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Title: Passeggiate per l'Italia, vol. 5
Author: Gregorovius, Ferdinand
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Passeggiate per l'Italia, vol. 5" ***


                         FERDINANDO GREGOROVIUS


                        Passeggiate per l'Italia

                                 * * *
                                  * *

                               Girgenti.
                      I Canti popolari siciliani.
                         Pompei e i Pompeiani.

                 _Versione dal tedesco di Mario Corsi_



                    ULISSE CARBONI — LIBRAIO EDITORE
                                  ROMA
                        _Via delle Muratte, 77_
                                  1909



           I DIRITTI DELLA PRESENTE TRADUZIONE SONO RISERVATI

         Roma — Officina Poligrafica Editrice di Eduardo Manna
                        Piazza della Pigna, 53.



Notizie sull'Autore


Nacque Ferdinando Gregorovius il 19 gennaio 1821 nella piccola città
di Neidenburg, presso la frontiera polacca, in un antico castello
medioevale fondato dai cavalieri teutoni. Suo padre era consigliere di
giustizia a Neidenburg: appena innalzato a questo ufficio, ottenne dal
Governo che il glorioso castello, in gran parte ruinato ed abbandonato,
venisse interamente restaurato. Ivi prese sede il tribunale e fra
quelle storiche mura, che tanto dicevano del passato, si stabilì la
numerosa famiglia del consigliere di giustizia.

Certo, questa dimora esercitò la sua influenza sul giovane Ferdinando:
egli stesso ha lasciato detto che forse non avrebbe scritto la _Storia
di Roma nel medioevo_, se non avesse trascorso la sua giovinezza in
quel vecchio castello dei cavalieri tedeschi. Si aggiunga a questo la
rivoluzione della Polonia nel 1830, quando egli aveva nove anni, di
cui udì narrare tutte le fasi, e gli episodi più impressionanti e le
memorabili gesta. Sin da allora ei dovè cominciare ad appassionarsi
ai grandi fatti del passato, ricollegandoli a quelli del tragico e
sanguinoso presente, e a comprendere l'odio contro l'oppressore e la
pietà per l'oppresso.

Nel 1831 al giovane Gregorovius morì la madre di etisia, e poco
dopo egli fu dal padre mandato in ginnasio, a Gumbinnen, in casa di
un suo zio. Terminati nel 1835 questi studi, passò all'Università
di Königsberg, per seguire i corsi di teologia, continuando così
una tradizione della famiglia, giacchè l'avo, il padre ed il nonno
di suo padre erano stati pastori evangelici alla stessa parrocchia
nella Prussia orientale. Ma la teologia non rappresentava pel giovane
studente la sua più alta aspirazione ed in breve ei l'abbandonò
per dedicarsi invece interamente agli studi filosofici, letterari e
storici. Kant ed Hegel, spiegati da Carlo Rosenkranz, lo entusiasmarono
e per un momento si credette destinato a diventare egli pure un
filosofo.

Non pertanto, per esaudire un desiderio di suo padre, nel 1841 sostenne
felicemente gli esami di teologia; dopo di che abbandonò Königsberg, e
vagabondò per qualche tempo in cerca della propria via, dopo essersi
laureato anche in filosofia con uno studio sul _Senso del bello in
Plotino e presso i neoplatonici_.

In questo periodo di transizione, quando ancora nella sua mente v'era
qualcosa di caotico che impedivagli di vedere il dritto cammino che
gli si apriva dinanzi, compose molte liriche e un romanzo, _Werdomar e
Wladislaw_, che apparve nel 1845. Fu il tributo del giovane scrittore
al sorgente romanticismo tedesco che doveva poi tanto irritare Federigo
Nietzsche. L'azione tutta fantastica si svolgeva nel mondo in cui era
vissuto, sul confine tedesco-polacco. Il libro non ebbe un grande
successo, ma fu letto, sopratutto a Königsberg. Le sventure della
Polonia scossero e commossero fortemente Ferdinando Gregorovius, il
quale, nel 1848, riassunse sulla questione le sue idee in un opuscolo,
_L'idea polacca_. Più tardi pubblicò, sullo stesso argomento, una
raccolta di liriche, _Polen und Magyarenlieder_ (_Canzoni polacche e
magiare_).

Già in questi suoi primi lavori palpitava quel sentimento della vita
dell'umanità, quell'alto ideale umano che fu — come ha detto Domenico
Gnoli — come la stella a cui per tutta la vita sollevò l'occhio
dell'anima. «Io credo — scriveva nel romanzo sopra ricordato —
nell'umanità e nel suo genio». E in un altro suo scritto vagheggiava
«la fratellanza di tutti gl'interessi, di tutte le religioni, di tutte
le culture».

Nel primo centenario di Goethe pubblicò un caratteristico studio,
_Mastro Guglielmo ne' suoi elementi socialisti_, nel quale Goethe
appare come il Colombo della Germania che ha scoperto l'America
dell'Umanesimo.

L'anno 1851 segna una data di grande importanza pel grande storico,
perchè in quest'anno egli, per la prima volta, rivolse la sua
attenzione su Roma e su Roma scrisse una specie di biografia
drammatica, una tragedia, _La morte di Tiberio_, che se non era
un'opera di grande valore artistico e teatrale, appariva già come
un preludio alla sua grande opera avvenire sulla città dei Cesari. E
difatti, poco dopo cominciò la _Storia dell'Imperatore Augusto_, che
più tardi rifece ed ampliò.

In questo anno, 1852, avvenne un fatto che ha la sua importanza
biografica: il pittore storico Luigi Bornträger, suo carissimo amico,
su consiglio dei medici, partì per l'Italia e Gregorovius decise
di seguirlo. Visitò dapprima Venezia, poi, nell'estate, percorse la
Corsica, che illustrò in due volumi, si fermò a Firenze, donde proseguì
per l'Isola d'Elba, poscia Roma, Napoli, tutta l'Italia meridionale e
la Sicilia. Fu in questa sua peregrinazione attraverso la penisola che
scrisse per la _Gazzetta d'Augusta_ molti dei capitoli che figurano in
queste _Passeggiate per l'Italia_, apparse in Germania in cinque volumi
sotto il titolo di _Wanderjahre in Italien_, editi dal Brokhaus di
Lipsia; e cioè i capitoli: «San Marco in Firenze», «Melodie toscane»,
«L'Isola d'Elba», «Idilli delle spiagge romane», «Il Ghetto di Roma»,
e negli anni successivi gli altri che formano questa raccolta.

In queste monografie il suo ingegno aveva trovato la forma spontanea,
originale in cui manifestarsi in tutta la sua ricchezza, riunendo in
un genere nuovo, nel paesaggio storico, le forze e le attitudini varie
che aveva esercitato ne' suoi lavori di gioventù: il pensiero del
filosofo e la fantasia del poeta, la tavolozza del pittore e la ricerca
dell'erudito.

Ecco quello che ne ha scritto un poeta di fama ed un conoscitore di
cose romane di valore indiscutibile, Domenico Gnoli:

«Gregorovius entrò in Roma coll'animo del visitatore, proponendosi
di proseguire il suo viaggio dopo aver osservato e illustrato nel
presente e nelle origini storiche quanto di più caratteristico lo
colpisse. Incominciò infatti con uno scritto sul “Ghetto di Roma,” ma
avvinghiato a poco a poco dal fascino della città eterna, gli mancò la
forza di allontanarsi, e la stazione si cambiò in sede. A comprendere
l'impressione profonda prodotta dalla vita di Roma sull'anima
fantastica e meditativa del Gregorovius, conviene rappresentarsi
quel tempo di cui il ricordo, a noi stessi che vi abbiamo vissuto in
mezzo, è come la lettura d'una storia lontana. Se qualche moto si
agitava in Roma, nulla ne appariva alla superficie; ma ne' silenzi
di quell'isola medioevale pareva vivere solo la storia. La vicenda
degli avvenimenti del mondo, l'assiduo lavorío della scienza, le nuove
battaglie del pensiero vi giungevano come il sordo frangersi delle
onde in una spiaggia remota. Un passato d'immani grandezze, di glorie
immani schiacciava col suo peso il presente, e l'avvenire anch'esso
era aspirazione al passato: i contemporanei di Roma erano gli eroi
biancheggianti nel marmo, i martiri dormenti sotto i mosaici dorati
delle basiliche. E Gregorovius aspirava con tutta l'anima la poesia
della storia. Vedeva tre città, Gerusalemme, Atene e Roma rifulgere
come città universali nella vita del mondo: Gerusalemme portare alla
civiltà il monoteismo, Atene l'opera creatrice del pensiero e della
fantasia, Roma l'azione, l'_Imperium_, l'idea dello stato universale,
dell'unità della gente umana; e quindi Roma ereditare dalla Grecia
la cultura dell'intelletto, dalla Giudea la religione universale
ed estendere la civiltà coll'organamento universale dell'Impero, al
quale succede la monarchia universale della Chiesa che, accogliendo
l'organamento dello Stato, si fa dominatrice e legislatrice
dell'università dei popoli cristiani. Egli vedeva la Chiesa associarsi
al Germanesimo che aveva atterrato l'Impero, la Germania per lunghi
secoli avvinta a Roma coi legami della fede e dell'Impero germanico
romano, e la storia della città divenir parte integrante della
storia tedesca. Da Roma, come da una specola sublime, gli si apriva
sott'occhio tutto il medio evo, e le ricordanze nazionali spiccavano
per lui sul campo della storia del mondo cristiano. Pieno l'animo
della grande epopea romana, la vastità della materia spezzava la forma
ristretta del Paesaggio storico e si allarga nell'ardito concetto della
storia di Roma nel medio evo».

Così Ferdinando Gregorovius pervenne, attraverso a queste mirabili e
pittoresche monografie, alla grande opera di Roma medioevale, opera che
si leva come monumento gigantesco a perpetuare la gloria della città
eterna e che alla fama dell'autore è monumento perenne.

Ormai l'Italia era divenuta per lo storico tedesco la sua seconda
patria, ed egli vi rimase sino a quasi gli ultimi anni della sua
vita, sino al 1890, allontanandosene solo di tanto in tanto per dei
brevi periodi, nei quali tornava in Germania. Durante l'inverno
e la primavera, egli correva ogni anno fra' suoi amici italiani,
specialmente a Roma. Dopo il 1880 visitò la Grecia, l'Egitto, la Siria,
e frutti di tali viaggi furono degli studi sulla storia e i dintorni di
Atene, l'idillio «Corfù», la monografia «Atenaide», brevi lavori che
dovevano poi compendiarsi nella sua opera maggiore, la _Storia della
città di Atene nel medio evo_, apparsa nel 1889.

In questo frattempo, però, terminata la sua _Storia di Roma_, egli
aveva scritto un volume su Lucrezia Borgia, su documenti tratti dagli
archivi di Modena e di Mantova (1874); una monografia su _Urbano VIII
in lotta con la Spagna e l'Impero_ ed alcuni nuovi capitoli di queste
_Wanderjahre in Italien_.

L'ultimo lavoro dello storico tedesco fu una conferenza sulle «grandi
Monarchie o gl'Imperi universali della Storia», tenuta il 15 novembre
1890 all'Accademia bavarese delle scienze di Monaco. In quest'anno
egli aveva abbandonato Roma, lieto delle molte prove di ammirazione
e di affetto ricevute; contava di tornarvi nell'autunno seguente,
quando suo fratello Giulio si ammalò gravemente. Era da poco uscito
di convalescenza, quando, alla sua volta, Ferdinando si ammalò. «Ho da
pochi mesi compiuto il settantesimo anno — scriveva egli il 28 gennaio
— sicchè di ragione sono entrato nella via Appia e mi trovo vicinissimo
al _bustum_». Egli prevedeva prossima la morte. Tre mesi dopo soltanto,
infatti, il 1º maggio 1891, Ferdinando Gregorovius «cittadino romano»
si spegneva nella città di Monaco.

                                                                M. C.



GIRGENTI

(1855).



Girgenti.

(1855).


Partimmo, a cavallo, il mio compagno ed io, da Palermo alla volta di
Girgenti, l'antica Agrigento. Giuseppe Campo — nativo della vetusta
città saracena di Misilmeri, — la miglior guida di tutta la Sicilia,
ci aveva forniti di due ottimi muli; lui stesso, poi, ne cavalcava un
terzo su cui erano caricati anche i bagagli. La giornata era magnifica:
passato Monreale, percorremmo una strada montuosa e deserta per la
quale non trovammo anima vivente, se escludi le aquile di Giove, che
ci guardavano dall'alto tranquille e silenziose, oppure disegnavano
nell'aria ampie spire coi loro voli. Così camminammo parecchie ore
sino a che alla nostra vista non si distese la meravigliosa pianura
di Partinico e di Sala, vicino al golfo di S. Vito. A dritta si trova
Borghetto, l'antica _Hykara_, patria di Laide, la più bella donna
dell'Ellade, che i Greci condotti da Nicia portarono bambina ad Atene.

Le linee del golfo di S. Vito sono belle e insieme grandiose, come
quelle di Cefalù; la pianura, poi, è tra le più feraci della Sicilia,
così lussuriosa nella vegetazione da far pensare ai tropici. Ci
soffermammo a Sala, minuscolo villaggio, e quindi, risaliti in groppa
ai nostri muli, traversate regioni fertili, vigneti e oliveti,
giungemmo ad Alcamo, città montanara. Il paesaggio acquistava in
grandiosità a misura che avanzavamo, assumendo quasi carattere greco
con l'armonia delle sue montagne colorate da tinte calde, or rosse, or
verdamente cupe. Il carattere di quella contrada — grazie i giganteschi
pini, i malinconici cipressi, le palme annose, gli aloe dagli snelli
fusti fioriti — è reso più grave dall'autunno. Qui tutto è monocromo,
scuro sovrapposto allo scuro e, con meraviglia, si vede quanto possa la
natura con una sola tinta fondamentale.

Stanchi di una camminata di nove miglia tedesche, con la non lieta
prospettiva di doverne percorrere dieci all'indomani, undici il terzo
giorno e nuovamente dieci il quarto, prima di giungere a Girgenti,
arrivammo in Alcamo che era sera inoltrata.

Questa è città linda e piacevole, di circa 15.000 abitanti, con un
vetusto castello saraceno. Altro non posso dire, se non che in una
miserrima locanda fui martirizzato tutta la notte dalle zanzare, in
modo tale, che portai per venti giorni le cicatrici prodottemi dalla
voracità di quegli alati spiriti notturni. Alla sera, il capitano della
guardia ci offrì la scorta militare che doveva esserci compagna sino a
Segesta; ma noi la rifiutammo.

Per vedere il rinomato tempio di Segesta, ripartimmo mentre ancora
lucevano le stelle e, per nove miglia, camminammo in un paese deserto,
tra monti calcarei. Orione, vera stella sicula, della quale Messina
ha fatto un mito, sfolgorava su tutte le altre. Già, in Sardegna,
ove il popolo l'ha nominata stella dei Re Magi, avevo ammirato questo
astro; ma fu solo in Sicilia che lo potei contemplare in tutta la sua
magnificenza; i suoi raggi sprizzavano come fuoco d'artifizio. Intanto
s'alzava la brezza mattutina, il cielo si imbiancava ad oriente, si
diradavano le tenebre e si dissipavano le nebbie; le sagome dei monti
accennavano a dileguarsi e compariva il mare, di purpureo si tingea
la campagna e Orione spariva dopo avere brillato per lo spazio di una
notte meravigliosa.

Improvvisamente, si parò dinanzi ai nostri occhi il tempio di Segesta;
sebbene fossimo ancora lontani tre miglia, lo vedevamo ergersi
solitario sulla scura pendice del monte, da cui maggioreggiava sul
severo paesaggio, bello di aspetto e tale da non poterlo dire rovina,
poichè stava con tutte le sue colonne e i due suoi frontoni. La
strada che porta colà è un sentierucolo battuto solo dai pastori ed è
fiancheggiata per oltre un miglio da piante di aloe, in numero di cento
circa per parte, di venti piedi d'altezza, formanti come un viale sino
al tempio che sorge sui fastigi di una brulla collina.

Quella terra nera punteggiata da cardi selvatici, meschino pascolo
per le capre; quella profonda solitudine; i ricordi delle antiche
favole troiane; i versi sonori di Virgilio; la guerra di Segesta con
Selinunte, che die' origine alla spedizione degli Ateniesi contro
Siracusa e a tanti eventi storici; ogni cosa eccitava la nostra
fantasia.

Qui la solitudine è maggiormente pittorica che non quella di Pesto, e
l'aria v'è quasi saturata di favole, di miti, di tradizioni, di memorie
storiche. Sedendo nell'antico teatro dissepolto da Hittorf, l'occhio
raccoglie in sè tutta quella regione di magica solitudine, di tragica
serietà; si scorgono il golfo di Castellammare, i monti di Alcamo; ai
piedi si svolge una valle selvaggia nel cui fondo corre il favoloso
Krimolfo; all'opposta parte si rizza il monte grigio di Calatafimi e
ne' suoi fastigi si discerne la città di colore scuro e cupa. Volgendo
lo sguardo ad occidente, si vede una catena di colline giallastre e,
più in alto, fantastici monti azzurri, i monti Erici, su cui s'ergeva,
ora non più, il tempio a Venere. Oltre sconfina il mare Egeo, che
attira lo sguardo sulle spiagge ove fu Cartagine e ricorda le guerre
puniche.

Non indugerò a parlare del tempio di Segesta, già sufficientemente noto.

Proseguimmo la nostra strada verso il monte Pispisa oltre il tempio,
in arida solitudine, senza incontrare che rari pastori vestiti di pelli
di montone, pascolanti i loro greggi; non trovavamo che pochi cespugli,
cardi selvatici coperti di lumache bianche che circondavano quasi ogni
pianta, e traversammo terreni, riarsi e fenduti dal sole, su cui non
eravi la più lieve orma di sentiero.

D'un tratto, ci apparvero, verso oriente, il mare Egeo, il monte Erice
a piramide e ai suoi piedi Trapani — l'antica Drepano —, le isole del
mare Egeo, che scintillavano tra lo scintillìo delle onde, e le spiagge
di Marsala e Mazzara, che si stendono fino al Lilibeo.

Ivi giungono direttamente i venti cartaginesi, e il battello che
salpava allora alla volta dell'Africa, in dodici giorni m'avrebbe
portato a Tunisi, in terra punica.

Verso il mezzodì, sotto un sole insopportabile, arrivammo a Vita,
meschino villaggio smarrito nella solitudine, abitato da più meschina
gente, di carnagione bronzea, dai capelli crespi come quelli dei
negri, parlante un dialetto di cui nulla capivo. Scendemmo presso
un calzolaio, mangiammo quel po' che il campo ci potè procurare
e rimontammo sui muli per guadagnare Castelvetrano, ove dovevamo
pernottare. Malgrado bella fosse la strada che percorrevamo, la
stanchezza ci impediva di percepire ciò che ci circondava. Dopo dieci
miglia tedesche, toccammo finalmente Castelvetrano, ma io non ebbi la
forza di scendere dal mulo e fu necessario mi aiutassero.

Con la prospettiva di dovere all'indomani fare nuovamente undici
miglia, rotto come mi trovavo in tutte le membra, non mi stimavo in
condizioni di potere sopportare quella marcia faticosa; ma ebbi agio di
sperimentare come l'uomo è capace di qualunque sforzo allorchè voglia
seriamente. La costanza vince anche la cocciutaggine di un mulo.

Così all'indomani, feci, senza eccessiva difficoltà, quelle undici
miglia e le ultime dieci sino a Girgenti, quasi piacevolmente.

Il mio compagno di viaggio — còlto fino dal secondo giorno da un colpo
di sole — fu meno fortunato di me; stette assai male nella zolfara
di Alcara e fu salvato da certa morte grazie solo la prontezza di un
salasso; ma gli fu necessario allettarsi a Palermo per varie settimane.

Partimmo il 6 settembre da Castelvetrano per recarci a Selinunte, sul
mare africano. Il mattino era di quella bellezza come sola può trovarsi
in Grecia od in Sicilia.

Non è possibile descrivere con la parola la magnificenza versicolore
del cielo ad oriente. Io precedevo gli altri per assaporarmi
indisturbato la bellezza di quel fenomeno; giunto all'estremo limite
della città, mi soffermai presso una chiesa antica, sotto alcuni alberi
e sospinsi gli occhi infra il mare verso Selinunte, lontano circa
sei miglia. Orione mandava ancora la sua luce purpurea, e il cielo si
stendeva con quella peculiare limpidezza di cui solo la lingua greca,
con la parola _etere_, può darci la precisa sensazione.

Scendendo da Castelvetrano, verso il mare per circa sei miglia,
traversando pingui campagne, si scorgono già da quella distanza
i diruti templi di Selinunte, di cui, per dare pallida idea della
grandiosità, è sufficiente quanto sto per dire.

Il giorno non era ancor bene uscito dalle tenebre ed io scorgevo
qualche torre in rovina; una, snella ed alta, primeggiava sull'altre
nei silenzi dell'alto. Dissi a Giuseppe che sarebbe stato conveniente
andare in quella città, che mi pareva ragguardevole sotto ogni punto di
vista e nella quale mi sorrideva la speranza di trovare un gelato. Ma
Giuseppe, sorridendo, mi rispose:

— Quello che a voi sembra città, altro non è che un ammasso di rovine
dei templi di Selinunte.

La vista di quelle rovine sulla sponda del mare, in una regione
deserta, non ha l'eguale al mondo e là solo ho potuto sentire quel che
significhino le parole _rovine classiche_. Si contemplino da presso
o da lontano, quei ruderi dell'antica fastosità greca, vi avvolgono
sempre di maraviglia e di rispetto quasi superstiziosi. Contornati
da florida vegetazione, aventi in sè ancora una forma esteriore non
priva di significato, sono estremamente pittorici: triglifi, metope,
frantumi di fusti di colonne scannellate, capitelli dorici colossali,
giacciono — nelle loro forme graziose — confusamente, sì come zolle di
un campo arato; la prepotenza del tempo passò su d'essi, si accumulò
da una parte e dall'altra confusamente, bizzarramente. Un certo ordine
impera in qualche punto sotto il lavorio pervicace di quella diuturna
distruzione; così le enormi colonne del tempio di Giove olimpico sono
distese a terra sul posto ove sorgevano, al pari di membra infrante di
gigante caduto nell'aspra battaglia; poche colonne sorgono ancora sulla
propria base — come quelle note sotto il nome di _Pileri dei giganti_
— e su esse ergesi dominando, regina di rovine, la deserta solennità
della campagna.

La località dell'antica Selinunte, a ridosso di alturette nei pressi
del mare, è indicata da due gruppi di quelle rovine. Quello di levante
è costituito in maggior parte da un tempio diroccato; l'altro di
ponente, dai ruderi della città, e nella sua compagine, pittorescamente
disordinata, si vedono i resti di quattro templi. Camminando su quei
massi, quegli architravi, quelle cornici, avvinghiati e quasi sepolti
da sterpi, da piante florispine selvatiche, si turba la quiete delle
_serpi brune_, uniche abitatrici di quel mondo morto.

Il Selinos, oggi Madinini, scende al mare fra questi due gruppi di
rovine; la spiaggia è bassa, il fiume l'ha resa paludosa, e su entrambe
le sponde non si vedono che stagni arsicci, cosparsi di erbe, di fiori
azzurri e di molti gigli fragranti.

Sin dall'antichità più remota, le paludi formatisi attorno a Selinunte
ammorbarono l'aria e diedero origine a pestilenze; così che Empedocle
venne chiamato da Girgenti acciocchè si provasse a combattere tanta
iattura, e si pretende che mediante molteplici canali scavati a
traverso le paludi, fosse riuscito a redimere la città.

Non dirò dei templi di Selinunte, ma ricorderò che qui si rinvennero
le famose metopi, ora nel museo di Palermo, che aiutarono tanto nello
studio dell'arte antica. Non voglio dimenticare, anche, che lo storico
Tommaso Fazello, il frate che diede alla luce nel XVI secolo la più
recente storia di Sicilia, nacque nei pressi di Sicilia.

Nel rimanente d'Italia, si vede la vita moderna vicino alle rovine,
come nella campagna romana; oppure si vedono, le une a fianco delle
altre, rovine di epoche diverse. Quelle di Selinunte sono tutte del
medesimo tempo, e attorno non hanno alta di vita; davanti si stende la
deserta solitudine dell'orizzonte e del mare.

Camminando verso levante, giungemmo al fiume Belice, l'_Hypso Potamos_
degli antichi, e, dopo alcune foreste di sugheri e spiagge di sabbia,
toccammo Menfrici e da qui, per deserta pianura, ci fermammo a passare
la notte a Sciacca (_Thermae Selinuntiae_), piccola città di 16.000
anime, con castello pittoresco, posta su di una collina in faccia al
mare.

Dopo Sciacca si cammina per circa quattro miglia tedesche lungo la
spiaggia, ora fra sassi e conchiglie, ora su terreni paludosi, ora
seguendo il greto dei torrenti, alla ventura, senza strada battuta.
Attraversammo un torrente, il Platani, l'antico _Alico_; sulle sue
sponde pascolavano mandrie di buoi dalle lunghe corna, i quali, come
ebbi agio di constatare, sono di pelame rosso — i veri buoi di Elio
— mentre nel continente sono di candido pelame. I mandriani — di
miserabile e rozzo aspetto — stavano a cavallo, come quelli della
campagna romana e delle paludi Pontine.

Dopo aver lasciato la spiaggia del mare, ci inoltrammo in una regione
di colline disabitate, coltivate a grano: non un villaggio! L'abbandono
più completo! Non rammento di aver mai visto paese più deserto...

Nell'uscire da alcuni cespugli fui colpito dalla vista di uno stagno
disseccato, piano e candido come neve.

Finalmente arrivammo a Montallegro, dopo avere cavalcato per
ventiquattro miglia italiane. Montallegro non corrispondeva con il
nome, alla sua povertà e allo squallore suo: circondato da campagna
arida, su cui allignavano poche viti intisichite e radi olivi, avrebbe
meglio meritato il nome di _Montristo_.

Poichè si soffriva penuria d'acqua, da un secolo il villaggio era
sceso dall'alto del monte; però si scorgono ancora due aggruppamenti di
case vicini l'uno all'altro: l'antico in alto, con le sue vie, le sue
case in piedi ma disabitate, quasi mummia di villaggio; il moderno, ai
piedi del monte stesso, pressochè deserto e, come il primo, squallido
squallido.

Le case sono costituite di roccia calcarea, grigia, triste. In questi
pressi sorgeva un dì _Kolikos_, l'antica città di Heraclea Minoa che
ricordava il nome di Minosse; quando questo re venne in Sicilia per
perseguitarvi Dedalo e fu ucciso dalla figlia del re Corato, i Cretesi,
venuti con lui, identificarono Minoa. Poche grotte e qualche sepolcro
scavati nella roccia, sono gli ultimi resti della antichissima città.

Da Montallegro, per squallide contrade, sotto la molestia del sole
cocente, giungemmo a Siculiana, cupo paesello, su un monte arido, in
cui non crescono, tra l'asprezza delle rocce, che cactus pungenti. Qui
è grande la miseria degli abitanti...

In tutti questi paraggi, le donne portano una specie di scialle nero
o bianco, a guisa di mantiglia, che rialzano sul capo, e gli uomini,
berretti alti a punta, pure neri e bianchi. Da per tutto è odore
di zolfo e, qua e là, si vedono solfatare fumiganti. Di fronte a
Siculiana, anticamente, sorgeva Anedra e si trova dopo una catena di
piccole colline, di natura vulcanica e che contengono tutte, più o
meno, del zolfo.

La notte era intanto sopraggiunta e noi cavalcavamo in quella
sterminata solitudine al chiarore stupendo di luna, non udendo
altro rumore fuorchè lo strido degli uccelli notturni e il mugghiare
lamentoso del mare a cui ci avvicinavamo a poco a poco.

Giungemmo, così, a Molo di Girgenti, piccolo porto lungi tre miglia
circa da Agrigento, e la notte era profonda allorchè entrammo
nell'antica Akraga, la patria di Empedocle, ora la meschina città di
Girgenti.

All'incerta luce delle stelle tutta quella solitudine assumeva un
aspetto classico e malinconico e, allorchè, al mattino, fui alle porte
della città, vidi un paesaggio di poco inferiore ai campi di Siracusa
per grandezza e solennità di stile.

Eravamo nell'antica Agrigento, e m'è forza, per soddisfare ad una
promessa, dire brevemente di questa formosa vetusta città e dei suoi
monumenti.

Essa giace in una pianura incassata scendente al mare, distante oltre
tre miglia, e circondata da colline sassose e di aspetto imponente. Due
fiumi corrono ad oriente ed occidente di questa pianura: l'_Akraga_
e l'_Hypoa_, denominati oggi rispettivamente S. Biagio e Drago.
Questi circoscrivevano da due parti il perimetro della città e si
congiungevano a' piedi delle mura di questa a mezzogiorno; qui il
secondo perdeva il nome e scendeva al mare riunendo le sue acque con
quelle del primo.

La pianta dell'antica Agrigento si presentava come un triangolo
irregolare, fiancheggiato dai due fiumi, con la base verso nord,
appoggiata contro due colline: il _Kamiko_, per cui trovasi con
Girgenti e la Minerva. Questa era la città propriamente detta, a cui
si accostavano i sobborghi, Neopoli (città nuova), come la denomina
Plutarco, la quale si allargava sotto il _Kamiko_ occupando quasi tutta
l'altura.

Le alture naturali ed un dedalo di gole e di fossati, costituivano
le difese della città, e ancora oggi ne sono visibili le vestigia a
levante ed a mezzogiorno.

Ponendosi dove sorgevano le mura a sud, nel centro di quella serie di
templi divisi, dei quali sono giunte sino a noi alcune reliquie, si ha
davanti una costa di grandiosa e malinconica bellezza, della quale è
meglio tacere piuttosto che tentare la descrizione con parole.

La pianura scende al mare e offre, nel suo aspetto solenne e deserto,
un paesaggio di forme severe che doveva trovarsi in completa armonia
con la grandezza monumentale dei templi dorici.

Tutto vi è grandioso: l'orizzonte ampio, il mare vasto, calde vi sono
le tinte e la terra arida ci indica la prossimità dell'Africa; l'unica
vegetazione che qui si scorga è quella malinconica degli olivi.

All'ingiro — ove s'ergevano templi, ove ancora posano centinaia di
tombe, di loculi, di grotte — sorgono qua e là tronchi di colonne e
il suolo è coperto di avanzi di architravi colossali e di triglifi;
tutto vi chiama alla contemplazione, all'ammirazione, e chi non si
sente commosso a quella vista, vuol dire che non nutre nessun amore per
l'antica Grecia, e non sa apprezzare la splendida civiltà di questa.

Non è possibile considerare una città distrutta o parlare dei suoi
monumenti senza prima ricordarne le vicende. Perciò io voglio anzitutto
dare un cenno della storia dell'antica Agrigento nella speranza che
il lettore di queste pagine sia indotto a fermarsi in questa città di
fama mondiale e di completare quanto io accenno semplicemente. Vi sono
inoltre nella vita di Agrigento una folla di grandi figure, il cui nome
è sulle labbra di tutti, in quanto questa città fu una delle principali
fra le città elleniche, e se non così potente come Siracusa, fu però
ricca in non minore misura di felici e spirituali qualità.

Anche prima dei Greci era già un centro importante dei Sicani. Il
suo re Kokalus aveva, secondo il racconto di Diodoro, ospitato Dedalo
fuggiasco e questi costruì per lui sul Kamiko una rocca alla quale si
poteva accedere solamente per una tortuosa via artificiale.

In questo castello imprendibile portò Kokalus il suo tesoro.

L'Agrigento ellenica sorse nei due anni della 49ª olimpiade (582)
come città coloniale della vicina Gela, e presto superò in importanza
la città madre: avendole dato un rapido sviluppo il commercio con
Cartagine.

Gli Agrigentini avevano prima una forma oligarchica di governo secondo
gli statuti di Charondas di Katana, che durò fino a che Falaride
la mise in mano ai tiranni. Quest'uomo straordinario era Cretese di
nascita. Incaricato della costruzione del tempio di Zeusi Polieus, si
giovò di questa impresa che gli metteva a disposizione denaro e uomini,
nonchè il punto più forte della città.

Egli assoldò dei mercenari, armò i prigionieri e mentre che si
celebrava la festa di Cerere, si rese signore e tiranno di Agrigento.
Ai Greci era così odiosa la monarchia, che concepirono Falaride come un
mostro favoloso, e la sua crudeltà diventò proverbiale.

A tutti è nota la leggenda del toro di bronzo arroventato, che Perillo
dovette costruire per quel tiranno a fine di farvi morire dentro gli
stranieri e le persone a lui nemiche.

Il toro d'Agrigento e l'immagine del toro di Dedalo furon rimandati
a Creta e di poi alla vicina Cartagine, dove furono sacrificati degli
uomini nei fianchi del toro.

Che il toro di Falaride esistesse veramente lo afferma Diodoro. Egli
racconta: Himilkone lo ha spedito a Cartagine dopo la conquista di
Agrigento, ma Scipione, 260 anni dopo, in seguito alla distruzione di
Cartagine, lo ha ritornato agli Agrigentini.

Il toro di Falaride ha servito a Luciano per due dialoghi satirici,
dove egli fa comparire degli inviati del tiranno in Delfi i quali
portano come offerta al Dio quella macchina infernale, e il crudele
tiranno vi è presentato come un uomo giusto; egli, inoltre, per bocca
dei sacerdoti, fa comparire il dono del feroce come un'assai religiosa
offerta.

Non è facilmente possibile potere spingere più oltre la malignità
contro la Chiesa come Luciano ha fatto in questi suoi scritti.

Falaride fu potente e crudele, ma anche egli col tempo, circa verso
la metà del VI secolo a. C., si distinse a guisa degli altri tiranni
greci come uomo d'intelligenza, e visse nella compagnia di filosofi e
artisti.

Si raccontano di lui dei tratti di generosa magnanimità come la storia
di Menalippo e Cariton che ricorda quella Dionisia di Damon e Pitia, e
quella che viene ricordata dal famoso Stesicoro. Falaride, che aveva
assoggettate tante città, si alleò una volta con quelli d'Imera, a
patto che essi dovessero eleggerlo a loro capo e potersi così vendicare
dei loro nemici. A ciò si oppose Stesicoro: egli venne al popolo e
raccontò una favola. Un cavallo pascolava una volta, solo, in un campo;
venne il cervo, più forte, e lo cacciò via. Il cavallo andò per aiuto
dall'uomo e lo pregò di castigare il cervo. Bene, disse l'uomo, però tu
mi devi portare sul dorso. Il cavallo acconsentì, si vendicò così del
cervo con l'aiuto dell'uomo, ma portò per sempre il morso che questi
gl'impose e subì il suo dispotico dominio.

«Così, disse Stesicoro, volete somigliare anche voi al cavallo
della favola, o uomini d'Imera; voi dovete ben riflettere prima di
sottomettervi al giogo di Falaride». Gli Imeresi rifletterono, infatti,
e quindi abbandonarono ogni idea di alleanza col tiranno.

Però, poco dopo cadde il poeta in suo potere e gli fu condotto davanti.
Ma non gli fece alcun male, bensì gli offrì ospitalità e ricchi doni,
prendendo molto diletto a' suoi sapienti discorsi, e all'armonia dei
suoi canti, e lo licenziò quindi con ogni onore.

Assai importante appare l'influenza che i filosofi avevano sui tiranni
di Sicilia. Come nei tempi favolosi gli eroi erravano pel mondo per
distruggere i mostri, così più tardi i filosofi viaggiavano pel mondo
per liberarlo dai tiranni.

Il cómpito della filosofia è sicuro: liberare l'umanità da ogni
specie di tirannia, e questo scopo è chiaramente espresso nelle
antiche relazioni dei famosi viaggi compiuti dai Pitagorici e dagli
Eleusini. Vanno verso Falaride Demostene, Zenone di Elea e Pitagora per
ammonirlo, allontanarlo dalla tirannia, e rivolgerlo alla virtù. Nella
vita di Pitagora sono narrati i ragionamenti che un filosofo ebbe con
Falaride. Egli paragonò i cattivi e i buoni modi di vivere, gli scopi,
le capacità, le imperfezioni e le passioni dell'anima, rese manifesta
l'onnipotenza di Dio dalle sue opere, e convinse così l'incredulo
tiranno.

Egli non tacque del castigo che aspetta ai violatori della legge, e
parlò molto sul giudizio divino e sulla virtù, sulle vicende della
sorte e della bramosia degli uomini pel possesso e la sovranità.

Ai discorsi dei filosofi rispondeva così il tiranno geniale: «Per
la signoria è come per la vita. Nessuno vorrebbe nascere se sapesse
anticipatamente il martirio della vita, però appena si è nati non si
vuol più morire; così nessuno vorrebbe essere tiranno, se conoscesse
anticipatamente la pena che soffrono i tiranni; appena però lo si è
divenuti, non si può più cessare di esserlo».

Si ricordano le parole profonde che un siracusano rivolse a Dionisio.
Quando questi una volta era in dubbio se deporre la sovranità o no, uno
dei suoi amici gli disse: «O Dionigi, la tirannide è una bella veste da
morto!»

Il presente, così mi sembra, fa rivivere quei tempi della tirannide
con un esempio visibile nel ricordo: esso mostra che la natura umana è
eternamente la stessa. Quando si paragonano i due grandi periodi della
tirannide, la ellenico-sicula e la medioevale, che si equivalgono,
con l'apparizione della nostra giovane tirannide nei suoi intrighi e
nelle sue macchinazioni, si vede che nulla è nuovo sotto il sole. È
cessata solamente la vecchia libertà dei discorsi filosofici e i nostri
professori di filosofia adesso non fanno che creare o combattere dei
sistemi e delle chimere, che non hanno nessun potere sulla felicità dei
popoli.

Una favola dice che Falaride perdette la vita per una parabola di
Pitagora. Parlava una volta, il gran filosofo, alla sua presenza e
a quella dei cittadini della paura degli uomini davanti ai tiranni e
dimostrò come essa fosse senza fondamento con l'esempio dei colombi,
che, paurosi, fuggono davanti lo sparviero e invece potrebbero metterlo
in fuga se essi contro di esso coraggiosamente si volgessero.

Questo discorso infiammò un cittadino presente, che raccolse una pietra
e la gittò contro il tiranno: altri seguirono il suo esempio e così
Falaride rimase ucciso.

Altri raccontano che Zenone di Eleusi spingesse gli Agrigentini alla
rivolta contro di lui.

Il ricordo di Falaride si è mantenuto nel mondo e così notevole sembrò
quest'uomo all'antichità che gli si attribuirono centoquaranta lettere
morali e filosofiche, sulla autenticità delle quali però i dotti hanno
lungamente disputato.

