Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Il Vino - Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880
Author: Various
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il Vino - Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880" ***


team at DP-Italia, http://dp-test.dm.unipi.it Scans provided
by OPAL libri antichi, Università degli Studi di Torino,
http://www.opal.unito.it



                                IL VINO

                           UNDICI CONFERENZE
                                 FATTE
                      NELL'INVERNO DELL'ANNO 1880

                                   DA

              ARTURO GRAF               GIOVANNI ARCANGELI
              ALFONSO COSSA             ANGELO MOSSO
              CORRADO CORRADINO         GIUSEPPE GIACOSA
              MICHELE LESSONA           GIULIO BIZZOZERO
              S. COGNETTI DE MARTIIS    CESARE LOMBROSO
                            EDMONDO DE AMICIS

                                 —————
         CON MOLTE INCISIONI NEL TESTO E 3 TAVOLE LITOGRAFICHE

                             [Stemma: E.L.]

                             TORINO E ROMA

                           _ERMANNO LOESCHER_

                                 1880.


                                 —————
                        _Proprietà letteraria._
                                 —————


               —————————————————————————————————————————
          Torino — V. BONA, Tip. di S. M. e dei RR. Principi.



                             AI LETTORI


_Il libro che io qui presento al pubblico può a buon diritto chiamarsi
una singolarità bibliografica. Mettersi insieme parecchi cultori di
studii disparatissimi, scegliere fra tutti un sol tema, e trattarlo, in
una serie di pubbliche conferenze, secondo la particolare competenza
scientifica di ciascuno, fu idea felicemente nuova, la cui novità, come
conseguì da prima il plauso degli uditori, così conseguirà ora quello
dei lettori._

_Questo volume non è, nè vuole essere, un trattato sul vino; anzi
l'indole sua è talmente rimota da ciò, che le varie conferenze vi si
succedono in quell'ordine medesimo, o vuoi, in quel medesimo disordine,
in cui, per deliberato proposito, furono dette pubblicamente. Nè si
offre esso piuttosto ad una che ad altra classe di persone, mentre potrà
tornar gradito agli uomini tecnici di trovarvi discorso del vino
altrimenti che sotto il rispetto tecnologico, e cioè in relazione con lo
spirito e con la vita; e potrà riuscir utile agli altri il trovarvi
copia di notizie tecniche più propriamente, le quali non è senza
profitto conoscere. Esso vuol essere, ed è, libro di piacevole ed
istruttiva lettura._

_E di ciò si persuaderanno di leggieri quanti vorranno dare uno sguardo
ai nomi degli autori che si leggono sul frontispizio._

                                                      L'EDITORE.

    Torino, il 3 giugno 1880.



                               INDICE


   A. GRAF. — _La leggenda del vino_                         _Pag._ 1
   A. COSSA. — _La chimica del vino_                           »   39
   CORRADO CORRADINO. — _Il vino nei costumi dei popoli_       »   69
   M. LESSONA. — _I nemici del vino_                           »  105
   S. COGNETTI DE MARTIIS. — _Il commercio del vino_           »  167
   G. ARCANGELI. — _La botanica del vino_                      »  205
   A. MOSSO. — _Gli effetti fisiologici del vino_              »  249
   G. GIACOSA. — _I poeti del vino_                            »  283
   G. BIZZOZERO. — _Il vino e la salute_                       »  329
   C. LOMBROSO. — _Il vino nel delitto, nel suicidio e nella   »  371
       pazzia_
   EDMONDO DE AMICIS. — _Gli effetti psicologici del vino_     »  443



                               _A. GRAF_
                                   —
                         LA LEGGENDA DEL VINO

           (_Conferenza tenuta la sera del 12 gennaio 1880_).


          _Signori_,

Voi sapete che la Terra, negli anni della più fiorente sua giovinezza,
fu coperta, la massima parte, da immense foreste impenetrabili, più
vaste assai e più selvagge che quelle non sieno, le quali ingombrano
tuttavia il bacino del Rio delle Amazzoni nell'America meridionale, o
del Congo in Africa. In simile modo i primi stadii della storia della
umanità appaiono coperti, lasciatemi dir così, da una folta boscaglia
intellettuale, vivace e lussureggiante vegetazione di miti, sogni
giovanili della mente umana, figurazioni iridescenti, splendenti di
colore e di luce.

Sotto a questa varia e prestigiosa vegetazione si occultano tutti i
nostri principii, le nostre antichissime origini: prime religioni, primi
costumi, primi dolori coevi all'esser nostro, primi passi faticosi
mutati sull'ardue vie dell'incivilimento. Nè solo il mondo umano, ma la
natura ancora vi si occultò: tutta la natura un tempo fu assunta nel
mito.

Se ebbe il suo mito la folgore che squarcia la nube, l'onda del torrente
che fugge; se dalle stesse rupi sbocciarono mitici fiori, tutti
olezzanti di silvestre poesia, come non avrebbe avuto la sua mitica
fioritura la vite, la vite, da cui tanto bene e tanto male deriva nel
mondo, la vite che tanta parte ebbe nelle religioni, nei costumi, nella
poesia, ch'ebbe, ed ha tuttavia tanta parte, o signori, nella stessa
politica? Più della quercia sacra a Giove, più dell'alloro sacro ad
Apollo, la vite doveva avere le sue leggende e i suoi miti.

Ma quale farraggine qui ci troviamo dinnanzi! che viluppo, che miscuglio
d'immaginazioni e di cose! Come mai potè mettere tante propaggini questo
legno fatale? Non un vigneto, ma un bosco gli è questo, pieno d'alberi
strani; da che parte entrarvi, come traversarlo, come uscirne? Cerchiamo
la via più breve, e, se tanto ci sarà conceduto, più dilettevole.

Di mezzo al fitto intreccio dei miti, di tra le dipinte fantasie che a
vicenda si suscitano e si richiamano, fuor dal fermento di una poesia
che bulica e brilla come il licore di che si genera, sorge e spicca un
pensiero: il vino ebbe origini soprannaturali e divine.

Ma forse taluno qui potrebbe riprendermi e dire: Come divine? non
pertutto, non sempre. Noè non fu egli un uomo?

Signori; una scienza nata appena nel mondo, ma già divenuta assai
frammettente e pettegola, dico la mitologia comparata, crede d'aver
tanto in mano da dimostrare che nei tempi dei tempi Noè fu un semidio,
come tale adorato in alcuna religione dell'Asia, e ridotto alla
condizione di semplice adamita il giorno in cui fu attratto nell'orbita
delle tradizioni mosaiche, dove per i semidei non c'era più posto. Ma
poniam pure che la mitologia comparata abbia torto, e concediamo che il
vecchio Noè non fu mai altro che un uomo; ad ogni modo bisognerà
confessare che fu un uomo singolarissimo. Egli vive 950 anni, età che, a
dispetto della ginnastica e dell'igiene, da un pezzo in qua più non si
riscontra sui registri dello stato civile^[I-1]; egli è il solo che,
insieme con la sua poca famiglia, sia sembrato degno di sopravvivere
alla universale distruzione del genere umano. Poi, se non mentono le
storie autentiche ch'io avrò a ricordare fra breve, egli fu di statura
di giganti. Finalmente, per tagliar corto a questo ragionare, se nella
fabbricazione del vino, di cui egli fu glorioso inventore, non ebbe
parte diretta nessun iddio, v'ebbe parte direttissima il diavolo, come
con irrefragabili prove dimostrerò fra poco. Comunque si prenda a
considerare la cosa, nelle origini del vino ci si scopre sempre alcun
che di soprannaturale e d'arcano.

Volgiamoci all'Asia, alla gran madre dei miti e dei popoli. Che cosa
troviam noi negli antichissimi libri dell'India che possa soddisfare
alla curiosità nostra? Noi troviamo un licore inebbriante, _amrita,
soma_^[I-2], dotato di maravigliose virtù, dispensatore di vita e
d'immortalità, oggetto di venerazione fra gli uomini, cagion di contesa
e d'invidia tra' numi. La poesia dei Vedi n'è tutta madida e profumata.
Delle sue origini celesti e terrestri si dicono maraviglie, che van
crescendo come il tema glorioso migra dai libri sacri alle vaste epopee.
Nel Râmâyana udite che cosa si narra.

I figliuoli di Diti e di Aditi desideravano l'immortalità: che fare per
conseguire l'intento? Consigliatisi insieme essi risolvono di frullar
l'oceano; l'acque frullate daranno l'amrita. Si pongono all'opera:
traboccan nell'onde il monte Mandara, ci ravvolgono attorno il serpente
Vasuki a guisa di corda, e cominciano a tirar dall'un capo con quanta
n'han nelle braccia. Si svolge la fune viva, il monte ruota sopra se
stesso come una trottola e diguazza l'oceano a quel modo che si fa del
latte nella zangola per levarne il burro. Dopo mill'anni il serpente,
venutogli a noia il giuoco, si mette a sputare un veleno che consuma il
mondo; il dio Siva soccorre trangugiando le pestifere bave. Dopo mille
altri anni escon dall'onde portenti precursori dell'agognato
trasmutamento: il medico Dhanvantari, le ninfe Apsarase, Surâ o Varuni,
la dea del vino e dell'ebbrezza^[I-3], il cavallo Uccaihçravas, la gemma
Kaustubha, il dio Soma, la dea Çrî. Dopo un terzo frullamento l'acque
coagulate danno l'amrita; i figliuoli di Diti e di Aditi, cioè i demoni
Asuri e gli dei combattono pel suo possesso. Da ultimo gli dei trionfan
dei demoni^[I-4].

Al soma e all'amrita degl'indiani corrispondono l'haoma degl'Irani e
l'ambrosia dei Greci sino nel nome, e corrisponde per molti caratteri
l'ôdhörir della mitologia germanica; ma se il tempo ci concedesse di
allargar tale esame noi potremmo trovare nelle memorie religiose di
molti popoli questa mitica immaginazione di una bevanda inebbriante che
fa trionfare della morte e del tempo, sino a quella famosa fontana di
giovinezza di cui tutto il medio evo sognò, e che al Prete Gianni
fortunato suo possessore, prolungava senza misura la vita^[I-5].

Dall'India alle coste occidentali d'Europa corrono da circa cento gradi
in longitudine, e pure su tutta questa vasta parte di mondo si stese un
tempo il culto di Dioniso, o Bacco che dir lo vogliate. Io non vi
rinarrerò la storia del più giocondo e amabile Dio dell'Olimpo greco.
Chi non sa ch'egli è figliuolo di Giove e di Semele, che uscito anzi
tempo dall'alvo materno il padre lo custodì entro la propria coscia
tutto il tempo che ancora mancava alla gestazione perfetta, che
sottratto all'odio della gelosa Giunone crebbe in bellezza e fortezza,
che sposo d'Arianna generò figliuoli e per l'indole e per il nome degni
di lui? Naturalmente benevolo alla razza degli uomini egli volentieri
disertava per la terra l'Olimpo, ed erano sue compagne le Muse e le
Grazie. Chi vi potrebbe ridir tutti i nomi onde lo chiamarono e lo
celebrarono i mortali da lui beneficati? Udite come un nostro poeta ne
pone insieme parecchi:

    Un Dio, non mica un Dio
    Della plebe selvaggia degli Dei,
    Ma fra i più furibondi il più indomabile.
    Il più fiero e formidabile:
    Vidi il nume Bassareo,
    Euchioneo, Dirceo, Melleo,
    Semeleo, Cadmeo, Briseo,
    Nittileo,
    Agenoreo,
    Il feroce, l'indomito Lieo^[I-6].

Il più bello dei suoi nomi è Lieo, cioè Liberatore.

Molto si favoleggiò delle sue origini, più delle peregrinazioni. A dir
di alcuni egli aveva passato la fanciullezza in un'isola incantata,
degno principio di vita così gloriosa^[I-7]. Varii paesi si disputarono
il vanto d'avere proprio da lui appresa l'arte di spremere il vino
dall'uve, e in Tiro si celebrava ogni anno una festa in memoria solenne
del benefizio. Che venisse in Italia sarebbe da credere senza bisogno di
prove, quando non si trovasse detto e confermato da scrittori
gravissimi, tra gli altri da Sofocle^[I-8]. Del resto egli corse da
conquistatore presso che tutta la terra allora conosciuta, imponendo
senza fatica ai popoli la grata sua signoria ed il culto giocondo. In
ciò egli si rassomiglia all'egizio Osiride, il quale anch'esso inventò
il vino e corse la terra. Nè la somiglianza si ferma a tanto, ma si
stende a molt'altre operazioni, a molti caratteri. Così Dioniso, come
Osiride, si vantano della invenzion dell'aratro, dell'agricoltura, di
molte industrie profittevoli all'uomo; essi sono gl'iniziatori della
civiltà^[I-9]. Considerate il senso profondo di tuttociò: le divinità
inventrici del vino istituiscono il genere umano; la storia civile è una
propaggine della vite. Potrei confortare quest'asserzione d'innumerevoli
esempii e di convincentissime prove; mi contenterò di ricordare che
l'iranico Scemscid, l'epico eroe di Firdusi, è a un tempo medesimo
l'institutore della civiltà e l'inventore del vino, secondochè dallo
storico persiano Mircondi, con critica inappuntabile, si afferma, si
documenta e si prova.

Ma il vino d'onde uscì, d'onde uscì la vite? Nelle origini di queste
cose è egli possibile che non vi sia alcunchè di stravagante e di
recondito? Non debbono cose di tanta eccellenza trascendere i poteri
della natura? Arduo problema che suscitò molte disparate opinioni.

Che l'amrita stillasse dalle nuvole raffigurate nel mito quali vacche
celesti, o si formasse dell'acqua del mare sbattuta da braccia divine,
io non ci ho nulla in contrario; ma nessuno potrà farmi credere mai che
altrettanto accadesse del vino. Nè varrebbe citarmi i luoghi di poeti
dove si afferma che dall'Oceano profondo uscirono tutte quante le cose
create; nè varrebbe allegarmi l'opinione di quel linfatico filosofo
Talete che sosteneva l'acqua esser l'ottima delle cose e principio primo
di tutte; opinione da cui forse recedette alquanto un giorno che, per
guardar troppo al cielo, e non abbastanza ai suoi piedi, capitombolò in
un pozzo. Principio di tutte le cose, si può concedere; del vino, si
nega.

Tra il vino e l'acqua fu sin dalle origini una sorda rivalità, che, con
l'andar degli anni si mutò in nimicizia acerba e rabbiosa. Per tutto
dove si affrontano, la contraddizione prorompe. Noè inventa il vino dopo
il diluvio, e Diodoro e Nonno affermano lo stesso di Bacco; così che si
può dire ch'esso viene al mondo per ragion di reazione, quando gli
uomini stanchi e fastiditi di quella insipida e soperchiante umidità, ne
bramano un'altra più gradita e più rara. Nel medio evo i due rivali
vengono a guerra aperta, e non v'è contumelia, non calunnia, non
ischerno di cui non si servano per discreditarsi a vicenda, per farsi
segno l'un l'altro all'abominazione dei popoli. La poesia è tutta piena
dei loro clamori; non v'è letteratura in Europa che non possegga nelle
_dispute_, nei _contrasti_ e nelle _contenzioni_, i documenti autentici
di quell'epica nimistà. In un contrasto latino del secolo XIII, il vino
afferma d'essere dio:

    Ego Deus, et testatur
    illud Naso, per me datur cunctis sapientia;

e vitupera l'acqua chiamandola feccia e sentina delle cose:

    Tu faex rerum et sentina^[I-10].

Indarno la caritatevole premura degli osti cercò in tutti i tempi di
comporre queste antiche discordie; la coscienza umana protestò contro la
violenza che da essi per fin di bene si volle fare alla natura. Tutta
l'umana famiglia, tolta la sola specie o varietà degli osti, favorì la
separazione, e parteggiò per il vino, lasciandosi andare a immaginar
qualche volta la totale disfatta dell'acqua e l'allargamento della
potestà del vino sopra gli antichi dominii di lei. D'onde quel desiderio
vagamente qua e là espresso nella poesia col tono di chi quasi si
sgomenta della sublimità delle proprie immaginazioni: Oh, se le fontane
versassero vino, e fossero vino i fiumi e vino il mare! D'onde il mito
delle Enotropre, figlie di Anio, che avevano la virtù di mutar l'acqua
in vino.

Ma torniamo alle mirabili origini. Credettero alcuni che la vite fosse
nata da una goccia di sangue divino caduta sopra la terra. Altri
pensarono poi ch'essa fosse in origine un giovinetto amasio di Bacco
trasformato in pianta. Secondo un altro mito greco, che si riscontra con
un mito egizio, il vino sarebbe venuto dal sangue dei giganti. Il meth,
bevanda inebbriante delle saghe settentrionali, si fa a dirittura
derivare dal sangue di Quasir il più savio di tutti gli dei. L'acqua,
ingelosita di così gloriose origini, non volle stare al disotto, e un
mito egizio fa derivar l'oceano dal sangue di un gigante, e lo stesso fa
un mito germanico.

Non la finirei più se dovessi entrare a discorrere, come richiederebbe
il soggetto, del culto di Bacco e delle feste e dei riti che a quello
andavano congiunti. Ricorderò solamente che dalla liturgia dionisiaca
venne fuori la tragedia greca, come dalla liturgia cristiana appo noi
venne fuori il mistero. Ricorderò ancora che di quante feste si
celebravano un tempo in Grecia ed in Roma in onor degli dei quelle
consacrate a Bacco erano le più popolari e gradite. In Grecia le
principali feste dionisiache formavano un ciclo, e si succedevano a non
lunghi intervalli dal decembre sin oltre l'aprile. Ci si distinguevano
le dionisiache campestri, le lenaje, le antesterie, le grandi
dionisiache cittadine. Che il vino ci dovesse entrare per molto
s'intende di leggieri. Nelle antesterie si bandiva una gara tra
bevitori, ed era premiato chi votava con più disinvolta prontezza la
giara colma di vino novello. Le grandi dionisiache duravan sei giorni e
richiamavano in Atene, da tutta la Grecia, un popolo sterminato. Una
legge d'Evagora, della quale Demostene ci ha conservato il testo,
ordinava che, durante quei giorni sacri alla giocondità, non si
accogliessero dai giudici reclami per debiti, non si eseguissero
sentenze, non si privasse nessuno della libertà. In Roma Bacco era
festeggiato nelle _liberalia_.

Taccio del culto secreto, dei misteri, a cui la fanatica stravaganza e
l'indecenza di certi riti procacciarono una infame celebrità. In Roma i
_baccanali_ diedero luogo a tali eccessi, che il senato dovette
promulgare contr'essi, nell'anno 186 avanti Cristo, una severissima
legge.

Fra i riti e le pratiche del paganesimo che un pezzo ancora dopo l'epoca
di Costantino più pertinacemente resistono al cristianesimo trionfante,
quelli che si riferiscono al culto di Bacco tengono molto probabilmente
il primo luogo. Nel VI secolo le feste di Bacco tuttavia si celebrano in
Gallia, e certo non in Gallia soltanto^[I-11]. Ora, nella vecchia
religione pagana il cristianesimo non detestava tutto con lo stesso
fervore, nè tutto combatteva con lo stesso zelo. C'erano in essa alcune
parti che meno apertamente contraddicevano al suo spirito austero, e
dalle quali non poteva venire gran danno. C'erano divinità, come Apollo
e Minerva, che potevano predisporre gli animi alla virtù, e ad una
intuizione severa della vita, quale il cristianesimo desiderava
naturalmente; e c'erano divinità come Venere e Bacco, che traevano alla
licenza, e favorivano la corruzione del costume, offendendo nel più vivo
quella religione novella, che appunto con la universale riforma del
costume si annunciava nel mondo. Così non ci parrà soverchio il rigore
di quel Teodoto, vescovo di Laodicea, che scomunicò senza altro un
presbitero e un lettore della chiesa soggetta alla sua giurisdizione per
aver assistito alla recitazione di un inno a Bacco fatta dal sofista
Epifanio.

Il cristianesimo traeva alcune figure dal mondo delle finzioni pagane e
le allogava tra i simboli suoi. In due pitture delle catacombe di San
Callisto in Roma, e sopra altri monumenti dell'arte cristiana più antica
si vede Cristo raffigurato sotto le sembianze di Orfeo. Ora Orfeo poteva
servir di tipo a Cristo, ma certo non poteva accadere altrettanto di
Bacco.

Assai scarse per conseguenza sono nell'arte simbolica cristiana le
figurazioni desunte dal culto di questa divinità. S'incontrano alcuna
volta sopra i sarcofaghi, ma per eccezione e certo fu esempio poco
imitato. Fra le eccezioni è curioso trovare l'urna funerale di Costanza,
figlia di Costantino, urna che mostra scolpiti nel porfido bacchici
emblemi, e si conserva a Roma nel museo Pio-Clementino. Per ragione di
quegli emblemi l'urna, ancora nella seconda metà del secolo XVII, si
credeva da molti fosse stata la propria tomba di Bacco^[I-12].

Tuttavia si vuol ricordare che la vite fu ricevuta fra i simboli del
cristianesimo, e vi tenne anzi luogo molto onorevole. Nella Sacra
Scrittura la sapienza è, con molta sapienza, paragonata alla vite, e
Cristo dice per bocca di San Giovanni: lo sono la vera vite, e mio padre
è il vignajuolo; io sono la vite, e voi siete i grappoli. Nei mosaici di
cui risplendon gli amboni delle chiese antiche spesso si vede questa
simbolica vite spargere intorno i tralci carichi di frutta maravigliose.
E non ricevette forse tutta la chiesa dei fedeli l'allegorico nome di
vigna del Signore? Non parlo dell'ufficio riserbato al vino nei riti più
angusti. La Chiesa non condannò nè la vite nè il vino; condannò Bacco e
il suo culto.

E pure, a dispetto di quella condanna, quante memorie ne rimasero per
secoli tra gli uomini, quante tuttavia ne rimangono! Non è da credere
com'è duro svezzar i popoli da certe usanze, distorne la mente da certe
immaginazioni. Molti riti pagani si mescolarono, senza quasi che altri
se ne avvedesse, ai riti cristiani, di molte feste pagane si fecero
feste cristiane. La Chiesa più d'una volta ricorse a quest'utile
espediente d'incorporarsi ciò che non valeva a distruggere. Così un
avanzo dei baccanali romani sopravvive nelle feste della Madonna
dell'Arco che ogni anno si celebrano in Napoli. Il ceppo di Natale, le
strenne di capo d'anno, il carnovale, traggon l'origine da usi pagani.
Spesso accadde ancora che d'un dio pagano si fece un santo cristiano,
contro la regolar consuetudine, ch'era di farne un diavolo. Così della
dea Pelina si fece San Pelino, della Felicità pubblica si fece Santa
Felicita, e il mito d'Esculapio diede origine alla leggenda di San
Rocco^[I-13]. Qual maraviglia se noi troviamo nel calendario cristiano
anche un Sant'Apollo, un San Mercurio, un San Bacco?^[I-14] Le divinità
pagane perseguitate senza pietà, si cacciarono qualche volta nel
santuario, e mutatesi alquanto nell'aspetto, e un tantino nell'indole,
vi rimasero in pace. Così accadde spesse volte nel medio evo che un
solenne ribaldo, riparatosi in un convento dalle persecuzioni della
giustizia, vi prendesse, tutelato dal diritto d'asilo, la tonaca, e
morisse poi in odore di santità. E non mancano nemmeno esempii di santi
genuini ed autentici, i quali avendo consumato la vita a combattere il
paganesimo, si videro dopo morte, contro ogni aspettazione loro,
rivestiti di alcune, o poche o molte, qualità di questo o quel nume più
aspramente da loro combattuto. Valga per molti esempii quello, che più
si confà al caso nostro, di San Martino, che presso il popolo, in
Francia e in Germania, dovette, di buona o di mala voglia, far le veci
di Bacco^[I-15].

Nei costumi nostri potrei mostrar molte vestigia di costumi antichi
attinenti al culto di Bacco, o aventi in qualche modo relazione col
vino. La corona o il fascio d'edera, o d'altro frondame, che per tutta
Europa serve d'insegna alle osterie, ricorda la corona trionfale di cui
Bacco s'ornava, e l'edera a lui sacra^[I-16]. Quest'uso noi l'abbiam dai
Romani, e il nostro proverbio: _Il buon vino non ha bisogno di frasca_,
e il francese in tutto simile: _A bon vin il ne faut point de bouchon_,
risponde di tutto punto il latino: _Vino vendibili suspensa hedera non
opus est._ L'usanza di aromatizzare i vini con erbe o con resine, come
si fa qui da noi pel _Vermouth_, e per molti vini in Grecia, risale ad
antichità assai remota. Non parlo della presenza di Bacco nel linguaggio
parlato: noi diciamo ogni momento: _Per Bacco! Sangue di Bacco! Corpo di
Bacco!_

Altre memorie più singolari ci presenta la poesia del medio evo. Del
secolo XIII è una messa dei beoni che comincia: _Introibo ad altare
Bacchi, ad eum qui laetificat cor hominis_. Il _Confiteor_ vi si
trasforma, come il bisogno richiede: _Confiteor reo Baccho omnipotenti_;
vi si trasforma il _Pater noster_, ed è naturale: _Pater noster qui es
in scyphis_^[I-17]. San Paolo aveva detto: _Ebriosi non possidebunt
regnum Dei_; ma tale non è l'opinione di chi si finge nel XII secolo
faccia la strana professione di fede contenuta in quei versi famosi:

    Meum est propositum in taberna mori.
    Vinum sit appositum morientis ori,
    Ut dicant cum venerint angelorum chori
    Deus sit propitius huic potatori^[I-18].

Nel secolo seguente un cantico alla Vergine si trasforma in un cantico
al vino^[I-19]. Dei Goliardi, autori spesso di così fatte parodie, fu
chi disse:

    Magia credunt Juvenali
    Quam doctrinae prophetali,
    Vel Christi scientiae.

    Deum dicunt esse Bacchum,
    Et pro Marco legunt Flaccum,
    Pro Paulo Virgilium.

Questa letteratura vinolenta darebbe da dire assai a chi volesse tenerle
dietro. Ricorderò ancora i _Miracles de saint Tortu_, sotto il qual nome
cabalistico s'intende appunto significato il vino^[I-20]; il _Martyre de
saint Bacchus_^[I-21]; il _Sermon fort joyeux de saint Raisin_^[I-22],
questo del XVI secolo. Nel _Martyre de saint Bacchus_, il santo di cui
si celebrano le gesta è figliuolo di una figliuola di Noè per nome
Vigna. Nessun santo, vi si dice, ha in paradiso gloria pari alla sua;
poi si narrano i miracoli operati da lui, e la passione, paragonata con
quella di Cristo. In un luogo son questi versi:

    Seigniez-vous et recommandez
    A Dieu, et grâce demandez
    A sains Bacchus si qu'il la face.

In un _Dis de la Vigne_ di Giovanni da Douai, si paragonan le cure che
si debbono alla vite con il culto dovuto a Dio.

A questa singolare letteratura potrebber servir di motto i due versi in
che Margutte compendia la sua professione di fede:

    Or queste son le mie virtù morale,
    La gola e 'l bere, e 'l dado ch'io t'ho detto^[I-23].

Così onorato nel medio evo, Bacco non decadde certo dall'antica sua
gloria quando il Rinascimento ebbe ristorato nella fantasia, se non
nella fede, il paganesimo. Quanti poeti non inneggiarono allora, come
Maffeo Vegio, al più amato degli dei:

    Bacche, pater vatum, suavissime Bacche Deorum!^[I-24].

Ma di ciò io non voglio parlare più a lungo; bensì vo' ricordare come
nelle feste carnovalesche e nei Trionfi, che già solevano sfoggiare
nelle nostre città, Bacco fece sempre gloriosa mostra di sè. Gli esempii
soperchiano, e mi basta di citarne un pajo. Tutti conoscono il _Trionfo
di Bacco e d'Arianna_ composto da Lorenzo de' Medici: nel Carnovale del
1710 si fece con grande pompa in Ferrara una mascherata rappresentante
il trionfo di Bacco. Quando nel 1498, per istigazione di Gerolamo
Savonarola, si fece un solenne bruciamento _delle vanità del carnevale_,
usci fuori una canzone, dove si finge che un cittadino dica a Carnovale
che si fugge:

    Dove è Giove Iuno e Marte,
      Vener bella tanto adorna,
      Bacco stolto con le corna,
      Che solea cotanto aitarte?^[I-25]

Terminerò di parlare di Bacco, della sua leggenda, e della lunga memoria
che n'han serbato gli uomini, ricordando, come a lui, che aveva
peregrinato già gloriosamente per tutta la terra conosciuta, si volle
attribuire ancora la scoperta di paesi incogniti. Il felicissimo paese
di Cuccagna fu da lui ritrovato, e un poeta, Quirico Rossi, celebrò co'
versi il memorabile avvenimento^[I-26]. Di ritorno dall'India, Bacco
muove in traccia della fortunata regione, dove giunge coi suoi seguaci
dopo aver lungamente errato pei mari. Permettete ch'io vi dia un'idea
delle delizie di quella terra incomparabile riferendo tre ottave che
sono degne veramente del loro soggetto:

      Fiumi di burro a tutte le stagioni
    Scorrendo vanno e dilagando i prati,
    Dove nascon per erba i maccheroni,
    E per ghiaia ravioli maritati;
    Ed anitre e pollastri, oche e capponi
    Di frittelle pasciuti e saginati,
    Che penne avendo di lasagne intorno
    Volano al quietissimo soggiorno.

      Sorge un colle nomato ivi Bengodi
    Dove di latte una fontana spiccia;
    Ombra vi fan le viti in varii modi,
    Altre erranti, altre avvinte di salsiccia,
    Che mettono un salame a tutti i nodi
    Ed in luogo di foglie han trippa riccia:
    A concimar la vigna e il colle tutto
    Quivi il lardo s'adopera e lo strutto.

      Le quercie che del sol frangono il raggio,
    Hanno per ghiande ritondetti gnochi,
    I quali giù tornando nel formaggio
    (Ch'altra sabbia non usasi in que' lochi),
    invitano ciascuno a farne il saggio,
    Nè v'ha mestier di guatteri e di cuochi,
    Perchè d'un ventolino al caldo fiato
    Tutto cotto ivi nasce e stagionato.

Ma lasciamo in disparte oramai Bacco e la sua interminabile leggenda, e
volgiamoci, ch'è tempo, a Noè. Il patriarca contende al nume la gloria
di avere inventato il vino; per questa invenzion capitale accade quello
che per molt'altre invenzioni di minor conto, dove si veggono più
pretendenti concorrere ad appropriarsene il vanto. Per non dar torto a
nessuno diciamo che Bacco e Noè hanno tutt'a due inventato il vino senza
sapere l'uno dell'altro.

Notiamo anzi tutto la somiglianza grandissima ch'è tra il Noè biblico e
il babilonese Sisutro, ultimo dei dieci patriarchi antediluviani,
secondo che riferisce Beroso. Altri dimostri, se può, che Sisutro fu il
tipo su cui venne esemplato Noè; io mi contenterò di dire che al pari di
Noè Sisutro costruisce un'arca e si salva in quella dalle acque del
diluvio. Se non che qui ci troviamo in un mondo di finzioni
smisuratamente aggrandite, se pure non è più giusto di dire che quelle
della Bibbia furono, con deliberato proposito, ridotte a più piccole
proporzioni. Certo si è che rimpicciolimenti così fatti s'avevano
necessariamente a compiere sotto la preponderanza e l'oppression di
Jeova. L'arca costruita da Sisustro è lunga cinque stadii e larga due,
diciamo 945 per 370 metri. Se Noè campa 950 anni, Sisustro ne campa
64000^[I-27]. Non ho bisogno di dire che figure simili a queste, di
patriarchi o di semidei che si salvano da un diluvio in cui tutto il
rimanente genere umano perisce, si trovano in molte mitologie^[I-28].

Ho detto poc'anzi che nell'invenzione del vino il patriarca Noè ebbe
coadiutore il diavolo: ecco che io mi faccio a provarlo recitandovi per
intero una bella leggenda rabbinica quale si trova tradotta in un libro
del prof. Levi^[I-29].

«Curvo sul ferro, tutto di sudore grondante, il patriarca Noè stava
intento a rompere le dure zolle. A un tratto Satana gli appare, e dice:

««Qual nuovo lavoro intraprendi? qual nuovo frutto speri tu di trarre
dalle lavorate zolle?»»

««Pianto la vite»», risponde il patriarca.

««La vite? superba pianta! stupendo frutto! gioia e delizia degli
uomini! Il tuo lavoro è grande: vuoi tu che aggiunga l'opera mia? il tuo
lavoro diverrà perfetto»».

Il patriarca accetta.

Satana corre, afferra una mansueta pecora, la trascina, la sgozza, ne
inaffia col dolce sangue le rotte zolle.

— Da questo avviene che colui il quale liba leggermente il licore della
vite, è, come la pecora, d'animo mansueto, di pensieri benevoli e
dolci. —

Noè guarda e sospira: Satana prosegue l'opera sua; afferra un leone, lo
squarcia e dalle squarciate vene il sangue zampilla e scorre, e inonda
le rotte zolle.

— Da questo avviene che colui il quale beve alquanto oltre l'usato, come
leone si sente pieno di vigoria, e il sangue ribolle spumoso nelle vene,
e gli spiriti s'inorgogliscono, e l'uomo grida: Chi è pari a me? —

Noè guarda e sbigottisce: Satana prosegue l'opera sua; colle impure mani
ghermisce un porco, l'ammazza e insozza coll'impuro sangue le rotte
zolle.

— Da questo avviene che colui il quale tracanna smoderatamente il sugo
dell'uva, si ravvoltola in mezzo alle sozzure come porco in brago. —»

Questa leggenda immaginosa e significativa, di cui non sarebbe agevole
rintracciare l'origine prima, ebbe più varianti. Secondo una versione
arabica il primo a piantar la vite fu, non già Noè, ma Adamo, e il
diavolo l'inaffiò col sangue di una scimmia, di un leone e di un
porco^[I-30]. A questo proposito non è fuor di luogo il dire che dai
rabbini fu congetturato l'albero proibito fosse appunto la vite^[I-31].
Una leggenda molto simile alla talmudica che avete udita testè riferisce
il poeta arabico Damiri^[I-32]. Finalmente in un vecchio libro francese,
il _Violier des histoires romaines_, quella strana concimazione si
attribuisce allo stesso Noè, che per suo mezzo cangia la vite selvaggia,
o lambrusca, in vite domestica. Qui gli animali son quattro, cioè il
leone, il porco, l'agnello, la scimmia^[I-33]. È da credere che della
leggenda talmudica sapessero qualche cosa quei cioncatori del _Fausto_
del Goethe, i quali, là, nell'osteria di Auerbach, a Lipsia, cantano a
squarciagola:

    Provo il contento,
    Provo il solazzo
    Di cinquecento
    Porci nel guazzo.

Ma piacciavi di considerare il progresso dei tempi. La sapienza dei
rabbini paragonava l'uomo vinto dal vino ad un porco; ognuno di quei
bravi compagni si paragona a dirittura a cinquecento porci.

Non deve far meraviglia che il diavolo, avendo avuto parte nella
fabbricazione del vino, siasi servito poi del suo trovato per condur gli
uomini alla perdizione. E quante storie terrifiche potrei ricordare a
questo proposito! Se è vero, come in parecchi antichi prontuarii
d'esempii ad uso dei predicatori si trova narrato, che una povera
monaca, una volta, rimase ossessa per aver mangiato d'un cesto d'indivia
in cui s'era appiattato il diavolo, quanto più frequente non dovette
essere il caso di bevitori ostinati, che votando il bicchiere, si misero
in corpo, senza saperlo, un infuso di Satanasso! Lutero racconta la
storia di un asciugafiaschi, il quale per una sbornia vendette l'anima
al diavolo, da cui fu poi debitamente strangolato^[I-34]. Ma per non
allungarla di troppo citerò un esempio solenne e conclusivo. In un
_fabliau_ francese si racconta che il diavolo, dopo aver lungamente
tentato un romito senza poterne vincere la virtù, gli promise di volerlo
oramai lasciare in pace, a patto che gli desse questa soddisfazione di
commettere una sola volta un peccato, scegliendo tra il vino, la
lussuria, l'omicidio. Il romito per liberarsi accetta, e sceglie il più
picciol peccato del bere, pensando di poterne poi con poco far
penitenza. Va a pranzo da un mugnajo suo vicino, e s'ubbriaca; rimasto
solo con la moglie di costui, casca nel secondo peccato e finisce per
uccidere il mugnaio da cui è sorpreso. Vero è che il diavolo non ottiene
il suo scopo. Il romito si pente, va a Roma, si fa assolvere dal papa, e
dopo asprissima penitenza, muore in concetto di santo^[I-35].

Parlando del vino e delle sue origini noi ci siamo inaspettatamente
trovato fra' piedi quel setoloso quadrupede, di cui è quasi vergogna
pronunziare il nome, e che nulladimeno, forzatovi dall'argomento, io ho
dovuto nominare più volte. Che direste voi se a questo proposito io vi
svelassi un mistero zoologico di cui lo stesso Darwin, indagatore
acutissimo delle origini delle specie, non ebbe nemmeno un sospetto? E
in pari tempo vi sarebbe dimostrato ciò che io asseriva cominciando,
cioè a dire che Noè fu di statura di giganti. Il mirabil caso è narrato
dal cronista arabo Tabari^[I-36].

Quando, essendosi già ritratte l'acque del diluvio, le coppie degli
animali uscirono dall'arca per ripopolare la terra, due nuovi bruti si
videro comparire tra quelle, il porco ed il gatto. Essi eran nati
nell'arca, per opera di Noè. Ecco le cause e il modo della creazione.
L'arca, ripiena di tanto gregge quanto il buon patriarca n'aveva
raccolto, fu in breve ridotta a tale stato da disgradare al paragone le
famose stalle di Augia. La famiglia del patriarca, non potendo più
reggere allo schifo ed al lezzo, ricorse a lui perchè provvedesse in
qualche maniera. Noè allora s'accostò all'elefante, e senza punto
scomporsi gli passò la mano sul fil della schiena. Com'è, come non è,
l'elefante mette al mondo il porco, il quale in men che non si dice
prende la sua prima satolla spazzando l'arca d'ogni sozzura. Qualche
tempo dopo si trova che l'arca è infestata da topi voraci che sciupano
ogni cosa. La famiglia ricorre novamente a Noè, e Noè, fattosi presso al
leone, gli passa una mano sul fil della schiena, e il leone starnuta, e
caccia dal naso un gattino ghiribizzoso che in poco d'ora fa giustizia
degli invasori.

Voi vedete che gli uomini debbono essere grati a Noè per molte ragioni.
Senza di lui la mortadella di Bologna e lo zampone di Modena non
sarebbero mai venuti al mondo, e il pasticcio di lepre sarebbe stato una
cosa assai rara. Ma in particolar modo gli debbon esser grati
gl'italiani, giacchè è più che certo che Noè, al paro di Bacco, venne in
Italia, e vi diede principio a quell'antichissima italica civiltà d'onde
poi venne fuori la gloria di Roma. E questo non lo dico già io, ma
l'afferma nientemeno che Pierfrancesco Giambullari, il quale nel suo
libro intitolato _Origine della lingua fiorentina_ racconta tutta la
storia per filo e per segno, che non c'è da aggiungere, nè da levare un
ette^[I-37]. Dovete dunque sapere che la lingua italiana deriva, per
mezzo dell'etrusca, dall'aramea. Centott'anni dopo il diluvio, Noè,
lasciati i monti dell'Armenia, dov'era approdato con l'arca, venne in
Italia. E in fatti, uno degli antichissimi nomi dell'Italia è appunto
Enotria, come dire paese del vino, e il Pelizzari, nel suo poemetto
intitolato _La Vigna_, lo conferma dicendo:

    Alla pianta gentil sacra a Lieo
    Onor d'Italia, a cui d'Oenotria un tempo
    Il nome aggiunse, ora il mio stile io volgo.

Noè, che parlava l'arameo, va ad abitare sul monte Gianicolo, e prende
il nome di Giano, il quale si figura con due facce, per far intendere
che Noè appartenne a due età, quella che precede e quella che segue il
diluvio. Più tardi viene in Italia anche Saturno, e allora principia
l'età dell'oro.

Ma qui cominciano le difficoltà, giacche molti pretendono che l'età
dell'oro sia stata prima del diluvio, e che fin che durò, in fatto di
bevande, gli uomini non conobbero che l'acqua fresca. Tanto è vero che
Romolo Bertini, autorità di prim'ordine, dice in una sua poesia _In
biasimo del secol d'oro_:

    Se di mangiare e bere
      Quel popolo beato avea desio,
      Con estremo piacere
      Scotea le querce e s'inchinava al rio;
      O che bella bevanda, o che dolc'esca
      È mangiar ghiande, e ber dell'acqua fresca.
      .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
    Quando i dolci liquori
      Della vite la lingua ebbe assaggiati,
      E con alti stupori
      Fûr le starne e i capponi assaporati,
      Si passò da' ruscelli alle cantine,
      Da scuoter querci a far fumar cucine.

Ma checchè sia di ciò, non crediate che le cose, di cui si fa narratore,
messer Pierfrancesco Giambullari se le sia inventate. In un vecchio
libro latino che risale al secolo XIII, la _Graphia urbis Romae_, si
racconta sulla fede di un Hescodius irreperibile, che Noè venne in
Italia, e fondò presso a Roma una città cui diede il suo nome. Giano,
suo figliuolo, costruì sul Palatino una città chiamata Gianicolo. Più
tardi Nembrotte, ch'è tutt'uno con Saturno, venne ancor esso in Italia.
La stessa storia si trova riferita da Martino Polono, cronista di quel
medesimo secolo.

Lascio da banda il dio Frô della mitologia germanica ed altre divinità
di genti diverse che potrebbero aver relazione col mio argomento, e mi
affretto a dire alcune poche cose ancora che più direttamente concernono
il vino.

Di sbornie leggendarie, singolari e memorabili se ne ricordan parecchie
nella storia. Quella che mosse i Lapiti e i Centauri a sonarsi di santa
ragione è nota a tutti. Una leggenda, che fu ritenuta storia da molti,
narra di un certame tra bevitori bandito da Alessandro Magno. Il
vincitore si cacciò in corpo tredici litri di non so che vino, e ci
rimise la vita^[I-38].

Molto ci sarebbe da dire circa la parte che il vino e la vite ebbero nei
miracoli. Già Pausania ricorda che in un tempio di Bacco presso Elide
ogni anno tre fiaschi d'acqua miracolosamente si mutavano in
vino^[I-39]. Nei leggendarii accade spesso di leggere di fonti che in
ricorrenza di feste solenni versavano vino, e di santi uomini che,
andati ad attingere al pozzo, con grata maraviglia tirarono su il
secchio pieno di vino squisito. Nella relazione dei viaggi dell'Infante
Don Pedro di Portogallo si racconta questo miracolo. In una città
dell'India si conserva e si venera il corpo di San Tommaso apostolo. Il
santo, tuttochè morto, sta ritto sopra un altare, e tiene in mano un
sermento di vite disseccato. Quando si celebra a quell'altare la messa
il sermento rinverdisce, si veste di foglie, si carica di grappoli, e al
momento opportuno fornisce il vino necessario al sacrificio
incruento^[I-40].

Qualche cosa ancora mi resta a dire delle virtù miracolose attribuite al
vino. È noto a tutti il detto latino In vino veritas; gli arabi hanno un
proverbio che esprime presso a poco lo stesso concetto: _il vino fa
palese ciò che si nasconde nel cuore degli uomini_^[I-41]. Ma qui si
tratta di una virtù puramente naturale: il vino toglie all'uomo la
triste facoltà di simulare e l'obbliga a mostrarsi qual è. Ne questo è
il solo benefico effetto ch'esso produca naturalmente: Orazio afferma
che per far buoni versi bisogna bere del vino^[I-42], e che la stessa
virtù si rigenera nel vino, come l'esempio di Catone dimostra^[I-43]. Lo
Scarron dice nel Virgile travesti:

    J'entends les Poëtes divins
    Alors qu'ils sont entre deux vins.

Ma non ci mettiamo per questo mare che non si potrebbe tornar così
presto alla riva. Io dico che al vino si attribuirono ancora certe
qualità arcane e recondite per cui divenne in certi casi un paragone di
verità e di giustizia. In più e più leggende si parla di una coppa
maravigliosa, la quale, essendo piena di vino, nessuno vi può bere che
non sia scevro di colpa. Una coppa sì fatta ebbe in dono dal nano
Auberon Huon di Bordeaux, che poi se ne servi per scoprire certi brutti
peccatacci di Carlo Magno^[I-44]. E chi non ricorda la tazza incantata
che faceva scoprire ai mariti la infedeltà delle mogli, della quale si
parla nei canti XLII e XLIII dell'_Orlando Furioso_? Nè si dica che qui
la virtù spetta al nappo e non al vino; per fare la prova si richiede e
l'uno e l'altro, ma chi dà la dimostrazione è propriamente il vino.
Coloro che nulla hanno a temere lo bevono; coloro che si trovano in
altra condizione se lo versano addosso. Ricorderò finalmente ciò che il
Rabelais racconta del giovine Panurge; il quale, fittosi in capo di
prender moglie, e dubbioso e pauroso di quello che gli possa succedere,
ricorre per consiglio ad avvocati, a filosofi, a preti, e finalmente si
risolve d'andare a consultare _l'oracle de la dive bouteille_, il più
veridico fra quanti danno responsi^[I-45]. Su questo capitolo ci sarebbe
da discorrere un pezzo^[I-46].

Signori, io sono giunto al termine della mia diceria, ma non crediate
sia chiusa la leggenda del vino. Non vorrei funestare con tristi
pronostici gli animi vostri, ma forse è già cominciata, forse sta per
cominciare la leggenda della morte di questo eroe, e non so se i molti
seguaci ed amici ch'egli ha per il mondo varranno a salvarlo. Egli ha
contro di sè congiurati terribili avversarii. Da una parte l'oidio e la
tremenda filossera assaltan la vite; dall'altra una chimica iniqua crea
nel mistero di nefandi connubii, di corpi solidi, liquidi ed areiformi,
vini acherontei, satanici, apocalittici, che sotto la menzogna del nome
usurpato nascondono l'abominazione della desolazione. Ma di queste
insidie della natura e dell'arte altri vi parlerà con tutta l'autorità
della scienza: io debbo contentarmi d'esprimere un voto: possa per lungo
tempo ancora il vino, il vero vino, l'autentico e legittimo figliuol
della vite, esilarare, secondo il detto della Scrittura, il cuore
afflitto degli uomini.


                                 NOTE

[I-1] Di questa portentosa longevità dei patriarchi pare abbia
conosciuto e divulgato il secreto, ma senza beneficio notabile, un
GIOVANNI BRACESCO, autore di un raro libro intitolato: _Il legno della
vita, nel quale si dichiara qual fosse la medicina per la quale i primi
padri vivevano novecento anni_. Si stampò in Roma nel 1542. La longevità
di Noè e divenuta in particolar modo proverbiale fra gli Arabi. V.
GOLDZIHER, _Der Mythos bei den Hebräern_, p. 279.

[I-2] IL KUHN ha dimostrato l'identità dell'amrita e del soma nella sua
monografia intitolata _Die Herabkunft des Feuers und des Göttertranks_,
p. 145.

[I-3] Sebbene la vite fosse coltivata in alcune parti dell'India non
pare tuttavia che gli Indiani ne abbian mai tratto il vino. Usavano
bensì vino di palma secondo si trova riferito da PLINIO, _Hist. nat._,
VI, 32, 8; XIV, 19, 3. Conobbero anche il vino di vite, che, a dispetto
d'ogni proibizione, vi si portava assai di lontano. V. LASSEN, _Indische
Alterthumskunde_, v. I, p. 264–265, n. 3.

[I-4] _Râmâyana_, versione di G. Gorresio, edizione di Milano, v. I, c.
XLVI. Il Mahâbhârata ha un racconto molto più lungo, ma non diverso per
la sostanza. Se ne trova la versione fra le note al Bhagavadghita
tradotto dal Wilkins. Altre versioni, con varietà di poco rilievo, si
trovano nei Purani. Cf. WILSON, _The Vishnu-Purana_, p. 75–78.

[I-5] V. la lettera che si suppone scritta dal Prete Gianni
all'imperatore di Roma e al re di Francia nel _Monde enchanté_ del
DENIS, p. 185–205.

[I-6] BARUFFALDI, _Baccanali, Bacco in Giovecca_.

[I-7] DIODORO SICULO, _Bibliotheca historica_, III, 68.

[I-8] _Antigone_, 1105.

[I-9] Osiride e Bacco sono divinità solari. Fra essi v'è identità
mitica. Cf. BRAUN, _Naturgeschichte der Sage_, v. II, p. 116.

[I-10] DU MÉRIL, _Poésies inédites du moyen âge_, p. 306–308.

[I-11] BEUGNOT, _Histoire de la destruction du paganisme en Occident_,
v. II, p. 324.

[I-12] PIPER, _Mytologie der christlichen Kunst_, v. I, p. 211.

[I-13] MAURY, _L'astrologie et la magie dans l'antiquité et au moyen
âge_, IVª ed., p. 155.

[I-14] La commemorazion di San Bacco cade il 7 di ottobre. Dice in
proposito il MIDDLETON nella _Letter from Rome_: «In another place I
have taken notice of an altar erected to St. Baccho; and in their
histories of their saints, I have observed the names of Quirinus, Romula
and Redempta, Concordia, Nympha, Mercurius, which, though they may have
been the genuine names of Christian martyrs, cannot but give occasion to
suspect, that some of them at least have been formed out of a corruption
of old names». Io non so persuadermi che genitori cristiani volessero
imporre ai loro figliuoli nomi così esecrati quali si erano quelli delle
antiche divinità, e quanto ai neofiti credo che prima lor cura,
ricevendo il battesimo, sarebbe stata di sostituirli con altri, quando
pure si debba supporre che li portassero innanzi.

[I-15] TOMMASO CANTIPRATENSE ricorda una specie di canto fescennino
composto in onor di quel santo: _cantus turpissimus de beato Martino,
plenus luxuriosis plausibus, per diversas terras: Galliae et Teutoniae
promulgatus. Bonum universale de apibus_, ed. Colvenerii, Duaci, 1627,
p. 456–457. Cf. DU MÉRIL, _Poésies populaires latines du moyen âge_, p.
198.

[I-16] BLAVIGNAC, _Histoire des enseignes d'hotelleries, d'auberges et
de cabarets_, p. 55.

[I-17] _Missa de potatoribus_, WRIGHT _and_ HALLIWEL, _Reliquiae
antiquae_, II, 208–210.

[I-18] Nella _Confessio Goliae_ attribuita a Gualtiero Mapes. WRIGHT,
_Latin poems attributed to Walter Mapes_, p. 70–75.

[I-19] _Histoire littéraire de la France_, v. XXII, p. 141.

[I-20] Id., v. XXIII, p. 495.

[I-21] JUBINAL, _Nouveau recueil de Contes, Dits, Fabliaux et autres
pièces inédites des XIII, XIV et XV siècles_, v. I, p. 250 e segg.

[I-22] _Joyeusetez, Facecies_, ecc., v. IX.

[I-23] _Morgante Maggiore_, c. XVIII, st. 132. Qui possono essere
ricordati anche questi pochi versi tedeschi:

    Der Deutsche hat zum Symbolum
    Das Wort der Passion
    «Mich durstet» ausersehen,
    Und hält nach eigenen Proben
    Das Vers für unterschoben
    «Lass diesen Kelch vorübergehen.»

[I-24] _Conquestus in Bacchum et Cererem._

[I-25] _Canzona d'un Piagnone pel bruciamento delle vanità nel carnevale
del 1898_, pubblicata da ISIDORO DEL LUNGO. Si può confrontare con _Il
Transito del tanto lascivo e desiato Carnovale col tollerabile e
osservabile Testamento lasciato all'ardita e sfrenata Gioventute_.
Firenze, 1569.

[I-26] Veggasi il poema intitolato _La Cuccagna_.

[I-27] Veggansi i _Fragments cosmogoniques de Bérose_ pubblicati dal
LENORMANT. Giorgio Smith fece conoscere un racconto più esteso che non
sia quello di Beroso, contenuto nelle tavolette trovate a Ninive dal
Layard. Questo racconto è indubitabilmente anteriore a Mosè. Cf.
LENORMANT, _Les premières civilisations_, v. II, p. 19.

[I-28] Per ciò che concerne il Noè americano si può riscontrare J. G.
MÜLLER, _Geschichte der amerikanischen Urreligionen_, p. 423.

[I-29] _Parabole, leggende e pensieri raccolti dai libri talmudici dei
primi cinque secoli dell'E. V._, p. 341–342.

[I-30] PLANCY, _Légendes de l'ancien Testament_, p. 121–122.

[I-31] _Leviticus rabbâ_, sect. 12.

[I-32] ARNOLD, _Arabische Chrestomathie_, v. I, p. 53.

[I-33] C. XXX. Josephus, au livre des causes des choses naturelles,
racompte que Noè trouva la vigne silvestre, c'est assavoir les
lambrusces; et, pour ce que le piet en estoit amer et foïble, le bon
patriarche print du sang de quatre bestes, du lyon, du pourceau, de
l'aignel et de la singesse, pour en destremper le fient, tellement que
après cela le vin fut fait meilleur et plus fort.

[I-34] _Tischreden_, Ed. di Lipsia, 1700, p. 172.

[I-35] MÉON, _Nouveau Recueil, De l'hermite qui s'enivra_.

[I-36] Riferisco questo racconto sulla fede del Plancy, op. cit., p.
111–112. Non ho agio di riscontrare le Istorie di Tabari.

[I-37] Ed. di Firenze, 1549, p. 33–39.

[I-38] ATENEO, X, 49; ELIANO, _Variarum historiarum_, II, 41.

[I-39] _Eliac._, II, c. XXVI, 1.

[I-40] _Historia del Infante D. Pedro de Portugal en la que se refiere
lo que le sucediò en el viaje que hizo cuando anduvo las siete partes
del mundo, compuesto por Gomez de Santistevan._

[I-41] FREYTAG, _Arabum proverbia_, v. II, parte 1ª, p. 140.

[I-42] _Epist._, III, 19.

[I-43] _Carmin._, III, 21.

[I-44] _Huon de Bordeaux_, edito dal GUESSARD e dal GRANDMAISON.

[I-45] _La Vie de Gargantua et de Pantagruel_, l. III, c. XLVII.

[I-46] Qui mi pare venga in acconcio la seguente storiella narrata dal
DOMENICHI, nel l. III della Historia varia.

Arrigo conte di Goritia hebbe due figliuoli d'una sua moglie Vngara
donna nobile et prudente, i quali prima ch'uscissero di fanciullezza,
tenne appresso di se nella camera sua; et spesse volte, mentre ch'essi
dormiuano, era usato chiamargli da meza notte, et domandargli, se
haueuano sete. I quali non rispondendo nulla, perch'essi dormiuano sodo,
esso si leuaua, et daua loro bere. Ma non volendo essi bere, et
rigettando fuori il vino, volto alla moglie le diceua: ah p....., tu ti
facesti ingrauidare a un altro: costoro non son miei figliuoli, che
dormono tutta la notte intera, senza hauer mai sete.



                              _A. COSSA_
                                   —
                          LA CHIMICA DEL VINO

           (_Conferenza tenuta la sera del 16 gennaio 1880_).


La composizione del sugo dell'uva, i cambiamenti che esso subisce per la
fermentazione e le principali e più dannose sofisticazioni del vino sono
gli argomenti che io dovrei sviluppare nella conferenza di questa sera.
— Ho detto _sviluppare_, ma questa parola non è propria perchè il limite
di tempo concessomi non è sufficiente alla trattazione completa degli
argomenti annunciati. Pertanto dovrò limitarmi ad una esposizione
compendiosa ed elementare, e per quanto è in me chiara ed ordinata, dei
fatti più salienti della chimica del vino. — Le cose che esporrò non
sono nuove, ma se la qualità dell'uditorio e la scarsa mia abilità
didattica mi impediscono di pronunciare l'_indocti discant_, non
rinuncio all'invocazione che voi vorrete accogliere benignamente: _ament
meminisse periti_.

Esaminando gli acini dell'uva nei differenti periodi del loro sviluppo,
si osserva che l'aumento graduale di peso e di volume ed il cangiamento
del loro colore sono accompagnati da una modificazione pure progressiva
della qualità del sugo che essi contengono. Questa modificazione
consiste principalmente nella diminuzione della sua acidità e
nell'aumento dello zucchero, come potete rilevare dalla tabella che vi
presento, dove sono registrate le determinazioni fatte da me nel 1874
sopra una qualità d'uva detta _Aramont_, raccolta in diverse fasi della
sua maturazione:

         -----------------------------------------------------
                              | ACIDITÀ |  ZUCCHERO |  DENSITÀ
         EPOCA DELLA RACCOLTA |  _______^_________  | del sugo
                              | in un litro di sugo |  a + 15°
         ---------------------|---------------------|---------
         26    luglio   1874  | 36,00   |    5,50   |  1,0182
          4    agosto     »   | 31,87   |    6,94   |  1,0204
         13      »        »   | 30,00   |   15,60   |  1,0218
         22      »        »   | 29,92   |   28,70   |  1,0323
          1    settembre      | 20,10   |   57,50   |  1,0333
         10      »        »   | 17,77   |   96,20   |  1,0477
         30      »        »   |  9,82   |  119,00   |  1,0583

Le materie che rendono acido il sugo dell'uva sono di varia natura, e si
è convenuto di indicare l'acidità complessiva di queste materie
riferendola unicamente all'acido tartarico, perchè questo è l'acido
predominante. Così, per esempio, quando si asserisce che l'acidità di un
mosto è di 9 per mille, si intende di dire che in mille centimetri
cubici, cioè in un litro, di questo mosto si trovano tante materie acide
da corrispondere a 9 grammi di acido tartarico.

L'aumento progressivo dello zucchero nel sugo dell'uva s'arresta quando
esso ha raggiunto un certo limite oltre il quale l'uva, come succede di
tutte le sostanze organizzate, infracidisce; cioè i suoi componenti, e
tra questi lo zucchero, si cambiano in altre sostanze che diventano
gradatamente meno complesse, finchè si risolvono in acqua, acido
carbonico ed ammoniaca.

Non succede dell'uva quanto si verifica in altri frutti saccarini nei
quali aumenta lo zucchero, cioè possono maturare, anche dopo che furono
spiccati dall'albero. È cosa conosciutissima che per ottenere dei vini
liquorosi si usa di far appassire su graticci l'uva, la quale dopo un
certo tempo acquista un sapore più zuccherino. Questo fatto sembra
provare il contrario di quanto ho asserito; ma la contraddizione è
solamente apparente, perchè nell'appassimento dell'uva non cresce la
quantità assoluta dello zucchero, e se essa riesce più dolce è perchè
concentrandosi il sugo per l'evaporazione la quantità di zucchero va
sempre più accumulandosi in una minore quantità di liquido. Anzi durante
l'appassimento, come venne sperimentalmente dimostrato dal prof. E.
Rotondi, la quantità assoluta di zucchero contenuta nell'uva diminuisce.
Nell'uva lo zucchero è segregato dalle cellule del parenchima degli
acini; invece nelle mele, e nel frutto proverbiale che matura col tempo
e colla paglia, lo zucchero continua a formarsi per l'azione degli acidi
sull'amido di cui questi frutti sono riccamente forniti.

L'epoca in cui nell'uva trovasi raccolta la massima quantità di zucchero
varia nelle diverse qualità di vitigni, ed in uno stesso vitigno a
seconda della natura del terreno, del clima, delle vicende atmosferiche
e dei metodi di coltivazione. Siccome dei componenti dell'uva lo
zucchero è quello che essenzialmente prende parte alla metamorfosi del
mosto in vino, è logico il ritenere che l'epoca più conveniente per la
vendemmia dovrebbe essere quella della perfetta maturazione dell'uva,
epoca che coincide appunto colla sua massima ricchezza in zucchero. Ma,
come in altre industrie, così anche in quella della fabbricazione del
vino non si seguono sempre pratiche razionali. In alcuni luoghi per
soddisfare al gusto depravato di bevitori che si compiacciono d'un vino
aspro, si raccoglie l'uva ancora acerba. Altrove l'epoca della vendemmia
è stabilita dall'autorità comunale con danno di coloro ai quali
converrebbe di anticiparla o di ritardarla per le qualità o per
l'ubicazione dei loro vigneti. A ciò si aggiunga un altro guaio; quando
in una regione un proprietario ha iniziato la vendemmia, accade ben
spesso che gli altri sono costretti loro malgrado a seguirne l'esempio
per non esporsi al pericolo di vedere decimato il raccolto da animali,
dei quali forse non parlerà il collega prof. Lessona nella futura sua
conferenza sui nemici della vite, quantunque siano qualche volta
terribilmente devastatori.

Riconosciuta la convenienza di raccogliere l'uva quando essa è
perfettamente matura, ci si presenta spontanea la domanda di un metodo
facile e pronto per determinare la quantità di zucchero contenuta nel
sugo dell'uva. Questo metodo ci viene suggerito dall'esame delle cifre
poste nella tabella che vi ho indicato poc'anzi dove trovansi eziandio
indicate le densità del mosto nei diversi periodi dello sviluppo
dell'uva. Come voi vedete questa densità va aumentando di pari passo
collo zucchero, in modo che invece di dosare separatamente lo zucchero,
operazione relativamente difficile, se ne può determinare con
sufficiente esattezza la quantità in relazione della densità del liquido
che lo contiene disciolto. Si eseguisce prontamente la determinazione
della densità di un liquido mediante degli aereometri a galleggiante la
cui costruzione ed uso sono basate sul noto principio di Archimede.

Per rendere questa determinazione ancora più pronta, si costruiscono dei
pesa-liquori speciali, detti gleucometri, di cui vi presento un
campione, nei quali invece delle densità sono indicate le quantità di
zucchero corrispondenti sciolte in un litro di mosto^[II-1]. Immergo il
pesa-liquore in questa soluzione di zucchero d'uva, di cui voglio
conoscere il grado di concentrazione; vedo che l'istrumento discende nel
liquido fino al punto che corrisponde al grado 36,5 della scala di cui è
munito; e da questa lettura imparo che ogni litro del mio liquido tiene
in soluzione grammi 36,5 di zucchero d'uva.

Con questa semplicissima operazione non solo si può riconoscere quando
l'uva ha raggiunto il culmine della sua ricchezza zuccherina, ma pei
motivi che saranno più avanti ricordati, si può eziandio prevedere la
forza alcoolica che avrà il vino fatto col mosto dell'uva esaminata.
Pertanto non si esagera dicendo che il gleucometro può arrecare
all'industria enologica servigi congeneri a quelli che arrecano alla
bachicoltura il termometro ed il microscopio.

I più importanti componenti del sugo dell'uva matura (mosto) sono:
acqua, zucchero, alcuni acidi, materie albuminoidi, sostanze grasse,
tannino, materie coloranti, sostanze minerali.

L'acqua è il componente predominante del mosto giacchè la sua quantità
varia tra 70 ed 80 per cento.

Lo zucchero contenuto nell'uva si chiama glucosio; esso è simile ma non
identico allo zucchero che si ricava dalla canna indica e dalle
barbabietole (saccarosio) dal quale differisce per una minore solubilità
e per alcune proprietà ottiche. Si può preparare artificialmente il
glucosio trattando l'amido contenuto nelle farine dei cereali o la
fecola di patate con l'acido solforico. Il bel campione di glucosio che
vi presento proviene da una fabbrica di Germania dove lo si prepara in
quantità considerevole per uso di coloro che fabbricano il vino coi
metodi Pétiot e di Gall. — Il mosto contiene ordinariamente dal 15 al 20
per cento di glucosio.

Le principali sostanze che impartiscono l'acidità al vino sono gli acidi
malico e tartarico. Il primo di questi predomina nel sugo dell'uva
acerba e di mano in mano che questa va maturandosi diminuisce in
quantità e si cambia in acido tartarico. Il chimico nel suo laboratorio
può con particolari processi di ossidazione cambiare l'acido malico in
acido tartarico e da ciò si arguisce che molto probabilmente i fenomeni
della maturazione dell'uva consistano in un lavorìo di ossidazione.
L'acido tartarico poi si trova nel mosto in due stati, cioè libero e
combinato alla potassa nel cremore di tartaro (bitartrato potassico). —
L'acidità complessiva del mosto riferita all'acido tartarico oscilla tra
0,8 e 0,9 per cento.

Le sostanze albuminoidi, così chiamate perchè hanno una composizione
simile a quella dell'albumina contenuta nelle uova e nel siero del
sangue, contengono dell'azoto e servono alla nutrizione del fermento che
è causa della trasformazione dello zucchero in alcool durante la
fermentazione.

Nelle buccie dell'uva, nei graspi, ma più specialmente nei semi
(vinaccioli), si trova del tannino, cioè una materia simile a quella che
si estrae dalle galle della quercia e dal sommacco e che serve, come è
noto, nell'industria della conciatura delle pelli. Nei vinacciuoli il
tannino è associato ad una materia grassa oleosa che in molti luoghi
viene estratta colla torchiatura per trarne profitto come olio da
bruciare.

La materia colorante contenuta nelle buccie dell'uva ricevette il nome
di _enocianina_. Questo pigmento trovasi in quantità relativamente
abbondante in quelle varietà di uva contraddistinte appunto per questo
motivo coi nomi di _uva colore_, _tintorino_, _raisin tinturier_, ecc.
L'egregio professore A. Carpené di Conegliano ha recentemente suggerito
un metodo per estrarre industrialmente l'enocianina dall'uva, la quale
potrà essere razionalmente adoperata nella colorazione artificiale dei
vini invece di ricorrere, come si fa generalmente per ottenere l'istesso
scopo, ad altre materie coloranti estranee all'uva, delle quali alcune
possono riuscire dannose alla salute.

Se si riscalda fortemente in contatto dell'aria il residuo
dell'evaporazione del mosto, esso abbrucia, si carbonizza e finalmente
rimane una quantità (circa 0,6 per cento) di cenere che rappresenta le
materie minerali del mosto, delle quali le più importanti sono la
potassa e l'acido fosforico. — Lo zucchero, il tannino, le materie
coloranti ed albuminoidi, l'acido tartarico sono combinazioni di
carbonio, idrogeno, ossigeno ed azoto che la vite può assimilare
dall'aria; ma le materie minerali che pur sono non meno delle altre
indispensabili allo sviluppo di questa pianta derivano esclusivamente
dal suolo. Perciò quanto più un terreno sarà ricco di queste materie
minerali sotto forma facilmente assimilabile tanto più esso si presterà
alla coltivazione della vite. La grande feracità dei vigneti di alcune
plaghe vesuviane dipende anche da ciò che in quei luoghi il terreno
deriva dalla decomposizione di una lava leucitica molto ricca di
potassa.

Voi comprenderete facilmente che colle continuate vendemmie si
impoverisce il terreno delle sostanze minerali contenute nell'uva e che
perciò è assolutamente necessario di restituire alla terra le materie
sottratte se si vuole che la vite continui a crescervi rigogliosa. Le
nostre raccolte sono ora decimate da malattie che si palesano colla
comparsa di piccole piante o di animali parassiti; ma è opinione molto
accreditata quella che ritiene che lo svilupparsi di muffe o di insetti
nocivi non sia altro che la conseguenza di uno stato di marasmo delle
piante prodotto dall'esaurimento a cui con sistemi poco razionali di
coltivazione si condanna il terreno, pretendendo ch'esso contenga in
quantità indefinita i materiali nutritivi necessarii alle diverse
colture. E qui riesce opportuno l'osservare che per concimare
razionalmente un vigneto non basta gettare nel terreno qualunque siasi
rifiuto di materie organiche, quasichè ogni sostanza che non può servire
ad alcun altro uso debba necessariamente avere la prerogativa
d'_ingrassare_ le piante. La qualità delle materie che si adoperano come
ingrassi deve essere scelta in relazione alla qualità del terreno ed
alla natura dei principii minerali che predominano nelle piante che si
coltivano. Applicando queste considerazioni generali alla vite, si
riconosce come i concimi ad essa più convenienti saranno i sali
potassici ed i fosfati, perchè, come abbiamo già accennato, la potassa e
l'acido fosforico sono le materie minerali che predominano nelle ceneri
del mosto.

Esaminiamo ora brevemente i principali fenomeni che si manifestano
durante la fermentazione del mosto.

Il mosto dell'uva lasciato in contatto dell'aria ad una temperatura che
sia compresa tra i 5 ed i 30 gradi del termometro centigrado a poco a
poco e spontaneamente si intorbida; si svolgono da tutta la sua massa
delle bollicine di un gaz irrespirabile (acido carbonico); la sua
temperatura si innalza al disopra di quella dell'ambiente; diventa
gradatamente meno zuccherino ed acquista invece un sapore spiritoso.
Dopo un certo tempo lo sviluppo di gaz va gradatamente diminuendo finchè
cessa affatto; le materie sospese si depongono sul fondo del recipiente,
il liquido riacquista la primitiva sua limpidezza; la fermentazione è
terminata ed il mosto trovasi cangiato in vino.

Osservando col microscopio una goccia di mosto in fermentazione si vede
che la materia che lo rende torbido è costituita da un ammasso di esseri
organizzati formati da cellule ovoidali, aventi un massimo diametro di
poco superiore ad un centesimo di millimetro. Questi organismi sono
vegetali crittogami e furono detti _saccaromiceti_, cioè funghi dello
zucchero. I saccaromiceti si moltiplicano in modo prodigioso e si
nutrono delle sostanze albuminoidi; uno degli atti della loro energia
vitale consiste nella decomposizione dello zucchero in alcool ed acido
carbonico. Secondo le accurate ricerche del Pasteur da cento parti in
peso di zucchero d'uva, per l'azione del fermento del vino, derivano i
prodotti seguenti:

        Acido carbonico                     46,7
        Alcool                              48,5
        Glicerina                            3,2
        Acido succinico                      0,6
        Cellulosa                            1,0

L'acido carbonico si svolge allo stato di gaz ed è ad esso che devonsi
attribuire la malsania delle tinaie durante la fermentazione, e
l'effervescenza di alcune qualità di vini.

L'alcool (alcool comune, alcool etilico, alcool del vino) si accumula
nel vino dal quale può essere facilmente separato per distillazione,
avendo esso un punto d'ebollizione inferiore a quello dell'acqua. È
appunto su questa proprietà che è basato l'uso del piccolo alambicco di
Salleron che voi vedete funzionare avanti i vostri occhi e che serve per
determinare la ricchezza alcoolica del vino.

La glicerina è una materia liquida, incolora, più densa dell'acqua, di
un sapore dolciastro, e forma uno dei componenti di tutte le sostanze
grasse vegetali ed animali. È la glicerina contenuta nel vino che gli
imparte quella qualità difficilmente definibile e che i pratici
designano col nome di _corpo_ o sostanza del vino.

L'acido succinico è una materia che si può ottenere artificialmente
ossidando l'ambra, e non sappiamo quale influenza esso eserciti sulle
qualità del vino. — La cellulosi ha la stessa composizione del cotone e
del legno; essa compone le pareti membranose delle cellule del fermento.

Oltre alle sostanze indicate si producono durante la fermentazione
piccolissime quantità di alcool speciali diversi dall'alcool comune
(alcool butilico, propilico, ecc.) i quali combinandosi con gli acidi
del vino formano degli eteri odorosi che sono la causa dell'aroma
particolare del vino. Al complesso di queste sostanze eteree si dà
impropriamente il nome di etere enantico, quantunque noi non ne
conosciamo finora la vera natura. Si trovano in commercio dei preparati
con questo nome o coll'altro di _bouquet_ del vino, ma sono miscele di
etere prodotti artificialmente e di cui non conviene usare nella
conciatura dei vini.

Appena terminata la scomposizione dello zucchero, i saccaromiceti
cessano di moltiplicarsi, muoiono e le loro spoglie si depongono a poco
a poco insieme alla maggior parte del cremortartaro, il quale perde
della sua solubilità di mano in mano che va accumulandosi l'alcool nel
mosto.

Confrontando il peso di volumi eguali di mosto prima e dopo la
fermentazione, si osserva che il liquido fermentato riesce molto meno
denso. Questa diminuzione della densità dipende dalla scomparsa dello
zucchero e dalla formazione dell'alcool che è specificamente più
leggiero dell'acqua. Perciò è evidente che determinando varie volte con
il gleucometro la densità del mosto durante la sua fermentazione, si
potrà sorvegliare e regolare a seconda dei casi il processo di
vinificazione. Quando è cessata definitivamente la diminuzione della
densità si potrà sempre collo stesso gleucometro riconoscere se tutto lo
zucchero che era contenuto nel mosto si è convertito in alcool, sapendo
noi che a cento parti in peso di zucchero d'uva corrispondono 48,5 di
alcool. — Non sempre però avviene che tutto lo zucchero del mosto si
cangi in alcool. Quando il mosto difetta di materie albuminoidi, i
saccaromiceti non si possono sviluppare nella quantità necessaria per la
completa metamorfosi dello zucchero. Se invece abbonda lo zucchero,
anche in presenza di una quantità sufficiente di sostanze albuminoidi,
esso non può produrre la dose di alcool che sarebbe indicata dalla
teoria, e che, come abbiamo or ora ripetuto, corrisponde a poco meno
della metà del proprio peso. In questo caso l'incompleta trasformazione
dello zucchero dipende da ciò che i corpuscoli del fermento non possono
vivere in un liquido che contenga più del 15 per cento di alcool. Questo
fatto ci spiega il perchè con uve appassite si ottengono vini che sono
nello stesso tempo dolci e spiritosi. — In una delle fattorie di vino in
Marsala si fabbrica una qualità di vino liquoroso detto _Brown Siracusa_
traendo partito della proprietà dell'alcool di arrestare la
fermentazione; cioè si aggiunge al mosto, quando non è terminata la
fermentazione, dell'alcool, il quale uccidendo i saccaromiceti, permette
che sia conservata quella quantità di zucchero che corrisponde al tipo
di vino che si vuol produrre.

Il mosto, anche quando è ottenuto da una stessa qualità di uva, non ha
sempre una composizione costante, ma è soggetto a variare specialmente
per le diverse vicende atmosferiche che influiscono grandemente sulle
proporzioni dei principali componenti dell'uva. Variando la composizione
del mosto si hanno necessariamente dei cambiamenti nella qualità del
vino. Si è cercato di ovviare a questo inconveniente con metodi
empirici, mescolando opportunamente tra di loro diverse qualità di vino.
Ma la chimica sola ci può essere di guida sicura nel correggere il mosto
in modo di potere da esso ottenere, ad onta delle sue possibili
variazioni, un vino che abbia costantemente gli stessi caratteri, o come
si è soliti a dire un _vino tipo_.

I metodi più apprezzati per modificare la composizione del mosto e per
aumentare la produzione del vino nelle annate di scarso raccolto sono
quelli suggeriti da _Chaptal_, _Gall_ e _Pétiot_.

Quando si ha un mosto soverchiamente acido e che darebbe senz'altro un
vino aspro e dannoso alla salute, Chaptal suggerisce di aggiungervi
della polvere di marmo in una dose corrispondente alla quantità
eccessiva di acido che si vuole eliminare. L'esperimento che faccio ora
vi farà comprendere come il marmo agisce sui vini troppo acidi. In
questo bicchiere contenente una soluzione di acido tartarico, che è lo
stesso acido che predomina nel mosto, getto della polvere di marmo
(carbonato calcico); come vedete avviene una forte effervescenza
prodotta da ciò che l'acido carbonico del marmo si mette in libertà e si
svolge allo stato di gaz, mentrechè la calce si unisce all'acido
tartarico, lo neutralizza e forma una materia bianca (tartrato di
calcio), che essendo insolubile a poco a poco si raccoglie sul fondo del
recipiente. Lo stesso succede nel mosto nel quale il tartrato calcico
insolubile si depone insieme alla feccia. Comprenderete la necessità
della determinazione quantitativa dell'acidità del mosto quando si vuole
adottare il metodo di Chaptal, riflettendo che se si eccedesse nella
quantità di marmo, si renderebbe difettosa in un senso opposto la
composizione del mosto, nel quale è assolutamente necessaria una certa
quantità di acidi liberi.

Col metodo di Gall si corregge la troppa acidità del mosto senza
ricorrere alla neutralizzazione della polvere di marmo. Gall ammette
ragionevolmente che il mosto destinato a produrre una data qualità di
vino deve contenere sempre le stesse quantità di zucchero e di acidi,
che per alcuni vini del Reno, secondo lo stesso autore, devono
corrispondere rispettivamente a 24 ed a 0,6 per cento. Se per caso il
mosto contiene una quantità di acidi superiore a quella indicata, si
aggiunge tant'acqua quanta è necessaria per avere il voluto grado di
acidità. Con questa diluzione però se si corregge l'eccesso degli acidi,
si diminuisce lo zucchero, e perciò è necessario di aggiungere al mosto
dello zucchero in modo che esso ritorni alla proporzione normale del 24
per cento.

Col metodo del Gall non solo si corregge la cattiva composizione di un
mosto, ma se ne aumenta eziandio la quantità. Questo aumento riesce
molto più considerevole adottando il metodo Pétiot, col quale si può
persino quadruplicare il volume di vino fornito da una data quantità di
uva. Ritenendo che il mosto ottenuto direttamente dall'uva abbia una
composizione normale, si getta sulle vinacce un eguale volume di acqua
in cui sia stata disciolta la stessa dose di zucchero contenuta
naturalmente nel mosto. Il fermento aderente ancora alle vinacce produce
la scomposizione dello zucchero in alcool ed in acido carbonico; e così
si ottiene un secondo vino, al quale se ne possono far succedere un
terzo ed un quarto ripetendo successivamente le aggiunte di acqua
zuccherata alle vinacce. Devesi però avvertire che è necessario di
aggiungere all'acqua oltrechè lo zucchero anche dell'acido tartarico in
una quantità che corrisponda al voluto grado di acidità. — Quando si
eseguiscono le operazioni indicate con la massima cura si ottengono coi
metodi di Gall e Pétiot dei vini di buona qualità e che è assai
difficile, per non dire impossibile, il distinguere dai vini prodotti
colla pura e semplice fermentazione del mosto.

Vi sono alcuni che ritengono i procedimenti che vi ho brevemente
descritto come altrettante sofisticazioni e gridano contro qualunque
siasi manipolazione chimica nell'arte del fare il vino, volendo
esclusivamente limitata l'opera del chimico all'analisi dei vini per
riconoscerne la forza alcoolica o per svelarne le possibili
adulterazioni. Ma quando si adoperano in giusta misura lo zucchero e
l'acido tartarico non si commette una sofisticazione, perchè queste
sostanze sono identiche a quelle contenute naturalmente nel mosto. Se si
deplora continuamente e con ragione che in gran parte d'Italia non si
sanno produrre _vini tipi_, bisogna essere coerenti ed ammettere la
legittimità di quei mezzi razionali additati dalla chimica che soli
possono ovviare al difetto lamentato, che nuoce moltissimo al credito
dei vini italiani all'estero. Si cita spesso a nostro rimprovero la
costanza nella qualità dei vini del Bordolese e della Borgogna; ma i
vigneti di questi paesi non sono più fortunati dei nostri; anche là le
stagioni non si succedono sempre propizie alle vendemmie, e se ad onta
di ciò i vini francesi ci si presentano sempre eguali, si deve
attribuirne la cagione all'uso comune da nessuno condannato di
correggere opportunamente a seconda delle circostanze le qualità del
mosto. Le correzioni relative alla quantità dei principii componenti il
vino non solo sono permesse, ma dovrebbero essere imposte dalla scienza.
Se vi ha qualcuno così ingenuo da credere che il vino di Champagne sia
fatto collo schietto sugo dell'uva, costui dovrebbe spingere la sua fede
più in là e credere alle sincerità di tutti i brindisi che lo Champagne
inspira.

Per essere giusti bisogna ammettere che la ripugnanza che incontra tra
noi l'adozione dei metodi razionali di correggere il mosto e
specialmente la fabbricazione del vino Pétiot, è fino ad un certo punto
giustificata dal malo modo con cui questi metodi sono generalmente
applicati. Per ignoranza si adoperano lo zucchero e l'acido tartarico in
quantità non corrispondenti alle esigenze del mosto che si vuol
correggere, oppure per una male intesa ed illecita economia invece di
zucchero di ottima qualità si fa uso della peggiore melassa. Sonvi
alcuni i quali guidati da un falso ragionamento credono di potere
sostituire l'alcool allo zucchero: «Si aggiunge lo zucchero al mosto,
pensano costoro, perchè esso si trasforma fermentando in alcool, ebbene
tanto vale aggiungervi immediatamente la quantità di alcool
corrispondente; ci si guadagna in tempo e denaro». Ma bisogna ricordarsi
che quando lo zucchero fermenta, oltre all'alcool comune produce della
glicerina, dell'acido succinico e piccole quantità di altri alcool,
sostanze tutte necessarie perchè il vino abbia una composizione normale.

Mentre è giustamente biasimata per le ragioni che vi ho accennato, la
sostituzione dell'alcool allo zucchero nella preparazione del vino
Pétiot, si tollera l'aggiunta di piccole quantità di alcool ai vini
liquorosi destinati per l'esportazione, come è specialmente il caso dei
vini di Sicilia. Non è possibile di distinguere l'alcool formatosi
naturalmente nel vino da quello aggiuntovi ad arte. Perciò il nostro
Governo volendo avere una norma per la restituzione della tassa pagata
sull'alcool adoperato nella confezione dei vini che si esportano,
stabilisce, in base a molte ricerche, quale sia la ricchezza alcoolica
massima naturale del vino di una data regione, ed abbuona al produttore
quella quota di tassa che corrisponde alla differenza tra la forza
alcoolica ammessa come naturale e quella riscontrata nel vino che viene
presentato al dazio di confine per l'esportazione. Così, per esempio,
essendosi stabilito che la ricchezza alcoolica massima dei vini di
Sicilia è eguale al 15 per cento, per un vino di Marsala che ne
contenesse il 19, verrà restituito l'ammontare della tassa che
corrisponde alla quantità di alcool necessario per elevare da 15 a 19 il
grado alcoolico del vino.

