbe
istantaneamente distolto. Come avrebbe potuto insegnargli il suo
segreto, s'egli stesso lo ignorava? Che cosa aveva con lui di comune il
vecchio Alloro?

Egli spontaneamente gli aveva un giorno rimesso le parole della donna
che lo amava, ma lui non aveva fatto che accettare quelle carte senza
mai restituirne indietro una sua. Ricordava ancora il sorriso luminoso
del vecchio, caldo come i raggi del sole, quella faccia che mentre lo
guardava diveniva rossa, rovente, qualcosa che veramente generava luce
e calore. Povero vecchio, pensava Perelà, diranno che è la mia vittima
ora, voleva divenir leggero, ma sarà vero? Perchè non dirmi una sola
parola? Perchè nessuno è venuto qui ierisera, perchè nessuno viene
nemmeno stamane?

In tutta la mattinata nessuno si fece vivo nell'appartamento di Perelà.

Le ore passavano ed egli non sapeva che fare. Doveva uscire e recarsi a
dimandare? O doveva attendere pazientemente? Si affacciò alla finestra,
guardò lungamente il cielo, quasi immergendovisi. Era una magnifica
giornata, il sole splendeva sovrano potente nel suo infinito regno
celeste, l'aria era azzurra, e Perelà ad occhi socchiusi si sentiva
tutto immerso in quella luce, attratto.

Venne mezzogiorno, attese ancora.

Erano le due, l'ora nella quale gli altri giorni venivano a chiamarlo
per recarsi ai suoi giri d'ispezione. Uscì, scese nel cortile, ma la
vettura non c'era ad aspettarlo, non c'erano i gentiluomini che lo
accompagnavano, nulla, nessuno. «Perchè?» Il cortile era insolitamente
deserto. Sul terrazzo del primo piano passarono due gentiluomini
parlando sommessamente fra loro, quando videro Perelà si ritirarono
presto, probabilmente si appostarono dietro una finestra per spiare.
Egli non sapeva se doveva tornarsene indietro, risalire e rinchiudersi
nelle sue stanze, od uscire; rimase lungamente perplesso, poi la luce,
il sole, il turchino, lo attraevano tanto da dover fare forza verso
la terra per tenercisi sopra. Infilò l'atrio della reggia e fu al
portone. Le sentinelle lo guardarono di sbieco e lo lasciarono uscire
senza un cenno. Non lo avevano salutato. O se sempre lo salutavano, gli
presentavano le armi come ai generali! Che cosa era avvenuto, perchè
non lo avevano salutato? Perchè lo lasciavano uscire? Perchè nessuno
gli diceva nulla; che almeno egli avesse saputo quello che doveva fare,
come doveva contenersi.

Uscì. Poche persone erano a quell'ora sulla via ed egli potè giungere
alla porta della città quasi senza essere visto.

Nella reggia era stato spiato ogni suo movimento, e questa uscita,
mentre indispettì alcuni, piacque a molti. Egli si dileguava, partiva
per non ritornare mai più, tutto sarebbe stato salvo senza ricorrere a
violenze.

Ma c'erano quelli che volevano spiegazioni, volevano far giustizia,
egli in certo modo la passava troppo liscia a questo modo. Il bravo
signorino se la cavava a buon mercato davvero, troppo a buon mercato.
Bisognava trattenerlo e punirlo. Chi sa che da lontano non potesse
nuocere al paese ugualmente, e magari di più? Dove andava? A fare
altre vittime altrove di sicuro. A seminare fumo in altre contrade. A
burlarsi di altri uomini. Bisognava fargli subire un processo e dargli
la pena che si meritava, così e non altrimenti si doveva fare. Ora egli
era libero e si rideva un'ultima volta dei beati minchioni che aveva
tanto bene saputo corbellare fino dal primo giorno ch'era comparso.

Da un'altra parte si diceva invece che era meglio se ne fosse andato
zitto zitto colla coda fra le gambe, egli non avrebbe potuto nuocere
più ad alcuno dacchè tutti erano in guardia contro di lui, invece
a mettersi in guerra chi sa come poteva andare a finire. Che bestia
era mai quella? Da dove era venuto fuori? Non si sapeva con chi si
aveva a che fare precisamente era un miracolo del cielo che se ne
erano liberati tanto per le spicce. In fondo questo andarsene pacifico
dimostrava che se anche Perelà era un diavolo, era un buon diavolo, di
quelli che nuociono con una certa discrezione.

E per tutta la giornata non si fece che dire «torna torna, state
quieti, torna» «non torna, non torna, state quieti, non torna».

Ma bisognava incominciare a divulgare la notizia, e furono sparsi per
la città i soffioni: domestici della reggia, gentiluomini, soldati,
per preparare il popolo. Chi andò dal tabaccaio mentre sceglieva dei
sigari si lasciò sfuggire qualche parola, chi si lasciò sfuggire
qualche parola mentre si trovava in una trattoria a mangiare, o a
bere in caffè, chi andò a porgere ossequi ad una gentildonna, tutti
nel proprio grado informarono. Le bocche per la gente della strada
e dei negozi, i telefoni per le signore e gli uomini di affari,
in un'ora tutti sapevano che Perelà era vivamente sospettato della
morte di Alloro, e che prima che il Re comandasse un processo era
fuggito per una porta dei sotterranei. Ci fu chi disse che era uscito
dalla finestra, chi disse che passando dinanzi al dragone alla porta
della reggia il dragone non lo avesse visto accanto a sè, nessuno lo
avesse visto, e che quest'uomo in certe circostanze aveva uno strano
prestigio di cambiarsi in ombra, e che specialmente alla luce del
sole non c'era più modo di scorgerlo, e che taluno vi avrebbe potuto
benissimo intoppare per la via senza avvedersene. Quello che fu detto
è impossibile qui riportare. Si è presso a poco inteso quali forti
impressioni ne riportarono i più eminenti uomini dello stato nel loro
consiglio d'urgenza, questo ci faccia lontanamente comprendere che
cosa poterono dire, tutte quelle femmine femminelle e comari, già di
per sè impressionabilissime, che si radunano agli usci delle case, e
quello che fu detto nei varî negozi di tabaccaio o di parrucchiere o di
farmacista, nei caffè, nelle trattorie, e presso i portinai.

— Però — ripetevano tutti — se alla corte lo si suppone colpevole,
perchè lasciarlo andare tranquillo a questo modo? I colpevoli devono
essere puniti.

Ciò venne subito ripetuto a corte, l'opinione pubblica prendeva nel suo
corso questa piega che dispiaceva lassù, e d'altra parte non si voleva
neanche confessare che si preferiva cavarsela senza agire direttamente
su quel tipo supposto in possesso di poteri ignoti di fronte ai quali
la corte, con tutte le sue scorte a piedi e a cavallo, non sapeva come
contenersi.

Ma per buona fortuna, senza sapere quale fosse la sorgente della
buona idea l'opinione pubblica dette ragione alla corte. Sì sì, era
meglio lasciarlo andare, non valeva la pena mettersi in urto con
lui, era meglio trattarlo alla leggera. Sembra che un famoso cicalone
abbia detto di essere venuto a conoscere tutto il segreto per certe
sue strette attinenze con persone influentissime alla reggia. Egli
raccontava che la mattina all'alba era stato tentato il taglio
della testa al colpevole, ma chela lama gli era passata da una parte
all'altra del collo senza scomporlo minimamente. Quando gli astanti lo
hanno visto alzarsi e camminare colla sua testa intatta sopra il collo
sono rimasti così inebetiti.... così inebetiti... che non hanno avuta
più la forza di trattenerlo, ed egli uscì liberamente.

— Sicuro — avevano risposto tutti — che imbecilli a non capire una cosa
tanto semplice, come si può tagliare la testa a un uomo di fumo? Solite
beghe di quelli scimuniti di lassù — si era detto. — È meglio, è meglio
che se ne sia andato, avrebbero finito per commetterne di quelle grosse
come case, i bietoloni, e lui gli ha fatti tagliar corto.

Alla reggia invece il dilemma era questo: «tornerà o non tornerà?» — Se
non tornerà è bene non farlo passare tanto da colpevole, ma se dovesse
ritornare bisogna assolutamente disfarsene, e per disfarsene bisogna
avere il vento del popolo in favore. In ogni modo era meglio tenersi
al peggio, ora che l'opinione pubblica era pronta si poteva gonfiarla
o sgonfiarla a piacimento. Ovunque fosse andato era bene far sapere che
qui era stato trattato severamente.

— E se dove va fa la fortuna di quel paese, ci daranno degli imbecilli
a noi che ce lo siamo lasciato scappare, allora sì che Pilone griderà
ai quattro venti la sua fatidica parola — diceva uno. Ma nessuno
però aveva più dubbî ottimistici sopra Perelà, e chi ne aveva ancora
un rimasuglio gli aveva accompagnati da tali riserve.... Tutti lo
odiavano, e bisognava farlo odiare anche dal popolo. E il popolo che
nelle sue manifestazioni di massa violenta non conosce mezzi termini,
come con una facilità che non ha giustificazioni, che non ha principio,
si rovescia sulla via dell'adorazione, così per le stesse piccole cause
inafferrabili, si riversa sulla via dell'odio.