Dopo la sua morte fu di nuovo innalzata la democrazia e a capo dello
Stato subentrarono due uomini saggi, Alkmener e Alkander, sotto il
potere dei quali la repubblica rifiorì e divenne così ricca, che i
cittadini cominciarono a portare abiti bagnati nella porpora.

La lussuria e la loro essenza geniale e sofistica sembrano essere state
principalmente causa della loro rovina.

Al tempo di Gerone di Siracusa, un uomo molto forte, Tirone, riuscì
a diventare il tiranno in Agrigento. Egli si era imparentato con
quel re e ambedue i capi siciliani si aiutavano nell'esecuzione dei
loro progetti. Cominciò allora il periodo di fioritura della Sicilia
dopo che i Cartaginesi presso Imera ebbero a soffrire una sanguinosa
sconfitta nell'anno 480. Il maggior numero di prigionieri cartaginesi
l'aveva fatto Agrigento, e parecchi cittadini tenevano nella loro casa
500 incatenati. Però il numero maggiore fu assegnato alla comunità,
dalla quale furono obbligati a trasportare le pietre che servirono a
fabbricare i tempî d'Agrigento, ed a lavorare nei canali sotterranei
che il celebre Faax aveva ideati. Oltre a ciò gli Agrigentini
costruirono una piscina per ingrassare dei pesci rari per le loro cene
raffinate; essa offriva anche un quadro pittoresco, così dice Diodoro,
perchè molti cigni vivevano nelle sue acque. Gli abitanti piantavano
inoltre su tutta la loro terra la vite e molti alberi da frutta.

La signoria di Tirone fu il periodo più splendido di Agrigento. Il
commercio e l'agricoltura resero assai ricca la città, che si arricchì
di belle opere architettoniche, plastiche e pittoriche; feste pompose
dilettavano il popolo e alla corte del mite signore si videro i
sapienti e i poeti dell'Ellade: Pindaro, Bacchilide, Eschilo furono
in Agrigento; quando una questione sorta fra Gerone e Tirone stava per
trascinarli alla guerra, si intromise per rappacificarli il gran poeta
Simonide. Pindaro inoltre compose i suoi canti olimpici di vittoria su
Tirone di Agrigento che aveva vinto col suo ardire, e magnificò nei
canti istmici Kenokrate Akragas come la più bella fra le città del
mondo.

Tirone regnò sedici anni. Quand'egli, nell'anno 472, morì, il popolo
gl'innalzò una bella tomba e gli rese gli onori degli eroi. Suo figlio
Trasidaos non gli somigliò; odiato dagli abitanti, fu scacciato e più
tardi giustiziato a Megara. Gli Agrigentini avevano abbattuto i tiranni
e avevano dato a tutta la Sicilia il segnale della liberazione dalla
tirannia.

Mentre, dunque, nelle città veniva esaltata la democrazia, Empedocle
in Agrigento dava una costituzione che assegnava uguali diritti tanto
all'aristocrazia, quanto al popolo.

Sembra che le basi politiche del gran filosofo fossero rappresentate
dall'eguaglianza di tutte le classi di cittadini; egli però si
considerò come un Dio, come vien riferito da lui stesso.

Vestiva di porpora e portava una corona d'oro sulla chioma lunga e
abbondante; quando usciva lo seguivano paggi graziosamente abbigliati.
Così lo descrissero gli antichi, come un eroe nel quale la natura
spiegò il suo più alto valore. Empedocle fu una delle figure più
fulgide nelle quali i Greci abbiano ammirato il genio; i biografi
postumi gli attribuirono la più alta coscienza della divinità del genio
umano.


La filosofia naturale della quale fu maestro Empedocle, non rimase
astratta in lui, ma l'applicò alla vita; e fu uno dei più grandi medici
dell'umanità. Egli aveva liberato i Selinuntini dalla peste, e così
meravigliose apparivano le sue guarigioni, che di lui si favoleggiò che
sapesse resuscitare i morti.

La medicina divenne così la scienza prediletta dei Siciliani: accanto
ad Empedocle troviamo il suo amico Pausania e il suo emulo Akrone di
Agrigento. Fu anche famoso più tardi, nella scienza medica Erodico,
fratello di Gorgia, e al tempo di Aristotile Menecrate di Siracusa.
Questi imitò la vanità di Empedocle, e di lui vengono narrate storie
assai amene. Non prendeva denaro per le sue cure, ma voleva solo che i
suoi pazienti si nominassero suoi schiavi. Aveva guarito, ancora, con
grande arte, due ammalati; essi dovevano seguirlo ovunque, chiamandosi
uno Ercole, l'altro Apollo; però egli era Giove! Una volta scrisse a
Filippo di Macedonia la lettera seguente:

«Menecrate Giove a Filippo, salute!

«Tu regni in Macedonia, io regno nella Medicina. Tu puoi far morire
quelli che stanno bene, io posso assicurare gl'infermi di vivere sani
fino alla vecchiaia, se essi mi ubbidiscono. La tua guardia del corpo
è di Macedoni, la mia di quelli che ho guarito. Poichè io, Giove, ho
ridato la vita!».

Rispose il re:

«Filippo augura a Menecrate cervello sano. Ti consiglio di fare un
viaggio a Anticyra».

Anche Plutarco racconta che ad una lettera di Menecrate ad Agesilao di
Sparta, questi in simil guisa rispondesse:

«Il re Agesilao alla sanità di Menecrate».

Si scorge già, come alla scienza naturale, della quale la Sicilia era
la patria, cominciasse ad unirsi la ciarlataneria, come alla filosofia
cominciasse ad unirsi la sofistica. La Sicilia, patria dei sofisti,
era anche la patria dei ciarlatani, e anche oggi questa regione è
caratterizzata in diversi modi da menti sofistiche e dal ciarlatanismo,
ed io credo che non perderà mai questi caratteri, essendo i prodotti
della sua natura vulcanica.

Empedocle preludiava già alle storie magiche e meravigliose dei tempi
seguenti. Intorno alla sua morte la leggenda futura distese una luce
favolosa, come per il famoso Apollo di Tyana e per molti altri semidei
e profeti cristiani. Si racconta che egli abbia richiamato in vita una
donna già morta e che sia quindi andato con molti amici nella villa di
Peisanax per fare dei sacrifici. Quando essi al mattino si svegliarono,
si accorsero che mancava Empedocle. Se ne domandò agli schiavi, dei
quali uno solo potè riferire che aveva sentito gridare nella notte da
una voce soprannaturale il nome di Empedocle. Quando egli si svegliò
vide una luce celeste, un chiarore di fiaccole e poi nulla più.

Così Empedocle fu subito collocato fra gli dei. Secondo un'altra
leggenda, il filosofo salì sull'Etna e si precipitò nel cratere. Il
monte poi rigettò una delle sue scarpe. Si dice che Empedocle abbia
scelto questa morte dopo che i Selinuntini gli avevano tributato onori
divini, per rafforzare in loro la credenza ch'egli fosse un dio.

Ciò non pertanto, secondo quanto dice Diogene, egli morì nel
Peloponneso.

Gli Agrigentini gli eressero una statua che i Romani più tardi
portarono a Roma e posero davanti la Curia.

La temperata democrazia che aveva introdotta Empedocle si mantenne a
lungo in Agrigento.

Però il carattere della città aveva molte somiglianze con quello di
Sibari e di Taranto.

Avversi alle imprese guerresche, gli Agrigentini si mantennero neutrali
anche nelle guerre fra Siracusa ed Atene. La loro lussuria era senza
limiti. Fabbricavano, dice di loro Empedocle, come se dovessero vivere
in eterno, e banchettavano come se dovessero morire il giorno dopo.

In tutto il mondo fu famosa «la opulenza della mensa agrigentina».
Diodoro ci informa della vita d'Agrigento poco tempo prima della
distruzione di questa città, e possiamo quindi farci un concetto vivo
della ricchezza e della mollezza de' suoi cittadini. Possedevano
eccellentissimi cavalli, che erano rinomati in tutta l'Ellade. Non
solo s'innalzavano loro dei monumenti funerari, ma perfino ai piccoli
uccelli tenuti in casa da ragazze e da paggi.

Quando un _Exanctos_ aveva vinto nella corsa dei carri, lo si conduceva
in città con 300 coppie di bianchi cavalli, tutti di Agrigento.

La ricchezza dei cittadini era straordinariamente grande.

Antistene festeggiò le nozze di sua figlia dando un banchetto a tutto
il popolo nelle strade; la sposa fu accompagnata da 800 carri e molti
cavalieri; alla sera suo padre organizzò un'illuminazione con i mezzi
possibili in quel tempo. Fece ricoprire le are di tutti i templi con
della legna e in un attimo, quando sulla rocca fu acceso un fuoco,
tutti quelli si accesero. Si divertivano facilmente e già fin d'allora
amavano le illuminazioni, come oggi nel sud d'Italia, dove la passione
per i fuochi d'artificio produce tanto stupore nella gente del Nord.

Così ricco come Antistene era Gellia. Considerava tutti gli amici come
suoi ospiti. Lo stesso facevano molti altri in Agrigento; secondo
un vecchio uso invitavano chiunque. Perciò dice Empedocle della sua
patria: che fu «una porta sacra per gli ospiti, lungi restando la
falsità».

Una volta, imperversando un temporale, vennero ad Agrigento, da Gela,
500 cavalieri. Gellia li prese tutti con sè e diede ad ognuno del suo
guardaroba un doppio vestito. Nella sua cantina aveva 300 anfore di
pietra, delle quali ognuna conteneva 100 barili; accanto ad esse vi era
un tino della capacità di 1000 barili, dal quale il vino colava nelle
anfore.

Si può arguire da ciò la magnificenza delle case e lo splendore dei
banchetti. Gli uomini — dice Diodoro — si abituavano fin dall'infanzia
al lusso; portavano abiti e ornamenti preziosi, amavano specialmente i
pettini per la chioma e le fiale d'oro o d'argento per profumi. Molto
meglio rivela la mollezza degli Agrigentini l'ordinanza emessa al tempo
dell'assedio della città fatto dai Cartaginesi, la quale ordinanza
prescriveva ad ogni sentinella di non portare più di un materasso, una
coltre, una coperta e due origlieri.

Chi può biasimare questi uomini se, sotto un cielo bellissimo, fra
le voluttuose dovizie della natura, ricchi di sapienza e di cultura,
Elleni e cittadini liberi, trascorrevano in gioie la vita così fugace?
Ma chi può compiangerli e meravigliarsi se questa città, la cui
popolazione era di circa 800,000 uomini soggiacque in poco tempo ai
Cartaginesi?

Vi sono pochi avvenimenti nella storia che dimostrano la incostanza
delle cose umane in modo così schiacciante come la improvvisa caduta di
Agrigento.

Dopo la sconfitta degli Ateniesi davanti Siracusa, la città di Segesta
aveva chiamato in aiuto i Cartaginesi. Erano comparsi essi in grandi
forze nel 409 condotti da Annibale figlio di Giskone e avevano già
distrutto Selinunte e Imera.

Siracusa, che non vedeva con dispiacere la caduta di queste città, non
si affrettò a salvare Agrigento e Gela, e perciò quel tempo è il più
ignominioso degli Elleni di Sicilia; esso offuscò la fama dei Greci nei
turpi vizi, dei quali, come in tutti gli altri popoli del Sud, maggiore
fu l'ira di parte.

Nel 406 soltanto tornarono i Punici con forze novelle.

Gli Agrigentini, che avevano a temere i loro primi assalti, assoldarono
lo spartano Dexippo con 1500 uomini e chiamarono pure dei mercenari
campani.

Annibale e Imilcone accamparono davanti la città, ad ovest del colle
di Minerva, da ogni parte e al di là dell'Akaragas; fecero costruire
un baluardo, facendo distruggere all'uopo i monumenti funebri. Cadde
però il fulmine sulla tomba di Tirone, la peste scoppiò nel campo e
colpì lo stesso Annibale: questi cattivi presagi gettarono un panico
superstizioso nell'esercito.

Imilcone proibì allora la distruzione delle tombe, offrì al Moloch, in
espiazione, un ragazzo e per Poseidone fece affondare nel mare molti
animali.

Mentre i Cartaginesi investivano Agrigento, i Siracusani mandavano in
suo soccorso il loro generale Daphnaus con truppe.

Egli battè gli Africani che gli si fecero contro e Agrigento sarebbe
stata salva se i suoi corrotti generali avessero fatto una sortita
dalla città. Ma essi invece fecero il possibile perchè il nemico
si mettesse in salvo nel suo campo. Il popolo sollevatosi lapidò i
traditori.

Avendo Daphnaus bloccato i Cartaginesi, questi videro sorgere il
pericolo di morir di fame. Però il caso li aiutò, giacchè le navi
cartaginesi catturarono il carico di grano che doveva approvigionare
Agrigento. I cittadini avevano usato con prodigalità dei viveri,
anzitutto perchè non abituati alle privazioni e perchè poi si cullavano
nell'idea della prossima fine dell'assedio.

Fu consumata presto la provvisione dei viveri. Però non questo bisogno,
ma la mancanza di forza difensiva propria abbattè la città; i mercenari
la tradirono.

Prima disertarono al nemico i Campani, sotto pretesto che era scaduto
il loro tempo di servizio; si allontanarono poscia anche Dexippo e
Daphnaus. Agli Agrigentini allora mancò l'animo. I loro capi, dopo
essersi assicurati che i viveri erano finiti, comandarono al popolo
di abbandonare, tutti insieme, nella notte seguente la città. Avvenne
l'inaudito; così presto si scoraggiò questo popolo numeroso che esso,
invece di tentare tutto il possibile, come più tardi fecero Siracusa
e Cartagine, si coprì dell'onta di abbandonare al nemico la fortissima
città con tutti i suoi tesori. Venuta la notte, uscì il popolo: uomini,
donne, fanciulli, empiendo l'aria di grida di dolore. Tanta era la
paura e così vile l'animo loro, che non si curarono dei congiunti
ammalati e dei vecchi deboli.

Molti cittadini però rimasero e si diedero la morte per perire almeno
nella dimora dei loro padri.

La folla del popolo si avviò verso Gela con una scorta di armati, e si
videro le ragazze educate tanto mollemente, camminare a piedi.

Nella deserta città entrò Imilcone dopo 8 mesi di assedio. Quelli
che vi erano rimasti, furono trucidati. Si dice che il ricco Gellia,
rimasto in vita, si nascondesse nel tempio di Atena e quando vide che
gli Africani non risparmiavano nemmeno gli Dei, incendiò il tempio e
perì con le sacre offerte.

Il bottino d'Agrigento, che non era stata mai conquistata da nessun
nemico e che, secondo l'affermazione di Diodoro, era allora la più
ricca città ellenica, dovette essere stato immenso. Imilcone mandò
le opere d'arte più preziose a Cartagine, che poi caddero nelle mani
dei Romani. Fece quindi devastare Agrigento e bruciare i templi.
Tracce d'incendio si vedono ancor oggi in parecchi architravi. E dopo
che i Punici vi ebbero svernato, Imilcone distrusse completamente la
città. Come racconta Diodoro, fece infrangere tutte le opere d'arte
dei templi, ritenendo che il fuoco non le avesse sufficientemente
annientate. La cultura subì allora una perdita inestimabile, proprio
nel fiorire del tempo di Pericle; avendo inoltre molte altre guerre
devastatrici funestata la Sicilia, il suolo dell'isola è rimasto assai
impoverito. I popoli che distrussero la Sicilia greca, il Cartaginese
e il Romano, erano egualmente barbari.

Questo terribile destino aveva colpito Agrigento nell'autunno dell'anno
406 prima della nascita di Cristo e d'allora in poi la città non si
sollevò, sebbene una nuova popolazione vi si stabilisse. Corinzio la
popolò con una colonia nell'anno 341, sicchè a poco a poco si rialzò.
Essa persino si sollevò durante la tirannide di Agatocle di Siracusa,
mentre questi era occupato nel suo strano viaggio in Africa allo scopo
di assoggettarsi tutta la Sicilia. Però il piano fallì e Agrigento
cadde di nuovo in potere degli Africani.

Sorse in seguito, come tiranno, Finzia, un nuovo Falaride. Gli
Agrigentini lo cacciarono via e si diedero a Pirro di Epiro, la cui
signoria fu però assai breve. La città divenne di nuovo cartaginese ed
anzi una delle loro piazze principali, nella guerra contro i Romani;
essi mantennero questa città ancora dopo la caduta di Siracusa. Nella
prima guerra punica fu di nuovo in Agrigento un figlio di Annibale,
Giscone con 50,000 uomini.

I consoli L. Postumio e Q. Emilio circuirono Agrigento con 100,000
uomini, dove Annibale si difendeva accanitamente. Avendo però
Annibale fatto una sortita per liberarsi, ed essendo stato battuto, i
Cartaginesi furono sloggiati dalla città. I Romani l'avevano assediata
per 7 mesi, e quando vi entrarono, massacrarono il popolo con accanito
furore e lo trattarono più iniquamente di come i Punici avevano
fatto una volta. I cittadini rimasti in vita furono tutti tratti in
schiavitù (262 a. C.). Non molto tempo dopo però ricadde Agrigento
in potere del generale cartaginese Cartalus che fece distruggere e
incendiare l'infelice città. Quando cadde Siracusa si trovavano ancora
in Agrigento Epecide, Annone e Mutines contro Marcello. Mutines fu
un Punico d'Ippona, che aveva spinto il grande Annibale in Italia;
egli ottenne dei brillanti successi comandando la cavalleria, sì che
tutta la Sicilia era piena del suo nome. Annone invidioso, gli tolse
il comando e Mutines, per vendetta, cedette Agrigento ai Romani. Notte
tempo aprì le porte della città al console Lavinio. Annone ed Epecide
ebbero appena il tempo di salvarsi su di una barca. Coll'usata ferocia
i Romani punirono Agrigento, i maggiorenti della città furono uccisi,
i rimanenti furon venduti come schiavi.

D'allora la bella città di Empedocle e di Tirone si perdette nella
storia.

Al tempo degli Elleni si distinse per nobili intelletti. Le diedero
lustro Empedocle, Pausania, Acrone il filosofo, oratori e medici,
Proto scolaro di Gorgia, Dinoloco lo scrittore di commedie, Phaas
l'architetto, Metello il maestro di Platone, nella musica, Fileno
lo storico e ancora nel tempo della miseria, quando Verre rubò alla
decaduta Agrigento gli ultimi tesori che la grazia dello spogliatore di
Cartagena gli aveva lasciati, onorò la sua patria Sofocle, difendendola
davanti ai Romani contro quel ladro.

Si può supporre che Agrigento, prima delle ultime conquiste si sia
limitata al Kamikus, dove sta anche oggi, da 2000 anni durevole nella
miseria come nello splendore. Nell'anno 825 la presero i Saraceni, i
successori dei Punici provenienti dalle stesse terre. Il loro ultimo
emiro, Kamul, vi fu sconfitto nel 1106 dal conte Ruggiero. D'allora
Agrigento diventò feudo di nobili famiglie cadendo sempre più in basso,
arrivando ad una popolazione di soli 16,000 abitanti.

Passando sul colle di Minerva si raggiunge quella fila di templi
che stanno sul confine meridionale delle mura della città. La loro
vista sullo sfondo del mare Libico, quando il sole ardente illumina
le loro pietre gialle e fa sfavillare le colonne potenti, è ancor
oggi incantevole; e fa pensare quanto stupenda dovesse essere
nell'antichità.

Il bel tempio di Giunone Lucina è il primo della serie. S'innalza su di
un piccolo colle, ed è a metà distrutto; soltanto da una parte esistono
ancora le sue 13 colonne doriche che sostengono l'architrave.

Sul prospetto solo due colonne stanno ancora in piedi, con un pezzo
dell'architrave; alle rimanenti mancano i capitelli, o sono abbattute
e spezzate. Il tempio giace sopra un alto ripiano di quattro gradini.

Era circondato da 34 colonne doriche con 20 scannellature; di esse
13 stanno ai lati e sei nel prospetto. Le colonne hanno cinque palmi
di diametro e un'altezza di circa cinque metri. I loro capitelli sono
scolpiti con eleganza ed armonia.

Disgraziatamente nulla è rimasto del frontone e del fregio. Nelle
rovine si notano tracce d'incendio. Lo storico Fazello fu il primo
che diede a questo, come agli altri templi, il nome, perchè prima si
chiamava la «Torre delle pulselle».

Secondo Plinio, Zeusi dipinse per esso il celebre ritratto di Giunone e
per modello gli Agrigentini misero a sua disposizione cinque delle più
belle fanciulle della città. Cicerone però riporta lo stesso episodio
pel quadro di Elena, nel tempio di Giunone a Crotone.

Dai gradini del tempio si abbraccia benissimo il circuito dell'antica
città.

Vicino a chi guarda si ergono le mura meridionali, formate dalla rupe
naturale, come si vede anche in qualche punto dell'antica Siracusa,
dove l'a picco di una rupe servì di muro. Molte tombe, colombari,
nicchie e sepolture rotonde si scorgono nel muro.

Anche il tempio della Concordia sorge su di una collina, in mezzo ad
un pittoresco insieme di rovine e di fichi d'India. È completo fino al
tetto, che manca con le due fronti e tutte le colonne. Anch'esso posa
su quattro gradini ed ha 34 colonne.

Non distrutto dai Cartaginesi, ha sfidato vittoriosamente il tempo e
nel medioevo, essendo stato trasformato in chiesa, se ne impedì così il
suo deperimento. Quando nel secolo XV si fece della cella una cappella,
si introdussero nelle pareti laterali i due archi che rimangono
ancor oggi. In seguito, la chiesa fu abbandonata, e nell'anno 1748 il
principe di Torremuzza restaurò il tempio. Fazello gli ha dato il nome
di Concordia, con la quale non ha che fare nessuna divinità dorica. Fra
tutti i templi italiani e siciliani, nessuno ha conservato la cella
così intatta come questo; le scale che conducono dalla sua entrata
orientale sul tetto sono rimaste intatte in ogni loro parte.

Senza dubbio è il più completo dei templi siciliani, poichè quello
di Segesta rimase incompleto, non scorgendosi in esso il minimo
indizio di cella. Le colonne maestose, i capitelli colossali, le belle
proporzioni dell'architrave che ha preservato gli ornamenti del suo
triglifo, la grandezza semplice dell'architettura, offrono il più puro
godimento estetico. La costruzione dorica è certamente la più bella
dell'antichità, certo non apparisce inferiore alla plastica e alla
poesia, la cui forza e la cui purezza viveva nell'anima del popolo
greco, che fu capace di trovare quelle semplici leggi architettoniche.
Guardando un tempio dorico non si può fare a meno di ricordare in
quali grandi e semplici ritmi si è sviluppata la vita dei Greci,
se l'intero modo di sentire nazionale, che quel popolo espresse nel
modo più originale ed evidente nell'architettura religiosa, si potè
rappresentare in simil guisa.

Noi comprendiamo benissimo quest'armonia, che è così semplice come una
relazione fondamentale geometrica; però ancora non possiamo afferrare
l'intero senso della sua intima connessione coi costumi del popolo. Io
son persuaso che il duomo cristiano di Monreale (Palermo) sia il più
bel contrapposto a questo tempio della Concordia.

Se la Sicilia non avesse altro che questi due edifici, monumenti
di due grandi culture, rimarrebbe sempre una terra meravigliosa. Il
tempio dorico è l'effigie vivente del tenace ordinamento del mondo
greco e delle sue tragiche necessità; il caso, e tutto il fantastico è
escluso da questa prima forma; nessun principio pittorico predominante
vi signoreggia, non v'è ancora il lusso del disegno, nè il giuoco di
diverse figure.

Il terzo tempio è quello di Ercole, un tempo il primo d'Agrigento, oggi
una massa gigantesca di rovine che giacciono fieramente accavallate.
Una sola colonna scannellata si erge da quel caos. Si contemplano con
stupore quei blocchi di pietra, quei bellissimi capitelli, le rovine
dell'architrave, che hanno conservato tutti le tracce della loro
coloritura purpurea, e quei pezzi di colonna scannellata che giacciono
miseramente all'intorno simili a gigantesche pietre molari, sepolti per
metà nel terreno e coperti da piante incolte. Questo tempio, vicino
all'Olimpion, era il più grande della città e aveva fama mondiale:
il suo porticato aveva 38 colonne doriche, di cui 6 sulla larghezza e
15 per la lunghezza, numerando pure le colonne degli angoli. Il loro
diametro era di 8, 5, 10 palmi, la loro altezza col capitello poco più
di quattro metri.

Vivaci colori, il rosso, l'azzurro, il nero e il bianco, ornavano
l'architrave; il fregio era munito di teste di leoni nella scanalatura,
e di decorazioni floreali. Serradifalco calcolò la lunghezza del tempio
in 259,2,8 palmi e la larghezza in 97,10,6. La cella era ipatrica.
In essa sorgeva l'_Ercole_ di Mirone, in bronzo; Cicerone narra che
la base di questa statua del dio era levigata per i molti baci di
coloro che venivano a pregare nel tempio. Oggi possiamo fare la stessa
osservazione in S. Pietro a Roma, dove i baci dei cattolici hanno
consumato il piede del _S. Pietro_ di bronzo.

Si può rimproverare al tempo e agli elementi la distruzione delle
opere d'arte, se gli stessi lavori in bronzo sono così vergognosamente
baciati?

Questa singolare analogia di costumi non è del resto l'unica comune al
paganesimo ed alla Chiesa cattolica.

Il magnifico _Ercole_ svegliò le brame di Verre, che decise di
rubarlo, dal momento che gli Agrigentini non glielo volevano cedere.
In una notte tempestosa fece forzare il tempio da schiavi armati;
essi vi erano già penetrati e stavano per togliere il bronzeo dio dal
suo posto, dov'era saldamente piantato, quando il popolo corse alla
loro volta. «Non vi fu nessuno in Agrigento, così dice Cicerone, che
per quanto debole per vecchiaia, o indebolito, che in quella notte,
spaventato da quella notizia, non si sollevasse e prendesse un'arma.
L'intera città affluì in poco tempo al tempio». I ladri furono
inseguiti e non portarono con sè che due soli quadri. I Siciliani
crearono un motto sul mal riuscito tentativo di furto, dicendo: «Fra
le fatiche di Ercole si dovrebbe cantare da oggi la sconfitta di quel
mostro di Verre».

Nello stesso tempio dovette sorgere l'_Alkmene_ di Zeusi, che riuscì
così meravigliosamente bene, che il pittore non si accontentò di nessun
prezzo e volle dedicare il quadro alla deità. Nell'anno 1836, sotto le
macerie si trovò la statua di Esculapio, senza testa, ora esposta nel
museo di Palermo.

Continuando, arriviamo alle rovine del più famoso dei templi siciliani,
una delle opere più grandi dell'antichità, l'Olimpion. Fu fabbricato
dopo la vittoria presso Imera e nello stesso tempo che sorgevano
il tempio di Giove a Selinunte, il Partenone ad Atene, il tempio
di Zeus in Olimpia, il tempio di Giunone in Argo, mentre cioè in
tutti i paesi ellenici si generalizzava la perfezione dello stile
dorico. Gli Agrigentini avevano condotto appena a termine l'immenso
edificio, e mancavagli solamente il tetto, quando scoppiò la guerra coi
Cartaginesi, e la conseguente distruzione della città rese impossibile
il suo completamento.

Imilcone saccheggiò l'Olimpion, ma benchè i barbari devastassero
l'interno, non potevano che difficilmente pensare ad abbatterlo, data
la grandezza e la saldezza della costruzione. Colpisce il carattere
della sua architettura, giacchè non aveva peristilio con colonne
isolate, ma era attorniato da pareti con mezze colonne. Polibio vide
ancora intatto il meraviglioso edificio, e tale si conservò fino al
medioevo, andando però sempre più in rovina per le ingiurie del tempo
e per i terremoti; e fu anche danneggiato dalla barbarie di coloro che
usavano le sue pietre quadre come materiali da costruzione, fino a che
gli ultimi resti che si reggevano in piedi, precipitarono a terra.
Così racconta Fazello, che ritrovò il tempio e che aveva saputo del
tempio e del suo nome dai ricordi del popolo: «Sebbene ciò che rimane
del fabbricato sia caduto nel corso dei tempi, un pezzo però rimase
molto tempo in piede appoggiandosi a tre giganti e ad alcune colonne.
Ciò è ricordato ancor oggi nella città di Girgenti ed anzi lo han posto
nel loro stemma. Però, anche questo pezzo cadde per la incuria degli
Agrigentini nel 9 dicembre 1401». Un poeta contemporaneo cantò questa
caduta di ruderi nei seguenti rozzi versi leonini, dei quali riportiamo
la traduzione libera subito appresso, come quella che spiega la ragione
dello stemma di Girgenti:

    Ardua bellorum fuit gens Agrigentinorum
    Tu sola digna Siculorum tollere signa
    Gigantum trina cunctorum forma sublima.
    Paries alta ruit, civibus incognita fuit.
    Magna gigantea cunctis videbatur ut dea.
    Quadricenteno primo sub anno milleno
    Nona decembris deficit undique membris.
    Talis ruina fuit indictione quinquina.

    Possente sempre fu in guerra la valorosa gente degli Agrigentini.
    Tu sola degna veramente fra tutti i popoli siculi di elevare
    Nello stemma il trino segno de' Giganti, portentosi per forma fra
        tutti.
    Ruinò a terra l'altissimo muro, ed i cittadini più non l'ebbero in
        cura.
    Parve a tutti la mole gigantesca della statua essere una divinità.
    Nell'anno quattrocento uno dopo l'anno millesimo.
    Nel nono giorno di dicembre cadde il monumento da ogni parte.
    Tale ruina ebbe luogo correndo la quinta indizione.

Girgenti continua a portare sul suo stemma i tre giganti e le rovine
dell'Olimpion, dal popolo chiamate col nome di «Palazzo dei Giganti».

Oggi del gran tempio non resta altro da vedere che la sua pianta, che
si è potuta formare per l'assetto dato alle rovine, e la sua grandezza
mette stupore.

Ai lati si è formato un argine di macerie coperto di piante selvagge;
alcuni olivi hanno messo radici fra le rovine. La massa maggiore è
dalla parte di ponente, dove i pezzi giganteschi sono ammucchiati gli
uni sugli altri, e sotto vi sono dei frammenti di colonne nelle cui
scannellature un uomo trova comodamente posto. Però, per quanto questo
ammasso sia grande, appare piccolo in rapporto al tutto, e fa anzi
ritenere che la maggior parte del materiale sia stato portato via.

Con le pietre quadre di uno di questi templi fu costruito, al tempo di
Carlo III, il molo attuale di Girgenti. Nel mezzo del pavimento libero,
vi è disteso uno di quei giganti che servivano da cariatidi. È formato
di varî mazzi di tufo calcareo conchiglifero, uniti l'uno all'altro.

La testa gigantesca, a causa delle intemperie e della caduta, è
informe, ha capelli inanellati e un berretto frigio; le braccia sono
sollevate in alto per sostegno, come nelle cariatidi.

La statua è lunga quasi 30 palmi e rivela molto bene lo stile egiziano,
finendo in punta al basso, e tiene i piedi uniti. Ricorda perciò i
giganteschi monumenti di pietra di Menfi e di Tebe; e quella figura di
gigante dalla forma strana appare come il dio stesso che si sia posto a
dormire l'ultimo sonno sotto le rovine del suo tempio, e nè terremoti,
nè lotta di elementi, nè lo strepito della storia del genere umano lo
possono svegliare. Diodoro ha descritto la meravigliosa costruzione. I
templi sacri, e specialmente quello di Giove rivelano la bellezza della
città in quel tempo. Tutti gli altri sono bruciati o distrutti, perchè
Agrigento fu spogliata diverse volte. L'Olimpion rimase senza tetto,
perchè in quel mentre sopravvenne una guerra. Dopo la distruzione della
città, gli Agrigentini non vi tornarono per completarlo.

È lungo 340 piedi e largo 60 (secondo Winkelmann dev'essere 160) alto
120 senza le fondamenta. È il più grande di Sicilia e a cagione della
robusta costruzione può anche mettersi a paro di quelli forestieri.
Benchè l'edificio sia incompiuto, la sua pianta è chiara. Mentre in
altri la casa del tempio è circondata da sole pareti o attorno alla
divinità da colonne, questo ha ambedue i sostegni. All'esterno sono
poste delle colonne in giro alle pareti, nell'interno del tempio sono
quadrangolari. La parte esterna delle colonne, le cui scannellature
sono così larghe da potervi stare un uomo, ha una circonferenza di 20
piedi, quella interna 12 piedi. Nel frontone dalla parte di levante
era rappresentata la lotta dei giganti in bei rilievi, e dalla parte
di ponente la presa di Troia. Le figure sono conformi al carattere
di ogni protagonista. Le rovine e le fondamenta dell'Olimpion
sono sufficientemente autenticate dalle indicazioni di Diodoro. Il
tempio posava sopra cinque gradini come sopra un piedistallo ad esso
proporzionato; aveva una lunghezza di 417 palmi e una larghezza di 203.
Fu l'unico della specie dei pseudoperipteri; lo circondavano delle mura
nelle quali erano incastrate 14 mezze colonne scannellate, di grandi
proporzioni.

Alle mezze colonne all'esterno corrispondevano dei pilastri quadrati
all'interno. Dalla parte di levante, dove in altri si praticava
l'entrata del tempio, Serradifalco contò il numero dispari di 7 mezze
colonne, disposizione questa veramente fuori del comune.

Egli è d'opinione che l'entrata fosse dalla parte di levante e
l'architetto avesse tolto la colonna dispari del centro per avere
la porta da quella parte. Benchè la larghezza di essa nei templi
dorici fosse ordinariamente più grande del doppio intercolunnio,
l'architetto si ingegnò in quel modo, non interessando tale regola pel
pseudoperiptero.

L'interno era diviso in tre parti, nel senso della lunghezza, per
mezzo di due file di pilastri, uniti con dei muri, sicchè il centro
veniva destinato alla cella e le ali servivano da peristilio. Non si è
potuto sapere dove erano collocati quei giganti, dei quali alcuni hanno
aspetto femminile, con i lunghi capelli; se addossati ai pilastri o
attorno alla cella. Non essendo rimasto altro dei grandi rilievi del
frontone che dei frammenti rovinati, così l'unico resto di scultura
dell'Olimpion è dato da tale cariatide.

È molto da rimpiangere la perdita di quelle sculture, perchè se si
fossero conservate, sarebbero state insieme con la metope di Selinunte
un grande acquisto per la storia dell'arte. Il caso forse potrà far
rinvenire qualche loro resto.

Tornando verso il tempio d'Ercole, in prossimità del taglio praticato
nelle mura, si scorge la tomba di Tirone. È un monumento quadrangolare
di blocchi calcarei, costituito di due costruzioni sovrapposte: la
sottostante non è cementata, è divisa da un cornicione dalla superiore,
la quale finisce in una piattaforma e chiude il monumento. In ogni
angolo è una colonna scannellata con capitelli ionici e basi attiche.

Verosimilmente questo edificio è un cenotafio del tempo dei Romani,
e possono anche aver ragione coloro che sostengono, sia stato il
monumento di qualche cavallo.

Non lungi, verso sud e presso il mare, sono le rovine del tempio
d'Esculapio dove una volta era l'_Apollo_ di Mirone, che Imilcone portò
a Cartagine, e Scipione ridonò agli Agrigentini, e che Verre finalmente
rubò.

Sono questi i resti dell'antica Agrigento che si trovano fuori le mura.
La lunga linea di templi che vi sorgono deve aver offerto altra volta
uno splendido panorama a quelli di Eraclea, cioè a quelli che venivano
dal mare, che percorrevano prima gli ubertosi campi e vedevano poi al
di là delle mura i templi, i sacri protettori della popolosa città, che
copriva le colline con le sue strade e con i suoi splendidi edifici,
e che finiva da una parte col tempio di Minerva sulla rupe più alta,
a levante, e a ponente con l'Acropoli. Fino alle più piccole rovine
di questa città interna sono scomparse. Il suolo è coperto ovunque di
vigneti, e fra di essi vengono tirate fuori continuamente monete, vasi
e altre antichità.

Quasi nel centro dell'antica area della città sorge la villa del
Ciantro Panisseri, al quale appartengono alcune antichità. Nei
dintorni si mostra il cosiddetto oratorio di Falaride, cosa che non
può mettersi in relazione con quel tiranno. Il piccolo edificio è di
forma oblunga, con basi attiche e capitelli dorici ed è senza dubbio di
origine romana. I monaci di S. Nicola lo hanno mutato in una cappella
cristiana.

Nel piccolo museo del pittore Politi di Girgenti si trova il modello
dell'Olimpion, secondo le indicazioni di Diodoro e dei moderni
archeologi; esso dà una chiara idea dell'edificio, la cui grandezza
per altro viene ad essere molto chiaramente dimostrata dall'estensione
delle pareti che lo limitano. Però le colonne, non essendo state
isolate, gli dovettero togliere la sveltezza e la bellezza che ha
l'Olimpion di Selinunte, il più splendido fra i templi siciliani,
appunto perchè le sue colonne sono isolate.

Come le mezze colonne o le colonne addossate alla parete nuocciano
all'effetto dell'edificio, si può vedere oggi nella pomposa facciata
di S. Pietro, le cui colonne doriche per poco sono inferiori di mole a
quelle di Selinunte e di Agrigento.

Le proporzioni dell'Olimpion di Selinunte, che del pari non fu portato
a completamento sono, secondo Serradifalco: lunghezza 425,2, larghezza
192,6 palmi. Diametro delle colonne circa 13 palmi, e un'altezza
straordinaria di 68,2 palmi, 8 colonne di prospetto e 17 ai lati. Se
si immagina un tale edificio perfettamente completo, non ve n'è nessuno
che gli si possa paragonare.

Il tempio di Zeus in Olimpia era lungo solo 278 palmi, il tempio di
Diana di Efeso 445, quello di Apollo di Didna 407, il tempio di Nettuno
a Pesto 242 di lunghezza e 165 palmi di larghezza, il gran tempio di
Edfu in Egitto era lungo 378.

Al disopra dell'Olimpion, verso ovest, sorge l'assai pittoresco
resto del tempio di Castore e Polluce; chiamato così da Fazello e
giacente in terra fino a poco tempo fa. Le quattro colonne principali
col frontone sono state trovate da Serradifalco e Cavallari fra le
macerie e felicemente rimesse in piedi. Sono doriche, scannellate e
coperte di stucco bianco. Il tempio aveva 13 colonne in lunghezza e 6
in prospetto. Trovati i singoli pezzi di questo bell'edificio ridotto
in rovina, si poterono mettere insieme in modo che fosse chiaro il
carattere dell'insieme. Era policromo, e nell'architrave si vedono
ancora dei resti di pittura. Il fregio è un lavoro molto grazioso,
delle teste di leone sono poste nelle gronde.