L'abuso però dell'alcoolizzazione dei vini non liquorosi costituisce una
delle tante sofisticazioni del vino, di alcune delle quali è ormai tempo
che noi ci occupiamo.

L'innacquamento del vino è senza dubbio l'adulterazione la più antica,
la più facile e la più comune. Il chimico non possiede alcun mezzo di
scoprire questa frode, che del resto non produce alcun danno alla
salute. Si afferma, è vero, che è facile cosa lo scoprire l'aggiunta
dell'acqua al vino versandone alcune goccie sopra un pannolino, o sopra
la mollica di pane, ritenendo che la maggiore o minore diffusione della
materia colorante nella macchia che si produce possa servire di criterio
nel giudicare della schiettezza del vino; ma queste ed altre pratiche
empiriche non hanno alcun valore e non meritano nemmeno di essere
confutate. Se l'analisi chimica non vale a distinguere in un campione di
vino l'acqua che vi esiste naturalmente da quella che per avventura vi
fu aggiunta ad arte, si può però dosare con precisione la quantità
totale di acqua. Pertanto chi teme che gli si adacqui il proprio vino,
dovrà custodire un campione del vino acquistato, e presentarlo insieme
all'altro del vino sospetto al chimico, il quale potrà dai risultati
delle determinazioni analitiche eseguite sui due campioni, stabilire con
certezza se realmente ad uno di essi fu aggiunta dell'acqua.

In alcune regioni del mezzodì della Francia, e tra noi nella Sicilia è
invalso l'uso di gessare i vini, cioè di gettare del gesso polverizzato
sull'uva durante la pigiatura, allo scopo di ravvivare il colore del
vino e di renderlo più facilmente conservabile. L'aggiunta del gesso dà
origine nel vino a del solfato potassico, il quale, quando sorpassa un
dato limite, riesce nocivo alla salute, avendo proprietà purgative che
non sono sempre nel desiderio dei bevitori. Il Governo francese già da
molti anni non tollera i vini gessati, quando la quantità di solfati
contenuti in un litro di vino sorpassa quella corrispondente a quattro
grammi di solfato potassico; recentemente poi ha ridotto il limite di
tolleranza a due grammi. Tra noi non vi è alcuna legge che limiti la
gessatura dei vini; però alcuni Municipii, e tra questi quello di
Torino, non permettono lo spaccio del vino gessato oltre la misura dei
quattro grammi di solfato potassico per litro.

Per correggere i vini affetti da una malattia speciale detta _grassume_,
in alcuni luoghi si usa l'acido solforico (olio di vetriolo); ma spesse
volte il rimedio è peggiore del male, e si mettono in commercio, più
frequentemente di quello che si crede, dei vini veramente nocivi. Si può
svelare la presenza anche di piccole quantità di acido solforico libero
nel vino con un mezzo semplicissimo che ora vi spiego. Si immergono nel
vino sospetto delle listarelle di carta bianca senza colla (carta
bibula, carta da filtro) e quando queste si sono imbevute di liquido, si
fanno asciugare ad una temperatura non superiore a 100 gradi. Nel caso
in cui il vino contenesse dell'acido solforico libero, le listarelle di
carta dopo asciugate divengono, come quelle che vi presento, di color
nero e friabilissime.

Il vino può qualche volta per frode o per incuria contenere delle
combinazioni di rame e di piombo, le quali, anche quando vi si trovano
in quantità piccolissima, lo rendono estremamente nocivo alla salute.

È cosa notissima che il vino fatto con l'uva solforata ha un odore ed un
sapore disgustoso di ova putride dovuti alla presenza di gaz acido
solfidrico. Per togliere al vino questo difetto, la scienza ha
consigliato di travasare il vino, dopo che ha cessato completamente di
fermentare, in botti in cui si è bruciato poco prima dello zolfo. Lo
zolfo abbruciando produce del gaz acido solforoso, il quale reagendo
sopra l'acido solfidrico dà origine a poca acqua ed a zolfo che si
depone allo stato solido, ed è affatto insolubile nel vino; perciò
rimane completamente decomposto il gaz che era cagione del cattivo
odore. L'esperimento che ora faccio vi chiarirà quanto vi ho detto. In
una campanella ho raccolto del gaz acido solforoso che ha l'odore
soffocante dello zolfo che abbrucia; in un'altra campanella che ha un
volume doppio della prima evvi del gaz acido solfidrico. Metto in
comunicazione le due campanelle, e voi vedete che le loro pareti si
tapezzano di una materia polverulenta di color giallo e che è zolfo
puro; e dopo qualche istante posso lasciare in contatto dell'aria i due
recipienti senza che voi siate incomodati dall'odore del vapore di zolfo
e da quello di uova putride; il che prova che i due gaz venuti tra loro
a contatto si sono reciprocamente scomposti. — Alcuni produttori e
negozianti di vino invece di togliere l'odore di zolfo col metodo che vi
ho indicato, gettano nella botte dei frastagli di rame o di piombo, i
quali scompongono l'acido solfidrico, è vero, ma l'eccesso di questi
metalli in contatto degli acidi che esistono nel vino dà origine a
combinazioni solubili che sono eminentemente velenose. Per la grande
facilità colla quale gli acidi organici intaccano il rame ed il piombo,
si deve guardarsi bene dal conservare il vino in recipienti fatti con
questi due metalli, oppure in quelle stoviglie grossolane la di cui
vernice essendo fatta con un eccesso di litargirio o di alquifoux, che
sono due composti contenenti piombo, riescono assai facilmente corrose
dagli acidi. — Per lo stesso motivo, a mio parere, sarebbe da
proscriversi assolutamente l'usanza che è diffusa nell'economia
domestica di ripolire le bottiglie sciacquandole con acqua e pallini da
caccia. Basta un granellino di piombo lasciato per inavvertenza nella
bottiglia per rendere il vino suscettibile di produrre gravi malori.

Per colorire artificialmente i vini e specialmente quelli fatti col
metodo Pétiot invece di usare l'enocianina, la quale, come già ebbi
occasione di dire, è la materia colorante naturale dell'uva, si ricorre
non solo a diverse materie coloranti vegetali, ma specialmente alla
fucsina che è uno dei molti colori che si preparano col catrame del
carbon fossile. La fucsina è dotata di una facoltà tintoria molto grande
come potrete convincervene osservando i tre recipienti che sono avanti a
voi, nei quali vi è dell'acqua alcoolizzata contenente rispettivamente
un millesimo, un decimillesimo ed un centimillesimo del suo peso di
fucsina. Ad onta che basti pochissima quantità di questa sostanza per
tingere un gran volume di vino, tuttavia se ne deve assolutamente
proscrivere l'uso, perchè nella sua preparazione si adoperano dei
composti che riescono velenosissimi anche in piccole dosi. La
sofisticazione dei vini colla fucsina e più comune di quello che
generalmente si crede, ed io ebbi più volte occasione di analizzare dei
vini che erano artificialmente colorati con questa sostanza. Anzi mi si
presentò l'opportunità di far conoscenza con un commesso viaggiatore, il
quale vendeva una soluzione concentrata di fucsina con due nomi
differenti, cioè _colore pei vini_, e _inchiostro violetto_. Infatti è
la fucsina che forma l'ingrediente principale di quell'inchiostro
violaceo ora di moda, ma che formerà la disperazione dei paleografi
dell'avvenire.

Porrò termine alla mia conferenza coll'accennarvi un'alterazione a cui
possono andar soggetti i vini per la cattiva qualità del vetro delle
bottiglie. Per ottenere un vetro più facilmente fusibile e pertanto per
risparmiare del combustibile, alcuni fabbricatori di bottiglie
aggiungono una eccessiva quantità di soda nella pasta del vetro. Si ha
così un vetro che si altera assai facilmente quando rimane per un certo
tempo in contatto con un liquido acido, quale è appunto il vino. L'acido
decompone il silicato sodico mettendo in libertà della silice gelatinosa
che rimane sospesa nel vino impartendogli una vischiosità simile a
quella che si nota nei così detti vini filanti. In questo recipiente,
che contiene una soluzione diluita di silicato sodico, io verso una
soluzione pur diluita di acido tartarico, e, come voi vedete, si depone
subito una materia gelatinosa che e appunto la silice. Questo
esperimento vi dimostra ciò che lentamente avviene conservando per molto
tempo del vino in bottiglie di cattiva qualità.

Giunto al termine della mia conferenza devo ripetervi che la
ristrettezza del tempo mi ha solo permesso di esporvi alcuni dei fatti
più salienti della chimica del vino. Coloro che desiderassero di
approfondirsi in questo ramo della chimica applicata potranno trovare
più diffusamente e con maggior chiarezza svolti gli argomenti che io ho
appena enunciato, nei trattati di enologia e specialmente nel trattato
sull'arte di fare il vino dei professori Cauda e Botteri, negli scritti
del valentissimo enologo professore Carpenè e nelle lezioni sulla
chimica del vino di Neubauer, di cui il prof. Sestini fece una ottima
traduzione italiana. — Io mi riterrò soddisfatto se vi avrò dato
occasione a studj importantissimi, e fortunato se non avrò parlato tanto
male sul vino da richiamare alla memoria di qualcuno dei miei uditori il
principio dell'ode pindarica a Jerone di Siracusa: _Ottima è l'acqua_.

[II-1] La densità di un mosto non dipende unicamente dal glucosio; ma
eziandio in piccola parte da altre sostanze che vi sono disciolte. Di
questo fatto si tiene conto nella graduazione dei gleucometri.



                          _CORRADO CORRADINO_
                                   —
                    IL VINO NEI COSTUMI DEI POPOLI

           (_Conferenza tenuta la sera del 26 gennaio 1880_).


Se il vino non dovesse considerarsi altrimenti che come una bevanda
allegra capace di annebbiare la limpidezza talora troppo importuna
dell'umano cervello, oppure come il tristo lusinghiero veleno che
conduce con inviti da sirena all'ultimo abbrutimento, io non avrei
davvero il coraggio, parlando del vino nei costumi, di far assistere il
mio gentile uditorio a una lunga sfilata di popoli tutti malfermi sulle
proprie gambe. Ma per fortuna, anche trascurando le quistioni economiche
e commerciali in cui il vino ha tanta parte, esso ha nei costumi dei
popoli una ben altra importanza. E non sarà difficile, per esempio, che
noi vediamo brillare un vivo raggio di civiltà nelle sale dei triclinii
ove scoppiettano le arguzie umide di falerno dei banchettanti coronati
il capo di bianche rose convivali, mentre invece distingueremo
chiaramente l'urlo selvaggio della barbarie presso quei popoli che
invece di vino bevono strani liquori nelle tazze formate molte volte dal
cranio dei nemici vinti in battaglia. Con ciò non voglio già dire — Dio
scampi! — che l'uso del vino sia potente criterio a giudicare della
civiltà di un popolo; voglio soltanto rilevare un fatto, che cioè presso
tutte le nazioni civili l'allegro culto di Bacco par che vada a mano a
mano acquistando in raffinatezza e in estensione, tanto che ne risentono
l'influenza tutti i costumi e pubblici e privati, tanto che il vario uso
del vino giunge persino ad avere non so qual carattere di allegoria, di
simbolo, quasi fosse un vero e proprio elemento di civiltà.

Osservatelo questo ilare Iddio, questo ultimo venuto ad assidersi al
banchetto dei Numi: Bacco non ci appare soltanto quale ce lo
rappresentano alcune statue antiche, col capo coronato di edera e
leggermente arrovesciato all'indietro, cogli occhi velati dai vapori di
un'ebbrezza voluttuosa; ben presto le sue membra ingigantiscono quasi,
si spiegano tutte le forze recondite della sua attività e gli uomini
salutano in lui il simbolo della giocondità e della vita. E notate che
prima ancora che egli esistesse, era un Dio il vino stesso, Θέοινος, il
vino puro era un Dio, Ἄκρατος.

Ma come suole sempre avvenire che dal fatto concreto e sensibile le
menti umane tosto assorgono alla astrazione del medesimo, così dai caldi
vapori del mosto emerse ben presto netta e spiccata la personalità del
Nume, e il giovine Bacco ebbe sagrifici ed altari. La gratitudine umana
lo salutò coi nomi più belli: egli e il Dio _Toro_, sinonimo di forza, e
a questo proposito giova ricordare quanto scrive Plutarco nella vita di
Licurgo, dell'abitudine che avevano le donne spartane di lavare i propri
bambini nel vino per isperimentare la loro forza^[III-1] essendo
opinione che mentre questi bagni indebolivano vieppiù gli infermicci,
afforzassero invece i ben costituiti. Bacco è il Dio salvatore, σωτὴρ,
il Dio Mago, Γόης, il Dio medico Ιατρομάντις; e il medesimo Plutarco
nella vita di Cesare fa menzione di una malattia da cui era afflitto
l'esercito di Cesare, malattia che il grande capitano guarì permettendo
ai suoi soldati una solenne ubbriacatura. _Da quel giorno_, soggiunge il
grave storico di Cheronea, _i soldati mutarono la complessione dei loro
corpi_.

Bacco ha ancora sul fronte l'ornamento di due corna potenti, come colui
che primo accoppiò i buoi all'aratro; egli e compagno alla Dea delle
biade, alla Dea della bellezza e dei piaceri, e non muove quasi passo
senza che gli tengan dietro tutte e nove le Muse.

Ora quale altro liquore può vantarsi di aver ottenuto dagli umani onori
così solenni?

Che il bisogno di pozioni alcooliche sia stato sentito di buonissima
ora, e specialmente presso alcuni popoli, lo prova ad esuberanza la
storia: e che strane miscele furono inventate, e a che non si ebbe
ricorso per appagare questa necessità di sentirsi, per così dire,
aumentata nei polsi la vita mediante bevande spiritose! Taccio della
birra che pure può vantare origini così antiche e più forse dello stesso
vino: ma ad essa non osò nessuno tributare onori come al liquor della
vite, e noi leggiamo ad esempio nell'Edda che se è concesso agli eroi
morti in battaglia di tracannare nel Valhalla enormi calici di birra, al
solo Odino è dato di esilararsi col vino mesciutogli dalle mani delle
belle Valkiri.

È noto a tutti il vino che si traeva antichissimamente e si trae ancora
oggidì presso alcuni popoli dall'albero della palma. I Circassi formano
un liquore inebriante mescolando il miele con un alcool tratto dai semi
di canapa. I Cinesi ne ricavano dal riso; i Tartari dalle carni di
castrato e di agnello, e altri popoli da una infinità d'altri
ingredienti. Che più? Gli stessi Americani prima che conoscessero il
vino, preparavano, al dire degli storici, bevande alcooliche colla
mollica di pane masticata, coi semi di grano e con altri prodotti
vegetali, e avevano tanto in onore queste bevande che fissavano certe
feste speciali a scopo di ubbriacarsi, feste dalle quali escludevano
come non abbastanza degne, le donne.

Ma appena conobbero il vino vi si abbandonarono con vera frenesia
vendendo per averne tutto quanto possedevano; nel che non facevano che
imitare gli antichi Galli i quali, secondo che racconta Ateneo, davano
per un bicchiere di vino i loro schiavi e le loro case, e talora
vendevano persino la propria libertà.

Un solo liquore può fino ad un certo punto competere col vino, ma per
brevissimo tempo: ed è il _soma_, il liquore che traevano gli
antichissimi Arii dal sugo dell'_Asclepiadea acida_ o _sarcostemma
viminalis_ e di cui si servivano quei nostri padri remoti ad uso di
libazioni. Ma nel suo passaggio a traverso l'Asia Minore e la Grecia il
soma dovette cedere innanzi ai trionfi del vino, tanto che non soltanto
la fama, ma se ne perdette quasi perfino il nome.

Ed ecco dunque questo vino trionfatore fare la sua apparizione solenne
nel mondo: il leggendario Noè pianta dopo il diluvio la vigna, dando con
ciò prova di altissimo senno: perchè in seguito a una così indiscreta
risciacquata era naturale che il mondo dovesse sentire il bisogno di un
bagno diverso.

L'umanità infatti si tuffò voluttuosamente nel vino: e quando vide
attraverso il folto fogliame pampineo brillare al sole i grappoli
dorati; quando dai grappoli premuti vide sgorgare in copia il rosso
liquore, e bevutolo sentì salire dolcemente al cervello i vapori di
un'ebbrezza deliziosa e si trovò spontanee sul labbro le canzoni piene
di ilarità e di gioia, allora si inchinò plaudente innanzi a Bacco
salutando in lui il Dio della vita.

Egli è veramente allora quale ce lo descrive Euripide nel Coro delle
Baccanti:

«È il Dio dei piaceri; egli regna in mezzo ai banchetti tra le corone di
fiori; anima le danze allegre al suono della cornamusa, fa nascere le
folli risa e dissipa gli affanni; il suo nettare giocondando la tavola
degli Dei ne aumenta la felicità e i mortali bevono nella sua tazza il
sonno e l'oblio dei mali».

Tale dunque è il Dio: e inneggiando a lui si inneggia al rappresentante
delle forti e spensierate gioie della vita. E quando, per uno strano
rivolgimento avvenuto nella coscienza, la vita parrà un fardello pesante
all'uomo, pensieroso soltanto di conseguire per virtù di sagrifici la
patria celeste, non sarà forse contro a Bacco e contro a Venere che si
scaglieranno sopratutto gli anatemi dell'ascetismo medioevale?

Ma con tutto ciò, Bacco non è soltanto il conviva sollazzevole che anima
la gioia e il tripudio dei banchetti: egli si avvolge, anche, talora nel
grave manto sacerdotale, talora veste la maglia del guerriero, talora
persino la toga severa del moralista. Non si può tuttavia negare che il
più delle volte ha un'altra abitudine: quella di gettar lungi da sè
tutte quante le vesti. Ma in questo caso noi imitando il pietoso esempio
di Sem, stenderemo un velo sulle sue nudità vergognose.

Mi affretto però a soggiungere che per quanto riguarda Bacco nei templi
non conviene pigliar la cosa troppo in sul serio e c'è anzi sempre da
temere ch'egli non stia per farne qualcuna delle sue; quando, ad
esempio, vuotatosi il sacro recinto della folla accorsa e rimasti i soli
sacerdoti, fumavano sull'ara le dapi innaffiate di vino sacrificale, oh
quante volte dovette fregarsi le mani malignamente sorridendo l'astuto
Nume, nel vedere quei gravi personaggi barcollare e tentennare nel far
la riverenza a qualche suo confratello d'Olimpo!

E c'è forse ancora modo di meravigliarsi che i responsi famosi dei
sacerdoti e delle sibille fossero così oscuri e ingarbugliati, quando
sappiamo che venivano dettati non soltanto da Febo Apollo, ma anche dal
buon padre Lieo?

      Non Dindymene, non adytis quatit
    Mentem sacerdotum incola Pythius,
    Non Liber aeque, non acuta
    Sic geminant Corybantes aera
    Tristes ut irae.

                ORAZIO, _Odi_, I, 16^[III-2].

Del resto questo vino ch'io chiamerò sacro entrò di buonissima ora nei
templi e fu anzi parte principalissima delle cerimonie religiose le
quali s'iniziavano sempre con le cosidette _libazioni_. L'antichità
remotissima di quest'uso ci è attestata dallo stesso Omero il quale lo
descrive minutamente in più luoghi dei suoi poemi. Consistevano le
libazioni nel versare in un calice del vino, nello spanderne
successivamente qualche goccia sovra l'ara o sul fuoco o anche per terra
e quindi nel bere il rimanente. In origine però le libazioni non si
facevano col vino, come si rileva da questo passo di Porfirio nel
trattato _De Abstinentia_: «Le libazioni presso gli antichi erano per la
massima parte sobrie: sobrie si chiamano quelle che si fanno coll'acqua.
Poi si fecero col miele... al quale tenne dietro l'olio, e finalmente il
vino».

In Grecia e in Roma furono in grandissimo uso e precisamente in quella
maniera che viene descritta da Omero: ma troviamo di più che era costume
in Roma di libare anche tra le corna della vittima ripetendo ogni volta
la nota formula: «Sii tu accresciuto per mezzo di questo vino nuovo».

Ed esempi di libazioni troviamo ancora presso molti altri popoli: nei
due sagrifici quotidiani nel tempio di Gerusalemme gli Ebrei libavano
vino, e pretendono anzi i Rabbini che di qui nascesse l'uso del vino
nella messa cattolica.

Gli Indiani, al dire di Strabone, non bevevan vino che nei sagrifici, e
se crediamo ad Erodoto il quale però sembra che in altri luoghi si
contraddica, gli Egiziani, presso cui erano in grande onore le libazioni
prima di immolare la vittima, non permettevano il vino che ai
sacerdoti^[III-3].

Libavano vino gli Etruschi nei sagrifici, i Galli nella famosa solennità
che aveva luogo al tempo della raccolta del vischio, e per citare un
popolo di barbari costumi, anche gli Sciti, i quali libavano vino sul
capo dello schiavo prima di immolarlo a Marte.

Nè posso passare sotto silenzio i suntuosi banchetti che tanto in Grecia
quanto a Roma si offerivano in certi giorni agli Dei, e nei quali il
vino sacrificale ebbe sempre larghissima parte.

Che se poi — mi perdonino gli scapoli e le zitellone — mi è concesso di
distinguere in tre i punti più solenni e importanti della vita, nella
nascita cioè, nelle nozze e nella morte, non è difficile lo scorgere
come in ognun d'essi il liquor della vite abbia sempre avuto
un'importanza speciale; e non voglio mica accennare soltanto ai veri
rigagnoli di vino che fecero ciarliere in ogni tempo le gole degli
invitati a un banchetto per un neonato o per una fanciulla che va a
marito. Parlo di cerimonie speciali e consacrate dai diversi culti, di
cerimonie in cui il vino assume un vero carattere di simbolo religioso.

Così anche oggi un uso particolarissimo vige presso il popolo ebreo:
quando il sacerdote ha compiuta sul neonato quella tale operazione che
corrisponde al nostro battesimo cristiano, ed ha per tal modo impresso
in lui — indelebilmente — il carattere di israelita, accosta alle labbra
un vaso ricolmo di vino, ne beve una goccia e quindi ne umetta pure le
labbra del bambino. Il rito cristiano ha sostituito al vino un grumello
di sale; gran peccato davvero che a questa età la Natura non abbia
concesso l'uso della parola! Chè non sarebbe certo senza interesse il
sapere da questi omuncoli pur mo' nati, se essi non preferiscano per
avventura sulle labbra il dolce bacio del vino, simbolo delle forti
gioie della vita, a quello acre e mordente del _sale della sapienza_!

Presso gli stessi Ebrei si consacrano ancora oggi gli sponsali col
benedire il vino di cui bevono poi gli sposi nel bicchiere medesimo: uso
di cui trovo un esempio appo i Galli antichi, sebbene con qualche
divario, perchè presso a costoro gli sposi bevevano due diverse specie
di vino versato in uno stesso calice da due diversi bicchieri.

Cerimonie assai simili a queste si attribuiscono in identiche
circostanze da molti viaggiatori ad alcune popolazioni specialmente di
razza slava.

Per quel che riguarda i riti funebri nessuno ignora quanta parte avesse
nei medesimi il vino presso i Greci ed i Romani: col vino, secondo che
ci descrive lo stesso Omero, si estingueva il rogo su cui ardeva il
corpo del defunto, col vino e coll'olio se ne lavavano le ceneri prima
di raccoglierle nell'urna; e in Roma col vino e col latte come si ricava
da Tibullo. E ho appena bisogno di ricordare quell'inamabile usanza di
terminare le funebri cerimonie con un banchetto, dove troppo spesso
svaniva indecentemente ogni dolore fra i tripudii a cui davan luogo le
frequenti libazioni di vino generoso.

Molto di sacro hanno naturalmente i trattati di alleanza e i giuramenti:
e anche qui trovo che presso alcuni popoli concorreva il vino a renderli
più solenni. Ad esempio gli Sciti si ferivano alla fronte lasciando
gocciare qualche stilla di sangue in un calice contenente del vino;
immersavi quindi la punta di un dardo bevevano di quella miscela. E i
Valacchi invece pongono in un vaso del pane, del sale e una croce:
giurano, e poi in quel vaso le parti contraenti bevono vino.

Neanche il cristianesimo, il quale pure si dimostrò così acerrimo nemico
d'ogni forma del culto pagano, potè bandire del tutto il vino dalle sue
cerimonie: ed è caratteristico quello che ci racconta il Peysonel nella
sua relazione d'un viaggio nell'Asia Minore. Trovandosi egli a Smirne
nel 1768, potè assistere a una cerimonia del rito greco in cui ravvisò
un vero e proprio avanzo delle antiche libazioni; dovendosi lanciare in
acqua un battello, il costruttore, prima che le altre cerimonie d'uso si
compissero, si fe' portare una coppa di vino, e dopo averne spruzzata la
poppa del naviglio, bevette il rimanente e ne fece bere agli astanti.

E nel medesimo rito greco la libazione di vino interviene pure nella
cerimonia degli sponsali e nei banchetti funebri; e quel che è più
singolare il vino ha pure la sua parte nel sacramento dell'estrema
unzione. Perchè questa vien somministrata coll'olio puro ai moribondi;
ma quando la si dà a qualche reo di peccato mortale, si mescola
coll'olio una leggiera quantità di vino.

D'altra parte il vino nel rito cristiano fu innalzato all'onore supremo
di rappresentante del sangue stesso del Cristo, onde per questo lato
esso non ha certo ragione di rimpiangere gli antichi secoli quando aveva
tributo di laudi divine. E fu un tempo in cui non soltanto il sacerdote,
ma tutti i fedeli avevano il diritto di dissetarsi a questa allegorica
fonte e di bevere alla sacra mensa il sangue del loro Dio sotto la forma
di vino; nel secondo secolo, ad esempio, era del tutto in uso la
comunione sotto le due specie. Venne poi di mano in mano proibita ai
laici la comunione col vino, ciò che diede origine a controversie e ad
eresie senza numero: e ancora nel 1413 il Concilio di Costanza minaccia
pene severissime al prete che comunichi i fedeli altrimenti che col pane
consecrato. Ciò non dimeno in Russia anche al dì d'oggi tutti i
cristiani comunicano sotto le due specie.

Che se noi vogliamo farci più persuasi di questo simbolismo del vino
quale si usa nelle cerimonie religiose, non abbiamo che a por mente alla
predilezione con cui i predicatori del secolo XVI si occupano del
medesimo nei loro sermoni. E troveremo ad esempio fra molti altri passi
caratteristici quello in cui Robert Messier paragona Gesù Cristo a un
taverniere che distribuisce agli apostoli il suo vino: S. Giovanni si
sentì inebriato dal solo odore, e Giuda poi trovò il liquore così
delizioso che deliberò di venderlo per trenta denari. Nè è meno
singolare Michele Lenoir che apprestando nel 1521 ai suoi fedeli
ascoltatori un allegorico pranzo di vigilia, così parla del vino nel suo
_Quadragesimale spiritual_e: «Puis après le pain blanc et le vin ne se
doivent en oubli mettre. Pour le pain et le vin nous pouvons entendre
les joyes du paradis.... Le vin est de deux couleurs, blanc et rouge: le
blanc nous donne l'éspérance d'aller en paradis, car il fait bon
courage. Et le rouge fait le bon sens réduisant en mémoire le précieux
sang de Jésus Christ»^[III-4].

Poche cose dirò del vino che starei per chiamare _marziale_, siccome
quello che conforta gli animosi alle pugne e cui gli antichi popoli
(imitati in ciò dai moderni) tracannavano copiosamente per incitarsi al
valore e allo sprezzo della morte.

Già Platone osservava che frequente è l'ubbriachezza nelle nazioni
bellicose; ma è da considerarsi che in alcuni popoli, massimi bevitori,
la forza belligera non è che brutalità barbara e selvaggia, aumentata
ancora dall'immoderato abuso delle bevande alcooliche, come si legge
degli Unni e specialmente del famoso loro capitano Attila; mentre altri
popoli, pure deditissimi al bere, si possono dire dotati di quella forza
maschia e intelligente che non dipende soltanto dal nerbo del braccio ma
dalla virtù dell'animo generoso.

E fra i primi vanno annoverati certamente quegli Sciti che si facevano
coppe da bere col cranio dei vinti nemici. Era uso presso di loro che
ogni anno il governatore di una provincia dovesse invitare ad un festino
tutti coloro che avevano ucciso qualche loro avversario: quivi il vino
era largheggiato in copia meravigliosa e mentre gli invitati sotto
l'impero dell'ebbrezza si abbandonavano ad ogni eccesso, da lungi
contemplavano l'orgia con occhio invidioso quelli che non potevano
vantarsi ancora d'aver trucidato un nemico. Nè meno ubbriaconi o meno
barbari erano quei Britanni, di cui scrive Strabone ἀντροπόφαγοι τε
ὄντες καὶ πολύφαγοι, che erano cioè antropofaghi e mangiatori solenni.

Ma altra era la forza di quei tenaci Anglo-Sassoni, destinati a tante
conquiste contro il suolo ribelle e nel regno del pensiero, e sui quali
Gregorio Magno, dopo di aver deplorato la loro smoderatezza specialmente
nel bere, fa questo singolare lamento: «Oh qual danno che il principe
delle tenebre debba aversi così bei sudditi! Angelica è veramente la
loro sembianza e degni sono di essere compagni agli angeli nel cielo».

E se crediamo a quel che ci narra Plutarco nella vita di Camillo, bastò
che Arunte Etrusco portasse ai Galli un saggio del vino italico perchè
costoro s'infiammassero del desiderio di passare le Alpi e si sentissero
più coraggiosi e più forti a sopportare le fatiche e i rischi della
conquista. Nè dei Germani (anche di quelli lontani dalle rive del Reno)
è ben certo che non bevessero vino o che ne bevessero solo
scarsatamente. E sebbene Cesare scriva degli Svevi che non permettevano
fra loro l'introduzione del vino, perchè effeminatore, pure sappiamo che
ben presto dai vigneti renani esso si diffuse per ogni parte della
Germania, e Tacito ci presenta quelle fortissime genti assise a desco
dinanzi ai boccali di birra e di vino assai più tempo che a uomini
temperanti non si convenga.

Che se presso alcuni popoli, come avveniva per esempio dei Cartaginesi,
troviamo leggi che fanno divieto ai soldati di bere vino durante la
campagna, non è men vero che fu considerato in ogni tempo ottimo
consiglio quello di rincorare i combattenti che fiutano prossima la
mischia con qualche sorso abbondante di vin generoso o di altro liquore
potente, il quale aiuti i morituri ad incontrare serenamente il loro
fato — e a menare con più furia le mani.

E come prima il vino è l'incitatore alla battaglia, così è in seguito il
premio della vittoria: e ci siano di esempio per tutti, quei guerrieri
omerici dal colossale torace che dopo ogni fatto d'arme stendono
eroicamente la tovaglia e inaffiano le enormi pietanze con veri torrenti
di elettissimo vino.

E che portenti d'uomini eran quelli!

      Quando leggiam che l'inclite ventraie
    Degli Atridi e del figlio di Peleo
    Ingoiavan di buoi terghi arrostiti,
    Oh l'antica rozzezza! esclamiam tosto.
    Saporiti bocchini, e stomacuzzi
    Di molli cenci e di non nata carta!
      Ma perchè ammiriam poi che il seno opponga
    Dello Scamandro burrascoso ai flutti
    L'instancabile Achille, e portin aste
    Sì smisurate i capitani greci?
    Non consumava ancor muscoli e nervi
    Uso di morbidezza: erano in pregio
    Non membroline di zerbini inerti,
    Ma petto immenso, muscoloso e saldo
    Pesce di braccio, e formidabil lombo.
    A' gran mariti s'offerian le nozze
    Non di locuste ognor cresciute a stento
    In guaíne d'imbusti; era bel corpo
    L'intero corpo, ed Imeneo guidava
    Ai forti sposi non balene o stringhe,
    Ma sostanze di vita.

                                  GOZZI, _Sermoni_.

Ora immaginiamo noi, avvezzi a centellinare nei calicini microscopici,
di che badiali circonferenze di pátere abbisognassero quegli eroi, per
accompagnare di tali bocconcini.

Ma ecco che l'argomento mi conduce a far parola del sollazzevole Bacco,
spensierato re dei conviti e provocatore dei tripudi chiassosi ove
troppo sovente la ragione si annega spontanea nei bicchieri ricolmi. Qui
davvero il mio tema minaccia di diventare inesauribile: e non sarebbe
certo cosa priva d'interesse lo studiare i costumi variissimi dei popoli
per rispetto alla maniera del bere e alle cerimonie usate in così fatte
circostanze, e anche agli utensili diversamente adoperati all'uopo; nè
gli scrittori ci sono avari di notizie a questo riguardo. Ma oltre che
un siffatto studio mi condurrebbe troppo in lungo, io credo che sia in
ogni modo sufficiente all'illustrazione del mio soggetto l'accennare con
qualche minutezza agli usi speciali che vigevano presso i Greci e i
Romani, appo i quali il lusso della tavola vide ciò che è ultimo nello
sfarzo, nella raffinatezza e anche nella corruzione.

Ma non voglio tacere anzitutto delle feste in onore di Bacco, le quali
in breve andar di tempo si moltiplicarono per modo da poterne appena
ricordare i diversi nomi; ed è naturale che discorrendo di banchetti si
citino queste solennità le quali si terminavano quasi sempre con
un'agape pubblica o privata della quale non avevano certo mai a dolersi
gli spacciatori di vino. Nei tempi più antichi di Grecia non erano in
troppo grande uso le feste; e Aristotile scrive nell'Etica che non ve
n'erano forse altre in allora che quei banchetti soliti ad apprestarsi
in segno di gaudio universale dopo la raccolta delle messi e la
vendemmia. Ma ben presto, come ho detto, per ragioni di varia natura e
specialmente politica, in ogni città greca si istituirono pubblici
spettacoli; e fu appunto da quel tempo che anche le feste di Bacco
andarono via via moltiplicandosi, e per guisa che il padre Lieo ebbe, io
credo, più giorni e solennità a sè dedicate che qualsiasi altro nume
d'Olimpo.

E di vero tra le feste di Bacco si annoverano le antiche, le nuove, le
grandi, le piccole, le diurne, le notturne, le campestri, le urbane, le
autunnali, le primaverili e via dicendo, a cui sono da aggiungersi i
troppo famosi Baccanali che acquistarono in Roma al tempo del console
Postumio una così trista rinomanza.

Perciò che riguarda la tavola vuolsi da alcuno (e la cosa mi pare ben
lontana dall'esser provata) che ogni uso di mollezza derivasse ai Greci
dalla Magna Grecia ossia dall'Italia meridionale; mentre da prima erano
la sobrietà e la parsimonia le doti comuni a tutti gli Elleni. Il fatto
è che quanto più si risale ai tempi remoti tanto più noi ritroviamo,
come è ben naturale, sbandita dalla tavola o piuttosto ignorata da tutti
i popoli la raffinatezza dei pasti quotidiani: i quali si vanno invece
arricchendo di morbide delicatezze a misura che penetrano nelle città la
ricchezza, la coltura e le costumanze gentili.

Da principio il pranzo greco consisteva tutto nel così detto _deipnon_,
in cui nè la quantità, nè la ricercatezza dei cibi erano grandi: ma
mutarono affatto le cose allorchè si aggiunse al _deipnon_ la geniale
appendice del _simposio_, che acquistando sempre col tempo maggiore
importanza divenne infine la parte principale e più desiderata del
banchetto.

Una libazione, la quale si faceva invocando il buon Genio o Igea,
l'Iddia della salute, poneva termine al deipnon e subito un'altra simile
libazione dava passaggio al simposio. A questo venivano invitate anche
persone che non avevano pigliato parte al pranzo, giacchè, come indica
il nome stesso, nel simposio non doveva trattarsi d'altro che di bere, e
perciò appunto venivano recati in tavola cibi eccitanti la sete. Quanto
alla maniera e alla misura del bere, questa veniva per consuetudine
regolata da un simposiarca o re del convito, che veniva eletto a questa
temporaria dignità mediante il sorteggio dei dadi.

E quantunque fosse costume di chiamare barbaro in Grecia chi beveva vino
schietto, quantunque si usasse di mescolare l'acqua al vino nella
proporzione di 3 : 1, tuttavia è da credersi che in sul finire del
simposio nè l'orrore della barbarie, nè la venerazione delle vecchie
costumanze potessero molto su quei Greci eleganti e delicatissimi,
perchè la sala del triclinio non tardava a convertirsi nel teatro di
orgie solenni. Dai piccoli bicchieri il simposiarca ordinava a mano a
mano si passasse ai più grandi, si incrociavano in ogni direzione i
brindisi, si invocavano i nomi delle etére e delle innamorate, e siccome
durante il simposio si rappresentavano azioni sceniche e si succedevano
le danze, ben tosto gli stessi convitati si facevano di spettatori
attori e nella sala tutto era canto e tripudio.

Talora il simposiarca incominciava un brindisi: tutti allora portavano
il calice alle labbra e quindi con un moto uniforme, compassato, al
tempo medesimo, deponevano sulle mense con un colpo sonoro, le tazze.
Altri già ravvisò un avanzo di quest'uso nei moderni _commersen_ degli
studenti tedeschi, e si potrebbe raffrontarlo ancora colla _challenge_
degli antichi Inglesi, la quale non altro era che una disfida al bere
fatta press'a poco nella medesima maniera di quella testè citata.

Ma appunto perchè gli inni allegri, le arguzie e la innocua allegria del
simposio trasmodavano troppe volte in orgie pazze e immodeste, esso fu
vietato da parecchie leggi in alcune città greche e particolarmente
bandito, com'era naturale, dalla rigida Sparta e anche da Creta.

Ma se alcune città lo cacciarono con ignominia, siccome corruttore dei
costumi e ammollitore delle fibre, trovò il _simposio_ ospitalità
veramente regale nella massima fra le città che ebbero fama immensa nel
mondo, in Roma.

Quivi dovette mutare il suo nome, che venne tradotto alla latina in
quest'altro di _comissatio_ o _compotatio_: ma i suoi costumi rimasero i
medesimi se non divennero forse più corrotti e più corruttori. Già sul
finire della repubblica i discendenti di Quirino avevano posto nel più
perfetto oblio le rape famose del Dittatore Cincinnato e la sobrietà
meravigliosa di lui; che anzi si cominciavano ad ornare splendidamente i
triclinii e a render liete le mense di cibi peregrini.

I buoni Romani che poc'anzi avevano trovato prodigiosa la splendidezza
di Cesare il quale aveva lor servito quattro differenti sorta di vino,
arricchivano ora con grave dispendio le cantine da cui ricavavano poi le
anfore del vino opimiano di cent'anni per le orgie della comissatio.

E siccome su 80 località produttrici di vino famoso presso gli antichi,
circa due terzi erano Italiane, così venivano prodigati sulle mense
romane il Sorrentino, il Falerno, l'Albano, il Setino, il Cecubo, il
Massico, il Capuano, il Tarentino, ed altri molti.

Ben presto in Roma la sfrenatezza dell'orgia e l'incredibile fasto dei
prandii non conobbe più limite e basta per esserne convinti leggere
quella fina satira che però dipinge così al vivo il corrotto costume,
cioè il _Convito di Trimalcione_; basta leggere quel che scrive Cicerone
in una delle sue Verrine, in cui paragona la sala del convito dopo la
comissatio a un campo di soldati dopo la battaglia.

Ma io non farò che accennare come non differisse quasi nella forma la
_comissatio_ latina dal greco simposio. Anche nei triclinii romani i
convitati vestivano una tunica speciale, cingevansi il capo e talora
anche i piedi di rose convivali, eleggevano coi dadi il _Rex convivii_.

«_Bene tibi, vivas!_» — gridava un banchettante volgendo il capo al suo
vicino, e questi accoglieva e ripeteva il brindisi, mentre lo schiavo
coppiere stava intento dietro di lui a riempirgli la tazza vuotata. E
altre volte, come abbiamo da Marziale, i convitati si figgevano in capo
di tracannare tanti bicchieri quante lettere aveva il nome della propria
innamorata, e fortunato allora — o disgraziato — chi ardeva per
un'_Amarillide_ o per una _Domitilla_!

Nel vino, secondo che si ricava da Ateneo e da molti altri scrittori,
usavano mescolare sostanze aromatiche, e mastice, e assenzio e fiori e
persin della pece onde il così detto _vinum picatum_, il quale però non
era gran fatto apprezzato; e bevevano anche vino di oltre due secoli,
che per l'estrema vecchiezza si era convertito in una specie di glutine
aderente alle anfore, che veniva sciolto per mezzo dell'acqua bollente.

Non mancavano nella comissatio le rappresentazioni sceniche, ma non pare
che i Romani imitassero i Greci nel pigliarvi parte; o più gravi o più
avvinati o forse meno artisti, si contentavano di farla da spettatori,
finchè l'orgia invereconda non confondesse insieme schiave danzatrici e
liberi cittadini, mime seminude e senatori od equiti romani.

Dopo un certo tempo, per quanto si sentisse infiammata dal desiderio
ognor crescente col crescere dell'orgia, non poteva più la gola, come è
facile intendere, dilatarsi compiacente a ricevere nuove ondate
torrenziali di vino: lo stomaco troppo pieno si ribellava con
irresistibile energia. Non perciò si sgomentavano gli eroici figli di
Romolo; coloro che avevano domato il mondo intero vollero domare anche
l'indocilità del proprio stomaco.

E trovarono la _titillatio_.

Si appartavano in una stanza prossima al triclinio: quivi li aspettava
uno schiavo colla mano armata di una lunga penna dalle barbe rosse. Ed
allora quei conquistatori dell'orbe intero spalancavano innanzi a lui le
loro fauci: lo schiavo vi introduceva con molto garbo la sua penna, la
spingeva con molto garbo fin dentro la gola e leggermente e
delicatamente _titillabat_, titillava... Ad un tratto...

Dio mio, come dire? Ad un tratto il cittadino Romano, felice d'essersi
liberato da una grave angustia che gli gravava lo stomaco, traversava la
stanza a passi molto larghi e tirando in su il lembo estremo della
tunica, e ritornava nel triclinio. Allora poteva bere di nuovo. E
quest'usanza doveva essere assai diffusa, perchè lo stesso Cicerone ne
parla nell'orazione _Pro Rege Deiotaro_ come di cosa affatto naturale.

Nè ciò bastava: ma per accrescere e render perenne la sete ricorrevano
ad altri mezzi ancora. Plinio ne ricorda parecchi: v'era chi mesceva nel
vino della pietra pomice, chi vi aggiungeva (scrive il celebre
naturalista in tono indignato) cose turpi anche a dirsi; alcuni
afferravano a due mani un'anfora e la bevevano d'un fiato per poter
rigettare e quindi bevere ancora, altri si avvoltolavano nel fango come
porci nel brago, altri arrovesciavano con fatica il capo all'indietro
per dilatare il petto e renderlo più capace.

Qual meraviglia che una tal gente disfatta dalle gozzoviglie non
sentisse più nei polsi forza bastante per divincolarsi dalle strette
erculee dei barbari? fra le altre cose, l'Impero d'Occidente era
ubbriaco fradicio: lo urtarono, e precipitò a terra russando.

Allora cominciò veramente un'età nuova: e quanto più s'erano dapprima
gli uomini aggrappati alla vita per succhiarne, per esaurirne tutte le
possibili delizie, tanto più ora la spregiavano come cosa vile e
provocatrice al peccato. Nè certo il vino poteva esser ultimo a provare
gli effetti di questa maledizione scagliata con acre voluttà di
sagrificio contro ogni gioia terrena.

E mi basti citare a questo riguardo quello che fin dal secolo IV
scriveva S. Geronimo ad Eustachio: «Se alcuna cosa in me può essere di
buono consiglio, se all'esperto si crede, questo prima ti ammonisco, che
la sposa di Cristo il vino fugga come veleno».

In quei lunghi secoli di denso ascetismo, in cui però la coscienza umana
si ritempra apprestandosi a gloriose battaglie, ci fa quasi meraviglia
l'udire una voce di allegra e talvolta cinica protesta: e l'inno dei
Goliardi ci giunge come il grido della ribellione alle smodate esigenze
dello spirito, come il primo sintomo d'un risveglio della ragione umana
che ritorna dai nebulosi spazi dell'infinito in sulla terra e ne
riconosce le serene bellezze. E i Goliardi a chi inneggiano
principalmente nei loro canti ove risorge il sentimento della realtà e
della natura? Inneggiano sopratutto al vino di cui noverano le lodi con
entusiasmo troppo caldo e sincero per non essere bello.

Intanto col successivo svilupparsi, specialmente dopo il secolo decimo,
di questo sano elemento per cui gli uomini sono tratti di bel nuovo
verso la terra, altri fenomeni si fanno manifesti nei quali rivive una
traccia del paganesimo che pareva spento e non era. Ed ecco venire in
uso molte feste che ci ricordano press'a poco i Baccanali e i Saturnali
antichi benchè svisati in maschera cristiana per l'introduzione di
elementi parecchi di cui l'origine prima non è ben nota. E tra queste
feste piacemi ricordare la famosa dei Pazzi e degli Innocenti, vera
parodia dell'ufficio divino.

    Le monde est plein de fous, et qui n'en veut point voir
    Doit demeurer tout seul, et casser son miroir.

E quella non meno celebre dell'Asino innanzi al quale, vestito dei sacri
paramenti, si celebrava una Messa per ingenua empietà singolarissima. In
quest'asino altri ha creduto di riconoscere quello che dopo aver servito
al Cristo nella sua entrata in Gerusalemme, passò, secondo la leggenda,
a Cipro, a Rodi, in Malta e in Sicilia, quindi traversando a zampe
asciutte il mare, a Venezia: nel qual luogo non trovandosi bene pel
clima, venne finalmente a Verona dove morì. Ma c'è pure chi non vede in
lui che l'asinello il quale avendo servito a Bacco nella sua fuga, fu
per ricompensa posto dal Nume a brillare fra le costellazioni nel cielo:
dove, sia detto a conforto dei suoi simili, non pare che splendesse meno
di qualsiasi altra.

Queste feste non mancavano d'essere accompagnate da orgie scandalose che
avevano per teatro le stesse chiese: e benchè i concilii più volte le
condannassero, durarono tuttavia molti secoli ancora.

Del resto, i bagordi nell'interno dei templi erano di vecchia data: e
già nel 364 il concilio di Laodicea proibisce le agapi che aveano
introdotto nelle chiese l'uso dei letti convivali. Seguirono tuttavia,
specialmente nelle feste citate; e noi leggiamo ad esempio nel Rituale
della Chiesa di Santa Maria Maddalena in Besançon, questa regola
espressa da seguirsi al giorno di Pasqua: «Dopo la predica avranno luogo
delle danze nel mezzo della nave del tempio: e finite queste vi si farà
una colazione con vino rosso».

Quanto al lusso delle mense ecclesiastiche qualche cosa già ne
indoviniamo dalle implacabili satire goliardiche: ma assai espressivo in
ogni caso è quanto scriveva circa il 1070 San Pier Damiano dei preti del
suo tempo: «Bramano di arricchire perchè nei bicchieri cristallini
biondeggino mille vini artefatti».

E nel 1149, per citare ancora un esempio, i Canonici di S. Ambrogio di
Milano pretendevano in certi giorni dal proprio Abate una succolenta
refezione con tre portate distinte: «_In prima appositione pullos
frigidos, gambas de vino, et carnem porcinam frigidam. In secunda pullos
plenos, carnem vaccinam et turtellam de clavezolo. In tertia pullos
rostidos et porcellos plenos_».

E se così dimenticavano presso di noi gli ecclesiastici la virtù
dell'astinenza e della mortificazione dei sensi tanto cara ai monaci del
primo medio evo, non è a credere che i laici fosser da meno di loro.

Nel panegirico di un anonimo a Re Berengario, del secolo X, così viene
introdotto un soldato Gallo ad apostrofare gli Italiani: «A che vi
corazzate con le dure armi i petti inerti, o Itali? A voi stanno
piuttosto a cuore le tazze ricolme di vino».

E poichè ho accennato ai convivii per dispendio e per lusso quasi
favolosi dei tempi dell'Impero, mi sia lecito di contrapporre a quel
quadro questa descrizione, che un contemporaneo fa del pranzo dato nel
1395 da Gian Galeazzo in Milano, quando ebbe il titolo di Duca:

«Fu dato ai convitati acqua a le mani stillata con preziosi odori e poi
seguitarono le imbandigioni tutte accompagnate con trombe et altri
diversi suoni, la prima delle quali fu: marzapani e pignocate dorate con
arme del serenissimo Imperatore e nuovo Duca in tazze d'oro con vino
bianco. Deinde pollastrelli con sapore pavonazzo cioè uno per scotella e
pane dorato. Poi porci dui grandi dorati e dui vitelli parimenti dorati.
Inde vi furono portati grandissimi piattelli d'argento et per caduno
pecti dui de vitello. Pezi quatro de castrato. Capretti dui interi,
pollastri quattro, caponi quattro, somata una, salsicci dui e vino
greco. Doppo furono portati altri piattelli di simile grandeza con pezi
quatro de vitello rosto. Capretti dui interi. Lepore due intere.
Piccioni grassi sei. Poi pavoni quattro cotti et vestiti. Orsi due
dorati con sapore citrino. Doppo furono portati altri grandissimi
piattelli d'argento con fasani quattro per caduno vestiti. Conche grandi
di argento con un cervo intero dorato. Daino uno dorato e caprioli due
con gallatina. Poi piattelli come di sopra con non poco numero di
quaglie e pernici con sapore verde: poi torte di carne dorate con pere
cotte. Dopo fu data acqua a le mani facta con delicati odori a li quali
seguitava pignocate in forma di pesci inargentate. Poi pani inargentati.
Limoni siropati inargentati in taze. Pesce arrostito con sapore rosso.
Pastelli de anguille. Poi piattelli grandi de argento furono portati con
lamprede e gallatina. Trute grande con sapore nero. Indi torte grande
verdi inargentate, mandorle fresche, vino legiero, malvasia, persiche e
diversi confetti a varie foggie»^[III-5].

Dopo non fu più portato nulla.

E sul vino e sui diversi usi in cui esso ha parte larghissima, molto mi
resterebbe a dire se non temessi di abusare dell'attenzione del mio
uditorio. Accennerei volentieri a quelle famose storiche proibizioni che
sempre furono e in ogni luogo deluse, ad onta delle minaccie e anche
delle pene più crudeli. Per cautela igienica Maometto l'aveva vietato ai
suoi Musulmani, ma nello stesso tempo descriveva loro il seducente
paradiso delle Uri dove i beati potranno dissetarsi ai torrenti di vino
che scorrono per i boschetti di eterna primavera. I Musulmani però
vollero pregustare quelle delizie anche sulla terra; a nulla valsero le
frustate, a nulla il piombo liquefatto versato nella gola del bevitore,
a nulla la stessa morte: tuttavia si bevette. I sultani fecero abbattere
ogni spaccio di vino, ne distrussero dalle fondamenta i depositi, fecero
gittare in mare i carichi d'uva, ma tutto fu vano: si bevette sempre.

Volentieri vi parlerei dell'uso che avevano i Germani di deliberare
sedendo a tavola tra i bicchieri, e della specialissima benedizione che
gli Ebrei danno al pane e al vino coprendo sulla mensa ogni altra
vivanda, e dell'allegrezza di cui è segno il vino versato in sulla
tovaglia e di altri usi parecchi. Ma mi contenterò, poichè ho parlato da
principio anche di un vino moralista, di discorrerne per bocca della
stessa Sapienza:

«Date il vino a quelli che sono in amaritudine d'animo, acciocchè beano
e dimentichino la loro miseria».

                                                   _Proverbi XXI._

«Allegrezza d'animo e di cuore è il vino ammodatamente bevuto: sanità
d'animo e di corpo il vino temperatamente bevuto».

                                                   _Ecclesiastico._

E udite finalmente il Salmo 75:

«Un nappo è nelle mani del Signore e il vino è rosseggiante: è colmo che
ne trabocca e si diffonde. Ma tutti i malvagi della terra non ne
succieranno che le feccie».

Possiate voi dunque, o signori — è il moralissimo augurio col quale vi
ringrazio dell'attenzione benigna — ignorare mai sempre il gusto della
feccia e non bere per tutta l'eternità che dello schiettissimo vino.

[III-1] Apprendo che quest'uso vige ancora presentemente nelle Marche: e
si crede che i bambini così lavati si fortifichino specialmente nelle
ginocchia.

[III-2]

      Del tempio nella parte più romita
    Dei ministri le menti di sè piene
    Non così Febo incita,
    Non il padre Lieo, non Dindimene,
    Nè i crotali sonanti
    Batton con tanta furia i Coribanti,
      Con quanta le sdegnose anime invade
    L'ira.

                     _Traduzione di_ D. PERRERO.

[III-3] Vedi ERODOTO, libro II, _passim_.

[III-4] Cfr. A. MÉRAY, _La Vie au temps des libres prêcheurs_.

[III-5] B. CORIO, _Storia di Milano_. Anno 1395.



                             _M. LESSONA_
                                   —
                           I NEMICI DEL VINO

           (_Conferenza tenuta la sera del 2 febbraio 1880_).


I nemici più pericolosi sono i nemici piccoli. Il leone è scomparso da
molte plaghe della terra cui prima infestava, i coccodrilli e gli
ippopotami, col moltiplicarsi dei piroscafi lungo il Nilo in Egitto, si
sono ritirati al disopra delle cateratte: da lunga pezza il lupo è
scomparso dalle Isole Britanniche, come è quasi scomparso oggi dal
Piemonte dove abbondava ancora sul principio del corrente secolo: sono
scomparsi dal Piemonte i cignali, sono scomparsi gli orsi, i quali,
quattro o cinque secoli or sono, erano in così gran numero che la loro
carne aveva sul mercato di Lanzo il suo prezzo corrente come quella di
capra.

L'uomo, che fa scomparire dalla terra le bestie feroci, non è riuscito a
liberarsi dai topi: in certe annate i topi campagnuoli si moltiplicano
così straordinariamente che distruggono le messi: in Germania lo
Hamster, talvolta venuto così strabocchevolmente a moltiplicarsi, fa
egli stesso il raccolto del frumento, e al povero mietitore non rimane
altro che andare a ricercare nelle tane del formidabile rosicante il
frumento che questo vi ha nascosto.

Or sono pochi anni un naturalista tedesco, il quale aveva tutta la sua
vita studiato i mezzi più efficaci per distruggere gl'insetti nocevoli,
e sovratutto quegli insetti che riescono più nocevoli in istato di
bruco, andava ad un congresso in una grande città ove dovevano convenire
dai punti principali della Germania altri naturalisti e agronomi
segnalatissimi per proseguire tutti concordemente nell'opera della
distruzione degli insetti nocevoli. Il naturalista dormicchiava in una
carrozza di prima classe, meditando un discorso che doveva improvvisare,
quando il convoglio prese a rallentare la sua corsa e finalmente si
fermò: era causa della fermata uno stuolo di brucolini innumerevoli come
le arene del mare e le stelle del firmamento, che per passare da un
tratto di terreno coltivato, donde avevano fatto scomparire fino
all'ultimo filo d'erba, ad un altro tratto al di là della ferrovia,
avevano dovuto attraversare questa, e il convoglio era arrivato loro
sopra appunto mentre facevano la traversata. L'immenso untume sotto le
ruote dei bruchi schiacciati impediva lo andare del convoglio. Il
naturalista arrivò in ritardo al congresso, ma in tempo tuttavia per
leggere una dotta memoria approvata unanimamente dai membri presenti,
intorno ai modi più efficaci di distruggere i bruchi nocevoli alle
piante coltivate.

Questi danni spaventosi avvengono appunto in Germania, dove le
pubblicazioni dirette ad ammaestrare i coltivatori intorno ai modi di
liberarsi da questi loro nemici sono più numerose, dove il Governo se ne
preoccupa costantemente, e gli studi zoologici sono meglio in fiore, e
(me lo ha detto anche un dotto tedesco) i professori sono più segnalati
ed eccellenti che non in qualsiasi altra parte del mondo.

I nemici dell'agricoltura sono i più dannosi all'uomo, perchè, in
sostanza, l'agricoltura è la grande base d'ogni umana associazione. Io
devo qui parlare dei nemici della vite, pianta che nell'agricoltura
tiene un così grande posto, e intendo parlare dei nemici che hanno il
loro posto nel regno animale, regno del quale io mi devo professare
suddito di buon volere. Anche per la vite, come sempre, i nemici piccoli
sono i più pericolosi, e i grossi quelli che in sostanza finiscono per
recare minor danno.

Il mio collega professore Cossa nella sua lettura intorno alla chimica
del vino domandò a se stesso se fra i nemici della vite io avrei
compreso anche l'uomo. Ho veduto molte volte l'uomo nemico delle viti,
sovratutto delle viti del sindaco nei villaggi: nei villaggi, non in
Torino, dove prosperano sulla collina le viti del nostro sindaco
diletto: ma la domanda si risolve in quest'altra: L'uomo è un animale e
deve prender posto nei trattati di zoologia? Linneo collocava l'uomo
primo fra i primati, in capo al regno animale, e distingueva due sorta
d'uomini, l'uomo sapiente e l'uomo selvatico; ma fra i primati collocava
anche le scimmie, e fin qui la cosa, se fa pena a molti, non fa poi
tanta meraviglia; ma vi collocava anche i pipistrelli, ciò che è più
inaspettato: l'uomo, le scimmie e i pipistrelli son collocati da Linneo
in sedie chiuse e il resto degli animali in platea: nel corrente secolo
si volle portare l'uomo in un palco di primo ordine a guardare col
cannocchiale ora in platea, ora sul palco scenico, e fu proposto di
costituire il regno umano al disopra del regno animale, separato e
spettatore di esso. In un trattatello tedesco intitolato _Zoologia
comica_, a raffigurare la principale differenza tra l'uomo e gli
animali, il primo, _Homo sapiens_, è rappresentato con un _chop_ di
birra in mano. Io posso oggi lasciar fuori questa quistione, per quello
che riguarda i nemici della vite, e tacermi intorno all'uomo e dire
soltanto degli animali, essendo compito mio lo studio degli animali e
non quello degli uomini: compito meno grave, perchè assai più che non
quello degli animali è difficile lo studio dell'uomo e sovratutto della
donna.

La volpe ama l'uva, e una popolarissima favola ne fa testimonianza: il
cacciatore a mezzo della notte impugna sovente lo schioppo e va pei
vigneti attratto dallo squittire della volpe sotto i filari; ma la volpe
preferisce tuttavia le galline, e l'uva prende per frutta. Qualche altro
mammifero carnivoro vien segnalato dai contadini siccome non avverso ai
grappoli, ma è cosa di pochissimo conto.

Gli uccelli beccano i grappoli maturi: il mio maestro di quinta mi
raccontava di un pittore greco che aveva dipinto un grappolo d'uva con
tanta naturalezza che gli uccelli ingannati andavano a beccarlo, ciò che
certo non riescirebbe a far oggi il pittore più ardente della scuola
realista. Forse gli antichi pittori greci avevano la cosa senza la
parola; ma è anche possibile che gli uccelli greci antichi fossero meno
degli uccelli moderni conoscitori in fatto d'arte. Sostanzialmente
tuttavia non si può togliere agli uccelli il merito di giovare alle viti
distruggendo insetti e bruchi nocevoli. Sopra questo fatto vero i
naturalisti da tavolino e gli agronomi da accademia hanno ricamato una
serie sterminata di periodi in favore degli uccelli e considerando la
cosa per un solo verso finirono per cadere nello esagerato e nel falso,
sebbene il punto di partenza sia vero: ma altre verità stanno accanto a
questa, le quali trascurate conducono all'errore.

Nella schiera dei rettili, le innocenti lucertole, i ramarri e gli
orbettini sono da considerare come amici della vite, perchè distruggono
i nemici di essa, insetti, limacce e chiocciolette: è ciò che non toglie
che questi abbondino a malgrado dell'abbondare dei primi, perchè dove
sono più i divoratori è anche maggiore il numero dei divorati, e tutti a
vicenda si divorano per mantenere quel famoso equilibrio che consiste in
una grande e continua distruzione, tanto ammirato dall'uomo che divora
sempre ed è raramente divorato.

Il professore Arturo Graf ci ha parlato di un gran serpente grosso e
lungo al di là di ogni immaginazione, che, avvolto intorno ad una
montagna in gran parte sommersa e preso da uno degli estremi del suo
corpo, fu adoperato a frullare il mare per convertirlo in vino: ma ebbe
cura egli stesso di dirci che quel serpente non era registrato nei libri
di zoologia. Le serpi nostre non hanno quasi che fare colla vite:
ingoiano sovente uccelli e rane, animali distruggitori d'insetti, e
nuociono così alla vite cui tali insetti riescono dannosi; talora
divorano gl'insetti medesimi e le limaccine e riescono utili; ma il
servizio e il danno son così piccoli che non franca la spesa tenerne
conto.

Nemici più piccoli e più dannosi sono i molluschi: le chiocciolette e le
limaccine strisciando dal suolo su pei tronchi vanno a divorare le gemme
e le foglie: tuttavia il danno che questi molluschi arrecano alle viti
non è mai quale è quello che recano agli ortaggi, ai cavoli, alle
insalate: negli orti talora si viluppano le limaccine
abbondantissimamente in certe annate, e fanno grandissime devastazioni:
ciò non avviene per le viti, sulle quali il loro numero non aumenta
considerevolmente da un anno all'altro, e non è mai tale da recare danni
veramente gravi.

Nemico più piccolo e più numeroso è un acaro: questi animalucci, che
vivono sulle foglie della vite, sono stretti parenti e hanno in tale
qualità una grande somiglianza con quegli animaletti dello stesso nome
che vivono sulla pelle dell'uomo, vi si scavano entro canaletti, passano
facilmente da un individuo all'altro, e costituiscono la malattia della
rogna. L'acaro della vite (_Acarus vitis_) sta sulla pagina inferiore
delle foglie di questa pianta, vi fa sopra una finissima tela e le
intacca per modo che appaiono poi chiazzate di giallo sulla pagina
superiore: questo danno è poco tuttavia, sovratutto perchè si produce
tardi nell'estate, quando è già l'uva matura. Questo acaro del resto ha
vicino a sè il suo nemico che lo tiene in freno rispetto al soverchio
moltiplicarsi, e questo nemico è pure un parente, un membro della
famiglia. Sistematicamente l'acaro che divora quello della vite
appartiene ai _trombidii_ e vien chiamato dai naturalisti _Trombidium
holosericeum_. Questo si mostra in aspetto d'un punto di un bel rosso
vivo, che i contadini conoscono, che trovano sovente sulle pietre al
piede della vite, e l'alpinista scorge sulle rocce in montagna, e nella
campagna di Torino è fra i primi a mostrarsi in primavera e fra gli
ultimi a scomparire in autunno: anche in inverno, smovendo la terra al
piede di un albero o di un muro, è facile trovare questo bel punticino
rosso vivente. Del resto, se la vite ha un acaro nemico, ne conta molti
amici, perchè son parassiti d'insetti che le recan danno: la stessa
filossera, la terribile filossera, ha un acaro che la divora.

Fra tutti gli animali, i nemici più pericolosi della vite, più terribili
ed in maggior numero sono gl'insetti, come sono di tutte le altre piante
coltivate dall'uomo. Gl'insetti sono naturalmente in sommo grado fecondi
ed è grandissimo il numero delle uova e delle larve che vengono da una
sola femmina, grandissimo sempre, ma in certe specie poi veramente
sterminato. Un numero grande di cause ed azioni molteplici concorre a
far sì che moltissime fra le uova deposte non si schiudano, e più ancora
che un numero assai maggiore di larve non arrivi all'ultima
trasformazione: anche qui, anzi qui più che mai, son molti i chiamati e
pochi gli eletti. Queste cause distruggitrici operano variamente: in
qualche annata avviene che l'azione di queste cause contrarie si fa meno
sentire ed opera invece inconsuetamente una qualche causa od un
complesso di cause favorevoli rispetto allo sviluppo d'una data specie:
tutto ciò senza che l'uomo nulla sappia, nè possa prevedere. Allora
questa specie si sviluppa così strabocchevolmente che invade e devasta
per un gran tratto di paese quelle piante che predilige, e quando non ha
più nulla da rodere sopra queste piomba su altre che prima sempre aveva
lasciato in disparte, e queste pure devasta e divora. Ciò fa che la
lista degl'insetti nemici di una data pianta quale noi la facciamo oggi,
può non essere più esatta domani: una specie d'insetti che non ha mai
intaccato la vite, ma sempre s'è attenuta ad un'altra pianta, quando
quest'ultima le venga a mancare, può invadere la prima e recarle gravi
danni. Gl'insetti oggi innocui alla vite possono riuscirle dannosissimi
domani.

Qualche anno fa, l'anno 1874^[IV-1], gli olmi del contorno di Torino
erano brulli e senza foglie: i viali non avevano più ombra, i rami nudi
come a mezzo dell'inverno; nè solo nel contorno di Torino, ma per tutto
il Piemonte: era una specie di coleottero (_Galleruca calmariensis_) che
c'è tutti gli anni, ma in moderate proporzioni per modo da passare
inavvertito, che quell'anno s'era sviluppato così sproporzionatamente. —
Un fatto analogo si osservò pure poco tempo fa in Torino stessa. Una
specie d'insetto, appartenente ai Rincoti (_Arocatus melanocephalus_),
nella primavera del 1877 si sviluppò in così grande numero sugli olmi di
una regione della città da invadere le case vicine, con grave incomodo e
molestia degli abitatori delle case stesse^[IV-2].

La medesima cosa avviene in ogni parte, ora di questa ora di quella
specie, per cui l'uomo non è mai sicuro: l'agricoltore coltivando una
data specie di piante, o poche specie e non più, per una grande distesa
di terreno e togliendo via ogni altra vegetazione sviluppa
necessariamente, fatalmente, quegli insetti che si nutrono delle piante
ch'egli coltiva; porgendo ampio pascolo al suo piccolo nemico, l'uomo ne
favorisce inesorabilmente la propagazione. L'uomo, che fa questo
fatalmente ed inconsapevolmente, cerca la causa del male, invece che in
se sesso, al difuori, e accusa lo scarseggiare degli uccelli del
soverchio moltiplicarsi degli insetti. Da una ventina d'anni a questa
parte, nelle scuole di agronomia e di storia naturale, nelle accademie
di agricoltura, nei libri, pei giornali, si ripete la stessa querimonia
dello scarseggiare degli uccelli e dello straboccare degli insetti; ma i
naturalisti entomologi cominciano a parlare in modo diverso, e due
valentissimi italiani, tutti e due morti da poco, il Rondani e il
Ghiliani, furono i primi a dimostrare la vanità di questo asserto: la
loro voce fu dapprima inascoltata, ma oggi, anche presso le altre
nazioni, gli uomini che conoscono l'argomento tengono lo stesso
linguaggio, sebbene molti membri delle accademie di agricoltura seguano
a tenere il linguaggio antico.

Sia adunque per la loro fecondità normale, sia per l'effetto di cause
che fanno sì che arrivino fino alla loro trasformazione in certe annate
in numero maggiore del consueto gl'individui d'una data specie, sia
perchè una specie, mancandole l'alimento che predilige, imprende a
pascersi di una specie vegetale che prima lasciava illesa, sia per le
migrazioni che trasportano talora sopra una contrada da lontanissime
plaghe stormi innumerevoli d'insetti affamati, l'agricoltore non è mai
tranquillo, e non è mai tranquillo il viticoltore.

Io riferisco qui l'elenco degli ordini in cui si divide la classe degli
insetti, seguendo le classificazioni del Claus, autore oggi preferito
generalmente e giustamente nelle scuole superiori:


                       INSETTI NOCIVI ALLA VITE.

ORTOTTERI. — Locusta viridissima — Decticus albifrons — Calloptenus
italicus — Ædipoda fasciata — Acridium peregrinum — Acheta italica —
_Varie specie_ di Ephippigera.

NEUROTTERI.

RINCOTI. — Aphis vitis — Phylloxera vastatrix — Lecanium vitis.

DITTERI. — Drosophila uvarum.

LEPIDOTTERI. — Cochylis ambiguella — Eucarphia vinetella — Eudemia
botrana — Grays olbellus — Tinea albertinella — Aciptilia pentadactylus
— Antispila rivillella — Albinia wochiana — Albinia casazzae — Pyralis
vitis — Tortrix heparana — Bombyx neustria — Deilephila celerio.

COLEOTTERI. — Melolontha vulgaris — Anomala vitis — Oxythyrea stictica —
Epicometis hirtella — Agrilus viridis — Synoxylon muricatum — Apoderus
coryli — Rhynchites betuleti — Rhynchites baccus — Brachyrrhinus vitis —
Eumolpus vitis — Haltica ampelophaga — Cryptocephalus vitis.

IMENOTTERI. — Vespa crabro — Vespa vulgaris — Polystes gallica

Questa tavola indica a colpo d'occhio quali siano quegli ordini da cui
la vite ha più da temere. Io verrò passando in rassegna questi ordini
dicendo brevemente di ciascuno, e fermandomi, naturalmente, più a lungo
su quelli che porgono materiali maggiore al mio discorso.

_Ortotteri._ Quest'ordine, in cui sono note e comuni forme le cavallette
e i grilli, non ha specie particolarmente nocevoli alla vite, sebbene
molti ortotteri vivano sulla vite medesima: nei nostri vigneti, venuta
la sera, fra i varî rumori della notte predomina, eccheggia per
sterminate distese un continuo e non disaggradevole trillo, che si deve
ad una specie di grilletto cui fu dato il nome di _Acheta
italica_^[IV-3] (_Acanthus pellucens_): immensamente diffusa è questa
specie, ma non in un numero d'individui abbastanza grande per recare
qualche rilevante danno alla vite su cui vive. Vivono pure sulle vite
varie cavallette verdi, come quella dei prati, cui si da il nome di
_Ephippigera_ e talora certe specie migratrici. Il genere _Acridium_
comprende le cavallette migratrici per eccellenza, quelle di cui già si
occupavano i più antichi legislatori cinesi, e di cui la storia antica,
il medio evo, i tempi nostri riferiscono le tremende devastazioni.

Nei piani sterminati dell'Asia e dell'Africa sgusciano le piccole
cavallette dalle uova che la madre ha affondato nella terra a poca
profondità; siccome è noto, in questi insetti le metamorfosi sono
incompiute: le cavallette non hanno al nascere la forma di verme, ma
hanno già la forma dei progenitori, da cui solo differiscono per non
essere ancora provvedute di ali: saltellano sul suolo e ne divorano fino
all'ultimo filo d'erba: quando son giunte a questo periodo e ove fossero
per rimaner più a lungo nello stesso luogo non avrebbero più di che
pascersi, generalmente sono loro spuntate le ali: dico _generalmente_
perchè non va sempre così, e allora faticosamente imprendono un viaggio
a piedi (dico a _piedi_ per contrapposto all'andare a volo) in cerca
d'altra verdura, e nel viaggio sovente muoiono di fame.

Quando le cose vanno regolarmente, e, consumate le provvigioni della
terra dove son nate, possono levarsi a volo, le cavallette si spingono a
grandi viaggi per l'aria in cerca di nuove terre: sovente questi loro
viaggi sono in balìa delle correnti aeree che le portano dove non
vorrebbero andare, e le precipitano talora nel mare, rigettandole poi le
onde sulla spiaggia con grande infezione tutto all'intorno, tanto il
loro numero è sterminato. Quando scendono sopra una terra verdeggiante,
in breve la fanno brulla, non lasciando più traccia di sostanze vegetali
alimentari per l'uomo. In Europa non sappiamo adoperare lo spediente cui
ricorrono in Africa i neri: questi mangiano le cavallette. Io mi trovai
una volta in Egitto ad uscir sollecitamente fuori di casa, per vedere
quale fosse la inaspettata causa per cui in quel cielo sempre
splendidissimo veniva ad un tratto ad offuscarsi il sole: erano nuvole
viventi di cavallette; passavano a volo, molte cadevano, per cui dalla
nuvola veniva giù come una gragnuola sul terreno: alcuni neri dei due
sessi che si trovavano là dove seguiva quella scena per me tanto
inaspettata si precipitavano sulle cavallette cadute, le masticavano
esprimendo colla faccia il piacere che loro dava quel cibo, e quando
incominciarono ad essere satolli, prendendone taluna in mano, me ne
vennero ad ofrire invitandomi a mangiarne, ed assicurandomi essere
quello ottimo cibo. Ebbi la debolezza di ricusare.

Del resto, le cavallette non prediligono le viti, ma bensì le erbe
tenerelle dei prati, ed il frumento verde: intaccano le viti quando
hanno distrutto già ogni altra vegetazione.

_Neurotteri._ I moderni naturalisti restringono in una cerchia più
angusta che non si facesse prima l'ordine dei neurotteri, e allogano
nell'ordine precedente degli ortotteri molti insetti che prima erano
compresi in quest'ultimo. Comunque si voglia intendere l'ordine dei
neurotteri, sia nel senso più largo precedente, o in quello più
ristretto attuale, le specie in esso comprese non appaiono dannose alla
vite, ma piuttosto utili per la distruzione che fanno d'altri insetti
che possono riuscire dannosi. Ai neurotteri, nel senso ristretto
moderno, spetta e vuol esser menzionato siccome il più noto il
Formicaleone, che in istato di larva ricorre ad un tanto conosciuto
quanto singolare spediente per procacciarsi il pasto.

Spettavano una volta ai neurotteri e ora son rilegate fra gli ortotteri
le graziosissime libellule che volano lungo i margini dei ruscelli e ci
ricordano le felici ore della fanciullezza, quando correvamo dietro al
loro volo: i francesi danno a questo vago insetto il nome di
_demoiselle_; gl'inglesi lo chiamano _ladybird_, i tedeschi
_wasserjungfrau_: noi a somiglianza dei francesi nel nostro dialetto lo
chiamiamo pure sgnoura, ma più comunemente ancora _preivi_, e non ne so
invero il perchè. Le libellule nel primo stadio della loro vita vivono
nell'acqua, poi volano a far preda di insettucci, moscerini ed altri, di
cui taluni son dannosi alla vite, ma altri pure sono utili in modo
indiretto, siccome dirò più tardi: cosicchè avviene per le libellule
come per tanti altri viventi e cose e persone che fanno un po' di bene e
un po' di male, ma qui nel caso nostro tanto l'uno quanto l'altro in
piccolissimo grado.

Quell'ordine d'insetti che si chiamò fino ad oggi degli _Emitteri_, e
che oggi ha mutato il nome in quello di _Rincoti_, era conosciuto dai
viticoltori siccome comprendente qualche specie nociva alla vite, ma di
una nocevolezza non tanto funesta quanto quella che arrecano altri
ordini, e sovratutto quello dei Lepidotteri, che, in ordine a
nocevolezza rispetto alla vite, teneva il primato. Oggi questo primato è
stato tolto ai Lepidotteri dai Rincoti. La fillossera, la terribile
fillossera, appartiene a quest'ordine: ma vi appartengono pure altre
specie nocevoli, sebbene assai meno, e di queste dirò prima qualche
parola.

Nella famiglia dei Coccidi, quella famiglia cui è ascritto il famoso
insettuccio che fornisce la cocciniglia, qualche specie reca danno alla
vite. Tale è fra noi il _Lecanus vitis_. Nei Coccidi è notevole il modo
in cui, diremmo così, si sacrifica la madre allo sviluppo delle uova:
rimangono le uova sotto al corpo della madre, questa sta loro sopra e le
ricopre e muore e la spoglia dorsale del suo corpo, quella più salda e
dura che più tardi si decompone, rimane come un coperchietto sulle uova
sino al loro sviluppo: troviamo questi corpicciuoli a preferenza sulle
viti male andate e malaticcie, onde non è grave il loro danno.

All'ordine dei Rincoti spettano gli _Afidi_, insettucci molto comuni e
diffusi, che vivono nelle foglie e sui rami di varie sorta di piante, e
per molti rispetti sono curiosi e degni di studio. I nostri giardinieri
chiamano _pidocchi delle rose_, e nella nostra lingua si chiamano
_Gorgoglioni_, certi insetti che si trovano sovente in gran numero non
solo sulle foglie e sui rami delle rose nei giardini, ma anche su quelle
rose ed altre sorta di piante che si tengono in città, nei vasi da
fiori, in estate sulle finestre, in inverno nelle stanze. Questi
Gorgoglioni delle rose sono verdi come le foglie su cui stanno, si
mostrano consuetamente senz'ali, e hanno sulla parte superiore e
posteriore del corpo una piccola sporgenza dalla quale sgocciola un
umore dolcigno, cui, come da un capezzolo, vanno a suggere le formiche.
A mezzo dello scorso secolo il Réaumur, di cui il nome diventò popolare
col suo termometro, fece intorno a questi insetti curiosissime
osservazioni che dapprima furono accolte con grande diffidenza, ma poi,
verificate, si mostrarono esattissime. In sul finire dell'estate i
gorgoglioni delle rose appaiono distinti nei due sessi, i maschi con
ali, le femmine senza. Le femmine depongono uova che rimangono senza
svilupparsi tutto l'inverno: da queste uova sgusciano in primavera tante
femmine sprovvedute d'ali che, senza nissuna opera di maschi, generano,
non uova, ma subito altrettante femmine, le quali alla loro volta ne
producono altre, e così successivamente finchè in autunno insieme colle
femmine appaiono i maschi alati, e le femmine allora prima di morire
depongono uova destinate a svernare e a dar origine a femmine nella
seguente primavera. Questo fatto di una serie di generazioni di femmine
da femmine senza opera di maschi destò allora somma maraviglia: ma poi
fu scorto in molti altri casi, e s'ebbe il nome di _Partenogenesi_.

Nella famiglia degli Afidi una specie è riconosciuta dannosa alla vite,
e si ebbe il nome di _Aphis vitis_: il danno che fa non è grande
tuttavia, ed appare minimo quando lo si paragona a quello spaventoso che
fa una specie sua affine, oggi proclamata l'insetto più terribilmente
dannoso alla vite, la fillossera, che riempie del suo nome l'Europa, e
preoccupa i governi e promuove congressi e fa andare in giro gli
agronomi e i naturalisti e fa diluviare libri e fascicoli, descrizioni e
disegni e articoli di giornali. Questo parlare senza fine che si fa oggi
appunto della fillossera mi dispensa dallo spendere qui intorno ad essa
molte parole, e mi concede di raccogliere in breve le cose principali
che le si riferiscono. — Si dice che la fillossera sia originaria del
continente americano e la cosa è molto probabile, ma non assolutamente
certa: certo è che fu fino al tempo nostro ignota agli entomologi del
continente antico. Il genere _Phylloxera_ fu istituito nel 1834 da un
naturalista francese di Aix, il signor Boyer de Fonscolombe: allora
questo genere non aveva importanza nè nella pratica agricola nè
altrimenti: il mondo non ci badò; quei pochi che ne ebbero contezza
forse pensarono alla soddisfazione del naturalista che aveva dato questo
battesimo.

In America la fillossera di cui parliamo incominciò ad essere conosciuta
nel 1856, e il signor Asa Fitsch la descrisse e la nomò _Pemphigus
vitifoliae_.

Pare che sia stata scoperta in Inghilterra pure la fillossera, e ciò nel
1863; ma siccome in quella contrada la vite non prospera all'aperto, e
la si coltiva solamente nelle serre, in tal condizione appunto si trovò
la fillossera ad Hammerswith, e il Westwood la descrisse e la denominò
_Peritymbia visitana_.

                     [FIGURA: Radice di vite sana.
              Le radichette sono tutte senza rigonfiamenti.
                   _d_ radichette morte ed abbrunite.]

Il professore Planchon riconobbe nell'insetto il genere _Phylloxera_,
già prima costituito, siccome abbiamo detto, e gli diede il nome
specifico di _vastatrix_, descrivendola diligentemente; aveva già allora
conquistato una certa importanza, non era più quistione solo di un fatto
entomologico, ma bensì di un fatto in rapporto colla prosperità
nazionale. Allora s'incominciò uno studio accuratissimo di tutti gli
atti della vita di questo insetto che minacciava e compiva devastazioni
e sterminio nei vigneti preziosissimi del contorno di Bordeaux, e fu
scoperto che la vita della fillossera è per varî rispetti molto
singolare, e varie le forme che assume la specie. Non si può dire con
questo, e a malgrado degli studî diligentissimi fatti da valenti
naturalisti intorno alla fillossera, che ogni dubbiezza sia dileguata e
tutto proceda appunto come dai più si asserisce: qualche incertezza v'è
ancora. Secondo quello che venne osservato e si osserva da entomologi
competentissimi, la vita varia della fillossera si può in breve
riassumere nel modo seguente: parecchie sono le forme nella specie, non
due sole come avviene consuetamente (questa cosa, del resto, si
riscontra anche in altri insetti, come le api e le formiche, ed altri).
Si possono distinguere le forme della fillossera in una forma alata e
parecchie forme senz'ali: si può anche dividere la vita di questa specie
secondochè si passa sotto terra o all'aria aperta. La forma alata è la
più perfetta, ed appunto perchè ha le ali può recarsi lontano sia col
sussidio delle ali verso una meta determinata, sia passivamente
trasportata dal vento, percorrendo allora talvolta grandissime distanze;
ciò dimostra come non possano dare sicurezza tutti i mezzi d'isolamento
da paese a paese, la proibizione dei trasporti e della introduzione in
un luogo immune da un luogo infetto dei tralci e dei vitigni: questa
proibizione, sia detto ciò di passata, non è efficace più di quello che
non siano le altre barriere doganali; ma quando anche assolutamente
fosse, mentre si tien lontano il nemico senz'ali rigorosamente alla
frontiera, può avvenire che la forma alata porti con sè i germi delle
future generazioni, e perciò, e per le attitudini al migrare, questi
individui alati furono detti _colonizzatori_. L'individuo alato
colonizzatore fa due bozzoletti, ciascuno dei quali contiene un
individuo, e i due individui di sesso differente: questo è il solo punto
della carriera vitale della fillossera in cui si vedano i maschi: tutte
le generazioni seguenti sono di femmine e si riproducono
partenogeneticamente. Questa femmina, che è nata a paro col maschio, e
che è al pari di esso sprovveduta d'ali, ma più grossa di corpo, fa un
uovo, un solo uovo, cui si da il nome d'_uovo d'inverno_, destinato
veramente a svernare attaccato ai nudi tralci: da quest'uovo in
primavera si sviluppano altre forme senz'ali, le quali si producono per
uova senza opera di maschi, e talora, ma da quanto pare non sempre, le
uova di questa generazione si trovano entro a galle sulle foglie della
vite: le forme derivanti da queste uova scendono e s'affondano nel
terreno, e quivi depongono altre uova che s'attaccano alle radici e da
cui nascono individui che succiano gli umori delle radici e spengono la
vita della pianta. Le ultime generazioni di queste forme sotterranee
hanno un principio di metamorfosi incompiuta, la quale consiste nello
spuntare di un rudimento d'ali: a questo punto sono a fior di terra, e
finiscono per uscirne; alla luce del sole le ali si sviluppano, e la
forma alata, la forma riproduttrice, la forma più perfetta piglia il
volo per andar lungi a fondare colonie novelle.