Il Re ordinò che la figlia di Alloro fosse lasciata libera di
tornarsene alla sua casa, il giorno dopo sarebbe andato da lei un
amministratore per assegnarle un'equa pensione che le assicurasse una
comoda esistenza.

E questa ragazza fu, a bella posta, fatta uscire, nel mezzo del giorno,
quando tutto il paese era in faccende a discutere di Alloro e Perelà,
fu fatta uscire dunque a piedi dalla reggia.

Appena fuori pochi passi, è inutile dire, che tutti le furono addosso a
dimandare spiegazioni, a piangere e commiserare, pregare e consigliare,
e intanto a impinzare bene d'olio la propria lucerna per poter
irradiare di informazioni e giudizî il proprio vicinato.

La ragazza urlò, pianse allo stesso modo che aveva fatto il giorno
innanzi, e Perelà, dopo dieci minuti, fu odiato, così odiato come
nessuno fu mai.

Alla reggia si diceva: «tornerà o non tornerà?».

— Caro, se torna sta fresco!


Perelà uscito fuori dalla porta della città, si era diretto su verso le
colline, e camminava lungo un ruscello coi suoi pensieri, e si sentiva
andare andare come sorretto dallo zeffiro azzurro che tutto alitava
intorno e tutto illuminava. Si sentiva tanto leggero come non si era
sentito mai, e in certi momenti gli sembrava di avere perduta la terra
e già di essere alto sopra di essa. Si guardò addosso e il suo corpo
gli apparve, invece che grigio intenso, azzurro, e le scarpe lucenti,
due corolle dalle quali usciva il corpo come un fiore dell'aria.

Incominciò a salire il colle ammirando ora i begli alberi che gli
porgevano i rami robusti e agili tutti adorni di foglie verdi, udiva
il filo dell'acqua argenteo gorgogliare ai suoi piedi infantilmente e
insinuarsi e fuggire giù per il pendio fra le piante di felci.

Era vero, non si era sentito mai tanto leggero, mano mano che
saliva elevandosi sulla città anche i suoi pensieri si elevavano,
le preoccupazioni della reggia e di tutta quella gente laggiù si
allontanavano, si attenuavano, si perdevano quasi oramai dinanzi al
suo sguardo. La luce lo vinceva, il calore del sole, la leggerezza
del suo corpo, il verde delle foglie, l'infantilità di quel filo
d'acqua, il respiro puro, gli fecero sentire per la prima volta che
tutto quello che si faceva laggiù fra quell'enorme mucchio di pietre
era qualche cosa di grave, di pesante, di sommamente pesante, in una
maniera che ora gli cominciava a divenire insopportabile. Le torri, le
larghe costruzioni, i tetti, enormi cappelli schiaccianti delle case,
e tutto si gravava sulla terra così spietatamente, i gentiluomini, i
soldati rivestiti di ferro, le carrozze, tutto tutto era di una gravità
insopportabile. Guardò un albero che spaziava su alto espandendosi
nell'aria mentre il tronco non occupava che un piccolissimo pezzo del
terreno, e guardò ad una casa dove abitava un piccolo uomo appoggiata
spietatamente sopra la terra per tante centinaia di metri, guardò
le torri della reggia, là nel mezzo la mole oscura del palazzo reale
regnava anche sopra tutti gli edifizi della città.

Allora si ricordò del primo giorno, quando vi giunse col suo spirito
puro, e tutte le cose gli avevano fatta questa medesima impressione,
ma dopo, l'abitudine e le preoccupazioni quotidiane della vita
l'avevano attutita, e le cose che lo avevano circondato erano finite
per divenirgli familiari perdendo un po' della loro gravezza. Eppure,
pensò egli allora, io acquisterò laggiù tante belle qualità, ma finirò
per perdere la mia qualità migliore, la sola vera qualità mia: la
leggerezza, questa leggerezza che ora m'inebria e m'innalza. Pensò a
_Pena_ a _Rete_ a _Lama_, guardò intorno tutta la corona delle colline
nella speranza di riconoscervi la sua vecchia casa, ma non vi riuscì,
tante case lontane gli sembravano quella ma non ne fu sicuro.

Era giunto alla cima del colle, la città rimaneva sotto nella vallata
forse per trecento metri e la si dominava bene tutta. Prima guardo
il cielo, quanto ne potè vedere, quanto il vasto orizzonte glie
ne concedeva, poi abbassò ancora gli occhi giù sull'ammasso enorme
scomposto di giallastro, rossastro verdastro che formava il panorama
della città e si sentì in quel momento di disprezzarla come preso
da una nausea naturale, quell'ammasso gli appariva uno sfregio, una
vomitatura del padre eterno, dopo un suo pranzo.... da padre eterno.

Guardò ancora il cielo e si sentì tutto rianimato, vagava sulla cima
del colle quando scorse all'ombra di una quercia una fanciulla seduta a
terra, aveva le gomita puntate sulle ginocchia e la faccia posata fra
le palme delle mani che le facevano guscio alle guance, un bastone le
riposava nel grembo, e alcune pecore dormivano vicino a lei, era fissa
incantata sul panorama cittadino.

Quando Perelà le fu presso, la bimba starnazzò come una pollastra
alzandosi, indietreggiando di alcuni passi lasciando cadere a terra il
bastone ma conservando le mani alla faccia scomposte. — Oh! — gridò.

— Avete paura? — le disse Perelà sorridendo. — Di che?

— Perdonatemi signore, voi mi sembraste dapprima una fantasma.... se
voi non mi farete paura io non avrò paura.

Perelà la guardò sì dolcemente che la fanciulla gli venne vicino
composta e rassicurata.

— Dove guardavi?

— Guardavo la città. Quando le mie pecore dormono io mi diverto sempre
a guardare la città, signore, voi venite di laggiù?

— Sì.

— Ed io non potei mai andarci. Quando esco sono sempre accompagnata
dalle mie pecore, e non debbo lasciarle. Oh! certe volte sento una
voglia pazza di abbandonarle tutte e di fuggirmene laggiù.... ma poi,
così vestita.... che cosa direbbero di me, forse non mi lascerebbero
neppure entrare. La mia cattiva zia non mi concede un solo giorno ed
io muoio dalla voglia di vedere la città. Ma voi signore, siete di fumo
forse?

— Sì.

La piccola rimase muta senza avere coraggio di guardare ancora Perelà
dopo la sua affermazione, ma poi, come per rompere il silenzio, come se
avesse paura a rimanere zitta con quell'uomo, prese a dire a voce alta:

— Le quattro torri là in mezzo sono della casa del Re, e tutta quella
che si vede intorno è la sua reggia. Quella cupola e il campanile sono
della chiesa che si chiama il Duomo. Quello che finisce a punta con le
statue bianche sulla fronte è il teatro, dove le grandi dame si recano
la sera mezze nude coperte solo di gemme per farsi vedere dai loro
amanti. E il luccicare che si vede qua e là sono le carrozze che le
portano a passeggiare. Quella grande casa tutta nera senza finestre è
il monastero dove si rinchiudono quelle che peccarono troppo, le povere
pentite, esse piangono là dentro perchè il Signore dimentichi le loro
colpe. In quella casa tutta rossa vengono rinchiusi i poveri matti....

— Dimmi bambina mia, ma tu guardi sempre laggiù per la terra e non levi
mai i tuoi occhi su, verso il cielo?

— Oh! Io ne vedo tanto del cielo se sapeste, e ne ho visto tanto che
non alzerò mai più la testa per guardare, è sempre uguale il cielo,
ed è tutto uguale, io voglio invece vedere là dove non ho visto mai.
Il cielo si guarda la notte, quando splendono le stelle, ma io vorrei
vedere quelle altre stelle della notte, che brillano nelle sale del Re
o nel teatro tutte nude per i loro amanti.

Il sole volgeva al tramonto e Perelà salutando la fanciulla che
guardava la terra e guardando lui un'ultima volta il cielo, prese a
discendere rapidamente verso la città. Quando vi giunse il sole era da
poco tramontato ed incominciava allora ad imbrunire.

Alla porta le guardie del dazio lo squadrarono insolentemente e
appena fu passato gli rivolsero parole di disprezzo che non potè bene
afferrare, la prima persona che incontrò, una donna, quando gli fu
vicina fece ad alta voce «_phue!_» e si scostò da lui come se fosse
stato preso da un male contagioso. E tutti incominciavano a farsi alle
soglie e alle finestre riempendo il suo passaggio di gesti e parole
triviali, di insulti, di grida di sdegno e di disprezzo.