Serradifalco ritiene il tempio greco senza dubbio, però con ristauro
romano.

L'ultimo monumento della serie meridionale è verso ovest ed è il
cosidetto tempio di Vulcano.

È l'unica cosa antica fra il Kamicus e le mura meridionali della città,
giacchè nella città non si presenta più nulla d'antico, eccettuati
i cosidetti resti del tempio di Zeus Polieus, sulle cui fondamenta è
stata innalzata la chiesa di S. Maria dei Greci. Scendendovi con delle
fiaccole, si vedono ancora alcuni gradini e pezzi di colonne doriche.

Però un tesoro raro contiene la cattedrale, un vistoso edificio sul
Kamicus.

Vi serve da fonte battesimale il famoso sarcofago, i cui bassorilievi
rappresentano delle scene della _Fedra_ di Euripide. I musei romani
sono ricchi di sarcofaghi degni di nota, però generalmente i loro
bassorilievi, fatti nel tempo post-ellenico curano più il contenuto di
ciò che viene rappresentato, che la bellezza dell'esecuzione.

Invece nel sarcofago di Agrigento lo scultore gareggia col poeta, e
difficilmente si sarebbe potuto rappresentare con maggior commozione la
scena della tragedia nella quale Fedra cade in deliquio.

È nota la predilezione dei Siciliani per Euripide, i cui versi
bastavano per fare andare in estasi i Siracusani, e dopo la sconfitta
di Nicia molti prigionieri ateniesi ebbero la libertà, perchè
declamavano quei versi.

Si deve aggiungere che questo sarcofago è opera d'arte siciliana. Il
valore dei rilievi dal punto di vista artistico è ineguale; sembra
che l'anima dell'artista non sia stata divisa egualmente in ogni
parte. Come in pochi altri sarcofaghi, l'azione qui è rappresentata in
una successione bene sviluppata; comincia con la caccia d'Ippolito,
sulla quale anche Euripide fonda l'odio di Venere. Il bel garzone è
a cavallo con la lancia confitta nel cignale attorniato dai cani. Tre
altri cacciatori vi partecipano con mazza, spiedo e pietre. Un quarto
trascina un cane. Tra i fogliami si osserva il _cactus_ siciliano (fico
d'India). Segue la seconda scena sul lato minore destro, culmine e
anima di tutto, con un rilievo della massima bellezza e leggiadria. Vi
è Fedra seduta sulla sedia, di classico aspetto, d'espressione ideale;
la balia è dietro di lei che la copre; un'ancella tiene abbassato il
suo braccio destro, il sinistro fa atto d'impedire ad Eros, mentre
questi punta la sua arma.

L'artista ha espresso magistralmente la causa del malanno, l'affanno
d'amore e la lotta morale nell'animo di Fedra, il cui ritratto è il
più splendido come riuscì ad Euripide, e dove egli diventò lirico come
Calderon. Giovani donne, dal bello aspetto, tengono delle cetre davanti
agli ammalati d'amore: e anche questo motivo è assai bello; le figure
però sono semplici e dure come quelle simili degli antichi affreschi.
Benchè sianvi riuniti molti contrasti, Fedra illanguidita, le donne che
la servono nella sua follia, la vecchia balia, le giovani suonatrici di
cetra, hanno tutti una drammatica fierezza.

Assai piacente è il corteggio delle Grazie melanconiche all'apparire
di Fedra. È il poema più commovente della potenza di Eros, e la
composizione di questo rilievo si può mettere al paro di quelli che
possediamo a Pompei.

La terza scena mostra, sul lato esterno, Ippolito con la lancia
in mano, gli amici con cavalli e cani ai lati, il capo mestamente
chino, mentre la balia gli fa noto l'amore della matrigna. La fine
è completata sull'ultima parte laterale: Ippolito giace al suolo
precipitato dalla biga, mentre il guidatore cerca di frenare i cavalli;
il mostro nettuniano, immoto, è accennato leggermente di dietro. Molte
teste e figure in quest'opera magistrale sono guastate grandemente;
nell'insieme però la scultura è conservata piuttosto bene. Fra i brutti
quadri che pendono nella cattedrale, rendendo percettibile la mitologia
da lazzaretto del cristianesimo, questo antico sarcofago sta come
straniero, di un altro mondo, mentre si celebra il trionfo silenzioso
del genio greco sul cristianesimo.

Chiudo con esso questi frammenti di Agrigento. Gettai sguardi
lontani sulla riva del mare, e sarei volentieri andato verso le coste
meridionali, verso Noto; però avevo toccata la meta e tornai a Palermo
attraversando l'isola in due giorni di marcia.

Oltrepassammo Aragona, dove si erge un magnifico castello baronale.
Dietro sta Comitini con le inesauribili miniere di zolfo. Ci vennero
incontro molti muli carichi di zolfo. I pezzi di un bellissimo giallo e
di forma regolarmente quadrata son belli a vedere. Ovunque sulla strada
zolfo rotto e calpestato, e qua e là nei monti spesse colonne di fumo
proveniente dalle miniere, e che riempiono l'aria di odor di zolfo;
si sente fisicamente che si è nell'isola dell'Etna. La sua maggiore
industria e la vera sorgente di vita delle impoverite terre siciliane
è solo lo zolfo, che in grande quantità viene esportato in Inghilterra.

Attraversammo diverse volte il fiume S. Pietro che si getta nel
Platani. Serpeggia variamente attraverso una melanconica valle rupestre
e si getta in silenziosi campi sui quali pascolano i buoi rossi; nessun
ponte passa su di esso. Mi piacque guardarlo tante volte: Giuseppe
Campo assicura con certezza matematica che l'abbiamo passato trentasei
volte.

L'ardore sciroccale nella valle ci dava le vertigini, e noi
desideravamo ardentemente un ristoro, il sorso rinfrescante di un
sorbetto, ma nulla si vedeva intorno. Due volte ci fermammo in un
gruppo di case di campagna, dove abitavano dei maniscalchi, che
ferrarono i cavalli. Il paesaggio diviene più importante e più
pittoresco a metà strada fra Palermo e Girgenti; alti pini e cipressi
e potenti carrubi rompono la monotonia che ci aveva presi e corriamo
silenziosi all'apparire della luna siciliana. Chi può descrivere una
simile notte di luna in un tale caos omerico, ove non si ode altro che
il passo dei muli e qua e là l'elegia dell'uccello di Minerva? Andavamo
così sul nudo monte, verso le miniere di Lercara.

Dalla piccola Lercara la strada va verso Palermo e si può servirsi
della posta. Io cavalcai di buon mattino, mentre il mio compagno,
essendosi ammalato, proseguiva in carrozza. Il giorno era chiaro
e meravigliosamente bello. Dopo Belle Fratte e oltrepassato il
ruinato castello di Palazzo Adriano verso Misilmeri, pervenni alla
bella dimora del cortese Campo. L'eccellente mulattiere mi accolse
in casa sua con sorbetti, mi caricò sulla bestia una cesta dell'uva
più bella, che aveva còlta dal giardino del principe Buongiorno e mi
lasciò in compagnia de' suoi figli, coi quali feci le nove miglia
che mi dividevano da Palermo. Una buona strada porta attraverso i
lussureggianti dintorni della città, lungo la campagna fiorita, i cui
giardini d'aranci raggiungono il vecchio _Panormus_.



I canti popolari siciliani.



I canti popolari siciliani.


I canti popolari della bella Sicilia, nel dialetto dell'isola,
dall'antica Siracusa, da Agrigento, dalla spiaggia ricca di palme
di Selino, da Palermo, dal fabuloso Etna, sono rarità preziose e
misteriose che noi salutiamo di gran cuore. E li abbiamo ricevuti
raccolti da Leonardo Vigo,[1] insieme con quelli toscani raccolti dal
Tigri, perchè tutti e due i libri sono apparsi in questi ultimi anni.
Ciò che le campagne d'Italia producono di prezioso appare raccolto
in queste foreste vergini della canzone e trasmutato in fiorite
immagini di poesia. È necessario leggere tutte e due le raccolte
per apprezzare i grandi doni di cui è fornita questa Nazione, che
appunto ora è agitata di nuovo da un così profondo movimento politico;
bisogna scendere nelle genuine regioni del popolo che, non ostante la
demoralizzazione dello stato politico ed amministrativo, ha saputo
dettare le bellezze di questi canti, per amare gli Italiani come
meritano. Si devono abbandonare le città e rifugiarsi nelle campagne,
si deve cercare il popolo, non nelle grandi strade, ma nelle montagne
senza strade, dove esso lavora e canta, per farsi un concetto esatto
delle sue belle qualità. La musa popolare di questo paese, con simili
rami fioriti nelle mani, è capace di disarmare l'odio più feroce di
anime nemiche. Ed è principalmente bene che il suo canto innocente
abbia visto la luce appunto oggi che essa, mite come la cicala
d'Anacreonte, canta le sue belle canzoni in mezzo al tuonar del cannone
ed agli schiamazzi dei partiti.

Poichè i Siciliani hanno pubblicato le loro canzoni contemporaneamente
con i Toscani, ci viene offerto il destro di fare degli
interessantissimi paralleli; e questo simultaneo apparire delle gemme
più preziose tra le canzoni d'Italia può essere considerato come un
felice avvenimento per la storia della poesia. Ciò che è cresciuto
nella dolce e leggiadra Toscana, come potrebbe essere diverso dalla
graziosa e ben formata lingua e dal bene sviluppato senso d'arte dei
Toscani? Noi troviamo nella raccolta del Tigri solamente ciò che vi
abbiamo cercato, e la nostra fondata aspettativa non viene sorpassata.
Ma il concetto che noi abbiamo della poesia popolare siciliana si
fonda più su quello che non sappiamo che su quello che sappiamo. Il
dialetto toscano è il più puro d'Italia; il siciliano è oscuro spesso
agli Italiani stessi. La letteratura, le condizioni e le città della
Toscana ci sono ben note, ma la remota Sicilia è rimasta ancora molto
misteriosa per noi. Il solo nome di Sicilia eccita la fantasia anche
di chi non ha veduto con gli occhi questo paradiso divenuto selvaggio.
L'immagine delle sue bellezze ha per noi qualche cosa di mistico, nè
la parola dei poeti, nè il pennello dei pittori possono rappresentarci
un paesaggio siciliano. Che carattere avranno quindi i canti che, non
modellati da mani colte, sono sorti spontaneamente dagli elementi di
quella natura meridionale ed incantevole?

L'Italia del Nord e la Toscana si sentono fiere di tutta la fioritura
medioevale. Sul Lazio brilla ancora l'inestinguibile splendore della
grande Roma e del canto di Virgilio. A Napoli comincia quel soffio
ellenico che dà a tutta l'Italia meridionale quella sua atmosfera
incantevole. La Sicilia è tutta pervasa da quel soffio. La musa latina
vi entra solo come ospite straniera; ma la musa dell'Ellade ci saluta
con gli antichissimi canti mistici e con i nomi di Stesicoro, Teocrito
ed anche con quelli di Pindaro e di Eschilo. Ai ricordi ellenici si
uniscono i punici, e si respira l'aria della vicina Cartagine. Uno
spirito bizantino viene dall'Oriente, e poco dopo l'orientale poesia
degli Arabi, che così a lungo regnarono nell'isola. Un'altra corrente
di cultura si precipita dal Nord e trasporta in terra di Sicilia il
romanticismo della cavalleria normanna e del grande periodo svevo della
nostra patria tedesca. Poi segue il dominio degli Aragona e di Spagna:
e così si incontrano e si fondono in quest'isola unica i più diversi
caratteri della cultura mondiale: Grecia, Roma, Cartagine, Bisanzio,
Bagdad, Germania, Francia, Spagna e Napoli. E tutti questi paesi hanno
lasciato qui la loro orma, ed hanno creato questa straordinaria natura
siciliana.

Appunto per questo diventa di grande importanza l'osservazione
seguente. La Sicilia è stata tanto a lungo sotto il dominio di così
numerosi elementi stranieri, e pure nessuno di questi elementi è
riuscito a disperdere il linguaggio popolare ed a distruggere quei
fondamentali caratteri nazionali sui quali riposa, come in Toscana,
la poesia popolare. Il dialetto siciliano è un antichissimo ramo
del grande ceppo latino. Io, per amore del signor Vigo, lo chiamerò
siculo, e lo farò derivare da quei Siculi che in tempi remotissimi
abitarono sulle rive del Tevere e nel Lazio, prima di essere costretti
ad emigrare in Sicilia ed a stabilirsi quivi presso i Sicani. L'antico
idioma di Sicilia era anche un ramo di quell'idioma che in terra ferma
si distingueva in sabino, osco e latino, e la lingua dei Siculi (Siculo
non è che un sinonimo di Italico, come ha dimostrato il Niebuhr)
può sempre considerarsi come la lingua madre dell'odierno dialetto
siciliano. Il lungo e splendido dominio degli Elleni nell'isola vi
diffuse la lingua greca come lingua letteraria, senza distruggere però
l'idioma siculo-italico, e vicino ai canti di Stesicoro e di Teocrito
continuano a risuonare i canti popolari dei pastori siculi sui monti
come sulle rive del mare. I Romani posero fine all'influenza greca,
e trovarono nell'isola un dialetto assai affine alla loro lingua,
e che dovettero considerare arcaico, e che durante la loro secolare
dominazione dovettero latinizzare, come già avevano fatto con la lingua
etrusca. La stessa discendenza da una stessa razza e da una stessa
lingua materna avvinse strettamente la Sicilia all'italia, come ad una
grande patria comune, e tutte le conquiste posteriori non riuscirono
che a staccare solo politicamente la Sicilia dall'Italia. Dopo che
l'Impero Romano passò nelle mani di Bisanzio, il popolo siciliano si
mantenne fedele al suo idioma italico, e la cultura e la lingua greca
che, dopo una lunga interruzione, rientrava di nuovo nell'isola, potè
impadronirsi solo del culto.

Ancora più notevole è la resistenza vittoriosa che l'idioma dell'isola
oppose alla lingua araba; difatti, durante una dominazione di duecento
anni, i Maomettani non riuscirono nè ad estirpare il linguaggio, nè a
soffocare il cristianesimo. Gli Arabi rimasero stranieri nell'isola,
e il dialetto siciliano si perpetuò anche senza l'aiuto di monumenti
scritti. Gli Arabi accettarono anzi i nomi più usitati di luoghi,
fiumi e montagne, mentre i Siciliani, come gli Italiani in generale,
presero da loro solamente alcune espressioni. Così sono parole arabe:
_dugana_, _maremma_, _giarra_, _bagaredda_, _sciarra_, _zzammara_,
_zibibbu_, _arcova_, ecc... Appena i Normanni conquistarono la Sicilia,
la lingua araba disparve dall'isola. E gli stessi Normanni trovarono
un linguaggio popolare così vivente e così armonioso, che non si
provarono nemmeno di far prevalere il loro proprio normanno-francese;
perfino nella Corte ben presto dominò il siciliano; e fu sotto la loro
protezione che i poeti siciliani poterono per la prima volta lasciare
scritti i loro versi.

Con questi fatti e storicamente con il poeta Ciullo d'Alcamo comincia
la storia del dialetto siciliano, ed il suo sviluppo si può seguire
fino ai nostri giorni su documenti scritti. L'ardente patriottismo dei
Siciliani, così ben fondato sulla loro grande ed antica cultura, e così
spiegabile per la posizione insulare della loro bella terra, ancor
oggi si rifiuta di considerare l'idioma siciliano come un dialetto
dell'italiano. Esso è una lingua propria e originale, se non proprio la
lingua madre dell'italiano. I Siciliani non hanno dimenticato ciò che
Dante ha detto nel suo trattato sulla lingua volgare, cioè, che tutto
quanto gli Italiani composero in volgare deve essere detto siciliano
e dovrà esserlo anche pel futuro. Quest'opinione di Dante non si è
avverata, perchè la lingua toscana ha dato il suo nome all'idioma
letterario italiano, ed il siciliano non ha conservato che la gloria di
aver forniti i primi saggi poetici scritti.

Io sono pronto ad ammettere col Vigo che una tradizione assai vivace si
sia mantenuta dall'antico siculo all'odierno siciliano, appunto come
le radici dell'odierno italiano possono ricercarsi nella lingua che
si parlava nella Sabina e nel Lazio, ancora prima che Roma dominasse
l'Umbria; ma ciò non toglie che il siciliano, anche ai tempi di Ciullo
e di Federigo, non sia in rapporto al latino che una _lingua volgare_,
perchè il latino ha un tempo modificato l'antico siculo, così come ha
modificato tutti gli altri idiomi regionali d'Italia. Nel secolo xii,
mentre non vi era ancora una universale lingua italiana consacrata
dalla cultura e dagli autori, all'infuori del latino, la lingua si
spezzava in tante forme diverse quante erano le provincie; ogni forma
conservando naturalmente le antiche radici italiche, ma tutte anche
assumendo i caratteri che dava loro l'antica e nuova corruzione del
latino. Il siciliano non era che una di queste forme, e da quel tempo
più vicina alle altre forme che non sia ora, perchè dopo molti secoli
di poca cultura il siciliano si è guastato, ed oggi è molto diverso
da quello adoperato dai poeti dei secoli XII e XIII. E pure anche oggi
il dialetto siciliano ha molte somiglianze con quello dei Napoletani,
dei Còrsi e dei Sardi, ed anche qui, nel centro dell'antico Lazio, a
Genazzano presso Palestrina, dove scrivo queste pagine, ascolto ogni
giorno voci da me trovate nei canti popolari siciliani. Anche qui,
in molte parole la lettera _r_ viene posposta, così che anche qui si
dice _crapa_ e non capra, e Capranica, il vicino nido di roccie, viene
chiamato _Crapanica_.[2] Invece di Clorinda qui si dice _Crolinda_ e
_Craudia_ invece di Claudia, e così si dice _andare_ a _balle_ (valle),
e invece di _padre mio_, _patremo_, come a Napoli ed in Sicilia, invece
di _questo_ e _esso_, _quisto_ ed _isso_; invece di _so_, _sacciu_. E,
come in Sicilia, anche qui l'_nd_ dei gerundi e dei sostantivi si muta
nel doppio _n_ (_vivenno_, _campanno_, _granne_, _banno_ e _munno_).
Perfino le stesse forme barbariche in _ora_ ed _ara_ del latino
corrotto, che io ho trovato così spesso nei documenti romani del IX,
X e XI secolo, ritrovo ora qui in questo dialetto, come in Sicilia.
In quel tempo i notai scrivevano ed il popolo diceva _fundora_ come
plurale di _fundus_, _censora_ (da _census_), _arcora_ (da _arcus_),
_bandora_ (da _bandus_); in una scrittura del secolo X ho trovato
perfino l'accusativo _domoras_ da _domus_. Questi barbarismi, che si
leggono ancora nella cronaca di Giovanni Villani, erano in uso nel
popolo da tempi antichissimi, perchè il popolo prende volentieri quelle
desinenze che piacciono all'orecchio.

Erra quindi il Vigo quando fa derivare il siciliano _ficora_ (plurale
di _ficus_) dal _figuier_; i Siciliani formano oggi il plurale in
modo analogo a quell'antico linguaggio volgare: _ramira_ (da _ramus_),
_ficara_ (da _ficus_), e così _nomira_, _loghira_, _ronura_, _ortura_.
Anche qui a Genazzano, 37 miglia lontano da Roma, sento tutti i giorni
dire come a Messina _le ficara_ e _le ramora_; e pochi giorni fa mentre
andavo verso l'antica Norma nei monti Volsci, mi divertii a far parlare
un ragazzo che mi accompagnava, ed oltre le parole già citate gli
intesi dire, proprio come un siciliano, _marmora_ invece di _marmi_.

In generale si può dire che tutti i dialetti d'Italia hanno una stessa
base fondamentale. Se il poeta sardo don Gavino Pes canta:

      Li dì, l'ori, e l'istanti
    Chi viè possu; cun sinzeru amori
    Offeru a chist'Amanti,
    Chi da l'omu nò vò sinnò lu cori.

il suo canto è assai simile a quello dei Siciliani, e se la canzone
popolare còrsa dice:

    Un ghiornu mill'anni
    Mi sarà pensandu a te;

anche essa somiglierà molto a quella siciliana. Tuttavia il dialetto
siciliano ha alcune particolarità molto notevoli, specialmente nella
coniugazione dei verbi che terminano in _ari_ ed _iri_. La seconda
persona del plurale ha poi l'aggiunta prenominale _vu_ (_voi_),
_dicisti-vu_, _vidisti-vu_. Il Vigo mette in evidenza la grande
dipendenza della coniugazione siciliana da quella latina; per esempio,
in latino: _vidi, vidisti, vidit, vidimus, vidistis, viderunt_; in
siciliano: _vitti, vidisti, vitti, vittimu, vidisti-vu, vitturi_. La
terza persona del perfetto finisce in _ao_ o _au_, invece di _ò_,
_durao_ invece di _durò_, ed anche questa forma si trova in altri
dialetti come anche il futuro _aggio_, _partiraggio_ per _partirò_, che
deriva da _partir-aggio_, vale a dire, _ho a partire_, perchè _aggio_
è la forma dialettale ed antica di _ho_ e quindi _partirò_ è uguale a
_partir-ho_. Ancora oggi nella provincia romana si dice _aggio_ invece
di _ho_. Molte parole che terminano in _u_ nel dialetto siciliano,
non sono che parole latine a cui il popolo ha tolto la desinenza _s_
o _m_: _tempus-tempu_, _bonus-bonu_, _matrimoniu_, _muru_, _periculu_,
_maritu_. In questo il siciliano, come il sardo è più vicino al latino
del toscano che ha mutato la desinenza _us_ in _o_. La terminazione in
_u_ è del resto comune a tutti i dialetti d'Italia e certamente deriva
dall'antichissimo latino popolare. Il dialetto siciliano ha anche _i_
per lettera finale al posto di _e_ come _notti_ invece di _notte_.

Il cambiamento del _b_ e del _v_ è antichissimo e si trova già nelle
innumerevoli iscrizioni cristiane dell'Impero al Vaticano. Il siciliano
trasforma _bibere_ in _viviri_, _bos_ in _vo_, _brachium_ in _vrazzu_,
_buca_ in _vucca_, e _votum_ in _botu_.

Caratteristico del dialetto siciliano è il cambiamento del doppio _l_
in doppio _d_, per esempio _beddu_ invece di _bello_, _iddu_ e _idda_
invece di _illo_ e _illa_. Ma poichè questa forma si trova presso i
Sardi, è dubbio per me che essa derivi, come sostiene il Vigo, dai
Cartaginesi. Del resto è il Vigo stesso che nella sua notevolissima
introduzione dice: «Questo idioma che io ho chiamato insulare e che
ha una sola ed identica impronta, vive non solo in Sicilia, ma anche
in Calabria, certamente con speciali modificazioni, ma con uguali
caratteri, e le sue traccie sono numerose in Sardegna ed in Corsica.
Dopo tanti secoli e tante vicissitudini politiche, in alcune città
delle Calabrie si parla quasi come in Sicilia. Ciò dipende dalla
origine comune e perciò il de Ritis dice: “Dalla cinta degli Appennini
fino al mare, l'idioma popolare è _campano_, o se si vuole _osco_ e per
conseguenza simile al siciliano”».

L'espressione _campano_ è felice, perchè abbraccia anche la lingua
popolare dei Romani, del Lazio e di una parte della Tuscia. Se si
confronta il _romanesco_, quello per es. della Vita di Cola di Rienzo,
con le cronache pugliesi, con quella per es. di Spinello, ed anche con
le siciliane, si osserverà subito quanta comunanza vi sia tra loro. Ma
dall'altra parte degli Appennini, la Romagna, le Marche, la Lombardia,
Venezia e il Piemonte parlano un altro gruppo di dialetti in cui
l'influenza straniera delle lingue gallo-francese e longobardo-tedesca
è facilmente riconoscibile. I confini quindi dell'idioma volgare
italiano coincidono con quelli dell'Italia propriamente detta e
storica, che va dagli Appennini alla Sicilia e che ha il Lazio per
centro.

Questo volgare può essere più antico del tramonto della potenza
romana, e le sue traccie più antiche possono trovarsi nelle commedie
di Plauto e presso Ennio; ma la sua completa formazione data solamente
dal perdersi del latino, come ho potuto osservare in centinaia di
documenti latini dei secoli VII-XI. Allorchè la cultura scientifica
e politica di Roma annegò nella barbarie, il latino sparve dall'uso
del popolo, e le forme dialettali più basse divennero le dominanti,
accogliendo in sè le sformate rovine del latino. Il moderno linguaggio
d'Italia è sorto, come la seconda Roma, dai bei marmi dell'antico
linguaggio di Roma, si è poi formato lentamente, magnifico fenomeno di
trasformazione della cultura, e ha dato poi i suoi fiori in Toscana.
Alla Sicilia toccò il duraturo onore di aver coltivato per la prima
questo volgare campano, perchè sotto i re normanni ed ancor più sotto
Federigo esso fu innalzato a linguaggio della poesia, designata come
_aulica_ e arricchita delle forme della canzone e del sonetto, così che
i primi poeti italiani conosciuti sono siciliani e principi tedeschi
di Sicilia. Con ragione può dunque il Vigo dire: «Allora noi fummo
Italiani». Questo merito dà al siciliano un bel carattere venerando, e
se si legge la raccolta del Vigo insieme con quella toscana del Tigri,
sembra di udire la voce della madre vicino a quella della figlia più
colta. E difatti l'odierno siciliano suona assai arcaico. Un ampio
abisso di cultura lo separa dal toscano, mentre l'originario idioma di
Ciullo d'Alcamo, di Iacopo Lentini, di Pier delle Vigne e di Federigo
II, reso puro dai poeti, ma pur sempre idioma popolare siciliano del
secolo XII, somiglia di più al toscano odierno che non il siciliano che
si parla oggi.

Il fissarsi dell'italiano come lingua letteraria data appunto da quel
secolo XII in cui vissero quei cantori siciliani. Prima di Ciullo non
ci rimangono documenti scritti nè in siciliano nè in italiano, se si
eccettua il frammento di una canzone apparentemente del secolo XI, che
si trova nell'archivio di Monte Cassino e che è stato pubblicato nella
_Storia dei duchi e dei consoli di Gaeta_ del Federici. Tuttavia i
diplomi latini anche anteriori a quell'epoca formicolano di espressioni
in volgare, che lasciano bene intravedere l'esistenza di un linguaggio
popolare. Nei documenti romani da me osservati non c'è tanta abbondanza
di frasi volgari, come ce n'è in quelli còrsi del X secolo, messi in
luce dal Muratori e dal Mittarelli; e le frasi interamente italiane
che io ho trovate in un documento latino del X secolo esistente a Monte
Cassino (_Sao che chelle terre per chelle fini che contene trenta anni
le possete parte sancti Benedicti_), provano che il popolo parlava già
italiano, la cui esistenza risale a molti secoli indietro.

L'odierno siciliano poi si differenzia da città a città, da pianura a
pianura. Oltre di ciò l'isola presenta il fenomeno stranissimo di un
altro linguaggio che, quantunque italiano, è perfettamente estraneo
ai Siciliani che non lo capiscono neppure. È questo l'idioma delle
colonie longobarde in Sicilia. Ed è veramente sorprendente che ancor
oggi possano trovarsi in Sicilia dei discendenti di quei Longobardi,
di Alboino, di Rotari, di Liutprando e di Desiderio, un tempo così
feroci, poi così devotamente inciviliti, mentre in Lombardia ed a
Benevento almeno da sette secoli si sono sperduti nel grande elemento
italiano. Il dominio dei Longobardi venne distrutto da Carlomagno; ma
il fiorente ducato di Benevento, aveva sopravvissuto alla rovina, e si
era mantenuto, quantunque diviso nelle tre città di Benevento, Salerno
e Capua, fino all'undecimo secolo. I Normanni poi distrussero anche
questi ultimi belli avanzi della signoria longobarda. Quando Roberto e
Ruggiero ebbero conquistata la Sicilia, molti Longobardi di Benevento
e di Salerno, che avevano combattuto nell'isola sotto le loro bandiere,
vi fissarono la loro dimora stabilmente, ed a loro se ne unirono altri
venuti dalla Lombardia, quando Ruggiero prese in moglie Adelaide di
Monferrato. Questi Longobardi si fissarono a Piazza, Nicosia, Aidone,
San Fratello, Randazzo, Sperlinga, Capizzi e Maniace e Ruggiero dette
loro un conte longobardo, Enrico fratello di sua moglie e figlio di
Manfredi, marchese longobardo. L'antico idioma germanico dei Longobardi
aveva certamente da lungo tempo ceduto il passo all'italiano, ed i
lontani pronepoti non parlavano più il linguaggio eroico di Alboino;
pure il loro dialetto diventato italiano conservava accenti, voci e
terminazioni germaniche. In alcuni paesi della Sicilia i Longobardi
si mescolarono con i Normanni e quando questi ultimi furono in numero
preponderante, la lingua longobarda prese un'intonazione francese che
ancor oggi è riconoscibile. I Normanni, come i Greci e gli Arabi,
sono scomparsi dalla Sicilia senza lasciar traccia: queste colonie
longobarde invece hanno resistito per otto secoli agli attacchi
dell'elemento siciliano, prova questa non solo della straordinaria
tenacità di questa razza, ma anche del basso livello della cultura
siciliana. Alcune di queste colonie oggi naturalmente non esistono più,
e il Vigo che fa ascendere a 30.000 anime la popolazione longobarda di
quei tempi, osserva che il loro linguaggio oggi si parla solamente a
Piazza, San Fratello, Nicosia e Aidone; ed anche in questo, a Nicosia
gli elementi franco-normanni sono in proporzioni non disprezzabili, e
solo a San Fratello la lingua si è mantenuta prettamente longobarda.

Il Vigo racconta un aneddoto che mette in evidenza la forma di dialetto
parlato da queste colonie. Quando nel 1806 Ferdinando III passò per
Piazza, domandò ad un contadino: «Che cosa mi avete fatto trovare
qui a Piazza?» Ed il longobardo rispose: «_Ppi V. M. a Cciazza gh'è
'nciangh cing dì fi riau_». Parole, dice Vigo, più incomprensibili
della lingua del diavolo e che fanno pensare al cinese. Tradotte in
italiano significano: «Per V. M. v'è un piano pieno di fichi reali».
A San Fratello, osserva ancora il Vigo, si dice _parduoma a dumbard_
(longobardo) quando gli abitanti vogliono parlare sanfratellese
e _parduoma a datin_ quando vogliono parlare latino, cioè a dire
siciliano.

Un'ottava di San Fratello suona così:

    Ajudam tucc a sgugghier st'strecc,
    Cunfess ù mie debu e 'un m'ámmucc.
    A miei figgh cuminzà a dumer ù mecc,
    Ognun si van abbuscher ù sa stucc.
    Volu camper li fommi, brutt'impecc',
    E roi divaintu cum i babalucc,
    E quand puoi fan i scaramecc
    'N spartuoma la fam 'n tucc 'n tucc.

Eccone la traduzione italiana:.

    Aiutatemi a sciogliere questa matassa
    Confesso il mio debole e non mi occulto,
    A miei figli cominciò ad ardere il mecco,
    Ognuno si vuol buscare il suo astuccio:
    Voglion campar le femmine, brutto impiccio.
    Ed esse addiventano come le lumache,
    E quando poi faranno i picciolini.
    Ci spartiremo la fame in tutti in tutti.

Oltre queste colonie longobarde, vi sono poi quelle albanesi anch'esse
molto notevoli, che da oltre quattrocento anni conservano il loro
idioma ed il loro culto greco. Dopo la caduta dell'Epiro nelle mani
dei Turchi, molti compagni del celebre Giorgio Castriota Scanderberg si
rifugiarono in Italia, alcuni stabilendosi in Calabria, altri accolti
in Sicilia da Ferdinando il Cattolico. Quei di Sicilia vi giunsero
nel 1482 sotto la guida del loro capitano Giorgio Mirsgi, e presero
dimora a Palazzo Adriano. Poco dopo ne giunsero altri e si fermarono
nelle vicinanze di Palermo, dove occuparono i feudi dell'arcivescovo
di Monreale, Merco e Aidingli che da allora prese il nome di Piano de'
Greci. Oggi gli Albanesi di Sicilia sono circa diecimila ed abitano
Mezzojuso, Contessa, Piana e Palazzo Adriano. Qui, oltre la loro lingua
nazionale albanese, parlano anche greco, e così la lingua di Eschilo,
di Pindaro e di Platone un tempo nazionale dell'isola, poi per lungo
tempo abbandonata per rifiorire brevemente sotto i Bizantini, torna
per la terza volta a risuonare in Sicilia, e questa volta per opera
di gente che aveva perduta la sua patria. Queste piccole colonie,
vicine alle rovine degli antichi tempi, fanno ripensare al periodo
glorioso in cui gli Elleni fondarono le splendide città di Siracusa,
Agrigento, Selinunte e tante altre. Il loro rito è bizantino, e fa
quindi ripensare a quel periodo certamente non glorioso in cui gli
imperatori bizantini governarono, o meglio oppressero l'isola, fino a
che se ne impadronirono i Saraceni e due secoli dopo i Normanni che
latinizzarono il culto. Il vescovo greco degli Albanesi risiede in
Palermo e nel vescovado v'è pure un collegio o seminario greco, da cui
sono usciti degli ellenisti di valore tra i quali Crispi. A questo
semplice istituto si riducono ora le antiche scuole di sofisti e di
filosofi nella patria di Gorgia e di Empedocle. Il greco naturalmente
è, per gli Albanesi, solo l'idioma del culto e della scienza. Il
linguaggio di cui si servono tra loro e nel quale compongono le loro
canzoni e le loro apostrofi alla patria è ben diverso. Il Vigo afferma
che fino a poco tempo fa era loro costume ogni anno al 24 giugno (forse
il giorno in cui lasciarono la patria) di riunirsi sul Monte delle Rose
ed al sorgere del sole di cantare, rivolti verso l'oriente, un lamento,
di cui ecco il ritornello:

    O' ebúcura Morée
    Cù cuur të glieë néngh të peë.
    Ati cám ù zootintát,
    Ati cám ù mëmën t'i me,
    Ati cám ú t'im vëlua.
    O ébúcura Morée,
    Cù cuur të glieë néngh të peë.

Il lettore che non ha mai inteso parlare albanese, può, da questo
saggio, vedere come questa lingua non abbia alcuna affinità con le
altre lingue conosciute. Essa infatti rappresenta un problema tra
le lingue vive, come l'etrusco lo è tra le lingue morte. Il dotto
linguista monsignor Crispi nella sua introduzione alla piccola raccolta
di canzoni popolari siculo-albanesi da lui inserita nel libro del
Vigo, dice: «L'albanese è così antico che si può considerare come una
lingua originaria cui somiglia per meccanismo e per suono. Difatti
somiglia alla caldea ed alla ebraica ed è intimamente legata alla
frigia, alla pelasgica, all'antica macedonica e alla primitiva eolica.
La sua maggiore gloria è appunto quella di essere una delle lingue
originarie da cui è sorta la divina lingua degli Elleni. Ma quantunque
questa lingua sia così vetusta, e quantunque possa considerarsi come un
fenomeno assai raro che essa si sia mantenuta sempre viva nella bocca
del popolo, pure essa ha avuto pochissimi scrittori e quindi non ha mai
acquistato un carattere letterario». Se la cosa è veramente così che
la lingua degli Albanesi sia la lingua originaria dell'Ellade, e, se
nel dialetto siciliano si possono trovare ancora le tracce dell'antica
lingua originaria sicula ed italica, allora in Sicilia sarebbe
avvenuto uno strano riavvicinamento tra le lingue affini che furono
originarie del greco e del latino. L'alfabeto originario degli Albanesi
era il fenicio; ma ora essi si servono, e già da lungo tempo, dei
caratteri greci, e, nella propaganda che fanno a Roma ed in Sicilia,
dei caratteri latini. E con questo monsignor Crispi ha aggiunto
alla raccolta del Vigo 17 canzoni e due canti spirituali, dandone
a lato la traduzione italiana. Non trovo in queste canzoni speciali
caratteristiche di bellezza, sono molto lontane dalle celebri antiche
canzoni popolari dell'Epiro e della Grecia, nel tono e per la forma
somigliano più alle ballate serbe; pure qua e là hanno un'intonazione
particolare, per qualche accenno di carattere siciliano o napolitano.

Occupiamoci ora della poesia popolare siciliana genuina. Nella
introduzione alla mia traduzione in tedesco di alcune poesie di
Giovanni Meli, ho gettato uno sguardo sulla poesia siciliana dai
tempi di Ciullo fino a quelli di Meli, ma senza occuparmi della poesia
popolare. Difatti i noti poeti siciliani come don Antonio Viniziano, il
marchese Rao, Vitale da Gangi, Giovanni Meli, Domenico Tempio e Ignazio
Scimonelli sono poeti letterati, quantunque essi abbiano scritto in
quello stesso idioma nel quale il popolo anonimo compone le sue belle
canzoni. Solamente il celebre Pietro Fullone di Palermo, vissuto ne
primi anni del secolo XVII e le di cui innumerevoli poesie hanno avuto
una diffusione enorme in tutta l'isola, può considerarsi come un vero
poeta popolare e il caposcuola della _poesia rustica_ di Sicilia.
Egli stesso appartiene al popolo, perchè era un povero tagliatore
di pietra che lavorava nelle reali galere. Nella sua facilità quasi
senza esempio d'improvvisatore in ogni genere di componimenti, sacri,
profani, erotici, epici e satirici, si ha un'espressione personale del
carattere, naturalmente poetico del popolo siciliano; pure la sua vena
era così ricca che dopo di lui (morì il 22 marzo 1670) nessuno lo potè
mai uguagliare. Tuttavia vi sono sempre nel popolo dei poeti i nomi
dei quali vengono tramandati e che fanno stampare in fogli volanti
le loro poesie di occasione. Il Vigo, che a questa classe di poeti ha
rivolto tutto il suo amore e tutta la sua attenzione cita come viventi
e specialmente degni di lode, Alaimo, Adelfio e La Sala da Palermo.
Il primo di questi tre fa lo zappatore, e si è reso celebre per una
ricca vena satirica. Il Vigo lo chiama il Salvator Rosa della _poesia
rustica_; Stefano la Sala poi ne è, sempre secondo il Vigo, l'Ariosto.
Questo poeta vive poveramente in Palermo, fabbricando chiodi; il Vigo
lo conobbe nel 1845, quando egli faceva stampare le sue poesie col
suo ritratto e con una litografia rappresentante il suo mestiere. Ma
il popolo gli ordina solo delle canzoni e non del lavoro, così che la
fabbrica del povero La Sala non vuol prosperare.