           [FIGURA: Radice di vite colpita dalla fillossera.

     _s_ Radichette sane; _s'_ radichette sane nate sopra rigonfiamenti;
     _r_ rigonfiamenti prodotti dalla fillossera; _r'_ rigonfiamenti
     prodotti dalla fillossera sviluppatisi sopra altri rigonfiamenti;
     _r″_ rigonfiamenti appassiti, divenuti neri e già in istato di
     decomposizione.]

                       [FIGURA: Fillossera alata.

    _o_ occhi composti formati da moltissimi cristallini; _o′_ occhi
    sferici formati da tre cristallini; corrispondente agli occhi delle
    fillossere attere; _o″_ occhi semplici laterali; _o‴_ occhio
    semplice frontale; _a_ prime ali o ali superiori; _a′_ seconde
    ali o inferiori.]

                         [FIGURA: Madre attera
            partenogenica delle radici, vista per di sotto.

            _g_ guaina del succiatoio; _s_ succiatoio.]

                     [FIGURA: Larva di fillossera
                        subito dopo la prima muta.

          _a_ antenne; _b_, _c_, _d_ zampe;
          _o′_ occhi formati da tre macchie di pigmento rosso.]

                    [FIGURA: Fillossera femmina senza succiatoio,
          vista per di sotto. Per trasparenza vedesi l'uovo d'inverno
          entro il suo turgido addome. _b_ bocca rudimentale senza
          succiatoio; _u_ uovo; visto per trasparenza.]

                [FIGURA: Fillossera maschio, senza succiatoio,
         visto per di sotto; _b_ bocca rudimentale senza succiatoio.]

Come si vede da tutto questo complicato circolo di vita, i danni della
fillossera sono principalmente nella sua vita sotterranea. Il nostro
Cossa, autore di una pubblicazione fatta nel 1875 intorno a questo
insetto devastatore, e nella lezione sul vino che fece qui ora è poco
tempo, fa questa domanda: se per avventura non avvenga che i danni della
fillossera siano in rapporto con uno stato malaticcio della vite, frutto
della lunga opera ignorante od avara del coltivatore. Questo dubbio è
avvalorato da molti e gravi argomenti.

I fatti che abbiamo esposto dimostrano senz'altre parole la difficoltà
per l'uomo di distruggere questo insetto o ridurne il numero in più
discrete proporzioni, perchè poco assai può fare l'uomo contro un nemico
così piccolo e nocente sotterra. I rimedî proposti son molti, e questo è
cattivo segno, perchè quando c'è un rimedio buono tutti si appigliano a
quello. Si parlò di allagamento, impossibile fra noi, dove son quasi
tutte le viti in collina, si parlò di sradicare interamente i vigneti,
rimedio radicale, ma di cui non è d'uopo dire gli effetti una volta che
fosse spinto alle sue ultime conseguenze. Venne consigliato il solfuro
di carbonio, la coltivazione di certe piante tra i filari, aglio,
canapa, euforbia, stramonio ed altre, ed il loro sovesciamento; si parlò
ancora di far assorbire sostanze tossiche dalle viti, sublimato
corrosivo, preparati arsenicali, per avvelenar la fillossera; non parlo
di altri rimedî fantastici e numerosi di gente che per lo più non ha mai
bazzicato colle viti.

Vi fu anche chi lanciò quest'atroce calunnia, che taluni naturalisti
trasportassero dall'una all'altra contrada la fillossera, per aver poi
la gloria di scoprirla in quella nella quale l'avevano trasportata.
Calunnia che si smentisce, senza cercar altro, pel solo fatto che quando
la fillossera si scopre in un paese, ciò avviene dopo molti anni da che
vi ha posto dimora; e un uomo tanto smanioso di nome da commettere un
simile delitto non ha pazienza di aspettar degli anni.

La vita in grande parte sotterranea della fillossera, ciò giova
ripetere, fa sì che quando se ne riconosce la presenza in una data
regione essa già vi è venuta da molti anni e vi si è grandemente
propagata; mentre in una località della contrada invasa abbonda tanto
che riesce agevole lo scorgerla, non può a meno di trovarsi ancora in
piccolo numero, così piccolo da sfuggire all'attenzione dell'uomo, in
altre località più o meno discoste. Supponiamo che la fillossera venisse
ad invadere i bei colli pampinosi del contorno d'Asti, e che vi si
propagasse in tal modo da riuscire al tutto palese; supponiamo che si
fosse trovato un rimedio veramente efficace, ciò che per sventura oggi
non è affatto, e che con esso si venisse a distruggere l'insetto in quel
luogo; tutto porta a credere che quando era numerosa la fillossera
nell'astigiano, qualche individuo non avrebbe potuto a meno di venire,
sollevato sulle ali e trasportato dai venti, sulla collina di Torino,
per incominciare a propagarsi, e dopo parecchi anni rivelare la sua
presenza devastatrice; l'uomo allora si darebbe attorno per distruggerla
sulla collina di Torino; ma essa avrebbe incominciato ad allignare nel
Canavese.

La nazione più danneggiata dalla fillossera è la Francia, tanto dalla
parte del nord quanto nella parte meridionale; si poteva aspettare, ed
era ragionevole temere, che ove fosse venuta in Italia avrebbe dovuto
entrare, portata dal vento, per la via della Liguria, lungo il littorale
per cui confinano i due paesi; invece apparve l'anno scorso a
Valmadrera, in Lombardia, venuta probabilmente dalla Svizzera, ma da
parecchi anni.

L'uomo dunque, che non ha rimedio contro la fillossera, quand'anche
l'avesse non potrebbe adoprarlo che sopra un dato spazio, mentre già in
altri luoghi vicini l'insetto incomincierebbe a propagarsi per apparire
numeroso più tardi.

Non solo in Francia ed in Svizzera si trova oggidì la fillossera, ma
anche in Ispagna ed in varie parti dell'Europa centrale ed orientale e
al di là del limite entro il quale la vite cresce e fruttifica in piena
terra si trova nelle serre.

I governi di tutta Europa fanno congressi internazionali, ed in ogni
nazione i naturalisti sono invitati a studiare la quistione; in questi
giorni sono radunati a Roma in commissione naturalisti ed agronomi a
cercare i rimedî. Io parlava un giorno ad un naturalista zelante della
inutilità dei rimedî tentati, ed egli mi rispose: — Bisogna fare qualche
cosa, ad ogni costo far qualche cosa: meglio sradicare i vigneti che non
far nulla. —

La fillossera ha parecchi nemici naturali: ne distruggono le libellule,
alcuni coleotteri, come le coccinelle, gli uccelletti; più infesti alla
fillossera sono gli acari, e fra questi uno è riconosciuto suo grande
distruggitore, diligentemente studiato e descritto, e denominato
_Tyrogliphus phylloxerae_; ma, come sempre, il distruggitore cresce e si
moltiplica in ragione dell'ospite cui divora, e sempre questo è più
numeroso.

La complicatezza della carriera vitale della fillossera, ciò ripetiamo
ancora una volta, la sua vita in gran parte sotterranea, la grande
prolificità, proteggono la moltiplicazione della fillossera, ed un solo
individuo alato sfuggito ai suoi nemici può andare in lontane contrade a
spargere a migliaia di milioni innumerevoli le schiere infeste
devastatrici.

Lo aver solo un paio d'ali valse a far denominare _Ditteri_ certi noti
insetti; il nome che hanno fu loro dato da Aristotile oltre a due mila
anni or sono. Le mosche e le zanzare sono i più noti rappresentanti di
quest'ordine d'insetti. Il nostro Rondani, naturalista molto meritevole,
più meritevole assai che non conosciuto ed apprezzato, morto
recentemente, il quale si consacrò con speciale amore e dedicò gran
parte della sua vita allo studio dei ditteri, parlò maestrevolmente dei
danni che arreca il moscerino dell'uva, di cui descrisse i costumi, e
che denominò _Drosophila uvarum_. Questo moscerino, il quale si trova in
quantità grandissime nelle cantine, quando segue la fermentazione del
vino depone le uova negli acini già intaccati da altri insetti e con un
principio di fermentazione; nei vigneti piantati in luoghi umidi, in
fondo alle vallate, questo insetto è più abbondante e reca maggior danno
col far marcire gli acini; nei vigneti ben soleggiati, sui colli aprici
è in minor numero e arreca minor danno, perchè gli acini tendono meno al
marcire e piuttosto allo appassire. In ogni caso non è mai molto
nocevole questo moscerino che non riesce da sè a forare gli acini ed ha
bisogno che altri gli apra la strada. Molti ditteri sono utili alla vite
facendo morire bruchi di farfalle o larve di coleotteri nocevoli, e in
singolarissimo modo, come più estesamente fanno certi imenotteri, per la
qual cosa mi riservo a parlare di ciò quando sarò a dire di questi
ultimi insetti.

_Lepidotteri._ Con questo nome vengono chiamati scientificamente quei
leggiadri insetti che son noti a tutti col nome di _farfalle_, e che
sfoggiano nello stato adulto aleggiando per l'aria le maraviglie dei
loro variopinti colori: in questi insetti le metamorfosi sono veramente
compiute: sguscia dall'uovo una forma che il volgo chiama addirittura
_verme_, e che di verme ha veramente sembianza: questo ad un certo
periodo della vita s'isola dal mondo esterno incrisalidandosi, ed esce
finalmente pel suo ultimo stadio più elevato e perfetto. La vita della
farfalla in quest'ultimo stadio è tutto una vita di volo e di
allegrezza, e l'opera della riproduzione la occupa tutta: è breve e
lieta. La vita in istato di bruco è tutta una vita di nutrizione; la
vita in istato di crisalide è tutta rivolta all'opera della
trasformazione. La vita di bruco è tutta una vita di nutrizione:
l'animaletto non fa altro che pascersi: tutta la sua organizzazione non
è, si può dire, fatta d'altro che di organi digerenti: i sensi lavorano
pochissimo, è al tutto scarsa la locomozione, tutte le forze dell'essere
sono volte a mangiare, e giorno e notte non fa altro accumulando una
immensa copia di grasso sotto alla pelle lucida e tesa, che di tratto in
tratto si screpola e vuol essere mutata. Quando milioni e milioni di
questi bruchi sono sopra alla vite, s'intende come ogni verde ne deva
scomparire: le gemme, i fiori, le foglie, i grappoli, tutto divorano
questi terribili bruchi delle farfalle, numerosi d'individui come di
specie. Alcuni anni or sono i Lepidotteri in istato di bruco venivan
proclamati i più terribili nemici della vite fra tutti gl'insetti: oggi
non è più così, perchè la fillossera, più formidabile, è venuta a dare
all'ordine dei Rincoti tale funesta prerogativa. Ma i danni recati dai
bruchi delle farfalle non sono per questo scemati. Si conoscono una
buona ventina di specie veramente dannosissime, ed un numero maggiore
d'altre che recano un minor danno, ma pur grave, e che da un giorno
all'altro, date le circostanze, possono diventare dannosissime pur esse.
Ne menzionerò qui specialmente qualcuna.

Nota comunemente è la Piralide della vite, _Pyralis vitis_ dei
naturalisti, chiamata anche più modernamente _Tortrix pilleriana_. Non
solo oggi è conosciuta comunemente questa specie, ma anche in passato, e
fino da tempo antichissimo fu fatto menzione di certe annate, nelle
quali apparve in numero sterminatissimo e fu causa di sommi danni.
Frequentemente i bruchi della Piralide devastarono i vigneti nel medio
evo. In Francia, ad Argenteuil, nel 1562, questi bruchi, che negli
scritti del tempo son chiamati.... _Lysetes_, _Becardos_, ma più
comunemente _Diablotinos_, desolarono talmente il paese che
l'Arcivescovo di Parigi si credette in dovere di scomunicarli.

La scomunica era il mezzo più adoperato allora contro i bruchi e gli
animali nocivi in generale. In Torino fino alla fine del secolo scorso
fu quest'uso: il Municipio comprava ogni anno da Roma una _maledittione_
che pagava il più possibile per averla più forte: pel prezzo trattava
all'amichevole il diplomatico del nostro Principe presso la Corte di
Roma. Venuta la _maledittione_, l'arcivescovo in _pompa magna_,
circondato dallo stato maggiore de' suoi canonici, cui faceva ala un
esercitino di chierichetti, il Sindaco e i signori di città vestiti alla
spagnuola, insomma tutte le autorità ecclesiastiche, militari, civili,
municipali, si raccoglievano in Piazza Castello presso il portone del
Palazzo Madama in faccia a Doragrossa: l'Arcivescovo saliva sopra un
palco coperto di velluto, posto appunto dove ora è il piedestallo
dell'alfiere di marmo donato dai Milanesi all'esercito sardo, e si
veniva così a trovare in vista al disopra delle teste degli altri com'è
ora la statua dell'alfiere; allora con voce tonante scagliava la
_maledittione_ e i chierichetti proseguivano colle giovanili loro voci
un canto in coro.

La scomunica era il mezzo principale adoperato contro i bruchi, ma non
era il solo: c'erano anche i processi davanti ai tribunali susseguiti
dalle condanne, ma dopo che erano state fatte da valenti avvocati le
accuse e le difese. A Vercelli ci fu una grande discussione se certi
bruchi dovessero essere giudicati dai tribunali civili oppure dagli
ecclesiastici, perchè avevano saziato il loro appetito sulle terre di
una parrocchia.

I danni della Piralide della vite furono in Italia frequenti e gravi in
parecchi luoghi; ora questa specie non fa più parlare di sè, dappertutto
si è fatta piuttosto rara e da qualche località pare al tutto scomparsa.
Ben inteso, ciò non ci assicura per l'avvenire.

I nemici della Piralide della vite sono numerosi e ne minacciano la vita
sovratutto in istato di bruco: sono principalmente piccoli imenotteri
delle famiglie degli _icneumonidi_ e dei _calcididi_^[IV-4], e anche
piccoli ditteri, che operano a suo danno, come a danno di tanti altri
bruchi, in un modo che, per quanto l'abbiamo quotidianamente
sott'occhio, non tralascia dall'essere sorprendente, e di cui mi riservo
a dire fra breve parlando specialmente degl'imenotteri. Forse anche
qualche acaro divora i bruchi della Piralide: questi bruchi sgusciano in
sul finire d'agosto dalle uova deposte dalle femmine sui giovani pampini
più elevati della vite.

Nei primordi del loro sviluppo i brucolini della Piralide non riescono
guari dannosi, perchè allora l'uva è giunta a un dipresso a maturazione:
al sopravvenire dei primi freddi, i brucolini si appiattano sotto la
scorza dei tralci e fra i fessi dei pali che sostengono le viti, e al
sopravvenire della primavera, più o meno presto secondo i paesi e le
annate, escono affamati, e allora incomincia il danno: il bruco lega con
una finissima seta di sua secrezione gl'invogli della gemma, s'addentra
in questa, poi incomincia a rodere intorno e così tutto distrugge e
toglie lo svilupparsi dei tralci: presso al compimento di questa opera
di distruzione si trasforma in crisalide e nel luglio diventa farfalla e
subito dà opera alla riproduzione: la femmina depone sui giovani pampini
le uova della seguente generazione.

Dannosissima pure alla vite, e oggi più della precedente, è un'altra
farfalla, la Procride, _Procris ampelophaga_, che talora distrugge oltre
alla metà delle uve; ciò avvenne più d'una volta sui colli del Piemonte
ed altrove in Italia. Qui segue diversamente dalla Piralide. La femmina
della Procride depone le uova in estate sotto la scorza delle viti e fra
i fessi dei pali, e queste uova svernano e non si schiudono che nella
seguente primavera: i brucolini nascono in marzo e subito van sulle
gemme, le forano, vi si addentrano, le rodono. Basta uno di questi
brucolini ad impedire lo sviluppo di una gemma. Dopo la prima muta della
pelle, esce dalla gemma il bruco e va sui nuovi pampini e sui nuovi
germogli sviluppati dalle gemme rimaste immuni e li divora, doppiamente
dannoso; poi si trasforma e, fatto farfalla, depone le uova. Questa
specie ha, come la precedente, parecchi parassiti che vivono alle sue
spese.

Minutissima farfallina, lunga appena due millimetri, è la _Antispila
rivillella_^[IV-5] che in istato di bruco vive entro a certe gallerie
che si scava nel parenchima delle foglie, di queste pascendosi: queste
gallerie si scorgono dal difuori per certe macchie bianche e gialle che
si vedono sulle foglie; quando il bruco è giunto al suo pieno sviluppo,
colla epidermide della foglia si fa un astuccio e si trasforma. Questa
specie venne scoperta primieramente nell'Isola di Malta dal signor
Godeken de Riville, e passò un lunghissimo tratto di tempo dopo che ne
fu fatta la scoperta, tantochè questa fu messa in dubbio: il Rondani la
ritrovò al tempo nostro nel contorno di Parma; non ha fino ad oggi
recati danni gravi, non essendosi mai straordinariamente moltiplicata.
Si conoscono ad essa tre specie di piccoli imenotteri parassiti^[IV-6].

Dal Direttore della Stazione chimico agraria sperimentale di Roma, il
signor Briosi^[IV-7], venne scoperta una specie di farfalla che recò
danni notevoli ai vigneti della Sicilia, e che egli denominò _Albinia
wochiana_; è somigliante alla Piralide ed alla Procride sia nei colori,
sia nelle dimensioni; intacca principalmente i grappoli; per la qual
cosa, quando in sul finire dell'estate o in sul principiare dell'autunno
si entra in un vigneto preso da tale malattia, i tralci delle viti si
mostrano perfettamente sani, ma l'uva è, per la maggior parte, in uno
stato di vera disorganizzazione: i grappoli portano in varie proporzioni
acini sani ed intatti ed altri putridi e passoli; la buccia di questi
ultimi è più o meno rammollita e livida, ed il granello non contiene che
poca polpa raggrinzata che sa di muffa ed è di un dolce scipito al
palato: causa di ciò si è il bruco della farfalletta sopra menzionata
(Briosi). I costumi di questa specie non sono ancora ben noti. Altre
specie affini a queste, e sovratutto alle due prime menzionate, vivono
sulla vite, ora innocue pel non troppo grande numero, ora qua o colà
dannose quando vengono a svilupparsi maggiormente.

L'ordine dei _Coleotteri_, che dopo quello dei Lepidotteri è il più
conosciuto, e che comprende quelle specie d'insetti che ci stanno più
consuetamente d'intorno e talora pure si attirano il nostro sguardo per
la bellezza dei colori delle loro elitre, ed attraggono la nostra
attenzione pei fatti varî della loro vita, reca pure danno ai vigneti, e
son parecchie le specie dannose.

Notissimo ai nostri contadini è il _Rhinchytes betuleti_, che in
dialetto piemontese chiamano _taglietto_ o _tajet_, e nella lingua
_Sigarajo_ o _Tortiglione_, ed anche _Punteruolo_. Quest'ultimo nome
esprime un carattere assai vistoso che distingue la famiglia di
Coleotteri cui spetta questo, detta dei Rinchiti, ed è che il loro
apparato boccale si allunga e si fa acuto a mo' di becco. Il nome di
sigaraio gli viene da ciò che, siccome ora dirò meglio, egli avvoltola
le foglie della vite, facendo loro prendere una forma somigliante a
quella di sigaro. È quest'insetto dannosissimo alla vite: in sul
principio di maggio comincia per questi insetti l'opera della
riproduzione: i maschi e le femmine vanno insieme sul picciuolo della
foglia e lo rodono per modo che la foglia cade giù penzoloni: allora la
femmina incomincia a deporre qualche uovo alla base della foglia e poi
prende ad accartocciarla, poi depone altre uova e l'accartoccia ancora,
e così via la riduce alla forma di sigaro che gli fece dare i nomi
sopradetti. I romani antichi la chiamavano _Involvulus_, e Plauto a
questo insetto che si avvoltola nella foglia paragonava una persona
imbrogliata nel suo parlare e che s'andava avvoltolando nel discorso:

    Involvulorum quæ in pampini folio implicat se
    Itidem haec exorditur sibi intortam orationem.

La foglia avvoltolata perde a poco a poco il suo verde ed ingiallisce
per mancanza di umori, tagliate quasi al tutto le comunicazioni col
ramo.

Dopo una diecina di giorni, poco più poco meno, sgusciano dalle uova le
larve che rodono le foglie, e a un dipresso in un mese hanno il loro
pieno sviluppo: passano allora allo stato di ninfa, e al principio di
luglio son diventati insetti perfetti. Non raramente i Rinchiti,
specialmente quando sono in grande numero, fanno cadere anche i grappoli
col rodere loro in massima parte il picciuolo.

Il riparo migliore contro questi insetti sta nel raccogliere i pampini
avvoltolati e bruciarli: dico bruciarli, non affidarli al terreno, ove
le larve troverebbero e trovano naturalmente scampo.

Probabilmente altre specie di rinchiti molto affini a questi: _R.
bacchus_, _R. populi_, ecc., che consuetamente devastano altre piante,
danneggiano pure qua e colà la vite, per cui non sono d'accordo i
naturalisti intorno alla identità della specie.

È pure un Rincoforo, il _Brachyrrhinus_ (_Otiorhyncus_) che rode le
gemme, i teneri germogli di parecchi alberi ed anche quelli della vite:
secondo il Genè questo insetto nel 1808 danneggiò grandemente i vigneti
dell'Italia superiore: oggi non si vede più tanto numeroso.

Vuole pure qui essere menzionato lo _Apoderus coryli_, che spetta alla
stessa famiglia, intacca molte piante ed anche le viti, ed ha costumi
affini a quelli dei rinchiti.

Venne dato il nome di Anobiidi ad una famiglia d'insetti che intacca il
legno, tanto degli alberi vivi, quanto anche il legno secco e già
foggiato dall'uomo per suo proprio uso in mobili di varie sorta.
Gl'insetti di questa famiglia sono molto somiglianti a quelli della
famiglia degli _Ptinidi_ di cui tutti conoscono i Ptini, che entro al
legno degli armadî e dei cassetti nelle case vanno scavandosi le loro
piccole gallerie e producono quel piccolo rumore secco e continuato che
nel silenzio della notte entro alla stanza di un malato spaventa chi
veglia e si ebbe il funereo nome di _Oriuolo della morte_. Agli Anobiidi
e precisamente alla sottofamiglia degli Apatini appartiene il _Synoxylon
muricatum_, che ha una forma singolare: capo piccolissimo e quasi
nascosto nel protorace, e troncato il corpo dalla parte posteriore.
Questo coleottero in istato di larva vive nei tralci, entro ai quali in
varia direzione si scava gallerie pascendosi delle materie degli strati
legnosi che viene disaggregando: a mano a mano che si spinge avanti la
parte scavata si riempie dei suoi escrementi e della polvere rosa del
legno; passa dopo un periodo variabile di tempo in istato di ninfa nella
stessa sua galleria, poi verso la fine del luglio compie la sua ultima
trasformazione, trafora il legno ed esce. S'intende come il danno che
reca sia grave con questo suo traforare il legno, e gravissimo quando si
moltiplica straordinariamente; convien dire tuttavia che, come quasi
tutti gl'insetti suoi affini che intaccano il legno, predilige i tralci
malaticci o in via di deperimento. È uno degl'insetti più malagevoli da
distruggersi, vivendo esso inosservato entro al legno^[IV-8].

La famiglia dei _Crisomelini_ comprende insettucci che danno nell'occhio
pel vivo colore dei riflessi metallici delle loro elitre; vivono varî
generi di questa famiglia su varie piante: sugli alni, sui cavoli, e
vengono chiamati dai nostri ortolani, pel loro saltellare, _pulci dei
cavoli_. Ad una specie di questa famiglia, lo _Eumolpus vitis_, venne
dato il nome di _Scrivano_, perchè intacca il parenchima delle foglie
per modo da produrvi sopra qualche cosa che rammenta una scrittura, come
fu dato il nome di _tipografi_ ad altri insetti pure del gruppo dei
Coleotteri, ma non più Crisomelini, i quali intaccano analogamente il
legno. Lo scrivano distrugge la sostanza delle foglie, e talora intacca
anche i grappoli, riuscendo così doppiamente nocevole; nello stesso modo
opera l'_Altica ampelophaga_, il _Cryptocephalus_ vitis ed altre specie
affini; sebbene si trovino nei vigneti, prediligono i fiori d'altre
piante, e fino ad oggi non hanno recato alle viti che poco danno.

Venne dato il nome di _Lamellicorni_ a certi Coleotteri, i quali han
tutti questo carattere comune che le loro antenne terminano con tante
lamelle, le une accosto alle altre, come i fogli di un libro; alcuni di
questi coleotteri sono abbastanza grossi, come i maggiolini, altri,
oltrechè grossi, anche singolari, come il cervo volante. Taluni di
questi coleotteri lamellicorni vivono sulle viti, e sono più o meno
dannosi: la _Oxythyrea stictica_ e la _Epicometis hirtella_ abbondano
nei giardini sulle rose e in campagna sulle margherite, sui terrasaci,
nei ranuncoli e somiglianti fiori: finora non si son trovati che
raramente sulle viti, ma se un giorno le venissero a prediligere,
riuscirebbero dannosissimi. È oggi talora dannosissima la _Anomala
vitis_ segnatamente in Piemonte: nel 1870 la anomala della vite devastò
i vigneti dell'Astigiano. È questo tuttavia uno degli insetti che meno
difficilmente l'uomo può distruggere: è grosso, sta sulle foglie, nelle
ore mattutine è intormentito e facile da far cadere e raccogliere: i
proprietarî che domandano i rimedî alla scienza potrebbero mettere
questo in opera, semplicissimo ed elementare. La riproduzione
dell'anomala segue come quella del maggiolino.

Due specie affinissime e viventi promiscuamente rappresentano fra noi il
_Maggiolino_, il _Givo_ dei piemontesi, _Carruga_ dei lombardi,
_Melolontha vulgaris_ dei naturalisti la specie più grossa e più comune,
e _Melolontha hippocastani_ all'altra somigliantissima. Non sono i
maggiolini nemici speciali della vite, ma di essa con altre piante,
pioppi e salici; anzi preferiscono assai questi, ed aggrediscono la vite
solo quando, essendo in numero straordinario, sugli alberi loro
prediletti non c'è più pasto per tutti. Son dannosi agli alberi nel
primo e nell'ultimo periodo della loro vita. In istato di larva vivono
due o tre anni sotto terra e intaccano le radici delle piante; in istato
perfetto son pur voracissimi e divorano le gemme e sovratutto le foglie.
In certe annate si moltiplicano così straordinariamente che tutto il
verde scompare dagli alberi: la loro moltiplicazione fu talora così
grande da fermare i carri e le vetture sulle pubbliche strade, togliendo
la vista agli uomini ed ai cavalli, e facendo diventare per qualche
tratto di tempo un ostacolo insuperabile la vivente parete costituita
dai loro innumerevoli stormi.

I coleotteri hanno alla loro volta parecchi nemici: se ne pascono i
piccoli mammiferi insettivori, toporagni, ricci; se ne pascono e ne
fanno grande distruzione gli uccelli, i rettili e sovratutto gli anfibî.
Qualche imenottero predatore s'impadronisce di alcuni coleotteri, li
ferisce in modo da non ucciderli, ma paralizzarli per modo che non
possan più muovere nè zampe nè ali, e li pone presso le uova affinchè
possano trovare cibo vivo le larve allo sgusciare; parecchi acari vivono
parassiti fuori, e talora si vedono gremiti alle giunture del torace o
dell'addome; i ditteri e gli imenotteri vivono entro di loro in istato
di larva, come dirò fra breve, e passa nel corpo dei giovani coleotteri
parassiticamente il primo stadio di vita il _gordio_, verme che poi vive
libero nelle acquicelle ferme o di lento corso, e che, dallo
attorcigliarsi di ogni individuo e di molti individui insieme
aggrovigliati, si ebbe appunto, dal nodo Gordiano, il nome di gordio,
come fu dato pure a tutto il viluppo il nome collettivo di _capelli di
Venere_.

I naturalisti moderni collocano a capo della classe degli insetti,
considerandoli come superiori a tutti gli altri, gli _Imenotteri_,
mentre prima vi si collocavano i coleotteri: prima si teneva maggior
conto della mole e della forza, oggi della intelligenza, perchè in
verità non si può chiamare con altro nome il complesso degli atti che
costituiscono la vita di questi mirabili insetti. Due estremi nel loro
modo di vivere ci presentano da una parte le farfalle e dall'altra gli
imenotteri: nelle prime spensieratezza, trastullo, volo alla ventura,
amoreggiamenti, senza ombra di cura dei nati: nei secondi lavoro,
fatiche, sagrifizî, predominio dell'azione collettiva sull'azione
individuale, associazioni in cui tutti gli individui, più che non pel
proprio, lavorano pel bene comune: una schiera d'individui che sagrifica
tutto, e sovratutto, massimo dei sagrifizî, l'amore, per la cura della
prole, e il buon essere delle generazioni future. — Non si può dire che
gli imenotteri rechino qualche danno alle uve, ma si può pure affermare,
con assoluta certezza, che recano sommo vantaggio colla distruzione che
fanno dei principali nemici della vite. I calabroni ronzano intorno
all'uva e abboccano gli acini maturi, sovratutto quelli che hanno più
tenera e più facilmente intaccabile la buccia; così fa pure la vespa,
così la cartonaia, ed anche l'ape: ma chi vorrebbe rimproverare all'ape
il suo bottino mentre ci dà il miele? I servizî che rendono
gl'imenotteri alla vite sono immensi, se è un servizio il far scemare il
numero di quegli insetti che rodono le gemme e le foglie.

I nemici più fieri della vite fra gli insetti, fatta solo eccezione
della fillossera che è il più terribile di tutti, sono, siccome abbiamo
veduto, le farfalle in istato di bruco: ora parecchi imenotteri, e
sovrattutto quelli della famiglia degli icneumonidi, fanno morire ogni
anno una quantità immensa di questi bruchi, e il modo è veramente
singolare. Le femmine degli imenotteri di cui parlo hanno il corpo
terminato da una punta aguzza e lunga detta _ovopositore_ (ciò si vede
pure in altri insetti) che serve a preparare all'uovo il suo nido: il
nido dell'uovo di questi imenotteri è il grasso che si accumula in gran
copia sotto la pelle dei bruchi: la femmina dell'imenottero passa a volo
presso la foglia su cui lentamente striscia il bruco avidamente
pascendosi, colla velocità del lampo gli piomba sopra, gli fora
coll'ovopositore la pelle tesa e sottile e depone sotto questa nel
grasso un uovo e ripiglia il volo; un'altra femmina passa poco dopo e
piomba anch'essa sul bruco e ripete la medesima operazione, e così altre
ed altre. Il bruco, tutto intento al pasto e pochissimo sensitivo, non
avverte queste madri che hanno a lui affidato la cura della loro prole e
hanno con ciò segnato la sua sentenza di morte. Dalle uova poste in tal
modo sotto la pelle del bruco sgusciano le larve dell'imenottero che
cominciano a pascersi del grasso nel quale son nate; il bruco non se ne
da per inteso e seguita a mangiare allegramente e produce sempre una
nuova quantità di grasso, tanto copiosa da bastare largamente ai bisogni
attuali suoi e dei suoi parassiti; ma oltre ai bisogni attuali egli ha
quelli dell'avvenire: deve in istato di crisalide compire una
trasformazione per la quale non ha più in sè i materiali all'uopo,
impoverito siccome è stato da tutto quello che gli hanno tolto. Al punto
di incrisalidirsi non ci riesce o se riesce non giunge a compiere
l'ultima metamorfosi in insetto perfetto. Al momento per lo più di
passare dallo stato di larva a quello di crisalide si ferma, e dalla sua
pelle crivellata escono da ogni parte trasformati gli insetti che
crebbero alle sue spese.

Io mi trovava alcuni anni or sono in un villaggio alpino molto elevato,
in una casupola parte in legno e parte in muratura, che aveva un
orticello davanti: dall'orticello venivano in grande numero i bruchi
della cavolaia, vicini al termine della loro vita larvale, e prendevano
a salire lungo la parete sotto il tetto o per la finestra, ai travicelli
del soffitto per incrisalidarsi. Un giovane e valente pittore ch'era con
me venne meravigliatissimo a dirmi che la maggior parte di questi bruchi
generava dalla pelle gran copia d'altri e ben differenti insetti;
eravamo in tre lassù, oltre al pittore, un botanico versato pure
nell'entomologia; prima di vedere la cosa dicemmo subito al pittore come
andasse per l'appunto, e per tre giorni fummo ridotti in casa: era
quello che ci voleva per renderci attenti e vogliosi di tener dietro
alla osservazione iniziata: i bruchi venivano a centinaia dall'orto su
per la muraglia, ma si fermavano quasi tutti a metà del camino, sovente
prima, raramente più in su, e lasciavano uscire i parassiti allevati,
perdendo essi la vita. Dalle osservazioni fatte allora potemmo scorgere
con nostra meraviglia che di dieci bruchi otto a un dipresso avevano
dentro i parassiti micidiali, ed erano condannati a morire senza avere
vagheggiato la luce dell'alba novella, l'alba del giorno finale, quello
della festa degli amori.

Non so qual conto si debba tenere di quella proporzione che venne in
quel luogo indubbiamente per me verificata: certo è che infinitamente
maggiore è il numero dei bruchi in quel modo distrutto di quello degli
immuni, e non son soli gli imenotteri a compiere questa distruzione, ma
anche i ditteri, come già ho accennato testè parlando di questi ultimi
insetti.

Questi imenotteri e ditteri distruggitori dei bruchi operano più e
meglio assai degli uccelli: prima perchè gli uccelli distruggono molto
meno bruchi che non questi parassiti, in secondo luogo perchè gli
uccelli distruggono anche gli insetti che son causa di morte a quelli
nocevoli, e in questo modo, mentre fanno bene da una parte, nuociono
dall'altra, per cui non è facile dire quale dei due fra il male e il
bene prevalga.

L'uomo colla distruzione diretta può assai poco. Quando si tratti di uno
spazio ristretto non è molto difficile raccogliere le chiocciolette e le
limaccine nocive alla vite; gl'intelligenti e pratici raccomandano pure
lo sbrucolamento: ma se è possibile (giova ripetere la stessa cosa)
diminuire, raccogliendoli e chiamando molta gente a raccoglierli, in un
breve tratto di tempo, i bruchi (sovratutto quelli un po' grossi) in una
vigna ristretta dove il pregio delle uve meriti una tale fatica e una
tale spesa, la cosa riesce poi impossibile al tutto quando si tratti di
grandi distese, d'intere provincie infestate. I nemici naturali, gli
acari, le varie sorta di parassiti fanno di più; il naturalista
cattedratico od accademico raccomanda al coltivatore di adoperarsi a
moltiplicare il numero dei parassiti infesti agli animali nocevoli, ma
non dice appunto in qual modo egli possa adoperarsi a produrre questa
moltiplicazione.

Il dottore Lorenzo Camerano ha presentato testè all'Accademia delle
Scienze di Torino^[IV-9] un suo lavoro intorno all'equilibrio dei
viventi mercè la reciproca distruzione, nel quale con rigore matematico
dimostra in qual modo questo equilibrio si regga pigliando le mosse
dalla vegetazione e proseguendo cogli animali che vivono alle spese di
questa e poi cogli altri, sia predatori sia parassiti, che distruggono
gli uni e gli altri; questo lavoro esprime meglio che non sia stato
fatto prima il complesso dei rapporti e dei legami mercè cui campano i
viventi gli uni alle spese degli altri; argomento complicatissimo, di
cui maestrevolmente il giovane naturalista ha segnato le prime linee, ma
di cui fra breve farà più distinto il contorno e segnerà
l'ombreggiatura.

L'annessa tavola mostra riuniti in un quadro solo i principali gruppi di
animali nocevoli alla vite e nello stesso tempo anche i nemici predatori
o parassiti dei primi.

Affinchè la cosa riesca chiara consideriamo un gruppo qualunque, per
esempio quello dei Rincoti.

I Rincoti che si nutrono a spese della vite possono divenire preda di
varî Ortotteri, Anfibî, Rettili, Uccelli, ecc. o di varî animali
parassiti, Acaridi, Endoparassiti, ecc. Ciascuno dei gruppi di animali
ora menzionati è a sua volta preda di altri animali predatori più grossi
o preda di altri parassiti. Gli Anfibî, per esempio, sono preda di
alcuni Rettili, Uccelli, Mammiferi e di varî parassiti, Ditteri,
Endoparassiti, ecc. I Ditteri parassiti degli Anfibî sono preda alla
loro volta di altri Anfibî, Rettili, Mammiferi, uccelli, ecc. e di altri
parassiti, Acarini, Imenotteri, Endoparassiti, ecc. Questi Imenotteri
sono essi pure preda di altri Imenotteri, di Anfibî, di Rettili, di
Uccelli, di Mammiferi, ecc. e di Acarini, e di Endoparassiti e altri via
discorrendo. Ragionando in questo modo si giunge ad una serie di animali
i quali mentre predano altri animali non sono più alla loro volta preda
di altri animali predatori; ma soltanto di animali parassiti interni, di
endoparassiti.

Per maggior chiarezza nella tavola qui unita non sono stati segnati
sempre per ciascun gruppo tutti gli animali che sono predatori o
parassiti del gruppo stesso. Ciò è stato fatto una volta sola per
ciascuno dei varî gruppi i quali per ciò sono stati segnati di un
numero. Esaminando, per esempio, il gruppo degli Ortotteri nocevoli alla
vite (2) si vede che sono parassiti di questo gruppo i Ditteri (4), gli
Imenotteri (7), ecc. I numeri (4) e (7) indicano che si devono
aggiungere qui i parassiti ed i predatori segnati per gli Imenotteri (7)
e pei Ditteri (4) nocevoli alla vite ecc.

Da quanto si è detto fin qui risulta che gli animali che hanno rapporti
mediati o immediati colla vite si possono dividere nelle seguenti
categorie, in animali cioè:

_fitofagi_ che si nutrono direttamente a spese della vite;

_predatori_ che si nutrono a spese degli animali fitofagi o di altri
animali predatori;

_parassiti_ che vivono alle spese degli animali fitofagi o degli animali
predatori o di altri animali parassiti.

I parassiti poi alla lor volta possono dividersi in _esoparassiti_ e in
_endoparassiti_.

                  [DIAGRAMMA: Animali Nocevoli alla Vite

      Lorenzo Camerano dis.                         Lit. Salussolia

                   E. Loescher Editore, Torino, Roma.]

Ciò premesso, e partendo dal principio che il numero degli animali è
direttamente proporzionale alla quantità di nutrimento che è a loro
disposizione, si vede che una rigogliosa vegetazione della vite produce
in generale un aumento degli animali fitofagi; l'aumento degli animali
fitofagi produce l'aumento dei predatori; l'aumento di questi ultimi fa
aumentare gli endoparassiti. L'aumento degli endoparassiti fa diminuire
il numero degli animali predatori; la diminuzione dei predatori lascia
aumentare il numero dei fitofagi: l'aumento di questi ultimi fa
naturalmente diminuire la sorgente del loro nutrimento, la vite.

Si vede da ciò, supponendo che le cose vadano regolarmente come si è
detto e che non intervenga nessuna causa perturbatrice, che una
rigogliosa vegetazione è per dir così la causa prima della diminuzione
della vegetazione stessa. Ora la diminuzione della vegetazione,
ragionando analogamente a quanto si è fatto ora, è causa di un nuovo
aumento della vegetazione stessa. Nella piccola tavola A si può vedere
chiaramente l'andamento del fenomeno. È ben inteso che in questo ordine
di fatti non si tiene conto del tempo. Gli aumenti e le diminuzioni
sopradette possono compiersi in breve tempo od impiegare invece un tempo
lunghissimo.

Tutti i giorni, siccome ognun sa, piovono opuscoli, volumetti e volumi,
articoli di giornali, discorsi di accademie, lezioni più o meno popolari
sui mezzi più efficaci di distruggere i nemici della vite, e si
asseriscono certi questi rimedi; ma la cosa è ben lungi dall'esser tale.
In verità, bisogna fare questa confessione, i rimedi proposti ora non
hanno più efficacia degli scongiuri e delle condanne del medio evo: la
scienza, la vera scienza sincera ad ogni costo non può fare oggi altra
conclusione.

I nemici di cui sono venuto parlando finora sono nemici di tal fatta che
l'uomo non ha guari azione contro di essi.

Ma tutti questi animaletti che sono certamente nemici della vite, sono
poi veramente nemici dell'uomo? Questa domanda vale quanto quest'altra:
il vino è un bene o un male? Io mi ricordo una apostrofe di Amleto,
sulla quale non mi fermo a parlare, per non invadere il campo del mio
amico Giacosa che deve fra poco parlarvi qui del vino nei poeti e
riferirvi il bene e il male che i più segnalati ne hanno detto in ogni
tempo e presso ogni nazione. Corrado Corradino ha pur fatto qui il
bilancio del bene e del male del vino. Molti popoli non bevono vino, ma
trovano altri sussidi per togliersi di senno: l'oppio, lo hacscis, il
betel: in ogni tempo ed in ogni luogo, secondo quello che dice Teofilo
Gauthier, l'uomo s'è ingegnato di bere la spensieratezza, fumare
l'oblio, masticare l'ilarità. Più recentemente il Baudelaire dice del
vino che esso è come l'uomo: non si arriva a definire fino a qual punto
possa riuscire stimabile, e fino a qual punto possa riuscire
disprezzabile.

Giacomo Leopardi diceva che nell'antichità si erano addotti molti
argomenti in favore della schiavitù dei negri, al tempo nostro contro, e
che la schiavitù fu sempre tanto nell'antichità quanto al tempo nostro;
del vino si disse e si dice molto bene e molto male e si beve sempre. È
questo un capitolo di quell'immenso volume che nissuno scrive e tutti
facciamo, intitolato «Le contraddizioni umane».


                          NOTE BIBLIOGRAFICHE

Credo utile di aggiungere qui un catalogo delle opere più importanti
intorno agli animali utili e nocevoli all'agricoltura e specialmente
alla vite, le quali opere il lettore potrà consultare per aver maggiori
ragguagli intorno alle questioni superiormente menzionate.

RATZEBURG. — Die Forstinsecten, oder Abbildung und Beschreibung der in
Waeldern Preussens etc. Berlin.

BOIDUVAL. — Essai d'entomologie horticole. Paris, 1869.

V. GHILIANI. — Alcuni cenni sugli uccelli insettivori e sugli insetti
parassiti. _Annali della R. Accad. d'Agricolt. di Torino_, 1871.

GENÉ. — Saggio sugl'insetti più dannosi all'agricoltura. _Biblioteca
agraria_, Milano, 1827.

— Istruzione sugl'insetti più dannosi all'agricoltura nei Regii Stati,
Torino, 1840.

— Sugl'insetti nocivi all'agricoltura ecc., Milano, 1835.

ACHILLE COSTA. — Degl'insetti che attaccano l'albero ed il frutto
dell'olivo, del ciliegio, del pero, del melo, della castagna e della
vite, ecc., Napoli, 1857.

L. CAMERANO. — Gl'insetti. _Introduzione allo studio dell'entomologia_,
Torino, Loescher, 1879.

G. SABBIONI. — Gli uccelli e gl'insetti in rapporto coll'agricoltura.
_Giornale d'Agric. del Regno d'Italia_, Anno VII, 1870, vol. XIV.

Targioni-Tozzetti. — Relazione intorno ai lavori della stazione di
entomologia agraria di Firenze per l'anno 1875. _Annali del Ministero
d'Agric. Ind. e Com._, vol. 84, 1876.

— Relazione ecc. per l'anno 1876. _Annali del Ministero dell'Interno_,
vol. I, 1878.

APELLE DEI. — Gl'insetti dannosi alle viti in Italia. _Annali di
viticoltura ed enologia italiana_, Milano, 1873.

GOUREAU. — Les insectes nuisibles aux plantes potagères, 1862.

ALFONSO COSSA. — Sopra alcuni mezzi proposti per distruggere la
fillossera della vite. _Riassunto d'una lezione fatta nel R. Museo
industriale di Torino_, 1875.

I. LICHTENSTEIN. — Notes pour servir à l'histoire des insectes du genre
_Phylloxera_. _Annales Agronomiques_, vol. II, Parigi, 1876.

— Notes pour servir à l'histoire des insectes du genre _Phylloxera_.
_Annales de la Société entomologique Belge_, volume XIX, 1877.

— Notes etc. _Annales Agronomiques_, vol. III, 1878.

D. V. FATIO. — Etat de la question phylloxérique en Europe en 1877,
Genève, 1878.

— Le Phylloxéra. _Instructions sommaires à l'usage des experts cantonaux
et fédéraux en Suisse_, Genève, 1879.

I. DEMOLE-ADOR. — Le congrès phylloxérique international de Lausanne,
1877. Berne.

V. FATIO ET DEMOLE-ADOR. — Le phylloxéra dans le canton de Genève.
Genève, 1875.

— Idem, 1876.

A. F. NEGRI. — _Phylloxera vastatrix._ Conferenza tenuta al comizio
agrario di Casale Monferrato. _Boll. del Comizio Agrario stesso_, anno
I, 1879.

Actes du congrès phylloxérique international réuni a Lausanne, Lausanne,
1877.

ANDREA VINCENZA. — Monografia della vite e del pomodoro, Piacenza, 1879.

BOITEAU. — Sur la présence, dans les couches superficielles du sol,
d'œufs d'hiver du Phylloxéra fécondés. _Comptes rendus de l'Ac. de
Sciences de Paris_, vol. 87, n. 19.

M. GIRARD. — Rapport sur les ennemis naturels du Phylloxéra de la vigne.
_Société des Agricolteurs de France_, 1879.

— Mémoire sur quelques insectes qui nuisent à la vigne dans le canton de
Vaud. _Nouveaux mémoires de la société helvétique des sciences
naturelles_, Neuchâtel, 1841.

GIOVANNI MALFATTI. — Sulla _Cochylis ambiguella_. _Atti della Società
Italiana di Scienze Naturali, Milano_, 1879, volume XXII.

TARGIONI-TOZZETTI. — Del pidocchio o della fillossera della vite, ecc.
_Bollett. della Soc. Entom. Italiana_, Anno VII, 1875.

[IV-1] MICHELE LESSONA, Intorno alla Galleruca calmariensis. _Annali
della R. Accademia d'Agricoltura di Torino_, vol. XVIII, 1875.

[IV-2] MICHELE LESSONA, Dello _Arocatus melanocephalus_ in Torino.
_Annali della R. Accademia d'Agricoltura di Torino_, vol. XX, 1877.

[IV-3] I costumi di questa specie non sono ancora in tutto noti.
Riferisco a questo proposito ciò che si legge nel prospetto dei generi e
delle specie degli acridoidei, secondo la fauna italica del Targioni
Tozzetti, _Annali d'agricoltura_, vol. I, 1878, p. 101: «La locusta
grillaiola del Salvi (_Acanthus pellucens_) talvolta colla sua femmina
danneggia delle piante selvatiche, come i cardi, le centauree, o
coltivate, come la canapa, le carote, e anco la vite, quando, per
deporre le uova, pratica delle gallerie nell'interno^[*].

[*] SALVI, _Memoria intorno alle locuste grillaiole_. Verona 1750. — Da
altri poi lo si crede divoratore d'insetti, come il _Meconema varium_
(Locustoidei).

[IV-4] Le principali specie d'Icneumoni e di Calcidi parassiti della
_Pyralis vitis_ sono le seguenti:

     Famiglia ICNEUMONIDI — _Ichneumon melenogonus_, Grav.
        »        »          _Pimpla instigator_, Grav.
        »        »             »   _alternans_, Grav.
        »        »          _Anomalon flaveolatum_, Grav.
        »        »          _Campoplex majalis_, Grav.
     Famiglia CALCIDIDI   — _Chalcis minuta_, Nes. ab. Es.
        »        »          _Diplolepis cuprea_, Spin.
        »        »             »       _obsoleta_, Spin.
        »        »          _Pteromalus comunis_, Nes. ab. Es.
        »        »               »     _cuprens_, Nes. ab. Es.
        »        »               »     _ovatus_, Nes. ab. Es.
        »        »               »     _larvarum_, Nes. ab. Es.
        »        »               »     _deplanatus_, N. ab. Es.
        »        »          _Eulophus pyralidum_, ?
        »        »          _Bethylus formicarius_, Lat.

All'azione di queste specie parassite si attribuisce la scomparsa,
almeno temporaria, della _Pyralis vitis_ dalla Francia.

[IV-5] A. RONDANI, La tignuola minatrice delle foglie della vite.
_Giornale d'Agric. indust. e comm. del regno d'Italia_, 1876, vol. II.

Antispila rivillella et ejusdem parassita. _Bullet. entomologico
italiano_, anno IX.

[IV-6] _Entodon viticola._ _E. Antispilae._ _E. Rivillellae._

[IV-7] Il marciume o il bruco dell'uva. _Atti della R. Accad. dei
Lincei_, sez. 3ª, vol. I, 1877.

[IV-8] Il _Synoxylon muricatum_ si è, a quanto pare, molto sviluppato
quest'anno in Piemonte, e precisamente in questi giorni (13 aprile 1880)
mi vengono mandati molti esemplari di questa specie e molti tralci
intaccati da essa da varie località piemontesi.

[IV-9] Dell'equilibrio dei viventi mercè la reciproca distruzione. _Atti
della R. Accademia delle Scienze di Torino_, volume XV, 1880.



                       _S. COGNETTI DE MARTIIS_
                                   —
                         IL COMMERCIO DEL VINO

          (_Conferenza tenuta la sera del 16 Febbraio 1880_).


    _Signore, Signori_,

Due egregi colleghi che mi precedettero nella serie di queste
conferenze, propostisi il quesito _se il vino sia un bene_, esitarono a
risolverlo, e se si pensi alla loro grande valentia ed autorità, bisogna
ammettere che devono essere stati ritenuti da gravi motivi a non dare
una qualsiasi soluzione a cotesto problema. Più fortunata è la
condizione nella quale io mi trovo, nè già per merito mio, ma per merito
della scienza che professo, dacchè per ogni economista tutte le cose
utili sono beni, tutte le cose che hanno valore sono beni, e della somma
di cotali beni si compone la pubblica e privata ricchezza. Ora, siccome
niun dubbio è ammissibile sulla utilità del vino ed è di generale
notorietà com'esso abbia valore, così l'economista può, con sicura
coscienza, affermare che il vino è un bene e, perchè tale, è scopo alla
produzione ed entra, merce desiderata e ricercata, nell'intreccio degli
scambi. E qual bene e di quanta importanza esso è nell'economia
nazionale!

Quando il Messico apparteneva alla Spagna, il governo di Madrid,
regolandosi co' criteri storti di una falsa politica coloniale, aveva
proibito che si piantassero viti nel territorio messicano, pur così
adatto alla viticoltura. Non altro vino che quello della madre-patria
dovevano bere i Messicani. Ma gli allettamenti della natura poterono più
dei divieti governativi. Il curato d'una piccola città dell'intendenza
di Guanaxuato, don Michele Hidalgo, coprì di vigneti i declivi
suburbani. Venne dalla capitale l'ordine di sterparli e distruggerli e
si pose mano all'esecuzione. Se non che il prete indegnato si ribellò,
anzi levò addirittura il grido dell'insurrezione e la difesa delle vigne
iniziò la guerra accanita che riescì all'indipendenza del Messico. E qui
in Italia la guerra nazionale del 1848 poco mancò non iscoppiasse due
anni prima, a cagione degli impedimenti daziari che l'Austria opponeva
all'entrata dei vini piemontesi nelle provincie lombarde. In quella
circostanza il magnanimo Carlo Alberto fece aperta e nobile resistenza
alla Cancelleria viennese, dando manifesto pegno della sua fede nei
destini della patria.

La produzione del vino determinò la prima sollevazione dei Messicani
contro la Spagna, il commercio del vino condusse il Piemonte al primo
urto con l'Austria.

Ed ora vediamo in qual guisa s'iniziò e procedette questo commercio e
con quali vicende.


                                   I.

I principii furono davvero splendidi; il vino fece stupendamente la sua
comparsa nel commercio mondiale. I Fenici, o signori, quelli stessi che
diedero l'alfabeto al mondo, propagarono tra le genti isolane e ripuarie
del Mediterraneo la coltivazione della vite e l'uso del vino, che fu
principalissimo articolo nel traffico di quel popolo di navigatori
illustri e audacissimi. La Fenicia produceva ottimo vino, specialmente
nei territori di Tiro e Sarepta e sulle più basse pendici del Libano. Ne
traeva poi dalla Palestina, dalla Siria e dagli altri paesi ove via via
la viticoltura s'andava estendendo. Tutti avete letto nella Storia Sacra
la narrazione degli esploratori mandati da Mosè nella _Terra promessa_ e
tornati con un enorme grappolo d'uva, che fu certo per gli ebrei tra i
più forti eccitamenti alla conquista d'un così fertile suolo. E dalla
Palestina andavano al mercato di Tiro i vini di Engaddi, Sorek, Elealeh,
Eshbon. Però i più squisiti e reputati a quei tempi si facevano nella
Siria, che forniva al commercio il vino di Haleb (la moderna Aleppo)
pregiatissimo, l'unico che si mescesse alla tavola degli Scià di Persia
e diede più tardi il vino di Damasco. La maggiore esportazione si
dirigeva verso l'Egitto, nella cui regione superiore il prodotto della
vite era scarso e cattivo e nelle altre due, la centrale e l'inferiore,
non si coltivavano vigne. Due volte l'anno le carovane trasportavano da
Tiro a Menfi grossi carichi di vino, percorrendo la via littorale di
Gaza e il margine esterno del delta del Nilo. I buongustai egiziani
bevevano a preferenza il vino di Tiro e quello di Laodicea. La
Babilonia, non contenta del vino che traeva dall'alta Mesopotamia;
l'Assiria, ove si beveva molto; l'Arabia, la Persia e la lontana India
erano nel continente asiatico paesi di ricerca più o meno attiva e
larga. Coll'andar del tempo una notevole esportazione si avviò anche
verso i paesi occidentali d'Europa e d'Africa ove approdarono navi
fenicie e furono stabilite fattorie.

I guadagni in cotesto ramo del traffico fenicio dovevano essere enormi,
se si pensi alla facilità dell'acquisto nei centri di produzione e alle
favorevoli condizioni di spaccio nei paesi di consumo, dagli Stati
finitimi ai più remoti scali del Mediterraneo, del Mar Nero,
dell'Atlantico e sin dello stretto di Jenikalé e del Mare d'Azoff, sulle
cui rive i barbari Cimmerii ricevevano tra' primi doni della civiltà
otri ricolmi di vino e assaporavano la gradita bevanda con l'avidità
stessa che a' giorni nostri spinge gl'Indiani d'America e i Maori
d'Australia all'uso immoderato dell'acquavite. Intendiamoci però;
parlando di guadagno non si pensi a danaro. A quei tempi non v'era
moneta coniata, si trafficava per baratto; il consumo del vino nei
luoghi di maggior produzione non era grandissimo, ne rimanevano grosse
quantità disponibili che i mercatanti sidonii e tirii mandavano nei
paesi stranieri, ricevendo in cambio merci che avevano alto pregio
nell'industria, nell'arte decorativa, nel lusso.

Queste tradizioni seguì Cartagine, che ereditò la fortuna e il genio
commerciale della madre-patria. È menzionato specialmente come assai
lucroso il commercio ch'essa faceva con la Cirenaica (Barkah, parte
dell'attuale reggenza di Tripoli) importando vino ed esportando il
_silfio_ reputatissimo nella farmacopea antica e noto nella moderna col
nome meno bello di assafetida.


                                  II.

La Grecia, al suolo della quale s'adattarono benissimo così le viti
fenicie di Tiro e Sarepta, come le sire di Laodicea e Biblo (Latakié e
Gebail), diede molte cure alle vigne, sicchè ben presto divenne un paese
di grande esportazione. Troviamo menzionati in Omero due vini, i primi
venuti in fama tra gli elleni, il _Pramnio_ (Iliade XI, Odissea X) assai
generoso, che si faceva nel territorio di Smirne e il vino rosso e dolce
del monte Ismaro (Odiss. IX) nelle campagne tracie (Romelia), ove scorre
il fiume chiamato dagli antichi Ebro e adesso Maritza. Cotesto vino fu
detto poi _Maronèo_ da una piccola città sorta a piè dell'Ismaro e con
tal nome è ricordato da Plinio.

Con questi due s'inizia l'elenco dei vini greci, che andò via via
allungandosi, sicchè sarebbe malagevole e non senza noia esporlo qui. Mi
limiterò a mentovare quelli che ottennero più riputazione in commercio.
Ed erano, tra' vini di terraferma, oltre il Pramnio, il cui credito si
manteneva ancora nel primo secolo dell'êra volgare, il vino di Sicione,
e quelli di Mende e Schione, provenienti il primo dalle campagne della
riva destra del golfo di Corinto e gli altri due dalla penisola di
Cassandra, l'antica Pallene; tra' vini poi delle isole — e quasi tutte
ne producevano — il Chio, rosso, accreditatissimo (isola di Scio) e
quelli di Taso, Lesbo, Lemno, Cipro, Rodi, Creta (Candia), Icaria
(Nicaria) e Cos. Le colonie della Sicilia e della Magna Grecia diedero
anch'esse in seguito un largo contingente al commercio vinifero.

I prezzi naturalmente variavano secondo la qualità, ma in generale erano
piuttosto bassi. Per esempio, nel Vº secolo innanzi l'êra volgare i
concittadini di Socrate pagavano lire 2,36 al litro il vino di Chio, che
era il più costoso di tutti; nel IVº secolo un litro del vino di Mende
valeva lire 1,86 e Polibio assicura che a' suoi tempi (I secolo av. G.
C.) il vino comune greco s'aveva nella Lusitania (Portogallo) per
centesimi 2 ⅓ al litro.

Nell'industria enologica i greci divennero eccellenti; niun palato
pareggiava l'ellenico nell'_enogeustica_, vale a dire nella
degustazione. Vero è che, a temperare probabilmente la forza alcoolica
de' loro vini, ci mettevano acqua, e quel che è strano, acqua marina,
anzi Atene aveva istituiti alcuni ispettori (Enopti) con l'incarico di
multare chi nei banchetti mescesse vino puro. Non sembra però che, in
pratica, l'istituzione abbia fatto buona prova e non è difficile
intendere il perchè.

Ad ogni modo il commercio greco del vino era considerevolissimo.
Negozianti all'ingrosso (_enempori_) attendevano all'esportazione e
venditori al minuto (_enocápeli_) allo spaccio locale. Il trasporto per
mare si faceva con navi adatte specialmente a cotesto traffico
(_oinagogòn plion_), per lo più in otri di pelle caprina e talvolta in
anfore impegolate. Solo per le spedizioni in Egitto si adoperavano
brocche e questa particolarità depone, mi sembra, a favore del buon
gusto egiziano.

E poichè m'accade di menzionare un'altra volta l'Egitto, dirò che al
tempo dei Lagidi avevano acquistata qualche riputazione il vino bianco
di Mareotide, detto così dall'antico nome del lago Mariut presso
Alessandria ed il vino di Tamia, l'attuale Damietta.


                                  III.

Dalla Grecia all'Italia il passaggio è naturale. Il mio dotto amico Graf
vi rammentò il nome di Enotria dato in antichissima età alla patria
nostra. In origine esso fu attribuito soltanto alla Basilicata o
provincia di Potenza, ed esteso prima alle tre provincie calabresi che
formavano l'antico Bruzio, e poi anche talora a tutta l'Italia^[V-1].
Del resto i greci posero a parecchie terre nomi enologici. L'isola
d'Egina si chiamò prima Enonia o Enopia, le Enotridi erano due piccole
isolette poco lungi dalla breve costa lucana sul Tirreno; l'isola di
Sichino fu dapprima Enoie; c'era un'Enantia ov'è adesso Kertch e
un'altra nella Sarmazia asiatica.

Il commercio del vino nell'Italia antica presenta due diversi periodi:
uno anteriore, l'altro posteriore all'anno di Roma 633 (121 av. G. C.),
nel quale furono consoli Lucio Opimio Nepote e Q. Fabio Massimo. In
quell'anno fu così abbondante e squisita la vendemmia, che finalmente,
come dice Plinio, l'Italia conobbe il suo bene^[V-2].

Nel primo dei due periodi i vini greci erano i preferiti; Plauto nel
terz'atto del _Povero Cartaginese_ nomina i vini vecchi di Leucade,
Lesbo, Taso e Chio. Il vino nazionale era poco stimato. La coltivazione
della vite cominciò tra noi dopo quella del frumento e Roma nei primi
tempi non bevve molto. Nel vecchio Lazio però se ne faceva e se ne
mandava anche nella finitima Etruria^[V-3]. Ma adagio adagio i vini
italiani cominciarono a farsi credito sul mercato interno. L'_ammineo_
della Campania, il lucano della Basilicata e il _murgentino_ di
Sicilia^[V-4] sono lodati da Catone (234–149 a. G. C.) segnatamente il
primo che fu il predecessore del Falerno e del quale si distinguevano
due qualità, la superiore (_ammin. maius_) e l'inferiore (_ammin.
minusculum_). Questi tre erano i vini nazionali migliori. Se ne bevevano
anche di minor pregio o infimi affatto, come questi altri che Catone
descrive: l'_elveolo_ una specie di gustoso chiaretto, l'_apicio_
analogo al nostro moscato; il _preliganeo_, vinello che si dava a bere
ai vendemmiatori e la _posca_ — un nome rimasto nel dialetto piemontese
— ossia il vino degli schiavi e della bassa gente.

Circolavano poi vini fatturati che si spacciavano per greci e Catone dà
ricette per la fabbricazione del vino greco e in ispecie di quel di Coo.

La legge protesse la viticoltura, diede norme e sanzione speciali alla
vendita del vino e prescrisse le regole per la consegna, la
degustazione, la misuratura.

Il secondo periodo del commercio del vino nell'antica Italia si
suddivide in due epoche, delle quali l'una va dal 633 di Roma al 700 (54
av. G. C.), l'altra da cotesto anno alla caduta dell'impero.

La data che separa le due epoche m'è fornita da Plinio, il quale
asserisce che verso il 700 di Roma principio ad estendersi la
riputazione e il consumo de' vini nazionali e questi accennarono a
vincere la concorrenza dei vini stranieri, malgrado che lo sviluppo
dell'importazione non s'allentasse. Nei settantacinque anni precedenti
si erano già fatti conoscere il _Cecubo_ e il _Falerno_. Di questo
parlerò or ora. Il _Cecubo_ si faceva nel territorio di Amicla, sul
golfo di Gaeta, ma durò poco. Nella seconda metà del primo secolo
dell'êra nostra era già venuto meno, per negligenza dei coltivatori, per
l'angustia del sito e pel canale che Nerone fece aprire dal lago
d'Averno ad Ostia, traverso quelle campagne. Il predominio dei vini
greci durava ancora sul mercato italiano, non bastando la produzione
nostrana al consumo ed anche per l'abitudine del palato a' vini
dell'arcipelago, sicchè la loro artificiale imitazione non si smetteva.
Tra' nazionali primeggiavano i campani e i siciliani; da queste
provincie subalpine usciva il vino allobrogo, che sapeva di pece; nelle
meridionali era piuttosto diffusa la fabbricazione del vin cotto, poco
gradito fuori di là.

Dei vini medicinali fatturati con mosto d'uva amminea e succhi d'erbe
non fo parola, perchè estranei al mio soggetto.

Un notevole indizio del credito che avevano acquistato i vini del paese
lo si ha nelle distribuzioni che fece Giulio Cesare nelle feste del suo
trionfo per le vittorie riportate in Gallia e in quelle fatte come
settemviro Epulone, quando fu console la terza volta. Diede prima Chio e
Falerno; poi fece meravigliare il popolo romano dando in tavola quattro
qualità di vino, due greci: _Chio_ e _Lesbio_ e due nazionali: _Falerno_
e _Mamertino_.

Ed eccoci al periodo più notevole. Plinio in una sua classificazione dei
vini italiani distinse quattro categorie, disponendo secondo il loro
merito i vini delle varie regioni.

Nella prima classe pose il _Pùcino_ che si faceva nelle vicinanze
d'Adria, il _Setino_ del territorio di Terracina e il _Retico_ di Val
d'Adige. Il primo era piaciuto assai a Livia moglie d'Augusto, la quale
dava merito a quel vino d'esser giunta a 82 anni sempre in buona salute.
Ma il marito preferiva gli altri due, e Plinio, si vede, non volle far
torto a nessuno.

Nella seconda categoria pliniana troviamo il classico Falerno, prodotto
della felice Campania, di tre qualità: il _faustiano_, che si spremeva
dalle uve d'un territorio a sei miglia da Sessa, il _gaurano_, alquanto
brusco e il falerno _tenue_, ossia sottile.

La terza classe del naturalista comasco annovera i vini del Lazio, cioè
quelli dolcissimi dei colli albani, più il Privernate e il Signino e i
tipi inferiori della Campania: il Massico, il Caleno, lo Statano, il
leggiero Sorrentino, il Fondano, il Veliterno.

Appartengono alla quarta i vini di Sicilia; il Mamertino (Messina), la
cui qualità migliore era conosciuta sotto il nome di _potalino_ e il
Tauromitano (Taormina), che in commercio era dato spesso per mamertino.

Altri vini italiani di qualche pregio erano il pretuziano, l'anconitano,
il palmense e il cesenatico, tutti del Piceno; l'adriano dei Veneti; il
graviscano, lo statoniense e sopratutti il rosso Lunense toscani; il
tarantino, il serviziano e il cosentino calabresi; il turino e il
lagarino lucani.

Vengono ultimi i vini che Plinio chiama _plebei_, tra' quali i più
divulgati erano il trifoglino, il caulino, il trebulano e il pompeiano,
che tutti e specialmente l'ultimo, invecchiando si guastavano.

Passiamo ora all'estero. La Gallia transalpina produceva due tipi: uno
molto denso che serviva per quella operazione che da' francesi è
chiamata _vinage_ e da noi _taglio_, ed era il _marsigliese_; l'altro
detto _beterrano_ fu, per dir così, l'avolo del Frontignan, sia per
somiglianza ne' caratteri estrinseci ed intrinseci, sia perchè si faceva
nel medesimo territorio donde ci viene il delizioso _Muscat de
Frontignan_. E nella Gallia furono inventate e adoperate prima le botti
di legno cerchiate. La Spagna forniva al commercio tre qualità di vini
che si facevano nella Catalogna: il _laletano_, abbondante, ma poco
buono; il _tarraconense_ reputatissimo e da Marziale posposto solo ai
vini campani e il _lauronense_. Possiamo mettere insieme con questi il
_balearico_, ossia vino delle isole Baleari.

Attivissimo durava il commercio dei vini dell'arcipelago, quantunque
piantagioni di viti greche si fossero praticate anche in altri paesi e
la industria contraffacesse con sconce miscele i delicati succhi delle
vendemmie elleniche. «Il paese non l'uva fa la differenza de' vini»
diceva il vecchio Plinio e diceva bene. Pure il sapore d'acqua marina,
comune a quasi tutti i vini di Grecia, e più spiccato in quelli di
Lesbo, si cominciava ad avere in uggia ed il _clazomenio_ piaceva
appunto perchè sapeva meno di salsedine. Era quest'ultimo uno de'
migliori vini dell'Asia Minore, che dalle sue regioni ubertosissime, la
Fenicia, la Frigia, il Ponto, la Caria e la Lidia, mandava dieci
eccellenti specie di vino. Altrettante ne annovera Plinio della Grecia
propria e celebra il _peparetio_ dell'isola omonima, tanto migliore
quanto più vecchio. L'Egitto dava il _sebennitico_ delle vigne del
Bahari e l'Arabia il _petrictum_.

Insomma, a detta dell'insigne naturalista latino, tra italiani e
stranieri, non meno di 195 generi di vino erano forniti al consumo, de'
quali 80 fini e due terzi di questi ottanta erano vini d'Italia. La
concorrenza straniera era dunque vinta.

Il traffico enologico prese grande sviluppo e v'attendevano i
_Mercatores vinarii_, de' quali è menzionata una speciale società che
incettava i vini delle coste adriatiche (_Negotiantes vini supernates_).
Roma aveva uno scalo apposito (_portus vinarius_) e un mercato (_forum
vinarium_) pel vino.

La ragione de' prezzi, mite a principio, s'andò elevando come
s'allargava il consumo. Nell'anno 565 di Roma, cioè dire al cominciare
del secondo secolo anteriore all'Era Volgare, i censori ordinarono non
si vendessero il vino greco e l'ammineo più di otto denari per anfora,
che tornano circa 45 centesimi al litro. A' tempi di Caligola (40
dell'E. V.) il vino Opimiano, quello cioè famoso della pingue vendemmia
del 633 e quindi vecchio di cenquarant'anni, costava lire 7,71 al litro.
Non par poco, ma si consideri la qualità e l'età del vino, e si pensi
che ora il _Johannisberg_ del 1862 (cera azzurro-dorata) vale lire 44 la
bottiglia. Nel terzo secolo dell'Era volgare l'imperatore Diocleziano
promulgò una tariffa de' prezzi dei generi di consumo, mano d'opera,
ecc., conosciuta ora dagli archeologi sotto il nome d'iscrizione di
Stratonicea. In questo curioso documento il prezzo del Falerno di
qualità superiore è fissato a lire 1,50 al litro, quello del vino
vecchio di prima qualità a lire 1,20 e per il vino comune a 40
centesimi.

Si vede che il prezzo del vino andava crescendo e se ne intende il
perchè. Le sorti dell'agricoltura volgevano tristi, le irruzioni de'
barbari turbavano i lavori campestri e mantenevano una continua
trepidazione nelle plebi rurali. L'attività economica illanguidiva,
immiserendosene le fonti, ed i traffici disturbati, sviati, interrotti,
male s'intrecciavano in giorni come quelli, agitatissimi e di gran
travaglio pe' popoli. I barbari rumoreggiavano ai confini spesso violati
dell'impero, e male resistevano agli allettamenti della bella penisola
italica dal cielo ridente e dalle pingui terre. Tentò qualche imperatore
vietare a' temuti nemici l'acquisto de' prodotti nostrani e specialmente
del vino, la cui esportazione ne' paesi de' barbari fu proibita prima da
Valentiniano I, poi da Graziano. Ma senza pro. Se il vino non potè
andare in que' paesi, vennero i barbari a beverlo nelle nostre terre e
ne vollero del migliore. Cassiodoro, ministro di Teodorico, scriveva al
Canonicario di Venezia che la cantina del re aveva bisogno d'essere
fornita come il decoro della regia mensa esigeva. Acquistasse dunque
_acinatico_ rosso e bianco (l'antenato del Val Policella) da'
proprietari del Veronese e ne mandasse alle cantine del re che ne
difettavano. E aggiungeva che al principe piacevano più i vini italiani
de' greci, manipolati con aromi ed acqua marina.


                                  IV.

Ad ogni modo i vini greci ed i latini serbarono la loro fama anche
nell'età di mezzo e costituirono i due tipi commerciali del prodotto. I
centri greci più accreditati di produzione erano la Romelia, Creta e
Cipro, e la qualità preferita, la Malvagia; i migliori centri latini
erano i marchigiani e i calabresi (Tropea e Cotrone) e stimavasi assai
la Vernaccia, tanto cara a papa Martino IV, che v'affogava dentro «le
anguille di Bolsena». I prezzi tornarono miti. Un barile di vino greco
nel secolo XIV s'aveva su per giù per una lira fiorentina. E sì che
c'erano i dazi, la cui commisurazione era determinata secondo criteri
differenziali non solo di qualità, ma anche di nazione, essendo i
Veneziani ed i Genovesi meglio trattati, negli scali di Levante, de'
negozianti di qualsiasi altra nazionalità. Però erano dazi lievi.
Generalmente l'entrata e l'uscita del vino erano colpite con una tassa
dal 2 al 5 per cento _ad valorem_, ed i diritti più elevati cadevano
sulla Vernaccia. In qualche scalo cotesta misura era superata d'assai;
ad Alessandria d'Egitto, per esempio, il dazio sul vino era del dieci
per cento e a Tunisi dell'undici. Ma erano eccezioni.

Più del commercio internazionale era in verità impacciato lo smercio
interno, ove fiorivano le Corporazioni. In Francia, come tutti sapete,
l'ordinamento delle Maestranze ebbe norme rigide dettate da' canoni
d'una pessima politica economica, secondo la quale l'esercizio di
qualunque mestiere, arte o professione era un privilegio regale
conceduto a questo o quel cittadino dalla benevolenza del sovrano. Verso
la fine del secolo XIII Parigi aveva 51 mercanti di vino (_bufetiers_),
3 sensali da vino e 4 gridatori, tutti patentati e privilegiati. Il
gridatore aveva il diritto esclusivo di girare per le piazze e bandire
il vino dell'osteria tale o tal'altra. Gli osti, o tavernai che fossero,
non potevano ricorrere per cotesto servigio ad altri e dovevano, a
richiesta del _crieur_, dargli un campione ed indicargli il prezzo.

Il costume de' banditori del vino esisteva anche in Italia ed in certi
paesi ha durato un gran pezzo. Tra' ricordi della mia fanciullezza c'è
il gridatore del vino che vedevo a Bari la domenica. Lo chiamavano
_Calandriedd'_ e si metteva sulle piazze e crocicchi, celebrando con una
monotona cantilena il vino della bettola del tale o tal'altro oste,
mostrando e facendo assaggiare il campione. Come il regime corporativo
si andò perfezionando, così crebbero i vincoli. In Francia si vendevano
uffici di ispettori delle taverne, rotolatori di botti, sensali,
commissionari, esercenti, saggiatori, negozianti di vino. Vi fu un tempo
in cui la tassa di entrata nella Corporazione de' Vinai era di 800 lire
tornesi, delle quali due terzi circa andavano all'erario pubblico,
rimanendo il resto alla cassa sociale.

Ma un guaio ancora più grosso sopravvenne quando, sotto l'influenza del
sistema Mercantile, s'aggravarono i dazi doganali. Io credo che
l'egregio prof. Lessona mi permetterà di applicare a cotesti dazi
l'arguta denominazione con la quale egli annunciò il tema della sua
splendida conferenza, perchè in verità i dazi, o signori, sono veri e
propri _nemici del vino_.

I fatti che sto per narrarvi lo provano evidentemente.

Nella prima metà del secolo XVI i vini francesi presero ad affluire in
gran copia in tutto il nordovest d'Europa, specialmente in Olanda ed in
Inghilterra, nel qual ultimo paese i vini di Bordeaux erano cominciati
ad entrare sin dal secolo XII. Ebbene nel 1659 la Francia mette un
tonnellaggio di cinquanta soldi sulle navi estere. L'Olanda se ne
risente e minaccia di scemare la tariffa daziaria sui vini del Reno,
determinando così una importazione di questi a detrimento della Francia,
che nello spaccio del vino aveva per clienti non spregevoli i Paesi
Bassi. Dopo lunghe trattative si venne nel 1662 ad un accordo. Più
tardi, al cadere del secolo XVII, la Francia colpisce con grave dazio le
lane inglesi e l'Inghilterra si vendica aggravando la mano sui vini
francesi e volgendo la propria richiesta alla Spagna e specialmente al
Portogallo, donde trasse più di dugento carichi di vino all'anno. I
Delegati de' centri vinicoli al Consiglio generale del Commercio di
Francia sporsero vivissimi reclami contro il sistema daziario che
produceva così tristi effetti. Il delegato di Baiona affermava essere
rovinate affatto la Guienna, la Borgogna, la Turenna e la regione
angioina, e sul posto valer quasi più il fusto che il vino. «Bisogna
abbandonare, scriveva il delegato di Lione, la massima di Colbert, il
quale pretendeva che la Francia potesse fare a meno di tutto il mondo.
Ciò era un andare contro la natura e contro la Provvidenza che ha
distribuito i suoi doni ad ogni popolo, onde costringerli tutti a
mantenersi in commercio reciproco». Parole nobilissime rimaste
inascoltate e che non è fuor di luogo ricordare ne' giorni che corrono
di tendenze reazionarie nella politica commerciale. L'importazione de'
vini francesi in Inghilterra riceveva così un colpo micidiale e fu poi
annientata addirittura dal Trattato di Methuen, stipulato tra la
Granbrettagna ed il Portogallo nel 1703. In quella famosa convenzione il
governo Portoghese s'impegnò a facilitare assai lo smercio de' tessuti
inglesi di lana ne' propri dominii ed il britannico a ridurre il dazio
d'entrata su' vini portoghesi, in guisa da renderlo inferiore di due
terzi al dazio sulla immissione dei vini francesi.

Quali conseguenze ebbe una così fallace politica economica?

Nel 1669, quando il dazio su' vini che entravano in Inghilterra era di
quattro pence (cent. 20) per gallone (lit. 4.543), ventimila tonnellate
di vino francese e 25,000 di vini portoghesi, spagnuoli e renani
costituivano l'annua importazione. In quel tempo il vino non era, nella
Granbrettagna, un lusso del ricco. Lo divenne dopo l'aggravio de' dazi
ed il popolo si volse a bevande artefatte e spiritose. Nè è tutto. Data
da quella mutazione del regime daziario de' vini l'adulterazione del
_Porto_ e del _Xeres_, diventata poi sistematica ed entrata nelle
abitudini dei consumatori, il cui gusto si acconciò al _Porto_
artificiale, tanto da preferirlo al legittimo, ed i bevitori di _Xeres_
si cangiarono in bevitori di _Sherry_. In tal guisa l'aggravio della
tariffa riusciva pregiudizievole così alla Francia, paese di grande
produzione, che vedeva restringersi lo spaccio ed il lucro, come
all'Inghilterra, paese di consumo, ove i prodotti delle distillerie
prendevano il posto de' vini mancati. Il Trattato di Methuen, sotto
pretesto di aprire un sicuro mercato a' tessuti di lana inglesi, privò
l'Inghilterra di un rilevante e naturale traffico con un popolo vicino e
la costrinse a prendere il prodotto, inferiore e più caro, di un paese
che non era in grado di provvedere in larga misura il mercato
britannico. Similmente Napoli aggravò il dazio d'uscita sul vino e
perdette il mercato di Genova. Ed ecco, o signori, come il comparativo
uso o disuso del vino nei paesi che non ne producono, sia curioso e
notevole indizio dell'influenza che le legislazioni fiscali esercitano
sulle abitudini popolari.


                                   V.

Fortunatamente i criteri della politica Colbertiana andarono poco a poco
indebolendosi, ed il commercio del vino potè svolgersi in modo meno
irregolare e più conforme alle esigenze determinate dal vario talento
de' popoli, dalla diversa posizione de' paesi, dalla moltiforme
attitudine dei produttori a somministrare gli elementi della ricchezza
sociale. La produzione del vino ha una propria regione segnata dalla
natura nella zona della vite. Ed in cotesta zona va notato un fenomeno
curioso ed è che ne' paesi nordici abbonda il vino bianco e ne'
meridionali il vino rosso, proprio come ne' primi — il riscontro m'è
stato suggerito dal mio egregio collega il prof. Lombroso — prevalgono i
capelli biondi e ne' secondi le chiome nere. Un'altra circostanza: i
vini del mezzodì sono più alcoolici de' vini del nord. Di tale maniera
vediamo posti da natura i fondamenti del traffico del vino.

In quali condizioni esso si trova ai giorni nostri?

Tra' paesi produttori della zona viticola europea predomina la Francia,
la cui produzione nel decennio anteriore al 1859 segnò una media annuale
di 30 milioni d'ettolitri ed è salita nel decennio posteriore alla media
di 56 milioni, malgrado l'oidium e la fillossera, cause di accidentali
diminuzioni riparate dall'industria col _vinage_. L'esportazione crebbe
anch'essa sensibilmente da 2 milioni e mezzo d'ettolitri che era nel
1859, sino a 4 milioni nel 1873. Nel decennio successivo il raccolto
medio annuale diede 54.636.000 ettolitri, e s'ebbe una esportazione di
3.469.000 ettolitri all'anno in media. Il valore della produzione annua
si può calcolare in commercio a circa due miliardi di franchi; quello
dell'esportazione tocca i 300 milioni. Al moto ascendente
dell'esportazione hanno contribuito in maniera speciale la Germania —
gli Alsaziani ed i Lorenesi serbano fede a' vini di Francia, — la
Svizzera, l'Inghilterra ed il Belgio in Europa e Rio de la Plata nel
continente americano (Tav. I).