Un fanciullo che si trovava nel mezzo della via fattoglisi vicino
gli dette una spinta alla quale Perelà barcollò ripetutamente sulle
scarpe ed andò a battere contro il muro; il fanciullo, raggiante
di incosciente malvagità per il colpo riuscito, gli tornò presso
e con un'altra spinta lo gettò dall'altro lato della via, e corse
allora un altro fanciullo ad aiutare il compagno nell'opera, e se lo
sballottarono dall'uno all'altro, eppoi un altro, e un altro ancora,
ne fecero come un giuoco, uno di quei palloni ripieni di gas, che
si manipolavano fra loro gridando, ridendo follemente. E in breve
furono tanti, un nuvolo, uno più perfido dell'altro, uno più accanito
dell'altro nel giuoco. Perelà in mezzo, livido, umiliato, senza
difesa contro lo sciame terribile, si sentiva travolgere dai piccoli
urti, e le grida, le risa gli ferivano il cuore. Alle finestre, alle
porte delle case nessuno inveiva più contro di lui, ma tutti ridevano
sconciamente, fino a smascellarsi, e la flotta dei bimbi aumentava,
incalzati e punzecchiati dai grandi a non lasciar finire l'indovinato
giuoco, e Perelà in mezzo piangente, avvilito nella più atroce maniera,
guardava i grandi mentre veniva così ferocemente travolto dai piccoli,
e il suo sguardo pietoso pareva dire: «perchè?». Perchè nessuno corre
a difendermi? Perchè nessuno viene a liberarmi da queste piccole mani
spietate quanto le più grosse del più grande nemico? Ora lo rotolavano
a terra, lo rialzavano, e ridevano rumorosamente oscenamente, nessuno
s'introduceva, anzi, tutti facevano bene largo nella via perchè
l'infantile masnada fosse libera di compiere la sua strage intera.
Egli era alla gogna, e quale terribile gogna, la più umiliante che a
uomo sia mai toccata! Impotente di difendersi fra un nuvolo di testine
ricciute, di squilli argentini di voci e di candide risa. Ce n'era
uno, avrà avuto appena tre anni, con un lungo stecco in bocca a guisa
di sigaro, rideva, rideva, si avvicinava a dare la sua spinta con una
giocondità di espressione angelica, e stringendo sempre fra i dentini
lo stecco, rideva....

La scena fu delle più umilianti che a uomo sieno mai potute toccare,
le piccole teste inconsce avevano inconsciamente trovata la maniera
più orribile, più feroce per umiliare un uomo. E tutti intorno ridevano
sconciamente alle porte, alle finestre, senza scomporsi, «bene! bravi!»
gridavano quando la ferocia degli insetti raggiungeva il culmine, per
aizzarli sempre di più. E l'uomo naufrago, perduto là in mezzo, passava
dall'uno all'altro sballottato, avvilito, assolutamente impotente a
difendersi per la sua estrema leggerezza contro uno solo dei fanciulli,
divenuto il giuoco più ridicolo nel mezzo della via, e l'espressione
piangente della sua povera faccia diceva: «perchè? perchè?»



L'INDISPOSIZIONE DI PERELÀ


Perelà è chiuso nelle sue stanze indisposto.

È venuto il medico di corte a visitarlo ma ha detto che non sapeva
assolutamente che cosa fare, non è nemmeno riuscito a trovare il cuore
ed il polso dell'infermo, ha concluso rifiutandosi ad ogni costo a
prodigare le sue cure ad un uomo di fumo, ed ha aggiunto ritenere
l'indisposizione una bella fandonia, uscendo dalla stanza ha scosso le
spalle in una maniera assai villana senza neanche salutare Perelà.

Non è una fandonia, Perelà si sente male davvero, dopo la scena nella
via, scampato solo quando i monelli furono stufi del loro giuoco,
rientrato nella reggia, ieri sera, si sentiva male, proprio male, tutte
le sue fragili membra erano lacerate, non poteva dire preciso dove
avesse una pena, ma certo era sofferentissimo, avvilito, umiliato, i
begli occhi grigi erano ancora piangenti, si sentiva la testa vuota ed
era di tratto in tratto serpeggiato da brividi fortissimi.

Gli stivali gli sembravano ora freddi al contatto delle gambe, e tutto
l'ambiente gelido.... sentiva un bisogno eccessivo di riscaldarsi,
ma data la bella stagione primaverile non ci poteva essere una stufa
accesa ed egli non osava domandare.

Nessuno è venuto da lui, solamente quel medico per due minuti e che se
ne è andato in una maniera tanto villana.

Egli pensa: «che cosa accade? Oh! non fossi mai ritornato! Io ero
felice ieri lassù, e mi sentivo già tanto vicino al cielo. Perchè sono
ritornato? Che cos'ha dunque questa terra che mi ha attratto un'altra
volta nel profondo delle sue insenature, nel freddo delle sue valli?
Oh! il bel colle, e l'azzurro che io avevo sentito già mio! Che cosa
mi faranno? Certo qualche cosa succede, qualche cosa si sta preparando
contro di me. Che feci loro? Se almeno ci fosse ancora il vecchio
Alloro! Egli è morto, morto.... morto.... diranno che è morto per me,
diranno che io sono la causa della sua morte, egli è morto.... ed ora
sarebbe forse la sola persona che avrebbe pietà di me, che verrebbe
almeno clandestino a dirmi quello che succede, quello che mi si vuol
fare, quello che mi si prepara, perchè qualche cosa si sta certo
preparando contro di me. Tutto si è rovesciato dinanzi ai miei occhi in
un istante....».

Mentre Perelà è assorto in questi suoi tristi pensieri, la porta della
stanza si apre cautamente e si introduce come una nube nera frusciante
di sete e di veli, una donna; la Marchesa Oliva Di Bellonda.


— Non mi si voleva lasciare entrare, ho dovuto lottare corpo a corpo
col dragone.... ha minacciato di infilarmi nella sua baionetta.... di
far fuoco sopra di me....

Ho invocato l'aiuto del Re, nulla, ministri, gentiluomini, nulla nulla
nulla, ah vili! vili! Solamente da una donna ho potuto ottenere: la
Regina, dalla sua grazia, non so che cosa abbia fatto, ha implorato per
me, non so, ha ottenuto di lasciarmi entrare. Sono venuta solamente per
dirvi che io vi amo, vi amo ancora, sempre eternamente vi amo. Dopo che
ho potuto sapere tutto, dopo che mi hanno raccontata la scena di ieri
sera.... sono rimasta per un po' avvilita, schiacciata.... oh! avrei
dovuto correre a liberarvi.... ieri sera guardando i miei bambini mi
sono sentita una vampa di odio alla testa contro di essi.... ma.... poi
ho pensato che i grandi solamente sono i colpevoli, i responsabili, e
che vale assai più la pena vendicarsi sopra di essi.... oh! s'io fossi
potuta correre, ad aiutarvi, a liberarvi!

Dunque, amico mio.... non so quello che sarà di voi.... credo che
appunto in questo istante il consiglio di quei miserabili sia riunito
per decidere di voi.... chi sa quale decisione verrà presa.... ma....
certo.... certo vorranno una vittima, due tre quanto è possibile... la
fame di quei perversi animali è insaziabile, vi vorranno far del male
ne sono sicura, io lotterò, farò tutto per salvarvi, tutto tutto, mi
renderò lecita ogni cosa Nulla sarà infattibile dinanzi ai miei passi!
Pur di giovarvi fino all'ultimo momento, e quando vi avranno bene
schiacciato non mi rimarrà che perire con voi, ed allora solamente sarò
tranquilla, potrò esser felice! Ma io tremo.... tremo solo per questo,
se voi doveste cadere senza di me.... voglio perdermi con voi capite,
voglio morire con voi! Questa sola sarà la mia ora di vita.... la mia
vittoria! E se me lo impediranno sarò spietata! Mi servirò del fuoco,
abbrucerò, mi servirò di lame per trapassare i cuori ridendo, allaccerò
con le mie reti anime e corpi, con tutte le viltà con tutte le menzogne
che da essi imparai, avvelenerò, distruggerò distruggerò, distruggerò
con un solo sorriso del mio odio, finchè non mi lasceranno morire con
voi. _Pena!_ _Rete!_ _Lama!_ Date alle mie mani spietate gli arnesi per
la mia distruzione, e datemi la forza orrenda di vendicarvi!

Non so quello che accadrà.... ma.... ricordatevi.... che io vi sono
sempre vicina.... sempre sempre.... addio.... addio.... mio grande
amore!


Appena scomparsa, come un'ombra, la Marchesa Oliva Di Bellonda, Perelà
pensa all'amore di questa donna, al suo sacrificio. Alla sola creatura
che l'ha amato. Pensa a lei, e pensa ad Alloro. «Forse anche lei
rimarrà schiacciata, abbruciata dal suo amore, come Alloro dalla sua
devozione.... e cadrà. Ma allora essi hanno ragione di odiarmi, gli
altri, se amarmi vuol dire soccombere, hanno ragione, obbediscono al
loro bestiale e naturale istinto di conservazione. Perchè Alloro si è
ucciso? Perchè questa donna vuole morire? Eppure io non ho detto loro
una parola sola, non ho neanche fatto loro supporre di ricambiare il
loro affetto, e il loro amore....».

La porta a questo punto si apre ancora, il gentiluomo dalla testa
quadra e dagli occhiali d'oro si fa sulla soglia, alle spalle si
sporgono due teste che guardano, gonfie di curiosità, nella stanza.