Assai notevole è ciò che il Vigo dice sull'accademia poetica dei
mendicanti ciechi di Palermo, e che da sola basta a provare lo
straordinario senso poetico dei Siciliani. In tutta la Sicilia i ciechi
esercitano l'arte della musica e del canto, l'innumerevole quantità
di tabernacoli e di cappelle dove si venerano immagini sacre, le
novene del santo protettore, il Natale, le feste di S. Giuseppe, di
Maria e di S. Rosalia, la settimana santa, i venerdì di marzo, e poi
le nozze conspicue, il carnevale, ecc. dànno moltissimo da fare ai
ciechi. Si vedono andare da un capo all'altro di Palermo, guidati da un
ragazzino e cantare sul violino e sulla ghitarra le laudi in onore dei
santi, canzoni d'amore, di gelosia e d'odio, o storie di banditi come
Testalonga, Fra Diavolo, Tabbuso, Zuzza. Essi sono così occupati che
è possibile averli solo dopo averli chiamati in precedenza. A Palermo
hanno formato una vera e propria accademia con relativi statuti.

La interessante storia di questa scuola di ciechi trovatori è la
seguente. Nel 1661 i ciechi di quella città si riunirono e ricevettero
l'autorizzazione di organizzarsi in congregazione, alla quale alcuni
cittadini pietosi donarono una rendita annua di 42 once. Nel 1690
il generale dei gesuiti Tirso Gonzales concesse loro come luogo di
riunione l'atrio della casa dei professi; concessione di cui godono
ancora oggi. Quando l'ordine dei gesuiti fu soppresso, i ciechi
continuarono a godere l'uso di quel locale. I gesuiti tornarono poco
dopo ed il re donò loro la terza parte delle entrate di tutte le
congregazioni che si radunavano nella casa dei professi.

I poveri ciechi cominciarono da allora e continuano ancora a lamentarsi
che l'ordine di Gesù abbia tolto loro tutte le rendite, ed intentarono
anche un processo che di tanto in tanto rinnovano con qualche atto per
non far prescrivere il loro diritto. Finalmente nel 1815 Ferdinando
III si piegò alle loro continue lamentele e concesse loro una rendita
annua di 14 once da prelevarsi sulla sede vacante vescovile. Ma i
ciechi continuano più ostinati degli _Illuminati_ a lottare contro
la Compagnia di Gesù. I gesuiti volevano cacciarli dalla casa dei
professi, i ciechi non volevano cedere, fondandosi sui documenti che
possedevano, ma che non potevano leggere nè vedere. Mentre il duca di
Laurenzana governava la Sicilia, essi ottennero un ordine ministeriale
che li manteneva nella casa dei professi. I ciechi chiusero questo
decreto così importante per loro in un forziere munito di tre chiavi
e il Vigo racconta che lo conservavano con tanta gelosa cura, da
non permettere nemmeno a lui, che pure era un loro benefattore, di
esaminarlo, per paura che egli potesse essere un emissario dei gesuiti.
E così i ciechi hanno sconfitto l'ordine di Gesù, un trionfo assai
importante e commovente di Orfeo diventato cieco e mendicante contro il
potentissimo generale Ignazio Loyola.

La Congregazione si compone di trenta membri, tutti suonatori e
cantori. Alcuni sono compositori di nuove rime (_trovatori_) altri
rapsodi che quelle rime cantano e diffondono. Essi si obbligano di
non cantare nelle case di piacere, nè di portare in giro per le strade
poesie profane; recitano inoltre ogni giorno il rosario, ed ogni anno
al 2 novembre pagano 10 _grani_ per la commemorazione dei ciechi
defunti, ed un _tarì_ per la festa dell'Immacolata l'8 dicembre.
Hanno inoltre un cappellano che dice loro la messa ogni mattina, ed un
gesuita presso il quale si confessano il primo giovedì di ogni mese, ed
al quale devono far leggere le loro poesie per la censura. Hanno poi
degli impiegati propri, un superiore, due aggiunti e sei consultori.
Fieri della loro associazione, si vantano d'essere soci della
Congregazione di S. Maria Maddalena in Roma, ed il loro misterioso
forziere racchiude anche un breve del vescovo Mormile, nel quale è
concessa un'indulgenza di 40 giorni a chiunque fa cantare una poesia ad
un cieco. Ogni socio era tenuto un tempo di presentare ogni 8 dicembre,
una nuova poesia in lode della Madonna; ma ora questa usanza è andata
scomparendo. Se si assiste ad una loro riunione, commuove vedere questi
infelici sedere in circolo come tanti Omeri, pieni di ardente zelo,
cantare uno dopo l'altro le loro nuove composizioni, accolte sempre da
un caldo applauso di tutti i camerati, mentre i ragazzi che fanno loro
da guida si riposano del loro servizio, seduti per terra in un angolo
e si divertono a qualche giuoco infantile.

Questa è la pittura che il Vigo ci offre dell'accademia dei ciechi di
Palermo, un interessantissimo quadro della vita del popolo, pel quale
dobbiamo essere assai riconoscenti all'autore. Ogni lettore correrà
con la mente a quelle noiose e pretenziose accademie, che ancora
fioriscono in tutte le città d'Italia e dove signori e dame recitano i
loro sonetti faticosi, proprio come al tempo del Marini. E pure sarebbe
difficile trovare un solo poeta che senta così santamente la poesia
come quelli di Palermo. Io non conosco nessun verso di questi poveri
cantori, perchè il Vigo non ne ha riportato nessuno, ma comunque essi
sieno, e per quanto aspro sia il loro archetto, pure io credo che le
Muse ascoltino questi ciechi maestri con un tranquillo sorriso, e che
talvolta si degnino anche di mandar loro una buona rima ed un buon
concetto.

Durante la mia permanenza in Sicilia ho avuto spesso l'occasione
di ascoltare qualche improvvisatore o qualche rapsode che nella
strada, circondato da un cerchio di persone attente, narra qualche
storia cavalleresca o qualche novella. Sono anche questi uomini assai
strani, ciechi o gobbi, e mi ricordo specialmente di uno in Catania,
il quale gesticolava con una mazza nelle mani, ed appena narrava
di un combattimento tra cavalieri, la mazza cominciava a fare dei
terribili mulinelli per l'aria; ed in quei momenti rassomigliava assai
al cosidetto Esopo della villa Albani a Roma. Quando si è notata
la serietà e l'avidità con cui il popolo sta ad ascoltare questi
improvvisatori, non fa più meraviglia che l'isola formicoli di canzoni
e di ballate. In tutta la Sicilia è celebre la _pietra della poesia_.
Si trova a Mineo e il Vigo dice: «È una credenza popolare che per
diventare poeta, bisogna andare a Mineo e baciare la pietra della
poesia». Se qualche mio compatriota, trovandosi in Sicilia, vuole
anch'egli farne la prova, vada a Mineo, contrada Camuti, e nella villa
di Paolo Maura troverà la pietra della poesia. Tuttavia chi dà questo
bacio, non col cuore puro, torna indietro da Mineo con così poco estro
poetico come se tornasse da Abdera[3]. È strano che anche gli Irlandesi
abbiano una tradizione simile; difatti essi dicono lo stesso della
pietra di Blarney; chi la bacia diventa eloquente.

Nessun popolo, compreso il napoletano, possiede una così spiccata
attitudine per l'improvvisazione, come il siciliano. Quando siede
dinanzi ad un bicchiere di vino, la sua gioia si manifesta in rima
senza nessuno sforzo.

Di questo talento ha dato una prova Giovanni Meli nel suo _Ditirambo_
che io ho tradotto. A nessuna delle loro feste, di qualunque genere
siano, mancano i poeti popolari. «Ognuno canta per sè» dice il Vigo,
«come gli antichi trovatori, ed è seguito da una folla di popolo
che lo applaude e lo paga fino a che la gara dei cantori e degli
ascoltatori infiamma la tenzone. I poeti si raccolgono sotto l'ombra
di un albero, o in una taverna e prima di dar principio alla lotta,
tentano di investigarsi a vicenda per conoscere le forze avversarie.
La prosa è bandita, si salutano e si provocano in versi, poi si
attribuiscono i temi per l'improvvisazione. Il vinto viene fischiato
e cacciato via, mentre il vincitore continua a cantare allegramente
ed a strimpellare la sua ghitarra. Ma la fine abituale di queste
tenzoni è che il vinto si slancia come un dannato sul vincitore, e
solo l'intervento di qualche prete che accorre al frastuono, riesce a
separare i contendenti». Il Vigo racconta di aver assistito a Palermo
ad una tenzone pacifica il giorno di S. Giovanni: «Erano radunati da
cinque a seimila spettatori per aspettare il mezzogiorno, ora in cui
l'immagine del santo viene portata fuori della Chiesa e collocata nel
mezzo della piazza. Ecco che nella macchina preparata per accogliere
il santo salgono cinque poeti, Antonio Russo, un ragazzo condotto da
suo padre, un fabbro, Giovanni Pagano, il ciabattino Andrea Pappalardo
e il contadino Salvatore da Misterbianco. Uno dopo l'altro cantano le
virtù ed i miracoli di S. Giovanni e poi comincia la tenzone. Tutti
si servivano dell'ottava siciliana; meno Pappalardo che componeva
sestine con due rime piane in fondo. Tutti e cinque erano assai bravi
ed ardenti, ma il fabbro superava tutti gli altri. Nessuno sa, continua
il Vigo, da quanto tempo vige l'uso di queste tenzoni, quello che è
certo è che sono antichissime, e che meritano tutto l'incoraggiamento
possibile, perchè non solo sono di grande utilità, ma anche perchè
fanno ripensare alle nobili tradizioni dell'epoca greca».

La straordinaria facilità degli Italiani e dei Siciliani
d'improvvisare, viene mantenuta desta per mezzo di forme tradizionali
con le quali poetano. Presso i popoli che non hanno ritmi
universalmente noti ed adoperati, l'improvvisare è molto più difficile,
perchè c'è maggiore sforzo individuale. Il popolo italiano possiede
fin dall'antichità le sue ben determinate forme ritmiche. Quasi da
per tutto, in Toscana, nel Lazio, a Napoli e in Sicilia specialmente
viene adoperata l'ottava; difatti tutta la voluminosa raccolta del Vigo
non contiene, salvo poche eccezioni, che ottave, nelle quali vengono
espressi gli stati d'animo più differenti. L'ottava, così come è stata
adottata dai Siciliani, ha le rime che si incrociano quattro volte,
mentre nell'ottava toscana, tanto in quella popolare, quanto in quella
letteraria adoperata dall'Ariosto e dal Tasso, le rime s'incrociano
solo tre volte di modo che gli ultimi due versi rimano tra loro.
L'ottava siciliana ama l'assonanza, così che spesso anche le quattro
rime contrastanti, modificate solo con qualche leggero cambiamento,
si avvicinano alle altre quattro, per esempio _usi-asa_, _etu-atu_,
_uppa-appa_. Ciò dà una grande dolcezza musicale e il Vigo cita come
modello la seguente ottava:

    Susiti, amanti mia, susiti susi.
    'Ntra ssu lettu d'amuri 'un arriposi;
    Vinni a spizzari ssi sonnura duci,
    Di ssi biddizzi 'nciammari mi vosi,
    Grapitimi ssi porti si su chiusi,
    Quantu sentu l'oduri di li rosi.
    Idda ccu li so' modi graziusi
    Grapiu, mi contintau, mi detti cosi.

Si comprende come non sia difficile poetare con un idioma così
incomparabile. L'ottava, e solamente una, è del resto più che
sufficiente al cantore. Essa può contenere tutta la canzone o tutto
il poema, essa è una canzone d'amore, una sentenza, un lamento, una
serenata e tutto quello che si vuole. Il suo nome è _canzuna_ come
in Toscana, e talvolta anche _strambotto_ o _stornello_, come si
dice nell'Etna. La parola _strambotto_, che secondo il Tigri viene
da _strano motto_, è assai antica; rimonta per lo meno al secolo
XV. Lo strambotto è a buon diritto considerato come un'invenzione
dei Siciliani, ed i Toscani solo più tardi ne hanno modificato
la disposizione delle rime. La patria di questa ottava si rileva
facilmente leggendo la raccolta del Vigo. Si confrontino difatti le
ottave del Vigo con quelle della raccolta toscana dei Tigri e si vedrà
che i Toscani si sono staccati dalle forme degli antichi trovatori
siciliani. Mentre in Sicilia l'ottava è rimasta costantemente immutata,
in Toscana non solo vi hanno apportata la modificazione cui ho già
accennato, ma non hanno conservato neppure la disposizione delle rime
dei primi sei versi. Spesso in Toscana anche gli ultimi due versi della
sestina propriamente detta rimano tra loro, così che l'ottava finisce
con due coppie di versi rimati.

Come in Toscana, così anche in Sicilia vi sono gli stornelli _dei
fiori_ e che i Toscani chiamano appunto stornelli. La raccolta del
Tigri ne contiene una grande quantità ed alcuni così belli, così arguti
e così poetici che non è possibile trovarne di simili in nessun altra
lingua. Questa deliziosa forma di poesia popolare è diffusa, così
come lo sono i fiori, per tutta l'Italia, ma la sua vera patria è in
Toscana, nel giardino d'Italia. In Sicilia invece essa è meno prospera.
Difatti nella raccolta del Vigo gli stornelli sono pochissimi e nessuno
raggiunge il profumo e la grazia di quelli toscani.

Quando il Vigo si accinse a questa patriottica raccolta distribuì per
tutta la Sicilia una circolare, nella quale erano così suddivisi gli
argomenti che egli intendeva raccogliere.

1. Canti d'amore, d'odio, di disprezzo, di gelosia, d'abbandono, di
lontananza, di nozze, ecc. 2. Ninne-nanne. 3. Indovinelli. 4. Fiori. 5.
Canti funebri. 6. Canti sacri. 7. Canzoni di banditi, di vendette, di
streghe e di guerra. 8. Canti popolari longobardi ed albanesi.

Il libro è riuscito discretamente completo, specialmente per il numero
uno. Ma, come mi comunica lo stesso sig. Vigo, ne è in preparazione
una nuova edizione con l'aggiunta di molti altri _fiori_, e molte
altre canzoni di briganti e di vendette, di cui la Sicilia è molto
ricca e che potranno servirci per un interessante confronto con le
belle canzoni còrse sullo stesso soggetto. Mi aveva già colpito il
fatto che in tutta la raccolta del Tigri non vi sia una sola canzone
di soggetto storico; ora lo stesso fatto ho riscontrato nel Vigo. Il
canto popolare italiano tratta quasi esclusivamente d'amore. L'eterno
splendore del cielo e la svegliatezza di mente degli Italiani sono
poco favorevoli allo sviluppo della leggenda e della ballata, e poi
la quantità, la grandiosità e l'esattezza dei fatti storici in questa
patria della storia non consentono il fiorire della leggenda storica.
Ed il popolo canta un avvenimento storico solo quando la leggenda se ne
è impadronita e lo ha trasformato.

Nelle montagne d'Italia ho trovato innumerevoli rovine di antichi
castelli, ma neppure una di queste rovine è popolata di leggende
popolari propriamente dette, come accade in Germania ed in Inghilterra.
Ma all'incontro non c'è luogo in Italia che non abbia negli annali
storici una derivazione antichissima, e pochi che non abbiano la
loro storia speciale stampata e assai diffusa, con dilucidazioni
archeologiche che sono le peggiori nemiche delle Muse, come il fumo lo
è per le api.

Il Vigo ha molto saggiamente aggiunto ad ogni poesia il paese donde
essa proviene, e solo alcune città sono rimaste, e non per sua colpa,
prive di qualche saggio in questa raccolta. Solo una poesia ho trovato
di Siracusa, nessuna di Agrigento, Taormina, Cefalù e Monreale. Le
più numerose di tutte sono quelle della patria dello stesso Vigo,
Aci Reale, una delle più incantevoli cittadine del mondo, posta in
un piccolo paradiso ai piedi dell'Etna, non lontano dal mistico Aci,
dalle sorgenti sacre e dirimpetto all'isola dove Polifemo languiva
per Galatea. Se si è veduto quel paese dove le rose fioriscono
perennemente, pieno di aranci e di viti, non fa più meraviglia che in
mezzo a quel popolo le Muse abbiano un così dolce e melodioso canto.
Dopo Aci i migliori saggi ci vengono da Messina, da Catania, dallo
stesso Etna e poi da Palermo, Mineo, Raffadali, Lentini, Termini,
Modica, Bronte, Itala, Piazza, Siculiana, Aderno e da molte altre
città che un tempo ascoltarono la Musa dell'Ellade. Se i grandi poeti
siciliani, Stesicoro e Teocrito, se gli stessi Pindaro e Simonide
ascoltassero le canzoni che ancora oggi, dopo più che duemila anni,
fioriscono sulle rovine delle città greche illustri, cantate da
un'altra razza, non potrebbero rifiutare il loro applauso. Le antiche
fogge dell'ode sono scomparse e solo la canzone bucolica si è rinnovata
per virtù del Meli. La strofa artistica si è trasformata nell'ottava
rimata; la Musa ha cambiato lineamenti, ma anche la nuova è bella,
piena d'espressione, di spirito e di sentimento. Perchè la Musa è
immortale, come la Natura, ed il cuore degli uomini che canta sotto la
guida di lei, i suoi dolori e le sue gioie.

Se si paragonano le canzoni amorose raccolte dal Vigo con i _rispetti_
pubblicati dal Tigri, si rimane sorpresi dalla loro somiglianza. La
concordanza di queste forme popolari è una prova evidentissima della
unità della nazione italiana. L'unica confederazione che abbia salde
radici è quella della poesia. Una storia sanguinosa ha dilaniate
le sue provincie, la politica delle altre nazioni, ed anche quella
interna dei vari Stati, ha resa sempre più profonda la separazione;
il regionalismo divide ancora una città dall'altra, la mancanza di
industrie, di commerci e di strade allontana territori vicini, ed
anche intellettualmente mancano all'Italia le grandi ed universali
correnti intellettuali che mantengono stretti i rapporti. E ciò
non ostante nella poesia popolare degli Italiani, c'è un'impronta
nazionale indistruttibile, che afferma con energia davanti a tutto
il mondo l'unità della Nazione. La canzone popolare è il tesoro
dove la nazionalità conserva le sue inalienabili pietre preziose.
Infatti leggi, diritto, libertà, istituzioni politiche e cittadine si
cancellano e si distruggono lungo il corso degli avvenimenti storici,
ma la lingua, con la quale il popolo parla e canta, è un elemento che
dura fin che quel popolo dura. In questo senso della nazionalità le
due raccolte di poesie toscane e siciliane sono un significantissimo
documento storico dell'intima unità del popolo italiano e di tutto ciò
che i Latini ed i loro discendenti indicano con la parola _indoles_.

Si leggano queste poesie e si vedrà di quanta nobile, fine e delicata
cultura di cuore è capace questo popolo che pure è costretto a vivere
sotto così dolorose condizioni politiche e cittadine, e quasi senza
istruzione di sorta. Si ripete fino alla nausea il fatto di viaggiatori
di tutte le parti del mondo che hanno veduto l'Italia solo dalla
diligenza, trattenendovisi un paio di mesi o solamente un paio di
settimane e percorrendola solo sulle grandi strade maestre, e poi
scrivono dei grossi volumi sulle condizioni di questo popolo, ripetendo
continuamente le stesse frasi, forse per vendicarsi di qualche brutto
tiro giuocato loro dagli albergatori di campagna. Ed essi conoscono
l'Italia, come conosce Roma chi l'ha veduta una sola volta di notte
alla luce di uno zolfanello. Per imparare a conoscere un popolo, si
deve saper scrivere e saper parlare con esso, e si deve frequentarlo
nelle sue feste e nel suo lavoro, nei monti e nelle valli. La poesia
popolare è una landa che la civiltà falsificante non ha ancora
profanata.

Le stesse sensazioni, lo stesso concetto degli uomini e delle cose,
la stessa poetica rappresentazione delle cose, lo stesso culto dei
sentimenti, specialmente riguardo alla cavalleresca galanteria verso
le donne, dominano in questi canti popolari e la stessa espressione
del pensiero poetico si trova in Toscana, nel Lazio, nella Corsica,
in Sardegna ed in Sicilia. Questo culto poetico procede con la stessa
unità, come il culto religioso; e come l'anima popolare mostra ovunque
in Italia le stesse tendenze, così anche le forme poetiche sono
pressochè uguali anche a traverso qualche particolarità locale. Le
_stanze_ della Toscana hanno per esempio, oltre le modificazioni già
accennate, la caratteristica di ripetere il concetto principale, ciò
che dà loro una bella impronta popolare. Il _ritornare_ sembra che
sia proprio caratteristico della Toscana. Ma nell'insieme la poesia
popolare italiana ha un comune stile architettonico.

La forma italiana è più ricca di quella esclusivamente trocaica degli
Spagnuoli e di quella così monotona nell'insieme dei Serbi e dei
Greci. La poesia popolare italiana ha la forma della stanza epica,
e rappresenta la base immediata della poesia letteraria, che nei
suoi momenti più gloriosi non è altro che la perfezione delle stanze
popolari: un fatto questo che è della più alta importanza perchè
dimostra che in Italia la poesia letteraria e quella popolare non sono
divise da nessun abisso. Da noi in Germania le poesie di Schiller e di
Goethe, come prodotti di una perfetta cultura letteraria, sono molto
lontane da quegli strati in cui fiorisce la canzone popolare; in Italia
invece i capolavori perfetti del Tasso e dell'Ariosto non sono affatto
separati dalle regioni che hanno dato origine alle poesie raccolte
dal Tigri e dal Vigo. In molte ottave popolari io trovo frequentemente
concetti che ho già veduti nella poesia letteraria. E quindi od essi
sono proprietà originaria del popolo, od il poeta popolare li prende
a prestito dall'alta poesia perchè non discordanti da tutto l'insieme
della vena popolare. Per esempio in una canzone di Raffadali trovo:

      Vinissi chiddu patri chi ti fici,
    Fari non nni po' chiù, persi la stampa.

ed Ariosto dice:

    Natura il fece, e poi ruppe lo stampo.

Un'altra canzone comincia col noto verso di Dante:

    Donni ch'aviti 'ntellettu d'amuri.

Inoltre vi è un'altra fonte d'intimi rapporti in questo paese tra la
poesia popolare e quella letteraria, fonte che deriva dalla natura
stessa del popolo. Infatti anche la poesia popolare degli Italiani ha
in sè qualche cosa di letterario, perchè il popolo italiano è artista
per natura.

Il senso della bellezza delle forme diffuso in tutte le classi, il
fine gusto per la misura, la grazia naturale dei movimenti, il modo di
vestire, il contegno che rendono gli Italiani (e questo lo ammettono
anche i loro più acri nemici) molto superiori a tutti gli altri popoli,
si manifestano meglio che altrove nella canzone popolare. In essa si
riscontra un'arte di poetare che è divenuta una seconda natura, oppure
una natura che senza sforzo si trasforma in arte. La poesia elevata
non è che il canto popolare meglio abbigliato, e le ottave popolari
composte non senza arte, risplendenti di metafore belle e talvolta
anche meravigliose, somigliano alle belle donne della campagna quando,
nei giorni di festa, si adornano con orecchini rilucenti, con collane
di coralli e con anelli d'oro.

La poesia popolare italiana è ricchissima d'immagini, ed offre ai
poeti elevati un tesoro inesauribile in cui essi possono attingere,
tanto più che la metafora, questa polvere variopinta che riveste le
ali della Musa, si è quasi dispersa nella loro poesia moderna. La
metafora è qualche cosa di più di un semplice ornato nell'architettura
di una poesia; essa è il mutevole spirito della fantasia che dà bella
veste ai pensieri, che toglie alla rappresentazione delle cose la sua
dura uniformità, che le rende poetiche e le mette in rapporto con la
vita morale e materiale. La metafora riposa nel senso della natura
e dà significato agli innumerevoli collegamenti che sono in essa.
Il poeta che lavora chiuso nel suo studio ha difficoltà a trovare le
metafore, mentre per un poeta popolare è facilissimo, e sbaglierà solo
se ne accumula troppe. Un poeta serbo paragona con bella immagine, le
sopracciglia della donna amata alle nere ali aperte di una rondine;
un poeta còrso dice che il cuore di un bandito è diventato per l'odio
così piccolo, come una palla di fucile; un poeta siciliano chiede alla
sua bella che sciolga i suoi capelli e li faccia fluttuare fuori della
finestra, come una scala di seta. Queste immagini appaiono qua e là
come fugaci meteore nella poesia letteraria, mentre il poeta popolare
le semina a piene mani come fiori di una siepe vivente.

Quest'arte di personificare e di dipingere poeticamente le cose, è
in generale un dono della poesia naturale, specialmente nel Sud ed in
Oriente, e gli Italiani a questa qualità aggiungono anche la sottile
e trasparente chiarezza dell'ingegno, ed anche una natura arguta che
si diletta delle antitesi; di modo che la loro poesia popolare si
avvicina assai a quella letteraria. L'Italiano è per eccellenza un
logico, un abile dialettico, un avvocato nato, un sofista; non c'è
niente di vago nella sua fantasia, non conosce il sentimentalismo,
nè le mezze tinte, nè l'ansioso divenire e svilupparsi degli elementi
della vita; così come il suo anno non conosce la lunga primavera, nè il
suo giorno conosce il lungo crepuscolo. Le sue sensazioni sono estreme
e pronte e guidate dal pratico impulso di una volontà cosciente e non
dal desiderio doloroso. L'oscillare in una pena incerta che come un
essenziale elemento della poesia nordica, le dà gli aspetti bellissimi
di un tramonto, è interamente sconosciuto agli Italiani. Il Vigo
per formare la sua raccolta ha chiesto, bene specificatamente, canti
d'amore, di odio, di disprezzo, di gelosia, di abbandono, di lontananza
e di nozze, e sono sicuro che un raccoglitore tedesco non avrebbe
domandato tali motivi, mentre avrebbe trovato un numero incalcolabile
di canzoni esprimenti sentimenti ed aspirazioni vaghe.

Nella poesia popolare italiana il concetto chiaro e la coscienza dello
scopo frenano e limitano le sensazioni. Essa quindi non è lirica e
musicale secondo le nostre idee, ma ha sempre qualche cosa di epico e
di rappresentativo. La poesia popolare nordica è ricca di sentimento
e di pensiero. La meridionale è graziosa ed arguta. La quantità di
trovate e di motivi originali è meravigliosa e con tutto ciò rimane
l'ingenua espressione dell'anima di un popolo che è bello, vivace ed
arguto per natura. Io ho letto attentamente le due raccolte, la toscana
e la siciliana, e le ho trovate tutte e due ugualmente forti nelle
qualità sopra accennate. La ricchezza di motivi è ammirevole in tutte
e due; gli eterni, e semplici stati del cuore vi sono continuamente
ripetuti con nuove e incantevoli immagini. Tuttavia a me pare, e non
ho paura di confessarlo al Vigo, che il canto popolare toscano sia più
grazioso, più fiorito e più dolce di quello siciliano. Quantunque la
raccolta siciliana contenga molte canzoni straordinariamente delicate,
pure nell'insieme ne trovo di più nella raccolta toscana.

La poesia toscana ha tinte così delicate come quelle dei pittori di
Siena e di Fiesole ed un movimento così bello come lo hanno le _Grazie_
di Lippi, Botticelli e Ghirlandaio. E ciò non è opera solamente del
melodioso dialetto che si parla sulle rive dell'Arno e dell'Ombrone, ma
anche del temperamento degli uomini che in Toscana è più dolce ed in
Sicilia più energico. La canzone popolare toscana è molto più lirica
di quella siciliana, e quindi si accosta di più alla nostra poesia
tedesca; ma è anche più libera da regole; la siciliana invece ha forme
più artistiche e letterarie. Molte canzoni delle due raccolte hanno uno
stesso motivo ed uno sviluppo quasi uguale, ed è difficile riconoscere
se è la Musa toscana che è penetrata in Sicilia, o viceversa.

Mi limito a tradurre solo qualche ottava di questa bella raccolta
siciliana, cercando di conservare per quanto è possibile l'originaria
spontaneità e rinunciando così a crearmi la fama di un buon traduttore.
Anche l'abilità di un Rückert si troverebbe imbarazzata nel riprodurre
le quattro rime o le assonanze senza intaccare profondamente il senso e
l'andamento della canzone. Non è possibile rendere l'incanto di simili
poesie popolari; se ne può dare solo una pallida idea.

Ecco un'ottava che viene da Itala:

    Acula, vai vulannu mari mari
    Spetta quantu ti dicu dui palori,
    Quantu ti scippu tri pinni d'ali,
    Mi cci fazzu 'na littra a lu me' beni;
    Tutta di sangu la vogghio lavari,
    E ppi sigillu ci mettu lo cori;
    Quannu la littra è spidduta di fari,
    Acula, porticcilla a lu me' beni.

L'ottava seguente di Raffadali non è possibile tradurre con le rime,
perchè perderebbe tutta la sua bellezza. I versi siciliani terminano
di regola con la parola più significativa sulla quale cade l'accento
del pensiero e su cui riposa tutta la bellezza del verso. Ma per noi
Tedeschi è quasi impossibile terminare con quattro rime senza che le
parole rimate non sieno le più secondarie.

    Bedda, ca tra li beddi si' fenici,
    Nni lu me cori addumasti 'na lampa
    Tu di li cori si' l'imperatrici,
    E cu ti vidi pazziannu campa.
    Zoccu si leggi a lu munnu o si dici,
    E 'na faidda avanti a la to vampa;
    Vinissi chiddu patri chi ti fici,
    Fazi non nni pò chiù, persi la stampa.

Termino qui, augurando al signor Vigo una meritata fortuna alla sua
opera. Egli ha conservato uno dei più bei monumenti della letteratura
siciliana ed ha collocato un magnifico gioiello nel forziere in cui si
conservano i tesori della musa popolare che noi Tedeschi apprezziamo
tanto, sin dai tempi di Herder. È molto tempo che la letteratura
italiana non produce niente che possa anche lontanamente paragonarsi
a quanto hanno raccolto il Tigri e il Vigo dell'opera di pescatori, di
contadini e di altri operai. È un riposo il leggere quelle raccolte e
dimenticare lo sforzo delle povere rime stentate dei poeti letterati.
Gl'Italiani possono ascrivere a grande consolazione il fatto che queste
raccolte sieno venute alla luce in questo momento; perchè esse sono la
più splendida apologia dell'Italia, sono il parlamento popolare delle
Muse che innalza la sua voce anche all'estero, dove viene ascoltata con
simpatia.



EUPHORION

POEMETTO POMPEIANO DI FERDINANDO GREGOROVIUS


TRADUZIONE E NOTE DI MARCO GALDI


Pompei, la storica e infelice città della Campania, ha sempre
esercitato sugli animi degli artisti un'attrattiva affascinante di
maga. Difatti, quelle zolle arrise dal sole e irradiate dalle sovrumane
bellezze della natura, su cui, in un momento d'ira, il Vesuvio osò
riversare la piena del suo mal contenuto furore, riducendo in un
mucchio di rottami e di polvere quanto prima era stato rigoglio e
splendore, presentano all'occhio dell'artista tale un interesse, ch'ei
non sa, nè può distaccarsi dall'oggetto della sua contemplazione, senza
riportarne una impressione profonda di meraviglia e di magnificenza.
Giacchè, dinanzi alla sua accesa fantasia sfilano, come attraverso
a un caleidoscopio, immagini e figure che un dì popolavano quel sito
delizioso: ed il pensiero, con audacia pari alla sua forza, sormontando
le barriere del tempo e dello spazio, raccoglie e ricostituisce, nella
universalità della sua comprensione, gli avanzi dell'età passata e, al
lume della storia, rianima le spente sembianze affacciantisi all'orlo
dello smosso sepolcro, mentre, quasi soffiandovi dentro, v'infonde
vita, calore e sentimento.

A questo fenomeno d'irresistibile seduzione magica, che assorbe e
rapisce gl'ingegni, va dovuta la ricca fioritura di romanzi e poemetti,
inspirati dall'idea d'intrecciare, qual più qual meno, gloriosi fregi
e corone intorno al nome immortale di Pompei.

Si tratta di far rivivere la civiltà trascorsa, cómpito invero assai
arduo, come quello che richiede la piena ed esatta conoscenza di ciò
che chiamasi ambiente storico. E a tal uopo, o librandosi in alto
sulle ali della loro bizzarra fantasia, inventando così situazioni
ed intrecci, o pigliando le mosse da qualche opera d'arte, venuta
fuori alla luce del sole dopo tanti secoli d'oblío, e allargandola
e sviluppandola nei suoi varî atteggiamenti, i poeti — nel senso più
ampio della parola — ci trasportano col pensiero ai tempi passati, ci
riproducono, in mezzo a scene caratteristiche, le passioni e le lotte
che un dì agitavano e laceravano i cuori dei figli della Campania,
indovinano e quasi vogliono strappare alla polvere il segreto di ciò
che avveniva dopo l'immane catastrofe della città.

Così il _Pompei_ di Augusto Vecchi, gli _Ultimi giorni di Pompei_ di
Eduardo Bulwer, l'_Arria Marcella_ di Teofilo Gautier, l'_Euphorion_ di
Ferdinando Gregorovius ecc.

Di quest'ultima gemma dello storico di Roma medioevale, che io qui
presento modestamente tradotta in italiano, piace discorrere un po' più
da vicino, perchè si vegga se e fino a qual punto l'autore sia riuscito
nel suo intento.

Giova però, anzitutto, qui riprodurre il giudizio che ne dà il Sogliano
nella sua rassegna dei tentativi fatti per ricondurre ad una piena
vita gli antichi abitanti di Pompei: «Meno noto degli _Ultimi giorni_,
ma non meno felicemente riuscito parmi l'_Euphorion_ di Ferdinando
Gregorovius... il traduttore di Giovanni Meli. È un grazioso poemetto
in quattro canti, la cui azione si svolge in Pompei, nella famosa casa
di Diomede... I quattro canti sono intitolati Oneiros (sogno), Amore
e Psiche, Pallas Athene (Minerva) e Thanatos ed Eirene (morte e pace),
dalle figure che ornano il candelabro, eccellente lavoro di Euforione,
e che forma il pernio del poemetto».

Come ognun vede, un'opera d'arte, e non certo delle più fini
ed eleganti, è quella che sorprende e colpisce il Gregorovius,
commovendolo a tal segno da fargli creare tutta una serie di situazioni
e di intrecci, armonicamente disposti e collegati fra di loro. Si
direbbe quasi che la fantasia dell'artista vada scovando fin là dove
occhio umano non giunge, o se mai passa indifferente, gli elementi
meno noti o meno opprezzati, per materiarli poi di forti e geniali
concezioni ed imprimervi un'impronta stabile e duratura di grandezza e
splendore. Così come l'alchimista sapeva scoprire le recondite virtù di
disadorni metalli, e con l'aiuto di processi e combinazioni ottenerne
dei mirifici effetti, pei quali sperava di aver finalmente ritrovato la
panacea del genere umano...

Il candelabro, intorno a cui s'avvolge la delicata storia d'amore,
fu realmente scavato nella casa del ricco commerciante pompeiano, ed
oggidì figura in una delle splendide raccolte del Museo Nazionale.
Però — il Gregorovius medesimo lo avverte — il bronzo ha assunto una
nuova figurazione nella fantasia di lui; come son di sua invenzione le
lampade che l'adornano, le immagini che vi si ammirano scolpite, l'idea
alla quale debbono prestarsi per afferrare e conquidere potentemente
l'immaginazione del lettore.

_Euphorion_ — dal nome dello schiavo artefice del candelabro — è un
poemetto prettamente simbolico, e l'allegoria v'è profusa a significare
come nulla valga contro la forza dell'amore, specie quando nato
dall'arte, e come questo sopravviva persino al sepolcro, trovando
sempre il modo di riaccendere la spenta fiaccola del sentimento.

_Omnia vincit amor_: è la tesi che poeticamente illustra il
Gregorovius, contornandola e abbellendola degli svariati colori della
sua tavolozza. Non distinzioni di grado, non vantata nobiltà di natali,
non fiere persecuzioni o rampogne, possono rattenere l'impeto di una
passione pura e ardente, divampata nel cuore di due giovani innamorati.
Che anzi, là dove più palese si oppone la differenza di casta, sembra
quasi che talora intervenga di proposito una forza arcana a soggiogare
l'altrui ribelle volontà, per sancire con un vincolo indissolubile la
comunione dell'affetto e dare così compimento al più bello degli ideali
umani. Questa volta è il Vesuvio che trama la sua orrenda congiura
contro i diritti della boriosa aristocrazia, cospirando ai destini di
Euforione e permettendogli di tradurre in atto un sogno, già da tempo
concepito e vagheggiato nella quiete operosa della sua officina.

Euforione, lo schiavo artista, ama Ione, la figlia di Arrio, la giovane
avvenente ed esperta delle più signorili costumanze romane e della più
fine cultura. Nell'intimità del suo cuore, ei che pur si eleva tanto
su gli altri suoi simili per ingegno e nobiltà di sentimento, ben
s'avvede di perseguire un ideale assai ardito, sol perchè ai piedi gli
si attacca plumbeo e grave il mondo e si suole dai beffardi vilipendere
il lavoro manuale come qualcosa d'ignobile e servile. Quella tunica
di schiavo l'inceppa e rattrista e una vampa di vergogna gli sale in
volto, mentre però la sua anima si spinge sempre più sospirosa verso
la luce... Di natura irrequieta e bollente, facile agli entusiasmi ed
allo sconforto, come il suo Icaro che spicca il volo fino all'astro
fiammante per cadere poi nella spalancata voragine, ha peraltro fiducia
nella bontà del suo padrone, entro le cui vene scorre ancora una goccia
di sangue ellenico. E in tal fiducia, nell'agognata attesa dell'ora del
riscatto, lavora attorno al candelabro di bronzo per farne un regalo
pei festeggiamenti di Ione, benchè di tanto in tanto l'assalga il
dubbio e la disperazione...

I due giovani pompeiani vissero insieme i teneri anni della
fanciullezza, sognarono insieme un mondo di belle cose, nella loro
piccina fantasia vagheggiarono ideali di gioia e di felicità, anzi
per essi i giorni si svolsero come sempre avviluppati in una vaporosa
nube di sogni... Ma quest'età trascorse, ed Euforione e Ione non più
si baloccarono coi loro gingilli, perchè una grande distanza dovè
separarli, l'uno restando come imprigionato nell'officina di schiavo,
l'altra correndo ad attingere il fremito della vita in mezzo alla
elegante società romana. Ma già il dio dell'amore aveva scoccata
furtivamente la sua freccia, già gli aculei della passione si erano
conficcati nei cuori...