          [GRAFICO: ITALIA — ESPORTAZIONE del VINO
                    S. Cognetti de Martiis dis]

          [GRAFICO: FRANCIA e SPAGNA ESPORTAZIONE del VINO]

          [GRAFICO: CONSUMO di VINI FRANCESI in INGHILTERRA
                                           Lit. Salussolia]

                    E. Loescher Editore, Torino—Roma

I vini francesi vanno divisi in tre grandi categorie, cioè: Vini
ordinari della Gironda, Vini ordinari degli altri vigneti e
Vini-liquori. La prima categoria soffrì una diminuzione irregolare, ma
costante, nell'uscita, dal 1866 al 1871, poi s'ebbe un lieve
miglioramento. La media dell'esportazione, proporzionale alla totale
quantità di vini che la Francia ha mandato all'estero dal 1859 al 1875,
risulta, pe' vini girondini, del 58.1 %; fu superata fino al 1866
sempre; non mai più (eccetto nel 1872) da quell'anno in poi. I vini di
cotesta classe vanno a preferenza in Inghilterra e nelle colonie
inglesi, al Rio de la Plata, agli Stati Uniti, all'Uruguai, in Olanda,
al Perù, al Messico, in Danimarca ed al Chilì. L'esportazione della
seconda categoria, quella dei vini ordinari _des autres crus_, aumentò
costantemente sino al 1870, declinò poi sino al 1873, ma si riebbe ben
presto sino ad oltrepassare la media che è 37.7 % e fu superata dal 1867
al 1872 e nel 1875. L'Algeria, il Brasile, l'Italia, l'Egitto, la
Turchia, la Svezia, la Norvegia preferiscono i vini di questa classe.
Ne' vini-liquori — quelli cioè la cui potenza alcoolica è maggiore di 15
gradi — si ebbe tendenza all'aumento d'uscita sino al 1863, depressione
nel successivo triennio, nuovo aumento sino al 1872 e poi alti e bassi
più o meno sensibili. La media 4.2 % fu sorpassata solo ne' tre anni
1863, 1872 e 1874. L'esportazione più notevole di cotesti vini si fa
verso l'Inghilterra ed il Belgio.

Cosa si raccoglie da questi dati? La notevolissima differenza tra le
cifre della produzione e quelle dell'esportazione mostra che, pur
facendo larga parte, al consumo interno, la Francia ha bisogno di
sbocchi ed accenna a procurarseli ne' paesi dell'America Meridionale. Si
scorge anche come al commercio vinifero francese abbia giovato la
riforma economica del 1860 e quanto male avvisi la Società parigina
d'agricoltura chiedendo un dazio di 20 franchi per ettolitro su' vini
che entrano in Francia. L'eccellenza di questo paese nell'industria
enologica e conseguentemente il suo primato nel commercio del vino non
fu conseguita con la protezione di tariffe, bensì con la perfezione del
prodotto, la unione de' produttori per ottenere la costanza de' tipi e
l'abbondanza de' capitali applicati alla viticoltura.

La Spagna e l'Italia sono, dopo la Francia, le due regioni che esportano
la maggiore quantità di vino. Ma che distanza tra esse e la consorella
latina! La produzione del vino nella penisola iberica è aiutata e
stimolata da capitali inglesi, specialmente nelle provincie meridionali,
ed i prodotti si distinguono per gusto generoso e nutritivo.
L'esportazione (Tav. I) va sviluppandosi discretamente e più si
svolgerebbe, in ispecie verso il nordovest d'Europa, se la tariffa
doganale inglese fosse alquanto più mite co' vini. Vero è che se la
Spagna ha qualche ragione di lagnarsi dell'Inghilterra, ha più ragione
ancora la Francia di dolersi della sua vicina d'oltre i Pirenei, massime
se si consideri che da questa è fornita la maggior parte de' vini che
entrano in Francia. Commercialmente però i vini spagnuoli non hanno
grande importanza; i più noti sono adulterati e quelli non manipolati,
tutt'altro che perfetti, hanno un difetto grave: l'incostanza nel
_profumo_, nel _corpo_ e nel _colore_. Prima di passare dalla penisola
iberica alla nostra, è bene dare un'occhiata al Portogallo. Il più noto
dei vini portoghesi è il _Porto_, ma ho già accennato come, con la
sofisticazione, gli speculatori anglo-sassoni abbiano traviato il sapore
di questo vino generoso, sicchè il genuino _Douro_ non piace a chi è
avvezzo al _Portwine_. Lo Stato al quale affluisce la maggiore
esportazione lusitana è il Brasile, ove però comincia a coltivarsi
l'industria enologica e s'è costituito un tipo nazionale, il _Pao_, che,
se i produttori v'attendono e gl'industriali non lo sciupano, potrà
acquistare un buon posto in commercio.

Ed eccomi all'Italia. La nostra esportazione è in aumento, in ispecie
quella del vino in bottiglie (Tav. II) e ci siamo emancipati dalla
Francia, dalla quale prendemmo 661,000 ettolitri di vino nel 1859,
gradatamente discesi a 45,000 nel 1875. Anzi nel 1872 potemmo fornirne
alla nostra vicina 300,000 ettolitri. Ma, o signori, non facciamoci
illusioni. La massima parte del nostro vino s'esporta pel _taglio_ e a
ciò furono adoperati in Francia i 300 mila ettolitri or ora menzionati;
servirono a rinforzare i fiacchi vini della Linguadoca. Il vino italiano
che solo, si può dire, è conosciuto nel gran commercio, è il Marsala, un
vino-liquore. E poi cos'è la nostra esportazione in confronto della
francese? E dire che per ragione di clima la produzione italiana
dovrebbe superare quella della Francia, ove la vite alligna bene in un
terzo della superficie ed in un altro vi stenta, e l'industria enologica
dovrebbe figurare tra le fonti principalissime della nostra esportazione
accanto alle industrie della seta e dell'olio. C'è dippiù; noi come
produttori di vino non possiamo competere nemmeno con la Spagna. La
produzione annua spagnuola raggiunge, in media, la cifra di 25 milioni
di ettolitri, circa la metà della produzione francese. La media nostra è
di 16 milioni di ettolitri. Si è asserito che non possiamo esportare a
causa dei gravi dazi che figurano nelle tariffe straniere
nell'importazione de' vini; si sono invocate altre attenuanti per
spiegare la figura alquanto meschina che noi si fa in questo ramo di
commercio. Parole vane. La verità è stata detta chiara ed aperta da due
valentuomini che da diversi punti di vista si sono occupati con amore
de' vini italiani: il Luzzatti ed il Sambuy. La principal condizione per
poter vendere, dice il Luzzatti, è produrre bene. Qualunque vantaggio
daziario è effimero e vano, se la enologia italiana non cerca in se
stessa i mezzi della propria rigenerazione. «A differenza di abilità, di
competenza commerciale, qualunque diminuzione di dazio nelle tariffe
estere profitterà segnatamente agli Stati più sapienti nell'arte
dell'enologia e più avveduti nel commercio del vino»^[V-5]. E il Sambuy
esclama: «Facciamo meglio i nostri vini... Non si tratta di far comunque
dei vini cattivi destinati alle bettole ove il misero artigiano,
attirato dal buon prezzo, perde i suoi preziosi risparmi e la più
preziosa sua salute, si tratta di fare dei vini-tipi, che passino i
monti ed i mari con utile nostro e decoro d'Italia»^[V-6].

Il nostro gran guaio è appunto la mancanza di vini-tipi. La nomenclatura
dei vini italiani è lunghissima e svariatissima, e questo nuoce assai al
nostro commercio enologico. I produttori vogliono fare sfoggio di
qualità diverse e il prodotto risulta scarso per ogni qualità e per
giunta incostante.

Aggiungete la mala pratica dell'adulterazione, che pur troppo è vizio
vecchio e fece nel secolo scorso perdere all'Italia i mercati della
Germania e dell'Inghilterra^[V-7]. A questi difetti intrinseci della
nostra enologia, se ne accoppiano altri che chiamerò estrinseci. Uno
riguarda l'imbottigliamento. In molti paesi d'Italia s'imbottigliano i
vini nella primavera susseguente al raccolto. Cosa accade? Il vino, dopo
un certo tempo, prende un sapore disgustoso comunicato dalle feccie.
Bisogna poi anche badare più che non s'usi ai tappi di sughero.
All'esposizione di Filadelfia una partita di Valpolicella d'ottima
qualità fu esposta in bottiglie malissimo turate, e non fu avuto in quel
conto che forse meritava. All'esposizione di Vienna si dovettero
cambiare i tappi a molte bottiglie di espositori italiani. Non è tutto.
Noi non curiamo l'apparenza della bottiglia così come si dovrebbe per
allettare i consumatori. Non diamo importanza o ne diamo ben poca alle
etichette, e salvo poche eccezioni, le nostre bottiglie hanno aspetto
grossolano e non reggono al confronto di quelle del Reno, di Francia, di
Spagna, degli Stati Uniti e del Portogallo.

Così, signori, la fama antica de' vini latini è mantenuta non dalla
terra veramente latina, non dalla vecchia Enotria, ma dalla Francia.

La Germania anch'essa ci sta innanzi nel commercio enologico. I vini del
Reno si distinguono non solo per la loro eccellenza, ma eziandio per la
costanza del tipo, nella quale si riflette l'indole pertinace della
robusta e perseverante stirpe alemanna. I Tedeschi poi si acquistarono
una grande reputazione come cantinieri. Niuno li supera nella
preparazione e nella conservazione de' vini che curano con mezzi
perfetti. Il signor Secchi de Casali, giurato per l'Italia alla sezione
agricola della Mostra di Filadelfia, scrive nella sua Relazione che i
cantinieri tedeschi sono i più accetti agli Stati Uniti, e
l'imbottigliamento de' liquidi v'è, si può dire, monipolizzato da essi,
abili al punto d'allestire ciascuno diciotto dozzine di bottiglie,
dovendo lavarne i vetri, riempirle, turarle, mettervi le capsule e le
etichette, avvilupparle nella carta e nella paglia e finalmente
incassarle, stampandovi le debite iscrizioni, e tutto ciò in nove ore di
lavoro.

Tra' paesi che forniscono al commercio tipi buoni e accreditati, merita
una speciale menzione l'Ungheria, patria del Tokay, pregevolissimo per
finezza e profumo. In quanto alla Grecia e alla Turchia, la cattiva
fabbricazione nuoce allo spaccio de' vini dell'arcipelago e dell'Asia
Minore, che, come abbiamo visto, tennero in altri tempi il primissimo
posto nel commercio enologico.

Negli Stati Uniti d'America si dànno molte cure e si applicano vistosi
capitali alla produzione del vino. Vi s'è costituito un tipo nazionale,
la Catawba, il più stimato tra' vini americani. Ma la Repubblica
federale transatlantica non è pel vino un paese d'esportazione, come lo
è, e considerevolissimo, pel frumento e per il bestiame. Un sensibile
movimento d'esportazione s'accenna invece nella lontana Australia, e
specialmente nella Victoria e nell'Australia Meridionale, ove grossi
capitali s'investono nella viticoltura, si piantano nella vallata del
Murray viti spagnuole, si riproducono con buon esito nelle regioni
nordiche i tipi spagnuoli e portoghesi e in quelle poste al sud i
francesi e tedeschi. Anche lì s'è costituito un tipo dominante, il
Verdeilho, e gli arditi coloni del mondo nuovissimo affrettano co' voti
e con l'opera il giorno in cui la loro terra competerà co' più reputati
paesi viniferi europei.

Intanto il consumo del vino si va estendendo e si allarga così il
mercato di questo prodotto, il cui prezzo, sul posto, s'è più che
raddoppiato in dieci anni, mentre il prezzo medio di vendita, in
commercio, che, in Francia, verso la metà del secolo scorso,
s'allontanava poco dai 35 franchi, è salito a non più di 50 franchi,
grazie al progresso dei mezzi di trasporto.

Ma lo sviluppo progressivo del commercio enologico ha tre nemici:
l'imperizia, la frode e il dazio.

Abbiamo veduto come l'imperfezione dell'elemento tecnico nella
viticoltura e nell'arte di fare il vino nuocia ai paesi che per ragione
di clima sono pure i più adatti alla produzione. Il buon vino s'apre da
sè la via sul mercato mondiale. In questo, come in ogni altro ramo
dell'attività umana, chi più sa, più può.

In quanto alla frode, tutti conosciamo in quali proporzioni sia
praticata e sotto quante e svariate forme. Tutti i tipi più accreditati,
tutte le qualità più gradite, tutte le specie più note e diffuse sono
prese di mira. Un arguto scienziato tedesco dimostrò che l'uva non
c'entrava per nulla nello _Château Margaux vecchio_ che una Corte di
Germania riceveva dal suo fornitore brevettato, il quale le dava a bere
una miscela composta con acqua pura, acquavite di frumento, estratti
diversi, acido, sale, glicerina e materie coloranti. Io non voglio
invadere il campo riservato a chi tratterà dal punto di vista igienico
il tema comune, ma m'importa dichiarare che l'economista non meno del
medico riprova e condanna le adulterazioni e contraffazioni, dalle quali
è profondamente viziata l'industria enologica, con danno grave della
salute dei consumatori, di quelli specialmente che appartengono alle
classi lavoratrici. In Germania fu preparata l'anno scorso una legge per
prevenire e reprimere lo spaccio di generi alimentari malsani. Le misure
preventive consistono nella facoltà attribuita ai funzionari
amministrativi di sorvegliare la vendita delle cose più nocive alla
salute, esaminarle per verificarne le condizioni, indicare i
procedimenti, le pratiche e anche le materie o derrate insalubri e
mettervi il proprio divieto. Delle misure repressive menzionerò solo
quella che minaccia sei mesi di carcere e una multa estensibile fino a
1500 marchi contro chiunque alteri e vizii i generi di consumo, senza
renderli malsani, e l'altra che punisce con la prigione, e in certi casi
anche con la perdita de' diritti civili e politici coloro che
fabbrichino o spaccino sostanze alimentari e bevande insalubri.

Una parola sui dazi e ho finito. Voi avete sotto gli occhi, disposti in
ordine, questi nemici del vino (Tav. III). Varia è la loro misura, varii
i criterii che servono di base alla tassazione. Si dazia secondo la
capacità del recipiente, secondo il peso del recipiente pieno, secondo
la forza alcoolica o il valore del liquido. Due soli paesi lasciano
entrare liberamente il vino: la Cina e l'Olanda.

                   DAZI SULL'IMPORTAZIONE DEL VINO

                           Per 1 Ettolitro.

    *AUSTRALIA*   spumanti                               L. 153,30
        »         ordinari                               »  102,20
    *BAHAMA*                                             »   51,10
    *BELGIO*      in fusti                               »    — 50
        »         in bottiglie                           »    1,50
    *CANADÀ*      spumanti in fusti                      »  135 —
        »            id  . in bottiglie (1 dozzina)      »   15 —
        »         non spumanti in fusti                  »   66 —
        »              id.     in bottiglie (1 dozzina)  »    7,50
        »         qualità inferiore                      »   33 —
    *CEYLAN*      in fusti                               »   25,55
        »         in bottiglie                           »   64,32
    *COLONIA DEL CAPO*                                   »  111,01
    *FIDGI*       spumanti                               »  153,30
        »         non spumanti                           »  102,20
        »         clarets australiani                    »   52,64
    *FILIPPINE*        spumanti                          »   50 —
        »              non spumanti                      »   25 —
    *FRANCIA*          ordinari                          »    — 30
        »              vini liquori (+15°)               »    — 30
    *GIAMAICA*                                           »   64,32
    *GIAVA*            in fusti                          »   18,90
        »              in bottiglie                      »   22,05
        »              spumanti (100 bottiglie)          »   44,10
    *GRECIA*           in fusti                          »   28,12
        »              in bottiglie                      »   70,31
    *GUIANA INGL.*     in fusti                          »   91,41
        »              in bottiglie                      »   76 —
    *INDIA BRIT.*      spumanti                          »   65,20
        »              ordinari                          »   52,64
    *INGHILTERRA*      (+14°,9)                          »   68,76
        »              (-14°,9)                          »   27,51
    *ITALIA*           in fusti                          »   15 —
        »              per 100 bottiglie                 »   30 —
    *MALTA*            (più di L. 78,71 l'ett.)          »   32,37
        »              (meno        id.       )          »    6,74
    *NATALE*                                             »  102,20
    *PORTOGALLO*                                         »   31,20
    *SPAGNA*           spumanti                          »  108 —
        »              ordinari                          »   54 —

                           Per 100 Chilogrammi.

    *AUSTRIA-UNGHERIA* in fusti                          L.  53,50
        »              in bottiglie                      »   67,75
    *DANIMARCA*        in fusti                          »   19 —
        »              in bottiglie                      »   48,40
    *GERMANIA*         in fusti                          »   29,52
        »              in bottiglie                      »   59,04
    *RUSSIA*      in fusti                               »   56,16
        »         spumanti in bottiglie (1 bottiglia)    »    4 —
        »         ordinari in bottiglie (1 bottiglia)    »    1,32
    *STATI UNITI*      in fusti                          »   54,74
        »              spumanti ogni bottiglia           »    2,60
        »              ordinari                          »    — 70
    *SVEZIA*           in fusti                          »   23 —
        »              in bottiglie                      »   29 —
    *SVIZZERA*         in fusti                          »    3 —
        »              in bottiglie                      »    7 —

                            Per 100 Lire.

    *ARGENTINA*                                          L. 100 —
    *ANTIGUA*                                            »   25 —
    *BARBADE*                                            »   15 —
    *BRASILE*          in fusti                          »   30 —
        »              in bottiglie                      »   80 —
    *CHILÌ*                                              »  100 —
    *GIAPPONE*                                           »    5 —
    *PERÙ*                                               »  100 —

                         Esenzione da Dazio.

                           CINA — OLANDA

Il dazio troppo elevato alimenta la frode, che è peggiore del
contrabbando. La storia del consumo del vino in Inghilterra è forse la
migliore illustrazione dell'influenza che esercita in proposito la
misura de' dazi. Sotto il regime de' dazi alti, il consumo de' vini
francesi in Inghilterra ebbe un aumento medio annuo di 80 tonnellate;
sotto il regime d'una tariffa più moderata, l'aumento annuo è salito ad
una media di 1800 tonnellate (Tav. IV). Io non dico che il vino non sia
una buona materia tassabile nel sistema doganale, ma non conviene
aggravar troppo la mano. Dazi moderati giovano alla finanza senza
nuocere alla produzione e al consumo. È molto meglio, o signori, lasciar
passare il vino schietto e sano che veder diffondersi nelle popolazioni
e specialmente nelle classi operaie l'uso funesto dell'acquavite e degli
altri liquori che gli anglo-sassoni con energica ma appropriata
denominazione chiamano bevande attossicatrici.

[V-1] Οἴνωτρος dicevasi il palo con cui si sorregge la vite. Lo Stefano
nel _Thes._ spiega: _palus, pedamentum vitis, vallis qua vitis ceu
adminiculo fulcitur_. Il nome _Enotria_ accennerebbe forse alla
costumanza di sostenere le viti con paletti, che è antichissima e dura
tuttavia nella Basilicata?

[V-2] _Nat. hist._, libro XIV. _Jam intelligente suum bonum Italia._

[V-3] A ciò sembra alludere la tradizione dell'alleanza di Mezenzio coi
Latini contro i Rutuli, _vini mercede_, menzionata da Varrone, Plinio e
Ovidio.

[V-4] Prima che finisse la seconda guerra Punica, Roma prese possesso
degli antichi Stati di Jerone, posti nella regione orientale della
Sicilia; lì, poco lungi da Lentini, c'era Morgantia.

[V-5] LUZZATTI, _L'inchiesta industriale e i trattati di commercio_,
Roma, 1878, pag. 129.

[V-6] SAMBUY, _Conferenza tenuta in Chieri_, ecc., 1876.

[V-7] Vedi nella _Raccolta del Custodi_, Opere di G. R. CARLI, T. II, p.
356.



                            _G. ARCANGELI_
                                   —
                         LA BOTANICA DEL VINO

          (_Conferenza tenuta la sera del 23 febbraio 1880_).


Quantunque la Botanica non manchi di argomenti che possano formare
soggetto per una lettura piacevole ed istruttiva, mi sembra che quello
di cui debbo trattare questa sera, la Botanica del vino, non sia a
nessun altro secondo. Voi comprenderete infatti che sotto questo titolo
potendosi riunire tutte quelle cognizioni botaniche che si riferiscono
alla vite ed al vino, il nostro argomento interessa una delle più
importanti nostre colture, la coltura della vite, e l'industria che ad
essa si collega, la fabbricazione del vino.

La brevità del tempo e la pochezza delle mie forze non permettendomi di
trattare per esteso siffatto argomento, di sua natura vastissimo,
nient'altro farò che toccarne le parti principali.

Voi ben sapete che la vite è un arboscello che nel suo portamento
somiglia le liane dei paesi caldi. Il suo fusto non potendo di per sè
sostenersi verticalmente sul terreno, prende appoggio sui fusti di altre
piante. I suoi rami nodosi sono forniti di foglie alterne assai grandi,
palmato-quinquelobe irregolarmente dentate e di appendici filiformi,
dette viticci, per mezzo delle quali si attaccano ai fusti di altre
piante. I suoi fiori sono piccoli, di color verdastro, di ben poca
apparenza e raccolti in pannocchie che si producono in opposizione alle
foglie. Il frutto n'è una bacca.

La vite ha servito di tipo ad un gruppo speciale, cui dai botanici è
stato dato il nome di ordine delle Ampelidee, dal nome greco della vite
stessa, gruppo che attualmente si ritiene prossimo a quelli delle
Celastrinee e delle Ramnacee, con i quali si riunisce in un'unica
classe. In quest'ordine s'includono attualmente tre generi: il genere
_Vitis_, il genere _Pterisanthes_ ed il genere _Leea_, che fra tutti
abbracciano un numero di specie non superiore a 250, delle quali 230
spettano al solo genere Vitis, compreso pure il genere Cissus, che una
volta si teneva separato da quello.

La maggior parte di queste specie vegeta nei climi tropicali; se ne
conoscono dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Australia. Poche
però sono quelle che furono esperimentate nell'agricoltura. Oltre la_
Vitis vinifera_, Linn., propria del vecchio mondo asiatico-europeo, il
cui tipo sarebbe la nostra vite selvatica, detta comunemente Abrostine,
furono prese di mira dai coltivatori, la _V. Labrusca_ L., la _V.
rotundifolia_ Michx., la _V. aestivalis_ Michx. e la _V. cordifolia_
Torrey et Gray, che appartengono al nuovo e più specialmente agli Stati
Uniti.

Le varietà cui ha dato origine la vite sono molto numerose e si può
ritenere che il loro numero andò progressivamente aumentando dagli
antichi tempi ai nostri giorni. Fra gli antichi, Plinio ci riferisce che
ai suoi tempi si riteneva fossero innumerevoli e ce ne descrive 85.
Secondo il Villafranchi, verso la fine del secolo decorso, in Toscana si
conoscevano 87 varietà di viti, e 94 in Francia. Nel catalogo della
Società di orticultura di Londra, nel 1842, erano registrate 99 varietà.
Se si deve prestar fede all'Odart, in tutto il mondo esisterebbero da
700 ad 800 varietà, e forse fino a 1000, se pur non si vuol seguire
l'opinione di coloro che porterebbero questo numero fino a 1300. Si può
ritenere per la vite quanto si dice di molte altre specie utili
all'uomo, cioè che nelle sue mani essa ha prodotto un grandissimo numero
di forme, modellandosi quasi a suo piacere e piegandosi a soddisfare
tutti i suoi desiderii. Per convincersi poi del come questo numero vada
progressivamente aumentando, basti l'osservare che nelle stufe dei
nostri orticultori quasi ogni anno si produce qualche nuova forma, che
merita d'essere dalle altre distinta. Le sementi fatte su vaste
proporzioni offrono uno dei migliori mezzi per ottenere queste nuove
forme, con le quali via via si accresce il ricco patrimonio delle nostre
collezioni.

La classificazione di tutte queste varietà ha molto imbarazzato gli
enologi, e ciò non tanto per la grandezza del loro numero, ma
principalmente a cagione della nomenclatura che n'è estesissima e
sommamente intricata. Voi sapete che si possono distinguere le varietà
che dànno uva da mensa da quelle che dànno uva da vino. Fra le prime vi
citerò l'uva _Salamanna_, la _Regina_, la _Paradisa di Bologna_, la
_Galletta_, la _Maddalena nera_, il _Cari nero_, il _Moscato reale_, la
_Barbarossa_, l'_Astigiano_, la _Lugliatica_, l'_Uva di Corinto_. Fra le
uve da vino, nei paesi più meridionali, troviamo la _Malvasia_ con cui
si prepara il _Moscato di Candia_ ed il _Madera_, il _Pedro Ximenes_
della Spagna che produce i vini di Malaga e di Xeres, la _Passerina nera
del Vesuvio_ che produce il Lacrima nero del Vesuvio. In Toscana abbiamo
il _Canajolo_ che, associato al _Sangioveto_ ed alla _Malvasia_ od al
_Trebbiano_, fornisce il vino fiorentino e del Chianti. In Piemonte
troviamo la _Fresia_ e la _Bonarda_ delle colline di Torino, la
_Pelaverga_ di Saluzzo, il _Grignolino_, il _Dolcetto_ ed il _Barbera_
dello Astigiano, ed il _Nebiolo di Barolo_ che fornisce il re dei vini
del Piemonte, il Barolo, tutte varietà da vino nero; e l'_Erba-luce_ di
Caluso da vino bianco. In Francia voi trovate il _Pinot grigio_,
principale vitigno della Borgogna, il _Carbenet Sauvignon_ del distretto
di Bordeaux, l'_Aramon_, principale varietà dell'Herault, il _Morillon
blanc chablis_ da cui si ottiene lo _Champagne_, ed il _Moscato di
Riversaltes_, nel Roussillon (Pirenei orientali) da cui si ottiene uno
dei vini più squisiti che si conoscano. In Germania, il _Resling bianco_
detto dai francesi _Gentil aromatique_ è la varietà che produce il
celebre Joannisberg e gli altri vini del Reno; ed in Ungheria il _Tokai_
produce il vino dello stesso nome. Ma io però non intendo d'internarmi
in siffatto argomento, onde qui mi arresto, rinviando coloro che
volessero più estese notizie ai trattati speciali^[VI-1], fra i quali
merita di essere specialmente ricordato il saggio di Ampelografia testè
pubblicato dal signor Conte di Rovasenda, ch'è da considerarsi come uno
dei migliori lavori sopra questo soggetto.

Sulla origine della vite non si hanno notizie più positive ed
attendibili di quelle che ci vengono trasmesse dai miti e dalle
leggende.

Taluni vorrebbero che Osiride, il Bacco dei Greci, scoprisse la vite nei
dintorni di Nisa, città dell'Arabia Felice, e di là la trasportasse
nell'India. Altri attribuiscono a Noè la scoperta della coltivazione
della vite e della fabbricazione del vino, facendo di questo Patriarca
il Bacco dei Greci ed il Giano dei Latini. Molti ritengono che la vite
sia originaria della Persia, fondandosi sul fatto che il Michoux trovò
questa pianta selvatica in Persia, e l'Olivier la riscontrò in simile
condizione nelle montagne del Kurdistan, e che da quella contrada poi
sia stata introdotta in Grecia, in Italia, nelle Gallie ed in Ispagna.
Altri invece, secondo l'Endlicher, ripongono la patria della vite nella
Georgia e nella Mingrelia, fra le montagne del Caucaso, dell'Ararat e
del Tauro, ed altri col De Candolle la credono nativa della regione
inferiore del Caucaso, principalmente al mezzodì della catena e al
mezzodì del Caspio.

Nessuna però di tutte queste opinioni può essere accolta come conforme
alla verità.

Prima di tutto, giova osservare che i nomi sanscritti, di _Draksha_,
_Amritaphalà_, _Amritarasà_^[VI-2], con cui s'indicava la vite, e quelli
di Rasa e Rasala, con cui se ne designava il frutto, dimostrano che la
sua cultura nell'India rimonta ad un'antichità molto remota, e
probabilmente anteriore a quella di Osiride e di Bacco. Questa cultura
si limitava alle sole regioni più settentrionali dell'India, cioè al
Kambaya, al Pangiab ed al Kaçmir, e si praticava, a quanto pare, al solo
scopo di coglierne il frutto.

Noi troviamo inoltre che antichi autori, come Virgilio, Plinio e
Columella, parlano di viti selvatiche nelle foreste, i cui grossi
tronchi attestavano un'esistenza antichissima; e gli antichi autori
greci e romani, che sì spesso parlano della vite, mostrano sempre di
considerare questa pianta come propria del paese in cui si coltivava.

Se poi ricorriamo alla paleontologia, troviamo che il genere Vitis era
comparso nella nostra Europa sino dal periodo miocenico, al momento in
cui i Cissus, che già vi prosperavano fino dal cretaceo, incominciavano
a declinare. Fra le undici specie fossili del genere, enumerate dagli
autori, se ne citano della Germania, della Francia, dell'Inghilterra,
dell'Italia e persino della remota Islanda. La _Vitis teutonica_, tanto
frequente nelle ligniti di Wettarau in Germania, molto somiglia alla
nostra _Vitis vinifera_. Lo stesso Schimper^[VI-3] asserisce che la vite
quaternaria potrebbe ben essere l'avola della nostra vite; e
relativamente alla _Vitis Ausoniae_ scoperta nei travertini di S.
Vivaldo in Toscana, i signori Gaudin e Saporta ritengono ch'essa
potrebbe esser riunita alla _Vitis vinifera_. Non può dunque recar
meraviglia che la _Vitis vinifera_ abbia esistito in Europa prima della
comparsa dell'uomo; che anzi sorprende non poco che si sia negata tale
esistenza. In ogni caso, quand'anche si volesse ammettere che l'Asia sia
stata la patria della vite, non si comprende perchè precisamente l'uomo
debba pel primo averla trasportata in Europa, e non gli animali
carpofagi che lo hanno preceduto, e che debbono avere efficacemente
contribuito a diffondere una pianta dotata di frutti così dolci e
gustosi, trasportandone i semi a grandi distanze.

Tutto considerato adunque, mi sembra che si abbiano buone ragioni per
ammettere che la vite esistesse in Europa in epoche anteriori a quelle
in cui se ne incominciò la coltura, e che se pure si hanno argomenti per
sostenere che la sua cultura abbia avuto principio in Asia, nessuno ve
n'ha certamente per dimostrare ch'essa pianta abbia avuto la sua origine
in quella regione, potendo esser comparsa per la prima volta tanto nella
Georgia e nella Mingrelia, come in Italia, in Spagna od in qualche altro
paese dell'Europa temperata.

Relativamente alla cultura della vite, argomento troppo vasto perch'io
non possa convenientemente trattarne in poche parole, preferisco
rinviarvi a quanto ne scrissero coloro che ne trattarono
particolarmente, come i Ridolfi, i Cuppari, i Guyot ed altri distinti
agronomi e viticultori. Non posso però tralasciare di richiamare alla
vostra mente come in Italia, ove sopra una superficie di 296,322 chil.
quadrati si hanno 1,870,109 ettari coltivati a viti, cioè circa 1/16 del
totale, possa tuttora estendersi con vantaggio questa cultura ch'è
certamente una delle più rimuneratrici, e come interessi fra di noi di
promuoverne con tutti i più efficaci mezzi il miglioramento.

La vite ha bisogno di una certa quantità di calore per compiere le varie
fasi della sua vegetazione. Essa incomincia a svolgere le sue gemme
quando la temperatura media dell'aria tocca i 10° od 11°, e fiorisce
quando quella temperatura giunge ai 18° e 19°. Nel tempo che decorre
dallo svolgimento delle gemme alla fioritura, essa riceve una somma di
1800° a 2000° di calore. Affinchè però possa portare il suo frutto a
piena maturità le abbisognano altri 2600°, che deve ricevere prima che
la temperatura media discenda sotto i 12°. È quindi necessario, perchè
essa possa ricevere una tale quantità di calore, che nei 4 mesi
successivi alla fioritura (maggio, giugno, luglio, agosto), la
temperatura media non sia inferiore a 19°. Si comprende da ciò che se la
cultura della vite riesce proficua nei paesi della zona temperata, ove
appunto si verificano le condizioni di temperatura sopraindicate, essa
non può però oltrepassare certi limiti di latitudine.

Vediamo adesso quale sia l'estensione geografica della cultura economica
della vite e quali ne siano i limiti^[VI-4].

Quantunque si abbiano vini eccellenti nel Portogallo, la vite manca
nelle provincie umide della Spagna volte a maestro, cioè nella Gallizia
e nelle Asturie. Possiamo poi stabilire un limite al settentrione dei
paesi dell'Europa centrale. Questo limite si parte dalle foci della
Loira a 47° 20′ di lat., dal qual punto procede verso oriente, passando
per Andelys, Compiègne e Laon, in modo da tagliare al di fuori una zona
comprendente varii dipartimenti della Francia, ove la cultura della vite
manca, cioè Finistère, Côtes du Nord, Manche, Orne, Calvados, Seine
inférieure, Pas-de-Calais e Nord. Nel Belgio esso limite passa per
Argenteau sulla Mosa fra Liegi e Maestricht, cioè a 50° 45′ di lat. In
Germania lo troviamo lungo il Reno presso Dusseldorf, da dove poi si
spinge fino a Postdam a 52° 27′, ed a Berlino 52° 31′, località cui
corrisponde il punto più elevato della linea, il punto cioè della
maggiore latitudine. In tutto il tratto descritto si può ritenere che il
nostro limite abbia subìto un notevole regresso in tempi da noi non
molto lontani: imperocchè si hanno prove ch'esistevano una volta estesi
vigneti al di là di esso. In Normandia esiste la tradizione che numerosi
vigneti fossero devastati nel secolo XIV dagli Inglesi, all'oggetto di
favorire la loro cultura alla Giammaica, e molte carte del IX e XIII
secolo fanno menzione di vigneti nella Brettagna e nella Piccardia.
Nell'Inghilterra anticamente non esistevano vigneti, come ne fa fede
Tacito^[VI-5]; ma in tempi meno remoti da noi la vite si coltivava in
proporzioni assai vaste nel mezzodì di quel paese. La provincia di
Glocester era non solo famosa pei suoi vigneti, ma produceva le uve le
più squisite di tutta l'isola. La cronaca di Stow parla di vino che si
faceva nel parco di Windsor, e si citano pure carte riguardanti le spese
che si facevano per le piantate di viti all'epoca di Riccardo II. Però
attualmente pochissimi vigneti si osservano in Inghilterra, e per quanto
le uve che in questi si colgono non sieno sempre sgradevoli al gusto, ed
il vino che se ne ottiene non sia sempre spregevole, sembra che i paesi
vinicoli del continente non si sieno gran fatto allarmati per tale
concorrenza. Da Postdam il limite di cui parliamo si continua per breve
tratto conservandosi presso a poco alla medesima latitudine, e quindi
gradatamente discende lungo le pendici meridionali dei Carpazi,
includendo la Boemia e la Moravia che posseggono estesissimi vigneti;
passa poi questi monti al 48° circa di latitudine per penetrare in
Buchowina che attraversa, tocca Mohilew lungo il Dniester, sempre ai
48°, e risale un poco a Krementshug sul Dnieper ai 49°. Sembrerebbe poi
che il nostro limite passasse fra Zarizyn e Serapta presso il Volga, se
pure non riuscirono a buon fine le coltivazioni osservate dal Pallas più
a settentrione di questa città, per prolungarsi attraverso la parte
superiore del Caspio, verso lo interno dell'Asia.

Pel centro dell'Asia la scarsità delle notizie ci vieta di stabilire dei
limiti abbastanza precisi. Solo sappiamo che vi si osservano dei vigneti
sparsi qua e là, ove si sono formati dei centri di popolazione, come a
Kamil a 43° di lat. e 92° di long. da Parigi, e quelle di H' lassa nel
Thibet chinese a 29° 41′ di lat. Sappiamo poi, per quanto ne riferisce
il Bunge, che la vite si coltiva presso Pechino su vaste proporzioni ed
al mezzodì fino al Gouan-gou.

Scendendo verso l'equatore, troviamo pure che la cultura della vite
incontra altro limite. Così troviamo vigneti alle Canarie e pure lungo
la costa settentrionale dell'Affrica, però di rado al disotto dei 30° di
lat. Nella Persia settentrionale e nella Bucharia si osservano estesi
vigneti. Manca però la vite nelle parti meridionali della Persia ed in
gran parte dell'India, ed in generale in tutte le regioni equatoriali,
nelle quali la rigogliosa vegetazione, provocata dall'eccessivo calore e
dall'umidità, di rado le consentono di fiorire, ed ove ordinariamente
produce dei frutti ben poco succosi ed inutili.

Nell'America Settentrionale si può dire che la cultura della nostra vite
ha completamente fallito in tutta la regione situata al di qua delle
Montagne rocciose. Tutte le piantagioni fatte con viti francesi,
spagnuole, portoghesi, maderesi, renane sono andate gradatamente
deperendo ed in tempo più o meno breve distrutte^[VI-6], onde convenne
ricorrere alla varietà delle specie indigene, cioè al Catawba,
all'Herbermond, allo Scuppernong ed al Concord. L'imperizia, il clima,
la qualità del terreno, la natura della vite nostra si credettero da
principio le cause di tali disastri; molti però attualmente ritengono
che la Phylloxera, che appunto sarebbe a noi stata recata dall'America,
debba considerarsi come la causa principale di questo fatto. Al di là
delle Montagne rocciose la vite prospera nel Nuovo Messico e nella
California.

Nell'America meridionale la cultura della vite ha dato buoni risultati
lungo la pendice orientale delle Ande a Mendoza, a Saint-Jouan e a Roja,
ove si preparano dei vini eccellenti. Si citano pure dei vigneti alla
Concezione, circa al 37° di latitudine australe.

Si coltiva poi con ottimi resultati la vite al Capo di Buona Speranza,
ove si ottengono dei vini molto pregiati, i cosidetti vini di Costanza,
e pure nella Nuova Olanda, ove la cultura si effettua principalmente
nella Nuova Galles del Sud.

Similmente a quanto si verifica per molte altre piante dei climi
temperati, la cultura della vite tanto più si estende in altezza sui
fianchi delle montagne quanto è minore la latitudine. Ben si intende
però che su ciò non poco influiscono le condizioni topografiche locali,
la qualità dei vitigni ed altre circostanze, per cui ad egual latitudine
si possono riscontrare altezze assai differenti e viceversa. Nelle
colline del mezzodì dei Carpazi essa si eleva fino ai 290 metri. In
Francia si trovano vigneti all'altezza di 509^m in Alvernia, e si citano
come limite estremo le colture di Valai ad 800^m, per quanto se ne
osservino nelle Alte Alpi a 1200^m d'elevazione. Nelle buone esposizioni
del cantone di Neuchâtel sulle pendici del Giura, la vite si eleva fino
a 450 ed anche ai 550^m. Nel cantone dei Grigioni essa giunge fino ai
740^m circa, ed in generale si può ritenere che per la Svizzera il
limite medio dell'elevazione è dai 480 ai 550^m. Nelle pendici
meridionali delle Alpi troviamo coltivazioni ordinariamente fino ai
600^m d'elevazione, e talora pure ad un'altezza assai maggiore, come in
Val d'Aosta, ove raggiungono gli 890 ed anche i 1180^m, presso
Chiavenna, ove si trovano viti sino a 948 metri, e presso il lago di
Como, ove se ne osservano fino a 970^m. Negli Appennini centrali il
limite supera sovente gli 800^m, e nell'Etna, secondo quanto asserisce
il Gemmellaro, i vigneti salgono fino a 1299^m dal lato di mezzodì e di
levante. Secondo il Ramond, nell'Andalusia la cultura della vite
giungerebbe fino a 1364^m d'elevazione. Fuori d'Europa questi limiti
sono poco conosciuti; si dice però che nell'Imalaia la vite possa
coltivarsi fino a 2500^m d'elevazione.

Fra i vegetali che vivono parassiticamente sopra alcune specie del
genere Vitis, meriterebbero di esser qui ricordate le famose Rafflesie,
quelle piante stranissime, il cui apparecchio di vegetazione serpeggia
nelle radici di varie specie dei tropici, e che quindi si rende
manifesto con la produzione di magnifici fiori, che sbocciano sulle
radici stesse, raggiungendo il diametro di 3 piedi inglesi: ma io non
intendo di trattenervi su tali piante che non si sviluppano sulla nostra
vite, ma bensì sovr'altre che presso di noi talora gravemente la
danneggiano.

L'elenco dei vegetali che vivono sopra gli organi della vite si è
considerevolmente accresciuto in questi ultimi tempi. Nel 1854 infatti
il Westendorp ne citava 22 per la vite ed 1 per la _Vitis rotundifolia_:
nel 1876 il Thümen ne citava 31 per la _Vitis vinifera_, 2 per la _Vitis
labrusca_ ed 1 per la _Vitis vulpina_: mentre il Pirotta nel 1877 ne
enumerava circa 120^[VI-7] sopra le varie specie coltivate, ed il Thümen
fa ultimamente ascendere questo numero fino a più di 150^[VI-8]. Nè è a
ritenersi che qui s'arresti il numero di tali vegetali, essendochè vi è
tutta la probabilità che gli studi ulteriori ne facciano conoscere
ancora dei nuovi. Fortunatamente però, di tutti quelli che vivono sulla
nostra vite, pochi sono quelli che possono gravemente danneggiarla;
poichè la maggior parte di essi si contenta di vivere sugli organi della
pianta già morti od in via di deperimento, mentre pochi son quelli che
si sviluppano sugli organi viventi e che si meritano il nome di
parassiti.

Ho creduto opportuno di riportare nel quadro qui unito i nomi delle
diverse specie che si sviluppano sugli organi della _Vitis vinifera_,
contrassegnando con carattere corsivo i nomi di quelli che riuscirono
dannosi o che possono esserlo. Io mi limiterò a dirvi poche parole di
alcuni di questi.


                            _Peronosporei._

Peronospora viticola, De Bary.


                             _Murcorinei._

Mucor stolonifer, Hhrbg.


                              _Ifomiceti._

Acrostalagmus cinnabarinus, Cda. — Arthrobotryum atrum, Berk. et Br. —
Aspergillus glaucus, Lk. — Botrytis acinorum, Pers. — Botrytis cinerea,
Pers. — Chaetostroma pedicellatum, Preuss. — Chalara fusidioides Cda. —
Cicinnobolus Cesatii, De Bary. — Circinnotrichum maculaeforme, N. a E. —
_Cladosporium ampelinum_, Pass. — Cl. fasciculatum, Cda. — Cl. Fumago,
Lk. — Cl. herbarum, Lk. — Cl. _Roesleri Pirotta_ — _Dendryphium
Passerinianum_, Thüm. — Gonytrichum caesium, N. a E. — Gyrocerus
Ammonis, Cda. — Haplotrichum epiphyllum, Rabh. — Helminthosporium
decacuminatum, Thüm. et Pass. — Macrosporium uvarum, Thüm. — _Oidium
Tuckeri_, Berk. — Phymatostroma fusarioides, Cda. — Pyrenotrichum Vitis,
Schulzer — _Septocylindrium dissiliens_, Sacc. — Spt. virens, Sacc. —
Septosporium Fuckelii, Thüm. — _Spicularia Icterus_, Fuch. — Sporodum
conopleoides, Cda. — Sporotrichum ampelinum, Th. et Pass. — Sp. aureum,
Fr. — Trichothecium candidum, Wallr. — Tr. roseum, Lk.


                             _Gimnomiceti._

Coryneum microstictum, Berk. et Br. — Epicoccum neglectum, Desm. —
Exosporium Badhamii, Awd. — Fusarium Cesatii, Thüm. — F. pampini, Th. et
Pass. — F. Roeslerianum, Th. — F. tortuosum, Th. — F. viticolum, Th. —
Fusisporium Biasolettianum, Sacc. — _F. Zavianum_, Sacc. — Fusoma vitis,
Schulzer. — _Glocosporium ampelophagum_, Sacc. — Gl. sarmentitium,
Montg. — Graphium cinerellum, Speg. — Periconia chlorocephala, Fres. —
Tubercularia ampelophila, Sacc. — T. sarmentorum, Fr.


                              _Uredinei._

Uredo Vitis, Thüm.


                             _Imenomiceti._

Agaricus hyemalis, Osb. — Ag. melleus, Vahl. — Ag. proteus, Kalchb. —
Auricularia mesenterica, Pers. — Corticium lactescens, Berk. — Cyphella
albo-violascens, Karst. — Cy. villosa, Karst. — Lenzites atropurpurea,
Sacc. — Marasmius calopus, Fr. — M. candidus, Fr. — M. epiphyllus, Fr.
var. sarmentorum, Thüm.


                             _Discomiceti._

Cenangium viticolum, Fuck. — Helotium hyalopes, Fuck. — H. sarmentorum,
De Not. — H. vitigenum, De Not. — Hysterographium viticolum, Rehm. —
Lachnella macrochaeta, Speg. — Peziza tumida, Pers. — P. viticola, Pers.
— Pyrenopeziza Vitis, Rehm. — Roesleria hypogaea, Thüm. et Pass. —
Sclerotinia Fuckeliana, Fuck. — Stictis Saccardoi, Rehm. — St. uberrima,
Montg.


                            _Pirenomiceti._

Amphisphaeria sylvana, Sacc. et Spag. — Anthostomella limitata, Sacc. —
Bertia Vitis, Schlzr. — Botryospheria cyanogena, Niessl. — Calosphaeria
minima, Tul. — Ceratostoma Schulzeri, Pirotta. — C. Vitis, Fuck. —
Cryptovalsa ampelina, Fuck. — C. Rabenhorstii, Sacc. — Cucurbitaria
Vitis, Schulzer. Diaporthe viticola, Nke. — Didymosphaeria bacchans,
Pass. — Dothidea myriococca, Mntg. — Eurotium herbariorum, Lk. — Eutypa
ludibunda, Thüm. — Gibbera Vitis, Schulzer. — Leptosphaeria
appendiculata, Pirotta. — L. Cookei, Pirotta. — L. Gibelliana, Pir. — L.
vinealis, Pass. — L. Vitis, Pir. — Lophiostoma angustatum, Fuck. — L.
Hederae, Fuck. — L. Thümenianum, Speg. — Nectria cinnabarina, Fr. — N.
viticola, Berk. et Curtis. — Pleospora coronata, Niessel. — P.
phaeocomes, Ces. et De Not. — Rebentischia appendiculosa, Sacc. —
Rhaphidospora sarmenti, Pass. — Rosellinia horrida, Haszl. — Spherella
fumaginia, Catt. — Sph. pampini, Thüm. — Sph. sarmentorum. Pir. — Sph.
Vitis, Fuck. — Teichospora Mesascium, Sacc. — Valsa vitigena, Cooke — V.
Vitis, Berk et Curtis — Valsaria insitiva, Ces. et De Not.


                          Pirenomiceti spurii.

Cheilaria Vitis, Schulzer — Cryptosporium ampelinum, Thüm. —
Cryptostictis hysterioides, Fuck. — Cytispora chrysosperma, Fr. — C.
incerta, Thüm. — C. Vitis, Montg. — Discosia Vitis, Schulzer — Diplodia
Bacchii, Pass. et Th. — D. fabaeformis, Pass. et Thüm. — D.
interrogativa, Thüm. et Pass. — D. viticola, Desm. — Hendersonia
sarmentorum, Westd. — Hormococous olivaceus, Sacc. — Leptothyrium
longisporum, Thüm. et Pass. — L. Passerini, Thüm. — L. perpusillum,
Pass. et Thüm. — Myrothecium Vitis, Bon. — Pestalozzia pezizoides, De
Not. — P. Thümenii. Speg. — P. uvicola, Speg. — Phoma amplinum, Berk. et
Curt. — _Ph. baccae_, Catt. — Ph. Cookei, Pirotta — _Ph. Negrianum_,
Thüm. — Ph. Vitis, Bon. — Polynema Vitis, Schulzer — Septoria
Müggenbergii, Pirotta — S. Vitis, Lév. — _Sphaceloma amplinum_, De Bary.
— Vermicularia compacta, Cooke et Ellis.


                           Micelii Sterili.

Ozonium auricomum, Lk. — Sclerotium echinatum, Fuck. — Sc.
sarmenticolum, Thüm. — S. Semen, Tode. — S. uvae, Desm. — Sc. Vitis,
Peyl.

Un funghetto, che reca dei gravi danni alla coltura della vite
nell'America settentrionale, è quello che produce la malattia conosciuta
sotto il nome di _mildew_ (nebbia). Questo fungo che si sviluppa
ordinariamente sulle varietà delle specie americane, quali la _Vitis
labrusca_, la _Vitis aestivalis_ Mich., la _Vitis cordifolia_ Mich., e
_Vitis vulpina_ L., forma sulla pagina inferiore delle foglie dei
cespuglietti di color bianco sporco, assai numerosi, di forma
tondeggiante da prima, ma quindi irregolare, fondendosi gli uni negli
altri. Tali cespuglietti sono formati da sottili filamenti che escono in
fascio dall'apertura degli stomi, ciascuno dei quali si ramifica
biforcandosi o triforcandosi, producendo una spora sull'estremità di
ogni ramificazione. Secondo quanto ne dice il Planchon^[VI-9], questo
fungo sarebbe assai comune in settembre ed agosto, e talora associandosi
ad altra malattia detta _Rot_, cui dà origine altro funghetto (_Phoma_
_uvicola Berk et Curt._) determina dei guasti anche maggiori. Egli
riferisce altresì che alcuni coltivatori pretendono che la decadenza del
prezioso vino bianco spumante detto _sparkling catawba_, che suole
avvenire dopo 20 anni di coltivazione, si debba all'azione di questo
funghetto. Fino a questi ultimi tempi ritenevasi che questa malattia
fosse propria esclusivamente all'America, però non può più restare alcun
dubbio sulla sua apparizione in Europa; poichè, quand'anche non si
volesse tener conto di quanto asserisce il Frank^[VI-10] riguardo alla
sua comparsa in Ungheria presso Wershetz, il Planchon ci riferisce
com'essa si sia ultimamente presentata in varie località della
Francia^[VI-11], ed il Pirotta^[VI-12] ne annunzia la comparsa nella
nostra Italia a Santa Giulietta presso Casteggio. Giova sperare però che
trattandosi di un parassita che si sviluppa in epoca in cui la
vegetazione della vite è già molto inoltrata, esso sia raramente causa
di gravi danni per le nostre culture.

Nel gruppo degli Ifomiceti troviamo varie specie che possono riuscire
dannose alla vite, cioè: il _Cladosporium ampelinum Pass._, che infesta
sovente le viti del Reno; il _Cladosporium Roeslerii_, osservato per la
prima volta dal Rössler sulle viti di Klosterneuburg presso Vienna, che
dee ascriversi a quelli che recano guasti maggiori alle coltivazioni,
come ne fanno fede i danni che sovente arreca nei vigneti dell'Austria e
quelli pure cui soggiacquero fra noi le colture di Rocca dei Giorgi; il
_Septocylindrium dissiliens_, che devastò le vigne dei dintorni del lago
di Ginevra e della Valle Lemana nel 1834; la _Spicularia icterus_, che
cagiona la malattia conosciuta col nome d'Itterizia, e che tanto danno
recò nel 1869 alle viti della sponda sinistra del Reno, fra Magonza e
Guntersblum, così denominata pel color giallo che prendono le viti che
ne restano colpite. Ma fra tutti questi funesti parassiti, quello che
principalmente merita la nostra attenzione è il terribile Oidio, che è
appunto quel funghetto che cagionò la malattia ben conosciuta presso di
noi sotto i nomi di _Bianco delle viti_ o _Crittogama_.

L'Oidio fece la sua prima comparsa nelle stufe di Margate in
Inghilterra, ove fu osservato per la prima volta dal signor Tucker,
giardiniere, e successivamente studiato dal Berkeley, che in onore del
suo scopritore lo chiamò _Oidium Tuckeri_. Dall'Inghilterra questa
malattia si diffuse sollecitamente in Francia, ove fu osservata nel
1848, e quindi passò in Svizzera ed in Italia, ove comparve nel 1851. La
malattia suole ordinariamente presentarsi poco dopo la fioritura della
vite, cioè nei mesi di maggio e giugno, secondo le località.
Incominciano a svilupparsi sulle foglie e sui rami delle produzioni
filamentose che grado grado si estendono. Successivamente appariscono
delle macchie bruniccie sui rami, sulle foglie e sugli acini, che a
grado a grado si dilatano e si confondono, mentre si rivestono d'una
polvere bianchiccia. I rami, più o meno alterati nei loro tessuti
superficiali e profondi, spesso si mortificano e cadono; le foglie si
raggrinzano e si disseccano, gli acini rimangono atrofizzati e
deformati, la buccia loro si screpola, e ben presto si disseccano o
marciscono. Tutti questi danni debbonsi appunto all'Oidio che cagiona le
macchie sopra descritte e che si presenta formato da filuzzi esilissimi,
i quali strisciano sulla superficie dei vari organi della vite, aderendo
a questi per mezzo di corte ramificazioni dette _succiatoi_, cui è
affidato l'incarico di succiare il nutrimento dal substrato. Sopra
questi filamenti, che costituiscono la fronda del fungo, si producono
dei rametti che sorgono verticalmente, i quali nell'estremità loro
superiore si segmentano in articolazioni, che sollecitamente prendono
forma ellissoidea e si distaccano per costituire le spore. Siccome poi
la estremità di rametti siffatti continua a segmentarsi ed a produrre
spore per tutta la vita della pianta, e queste facilmente trasportate
dal vento, a cagione della loro eccessiva tenuità e leggerezza,
germogliano e riproducono la pianta, tostochè si trovino in condizioni
favorevoli; agevolmente si comprende quanto facilmente il funesto
parassita possa diffondersi e trasportarsi, non solo da un organo
all'altro della medesima pianta, ma pure da una pianta all'altra ed a
considerevole distanza, e così in breve tempo infestare delle regioni
estesissime. Gli studi istituiti sull'Oidio starebbero a dimostrare non
essere esso un vegetale che in sè stesso chiuda il ciclo della sua
vegetazione, ma una forma particolare di altro organismo di struttura
più complicata, che sarebbe un _Erysiphe_, di cui rappresenterebbe la
forma più semplice, quella che suol presentarsi nelle prime fasi di
sviluppo del fungo e che per gli organi speciali di riproduzione che
produce, si suole appellare conidifera. Havvi però, chi vorrebbe
considerare l'Oidio come forma conidifera di altro funghetto, anzichè di
un _Erysiphe_, cioè della _Spherotheca Castagnei_. Nè sola è la nostra
vite ad accogliere un ospite tanto malefico, poichè esso è stato pure
osservato sopra alcune specie americane, cioè la _Vitis aestivalis_, la
_Vitis riparia_ e la _Vitis condicans_.

L'Oidio va sovente accompagnato da un'altra specie, che per qualche
tempo fu ritenuta quale pertinenza dell'Oidio stesso, cioè
l'_Ampelomyces quisqualis_ Ces., denominato poi _Cicinnobolus Cesatii_
dal de Bary. Il micelio di questo funghetto cresce frammisto a quello
dell'Oidio, e penetra con i suoi filuzzi persino entro a quelli
dell'Oidio, sul quale vive parassiticamente. Dai filamenti del micelio
si producono dei rametti che sorgono verticalmente e terminano in una
cellula claviforme od ellissoidea, che produce nel suo interno numerose
sporuline ellissoidee o quasi cilindriche. Sembra che questo funghetto
debba ritenersi benefico per la vite, anzichè malefico, giacchè è
dimostrato che col suo parassitismo, non solo disturba lo sviluppo
dell'Oidio, ma gl'impedisce di fruttificare e lo distrugge. Facilmente
si comprende però che tale azione benefica giunge ordinariamente troppo
tardi, perchè essa possa far sentire la sua efficacia, ond'essa può ben
classificarsi fra quei rimedi che si dicono non recati a tempo.
Certamente se noi ci fossimo attaccati all'azione benefica del
Cicinnobolus, le nostre raccolte sarebbero andate tutte perdute. Il vero
rimedio però che ci ha messo in grado di combattere questo terribile
nemico, e liberare i nostri vigneti da sì grave flagello, è stato lo
zolfo in polvere, rimedio che fu per la prima volta proposto da un
distinto botanico francese, il prof. Duchartre di Parigi.

Nel gruppo dei Gimnomiceti troviamo il _Fusi__sporium Zavianum_ Sacc.,
che può riuscire nocivo alla coltura delle viti ed il _Gloeosporium
ampelophagum_ Sacc., che di recente ha recato danni abbastanza gravi ai
nostri vigneti, e che merita perciò alcune parole.

È questo il funghetto che cagiona quella malattia denominata presso di
noi _Bolla_, _Picchiola_, _Vaiuolo_, _Nebbia_, e che infestò varie
provincie della nostra Italia in questi ultimi anni. Incomincia questa
malattia ad apparire in primavera sui rami e sui pampini, in forma di
macchie di color bruno rossastro, quasi tonde o bislunghe^[VI-13], con
margine di color più scuro e depresse nel centro. Queste macchie si
producono pure sopra gli acini in via di maturazione, riducendone la
buccia cariacea, onde il loro accrescimento non può che effettuarsi
molto imperfettamente, e la loro polpa ne resta più o meno deteriorata
ed esausta. Esaminando al microscopio i tessuti occupati da tali
macchie, si osservano dei filimenti esilissimi che serpeggiano fra le
cellule del tessuto, provocando un ingrossamento nelle loro pareti ed
alterandone il contenuto. Nella parte poi più prossima alla superficie,
si formano delle piccole sporgenze composte di sottili filamenti
disposti in ciuffo od in palizzata, che aprendosi la strada attraverso
alla cuticola, si portano in contatto dell'aria e producono nelle loro
estremità delle minutissime spore. Si tratta adunque di un funghetto
endofito, che cioè si sviluppa nell'interno dei tessuti della pianta che
lo ospita. Si ritiene poi che questo malanno non sia cosa nuova, giacchè
il Marés dà la traduzione di un passo di Teofrasto, ove non si può fare
a meno di riconoscerlo. Il suo infierire in questi ultimi anni fu in
relazione con speciali condizioni meteorologiche che si verificarono nei
mesi di aprile, giugno e luglio, per le pioggie molto frequenti che si
alternarono sovente con giornate nebbiose e calde, onde si ebbero dei
rapidi cambiamenti di temperatura, che associati alla umidità in
abbondanza, sembrano aver molto favorito lo sviluppo di un tal
parassita. Sembra pure che non tutte le varietà sieno egualmente
attaccate: quelle dei paesi caldi ed a vegetazione più rigogliosa lo
sarebbero più facilmente di quelle dei paesi più temperati. In Toscana
ho potuto osservare tale malattia sulle uve _Salamanna_, _Galletta_,
_Regina_, _Colombano_, _Sangioveto_, _Montanino_, _Macaja bianca_,
_Colore aspro_, _Colore dolce_, _Moscatello_, _Malvagia_, _Aleatico_,
_Greco_, _Agrifone_; il _Trebbiano_ ed il _Canajolo_ bianco e nero
parrebbero più difficilmente attaccabili. Varii furono i rimedi proposti
contro questa malattia. Si propose di recidere i tralci attaccati per
promuovere una nuova vegetazione, e di far uso di larghe concimazioni
potassiche, si fece uso di zolfo in polvere, di polvere di calce, di
solfuro di calcio, di solfato di ferro: ma io tralascio di diffondermi
in questi dettagli, invitando coloro che desiderassero notizie più
estese a consultare i lavori pubblicati sopra quest'argomento.

Dalla malattia precedentemente descritta va distinta l'_Antrocnosi_, che
con quella è stata sovente confusa. L'Antrocnosi è malattia che si
sviluppa sulle viti americane alle quali riesce gravemente dannosa. Essa
è conosciuta pure coi nomi di _Rot_, _Small pox_ e si produce sugli
acini in forma di pustole che somigliano alquanto a quelle del
_Gloeosporium ampelophagum_ Sacc. Il funghetto che si considera come
causa di tale malattia è quello stesso di cui abbiam parlato di sopra,
cioè il _Phoma uvicola_ Berk. et Curt.

Altri malanni, che sogliono pure manifestarsi sulle nostre viti, sono
quelli conosciuti sotto i nomi di _Malattia del bianco_ e _Malattia del
nero_. La prima di queste si presenta sotto forma di micelii bianchi che
invadono il tessuto legnoso fino al punto di uccidere la pianta. Questi
micelii sembra che si debbano riferire ad alcune specie di funghi
imenomiceti. L'altra malattia si manifesta con un'alterazione del
tessuto dei fusti e dei rami lungo i vasi porosi, per la quale i vasi
porosi e le cellule legnose circostanti prendono una colorazione scura.

Ma qui non finisce l'enumerazione dei vegetali che hanno relazione col
vino, che anzi nel vino stesso abbiamo un'intera Flora, ricca di forme
numerose e svariate, il cui studio è ben lungi dal potersi dire
completo.

Voi sapete che il mosto dell'uva non si trasforma in vino se non subisce
la fermentazione. In conseguenza della fermentazione il mosto
s'intorbida, in esso si sviluppa una sostanza gazosa che facilmente si
riconosce per acido carbonico, ed il suo sapore di dolce si riduce più o
meno piccante. Un fenomeno simile si produce pure nel liquido con cui si
prepara la birra. I chimici ci dicono che per effetto della
fermentazione lo zucchero contenuto nel mosto si scinde in alcool ed in
acido carbonico, con produzione altresì di piccola quantità di glicerina
e di acido succinico. Ma come avviene questa trasformazione? Quali sono
le cause che la determinano? Al giorno d'oggi si ritiene che il fermento
del mosto, il principio cioè che determina la fermentazione, sia
rappresentato da una pianticella microscopica che vive nel mosto e che
nutrendosi determina la decomposizione dello zucchero in alcool ed in
acido carbonico. Ognuna di queste pianticelle, come vedete in questa
figura (Fig. 1), consta di alcune cellule riunite in piccola famiglia,
spesso a forma di catenella ramosa, la quale è capace di accrescersi per
gemmazione e di dividersi in varie altre in modo che da una d'esse molte
in breve tempo se ne producono. Entro a queste cellule poi in
circostanze speciali si producono pure da 2 a 4 minutissime spore.

                         [FIGURA: Fig. 1.]

Il nostro Fabbroni, nel cadere del secolo scorso, fu il primo a
dimostrare che, affinchè la fermentazione del mosto si effettui, si
richiede la presenza di certe sostanze che egli chiamava vegeto-animali,
e che adesso diconsi sostanze albuminoidi. Il Gay Lussac dimostrò che
non basta la presenza delle sostanze albuminoidi, ma occorre pure la
presenza dell'aria affinchè la fermentazione abbia luogo. L'Erxleben nel
1818 osservò pel primo il fermento della birra e riconobbe in esso i
caratteri di vegetale. Desmazières, poco appresso, lo ritenne da prima
come un infusorio, ma poi lo classificò come un fungo. Il Persoon lo
ascrisse pure alla classe dei funghi, formandone il genere Mycoderma, e
la stessa opinione seguì pure il Meyen, costituendone il genere
Saccharomyces, mentre il Kützing lo giudicava un'alga e lo poneva nei
Crypticoccus. Cagnard Latour, avendo osservato la gemmazione delle
cellule del fermento, ritenne, come Erxleben, ch'esso fosse la causa
della fermentazione, ciò che venne poi confermato dall'esperienze di
Schwann, che dimostrò inoltre l'aria essere capace a provocare la
fermentazione non di per sè, ma per i germi di organismi ch'essa
contiene. Berzelius e Mischerlich spiegarono la fermentazione con la
celebre forza catalitica. Sorse poi il Liebig con la sua teoria
meccanica della fermentazione, nella quale considerava la fermentazione
come un fenomeno chimico, causato dalla decomposizione delle sostanze
albuminoidi contenute nel liquido fermentabile. Finalmente il Pasteur in
seguito a studii continuati per vari anni, ha rimesso in vigore le idee
di Erxleben e di Schwann, dimostrando che i Saccharomyces, che si
sviluppano nei liquidi zuccherini, sono da considerarsi come la causa
principale della fermentazione. Secondo il Pasteur questi Saccharomyces,
che costituiscono il fermento, respirerebbero come gli altri vegetali
assorbendo ossigeno allorquando trovansi in contatto dell'aria; ma
allorchè sono immersi in liquido fermentabile, non potendo altrimenti
appropriarsi l'ossigeno dell'aria, prenderebbero questo elemento dallo
zucchero contenuto nel liquido decomponendolo in alcool ed in acido
carbonico. In questi ultimi tempi fu fatta un'opposizione molto viva a
questa teoria per parte di varii scienziati, fra i quali Brefeld,
Treube, Berthelot e Trecul, per adesso però sempre trionfa la teoria del
Pasteur.

                          [FIGURA: (Fig. 2).]

                          [FIGURA: (Fig. 3).]

                          [FIGURA: (Fig. 4).]

                          [FIGURA: (Fig. 5).]

                          [FIGURA: (Fig. 6).]

                          [FIGURA: (Fig. 7).]

                          [FIGURA: (Fig. 8).]


Gli studi fatti dal Rees hanno dimostrato potersi distinguere varie
specie di questi Saccharomyces. Il _Saccharomyces ellipsoideus_ Ress. è
quello che costituisce il fermento del vino (Fig. 1). _Saccharomyces
Cerevisiae_ (Fig. 2) è stato chiamato quello che si sviluppa nel liquido
preparato col malto, e che ne determina la fermentazione e la
trasformazione in birra. I _Saccharomyces exiguus_ (Fig. 3), _S.
apiculatus_ (Fig. 4), _S. pastorianus_ (Fig. 5), _S. conglomeratus_
(Fig. 6), _S. Reesii_ (Fig. 7), si producono pure nel mosto dell'uva.
Altre specie sono il _S. albicans_, il _S. glutinis_ ed il _S.
mycoderma_ (Fig. 8). Quest'ultimo è particolarmente interessante,
inquanto è desso che costituisce quella pruina biancastra che si produce
alla superficie del vino, che conservasi in vasi mal chiusi e che
chiamasi fiore del vino. Questo gode di una singolare proprietà: poichè
mentre i suoi congeneri si compiacciono di vivere in un mare di
dolcezza, nutrendosi dello zucchero contenuto nei liquidi fermentabili,
egli preferisce i liquidi alcoolici dei quali consuma l'alcool che
trasforma in acqua ed acido carbonico, contenendosi come un gran
bevitore.

A tutti questi poi si debbono aggiungere tutti quei microfiti che si
sviluppano nel vino allorquando esso si altera più o meno, e che secondo
il Pasteur debbono considerarsi come cause delle alterazioni medesime.
Le differenti malattie cui va soggetto il vino, che si denominano
_Spunto_, _Vino cercone_, _Vino girato_, _Vino grasso_ o _filante_,
_Amarezza_, ecc., derivano pure da crittogame speciali, che facilmente
si possono riconoscere per mezzo del microscopio, come il Pasteur ha
dimostrato nella pregiatissima opera pubblicata sotto il titolo di
_Études sur le vin_. Io vi dirò poche parole di quello fra questi
organismi che è meglio conosciuto, e che si considera come causa dello
spunto od acescenza.

                          [FIGURA: (Fig. 9).]

Il microfito che si suole ritenere come la causa della acescenza del
vino, è quello che è conosciuto volgarmente col nome di _Madre
dell'aceto_. Scientificamente fu detto, fino a questi ultimi tempi,
_Mycoderma aceti_, essendosi creduto che esso fosse affine ai
_Saccharomyces_, che pure si includevano nello stesso genere; però
recentemente si è riconosciuto che esso non solo deve essere separato
dai _Saccharomyces_ per essere incluso nel genere _Bacterium_, ma merita
appena di essere distinto dal _Bacterium Termo_, che si considera come
la causa delle putrefazioni. Esso consta di cellule minutissime, quasi
globose, riunite due a due, oppure in serie a formare come delle
coroncine (Fig. 9): cellule che si mantengono alla superficie del
liquido formandovi un sottilissimo strato, che successivamente
s'ingrossa in una massa mucilagginosa paragonabile ad una cotenna. Il
Pasteur che ha molto studiato sopra questa produzione, ha sostenuto
ch'essa debba riguardarsi come la causa della malattia dell'acescenza e
della produzione dell'aceto, facendo osservare come sia affatto
impossibile la trasformazione dell'alcool in aceto per quanto si tenga
in contatto dell'aria, senza la presenza del _Bacterium aceti_. In tutti
i casi infatti in cui vi ha trasformazione di alcool in aceto, egli
dimostra verificarsi la presenza di siffatto microfito. Recentemente
però il prof. Herzen ha pubblicato delle osservazioni che sembrano stare
in opposizione con una tale teoria. Il prof. Herzen avendo dimostrato
che una piccola quantità di acido borico che si aggiunga al vino, toglie
ad esso la facoltà di trasformarsi in aceto, per quanto si prolunghi il
suo contatto con l'aria in presenza del _Bacterium aceti_, concluderebbe
che la trasformazione del vino in aceto dovesse considerarsi come un
semplice fenomeno di ossidazione, anzichè come un fatto dipendente dalla
nutrizione del _Bacterium aceti_.

Altre piante pure, oltre la vite e le congeneri di cui vi ho parlato,
possono fornire bevande spiritose simili al vino.

Colle mele ed anche colle pere si prepara un vino di frutta che si
chiama _Sidro_ e che si fabbrica in Francia, in Inghilterra, in Spagna,
in Germania, in Russia, in alcune regioni dell'Affrica ed anche in
America. S'ignora l'origine di tale bevanda, ma si crede che sieno stati
gli Egizii e gli Ebrei i primi a farne uso.

Dalle ciliegie si ottiene pure un liquore spiritoso detto _Kirchwasser_,
di cui si fa uso principalmente in Svizzera ed Alemagna. La Foresta nera
ne fornisce la qualità più pregiata.

In Inghilterra si adoperano i frutti del _Ribes grossularia_, la comune
Uva Spina, per farne un liquore spiritoso.

In America si prepara una specie di vino coi frutti delle piante del
genere _Guazuma_ (Büttneriacee) e con i baccelli di varie specie del
genere _Prosopis_ (Mimosee) si prepara una specie di birra detta
_Aloja_. Allo stesso uso servono nella Senegambia i frutti della
_Spondias birrea_ (Anacardiacee).

In generale tutti i frutti dolci possono essere impiegati al medesimo
scopo.

Nè solo il succo dei frutti, ma quello pure che si contiene in altri
organi delle piante può essere trasformato in bevanda più o meno simile
al vino.

Il succo dolce che s'ottiene dall'_Acer saccharinum_ nell'America
settentrionale si trasforma in liquore spiritoso per la fermentazione.
Il succo delle giovani messe delle Mammee e quello persino delle gemme
di alcune specie di abete, si prestano allo stesso uso. Col succo
contenuto negli stocchi del gran turco in Bolivia si prepara una birra
che chiamasi _Chicha de palo de meiz_. Il melazzo, che si ottiene come
residuo della preparazione dello zucchero, dalla canna di zucchero,
fornisce il Rhum.

Nel Messico si ottiene una bevanda spiritosa detta Vebli o Pulque
dall'_Agave americana_, che adesso cresce pure spontanea nelle parti
meridionali della nostra Penisola. Allorquando l'infiorazione è per
svilupparsi si recide alla base e dalla ferita si raccoglie l'umore che
poi si fa fermentare. Origine consimile hanno pure i vini di palma,
chiamati _Toddy_, _Leymi_, _Arrach_, che si preparano facendo fermentare
il succo che sgorga dalle ferite fatte nelle infiorazioni di varie
specie, quali la _Coripha umbraculifera_, il _Borassus flabelliformis_,
il _Cocos nucifera_, il _Sagus Rumphii_, la _Mauritia vinifera_, ecc.

Oltre agli organi contenenti zucchero, possono ottenersi bevande
spiritose pure da quelle parti che contengono principii capaci di
trasformarsi in zucchero. In questa categoria figurano principalmente i
semi feculacei. La più conosciuta fra le bevande che si ottengono dai
semi è la birra; bevanda che, come il vino ed il sidro, risale ad
un'antichità molto remota, attribuendosene la scoperta ad Osiride, da
alcuni, da altri a Cerere, d'onde i nomi di _Cerevitia_, _Cerevisia_,
_Ceria_, _Cervogia_, coi quali è stata appellata. La birra si prepara
coi semi dell'orzo, che si fanno germogliare affinchè la fecola in essi
contenuta si trasformi in zucchero, e quindi si seccano per ottenerne il
malto, col quale poi si prepara il liquido che mediante la fermentazione
si trasforma in bevanda.

Altra bevanda analoga alla birra è quella che si prepara nel Chilì coi
semi del Granturco, detta dai nativi _Chicha_. La _Busa_ dei Tcerkessi,
il _Tuack_ dei Dayack, il _Sacki_ dei Giapponesi, il _Sampsu_ dei
Chinesi, la _Meriesa_ ed il _Bisbil_ del Soudan, sono pure bibite
spiritose preparate con semi di cereali.

Ma uno dei più singolari emuli di Bacco lo troviamo fra i vegetali di
struttura più semplice, nella classe dei funghi. L'_Agaricus muscarius_
Fr., specie venefica comunissima nei nostri boschi, nella penisola del
Kamchatka presso l'estremo più orientale dell'Asia, viene adoperato in
sostituzione al prezioso liquore di Bacco per procurarsi uno stato di
ebbrezza piacevole. Un fungo di ordinarie dimensioni o due piccoli
bastano per produrre l'effetto, a condizione però che siano trangugiati
senza far loro subire la masticazione. Si racconta che gli effetti di
tale ebbrezza sono veramente singolari, per lo straordinario stato
d'esaltazione che l'accompagna, che dà luogo alle più piacevoli emozioni
della mente ed ai movimenti i più disordinati e bizzarri. Si asserisce
poi che il veleno passa inalterato nella escrezione renale, onde le
orine stesse sono capaci di riprodurre questo stato di ebbrezza, come lo
stesso agarico e per più volte di seguito; nè quella rozza gente ha
schifo il ricorrere ad una tale bevanda in difetto del desiderato fungo.
Io ritengo però che voi non vorrete ripetere un così sozzo esperimento,
lasciandone ben volentieri le gioie a quei lontani nostri men che
fratelli, e che anzi vorrete sempre anteporre il prezioso liquore di
Bacco agli altri tutti che l'arte più raffinata in sì svariati modi ci
apparecchia, rammentandovi sempre però quel precetto del nostro poeta
_Est modus in rebus_, ecc., e che se il vino può dirsi opera divina,
l'ubriachezza è certamente opera del diavolo^[VI-14].

[VI-1] Vedi pure ACERBI G., _Delle viti italiane_ — MENDOLA A., _Elenco
di uve_, Favara tip. Parrini e Carini, 1868 — Goethe Herm., _Catalogo
ampelografico_ — _Ampelografia italiana_ compilata per cura del comitato
centrale ampelografico (in corso di pubblicazione).

[VI-2] DE GUBERNATIS, _Piccola enciclopedia indiana_, 1877, pagine 87 e
388.

[VI-3] SCHIMPER CH., _Traité de Paléontologie végétale_, vol. III, pag.
48.

[VI-4] ENDLICHER ST., _Enchiridion botanicum exhibens classes et ordines
plantarum_, ecc., p. 395. — DE CONDOLLE, _Geogr. Bot._, I, 338.

[VI-5] Solum praeter oleam vitemque ceteraque calidioribus terris oriri
sueta patiens frugum fecundum, etc.

[VI-6] PLANCHON, Le Phylloxéra en Europe et en Amérique. _Revue des deux
Mondes_, 1874. _Vignes américaines_, p. 74, 85, 86 e seg. — TARGIONI
TOZZETTI A., _Della malattia del pidocchio nella vite_, Roma, 1875, p.
76.

[VI-7] PIROTTA R., _I funghi parassiti dei vitigni_, Milano, 1877.

[VI-8] THÜMEN, _Die Pilze des Weinstockes_, Wien, 1878.

[VI-9] PLANCHON, F. E., _Les vignes américaines_, Paris, 1875.

[VI-10] _Synopsis der Pflanzenkunde_, Hannover, 1877, p. 1853.

[VI-11] _Comptes rendus_, 1879, p. 600.

[VI-12] PIROTTA R., _Sulla comparsa del Mildew o falso oidio degli
americani nei vigneti italiani_, Milano, 1879.

[VI-13] PASSERINI G., _La nebbia del Moscatello ed una nuova crittogama
delle viti_, 1876. — SACCARDO P. A., Rivista di viticultura ed enologia
italiana. — ARCANGELI G., _Sopra una nuova malattia della vite_. _Nuovo
giornale bot. ital._, vol. IX, p. 74, 1877. — RIDOLFI N., _Bullettino
della R. Società toscana d'orticultura_, anno IV, p. 370. — GALIMBERTI
A. e RAVIZZA F., _Sull'anatracuosi della vite. Studi ed esperienze_,
Milano, 1879.

[VI-14] Vinus opus Dei: ebrietas opus diabuli est.

                                        S. GRISOSTOMO.



                              _A. MOSSO_
                                   —
                   GLI EFFETTI FISIOLOGICI DEL VINO

           (_Conferenza tenuta la sera del 1º marzo 1880_).


Il vino è una bevanda così prelibata, che produce degli effetti
fisiologici, anche prima di averlo bevuto.

Per dimostrare questo fatto con una esperienza, mi basta di rammentare
ad alcuni amici, che sono qui presenti, certe bottiglie di _barolo
stravecchio_ che abbiamo bevuto insieme allegramente. Perchè
l'esperienza riesca con quella pienezza, che è degna di questa
circostanza, dirò loro che alle 9 e mezzo li aspetto per berne qualche
altra bottiglia alla salute della mia serata.

Per discrezione non domando ad alcuno di pronunciarsi sull'esito
dell'esperimento, ma sono certo che la maggior parte di coloro cui erano
dirette le mie parole, sentirono inumidirsi man mano il palato, come se
si sciogliesse qualche cosa sulla lingua. Il fatto che un vino squisito
ci fa venire l'_acquolina_ in bocca al solo pensarci, è un fenomeno che
dipende da una secrezione più abbondante della saliva, la quale sgorga
più copiosa senza alcuna partecipazione della volontà ed in modo affatto
automatico.

Nel 1822 un soldato del Canadà, per nome San Martin, ricevette un colpo
di fucile a bruciapelo che gli aperse l'addome e gli perforò lo stomaco:
in pochi mesi, mercè le cure del dottor Beaumont, guarì completamente,
conservando una apertura nelle pareti addominali, a traverso cui
potevasi vedere comodamente, come da un finestrino, ciò che succedeva
nello stomaco. Per questo soldato fu un vero guadagno, perchè i medici
lo pagavano lautamente per vedere come si compiesse la digestione nel
suo stomaco. San Martin quando ebbe fatto un bel gruzzolo di danaro, li
piantò tutti e se ne ritornò al suo villaggio, dove prese moglie e
divenne padre di numerosa prole.

Negli annali della chirurgia vennero dopo registrati parecchi casi
analoghi di fistole stomacali, ossia di aperture accidentali dello
stomaco, in persone che del resto stavano benissimo.

Simili deformità hanno perduto molto del loro interesse dopo che i
medici ricorsero al metodo di fare artificialmente delle fistole
stomacali nel cane. Fu questo un trovato della più grande importanza,
perchè ora nelle indagini sulla digestione non siamo più costretti ad
aspettare che il caso ci metta nelle mani una persona come San Martin:
ciò che avrebbe reso troppo lenti i progressi della scienza.

Per mezzo delle fistole stomacali si osservò tanto nell'uomo, quanto nel
cane, che la vista di una bevanda, o di un cibo appetitoso, desta
un'abbondante secrezione anche nelle ghiandole a pepsina che stanno alla
superficie interna dello stomaco. Cosicchè appena si mostra un pezzo di
carne ad un cane, immediatamente il succo gastrico scola a gocciole
dall'apertura della fistola stomacale.

L'acquolina che compare improvvisamente nella bocca e la secrezione più
abbondante del succo gastrico non sono un capriccio della natura. No.
Essi sono fenomeni che hanno un profondo valore per l'organismo; e da
questa semplice esperienza traspare evidente la meravigliosa perfezione
della nostra macchina, dove appena nasce l'idea, o il desiderio, di una
vivanda appetitosa immediatamente e senza alcuna partecipazione della
volontà e della coscienza si preparano i mezzi per digerirla.

La ragione non può trattenere questi ciechi slanci dello stomaco. Il
ventricolo dei miei amici non sa che deve aspettare fino alle 9 ½; ma,
appena ebbe sentore dell'invito, incominciò subito a prepararsi e a
struggersi in segreto in attesa di un lavoro gradito.

Il vino si può dividere in due parti: nell'alcool che è per noi la più
importante: e nell'acqua, nei sali inorganici, e nelle sostanze
organiche, che formano un liquido il quale per la sua composizione
rassomiglia al brodo di carne.

Il prof. Cossa che trattò già della composizione chimica del vino, spero
mi perdonerà questo paragone grossolano di cui mi servo solo per
comodità di linguaggio. Voi tutti sapevate del resto, come un bicchiere
di vino possa venire sostituito da una tazza di brodo pei suoi effetti
ristorativi. Ranke, che credo sia stato il primo a fare questo paragone
fra la composizione chimica del vino senza alcool e del brodo, andò
tanto oltre da asserire: _che senza dubbio noi abbiamo nella birra uno
dei migliori sostitutivi dell'estratto di carne_^[VII-1].

Il vino penetrato nello stomaco viene assorbito, ossia trapela e si
infiltra a traverso le pareti dello stomaco e scompare passando dentro a
certi canaletti sottili che sono le vene dello stomaco, le quali
conducono i liquidi che beviamo nel sangue. Voi tutti sapete che un
bicchiere di vino generoso produce degli effetti assai più sensibili
bevendolo a digiuno, che non quando lo si annacqua per bene, o lo si
beve a pranzo. La ragione di questa differenza sta nella rapidità più o
meno grande con cui l'alcool passa nel sangue.