— Signor Perelà, voi siete chiamato domattina alle ore dieci dinanzi
al ministero della giustizia. Preparate la vostra difesa e i vostri
difensori.



IL PROCESSO DI PERELÀ


L'aula della giustizia è al completo.

Perelà è da pochi minuti nella gabbia dei colpevoli, circondata da
dodici vigili in grande uniforme.

Al suo apparire si sono intrecciate furiosamente alte grida di
disprezzo, fischi, lazzi osceni.

Solo dopo alcuni minuti è stato possibile ristabilire la calma e il
silenzio nell'aula.

Egli ha il suo solito aspetto, non è alterato minimamente, mostra di
interessarsi poco di quello che gli avviene intorno.

Le gallerie sono riboccanti, le eleganti signore e signorine vi sono
ammassate, vi si vedono uomini e donne di tutte le età.

La balaustrata è assiepata di popolo che gremisce imponentemente l'aula
fino dietro alle porte.

Già dalle sette del mattino la via e le adiacenze del palazzo della
giustizia erano popolatissime.

Quando è giunta la vettura con Perelà, le urla, i fischi si sono
scatenati in una bufera vertiginosa.

Sono le dieci, si attende il ministro della giustizia coi giudici.

Tutti gli sguardi sono rivolti all'imputato, dalla marea del popolo, in
fondo, si vedono continuamente sobbalzare teste che cercano di poter
vedere l'uomo, quell'abbassarsi ed alzarsi dà la sensazione di una
grande tempesta in un mare di patate.

Si sussurra si sussurra ma nessuna voce si distingue.

Si respira già quell'aria vaporosa umida, orribile ricetta di polvere
di decrepiti legni, di decrepite tappezzerie, e di fresche esalazioni
della giovane e vecchia umanità. Riescono talora ad infilar visi con
tutta la loro ironìa alcune spire di fino _Houbigant_ o di _Coty_,
somigliantissime a certi maliziosi risolini femminili, così fini
come lame di rasoi. Quel miscuglio che si perfeziona col miscuglio
stesso della gente, proprio di certi grandi teatri popolari, aule
universitarie e politiche, ma che in quelle della giustizia in giorno
di grande processo raggiunge la sua perfezione assoluta.


Si fa silenzio sepolcrale, entra il ministro della giustizia.
Nell'aula, che si sembra d'un tratto vuotata, si ode ora solo il
fragoroso tuonare di imponentissime poltrone smosse sulle assi del
pavimento.


Il ministro della giustizia si fa in piedi, volge intorno gli occhi
nella assoluta cristallizzazione dell'ambiente. Solamente Perelà
dondola appena appena sul suolo.

— Prima che il processo si apra, chi è il difensore dell'imputato?
— Silenzio, il ministro fissa Perelà, Perelà dondola ancora
impercettibilmente. — Imputato, chi è il vostro difensore? — Silenzio,
la compattezza dell'ambiente incomincia a screpolarsi. — Non avete
un difensore? Voi avete pure il diritto di essere difeso! — Il corpo
incomincia la sua screpolatura con qualche rumore. — Ebbene, chi vuole
essere il suo difensore? — Le crepe si allargano rumorosamente. —
Nessuno risponde? — Alcune si fanno voragini, incominciano a crollare
i primi tocchi con frastuono. — Non c'è uno che voglia difenderlo? —
È un rotolamento generale di tocchi che alla loro volta rotolano e si
disfanno. — E non basterebbe questa prova per firmare già la vostra
condanna? — Tutto si disfà, si sgretola, si disperde, l'ambiente è in
frantumi.

— Silenzio!

— Per l'ultima volta, c'è qui dentro uno che voglia parlare in difesa
dell'imputato?

— Io.

— Una donna!

— Oliva!

— Oliva!

— La Marchesa Di Bellonda!

— È pazza!

— Le donne non sono ammesse! La nostra legge non lo consente.

— Fuori le donne!

— Le donne non hanno mai difeso nessuno!

Si urla, si grida, si discute, si ride, ci si soffia il naso, si
sternutisce, si inveisce, al banco della giustizia si suonano alcuni
campanelli, ce n'è uno squarciato, si grida silenzio, quello squarciato
è proprio quello del ministro.


— Signora, la parola delle donne non ha mai avuto nessun valore sui
banchi della giustizia.

— Il signor Perelà ha il diritto di essere difeso.

— Ma non da una donna.

— Siccome la generosità degli uomini non ha una sola parola per lui,
sia almeno ascoltata la parola d'una povera donna.

— Questo processo prende una bruttissima piega.


— Atto di accusa!

— Silenzio!

— Silenzio! — I campanelli sono tutti a gambe all'aria, quello
squarciato sembra una vecchia contessa femminista in battibecco con dei
suoi fervidi spasimanti dai quindici ai venti anni.

— Atto di accusa.

«Imputato, siete accusato di esservi servito di male arti per ingannare
la Reale opinione, l'opinione del consiglio dei ministri, l'opinione
pubblica! Vi siete fatto credere, per la vostra eccezionale natura,
in grado di compiere un'alta opera per il nostro paese, mentre eravate
pienamente cosciente della vostra assoluta impotenza di tutta la vostra
insipida nullità.

E ciò per le vostre illecite mire ormai svelate.

Voi avete fino all'ultimo momento mantenuta la missione generosamente
offertavi invece di rassegnatamente dimettervi.

Siete accusato di esservi servito ancora di dette male arti per indurre
un uomo al suicidio. Alloro è la vostra prima vittima, voi avreste
continuata una propaganda di strage, incendiaria e omicida, facendo
abbruciare uomini e cose per restare padrone terribile e assoluto
del campo. Siete imputato di essere penetrato nel nostro paese al
solo scopo di nuocere, servendovi del vostro illegale, losco potere.
Discolpatevi».

Si fa un po' di silenzio, c'è qua e là gente che zittisce, si vuole
potere udire la difesa di Perelà. I campanelli hanno le sottane al loro
posto.

Appena Perelà incomincia a muoversi, a dondolarsi un poco in attitudine
di parlare, la sala ritorna nel silenzio più perfetto.

— Io sono leggero. — Queste parole egli le dice con voce ferma,
tranquilla, alitate con la soavità più assoluta di tutta la sua
espressione.

— Avanti, discolpatevi!

— Io sono leggero. — L'aula rumoreggia, si sentono molte voci
d'indignazione.

— Ah! Voi intendete con questa sola parola gettarci l'ultimo insulto!
Volete ancora una volta giuocarci colla vostra malefica colpevole
ironìa, col vostro scellerato cinismo? Voi volete dire che all'uomo più
leggero noi avevamo affidata l'opera più grave, non è questo che volete
dire? Ma a quell'uomo noi glie l'abbiamo tolta! E gli daremo ora la
pena ch'ei si merita. Il misterioso potere della vostra persona è ormai
svelato, siete il figlio.... di tre streghe!

— No! No! No! _Pena! Rete! Lama!_ guardatemi, voi lo vedete dove sono,
venite fuori dalla vostra sepoltura, ditemi, ditemi che non eravate tre
streghe!

Il momento drammatico indigna molte facce che si vanno raggomitolando,
ma qua e là si vedono biancheggiare alcuni fazzoletti.

— Signor Perelà, per l'ultima volta, discolpatevi.

— Io sono molto leggero, si, si, leg-ge-r-o.

— Incomincereste a diventar pesante.

— Ma come deve fare a scolparsi, si sente troppo bene colpevole!

— Aspetta rassegnato la condanna!

— Silenzio!

— Non avete altro da dire? Si passi all'interrogatorio dei testimoni.


Momento di discussioni vivaci, di piccoli alterchi, saluti, gesti,
sorrisi, tutti sono in movimento, solamente una donna in mezzo, poco
sotto al banco della giustizia, in piedi, colla testa bassa, aspetta:
la Marchesa Oliva Di Bellonda.


— Pirlottini Francesco Maria, arcivescovo.

— Aveste rapporti con l'imputato?

— Brevi ma bastanti.

— Che cosa vi sembrò?

— Un essere nocivo allo stato e alla chiesa, allo stato della chiesa,
alla chiesa dello stato.

— Credete ch'egli si sia valso di male arti per ingannare la Reale
opinione, l'opinione dei ministri, la pubblica opinione?

— Si valse di male teorie.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Direttamente.

— Credete ch'egli avrebbe continuato la sua propaganda omicida e
incendiaria?

— Indubitatamente.

— Che cosa ne fareste?

— Guarderei se fosse possibile il taglio della testa, se no il nodo. O
taglio, o nodo.


— Rodella Fortunato, banchiere.

— Aveste rapporti con l'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Una cavaliere.... d'industria.

— Credete si sia valso di male arti per ingannare, ecc...

— Certo.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Si.

— Credete ch'egli avrebbe continuato la sua propaganda, ecc.?...

— Si.

— Che cosa ne fareste?

— Un'asta pubblica.


— Scopino Isidoro, poeta.

— Aveste rapporti con l'imputato?

— Si.

— Che cosa, vi sembrò?