Ecco il simbolo del sogno che adorna la prima lampada del bronzo.

Separato a lungo per imperscrutabile volere della sorte, Euforione
rivede, il giorno prima della festa, nello splendore degli
abbigliamenti, la graziosa compagna d'infanzia, reduce da Roma. Al suo
cospetto, si sente come confuso e resta perplesso; ma Ione, rievocando
i dolci ricordi della fanciullezza e la vita agitata vissuta nel
rimescolío della capitale del Lazio, ha come un senso di rimpianto
per i giorni trascorsi insieme sulle sponde del Sarno e di disgusto
per quelli passati fra i rumori della cosmopolitica città. E a poco
a poco il cuore le s'intenerisce alla vista di chi l'è dinanzi nella
tunica di schiavo, e così, impietosita, arriva fino a svelargli il
segreto d'un sogno... Fra le rovine avvolgenti d'ogni intorno Pompei,
mentre il mare si distendeva al di sotto come inviluppato in una densa
caligine, Euforione le si presentava con due ali arcuate sulla spalla,
invitandola a fuggire sui flutti ondeggianti... e lei, afferrata,
fuggiva verso lidi lontani...

Oh potenza dell'amore precorritrice degli eventi! Chi avrebbe detto
che Ione, già promessa sposa ad un ricco pompeiano sceltole dal padre,
sarebbe stata invece la consorte invidiata d'un suo schiavo artista,
solo per la suggestiva potenza dell'arte?

Così Amore e Psiche, le simboliche figure della seconda lampada,
intrecciano i loro destini a quelli dei due amici, che l'impari sorte
aveva diviso, e pei sentieri della speranza li avviano al conseguimento
della pace e della felicità...

Anche i rosei anni della giovinezza voleranno via nella rapida corsa
delle Ore, ma a conforto dei sogni e delle voluttà per sempre dileguate
rimane l'Arte che vivifica la vita, apportando la luce rischiaratrice
delle tenebre.

Euforione simboleggia appunto quest'arte che, inspirandosi ai
quotidiani bisogni, solleva lo spirito alla contemplazione di un ideale
più sereno, e lo ritempra alla tranquillità e alla calma necessaria al
lavoro, dopo le ansie tormentose e gli ardori delle passioni giovanili.
Così, quando i due coniugi avranno bevuto, fino all'ultima goccia,
alla coppa dei piaceri, allora, nel tempietto delle pareti domestiche,
l'uomo devoto al culto di Pallade Atena intesserà intorno al capo
ancora carezzevole della compagna una ricca ghirlanda di artistici
fiori, come prova del suo immenso amore e della sua anima libera e
forte. E Ione sarà la sposa felice, cui l'Arte presenterà devotamente
i suoi omaggi: dall'alto del suo piedistallo, ove salgono gl'incensi
dell'adorazione e della glorificazione, guarderà beata chi per lei suda
nel bronzo, ed allora gli sorriderà con aria di compiacenza, ammirando
riflessa nel viso dei figliuoli l'immagine operosa di lui...

Il candelabro è per ispegnersi: già tre lampade non dànno più guizzi.
Simbolo delle età dell'uomo, esso accenna all'ultima fase della vita.
Dopo i sogni, le follie dell'amore, le intime e secrete soddisfazioni
dell'arte, non resta che il soave conforto delle rimembranze. L'uomo
si ripiega su sè stesso e rivolge indietro lo sguardo, desideroso
di conoscere il proprio passato. Non più stimoli di passioni, non
intemperanze, non lotte, non disinganni: tutto è equilibrio ed armonia,
e la dea Eirene, la celestiale sorella di Tanato, vi aleggia sopra il
suo mite soffio; poi subentra la morte e la vita serenamente finisce...

Euforione e Ione pagheranno anch'essi il loro tributo alla Natura:
fra le carezze ed i trastulli vissero insieme gli anni innocenti
dell'infanzia; separati dalla sorte, sentirono entrambi bruciare nei
loro petti il fuoco dell'amore; accomunati dal medesimo destino in
mezzo al lapillo crocchiante vomitato dal Vesuvio, voleranno verso lidi
lontani, ove coi frutti dell'arte euforionea crescerà su una novella
famiglia, allietata dalle allegre grida di bimbi vezzosi, finchè non
tramonteranno come l'astro benefico del giorno, legando il loro nome
all'ammirazione dei posteri...

Tale è nelle sue linee generali il poemetto del Gregorovius; un inno
all'amore che nasce dall'arte e di arte si nutre e per cui dalla
morte stessa balza fuori rigogliosa e sorridente la vita. Inquadrato
in una bella cornice di descrizioni ed episodi, lumeggiato dai
riflessi dell'ambiente pompeiano che penetra e colorisce ogni menomo
particolare, irrigato da una copiosa vena di sentimentalismo che
rinfresca e purifica le più riposte fibre del cuore umano, esso mi pare
perfettamente riuscito. Si potrà forse obiettare che la vivezza ed il
bagliore delle immagini rincorrentisi ad ogni passo conferiscano un non
so che di ricercato o lezioso al soggetto, nocendo in parte alla sua
semplicità ed eleganza; ma chi vorrà ciò pensare, fa mestieri ricordi
che sempre e in ogni tempo la rievocazione di Pompei nella storia
della sua grandezza e della sua rovina impennò le ali al pensiero,
dette libero varco alla fantasia, sprigionò la favilla del genio,
dischiuse tutto un tesoro d'immagini vaporose e iridescenti... E non è
senza forte commozione che noi, assistendo allo svolgersi dell'idillio
dei due giovani pompeiani, ora udiamo estasiati l'eco dei canti
che risuonano lungo la via delle tombe, ora guardiamo esterrefatti
il Vesuvio rigido e fiero, che vomita fiamme lingueggianti, ora
contempliamo il lusso sfarzoso e gli artistici mosaici della casa di
Arrio, ora infine proviamo come un brivido di morte dinanzi alla folla
pazza di dolore, che fugge al mare in cerca di scampo, attraverso
alle vie già mezzo sprofondate e coperte dalla cenere... E questa
commozione, naturalmente, vien determinata in noi dal fatto che il
colorito storico in _Euphorion_ è ben mantenuto: Pompei rivive nelle
sue abitudini e nelle sue costumanze, i personaggi sono mossi ed
animati dallo spirito del tempo, la civiltà che vi freme dentro è
proprio quella di allora.

Dove, forse, non si riesce a spiegare, o meglio a giustificare
l'assunto del nostro poeta, è nelle lunghe e spesso astruse parlate
ch'ei mette in bocca ai suoi personaggi. Che anzi — se non è troppo
arrischiato il paragone — a me pare che qui l'autore arieggi la nota
consuetudine dei poeti alessandrini, i quali nel corso delle loro
opere si dilettavano d'introdurre delle questioni di ogni specie,
per ricamarvi poi intorno una ricca e varia trama di considerazioni
più o meno originali e bislacche e sfoggiarvi il lusso della propria
erudizione.

In verità, sorprende non poco che un commerciante stia lì a discutere
di arte e a manifestare con acume e profondità di argomentazioni i
suoi pensieri al riguardo; così non sembra verosimile che uno schiavo,
decoratore di muliebri gingilli e costruttore di candelabri, si
allontani tanto dalla realtà cruda che lo investe per fissare da vicino
un radioso miraggio di luce, e tanta commozione e tanto entusiasmo
provi per l'arte sua manuale, da parlare di fiamma purificatrice, di
forza che crea, di lavoro che redime...

Anche qui, come del resto in tutta la intonazione del poemetto, si
potrebbe riprendere la medesima fosforescenza dello stile, il medesimo
colorito lussureggiante della verseggiatura; ma quel che giova notare
più particolarmente si è che il Gregorovius tratteggia qui tutta una
teoria estetica dell'arte, considerando questa nei suoi principî,
nei suoi mezzi e nelle sue finalità. Insomma, egli si vale dei suoi
personaggi per introdurre e discutere una questione di per sè stessa
già tanto trattata, e riconnette all'ambiente pompeiano quello che
costituisce il risultato delle sue ricerche e della sua esperienza.
Così, quando l'egiziano Serapione e l'elleno Euforione filosofeggiano
su gl'intenti e le aspirazioni dell'arte, sono entrambi mossi dalla
mano segreta del Gregorovius, entrambi animati dal soffio potente della
parola di lui. Ma questo studio appunto, d'insinuare cioè le proprie
convinzioni nello svolgimento tranquillo e sereno dell'idillio, doveva
evitarsi per un poemetto, ovvero ridursi entro più stretti confini.

A parte però questo neo, che spicca evidente agli occhi del lettore, è
bene avvertire che in tutto il resto i caratteri dei singoli personaggi
sono ritratti con molta abilità psicologica: Euforione incarna il tipo
dello schiavo raggentilito ed urbano, dall'anima libera e grande, che
è tutto fede nell'arte sua, nel lavoro delle sue dotte mani. Ione è la
giovane passionata e sensibile, niente orgogliosa della pompa che la
circonda, e in cui si direbbe che già incominci a spuntare il germe del
sentimento cristiano. Arrio è il commerciante arricchito, l'epicureo
che guazza nell'oro e crede di annegare nelle coppe spumanti il bieco
fantasma della morte, sempre fiero e superbo di una comprata nobiltà;
Ion, l'ingenuo fanciullo che pure nello spavento e nella desolazione
non sa dimenticare i suoi ninnoli; Menandro, l'immagine dell'invidia
che occhieggia torva e sprezzatrice l'altrui lavoro, pronta al biasimo
ed al sarcasmo, dove altri ha una parola di lode e d'incoraggiamento;
Serapione, infine, — per tacere di qualche altra figura secondaria —
l'immagine della vecchiezza intelligente e sagace, che legge nel lampo
degli occhi del giovane e con fatidica antiveggenza ne vaticina i
trionfi futuri...

Ora, se si tien conto della difficoltà enorme che si affaccia
agl'ingegni nel far rivivere una civiltà passata, cotanto diversa dalla
loro — alla qual cosa accennavo poc'anzi — ond'è che molti tentativi
miseramente abortirono, come pure dei mezzi che l'arte sa suggerire
al Gregorovius per fargli superare egregiamente la prova, si dovrà
considerare l'_Euphorion_ come uno dei più perfetti e indovinati quadri
pompeiani, una delle più vive e geniali pitture del tempo, in cui ogni
tinta fu suggerita da un'impressione di meraviglia e di compiacimento,
ogni linea tracciata col cuore.

Ed io vo' augurarmi che tale appunto lo giudichi il benevolo lettore,
se pure sia riuscito a ritrarre e trasfondere nella veste italiana
la bellezza sentimentale che vi sfolgora e tutto il brio che sì
efficacemente lo anima.

  Cava dei Tirreni, ottobre 1905.

                                                         MARCO GALDI.



CANTO I.

ONEIRO.


Allegri suoni echeggiavano nella magnifica casa di Arrio, canti di
schiavi operosi e risa di solerti fanciulle, che insieme con gli
efebi intrecciavano nel cortile molti e graziosi fiori variopinti,
quale addobbo festivo per il domani. Tutto ciò che ognora offrivano
i campi ed i giardini di Pompei, era lì dintorno accumulato; già si
contornavano le colonne di ghirlande di edera e scintillavano rosei
nastri. Agili poi correvano su e giù gli affaccendati schiavi, a
frotta portando vasi e brocche e aurei utensili per la festa, perchè
dappertutto raggiasse e splendesse la casa di serena bellezza.

Ritornava la desiderata figliuola di Arrio, che il padre aveva condotta
a Roma dalla piccola Pompei, acciò vi osservasse il mondo, i costumi,
e una nobile educazione ne compisse il fiore della gioventù. E subito
il padre aveva convitato a banchetto gli amici, perchè degni ospiti
onorassero la nuova arrivata; e chi ora vedesse la casa quale si ergeva
magnificamente la più bella di Pompei,[4] sentirebbe scoppiarsi il
cuore di gioia e arriderebbe alla festa.

Se ne stava nel cortile il capo degli schiavi Peisandro, appoggiato ad
una colonna dell'ingresso; a voce alta gridava: «Intrecciatemi presto,
o efebi e fanciulle, i serpeggianti fiori; Elio declina al mare; già
cresce più forte colà intorno alla bruna e fumante cima del Vesuvio
una irradiazione del colore dell'iride. Quest'oggi l'aria è afosa e
non aleggia dal golfo nessun soffio respirabile. Affrettate le mani, ne
tocca festeggiare la divina Ione».

Affrettate le mani, ne tocca festeggiare la divina, Ione! — Così
come un'eco risuonò questa voce di là, alla finestra, dove sul
cortile sorgeva il luminoso e aereato piano. Frattanto, s'indugiava
nell'officina tutto ingegnoso ed occupato un garzone, curvo sulla
tavola presso la finestra; e con le sue abili mani intrecciava una
ghirlanda di fiori, come gli efebi nel cortile, ma una molto più bella,
e la foggiava con ogni cura intorno alla nitida base del magnifico
candelabro che gli si ergeva dinanzi, opera eccellente di bronzo
bruniccio.

Agile come l'alta figura delle mani creatrici dell'arte spiccava
l'immagine del maestro nel fascino della leggiadra gioventù, pure
ravvolto in una tunica di lana, come si conviene agli schiavi. Spesso
ei tendeva lo sguardo giù nel cortile e contemplava gli azzurri monti
di Sorrento sopra il golfo, come il roseo vespro alitava già mollemente
su in alto alle cime gl'infocati colori. Ed egli raddoppiava ancora la
fretta della mano e dei sottili martelli, quasi la paura lo spingesse.
Eppure non mancavan solo che pochi intrecci di foglie, giacchè la
maggior parte erano state battute. Ma il candelabro s'ergeva bell'e
compiuto, un'opera d'arte divina.

Sulle zampe del leone risplendeva la luccicante base robusta e
levigata; vi si poteva bene specchiare dentro una fanciulla. Sul suo
orlo dentellato con molta finezza si avviticchiava un ramo di vite
battuto in argento e d'accanto si elevava l'altare fiammante, nitido e
bello, e di contro la magnifica opera plastica. Ivi danzava agile con
le vivaci membra una pantera, ardita e superba, poichè sul suo dorso
sedeva il divino cavalcatore, incoronato di pampini, Dionisio, avente
per tazza un lucido corno.[5]

Così queste figure ne ornavano graziosamente la base. Or dalla base
si ergeva la poderosa opera di bronzo, leggiadra per il capitello
e le braccia e le lampade pendenti, arrivando fino a sommo il petto
di un uomo all'impiedi. Consisteva in un pilastro di stile corinzio,
una maschera lo abbelliva dinanzi al capitello, e di dietro sporgeva
una grossa testa di toro. Ed era una maraviglia a vedere come belle
di sotto al capitello s'incurvassero le braccia che, protendendosi,
sostenevano quattro lampade. Così era anche grazioso vedere il loro
giuoco e la loro forma intrecciata di foglie, splendida, scintillante e
crespa come le foglie del fiore d'acanto. Ma da ogni braccio scendeva
giù sospesa a catene rilucenti una lampadina, e queste lampade
risplendevano magnifiche d'un bronzo raggiante a color d'oro, come
all'ombroso ramo le rosse arance. Artisticamente spiccava ognuna,
distinta per una imagine allegorica. Così sulla prima si elevava
delicata una figura di bronzo, con una torcia lucente: era Oneiro, il
dio del sogno, quale una farfalla nell'azzurro crepuscolo della sera.

Ben altrimenti effigiata era la seconda: ivi sedevano dall'aspetto
celestiale, cianciando e baciandosi ad un tempo, due giovani figurine
innamorate, Amore e Psiche uniti insieme. Come colombi teneramente
baciucchiantisi col becco nella selva, essi si accarezzavano vagamente,
e l'avvenente Psiche innalzava nella destra la torcia, mentre con le
braccia la cingeva il Nume e la baciava con affetto.

La terza lampada era anch'essa variamente configurata. Sulla curva
calotta serio con le ali basse e dagli occhi intelligenti poggiava un
uccello; il notturno gufo di Pallade Athena; tra gli artigli reggeva
la torcia più grande, fiso e grave spingendo innanzi lo sguardo, e
ridestava anche il senso della serietà. Ma l'ultima delle lampade
svegliava commozione e malinconia: Tanato v'era scolpita, spegnendo
la torcia nella notte; e le si librava a volo di fianco l'amica Ora
Eirene, ravvolta in un velo, col pacifico ramo di palma ricurvo nella
mano.

Così era fregiato il candelabro artisticamente scintillante in bronzo,
ma il maestro dava ancora colpi di martello sugl'intrecciati viticci.
Talora sollevava il capo, tal altra lo abbassava di nuovo e buttava
giù per la nuca la nerissima chioma, quindi guardava con aria di
compiacenza l'opera sua e subito prorompeva sospiroso in cotesti vaghi
accenti: «Oh arrecami domani la salvezza, Orione, tu lampa del cielo!»
Ma la fronte era mesta, e si rigonfiava scintillante il suo occhio
fondo come per un trepido dolore e per un impaziente desiderio lontano.

Così ei se ne stava tutto intento al lavoro, senza sapere che di
nascosto, appoggiato alla colonna accanto alla porta, lo adocchiava
di lontano uno straniero; era un vecchio di vigoroso aspetto; lo
ravvolgeva una nera veste pieghettata, succinta da cinghie di porpora
sidonia. Bruno era il colorito del volto, la figura come d'un uomo
che abiti da lungo tempo il giallo Egitto. Ed egli contemplava fiso il
candelabro e stupiva dinanzi a quell'officina così ricca di vasi e di
artistiche forme, queste già belle e complete nel getto del bronzo,
quelle appena abbozzate in duttile cera e in molle argilla. Ma nel
mezzo dell'officina s'ergeva una statua dissimile dalle altre e doppia
— così pareva, — perchè dei veli increspati la nascondevano allo
sguardo, mentre di sotto al panno si delineavano i robusti contorni di
agili corpi di eroi.

A un tratto il vecchio si appressò, battè leggermente sulla spalla
dello schiavo e disse: «Un assai eccellente maestro tu sei diventato,
o Euforione, da che l'ultima volta io vidi te e le opere delle tue
artistiche mani. Magnifico è questo bronzo! non ne ho visto uno simile
e pure ne ho contemplati di belli e tanti ne ho acquistati in Egitto e
in Roma. E chi avrà la ventura di vedersi nella sua stanza circondato
dagli sprazzi di luce di quest'opra incantevole, avrà bene a godere del
magnifico possesso».

Ma in segno di amichevole saluto il giovane gli porse la destra e
subito rispose: «Sia il benvenuto, o Serapione, degno ospite ed amico!
Solletica forse questo enigma il tuo spirito egiziano? Caro mio,
tel dico subito: no! tu non mel compri neanche per tutti i tesori di
Ramesse! Molti giorni e molte notti taciturno e paziente ho io vegliato
accanto al lavoro e lungamente mi sono io stesso quasi fuso modellando
questo bronzo, e con esso ho diviso la mia vita. Ahimè! tutto quello
che arreca diletto sembra scaturito unicamente dal piacere; ma il
maestro che creò, sedette qui muto sull'opra, incombendo al lavoro,
e ne intesserono la varia tela la speranza, il dolore, il desiderio
della felicità, la desolante tristezza. Ora ne rendo grazie alle Ore:
dall'ondeggiante getto di bronzo mi uscì l'opera perfetta e corrisponde
ora pienamente al disegno, piacevole nella sua serietà».

A ciò muto rimase l'Egiziano, contemplando estatico l'immagine
meravigliosa, mentre il giovane Elleno dallo sguardo lampeggiante
ripigliava: «O vecchio, tu guardi estatico, eppure pressochè estranea
mi sembra la forma; essa se ne sta ora lì freddo e irrigidito bronzo
senza moto e senza vita, come un prigioniero ed uno schiavo dagli
sguardi più strani. Ma essa mi viveva calda e luminosa nel petto
infuocato, come l'immagine delle stelle che si disegnano librandosi
nel cielo. Son già quattro anni da che meditai questo candelabro, una
volta in sul vespro, quando la mia morta madre Serena veleggiò verso
Roma insieme con la figlia di Arrio. Ma io sedetti col più profondo
dolore sulla riva del mare, seguii con l'occhio la vela, finchè
l'allontanantesi nave disparve in un crepuscolo di porpora. Allora
vidi lassù nel cielo la sacra costellazione di Orione fiammeggiare
sugli ansanti flutti; come agitato da un nume stavo allora a guardare
la zona delle stelle celesti, quando mi si presentò al cuore la figura
di questo candelabro e l'immagine delle lampade. Tutto ciò come in uno
specchio mi rifletterono nell'anima le carezzevoli stelle, ma dormì la
mia opera e soltanto ora l'ho finita».

«Davvero, replicò il vecchio, fu allora la tua buona sorte a
fornirtela: oh te beato, nel cui cuore albergano le Grazie!»

«Ben dici il vero, o vecchio, rispose l'altro con rapido gesto, eppur
sempre con piacere sento agitarmisi nel cuore un impulso di gioia, un
impulso a modellare la superba figura: come una musica mi risuona di
continuo nel petto, tal che i pensieri mi si muovono incessantemente
in una nuova allegra danza di figure e di forme, intrecciando e
sciogliendo le arie come una lira melodiosa. Anche nel sogno, quando
stanco dal lavoro diurno desidero appisolarmi, mi s'agitano nello
spirito delicate immagini; come contemplo allora felice la forma della
pura bellezza, che mai arrivo a comprendere quando son desto. Ma ahimè!
ciò che di meglio l'uomo anela, gli penzola sul cuore, solo come un
sogno celestiale, ahimè! solo come una fuggevole brama! Io sento il mio
spirito così elevarsi in alto, allora vorrei, o Serapione, volando più
in alto e sempre più in alto, accostarmi agli antenati divini. Ma grave
e plumbeo mi si attacca ai piedi il mondo, e un affanno paralizzante
erra nel labirinto del mio cuore. Oh come mi addolora profondamente
quella frase dei motteggiatori, quand'essi, sparlando della graziosa
arte della mano che foggia il bronzo, disprezzano il lavoro manuale
come qualcosa d'ignobile e una bassa necessità umana. Ma per l'eterna
luce! Guarda l'artistico intreccio di queste agili forme! Anch'esse
sono l'immagine scolpita della Grazia, o amico, e dànno l'idea del
bello e del sublime. Perchè anche a me veglia sul cuore e sulle mani la
Musa».

«Che tu sia consolato! proruppe con gioia il vecchio, tu non eserciti
veramente alcun vile mestiere: io chiamo sempre magnifico il lavoro
delle mani. Ben t'invidiano molti; l'insieme di queste forme avvenenti
te lo dette la divinità; non più ricche si presentarono esse alla
mente dell'artista che infonde nel bronzo le forze vivificatrici della
Grazia. Duolmi però teco, che tu debba creare come uno schiavo servile
ciò che solo ai liberi si addice: la servitù arreca onta alla sacra
arte! Nè mai a questa dovrebbe accostarsi un uomo di oscura condizione,
ammantato di veste da schiavo: no, libero di corpo ei dovrebbe
essere e libero di anima, come i figli dell'etere, gli Dei placidi e
sorridenti».

Allora una vampa di vergogna salì in volto allo schiavo, sollevò con
rabbia la destra e gridò pieno di angoscia queste grame parole: «Hai
tu veduto le notti che io affannosamente — ohimè! — ho pianto sul
misero giaciglio, contorcendo il cuore e le mani? E quando di notte, sì
spesso sedendo come una vigile figurazione del dolore che strugge, io
accuso la mia vile sorte, oh! allora s'avanzano nella triste disabitata
officina le figure di Dei scintillanti in bronzo, in pietra e gridano:
qui stiamo noi! ci scolpì Fidia, ci scolpì Policleto, mi lavorò Mirone,
mi lavorò Prassitele, uomini dell'Olimpo. Or chi sei tu mai, infelice,
che osi stendere anche la mano alla fiamma di Prometeo? Allora ohimè!
esse sghignazzano sonoramente e con piedi di bronzo calpestano il mio
cuore che ansa. Al banchetto dei tetri dolori siede la mia anima, o
vecchio, cibandosi di un duplice affanno. Ma nel petto non mi vien mai
meno l'anima rovente, anzi nei dolori più forte si spinge sospirosa
solo alla luce. Allora mi sento battere dentro, allora mi vengono mille
pensieri; allora come per ischerno mi s'agita nello spirito la forma
snudata simile alla convulsa Menade, io contemplo l'immagine più bella.
Ma presto l'estasi svanisce, e di nuovo mi sembra tutto così meschino,
così insulso, e spregevole financo la forza e la propria attività, e
più non appaio a me stesso nobile, come chi con pesante martello batta
sull'incudine il suo ferro che sprizza scintille. Allora nello sdegno
manderei in frantumi le mie opere e strozzerei fin nel germoglio tutti
gl'impulsi divini».

A ciò serio e sarcastico soggiunse quegli: «Come sono vani e meschini
i dolori dei mortali! E intanto l'uomo sempre scontento ingrandisce
il suo misero pulviscolo fino alle proporzioni del mondo; sulla nuca
ei solleva la sfera del cordoglio e si crede ben presto un Atlante. E
ciò che di soave gli si desta nel petto, non più germoglia in un vago
fiore, non più in un placido frutto; ma solo l'istinto ne prorompe
pieno di bacchico furore, provocando gli Dei alla lotta, e così l'anima
diventa sempre un campo di battaglia».

Ma il giovane dal viso sconvolto, tutto iracondo, gridò: «Vuoi tu
vedere come il mio cuore è schiavo e come arido scorre in me il fonte
della forza immortale, da cui credevo di attingere? Mira: qui sta la
mia vergogna, umidi ancora sono i panni che avvolgono la mia opera. O
vecchio, io lavorai intorno alla figura, a lungo stetti ginocchioni e
pregai gli Dei perchè spandessero su queste immagini un raggio del loro
lume vivificatore che penetra fiammeggiando le opere. Ma nessuna vita
vi scese, nessun vezzo seducente, perchè dal cuore alla mano un demone,
schernendo, arresta ed impedisce all'artista da strapazzo la corrente
magnetica del suo animo. Sì, io riconosco d'esser non altro che uno
schiavo, e sebbene io circondi il mio animo del più caldo sentimento e
dello scintillio di entusiastici pensieri, pure, quando mi accingo ad
un'opera, mi si disvela con ischerno la mia impotenza».

E con un tratto violento strappò dall'immagine il panno, da
quell'immagine che alta e coperta si ergeva nell'officina. E si
offrirono allo sguardo, dall'argilla azzurrognola, due alte figure,
congiunte in un poderoso gruppo. Eran Dedalo ed Icaro, il suo celeste
figliuolo, che, imprigionati nel labirinto della roccia di Creta, si
fecero con la loro arte le ali per sottrarsi arditamente alla mortifera
voragine. Ma il padre, già vecchio divino, sedeva presso i crepacci
della rupe, tranquillo e intento a fabbricare con pratica mano le ali
dalle penne maestre del cigno selvatico. Sparpagliata ed a mucchi stava
a lui dintorno sul suolo una quantità di fioccose piume; ed Icaro, il
giovane entusiasta, era presso il padre, avido di desiderio, pronto
a volare, intollerante di freno. A lui già s'inarcavano, circondando
come di argini le rilucenti spalle, due agili ali di sirene, di color
cupo qual notte porporina, arditamente e saldamente connesse, forti per
dare impeto al volo. Ed esse si agitavano, già ventilavano come cigno
sollevantesi, quando la sua ala stride sui neri flutti. Così stava
l'ardente giovane, con gli occhi rivolti al cielo; ma lavorava ancora,
tranquillamente affaticandosi, il vecchio con una pensosa serietà...

Meravigliato contemplava l'Egiziano e stupiva come il sembiante dello
schiavo si rassomigliasse tanto ad Icaro per la giovinezza e per
la figura. «Robusta mi sembra, gridò egli, e grande, ma solamente
disarmonica quest'opera; manca qui lo spirito tranquillo ed anche
la sobria forma. Tu creasti un Dedalo senza vita, perchè l'impeto
dell'entusiasmo ti attirò ben presto la mano alla figura del focoso
figliuolo: tu elevasti a un Titano l'entusiasta Icaro che fu abbagliato
dal sole».

A ciò pieno di cattivo umore rispose l'offeso giovane: «No! tu non
comprendi giammai la mia alta e bollente natura, non mai tu intendi il
mio desiderio così potentemente alato. S'avvii pure la vecchiaia alla
polvere del sepolcro, limiti per bene la zolla del securo intelletto
e con ansia d'avaro calcoli la mercede della sua fredda arte che, con
la polvere della conoscenza, foggia i dolori terreni e i momentanei
piaceri. Ma lo spirito, che le superne Muse infiammarono, deve
liberarsi dalla notte greve e dal labirinto della polvere opprimente.
L'anima del poeta, attratta dalla luce, alza grida di gioia al cielo
ed ei non fa distinzione tra umano e divino. Sulle ali dell'amore
s'innalza al sole per accendere pel popolo mortale la sacra fiaccola di
Prometeo al raggio della bellezza immortale. Ardito siede tra gli Dei,
ardito squarcia il velo di Iside, osservando la ineffabile parvenza
divina. Non hai tu mai agognato le alte sfere della bellezza, quando
fuor del mondo hai guardato nell'etere scintillante? Non mai quindi nel
tremito ti sollevò in alto il petto bramoso? Ah! chi non volerebbe come
Icaro, chi non vorrebbe come lui respirare la luce celeste, quand'anche
dovesse pagare con la morte l'ebbrezza di tale entusiasmo e la voluttà
dei polsi librantisi a volo?»

Allora tranquillo sorrise il vecchio e dolcemente disse: «Assai bella
è negli occhi del giovane la fiamma dell'entusiasmo, bella la lagrima
del desiderio, nutrita nel profondo del seno per le occulte sorgenti
della luce e l'immagine primigenia e velata della vita. Ascolti pure
il barcollante mortale il canto delle sfere cullarsi sulla polvere
nella comprensione ampia del cosmo, ma sia pur certo che alla fine ei
non stringe che un sogno. Perchè noi uomini non siamo posti sull'aereo
delle nubi sì da contemplare oziosi le alate danze delle stelle. No!
noi stiamo tra l'incombente necessità del sepolcro e la terra nutrice!
Aimè! un atomo di luce e un pulviscolo luccicante dell'eterea fiamma
dell'anima scintilla nel petto caduco: ma per l'uomo esso è tutto ed
un profondo enigma. Come innanzi alla sfinge tebana, così sempre muto
innanzi al proprio spirito sosta almanaccando il mortale e vacilla
nell'oscuro labirinto del proprio cuore continuamente per un falso,
malsicuro e tortuoso sentiero. Guarda un po' Dedalo! quanto poco arrivi
a comprendere il saggio! Egli è il padre del lavoro manuale, un secondo
Prometeo per l'uomo; compie un'opera buona e possente, quindi si
solleva con impeto all'arte divina, qual suo sublime e serio fondatore,
e ve lo portano le ali, le ali fabbricate con arte e con sicurezza.
Simile a quel maestro anche tu! sì, resta nell'officina di Dedalo! Quel
che è bello riesce a pochi, ai più ciò che è buono, il grande è solo
di pochissimi. Ben vidi io tanti e tanti precipitare vertiginosamente
dall'etereo cammino, così come egli sprofondò nella spalancata voragine
per la fiacchezza; ma solo pochissimi vidi cimentarsi a cose audaci, o
amico, in quanto seppero modestamente non dare ascolto alle lusinghe
del Dio che soffiava nel petto. Perchè sempre ci aleggia dintorno
il canto fascinatore delle sirene, traendo ciascuno dal suo proprio
cammino oscuro come la notte. Sì! chi ciò potesse, bene per lui! chè
non chiamato gli si accosta il Genio a prestargli le sue ali robuste».

Così il vecchio, e tacque; e guardava estatico le sublimi figure,
mentre dal cortile echeggiava in pari tempo un giulivo canto e spesso
nel canto risuonava il nome melodioso di Ione. Pallida s'era fatta la
gota del giovane, mesto il suo sembiante; ma Serapione vide il mutato
aspetto e gridò subito: «O strano uomo! se tu fossi libero, ben si
slancerebbe lassù, nel cielo, la tua forza. Pur non ti scoraggiare,
o amico! orsù e spezza il giogo, perchè di molto è capace la
risolutezza».

Ma Euforione si calmò ben presto, indicò il suo candelabro e disse
con accento di serietà: «Ben so io che le opere degli uomini sono un
olocausto, o vecchio, per implorare dal cielo il riscatto. E in ciò
è riposta la mia speranza, che è per me un araldo divino della luce!
Arrio è nobile e come un padre mi tratta; pure a lui scorre nelle
vene una goccia di sangue ellenico. Una volta un tale gli eseguì
nell'officina un lavoro d'un'arte così rara che pien di gioia ei lo
mostrò agli ospiti ammirati, e perciò l'onora, concedendogli l'ambita
libertà. Di ciò mi ricordai quando creai questo candelabro, perchè io
lo espongo quale offerta per la festa del domani». E subito arrossì,
affrettando il suo detto.

Serapione allora scrollò il capo: «Indarno tu speri! Arrio riscatta
di buon grado tutti gli altri, dei quali può fare a meno, non però
te che sei la ghirlanda e il fiore dell'officina, te che ogni città
accoglierebbe a braccia aperte. Credimi, Euforione, è tutta mutata
l'umanità! Altri tempi, altre esigenze! L'uomo non è più in grado di
contemplare il grande, l'ideale e le figure così come incantavano il
cuore negli splendidi giorni dell'Ellade. Poichè per lui fiorisce il
mondo, un più vago cielo ogni giorno, assai somministra la terra, ed
anche il mare che lo circonda offre tesori su tesori; il cittadino
accumula preziosi beni. Ecco, ora egli chiama l'artista, che deve
arricchirgli ogni giorno di bellezza e prestare nobili forme ai comodi
d'una vita agiata. Or tu davvero sei fatto per soddisfare cotesti
desideri, o amico. Se tu vedessi Alessandria, la magnifica principessa
del mare, tu stesso verresti meco, quale un celeste passeresti
dovunque, a te l'oro affluirebbe nel seno, l'amore di parecchie donne
avvenenti ti sedurrebbe»; e così guardò in viso allo schiavo con aria
interrogatrice e penetrante. Sinistramente muto se ne stava il nobile
artista, con una stizza nello sguardo da far meraviglia. E sorridendo
con espressione disse il commerciante: «Per domani io disposi la
partenza, la nave è stata oggi noleggiata, chè m'invade uno strano
timore come se qui s'appressasse la sciagura. L'aria mi mette un
brivido d'angoscia e un opprimente raccapriccio del cielo mi paralizza
il capo: di notte spesso mi desta un demone improvviso, mostrandomi
immagini di fuoco al polo e stelle erranti. Presso il monte si agitano
meteore e figure gigantesche, spesso anche ne echeggia come un suono
di trombe e di tube rimbombanti. Vieni, come libero ti accolgo e ti
salvaguardo alla mia terra».

Oh come scattò il giovane stupito, come gridò allora con collera:
«Taci, o vecchio, che non ti dica una parola sconvenevole, pur nell'ira
del ribrezzo che tu m'ispiri nel petto. Poichè questa sacra casa è come
una patria per me: qui visse Agatarco mio padre, quantunque schiavo
forzato; qui l'arte ei mi apprese, e quasi come un figlio mi tenne
Arrio fin da quando egli morì. Non mai come uno schiavo, ma come un
simile io appaio ai dissimili nella casa, sempre, per la divina arte.
Che altri sogghignino, a me solo disgusta questa veste di schiavo
che, ohimè! dal padre ereditai! No! non può la stizzita Erinni farmi
scappare con ignominiosa fuga. Sì, mi offrissi pure il tesoro delle
Indie, io vivo qui più volentieri da schiavo, che da signore nel più
deserto paese straniero».

Così diss'egli crucciato e battè sulla spalla all'ospite amico. Ma il
vecchio gli strinse ambo le mani e affettuosamente disse: «Bene a te,
che alberga nel tuo spirito la virtù anche accanto al Genio. Oh potessi
io coi miei propri beni riscattarti, ben volentieri mi addosserei una
parte del carico».

Tacciono entrambi, agitando le parole nel petto, appoggiati sulla
grata, dove libero innanzi allo sguardo si stendeva il cortile. E
colà gli schiavi sulle scale a piuoli sollevavano con sonoro canto la
ombrosa ghirlanda, in modo che ben ne ricingesse la porta.

Ascolta! allora risuonò subito nel portone un suono di timballi
dolcemente ondulato, e saltò nell'atrio un ragazzo danzando e agitando
a battuta gli aurei sonagli del timpano, simile ad un Amore nella sua
chioma nera e ricciuta; quindi comparvero delle donne leggiadramente
e splendidamente adornate. Ma passò innanzi a loro d'un'andatura
maestosa una fanciulla, svelta come l'Ora del maggio, che viene sui
campi. Indossava con disinvoltura una veste vaporosamente intessuta
di azzurre viole, e di sotto ne traspariva la tunica bianca come
neve, strettamente allacciata alle piene forme del corpo. Sulla
spalla cadevano le pieghe della veste ch'essa portava con avvenenza
e con grazia. E la sua ricca chioma, bruno-dorata come il fiore
dell'elicriso, s'intrecciava fittamente e scendeva, sostenuta da nastri
scintillanti, dappertutto, sulla fronte e le guance giù fino al collo
gentile. Lenta ella camminava e coi neri occhi guardando giù raggiava
di leggiadria, come il raggio di luce che abbellisce la sera. Allora
le donne che intrecciavano corone e i garzoni nel cortile le sparsero
fiori dinanzi, gridando un sonoro: «Salute a te!» A un tratto lanciò
uno sguardo alla finestra la fanciulla che s'allontanava, rapida, e
disparve nel portico della casa ombrato da colonne.

«Vedi un po', disse il vecchio, vedi Ione, la figlia di Arrio! Niente
di più nobile può vantare altrove la bella Pompei. Ma così precipitano
i tempi nella corsa che tutto trasforma. Quand'io venni da Arrio
negli anni passati a portargli vasi di mirra e stoffa di Tiro, vi
vidi tanto spesso quali avvenenti fanciulli e partecipai volentieri ai
vostri giuochi. A te era sorella di latte la ragazza, e per ischerzo
vi si chiamava nella casa Amore e Psiche. Ma il fanciullo è divenuto
un maestro d'arte e come vergine brillante e come superba signora
dominatrice torna a casa la fanciulla di allora. A lei tra breve il
padre sceglierà uno sposo fra tutti i liberi della città e i primi dei
ricchi aspiranti».