A digiuno l'assorbimento è più rapido, perchè lo stomaco essendo vuoto
il liquido alcoolico può bagnarne tutte le pareti e attraversarle
prontamente; quando invece l'alcool si mescola coi cibi, lo stomaco non
può impadronirsene con eguale prontezza, perchè solamente a misura che
si digerisce tutta la massa delle sostanze alimentari, l'alcool passa
gradatamente nel sangue.

Qualcuno potrebbe domandarmi come si fa a sapere che l'alcool scompare
dallo stomaco per passare nel sangue? L'esperienza è facile. Prendemmo
un grosso cane, e gli amministrammo nello spazio di circa mezz'ora una
quantità di alcool allungato con acqua che corrispondeva a circa un
litro di vino Marsala. Dopo due ore, quando l'animale era completamente
ubbriaco ed insensibile, gli facemmo un salasso così profondo che senza
accorgersene morì dissanguato in pochi minuti. Immediatamente dopo gli
estirpammo lo stomaco ed il suo contenuto venne messo in questo vaso per
essere distillato nel solito modo che serve a cercare la presenza
dell'alcool. Con questa manipolazione semplicissima potemmo convincerci
che solo una parte affatto trascurabile dell'alcool ingerito era rimasta
nello stomaco. Per riconoscere dove fosse passata l'altra parte
dell'alcool, abbiamo lasciato coagulare il sangue, e quindi raccolto lo
siero limpido e trasparente che stava alla superficie del coagulo rosso,
lo distillammo lentamente ed a bagno maria in un apparecchio che è
alquanto più complicato del primo. Perchè lo siero del sangue si coagula
facilmente al calore e forma una massa densa e bianca come albumina di
uova sode, si dovette stillare nel vuoto, o sotto una pressione di molto
inferiore all'atmosferica, come si ottiene per mezzo di una pompa di
Bunsen.

Prendiamo le prime goccie di liquido simili all'acqua che si condensano
in questa sfera di vetro annessa al matraccio ed esaminiamole col metodo
del prof. Lieben. Questo metodo per riconoscere le più piccole quantità
di alcool consiste nell'aggiungere al liquido da esaminarsi qualche
particella di iodo e potassa fino a decoloramento. Si riscalda tanto da
renderlo tiepido, ed ecco che già si sente un odore caratteristico di
zafferano, e si ottiene un deposito giallognolo di iodoformio che,
osservato al microscopio, si trova essere formato di lamelle
madreperlacee esagonali.

Un'altra reazione per conoscere la presenza dell'alcool in questo
liquido si fa coll'aggiungervi un po' di soluzione di bicromato
potassico ed acido solforico. Riscaldando il liquido, come vedete, si
colora in verde e sviluppa l'odore caratteristico di aldeide.

Dopo questi esperimenti noi dobbiamo dunque conchiudere che in questo
liquido vi è dell'alcool, e siccome prima non ce n'era nel sangue,
dobbiamo ancora conchiudere che l'alcool bevuto passa nel sangue, donde
viene portato in giro per tutto il corpo. Questo fatto che ho voluto
dimostrare sotto i vostri occhi mi permette di enunciarvi una legge
generale nello studio dei farmaci: che cioè, tutte le sostanze le quali
agiscono sul sistema nervoso devono essere assorbite e passare nel
sangue prima di poter far sentire i loro effetti. Un'altra legge pure
fondamentale nello studio dei medicamenti è questa: che tutte le
sostanze le quali agiscono eccitando le funzioni dei nervi e dei centri
nervosi, in un primo periodo e per piccole dosi, producono dopo un
effetto deprimente e narcotico per dosi maggiori. L'oppio, la morfina,
il cloralio, l'atropina e molte altre sostanze agiscono precisamente
come il vino.

L'alcool nel momento che penetra nella cellula e nei filamenti nervosi
ne ravviva le loro funzioni, li eccita e li stuzzica: ma passato questo
primo periodo di esaltamento, se continua ad aggiungersi nuovo alcool
alle cellule ed ai nervi, ne succede un periodo di stanchezza. La
presenza di questo corpo straniero all'organismo che imbratta il sangue
e diffonde i suoi vapori nella sostanza del cervello, modifica i
processi chimici, aumenta le resistenze ai movimenti nervosi e genera
quella forma particolare di avvelenamento conosciuta col nome di
ubbriachezza.

Gli effetti psicologici del vino verranno trattati nelle seguenti
conferenze dal più simpatico e dal più popolare degli scrittori
italiani, ed io mi guarderò bene dal toccare questo argomento; però
siccome fra i fisiologi credo di essere quello che ho fatto il maggior
numero di esperienze sulla circolazione del sangue nel cervello
dell'uomo, così mi permetterò di accennarvi qualcuna delle mie
osservazioni all'influenza del vino.

Vi esporrò il caso di una persona che aveva un'apertura nel mezzo della
fronte a traverso cui potevasi vedere nel cranio la superficie del
cervello. È un caso interessantissimo che studiai insieme al dottor De
Paoli, cui sono grato di avermi offerto un'occasione favorevole quanto
mai per completare certi studi sulla circolazione del sangue nel
cervello dell'uomo, di cui mi occupo da tempo con predilezione.

Circa 3 anni fa un operaio, per nome Bertino, mentre stava sotto il
campanile del suo villaggio fu colpito alla testa da un mattone sfuggito
dalle mani di un muratore che lavorava presso il tetto all'altezza di 14
metri. Bertino cadde al suolo come fulminato: ma fortunatamente dopo
circa un'ora riprese i sensi; e siccome era uomo molto robusto, guarì
rapidamente di questo colpo terribile. Infatti dopo circa un mese partì
da Fiano e venne a piedi fino a Torino per farsi curare. Quando lo
visitai col dottor De Paoli nell'ospedale di S. Giovanni aveva
un'apertura larga quanto un soldo nel mezzo della fronte sotto cui
vedevasi pulsare il cervello scoperto.

Tralascio di farvi conoscere minutamente gli apparecchi che costrussi
per studiare la circolazione del sangue nel cervello e
nell'antibraccio^[VII-2], perchè non è questo il momento di poter
fermarsi sui dettagli di un meccanismo. Vi presento solo questa
piastrella di guttaperca che venne applicata sul foro del cranio di
Bertino per chiuderlo ermeticamente. Il piccolo tubo di vetro che
attraversa la medesima faceva comunicare l'aria che stava in contatto
col cervello con un timpano a leva. Ogni dilatazione del cervello,
comprimendo leggermente l'aria chiusa nell'apparecchio, solleva la
membrana elastica del timpano registratore su cui poggia la leva; e
questa scrive le pulsazioni del cervello sopra un cilindro affumicato,
che gira con moto uniforme.

Il giorno 27 novembre 1877 stabilisco col dottor De Paoli di fare una
esperienza per vedere quale azione esercitasse il vino sulla
circolazione del sangue nel cervello. Gli applichiamo l'idrosfigmografo
sull'antibraccio destro, sulla fronte l'apparecchio registratore dei
movimenti del cervello, e scriviamo contemporaneamente il polso di
queste due parti del corpo.

Nella figura 1 la linea A rappresenta il polso dell'antibraccio. Ad ogni
battito del cuore la linea si solleva e subito dopo si abbassa, formando
nella discesa una seconda elevazione meno pronunciata. Le singole
pulsazioni non si dispongono su di una linea orizzontale.

In Bertino, come in tutti noi, durante la respirazione naturale e
tranquilla succede una diminuzione di volume delle mani e
dell'antibraccio, ed è precisamente nel principio dell'inspirazione che
la linea del polso si abbassa, come vedesi nei punti segnati colle
lettere _i_ _i_. A queste sinuosità ho dato il nome di _oscillazioni
respiratorie_.

La linea sottostante C venne scritta dal cervello. La forma del polso è
diversa, e vi diedi il nome di polso _tricuspidale_, perchè sulla
sommità di ciascuna pulsazione si osservano tre elevazioni più piccole.

   [FIGURA: Fig. 1. La linea A rappresenta il polso dell'antibraccio
   scritto contemporaneamente al polso del cervello. Le lettere _i_
   segnano il principio dell'inspirazione. Dove c'è il segno ↓α dico
   che si presenti un bicchiere di vino di Marsala a Bertino.]

L'influenza del respiro è meno evidente che nell'antibraccio. Mentre
Bertino rimane tranquillo e le due penne scrivono contemporaneamente il
tracciato A, C, dico in ↓α al dott. De Paoli di presentare un bicchiere
di Marsala a Bertino. Ed ecco che immediatamente le pulsazioni diventano
più grandi e si aumenta il volume del cervello. Noi vediamo da questo
esempio quanto i fenomeni del pensiero siano strettamente collegati coi
cambiamenti materiali dell'organismo. In un lavoro dove trattai più
estesamente questo soggetto^[VII-3], ho dimostrato che le funzioni più
nobili del sistema nervoso sono quelle che sono più schiave dei
mutamenti che succedono nel ricambio della materia.

Bertino era tranquillo, egli sapeva che si trattava di un vino squisito;
l'aveva prima gustato con noi e lo aspettava con desiderio. Nell'istante
in cui si allaccia alla sua mente l'idea del bere, ecco che subito
aumenta la circolazione del sangue nel cervello e si rinforza il polso
di questo organo. Per un fatto psichico che passò senza destare alcuna
emozione interna, che non si rivelò in alcun modo nell'aspetto esterno
di Bertino, noi vediamo prodursi un cambiamento notevole della
circolazione sanguigna negli emisferi cerebrali.

Bertino bevette in due volte circa 400 centim. cubici di vino Marsala.
Vi fu una prima modificazione del polso che osservasi sempre in tutte le
persone che bevono qualunque liquido: ma fu un fenomeno passeggero che
durò pochi secondi. Il polso del cervello ritornò per circa 10 minuti
normale e quindi incominciò lentamente a modificarsi. Dopo 15 minuti di
registrazione continua vedo che è assai più forte di prima. Il tracciato
che prima svolgevasi regolare ed uniforme, presenta di quando in quando
delle grandi ondulazioni, come si vede nella figura 2. Domandai a
Bertino come stava ed egli mi rispose che sentivasi caldo alla testa.
Vedendo che Bertino era divenuto irrequieto e che il tracciato del polso
bracchiale veniva spesso deformato dai movimenti del corpo, o delle dita
nel cilindro, levo il braccio dall'idrosfigmografo. Bertino ne fu
contentissimo e non finiva dal ringraziarmi malgrado che io lo pregassi
ripetutamente di star zitto per non guastare l'esperienza.

   [FIGURA: Fig. 2. Azione del vino sulla circolazione del sangue nel
   cervello dell'uomo. Ondulazioni del tracciato cerebrale osservate
   25 minuti dopo che Bertino aveva bevuto circa 400 centimetri cubici
   di Marsala e diceva di sentirsi venir caldo alla testa.]

Più tardi avvertì un leggiero capogiro, poi mi domandò se aveva le
orecchie rosse, perchè diceva di sentire una vampa stendersi sul volto.
La circolazione del sangue nel cervello era profondamente modificata. Le
ondulazioni frequenti e profonde accennavano ad una grande irrequietezza
del sistema vasale. Le pulsazioni erano tre o quattro volte più grandi
di prima. Quest'altezza straordinaria del polso cerebrale era dovuta in
parte ad un rilassamento dei vasi sanguigni di quest'organo ed in parte
all'impulso più forte del cuore.

Diciotto mesi dopo che io avevo fatto queste osservazioni su Bertino,
gli scrissi pregandolo di venire da me perchè desideravo vederlo. Egli
partì immediatamente, fece più di 25 chilometri a piedi e nel mattino
del giorno successivo era già nel mio laboratorio. Bertino era guarito
benissimo. L'apertura del cranio presentavasi coperta da una cicatrice
così salda che solo nelle forti espirazioni vedevasi coll'occhio un
leggiero movimento nel fondo della breccia. Riusciti inutili i tentativi
per scrivere il polso del cervello, presi un tracciato del polso
nell'antibraccio e subito dopo gli diedi 5 lire e lo mandai alla
trattoria qui dirimpetto pregandolo di mangiar bene e di bere meglio.

Il tracciato del polso preso coll'idrosfigmografo sull'antibraccio mi
aveva dimostrato chiaramente che Bertino era spossato dalla fatica, che
i suoi vasi sanguigni erano rilassati e molto deboli le contrazioni del
cuore. Egli aveva bisogno di rifocillarsi. È questo un grande vantaggio
dell'idrosfigmografo di rivelare tali particolarità nella forma del
polso che indipendentemente dal ritmo dei battiti cardiaci si può
distinguere facilmente solo guardando il tracciato del polso, se una
persona ha mangiato poco prima, o se pure è digiuna, e se digiuna, se ha
bevuto del caffè, oppure dell'alcool^[VII-4].

Alle 2 pomeridiane Bertino ritornò nel laboratorio. — Ricominciate le
osservazioni trovai che il polso nell'antibraccio aveva la stessa forma
di prima. Meravigliato che non si avverasse quanto avevo sempre
osservato sopra di me e sopra dei miei amici dopo la colazione od il
pranzo, mi venne il dubbio che egli avesse risparmiato le cinque lire.
Assicuratomi prima che l'idrosfigmografo e l'apparecchio per il polso
del cervello fossero bene in ordine, chiamai Bertino per nome e quindi
gli dissi con tono piuttosto risentito che non aveva mangiato. Egli
dovette essere stordito dalla sicurezza con cui gli feci quest'accusa:
divenne pallido in volto e mi disse che non aveva mangiato, perchè
sperava di ritornare a cena colla sua famiglia: quindi abbassò gli occhi
al suolo e mi accorsi poco dopo che aveva le orecchie vivamente
arrossate. Durante questa profonda emozione l'afflusso del sangue al
cervello divenne così forte che comparve improvvisamente un movimento
pulsatorio nel tracciato scritto col timpano registratore: e questo
movimento sincrono alle contrazioni del cuore si conservò per circa 30
secondi nella cicatrice che ricopriva il cervello.

          [FIGURA: Fig. 3. Polso dell'antibraccio a digiuno.]

Le figure 3 e 4 ci danno un esempio dell'influenza che il vino ed il
cibo esercitano sulla circolazione del sangue. A mezzogiorno ero ancora
digiuno quando scrivo il tracciato del polso nell'antibraccio
coll'idrosfigmografo (Fig. 3).

   [FIGURA: Fig. 4. Polso dell'antibraccio nella medesima persona
   dopo che mangiò due uova con un po' di pane e bevette due bicchieri
   di Marsala.]

Quindi mangio due uova con un po' di pane e bevo circa 220 centimetri
cubici di Marsala. All'una e mezzo scrivo nuovamente il polso ed ottengo
un tracciato così diverso dal primo che non ho bisogno di insistere con
parole per rilevarne la differenza (Fig. 4). Il polso che prima era
tricuspidale è divenuto catacrotico.

Il problema più importante riguardo all'azione fisiologica del vino è di
sapere se l'alcool sia un alimento; se il vino, cioè, può aggiungere
forza all'operaio che lavora, o se non sia altro che un veleno il quale
esalta, inebria ed abbrutisce l'uomo, gettando delle intere famiglie
nella disperazione, o nello squallore della miseria.

Ridotta ai minimi termini la questione sta tutta nel vedere, dove va, e
come si trasformi l'alcool che noi beviamo.

Per rispondere al primo quesito ho preparato qui un'esperienza. Ad un
coniglio iniettai dell'alcool etilico sotto la pelle, ossia dell'alcool
stillato dal vino, ed a quest'altro dell'alcool amilico che è stillato
dalle patate; quale si trova nell'acquavite di peggior qualità e li ho
messi ciascuno sotto un apparecchio che serve a raccogliere l'aria
respirata da questi animali.

Come vedete vi è qui un aspiratore che serve a rinnovare l'aria dentro
la campana di vetro sotto cui trovasi il coniglio. L'aria che servì alla
respirazione dell'animale attraversa un tubo curvo ad U pieno d'acqua, e
cede a questo liquido tutto l'alcool esalato dai polmoni.

Ho detto poco prima che l'alcool venne iniettato sotto la pelle: fu
questa una precauzione indispensabile per esser sicuri che l'alcool
trovato nell'aria espirata proveniva realmente dai polmoni. Se
l'avessimo amministrato nello stomaco non si avrebbe avuto questa
certezza. Voi sapete già che i medici preferiscono sempre di iniettare
sotto la pelle le sostanze che devono agire prontamente. Ora con questo
metodo noi abbiamo risparmiato ai conigli il gusto per loro dispiacevole
dell'alcool; ed aumentando la dose possiamo non solo ubbriacarli, ma
anche ucciderli, senza che abbiano mai bevuto.

L'acqua contenuta nel tubo ad U, traverso cui passò e si lavò l'aria
espirata dal coniglio cui si amministrò l'alcool amilico, tramanda
l'odore irritante proprio di quest'alcool, mentrechè l'acqua nel tubo ad
U del coniglio avvelenato con alcool etilico non ha alcun odore
caratteristico.

L'analisi chimica dimostra in quest'acqua appena qualche traccia di
alcool etilico; laddove l'alcool amilico venne eliminato in tanta copia
dai polmoni, che non fa mestieri di ricorrere ai reagenti per scoprirlo.
L'alcool iniettato sotto la pelle venne dunque assorbito: passò nel
sangue e giunto ai polmoni venne eliminato coll'aria espirata.

Queste esperienze si ripeterono con eguale successo anche
nell'uomo^[VII-5], e venne così dimostrato che se noi beviamo
dell'alcool puro stillato dal vino il nostro fiato non tramanda alcuna
esalazione di alcool: mentre se beviamo del vino comune e
particolarmente vino del Reno, di Bordeaux, del rhum, dell'acquavite
scadente, o peggio dell'alcool di patate, l'alito tramanda un odore
caratteristico e spiacevole: perchè tutti questi liquidi contengono
eteri ed alcoli difficili a bruciarsi che passano nel sangue e si
eliminano inalterati per la via dei polmoni.

Notate che questo coniglio il quale esalò una maggior quantità di alcool
per la via dei polmoni è quello che viceversa poi ne ricevette una
quantità minore. Nè si poteva fare altrimenti, perchè se io gli davo 2
grammi di alcool amilico, come diedi 2 grammi di alcool etilico a
quest'altro, l'avrei ucciso: perchè l'alcool amilico è circa 5 volte più
velenoso dell'etilico.

Crederei di fare un torto a voi tutti che dimostrate tanto interesse per
la scienza, se cercassi con inutili circonlocuzioni di tacere qualche
parola per semplice formalità, facendomi comprendere nella sostanza. No.
Dirò senza alcuna ricercatezza e col linguaggio severo della scuola che
per mezzo dell'orina si elimina una certa quantità dell'alcool bevuto.
Il prof. Lieben in questa stessa scuola che egli illustrò col suo nome
potè dimostrare per la prima volta che l'alcool passa nelle orine. Ecco
come abbiamo fatto l'esperimento seguendo il suo metodo. Uno di noi
bevette in poche ore due bottiglie di vino eccellente, di cui un amico
volle provvedere lautamente il mio laboratorio per gli studi e i
preparativi che si richiedevano per questa conferenza sul vino. Raccolti
circa due litri di orina, venne distillata ripetutamente a bagno maria
in modo da raccogliere solo le prime porzioni del liquido evaporato. Il
prodotto della prima distillazione venne stillato una seconda volta e
così si ottenne il liquido trasparente e simile all'acqua che sta chiuso
in questa boccetta, dove colla reazione del Lieben si dimostra
facilmente la presenza dell'alcool.

Però la quantità di alcool che si elimina per la via dei reni e dei
polmoni, è così piccola, che noi dobbiamo necessariamente domandarci a
cosa serva e come si trasformi la rimanente parte che resta
nell'organismo.

Il nostro corpo rassomiglia in alcuni riguardi ad una macchina a vapore,
che per lavorare consuma combustibile ed acqua, e che per funzionare e
muoversi logora eziandio le parti di cui è costituita. Nei muscoli ad
ogni contrazione, nei nostri nervi e nel cervello ad ogni sensazione e
ad ogni lavoro intellettuale, succede egualmente una combustione di
materiali ed un logoramento degli organi che funzionano.

Il sangue scorrendo continuamente in tutte le parti del corpo per
alimentare la fiamma della vita, spazza nello stesso mentre i più remoti
ripostigli del nostro organismo dalle fuliggini della combustione e
raccatta da per tutto i detriti del disfacimento per trasportarli ai
reni, dove li filtra e li rigetta all'esterno coll'orina.

Se noi raccogliamo il liquido emesso nelle 24 ore e lo trattiamo
convenientemente, si ricavano in media 24 grammi di questa sostanza
bianca e bene cristallizzata che ha ricevuto il nome di urea. Come
vedete dalla dose giornaliera di urea contenuta in questo vaso si tratta
qui di una quantità cospicua di materie solide che vengono emesse nelle
24 ore. E si noti che questi 20 grammi di urea ci rappresentano solo
l'azoto delle sostanze albuminose che vennero distrutte in un giorno nei
tessuti del nostro organismo.

Nel gennaio dell'anno scorso il dottor Munk fece a Berlino le seguenti
esperienze. Prese parecchi cani ed amministrò loro per alcuni giorni una
quantità di cibo tale che rimanesse costante la quantità di urea emessa:
quindi mescolò col cibo dell'alcool, adoperando alcune cautele
gastronomiche perchè gli animali non se ne accorgessero e determinava
ancora la quantità di urea emessa. Egli trovò che dosi moderate di
alcool, quelle che hanno solo un'azione eccitante senza ubbriacare,
diminuiscono la produzione di urea dal 6 al 7 %. Ciò vuol dire che
l'alcool adoperato con sobrietà può considerarsi come una sostanza
nutritiva perchè diminuisce e rallenta il consumo del nostro organismo.

Quando Munk amministrava dosi tali di alcool da produrre l'ubbriachezza,
od anche solo uno stato di depressione e di sonno, aumentava pel
contrario la produzione dell'urea ed in alcuni casi del 10 p. % sopra la
dose normale.

Citai subito le recenti esperienze di Munk, quantunque fosse già stato
preceduto da altri, per tralasciare tutta una lunga serie di
controversie di cui sono pieni i libri di chimica fisiologica su cui non
ho tempo di trattenervi. Sarei però ingiusto se non ricordassi le
ricerche del Liebig che rimarranno immortali nella storia del vino. Ecco
come egli si esprime in proposito nelle sue lettere sulla chimica.

«Quando un uomo che lavora e non si guadagna colle sue fatiche quanto
gli è necessario di alimenti, per cui possa intieramente restaurare le
sue forze ed attitudine al lavoro, una ostinata, inesorabile necessità
di natura lo spinge a ricorrere all'uso del brantwein; gli tocca di
lavorare, ma a lui, per l'insufficiente nutrimento, viene ogni giorno
mancando una certa quantità di forza per sostenere la fatica; il
brantwein, per l'azione sua sopra i nervi, gli permette di fare, a spese
del proprio corpo, riparo alla deficiente forza, per ispenderne così
oggi quella quantità che si sarebbe dovuta porre in risparmio pel giorno
successivo. È come una lettera di cambio sulla salute; una lettera di
cambio, che bisogna prolungare sempre, perchè mancano i mezzi di
saldarla; il lavoratore consuma il capitale invece degli interessi,
quindi segue in ultimo l'inevitabile fallimento del suo corpo»^[VII-6].

Le osservazioni fatte nell'armata prussiana hanno dimostrato che gli
affigliati alle società di temperanza quando sono chiamati sotto le armi
resistono assai meno alle marcie ed alle fatiche del campo. Come pure è
ammesso da tutti gli igienisti che se nella guerra del 1870 e 71 la
salute dell'esercito tedesco fu eccellente, questo si deve a ciò che
l'esercito invadente conquistava un paese vinifero.

Si è molto disputato intorno ai vantaggi e ai danni che può arrecar
l'alcool. Dopo che lo storico Macaulay rivolse la sua attenzione
all'influenza che potè esercitare sulla politica dell'Inghilterra il
caffè nel secolo XVII; molti domandano ai fisiologi se il vino, la
birra, l'acquavite agiscano sul carattere e sullo sviluppo intellettuale
delle varie nazioni.

Credo sia molto difficile per non dire impossibile di rispondere con
sicurezza ad una tale domanda; però, giacchè un mio amico accennò in
queste conferenze l'opinione del prof. Lombroso intorno alla
distribuzione geografica delle bionde e delle brune, dirò che ora
nell'Europa in generale sono cattolici i paesi del vino, sono
protestanti quelli della birra, e finalmente quelli che bevono
l'acquavite sono petrolieri o nihilisti.

Le osservazioni del fisiologo sull'azione del vino non possono
arrestarsi all'uso moderato di tale bevanda. Vi sono dei fenomeni più
gravi e non meno interessanti pel medico; vi è per disgrazia tutta una
serie di fatti che degradano la dignità dell'uomo, e da cui avrei
desiderato tener lontana la vostra attenzione, se non fossi obbligato di
parlarvene. Per vincere la naturale ripugnanza che ho nel trattare
questo argomento devo pensare alla compassione che desta in noi la vista
di tanti sventurati che si avvelenano coll'alcool. e al desiderio che
nasce spontaneo di sapere quali soccorsi si possano prestare nei casi
più gravi di avvelenamento per alcool.

La parola avvelenamento corrisponde qui alla designazione volgare di
ubbriachezza, in cui si distinguono due periodi; quello dell'eccitamento
in cui si è brilli, e quello successivo della prostrazione e della
narcosi.

L'espressione animata ed allegra del volto scompare poco a poco; il viso
diventa meno vivace, poi melanconico e quindi inebetito. Alla mobilità
grande nei lineamenti della fisionomia, succede un rilassamento completo
nei muscoli della faccia. Gli angoli della bocca si abbassano come nel
volto di un paralitico. La fronte prima maestosa e serena si corruga, si
nasconde sotto i capelli arruffati, si ricopre di un sudore viscido e
freddo.

Nel primo periodo l'occhio è lustro, perchè è più copiosa la secrezione
delle lacrime che lo inumidiscono. Nel secondo periodo lo sguardo è meno
espressivo e meno sicuro. Le palpebre si socchiudono, sono pesanti,
perchè il muscolo che le solleva è stanco. Gli oggetti sembrano doppi;
perchè i muscoli che muovono il globo oculare non si corrispondono più
nelle loro contrazioni. Compare una nebbia a traverso cui si discernono
confusamente le cose.

È celebre nella storia dell'Inghilterra un grande uomo di stato, che
dopo aver bevuto lautamente fino a sera insieme ad un altro deputato,
volle egualmente prendere parte alla seduta del Parlamento. Giunti alla
Camera dei Comuni presero entrambi posto nei loro stalli e dopo alcuni
istanti di attenzione l'uno esclamò: come va che non vedo il presidente?
Ora capisco, disse l'altro, perchè io ne vedo due.

Nell'ultimo periodo l'occhio è immobile, come di vetro, fisso e smarrito
nel vuoto.

La voce prima vibrata e piena, è ora fessa, incerta, stonata. La lingua
paralizzata, balbuziente, incapace di vibrare e di fremere quando si
pronuncia la _r_.

L'ubbriaco parla forte e risponde a sproposito, perchè non sente bene,
nè la sua voce, nè quella degli altri. Nelle orecchie ha un susurro, un
tintinnio, un bisbiglio che lo insegue dovunque.

Nell'ubbriachezza livida si digrignano i denti, con uno scricchiolio che
abbrividisce. Le labbra annerite si atteggiano talora convulsivamente ad
un riso sardonico. L'esalazione del fiato diffonde intorno un odore
alcoolico grave, ributtante. Respirando lungamente colla bocca aperta,
le fauci diventano asciutte, la lingua rasposa, ricoperta di una patina
biancastra. La sete è ardente, inestinguibile. La respirazione
tranquilla, superficiale; spesso l'espirazione diventa più rapida
dell'inspirazione; si fa rumorosa; l'ubbriaco sbuffa.

Mentre si sprofonda nel sopore può mandare gemiti e lamenti interrotti
come un uomo che piange. Talora dei sogni morbosi si rivelano con parole
dimezzate e confuse che muoiono sulle labbra.

La respirazione nei casi più gravi può divenire intermittente,
irregolare; con arresti periodici che prolungandosi diventano la causa
precipua della morte.

Nei bambini i sintomi dell'ubbriachezza alcoolica rassomigliano a quelli
dell'avvelenamento con sostanze corrosive che siano penetrate nello
stomaco.

Il cuore è di tutti gli organi quello che risente meno l'azione
dell'alcool. Il polso delle arterie prima forte, frequente, duro: dopo è
debole, lento, cedevole. L'abbassamento della temperatura può
raggiungere 2° o 3° centigradi.

Quanto ai movimenti dirò che chi è brillo prova la sensazione piacevole
di essere più leggiero: il suo gesto è concitato: balla e salta
volentieri.

Il primo disordine nella coordinazione dei movimenti compare nelle parti
più lontane dal cervello, nelle gambe, che cedono sotto il peso del
corpo, vacillano e si incrociano.

L'ubbriaco cammina a stento, non può seguire una direzione costante, ma
dondola, serpeggia, barcolla: è incapace di voltarsi con movimento
improvviso senza perdere l'equilibrio: si trascina lungo i muri ed è
specialmente nella discesa dove più facilmente inciampa e stramazza al
suolo.

In un libro tedesco ho trovato una giaculatoria scritta nel 1450 con cui
si benediva il vino. Questa preghiera della sbornia finiva presso a poco
colle seguenti parole:

«Difendimi, o Dio, anche dal cattivo incontro dei cespugli spinosi
quando dovrò scendere giù nella valle. Reggimi sulle mie gambe; fa che
io ritorni allegro a casa dalla mia donna, ed io sappia tutto ciò che
essa vorrà domandarmi: ed ora salvami, o Dio, da una sconfitta»^[VII-7].

L'effetto paralizzante del vino si diffonde poco per volta alle braccia.
Le mani tremano, l'ubbriaco è meno destro nel mescere. Ne vidi uno che
per accendere un mozzicone sciupò un'intera scatola di solfanelli,
scottandosi il naso e le labbra ed abbruciandosi i baffi, senza che la
fiamma potesse arrestarsi un momento sotto la punta del sigaro.

Ma più degradante è lo stato di un uomo affogato nel fumo di una taverna
che non sa più dove abbia la bocca e porta incerto il bicchiere sotto il
mento per versarsi il vino sul petto. La testa ciondola da tutte le
parti, perchè i muscoli del collo non la reggono più sulla colonna
vertebrale. Basta tagliare i muscoli dell'occipite ad un cane perchè
esso prenda immediatamente l'aspetto e l'incesso di un cane ubbriaco.

Nelle persone molto eccitabili compaiono degli accessi maniaci come di
pazzia convulsiva. Oppure si manifesta improvvisamente una depressione
profonda cui succede un collasso inquietante. È così che alcune persone
cadono al suolo e sono per lungo tempo incapaci di muoversi.
Nell'inverno questi ubbriachi abbandonati a loro stessi muoiono pel
freddo. Alcuni altri nella stagione meno rigida essendo rimasti per
oltre 24 ore nella medesima posizione tenendo un braccio schiacciato
sotto il peso del proprio corpo, perdettero dopo la mano per cancrena ed
ebbero tutto il braccio edematoso.

L'ubbriaco si addormenta con facilità, il suo sonno è grave, russante:
chiamandolo per nome, scuotendolo non si desta, spruzzandogli con acqua
il viso apre gli occhi istupiditi e rimpiomba nel suo intontimento.

Spesso si trovano questi ubbriachi distesi al suolo, insozzati negli
avanzi dell'orgia, col pallore della morte sul volto. Sollevati cadono
colle braccia e le gambe penzoloni come un cencio bagnato. La
sensibilità della pelle è scomparsa. Il naso, le mani, i piedi sono
freddi. La respirazione sempre più debole non basta più ad alimentare la
fiamma della vita.

L'acido carbonico che si accumula nel sangue, perchè non può venire
eliminato, dà alla pelle delle mani e del volto un colore paonazzo, ed
aggrava precipitosamente lo stato della narcosi alcoolica. Si produce
così un secondo avvelenamento che può riescire fatale.

Noi siamo giunti agli estremi aneliti di chi si ammazza coll'alcool; a
quell'ultimo confine della vita dove la mano abile di un medico può
ancora salvare l'ubbriaco dalla morte per mezzo della respirazione
artificiale. Ma se tarda il soccorso incomincia l'agonia e si spegne
lentamente la vita per asfissia, o per paralisi del cuore.

Per fortuna questi casi sono rari e l'ubbriachezza fa minor strage in
Italia che altrove. Noi siamo per testimonianza degli stranieri il
popolo più sobrio e frugale fra le nazioni civili. Ed è quindi con vera
soddisfazione che dopo aver sentito terminare parecchie delle precedenti
conferenze col dire che noi dobbiamo imitare i francesi nella
fabbricazione del vino, che dobbiamo imitare i popoli d'oltre Alpi nel
commercio del vino, che dobbiamo imitare gli stranieri nella coltura
della vite, posso ora conchiudere che non dobbiamo imitare le nazioni
più civili nell'abuso del vino, ma perseverare in quella sobrietà ed in
quella frugalità che sono doti meritamente apprezzate in molta parte del
popolo italiano.

[VII-1] J. RANKE, _Grundzüge der Physiologie des Menschen_, 1872, pag.
177.

[VII-2] A. MOSSO, Sulle variazioni locali del polso nell'antibraccio
dell'uomo. _R. Accademia delle Scienze di Torino_, novembre 1877.

— Sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo. _Atti della R.
Accademia dei Lincei_, 1880.

[VII-3] _Opera citata_, Sulla circolazione del sangue nel cervello
dell'uomo.

[VII-4] A. MOSSO, _Sulle variazioni locali del polso_, pag. 33.

[VII-5] BINZ, Die Ausscheidung des Weingeistes durch Nieren und Lungen.
_Archiv f. exp. Path. u. Pharmakologie_, VI. B., pag. 287.

[VII-6] Lettere prime e seconde di Liebig tradotte da F. Selmi. Torino,
1853, pag. 313.

[VII-7]

    Und beschirm' mich auch vor dem Strauchen,
    Wenn ich die Stieg' hinab muss tauchen,
    Dass ich auf meinen Füssen bleib'
    Und fröhlich heim geh' zu meinem Weib,
    Und alles das wisse, was sie mich frag,
    Nun behüt' mich Gott vor Niederlag.

                     _Weinsegen_, HANS ROSENBLÜTH.



                             _G. GIACOSA_
                                   —
                           I POETI DEL VINO

           (_Conferenza tenuta la sera delli 8 marzo 1880).


      _Signore e Signori_,

Il titolo della mia conferenza non combina esattamente coll'argomento di
essa nè coll'ordine che intendo seguire. Meglio che: I poeti del vino,
l'avrei chiamata: Il Vino nei Poeti, se questo secondo titolo non
implicasse una certa idea di capacità e di recipienza e se per esso i
poeti non fossero convertiti in altrettanti orcioli o botti, a grande
scapito della propria dignità e del rispetto dovuto alle muse. Vi sono
certamente dei Poeti, i quali si sommettono volontariamente a questa
_Capitis Diminutio_, ed affogano nel vino le vere o le vantate amarezze
credendo forse che a vederci doppio ci si vegga meglio; ma, diciamolo
subito, questi non fanno il numero maggiore. Molti hanno cantato il vino
e non si conosce di loro che ne bevessero; di taluni anzi, come del
Redi, fu scritto che erano astemii; dei più felici descrittori di
ubriacature (e parlo dei moderni, ai quali sarebbe quasi impossibile
sottrarsi alla vigilanza biografica dei giornali) non ho mai inteso dire
che descrivessero per esperienza propria, e invece, cosa ben più
rimarchevole, parecchi di quelli che passarono ai posteri per
incorreggibili beoni e morirono arsi dall'alcool, non fecero mai nei
loro scritti il menomo cenno del vino. Ciò dimostra che la sincerità
poetica, non va assomigliata a quella di un testimone chiamato ad
asseverare davanti il giudice la verità o la falsità di un fatto
determinato quale gli risulta di certa scienza. Guai se i poeti
dovessero veramente aver vissute tutte le poesie che hanno scritto, e se
l'ispirazione non dovesse essere altro che il frutto della certa
esperienza dei sensi. La sincerità del poeta è tutta oggettiva e suo
ufficio è di _mostrare_ e non di _aver provato_ o _veduto_.

Dopo questo che ho detto, viene ovvio, che si dividano i poeti del vino
in due classi diverse: 1ª quelli che lo hanno cantato, 2ª quelli che
lo hanno bevuto. La prima comprende i poeti dei quali per udire
menzionato il vino, bisogna cercare le opere; la seconda quelli, che gli
fecero una larga e trista parte nella storia della propria vita. La
prima è compagnia, non sempre allegra, nè serena (il vino fu invocato
più spesso consolatore e lenitore d'affanni, che non datore di gioia),
ma non lascia mai nell'animo quel senso di pietà e di sgomento che vi è
generato dalla seconda. La prima appartiene alla storia del pensiero
umano, la seconda a quella delle umane miserie, e dico miserie, e non
brutture, perchè mi propongo di mostrarvi in seguito, che nella vita dei
poeti, il vizio del bere, non fu sempre così vergognoso come
all'apparenza potrebbe sembrare.

Vediamo dunque di seguire il vino via per le menti dei poeti, e
cerchiamo che pensieri vi accenda, di che immagini si vesta, come parli,
con quali nomi si chiami, come sia invocato o vituperato, e che luogo
tenga nelle opere loro. Qui la domanda se il vino sia un bene od un male
non occorre. Tutto ciò che è capace di commuovere fortemente l'anima
umana, e di farne scattare quella fiamma o irradiare quella continua
luce che si chiama poesia, al giudizio di chi studia i poeti deve
apparire come un bene, se non in se stesso, almeno in rapporto colla
mente del poeta. Chi di noi oserebbe rimpiangere che vi sia stata la
guerra di Troja, quando senza di essa non sarebbero i due più grandi
poemi del mondo? L'esempio è solenne, ma di tanto più eloquente. I vizi
e le viltà umane ci hanno dato la divina commedia; il più grave peccato
d'orgoglio che siasi commesso sotto le stelle, anzi fra le stelle, ha
ispirato al Milton il suo caldo poema; si può quasi asserire, che la
storia dell'arte è la storia delle maggiori colpe o per lo meno dei
maggiori errori dell'uomo. Il vino, come l'amore, deve dunque, al punto
di vista dell'arte, esser tenuto per un bene; che se non sale
all'altezza dell'amore, ciò forse deriva da che fu meno nocevole di lui
e ad ogni modo da che sono in maggior numero ed in età più cara alle
muse gli amanti che non i bevitori.

Amante e bevitore sincero, Anacreonte, non disgiunge mai Venere da
Bacco, e li chiama belli tutti e due nell'istessa ode, anzi nello stesso
verso:

    E Amor, dai capei d'oro,
    Quando letizia fa' giocondo al vecchio
    Il finir delle cene,
    Con Vener bella e il bel Lieo sen viene.

Anacreonte è dei pochissimi che non hanno fatto il vino nemico
all'amore; li invoca insieme, se ne ispira ad un tempo, Bacco lo fa
seguace d'amore, amore lo fa ardere di sete; svergognato vecchio e
squisitissimo poeta, colla grazia impudente che ingentilisce persino le
più abiette codardie, egli invoca ed esalta le orgie e non va mendicando
loro la facile e di poi solita scusa delle angoscie sofferte e della
cercata dimenticanza:

    Ed io voglio de' balsami
    Tra le soavi e care
    Fragranze e i colmi nappi e l'allegria
    Voglio di Bacco e dell'amica mia,
    Piena la mente e il petto infurïare.

Infuria spesso Anacreonte, e sfrontato e pazzo com'è, racconta di altri
che infuriarono prima di lui, ma per ben diverse cagioni. Infuriarono
Alcmeone ed Oreste, poichè le loro madri uccisero, io infurio bevendo.
Infuriossi Alcide fra gli archi e le freccie, io infurio bevendo.
Infuriò Aiace roteando la spada,

    Io questo nappo abbranco
    E le chiome inghirlando.
    Arco non stringo e non ho spada al fianco,
    Onde più che non soglio
    Infurïare io voglio.

Un'altra volta prega Vulcano, che gli faccia una tazza d'oro, quanto sa
profonda, e che su quella gli figuri un suolo fiorito, e tralci ombrosi,
e Amore in un tino, intento a pigiare l'uva matura, e Bacco e Batillo
con loro. Un'altra volta scrive:

    O fanciulle, porgete da bere
    Ch'io vo' ber finchè bastami il fiato.
    Ho bevuto, ma voglio ribere,
    Che tutto ardo anelante, assetato.

Quando gli viene la malinconia dei pensieri gravi, ogni più lugubre
riflessione lo rimena al suo tema favorito; non c'è verso che nominando
la morte, quel vecchio che l'ha così vicina, si rattristi durevolmente,
anzi dall'idea della tomba imminente ricava nuovo stimolo ad amare ed a
bere.

    Venga a suo tempo Morte. Io vo' scherzare,
    Vo' rider, vo' saltare
    Insino all'ultim'ore
    Con Bacco, e con Amore.

Ai giovani che danzano e tracannano vino, come l'età spensierata lo
comporta, egli lancia spesso, non so se le più superbe o grottesche
disfide.

    Del ber con voi garzoni io vengo a prova.

E fin qui passi, e li avrà forse anche superati, ma aggiunge:

    E se danzar vi giova,
    Invece dello scettro un otre abbranco,
    Nè duopo ho della canna
    Che mi puntelli il fianco.

Dio sa che ruzzoloni sui prati fioriti e sotto i pampani ombrosi!

Il breve tempo che mi è concesso e più l'onesta compagnia mi trattengono
da nuove citazioni, dalle quali apparirebbe pur sempre meglio la
meravigliosa pieghevolezza di quell'ingegno sottile e raffinato e l'arte
squisitissima che gli fa ingentilire le più repugnanti laidezze. Il
vizio non ebbe e non avrà forse mai più un così elegante apologista.
Anzi, anche noi nati e cresciuti in un mondo così diverso dal suo, ed
avvezzi a tante maggiori ipocrisie, per chiamarlo vizioso, dobbiamo
allontanarci dall'opera sua, come si fa di certi quadri per poterne
abbracciare l'insieme. Fino a che la musica dei suoi versi ci carezza e
la limpida eleganza delle sue immagini ci seduce, non siamo coscienti
del fondo melmoso in cui egli diguazza: il poeta ci afferra, si
impadronisce del nostro senso artistico a scapito del morale, ci
costringe ad un'ammirazione calda, spensierata, ci eccita e ci sfibra,
ci infonde la deliziosa mollezza dei suoi costumi e del suo cielo, e
tutto ciò semplicemente e quasi candidamente. Egli è che il suo vizio
non è mai volgare, ed i godimenti che egli invoca e sublima si
completano attingendo a mille sorgenti di vera poesia. Ad un verso
bacchico, segue spesso un verso pieno del più intimo sentimento della
natura, un vero quadro di paesaggio in piccolissime dimensioni. Il sole
è gran parte delle sue gioie, la freschezza dei luoghi ombrosi è
espressa con immagini evidentissime, egli si ubriaca ed ama a suon di
cetra in mezzo a danze ed a cori.

Mi sono dilungato a parlarvi di Anacreonte perchè si può ben dire che
egli fu il vero ed anzi il solo poeta del vino. Dopo di lui, passeranno
molti e molti anni, seguiranno i più gravi fatti che la storia
comprenda, e converrà che la civiltà che lo produsse si sfasci, che se
ne prepari una nuova e che questa nel suo inizio ecceda in
manifestazioni ascetiche, perchè appariscano come una rivolta del
sentimento e del diritto umano i canti bacchici dei Goliardi, dei quali
vi parlerò in appresso.

I Latini cantarono tutti il vino, ma questo non tenne nelle opere loro
nè il primo nè il secondo posto. Virgilio si può dire che lo nomini
appena: il Bacco che egli invoca al principio del secondo libro delle
Georgiche, più che il Dio del vino, è il Dio della vendemmia, un nume
agreste, anzi agricolo, adorato in misura delle ricchezze che largisce:

    Huc pater o Lenaee (tuis hic omnia plena
    Muneribus; tibi pampineo gravidus autumno
    Floret ager, spumat plenis vindemia labris).

I poeti lirici naturalmente ne discorrono di più ed in modo più
soggettivo, e vediamo Orazio menzionarlo parecchie volte con parole che
ci fanno sentire chiaro in qual conto lo tenga, tanto che lo mette fra i
grandi beni della vita e ce lo nomina ogni qual volta parla
dell'abbandono che per morte si farà di essi. Però la ingenua semplicità
di Anacreonte è già svanita e molte volte l'inno bacchico assume un
carattere solenne e religioso che ci allontana dall'idea pratica del
vino. Anche la schiettezza si perde. Orazio, nell'ode ad Apollo, dice
che bastano ai suoi festini le olive, la cicoria e la malva, piatti
magri come vedete; ma la sua cantina è più ghiotta di lui e gli fornisce
tali vini che stonerebbero troppo con quei modesti alimenti. Vediamo già
qualche poeta diventare sentimentale e parlare del vino in tono di
amarezza. Le orgie non sono più così spontaneamente gioconde, così
spensierate come quelle di Anacreonte. Sono anzi molte volte volute,
cercate, con uno scopo determinato, estraneo ad esse. L'ubriachezza non
è più un fine, ma un mezzo, il mezzo per giungere ad un fine ben più
triste e grave: l'oblio.

Sentiamo Tibullo. Egli comincia un'elegia invocando Bacco perchè lo
assista nel dolore poichè:

    Saepe tuo cecidit munere victus Amor
    Spesso per opra tua fu vinto Amore,

e la finisce dicendo:

    Venit post multos una serena dies
    Viene alfin dopo molti un dì sereno,

e quel giorno sereno vedrà il poeta briaco fradicio.

Ecco qui il vino nemico d'amore, anzi antidoto d'amore, ed è questa una
parte che d'ora in poi gli toccherà fare di sovente, e come tale sarà
invocato da quasi tutti i poeti soggettivi, locchè prova che i poeti
tengono l'amore in conto di peggiore flagello che non sia l'ubriachezza.

Ci sono però le eccezioni. Ovidio insegna il modo di farlo complice
d'amore; e parlo altrettanto delle complicità fisiologiche a cui
alludevano le vittorie e le sconfitte accennate dal mio amico il prof.
Mosso, quanto di vere e proprie complicità, che danno aiuto di
circostanze, di fatti visibili, estrinseci, maliziosi, comici, usati in
tutti i tempi e credo presso tutti i popoli civili.

Qui vi domando larga licenza di citazioni che toglierò dall'Arte
amatoria.

Dopo aver detto dei festini che dànno facile occasione di colloquii
amorosi, Ovidio segue a questo modo:

«Là spesso l'amore, imporporato stringe fra le tenere braccia le anfore
di Bacco. Appena le sue ali sono imbevute di vino, Cupido, insonnito,
rimane fisso al suo posto, ma poi scuote velocemente le umide penne, ed
è pure nocivo avere il petto così spruzzato d'amore. Il vino dispone gli
animi, e li fa accensibili, e diluisce le cure. Allora sovente le
fanciulle rapirono il cuore dei giovani. Venere col vino, è fiamma con
fiamma. Allora, non dar troppa fede alla fallace lucerna, al giudizio
della bellezza la notte ed il vino non conferiscono».

E basti per la fisiologia. Ma più sotto, sono veri ammaestramenti che
egli ricava dal vino.

«Quando dunque godrai dei doni di Bacco e una donna sederà accanto a te,
sullo stesso triclinio, scongiura dal padre Nittileo e dai notturni
sacrifizî, che non comandino al vino di salirti al capo. Là potrai con
velate parole aver licenza di dir molte cose, che ella intenderà esserle
dirette. Una goccia di vino ti basterà per segnare sulla tavola emblemi
dove essa leggerà la prova del tuo amore. Rapiscile primo, la coppa che
fu toccata dalle sue labbra, e da quella parte dove essa bevette, bevi.

«Ed ora apprendi la giusta misura che devi tenere bevendo, ed è che la
mente ed i piedi facciano ciascuno il suo ufficio. La tavola ed il vino
generino allegrezza; se hai voce, canta, se sei snello, salta, e per
quali doti tu piaccia, vedi di piacere. Come la vera ebrietà nuoce, così
giova la simulata. Fa che la tua subdola lingua mandi incerta suoni
scilinguati, cosicchè a quanto dirai e farai di un po' lesto, si
attribuisca per sola causa, il soverchio vino. Ed augura alla tua donna
ogni bene, ed ogni bene augura al di lei marito, ma, in tuo cuore, al
marito prega ogni malanno».

Sono versi scritti circa duemila anni fa, in piena civiltà pagana, ed in
questi due mila anni, non abbiamo imparate di gran malizie, che Ovidio
già non sapesse adoperare e suggerire. Ci guardiamo forse dallo spandere
vino sulla tavola, ma se ci capita beviamo volentieri alla coppa dove
bevette la donna del nostro cuore, e di quella vecchia gherminella,
andiamo così superbi come se l'avessimo inventata noi. E il brindisi al
marito, se un disgraziato autore drammatico lo incastonasse in una
commedia, che orrore! e quanto si griderebbe alla novità scandalosa.
Novità di duemila anni a volerle derivare dal poeta degli Amori; ma non
ne avrà contati altrettanti al tempo di Ovidio?

Volevo tacere dei poeti Greci e dei Latini, un po' per scrupolo di
coscienza, un po' perchè nello spazio di un'ora è impossibile darne a
chi non li conosca neanche la più elementare idea. E chi li conosce me
ne insegna. Li ho nominati, perchè dopo di loro, se togliamo i canti dei
Goliardi, il vino poeticamente decade. Essi avevano avuto l'accortezza
di personificarlo in un Dio, di dargli una vera corte di minori Dei e
Semidei, e di farlo centro ad una grande e poetica leggenda. Bevendo e
cantando di lui, i poeti pagani pontificavano, locchè non può seguire
dei Cristiani. Bacco, Lieo, Bromio, è spodestato, il suo nome non si
scrive più coll'iniziale maiuscola, e discende al grado di nome comune:
il vino; i suoi misteri diventano misteri di taverna, i pontefici,
briaconi, i riti hanno nei nostri vocabolari delle voci triviali: cotte,
sbornie, bertuccie, o che so io; e quando tornano di moda le rifritture
classiche i poeti, che vogliono risuscitare gli Dei morti da secoli,
riescono pesanti e pedanti e ci fanno dormire.

Questa degradazione subita produce più effetti che a prima vista non
paia. Osservate che i poeti pagani, tutti dal più al meno, hanno inni od
invocazioni a Bacco, anche i maggiori, anche nella più solenne forma di
poesia, nell'epica. Cercate invece in Dante, voi non trovate accennato
il vino se non per incidente:

    Guarda il calor del sol che si fa vino,
    Giunto all'umor che dalla vite cola;

e la parola ebbrezza, trovate innalzata ad esprimere sensazioni lontane
le mille miglia del vino:

    Ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso
    Dell'universo, perchè mia ebbrezza
    Entrava per l'udire e per lo viso,

oppure:

    La molta gente e le diverse piaghe
    Avea le luci mie sì inebriate,
    Che dello stare a piangere eran vaghe.

E così nel Petrarca.

Una sola volta nell'era Cristiana troviamo dei poeti che veramente si
possono chiamare Bacchici, e questi sono i Goliardi.

Gli eruditi disputano intorno all'etimologia della parola Goliardi.
Alcuni la derivano da _Gula_, _Gulosus_, altri da _Golia_. Basti sapere
che così si chiamavano verso il dodicesimo secolo gli scolari che
peregrinavano per le città d'Europa, avidi nello stesso tempo di scienza
e di piaceri. Il professore Bartoli ha scritto un prezioso libro
intitolato: _I precursori del rinascimento_, nel quale è maestrevolmente
ritratta la fisonomia di questi scapigliati e liberissimi poeti erranti.
I loro canti non hanno nome d'autore, singolare caratteristica delle
opere di tali confraternite, ad una delle quali dobbiamo meravigliosi
monumenti architettonici, lavoro di artisti anonimi ancor essi. Chissà
se gli ultimi Goliardi non s'imbatterono, via per le taverne o per le
scuole d'Europa, colle prime comitive di questi costruttori di
cattedrali, e chissà se non appresero loro i proprii canti d'amore o di
baldoria. A giudicare dalle intime somiglianze che si rilevano nelle
opere diverse, l'ipotesi non può dirsi arrischiata. Su per le guglie ed
i frastagli delle cattedrali, risuonarono forse in cadenze monotone le
lodi del vino e dell'amore, ed accompagnarono l'opera degli scalpelli
che eternavano nella pietra le pazze bizzarrie di quei cervelli
libertini. Le scolture e gli intagli raffiguranti scimmie mitrate o
sconcie e ridicole pose di monache e frati, tutte le grosse e larghe
satire sgorgate d'un getto continuo da quelle menti e da quelle mani, si
ispirarono forse alle strofe largamente gaudenti, alle ghiotte e robuste
invocazioni dei canti Goliardici.

Io ne ho tradotti alcuni in versi italiani, studiandomi di rimaner
fedele al metro di sacrestia in cui sono scritti e dal quale ricavano
tanta originalità.

Eccone uno, intitolato: _Ave vinum_.

    Vino buono, vin soave,
    Lieve ai buoni, ai tristi grave,
    Di dolcezza sapor, ave
                     Mondana letizia.
    Ave eletta creatura
    Che sgorgò di vite pura,
    Ogni mensa fia sicura
                     Nella tua potenza.
    Ave raggio del vin chiaro,
    Ave gusto senza paro,
    Non voler mostrarti avaro
                     Di virtù che inebria.
    Ave amabil per colore,
    Ave aulente per odore,
    Ave fonte di sapore
                     Della lingua vincolo.
    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
    Lieto il ventre dove entravi,
    Lieta lingua che rigavi,
    Lieta bocca che tu lavi
                     E beate labbra.
    Deh, preghiam, vino, qui abbonda,
    Per te il desco si feconda,
    Noi con voce alta e gioconda
                     Canterem di giubilo.

Il metro di quest'inno ci fa supporre lo si cantasse sul ritmo degli
inni della chiesa, locchè serviva a stimolare col furore della
profanazione la grossa allegria delle parole. Bisogna rappresentarsi
colla fantasia la vita che menavano quei poeti erranti per comprendere e
gustare l'intima essenza delle loro canzoni. La ragione si acconcia
difficilmente ad accettare per vero e storico il loro vagabondaggio. Che
disagi, che traversie, che pericoli, che fatiche non dovevano incontrare
peregrinando attraverso l'Europa. Le distanze erano immense, e non è a
dire che percorressero un solo stato: da Parigi a Bologna, da Bologna a
Tolosa o a Salamanca e di là a Salerno. L'Europa era allora verdissima
per foreste senza fine, fitte, propizie agli agguati, popolate di belve
feroci e di uomini più feroci delle belve. Le strade poche e disagevoli,
ad ogni nuova castellania, era dovuto un diritto di transito, ogni
ponte, ogni guado era gravato di pedaggi, e che strane taglie! Si doveva
in alcuni luoghi pagare un danaio per ogni deformità del corpo, o
magagna che il pedaggiere scoprisse nel passeggiero. Certamente dalle
tasche degli scolari, non si mungevano troppi quattrini, ma allora la
taglia si risolveva in opere. Gli istrioni, i giullari e menestrelli
dovevano far giuochi e galanterie, il pellegrino cantava una romanza, il
moro gittava in aria il turbante, il giudeo doveva porsi i calzoni in
capo e recitare un _pater_ nel dialetto del paese, le donne di mala vita
erano abbandonate alla discrezione del guardiano dei cani. Convien
riflettere che quegli infaticabili pellegrini della scienza erano
giovani, dotti, la mente sveglia per l'esercizio continuo e vario di una
dialettica sottilissima, curiosi, coll'occhio volto a tutte le cose,
risoluti a cogliere della vita quanti più frutti potessero. Che tesori
di satira non dovevano accumularsi nella loro fantasia. Entrando
dapertutto, conoscevano a prova la poca fede dei cavalieri,
l'incontinenza delle castellane. Sapevano che molti paladini, fiore di
cortesia e di cavalleria, vivevano a spese della propria amanza e quindi
del di lei marito, che molte castellane si concedevano talvolta, non
richiesto dono, a qual si fosse venturiero, che battesse per ricovero
alla porta del castello. Tutto il corpo feudale appariva bacato ai loro
occhi, ed essi si avezzavano a ragionare non solo delle alte scienze,
materia al _Trivium_ ed al _Quadrivium_, ma delle cose quotidiane, delle
condizioni si può dire politiche e sociali d'Europa.

Quando il male esiste, ragionare di esso, significa accorgersi che è
male, ed ecco quindi il fatto della odiosa dominazione spogliato di ogni
apparenza di diritto, e divenuto perciò doppiamente odioso. Meno svegli,
essi avrebbero cercato rifugio nella chiesa, ma anche qui il baco aveva
corroso ogni più sano frutto. Leggete gli antichi novellieri, ed i poeti
e le raccolte dei Fabliaux, minutissimi documenti della vita d'allora e
vedrete quanto poco esemplari fossero gli ordini religiosi. Allora, un
lavoro corroditore, rapido, violento, sbarazza le loro menti e le loro
coscienze di ogni rispetto e di ogni credenza. Abbastanza accorti per
vedere la corruzione dei ministri della chiesa, il loro ingegno non era
abbastanza elevato per separare l'essenza della religione dall'esercizio
di essa, e tanto meno per crearsi razionalmente un Dio, giusto e buono,
secondo il Vangelo. Di qui l'assoluta miscredenza delle opere loro. Gli
Dei cominciano allora a morire, e questi che pur si chiamarono Chierici
furono i primi atei della nuova storia. La piena fioritura di quelle
menti si espande in disordine e si getta là dove trova più sicuro
pascolo, nei godimenti materiali. Qualche volta morde e flagella con
satire acutissime, ma queste non ci riguardano. A noi importava spiegare
come si originasse in tempi di tanta schiavitù, e di tanto ascetismo,
una poesia così libera e gaudente. La taverna era il solo rifugio aperto
a quelle menti ribelli. La tavola abbondante ed il vino a botti, li
compensavano di tutte le gioie che erano loro negate ed a cui avevano
diritto. Sentiteli come esaltano il bere:

    Bee madonna, bee messere,
    Beve il chierco, bee l'arciere,
    Beve questo, beve quella,
    Beve il servo coll'ancella,
    Beve il lesto, beve il greve,
    Beve il bianco, il negro beve.
    Beve il fisso, beve il vago,
    Beve il rude, beve il mago.

    Beve il povero e il malato,
    L'esulante e l'ignorato,
    Bee chi nasce, bee chi muore,
    Beve il parroco e il seniore,
    Bee il fratello e la sorella,
    Bee la nonna vecchierella,
    Bevon borghi, bevon ville,
    Bevon cento, bevon mille.

E come lo gustano il vino, e come l'hanno studiato, nelle sue differenze
essenziali e negli effetti che produce:

    Il vin dolce e glorïoso
      Rende l'uom pingue e carnoso
               E allarga lo stomaco.
    Di sapor, maturo, è pieno,
      Ed assai ci torna ameno,
               Perchè i sensi stimola.
    Il vin forte, il vino puro
      Fa che l'uom viva sicuro,
               Scaccia il verno rigido.
    Quando è acerbo in bocca morsica,
      Le interiora tutte inzacchera,
               E il corpo scompagina.

E qui una strofa che è meglio riferire in latino:

    Vinum vero quod est glaucum
      Potatorem facit raucum
               Et frequenter mingere.
    Il vin torbo e fraudolento
      Rende l'uomo pigro e lento
               E la faccia illumina.
    Quanto al vin rosso e sottile
      Non convien tenerlo a vile,
               Chè i colori ingenera.
    L'aureo, simile al citrino,
      È propizio all'intestino
               E i vapori soffoca.

Un altro canto comincia:

    Meum est propositum
      In taberna mori.
    È mio proposito,
      Morir dall'oste.

Alcuni canti fingono la disputa fra il vino e l'acqua, e naturalmente
conchiudono per il vino. Altri invocano e lodano Bacco, ma non più il
Bacco che presiede alla vendemmia e che imporpora l'autunno; la gaia
serenità campestre non fa per loro; essi della vite non vedono e non
curano che il prodotto nella sua ultima forma, e sbottato e versato
nelle capaci ciotole del taverniere. Questi sono i poeti del vino. Lo
stesso Anacreonte, va in seconda riga al paragone. Che Venere, che
Bacco! Essi non sanno di tali connubii; quando sono per bere, bevono;
all'amore o già provvidero o provvederanno di poi. I loro canti d'amore
non sono meno spontanei e schietti dei canti bacchici, ma stanno da se
come questi.

I poeti del medio evo fanno qualche volta del vino un'arma al Demonio.
Il gran tentatore prende naturalmente di mira i cuori semplici e puri.
Si aggira intorno le muraglie dei conventi agitando il sonno alle
novizie, va presso la cella dell'eremita che cercò in fondo ai boschi
l'oblio del mondo e delle gioie mondane. Assume tutte le forme, uomo,
fuoco fatuo, monaco, cavaliere, scote colle sue metamorfosi terribili e
sorridenti la fantasia di chi vuol perdere. Un giorno, capita da un pio
solitario, e gli apparisce, orso, leopardo e leone. Il sant'uomo,
domanda grazia, e l'ottiene a patto di commettere a volontà uno di
questi tre peccati. O di ubriachezza o di lussuria o d'omicidio.

    Je dis que tu t'enyvreras
    Ou fornication feras
    Ou homicide, ce sont trois
    Or en peux un prendre à ton chois.

Costretto alla scelta, l'eremita elegge fra i tre quello che gli pare
minor peccato, l'ubriachezza, e va a desinare in casa d'un mugnaio dei
dintorni. Il diavolo ci mette la coda, s'intende, e fornisce la cantina
del mugnaio di molti vini e inebbrianti. Beve il mugnaio, beve la moglie
e beve l'eremita, il quale in fin di tavola, come quello che dalle
lunghe astinenze è fatto più accensibile, è così brillo da non si
reggere. Come tornarsene a casa? La mugnaia, buona donna, presa da
compassione, gli offre d'accompagnarlo, ed eccoli in istrada ed a
braccetto per forza. E via per campi e prati: la capanna dell'eremita è
lontana, ed il peccato ci sta sempre alle spalle. Fatto sta che tra il
vino, la vicinanza, l'occasione ed il demonio, chi più ci rimette è il
mugnaio. I due restano addormentati uno accanto all'altro sul margine
della via. Il mugnaio che vede, o meglio, che non vede tornare la
moglie, snebbiato dalla gelosia, s'arma d'un'ascia e corre per
raggiungerli. Trova i due dormienti e infuriato sta per colpire
l'eremita, quando questi svegliatosi gli abbranca l'ascia e glie ne
assesta un tal colpo sul capo che lo fredda. Ed ecco che l'eremita s'è
ubriacato, ha fornicato ed ha ucciso. Il diavolo la sapeva lunga e la
storiella potrebbe suggerire questa morale. Che di tre peccati che
s'abbiano da commettere non bisogna mai scegliere il minore.

Nel poema le _Roman de la Rose_ di Jean de Meung, il poeta ci fornisce
interessantissimi ragguagli intorno al modo con cui le castellane
solevano comportarsi a tavola. Sono consigli dati alle donne.

      Et gart que ja henap ne touche
      Tant cum ele ait morcel en bouche.
    E badi che mai non tocchi il nappo
    Fino a che ha il boccone in bocca.

La parola _henap_, _nappo_ indica chiaramente non trattarsi di donne
dappoco, ma di gran dame, poichè l'_henap_ era una coppa d'onore per lo
più fatta in metallo prezioso, privilegio delle grandi tavole.
Seguitiamo i consigli:

      Si doit si bien la bouche terdre
      Qu'el n'i lest nule gresse ærdre.
    E deve così forbirsi la bocca
    Che non vi rimanga attaccato l'unto.
      Au moins en le levre desseure:
    Almeno al labbro superiore.
      Car quant gresse en cele demeure
      Ou vin en perent les maillettes
      Qui ne sunt ne beles ne netes;
    Perchè quando l'unto su quello rimane,
    Ne vanno pel vino le bollicine,
    Che non sono belle nè pulite.
      Et boive petit à petit
      Combien qu'ele ait grant apetit;
      Ne boive pas à une alaine,
      Ne henap plein, ne cope plaine
      Ains boive petit et souvent.
    E beva poco a poco,
    Sebbene abbia gran voglia,
    Nè beva d'un fiato
    Nappo colmo o coppa colma,
    Ma a sorsi e spesso.
      Le bort du henap trop n'engoule
      Si comme font maintes norrices
      Qui sont si gloutes et si nices
      Qu'el versent vin en gorge creuse,
      Tout ainsinc cum en une huese
      Et tant a grans gars en entonnent
      Qu'el s'en confundent et estonnent.
    E non imbocchi gli orli del nappo
    Come fanno tante balie
    Che sono così ghiotte e sciocche
    Che precipitano il vino nel cavo stomaco
    Come in uno stivale
    E in così gran misura ne imbottano
    Che si smarriscono e intontiscono.

Non pare di leggere nella nomina del Capelan del Porta il predicozzo che
il maggiordomo della marchesa Travasa rivolge ai reverendi concorrenti?
Ho voluto citare questi pochi versi, perchè a mio avviso essi
contribuiscono a darci ragione del maggiore sviluppo che ebbe in Francia
la poesia bacchica. Le nostre dame, anche nei più tenebrosi e turbolenti
periodi del medio evo, non abbisognavano di tali consigli. Non voglio
già vantare la loro continenza, il merito tocca al clima e non a loro,
ma sta di fatto che tracannatrici così ingorde di vino non erano nè
furono mai. La cenetta squisita e stimolante, se vogliamo, fiorisce
molto presso di noi; ma il vino non è di essa nè la maggiore attrattiva
nè il maggior peccato. Nei nostri novellieri il vino non fa mai da
protagonista, lo si nomina di passata come una cosa di ogni giorno, che
non valga il conto di una speciale menzione. Nel Decamerone vediamo
Bruno e Buffalmacco ubriacare quello scempio di un Calandrino a fine di
rubargli un porco salato; il Bandello ci racconta di un malo scherzo che
i mugnai di Parigi (di Parigi notate) ubriachi, fecero a due frati
minori e della vendetta che ne trasse il priore del convento; ma
l'interesse del racconto non nasce dal vino, nè si può dire che senza di
esso il racconto non sarebbe stato. Osservate ancora, che gli ubriachi,
presso i nostri novellieri, quelle poche volte che vengono in scena,
fanno sempre la peggiore figura: sono scornati, derisi, le toccano
d'ogni parte e d'ogni conio. La cosa segue ben diversa in Francia. Là
dove, diciamolo, abbondano i migliori vini del mondo, la poesia Bacchica
seguita a fiorire e le parole: _verre_, _bouteille_, _pot_, _cave_,
_tonneaux_, _tonne_ abbondano nel linguaggio di ogni poeta.

Che possiamo noi contrapporre alle omeriche bevute che s'incontrano nel
Rabelais? Là corrono veri fiumi di vino; il libro intero manda come un
alito vinoso e ne spumano via le grosse e grasse facezie dei bevitori.
Qui citare è impossibile. Ogni venti parole converrebbe scartarne dieci,
e le dieci rimaste dirle a bassa voce.

Del resto, mille ragioni d'indole artistica, e mille affatto estranee
all'arte combinano per impedire in Italia lo sviluppo rigoglioso della
poesia Bacchica.

La nostra vita politica e sociale nei tempi di mezzo, più libera e
varia, più alla portata di tutti, faceva rivolgere l'attenzione delle
menti poetiche a ben altri soggetti che non fosse il vino. Osservate
quanti dei poeti italiani furono segretari di principi ed ambasciatori.
Ed anche nei sollazzi presso di noi il vino teneva l'ultimo posto;
baldorie e festini quanti volete, e scarmigliati e liberissimi, ma il
loro sapiente ed artistico ordinamento accumulava in essi ogni sorta di
piaceri, di modo che tutti i sensi ne erano solleticati. Era nel sangue
italiano una raffinatezza, un supremo bisogno di modi eleganti, di forme
nobili, di esercizi sottilissimi dell'ingegno. Dove trovavano nutrimento
e godimento, l'occhio, nei colori, negli addobbi, nelle pitture, nella
principesca magnificenza delle tavole, nei lavori artistici di
oreficeria e di ceramica; l'orecchio nelle musiche, la mente nelle
dispute, nelle declamazioni di versi, nelle letture fatte ad alta voce
delle maggiori opere poetiche dell'antichità, ed il cuore negli
arrendevoli costumi, che volete dicesse il povero vino, fosse pure
Falerno, Siracusa o Lacrima Cristi? A chi veniva in mente di cantarlo?
Chi ne avrebbe ascoltate le lodi? Aggiungiamo che il Piemonte e la
Lombardia, le due provincie d'Italia che hanno maggior numero di
bevitori, diedero in quei tempi pochissimi poeti e che l'Italia di mezzo
e più la meridionale, sono parche nel bere. E quando vennero i bei
giorni di gloria letteraria per le nostre provincie, i tempi imponevano
altri più alti e gravi soggetti all'ispirazione dei poeti. D'altronde,
in Francia, dopo il Rabelais, il vino torna ad accompagnarsi coll'amore,
come seguiva nelle odi di Anacreonte, e ciò dura fino ai giorni nostri.
In Italia l'amore lasciatelo fare, che basta da sè senza nessuna sorta
di aiuto.

Versi bacchici però ne avemmo anche noi, e precisamente un ditirambo
intitolato da Bacco, ma io non oserei chiamare il Redi poeta del vino;
non già perchè manchi Bacco alla sua poesia, ma perchè a mio avviso
manca di poesia il suo Bacco. A scuola di rettorica ci mescevano il
ditirambo a centellini, stimolandoci la sete con chiose storiche e
filologiche, al cui paragone, se i versi non ci parvero la quinta
essenza della poesia, bisogna dire che siano freddi e muti davvero.

Immagini stupende ce ne sono, per esempio, questa:

    Si bel sangue è un raggio acceso
      Di quel sol che in ciel vedete,
      E rimase avvinto e preso
      Di più grappoli alla rete,

ma Dante aveva detto la stessa cosa, e meglio. Manca al Redi l'infuriare
che tanto piace al vecchio Anacreonte, manca l'impeto lirico. Il
disordine della sua metrica è ordinato con studio finissimo e compassato
e lambiccato; quei versi a scalini che salgono e scendono, non vi menano
mai nè in cantina nè su per l'aria a volo colla fantasia. Leggendoli non
vi assale mai la voglia matta di uscir dalla regola, di peccare e di far
peccare, di accendervi fino alla dimenticanza d'ogni ritegno, di mettere
a nudo l'anima vostra e di mostrarne tutte le infermità e le bollenti
tenerezze. Il Redi pare a me un buono assaggiatore di vini, membro di un
qualche giurì ad un'esposizione enologica, esperto a far confronti,
erudito a raccontare la storia d'ogni diverso prodotto, uomo di spirito
certo, ma del tutto estraneo a quello che dice. Il vino agisce su di lui
come l'amore sui poeti arcadici del secolo passato, non fa nè caldo nè
freddo.

Fra i moderni, il maggior poeta del vino è il Beranger. Nelle sue vere
canzoni, quelle cioè che corrono di più per le bocche dei francesi, il
vino ha, se non la massima, una grandissima parte. E come scintilla
nelle immagini, come lo si sente vigoroso nell'onda crescente del verso,
come scatta in motti nuovi e inaspettati, come s'attrista senza
piagnucolare e ride senza sguaiataggine! È veramente un vino buono e
nobile il suo, un corroborante che giova al corpo e rischiara la mente.
Sia pieno di Champagne, o di Borgogna, o di vinettini da pasto di
famiglia, il bicchiere non gli scivola quasi mai di mano, nè gli trema
in modo da imbevere la tovaglia. Getta bensì qualche volta _son bonnet
par dessus les moulins_, e con lui lo gettano o Lisette, o Adele, o
Margot, ma le scappate sono così gaie, ma il cuore parla con tanta
spontanea sincerità, ma ride tanta giovinezza nei ritornelli delle sue
canzoni, ed il _bonnet_ sarà così presto surrogato da un altro, e di là
dal molino ce n'è già tanti, che anche il più costumato e pudibondo
censore gli perdona volontieri. D'altronde, egli riassume il carattere
del popolo francese. Schietto, gaio, accensibile, un po' gradasso ma con
grazia, un po' mordente ma senza fiele, ed ospitale più che nessun
altro. Riassume anzi il tipo dei vini francesi, vini che fanno
discorrere e ridere, che inteneriscono qualche volta, che ci armano di
garbate punture, vini di buona società e non traditori. Il Beranger non
ha artifizii, è nato alla poesia, e non potrebbe in nessun modo tacersi.

    Chanter, ou je m'abuse,
    Est ma tache ici-bas.
    Tous ceux qu'ainsi j'amuse,
    Ne m'aimeront-ils pas?
    Quand un cercle m'enchante,
    Quand le vin divertit,
    Le bon Dieu me dit: Chante,
    Chante, pauvre petit.

E a quali altezze non sale il vino nella sua poesia! Io conosco poche
espressioni di nobile e grande patriottismo così potenti come questa che
s'incontra nella _Sainte alliance des peuples_:

    Pour l'étranger coulez bons vine de France,
    De sa frontière il reprend le chemin.

Quanto amore della propria terra, quanta coscienza delle sue ricchezze,
che contentezza d'esserci nato e che generosa prodigalità, che cuore
aperto e gioviale nel primo verso, e quanta nobiltà e quante minaccie
nel secondo!

    Pour l'étranger coulez bons vins de France,
    De sa frontière il reprend le chemin.

È un patriottismo che non cerca conquiste, e quindi non offende, a
differenza di quello che ispirò al Musset, un'immagine tolta anch'essa
dal vino, nella canzone _Le Rhin Allemand_:

    Nous l'avons eu, votre Rhin allemand,
    Il a tenu dans notre verre.

vanteria ingiusta e crudele che ha una sola scusa nel giungere seconda,
anzi nel rispondere ad una provocante canzone tedesca del Becker. E
poichè ho nominato il Musset, tratteniamoci un momento di lui, che è il
maggiore poeta lirico della Francia, poichè a mio vedere Victor Hugo ha
un ingegno più epico che lirico. Anche il Musset ha cantato del vino, ma
dovette essere una trista pianta e una terra ingrata ed una vendemmia
senza canti quella che produsse il vino che s'incontra nei suoi versi.
Dove sono andate la gaia spensieratezza e la superba incuranza di ogni
avversità che i bevitori ed i poeti di una volta cercavano e trovavano
in fondo al bicchiere? Il vino del Musset, come quello del Byron è
ragionatore e cattivo ragionatore, malinconico, cupo, senza speranze,
nemico della vita e dell'amore. Vinaccio da bettola di mala fama,
tracannato in male compagnie che genera disgusti e stimola alle più
ciniche dissolutezze. O meglio ancora, diciamolo, quel vino è innocente
e le morbose ebbrezze di quella poesia non derivano da lui. Esse erano
prima che lo si bevesse e perdurano suo malgrado.

    Ah! malheur à celui qui laisse la débauche
    Planter le premier clou sous sa mamelle gauche!
    Le cœur d'un homme vierge est un vase profond:
    Lorsque la première eau qu'on y verse est impure
    La mer y passerait sans laver la souillure
    Car l'abîme est immense, et la tâche est au fond.

Non era la crapula che doveva dire il poeta, ma lo sconforto, il dubbio
e l'amaro disprezzo degli uomini e della vita. Quella è la prima acqua
impura della quale il mare istesso non potrebbe lavare la macchia. E
allora a che serve correre le taverne, ubriacarsi cantando canzoni
oscene ed uccidere il solo ausiliare che potrebbe giovarci, la ragione?

    Le mépris, Dieu puissant, voilà donc la science!

E contro una tal scienza non c'è vino che basti.

Povero vino, hanno studiato di te ogni cosa, hanno imparato qual terra
più ti si convenga e che modo deve tenersi con tua madre la vite, sono
discesi col microscopio fino all'ultime fibrille del tuo corpo, hanno
fatta la diagnosi delle tue malattie, le hanno curate, hanno scritto
delle leggi contro i tuoi nemici, hanno parlato di te ministri e
parlamenti, ma una volta il tuo apparire era segno di certa gioia, e non
v'era angoscia che tu non giungessi a sollevare. Ora non fai che
aggravarle, non addolcisci ma amareggi, ed i canti che ispiri hanno dei
ritornelli disperati.

Nominare tutti i poeti che hanno cantato il vino od anche solo tutti i
migliori, sarebbe impossibile nello spazio di tempo che mi è concesso.
Solo dei poeti drammatici ce ne sarebbe per un volume. Volevo riferire
alcune descrizioni di ubriacature, ma anche qui il tempo manca. Non
tutti i poeti sono discreti ed efficaci come Lucrezio il quale in cinque
versi raccoglie tutti gli effetti morbosi del vino.

                   Hominem cum vini vis penetravit
    Acris, et in venas discessit diditus ardor,
    Consequitur gravitas membrorum, præpediuntur
    Crura vacillanti, tardescit lingua, madet mens,
    Nant oculi, clamor, singultus, jurgia gliscunt,

che il Rapisardi traduce dilungando:

                          Quando la forza
    Del vino penetrò l'uomo e le vene
    Tutte gli corse il penetrante ardore,
    Tosto le membra s'aggravan, trampellano
    Le gambe, grossa imbrogliasi la lingua,
    La mente ebbra vacilla, imbambolati
    Nuotano gli occhi e clamori e contese
    E singhiozzi prorompono ad un tratto.

Delle altre descrizioni ce n'è a piacimento, di quelle che durano una
mezza pagina di stampa o un capitolo od un volume intero.

Sarebbe uno studio curiosissimo quello di raccogliere tutte le
stramberie ed i vaniloquii che i poeti drammatici hanno messo in bocca
ai loro ubriachi. La messe sarebbe più ricca che non si crede e ne
uscirebbero molte altissime e profonde sentenze, perchè nella storia del
teatro, dopo i Romani fino a noi, gli ubriachi ed i becchini sono i
maggiori filosofi. Tanto pare arduo e pericoloso il proclamare la
verità, che i poeti quasi per ottenerne perdono, la fanno dire ad uomini
fuori di senno, o a gente incolta, e protetta dal tranquillante
spettacolo della morte.

Anche dei giudizi proferiti intorno al vino, sarebbe curiosa la
raccolta. Veramente si può dire che il vino lo lodano tutti, il biasimo
non riguarda che l'abuso.

Platone proibisce l'uso del vino ai giovani non ancora diciottenni,
proibisce d'ubriacarsi a chi non raggiunse i quarant'anni, comanda ai
vecchi di bere e li perdona se si ubriacano.

San Paolo asserisce che nel vino sta la lussuria ed in questo avviso
pare convenisse il demonio che ho nominato poc'anzi.

In un libro di Apuleio Madaurense, intitolato _Scelta dei Fiori_ e
citato dal Petrarca, è scritto che il primo bicchiere giova alla sete,
il secondo al buon umore, il terzo al piacere, al quarto tien dietro
l'ubriachezza, al quinto l'ira, al sesto le liti, al settimo il furore,
il sonno all'ottavo e al nono la malattia.

Il Petrarca scrive queste parole: «Non v'ha memoria, non lingua che
all'ampiezza della materia non venga meno se a noverare si accinga i
tristi effetti del vino, e in una parola stringendola finalmente, io
conchiudo infiniti essere i mali onde all'uman genere quello è cagione».
E per venire ad una tale conclusione, ne ha noverati parecchi dei mali e
d'omicidi e tradimenti e rovine di stati e battaglie perdute in causa
del vino. Lo stesso Petrarca però chiude una lettera a un Pietro di
Bologna con queste parole. «Manda la letterina che a questa compiego al
mio prete Don Giovanni, e colla lettera mandagli la fiasca, o per dir
meglio il fiaschetto tuo per averne un poco anzi un pocolino di quel
vino o vinetto che è antidoto alla lussuria e conforto alla temperanza».

Il Bandello, frate Domenicano, scrive del vino: «E secondo che è preso
sì come richiede il bisogno della temperatura dei corpi nostri,
conferisce molto al nodrimento del corpo, genera ottimo sangue, si
convertisce prestamente a nodrire, accresce la digestione per tutte le
membra e parti corporali, fa buon animo, rasserena l'intelletto,
rallegra il cuore, vivifica gli spiriti, aumenta il calore naturale,
ingrassa i convalescenti, eccita l'appetito, rischiara il sangue, apre
le oppilazioni, distribuisce il cibo nodritivo alle parti convenevoli,
fa buono e bello colore e caccia fuori tutte le superfluità».

Dopo di aver detto il bene dice il male, ma il male non tocca il vino,
ma l'abuso di esso che è difetto degli uomini e non suo. Silvio, famoso
medico di Parigi, al tempo di Montaigne, soleva dire, che per conservare
forza allo stomaco è necessario una volta il mese eccedere nel vino e
stimolarlo così perchè non impigrisca.

Montaigne chiama l'ubriachezza un vizio grossolano e brutale. «V'hanno
dei vizi che hanno un non so che di generoso, ve ne hanno dove la
scienza ha parte e che comportano la diligenza, il coraggio, la
prudenza, l'accortezza e la finezza. Questo è tutto corporeo e
terrestre». Ma poi aggiunge: «Benchè mi paia un vizio vile e stupido,
pure esso è meno malefico e dannoso, che non siano gli altri, i quali
offendono quasi tutti e direttamente la pubblica società. E se non
possiamo aver piacere che non ci costi, io penso che tal vizio costi
alla nostra coscienza assai meno che non molti altri».