— Pedestre.... pedestre....

— Credete si sia valso di male arti, ecc....

— Arti da strapazzo.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Autore.

— Credete avrebbe continuato la sua propaganda, ecc.?...

— In collaborazione.

— Che cosa ne fareste?

— Lo manderei in omaggio a Costantino Del Pesce, per farglielo
stroncare.


— Del Pesce Costantino, critico.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Ne ebbi.... e non ne ebbi.

— Ne aveste o non ne aveste?

— Ne ebbi.

— Che cosa vi sembrò?

— Mi sembrò.... e non mi sembrò.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.....

— Si valse.... e non si valse.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Lo credo.... e non lo credo.

— Che cosa ne fareste?

— Ne farei....

— E non ne farei.


— Formichini Cesare Augusto, scultore.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Un vile.

— Ma voi gli avevate incominciato il monumento?

— Si.

— E come mai?

— Già io feci agli eroi tutti il monumento.

— E ora incominciate a farne ai vili?

— Perchè più grande rifulga al confronto lo splendore degli altri.

— Credete si sia valso di male arti, ecc....

— Diaboliche.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Satanicamente.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?....

— Lucifero!

— Che cosa ne fareste?

— Prometeo!


— Pacchetto Crescenzio, pittore.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Senza colore.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?...

— Si.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Si.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?....

— Si.

— Che cosa ne fareste?

— Lo vernicerei e poi lo darei a cuocere.


— Pipper Agostino, medico.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Ebbi occasione di visitarlo.

— Che cosa vi sembrò?

— Affetto da _psicopoloneuropatoschlerosofilia_.

— Si attacca?

— Oh! Una forma epidemicissima!

— E ce lo dite ora?

— Purtroppo!

— Credete ch'egli si sia valso di male arti, ecc.?...

— Contagiose.

— E lo ritenete ugualmente responsabile della morte di Alloro?

— Per Dio!

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?...

— Si.

— Che cosa ne fareste?

— Lo metterei sotto la calce viva.


— Pila Angiolino, detto Pilone filosofo.

— Aveste rapporti con l'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Un imbecille.

— Credete si sia valso di male arti, ecc....

— Per ingannare gl'imbecilli.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Erano due imbecilli.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?...

— Sì, ma cogli imbecilli, che non sono pochi.

— Che cosa ne fareste?

— Imbecille più, imbecille meno....

— Anche te, anche te, filosofo vigliacco, che stai sulla terra per
mostrarne i bubboni solamente, liberaci almeno dal tuo ch'è il più
sozzo!

— Signora Marchesa, non è il vostro momento.

— Fatela tacere!

— Fatela tacere!

— Questo processo mi sembra una _pochade_!

— È una farsa, una farsa!


— Bolo Filzo Zoe.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Mi pare.

— Che cosa vi sembrò?

— Un mostro.

— Credete si sia valso di mali arti, ecc.?...

— Mostruose.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Si.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda ecc.?...

— Non v'ha dubbio.

— Che cosa ne fareste?

— Lo chiuderei nelle urne delle mummie.


— Di Cartella Maria Gioconda.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò.

— Impotente nel bene potentissimo nel male.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?...

— Le peggiori.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Sicuramente.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?....

— Senza tregua.

— Che cosa ne fareste?

— Lo impiccherei dopo di averlo unto.


— Pizzardini Ba Cloe.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Qualche cosa.

— Che cosa vi sembrò?

— Un buono a nulla.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?...

— Si.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Si.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?...

— Si.

— Che cosa ne fareste?

— Uhm.... nulla.


— Giunchi del Bacchetto Nadina.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— No.

— Allora mia cara signora è inutile continuare l'interrogatorio.

— Voi potete però chiedermi che ne vorrei fare.

— Che cosa ne fareste?

— Lo caccerei negli occhi di tutte le mie buone amiche.

— Sguaiata!

— Si è voluta distinguere anche in pieno processo!

— Con tutta quella gente laggiù.

— Se ci pigliano di mira stiamo fresche!


— Delfino Bicco delle Catene Bianca.

— Aveste rapporti con l'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Un morto dissepolto.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?..

— Arti di morte.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Si.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?...

— Fino alla morte.

— Che cosa ne fareste?

— Lo seppellirei così.


— Copertino Enos. Si avverte il pubblico che pure portando un nome
mascolino il teste rimane di sesso femminile.

— _Voilà la lésbienne!_

— _Avec sa jupe-culotte!_

— Aveste rapporti coll'imputato?

— _Bien peu monsieur._

— Che cosa vi sembrò.

— _Une tapètte quelconque._

— _Mon Dieu quelle honte!_

— _C'est le dernier outrage._

— _Tapètte aussi!_

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?...

— _Certainement._

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— _Il était son tipe!_

— _Ah! La vieille tante!_

— _Quelle orrible créature._

— _Il me degoute._

— Che cosa ne fareste?

— _Je m'en fiche._


— Ilario Denza Carmen.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Uno sfruttatore di femmine.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?...

— Arti da lenone.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?...

— Assassino.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?...

— Impunemente.

— Che cosa ne fareste?

— Gli preparerei il rogo colle mie stesse mani.


— Ramino Liccio Rosa.

— Aveste rapporti con l'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò.

— Un uomo senza pudore.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?...

— Arti da spudorato.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Si.

— Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?...

— Spudoratamente.

— Che cosa ne fareste?

— Lo spoglierei sulla pubblica piazza e lo farei frustare.


— Del Prato Solìes Gelasia.

— Aveste rapporti coll'imputato?

— Si.

— Che cosa vi sembrò?

— Un corruttore di minorenni.

— Credete si sia valso di male arti, ecc.?....

— Arti corrotte.

— Lo credete responsabile della morte di Alloro?

— Corruttore.

— Credete ch'egli avrebbe continuato la sua propaganda, ecc.?...

— Ci avrebbe corrotti tutti.

— Che cosa ne fareste?

— Lo impalerei in un campo di canape.


— Il teste Barbero Di Ca' Mucchio Giacomina, impossibilitato a
rispondere ci fa pervenire il certificato medico.

— È vero non me ne ero accorta!

— Donna Giacomina!

— «Barbero Di Ca' Mucchio Giacomina — silenzio! — da me visitata,
trovasi affetta da contusioni gravi ed escoriazioni multiple della
vagina, con conseguente infiammagione. Per questo nell'assoluta
impossibilità di muoversi e camminare onde rispondere all'appello quale
teste in causa penale. In fede di quanto sopra firmato: Pipper».

— Carlomignolo!

— L'ha rovinata!

— Ch'egli segua sì in ritardo il proprio sviluppo naturale?

— Ella avrà piuttosto fatto un tentativo con qualche Carlo.... pollice.


— Marchesa Oliva di Bellonda, che cosa avete da dire?

— Una sola parola, dopo la deposizione dei testimoni io non posso più
dire che una parola: io sono leggera.... sì, leggera....

Leva in alto le braccia agitando i veli grigi che l'avvolgono, in atto
di volare.

Urla e fischi si scatenano da ogni parte, si sentono rumori osceni
fatti colla bocca, si sente anche il suono di una piccola tromba. La
Marchesa Oliva Di Bellonda ferma, attende.

— Serrate anche lei nella gabbia!

— Con quel vigliacco del suo amante!

— Legateli insieme!

— Pazza!

— Svergognata!

— Sculacciatela sulla piazza con quel porco di Perelà.

La marchesa solleva un braccio pure tenendo la testa bassa, si fa un
relativo silenzio.

— Sì, insultate.... bestemmiate.... è bene.... è bene, perchè voi non
imprecate che contro le cose grandi! — Urla, fischi. — Voi, non vi
potreste meglio tradire, o meschini!

Uomini generati nei viscidi uteri sanguigni, usciti come rettili dalle
contorsioni dei muscoli nel delirio della lacerazione della carne, egli
è sopra a tutte le stirpi, sopra a tutto il sangue!

È il figlio della fertile vecchiezza di tre vergini che lo nutrirono
non col nauseante umore del loro seno, ma coll'incanto della loro
voce, col calore della fiamma delle belle querci e degli abeti. Voi
benediceste ciecamente un giorno la sorte che ve lo aveva mandato, e
colla stessa cecità ora la condannate.

Uomini vili! che non sapete servirvi che dell'insulto o della menzogna!
— Urla, fischi, rumori osceni. — Voi preparate a quest'uomo la stessa
pena che date ai ladri e agli omicidi, ma egli è stato nuovo con voi,
riuscite almeno ad essere nuovi con lui! — Urla, fischi, trombette,
rumori di ogni genere, la Marchesa grida a perdifiato, ma solamente i
più vicini la possono udire.

— La fine di Alloro non è la prova più grande del suo potere? E quando
anche egli avesse fatto tutto e tutti abbruciare col suo incanto non
sarebbe egli il più grande, il più infinitamente grande di tutti gli
uomini?

— È pazza!

— Fatela tacere!

— È una donna!

— È innamorata!

— Stupida!

I rumori crescono, si raccolgono qua e là alcune invettive, alcuni
insulti, al banco del ministro grande _can can_ dei campanelli.