E d'un tratto volgendosi dalla grata, proruppe lo schiavo: «Come s'è
fatta afosa l'aria! come ansa colà il monte impetuoso, vomitando dal
cratere nugoli di fumo! Sembrano le aure imbevute di zolfo; a me duole
il capo per queste emanazioni che si diffondono all'intorno. Guarda, il
sole è al tramonto, si fa tardi: domattina, o ospite amico, io verrò a
trovarti presso il mare e ti porterò la novella della liberazione».

A ciò quegli: «Hai fatto bene a richiamarmi, poichè da molto indugiavo.
Arrivederci; tutto riesca secondo il tuo desiderio, o mirabile giovane:
possa il giorno vegnente essere per te la festa della liberazione!» —
Così disse il commerciante, fe' cenno col capo e si voltò subito per
partire.

Ma Euforione restò nell'officina: era pallido come il marmo, il cuore
gli pulsava forte e rapido nel petto. Timido gettò ancora l'alato
sguardo nel cortile, si voltò via subito e stette dinanzi l'immagine di
Icaro, sinistro, immerso nell'ombra, contemplando il poderoso lavoro.
Quindi gli si oscurò sempre più la guancia, e fiammeggiando gli salì
negli occhi una collera impetuosa e terribile. «Pazzo, ei gridò, tutto
quello che tu ami è troppo lontano, troppo alto per te! E fino alle
stelle tu tendi le mani di schiavo! Va' via, sogno celeste! Sia morto
il passato, morto per me!» E con impetuosa mano s'avventò alla statua
di Icaro, la divelse e guastò; cadde dalle spalle il maestoso capo,
ruzzolando su pei piedi i gentili tratti del volto tristemente deformi;
frusciando cadde giù una delle ali, giù dall'alto stramazzò la spalla e
il braccio e il ferro che lo sosteneva. — Ad un tratto come sbigottito
Euforione rattenne la mano furente, gli s'inorridì lo sguardo, alla
vista di quel figliuolo di Dedalo così bruttamente mutilato, frantumato
nelle sue forme fiorenti, dal tronco grigiastro, mentre il capo era lì
rigido e raccapricciante sul suolo, quasi che dolente, dallo sguardo
interrotto, con profondi sospiri si lamentasse! «Ahimè! come tu, pazzo,
hai frantumato nel nulla l'immagine della celeste aspirazione, e come,
precipitata dall'alto la tua sacra forza, il sole si spegne nel tuo
petto rinnegandoti ogni cosa! Icaro io fui, e tu? ahi! tu ora rimani
nella polvere!»

Così stette lungamente il maestro, guardò immoto il confuso
disfacimento e dagli occhi cascarono giù amare lagrime a lungo
trattenute, come se ne sta un fuggiasco, che il rapido naviglio
allontana dal patrio lido, e che, appoggiato all'albero, l'occhio
rivolto ancora alla città nativa, contempla le sponde che si
disperdono, le azzurre vette che scompaiono, e tutte insieme le figure
della perduta felicità. Ma egli guarda lì fermo nei flutti del mare
informe e nebbioso e da gli occhi cadono le lagrime della terribile
malinconia.

Ascolta! Rimbombò di nuovo il timballo e sempre più vicino echeggiò nel
cortile, e risuonò alla finestra il canto del garzone. Ma Euforione si
affrettò a coprire con panni la brutta e deforme immagine, e trillando
e cantando salì le scale il caro Ion e sorridente entrò per la porta.

«Salute! gridò lieto il garzone, salute a te, il più caro dei mortali!
Il padre vuol darti un saggio consiglio per l'opera artistica che
Pansa desidera per sè. Oggi si banchetta nella villa presso la sponda
del mare e v'interviene anche la sorella con le donne, per godere il
fresco refrigerante della sera. E tu non la vedesti ancora, non le
hai dato il benvenuto: pure tutti quelli di casa glie lo dettero. Tu
solamente siedi racchiuso e muto nella ricca officina tra i bronzi,
e quasi tu stesso diventi per me un freddo bronzo. Vuoi vedere la
sorella? O che cosa stai meditando? Ognuno la glorifica e tutti
complimentano la bella. Anche a te essa porge il suo saluto e mi disse
in pari tempo ch'io devo condurti, se lo vuoi, nella villa di sera,
perchè ti dica avanti la festa di domani una parola di saluto». E il
ragazzo non ascoltò la risposta, ma agile saltò attorno al candelabro
ammirando con gioia puerile. «Oh come tutti spalancheranno gli occhi
su di te! O carissimo, gridò egli, nessuna parolina avevo io susurrato
alla sorella, ed essa mi domandò subito tante cose di questo o di
quell'altro. Son sempre con lei e starei sempre ad ascoltare i racconti
che sa farmi di Roma; com'è magnifica e grande la città! Essa mi portò
anche molti regali, molte cassettine artistiche di oro, di oro fino,
e molte vesti di oscura porpora, ciò che tutto io ti mostrerò così
com'è conservato nella camera; ed anche il timballo. Ecco, i magnifici
sonagli son di oro risuonante, così li hanno anche in Roma i fanciulli,
quando danzano la scrosciante ridda nelle feste bacchiche». E lieto
rise il garzone e saltellò nell'officina, quindi uscì fuori saltando e
cantarellando per la porta spalancata.

Già il sole s'immergeva nelle onde alla roccia di Ponza, che dietro
la vetta della verdeggiante isola di Ischia verso ponente emerge
azzurrognola dal mare come la corolla del fiore di loto. E ancora un
raggio fiammante attraversava l'aperta grata riempiendo del suo roseo
lume l'officina e rischiarando il candelabro. E magicamente risplendeva
l'opera magnifica, tutte le lampade che pendevano in giro raggiavano di
luce.

Euforione intanto guardava pien di mestizia il bel fenomeno, nè, pieno
di malinconia, l'opera sua prediletta lo rallegrava, quell'opera che
a lui più d'ogni altra avrebbe dovuto piacere. Ma tuttavia si calmò
e si addolcì l'impeto dell'animo. D'un attimo gettò sulla spalla la
sua sopravveste e uscì fuori dall'officina verso l'aperto, recando
nell'animo virile la dolce figura del dolore.

Età felice, quando ancora attorno agli occhi distende il velo il
seducente Dio del sogno; scorrono gli anni, la Parca che ronza lo
toglie e allora si presenta grave agli occhi il muto Destino. Ma
l'amore si diletta dell'impari sorte degli uomini, scocca allegramente
la sua freccia e nella notte che incombe soffia le segrete vampe con il
battere delle ali dei sogni.



CANTO II.

AMORE E PSICHE.


Già la notte avvolgea il mare e gli ombrosi monti della Campania che
mollemente s'innalzano intorno al golfo di Napoli, ricingendolo come
ghirlanda, placidi riflettendo le cime nelle acque eternamente azzurre.
Sempre tremola l'onda al bacio di Elio durante il giorno, sempre nella
tiepida notte al bacio ardente degli astri. Risplendeva ora un'intensa
luce rossastra sul Vesuvio; nuvole di fuoco aleggiavano attorno alla
cresta del monte rumoroso; lontano se ne accendeva al riflesso l'aria e
lo specchio del mare; lontano nella campagna guizzava anche un chiarore
sulle terre di Nola, dove sempre Flora ricopre i prati e i colli di
olezzanti germogli come di vampe, e l'albero di granato di Persefone,
dai rossi bocciuoli, arde dei riflessi del vermiglio fiore vulcanico.
E come se di nuovo fosse emersa dal mare la sera, dappertutto il cielo
e la terra divennero purpurei per il bagliore del Vesuvio.

Ma Euforione passeggiava lungo la sponda del mare, solitario ed
anelante, con trepido piede, e spesso tratteneva il passo ad ammirare
estatico l'incantevole quadro notturno di Pompei. Scintillanti
risplendevano i templi e nitido il grandioso foro; rossicci i pinnacoli
della città, i teatri e i portici marmorei. Le case allineate nei
vicoli che si dilungano per diritto, eleganti e piccole, come ville
e palazzine d'estate, sembravano davvero costrutte dalle divinità
marine del golfo, perchè vi abitasse una felice genía di uomini che
passa oziosa i giorni nel piacere e nel sollazzo, e simili a lampade
raccolte intorno al mare esse raggiavano di luce. Anche scintillanti
nel porto erano le navi nerastre, che se ne stavano ivi strette contro
un argine di tufo innanzi all'áncora. E con lo sguardo stanco, quasi
avesse trovato di là la nave di Serapione, riconoscendola al volto
raggiante di Iside, se ne stette ivi lungamente Euforione e gli sembrò
di vedere la nera figura del commerciante appoggiato al timone, in
atto di contemplare le stelle del polo e il chiarore del monte. E
subito si sottrasse dalla curva insenatura del mare, come un profugo
dai criminosi suoi pensieri. Ma per la notte errava un rumore insolito
e strano, come se una gru da lungi corresse sul mare con le sue ali
susurranti e l'aria risuonasse dal canto della migratrice.

Lungo la sponda s'ergeva la villa principesca di Arrio, in mezzo a
un boschetto di platani e di alti pini, d'ogni intorno circondata
di mura, donde sporgevano grossi vasi di fiori e statue seducenti
di delicato aspetto. Volentieri colà s'intratteneva il ricco uomo
durante l'autunno, per godere dei suoi possedimenti e dell'incantevole
campagna: dal Sarno al mare si stendeva a mo' di anello su anello il
suo podere. Ciò che i suoi superbi antenati avevano per lo innanzi
acquistato in terra straniera, case e campagne in Roma, nell'Apulia,
nel Sannio, ovvero lungo la spiaggia veneta, tutto vendè il nipote,
col proposito di accumulare quivi, in terra natia, il suo cospicuo
patrimonio in innumerevoli e fiorenti beni. E già mezza Pompei era sua,
già mezzo Ercolano gli apparteneva ed anche sino a Stabia intorno alle
falde del Vesuvio si prolungava le bella tenuta di Arrio.

Euforione si accostò ora pian piano alla porta spalancata; oh come
se ne stava accanto alla porta e guardava in alto nel cielo radioso,
tutto agitato, perchè mille pensieri gli turbinavano nella mente! E
allora lo prese subito per mano l'ilare Ion, il suo Ion che già lo
aspettava e gridò: «Come giungi tardi anche tu! Pansa ha ora mandato
a chiamare mio padre, perchè essi vanno alle falde del Vesuvio ad
osservare se mai muti la cresta del cratere, di ciò avendoci avvertito
i timidi vignaiuoli. Ma vieni a casa, stiamo lì insieme a chiacchierare
un'oretta; dentro, nella sala, le fanciulle danzano ancora delle
allegre danze, che provano per l'indomani secondo la moda di Roma, con
canto giulivo, e tutte le istruisce la intelligente sorella».

Così disse Ion e si avviò attraverso le arcate di bosso del giardino,
salendo la magnifica scala della casa che, fatta di pietra gialla, si
estendeva fino al portico. Essi ora attraversarono l'ombroso atrio,
dove ogni ospite si divertiva ad osservare le dipinte pareti e i
leggiadri fregi del suolo risplendente di mosaico. Dalla sala echeggiò
intanto un suono assai allegro, un cinguettio di flauti e uno strepito
di nacchere; nel medesimo tempo risa soffocate di fanciulle e i passi
cadenzati di piedi sparenti nella danza. Subito Ion condusse nella
camera interna il ritroso Euforione ed agile e furbo scappò fuori di
balzo e si allontanò.

Affascinante era la stanza e ombreggiata da una gradevole quiete, cui
rischiarava il fioco splendore di una lampada sospesa. D'ogni intorno,
sulla rossiccia parete come alla soffitta scintillavano figure belle
e scherzose, simili ad immagini della notte che il sogno soavemente
dipinge; poichè ivi un intelligente pittore aveva profuso sulle pareti
con senso artistico i colori della poesia. Qui sporgevano di mezzo ai
fiori maschere e svolazzanti farfalle, colà il grillo di Anacreonte
che guidava il leggiadro carrettino forzatamente tirato al passo da
un uccello variopinto; poi Amorini, che sedevano trasognati accanto
alla peschiera, adescando i pesci i quali si dimenavano nell'onda
di cristallo. Ma a preferenza delle altre seducevano lo sguardo
quelle Menadi sul fondo nerastro, che dolcemente si libravano nel
velo ondulato e spargevano scherzose la serica chioma alle aure, con
gli occhi fisi in alto, come se beate volassero al cielo. Tutto era
ricco all'intorno e disposto in un cumulo di bellezze. Dappertutto
scintillava oro, dappertutto avorio, perle e lapislazzuli; dappertutto
era un leggiadro ornamento di stoviglie, di tavole e di armadi. E là
scorreva gorgogliando da un'arcuata nicchia la polla di acqua fresca
giù nella conchiglia, che una ninfa di marmo ginocchioni le offriva,
una figura del celebre artista Menandro. Nel mezzo era una tavola
collocata proprio sotto la lampada, incastonata in alabastro; lucida
risplendeva la lastra come la luna. Ma essa non portava alcun fregio,
come sempre la desiderano le fanciulle, volentieri mettendo in mostra
delle cosette per farle vedere, le cassettine o le figurine di oro e
le variopinte conchiglie del mare. Sopra vi splendeva soltanto un vaso
d'unguenti, conformato a mo' di tulipano, da un bel calice ricurvo,
come quando esso, l'Ebe dei fiori, dopo che s'è imbevuto di rugiada, ne
porge alla cicala. Non però si sorreggeva sul gambo, chè una Pandora
lo teneva nelle mani sollevate, e sul coperchio si vedeva raffigurata
Venere come quando usciva dal bagno. Pien di gioia il maestro riconobbe
la sua opera e subito la prese dalla tavola fra le mani, quell'opera
che una volta, in un'ora di tristezza, aveva egli stesso modellata e
data a Ione come ricordo del commiato.

A un tratto stridè la porta, una veste ondeggiante dette un fruscio e
la padrona, Ione, la figlia di Arrio, si fermò subito davanti a colui
che estatico la contemplava. Come una diva, stava lì commossa l'alta
e piena figura della compagna d'infanzia. Stupefatta l'avvenente
fanciulla guardò Euforione, egli alzò gli occhi e si confuse, poi
con gli occhi fisi a terra rimase perplesso, con la bella immagine di
Pandora fra le mani, come s'ei fosse venuto, timido oblatore del cuore,
per offrirle la figura e lei per prenderla nella mano.

«Come tu pure, diss'ella sorridendo, mi richiami ora quell'età in cui
congedandoti e separandoti da me m'offristi l'opera scultoria! Innanzi
a me tu stavi allora come adesso nella medesima camera, di sera, ed
io con piacere ricevetti dalle tue mani l'opera che mi si offriva.
Vedi, son già passati e trascorsi gli anni, eccomi di bel nuovo, tu
mi t'aggiri dinanzi di bel nuovo nella medesima parvenza, come se sul
nostro capo si fossero fermate le ore. Sì, sempre come un oblatore,
o Euforione, tu mi passasti davanti, ed ora così ritorni, come un
donatore a chi è povera di doni».

Ma il giovane confuso aprì i neri e vividi occhi e li abbassò di nuovo,
quindi grave così parlò: «Ben fermo è il tempo che incessantemente
trasforma tutte le cose, per colui che resta solo, sempre stretto
dal cerchio uniforme del giorno: come potrebbe il tempo ed il mondo
cambiarlo? Taciturno ei custodisce i sacri tesori della ricordanza e,
fedele a sè medesimo, prova gli stessi piaceri ed anche gli stessi
dolori. Pure a chi spensierato passa i lunghi e instabili giorni,
lieto godendo la piena visione del mondo e della vita, ben dilegua il
passato come una nera e sperdentesi immagine di sogno. Anch'ei però
s'allontana, torna di nuovo a casa, poco la riconosce e non più gli
è sufficiente una piccola cerchia. Così sei anche tu mutata per me, o
nobile padrona».

A ciò subito rispose la giovane con assennata parola: «Sì! ben vissi in
Roma i volubili anni, lontana dalla patria e dagli ottimi amici; così
volle mio padre, allorchè rimasi orfana sì per tempo con la perdita
della madre affettuosa. Magnifica è la città e grande e oltre ogni dire
abbagliante la vita che vi serpeggia, però mi spaventa la confusione
della folla. Roma rassomiglia al caos, dove tutto s'agita e si dimena
confusamente. Spesso mi tremava il cuore colà, ed io mi sentiva sola,
pazzo il mondo sembravami, falsa ogni umana attività. Ma la zia mi
canzonava spesso schernendomi con pungenti parole, mentre io sospiravo
la patria più bella. Copiose lagrime versavo, così spesso mi richiamava
al pensiero la bella Pompei e il golfo e la placida spiaggia e questa
casa con i variopinti cubicoli. Sì, i miei mesti pensieri ritornavano
spesso sospirosi da Roma all'età della felice fanciullezza trascorsa
nella patria, così come le rondini ritornano in primavera in cerca
del nido ove crebbero senza pena, godendo degli scherzi del sole. Ma
morì, ohimè! la tua carissima madre Serena, la mia fedelissima dama, a
cui tutto io confidavo. Ora ella riposa lontano in Roma, lungo la via
Appia e non più guarda il figlio, consolandogli l'afflitto cuore coi
suoi sguardi amorosi. Ma un'amichevole parola di saluto anch'io voleva
dirti, perchè domani non mi stessi dinanzi pieno di uggioso rimprovero
quando converranno a festa nella sala i nobili amici».

Come quando un suono sprigionandosi da flauto eolico nella sera,
penetra giù nel cuore e vi desta il soave desiderio d'un sogno beato,
così volava a lui la parola, quella voce melodiosa. «Ma perchè io
dovrei sembrare afflitto? E non mi son io, così gridò egli, rischiarato
gli anni alla luce di quel giorno sospirato? Ecco, già esso s'avvicina
e sarà anche per me un giorno di festa, colà, nella sala addobbata del
padre, poichè tu, nobile, mi concedi una parte della festa con l'amica
e incoraggiante parola».

Ma Ione rivolse rapida da lui lo sguardo lampeggiante, guardò nella
notte piena di scintillio che si stendeva purpurea sul mare vaporoso,
e rossa copriva come di fuoco i neri cipressi e le cime dei pini;
non spirava in nessun luogo un alito di vento, ma il mare mugghiava
e si sentiva il frangere delle onde. A un tratto disse la fanciulla:
«Come è diventato a me estraneo il mondo, tutto all'intorno sembra
mutato al mio spirito cosciente, altra la sorte degli uomini nella
loro fortuna privata. Anche tu m'appari un altro, io ora veggo la tua
veste di schiavo; ciò che mai ha rattristato per lo innanzi la mia
anima indifferente, ora invece mi eccita malinconia nel ritrovarti così
tetro e addolorato, con l'immagine del silenzioso affanno nel volto,
che mi pesa sull'animo come un tacito e accusante rimprovero. Giacchè
veramente un Dio ti ha fornito d'un senso superiore, prestandoti i
doni celesti a preferenza degli altri uomini ordinari. Ma la natura
non ristà mai nel petto d'un uomo insigne, essa s'agita continuamente;
perciò ei deve lavorare e modellare, trasfondendo nella vita la forza
divina, acciò un tempo la posterità glorificante lo accolga nel novero
degli uomini migliori. Tutto ciò ho io considerato piena di affanno
fin dal mio ritorno, da che tu mi apparisti ed io vidi la tua triste
natura, sì che a mala pena potetti riconoscere l'amico e l'allegro
compagno. Molto mi riferì anche il fratello e molte cose ei mi narrò,
come tu eseguissi nell'officina una immagine in argilla, perch'io ne
afferrassi il senso nello spirito presago, intendendo il tuo animo
sospiroso e i tuoi segreti ed agitati pensieri. Ma ascolta la mia
parola, chè questo io volea dirti. Supplice io cinsi le ginocchia del
padre, con mesta preghiera implorai da lui il tuo riscatto, perchè
liberato dalla triste schiavitù, libero ne andassi nel mondo, lasciando
la piccola Pompei, per ammirare altre città, dove son riuniti degli
uomini eccellenti. Che se anche malvolentieri, pure mio padre mi
accontenterà domani nel desiderio, commosso dalla potente gioia del dì
festivo».

Ma Euforione rimase come sbalordito dal suono della parola; sul suo
volto si diffuse il pallore della morte e con impeto tese in alto
le mani, esclamando: «Come mai, Ione, hai escogitato di darmi questo
dolore, facendomi errare in terra deserta, quale un girovago fuggiasco?
Assai egregiamente ricinge l'uomo la magnifica corona della libertà,
e per lui essa è il colmo della forza, il suggello e la consacrazione
delle opere. Ahimè! io la desiderai ardentemente per l'amore alla santa
arte figurativa, che la Musa infondeva nel cuore a me, disgraziato
schiavo, acciò gli altri non avessero a dileggiare l'opera del mio
lavoro manuale, schernendo anche le mie produzioni per questa oscura
veste. Perciò io muto lavorando mi esercitai nell'arte nelle ore di
mestizia, senza sosta meditai e lavorai per chetare il demone nel
petto. Sperai un giorno la redenzione, sappilo bene, o padrona; la
sperai dalla tua festa se mai allora il magnanimo genitore rimunerasse
con la libertà quell'opera che segretamente meditai, dì e notti intento
ad eseguire la degna produzione. Vedi, eran confusi pensieri, era un
puerile dolore soltanto, alimentato nel petto da un vago ed instabile
desiderio. E prima che mi si allontanasse dal tuo viso animatore,
cacciandomi nel mondo, io sommergerei nelle profondità del mare il
mio lavoro più diletto, perchè non beasse della sua magnificenza alcun
occhio umano. Tu pur mi fosti la Musa dell'arte e la Musa della vita,
o padrona, che per tempo mi dischiuse il cielo del bello con fervore
e m'apprese le opere della grazia celestiale. Giacchè mi ridestasti
nell'animo giovanile lo spirito informatore per l'arte creatrice, e
mi guidasti le timide mani, allorchè, fanciullo, vegliai accanto al
padre nella sua officina dedalica, quand'ei faceva del nero metallo una
immagine maravigliosa.

«Serio e muto egli lavorava senza posa con le artistiche mani. Fu
allora ch'io modellai nella duttile cera una seducente opera plastica
e te la offrii, felice e orgoglioso come un artista. E l'entusiasmo
m'invase il petto, l'opera sinceramente ti piacque; e un'altra
ne meditai e lieto te l'offrii, e così divenni un modellatore di
giocattoli e gingilli. Poichè la tua immagine pendeva sempre nel mio
pensiero, la tua vita s'intrecciava sempre alla mia opera. Allora mi
si fece leggera la mano, e germogli da germogli eruppero potentemente
dal mio spirito entusiasta, tanto che mio padre se ne meravigliò ed
anche Arrio, il tuo austero genitore, mi accolse nel cuore come un suo
figliuolo. Ma venne il tempo desolante, tu ne andasti via e si dileguò
ben presto anche il mio Genio nella notte buia del dubbio. L'anima,
contristata da strane visioni, mi si vuotò d'immagini, e allora
indossai dapprima questa veste di schiavo che umilia, sentii come tante
catene a me d'intorno e piegai il cuore sotto il giogo della servitù.

«Lasciami tacer di quel tempo, chè oramai è di già passato; libero ora
io son divenuto, come chi a lungo languì in una torre umidiccia, ma
la porta gli si apre e gli aleggia subito dentro un raggio dell'eterea
luce e un soffio della vitale primavera.

«Ciò non accada, Ione! non mai io svesta questa tunica di schiavo; la
libertà mi sembrerebbe pur simile alla morte e il mondo mi apparirebbe
d'intorno come la notte deserta e un carcere tetro e privo di stelle.
Io lo so bene, tuo padre ti eleggerà ben presto uno sposo fra i giovani
e il primo dei ricchi aspiranti; allora, quando tu andrai sposa al
focolare di lui, oh lasciami ancora adornare con arte e con molte
immagini la tua casa, affinchè di me ti rammenti, del compagno della
passata fanciullezza!»

Così ei proruppe e dagli occhi lampeggiarono dolorosi sguardi.

E con tremula voce replicò la vezzosa fanciulla, mente nel petto
ansante e commosso il cuore le fremeva: «Qualche cosa di strano mi par
di avvertire, come se la terra leggermente mi tremasse sotto ai piedi
e il capo mi si assopisse nei sogni. Afosa è l'aria quaggiù, e la notte
accesa risplende febbrilmente nel cielo: di nuovo mi scende nell'animo
la strana visione, l'immagine che ieri notte s'aggirava attorno al
mio letto. Ma io lo so bene: era il mio proprio pensiero, poichè tanto
mi disse mio fratello della figura di Icaro. Ecco: piena di ambascia
io sedevo nella notte là, sul monte, dove gli si arrossa in alto la
voragine, il terribile cratere. Fosca era d'ogni intorno la pianura
coperta di cenere solfurea; nero si stendeva al di sotto il mare e solo
un astro scintillava nel cielo, mentre un fuoco di fumante lava mi
circondava accerchiandomi. Ad un tratto tu mi apparisti dinanzi, con
due raggianti ali arcuate sulla spalla, e tenevi ancora pronta nelle
mani un'altra ala a dicevi: “Fino a quando dovrò io portare le catene,
o Ione? Tu venisti, eppur tutto hai dimenticato; ma io feci per me le
ali ed anche per te, o padrona. Vieni, noi voleremo lontano sui flutti
ondeggianti del mare, prima che il fuoco del Vesuvio ci consumi le
ali.” E tu m'afferrasti, con te andai via... e mi svegliai».

Così la fanciulla e subito sbigottita riprese in tono grave: «Che cosa
mai io ti dico! non so dirti quest'oggi una parola assennata, così mi
vaneggiano i sensi come in sogno per l'afa dell'aria e il caldo del
vento libico. Bell'e passati son ora per sempre i cari giorni della
fanciullezza, e noi stiamo come amici sulle rive separatrici del fiume,
che si fanno i segni dell'addio. Sì, ben lo so io, il bene a noi sembra
più spesso un male, chè sovente gli Dei avviluppano la felicità in
una nera nuvola, e il nobile animo si piega devoto ad ogni destino.
Egregiamente risoluto esso adempie a tutto ciò che sempre esigono
i celesti, finchè limpida gli si apre la via a una meta più bella.
Ecco, io son venuta, tu devi pur andare, o amico, tosto che domani,
in ricorrenza della festa, mio padre soddisfarà al mio vivissimo
desiderio. Oh sappi pure che ben volentieri ti ricorderanno gli amici
ed anch'io serberò di te una eterna memoria. E adesso permetti, o
Euforione, ch'io taccia e me ne vada».

Ma nella stessa guisa che, subito sciolto dalla stretta del sogno, si
leva il dormiente, al quale battendo sul capo l'ambrosio raggio di luce
desta gli spiriti assopiti, e chiara albeggia la coscienza, così ben
presto si svegliò il cuore nel petto del giovane. Pien di dolore, ma
nel medesimo tempo pieno di beatitudine, egli alzò in alto lo sguardo,
quindi abbassò il capo e tacque, stringendo più forte le mani al
petto. Ed ambedue tacquero e stettero, i due bellissimi giovani, l'un
contro l'altro silenziosi; pure tra questi due cari giovani invisibile
se ne stava sorridente il celeste mago Amore e qua e là li toccava,
annodando l'ambascia dei loro cuori. E sospirarono le onde del mare
profondamente; tranquille stavan le aure ed un'afa era nel cielo
fiammante. E la luce del Vesuvio cadde d'improvviso, d'un insolito
chiarore, nella stanza semioscura e aleggiò luminosa abbagliando le
due giovani figure; un rumore sordo rimbombò in alto, come se tremasse
profondamente convulsa la terra febbricitante.

E Ione guardò in viso all'amico, vide i nobili lineamenti impalliditi,
gli occhi le s'intorbidarono ad un tratto, tese in alto le mani ed
esclamò: «Addio, Euforione!» Ed egli le prese e le tenne serrate le
mani pulsanti e sempre più caldo si sentì scorrere il sangue nelle sue,
e sotto ai piedi gli parve traballare la terra convulsa.

Già tuonava cupo cupo nell'aria, da per ogni dove, negli abissi; come
un murmure rimbombava nel cielo e tuonava nella voragine del monte.
Allora si sentì come un tremito più volte ripetuto, cigolò la casa,
tremarono rintronando le mura, vacillarono le colonne con sonoro
rimbombo e il suolo ondeggiò come i flutti.

Come sull'orlo solfo-spirante dell'Averno sen vanno a volo barcollando
per l'esalazione le rondini pigolanti e stordite sulla rossa arena,
cui solcano con le prensili ali, così vacillò la fanciulla alla scossa
delle aure elettriche, così barcollò e cadde sulla spalla dell'amico.
Caddero sul petto di lui i morbidi riccioli di Ione, sul cuore gli
fiammava il capo divino, mentr'essa, sostenendosi, gli avvinghiava le
nitide braccia, e l'altro, tremante, la stringeva forte e stava come
stordito nei sensi: per la scossa di terremoto il mondo vacillava
intorno. Egli era come rapito e solo gli sembrava che il cuore
ondeggiante sprofondasse nel flutto della dolorosa sventura. Sulla loro
bocca Amore spicciolava come fiori parole interrotte, spargendo intorno
esclamazioni e grida e il bisbiglio dei sacri nomi dell'amore: i nomi
di Euforione e di Ione.

Voci risuonarono nella casa, voci di fanciulle altosquillanti, e
subito nella porta balzò fuori gridando il trepido Ion: «Guai a noi!
guai! così proruppe; la casa traballa rovinando a precipizio, lassù
vomita fiamma il monte e tutto ricopre di torrenti di fuoco; ma il
padre ha fatto or ora a noi ritorno per il giardino». E appena aveva
pronunziato queste parole, appena avevano sciolto le mani quei due,
quando ecco presentarsi in fretta sulla porta il padre, Arrio, ritto
nel capo e nella persona, ravvolto in una toga increspata, serio e
imperioso all'aspetto. Ei però non s'accorse del confuso sembiante dei
due giovani, troppo soggiogato egli era dall'orrore dei sensi; solo
s'avvide che la figlia se ne scappò rapida nella stanza attigua e che
con gli occhi fissi giù a terra se ne stava davanti a lui nella stanza
l'acceso Euforione. Con imperioso e interrogante sguardo fisò il tacito
schiavo, e non iracondo ma austero pronunziò queste vibrate parole:
«A che tu mai qui ti trattieni nel gineceo, o garzone, audacemente
inoltrandoviti? Così tu attendesti al mio cenno? Altro luogo ti si
confaceva, nel cortile o nel portico fra il rimanente stuolo degli
schiavi, perchè nessun atto sconveniente deve turbarmi la disciplina e
la regola della nobile casa. E fa' in modo di non eccitarmi all'ira,
assottigliandoti il benefizio degli amichevoli doni; nessun altro
infatti si vanta dei favori che Arrio e i figli della casa a te
concedono. Orsù, via, o garzone, e lesto confondimi tutti pel giorno
di domani, o greco, con le tue eccellenti e famose opere». Così disse
e seguì in fretta la figliuola nella stanza attigua.

Ma il giovane era ancora come inebriato, ancora come nel sogno. A mezzo
soltanto comprese la voce di Arrio e a mezzo solo l'afflisse la parola
di lui: così ei se ne stava immerso in una profonda contemplazione. Ma
subito con grido eccitante lo prese per mano il fanciullo e lo condusse
fuori nel giardino attraverso l'atrio aperto. Com'egli uscì fuori nel
buio fiamme-spirante del giardino, stranamente avvolto da una luce
crepuscolare, e vide la mobile vampa sospesa estendersi in alto sul
cielo, sulla terra e sul mare, quasi che il suo spirito fosse sciolto
dall'essere, gli parve di fuggire lungo il cielo, simile ad Icaro, in
estasi beata sulle ali di Aurora.



CANTO III.

PALLADE ATENA.


Canzone, prima che tu t'allontani con la mutevole lampada della vita,
va', mostrati lieta in mio nome ai lontani amanti e dispensa corone
di dolce ulivo e così parla: «Salute a voi, o nobili e pochi! Voi
alimentate sempre nel petto le fiamme ideali e fuggite la vanità e le
tristi consuetudini del giorno. Non vi manchi mai la luce nella vita,
mai la gioia del cuore. Alla vostra casa fiorente batta sempre propizia
l'Aurora e v'introduca nella casa le Ore celesti. Ed alle feste siano
invitati come ospiti gli Dei, per distribuire i doni dell'amore ed
esaudire i prudenti desiderî».

Deserta era quel giorno Pompei ed oscura nella festa di Ione, l'aria
cupa ed il mare come spento nell'afa plumbea. Senza vampe il Vesuvio,
e il suo capo era velato da una nube fulva, che il vento del sud
spingeva in alto verso il cielo. E come se errasse il Sonno per le vie
e le case di Pompei, sembravano irrigiditi la città e il lavoro dei
solerti cittadini. Non un rumore risuonava dal porto, nè nel mercato,
nè nell'officina come altre volte, quando il pieno giorno incitava gli
uomini al moto: così incombeva l'aria e l'accidia del vento che snerva.

Pure chi a passo premuroso fosse andato nel sobborgo Augusto Felice,
accanto a quei palagi e lungo i frondosi giardini, si sarebbe
soffermato subito alla casa di Arrio ed avrebbe origliato lungi nei
portici, tutti ornati di nastri e fiori. Alto vi giubilava il canto,
cui si mischiava il suono allegro dei flauti lidî e il tintinnio del
metallo e delle arpe sonore. Garzoni in vesti variopinte e graziose
fanciulle si vedevano agili portare le vivande attraverso il fitto
delle colonne. Ed echeggiava sensibilmente un ronzio dalle aperte
sale, dove, appoggiati su cuscini e su coltri di Tiro, uomini e donne
accomunati si divertivano a banchetto, festeggiando il ritorno di Ione
insieme col lauto trattamento di Arrio.

Euforione se ne stava adesso nell'atrio, cupo origliando ai suoni delle
festa, solo, in preda ai pensieri del suo cuore. Intorno s'aggiravano
i compagni, i maestri di utili arti, l'orgoglio di Arrio e il fior
fiore delle magnifiche officine, ch'egli aveva di per sè stesso anche
accresciuto, dopo averlo ereditato dal padre; perchè tutto quel che di
meglio ciascuno potè modellare con premurosa cura, gli parve ora giusto
di consacrare alla festa ed agli ospiti degni. Tutti, cautamente,
tenevano nelle mani dinanzi a sè un lavoro artistico, chi un'immagine
a mosaico, chi un vaso con le anse, un altro gioielli scintillanti e
collane di rossi coralli; l'uno un tessuto filato in oro, questi le
gemme che abilmente scavò nel sanguigno diaspro di Cipro ovvero nel
crisolito e negli strati dell'onice leggiadra.

Ma Euforione se ne stava, pieno di grazia, nella turba dei molti
compagni, con le mani appoggiate all'alto candelabro, al suo
incantevole lavoro; perchè questo, messo da lui in disparte, spiccava
come un enigma, ravvolto in una nivea tela di lino. In tutto ei
sembrava mutato e la sua nera e ricciuta chioma si levava liberamente
su gli altri, con una tranquilla serietà. E non parlava, per quanto
tutti, avidi di desiderio, mormorassero fra loro, sperando ognuno la
ricompensa, sia della libertà, sia d'un dono qualsivoglia. Nel petto
però gli batteva spesso il cuore come in estasi, quando risuonava
il melodioso nome di Ione; allora gli pulsava più rapido, ma subito
frenava la piena del sentimento, parendogli già di essere a bordo
della nave di Serapione e di vedere le onde giù correre frettolosamente
all'estraneo lido.

Passavano le ore per quelli che ivi aspettavano ansiosi enumerando le
fasi della festa: mimi e cori di danzatori in giro si vedevano andare
e venire; quand'ecco si accostò ammiccando l'ordinatore Peisandro, e
subito introdusse nella sala i volenterosi uomini coi doni. Com'essi
entrarono, mettendosi in fila lungo le rilucenti colonne, gli sguardi
del giovane corsero ben presto sulla sala, ed ei vide presso il padre
Arrio la figlia maestosa: severa e seria ella lo guardò coi neri occhi.

Ad un tratto con queste parole si rivolse agli ospiti il magnifico
padron di casa: «Vedete, o amici, i figliuoli di Dedalo si son
presentati per offrire doni alla festa, le pregevoli opere della
Grazia. Orsù avvicinatevi, o uomini, e mostrate come anche nella mia
casa Pallade Atena abbia compiuto con arte cose belle ed eccellenti.
E ciascuno a cui sarà fatto dono mi esalti, lodandomi di avermi saputo
asservire lo stesso Fidia e Zeusi».

Disse, e i giovani presentarono le graziose opere della bellezza,
che il padrone distribuì in dono agli ospiti. E intorno passavano
i regali: con compiacenza lodavano gli uomini e le donne ora urne
magnificamente ornate e vasi d'alabastro, ora nappi da belletto e
specchi di bronzo ben cesellato; volentieri essi lodavano fermagli e
corni con allegoriche e gioviali figure, ovvero vasi d'oro e di ambra
artisticamente levigata.

A un tratto Ipato, fanciullo ancora negli anni, eppure assai pratico
a dipingere sulle tavolette i miti del poeta ellenico, portò un quadro
a colori, un grosso quadro lumeggiato. Se non che questa volta non gli
era riuscito — così appariva — ed Arrio allora increspò torvamente la
fronte e disse con accento di rimprovero: «Troppo giovane ancora tu
sei, o Ipato; veggo dal quadro che tu preferisti dipingere l'orrido,
la città di Troia divorata dalle fiamme. L'artista smorzi moderatamente
le tinte spaventevoli, pio sappia scansare le Furie e non mai ci sveli
nell'opera il capo di Medusa: no! le figure non dimostrino se non un
dio liberatore degli affanni».

E appena ebbe detto queste parole, che gli ospiti origliando guardarono
fuori pieni di meraviglia — libera si stendeva agli sguardi la superba
contrada, libero il Vesuvio — e s'udiva rimbombare il cratere del
monte e scrosciare cupamente, quand'ecco una fiamma rapida come
vortice guizzò nel cielo. A riprese mugghiavano dei forti scoppi e
si riversavano nuvole di fumo e tenebre. E l'aria diveniva fulva,
scendeva come un rosso crepuscolo, ricoprendo di densa luce la campagna
e le onde ribollenti del mare. D'un subito tutto s'acchetò e tacque
l'ansante cratere che fumava.