Ed il Rousseau: «Ogni genere d'intemperanza è vizioso e sovratutto
quella che ci impedisce la più nobile delle nostre facoltà. L'eccesso
del vino degrada l'uomo, ma al postutto l'amore del vino non è un
delitto e ne fa raramente commettere, il vino rende l'uomo scemo e non
cattivo. Provoca alle volte dispute passeggiere, ma stringe cento
durevoli amicizie. Per lo più i bevitori sono cordiali, schietti, buoni,
integri, giusti, fedeli, coraggiosi e galantuomini, salvo i difetti. Si
può forse dire lo stesso degli altri vizî? Quante apparenti virtù
nascondono vizî reali! Il saggio è sobrio per temperanza, il furbo per
malizia. Nei paesi di mali costumi, d'intrighi, di tradimenti, è temuto
lo stato indiscreto dell'animo, per cui il cuore si mostra aperto senza
che ce n'avvediamo. Quelli che più abborriscono l'ubriachezza sono
quelli che hanno più interesse a guardarsene».

E per finire questa prima parte, ho tradotto come ho potuto una poesia
tedesca intitolata _La Circolazione del Vino_.

    Dal grappolo nel tino,
      Dal tino entro il barile,
      Poi nel fiasco sottile,
      Indi nel bicchierino.
    Da questo al labbro viene
      E giù dal labbro in gola
      Va sangue nelle vene,
      Torna in bocca parola.
    Dalla parola, al santo
      Estro febeo seconda,
      Tramutasi del canto
      Nell'armonia gioconda.
    Va canto per la rada
      Aria in plaghe infinite
      E ricasca rugiada
      Ad innaffiar la vite.
    Dalla vite nel grappo,
      Dove rinasce vino,
      Poi di nuovo nel tino,
      Poi di nuovo nel nappo.

Ho detto da principio che i poeti del vino si possono dividere in due
classi diverse: quelli che lo hanno cantato, e quelli che lo hanno
bevuto.

Questa seconda parte della mia conferenza dovrebbe essere una serie di
biografie, tristo còmpito, perchè tutte finiscono male. Chi non conosce
il nome di parecchi fra i poeti moderni e dei maggiori, dei quali si
racconta per lo più con parole di amaro rimprovero che morirono
avvelenati dal bere? Di quanti non si negano l'ingegno e l'ispirazione,
attribuendone tutto il merito all'impeto bacchico? Ed i più miti e
benevoli fra quelli che si arrogano il diritto di profferire un giudizio
di condanna, conchiudono: Se il loro ingegno, smorzato e soffocato dal
vino, ha dato i frutti che conosciamo, che non avrebbero dato se l'uomo
non avesse col lento suicidio ucciso il poeta? Ed accusano quei
disgraziati di averci frodati del nostro avere, come se ci dovessero
sino all'ultima goccia il loro sangue e la loro vita.

Quest'ultima maniera di critica non regge. Giudichiamo d'ogni poeta ciò
che egli ci dà, e non cerchiamo se avrebbe potuto far più e meglio.
Quanto non è nè fu mai, non può essere materia al nostro giudizio, e se
vi è cosa che sfugga alle illazioni dei solisti, questa è la poesia.

Ma anche nell'affermare queste ebrietà continue e mortali si procede per
lo più con una riprovevole leggerezza.

Molti poeti sono accusati di morte alcoolica ingiustamente, tra gli
altri il Musset. Théophile Gautier nega questo fatto anche del
Baudelaire, il quale morì, scrive Théophile Gautier, di poesia e di
lavoro. Ai nostri giorni, e colle idee pratiche dominanti, pare strano,
per non dire assurdo, che si scriva di qualcheduno che morì di poesia.
Eppure, quella esaltazione, quel raffinamento squisito e doloroso di
sentire che fa delle liriche del Baudelaire un così sottile ed
inebbriante veleno, potevano anche, al giudizio dei fisiologi, bastare a
dissolvere il più robusto organismo.

Del Poe, un recente biografo dimostrò che non morì come fu scritto del
_delirium tremens_. Morì ucciso dal bere, l'Hoffmann; ne morirono, e non
è molto, dei nostri italiani.

Io non intendo difendere quei disgraziati: il vizio è brutto in tutti, e
sempre, ma non ammetto che pel solo fatto ch'essi beneficarono più che
altri l'umanità, gli uomini debbano credersi lecito di gridar loro con
voce più alta il crucifige. Che abbiano cercato nel vino ispirazione e
calore poetico, e che perciò siansi abbandonati ad abusarne, come
affermano taluni, per scusarne gli eccessi, non lo credo neppure. Ma dal
fatto di darsi al vizio del bere a quello di morirne, ci corre.
Colpevoli sul principio, alcuni di essi furono martiri alla fine. Chi ha
cominciato a mordere al dolce pomo della poesia, chi ha goduto la
suprema voluttà di sentire i proprii pensieri risonare al proprio
orecchio in cadenze melodiose, chi è rimasto delle notti intere al
tavolo senza fatica, senza coscienza del tempo e delle cose ed al
nascere del giorno si è trovato fra mani una pagina di versi limpidi,
chiaro specchio dell'anima, ed ha sentito che la grande consolatrice è
la poesia, ed ha sognato di riverberare un po' di luce sul suo tempo e
sulle menti degli uomini, non sa acconciarsi all'abbandono di tanto
bene. Ora il vino, prima di diventare mortifero, fiacca la mente ed
impigrisce la fantasia. Si può ancora guarire e ristorarsi di tali
guasti, ma la cura è lunga e difficile, l'uso libero della mente non
torna che in fine. Invece un sorso del solito veleno ravviva per un
momento la vita mentale e riconduce l'attività perduta. Questa è la
causa degli eccessi mortali.

Quelle menti agitate non sanno pazientare; privarsi per un tempo anche
breve del supremo conforto della mente, non possono, non vogliono. Hanno
fermamente deciso di emendarsi, dovessero affrontare i più duri
patimenti; l'astinenza costerà loro uno sforzo continuo ed eroico, ma
sentono in sè di esserne capaci, purchè non sia ritardata la facoltà del
pensiero, purchè possano sognare e tradurre in versi i loro sogni. Nella
riduzione in forma di dramma dell'_Assommoir_ dello Zola, c'è una scena
dove Coupeau, uscito dall'ospedale, è fermamente risoluto di non più
ubriacarsi. I medici gli hanno detto che una goccia d'acquavite gli
sarebbe irrimediabilmente mortale, e gli hanno concesso l'uso temperato
del vino. Per maligni rancori una mala donna gli porta in camera una
bottiglia d'acquavite e glie la annunzia per vino. Coupeau, come rimane
solo, accosta la bottiglia alle labbra ed appena sente l'acquavite la
rimette atterrito sul tavolo e si allontana tremando. Ma la sirena l'ha
agguantato. Si ferma, guarda la bottiglia, lo sa, glie lo ha detto il
medico, che là dentro c'è la morte, una morte spaventosa ed atroce e
sente che il medico non ha mentito, che un altro sorso di quel maledetto
liquore lo ucciderà, ed ha paura di morire; ma la bottiglia e là piena,
aperta, a portata della mano, e manda via per la camera il suo acre
odore inebbriante, e Coupeau non resiste, e beve, e ne muore.

Io ho conosciuto un poeta, al quale questa terribile scena seguiva ogni
giorno. Già intorbidato dal bere, la sua mente non operava se non sotto
le frustate dell'alcool, ed egli sapeva che ogni nuovo sorso lo
avvicinava alla morte, ad una morte vergognosa e vituperevole, e formava
in cuor suo cento propositi di resistenza; ma aveva perduti quasi tutti
gli amici, le persone timorate lo fuggivano e gli pareva che il solo
rifugio, la sola nobiltà che gli durasse fosse la poesia; e consumava
cosciente e inorridito il continuo suicidio, pure di ricavare qualche
povera scintilla da quel grande focolare di forme e di idee che era
stato il suo cervello. Non scorderò mai una sera che mi condusse a casa
sua per leggermi dei versi. Era in quello stato di smemoratezza
sonnolenta che precede immediatamente l'ultima crisi.

Non aveva bevuto, e aveva gli occhi spenti e la parola tarda e grassa.
Quando fummo seduti al suo tavolo, dove una sola candela ci rischiarava,
egli cominciò a spaginare un gran scartafaccio, e sfogliò per un pezzo
prima di trovare il principio della poesia. Poi lesse; leggeva a bassa
voce con monotonia, si sentiva ancora in lui l'uomo memore dei ritmi
sonori di una volta; di tratto in tratto si fermava a cercare per le
pagine del libro una strofa scritta là come veniva, una sera, arrivando
briaco a casa, sulla prima pagina del libro trovato aperto, anche a
rovescio. Ad intervalli, chiudeva in fretta e ripetutamente le palpebre,
come per scacciare il sonno che piombava, e appena risvegliato da questo
esercizio, rialzava la voce, intonava più vivamente il suo verso, poi
riallentava di nuovo, e la voce si abbassava sempre più, così da dovere
io fare dei grandi sforzi per sentirla. E i versi erano bellissimi. Quel
poeta è morto, quella fu l'ultima sua poesia, e forse la dose d'alcool
che lo riaccese per quei versi, fu quella che gli diede il tracollo e
che segnò irrevocabilmente la sua condanna.

Se le mie parole avranno servito a temperare la rigidità di qualche
giudizio, a guadagnare qualche simpatia a questi disgraziatissimi fra i
poeti del vino, se qualcheduno di voi, tornato a casa e rileggendone le
opere e commovendosene, penserà di essi che morirono forse per darci un
momento di dolcezza o di conforto, io crederò che la mia lettura non
sarà stata del tutto inutile e sarò contento e superbo dell'opera mia.



                            _G. BIZZOZERO_
                                   —
                          IL VINO E LA SALUTE

            (_Conferenza tenuta la sera del 15 marzo 1880_).


      _Signori!_

Il concetto, che l'uomo della scienza ha della parola _veleno_, è
alquanto diverso da quello che se ne è formato il profano. Mentre questi
l'adopera per indicare un certo gruppo di sostanze altamente nocive,
anche in piccola dose, al corpo animale, quegli ascrive ai veleni ogni
sostanza, che, introdotta nell'organismo, ne perturba, per la sua
costituzione chimica, più o meno profondamente ed estesamente le
funzioni. L'essenza del veleno, quindi, non sta precisamente nella
sostanza in sè, ma sì nell'azione ch'essa esercita su di noi; sicchè
diventano veleni delle sostanze del resto innocue, od, anzi, necessarie
alla nostra vita, quand'esse ci danneggino o per la copia in cui noi le
introduciamo, o per condizioni speciali del nostro corpo.

Un esempio chiarirà meglio questo concetto, e basterà a dimostrarvi come
le sostanze alimentari, anche in piccolissima dose, possano agire da
veri veleni. — V'ha una malattia, che spesso termina colla morte, e che
vien detta _diabete zuccherino_ per questo, che l'ammalato emette gran
copia di orine ricche di zucchero. Questa produzione abnorme di zucchero
è accompagnata da un'attivissima distruzione dei materiali che
costituiscono il nostro corpo, sicchè l'individuo, che non arriva
coll'alimentazione a compensare le enormi perdite, si strugge ad un
dipresso come un pezzo di ghiaccio sotto i raggi del sole. Il diminuire
la produzione e l'eliminazione dello zucchero equivale al ritardare il
progresso fatale della malattia. È a questo scopo che si mira dal
medico, ed il miglior modo che finora s'ha in mano per ottenerlo, si è
di sottrarre dall'alimentazione del malato tutto quanto è zuccherino o
farinaceo. Zuccherini e farinacei sono per tali individui veri veleni.
Quando s'è giunti ad ottenere un'orina priva di zucchero, basta che il
malato trasgredisca una volta sola le prescrizioni, perchè lo zucchero
ricompaia nelle orine, e la distruzione dei materiali organici si
riacceleri. Non si può immaginare quanto sensibile sia, a questo
riguardo, l'organismo. Il professore Cantani, cui dobbiamo profondi
studi su questo argomento, ci racconta nel suo libro sul Ricambio
materiale, come un malato in sua cura, che pur seguiva alla lettera ogni
suo consiglio, non fosse giunto mai ad ottenere orine prive di zucchero.
Solo dopo ripetute indagini egli riescì a scoprire la causa del fatto.
Nel suo decreto di proscrizione assoluta dei farinacei egli aveva
dimenticato, che il suo malato era prete, e che ogni mattina nel
celebrare la messa inghiottiva un'ostia. — Proibita l'ostia, lo zucchero
scomparve!

Partendo da questi principii, il vino può ascriversi ai veleni; è, anzi,
il veleno più terribile per la società. Nè i fulmini di Giove, nè la
spada di Marte, nè i baci di Venere hanno fatto tante vittime quanto
Bacco co' calici spumanti.

Le conseguenze dell'alcoolismo, che ognuno di noi ha avuto occasione di
osservare, non sono che una minima parte di quelle che realmente si
hanno. La parte maggiore ci sfugge, e per diverse ragioni. Infatti,
l'alcoolismo sevisce specialmente nelle basse classi sociali, che noi
conosciamo poco; l'individuo ci vive in una cerchia ristretta, ed,
inghiottito dagli spedali, abbandona il mondo piuttosto ignorato che
obliato. Nelle classi più alte le famiglie cercano di celare quanto
possono una malattia che, meritamente o no, considerano come loro
vergogna; ed in ciò sono aiutate dalla morte morale, che nell'alcoolista
sì spesso precede di tanto la morte fisica, e contribuisce a rendere
inavvertita la sua scomparsa. Per ultimo, siccome l'alcool è causa di
svariate malattie, delle quali molte possono essere prodotte da cause
tutt'affatto diverse, così spesso non si riconosce o non si vuol
riconoscere che il danno venne propriamente cagionato dall'alcool. Il
primo ad emettere, e il più tenace a sostenere questi erronei giudizii è
sempre colui che, per l'appunto, avrebbe tutto l'interesse a fare
l'opposto, cioè il bevitore; il quale non vuole ammettere di essere lui
stesso la causa del proprio male, sia perchè ciò suonerebbe rampogna ad
un animale ragionevole, quale egli crede di essere, sia perchè ciò
gl'imporrebbe l'obbligo morale di astenersi dal suo favorito veleno.

I danni prodotti dall'alcoolismo acuto, di cui vi ha parlato il prof.
Mosso, sono ben piccola cosa di fronte a quelli che provengono dall'uso
prolungato ed esagerato dell'alcool. L'azione di questo si ripete
continuamente, e si estende alla più parte degli organi del corpo; e a
questo modo induce in essi delle alterazioni _durevoli_, che permangono
più o meno completamente anche quando si cessi dal veleno, e che
interessano in alto grado le funzioni più importanti della macchina
animale. Si comprenderà con ciò facilmente, che se è fatto raro il
morire per alcoolismo acuto, è invece assai frequente per l'alcoolismo
cronico, anche quando l'individuo, pentito de' suoi eccessi, sia entrato
nella via del ravvedimento.

Le ricerche scientifiche hanno potuto finora penetrar ben poco nello
studio dell'azione dell'alcool sull'organismo. Si conoscono in parte le
conseguenze ultime sui diversi organi, ma si sa assai poco intorno alla
maniera in cui l'alcool le produce. Pel modo di agire pare che questo
abbia una certa parentela con parecchie sostanze che lo superano d'assai
in facoltà venefica, e che manifestano la loro azione alterando
profondamente quel continuo ricambio chimico, mediante cui si mantiene
in vita l'organismo animale; voglio dire col fosforo, coll'arsenico,
coll'antimonio, coll'acido solforico, ecc. — Ma innanzi di trattar di
ciò è mestieri che io vi indichi sommariamente qual sia la minuta
struttura dei nostri organi, chè senza questa specie di iniziazione
microscopica difficilmente potreste comprendere il loro modificarsi
sotto l'influenza dell'alcool. — Gli organi sono costituiti da due parti
principali: da corpicciuoli minutissimi, variamente disposti, che sono
le _cellule proprie_ dell'organo, e da una sostanza, da un tessuto
particolare che li tiene assieme, e che, perciò, porta il nome di
_tessuto connettivo interstiziale_. Le cellule proprie sono quelle a cui
è affidata in modo speciale la funzione dell'organo, e, com'è ben
naturale, variano di forma, di costituzione e di disposizione da un
organo all'altro. Dalla parte che entrano a costituire esse ebbero il
nome, epperò nel fegato abbiamo le cellule epatiche, nei reni le renali,
nel cervello le cerebrali, e via dicendo. Il tessuto connettivo, invece,
è, salvo irrilevanti modificazioni, lo stesso dappertutto, ed oltre al
proteggere e connettere le cellule proprie, sostiene anche quei
vasellini sanguigni e linfatici, e quei filuzzi nervosi che di queste
ultime provvedono al nutrimento e regolano l'azione. Poichè è da sapere,
che in qualunque parte, anche la più riposta, del nostro corpo, ferve
fra gli elementi dei tessuti ed il sangue un continuo scambio di
materiali, ch'è regolato, a seconda dei bisogni, dall'influenza nervosa.

L'alcool viene a contatto degli organi in due modi. Nell'esofago e nello
stomaco arriva direttamente dal di fuori. Giunto nello stomaco, esso
viene assorbito specialmente dalle vene, e, col sangue di queste,
trasportato dapprima al fegato, poi, passato il fegato, a tutti gli
altri organi del corpo. — Ora egli sembra, che negli organi esso agisca
tanto sulle cellule proprie, quanto sul loro connettivo di sostegno; e,
più precisamente, in un primo periodo su quelle, in un secondo su
questo. Per alcuni organi, anzi, ciò venne già constatato. Le cellule
proprie s'alterano variamente, ma, in ultima analisi, finiscono col
modificarsi nella loro composizione chimica (col _degenerare_) o
coll'impicciolire (_atrofizzarsi_), ed alfine distruggersi. Nel
connettivo, invece, osserviamo lo stato opposto; esso aumenta di volume,
diventa _iperplastico_, e per questa via contribuisce non poco a
danneggiare, schiacciandole, quelle cellule proprie, cui dovrebbe
servire di sostegno e di difesa.

Le annesse figure vi rappresentano il decorrere di questi processi nel
fegato. Come appare dalla Fig. 1, le cellule proprie del fegato non vi
stanno disposte uniformemente, ma sono riunite in ammassi poliedrici, a
cui si dà il nome di _acini_; ogni acino è sostenuto nel suo interno, e
limitato alla sua superficie verso gli acini vicini da esili strati di
connettivo interstiziale. — Questa figura vi rappresenta le alterazioni
del primo periodo dell'alcoolismo. Ci vedete le cellule epatiche, a
cominciare da quelle che stanno alla periferia dell'acino, riempite di
gocciole di una sostanza liquida, lucente, che non è altro che _grasso_;
il connettivo si conserva ancora sano.

[FIGURA: Fig. 1. Due acini del fegato di un bevitore, fortemente
ingranditi col microscopio. Le cellule che stanno alla periferia
dell'acino sono piene di gocciole di grasso. Al dintorno degli acini
scorrono i troncolini della _vena porta_ (_pp_), che per mezzo di
vasellini capillari trasportano il sangue fino al centro dell'acino
nelle vene epatiche _VV_.]

Non è ben noto il significato di questa infiltrazione grassa. Forse
deriva da un processo molto semplice; il sangue degli alcoolisti ricco
di grasso (che talvolta vi è in tanta copia che le sue goccioline
rendono _lattiginoso_ il siero), nel passare pel fegato ve ne lascia un
abbondante deposito. È questo un fatto frequente ad osservarsi in altri
stati morbosi, ed anche in alcune condizioni dell'individuo sano, e che
noi possiamo produrre a nostra voglia negli animali, dando loro copioso
nutrimento e concedendo loro poco moto. Ognuno di voi conosce, per
propria esperienza, benchè da un punto di vista assai diverso da quello
sotto cui la riguardo io ora, questa infiltrazione adiposa del fegato;
è, infatti, ad essa che si debbono quei pezzi patologici che sono così
rinomati in gastronomia sotto il nome di pasticci di Strasburgo. Essa,
nei bevitori, andrebbe d'accordo con quell'ingrassamento generale del
corpo che si suole osservare sul principio dell'alcoolismo.

Ma, secondo altri, quest'alterazione del fegato avrebbe un'origine più
profonda e più grave^[IX-1]. Essa proverrebbe, per lo meno in parte, da
un serio sconcerto di nutrizione delle cellule epatiche, le quali, sotto
l'influenza dell'alcool, non sarebbero più capaci, come nello stato
normale, di produrre alte combinazioni organiche, e darebbero origine a
combinazioni d'ordine inferiore, quali i grassi. L'alcool assomiglia
anche per questa sua azione ai veleni potenti, testè citati, ad es. al
fosforo, dei quali, appunto, una delle prime conseguenze è l'estesa
degenerazione grassa del fegato.

In un periodo più avanzato dell'alcoolismo sono le alterazioni del
connettivo interstiziale che pigliano il sopravvento. Come vedete dalla
Fig. 2, questo connettivo aumenta di volume; e, come i suoi strati
abbracciano tutt'attorno l'acino, così essi, ingrossandosi e
coartandosi, comprimono quest'ultimo, lo impiccioliscono; mentre gli
tolgono il nutrimento comprimendo e restringendo i vasi che gli portano
il sangue. Ne segue un'atrofia, una distruzione delle cellule proprie,
con quale radicale alterazione delle funzioni del fegato è facile
immaginare. Questa malattia, che vien detta _cirrosi_ del fegato, è una
delle più gravi a cui l'organo possa soggiacere, e, come vedremo, è
causa frequente della morte dell'alcoolista.

[FIGURA: Fig. 2. Fegato di bevitore in degenerazione avanzata
(_cirrosi_). Gli acini epatici (_bb_) pieni di grasso, sono separati
l'uno dall'altro e schiacciati da copioso connettivo interstiziale
(_aa_) di nuova formazione.]

Nello stomaco vennero constatati fatti simili a quelli presentati dal
fegato in conseguenza dell'abuso di alcool. In un primo periodo,
tumefazione e degenerazione delle cellule delle ghiandole
gastriche^[IX-2], di quelle ghiandole, cioè, che fabbricano i succhi
digerenti; in un secondo, aumento di volume, iperplasia del connettivo
interstiziale; il tutto accompagnato da dilatazione dei vasi sanguigni,
da _iperemia_, che dappertutto suol essere la conseguenza più diretta e
più pronta dell'azione del veleno.

Forse con questa doppia azione dell'alcool sulle cellule proprie e sul
connettivo interstiziale si potranno spiegare le alterazioni che gli
anatomopatologi trovarono in tanti altri organi del beone: le atrofie
del cervello e del midollo spinale, e le infiammazioni croniche delle
membrane che li ravvolgono: la degenerazione grassa e la cirrosi dei
reni; la degenerazione grassa del cuore; la degenerazione ghiandolare e
la iperplasia connettiva dell'intestino, e via dicendo. Ma, per ora, su
ciò non possiamo dare giudizio sicuro, giacchè dobbiamo pur confessare,
che lo studio anatomico dell'alcoolismo non è tanto progredito, quanto
la frequenza e la gravità del male richiederebbero.

Vediamo ora quali segni dia di sè, nel vivente, l'alcoolismo. — Con
tanta varietà di alterazioni anatomiche è facile prevedere quanto siano
svariate anche le forme della malattia. A seconda della quantità e della
qualità della bevanda alcoolica usata, della costituzione e dello stato
dell'individuo, del clima, di molte circostanze, insomma, interne ed
esterne, le sofferenze dei singoli alcoolisti diversificano
all'infinito. Ciò non toglie, però, che in un certo numero di casi i
fenomeni non sieno press'a poco gli stessi, e si seguano in un
determinato ordine, sicchè se ne possa trarre un quadro clinico che può
valere come caratteristico dell'avvelenamento da alcool.

Per un certo periodo, la cui durata può variare da mesi ad anni, il
beone non prova disturbi degni di nota; apparentemente, anzi, egli si fa
più florido. L'ingrassamento difficilmente si può ripetere da una
maggior entrata di grasso nell'organismo, poichè gli individui di solito
mangiano meno dell'ordinario. Più probabile è che dipenda da un
diminuito consumo del grasso già esistente nel corpo, in conseguenza
dell'azione dell'alcool, la quale si spiegherebbe appunto, come molte
esperienze hanno dimostrato, col limitare la combustione dei materiali
ch'entrano a costituire l'organismo.

Ad un certo punto il malato comincia a perdere l'appetito; fa pasti
irregolari, e dopo di essi prova allo stomaco un senso di tensione, di
peso, di dolore. Alla mattina, senza altra causa, ha spesso vomito di
masse di muco. Io voglio insistere su questo fatto, così raro nella vita
comune, del _vomito mattutino_; poichè, siccome esso non è che il primo
di una lunga iliade di guai, così dev'essere dal bevitore considerato
come il primo araldo della natura medicatrice, che lo avverte del
pericolo che corre, e gli dirige un minaccioso _nec plus ultra_. E
talvolta la natura rinforza il suo avvertimento in un modo più visibile,
regalando al beone un naso grosso, tuberoso, rosso vivo, percorso da
eleganti vene circonvolute, ed umettato da grasso e da sudore.

Ma il più delle volte il peccatore non si corregge, ed allora i sintomi
si fanno più gravi. La digestione diviene sempre più difficile,
l'infermo non fa che accompagnare di pochi bocconi la sua bevanda
prediletta. Comincia un affievolimento e un tremore a piccole scosse
ritmiche alle mani (_tremor potatorum_), che poi si estende alle
braccia, alle gambe, alle labbra, alla lingua, a tutta la persona:
quindi incerta e debole è la presa, vacillante il passo, confusa o quasi
inintelligibile la parola. La voce è rauca pel frequente catarro cronico
della laringe. Questi fatti sono più spiccati alla mattina a digiuno;
bevendo, il tremore diminuisce, ma per poco. Vista intorbidata; veglia
ostinata o sonno inquieto, preceduto da formicolìo o stiramento alle
gambe, e poi anche alle braccia. Vertigini, confusione nelle idee,
affievolimento della memoria e dell'intelligenza.

Ai disordini di motilità, che di raro progrediscono fino alla vera
paralisi, si associano ben presto disordini di sensibilità. Talora
questa, specialmente alle gambe, è di tal modo aumentata, che anche il
toccar leggermente la pelle o il comprimere i muscoli cagiona vivo
dolore, senza contare dolori spontanei pungenti, laceranti, frizzanti
che tormentano l'infermo, massime di notte, e gli rubano il già scarso
sonno. Più di frequente, invece, la sensibilità diminuisce,
incominciando dalle dita e venendo all'insù. L'apatia intellettuale è
interrotta da allucinazioni di più in più frequenti, vivaci, spesso
paurose. Le alterazioni gravi degli organi più importanti hanno per
effetto una profonda denutrizione dell'individuo; questo, dapprima
florido e grasso, deperisce rapidamente; la pelle si fa inelastica, si
accolla ai muscoli ed alle ossa sottoposte, diventa di colore sporco,
giallo-verdastro.

Insorgono convulsioni, e queste non di rado fanno passaggio a veri
accessi epilettiformi. La vista e l'udito si ottundono ognor più. La
debolezza intellettuale cresce a demenza, interrotta ancora tratto
tratto da accessi di delirio. E così, o nel più alto grado di marasmo, o
in uno stato di collasso, o in un accesso epilettiforme, o per malattie
intercorrenti la vita dell'infermo si spegne.

In questo succedersi dei fenomeni dell'alcoolismo i sintomi offerti dal
sistema nervoso sono i predominanti; e, considerati nel loro complesso,
sono così caratteristici, che non possono di leggieri essere confusi con
quelli di malattie nervose cagionate da altro che dall'alcoolismo. Ad
essi si aggiungono non di rado dei perturbamenti speciali
dell'intelligenza e degli accessi di _delirium tremens_, di cui avrà
occasione di intrattenervi prossimamente il prof. Lombroso.

Andrebbe, però, di molto errato colui, che non riconoscesse i venefici
effetti dell'alcool che in questo modo di manifestarsi della malattia.
In un numero di casi di gran lunga maggiore l'alcool danneggia poco o
nulla il sistema nervoso, e concentra la sua azione sull'uno o
sull'altro dei più importanti organi del corpo; sicchè la malattia, a
seconda dell'organo colpito, assume diverse forme ed uccide per diversa
via.

Talvolta, ad es., appaiono in prima linea le alterazioni del fegato. La
cirrosi, di cui v'ho già parlato come di conseguenza frequente
dell'avvelenamento alcoolico, è, sotto il punto della guaribilità, una
forma morbosa assai più grave di quella testè descritta. Nella forma
nervosa, anche quando i fenomeni sono già relativamente avanzati, con
un'adatta cura si può avere speranza di guarigione; lo stato
dell'intelligenza migliora, i muscoli riprendono, almeno in parte, le
loro forze, le funzioni dello stomaco si riordinano, la nutrizione
dell'individuo ripiglia vigore. Nella cirrosi del fegato, invece, l'aver
constatata la malattia ci permette già di prevedere la inevitabile morte
del paziente. Quel connettivo che si forma tra acino ed acino della
ghiandola, e che, qualunque cosa si faccia, continua a crescere, a
coartarsi e a raggrinzarsi, non solo rovina le cellule proprie della
ghiandola, ma, comprimendo i troncolini della vena porta, e rendendovi
difficile il passaggio del sangue, dà luogo a gravissimi disturbi
circolatori nelle vene, da cui la porta trae origine, cioè nelle vene
dello stomaco, dell'intestino, della milza e del peritoneo; ed è in
conseguenza di questi disturbi che, di solito, la morte sopravviene.

Altre volte sono i reni che vengono a preferenza colpiti. A questo
riguardo è da notare il fatto curioso, che mentre in Inghilterra è
frequente l'infiammazione dei reni quale effetto dell'alcoolismo, in
Germania ciò sembra molto raro; la qual differenza si vorrebbe spiegare
con questo, che in Inghilterra l'alcool vien bevuto sotto quella forma
concentratissima ch'è il _gin_^[IX-3]. Sì nella cirrosi epatica, che
nell'infiammazione renale gli infermi muoiono di solito fortemente
idropici; il che ha dato origine al lugubre detto: _qui vivunt in
spiritu, in aquis moriuntur_.

Una grande importanza nel quadro dell'alcoolismo è da accordare alle
alterazioni dei vasi sanguigni, così dei grossi come dei più piccoli. In
essi l'alcoolismo è frequentemente causa di una speciale malattia, detta
_ateroma_, per la quale alcune delle tonache del vaso diventano tratto
tratto tumide, scabre, meno resistenti, sicchè più facilmente cedono e
si rompono sotto la pressione del sangue contenuto nel vaso. Fra le
conseguenze di quest'alterazione citerò le due più comunemente note,
cioè la formazione e poi la rottura di aneurismi, e l'apoplessia
cerebrale; sì quelle che questa, se interessano vasi grossi, danno luogo
in non rari casi a morti improvvise, fulminee; quando, a cagion
d'esempio, l'individuo, bevendo ad un tratto una forte dose d'alcool,
ecciti a contrazioni repentinamente energiche il suo cuore.

Io non posso lasciare quest'argomento senza toccare della profonda
denutrizione, cui l'alcoolismo dà luogo. Abbiamo veduto come lo stomaco
sia l'organo che, primo, soffre; il beone va sempre assottigliando la
quantità dei cibi, e neppur quei pochi ch'egli introduce possono
convenientemente venir elaborati ed assorbiti dallo stomaco e
dall'intestino, poichè queste parti si trovano in uno stato morboso,
cui, anzi, l'irritazione prodotta dalla presenza dei cibi aumenta
vieppiù. Lasciamo da parte le conseguenze locali di ciò, cioè i catarri
cronici dell'organo, che possono diventar minacciosi per sè soli (dando
luogo a formazione di ulceri ed a pericolose emorragie) e che meritano
tutta la nostra attenzione per la loro frequenza; poichè insorgono anche
pel solo abuso non grande ma abituale del vino. Quante difficoltà di
digestione, quanti dolori di stomaco, che si curano inutilmente colle
polveri, colle pillole, colle tinture, riconoscono la loro origine in
qualche bicchiere di più bevuto nella serata! — Quello che più mi preme
di far notare si è l'effetto ultimo di questo stato degli organi
digerenti. La scarsità del materiale nutrizio che l'organismo riceve da
essi fa sì, che tutte le parti che lo compongono immiseriscano; e questo
loro deteriorare è reso più rapido e profondo dall'azione pervertitrice
che, come già dissi, l'alcool ha già esercitato sugli elementi
microscopici che concorrono a costituirle. Da ciò deve ripetersi
specialmente il marasmo che si stabilisce negli alcoolisti, e il loro
aspetto miserando. A questo s'aggiunga, che i più piccoli vasi
sanguigni, quelli che direttamente distribuiscono l'alimento ai gruppi
di elementi, sono del pari probabilmente alterati dall'alcool; in molti
di essi si può constatare una degenerazione grassa delle pareti, e forse
questo non è che uno stadio avanzato di un processo, che ne' suoi primi
periodi è sfuggito sinora alle nostre indagini. Ora, tale alterazione
non può che alterare il rapporto fra sangue ed elementi; rendere più
scarsa ed irregolare la quantità di nutrimento che questi ricevono. Nè
ciò basta. Il cuore negli alcoolisti subisce di frequente la
degenerazione grassa, s'indebolisce, e spinge fiaccamente il sangue nei
vasi; quindi, rallentamento di circolazione e nuova causa di
insufficiente nutrizione degli elementi. Ove si consideri questo
complesso di condizioni, e la straordinaria debolezza organica che ne
deriva, si comprenderà facilmente come negli alcoolisti valgano a
produrre malattie serie delle cause morbigene che avrebbero poca o
nessuna influenza su individui robusti; e come in essi ogni processo
morboso anche accidentale, come una infiammazione od una ferita, abbia
decorso più grave, più facilmente si complichi, e più frequentemente
termini in modo funesto. Mi valga ad esempio la pneumonite. Essa insorge
di frequente nei bevitori, e vi si complica di solito a delirio ed a
suppurazione e gangrena polmonare; cosicchè la mortalità dei malati
alcoolisti è del doppio o del triplo più grande di quella dei malati
comuni. Fismer in Basilea ebbe persino il 55 per cento di morti^[IX-4].

La conclusione di quanto ho esposto finora sui danni fisici prodotti
dall'alcool si è evidentemente questa, che quel tipo morboso che è
conosciuto sotto il nome di alcoolismo in senso stretto non è che uno
dei modi in cui questi danni possono manifestarsi, e che di gran lunga
più numerosi sono quei casi di malattia, che non hanno apparentemente
nulla di caratteristico, e che, nullameno, in via diretta od indiretta
provengono dall'abuso di vino o di liquori. E contuttociò noi non
abbiamo studiato la funesta influenza di questo abuso che sotto un solo
punto di vista. Non abbiamo toccato delle malattie e dello stato di
debolezza che gli ubbriaconi trasmettono ai loro figli, e ancora non
abbiamo fatto cenno delle morti dovute sia a disgrazie imputabili allo
stato di ubbriachezza, sia al suicidio, che spesso è la via che il beone
sceglie per liberarsi dall'indigenza o dalla falsa posizione sociale che
il suo vizio gli procura. Allorchè, adunque, si dice, ad es., che in
Inghilterra in 28 anni (dal 1847 al 1874) sono morte 22723 persone di
alcoolismo, e che in Francia in 13 anni (dal 1853 al 1865) ne sono morte
3554^[IX-5] non si dà che una ben pallida idea degli effetti di questo
veleno; infatti, non vi vennero calcolati che quegli individui, che
durante la vita diedero manifestazioni corrispondenti alla descrizione
classica della malattia.

Risultati approssimativamente esatti non si possono avere che calcolando
la mortalità e la vita media dei beoni. Il che venne fatto da alcuni
scrittori. Così _Neison_^[IX-6] trovò che sopra 6111 bevitori ne erano
morti 357, mentre sullo stesso numero di altre persone i morti non erano
stati che 110, il che dà nei primi una mortalità 3,25 volte maggiore che
nei secondi. Comparando poi la mortalità dei temperanti con quella dei
bevitori nei diversi periodi della vita, gli apparve che, mentre la
differenza raggiunge il suo massimo fra i 20 ed i 30 anni, giacchè in
questo periodo alla morte di un temperante corrisponde quella di più che
5 bevitori, più tardi la differenza gradatamente diminuisce, finchè dopo
gli 80 anni scompare; come vien dimostrato dalla seguente tabella:

    ----------------------------------------------
    ETÀ DEGLI INDIVIDUI | Rapporto della mortalità
                        |     dei temperanti
            Anni        | con quella dei bevitori
    --------------------|-------------------------
            16–20       |        1 : 1,8
            20–30       |        1 : 5,1
            30–40       |        1 : 4,2
            40–50       |        1 : 4,1
            50–60       |        1 : 2,9
            60–70       |        1 : 1,9
            70–80       |        1 : 2,0
            80–90       |        1 : 1,0

Di conseguenza, le probabilità di durata della vita nei bevitori sono
assai inferiori a quelle dei temperanti, e ciò in misura tanto maggiore
quanto più l'individuo è giovane, come appare dal seguente specchietto,
dato dallo stesso autore e calcolato sempre su popolazione inglese:

       ---------------------------------------------------
                        |          Vita probabile
         Età raggiunta  |  ________________^______________
         dall'individuo |  nei temperanti  |  nei bevitori
                        |      Anni        |     Anni
       -----------------|------------------|--------------
            20  anni    |      44,21       |     15,56
            30   »      |      36,48       |     13,80
            40   »      |      28,79       |     11,63
            50   »      |      21,25       |     10,86
            60   »      |      14,28       |      8,95

Da uno studio comparativo sulla mortalità degli alcoolisti fatto dagli
agenti del _Medical, Invalid and General Life Office_ di Londra, si ha
un'importante conferma dei risultati antecedenti.

Morirono nell'età di

                             Bevitori    Temperanti
        21–40 anni              10 %         1 %
        41–60 anni              12 %         3 %
        60 in su                26 %        13 %

La mortalità nel periodo dai 21 ai 40 anni è adunque nei bevitori 10
volte più grande che nei temperanti!

Evidentemente questi risultati non si possono generalizzare, poichè nei
diversi paesi devono variare gli effetti dell'alcool sia secondo il
clima, la costituzione della popolazione, ecc., sia secondo la qualità
della bevanda alcoolica più usata. Ed oltracciò da questi studi avremmo
dei risultati soltanto relativi ad un determinato numero di bevitori.
Per averne di assoluti, si dovrebbe, innanzi tutto, conoscere il numero
dei bevitori di un paese; al che finora non si riesce che per mezzo di
calcoli di assai lontana probabilità.

Ad ogni modo, che questo numero sia grandissimo, nessuno può porre in
dubbio. L'alcoolismo conta infiniti proseliti in tutte le classi della
popolazione, è diventato un terribile flagello sociale. Nelle basse
classi esso esercita una più malefica influenza perchè l'alcool vien
bevuto generalmente sotto forma di liquori, e perchè alle malattie,
ch'esso direttamente produce, si sommano quelle dovute alla miseria,
conseguenza così frequente di una vita di stravizi. Istruttivo, a questo
riguardo, è il fatto della grande mortalità dei venditori d'acquavite.
E, per vero, da statistiche inglesi si rileva^[IX-7] che nell'età di
44–45 anni muoiono in un anno

         Sopra  1000  campagnuoli           12 persone
           »     »    calzolai e tessitori  15    »
           »     »    droghieri             16    »
           »     »    fabbri                17    »
           »     »    minatori              20    »
           »     »    fornai                21    »
           »     »    macellai              23    »
           »     »    acquavitai            28    »

I venditori d'acquavite muoiono il doppio dei campagnuoli. È proprio il
caso di dire colla scrittura: _qui gladio ferit, gladio perit!_

Ma anche nelle classi più alte e più colte infuria il demonio
dell'alcool. Non parlo di quella classe posta a capo degli ordini
sociali, in cui libito è sinonimo di licito, in cui sfrenatezza di
potere eccita sfrenatezza di desideri. Quante volte le pieghe d'un manto
imperiale nascosero pietosamente agli occhi profani il corpo smunto,
avvizzito di un alcoolista! — Ma tenendoci in una sfera più modesta, chi
di noi non ha personalmente conosciuto molte vittime del bere? Io
ricordo sempre un mio compagno d'università, giovane ricco,
accuratamente educato, che, al primo trovarsi libero, cominciò a
frequentare le bettole, e ben presto passò dal vino all'acquavite ed al
rhum. Accasciato di corpo e di mente, i parenti suoi non trovarono
miglior partito che di mettergli a fianco una moglie, una giovine bella
e gentile, che nella calma gioia della famiglia gli facesse dimenticare
gli osceni tripudi della taverna. Ma invano! A nulla valsero le
preghiere, le lagrime, i rimproveri. Sorvegliato di continuo in
famiglia, egli giunse (ch'il crederebbe?) a corrompere la suocera,
comunicandole la sua passione per l'alcool; sicchè, quando la moglie,
fidente nella buona guardia della madre, usciva di casa, i due strani
alleati si concedevano libero sfogo, e furono veduti talora, dimentichi
d'ogni riguardo sociale, cioncare allegramente in una bettola vicina,
tra facchini e carrettieri, cui essi servivano, ad un tempo, di pessimo
esempio e di ludibrio.

Del resto, questo sprezzo delle convenienze sociali è abbastanza comune
nei bevitori. Essi non nascondono il loro vizio. Conobbi un professore,
il cui cavallo, ammaestrato dalla quotidiana abitudine, e prevenendo i
desideri del padrone, si arrestava, senza bisogno di redini, dinanzi
agli spacci di liquori più frequentati della città!

In molte occasioni lo sprezzo delle convenienze è indizio di animo
forte. In questa, di cui ragioniamo, parmi invece, segno di quella
debolezza morale di cui il beone è preda. L'alcool come gli ha fiaccato
l'intelligenza, gli ha tolto ogni forza di volontà. L'infelice può
ancora vedere il precipizio in cui cade, ed in cui forse trascina la sua
famiglia; ma non può ritrarsene, perchè a ciò abbisognerebbe più somma
di energia ch'egli non abbia. La forza morale, anzi, gli si annienta non
di rado prima di quella dell'intelligenza; è un naufrago che si vede
trascinato dalle onde a schiacciarsi inevitabilmente contro gli
scogli. —

Che si può dire dell'alcoolismo nella donna? Meglio nascosta nell'intimo
della famiglia, più accorta e più sollecita nel nascondere i propri
difetti essa può, meglio di noi, sfuggire alle investigazioni
dell'igienista. Si citano dagli autori dei casi di signore in cui
l'abuso nella _toilette_ d'acqua di Colonia produsse tutte le
manifestazioni dell'alcoolismo. Nel giudicare del fatto stranissimo io
non voglio essere tacciato di malignità. Come tutto ciò che proviene dal
cielo, le signore hanno il loro _sancta sanctorum_ in cui non è lecito
penetrare a sguardo profano. Ma in un'epoca di libero esame come la
nostra non sarà permesso qualche dubbio? I medici sono scettici per
dovere. Or sono pochi mesi io visitai una gentile sposina diciottenne,
la quale alle mie insistenti domande per rintracciare le cause di certi
suoi disturbi, mi confessò, arrossendo, ch'essa usava bere ogni giorno
più spesso tre che due litri di vino. E vi prego di credere che, ove
bisognasse, potrei moltiplicare gli esempi.

Nelle basse classi l'ubbriachezza nelle donne è abbastanza comune e
palese. Così, ad esempio, nei paesi della Granbretagna si ebbe il
seguente rapporto fra uomini e donne che per ubbriachezza dovettero
venir ritirati dalla polizia^[IX-8]:

    ----------------------------------------------------------
     ANNI |   INGHILTERRA   |     IRLANDA     |    SCOZIA
    ------|-----------------|-----------------|---------------
          | uomini | donne  | uomini | donne  | uomini | donne
     1847 | 40,822 | 23,520 | 19,559 |  9,587 | 14,164 | 7,627
     1849 | 41,961 | 23,936 | 23,827 | 12,102 | 13,481 | 6,625
     1851 | 44,500 | 25,597 | 25,729 | 11,903 | 16,623 | 8,227

In complesso, adunque, nei tre anni si ebbero ubbriachi 240,866 uomini,
e 129,124 donne; queste furono più della metà di quelli. È chiaro che
questa proporzione debba variare nei diversi paesi, e come, a cagion
d'esempio, le donne siano assai più temperanti nel nostro. Se noi, però,
quali bevitori superiamo le donne per numero, ne siamo a nostra volta
superati per quella dote, che esse dicono di possedere in grado assai
più alto di noi, voglio dire per la costanza. Considerando anche
soltanto i casi di alcoolismo acuto, noi vediamo che nella donna la
recidiva è frequentissima. Il Verga nella sua bella monografia
_sull'ubbriachezza in Milano_^[IX-9] ci racconta, che nell'Ospedale
Maggiore di quella città alcune donne vennero ricoverate per 4, 6, 8,
fino 13 volte in un anno solo, mentre pochissimi uomini vi vennero
accolti per più di due volte.

L'alcoolismo, come già altri ebbe occasione di dirvi, è variamente
diffuso nei diversi paesi, e ciò dipende meno dal clima e dalla
costituzione, che dalla quantità e dalla qualità di alcool che vi si
beve.

È noto che le numerose bevande alcooliche differiscono grandemente fra
loro per la quantità di alcool contenutovi.

Le _birre_^[IX-10] ne sono le più povere. Dalla birra di Berlino che
contiene 3,77 volumi per cento di alcool, non saliamo al di là della
Porter e della Ale che ne contengono poco più del 7 ed 8 per cento.

Molto al disopra delle birre stanno generalmente i _vini_, di alcuni dei
quali trascrivo qui il contenuto alcoolico secondo Parkes.

                                                    Vol. per cento
    Champagne                                        5,8  — 13
    Mosella                                          8    — 13
    Reno (Johannisb. Hochheim., Rüdesheim.)          6,7  — 16
    Ungheresi                                        9,1  — 15
    Borgogna bianco (Chablis, Maçon)                 8,9  — 12
    Borgogna rosso                                   7,3  — 14,5
    Bordeaux rosso (Chât. Lafitte, Margaux, Larose)  6,8  — 13
    Bordeaux bianco (Sauterne, Borsac)              11    — 18,7
    Porto                                           16,3  — 23,2
    Sherry                                          16    — 25
    Falerno                                         19    — 20
    Lacryma Crysti                                  19,70
    Marsala                                         18,20 — 26,3
    Madera                                          14    — 24,4
    Malaga                                          17,2  — 28,9

Finalmente per i _liquori_ abbiamo il seguente contenuto procentuale di
alcool:

        Acquavite                  30 — 50
        Whisky                     30 — 60
        Cognac                     55
        Taffia                     62
        Gin                        49 — 60
        Brandy                     50 — 60
        Rhum                       60 — 70

I liquori sono, adunque, assai più ricchi di alcool del vino e della
birra; ma se si considera che di queste ultime bevande si usa in misura
assai più larga che dei liquori, si comprenderà come anche in esse si
possa avere una feconda sorgente di malattie. Un litro di buon vino, o
due litri di forte birra equivalgono nel contenuto alcoolico ad un
quintino di rhum o di cognac. Lo meditino i bevitori!—

Non meno della quantità debb'essere considerata la qualità dell'alcool
che introduciamo. Di ciò venne già parlato da altri miei colleghi; ma io
credo necessario di tornarvi sopra, poichè è un argomento della massima
importanza nella questione dell'alcoolismo. È ben vero che anche il vino
più pretto, in cui è specialmente rappresentato l'alcool etilico, basta
a procurarci la malattia con tutte le conseguenze più funeste; come vien
dimostrato da questo solo, che l'alcoolismo infieriva anche
nell'antichità, quando dell'alcool non si conosceva nè manco il nome;
Seneca nelle sue epistole ce ne dà una descrizione esattissima. Ma non è
meno vero che le bevande alcooliche, che si ottengono ora da altro che
dalla vite, contengono degli alcool diversi dall'etilico, e che sono
assai più dannosi di questo. _Richardson_^[IX-11] ne' suoi esperimenti
trovò che specialmente l'azione deprimente sul cervello aumenta
coll'aumentare del carbonio e dell'idrogeno nella composizione chimica
dell'alcool; quindi in ragione crescente dall'alcool propilico, al
butilico, all'amilico ed al caprilico. Ora, molti liquori contengono
parecchi di questi alcool, e l'acquavite di patate (ed in minor misura
quella di grano) si distingue per la quantità d'alcool amilico che
contiene. Tali bevande riescono, quindi, assai nocive anche quando non
sono bevute in larga misura; anche quando la quantità dell'acquavite
quotidiana stia molto, ma molto al disotto del litro e mezzo, che è il
massimo a cui, al dire di Magnus Huss, arrivano i forti bevitori di
Stoccolma.

È questo un pericolo dal quale devono guardarsi anche i bevitori di
vino. Da pochi decenni la fabbricazione dei cattivi alcool va
aumentando, ed i suoi prodotti, pel poco lor costo, s'adoperano a larga
mano per rinforzare il vino. In recenti ricerche fatte a Parigi^[IX-12]
s'è constatato, che molti operai vennero colti dall'alcoolismo ad onta
che non usassero bere più di due litri di vino al giorno. Questa misura,
se si fosse trattato di vino schietto, non avrebbe potuto dare
conseguenze; in essi, invece, ne produsse, e di gravi, per la pessima
qualità degli alcool che si mescolano al vino nelle bettole parigine. —
È un fatto che merita tutta la nostra attenzione, sia perchè questa
adulterazione dei vini è facile e frequente, sia perchè la polizia
sanitaria può agevolmente portarvi rimedio.

Dopo tutto ciò, c'è forse da stupire quando da fonte ufficiale ci si
annuncia^[IX-13] che negli Stati Uniti d'America nel decennio 1860–70
l'alcool ha ucciso 300 mila uomini, ne ha spinto almeno 150 mila nelle
prigioni e negli ergastoli, ed ha mandato 100 mila ragazzi nelle case di
lavoro?

Io ho riassunto, così, il meglio che ho potuto i danni prodotti
dall'alcool. Crederei, però, di mancare non meno al mio còmpito che alla
giustizia se, prima di finire, io non toccassi anche il lato opposto
della questione. Già altri vi ha parlato degli effetti sull'individuo
sano di questo prezioso liquore, che allieta tante ore della nostra
vita, e che sì spesso anima di espansiva gaiezza i nostri convegni. — A
me spetta di parlarvi in breve di quanto l'alcool può nell'organismo del
malato.

Esso, in dose appropriata, è un leggiero eccitante, specialmente dello
stomaco, del cuore, dei reni e del sistema nervoso. Ho detto _in dose
appropriata_, poichè errerebbe colui che, ad es., credesse di potere
digerire tanto meglio quanto più di alcool beve; al di là di un certo
limite questo, anzi, rallenta ed arresta ogni processo di digestione. —
Questa facoltà eccitante dell'alcool, benchè ci torni preziosa tanto in
molte malattie croniche, quanto nella convalescenza delle malattie
acute, epperò venga posta assai spesso a profitto, non rappresenta che
uno, e non il maggiore, dei vantaggi che esso può dare.

Comunemente si crede che l'alcool riscaldi, appoggiandosi al senso di
grato calore che si prova dopo di averne bevuto una certa quantità; e,
fondandosi su questo fatto, si è stabilito il pregiudizio che gli
alcoolici debbano nuocere in ogni sorta di malattie infiammatorie.

Il collega prof. Mosso, trattando dell'azione fisiologica, espose come
numerose ed accurate ricerche abbiano dimostrato, che l'alcool agisce
diminuendo l'eliminazione dell'acido carbonico e dell'urea, val quanto
dire diminuendo il consumo dei materiali del nostro organismo. L'alcool,
in ultima analisi, non riscalda, ma raffredda. Questa proprietà riesce
di alta importanza pel medico, il quale se ne giova nella cura delle
malattie febbrili. Nello stato di febbre l'organismo consuma assai più
che nelle condizioni ordinarie; l'ossigeno, che introduce coll'aria
inspirata nei polmoni, gli brucia in maggior copia le sostanze chimiche
che entrano nella sua costituzione, e come manifestazione di questa
cresciuta combustione noi abbiamo quell'aumento di temperatura interna
ed esterna, quello scottore della pelle che tutti conoscono. — Or bene,
in molti casi l'alcool riesce a frenare questo esagerato consumo; il che
ci viene tosto indicato dall'abbassamento della temperatura segnata dal
termometro. Non sappiamo bene per qual via ciò si ottenga; se per ciò
che l'ossigeno viene più strettamente legato alla sostanza colorante del
sangue, e, così, impedito di combinarsi in soverchia quantità coi
materiali dei nostri tessuti, ovvero perciò che questi diventano più
resistenti contro l'azione distruttiva di esso. Ciò che importa si è,
che l'effetto si ottenga. In gran numero di malattie febbrili la morte
trova la sua causa soltanto nella distruzione organica causata dalla
febbre; sicchè il frenare quest'ultima equivale al salvare il malato.

Nè a ciò solo si limita l'azione dell'alcool. Anche in quei casi in cui
esso è impotente contro la febbre, e può essere sostituito da sostanze
più attive, tuttavia si amministra e giova col diminuire in altro modo
il consumo. Come già venne loro esposto, l'alcool, introdotto
nell'organismo, si combina, almeno in parte, coll'ossigeno della
respirazione, e, trasformandosi in combinazioni sempre più semplici,
viene alla fine eliminato specialmente sotto forma di acido carbonico ed
acqua. In queste sue successive modificazioni esso sviluppa calore, e
lega a sè quell'ossigeno, che, ove non fosse l'alcool, avrebbe
trasformato e consumato una corrispondente quantità di elementi
integranti del corpo. Se non abbassa la febbre, quindi, ne allevia le
conseguenze.

Nè ho finito. In molte malattie, accompagnate o no da febbre, non è raro
che inaspettatamente insorga quello stato che si designa col nome di
_collasso_. Il cuore d'improvviso si indebolisce, la circolazione si
rallenta, l'intelligenza s'annebbia, le estremità si fanno fredde, la
respirazione diventa irregolare, affannosa; la morte minaccia da vicino.
In questi casi, in cui un ritardo di minuti può essere fatale, l'alcool
è un eccitante potente, e ch'è sempre alla mano. Esso risveglia
rapidamente l'attività intorpidita delle funzioni, e, salvando al
momento, dà tempo di pensare ad aiuti di più durevole azione.

Con siffatti risultati, non è bisogno di dire se e quanto l'alcool venga
usato in medicina. Una trentina d'anni fa un distinto medico tedesco
ebbe seriamente minacciata la sua posizione sociale e danneggiata la sua
clientela per aver ordinato vino in un tifo che poi terminò colla morte.
Attualmente, invece, l'alcool trova quasi sempre il suo posto fra i
rimedi e gli alimenti del malato. Il più delle volte lo si amministra
sotto forma di vino, prescegliendo a seconda dei casi dei vini ricchi di
acido carbonico come il Champagne, o dei vini forti, come il Barolo, il
Bordeaux, e più ancora il Marsala; ma non sono troppo rari i casi in cui
bisogna passare addirittura ai liquori: alla buona acquavite, al rhum ed
al cognac. È incredibile quanto i malati ad alta febbre li sopportino.
Una dose, che renderebbe ubbriaco un sano, rende in essi il polso più
pieno e più regolare, la respirazione più libera, l'intelligenza più
aperta, ed aggiunge a tutto ciò un senso di generale benessere. Ed è
incredibile quanto facilmente si abituino al bere. Io ho vedute non
poche signorine malate di ileotifo, che non avevano mai fatto uso di
vino, e che torcevano la bocca allorchè, nei primi giorni d'alta febbre,
loro se ne porgeva qualche cucchiaio, bere, dopo che ne avevano
sperimentato il giovamento, quasi mezza bottiglia di Marsala al giorno,
e non dimostrare, con tutto ciò, di esserne sazie.

Per ultimo, se l'alcool serve spesso a combattere la malattia e ad
affrettare la guarigione, quanto non giova esso mai nel triste periodo
dell'agonia, quando l'organismo, vinto e sfinito, combatte l'ultima ed
inutile lotta! Anche in questi estremi momenti, in cui il cuore si
spossa in sforzi convulsi, in cui il respiro è rantolo, ogni sensazione
uno spasimo, il pensiero uno strazio, l'alcool scende consolatore
fedele, ed, annebbiando la mente ed i sensi, rende meno cruccioso il
presente, meno spaventoso il dubbio avvenire.

      SIGNORI!

Senza passione e senza velo vi ho esposto di quanto bene e di quanto
male noi andiamo debitori all'alcool; di quale infinita misura i danni
superino i vantaggi. L'alcoolismo è una calamità pubblica, che s'aggrava
ogni dì più, e contro cui i Governi illuminati hanno già incominciato la
difesa. — Del resto, chi non ne ricorda l'influenza sulla _Comune_ a
Parigi? Chi non ne riconosce l'influenza su quel malessere profondo, che
tormenta le basse classi sociali?

Altri vi parlerà dei provvedimenti da prendersi. Il più radicale sarebbe
quello di bandir l'alcool dall'uso quotidiano, e a ciò mirano molte
Società di temperanza. Ma diciamolo subito: tendere a ciò sarebbe
tendere verso un'utopia.

Gli uomini, in qualunque tempo, paese, grado di civiltà ebbero sempre
bisogno di quelle sostanze che il mio illustre maestro, il prof.
Mantegazza, chiamò _alimenti nervosi_, e che essi seppero procurarsi in
mille modi diversi^[IX-14]. Orbene, pigliatemi la coca od il mate, il
caffè od il betel, l'haschisch o l'oppio o il thè od il tabacco, e
ditemi quale di essi, pel prezzo, per la facilità di averlo, e, più che
tutto, per gli effetti possa competere vittoriosamente coll'alcool?

Certo, se l'uomo non fosse stato cacciato dal paradiso terrestre, e
vivesse ancora in un'atmosfera di pace e d'amore, egli potrebbe passarsi
d'ogni alimento nervoso. — Ma in questa nostra società, dove non si può
progredire che sul corpo dei caduti, dove quasi ogni giorno che passa ci
appresta un disinganno od uno sconforto, dove l'ideale divino è
impallidito di tanto, e l'umano non ci convince o riscalda quanto
bisognerebbe, in questa nostra società chi oserà lanciare l'anatema
contro questo nettare che infonde la calma, e tempra l'animo ed aguzza
la mente ad una lotta sempre nuova?

Ma una cosa possiamo e dobbiamo fare con speranza di successo.
Combattere l'invasione crescente dei liquori coll'opporle del vino buono
ed a buon mercato; sostituire all'alcool dei liquori, così concentrato,
e così certamente venefico, l'alcool del vino, più gradito al palato, e
di cui più facilmente si può frenare l'abuso. — E se altri può dubitare
della riuscita, non lo dobbiamo noi, nati in una terra a cui la vite ha
prodigato i suoi tesori, fra un popolo ch'ebbe sempre la moderazione a
virtù prediletta.

Anch'io, dunque, coll'amico Cognetti, faccio voti perchè in Italia
s'aumenti e si migliori la produzione del vino; ma non già, com'egli
vorrebbe, per venderlo agli stranieri, sì bene per tenerlo e berlo fra
noi.

[IX-1] KLEBS, _Handbuch der path. Anatomie_, Berlin, 1868.

[IX-2] EBSTEIN, _Virch. Arch._, vol. 55.

[IX-3] BARTELS, _Ziemssen's Hand._, vol. IX, p. 373.

[IX-4] IUERGENSEN, _Ziemssen's Hand._, vol. V, p. 119.

[IX-5] BAER, _Alcoholismus_, pag. 283.

[IX-6] L. c., p. 310.

[IX-7] BAER, l. c., p. 314.

[IX-8] BAER, l. c., p. 191.

[IX-9] _Memorie del R. Istituto Lombardo_, 1873.

[IX-10] BAER, l. c., p. 129.

[IX-11] _Med. Times and Gazette_, 1869.

[IX-12] _L'Économiste français_, 1879, nº 23 e 26.

[IX-13] BAER, l. c., pag. 10.

[IX-14] Vedasi a proposito del vino e degli alimenti nervosi la
bell'opera di MANTEGAZZA, dal titolo _Feste ed ebbrezze_, Milano.



                             _C. LOMBROSO_
                                   —
           IL VINO NEL DELITTO, NEL SUICIDIO E NELLA PAZZIA

           (_Conferenza tenuta la sera delli 22 marzo 1880_).


POMO D'EVA. — Chi compari la più antica leggenda Semita, quella di Eva,
coll'altre che corsero sulla Saoma nell'India, e sul _Med_ nel nord
d'Europa, vi trova una spiegazione assai più semplice che non sia quella
della cognizione sessuale, immaginata dai mitologisti moderni con così
poca verosimiglianza (De Gubernatis); intravvede che si trattava di quel
frutto, il pomo forse, tanto indiziato dalla tradizione popolare, donde
escì il primo liquore fermentato, il _sidro_, mentre col biblico albero
della _vita_, che gli stava vicino, si voleva probabilmente alludere a
quell'altro la vigna, detto in Accadico _ges-tin_, legno della vita,
donde si trasse l'alcool o l'acqua della _vita_, così omologo nel
significato all'_amrita_ — immortale degli Indiani, ed all'_abrotos_ dei
Greci.

Coloro che, in grazie alle condizioni economiche o di clima o di casta,
fecero solo un parco uso delle sostanze fermentate o dei loro
sostitutivi, oppio, coca, ecc., non ne videro se non la strana e
benefica efficacia, l'eccitamento meraviglioso dell'intelligenza e della
memoria, e delle più nobili passioni, dell'amore sopratutto e della
benevolenza. Al succo dell'asclepias, alla saoma, quindi attribuirono
facoltà meravigliose, e non solo la ispirazione poetica, ma il coraggio
degli eroi, e perfino la virtù di rendere immortali (amrita). «Noi
abbiam bevuto la soma (Rig. Veda VIII. p. 48); noi divenimmo immortali,
entrammo nella luce, ecc. Il _Soma_ che genera gli inni ed il talento
del poeta (_idem_, IX, 25)».

Nel Yacna di Zoroastro, il succo dell'Haoma, che è tutt'uno del Soma
«allontana la morte».

Il sacerdote era sinonimo di bevitor di soma, e poi finalmente il Soma
stesso divenne, per quei rivolgimenti facili nelle creazioni popolari,
un Dio, un Dio così potente da rivaleggiare col fuoco (Rig. Ved. IX,
96): «Soma, tu che fai i _Richis_, che dài il bene, padrone di un
migliaio di canti, ecc., tu immortale, dài l'immortalità agli Dei e agli
uomini».

La Saoma non era permessa che ai Bramini: così come nel Perù la coca era
solo concessa ai discendenti dell'Incas e fra i Chibcha ai preti, che se
ne servivano come di un agente di ispirazione.

Anche il Med, la bevanda dell'Edda, di _miele_ e sangue, faceva divenire
poeti e saggi gli uomini (KUHN, _Die Herabkunst der Feuers_, 1859). E
qui ricordo come il grande Idhunna dell'Edda fu sedotto da Loki a carpir
i pomi dell'immortalità, e tosto la sua Bragi gli fu rapita dai giganti.

E, qui, notisi che la Saoma, la quale è già spesso confusa coll'_amrita_
(Veda XIV) è detta qualche volta in sanscrito _Madhu_, che nello Zendo
ha significato di vino; il che mostra evidente parentela col Med Nordico
e col Madus Lituano, e per mezzo del Mad sanscrito col nostro matto; e
che Bacco, nato Dio, è versato in onore degli Dei, e il delirio bacchico
è una virtù profetica, è la possessione del Dio; ed Esculapio era figlio
di Bacco.

Gli Assiri ebbero, come i Sabei, sempre un albero sacro che dapprima fu
la stessa asclepia degli Indiani, e poi la palma, donde ancora si cava
un liquore, e si noti che il nome pre-semita di Babilonia, è tin-tir-ki
— luogo dell'albero della vita (LENORMANT, _De l'orig. de l'Hist._,
1879).

L'albero sacro agli Egizi era il _ficus religiosa_, donde traevano un
liquore fermentato: e nei riti funerarii le anime porgono la mano a
berne il succo che le deve rendere immortali. Curioso è poi che questo
del _Ficus_ era nell'India il liquore profano che i Bramini porgevano
alle plebi quando ne eran richiesti, invece della sacra Soma
(_Katyalyana_, X, 9).

Ma i Semiti che, come ci apprendono già le leggende di Noè, e più tardi
le imprecazioni di Maometto, poterono forse, grazie al clima, più degli
altri, avvertire come gli effetti benefici delle bevande alcooliche
erano sorpassati, troppo spesso, dai tristi, conformandosi alle
abitudini dei popoli primitivi che ideificano e plasmano i fenomeni così
buoni che tristi della natura, ce lo formularono e scolpirono in quella
singolare leggenda dell'albero della scienza del bene e del male, che
collo stesso nome compare fra i prodotti singolari scaturiti durante la
fabbrica dell'Amrita, come già vi ha toccato il Graf, ed è accennata
nella leggenda prearia di Yma (Harley, Avesta, 89), ed è scolpita in
quel bassorilievo di Ninive, in cui un serpe offre al primo uomo il
frutto di una palma (LAYARD, _Mem. of Niniveh_, p. 70. — LENORMANT, op.
cit.).

Ed ecco forse spiegato perchè in Zendha la parola _Madhu_ valga per vino
e dolore, e _Kan_ chinese per albero e peccato, e più sicuramente spiega
perchè la palma fosse adorata dagli Assiri, e dagli Arabi antichi — e
fosse albero sacro per gli Ebrei, sotto cui profetava Deborah — e come i
Sabei adorassero insieme al Setarvan (la vigna profumata), il Sam Gafno,
sopra cui aleggia la vita suprema e gli Indi il Kalkavir Keha, l'albero
dei desideri.

Per chi rifuggisse dall'ammettere tutto ciò, sarebbe facile la risposta,
esponendo^[X-1] come primo fece il Mantegazza nelle sue _Feste ed
ebbrezze_, in una tabella grafica, i vantaggi ed i danni dell'alcool,
che riescirebbero assai facilmente a riprodurvi una specie d'albero
fatale, in cui i frutti benefici vanno pur troppo sopraccaricati e
velati da quelli del male, i quali, pur troppo, solo, io mi son preso la
briga di esporvi, anche a pericolo di tormi addosso l'odio di tutti i
cultori ed adoratori del vino.

DANNI DEL VINO. — Io non vi mostrerò come l'alcool sia tutt'altro che un
alimento di risparmio e calorifico, come esso lungi dal rendere più
tollerabile il freddo, aumenti i danni così dei grandi freddi, come dei
grandi caldi, cosicchè si videro, nelle regioni polari e nelle Russie, e
nelle Indie, aggravati quei soldati e marinai, che credendo meglio
sopportare, così, le fatiche, ne usavano più volte nel giorno, e forse è
questa la ragione che i latini nella campagna di Russia soffersero meno
dei nordici.

E non toccherò del fatto constatato, nelle epidemie coleriche, che i
beoni, anzi, anche solo, i bevitori, erano più colpiti dal morbo che non
gli astemî^[X-2]; e come gli aborti sieno in maggior numero fra le
bevitrici, perfino nelle mogli dei beoni, le quali offersero
d'altronde^[X-3] una fecondità da due a quattro volte minore delle
coppie temperanti; cosicchè questo fatale liquore ben può stimolare le
passioni “carnali” sino alla violenza ed al delitto, ma senza pur
crescere la fecondità.

L'alcool è causa precipua delle riforme per debolezza e per gracilità
nelle truppe di Svezia, che si videro salire fin al 32 p. % nel 1867 e
calare al 28 nel 1868, dopo le buone leggi sull'alcool; nei dipartimenti
francesi, che, per scarsezza di vino, abusan più di alcool, come
Finistere, la gracilità dei coscritti da 32 sale a 155 (LUNIER).

L'alcool agisce sulla statura. I grandi Wotjak, dopo l'uso
dell'acquavita, son calati al disotto della media. E sotto i nostri
occhi le bellissime valligiane di Viù perdettero dell'avvenenza e
dell'imponente statura dopochè contrassero l'abitudine dell'acquavite.

Dopo ciò, non è meraviglia se esso abbia avuto un'influenza sulla vita
media; sicchè a vece d'esser l'acqua della vita, possa ben dirsi l'acqua
della morte. I calcoli di Neison dimostrano che i bevitori hanno una
mortalità almeno 3,25 maggiore che negli astemî^[X-4].

PAUPERISMO. — Tutto questo ci spiega, già in parte, come uno degli
effetti più evidenti e fatali dell'alcool sia il pauperismo. Noi ne
vedremo un'altra dimostrazione in quelle tabelle, e in quelle storie
dell'eredità morbosa, in cui da un padre alcoolista si dirama una
progenie cieca, paralitica, zoppa, impotente, e che di necessità, se
ricca, finiva ad impoverire, e, se povera, trovava inaccessibile e
chiusa ogni fonte del lavoro. Peggio accade a coloro cui, direttamente,
l'alcool rende paralitici, cirrotici, ciechi (V. s. Bizzozero).

Ma anche senza giungere tant'oltre, l'alcool può favorire il pauperismo.
Vero è che negli accrescimenti di salario (quando nel Lancashire crebbe
il salario dei minatori da 5 a 8 a 11, le morti per ubbriachezza da 495
salivano a 1304 e 2605; ed i delitti da 1335 a 2878, e 4402) crescono a
dismisura gli ubbriachi, e quindi le loro male opere. Ma in genere
peggio accade quando cala il salario. Il povero si dà all'alcool per
sopperire alla mancanza di vestiario e di cibo, per cacciare la sete, la
fame ed il freddo; e l'alcool a sua volta rende sempre più impotente e
più povero colui che lo usa e insieme sempre più avvinto al suo carro
fatale (Mantegazza, op. cit.).

Nelle carestie del 60 e 61 in Londra si osservò che non uno dei 7900
membri della Società di temperanza aveva chiesto un sussidio^[X-5].
Huisch osservò che ogni 100 sterline d'elemosina 30 passavano in
acquavite; e Bertrand e Lee: che i comuni più decaduti erano quelli in
cui crebbe smisuratamente l'uso dell'alcool, e in cui si aumentarono le
osterie; una prova ne è pure la Slesia superiore, dove la miseria giunse
fino alla morte per fame; e dove l'ubbriachezza imperversava fino a
trascinare vacillanti gli sposi innanzi l'altare, ed i parenti dei
neonati innanzi al battesimo, così da comprometterne fra i lazzi la
vita. Dove, scriveva un predicatore della Slesia, dove è intemperanza,
segue, come l'ombra il corpo, la miseria, e quando si può sradicare
l'ubbriachezza, più della metà della fiera miseria vien sollevata.

DELITTO. — E con la miseria, e dietro a lei, fosco s'avanza anche il
delitto, sicchè assai più giustamente il proverbio che vuol in ogni
crimine misterioso «cercar per causa la femmina», si potrebbe completare
e forse correggere, aggiungendo «o la bottiglia». — Già era stato notato
come una delle cause delle divisioni coniugali, e dei divorzî in
Germania sia l'ubbriachezza, che per lo meno vi conta nelle proporzioni
di 2 a 6 per 100; ed è notorio come i figli dei divorziati e di secondo
letto diano forte contingente al delitto ed alla prostituzione
(LOMBROSO, _Uomo delinquente_, 2ª ed., p. 269).

Un'altra prova dello stretto nesso tra l'alcool e il crimine ci offrono,
pure, quelle statistiche che ci mostrano un continuo incremento di
questo nei paesi civili, incremento che la istruzione maggiore, il
crescere delle popolazioni ponno spiegare soltanto per una quota del 13
al 16 p. %, e che invece è troppo bene esplicato dallo aumentato abuso
degli alcoolici, che salì, appunto, in proporzioni analoghe a quelle del
delitto.

In Inghilterra si consumavano:

    nel 1790 galloni d'alcool  5,526,890
     »  1866    »       »     12,200,000.

Gli ubbriachi arrestativi:

        nel  1857 erano  75,859
         »   1875   »   203,989.

A Milano le osterie

               da 1120 nel 1865
      salirono  a 2140  »  1875 (Verga)
          »       2272  »  1878 (Sighele).

Ma una prova decisiva in proposito l'offre uno studio che eseguì ora il
prof. Enrico Ferri sulla criminalità in Francia per omicidî e ferite in
confronto col vino e coll'alcool consumato, per 18 anni, e che
cortesemente mi riassunse in forma grafica (vedi Tab. 1, Fig. 1).

È evidente come tra la linea del vino e del delitto corra un completo
parallelismo, in quanto almeno concerne le grandi salienze
(1850–58–65–69–75) e decrescenze (1851–53–54–66–67–73), salvo, come è
naturale, il 1870, anno eccezionale di guerra, e in cui tacciono gli
atti giudiziarî non militari, e salve parziali discordanze del 1876, che
non saprei spiegare, non avendo ora le statistiche successive, e nel
1860–61, in cui per altro l'effetto del raccolto vinicolo sembra
soltanto spostato di un anno.

Il parallelismo riesce tanto più curioso e singolare, poichè gli autori
francesi ed inglesi pretendevano addossare questa influenza fatale solo
all'alcool, e non al vino, tanto che, come vedremo, si propose di
facilitare la diffusione maggiore del vino nei paesi resi da quello più
proclivi al delitto. Ora dalla nostra tavola grafica e dalle statistiche
si deduce che il rapporto dell'alcool consumato cogli omicidi e ferite
non è così evidente come quello del vino, se non negli anni 1855 al 1858
e 1873 al 1876. E ciò ben si comprende, perchè le risse nascono più
facili nelle osterie che dagli acquavitai, dove la dimora è troppo breve
per dar luogo a litigi. — Un'altra prova di ciò ci offre l'osservazione
del giorno e del mese in cui più spesseggiano i delitti, e son quelli in
cui più si abusa di vino. Così Schroeter (_Jahrb. der Westph. Gefong.
Gefels,_ 1871) ci rivela come in Germania:

Su 2178 delitti, il 58 p. % avveniva il sabbato sera, la domenica 3, e
il lunedì 1 p. %; prevaleva in quei giorni, nella proporzione dell'82 p.
% i rei contro il buon costume, ribellione e incendi; e in quelli del 50
p. % i rei di destrezza.

Anche in Italia, nel solo anno 1870, in cui se ne tenne nota, si
riscontra altrettanto^[X-6].

         [GRAFICO: Fig. Iª, FRANCIA-1849-1876, Affari giudicati]

     [GRAFICO: Fig. IIª, FRANCIA-1827-1869, Distribuzione per mesi]

           [GRAFICO: Fig. IIIª, FRANCIA-1850-1876, Suicidii]

E quel che è più curioso, in Francia, il Ferri trovò che mentre i reati
in genere contro le persone dal 1827 al 1869 (vedi Tav. e Fig. IIª)
calano rapidamente dopo l'agosto fino al dicembre, le ferite e percosse
gravi, invece, mostrano una recrudescenza ben marcata nel novembre,
epoca vicina alle vendemmie e alla confezione del vino nuovo, e notisi
che si tratta delle sole ferite gravi giudicate nell'Assise e non di
quei ferimenti che si giudicano dai tribunali, e sono i più frequenti
risultati delle risse d'osteria.

Lo Sclopis dichiarò in Parlamento, che nove decimi dei delitti che si
commettono in Italia, hanno origine nelle osterie. Veramente se si
stesse alle nostre statistiche, il vino avrebbe ben poco rapporto col
delitto, sarebbe anzi l'ultimo fra i suoi coefficienti; infatti sopra
16,034 condanne in genere nel 1872–74, e sopra 3287 omicidî e ferite si
notarono in media su mille:

               { 495 commessi per cupidigia        178 }
               { 227    »         vendetta         527 }
               {  33    »         miseria              }
               {  17    »         amori illeciti    83 }
    CONDANNATI {  10    »         ubbriachezza      13 } OMICIDI
            IN {  10    »         socialismo           } E
        GENERE {   5    »         amori leciti       5 } FERITE
               {   4    »         affari politici      }
               {   3    »         religione            }
               {   3    »         dissensi domestici   }
               {   0    »         ozio e giuoco      7 }

Ma l'erroneità di queste conclusioni emerge subito quando si paragonano
a quelle della Francia, come nel seguente quadro che tolgo dal Guerry:

_Quadro dei motivi degli attentati alla vita (veneficio, assassinio,
omicidio) in 32 anni (1826–1857) in Francia._

    237 su 1000 sono causati da risse in osterie.
    214    »     »   cupidità ed interesse.
    147    »     »   rapporti dei sessi {  21 unioni legittime.
                                        { 126 commerci illeciti.
    124    »     »   rapporti di famiglia.
     98    »     »   opposizione all'esecuzione delle leggi.
     51    »     »   difesa personale — duelli.
     30    »     »   rivalità di comuni e di mestieri.
     26    »     »   odio tra famiglie (Corsica).
     13    »     »   politica e sommosse.
     12    »     »   aiuto prestato all'esecuzioni delle leggi.
     10    »     »   avarizia, crudeltà, contro fanciulli e vecchi.
     10    »     »   ignoranza e perdita della ragione.
     10    »     »   errori ed imprudenze — disperazione.
     10    »     »   motivi ignoti.
      6    »     »   rapporti tra padroni e servi.
      2    »     »   vendetta e malizia.

È impossibile che in un paese che ha tanta affinità col nostro la
differenza salga tant'oltre, che noi siamo cioè vendicativi 264 volte
più dei Francesi, mentre saremmo bevoni 18 volte meno. Gli è che le
nostre statistiche lasciate, fin a pochi anni or sono, in mano ai
cancellieri, se non forse agli uscieri, grazie alla nessuna importanza
che siamo avvezzi a dare, nelle bisogne giuridiche, ai dati di fatto,
hanno confuso sotto la fiera categoria della vendetta, quelle risse che
si notano in Francia a parte, come, e perchè nate nelle osterie e in
causa delle bevande. Difatti riaggruppandole a questo modo, le
proporzioni delle varie categorie ritornano affatto somiglianti fra loro
e ritorna a galla la conclusione del Quetelet, che un terzo degli
omicidî proviene dall'uso delle bevande.

Nelle carceri Prussiane il 23 per cento, nelle Bavaresi il 34 per cento
dei detenuti ha parenti bevoni (Baer, op. cit.).

Secondo l'ispettore delle case penali di Boston sette decimi dei
condannati lo erano in seguito all'intemperanza; salirebbero anzi a nove
decimi, secondo il giudice di Albany^[X-7].

Nel Belgio si calcolava l'alcoolismo provocare il delitto nel rapporto
del 25 al 27 per cento.

A New-York, su 49,423 accusati, 30,509 erano ubbriachi di
professione^[X-7].

In Olanda si attribuiscono al vino 4/5 delle cause dei crimini e
precisamente 7/8 delle risse e contravvenzioni, 3/4 degli attentati
contro le persone, 1/4 di quelli contro le proprietà (Bertrand, _Essai
sur l'intemp._, Paris, 1871).

Dixon trovò un solo paese in America che da anni va esente da crimini,
S. Johnsbury malgrado popolatissimo di operai; ma questo paese adottò
per legge la proibizione assoluta delle sostanze fermentate, birra,
vino, che vengono somministrate come i veleni dal farmacista, per
domanda, per iscritto, del consumatore e con assenso del sindaco, che
però appende il nome del reprobo in un pubblico albo.

Tre quarti dei delitti di Svezia si attribuiscono all'alcoolismo e
propriamente gli assassinii ed altri delitti di sangue all'abuso
dell'alcool; i furti e le truffe all'eredità dai parenti alcoolisti.
Sopra 29,752 condannati in Inghilterra alle Assisie, 10,000 erano venuti
a tal passo per la troppa frequenza dell'osteria, e 50000 sopra i 90903
condannati sommariamente (BAER, _op. c._, p. 343).

In Francia il Guillemin calcola al 50 per cento i rei in seguito
all'abuso dell'alcool, e in Germania, il Baer al 41 per cento, fra cui
19 bevoni abituali (_Id._, pag. 263).

E ciò è naturale, perchè tutte le sostanze che hanno virtù d'eccitarci
in modo anomalo il cervello, ci spingono più facilmente al delitto ed al
suicidio come alla pazzia con cui assai spesso si confondono in un
inestricabile intreccio; e ciò perchè dapprima irritano i centri
nervosi, sicchè quando non accade l'acuta aracnoidite o l'iperemia
congestiva, ecc., si formano lente degenerazioni, grassose, sclerotiche,
pigmentarie, con atrofia delle cellule nervose, che menano
irrevocabilmente alla perdita della funzione (edema, paralisi) ed al suo
pervertimento; e ciò quasi indipendentemente dalla natura chimica della
sostanza ingesta.

Lo Stanley, or ora, in Africa trovò una specie di banditi detti
Ruga-Ruga, i soli indigeni che si abbandonavano all'uso della canapa;
nelle tradizioni di Uganda il delitto apparve nei figli di Kinto dopo
che introdussero la birra.

Si è notato, persino, questa tendenza nei Medgjidub e Aissaoui, i quali
non avendo narcotici si procuravano l'ubbriachezza col continuato
movimento del capo. Sono uomini, dice il Berbrugger (Algerie, 1860),
pericolosi, feroci e con tendenze al furto. — Anche i fumatori d'oppio
sono presi spesso da furore omicida; sotto l'uso dell'_haschisch_ Moreau
si sentì attratto al furto.

E peggio fa il vino; e ancor peggio l'alcool, che si può dire vino
concentrato, quanto alla attività venefica, e peggio ancora quei liquori
d'assenzio, di vermouth, che oltre all'alcool puro contengono droghe
intossicanti i centri nervosi.

L'ubbriachezza acuta, isolata, dà luogo, per se sola, al delitto perchè
arma il braccio, accende le passioni, annebbia la mente e la coscienza e
disarma il pudore.