— Silenzio!

— Uomini dai visi arcigni, verdi per il tossico della vostra invettiva,
guardatelo! Egli è là sereno, immutabile, tranquillo! Che cosa ha egli
detto per discolparsi? «Io sono leggero». E io pure da questo momento
mi sento leggera, come lui, e sfido, sfido le ire di tutti, tutti vi
sfido, che siete tutti contro me sola!

Ella leva ancora in alto le braccia agitando i veli grigi intorno al
corpo in atto di volare.

— Fatela tacere!

— È una donna!

— È innamorata!

— Guardatemi, guardatemi in volto! I miei occhi brillano, e le mie
labbra sorridono! Io sono felice in mezzo a voi perchè mi avete
lasciata sola con lui!

— Basta!

— Basta!

— Siete donna!

— Siete innamorata!

— È la vostra difesa!

— È la vostra condanna!

— In mezzo a loro, io mi sento sola con te, come fossimo nel mezzo del
deserto soli! Amore! Sì! E posso dirti finalmente: io t'amo!

— Puttana!

— Basta per Dio! Silenzio!

— Si sapeva come doveva finire la difesa di una donna!

— Che scandalo!

— Io me ne vado ho paura.

— No no, rimani per carità.

— Ci ha danneggiate tutte!

— Voi ci avete tutte pregiudicate!

— Silenzio!

— Non potremo mai più ritentare l'aula.

— Silenzio!

— La pena!

— La pena!

— Il gabbione!

— Fra le mummie!

— Nella cella di Iba!

— Sì!

— Sì!

— Con Iba!


— La Catulva!

— La Catulva!

— La celebre Catulva!

— E venuta al processo!

— Chiedete a lei!

— Ella conosce tutti i drammi umani!

— Signorina dite, parlate.

— Parlate!

— Dite una parola di accusa o di difesa!

— Sì.

— Ha detto di sì.

— Ha detto di sì.

— Sì che?

— Continuate!

— È colpevole?

— È innocente?

— Silenzio!

— Sì? Che cosa?

— Non dice più nulla.

— Ma non sa che cosa dire!

— Queste attrici fuori dei loro drammi sono delle stupide.

— Non sa far che delle smorfie.

— Lasciatela.


— La pena!

— La pena!

— Al Calleio!

— Al Calleio!

— Sì, al Calleio!

— Il principe Zarlino!

— Il principe Zarlino?

— Hanno dato la via ai matti, hanno dato la via ai matti, poveri noi!

— Che succederà!

— Guarda guarda!

— Si abbracciano!

— Belli tutti e due!

— Si sono abbracciati!

Il principe Zarlino è vestito di un magnifico velluto grigio, ed ha
impastato bene la faccia con una certa pomata mercuriale. Da vari
giorni egli fa da Perelà dentro al suo manicomio.


— La pena!

— La pena!

— Al Calleio!

— Al Calleio!

— Il messo della Regina!

— Lasciatelo parlare!

— La Regina è nei suoi appartamenti che passeggia dubitosa, ella va
e viene per le sale colle braccia abbandonate, non dice più che una
parola sola: «Dio».

— Hanno tutti poche parole i grandi personaggi!

— Evviva la Regina!

— Abbasso la marchesa di Bellonda!

— Ella invoca Dio? Ma chi invoca uno che sa più forte di sè, è un
debole che ha paura!

Fischi acutissimi ricuoprono totalmente la voce della Marchesa.


Il ministro si alza, è per leggere la condanna, la sala a stento
ritorna nel silenzio più assoluto.

— Risultata ad unanime parere la reità dell'imputato e stabilita la
dubbia riuscita di pene più decisive, il Ministero della Giustizia lo
condanna alla segregazione cellulare a vita.

— Vile! Vile! Vile!

— Portatela via!

— Fuori! Fuori!

— Egli non sarà messo nelle comuni prigioni, ma gli verrà fatta una
piccola cella sulla cima del monte Calleio, dal quale discese a portare
lo scompiglio in mezzo a noi, e vi sarà murato!

— Bravo!

— Bene!

— Noi lo accompagneremo!

— Vile! Vile! vile!

— Murato!

— Bene!

— Viva il ministro!


— Il Re!

Ora solamente il Re può cancellare la condanna.

— Il giudizio del Re.

— Su in alto, nel mezzo alla loggia dell'aula, si apre un grande drappo
porpora a nappe d'oro e dietro un grosso cristallo appare la persona
del Re.

Tutti i respiri sono in quest'istante rattratti, il quadro in cima
all'aula assorbe tutti i sensi. Si ode solamente l'ansito di un
petto femminile che si squassa — su, su, su, su — come s'ella volesse
colla sua anima sollevare la mano del Re. Se egli solleverà la destra
durante i trentatrè secondi che la portiera rimane aperta, la condanna
è cancellata, se la destra rimarrà pendente la condanna è approvata
irrimediabilmente.

Gli attimi si rincorrono spasmodicamente.

— s.... u.... s.... u.... s.... u... s.... u... Vile! Vile! Anche te!
Vigliacco!

— Al Re!

— Al Re!

— È sua cugina.

— Legatela!

— Fatela legare!

— Vili tutti! Io correrò da tutti i popoli a raccontare come fu
condannato un innocente. A tutte le corti, di tutti i regni, come fu
consumata questa infamia! E tu, ministro della menzogna, quando ti
sarà chiesto ragione della condanna di un innocente, quando ti sarà
domandato che ne facesti di quell'uomo, che risponderai?

— Egli non era un uomo.

— E che risponderai della Marchesa Oliva Di Bellonda?

— Da questo momento la Marchesa Oliva di Bellonda non è più
responsabile delle proprie azioni!

— Ah! Bene! Bravi!.... Oh! mi avete.... mi avete.... schiacciata!
Io.... sono vinta, sono perduta, calpestata, e ora da vinta io parlo.

Io posso da vinta almeno supplicare. I vincitori concedono una piccola
grazia a chi è debole, a chi è caduto giù....

— Parlate.

— Egli non vi domanda nella sua prigionìa, cibo, come ogni altro
recluso, nemmeno una sedia nella sua cella egli vi chiede, ad Iba
stesso fu concesso tanto vino finchè ne voleva, dopo avergli rubato
il suo tesoro, ma voi non potete dimenticare ch'egli è il figlio della
fiamma, voi non glie lo potete negare questo.... Io supplico la pietà
della giustizia, a volere concedere che abbia la sua cella angusta un
piccolo camino solamente, il suo camino, dove nacque, e dove sempre
visse felice alimentato dal fuoco e dalla voce delle sue nutrici. Voi
non dovrete pensare a fornirgli un solo tronco, io, io gli anderò ogni
sera col fuoco perchè possa riscaldare le membra irrigidite, ravvivare
i poveri occhi nelle gelide notti. Voi mi concederete questa grazia,
che io vi domando.... inginocchiata.

— Su alzatevi, alzatevi signora Marchesa, la grazia vi è concessa,
la cella avrà il camino che voi chiedete e vi sarà praticato un foro
dal quale potrete passargli tutta la legna che vi parrà, e dal quale
potrete ogni giorno vedere il vostro amante.

— Uh!

— Che manata di fango!

— L'ha ricoperta di fango!

— Fango? Mie buone amiche? Il signor Perelà udì un giorno dalla viva
voce di voi tutte, pronunciare, con molta indifferenza, la parola
amante.

— Non è vero!

— Bugiarda!

— Mentisci!

— Nessuna disse allora la parola fango. L'amante che quel giorno io non
potei vantare eccolo, oggi lo vanto, siamo compagne.

— Sfacciata!

— Non è vero!

— Menzognera!


— La seduta è tolta.

— Addio mia cara Gelasia.

— Addio Zoe.

— _Adieu mon ange._

— Che orrore!

— Oliva fino ad ora era quella che aveva meno fatto dire di sè.

— Ha voluto mettersi al corrente.

— Altro che!

— Sembrava tanto mite in quella sua malinconia....

— Così dolce....

— È impazzita mia cara.

— Bisogna convenirne.

— Bianca Delle Catene nel suo cimitero non fece un tale clamore.

— E il povero marito?

— Che ha taciuto sempre.

— Lo ha coperto di ridicolo come potrà più sollevarsi?

— E ora ridurrà la casa il magazzino d'uno spaccalegna.

— Le farà spaccare a suo marito.

— I fanciulli, quando ella passa in vettura, le gridano dietro, e
stamane quando è giunta tutti esclamavano: Madama Perelà.

— Che scempiaggine fenomenale ha mai commesso!

— Ah!

— Tu vieni stasera in casa di Nadina?

— Certamente.

— Ci vediamo mia cara.

— Ci vediamo.

— Non mancherà nessuno.

— Certamente, ah! sì.... Madama Perelà!

— Che peccato!



IL CODICE DI PERELÀ


Dopo il processo, Perelà è stato ricondotto alla reggia, chiuso nel suo
appartamento sorvegliato da quattro vigili, egli vi rimarrà per tutto
il tempo necessario alla costruzione della sua tomba lassù sulla cima
del monte Calleio.