«Non abbiate paura del monte, gridò Arrio; anzi esso offre uno
spettacolo alla festa, e già nelle sue viscere lo rode la rabbia. Batta
pure imperversando il terremoto con pie' di bronzo, rimbombi pure cupo;
afoso ahi! e soffocante spiri il vento sud; no! non abbiate paura del
monte; noi già conosciamo il modo d'agire del vecchio: per la collera
gli si gonfia a un tratto la rossa vena della fronte, ma poi tosto
sorride di bel nuovo pacato. Intorno al mento gli aleggiano tenere
aurette, e le Ore e Bacco e Pomona e Cerere, la seducente madre, gli
cingono con rose il ginocchio. Versate libagioni di vino, o amici, al
padre Vesuvio».

Disse e spruzzò del vino al Vesuvio e insieme con lui ne spruzzarono
anche gli ospiti, e continuarono a parlare con gli occhi rivolti
al fosco cratere, temendo le rinnovate scosse di terremoto, la
lava e la rovina delle pianure. Ma ben presto il vino cacciò via la
preoccupazione, svelto circolò il boccale del mulso e come coppieri
andavano intorno lo stesso Bacco ed Amore.

«Guardate Euforione! gridò Arrio di nuovo. Guardate lì il migliore che
se ne sta dietro ai buoni. O come mai tu indugi tanto, o garzone! Orsù,
avanti! che cosa di giocondo tu porti quest'oggi alla festa?»

E tutti lo contemplavano, vedendo come il grazioso giovanetto, nel
fascino fiorente della giovinezza s'avanzasse d'un'andatura virile. Le
donne bisbigliarono molto fra loro, le ragazze lo guardarono ed anche
Ione guardò commossa, mentre le palpitava il cuore nel petto.

«Fosco s'è fatto il giorno, disse ben presto il garzone, la notte già
s'avvicina; io porto la luce!» Ed ammiccando fe' cenno agli schiavi
di portare dal lato suo l'opera velata, sollevandola sulla tavola.
Allora intorno sedettero ad aspettare gli ospiti silenziosi, dallo
sguardo interrogatore. Con tremule mani ei tolse il niveo panno di
lino, e ne uscì fuori la forma slanciata e scintillante dell'opera
dell'arte, bella come il fiore dell'aloe che spicca nella corona delle
foglie, sporgendo il pomposo gambo dall'aureo frondame. La bellezza
fiammeggiava all'intorno e lungi risplendeva il bronzo simile al sole.
E risuonò un grido di gioia, sonoramente applaudirono le donne e di
bocca in bocca corse un'esclamazione di meraviglia.

Ma Euforione se ne stava lì presso il suo lavoro, con grazia s'inchinò
davanti a Ione e disse: «Salute alla figlia di Arrio! La quale,
ritornata fra noi, come attiva padrona comanda nella sala e da vera
massaia provvede a distribuire dalla pienezza della casa. Non le
manchi mai la luce nella vita, mai la gioia del cuore! Risplenda
lungamente per lei e anche fino alla più tarda sera questo bronzo. Ma
il suo ritorno alle pareti domestiche sia come un araldo banditore
di benedizione!» Disse, le s'inchinò profondamente e se ne stette
rispettoso con gli occhi bassi al suolo. Pure una rapida fiamma
divampando salì alle guance della fanciulla; nella sala d'intorno
esultava il grido di plauso, e tutti gli ospiti si precipitarono,
elogiando, verso il candelabro.

E Silvia, la figlia dell'edile Vetranio, esclamò: «Con quanto
significato e con quanta bellezza l'ha ideato l'artista! Ben sarebbe
orgogliosa del dono la stessa Giulia, la figlia dell'imperatore Tito!»
E con voce sonora alto gridò Pansa: «Che bel colpo d'occhio! Il bronzo
sembra davvero lavorato dallo stesso Efesto! O divin garzone, tu mi sei
fra gli artisti un re!»

Allora dal sedile si levò Menandro, l'eccellente maestro dell'arte
plastica, al quale la Musa non aveva mai concesso i suoi doni con
iscarso favore; molte statue infatti di Dei egli lavorò nel marmo e
molte opere scultorie pose nei templi delle città campane. Se non che,
invido del lavoro altrui e piccolo, della figura di Esopo,[6] covava
l'invidia nell'animo e la brutta serpe della gelosia. Ora sarcastico
incominciò con stridula voce: «Come mi son facili alla lode gli uomini,
quando qualche cosa di luccicante abbaglia i loro ingenui occhi!
No! non più mi state a lusingare, o amici, il magnifico padron di
casa, altrimenti ei ci rinchiude tutti, artisti e lavoratori insieme,
nell'officina degli schiavi!.. Oggi ognuno si chiama artista, dopo aver
fatto un vaso nitidamente orlato, tripodi, lampade e tazze e stoviglie
di bronzo. Chiamate voi già divino e celeste meraviglia a vedere tutto
quel che serve soltanto all'uso quotidiano, e mi nominate già arte quel
che mestamente eseguì uno schiavo con l'animo stretto dal bisogno? E
che cosa allora resterà per noi degno di un onore conveniente, se hanno
lo stesso valore per la gente avvezza a lodare una pentola, una lampada
ed una immagine di Giove seduto sul trono?!»

Così disse il censore, ed Euforione ascoltò le parole che gli
umiliavano l'arte ed il lavoro nell'anima innamorata. Ma nella collera
gli sobbalzò il cuore nel petto, rapido corse all'opera sua vilipesa,
poggiò la destra tremante sulla base inargentata e ad alta voce disse:
«Le parole ingiuriose ed offensive che tu, o Menandro, hai testè
pronunziato non possono ridondare a onore d'un uomo celeberrimo. Gli
Dei distribuiscono la felicità terrena, ma non sempre una nascita
libera rende felice l'anima insieme col corpo: spesso essi legano
alcuni di animo libero ad una schiavitù indissolubile, ma prestano
invece intorno al cuore dello schiavo le ali olimpiche, volentieri
mandandogli la Musa a consolare l'anima sofferente, perchè lo accomuni
ai migliori dei mortali ed ai saggi. Ed anche a me dette molto la
Musa, essa mi dette l'amore al bello che redime, il senso per penetrare
nelle forme e per imprimere modellando anche nelle cose piacevoli un
forte contenuto. Libero anch'io sono come te, sappilo bene, o critico
sgarbato, libero parlò al mio cuore il nume che dentro vi alberga».

Così gridò egli nella collera e cercò gli occhi di Ione.

Tutti l'ammirarono e gli schiavi se ne stettero ad origliare intorno
ansiosi; allora con un secreto cenno lo animò Pansa ed Euforione
proseguì il maraviglioso discorso: «Chiami tu questo un volgare e
triste bisogno quotidiano? È un lavoro manuale, oh bene! ma è anche
arte che diletta gli uomini, perchè, come il nume bifronte, esso
pure ha un duplice aspetto e graziosamente riunisce in sè il buono ed
il bello. Due mondi preziosi sono assegnati all'anima degli uomini:
da una parte essa assurge all'infinito, compagna degli Dei celesti;
dall'altra, compagna della polvere, spazia nel finito; varia è la sua
abitazione, e un tempio ed una casa le sono egregiamente preparati
per dimora. Salute a te, cui la Musa die' l'arte che plasma gli Dei;
nel tempio essa governa sublime e desta alla luce l'anima ammutolita.
Austera è la sua figura, muta e solinga essa impera quaggiù, come la
divina necessità e il Fato dallo sguardo grave. Ma l'arte gioconda che
io esercito, si spazia bellamente nel mezzo della vita, nella terrena
e socievole casa. Essa è sorella alla tua e si scambiano entrambe i
doni: la tua presta alla mia la maestà, la grazia e l'eterea chiarezza,
ma la mia le regala la pienezza della forza e la gagliarda virtù. La
forma che tu hai annodata, la cara arte mia la scioglie di nuovo e dà
libero corso a Fantaso, l'incantevole ed astuto dio dell'invenzione.
Essa origlia sempre al giuoco della natura, da cui prende in prestito
la forma, e graziosamente adatta l'effige animale alla pianta e alla
stessa forma umana, spiegando sensibilmente il fenomeno intrigato ed
enigmatico della vita. È anche bello tutto ciò che di finito la vitale
necessità ci offre, quando l'uomo animato l'afferra e lo modella in
plastiche forme, imprimendo alla materia greggia lo stampo della divina
libertà, in modo da divenire per lui stesso un celestiale godimento il
bisogno quotidiano. Sì, chi chiamerebbe a ragione ignobile e misera
quest'arte che nelle pareti domestiche così propizia governa come
un'economa? Tutto ciò di cui la vita ha bisogno per godimento e per
conforto del cuore, essa tocca con le mani che sanno trasformare in
leggiadre figure. Anche ciò che è ordinario sa rendere raro, e prezioso
ciò che è comune, piacevole la necessità, e per lei l'abitudine diventa
un attraente poema. Ecco, essa offre i frutti di Pomona in preziosa
tazza, versa il vino dalla brocca orlata di figure nel corno da bere e
presenta allo sguardo la rosa purpurea in tenero cristallo. Inoltre,
sospende il lume al candelabro modellato con arte molteplice, perchè
a doppio piacere rianimi e ridesti gli spiriti. Guardate così questo
svelto lavoro! Quando l'olio esalante ne ha impregnato ogni lampada ed
esse splendono all'intorno come una pensile ghirlanda, non brillerà
forse ai lieti visi e alle sagge conversazioni, ovvero alla danza
scrosciante e al suono giubilante dei flauti? Per lungo e lungo tempo
risplenda di gioia questo candelabro! E sia una sentinella al banchetto
ospitale e lungamente per te, o Ione, un messaggio di felicità e
d'innumerevoli feste!»[7]

Ciò disse e tacque. Amore gli aveva fortemente attizzato la fiamma
della parola nel petto con gli sguardi entusiastici della fanciulla.
E finì così il silenzio di ammirazione; intanto si udiva fremere il
rimbombo del Vesuvio, quand'ecco si levò un grido di giubilo: dalle
chiome si sciolsero le donne le ghirlande inanellate, le gettarono
su di lui, e come avviene a chi contempla la sbocciante primavera,
quando dai rami di pesco lo zefiro spazza via la fioritura, così
s'intrecciarono attorno al giovane e caddero le agitate corone, mentre
sulle spalle, intorno al capo scrosciava la pioggia di fiori. Ed egli
confuso apparve ancora più bello coronato di fiori, simile a un celeste
nei tratti: ognuno lo guardava con gioia. Ma Menandro nascose tra le
labbra il suo tacito malumore, levò in alto la mano e fissò Arrio con
occhio interrogatore.

A ciò Pansa: «O socratico garzone, ti benedica Apollo! Tu hai ben
parlato; vieni domattina alla mia villa, perchè ti versi dell'oro nelle
mani; ed Arrio saprà bene offrire all'eccellente giovane un regalo che
gli farà maggior piacere».

Allora gridò lieto Arrio: «Oh! accendete subito le lampade, le
artistiche lampade, in onore di colei che è ritornata! Come un genio,
come un genio amico c'è venuta oggi la luce, perchè l'aria già si
annebbia e la notte scende più presto del solito!»

Ma subito Ione: «A me sola conviene, o padre, a me sola s'addice
consacrare le lampade con le mani ospitali, e non deve alcun dito
umiliante toccarmi l'opera divina!» E s'alzò; il solerte fratello le
porse l'orciuolo dell'olio, ed essa lo versò nelle lampade, mentre
leggermente le tremava la mano. E con un lume acceso, simile ad Amore,
se ne stava a lei dappresso l'incantato giovane, aspettando con gli
occhi sorridenti. Non appena ogni lampada si fu imbevuta di olio,
egli porse subito alla sorella la candela fra le mani, ed essa con
lo spirito presago non fallì, chè prima accese l'elegante lampada di
Oneiro, poi l'attraente lampada di Psiche e di Amore, indi quella di
Pallade e finalmente la lampada ultima della Morte.

Come è sospeso al cielo nella notte di ambrosia il sublime Orione
con la splendida fascia, quando sul mar di Sicilia dolcemente lo
guidano le Ore, e quando già s'appressa la rosea Alba e un crepuscolo
tremula intorno all'immensa e nevosa cima dell'Etna, così fiammava
ora il candelabro nel tremulo crepuscolo della sala da festa, e sul
volto di Ione volava come uno sprazzo d'oro lo splendore del lume,
trasfigurandola.

E risuonò un grido di giubilo, sonoramente applaudiron subito le donne
e corse di bocca in bocca un'esclamazione di maraviglia. Ma un coro di
cantori, che era nascosto dietro le colonne, dolce intuonò un'armonia
che gonfiò di gioia il cuore di tutti.

A ciò disse Giulia, la sposa dell'eccellente Balbo: «Come armonizza
bene il candelabro col suono dei flauti e coi canti! Come se gli
si muovessero in giro all'intorno le figure di bronzo, esso agita
delle tremule danze; eppure non ne intendo appieno il senso. Chi sa
interpretare queste lampade? Sono ben scaltri gli artisti, che sempre
avvolgono negli enigmi le figure delle loro magiche mani!»

«Giusta la tua osservazione, o bella, gridò Arrio, ed anche a me non
riesce chiaro il senso. Ma tu ce lo dirai, o cantore Ismeno, poichè
invero solo il poeta maneggia la chiave dell'arte, il poeta che è un re
dominatore degli spiriti: mai la pietra silenziosa gli nega la sua voce
ed egli desta al canto persino il bronzo irrigidito».

Assai volentieri s'accostò quindi il vecchio Ismeno, che il padre di
Arrio aveva adottato in casa; argentea era la sua barba e bianca la
chioma, e il dignitoso capo già ricurvo per la stanchezza della vita.
Affabilmente ei cominciò subito: «Difficile cosa tu m'ingiungi, o
nobile Arrio. Spesso anche l'uomo più colto sbaglia dinanzi all'idea
del poeta, chè la segreta e misteriosa anima degli artisti profonda
s'immerse nel getto fluttuante del bronzo. Perciò, se la mia parola
sbagliando non desta alcuna eco nel bronzo, perdona, o maestro!
poichè è estraneo a noi il pensiero degli altri uomini». E con le mani
salutò l'amico; i due spiriti eccellenti se ne stavano presso la bella
immagine come la primavera e l'inverno insieme.

«Con arte e con sapienza veggo qui modellata nel bronzo, disse Ismeno,
l'immagine della nostra vita e la danza delle Ore. Graziosamente
la prima Ora incomincia la sua: noi la chiamiamo fanciullezza. Essa
s'accosta con incanto e soavemente con la fiaccola scintillante del
Dio del sogno intreccia le sue melodiche danze intorno alla culla
del bimbo. Ecco, il dormiente si desta, allora vengono le favole
e le fiabe, gli allegri giuochi, e lo sciame dei sogni scherzosi
introducono nella vita il bambino a divertirsi con beati trastulli.
Nella tranquillità questi sogni assumono delle forme presso il suo
cuore origliante e gl'intessono segretamente all'intorno un mondo
che comincia a svilupparsi nelle immagini. Pien di presentimento si
sviluppa il piacere e più tardi anche il tetro dolore, e germoglia il
desiderio e la sorte riposa nel germoglio. Ma ben presto se ne torna in
fretta verso il cielo l'Ora della fanciullezza, che ha compiuto il suo
tempo.

«Vedete, s'accosta l'altra, Agitando la fiaccola dell'amore, danza
nella vita la bella Menade, l'Ora della gioventù. Essa porge al giovane
la coppa spumante del piacere e del desiderio, e dalla terra gli si
dischiude un lembo di cielo. Non s'indugia nella polvere terrena,
l'umanità gli sembra schiava e pigra; egli vola col sibilante cavallo
aereo di Perseo a combattere i tiranni, ed erra come Icaro beatamente
verso la luce, e come Fetonte infiamma il mondo di ardore. Solitaria
cammina la fanciulla nella presaga tranquillità del cuore, finchè
il nudo nume non le ferisca ad un tratto i sensi, e come Psiche essa
cerca il fuggitivo, addolorata fino alla follia. O celestiale ed alata
Ora della gioventù, troppo rapida ten vai, illudendoci! Sì, colui pel
quale ancora risplende la fiaccola di Amore, è egli stesso un dio!
Goda pure l'ora fuggitiva, quell'ora che non arrivano mai a compensare
gli scettrati anni della vita, fossero pur mille, che l'uomo trascorre
affaticandosi. Una volta sola gli Dei invitano a banchetto il mortale,
ma Icaro e Fetonte precipitano in un attimo dal cielo, tramontano le
speranze ed i vani desiderî come astri, la vita procede con pie' di
bronzo e ammassa tombe su tombe. Anche l'ingannevole Amore getta via
la sua veste sfolgorante e ci lascia nella colpa e nel pentimento l'Ora
della gioventù.

«Vedete la terza! Come forte e luminosa spande la sua luce attraverso
le tenebre! Bella nella corona di ulivo, la celeste messaggera di
Pallade! Qui nell'uccello notturno si lasciò artisticamente indovinare
il modellatore. In alto l'Ora solleva l'uomo dal falso sentiero della
scompigliata gioventù e lo introduce tranquillamente nell'apparecchiata
officina della vita, che la donna, propizia adornandola, gli assetta
con amore operoso. Pallade gli apprende la saviezza e le opere
espiatrici del lavoro, e piamente gli limita la sensibilità con la
forza e con la sacra prudenza. E a lungo s'intrattiene la Dea, ben
volentieri essa benedice all'uomo beato il cuore di Dedalo e le
mani che incessanti lavorano. Ecco, già si ammucchiano le buone e
le belle opere e così si accumula una grande eredità da nutrire i
figliuoli; a un tale uomo non piace che quanto è duraturo, la simmetria
armonicamente ordinata delle forze che agiscono sul mondo. Ma nel petto
gli riposa il destino che gli Dei decretarono.

«Salve anche a te, o fiaccola della morte che scioglie la vita! Esausta
si piega giù la mano e calmo riposa il cuore dopo la tempesta degli
anni, senza che più s'agiti un desiderio od una speranza. Verso terra
s'inclina il capo, quand'ecco si accosta ieraticamente Eirene, e con
lei viene la ricordanza, la velata madre dei sacri dolori; ritornano
le Ore da lungo tempo scomparse, con dolce saluto di lontano esse
appaiono allo sguardo come le vele del mare, trasfigurate dal sole
che tramonta. Ma con mestizia le contempla il vecchio e con profonda
meditazione rivolge lo sguardo indietro alla vita e ai suoi gustati
beni, e volentieri accoglie ora dagli Dei la morte, come il supremo
dono. Così un giorno possa accostarsi anche a te con volto amico la
morte, o Arrio, tardi nella notte porporina, quando sia già terminato
il filo della tua vita. Ma il mio cuore anela la sua patria, sempre
più calmo esso m'è divenuto ed a me pare come se qui d'intorno mi
frusciasse l'ala della morte».

Così il vecchio. Dagli occhi suoi caddero le lagrime della malinconia.
E come se per il mondo si fosse diffusa la calma della sera, onde
rabbrividisce dappertutto la campagna e tacciono i canti nel bosco,
così tutto si chetò nella sala: non una parola, non un bisbiglio
si udiva. All'intorno serpeggiava il raccapriccio come il passeggio
della morte, ma a volte rompeva il silenzio un rimbombo qual dei carri
strepitosi della battaglia campale e s'udiva in pari tempo il ruggito
delle tigri e dei leoni, che la città custodiva nelle gabbie per la
lotta dell'arena, cupo e lontano, come sulla sponda del libico mare di
sabbia s'ode nella tranquillità della notte echeggiare il ruggito delle
fiere.

«La parola che dicesti, o vecchio, gridò Arrio alla fine sbalordito,
risuonò ottenebrando la gioia; pure sappi che la Parca continua a
filare benignamente nella nostra casa delle fila dorate».

Senonchè Ismeno guardò calmo verso il Vesuvio e disse: «O fortunato
colui al quale parve nella vicenda dei tempi che le Ore avessero tutto
compiuto! Ma fluttua e ondeggia la vita dietro leggi oscure. Alla cieca
l'uomo oscilla nel dubbio come la canna, e alla notte oscura solo gli
Dei annodano per lui il giorno. Così all'apparir d'ogni giorno se ne
stia l'uomo devoto e pronto a ringraziare e consideri maravigliando il
celestiale incremento della vita, come un dono della fortuna, sul quale
giammai ha contato».

Disgustato riprese Arrio: «I vecchi cantano alla morte sempre il
loro canto del cigno; poichè ad essi il tempo spense la fiaccola
dell'Amore. Questo roseo ragazzo sen vola rapido, e non mai appare
al cospetto dei vecchi; egli si cerca una preda migliore; Bacco però
inghirlanda sempre di edera le bigie rovine. Vecchio, e come hai potuto
dimenticare completamente il fido amico, che sulla tersissima base
ha modellato l'artista per richiamarcelo alla memoria? Ecco, quella
base significa la terra tutta inghirlandata di grappoli, e, araldo
del piacere, sulla magnifica pantera si eleva Lieo, con in mano il suo
corno splendente come la luna; perchè la natura non ci ha chiamato a
vivere nell'indigenza, ma bello ci ha apparecchiato il mondo alla festa
della vita fuggitiva. Goda dunque l'uomo; rapide passano le ore e più
rapidi folleggiano i piaceri, come le rapide rose dell'amore. Condite,
o ospiti, il vino! e qui a me si arrechino freschi fiori, perchè l'aria
ci ha fatto appassire le corone sulle tempie». Disse e versò il falerno
nel corno e ne offrì al vecchio.

«Se qualcuno può uguagliarti, o divino, aggiunse l'altro, è necessario
ch'egli sappia offrire agli ospiti meravigliati il fior della parola.
Una cosa sola ti è sfuggita, il fiammeggiante altare che Euforione ha
qui modellato, al sommo della base. E chiuda il nostro discorso anche
l'allegoria dell'altare: gli Dei bramano i sacrifizi, accostisi perciò
il mortale volenteroso ai loro altari, pensando come presto fugga
l'ora, acciò gli si conservi la luce e la gioia nobile e moderata!»

Così il vecchio; Euforione lo strinse affettuoso fra le braccia,
profondamente commosso. Lucido splendeva il candelabro, sembrava
il genio della vita terrena, vivificato dalla parola del sublime
cantore. Nessun lume scintillava ancora nella sala, esso soltanto
risplendeva lontano. D'intorno sedevano come ombre gli ospiti che,
taciti e seri, guardavano le lampade. E Ione fissava incantata ora il
bronzo, ora lungamente gli occhi dell'amico; e nel profondo del cuore
agitato entrambi sospiravano di stringersi le mani. Quand'ecco si levò
dalla sedia, col suo bel volto raggiante e sospiroso, coi neri occhi
irradiati dallo splendore dell'alto sentimento, con le mani sollevate
essa gridò come l'indovina: «Se al nobile s'addice il nobile, anche
all'opera sia nobile la lode! Libero quindi sen vada l'uomo che gli Dei
elessero araldo della loro luce immortale, anche lui onorino gli uomini
come gli Dei. Libero ora tu sei, o Euforione, libero e sciolto dalla
condizione di schiavo!»

E subito ricadde sul guanciale l'impallidita donzella. Allora il padre
la contemplò e gli ospiti stettero ammirati ad osservare com'ella
sembrasse convulsa ed agitata nell'anima e nel viso.

Come rumoreggiando il lampo dinanzi agli occhi di un uomo sbalordito
guizza giù pel cielo nella terra crassa di vapori, così ora questa
parola penetrò nell'anima di Euforione, ed egli vacillò, indi stette
con lo sguardo verso il cielo, poi nascose il capo fra le mani e con
profuse lagrime si buttò ai piedi di Arrio.

E vide piegarsi verso di lui il volto amico di Arrio, quand'ecco si
fecero fosche le tenebre in un momento, fosche oltre ogni dire! Come se
il mondo si spaccasse, dal Vesuvio si scatenò una bufera: il vasellame
precipitò tintinnando, con fragore caddero le tazze e con rombo
profondo risuonò anche il candelabro di bronzo, stramazzando giù nella
sala, mentre all'intorno volavano schegge di marmo. Lontano rotolarono
le lampade, sfuggite alle lacerate catene, facendo diguazzare l'olio in
esse contenuto, e guizzavano le fiamme nella notte.

E un alto e orrido grido echeggiò nella sala, selvaggio come il capo
di Medusa stava il rosso Vesuvio. Con fragore scoppiò il monte, e
una figura di fuoco usciva dalla voragine, come il turbine del mare,
e lambiva l'etere con le fiamme. Aveva l'aspetto di un pino, così
s'inarcava una volta gigantesca di fiamme e cresceva, finchè ad
un subito non s'agitò un rabbioso uragano di fuoco e con rimbombo
sprofondò nelle viscere dell'urlante cratere.[8] E a un tratto una
fosca caligine, con cupi fragori gorgogliava e ribolliva il fuoco
interminabile, si sollevava di bel nuovo rapidamente, s'aggirava in
vortice, e volavano i massi incandescenti come astri e come lune, d'uno
splendore fantastico, come un esercito tuonante di comete che con la
coda piena di scintillio sferzavano l'aria che mandava dei gemiti,
finchè non si riversavano simili ad una spaventevole grandine di
fuoco. Rosso come il sangue spumeggiava il monte, vomitando un'onda di
metalli, e ne rotolavano cascate di fuoco e ardenti cateratte di lava.

Oscurità profondissima — e nera al cielo si levava la polvere.
Scrosciando come pioggia cadeva e ricopriva la fumante città, sì che
questa si dileguava allo sguardo; soltanto orride luccicavano le torri
mandando vampe, e lottavano contro il fumo e il buio della cenere. Alto
or mugghiava il mare, spaccandosi nel fondo, e rovina si assommava a
rovina e s'alzava polvere su polvere nel nero orbe terrestre. Così
in un subito precipita giù nella valle una catena di monti per il
terremoto che tutto all'intorno sconvolge, così turbina il vorticoso
caos della nera polvere, sì che tutto si offusca il cielo e versa sulle
case e su gli abitanti fuggiaschi una pioggia interminabile di sabbia
infocata, come ora scrosciava la cenere e fremeva e strepitava con
fracasso, scorrendo simile al mare, rovesciando le porte della casa di
Arrio.

E discese nella sala la notte flegrea e la morte versava la cenere
nei bicchieri. Tutta l'aria buia si riempì di zolfo soffocante. E
un indicibile grido di dolore echeggiò all'intorno, spaventevole;
selvaggia si udiva la voce di Arrio, di Pansa, le stridule voci delle
donne e degli uomini fuggenti; terribile era il grido di Euforione,
mentr'egli, errando a tastoni lungo le colonne, faceva echeggiare del
nome di Ione tutta la casa avvolta dal fumo. E qua e là cadevano e
sporgevano le mani frugando in cerca della via, avvolti dal nembo di
polvere e di crocchiante lapillo. Rosse faci, simili ai saltellanti
fuochi fatui delle maremme, erravano e sparivano; e d'ogni parte
orrende figure, simili alle larve del Tartaro e allo stuolo delle
anime che gemono, quand'esse passavano, il torrente di fuoco fuggendo
in mezzo al vapore gorgogliante, andavano a tentoni, correvano e
precipitavano nella fuga e nella lotta disperata.

E come tutto fu spento, nella sala si vedeva fiammeggiare tranquilla
una delle lampade, come scintilla un astro nel buio delle nuvole.
Poichè dalla catena del candelabro essa cadde giù contro una sedia
che la trattenne, e lì rimase sospesa, trattenuta dal braccio della
sedia metallica, la luce vivificante di Pallade. Ed Euforione la prese
disperatamente, la sollevò nella destra e subito corse via con un grido
rimbombante.

Pure qui tu indugi, o Musa, e con profonda mestizia abbassi il tono
della lira; mostri il tuo capo nella polvere azzurriccia, che ancora fa
rabbrividire i posteri nella sala di Arrio, e lo pieghi cogitabonda e
taci.



CANTO IV.

TANATO ED EIRENE.


Com'è placido, o morte, e come è bello il tuo regno colorito qui fra
le rovine di Pompei, nel recinto della cenere che si inarca![9] Ben
altra tu mi apparisti nelle macerie di Roma, come un Cesare maestoso
che dalla via Appia infili i larghi archi, tacito e tetro, trionfatore
del mondo e calpestatore dei popoli; ben altra nei campi di Siraco,
dove ancora Aretusa versa giù nel mare le melodiche lagrime per il
perduto dio e la rocciosa plaga giallognola mostra i solchi del tempo
con tracce di tombe all'intorno, per quanto il falco la domina con lo
sguardo.[10] Colà come Memnone tu mi apparisti, che manda dei gemiti,
quando la madre Aurora lo sveglia e lo bacia sul capo. Ma qui come un
ricciuto fanciullo, simile al sorridente Amore, tu mi appari, o Tanato,
nelle scintillanti macerie di Pompei, scherzando con la polvere di
oro e coi rottami dei vasi infranti. E coi lapislazzuli e i perduti
ornamenti delle fanciulle tu ricami il tuo sepolcrale mosaico di
figure fantastiche e favolose. Informami soavemente il canto e venga
qui benigna Eirene, la celestiale sorella, e mi aleggi intorno al
capo, eternamente. Ed ecco che aprì gli occhi Euforione; dove mai si
trovava egli? Una nube gli avvolgeva lo sguardo e il capo accasciato
dal dolore, e dello spruzzo delle onde grondava ancora la chioma e
la testa. Era in un'arcuata caverna di rocce dentate, rischiarata
in rosso dal vaporoso lume d'un tizzo acceso a mo' di fiaccola, che
un uomo teneva in mano, ricurvo, nel vello peloso del pescatore,
mentre gli sguardi inorridivano del raccapriccio di morte. Allora
terribile mugghiò il mare con urlo, e le onde, freneticamente agitate,
risuonarono intorno per le rupi sulla caverna scossa. Ivi pendevano
in gran copia alle caviglie reti brunastre, canne da pesca, gomitoli
di nasse e corde di paretelle. Ma al suolo sulla nera terra giacevano
figure, vinte dal dolore, in un rigido deliquio. Fra la ciurma ivi
sedea anche lo stesso Serapione, col grigio capo appoggiato alle
mani, senza forza per l'indicibile pena. Inoltre, nell'abbigliamento
di festa, coi lineamenti del tutto sformati, sconvolta e arruffata
la chioma, inzuppata di acqua salsa, giacevano distesi sull'alga
gl'infelici figli di Arrio, simili alla conchiglia di porpora che il
flusso spinge alla riva sull'alga scintillante del mare.

Euforione li guardava fiso, come fantasmi, e piegandosi sulle ginocchia
cercò di pronunziare queste interrotte parole: «Ohimè! dove siamo noi
infelici precipitati? ci hanno, ohimè! trascinato giù nel profondo del
mare gli urlanti gorghi? dove sono io mai? cadde Pompei, rovinò dalle
fondamenta il globo terrestre? È questa la fossa? Ci ha tutti ingoiati
la voragine del Tartaro?» E dagli occhi cercò di scuotere con forza il
deliquio; ma la ragione gli girava intorno smarrita. Come quando di
mezzo al fumo spuntano qua e là delle figure poco riconoscibili e di
nuovo si offuscano, così a lui errava confuso lo spirito sulle immagini
scomparse. Vide tutti gli orrori della notte, il Vesuvio e Pompei
ravvolta nel fuoco, la casa della festa e Ione presso il magnifico
candelabro, gli ospiti giulivi e l'improvvisa catastrofe. Vide Arrio
fra le rovine presso la volta della casa, piegato accanto ad Ismeno,
col capo morente tutto ricoperto di cenere. Vide uomini e donne,
distesi nell'arena che si ammucchiava all'intorno, il popolo fuggente
correre giù per la china delle strade a precipizio nelle nuvole di
fuoco e sferzato da una gragnuola di lapillo, strillando come uccelli
notturni, quando ne li caccia via lo scoppiettare dell'incendio. Ed ora
ei vide sè stesso, nel vortice di cenere, con Ione sulle spalle e Ion
appeso alla veste correre verso il mare di mezzo alla città in fiamme e
alla turba confusa degli uomini; ed echeggiava l'aria dei lamenti del
popolo che si precipitava nel mare, acceffando le barchette con grida
angosciose, finchè il flutto li allontanava e di nuovo il riflusso
li gettava sulla riva. E a lui pareva come se sprofondasse nel mare,
come se tutte le acque furibonde lo inghiottissero nel gorgo; ma ad
un tratto egli intese il rumore del bordaggio, un vociare confuso ed
orribile e nel mezzo il grido risuonante di Serapione. E subito vide il
vecchio, non più come l'illusione di un sogno febbricitante, sollevarsi
sul suolo della caverna, nell'aspetto simile al nero Caronte, e cercò
di chiamare per nome l'ospite amico, stendendogli con forza il braccio,
mentre prima barcollava pieno di angoscia; ma la notte fosca gli
avvolse ben presto il capo ricurvo.

Alto tuttavia urlava il mare percosso dal turbine impetuoso, fuori
presso il roccioso lido, e già avevano i balzanti flutti trascinato
quei fuggiaschi di Pompei nel naviglio del vecchio egiziano, che
ora coll'albero infranto giaceva gettato sulla spiaggia salvatrice
di Capri. Non lungi da Napoli si eleva la bella roccia dedalica
dell'isola aprica. Ivi Amore si compiace di sognare nelle grotte di
zaffiro origliando alla camera nuziale delle sirene del mare, dove,
con delicato sorriso, le onde tremolano nel fosforo e l'aria narcotica
intesse tranquillamente di azzurro il grazioso crepuscolo. Ma fremeva
ora il mare intorno al lido tutto inarcandosi di onde cristalline, e
la schiuma schizzava fin sulla cresta dell'isola. E come una nebbia,
la cenere compatta e crocchiante copriva gli scogli, e lontano sulle
onde l'uragano agitava un vortice di nubi. Rosse splendevano le rocce e
rosso il golfo ribollente, ma fosco si agitava il mare nello splendore
solfureo, impetuosamente illuminato dai lampi e poi di nuovo coperto
subito dalla notte. E con luccicanti creste s'avvolgeano i sibilanti
cavalloni, sbuffavano in alto inalberandosi e risuonando poi sulla
scogliera, sì che intorno ne rintronava la spiaggia ed echeggiava con
rimbombo l'isola.

Così passava rapido il tempo, non più partito dal mutare delle stelle
nel cielo. Poichè non era nè giorno nè notte, e solo rossi bagliori
raccapriccianti solcavano la terra che fumava. Se le ore scorressero,
se i giorni si spegnessero nella notte senza misura di tempo, nessuno
dei mortali avrebbe saputo.

Finalmente venne la calma; presso agli scogli di Capri cessava di
fremere, stanco, il mare, e la tempesta delle nuvole ammainava le vele.
E le nebbie squarciate, già tutte infrante a brandelli, affollandosi a
mo' di schiera correvano e si spingevano al mare come corrono le flotte
di ritorno alla loro patria dopo la terribile battaglia navale, serrate
a schiere anch'esse ed affollandosi al suono delle tube, mentre le vele
sventolano rotte intorno all'antenna e foschi sporgono i tronchi degli
alberi spezzati; e le navi, stanche dalla lotta, tirano giù le vele
stridendo come gru e sempre più lontano nereggia la fitta squadra sul
mare.

E già dai crepacci della grigia nuvolaglia appariva l'azzurro del
cielo, quando spuntò timido l'astro del mattino e dall'azzurra notte
di ambrosia emerse con tutte le stelle la lampada degli Dei, Orione.
E subito splendette l'aria, il chiarore divenne sempre più limpido,
un vapore colorato si levò dalla sponda gialliccia del levante,
morbido come il chiarore dell'Iride, quando affrettandosi al mare si
trascina dietro il lembo della sua veste variamente ricamato a fiori
e la traccia luminosa delle ali. Come un brivido corse un alito di
vento e dalla scogliera si precipitò con alte strida il gabbiano,
a tuffare nei flutti le sue ali strepitanti. Un grazioso sorriso
mattinale rischiarava adesso il cielo, e spuntò rosea la magnifica
Eos vivificatrice della città, mentre in largo s'accendeva il mare e
risplendeva la cresta di Sorrento, come s'accende l'ebbro e sanguigno
capo del fiammante papavero. Timide ricomparvero le rive, avvolte come
in un velo d'incerto vapore: colà la riva di Pesto e qui gli scogli
delle Sirenusse, di là la riva di Napoli e il giallo monte Miseno.
Ma il dominante Vesuvio se ne stava lì maestoso nella sua pompa di
porpora, tranquillo come un eroe che silenzioso contempli il campo
di battaglia e i morti, niente affatto rannuvolato dal rimorso e
appoggiato alla lancia luccicante della zuffa.

Appena spuntò Elio per sanare della sua luce la terra, il vecchio
veleggiò subito con la sua nave verso la riva di Pompei, per osservare
con i propri occhi e cercare tra i superstiti e i morti.

Ma chi può dire quale orribile e violento dolore assalisse ora i
figli di Arrio, che si abbandonarono alla piena dell'affanno, quando,
simili a naufraghi, si svegliarono sull'estraneo lido, privi di
speranze, poichè il compagno svelò loro la sorte del padre e non cercò
d'illuderli in nessuna maniera? Strappandosi i ricciuti capelli e
percotendosi il petto, il fanciullo emise un profondo grido di dolore
che si ripercosse lontano negli scogli di Capri.

Arrio! risuonavano le rupi, ed Arrio! ripeteva l'Eco. E con i sensi
smarriti Ione vagava lungo la riva: ora, silenziosa contemplando le
coste di Pompei, sollevava il braccio in alto verso il cielo con le
labbra aperte senza profferir parola e pazza di dolore, ora lanciava
nell'aria un grido improvviso. Non così nello spasimo del cordoglio
uscì un giorno un canto di dolore dalla bocca di Cassandra, che
contemplava i ruderi di Ilio, seduta sul lido nemico, e versava nel
mare il suo affanno triste come la morte, impennando le aure del
suo sacro grido di malinconia, come ora si lamentava Ione cercando
il padre, gli amici, la patria, che senza tomba erano profondamente
sepolti sotto la lava vomitata dal Vesuvio. Ed ella supplicava la
morte, e spesso saltava avida di sprofondarsi nel mare; però la
stringeva gemendo il fratello Ion e forte talvolta la cingeva con le
braccia Euforione, versando lacrime di raccapriccio e unendo gemiti a
gemiti. Essi passavano nel pianto il giorno come passavano anche nel
pianto la notte, storcendo le mani con sospiro ed errando intorno alle
rupi dell'isola, così come i figli del cigno, che seggono raccolti sul
rossastro promontorio presso il mare e battono le ali e gridano senza
fine con un gemito rassomigliante al suono dell'arpa nell'azzurra
solitudine dei flutti, poichè il cacciatore uccise loro i genitori
distruggendoli insieme col nido.