Gall narra di un Petri, che appena beveva, sentiva nascersi in petto la
tendenza omicida; e Locatelli di un operaio trentenne che sotto il
furore del vino rompeva quanto gli cadeva tra mano e coltellava compagni
e parenti che volessero impedirglielo; Ladelci e Cormignani di un
muratore più volte arrestato per risse, che rispondeva a chi nel
rimproverava: Non posso farne a meno: quando ho bevuto bisogna che io
meni (_Op. c._, p. 36).

Qualche volta, dice Briere de Boismont, l'ubbriachezza produce una vera
monomania del furto: e narra di un uomo onestissimo che appena aveva
ecceduto nel bere si metteva a rubare quanto gli capitava tra mano;
passato l'accesso, se ne doleva e restituiva il mal tolto, ma la
vergogna di ciò lo trasse ad uccidersi (_Du Suicide_, 2ª ed., 1860).

Io stesso conobbi un ufficiale che sotto l'ebbrezza tentò due volte
trafiggere persone a lui ignote od amiche, persino la sua sentinella.

V'hanno alcuni bevoni che sono il terrore delle loro famiglie, poichè
sotto l'effetto del vino, del vino triste, come lo chiamano i francesi,
non parlano che di ferire, sgozzare le persone che poco prima erano loro
carissime e queste fuggono inorridite e non a torto.

Quello che negli altri, infatti, è una pensata bizzarra e fugace, sicchè
sfuma appena sorta, si muta in costoro rapidamente in azione inconscia,
è vero, ma non meno fatale. Un di costoro, per es., tornando una sera
verso casa vide un povero contadino, che portava a capezza il suo asino;
eccitato dal vino, grida: «Giacchè oggi non ho avuto brighe col prossimo
mio, voglio sfogarmi su questo»; e tratto il pugnale fora più volte il
ventre di quella povera bestia (Ladelci, _Il vino_, Roma, 1868, tip.
Sinimberghi).

Fu interrogato un minatore bevone perchè avesse colla scure ucciso un
povero onesto fabbro, zoppo, che appena conosceva e non gli aveva fatto
mai alcun dispetto: _Perchè, rispose, non mi piaceva la camminatura._
Pensiero da ebbro, ma opera da manigoldo.

Il dott. Cicone che lo racconta, vide nelle miniere delle Boratelle
(_L'operaio delle miniere sulfuree_, Roma, 1879) entrare i poveri
operai, lindi ed onesti e poi in grazia del bettolino messovi in opera
ed empiamente monopolizzatovi dai padroni, mutarsi, in meno di un anno,
in feroci assassini, che uccidono il primo che trovano, castrano per
celia, per es. un povero ebete, che si chiamava _Centesimo_, perchè non
domandava e non voleva d'elemosina che un centesimo; un altro di costoro
recide un'arteria ad una donna, il polmone ad un giovinetto, il ventre a
due altri, e la scapola a un quinto e non potendo far altro, dopo aver
accoltellate le mura, ferisce se stesso; un altro bevone sorprende un
poveretto che dorme, lo attorciglia con una corda che unge di petrolio e
vi dà fuoco (_Op. c._, pag. 9).

Peggio di questi sanguinari minatori sono i contadini di Genzano,
dipintici dal Ladelci, che in grazia alla grande abbondanza del vino si
trovano in uno stato di continuo eccitamento, e menan ad ogni lieve
causa le mani, e perciò escon sempre armati fuor di casa, e persino i
fanciulli, ad imitazione dei padri, aguzzano sui sassi dei chiodi per
avere delle armi; appena commesso un ferimento, costoro sono vie più
trascinati ai furti e grassazioni pel bisogno di vivere e perchè
costretti dal vino alla prepotenza e all'uso dell'armi (_Op. c._, 9).

L'alcool, infatti, dopo aver eccitato, indirizzato nella via del delitto
la sciagurata sua vittima con atti istantanei od automatici, ve la
mantiene, ed inchioda, per sempre, quando rendendola un bevitore
abituale, ne paralizza, narcotizza i sentimenti più nobili e trasforma
in morbosa anche la compage cerebrale più sana; dando una dimostrazione,
pur troppo sicura, sperimentale, dell'assioma che il delitto è un
effetto di una speciale, morbosa condizione del nostro organismo; tale
è, in questi infelici, quella sclerosi, di cui sì bene vi discorse il
Bizzozero, che colpisce il cervello, il midollo ed i gangli, come ed
insieme a quella che colpisce il rene ed il fegato, ed in essi si
esplica col delitto, come negli altri, colla demenza o coll'uremia o
coll'ictero, e ciò secondo che colpisce più un organo che l'altro, o più
una parte che l'altra dell'organo stesso. E qui le prove mi
sovrabbondano. Or ora rinvenni alle carceri un singolarissimo ladro,
P..., che si vanta con tutti di esserlo, ed anzi, non sa più parlare se
non nel gergo dei ladri, suoi degni maestri, eppure nè l'educazione, nè
la forma cranica ci dava alcun indizio della causa che ve lo spinse; ma
noi presto ne fummo in chiaro, quando ci narrò che egli ed il padre suo
erano bevoni. «Vedano: io fin da giovinetto mi innamorai dell'acquavite
ed ora ne bevo 40 o 80 cichetti, e l'ebbrezza di questa mi passa bevendo
due o tre bottiglie di vino»; come si vede nella storia che ne pubblicò
nel mio Archivio il bravo Collino (_Arch. di Psichiatria e scienze
penali_, 1880, Fasc. II, Torino).

Or son pochi mesi, pur qui in Torino, un onesto ufficiale di 70 anni,
che godè fin alla tarda sua età di fama illibata, datosi nella vecchiaia
all'alcool si fece in poco tempo sì triste da strozzare la povera moglie
che ne lo rimproverava e fingere che _si fosse appiccata_. Ma
l'astinenza del carcere in breve faceva in lui ripullulare l'antica
onoratezza, sicchè confessò tutto, e ai giurati, che il condannavano a
15 anni di reclusione: _È alla morte, disse, che dovevate condannarmi,
alla morte._

Un carattere, dice Tardieu, manca quasi mai nei bevoni che han commesso
un delitto; è la strana apatia e indifferenza, la nessuna preoccupazione
del proprio stato che è veramente comune ai delinquenti veri, ma che in
essi è ancora più spiccata. Stanno in prigione come in casa propria,
quasi meglio, nè si preoccupano del loro processo, nè di ciò che han
fatto; appena è se si ridestano un momento davanti al giudice.

Un uomo di 30 anni, già bene educato, che aveva fatto il medico e il
farmacista, lo scrivano, l'impiegato e sempre era stato rimandato per
abuso di liquori, trova sulla strada una guardia e la uccide credendo
volesse arrestarlo; la prima cosa che scrive a sua madre dopo entrato in
prigione, è che gli mandi della pomata; al giudice rispondeva che
l'interrogatorio era inutile «che egli già aveva scelto un nuovo
mestiere, di fare il fotografo». Solo dopo lunghi mesi di astinenza nel
carcere cominciò a rientrare in sè e comprendere la gravità della sua
situazione (TARDIEU, _De la folie_, 1870).

Un fiero esempio di questo strano effetto dell'alcool ce lo pose
sott'occhio il troppo famigerato Fusil. Nasceva egli da padre alcoolista
e tanto scialaquatore, che pur poverissimo, in un pranzo spese 134 lire,
e dopo aver ridotto ad uccidersi la povera moglie, s'annegava egli
stesso, pare volontariamente. Fusil, il degno figliuolo, mentre si
mostrava spietato coi parenti che lasciava basire di fame, era benevolo,
generoso, coi compagni d'osterie; strappato un migliaio di lire al
fratello se le mangiò in pochi giorni coi suoi compagni di bettola. A 18
anni colpì di falcetto i suoi zii. A 22 feriva un compagno d'osteria; a
24 uccideva il Gambro che l'ospitava pietosamente, con 11 ferite,
dormendo poi due giorni vicino al cadavere, e la sera gozzovigliando
ancora cogli amici e in pochi giorni consumando in Svizzera quanto aveva
con tanta tristizia usurpato, e quanto eragli urgente conservare se
voleva sottrarsi alle ricerche; dopo arrestato parlava del suo delitto
come di uno scherzo, eternavalo anzi infine in un monumento
singolarissimo (V. sotto, pag. 399).

È il vino bevuto da lui e da suo padre che modificava così profondamente
la psiche da fargli venir meno ogni previdenza ed ogni senso di
moralità; e altrettanto avvenne a molti delinquenti.

Mabille, p. es., un dì porta gli amici all'osteria; s'accorge che non ha
denaro; tosto esce, uccide il primo che trova e poi torna a pagare lo
scotto.

Non è molto, da noi, certo Calmano Antonio, ex impiegato, esplose sul
proprio figliuoletto di 4 anni una pistola e indi si avventò ferocemente
sulla figlia maggiore che tentava salvare il fratello e credendoli
morti, feriva quindi se stesso; egli, precisamente come un altro suo
collega Valessina, da buono e vecchio impiegato s'era a furia di vino
trasformato in vizioso e fu licenziato; nè rimasto senza lavoro,
perdette la brutta abitudine; rivendette un mobile dopo l'altro per
convertirli in vino, finendo col letto stesso su cui dormivano i poveri
figli; col provento del quale si comprò l'arma fatale.

Prunier, stalliere, da 5 anni si dava all'alcool, che lo spingea ad
eccessi; una mattina si leva dicendo: _Oggi devo fare un gran colpo,
devo battermi_; percorre tutte le osterie e ritorna ai suoi cavalli la
sera: cerca attaccare una donzella, ma essa gli sfugge; assalta allora
una vecchia massaia, la viola, l'uccide, la getta nel fiume; pochi
minuti dopo la ripesca, rinnova gli oltraggi; ritornato a casa si mette
a dormire; svegliato, tutto confessa. Evrard alla sezione constata
un'antica pachi-meningite, evidente effetto dell'alcool (Desmaze, _Hist.
de Méd. Légale en France_, 1880).

L'alcool è oltre ciò causa di delitti perchè il bevitore dà luogo a
figli delinquenti; perchè molti delinquono per poter ubbriacarsi; perchè
molti son tratti dall'ubbriachezza al delitto, oppure nell'inebbriamento
si procurano, prima, i vigliacchi, il coraggio necessario alle nefande
imprese e poi l'amminicolo ad una futura giustificazione, e colle
precoci ebbrezze seduconsi i giovinetti al crimine; ma più di tutto
perchè l'osteria è il punto di ritrovo dei complici, il sito dove non
solo si medita, ma si usufrutta il delitto e per molti questa è
abitazione e banco pur troppo fedele. In Londra nel 1860 si contavano
4938 osterie ove entravano solo ladri e prostitute.

Finalmente l'alcool ha una connessione inversa col crimine o meglio col
carcere; nel senso che dopo le prime prigionie il reo liberato ha
perduto ogni vincolo di famiglia, ogni punto d'onore e trova nell'alcool
di che dimenticarli e supplirli; perciò tanto spesso l'alcoolismo si
offerse nei recidivi; e perciò si comprende come Mayhew trovasse quasi
tutti i ladri di Londra ubbriachi dopo mezzodì, così da morirne tra i
30–40 anni per alcoolismo, e come fra i deportati della Numea, che
bevono, oltre che per la vecchia abitudine, anche per dimenticare il
disonore, la lontananza della famiglia, della patria, le torture degli
aguzzini e dei compagni e forse i rimorsi, il vino diventasse una vera
moneta; sicchè una camicia valeva un litro, un abito due litri, un
pantalone due litri, e perfino il bacio della donna si saldava con litri
(SIMON MEYER, _Souvenirs d'un déporté_, pag. 376, Paris, 1880).

SUICIDIO. — Già da queste storie abbiam potuto travedere come uno fra i
frutti fatali dell'alcool sia il suicidio. Vidimo quanto esso sia
frequente nei figli degli alcoolisti e come si mescoli ed intrecci sì
spesso ai tentativi omicidi dei bevoni; gli è che quella stessa
indifferenza che a poco a poco l'alcool induce nel reo verso i dolori
altrui, esso finisce per ispirare pure pei proprii, e l'uomo scherza
coll'idea della morte, e ne calcola i giorni ed analizza i primi
fenomeni, con una strana, satanica calma.

L'esempio più eloquente ce lo porse quello stesso Fusil, che fin dal
momento dell'entrata nel carcere, aveva fatto il proposito di uccidersi
dopo passato il centesimo giorno; e nell'intervallo scolpiva un vaso in
cui dopo aver infamato a suo modo la sua povera vittima ed essersi
ritratto appeso ad un'inferriata, preparatosi, collo sfilacciare un
lenzuolo, un cappio opportuno, si appiccava davvero dopo aver ben ben
riempito di cibo lo stomaco e di tabacco la bocca (V. _Uomo delinquente_
di C. LOMBROSO, 2º e p. 516).

Chi non vede, qui, un cinismo e una perdita di sensibilità che esce
dalla cerchia normale? e chi non è lieto di trovare nel cervello di
questo un'infiammazione della meninge, cronica, che era certo effetto
dell'alcool; che non era stata mai avvertita nella vita e che mentre ci
spiega i suoi atroci malfatti, spiega pure la triste fine con cui quasi
inconscio ei li espiava?

In altri suicidi alcoolisti assai più spiccata è l'inconscia
irresistibilità, l'automatismo dell'atto. Pochi giorni fa curai un
ubbriacone, che passeggiando dopo un'ultima bevuta, presso il Po, tutto
ad un tratto si spogliava, si gettava nell'acqua; e salvato dichiarommi
non avere avuto mai alcuna intenzione di suicidarsi.

In molti, il suicidio se non è effetto di insensibilità od automatismo,
lo è di capriccio sì strano, subitaneo e sanguinario che assai tiene
dell'uno e dell'altro. Mayer ci dipinge nel carnefice di Numea un bevone
così appassionato del suo mestiere, che un giorno, essendosi commutata
la pena ad uno che egli doveva ghigliottinare, fu preso da un accesso di
furore, ed andato nella cella del condannato quasi lo finì a colpi di
pugno; ma il più curioso era la tenerezza veramente alcoolistica che lo
legava al suo fatale strumento. «Guardatela come taglia bene, è la
figlia di papà. Noi siamo vecchi amici, ella mi paga le mie sborgne a 10
franchi a testa». Avendo poi sentito essersi fatta la proposta di
cangiargli l'istrumento con un più raffinato, impallidì, protestò che
non gli si cambierebbe la sua cara figliola; e quando essendo ubbriaco
sentì forse per celia buccinare che un bastimento era giunto col nuovo
modello (_Souvenirs d'un déporté_, 1880, pag. 292), entrò in un furore
terribile, minacciò d'accoppare chi portò quella nuova, e senza badare a
chi cercava calmarlo, andò a rivedere un'ultima volta il suo caro
strumento e lì, presso a quello, s'appiccava.

In alcuni, come sopra notammo, questa tendenza si mesce o meglio segue
all'omicida, e ne è la crisi o l'espiazione. «Voglio uccidermi, diceva
un tale ubbriacone, ma prima voglio finire anche mia moglie», e compito
il misfatto s'uccideva davvero per sfuggire alla pena ed ai rimorsi. Un
altro mentre era quieto a tavola tira improvvisamente il coltello contro
i suoi vicini, li scanna, poi va in camera e si spara un colpo nel
cranio.

Certo B. (narra il LOCATELLI, _Sorvegliati_, pagina 150, Meh. 1876),
venditore di commestibili, in istato di esaltazione alcoolica, provava
una smania indicibile di scialarla da gran signore; ma trovando il
mobiglio di casa poco conveniente ad un milionario suo pari, si mise a
gettarlo dalla finestra, con pericolo di ammazzare i passanti; e siccome
sua moglie cercava trattenerlo, si armò di un lungo coltello e la
inseguì furibondo; la povera donna potè appiattarsi sotto il letto; ma
egli credendo di averla uccisa, spinto da subitanea disperazione, si
gettò a capo fitto dalla finestra. In pochi mesi guarì e pote
riabbracciare la pretesa sua vittima.

Alcuni (secondo Briere ammonterebbero a 20 ogni 100 suicidi) si uccidono
perchè sentono di non poter resistere alla smania del bere, alla
vergogna e al delitto cui questa mena, come quel padre onesto, cui sopra
toccammo, cui il vino rendeva cleptomaniaco; altri perchè fatti
impotenti e poltroni dal vino si sentono incapaci al lavoro e
preferiscono una morte immediata alle torture della fame; moltissimi,
poi, affatto inconsci, trascinativi dalle allucinazioni sorte
improvvisamente in grazia dell'alcool; uno p. es., fantastica vedere un
soldato suo nemico, lo insegue e cade nell'acqua; un altro si getta
dall'alto per sfuggire immaginarie minaccie, ecc.

Tutto ciò spiega il perchè vi sia una quota sì forte di suicidi per
alcoolismo che va crescendo ogni anno; così secondo Lunier in Francia:

    salivano a 7 % i suicidi per alcool nel 1849
        »     14,6      »           »       1859
        »     17,0      »           »       1875

ed in Sassonia al 10 per cento, in Russia al 38 per cento, in Danimarca
al 17 per cento ed in Prussia all'8,50 per cento^[X-8], in Berlino assai
più, al 25; ciò ci spiega come i suicidii, tutti, si vedano mano a mano
crescere da noi in linea esattamente parallela a quella dell'uso degli
alcool; e come una carta grafica del suicidio in Europa ci dimostri un
curioso parallelismo con quanto si intravvede sul consumo dell'alcool,
superato e non sempre da due soli fattori; quello del clima non
esageratamente freddo ed accompagnato da una diffusa coltura. Egli è
perciò che noi vediamo spiccare la Danimarca, 267 su 1 milione^[X-9], e
la Sassonia, 300; e appunto come nel consumo degli alcooli prevale sulla
Scozia e l'Irlanda, l'Inghilterra pei suicidi (MORSELLI, _Sul Suicidio_,
Dumolard, 1880):

Inghilterra galloni alc. 0,24 al 1859 per testa — 0,51 nel 1869 —
suicidi 62 su 1 milione abitanti.

Scozia galloni alc. 0,22 al 1859 — 0,30 nel 1869 — suicidi 35 su 1
milione abitanti.

Irlanda galloni alc. 0,11 al 1859 — 0,25 al 1869 — suicidi 14 su 1
milione abitanti.

Volendo addentrarci più ancora di quello che sulle prime ci mostrino le
cifre, troveremo che anche l'azione della coltura si somma in gran parte
coll'azione dell'alcool; e infatti quanto più va innanzi la civiltà, più
si aumentano i grandi agglomeri e quindi i bisogni degli eccitamenti dei
sensi, le due concause prepotenti degli abusi alcoolici; se fosse il
freddo per sè che aumenta i suicidi, noi dovremmo averne una maggior
quantità nelle stagioni fredde, ma essi invece abbondano specialmente
nelle calde; essi dunque non preponderano nei paesi più nordici in
confronto ai più meridionali, se non per un'azione estranea al freddo,
benchè poi sia con questo in stretto rapporto; tale è l'alcool cui si
abbandona di più l'abitante dei paesi più nordici anche per l'erronea
idea che esso giovi a tutelarlo dal freddo.

Tuttociò ci spiegherà perchè in questa carta grafica (Tav. I, fig. III)
che dà il consumo dell'alcool, ed il numero dei suicidii in Francia dal
1850 al 1876, vediamo in parecchi anni a salienze meno recise
(1850–52=1854–56=1858–60=1872–73–74) un certo parallelismo fra i due
fenomeni, che ancor meglio spicca se si confronta agli anni a maggiori
suicidii negli anni consecutivi a quelli delle maggiori oscillazioni di
alcool, e viceversa; per es., la diminuzione dei suicidii del 1858 segue
a quella dell'alcool nel 54 — l'aumento del 62 che corrisponde a quello
del 1858 — quello del 68 a quello del 66 — la diminuzione del 75 a
quella del 72, e l'aumento del 1876 a quello del 75. Il che ben si
comprende perchè le tendenze suicide sono quasi sempre espressioni
dell'alcoolismo cronico, che naturalmente non si manifesta se non alcuni
anni dopo l'abuso.

DELIRIUM TREMENS, ALCOOLISMO CRONICO, ECC. — E omicidio e suicidio
spesso non sono che una ultima manifestazione di quella più grave fra le
conseguenze dell'alcool, che è la pazzia.

Sulle prime gli ostinati bevitori di vino e più di acquavite (l'uno
finisce per mutarsi quasi sempre nell'altro col perdurare del vizio) —
soffrono dolori nelle ossa e fugaci nevralgie, come frizzi elettrici, od
un senso profondo di debolezza che sembra lenirsi col vino; la vista,
più tardi, si fa loro torbida: travedono mosche, scintille; il color
verde appar lor bianco, il violetto rosso, il bleu grigio, il rosso
giallognolo, e ciò specialmente da un lato; mancano i fosfeni; negli
arti inferiori accusano, non di raro, una esagerata sensibilità, onde un
piccolo tocco è causa di enormi dolori (Huss, 356); e si sentono rosi da
vermi imaginari, bruciati da zolfanelli: nè l'udito va immune da queste
iperestesie, chè odono campane, susurri, voci alle volte indistinte,
alle volte più spiccate, e anche qui più specialmente da un lato.

La memoria spesso è intaccata, e i sonni brevi e turbati da sogni
spaventevoli: il carattere morale va cangiando, e il bevone, gaio fra
gli amici, diventa taciturno e fino feroce in famiglia, e non acquista
letizia che sotto nuove bevande.

Le facoltà digestive, che dapprima si ravvivavano, coll'alimento, ora
vanno sempre più mancando. Oltre alla nausea d'ogni cibo solido, ai
crampi gastrici, li tormenta spesso al mattino un vero vomito, non di
raro, seguìto da diarrea.

Più tardi cominciano a manifestarsi, e più al mattino, dei tremori alle
mani che s'estendono alle braccia, alla lingua, al tronco, e delle
contratture specialmente ai muscoli flessori del piede, ai polpacci; e
più o meno presto, secondo che vi sono specialmente predisposti
(EMMINGHAUS, _Pathol. der Irrenkr._, 1879) da paralisi progressiva
incipiente, da tifo pregresso, da traumi al corpo, e dall'abuso di
_absinzio_, cominciano a spuntare le allucinazioni e le illusioni, di
raro gaie, spesso terribili, sempre svariate e mobilissime, e che
attingono quasi tutte, come nei sogni, alle ultime o più gravi
impressioni^[X-10]: ai tempi del 1859 erano i Tedeschi, ora sono i
carabinieri, le spie, gli accoltellatori politici; il merciaio ambulante
vede le sue merci per tutto e cammina a salti per non sciuparle — il
pastore vede le sue pecore e le chiama per nome. Il loro carattere
prevalente è la mobilità e terribilità; tutto vi sfugge e si cangia
rapido come nei fantasmi dei sogni, ma si cangia sempre in male, e le
poche volte che uno trasogna, nel delirio, foreste di frutta odorose e
di fiori lucenti, finisce col vedersele mano mano trasformate in un
deserto popolato da iene feroci; un R...., p. es., che si credeva
milionario, possessore di immense foreste, vede, poi, sorgere da terra
improvvisamente centinaia di ladri che lo deruban di tutto.

La stranezza e tristezza della fantasia è in essi effetto delle strane
condizioni patologiche prodotte dall'alcool: così l'anestesia cutanea,
l'anafrodisia alcoolica fa lor credere d'aver perduti gli organi
sessuali, il naso, una gamba; la dispepsia, la stanchezza, la paresi fa
lor sospettare d'esser avvelenati, perseguitati. Il De Amicis ci rivelò
un'altra fra le cause di questa morbosa tristezza che predomina in tutte
le fasi della patologia dei bevoni: il contrasto che lor si fa palese
tra la vita prosaica, reale, e quella colorata dai vapori del vino; e
noi aggiungeremo la reazione che segue agli stimoli troppo forti o
troppo prolungati. Un passo più in là, ed essi, in preda ad un'acuta
lipemania, o meglio panofobia furiosa si credono accusati di delitti
immaginari e carichi di catene, fra un monte di cadaveri, e domandano
misericordia o tentano uccidersi per sottrarsi alla malaugurata
vergogna, o restano stupidi, immobili, come chi è colto da un immenso
terrore. Non di raro, grazie alla fede sincera, che (a differenza di
molti altri pazzi) prestan alle proprie allucinazioni, sono dal _raptus
melanconico_ trascinati in una follìa d'azione spesso omicida e suicida;
e credendosi lottare con ladri o bestie feroci, si slanciano dalle
finestre, corrono, nudi, le vie, od uccidono il primo mal capitato. Uno,
p. es., che io guarii, ed era stato sin allora buonissimo figlio e buono
sposo, fantastica di essere avvelenato dalla sua propria madre, e tenta
di ucciderla. — Siccome un precipuo punto di partenza alle allucinazioni
è la modificazione degli organi indotta dall'alcool, specialmente degli
organi sessuali (iperemia e poi adiposi negli epiteli dei canali
seminali donde la impotenza preceduta da brevi ma intensi eccitamenti),
e siccome la loro tristezza si acuisce, come vedemmo, nelle pareti
domestiche, così spesso volgono la mano omicida contro la moglie o
l'amante che essi han, nella loro immaginazione, creduto vedere dar loro
prove materiali d'infedeltà.

Krafft-Ebbing e Marcel ne riscontrarono 23 di tali casi negli uomini, e
3 nelle donne. Io pure ne ebbi sott'occhi due, che in modo atroce
uccisero le loro mogli onestissime che in nessun modo avrebbero potuto
dar luogo a gelosia.

Mi ricordo in ispecie un Gaz... di Bergamo, atletico, ma con un
cocuzzolo microcefalico, ed enorme gozzo, figlio di apoplettico e che da
anni beveva per la sua minima quota non meno di 7 litri di vino;
cominciò a provare allucinazioni paurose di carabinieri, ladri, soldati;
poi ad istizzirsi colla moglie vecchia e brutta, per immaginarie
gelosie; un giorno fugge di casa facendo delle croci nere sui muri, vi
ritorna la notte e fantasticando che la moglie gli confermasse, essa
stessa, le immaginarie infedeltà, dopo poche ore e dopo bevuto un buon
litro di vino, la squartò con una falce. Un altro, invece, che fu
pessimo marito, rivoleva per forza ed a colpi di scure la moglie ch'era
morta, in parte in grazia sua, all'ospedale e pretendeva farla rivivere.

In alcuni il delirio d'azione scoppia improvviso come un accesso
epilettico colla stessa brevità, precipitazione, ferocia; sicchè qualche
volta sembrano vere bestie feroci, e coi capelli irti, digrignando i
denti, mordono, strappano le zolle, gli abiti, si precipitano dall'alto.
Questi sintomi sono preceduti da vertigine, cefalea, rossore della
faccia; e accadono più di spesso nei predisposti, per traumi del capo,
tifi, eredità, o dopo grandi patemi o digiuni e spesso non sono in
rapporto colla quantità, alle volte scarsa, di vino bevuto, nè collo
stato fisico, potendo offrire appena un leggero tremore, spesso anzi
apparendo aumentata l'energia muscolare; tuttociò scompare qualche volta
in poche ore senza lasciare la minima ricordanza (KRAFFT-EBBING, 182).

È insomma una specie di epilessia larvata, il che tanto meglio può
dirsi, inquantochè delle vere epilessie alcooliche notansi in molti
bevoni, ma più specialmente in quelli d'assenzio, nei quali ultimi,
secondo Motet (_Considérat. sur l'alcoolisme_, 1879), scoppierebbero,
tutto a un tratto, senza essere precedute da tremori, nè da
allucinazioni. Non è molto che Drouet contava a 54 gli epilettici su 529
pazzi alcoolisti; e fra questi si noti bene, uno che non aveva usato, nè
abusato di alcool, ma solo esclusivamente di vino e birra. — Qualche
volta l'epilessia compare quando ogni altro sintomo d'alcoolismo è
svanito; in genere però essa si nota sui 40 ai 60 anni, quando l'asse
cerebrospinale può opporre minor resistenza agli assalti dell'alcool
(_An. Med. Psich._, 1875).

Ma v'ha una forma, più grave ancora, di delirio tremens, quello detto
_acutissimo_, o meglio ancora febbrile, che ha due caratteri speciali:
moti fibrillari sotto-cutanei, veri fremiti muscolari, che non cessano
nemmeno nel sonno, accompagnati o da coree parziali ma continue,
specialmente della faccia o degli occhi o da paralisi che è peggio; — ed
il calore febbrile che sale fino a 40° a 43°, dopo essere stato per
qualche tempo a 38°, 39; — meno grave se salendo sulle prime a 40 cala
in secondo giorno o terzo a 38°,3 (Magnan).

Il Magnan osservò che le allucinazioni e i deliri, per quanto acuti e
numerosi, non danno mai a temere tanto come i rialzi di temperatura,
specie quando associati ai fenomeni di morbosa motilità, che siano o
troppo estesi o troppo persistenti, men fatali essendo, ad ogni modo,
gli intensi, ma isolati e di poca durata.

Nè è a credere, poi, che uno e anche parecchi accessi di _delirium
tremens_ bastino per guastare del tutto l'intelligenza e trasformare un
vizioso in un demente. Tutt'altro; v'hanno casi, invece, in cui l'abuso
dell'alcool può andare di pari passo con quello dell'intelligenza, e
quasi quasi, fin favorirlo; sicuramente fra i grandi uomini che
abusarono dell'alcool, va annoverato Alessandro Magno, che vuolsi,
morisse dopo aver vuotato 10 volte la tazza d'Ercole, e che certo, già
prima, in un accesso alcoolico, seguendo nudo la infame Taide, aveva
ucciso il suo più caro amico. Nè pare fossero molto astemii Socrate,
Seneca ed Alcibiade, Augusto e Cesare, spesso portato a casa sulle
spalle dai soldati, e Tiberio, che era detto Biberio, ed Eliogabalo,
così innamorato del vino da farne un piccolo canale navigabile, e
nemmeno Catone, se ben dice Orazio: _Narratur et prisci Catonis Sæpe
mœro caluisse virtus_ — e peggio ancora, Settimio Severo e il suo
collega Jovanio, ed Odeberto d'Inghilterra e Mahmud II, che tutti
morirono ebbri o di _delirium tremens_; e tenaci bevitori erano il
Contestabile di Borbone, e Avicenna, di cui si disse che passò la
seconda metà della vita a dimostrare come fossero inutili gli studi
fatti nella prima; e molti pittori, per es. Caracci, Steen, Barbatelli
detto perciò il Pocetta, e moltissimi poeti, come Murger, Gerard de
Nerval, Musset, Kleist, Mailath, con a capo di tutti Tasso, che in una
sua lettera scriveva: «comechè non nego d'essere folle, mi giova credere
che la mia follia sia cagionata da ubbriachezza o d'amore, perchè so
bene io che soverchiamente bevo»: altrettanto dicasi di Poe, di Swift
che fu detto ai suoi tempi il più assiduo frequentatore delle taverne di
Londra, di Lenau, di Hoffmann, di Rovani, di Praga. Tuttavia in molti
fra questi la triste sorgente dell'ispirazione si travede negli scritti
improntati da un erotismo artifiziato, malsano, che sente più che la
carne, la droga, e da un'ineguaglianza di stile, da una originalità più
bizzarra che bella, grazie alla troppo sbrigliata fantasia, alle
frequenti imprecazioni, ai passaggi bruschi dalla più cupa melanconia
alla più oscena gaiezza e ad una tendenza a dipingere la pazzia e
l'alcoolismo, e le scene più tetre della morte.

    Vi son giorni che il mio cor vien meno
    E il fango mi conquista

cantava il povero Praga cui l'alcool uccise.

E lodando il vino, bestemmiava:

    Venga l'obbrobrio — Dell'uomo sobrio
    Venga il disprezzo — Del gener umano
    Venga l'inferno — Del Padre Eterno
    Vi scenderò col mio bicchiere in mano.

Poe dipinge troppo bene il _delirium tremens_ per non averlo veduto
assai da vicino — e frammischia cadaveri risuscitati alle fantasie più
gioconde: e v'ha dello ubbriaco fradicio nelle strambe proposte di
Swift^[X-11], e nelle caleidoscopiche fantasie di Hoffmann, i cui
disegni finiscono in caricature, i racconti in istravaganze, la musica
in accozzaglia di suoni; ed egli già molti anni prima della morte
scriveva nel suo giornale: «Perocchè nella veglia e nel sonno, i miei
pensieri corrono sempre, mio malgrado, al triste tema della demenza;
pare che le idee disordinate sgorghino dalla mente mia, come il sangue
dalle vene spezzate».

Tutto ciò si spiega coll'essere egli stato soggetto ad una vera
lipemania alcoolica, che gli faceva convertir in realtà le sue strane
fantasie.

Alfredo Musset vede le _senore_ di Madrid scendere _les scalons bleus_,
e con strano gusto, ci mostra prediligervi,

    Sous un col de cigne,
    Un sein vierge, et doré comme la jeune vigne.

                                         MARDOCHE.

Murger adora le donne dalle labbra verdi, e dalle guancie gialle. — Son
errori estetici provenienti dal daltonismo alcoolico; così il mio
egregio amico Prof. Raymond curò un pittore, celebre, che divenuto
alcoolista abbondava nelle tinte gialle in luogo delle rosse e verdi; ed
un altro, cui l'alcool avendo scancellato completamente il senso dei
colori rese maravigliosamente abile nelle tinte bianche, sicchè riescì
tra una e l'altra ubbriacatura il più grande pittore di nevi di tutta la
Francia.

PAZZIE. — Anche i sintomi del comune delirio scompaiono in brevissimo
tempo; 8 giorni al più e senza gravi conseguenze, allo stesso modo come
vi possono essere accessi di delirio in individui che bevvero molto ma
senza ubbriacarsi^[X-12]. Il Canstatt narra di uno che ne patì 10
accessi in un anno solo, eppure guarì perfettamente. Io mi ricordo un
povero pretore, che pativa perfino di accessi epilettiformi, e nello
stesso tempo, paralitici con completa demenza, e poi si riaveva
completamente; si noti qui come l'appressarsi del tristo accesso gli si
rivelava nella scrittura che da chiara e ferma si faceva tremolante,
confusa e con la curiosa dimenticanza delle consonanti, p. es.,
_roccapetrosa_ in _roa peroa_, evidentemente per riflesso della paresi
dell'ipoglosso; ed un altro che minacciava di uccidere tutti i suoi
immaginari avvelenatori, tornò dopo due giorni, in famiglia, tenero ed
affettuoso assai più di prima.

Benchè tutti i sintomi siano scomparsi, tuttavia un buon osservatore può
ancora trovarne qualche traccia nella loquela alquanto incerta e
tremolante, nei moti fibrillari della faccia, nei tremori che
riproduconsi specie al mattino o sopravvengono dopo una forte emozione;
nella pupilla ineguale, nella vista annebbiata, o in qualche
preoccupazione ipocondriaca; in qualche illusione che passa però
rapidamente ed in un certo suo errore di pronuncia, per cui se è in
mezzo agli amici (al contrario dei balbuzienti), sopprime o qualche
sillaba o frase alla fine del periodo e financo un intero periodo
(battarismo), più spesso in un cotal sorriso stereotipato specie quando
si parla del vino e in una gaiezza smoderata e che s'alterna con
ostinata tristizia e taciturnità od in una vera atassia incipiente,
sicchè mentre può reggere ad un centinaio di chilometri, non riesce ad
occhi chiusi a procedere innanzi di un passo.

In alcuni poi resta latente o esplicita una traccia del delirio, e si ha
una vera mania, o monomania alcoolica^[X-13]. Un Rev... che nel delirio
si immaginava tradito dalla sua donna, guarito seguitava a guardarla in
cagnesco e parlava a tutti della sua sventura. Un Belm...... che
attribuiva a persecuzioni magnetiche o spiritiche di un suo parente, i
fenomeni morbosi prodottigli dall'alcool, pur conservando
negl'intervalli la sua intelligenza e scrivendo dei bellissimi versi,
accusava continuamente il suo preteso magnetizzatore. — Il suo collega
di sventura, Gonsing..., un filologo ingegnosissimo, che, nel _raptus_
alcoolico-lipemania, fuggiva per le vie, furioso, tremante, seminudo,
innanzi alle immaginarie vendette di Ad..., pur racquistando, dopo sei
giorni, l'intelligenza, per modo da poter fare esatte traduzioni dal
tedesco, seguita a darci la prova, con alcuni suoi scritti e geroglifici
curiosissimi, delle persecuzioni magnetiche del suo fantastico nemico
Ad..., come ho mostrato nel 1º numero del mio _Archivio di psichiatria
e scienze penali_, Torino, 1880, pag. 11, e tav. 1 e 2.

Anche in coloro, in cui ogni segno di delirio scomparve, esso può
ritornare come colpo di fulmine, tutto a un tratto e anche senza la
precedenza d'abusi, quando sopravvenga una forte emozione, un trauma,
una grave malattia, specie se dei polmoni.

ALCOOLISMO CRONICO. — In quasi tutti, ad ogni modo, il carattere è
cangiato e col continuarsi dell'abuso si va formando o una semplice
demenza quando il processo alcoolistico tende alla steatosi ed agli
ateromi, o la paralisi generale, se, invece, tende alla sclerosi
cerebrale.

Il corpo dapprima ingrassa (per la maggior proporzione di adipe nel
sangue) ma poi dimagra; la pelle untuosa, umida, per l'iperemia delle
glandule sebacee e sudorifere, sicchè invernicia così sudiciamente gli
indumenti dei bevitori, si fa arida, qualche volta exematosa, poi
giallognola, le mucose violacee, scabre, secche, e scarsi i capelli.

La memoria va sempre più infievolendo, e la parola facendosi incerta e
scorretta, rallentate le associazioni d'idee, ottusa la sensibilità,
confusa la percezione, il giudizio erroneo, onde impossibilità di lavoro
continuato, insonni le notti. Le antiche allucinazioni ricompaiono, ma
meno vive, smussate e a grandi intervalli, e mutandosi continuamente
come nel campo di un caleidoscopio; mentre il comune alienato da
monomania di persecuzione, vede sempre il gendarme, la spia, che prima
lo spaventavano nel suo delirio; — il bevone che prima tremava davanti
ai tedeschi, poi trema del giudice, e poco dopo del cane.

In una cosa solo non muta — nel bere. — L'infelice, tutto preda ai suoi
istinti e capricci, non pensa che a questi; e beve e ribeve, sia perchè
si sente debole, ipocondriaco e trova nell'alcool, per un momento, un
rimedio ai suoi mali, rimedio però che a sua volta poi ne raddoppia e
moltiplica i danni, o perchè ogni altro lato della sensibilità gli si va
spegnendo. Una signora (racconta Briere) si ubbriacava, già fin da 16
anni, di nascosto nel convento; maritatasi, vi si abbandonò tanto che il
marito ne morì di dolore; consumava il patrimonio in vino, e a chi ne
l'ammoniva, rispondeva: «Voi avete ragione, ma è più forte di me»;
ridotta in cenci, vendeva le vesti che le erano regalate per cambiarle
in acquavite. — Innanzi alla bramosia degli alcoolici vien meno in
costoro ogni volontà, ogni riguardo agli amici più cari, ai doveri di
famiglia, all'onore. — Anche al di fuori di questa causa, si inizia nel
bevone una vera degenerazione progressiva del sentimento, che va di pari
passo coll'intellettuale; ei si è fatto irritabile, brutale, fuori e più
in casa, _morositas ebriosa_. Una pigrizia progressiva lo invade, sicchè
va sempre più tenendo in non cale l'onore della famiglia, i doveri di
onest'uomo; lascia al caso l'andamento degli affari, vede senza
commoversi la miseria dei suoi, è immerso in un'ebetudine continua; ed
immobile, per ore intere, straniero a ciò che gli s'agita intorno, sta,
collo sguardo atono, spento, quasi in cerca della vita che gli vien
meno; e non esce dal torpore che per dare in smanie brutali e non di
rado in tentativi di omicidio, suicidio, di stupro; — e notisi, quanto
più in basso discende, tanto più al di fuori di casa è gaio e contento:
sopratutto quando gli si mostri la prediletta bevanda.

Ed i mali fisici tengono dietro agli psichici: cefalea, insonnia,
vertigini, susurro agli orecchi, crampi negli arti, od improvvisa
sonnolenza, a cui seguono paralisi, convulsioni parziali delle membra,
dei muscoli della faccia, e qualche volta perfino accessi epilettici.

Le allucinazioni non ricompaiono più che a grandi intervalli; ma i sensi
si fan ottusi del tutto e gli odori più acuti riescono inavvertiti, e
perfino le mucose più non reagiscon, anche se irritate. — Sembrerebbero
automi se non fosse quello strano sorriso, quando loro si mostri la
fatale bevanda; e parlano di sè in terza persona: _Carlo ha mangiato_,
_ha bevuto_, _ha fame_: oppure, afasici, non riescono a formular la
parola, ma una volta afferrata, la ripetono o ne ripetono l'ultima
sillaba per ore intere, con disperante insistenza. — Da ultimo anche il
polso si trasforma: si osserva una linea ascendente brusca e l'apice
appiattito a cui si attacca una brusca linea discendente (Magnan).

In non pochi, come ben nota Magnan, la paralisi si limita ad un lato,
quasi sempre il sinistro, e il senso tattile divaria enormemente da un
arto all'altro che si mostra otto o nove volte più ottuso del normale,
soprattutto quando le punte sono poste nel senso dell'asse del membro.

La temperatura, dal lato paralizzato, è inferiore di due e perfino tre
gradi; mentre dal lato sano possono percepire fino a mezzo millimetro,
dal malato può cessare la vista, e mancare i fosfeni o percepirsi uno o
_due millimetri_; anche l'udito è da un lato più ottuso di cinque a
dieci volte dell'altro e nemmeno la corrente indotta vi provoca
sensazione di suono.

Il _dipsomane_ si confonde coll'alcoolista da alcuni; eppure se l'uno
mena all'altro, e viceversa, pure se ne differenzia e di molto: chè
l'uno beve vino, quando ne trova, sempre; l'altro quando vi è spinto dal
male.

Qui più che non effetto del vizio, o di prave abitudini la è una vera e
propria malattia che può venire anche nei più temperanti, e che si
esplica con uno strano bisogno di bere per il tempo che dura l'accesso
sempre intermittente, ogni 15 dì, ogni 6 mesi, sovente, secondo
Brühl-Kramer, nei noviluni (v. LOMBROSO, _Pensiero e meteore_, p. 81), e
che comincia appunto, come in molti accessi maniaci, con ansia
precordiale, melancolìa, cefalea; gli infelici sentono venir l'accesso —
chiedono essi qualche volta di essere impediti dal bere, e se nol siano,
vi si abbandonano senza misura per 7 a 8 giorni, e poi dopo un sonno
grave, prolungato, tornan sobrii come prima. Magnan ne conobbe una che
giungeva a mescolare delle feci nel vino sperando averne ribrezzo
sufficiente per poter astenersene, ma invano, e «Bevi, la si sentiva
gridare, bevi villanaccia, dimentica i tuoi primi doveri e l'onore della
famiglia», e... poi ribeveva.

Alcune malattie o condizioni fisiologiche pare che predispongano a
questo morbo stranissimo. Un tale, racconta Briere da Bismont (p. 112,
_Du suicide_) dopo un trauma alla coronaria, curato colla trapanazione,
da astemio divenne sfrenato bevitore; nessun avviso più lo tratteneva, e
all'ultimo bevve per tre giorni di seguito finchè ne morì.

Qualche volta provocano tali eccessi l'anemia, l'isterismo, l'amenorrea,
il parto, l'epoca critica; e ciò spiega la loro relativa maggiore
frequenza nella donna, che è pur sì poco incline agli alcoolici; negli
uomini più spesso li favorisce l'epilessia, la paralisi generale
incipiente (Morel in 200 alienati lo notò 35 volte, sui quali 35 ben 10
l'eran di paralisi), l'affezion di cuore, l'ipocondria, la tubercolosi,
ma più di tutto l'eredità: sicchè si notò da Gall in un ragazzo di 5
anni, nipote ad un ubbriacone.

Nè in questo modo soltanto fa l'alcool sentire il suo influsso
ereditario.

EREDITÀ. — Esso infatti non colpisce solo coloro che ne usano, ma, come
molti altri veleni, come il mercurio, il maiz guasto^[X-14], influisce
ancora sui poveri innocenti a cui i primi diedero vita.

La storia degli Jucke (V. _Uomo delinquente_, pag. 269, 275) ha
dimostrata l'enorme influenza dell'alcool sulle malattie, sui delitti,
sul pauperismo dei figli di bevitori, comechè da un solo capostipite
ubbriacone, Max Jucke, discesero, in 75 anni, 200 ladri e assassini, 280
poveri ammalati di cecità, idiozia, tisi, e 90 prostitute, e 300 bimbi
morti precocemente; che costarono in tutto, per danni e spese, allo
stato, più di un milione di dollari.

Nè questa storia è pur troppo isolata; dappertutto, nelle opere recenti
è facile trovarne delle analoghe, se non più curiose.

I Dufay (scrive Targuet, Dell'eredità _dell'alcoolismo_, 1877) sono
quattro fratelli disgraziati, e dati al vino. Il più anziano si gettò
nell'acqua e vi morì — il secondo si appiccò — il terzo si tagliò la
gola — ed il quarto si gettò da un terzo piano.

Nella famiglia R... un ubbriacone (segue Targuet) ebbe da una moglie
sana i seguenti figli:

         |                 |              |            |          |
  _m._ ubbriacone  _f._ ubbriacona  _f._ delirante  _f._ sana    _f._
                                       omicida         |       adultera
                                                       |
  ---+---------------+--------------+---------+--+--+--+--+------+------
     |               |              |         |  |  |  |  |      |
    _f._        _f._ dissoluta   Imbecille    1  2  3  4  5    Ladro
  lussuriosa                    epilettico       Sani        ubbriacone
     |                           ed ebbro
  ---+----
     |
   m. sano
  idrocefalo

P. S. che moriva di rammollimento cerebrale da alcoolismo e la moglie
morta d'ascite, forse per alcoolismo, diedero vita a


                                   |
   ---+----------------------------+--------------------------
      |                            |
  Figlio sano                 Figlia sana
                            maritata a sano
                                   |
      --+--------+--------+--------+-+-----------+--------+----
        |        |        |          |           |        |
      Idiota  Vizioso  Vizioso   Cieco nato  Cieco nato  Sano
                                 e sciocco

Un ubbriacone (Targuet) accoppiato con R..., donna libidinosa, corrotta
(Zann), diede vita a

                             |
      Un figlio strano e bizzarro morto d'alcoolismo
                             |
    Un figlio paurosissimo che fuggiva a sol vedere cesoie
            e che poi divenne pazzo, e questo ad
                             |
    -------+-----------------+-------+------------------+------
           |                         |                  |
     1 morto giovine                Sano            Idrocefalo

Queste storie ci mostrano il facile atavismo degli alcoolisti, il salto
dall'avo ai nipoti, lasciando apparentemente integri i figli. Un altro
esempio:

L. Bertone, bevitore, morto apopletico, ebbe un solo figlio bevitore e
questi tre figli

         |                      |
  L. bevitore e giuocatore  L. B. sano
                e L. R. sonnambola allucinata maritata a G. sano,
                  |                 |         |             |       |
             G. P. idiota     A. R. isterica  |    R. R. sonnambola |
                                      P. R. allucinata              |
                                              |                     |
                                          e Rachitica               |
                                                  4 morti precocemente

Morel parla di un bevitore che aveva 7 ragazzi: uno divenne pazzo al
22^mo anno, un altro idiota. 2 morirono precocemente, il 5º bizzarro e
misantropo, la 6ª isterica, il settimo un buon operaio ma con
neurosismo. — Di 16 figli di un altro suo cliente bevitore, 15 morirono
precocemente, un solo sopravvisse, ma epilettico.

Or ora un giudice tedesco (Morce) uccideva con un colpo di revolver la
propria moglie da lungo tempo ammalata e dichiarava averlo fatto per
amor suo, onde risparmiarle la tortura dei mali e non credere aver
commesso alcuna mala azione. Egli aveva tentato altrettanto colla madre
quando questa era stata ammalata. A lungo dubitarono i periti se si
trattava o no di una follia morale, quando si venne a sapere che il
nonno ed il padre eran stati bevoni (Centralblatt für Psychiatrie,
1880).

V'ha qualche cosa di peggio... Flemming e Demeaux dimostrarono come non
solo i bevoni trasmettono ai loro figli la disposizione ad impazzire o a
commettere delitti, ma per sino i genitori sobri, che diedero luogo ad
un concepimento durante una breve momentanea ubbriachezza, ne
conseguirono figli, o epilettici, o paralitici, o pazzi, o idioti e
specialmente microcefali o con^[X-15] una debolezza mentale
straordinaria che alla prima occasione si trasforma in pazzia; per cui
un solo bacio, concesso in un momento di ebbrezza, può divenir fatale ad
un'intera generazione.

SUI POPOLI. — E come se tutto ciò non bastasse, l'alcool uccide i popoli
e li infama. Già le indagini recenti di Svezia e di Slesia hanno
dimostrato come l'impoverimento di alcune di quelle popolazioni (p. es.
Gothemburg), e la loro decadenza eran causate dai progressi spaventevoli
dell'alcool, dall'oste interessato ad ubbriacare la plebe; ma a pochi
forse è noto, come a questo rimonti la colpa di una buona parte
dell'infamie comunarde. «Durante l'assedio (dice Maxime Du Camp, _Revue
de Deux Mondes_, 1871), gli operai bevevano assai più che non si
battessero. Durante la comune, si diede loro ancor più da bere onde si
battessero davvero; ed in nove mesi, Parigi ha bevuto cinque volte più
che solitamente in un anno; e così si venne a un vero delirio tremens
epidemico, ad una vera petroliomania alcoolica; chè molti dei petrolieri
avevano già fatto conoscenza coi manicomii».

I primi indigeni d'Australia e d'America furon distrutti più dal gin che
dal ferro europeo, tanto che essi l'adducono a scusa delle loro feroci
rappresaglie.

I Maori, che erano nel 1849 ben 120 mila, nel 1858 grazie all'alcool
calavano a 56 mila (Baer, op. c., 1871) e nel 1874 eran 47,001. L'alcool
fu la loro ruina, come la temperanza era la base della lor felicità.
Brunet non può spiegare l'indole perniciosa osservatasi nei morbi nelle
razze Polinesie, qualche anno dopo la venuta degli europei, se non
coll'abuso degli alcool. Il negro, che vive 80 anni se sobrio, se usa
rhum muore nel fior della vita.

RIMEDI. — Ed ora veniamo ai rimedi.

Lasciamo da parte la pura terapia, impotente sempre negli ultimi stadi,
maravigliosa, invece, nei principii e più come preventiva, p. es.,
quando rompe tutto ad un tratto le abitudini alcooliche e quando
istituisce gli ospedali pei bevoni, che nella sola Wasington ne
ricoverarono in 16 anni non meno di 4200. Limitiamoci alle misure
politiche e sociali, poste in opera per combattere l'alcoolismo. — E
sono, in vero, straordinari, e fino anche bizzarri, gli sforzi fatti in
proposito in ispecie dalle razze Anglo-Sassoni. Le società di temperanza
istituite in Inghilterra e in America, non si ridussero ad un circolo di
Arcadi, riuniti per far pompeggiare i propri discorsi in armonica
cadenza; ma sono così numerose, così attive e dispongono di così
formidabili capitali da riescire una vera potenza; esse, in Inghilterra,
nel 1867, salivano, già, a 3 milioni di membri, con tre giornali
settimanali e tre mensili. A Glasgow spendevano 2000 sterline per
erigere caffè là dove gli operai si agglomeravano di più nelle bettole;
a Londra aprivano sale da The e da spettacoli, nei giorni di festa,
capaci di più di 4500 persone. A Baltimora in America, i soli membri
rappresentati al congresso superavano i 350,000, nel 1835 essi avevano
già superato i 2 milioni ed in 5 anni si vantavano di aver fatto
chiudere 4 mila distillerie e soppresse 8 mila osterie. — Nella Svezia
la società di Bolag radunò un tal capitale da poter acquistare tutte le
osterie di un distretto, e obbligare gli osti, diventati suoi garzoni, a
cavare il guadagno dal the e dal caffè e dai cibi e non dal vino,
escludendone quelli che si volevano sottrarre a quest'obbligo; ed essa
trovò degni imitatori in ben 147 città di Svezia.

In America, perfino la donna divenne un potente alleato a questi fieri
nemici degli alcoolici; esse avendo alle spalle i fratelli e i mariti,
colle preghiere prima, coi sermoni, ripetuti al caso fino a inebitirlo,
costringevano l'aquavitaio a chiudere bottega. Qualcheduno resistette e
minacciò marchiarle col ferro, o le inondò colle pompe o ricorse ai
tribunali, e mandò contro loro coppie di orsi, ma esse erano protette
dalla loro stessa debolezza, dalla loro tenacia e dalla santità della
loro causa, e quand'anche condannate dal giurì, trovavano giudici che
non facevano eseguire il verdetto; quando anche messe in fuga, un
giorno, ritornavano da capo il giorno appresso, sicchè a molti fu
giocoforza di cedere.

Tanti sforzi riuniti delle società giunsero a modificare in proposito
profondamente le leggi. Si cominciò in America del Nord fin dal 1832 a
ordinare un supplemento di paga ad ogni marinaio che rinunciasse alla
sua razione di Grog; nelle truppe di terra si tolsero i liquori forti
alla razione (proibendo anche persino di venderne alle vivandiere),
compensandoli in caffè e zucchero, misura imitatasi, poi, dalle grandi
società industriali.

Nel 1845 lo stato di New-York si dichiarò contrario alla vendita
dell'alcool; altrettanto si fece nel Mayne; ma siccome nei magazzini si
rivendeva egualmente in segreto, si passò dopo molte lotte alla famosa
legge del _Mayne_, che proibiva assolutamente la fabbrica e persino la
vendita di liquori spiritosi, tranne per l'uso igienico, e pur ne
difficoltava ed assai il trasporto; proibiva di tenerne nelle proprie
case più di un gallone, autorizzava perfino le perquisizioni domiciliari
per scoprirne i depositi nelle case private^[X-16]. Questa legge fu
adottata anche dagli Stati vicini di Michigan, Connecticut, Indiana,
Delaware, ecc.: ma fu in gran parte neutralizzata dagli stranieri e
dalla facoltà che aveva il potere centrale di dare concessioni di
osterie.

In tutti poi gli Stati Uniti, con leggi parlamentari 1841 e 1875, si
proibì all'oste di dar da bere agli scolari, ai minorenni, agli alienati
ed ai selvaggi (legge imitata poi dalla Prussia e dalla Svizzera); si
rese responsale l'oste dei danni o lesioni che potesse recare
l'ubbriaco, per il che nell'Illinese deve fare un deposito da 4 a 5000
dollari; anzi in alcuni stati esso deve rispondere anche pei danni che
reca alla famiglia stessa del beone abituale coll'ozio e colle malattie
procurate dalle sue bevande. Anche le concessioni vennero limitate e gli
osti assoggettati a forti tasse annue, da 200 fino a 1000 dollari.

In Inghilterra fin dal 1656 si proibì la vendita di spiritosi alle
feste, più tardi con legge 1854 e 1872 se ne limitarono a poche ore gli
spacci.

In Iscozia, anzi, dopo la legge Forbes Mackenzie, si chiusero del tutto
nelle feste le osterie, e d'allora in poi gli arrestati per ubbriachezza
decrebbero da 6367 a 1317 e quelli in domenica da 729 a 164; meglio a
Glasgow da 23,785 a 16,466.

Una misura più pratica e più semplice in proposito è la multa inflitta
dalla legge inglese (Vict. VIII) e dalla scozzese (1862), da 40 scellini
a 7, o ad un giorno di carcere per chiunque sia trovato pubblicamente in
istato di ubbriachezza.

Nel 1871, auspice Gladstone (che ne restò vittima), si limitò con legge
apposita il numero dell'osterie cioè:

  Nelle città 1 ogni 1500 nelle campagne 1 p.  900  abit.
              2  »   3000         »           1200   »
              3  »   4000         »           1800   »

salvo quelle modificazioni che volessero indicare i singoli municipi; si
istituirono ispettori speciali per controllare le osterie clandestine e
le sofisticazioni dei vini, che furono punite con multe progressive
seguite dalla chiusura dell'esercizio.

Colla legge 1873 si ordinò di non concedere licenza di osterie finchè
non fossero morti i titolari dell'esistenti; dal fondo delle licenze si
prelevarono somme per acquistare le vecchie osterie e chiuderle.

A tutto ciò s'aggiunsero le prediche de' pastori, per es., del padre
Mathiew che, nel 1838–40, influiva colla sola sua eloquenza, in Irlanda,
a scemare, della metà, il consumo degli alcoolici e di un quarto le
cifre dei delitti (da 6400 a 4100), e sopratutto la tassa sulle bevande
i cui proventi sommano a circa 1/3 di tutte le imposte; altrettanto
dicasi negli Stati Uniti dove essa ammonta a 110 dollari per ettolitro;
in Francia dà quella tassa allo stato più di 500 milioni (e si tratta di
accrescerla), nel Belgio più di 13,000,000 di lire.

In Olanda crebbervi le tasse da 57 fiorini per ettolitro, senza contare
le imposte sugli osti cresciute della metà da quelle d'una volta;
tuttavia la diminuzione del consumo fu assai lieve, da 290,222 ettolitri
nel 1863 a 281,693 nel 1871 (Fazio).

Nella Svezia dove l'alcoolismo s'era trasformato in malattia endemica,
si accrebbero nel 1855–56–64, con leggi successive, da 2 a 27 a 32 lire,
per ettolitro, le tasse sulla distillazione dell'acquavite, si proibì
l'applicazione del vapore alle distillerie; si limitò a non più di 2610
litri al giorno la distillazione, e a due mesi soli dell'anno il tempo
di questa; più tardi, si estese a sette, ma solo per le grandi
distillerie, onde soffocare le piccole, riconosciute più dannose al
popolo minuto, che infatti da 35,100 calarono a 4,091; la produzione
dell'alcool diminuì di due terzi in 10 anni, e il prezzo accrebbe da
0,50 a 1,30 al litro.

Ivi già fin dal 1813 vige una legge che commina una multa di 3 dollari a
chi sia stato trovato ubbriaco la 1ª volta; al doppio se una 2ª, e
così via via; per la 3ª e 4ª con perdita del diritto di voto e di
nomina a rappresentante; alla 5ª, carceri o case di correzione fino a 6
mesi di lavori forzati, e alla 6ª per 1 anno.

Si proibì (almeno in Norvegia) di vendere alcool di festa e nella sera
della vigilia festiva e nelle ore mattutine prima delle 8 (_Ann. di
Stat._, 1880).

Ora è notevole che i crimini gravi vi scemavano dal 1851 al 1857 del 40
per 100, e del 30 per 100 le condanne piccole, e che questa diminuzione
procede sempre: erano 40,621 nel 1865, calarono a 25,277 nel 1868
(Bertrand, Essai sur _l'intempérance_, 1875).

E nello stesso tempo la statura media, la vita media, si rialzò (Baer);
e calò il numero dei suicidi alcoolici da 46 nel 1861 a 11 nel 1869 e
benchè di poco e saltuariamente, quello degli ubbriachi: a Gothemburg,
per esempio

    del 1851 si calcolava 1 ubbriaco su 19 abit.
        1855              »              9
        1860              »             12
        1865              »             22
        1866              »             33
        1870              »             38
        1872              »             35
        1873              »             31
        1874              »             28

In Svizzera, in certi cantoni, il nome del beone abituale è affisso
dalla questura in tutte le osterie che hanno proibizione di accettarlo
(Tissot, op. c., 571).

In Francia oltre le enormi tasse sui vini e gli alcoolici, una legge
proposta dal mio amico Roussel ed adottata nel 1871, commina
all'ubbriaco: multa da 5 a 15 fr. per la 1ª volta; 16 a 25 per la 2ª;
la prigione da 6 a 12 giorni per la 3ª, e l'interdizione per
l'alcoolista cronico, e multa all'oste che non impedì o favorì
l'ebbrezza (V. LOMBROSO, _Sull'incremento del delitto_, 2ª ed., Torino,
1879).

Quale di tutti questi rimedi ha prodotto il miglior frutto? Certamente
che molte delle misure più energiche, specie delle repressive, non
riescirono all'intento desiderato. Noi non ne vidimo un esito chiaro che
in Svezia in cui pure non è dimostrato che sia scemato di molto l'uso
delle bevande alcooliche; così in America e in Francia, malgrado la
legge del Mayne e di Roussel, è certo che sono cresciuti gli alcoolisti,
anzi da alcuni si afferma essere stata quella del Mayne più un'arma
politica che una misura d'igiene e che il contrabbando degli alcoolici,
di cui si fanno rei spesso persino gli stessi legislatori, che la
comminarono, vi raddoppi, con una nuova vergogna, quella
dell'ubbriachezza.

Nella stessa Gothemburg il nostro collega Brusa si incontrò in due
ubbriaconi lo stesso giorno che vi entrò, e in cui per preghiere che
facesse non potè ottenere una goccia di vino; e noi vedemmo quanto
saltuaria e poi concludente fossevi la statistica degli ubbriachi di
questi ultimi anni.

Gli è che, come ben vi notava Bizzozero, nessuna legge repressiva può
riuscire completamente, quando vada contro alla corrente dei nostri
istinti fra cui tanto primeggia l'eccitamento psichico, che attingesi
dal vino.

A Glasgow quando i poveri minatori non hanno denari sufficienti a
comperare acquavita, comperano laudano, e così i poveri di Londra quando
han fame^[X-17], e nell'Irlanda quando le prediche del padre Mathieu
dissuasero i popoli dagli alcoolici, essi si diedero improvvisamente
all'abuso dell'etere, a cui il buon padre non aveva pensato. «Questo,
dicevano, non è vino, questo non è _gin_, questo non ci fu proibito dal
padre Mathieu e ci mette in allegria con pochi centesimi, dunque di
questo possiamo usarne; e ne usavano ed abusavano sino
all'ebbrezza»^[X-18]. Si calcola che la quantità che ingoiavano in media
era dai 7 ai 14 grammi, ma ve n'erano degli ostinati che si spingevano
fino a 90. Dopo le prime dosi la faccia si colorava, il cuore batteva
più forte, si esaltava la psiche, e quindi si osservava un chiacchierio
interrotto da risa smodate, isteriche e non di rado anche da tendenze
alla rissa, ma il tutto svaniva con una straordinaria rapidità,
lasciando posto ad una calma beata, cosicchè uno poteva ubbriacarsi 6
volte in 24 ore, e ricominciare il dì dopo colla stessa facilità, il
tutto per 3 pence. Ma notisi che qualche volta la cosa non andava così
liscia e dalla calma dell'etere si passava all'insensibilità e fino alla
morte apparente prima, reale poi, se non si ricorreva al respiro
artificiale; in altri casi il vapor d'etere prese foco mentre il
bevitore voleva accendere la pipa (_Revue Britann._, 1871).

Tuttavia se non pensiamo che tutte queste misure abbiano approdato, esse
giovarono almeno ad una cosa: ad arrestare il maggiore incremento
dell'ubbriachezza, che, senza quelle, chi sa a qual grado sarebbe
salito. Ed appunto per ciò alcune di queste, specialmente le preventive,
si devono cercare d'introdurre da noi. Così ottimo è il consiglio della
commissione di Gothemburg di impedire che i vini e gli alcoolici sieno
venduti a credito e di dichiarare non validi i contratti eseguiti in
cantina e di aumentare e non scemare la penalità nell'alcoolismo
specialmente se abituale. Sopratutto bella è la misura di pagare il
salario in mano alla famiglia dell'operaio ed al mattino in luogo della
sera, e mai nel giorno di festa o in quello che lo precede^[X-19].

Siccome l'ozio e le feste sono, come ci mostrò la statistica (v. s.), i
grandi fautori dei delitti alcoolistici, così fu giusto consiglio di
scemare le feste e in quelle che restano, istituire palestre
ginnastiche, rappresentazioni di poca spesa, come si pratica in
Inghilterra. Noi udimmo, precisamente a Torino, in una radunanza
popolare contro l'ubbriachezza sorgere un operaio a chiedere che nei
giorni festivi venissero i teatri aperti anche nelle ore diurne, se si
voleva che gli operai non accorressero alle osterie; e ci parve la sola
proposta giusta che si emettesse in quella veneranda assemblea.

Forni ci racconta come in un paesello del Sud l'oste fece bastonare un
capo-comico perchè dopo la sua venuta (i suoi spettacoli erano a 3
soldi), spacciava appena la metà del vino di prima (LOMBROSO,
_Incremento al delitto_, p. 81).

Fornire un eccitamento intellettuale al povero popolo che ne abbisogna,
ma fornirlo di tal guisa che non gli guasti la mente ed il corpo, ecco
il vero ideale di un previdente legislatore, filantropo; e perciò quindi
trovo giusto lo scemare quanto sia possibile le tasse sul caffè e sul
thè, in confronto del vino e sopratutto degli alcooli, facendo
un'eccezione a favore del primo, solo alla peggio, nei paesi dove di
questi ultimi si tenda ad abusare.

Non già che anche il vino non avveleni, a sua volta, ma assai meno
rapidamente e meno facilmente dei liquori e specie, di quelli più fatali
che contengono, oltre il veleno alcoolico più concentrato, anche altre
droghe altrettanto venefiche; come l'absinth, il vermout, ecc., ben
inteso che certi vini tristi (_bleu_) artifiziati con tinture, alcool e
droghe, vanno contati come pessimi liquori, e devono essere, più ancora
di questi, presi di mira, appunto pel maggiore spaccio che segue al buon
prezzo.

Sopratutto conviene colpire, inesorabilmente, con restrizioni dell'ore
notturne, dei giorni festivi e di licenze, e coll'obbligo di vendere
anche caffè ed alimenti, gli spacciatori al minuto di alcoolici,
specialmente in vicinanza alle fabbriche e peggio se dentro di esse e
delle miniere, e se, come ci rivelò il Ciccone, il padrone stesso vi
fosse interessato, potendo contribuire così coll'autorità propria, anzi,
colla stessa paga, a corrompere e ad avvelenare anche il più sobrio
operaio.

Quanto a conoscere quale fra i tanti rimedi l'uno più grave dell'altro
sia preferibile da noi, spetterà non al medico ma allo statista il
decidere; ma certo qualche cosa si deve fare e presto se non si vuole
che mano mano che cresciamo in industria e in civiltà sorga da noi, o
piuttosto s'ingigantisca (perchè pur troppo è già sorta) la lurida piaga
dell'alcoolismo, che è nemica non solo della libertà, ma anche della
sicurezza sociale; e che unendosi ad altre piaghe pur troppo nostre e
pur troppo trascurate anch'esse e inciprignite, come quelle della
malaria, e della pellagra, ci renderanno col tempo gli iloti d'Europa. —
E non si venga fuori colla solita, avvocatesca, gherminella della
libertà, sotto cui a poco a poco ci vediamo stringere i polsi e
atrofizzare il cervello peggio che un tempo sotto le panie dei frati di
S. Ignazio. — Quando vedo il più puro, il più democratico fra il
purissimo sangue anglo-sassone, come lo stato del Mayne, limitare
perfino la quantità d'alcool che un cittadino può tenere in sua casa e
rendere responsale l'oste dei danni di ciascun suo cliente ubbriaco e
limitate in certi giorni le ore dell'apertura e dapertutto nei paesi
civili d'Europa limitato il numero degli esercizi e istituiti in alcuni,
per ciò, appositi ispettori di controllo, e quando vedo farsi di tali
misure promotore, apostolo, ed anzi, quasi martire, Gladstone, mentre da
noi si vocia a tutta gola come a despoti o socialisti dottrinari contro
coloro che, come Minghetti, Luzzatti e A. Mario, invocano l'intervento
dello stato a tutela dell'igiene, e quando vedo anzi semprepiù allargate
e libere le licenze, ed aumentate le ore d'apertura dell'osterie, e
quando vedo non una voce sorgere perchè si sostituisca alle fatali tasse
sul sale e sui grani, quelle dell'alcool od almeno sugli esercizi degli
acquavitai, che sarebbero tanto più moralizzanti, io mi domando se
codesta libertà, di cui facciamo tanta pompa, non copra, invece, col suo
splendido nome, una merce avariata, e quel che è peggio, non ci
dissimuli, sotto un fragile orpello, un vicino e grave pericolo.

[X-1]

                _Vino e liquori fermentati, effetti in_
              MALE-------------------|----------BENE
  Pauperismo-------------------------|--Conforto ai dolori
  Statura abbassata------------------|--Spinta all'erotismo
  Mortalità aumentata----------------|--   »   alla benevolenza
  Predisposizione alle epidemie------|--   »   all'associazione
  Maggiore vulnerabilità al freddo---|--Eccita la fantasia e la memoria
  Fecondità imprevidente prima-------|--Aumenta momentaneamente la
      »     diminuita poi------------|     digestione
  Facili aborti----------------------|--Aumenta il lavoro muscolare
  Sterilità--------------------------|--   »    il senso genitivo
  Impotenza--------------------------|--Previene i miasmi
  Suicidi----------------------------|--Risparmia l'organismo
  Perdita del senso d'onore----------|--Rende facile la loquela
     »    dell'amor di famiglia------|--Aumenta l'allegria
  Apatia completa--------------------|--Risparmio provvisorio degli
  Pazzia, epilessia, demenza---------|      albuminoidi del corpo
  Tremori, ambliopia, paralisi-------|--Abbassa la temperatura nella
  Infiammazioni cerebrali,           |       malattia
        intestinali, gastriche-------|
  Tristezza abituale-----------------|
  Pazzia, microcefalia, demenza nei  |
        figli------------------------|
  Ribellioni-------------------------|
  Omicidio---------------------------|
  Attentati al pudore----------------|
  Delitti senza causa----------------|

[X-2]

  Il colèra nei temperanti diede mortalità del 19,9 p. %.
       »     »  bevitori     »       »           91 p. %.

[X-3]

  Matrimoni dei bevitori diedero, in media, 1,3 figliuoli.
      »      »  astemi      »        »      4,1     »

(A. BAER, _Der Alkoholismus_, Berlin, 1878).

[X-4] Un uomo di 20 anni bevitore ha la vita media probabile di 15,
l'astemio di 44.

  I bevitori di birra hanno una vita media di anni 21,7.
  Quelli di alcool      »         »            »   16,7.
  Quelli di alcool e  birra       »            »   16,1.

Su 97 bambini nati ad ubbriachi, 14 soli eran sani (Baer).

[X-5] Dal 1823 al 1826 gli ospizi di Filadelfia accettarono da 4 a 5000
poveri per anno ridotti a tale dall'ubbriachezza. Su 3000 del
Massachussett ben 2900 erano nella stessa condizione. Baer, op. c., p.
582.

[X-6] Nelle statistiche uffiziali 1870, calcolando in media 1 giorno
festivo sopra 5 non festivi, si avrebbe questa proporzione per % di
reati commessi nei giorni festivi:

                                                         Tribunali
                                                  Assise  ordinari
    Ribellione, resistenza all'autorità pubblica   68,1     78,5
    Stupro violento                                65,4     67,4
    Parricidio, uxoricidio, infanticidio           56,9       —
    Omicidio volontario                            72,8     74,8
    Omicidio in rissa                              78       76  
    Giuochi proibiti                                 —      83,8
    Ferite con morte                               71,3       —
    Ferite e percosse volontarie                   69,6     82  
    Minaccie e vagabondaggio                         —      72,4
    Grassazioni e furti                            61,5       —
    Furti                                          61,2     66,8
    Esposizione e supposizione d'infanti             —      34,8
    Ricettazione e compra di cose furtive          63,9       —
    Sottrazione di depositi pubblici                 —      39,3
    Truffe e appropriazioni indebite               33,9     62,4
    Falsi diversi                                  47,8     49,4
    Calunnie e false testimonianze                 12         —
    Grassazioni e furti con omicidio               31,2       —
    Bancherotte                                    26,4     48,2
    Danni di fondi                                   —        —

Tutti cioè i delitti d'impeto e contro le persone prevalgono nei giorni
festivi su quelli di calcolo e di destrezza.

[X-7] Vedi _Ubbriachezza in Italia_ del D. FAZIO, Napoli, 1875, 2ª
edizione.

[X-8] In Danimarca il direttore della statistica crede che il 17 sia la
cifra assai inferiore alla reale. In Berlino il Casper calcola almeno il
25 per cento (Baer, op. c.).

[X-9] Trovo nel bel lavoro di FAZIO, _Ubbriachezza e sue forme_, 1875,
che si calcola il consumo dell'acquavite a

     7 litri per abitante nei Paesi Bassi
     7   »          »         Belgio
    28   »          »         Parigi
    15   »          »         Annover
    16   »          »         Danimarca

I dati del Baer sono arruffatissimi; calcola egli 16 litri per abitanti
in Svezia, 4 galloni in Danimarca, 45 in Olanda; in Francia 21 litri
vino, 19 birra, 2 alcool. Per poter venire ad una comparazione più
sicura bisognerà che uno statista si prenda la briga di ridurre ad
alcool, e ad alcool di un dato grado, il vino e la birra che complicano
il conto nei vari paesi; dappoi sommato il tutto si otterrà una media
comparabile con più sicurezza.

[X-10] Rose classifica queste allucinazioni in 5 categorie: 1º piccoli
oggetti schifosi; 2º animali grandi ad innumerosa schiera; 3º da
cadaveri, santi, da fonte religiosa; 4º birri, soldati e spie; 5º gli
oggetti più comuni del proprio mestiere, ma bisogna aggiungere una 6ª,
le allucinazioni tattili prodotte dall'iperestesia cutanea, zolfanelli
sotto la cute, morsi di serpe e tutte quelle provocate dallo stato di
emianestesi, paresi, nevralgie. Davvero tutte queste categorie son così
vaste che male posson capire dentro gli strettoi delle pedantesche
classificazioni.

[X-11] V. Lombroso, _Genio e follia_, 3 edizione, 1877, pag. 113. V'ha
della demenza, scrive Addison, in quel suo matematico che fa inghiottire
i problemi al discepolo; ed in quella proposta filantropica di far
macellare i bambini a pro del popolo, ecc.

[X-12] Un capitano tedesco per molti anni bevve da 7 a 10 bottiglie di
birra e 15 a 30 caraffe di vino al giorno senza ubbriacarsi; un dì fu
visto bere una dopo l'altra 2 bottiglie di rhum e 15 caraffe di vino,
poi lavarsi il capo con liquido composto a parte eguale di alcool e
sale. A 74 anni solo sofferse di idrope e poi apoplessia e solo dopo
questa comparvegli delirio che svanì lasciando smemoratezza, esagerata
benevolenza alternata con idee di persecuzione, ecc. (BRIERE, _De B._,
Op. c., p. 202).

[X-13] Secondo alcuni psichiatri, Schuele, Kraft-Ebbing, la melanconia
negli alcoolisti assume la forma di stupore, la monomania o quella della
pazzia ragionante o della congestione cerebrale e tutte s'associano alle
emicranie, alle insonnie, al tremore dell'alcoolismo. Sono voci di
minaccie di morte di condanna o visioni di animali e di fantasmi. Nella
manìa si avrebbero cambiamenti di carattere, tendenza a vagabondare,
un'esagerazione delle idee di se stesso, erotismo, miosi, tremore,
allucinazioni strane; epilessia quasi sempre incompleta.

[X-14] LOMBROSO, _Studi clinici sulla pellagra_, 2ª ed., 1872.

[X-15] _Acad. des Sciences_, 1861. Egli potè constatare originati in tal
modo 5 casi di epilessia, 2 di pazzia, 2 di paralisi generale, 1 di
idiozia e molti microcefali. La microcefalia, che si vede sì spesso
apparire fra le conseguenze ereditarie dell'alcool, ben si comprende
ricordando le atrofie, sclerosi cerebrali (vere microcefalie
istologiche) che si ripetono con tanta costanza nel bevone stesso.

[X-16] Legge del Mayne:

1º La fabbricazione, la vendita e la fornitura dei liquori inebbrianti
sono proibiti, se ne eccettui il caso richiesto dal medico o per scopo
religioso o scientifico.

2º I liquori alcoolici richiesti in questi casi speciali non possono
essere venduti che da un solo agente in ciascuna città, il quale non dee
aver casa di pubblico solazzo. L'agente che riceverà un salario fisso
dee essere nominato dall'autorità municipale e versare una cauzione di
600 dollari (2210 L.).

3º Ogni vendita illegale di bevande inebbrianti è punita con ammenda di
10 dollari e con prigione fino alla soddisfazione dell'ammenda. La 2ª
infrazione è punita con ammenda di 10 dollari, la 3ª e le seguenti con
20 dollari con prigionia da 3 a 6 mesi.

4º La fabbricazione dei liquori spiritosi è punita con ammenda di 100
dollari o prigione di 2 mesi. Per la 2ª infrazione un'ammenda di 200
dollari o la prigione di 4 mesi, per la terza volta e le seguenti 200
dollari e la prigione di 4 mesi.

5º L'autorità può perquisire i luoghi ove suppone che esistano depositi
di liquori, ogni quantità di bevanda di cui non si potrà procurare la
prova d'importazione senza che vi sia stata contravvenzione legale, sarà
presa e sarà distrutta.

6º Tutte le promesse di vendite di bevande illecite sono nulle.

7º Gli individui in istato di ubbriachezza devono essere arrestati e
detenuti fino a che abbiano fatto conoscere l'indirizzo dell'osteria ove
si sono ubbriacati ecc.

[X-17] Colkins calcola che nel 1867 si consumavano 78,000 libbre d'oppio
agli Stati Uniti per ubbriacarsi (_Opium and opium aether_, 1871,
Filadelfia). Nel Kentuky, la legislatura ordinò con editti che chiunque,
per abuso d'oppio o d'arsenico o droghe eccitanti sarà ridotto inabile a
dirigersi, sarà posto sotto tutela o rinchiuso in un asilo, come i
bevoni abituali (FAZIO, _Dell'Ubbriachezza_, 1875, p. 370). A Londra si
introdussero nel 1857 ben 118,915 libbre d'oppio — nel 1852 a 280,750;
specie nei centri industriali nel Lancashire (Fazio, op. c.).

[X-18] Era un miscuglio di etere etilico e metilico.

[X-19] V. nell'_Archivio di Psichiatria e scienze penali_ di C. LOMBROSO
e GAROFOLO, fasc. I e II, 1880, sui sostitutivi penali dell'avv. Ferri,
p. 224.



                          _EDMONDO DE AMICIS_
                                   —
                   GLI EFFETTI PSICOLOGICI DEL VINO

            (_Conferenza tenuta la sera del 5 aprile 1880_).


Studiato il vino nella vite, considerato nella leggenda, nella poesia e
nei costumi, visto come si compone e come si traffica, in che maniera
opera sull'organismo, e per che via conduce al delitto, alla pazzia e
alla morte, non resta che a trattare dei suoi effetti psicologici: dire,
cioè, come agisca sull'intelligenza, sull'immaginazione e sul
sentimento, fin che si rimanga, bevendo, molto di qua da quel limite
funesto, varcato il quale il bevitore cade nelle mani del professore
Lombroso.

Riguardo agli effetti generali e ordinari del vino non potrò dir nulla
che la maggior parte degli uditori non abbia osservato e non sia in
grado di esprimere. A ciascuno, almeno una volta in vita sua, dopo un
banchetto geniale d'amici, nel quale si sia troppo spesso affacciato,
come disse un poeta, al finestrino rotondo del calice, sarà occorso di
riandare tra sè, il giorno seguente, i diversi periodi d'alterazione per
cui passò la sua mente, il suo cuore e il suo linguaggio; di fare uno
sforzo per rendersi conto della progressione dell'ebbrezza, di studiare
quell'io fittizio ch'egli è stato per qualche ora, — curiosamente, come
avrebbe fatto di uno sconosciuto. E l'argomento è degno di studio, in
fatti, almeno quanto una qualunque delle così dette malattie mentali,
poichè se l'ebbrezza non è che una malattia di poche ore, e di
guarigione sicura, è però importantissima, perchè ci occorre ogni
momento di vivere e di trattare con essa, di frenarla e di persuaderla,
di vederla dovendo mostrare di non riconoscerla, e di circondarla di
riguardi, per non inasprirla, e qualche volta di servircene. E lasciando
pure da parte le sue conseguenze, quella alterazione crescente di
sentimenti e d'idee, quella successione continua di stati diversi della
coscienza, per cui si arriva dalla serenità tranquilla che segue i primi
sorsi all'esaltazione ardente e tumultuosa degli ultimi brindisi, è per
se stessa un avvenimento psicologico così strano e così fecondo per lo
studio della natura umana, che non sarà mai meditato abbastanza nè dal
filosofo, nè dall'artista.

Vediamo di seguitarlo a passo a passo, sedendo al convito.