Questo atto spontaneo del Re e del ministro, di riprenderlo sotto il
tetto regale dopo la condanna, ha inasprito molto le maggioranze. La
delicatezza colla quale si continua a trattarlo cade ora nel ridicolo.

— Perchè questa condotta così eccessivamente pietosa da parte del Re?
Egli doveva essere trattato come tutti gli altri colpevoli, anzi, più
duramente, molto più duramente! Quale colpevole non sa trovare una
parola almeno per giustificare o solamente attenuare la propria colpa?
Ebbene, questa parola quell'uomo non l'aveva trovata! Che diavolo gli
si stava mai preparando lassù sulla cima di quel monte? Un qualche
villino forse? Una comoda villeggiatura per l'estate prossima? La
giustizia ha mostrato chiaramente fino all'ultimo il suo debole per
costui. — Ecco le voci in corso. — I delinquenti si trattano come
si deve, da delinquenti, quando mai si erano visti ricevere alla
reggia i condannati a vita? E usargli mille premure come fossero dei
principi del sangue? E quel povero Re che aveva corso i più grandi
pericoli con questo malfattore in casa, ora continuava a tenerselo
vicino come una mignatta! Gran baggiano anche lui! La bontà ha le
sue barriere come ogni altra cosa, fuori di quelle è stupidaggine,
è goffaggine, ridicolezza! Voleva dunque tendergli le braccia fino
all'ultimo? Una prigione tutta per lui! O quella non era un'idea torta?
Che esagerazione! Cosa diamine erano andati ad inventare? Sarebbe
bella che d'ora in avanti per ognuno di questi cialtroni si dovesse
fabbricare una villa sopra un luogo ameno a scelta! In poco tutte le
nostre colline ne sarebbero seminate, e recandoci alle passeggiate
domenicali noi avremmo per mèta questi buoni messeri! Oltre a godere
aria buona essi si vedrebbero onorati da continui pellegrinaggi come
il Santo Padre di Roma! Era forse la legge del progresso che portava
quest'ultima invenzione per punire i tristi? — L'idea non mostrava che
un lato apprezzabile: per andare dalla reggia a Porta Calleio, l'antica
porta aveva ripreso il suo nome, il condannato doveva traversare la
città intera, le vie principali di essa, e doveva traversarla a piedi,
giacchè i condannati non si menano in vettura, ogni cittadino avrebbe
potuto rivolgergli comodamente l'ultimo insulto, un lazzo ancora, uno
sberleffo finale! E farsi giustizia da sè.

Si attendeva con trepidazione il momento.

Lo stambugio sulla cima del monte in poco più di due giorni fu pronto,
e costruito colle pietre stesse del Calleio. Una cella di due metri per
due metri, infossata giù nel terreno, alta circa tre sopra di esso, un
orribile pozzo tenebroso. In basso, una porta piccolissima, foderata
di lamiera, e tutta bardata di enormi chiodi nella parte superiore di
essa, uno sportello di venti centimetri per venti tutto incorniciato
di ferro, e incrociato da due sbarre, da quello il condannato doveva
ricevere la luce e l'aria, e la legna se taluno glie ne avesse portata.
Tugurio sì inesorabile non fu mai costruito per nessun colpevole.
Guardandoci di fuori, per quello sportello, bisognava fare prima bene
gli occhi all'oscurità, e cercare di non cuoprirlo che parzialmente
colla propria faccia altrimenti non si vedeva più niente. Il recluso
poteva tenerlo aperto o chiuso a piacimento, di dentro eravi infissa
una lastra di ferro che scorreva su guide. La parete di fronte era
tutta occupata dal camino che veniva in avanti più che a metà cella,
sopra, sul tetto era la colonnetta dalla quale sarebbe uscito il fumo
se mai quell'uomo avesse avuto legna da bruciare.

Il Calleio è la cima più alta delle colline che fanno corona alla
città. È alto poco più di cinquecento metri. Le sue falde sono
rivestite di belli alberi verdi e su fino a metà gli fanno mantello
campi con bella simmetria coltivati. Ma dalla metà alla cima non v'è
più nessuna vegetazione, la natura calcarea del suolo, l'aridità per il
subitaneo sgrondare delle pioggie, impediscono qualunque coltivazione
e non vi crescono che le piante dei terreni aridi, pietrosi, delle
sabbie; esso finisce in un cumolo di rovine che scendono giù in
torrenziale fuga di pietre e di terra.

Dalla via maestra si stacca un bel viale fiancheggiato da cipressi che
sale fin dove il Calleio è verdeggiante, dopo, per giungere alla vetta
bisogna seguire un sentiero appena tracciato che si avvolge a spire
e si ritorce su su come un nastro, tortuosamente. Sopra la piccola
spianata della cima è stata costruita la cisterna del condannato. Da
lassù si domina bene la città ch'è giù a picco alle falde del monte;
e si abbracciano in un solo colpo d'occhio tutti i suoi incantevoli
dintorni.


Già dal mezzogiorno le vie del percorso sono animatissime, la piazza
reale è zeppa fino alla scalinata chiusa dal cordone dei soldati perchè
la folla non si inoltri alla porta della reggia. A tutte le finestre
ferve grande agitazione. Le case sono ricolme di gente, amici, parenti
conoscenze, tutti coloro che abitano fuori del percorso ma che hanno
la fortuna di conoscervi qualcuno. Egli deve percorrere quella via
del primo giorno quando solo e sconosciuto giunse in città, quella via
ch'egli percorse trionfante la sera che il popolo lo acclamò come un
sovrano.

L'ora stabilita è l'una dopo mezzogiorno, ma essa è già passata senza
che si veda ancora niente. Le finestre della reggia sono chiuse.

Tutti, al solito, incominciano colle immancabili supposizioni. In
queste circostanze si conta moltissimo sulla mezz'ora e magari ora di
ritardo del personaggio atteso. Quell'attesa è tutto, è indispensabile
per la buona riuscita, costituisce la solennità, l'importanza
dell'avvenimento. Un Re sarà acclamato assai più, la gente non si vuole
essere stancata per poco ad aspettare, e intanto tutti avranno avuto
agio di cicalare, di montarsi, scaldarsi a vicenda per l'occasione. Un
Re, un arcivescovo, un ministro, un personaggio qualunque che giungesse
o passasse cinque minuti prima dell'ora stabilita sarebbe accolto con
una generale freddezza, e tutti se lo vedrebbero sgattaiolare dinanzi
come un uomo qualunque, pieno di occupazioni, che ha fretta, che vuol
sbrigarsi, che guarda l'orologio lieto di essere qualche minuto in
anticipo, senza nessuna solennità.

Nel caso nostro l'attesa aumenta, colla curiosità, l'odio per il
condannato. Si incomincia a temere che il Re ne abbia fatta una delle
sue, lo abbia fatto condurre lassù alla chetichella, di nottetempo, per
sottrarlo al giusto sdegno della folla, al santo sdegno del popolo!
— Certo, il Re vuol sottrarlo a questo impiccio e noi aspetteremo
qui delle ore come tanti citrulli, e rimarremo di poi con due metri
di naso! La debolezza del Re per quest'uomo è diventata favolosa!
Favolosa! I ministri stessi lo stanno trattando con una dolcezza capace
di far sortire dai gangheri i più pacifici! Sono a momenti le due....


_Bdbun.... Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun bun. Bdbun.... Bdbun....
Bdbun bun bun.... Dan.... Dan... Dan.... Dan.... Dan... Dan...._
Le sentinelle al portone della reggia si fanno indietro, escono i
due primi tamburi che fanno fila a quattro metri di distanza l'uno
dall'altro. Ecco Perelà, dietro altri due tamburi, che si inquadrano
coi primi due. Il condannato, in mezzo, si avanza agilissimo,
leggero, quasi saltellando ad ogni passo, mentre il corteo s'incammina
pesantemente, lento, con cadenza funebre. Dietro vi sono quattro file
di soldati col fucile a bilancia, a distanza di quattro passi una
dall'altra.

Al rullo dei tamburi il corteo scende a passo cadenzato la grande
scalinata; solamente Perelà sembra sollevarsi ad ogni scalino, come per
spiccare il volo e farne il resto in un salto, tanto sono agili i suoi
movimenti.

Dalle prigioni, in fondo alla città, la campana fende l'imbottito aereo
coi suoi siluri di morte verso il condannato a vita.

La piazza della reggia è in un generale clamore, incominciano a
partire, come razzi, le prime grida, le prime invettive, i primi
fischi.

Il corteo ora è in piano e s'incammina per la via principale, i cui
marciapiedi, le cui finestre così zeppate di teste sembrano quei grossi
mazzi di rape o di barbebietole che gli ortolani tengono ammassate
nei loro palchetti col capo in fuori. Alle finestre della reggia si
intravedono muovere teste che spiano nascostamente dietro i vetri
chiusi.