Di nuovo si fe' giorno. Quand'ecco ritornò anche Serapione, mentre
quelli ansiosi, immoti nel sordo dolore, vuoto il petto di sorgenti
di lacrime, tristi pensieri volgendo, sedevano sul giallo scoglio,
sui gradini di marmo del palazzo, che Tiberio, il demone di Capri,
un giorno si fabbricò cingendolo di magnifiche colonne, da' cui
piedistalli scintillanti intorno alla scala si specchiavano giù nel
mare immagini di numi tacite e severe.[11] Colà li trovò il vecchio,
ei venne inerpicandosi per l'erta della riva e subito, come un uomo
del quale lo sguardo precursore della parola accenni a qualcosa di
triste, Serapione cominciò perplesso in tali accenti: «Infelici, oh che
cosa debbo io ora riferirvi? come potrò riuscire ad esprimervi tutto
ciò con parole? Un ammasso di polvere è diventata Pompei, inghiottita
la città e sotterrata anche la sua gente! Nè il padre, nè la casa, nè
gli amici, nè la patria sperate di vedere; l'inarcantesi terra tutti
insieme li ricopre. Ahimè! nessun occhio li vide, e chi è sfuggito
alla rovina dice che è morto Arrio, e morto anche Pansa ed è morto
anche Ismeno! Chi discerne fra i molti che perirono? Da ogni parte
imperversa la distruzione ed il caos, sembra che tutto sia una fossa
sola. Le macerie coprono colà il paese sfigurato come con le onde
fangose del Nilo. Plumbei si elevano gli ammassi della lava rappresa;
monti vomitati dal monte seppellirono i campi e le città, e la terra
fusa indurisce selvaggia, orribilmente compressa nelle sue zolle. E
d'intorno deserto; un pantano di zolfo, un indicibile ammasso a strati
di cenere e sabbia e frane e frantumi infiniti! La città precipitò nel
profondo del Tartaro senza lasciare alcuna traccia; così del Vesuvio si
distese su di essa un lenzuolo di polvere e una nera coltre di cenere,
che non un tempio si scerneva, non il teatro, non la piazza, neanche
una casa. Ma qua e là dal flutto di cenere un dorico capitello sporgeva
il suo capo tentennante come un ebbro, e si vedeva l'orlo merlato d'una
torre infranta. Ahimè! e di morti un esercito! gli uni fissi nella lava
e gli altri nella sabbia, ovvero accomunati nelle onde fangose con le
bestie marine, che il mare ora rivolge con raccapriccio negli orribili
flutti insieme coi percossi alberi e le caviglie delle infrante navi.
E il vento solleva un turbine di polvere; come nel deserto di Libia,
su Pompei la cenere danza le furiose danze della morte. Napoli e Nola
mandarono in fretta delle schiere di fossatori, se mai riuscisse loro
di liberare qualcuno dai frantumi; ma questi uomini rimangon lì fermi,
con le zappe inerti ai loro piedi, pieni di orrore e guardano la nera
campagna flegrea. E come i corvi d'autunno riempiono di strida il
terreno dissodato, accoccolandosi a stuolo, così seggono colà le donne
gemendo fra i rottami, con monotone grida, e versano sul loro capo la
polvere solfurea. Il dolore, segugio della morte, manda alti gemiti
colà e cerca la via nella cenere ammonticchiata; la fame con lucente
sguardo gironza intorno e fruga tra i rottami con urlante delirio.
Oh come basterà la parola ad esprimere tutto ciò? Intorno al grazioso
golfo ora la morte intreccia nere ghirlande; anche altre città caddero;
caddero Ercolano ed Oplonti,[12] Stabia è coperta dalla notte. Da che
la terra popolata uscì fuori del caos, giammai occhio mortale vide così
violenta ed orrida distruzione! Cessate, deh, cessate dal lamentarvi!
nessun dolore può misurare questi abissi vertiginosi e senza fondo.
Muto sta l'uomo innanzi all'opera dei celesti, compreso di stupore
e d'irresolutezza, e lascia compiere ciò che non può arrivare mai a
capire. Lasciate che i morti riposino tranquilli e che il padre dorma
nella sepoltura della casa, beati loro che non videro la caduta e lo
squallore di Pompei, perchè un demone del cielo li rapì di mezzo alla
festa».

Così il vecchio. Ancora alto gridava il giovanetto Ion con voce
risuonante e con volto nascosto amaramente sospirava. Ma Ione, con le
mani tese verso la sponda azzurro-velata di Pompei, d'un volto simile
alla morte, rabbrividito e pallido, sparsa sul petto la chioma fluente,
stava ferma a guardare nel mare, finchè le braccia non le si piegarono
per istanchezza ed il capo non s'appoggiò alla spalla dell'amico
Euforione, il quale sollevò per mano dal suolo anche il fanciullo.

E intenerito vide il vecchio come le giovani figure legasse insieme
la catena del dolore e la catena dell'amore. E a lungo esse rimasero
così silenziose nell'ansimante dolore e contemplarono malinconicamente
la vita, quando a un tratto il vecchio proruppe: «Ben vede oggi il
sole della trasformazione tante cose che i popoli istituirono, le età
consolidarono, la repentina morte disciolse. Il povero ora si unisce
al ricco e il signore chiama fratello lo schiavo. Che sono i desiderî
degli uomini e che è mai l'affaticarsi per il futuro? Che cosa è il
tuo dolore, o Euforione, che poco fa scagliasti selvaggiamente contro
il cielo per una meschina figura di argilla? Ecco, Pompei giace nella
polvere frantumata, rotta come un vaso che un fanciullo scherzando
getta giù dal piedistallo. Ora vi abitano le larve e striscia pei muti
palagi il verme schifoso, sedendo sull'oro e sulla seta di Tiro. E la
notte eterna copre le preziose meraviglie della bellezza. Così come
i ciottoli della roccia, il tempo rotola costantemente le opere degli
uomini, schernendo i figli di Prometeo che, poveri creatori, formano
polvere dalla polvere. I nipoti ereditano le macerie e la posterità
dolente raccoglie anche la più sublime azione come un rottame di mezzo
ai frantumi».

A ciò subito levò il capo il Greco e disse con commozione: «Ben
dicesti tu il vero! Un sol minuto basta a dileggiare i nostri titanici
dolori e i più eccelsi sensi divini, giacchè anche dietro la mano e
l'opera di Fidia stava un giorno motteggiando la morte e placidamente
si prendeva gioco dei rottami in cui quella si sarebbe ridotta. Pure
tutto ciò che nel petto aspira con forte desiderio alla luce, ciò
che tende all'immortale con la lieta brama del creare, o vecchio,
non è un soffio della dileguantesi ora mortale! Cadono le città e i
popoli, muoiono le opere degli uomini, ma rimane il potere dell'arte
ed il lavoro che redime; i quali, sacerdoti celesti della luce e
della libertà, peregrinano come messi andando dai padri alla vegnente
generazione dei nepoti. E l'uomo si rinnova eternamente, ammassa
opere su opere, attendendo pacifico alla perfezione del fiore della
terra, con santa umiltà. Così io la penso, e quantunque ancora l'anima
mi stilli di morte, pure mi è rimasta la forza e la brama infinita
dell'operare. Anche a me han distrutta i celesti l'officina e le
opere, e nel medesimo tempo il dubbio ed i miei piccoli dolori puerili.
Eternamente adunque le macerie coprirono le opere dell'apprendista, per
sempre quelle figure del sogno e della brama che lottava con energia
giovanile. Ma come quando nella vampa del Vesuvio io tuffai l'anima,
sì che essa, liberata dalla scoria della pesante materia e purificata
dalla torbida miscela, tende ora alle vette apriche, così io son
divenuto, così mi sento rinnovato, così ringagliardito dentro di me».

E l'Egiziano guardava lieto l'insigne giovane così entusiasta,
ammirando com'egli, con ancora la veste di schiavo sulle vigorose
forme, se ne stesse colà virilmente col capo sollevato e coperto da
riccioli neri, simile al figlio di Dedalo che aveva modellato nella
creta, ma più tranquillo e più grave; e l'ospite amico si compiaceva a
guardare come per mano ei si tenesse la più bella fanciulla di Pompei.

«Strano, diss'egli; i celesti confondono sempre le sorti degli
uomini, il flagello della Furia colpisce le teste dei potenti, mentre
intorno al capo dello schiavo essa si trasforma per incantesimo in
una ghirlanda. La morte diventa vita, la porta della tomba si cambia
in un'eccelsa porta di trionfo! Oh te beato! Io ti esalto: come una
fenice risorgesti dalla cenere di Pompei, e Iddio die' compimento a
quel che tu presago modellasti. Tu sei libero e sfuggisti anche tu
al labirinto della morte; io ti chiamo Dedalo ed Icaro ad un tempo,
perchè i Geni ti prestarono le ali di entrambi. Oh! sollevate al cielo
le mani, sollevatele in segno di ringraziamento, voi, che i celesti
stessi guidarono sulle ali nella mia nave. E tu, o nobile e rassegnata
fanciulla, che cosa scegli tu adesso? Non più vi sono vie per ritornare
in patria; a novella vita e più grande risorgerai. Perchè colui che
ha superato tali cose, ha ricevuto dalle eterne potenze una elevata
destinazione, sempre più in alto nella vita. Vuoi tu andare a Roma
col fratello? Colà abitano molti amici di tuo padre, o vuoi piuttosto
scegliere la città di Napoli? Parla, io ti guido volentieri nella
mia nave, dove desideri. Oppure comprendo esattamente quel che già
presentivo, e che voi stessi ora mi date a intendere con lo sguardo e
con l'unione fraterna delle mani?»

Non rispose a ciò la figlia dell'infelice Arrio, ma, immersa in
profondi pensieri, abbassò lo sguardo, silenziosamente. Ed allora
Euforione: «Ben hai tu presentito il vero, tu che ci fosti mandato
per pilota dagli Dei, o santo ospite amico. Sì, noi veniamo teco, tu
stesso l'hai predetto. Ma non come uno schiavo fuggiasco io monto a
bordo della nave salvatrice, giacchè mi segue Ione, come compagna di
viaggio all'uomo che essa stessa ha liberato dall'infamia della trista
schiavitù. Colei che mi prometteva la vita, mi è stata ora legata dalla
morte, ed il Vesuvio ci ha fuso, ohimè! le indissolubili catene. È
forse un sogno? O Dei, come intendo io il subitaneo mutamento! Voi, sì,
mentre io me ne sto pieno di meraviglia, mi vuotate sul capo ambedue
i corni dell'abbondanza, mischiando il dolore al piacere e la morte
alla vivificante salute. Oh come rimango confuso di vergogna dinanzi
a voi, io che solo fra tutti soffrii meno! Io debbo sembrare ora come
un misero mortale, che dai luccicanti rottami estrasse i più preziosi
tesori, rubandoli ai caduti, e fu arricchito dalla prodiga morte.
Perciò non so pronunziare alcuna adatta parola; mi batte il cuore
nella speranza, eppure il dolore lo seppelisce in un raccapricciante
silenzio. Questo solo io sento: Ione, tu vivi, e tu vivi per me, o
fanciullo! E se ancora la preghiera dei vivi scende giù nell'Orco, ben
udrà il padre gli ardenti voti, e si volgerà a me accennando dai campi
elisi l'ombra placabile di Arrio. Lungi ora navigando sul mare noi
andiamo in esilio, c'è di guida il dolore, e nel tempo stesso anche la
speranza e l'amore, che di mezzo alle rovine ci costruisce di bel nuovo
la patria. Poichè anche oltre il mare fiorisce incantevole la terra
ospitale, anche colà risplende Eos e sorge per gli uomini d'azione
anche Elio e Selene nell'amica sera».

Disse e indicò il mare e i monti luccicanti di Calabria, che dal vapore
ondeggiante sollevavano la cima violacea. Lungi ridevano le onde e
bello brillava il promontorio merlato della Licosa; qualche nave a vele
spiegate correva giù verso il sud in una corsa beatamente alata. Ma
ad Euforione sembrò come se il cielo di smeraldo risuonasse di festosi
inni e come se echeggiassero di canti i rapidi flutti, che con ansante
mormorio si rincorrevano sull'estesa assolata. Così stava egli commosso
sulla riva crestosa di Capri, agitando la mano verso il mare porporino,
mentre gli splendeva nell'occhio la celeste fiamma del desiderio.

E l'afflitta Ione sollevò il suo pallido volto e disse: «Ahimè! lungi,
o amico, tu guardi, e le ali della speranza sollevano il tuo spirito
coraggioso; ma nel mio petto il cuore sepolto come sotto le macerie, si
è cangiato in un'urna, ripieno della cenere di morte. Io cerco vincere
l'angoscia, e apprendo l'umiltà dal dolore, piegando religiosamente il
mio povero capo innanzi alla triste necessità. Ma il grido del cuore,
oh questo grido disperato mi ridesta sempre dal muto silenzio, ed
allora mi rivolgo ai celesti domandando: ma sarà Pompei sempre coperta
dalla cenere? E ritornerà mai a noi il nobile padre? Ed è per sempre
sprofondato nei frantumi? E copriranno questi frantumi eternamente
gli amici e le case ed anche la fiorente città? Io vivo sempre nel
sogno ed orfana stendo le sospirose braccia verso la patria, verso i
vani fantasmi della tomba. Perchè come sulla sabbiosa pianura il vento
distrugge con la polvere per ischerno la traccia del piede frettoloso
al viandante, così copre la sabbia tutta la mia vita ed i miei sensi.
Tutto divenne intorno a me caos, e mi vacilla nel petto il cuore
senza patria, strappato quasi alla sua ancora e spinto nell'onda del
cordoglio verso il velato avvenire. Ahimè! della casa di Arrio sono
questi gli unici avanzi, io e tu, Euforione, ed il piccolo Ion, a me
carissimo sopra ogni altro!

Ed a ciò Ion: «O Ione ed Euforione, io ora vi amo doppiamente, perchè
voi mi sembrate i genitori, essendo il padre disceso nell'Orco. Ma
tosto che noi fabbricheremo la casa sulle rive del purpureo Nilo, sia
essa com'era la nostra, chè non mai io dimentico la nostra abitazione,
la quale s'ergeva sì bella con le colonne splendenti dell'azzurro del
mare. Sabbia e frana la ricoprono, e ricoprono anche il podere e i
tesori che il padre accumulò e la diligente madre raccolse. Di tutto
posso consolarmi, solo non posso dimenticare i tuoi preziosi regali,
o sorella, che poco fa mi portasti da Roma. Ed anche il candelabro
di bronzo io piangerò, o amico; mi appare sempre agli occhi la bella
figura e ripenso alle lampade scintillanti nella sala, al padre che
stupito ivi sedeva ed agli amici che guardavano ammirati. Ma ora esso
sen giace coperto di cenere, e nessuno attizza le incantevoli lampade,
allietandosi del loro scintillio. Si affrettò subito un demone a trarlo
giù nel profondo dell'Orco, fra le lare, per la regina Persefone, dove
ora sta accanto al trono e illumina le orride tenebre».

«Lo ricopra pure la polvere, rispose sorridendo Euforione, e sia ora
lampada sepolcrale per Arrio e per tutti gli amici: ormai mi ha già
bell'è compiuto il destino. Esso era per me l'araldo della luce, un
amico salvatore dell'amore; e un tempo, quando saranno trascorse le
età e molte generazioni di uomini, quando noi tutti saremo dispersi
coperti dalla polvere, i posteri lo ritroveranno; allora dinanzi ai
tardi nepoti esso starà come uno straniero e un divino mistero. Ma
forse un uomo, un osservatore, lo contemplerà, e con malinconia dirà
allora: di chi erano le mani, le preziose mani che ne intesserono
le forme e quali sensi commovevano il maestro, quando nell'officina
modellava il lampadaro dedalico? Per chi esso infiammò e illuminò
l'anima innamorata? Ed allora il mio bronzo racconterà a questo nipote
stupefatto anche il destino di Pompei e la nostra storia passionale.

«Ma io stesso, soggiunse il fanciullo, apprenderò subito da te a
modellare il bronzo, perchè anch'io diventi maestro di plastica,
che ognuno onori ed ammiri con lode e celebrazione. Bello mi sembra
pure che l'uomo si eserciti in tutto ciò che nessun destino, nessuna
improvvisa distruzione può strappargli. Noi, ahimè, i figli del
benestante Arrio siamo adesso come i più poveri del popolo, che sulla
via polverosa chiedono l'elemosina. Ma tu unico e solo rimani ricco,
tu porti teco tutti i beni, l'arte che rende felice il mortale ed il
lavoro che crea e che ora nutrirà anche noi, orfani smarriti». Così
disse il grazioso fanciullo ed Euforione se lo sollevò al cuore, lo
strinse dolcemente al petto e guardò nel cielo commosso.

«Bene, gridò subito Ione, bene ci siamo noi scambiata la propria
forma della felicità. Prima io stava altera e piena di splendore, e mi
pareva che nessun desiderio soddisfatto mi bastasse, per quanto fossi
circondata di ogni cura. E riuscii ad ottenere che la mia bocca potesse
liberarti, o caro. Ma dei doni, o amico, che per l'innanzi offriva
la figlia di Arrio per rendere gli uomini felici, questo, ahimè, era
l'ultimo ed il più bello. Io son povera adesso, il mio tesoro d'un
tempo è ora soltanto affanno e cordoglio. Mai tacerà questo immortale
dolore, per quanti anni possano scorrere, perchè, dovunque io sia, la
mia anima sarà rivolta alla tomba dei perduti amici, e dovrò piangere
il padre e sempre piangere Pompei. Ma tu quale un celeste donatore mi
porgi la salvezza. E come saprò io esprimerti i sensi del mio cuore che
palpita? Poichè, come finalmente appare al nocchiero, sbattuto dalla
tempesta, la più propizia pace nel porto, così tu sei per me il rifugio
del dolore. Noi siamo tuoi, noi veniamo con te; ciò che oltre il mare
lontano Iddio ci prepara, noi ce lo prenderemo con un amore operoso. Ed
ora vieni, il mio cuore si strugge dal desiderio della partenza. E già
satura di dolore io voglio piangere me stessa nella polvere di Pompei,
poi prendici tutti, o vecchio, e facci viaggiare sulla tua nave amica
ed ospitale».

Odi! e risuonò dalla spiaggia un canto, l'allegro e giulivo saluto del
mare. Dalla nave rabberciata gridarono su verso la roccia i figli del
Nilo, sollecitando il vecchio; dall'albero di abete sventolavano le
banderuole, nel nord-ovest le bandiere fluttuavano e a bordo pendevano
le corone d'ulivo e i rami dei sacri pini.

«Orsù! disse l'Egiziano, perchè lì basso la solerte ciurma mi chiama
con strepito e si apparecchia a partire. L'animo di tutti aspira
con ardente desiderio alla patria sicura. Affrettatevi dunque e
calmate l'ansia affannosa del petto, o partenti, che è sempre dolce
il piangere, dolce il dolore di ogni partenza; ma di là al capo di
Pallade io mi fermo, finchè voi torniate a casa dai ruderi di Pompei.
Alcuni giorni io vi permetto di restare colà per informarvi degli
amici, ovvero per prendere delle disposizioni, nel caso che vi siano
rimasti migratori, che il medesimo destino discaccia dal patrio lido.
Io mi reco a dedicare qualche pia offerta nel tempio, com'è costume dei
naviganti, perchè favorevole gli Dei ci mandino il vento da far vela e
ci spingano la nave verso il divino Nilo, dove in un'agiata casa i miei
vi tratteranno con ogni sorta di premure, finchè Pallade in seguito non
vi erigerà la propria abitazione. Ma tosto che sarò a casa, mi farò
dipingere da un pittore, che ben ne esegua il lavoro con arte, due
preziosi quadri, indove si ammirino la città sprofondantesi col monte
che vomita fiamme e la mia nave, così come i celesti me l'hanno tratta
fuori dal gorgo vorticoso. Io voglio ch'ei ben mi riproduca questi
quadri, e l'uno consacrerò colà nel tempio di Minerva, l'altro nel
tempio d'Iside, dov'esso si eleva alto presso Canopo sulla gialliccia
pianura di sabbia».

E qui discesero la sassosa scala del palazzo, che s'incurvava a mo' di
porto intorno ai rossi scogli dell'isola. Lento seguiva il vecchio;
tenendosi per mano, i due scendevano, e innanzi a loro saltellava
rapido il roseo fanciullo, simile nell'elegante figura al ricciuto
Amore, che guida gl'innamorati nell'azzurra lontananza della vita.

Subito saliron sulla barca, che rapida corse verso la riva di Pompei
fendendo coi remi i tersi flutti. Ma la nave di Serapione passò
fremendo lo stretto di Capri, e ben presto approdò presso il bel tempio
di Minerva che s'innalzava accanto al lido del mare coi luccicanti
merli, segnale al nocchiero e sacro e da tutti onorato fin da tempo
immemorabile. Lo fondarono i coloni di Tafo, quando dalla terra
ellenica veleggiarono per edificare sulla spiaggia di Napoli e nei
campi di Cuma. E molti doni che per riconoscenza i nocchieri piamente
consacrarono colà come offerte, vasi di bronzo, ornamenti di bionda
ambra e tavole votive dipinte per l'improvviso scampo, si vedevano
intorno nel tempio accumulati presso ogni altare. Molti ve ne consacrò
il vecchio, distribuendo ai sacerdoti ricchi doni di oro e preziosi
drappi di festa.

Erano già passati otto giorni; quando però giunse il nono e trascorse e
già Elio tramontava in sulla sera, ecco, la barca si allontanò dal lido
di Pompei. Con una gagliarda corsa passò daccanto agli scogli dell'alta
Sorrento e Serapione la vide con piacere accostarsi. Euforione
sorreggeva tra le mani la curva urna di bella forma campana, che lungi
risplendeva rossa, di luccicante argilla ed ornata di leggiadre figure.
Perchè della sacra cenere di Pompei Ione vi aveva dentro raccolto la
polvere, qual funebre ricordo della patria. E adesso invece dei lari,
invece del fuoco del focolare, presero seco la polvere nell'orciuolo,
per metterlo un giorno nella nuova patria, religiosamente, come
segnacolo della propria abitazione.

Serapione con gioia guidò subito sulla sua nave gl'innamorati, perchè
più gagliardo spirava il vento di ponente col fresco della sera. I
bruni figli dell'Egitto sollevarono ora le ancore pieni di desiderio,
mentre il vento riempiva e gonfiava le vele. E la nera nave prese la
corsa come il migrante Ibi.

Era già sera: il sole già tramontava di là alla roccia lungisplendente
di Ponza, svanendo in un vapore di porpora con magnificenza e
grandezza, come si spegne la vita dei popoli e delle età, spargendo
sulla tarda generazione ancora un chiarore crepuscolare. Sempre più
calma diveniva la terra, e già si spegnevano i monti di Sorrento e di
là già si offuscava dolcemente e impallidiva l'alto Vesuvio. Ed essi
sedevano a bordo tenendosi per mano e guardavano indietro placidamente,
finchè disparve ai loro occhi la patria sepolta.

«Addio, Pompei! Addio o sacre tombe!» Così gridavano da bordo Ione,
Euforione, Ion. «Addio, Pompei!» e correva fremendo il naviglio
lontano e sempre più lontano nella vita. E scese la notte, magnifico
scintillava a ponente Espero, e le Ore celesti accesero subito
nell'azzurro la lampada degli Dei Orione, mentre le stelle dal cielo
con dolce scintillio mandavano giù sulla nave i loro raggi benigni.



NOTA DELL'AUTORE


Il candelabro, che forma il nucleo di questo poemetto, fu, com'è noto,
scavato nella casa di Arrio Diomede. Ora si trova al Museo di Napoli.
Io l'ho rifatto alquanto in ciò che costituisce l'essenziale di questi
canti, attribuendogli lampade di mia propria invenzione. Quelle che gli
sono appiccicate nel Museo sono altrimenti conformate; l'una è senza
figure, l'altra è adorna di due aquile, la terza presenta una figura
di toro a metà e alla quarta infine servono come anse d'ornamento
due delfini. Mi si vorrà scusare, quando si saprà che queste lampade
non appartenevano originariamente al candelabro, ma gli sono state
appiccate ad arbitrio. Le lampade primitive non si ritrovarono.

La figura del grazioso bronzo si trova nella Collezione del
Museo Borbonico, e il lettore non si annoi della dolce fatica di
scartabellare in quei volumi, finchè non l'avrà trovato. Egli sarà per
lo meno largamente rimunerato dalla quantità dei magnifici oggetti,
dovesse anche affaticarvisi intorno.

Coloro che hanno visitato la Pompei di oggi, non si meraviglino che
io abbia avvicinato il mare alle mura dell'antica città, poichè così
era il suo letto alla foce del Sarno, mentre dagli odierni avanzi di
Pompei il mare s'è ritirato d'un miglio in seguito al riempimento di
cenere, di lapillo e di lava. Del porto di Pompei parlano Floro, Livio
e Strabone; esso serviva di emporio anche a Nola, a Nocera e ad Acerra.

L'antico nome dell'isola d'Ischia era Enaria; io però (alla fine
del I Canto) ho conservato il nome odierno perchè più facilmente
s'intendesse.

Da ultimo ricordo che nella casa di Arrio Diomede, ancor sempre la
più bella di quelle finora scavate, sono stati ritrovati più di trenta
scheletri. Di questi diciotto si scoprirono nella galleria sotterranea,
uomini, donne e fanciulli: essi tutti avevano il volto coperto d'un
panno, segno questo di abbandono e di rassegnazione. Presso di loro
si ritrovarono collane, anelli, gemme e monete. Si scoprì il padrone
di casa accanto ad uno schiavo, presso la porta che conduceva alla
campagna: teneva una chiave in mano, mentre lo schiavo aveva preso con
sè molte monete di oro in un sacchetto di tela con l'effige di Nerone,
di Vespasiano e di Tito, e molte altre di argento e di rame. Pochi anni
da che erano stati scritti questi canti, il signor Fiorelli, direttore
degli scavi di Pompei, fece meravigliare il mondo con alcune immagini
vere e proprie di Pompeiani che nella catastrofe avevano trovato la
morte nella cenere. Egli le trasse alla luce del giorno con un metodo
per quanto semplice altrettanto geniale, versando del gesso nelle
incavature che le loro carni avevano lasciato sotto la cenere rappresa.
Così egli ottenne solidamente rappresentate come impronte plastiche le
figure di quegli infelici e il momento stesso e perfino l'espressione
della morte. Chi vide queste statue, le più meravigliose fra tutte
quelle che il mondo possiede, le avrà osservate non senza profonda
commozione, poichè quello di cui solo la fantasia del poeta può dare
un'idea, ei vide in piena e materiale naturalezza e realtà e come un
testimonio del momento.

Al lettore sarà nota la descrizione dell'eruzione del Vesuvio in Plinio
e Dione, e innanzi tutto egli si ricorderà degli _Ultimi giorni di
Pompei_ del BULWER. Una estesa descrizione di questa catastrofe non fu
toccata in questo poemetto, ed io ho lasciato alla Musa d'imitare quasi
l'esempio di quegl'infelici nella cripta della casa di Arrio Diomede;
poichè, incominciando a cadere la spaventevole pioggia di cenere, essa
si copre il volto presso il rovesciato candelabro ovvero le lampade di
Euforione, probabilmente per timore di essere soffocata, o almeno per
una disperazione e rassegnazione più moderna che antica.



INDICE


  _Notizie sull'Autore_                            Pag.   3
  Girgenti                                          »    11
  I canti popolari siciliani                        »    69
  EUPHORION (Poemetto pompeiano)
    _Prolusione del Traduttore_                     »   119
      Canto I. _Oneiro_                             »   131
        »   II. _Amore e Psiche_                    »   157
        »   III. _Pallade Atena_                    »   177
        »   IV. _Tanato ed Eirene_                  »   205
  Nota dell'Autore                                  »   231



NOTE:


[1] _Canti popolari siciliani_, raccolti ed illustrati da LEONARDO
VIGO, Catania 1857.

[2] Questo splendido luogo ha alcune particolarità di linguaggio che
meritano d'essere notate. Mentre tutto intorno il popolo dice _domani_,
a Capranica dice _crai_ (da _cras_) ed invece di dopodomani, _biscrai_.

[3] Cfr. WIELAND negli _Abderiti_.

[4] Evidentemente quando il Gregorovius visitava Pompei e con l'anima
di artista interrogava i ruderi della civiltà passata, la casa
più bella ed elegante che colpisse l'immaginazione e la fantasia
del visitatore, era quella del liberto M. Arrio Diomede, posta in
capo al villaggio suburbano Augusto Felice. Difatti, quel grande
quadrato bislungo, scavato in tufo bigio ed in pietre vulcaniche, che
racchiudeva un vago giardino, un vestibolo dalle 14 colonne doriche,
e portici e terme e quanto si può immaginare di più sfarzoso ed
abbagliante per soddisfare alla umana ambizione, offre tuttora allo
sguardo uno spettacolo assai grandioso.

Se non che, oggidì, un'altra casa, da cui, certamente, il Gregorovius
avrebbe saputo attingere la sua materia di ispirazione per una scena
idillica o qualcosa di simile, gli contende, a giusta ragione, il
primato. È l'abitazione di una famiglia di Vettii, venuta fuori
alla luce negli scavi del 1894-95, che occupa il lato sud dell'isola
adiacente dal lato est a quella della casa «_del Laberinto_». Ricca
di decorazioni e pitture dell'ultimo stile, fatte con gusto squisito
e con finezza di particolari; adorna di candidi marmi che paiono
ancora animarla; ricinta d'un peristilio unico nel suo genere per la
gran copia di sculture figurate ed ornamentali conservateci; fornita
d'ogni sorta di comodità che l'arte e l'ingegno sanno escogitare per
rendere più delizioso ed ameno il soggiorno dei mortali, essa desta
un interesse ben più grande delle altre e supera, sotto vari aspetti,
quella di Diomede, che lo storico insigne scelse a teatro delle gesta
amorose del suo Euforione.

Chi desideri ampie e dettagliate notizie di questa importante scoperta,
legga la dotta relazione del Mau inserita nelle _Mittheilungen des
Kaiserliches Deutsches Archeologischen Instituts_, Roem. Abtheilung.
Bd. XI 1896, e la descrizione riccamente illustrata che ne fa il prof.
SOGLIANO nei _Monumenti antichi della Accademia dei Lincei_. (_N. d.
T._)

[5] L'immagine della vite come quella della pantera si può dire non
iscompagnino quasi mai la figurazione di Dionisio o Bacco nelle pitture
pompeiane. Così, per citarne un esempio, nella stessa casa dei Vettii,
il dio del vino, secondo l'intenzione dell'artista che ha voluto
riprodurre il trionfo di Dionisio, s'incontra sdraiato sopra un carro
a quattro ruote in guisa di dischi tirato da due caproni, sul quale
è stata messa sopra una pelle di pantera una _kline_ senza piedi col
basso fulcro avanti. E altrove, nel gruppo di Bacco ed Arianna, il
primo è vestito di nebride e di una veste paonazza svolazzante dietro
la schiena, con stivali alti ai piedi e lungo tirso sulla spalla destra
ed è coronato di vite.

Del resto, in tutte le antiche rappresentazioni mitologiche, Bacco si
dipinge qual fresco e rubicondo giovane (il _puer aeternus_ ovidiano)
con bionda capigliatura, una corona di ellera sulle chiome, con pelle
di pantera cascante sugli omeri, assiso sopra un cocchio a guisa di
botte tirato da tigri o da pantere, mostrando in una mano una bacchetta
cinta di pampini di vite (tirso) e nell'altra additando grappoli di uva
matura. Di qui le Baccanti nelle solennità religiose in onore del nume
si adornavano del pari della pelle di tigre e del tirso. (_N. d. T._)

[6] Di consueto, in quasi tutti gli scritti intorno ad Esopo, si
dipinge il favolista come un mostro di bruttezza, dalla statura piccola
e deforme; ma, molto probabilmente, questa pittura va dovuta anche
all'ingegno bislacco di quel monaco di Costantinopoli, che visse verso
la metà del secolo XIV, e che per il primo premise alla collezione
delle favole esopiane una biografia, nella quale volle accozzare alcuni
fatti, la maggior parte di una falsità stravagante e puerile. (_N. d.
T._)

[7] Giova qui riassumere i criteri fondamentali su cui poggia la teoria
estetica dell'arte del Gregorovius.

L'arte non è fine a sè stessa; la formula _l'arte per l'arte_ è un non
senso. L'arte, non animata dal soffio di nobili idealità, non ha valore
alcuno. Essa invece, quando seconda gl'impulsi generosi del cuore o i
palpiti ardenti di un ideale, sublima l'individuo, lo trasporta in una
beata contemplazione di gloria e di amore, gli prolunga ed abbellisce
la vita. Come, sotto l'impressione di un forte dolore, l'animo umano
è capace di attingere dal dolore stesso una gagliarda virtù; così,
individuandosi il soggettivo artistico in una passione, l'opera d'arte
verrà fuori più eloquente e suggestiva, se passata per il filtro delle
sofferenze morali.

All'arte va congiunta la più grande e nobile missione umana: non
solo solleva lo spirito, infondendogli entusiasmo e vigoria e quasi
indiandolo, ma ancora lo distriga dagli abietti ceppi del giogo, lo
redime dall'opprimente servitù, gli dona quella libertà, nel cui seno
è il segreto delle più eccelse cose. La libertà è infatti il suggello
e la consacrazione delle opere: per essa le opere ricevono uno stampo
durevole di forza e bellezza, per essa l'alato genio vi proietta sopra
i suoi sprazzi di luce.

L'arte poi non è soltanto quella che noi ammiriamo riflessa e come
emanante da una statua di Giove olimpico, grave e maestoso seduto sul
trono: anche un candelabro, una brocca orlata di figure, che servono
agli usi quotidiani della vita, entrano nei dominî dell'arte, purchè la
mano che li modellò sia stata mossa e diretta da una generosa passione,
da un plausibile intento. Gli è che il fine dell'arte non consiste
tanto nel dilettare, quanto nel riuscire utile in qualche cosa: essa
infatti, più che parlare e sedurre i sensi, deve conquidere i cuori; il
concetto del bene dev'essere contemperato e frammisto in larga misura
all'altro del bello.

In fondo, la teoria artistica del Gregorovius è calcata sulla dottrina
di quegli esteti, i quali sostengono a buon dritto che il principio
_in arte libertas_ debba intendersi con una certa discrezione, e che
le arti produttive del bello debbano essere subordinate al sentimento
morale e religioso dell'ambiente. Senza dubbio l'arte deve muovere gli
affetti, e muoverli in modo che arrechi piacere; ma questo piacere fa
d'uopo che sia per essa più mezzo che fine. Inoltre, l'arte sarà vera
solo quando sarà utile agli uomini, ed utile quando sarà conforme alla
verità, essendo questa il suo principio.

Recentemente, il prof. D'Ovidio, in un magistrale discorso
all'Accademia dei Lincei, affermava, con la coscienza di chi sa
di dire il vero, che _quando l'opera d'arte è animata dal soffio
delle più nobili idealità umane, non solo l'efficacia sua sopra i
lettori ne vien moltiplicata dal fondersi quelle con le idealità
propriamente estetiche, ma l'artista medesimo, se è artista davvero,
n'è ringagliardito nelle sue facoltà poetiche_. Ed altrove asseriva
rimaner sempre che _l'artista e il critico non hanno il diritto di
pretendere che, mentre tutte le altre manifestazioni della vita si
limitano a vicenda, l'arte sola abbia un'autonomia senza freni, che
possa sprezzare ogni altro diritto_.

(Cfr. _L'arte per l'arte_. Seduta Reale dell'Accademia dei Lincei
dell'anno 1905). (_N. d. T._)

[8] Anche l'ANDERSEN, per citarne uno, nel suo grazioso e spigliato
_Bilderbuch ohne Bilder_, tracciando un quadro della città della morte,
descrive press'a poco così l'aspetto del monte sterminatore:

«Andammo al tempio di Venere, che è di marmo scintillante...; l'aria
era diafana ed azzurrognola, e in fondo stava il Vesuvio nero come
carbone, _dal quale si elevava il fuoco come fusto di pino_; la
illuminata nube di fumo giaceva nella quiete della notte _come la
corona del pino_, ma era d'un rosso sanguigno...». (_N. d. T._)

[9] Sembra quasi ascoltare l'eco della mossa lirica dell'apostrofe che
il CORCIA, in un capitolo su Pompei, che fa parte della sua pregevole
_Storia delle due Sicilie_ rivolge agli avanzi della dissepolta
città: «O Pompeia! tu sei bella anche fra le tue rovine! Il tuo nome
vivrà splendido e glorioso come quello degl'illustri sventurati; tu
restituisci i tesori perduti dell'arte antica e però vivrai sempre
nella memoria degli uomini!...» (_N. d. T._)

[10] Con i campi di Siraco, il poeta vuole qui alludere alla storica
pianura di Siracusa, così detta dal nome della palude di Siraco, oggi
palude di Pantano; e, forse, più particolarmente ai famosi avanzi
della necropoli di Acradina, una delle cinque città murate che un tempo
costituivano l'inclita ed opulenta terra dei Dionigi.

L'Acradina, che nel passato si elevava come il più florido quartiere
accanto a quelli di Ortigia, Tica, Napoli ed Epipoli, non offre più
oggi che cumuli di macerie frammiste a piantagioni di ulivi e di altri
alberi fruttiferi, le vaste latomie o cave di pietre, ruine di bagni
che portano il nome di Agatocle, ecc., oltre alle catacombe o grotte di
S. Giovanni, incavate nel tufo calcareo.

Quanto poi alla fonte di Aretusa, dell'ampia piscina, cioè, di
acqua dolce scorrente nella penisoletta di Ortigia, della quale
favoleggiarono i poeti che comunicasse misteriosamente col fiume Alfeo
d'Arcadia, la leggenda della metamorfosi che vi si riconnette, è ben
nota perchè io ne faccia menzione. (_N. d. T._)

[11] Sono celebri nella storia gli ozi tiberiani di Capri, la vita
licenziosa che l'imperatore vi menò per ben sette anni, dimentico dei
pubblici affari, le orgie, le gozzoviglie e gl'infami piaceri a cui si
abbandonò ciecamente, dando ascolto alla voce adulatrice e perversa di
Seiano e sfogando la sua libidine in ogni sorta di vizi che prima aveva
mal dissimulati.

Chi voglia sapere di più, legga la triste relazione che ne fa Svetonio:
è un capitolo che raccapriccia, mette i brividi al pensare fin dove
possa giungere la umana depravazione!... (_N. d. T._)

[12] Oplonti era una mansione o, come oggi si dice, un luogo di
fermata, che nei tempi addietro sorgeva nei pressi dell'attuale _Torre
dell'Annunziata_. (_N. d. T._)



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come
le grafie alternative (desideri/desiderî e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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