Ciascuno ha ancora nella mente tutte le cure della vita: difficoltà non
risolte, presentimenti di difficoltà che sorgeranno, ricordi di
dispiaceri recenti, qualche bella speranza che brilla e s'oscura secondo
i momenti, dei timori, qualche astio, quel leggiero sentimento di
stanchezza morale, che succede al lavoro affrettato della mente;
ciascuno è ancora in uno stato d'animo, in cui ci troviamo tutti, quasi
sempre, di aspettazione pensierosa ed inquieta. A un tratto ci spunta
nella mente un'idea o un'immagine ridente. Tutti, in simili occasioni,
abbiamo potuto cogliere a volo questa prima farfalla annunziatrice
dell'ebbrezza, che si spicca quasi all'improvviso dalla mente, e che ci
fa dire, dopo il primo bicchiere: Oh! per questa sera, cacciamo via le
noie e i pensieri. Spuntata quell'idea, entriamo nel primo periodo, al
quale ci dovremmo sempre arrestare. La mente è nel pieno possesso di se
stessa; ma con un senso nuovo di freschezza, come dopo un riposo; le
cose le si presentano ancora colle loro proporzioni e coi loro colori
reali, ma contornate d'un sottilissimo orlo luminoso. Nel campo che il
nostro pensiero percorre più frequentemente, che è quello del giorno
presente e del giorno venturo, l'ostacolo che poco prima ci pareva
insormontabile, ci pare ora che, in qualche modo, si potrebbe girare;
certe difficoltà intricate, nasce una speranza lontana di scioglierle;
certi dissensi gravi di pareri e di sentimenti, s'intravede vagamente la
maniera di conciliarli; confidiamo un po' di più nella fortuna e in noi
stessi, ci pare che ricomincieremo la vita meglio disposti e più forti,
dopo quello svagamento dello spirito, di cui sentiamo in quel momento
che avevamo proprio bisogno. Che c'è, infatti, di più onestamente lecito
e di più salutare di quel piccolo sfogo — moderato — di giovialità e di
spensieratezza, in mezzo agli amici, dopo molti giorni di lavoro e di
cure? Se qualche scoraggiamento ci aveva presi in quel giorno medesimo,
se abbiamo diffidato, anche per poco, delle nostre facoltà intellettuali
e delle nostre forze fisiche, ora ne sorridiamo. La nostra percezione è
così lucida, la parola così facile, la voce così ricca, sentiamo una
traspirazione così gradevole, il complesso di tutte le nostre forze così
dolcemente fuso, la vita così piena ad un tempo e così leggera! E la
conversazione procede mirabilmente. Gli argomenti si succedono, ma
ciascun argomento rimane per qualche tempo sul tappeto, discusso con
vivacità, ma con ordine. E nessun soggetto di discorso c'è indifferente.
Anche nelle questioni più estranee al giro delle nostre cognizioni e dei
nostri interessi, ci sentiamo come forzati a intrometterci, e su tutto
ci riesce di dire qualche cosa d'ingegnoso, o almeno di sensato e di
accettabile. I giudizii contrarii vengono facilmente ad un
accomodamento; chi non è persuaso mostra d'esserlo; a ciascuno si
consente qualche piccolo trionfo d'amor proprio; e così ciascuno è
soddisfatto di sè e degli altri, e quella soddisfazione si traduce in
mille piccoli servigi e piccole cortesie premurose ed insolite, che ci
usiamo a vicenda. Cominciamo a pensare che, veramente, la compagnia non
poteva esser meglio combinata; che non si potevano mettere assieme dei
caratteri più armonici. E in quella soddisfazione crescente di tutti,
ogni volta che uno si raccoglie un momento in sè, vede tutte le cose sue
di mano in mano ordinarsi, chiarirsi, pigliare di più in più il colore
dei suoi desiderii: le speranze, ch'erano nel fondo del quadro, vengono
innanzi a poco a poco, i dispiaceri retrocedono nell'ombra, tutto ciò
che c'è di difficile o di triste nella vita si presenta come di scorcio;
tutto gira, si sposta lentamente, si dispone in maniera da offrire un
prospetto gradevole, come in uno spettacolo teatrale. E noi ci crediamo
pienamente. Una voce intima ha un bel dirci: — È illusione. — Noi
rispondiamo: — È realtà. Illusione era il quadro poco consolante che
vedevamo poc'anzi, avendo l'animo affaticato o contristato dalla lotta
della vita; non quello che vediamo ora, stando quasi fuori della vita,
in una regione più alta e più serena. Ora facciamo il proponimento di
rimetterci all'opera, il giorno dopo, con più risoluzione e con più
coraggio, e ci rappresentiamo già nella mente una nuova vita vigorosa,
senza intervalli d'inerzia, piena di emozioni feconde e di disegni
arditi, concitata e calda come l'allegrezza che ci ferve d'intorno; e
con un sorso del liquore prediletto rinforziamo il nostro proponimento,
e lo suggelliamo con un colpo secco del bicchiere sopra la mensa.
Improvvisamente — o prima o poi segue sempre — l'effetto del vino pare
che cessi d'un colpo. Il vetro rosato a traverso al quale vedevamo il
mondo, scompare; tutte le cose ripigliano per un momento il loro aspetto
reale, tutti i pensieri molesti ritornano in folla, e ci sentiamo quasi
sopraffatti da un senso di sgomento. È questo il punto in cui si vede un
commensale, fino allora allegrissimo, chinare la testa e tener l'occhio
fisso per qualche tempo sopra il bicchiere, facendolo girare lentamente
fra le dita. Ma sono brevi momenti. La nuvola dorata che ci ravvolge,
appena squarciata, si richiude; e si squarcierà ancora altre volte, ma
saranno squarci sempre più sottili e sempre più prontamente richiusi.
Intanto l'ebbrezza monta e si allarga. Qualche punta di pensiero uggioso
sornuota ancora qua e là; ma non tarda ad essere sommersa. Le facoltà
intellettuali hanno raggiunto la loro massima potenza e sono ancora
tutte nel pugno della volontà. Il lavoro della mente si compie con una
tale rapidità, che non ne abbiamo quasi coscienza, e ne rimaniamo
meravigliati noi stessi. In pochi secondi tentiamo da cento parti
un'idea, per trovarne — e la troviamo — quell'unica faccetta che si
presta al ridicolo. La botta dell'amico non ci ha ancora toccati, che la
risposta ha già colto nel segno. Il pensiero prorompe dalla mente in
formole nette e scintillanti, le arguzie felici s'incalzano, l'aneddoto
vien via facile e snello, pieno di aggiunte improvvise e di spedienti
inaspettati; tutto accompagnato, seguito, musicato, si può dire, da
quell'intimo riso giovanile e profondo che ride di sè e del riso altrui,
ed è per se stesso una forza comica grande. Nulla ci può più arrestare
in quel corso impetuoso d'idee e di parole. L'orizzonte del pensiero si
allarga rapidamente, e da tutte le parti ci accorrono nuvoli d'idee e
d'immagini; da tutti i ripostigli della mente escono ricordi
d'avvenimenti, visi di persone, motti, versi, date, impressioni di
letture, radicali dimenticate di lingue straniere, gruppi di
reminiscenze lontane che si credevano già morte, lampi che rischiarano
vaste regioni del passato. In pochi minuti di silenzio, ci si forma una
gran piena nella mente, che trabocca poi per il primo varco aperto in
cascate rumorose di periodi, che intronano gli uditori. La mente non sa
più se dà o se riceve. Siamo trasportati da un soffio d'ispirazione. Ci
pare di non parlar noi, ma di ripetere le parole d'una persona più
arguta, più dotta, più faconda di noi, che ci suggerisca
precipitosamente nell'orecchio quello che abbiamo da dire. L'ebbrezza
cresce a ondate. All'ondata delle celie e degli aneddoti succede
l'ondata delle discussioni, un vero pugilato di ragionamento, una manìa
di polemica insaziabile: argomentazioni interminabili sull'età dubbia
d'un'attrice illustre o sulla sinonimia di due parole; controversie
filosofiche sottili, riprese daccapo dieci volte, con una costanza di
ferro, nelle quali ciascuno dei controversisti vorrebbe schiattare
piuttosto di smetterla il primo; disputazioni sopra soggetti diversi,
che s'intersecano da una parte all'altra della tavola, e che si
prolungano ancora, quando non è più possibile intendersi a parole, in
affermazioni e in negazioni ostinate del capo e della mano; e poi,
improvvisamente, una corrente d'ilarità che scompiglia ogni cosa,
soffoca tutti i dispetti sul nascere, e mette tutti d'accordo. E allora
si solleva e si avanza lentamente la grande ondata dell'amor del
prossimo. Chi è contento è benevolo. Siamo diventati ricchi in poche
ore, diventiamo prodighi. La bontà che vien su in noi, insieme ai vapori
del vino, s'accresce ancora dal riflesso di quella che vediamo brillare
sul viso degli altri. Dei presenti non ricordiamo più che le buone
qualità, e le dimostrazioni di simpatia e di amicizia che ci diedero
altre volte. Degli assenti, non ci si presentano alla mente che le
figure simpatiche. Nel nostro cuore si accumulano tesori d'indulgenza.
La cortesia s'innalza gradatamente fino alla lode. Cominciamo col fare
l'apologia di qualche assente, a cui tutti acconsentono, anche senza
conoscerlo. Poi l'affetto insistendo ancora, vinciamo il pudore, e
lodiamo i presenti, con parole moderate, ma calde, per debito di
giustizia, e c'irritiamo della modestia che si schermisce. Ma questo non
basta. Ricorriamo la storia delle nostre amicizie, esageriamo dei
servigi che ci sono stati resi, o ne inventiamo, tanto per poter
esprimere la nostra gratitudine; disseppelliamo degli antichi torti
nostri, da lungo tempo perdonati, tanto per confessarcene di nuovo, per
farceli riperdonare una altra volta, per metterci sopra una pietra di
più. Pensiamo agli amici lontani, che avevamo scordati da molto tempo, e
ci proponiamo di scrivere loro la mattina seguente una lettera
affettuosissima, di cui ci suona già nella mente il primo periodo.
Pensiamo alle persone con cui abbiamo della ruggine, e decidiamo di
andarci a riconciliare il giorno dopo. Non vogliamo che rimanga un'ombra
sul bel cielo rosato della nostra vita. L'immaginazione ci presenta il
mondo come dovrebb'essere, tutto tolleranza, buon accordo, bontà. Non è
così certamente: la ragione ce lo dice ancora. Ma delle virtù ce ne
sono, delle sante vite oscure, dei nobili entusiasmi, degli esempi
sublimi di generosità e di grandezza. Noi non vediamo tutto. Ma ci
sentiamo il cuore abbastanza vasto da contenere mille affetti di più, un
tesoro cento volte maggiore d'ammirazioni e d'entusiasmi. E proviamo il
bisogno di espandere la nostra benevolenza al di sopra di quei che
abbiamo intorno, lontano, sull'umanità sconosciuta, come si prova il
bisogno di empire della propria voce una valle vasta e sonora. E a
questo punto, nella mente sovreccitata scocca la scintilla della
creazione. Al poeta drammatico balenano le somme linee d'un dramma
potente, al banchiere l'idea confusa d'una impresa temeraria,
all'architetto i contorni grandiosi d'una mole che vincerà i secoli. Ma
la conversazione clamorosa rompe il corso delle grandi idee solitarie. I
soggetti ordinari non bastano più. Si solleva il discorso ai grandi
uomini, ai grandi spettacoli della natura, ai grandi problemi sociali,
alla fratellanza dei popoli, all'immensità dello spazio, all'immortalità
dello spirito, si misura l'universo a sguardi d'aquila, parlando a frasi
di proclama, con gesti imperatorii e accenti di tribuno; non trovando
parole abbastanza vaste di senso, epiteti abbastanza iperbolici,
inflessioni di voce abbastanza potenti da rispondere alle esigenze
impetuose del sentimento che trabocca. Quel cerchio di amici, tra quelle
quattro pareti, ci riesce meschino e soffocante. Si avrebbe bisogno di
slanciarsi a un terrazzo e di rovesciare un torrente di parole infocate
sopra una moltitudine attonita, o di sconvolgere una platea dal
palcoscenico con un monologo sublime. E allora ciascuno si sfoga come
può: recitando una strofa fulminea d'un grande poeta, imitando il grido
d'un artista famoso, sprigionando l'anima in un tentativo di _do_ di
petto. Intorno a noi e dentro di noi tutto è mutato, ci corre per le
vene un fremito di gioventù, ci vediamo davanti un avvenire sconfinato,
ci sentiamo ancora in tempo per l'amore, per la gloria e per la
ricchezza, e quando s'urtano tutti i bicchieri, in quell'incrociamento
di evviva e di saluti, tutto come ravvolto in un polverìo caldo e
luminoso, dove non si vedono che occhi scintillanti e bocche che
sorridono — ah! — par che cominci un'êra nuova per il genere umano.

Questi sono gli effetti generali. Ma il vino produce un'ebbrezza
diversa, non solo secondo i temperamenti e i caratteri; ma secondo la
disposizione d'animo particolare, in cui ci troviamo nel riceverlo. È
inutile quindi il citare tutte quelle classificazioni generali
dell'ebbrezza, che fecero gli psicologi e gli scrittori faceti. Volendo
dare un'idea della varietà degli effetti del vino, bisogna ristringersi
a tratteggiare alcuni ritratti, scelti fra quelli di cui s'incontrano
più sovente gli originali.

Il tipo più frequente è quello che ha dato origine al detto _in vino
veritas_. La manifestazione, involontaria quasi, dei pensieri più
nascosti sotto l'influsso del vino, non deriva che da ciò: che le
sensazioni non essendo più in perfetta relazione cogli oggetti esterni,
nè le idee colle sensazioni, svanisce la prudenza che nasce dal
sentimento di quelle relazioni, e non si obbedisce più nel parlare che
la passione predominante del momento. Quasi tutti, nell'ebbrezza, si
lasciano sfuggire qualche segreto. Ma è incredibile fino a che punto
giungano alcuni, d'indole viva ed aperta, sulla via delle confessioni.
Costoro sono presi da un vero furore di sincerità, da un bisogno
irresistibile di pubblicare tutte le loro colpe e tutte le loro
debolezze. Dotti, si accusano d'ignoranze vergognose; uomini d'affari,
confessano atti disonesti, colpe d'intenzione, pensieri vili che hanno
avuto in date occasioni, difetti ridicoli, dissensi domestici, intimità
coniugali, e persino azioni riprovevoli, che sono in via di commettere,
insistendo e accalorandosi per persuadere gli increduli, provocando e
riconoscendo meritati i rimproveri, ritornando anzi sulle cose già dette
per aggiungervi dei particolari, che le rendon più gravi, — dolendosi in
cuor proprio quando pare a loro che la meraviglia dei presenti non
corrisponda alla gravità delle loro rivelazioni; — e quando han detto
tutto, e si son rovesciati come un guanto, si senton soddisfatti, come
se avessero pagato un debito, come contenti d'aver ridato indietro alla
gente quella parte di stima che le scroccavano —, e quasi lavati d'ogni
colpa dalla loro confessione, in una specie di stato di grazia,

    Puri e disposti a salire alle stelle.

A questi fanno contrapposto altri, per lo più d'indole chiusa e
circospetta, in cui pare che il vino abbia per principale effetto di
innalzare e di fortificare il sentimento della dignità individuale.
Costoro hanno il _pudore del vino_. Diventano diffidenti di sè. Pesano
ogni parola, e parlano quanto meno è possibile. La loro ebbrezza è una
specie di ruminazione taciturna dei propri pensieri. Se aprono la bocca,
è per dire qualchecosa di così rigorosamente, di così solidamente
sensato, che il più cavilloso dei critici non ci potrebbe trovar sillaba
a ridire. In loro l'effetto del vino non trasparisce che dagli occhi
lustri e dal movimento difficile delle labbra. Via via che bevono, il
loro gesto si fa sempre più corretto, il loro sguardo sempre più
raccolto, la loro parola sempre più dogmatica. Arrivano fino ad assumere
l'espressione della più alta gravità a cui si possa atteggiare il viso
d'un uomo occupato da un pensiero solenne. E si vedono camminare per le
vie con una rigidezza automatica, a passi misurati e lenti da tiranni di
teatro, portando la propria dignità come porterebbero una tazza colma
d'un'essenza miracolosa, tremando di spanderne una goccia; senonchè, di
tratto in tratto, una leggerissima oscillazione della loro persona, o un
largo e maestoso giro da tiro a quattro che fanno intorno ad un
piccolissimo ostacolo, rivelano che quell'essenza miracolosa è Barolo.

In altri il vino eccita particolarmente il sentimento cavalleresco.
Ragionevoli e contegnosi per ogni altro verso, non rivelano l'ebbrezza
che in un insolito ardore bellicoso, che li spingerebbe, come don
Chisciotte, ad affrontare un esercito. Acquistano una delicatezza d'amor
proprio ombrosissima. Scattano per nulla, e qualunque questione si
presenti, non riconoscono altro scioglimento che il duello. Come Macbeth
il manico del pugnale, essi vedono da tutte le parti l'elsa d'una
sciabola o l'impugnatura d'una pistola. S'intromettono nelle contese per
pigliar le parti del più debole, assumono le difese d'un assente, a loro
indifferentissimo, con parole provocanti, si arrestano bruscamente in
mezzo alla strada a fissare lo sconosciuto che li ha sogguardati
passando... Li abbiamo visti tutti, cento volte, in una sedia chiusa o
in un palchetto d'un teatro, voltare la faccia superba verso la folla
che gli ha imposto silenzio, e cercare da per tutto con due occhi
guerrieri uno spettatore che assuma la responsabilità del vasto
oltraggio anonimo della platea. Chi non sa, immagina che siano anime
fiere e imperterrite, preparate a tutto, piene d'un sublime disprezzo
della vita. Niente affatto. Son buoni diavoli che hanno vuotato una
bottiglia; duellisti di concetto, D'Artagnan d'una sera, che domani
all'alba si meraviglieranno altamente delle loro audacie notturne.

Un'altra forma curiosa d'ebbrezza è quella che si riscontra specialmente
in certe nature sobrie e discrete, le quali serbano la giusta misura in
tutte le cose, e son poco accessibili alle passioni turbolente. Costoro,
arrivati a un certo grado d'ebbrezza, non si trovan più bene in
compagnia, si separano dagli amici, rifuggono dal chiasso, hanno bisogno
di portare a spasso la loro beatitudine in luoghi solitarii, al lume
della luna, e là meditano sui propri affari, o filosofeggiano
serenamente sulla vita umana, fermandosi a contemplare bellezze di
paesaggio non prima vedute, errando a caso, espandendo l'anima in una
muta riconoscenza davanti all'immensità della natura. Costoro si
potrebbero chiamare gli «Arcadi dell'ebbrezza». Il vino pare che si
tramuti in latte nelle loro vene, e che addolcisca ancora la loro indole
già mite e tranquilla. E si riconoscono a primo aspetto. S'incontrano
spesso per i viali esterni della città, a notte innoltrata. Un solfeggio
soave annunzia il loro avvicinarsi; poi si vede uscire dall'ombra il
loro viso placido — ci danno uno sguardo benigno — e scompaiono. Vanno a
riposare col cuore contento e s'addormentano con un sorriso.

Questa specie d'ebbrezza riposata ha il suo perfetto rovescio in quella
a cui vanno soggetti certi uomini d'indole ardente e inquieta, che
eccedono in ogni cosa. Costoro, una volta in preda all'ebbrezza, entrati
in quel godimento febbrile della vita, ci si afferrano con una avidità
rabbiosa; non possono saziarsene; vorrebbero che durasse eternamente. Il
pensiero che la serata avrà una fine, che la compagnia si sbanderà, e
che nella solitudine in cui rimarranno andrà disperso quel tesoro di
felicità passeggiera che si son procurati col vino, li contrista e li
affanna. Quando tutto par finito, colmano ancora i bicchieri,
trattengono gli amici con preghiere, riconducono indietro chi vuol
andarsene, si lamentano e si sdegnano. Poi, come _l'uomo delle folle_ di
Edgardo Poe, che ha il terrore della solitudine, perduta la prima
compagnia, vanno a cercarne una nuova, corrono d'un luogo in un altro,
fino a notte tardissima, fin dove resta ancora una scintilla di vita,
nella quale soffiano affannosamente per farne divampare la fiamma, e
quando finalmente rimangono soli, svaporata tutt'a un tratto l'ebbrezza,
ritornano a casa irritati con sè stessi e con tutti, maledicendo il
mondo ipocrita o stupido che congiura contro i loro piaceri.

Altri, e sono forse i più ameni, hanno il vino amoroso. Per loro
l'ebbrezza si riduce a una visione del paradiso islamitico. Possono
essere costretti a mutar discorso cento volte, ma ritornano
ostinatamente su quel dolce argomento. Ricordi d'avventure giovanili,
frammenti di poesie erotiche, nomignoli di antiche amanti, rimasugli già
carbonizzati di vecchie passioncelle di contrabbando, tutto si ravviva
in loro e rimonta a galla per effetto di qualche bicchiere di vino. E
non ci rimonta altro. Nei loro brevi silenzi non fantasticano che
disegni arditi di dichiarazione d'amore e di sorprese notturne. Il
fruscìo di una veste li scuote come una musica. Il loro occhio nuota
nella dolcezza, la loro bocca piglia degli atteggiamenti vezzosi da
putti d'oleografia e il loro linguaggio è tutto intonazioni languide,
reticenze vanitose e piccoli motti a doppio senso, di cui sorridono
strizzando gli occhi con una compiacenza profonda. Non c'è nulla di più
comico che il veder spuntare a poco a poco, per effetto del vino,
qualche volta sotto l'apparenza d'un uomo abitualmente austero, questa
piccola effigie nascosta di Don Giovanni ringalluzzito, che s'era
lontanissimi dal sospettare.

Ci sono altri in cui il vino eccita particolarmente le facoltà
intellettuali. È un effetto comune; ma in costoro giunge ad un grado
meraviglioso. Non è solamente un'esaltazione, è una trasformazione.
Persone incolte, di mediocre intelligenza, di parola rozza, senza
nessuna qualità seducente — acquistano tutto. Rivelano improvvisamente
delle cognizioni che non si credeva che avessero, parlano spigliatamente
una lingua che non gli s'è mai intesa parlare, si cacciano in
discussioni in cui non hanno mai osato aprir bocca, e confondono
avversari superiori a loro con lampi inaspettati d'ingegno.
S'entusiasmano poi del loro trionfo, e così aggiungono ebbrezza ad
ebbrezza. Si colorano, diventan belli, nobili di atteggiamenti e di
mosse, e lasciano un alto concetto di sè in chi li vede allora per la
prima volta. E la mattina dopo — tutto è svanito. Chi li ha conosciuti
la sera, non li riconosce più. Sono di nuovo incolti, rozzi, mezzo
intontiti, e disamabili. Non rimane più che lo scheletro nero d'un fuoco
d'artifizio bruciato.

Altri, di fibra delicata e eccitabile, di carattere gaio, e abitualmente
sobrii, hanno un'ebbrezza quasi istantanea, che si manifesta in una
forma stranissima. Bevuti i primi bicchieri, son perduti; tutte le loro
idee si scompigliano come per un accesso di delirio; uomini d'ingegno,
si lasciano sfuggire dalla bocca le più strampalate sciocchezze e i più
massicci spropositi; ridono come bambini, parlano colla voce in
falsetto, si sbracciano in gesti scomposti di Pulcinella; e si fa di
loro quel che si vuole: si prestano alle più grosse celie, creduli,
arrendevoli, grandi fanciulloni senza giudizio, pieni di capricci matti,
che bisogna poi accompagnare a casa a braccetto, perchè non facciano
qualche gran buffonata per le strade da tirarsi dietro la ragazzaglia.

Un'altra varietà frequentissima dell'ebbrezza è quella della malinconia.
Ci son molti, in cui il vino non eccita che il sentimento delle cose
tristi, o piuttosto della poesia delle cose tristi, poichè in quelle
manifestazioni ch'essi fanno della propria tristezza, c'è in fondo una
compiacenza che esclude la tristezza vera. La loro ebbrezza è una
giovialità vestita a bruno. Mentre la comitiva degli amici, dopo il
banchetto, riempie la sala di risa e d'allegria, essi stanno in un
angolo, dove hanno imprigionato un amico condiscendente, al quale
raccontano con lunghi particolari tristi la storia della malattia d'un
parente, una disgrazia toccata a un amico, una visita a un camposanto;
senza ombra d'ostentazione, con un accento sincero, con parole
commoventi, con una voce dolcemente monotona, con una delicatezza
squisita di sentimenti e di espressioni, che non hanno mai mostrata a
digiuno, e che li fa giudicare assai più sensitivi e più poetici di
quello che sono. E smaltiscono qualche volta il vino bevuto in una
rugiada di lagrime mute, che fanno un effetto singolare sul loro bel
faccione imporporato dal Barbera.

C'è un altro tipo curioso d'ubbriaco, per citarne ancor uno, che non si
ritrova che nel basso popolo; un bevitore nel quale pare che il vino
susciti principalmente il sentimento dell'ammirazione e della devozione
per tutto quello che è in alto sulla scala sociale. Sono per lo più
buonissime nature, nelle quali è vivo e profondo il sentimento
dell'ordine, dell'ossequenza ai superiori, del rispetto alla legge,
accresciuto anche da una certa timidità e da un certo concetto quasi
fantastico che hanno di tutto ciò che è al disopra di loro. Son quegli
ubbriachi che si vedono qualche volta per le strade, cercare, col
cappello in mano, di intavolare dei discorsi accademici cogli agenti
della forza pubblica; recitare ad alta voce, da soli, il panegirico d'un
padrone, di qualche grande uomo ignoto, che li ha beneficati, e per cui
si dichiarano pronti a dare la vita; protestare col primo venuto,
picchiandosi il petto, d'esser buoni cittadini, devoti al re, ossequenti
a tutte le autorità costituite; e desolarsi pel timore di non esser
creduti; giurare qualche volta colla voce rotta dai singhiozzi e col
viso rigato di lacrime, che mai non mancherà il loro sostegno alle
istituzioni nazionali e che la dinastia regnante può contare sulla loro
fede.

Tutti costoro appartengono alla categoria di quei che hanno, come dicono
i francesi, le _vin bon enfant_. Rimane il così detto «vino cattivo», di
cui son pochi, senza dubbio, quelli che non abbian fatto esperienza. La
sentenza: ha il vino tristo chi ha il cor tristo, non è giusta. Il vino
produce delle ebbrezze tristissime anche nelle migliori nature. Chi è
ricorso qualche volta al vino per consolarsi o per dimenticare,
trovandosi irritato da contrarietà, o tormentato da qualche sentimento
d'odio o di rancore, si ricorderà di un effetto singolare che ne ha
risentito, opposto affatto ai suoi desiderii: la sua mente s'è eccitata,
ma senza riuscire a svincolarsi dai pensieri che la possedevano; le sue
idee si sono colorite, ma solamente quelle idee, come se affollate,
strette sulle porte della mente, assorbissero esse sole tutti i vapori
inebbrianti, e impedissero loro di penetrare più addentro, fino a quel
piccolo mondo d'idee e d'immagini ridenti che mettevano in ribollimento
altre volte. La piena dell'ebbrezza s'è gettata tutta nel sentimento che
ha trovato predominante nell'atto di prorompere, e ha preso la natura e
il corso di quel sentimento. E allora è inutile qualunque sforzo si
tenti per ricondurla alle sorgenti dell'allegrezza. I pensieri e i
ricordi tristi e irritanti si chiamano, si concatenano, ingigantiscono,
colla stessa rapidità, colla medesima progressione, che seguono
nell'ebbrezza allegra i pensieri e i ricordi di natura opposta.
Dispiaceri antichi, offese patite in altri tempi, sospetti che s'erano
già dissipati, previsioni di danni ch'erano già svanite, visi odiosi di
nemici, intenzioni malevole indovinate o supposte, tutto ritorna alla
mente, s'illumina, per così dire, e acquista un'evidenza straordinaria:
a poco a poco ci pare che il mondo intero stia contro di noi;
sospettiamo un significato ostile in ogni parola; e un sentimento sordo
d'ira e di rivolta si impadronisce del nostro cuore. Ed è impossibile
nasconderlo: le labbra si contraggono, ma non sorridono, lo scherzo esce
ghiacciato, la guardatura è falsa e la voce rotta e tagliente. Ed è
inutile cercar di liberarsi da quello stato, intorbidando la mente; i
bicchieri succedono ai bicchieri, e la mente conserva una lucidità
ostinata e sinistra. Il vino non fa che accrescere l'irritazione, la
quale irritazione accresce le forze per resistere al vino. Ed è
singolare come si conserva la coscienza netta del proprio stato, durante
questa specie d'ebbrezza livida, che esalta unicamente la parte peggiore
di noi; come si segue distintamente in tutti i suoi contrasti la lotta
dei buoni sentimenti che voglion riprender l'impero, coi sentimenti
tristi che li tengon sotto, schiacciati. Si vedono dei disgraziati,
imbestialiti da quest'ebbrezza, in mezzo ai parenti e agli amici ch'essi
contristano o spaventano, accusarsi d'esser bruti, scellerati, indegni
del nome d'uomini, qualche volta percuotersi colle proprie mani e non
riuscire a domarsi. Si vedono alle volte, in una contesa furiosa,
quetarsi tutt'a un tratto, mostrare di esser sul punto di dire una buona
parola che accomoderebbe ogni cosa, averla sull'orlo delle labbra, fare
uno sforzo per pronunciarla... — e no — vomitare invece una bestemmia o
un insulto, come se un demonio, a cui avessero venduta l'anima, glie la
strappasse dalla gola. A costoro spetta veramente il nome che dànno
all'ubbriaco gl'Indiani: _ramyan_, che significa arrabbiato. Nessun
tormento si può immaginare peggiore di questa perversità, da cui l'uomo
si sente dominato e travolto, che non è sua, che gli strozza la volontà,
gli snatura il cuore e gli avvelena il sangue; in nessun stato più
opportuno si potrebbe mettere lo psicologo, per rendersi ragione di
certi atti di scelleratezza insensata, che ci paiono inesplicabili, per
comprendere, cioè, come si formino quegli accozzamenti mostruosi di
sospetti infondati, da cui nascono le certezze tremende, che immolano
alla vendetta degli innocenti; che cosa siano quelle sataniche torture
dell'ira e dell'odio, per liberarsi dalle quali pare così poca cosa
commettere un delitto e sacrificare la libertà di tutta la vita; come
nascano e prorompano certe furie feroci, delle quali l'uomo è nello
stesso tempo reo, vittima e ludibrio, e in cui la nostra mente, quando
cerca la misura della colpabilità, si confonde e si perde. L'uomo più
buono di noi, che sia stato una volta sotto l'influsso di questo vino,
si ricorderà d'aver avuto dei momenti in cui si è sentito capace delle
più inique azioni; e chi ha fatto quest'esperimento una volta, dopo la
prima parola d'esecrazione che gli strapperanno certi delitti, lascierà
sempre un angolo del cuore aperto alla pietà.

Il vino produce ancora degli effetti assai diversi, non solo secondo la
passeggiera disposizione d'animo del bevitore, ma secondo le età. Nella
prima gioventù gli effetti sono massimi. Il Goethe ha definito la
gioventù «un'ebbrezza senza vino». Aggiungendovi il vino, l'ebbrezza
diventa quello che l'ha definita Seneca: una volontaria pazzia. Le
speranze e le illusioni proprie dell'età, già così vive nello stato
abituale, non han bisogno che di un leggerissimo eccitamento per
acquistare colore e potenza di cose reali; quell'embrione di grande
uomo, che ognuno sente dentro di sè a vent'anni, diventa grand'uomo di
slancio, e si afferma con tutta l'alterezza e tutta l'audacia che dà la
coscienza della grandezza; un sentimento smisurato delle nostre forze ci
spinge alla ribellione contro tutte le leggi e tutte le discipline;
vorremmo aprirci la strada nel mondo calpestando e rovesciando tutti gli
ostacoli; e non potendo far altro spezziamo quanto ci cade nelle mani;
ci sentiamo quello che un fisiologo definì benissimo il _tatto pazzo
dello scomporre_, un furore di distruzione e di disordine, che tende
particolarmente all'infrazione dei regolamenti di polizia urbana, e
vorrebbe la città intera a spettatrice. Verso i quarant'anni, l'edifizio
delle nostre idee e dei nostri sentimenti ragionevoli, più solidamente
costrutto, resiste meglio alla scossa dell'ebbrezza; abbiamo un'ebbrezza
più raccolta; fra le sue belle illusioni non ci lasciamo più ingannare
che dalle più modeste; amiamo ancora il chiasso, ma a patto che non si
senta dalla strada; ci piace ancora la conversazione sbrigliata, ma fra
amici intimi; non si prova più gioia, ma solamente contentezza, un certo
sentimento consolante dei vantaggi della propria età e del proprio
stato, una certa disposizione amorevole, che si rivela in intonazioni
vocali da padre nobile, amante della pace e dell'onesta allegria, e dopo
ogni sorsata di vino, ci sentiamo dare un colpo sulla spalla dalla mano
pesante della Prudenza. Nei vecchi, in cui la vivacità dei sensi è quasi
tutta ridotta nel gusto, l'ebbrezza è un piacere più fisico. D'altra
parte, essa non può più in loro abbellire l'avvenire: non abbellisce più
che il passato: è come un'ebbrezza della memoria, una visione rosea
della gioventù e dell'età matura, accompagnata da una certa acquiescenza
serena alla dura legge della natura, contro cui si ribellano
ordinariamente; uno stato d'animo così bene rappresentato in quei vecchi
ubbriachi del Teniers e del Van d'Ostade, seduti accanto a una tavola,
col bicchiere fra le mani, un po' ingobbiti, cogli occhi semichiusi, in
cui luccica una scintilla di malizia e lampeggiano mille ricordi ameni
di bricconate giovanili, con un guizzo di sorriso sulle labbra, che
esprime una sensazione di tepore voluttuoso, con un mento rosso e
sporgente, una bazzettina piena di filosofia, che pare che dica: Ci è
più poco da godere; ebbene?... ingegniamoci di goder questo poco.

Ma gli effetti più potenti e più strani del vino non possiamo vederli
fra noi, perchè in noi sono scemati dall'abitudine ed anche frenati
nelle loro manifestazioni dal sentimento della dignità e delle
convenienze sociali. Per vederli in tutta la loro potenza dovremmo
andarli a cercare fra quei selvaggi ancora incorrotti, discendenti di
generazioni vergini d'alcool, a cui i viaggiatori europei porgono i
primi bicchieri. Quasi tutti gli esploratori dell'Africa ci resero conto
di qualcuna di queste esperienze. Noi non abbiamo idea di quegli accessi
d'ilarità mostruosi, di quelle furie indomabili, che li spingono ad
affrontare per gioco pericoli mortali, di quegli impeti di gioia, in cui
si rotolano per terra come frenetici, di quelle risa, come riferisce lo
Stanley, che somigliano a ululati e a ruggiti di belve. A quelli si può
veramente applicare il detto del Montaigne, secondo il quale il vino non
solo altera, ma rovescia la ragione. E l'ebbrezza si produce con una
rapidità che spaventa. Ricorderò sempre l'esempio che ne vidi in una
città africana, in un povero giovane arabo, venuto là per la prima volta
dai confini del Sahara, grave e pensieroso come un anacoreta. S'era in
un giardino; egli stava seduto sull'erba: gli mettemmo davanti un grande
bicchiere colmo di vecchio vino di Xeres. Egli non aveva del vino che
quel meraviglioso e misterioso concetto, che glie n'avevan dato le
maledizioni degli sceicchi e dei sacerdoti islamitici; concetto che glie
ne aveva fatto nascere un desiderio ardente, pieno di curiosità e di
paura. Nel giardino non c'erano musulmani; poteva bere non visto; la
tentazione era grande. Girò gli occhi intorno, e poi li fissò — dilatati
— sopra il bicchiere. Stette così immobile per qualche minuto; era
agitato; gli si vedevano passare sul viso, come lampi, mille pensieri.
L'aveva dunque davanti finalmente quel liquore favoloso, di cui basta
bere una goccia, come dice il Corano, per tirarsi sul capo le
maledizioni di tutti gli angeli del cielo e della terra. Pareva che lo
sentisse già in sè tutto quel mondo fantastico in cui l'avrebbe
trasportato quel vino: sogni di potenza e di ricchezza, risa argentine
di belle donne, promesse di voluttà, ire superbe, visioni del cielo. E
assorbiva il bicchiere cogli occhi. Ma non osava afferrarlo. Fra lui e
quel bicchiere c'era una formidabile barriera: il suo Dio. Allungava il
braccio e lo ritirava, guardava noi, strappava i fili d'erba d'intorno
colla mano convulsa, si vedeva che soffriva. Finalmente afferrò il
bicchiere, lo avvicinò alla bocca; ristette di nuovo incerto.... poi il
diavolo vinse: vuotò il bicchiere d'un fiato. Subito dopo, si coperse il
viso colle mani, e rimase qualche tempo così, come in atto di aspettare.
Poi allargò le mani e ci guardò. Non c'è parola che possa esprimere il
cambiamento di quel viso: era il viso d'un altr'uomo; v'era dipinta una
tale confusione di gioia, di meraviglia, di terrore, uno sconvolgimento
così profondo di tutto il sangue e di tutta l'anima, che fummo quasi
pentiti del nostro atto, come se gli avessimo dato uno di quei filtri
malefici delle _Mille e una notte_, che tolgon la pace per sempre.

Ma continuiamo a studiar gli effetti dell'ebbrezza sull'intelligenza,
cominciando dal punto in cui li abbiamo lasciati. Oltrepassato il grado
massimo dell'esaltazione intellettuale, tutte le facoltà conservano
bensì un'attività vivissima, ma non vanno più bene che per la via
diritta; come nel camminare l'ubbriaco si tradisce alla svoltata, così
la sua mente manca a se stessa ogni volta che deve fare un'operazione
improvvisa. Ed è singolare come, arrivati a questo punto, ci rimane
quasi sempre una percezione lucida e per così dire antiveggente di certe
difficoltà del discorso, in modo che, parlando, le scansiamo da lontano,
come quei che hanno un difetto di pronunzia, scansano le parole in cui
si trova la consonante restìa. Nulla è più curioso del lavoro intimo che
fa l'ubbriaco per nascondere la debolezza della propria mente. Prepara
in segreto le operazioni del pensiero, le quali capisce che non sarà in
grado di fare nel calore del discorso; finge di disprezzare o di
deridere una ragione del suo avversario, quando non riesce più ad
afferrarla; evita con larghe circonlocuzioni pedantesche tutte le frasi
che richiedono un giro intricato di sintassi; fa un voltafaccia
improvviso e sgarbato davanti a un ostacolo inaspettato, che si presenti
nel ragionamento, e gli dà il colore d'un capriccio grazioso di cambiar
discorso; s'ingegna con una quantità di piccole astuzie e di piccole
ipocrisie, per le quali non solo par che non abbia perduto nulla della
lucidità della sua mente, ma che ne abbia acquistata. E più cresce la
sua inettitudine, più diventa attiva e gelosa la sua cura di
nasconderla. Prova un sentimento di viva soddisfazione ogni volta che
riesce a formulare un pensiero senza incertezze; per mostrar che parla
facilmente, si serve qualche volta di periodi già fatti, presi nei fondi
del magazzino, di quei certi gruppi di idee famigliari che abbiamo
tutti, già cento volte espresse, alle quali non c'è più bisogno di
cercar la parola; butta fuori precipitosamente la frase che gli balena,
per paura che, ritardando un minuto, gli sfugga, e nasconde il vero
perchè di quella precipitazione fingendo un impeto di passione, che non
sente. Senonchè, cessando per un solo secondo quello sforzo, subito un
grossolano scambio di parole, un vocabolo usualissimo che non ricorda,
una ripetizione d'una superfluità puerile, rivela che le sue facoltà
mentali sono inceppate. Ed è curioso questo, che si potrebbe chiamare il
supplizio del bevitore, che in mezzo a tanti altri obblii, quello della
dignità della propria ragione sia l'ultimo a coglierlo, in modo che
nulla l'offende così amaramente come il sentirsi dire che non è più in
sè, ed egli si condanna qualche volta, per prevenir questa offesa, a una
lotta col proprio pensiero, che lo lascia spossato dalla fatica, colla
fronte grondante di sudore. Ma viene il momento in cui la lotta è
superiore alle sue forze, ed egli comincia a perder terreno. Rimarrebbe
umiliato, credo, qualunque bevitore, se il giorno dopo l'orgia potesse
seguire a passo a passo, nei propri discorsi stenografati, il suo
progressivo istupidimento della sera innanzi. Il suo periodo, d'una
larghezza ciceroniana da principio, pieno d'incisi e di aggiunti, si va
a poco a poco sfrondando e spezzando finchè si riduce allo stile
trinciato degli oratori asmatici. Quel sentimento di decoro del discorso
che gli faceva mettere almeno un'apparenza di attaccatura fra soggetto e
soggetto, svanisce a poco a poco: egli caccia brutalmente nella
conversazione quello che gli viene sulle labbra, senza curarsi che cada
o non cada a proposito. Poi, gradatamente, l'aneddoto s'appesantisce e
s'allunga, lo scherzo piglia il verso d'un ritornello, il pensiero non
esce più che in sentenze maestosamente insignificanti, in proposizioni
semplici, composte di soggetto, verbo e attributo, messi l'un dopo
l'altro con gran riguardo, previo un atto di riflessione, come si
collocano gli oggetti fragili; ed infine non è più che una dispersione
di mezze idee che vengon su come a caso, e si spengono appena accese,
come le lucciole; pensieri che si perdono a mezza strada della frase,
bolle e fuochi fatui della mente, che svaniscono a mezz'aria, senza
incontrar la parola. E allora sì il bevitore è orgogliosamente geloso
della sua ragione: un leggiero sorriso che egli colga a volo sulle
labbra d'un commensale, una toccatina di gomito che sorprenda fra due
vicini, gli è una pugnalata nel cuore.

Di qui non c'è più che un passo per entrare nell'ultimo periodo, nel
quale se l'ubbriaco potesse aver coscienza netta di quello che accade
nella sua mente, ne rimarrebbe sgomentato. A un certo punto succede come
un risveglio improvviso nelle sue facoltà, che gli fa credere d'essere
ancora molto lontano dall'ultimo grado dell'ubbriachezza; ma è un
risveglio disordinato e tumultuoso, che dura pochissimo. Le idee gli
ballano nella mente come le ombre in una stanza rischiarata da un
lumicino mosso dal vento, o vi girano dentro con una rapidità
vertiginosa, come palle agitate in una sfera cava, senza ch'egli possa
raggiungerle. Quando riesce a raggiungerne una, ci si afferra con tutte
le forze che gli rimangono, come a un filo di salvamento in un
labirinto, sentendo che, perduta quella, ritornerà a brancolare nelle
tenebre. Quindi quelle insistenze interminabili in un ragionamento
semplicissimo, quelle frasi cento volte ripetute, pestate nella testa di
chi ascolta, con una ostinazione implacabile. Poi si succedono
spettacoli, atti, discorsi, che rimarranno tagliati netti dalla sua
memoria, lasciandovi un vuoto oscuro e profondo, nel quale s'affaticherà
inutilmente il giorno dopo a rintracciare il solo barlume d'una
reminiscenza. Poi ancora dei brevi ritorni in se stesso, durante i quali
pare che gli s'accenda nel capo un'ultima fiammella, non per altro che
per rivelargli il disordine miserabile della sua mente; momenti in cui
egli fa un ultimo sforzo per riafferrare la sua ragione, e si sente
oppresso da un grande rammarico, si rivolge confusamente dei rimproveri
amari, giura a se stesso di non ridursi mai più in quell'ignobile stato.
Poi tenebre fitte daccapo, a cui succedono capricci insensati di
ritornar nei luoghi dov'ha bevuto, in mezzo alla gente, ai lumi e allo
strepito, come se sperasse di ritrovare in quei luoghi la ragione che
v'ha lasciata; e quindi rabbie improvvise di non aver le forze
corrispondenti alla volontà, di sentirsi così, impotente, come un
bambino o un decrepito, a discrezione del primo venuto; rabbie soffocate
tutt'a un tratto dall'immagine d'una persona cara o d'una sventura
domestica, che gli gonfia il cuore di tristezza e gli solleva un'onda di
pianto; da cui ricade un momento dopo in un riso senza cagione, sciocco
e inestinguibile, che gli fa nodo alla strozza. E finalmente
l'insensatezza: smarrito affatto il sentimento del tempo; turbata, come
nei sogni, l'idea dello spazio; uno stupore profondo di ritrovarsi in
luoghi dove non si ricorda d'aver voluto venire, di sorprendersi a
parlare con gente con cui non sa nè come nè quando si sia accompagnato;
il soliloquio ad alta voce, l'apostrofe diretta all'assente, un turbinìo
vorticoso di pensieri oscuri e di parole monche che si cercano e si
urtano senza potersi congiungere, la vista doppia, le vie danzanti,
l'universo sconvolto, una stanchezza infinita della mente e del corpo,
che pare un presentimento della morte, — e poi l'ultimo obbrobrio — la
caduta; — lo spettacolo più miserabile e più triste che possa dar l'uomo
di sè, dopo il delitto; ma che fa pensare a qualche cosa di ancora più
triste: alla famiglia povera e desolata che aspetta.

Merita osservazione, pure, lo stato di mente e d'animo in cui si trova
il bevitore dopo svanita l'ebbrezza. Certi pensieri profondi e tristi
sulla caducità delle cose umane non si presentano mai con tanta
intensità come la mattina dopo l'orgia, a traverso alla nebbia leggiera
che succede ai fumi densi del vino, nel momento in cui si spalanca la
finestra, e si vede, con un sentimento di stupore, che il mondo va del
suo solito passo, che nulla vi è di cambiato, che tutto quello che
abbiamo visto, sentito, sperato la sera innanzi, non è stato altro che
un sogno. Quei pochi fantasmi che ci rimangono dell'ebbrezza, si
disperdono a quel primo soffio dell'aria mattutina, come maschere allo
spuntare dell'alba del mercoledì delle ceneri. Ci vergogniamo allora di
aver dato fede, come bambini, a tutte le false promesse del vino.
Ricorriamo con inquietudine gli avvenimenti della sera innanzi, ci
ricordiamo delle parole imprudenti, delle espansioni puerili del cuore,
di mille sciocchezze e di mille sconvenienze, e ne restiamo umiliati e
irritati. L'aver scoperto segreti e debolezze altrui non ci compensa
affatto dello sproposito di aver messo a nudo le nostre. Ci vorremmo
nascondere per qualche tempo agli occhi del mondo. Ci sentiamo svogliati
d'ogni cosa, inetti al lavoro, colla testa e col cuore vuoti, senz'altro
sentimento che quello d'un'uggia e d'un avversione inesprimibile per le
persone e per i luoghi dove abbiamo commesso i disordini. Ma questo
stato produce quasi sempre qualche effetto salutare: una reazione di
sobrietà, un ravvivamento passeggero di affetto per la casa, come un
bisogno di rifarci, col lavoro e col raccoglimento, di quella
dispersione scioperata che abbiamo fatto di noi stessi. Tanto è vera
quella sentenza d'un moralista: che un uomo onesto non è mai tanto
sinceramente e risolutamente «morale» come dopo un'orgia. E poi,
sofisticando, ci consoliamo benissimo delle nostre imprudenze; pensiamo
che è stata giustizia l'esserci rivelati per quello che valiamo; che
certe debolezze hanno ricevuto il loro meritato castigo mettendosi
spontaneamente alla berlina; e che, infine, senza questi disordini, gli
uomini si conoscerebbero assai meno tra di loro, ridotti, come
sarebbero, a quelle conversazioni ordinarie, che sono come un gioco
continuo d'astuzia, con cui ciascuno cerca di scoprire quanto più è
possibile l'animo altrui e di nascondere il proprio. L'ebbrezza, ci
diciamo, costituisce per gli uomini, nella società irreligiosa, una
specie di confessione civile; della quale, cessati gli effetti del vino,
l'orgoglio può rimanere offeso — e questa è la penitenza — ma la
coscienza finisce per sentirsi alleggerita; ciò che equivale
all'assoluzione.

C'è ancor da dire degli effetti del vino sul lavoro intellettuale, e
s'intende dei lavori d'immaginazione, perchè sono i soli, è da credersi,
riguardo ai quali possa nascer quistione se giovi o non giovi
l'ebbrezza. Il vino è stato chiamato il cavallo del poeta. E non si può
negare, certamente, che in groppa a questo cavallo, il poeta, se non va
sano, va lontano. Le prime volte che si scrive in uno stato di leggera
ebbrezza, se n'esce entusiasmati. Sotto quell'ondate di sangue ardente
che vanno al cervello, non è più la così detta danza delle cellule,
quella che si produce, è la ridda; non è più il soffio, è l'uragano
dell'ispirazione. Quell'esclamazione intima di stupore e di piacere, che
accompagna, come disse benissimo il Desanctis, ogni lampo di vera
ispirazione, ci suona dentro con una frequenza consolante. È anzi uno
dei caratteri distintivi del lavoro che facciamo sotto l'influsso del
vino, questa soddisfazione grande di noi stessi, che si manifesta di
tratto in tratto in veri scatti di gioia e in voci di applauso; sia
perchè la nostra mente sovreccitata, ribelle al lavoro freddo
dell'analisi, accetta tutto quello che le si presenta; sia perchè
l'animo si trova in uno stato di mobilità, vigore e calore tale, che
basta la più imperfetta espressione di un'idea o d'un sentimento poco
più che volgare, a scuoterlo profondamente. Il lavoro perciò è
gradevolissimo. Non si prova più, nell'atto della creazione, quel
tormento così bene espresso dal Musset, che diceva di durar fatica a
trattener delle grida di spasimo quando si sgravava d'un'idea. Il parto
si fa senza dolori. Non ci si presentano più gruppi, ma fughe d'idee, di
cui le ultime svaniscono mentre gettiamo le prime sulla carta; la penna
non può più seguire la dettatura del pensiero; abbrevia, accenna
soltanto, ricorre ai segni algebrici, nota un'idea con un girigogolo,
serpeggia qualche volta sul foglio senza nulla segnare. E quando il
lavoro è finito, si getta un grido di trionfo, certissimi d'aver fatto
un capolavoro. — Ma è un lavoro incompleto. Il giorno dopo, rileggendo a
mente fredda, si prova quasi sempre un gran disinganno. È un'impressione
curiosissima. S'era creduto di fare un tessuto fitto, e s'è fatto invece
una stoffa a trafori. Ci accorgiamo che ognuna di quelle belle idee è
come solitaria fra le altre; le catene d'idee intermedie, da cui ci
parevano collegate, nell'atto del lavoro, le idee principali, si sono
spezzate; alcune idee si sono completamente scolorite; di altre non
riconosciamo più la proprietà, e ne restiamo sorpresi, come se fossero
roba altrui; scopriamo cento piccoli errori di gusto, di opportunità, di
misura; di quei difetti di giustezza, appunto, che trovava il Goethe
negli ultimi scritti dello Schiller, quando lo Schiller, per
rinvigorirsi, beveva; — riconosciamo, infine, che si son mosse con una
forza straordinaria le grandi ruote, per dir così, della macchina del
pensiero; ma che tutte quelle minutissime rotine intime e secrete che
compiono il lavoro più delicato, son rimaste ferme. Non c'è il menomo
dubbio. Il prosatore potrà, sotto l'azione del vino, spandere il suo
pensiero in larghe ondate di prosa facile e sonora, ma non farà
certamente un solo di quei periodi potenti, pieni di costrutti ingegnosi
e di artifizi sottili di collocamento, in cui ogni parola ha la sua
efficacia massima; che sono come un nodo serrato di fili d'oro, ed ogni
filo è un pensiero; e fanno esclamare, leggendo: — Ecco un maestro. — Il
poeta potrà trovare nell'ebbrezza le idee e i versi più splendidi della
sua lirica; ma non riuscirà certamente nell'orditura faticosa della
strofa; e si potrebbe affermare che non n'è uscito dal vino neppur uno
di quegli inimitabili gioielli di sonetti e d'ottave, d'una perfezione
disperata, su cui si stanca da secoli l'ammirazione umana. Oltrechè la
durata utile di quest'esaltazione artifiziale della fantasia è
brevissima, e le succede uno stato di stanchezza affannosa, durante il
quale la mente insiste ancora con violenza nel lavoro, ma non lavora
più. Nè la soddisfazione che dà quel lavoro facile e tumultuoso
dell'ebbrezza, vale quella che prova la mente tutta presente a sè,
quando nell'atto stesso che produce, critica e difende l'opera propria,
ne esce, vi rientra, tenta e ritenta le difficoltà da cento parti, e si
fortifica nei suoi sforzi, e studia sè stessa nelle sue fatiche. E
d'altra parte, è quasi il sentimento della dignità umana che ci fa
desiderare che non si possano scrivere grandi cose sotto l'influsso del
vino. Noi ammireremmo meno, senza dubbio, i grandi poeti, di cui
sappiamo che domandarono spesso le ispirazioni all'ebbrezza, se,
leggendo le loro opere, potessimo riconoscere ad una ad una, come
pretendeva un fisiologo spagnuolo, riguardo al poeta Espronceda, tutte
le idee che sono spuntate nel loro cervello nell'atto che rimettevano il
bicchiere vuoto sul tavolino. Ci parrebbe che quelle idee le avessero
prese, in certo modo, fuori di loro, con un artifizio indecoroso, che le
avessero, direi quasi, scroccate, o che almeno dell'ammirazione che ci
destano, una parte fosse dovuta al fabbricante del vino che hanno bevuto
per ispirarsi. Sentimento benissimo espresso da un poeta italiano, il
quale mise a confronto dei poeti antichi, che, presi dall'ispirazione,
cantavano all'aria aperta, accompagnando il verso colla cetra, col viso
radiante e colle vesti discinte, e la poesia prorompeva spontanea, a
torrenti, dalla loro anima commossa, — il poeta moderno, — il quale,
chiuso nel suo gabinetto, si gratta il capo, scrivendo, come prescrivono
gl'igienisti, piglia un sorso di caffè quando l'idea si fa aspettare,
beve una goccia di Madera quando la rima non viene, si mette un
pannolino bagnato sulla fronte, perchè non svaporino gli ardori, quando
l'ispirazione si raffredda, accende una sigaretta per darsi l'impulso a
far l'ultima strofa, e così caccia avanti lo ingegno a furia di
spunzonate e di pizzicotti, come un giumento restìo. Certo, di tutte le
facoltà della mente, l'ultima a risentir gli effetti dannosi dell'abuso
del vino è la facoltà immaginativa, perchè le sue funzioni sono
analoghe, si confondono quasi cogli effetti del vino medesimo; ed è
questa la ragione per cui tanti poeti e tanti artisti andarono avanti
spensieratamente sulla strada del vizio, non accorgendosi, per molto
tempo, di nessuna diminuzione nella loro potenza artistica. Le loro
prime idee erano sempre grandi, le linee principali delle opere che
concepivano erano sempre bellissime, perchè erano il risultato di
operazioni istantanee e quasi involontarie del loro ingegno. Quello che
scemava in loro era la memoria, la facoltà dell'attenzione e della
riflessione, la forza di resistenza alle fatiche del pensiero. Ma
all'indebolimento di queste facoltà, che rendeva loro sempre più
difficile l'incarnazione dei propri concetti, riparavano, senza
accorgersene, consacrando all'opera un tempo maggiore, facendo con una
serie di sforzi successivi ciò che avrebbero fatto una volta di primo
getto; e ingannavano sè stessi attribuendo a una maggiore profondità di
pensiero, a una più difficile contentabilità dell'opera propria, la
lentezza che derivava, in realtà, dalla scemata potenza intellettuale. E
decrescendo sempre più questa potenza si ridussero a poco a poco nello
stato di quegli artisti beoni, la cui vita non è più che una successione
di grandi disegni e di grandi propositi, sempre più grandi, quanto più
manca la forza d'attuarli; di quegli artisti che muoiono non lasciando
per eredità che un tritume di frammenti — grandi quadri dispersi in
schizzi — romanzi sbriciolati in scenette — programmi e titoli pomposi
di opere di lunga lena, di cui parlarono per anni e non ne scrissero una
riga. C'è persino l'esempio d'un poeta olandese, bevitore
incorreggibile, il quale avendo concepito e cominciato a scrivere a
quarant'anni un grande poema sulla conquista delle Indie, morì a
cinquant'anni, non lasciando altro che una sciarada sullo stesso
soggetto che fu pubblicata in un giornale illustrato di Leida.

Veduti gli effetti psicologici passeggieri del vino, vediamo i suoi
effetti lenti e durevoli: l'azione che esercita sul carattere e sulla
vita dei bevitori.

E prima di tutto, arrestiamoci un momento a quella che si suol chiamare
«la grande famiglia dei bevitori», grande veramente, innumerevole,
svariatissima, stranissima, nella quale si ritrovano i caratteri più
opposti, la gente di condizione più disparata, l'uomo di genio e lo
scimunito, l'opulenza e la miseria, la bontà più amorevole e l'iniquità
più feroce; e nel vizio stesso una varietà infinita di origini, di
svolgimenti e di scopi. C'è chi beve per procurarsi un godimento fisico,
quasi animalesco, senza cercare l'alterazione della mente, e chi beve
per ingannare la noia di una vita oziosa e solitaria. Alcuni ricorrono
al vino per ringagliardire un organismo logorato da lunghe privazioni,
altri per guarirsi o preservarsi da malanni immaginari, altri per
consolarsi di un amore tradito o d'un rovescio di fortuna. C'è chi è
diventato bevitore in forza d'una tendenza ereditaria, frutto di
malattie, e chi è caduto nel vizio, senz'avvedersene, fin dalla
primissima età, corrotto dall'esempio. Alcuni bevono per ostentazione di
scapestrataggine, altri per dispetto, altri, di natura affettuosa, per
riempire la vita vuota d'affetti. Ci son degli uomini d'un organismo
potente che eccedono nel bere, come in tutte le cose, per una certa
brutalità di bisogni giganteschi, che li costringe a riparare con
acquisti enormi a perdite enormi, a gettare il vino a ondate nel loro
corpo come si getta l'acqua a secchie in un cannone infocato. Molti
bevono per effetto d'uno scoraggiamento che li prende verso l'età
matura, vedendo deluse le ambizioni della gioventù; per sopire il
rammarico di non essere riusciti a trovare una via, una forma
d'estrinsecazione al loro ingegno; per lenire i dolori d'una malattia
particolare dello spirito, che si potrebbe chiamare «della potenza
trattenuta». Ci sono altri infine, specialmente fra gli artisti, nature
elette, dotati di grande intelligenza e di cuore delicatissimo, ma di
tempra fiacca, i quali bevono per attenuare la violenza dei proprii
sentimenti, per addormentare la fantasia inquieta che li tormenta, per
frenare l'attività eccessiva del loro cervello, che li affatica, anche
durante i loro riposi, e li logora. Bevono, come disse dei fumatori il
Balzac, perchè hanno delle energie da domare. Ed è questa la cagione
principale della intemperanza famosa di tanti poeti: non è vero che
bevessero, come suol credersi, per prodursi un eccitamento artificiale,
a fine di scrivere; bevevano per acquietare il loro eccitamento
naturale, dopo che avevano scritto. E l'ha detto per tutti il tanto
citato Alfredo Musset, — il quale un giorno, a un tale che gli domandava
perchè cercasse la poesia nel vino, rispose dispettosamente: — Non vi
cerco la poesia, vi cerco la pace.

Tutti questi bevitori vanno avanti sulla stessa via fino a un certo
punto, e poi si dividono. Gli uni s'arrestano, e diventano i golosi; gli
altri tiran via, e diventano gl'ingordi del vino.

Nei primi alla passione si viene ad innestare il capriccio, quasi un
sentimento della poesia del vizio, che lo frena, unito ad un
raffinamento di gusti che lo ingentilisce; e fra costoro, quelli che
hanno borsa pari alla gola, diventano una specie di bibliomani della
bottiglia — raccoglitori e assaggiatori, piuttosto che bevitori — dotti
nella loro materia — che mettono nella cantina l'amore, gli studi,
l'alterezza che uno studioso mette nella biblioteca; e ci hanno
anch'essi, infatti, i loro classici polverosi, le edizioni d'antica
data, le celebrità straniere, i prosatori un po' grevi, ma sostanziosi
del nord, la letteratura passante e leggiera che rallegra senza nutrire,
la poesia tutta foco del mezzogiorno, che infiamma ed esalta; che fanno
del vino un argomento continuo di ricerche e di discussioni, un'arte,
insomma, e una scienza, che provvede nello stesso tempo ai bisogni del
loro stomaco e del loro intelletto. E costoro sono quelli che godono
veramente il vino. Uno psicologo artista ci avrebbe da fare uno studio
curiosissimo. Per loro il bere è una moltiplicazione continua di voluttà
squisite, non meno dell'immaginazione che dei sensi. Sentono già in sè,
al solo apparire del recipiente, tutta la forza e tutta la gaiezza che
v'è imprigionata. Si beano in quella varietà di forme delle bottiglie,
snelle, pienotte, maestose, come in altrettanti profili incompiuti di
belle donne; provano un senso diverso di piacere alla vista del
turbantino verde e del caschetto d'argento; godono a palpare le
rotondità eleganti dei calici; nel suono della bottiglia percossa dal
cavatappi, sentono una nota d'Adelina Patti; prima di alzare il
bicchiere rimangono qualche momento in ammirazione di quei bei rubini o
di quell'oro sciolto; poi ne aspirano la fragranza, e tutte le loro
glandule salivari versano a onde e a spruzzi i loro succhi. Infine
mettono il vetro fra le labbra, ma quasi con rammarico, come Panurge del
Rabelais, di non avere il collo lungo tre cubiti per poter gustare
meglio qual nèttare; poi — bevono cogli occhi chiusi, e dividono in due
operazioni rigorosamente distinte l'assaggiamento e la deglutizione;
sentono il primo sapore — il secondo sapore — il terzo sapore; rivoltano
il vino colla lingua, lo fanno scorrere lungo le gote, lo gettano verso
le fosse nasali per sentirne meglio il profumo, e non si decidono che a
stento a lasciarlo colare nella gola, dopo di che stanno ancora raccolti
un momento per assaporare la voluttà dell'ultimo effluvio. Risentono in
tutte le vene e in tutte le fibre, e lasciano trasparire dal viso, una
tale piena di dolcezze e di delizie, che si rimane incerti, vedendoli,
fra due sentimenti: non si sa se dobbiamo sdegnarci che l'uomo, capace
di tante soddisfazioni altissime della mente e del cuore, metta nel
godimento di simili piaceri tutta l'anima sua, o ammirare piuttosto la
prodigiosa delicatezza della macchina umana, che consente quei piaceri.

Questi bevitori, dunque, s'arrestano sulla via del vizio; gli altri
procedono e passano dalla classe dei bevitori in quella dei briaconi.
Costoro, invece del collo di Panurge, vorrebbero avere lo stomaco
dell'imperatore Massimino, il quale non faceva punto, si dice, che al
quattordicesimo fiasco. In che modo essi s'immergano a grado a grado e
si affoghino nel vino, per che periodi passi la gran lotta della volontà
che resiste coll'abitudine che trascina, è una storia lunga e triste,
che molti psicologi insigni, specialmente fra i romanzieri inglesi,
fecero in un modo ammirabile, ed Emilio Zola insuperabilmente. Il vino
entra a poco a poco nella loro vita sotto tutti i pretesti: ieri
bevevano per resistere al lavoro, oggi bevono per render più dolce il
riposo; prima per scacciar la malinconia, dopo per mantener viva
l'allegrezza; una volta per invocare l'oblio, ora per eccitare la
memoria; da principio per conciliarsi il sonno, poi per sostenere la
veglia. Il nemico s'infiltra e cresce a goccia a goccia, a sorso a
sorso, a bicchiere a bicchiere, un po' tutti i giorni, lentamente e
sordamente, come l'acqua del mare per la crepa sottile d'una nave.
Quando l'uomo s'avvede del pericolo, è quasi sempre troppo tardi: la
stiva è già piena. Egli fa ogni giorno il proponimento d'arrestarsi ai
primi bicchieri; ma, vuotati i primi, sente in sè un'energia, un vigore
di volontà, il quale lo fa tanto sicuro di riuscir ad attuare il suo
proponimento un'altra volta — quando che sia — che ne rimanda
l'attuazione al giorno seguente, nel quale, per la stessa ragione,
accorderà a sè stesso la dilazione medesima; e così va innanzi per anni,
incoraggiato sempre all'abuso, prima da una sicurezza fermissima, poi da
una speranza vaga che verrà un giorno in cui smetterà irremissibilmente.
Grande prova di quella gran verità: che è più facile negar tutto ai
sensi, che rifiutar loro qualche cosa. Ma la lotta non è mica così
semplice. È un dramma intimo intricatissimo, pieno di terrori e di
dolori, di risurrezioni e di ricadute, tanto più lungo, più vario e più
doloroso, quanto è più forte il carattere e più alta l'intelligenza del
lottatore. È prodigioso fino a che punto, con che ostinazione di
volontà, con che sottile e faticoso artifizio di ragioni e di sforzi
illusorii, di battaglie vere e simulate, di scambietti dati alla propria
coscienza il bevitore cerca di riacquistar l'impero su se stesso, e di
liberarsi dai rimorsi. Adduce alla ricaduta di ogni giorno, ogni giorno
una nuova giustificazione, qualche volta ingegnosissima, e cercata per
lungo tempo, come il reo cerca una discolpa da addurre davanti al suo
giudice. Cerca avidamente, per soddisfare la sua passione, tutte le
occasioni in cui l'abbandonarvisi può parere a lui e ad altri un eccesso
consentito dalle circostanze. Riesce realmente a vincersi per qualche
tempo, con un grande sforzo, animato, senz'avvedersene, non dal
desiderio sincero di guarire, ma dalla gioia che pregode di poter poi —
dopo quell'astinenza — ricader senza rimorsi nel vizio per un altro
periodo di tempo. Ripiglia animo a bere ad ogni piccola prova ch'egli
dia a sè stesso che le sue facoltà intellettuali non sono ancora
scemate; beve per ira quando l'animo stanco si rivolta alla fine contro
la tirannia della volontà che lo tortura; ritorna a bere ad ogni esempio
che gli si presenti, di altri più avanti di lui sulla strada del vizio,
eppure ancora sani in apparenza, e nel fiore delle loro forze; confida
persino in una malattia possibile, in un primo avvertimento della
natura, dopo il quale, l'idea del pericolo corso gli darà finalmente la
forza di vincersi; arriva fino al punto di fabbricarsi una filosofia
speciale, contraria affatto alla sua indole e a tutta la sua vita, per
poter incastrare il suo vizio in quella filosofia, come in una cornice
che lo abbellisca, e lo renda passabile ai suoi occhi. Poi vengono degli
sgomenti profondi all'accorgersi improvvisamente che le sue facoltà
mentali sono scemate, e quindi una sorveglianza diffidente e dolorosa
sulla propria intelligenza; — e risoluzioni impetuose che durano un'ora
nelle quali s'esaurisce tutta la sua energia; — e lunghi scoraggiamenti
cupi, che finiscono nel vino, da cui rinasce un barlume di speranza,
seguìto il giorno dopo da un disinganno più sconsolato. E intanto il
nemico corrode tutto: corpo, mente e cuore. Il famoso elogio del
Rousseau, secondo il quale i bevitori son buoni, fedeli, brave e oneste
persone, non si può sostenere, certamente, fuorchè considerando i
bevitori sotto l'influsso immediato del vino. Il vero è che quando
escono da quel mondo facile e ridente in cui l'ebbrezza li ha sollevati,
si trovano a disagio fra gli aspetti scoloriti del mondo reale, e
s'irritano più facilmente di ogni altro delle asprezze della vita che
avevano dimenticate. Abituati a quella vena ricca di benevolenza e di
generosità che apre in loro l'ebbrezza, non ritrovano più se stessi,
quando devono cavar quei sentimenti dal cuore tranquillo. Dopo quella
viva eccitazione d'ogni sera, la loro sensitività ha come bisogno di
riposo, e si rifiuta alla fatica delle emozioni a digiuno. In mezzo alle
compagnie in cui ferve quell'allegrezza spontanea, che deriva tutta
dalla disposizione naturale dell'animo, si sentono spostati, provano
quasi un'invidia segreta, che li rende dispettosi e tristi, sono
umiliati, scontenti di sè, come gente decaduta, e desiderano qualche
volta con un'impazienza acre e collerica quell'ora, quel luogo, in cui
potranno, con un mezzo così speditivo, ritornar sereni, generosi,
eloquenti. Senonchè questo ringiovanimento, questa specie di
risurrezione di tutti i giorni, si va facendo gradatamente sempre più
incompleta. Dopo un certo tempo il bevitore non prova più
quell'ebbrezza, per così dir ricca, piena di sentimenti e d'idee, in cui
il cuore e la mente tendevano continuamente ad espandersi e ad
abbracciar l'universo. Il primo indizio del decadimento è lo scemare di
quella mania della disputa che lo trasportava a traverso a tutto lo
scibile umano: la sua mente pigra comincia a lasciarsi andar giù per la
china della celia facile, evitando tutti gli appigli alla discussione,
che la obbligherebbe al lavoro; il giro dei suoi pensieri si va sempre
più restringendo; tutto ciò che viene a sviarlo da quell'andamento
ordinario di idee e di discorsi, gli riesce molesto; l'esaltazione non è
più continua, ma a intermittenze, a sfuriate successive, separate da
lunghi intervalli, dopo ciascuna delle quali, sente il bisogno di
riposare; l'allegrezza degenera a poco a poco in un sentimento di grossa
soddisfazione, nella quale egli si adagia e si culla, come in una
poltrona a bilico, mentre il suo pensiero tremola su mille oggetti,
senza fermarsi in alcuno, o si fissa in uno, e vi riman dentro
impigliato ed inerte. E allora vengon le lunghe sere monotone, in cui il
bevitore cova il suo vino in silenzio, in uno stato intermedio fra la
sonnolenza e lo stupore, e tutto il mondo brillante che vedeva altre
volte nell'ebbrezza, si trova ridotto fra i quattro lati della tavola,
sulla quale egli comincia ad appoggiare i gomiti — e l'anno dopo
appoggia il mento — e negli ultimi anni la fronte. Certo molti di
costoro conservano quella bonarietà, di cui il Rousseau fece l'elogio;
ma è bonarietà che deriva, più che da altro, da pigrizia del cuore. La
marea montante del vino ha seppellito rancori, odi, superbie, tristizie
— naturalmente — senza merito loro. Sentono ancora gli affetti di
famiglia e qualche vecchia amicizia; ma non è più quell'affetto vivo,
pieno di previdenze e di sacrifizi spontanei, che pensa e gode se
stesso, e vibra tutto ad ogni parola in cui s'esprima, e ad ogni
manifestazione che gli corrisponda. Tanto è vero che è rarissimo che
contraggano affetti nuovi. Arrivato a questo punto, il bevitore non è
più che uno spettatore indifferente del mondo; vivacchia, con un sol
occhio aperto, non cammina, ciondola sulla via della vita, fin che venga
la morte a spezzargli il bicchiere nel pugno.

Se poi dall'esame degli effetti individuali del vino, veniamo a
considerare i suoi effetti nella società, restringendoci sempre nel
campo psicologico, rimarremo meravigliati, sgomentati quasi, non tanto
di ciò che vediamo, quanto di ciò che abbiamo ragione di sospettare.
Poichè il vino è principalmente una potenza occulta. La maggior
importanza dei suoi effetti non è già negli eccessi visibili a cui
s'abbandonano i pochi; è nella diffusione grandissima di una
intemperanza corretta, di una ubbriachezza nascosta, costante, regolare,
che ci gira intorno continuamente, e che continuamente incontriamo
faccia a faccia, senza riconoscerla. Noi abbiamo a che fare con un gran
numero di persone, che trovandosi sotto un continuo influsso latente del
vino, paiono quello che non sono, son specie di maschere di sè stessi,
che c'ingannano. Ci troviamo intorno delle generosità, delle eloquenze,
delle bontà, dei caratteri ameni, che sono fittizii, che esistono
solamente a ore, ma che esistendo per quelle tante ore ogni giorno,
producono in chi le incontra un'illusione stabile. Se potessimo
conoscere tutte le abitudini intime, quante strane scoperte si
farebbero! Quante belle azioni generose scopriremmo che sono state fatte
a malincuore, forzatamente, per mantenere una promessa sfuggita
nell'esaltazione del vino! Quanti trionfi oratorii troveremmo che sono
dovuti all'ebbrezza, e mostre di coraggio inaspettate nei duelli, e
slanci commoventi di attori drammatici! Troveremmo forse anche dovute al
vino delle riconciliazioni clamorose d'uomini politici, che ebbero
conseguenze memorabili; forse delle risoluzioni temerarie di generali
che resero il loro nome glorioso, forse anche delle morti eroiche, che
tutti abbiamo ammirato ed ammiriamo ancora. Oltre a ciò mille persone si
trasmutano continuamente intorno a noi. Dopo qualche anno ritroviamo dei
caratteri, già dolci, ora stranamente inaspriti, senza una ragione
apparente; ritroviamo altri, una volta focosi e intrattabili, ora
concilianti, trascuranti, in uno stato d'ottimismo cronico, che non ci
sappiamo spiegare, e che ci consente di stringere con loro un'amicizia
che prima era impossibile; altri che hanno mutato abitudini, e che dal
gran mondo in cui brillavano, si sono ridotti ad una vita solitaria ed
oscura, senza che ci riesca d'indovinarne la causa. Vediamo degli uomini
di ingegno arrivare rapidamente, nel fiore della gioventù, a grandi
altezze nella società e nell'arte, e poi arrestarsi tutt'a un tratto, e
come smarrire sè stessi, e presentare al mondo un esempio inesplicabile
d'inerzia e d'impotenza. A tutti questi cambiamenti noi cerchiamo delle
ragioni; crediamo qualche volta d'averle trovate in avvenimenti, in
segreti domestici, in crisi misteriose della mente e del cuore. E non è
nulla di tutto questo. La sola cagione è il vino. Ed è naturale che non
si scopra, poichè l'uomo confessa francamente l'orgia di una notte, ma
nasconde con cura gelosa, tra le pareti della sua casa, l'abuso di tutti
i giorni, a cui non trova giustificazione nè scusa. Ora è un effetto che
sfugge all'osservazione ma che è enorme, senza dubbio, quello che
produce nella vita sociale questo gran torrente purpureo che passa ogni
giorno a traverso alla popolazione d'una grande città, nelle ore della
sera e della notte. Una grande azione la deve esercitare sull'andamento
generale delle cose, questa vasta alterazione giornaliera di sentimenti,
di pensieri, di discorsi. Noi ce ne accorgeremmo forse dagli effetti
contrarii, se da un dì all'altro, improvvisamente, non esistesse più
vino, nè alcuna bevanda eccitante. Vedremmo delle nature, sino a ieri
larvate, mostrarsi nel loro vero aspetto; gente espansiva, chiudersi in
sè; gente allegra, rattristarsi; intelligenze offuscate, tornarsi a
chiarire; ingegni che nascondevano il loro decadimento nell'esaltazione
forzata d'ogni sera, rivelarsi finiti; scemare la facilità delle nuove
amicizie, disfarsi sotto il peso della noia delle società di persone che
non avevano altro legame che il vino; ritornare a Venere molti che
l'avevano dimenticata per Bacco, una recrudescenza di malumori da
principio, un accrescimento di operosità più tardi, una diminuzione
generale di spropositi fatti detti e stampati, scemate le contese, ma
più rare anche le riconciliazioni, maggiore prudenza, minor sincerità,
più forza, meno entusiasmi: un misto di beni e di mali.

Più beni o più mali?

A me non tocca rispondere; e d'altra parte non vorrei chiudere la serie
di queste conferenze sul vino con una parola amara contro il nostro
argomento. C'è il modo d'uscirne con una distinzione; la quale non si
potrebbe far meglio che mettendo a riscontro due dei più grandi pittori
di quella ammirabile scuola olandese, che attinse nel vino una così gran
parte delle sue ispirazioni. Nei quadri dello Steen è rappresentata
l'orgia ignobile, che sostituisce all'allegrezza quieta della famiglia
il baccano della taverna: visi istupiditi, atteggiamenti osceni, braccia
cascanti che il giorno dopo non lavoreranno, e case disordinate che
rivelano un disprezzo abituale di ogni dignità e di ogni gentilezza. Nei
quadri del Van der Helst sono rappresentati dei banchetti gioviali, dove
cittadini di tutti gli ordini dello Stato si fanno dei brindisi e
conversano fraternamente; e son belle figure oneste ed aperte, su cui si
legge la sicurezza della coscienza e la nobiltà della vita consacrata
alla patria; eccitati, ma composti, con un sorriso negli occhi che fa
indovinare gli aneddoti ameni e le parole cortesi, e ispira nello stesso
tempo l'allegrezza e il rispetto. Ecco le due potenze opposte del vino,
o per meglio dire: i due vini. C'è il vino dello Steen e c'è il vino del
Van der Helst. L'uno è il veleno che trascina all'ozio,
all'istupidimento, alla prigione, alla tomba; e questo vino fuggiamolo,
combattiamolo, vituperiamolo. L'altro è il vino che fa alzare nello
stesso tempo il calice, la fronte e il pensiero; il vino che mette
all'operaio la forza nel braccio e il canto sulle labbra; l'allegria
della nostra mensa d'ogni giorno, il festeggiatore delle riconciliazioni
e dei ritorni, il liquore benefico che riscalda le vene dei nostri
vecchi, che rinvigorisce le convalescenze sospirate dei nostri bambini,
che aggiunge un sorriso all'amicizia e una scintilla all'amore: il
secondo sangue della razza umana. E questo onoriamolo e festeggiamolo,
benedicendo le due grandi forze benefiche a cui ne andiamo debitori: la
fecondità della terra e il lavoro dell'uomo.

             [STEMMA: Grifone, Fiat Lux GUTENBERG 1440]



             _Altre pubblicazioni dello stesso Editore_

                                 —————

                             *ARTURO GRAF*
                                  ———

                   LA LEGGENDA DEL PARADISO TERRESTRE

                                LETTURA

       fatta nella R. Università di Torino addì 11 novembre 1878

                              Prezzo L. 2.


                              Dello stesso
                                  ———

                                 MEDUSA

               Un vol. in-16º di pag. 103 — Prezzo L. 2.

Il sentimento che inspira le liriche raccolte in questo volume è
espresso dal titolo e dall'epigrafe:

        Horror ubique animos simul ipsa silentia terrent.

È poesia che sta da sè, e non si lega a nessuna delle scuole che più ora
in Italia si contendono il favore del pubblico. Annunziata da parecchi
giornali alquanto prima che uscisse dai torchi, _La Medusa_, al suo
primo apparire, fu salutata quale libro di alta originalità poetica,
giudizio che non potrà non essere confermato da chi ne svolga solamente
alcune pagine.
               —————————————————————————————————————————

                              Dello stesso
                                  ———

                               *PROMETEO*

                              NELLA POESIA

                 Un vol. di pag. XII–194 — Prezzo L. 3.

In esso il valoroso critico passa a rassegna, da Esiodo e da Eschilo in
poi, tutte le maggiori opere poetiche a cui l'antico mito ellenico servì
di argomento, parlando del Calderon, del Voltaire, del Goethe, del
Monti, di G. Schlegel, dell'Herder, del Quinet, del Lipiner, del
Longfellow, dello Schuré, dell'_Inno a Satana_ del Carducci, e del
_Lucifero_ del Rapisardi, ricercando nelle condizioni varie della
coltura le cause della diversificazione del tema.

  ————————————————————————————————————————————————————————————————————
               TORINO — ERMANNO LOESCHER, EDITORE — ROMA



                        Nota di trascrizione


Sono state mantenute le accentazioni originali, a volte incoerenti anche
nel corso dello stesso testo (es. _se/sè stesso_). L'ortografia usata
per i nomi stranieri, dubbia se non errata (p.es. _Hammerswith_,
_H' lassa_, _Postdam_, _Annover_, _Wasington_; _Carbenet Sauvignon_,
_Resling_, _Joannisberg_, _Maçon_, _Lacryma Crysti_ tra i nomi di vini),
come pure diversi errori nelle citazioni in lingua (ad es. _Mytologie_,
_Mich durstet_, _Das Vers_, _l'éspérance_, _Die Herabkunst der Feuers_,
_Jahrb. der Westph. Gefong. Gefels_, _mœrum_) sono stati fedelmente
preservati; gli accenti greci sono stati riprodotti come stampati.

I seguenti refusi sono stati invece corretti:

  • p. 55, l. 17: saccariniceti → saccaromiceti
  • p. 101, l. 11: confettti → confetti
  • p. 118, l. 20: Prosophila → Drosophila
  • p. 119, nota, l. 4: TORGIONI TOZZETTI → TARGIONI TOZZETTI
  • p. 138, l. 1: Drossophila → Drosophila
  • p. 143, l. 21: subito da opera → subito dà opera
  • p. 148, l. 10: E pure un Rincoforo → È pure un Rincoforo
  • p. 151, l. 6: Oxythriea stictica → Oxythyrea stictica
  • p. 154, l. 14: ci da il miele → ci dà il miele
  • p. 165, l. 4: TARZIONI-TOZZETTI → TARGIONI-TOZZETTI
  • p. 199, l. 5: manipolizzato → monipolizzato
  • p. 223, l. 1: Ne è a ritenersi → Nè è a ritenersi
  • p. 226, l. 10: Sph. pampini, Thum. → Sph. pampini, Thüm.
  • p. 238, l. 13: un alga → un'alga
  • p. 241, l. 1: _S. abicans_ → _S. albicans_
  • p. 263, l. 17: della dita → delle dita
  • p. 297, l. 5: riscuscitare gli Dei morti → risuscitare gli Dei
                  morti
  • p. 297, l. 18: le milla miglia → le mille miglia
  • p. 401, l. 2: questa tendenza s mesce → questa tendenza si mesce
  • p. 413, nota, l. 2: Vh'a della demenza → V'ha della demenza
  • p. 436, nota, l. 7: (FAZIO, _Dell'Ubbriachezza_, 1875, p. 370. →
                        (FAZIO, _Dell'Ubbriachezza_, 1875, p. 370).
  • p. 455 l. 13: d'un'artista → d'un artista

La punteggiatura a volte mancante nelle liste di specie a pp. 224–226 e
nelle abbreviazioni è stata rettificata senza ulteriore commento; l'uso
alterno del punto e della virgola come separatore decimale e delle
migliaia è stato mantenuto. Il segno di per cento, alternativamente
indicato con % e 0|0 (specialmente nel testo di Lombroso), è stato
normalizzato in %.

Le note al testo della prima conferenza sono collocate in coda al
capitolo già in originale; quelle a piè pagina dei testi successivi,
numerate per pagina (nota (1) di p. 363 erroneamente) sono state
spostate in coda ai rispettivi capitoli e rinumerate progressivamente.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Il Vino - Undici conferenze fatte nell'inverno dell'anno 1880" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home