Il corteo è nella via intrecciata da grida, insulti, lazzi, come da
stelle filanti, da una finestra viene giù un grosso sputo e cade ai
piedi del condannato. Perelà non si volge, ma siccome l'esempio è
imitato, i tamburi si fanno da parte sulle righe della folla cercando
di allontanarsi tutti dal bersaglio più che sia possibile. Ecco un
altro, un altro, un altro ancora, la gente incomincia a fuggire, i
soldati si fanno sempre più indietro, Perelà rimane solo nel mezzo,
immutabile sotto la grandinata di liquide frecce. — _Ciò cià, sciù,
crptù, crplah, crsciù_ — da tutte le parti piovono giù, taluni come
fiocchi di neve, altri roteano in aria come piccoli manubri di mercurio
lucenti, grigiastri, gialli, enormi che si vanno a squagliare in terra
come chiare d'uovo.... tutti hanno smesso di gridare ed esprimono così
il loro supremo disgusto.

Gli uomini che per tutte le cose della loro vita inventarono macchine
e ordigni tanto complicati, quando vogliono esprimere a pieno il loro
disprezzo, il loro sdegno, quando vogliono gettare in faccia ad un
essere odiato l'insulto più atroce, buttano fuori quello che di più
intimo custodisce la loro persona.

A Porta Calleio molta gente attende per seguire il gruppo, una
vettura è ferma colle tendine calate. Passa Perelà in mezzo ai tamburi
ritornati ai loro posti, la tendina di quella vettura si apre un poco,
si scorge il bagliore di una faccia bianca.

I tamburi col loro rullo, le quattro file dei soldati, e parecchie
centinaia di persone, dopo, una vettura nera celata ricoperta di sputi,
cammina piano come dietro un corteo funebre.

Su su per la strada la massa di popolo si va facendo sempre più esigua,
alcuni via via si fermano e tornano indietro.

Eccoci al principio del viale fiancheggiato dai cipressi che apre
l'ascensione sul Calleio, dietro non ci sono più che un centinaio di
persone e la vettura nera.

Siamo alla fine del viale dove incomincia il sentiero, la maggior parte
della gente si ferma e rimane a guardare dal basso l'ascesa dell'ultimo
tratto, la vettura si ferma, ne discende la marchesa Oliva Di Bellonda.
Perelà, i soldati, un mannello di venti o trenta persone ancora, i più
impenitenti curiosi, i più accaniti ingiuriatori che ora lo guardano
lividi in silenzio con ghigno di disprezzo, e dietro la donna trascina
il suo mantello nero sull'erta faticosa. Giù si vedono in fila, a naso
ritto, quelli che sono rimasti.

Perelà è chiuso nella cella irreparabilmente.

I soldati, e il carceriere colla chiave fatale, tornano indietro e
con loro ridiscende dopo un ultimo sguardo sdegnato, un ultimo tacito
insulto, la gente, la donna che è rimasta sola in disparte, si avvicina
alla prigione, piano piano la gira attorno per due volte, si ferma allo
sportello e vi guarda lungamente. L'uomo è in piedi sotto la cappa del
camino, alto, tranquillo — avrà freddo — ella pensa, — domani sera —
guarda ancora, egli la guarda senza la forza di scambiare una parola,
di aprire la bocca per articolare.

I soldati seguìti dalla gente camminano già sulla via, al principio la
vettura nera attende. La donna incomincia con passo incerto affranto la
discesa. Il sole è al tramonto, il disco sulla montagna difaccia sta
come un'ostia infuocata, ostia pura di luce e di calore, e giù, giù
per le rovine del Calleio il punto nero discende, dispare, ostia pura
d'amore e di dolore.

Il sole scompare dietro il monte, la donna sale nella vettura, e i
cavalli si muovono al trotto.


«Sono sotto questo camino e guardo su, in alto, il piccolo tondo
azzurro, è il solo bene che mi è stato dato, esso mi appartiene. Ecco
che in questo tramonto, io lascio le mie ultime volontà. I miei piedi
sono uniti, e le scarpe posano come quella mattina quando faticosamente
discesi fino ad esse, ed io le lascio qui, così.... come le avevano
preparate loro. _Pena! Rete! Lama!_ Voi mi daste queste scarpe perchè
io camminassi sopra la terra non è vero? Forse io dovevo camminare
fino a che non fossero tutte consumate? Se mi avessero sempre portato
come oggi io potrei lasciare stasera un vecchio paio di scarpe rotte
quaggiù, ma siccome sempre mi fecero camminare in splendide vetture, e
vi fu chi si ebbe cura di ripulirle e lucidarle sempre, quasi avesse
presentito che in fondo erano il mio solo bene terreno, esse sono
ancora in buono stato, sono ancora belle, lucide, e il loro suolo
non è punto consumato. È la sola cosa ch'io posseggo e ch'io vi possa
lasciare, o uomini, esse mi legarono a voi, e più sarete ora persuasi
che non valevo gran che, valevo questo paio di scarpe, eccole. Mi
chiamaste coi nomi più belli, mi strisciaste i vostri inchini più
profondi, mi adoraste come una reliquia, come un santo, poi vi siete
accorti che cosa io valevo e mi avete disprezzato, calpestato come
un rettile, ingiuriato, condannato come un assassino o un ladro, e mi
voleste per sempre lontano da voi, per dimenticarvi, per sempre di me.
Voleste tante cose da me, che io vi dettassi il Codice, eccolo, questo
solo può essere il Codice di colui che vi piacque di chiamare Perelà,
io ve lo lascio, esso manteneva sopra la terra la mia unica virtù. E
in questo bel tramonto una piccola nube grigia in forma di uomo, le
nubi hanno tante forme, volerà su su, traverserà lo spazio, l'orizzonte
verso il sole, nessuno la scorgerà, forse una povera donna, che avrà
per me un ultimo singhiozzo. A lei tutto il mio pensiero in questo
istante, a lei che neppure potè capire quello che io ero solamente:
leggero leggero leggero leggero».

Nell'uscire le gambe dalle scarpe cade a terra un piccolo disco roseo
di cartone, la tessera, e l'ultimo sguardo dell'uomo sulla terra si
posa sull'ultima sua parola «_et ultra_».


— Udite! Tutti! Venite qua! Correte! Qua.... con me! Vili! Vili tutti!
Correte....

— La Marchesa Di Bellonda!

— La Marchesa di Bellonda!

— È impazzata!

— Udite! Lassù!... nella cella.... Perelà.... non c'è più! lo sono
andata a portargli il fuoco per la notte, non c'è più.... la cella è
vuota.... sotto il camino non ci sono più che le sue scarpe!...

— È fuggito!

— È fuggito!

— No! È volato!

— Dove?

— Come?

— Dove?

— Al cielo!

— Pazza!

— Pazza!

— Guardatela, impazzisce!

— Impazzisce!

— È pazza!

— Cani!

— Prendetela!

— Vili!

— Ha il delirio!

— Vigliacchi!

— Pigliatela!

— È pazza!

— È volato!

— È pazza!

— Seguitemi.... seguitemi tutti.... via.... andiamo via a uccidere....
a raccontare.... per uccidere.... bisogna uc..... Ah!...

— È pazza!

— È caduta pazza!

— È caduta pazza, pigliatela!

— No! Non vi avvicinate!... è caduta morta. Ha voluto troppo
correre.... povera donna, le è scoppiato il cuore.



SUA LEGGEREZZA PERELÀ


— Come è solcato oggi il cielo! sembra un popolo nuovo, di uomini
nuovi, non è vero?

— Davvero.

— Guardate! Guardate!

— Guardate che cosa c'è lassù nel cielo!

— Fammi volare, amore!

— Aquile bianche, candide aquile, come cigni, vanno su, su, vanno coi
loro becchi adunchi....

— Vanno a strappare a Dio il velo sopra il suo mistero!

— Ma che!

— Quelle bandiere lassù, salgono a schiaffeggiare l'azzurro col sangue
della loro vittoria!

— Ma che!

— Come il cielo è solcato!

— Fammi volare, amore!

— Quegli uomini vanno a consegnare di propria mano a Dio la loro anima!

— Ma che!

— Dove vanno?

— Vanno a cercare Perelà.

— Perelà!

— Perelà?

— Il signor Perelà?


  _Firenze_, 1908-1910.



INDICE


  L'utero nero                                             Pag. 5
  Il thè                                                       41
  «Dio»                                                        85
  Il ballo                                                     93
  Visita a Suor Mariannina Fonte. Suor Colomba Mezzerino      121
  Ala                                                         129
  Il prato dell'amore                                         133
  Iba                                                         139
  Villa Rosa                                                  151
  Delfo e Dori                                                165
  La fine d'Alloro                                            171
  Il consiglio di Stato                                       183
  «Perchè?»                                                   199
  L'indisposizione di Perelà                                  217
  Il Processo di Perelà                                       225
  Il Codice di Perelà                                         255
  Sua Leggerezza Perelà                                       269



  DI ALDO PALAZZESCHI

  Vallecchi Editore Firenze.


  _Il codice di Perelà._
  _Il Re bello._
  _Due imperi.... mancati._
  _Il libro dei ricordi e degli esempi_ (prossimamente).
  _Il libro dei consigli_ (in preparazione).



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Il codice di Perelà" ***

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